Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbassano

Numero di risultati: 7 in 1 pagine

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Vietato ai minori

656608
Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Pagina 101

Racconti 1

662665
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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La sua fronte, poco ampia ma molto elevata, è coperta di rughe che si alzano e si abbassano con continuo movimento come il mantice di un organino. Dietro di esse mulina un cervello che ignora il riposo. Il signor Van-S pengel trovasi da venti anni alla direzione generale della polizia del Belgio, e ha preso sul serio il suo posto. In parecchie circostanze ha dimostrato di non essere stato per nulla l'allievo prediletto del Vidocq. La sua pupilla, un po' neutralizzata da un par di occhiali di presbite, ha un'espressione affascinante; non guarda, ma penetra. L'uomo piú onesto del mondo tenterebbe invano di sopportarla pochi minuti senza imbarazzo. "La prima volta che conobbi il signor Van-Spengel - dice il dottor Croissart - fu per cagione di una sua malattia. Da sei mesi era travagliato da un'insonnia fastidiosissima: i medici di Brusselle e di Parigi non sapevano da che parte rifarsi contro un male cosí ribelle ad ogni energico trattamento. Giunto allora dalla provincia, una cura fortunata mi avea messo subito in mostra. Egli venne a trovarmi. L'impressione di quella visita non mi uscirà piú di mente. Ragionando del suo male, il signor Van-Spengel mi guardava in viso con quell'aria scrutatrice tutta propria, che forse un po' gli veniva dalle abitudini del mestiere, ma che in gran parte mi parve dovesse attribuirsi al suo naso lungo, acuminato, un tantino storto e rivolto in su, un naso stranissimo. Dopo pochi minuti non fui piú buono di prestare attenzione a quello che lui diceva. Mi sentivo attaccato nel santuario della mia coscienza e badavo a difendermi. Non son facile a subire illusioni di sorta; ma la fisonomia di quell'uomo m'inspirava in quel punto un indefinibile senso di paura. Giunsi fino a fantasticare che egli adoperasse quel naso, pel morale, come lo spiedo delle guardie daziarie alle porte delle città; infatti ricercava tutte le fibre e si ficcava piú oltre. Quando il signor Van-Spengel tacque, non ebbi alcun dubbio ch'egli non conoscesse il mio cuore quanto e, forse, piú di me. Credetti anzi di sorprendergli sulle labbra un sorrisino di trionfo. Fui, mio malgrado, costretto a chiedergli scusa e a pregarlo umilmente di ricominciare da capo. Sia indovinasse il motivo del mio turbamento, sia rimanesse mortificato della mia disattenzione, il signor Van-Spengel fissò allora gli sguardi sul piccolo tappeto steso sotto i suoi piedi e non li distolse di là prima di aver terminato la seconda narrazione delle sue sofferenze" (pag. 6@). 6). Il signor Van-Spengel è celibe. Non ha parenti. Vive con una vecchia che lo serve da trent'anni, ed abita un quartierino nello stesso ufficio della direzione generale di polizia. Di abitudini regolarissime, passa leggendo le poche ore disoccupate che il suo posto gli consente. Mangia poco e, cosa piú notevole, non beve vino. È certissimo che la sera del 1@ 1 marzo 1872@ 1872 il signor Van-Spengel rientrò nelle sue stanze piú presto del solito. Era di buon umore e cenò con appetito. Si mise a letto alle undici e mezzo di sera: poco dopo la serva lo sentí russare fortemente. Alle otto e tre quarti del mattino (2@ (2 marzo) era desto. Il campanello avvertiva la Trosse che il suo padrone attendeva il caffè. La Trosse assicura che l'aspetto del signor Van-Spengel era, quella mattina, preciso come il consueto, anzi un po' piú sereno. Nulla faceva presagire la trista catastrofe della giornata. - Il padrone - raccontò poi la vecchia - sorbí il caffè a centellini, esclamando ad ogni sorso: "Stupendo! Eccellente!" Indi accese la sua pipa. "Sapete? - mi disse; - temo di aver dormito nove ore tutte di un fiato!" E diè in uno scoppio di risa. Io tentennai il capo, ma non volli contraddirlo -. All'una dopo la mezzanotte la Trosse lo aveva sentito passeggiare per la stanza e smuovere qualche seggiola. Supponendo che stesse male, si era levata e, pian pianino, aveva aperto l'uscio a fessura. Il suo padrone, seduto a un tavolino, avvolto nella sua veste da camera, col berretto da notte, scriveva. Alle nove e mezzo il signor Van-Spengel avea terminato di fumare la sua pipa e si era levato. Si vestí, secondo la sua abitudine, in fretta e in furia; si fece aiutare dalla serva a infilare il soprabito, e si accostò al tavolino per prendervi gli occhiali. La serva teneva in mano il cappello e la mazza. - Che storia è questa! - aveva esclamato ad un tratto. Era meravigliato di trovar alcune carte sul suo tavolino. Presele in mano e lette le poche righe della prima pagina, il signor Van-Spengel si era fregato piú volte gli occhi, avea guardato attorno, in alto e in basso, per la stanza; poi era tornato a sfogliare lentamente tutto il quaderno, osservandone con viva attenzione e con crescente sorpresa la scrittura fina e compatta. - Chi ha recato queste carte? - chiese bruscamente alla serva. - Ma, signore! ... - La Trosse sorrideva: credeva che il suo padrone celiasse. - Infine, parlate! Chi ha recato queste carte? Non me ne avete detto nulla. - Non ne so nulla - rispondeva la serva vedendo la serietà del suo padrone. - Qui non c'è stato nessuno, - Se è uno scherzo - borbottò il signor Van-Spengel fra i denti - bisogna confessare che è ben riuscito! - Sedette sulla poltrona piú vicina, accennò alla serva di lasciarlo solo e si pose a leggere ad alta voce: Rapporto al signor procuratore del re sull'assassinio commesso la notte del 1@ 1 marzo nella casa N. 157@ 157 Via Roi Leopold in Brusselle. E qui si fermò per osservare il calendario americano che pendeva dalla parete. Il calendario segnava 2@ 2 marzo. Il signor Van-Spengel aveva strappato pochi momenti prima il fogliettino del giorno avanti. - O il diavolo se ne mescola, o io ammattisco - riprese a borbottare. - Questa scrittura è la mia! Non c'è che dire, è la mia! E picchiava col dorso della mano sul quaderno deposto sulle ginocchia. - Eppure non l'ho fatta io, no davvero! - Se il padrone mi permette ... - disse la Trosse aprendo timidamente l'uscio. - Permettere che? - rispose il signor Van-Spengel stizzito. - Vorrei rammentarle che questa notte Mossiú ha scritto dall'una alle quattro, e ... - Siete matta! - Scusi; Mossiú deve ricordarselo. Io mi son levata due volte credendo che si sentisse male; e tutte e due le volte l'ho veduto a quel tavolino, occupatissimo a scrivere. Mossiú vi ha poi dormito sopra, ed è forse per questo ... - Dev'essere cosí! - esclamò il signor Van-Spengel dopo un momento di riflessione. - È strano, ma dev'essere cosí! Sapete? In gioventú sono stato sonnambulo. - Ah, mio Dio! - fece la serva. - Vuol dire che a notte lei andava per le stanze ... - Sí, mamma Trosse, qualcosa di simile. Parlavo, facevo ogni cosa proprio come quand'ero sveglio; né piú, né meno. A vent'anni però ebbi una gran malattia (fui sull'undici once di andarmene) e quel sonnambulismo cessò. Che voglia ricominciare? Cospetto! Sarebbe una gran seccatura! Ma sicuro - continuava dopo qualche intervallo - sicuro che ho scritto dormendo! Ne parlerò subito al dottore. Andate, serrate quell'uscio -. Il signor Van-Spengel riprese in mano il quaderno e, svoltata la prima pagina, lesse: "Signore, Questa mattina (2@ (2 marzo) alle ore 11@ 11 ant ..." Si fermò nuovamente, per cavar di tasca l'orologio. - Curiosa! Manca poco alle dieci e mezzo! Cose fatte dormendo! ... Ecco intanto ciò che il signor Van-Spengel lesse tutto di un fiato. Lo trascrivo dall'Appendice apposta in fondo al volume. "Signore, Questa mattina (2@ (2 marzo) alle ore 11@ 11 antimeridiane, recandomi dal mio ufficio al ministero dell'interno per ricevervi le istruzioni e gli ordini di S. E. il ministro, allo sboccare della via Grisolles nella via Roi Léopold, vidi una gran folla radunata davanti la casa segnata col N. 157@, 157, accanto al palazzo del signor visconte De Moulmenant. Dubitando di un assembramento di sediziosi contro il pastaio che ha la bottega lí presso al N. 161@, 161, mi affrettai ad accorrere dopo aver chiamato le due guard ie Lerouge e Poisson che trovavansi di fazione a capo della vicina via Bissot. Si trattava di ben altro. Il cocchiere, il cuoco, due cameriere della signora marchesa di Rostentein-Gourny stavano davanti il portone della casa a due piani, proprietà di detta signora marchesa, picchiando, ripicchiando da un'ora e mezzo, e non erano riusciti a farsi sentire né dal portinaio, né dalla cameriera rimasta in casa, né dalla marchesa né dalla marchesina. Quelle persone di servizio affermavano aver ricevuto dalla marchesa il permesso di assistere alle nozze della figlia del cuoco; erano perciò rimaste fuori di casa tutta la notte. Si cominciava a sospettare di qualche grave accidente. La costernazione era dipinta sul volto di tutti. Il cocchiere, scalato il terrazzino di mezzo a cavaliere del portone, aveva tentato di farsi sentire, picchiando sulle persiane con tale violenza da rompere alcune stecche: ma senza frutto. Pareva che in quella casa non ci fosse mai stata anima viva. Dimenticavo di dire che il sergente Jean-Roche con altre sei guardie mi avea precesso sul luogo, ed aveva già mandato uno dei suoi uomini dal giudice del circondario per aprire il portone colle forme richieste dalla legge. Il giudice arrivò da lí a pochi minuti, insieme al cancelliere. Si cercò un magnano, e dovemmo stentare un pezzetto prima che le serrature interne fossero messe allo scoperto e sforzate. Assegnate sei guardie per contenere la folla e scelti due testimoni, entrammo insieme a questi ed ai domestici, chiudendo il portone dietro a noi. I domestici dovevano servirci di guida e dar gli schiarimenti opportuni. Fatti pochi passi, ecco sul primo pianerottolo della scala un'orribile scena. Il portinaio giaceva lí quant'era lungo, colla testa appoggiata a un gradino: nuotava nel sangue. Le sue mani erano squarciate da tagli in direzioni diverse. Aveva due ferite alle regioni del cuore, tre in fondo all'addome. A quella vista la Luison, una della cameriere, svenne e fu presa da convulsioni violente. Nichette invece si slanciò su per le scale urlando, piangendo e chiamando a nome la sua padroncina. Gli uomini, allibiti, non pronunziavano sillaba. La guardia Maresque fu tosto spedita per un dottore. Eravamo appena a mezza scala, quando Nichette, affacciatasi dall'alto della ringhiera, urlava: "Assassinate! Assassinate!" La casa pareva presa d'assalto. Oggetti di biancheria sparsi alla rinfusa per terra; cassette, cassettoni, armadi tutti scassinati e messi sossopra. I divani e le poltrone del salone di ricevimento spostati, o buttati a gambe all'aria. Presso il pianoforte, sopra una duchesse, il cadavere della marchesina di Rostentein-Gourny. Colpita da una sola stilettata al cuore, era rimasta lí, colle mani aggrappate ai capelli, col capo rovesciato indietro sulla spalliera. Una piccola riga di sangue le macchiava la veste. Gli usci che dal salone introducevano nella stanza da letto della marchesa erano tutti spalancati. In fondo, per terra, vedevasi una forma di persona avvoltolata fra coperte. Era il cadavere della signora marchesa. Due guardie lo distrigarono a stento. Parecchie lividure al collo indicavano ch'era stata prima strangolata, poi raggomitolata a quel modo. La cameriera giaceva assassinata sul proprio letto nella camera accanto. Il dottor Marol arrivato in quel punto, dopo attente osservazioni, constatò che le quattro vittime dovevano esser morte da otto ore, poco piú, poco meno. L'atroce misfatto era stato dunque consumato dalle due alle tre dopo la mezzanotte. Evidentemente i malfattori non erano andati lí collo scopo di assassinare. Ma non si penetra di soppiatto in una casa abitata da persone che, non foss'altro, possono urlare al soccorso, senza che l'assassinio sia anticipatamente calcolato. Dalla vista dei luoghi non era difficile immaginare quello ch'era accaduto. Il portinaio, levatosi per rendersi ragione di qualche insolito rumore, doveva essere stato aggredito all'uscire della sua cameretta. Grosso, robusto, coraggioso, liberossi dalle strette degli assalitori e tentò di chiamar gente. Egli dovette afferrar tra le sue braccia qualcuno dei malfattori e stringerlo fin a quasi soffocarlo, mentre gli altri lo finivano a coltellate. Penetrati nelle stanze superiori, alcuni eran corsi nella camera della marchesa, introducendosi probabilmente dalla parte di destra, altr i nella camera della cameriera. La marchesa, sveglia, deve aver avuto appena il tempo di alzare il capo e di aprire gli occhi, ch'era già ridotta in istato da non poter gridare al soccorso. Pare che nello stesso tempo venisse uccisa la cameriera. Giacché la marchesina ancora alzata, avvertita forse dall'insolito movimento nella stanza vicina, suonò parecchie volte il campanello, strappando perfino il cordone. Vedendo entrare qualcuno degli assassini, la marchesina era scappata via, inseguita di stanza in stanza, rovesciando tutto quel che le capitava innanzi, sedie, tavolini, poltrone. Ma nel salone, trovatasi forse fra parecchi di quei visacci, si era abbandonata sulla poltrona e vi era stata uccisa di un colpo. Le induzioni erano queste; ci trovavamo tutti d'accordo. Dopo lunga e minuziosa ispezione, potemmo avverare che l'argenteria, le gioie, i valori, erano stati intieramente involati con arditezza senza pari. Da che parte e con che mezzi gli assassini eran penetrati in quella casa? Ecco una difficile ricerca. Il portone, solidissimo, sbarrato da spranghe interne e chiuso da un magnifico ordegno inglese di struttura assai complicata, non mostrava guasti di sorta. Nelle imposte, ermeticamente chiuse, all'interno ed all'esterno, nessuna traccia di violenza. Il cancello di ferro fuso che chiudeva l'entrata del giardino aveva la sua serratura a posto. Le mura delle cantine erano intatte. Il piccolo portone in fondo alle cantine, che risponde nel vicolo Mignon, era chiuso con tanto di spranga. I tetti, le soffitte in perfettissimo stato. Insomma ci trovavamo in faccia ad uno di quei difficili problemi che l'inesauribile astuzia dei malfattori presenta, come una sfida, alla polizia. Appoggiato al davanzale di una delle finestre che guardano nella via Roi Léopold, io riflettevo da un pezzo, quando tutto ad un tratto ..." - Hem? - fece il signor Van-Spengel, interrompendo la lettura. E appuntava una terribile interrogazione sul viso della Trosse che si disegnava nel vano dell'uscio tenendo fra le dita un biglietto di visita. - Ah, l'amico Goulard! - esclamò il signor Van-Spengel. - Ed io che stavo per piantarlo! Diavolo! Le dieci e tre quarti? Leggerò il resto piú tardi. Mamma Trosse - poi soggiunse con un atteggiamento mezzo comico mettendo in tasca il manoscritto; - siamo sul punto di diventar scrittori, romanzieri, come il vostro Ponson du Terrail. Che ne dite? - Tanto meglio! - rispose la Trosse che non aveva capito. - E i nostri romanzi li scriveremo senza fatica, ad occhi chiusi, dormendo! - Tanto meglio! - Il signor Van-Spengel si lasciò spazzolare da capo a piedi, aggiustò tranquillamente gli occhiali che gli si erano abbassati fino alla punta del naso, mise in testa la tuba, prese in mano la mazza e disse alla serva, che andava a far colazione dal suo amico Goulard. Il Goulard intanto aspettò fino al tocco, ma invano. Il signor Van-Spengel non si fece vivo in tutta la giornata. Giudichi il lettore se sarebbe stato possibile indovinare, anche dalla lontana, quello che gli era accaduto. Il signor Van-Spengel, senza nemmeno entrare nelle stanze dell'ufficio, sceso in fretta le scale e attraversato il vicolo dei Roulets era riuscito a metà della via Grisolles. Il conte De Remcy, maggiore dei granatieri, che lo incontrò poco piú in là del Cafè de Paris e lo fermò alcuni minuti, ribadisce anche lui il racconto della serva intorno alla perfetta tranquillità d'animo del suo amico. Il signor Van-Spengel era (e come no?) vivamente impressionato dal caso di quello scritto. Fra le poche parole scambiate col De Remcy ci furono anche queste: "Van-Spengel: "Credete voi all'assurdo?" De Remcy: "Anzi!" Van-Spengel: "Ebbene, questa sera vi dirò una cosa che vi farà strabiliare". De Remcy: "Perché non ora?" Van-Spengel: "Ho fretta"". Il dottor Croissart riferisce altre quattro testimonianze di persone che fermarono il signor Van-Spengel lungo la via Grisolles; sono dello stesso tenore. Dalla chiesetta Saint-Michel fino allo sbocco della via Grisolles nella via Roi Léopold il signor Van-Spengel fu accompagnato dal signor Lebournant, sarto, che tornava a raccomandargli un suo affare. Fu questi che notò per primo un istantaneo e profondo sconvolgimento sul volto del direttore in capo della polizia. - Ah, mio Dio! Ah, mio Dio - avea esclamato il signor Van-Spengel. Sboccando dalla via Grisolles nella via Roi Léopold, avea visto una gran calca di gente presso il palazzo del visconte De Moulmenant, precisamente innanzi al portone della marchesa De Rostentein-Gourny. "Però - riferisce il signor Lebournant - quel turbamento gli durò poco. Io lo guardavo con sorpresa. Non era mica naturale che un uomo della sua fatta si turbasse per l'assembramento di un centinaio di persone. Sospettai che ci fosse per aria qualcosa di grave. La prima idea che mi si affacciò fu quella di andar a chiudere il mio negozio. Intravvidi le barricate.I ""Permettete", mi disse torcendo a destra per la via Bissot. Lo tenni d'occhio. Ritornò poco dopo con due poliziotti e insieme ad essi s'indirizzò verso la folla. Mi mescolai fra i curiosi. Tutti si fermavano domandando di che che si trattasse. Se ne dicevano di ogni colore". (pag. 7@). 7). Riconosciuto il direttore in capo della polizia, la folla si aperse per lasciarlo passare. Una scala era appoggiata al terrazzino centrale del palazzotto Rostentein-Gourny; e quando il signor Van-Spengel giungeva davanti al portone, la persona che discendeva diceva ad alta voce: - Hanno il sonno duro -. Il signor Van-Spengel impallidí. Il riscontro del suo scritto colla realtà era cosí evidente che anche una testa piú solida della sua ne sarebbe stata sconvolta. Bisogna dire che il suo carattere fosse proprio d'acciaio, se poté far violenza a se stesso e padroneggiare fino all'ultimo la sua crescente emozione. Lascio la parola al dottor Croissart. "È difficile - egli scrive - indovinar con precisione ciò che accadeva nell'animo del signor Van-Spengel alla terribile conferma data dai fatti alla sua visione di sonnambulo. Il giudice signor Lamère, appena arrivato sul luogo notò che l'aspetto del direttore era nervoso. Guardava attorno un po' stralunato; pacchiava colle labbra asciutte, impaziente. Era di un pallore mortale, quasi cenerognolo; respirava affannato. Il signore Lamère gli rivolse piú volte la parola senza spillarne altra risposta che uno o due monosillabi. Entrarono. Alla vista del cadavere del portinaio, il signor Van-Spengel lasciò sfuggire un "oh!" prolungatissimo, e si passò piú volte la mano sulla fronte. Nel salire le scale sudava. Cavò fuori ripetutamente il fazzoletto per asciugarsi le mani ed il viso. Nel salone di ricevimento si fermò immobile, davanti il cadavere della marchesina Rostentein-Gourny, tenendosi la testa con tutte e due le mani. Il signor Lamère si affrettò a chiedergli se si sentisse male. "Un pochino", rispose. E andò verso la finestra che dava sulla via Roi Léopold. Quando il giudice lo invitò ad assistere alla perquisizione, il signor Van-Spengel rispose secco secco: Fate. E rimase assorto nei suoi pensieri, a capo chino, colle mani chiuse l'una nell'altra, appoggiate al mento ed alle labbra, e le spalle rivolte alla via". (pag. 130@). 130). Il dottor Marol lo trovò in questa posizione. Ma poco dopo, quand'ebbe terminato l'esame della ferita della marchesina, vide che il signor Van-Spengel, coi gomiti sul davanzale della finestra e il mento sui pugni, guardava fisso tra la folla. Stette cosí forse una mezz'ora. Il giudice signor Lamère, compiute le sue indagini, gli si era accostato per consultarlo sul da fare. Egli credeva che i servitori, che almeno qualcuno dei servitori avesse avuto parte in quel misfatto: - Gli pareva prudente far arrestare senza indugio tutte le persone di servizio. I particolari del delitto mostravano quattro e quattro fa otto che lí c'era lo zampino di qualcuno di casa. - Un momento - rispose il signor Van-Spengel dopo alcuni istanti di riflessione. Andò lentamente a sedersi sul canapè nel lato opposto della camera, trasse dalla tasca del soprabito alcune carte piegate in lungo, saltò parecchie pagine e si mise a leggere con grande attenzione. In quel punto l'aspetto del signor Van-Spengel aveva un'espressione stranissima. Gli abbondanti capelli grigi che gli rivestivano la testa erano arruffati, quasi irti per terrore. Il luccichio dei cristalli degli occhiali, ogni volta che alzava il capo quasi cercasse una boccata d'aria, accresceva il sinistro splendore della pupilla e del volto. Le rughe della sua fronte parevano tormentate da un'interna corrente elettrica, e comunicavano la loro violenta mobilità a tutti i muscoli della faccia. Le labbra si allungavano, si contorcevano, si premevano l'uno sull'altro mentre i piedi sfre gavano continuamente sul tappeto, poggiando con forza. - Tutti i direttori di polizia sono cosí? - chiese il signor Lamère al dottor Marol. - Che volete ch'io ne sappia? - rispose questi piú stupito di lui. Passarono dieci minuti. Il signor Van-Spengel si slanciò verso la finestra ove il signor Lamère ed il dottor Marol erano rimasti ad aspettare. - Ebbene? - domandò il primo. - No - rispose - arrestereste degli innocenti. Attendete. Lasciatemi fare. Maresque! Poisson! - Le due guardie erano accorse subito. - Con permesso, fatevi in là - disse al dottore. - Affacciatevi con me, ad uno ad uno, - seguitò rivoltandosi alle guardie; - fingete indifferenza. Attenti alle mie indicazioni. Occhio desto! E si fece alla finestra col Maresque. Il signor Lamère sentí questo dialogo: "Van-Spengel: "Vedi tu quel biondo accanto all'uscio del gioielliere Cadolle?" Maresque: "Quello dall'abito bigio e dal berretto alla polacca?" Van-Spengel: "Bravo! Fissati bene in mente la sua figura." Maresque: "Lo riconoscerei fra mille, signor direttore"" (pag. 250@). 250). Rientrarono. - Ora te, Poisson! E ripeté coll'altra guardia la medesima cosa. In quel punto il signor Van-Spengel non pareva piú l'uomo di pochi momenti fa. Era calmo e impartiva gli ordini colla serietà delle persone del suo mestiere. - Via! - esclamò all'ultimo, sospirando. - Usciremo dal vicolo Mignon; qui c'è tanti grulli curiosi! Tu, Maresque, ti accosterai al nostro biondino senza far le viste di badargli. Son sicuro che il colore della tua divisa gli urterà subito i nervi. Prenderà il largo e tu dietro, da vicino, senza aver l'aria di pedinarlo. Poisson verrà con me. Signor dottore, signor giudice, fra un quarto d'ora uno degli assassini sarà qui. Abbiate la pazienza di attendere -. - Che dica sul serio? - chiese il giudice al dottore. - Ma! - rispose questi, stringendosi nelle spalle. - Ha detto il negozio del Cadolle, non è vero? - Sí, il gioielliere: eccolo lí! - E tutti e due si affacciarono alla finestra tra increduli e curiosi. Piú di tremila persone stavano accalcate in quel piccolo tratto di via, incatenate dalla curiosità di conoscere i resultati delle indagini dell'autorità giudiziaria, coi visi in alto, verso le finestre del palazzotto Rostentein-Gourny, colle immaginazioni riscaldate dai pochi e contradditori particolari che andavano attorno. Il Maresque si era fermato piú volte, prima di accostarsi verso il negozio del Cadolle. Il biondo indicato dal signor Van-Spengel, rimasto tranquillo per qualche minuto, faceva due passi, poi tre, poi dieci verso la piazzetta Egmont, e spariva senza voltarsi indietro. Il Maresque spariva dietro a lui. Il signor direttore e l'altra guardia li seguivano a dieci passi di distanza. Piú in qua della piazzetta Egmont Poisson si staccava dal direttore. Dopo questo, il giudice e il dottore non videro piú nulla. La loro sorpresa era immensa. Il biondo, secondo l'espressione del signor Van-Spengel, si era sentito urtare i nervi dalla divisa del Maresque ed aveva preso il largo con una indifferenza da ingannare il piú astuto. Sui trent'anni, con lunghi e folti baffi rivolti in giú, occhio ceruleo, limpido ma irrequieto, il biondo era uno di quegli esseri sociali che non si sa mai con certezza a quale classe appartengano. Indossava, colla eleganza che vien dall'abitudine a una vita molle e disoccupata, un vestito di fantasia, un'accozzaglia di fogge diverse, dal berretto polacco alla scarpa parigina, dalla giacchetta ungherese al pantalone inglese e alla cravatta americana; ma quest'accozzaglia non stonava armonizzata dal suo bizzarro portamento. Nessuno, a vederlo, avrebbe sospettato in quel giovane il menomo indizio di un assassino. Lo si sarebbe preso facilmente per un artista un poco matto. Dal signor Van-Spengel si erano avute parecchie prove veramente sorprendenti di quella lucida, elettrica intuizione - un vero colpo di genio - che distingue l'uomo dell'alta polizia dal commissario volgare. Si tratta di sorprendere intime relazioni fra avvenimenti che paiono disparatissimi; d'intendere il rovescio d'una frase, d'un motto o d'un gesto che cercherebbe di sviarvi; di dar grave importanza a certe cose apparentemente da nulla; di afferrare a volo un accidente da mettervi in mano il bandolo che già disperavate di trovare: lotta di astuzie, di finezze, di calcoli, di sorprese che colla soddisfazione del buon successo compensa l'uomo dell'alta polizia del suo ingrato lavoro. Ma qui la cosa andava diversamente. Il signor Van-Spengel, letta la seconda parte del suo lavoro di sonnambulo, vi aveva trovato, negli interrogatori anticipatamente scritti, i piú minuti particolari di quello che poi doveva accadere e si era messo, dirò cosí, ad eseguire punto per punto il programma della giornata, visto che la prima parte aveva corrisposto cosí bene. Svoltando a destra della piazzetta Egmont, il biondo s'era avveduto della guardia, colla coda dell'occhio, e avea capito che lo pedinava. Allungato il passo, vicino al chiassetto dei Trois Fous, aveva tentato un colpo ardito. S'era fermato davanti un portone e v'era entrato di un lampo. La casa aveva un'altra uscita nella via della Reine. Se poteva essere perduto di vista un venti secondi, il colpo gli riusciva. Profittando di alcuni carri che ingombravano la via della Reine verso il Restaurant des Artistes, girò con lestezza attorno ad essi, ritornò sui propri passi mentre il Maresque lo cercava coll'occhio tra la folla, e infilò un vicolo stretto, torto, sudicio, una di quelle tante anomalie che si trovano spesso nel cuore delle grandi città. Aveva fatto i conti senza l'oste. Il signor Van-Spengel lo aveva scoperto da lontano. Il biondo passò un usciolino sepolto fra le panche di erbaggi di una bottega di ortolano e i cenci di un rivendugliolo ebreo, spenzolanti in mostra dalla tabella. Il signor Van-Spengel, seguito dal Poisson e dal Maresque, diè un'occhiata allo stabile; poi, senza dir motto, cominciò a salire la scala che principiava quasi alla soglia. Trovarono un andito largo, una specie di corridoio senza volta, col pavimento sdrucito e i vecchi mattoni che vi formavano degli isolotti: un locale freddo, grigio, di aspetto sinistro. Sei usci segnati con grossi numeri rossi indicavano sei stanze: ma il perfetto silenzio che vi regnava faceva supporre che i locali fossero allora disabitati. Il signor Van-Spengel si accostò all'uscio numero 5@, 5, e picchiò colle nocche delle dita tre colpetti risoluti. - Chi è? - avea risposto una bella voce di uomo. - La legge! - Apparve sull'uscio un uomo in veste da camera. Pareva di essere sulla quarantina. Aveva il volto tutto raso, i capelli neri e molto lunghi, gli occhiali inforcati sul naso e un libro in mano. - Disturbo? - disse il signor Van-Spengel con impercettibile ironia, mostrando la sua fascia tricolore. - Niente affatto - rispose l'altro inchinandosi. - La legge è il miglior ospite di questo mondo. Ai suoi ordini, signore -. Le guardie scambiarono due occhiate interrogative, scrollando le spalle. - Caro dottor Bassottin - disse il signor Van-Spengel, appuntando in viso a quell'uomo i suoi sguardi di fuoco. - Caro dottor Bassottin, o meglio signor Colichart, o, se piú vi aggrada, signor Anatolio Pardin, scegliete! ... (l'altro al sentir pronunziare quei tre nomi avea fatto tre movimenti mal frenati di sorpresa). È provato che la notte scorsa voi, insieme ai vostri compagni Broche, Vilain, Chasseloup, Callotte e Poulain, col mezzo di due ordegni inglesi da voi fatti costruire l'ottobre passato dal Blak di Londra, penetraste alle due e un quarto dopo la mezzanotte, nella casa della signora marchesa De Rostentein-Gourny, via Roi Léopold, numero 157@ 157 ... L'uomo a cui erano rivolte queste parole lo guardava imperterrito, facendo segni negativi col capo. - Voi ne usciste l'ultimo - continuò il signor Van-Spengel - richiudendo il portone collo stesso ordegno servito ad aprire. Appena uscito vi metteste a cantare e a schiamazzare insieme agli altri. Poi vi sparpagliaste per diverse direzioni e vi riuniste dopo mezz'ora in questo locale a dividervi il bottino. - Ma, signore - interruppe l'altro con un tono calmo ed insinuante, sorridendo; - qui dev'esserci uno sbaglio. Io sono il dottor Bassottin in carne e in ossa, medico chirurgo di Bruges. Voi mi trovate fra i miei libri di scienza e i miei strumenti. Non ero preparato a questa visita. Signore ... oh! Dev'esser corso proprio uno sbaglio ... - Signore Anatolio! - replicò il direttore di polizia accostandoglisi all'orecchio. - Io so qualche cosa che i vostri complici non sanno: so dove avete nascosto quel diadema di brillanti che la vostra abilità di giocoliere fece sparire senza che quelli se ne accorgessero! - Ah! Voi siete il diavolo! ... - E Anatolio si appoggiava al muro, tremante come una foglia. - Cavategli quella veste da camera - disse il signor Van-Spengel. Il Pardin lasciò fare. - Strappategli quella parrucca -. Il Pardin non oppose la menoma resistenza. Com'erano ricomparsi i vestiti, ricomparvero allora anche i capelli biondi del giovane pedinato. Le due guardie stralunarono dalla sorpresa. - Se vuol rimettersi i baffi! - disse il signor Van-Spengel seriamente. E il Pardin, che pareva sotto l'oppressione di un potentissimo fascino, cavava macchinalmente di tasca i suoi baffi finti e se li adattava come gli avea prima. - Ed ora mettetegli le manette -. Il Pardin esitò un momentino a porgere le mani, ma non impedí che il Maresque gliele tenesse unite mentre il Poisson gli stringeva ai pollici il suo piccolo strumento di acciaio. Il signor Van-Spengel picchiò in vari punti del pavimento, indi smosse un mattone colla punta della sua mazza. Apparve una buca. Poisson ne estrasse parecchie scatole e due involti che depose sul tavolino. Il signor Van-Spengel aprí ad una ad una le scatole, osservò gli oggetti d'oro, le pietre preziose, e le richiuse con cautela. Mentre il signor Van-Spengel eseguiva questa operazioni, il giudice Lamère e il dottor Marol avevano fatte altre e piú minute osservazioni sulle diverse ferite delle vittime, perdendosi in un ginepraio di supposizioni intorno al modo con cui gli avvenimenti eran dovuti accadere. Un piccolo episodio li avea commossi. Erano nella camera della marchesina. - Perché non l'avevano trovata uccisa lí, ma nel salone di ricevimento? La marchesina era ancor sveglia verso le due e mezzo dopo la mezzanotte. Che cosa faceva? Il dottor Marol si accorse pel primo d'una lettera restata a mezzo, sul tavolino, ma non osò buttarvi gli occhi. La sua squisitezza di animo gli impediva di violare il segreto dei morti, il segreto di una signorina. Il giudice Lamère invece trattò quella lettera come un documento del suo futuro processo e la lesse. Eccola: fu pubblicata dai giornali belgi quell'anno. "Mia cara, Sono felice! Bisogna che ti dica subito queste due parole: le capirai meglio quando avrai letto fino all'ultima riga. Sono felice! Se ancora me le tenessi nel cuore, potrebbero farmelo scoppiare. Oh! sarò sempre in tempo a morire. Oggi sono felice! Troppo felice! Figurati! Mi son messa a scrivere alle undici e mezzo di sera. È già l'una dopo la mezzanotte ed ho appena incominciato. Ma in queste due ore e mezzo non ho fatto altro che parlare con te, ad alta voce, come se ti avessi avuta presente. Ah, mia cara! ... La penna non corrisponde alla foga del mio pensiero, al tumulto de' miei affetti. Perché le persone che si amano non s'intendono da lontano senza né scriversi né parlarsi? Ecco: io duro fatica a proseguire, ed ho cento cose da dirti. Via, siamo serie! ... Egli mi ama! Me l'ha detto questa mattina, in salotto, dove ci trovammo soli per due brevi minuti. Io tremavo come una bimba nel sentirlo parlare. Egli tremava piú di me. Non intesi bene le prime parole; ma le compresi egualmente e gli risposi ... cosí strampalata! Oh, fu di una delicatezza senza pari! Pareva chiedesse scusa di farmi felice. Scesi subito in giardino. Non potevo contenermi. Un fremito di piacere mi agitava da capo a piedi e mi rendeva leggiera come una piuma. Lí tutto sorrideva; tutto era pieno di profumi. I fiori mi salutavano scotendo il capino sullo stelo con grazia indicibile; le acque delle vasche mormoravano mille cosette maliziose che mi facevano provare certi brividi! ... Una gioia fino allora ignorata! Correvo pei viali; mi fermavo; odoravo i fiori, gli accarezzavano; agitavo colle mani convulse le acque della vasca ... Pare impossibile che una parola ci possa rendere cosí! Volevo esser seria e non riuscivo. Mi sembrava che io profanassi il divino sentimento dell'amore manifestando la mia allegrezza in quel modo cosí fanciullesco; ne avevo dispetto ... Ma tornavo a far peggio. Correvo di nuovo, saltavo ... Poveri fiori! Quelle mie carezze li maltrattavano, ne guastavano le foglioline e le corolle, li sfogliavano anche; ma! ... I felici sono crudeli, cara mia! Egli m'ama! C'era proprio bisogno che me lo dicesse? No, no! ... Ma pure non vivevo tranquilla; dubitavo sempre, mi torturavo da mattina a sera; mentre ora! ..." Il signor Lamère ed il dottor Marol avevano le lacrime agli occhi. Il cuore da cui erano sgorgate quelle righe piene di tanto affetto non batteva piú! Il Lamère ed il dottor Marol si guardarono in viso stupiti vedendo entrare il signor Van-Spengel seguito dal giovane arrestato fra le due guardie. Il Van-Spengel pareva in preda a un fierissimo accesso nervoso. Metteva paura. - Cancelliere - disse il signor Lamère - stendiamo dunque il verbale. - Se ne risparmi la fatica - balbettò il signor Van-Spengel, avanzandosi barcollante, con un sorriso da ebete. - Il verbale eccolo qui! ... E presentava il suo manoscritto, dando in uno scroscio di risa convulse. Era ammattito! Il libro del dottor Croissart, interessantissimo per tutti i versi (egli è direttore del manicomio di Brusselle) termina con profonde considerazioni su questo strano fenomeno di psicologia patologica, degne di esser lette e meditate. Egli conchiude: "Quando vediamo il nostro organismo mostrar tanta potenza in casi tanto eccezionali ed evidentemente morbosi, chi ardirà d'asserire che le presenti facoltà siano il limite estremo imposto ad esso dalla natura?" Catania, 25@ 25 marzo 1873@. 1873.

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 1 occorrenze

Il compito è difficile, senza dubbio, ma perchè non affrontarlo con coraggio, e lasciar sussistere in Parigi, senza fare alcun sforzo per distruggerli, tanti focolari d'infezione, che abbassano al livello degli animali i più immondi, gl'infelici abituati a cercarvi un rifugio per la notte? Sebbene le abitazioni, delle quali stiamo occupandoci, non offrano tutte egualmente argomento di censura e di biasimo, tuttavia le une peccano per l'agglomerazione degli alloggiati, le altre per il genere del giaciglio, le altre infine per l'assenza d'ogni ventilazione e persino per mancanza assoluta d'aria. L'agglomerazione è l'inconveniente che domina in tutte le locande dell'infima classe e rende più grave il triste risultato degli altri inconvenienti, ai quali esse vanno soggette. I venticinque o trentamila operai costruttori, che affluiscono a Parigi ogni anno da alcuni dipartimenti determinati, si raccolgono in camerate e vi si ricoverano a dormire per tutte le notti della stagione di lavoro. Molte di queste camerate, nelle quali allogiano i manovali e i muratori, sono tenute da persone del paese nativo di questi e i padroni di tali locande ve li attraggono colla loro probità riconosciuta e per le sollecitudini che hanno o mostrano di avere per i loro affittuali. Queste camerate abbondano principalmente nei quartieri dell'Hôtel de Ville pei muratori e nel Faubourg Saint-Martin pei legnaiuoli. Questi ottimi operai, per una tendenza che li distingue da tutti gli altri lavoratori, non mirano che al risparmio essi coi loro locatori trattano in modo d'ottenere per sei franchi al mese oltre l'alloggio, il bucato d'una camicia per ciascuna settimana e ogni giorno una zuppa di cui essi però debbono fornire il pane. Quanto questi operai non impiegano pel soddisfacimento dei loro bisogni generalmente limitatissimi, è risparmiato o pel mantenimento delle loro famiglie o per l'aumento del loro piccolo patrimonio. I delegati della polizia attestano unanimemente regnare l'ordine e la concordia nelle camerate degli operai costruttori e serbare essi una condotta che si potrebbe dire esemplare. Non è forse rincrescevole che questi ottimi operai dormano così agglomerati in piccole stamberghe? Avvezzi a lavorare all'aria aperta, l'angustia di tali alloggi dev'essere loro più penosa che non lo sia per altri. Così le febbri tifoidee sono troppo comuni tra loro e colpiscono talvolta delle camerate intiere. L' agglomerazione e l'insufficiente arieggiamento delle camere ammobigliate sono del pari pericolosi agli operai impiegati nelle officine e nelle manifatture. Essi infatti ogni giorno passano da un'abitazione infetta ad un opificio, che bene spesso non è meno di quella insalubre, e questi poveretti si trovano così predisposti a contrarre facilmente delle malattie contagiose. Di tutti gli individui componenti la classe povera, i cenciaiuoli e gli straccivendoli sono quelli che abitano le stamberghe più infette e più nauseanti. Si ha un bel discendere negli ultimi gradi della società, l'ineguaglianza apparisce sempre in qualche parte e gli straccivendoli (chi lo avrebbbe imaginato!) ne sono i notabili. Sono essi degli industriali un po' più economici, un po' più ordinati del resto della marmaglia e che godono d'un certo relativo benestare. Gli uni, i più scaltri, occupano una o due piccole camere che prendono a pigione per sè e per le loro famiglie; gli altri possedono un pagliericcio che loro serve per coricarsi nella camerata di cui fanno parte; ma questo possesso, spesso collettivo piuttosto che personale, è loro invidiato dai pezzenti, che dormono entro specie di truogoli sopra cenci o sopra poche manate di paglia sparsa sull'ammattonato. Gli agenti di polizia incaricati della vigilanza delle locande destinate ai cenciaiuoli, ne fanno una pittura incredibile. Ciascun alloggiato conserva presso di sè la sua bisaccia e la sua sporta, ricolme di lordure, e di quali lordure! Questi selvaggi non provano ripugnanza a comprendere nelle loro raccolte persino animali morti e a passare la notte presso questa preda puzzolenta. Quando gli agenti di polizia entrano in siffatte locande per le loro ispezioni ordinarie o per ricercarvi qualche individuo sospetto, provano una soffocazione che rassomiglia molto all'asfissia. Essi ordinano l'apertura delle imposte delle finestre, quando pure vi è modo di aprirle, e le osservazioni severe che gli agenti dirigono ai locandieri sopra questo orribile miscuglio di esseri umani e di animali in putrefazione non hanno virtù di smoverli punto. I locandieri rispondono che i loro pigionali ed ancor essi vi sono abituati. Un tratto dei costumi speciali dei cenciaiuoli, e che si potrebbe chiamare uno de'loro passatempi, consiste nel dar la caccia ai topi nei,cortili di certe case ch'essi frequentano. I cenciaiuoli attraggono i topi coll'aiuto di certe sostanze mangiereccie che mescolano ai cenci raccattati per le vie. Per fare la loro caccia collocano un mucchietto di tali cenci presso i crepacci dei muri, e quando possono supporre che i topi vi si siano annidati, sguinzagliano nel cortile certi loro cani addestrati a tale caccia e in un batter d'occhio i cenciaiuoli s'impadroniscono di parecchi topi, di cui mangiano la carne e vendono la pelle.

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Un giorno a Madera

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Passai con lui una settimana in uno dei più bei paesi del mondo, e dinanzi a cui Napoli e Costantinopoli abbassano modestamente le loro armi e poi mi separai da lui. Fu per me uno strappo crudele del cuore; non avrei voluto distaccarmi mai da William e nello stesso tempo, gracilissimo e malaticcio, sentiva che il clima del tropico mi avrebbe ucciso. Anche rimanendo a Rio de Janeiro pochi giorni con lui, non avrei potuto tenergli compagnia per molto tempo. Egli voleva viaggiare nell'interno del Brasile; voleva mettersi alla testa di imprese metallurgiche, di colonne agricole; voleva tentar di seppellire sotto un cumulo di affari un'idea che lo consumava; voleva colla febbre del lavoro vincere un'altra febbre più ardente e più pericolosa. Ci separammo colla sicurezza di rivederci, e questo pensiero ci rese men duro il nostro distacco. Eravamo giovani entrambi, e nell'età della speranza; dovevamo rimanere entrambi parecchi anni nell'America meridionale; e perché non ci saremmo noi riveduti e presto? Questa cara lusinga non doveva avverarsi. Non ci saremmo più riveduti.

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FIABE E LEGGENDE

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Praga, Emilio 1 occorrenze

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682214
Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Dopo le prime cannonate, abbassano il grande stendardo di Spagna e consegnano ai furfanti della Tortue le verghe d'oro che hanno nella stiva. - I miei veramente ... Il conte di Miranda si fermò mordendosi le labbra come pentito di essersi lasciato sfuggire quella frase e disse: - Capitano, volete dunque che giochiamo? - Vi avevo invitato per questo. Vedremo se l'amore porta fortuna o sfortuna. - Che cosa volete dire? Il conte di Sant'Iago, invece di rispondere, fece un segno ad un servo negro gallonato vestito di seta e gli ordinò: - I dadi: vogliamo giocare. - Subito, signor conte. Un momento dopo il servo portava su un piatto d'argento finemente cesellato una piccola tazza d'oro con due dadi di dente di marsuino. - Che giochiamo, signor conte de Miranda? - chiese il capitano degli alabardieri. - Quello che volete. - Badate a quello che dite. - Perché, signor conte di Sant'Iago? - chiese il giovane con affettata indifferenza. - Carrai! - Caramba! Bestemmiate, signor conte. - Ed anche voi, mi pare. - Oh! Io sono uomo di mare! D'altronde nessuno vi proibisce di bestemmiare. Le genti di terra e di mare qualche volta vanno pienamente d'accordo su questo.. terreno. - Avete dello spirito, conte. - Qualche volta. - Giocate? - chiese il capitano. - Ve l'ho già detto: quello che desiderate. - Una pelle viva? Il giovane guardò il capitano con sorpresa - Non vi comprendo: quale può essere questa pelle viva? Quella d'un pescecane forse? Il capitano degli alabardieri di Granata si mise le mani sui fianchi, con un fare provocante, poi disse con voce grave: - Fra gli uomini d'arme di terra usa giocare una pelle, quando si è stanchi di gettare dell'oro sul tavolo. - Ossia? - chiese il conte de Miranda con calma. - Quello che perde si fa saltare il cervello con un colpo di pistola. - Brutto giuoco! - Anzi interessantissimo, perché si giuoca la vita d'un uomo. - Preferisco arrischiare i miei dobloni - rispose il giovane. - Lo trovo piú comodo. - E quando non se ne hanno piú? - Si lascia il tavolino da giuoco e si va a dormire nella cabina: almeno cosí usa nella marina. - Non fra noi però! - Che diavolo! Sareste uomini tanto diversi, signor conte? - Può darsi! - rispose seccamente il capitano. - Avete pessimi gusti. - Volete offendermi? - Io? Niente affatto, capitano, sono venuto qui per giocare e non per arrabbiarmi o suscitare uno scandalo. Che cosa si direbbe di me? - Forse avete ragione. - Lasciate dunque in pace le pelli vive o morte, e giochiamo dei dobloni o delle piastre. Quelle almeno non hanno peli né da vendere né da uccidersi - Puntate? - Cento piastre - rispose il giovane gentiluomo. - Volete rovinarmi? - No, perché sono un pessimo giocatore, signor di Sant'Iago; e poi non ho mai avuto fortuna né alle carte, né ai dadi. - L'avrete con le belle signore, con le marchese soprattutto - disse il capitano quasi con rabbia. - In mare non ho incontrato che navi, montate per lo piú da corsari, e quelle non mi regalavano baci, ve l'assicuro. Al mio saluto rispondevano invece con palle di buon calibro che facevano sudar freddo i miei uomini. - Ma in terra, sí però. - Signor di Sant'Iago, io sono entrato in questo salotto per giocare qualche migliaio di piastre e non già per chiacchierare. Dovreste saperlo che gli uomini di mare non amano parlar molto ... Cento piastre? - Sia! - rispose il conte di Sant'Iago con un gesto sprezzante. - Volete essere il primo? Il capitano, invece di rispondere, prese il bossolo d'oro, fece saltellare i dadi: poi li rovesciò sul tavolino. - Tredici! - disse. - Ecco un numero che porterà fortuna. - Siete superstizioso? - No, tuttavia questo tredici mi ha dato una scossa al cuore. - Allora morrete molto presto - disse il conte de Miranda ridendo. - Per mano di chi? - Non sono mai stato uno stregone, io. - D'un rivale? - Può essere. - Non lo credo, perché ne ho ucciso uno la settimana scorsa, per il semplice motivo che mi dava ombra. - Avete la mano troppo lesta, signor di Sant'Iago. - Che fora sempre quando stringe una spada. - Veramente anche la mia non è tarda - ribattè il giovane. Il capitano degli alabardieri lo guardò fisso fisso, come se cercasse di comprendere bene il senso di quelle parole, poi disse: - Tocca a voi. Il conte de Miranda prese a sua volta il bossolo e fece rotolare i dadi sul tappeto. - Quattordici! Che combinazione! - esclamò. - Caramba! Un tredici e un quattordici. Che cosa significano questi due numeri cosí vicini l'uno all'altro? Il capitano degli alabardieri si era passata una mano sulla fronte aggrottata. Una viva preoccupazione traspariva dal suo viso. - Che cosa ne dite voi, signor di Sant'Iago? - chiese il giovane. - Che voi avete vinte le mie cento piastre. - Di quelle non mi occupo: io parlo dei due numeri. - Nemmeno io sono uno stregone. - Continuate? - Sí: voglio vedere come si combineranno i nuovi numeri. Vi propongo tre colpi di cinquecento piastre ciascuno. - Sta bene: a voi. Il capitano riprese il bossolo e, dopo aver agitato nervosamente i dadi, li fece saltare sul tappeto. Un'imprecazione a malapena repressa gli sfuggí, mentre la fronte gli s'imperlava di sudore. - Tredici ancora! - aveva esclamato. - È col diavolo che io gioco? - Veramente sono vestito come lui! - disse il conte de Miranda, sempre ilare. - Giocate, per Dios! - Dodici! - esclamò il giovane. Il capitano sussultò. - Il tredici chiuso fra il dodici ed il quattordici! - disse, battendo un pugno sul tavolino. - Non trovate strano tutto ciò, conte? - Infatti è una cosa che dà a pensare. - E il numero fatale l'ho io! - Ma mi avete vinto cinquecento piastre, una somma che può consolare anche un capitano degli alabardieri. - Avrei preferito perderle, purché fosse uscito un altro numero. - Né io, né voi possiamo comandare ai dadi. Continuiamo. La partita fu ripresa, ed il conte d Miranda vinse le altre mille piastre, con un quindici e con un diciassette, contro un quattordici ed un sedici. Il capitano si era alzato di cattivo umore, nel momento in cui i servi annunciavano che era la mezzanotte e che perciò la festa era finita. - Vi manderò domani a bordo le millecento piastre che mi avete vinto, conte - disse il signor di Sant'Iago con voce secca. - Non abbiate fretta - rispose il giovane. - Mi accorderete una rivincita, spero. - Quando vorrete. - Non qui però. - Perché? - Non ho fortuna in questa casa. - E non si può litigar liberamente; è vero, capitano? - chiese il de Miranda ironicamente. - Può essere - rispose il capitano. - Buona sera, conte. Ciò detto, uscí dal salotto ed entrò nella sala da ballo, dove dame e cavalieri si affollavano intorno alla marchesa di Montelimar per accomiatarsi. Il comandante della Nuova Castiglia si era invece fermato, appoggiandosi allo stipite della porta. Aspettava probabilmente che gli invitati se ne andassero. Dall'espressione del suo viso si capiva che non era meno preoccupato del conte di Sant'Iago. Tormentava con la sinistra la guardia della sua spada e si torceva nervosamente i baffi. Quando la splendida sala fu quasi vuota, a sua volta avanzò verso la marchesa, la quale pareva che già lo cercasse con lo sguardo. - Signora, - le disse inchinandosi - mi perdonerete se io non sono piú rientrato per fare un'altra danza con voi, ma mi ero impegnato in una grave partita al giuoco. - Col capitano degli alabardieri? - chiese la bella vedova, con una certa ansietà. - Sí, marchesa. - Non avete questionato con lui? - Niente affatto. La marchesa respirò. - Guardatevi da lui, signor conte - disse poi. - È un uomo pericoloso. Il giovane batté una mano sulla guardia della spada. - Quando al mio fianco sta questa lama, io non ho paura di tutti i capitani degli alabardieri di Spagna, di Francia o d'Italia! - disse. - Marchesa, quando potrò rivedervi? Io devo chiedere a voi un'informazione che mi interessa. - A me? - Sí, marchesa. - Allora domani farete colazione con me. - Domani, - disse il conte, mentre sulla sua fronte passava come un'ombra - potrebbe essere troppo tardi. - Contate di partire presto? Siete arrivato solamente stamane. - È vero, marchesa: ma vi sono delle volte che non si può disporre del proprio tempo. Potrei rimanere, come potrei partire da un momento all'altro. Non vorrei andarmene però prima d'aver avuto un colloquio con voi. - Non siete venuto per proteggere San Domingo da un attacco dei corsari della Tortue e dei bucanieri? - Non posso rispondervi, marchesa. - Eppure voi non dovete partire cosí presto. Sapete cavalcare, conte? - Sí, marchesa. - Domani ha luogo la corsa al gallo e desidererei che vi prendeste parte. - Perché? - La posta è un mio bacio che darò e riceverò dal vincitore. Il conte de Miranda ebbe un leggero trasalimento. - Checché accada, - disse poi - prenderò parte alla corsa. Buona sera marchesa; noi ci rivedremo, perché è necessario. Baciò la mano alla bella vedova e uscí accompagnato da un valletto mulatto, il quale reggeva a stento un pesante doppiere d'argento. In quello stesso momento gli ultimi invitati lasciavano il magnifico palazzo di Montelimar.

I PREDONI DEL SAHARA

682457
Salgari, Emilio 1 occorrenze

I loro compagni però, quantunque sorpresi dalla rapidità di quell'assalto assolutamente inaspettato da parte di quei fanatici, che un istante prima reclamavano la testa del prigioniero, abbassano i moschetti e stringono le file. Una terribile scarica rimbomba e getta al suolo parecchi assalitori colla testa fracassata. Quella resistenza sconcerta per un momento i predoni, ma gli arabi accorrono da tutte le parti, facendo fuoco colle pistole, mentre i negri si rovesciano sulla folla spargendo un panico enorme. Mori, fellata, rivieraschi del Niger, carovanieri, spaventati da quegli spari e udendo in aria sibilare i proiettili, si precipitano confusamente verso gli sbocchi della piazza urlando, urtandosi, atterrandosi e calpestandosi. La paura ha invaso tutti. Gli arabi ed i Tuareg si sono intanto scagliati addosso alla scorta e sopra i kissuri che guardano il palco. Il marchese e Ben, in prima fila, bruciano le cartucce delle loro rivoltelle, poi caricano cogli jatagan, spalleggiati da Esther la quale fa fuoco colla sua piccola carabina americana, e dal capo arabo che tira colpi di scimitarra all'impazzata. Rocco, comprendendo che si cerca di salvarlo, non è rimasto inattivo. Con uno sforzo supremo spezza i legami, afferra pei piedi un kissuro che gli è seduto dinanzi, lo solleva come fosse un fanciullo e con un terribile molinello abbatte intorno a sé gli uomini che lo circondano. Il vigore muscolare dell'isolano produce un effetto disastroso sui guerrieri del sultano. Vedendosi assaliti anche alle spalle da quell'uomo che sviluppa una forza così prodigiosa e che maneggia un uomo come se fosse un semplice bastone, cominciano a sbandarsi. "Avanti!" grida il marchese. "Rocco è nostro." Vedendosi dinanzi il capo della scorta, con un colpo di jatagan lo rovescia al suolo moribondo, poi respingendo gli altri balza verso Rocco. "Vieni!" grida. Il gigante lascia cadere il kissuro, raccoglie un moschetto, lo afferra per la canna e con pochi colpi si fa largo. "Date il passo!" grida l'arabo. Le file dei Tuareg e degli arabi si aprono il marchese, Ben, Rocco ed Esther, preceduti dal capo, attraversano correndo la piazza e fuggono, mentre la battaglia continua più aspra che mai, ma colla peggio per le guardie del sultano. Le vie erano ingombre di fuggiaschi; nessuno quindi aveva fatto attenzione ai cinque. D'altronde il marchese aveva gettato sulle spalle di Rocco il suo caic e Ben gli aveva dato il suo turbante onde non potessero riconoscerlo. Attraversarono sempre correndo quattro o cinque vie, seguendo i fuggiaschi, e giunsero ai bastioni meridionali della città. In lontananza si udivano ancora le urla dei combattenti, i colpi di fucile, e verso la kasbah tuonava il cannone. "Ecco i mehari," disse l'arabo. "Presto, salite e fuggite senza perdere un solo istante." "E voi?" chiese il marchese. "Vado a radunare i miei uomini." "Grazie, amico." "Che Allah vi guardi," rispose l'arabo. "Io ho mantenuto la mia promessa." Strinse le mani a Esther, al marchese, a Ben ed a Rocco, poi si allontanò di corsa. "In sella!" gridò il marchese. "Il Niger sta laggiù." I due schiavi di Samuele avevano condotto i mehari, quattro splendidi animali che dovevano correre come il vento. "In meno di un'ora noi saremo a Kabra," disse Ben, regalando una manata di talleri ai due negri. "Ci siamo tutti?" "Tutti," rispose il marchese. "Presto, signore," disse uno dei due schiavi. "Vedo una nuvola di polvere levarsi verso la porta d'oriente. Vi sono dei cavalieri laggiù! ... " I quattro mehari si slanciarono a corsa sfrenata in direzione del Niger, le cui acque, percosse dai raggi perpendicolari del sole, scintillavano all'orizzonte come oro fuso.

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