Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Racconti 3

662741
Capuana, Luigi 4 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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È ferma davanti a una specchiera, abbassando e rialzando, per prova, la fitta veletta nera che cinge la toque e lasciandola, all'ultimo rialzata attorno alla fronte. Pensosa, accigliata, a testa bassa, si morde le labbra abbottonandosi un guanto, e sembra incerta intorno a una decisione da prendere. All'improvviso, dopo di essersi guardata nuovamente nella specchiera, si toglie la toque, buttandola con vivissimo gesto su una poltrona, si cava allo stesso modo i guanti, ed esclama: - No, no! Sarebbe un'infamia o una pazzia. Non voglio, no, non voglio! Che importa se ho promesso? Eh, via! Si promettono tante cose, si fanno tanti giuramenti ... e poi! ... A quest'ora egli attende nel civettuolo quartierino preparato unicamente per me ... lo ha detto almeno. Chi sa? Avrà ripetuto la stessa cosa ad altre donne che gli hanno creduto e sono andate colà, e vi sono tornate parecchie volte, e, dopo, non vi sono tornate piú ... Oh! Gli uomini mentiscono senza ritegno, per abitudine, per inconsapevolezza, forse, consapevolmente anche, quasi lo ingannare una donna sia cosa da nulla, pur di raggiungere il loro scopo! Avrei dovuto ragionare cosí prima di oggi. Sono diventata savia tutt'a un tratto ... Come mai? Perché? ( Siede ) . Facciamo un po' di esame di coscienza. Ecco: mi dispiace ch'egli possa credere che io abbia paura. Dovrei andare, e resistere e dirgli: «Sono stata leggera, sciocca, prestando orecchio alle vostre lusinghe. Voi affermate di amarmi ... e non è vero; ormai ne sono convinta. Io ... io mi sono illusa di amarvi; e ora ... Per ciò, finiamola. Restiamo, se è possibile, buoni amici. Pel vostro capriccio di uomo galante, pel vostro svago di signore che non sa occupare il suo tempo altrimenti che con le frivolezze delle conquiste, voi siete in caso, oh, altro! di trovare donne piú belle, piú facili ... e piú sciocche di me; dovrebbe bastarvi. Una di piú, una di meno da segnare nel vostro calendario di scapolo non significa niente ... Non so se piú siete capace di pentimenti o di rimorsi. Voglio risparmiarvene uno, se mai!» Ma ... Ma quando sarò là, faccia a faccia con lui, da solo a solo, avrò coraggio di tenergli questo bel discorso, questo stupido discorso? Egli mi prenderà per le mani, mi guarderà negli occhi sorridendo un po' ironico, come sa sorridere lui, mi ripeterà quel che mi ha ripetuto tante volte, quel che tante volte ho tentato di non ascoltare o di non credere e ciò non ostante, mi ha ammaliato, mi ha reso fiduciosa come una bambina, sottomessa come una schiava e felice di sentirmi tale ... Che miseria questa nostra debolezza! Che umiliante stato di animo questo bisogno di essere adulate e illuse! Questo delirio di dominazione che poi si accontenta del piú basso asservimento e fa le viste di non accorgersene! ( Si alza, contrariata, agitata ). Ebbene, avrei dovuto ragionare cosí prima di oggi! Come mai, perché mai sei diventata savia tutt'a un tratto? ... Eri già bella e abbigliata. Due ore di minuziosa cura per renderti piú piacente ... e piú seducente. Il timore di non giungere in tempo, di farti attendere ti rendeva nervosa, impazientissima. Accorrevi colà come a una festa ... E sarebbe stato il crollo della tua dignità, della tua reputazione, della tua vita tranquilla e quasi felice! Hai dovuto fare uno sforzo per toglierti il cappello, per cavarti i guanti, ed hai ancora indosso la pelliccia! Vuoi far presto a riabbigliarti, se ti risolvessi, se ti decidessi di nuovo ad andare? ( Si toglie rapidamente la pelliccia ). Via! ... Potrebbe essere una tentazione ... Tutto ci tenta quando siamo disposte! ( Osservando l'orologino d'oro ). Le tre meno un quarto! Avevo le traveggole poco fa. Credevo di essere in ritardo ... ( Sorride con compiacenza ). Mi par di vederlo, col viso incollato ai vetri della finestra, dietro le tendine, spiando il mio arrivo dalla via di faccia! Oh, non dubiterà che io possa mancare all'appuntamento! Ha voluto che giurassi questa volta, perché - diceva - non era cosí sicuro dell'amor mio da accontentarsi di una semplice promessa ... Ha ragione. Non sono certa neppur io di amarlo. Infatti, se lo amassi davvero, non ragionerei, non sarei qui a esitare, a farmi la predica. C'è stato però un momento ... Un momento? Via una settimana, un mese, si - forse un mese e mezzo se facessi calcoli esatti - che ho avuto anch'io la convinzione di essere amata e di amarlo cosí profondamente, cosí pazzamente - è la parola giusta! Mi par di vederlo ... È strano! Mi sembra quasi ridicolo, povero barone, con quell'aria di contrarietà che deve assumere a ogni minuto che passa. E aveva preparato, certamente, uno splendido ricevimento, da pari suo: fiori da per tutto, i fiori che io prediligo, le rose bianche, i garofani bianchi, che egli prima non poteva patire e che ora ama per consenso - mi ha assicurato - perché li amo io. Ha sempre, da qualche tempo in qua, un garofano bianco all'occhiello, da vero cavaliere che porti i colori della sua dama ... Per questo, non c'è che dire, è proprio compito! ... Nessuno è piú raffinato di lui nel suo mestiere di seduttore. Ne sa tutte le astuzie, tutti i segreti. l mariti dovrebbero apprendere questa irresistibile arte ... Colpa loro, se noi ci lasciamo ingannare dagli altri, visto che essi non sanno ingannarci. Hanno il possesso legale, si credono difesi, preservati per virtú delle parole del sindaco e del parroco ... E non fanno niente per sviare i pericoli. Il mio ... peggio di tutti! Ci vuole una gran forza per resistere. In coscienza, io ho resistito anche troppo. So di certe mie amiche! ... Ma già stavo per fare come loro! Fortunatamente ... ( Guarda di nuovo l'orologino ). Le tre! ... Infine, che cosa gli ho promesso? Una visita «Certe cose - egli dice - non si strappano, si vogliono liberamente concesse. Se anche non si ottengono, il pensiero di averle fortemente desiderate e di non aver potuto ottenerle dà un piacere squisito per la intensa smania che il desiderio non soddisfatto produce». Raffinatezza che pochi sanno apprezzare. Oh, sí! Galanti parole, galantemente ripetute ... Eppure! ... Eppure! ... Sarebbe un bel trionfo dimostrargli che io non sono come le altre, che posso scherzare col pericolo e non soccombere. Dovrei dargli questa lezione. Egli è già orgoglioso di esser giunto a farmi perdere per qualche settimana ... per qualche mese - la testa. Me l'ha confessato e ha soggiunto che con me si sarebbe fermato e per sempre! ... Io rappresento per lui l'ideale inseguito e non mai potuto raggiungere ... Finalmente! Dovrei perciò essere altera di aver operato questo miracolo! ( Sorride tristemente ) .E gli ho creduto! Intanto, se fosse? ... Ma non è vero. Per questo sarebbe giusto infliggergli una lezione. Se la merita, anche per conto di tutte le altre che gli hanno spensieratamente sacrificato quel che sacrifica una donna quando dà il cuore ad un uomo che non è suo marito, ed hanno sofferto! ( Guardando per la terza volta l'orologino ) .Le tre e un quarto! ... Sarei ancora in tempo ... Quasi quasi! ... Entrerei severa, calma; mi fermerei su la soglia del salottino, e direi: «Ho promesso, e mantengo quantunque certe promesse si ha piuttosto il dovere di non mantenerle. Ho mantenuto unicamente per dimostrarvi che son sicura di me e per dichiararvi qui, nel posto che dovrebbe essere il campo della vostra nuova e non ultima vittoria ... per dichiararvi nel modo piú perentorio e assoluto ... » No, non bisogna preparare il discorsetto, ma improvvisarlo, secondo le circostanze; se si scorge che è stato appreso a memoria, non fa effetto. E, terminato di parlare, avvolta nella pelliccia, senza stendergli la mano e facendogli un piccolo inchino, voltar le spalle e uscire, severa, calma, solenne. Vorrei che mio marito mi vedesse in quel momento, per apprendere qual pericolo ha corso e quanto dovrebbe essermi grato. Povero barone! Non se l'attende davvero. Si consolerà presto, probabilmente. ( Fa un gesto di risoluzione, comincia a rimettersi il cappello, poi infila i guanti e intanto prosegue a parlare ) . Non dico che non potrà accadere diversamente ... Allora! Vuol dire ... Sono un po' fatalista io! ... Ma quando si è fermamente risoluti, come sono io ... E poi ... Voglio cavarmi una curiosità, vedere questo famoso quartierino, questo tempietto pronto a ricevere la dea ... preparato unicamente per me ... Bugiardo! ... ( Indossa la pelliccia ) .Peccato che non potrò andare oltre il salottino ... Sarebbe grave imprudenza! ... Ritta sulla soglia di esso, severa, calma, solenne. ( Guarda l'orologino, dà affrettatamente gli ultimi colpi di ravviamento alla gonna e si ferma a specchiarsi, chiusa nella pelliccia ). Che cosa significa? ... Sono cosí turbata, cosí commossa, quantunque voglia fare la spavalda! ... ( Atteggiandosi, quasi parlasse con lui ) .«Ho mantenuto, per mostrarvi che sono sicura di me!» Ma se la mia voce tremerà come in questo atto di prova? ... ( Riprende, declamando un po' ) .«Ho mantenuto per mostrarvi che sono sicura di me!» Benissimo! ... E un inchino, un lieve inchino, significativo, di condensata ironia ( Eseguisce ) e uscirò ... Cosí! - ( Si avvia lentamente ).

. - Il pretucolo guardava attorno, movendo rapidamente gli occhi da spiritato, e allungatosi col corpo verso il sindaco per versargli la confidenza in un orecchio, quasi avesse fin paura che le mura sentissero, rispondeva abbassando la voce: - Chi? Il presidente della commissione! È uno scandalo! - E con la punta delle dita si batteva su le labbra per ricacciare indietro quel che gli gorgogliava nella gola e già stava per uscir fuori. Il sindaco sapeva benissimo che cosa significassero le parole: «È uno scandalo!» ma faceva lo gnorri, si mostrava stupito, inquieto per la sua responsabilità. E il pretucolo, senza badare che parecchie altre volte avevano riparlato di questo, riprendeva sempre sottovoce: - Per quella benedetta superiora! ... Voce di popolo, voce di Dio! ... L'ha fatta entrare lui nell'orfanotrofio a dispetto del regolamento. È forse orfana e povera? E, col pretesto della fabbrica, egli è là da mattina a sera, come in casa sua. E: «Venga qua, guardi, senta, signora superiora». Ore ore a parlottare in disparte! I muratori, i manovali ridono sotto i baffi. E le orfanelle che cosa debbono pensare? ... Se sarò cappellano ... Ecco perché, come lei dice, egli tenta di mettermi il bastone fra le ruote! - Capisco! ... Ma è presidente ed ha qualche santo protettore, lassú, al ministero: il deputato, credo ... - Niente affatto! Anzi! Ho parlato, ho scritto e riscritto all'onorevole ... Formali promesse! Il presidente, con la scusa del divieto del papa, non è mai andato a votare per lui ... I miei parenti ed io sí. Il papa perdona, quando c'è una forte ragione a favore della morale ... Lo stesso monsignore mi ha detto che ho fatto bene ... E poi, non è peccato mortale! - I deputati promettono sempre, per ingraziarsi gli elettori; bisogna poi vedere ... Non vi fidate! - Il pretucolo non si lasciava intimidire, e insisteva: - Lei ha grande autorità; lei deve farsi valere presso il ministero ... - Ho fatto anche troppo: una ventina di sollecitazioni! - Un'altra, ancora un'altra perché si sturino gli orecchi lassú -. Il sindaco però non era sempre cosí di buon umore; e allora il povero pretucolo, sotto il rovescio della sfuriata, rimaneva interdetto, a testa bassa: - Santo Dio! Non mi lasciate respirare! Siete proprio insopportabile! Vi figurate forse che cascherà il mondo se non vi nominano cappellano? Nomineranno un altro, non nomineranno nessuno ... Le orfanelle non possono confessarsi? Accumuleranno i peccati, e se ne sbarazzeranno tutt'a una volta; non ne commettono poi tanti, suppongo. Ci pensi monsignore, in ogni caso! Se dipendesse da me! Ma dipende da lassú ... Siete un incubo! Tutti i giorni! Quasi qui, al municipio, non ci sia altro da fare! Ve l'ho detto e ridetto: appena avremo la risposta, sarete avvisato! - Non importa che si scomodi per avvisarmi. Vengo io! - Come se il sindaco avesse parlato a un muro! Era fatto cosí don Lucio Bucceri. Convinto che negli affari l'insistenza è quasi tutto, che cosa poteva importargli se riusciva importuno? Peggio per gli altri! Sbrigassero i suoi affari, se volevano levarselo di torno! Lo sapeva, per via della pagella di confessore, anche il vicario capitolare che, appena lo vedeva comparire, alzava gli occhi al cielo e univa le mani con gesto di rassegnazione, accettando quella inevitabile seccatura in isconto dei suoi peccati. Cosí ripeteva a sua sorella che non poteva soffrire Don Lucio, e brontolava: - Almeno si ripulisse le suola delle scarpe prima di entrare! - E lo sapevano tanti e tanti altri, perché don Lucio aveva sempre quattro, cinque affari su le braccia, propri, di suo padre, dei suoi zii; e andava attorno, da mattina a sera, da un quartiere all'altro, in fretta, col cappello su la nuca, col mantello attorto a un braccio, con la zimarra stinta che gli sbatteva tra le gambe facendo vedere le scarpacce da contadino, arrossate e intrise di mota. Guardava di qua e di là, con quegli occhi da spiritato, in cerca di qualcuno che lo sfuggiva, o che non si trovava in casa quando egli era andato a picchiargli all'uscio, o che gli aveva fatto dire di non essere in casa per liberarsi dalla noia di riceverlo, di sentirgli replicare ogni volta le stesse cose, con le stesse parole, con gli stessi atteggiamenti di supplicazione. E siccome pareva che pur andando in fretta frugasse tra i crocchi, in fondo alle botteghe, protendendo il collo e il viso butterato con la bazza enorme che lo facevano rassomigliare a un bracco in atto di fiutar le macchie cacciando, cosí un bel giorno, non si sa da chi, gli venne appioppato il soprannome di «Braccaccio», quasi «Bracco» soltanto fosse stato poco per lui. E da quel giorno in poi, nessuno piú volle chiamarlo altrimenti. Egli lo sapeva e ne rideva, alzando le magre spalle: - Mi chiamino come vogliono, purché mi lascino fare! Finalmente la nomina di cappellano era arrivata, e monsignore gli aveva accordato la pagella di confessore delle orfanelle! E il presidente della commissione era divenuto verde dalla bile di vederselo ogni giorno davanti a chiedere or una cosa or un'altra per la chiesetta ridotta una stalla. La fabbrica del dormitorio, sí, stava bene, per comodità delle orfanelle; ma la casa di Dio non poteva rimanere piú a lungo indecente a quel modo! - Dove volete che io trovi i quattrini? - Bisogna trovarli! - Trovateli voi! Il «Braccaccio» volle fargli vedere che avrebbe saputo trovarli! E in quei mesi fu visto andare attorno di casa in casa chiedendo l'elemosína per la sua chiesetta, proprio come un bracco che cerchi la selvaggina, strappando lire, e soldi ai piú restii, ai signori e alla povera gente; tornando a chiedere di mano in mano che le scarse somme sparivano per la calce, per gli operai, pel pittore, per le ramette nuove con fiori di carta da ornar l'altare, per le ampolline da sostituire le vecchie ridotte inservibili, e per tante altre cosettine non meno urgenti al servizio divino. E come fu orgoglioso e felice quando poté vedere la sua chiesetta - la diceva sua parlandone - bianca da cima a fondo, con gli ornati in istucco tinti in blu (sua idea!) perché si scorgessero bene, con la gran grata del coro colorata in giallo (non aveva potuto farla dorare come avrebbe voluto) dietro cui le orfanelle assistevano ogni mattina alla messa, recitavano il rosario, cantavano le litanie e ascoltavano i suoi sermoni, le domeniche, con grandissima stizza delle donne del vicinato abituate a sentire colà una messa sbrigativa e tornarsene a casa. E mentre il presidente della commissione, col pretesto di sorvegliare la fabbrica, dava lo scandalo di passare intere giornate a chiacchierare con la superiora, egli, scomodamente seduto sur una seggiola impagliata, teneva incollato l'orecchio alla piccola grata dietro cui le orfanelle venivano a sussurrargli i loro peccati insieme coi pettegolezzi della comunità, e ricevevano le ammonizioni e i consigli e le penitenze, una appresso l'altra, dopo la messa, fino a mezzogiorno. Verso sera, egli era là di nuovo pel rosario e per la benedizione, sorvegliando il ciabattino che aveva gratis la bottega in compenso del suo ufficio di sagrestano. Costui ora doveva rigar diritto e tener pulita la chiesetta e il bugigattolo della sacrestia senz'uscio e senza neppure un armadio da poter riporre i paramenti sacri che ogni volta, terminate le funzioni, dovevano esser riconsegnati a una delle orfanelle, sacrestana interna, col mezzo della rota praticata a destra dell'altare. La superiora era venuta ultima al tribunale di penitenza, attesa impazientemente. I maligni dicevano che tra il presidente e lei fossero corse cose poco pulite prima che egli la facesse entrare nell'orfanotrofio; e quantunque dicessero anche che il presidente, preso poi da scrupoli di bigotto, avesse voluto riparare al mal fatto rinchiudendola colà, il loro contegno, per lo meno, non sembrava prudente. - Figliuola mia, avreste dovuto capirlo, e da un pezzo, che non sta bene! ... - le disse. - Il signor presidente ha la bontà di consultarmi intorno alle faccende dell'orfanotrofio. - Non occorre però che vi consulti in disparte e tutti i giorni. È anzi malissimo, per riguardo delle orfanelle. Fate che sia presente sempre una di esse, come nei monasteri, quando una monaca deve parlare con qualcuno che non è suo stretto parente. Dare scandalo, sia pure con l'apparenza, è peccato grave. Io non posso assolvervi, se non vedrò prima l'emenda ... Il presidente andò su le furie quando apprese quel che il «Braccaccio» pretendeva dalla superiora. Con che diritto voleva mescolarsi ne le faccende interne dell'orfanotrofio? L'avea sbagliata! Che si figurava? D'aver da fare con un babbeo, pezzo di «Braccaccio», che non era altro? E «Braccaccio» a tutto spiano, davanti ai muratori, ai manovali e anche alle orfanelle, che di tanto in tanto venivano a dare un'occhiata di curiosità ai lavori del nuovo dormitorio e scoppiavano a ridere quantunque si trattasse del loro confessore. Per questo avvenne che la comunità si dividesse in due partiti; uno formato dalla superiora e da quattro o cinque delle anziane, l'altro dalle piú giovani che andavano ogni giorno a far pissi pissi dietro la piccola grata, come la notte stavano a far pissi pissi dalla parte del vicoletto cieco dove non abitava nessuno, sporgendosi dalle finestre per conversare coi giovanotti e afferrare i mazzetti di garofani e di basilico che quelli buttavano in alto - Questo per Lisa! Questo per Carmela! Questo per Giovanna! - intanto che la superiora dormiva o fingeva di dormire forse, a fine di non accattarsi odi e di farsi perdonare le conversazioni col presidente. Il guaio accadde quando la superiora, mal suggerita, volle mostrarsi rigorosa per castigare le piú accanite del partito del cappellano. Il presidente rincarò la dose facendo murare quelle finestre che non giovavano piú, ora che nel nuovo dormitorio già erano schierati in doppia fila i letti, e ordinando, inoltre, alla superiora di serrarne l'uscio a chiave durante la notte. Fece anche peggio quel fegatoso del presidente. - Caro ... - e ci mancò poco che non soggiungesse «Braccaccio» - caro signor cappellano, bisogna regolare questa faccenda della confessione. Una volta al mese ... una volta ogni quindici giorni ... se cosí vi piace ... Ma tutti i giorni, no. Le orfanelle devono lavorare per guadagnarsi il pane, e non perdere il tempo a conversare con lei ... - Conversare? ... Prego! Prego! ... - protestò il «Braccaccio». - Sono maliziose; voi non ve n'accorgete. Ve l'hanno mai detto che facevano all'amore, dalla parte del vicolo cieco, ogni notte? ... Non ve l'hanno mai detto. - Che ne sapete? Io non posso né debbo rivelare le confessioni - lo interruppe il «Braccaccio». - Ho dovuto far murare quelle finestre. Orfanelle, va bene, ma ragazze col sangue infocato e con le teste per aria! ... Le compatisco, e una notte o l'altra, non ostante le vostre confessioni e comunioni e i vostri sermoni domenicali ... E lo lasciò là, stupito di quelle rivelazioni, turbatissimo, quasi le penitenti gli avessero fatto un tradimento! Quella mattina, don Lucio sbrigò la messa piú lestamente del solito, e quantunque avesse udito picchiare dietro la piccola grata, segnale che qualcuna volesse confessarsi, finse di non averci badato; e andò via, imbronciato, a capo chino, proprio come un bracco che ha cacciato inutilmente. Che significavano quel profondo dolore e quello sgomento che gli facevano battere il cuore con non mai provata violenza? Perché gli si presentavano insistentissimi davanti agli occhi i visi delle tre penitenti predilette, alle quali egli aveva insegnato a cantare le strofette della consacrazione perché poi le insegnassero alle altre, e le cantassero insieme le domeniche a fin di render piú solenne la messa, poiché la chiesetta era cosí povera da non avere un piccolo organo per rallegrare le sacre funzioni? E tutti gli scrupoli che lo avevano tormentato in seminario, quando si preparava al sacerdozio, gli ripullulavano improvvisamente nell'animo, rimproverandolo di essersi lasciato tentare dal demonio per mezzo di quelle tre penitenti alle quali credeva di essersi affezionato spiritualmente, e che ora scopriva di volerle bene in tutt'altro modo, e tutte tre a una volta, peggio del presidente che almeno si contentava della sola superiora! Ecco perché si era ripulito, dal nicchio spelato alle scarpacce, dopo che esse gli avevano detto: - Padre cappellano, si compri un cappello nuovo! Padre cappellano, si faccia una bella zimarra nuova! Padre cappellano, si faccia un paio di scarpe con le fibbie d'argento! Infatti, da qualche tempo in qua, egli non sembrava piú il «Braccaccio» di una volta con quel nicchio lucente, con quella zimarra di panno fino, le scarpe sempre ripulite e ornate di fibbie d'argento, e le collarine bianche come la spuma, che le tre penitenti gli lavavano e stiravano a gara, dopo avergliene orlate una dozzina! Gli scrupoli però non erano riusciti a impedirgli di riprendere, passata quella triste settimana, la vita di prima; di sentire un profano piacere durante la confessione, quando dietro la piccola grata si facevano udire i mormorii delle note voci di quelle tre, e di intrattenerle piú a lungo delle altre per tentar di strappar loro il segreto delle notturne conversazioni coi giovinastri e che tutte e tre si ostinavano a negare. - Siete in peccato mortale! ... Commettete sacrilegio! - Io voglio bene soltanto al padre confessore, senza malo fine - rispondevano tutte e tre, forse messesi d'accordo, dopo le prime avvisaglie. E lui se ne compiacque, e gli scrupoli rinascenti gli resero piú vivo quel compiacimento, fino al giorno in cui la gelosia scoppiò tra quelle, perché ognuna voleva esser sola nella predilezione del padre confessore, ora che non avevano lo svago di poter amoreggiare la notte dalle finestre del vicolo. Il «Braccaccio» perdé la testa quando una di esse ebbe la sfrontataggine di dirgli chiaro e tondo che voleva essere la preferita. - E quando uscirò di qui, verrò a farle da serva in casa! - Sí! Sí! - egli rispose, cosí sbalordito da non capire quel che diceva e faceva. Fu la sua rovina! Se la prendeva col presidente, con la superiora, con gli invidiosi, con le pettegole dell'orfanotrofio; e si sfogava, si sfogava con la gente, affermando che non era vero, che monsignore era stato ingannato, e il sindaco pure; e che gli avevano fatto una grande ingiustizia levandogli la cappellania, dopo ch'egli aveva rimesso a nuovo la chiesetta e ravvivato il culto, spendendo anche del suo per certi arredi sacri! Era come una mosca senza capo ora che non aveva nessuna occupazione all'infuori di quella di dir messa e di andar a recitare l'ufficio in coro; e non lo distraevano neppur gli affari pei quali era tornato a braccheggiare di qua e di là, visto che il sindaco non si era lasciato smuovere dalle insistenti preghiere, e neppure il vicario capitolare, e neppur monsignore per rimetterlo al posto, infamemente toltogli, egli andava ripetendo a chi voleva e a chi non voleva saperlo. E spesso, per dispetto, pensava davvero di commettere la balordaggine di cavar fuori dall'orfanotrofio colei che gli aveva detto: - Verrò a farle da serva in casa! - Almeno cosí presidente, superiora, pettegole, sindaco, vicario capitolare, monsignore avrebbero avuto la sodisfazione di averlo costretto a fare quel che non avrebbe mai fatto senza le loro calunnie! E diceva: - Calunnie! - in buona fede, quantunque pensasse, piú spesso che non fosse necessario, a quella penitente che gli mandava a baciar le mani per mezzo del ciabattino sacrestano. Egli veniva pure a raccontargli i suoi guai per via del nuovo cappellano che lo aveva, chi sa perché, su la punta del naso! - Ah, i bei tempi quando vossignoria era là! Per questo tutte le orfanelle non cessano un istante di dir bene di lei, e le mandano a baciare devotamente le mani. Giovanna Pepe piú particolarmente delle altre, poveretta! - Gli sfoghi del sacrestano finivano sempre con quest'antifona da che aveva notato che il «Braccaccio» n'era tanto lusingato da regalargli due o tre soldi ogni volta, soggiungendo sotto voce: - Salutatela da parte mia! È una buona figliuola! Ci hanno calunniato, caro maestro Onofrio! - Non sentiva piú ambizioni di sorta alcuna. Col cappellanato gli avevano tolto ogni forza di attività; e se rifletteva che ormai era tempo di farsi nominare canonico, alzava le spalle! - A che scopo? Non ci sono piú prebende! Si becca tutto il parroco, buon pro gli faccia! - E già si trascurava, quasi non avesse piú nessuna ragione di spazzolare il nicchio, di riguardarsi dal macchiare la zimarra, di cambiare piú spesso la collarina, di farsi ripulire ogni mattina le scarpe! E un bel giorno si risolse di abbandonare il paese, di andar a dimenticare altrove, lontano, in qualche cura di villaggio colei che non gli lasciava aver pace, mandandogli a baciare le mani col ciabattino sagrestano. Il vicario capitolare lo vide ricomparire con spavento ogni mattina: - Monsignore non ha risposto? - Non ha risposto! E la sorella del vicario era tornata a brontolare: - Almeno si ripulisse le scarpacce prima di entrare! - Vedendo che monsignore non provvedeva, andò a fissarsi a Caltagirone, nella lurida stanzuccia di un luridissimo albergo; e ogni mattina, a ora fissa, si presentava nell'anticamera del palazzo vescovile, per l'udienza. - Monsignore deve farmi la grazia! - Ma non c'è un posto vuoto! - Da coadiutore; mi contento! Monsignore è stato ingannato; deve riparare l'ingiustizia che gli hanno fatta commettere! - Non posso fare ammazzare un curato per dare il posto a voi, figliuolo mio! - Monsignore deve farmi la grazia! - Un mese di supplizio per monsignore. Fatalità! La mattina che don Lucio Bucceri arrivava nel villaggio sperduto su le falde dell'Etna per insediarsi nella cura, si trovava colà un carrettiere del suo paese. - Ah ... - esclamò costui - monsignore vi ha regalato il «Braccaccio»? - E anche colà i nuovi parrocchiani dovettero presto convenire che il soprannome era ben trovato!

Vidi che la stringeva forte, corrugando la fronte, abbassando la testa in atto di scrutare. «Lo ama tanto!» «Non t'inganni?» «No. Il cuore di costei è come un limpidissimo fonte di cui si scorge nettamente il fondo. L'ama. Oh, tanto!» replicò. «Osserva meglio» insistei. «Non occorre. Povera donna! Ha già capito che egli dubita, e piange spesso, in segreto. È dunque cieco costui da non accorgersi che quegli occhi hanno pianto? È strano: io provo la stessa sofferenza di lei ... Devo piangere, come lei ... Lasciami piangere!» E copiose lacrime le inondarono il volto accompagnate da singhiozzi. Attesi che si sfogasse un po'. «Ora ti sveglio - la suggestionai. - Non dovrai ricordarti di niente». «Non mi ricorderò di niente». Le ripresi i pollici, aspirando, perché sapevo che cosí doveva farsi per riattirarmi il fluido; e nel momento in cui ella riapriva gli occhi, finsi, sorridendo, di aggiustarle la testa per la posa. «Cosí!» E mi misi a lavorare come se niente fosse stato. Avrei dovuto esser pago dell'esperimento; ma sapevo che i soggetti, come li chiamano, possono mentire anche durante la inconsapevolezza del sonno magnetico. Non era il caso di Delia? Per ciò ripetei per un'intera settimana, col pretesto delle pose, due o tre volte il giorno, l'esperimento e sempre con l'identico resultato, quantunque io avessi fatto ogni sforzo per indurre Delia ad essere veramente sincera. E questo, forse - anzi senza forse, ora ne sono convinto - ha prodotto gli incredibili fenomeni che per un intero anno mi han dato l'impressione di una vita fuori della vita, d'una vita che non so distinguere se sia stata sogno o realtà, e che aggiungerà presto un'altra catastrofe a quella avvenuta tre mesi addietro. - Eh, via! Non dire cosí! - esclamò Blesio. - A furia d'immaginare la possibilità di una disgrazia, noi contribuiamo spessissimo a farla accadere davvero -. Raimondo Palli portò le mani alla fronte e alle tempie, premendo, quasi volesse impedire che gli scoppiassero: poi, rigettati indietro, con vivace movimento della testa, i folti capelli, e socchiudendo gli occhi, riprese: - Una mattina, dovetti accorgermi che Delia mi sfuggiva di mano, resistendo alla mia volontà, non cadendo piú nel sonno magnetico cosí facilmente provocato ed ottenuto fino allora. Posava per gli ultimi tocchi della mia figurina, che era e non era il suo ritratto perché io avevo sentito ripugnanza di vendere a un estranio la precisa immagine di mia moglie. Le solite parole: «Sta' ferma! Cosí!» che le altre volte erano bastate a farla istantaneamente addormentare, riuscivano inefficaci quantunque replicate piú volte. «Che cosa vuoi farmi? ... Che cosa mi hai fatto?» ella domandò, diffidente, guardandomi fisso negli occhi. E siccome io non avevo saputo risponderle, stupito di sentirla parlare a quel modo, ella soggiunse: «Mi sembra di avere qualcosa di strano dentro di me, qualcosa che mi scote, che m'eccita ... Non so come esprimermi ... Oh! oh! ... Veggo, ma non cogli occhi, lontano, fin in fondo al giardino ... Laggiú, nell'aiuola a destra, un gatto raspa la terra e danneggia le pianticine di violette! ... È possibile? ... Vieni; andiamo a vedere!» E mi trascinò per mano fuori dello studio, laggiú, dove un gatto faceva precisamente quel ch'ella aveva visto stando a sedere presso il cavalletto, da un punto dove si scorgevano appena le cime degli alberi del giardino smosse dal vento dietro la vetrata. «Sei diventata una veggente» le dissi con tono di voce che voleva essere scherzoso e non nascondeva intanto il mio stupore. «Male! - ella rispose con improvvisa serietà. - È assai meglio non vedere! ... È assai meglio ignorare!» Non aggiunse altro, né io le seppi dir altro -. Blesio, impensierito dell'esaltazione del suo amico, resa piú manifesta dalla crescente irrequietezza delle mani e dai rapidi alteramenti della voce in evidente contrasto con la minuziosa limpida narrazione, tentò novamente d'impedirgli di proseguire. - Non stancarti; ho già capito, sei stato un po' imprudente, forse. - Forse? ... Troppo dovresti dire. - riprese Raimondo Palli. - Troppo! E, implorando con lo sguardo, continuò: - Da quel giorno in poi, caro Blesio, io ho assistito a tali portenti di chiaroveggenza da far perdere l'equilibrio a qualunque piú solido intelletto. Non osai piú d'interrogarla: «Mi ami? Di', mi ami davvero?» Ma Delia sentiva anche da una stanza all'altra le vibrazioni del mio pensiero, come se le nostre anime, fuse insieme, pensassero la stessa cosa, nello stesso momento. La vedevo apparire su la soglia del mio studio, col viso contratto da dolore intenso; e la sua voce piena di lacrime mi rimproverava: «Perché dubiti di me? Lo sento; non negarlo! Che cosa dovrei fare, parla! per darti la prova suprema dell'immenso amore mio?» Pietà, o vigliaccheria, io mi ostinavo a negare. Inutilmente. La vedevo andare via niente convinta delle affettuose parole, delle carezze, dei baci che - lo capivo dopo - non producevano su lei l'effetto voluto per l'esagerazione a cui mi induceva la paura di non poter piú sfuggire a quell'ispezione che mi aveva ridotto in uno stato peggiore di ogni peggiore schiavitú. Come? Non sarei piú stato libero di formolare un'idea, un desiderio, una speranza, senza che Delia non venisse a dirmi: «Sí, è una buona idea; dovresti attuarla». O pure: «Dipende da te, perché quel bagliore di fantasia diventi realtà». O pure: «No, quel desiderio è troppo ambizioso per noi; non lasciartene lusingare». O pure: «Dici bene, questa speranza è un gran conforto anche per me!». E ciò come se io l'avessi messa a parte di tutto con le piú precise parole, per consultarla, per averne l'approvazione o la disapprovazione? ... Oh! Non aver niente da nasconderle! Nei primi mesi della nostra unione, era stata anzi gran delizia per me comunicarle i piú riposti pensieri, chiederle consigli, suggerimenti che mi rivelavano sempre piú squisite delicatezze d'animo, sempre piú fine penetrazioni d'intelligenza in ricambio del mio cordiale abbandono. Volevo cosí dimostrarle la mia profonda gratitudine per la gioia, la felicità, la nuova essenza di vita che ella era venuta a diffondere attorno a me, tanto da farmi credere divenuto un altro, quando mi accorgevo dell'agile sviluppo di alcune mie facoltà artistiche rimaste fin allora quasi latenti. E provavo un senso di mortificazione, se Delia, con delicata modestia, mi diceva: «Che bisogno hai tu di consultarmi? Tutto quel che tu fai lo giudicherò sempre ben fatto, anche quando gli altri potranno giudicarlo altrimenti». Non avevo dunque proprio niente da nasconderle. E intanto ora stimavo violato il sacro penetrale del mio pensiero, di cui prima le spalancavo a due battenti le porte. Una cupa irritazione mi invadeva a ogni nuova manifestazione della sua inevitabile chiaroveggenza e nello stesso tempo una viva indignazione per quello che, in certi momenti, mi sembrava atto di ingrato ribelle. Non avrei dovuto essere piuttosto felicissimo per l'assoluta compenetrazione delle nostre anime, della quale la chiaroveggenza di Delia era mirabile testimonianza? «No! - riflettevo subito. - Ella rimane chiusa, impenetrabile. Io, soltanto io, sono in sua compiuta balia!» Tentai di difendermi con lo stesso mezzo servito, involontariamente, a produrre l'incredibile fenomeno. Ma Delia non sentiva piú il mio influsso; era già piú forte di me. - Avresti dovuto ricorrere ad uno specialista - lo interruppe Blesio. - Un magnetizzatore di professione, probabilmente avrebbe domato quelle forze ancora non bene conosciute e che la tua malaccortezza aveva scatenate ... Ma, te ne prego, rimandiamo a qualche altro giorno questi dolorosi ricordi ... Nella foga del parlare, non ti accorgi che essi ti commovono fortemente. - Li ripenso quando non parlo; vale lo stesso. Lasciami proseguire - rispose Raimondo, stirandosi nervosamente i baffi e la barba. - Sopravvennero intanto alcuni mesi di sosta. Credei che la eccitazione nervosa da me provocata, si fosse finalmente esaurita, e che la cura consigliatami da un dottore consultato all'insaputa di Delia avesse realmente contribuito a fortificarne l'organismo. Era un po' dimagrita in quei mesi, e aveva perduto la vivace tinta che coloriva le sue guance di bruna con lieve sfumatura rosea. Soltanto lo splendore degli occhi era rimasto immutato. Vedendola rifiorire, non sospettando affatto che quella tregua potesse essere passeggera, avevo ripreso a lavorare alla statua La Giovinezza, quasi suggeritami da lei, un mattino di primavera, passeggiando insieme tra la splendida esplosione dei fiori delle aiuole che fiancheggiavano i brevi viali del nostro giardinetto. La Giovinezza, nella mia intenzione, doveva essere Delia trasformata in dea, idealizzata, se pure ci fosse stato bisogno d'idealizzare una figura che era, pei miei occhi, un'idealità artistica in atto. Il lavoro mi assorbiva talmente che le lunghe ore di quella giornata di estate sembravano insufficienti alla mia smania di condurre a termine la statua in brevissimo tempo. Delia veniva spesso a tenermi compagnia, seduta in un angolo, leggendo e ricamando zitta zitta per non distrarmi: ed io mi accorgevo della sua presenza soltanto nei momenti di riposo della modella. Mi accorgevo pure, con doloroso stupore, che mai Delia mi era parsa cosí lontana da me, come in quelle lunghe giornate che piú mi stava silenziosamente vicina. Eppure quella statua che mi si vivificava sotto la stecca e il pollice era la libera traduzione del bozzetto improvvisato con insolita rapidità mentre ella, che me n'aveva quasi suggerito l'idea, posava perché io fissassi nella creta il movimento delle linee della sua persona, cosí come l'immaginazione me la andava trasformando in fantasia d'arte. Una sera, tutt'a un tratto, Delia mi disse: «Ah, Raimondo! ... Tu stai per cessare di amarmi!» «Non pensare assurdità!» risposi bruscamente. «Tu però in quest'istante mentre neghi, pensi: "Oh, Dio, ella indovina!"» Tornai a negare: ma era vero. In quell'istante pensavo proprio: «Oh, Dio, ella indovina». «Come avvenga non so - riprese Delia. - C'è dentro di me o una anima nuova, o qualcosa che direi malia, se potessi credere alla malia. Strana malia, Raimondo; malefica malia che mi fa vedere quel che non vorrei vedere, che mi fa udire quel che non vorrei udire, quasi il tuo pensiero parli per me ad alta voce ... E sto in ascolto, da mesi, costretta, decisa di non dirti niente, di soffrire in silenzio perché mi sembra che anche tu soffri ... Ah, Raimondo! Tu stai per cessare di amarmi ... Mi sento impazzire!» Non ricordo piú quel che dissi per consolarla, per confortarla. Dovetti essere efficacissimo, se Delia mi si gettò tra le braccia scoppiando in pianto dirotto, balbettando tra i singhiozzi «Perdonami! Ti faccio soffrire!» Ma il giorno dopo e cosí tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò piú, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le piú riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi. E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io era stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: «Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?» corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita piú bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sí, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non aveva badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato -. Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano piú triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: - Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della dea, assai piú di essi, prendeva cosí mirabili chiaro scuri, riflessi cosí formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! «No, non è cosí! - balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. - No, non è cosí!» E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. «No, non è cosí! ... Non è cosí!» E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: «Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sí!» E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva piú! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! «Mi amava davvero?» Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu! - E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

. - Ai suoi ordini, signor marchese - rispose umilmente don Paolo socchiudendo gli occhi e abbassando la testa. - Io temo che non facciamo peggio - intervenne la marchesa con voce che sembrava umida di lagrime recenti. - Lasciamo che operi il tempo e la riflessione. - La gioventú di oggi è caparbia; faremmo peggio assai mostrando alla marchesina che noi non abbiamo piena coscienza della nostra autorità. Io non posso tollerare che una Santacroce si ribelli alla volontà dei suoi genitori. È già stata eccessiva concessione l'apparenza di consultarla ... Il cappellano sa di che cosa si tratta -. Don Paolo accennò di sí con la testa, atteggiandosi a una mossa di dispiacere in conferma delle parole del marchese. - Da quattro giorni non esce di camera, col pretesto di un fiero dolor di capo. Buttata vestita sul letto, tiene chiusi gli scuri dell'imposta del balcone e rifiuta di ricevere il dottore. Io non sono andato da lei per farle cosí intendere la mia collera. Oggi non è neppure intervenuta al sacrificio della santa messa ... È troppo! Bisogna finirla! - Il marchese aveva parlato lentamente, a bassa voce, tracciando dei segni sul tappeto della tavola col cucchiaino di argento quasi vi scrivesse in strani caratteri quel che diceva; e pronunciando le ultime parole, picchiato sdegnosamente su la tavola col cucchiaino due volte, lo aveva rigettato lontano, facendogli urtare il piattino della tazza del prete. - Ho sentito dire nella farmacia Russo - ruppe il silenzio don Paolo - che il signor barone sarà qui tra qualche giorno. - Si parla già in pubblico del matrimonio? - E se ne rallegrano tutti, signor marchese. Il barone di Pietrerase è ottimo partito. Il principe suo fratello è vecchio e non ha figli; un giorno o l'altro la marchesina potrà essere principessa di Cavanna ... - I Cavanna sono nati ieri di fronte ai Santacroce - lo interruppe severamente il marchese. - La probabilità del principato non entra per niente nella mia decisione. - Lo credo! Lo credo! - si affrettò a ripetere don Paolo per scancellare la cattiva impressione prodotta dalle sue imprudenti parole. - Non ho cercato io il barone di Pietrerase, né so come gli sia venuta l'idea di domandare la mano della marchesina. Non l'ha neppure veduta, credo, o di sfuggita in qualche occasione; a Catania forse, l'ultima volta che siamo andati colà per la malattia della marchesa. È uomo all'antica, buon amministratore dei suoi beni ... Il feudo di Pietrerase confina col nostro di Saccorotto ... Ho preso le piú scrupolose informazioni ... Eccellenti, riguardo ai principi politici e alla morale. Negli ultimi avvenimenti si è tenuto dignitosamente da parte; ha rifiutato di essere consigliere provinciale ... Lo avevano eletto non ostante le sue franche dichiarazioni; e non si è lasciato sedurre dai voti degli elettori. Noi nobili non dobbiamo attendere che ci abbandonino in un canto; siamo di altri tempi e dobbiamo volontariamente ridurci a vivere e a morire come in un mondo a parte ... finché dura la tempesta, come la chiamano, democratica. Quando Dio vorrà ... - Presto, eccellenza; cosí non può durare! - disse don Paolo - La marchesina dunque… - egli soggiunse timidamente. - La marchesina pretende ... Ditelo voi, marchesa, che cosa pretende, voi che le avete parlato di questo matrimonio ... - Senza nessuna ragione ... rifiuta - balbettò la marchesa. - Come se noi potessimo proporle un partito indegno di lei! - Oh, eccellenza! - esclamò don Paolo. - Io ho la mia maniera di tagliare i nodi; sono un po' brutale. Non ho comunicato alla marchesina la mia decisa volontà, cedendo al troppo benevolo desiderio di sua madre. Ho avuto torto. «Senza nessuna ragione!» Lo avete già udito ... Prima dell'autorità paterna, facciamo pure sentirle il peso di quella di Dio! Onora il padre e la madre, dice il decalogo, e si onorano soprattutto obbedendo. Dopo il confessore, interverrò io. Non voglio discutere con mia figlia. Quando il marchese mio padre mi disse: «Tu sposerai la baronessina Grimaldi» risposi soltanto: «Come vuole vostra eccellenza!» Allora usava cosí. Il nostro matrimonio è stato felice. Se il Signore mi avesse concesso un figlio, non mi sarei comportato diversamente con lui. L'autorità paterna è di diritto divino, come quella dei re, anzi prima di quella dei re -. Nella vasta sala da pranzo la voce del marchese si affiochiva quasi sperdendosi per la volta elevata, coperta di pitture sbiadite, o insinuandosi tra le credenze di noce scolpito che coprivano le pareti e tra le larghe pieghe delle pesanti tende scure dei quattro usci che sembrava la segregassero dal resto di quel palazzo dove parecchie generazioni di Santacroce erano vissute in orgogliosa solitudine, ora resa piú grande dal cupo carattere dell'ultimo marchese che vedeva estinguersi malinconicamente la sua razza per difetto di un erede. Don Paolo, tutte le volte che attraversava gli ampi saloni nei giorni che il suo ufficio di cappellano e di confessore lo faceva «salire al palazzo», sentiva un senso d'intimidazione e di freddo, come se egli penetrasse in un posto pieno di religioso mistero. Per gli abitanti di R*** la mole grigia, coi grandi balconi con ringhiere bombate di ferro battuto su le mensole rose dal tempo e dall'umido, con le imposte stinte che combaciavano male, e l'immenso portone sempre chiuso, mole dominatrice dall'alto della collina su tutte le altre case del paese, era il «palazzo» per antonomasia. «Salire al palazzo» significava andare dal marchese di Santacroce, giacché il marchese e la marchesa uscivano di rado, e quasi unicamente per recarsi nel feudo di Serralonga in primavera e in autunno, mutando la loro prigionia nell'antica cittaduzza che la posizione su l'altura teneva appartata da ogni contatto di vita commerciale, con l'altra nel feudo dove un gran casamento mezzo rustico, con immensi stanzoni anch'esso, circondato da un muro con feritoie che formava cortile, dava appena qualche differenza al tenore di vita della famiglia. Prima del '60@, '60, il marchese esercitava una specie di dominio su i cittadini di R***, tradizionale residuo di quello dei suoi antenati quando essi erano padroni del borgo, poi divenuto cittaduzza libera, passata alla Camera Reginale per vicende politiche che avevano prodotto la decadenza della famiglia Santacroce e ne avevano stremato i vasti possedimenti e le ricchezze. Il padre del marchese, don Alvaro Gutierrez-Guerrero, avea regnato da tirannello. Ai suoi tempi era stato adattato a lui il vecchio proverbio: «Non si muove foglia che Dio nol voglia»; se non che invece di Dio, si metteva irriverentemente ma esattamente «il marchese». La tirannia, del resto molto benigna, del padre era passata nelle mani del suo erede, che continuava a venir consultato in tutti gli affari privati, e aggiustava liti, annodava matrimoni, dotando le ragazze povere senza richiedere, come si diceva facessero i suoi antenati fino al suo genitore, certi diritti contro cui i contadini non osavano di ribellarsi. Nel comune, nella matrice, decurioni e canonici non deliberavano niente prima di domandarsi: - Che ne dirà il marchese? - E quando il marchese aveva risposto: - Fate cosí! - la sua parola diventava sentenza inappellabile; si faceva cosí. Il '60@ '60 aveva cangiato di punto in bianco ogni cosa. A R*** quattro teste sventate, come il marchese le qualificava, avevano fatto la rivoluzione senza consultarlo, ed erano andati ad attaccargli la bandiera tricolore a una delle colonne del portone, quasi per significargli che il suo regno era finito. Il marchese aveva avuto tanto spirito da non far togliere la bandiera, nell'attesa che i soldati del re venissero a toglierla loro, come nel '49@; '49; e si era chiuso in casa, stupito ogni giorno piú che la «rivoluzione» prendesse piede, ma pur lusingandosi sempre che, non ostante Garibaldi e Vittorio Emanuele, il buon diritto, quello dei Borboni, dovesse finalmente trionfare. Poi, deluso, si era rassegnato, con una vaga speranza in fondo al cuore, che il guardiano dei pp. cappuccini prima e, dopo, don Paolo Forti alimentavano fiaccamente recando, di tratto in tratto, qualche notizia lassú di quel che avveniva nel mondo e che il marchese ascoltava con orecchio diffidente, crollando la testa per compiangere la tristizia dei tempi. Egli e la marchesa vivevano smarriti pei saloni del palazzo, tra le poche vecchie persone di servizio tenute in segregazione assieme con loro; egli occupandosi a riordinare antiche scritture di famiglia, oppresso dal rammarico che il titolo di marchese di Santacroce dovesse passare, dopo la sua morte, a un lontano parente col quale da quasi mezzo secolo, per ragioni d'interessi, i Santacroce non avevano avuto piú relazione di sorta alcuna; la marchesa immersa in pratiche religiose o di carità nascosta, specialmente da che la marchesina era stata affidata alle cure della settantenne zia del marchese, badessa in un convento di benedettine in Catania. Otto anni dopo, essi si erano figurati di ritirare dal convento una ingenua educanda e invece si erano trovati dinanzi una giovine seria, chiusa, che aveva negli occhi e nella fronte qualche cosa d'incomprensibile e d'inquietante. Il marchese avea notato subito che la loro figliuola parlava poco. Infatti rispondeva con semplici monosillabi alle interrogazioni. La marchesa domandandole un giorno se era stata contenta della vita di convento, avea sentito rispondersi: - Non lo so -. E non si era attentata di chiederle spiegazioni di quelle strane parole. La vecchia badessa l'aveva molto viziata, un po' facendole fare quel che piú le pareva e piaceva, un po' - e non ce n'era bisogno - sviluppando coi consigli e con l'esempio l'alterigia naturale in una Santacroce per eredità e pel prestigio del nome. La marchesina Cecilia, o Cilia , come la chiamavano, non era una bellezza appariscente. Le linee del viso rigide, quasi dure, e il naso solido e aquilino della sua razza venivano però raddolciti dagli occhi neri e grandi e dalle labbra tumide e sensuali. Il mento, solido anch'esso, ne indicava il carattere fermo, ostinato, e la voce, gutturale ma sommamente melodiosa, dava alle sue parole un'indefinibile malia che non faceva badare alla bassa statura della sua personcina e alla lieve sproporzione tra il busto e le gambe per cui somigliava alla madre. Dalla madre aveva ereditato anche le mani piccole con dita sottili e i piedini ben fatti, le une e gli altri suo orgoglio in convento tra le quattro educande di nobili famiglie con le quali aveva avuto qualche contatto, perché una Santacroce, diceva la zia badessa, doveva stimarsi tale da dover tenere in distanza la «nobiltà» che poteva contare appena due secoli di esistenza. Cosí, durante gli anni passati tra le monache, ella si era sentita invadere da un senso di isolamento e di tristezza irrequieta, di mano in mano che i ricordi dell'infanzia vissuta nel malinconico palazzo di R*** le si erano schiariti nella memoria, quasi costringendola a rivivere con l'immaginazione quelle giornate interminabili, quelle serate paurose delle quali ora comprendeva meglio tutta la vacuità e tutta la desolazione e a cui neppure il suo orgoglio di casta riusciva a farla compiutamente rassegnare. A traverso le doppie grate del parlatorio, a traverso la grande grata di legno dorato del coro che dominava dall'alto la chiesa luminosa, piena, le domeniche, di elegante pubblico di signore e di signori accorsi ad assistere alla messa cantata, uno sbuffo, un'onda, un profumo di vita piú allegra, piú agitata penetrava nel convento, dove non tutte le monache erano, quantunque di nobili famiglie, impassibili e fredde come la zia badessa, né cosí assorte nelle pratiche religiose da sfuggire, quali pericolose e malsane, le relazioni col mondo profano. La zia le avea ripetuto, in parecchie occasioni, che la sua condizione la destinava a un'alleanza con qualcuna delle poche famiglie siciliane degne di ricevere l'onore di accogliere - poiché il Signore avea voluto cosí! - l'ultimo bagliore dei Santacroce. Anche la badessa reputava immensa disgrazia che quel titolo dovesse passare, per mancanza di erede maschio, a uno del ramo cadetto quasi povero e incapace di portarlo con la dignità e l'austerità mantenute onorevolmente finora. E siccome, parlandole del futuro matrimonio, la badessa soggiungeva sempre: - A questo penseranno i tuoi genitori; ci penserò pure io, se il Signore vorrà concedermene la grazia! - l'idea che la coscienza e la volontà di lei non dovessero contare per niente nella decisione intorno all'avvenire che l'attendeva le aveva lungamente torturato l'animo, inasprendoglielo sordamente e fortificandolo - forse invano! ella rifletteva - per una lotta nella quale già capiva di dover essere perditrice. E ogni volta che la zia tornava a parlargliene, la marchesina fissava negli occhi quel viso pallido, rugoso, con labbra sottili e un che di maschile nei lineamenti che le rammentavano quelli del padre. E le sembrava di scorgere nella voce lenta e sommessa della vecchia monaca benedettina un accento di rancore e di rimpianto, misto con un altero senso di rassegnazione che avrebbe voluto nascondere o attenuare quel rimpianto e quel rancore. Era stata, forse, vittima anche lei delle circostanze e dei pregiudizi di razza, sacrificata a un primogenito, eliminata dalla vita comune per quell'inesorabile volontà che non avrebbe consultato neppur lei il giorno in cui suo padre ne avrebbe deciso la sorte! E si era sentita oppressa, sopraffatta dalla fatalità, rientrando in quel palazzo dei Santacroce isolato lassú in cima alla collina di R***; e che le sembrava assai piú cupo del convento, dove almeno le pratiche e le feste religiose servivano da distrazione giornaliera e da svago impazientemente atteso e quasi infantilmente goduto. La messa che don Paolo Forti veniva a dire, le domeniche e le feste, nella cappella di famiglia era cerimonia fredda e compassata, in confronto anche della messa bassa di tutti i giorni a cui ella aveva assistito in convento. Quei quattro ceri accesi davanti al quadro di santa Margherita da Cortona, quell'altare disadorno, con la predella di legno che risonava sotto i grossolani scarponi del prete a ogni passo ch'egli moveva, quei vecchi seggioloni col piano e le spalliere coperti di cuoio, dietro i quali ella udiva il sommesso borbottio del rosario e i colpi di tosse delle poche persone della servitú inginocchiate sul freddo pavimento di mattoni di Valenza, le mettevano tale sgomento e tale tristezza nell'animo che le impedivano di concentrarsi e di pregare. E durante la settimana? Una o due visite di vecchie signore e lo spettacolo della campagna che si stendeva, a perdita d'occhio, a piè della collina, fino alla catena delle Madonie coperte di neve e fino alle falde dell'Etna che, sotto il sole, svaniva quasi sul cielo azzurro, niente altro. Giacché i balconi della camera e del salottino della marchesina rispondevano su la parte opposta a quella dove stava arrampicata la cittaduzza di R*** e i balconi delle stanze che guardavano da questo lato, per ordine del marchese, rimanevano sempre chiusi a testimoniare la sua protesta contro le «novità» finché esse duravano e che, contro ogni sua illusione, persistevano a durare. Fortunatamente in convento ella aveva appreso a suonare il pianoforte e vi si era appassionata sotto la direzione della suora che insegnava il canto fermo alle educande. E tutta quella vecchia musica sacra più particolarmente studiata avea sviluppato in modo severo il suo gusto. Il Palestrina, il Bach, lo Scarlatti, il Mozart, le erano divenuti cari anche per le difficoltà da superare nell'esecuzione. Soltanto all'uscita del convento ella avea voluto provvedersi di una larga scelta di cose moderne, accettando tutto quel che dal negoziante di musica le era stato proposto; e il suo salottino appartato, da mattina a sera, risonava di melodie prima ignorate, ora studiate e interpretate con fina intelligenza e che divenivano tale rivelazione per lei da darle fremiti, da agitarla e lasciarla stanca e spossata dopo le molte ore consacrate ad esse in quelle giornate di primavera cosí splendide e cosí eccitanti nella solitudine della sua vita. Don Paolo Porti aveva intuito sin da principio che qualche cosa di segreto, d'inafferrabile stava in fondo all'animo della giovane silenziosa, e avea tentato di scoprirlo nella confessione, consigliato dalla marchesa; ma inutilmente. E fermatosi, quella domenica, su la soglia della camera tenuta al buio, mentre la marchesa entrava ad annunziare alla figlia la insolita visita, egli non sperava affatto di essere piú fortunato nel nuovo tentativo. La marchesa avea aperto gli scuri, invitando don Paolo a farsi avanti. - Ho pregato per voscenza nel sacrificio della santa messa - egli disse dopo alcune parole di scusa pel disturbo di quella visita. - Brutta cosa l'emicrania! Ne soffro pure io qualche volta ... - Grazie! - rispose la marchesina che aveva aperto gli occhi, senza moversi dalla posizione in cui si trovava. Don Paolo si sentí turbare dagli sguardi di sospetto e di diffidenza con cui si vedeva fissato. Appena la marchesa, col pretesto di un ordine da dare, lo lasciava là, seduto a piè del lettino dove la marchesina era coricata vestita, coperta soltanto fino a metà del corpo con uno scialle, egli abbassava gli occhi e non trovava parole per riprendere la conversazione. - Indovino perché mammà vi ha condotto qui - disse la marchesina, rompendo il lungo intervallo di silenzio, quasi impietosita dell'imbarazzo del prete. - Che cosa vogliono da me? - Quel che una figlia rispettosa e obbediente deve ai suoi genitori. Le parlo da indegno ministro di Dio, da confessore. - Mi vogliono maritare con uno che non conosco neppure di vista. - Pensano all'avvenire di voscenza, alla sua situazione nel mondo. E giacché si sono decisi per questa scelta, vuol dire che vi trovano tutte le eccellenti condizioni morali e materiali degne della loro nobilissima casa. I genitori s'ingannano di rado. - E il mio cuore non conta nulla? - Il suo cuore sarà tutto della persona che avrà la fortuna di sposarla. Voscenza ha l'esempio della mamma, di una santa ... - E se ... Ella s'interruppe, irrigidendosi, facendo un visibile sforzo di contenersi. - So che ha risposto con un rifiuto - disse il prete. - Oh! Una Santacroce non deve avere volontà di fronte ai genitori. Vi sono doveri che s'impongono innanzi tutto quando si occupa, per nascita, una posizione elevata come la sua. Le donne della famiglia Santacroce sono state sempre mirabili modelli su questo punto. La signora marchesina non vorrà dare un gran dispiacere a suo padre ... che ha già impegnata la parola col barone di Pietrerase. Gran signore anche lui, il barone ... Il principe suo fratello non ha figli ... Io le auguro di vederla principessa, un giorno o l'altro. Il titolo toccherebbe di diritto al barone. I Cavanna, dice bene il signor marchese, non possono competere coi Santacroce per nobiltà, ma sono tra le piú illustri e ricche famiglie siciliane. - E se io volessi sposare un altro? - lo interruppe la marchesina sollevandosi sopra un gomito e appoggiando la testa sul palmo della mano. - Mi confido col confessore ... Sono stata di poco coraggio; non ne ho detto niente a mia madre. - Un altro? ... Chi? Giacché mi parla come a confessore ... - Il nome non importa ... per ora. - Se è degno della sua famiglia, il marchese certamente non si opporrà. - Non è nobile, né ricco. - In questo caso ... Una Santacroce non può discendere in basso. Sarebbe un gran dolore pei suoi genitori; sarebbe un fatto senza precedenti in famiglia ... una cosa impossibile! - Rimarrò zitella. - La signora marchesina deve riflettere ... - Ho riflettuto. Non credo che si voglia la mia infelicità. - Se la prepara voscenza stessa, con le proprie mani. Non si ostinerà, oso di lusingarmi. Io, suo confessore, non verrei a consigliarle di sottomettersi, se credessi di fare opera contraria al mio sacro ministero. Non si offenda se immagino che la poca esperienza del mondo, la giovinezza, e, forse, una mal riposta passioncina la illudono in questo momento. - Al confessore si deve dire tutto. Mi sarei confidata con mammà se non sapessi che ella non ha altra volontà all'infuori di quella di mio padre. Ho voluto risparmiarle un dispiacere. Dirò tutto al confessore. Sí, io amo un altro, da due anni, e so di essere amata. Tutti e due abbiamo però compreso le difficoltà che oggi si oppongono alla nostra unione, e ci siamo rassegnati. Se mio padre vorrà disporre di me altrimenti, io forse non resisterò ai suoi ordini, quantunque in questo momento sia già decisa a resistere. Avrà un gran peso su la coscienza mio padre! Quel che farò dopo non so ... - Niente che possa recar disonore alla sua nobile famiglia, ne sono sicuro - la interruppe don Paolo. - Il barone di Pietrerase è un gran signore anche lui; saprà darle tutte le felicità che si possono conseguire in questo mondo ... - Preferirei di essere infelice ma libera di agire a modo mio. - Guardi, marchesina. Crede voscenza che io sia un cattivo prete? Ho i miei difetti ... ma, insomma! ... Ebbene io sono stato fatto prete per forza. Mio padre mi mise il collare da chierico a dieci anni; poi mi mandò in seminario ... E una volta che ebbi l'ardire, prima di prendere gli ordini minori - ero grande e grosso, a diciotto anni - una volta che ebbi l'ardire di dirgli che avrei voluto essere medico, avvocato, agrimensore, o altro ma non sacerdote, mio padre mi schiaffeggiò come un ragazzino, mi saziò di pugni e pedate - era manesco, Dio l'abbia in gloria! - e cosí mi levò di capo ogni voglia di ribellarmi alla sua volontà. Ora dico che fece bene. Sono contento del mio stato; e quando osservo tanti altri che furono in seminario con me, e che buttarono via il collare anche dopo di aver ricevuto gli ordini minori, benedico quegli schiaffi, quei pugni, quelle pedate. - E se suo padre si fosse ingannato? Se lei fosse riuscito un cattivo prete? - Bisogna aver fede in Dio, marchesina! ... Che cosa dovrò dunque riferire alla marchesa? Attende ansiosamente la risposta, povera signora. Forse, se dipendesse da lei ... - Ditele che le chiedo perdono del dispiacere che le faccio, ma che rifiuto, rifiuto ... rifiuto! Mi lascino in pace. Vogliono sbarazzarsi di me? Io non do noia a nessuno in questa casa ... Perché mio padre dovrebbe mantenere la sua parola al barone? ... Poteva darla? - Allora ... - rispose don Paolo, esitando - Allora sarà meglio fare cosí. Dia retta al mio consiglio. Io riferirò al marchese e alla marchesa che voscenza, da figlia buona e obbediente, si sottomette alla loro volontà ... Mi lasci dire. La prima volta che si troverà da solo a solo col barone di Pietrerase - e sarà presto, forse in settimana - abbia il coraggio di dire a lui quel che ha avuto la sincerità di accennare a me. Troverà lui, dovrà trovare lui una soluzione dignitosa per tutti, perché non è possibile che voglia ostinarsi nella sua richiesta dopo quel che lei gli avrà confidato ... Faccia a modo mio ... Dio l'aiuterà ... E in questa maniera ella eviterà a sé e ai suoi genitori gravissimi dispiaceri ... Faccia a modo mio! - La marchesina si era subito pentita di essersi lasciata indurre ad accettare il consiglio del confessore. Avrebbe ella avuto la forza d'animo di aprire il suo cuore a una persona che si sarebbe trovata davanti a lei la prima volta e in un momento che doveva decidere irrimediabilmente del suo avvenire? Si era sentita già condannata vedendo entrare nella camera inaspettatamente il marchese: - Godo che state meglio, marchesina -. La marchesa, che era venuta assieme con lui, non aveva detto nulla; ma gli occhi materni avevano cercato di leggere sul viso della figlia una risposta piú sincera di quella recata da don Paolo Forti. E appena rimasta sola con lei, le domandava: - È vero? ... È vero? - Sí, mammà . - E sei contenta? - Sí, mammà -. La povera signora esitò qualche istante; gli occhi le si empirono di lagrime; ed abbracciò e baciò la figlia; poi, ponendole le mani sul capo, pronunciò commossa: - Dio ti faccia felice! - C'era una gran tristezza in quelle parole. La marchesa, infatti, si era rivista giovane come sua figlia, quando sotto il tormento di una costrinzione per volontà dei parenti, come sua figlia, aveva invidiato la sorte delle piú umili creature che potevano liberamente secondare gli impulsi del loro cuore, e non accusare nessuno della loro infelicità nel caso che il cuore si fosse ingannato. Si era rivista sposa, madre, quasi schiava di un uomo che ella aveva rispettato senza mai poter arrivare ad amarlo; e pensava, tremando, che forse sarebbe accaduto cosí anche a sua figlia, a cui la parola del confessore aveva probabilmente imposto una rassegnazione che le avrebbe contristato tutta la vita. A che insistere intanto per sapere se «era vero»? Se la marchesina si fosse decisa a confidarsi con lei, che cosa avrebbe potuto ella fare per impedire la disgrazia? Dio aveva disposto cosí: i signori dovevano scontare a quel modo la vanità dei titoli delle loro ricchezze, e vedersi invidiati quando avrebbero dovuto essere compatibili! In quei giorni la marchesina parve presa da un furore di musica; il pianoforte tacque soltanto a intervalli. Le melodie piú tristi e piú cupe piansero, ulularono, si lamentarono sommessamente, ripresero a ululare e a piangere nel salottino, quasi la nervosità delle dita della suonatrice partecipasse alle note un'espressione tutta personale da farle diventare pianto, ululo, lamento del suo cuore straziato. Di tratto in tratto, esse venivano improvvisamente interrotte; melodie dolcissime, sognanti, si elevavano allora, sospiravano, simili a invocazioni, simili a richiami, smorivano quasi andassero lontano lontano dove il cuore della sonatrice le inviava; e si sarebbe detto che esse recassero contristanti risposte, se, poco dopo, le desolatissime note riprendevano con impeto, prolungatamente; e il silenzio che seguiva finalmente, per stanchezza, produceva infatti un senso di disperato abbandono alla marchesina proprio come se colui al quale ella inviava, a quel modo, il grido del suo cuore, le avesse risposto: - Non c'è piú speranza! È finita! - E rivedeva, quasi in sogno, l'albergo di Catania dove era andata, pochi mesi dopo di essere uscita dal convento, per assistere la marchesa che doveva subire una difficile operazione chirurgica. Questi stanzoni del vecchio palazzo signorile trasformato in albergo erano severi e malinconici come gli stanzoni del suo palazzo a R***. Un via vai di medici, di chirurgi, di persone di servizio ... Un silenzio greve, un raccoglimento malauguroso, una segregazione ... E al balcone accanto alla sua camera, quel giovane pallido, biondo, malato anche lui, che un giorno aveva ardito di chiederle notizie della signora marchesa che doveva essere operata e della quale tutti nell'albergo s'interessavano. Poi, nelle ore in cui il male concedeva qualche riposo alla sofferente, un piú lungo scambio di parole, e d'intensi sguardi che, dalla parte del giovane, dicevano assai piú che non le parole, anzi quel che esse non osavano di esprimere, ella se n'era subito accorta. - Ora che sua madre sta meglio, lei partirà ... e non la rivedrò piú! Anch'io sto meglio ... È doloroso conoscere una persona e non aver speranza di rivederla piú. - Chi non muore si rivede. - Perché desiderare di rivedersi? È sciocco quel che io dico ... - Ella aveva interrotto la conversazione col pretesto che l'avevano chiamata; ma le era rimasta negli occhi la desolazione di quel viso pallido che già stava per dirle quel che ella aveva indovinato, quel che l'aveva turbata profondamente nei giorni avanti e nelle notti senza sonno, dandole insieme col turbamento una sensazione nuova, un fremito di vita, la sodisfazione ineffabile di un inconsapevole bisogno del suo cuore e della sua giovinezza, una nova coscienza di se stessa. Quante volte non aveva ella evocato questi ricordi nella solitudine della sua camera, e quel che le era accaduto poche ore prima di lasciare l'albergo e ripartire per R***! - Poiché non ci rivedremo piú ... Mi perdoni, non posso fare a meno di dirglielo ... quantunque sia convinto che lei dimenticherà presto le mie parole ... - Ella gli aveva accennato di tacere, tremante di commozione, ma con negli occhi un tal sorriso di felicità da rendere inutile il divieto ... E appena colui avea finito di parlare, uno scoppio era avvenuto nel cuore di lei, uno scoppio che le aveva fatto dimenticare ogni ritegno, che l'aveva violentemente spinta a dire quel ch'ella si era immaginato dovesse restarle sepolto nel profondo petto, come un segreto da portar con sé nella tomba. Poche e semplici parole, ma esaurienti, definitive, chiamandolo per nome, dandogli del tu, quasi per fargli cosí un'affettuosa carezza, per stringere un patto infrangibile, urgente, giacché qualche ora dopo sarebbero stati divisi, ma legati almeno da quel patto, ma sostenuti almeno da un barlume di speranza! - Ti scriverò io; troverò io il modo con cui tu possa farmi pervenire le tue lettere! - E la marchesina era sparita dal balcone, con lo spavento di chi ha commesso un atto di audacia incredibile, e nello stesso tempo con l'intima gioia di aver operato quell'incredibile atto di audacia. Non rileggeva piú le tre lettere da lui ricevute per mezzo di una povera donna che aveva acconsentito, dopo molte preghiere e molte promesse, a ritirarle dalla posta indirizzate al marito. C'era mancato poco che costui non l'avesse picchiata quando avea saputo dell'incarico assunto da sua moglie, per pietà della marchesina, d'impostare cioè le lettere di lei e ritirare quelle dell'«altro» e portargliele a palazzo nelle rare occasioni che vi andava. Quelle lettere ella non le rileggeva piú; già le sapeva a memoria: lettere infiammate, sconsolatissime, nelle quali egli tornava a domandarle perdono di averle svelato il suo amore servito unicamente a renderla infelice, mentre da parte sua non avrebbe mai osato di pensare che la marchesina di Santacroce potesse un giorno abbassare gli occhi fino a lui e concedergli il suo cuore. Per disgrazia, quella povera donna era morta da quattro mesi; e la marchesina non aveva potuto trovar altro mezzo di comunicazione col lontano; che però era stato avvisato della probabilità di una lunga interruzione della loro corrispondenza e incoraggiato a non sospettare di lei. Ella si dichiarava sempre pronta a combattere contro ogni resistenza dei genitori quando il momento opportuno fosse arrivato. Ed ora si lusingava che la disperazione l'avrebbe resa fin temeraria, quantunque la remissione al consiglio del confessore non sembrasse a lei stessa buon indizio, oh, no! Il barone di Pietrerase non era una figura signorile. Aveva qualcosa tra di maggiordomo o di cocchiere di buona famiglia, con la folta chioma spartita da lato e le fedine all'austriaca. All'entrata della marchesa, che teneva ancora per mano la marchesina quasi avesse temuto di vederla tornare addietro attraversando il largo corridoio per recarsi nel salone di ricevimento, egli le aveva fatto un profondo inchino e le aveva baciato la mano; un altro inchino aveva fatto alla marchesina, che rispose abbassando un po' il capo e squadrandolo con rapida occhiata indagatrice. - Cilia , - disse il marchese - il barone di Pietrerase ci ha fatto l'onore di chiedere la vostra mano, ed io e la marchesa siamo stati lieti di fargli sapere che la sua richiesta vi è gradita quanto a noi. - L'onore, marchese, è tutto mio. Ringrazio la marchesina del suo benigno acconsentimento, e voglio credere che ... e voglio augurarmi che ... - Cosí parlando, cercava nelle tasche posteriori dell'abito nero qualche cosa che doveva compire la frase imbarazzata e rimasta interrotta. Ne cavò due astucci di velluto azzurro, e presentandoli alla marchesina, con aria di volgare compiacenza, soggiungeva - E voglio augurarmi che accetterà gentilmente questo piccolo segno di affetto che mio fratello il principe ed io ci permettiamo di offrirle -. La marchesina balbettò qualche parola di ringraziamento intanto che la marchesa, aperti gli astucci, ammirava il regalo e ringraziava da parte sua. - Gioie di famiglia - disse il marchese - e per ciò di maggior valore. È stato delicatissimo pensiero. - Ricordo della principessa mia madre. Il principe mio fratello è dispiacente che uno dei soliti attacchi di podagra a cui va soggetto - fa pena a vederlo soffrire, inchiodato su una poltrona, come l'ho lasciato ieri! - gli abbia impedito di accompagnarmi per conoscere personalmente la futura cognata -. E tutt'a un tratto, mutando tono, aggiungeva: - Bisogna essere allegra in casa mia, cara marchesina! Io sono sempre di buon umore. Bado ai miei affari; non m'impaccio di cose pubbliche; e non amo certi contatti con certa gente venuta su a galla al giorno di oggi. Mio fratello il principe è di parere diverso ... È però appassionato della musica, come voi; so che siete una pianista di prima forza. Mio fratello è bravo suonatore di violoncello; la principessa mia cognata canta discretamente ... Vi troverete in buona compagnia con loro ... Io ... io faccio qualcosa di piú utile; bado agli affari di casa mia, che non sono pochi ... Per la musica ho l'orecchio duro ... Stono terribilmente cantando. Non sembro della razza dei Cavanna che sono stati tutti, chi piú chi meno, musicisti. Non vi dispiacerà. Sono sincero; è meglio farsi conoscere subito per quel che si è. Con me bisogna stare sempre allegri; le barzellette mi piacciono, lecite, s'intende. Non posso patire i collitorti. «Servite Domino in laetitia», come diceva mio zio il vicario capitolare, che non volle esser vescovo per non avere troppi grattacapi. Io rassomiglio a lui ... - Pareva che, preso l'aire, non potesse fermarsi; e parlando, si stropicciava le mani, contento di sé e di quel che diceva. E non si accorgeva dell'impressione di repugnanza e di nausea che la marchesina non riusciva a nascondere, seria, impallidita un po', con le labbra lievemente contratte da un lato, e gli occhi socchiusi. Oh, si sentiva salir dal cuore una forza inattesa! Davanti a quell'uomo ella avrebbe parlato forte, dignitosamente, da vincerlo in pochi istanti, da abbatterne la sciocca vanità. Che confronto con l'«altro», col lontano, con l'amato! Tutta l'anima sua si protendeva verso l'assente, e la persona secondava il moto dell'anima, inchinando il busto, irrigidendo il collo, quasi rapita dalla visione che le sorrideva davanti. Piú tardi, poco prima di andare a pranzo, si erano trovati soli sul terrazzino del salone che guardava verso la cittaduzza sottoposta, gran mucchio di case addossato alla collina, con le punte dei campanili e le cupole delle chiese indorate dagli ultimi raggi del sole prossimo a tramontare. - Bella vista! - egli disse. La marchesina approvò con la testa. Poi cominciò: - Per scrupolo di coscienza e confidando nella vostra generosità ... - Siccome egli aveva fatto un gesto di sorpresa alle prime parole di lei, cosí la marchesina si era arrestata. - Quale scrupolo? - egli fece dopo breve pausa. - Dicono che una Santacroce deve rassegnarsi alla volontà dei parenti; mi sono rassegnata. A voi però, non posso né devo nascondere ... che il mio cuore ... - E si arrestò di nuovo a un piú vivo gesto di sorpresa del barone, che, rizzandosi su la persona, appoggiate le mani sul ferro della ringhiera, la fissava curiosamente, quasi egli non avesse capito bene ... - ... che il mio cuore non è libero, da due anni ... I miei parenti lo ignorano - riprese la marchesina. - Tutte le ragazze, alla vostra età, hanno il segreto di un amoruccio ... senza conseguenze. Grazie della confidenza. Questo intanto non influisce ... Eh, via! Se si dovesse tener conto di simili picciolezze! ... - Picciolezze? Barone, v'ingannate ... - Eh via! Io conosco la vita ... Va bene! ... Non vi affliggete per ciò. Il matrimonio è un'altra cosa. Il matrimonio scancella ben piú che un amoruccio ... di convento, mi figuro. Non c'è da avere scrupoli ... Io conosco la vita! - Dovreste fare un atto degno di voi ... Rinunziare alla mia mano; trovare una scusa, un pretesto qualunque ... - Anzi! Anzi! Questa vostra confessione, mi fa anzi capire che ho scelto bene, molto bene. Un'altra, nel vostro caso, avrebbe taciuto. Inezie! Io mi ritengo un confessore in questo momento; dimenticherò ... Non ne parliamo piú! - Rideva, si stropicciava le mani; e la marchesina lo guardava sbalordita, con un fiotto di sdegno che la soffocava e le strozzava le parole in gola. - Parliamone piuttosto - ella balbettò - mentre siamo in tempo. Ho fatto appello alla vostra lealtà, alla vostra generosità. Io, ve lo dico schiettamente, non potrò esser felice con voi. Voglio risparmiarvi l'umiliazione di un rifiuto; l'accetto, la invoco da voi. Trovate un pretesto qualunque.,. - Ma queste cose si fanno nei romanzi francesi! - egli la interruppe - La gente riderebbe di voi e di me, se mai arrivasse a sapere ... - Nessuno saprà niente. Sarà un segreto tra noi due ... Come potrete sposarmi, ora che conoscete che il mio cuore appartiene a un altro? - Eh, via, marchesina! Parlate sul serio? - Come se fossi in punto di morte! - ella rispose. - Ho detto cosí non perché io dubiti della vostra sincerità, ma perché i vostri scrupoli, scusate, mi sembrano puerili. Voi siete inesperta. Siete vissuta in convento fino a diciotto anni. La vostra casa è peggio di un convento ... Io non sono d'accordo col principe mio fratello, che ... liberaleggia; ma non approvo neppure il marchese vostro padre che si è chiuso in questo palazzo come in una prigione ... Io batto la via di mezzo. In casa mia si prende il mondo com'è; tanto, il mondo va senza di noi; è inutile affannarsi per esso. Dobbiamo badare ai fatti nostri. Chi ha tempo da perdere ... Io non ne ho, e voglio vivere tranquillo, come mio zio il vicario capitolare che rinunziò di esser vescovo ... Vescovo di casa mia, sí ... Ho pensato sempre cosí. Penserete cosí anche voi, perché il matrimonio accomuna ... E gli amorucci ... di convento, svaniscono presto ... Avrete altro a cui badare quando sarete baronessa di Pietrerase! - Ma voi mi giudicate male ... - Vi giudico benissimo. Lasciate fare a me. Se il vostro amoruccio fosse una cosa seria, già sarebbe un matrimonio, o un principio di matrimonio; non avreste avuto ritegno di confessarlo ai vostri parenti ... Uno studentucolo, mi figuro! Ah! Ah! Vi ammiro, per l'ingenuità ... Vapori! Nebbia! Un soffio di vento porta via ogni cosa! E poi, e poi ... farei una bella figura presso il marchese vostro padre e presso la marchesa! E perché? Per una fisima! Se ne aveste parlato a vostra madre, l'avreste veduta sorridere, vi avrebbe risposto come me: Non c'è d'avere scrupoli, figlia mia! ... Zitta! Eccola ... Per me è come se non sapessi niente. E non ve ne riparlerò mai; contate su la mia parola -. Quasi le fosse cascato un macigno addosso! Quasi tutto quel rosso che tingeva cupamente il cielo là di faccia fosse stato il sangue del suo cuore sgorgato dalla ferita ch'ella si sentiva fatta dalla barbara mano del barone! ... - Fa un po' fresco; sei pallida - le disse la marchesa. - Bella vista! - esclamò il barone, per rompere il silenzio. - I polmoni si dilatano nel respirare tant'aria. - Non abbiamo altro qui - rispose la marchesa. La marchesina trambasciava e sfuggiva gli sguardi di sua madre che sembrava volessero interrogarla. Aveva perduto ogni ardire, ogni forza. Era inutile ribellarsi contro il destino. Si vedeva già in balia di quell'uomo che si accarezzava stupidamente le fedine, che appariva pago di sé per la risposta data a lei poco prima, quasi assaporasse la vittoria, poiché sorrideva senza nessun motivo, mentre tutti e tre tacevano e anche la marchesa sembrava assorta da qualche dolorosa riflessione. - Ho avuto torto di non confidarmi con mammà! - pensava la marchesina. - Ma ormai ... è troppo tardi! ... - A tavola, il barone avea parlato per dieci. Don Paolo Forti, unico commensale estraneo alla famiglia, si era creduto in obbligo di applaudire, ridendo, le volgari spiritosità del futuro marito della marchesina. Certamente essa non aveva ancora avuto l'occasione di parlargli da solo a solo, altrimenti il barone non sarebbe stato di umore cosí allegro - pensava don Paolo. - Ma pensava anche che i signori sogliono prendere le cose in modo diverso dagli altri. Poteva darsi benissimo che quell'allegria fosse finta, per mascherare la sconfitta. - Cappellano, siete di poco appetito oggi! - Ah, signor barone! La mia tavola ordinaria non va piú in là di due pietanze alla buona. - Ma quando capita ... - Lo stomaco ha le sue abitudini. - Io non ho preferenze né repugnanze in fatto di mangiare. In campagna mangio anche pane e cipolla come i contadini, se occorre. «T'invidio» mi dice sempre il principe mio fratello. Lui, con la podagra, deve privarsi di questo, di quello; non sa piú che cosa mangiare. Stomaco di ferro ci vuole. Io digerirei anche i ciottoli, come gli struzzi. La marchesina non dovrà impazzire per la mia tavola. - Dovrà pensarci il maestro di casa o il cuoco - disse la marchesa con lieve punta di ironia. - Certamente; ma le redini della casa - è tradizionale nella famiglia Cavanna - stanno in mano della padrona. La principessa mia cognata bada a tutto, ha occhio per tutto; una vera massaia. Se non si fa cosí, specialmente oggi che l'Italia ci scortica, anche le piú solide famiglie vanno giú -. Il marchese scosse la testa, confermando. Durante il pranzo, la marchesina Cilia aveva detto poche parole. Ma non era una Santacroce per nulla; capiva istintivamente che era indegna di una sua pari mostrarsi abbattuta. La sottomissione ai riguardi, ai pregiudizi della razza ella la portava nel sangue. Cosí avevano fatto l'ava, la nonna, sua madre; cosí doveva far lei; non poteva avvenire diversamente! Quando il pericolo era lontano ella si era illusa che avrebbe saputo sfidarlo e superarlo: ora che era prossimo, anzi là accanto a lei, sotto la forma di quell'uomo non giovane né vecchio, senza età apparente, con quella voce grossolana, con quelle fedine da cameriere, con l'aria di sciocca superiorità e di volgare bonomia con cui aveva trattato da «picciolezza», da «ingenuità» il vibrante appello del cuore di lei, la confessione fattagli, e ne aveva riso; ora che ella era stata incapace di mostrare la minima resistenza alla volontà dei suoi genitori e si era vista sfuggire l'unica speranza di salvezza riposta nella generosità di quell'uomo; ora ella sentiva soltanto l'orgoglio di non dover dare a nessuno la sodisfazione di mostrarsi vinta; sentiva soltanto la fiera voluttà di una vendetta - ancora non sapeva quale - con cui punire, prima, se stessa in espiazione del dolore che avrebbe arrecato al «lontano» la notizia del matrimonio di lei, quantunque egli non avesse mai concepito l'illusione che il loro amore potesse finire altrimenti; e poi punire quel vanitoso che si stimava tale da strapparle facilmente il dolce conforto di quell'amore dal cuore! Ella sentiva anzi, nel momento che il barone rispondeva ai brindisi di auguri di don Paolo Forti, ancora in piedi, con una punta del tovagliolo infilata tra collo e collare - specie di sermoncino piú che brindisi, che il prete aveva preso a memoria come soleva con le sue prediche - ella sentiva anzi in quel momento qualcosa di piú che la fiera indeterminata voluttà della vendetta; qualcosa che si maturava nella misteriosa oscurità del suo cervello o del suo cuore, e che presto si sarebbe rivelata perché lei la mettesse in atto; e con questo senso di prossima vendetta, ella toccò la coppa da sciampagna che il barone le stendeva; e il gesto fu cosí vivace che don Paolo Forti pensò: - Tutto è accomodato; tanto meglio! - E se ne rallegrò, poco dopo, con la marchesa. - Come? Voscenza ne dubita? - egli esclamò, vedendole scotere tristamente la testa. - In certi momenti, mia figlia mi fa paura! - rispose la marchesa. Le nozze dovevano aver luogo nei primi di settembre. Durante i quattro mesi d'intervallo, i preparativi venivano fatti quasi alla chetichella, per non dar nell'occhio, perché il marchese voleva che l'avvenimento si limitasse a un'intima festa di famiglia, e apparisse anche un atto di protesta contro le «novità» che ormai non piú erano «novità», e non lasciavano intravedere nessuna speranza di cangiamento. Don Paolo Forti recava lassú, a «palazzo», le strabilianti notizie della guerra franco- prussiana. - Ebbene? ... Che ne sperate? - domandava il marchese. - Bismarck, dicono, restituirà alla chiesa le province toltegli dal governo usurpatore. - È protestante ... Come vi illudete! - Io ripeto le voci che vanno attorno; rimetterà i Borboni sul trono di Napoli e di Parma, costituirà la Confederazione italiana sotto l'alta presidenza del Pontefice; notizie che vengono da Roma -. E il barone di Pietrerase, nelle sue frequenti visite, ripeteva le stesse cose. - Il principe però ... - obiettava il marchese. - Mio fratello è divenuto liberale, piú per mostra che per altro, credo. Egli è di opinione che i nobili non devono lasciarsi prendere la mano ... È sindaco, quasi un impiegato del governo; non può parlare altrimenti. L'ultima volta che è stato qui, però, lo avete udito: egli ha rimpianto la indipendenza siciliana, il parlamento siciliano ... È opportunista mio fratello. La nostra politica, marchesina, consisterà nel buon governo della nostra casa; dico bene? Voi regina, io re, e assoluti. E per ciò - scusate, marchese - non è necessario sequestrarsi, segregarsi ... Io la penso cosí. - I veri Santacroce spariscono dal mondo! - rispose tristamente il marchese. - Questo nome, tra qualche anno, alla mia morte, sarà portato quasi per irrisione da un miserabile che lo disonorerà ... Non mi importa piú di niente! - E cosí, non ostante le prossime nozze, una gran tristezza continuava a invadere le stanze del suo palazzo, di cui i balconi a ponente rimanevano chiusi, nelle settimane che il barone non veniva a R*** per fare a modo suo la corte di fidanzato alla marchesina, irritandola sovente con la solita esortazione: - Con me bisogna stare sempre allegri! - Invece ella era sempre piú cupa e piú chiusa che mai. Sacrificarsi alla volontà del padre stimava ormai un dovere impostole dalla sua condizione e dal sentimento religioso; ma sacrificarsi a colui che avrebbe dovuto salvarla dopo ch'ella gli aveva aperto confidentemente il cuore, le sembrava enorme. Dell'«altro» non aveva piú nessuna notizia e non era riuscita a fargliene avere da parte sua. Aspettava di esser libera, maritata, per spedirgli la lunga e straziante lettera, alla quale aggiungeva ogni giorno qualche pagina e che teneva chiusa sotto chiave in un armadietto in camera sua. Scriveva la notte, quando non le riusciva di prender sonno, o quando era stanca di mulinare la vendetta che avrebbe dovuto mettere in atto, già abbozzata nella sua mente, e per la quale temeva soltanto di non essere abbastanza forte e persistente, perché le circostanze della vita infiacchiscono le piú nobili energie, rendono vigliacchi i piú risoluti caratteri! Talvolta ella amava figurarsi che il barone, all'ultimo momento, si lasciasse vincere dalla riflessione. Egli aveva mantenuto la parola, non aveva mai accennato, neppure velatamente, al loro colloquio di quella sera, mentre il sole tramontava dietro i colli lontani; ma non poteva averlo dimenticato. La sua vanità non gliel'aveva fatto valutar bene quel giorno; dopo, però ... Ma forse egli contava su la bontà dell'animo di lei, su la sua dignità di donna e di marchesina Santacroce, che le avrebbe impedito di commettere una pazzia o una bassezza! E si sdegnava riconoscendo che era vero: ella non sarebbe stata capace di commettere una bassezza o una pazzia! Si considerava come divisa in due metà: il suo corpo, impassibile, lo avrebbe dato in balia di colui; ma il cuore, ma lo spirito sarebbero stati sempre di quell'«altro» ... E se questo era peccato, tanto peggio per coloro che la forzavano a peccare! Suo padre e sua madre non avrebbero potuto lagnarsi di lei: non obbediva ciecamente? Il giorno in cui essa diventerebbe baronessa di Pietrerase, la situazione non era piú la stessa; ella acquistava, quel giorno, piena libertà di azione. Suo marito avrebbe saputo anticipatamente quel che doveva attendersi. Voleva essere leale, ingenua, come diceva lui, fino all'ultimo! Appunto il giorno precedente alle nozze, ella parlò al barone: - Ascoltatemi attentamente: debbo dirvi poche parole, ma di suprema importanza. - Oh! oh! - egli rispose. - Qualche altro segreto? Il primo l'ho dimenticato; credo che l'abbiate già dimenticato anche voi. - Io non dimentico, tenetelo a memoria! - Dunque ... ? - Sembrava ch'egli intendesse di provocarla con quell'aria di sfida, con quel sorrisetto compassionevole tra le ispide fedine all'austriaca. - Non prendete a scherzo quel che sto per dirvi. I miei genitori hanno diritto a un'assoluta obbedienza. Nel monastero, in casa, nel confessionale, tutti hanno ribadito questa convinzione, ed io l'ho accettata come un domma di fede. I Santacroce però, dice mio padre, hanno una volontà di acciaio; sento di averla anch'io ... e non vorrei darvene una prova. - Quale, in caso? - Ho giurato a me stessa ... - Io non giuro mai, per precauzione. - Ho giurato a me stessa ... che se domani dovrò pronunziare il fatalissimo «sí» ... - E chiaro e sonoro, spero, perché il sindaco e il cappellano lo odano bene! - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra! - Non capisco ... Non sarà una sillaba mortale. - Cosí fosse! ... Siete ancora in tempo! Trovate, ve ne supplico, un pretesto! - Di nuovo quella storia? Ve lo ripeto: la vostra bella coscienza può vivere tranquilla. Io non vi farò mai una colpa di un sentimento ... naturalissimo ... Nessuna donna e nessun uomo sono mai andati dal sindaco o a piè dell'altare con la verginità del cuore ... Il matrimonio è come il battesimo: scancella il peccato originale di qualunque amoretto ... Se io sospettassi che quella vostra confidenza ... - e ve ne torno a ringraziare e ve ne sono gratissimo! - Ma essa non mi ammonisce di un pericolo ... Mi sembrate una bambina che si accusa di aver mangiato, di nascosto della mamma, qualche dolce ... Si sa, i dolci piacciono ai bambini; ed essi sono scusabili se li mangiano non ostante i timori della mamma per un'indigestione, Via! via! Non torniamo piú su questo argomento ... ! Con me bisogna stare allegri! - Ancora dopo una settimana egli non sapeva persuadersi che non si trattasse d'un semplice scherzo; o, se non di uno scherzo, di una cattiva scontrosità femminile; o, se non di questa, di un irragionevole tentativo di rivincita che non poteva certamente né doveva durare molto a lungo. Dopo il «sí» davanti al sindaco e a piè dell'altare nella cappella privilegiata di famiglia, la marchesina Cecilia Santacroce, ora baronessa di Pietrerase, non si era piú lasciata sfuggir di bocca una sola parola. Aveva detto: - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra, l'ho giurato a me stessa! - Ed era stato davvero l'ultima sillaba da lei pronunziata. Nei primi momenti tutti avevano creduto che la commozione pel prossimo distacco dai genitori le impedisse di parlare. Era un po' pallida, un po' sbalordita, ma non piangeva, non si mostrava agitata; e anche questa mancanza di uno sfogo di lagrime era stata creduta effetto dell'eccessiva commozione nervosa. Piú tardi, soltanto la marchesa aveva intravista la verità. - Figlia mia! Figlia mia! - La baronessa le sorrideva, la baciava in fronte, le passava per confortarla, amorosamente, quasi maternamente, le mani su le guance bagnate di pianto, e con umile gesto le chiedeva perdono. - Parla! parla! - insisteva la marchesa. La baronessa scoteva la testa, negativamente, e alzando gli occhi, e accompagnando l'espressione di essi con un risoluto movimento della destra rispondeva. - Mai piú! Mai piú! - E per calmare la desolazione della mamma, ella scrisse su un foglio: - È un voto! Lasciami fare, mammà ! - Il barone fingeva di prender la cosa rassegnatamente: - Avrò sposato una muta! - Ma pensava che, prima con le buone, poi un po' con le cattive avrebbe finalmente sciolto la lingua alla moglie. Rimaneva intanto molto imbarazzato davanti al contegno di lei: nessuna resistenza, nessun atto di repugnanza; egli poteva fare di quel corpo senza parola quel che piú le piaceva. Baci, abbracci, parole affettuose, preghiere, scuse umilissime, ragioni di ogni sorta, tutto però riusciva inutile contro quell'ostinatezza inflessibile. - Ma è ridicolo; dovreste capirlo! Se non per me, per vostra madre almeno ... Siate ragionevole, siate buona! - La baronessa lo lasciava dire, quasi non comprendesse. Una gran serenità le risplendeva nel volto, nella persona. Ella andava e veniva per le stanze, accennando benevolmente alla gente di servizio qualche ordine e riuscendo a farsi intendere senza stento. Quella figura silenziosa, che pareva avesse imposto silenzio anche ai suoi passi, ispirava rispetto e compassione insieme, perché si era sparsa la voce che una strana paralisi della lingua l'avesse colpita durante la cerimonia nuziale. Qualcuno si maravigliava che il barone non consultasse un dottore, uno specialista. - La baronessa si rifiuta. E poi, dicono che le malattie di questo genere si risolvano da sé all'improvviso; vanno via come vengono, senza sintomi apparenti -. Si scusava in tal modo, lasciando volentieri accreditare la voce della paralisi, intestato nel convincimento che un giorno o l'altro sua moglie si sarebbe stancata. Ci voleva la gran caparbietà di una donna per condannarsi al silenzio e perdurare! E cominciava a irritarsi, vedendo che tutti i suoi calcoli venivano sconvolti. Dapprincipio egli si era detto: - La ridurrò con le buone maniere; un po' con le cattive, se occorrerà -. Ma la baronessa non gli dava nessun pretesto di mostrarsi irritato con lei, all'infuori di quella maledetta mutezza, che, prolungata, poteva, da finta, diventare reale. Egli rammentava una sua visita al carcere cellulare di Noto, inaugurato pochi mesi avanti. Tra i condannati, il direttore gli aveva fatto notare un fabbroferraio che costruiva serrature complicatissime, da sfidare qualunque ingegnosità di ladri per aprirle; una di esse era stata premiata all'esposizione universale di Parigi. Costui, condannato a vita per omicidio, da sedici anni, secondo il regolamento carcerario, non parlava. Dal cellulare di Pallanza lo avevano trasportato a quello di Noto; intanto le corde vocali gli si erano atrofizzate, e la lingua articolava a stento poche parole. Alla baronessa sarebbe accaduta la stessa cosa? Glielo disse, per spaventarla con l'idea di tal pericolo. Non se ne mostrò affatto scossa. Ella aveva un mezzo per manifestare i sentimenti del suo cuore; il pianoforte. Tre, quattro volte al giorno, specialmente quand'era sola in casa, tutta l'abbondanza dell'anima sua vibrava dalle corde dello strumento, diventava parola per lei, si effondeva fuori dell'aperto balcone, volava via, lontano, lontano! Ella non sapeva precisamente dove indirizzare quelle note tristi, fremebonde, lamentose; era certa però che esse avrebbero trovato la giusta strada e sarebbero arrivate dove dovevano arrivare! E che importava se si smarrivano a metà di cammino? se morivano nello spazio inascoltate? L'«altro», ormai, era divenuto, piú che un ricordo, una lontana visione fantasticata o sognata. Non ne aveva saputo piú niente. Era ancora vivo? Era morto? ... Non gli aveva piú spedito la lunga lettera stimando inutili le scuse, le proteste, e sembrandole che avrebbe commesso un atto indegno di lei ora che portava il nome altrui e piú non era libera di sé. Un giorno aveva riletto quei fogli piangendo e li aveva bruciati. Le pallide sembianze di lui, il suono della voce, gli occhi che la penetravano con intensi sguardi dal balcone dell'albergo, dopo quest'ultimo sacrificio le si erano attenuati, spiritualizzati nella memoria; e la parola interiore, che non prendeva suono neppure quando avrebbe potuto sfogarsi in soliloqui, infondeva a quella figura attenuata, spiritualizzata un prestigio indefinibile; e stimolava acutamente la baronessa a perseverare nel giuramento, non ostante che questo l'avesse fatta incorrere nello sdegno dei suoi genitori, e ora provocasse impeti scortesi da parte di suo marito. Una notte ella avea sognato che, nell'assenza del barone, la posta le recava una lettera. Riconosciuta subito la calligrafia, s'era sentita invadere da tal tremore per tutto il corpo che le era parso di morire. Doveva aprirla? Doveva leggerla? Lungamente indecisa, guardava la busta gettata sul tavolino con inconsapevole gesto di terrore. Poi le era sembrato di sentire la voce, lontana, del pallido giovane innamorato che la supplicava di leggere. Aveva resistito ancora. Come mai, dopo un anno e mezzo, egli si era risoluto a farsi vivo con lei? Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva da lei? E il timore che, non ricevendo risposta, egli potesse commettere l'imprudenza di tornare a scriverle e che la lettera potesse capitare in mano del barone, l'aveva spinta ad aprire con mani tremanti la busta. Poche righe: e, appena finito di leggerle, si era destata di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime e il cuore penetrato da dolcezza infinita. Non aveva dubitato un istante che colui che nel sogno le indirizzava cosí semplici, cosí affettuose e cosí tristi parole, non era piú! Ella però non lo rimpiangeva. Se lo sentiva accanto, invisibile, come non aveva pensato mai che fosse potuto accadere nella realtà, come non avrebbe permesso mai che accadesse se le circostanze della vita avessero apportato davvero un incontro! Le sembrava intanto che da ora in poi tutta la sua esistenza sarebbe trascorsa sotto gli occhi vigilanti di lui. Arrossiva provava brividi acuti al solo pensiero che il suo contegno verso il marito potesse offendere il povero morto e dargli angosce e tormenti di gelosia che la lontananza gli aveva probabilmente risparmiati quando era vivo. In certi momenti, il sospetto che il sogno fosse stato fallace eccitava la sua fantasia alla ricerca di un mezzo con cui accertarsene. Ma l'idea di arrivare a una scoperta che confermasse il sospetto la distoglieva da qualunque piú timido tentativo. Era cosí consolante saperlo morto fedele a lei, come la sognata lettera diceva! Ella avea sentito parlare tante volte di sogni veritieri. Anche lei, parecchie notti avanti di lasciare il convento, aveva sognato l'arrivo dei suoi parenti che venivano per condurla via. Ignorava che dovessero venire, ed era rimasta stupita vedendoli apparire inattesamente, realizzando il suo sogno! Fin allora ella aveva soffocato la ripugnanza che le ispirava il contatto del barone. L'impero delle convenienze sociali e dei sentimenti religiosi le avevano imposto una rassegnazione passiva. - Questo ghiaccio non si scioglierà mai? - le diceva talvolta il barone. - Io sono paziente; attendo, attenderò. E vi si snoderà anche la lingua. San Sebastiano opererà il miracolo! Vedete che vita mi fate fare? - Ella crollava la testa, negando. Il barone infatti per stanchezza, per fiacchezza anche, aveva già ripreso la sua solita vita di scapolo. Quando non andava in campagna, passava molte ore della giornata al casino di convegno giocando a tressette, al bigliardo; o nella farmacia dei Sorci, come veniva chiamata la farmacia Garano, dove si riunivano i clericali, i borbonici che si sfogavano a dir male del governo e a rimpiangere il passato. Egli veramente non si scalmanava né pel papa, né per Francesco II, ma si compiaceva di mostrarsi colà per darsi l'aria di persona seria e un po' per far dispetto al principe suo fratello che «liberaleggiava» e riceveva il sottoprefetto e gli ufficiali della piccola guarnigione. Spesso però restava in casa, a tormentare la baronessa con interminabili discorsi, nei quali egli ormai aveva preso l'abitudine di farsi le domande e di rispondersi, quasi sua moglie lo interrompesse. O andava a sedersi sul canapè di faccia al pianoforte mentre ella suonava, rimproverandole talvolta che avesse suonato distrattamente lo stesso pezzo la sera avanti nel salone del principe, e avesse accompagnato male la cognata principessa che se n'era indispettita, quantunque non lo avesse lasciato scorgere davanti agli altri. Lo faceva a posta? Anche questo? Fortuna ch'egli non era un marito brutale! ... E la baronessa cessava tutt'a un tratto di sonare, indignata perché quel ch'egli chiamava rassegnata aspettazione veniva da lei giudicata atto di villano orgoglio e sciocca lusinga di vincerla. Oh! Avrebbe preferito di sperimentarlo brutale. Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 2 occorrenze

Ella fece questa domanda abbassando la testa, soffusa di una luce interna. Roberto curvò il capo sulle mani di lei, che erano posate sulla tavola e vi tenne lungamente incollate le labbra. - Se le forze mi basteranno, se lei non presume troppo di me, io le dedicherò tutta tutta la gloria che potrò acquistare; come le ho dedicato l'anima mia. Vede; Velleda, lei può fare di me tutto quello che vuole. Io non ho mai capito come ora la legge della suggestione; se mi dicesse di camminare alla morte, ci andrei sorridendo. Io non ho più volontà che la sua e mi compiaccio di non averne. Che dolce sentimento è questa dedizione completa, questa fiducia intera in un'altra persona che è in noi e fuori di noi. È l'unione vera, continua, cui il cuore può dare la durata che non hanno le unioni materiali. Velleda troncò la parola a Roberto temendo un momento di debolezza e prese a dipingergli la vita che avrebbero fatto divisi. Egli doveva passare a Roma molto tempo; specialmente il primo anno, lavorare negli uffici, prendere la parola in ogni questione sociale, esser sempre sulla breccia con la minoranza, imporsi con la eloquenza vera e con la serietà dei suoi intendimenti. Ella avrebbe ripreso a scrivere, per occupare le lunghe sere invernali, ma non più romanzi. Aveva in mente un'opera più utile, che avrebbe firmato " Una donna ", un libro destinato agli operai, in cui voleva mettere tutto il suo cuore di donna per educarli ai nuovi diritti acquistati e da acquistarsi e innamorarli degli antichi doveri. Nessuno avrebbe mai saputo che ella ne era l'autrice; Roberto doveva trovarle a Roma un editore ed ella ne voleva pagare la stampa con le sue economie e farla distribuire in tutti i centri di lavoro. Sperava con quell'opera di trattenere la rivoluzione delle classi, che aspirano al primato, avviandole a una conquista pacifica. Cosi mi farò sua cooperatrice, - diceva, - e nella tarda vecchiaia tutti e due potremo guardare dietro a noi paghi di avere speso utilmente la vita sotto l'egida di un affetto che sarà stato la nostra guida. Quella sera non lesserò più, non parlarono più. La parola non bastava a esprimere quello che sentivano, e l'eco del sogno di Velleda vibrava nei loro cuori come il ricordo di una musica divina. Ella aveva preso il lavoro e i fiori sbocciavano sotto le sue dita in una deliziosa armonia di tinte, e Roberto, con le mani abbandonate sui braccioli del seggiolone, l'avvolgeva in uno sguardo innamorato, mentre il mare accompagnava i loro pensieri con un lieve rumore ritmico, che aveva la soavità di una carezza. Quello stesso rumore accompagnava la veglia di Franco Il duca era tornato tardi da Castelvetrano, dopo aver passato la sera a giuocare in casa di un proprietario del paese, il Purpura, insieme con l'onorevole Orlando e altri. Anche in quella piccola città il giuoco era in gran voga e il Purpura passava per sapere abilmente spennacchiare gl' impiegati e gli ufficiali. Naturalmente appena aveva conosciuto Franco in farmacia, aveva indovinato che il duca doveva essere uno di quelli che giocano forte ed era riuscito ad attrarlo in casa sua. In poche sere Franco aveva perduto diverse migliaia di lire senza pensare al poi, volendo solo ammazzare il tempo e addormentare i sospetti di Velleda. Don Ciccio Purpura, che era il grande elettore dell'Orlando, aveva chiamato a raccolta tutti i più forti giocatori del paese, per offrire al duca competitori degni di lui. Il deputato, che aveva un debole per il giuoco; era accordo, trovandosi in quel momento a Castelvetrano per preparare le elezioni. Conosceva Franco dì vista, per essere stato a Roma molto tempo, ed era curioso di avvicinare questo principe dell' eleganza, che s'era rovinato come tanti altri. Invece di chiamarlo don Franco, come tutti lo chiamavano; gli dette subito il titolo che gli spettava e ciò lo rese simpatico al giovane signore, il quale si sentiva ferir l'orecchio ogni volta che lo chiamavano altrimenti. Poi gli parlò della capitale; di alcuni deputati del patriziato romano, gli raccontò dei pettegolezzi sui legami di questi con certe donnine galanti, e a Franco parve di sentirsi rivivificare da quel soffio di aria che veniva di là, dove aveva vissuto e dove avrebbe voluto sempre vivere. Era un ometto molto bruno, molto vicace quello Orlando; il vero tipo dell'avvocato presuntuoso, assuefatto a farsi ascoltare, a strappar l'approvazione all'uditorio. Uomo senza scrupoli, era devoto a chi saliva, senza voltar le spalle a chi scendeva. Alla Camera, era sempre nelle file della maggioranza, ora come affigliato, ora come alleato, ma il suo nome figurava immancabilmente nella lunga lista di quelli che votano per il sì Egli si faceva perdonare la devozione per i ministri in carica con l'entusiasmo che poneva nel parlarne, con la fede che pareva riponesse in loro. Ma quell' entusiasmo che gli si vedeva brillare negli occhi nerissimi, lampeggianti, dietro gli occhiali leggermente colorati di turchino, era una spuma tutta superficiale, che svaniva subito e non aveva sede nella coscienza di quell' avvocato, buon vivente, libertino; avido di danaro e di quelle soddifazioni d'amor proprio che da la carica di deputato, di uomo influente. Quell'avvocato volgarissimo, di poca cultura, ma accorto e subdolo, sotto apparenze franche, aveva una certa vernice di uomo di mondo, di uomo elegante e raffinato, e si faceva distinguere fra gente semplice e alla carlona. Egli portava sempre una camicia candida, si vestiva a Roma dal sarto dei patrizj, conosceva tutti e parlava anche di quelli che non conosceva, come se fossero suoi amici. Quando era alla capitale pranzava ogni sera con un gruppo di deputati siciliani al Caffè di Roma, dove si conoscono tutti i pettegolezzi del mondo politico e dove si tramano tante cospirazioni parlamentari. Da tre legislazioni sedeva alla Camera e portava con molta ostentazione le tre medaglie attaccate a una catena appariscente. Agli occhi dei suoi elettori e di qualche de putato poteva passare per un uomo di maniere eleganti e di gusti fini, a quelli di Franco no. Egli indovinò subito che quell' onorevole era un villano rifatto, ma in tanta scarsezza di persone da frequentare, non avendo da scegliere, si mostrò deferente per l'Orlando, il quale affettava di fronte a lui le stesse maniere che usava con i ministri scesi dal potere: maniere umili, inchinevoli, omaggio a un infortunio immeritato, a una grandezza decaduta, che poteva e doveva assurgere a nuovo splendore e a nuova potenza. L'avvocato non parlò a Franco del processo d'Alessio e neppure della candidatura del fratello, che aveva fatto una rivoluzione in paese; evitò d'intrattenerlo di cose noiose, atteggiandosi a consolatore di quell'esule volontario e divagatore di quel grande annoiato. E nelle prime sere o durante i caldi meriggi d'agosto, mentre erano seduti davanti al tavolino da giuoco, seppe anche perdere piccole somme, per non sgomentare il duca, ma poi incominciò a spennacchiarlo per bene, giocando abilmante e approfittando dell'indifferenza che poneva Franco in ogni cosa che faceva. E fu dopo una di quelle perdite che Franco vegliò lungamente, non perché vedesse diminuita molto la somma portatagli da Roberto e che era tutto ciò di cui poteva disporre, che di questo egli non si curava; ma per aver ricevuto una lettera dal Signorini. Franco aveva sperato che quella lettera potesse servirgli di arme per umiliare Velleda, ed era invece un inno alla signora, un tributo reso all'ingegno di quella gloria fiorentina, un omaggio alla donna infelice; che aveva saputo nobilmente portare la sventura. Il Signorini diceva che il nome del marito di Velleda era Crespi; ma che ella faceva bene a ripudiarlo e a portare quello del padre, per evitare le persecuzioni di quell'uomo abbietto, che scontava nella casa penale di Nisida una truffa. Prima di terminare la lettera, il giovane signore confessava a Franco che anche lui, come molti altri, aveva fatto la corte alla bella letterata, senza però ottener da lei nulla, perché a " Melusina " non si conosceva altra passione che l'arte; altro affetto che quello di suo padre e della sua bambina, rapitale dal marito. " Questo è quanto posso dirle della signora Velleda Bianchi, - concludeva il Signorini, - e se ella, nelle sue peregrinazioni in Sicilia, riesce a ottenere le buone grazie della piccola fata bianca; potrà dirsi veramente fortunato e abile più di me e degli amici miei. Dica alla indimenticabile Melusina che io sono fra i suoi amici più devoti e fra i più caldi ammiratori e che il suo ritorna a Firenze sarebbe una festa per me. " Ecco svanita una speranza! - disse il duca accendendo una sigaretta; - ma io non posso ne voglio rassegnarmi. Quell'uomo dagli imperiosi desiderj, che si dibatteva nell'impotenza di appagarli, appariva ben diverso dal consueto e i suoi freddi occhi si posavano irrequieti sulla lettera che aveva davanti, quasi quelle righe dovessero suggerirgli l'idea che cercava invano nella sua mente sognante perfidie, senza saperle preparare. Sono un inetto e porterò questo marchio d' inettezza tutta la vita. Ora Roberto sarà eletto deputato; se io mi fossi portato a Roma non avrei raccolto mille voti: eppure ero una potenza! E da deputato salirà sempre e sempre più si attaccherà a Velleda e sempre più ella insuperbirà della gloria di lui! Ah! è atroce la mia sorte; se non fosse ridicola. Prese la lettera e stava per farla in tanti pezzetti. ma si trattenne. Mi può sempre servire a qualcosa, - pensò, e la rinchiuse in un cassetto insieme con i danari. La vista dei biglietti di banca, molto diminuiti dalle perdite al giuoco, ricondusse il pensiero di lui al Purpura, all' Orlando, a tutti quei nuovi conoscenti di Castelvetrano e s'accorse che potevano essere altrettanti alleati per combattere reiezione di Roberto. Allora un sorriso cattivo gli sfiorò le labbra e capì che tutte le speranze di vedere una volta almeno umiliato suo fratello e afflitta Velleda, non erano perdute. Non fece un piano, perché era incapace d'idearlo, anche sotto l'impulso dell'invidia e del desiderio, ma si rimise, come tutti gli inetti, nelle braccia misericordiose del caso, e confortato dormì un lunghissimo sonno, che Saverio si guardò bene dall'interrompere. Era una domenica, una burrascosa giornata d' agosto. Il mare gonfiato dal vento di terra spingeva al largo le onde crestate di bianco per modo che guardando dalla spiaggia si vedeva una distesa verde su cui svolazzavano a stormi i gabbiani e in distanza una montagna nivea e fluttuante che si confondeva con la linea dell'orizzonte. La sabbia turbinava sulle rovine, sui palmizj, sulla villa, avvolgendo ogni cosa in una nube giallastra, di sinistro aspetto. I valori e i velieri ancorati nel piccolo porto alzavano e abbassavano le prue con moto continuo e disordinato, minacciando di urtarsi, e le alberature e g'li scafi cigolavano sinistramente. Alla villa erano alzati per tempo, nonostante la veglia prolungata, e chi avesse veduto Velleda e Roberto, senati alla tavola della colazione, con la piccola Maria nel mezzo, guardandosi sorridendo, non avrebbe mai supposto che da quei due giovani era stato poche ore prima tracciato un programma così serio di esistenza operosa. Parevano due giovani imposi occupati soltanto della loro felicità e della educazione della bambina, che sedeva in mezzo ad essi. Non c'era una nube sulla fronte liscia di Velleda, sulla quale scendevano i ricciolini dei brevi capelli; non un pensiero triste negli occhi grandi e mansueti di Roberto. Tutte e due sapevano che le lotte stavano per incominciare, che una esistenza di sacrifizj li aspettava, ma ormai avevano calcolato tutto e non provavano pentimento e si sentivano uniti nell'avvenire come nel passato; uniti sempre, e in questo consisteva la loro calma, la loro felicita. Oggi, Maria, - disse Velleda, - non puoi fare il bagno e neppure uscire; fuori non si sta ritti; leggerai, ti baloccherai con le bambole e se nel dopopranzo la burrasca continua, io ti racconterò una novella. Questa promessa teneva sempre buona la bambina, perché nessun libro procuravate mai tanto diletto guanto la narrazione di una novella immaginata da Velleda. la quale univa alla meravigliosa fantasia delle razze slave, una ricchezza di colorito tutta meridionale. Ed io pure ascolterò la novella, - disse Roberto, e starò attento quanto Maria. Io pure ho bisogno di passare il tempo. Tu scherzi, babbo, a te il tempo manca sempre. Lo zio Franco, invece, non sa mai che cosa farne. Dimmi, babbo, tutti i duchi sono così disoccupati? Chi ti ha detto che è duca? - domandò Roberto. Lui stesso; anzi mi ha promesso di lasciarmi il suo titolo, perché tu non vuoi farmi portare i tuoi. Il signor Franco cerca sempre di destare in Maria idee vane e ambiziose, - disse Velleda. - Io mi sono studiata si paralizzare quell'influenza, senza ricorrere a lei, ma vedo che la nostra piccina non vuoi dimenticare le parole dello zio; ed è bene che lei, signor Roberto, si valga della sua autorità per dimostrare a Maria che e inutile che si culli in quei pensieri, che ella si chiamerà sempre Maria Frangipani e che nessun titolo vale quanto un nome onorato. Roberto soffriva visibilmente; ripugnavagli di far nascere nel cuore di Maria la sfiducia contro Franco e capiva benissimo il delicato sentimento che aveva trattenuto Velleda dal parlargli di quella opera di corruzione del fratello; ma dinanzi al male che questi poteva recare alla sua bambina, non ebbe più esitazioni e disse, atti randola a sé dolcemente: Senti, Maria, tuo zio ha ricevuto una cattiva educazione; forse nessuno gli ha voluto veramente bene. Per questo egli non sa educare gli altri e non vuol bene a nessuno. Con te, egli si balocca come farebbe con un gingillo. Non gli prestare attenzione quando ti parla, ma non gli dimostrare disistima. È un infelice che va compatito e tollerato. Egli non può lasciarti proprio nulla; neppure quel titolo di cui si vanta e che è la sua sola ricchezza. Te lo dico io, che non saprei ingannarti, come non ti sa ingannare Velleda. Dovrei allontanarlo di qui, soltanto per la perfidia con cui cerca d'insinuarsi nell'animo tuo; ma ho compassione di lui e non lo faccio. Però invito te ad esser più ragionevole di lui e a non prestar fede a quello che ti dice. Se tu non lo facessi, io dovrei dirgli di partire, e lontano di qui sarebbe anche più abbandonato e infelice. Saprai essere forte contro le sue insinuazioni, Maria? Roberto aveva nella voce e nello sguardo quell'affascinante dono della persuasione, proprio degli apostoli, di coloro che parlano al cuore degli individui e delle masse, fascino indescrivibile che sfugge ali' analisi e che consiste forse nella grande armonia fra il pensiero e il sentimento. Maria subì il fascino delle parole e dello sguardo paterno e si gettò nelle braccia di Roberto, commossa. Egli la baciò affettuosamente e nell'alzarsi disse a bassa voce a Velleda: Ci sarà fatale, Franco? Ella non rispose. I suoi presentimenti erano sinistri, ma non voleva turbare la pace di quella grande anima, e i sibili del vento, la burrasca che si scatenava sulla villa; le parvero in quel momento i prodromi dell'altra che sentiva accumulare sulle loro teste.

Me ne accorgo, - rispose ella abbassando le lunghe palpebre con una mossa civettuola della tosta. - Volete che vi faccia un complimento? Vi siete portato bene con lei in questi ultimi giorni: ora vi temerà meno. No, Costanza, mi teme lo stesso. Tutte le mie gite a Castelvetrano sono state inutili. Sappiate aver pazienza, - diss'ella, - chi sa aspettare vince sempre: vinceremo tutti e due, non dubitate. Senti, - disse il duca; cui balenò un pensiero malvagio, - lei vuoi far eleggere deputato mio fratello e deve aver le sue mire. Le conoscete? - domandò Costanza. Le indovino. Qui tutti son venuti a sapere molte cose sul suo passato; molte cose brutte. Ella sente che non è più terreno per lei e si vuoi far condurre a Roma; capisci ora? E Maria? - domandò la contadina impallidendo. Maria andrebbe con loro: non è forse il preteste col quale ella copre il suo amore? E io? Tu rimarrai a Selinunte; ti lasceranno a guardia della villa; Velleda non condurrà nessuno di qui per tema che parli. Signorino, - disse la donna stringendo i denti, signorino non fate eleggere il padrone. Io non posso far nulla, Costanza, ma tu puoi far molto. Fá capire agli operai che Roberto, una volta a Roma, avrà altre mire e lo scopo della sua vita non sarà più la prosperità dello stabilimento. Lontano lui, tutto andrà a rotoli qui e in capo a poco tempo dovranno chiudere. Ho capito, - disse Costanza, lasciate fare a me, signorino. Quella perfida non porterà a Roma la cara figlia mia! Queste parole furono pronunziate con un accento di così profonda sicurezza, che Franco trasalì di gioia. Senti, Costanza, ti voglio rivelare una cosa, disse il duca prendendola per la manica e attirandola a sé. - Sai, quella superba, quella che fa la padrona in casa di mio fratello, ha il marito in galera per ladro! Oh! Gesù mio! - fece la donna coprendosi la faccia. Il duca aveva calcolato giustamente l'effetto di quelle parole. Per il popolo siciliano, che al pari di molti altri popoli d'Italia, ha tanta indulgenza per i colpevoli di delitti di sangue, il furto è il più infamante di ogni reato, perché non è scusato dal risentimento o dalla vendetta. Gesù mio! - esclamò ella, - la moglie di un ladro! Si, di un ladro, - ripetè Franco per imprimerle bene nella mente quelle parole. Quella rivelazione fece esultare Costanza. Ah! ora avrebbe preso tutte le rivincite possibili, ora avrebbe sfogato liberamente tutto l'odio contro di lei! Franco vide che ella stava per uscir di camera e la richiamò per raccomandarle di non dire che la notizia veniva da lui. Oh! non dubitate! - esclamò ella, - voi non sarete compromesso, ma in cambio del piacere che mi procurate, io ve la darò nelle braccio; fidatevi di me! E mentre il duca rimaneva a letto fidente nella promessa di Costanza, questa scendeva sul piazzale dello stabilimento in cerca di Giovanni, del suo alleato. Ella sapeva comporsi in volto così indifferente che non pareva più la stessa di pochi istanti prima, e Roberto che la vide credè che la curiosità sola di guardare i carrozzoni della tramvia elettrica l'avesse attratta in quel luogo. Ella girava e rigirava intorno ad essi sperando che dal portone aperto dell'officina ove si fabbricavano i fusti, Giovanni vedesse la smagliante sottana rossa di lei; ed egli la vide infatti, mentre con le braccia nude e le maniche rovesciate batteva col martello pesante i cerchi di ferro intorno alle doghe, e dinanzi a lui le fiamme del forno s'inalzavano rossastre facendo apparir pallidi i raggi del sole, che dal portone spalancato entravano nell'officina. L'operaio finse di non aver veduto Costanza e continuò a battere finché il cerchio giunto al punto più stretto del fusto scivolò giù da sé. Dopo aver dato un colpo al nuovo cerchio più stretto, Giovanni posò il martello e asciugandosi con il palmo della mano la fronte grondante sudore, uscì nel piazzale dirigendosi verso una delle fontane. Costanza avealo atteso e si trovò sul suo passaggio. Senza guardarlo, ella disse : Oggi nella grotta. Dirai ai compagni che ti trattieni a fare il bagno. Giovanni fece un cenno lieve col capo per dirle che aveva capito e si accostò alla fontana. Costanza ritornò in camera di Franco e accostatesi al letto gli prese una mano portandosela alle labbra: Che siate benedetto! - disse piangendo di gioia

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

. - Signore, - disse l'uomo tremante, abbassando la testa. - Signore, preparati a ricevere una funesta notizia. - Parla. Hamid non ha bisogno di prepararsi. Nulla, di quel che avviene sulla terra, può scuoterlo. Che la volontà di Allah sia fatta, e lode al suo profeta! - Signore, - aggiunse il commesso - l'uomo in cui tu avevi riposto tutta la tua fiducia, è fuggito stanotte sopra una nave montata dagli infedeli, e si dice che abbia vuotato i tuoi scrigni. - Le merci che recheranno le caro- vane che traversano i deserti, i tesori di cui sono carichi i miei bastimenti, riempi- ranno gli scrigni. Va', e attendi al tuo la- voro. - Quel giorno Hamid andò al bazar, come al solito, e la gente che lo guardava cu- riosa non scoprì sulla sua fronte una ruga di più. Nella notte, mentre egli giaceva sugli spessi tappeti della sua camera, vide en- trare la solita vecchia lacera e sporca. - Che vuoi? - le domandò Hamid. - Sono la Sventura, non mi ricono- sci? Ho preso dimora qui, in casa tua. - Vattene! - Tu dovrai chinare il capo da- vanti a me. - Vattene, strega! Io non chino il capo altro che dinanzi ai decreti di Allah, che adoro. Vattene! - La Sventura sedè in un cantuccio e si accomodò dietro le spalle un guanciale. Hamid si alzò e brandì una scimi- tarra. Alla fioca luce di una lampada rossa- stra egli vide la scimitarra entrare nelle carni della vecchia, ma quando la cavò fuori non era macchiata di sangue. La vecchia fece una risataccia. - Le tue armi sono inutili; - disse - esse non possono colpirmi. Ora lasciami riposare in pace e prega il tuo Dio che riposi lungamente. - Dopo pochi istanti, la vecchia, col capo sorretto dal guanciale, livida ed este- nuata, dormiva e pareva morta. Hamid chiuse a chiave la stanza, e la notte stessa ordinò ai suoi schiavi che ne murassero ogni uscita. Essi ubbidirono ai suoi comandi, e in poche ore la stanza era murata. La mattina seguente, il solito com- messo bussò presto alla porta della nuova camera del suo padrone. - Signore, - disse l'uomo, tremante - signore, preparati a ricevere una noti- zia funesta. - Parla. Hamid non trema. - Stamani un temporale ha fatto sommergere tre dei tuoi bastimenti, che erano in vista del porto. Merci e uomini, tutto è perito. - Farò costruire altri bastimenti. Che la volontà di Allah sia fatta! - Quel giorno Hamid andò, come al so- lito, al bazar, e la gente curiosa, guardan- dolo, si accorse che il suo volto non rive- lava nessuna commozione. Era da poco seduto nel suo negozio, quando comparve la solita vecchia, strac- ciata e sporca. - Vattene! - le disse Hamid. - I tuoi schiavi, murando la camera, mi hanno destata col rumore delle pale e delle pialle. Non posso stare in ozio, te ne sei già accorto. - Vattene! Io non mi sono accorto di nulla. La volontà di Allah si compie, e non la tua! Concedimi l'ospitalità,lasciami dor- mire sotto il tuo tetto! - Vattene! - ripetè Hamid. - Te ne pentirai, - disse la vecchia minacciandolo con una mano nell'uscire. Hamid la salutò con un sogghigno. Ogni mattina Hamid era destato dal solito commesso. - Un bastimento carico di spezie è bruciato nel porto di Genova. - Lascia che la volontà di Allah sia fatta! - La gente lo guardava sorpresa, senza osare fargli condoglianze. Appena era seduto, gli si presentava la solita vecchia. - Sono in giro per il mondo e col- pisco tutto quello che ti appartiene. Hai sentito le notizie? – Ma Hamid la cacciava tutte le volte. Un giorno erano le sue carovane sep- pellite nella sabbia; un altro le sue terre devastate dalle locuste; poi i suoi magaz- zini distrutti dal fuoco, ed altre simili sventure. Ma Hamid il superbo, continuava a portare alta la testa, a non degnare di uno sguardo la gente, a sogghignare alla Sven- tura. Soltanto Hamid aveva maggior cura del suo palazzo. Gli schiavi dovevano darsi il turno per vegliare la notte; le donne di Fatima non dovevano abbandonarla un minuto, pena la vita, ed egli stesso stava più di frequente nelle stanze della figlia e faceva sforzi inauditi affinchè le notizie delle sue sventure non giungessero alle orecchie di lei. Una mattina le donne di Fatima mandarono a destare in fretta il padrone. - Tua figlia è sparita; abbiamo tro- vato la camera vuota, i suoi gioielli, le sue vesti, tutto è sparito con lei. - La fiera testa di Hamid s'incurvò a quella notizia e una lacrima gli cadde sulla barba. Quel giorno non andò al bazar; quel giorno non ebbe la forza di moversi, e nel suo dolore neppur si rammentò della mi- naccia che aveva fatta alle donne di Fatima. Verso sera entrò la Sventura e gli si mise accanto. - Perché non mi scacci? - gli disse. - I tuoi tesori sono inghiottiti dal mare, sepolti nelle sabbie, distrutti dal fuoco; i tuoi figli, tua moglie sono morti; Fatima, rubata dai corsari, sarà a quest'ora ven- duta su un pubblico mercato come schiava; Fatima sarà battuta da un padrone duro come te.... perchè non mi scacci? - Il mercante era scivolato ginocchioni. - Pietà! - diceva - pietà! non per me, ma per Fatima, per la figlia mia. - La Sventura lo respinse sogghignando, e sparì in un attimo com'era venuta. Hamid non si mosse da quella stanza; Hamid non aveva più forza. Gli schiavi, temendo la sua collera, fuggirono a uno a uno; il suo palazzo rimase aperto ai ladri, aperto alle intemperie, aperto agli animali vaganti. I primi lo saccheggiarono; il vento, il sole, la pioggia vi entrarono schiantando, bruciando, putrefacendo i legnami e gli ornamenti preziosi; gli animali vi presero stanza. Alcuni anni dopo, quando Fatima, di- ventata libera, volle sapere quel che era avvenuto di suo padre e volle tornare al palazzo paterno, lo trovò devastato e po- polato di immondi animali di ogni specie. Il cadavere di Hamid, intatto, era an- cora nella camera dove l’aveva colpito la notizia tremenda, e il suo capo, umiliato dalla Sventura, toccava la terra.

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