Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassando

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Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

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Boito, Camillo 2 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Nell’agitazione il livello dell’arte si solleva via, via; ma quando mancano i confronti, le occasioni al fare, le discussioni energiche e aperte, l’orizzonte si va di mano in mano abbassando, e non c’è nè splendore di tradizioni passate, nè felicità di ambiente ideale che valga a tirarlo in su.

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Lo si vede, oltre che in parecchi ritratti, anche in una sua testa di fanciullino, che guarda dal sotto in su la mamma abbassando un po’il capo, tra l’affettuoso e l’ostinatello; lo si vede in una testa di cavaliere, coperta di un cappellone nero con una interminabile piuma bianca, il qual cavaliere guarda con disinvolto amore al profilo della giovane, che tiene a braccetto.

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

L'una si avanzò placidamente verso il rettore, che prese un aspetto compunto, abbassando gli occhi e giungendo le mani all'altezza del petto; l'altra rimase all'uscio e mi piantò gli occhi addosso. Era la fanciulla bionda, che avevo vista nell'atrio. A un tratto si staccò dalla soglia, e con tre o quattro passi leggeri e lenti mi venne accanto; e sempre mi guardava fisso, come se volesse frugarmi dentro nell'anima o ricercare un segreto nelle mie viscere profonde. Sentivo sulla mia faccia il suo alito. La sua compagna, che aveva finito il proprio discorsetto, la chiamò due volte, e alla fine, presala dolcemente per un braccio, la condusse fuori. Io restai sopraffatto da un senso arcano, che somigliava alla paura. Anche il rettore era rimasto un poco sopra pensiero. Ci sedemmo al fuoco. Desideravo sapere qualcosa della ragazza bionda; ma il canonico, rientrato già nel torrente de' suoi ricordi giovanili, non lasciava posto a intromettervi una parola, e s'io tentavo di opporre un intoppo alla sua straripante eloquenza, egli lo spazzava via senza neanche darsene per inteso. A un certo punto, giovandomi astutamente di una pausa, dissi: - Reverendo, mi cavi una curiosità. Chi è mai quella fanciulla bionda, ch'è venuta dianzi? Il prete alzò lo sguardo al soffitto. - Ha certi occhi, che attraggono e che spaventano. È una suora? - Fece segno di no, e tacque. - L'ho vista nell'atrio sola, in mezzo alla neve. È qui da un pezzo? - Da tre settimane. Ci vorrebbe un miracolo, e lo invoco con tutta la forza dell'anima mia. E cominciò allora a parlare dei miracoli della immagine santa. L'estate scorsa, mentre c'erano al Santuario quattromila persone, un contadino ricuperò la favella, perduta da quindici anni; un falegname paralitico si rizzò in piedi, lesto come un daino; una donna, la quale s'era fratturata una gamba, in due giorni guarì. Dai prodigi contemporanei risalì via via agli antichissimi, e nel discorrerne assumeva una espressione ispirata, tanta era la schietta fede che traluceva da quegli occhi piccini. Ma interruppe la litania per dire: - Già si sa, ella, caro signor mio, è un poco incredulo. Debolezza dei tempi! Nella mia gioventù anch'io avevo, come il buon Gigi, il cervello storto; ma s'ella rimanesse alcuni mesi su questo monte, in mezzo alle nubi, accanto alla effigie dipinta da san Luca, e fosse testimonio delle effusioni di mille e mille disgraziati, che dalle valli, dai paesi lontani salgono a piedi a invocare l'aiuto del cielo, e vedesse le lagrime e udisse i sospiri, e notasse poi la espressione giuliva dei loro volti; s'ella sapesse le consolazioni, le santificazioni segrete, e come la fede rammollisce il macigno, purifica le lordure, rialza e nobilita l'abbiezione più vile, ella, stupito dai miracoli operati sui cuori, crederebbe agevolmente agli altri materiali ed esterni. Salvare un'anima è cosa mille volte più ardua che racconciare una gamba o ridare il moto ai nervi e ai muscoli di membra intorpidite. Vedesse i voti di cui è piena la chiesa! Se non fosse questo freddo, vorrei condurvela subito. - Magari! - Andiamo dunque.

SI CONTA E SI RACCONTA - Fiabe Minime

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

E il ragazzo cominciava a far l'atto di zappare, alzando e abbassando le braccia, quasi avesse in mano il manico dell'arnese di cui portava il nome: e le zolle gli si sollevavano, gli si rivoltavano davanti meglio assai di come sarebbero state sollevate e rivoltate dalle zappe di una dozzina di uomini. In meno di un'ora, il campo era bell'e preparato. La gente si meravigliava. - Compare, avete lavorato tutta la nottata? - Badate ai fatti vostri. Il seminato era già maturo. Le spighe, ripiene di chicchi di grano, piegavano la testa. - Compare, avete bisogno di mietitori? - Grazie! Faccio da me. Il contadino, una mattina, si sedeva su un gran sasso davanti a la porta della sua rustica casetta, e gridava:- Falce, all'opra! Falce! E l'altro ragazzo cominciava a far l'atto di mietere, movendo le braccia quasi avesse in pugno il manico dell'arnese di cui portava il nome; e il seminato gli si abbatteva davanti, di qua e di là, meglio assai di come sarebbe potuto accadere per opera di una dozzina di mietitori. La gente si meravigliava: - Compare, avete lavorato tutta la nottata? - Badate ai fatti vostri. Come mai quell'uomo riusciva a far tutto da sé? I due ragazzi non potevano dargli nessuna mano di aiuto, anche perché erano gracili e delicati da non sembrare contadini. La cosa giunse all'orecchio del Re che diè ordine gli conducessero davanti quell'uomo e i suoi due figli. - Dimmi (e non mentire; ci va della tua testa!) in che modo tu riesci a coltivare il tuo campo da te? - Maestà, con zappa e falce si fa tutto in campagna. Ma tu, a quel che ne so, non hai né zappa né falce. Questi è Zappa, e questi è Falce. E indicò i due ragazzi, accarezzandone con le mani le teste. Se :non che, sbadatamente, indicò Falce per Zappa e Zappa per Falce. Il Re si sentì canzonato. Pure frenando lo sdegno domandò: - E come fai per adoperarle? Dico: Zappa, all'opra! Zappa! Dico: Falce, all'opra! Falce! - Bene. Tu intanto vai in carcere finché non avrò fatto la prova. I ragazzi li tengo qui, nel palazzo reale. Il contadino si lasciò condurre in carcere, come se nulla fosse stato; e i ragazzi si misero a fare il chiasso col Reuccio e con la Reginotta, che avevano la stessa età di loro. Il Re una mattina fece scendere in giardino il Reuccio, la Reginotta e i due fratelli Zappa e Falce, che il Reuccio e la Reginotta volevano sempre con loro. Il Re disse a questi: - Attenti! Vedrete un portento! Zappa, all'opra! Zappa! Falce, all'opra, Falce! Come se avesse parlato al muro! Falce non si mosse; Zappa non voltò neppure la testa! Il Reuccio e la Reginotta si misero a ridere vedendo la faccia delusa del Re. Uno dei Ministri, per ordine del Re, andò dai contadino che se ne stava sereno in carcere, in attesa di essere liberato. - Sua Maestà ha ordinato ai tuoi figli: Zappa, all'opra! Zappa! Falce, all'opra! Falce! Ed essi son rimasti tranquilli come se non avesse parlato a loro. - Gli ordini devo darli io. Mi faccia sapere Sua Maestà se ha bisogno di Zappa o di Falce, ed io lo servirò subito. - Di Falce. E, intanto, ingannato dall'indicazione sbagliata del contadino, aveva messo Zappa davanti a una stesa di fieno da mietere. Si udì dal carcere il grido: Falce, all'opra! Falce! E che si vide? Zappa rimase inerte, con le braccia penzoloni, e Falce che agitava le sue e abbatteva nel giardino reale tutto quel che gli si presentava davanti: fiori, piante, alberetti, alberi, ogni cosa; una vera distruzione! Il Reuccio e la Reginotta scapparono, gridando, atterriti. Il Re credé che ciò fosse avvenuto per malignità del contadino, e gli mandò a dire con uno dei Ministri: - Domani sarai impiccato. - Grazie tante! - rispose il contadino. - La prendi in burletta? Domani sarai impiccato. - Eccellenza, quel che fa Sua Maestà è sempre ben fatto. Per ciò ripeto: Grazie tante! - Dei figli non ti dài pensiero? Avessero almeno la mamma! Tua moglie è morta da un pezzo? - Non ho avuto mai moglie, Eccellenza! - E quei due ragazzi dunque? ... - Li ho trovati in una cesta dietro l'uscio. Chi sa di chi sono? Se Sua Maestà li vuole, glieli regalo. Il Re disse: - Costui è matto! E ordinò che lo mettessero in libertà. - Prima di uscire di qui, devo parlare col Re. - Verrai al palazzo reale. - Prima di uscire di qui, devo parlare col Re. Vista l'ostinatezza del contadino, il Re andò al carcere. Che poteva voler dirgli quel matto? - Maestà, quei due ragazzi non sono uomini vivi. Il Re si mise a ridere. - Ecco questi due oggettini di argento: una zappa e una falce. Per farvi obbedire da essi, prima di dare un ordine: "Zappa, all'opra! Zappa! Falce, all'opra! Falce!" bisogna prendere in mano uno di questi arnesi: se no, quelli non si muovono. Il Re, credendo che tutto questo fosse una stranezza da matto, si mise a ridere più forte. - E chi li ha fatti quei fantocci, giacché non sono uomini vivi? - Li ha fatti il Mago, mio padrone. Egli è morto e son rimasti a me. Il Re allora volle far la prova. Mandò a chiamare Zappa e Falce, e ordinò: - Zappa, all'opra! Zappa! Zappa non si mosse. - Falce, all'opra! Falce! Falce non si mosse. Presa poi in mano la zappettina d'argento, tornò ad ordinare: - Zappa, all'opra! Zappa! E fu una meraviglia. Il ragazzo cominciò ad alzare e abbassare le braccia quasi avesse in mano il manico dell'arnese di cui portava il nome, e in men che non si dica il suolo di quella stanza fu sossopra. Il Re non sapeva dove riguardarsi i piedi. - E per farlo smettere? - domandò. - Lasciate andare la zappetta d'argento. Infatti, tutt'a un tratto, Zappa cessò di lavorare. Non occorse far la prova con Falce. Visto che quel contadino non era un matto, il Re gli disse: - Chiedi quel che vuoi; e ti sarà concesso. - Non chiedo niente. Me ne vado dal mio padrone. Si allungò, ondeggiò quasi fosse stato di fumo e dileguò dalla grata del finestrino del carcere. Il Re si convinse che il Mago era lui, il contadino. E tornato a palazzo reale fece un decreto: - Chi vuole Zappa, chi vuole Falce, faccia richiesta al Re: gli saranno concessi. Voleva che coloro che avevano campi da zappare e da falciare godessero di quel benefizio. Da principio la gente diffidò, quantunque vedesse coi propri occhi il portentoso lavoro di Zappa e di Falce. Poi uno, poi due, poi dieci, venti proprietari di campi si decisero; si contendevano Zappa, si contendevano Falce, secondo le stagioni. E i poveri zappatori, i poveri mietitori trovavano a stento da lavorare perché Zappa e Falce facevano meglio e più presto di loro. Nacquero dei tumulti. - Morte a Zappa! Morte a Falce! E una mattina, cerca e chiama: - Zappa, o Zappa! Falce, o Falce! - i due fratelli erano spariti, non si seppe mai come, né dove. Ma la fiaba dice: Zappa e Falce torneranno Zapperanno e falceranno; Falceranno, zapperanno Tutto l'anno!

GIACINTA

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Capuana, Luigi 3 occorrenze

- rispose Giacinta, abbassando il capo. - Ecco, dunque! Sposerai lui! - Né te, né lui. - E tu m'ami? - Con tutta l'anima! ... Ma è un'altra cosa, Dio mio! - Chi ti capisce? Giacinta fece una mossa di dispetto. - Mi tormenti per capriccio! Non può essere altrimenti. Tu sai che io non mento - ella aggiunse; - ti ho detto che t'amo; sei il solo a cui l'abbia detto! Non lo dirò a un altro, sta sicuro! ... Ma t'amo a modo mio ... Lasciati amare cosí; non tormentarmi! A quella dolcezza di voce che contrastava coll'altiera fierezza degli sguardi, Andrea, un po' rabbonito, rispose: - E l'avvenire? Giacinta stese un braccio sul leggío, vi posò la testa in atto di abbandono e chiuse gli occhi un istante. Andrea l'osservava, ansioso, con le labbra inaridite. - L'avvenire? - ella disse, come destatasi da un breve sonno. - L'avvenire è ... che t'amerò sempre! ... Che non posso, intendi? né voglio amare altro che te! Ma è appunto per questo, intendi? che non saremo mai sposi! ... Lasciati amare cosí, a modo mio. Non tormentarmi! Andrea si sentiva vincere da quella voce carezzevole, insinuante. Ma che significavano tali parole in bocca a una ragazza da cui appena gli era stato permesso, di furto, qualche bacio sulle dita? Non riusciva a capirlo. - E dopo? - insisteva. Giacinta si era fermata a riflettere. - Dopo? ... Oh, no! no! - poi disse, tristamente. - È impossibile; no! L'uomo non è mai generoso. Dimenticare, perdonare non è per lui ... Verrebbe un giorno, arriverebbe un momento che anche tu saresti cosí vile ... E tacque coprendosi la faccia con le mani. Un tremito di ribrezzo le correva per tutto il corpo. - No, è impossibile! ... Tu sai ... Esitava. Evidentemente il parlare le costava un grande sforzo. Andrea le fece cenno di no. - Non mentire, tu lo sai! - replicò con dignitosa alterigia. - In questo punto non saprei tollerare nemmeno la tua pietà: comincerei a disamarti. - T'amo! - rispose Andrea - T'amerò sempre! So dimenticare; l'hai già veduto. Perdonare? ... Non è il caso. - Non m'illudi - lo interruppe Giacinta. - Ti vo' troppo bene da mettermi a repentaglio di doverti odiare o disprezzare, che sarebbe anche peggio. Senti, Andrea; non fare piú scene; te ne supplico! Non far comprendere alla gente che tu sii per me qualcosa piú degli altri ... E se ti pesa l'essere amato a modo mio, se non hai piú la forza o il coraggio di continuare ad amarmi ... lasciami in pace; sarà quel che sarà! ... Che posso dirti di piú? - Ma io t'amo tanto! Giacinta, commossa, abbandonò la mano in quelle di Andrea. - Già, ad una spiegazione dovevamo venirci. Ti vedevo, da qualche tempo, cosí irrequieto, cosí smanioso ... - Come non esserlo? - Ora non piú, è vero? Avrai fede in me, sarai prudente, non t'adombrerai di nulla; è vero? Sono un po' diversa dalle altre donne; forse son fatta male. Non è colpa mia ... Sí, son fatta male! Me ne accorgo ... Ah se tu sapessi quello che ho sofferto! ... Ma non sono cattiva. Orgogliosa, anche troppo. L'orgoglio è il mio coraggio. - E, per l'avvenire? - tornò a ripetere Andrea. - Oh! - esclamò Giacinta. - Vuoi dunque strapparmela per forza la terribile parola? ... Vuoi dunque ... Tentò d'alzarsi; ma un lembo della veste, impigliato sotto il piede dello sgabello, la ritenne. Allora, chinatasi per scostare lo sgabello e nascondendo con quel pretesto il suo imbarazzo: - Ebbene - disse - l'uomo del mio cuore potrà, forse, un giorno ... diventare il mio ... amante; marito mio, no; mai! E si levò, strappando la veste. Andrea, visto rientrare il commendatore Savani con la signora Marulli, gli andò incontro: - Mi aveva detto di aspettarla! ... Eccomi qui. - Ah! ... Mi rammento - rispose il commendatore, prendendogli il braccio - Venite. Buona notte, Teresa. La signora Marulli attese che fossero usciti dal salotto; poi, con una di quelle sue occhiate che dicevano tanto, le gridò sotto voce: - Grulla! - Mamma! - rispose Giacinta sdegnata. - Che c'è? - domandava il signor Marulli apparso sull'uscio. - C'è ... che tua figlia è pazza! - rispose la signora Teresa, passando con tanta furia da dare appena tempo al marito di tirarsi da parte. Giacinta con le braccia tese in giú irrigidite, coi pugni stretti, era diventata bianca come un cencio lavato. - Che vuol dire? - tornò a domandare il signor Marulli, interdetto. - Nulla, babbo - rispose Giacinta frenando a stento le lagrime - Tu lo sai bene ... la mamma! E si sforzava di sorridere.

- esclamò il dottore abbassando la voce. - Perché? - Debbo dirglielo? ... È una persona comune, quasi volgare ... - M'ama! ... Mi ha amato! - si corresse Giacinta, tristamente. Quelle due inflessioni di voce colpirono il dottore. - È una ragione, ne convengo. Però, dopo tutto lei sentirà, di quando in quando, un'aspirazione verso qualche cosa di piú elevato; la sente, ne son sicuro. - Amando, la persona amata ci apparisce unicamente quale noi ce la foggiamo; l'ho osservato un po' negli altri, un po' in me stessa. Poi, le circostanze modificano tutto. Le piccole qualità possono valere piú delle grandi; i difetti diventare un merito. Da che cosa lei crede che dipenda il predominio di lui sul mio cuore? Quasi unicamente da quella sua mitezza di carattere, da quella sua bontà che gli altri, forse, chiamano debolezza. Mi amava diversamente da tutti, compatendomi ... E gli ho immolato ogni cosa, e n'ho fatto lo scopo della mia vita! ... Il disinganno mi ucciderebbe. Già ... mi sento colpita. Il dottore rimaneva indeciso. Certe inflessioni, certe sfumature dell'accento e della voce di lei, alcuni rapidi movimenti delle labbra e degli occhi gli avevano rivelato assai piú che le parole non dicessero. - Vi è un solo rimedio - rispose. - Viaggi. - Mi faccia dormire; non le chieggo altro! Follini cavò di tasca il portafogli, scrisse la sua ricetta e la posò sul tavolino. - Un cucchiaio, prima d'andare letto ... Oh, la cattiva bambina! E si mise a fare una carezza all'Adelina che, entrata di corsa, scalmanata, s'era afferrata al collo della mamma coprendola di baci. - Non si dice nulla al dottore? - la rimproverava la mamma. La bambina gli fece una smorfietta, ma un colpo di tosse la interruppe. - Badi: la stagione è pericolosa. La difterite infierisce. Giacinta trasalí e strinse, istintivamente, la figliolina tra le braccia: - È un po' calda, è vero? ... Non mi faccia paura. La osservava tutta, passandole le mani sul viso, prendendola per le manine, interrogando con occhio inquieto ora la bambina, ora il dottore: - Le tasti il polso. Adelina stava ferma, seria seria, accigliata, sospettosa di quella mano del dottore. - C'è un po' di febbre ... La cattiva signorina anderà a letto: capisce? E starà tranquilla, altrimenti la mamma non le vorrà piú bene ... - Se lo avessi saputo! - esclamò Giacinta, impallidendo. - Ier sera la trattenni fuori fino a tardi. Aveva freddo; voleva tornarsene a casa ... Ma non è nulla, spero ... Mi dica che non è nulla; mi rassicuri! - Speriamolo! - rispose il dottore, impensierito di certe macchie violette della faccia di Adelina.

Proprio in quel momento, Giacinta si era messa a sorridere, soddisfatta, abbassando le palpebre, scotendo lentamente il capo in segno di conferma, intanto che il Ranzelli, eretto sulla vita, impettito, scuro in viso, mordevasi i baffi e si guardava, per darsi un contegno, le mani. Alzando gli occhi, ella scorse in un angolo sua madre che le gettava, di sfuggita, certe occhiate penetranti come un succhiello. - La mamma ci osserva - disse al capitano. - Tanto meglio - rispose questi, guardando dalla parte dove la signora Marulli, col vestito nero accollato, orlato da un goletto bianchissimo, a cartocci, che dava risalto alla sua bella testa di donna matura, pareva ragionasse fitto fitto colla signora Villa, senza neppure badare ai continui dinieghi di questa. Poco dopo, Giacinta diceva al capitano: - Gerace ci mangia con gli occhi. - Peggio per lui! Questa volta il Ranzelli non si degnò di voltarsi. Giacinta, però, continuò a guardare laggiú, verso il pianoforte. Da un pezzetto Andrea Gerace non prestava piú orecchio alla signora Maiocchi che, seduta dirimpetto a lui, pareva gli parlasse di qualche cosa interessante, facendo ballare i nastri, i fiori, i tralci della sua enorme pettinatura. Egli tormentava, ora con una mano ora coll'altra, la punta dei suoi baffettini incipienti e aveva negli occhi tutto il dispetto per quella eterna conversazione tra il capitano e Giacinta. - E i dieci minuti? - diceva infatti Giacinta, con aria di rimprovero, al Ranzelli. - Per me non sono ancora passati ... , se non la infastidisco. Giacinta gli accennò di continuare, col ventaglio di tartaruga a cui teneva appoggiata la faccia; e riprese a fissare Gerace, che, pallido, cogli occhi intorbidati, non ne perdeva il piú piccolo movimento. La signora Maiocchi, nella foga del ragionare, non gli aveva badato; ma quando gli vide rizzare improvvisamente il capo, si voltò subito indietro agitando il pensile giardino della sua testa, per vedere che cosa accadesse. Il Ranzelli, accostata un po' piú la seggiola alla poltrona, parlava con grande efficacia, curvo, accompagnando le parole con brevi gesti nervosi; e Giacinta, a fronte bassa, mordendo la punta del ventaglino, stava ad ascoltarlo immobile, il seno ansante, infiammata nel viso. - Ma dunque questa Giacinta vi fa ammattire tutti! La signora Maiocchi prese stizzosamente una delle tante partiture ammonticchiate sul pianoforte e cominciò a sfogliarla. - Volete un consiglio? - soggiunse, rimettendo la partitura a posto. - Lasciate andare; quella ragazza è impastata di ghiaccio. - Il capitano sta per scioglierlo! - rispose Andrea. - Non vi credevo cosí sciocco - disse la Maiocchi, levandosi a sedere. Nello stesso punto Giacinta si era alzata dalla poltrona. - Poesia! Poesia! - mormorava, fissando il capitano negli occhi. E si stirava graziosamente con un fare di persona stanca; ma il capitano, indovinando sotto quella sonnolente indifferenza la commozione vibrante ancora nei delicati nervi di lei, pensava un po' mortificato: - Strana ragazza! - Insomma? ... - le domandò tutt'a un tratto. E siccome a questa insistenza Giacinta non poté trattenere un sorriso, il Ranzelli, per ricambio, voleva darle una stretta di mano. - Oh, no! - ella disse, avvedendosi dell'abbaglio di lui. Ma non poté aggiungere altro, sotto tanti sguardi rivolti curiosamente su di loro. Gli fece un piccolo inchino con la testa, e andò incontro al padre che rientrava dalla stanza da giuoco discutendo, col signor Rossi e il cavaliere Clerici, l'ultima partita di tressette. Il Signor Marulli voleva giustificare, a tutti i costi, una giocata andatagli male. - Babbo, devi aver torto - gli disse Giacinta, sforzandosi di parer di buon umore. - Ha perduto, è vero cavaliere? - Come sempre - rispose Clerici. Il Signor Marulli protestava. Ranzelli intanto, rimasto a riflettere sulle ultime parole di Giacinta, si arrabbattava colle dita contro un bottone della divisa che stentava a entrare in un occhiello. Poi, vedendo passare il commendatore Savani scappato da un piccolo crocchio di persone con le quali era stato lungamente a discorrere, gli si accostò, dicendo: - Buoni affari, commendatore? - Ah! gli azionisti son piú noiosi delle mosche - rispose Savani. - Il miele dei dividendi li attira! - aggiunse il Ratti salutandolo e ammiccando malignamente al capitano e alla Maiocchi la quale aveva alzato la testa lasciando di parlare al cavaliere Mochi in un orecchio. Questi, con la lente all'occhio sinistro, senza smettere di osservare le fotografie del grande album aperto sul tavolino, rispondeva alla signora Maiocchi: - V'ingannate, non mi riguarda. - Andate là! Come antico cugino della mamma, dovrebbe interessarvi. E dondolava il capo affermativamente, benché Mochi le dicesse: - Niente affatto! Quella parentela costava troppo, allora; e non valeva quel che costava. Oh! io sono sempre economo in vita mia. - Sia pure! E la signora Maiocchi rideva, ma non pareva ben persuasa. Nel centro del salotto, attorno alla signora Rossi, alla Gina, alla signora Clerici e alla signora Mazzi che si faceva sempre vento indolentemente, la conversazione era diventata animatissima. - Che pazzerellone quel Ratti! - Non c'era altri che lui per rallegrare la brigata! Infatti ridevano tutti. Giacinta, in piedi, a braccio della Gina che aveva ceduto il suo posto alla signora Mazzi, non perdeva di vista Gerace. Egli picchiava leggermente con un dito sopra un tasto del pianoforte, mordendosi il labbro, gli occhi rivolti al soffitto; e quella nota, sorda e continua, irritava Giacinta, benché il rumore della conversazione la facesse appena avvertire dagli altri. Ogni battuta era per lei una puntura di spillo. Finalmente non ne poté piú! Svincolatasi dal braccio della Gina, si fece largo colla mano fra il conte Grippa e il Porati, e fermatasi a pochi passi dal pianoforte: - Dio mio, signor Andrea! - gli disse. - Non ha altro da suonare? - Musica del cuore! - esclamò la signora Maiocchi. E vedendo che gli altri ridevano di quella spiritosaggine buttata quasi in viso a Giacinta, si ringalluzzí tutta. Gerace, sorridendo impacciatamente, erasi già scostato dal pianoforte. - Musica del cuore! - ripeté la signora Maiocchi. - Ton! Ton! Ton! ... Cotesta musica la faccio anch'io che non so suonare nemmen le campane. Ecco qui! E il Ratti si mise a pestare all'impazzata sui tasti, lavorando furiosamente il pedale. I bassi muggivano come tori feriti; gli acuti stridevano con un miagolio indiavolato. - Bravo! Bravo! Il conte Grippa cominciò a batter le mani il primo, sgangherandosi la bocca dalle risa. - Bravo! ... Benissimo! Tutti gli fecero coro. Quella grassona della signora Mazzi, a cui il gran ridere dava il convulso, si aggravava con tutta la sua persona sopra una spalla del Merli che, piccino com'era, aveva paura di essere schiacciato. Con tal successo e con tanta ressa di persone attorno al pianoforte, il Ratti pestava, pestava sulla tastiera, stralunando gli occhi, agitando il capo come in preda all'ispirazione musicale, facendo le viste di svenirsi nei momenti patetici. - Povero pianoforte! - disse allora la signora Villa a la Marulli che, a quel chiasso, aveva smesso di parlare, nell'angolo dov'eran rimaste esse sole. Profittando della confusione, Giacinta si era avvicinata a Gerace. Imbroncito, in disparte, Andrea lisciava le foglie della gypsophila paniculata posta in un vaso di porcellana su un treppiede di bronzo. - Che ti prende? - gli disse sdegnosamente sotto voce, passando oltre senz'attendere la risposta. - Beene! ... Braavo! ... Beeenissimo! Ratti, dato un ultimo strappo alla tastiera, si applaudiva da sé, battendo le mani piú forte degli altri.

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Non sospettate neppure che ci possa essere una verità più vera di quella che insegnano i preti ... » Il marchese, abbassando la testa, vergognoso di non avere mai avuto il coraggio di manifestare sinceramente le sue convinzioni, domandò: «Quale?». «Quella che è stata rivelata al mondo dallo Swedenborg, dall'apostolo della Nuova Gerusalemme ... » «Ah! Intendo», esclamò amaramente il marchese. «Ma dunque non abbiamo certezza di nulla! C'è da perdere la testa!» «Assoluta certezza, marchese.» «Insomma, secondo voi, esiste Dio? Sì o no?» «Esiste; non quello però di cui ci parlano i preti.» «E il paradiso? l'inferno? il purgatorio?» «Certamente, ma non nel modo che spacciano la Chiesa e i suoi teologi, con le loro fantasie pagane, con le loro leggende da donnicciuole! Fuoco materiale, supplizio eterno, visione beatifica ... Vi paiono cose serie?» «C'è da perdere la testa!», replicò il marchese. «Al contrario. Niente è più consolante della nuova dottrina. Noi siamo arbitri della propria sorte. Il bene e il male che facciamo influiscono su le nostre esistenze future. Passiamo di prova in prova, purificandoci, elevandoci ... se siamo stati capaci di emendarci, di spiritualizzarci ... » «Intendo ... me lo avete già detto tant'altre volte ... Ma la certezza? La certezza, domando io?» «Picchiate e vi sarà aperto, ha detto Gesù. La verità vuol esser ricercata insistentemente, con animo puro e disinteressato. Voi e tutti coloro che sono nella vostra condizione non ve ne date pensiero. Siete immersi nella materia. Fate il bene con l'unico intento di guadagnarvi un posticino in paradiso; non fate il male, quando non lo fate, per paura dell'inferno e del purgatorio ... La certezza? Primieramente sta nella logica. Voi credete all'assurdo. Che certezza avete? Perché vi hanno affermato: È così? E noi proviamo che non è così. Proviamo, badate bene! ... Quel povero cavaliere ... » «C'è da perdere la testa!» Il marchese non sapeva dir altro. A chi doveva dar retta? Avrebbe voluto, con una gran scrollata di spalle, tornare almeno allo stato di una volta, quando pensava soltanto ai suoi affari e viveva a modo suo, da bruto, sia pure, ma in pace e affidandosi al caso che lo aveva servito bene fin allora. Ah! Il cugino Pergola gli aveva fatto un gran tradimento con quella conversione. Ma don Aquilante poi che cosa conchiudeva con le sue nuove dottrine? Parole! Parole! Parole! ... Eppure i libri prestatigli dal cugino gli erano sembrati così convincenti! Perché non doveva fidarsi della propria ragione? E passò la intera nottata a rileggerli nei punti che più lo interessavano. Ahimè! L'effetto era assai diverso da quello ottenuto altra volta. Ora gli sembrava che quei libri affermassero troppo sbrigativamente, che gli sgusciassero di mano quando egli avrebbe voluto meglio stringerli in pugno. Interrompeva la lettura, rifletteva, ragionava a voce alta, quasi avesse là davanti una persona con cui discutesse, passeggiando su e giù per la camera, tentando invano di combattere i terrori che gli insorgevano attorno da ogni parte, e non soltanto a spaventarlo ma a irriderlo. Un'inesorabile lucidità di coscienza lo faceva irrompere contro se stesso: «Eh? Ti sarebbe piaciuto che Dio non esistesse! Ti sarebbe piaciuto che l'anima non fosse immortale! Hai tolto la vita a una creatura umana, hai fatto morire in carcere un innocente, e volevi goderti in pace la vita quasi non avessi operato niente di male! Ma lo hai visto: c'è stato sempre qualcuno che ha tenuto sveglio in fondo al tuo cuore il rimorso, non ostante tutto quel che tu hai fatto per turarti gli orecchi e non sentirne la voce. E questo qualcuno non si arresterà, non si stancherà, finché tu non abbia pagato il tuo debito, finché tu non abbia espiato anche quaggiù! ... ». Parlava e aveva paura della sua voce, che gli sembrava la voce di un altro; parlava e abbassava la testa, quasi quel qualcuno gli giganteggiasse di fronte, senza forma, senza nome, simile a un terribile misterioso fantasma, facendogli sentire la stessa prepotente forza da cui, la notte che il vento urlava per le vie, era stato trascinato in casa di don Silvio per confessarsi e sgravarsi la coscienza dell'orrido incubo che l'opprimeva. Ed ora, che doveva egli fare? Accusarsi, come gli aveva imposto don Silvio? Gli sembrava inutile ormai. Neli Casaccio era morto in carcere. Nessuno, all'infuori di lui, pensava più a Rocco Criscione! Che doveva egli fare? Andare a buttarsi ai piè del papa per ottenere l'assoluzione, per farsi imporre una penitenza? Oh! Non poteva più vivere così ... E tornava ad irrompere contro se stesso: «L'orgoglio ti acceca! ... Non vuoi macchiare il nome dei Roccaverdina! ... Dei Maluomini! Ah! Ah! E vorresti continuare ad ingannare il mondo, come hai ingannato la giustizia umana! ... Hai scacciato di casa tua il Cristo, che t'importunava col rimprovero della sua presenza! ... Ed ecco dove ora ti trovi! Egli, sì, egli ti è stato addosso, non ti ha dato tregua ... E ti perseguiterà, fino all'estremo, e smaschererà la tua ipocrisia, inesorabilmente! ... Che potrai tu contro di lui?». Con un manrovescio fece volar via dal tavolino quei libri che più non riuscivano a convincerlo, e già gli sembravano balorda mistificazione; e stette a lungo, con la testa tra le mani, con gli occhi sbarrati, guardando verso il letto, dov'egli aveva dormito, facendo brutti sogni, la notte avanti e dove non avrebbe più potuto trovar sonno fino a che non avesse ottenuto, espiando, la divina grazia del perdono! Si stupiva di vedersi ridotto in questo stato, come travolto da un turbine improvviso. Gli sembrava che il tempo fosse trascorso con incredibile celerità, e ch'egli fosse, in poche ore, invecchiato di vent'anni. Eppure niente era mutato attorno a lui. Ogni oggetto della sua stanza era al posto di prima, li scorreva con gli occhi, li numerava ... No, niente era mutato. Egli soltanto era diventato un altro. Perché? Perché? Suo cugino, sentendosi in pericolo di morte, aveva rinnegato le sue convinzioni? Che doveva importargli di lui? E non poteva essere stata una debolezza piuttosto fisica che intellettuale? Raccolto da terra uno dei volumi, sfogliò parecchie pagine, si rimise a leggere, irritandosi di non ritrovare in quei ragionamenti l'evidenza persuasiva e convincente che lo aveva prima turbato un po' e poi consolato e confortato, facendogli vedere il mondo e la vita sotto un aspetto positivo, affatto nuovo per lui. Forza e materia, nient'altro ... E le cose che scaturivano per propria virtù dal seno della materia cosmica, dall'atomo all'uomo, via via con lunga serie di lente evoluzioni ... E gli organismi che si perfezionavano per continuo e interminabile movimento, dalla coesione minerale alla germinazione vegetativa, dalla sensazione all'istinto e alla ragione umana ... E tutto senza soprannaturale, senza miracoli, senza Dio! ... La materia che si disgregava assumeva nuove forme, sviluppava nuove forze ... Ah! Si era lasciato convincere facilmente, perché gli accomodava di credere che le cose andassero così! E non era mai rimasto proprio convinto. No! No! Come espiare? Era inutile illudersi; doveva espiare! Gli sembrava impossibile che quella parola fosse potuta uscire dalla sua bocca. Ma si sentiva vinto; non ne poteva più! La sua volontà, il suo orgoglio, la sua fierezza erano cascati giù tutt'a un tratto, come vele abbattute da un tremendo colpo di vento. C'era, da un pezzo, dentro di lui qualcosa che lavorava a logorarlo, se n'era già accorto ... Aveva tentato di opporvisi, di contrastarlo ... Non era riuscito! ... Bisognava espiare! Bisognava espiare! Il silenzio gli faceva paura. Un gatto cominciò a lamentarsi nella via con voce quasi umana ora di bambino piangente, ora di uomo ferito a morte; e il lamento si allontanava, si avvicinava, elevandosi, abbassandosi di tono, prolungatamente; grido di malaugurio, sembrava al marchese, quantunque lo sapesse richiamo di amore. Non poté fare a meno di stare in ascolto, distraendosi, o piuttosto confondendo con quel grido l'intima voce che gli si lamentava nel cuore, mentre gli sfilavano quasi davanti agli occhi a intervalli o confusamente Rocco Criscione, Agrippa Solmo, don Silvio La Ciura, Zòsimo, Neli Casaccio, dolorose figure di vittime sacrificate alla sua gelosia, al suo orgoglio, alla sua impenitenza. Rocco, bruno, con neri capelli folti, con occhi nerissimi, penetranti, con impeto di virilità che scattava nella parola e nei gesti, eppure devoto a lui, altero di sentirsi chiamare Rocco del marchese , e in atto di ripetergli le parole di quel giorno. «Come vuole voscenza !». Agrippina Solmo, chiusa nella mantellina di panno scuro, che andava via singhiozzando, ma con un cupo rimprovero, quasi minaccia, nello sguardo. Don Silvio La Ciura, steso sul cataletto, col naso affilato, con gli occhi affondati nelle occhiaie illividite dalla morte, la bocca sigillata per sempre, come egli si era rallegrato di vederlo, davanti a la cancellata del Casino , tra la folla. Zòsima, con quella bianchezza smorta, con quel sorriso di tristezza rassegnata, che non osava ancora credere alla sua prossima felicità, con quel diffidente «Ormai!» su le labbra, che in quel punto gli sembrava profetico: «Ormai! Ormai! ... ». Come avrebbe potuto avere il coraggio di associarla alla sua vita, ora che egli si sentiva alla mercé di una vindice forza, avverso alla quale non poteva nulla? ... No, no! Doveva espiare, solo solo, non procurarsi un nuovo rimorso travolgendo quella buona creatura nella inevitabile ruina! Inevitabile! ... Non sapeva da che parte, né da parte di chi, né come, né quando; ma non poteva più dubitare che una parola rivelatrice sarebbe pronunciata, che un castigo gli sarebbe piombato addosso presto o tardi, se non si fosse volontariamente imposta una penitenza, un'espiazione, fino a che non si sentisse purificato e perdonato. Don Silvio gli aveva detto: «Badate! Dio è giusto, ma inesorabile! Egli saprà vendicare l'innocente. Le sue vie sono infinite!». E con l'accento di queste parole gli risuonava nell'orecchio anche il ricordo del vento che scoteva le imposte della cameretta, e passava e ripassava via pel vicolo, urlando e fischiando. Non osava più alzarsi dalla seggiola, con la strana sensazione che la sua camera fosse diventata una prigione murata da ogni parte, dove lo avrebbero lasciato morire di terrore e di sfinimento, com'era morto Neli Casaccio, immeritatamente, in scambio di lui. Si era lusingato di sfuggire alla giustizia umana e alla divina, dopo che i giurati avevano emesso il loro verdetto; dopo che don Silvio era stato reso muto prima dal suo dovere di confessore, poi dalla morte; dopo ch'egli si era illuso di essersi sbarazzato di Dio, della vita futura e di avere acquistato la pace con le dottrine e con l'esempio del cugino Pergola ... E, tutt'a un tratto! ... O aveva sognato? ... O continuava a sognare a occhi aperti? Sentì il primo cinguettio dei passeri sui tetti, vide infiltrarsi a traverso gli scuri mal chiusi del balcone il chiarore dell'aurora, e gli parve di destarsi davvero da un orribile sogno. Spalancò l'imposta, respirò a larghi polmoni la frescura mattutina, e sentì invadersi da un dolce senso di benessere di mano in mano che la luce del giorno aumentava. I passeri saltellavano, si inseguivano sui tetti, cinguettando allegramente; le rondini gorgheggiavano su la grondaia, dove avevano appesi i loro nidi; pel vicolo, per le case riprendeva il rumore, l'affaccendamento della vita ordinaria. E il sole, che già dorava la cima dei campanili e delle cupole, scendeva lentamente, gloriosamente sui tetti, faceva venire avanti, quasi le ravvicinasse, le colline lontane, le montagne che formavano una lieta curva di orizzonte attorno alle colline che digradavano e si perdevano nella vasta pianura verde, coi seminati qua e là luccicanti di rugiada, nell'ombra. Con la crescente luminosità del giorno, i tristi fantasmi che lo avevano contristato durante la nottata si erano già dileguati. E appena gli tornò davanti agli occhi la figura del cugino Pergola, col berretto bianco, di cotone, calcato fin su le orecchie, il collo circondato d'empiastri sorretti dalla grigia fascia di lana, seduto sul letto, appoggiato al mucchio dei guanciali, col viso congestionato e gli occhi rigonfi, quella risata che colà, nella camera, tra le candele ardenti sui candelabri di legno dorato attorno alle teche delle reliquie e al cordone di argento del Cristo alla Colonna, quella risata che gli era stata soffocata in gola, più che dal turbamento, dalla presenza dell'afflitta signora e dei bambini, gli scoppiò ora irrefrenabile in faccia al cielo azzurro, luminoso, in faccia alle cupole, ai campanili, alle case di Ràbbato, alla campagna, alle colline; e senza nessuna amarezza di delusione, quasi finalmente comprendesse di aver ecceduto, di essersi lasciato vigliaccamente impressionare anche lui! E apriva soddisfatto i polmoni a lunghi respiri di soddisfazione!

PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

rispose Patrizio, abbassando il capo sconsolatamente. "Il mio passato mi opprime. In questo momento vorrei sfogarmi con lei, e un fanciullesco ritegno mi tronca le parole in gola. Così con Eugenia. Così! ... Eppure l'amo. Darei la mia vita per farglielo intendere. E poi, quando mi stende le braccia e mi grida: "Voglio essere amata! Voglio essere amata!" mi sento irrigidire, quasi quel grido offendesse qualcosa di sacro dentro di me: lei stessa! So, so da che proviene questo sentimento; ma saperlo non giova. Mi è rimasto un invincibile senso di avversione e di nausea dei primi e soli abbracci venali provati in gioventù. Oh, quelle carezze, quei baci che simulano l'amore, che profanano l'amore! Non li ho potuti dimenticare. E il convincimento che l'amore santo, di marito e moglie, dovrebbe essere tutt'altro ... Fissazione!" "Infatti è un'altra cosa. Sacramentum magnum, dice san Paolo!" "Che dolori, dottore, e che complicazioni nella mia vita! Eugenia colpita, e da qual male! Mia madre ..." E corse al cancello, e vi si appoggiò, tendendo le braccia alla tomba, come invocando soccorso: "Lasciami in pace, mamma! Perché sei ancora gelosa di lei? Perché ti frapponi ancora tra me e lei? Lasciami tutto a lei ... Ora non hai più bisogno di me. Mamma! mamma!" Il dottore lo strappò di là. "Vi proibisco di venir più qui" disse. "Siete troppo esaltato. Ve lo proibisco, come medico e come amico. Andiamo, andiamo via subito." Patrizio si lasciava condurre. "Promettetemi che questa sarà, per ora, l'ultima vostra visita al camposanto. Promettetemelo" replicò il dottore. "Ha ragione. Glielo prometto." "La solitudine vi ha fatto molto male. Riparate; siete in tempo." "Sì, sì" diceva Patrizio, senza intender bene in che maniera avrebbe potuto. "Ne riparleremo in un momento più calmo" soggiunse il dottore. "Dimenticate, e per un pezzo, questa via. I vivi coi vivi, i morti coi morti. Dio vuole così! Basta rammentarli nelle preghiere. Gli eccessi, anche nel bene, diventano biasi- mevoli. La salute dello spirito, come quella del corpo, consiste nella giusta misura. Un vecchio e medico vi dice questo, tenetelo a mente." Patrizio si sentiva confortato, quantunque riflettesse che forse aveva promesso più che non potesse mantenere. "I vivi coi vivi! I morti coi morti!" ripeteva dentro di sè. E affrettava il passo verso casa, dove era condensata oramai la sua vera vita. Riandava i giorni felici, quando il cuore gli s'era tutt'a un tratto svegliato. Rivedeva il terrazzino dove Eugenia gli era apparsa la prima volta, e sentiva la dolce commozione di quel giorno, specie di puntura, e ferita soavissima. Oh, i bei sogni delle prime settimane! ... E tornava più indietro assai, a' suoi primi anni. Un'altra morta, Giulietta, da cui s'era sentito posseduto. Non l'aveva più rammentata da tanto tempo! E la rivedeva nel pianerottolo della scala, con la bambola tra le braccia ... Indi, pallida, stesa immobile sul letto. E poi? Solitudine e silenzio! Dolori sopra dolori! Disinganni sopra disinganni! ... E l'afflitta figura della madre, che gli stava accanto, che lo covava coi vedovi sguardi, come un tesoro. E sempre silenzio e solitudine! ... Ecco perché; ecco perché. "I vivi coi vivi! I morti coi morti!" Che spietata filosofia in queste parole! Si sentiva confortato e, insieme, con un gran vuoto nel cuore. Doveva ricominciare da capo; ritessere tutta la tela della sua vita, tentare l'impossibile! E passando pel portone del convento, e salendo i pochi scalini che mettevano nel corridoio, gli pareva di sentirsi di nuovo avviluppare nella miserevole rete della solitudine e del silenzio, penetrare da quel freddo che le calde e affettuose parole del dottore avevano cominciato a dissipare. Nella penombra della sera, il corridoio sembrava allungarsi, allun- garsi davanti ai suoi passi, con in fondo quella vetrata dalla luce scialba, che serviva soltanto a dare una paurosa idea della incalcolabile lunghezza, con quegli usci in fila, di qua e di là, chiusi per sempre ad anima viva; sepolcro dove il destino li aveva spietatamente gettati perché vi vivessero la morte, senza speranza di resurrezione! E gli parve naturale che Eugenia non avesse ancora pensato a far portare il lume in camera e che rispondesse appena al suo: "Buona sera!" rimanendo appoggiata sul davanzale della finestra, con la testa fra le mani, povera creatura!

Racconti 2

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Bada, di quello guasto - soggiunse, abbassando ancora la voce. - Ah, compare! Mi levate di tasca per lo meno dieci lire! - disse mastro Noce di collo, prendendo danaro e bottiglia. - Il vino lo berrò alla vostra salute -. A desinare, quando si provò a berlo, mastro Croce fece le boccacce al forte sapore d'aceto: - Accidenti, compare ladro! - esclamò, versando il resto per terra. - Che ne faremo? - ripeteva donna Salvatrice nei primi giorni, imbroncita contro il fratello perché aveva fatto portare in casa quel mal augurio. - Servirà, fra cent'anni, per me o per te -. Don Stellario glielo diceva tranquillamente, riflettendo, senza malizia, che sua sorella avea cinque anni piú di lui. Gli pareva naturale che, nata prima, dovesse anche morire prima. E per confortarla, aggiungeva: - Intanto, è una cassa come un'altra; può servire a qualunque uso -. La verità era che a nessuno dei due, benché oltre la sessantina, passava pel capo che un giorno dovessero andarsene al camposanto, e lasciare la cantina con l'olio, la dispensa con le botti di vino, il magazzino coi cannicci ricolmi di grano e il morto sotterrato dietro la botte di san Francesco. Avevano salute di ferro, non erano mai stati gravemente malati; e si sentivano cosí attaccati a tutta quella roba ammassata in casa a prezzo di tante privazioni e di tanti stenti, da non pensare che finalmente una volta avrebbero dovuto distaccarsene, e lasciare per forza ogni cosa a quei due parenti lontani che ora essi non volevano neppure sentir nominare. - È una cassa come un'altra; vuoi capirlo? - Parve anche a donna Salvatrice una buona ragione. Cosí, un giorno, non sapendo dove riporre le filze di fichi secchi portate dai mezzadri, ella disse: - Le riporremo là -. Don Stellario gliele porgeva a una a una, osservandole, dando il parere intorno alla qualità dei fichi di quell'anno, che gli sembrava scadente. Poi le coprí di nepitella e rosmarino perché non s'intignassero come l'altra volta. E la cassa, piena zeppa, rimase socchiusa, quantunque avesse il coperchio rotondeggiante, da baule. - Solida! - conchiuse don Stellario, applaudendosi nuovamente dell'acquisto, dopo aver picchiato sul coperchio con le mani. Da qualche tempo però, quando egli e la sorella andavano in giro, per la solita ispezione notturna, passando davanti a quella cassa che dava subito nell'occhio pel colore dell'abete nuovo in mezzo ai mucchi di arnesi diversi già scuriti dal tempo e dalla polvere, sentivano tutti e due un brividino alla schiena. - Ah, don Stellario! - borbottava la sorella. - Dite quel che volete, ma questa cassaccia mi pare il mal augurio di casa nostra! Gli dava del voi per rispetto, perché era un uomo. - Sciocca! - egli rispondeva. - Sciocca! ... Sono già sei mesi che essa è qui. Dov'è il mal augurio? - E faceva la voce brusca, per celare la cattiva impressione che, con suo gran dispetto, cominciava a sentirne anche lui. Mastro Noce di collo, che non poteva perdonargli la bottiglia di vino inacetito e aveva la celia brutale, tutte le volte che il compare, andando alla messa del Rosario, si fermava per salutarlo, dopo il solito: - Benedicite , signor compare, - gli ricantava sempre la canzone: - Ce n'avete ancora di quel famoso moscadello? - E vedendolo ridere, aggiungeva subito - Avete fatto come i giudei con Gesú Cristo, dandomi il fiele delle quindici lire e l'aceto per giunta. Ma non c'è Dio lassú, se non vi riporrò io, con queste mie proprie mani, dentro quel tabbútu rubato! - Da principio, don Stellario si divertiva alle cattive parole del compare; non era una femminuccia da credere al mal augurio; e poi, poverino, bisognava lasciarlo sfogare. Si riprendeva forse la cassa, parlando cosí? E gli rispondeva: - Eh via compare! Acqua passata non macina piú! - Ora però che sentiva anche lui, ogni notte, quel brividino alla schiena vedendo la cassa stesa nel camerone, col coperchio socchiuso, quasi non fosse ripiena di fichi ma attendesse dentro qualcuno, don Stellario rideva agro; e una mattina, appena il compare ricominciò la trista celia, egli lo interruppe: - Volete finirla, compare Noce di collo? Dovreste anzi ringraziarmi! - E gli voltò le spalle, mentre colui gli brontolava dietro: - Anche ringraziarvi? - Il resto don Stellario non lo udí, e fu meglio. E da quel giorno in poi non mise piú piede nella bottega del compare. Non gli valse a niente. Egli andava notando un po' di debolezza alle gambe nel montare le scale di casa, un po' di affanno ai polmoni quando giungeva all'ultimo pianerottolo, quasi gli scalini si fossero raddoppiati. Eppure da piú di sessant'anni egli li aveva rifatti una diecina di volte al giorno, fino a una settimana addietro, senza ombra di fatica. - Che significa? E la mattina, perché mi levo con una specie di confusione nella mente e sto con quell'accapacciatura fino a tardi? - Azava le spalle, non voleva pensarci; intanto guardava con un po' d'invidia sua sorella che pareva fatta di acciaio, e si levava sempre prima dell'alba, e non stava un minuto con le mani in mano, e andava su e giú - in cantina, nella dispensa, nel magazzino del grano - senza mai riposarsi, quasi non le pesassero addosso cinque anni piú che a lui. No, non voleva pensarci! E poiché da un pezzo non andava in campagna, una mattina, anche per svagarsi, mise all'asina la vecchia sella sdrucita, dalle staffe e dal posolino che si reggevano a furia di spago, e partí per la Balata, quantunque il cielo minacciasse di piovere e la sorella gli avvertisse: - Non andate, con questo tempaccio! - A mezza strada, cominciò a piovigginare. Don Stellario buttatosi su le spalle il ferraiuolo, si alzò il cappuccio e tentò, a colpi di pungolo, far allungare il passo all'asina piú vecchia di lui e che metteva un piede davanti all'altro con gran flemma, scuotendo le orecchie alle insolite trafitture, senza però indursi ad andare piú lesta, quasi intendesse rimproverare al padrone la biada che non le dava. Poi lampi, tuoni, e le cataratte del cielo si apersero. Don Stellario cercava di ripararsi alla meglio, con quel ferraiuolo stravecchio e rapato che assorbiva l'acqua senza perderne nemmeno una goccia; e spiava torno torno la campagna, per iscoprire una casupola dove ripararsi, pentito di non aver dato retta alla sorella e d'essersi avventurato cosí alla sbadata. - Sarà meglio tornare addietro. Con questa lumaca, arriverei morto alla Balata! - Ma dové combattere un pezzetto prima che l'asina, sbalordita da quel diluvio, si persuadesse di voltare. Insomma, un disastro! Appena giunto a casa, dovette mettersi a letto; e non valsero a riscaldarlo né il bicchiere di vino bevuto, né la scottatura di tiglio preparatagli dalla sorella che non cessava di ripetergli: - Dovevate darmi retta! - Che conchiudi ora col brontolare? - rispose all'ultimo don Stellario, seccato. Si vedeva passare e ripassare davanti agli occhi la cassa da morto, e dentro gli orecchi gli zufolavano le male parole di mastro Noce di collo: - Dovrò mettervi io, con queste mie proprie mani, dentro il tabbútu rubato! - E batteva i denti, non per la febbre soltanto. Donna Salvatrice, vedendo da due giorni che suo fratello peggiorava e che le scottature non gli profittavano, una mattina cominciò a domandarsi se non era opportuno, anche per gli occhi della gente, chiamare un dottore. - Non gioverà, forse, e sarà una spesa! ... Ma per sapermi regolare ... - esclamò tristamente, pensando che sarebbe rimasta sola sola, nel caso d'una disgrazia del povero fratello. - Come ti senti? Debbo mandare pel medico? - Sei matta? - strillò don Stellario, sbarrando tanto d'occhi, quasi avesse sentito dirsi: - È finita per te! - E con uno sforzo si rizzò sul letto; ma la tosse lo costrinse a buttarsi giú. Era estenuato e con un febbrone da cavallo; pure non voleva né medici, né medicine! - Infreddatura; non si tratta d'altro. Le scottature di tiglio bastano. Sprecar quattrini pel dottore e pel farmacista? Impostori! Intrugli! Intrugli! Impostori! Senti? Hanno picchiato. Vogliono forse del vino -. Di tratto in tratto giungevano gli avventori consueti, e donna Salvatrice accorreva; e tornando presso il letto del malato, vi portava l'odore del vino mesciuto allora allora: - Quattro soldi. Era comare Pina la mineòla. Oggi se n'è venduto sette lire sole, di quello della botte della Madonna. - Ne rimangono ancora sei salme! Cola Nasca non si è piú fatto vedere? - Te l'ho detto: vuol pagarlo a tre lire il barile. Il prezzo è calato, pretende. - A dieci lire! Non lasciarti infinocchiare. - Tu bada a guarire, e la Madonna t'aiuti! - ripeteva donna Salvatrice, tutte le volte ch'egli entrava a ragionare di interessi. Di giorno in giorno intanto ella perdeva fede nella guarigione augurata al malato; e l'osservava da piè del letto, scuotendo tristamente il capo quando don Stellario non poteva vederla. - Poverino! ... Si è attirata addosso la jettatura con le sue stesse mani, comprando quella maledetta cassaccia da morto, quasi il cuore gli predicesse: dovrà servire per te! - E attraversando il camerone, nel passare davanti la cassa, donna Salvatrice, con le lagrime agli occhi, levava via ogni volta due, tre filze di fichi secchi e le riponeva in un armadio. - Bisogna sbarazzarla, pur troppo! - Ma non ne fiatava col fratello, per non spaventarlo. - Insomma, dovrà morire senza medico e senza confessore? - le disse un giorno comare Stella, tirandola da parte. - Non vuole! Non vuole! - Almeno il confessore! - soggiunse comare Stella. Vedendo entrare il prete in camera col pretesto d'una visita, il malato si perdette d'animo tutt'a a un tratto. - Don Stellario, son venuto qui per caso, per saggiare una partita di vino; saputo che state a letto ... Cosa da niente. Coraggio! - È inutile cercar d'ingannarmi - biascicò don Stellario con flebilissima voce. Poi rivolto alla sorella, mormorò: - Tu pensa a sbarazzare la cassa -. Fissava il prete paurosamente: - Ditemi la verità: non c'è piú speranza per me? - Le cose di Dio, se voi le volete, sono vera medicina! ... Non siamo al caso, no; non c'è pericolo per ora; ma ... - Capisco, capisco -. E parve rassegnarsi. Appena il prete avvertí donna Salvatrice che egli sarebbe tornato poco dopo col viatico e l'estrema unzione, per la camera del malato fu un gran tramenio. Le due donne volevano dare un po' d'assetto a quel canile, spazzare, spolverare per ricevere degnamente Gesú sagramentato; e a don Stellario, che le seguiva con lo sguardo sbalordito, sembrava che spogliassero anticipatamente la camera, vedendo portar via tutti gli oggetti ammonticchiati su per le seggiole e sul tavolino dove bisognava apparecchiare la cr edenza coi candelabri e le candele di cera. Comare Stella bruciò anche due pallottoline di zucchero per smorzare il tanfo. - Signore Dio! Con tante ricchezze! Questa camera pare un porcile - ella diceva da sé da sé. - Salvatrice! - chiamò il malato. Ella gli si accostò presso il viso, per risparmiargli di affaticarsi alzando la voce: - La cassa ... non occorre farla ricoprire di stoffa ... Spesa perduta! ... Hai capito? - Che cassa e non cassa! Tu starai bene. Ho fatto accendere una torcia alla Madonna dalla Stella, che ti farà il miracolo! - Non era vero; ma la pietosa bugia fu di buon augurio. Allorché don Stellario si sentí, come diceva, proprio ritornato dall'altro mondo e mise i piedi a terra, la prima cosa di cui domandò la sorella fu appunto della torcia. - Si è consumata tutta? - E sentito come la cosa era andata, se ne rallegrò assai. - Se ero destinato a morire, sarei morto lo stesso! - Il giorno che poté uscir di camera volle vedere innanzi tutto il tabbútu , che si trovava appunto a bocca spalancata, come lo aveva lasciato donna Salvatrice nella fretta di sgombrarlo dai fichi secchi. Don Stellario gli fece tanto di corna, e disse: - Ora ci rimetteremo i fichi -. La prima volta che fu in grado d'andare a messa, passando con gran soddisfazione davanti alla bottega di mastro Noce di collo, si fermò su la soglia: - Salute, compare! - Oh, oh, chi si vede! Benedicite , signor compare! Avete la ricetta di Paolo Maura? come dicono quelli di Mineo. - Quale ricetta? Mastro Croce lasciò di piallare, si cavò gli occhiali, tirò su una presa di tabacco, e restando presso il pancone, riprese: - Ascoltate bene. Paolo Maura, il poeta, aveva un compare; mettiamo che il compare foste voi. Una volta, come voi, quel compare cadde malato. Paolo Maura andò a visitarlo ... - Voi però, da me non ci siete venuto, brutto compare! - lo interruppe don Stellario. - Ho avuto torto. Dunque il poeta andò a visitarlo ... - Ho inteso. - E gli disse: "Compare, ecco una polizzina miracolosa piú di qualunque rimedio". Quell'amico - soggiunse mastro Croce, cambiando tono, - era piú tirchio di voi, e aveva un moscadello peggio del vostro, ma se lo teneva per sé. E ritorno al poeta: "Compare, - continuò - basta tenerla sotto il guanciale. Guai però a leggerla prima di esser guarito! Ammazza, caro compare." Guarito, colui volle subito vedere che mai contenesse la polízzina. Indovinate che c'era scritto; indovinate. C'era scritto: "Allegro, alle gro, signor compare! Le persone cattive non muoiono mai!" Ah! ah! ah! - - Avevo giurato di non tornarci piú in questa bottega. Ben mi sta - brontolò don Stellario voltando i tacchi. Quella conchiusione non se l'aspettava. Scampato cosí dall'orlo della sepoltura, era diventato piú rubizzo, e spesso scherzava intorno alla cassa da morto, che anzi gli aveva portato buona fortuna. Quell'anno infatti, raccolto straordinario. I coppi dell'olio straboccavano; i recipienti del vino pure, fino all'ultimo caratello, tanto che era occorso comprare un'altra botte, di seconda mano, non volendo spandere il mosto per le vie. I cannicci di grano poi minacciavano di scoppiare nel magazzino: fave, cicerca, fagioli, carrubbe, ceci ammonticchiati negli angoli, in mezzo, da per tutto; non si poteva fare un passo senza calpestare la grazia di Dio. - Hai visto, sciocca? Hai visto? - egli diceva alla sorella che si mostrava di tutt'altro umore. - La cassa è dunque destinata per me! - pensava spesso donna Salvatrice. Talvolta pareva, sto per dire, che ella volesse prendersela col Santissimo Salvatore e con la Madonna dalla Stella, perché non avevano lasciato correre quando suo fratello, arrivato proprio all'orlo della sepoltura, con viatico ed estrema unzione, si era bell'e rassegnato a morire; cattivo pensiero, che le passava per la mente quasi senza che ella ne avesse piena coscienza. Piú ella invecchiava, e piú s'aggrappava alla vita; e piú le veniva in uggia quella cassaccia ripiena di fichi secchi, che faceva ingom bro, stesa là nel camerone. - Portiamola in soffitta - disse una volta al fratello. - Sí, perché i topi si rosichino lassú cassa e fichi! - rispose don Stellario. Donna Salvatrice però si era fissata di non volerla piú lí; e tornava a insistere: - Portiamola in soffitta; qui impiccia troppo. - Qui si può tirar di scherma! - replicava il fratello che non capiva quella insistenza, a suo modo di vedere, irragionevole. E la picca lo faceva spropositare, perché nel camerone c'era affastellata tanta e tanta roba, che bisognava badar bene, attraversandolo, per non spezzarsi una gamba. Donna Salvatrice fu piú piccosa. Approfittando d'una gita in campagna del fratello, vuotò in fretta la cassa - aveva ribrezzo fino a toccarla - e chiamò comare Stella perché le desse una mano. - Ci vorrebbe un uomo - disse la vecchia. - È leggiera. Su, su! - Dopo una ventina di fermate e di rifiatate, arrivarono in soffitta, grondanti di sudore, ansimanti, stracche morte. Donna Salvatrice, bevuto un po' di vino, ne diede un dito anche a comare Stella, e questa generosità parve alla poveraccia un portento. - Ah! - La sorella di don Stellario si era sentita allargare il petto, non vedendo piú nel camerone la cassaccia del mal augurio; quasi, portato via il tabbútu , ella non dovesse piú morire, mai piú! - Addio fichi! - esclamò malinconicamente don Stellario quando si accorse del trasporto. In che modo avere tristi pensieri con tutta quella gente che, da una settimana, andava e veniva per la vendita all'ingrosso del vino, dei grani e del sommacco; con tutti quei quattrini, bianchi e dagli occhi rossi, che piovevano in casa da non dare neppure il tempo di contarli, metterli dentro i sacchetti e nasconderli qua e là, prima di seppellirli insieme con gli altri, nella buca dietro la botte di san Francesco? Cola Nasca faceva viaggi col carro carico di barili; e i venditori di sale d'Augusta, spacciata la merce per le vie del paese, affluivano a insaccare il grano, ingombrando il vicolo con le loro salmerie di muli, urlando, bestemmiando, mentre don Stellario sorvegliava il misuratore, e donna Salvatrice e comare Stella, con le granate, s'affaticavano attorno perché non andasse perduto neanche un chicco di farro o di grano marzuolo. Un giorno Cola Nasca era venuto coi carretti per vuotare, in una sola volta, la botte di san Francesco. Donna Salvatrice stava nella dispensa fin dall'alba, seduta in un canto presso la botte, con la tacca in una mano, e nell'altra il coltellino dal manico di ferro, da due soldi, per non farsi rubare nel conto da quell'imbroglione. A ogni sedici mezzine spillate, ella faceva un'incisione su la tacca di ferula lisciata e divisa in due, perché poi il Nasca prendesse la sua metà. Cosí non potevano sbagliare. Don Stellario appariva di tanto in tanto, tutto impolverato, e domandava: - A che punto siamo? - Otto salme; dieci salme. - Lassú abbiamo quasi finito. Rimangono soltanto i ceci a insaccare ... Ah, Madonna dalla Stella! - Egli aveva visto donna Salvatrice impallidire, stralunare gli occhi e piegare il capo da un lato; sarebbe cascata dalla seggiola, se Cola Nasca non l'avesse sorretta, gridando: - Signora! Signora! ... - Niente! Niente! ... Mancanza per debolezza ... Tappa il cocchiume, Cola ... Salvatrice! ... Sorella mia! - Le strofinava le mani e le tempia per farla rinvenire, chiamandola e scuotendole ora un braccio, ora l'altro. - Non è niente! ... Salvatrice! ... Tappa il cocchiume, Cola -. Donna Salvatrice, bianca come un cencio lavato, non rinveniva, non dava segno di vita. - Portiamola via di qui - disse il Nasca. - Sarà stato l'odore acuto del vino. Povera signora! - Invece le era scoppiata un'arteria, che non le aveva dato nemmeno il tempo di dire: Gesú! Don Stellario aggiravasi per le stanze dandosi pugni su la testa, non sapendo persuadersi di quella gran disgrazia piombatagli addosso cosí all'improvviso; e non voleva neppure affacciarsi nella camera della morta, quasi per continuare a credere che vivesse tuttavia. Pure, a sera inoltrata, si ricordò nella cassa che bisognava vuotare; e salí in soffitta, solo, con un lumicino che pareva facesse piú buio. - Ah! ... Ah, povera sorella mia! ... Era destinata per te! - E a ogni filza di fichi secchi che metteva dentro il sacco portato seco a posta, ripeteva quella nenia scuotendo il capo, senza una lagrima, con tono di voce che pareva canzonatura e non era: - Ah! ... Ah, povera sorella mia! - La mattina quando comare Stella venne a dirgli in camera, tutta atterrita: - Non c'entra! - Don Stellario, a primo colpo, non capí; e le spalancò in viso gli occhi stralunati, senza muoversi dalla seggiola, con le mani sui ginocchi. - Sissignore! Non c'entra! ... - ripeté singhiozzando la donna ... Don Stellario scattò: - Non c'entra? ... Bestia! ... In quella cassa? - Gli pareva un'enormità. E agitandole convulsamente le mani davanti al viso, le ripeteva: - Bestia! ... In quella cassa non entra? - L'ha detto il becchino -. Non ci mancava altro! - Possibile? ... In quella cassa? ... - È un po' stretta e corta, signore mio. - Tu sei piú bestia di tutti! - urlò don Stellario al becchino. Tremava da capo a piedi, diventato di bragia dalla rabbia. - Te l'ha detto mastro Noce di collo, eh? Levati di torno, bestia! C'entreresti anche te! ... Bestia! Bestione! ... - E si slanciò, spinto dal furore. Per un attimo esitò in faccia del cadavere che non poteva entrare nella cassa; poi cominciò a calcarlo con gran cautela, quasi per non fargli male: - Benedetta da Dio! Benedetta da Dio! - balbettava. - Eppure devi entrarci, sorella mia! ... Devi entrarci! - Calcava, calcava, abbassando il coperchio per prova. - Benedetta da Dio, devi entrarci! ... Ecco! Ecco, se c'entra, bestione! - esclamò rivolto al becchino - Benedetta da Dio! ... Requie materna! - E, data una girata alla chiave della serratura, si buttò ginocchioni davanti alla cassa, piagnucolando il suo latino: - Requie materna! Riscatta in pace! - Roma, novembre 1889@. 1889.

Racconti 3

662741
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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È ferma davanti a una specchiera, abbassando e rialzando, per prova, la fitta veletta nera che cinge la toque e lasciandola, all'ultimo rialzata attorno alla fronte. Pensosa, accigliata, a testa bassa, si morde le labbra abbottonandosi un guanto, e sembra incerta intorno a una decisione da prendere. All'improvviso, dopo di essersi guardata nuovamente nella specchiera, si toglie la toque, buttandola con vivissimo gesto su una poltrona, si cava allo stesso modo i guanti, ed esclama: - No, no! Sarebbe un'infamia o una pazzia. Non voglio, no, non voglio! Che importa se ho promesso? Eh, via! Si promettono tante cose, si fanno tanti giuramenti ... e poi! ... A quest'ora egli attende nel civettuolo quartierino preparato unicamente per me ... lo ha detto almeno. Chi sa? Avrà ripetuto la stessa cosa ad altre donne che gli hanno creduto e sono andate colà, e vi sono tornate parecchie volte, e, dopo, non vi sono tornate piú ... Oh! Gli uomini mentiscono senza ritegno, per abitudine, per inconsapevolezza, forse, consapevolmente anche, quasi lo ingannare una donna sia cosa da nulla, pur di raggiungere il loro scopo! Avrei dovuto ragionare cosí prima di oggi. Sono diventata savia tutt'a un tratto ... Come mai? Perché? ( Siede ) . Facciamo un po' di esame di coscienza. Ecco: mi dispiace ch'egli possa credere che io abbia paura. Dovrei andare, e resistere e dirgli: «Sono stata leggera, sciocca, prestando orecchio alle vostre lusinghe. Voi affermate di amarmi ... e non è vero; ormai ne sono convinta. Io ... io mi sono illusa di amarvi; e ora ... Per ciò, finiamola. Restiamo, se è possibile, buoni amici. Pel vostro capriccio di uomo galante, pel vostro svago di signore che non sa occupare il suo tempo altrimenti che con le frivolezze delle conquiste, voi siete in caso, oh, altro! di trovare donne piú belle, piú facili ... e piú sciocche di me; dovrebbe bastarvi. Una di piú, una di meno da segnare nel vostro calendario di scapolo non significa niente ... Non so se piú siete capace di pentimenti o di rimorsi. Voglio risparmiarvene uno, se mai!» Ma ... Ma quando sarò là, faccia a faccia con lui, da solo a solo, avrò coraggio di tenergli questo bel discorso, questo stupido discorso? Egli mi prenderà per le mani, mi guarderà negli occhi sorridendo un po' ironico, come sa sorridere lui, mi ripeterà quel che mi ha ripetuto tante volte, quel che tante volte ho tentato di non ascoltare o di non credere e ciò non ostante, mi ha ammaliato, mi ha reso fiduciosa come una bambina, sottomessa come una schiava e felice di sentirmi tale ... Che miseria questa nostra debolezza! Che umiliante stato di animo questo bisogno di essere adulate e illuse! Questo delirio di dominazione che poi si accontenta del piú basso asservimento e fa le viste di non accorgersene! ( Si alza, contrariata, agitata ). Ebbene, avrei dovuto ragionare cosí prima di oggi! Come mai, perché mai sei diventata savia tutt'a un tratto? ... Eri già bella e abbigliata. Due ore di minuziosa cura per renderti piú piacente ... e piú seducente. Il timore di non giungere in tempo, di farti attendere ti rendeva nervosa, impazientissima. Accorrevi colà come a una festa ... E sarebbe stato il crollo della tua dignità, della tua reputazione, della tua vita tranquilla e quasi felice! Hai dovuto fare uno sforzo per toglierti il cappello, per cavarti i guanti, ed hai ancora indosso la pelliccia! Vuoi far presto a riabbigliarti, se ti risolvessi, se ti decidessi di nuovo ad andare? ( Si toglie rapidamente la pelliccia ). Via! ... Potrebbe essere una tentazione ... Tutto ci tenta quando siamo disposte! ( Osservando l'orologino d'oro ). Le tre meno un quarto! Avevo le traveggole poco fa. Credevo di essere in ritardo ... ( Sorride con compiacenza ). Mi par di vederlo, col viso incollato ai vetri della finestra, dietro le tendine, spiando il mio arrivo dalla via di faccia! Oh, non dubiterà che io possa mancare all'appuntamento! Ha voluto che giurassi questa volta, perché - diceva - non era cosí sicuro dell'amor mio da accontentarsi di una semplice promessa ... Ha ragione. Non sono certa neppur io di amarlo. Infatti, se lo amassi davvero, non ragionerei, non sarei qui a esitare, a farmi la predica. C'è stato però un momento ... Un momento? Via una settimana, un mese, si - forse un mese e mezzo se facessi calcoli esatti - che ho avuto anch'io la convinzione di essere amata e di amarlo cosí profondamente, cosí pazzamente - è la parola giusta! Mi par di vederlo ... È strano! Mi sembra quasi ridicolo, povero barone, con quell'aria di contrarietà che deve assumere a ogni minuto che passa. E aveva preparato, certamente, uno splendido ricevimento, da pari suo: fiori da per tutto, i fiori che io prediligo, le rose bianche, i garofani bianchi, che egli prima non poteva patire e che ora ama per consenso - mi ha assicurato - perché li amo io. Ha sempre, da qualche tempo in qua, un garofano bianco all'occhiello, da vero cavaliere che porti i colori della sua dama ... Per questo, non c'è che dire, è proprio compito! ... Nessuno è piú raffinato di lui nel suo mestiere di seduttore. Ne sa tutte le astuzie, tutti i segreti. l mariti dovrebbero apprendere questa irresistibile arte ... Colpa loro, se noi ci lasciamo ingannare dagli altri, visto che essi non sanno ingannarci. Hanno il possesso legale, si credono difesi, preservati per virtú delle parole del sindaco e del parroco ... E non fanno niente per sviare i pericoli. Il mio ... peggio di tutti! Ci vuole una gran forza per resistere. In coscienza, io ho resistito anche troppo. So di certe mie amiche! ... Ma già stavo per fare come loro! Fortunatamente ... ( Guarda di nuovo l'orologino ). Le tre! ... Infine, che cosa gli ho promesso? Una visita «Certe cose - egli dice - non si strappano, si vogliono liberamente concesse. Se anche non si ottengono, il pensiero di averle fortemente desiderate e di non aver potuto ottenerle dà un piacere squisito per la intensa smania che il desiderio non soddisfatto produce». Raffinatezza che pochi sanno apprezzare. Oh, sí! Galanti parole, galantemente ripetute ... Eppure! ... Eppure! ... Sarebbe un bel trionfo dimostrargli che io non sono come le altre, che posso scherzare col pericolo e non soccombere. Dovrei dargli questa lezione. Egli è già orgoglioso di esser giunto a farmi perdere per qualche settimana ... per qualche mese - la testa. Me l'ha confessato e ha soggiunto che con me si sarebbe fermato e per sempre! ... Io rappresento per lui l'ideale inseguito e non mai potuto raggiungere ... Finalmente! Dovrei perciò essere altera di aver operato questo miracolo! ( Sorride tristemente ) .E gli ho creduto! Intanto, se fosse? ... Ma non è vero. Per questo sarebbe giusto infliggergli una lezione. Se la merita, anche per conto di tutte le altre che gli hanno spensieratamente sacrificato quel che sacrifica una donna quando dà il cuore ad un uomo che non è suo marito, ed hanno sofferto! ( Guardando per la terza volta l'orologino ) .Le tre e un quarto! ... Sarei ancora in tempo ... Quasi quasi! ... Entrerei severa, calma; mi fermerei su la soglia del salottino, e direi: «Ho promesso, e mantengo quantunque certe promesse si ha piuttosto il dovere di non mantenerle. Ho mantenuto unicamente per dimostrarvi che son sicura di me e per dichiararvi qui, nel posto che dovrebbe essere il campo della vostra nuova e non ultima vittoria ... per dichiararvi nel modo piú perentorio e assoluto ... » No, non bisogna preparare il discorsetto, ma improvvisarlo, secondo le circostanze; se si scorge che è stato appreso a memoria, non fa effetto. E, terminato di parlare, avvolta nella pelliccia, senza stendergli la mano e facendogli un piccolo inchino, voltar le spalle e uscire, severa, calma, solenne. Vorrei che mio marito mi vedesse in quel momento, per apprendere qual pericolo ha corso e quanto dovrebbe essermi grato. Povero barone! Non se l'attende davvero. Si consolerà presto, probabilmente. ( Fa un gesto di risoluzione, comincia a rimettersi il cappello, poi infila i guanti e intanto prosegue a parlare ) . Non dico che non potrà accadere diversamente ... Allora! Vuol dire ... Sono un po' fatalista io! ... Ma quando si è fermamente risoluti, come sono io ... E poi ... Voglio cavarmi una curiosità, vedere questo famoso quartierino, questo tempietto pronto a ricevere la dea ... preparato unicamente per me ... Bugiardo! ... ( Indossa la pelliccia ) .Peccato che non potrò andare oltre il salottino ... Sarebbe grave imprudenza! ... Ritta sulla soglia di esso, severa, calma, solenne. ( Guarda l'orologino, dà affrettatamente gli ultimi colpi di ravviamento alla gonna e si ferma a specchiarsi, chiusa nella pelliccia ). Che cosa significa? ... Sono cosí turbata, cosí commossa, quantunque voglia fare la spavalda! ... ( Atteggiandosi, quasi parlasse con lui ) .«Ho mantenuto, per mostrarvi che sono sicura di me!» Ma se la mia voce tremerà come in questo atto di prova? ... ( Riprende, declamando un po' ) .«Ho mantenuto per mostrarvi che sono sicura di me!» Benissimo! ... E un inchino, un lieve inchino, significativo, di condensata ironia ( Eseguisce ) e uscirò ... Cosí! - ( Si avvia lentamente ).

. - Il pretucolo guardava attorno, movendo rapidamente gli occhi da spiritato, e allungatosi col corpo verso il sindaco per versargli la confidenza in un orecchio, quasi avesse fin paura che le mura sentissero, rispondeva abbassando la voce: - Chi? Il presidente della commissione! È uno scandalo! - E con la punta delle dita si batteva su le labbra per ricacciare indietro quel che gli gorgogliava nella gola e già stava per uscir fuori. Il sindaco sapeva benissimo che cosa significassero le parole: «È uno scandalo!» ma faceva lo gnorri, si mostrava stupito, inquieto per la sua responsabilità. E il pretucolo, senza badare che parecchie altre volte avevano riparlato di questo, riprendeva sempre sottovoce: - Per quella benedetta superiora! ... Voce di popolo, voce di Dio! ... L'ha fatta entrare lui nell'orfanotrofio a dispetto del regolamento. È forse orfana e povera? E, col pretesto della fabbrica, egli è là da mattina a sera, come in casa sua. E: «Venga qua, guardi, senta, signora superiora». Ore ore a parlottare in disparte! I muratori, i manovali ridono sotto i baffi. E le orfanelle che cosa debbono pensare? ... Se sarò cappellano ... Ecco perché, come lei dice, egli tenta di mettermi il bastone fra le ruote! - Capisco! ... Ma è presidente ed ha qualche santo protettore, lassú, al ministero: il deputato, credo ... - Niente affatto! Anzi! Ho parlato, ho scritto e riscritto all'onorevole ... Formali promesse! Il presidente, con la scusa del divieto del papa, non è mai andato a votare per lui ... I miei parenti ed io sí. Il papa perdona, quando c'è una forte ragione a favore della morale ... Lo stesso monsignore mi ha detto che ho fatto bene ... E poi, non è peccato mortale! - I deputati promettono sempre, per ingraziarsi gli elettori; bisogna poi vedere ... Non vi fidate! - Il pretucolo non si lasciava intimidire, e insisteva: - Lei ha grande autorità; lei deve farsi valere presso il ministero ... - Ho fatto anche troppo: una ventina di sollecitazioni! - Un'altra, ancora un'altra perché si sturino gli orecchi lassú -. Il sindaco però non era sempre cosí di buon umore; e allora il povero pretucolo, sotto il rovescio della sfuriata, rimaneva interdetto, a testa bassa: - Santo Dio! Non mi lasciate respirare! Siete proprio insopportabile! Vi figurate forse che cascherà il mondo se non vi nominano cappellano? Nomineranno un altro, non nomineranno nessuno ... Le orfanelle non possono confessarsi? Accumuleranno i peccati, e se ne sbarazzeranno tutt'a una volta; non ne commettono poi tanti, suppongo. Ci pensi monsignore, in ogni caso! Se dipendesse da me! Ma dipende da lassú ... Siete un incubo! Tutti i giorni! Quasi qui, al municipio, non ci sia altro da fare! Ve l'ho detto e ridetto: appena avremo la risposta, sarete avvisato! - Non importa che si scomodi per avvisarmi. Vengo io! - Come se il sindaco avesse parlato a un muro! Era fatto cosí don Lucio Bucceri. Convinto che negli affari l'insistenza è quasi tutto, che cosa poteva importargli se riusciva importuno? Peggio per gli altri! Sbrigassero i suoi affari, se volevano levarselo di torno! Lo sapeva, per via della pagella di confessore, anche il vicario capitolare che, appena lo vedeva comparire, alzava gli occhi al cielo e univa le mani con gesto di rassegnazione, accettando quella inevitabile seccatura in isconto dei suoi peccati. Cosí ripeteva a sua sorella che non poteva soffrire Don Lucio, e brontolava: - Almeno si ripulisse le suola delle scarpe prima di entrare! - E lo sapevano tanti e tanti altri, perché don Lucio aveva sempre quattro, cinque affari su le braccia, propri, di suo padre, dei suoi zii; e andava attorno, da mattina a sera, da un quartiere all'altro, in fretta, col cappello su la nuca, col mantello attorto a un braccio, con la zimarra stinta che gli sbatteva tra le gambe facendo vedere le scarpacce da contadino, arrossate e intrise di mota. Guardava di qua e di là, con quegli occhi da spiritato, in cerca di qualcuno che lo sfuggiva, o che non si trovava in casa quando egli era andato a picchiargli all'uscio, o che gli aveva fatto dire di non essere in casa per liberarsi dalla noia di riceverlo, di sentirgli replicare ogni volta le stesse cose, con le stesse parole, con gli stessi atteggiamenti di supplicazione. E siccome pareva che pur andando in fretta frugasse tra i crocchi, in fondo alle botteghe, protendendo il collo e il viso butterato con la bazza enorme che lo facevano rassomigliare a un bracco in atto di fiutar le macchie cacciando, cosí un bel giorno, non si sa da chi, gli venne appioppato il soprannome di «Braccaccio», quasi «Bracco» soltanto fosse stato poco per lui. E da quel giorno in poi, nessuno piú volle chiamarlo altrimenti. Egli lo sapeva e ne rideva, alzando le magre spalle: - Mi chiamino come vogliono, purché mi lascino fare! Finalmente la nomina di cappellano era arrivata, e monsignore gli aveva accordato la pagella di confessore delle orfanelle! E il presidente della commissione era divenuto verde dalla bile di vederselo ogni giorno davanti a chiedere or una cosa or un'altra per la chiesetta ridotta una stalla. La fabbrica del dormitorio, sí, stava bene, per comodità delle orfanelle; ma la casa di Dio non poteva rimanere piú a lungo indecente a quel modo! - Dove volete che io trovi i quattrini? - Bisogna trovarli! - Trovateli voi! Il «Braccaccio» volle fargli vedere che avrebbe saputo trovarli! E in quei mesi fu visto andare attorno di casa in casa chiedendo l'elemosína per la sua chiesetta, proprio come un bracco che cerchi la selvaggina, strappando lire, e soldi ai piú restii, ai signori e alla povera gente; tornando a chiedere di mano in mano che le scarse somme sparivano per la calce, per gli operai, pel pittore, per le ramette nuove con fiori di carta da ornar l'altare, per le ampolline da sostituire le vecchie ridotte inservibili, e per tante altre cosettine non meno urgenti al servizio divino. E come fu orgoglioso e felice quando poté vedere la sua chiesetta - la diceva sua parlandone - bianca da cima a fondo, con gli ornati in istucco tinti in blu (sua idea!) perché si scorgessero bene, con la gran grata del coro colorata in giallo (non aveva potuto farla dorare come avrebbe voluto) dietro cui le orfanelle assistevano ogni mattina alla messa, recitavano il rosario, cantavano le litanie e ascoltavano i suoi sermoni, le domeniche, con grandissima stizza delle donne del vicinato abituate a sentire colà una messa sbrigativa e tornarsene a casa. E mentre il presidente della commissione, col pretesto di sorvegliare la fabbrica, dava lo scandalo di passare intere giornate a chiacchierare con la superiora, egli, scomodamente seduto sur una seggiola impagliata, teneva incollato l'orecchio alla piccola grata dietro cui le orfanelle venivano a sussurrargli i loro peccati insieme coi pettegolezzi della comunità, e ricevevano le ammonizioni e i consigli e le penitenze, una appresso l'altra, dopo la messa, fino a mezzogiorno. Verso sera, egli era là di nuovo pel rosario e per la benedizione, sorvegliando il ciabattino che aveva gratis la bottega in compenso del suo ufficio di sagrestano. Costui ora doveva rigar diritto e tener pulita la chiesetta e il bugigattolo della sacrestia senz'uscio e senza neppure un armadio da poter riporre i paramenti sacri che ogni volta, terminate le funzioni, dovevano esser riconsegnati a una delle orfanelle, sacrestana interna, col mezzo della rota praticata a destra dell'altare. La superiora era venuta ultima al tribunale di penitenza, attesa impazientemente. I maligni dicevano che tra il presidente e lei fossero corse cose poco pulite prima che egli la facesse entrare nell'orfanotrofio; e quantunque dicessero anche che il presidente, preso poi da scrupoli di bigotto, avesse voluto riparare al mal fatto rinchiudendola colà, il loro contegno, per lo meno, non sembrava prudente. - Figliuola mia, avreste dovuto capirlo, e da un pezzo, che non sta bene! ... - le disse. - Il signor presidente ha la bontà di consultarmi intorno alle faccende dell'orfanotrofio. - Non occorre però che vi consulti in disparte e tutti i giorni. È anzi malissimo, per riguardo delle orfanelle. Fate che sia presente sempre una di esse, come nei monasteri, quando una monaca deve parlare con qualcuno che non è suo stretto parente. Dare scandalo, sia pure con l'apparenza, è peccato grave. Io non posso assolvervi, se non vedrò prima l'emenda ... Il presidente andò su le furie quando apprese quel che il «Braccaccio» pretendeva dalla superiora. Con che diritto voleva mescolarsi ne le faccende interne dell'orfanotrofio? L'avea sbagliata! Che si figurava? D'aver da fare con un babbeo, pezzo di «Braccaccio», che non era altro? E «Braccaccio» a tutto spiano, davanti ai muratori, ai manovali e anche alle orfanelle, che di tanto in tanto venivano a dare un'occhiata di curiosità ai lavori del nuovo dormitorio e scoppiavano a ridere quantunque si trattasse del loro confessore. Per questo avvenne che la comunità si dividesse in due partiti; uno formato dalla superiora e da quattro o cinque delle anziane, l'altro dalle piú giovani che andavano ogni giorno a far pissi pissi dietro la piccola grata, come la notte stavano a far pissi pissi dalla parte del vicoletto cieco dove non abitava nessuno, sporgendosi dalle finestre per conversare coi giovanotti e afferrare i mazzetti di garofani e di basilico che quelli buttavano in alto - Questo per Lisa! Questo per Carmela! Questo per Giovanna! - intanto che la superiora dormiva o fingeva di dormire forse, a fine di non accattarsi odi e di farsi perdonare le conversazioni col presidente. Il guaio accadde quando la superiora, mal suggerita, volle mostrarsi rigorosa per castigare le piú accanite del partito del cappellano. Il presidente rincarò la dose facendo murare quelle finestre che non giovavano piú, ora che nel nuovo dormitorio già erano schierati in doppia fila i letti, e ordinando, inoltre, alla superiora di serrarne l'uscio a chiave durante la notte. Fece anche peggio quel fegatoso del presidente. - Caro ... - e ci mancò poco che non soggiungesse «Braccaccio» - caro signor cappellano, bisogna regolare questa faccenda della confessione. Una volta al mese ... una volta ogni quindici giorni ... se cosí vi piace ... Ma tutti i giorni, no. Le orfanelle devono lavorare per guadagnarsi il pane, e non perdere il tempo a conversare con lei ... - Conversare? ... Prego! Prego! ... - protestò il «Braccaccio». - Sono maliziose; voi non ve n'accorgete. Ve l'hanno mai detto che facevano all'amore, dalla parte del vicolo cieco, ogni notte? ... Non ve l'hanno mai detto. - Che ne sapete? Io non posso né debbo rivelare le confessioni - lo interruppe il «Braccaccio». - Ho dovuto far murare quelle finestre. Orfanelle, va bene, ma ragazze col sangue infocato e con le teste per aria! ... Le compatisco, e una notte o l'altra, non ostante le vostre confessioni e comunioni e i vostri sermoni domenicali ... E lo lasciò là, stupito di quelle rivelazioni, turbatissimo, quasi le penitenti gli avessero fatto un tradimento! Quella mattina, don Lucio sbrigò la messa piú lestamente del solito, e quantunque avesse udito picchiare dietro la piccola grata, segnale che qualcuna volesse confessarsi, finse di non averci badato; e andò via, imbronciato, a capo chino, proprio come un bracco che ha cacciato inutilmente. Che significavano quel profondo dolore e quello sgomento che gli facevano battere il cuore con non mai provata violenza? Perché gli si presentavano insistentissimi davanti agli occhi i visi delle tre penitenti predilette, alle quali egli aveva insegnato a cantare le strofette della consacrazione perché poi le insegnassero alle altre, e le cantassero insieme le domeniche a fin di render piú solenne la messa, poiché la chiesetta era cosí povera da non avere un piccolo organo per rallegrare le sacre funzioni? E tutti gli scrupoli che lo avevano tormentato in seminario, quando si preparava al sacerdozio, gli ripullulavano improvvisamente nell'animo, rimproverandolo di essersi lasciato tentare dal demonio per mezzo di quelle tre penitenti alle quali credeva di essersi affezionato spiritualmente, e che ora scopriva di volerle bene in tutt'altro modo, e tutte tre a una volta, peggio del presidente che almeno si contentava della sola superiora! Ecco perché si era ripulito, dal nicchio spelato alle scarpacce, dopo che esse gli avevano detto: - Padre cappellano, si compri un cappello nuovo! Padre cappellano, si faccia una bella zimarra nuova! Padre cappellano, si faccia un paio di scarpe con le fibbie d'argento! Infatti, da qualche tempo in qua, egli non sembrava piú il «Braccaccio» di una volta con quel nicchio lucente, con quella zimarra di panno fino, le scarpe sempre ripulite e ornate di fibbie d'argento, e le collarine bianche come la spuma, che le tre penitenti gli lavavano e stiravano a gara, dopo avergliene orlate una dozzina! Gli scrupoli però non erano riusciti a impedirgli di riprendere, passata quella triste settimana, la vita di prima; di sentire un profano piacere durante la confessione, quando dietro la piccola grata si facevano udire i mormorii delle note voci di quelle tre, e di intrattenerle piú a lungo delle altre per tentar di strappar loro il segreto delle notturne conversazioni coi giovinastri e che tutte e tre si ostinavano a negare. - Siete in peccato mortale! ... Commettete sacrilegio! - Io voglio bene soltanto al padre confessore, senza malo fine - rispondevano tutte e tre, forse messesi d'accordo, dopo le prime avvisaglie. E lui se ne compiacque, e gli scrupoli rinascenti gli resero piú vivo quel compiacimento, fino al giorno in cui la gelosia scoppiò tra quelle, perché ognuna voleva esser sola nella predilezione del padre confessore, ora che non avevano lo svago di poter amoreggiare la notte dalle finestre del vicolo. Il «Braccaccio» perdé la testa quando una di esse ebbe la sfrontataggine di dirgli chiaro e tondo che voleva essere la preferita. - E quando uscirò di qui, verrò a farle da serva in casa! - Sí! Sí! - egli rispose, cosí sbalordito da non capire quel che diceva e faceva. Fu la sua rovina! Se la prendeva col presidente, con la superiora, con gli invidiosi, con le pettegole dell'orfanotrofio; e si sfogava, si sfogava con la gente, affermando che non era vero, che monsignore era stato ingannato, e il sindaco pure; e che gli avevano fatto una grande ingiustizia levandogli la cappellania, dopo ch'egli aveva rimesso a nuovo la chiesetta e ravvivato il culto, spendendo anche del suo per certi arredi sacri! Era come una mosca senza capo ora che non aveva nessuna occupazione all'infuori di quella di dir messa e di andar a recitare l'ufficio in coro; e non lo distraevano neppur gli affari pei quali era tornato a braccheggiare di qua e di là, visto che il sindaco non si era lasciato smuovere dalle insistenti preghiere, e neppure il vicario capitolare, e neppur monsignore per rimetterlo al posto, infamemente toltogli, egli andava ripetendo a chi voleva e a chi non voleva saperlo. E spesso, per dispetto, pensava davvero di commettere la balordaggine di cavar fuori dall'orfanotrofio colei che gli aveva detto: - Verrò a farle da serva in casa! - Almeno cosí presidente, superiora, pettegole, sindaco, vicario capitolare, monsignore avrebbero avuto la sodisfazione di averlo costretto a fare quel che non avrebbe mai fatto senza le loro calunnie! E diceva: - Calunnie! - in buona fede, quantunque pensasse, piú spesso che non fosse necessario, a quella penitente che gli mandava a baciar le mani per mezzo del ciabattino sacrestano. Egli veniva pure a raccontargli i suoi guai per via del nuovo cappellano che lo aveva, chi sa perché, su la punta del naso! - Ah, i bei tempi quando vossignoria era là! Per questo tutte le orfanelle non cessano un istante di dir bene di lei, e le mandano a baciare devotamente le mani. Giovanna Pepe piú particolarmente delle altre, poveretta! - Gli sfoghi del sacrestano finivano sempre con quest'antifona da che aveva notato che il «Braccaccio» n'era tanto lusingato da regalargli due o tre soldi ogni volta, soggiungendo sotto voce: - Salutatela da parte mia! È una buona figliuola! Ci hanno calunniato, caro maestro Onofrio! - Non sentiva piú ambizioni di sorta alcuna. Col cappellanato gli avevano tolto ogni forza di attività; e se rifletteva che ormai era tempo di farsi nominare canonico, alzava le spalle! - A che scopo? Non ci sono piú prebende! Si becca tutto il parroco, buon pro gli faccia! - E già si trascurava, quasi non avesse piú nessuna ragione di spazzolare il nicchio, di riguardarsi dal macchiare la zimarra, di cambiare piú spesso la collarina, di farsi ripulire ogni mattina le scarpe! E un bel giorno si risolse di abbandonare il paese, di andar a dimenticare altrove, lontano, in qualche cura di villaggio colei che non gli lasciava aver pace, mandandogli a baciare le mani col ciabattino sagrestano. Il vicario capitolare lo vide ricomparire con spavento ogni mattina: - Monsignore non ha risposto? - Non ha risposto! E la sorella del vicario era tornata a brontolare: - Almeno si ripulisse le scarpacce prima di entrare! - Vedendo che monsignore non provvedeva, andò a fissarsi a Caltagirone, nella lurida stanzuccia di un luridissimo albergo; e ogni mattina, a ora fissa, si presentava nell'anticamera del palazzo vescovile, per l'udienza. - Monsignore deve farmi la grazia! - Ma non c'è un posto vuoto! - Da coadiutore; mi contento! Monsignore è stato ingannato; deve riparare l'ingiustizia che gli hanno fatta commettere! - Non posso fare ammazzare un curato per dare il posto a voi, figliuolo mio! - Monsignore deve farmi la grazia! - Un mese di supplizio per monsignore. Fatalità! La mattina che don Lucio Bucceri arrivava nel villaggio sperduto su le falde dell'Etna per insediarsi nella cura, si trovava colà un carrettiere del suo paese. - Ah ... - esclamò costui - monsignore vi ha regalato il «Braccaccio»? - E anche colà i nuovi parrocchiani dovettero presto convenire che il soprannome era ben trovato!

Un vampiro

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Luigi Capuana 1 occorrenze

Vidi che la stringeva forte, corrugando la fronte, abbassando la testa in atto di scrutare. "Lo ama tanto!". "Non t'inganni?". "No. Il cuore di costei è come un limpidissimo fonte di cui si scorge nettamente il fondo. L'ama. Oh, tanto!", replicò. "Osserva meglio" insistei. "Non occorre. Povera donna! Ha già capito che egli dubita, e piange spesso, in segreto. È dunque cieco costui da non accorgersi che quegli occhi hanno pianto? È strano: io provo la stessa sofferenza di lei ... Devo piangere, come lei ... Lasciami piangere!". E copiose lacrime le inondarono il volto accompagnate da singhiozzi. Attesi che si sfogasse un po'. "Ora ti sveglio" la suggestionai. "Non dovrai ricordarti di niente". "Non mi ricorderò di niente". Le ripresi i pollici, aspirando, perché sapevo che così doveva farsi per riattirarmi il fluido; e nel momento in cui ella riapriva gli occhi, finsi, sorridendo, di aggiustarle la testa per la posa. "Così!". E mi misi a lavorare come se niente fosse stato. Avrei dovuto esser pago dell'esperimento; ma sapevo che i soggetti, come li chiamano, possono mentire anche durante la inconsapevolezza del sonno magnetico. Non era il caso di Delia? Per ciò ripetei per un'intera settimana, col pretesto delle pose, due o tre volte il giorno, l'esperimento e sempre con l'identico risultato, quantunque io avessi fatto ogni sforzo per indurre Delia ad essere veramente sincera. E questo, forse - anzi senza forse, ora ne sono convinto - ha prodotto gli incredibili fenomeni che per un intero anno mi han dato l'impressione di una vita fuori della vita, d'una vita che non so distinguere se sia stata sogno o realtà, e che aggiungerà presto un'altra catastrofe a quella avvenuta tre mesi addietro". "Eh, via! Non dire così!", esclamò Blesio. "A furia d'immaginare la possibilità di una disgrazia, noi contribuiamo spessissimo a farla accadere davvero". Raimondo Palli portò le mani alla fronte e alle tempie, premendo, quasi volesse impedire che gli scoppiassero: poi, rigettati indietro, con vivace movimento della testa, i folti capelli, e socchiudendo gli occhi, riprese: "Una mattina, dovetti accorgermi che Delia mi sfuggiva di mano, resistendo alla mia volontà, non cadendo più nel sonno magnetico così facilmente provocato ed ottenuto fino allora. Posava per gli ultimi tocchi della mia figurina, che era e non era il suo ritratto perché io avevo sentito ripugnanza di vendere a un estranio la precisa immagine di mia moglie. Le solite parole: "Sta' ferma! Cosi!" che le altre volte erano bastate a farla istantaneamente addormentare, riuscivano inefficaci quantunque replicate più volte. "Che cosa vuoi farmi? ... Che cosa mi hai fatto?" ella domandò, diffidente, guardandomi fisso negli occhi. E siccome io non avevo saputo risponderle, stupito di sentirla parlare a quel modo, ella soggiunse: "Mi sembra di avere qualcosa di strano dentro di me, qualcosa che mi scote, che m'eccita ... Non so come esprimermi ... Oh! oh! ... Veggo, ma non cogli occhi, lontano, fin in fondo al giardino ... Laggiù, nell'aiuola a destra, un gatto raspa la terra e danneggia le pianticine di violette! ... È possibile? ... Vieni; andiamo a vedere!". E mi trascinò per mano fuori dello studio, laggiù, dove un gatto faceva precisamente quel ch'ella aveva visto stando a sedere presso il cavalletto, da un punto dove si scorgevano appena le cime degli alberi del giardino smosse dal vento dietro la vetrata. "Sei diventata una veggente" le dissi con tono di voce che voleva essere scherzoso e non nascondeva intanto il mio stupore. "Male!" ella rispose con improvvisa serietà. "È assai meglio non vedere! ... È assai meglio ignorare!". Non aggiunse altro, né io le seppi dir altro". Blesio, impensierito dell'esaltazione del suo amico, resa più manifesta dalla crescente irrequietezza delle mani e dai rapidi alteramenti della voce in evidente contrasto con la minuziosa limpida narrazione, tentò nuovamente d'impedirgli di proseguire. "Non stancarti; ho già capito, sei stato un po' imprudente, forse ... ". "Forse? ... Troppo dovresti dire", riprese Raimondo Palli. "Troppo". E, implorando con lo sguardo, continuò: "Da quel giorno in poi, caro Blesio, io ho assistito a tali portenti di chiaroveggenza da far perdere l'equilibrio a qualunque più solido intelletto. Non osai più d'interrogarla: "Mi ami? Di', mi ami davvero?". Ma Delia sentiva anche da una stanza all'altra le vibrazioni del mio pensiero, come se le nostre anime, fuse insieme, pensassero la stessa cosa, nello stesso momento. La vedevo apparire su la soglia del mio studio, col viso contratto da dolore intenso, e la sua voce piena di lacrime mi rimproverava: "Perché dubiti di me? Lo sento, non negarlo! Che cosa dovrei fare, parla! per darti la prova suprema dell'immenso amore mio?". Pietà, o vigliaccheria, io mi ostinavo a negare. Inutilmente. La vedevo andare via niente convinta delle affettuose parole, delle carezze, dei baci che - lo capivo dopo - non producevano su lei l'effetto voluto per l'esagerazione a cui mi induceva la paura di non poter più sfuggire a quell'ispezione che mi aveva ridotto in uno stato peggiore di ogni peggiore schiavitù. Come? Non sarei più stato libero di formolare un'idea, un desiderio, una speranza, senza che Delia non venisse a dirmi: "Si, è una buona idea; dovresti attuarla. - O pure: Dipende da te, perché quel bagliore di fantasia diventi realtà. - O pure: - No, quel desiderio è troppo ambizioso per noi; non lasciartene lusingare. - O pure: Dici bene, questa speranza è un gran conforto per me!". E ciò come se io l'avessi messa a parte di tutto con le più precise parole, per consultarla, per averne l'approvazione o la disapprovazione? ... Oh! Non aver niente da nasconderle! Nei primi mesi della nostra unione, era stata anzi gran delizia per me comunicarle i più riposti pensieri, chiederle consigli, suggerimenti che mi rivelavano sempre più squisite delicatezze d'animo, sempre più fine penetrazione d'intelligenza in ricambio del mio cordiale abbandono. Volevo così dimostrarle la mia profonda gratitudine per la gioia, la felicità, la nuova essenza di vita che ella era venuta a diffondere attorno a me, tanto da farmi credere divenuto un altro, quando mi accorgevo dell'agile sviluppo di alcune mie facoltà artistiche rimaste fin allora quasi latenti. E provavo un senso di mortificazione, se Delia, con delicata modestia, mi diceva: "Che bisogno hai tu di consultarmi? Tutto quel che tu fai lo giudicherò sempre ben fatto, anche quando gli altri potranno giudicarlo altrimenti". Non avevo dunque proprio niente da nasconderle. E intanto ora stimavo violato il sacro penetrale del mio pensiero, di cui prima le spalancavo a due battenti le porte. Una cupa irritazione mi invadeva a ogni nuova manifestazione della sua inevitabile chiaroveggenza e nello stesso tempo una viva indignazione per quello che, in certi momenti, mi sembrava atto di ingrato ribelle. Non avrei dovuto essere piuttosto felicissimo per l'assoluta compenetrazione delle nostre anime, della quale la chiaroveggenza di Delia era mirabile testimonianza? "No!" riflettevo subito. "Ella rimane chiusa, impenetrabile. Io, soltanto io, sono in sua compiuta balìa!". Tentai di difendermi con lo stesso mezzo servito, involontariamente, a produrre l'incredibile fenomeno. Ma Delia non sentiva più il mio influsso; era già più forte di me". "Avresti dovuto ricorrere ad uno specialista" lo interruppe Blesio. "Un magnetizzatore di professione, probabilmente avrebbe domato quelle forze ancora non bene conosciute e che la tua malaccortezza aveva scatenate ... Ma, te ne prego, rimandiamo a qualche altro giorno questi dolorosi ricordi ... Nella foga del parlare, non ti accorgi che essi ti commuovono fortemente". "Li ripenso quando non parlo; vale lo stesso. Lasciami proseguire" rispose Raimondo, stirandosi nervosamente i baffi e la barba. "Sopravvennero intanto alcuni mesi di sosta. Credei che la eccitazione nervosa da me provocata si fosse finalmente esaurita, e che la cura consigliatami da un dottore consultato all'insaputa di Delia avesse realmente contribuito a fortificarne l'organismo. Era un po' dimagrita in quei mesi, e aveva perduto la vivace tinta che coloriva le sue guance di bruna con lieve sfumatura rosea. Soltanto lo splendore degli occhi era rimasto immutato. Vedendola rifiorire, non sospettando affatto che quella tregua potesse essere passeggera, avevo ripreso a lavorare alla statua La Giovinezza , quasi suggeritami da lei, un mattino di primavera, passeggiando insieme tra la splendida esplosione dei fiori delle aiuole che fiancheggiavano i brevi viali del nostro giardinetto. La Giovinezza , nella mia intenzione, doveva essere Delia trasformata in Dea, idealizzata, se pure ci fosse stato bisogno d'idealizzare una figura che era, pei miei occhi, un'idealità artistica in atto. Il lavoro mi assorbiva talmente che le lunghe ore di quella giornata di estate sembravano insufficienti alla mia smania di condurre a termine la statua in brevissimo tempo. Delia veniva spesso a tenermi compagnia, seduta in un angolo, leggendo e ricamando zitta zitta per non distrarmi: ed io mi accorgevo della sua presenza soltanto nei momenti di riposo della modella. Mi accorgevo pure, con doloroso stupore, che mai Delia mi era parsa così lontana da me, come in quelle lunghe giornate che più mi stava silenziosamente vicina. Eppure quella statua che mi si vivificava sotto la stecca e il pollice era la libera traduzione del bozzetto improvvisato con insolita rapidità mentre ella, che me n'aveva quasi suggerito l'idea, posava perché io fissassi nella creta il movimento delle linee della sua persona, così come l'immaginazione me la andava trasformando in fantasia d'arte. Una sera, tutt'a un tratto, Delia mi disse: !Ah, Raimondo! ... Tu stai per cessare di amarmi!". "Non pensare assurdità!", risposi bruscamente. "Tu però in quest'istante mentre neghi, pensi: - Oh, Dio, ella indovina!". Tornai a negare: ma era vero. In quell'istante pensavo proprio: "Oh, Dio, ella indovina". "Come avvenga non so" riprese Delia. "C'è dentro di me o una anima nuova, o qualcosa che direi malia, se potessi credere alla malia. Strana malia, Raimondo; malefica malia che mi fa vedere quel che non vorrei vedere, che mi fa udire quel che non vorrei udire, quasi il tuo pensiero parli per me ad alta voce ... E sto in ascolto, da mesi, costretta, decisa di non dirti niente, di soffrire in silenzio perché mi sembra che anche tu soffra ... Ah, Raimondo! Tu stai per cessare di amarmi ... Mi sento impazzire!". Non ricordo più quel che dissi per consolarla, per confortarla. Dovetti essere efficacissimo, se Delia mi si gettò tra le braccia scoppiando in pianto dirotto, balbettando tra i singhiozzi: "Perdonami! Ti faccio soffrire!". Ma il giorno dopo e così tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò più, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le più riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi ... E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io ero stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: "Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?", corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita più bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sì, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non avevo badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato". Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano più triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: "Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della Dea, assai più di essi, prendeva così mirabili chiaroscuri, riflessi così formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! "No, non è così!" balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. "No, non è così!". E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla Dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. "No, non è così! ... Non è così!". E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: "Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sì!". E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva più! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! "Mi amava davvero?". Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu!". E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

STORIE ALLEGRE

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Collodi, Carlo 2 occorrenze

Gigino guardò in viso la Veronica, e abbassando la voce domandò: "Hai saputo forse qualche cosa? ... ". "Di che?" "Del cappello ... " "Cioè?" "Dunque non sai nulla? ... Meno male ... Che cosa, dunque, dicevi?" "Dicevo che lei sarebbe capacissimo di mettersi in testa un cappello a tuba e di andare magari a farsi vedere da tutti! ... " "Sicuro che ci anderei." "Ma non pensa ai fischi e alle risate dei monelli di strada?" "Dimmi, Veronica, che hai saputo per caso qualche cosa? ... " "Di che?" "Meno male: non hai saputo nulla! ... Dicevi dunque?" "Dicevo che i ragazzacci di strada sono anche impertinenti ... e non so se si contenterebbero soltanto di ridere e di fischiare." "E che vuoi tu che mi facessero di peggio?" "Chi lo sa! Potrebbero alzare le mani e sentirsi il pizzicorino di lasciar cadere sul suo cappello qualche solennissima latta ... " "Latta? ... E che roba sono le latte?" "Sono quei colpacci a mano aperta affibbiati per celia o per davvero sul cappello degli altri." "E se qualche ragazzaccio si pigliasse la confidenza di sciuparmi il cappello, tu credi che io non ne avrei il coraggio? ... " "Il coraggio di far che cosa?" "Di scappare e di andar subito a raccontarlo alla mamma? ... Per tua regola, io non ho paura di nessuno." "Lo so che lei è dimolto coraggioso: tant'è vero che la sera, quand'è entrato a letto, vuol sempre la candela accesa. Guai a lasciarlo al buio!" "Che cosa c'entra la candela col coraggio? Il coraggio è una cosa, e la candela è un'altra: ne convieni? E poi devi sapere che il mio maestro di ginnastica ha promesso fra sei o sett'anni d'insegnarmi la scherma ... e quando saprò la scherma ... allora, te lo dico io, non avrò più paura di nessuno. Ma insomma, Veronica, me lo fai questo piacere, sì o no?" Gigino, mi dispiace a doverlo dire, aveva un altro difetto, comunissimo del resto a molti ragazzi, quello, cioè, che quando cominciava a chiedere una cosa, non la finiva più, fino a tanto che non l'aveva ottenuta. E a furia di ripetere e di pigolare la medesima cosa diventava così noioso e così seccatore, da sfondare lo stomaco. Prova ne sia che la Veronica, pur di levarsi di torno quel tormento, prese dispettosamente il goletto, e tagliatone un pezzo e ricucitolo alla meglio con pochi punti, lo ridusse adattato al collo del suo padroncino. Chi più beato, chi più felice di Gigino? Ballando e saltando corse a rinchiudersi nella sua camerina, e lì tanto fece e tanto annaspò, che finalmente poté guardarsi nello specchio col suo nuovo goletto intorno al collo. Ma il nuovo goletto era così alto e così duramente insaldato, che il povero figliuolo sentiva tagliarsi la gola! Non poteva più abbassare la testa: non poteva voltarsi né di qua né di là: pareva proprio un impiccato. Eppure quel giuccherello era contento, tanto contento, che sarebbe difficile figurarselo! La sua prima idea fu quella di chiedere alla mamma il solito permesso per andare dal solito cartolaro a comprare le solite penne: ma poi, tornandogli in mente la gran disgrazia toccata all'infelice cappello a tuba, pensò meglio di scendere giù nel giardino. Se non foss'altro, scansando il pericolo d'incontrare i monelli di strada, si sarebbe levato il gusto di farsi vedere dal giardiniere, dalla moglie del giardiniere e dal loro bambinetto. Appena arrivato sulla porta del giardino, il primo a venirgli incontro fu Melampo, un grosso cane da guardia, che cominciò subito a guardarlo male e a ringhiare, come se avesse voluto mangiarlo. "Che cos'ha Melampo?" gridò Gigino al figliuolo del giardiniere. "Che forse non mi conosce più? Non riconosce il suo padrone?" "Come vuol che faccia a riconoscerlo, con codesto golettone che gli fascia tutta la gola? ... Lo creda, sor Gigino, duro fatica a riconoscerlo anch'io ... Da ieri a oggi, l'è così imbruttito ... con rispetto parlando!" "Imbruttito? ... Sarebbe a dire? ... " "Lo creda, sor Gigino, la mi pare un galletto, quando gli hanno tirato il collo ... Che gli è venuto forse un tumore, Dio ci liberi tutti?" "È meglio che me ne vada, senza risponderti ... se no, te ne direi delle belle" masticò Gigino fra i denti: e si avviò verso il pergolato. Ma costretto a camminare a testa alta e non potendo vedere dove metteva i piedi, inciampò dopo pochi passi in un secchione pieno d'acqua lasciato per dimenticanza nel mezzo, e cadde lungo disteso sulla ghiaia del viale. E la sua caduta fu così divertente, che alcune galline, le quali stavano beccando lì dintorno, invece di fuggire spaventate, cominciarono a sbattere le ali e a fare coccodè coccodè , tale e quale come se ridessero di genio alla vista di quel ragazzo così buffo per il suo golettone insaldato. Basti dire che fra quelle galline, ve ne fu una che, nello sforzo del gran ridere, scodellò senza avvedersene un bellissimo ovo fresco. Gigino, come potete immaginarvelo, tornò a casa tutto mortificato, e c'è da compatirlo! Se col suo goletto avesse messo di buon umore solamente il ragazzo del giardiniere, pazienza! Ma far ridere anche le galline, è troppo! Veramente, è troppo!

A dirla schietta, lo scimmiottino non aveva l'ombra della fame: ma tentato dalla sua gran ghiottoneria, rispose abbassando gli occhi e facendo finta di vergognarsi: "Un bocconcino lo mangerei volentieri ... ". Alfredo sonò il campanello d'argento, e il servo portò in tavola un cestino pieno ricolmo di bellissime pesche. Lo scimmiottino non le mangiò, ma le divorò in un baleno. Dopo le pesche, vide presentarsi un canestro di ciliegie così grosse, così mature e così rilucenti, che facevano venire l'acquolina in bocca soltanto a guardarle. Pipì se le sgranocchiò tutte, a tre e quattro per volta: ma non volendo passare per uno scimmiottino ineducato, lasciò nel canestro i nòccioli, le foglie e i gambi. Quando si sentì pieno fino agli occhi, allora si alzò da tavola, e fatta una bella riverenza, disse al padroncino di casa: "Arrivedella signor Alfredo: scusi tanto l'incomodo e mille grazie della sua cortesia." "Addio, Pipì. Fa' buon viaggio, e tanti saluti a casa." Lo scimmiottino si avviò per andarsene: ma in quel mentre vide entrare il cameriere con un paniere di frutta, che mandavano un odorino da far resuscitare un morto. "E quelle che frutta sono?", domandò, tornando due passi indietro. "Quelle son nespole del Giappone", rispose Alfredo. "Le avevo fatte preparare per la tua cena di stasera." Pipì rimase un po' pensieroso: e poi disse: "Pazienza!". E fattosi un animo risoluto, si avviò di nuovo per partire. Giunto però sulla porta di sala, si trattenne alcuni minuti. Quindi, volgendosi al giovinetto, gli chiese: "Scusi, signor Alfredo, che ore sono?" "Mezzogiorno preciso." "Mezzogiorno? ... A dir la verità, mi pare un po' tardi per mettersi in viaggio." "Tutt'altro che tardi. Ti restano ancora sette ore di giorno chiaro, e in sette ore si fa dimolta strada." "Ha ragione e dice bene. Dunque arrivedella, signor Alfredo, scusi tanto l'incomodo e mille grazie della sua cortesia." E questa volta partì davvero. Ma dopo un quarto d'ora Alfredo se lo vide ricomparire in sala, tutto ansante e trafelato. "Che cosa c'è di nuovo?", gli domandò il giovinetto. "C'è di nuovo", rispose Pipì, "che questo sole sfacciato mi dà una gran noia e mi fa abbarbagliare gli occhi. Non potrebbe, di grazia, prestarmi un ombrellino di tela da pararmi il sole?" "Volentieri." Alfredo chiamò il cameriere: e il cameriere portò subito un grazioso parasole, dipinto con grandi fogliami di bellissimi colori azzurri e verdi. Pipì prese l'ombrellino, l'aprì, e cominciò a girare intorno alla stanza, dando continuamente delle lunghissime occhiate al canestro delle nespole giapponesi. "Amico mio", disse allora Alfredo, "se indugi un altro poco, farai notte senza avvedertene, e ti toccherà a viaggiare al buio." "Io di giorno non so camminare", rispose Pipì. "O non sarebbe meglio che partissi questa sera dopo cena?" "Padronissimo di fare come credi meglio." E nel dir così, Alfredo lasciò balenare in pelle in pelle un risolino canzonatorio, che pareva volesse dire:" Caro il mi' ghiottone! Ho bell'e capito qual è il tuo debole: lascia fare a me, che ti domerò io!". Quando fu l'ora della cena, Pipì, senza nemmeno aspettare di essere invitato, andò a sedersi alla tavola dov'era seduto Alfredo: ma questi pigliando un tono di voce serio e padronale, gli disse: "Che cosa fate costì?" "Vengo a cena anch'io." "Le persone che vengono alla mia tavola, le voglio veder vestite decentemente. Andate subito a mettervi la giubba." "Io ... con la giubba ... non so mangiare. La giubba non me la metto." "Allora ritiratevi là, in fondo alla sala, e contentatevi di assistere alla mia cena." Quando Pipì si accorse che Alfredo diceva sul serio, si dette a piangere e a strillare: e piangendo e strillando scappò dalla stanza: ma dopo poco tornò. Quando rientrò nella stanza, aveva la sua giubbettina infilata e tutta abbottonata, come un piccolo milorde. "Così va bene", disse Alfredo. "Mettetevi ora a sedere, e buon appetito!" Il canestro delle nespole fu portato in tavola. Inutile starvi a dire che, dopo un quarto d'ora, il canestro era vuoto, e lo scimmiottino era pieno, da non poterne più. "Ora poi me ne vado davvero", disse alzandosi da tavola con grandissima fretta. Ma nel mentre che stava armeggiando per levarsi di dosso la giubbettina, il cameriere si presentò in sala con un magnifico vassoio di melagrane. "Che odorino!", gridò Pipì, annusando e lasciando gli occhi sul vassoio delle frutta. "O quelle melagrane per chi sono?" "Erano per la tua colazione di domani. Ma ormai tu parti, e le mangerò io." "Io ... partirei volentieri, ma di notte non so camminare. O non sarebbe meglio che partissi domattina, dopo fatto colazione?" "La tua camerina è già preparata. Buona notte." La mattina dopo, all'ora di colazione, lo scimmiottino si presentò puntualmente vestito con la giubba di panno nero: ma il signor Alfredo, dopo averlo squadrato da capo ai piedi, gli disse con accento vivace e risentito: "Chi vi ha insegnato a presentarvi alla tavola di un gentiluomo, senza scarpe ai piedi e senza fazzoletto al collo? Andate subito a mettervi le scarpe e la cravatta." Pipì, confuso e mortificato, cominciò a grattarsi la testa e il naso, e piagnucolando disse: "Ih ... ih ... ih ... le scarpe mi fanno male ... e il fazzoletto mi serra la gola. Piuttosto voglio andar via subito ... voglio tornarmene a casa mia." "Levatevi dunque dalla mia presenza." Pipì si avviò mogio mogio verso la porta della sala: ma prima di uscire, si voltò per dare un'ultima occhiata al vassoio delle melagrane. Poi se ne andò. "Questa volta è partito davvero", disse Alfredo tutto afflitto. "E me ne dispiace. Gli volevo bene a quello scimmiottino. Che cosa dirà la mia buona fata, quando saprà che l'ho scacciato? Eppure, era lei che me l'aveva fatto capitare fin qui, proprio in casa, consigliandomi a prenderlo per mio segretario e per mio compagno di viaggio! ... Ma oramai quel che è fatto, è fatto, e ci vuol pazienza." Mentre Alfredo parlava in questo modo fra sé e sé, gli parve che fosse bussato alla porta della sala e nel tempo stesso si udì una vocina di fuori che disse: "Signor Alfredo, che mi ha chiamato?" "Chi è?", gridò il giovinetto rizzandosi in piedi. "Sono io." La porta si aprì e comparve lo scimmiottino. Aveva in piedi le sue scarpettine scollate e portava la testa ritta e impalata, perché il fazzoletto da collo, moltissimo inamidato, gli segava terribilmente la gola. A quella vista inaspettata, è impossibile immaginarsi l'allegrezza di Alfredo. Andò incontro a Pipì, lo abbracciò, lo baciò, gli fece un mondo di carezze, come si farebbero a un carissimo amico, dopo vent'anni di lontananza. Giurarono di non lasciarsi mai più e di fare insieme questo gran viaggio intorno alla terra. Il bastimento sul quale dovevano imbarcarsi, era aspettato di giorno in giorno. Finalmente il bastimento arrivò. La sera della partenza, Alfredo e Pipì pranzarono insieme, come erano soliti di fare. E durante il pranzo parlarono di mille cose, dissero un visibilio di barzellette, e risero e stettero allegrissimi come due ragazzi alla vigilia delle vacanze autunnali. Alzatisi da tavola, Alfredo disse guardando l'orologio: "Il bastimento parte a mezzanotte. Dunque abbiamo appena un'ora di tempo per dare un'occhiata ai bauli e per vestirci tutti e due in abito da viaggio". In cinque minuti io son pronto, disse Pipì, e ballando e saltando entrò nella sua camerina. E quando fu lì, cominciò subito a levarsi la giubbettina di panno nero per infilare una piccola giacca di tela bianca; invece delle scarpine calzò un paio di stivaletti a doppio suolo, e invece del solito cappello si ficcò in testa un elegante berrettino di seta celeste. Poi andò a guardarsi allo specchio: ma nel mentre che se ne stava tutto contento, pavoneggiandosi e facendo con la bocca e con gli occhi mille versacci grotteschi, sentì un piccolo rumore, come se qualcuno di fuori si arrampicasse per salire fino alla sua finestra di camera. Da principio ebbe una gran paura: ma, fattosi coraggio, aprì la finestra e vide ... vide due zampe che lo abbracciarono stretto intorno al collo e intese una voce soffocata dalla consolazione e dalla gioia, che mugolava teneramente. "Oh mio povero Pipì! ... Finalmente ti ho ritrovato."

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

«È il figlio d'un prete», disse il mugnaio, abbassando la voce. «Non è vero. È del padrone. Osservalo; è tal e quale a Margarita.» «Ecco», rispose il mugnaio completamente disarmato, «quel bambino è cattivo come il diavolo: non si può far studiare. Si può combattere contro le pietre?» «Ah, bene!», mormorò zio Pera, ripreso da un attacco di tosse. Anania stette ancora alla finestra, sputando sul mucchio di sanse, oppresso da una misteriosa tristezza. Egli conosceva il ragazzetto che lavorava presso il Carchide, e sapeva che era discolo, ma non più di Bustianeddu e d'altri ragazzi che frequentavano la scuola. Perché il signor Carboni non lo prendeva in casa sua, se era suo figlio, come lui era stato preso dal mugnaio? Poi pensò: «Ha madre, quel ragazzetto?». Ah, la madre, la madre! A misura che egli cresceva, che la sua mente aprivasi e le sue idee e le sue percezioni prendevano forma, il pensiero della madre delineavasi sempre più chiaro nel crepuscolo della sua coscienza nascente. In quel tempo egli frequentava la quarta elementare, tra fanciulli di ogni condizione e di ogni carattere, e cominciava ad aver sentore della scienza del bene e del male. Si vergognava già coscientemente se qualcuno alludeva a sua madre, e ricordava di essersene sempre vergognato per istinto; e nello stesso tempo provava un desiderio struggente di sapere ove ella era, di rivederla, di rimproverarle la sua fuga. Già la terra ignota, lontana e misteriosa, ove ella s'era rifugiata, prendeva ai suoi occhi linee e parvenze decise, come la terra che tra i vapori dell'alba s'avvicina al naviglio viaggiante. Egli studiava con piacere la geografia, e sapeva già perfettamente l'itinerario da percorrere per arrivare dall'isola a quel continente dove si nascondeva sua madre. E come un tempo, nel villaggio dell'alta montagna, sognava la città dove viveva suo padre, adesso pensava alle grandi città di cui leggeva notizie nei libri di scuola, ed in una di esse, ed in tutte, vedeva sua madre. L'immagine fisica di lei si scoloriva sempre più nella sua memoria come una vecchia fotografia, ma egli se la figurava sempre vestita in costume, scalza, svelta e triste. Un fatto accaduto qualche anno appresso sconvolse però le sue fantasticherie. Fu il ritorno della madre di Bustianeddu. In quel tempo Anania frequentava il ginnasio ed era segretamente innamorato di Margherita Carboni: si credeva quindi già una persona seria, e finse di non interessarsi al fatto che commoveva tutti i suoi vicini di casa, mentre invece vi pensava giorno e notte. Oppresso da un cumulo d'impressioni dolorose. Egli non vide presto la donna, nascosta in casa di una sua parente, ma giorno per giorno riceveva le confidenze di Bustianeddu, che era diventato un giovinetto serio ed astuto. Siccome zio Pera perdeva le forze, s'era associato il mugnaio nella coltivazione delle fave e dei cardi. Anania aveva quindi libero ingresso nell'orto, e amava studiare seduto sull'erba del ciglione, nella corta ombra dei fichi d'India, davanti al selvaggio panorama dei monti e della vallata. Qui Bustianeddu veniva a trovarlo ed a confidargli i suoi pensieri. «È tornata!», diceva, steso a pancia a terra sull'erba, e muovendo le gambe in aria. «Era meglio che non tornasse. Mio padre voleva ammazzarla, ma poi s'è calmato.» «L'hai veduta?» «Sicuro che l'ho veduta. Mio padre non vuole che io vada da lei, ma io ci vado egualmente. È grassa, vestita da signora. Io non l'ho riconosciuta, diavolo!» «Tu non l'hai riconosciuta!», esclamava Anania, palpitando, meravigliandosi di Bustianeddu e pensando a sua madre. Ah, egli l'avrebbe riconosciuta subito! Ma poi diceva a se stesso: «Anche lei sarà vestita da signora, pettinata alla moda ... Dio, Dio, come sarà?». «In tutti i modi la riconoscerei, oh, ne sono certo!», pensava poi, confidando nel suo istinto. «Perché è tornata tua madre?», chiese un giorno a Bustianeddu. «Perché? Oh, bella, perché questo è il suo paese. Essa cuciva a macchina, in una sartoria di Torino; era stanca ed è tornata.» Un grave silenzio seguì a queste parole: i due ragazzi sapevano che la storia della sartoria era una menzogna, ma l'accettavano incondizionatamente. Anzi, dopo un momento, Anania osservò: «Ed allora tuo padre dovrebbe far la pace». «No!», disse Bustianeddu, fingendo di dar ragione a suo padre. «Ella non aveva bisogno di lavorare per vivere!» «Oh, che tuo padre non lavora? È vergogna lavorare?» «Mio padre è un negoziante!», corresse l'altro. «Che farà ora tua madre? E tu con chi andrai a stare?» «Chi lo sa!» Di giorno in giorno, però, le notizie diventavano sempre più emozionanti. «Se tu sapessi quanta gente viene da mio padre per pregarlo di far la pace con lei! Anche il deputato, sì. Poi venne la nonna, ieri notte, e disse a mio padre: "Gesù perdonò alla Maddalena; ebbene, figlio mio, pensa che siamo nati per morire; pensa che al di là noi rechiamo con noi solo le buone azioni. Guarda come è desolata la tua casa; i topi vi fanno continuamente festa".» «E tuo padre?» «"Andate via", disse arrabbiandosi, "andate via subito; vergognatevi."» «Ed ora», disse Bustianeddu il giorno appresso, «ora s'è immischiata anche zia Tatàna! Che sermone ha fatto! "Ecco" ha detto a mio padre, "figurati di prendere in casa un'amica. Prendila: ella è pentita, si emenderà. Se tu rifiuti chissà che cosa avverrà di lei! Re Salomone aveva settanta amiche in casa sua ed era l'uomo più savio del mondo"». «E lui?» «Duro come la pietra; anzi disse che le amiche fecero perder la testa a Salomone.» Infatti il negoziante non si piegò mai; e la donna andò ad abitare dall'altra parte del paese, verso il convento ov'erano le scuole; rivestì il costume, ma un costume un po' falsato, arricchito di nastri e di merletti, e dal quale si riconosceva subito la donna di fama equivoca. Il marito non perdonò, ed ella continuò la sua vita. Anania la vide un giorno, e poi sempre, mentre si recava al ginnasio; ella abitava una casa nerastra, intorno alle cui finestre biancheggiava una striscia di calce che terminava in una croce. Sotto la porta c'erano quattro scalini, e spesso la donna, che era alta e bella, sebbene non più giovanissima e molto bruna di viso, stava seduta sugli scalini, cucendo o ricamando una camicia paesana. In estate rimaneva a testa nuda, coi capelli nerissimi rialzati un po' a ciuffo sulla breve fronte, e teneva un fazzolettino di seta grigia intorno al lungo collo. Anania arrossiva ogni volta che la vedeva; provava una morbosa simpatia per lei, e nello stesso tempo gli pareva di odiarla. Avrebbe voluto cambiar strada per non vederla, ma una forza occulta e maligna lo attirava sempre in quella via.

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Lungo il corridoio, col capo appoggiato agli armadi, si schierano i bottegai del quartiere che credono ancora alla santità del peso e delle misure e aspettano in fila la volta di gettarsi ai piedi del vecchio Cristo, che in duecento o trecento anni che sta lì, ne ha sentite d'ogni colore e, abbassando la testa impolverata in un atteggiamento di stanchezza, par che dica: "Che fare? ci vuol pazienza..." Il Berretta nel rivedere il luogo e la croce risentì per una naturale associazione d'impressioni un rimescolamento che aveva nel fondo un rimorso, simile a una piccola puntura di spillo. E stava ancora coll'animo sospeso quando da una porticina di fianco sbucò un altro prete, che non aveva nulla a che fare colla nettezza e colla bonomia di don Felice. Era invece un vecchio olivastro, una faccia da contadino, rugosa come una castagna secca: era insomma don Giosuè Pianelli. "Ci siamo!" disse in cor suo il portinaio, che capì o credette di capire all'ingrosso il motivo di questa chiamata, e si preparò a sostenere un processo. "Ti ho fatto chiamare, caro Pietro, per qualche schiarimento. Sedete, don Giosuè." "Son comodo" disse il canonico, raggruppandosi più che sedendo sopra uno sgabello di legno, mentre il prevosto andava a mettersi nella poltrona di pelle, sotto la croce, come il Berretta era solito vederlo due volte all'anno. Il portinaio rimase in piedi tra i due preti inquisitori, sotto la soggezione di quel gran Signore in croce. "Io non ho bisogno di dirti che facciamo conto sulla tua sincerità, va bene, Berretta? Conosci don Giosuè?" "Eh, se mi conosce, altro che!" prese a dire il canonico, facendo in modo da poter osservare il portinaio nella luce obliqua che pioveva di sotto le tende. "Dunque, saprai, il mio Pietro, che don Giosuè Pianelli è stato il confessore della povera sora Ratta, che fu per i poveri di questa parrocchia un vero angelo di carità. I sussidi sono scarsi e la miseria cresce ogni dì." "Di miseria non c'è mai miseria" aggiunge don Giosuè, seguitando con un tono irritato: "Cresce la miseria, crescono i vizi, crescono i birboni, mentre cala la religione e la carità... Sono i begli effetti del massonismo trionfante." "Don Giosuè non ha torto" riprese il buon vecchietto "ma di cristiani ce ne sono ancora e il nostro Berretta è uno di questi: non è vero? bravo, bravo." Il portinaio spalancò la bocca, aprì le braccia a un movimento d'ometto meccanico e rimase lì. Avrebbe pagato un occhio del capo a non esserci. Sentiva già da lontano che i due preti andavano tirando i fili d'una rete per pigliarlo in mezzo. Ma gli mancò la forza di scappare, che in certi frangenti, come dice la lepre, è il miglior rimedio. "La santa Pasqua è vicina, e tu sai, non è vero, Berretta? tu sai tutta l'importanza dei sacramenti. Si tratta ora di compiere un'opera di giustizia, che si riduce in fondo a un'opera di carità, sicuro! Si tratta del bene dei poveri, sicuro! Tu hai detto a qualcuno che il signor Antonio Maccagno..." "Tognino, Tognino" corresse don Giosuè, mettendo nella storpiatura del nome un suo gusto particolare. "Tu hai detto che il signor Maccagno, tuo padrone, ha preso una carta..." "Io, io, io?" balbettò troppo in fretta il portinaio, rispondendo prima d'essere interrogato. Don Giosuè chiuse un occhio e guardò fisso coll'altro il prevosto. Quell'occhio nero e lucente, pieno di espressione, avrebbe voluto dire: "Capite?" "Aspetta, lascia finire a don Felice. Parlerai dopo, il mio galantuomo." E don Giosuè fece sentire un'ironia che sonò male all'orecchio del povero sarto. "Dunque, è vero o è falso che la notte prima del funerale, presente cadavere, tu hai aiutato il sor Antonino..." "Tognino!" ribadì l'altro, che preferiva avere il suo uomo storpiato. "... a cercare una carta nella stanza della morta?" "Io ho detto? quando ho detto questo? io, una carta? che carta? non so un bel niente, io, di carte... Io faccio il sarto..." Così disse il portinaio, con aria distratta, muovendo il capo ad ogni frase, ora a destra, ora a sinistra come un automa meccanico; ma il cuore era un martellamento d'inferno. Capì subito che se si lasciava pigliare a questa trappola egli era perduto. Divenne rosso rosso, come se il vino rubato alla vecchia Ratta gli andasse tutto in una volta alla testa. "Non so niente io, di carte..." "Ha coraggio di spergiurare sotto gli occhi di nostro Signore questo bel galantuomo" saltò su il canonico. "Abbiate pazienza, don Giosuè. Intellige quae dico Il Berretta può benissimo aver detto una cosa e la gente aver interesse a capirne un'altra: va bene?" "Sissignore, sor prevosto, che Dio lo benedica, deve essere proprio così. C'è della gente che mi manderebbe volentieri in galera, e della gente che vorrebbe vedermi impiccato. Che ne so io di questi pasticci? Io faccio il sarto, vedo e non vedo, sento e non sento, piglio da tutti e non m'intrigo nei pettegolezzi. Di che carte mi parlano?" "Senti, il mio bravo Pietro, noi non facciamo nessun aggravio a te. Sappiamo bene che sei un galantuomo e che anche tu devi obbedire al più forte. Lasciamo stare quel che puoi aver detto o meno: e aiutaci a depurare la verità. L'hai sorvegliata tu la morta la notte avanti al funerale? Sì? bravo, bravo. Ed eri solo in camera?" Il Berretta, coi dieci diti delle mani irrigiditi in aria, faceva ogni sforzo per poter dir di no, un bel no, che l'avrebbe salvato dal rispondere altri sì; ma non seppe sputarlo fuori. La strada del male non era la sua e il diavolo non aiuta che i suoi. "E in quella notte non è venuto il sor Antonino?" "Vuol dire il sor Tognino" corresse per la terza volta il canonico. "Di' la verità, non c'è nulla di male." "Bisogna che io mi ricordi" sillabò, alzando gli occhi alla volta, e portando alla bocca la punta d'una mano. "Eh, eh, guarda il balordo" sogghignò don Giosuè andando colle mani fin sotto il naso del suo galantuomo. "Noi non dobbiamo far violenze alla coscienza, caro don Giosuè. Bisogna pure che il nostro Berretta si ricordi e verifichi il fatto, spiritu et veritate Non gli vogliamo far del male, si sa; né lui è uomo capace di far del male al prossimo, mentre ci può essere della gente interessata a far del male a lui." "Lei dice bene, sor prevosto: che Dio lo benedica per i suoi morti." "Lo conosco da un pezzo il babbuino: oggi gli giova di far l'indiano per non pagare dazio. Volete che non se ne ricordi? prova un poco ad alzare gli occhi, aperti ve', a questo Signore in croce e torna a ripetere: ' Non me ne ricordo '. Sostieni che il sor Tognino non è venuto quella notte, verso le due; di': non è vero, Signor Gesù Cristo, che io ho fatto lume al padrone mentre egli cercava una carta... Ah! tu vorresti scappare, adesso." Don Giosuè afferrò il portinaio per un braccio e cominciò a scrollarlo, come se cercasse di svegliare uno dei sette dormienti. "Non so niente, dico..." gridò piagnucolando il poveretto con voce più scossa e indebolita. Come diavolo il prete aveva saputo questi particolari? eran voci corse, c'eran dei testimoni, oppure era una trappola per farlo cascare? Fra i due giudici il più pericoloso non era, come si potrebbe credere, quel che pareva il più terribile, quello cioè che gridava di più, che lo minacciava, che l'irritava colla sua voce rauca, col suo dito lungo, magro, color tabacco. La forza non è sempre nella forza. Ciò che lo avviliva maggiormente, che gli toglieva l'animo di resistere e di spergiurare, che lo disarmava in quel contrasto, era la presenza bonaria e paterna di don Felice, la voce buona, carezzevole di questo buon vecchio tremolante, che mentre accaloravasi a proteggerlo, rimescolava tutte le forze morali della resistenza. "Senti, caro Pietro," riprese la voce paterna e insinuante del prevosto "capirai benissimo che qui non si tratta del nostro interesse, né di cattive intenzioni che si abbiano contro di te, povero diavolo. Si tratta puramente e semplicemente d'un diritto di giustizia, sicuro! Si tratta del pane di molta povera gente, che si presume danneggiata non da te, povero diavolo, ma da un uomo, a cui Dio avrebbe tolto per un momento il lume della coscienza. O le voci che corrono son false e tu, il mio buon Pietro, hai il dovere di dimostrare che son false e che quello che hai potuto dire a terze persone è egualmente falso: o le voci son vere, cioè hanno fondamento nel vero, anzi tu sei stato, tuo malgrado, testimonio del vero, e allora, caro figliuolo, pensa al carico di coscienza che stai per assumere. Senza cattiva intenzione tu ti fai complice d'un ladroneccio, ti copri di una responsabilità che io, ne' tuoi panni, non vorrei per tutto l'oro del mondo portare davanti al tribunale di Dio." "Ma se io non posso parlare" singhiozzò l'uomo, alzando le due mani sopra la testa e tenendole così aperte nell'aria. "Se ci andasse di mezzo la vita?" "Ah, t'hanno dunque minacciato," entrò a dire don Giosuè "bene, bene, bene!..." E fregandosi le mani, fe' una giravolta nella stanza. "Ti hanno minacciato? e dubiti che questo Signore che ti sta sul capo sia meno forte dei prepotenti che ti minacciano? e quando pur sapessi che c'è qualche pericolo a dir la verità, puoi tu comperare la tua sicurezza a prezzo d'un tradimento? e credi che vi possa essere sicurezza nel campo della ingiustizia? e ti par bello dormire sul letto di spine de' tuoi rimorsi, il mio Pietro? in balìa al genio delle tenebre, il mio Pietro?" Così batteva sul cuore del portinaio la voce amorosa e terribile. "Io non ho rubato nulla a nessuno, per la benedetta Madonna! Sono un povero uomo che non fa male a nessuno; non ho detto niente a nessuno; non voglio andare in cellulare" provò ancora a ripetere con monotonia, annaspando colle mani in aria, buttando gli occhi in tutti i cantucci dov'era sicuro di non incontrare gli occhi de' suoi giudici, chinando il capo per isfuggire al baglior bianco di quel Signore in croce. "Non voglio andare al cellulare: prima mi ammazzo." "Non è la strada più lunga per andare all'inferno, babbuino, l'ammazzarsi... Senti il parere di chi ti vuol bene, asino! non capisci che il tuo negare a noi non serve a nulla, perché ne sappiamo più di te?" A ogni frase don Giosuè dava una ruvida scossa al suo uomo. "Che cosa hai detto al Mornigani? non sai che ti hanno visto col lume in mano a far chiaro al tuo ladrone, voglio dire al tuo padrone?" Il portinaio, scosso, sospinto da queste parole e dalla mano vigorosa del prete, non sapendo dove trovare un rifugio, andò a stramazzare ginocchione sulla predella, come un uomo veramente mazzolato, strinse la testa nelle mani e ruppe in tali singhiozzi, che don Felice ne sentì una profonda compassione. Voltatosi verso don Giosuè, non volle più che seguitasse a tormentarlo. "Sta bene," disse costui "badate però a non lasciarmelo scappare." "È un buon ambrosiano incapace a far del male." "Fategli fare una buona confessione; io intanto corro ad avvertirne l'avvocato." Don Giosuè uscì e ritornò sui suoi passi a prendere il tricorno, che nella furia delle idee aveva dimenticato in sagrestia. Si strinse nel mantello, ritraversò la chiesa, così invasato dal suo primo trionfo, che non salutò nemmeno con una riverenza il padrone di casa. Uscì e prese la strada più corta verso Sant'Ambrogio, dove abitava l'avvocato, senza sentire l'acquerugiola fredda che veniva dal cielo.

La zia Colomba alzò le spalle, come se non gliene importasse nulla che la sentissero, tentennò un pezzo il capo, e abbassando di nuovo la voce fin dove glielo permetteva il calore del discorso, soggiunse: "Sì, mi rincresce, e vedrei volentieri che tu cercassi un altro sito, il mio bene". Ferruccio, figlio di Pietro Berretta, da un anno circa, dacché rinunciando alla vocazione era uscito dal Seminario, andava cercando la sua strada, e solamente per non essere d'aggravio ai suoi, s'era adattato a scrivere nello studio del sor Tognino. Non avendo potuto trovar posto nella portineria, era andato a convivere colla zia Colomba e colla zia Nunziadina, sorelle di sua madre, in una casetta di via San Barnaba, posta tra il convento dei barnabiti e l'ospedale, un luogo segreto tra molti giardini, dove l'erba si fa strada in mezzo ai ciottoli, dove qualche macchia di vecchie piante resiste ancora agli urti della civiltà. La zia Nunziadina, una nanina che reggevasi su due piccole gruccie, alta un braccio da terra, con un faccino profilato e bianco, tutta cuor di Gesù, lavorava i pizzi da chiesa, mentre la Colomba, che potevasi paragonare a un gruppo di rovere, andava intorno coi fagotti, al Monte di Pietà a comperare e per le case a vendere. La povera nanina non era meno attaccata a Ferruccio di quel che fosse la sorella. Anche lei, che viveva in un guscio, aveva seguito il figlio della povera Marietta per tutti gli anni che il chierico rimase in Seminario, mettendo in disparte i pizzi più belli e un cassettone di refe per le gambe del futuro ministro di Dio. Quel dì che per qualche contrasto il ragazzo dichiarò di non voler andar avanti, la zia Nunziadina non gli tolse il suo amore per questo. Il refe non era ancor tinto. E questo amore diventò ancora più tenero, quando le due zitellone, conosciute nel quartiere col nome di "due beate", ebbero la fortuna di tirarsi il giovane in casa e di covarlo come si cova un uovo. La zia Nunziadina gli cedette subito il suo stanzino pieno di quadretti e di rosari, che dava sul giardino di casa Merliani, e lei si ridusse a dormire nella stanza vicina, insieme alla Colomba. In mezzo non c'era che una cucina, che serviva anche di salotto, col telaio e il seggiolone della sciancatella sotto la finestra vicino al ballatoio. Davanti apriva il suo grandioso ombrello un vecchio castano amaro, dalle braccia robuste, che d'estate sbatteva nelle chiare stanzette una fresca e tremolante luce verdognola. Le "due beate" vivevano come in paradiso, al di sopra degli stenti, colla chiesa sull'uscio, colla vista dei giardinetti, risparmiando ogni giorno qualche soldo, che andava a ingrossare un libretto di risparmio, che la zia Colomba consegnava per sicurezza al padre Barca, il dotto rosminiano, autore di una "Cosmogonia mosaica" molto riputata. Ferruccio, per non essere di aggravio alle zie, procurava di tornar utile in casa, attingendo acqua, portando legna e carbone, uscendo e tornando colla cesta della roba stirata, aiutando la zia Nunziadina a increspare, a incannettare le cotte e i camici, a riscaldare i ferri: o correva al Monte, durante la vendita, per aiutare la zia Colomba a trasportare la mercanzia. Il suo sogno era di poter entrare presso un libraio a far pratica, dove potesse adoperar meglio le cognizioni e l'ingegno, e per un pezzo sperò colla raccomandazione del padre Barca di essere assunto da un editore di operette religiose; ma sul più bello il libraio fece affari d'autore e fallì. Seguirono giorni di grande malinconia per il povero ragazzo, che si vedeva lungo e inutile. Egli non poteva passar la vita a contemplare la zia Nunziadina, che lavorava le sue dodici ore senza far rumore, tra le tortorelle che passeggiavano in cucina a beccare nelle screpolature dei mattoni. In questi momenti tanta tristezza gl'invadeva il cuore, che se ne trovava il viso molle. "Come si fa, zia? i posti non si trovano mica sempre secondo i nostri desideri, e io sono stufo di vivere alle vostre spalle, povera gente anche voi. Del resto, in cinque mesi che mi trovo a lavorare col sor Tognino, non mi sono accorto ch'egli sia quel diavolo d'usuraio che dite voi. È un uomo d'ingegno, lesto, che lavora come un giovinotto. Ora mi dà sessanta lire e capite, zia, che nel mio caso non è facile trovarle dappertutto sessanta lire." Questi discorsi avevano luogo in un basso ammezzato che serviva di anticamera allo studio del sor Tognino. Una larga finestra, che occupava quasi tutta la parete, riceveva luce da una corte in cui l'aria colava con un color scialbo d'aria vecchia. In giro eran molte finestre che si guardavano in faccia. La casa è un'alta e bella costruzione recente, posta quasi nel cuore della città, con molte botteghe verso la via Torino, con eleganti balconi al primo e secondo piano, con un portone signorile, su cui domina l'iscrizione cubitale d'un dentista tra due massicci denti molari. Sugli stipiti sono molti cartelli e lamine scritte, che dànno all'edificio il carattere d'un gran magazzino. Dalla parte degli ammezzati invece una porta secondaria viene quasi ad addossarsi alle logore costruzioni della vecchia Milano, e serve di sfogo ai retrobottega e agli appartamenti, a cui si accede per via d'una scaluccia sempre sporca e bagnata. Qui era lo studio del padrone di casa, ossia di colui che i casigliani riconoscevano per il padrone di casa, perché a lui pagavano due volte l'anno la pigione; ma in realtà il signor Maccagno non era che rappresentante o subaffittario interessato d'una Compagnia di assicurazione che aveva fatto poco buoni affari. Dopo un po' di silenzio la Colomba, che per la prima volta poneva il piede in quella tana, prese a dire: "Io non voglio, il mio bene, importi la mia volontà. Tu hai raggiunta l'età del giudizio e sai distinguere da te quel che va fatto. Hai studiato anche il latino, sicché, figuriamoci! Ciò che importa a questo mondo è di non perdere il timor di Dio. Anche di camicie stai male, ma spero rilevarne una mezza dozzina al Monte al prezzo di quattro lire l'una, se quel della tromba manterrà la parola. Son belle camicie nuove, di tela forestiera, che forse hanno appartenuto a qualche conte sbagliato. Son forse, un po' larghe, ma tu pensa a ingrassare, anima mia... E quella chi è?" L'improvvisa domanda fu accompagnata da un gesto verso una ragazza che scendeva la scala (di cui vedevasi un gomito dalla finestra) facendo cantare un secchiello di rame. "È la cameriera della signora." "Come si chiama?" "Augusta." "È un bel nome, ma ha certi occhi! Non sarebbe meglio che tu voltassi le spalle alla finestra, quando scrivi?" "Non ci si vede, cara zia" rispose Ferruccio, ridendo con sicurezza, come chi ha l'animo tranquillo. "Tu che hai studiato il latino sai come si dice: Oculos porta peccatorum ." La vecchietta allegra e rubizza rideva ancora a sentirsi in bocca il latino, quando l'uscio si aprì bel bello ed entrarono Aquilino Ratta, il vice-ricevitore del lotto, Salvatore Boffa il fonditore di caratteri e l'Angiolina l'ortolana, venuti in deputazione per parlare al sor Tognino, loro mezzo parente, sull'argomento del testamento Ratta. Era il consiglio che aveva dato loro l'avvocato Baruffa. "Non c'è," disse Ferruccio "ma tornerà verso mezzodì. Se possono aspettare cinque minuti..." "A me pare che dal momento che siamo venuti possiamo anche aspettare..." osservò il vice-ricevitore col tono di chi fa una proposta ragionevole. "Aspettiamo pure" gorgheggiò con una cantilena tutta sua particolare l'ortolana, che, riconosciuta la Colomba, riprese a dire: "Come? anche la Colomba nella casa dei ladri?" La donna, che stava stringendo i gruppi di due grossi involti, l'uno di panno verde l'altro in un fazzoletto rosso di cotone, raccontò d'esser venuta a parlare a quel suo ragazzo, che era figlio della povera sua sorella Marietta. Toccava a lei a fargli da mamma e a rattoppargli i quattro stracci, perché il figliuolo, dacché era uscito dal Seminario, si trovava come perso nel mondo. A trovare un onesto boccone di pane, spavento! in giornata è diventato un affar serio. "In giornata la fortuna è dei ladri e dei Tognini" declamò l'Angiolina colla voce fresca, che usava in verziere al tempo delle prime fragole. "Io direi, punto primo, di non guastare la torta" osservò colla naturale prudenza il vice-ricevitore, che amava in ogni questione star sempre dalla parte della ragione. Prima di fare degli scandali era bene parlare amichevolmente col loro parente, sentir le due campane e ragionare. A ragionare ci s'intende, e per ragionare non è necessario gridare... Salvatore Boffa, quel piccolotto nero che aveva ancora la faccia rifasciata nel fazzoletto, alzò il capo, socchiuse gli occhi, dimenò le mani forse per dire: "Le donne, falle tacere le donne..." Ma non uscì che un sordo mugolìo. "Torto o torta, qualche cosa dovremo rompere del sicuro" seguitò colla sua indomabile ostinazione la donna, facendo scorrere le mani sulle maniche, come se si preparasse a lavare. "La Colomba sa bene anche lei di che cosa si tratta." "Io non so nulla, caro il mio bene. Io sto laggiù a San Barnaba, fuori del mondo." "Come? non sapete che Tognino Gattagno" (e accompagnò il nome col gesto di chi gratta l'aria) "ha fatto scomparire un testamento di quattrocento mila lire?" "Scomparire..." osservò sorridendo Aquilino, che non amava le asserzioni avventate. "Punto primo..." "Sissignori! un testamento, in cui, dire a dire, è impegnato il sangue di tanta povera gente." "Noi non sappiamo se l'ha fatto sparire o se non l'ha fatto..." "Caro il mio regio impiegato, si vede proprio che il cilindro vi scalda la testa." Angiolina volle alludere al cappello che Aquilino aveva preso per la circostanza, perché Tognino non dicesse in nessun modo che i parenti gli avevano mancato dei debiti riguardi. "Non sappiamo? è vero o non è vero che quella vecchia ha lasciato una sostanza di quattrocento mila lire? non l'ha detto il notaio? non l'ha detto l'avvocato? non l'ha detto don Giosuè? è vero o non è vero che questo birbone s'è pappato tutto?" "Noi siamo venuti per discorrere, e per discorrere bisogna, punto primo, discorrere, è vero?" Aquilino, che non si curava mai del punto secondo dei suoi ragionamenti, si volse verso Ferruccio per avere una testimonianza in un giovinotto serio, che sapeva scrivere. Anche il vice-ricevitore, per dir la verità, lusingato un po' troppo nelle sue speranze, dopo aver lasciato vincere alla vecchia parente delle partite a tarocco, ch'era un peccato a strapazzarle a quel modo, anche lui era rimasto scosso e mortificato quando il notaio assicurò che Tognino aveva ereditato tutto. Un uomo, per quanto prudente e ragionevole, non è di legno. Alla povera Carolina, Aquilino aveva fin strappato un dente, ed è sempre una cosa ingrata dover sputar fuori una buona speranza. Il testamento faceva obbligo all'erede universale di assegnare ai parenti di secondo e terzo grado un regalo, una mancia una volta tanto: ma Aquilino Ratta aveva dignitosamente rifiutato l'elemosina. Un Aquilino che si è battuto a Mestre e ha fatto il quarantotto non riceve elemosine. Con tutto questo non poteva approvare il sistema di violenza con cui i diseredati credevano di farsi rendere giustizia, punto primo, perché la violenza ha sempre torto... "Non conoscevo questa storia del testamento" disse la Colomba, cercando cogli occhi il figliuolo, che stava lì come incantato anche lui a sentire. "Possibile? una sostanza di quattrocento mila lire?" "Tutta lui!" ripigliò l'Angiolina, agitando i dieci diti raccolti in due pugnetti sotto il naso della Colomba. "E questo cilindrone non vuole che io dica che Raffagno è degno della galera... E dire a dire che siamo una masnada di bisognosi, senza contare i morti di fame, corpo d'una biscia! che stentano a star diritti se tira vento. Infame, tutto per lui e per le sue sgualdrine!" La donna eccitata e sferzata dalla sua passione parlava cogli occhi infiammati, colla faccia in su, coi pugni chiusi e puntellati sul grosso dei fianchi, assorbendo in sé tutta l'anima della Colomba e dei tre uomini che le stavano intorno. "Quattro...cento...mila lire!" sillabò ancora una volta, parlando quasi coi denti, verso la Colomba, che infilati i due fagotti, congiunse le mani in un atto di pietosa commiserazione. E l'ortolana, postandosi sul piede destro, avanzato l'altro come se si preparasse a ballare il minuetto, colle due braccia piegate sulle anche, come due solide anse d'un'olla di bronzo, stava per aggiungere una lunga frangia, quando, proprio in quel punto, l'uscio di scala si schiuse, spinto da una mano dolce, e Arabella entrò col suo passo leggiero, dicendo: "Scusi, signor Ferruccio..." e vista dell'altra gente, fece un inchino colla testa, ripetendo: "Scusino..." Era vestita d'un lungo soprabito di velluto con orli e risvolti di pelliccia, con un cappello di mezzo lutto guarnito di nastri violetti, che scendevano a fasciarle le fattezze delicate del volto. Teneva le mani in un piccolo manicotto d'un pelo lungo e floscio, che premeva sul grembo. Entrò col respiro un po' affaticato (essa era già sui due mesi) portando in quell'aria ottenebrata e pregna dell'acre odore della muffa e dell'inchiostro un delicato profumo di ireos... Porse un foglio a Ferruccio, dicendo: "Le ho portato il promemoria della povera Teresa Stella. Sono stata ieri a vederla e fa veramente compassione. Ha il marito malato all'Ospedale e tre figliuoletti senza pane. La stanza non può pagarla assolutamente; non è mica un pretesto. Lo dica a mio suocero". "Sissignora, glielo dirò." "Se no, pagherò io per lei." "Sissignora..." rispose di nuovo Ferruccio, movendo il capo come un arlecchino snodato. "Se le può perdonare il semestre, fa un'opera di carità." "Sissignora." Ferruccio rosso più del fuoco corse ad aprir l'uscio, come se avesse bisogno di mandarla via subito. Tremava tutto. "La permette, la mia bella signora, che io la riverisca?" disse la zia Colomba, facendosi avanti con una riverenza e co' suoi due fagotti infilati sulle braccia. E mentre Arabella le fissava gli occhi in faccia: "Son la Colomba, che servivo i Grissini, la zia di questo figliuolo, si ricorda?" "Molto bene: e vi trovo tal e quale. Come state, Colomba?" "Si resiste. E la sua bella mammina sta bene? Come s'è fatta grande e bella, angeli custodi. Non è più quella magrina bionda che trovavo sulle scale, si ricorda? Ho dovuto domandare a Ferruccio..." "Brava! venite a trovarmi qualche volta." "Certo, volentieri: mi farà una grazia." "Lei si ricorda..." riprese a dire Arabella rivolta verso il giovane. "una carità..." "Sissignora..." Ferruccio aprì di nuovo l'uscio e si affrettò a chiuderglielo dietro le spalle, come se cercasse di tenerla fuori per sempre. "Ci vuol altro che vestirsi di velluto, brutta smorfiosa" entrò a dire l'Angiolina subito dopo. "Ci vuol altro che i cappellini e che il fare la carità col sangue della povera gente, sgualdrinetta." "Che colpa ne ha lei?..." osservò la Colomba. "Le solite esagerazioni..." soggiunse Aquilino, crollando il capo in aria di compatimento. Ferruccio, pallido e irritato, stava cercando anche lui una parola di difesa, quando la voce chiara e nervosa del sor Tognino, che risonò sul pianerottolo, diede una scossa ai pensieri dei tre delegati e agitò la zia Colomba, che avrebbe voluto essere già lontana tre miglia. "Non voglio assolutamente che lei passi di qui" diceva il vecchio suocero ad Arabella. "Sta bene, sta bene, ma può parlare con me senza bisogno di tanti avvocati." E ancora infiammato in viso aprì l'uscio e con gli occhi semichiusi, come fanno oltre ai corti di vista coloro che non vogliono vedere, adocchiò gli illustri personaggi che stavano aspettando l'udienza. Aquilino, volendo prendere una rispettosa iniziativa, dondolò un poco sulle gambe a guisa di canna, e agitando il suo cilindro prese a dire: "Sono io, caro sor Tognino, io Aquilino Ratta, sicuro: e questi son due nostri buoni parenti, coi quali, per i quali siamo venuti, se lei ha tempo un piccolo momentino, perché vorressimo, punto primo, discorrere un poco in intuito di quel testamento di quella povera Carolina nostra parente, per la quale..." "Aaah!" cantarellò in tono nasale il vecchio affarista, come se cascasse dalle nuvole. "Passate di qui…" ed entrò per primo nello studio. Aquilino si rivolse all'Angiolina e alzato un dito diritto come una lancia, le raccomandò ancora una volta la prudenza. "Parlo io!" disse con quel dito in aria, e andò avanti. Il Boffa lo seguì. Ultima fu l'Angiolina che, data una scossa tremenda alla Colomba, volle tirarsi un altro chiodo dallo stomaco: "O vediamo i soldi, Colomba, o si fa il quarantotto!" E trottolò dietro gli uomini. "O zia Colomba!" proruppe Ferruccio, pallido in viso, correndo presso la donna. "Che storia è questa? avete sentito che brutte parole? e che c'entra la signora Arabella?" "Io non so niente, il mio bene, io sto a San Barnaba; ma non mi meraviglio di niente. Il denaro è peggiore del diavolo che l'ha inventato. Andrò in cerca di tuo padre e mi farò contare la storia di questo testamento. Io ho detto subito che quella povera creatura era in bocca ai cani..." "Saranno le solite esagerazioni..." "Non mi meraviglio di nulla, e torno a dire, vedrei volentieri che tu cercassi un pane migliore. Vieni a casa presto stasera e ne parleremo anche colla zia Nunziadina."

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

- soggiunse abbassando la testa e portando una mano agli occhi. Il suo compianto era sincero, perché l'animo suo non era chiuso a tutte le memorie della giovinezza, quando, con Salvatore, soleva andare a caccia sui monti. Il povero vecchio aveva voluto morire su una strada... come se avesse sdegnato di chiudere gli occhi in una casa maledetta. Questa era poesia forse, o retorica rimasta nelle infossature della vita; ma egli non poteva sottrarsi a queste considerazioni. Si consolò in fondo che la faccenda non poteva andar meglio. Morto anche Salvatore e chiusa la villa, senza che uscisse sospetto alcuno, il prete non poteva esser meglio seppellito. Egli avrebbe scritto che gli mandassero la chiave, e amen! il luogo rimaneva perfettamente disabitato e chiuso agli occhi dei curiosi. Lo riprese un nuovo vigore. Tutto funzionava come un perfetto orologio e tutto dimostrava come a questo mondo il caso è piú forte ancora di ogni previsione. Per goder una bella giornata con Marinella, a cui aveva promesso di pranzare insieme, andò a farsi bello nella bottega del Granella, parrucchiere e profumiere premiato piú volte, che aveva per il barone un rispetto proporzionato al numero dei profumi che regalava a Marinella. Lo spinse ad entrare in bottega anche il desiderio di far cantare il Granella, che - degno figlio di Figaro - era il gazzettino parlante della città. Voleva, con questo mezzo, interrogare la voce pubblica. - Ebbene, quali novità, Granella? - dimandò, quando fu seduto ed avvolto nelle candide salviette come un antico sacerdote. - Molte e belle. Il ministero è caduto: Bismarck ha ricevuto l'ambasciatore di Russia, e pare che la guerra coi Turchi sia inevitabile. È morto il mio padrone di casa, e Filippino Mantica ha vinto mezzo milione al lotto. - Chi è questo Filippino? - chiese "u barone" che stava a sentire col cuore sospeso. Ma vide che il suo prete era ben morto. - Chi è? oggi è l'uomo piú felice del mondo. Sabato mattina era il piú miserabile cappellaio di Napoli. - E ha vinto, dici... - C'è vincere e vincere. Questo è spiantare il regio lotto. E dire che se io avessi mezzo milione, per San Gennaro, non farei il barbiere. - Prova. - Eh, se scrivo tre numeri, il diavolo me li mangia. "U barone" rise. Era la prima volta che rideva di gusto dopo molto tempo. E del suo prete nulla. Napoli non si era dunque accorta di nulla, come se fosse scomparsa una mosca. - Ma il piú bello, eccellenza, è ciò che si dice di questo cappellaio. - Che cosa si dice? - Si dice - e io ripeto la cosa senza insaponarla - che il cappellaio ha una moglie bella e giovane, la quale avrebbe ricevuto i tre numeri, indovini da chi... - Da chi? - Indovini. - Come si fa? da un amante? - Da un prete. - Uh.... - Già, un cabalista, un negromante, che abita laggiú nella Sezione di Mercato, il quale sa l'algebra e regala di questi terni alle belle donnine. - E questo?... - Veda c'è tutta la storia sul Piccolo di ieri. Ne parla tutta Napoli. Dov'è? eccolo qui, legga, si divertirà... Preferisce cosmetico o brillantina, eccellenza? "U barone" prese il foglio, lo apri, e proprio in prima pagina vide scritto in testa a un articolo queste precise parole in carattere maiuscolo: PRETE CIRILLO

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Beatrice, che non vedeva piú in là dello scherzo, sorrise abbassando gli occhi e mormorò: "Caro lei ... ." "Non crede che ne perderei il sonno? sarei costretto a dir rosari tutta la notte ... Non è la prima volta che la mia cara signora Beatrice non mi lascia dormire." "Oh ... no" fece Beatrice, protestando per celia. "Davvero, sa ... " tirò dritto il cavaliere che mentre si avanzava per tastare terreno, non si accorgeva di sprofondare nel molle. "Naturalmente ho sempre saputo rispettare le convenienze. Una donna maritata, si sa, impone dei doveri, specialmente quando ha un marito vivo, geloso, che non dorme. Ma se avessi potuto parlare, come possiamo parlare adesso, qui, in camera caritatis senza far torto ai morti, ho avuto anch'io il mio poema. Si ricorda questo carnevale? Tornavo a casa qualche volta da quelle benedette feste che parevo un uomo matto. Lei ride ... capisco che son ridicolo: ma di chi è la colpa? di chi sono certi occhioni, eh? Pensi l'effetto che mi ha fatto l'altro giorno a sentire dalla Pardi che la povera mia signora Beatrice era caduta in tante angustie, che non aveva quasi piú pane per i suoi figliuoli e che si disperava sotto la sferza di un villanzone ... : tanto, non è qui a sentire e possiamo chiamarlo col suo nome. Povera martire, povera pecorella! io non so di che cosa sarei capace per toglierla da questo letto di spine. Oh, non mi crede niente?" "Che cosa?" domandò quasi stupidamente Beatrice, come se non avesse ascoltato nulla. "O crede che tutti gli uomini siano egoisti a un modo? cosí giovane, cosí bella ... " sospirò il cavaliere. Un singhiozzo breve e rotto, mescolandosi alle parole, tradí piú che non fosse nelle intenzioni, i sottintesi e l'agitazione dell'oratore. Beatrice, che quasi rideva ancora, alzò le palpebre e credette di scorgere delle vere lagrime negli occhi lustri del suo benefattore, che sprofondando sempre piú nel molle, cercò di trarre a sé la bella manina, la imprigionò nelle sue colla tenerezza con cui si prende e si carezza una cosa viva. Beatrice s'irrigidí un poco e si ritrasse con un movimento scontroso. "Io vorrei essere un re per dare a questa bellezza il trono che merita." Sorpreso anche lui, assalito, trascinato come una pecora dalla potenza cieca della sua passione, il povero signore non ponderava piú, non connetteva piú. I consigli della vecchia prudenza, che aveva sempre predicato di prendere le lepri col carro, questa volta non arrivavano piú fino a due orecchie intontite dal sangue e dalla vertigine. Beatrice impallidí e cercò di alzarsi. Ma, trattenuta delicatamente, ficcò i grandi occhi stupiti in quegli occhietti lucidi che la affrontavano con violenza, con sete, guardò paurosamente intorno a sé, si sentí sola, chiusa dentro, in casa altrui, in balía altrui, si smarrí, supplicò con un gemito ... "Senti ... Non sei tu libera e padrona di te? non posso io fare del gran bene a te ed a' tuoi figliuoli? ... " Beatrice si coprí il volto colle mani. Le pareva di scendere in una gola tenebrosa e senza fondo. "No, forse?" ripeteva la vocina rasente al suo orecchio. Nell'impeto del ribrezzo essa ritrovò l'energia: si alzò, con un gesto duro del braccio respinse l'insistenza di quel bravo signore. Gli occhi le si riempirono di un'insolita vita, la bocca si contrasse a un tremito di sdegno e di sarcasmo. Poi, come vinta alla sua volta dall'eccesso nervoso della sua energia, cadde di nuovo a sedere e, con la faccia dentro il fazzoletto, si pose a piangere dirottamente come una bambina battuta. Il cavaliere, squilibrato, pentito, vergognoso, ma non istupidito del tutto, capí d'esser fuori di strada. Il cavallo gli aveva tolto la mano e prima di ribaltare del tutto cercò di mettere avanti le mani. Aveva voluto fare della poesia, alla sua età: male. Beatrice non era certamente venuta per sentire a recitare dei sonetti. Bisognava pigliarla lunga, girare la posizione. L'amore non si accende come un pagliaio e non c'è nulla che mandi piú fumo di un fuoco mal fatto. Non volendo perdere tutti i frutti della sua carità e delle sue intenzioni, si mise a sedere a fianco della povera disperata e con un tono tra l'offeso e il sostenuto cominciò a dire: "Ma che bambina! ho detto cosí per ... Che diamine! capisco che ho torto. Metta che abbia voluto confessarle un peccato, ecco. Andiamo, asciughi questi occhioni, mi dia la manina e mi assolva. Che cosa c'è da piangere? lei è in casa di un gentiluomo e conosco troppo bene gli obblighi di ospitalità per ... Che diavolo! Là, via, non mi dia questo rimorso d'averla fatta piangere cosí. E che lagrimoni! Discorriamo dei nostri affari. Che cosa si diceva? ah, della causa e dell'avvocato. L'ho visto e mi ha detto che oramai non c'è piú nulla a sperare. È una barca scassinata che fa acqua da tutte le parti ... ." Per spiegare come un uomo avveduto cadesse cosí subito in contraddizione con ciò che aveva detto cinque minuti prima, bisognava immaginare che il cavaliere parlava, sí, colla bocca, ma il pensiero correva dietro a un altro ordine di idee, di meraviglia in meraviglia. Quel piangere sfrenato, quell'atto di ribellione quasi matronale in una donna abbastanza sciocchina, nota lippis et tonsoribus (anche la frase latina veniva a cacciarsi in mezzo), in una donna che nella bella Pardina — una vespa, in lega col diavolo — aveva una cosí grande confidenza: che accettava con tanta semplicità delle elemosine e veniva in persona a pagare i debiti della sua gratitudine, tutto ciò era un fatto cosí strano e inesplicabile anche per una testa lucida e pratica, che il povero signore cadde di confusione in confusione. Non restava che di toccare un altro tasto, quello della prosa, e non perdette tempo. Lí accanto c'era uno stipetto con qualche inezia elegante, e vi mise subito la mano. Beatrice, passato il primo impeto, capí di essere caduta in un tranello, e credette di vedere in questo gioco la mano di Palmira. Le parole del cavaliere, togliendole l'ultima illusione, l'irritarono e le diedero la forza di reagire. Ma nell'alzarsi, nel ritrarre il braccio a sé vide risplendere un non so che, un oggetto d'oro, un braccialetto ... Un gran buio invase gli occhi suoi, un gran tremito in tutto il corpo le fece temere di venir meno, di stramazzare in terra. Si appoggiò colla mano alla sponda di una poltrona, abbassò il capo avvilita, incapace fin di piangere, fin di muovere le labbra a un suono di protesta. Una volta fece il tentativo di togliersi dal polso quel segno, quell'anello massiccio; non poté. Non ci vide abbastanza, non ebbe la forza di far scattare la molla. Il suo protettore pregò, supplicò, perché non gli facesse il torto di rifiutare un segno innocente della sua amicizia. Non si sarebbe parlato piú di queste cose. Non gli rifiutasse questa consolazione: non gli volesse male: gli concedesse il piacere di esserle utile. Per lui era un bisogno del cuore. Nominò ancora l'avvocato, il deputato, il suo buon amico di Novara, mentre l'accompagnava docilmente verso l'uscio: cercò di ridere e di farla ridere ... Beatrice disse una volta di sí, senza capir bene a che cosa diceva di sí. Di tutte le belle parole del suo benefattore non afferrò che un rumore sordo, e non vedeva l'ora che l'uscio si aprisse. Aveva bisogno d'aria, si sentiva soffocare… Il cavaliere la tenne ancora un momentino prigioniera sulla scala, picchiò ancora una volta sulla bella manina ... Finalmente la povera donna si trovò in istrada nella piena luce del sole, come se fosse volata dalle scale. L'istinto piú che la volontà la condusse sulla via di casa sua; ma fece forse cento passi senza vedere innanzi a sé che un bagliore, senza sentire che un gran frastuono di un grosso fiume che passa. Era possibile? e il suo povero Cesarino non veniva a difenderla? Che tradimento, che bassa insidia, che vergogna!.. Come tornare davanti a’ suoi figliuoli, davanti alla sua Arabella? per chi l'avevano presa? che opinione aveva la gente di lei? quando aveva lei autorizzato la gente a giudicarla cosí? O era una vendetta, una stupida congiura di Palmira che voleva abbassarla al suo livello? E i denari presi per amor di suo padre come poteva ora restituirli? a chi ricorrere adesso? in chi fidarsi? Come raccontare queste cose a Demetrio? E, inseguita da questi fantasmi, andò di via in via senza veder nessuno, finché, sentendosi venir meno, si rifugiò nella chiesa di Sant'Alessandro, cercò un angolo oscuro presso una cappella, vi s'inginocchiò, quasi cadde sul marmo freddo dei gradini, e raggomitolandosi in sé stessa, nascose la sua vergogna e il suo cocente dolore.

domandò con vivo rincrescimento il Pianelli, abbassando la testa. "Stamattina alle quattro ... " balbettò colle labbra tremanti il Martini. "Son tornato per chiedere al commendatore tre giorni di licenza e aspettavo anche lei per regolare la consegna. Voglio portarla a Milano ... ." L'emozione soffocò le parole in gola al pover'uomo, che faceva di tutto per non farsi vedere a piangere dalla gente. Il Pianelli sentí alla sua volta farsi il cuore piccino. In quel momento avrebbe dato mezzo del suo sangue per evitare una consegna, da cui doveva risultare un ammanco di mille lire. Gli faceva orrore non meno il suo pericolo che l'idea di dare a un povero diavolo già cosí tribolato un colpo di quella sorte. "La trovo in ufficio verso le tre?" "Sí, ci sono ... " rispose il Pianelli. "Ecco il commendatore." Vedendo venire il direttore, il Martini gli andò incontro, mentre il Pianelli, correndo via, cercò di sfuggire a quel penoso dialogo. Entrò in ufficio con passo confuso e legato. Gettò il cappello su una sedia, il bastone sul tavolo, e si fregò la fronte colle mani, tre o quattro volte, come se togliesse delle ragnatele dagli occhi. Era mezzodí. Il Martini sarebbe venuto alle tre. In tre ore egli non poteva inventarle le mille lire, a meno di credere che il suocero si lasciasse commuovere all'ultimo momento: a meno di credere che Gesú gliele mandasse per compassione de' suoi figli. Per Dio! (queste imprecazioni scattavano come tante scintille dall'anima sua spaventata). Per Dio! se gli avessero lasciato ventiquattro ore di tempo! Pensò di tornare ancora in cerca del Pardi; ma dove trovarlo? e poi, no, da quell'asino che si lasciava guidare dalla moglie ... Degli altri suoi amici o non si fidava, o non voleva inchinarsi a nessuno, o erano povera gente, che stentavano a sbarcare essi stessi il lunario col misero stipendio. Nella cassa in cui egli cominciò a rovistare, c'erano molti conti correnti e molti mandati di pagamento già firmati dal Martini col visto del commendatore, tra i quali uno a favore del capomastro Inganni, in conto di alcune riparazioni per ingrandimento e adattamento dei locali d'ufficio, per la somma complessiva di duemila lire precisa. La formola del mandato era stata scritta dal Pianelli alcuni giorni prima colla cifra in tutte lettere "due mila" e nel margine i quattro numeri "2000" d'una linea magra e lunga com'era la scritturina nervosa del cassiere aggiunto. Non si trattava di voler falsificare un documento, né di rubare un quattrino a nessuno; ma solamente di evitare a sé una miserabile figura, e al Martini un colpo mortale, di guadagnare tempo, di non precipitare in due in un abisso senza luce e senza fondo. Eravamo al quindici del mese. Prima della fine non si sarebbe fatta la verifica dei mandati e lo scandaglio di cassa. Bastava per il momento che il Martini credesse in buona fede a un mandato di lire tremila già pagato al capomastro Inganni e partisse coll'animo quieto, lasciando a lui Pianelli il tempo necessario per rimettere il denaro e per rifare il mandato ... Con una goccia di acqua clorata sulla punta d'una penna nuova si potevano sostituire facilmente due piccolissimi tratti e cambiare colla stessa mano il due in tre, il 2 in 3 ... Non l'avrebbe mai fatto, nemmeno per salvare la vita dei suoi figliuoli, se si fosse trattato di mettersi del denaro non suo in tasca: non voleva che guadagnare ventiquattro ore di tempo, e salvare con un ripiego momentaneo la vita e l'onore di due famiglie. Il mandato era lí, che gli occhi lo divoravano. La penna vi passò sopra asciutta una volta, due volte, quasi per provare. Due zampe di mosca potevano evitare un terribile scandalo, forse risparmiare un delitto. Il non farlo era quasi una crudeltà verso quei poveri innocenti. Il mandato Inganni l'aveva pagato lui, e il Martini certo non aveva né tempo, né voglia di stare a riscontrare ad una ad una tutte le parcelle parziali e di verificare la somma. Egli non voleva fare per ora che uno stato di cassa per poter ripartire e star via tre o quattro giorni coll'animo piú sollevato. Quando avesse ritrovato e rimesso il denaro in cassa, il Pianelli era uomo capace di confessare tutto all'amico e d'implorarne il perdono. Ogni piú onesto uomo può trovarsi per dodici ore in una suprema necessità, e l'onestà di quarant'anni di vita non la si distrugge mica in ventiquattro ore, con due sgorbietti di penna. Ciò che salva l'uomo è l'intenzione. Uno ha il senso dell'onestà, un altro non l'ha. Il primo verrà sempre a galla per quanti sforzi tu faccia per affondarlo: il secondo precipiterà sempre come un sasso nell'acqua. Cesarino si sentiva uomo integro nella sua coscienza, e, se un caso maledetto l'aveva tratto a sporcarsi le mani di fango, bisognava dargli il tempo di lavarsele. Quel fango ripugnava anche a lui, in nome di Dio santo!.. Non c'è nessun gusto a fare il ladro. Queste considerazioni andavano assediandolo, stringendolo in mezzo, pungendolo con mille punte, alle quali sentiva di non saper piú resistere. Si asciugò ancora una volta la testa bagnata di un sudore freddo. Poi, intinta la penna nella boccetta del cloro, passò leggermente colla punta di metallo sulla coda del numero fatale, aggiustò coll'inchiostro il numero e la lettera ... e vi gettò subito molta sabbia sopra, colla furia spaventata dell'omicida, che cerca di nascondere le tracce del sangue… "Dio, Dio ... " balbettò, alzandosi, colle membra rotte e indolenzite, come se avesse voltata la grossa pietra di un sepolcro. Anche il far male è una grossa fatica per chi non c'è avvezzo. Tornò presso la cassa, rimise tutti i mandati a posto, stracciò il suo biglietto di visita in cento pezzetti, che buttò nel cestino, ma poi si abbassò a raccoglierli tutti, se li cacciò in tasca, chiuse bene ... e uscí sulla ringhiera a respirare dell'aria. Il Martini aveva detto alle tre, ma entrò in ufficio alle due, con passo rotto e frettoloso. Il Pianelli, che aveva già preparato un prospetto di cassa, gli andò incontro di nuovo con aria di compassione dicendo: "O bravo ... ." L'amico, pallido come un morto, non seppe nascondere una forte agitazione che imbarazzava il suo contegno e i suoi movimenti. Aveva lasciato all'alba il letto della sua povera morta, dopo una notte passata in ginocchio ad assistere agli strazi di una lunga e dolorosa agonia. La sua povera Emilia non voleva morire a venticinque anni! Si era attaccata colle braccia lunghe e stecchite al collo del suo Arturo e non finiva mai di chiamare fra i singhiozzi della morte la sua piccola Teresa. Sono notti spaventose che ti portano via la vita: un pezzo di noi se ne va con chi muore. Era partito subito la mattina, lasciando la sua morta in mano ad alcuni parenti e si preparava ora a tornare per riportarne a Milano il corpo. Il commendatore, uomo di cuore e discreto, non fece difficoltà, anzi gli diede licenza per una settimana, ma, tiratolo un momento in disparte, gli disse sottovoce: "Però ha fatto regolare consegna al Pianelli?" "Ieri non ho avuto tempo. Son tornato anche per questo." "Male! Non vorrei che avesse dei dispiaceri. Ho sentito delle voci ... Basta, non perda tempo, e non si esponga a certi pericoli ... Se vuole che mandi il Miglioretti ... ." "Grazie, vedrò ... ." Il Martini uscí dall'ufficio del commendatore col cuore un po' inquieto. Carattere delicato e scrupoloso, quel semplice rimprovero gli bruciava sul cuore come un carbone acceso, e, se un gran dolore piú crudele non avesse occupata e riempita di sé tutta la sua esistenza, sarebbe bastato questo dubbio per amareggiargli la vita. Il Pianelli, fingendo che alcuno lo chiamasse allo sportello, andò a sedersi al suo posto, prese la penna e si pose a copiare una tabella. Copiò, copiò forse dieci minuti una lunga fila di numeri, materialmente, in forza di quell'abilità automatica che acquista la mano di chi scrive molto, che sa andare da sé e quasi ragionare da sé anche quando il cervello è assente. Il Martini aprí la cassa grande, di cui aveva lasciato la chiave, e chiuso in un freddo silenzio, che si poteva interpretare come lo stato d'animo d'un uomo che ha il cuore irrigidito, mosse e rimosse molte carte e molti valori. Poi passò alla cassa piccola, che aveva lasciato nelle mani dell'aggiunto. Il Pianelli si mosse, quasi per uno scatto interno, e disse: "Veda se tutto è in ordine." "Non c'è dubbio ... " balbettò freddamente il Martini. Il Pianelli tornò al suo posto e riprese a scrivere, a scrivere. Ma gli occhi vedevano rosso. Il Martini seguitava a rovistare, a muovere carte, a riscontrare, sempre chiuso nel suo cupo, insopportabile silenzio. Pareva un uomo incontentabile, o non mai abbastanza soddisfatto. L'altro scriveva sempre i suoi numeri infiniti color sangue, col cuore duro come un sassolino, sempre in attesa d'un giro di chiave che chiudesse per sempre al buio il documento della sua miseria. Quell'insistenza eccezionale, in un uomo che aveva mostrato il giorno prima di fidarsi cosí pienamente di un amico, gli diceva già che anche la buona fede del compagno era stata preventivamente scossa da una voce misteriosa, insidiosa, da quella stessa voce, che da due giorni andava seminando il discredito e la diffidenza. Passò ancora un quarto d'ora, che al Pianelli parve un secolo. Finalmente il Martini, con una voce velata che si sentiva preparata con suprema fatica, domandò: "Si ricorda, Pianelli, quanto abbiamo pagato al capomastro Inganni?" "Io credo tremila ... " esclamò il Pianelli, saltando in piedi e correndo con una premurosa sollecitudine verso il compagno. "Mi risulterebbero meno ... ." "C'è il mandato, veda ... ." "Lo vedo ... " disse il Martini con un filo di voce, abbassando gli occhi e cercando di frenare il tremito da cui furono prese le sue mani. "Perché?" chiese il Pianelli con voce stridula, quasi di sfida. "Nulla, scusi ... , avrò sbagliato io." Il Pianelli voltò dall'altra parte la faccia. Poi disse: "Vedremo alla fine del mese ... ." "Scusi ... " tornò a dire il Martini, mentre andava facendo dei piccoli conti sull'angolo di un cartone disteso sul banco. "Non le pare?" tornò a chiedere il Pianelli, nascondendo in parte la faccia colle mani nell'atto che egli fece per accendere un sigaro. Il Martini gettò la penna con un movimento disperato. Riprese il mandato, lo agitò tra le dita, e fatta una mezza girata per la stanza, curvo nelle spalle sotto il peso della disgrazia e del tradimento, si fermò al tavolo del Pianelli, lasciò cadere il mandato, vi pose un dito, vi picchiò sopra tre volte coll'unghia, senza poter parlare, collo spavento dipinto nel suo viso d'uomo morente. Cesarino finse di non capire. Voltò e scosse due volte il capo, coll'aria di chi domanda una spiegazione, ma le orecchie parevano due pezze rosse e la pelle fina e lucida del viso si stirò sugli zigomi irritati. La bocca gli si riempí di saliva amara. Il Martini, con uno sforzo estremo, appoggiandosi colla mano a una sedia, poté soltanto soggiungere: "Pianelli, per carità, anche lei è padre di famiglia ... ." "Che cosa?" osò ancora una volta chiedere col suo cipiglio di ragazzetto insolente lord Cosmetico. "Abbia pietà, Pianelli. Sono un povero uomo anch'io ... ." "Che cosa?" "Perdoni ... " balbettò ancora una volta il Martini. "So bene che io sono il solo mallevadore della cassa: ma speravo di avere in lei un amico ... ." "Martini, per carità ... " scoppiò tutto a un tratto a dire Cesarino, che non poté piú resistere al doloroso invito dell'amicizia. "Per carità ... , per i miei figliuoli ... , per la sua bambina ... , per la sua povera Emilia, non mi tradisca. È vero, fu il bisogno, l'insidia de' miei nemici. Fra due ore avrà il denaro ... " "Aspetto fino a stasera. Il commendatore mi ha già rimproverato d'aver abbandonato la cassa senza una regolare consegna. Ho promesso per questa sera di rendergli i conti." "Fino a stasera almeno." "Se il commendatore non vorrà, non insisterò ... ." "Stasera prima delle otto ... " "A casa mia?" "Dove crede ... , vado subito a Melegnano in cerca di mio suocero. Non mi comprometta." "Non sono io che la comprometto, per amor di Dio ... ." "Ho dei nemici che mi vogliono male. Abbia pazienza ... , non mi faccia fare una cattiva figura." "Vede che io soffro non meno di lei. Vengo da un letto di morte e mi fa trovare un tradimento ... ." "Lei ha ragione; sono un miserabile ... Ma non mi tradisca. Se non trovo il denaro per questa sera, le rilascerò una dichiarazione ... e mi ammazzerò." "Cerchi di salvare il suo onore ... " disse ancora il Martini, mentre il Pianelli, preso in furia il soprabito e il cappello, usciva rapidamente dall'ufficio.

Giacomo l'idealista

663168
De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Donna Cristina, abbassando la testa, acconsentí con un sospiro. - Nemmeno monsignor vescovo potrebbe pretendere tanto. E allora non vi resta che di offrire un altro genere di risarcimento. Hai detto che la ragazza aveva già il cuore impegnato con qualcuno? Non si potrebbe persuadere questo qualcuno ad accettare una ventina di mille lire? il povero papà nel caso di Costanza, se l'è cavata con meno: perché, via, tu sei buona e fai bene a credere all'innocenza; ma ritieni pure che in questi nostri paesi le ragazze, piú furbe del diavolo, sanno rappresentare a meraviglia la parte di vittima. Alle volte anche i parenti si mettono della partita e fan presto ad avere buon giuoco in mano. No? non credi che sia possibile persuadere Menelao a ripigliarsi la sua belle Helene? Che uomo è questo Renzo Tramaglino? Un contadino? un operaio? A queste domande cosí incalzanti e taglienti, donna Cristina Magnenzio non seppe rispondere che con uno sguardo freddo e dolente, in cui si leggeva tutta la grande desolazione del suo cuore. Alla curiosità di Fulvia essa avrebbe dovuto opporre un nome, che non osava pronunciare, come se temesse di evocare tra loro un terribile giustiziere. Mai la bontà e la giustizia d'un uomo avevano parlato con tanta forza alla sua coscienza! e come se provasse in sé stessa l'offesa atroce che si recava all'assente, con un atto di nobile risolutezza, protestò: - No, questo è impossibile! - E allora bisogna raccomandarsi alla ragazza e farsene, se è possibile, una alleata. Se ti vuol bene, se non è una cattiva leggerona, se sente il suo stato, capirà che non ha a guadagnar nulla da uno scandalo. Procurate di allontanarla, di metterla per qualche tempo in un sito sicuro e di lasciare a lei l'incarico di persuadere il suo Tramaglino a voltarsi da un'altra parte. Questa gente non sta poi a far della psicologia troppo sottile, come si farebbe tra noi. Per loro tutte le donne son donne, e le ragazze dicono che un papa val l'altro. Se vuoi posso aiutarti. La sorella della mia maestra di piano è direttrice d'una Casa a Treviglio, una specie di rifugio, che ricovera appunto questi peccati, dove c'è anche un ospedale sotto la sorveglianza delle suore. - Potrò io persuadere la povera creatura a rinunciare al suo ideale, a lasciar la casa, a rinchiudersi in un ospizio? tu non sai la battaglia che io combatto da un mese in qua. Sí, finora ho potuto far tacere la ragazza colle carezze, colle promesse, colle preghiere, con tutto ciò che soltanto il cuore d'una madre sa trovare in queste disperate circostanze; ma vedo che l'impresa è piú forte di me. Celestina oggi promette che non farà nulla, che non dirà nulla, che andrà dove voglio io, che non penserà piú al suo passato, che mi vuol bene, che accetta la volontà di Dio; ma non arriva il domani e me la vedo tornar davanti tutta cambiata. Non dorme quasi piú, non mangia quasi piú; di notte scende dal letto, attraversa il corridoio e viene a piangere nella mia stanza, si strappa i capelli, dice che il diavolo la batte con una catena . - Taci! - pregò donna Fulvia, impallidendo, con voce spaventata, rabbrividendo nelle spalle. - Vedi, Fulvia, dove siamo? - domandò con lamento straziante la povera contessa, battendo forte le ciglia e cercando di attaccarsi alle mani dell'amica come se avesse avuto bisogno di chi la tenesse su. - Vedi che cosa hanno fatto della tua povera Cristina? Il Signore non mi ascolta piú, il Signore mi ha abbandonata. - No, no, povero angelo, non dir cosi. - proruppe la di Breno, compassionandola, e sorpresa in fondo all'animo di dover fare verso una tal donna la parte di madre consolatrice. - Tu hai troppi meriti, perché il Signore ti debba abbandonare. Sono tribolazioni che ti manda per provare la tua virtú. Vedo tutta la gravità del caso e trovo che non c'è tempo da perdere. È necessario, assolutamente necessario, evitare questo scandalo, che darebbe i nostri nomi in bocca ai framassoni, che non aspettano che un pretesto per dar fuoco alle mine. Lodovico dice che quest'anno la lotta amministrativa sarà combattuta con accanimento, perché il governo, che è tutto nelle mani dei progressisti, vuol rompere la crosta clericale e moderata e sbarazzare il terreno per le prossime elezioni politiche. Converrà quindi fare un concentramento di forze dei vari partiti conservatori controla falange abissina dei sovvertitori, dei radicali, dei massoni, dei socialisti, e di tutti quelli che amano pescar nel torbido. Siamo dunque interessati a difenderci e a riparare i punti deboli della fortezza. Vuoi che io ne parli a Lodovico? Può essere che colla sua influenza morale arrivi a tempo a scongiurare il pericolo. E se vedrò il tuo Giacinto, gli farò una predica coi fiocchi. Noblesse oblige, specialmente lui, che può contare sublimi trionfi. Ragazzacci! - aggiunse, aggrottando le ciglia la bella magra, come se indagasse un mistero: - È un'altra conseguenza di questo sordido sport, che hanno messo di moda. On s'encanaille, ecco! Rimasero d'accordo che Fulvia, senza mettere fuori per il momento i nomi, avrebbe sottoposto il problema alla saggezza politica di don Lodovico, che in questo giuoco di elezioni e di partiti politici aveva sul banco la sua persona e la sua candidatura. L'esperienza insegna che in politica bisogna giovarsi specialmente dei peccati degli altri; e sarebbe stata una bella sorpresa che per il capriccio di un giovinotto ubbriaco fosse andato sommerso il lavoro paziente di dieci o dodici anni di candidatura incontrastata. La di Breno, che, non avendo figliuoli, amava anche lei, alla sua maniera alquanto nervosa, la politica, che le permetteva di passar l'inverno a Roma, non era donna da dormire in pace su questo peccato di Giacinto come aveva dormito sempre sui suoi.

. - Quel che mi dice, caro conte, è veramente brutto - balbettò monsignore, abbassando la testa, coll'abbandono d'un uomo stanco, mentre col fazzoletto si asciugava la pallida fronte. - Perché non mi hanno scritto subito? - Prima non si sapeva, poi si è creduto che il male fosse minore di quel che è. Si è sperato sempre in qualche atto di riparazione… ma è una desolazione, creda, per la povera contessa. Se lei non interviene, monsignore, colla sua autorevole benevolenza, è una rovina per tutti . - E come posso io impedire ai nostri nemici di usare di un loro diritto di guerra .? - Ecco! - riprese colla sua vocetta meticolosa l'ometto avveduto - conosco un poco questi nostri nemici, perché li vedo piú da vicino. Dove non può arrivare la mano consacrata dei vescovo, potrebbe arrivare la mano scomunicata del deputato .(Il conte, per togliere ogni sapore ingrato alla facezia, cercò colla sua la mano paffutella dell'alleato, che rispose con una stretta lunga e cordiale). - Non solo conosco molti di questi avversari, ma so anche quel che costano. Quando poi lasciassi capire al sottoprefetto che una guerra di scandali non sarebbe gradita alla Corte, Gadda é un uomo da far tacere anche le oche del Campidoglio. Ma perché io possa essere forte con Gadda, bisogna che mi senta sicuro nelle mie scarpe, ovverosia che vostra Eminenza mi dica fin dove posso andare col suo nome e col suo appoggio . - Ho capito! - disse monsignore, chinando la testa: e per un istante le due piccole potenze rimasero in silenzio in una grave contemplazione del fuoco. Quindi come due corrieri che, giunti da strade diverse a un crocicchio, si preparano a far insieme il resto della strada, continuarono a discorrere un pezzo, in un colloquio piú sciolto e familiare, da buoni amici, che provvedono a guardarsi dai ladri. Il deputato promise di veder subito il sottoprefetto: il vescovo avrebbe fatto chiamare il curato del sito; se la ragazza era già nelle buone mani delle contesse di Buttinigo, non sarebbe stato difficile farla viaggiare anche piú lontano; non restava che uno scoglio: il fidanzato, questo ex garibaldino. - Come si chiama questo giovane? - chiese il prelato. - Giacomo Lanzavecchia - disse il conte, dopo aver consultato un piccolo taccuino. - 1 suoi hanno una fornace e un deposito di tegole non molto lontano dal Ronchetto. Monsignore prese nota dei nomi, dei siti, delle circostanze, e promise di scrivere al piú presto le notizie delle sue investigazioni. Il conte posò le labbra sul ceruleo topazio e venne via in fretta col suo passetto dimezzato, desideroso di veder Giacinto, prima che partisse per Roma. Lo trovò che passeggiava martoriandosi i piccoli baffi, in preda ad una nervosa inquietudine, sotto l'atrio del teatro alla Scala. Infilò il suo braccio in quello del giovine e, rimorchiandolo verso il caffè Cova, andarono a sedersi a un tavolino d'angolo nella sala grande del ristorante, dov'era tutto preparato per la colazione. - Coraggio, le cose si mettono bene. Credo di aver vinto, non una, ma due cause, la tua e la mia. È proprio il caso di ripetere col salmista: " Felix culpa. !" e, tracannato un bel bicchiere d'acqua per spegnere l'arsura interna che lo rodeva, disse al cameriere, che aspettava gli ordini, ritto, impalato nella sua linda falda nera, coll'aria anche lui d'un solenne diplomatico: - Il tenente beve Lafitte e in quanto al resto ci mettiamo nelle tue mani, Biagio. Oggi pago io, s'intende, per diritto d'anzianità. - E dopo aver ripulita due volte la bocca col tovagliolo, don Lodovico, che sentiva d'aver guadagnata la sua giornata, datasi una fregatina di mani, soggiunse: - Peccato non essere un Paolo Ferrari, che avrei l'argomento per una magnifica scena diplomatica. Avessi sentito con che tono alto aveva cominciato: "Vorrà concedere, signor conte, all'ultimo dei ministri di Dio di saper intendere che cosa sia il bene supremo della patria e della religione. A noi non importa tanto il vincere quanto il purificarsi .". Ma poi il sant'uomo scese da cavallo, ammorbidí la voce, sbarrò tanto d'occhi a sentire come suo nipote santifichi le feste, e per farla corta, s'incaricò di far chiamare il prete della parrocchia e mi ha dato un specie di carta bianca per tutte le autorità eretiche e scismatiche. Per questa volta, - continuò con nervosa garrulità l'onorevole di Breno, mentre col tovagliolo finiva di compiere la pulizia delle posate e dei bicchieri - per questa volta anche il diavolo avrà la sua parte. E a rivederci alle elezioni generali! Non resta ora che di mettere a posto quel povero pretendente, che tu hai servito un po' troppo ladramente, turpe seduttore di ragazze oneste. Che porcheria mi dai per cominciare? - chiese, interrompendosi e volgendosi al cameriere, che metteva in tavola un piatto di cibi freddi. - Huîtres à l'huile , signor conte.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675831
Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Dopo un istante di pausa, rinfrancatasi la voce, ch’era andata grado grado abbassando eì proseguiva: Voi dovete dimenticarmi, Irene, io sono già pago del poco che ho potuto fare per voi. Me ne sento superbo, quindi a me non dovete gratitudine e se mai fossi tanto fortunato da spendere questa povera vita per voi, oh!, credo che allora il mio sogno sarebbe compiuto! Perdonatemi!... Irene!... - Così dicendo, egli si alzava, con voce sicura mi diceva addio e lasciando andare la mia mano che aveva tenuta nella sua, si allontanava... Io era rimasta tutto quel tempo assorta in tanta estasi da dimenticare me stessa, il mondo intero! Non udiva, non sentiva più nulla! ma la parola Addio quasi scintilla elettrica m’infiammò, corsi a lui, e "fermati!", dissi, prendendolo per il braccio e riconducendolo al sedile. "Tu sei mio! tu devi essere mio, gridai, ed io tua!... per tutta la vita! Sì! io voglio essere tua in eterno!" e mi abbandonai così dicendo nelle braccia di lui. Dopo pochi giorni di preparativi io seguiva Orazio in questa foresta e qui dimoro da più anni. Non dirò, per essere esatta nella mia storia, che sono perfettamente felice. No! provo un’afflizione, l’unica, quella di aver forse accelerata la morte del mio vecchio ed amoroso genitore». Qui una lacrima rigava la guancia bellissima della regina della foresta. Silvia, quantunque stanca, non aveva potuto a meno di prestare attenzione all’interessante istoria dell’amabile ospite, Clelia non ne aveva perduta una parola. Quante volte durante la narrazione non era essa stata sul punto di esclamare: il mio Attilio anch’esso è bello, valoroso, degno d’essere amato di un simile amore! Sì! il mio Attilio!, mio! essa ripeteva a sé stessa, intanto che Irene guidava alla loro stanza le due nuove amiche.

Teresa

678622
Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Teresina la seguì sopra pensieri, e quando sul sagrato incontrò Orlandi che usciva dall'orto del curato, arrossì, abbassando gli occhi. Dopo mezz'ora si trovavano tutti e quattro nella casa di campagna. Orlandi, pazzo di gioventù e d'allegria, trascinava Carlino ai giuochi i piú arrischiati. Saltarono fossi, ruppero siepi, si schernirono, si accapigliarono, con un rimbalzo di parole frizzanti, di canzonature mordaci; inebbriati dall'onda del loro sangue, dalla forza dei loro muscoli. La visita alla cocomeriera occupò il restante della serata, sempre in mezzo alle risa ed al chiasso: finché Teresina, avvicinandosi al fratello, gli fece osservare che era tardi. Il ritorno fu tranquillo. La signora Letizia, appoggiata al braccio di Teresina, pronunciava tratto tratto qualche frase insignificante, ammirando la bella sera. La ragazza taceva. - Potremmo essere un po' piú galanti, - disse un tratto Orlandi - Carlino, dà il braccio a mia zia. Egli stesso offerse il suo, con molta disinvoltura, a Teresina; camminarono così buon tratto di strada, ciarlando tutti insieme. All'estremità del viale, Orlandi e la ragazza si accorsero di aver perduto i loro compagni e si fermarono per aspettarli. - Non la si vede mai in paese. - Esco poco. - Ma nemmeno alla finestra. - Oh! non ho molto tempo da stare alla finestra, io. Teresina diceva la verità, senza ostentazione e senza vergogna, con quella sua schiettezza ingenua. Orlandi non soggiunse altro, ma parve alla fanciulla che egli la guardasse fissando gli occhi nella semi oscurità del viale; e quello sguardo piú sentito che visto, la turbò tutta. Ai primi fanali, egli disse ancora: - Sarà stanca? - No, niente affatto. Teresina pensava che ella era troppo sciocca per interessare Orlandi; era naturale che il giovane non sapesse che cosa dirle, dal momento ch'ella stessa si trovava imbarazzata a rispondergli. Sulla porta il signor Caccia venne loro incontro, pieno di sussiego, imponente. Teresina lasciò il braccio del suo cavaliere. - Ci rivedremo, nevvero? - così la signora Letizia. Teresina ringraziò, salutando, ricambiando la stretta di mano della signora. Anche Orlandi tese la sua mano, che la fanciulla toccò appena, lasciando la propria inerte per mezzo minuto in quella del giovane.

Pagina 136

Un rossore di fanciulla spaurita apparve e sparì subito dalle guancie della signora Soave; ella balbettò abbassando gli occhi: - Sai bene, le ragazze ... - Come? - interruppe tuonando il signor Caccia. - È di mia figlia che debbo udire queste cose? Sono questi i principii da me inculcati? Sono questi gli esempi dati? - Volevo dire ... Non c'è niente di male in ciò. Teresina ha quasi ventitre anni; sarebbe tempo che si mettesse a posto. - E per mettersi a posto fa la civetta cogli scapestrati! Udendo parole così grosse, la signora Soave si turbò tutta, e riprincipiò a tremare; non bastandole l'animo di tener fronte a suo marito, eppure disperata per le accuse fatte a Teresina. - Come puoi dire così di una ragazza tanto buona? La frase le venne spezzata due o tre volte dai singhiozzi, i quali non commossero affatto il signor Caccia, fisso nel principio dell'inflessibilità. - Era una buona ragazza, o almeno la credetti tale, il che è certamente piú esatto; perché una figlia rispettosa non si sarebbe mai arrischiata a incoraggiare, senza il consiglio dei genitori, l'amore di un giovane ozioso e vagabondo. Pare che egli metta giudizio. Ha terminato gli studi, ha fatto la pratica… E poi? ... e poi non ha un soldo. Non ha una professione. Aspettando che gli capitano i clienti vorrebbe mangiarsi la dote della moglie. Bel partito! Ella fu sopraffatta dall'evidenza del ragionamento. Per quanto il signor Caccia vi aggiungesse di suo, spinto da una naturale antipatia, la posizione di Orlandi non era la più sicura. Avvezza d'altra parte a riconoscere sempre, in ogni occasione, la superiorità di suo marito, si persuase che egli aveva ragione in massima; salvo il caso che Oralndi, col suo ingegno, riuscisse a far fortuna. - E però - disse ancora la signora Soave, sentendo nel cuore tutta l'angoscia della figlia - se egli mostrasse di far bene veramente, se ottenesse un impiego, che so io? Un mezzo per crearsi una posizione onorevole, non saresti disposto ad anticipare qualche cosa a quella povera ragazza? - Si vede proprio che non hai un'idea pratica della vita, che sei una donnicciuola, non capace che di cianciare. - La mia dote… - La tua dote, divisa in cinque, non darebbe a ciascuno il pane. E abbiamo il maschio, il sostegno della famiglia! È per lui che dobbiamo fare dei sacrifici. Quando saremo vecchi non è dalle ragazze che potremo sperare aiuto. Il maschio porta il nome e l'onore dei Caccia: non posso trascurare il suo avvenire per dare alle femmine una dote, che andrebbero a portare in casa altrui. La signora Soave non parlò piú. Era convinta, rassegnata; piegava il capo davanti all'eloquenza del marito, fatta persuasa da una lunga abitudine che le donne devono cedere sempre. Lo strazio fu quando dovette spiegarsi con Teresina. La ragazza aveva già letta la propria sentenza sul volto accigliato del padre, che a lei non si degnò dir nulla; ma quando la mamma tentò di rimuoverle il pensiero di quell'amore, mostrandole che non poteva condurla ad altro che a gravi dispiaceri, ella proruppe in un pianto così disperato, e si disse cosí ferma nella decisione di sposare Orlandi, che la signora Soave dovette, per la prima volta, riconoscere in sua figlia qualche somiglianza coll'energia e colla fermezza del signor Caccia. Né tale scoperta in quel momento poteva farle piacere, che vide subito a quali attriti sarebbero giunti i due caratteri in lotta. Veramente spaventata, ella chiese a Teresina, se avrebbe avuto il coraggio di resistere a suo padre. Senza esitare la fanciulla rispose: - Sì. - Di disobbedirgli? Il sì, questa volta non venne cosí subito. - Disobbedirgli veramente ... non credo ... ma nemmeno rassegnarmi. - Figlia mia! - gridò la povera donna singhiozzando - non vorrai dare a me e a tuo padre il dolore di maritarti, senza la nostra benedizione! Teresina la rassicurò, dicendole che non avrebbe fatto cosa che potesse recare disonore o dispiacere alla propria famiglia. - E allora? - Aspetterò. E perché questa parola non avesse da essere fraintesa, soggiunse prontamente: - Orlandi mi ama ed io ho fede in lui. Fra un anno egli avrà una posizione così brillante che mio padre non potrà piú rifiutarlo per genero. La signora Soave credeva di sognare. Sua figlia parlava con sicurezza, coll'accento di una volontà irremovibile. La guardava e le sembrava trasfigurata: piú alta, colle linee del volto che avendo perdute le rotondità esuberanti della giovinezza, davano alla fisionomia una espressione caratteristica. Aveva nell'occhio la serietà pensosa delle donne che amano, e il raggio di quelle che si sanno amate. Era nel massimo sviluppo della sua bellezza e della sua forza. - Che Dio t'ascolti e ti benedica! La madre non trovò altro da dire. Dopo averla contemplata se la tirò vicina, abbracciandola, ravviandole i capelli sulla fronte, come avrebbe fatto con un bambino; presa tutta dalla tenerezza di quella grande passione. La sera stessa Teresina riceveva una lettera d'Orlandi, nella quale il giovane le giurava eterno amore. Madre e figlia piansero nel leggerla.

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Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 2 occorrenze

- gli chiese con voce velata il cocchiere abbassando la frusta. L'altro l'osservò. Il cocchiere seduto in serpe sul cielo dell'omnibus aveva un balenìo bianco sulla faccia. Erano gli occhi? non distingueva altro: il manico della frusta era lungo come una lancia. I cavalli immoti sotto la gramaglia del loro velo non sbruffarono nemmeno. Il cocchiere mosse la frusta. - Vuoi salire? - L'omnibus era lunghissimo: qualche vetro dei suoi sportelli riverberava al raggio obliquo di un fanale; l'interno non si discerneva, le ruote arrivavano ai vetri. - Vuoi salire? - ripeté per la terza volta. La sua faccia irriconoscibile nella ombra ebbe come un bagliore di maiolica. - No. Uno schiocco di frusta vibrò, i cavalli spiccarono un salto e l'omnibus rotolò fragorosamente. Egli si rivolse e lo vide scomparire poco dopo a destra, per la seconda svolta, verso la campagna. La notte non si era accorta di nulla. Egli proseguì, l'aria era sempre così tiepida, il buio così profondo. Poi tutta quell'apparizione, i tre cavalli apocalittici, l'omnibus, i fanali rossi che lucevano come una fiamma e guardavano come due occhi, il cocchiere quasi invisibile, il suo invito strano, tutto gli sparve colla medesima prontezza dallo sguardo e dal pensiero. In fondo al viale piegò a sinistra verso il sobborgo San Sebastiano, il più ricco e popoloso della città. I fanali erano ancora accesi, molta gente in giro. Un lungo fremito passava per la notte, il murmure lontano del fiume pareva un gemito di ferito. D'improvviso due colonne bianche balenarono sul margine della strada: la villa nascosta dagli alberi non si distingueva, ma un filo di luce passava per l'ultima finestra al primo piano. Aperse la porta colla chiave, salì le scale coperte da un tappeto così grosso che soffocava ogni rumore di passi, e sempre al buio infilò l'appartamento. Un violento profumo di fiori gli batté sul viso. L'appartamento era piccolo, dall'ultimo uscio socchiuso sboccava un'onda di luce. Egli lo spinse insensibilmente e si arrestò. Il gabinetto giallo, poco più grande di una tenda, era illuminato da un lampadario di bronzo dorato carico di candele trasparenti: un enorme specchio riluceva nel fondo, i mobili erano dorati; nel mezzo, sdraiata sopra una pelle di orso nero, una donna vestita di bianco fumava una sigaretta. Ella si era passata un braccio sotto la testa e guardava in alto colle spalle rivolte all'uscio. I suoi capelli, neri, diffusi, si discernevano appena sulla pelle della belva; mentre una delle sue pantofole dorate fuori della veste sembrava battere nervosamente la musica di un sogno. In un angolo, sopra un plinto di marmo giallo, un'onda di garofani traboccava da un vaso d'argento. A un tratto il suo piede si arrestò. Ella arrovesciò il capo, sorrise e con accento tranquillo disse: - Ti ho sentito. E lo chiamò con un gesto sulla pelle nera. - Dimmelo subito, mi ami? - Egli non rispose. - Rodolfo... - Mi ami?! - esclamò con più impeto, percotendogli quasi col volto sul volto silenzioso. Poi lasciando la presa con atto inesprimibile di disperazione e di amore: - Che m'importa? - gridò. - Ti amo io. - Mi hai sempre amato - egli rispose con voce quasi dolce mirandola negli occhi, e una luce lontana di stella sembrava brillare in fondo al suo sguardo nero come la notte. La bellissima donna si confuse. - Non ti ho sempre conosciuto. - Quindi non mi riconoscerai sempre. Ella si era fatta malinconica, egli era rimasto tetro: il gabinetto pieno di luce e di profumi li avvolgeva come in un'onda d'oro. Ella si levò, rimase un istante in piedi a guardarlo così sprofondato in quella meditazione, poi andò a sedersi sopra una poltrona nascondendovi il volto contro lo schienale. Passò del tempo: quando si alzò aveva gli occhi rossi; tornò a sedergli vicino, lo prese per le spalle ed arrovesciandosi la sua bella testa in grembo: - Rodolfo... - esclamò rabbrividendo alla fissazione del suo sguardo: - tu guardi nel vuoto. Ma in quel momento un impeto di vita le irruppe dal cuore, la sua fronte sfavillò. - Povero Beniamino! - proruppe cacciandogli le mani nei ricci dei capelli e squassandoli per rompergli l'incanto di quella meditazione; - povero Beniamino, che sei triste quando tutto ti sorride intorno. Non senti come sei bello? La tua fronte è segnata dal dito della storia, un giorno il mondo ti riconoscerà per uno dei suoi grandi. Napoleone I era pallido come te, i capelli di lord Byron erano ricciuti come i tuoi: tu potrai vincere battaglie belle come una canzone e scrivere canzoni sonore come una battaglia. Aspetta: la tua ora fatale passerà anche troppo presto portandoti lontano dai miei occhi, e io non ti vedrò più che in mezzo ad una aureola di gloria, sullo sfondo nero di una procella. La fronte di lui balenò. - Aspetta... - ella s'affrettò a ripetere: - la storia non saprebbe che farsi della tua giovinezza, la primavera è dei fiori. Sei già celebre, il mondo ti osserva palpitando. Io ti credo: la fede che s'inspira è pur sempre la migliore delle certezze. Ascolta - proseguì anelando con una moina di terrore e di adorazione: - se ti provassi che ti amo, se il tuo pensiero abituato a tutte le magnificenze dell'infinito, se il tuo cuore pieno di tutte le pompe dell'immortalità dovessero per forza arrestarsi davanti al mio amore... - Fermarsi è morire. - No, non ancora. Se quando tu cerchi nelle tenebre dell'ignoto io avessi per te conforti di luce e di rivelazioni; se quando tutto oscilla nel dubbio del tuo pensiero io restassi salda nella fede del tuo cuore; se quando tu lotti io fossi sempre la vittoria; se quando tu vinci io fossi sempre il premio... se io fossi nel tuo ieri eterno e nel tuo dimani immortale?... - La vita non è che l'oggi. - E sia pure. Hai ragione, noi donne siamo caduche, siamo un fiore ed un frutto, un profumo che accarezza, un sapore che corrobora. Sali, sii grande; io non posso nulla per te; sii infinitamente infelice, la tua felicità è forse in questo. Vivi lassù, al disopra dell'aria, dove le stelle guardano nel vuoto e le comete cercano Dio: io non ho né il diritto, né la forza di seguirti. Ma quando discenderai dal zodiaco fiammeggiante della tua idea al comando della storia, che avrà drizzato sopra un Golgota la tua croce nera, io sarò ad aspettarti lungo la strada e avrò lagrime che laveranno tutte le tue piaghe, parole che copriranno tutti gli insulti. Ma prima, fra l'apoteosi e il martirio, sovvèngati qualche volta di me, che ti avrò amato colla stessa costanza della terra che gira intorno al sole, sovvèngati della mia vita, che sarà sboccata nella tua come una fontana nell'oceano. La fontana è piccola, ma la sua acqua si può bere. Poi guardandolo improvvisamente come in atto di sfida proruppe: - Ebbene, senti: che cosa daresti tu, ambizioso, per essere il maggiore fra quanti uomini furono e saranno? - Il sembrarlo a tutti. Ella chinò scoraggiata la fronte, mormorando: - Mi soffochi. Egli era ancora nella stessa posa, sdraiato colla testa nel suo grembo guardandola cogli occhi immobili. La sua fronte altissima era pallida come una lapide. Ma un lampo passò ancora nelle pupille tremolanti della donna. - Credi tu almeno nel tuo genio? - Sei tu sicura di Dio? - Quindi egli si rialzò, le tese la mano: i suoi occhi brillavano come due stelle. - Rodolfo, Rodolfo... - ella gemé soffocatamente - tu mi abbandoni, te lo leggo negli occhi. L'altro non rispose. Ma ella non si arrendeva, gli serrava le mani, gli si avviticchiava col sorriso, collo sguardo; poi alzando le braccia per gettargliele al collo con atto stanco, febbrile d'amore, mormorò: - Vieni, dunque, dormiamo.... Egli le rattenne quel gesto. - È già l'alba - rispose freddamente. Fuori la notte era sempre così tenebrosa, il sobborgo aveva spento tutti i fanali, non s'udiva una voce: ma laggiù, lontano, quella piccola stella non era ancora sommersa. Quando fu presso la città, egli piegò macchinalmente a dritta lungo lo stesso viale. Le mura non si discernevano ancora, i platani facevano sempre sul suo capo una volta anche più nera dell'ombra. D'improvviso quel medesimo fracasso rotolò lontanamente: poi quegli occhi rossi riavvamparono, i sonagli tintinnirono, gli alberi tornarono a tremare e l'ombra indietreggiò fuggendo giù nel fossato, mentre una macchia di sangue lambiva sinistramente le mura e l'ondulazione di un galoppo leggero e cadenzato rimbalzava sulla strada. L'omnibus sembrava illuminato anche di dentro. Lo schiocco della frusta imitava la battuta delle nacchere. Egli era venuto sul ciglio della strada. Questa volta il balenìo bianco sulla faccia del cocchiere era come il riverbero di una vetriata. - Ferma! - egli gridò stendendo la mano. I cavalli si arrestarono stecchiti. L'omnibus illuminato internamente da un fanale bianco sopra lo sportello superiore appariva stipato nel fondo e sui sedili di casse bianche, segnate sul coperchio da una croce nera; una, la più piccina, forse di un bimbo nato e morto nel medesimo giorno, sembrava un cofanetto. Il cocchiere attendeva colla frusta bassa. - Salgo? - Pieno! - l'altro rispose battendo colla frusta sui fianchi dell'omnibus. - Salgo? - In serpe? - Egli vi si arrampicò, ma non si era ancora assettato che il cocchiere gli domandò: - Pronti? - Sì. Lo schiocco della frusta squillò e i cavalli si slanciarono. Allora esaminando il cocchiere egli s'accorse che era uno scheletro vestito di una livrea nera, con un largo cappello piatto sulla testa. Il balenìo bianco della faccia gli veniva dai denti. Andavano colla rapidità di un sogno. - Donde vieni? - egli domandò nel piegarsi sopra di lui ad una voltata vorticosa. - Dall'ospedale di San Lorenzo. - Quanti morti hai caricato? - Non li conto io. Vi fu una pausa. L'omnibus rotolava furiosamente, la città si era già perduta in lontananza, un gran viale fiancheggiato di lunghi cipressi appariva. - Dove vai? - Scarico al cimitero. - Ci fermiamo lì? - chiese guardando laggiù quella stella oramai vicina ad affondarsi. Un lampo più bianco passò sulla faccia del cocchiere, che ripeté: - Scarico al cimitero. Nello stesso momento la testa dell'altro gli cadeva morta sulla spalla. Lassù, lontano, la stella si era affondata.

- Poi abbassando la voce soggiunse: - Noi lavoriamo nel secreto a rovinare il vecchio impero per costruire la giovane Russia, cospiratori nell'ombra, martiri al sole. - Le vostre armi? - Tutte quelle che un uomo può usare. - Avete vinto nessuna battaglia? - Abbiamo ucciso un imperatore. - Ma l'impero è rimasto. E il vecchio non parlò più. Il mare era buio, le stelle brillavano ancora. Passarono forse due ore senza che i due strani interlocutori, caduti in una meditazione, forse profonda come quel mare, e scintillante di pensieri come il cielo di stelle, parlassero. Il vapore avanzava sempre agitando nell'ombra un pennacchio di fumo. Poi il vecchio mormorò: - Sono tutti morti... - e la testa gli ricadde pesantemente sopra le mani congiunte sulla canna, come sotto il peso di quell'enorme poema, del quale era l'ultimo verso, di quei due milioni e mezzo di soldati, ai quali solo era sopravvissuto. In quel momento l'alba cominciava a spuntare; lontano, in fondo all'orizzonte, una macchia bruna ed immobile poteva essere un'isola. - Eccola! - esclamò il giovane levandosi. La faccia del vecchio raggiò. Il mare mormorava, l'alba cresceva, il vapore rantolava sordamente. Allora il vecchio alzò ambo le mani come invocando e una lagrima, l'ultima, gli scese dagli occhi appannati. L'altro lo guardò trasalendo. Il vecchio soldato si trasfigurava: i primi rossori dell'alba sembravano vampate di cannoni lontani, l'onde avevano dei fremiti di battaglia, la costellazione era scomparsa, quando uno scoppio immenso squarciò l'Oceano e il sole sfolgorò. - Viva Napoleone! - gridò il vecchio salutando militarmente come se lo pigliasse per il fantasma del morto imperatore. Il sole saliva sopra Sant'Elena. - Andate a visitare la sua tomba? - domandò il giovane. - A morirvi. Egli è stato il primo, io sono l'ultimo. E fu l'ultima parola.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 2 occorrenze

Ella fece questa domanda abbassando la testa, soffusa di una luce interna. Roberto curvò il capo sulle mani di lei, che erano posate sulla tavola e vi tenne lungamente incollate le labbra. - Se le forze mi basteranno, se lei non presume troppo di me, io le dedicherò tutta tutta la gloria che potrò acquistare; come le ho dedicato l'anima mia. Vede; Velleda, lei può fare di me tutto quello che vuole. Io non ho mai capito come ora la legge della suggestione; se mi dicesse di camminare alla morte, ci andrei sorridendo. Io non ho più volontà che la sua e mi compiaccio di non averne. Che dolce sentimento è questa dedizione completa, questa fiducia intera in un'altra persona che è in noi e fuori di noi. È l'unione vera, continua, cui il cuore può dare la durata che non hanno le unioni materiali. Velleda troncò la parola a Roberto temendo un momento di debolezza e prese a dipingergli la vita che avrebbero fatto divisi. Egli doveva passare a Roma molto tempo; specialmente il primo anno, lavorare negli uffici, prendere la parola in ogni questione sociale, esser sempre sulla breccia con la minoranza, imporsi con la eloquenza vera e con la serietà dei suoi intendimenti. Ella avrebbe ripreso a scrivere, per occupare le lunghe sere invernali, ma non più romanzi. Aveva in mente un'opera più utile, che avrebbe firmato " Una donna ", un libro destinato agli operai, in cui voleva mettere tutto il suo cuore di donna per educarli ai nuovi diritti acquistati e da acquistarsi e innamorarli degli antichi doveri. Nessuno avrebbe mai saputo che ella ne era l'autrice; Roberto doveva trovarle a Roma un editore ed ella ne voleva pagare la stampa con le sue economie e farla distribuire in tutti i centri di lavoro. Sperava con quell'opera di trattenere la rivoluzione delle classi, che aspirano al primato, avviandole a una conquista pacifica. Cosi mi farò sua cooperatrice, - diceva, - e nella tarda vecchiaia tutti e due potremo guardare dietro a noi paghi di avere speso utilmente la vita sotto l'egida di un affetto che sarà stato la nostra guida. Quella sera non lesserò più, non parlarono più. La parola non bastava a esprimere quello che sentivano, e l'eco del sogno di Velleda vibrava nei loro cuori come il ricordo di una musica divina. Ella aveva preso il lavoro e i fiori sbocciavano sotto le sue dita in una deliziosa armonia di tinte, e Roberto, con le mani abbandonate sui braccioli del seggiolone, l'avvolgeva in uno sguardo innamorato, mentre il mare accompagnava i loro pensieri con un lieve rumore ritmico, che aveva la soavità di una carezza. Quello stesso rumore accompagnava la veglia di Franco Il duca era tornato tardi da Castelvetrano, dopo aver passato la sera a giuocare in casa di un proprietario del paese, il Purpura, insieme con l'onorevole Orlando e altri. Anche in quella piccola città il giuoco era in gran voga e il Purpura passava per sapere abilmente spennacchiare gl' impiegati e gli ufficiali. Naturalmente appena aveva conosciuto Franco in farmacia, aveva indovinato che il duca doveva essere uno di quelli che giocano forte ed era riuscito ad attrarlo in casa sua. In poche sere Franco aveva perduto diverse migliaia di lire senza pensare al poi, volendo solo ammazzare il tempo e addormentare i sospetti di Velleda. Don Ciccio Purpura, che era il grande elettore dell'Orlando, aveva chiamato a raccolta tutti i più forti giocatori del paese, per offrire al duca competitori degni di lui. Il deputato, che aveva un debole per il giuoco; era accordo, trovandosi in quel momento a Castelvetrano per preparare le elezioni. Conosceva Franco dì vista, per essere stato a Roma molto tempo, ed era curioso di avvicinare questo principe dell' eleganza, che s'era rovinato come tanti altri. Invece di chiamarlo don Franco, come tutti lo chiamavano; gli dette subito il titolo che gli spettava e ciò lo rese simpatico al giovane signore, il quale si sentiva ferir l'orecchio ogni volta che lo chiamavano altrimenti. Poi gli parlò della capitale; di alcuni deputati del patriziato romano, gli raccontò dei pettegolezzi sui legami di questi con certe donnine galanti, e a Franco parve di sentirsi rivivificare da quel soffio di aria che veniva di là, dove aveva vissuto e dove avrebbe voluto sempre vivere. Era un ometto molto bruno, molto vicace quello Orlando; il vero tipo dell'avvocato presuntuoso, assuefatto a farsi ascoltare, a strappar l'approvazione all'uditorio. Uomo senza scrupoli, era devoto a chi saliva, senza voltar le spalle a chi scendeva. Alla Camera, era sempre nelle file della maggioranza, ora come affigliato, ora come alleato, ma il suo nome figurava immancabilmente nella lunga lista di quelli che votano per il sì Egli si faceva perdonare la devozione per i ministri in carica con l'entusiasmo che poneva nel parlarne, con la fede che pareva riponesse in loro. Ma quell' entusiasmo che gli si vedeva brillare negli occhi nerissimi, lampeggianti, dietro gli occhiali leggermente colorati di turchino, era una spuma tutta superficiale, che svaniva subito e non aveva sede nella coscienza di quell' avvocato, buon vivente, libertino; avido di danaro e di quelle soddifazioni d'amor proprio che da la carica di deputato, di uomo influente. Quell'avvocato volgarissimo, di poca cultura, ma accorto e subdolo, sotto apparenze franche, aveva una certa vernice di uomo di mondo, di uomo elegante e raffinato, e si faceva distinguere fra gente semplice e alla carlona. Egli portava sempre una camicia candida, si vestiva a Roma dal sarto dei patrizj, conosceva tutti e parlava anche di quelli che non conosceva, come se fossero suoi amici. Quando era alla capitale pranzava ogni sera con un gruppo di deputati siciliani al Caffè di Roma, dove si conoscono tutti i pettegolezzi del mondo politico e dove si tramano tante cospirazioni parlamentari. Da tre legislazioni sedeva alla Camera e portava con molta ostentazione le tre medaglie attaccate a una catena appariscente. Agli occhi dei suoi elettori e di qualche de putato poteva passare per un uomo di maniere eleganti e di gusti fini, a quelli di Franco no. Egli indovinò subito che quell' onorevole era un villano rifatto, ma in tanta scarsezza di persone da frequentare, non avendo da scegliere, si mostrò deferente per l'Orlando, il quale affettava di fronte a lui le stesse maniere che usava con i ministri scesi dal potere: maniere umili, inchinevoli, omaggio a un infortunio immeritato, a una grandezza decaduta, che poteva e doveva assurgere a nuovo splendore e a nuova potenza. L'avvocato non parlò a Franco del processo d'Alessio e neppure della candidatura del fratello, che aveva fatto una rivoluzione in paese; evitò d'intrattenerlo di cose noiose, atteggiandosi a consolatore di quell'esule volontario e divagatore di quel grande annoiato. E nelle prime sere o durante i caldi meriggi d'agosto, mentre erano seduti davanti al tavolino da giuoco, seppe anche perdere piccole somme, per non sgomentare il duca, ma poi incominciò a spennacchiarlo per bene, giocando abilmante e approfittando dell'indifferenza che poneva Franco in ogni cosa che faceva. E fu dopo una di quelle perdite che Franco vegliò lungamente, non perché vedesse diminuita molto la somma portatagli da Roberto e che era tutto ciò di cui poteva disporre, che di questo egli non si curava; ma per aver ricevuto una lettera dal Signorini. Franco aveva sperato che quella lettera potesse servirgli di arme per umiliare Velleda, ed era invece un inno alla signora, un tributo reso all'ingegno di quella gloria fiorentina, un omaggio alla donna infelice; che aveva saputo nobilmente portare la sventura. Il Signorini diceva che il nome del marito di Velleda era Crespi; ma che ella faceva bene a ripudiarlo e a portare quello del padre, per evitare le persecuzioni di quell'uomo abbietto, che scontava nella casa penale di Nisida una truffa. Prima di terminare la lettera, il giovane signore confessava a Franco che anche lui, come molti altri, aveva fatto la corte alla bella letterata, senza però ottener da lei nulla, perché a " Melusina " non si conosceva altra passione che l'arte; altro affetto che quello di suo padre e della sua bambina, rapitale dal marito. " Questo è quanto posso dirle della signora Velleda Bianchi, - concludeva il Signorini, - e se ella, nelle sue peregrinazioni in Sicilia, riesce a ottenere le buone grazie della piccola fata bianca; potrà dirsi veramente fortunato e abile più di me e degli amici miei. Dica alla indimenticabile Melusina che io sono fra i suoi amici più devoti e fra i più caldi ammiratori e che il suo ritorna a Firenze sarebbe una festa per me. " Ecco svanita una speranza! - disse il duca accendendo una sigaretta; - ma io non posso ne voglio rassegnarmi. Quell'uomo dagli imperiosi desiderj, che si dibatteva nell'impotenza di appagarli, appariva ben diverso dal consueto e i suoi freddi occhi si posavano irrequieti sulla lettera che aveva davanti, quasi quelle righe dovessero suggerirgli l'idea che cercava invano nella sua mente sognante perfidie, senza saperle preparare. Sono un inetto e porterò questo marchio d' inettezza tutta la vita. Ora Roberto sarà eletto deputato; se io mi fossi portato a Roma non avrei raccolto mille voti: eppure ero una potenza! E da deputato salirà sempre e sempre più si attaccherà a Velleda e sempre più ella insuperbirà della gloria di lui! Ah! è atroce la mia sorte; se non fosse ridicola. Prese la lettera e stava per farla in tanti pezzetti. ma si trattenne. Mi può sempre servire a qualcosa, - pensò, e la rinchiuse in un cassetto insieme con i danari. La vista dei biglietti di banca, molto diminuiti dalle perdite al giuoco, ricondusse il pensiero di lui al Purpura, all' Orlando, a tutti quei nuovi conoscenti di Castelvetrano e s'accorse che potevano essere altrettanti alleati per combattere reiezione di Roberto. Allora un sorriso cattivo gli sfiorò le labbra e capì che tutte le speranze di vedere una volta almeno umiliato suo fratello e afflitta Velleda, non erano perdute. Non fece un piano, perché era incapace d'idearlo, anche sotto l'impulso dell'invidia e del desiderio, ma si rimise, come tutti gli inetti, nelle braccia misericordiose del caso, e confortato dormì un lunghissimo sonno, che Saverio si guardò bene dall'interrompere. Era una domenica, una burrascosa giornata d' agosto. Il mare gonfiato dal vento di terra spingeva al largo le onde crestate di bianco per modo che guardando dalla spiaggia si vedeva una distesa verde su cui svolazzavano a stormi i gabbiani e in distanza una montagna nivea e fluttuante che si confondeva con la linea dell'orizzonte. La sabbia turbinava sulle rovine, sui palmizj, sulla villa, avvolgendo ogni cosa in una nube giallastra, di sinistro aspetto. I valori e i velieri ancorati nel piccolo porto alzavano e abbassavano le prue con moto continuo e disordinato, minacciando di urtarsi, e le alberature e g'li scafi cigolavano sinistramente. Alla villa erano alzati per tempo, nonostante la veglia prolungata, e chi avesse veduto Velleda e Roberto, senati alla tavola della colazione, con la piccola Maria nel mezzo, guardandosi sorridendo, non avrebbe mai supposto che da quei due giovani era stato poche ore prima tracciato un programma così serio di esistenza operosa. Parevano due giovani imposi occupati soltanto della loro felicità e della educazione della bambina, che sedeva in mezzo ad essi. Non c'era una nube sulla fronte liscia di Velleda, sulla quale scendevano i ricciolini dei brevi capelli; non un pensiero triste negli occhi grandi e mansueti di Roberto. Tutte e due sapevano che le lotte stavano per incominciare, che una esistenza di sacrifizj li aspettava, ma ormai avevano calcolato tutto e non provavano pentimento e si sentivano uniti nell'avvenire come nel passato; uniti sempre, e in questo consisteva la loro calma, la loro felicita. Oggi, Maria, - disse Velleda, - non puoi fare il bagno e neppure uscire; fuori non si sta ritti; leggerai, ti baloccherai con le bambole e se nel dopopranzo la burrasca continua, io ti racconterò una novella. Questa promessa teneva sempre buona la bambina, perché nessun libro procuravate mai tanto diletto guanto la narrazione di una novella immaginata da Velleda. la quale univa alla meravigliosa fantasia delle razze slave, una ricchezza di colorito tutta meridionale. Ed io pure ascolterò la novella, - disse Roberto, e starò attento quanto Maria. Io pure ho bisogno di passare il tempo. Tu scherzi, babbo, a te il tempo manca sempre. Lo zio Franco, invece, non sa mai che cosa farne. Dimmi, babbo, tutti i duchi sono così disoccupati? Chi ti ha detto che è duca? - domandò Roberto. Lui stesso; anzi mi ha promesso di lasciarmi il suo titolo, perché tu non vuoi farmi portare i tuoi. Il signor Franco cerca sempre di destare in Maria idee vane e ambiziose, - disse Velleda. - Io mi sono studiata si paralizzare quell'influenza, senza ricorrere a lei, ma vedo che la nostra piccina non vuoi dimenticare le parole dello zio; ed è bene che lei, signor Roberto, si valga della sua autorità per dimostrare a Maria che e inutile che si culli in quei pensieri, che ella si chiamerà sempre Maria Frangipani e che nessun titolo vale quanto un nome onorato. Roberto soffriva visibilmente; ripugnavagli di far nascere nel cuore di Maria la sfiducia contro Franco e capiva benissimo il delicato sentimento che aveva trattenuto Velleda dal parlargli di quella opera di corruzione del fratello; ma dinanzi al male che questi poteva recare alla sua bambina, non ebbe più esitazioni e disse, atti randola a sé dolcemente: Senti, Maria, tuo zio ha ricevuto una cattiva educazione; forse nessuno gli ha voluto veramente bene. Per questo egli non sa educare gli altri e non vuol bene a nessuno. Con te, egli si balocca come farebbe con un gingillo. Non gli prestare attenzione quando ti parla, ma non gli dimostrare disistima. È un infelice che va compatito e tollerato. Egli non può lasciarti proprio nulla; neppure quel titolo di cui si vanta e che è la sua sola ricchezza. Te lo dico io, che non saprei ingannarti, come non ti sa ingannare Velleda. Dovrei allontanarlo di qui, soltanto per la perfidia con cui cerca d'insinuarsi nell'animo tuo; ma ho compassione di lui e non lo faccio. Però invito te ad esser più ragionevole di lui e a non prestar fede a quello che ti dice. Se tu non lo facessi, io dovrei dirgli di partire, e lontano di qui sarebbe anche più abbandonato e infelice. Saprai essere forte contro le sue insinuazioni, Maria? Roberto aveva nella voce e nello sguardo quell'affascinante dono della persuasione, proprio degli apostoli, di coloro che parlano al cuore degli individui e delle masse, fascino indescrivibile che sfugge ali' analisi e che consiste forse nella grande armonia fra il pensiero e il sentimento. Maria subì il fascino delle parole e dello sguardo paterno e si gettò nelle braccia di Roberto, commossa. Egli la baciò affettuosamente e nell'alzarsi disse a bassa voce a Velleda: Ci sarà fatale, Franco? Ella non rispose. I suoi presentimenti erano sinistri, ma non voleva turbare la pace di quella grande anima, e i sibili del vento, la burrasca che si scatenava sulla villa; le parvero in quel momento i prodromi dell'altra che sentiva accumulare sulle loro teste.

Me ne accorgo, - rispose ella abbassando le lunghe palpebre con una mossa civettuola della tosta. - Volete che vi faccia un complimento? Vi siete portato bene con lei in questi ultimi giorni: ora vi temerà meno. No, Costanza, mi teme lo stesso. Tutte le mie gite a Castelvetrano sono state inutili. Sappiate aver pazienza, - diss'ella, - chi sa aspettare vince sempre: vinceremo tutti e due, non dubitate. Senti, - disse il duca; cui balenò un pensiero malvagio, - lei vuoi far eleggere deputato mio fratello e deve aver le sue mire. Le conoscete? - domandò Costanza. Le indovino. Qui tutti son venuti a sapere molte cose sul suo passato; molte cose brutte. Ella sente che non è più terreno per lei e si vuoi far condurre a Roma; capisci ora? E Maria? - domandò la contadina impallidendo. Maria andrebbe con loro: non è forse il preteste col quale ella copre il suo amore? E io? Tu rimarrai a Selinunte; ti lasceranno a guardia della villa; Velleda non condurrà nessuno di qui per tema che parli. Signorino, - disse la donna stringendo i denti, signorino non fate eleggere il padrone. Io non posso far nulla, Costanza, ma tu puoi far molto. Fá capire agli operai che Roberto, una volta a Roma, avrà altre mire e lo scopo della sua vita non sarà più la prosperità dello stabilimento. Lontano lui, tutto andrà a rotoli qui e in capo a poco tempo dovranno chiudere. Ho capito, - disse Costanza, lasciate fare a me, signorino. Quella perfida non porterà a Roma la cara figlia mia! Queste parole furono pronunziate con un accento di così profonda sicurezza, che Franco trasalì di gioia. Senti, Costanza, ti voglio rivelare una cosa, disse il duca prendendola per la manica e attirandola a sé. - Sai, quella superba, quella che fa la padrona in casa di mio fratello, ha il marito in galera per ladro! Oh! Gesù mio! - fece la donna coprendosi la faccia. Il duca aveva calcolato giustamente l'effetto di quelle parole. Per il popolo siciliano, che al pari di molti altri popoli d'Italia, ha tanta indulgenza per i colpevoli di delitti di sangue, il furto è il più infamante di ogni reato, perché non è scusato dal risentimento o dalla vendetta. Gesù mio! - esclamò ella, - la moglie di un ladro! Si, di un ladro, - ripetè Franco per imprimerle bene nella mente quelle parole. Quella rivelazione fece esultare Costanza. Ah! ora avrebbe preso tutte le rivincite possibili, ora avrebbe sfogato liberamente tutto l'odio contro di lei! Franco vide che ella stava per uscir di camera e la richiamò per raccomandarle di non dire che la notizia veniva da lui. Oh! non dubitate! - esclamò ella, - voi non sarete compromesso, ma in cambio del piacere che mi procurate, io ve la darò nelle braccio; fidatevi di me! E mentre il duca rimaneva a letto fidente nella promessa di Costanza, questa scendeva sul piazzale dello stabilimento in cerca di Giovanni, del suo alleato. Ella sapeva comporsi in volto così indifferente che non pareva più la stessa di pochi istanti prima, e Roberto che la vide credè che la curiosità sola di guardare i carrozzoni della tramvia elettrica l'avesse attratta in quel luogo. Ella girava e rigirava intorno ad essi sperando che dal portone aperto dell'officina ove si fabbricavano i fusti, Giovanni vedesse la smagliante sottana rossa di lei; ed egli la vide infatti, mentre con le braccia nude e le maniche rovesciate batteva col martello pesante i cerchi di ferro intorno alle doghe, e dinanzi a lui le fiamme del forno s'inalzavano rossastre facendo apparir pallidi i raggi del sole, che dal portone spalancato entravano nell'officina. L'operaio finse di non aver veduto Costanza e continuò a battere finché il cerchio giunto al punto più stretto del fusto scivolò giù da sé. Dopo aver dato un colpo al nuovo cerchio più stretto, Giovanni posò il martello e asciugandosi con il palmo della mano la fronte grondante sudore, uscì nel piazzale dirigendosi verso una delle fontane. Costanza avealo atteso e si trovò sul suo passaggio. Senza guardarlo, ella disse : Oggi nella grotta. Dirai ai compagni che ti trattieni a fare il bagno. Giovanni fece un cenno lieve col capo per dirle che aveva capito e si accostò alla fontana. Costanza ritornò in camera di Franco e accostatesi al letto gli prese una mano portandosela alle labbra: Che siate benedetto! - disse piangendo di gioia

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

. - Signore, - disse l'uomo tremante, abbassando la testa. - Signore, preparati a ricevere una funesta notizia. - Parla. Hamid non ha bisogno di prepararsi. Nulla, di quel che avviene sulla terra, può scuoterlo. Che la volontà di Allah sia fatta, e lode al suo profeta! - Signore, - aggiunse il commesso - l'uomo in cui tu avevi riposto tutta la tua fiducia, è fuggito stanotte sopra una nave montata dagli infedeli, e si dice che abbia vuotato i tuoi scrigni. - Le merci che recheranno le caro- vane che traversano i deserti, i tesori di cui sono carichi i miei bastimenti, riempi- ranno gli scrigni. Va', e attendi al tuo la- voro. - Quel giorno Hamid andò al bazar, come al solito, e la gente che lo guardava cu- riosa non scoprì sulla sua fronte una ruga di più. Nella notte, mentre egli giaceva sugli spessi tappeti della sua camera, vide en- trare la solita vecchia lacera e sporca. - Che vuoi? - le domandò Hamid. - Sono la Sventura, non mi ricono- sci? Ho preso dimora qui, in casa tua. - Vattene! - Tu dovrai chinare il capo da- vanti a me. - Vattene, strega! Io non chino il capo altro che dinanzi ai decreti di Allah, che adoro. Vattene! - La Sventura sedè in un cantuccio e si accomodò dietro le spalle un guanciale. Hamid si alzò e brandì una scimi- tarra. Alla fioca luce di una lampada rossa- stra egli vide la scimitarra entrare nelle carni della vecchia, ma quando la cavò fuori non era macchiata di sangue. La vecchia fece una risataccia. - Le tue armi sono inutili; - disse - esse non possono colpirmi. Ora lasciami riposare in pace e prega il tuo Dio che riposi lungamente. - Dopo pochi istanti, la vecchia, col capo sorretto dal guanciale, livida ed este- nuata, dormiva e pareva morta. Hamid chiuse a chiave la stanza, e la notte stessa ordinò ai suoi schiavi che ne murassero ogni uscita. Essi ubbidirono ai suoi comandi, e in poche ore la stanza era murata. La mattina seguente, il solito com- messo bussò presto alla porta della nuova camera del suo padrone. - Signore, - disse l'uomo, tremante - signore, preparati a ricevere una noti- zia funesta. - Parla. Hamid non trema. - Stamani un temporale ha fatto sommergere tre dei tuoi bastimenti, che erano in vista del porto. Merci e uomini, tutto è perito. - Farò costruire altri bastimenti. Che la volontà di Allah sia fatta! - Quel giorno Hamid andò, come al so- lito, al bazar, e la gente curiosa, guardan- dolo, si accorse che il suo volto non rive- lava nessuna commozione. Era da poco seduto nel suo negozio, quando comparve la solita vecchia, strac- ciata e sporca. - Vattene! - le disse Hamid. - I tuoi schiavi, murando la camera, mi hanno destata col rumore delle pale e delle pialle. Non posso stare in ozio, te ne sei già accorto. - Vattene! Io non mi sono accorto di nulla. La volontà di Allah si compie, e non la tua! Concedimi l'ospitalità,lasciami dor- mire sotto il tuo tetto! - Vattene! - ripetè Hamid. - Te ne pentirai, - disse la vecchia minacciandolo con una mano nell'uscire. Hamid la salutò con un sogghigno. Ogni mattina Hamid era destato dal solito commesso. - Un bastimento carico di spezie è bruciato nel porto di Genova. - Lascia che la volontà di Allah sia fatta! - La gente lo guardava sorpresa, senza osare fargli condoglianze. Appena era seduto, gli si presentava la solita vecchia. - Sono in giro per il mondo e col- pisco tutto quello che ti appartiene. Hai sentito le notizie? – Ma Hamid la cacciava tutte le volte. Un giorno erano le sue carovane sep- pellite nella sabbia; un altro le sue terre devastate dalle locuste; poi i suoi magaz- zini distrutti dal fuoco, ed altre simili sventure. Ma Hamid il superbo, continuava a portare alta la testa, a non degnare di uno sguardo la gente, a sogghignare alla Sven- tura. Soltanto Hamid aveva maggior cura del suo palazzo. Gli schiavi dovevano darsi il turno per vegliare la notte; le donne di Fatima non dovevano abbandonarla un minuto, pena la vita, ed egli stesso stava più di frequente nelle stanze della figlia e faceva sforzi inauditi affinchè le notizie delle sue sventure non giungessero alle orecchie di lei. Una mattina le donne di Fatima mandarono a destare in fretta il padrone. - Tua figlia è sparita; abbiamo tro- vato la camera vuota, i suoi gioielli, le sue vesti, tutto è sparito con lei. - La fiera testa di Hamid s'incurvò a quella notizia e una lacrima gli cadde sulla barba. Quel giorno non andò al bazar; quel giorno non ebbe la forza di moversi, e nel suo dolore neppur si rammentò della mi- naccia che aveva fatta alle donne di Fatima. Verso sera entrò la Sventura e gli si mise accanto. - Perché non mi scacci? - gli disse. - I tuoi tesori sono inghiottiti dal mare, sepolti nelle sabbie, distrutti dal fuoco; i tuoi figli, tua moglie sono morti; Fatima, rubata dai corsari, sarà a quest'ora ven- duta su un pubblico mercato come schiava; Fatima sarà battuta da un padrone duro come te.... perchè non mi scacci? - Il mercante era scivolato ginocchioni. - Pietà! - diceva - pietà! non per me, ma per Fatima, per la figlia mia. - La Sventura lo respinse sogghignando, e sparì in un attimo com'era venuta. Hamid non si mosse da quella stanza; Hamid non aveva più forza. Gli schiavi, temendo la sua collera, fuggirono a uno a uno; il suo palazzo rimase aperto ai ladri, aperto alle intemperie, aperto agli animali vaganti. I primi lo saccheggiarono; il vento, il sole, la pioggia vi entrarono schiantando, bruciando, putrefacendo i legnami e gli ornamenti preziosi; gli animali vi presero stanza. Alcuni anni dopo, quando Fatima, di- ventata libera, volle sapere quel che era avvenuto di suo padre e volle tornare al palazzo paterno, lo trovò devastato e po- polato di immondi animali di ogni specie. Il cadavere di Hamid, intatto, era an- cora nella camera dove l’aveva colpito la notizia tremenda, e il suo capo, umiliato dalla Sventura, toccava la terra.

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Appena il giullare entrò, fece una comica riverenza abbassando la testa e ponendo in evidenza l'enorme gobba. Bastò quella mossa per dileguare la tristezza della signora e farla ridere di cuore. - Madonna, io posso inforcare quella lumaca del mio destriero e ritornare da tuo padre! - Perché? - domandò la contessa Berta. - Fui mandato qui per farti ridere; tu ridi e io parto. Non vorrei che con me tu mettessi in opera il proverbio: "Avuta la grazia, gabbato lo santo". È vero che non sono un santo, ma potresti in questo caso trattarmi come tale; e io ho gabbato molta gente, ma non fui mai gabbato. La Contessa continuò a ridere e il gobbo prese a dire: - Messere e madonna, eccomi qui nella vostra casa. Se volete che restiamo amici, dobbiamo fare i nostri patti. - Che patti? - esclamò il Conte. - Sarebbe bella e nuova che un giullare c'imponesse la sua volontà. Riccio non rispose, ma scrollò il berretto coperto di sonagli e si avviò verso la porta. - Dove vai? - domandò il Conte. - Dove mi pare. Tu mi hai chiamato perché facessi quello che tu non sai fare, cioè tenere allegra la tua sposa; tu vuoi da me un favore ma non permetti che io domandi un compenso, e io me ne vado. Siamo tutti pari: arrivederci! - E la lettera di mio suocero? - È inutile, messere, che io te la consegni, tu non sai leggerla. Io tornerò a chi l'ha scritta e dirò che venga a prendersi la figliuola se non vuole che crepi alle mani di un signore così prepotente. - Tu non partirai, gobbo maledetto! - A chi dici, messere? Tu sai che mi chiamo Riccio; se tu mi chiami gobbo, io ti chiamo pelato. A questo punto la Contessa rise, e risero tutte le dame presenti; il Conte soltanto fremé nel sentirsi burlato in presenza della moglie, e per tagliar corto a quel discorso che lo seccava, ordinò a Riccio di leggergli la lettera del suocero. Il giullare l'aprì, la rigirò da tutte le parti e poi lesse: Un giullar mi chiedesti per madonna, Che dal tedio si rode e si consuma, Ecco Riccio; se il cuci alla gonna, Di Berta, il tedio tosto ne sfuma. - Come leggi spedito! - disse il Conte. - Ci vuol poco; questi versacci sono miei, proprio miei e di nessun altro. Ora ho letto la lettera, che non è lunga, e ti snocciolerò la filastrocca de' miei patti. - Sentiamola! - disse la Contessa, che si divertiva a far parlare il giullare. - Voglio un letto di piume finissime, che mi permetta di riposar bene, perché la mia metà non può giacere sul duro. - E dov'è questa tua metà, che non la vedo? - Sei forse cieco? Eppure la porto bene in mostra; la mia cara metà è unita a me da legami indissolubili, ed io, meschino, debbo chinar la testa e sopportare tutte le noie che m'impone. - Questa tua metà, sarebbe forse la gobba? - domandò il Conte, il quale incominciava a divertirsi. - Non la chiamar così, signor mio! Fra i suoi difetti, v'è pur quello di essere permalosa, e freme a sentirsi dar quel brutto nome! Invece vuol essere chiamata amena Collinetta, o Collinetta amena, ed allora è tutta latte e miele. Ma, intanto, parlando e ciarlando, dimentico il meglio: avrò il letto di finissime piume? - L'avrai, - disse il Conte. - Passiamo al secondo patto: io ho bisogno di quattro vestiti all'anno; uno per stagione. - L'avrai pure; non ci vuole a vestir te, più stoffa che a vestire un bambino. - La quantità è niente, lo so pur io; - rispose Riccio, - ma siccome quando vestite me, vi conviene vestire anche l'amena Collinetta mia, così dovete sapere che ella è alquanto sofistica; vuole che il suo abito sia tutto imbottito di bambagia e che non faccia una grinza, altrimenti non mi dà pace né tregua. - Il nostro sarto ti farà i quattro vestiti, e Collinetta amena sarà contenta! - disse il Conte ridendo. - Passiamo al terzo patto, - soggiunse il giullare. - Collinetta amena ha lo stomaco delicato; i cibi ordinari non li digerisce, ed ha bisogno di brodi sostanziosi, di carni tenere, di caccia fine, di gelatine e pasticcini. Se mi prometti di trattarla bene, rimarrò, altrimenti mi conviene di partire. - Non dubitare, tu mangerai alla nostra tavola e Collinetta amena pure, dal momento che siete inseparabili. - Non vuol dir nulla questa vaga promessa. Mangiare alla tavola di un signore, non s'intende mangiare delicatamente come mangia il signore. Potresti dare a Collinetta amena da mangiar chiodi, e tu accomodarti lo stomaco con tordi e pernici. No, io voglio i patti chiari e intendo che la mia metà abbia lo stesso trattamento di madonna. - L'avrà, l'avrà! - esclamarono marito e moglie. - E ora è terminata la filastrocca dei patti? - Ci rimane il più e il meglio. Collinetta amena è previdente, essa pensa alla vecchiaia e non fida troppo sulla generosità dei grandi. Ogni anno essa vuole tant'oro quanto ella ne può contenere, perché bisogna che dica che ella vincola la sua libertà soltanto per un anno. - Madonna Collinetta avrà l'oro che chiede, - replicò il Conte, - e avrà tutto il resto; però, col patto che la tristezza non apparisca mai sul volto della mia sposa e che il castello di Romena echeggi sempre di risa. - S'intende! - rispose il giullare. E abbassando la testa fece fare alla gobba tre inchini. Questa mossa bastò, come la prima volta, per far ridere a crepapelle la Contessa e le sue dame. Col giullare era entrata davvero l'allegria nel castello di Romena, e quando egli vedeva che la Contessa era pensierosa, si permetteva di far burle d'ogni genere, e raccontava storielle così ridicole da costringerla a ridere. Se erano a mensa e si accorgeva che non rimaneva per lui nessun boccone prelibato, si alzava, e senza tanti complimenti lo prendeva dal piatto di madonna Berta; dopo pranzo si metteva a cantare con una voce quasi chioccia le bellezze di Collinetta amena, e sfogava i supposti tormenti del suo cuore con parole così buffe, accompagnate da gesti così ridicoli, che madonna Berta si smascellava dalle risa e doveva imporgli di tacere. A Romena tutti eran pazzi di Riccio e gli permettevano di parlar liberamente e di far quello che gli pareva. Il solo che non potesse vederlo era un certo messer Lapo, un poetastro lungo e secco come una pertica, e noioso, aiutatemi a dire noioso. Questo tale non rideva mai alle facezie del gobbo e lo schivava quanto più poteva. E il giullare, che voleva divertire i signori alle spalle di quel figuro, lo tormentava sempre e non si lasciava sfuggire qualunque occasione si presentasse per metterlo alla berlina. Questo messer Lapo era un uomo alquanto pauroso; aveva paura degli animali, aveva paura dei morti, delle streghe, e, soprattutto, degli spiriti. Ora Riccio, saputo questo, volle fargli una burla, e siccome dormiva in una camera vicina a quella del poetastro, una sera, mentre questi sfogava alla finestra il suo estro poetico cantando alla luna, s'introdusse in camera di lui e si nascose sotto il letto. Quando ser Lapo ebbe sfogato ben bene la voglia di cantare, chiuse la finestra e si coricò. Ma era appena nel primo sonno, che si destò di soprassalto sentendosi tirare le coperte. - Gli spiriti! - disse con un fil di voce. Le stratte alle coperte si ripeterono insistenti, e poi sentì una mano diaccia che gli toccava i piedi: - Sono morto, - urlò, e con tutti e due i pugni si diede a batter nella parete per destare Riccio. Ma Riccio non rispondeva e continuava a tirar le coperte, a smuover le panchette e a far l'ira di Dio. - Anime sante! vi farò dire una messa, due messe, dieci messe, ma lasciatemi in pace! Nulla. Il diavolìo aumentava, gli sgabelli andavano per terra, i vestiti volavano come pipistrelli, battendo nel viso di ser Lapo: pareva il finimondo, e l'infelice non osava aprir gli occhi e tanto meno scendere dal letto. Quando Riccio credé di averlo abbastanza impaurito, se ne andò a letto e dormì saporitamente. La mattina dopo il poetastro e il giullare s'incontrarono nella sala del castello in presenza de' signori. Ser Lapo aveva un viso giallo da far pietà e certi occhi tutti stralunati dalla paura. - Non hai dormito neppur tu, compare? - domandò Riccio. - No, - rispose brevemente l'altro, che non voleva parlare degli spiriti. - Madonna e messere, nelle nostre camere ci son gli spiriti! - disse Riccio. - La mia Collinetta amena è tutta ammaccata dai colpi che le hanno dato. - Dunque li hai sentiti anche tu? - domandò ser Lapo sgranando gli occhi. - Se li ho sentiti? Non mi hanno lasciato dormire un momento solo. - Perché non ti sei fatto vivo quando ho bussato nella tua parete? - Amico, la paura mi ha fatto morire la voce nella strozza. - Io non vi dormo più in quella stanza, con licenza di madonna e di messere, - disse Lapo. - Va' a dormire in Torre, - rispose il Conte. - E io neppure ci dormo, - disse Riccio. - Andrò in Torre anch'io. Bisogna sapere che il castello di Romena era fiancheggiato da molte torri, ma ve n'era una più alta delle altre, che guardava il pian di Campaldino, e che chiamavano soltanto Torre, mentre le altre avevano tutte un nome speciale. Così il gobbo e il poeta quel giorno stesso presero le loro carabattole e andarono a stare nella Torre. In essa non vi era altro che una stanza per piano. Lapo prese quella di sotto e Riccio quella di sopra. Intanto il giullare aveva avvertito i signori che la storiella degli spiriti era una burla preparata da lui al poeta per tenere allegra la nobile compagnia, e aveva pregato il Conte di dar ordine che nessuno, di notte, rispondesse, qualora Lapo si mettesse a urlare e chiedere aiuto. In quel giorno Riccio, approfittando dell'assenza di Lapo aveva smosso i mattoni che rispondevano sul letto del poeta e, chiappati sul tetto una diecina di pipistrelli, l'aveva rinchiusi in una cassetta. Quando fu notte e tutti erano a letto, Riccio alzò uno dei mattoni smossi, e, legati per una zampa i pipistrelli a un cordino, li spinse giù. Questi si abbatterono sul viso di ser Lapo e con le grandi ali sbatacchiavano sulle coltri, sul guanciale e facevano un vero diavolìo. Lapo, che dormiva con un occhio solo, si destò di soprassalto, e stava per balzare dal letto e correr su da Riccio, quando sentì questi che urlava: - Salvatemi! Ho i diavoli in camera! Mi scorticano vivo! Allora capì che era inutile ricorrere al buffone, e messa la testa sotto le coltri si raccomandò l'anima a Dio. Quando piacque a Riccio, i pipistrelli cessarono di sbatacchiar le ali sul letto di Lapo; ma questi non si riaddormentò più, e la mattina dopo disse al Conte che nella Torre non ci voleva più stare, perché c'erano i diavoli, e invocò la testimonianza di Riccio. - Guardami, signor mio, e ti accorgerai dal mio viso quello che io abbia passato stanotte. A centinaia sono comparsi i diavoli alati in camera mia e io ho gridato, ho tempestato, mi son fatto il segno della croce, ma tutto è stato inutile. Se non mi dài un'altra camera, io me ne torno oltralpe, da dove son venuto, - disse Riccio. La contessa Berta, che sapeva tutto, non poteva trattenere le risa, vedendo la faccia impaurita che faceva il giullare nel raccontar a sua volta le avventure della notte, e lo spavento vero che gli si leggeva negli occhi. - Ti darò un'altra camera e a te pure, messer Lapo, - disse il Conte. - Voi dormirete nelle stanze terrene, che mettono alle prigioni; queste sono vuote, e là non ho mai inteso dire che vi fossero spiriti né diavoli. Anche quel giorno il poeta e il buffone presero le loro carabattole e le portarono in due stanzoni quasi bui. Riccio faceva animo al poeta dicendogli: - Stasera, prima di andare a letto, faremo venir qui fra' Leonardo con l'acqua santa, e quando avrà benedetto le pareti non temeremo più di nulla. Riccio, nell'entrare in quegli stanzoni disabitati, aveva veduto uscirne impauriti una quantità di scarafaggi e la vista di quegli animali gli suggerì un'idea, che mise subito ad effetto appena fu solo, dando loro la caccia e acchiappandone una gran quantità. La sera, com'egli e Lapo avevano stabilito, fecero andar fra' Leonardo a benedir le camere, e poi ognuno si ritirò nella propria, lasciando socchiuso l'uscio che le poneva in comunicazione fra loro. Lapo andò subito subito a letto, perché era stanco morto della veglia delle notti precedenti, e s'addormentò; Riccio, invece, cavò con cura a uno a uno gli scarafaggi dalla cassetta ove li aveva riposti, adattò loro un moccolino sulla schiena, e poi li portò davanti l'uscio di ser Lapo, e, accesi che ebbe i moccolini, spinse gli scarafaggi dentro la camera del poeta. Poi socchiuse l'uscio in modo che gli animaletti non tornassero indietro, e si mise a gridare: - Aiuto! aiuto! Ecco i diavoli! Il poeta si destò, spalancò gli occhi e vedendo quella processione di lumicini impazzì quasi dalla paura, mentre Riccio continuava a urlare: - Ahimè! Amico, soccorrimi, dei piccoli diavoli mi salgono nel mio letto, mi camminano sulle carni, mi entrano in bocca, sono indiavolato anch'io! Ser Lapo non parlava per non aprir la bocca e non esporsi alla stessa sorte del compagno. S'era tirato le coltri fin sopra al capo e si raccomandava a tutti i santi del Paradiso, promettendo a san Francesco un pellegrinaggio alla Verna, e a san Jacopo di Campostella, uno in Gallizia, se avevano misericordia di lui e lo salvavano. Intanto Riccio urlava sempre: - Son dannato! Me ne sono entrati dieci in bocca, mi brucian le viscere, mi dilanian lo stomaco, mi strappano il cuore! Tutta la notte il buffone continuò a gridare e a smaniare, e quando fu giorno andò in camera di ser Lapo, facendo gesti di ossesso e boccacce e sgambetti, come se avesse davvero avuto cento e non dieci diavoli in corpo. Ser Lapo era più morto che vivo, e questa volta, senza vedere né messere né madonna, fece un fagottino e se ne andò da Romena per compiere il pellegrinaggio prima alla Verna e poi in Gallizia. Quello che ridessero la Contessa e il conte di Romena al racconto delle avventure di quella notte, fatto da Riccio, non si può dire con parole. La Contessa badava a dirgli basta, perché dal tanto ridere soffriva. E quest'avventura continuò a tenerla di buonumore per molto tempo e a rallegrare le veglie invernali. Intanto, l'anno pattuito per il soggiorno di Riccio al castello di Romena stava per terminare, e il giullare non si sentiva disposto a rimanere in quella solitudine. Egli era assuefatto alle Corti numerose, popolate di dame e di cavalieri, alle liete brigate, e sentiva che a lungo andare avrebbe perduta la vena comica in quel castello, dove convenivano poche persone e sempre le stesse. Voleva dunque andarsene e, senza prevenir nessuno, la mattina che compieva l'anno si presentò nella sala dov'erano messer Alessandro, madonna Berta, i loro valletti e le loro dame. - Salute alla compagnia! - disse Riccio entrando e agitando il berretto con i sonagli. - Salute a te! - rispose la Contessa. - Che vuol dir, Riccio, codesto saluto diverso dal solito? - Gli è, madonna, che oggi non è un giorno come tutti gli altri. - Come sarebbe a dire? Che io sappia, non ricorre nessuna solennità. - È giorno d'addio, madonna. È un anno che sono arrivato, e oggi, che termina l'anno, me ne vado. - Parli da senno? - Da senno, madonna; l'aria di Romena non mi si confà. - Ma tu sai, Riccio, che qui ti vogliamo bene e abbiamo mantenuto tutti i nostri patti. Hai avuto il morbido letto di piume per Collinetta amena, hai avuto quattro abiti di panno di velluto, hai avuto buoni bocconi ... - Sì, madonna; anche tu però hai avuto giorni lieti e hai imparato a ridere. - È vero. - Però Collinetta amena deve avere ancora tant'oro quanto ne può contenere. - È giusto; - rispose il Conte, - ma tu non ci lascerai, non è vero? - Io vi lascerò, e Collinetta amena vuole subito quello che le spetta. - Sia fatta la tua volontà! - disse il Conte; e presa una borsa d'oro da un forziere la fece scivolare dal collo nella gobba del giullare. Riccio intanto s'era messo una mano sotto il farsetto e guardava il Conte. - Non ti basta? - domandò messer Alessandro. - Collinetta amena può contenere altre monete, - rispose Riccio. Il Conte tornò al forziere, prese una manciata d'oro e la fece sparire nella gobba. Riccio tirò giù dall'imbottitura del farsetto una manciata di stoppa e disse al Conte: - Collinetta amena può contenere altre monete; signor di Romena, rammentati dei patti. Il Conte tornò al forziere, prese altro oro, e lo mise nella gobba; ma più lui ne buttava e più Riccio cavava capecchio. A farla breve, per empir la gobba ci volle tutto l'oro del forziere. Messer Alessandro era su tutte le furie e madonna Berta rideva. Quando la gobba fu piena zeppa di monete d'oro, Riccio si levò il berretto con i sonagli, e disse: - Collinetta amena contiene molte monete, ma l'allegria non si paga, e madonna, che ha imparato a ridere di cuore, riderà ancora per molti anni ripensando al falso gobbo. Salute alla compagnia e figli maschi! Dopo aver detto queste parole, uscì. Nel cortile, il cavallino, sul quale era giunto, era già sellato, un altro era carico della roba del giullare, e lo montava un villano. L'omino, nonostante il carico che aveva nella gobba, balzò presto in sella, perché aveva paura che il Conte si pentisse e gli riprendesse l'oro che gli aveva dato, e via. La contessa Berta rimase in sala a ridere e non dimenticò più la consuetudine presa di aprir la bocca alle franche e sonore risate, e tutte le volte che il Conte si lagnava di essere stato spogliato dal giullare, essa gli rispondeva: - L'allegria non si paga! La novella aveva messo tutti di buonumore, e Vezzosa aveva riso veramente di cuore. - Vedi se ti ho fatto dimenticare la tristezza di questa settimana? - disse la Regina a Vezzosa. - La novella mi ha fatto ridere, ma quel che ha dileguato la mia tristezza è stata la vostra accoglienza, la vostra bontà per me; io sono felice, felice, e non rammento più i brutti giorni passati. Ma ora dico come Riccio. Salute alla compagnia! e me ne torno a casa. Cecco e Maso uscirono insieme con Vezzosa, e per tutta la via non fecero altro che parlare del bel modo col quale la Regina narrava e della freschezza di mente di quella donna già tanto avanti negli anni. - È stata una benedizione per la nostra famiglia; - disse Maso, - cerca d'imitarla. Vezzosa sorrise e rispose: - M'ingegnerò. E corse su dalla malata.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679349
Praga, Emilio 2 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- Dicono, rispose esitando il sacrestano e abbassando la voce, dicono che venga un angelo a visitarlo. - Un angelo, chi l'ha veduto? - Saranno quasi vent'anni, un giorno tornando dalla Valsesia, scendevo per il Mongrigio. Arrivato a un certo punto dove il sentiero sovrasta al piano della Carbonaia guardo in giù e scorgo qualcosa di bianco fra i castagni: era una figura di donna ravvolta in un velo lungo fino a terra sotto al quale traspariva una veste azzurra. La visione passò lentamente fra gli alberi e scomparve dietro il muro dei carbonai. Non la vidi che un minuto, ma ne fui abbagliato. Splendeva più del cielo!, - andava cauta ma tanto leggiera che non pareva toccasse la terra. Dopo il primo stupore calai giù, passai il ponte dello Strona e, girando intorno alla collina, passai la strada di Sulzena. Allo sbocco del sentiero della Carbonaia incontrai don Luigi. Allora aveva dei dispiaceri ed era triste, afflitto più di adesso. Ma quel dì mi sembrò tutt'altro: mi passò vicino senza vedermi, incantato come uno che viene dal paradiso. Il paragone di Baccio non mi sembrò punto strano: il suo racconto in cui altri più positivo di me non avrebbe visto che una fiaba grossolana, mi interessava grandemente. Lo ascoltai come la più seria cosa del mondo. Egli era certo in buona fede. Eravamo in sacristia dove don Luigi ci aveva lasciati soli per entrare in chiesa a parare l'altare per la benedizione. Il sacrestano mi fece la sua confidenza agitando il turibolo a ravvivarne le brace. Il barlume del crepuscolo cadeva dall'alte e strette finestrello su certi visi pallidi di madonne e di sante; il bisbiglio sommesso dei devoti che entravano in chiesa, certi echi profondi, un acuto profumo d'incenso, - la maestà del luogo disponevano l'animo al meraviglioso. Un po' di prodigio cresceva attrattive alla misteriosa figura del curato.

disse il curato; e abbassando la voce, soggiunse tristamente: - E accompagnata da musica siffatta. Mi introdusse dipoi nel tinello dove la vecchia fante non tardò a depormi innanzi, sopra un tovagliolo bianchissimo, le ova ed il pane accanto a una bottiglia di vino. Il curato, cui non avevo ancora avuto modo di rivolgere il mio discorso tranne che a monosillabi, mi sedette vicino e, pur ripetendomi le sue scuse per la grettezza della cena, mi guardava con quell'occhio interrogativo, sebbene meno adamitico, che aveva veduto, al primo entrare, sotto la cuffia di Mansueta. Il curato poteva contare sessantacinque ai settanta anni; ma la tarda età appariva in lui più che dalle rughe del viso, ch'era ancor fresco e rubizzo, da una cert'aria di stanchezza grave, direi quasi solenne, che circondava tutta la sua persona. Avea la fronte altissima e singolarmente convessa: la fiamma della lucerna vi poneva una larga pennellata lucente che illuminava una pelle così rosea e così tersa che si sarebbe detta di un fanciullo. Poche ciocche di capelli, bianchi come la neve, gli circondavano la testa; ma così fini, così vaporosi, che parevano sospesi nell'aria, e gli incorniciavano il viso meglio di una chioma di vent'anni. Il naso aquilino e finissimo pareva di un gentiluomo spagnuolo; la bocca, da cui apparivano ancora, a dispetto degli anni, due file intatte di denti, era forse un po' larga in confronto alla perfezione dei lineamenti che la circondavano; ma il difetto era cancellato da due piccole pieghe ai lati che le perpetuavano il sorriso: aggiungete due occhi limpidi e profondi, l'abito modestissimo, ma di nitidezza inappuntabile, una mano quasi femminile, una voce dolce e nel tempo stesso piena di vibrazioni, l'erre di una duchessa - e vi spiegherete le parole che rivolsi al mio ospite, assaporando le ova eccellentissime del suo pollaio. - Signor curato, gli dissi, davvero che, se non avessi coscienza della strada che ho percorso, crederei che qui non sono in Italia. La stranezza del modo con cui oggi ho dato tregua al mio viaggio, la cordialità che mi circonda, il vostro aspetto, tutto mi farebbe supporre d'essere in una di quelle case della Tebaide, dove son vive tuttavia le memorie bibliche, e gli uomini santi le respirano ancora, e le ripetono con antica sapienza .... Il vecchio mi interruppe: - Tebaide, sì, è una Tebaide questa valle: ma soltanto per la solitudine; quanto al resto, sono troppo indegno del paragone. - Questo pezzetto di cacio ... assaggiatene ... è dei nostri pascoli. - Ed è per questo che l'ospitalità è qui, oltre che è un dovere, un bisogno, una vera consolazione. Una malinconia velata, ma che tentava nascondersi invano, suonava nella voce del prete. - Pochi viaggiatori, m'immagino, passeranno per questi gioghi, diss'io. E son così belli! Da quindici giorni vado errando quassù, e non so come mi reggerà il cuore a riveder la pianura. Vorrei poter vivere sempre in alto, in quest'aria pura, in mezzo a queste scene sublimi; esse valgono, ve ne assicuro, signor curato, tutti gli svaghi e tutti gli agi della città. Io vi invidio .... - Oh! non ditelo! Voi siete giovane, e, alle vostre parole mi sembrate poeta - siete pittore, del resto, e ... ut pictura poësìs gioventù e poesia mostrano il lato bello di ogni cosa, e il lato brutto e triste lo nascondono. Pensate la vita di un uomo che è solo da quarant'anni! ... senza un'anima con cui ricambiare un'idea! ... le scene della natura, voi dite; le amo anch'io, le ammiro, le adoro, sono le mie confidenti, la mia società ... ma sono mute, non mi rispondono; e si ha bisogno di chi risponda quando si interroga, quando si pensa, quando si soffre. Alzai la faccia: quella del curato si era fatta più pallida e pareva che un velo gli fosse sceso sugli occhi. Incontrando il mio sguardo si ricompose, e mutò tono alla voce, forse pentito di quelle parole che implicavano quasi una confidenza a un uomo conosciuto da pochi minuti. - Pochissimi viaggiatori, pochissimi; e viaggiatori della vostra condizione ancor meno. Di solito è qualche mulattiere ritardato dalle intemperie che viene a chiedermi un posto per sè e per le sue mule; e' mi dà le notizie delle borgate ove ha corse le fiere e udito parlar di politica all'albergo o ai caffè. Oppure son compagnie di tagliapietre che vanno a esercitare il loro acerbo mestiere sulle cime; povera gente onesta che di solito ha girato molto il mondo, e avuto avventure. Ecco i miei ospiti. Capirete come io sia riconoscente a voi ... - Signor curato, lo interuppi, io sì che debbo essere riconoscente a Baccio ed alla mia buona stella di avermi condotto in questa casa. Ah! la gioventù e la poesia non sono per me tutto riso e splendore; perchè sono giovine ed artista, sono pieno di dubbi e di sconforti, e perchè sono, o meglio sento che sarò un giorno poeta, l'anima mia assorbe già, insieme colle bellezze, tutti i lamenti e tutti i terrori della natura. Salendo al villaggio, signor curato, mi sentivo triste come un moribondo; pensavo a mia madre, stranamente. Avevo anch'io bisogno di trovar chi mi rispondesse, chi mi capisse! ... bevo questo bicchiere alla salute di Baccio, di quel bravo uomo che mi ha condotto davanti a un'anima buona e bella come la vostra! Prendendo il bicchiere speravo vincere o almeno sviare l'emozione che sentivo salirmi dal cuore alla faccia. Fu invano: io stavo sotto un fascino: l'amicizia che doveva legare dappoi il giovine pittore al vecchio curato aveva già stese le ali sulle nostre teste. Alle mie parole egli si era alzato, e, con un gesto che avea del fratello insieme e del padre, mi prese le mani, mormorando: - Dio vi benedica! In questo, Mansueta entrò con una candela accesa e mi disse: - Quando desidera, il letto è pronto. Persuaso che fosse l'ora in cui conveniva ritirarsi, strinsi la mano un'altra volta al mio nuovo amico, e, a malincuore, giacchè non sentivo più nessuna stanchezza, seguii la fantesca. Ella mi fece salire una piccola scala dai gradini larghi e lisci, e mi trovai davanti a un letticciuolo pulito, fiancheggiato da un ampio seggiolone che aveva l'aria di aver passato i begli anni della sua gioventù fra la musica e l'incenso del coro. Del resto la camera destinatami non offriva molta materia di analisi. Una sedia coperta di paglia stava al posto del tavolo da notte, coll'inevitabile bicchier d'acqua e il mazzo dei zolfanelli; in faccia al letto, sotto la finestra, un tavolino quadrato con una gamba più corta delle altre, pareva un ballerino nell'atto di spiccare la pirouette; una fila di quadretti coprivano in simmetria le pareti bianchissime: sotto i vetri punzecchiati dalle lentiggini delle mosche, riconobbi il Crisostomo, San Filippo abate, San Luigi Gonzaga, - litografie colorate con toni azzurri e rossi crudi e duri come gli scheletri che si trovano nelle sabbie dei tropici - brava gente che certo faceva le meraviglie di veder quel letto vestito a nuovo e me beatamente distesovi sopra. Non era quella la camera che il curato offriva agli scalpellini ed ai mulattieri; non tardai a persuadermi che per me si era scelto il locale delle grandi occasioni, in cui chi sa da quanto tempo nessuno aveva dormito. Ne può essere prova l'anedotto innocentissimo che mi piace contarvi, benchè affatto estraneo al soggetto. Prendo anzi quest'occasione per ripetere ch'io qui non scrivo un romanzo col suo principio, col suo mezzo, col suo fine, colle sue cause, il suo sviluppo e le sue conseguenze, e tutte le belle cose che si leggono nei trattati di estetica; ma bensì raccolgo impressioni di scene e di fatti, sensazioni di luoghi e di persone in cui mi sono scontrato e che, per un mero effetto del caso convergeranno, se mi si presta attenzione, a far cornice utile se non anche necessaria al soggetto doloroso che è la ragione di essere di questo studio. Mi ero dunque coricato e riandavo col pensiero, già ondeggiante nell'atmosfera magnetica che precede il sonno, i casi della giornata. Macchinalmente i miei occhi erano fissi alla finestra chiusa, dalle fessure della quale penetrava un pallido bagliore di luna. D'improvviso mi parve che qualche cosa si movesse sul tavolino sottoposto, qualche cosa di nero, un volume o una scatola. Concentrai l'attenzione, trattenendo il respiro, e ... un sudore freddo mi coperse dal capo ai piedi; era un berretto da prete che dondolava, che s'inchinava, che saltellava diabolicamente. Mi rizzai senza volerlo; il berretto, come se mi avesse veduto o sentito, si arrestò; riposi la testa sul guanciale, il berretto si diè a ballare di nuovo. Bisogna ch'io confessi che ho la disgrazia di credere a una quantità sterminata di cose a cui la maggioranza degli uomini non crede; e voi sapete l'influenza della solitudine sugli spiriti inclini al soprannaturale. A quell'epoca non avevo ancor letto Edgardo Poë, ma avevo già tutti sognati i sogni di quell'anima infelice; e quell'amore pieno di voluttuoso sgomento che mi lega adesso al poeta dell' Inesplicabile mi avvinceva già, inconscio, al mondo tenebroso delle sue scoperte. Quel berretto magico che mi aveva atterrito, cominciavo a osservarlo, col capo quasi sepolto nelle coltri, collo sguardo immobile, col respiro represso, eppure con una sorta di godimento che somigliava a quello che prova il naturalista quando, frugando nelle roccie, gli vien dato di scoprire una specie rara d'erba o di minerale. Ballonzolando capricciosamente, a furia di piccoli sbalzi, il berretto era giunto sull'orlo del tavolo, e il fiocco, traboccatone, penzolava, coll'ondeggiamento monotono e regolare di una campana. Allora mi parve di udire ancora i rintocchi della dell'agonia della Gina, e di veder la giovane morta distesa attraverso la camera. L'eccessiva stanchezza, gli avvenimenti impreveduti danno - coll'aiuto di una materassa di piume, - di così fatte allucinazioni. Il pallore di quella faccia, rovesciata sulle spalle, illuminava le pareti; gli occhi, coperti di un velo diafano, come se i ragni vi avessero filato di sopra, spalancati e pieni di stupore, scintillavano fiocamente; del corpo, sepolto nella penombra, non scorgevo che indistintamente i contorni. A poco a poco svanirono del tutto, quasi assorbiti dalla oscurità: ma, in compenso, il lume del viso cresceva. Io l'affisava senza batter ciglio, per tema che, abbandonandola solo un minuto secondo, la visione dovesse sparire. La contemplazione indefessa la incatenava; ma fra essa e i miei occhi passavano dei globi e delle striscie di fuoco. Cominciavo a sentirli di soverchio stanchi, e già anche la faccia del cadavere si scioglieva: non ne restavano che due scintille sotto le palpebre; ma quelle due scintille (mi toccai per accertarmi che non sognavo) quelle due scintille non erano una illusione, quelle due scintille esistevano, quelle due scintille erano occhi veri, due occhi oscuri che mi guardavano, che mi guardavano fissi fuor da quel berretto infernale! ... Balzai nel mezzo della stanza e nello stesso tempo ... diedi in uno scroscio di risa. Il berretto rotolò per terra, e il più leggiadro topolino del mondo mi passò tra le gambe. - Ecco uno, pensai, ricacciandomi fra le coltri, uno che ha avuto più paura di me. E spento il lume, e mormorato come il bramino: Tutto non è che ombra vana! mi addormentai per non risvegliarmi che a mattino inoltrato.

Vizio di forma

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Levi, Primo 1 occorrenze

_ chiesi a Paul, abbassando involontariamente la voce. Paul non rispose direttamente: _ Sono animali incredibili, _ mormorò: _ Lo vedi, ricambiano, o mostrano di ricambiare. Insomma, non provare, non lascarti tentare: è un errore, un errore che si paga caro. _ Non mi sento tentato: davvero, neanche un poco. Tu perché lo hai fatto? _ Perché ... no, senza un perché: per desiderio di novità, per curiosità, per noia, per ... insomma, in un momento in cui con Virginia non andavo d' accordo per via di una certa faccenda, e lei aveva ragione, ma io non le volevo dare ragione, e volevo invece farle un dispetto. Forse volevo solo ingelosirla. In ogni modo l' ho assaggiato, questo è un fatto, e i fatti non si cambiano più: due anni fa, e sono diventato un altro. _ È così potente? Basta una volta sola? _ No, ma è una catena. Bevi una volta, e ti incateni: diventi teso, inquieto, febbrile, e sai che troverai la pace solo con la presenza di ... dell' animale, della sorgente. Solo a quella ti puoi dissetare. E lei, loro, sono diabolici: sono corrotti, e buoni a corrompere. Capiscono poche cose, ma questa la capiscono bene, come si seduce un essere umano. Ti leggono il desiderio negli occhi, o non so dove altro, e ti girano intorno, ti si strusciano addosso, e il veleno è lì, tutto il giorno e tutta la notte, ti viene offerto in permanenza, a domicilio, gratis. Hai solo da tendere le mani e le labbra. Le tendi, bevi, e il cerchio si chiude, e sei in trappola, per tutti gli anni che ti restano, che non possono essere tanti. Lore trasalì, si avvicinò alla tenda e si arrampicò su questa fino all' altezza della pendola massiccia che stava nell' angolo: mi accorsi che le sue zampe terminavano in quattro rozze manine dal pollice opponibile, brune sopra, rosee all' interno. Dalla tenda balzò sulla pendola, vi si accucciò sopra, e rimase intenta ad ascoltare il lento ticchettio. _ Sono affascinati dagli orologi, _ disse Paul: _ non so perché. Anche quella che avevo prima .... _ Non è la prima, questa? _ No. Non è qui che è successo: eravamo in viaggio, a Beirut. C' era in albergo uno, non so chi fosse, anche perché eravamo ubriachi tutti e due; aveva una vilmy con sé, era graziosa, bionda, ed era la prima che vedevo. Io, come ti ho detto, avevo appena litigato con Virginia, e lui sogghignava come se lo avesse capito, e mi offrì il latte, e io lo accettai. Non sapevo quello che facevo: ma me ne accorsi la mattina dopo. Rincorsi lo sconosciuto per tutte le vie della città, lo trovai, e gli offersi una cifra folle per avere l' animale, lui mi derise, e facemmo a pugni, e avresti dovuto vedere quella: stava accucciata e muoveva la coda e rideva, sì, perché ridono, non come noi, al loro modo, ma ridono, ed è un riso che fa bollire il sangue nelle vene. _ Ne avevo date più che prese, ma mi sentivo malconcio, e in graticola. Sognavo di quella vilmy, tutte le notti. Devo dirti: non è come per una donna. È una voglia pesante, brutale e idiota; e senza speranza, perché con una donna parli, almeno dentro di te: anche se è lontana, se non è tua o non lo è più, speri almeno di parlarle, speri in un amore, in un ritorno; può essere una speranza vana ma non è insensata, ha una soddisfazione pensabile. Questa invece no, è un desiderio che ti danna perché non ha soddisfazione: non la puoi nemmeno trovare nella tua fantasia; è desiderio e basta, senza fine. Il latte è gradevole, è dolce, ma lo trangugi e poi sei come prima. E anche la loro presenza, toccarle, accarezzarle, è nulla, meno che nulla, un aguzzarsi del desiderio, nient' altro. _ Virginia non conosceva i fatti, ma capiva che qualcosa non andava: così tornò a Londra, e io rimasi a girare intorno a quell' altro perché mi vendesse l' animale; lui non voleva, o meglio non poteva, era schiavo come me. Ma io insistevo, tutte le volte che lo potevo avvicinare, e mi sentivo un verme, e gli avrei lustrato le scarpe. Un giorno partì, senza lasciare indirizzo. Io allora pensai che, se proprio non potevo avere quella, un' altra sarebbe stata meglio che niente. Andai al sukh e ne trovai una: un giovane, dall' aspetto macilento e dalla faccia impassibile, la teneva al guinzaglio e la faceva ballare, nel fondo semibuio di un vicolo cieco. Era magra e spelacchiata, ma aveva le mammelle gonfie, era giovane e costava poco. Chiesi un campione di latte: ci appartammo in un sottoscala e il venditore lo munse lì per lì e me lo offerse. Mi parve di sentire l' effetto, perché subito dopo mi accorsi che gli occhi dell' animale erano belli e profondi, cosa che prima non avevo notata; lo comperai e lo portai qui. Era un demonio: non sopportava la clausura, la sua casa erano i tetti, non questa. Non c' era modo di averla vicina, a chiuderla dentro diventava una furia, mordeva, graffiava e si nascondeva sotto i mobili; dopo qualche settimana fu peggio, perché imparò a rifiutare il latte. Cercai invano di farle violenza, la frustai, e lei scomparve. Paul schioccò le dita, e Lore levò il muso attenta: balzò dalla pendola sul divano, da questo a terra, poi gli si accucciò ai piedi con un piccolo squittio soddisfatto. _ Questa, appunto, è la terza. L' ho comprata qui a Soho, a un' asta pubblica, per 400 sterline: un bel prezzo, no? Apparteneva ad un giamaicano che era morto per lei, ma l' ho saputo solo più tardi. È vecchia, come ti ho detto, e se non la si contraria è abbastanza tranquilla: se però vuoi qualcosa che lei non vuole, non è che rifiuti il latte come quell' altra, ma le si secca, e devi stare senza; ora, nessuno mi toglie dal capo che è lei a volerlo, per ricattarmi, per avermi. E ci riesce, sicuro; forse non è capace di intendere, ma di volere sì, oh sì: mangiare certe cose e non altre, a certe ore e non ad altre, che io inviti certi amici e altri no ... no, tu, a Dio piacendo, sembra che le vai a genio: speriamo che duri .... _ Ma Virginia? .... _ È una donna savia. Il latte, lo ha sempre rifiutato. Sa che la amo quanto prima, che questa è un' altra cosa, come se uno si lasciasse prendere dall' alcool o dalla morfina. Mi tratta come un malato o come un bambino: e lo sono, infatti; anzi, a propriamente parlare sono un lattante, che frigna quando ha fame. E questa qui ha nove anni, è una vecchia, e il solo pensiero che muoia o si esaurisca mi dà le vertigini. La vilmy mi si avvicinò, soffiando dal nasino roseo, poi prese a strofinare la nuca e il collo contro il mio polpaccio, come per accarezzarsi da sola: a dire il vero, non mi sembrava vecchia per niente. Abbassai una mano per renderle la carezza, ma colsi un rapido sguardo da parte di Paul e mi trattenni; anzi, quando Lore si alzò sulle zampe posteriori per salirmi in grembo, salutai Paul con una vaga frase di circostanza ed uscii in strada. La nebbia era fredda, fitta e giallastra, ma mi parve profumata, e la respirai con voluttà fino in fondo ai polmoni.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

. - Sì, sahib - rispose l'indiano abbassando la voce e socchiudendo gli occhi. - Mi sorprende però come si sia saputo in città quel rapimento, essendo stato commesso di notte. - Coll'aiuto d'un gussain è vero? - Che cosa ne sai tu, sahib? - Me lo hanno detto, - rispose Sandokan. - Bevi ancora: non hai ancora vuotata la tua tazza. - L'indiano, che ci trovava piacere, d'un solo colpo la lasciò asciutta. L'effetto di quella bevuta, in un uomo non abituato ad altro che a sorseggiare del toddy, fu fulminante. S'accasciò di colpo sul seggiolone guardando Sandokan con due occhi smorti, che non avevano più alcun splendore. - Ah! Mi dicevi dunque che il colpo era stato fatto di notte, - rispose Sandokan con un leggero tono ironico. - Sì, sahib - rispose l'indiano con voce semi-spenta. - E dove l'hanno portata quella bella fanciulla? - Nel bengalow del favorito. - E vi si trova ancora? - Sì, sahib. - Si dispera? - Piange continuamente. - Il favorito non si è fatto però ancora vedere? - Ti ho detto che è ammalato e che si trova sempre alla corte, nell'appartamento destinatogli dal rajah. - E dove l'hanno messa? Nell'harem? - Oh no! - Sapresti indicarci la stanza? - L'indiano lo guardò con una certa sorpresa e fors'anche con un po' di diffidenza, quantunque fosse ormai completamente o poco meno ubriaco. - Perché mi domandi questo? - chiese. Sandokan accostò la sua seggiola a quell'indiano e abbassando a sua volta la voce gli sussurrò agli orecchi: - Io sono il fratello di quella giovane. - Tu, sahib? - Tu però non devi dirlo se vuoi guadagnare una ventina di rupie. - Sarò muto come un pesce. - Talvolta anche i pesci emettono dei suoni. Mi basta che tu sia muto come quelle teste d'elefante che adornano le pagode. - Ho capito, - rispose l'indiano. - E se tu mi servirai bene avrai fatto la tua fortuna - continuò Sandokan. - Sì, sahib - rispose l'indiano sbadigliando come un orso e abbandonandosi sullo schienale della poltrona. - Purché mi presenti al chitmudgar del favorito. - Sì ... del favorito. - E che non parli. - Si ... parli. - Vattene al diavolo! - Sì ... diavolo. - Furono le sue ultime parole poiché vinto dall'ubriachezza chiuse gli occhi mettendosi a russare sonoramente. - Lasciamolo dormire, - disse Sandokan. - Questo giovanotto non ha certo bevuto mai così abbondantemente. - Sfido io, gli hai fatto bere tre razioni d'un cipay in un solo colpo. - Ma sono riuscito a sapere quanto desideravo. Ah! Surama è ancora nel palazzo ed il greco si trova ancora a letto! Quando quel briccone si alzerà, la futura regina dell'Assam non sarà più nelle sue mani. - Che cosa intendi di fare? - Di fare innanzi a tutto la conoscenza del chitmudgar. Quando sarò nel palazzo, vedrai che bel tiro giuocheremo noi. Lasciamo che quest'indiano digerisca in pace il gin che ha ingollato e andiamo a fare colazione. - Passarono in un vicino salotto e si fecero servire una tiffine, ossia carne, legume e birra. Quand'ebbero finito s'allungarono sui seggioloni e dopo d'aver avvertito il maggiordomo di non lasciar uscire il giovane indiano, chiusero a loro volta gli occhi prendendo un po' di riposo. Il loro sonno non fu molto lungo, poiché il chitmudgar, dopo un paio d'ore, entrò avvertendoli che l'indiano aveva di già digerita l'abbondante bevuta e che insisteva di vederli. - Quel ragazzo deve avere uno stomaco a prova di piombo, - disse Sandokan alzandosi lestamente. - Può fare concorrenza agli struzzi, - aggiunse Tremal-Naik. Entrarono nel vicino gabinetto e trovarono infatti il servo del greco in piedi e fresco come se avesse bevuto dell'acqua pura. - Ah! sahib! - esclamò con un gesto desolato. - Io mi sono addormentato. - E temi i rimproveri del maggiordomo del bengalow, è vero? - chiese Sandokan. - Ah no, perché oggi sono libero. - Allora tutto va bene. - Sandokan trasse dalla fascia un pizzico di fanoni, ossia di monete d'argento del valore d'una mezza rupia, e gliele porse dicendo: - Per oggi queste, a patto però che tu mi presenti al maggiordomo, desiderando io di avere un impiego alla corte, poco importa che sia alto o basso. - Purché tu sia con lui generoso, l'impiego può fartelo avere. Ha un fratello alla corte che gode d'una certa considerazione. - Andiamo subito adunque. - Ed io? - chiese Tremal-Naik. - Tu mi aspetterai qui, - rispose Sandokan, strizzandogli l'occhio. - Se vi sarà un altro posto disponibile non mi dimenticherò di te. Vieni, giovanotto. - Lasciarono l'albergo e, attraversata la piazza che era affollata di persone, di carri d'ogni forma e dimensione dipinti tutti a colori smaglianti, da elefanti e da cammelli, entrarono nello splendido bengalow del favorito del rajah, non senza però che Sandokan avesse destata una viva curiosità pel suo fiero portamento e per la tinta della sua pelle ben diversa da quella degl'indiani che non ha sfumature olivastre. Il chitmudgar del greco, avvertito subito della presenza di quello straniero nell'abitazione del suo padrone, si era affrettato a scendere nella stanza dove era Sandokan, introdotto dal giovane servo, coll'idea di far bene sentire, a quell'intruso, tutta la sua autorità di pezzo grosso. Quando però si vide dinanzi l'imponente figura del formidabile pirata, fu il primo a fare un profondo inchino, a chiamarlo signore e pregarlo di sedersi. - Tu saprai già, chitmudgar, lo scopo della mia visita, - gli disse Sandokan bruscamente. - Il servo che ti ha qui condotto me lo ha detto, - rispose il maggiordomo del favorito con aria imbarazzata. - Mi stupisce però come tu, signore, che hai l'aspetto d'un principe, cerchi un posto alla corte e per mezzo mio. - E del tuo padrone, - disse Sandokan. - D'altra parte hai ragione di mostrarti sorpreso non essendo io mai appartenuto alla casta dei sudra (12).

Si vedevano i botoli a slanciarsi animosamente innanzi e poi ritornare precipitosamente verso gli elefanti, i quali mostravano una certa irrequietezza alzando ed abbassando alternamente le trombe e soffiando vigorosamente. Anche gli scikari si erano fermati, dubbiosi fra l'andare innanzi o mettersi sotto la protezione dei pachidermi. - Ehi, mahut, che cosa c'è dunque? - chiese Yanez, afferrando la carabina. - I cani hanno fiutata la kala-bâgh, - rispose il conduttore. - Anche il tuo elefante? - Sì perché non osa più andare innanzi. - Allora la tigre è vicina. - Sì, sahib. - Fermati qui e noi scendiamo. - Gettarono la scala di corda, presero le loro armi e scesero. - Mylord! - gridò il maggiordomo. - Dove vai? - A finire la kala-bâgh, - rispose tranquillamente il portoghese. - Fa' ritirare i tuoi scikari. Non mi sono necessari. - Quell'ordine non era necessario, poiché i battitori, spaventati dai latrati acuti dei cani, che annunciavano la presenza della fiera, si ripiegavano già precipitosamente, onde non provare la potenza di quelle unghie. - Questi indiani valgono ben poco, - disse Sandokan. - Potevano rimanersene nel palazzo del principe. Se non vi fossero gli ufficiali inglesi, l'India sarebbe a quest'ora quasi inabitabile. - Badate alle spine, - disse in quel momento Yanez. - Lasceremo qui mezzi dei nostri abiti. - La jungla in quel luogo era foltissima e non facile a superarsi. Macchioni di bambù spinosi si stringevano gli uni addosso agli altri. La kala-bâgh si era scelta un buon rifugio, se si trovava veramente colà. - Lascia a me il primo posto, - disse Sandokan a Yanez. - No, amico - rispose il portoghese. - Vi sono troppi occhi fissi su di me ed il colpo di grazia deve darlo mylord, se vuol diventare celebre. - Hai ragione, - disse Sandokan, ridendo. - Noi non dobbiamo figurare che in seconda linea. - Dei guaiti lamentevoli si erano alzati fra una macchia che cresceva venti passi più innanzi, ed i cani davano indietro. La tigre doveva averne sventrati alcuni. - È nascosta là, - disse Yanez, armando la carabina. - Potremo passare? - chiese Sandokan. - Mi pare che vi sia un'apertura sulla nostra destra, - disse Tremal-Naik. - Deve averla fatta la tigre. - Sotto, Yanez. Con sei colpi possiamo affrontare anche quattro belve, - disse Sandokan. Il portoghese girò intorno alla macchia e trovata un'apertura vi si cacciò dentro, mentre i cani per la seconda volta tornavano ad indietreggiare, latrando a piena gola. Percorsi quindici passi, Yanez si fermò e togliendosi colla sinistra il cappello, disse con voce ironica: - Vi saluto, acto bâgh beursah! - Un sordo mugolìo fu la risposta. La tigre era dinanzi al portoghese, sdraiata su un ammasso di foglie secche, ormai impotente di nuocere. Aveva tutto il pelame del petto coperto di sangue e le due zampe anteriori fracassate. Vedendo comparire quei tre uomini, fece un supremo sforzo per rimettersi in piedi, ma cadde subito lasciandosi sfuggire dalle fauci spalancate un urlo di furore. - Abbiamo pronunciata la tua sentenza - disse Yanez, che si teneva a soli dieci passi dalla belva. - Tu sei stata accusata di assassinio e d'antropofagia, perciò i signori giurati sono stati inflessibili e tu devi ora pagare il fio dei tuoi delitti e regalare la tua pelle a S. A. il rajah dell'Assam, per compensarlo dei sudditi che tu gli hai divorati. Chiudi gli occhi. - La tigre invece di obbedire fece un nuovo tentativo per alzarsi ed infatti vi riuscì. Yanez però l'aveva ormai presa di mira. Due colpi di carabina rimbombarono formando quasi una sola detonazione, e la kala-bâgh ricadde fulminata con due palle nel cervello. - Giustizia è fatta, - disse Sandokan. - Avanti gli scikari! - gridò Yanez. - La tigre è morta. - I battitori costruirono rapidamente una specie di barella, incrociando e legando dei solidi bambù e caricarono la belva, non senza però una certa apprensione. - Per Giove! - esclamò Yanez, che si era avvicinato per poterla meglio esaminare. - Non ho mai veduto una tigre così grossa. - Si è ben nutrita di carne umana, - disse Tremal-Naik. - Il pelame tuttavia non è veramente splendido. Si direbbe che questa bestia soffriva la rogna. - Tutte le tigri che si nutrono esclusivamente di carne umana, perdono la loro bellezza primiera ed il loro pelame a poco a poco si guasta. - Che sia una specie di lebbra? - chiese Sandokan. - Può darsi, - disse Yanez. - Tu sai che anche i dayachi dell'interno del Borneo, che sono pure antropofagi, vanno soggetti a quella malattia quando abusano troppo di carne umana. - L'ho notato anch'io, Yanez. Comunque sia è sempre una bella bestiaccia. Giacché la nostra missione è finita, affrettiamoci a ritornare a Gauhati. Abbiamo più da fare laggiù che qui. - Ritornarono al loro elefante, fra le acclamazioni entusiastiche del maggiordomo, degli scikari e dei conduttori di cani e fecero ritorno all'accampamento. Divorata la colazione che i servi avevano già allestita e fatta una fumata, la carovana levò il campo facendo ritorno alla capitale dell'Assam.

Tre o quattrocento però erano rimasti sulla piazza, abbassando le carabine e le scimitarre in segno di resa. Sandokan e Tremal-Naik si erano slanciati verso il demjadar, che marciava alla testa della sua magnifica truppa, accompagnato da un uomo vestito di flanella bianca, che portava sul capo un elmetto di tela con un lungo velo azzurro. - Yanez! - esclamarono entrambi precipitandosi fra le braccia aperte del portoghese. - In carne ed ossa, amici miei - rispose l'ex mylord ridendo. - Peccato che sia giunto un po' tardi a prendere parte alla battaglia, che assicura il trono alla mia bella Surama; ma abbiamo avuto un po' da fare al palazzo reale, è vero mio bravo demjadar? - Il capo dei seikki fece un cenno affermativo. - Il rajah? - chiese Sandokan. - È nelle nostre mani. - Ed il greco? - Si è difeso come un dannato, aiutato da un manipolo di favoriti e di bricconi degni di lui, e nella lotta è caduto con tre o quattro palle in corpo. - Morto? - Per Giove! Erano palle di carabina e di buon calibro, mio caro Sandokan. - Forse è meglio così, - disse Tremal-Naik. - I tuoi malesi sono stati egualmente vendicati. - Hai ragione, - rispose Sandokan. - Il rajah è furibondo? - È mezzo ubbriaco e credo che non abbia nemmeno capito che la corona gli cadeva dalla testa, - rispose Yanez. - Ma Surama dov'è? - È a bordo d'uno dei nostri poluar. La faremo subito avvertire. - E tutta questa gente dove l'hai scovata, tu? - Sono i sudditi del padre della tua fidanzata. Lascia le spiegazioni a più tardi. - In quell'istante giunse Khampur. - Capo, - disse volgendosi verso Sandokan. - Che cosa devo fare? Tutti i soldati del rajah o scappano o si arrendono. - Manda, innanzi a tutto, una buona scorta al poluar, onde conduca qui, il più presto possibile, Surama. Manderai poi i tuoi uomini a occupare tutte le caserme della città ed i fortini dei bastioni. Non troveranno ormai più alcuna resistenza. - Lo credo anch'io, capo. - E ripartì di corsa, mentre i suoi montanari disarmavano i prigionieri e sparavano le loro ultime cartucce contro le case, onde la popolazione non scendesse nelle vie. - Dal rajah ora, - disse Sandokan. - Guidaci, mio bravo demjadar. Tu hai mantenuto la tua promessa e la rhani dell'Assam manterrà i suoi patti. - Il capo dei seikki si diresse verso il palazzo reale seguìto da Sandokan, da Yanez, da Tremal-Naik e da una piccola scorta. I seikki guardavano le porte, dinanzi alle quali erano stati piazzati dei piccoli pezzi d'artiglieria. Il drappello salì lo scalone principale ed entrò nella sala del trono, dove si trovavano radunati i ministri ed alcuni dei più alti dignitari dello stato. Il rajah invece se ne stava, semi-coricato, sul suo letto-trono, mezzo inebetito dai liquori e dallo spavento. Certo la morte del greco, del suo fido, quantunque perfido consigliere, doveva avergli schiantata l'anima. Vedendo entrare Yanez seguìto da tutti gli altri, scese dal trono e assumendo una cert'aria di dignitosa fierezza, infusagli dal cognac bevuto, gli chiese con voce rauca: - Che cosa vuoi tu, mylord, ancora da me? La mia vita forse? - Noi non siamo assamesi, Altezza - rispose il portoghese togliendosi il cappello e facendo un inchino. - Al governo inglese premerebbero, forse, più che la mia vita le mie ricchezze? - Vostra Altezza s'inganna. - Che cosa volete dire, mylord? - Che il governo inglese non c'entra affatto in questa rivoluzione o, sollevazione, se così vi piace meglio. - Il rajah fece un gesto di stupore. - Per conto di chi avete agito voi dunque così? Chi siete? Chi vi ha mandati qui? - Una fanciulla che voi ben conoscete, Altezza - rispose Yanez. - Una fanciulla! - Sapete Altezza chi sono i guerrieri che hanno vinto le vostre truppe? - chiese Sandokan, avanzandosi. - No. - I montanari di Sadhja. - Un grido terribile lacerò il petto del principe. - I guerrieri di Mahur! - Si chiamava ben così, il forte montanaro che vostro fratello uccise a tradimento, - continuò Sandokan. - Ma io non ho preso parte a quell'assassinio! - urlò il principe. - Ciò è vero, - rispose Yanez, - però Vostra Altezza non avrà dimenticato che cosa ha fatto della piccola Surama, la figlia di Mahur. - Surama! - balbettò il rajah diventando livido. - Surama! - Sì, Altezza. A chi l'avete venduta? Ve lo ricordate? - Il rajah era rimasto muto guardando Yanez con intenso terrore. - Allora voi, Altezza, mi permetterete di dirvi che quella fanciulla, figlia di un grande capo che era vostro zio, invece di farla sedere sui gradini d'un trono, come le spettava per diritto di nascita, l'avete venduta, come una miserabile schiava, ad una banda di thugs indiani, onde ne facessero una bajadera. Vi ricordate ora? - Anche questa volta il rajah non rispose. Solamente i suoi occhi si dilatavano sempre più, come se dovessero schizzargli dalle orbite. - Quella fanciulla, - proseguì l'implacabile portoghese, - chiese il nostro aiuto e noi, che siamo uomini capaci di mettere sottosopra il mondo intero, siamo venuti qui, dalle lontane regioni della Malesia, per sostenere i suoi diritti e, come avete veduto, ci siamo riusciti, poiché voi non siete più rajah. È la rhani che da questo momento regna sull'Assam. - Il principe scoppiò in una risata stridula, spaventosa, che si ripercosse lungamente nell'immensa sala. - La rhani! - esclamò poi, sempre ridendo. - Ah! ... ah! ah! Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! ... Dov'è ... dov'è? Ah! Eccola! Bella, bellissima! ... - Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si guardarono un po' atterriti. - È diventato pazzo, - disse il primo. - Bah! Vi sono degli ospedali a Calcutta, - aggiunse il secondo. - Surama è ormai abbastanza ricca per pagargli una pensione principesca. - E uscirono tutti e tre, un po' pensierosi, mentre il disgraziato, colpito improvvisamente da una pazzia furiosa, continuava a urlare come un ossesso: - Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! - Dieci giorni più tardi gli avvenimenti narrati, quando già il disgraziato rajah era stato condotto a Calcutta, sotto buona scorta, per essere internato in uno dei primari stabilimenti d'alienati e quando già tutte le città dell'Assam, avevano fatto atto di sottomissione completa, la bellissima Surama impalmava solennemente il suo amato sahib bianco, cedendogli metà della corona. - Eccovi finalmente felici, - disse a loro Sandokan, la sera istessa, mentre la folla, delirante, acclamava i nuovi sovrani dell'Assam, ed i fuochi d'artifizio illuminavano fantasticamente la capitale. - Ora tocca a me procurarmi una corona, quella stessa che portava sul capo mio padre. - E quando sarà quel giorno? - chiese Yanez. - Sai che noi, quantunque di tinta diversa, siamo più che due fratelli. Parla e verrò io ad aiutarti coi miei scikari e, se sarà necessario, coi montanari di Sadhja. - Chi lo sa, - disse Sandokan dopo un silenzio relativamente lungo. - Forse quel giorno è più prossimo che tu non lo creda, ma non voglio per ora guastare la tua luna di miele, come dite voi uomini dell'estremo occidente. Fra giorni mi imbarcherò pel Borneo coi miei ultimi malesi e dayachi e, quando sarò là, riceverai miei ordini. -

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"Non vi sembra che ci stiamo abbassando?" "Infatti è vero. Questo freddo repentino tende a restringere l'idrogeno, ma appena saremo usciti da questo strato, il sole tornerà a dilatarlo e noi a salire." Il vascello aereo si abbassava lentamente, ma doveva essere cosa di breve durata. Ben presto il barometro avvertì gli aeronauti che i trovavano a 3000 metri di altezza, mentre prima si erano sempre tenuti a 3500. Quell'abbassamento permise di osservare meglio la grande isola che si stendeva sotto di loro. Si distinguevano perfettamente le abitazioni sparse sul bordo delle grandi boscaglie, gli abitanti che cercavano di correre dietro all'aerostato, credendolo forse un gigantesco uccello di nuovo genere, data la sua forma così differente dai soliti palloni, e si udivano nettamente le loro grida di stupore. Alle tre pomeridiane O'Donnell e l'ingegnere scorsero, come annidata sulle sponde di una baia, San Giovanni, la capitale dell'isola. Per alcuni istanti poterono vedere il palazzo dell'assemblea, la dogana, le fortificazioni e le numerose graves che si estendevano per lungo tratto fuori dalla città, poi non videro più che una massa biancastra poiché il vento li spingeva verso nord, ossia in direzione delle baie di Trinità e Bonavista. Alle tre e quaranta minuti si libravano sopra il capo Fuels, avvistando l'isola del Fuoco, e pochi minuti più tardi l'aerostato abbandonava l'isola, filando sopra l'oceano Atlantico, le cui onde si urtavano con profondi muggiti, coprendosi d'un immenso manto di candida spuma." "Addio terra!" esclamò O'Donnell. "D'ora innanzi non vedremo che acqua." "Purché il vento non cambi direzione," disse l'ingegnere. "Potrebbe spingerci verso il nord e fors'anche ricondurci verso l'America." "Dove ci porta ora?" "Diritti al grande banco. Non vedete laggiù, verso l'est, quei punti neri? Sono le navi occupate nella pesca ai merluzzi." "E lontano però il grande banco" "Vi giungeremo fra un paio d ore, se la nostra velocità, che è ora di quaranta miglia, non diminuisce." "Si pescano dappertutto i merluzzi, intorno all'isola?" "Sì, specialmente quando i pesci cominciano a lasciare il banco per cercare un altro cibo. In primavera i merluzzi si radunano in grandi masse nei dogger-banks delle coste di Islanda, nei fiorden della Norvegia e nei golfi dell'Irlanda, poi si dirigono tutti insieme verso Terranova. È in questa stagione che dalle coste della Norvegia, della Francia, dell'Inghilterra e dell'Olanda partono vere flottiglie di pescatori, i quali, cosa sorprendente davvero, qui vengono senza bisogno di carte e di strumenti necessari a fare il punto, seguendo, direi quasi, una traccia secolare. Si calcolano fino a seimila navi che tutti gli anni vengono impiegate nella pesca del prezioso pesce." "Devono pescarne una quantità immensa." "Dai 35 ai 40 milioni." "E chi per primo s'accorse della riunione dei merluzzi su questo grande banco?" "Caboto lo aveva notato; poi un altro ardito navigatore italiano, il fiorentino Giovanni da Verrazzano, che prese possesso di Terranova nel 1525 in nome di Francesco I re di Francia e che poco dopo cadde sotto le lance e le scuri degli indigeni; poi Cartier, lo scopritore del fiume San Lorenzo." "Si pescano anche nel San Lorenzo?" "No, i merluzzi non penetrano mai nei fiumi, anzi si tengono lontani dalle foci." "Terminata la stagione sul grande banco, si radunano altrove?" "No, si disperdono, scompaiono e non si vedono più per il resto dell'anno. Si ignora dove vadano a svernare durante la stagione fredda, ma pare che si tengano in acque assai profonde. Ma ecco le prime barche da pesca, O'Donnell, aprite bene gli occhi, e non vi dispiacerà di aver fatto una volata sopra il grande banco di Terranova.

La notte era calata, abbassando bruscamente la temperatura, e l'idrogeno si condensava con pari rapidità. Alle nove il Washington da 3500 metri era disceso a soli 400. Colà una nuova corrente d'aria, che soffiava radendo la superficie dell'oceano, lo avvolse e lo trascinò verso il sud con una velocità di trenta chilometri all'ora. L'ingegnere che temeva di venire trascinato nell'Atlantico meridionale ad incrociare i venti alisei, fece gettare le ancore. Come la prima sera, Simone montò il primo quarto di guardia. Alla mezzanotte lo sostituì O'Donnell, e alle tre del mattino l'ingegnere gli diede il cambio. Il Washington filava lentamente verso il sud, con un leggero dondolamento, e di quando in quando si abbassava di parecchi metri, rimontando quasi subito. I due coni, trascinati, opponevano sempre una forte resistenza. Verso le cinque, mentre l'ingegnere stava accendendo una sigaretta, l'aerostato provò una scossa così brusca da rovesciare alcuni barili e parecchi altri oggetti. Il battello si era inclinato verso prua, e i due immensi fusi si erano abbassati di parecchi metri, risalendo poscia lentamente. "Che cosa accade?" si chiese il Mister Kelly, al colmo dello stupore. "Se non ci trovassimo in pieno oceano direi che il battello ha urtato, ma contro che cosa?" Guardò attorno e non vide nessun ostacolo. L'atmosfera sola circondava il vascello aereo. Alzò il capo e s'accorse che i due palloni erano immobili; sentiva la brezza mattutina sibilare attraverso i cordami. "Cosa può averci arrestati?" si domandò, maggiormente stupito. "Che i due coni si siano arenati su qualche banco situato a fior d'acqua?" Stava per spiegare la carta dell'Atlantico settentrionale, al fine di accertarsi se in quella latitudine e longitudine segnalasse qualche scoglio o qualche banco, quando una seconda scossa, più violenta della prima, lo atterrò. L'inclinazione della scialuppa verso prua fu tale, che O'Donnell e il negro Simone rotolarono l'uno addosso all'altro. "By God! "esclamò l'irlandese, sbarazzandosi precipitosamente della coperta di lana che lo copriva. "Si cade?" "Massa! ... massa! Aiuto!" si mise a strillare Simone, il quale credeva che il pallone precipitasse nell'oceano. "Il caso è strano!" esclamò l'ingegnere, che si era prontamente rialzato. "Se le mie ancore fossero munite di punte, si potrebbe supporre che qualche pescecane avesse addentato qualche braccio; ma sono coni lisci." "Un pescecane?" chiese O'Donnell. "Siamo presi a rimorchio, Mister Kelly?" "No, poiché siamo perfettamente immobili." "Che cosa accade dunque?" "Ecco quello che cerco di spiegare, ma invano, O'Donnell." "Diamine! che qualcuno si sia aggrappato ai coni?" "Chi mai?" "Non vedete alcuna nave?" "No, non vedo che l'oceano." Un'altra scossa fece inclinare i due aerostati verso la prua. Non vi era più da dubitare. Qualche mostro aggrappatosi al cono che era stato calato a prora del battello cercava di trascinare con sé il Washington, il quale, però, data la sua forza eccezionale, non cedeva, tornando sempre al precedente livello. Quelle scosse potevano causare qualche grave danno: o guastare la seta dei due fusi, o spezzare le funi, o disarticolare la scialuppa. I tre aeronauti afferrarono la guide-rope di prua e operarono una energica trazione, ma il mostro che imprimeva all'aerostato quelle scosse doveva essere estremamente pesante e dotato di una forza eccezionale, poiché non abbandonò il cono. "Ma in che modo è rimasto aggrappato?" chiese O Domiell. "Che qualche pescecane di gran mole lo abbia inghiottito?" "Un pescecane non può avere tale gola da assorbire un cono che contiene duecento trenta litri." "Sarà una balena." "Nemmeno, poiché la balena ha il canale tanto stretto da non poter inghiottire dei pesci più grossi del nostro braccio." "Sarà un capodoglio. So che quei cetacei hanno delle gole enormi." "A quest'ora ci avrebbe trascinati sottacqua o avrebbe troncato la fune." "Ma quale mostro volete che sia?" "Non lo so." "Che cosa decidete di fare? Tagliare la corda e abbandonare l'ancora?" "Sarebbe una grande imprudenza perdere uno dei nostri coni. Manderò Simone a vedere." "Lui! ... quel pauroso! ... Con il vostro permesso, andrò a vedere io, Mister Kelly." "Ci sono trecentocinquanta metri da discendere, e voi non potete tentare una così pericolosa impresa, O'Donnell. Simone è agile come una scimmia delle foreste africane e può toccare il cono senza stancarsi." "Ma come salirà poi?" "Lo solleveremo noi fino alla navicella, ritirando la fune. Orsù, Simone, prendi una rivoltella e và a vedere che cosa accade laggiù."

IL RE DEL MARE

682251
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Poi facendo girare la spingarda sul perno e abbassando la canna più che potè, lanciò una bordata di mitraglia di traverso, mentre i Tigrotti di Mompracem, i malesi ed i giavanesi ricominciavano il fuoco massacrando arbusti e assedianti insieme. Vociferazioni spaventevoli s'alzarono sotto le piante, segno evidente che non tutti i colpi erano andati perduti, poi una valanga d'uomini si rovesciò verso la saracinesca assalendola a colpi di kampilang, mentre i lilà ed il mirim raddoppiavano il fuoco, cercando di mandare le loro palle sulle terrazze per allontanare i difensori. Tremal-Naik aveva mandato un lungo fischio. Subito si videro uscire dalla cucina otto uomini che portavano delle enormi caldaie che spandevano all'interno un fumo acre e denso. Salirono rapidamente la scala, deponendo le caldaie sul terrazzo sovrastante la saracinesca. - Per Giove! - esclamò Yanez, sentendosi avvolgere da quel fumo che gli strappava dei colpi di tosse. - Che cosa portate qui? - Guardati, Yanez! - gridò Tremal-Naik. - Lascia il posto a questi uomini. - Ma gli altri cominciano a montare. - Il caucciù bollente li farà ridiscendere. Gli otto uomini, armatisi di giganteschi mestoli, cominciarono a rovesciare il liquido fumante contenuto nelle caldaie. Urla, orribili, strazianti, s'alzarono tosto alla base della cinta. I dayaki, spaventosamente ustionati dal caucciù bollente che veniva gettato dall'alto della cinta e senza alcuna economia, si erano scagliati come pazzi in mezzo alle piante, fuggendo a precipizio. Una mezza dozzina di loro, che avevano ricevuto le prime palate del terribile liquido, si dimenavano e si contorcevano dinanzi alla saracinesca, ululando lugubremente come lupi idrofobi. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto d'orrore. - Questo indiano ha avuto una trovata magnifica! Cucina vivi quei poveri diavoli! I dayaki fuggivano anche dalle altre parti, poichè anche da quelle terrazze gli assediati avevano cominciato ad aspergere coloro che avevano tentato di scalare la cinta. Il fuoco intenso delle spingarde e delle carabine completava la sconfitta degli assedianti i quali ormai non pensavano ad altro che a porsi fuori di portata dalle armi da fuoco dei difensori del kampong e a rifugiarsi nei loro accampamenti. Invano i fucilieri avevano tentato di accorrere in aiuto delle colonne di assalto che si ripiegavano confusamente. Una bordata di mitraglia lanciata da tutte le spingarde li persuase a seguire i fuggiaschi. Due minuti dopo intorno al kampong non restavano che i morti e qualche ferito che stava per esalare l'ultimo respiro.

I due trasporti, che si vedevano nell'impossibilità di opporre qualsiasi resistenza, non possedendo che delle artiglierie leggere, affatto innocue pei poderosi fianchi del corsaro, avevano subito obbedito, abbassando le bandiere. Sulle loro coperte regnava una confusione indescrivibile. I soldati, tre o quattrocento, credendo che l'incrociatore si preparasse ad affondarli, correvano all'impazzata pei ponti, affollandosi intorno alle scialuppe. - Vi accordo due ore per sgombrare le navi, - aveva segnalato ancora il Re del Mare. - Dopo questo tempo aprirò il fuoco. Obbedite! ... Le isole Romades non erano lontane che due chilometri, mostrando le loro coste assolutamente deserte, con pochi alberi e fiancheggiate da numerosi banchi di sabbia e da scogliere. I comandanti delle due navi, dopo un breve consiglio, avevano risposto: - Cediamo alla forza, per risparmiare un inutile massacro. Subito tutte le scialuppe disponibili erano state messe in acqua, cariche di soldati fino quasi al punto di affondare, perchè tutti vi si affollavano, per tema che il corsaro aprisse il fuoco. Vedendo che alcuni portavano dei fucili, Sandokan, sempre inesorabile, aveva segnalato di gettarli in acqua o di ritornarli a bordo, minacciando, in caso contrario, di spazzar via le imbarcazioni. Mentre si effettuava lo sbarco, fra grida, imprecazioni, minacce e dispute, il Re del Mare girava lentamente intorno alle due navi, colle artiglierie sempre puntate. - Che cosa ne farai, dopo, di quei trasporti? - aveva chiesto Yanez. - Li affonderemo, - aveva risposto freddamente Sandokan. - Il mare è pronto a ricevere anche questi. - Che peccato non poterli rimorchiare in qualche porto! - E dove? Non vi è alcun rifugio amico per le ultime tigri di Mompracem. Si direbbe che tutti gli stati del Borneo, dopo d'averci ammirati, hanno paura del leopardo inglese, - disse Sandokan con profonda amarezza. - Non importa, ne faremo a meno e affideremo le prede al mare. Questo almeno non le rende più. - Quanti tesori perduti inutilmente! - disse Darma. - Così è la guerra, - rispose Sandokan, asciuttamente. - Yanez, ordina di mettere in acqua le scialuppe e di aprire i depositi del carbone. Il Re del Mare avrà una buona provvista di combustibile. I soldati, le cui imbarcazioni avevano fatti già parecchi viaggi, si erano quasi tutti accampati sulla spiaggia più prossima, pronti a rifugiarsi nei boschi in caso di pericolo. Yanez fece imbarcare cinquanta uomini, bene armati e comandati da due quartiermastri, li mandò a occupare i due trasporti, prima che anche gli equipaggi li abbandonassero, onde evitare un tradimento. Polvere a bordo ve ne doveva essere ed i comandanti inglesi potevano, prima di andarsene, collocare delle micce accese nella santabarbara e mandare all'aria i due trasporti ed insieme a loro i depositi di carbone che tanto premevano alle tigri di Mompracem. Partito l'ultimo inglese, un altro drappello di malesi al comando di Kammamuri si recò a bordo delle due navi, per procedere allo scarico del combustibile e delle munizioni da guerra. I soldati, dalla spiaggia, guardavano con ansietà le manovre dei pirati, stupiti di non vederli prendere a rimorchio i due legni, come avevano dapprima sospettato. Tutto il giorno gli uomini di Sandokan lavorarono febbrilmente vuotando i pozzi ben forniti di combustibile. Verso sera novecento tonnellate di carbone giacevano nei depositi del Re del Mare. I malesi ed i dayaki cadevano pel sonno e per la fatica eccessiva, ma ormai i pozzi dei due trasporti erano quasi vuoti. - Ed ora, - disse Sandokan, - prendi, mare, le prede che ti offro. Quando anche noi coleremo a fondo, sii clemente. Prima di abbandonare le due navi, i malesi avevano accese delle miccie presso i barili di polvere lasciati nelle santebarbare. Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si erano appoggiati alla murata poppiera, guardando tranquillamente i due trasporti. Dinanzi, sul bastingaggio, avevano collocato un cronometro. - Tre minuti, - disse ad un tratto Sandokan volgendosi verso i suoi compagni. - Ecco la fine! Un momento dopo una formidabile esplosione rimbombava sul mare, seguìta a breve distanza da un'altra non meno assordante. Le due navi, squarciate dallo scoppio, affondavano rapidamente fra le urla furiose dei soldati e degli equipaggi, che si trovavano sulle coste dell'isola. - Ecco la guerra, - disse Sandokan, con un sorriso sarcastico. - L'hanno voluta? Paghino! ... E questo non è che un principio del dramma! Quindi, volgendosi verso Yanez, aggiunse: - Andiamo a Sarawak ora: quel golfo sarà il campo delle nostre future imprese e le prede laggiù saranno più abbondanti, che qui: lo vedrai. Il Re del Mare abbandonava rapidamente i paraggi delle Romades, prendendo la corsa verso il sud. Colle carboniere piene, ed un sopraccarico di combustibile nella stiva, poteva sfidare alla corsa tutte le navi che gli alleati dovevano aver radunate nelle acque di Sarawak. Il poderoso incrociatore che divorava miglia su miglia, due giorni dopo avvistava già il capo Tanjong-Datu, passando dinanzi alla medesima rada dove erasi rifugiata la Marianna. Nulla avendo incontrato in quei paraggi, riprese senza indugio la corsa verso il sudest, per raggiungere la foce del Sedang. Sandokan voleva innanzi a tutto accertarsi se l'equipaggio della sua piccola nave era riuscito nella missione affidatagli, ossia di armare e di sollevare i suoi vecchi alleati, i dayaki dell'interno, che lo avevano così vigorosamente aiutato contro James Brooke, il famoso sterminatore dei pirati. Quarant'otto ore dopo, il Re del Mare, che non aveva rallentata la sua velocità, avvistava il monte Matang, un picco colossale che si erge presso la costa di ponente dell'ampia baia di Sarawak e che lancia la sua vetta verdeggiante a duemila novecento e settanta piedi, e l'indomani navigava dinanzi alla foce del fiume che bagna la capitale del rajah. Era il momento di aprire per bene gli occhi, poichè da un istante all'altro delle navi inglesi o del rajah di Sarawak potevano mostrarsi. Certo la comparsa del corsaro doveva essere stata segnalata alle autorità di Sarawak ed i migliori incrociatori dovevano aver preso il largo, onde proteggere da un improvviso assalto le navi che lasciavano il fiume, dirette a Labuan o a Singapore, che potevano venire facilmente catturate o affondate dagli audaci pirati di Mompracem. Perciò una rigorosa sorveglianza era stata ordinata a bordo dell'incrociatore. Giorno e notte dei gabbieri si tenevano costantemente sulle piattaforme superiori, muniti di cannocchiali di lunga portata, pronti a dare l'allarme nel caso che qualche colonna di fumo apparisse all'orizzonte. Sandokan e Yanez, per maggiore precauzione, avevano anche comandato che dopo il calar del sole più nessun lume si accendesse a bordo, nemmeno nelle cabine che avevano le finestre sui bordi esterni, e nemmeno i fanali regolamentari. Volevano passare dinanzi la foce del Sarawak inosservati, per non farsi inseguire sulle coste orientali e compiere le loro operazioni senza venire disturbati. Sentivano per istinto che li cercavano e che navi inglesi e del rajah dovevano scorazzare quei paraggi. Chissà, forse avevano indovinato le loro intenzioni o peggio ancora, qualcuno poteva averli informati dei loro progetti. Ed infatti, contrariamente alle loro abitudini, i due ex pirati apparivano assai preoccupati. Si vedevano passeggiare per delle ore intere sul ponte, colla fronte increspata, poi arrestarsi per interrogare, con una certa ansietà, l'orizzonte. Specialmente di notte abbandonavano di rado la coperta, accontentandosi di riposare solo poche ore dopo il levar del sole. - Sandokan, - disse Tremal-Naik, quando già il Re del Mare aveva oltrepassata la seconda bocca del Sarawak di qualche dozzina di miglia, - mi sembri molto inquieto. - Sì, - rispose la Tigre della Malesia, - non te lo nascondo, mio caro amico. - Temi qualche incontro? - Io sono certo di essere seguìto o preceduto, e un marinaio difficilmente s'inganna. Si direbbe che io senta odor di fumo e di fumo di carbon fossile. - E da chi? Da squadre inglesi o da quelle del rajah? - Di quelle del rajah non mi occupo troppo, perchè l'unica nave che poteva misurarsi colla mia, ora giace sventrata in fondo al mare. - Quella di sir Moreland? - Sì, Tremal-Naik. Le altre che possiede il rajah sono vecchi incrociatori di ordine secondario, che non valgono assolutamente nulla come navi da battaglia. È la squadra di Labuan che mi preoccupa. - Sarà forte? - Molto forte no, numerosa di certo. Potrebbe prenderci nel mezzo e crearci molti fastidi, quantunque io ritenga il nostro incrociatore così poderoso d'aver ragione di essa. I migliori, l'Inghilterra se li tiene in Europa. - Sono ben lontani da noi, - disse Tremal-Naik. - E chi mi assicura che non ne mandi alcuni a darci la caccia? Mi hanno detto che ve ne sono dei poderosi anche nell'India. Quando si apprenderà quali danni noi abbiamo recato alle loro linee di navigazione, gli inglesi non esiteranno a lanciare su questi mari il meglio della loro squadra indiana. - E allora? - chiese Tremal-Naik. - Faremo quello che potremo, - rispose Sandokan. - Se il carbone non ci mancherà la faremo correre e molto. - È sempre il carbone il nostro punto nero. - Di' il nostro lato debole, Tremal-Naik, perchè a noi tutti i porti sono chiusi. Fortunatamente la marina inglese è la più numerosa del mondo e piroscafi ne troveremo sempre, dovessimo andarli a cercare perfino nei mari della Cina. Ah! Cala la nebbia! È una fortuna per noi, che stiamo per passare dinanzi alle coste del sultanato. - Quanto distiamo dal Sedang? - Forse duecento miglia. Queste sono le acque più pericolose. Se questa notte non facciamo alcun incontro, domani troveremo la Marianna. Apriamo gli occhi, Tremal-Naik ed aumentiamo la nostra velocità. Tanto peggio a chi tocca se taglieremo qualche legno. Pareva che la fortuna proteggesse le ultime tigri di Mompracem, perchè poco dopo il tramonto del sole una folta nebbia era cominciata a scendere sul golfo, in dense ondate. Il Re del Mare aveva quindi maggiori possibilità di sfuggire alla caccia delle navi alleate, ammesso che si fossero realmente messe in moto per sorprenderlo. Nondimeno Sandokan e Yanez avevano dati gli ordini per tenersi tutti pronti. Qualche nemico poteva comparire, impegnare subito la lotta e colle sue cannonate attirare l'attenzione della squadra. L'incrociatore, che aveva aumentata la sua velocità portandola a tredici miglia, muoveva rapido attraverso il nebbione che sempre più si addensava. Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l'ingegnere americano erano tutti sul cassero, presso i timonieri, cercando, ma invano, di distinguere qualche cosa attraverso le ondate caliginose che il vento, di quando in quando, scompaginava. Gli artiglieri erano dietro i loro mostruosi pezzi o accanto alle piccole artiglierie; i malesi ed i dayaki dietro le murate. Tutti tacevano ed ascoltavano attentamente. Non si udivano che i rauchi muggiti del vapore ed il gorgoglìo prodotto dalle eliche e dallo sperone fendente le acque. La seconda foce del Sarawak doveva essere stata oltrepassata di una cinquantina di miglia, quando tutto d'un tratto si udì a echeggiare una sirena. - Una nave esplora il mare e segnala la sua presenza ad altre, - disse Yanez a Sandokan. - Sarà mercantile o da guerra? - Suppongo che sia qualche avviso del rajah, - rispose la Tigre della Malesia. - Ci aspettavano? - Fa' puntare verso levante. - Vorrei però prima conoscere con quale avversario abbiamo da fare. - Con questa nebbia non sarà cosa facile, Sandokan, - disse Tremal-Naik. - Quando potremo giungere alla foce del Sedang? - Fra cinque o sei ore. Vedi nulla, Yanez? - Null'altro che nebbia, - rispose il portoghese. - Non devieremo: tanto peggio per chi si caccerà sotto il nostro sperone. Poi, accostandosi al tubo che comunicava colla sala della macchina, gridò con voce poderosa: - Signor Horward! Avanti a tutto vapore, a tiraggio forzato! Il Re del Mare continuava la sua corsa, aumentandola rapidamente. Da tredici nodi era salita a quattordici all'ora, e non bastava ancora. L'ingegnere americano aveva comandato il tiraggio forzato per raggiungere possibilmente i quindici. Era ben vero che il carbone se ne andava rapidamente, però ne avevano in quantità sufficiente per tenere il mare alcune settimane senza bisogno di provvedersi. Erano già trascorse due ore, quando tutto d'un tratto la nebbia s'illuminò come se un gran fascio di luce l'attraversasse. Luce lunare non doveva essere, perchè assai più intensa e brillante e poi non ne aveva l'immobilità. Veniva dall'est e scorreva dal sud al nord, facendo scintillare vivamente le acque. - Un fanale elettrico! - esclamò Yanez, trasalendo. - Ci si cerca. - Sì, ci cercano, - disse Tremal-Naik. - Che siano in molti? Sandokan non aveva aperto bocca; la sua fronte però si era bruscamente aggrottata. Trascorsero alcuni minuti ancora. - Macchina indietro! - tuonò ad un tratto la Tigre della Malesia. Il Re del Mare trasportato dal proprio slancio, s'avanzò per due o trecento metri, poi s'arrestò lasciandosi cullare dall'onda larga del golfo. Una nave e forse non sola, si trovava dinanzi all'incrociatore ed esplorava il mare, proiettando dovunque fasci di luce. - Che la squadra di Sarawak si sia accorta della nostra presenza? - chiese Tremal-Naik. - Dobbiamo essere stati segnalati da qualche veliero, forse da qualche praho che è sfuggito alla nostra sorveglianza, - disse Sandokan. - Che cosa farai, Sandokan? - Aspetteremo, per ora, poi passeremo, dovessi fracassare dieci navi a colpi di sperone. Il Re del Mare ha la prora a prova di scoglio e le macchine d'una solidità tale che non si sconquasseranno per l'urto. Il fascio di luce continuava a scorrere lentamente dal nord al sud, tentando di forare la nebbia, fortunatamente sempre foltissima. D'improvviso, un secondo ne apparve dal lato opposto, ossia verso la poppa dell'incrociatore, poi altri due al nord e uno al sud. Una sorda imprecazione sfuggì dalle labbra del portoghese, il quale stava a guardia dei timonieri. - Ci hanno ben circondati! Alla malora quegli squali! Fra poco qui farà caldo! La Tigre della Malesia aveva seguìto attentamente la direzione di quei diversi fasci di luce. La sua nave che occupava il centro, non poteva essere stata ancora scorta, però non poteva slanciarsi innanzi nè retrocedere senza farsi scoprire. Con un gesto chiamò Yanez e l'ingegnere americano. - Si tratta di forzare il passo, - disse. - Dinanzi, presumibilmente, non abbiamo che una sola nave. Il nostro carico è stato ben stivato? - Assaliremo collo sperone? - chiese l'americano. - Ne ho l'intenzione, signor Horward. Fate raddoppiare il personale delle macchine. - Bene, comandante, - rispose lo yankee. - I miei compatriotti non agirebbero diversamente in simile frangente. - Sono tutti ai pezzi gli artiglieri? - Sì, - rispose Yanez. - Avanti a tutto vapore! Passeremo a qualunque costo. I fasci di luce elettrica continuavano ad incrociarsi in tutti i sensi e a poco a poco diventavano più luminosi. Probabilmente i comandanti di quelle navi dovevano aver scorta l'ombra immensa del Re del Mare e si preparavano ad assalire, dirigendosi verso uno stesso punto. Il momento stava per diventare terribile; tuttavia malesi, dayaki ed americani conservavano anche in quel supremo momento, una calma ammirabile. - Tutti nelle batterie! - gridò Sandokan, entrando nella torretta di comando con Yanez e con Tremal-Naik. Il Re del Mare balzò avanti. La sua velocità aumentava di momento in momento ed il fumo usciva turbinando dalle due ciminiere abbattendosi sui ponti in causa della nebbia. Un fremito sonoro lo scuoteva tutto, mentre gli alberi delle eliche raddoppiavano i giri ed il vapore muggiva nelle caldaie. L'incrociatore attraversò come un gigantesco proiettile la zona luminosa, ma appena rientrato nella nebbia oscura, altri fasci di luce lo raggiunsero, diventando rapidamente più luminosi. Le navi nemiche si erano messe in caccia e cercavano di rinchiuderlo in un cerchio di ferro e fuoco. Sandokan non si sgomentava e lasciava che la sua nave corresse sempre verso l'est. Alcune cannonate rimbombarono al largo e si udì in aria il rauco sibilo dei proiettili. - Pronti pel fuoco di bordata! ... - gridò Yanez. - Per Giove! ... E le fanciulle? - Sono al sicuro nel quadro, - rispose Tremal-Naik. - Manda qualcuno ad avvertirle che non si spaventino se succede un urto, - disse Sandokan. Delle ombre gigantesche si muovevano fra la nebbia che i riflettori elettrici rendevano sempre più luminosa. La squadra nemica stava per piombare sull'incrociatore delle tigri di Mompracem per tentare di sbarrargli il passo. Ad un certo momento una massa nera comparve bruscamente dinanzi la prora, sulla dritta del Re del Mare, a meno di quattro gomene di distanza. Era impossibile arrestare lo slancio dell'incrociatore. - Speronate! - gridò Sandokan con voce tuonante. Il Re del Mare si precipitava sul legno nemico come un ariete. Un rombo assordante, spaventevole, seguìto da urla d'angoscia echeggiò fra la nebbia perdendosi lontan lontano sul mare. Lo sperone dell'incrociatore era entrato tutto dentro la nave avversaria, producendole uno squarcio immenso ... Il Re del Mare s'arrestò un momento inclinandosi a prora, mentre degli scoppi accadevano sulla nave investita e colpita a morte da quella terribile speronata. Le caldaie scoppiavano. - Macchina indietro! - gridò l'ingegnere americano. Si udirono a prora dei sordi scricchiolii, poi il Re del Mare con una brusca scossa liberò il suo sperone indietreggiando e virando a babordo. La nave sventrata calava a fondo a vista d'occhio, fra i clamori assordanti del suo equipaggio. Il Re del Mare aveva ripresa la corsa, passando a poppa della nave sommergentesi, gettandosi nuovamente tra mezzo alla nebbia. Altre ombre pure apparivano a babordo e a tribordo. Le navi della squadra, approfittando di quel momento di sosta, avevano raggiunto il Re del Mare e gli proiettavano sul ponte fasci di luce. - Fuoco accelerato! - comandò Yanez. L'incrociatore s'infiamma come un vulcano in eruzione, con un rimbombo orrendo. I giganteschi pezzi delle torri hanno fatto fuoco quasi simultaneamente, facendo tremare la nave dalla chiglia alla punta degli alberi, scagliando sulle navi nemiche i loro grossi proiettili, poi i pezzi di medio calibro delle batterie hanno seguìto l'esempio, tempestando i nemici. Gli inseguitori non parvero spaventarsi, quantunque quella tremenda scarica delle più grosse artiglierie moderne dovesse aver prodotto danni gravi e forse, per qualche piccolo e maldifeso legno, irrimediabili. Da tutte le parti i lampi spesseggiano. I proiettili delle granate che si spaccano sulla solida blindatura della nave corsara, scoppiano sui ponti lanciando dovunque schegge di metallo. Colpiscono il tribordo ed il babordo, piombano a poppa ed a prora, scivolando sui ponti e rimbalzano sulle cime delle torri. Il Re del Mare nondimeno non s'arresta, anzi risponde con una furia spaventevole, mandando palle a destra, a sinistra e dietro la poppa. Una piccola nave, che fila con una velocità vertiginosa, emerge bruscamente fra la nebbia e con una pazza temerità corre addosso all'incrociatore. È una grossa scialuppa a vapore che porta a prora una lunga asta, l'antica torpediniera Horward. L'ingegnere americano, che conosce quell'arme micidiale, manda un grido: - Badate, cercano di torpedinarci! Sandokan e Yanez erano balzati fuori della torretta di comando. La scialuppa, che era illuminata dalle lampade elettriche delle altri navi, muoveva veloce verso il Re del Mare, cercando di raggiungerlo. Un uomo, il comandante, stava a prora, dietro l'asta. - sir Moreland! - gridarono ad una voce. Era infatti l'anglo-indiano che cercava, con una pazza temerità, di torpedinare l'incrociatore. - Arrestate quella scialuppa! - aveva gridato Sandokan. - No, nessuno faccia fuoco! - urlò invece Yanez. - Che cosa fai, fratello? - chiese la Tigre della Malesia, stupita. - Non uccidiamolo: Darma piangerebbe troppo. Lascia fare a me. A tribordo vi erano parecchi pezzi di medio calibro. Yanez s'appressò al più vicino che era stato già puntato sulla scialuppa, corresse rapidamente la mira, poi diede uno strappo al cordone tirafuoco. La scialuppa non si trovava allora che a trecento metri, non riuscendo a guadagnare via sull'incrociatore. Il proiettile la colpì con matematica precisione a poppa, asportandole ad un tempo il timone e l'elica e fermandola, per modo di dire, in piena volata. - Buon viaggio, sir Moreland! - gli gridò il valente artigliere, con voce ironica. L'anglo-indiano aveva fatto un gesto di minaccia, poi il vento portò fino agli orecchi delle tigri di Mompracem queste parole: - Fra poco incontrerete il figlio di Suyodhana! ... V'aspetta nel golfo! ... L'incrociatore aveva allora oltrepassata la zona luminosa e si rituffava nella nebbia. Scaricò un'ultima volta i suoi pezzi da caccia in direzione delle navi nemiche, che non potevano gareggiare colle sue macchine e sparve verso l'est, mentre i malesi ed i dayaki urlavano a squarciagola: - Viva la Tigre della Malesia! ...

I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

L'ufficiale guarda con stupore i quattro uomini, abbassando la spada, ed esclama: - Il comandante della Tuonante, avete detto? - Ecco qui, signor mio, il baronetto sir William Mac Lellan, - rispose il mastro indicandogli il comandante. - È per questo valoroso che vi siete battuti: me l'aveva promesso il colonnello Moultrie. - Voi, signore! - gridò l'ufficiale, muovendo rapidamente incontro al baronetto. - Sì, son io - rispose il comandante della Tuonante. - Possibile? Non vi hanno dunque impiccato? - No: mercè l'astuzia e la generosità di questo brav'uomo che chiamano il boia di Boston. Se sono ancora vivo, lo devo a lui. Si era avvicinato all'ex-galeotto, il quale era diventato d'un pallore tale, da far temere che da un momento all'altro cadesse svenuto. - Qua la vostra mano, carnefice! - gli disse. - Vi devo la vita. Il boia retrocesse smarrito, lasciando penzolare le braccia. - Qua la mano, vi ho detto! - ripeté il Corsaro. - Senza di voi a quest'ora sarei morto. Due grosse lacrime spuntarono negli occhi del boia, poi la sua mano si tese per stringere energicamente quella che il gentiluomo gli porgeva. - To'! ... Un carnefice che piange! - borbottò Testa di Pietra. - Si è mai veduta una cosa simile? - Sir, - disse l'ufficiale. - sgombriamo subito. Fra poco il forte Johnson sarà completamente distrutto. L'avevamo giurato, e manterremo la nostra promessa. Era veramente la fine di quella imponente fortezza. La guarnigione, decimata dalle artiglierie della corvetta e dalla cannonate americane, dopo un tentativo di resistenza dentro le caserme, si era finalmente arresa ai due colonnelli americani. Il fuoco era stato sospeso; ma un altro fuoco ben più terribile aveva preso il posto delle artiglierie. Magazzini, caserme, casematte, ridotti ardevano spaventosamente. - Orsù! - disse Testa di Pietra. - È il nostro momento di andarcene, prima di essere arsi vivi. Nell'acqua ci sto: nel fuoco niente affatto. Questo è solamente buono ad accendere la pipa: ma la vecchia reliquia, non so per quale guasto, non tira più. A notte fatta, del forte non rimanevano che poche rovine, ed il Corsaro insieme col colonnello Moultrie, coi suoi due marinai e col boia di Boston, il quale ormai aveva rinunciato al suo infame mestiere per tornar marinaio, si trovavano radunati sulla Tuonante.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Guardò curiosamente il capitano ed i suoi due compagni, alzando abbassando vivamente le palpebre dalle lunghe ciglia di seta, poi sedette su sasso in attitudine rassegnata, dicendo brevemente al vecchio: - Ti obbedisco. Il drappello, dopo aver salutato gli stranieri, s'allontanò percorrendo il fondo del burrone, senza che un muscolo di quel grazioso visino avesse trasalito. - Il padre di questa fanciulla doveva essere un ricco agricoltore - disse Fedoro, che la osservava attentamente. - Le contadine non vestono mai in seta, né si storpiano oggidì i piedi. - Che suo padre fosse il capo del villaggio? - chiese il capitano. - Certo. - Che piedini graziosi! - disse Rokoff. - Non ne ho mai veduti di piccoli, e non credevo che le cinesi riuscissero ad arrestarne lo sviluppo a tal punto. - Le persone di buona condizione ci tengono ad avere figlie coi piedi minuscoli, perché ciò aumenta il valore commerciale della donna, e tu sai che qui le spose si comperano. Più la scarpa che si presenta al futuro marito è piccola, più egli deve sborsare. - Quindi qui la bellezza non conta? - Viene dopo i piedi. - Singolare paese! - In origine però quest'usanza deve aver avuto qualche altro motivo - disse il capitano. - Si dice che i cinesi di tempi antichi fossero terribilmente gelosi delle loro donne e che siano ricorsi a questo barbaro uso per impedire loro di fuggire. Infatti, coi piedi così storpiati, non possono camminare a lungo. - Devono soffrire assai, almeno nei primi tempi - disse Rokoff. - Questo è certo - rispose Fedoro. - E come fanno per arrestarne lo sviluppo? - chiese il capitano. - Perché l'operazione riesca perfettamente, secondo l'ideale degli uomini, piegano le dita sotto la punta del piede, eccettuato il pollice che deve rimanere libero, poi fanno in modo che il tallone cambi direzione diventando verticale, invece di orizzontale. Per ottenere ciò, adoperano delle fasce di seta o di cotone lunghe un metro e mezzo e larghe un palmo. L'operazione comincia quando la fanciulla ha sei o sette anni e non cessa se non quando tutte le parti molli sono atrofizzate ed il piede ha cessato di crescere. Ricorrono però sovente a dei modi più barbari, battendo la faccia dorsale dei piedi perfino coi ciottoli e producendo perfino delle fratture. - Che tormento - disse Rokoff. - Talora poi le fasce vengono continuamente strette e cucite. - Vorrei vedere quei piedi. - Non lo otterresti. Le donne cinesi sono così gelose da non concedere tale permesso nemmeno ai loro mariti. - Ah! Che bel paese è la Cina! - esclamò Rokoff, ridendo. - Il paese delle sorprese strabilianti! - Ecco gli uomini che tornano - disse il capitano. - La minaccia di scatenare il terribile drago ha fatto effetto. Il vecchio era ricomparso seguito dai due portatori della bara carichi di due enormi canestri contenenti la deliziosa infusione. Il capitano regalò ai tre uomini due tael, prezzo ben superiore al contenuto dei panieri, un altro alla fanciulla, poi si diresse verso l'altipiano con Rokoff e Fedoro. - Partiamo - disse. Quando giunsero allo "Sparviero" la macchina già funzionava. - Siamo pronti? - chiese il comandante. - Sì, signore - rispose il macchinista. Passarono sul fuso, le eliche orizzontali si misero in movimento turbinando, le ali si mossero sbattendo lievemente per non guastarsi al suolo e il treno aereo s'innalzò prendendo subito lo slancio verso l'opposto declivio della montagna. Sul margine della foresta i tre cinesi e la fanciulla, istupiditi dallo spavento, lo guardavano innalzarsi. - All'ovest - disse il capitano al macchinista. - Andremo a cacciare sulle rive dell'Hoang-ho.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Ascoltami, - disse Tremal-Naik abbassando la voce. - Hai anche tu qualche cosa da dire? - chiese Negapatnan, beffardamente. - Conosci Kougli? Lo strangolatore udendo quel nome trasalì. - Kougli!- esclamò. - Non so chi sia. - Sei prudente, sta bene. Conosci Suyodhana? - Chi sei tu? - chiese Negapatnan, con manifesto terrore. - Uno strangolatore come lo sei tu, come lo è Kougli, come lo è Suyodhana. - Tu menti. - Ti do una prova che dico il vero. La nostra sede non è nella jungla, né a Calcutta, né sulle rive del sacro fiume, ma nei sotterranei di Raimangal. Il prigioniero rattenne a gran pena un grido, che stavagli per uscire dalle labbra. - Che sia vero che tu sei dei nostri? - chiese egli. - Non ti ho dato le prove? - È vero. Ma perché sei venuto qui? - Per salvarti. - Per salvare me? - Sì. - Ma come? Con qual mezzo? - Lascia fare a me e prima di mezzanotte sarai libero. - E fuggiremo assieme. - No, io rimango qui. Ho un'altra missione da compiere. - Una qualche vendetta? - Forse, - disse Tremal-Naik con aria tetra. - Ora silenzio e aspettiamo le tenebre. Lasciò il prigioniero ed andò a sedersi ai piedi della scala, aspettando pazientemente la notte. La giornata lentamente passò. Il sole scomparve dietro l'orizzonte e l'oscurità divenne profonda nella cantina. Era il momento opportuno per agire. Fra un'ora e forse meno, il sipai doveva scendere. - All'opera, - disse Tremal-Naik, alzandosi bruscamente e traendo dalla cintola due lime inglesi. - C'è da fare? - chiese Negapatnan, con emozione. - Devi aiutarmi, - rispose Tremal-Naik. Taglieremo le sbarre della feritoia. - Non s'accorgeranno che tu mi hai aiutato a fuggire? - Non s'accorgeranno di nulla. Sciolse i legami che stringevano il corpo, le braccia ed entrambi i piedi del prigioniero, e assalirono vigorosamente i ferri, cercando di non fare rumore. Tre sbarre erano state di già divelte e non ne rimaneva che una, quando Tremal- Naik avvertì uno scalpiccìo che veniva dalla scala. - Fermati! - diss'egli rapidamente. Qualcuno scende. - Il sipai forse? - Certo è lui. - Allora siamo perduti. - Non ancora. Sai gettare il laccio? - Giammai fallii il colpo. Tremal-Naik sciolse il laccio che portava stretto attorno al corpo, nascosto dal dubgah e glielo diede. - Mettiti presso alla porta - gli disse, estraendo il pugnale. - Il primo che appare, uccidilo. Negapatnan ubbidì prendendo il laccio nella mano dritta. Tremal-Naik si mise di fronte a lui, dietro allo stipite della porta, col pugnale alzato. Il rumore andava avvicinandosi. D'un tratto un lume rischiarò la scala e apparve un sipai, con una scimitarra sguainata. - Attento, Negapatnan, - bisbigliò Tremal-Naik. La faccia del thug divenne terribile. Gli occhi mandavano sinistri bagliori. Le labbra lasciavano a nudo i denti, le nari si dilatavano. Pareva una bestia assetata di sangue. Il sipai si arrestò sull'ultimo pianerottolo. - Saranguy! - chiamò. - Scendi, - disse Tremal-Naik. - Non ci si vede più. - Va bene, - rispose, e varcò la soglia della cantina. Negapatnan era lì. Il laccio fischiò nell'aria e si strinse così fortemente attorno al collo, che il sipai cadde al suolo senza emettere un lamento. - Devo strozzarlo? - chiese il thug, ponendo un piede sul petto del caduto. - È necessario, disse Tremal-Naik, freddamente. Negapatnan tirò a sé il laccio. La lingua del sipai uscì un palmo dalle labbra, gli occhi schizzarono dalle orbite e la pelle da bronzina divenne nera. Agitò per qualche istante le braccia, poi si irrigidì. Era morto. - Che la dea Kâlì abbia il suo sangue, - disse il fanatico, sciogliendo il laccio. - Spicciamoci, prima che scenda qualche altro. La feritoia fu nuovamente assalita e la quarta sbarra fu spezzata. - Passerai? - chiese Tremal-Naik. - Passerei per una feritoia molto più stretta. - Sta bene. Ora legami solidamente e imbavagliami. - Il thug lo guardò con sorpresa. - Io legarti? E perché? - chiese. - Perché non si sospetti che io sono uno dei tuoi. - Ti capisco. Sei più astuto di me. Tremal-Naik si gettò in terra presso al cadavere del sipai, e Negapatnan lo legò e lo imbavagliò. - Sei un brav'uomo, - disse il thug. - Se un giorno avrai bisogno di un amico fedele, ricordati di me. Addio. Si slanciò verso la feritoia, dopo di essersi armato delle pistole del sipai, vi si issò e scomparve. Non erano trascorsi ancora dieci secondi, che s'udì un colpo di fucile ed una voce gridare: - All'armi! Un uomo fugge!

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

"Vi avrei pianto per sempre," mormorò la giovane abbassando gli occhi.

"No, non è possibile," esclamò poi abbassando gli occhi. "Sarebbe un sogno troppo bello ... " "Esther," disse il corso con voce grave, "se questo sogno si realizzasse? Se io vi amassi davvero?" "Voi, marchese, amare una ebrea, una donna che nel Marocco si disprezza?" "La Corsica e la Francia non sono il Marocco, Esther. Il destino mi ha gettato sulla vostra strada, ho imparato ad apprezzarvi e ad ammirarvi e credo che nessun'altra donna potrebbe diventare, meglio di voi, la compagna della mia vita." Aveva appena pronunciato quelle parole quando udì presso di sé una rauca imprecazione. Si volse vivamente e vide sdraiato presso la tenda El-Melah. La faccia del sahariano era contratta e manifestava una collera terribile. "Che cosa fate qui?" domandò il marchese, aggrottando la fronte. "I Tuareg," rispose il sahariano. "Quali Tuareg?" chiese il corso. "Quelli che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti. Stanno entrando ora nell'oasi." "Che ci abbiano seguito?" si domandò il marchese, con ira. "La presenza di quei predoni non mi piace affatto." "Che osino assalirci fra tanta gente?" chiese Esther. "No di certo, perché i marocchini e gli algerini s'unirebbero a noi per respingerli. Qui siamo come fra compatrioti." "Che vadano anch'essi a Tombuctu? Che cosa ne dici, El-Melah?" Il sahariano non rispose. Guardava Esther in modo strano, mentre un brutto sorriso gli increspava le labbra. "Ebbene, non mi hai udito, El-Melah?" chiese il marchese, impazientito. "Che quei Tuareg si dirigano anch'essi a Tombuctu?" "Ah! Sì, lo suppongo," rispose il sahariano, quasi distrattamente. "Con Ben vado ad assicurarmi chi siano. Tu, El-Melah, non lascerai Esther durante la mia assenza e aspetterai il ritorno dei beduini e di El-Haggar, che sono andati ad acquistare dei viveri." Il sahariano fece un gesto d'assenso e si sdraiò al suolo, a quattro passi dalla giovane ebrea, la quale si era seduta presso la tenda, all'ombra d'un bellissimo palmizio. Il viso del giovane non si era ancora rasserenato, né i suoi sguardi si erano ancora staccati dall'ebrea. Anzi una fiamma cupa balenava entro quegli occhi nerissimi, mentre la fronte gli si aggrottava sempre più. "Signora," disse ad un tratto, risollevandosi. "Che cosa va a cercare a Tombuctu il marchese?" Esther alzò il capo che teneva appoggiato ad una mano, e guardò con stupore il sahariano. "Perché mi fai questa domanda, El-Melah?" chiese. "Io vi ho seguito fin qui senza aver ancora potuto conoscere chiaramente i vostri progetti e prima di entrare in Tombuctu desidererei sapere lo scopo che vi guida. La Regina delle Sabbie è pericolosa per gl'infedeli; voi giuocate la vita." "Andiamo a cercare il colonnello Flatters. Credevo che tu lo sapessi, El-Melah." Un sorriso beffardo spuntò sulle labbra del sahariano. "Non valeva certo la pena di venire fino qui a cercare un uomo che forse è morto e che è ben lontano da Tombuctu." "Sai qualche cosa tu?" chiese Esther. Il sahariano crollò il capo, poi disse come parlando fra sé: "Lasciamolo cercare." "Chi?" "Il francese." "Non ti comprendo, El-Melah." "Chissà, forse potrà trovare anche qualche cosa d'altro a Tombuctu. Signora, è vero che il marchese vi ama?" "Sì, El-Melah." "E voi?" chiese il sahariano, figgendole in viso uno sguardo acuto come la punta d'uno spillo. "Ciò non ti può interessare," rispose Esther, il cui stupore aumentava. "Desidererei sapere se lo lascereste per un altro uomo che pure vi ama e forse più del marchese." "El-Melah," esclamò la giovane alzandosi. "Il sole del deserto ti ha sconvolto il cervello? Ne avevo il dubbio, ora ne ho la certezza." "Sì, deve esser così," rispose il sahariano, con un accento strano. "Il sole del deserto deve aver guastato il cervello di El-Melah." S'alzò girando intorno alla tenda; poi tornò a sdraiarsi, tenendosi il capo stretto fra le mani. "Quel povero giovane è pazzo," disse Esther. In quel momento il marchese tornava con Rocco, El-Haggar e Ben. Tutti e tre parevano assai preoccupati ed inquieti. "Che cosa avete?" chiese Esther, movendo loro incontro. "I Tuareg che sono passati per di qua sono gli stessi che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti," rispose Ben. "Vanno a Tombuctu." "Che abbiano qualche progetto su di noi?" chiese Esther. "Tutto si può attendere da quegli uomini," disse El-Haggar. "Se essi hanno un sospetto che voi non siete mussulmano, ci possono fare arrestare dalle guardie del sultano e anche uccidere." "Eppure non possiamo rimanere qui ora che abbiamo attraversato il deserto. Io non me ne tornerò se non quando avrò la certezza che il colonnello è morto o che si trova prigioniero del sultano." "Ed io se prima non avrò raccolto l'eredità di mio padre," disse Ben. "E trovato Tasili," aggiunse Rocco. "Senza quell'uomo non potrete certo riacquistare il tesoro." "Ascoltatemi," disse in quell'istante El-Haggar. "A me, come mussulmano, non è vietata l'entrata in Tombuctu e nessun pericolo può minacciarmi. Volete che io segua quei Tuareg per cercare di scoprire le loro intenzioni e cercare Tasili? Fra tre o quattro giorni io sarò di ritorno e allora agirete." "E ti occuperai di sapere se il colonnello è vivo od è stato ucciso?" "Ve lo prometto, marchese. Conosco parecchie persone a Tombuctu e andrò ad interrogarle." "E ne conosco anch'io," disse El-Melah, alzandosi. "Vuoi partire con El-Haggar?" chiese il signor di Sartena. "Tu che conosci quei Tuareg puoi sapere, meglio d'ogni altro, che cosa sono venuti a fare a Tombuctu." "Se lo desiderate io parto," rispose il sahariano, con vivacità. "Vi concederemo una settimana di tempo. Se non vi vedremo ritornare, qualunque cosa debba succedere, noi verremo a Tombuctu," disse il marchese. "Siamo d'accordo," rispose El-Haggar. I loro preparativi furono lesti. Caricarono sui due mehari dei viveri, s'armarono di fucili e di jatagan e salirono in sella. "Prima che il sole tramonti noi entreremo nella Regina delle Sabbie," disse El- Haggar. "Abbiate pazienza e non lasciate questa oasi. In caso di pericolo io o El-Melah torneremo subito e vi rifugerete subito nel deserto." "Và e che Dio sia con te," risposero Ben ed il marchese. Mentre però s'allontanavano, El-Melah continuava a volgersi indietro ed Esther provava ancora l'impressione di quello strano sguardo che le procurava una specie di malessere che non sapeva spiegarsi. Quando i due corridori scomparvero in mezzo alle dune, la giovane provò un vero sollievo. "Che uomo strano è quel Melah," mormorò. "Che sia veramente pazzo?" Il marchese ed i suoi compagni intanto si erano occupati a prepararsi l'accampamento, onde passare quella lunga attesa nel miglior modo possibile. Rizzarono le due tende assicurandole con numerose funi e disposero le casse ed i bagagli all'intorno, formando una specie di barriera; poi con sterpi e foglie innalzarono una zeriba destinata a contenere i cammelli e gli altri animali, precauzione indispensabile con tanta gente che occupava l'oasi in attesa del momento opportuno per mettersi in marcia verso il nord. "Ora armiamoci di pazienza ed aspettiamo," disse il marchese, quando il campo fu pronto. "El-Haggar ritornerà, ne sono certo, e forse accompagnato da Tasili."

Ad un tratto il leone, dopo aver dilaniato le gobbe al povero cammello, si raccolse su se stesso abbassando la testa e digrignando i denti. Il marchese si trovava allora a solo sei passi. "Sta per slanciarsi!" gridò Rocco. "Fuoco, padrone!" Un colpo di fucile rimbombò. Il leone stramazzò in mezzo ai cammellí, ma subito si rialzò ruggendo spaventosamente. Stava per scagliarsi sul marchese il quale ricaricava l'arma quando Esther, Ben Nartico e Rocco fecero una scarica. Il leone era ricaduto e questa volta per non più rialzarsi. Si dibatté per qualche istante, cercando ancora di lacerare i fianchi al povero cammello, poi si irrigidì. "Perbacco! ... Che pelle dura!" esclamò il marchese con voce tranquilla. "Eppure l'avevo colpito al cuore!"

IL PAESE DI CUCCAGNA

682502
Serao, Matilde 2 occorrenze

. - Non ho fame, ho sete, - disse la ragazza, abbassando gli occhi. - Datemi due soldi di castagne secche. L'oste, lentamente, andò a prendere una misurina di quelle bianche e raggrinzite castagne durissime, che eccitano la sete. Intanto il ragazzo aveva portato una caraffa di vetro verdastro, piena di un vino nerissimo, chiusa dalla solita foglia di vite. Carmela si mise a rosicchiare le castagne, piano piano, bevendo ogni tanto due dita di vino. - Volete favorire? - disse all'oste, che gironzava intorno, un po' inquieto. - Grazie, - disse lui, che non rifiutava mai. E siccome ci era un sol bicchiere, egli bevette un lungo sorso alla bottiglia, facendo gorgogliare il vino, asciugandosi le labbra. - Come si sta quieti, qua sopra, - disse la ragazza, volendo attaccare discorso. - E avete gente, sempre? - Non sempre: secondo le giornate. - Vengono napoletani, eh? - Vengono. - Queste sono due lire, comprate un berrettino al vostro ragazzo, - mormorò ella, vedendo la diffidenza dell'oste. Costui le prese senza esitare e le intascò: poi stette, come aspettando la domanda. - Deve venire una comitiva di giovanotti, verso mezzogiorno, eh? - Sissignora. - Ci sta un certo Farfariello? Così mi pare. - Ah! - disse ella, con un profondo sospiro. - Vi è fratello? - Mi è innamorato. - Non vi sono donne, con loro, - osservo l'oste, sbadatamente. - Lo so, lo so, - diss' ella, crollando il capo. - Ma non vengono soli… - Forse, viene pure un'altra comitiva. - Per fare che? - gridò lei, sentendo concentrarsi la sua paura. - Per mangiare, figliuola mia, per mangiare. - Niente altro? - Niente: da Babbasone niente altro si fa. - In parola vostra? - In parola mia: fino a che stanno nella mia taverna, niente succede. - Sì, ma dopo? - Ah, dopo, dopo, io non ci entro. Quando si sono allontanati dieci passi, io non ci entro più, capite? Ella rimase in silenzio, pensosa. Una macchia di vino era sulla tavola ed ella, col dito, l'allungava, disegnava dei geroglifici di vino. - Compare, mi volete fare una carità? - Non parlate così. - Una vera carità, compare, che Dio vi renderà su quel bel figliuolo vostro! Fatemi assistere a questa mangiata, da una stanza, da un granaio, da un buco qualunque, donde io possa vedere, senza essere veduta. - Figliuola mia, questi sono imbrogli in cui Babbasone non ci si mette. - Se volete bene a quel figlio, non mi dite di no! Non è imbroglio, per quanto è grande il nome della Madonna! È un pensiero mio, è un capriccio mio, voglio vedere che fa questo innamorato mio… - Già, per far qualche scenata, qualche lite… - Non mi movo, compare mio, non mi movo, ve lo giuro per la vista degli occhi! Guardo questa mangiata, niente altro! - E non uscite? - No. - Non parlate con nessuno? - No, no. - Se vi trovano, non dite che vi ci ho posta io? - No, no, no. - Venite con me. - disse lui, risolutamente. Ella si mise dietro all'oste, che uscì dallo stanzone terreno, e prese su per la scaletta esterna, che conduceva al primo piano: dal poggiuolo Carmela dette ancora un'occhiata alle due vie, che da Napoli conducono all'osteria di Babbasone ma erano calme, deserte: non il più piccolo rumore di carrozza o di passi arrivava, in quella tranquillità del meriggio. L'oste fece attraversare a Carmela la stanza dove egli alloggiava con l'ostessa e le schiuse la porta di quella più piccola, accanto dove conservava le provviste per l'osteria. Un tanfo di lardi rancido e di formaggio piccante, afferrò alla gola Carmela che tossì. - Qui starete benissimo, figliuola mia, - le disse Babbasone, ortandola a una finestra che dava sulla facciata della taverna. - Se quei galantuomini vengono, mangeranno qua giù, sotto le pergole e voi vedrete ogni loro movimento. Solamente, mi dovete promettere che resterete dietro i vetri. - Sissignore, sissignore, - promise Carmela. - Che non scenderete giù, qualunque cosa succeda, avete capito? Io non voglio compromettermi, coi miei avventori… - Sissignore, non scendo, non dubitate, - ella mormorò, socchiudendo gli occhi quasi che vedesse innanzi a sé uno spettacolo spaventoso. - Se no, vi chiudo dentro… - Non vi è bisogno, per quanto voglio bene alla Madonna, e non mi movo. - E a rivederci, - disse quello, andandosene. - Dio ve lo renderà, - gli gridò dietro la fanciulla. E l'attesa cominciò, lunga, poiché i minuti che passavano, sembravano all'appassionata ragazza, avere la pesantezza del piombo. Pure, rimaneva inchiodata dietro quei vetri sporchi di polvere: il suo alito caldo li appannava sordidamente. Vi erano in quella dispensa un paio di sedie sgangherate e uno sgabello di legno, ma ella non pensò a sedersi, troppo le premeva fare la guardia alla finestra, guardando le due vie soleggiate, nella mitissima giornata d'inverno, scrutando la pace di quel paesaggio, dove tacevano i rumori della città. Solo, due volte, andò innanzi e indietro, in quella stanza ingombra di salami nerastri, di brune forme di cacio, il cui malo odore la soffocava: e vide che vi era un'altra finestra, che dava sulla parte posteriore dell'osteria, sui campi che salivano verso Capodimonte; anche da quest'altra parte vi era un grande silenzio, una calma perfetta. E come il tempo passava, una angoscia più acuta le mordeva il cuore; forse colui che le aveva riferito di quella scampagnata di Farfariello, nsieme con altri amici, all'osteria di Babbasone, 'aveva ingannata, o forse ella aveva inteso male le spiegazioni datele: Farfariello i suoi amici, e gli altri, orse, a quell'ora, erano già in qualche altro posto, e tutto accadeva lontano da lei, senza che ella potesse opporvisi; forse, a quell'ora, era già accaduto; ogni tanto ella volgeva gli occhi disperati al cielo, chiedendo che questo non fosse! un certo punto, ella, non arrivando a domare la sua inquietudine, cavò il rosario dalla tasca e si mise a dire macchinalmente le avemmarie e i paternostri: diceva, pensando a un'altra cosa, vedendo una tetra visione, che ogni tanto faceva slanciare il suo cuore disperato verso la Madonna, perché salvasse Raffaele dalla disgrazia: -… e nell'ora della nostra morte - si sorprese a dire, ad alta voce, in un certo momento. E fu nel medesimo momento, che un rumore di ruote, e uno schioccare di frusta si udì, dalla via di Capodimonte, e in una carrozza da nolo apparve Raffaele, insieme a tre altri giovanotti, quasi tutti della sua età. - O Vergine Addolorata! - pianse la voce di Carmela, di dietro ai vetri. La carrozza fu pagata da Raffaele: e contrariamente alle consuetudini, poiché sempre il cocchiere partecipa ai piaceri della scampagnata, questa volta il cavallo voltò e la carrozza scomparve dalla via donde era venuta. I giovanotti, coi calzoni stretti al ginocchio e il cappelletto sulle ventitré, facevano adesso grande baccano nello stanzone inferiore, forse perché il pranzo non era pronto: subito il ragazzetto dell'oste distese la tovaglia sopra una delle tavole che avrebbe dovuto esser ombreggiata dalle fronde del pergolato: ma questo era nudo. Intanto, con la più perfetta disinvoltura, quei giovanotti si erano messi a giuocare alle bocce, aspettando che si cuocessero i maccheroni: e Raffaele, specialmente, andava, veniva, quietamente, con quella grazia popolaresca che inteneriva il cuore di Carmela. - Che tu possa esser benedetto! - mormorava lei, un po' rassicurata da quella disinvoltura. Adesso, seduti ai quattro lati della tavola, tirando i maccheroni nel loro piatto, da una larghissima scodella che era stata deposta nel mezzo, Raffaele e i suoi amici mangiavano, tirando continuamente, col grande appetito della giovinezza, e quello che dà l'aria fine d'inverno, e la freschezza della campagna. Bevevano molto e ogni tanto levavano su il bicchiere colmo del nero vino, dai riflessi bluastri, e guardandosi fisamente fra loro, dicevano qualche cosa e tracannavano di un fiato, senza fare una smorfia. Carmela, che non udiva le voci, capiva che portavano dei brindisi a qualche persona o a qualche cosa. Sino ad allora tutto procedeva come una semplice e lieta scampagnata invernale, in una bella giornata confortata di sole, in una grande quiete campestre: e l'osteria, e l'oste sulla soglia, e il fanciullo che serviva la tavolata, e i quattro commensali avevano l'aria di una perfetta serenità, armonicamente fusa con la serenità intorno. Ma un nuovo rumore di ruote giunse, dalla via dei Ponti Rossi, e uno schioccare pomposo di frusta: Raffaele e i suoi amici levarono il capo, come per una mera curiosità, mentre Carmela, ferita al cuore da quel rumore, sentiva che le gambe le mancavano e pregava mentalmente il Signore, perché le desse la forza di non morire, in quel punto. Era una comitiva simile alla prima, di quattro giovanotti coi calzoni chiari e stretti al ginocchio, con la giacchetta nera attillata e il cappelletto abbassato sull'orecchio. Quello che conduceva la comitiva, Carmela lo riconobbe, Ferdinando l' ammartenato, disse qualche cosa al cocchiere, pagandolo, e il cocchiere ascoltò, abbassando il capo; si allontanò lentamente, per la via donde era venuto, senza voltarsi. Le due comitive, guardandosi in faccia, seriamente, si salutarono con molta correttezza; e mentre Raffaele e i suoi continuavano a mangiare tranquillamente, quegli altri quattro si levavano i cappelletti e li appiccavano ai rami nudi degli alberi. Per loro i maccheroni furono serviti assai più rapidamente, poiché l'oste aveva fatto buttar nell'acqua bollente, quanti ne servivano per le due comitive: tanto che, a un certo punto, rallentando di mangiare la comitiva di Raffaele, e affrettando i bocconi quella di Ferdinando, si trovarono all'istesso punto: andarono procedendo di conserva, divorando a due ganasce le costolette di maiale e le foglie della lattuga in insalata, bevendo dei bicchieri di vino, uno dopo l'altro, come se fosse acqua. Quando bevevano, ogni tanto, le due tavole scambiavano qualche occhiata lunga ma improntata d'indifferenza. Malgrado il molto vino tracannato, tutti quanti pareva che conservassero la massima freddezza e qualcuno, talvolta, si arrovesciava sulla sedia, con un'aria di perfetta disinvoltura. Eppure tutta quella scioltezza, tutta quella spensieratezza, eguale nelle due tavolate. bizzarramente eguale, quasi che le due compagnie ubbidissero a un tacito accordo, mancava affatto di quella lietezza naturale alle scampagnate napoletane, dove le risate, le grida e le canzoni salgono al cielo, in un coro che non finisce mai. Ogni tanto, i giovanotti che circondavano Raffaele detto u farfariello, i piegavano verso di lui ed egli sorrideva alteramente: era l'unico segno di allegrezza di quella brigata; e alla tavolata di Ferdinando l' ammartenato on sorridevano neppure, buttavano giù i bicchieri di vino, sempre, senza perdere una linea della loro serietà. Di lassù, Carmela guardava: e i sorrisi del suo innamorato, e i bicchieri di vino tracannati dalle due brigate, e quella scioltezza pacifica non l'affidavano. Fra le altre cose, ella vedeva gli atti della conversazione, ma non udiva le parole; e le sembrava che un silenzio profondo regnasse fra tutta quella gente che s'intendeva a segni, un silenzio lugubre, oramai, nella gran pace della campagna. Una lenta ma sempre crescente angoscia le opprimeva il respiro, come se il cuore si fosse ristretto e non palpitasse che ad intervalli: ogni volontà, in lei, era vinta. Ella restava appoggiata, con la fronte al vetro impolverato della finestra, irrigidita, coi grandi occhi dolorosi fissi sul volto di Raffaele, quasi che vi volesse leggere quello che la mente di lui pensava. Adesso l'oste e il suo ragazzetto avevano portato le frutta, cioè le castagne secche bianche e un fascio di finocchi, dal torsolo bianco, dalle lunghe e sottilissime foglie verdi: insieme, altro vino. Poi, a un tratto, dopo aver udito qualche cosa all'orecchio, dal padre, il ragazzetto si tolse il grembiule bianco, si mise il berretto sulla testa e si allontanò correndo, per la via dei Ponti Rossi. E come la fine del pranzo si approssimava, Carmela sentiva vacillare la sua ragione, ella vedeva salire e crescere nell'anima sua un solo desiderio, quello di scendere di lì, di prendere pel braccio Raffaele e di portarselo via, con sé, lontano, dove non lo raggiungessero né camorristi né guappi. on osava. Da un mese Raffaele, già freddo, seccatissimo di lei, la fuggiva così ostinatamente, che ella arrivava nei posti ove egli era stato, sempre dieci minuti dopo: le aveva anche fatto sapere, che tanto, era inutile, che egli non voleva più saperne di lei. - Almeno mi dicesse lui, il perché, e mi contento, e me ne vado, - esclamava lei, piangendo, verso coloro che le riferivano le parole di Raffaele. Ma da un mese ella non lo aveva visto: e se aveva saputo che in quel giorno, due compagnie di guappi ovevano andare a un misterioso appuntamento, all'osteria di Babbasone i Ponti Rossi, era stata una indiscrezione, strappata a forza, a un padrino di Raffaele: e costui glielo aveva detto, guardandola negli occhi, con una intenzione segreta che ella dovette indovinare, perché lo lasciò subito e a piedi, dalla sua casa dei quartieri bassi, si era recata lassù, ansando, dolorando, mordendosi le labbra, per non gridare e per non piangere. Non osava scendere: capiva che Raffaele l'avrebbe vilipesa e scacciata, come aveva fatto sempre, villanamente, negli ultimi tempi: tremava di quella voce irata, di quelle parole di disprezzo. Adesso il pranzo finiva assai tranquillamente e già le due brigate fumavano i loro sigari, guardando in aria, con la seria beatitudine di chi ha bene pranzato e di chi si prepara a ben digerire; e in certi momenti era tanta la pace che trapelava da tutte le cose intorno, e tanta la tranquillità di tutti quei giovanotti, che Carmela, per un istante, sentiva addormentarsi la sua angoscia, sperando che tutto fosse un tragico sogno. Solo un istante, per poi ricadere di nuovo, più profondamente, in un abisso di dolore, in cui i minuti avevano una pesantezza drammatica. La tavolata di Ferdinando l' ammartenato i levò; e i quattro giovanotti, col movimento solito dei guappi i tiravano su i calzoni, stringendone le cinghie, si tiravano su le giacche, si mettevano i cappelletti, con un gesto altero, di traverso sul capo. Se ne andavano: passando accanto alla tavolata di Raffaele, seriamente si toccavano tutti il cappello con la mano, e gli altri risposero, con un lieve cenno del capo, dicendo tutti una parola che Carmela non potette udire e che era: - Salute. Se ne andavano: ella ebbe un respiro di sollievo. Ma invece di voltare per i Ponti Rossi, donde erano venuti e dove, forse, la carrozza li aspettava, Carmela li vide girare intorno alla casa, e a uno a uno, - ella era corsa all'altra finestra che dava sull'orto dell'osteria e sui campi, - ella li vide sparire, dietro una cortina verde di alberi. Affannata, di nuovo, era corsa alla finestra che dava sul piazzale dell'osteria, e dove la comitiva di Raffaele, o farfariello si apprestava anche a partire. Tutto era salvo, se costoro prendevano la via di Capodimonte, donde erano venuti: volea dire che quelli erano stati veramente due pranzi, niente altro, con nessuna premeditazione, con nessuna conseguenza. I preparativi erano alquanto lenti, ma a un motto di Raffaele tutti si affrettarono, mentre costui, col sigaro smorzato in un angolo della bocca, pagava il conto all'oste, quietamente. E si levò, tendendo le braccia a prendere il cappello sospeso a un ramo d'albero: mentre faceva quel gesto, il panciotto si sollevò un poco e Carmela vide luccicare qualche cosa, alla cinghia che faceva da cintura: era il calcio della rivoltella. Pure, per un ultimo minuto, sperò ancora. Forse se ne andava, pacificamente, per le quiete vie campestri, alla città rumorosa; tanto, Raffaele la portava sempre, la rivoltella di corta misura! Ma l'orribile fatto che temeva, in un secondo, le apparve come una realtà: pian piano, Raffaele e gli altri tre giovanotti voltarono, non per la via di Capodimonte, ma dietro l'osteria per l'orto, e per i campi, seguendo la stessa strada dell'altra comitiva, raggiungendola, cioè camminando pacatamente, col loro passo elastico, uno dietro l'altro. Ah ella non potette più durare, sentendo lacerarsi qualche cosa dentro; corse alla porta della dispensa, la trovò chiusa, l'oste l'aveva serrata dentro! Ella, furiosa, cieca di dolore e di collera, cominciò a scuotere con le mani quella porta che era vecchia e tarlata e che le oppose poca resistenza: il paletto che l'oste aveva tirato si schiantò alle scosse, ella per poco non precipitò sul pianerottolo, per l'urto. A dirupo discese la scala esterna, ma sull'ultimo scalino trovò l'oste, che aveva udito tutto quel rumore e che era pallido nel suo volto raggrinzito di contadino. Costui le sbarrò il passo: - Dove andate? - Lasciatemi! - Dove andate? Siete pazza? - Lasciatemi Egli le aveva afferrati i polsi e la guardava negli occhi: - Siete voi la femmina per cui si vonno ammazzare, eh? - Madonna, assistimi! Lasciatemi! - Vi volete fare uccidere? - Sì, sì, lasciatemi! - Volete che vi uccidano! - Non importa! - gridò lei, svincolandosi con una strappata possente. E correndo, affannando, singhiozzando, coi capelli disciolti sulla nuca che le sferzavano il collo, con la veste che le sbatteva intorno alle gambe, inciampando, rialzandosi, piangendo, empiendo quella serenità silenziosa campestre della sua disperazione, ella corse dietro alle due comitive, per la stessa via, voltando dietro la stessa collina di alberi verdi trovandosi in una stretta via di campagna, seguendola per istinto, comprendendo che quella era da seguirsi. Andava, andava, velocissimamente, scoppiando di singulti, tendendo l'orecchio, interrogando il silenzio. Ma a dritta, un rumore secco e stridulo la fece sussultare; e subito dopo un colpo di rivoltella si udì, seguito da altri. Ella si buttò nel campo dove le due schiere dei popolani duellatori. continuavano a tirarsi dei colpi, a poca distanza. Buttandosi addosso a Raffaele, ella urlò disperatamente. - Vattene, - disse lui, cercando di sciogliersi. - No, - urlò lei. - Vattene! - No. - Non è per te, vattene! - Non importa! Questo, in un minuto secondo: i colpi continuavano ancora, ripercuotendosi lugubremente nella campagna. In un intervallo, ella scivolò lentamente, per terra, con le braccia aperte, con una palla nella tempia. La caduta di Carmela fu il segnale della fuga: tanto più che, violato brutalmente il gran silenzio verginale della campagna dai molti colpi di rivoltella, si udiva adesso arrivar gente dal villagio di Capodimonte, dalla via dei Ponti Rossi. Precipitosamente, le due schiere si dettero, a traverso i campi, per vie non tracciate e sparvero subito; sul campo del dichiaramento on restò, per terra, versando un rivolo di sangue dalla tempia, che Carmela. Accanto a lei, Raffaele, un po' pallido, cercava stagnare la ferita, applicandovi un fazzoletto bagnato; ma il sangue continuava a sgorgare, come da una fontanella, gorgogliando, facendo una rossa macchia intorno al capo della fanciulla. Ella aprì gli occhi e chiese, fiocamente: - Dimmi per chi è stato. - Non ci pensare, pensa alla salute, - disse lui, agitato, guardandosi intorno. - Adesso viene gente: scappa, - diss'ella, intendendo, pensando solo alla salvazione di lui. - Ti lascio così?… - Non importa, qualcuno mi aiuterà. Scappa, o ti arrestano. - Addio, - disse lui, sollevato. - Ci vediamo all'ospedale dei Pellegrini: ti vengo a trovare. - Sì, sì, - mormorò lei, chiudendo gli occhi e riaprendoli. - Scappa: addio. Anch'egli fuggì, lestissimamente, senza voltarsi indietro; ella lo seguì con lo sguardo, mentre, sollevata a metà, si appoggiava il fazzoletto alla tempia e il sangue seguitava a colare nel collo, sulla spalla, in grembo. Era sola. Abbassava la testa, in una debolezza infinita; e quando arrivarono contemporaneamente dei contadini, il delegato di Capodimonte, due guardie, un carabiniere e un ortolano del Real Palazzo, dovettero sollevarla sopra una sedia, che l'oste Babbasone veva portata, là. Andavano lentamente, per la stessa via per cui ella era venuta, mentre ella giaceva, con le gambe battenti ai piuoli, con le braccia prosciolte, e il capo che le batteva qua e là, a ogni scossa della seggiola, versando larghe stille di sangue sul terreno. Innanzi alla osteria, dove ancora le due tavole erano coperte dalle tovaglie chiazzate di vino, la sedia fu posata: - Volete qualche cosa? - domandò il delegato, un uomo tarchiato e bruno. - Un poco d'acqua, per bere, - ella disse, schiudendo gli occhi lentamente, come se anche le palpebre le pesassero. Intanto, mentre si cercava una carrozza per trasportarla all'ospedale dei Pellegrini, le applicavano delle pezze bagnate nell'acqua fredda, sulla ferita. - Come state? - domandò il delegato, che voleva procedere all'interrogatorio, vedendo che le forze le mancavano. - Meglio: non è niente. - Chi vi ha fatto questo? - Nessuno, - diss'ella, quietamente. - Chi vi ha fatto questo? Ditelo, tanto lo sapremo lo stesso, - insistette il delegato. - Nessuno, - mormorò Carmela. - Era un dichiaramento, h? Quanti erano? - chiese con forza il delegato, il cui cuore era indurito, ormai. - Non lo so. - Quanti erano? - Non so niente. - Badate che, dopo, vi fo metter dentro! - Non importa, - ella disse, chiudendo gli occhi. - Era per voi, eh, che si sono tirati questi colpi di rivoltella? Per causa vostra? - No, no, - disse ella, dolorando nel volto improvvisamente. - E per chi era? - Non lo so: non so niente, - ella soggiunse, definitivamente, come se non volesse rispondere più altro. Il delegato si strinse nelle spalle, furioso. Ma un altro interlocutore giunse, dalla via dei Ponti Rossi: una donna dal vestito di lana verde tutto orlato color di rosa e dalla baschina di lanetta color granata, dai capelli neri lucidi tirati su, su, e dalle guance cariche di rossetto: era Maddalena, la disgraziata sorella di Carmela. Ella giungeva, affannata, con la fisonomia stravolta, con la pettinessa d'argento che non le reggeva più il cumulo dei neri capelli, con le scarpette di copale tutte impolverate, con un fazzoletto appoggiato alla bocca per reprimere i singulti: e quando vide folla intorno a una persona ferita, si buttò nel gruppo, disperatamente, gridando, scostando le persone, gittandosi alle ginocchia di sua sorella, avendo in quel gesto tutto l'abbandono di un dolore immenso, strillando: - Sorella mia, sorella mia, e come è stato? L'altra aprì gli occhi e mostrò sulla faccia un senso di doloroso stupore: con le deboli mani cercava carezzare i capelli neri di Maddalena, ma le dita livide tremavano: - Come è stato, sorella mia! - esclamava singhiozzando clamorosamente Maddalena, mentre calde lacrime le rigavano le guance e le disfacevano il rossetto. - Così, è stato, - disse Carmela, senz'altro. - Sorella mia, e chi ha avuto il coraggio di farti questo, chi è stato l'assassino, dove sta, dove sta, portatemelo avanti?! - gridava Maddalena. - Cercate di sapere la verità, - sussurrò all'orecchio della mala donna il delegato. E fece cenno agli altri di scostarsi un poco, di lasciare le due sorelle, sole. Ora avevano fasciata la testa della fanciulla, rozzamente, e sotto quella benda il viso sembrava più minuto, più consunto, affilato da una mano diminuitrice. - Sorella mia bella, sorella mia cara, - piangeva Maddalena, sempre inginocchiata, innanzi a Carmela. - Non piangere: perché piangi? - diceva la ferita, con una voce singolare, grave, profonda. - Dimmi chi è stato, - le chiese Maddalena. - È stato per Raffaele, non è vero? Ci è stata una rissa? Ah io lo sapeva, io lo sapeva, e non sono arrivata a tempo! Eh Madonna, Madonna, che non mi hai fatto arrivare a tempo! E debbo per questo vedere una sorella così ridotta! Un lividore si era cosparso sulla faccia della ferita, udendo queste parole, e gli occhi si erano sbarrati. Con un forte sforzo levò un po' la testa e disse a Maddalena, guardandola: - Dimmi la verità… - Che vuoi, core della sorella? - Voglio che mi dici… ma pensa come mi vedi, prima, pensaci… voglio che mi dici tutto… Allora l'altra, caduta in una nuova afflizione, tremò tutta: e tacque. - Hanno fatto un dichiaramento, - pronunziò a stento Carmela, tenendo gli occhi intenti in sua sorella. - Erano otto, erano: e ci stava Raffaele, ci stava Ferdinando l' ammartenato: l'hanno fatto per una femmina… - Madonna mia, Madonna, - seguitava a piangere Maddalena, con la faccia fra le mani. - Chi è questa femmina? - disse la ferita, mettendo le mani sul capo della sorella e quasi forzandola a levare il volto. Quella non fece che guardarla, con gli occhi pieni di lacrime. - Sei tu, sei tu? - disse con voce cavernosa la ferita. E la mala donna si ributtò indietro, levò le braccia al cielo e gridò: - Sono un'assassina, sono un'assassina! Il volto di Carmela si fece terreo; sottovoce, borbottando, come se più la lingua non l'aiutasse, diceva anche lei: - Assassina, assassina. - Hai ragione, hai ragione, sorella mia, sono una infame! - gridava Maddalena, torcendosi le braccia. Subito dopo, tutta la benda da cui era circondata la testa della ferita s'intrise di sangue, largamente: e cominciò a gocciolare sangue dal naso. Il delegato che era accorso, aggrottò le sopracciglia: e fece cenno alla carrozza, che si avanzava per trasportare la ferita all'ospedale dei Pellegrini, di fermarsi. - Sorella mia, perdonami, sorella mia cara, - piangeva Maddalena, stramazzata ai piedi della sedia. Ma quella non udiva più. Le rigava la bocca il sangue che le colava continuamente dal naso, e cadeva sul petto - e il terreo pallore del viso si allargava al collo; gli occhi socchiusi mostravano solamente il bianco, le mani appoggiate sulle ginocchia, raspavano la misera lanetta scura del vestito, come se cercassero, con quel gesto che fa una straziante impressione di terrore e di pietà. A un tratto schiuse la bocca, mancandole il respiro. - Sora mia, sora mia! - gridò Maddalena, comprendendo, levandosi sulle ginocchia, anelando. Ma dalla bocca, violetta già, uscì un altissimo e lunghissimo grido, profondo come strappato dalle viscere, straziante, doloroso come se in esso si unissero tutti i clamori di dolore di una vita, un grido così forte e lugubre che tutto parve si scotesse, intorno, uomini e cose, e che la campagna si scolorisse. La mano destra di Carmela, vagamente, cercò ancora qualche cosa e finì per trovare la testa di Maddalena, su cui si posò, su cui si raffreddò, su cui si gelò. Gelida era la fisonomia della morta: ma oramai tranquilla: e silenziosamente curva, sotto quella mano perdonante, la superstite: e tranquilla, silenziosa, la campagna, intorno.

. - Abbi pazienza, abbi pazienza, - diceva lei, allungando il passo sul selciato, per stare sempre vicino a lui, abbassando l'ombrello dalla sua parte, per non farlo troppo bagnare. - Ma non lo sai, che al bigliardo non ci devi venire? - le disse il giovanotto, con una collera repressa. - Io mi secco di far la figura del ragazzo, che lo vengono a prendere, alla scuola. Mi secco! - Abbi pazienza, non ho potuto resistere, - mormorò lei, bevendo le lacrime che le scendevano sulle guance e che non poteva asciugare. - Io ti lascio, quanto è vero il nome di Gesù, ti lascio! Hai il difetto di tua sorella, tu: stracciata che mi faceva schifo, mi veniva a cercare, dovunque, per farmi burlare dai miei amici. L'ho lasciata per questo, capisci? - Povera sorella mia, - mormorò lei, lamentandosi. - Tu non sei stracciata, tu: ma mi fai scorno lo stesso, capisci? - Capisco. - Se no, ti lascio come ho lasciato Carmela: sono un giovanotto d'onore, hai capito? - Ho capito. - E non ci venir più. - Non ci verrò più. Continuavano ancora questo dialogo, egli furioso della perdita al giuoco dello zecchinetto, della rissa coi compagni e della mancanza di denaro, ella, contrita, sentendo che quei maltrattamenti erano la giusta punizione del tradimento fatto a sua sorella: tanto che, mentre egli mordeva, nell'angolo delle labbra, il suo mozzicone spento e seguitava a malmenarla, rinfacciandole la sua infelice esistenza, vilipendendola con ogni ingiuria, ella andava accanto a lui, pallida, poiché tutto il rossetto si era dileguato sotto la pioggia, con la camiciuola intrisa di acqua che le si attaccava alle spalle e i capelli che le s'incollavano sulla fronte, andava, abbassando maternamente l'ombrello dalla sua parte, sopportando l'insulto, ebbra di dolore e di pentimento, ripetendo macchinalmente: - È poco, è poco… Lassù, tutti quelli che erano entrati nel portoncino a mano destra di via Nardones, erano saliti per una scaletta di un piano solo, dirimpetto alla scala principale, un po' più grande: erano entrati in un quartierino di due stanzette che si affittavano per uso di studio, ome diceva il padrone di casa, visto che non vi era cucina. Ma le due stanzette erano così basse di soffitto e così scarsamente illuminate da due finestrelle, erano così freddi i pavimenti dai mattoni rossastri, così sporche le carte da parati e così unta la vernice delle porte e delle finestre, che nessun meschinissimo notaio, o avvocato povero, o medico senza clienti, o commerciante di loschi affari, vi restava più di un mese. Il ciabattino che serviva da portiere e gli abitanti che passavano dalla scala grande, erano dunque abituati a veder salire e scendere continuamente visi nuovi, giovani e vecchi, uscieri e mezzani d'affari, una sfilata di persone dalle facce scialbe e dagli equivoci sguardi. Chi si occupava delle persone colà abitanti? Nessuno, neppure il portiere che non aveva stipendio dagli inquilini del quartierino, e che non si curava, quindi, dei cambiamenti di affittuario. Sulla scala principale abitavano persone affaccendate, affittacamere, maestri di calligrafia, un dentista di terz'ordine, una levatrice e altra gente curiosa, bizzarra, che saliva e scendeva, presa dai suoi interessi, dai suoi affari, dalla sua decente miseria, o dalla sua inutile corruzione: gente che badava poco al vicinato, tanto che lo studio empre in preda a un nuovo inquilino, o deserto di abitanti si potea dire isolato. Il cartello si loca i stava, sul portone, tutto l'anno: tanto non era possibile trovare un affittuario ad anno, e ogni mese si era alle stesse. Quando il quartierino era affittato, allora la chiave, all'imbrunire, la portava via l'inquilino: quando era vacante, il ciabattino la teneva sul suo banchetto, e, assentandosi, la consegnava alla carbonaia dirimpetto. La scaletta del quartierino era qua e là, sbocconcellata: lubrica e pericolosa per chi non avesse buone gambe e buoni occhi. Adesso, in quell'agosto, da un paio di mesi, la casetta era stata presa in affitto da un signore giovane, decentemente vestito, come un provinciale quasi elegante, grasso, grosso, con un collo taurino, e una faccia dove il rosso del pelo si mescolava al rosso della carnagione, dandogli una fisonomia scoppiante di sangue. Così lo studio i iapriva ogni tanto nella settimana, per qualche ora, e due o tre persone vi venivano, talvolta di più. Scomparse nella scaletta, non si udiva più nulla, nulla appariva dietro gli sporchi vetri delle finestre: solo, dopo qualche ora, quelle persone ricomparivano, ad una ad una, alcune rosse in viso come se avessero lungamente gridato, altre pallide come se le divorasse una collera repressa. Sparivano, ognuna per la sua strada, talvolta senza che le vedesse neppure il portinaio. Ma in una sera della settimana, sempre la stessa, convenivano nello studio ette od otto uomini: una lampada a petrolio, sudicia, coperta da un paralume di carta verde, che poteva costare tre soldi, illuminava la stanzetta nuda e sporca: i soli mobili erano un tavolino greggio e otto o dieci sedie scompagnate. In quella sera il conciliabolo durava sino oltre la mezzanotte e spesso, sui vetri, si disegnava bizzarramente qualche ombra gesticolante, che qualche volta si appoggiava agli sportelli, guardando macchinalmente nella tetra oscurità del cortiletto, quasi vi vedesse le apparizioni del proprio spirito agitato; il ciabattino, stanco della sua dura giornata gittava una occhiata indifferente alle finestre del quartierino, le vedeva ancora illuminate e crollando le spalle se ne andava a dormire in uno stambugio, una specie di sottoscala. Il cortiletto restava al buio, il portone era socchiuso: ancora qualcuno andava e veniva, con precauzione, dalla cosidetta scala grande, qualche misterioso cliente notturno del dentista, qualche cliente frettoloso che veniva a chiamare la levatrice: e costoro schiudevano senza far rumore la porta, per andarsene. Era dopo la mezzanotte che gli ospiti del dottor Trifari se ne andavano dall'ammezzato, tutti insieme, silenziosi, accalcandosi uno dopo l'altro, per uscir via più presto. L'ultimo si tirava dietro la porta del quartierino, con un rumore di legno vecchio crocchiante. Le due stanzette, che componevano lo studio, icadevano nella loro solitudine, e per la città si perdevano coloro che avevano colà palpitato, nell'ansietà del loro sogno. Ma in quella triste serata, il povero ciabattino, febbricitante, sentendo nelle ossa il brivido della terzana e l'umidità dell'aria temporalesca, era andato a letto dall'imbrunire, lasciando aperto il portone, ravvolgendosi nella sdrucita coperta e nel cappotto lacero, che portava durante la giornata. Così, nello stordimento della febbre che gli era sopraggiunta e che gli metteva un macigno sul petto, egli intese lo scalpiccìo di coloro che salivano e scendevano, dalla scala grande e da quella dell'ammezzato, e due o tre volte gli parve che delle voci si levassero, dallo studio, ove oveuna delle finestre era aperta, mentre il vento sciroccale che portava la pioggia, ingolfandovisi, faceva vacillare la fiammella della lampada a petrolio. Sul pavimento dissestato del cortiletto, continuava a cadere la pioggia, coprendo qualunque altro rumore: a un certo punto, la finestra fu chiusa e non si udì più nulla. Poi, più tardi furon chiuse anche le imposte e tutto ricadde nell'ombra profonda. Pure, colà dentro erano raccolti degli uomini. E primo a giungere era stato Trifari, il padron di casa del quartierino: aveva acceso il lume ed era penetrato nella seconda stanza, ad accomodare certe cose, andando e venendo, col cappello un po' indietro sulla fronte: malgrado lo scirocco, per la prima volta, sulla faccia rossastra era scomparso il colore: e sulla fronte qualche gocciolina di sudore appariva. Ogni tanto si fermava, quasi si pentisse di quello che andava facendo o che andava pensando: ma si rianimava da quel momento di abbattimento, subito. E quando lo stridulo campanello dello studio innì la prima volta, il dottor Trifari ebbe un sussulto e stette incerto, quasi non osando di aprire. Pure, andò: e schiudendo solo a metà il battente, con precauzione, lasciò passare Colaneri che aveva una faccia assai torbida e tutte le spalle bagnate, poiché il piccolo e gramo ombrello gli riparava solo il capo. Scambiarono la buona sera, a voce bassa. L'ex-prete, dagli sguardi guardinghi dietro gli occhiali, si asciugava con un fazzoletto di dubbia bianchezza le mani bagnate, le mani grasse e floscie e biancastre, che sono speciali ai sacerdoti. Non si parlavano. Una medesima, complessa angoscia li opprimeva, tanto che la consueta verbosità meridionale ne era domata; e tutto l'eccitamento del passato, vinto da una serie di delusioni, pareva si fosse risoluto in un esaurimento di tutte le forze. A un tratto, levando il capo, Colaneri domandò: - Verrà? - Sì, - soffiò fra le labbra, il dottore. - Non ha sospetti? - Nessun sospetto. Una raffica di vento s'ingolfò nella stanza e fu per smorzare il lume, fu allora che Trifari andò a chiudere i vetri. - Tutto quello che facciamo, è necessario, - soggiunse il professor Colaneri, ripetendo ad alta voce la scusa, che andava ripetendo, da qualche giorno, alla sua coscienza. - È impossibile andare più innanzi, - osservò, con voce tetra, il dottore, mentre, per darsi un'aria di disinvoltura che non aveva, accendeva un sigaro, lungamente, lasciando spegnere i fiammiferi. - Il rapporto che hanno fatto contro di me al Ministero è terribile. - disse Colaneri, sottovoce, con gli occhi bassi. - Ho una quantità di nemici, giovanotti che ho riprovato agli esami, capisci. Mi hanno denunziato al preside del liceo, dicendogli che ho venduto il tema dell'esame a dieci studenti: hanno messo anche i nomi… - Come hanno potuto saper questo? - chiese il medico, lentamente. - Chissà! Ho tanti nemici… il preside ha fatto un orribile rapporto, io sono minacciato. - Di destituzione? - Non solo… di processo… - Eh, via! - Tanti nemici, Trifari, tanti! La minaccia è grave: come potrò provare la mia innocenza? - Li hai poi venduti, questi temi?… - borbottò cinicamente il dottore, buttando via il suo sigaro. - La paga è così meschina, Trifari ! E gli esami sono tutta una impostura! - Se ti fanno un processo, è male… - Sono perduto, se mi processano. Bisogna aver la fortuna in mano, questa volta, per forza, capisci? È necessario: se no, sono rovinato. Non mi resta che tirarmi un colpo di rivoltella, se mi processano. Dobbiamo vincere, Trifari! - Vinceremo, - affermò l'altro. - Io ho una quantità di guai, al mio paese e qui. Mio padre ha venduto tutto; mio fratello invece di tornare a casa. dopo aver fatto il soldato, per la miseria, si è arruolato come carabiniere; mia sorella non si marita più, non ha più un soldo, è ridotta a cucire i vestiti delle contadine ricche… Avevamo poco, io ho mangiato tutto… una quantità di debiti, di obbligazioni… Il padre di quello studente che firmò la cambiale a don Gennaro Parascandolo, vuole darmi querela per truffa… dobbiamo vincere, Colaneri, non possiamo più vivere una settimana senza vincere… io sono più rovinato di te… Suonarono pian piano. - È lui, forse! - domandò Colaneri, con un leggiero tremito nella voce. - No, no, - rispose Trifari. - Viene più tardi, quando ci saremo tutti… - Chi lo porta? - Cavalcanti. - Egli non ha sospetti, dunque? - No, niente. - E lo spirito, nulla gli dice? - Pare che lo spirito non si possa opporre alla fatalità, perché nulla gli dice. - Fatalità! fatalità! Suonarono nuovamente. Trifari andò ad aprire. Era l'avvocato Marzano, il vecchietto arzillo, bonario, sorridente. Ma una improvvisa decrepitezza parea che lo avesse assalito: il pallore del volto si era fatto giallastro, i mustacchi pepe e sale erano tutti bianchi e pioventi radi sulle labbra. Il sorriso era scomparso, come se per sempre, e all'approssimarsi della morte, fosse sparito dalla sua anima il criterio buono dell'esistenza. Entrando, sospirò. Era tutto bagnato; il soprabito luccicava di goccioline d'acqua, dovunque, e le scarne mani tremavano. Si sedette, silenzioso: tenne il cappello sul capo, abbassato sulle orecchie, e la bocca solamente conservava l'antica consuetudine di muoversi continuamente, masticando cifre. Adesso aveva appoggiato al bastone il mento aguzzo, dove una barba incolta cresceva, e si assorbiva nei suoi pensieri, senza neppur udire quello che dicevano fra loro Trifari e Colaneri. A un tratto, anche lui, avendo lo stesso pensiero dominante, domandò: - Verrà? - Verrà, sicuramente. - risposero insieme, gli altri due. - Non se lo immagina? - Non s'immagina niente. - Questi assistiti, vedono assai, o non vedono nulla. - Meglio così, - mormorarono gli altri due. Il dottor Trifari, udendo bussare alla porta, andò prima nella seconda stanza a prendere tre o quattro altre sedie e le collocò intorno al grezzo tavolino. Entrarono Ninetto Costa e don Crescenzo, il tenitore di Banco lotto, al vico del Nunzio. L'agente di cambio aveva perduto tutta la sua eleganza. Era vestito alla meglio, con un abito da mattino, su cui un troppo chiaro soprabitino aveva larghe chiazze di acqua: sulla cravatta di raso nera, era confitto uno spillo di strass. con l'eleganza era anche sparito il suo bel sorriso di uomo felice, che gli scopriva i denti bianchi. L'agente di cambio andava, a stento, di liquidazione in liquidazione, senz'arrischiarsi più, non osando più giuocare, avendo perduta tutta la sua audacia; e arrivando solamente a tenere a bada i suoi creditori, che gli avevan ancora fede, così, perché il suo nome era conosciuto in Borsa, perché suo padre era stato un modello d'integrità e perché egli stesso era stato così fortunato, che tutti ancora credevano alla sua fortuna; ma il disgraziato sapeva che era giunta l'ora della crisi, che non avrebbe potuto neppure pagare gli interessi dei suoi debiti, e che il nome di Ninetto Costa sarebbe stato quello di un fallito, fra poco. Oh, aveva smesso tutto, casa sontuosa, equipaggi, amanti di lusso, viaggi, pranzi e vestiti inglesi di Poole, ma tutto questo sacrificio non bastava, non bastava, poiché il cancro che gli rodeva il seno, il cancro che rodeva tutti, non era stato estirpato, poiché egli continuava disperatamente a giuocare al lotto, preso oramai totalmente, anima e corpo, chiudendo gli occhi in quella tempesta, per non veder venir l'onda che lo avrebbe sommerso. Accanto a lui, don Crescenzo, dalla bella faccia serena, dalla barba castana ben pettinata, aveva anche lui le tracce di una decadenza iniziale. A furia di stare a contatto coi febbricitanti, come chi tocca le mani troppo calde, qualche cosa gli si era attaccato: e innanzi alle disperate insistenze dei giuocatori, egli era arrivato a far credito ai giuocatori. In qual modo resistere alle supplichevoli domande di Ninetto Costa, alle pretese che nascondevano una vaga minaccia di Trifari e Colaneri, alle nobili promesse del marchese Cavalcanti, a quelle diverse forme di preghiere? Sul principio faceva loro credito dal venerdì al martedì mattina, giorno in cui preparava il versamento allo Stato, ed essi rinnovando ogni settimana il miracolo, arrivavano a restituirgli quello che gli dovevano, perché egli potesse essere puntuale, il mercoledì; ma alla lunga, esaurite le risorse, qualcuno di costoro cominciò a pagare una parte, o a non pagare niente: egli cominciò a rimetterci del suo, per non farsi sequestrare dallo Stato la cauzione. I giuocatori non osavano ricomparire che quando avevano di nuovo denaro, scontavano una parte del debito e il resto lo giuocavano: uno era addirittura sparito, il barone Lamarra, il figliuolo dello scalpellino, che era divenuto appaltatore e riccone. Gli doveva più di duemila lire, a don Crescenzo, il barone Lamarra, e quando costui lo ebbe aspettato, per due o tre settimane, andò a rincorrerlo a casa. Trovò la moglie, in uno stato di furore; il barone Lamarra aveva falsificato la firma di lei, sopra una quantità di cambiali, e ora le toccava pagare, se non voleva diventare la moglie di un falsario, doveva pagare, purtroppo, ma aveva già fatto domanda di separazione: il barone Lamarra se n'era fuggito a Isernia, donde non dava segno di vita. Don Crescenzo fu cacciato via, in malo modo. Duemila e più lire perdute! Giurò di non far più credito a nessuno: e malgrado che ogni tanto pagassero qualche somma, i suoi debitori, restavano sempre sette od ottomila lire arrischiate, con poca speranza di riaverle: ottomila lire, giusto la somma dei suoi risparmi di vari anni. D'altronde, non li poteva tormentare troppo, i suoi debitori; non avevano, oramai, che certe risorse disperate che saltavano fuori solamente innanzi all'ardente e scellerata volontà di giuocare. Ed era adesso lui che s'interessava vivamente al loro giuoco, che desiderava le loro vincite, per poter rientrare nelle sue economie, per riacquistare quel denaro messo così imprudentemente al servizio di quei viziosi, sorvegliando i giuocatori, perché non andassero a giuocare altrove, inquieto, ammalato, anche lui, oramai, al contatto di tanti infermi. Per questo, il misterioso disegno che si doveva compiere quella sera, gli era noto: non gli si poteva nascondere più nulla, tutti gli dovevano del denaro. E malgrado che una segreta amicizia, diremo quasi una complicità, lo unisse a don Pasqualino, l' assistito egli taceva sul misterioso disegno e il silenzio pareva un'approvazione. Erano già in cinque, nella stanzetta, seduti intorno alla tavola, in pose diverse di raccoglimento, anzi di preoccupazione: non parlavano, alcuni col capo abbassato, segnando ghirigori con le unghie sul greggio piano del tavolino, altri guardando il fumoso soffitto, dove la lampada a petrolio gittava un piccolo cerchio di luce. - A Roma si è pagato settecentomila lire - disse don Crescenzo, per ispezzare quel penoso silenzio. - Beati loro, beati loro! - gridarono due o tre, con un impeto d'invidia ai fortunati vincitori di Roma. - Se ciò che facciamo, riesce, - mormorò tetramente Colaneri, i cui occhiali avevano un triste scintillìo, - il governo paga a Napoli tre o quattro milioni. - Dobbiamo riuscire, - ribattè Ninetto Costa. - L'urna sarà comandata questa volta, - disse misticamente il vecchietto Marzano. Bussarono nuovamente, pian piano, come se una timidezza indebolisse la mano che bussava. Trifari disparve, ad aprire, dopo aver domandato, attraverso la porta, chi era, insospettito subitaneamente. Gli fu risposto amici riconobbe la voce. E i due popolani, Gaetano il tagliatore di guanti, Michele il lustrino, entrarono: si cavarono il berretto, augurando la buonasera: restarono sulla soglia della stanzetta, non osando sedere, innanzi a quei galantuomini. uori, infuriava lo scirocco e la pioggia: e una grondaia carica d'acqua traboccava nel cortiletto, con un forte scroscio. Adesso, sotto le impannate della finestra, dalla fessura, entrava un rivolo di acqua continuamente, bagnava il poggiuolo della finestra e colava a rivoletti sul terreno: gli ombrelli chiusi, ma sgangherati, appoggiati ai muri, negli angoli, colavano acqua sul pavimento impolverato, e, sotto le scarpe bagnate, si formava una poltiglia di fango: gli uomini seduti non si muovevano, in un immobilità grave, in un silenzio lugubre, quasi che stessero lì a vegliare un morto, colti dalla stanchezza, dall'oppressione, dai loro funebri pensieri. I due popolani, in piedi, uno scarno, scialbo, con le spalle curve di chi fa il mestiere di tagliatore, coi capelli già radi alla fronte e alle tempie, l'altro sciancato, gobbo, bistorto come un cavaturaccioli, vecchio e pur vivace nella faccia rugosa e arguta, i due popolani tacevano anche essi, aspettando. Solo Ninetto Costa, per darsi un qualunque aspetto di disinvoltura, aveva cavato un vecchio taccuino, residuo della sua antica eleganza, e vi scriveva delle cifre, con un piccolo lapis, bagnandone in bocca la matita. Ma erano cifre fantastiche: e la mano gli tremava un pochino: gli amici dicevano che erano gli eccessi dell'esistenza, che la facevano tremare. Così passarono una quindicina di minuti, minuti lunghi, lenti, gravi sulle anime di tutti coloro che aspettavano, per mettere a esecuzione il loro segreto progetto. - Che tempaccio! - disse Ninetto Costa, passando una mano sulla fronte. - Si è aperto il cielo - osservò don Crescenzo, sbadigliando nervosamente. - Dottore, che ora fate? - domandò il vecchio avvocato Marzano, con una vocetta tremolante di decrepitezza. - Sono le dieci meno cinque, - disse il dottore, cavando un brutto orologio di nichelio, di quelli che non si potevano impegnare, e che era raccomandato a un sordido laccetto nero. - Per che ora è l'appuntamento? - chiese Colaneri, fingendo l'indifferenza. - Sarebbe alle dieci, ma chi sa! - rispose il medico, abbassando la voce, imprimendo a quello che diceva, tutta la sua incertezza e tutto il suo dubbio. - Chissà! - disse Ninetto Costa, profondamente. E un lungo sospiro gli sollevò il petto, quasi non potesse resistere al peso che l'opprimeva. - Siete ammalato? - gli chiese Colaneri. - Vorrei esser morto, - borbottò l'agente di cambio, desolatamente. Qualcuno crollò il capo, sospirando: qualcuno annuì con l'espressione della faccia, e la dolorosa parola si allargò nella stanzetta umida e sudicia, sotto la lampada che fumicava, fra il rumore scrosciante del temporale. Poi, per un poco, la bufera estiva si venne calmando e si udirono le stille più rade battere sui cristalli della finestra, poi, di nuovo, un gran silenzio. E attraverso il muro, senza sapere donde venisse, come una voce lenta, ammonitrice, un grave orologio suonò le dieci ore, con rintocchi melanconici. I colpi erano spaziati e gittarono un dato di spavento, fra quella gente riunita là, a complottare non so quale truce proponimento. - Lo spirito! - disse don Crescenzo, tentando di scherzare. - Non scherziamo, - ammonì duramente Trifari, - qui si tratta di cose serie! - Nessuno vuole scherzare, - riprese Ninetto Costa, - tutti sappiamo quello che facciamo. - Qui non ci sono Giuda, non è vero? - disse il medico guardando intorno, tutti quanti. Vi fu un mormorìo di protesta; ma debole. No, nessuno di essi era un Giuda, né per loro vi era un Cristo, ma tutti sentivano, vagamente, così, nel fondo della loro febbre, che venivano a commettere un tradimento. - Non è Giuda nessuno, - gridò il medico, impetuoso. - Giuro a Dio che se vi è, farà la mala morte!… - Non giurate, non giurate, - disse il vecchio Marzano. impaurito. Bussarono alla porta. Tutti si guardarono in faccia, improvvisamente fatti pallidi e trepidanti, messi al cospetto della loro colpa. E come se dietro alla porta vi fosse un grave pericolo, nessuno si mosse ad aprire. - Ci sarà? - osò dire Colaneri, senza levar gli occhi. - Forse… - mormorò Costa, che girava convulsamente il taccuino fra le mani. E subito, tutti quanti disperarono che fuori la porta vi fosse l' assistito. a stessa ombra di feroce delusione stravolse i loro visi, che s'indurirono, nella crudeltà del malvagio che vede sfuggire la sua preda. E l'istinto di ferocia che dorme in fondo a tutti i cuori umani, sospinto dalla lunga passione mal soddisfatta, sviluppatosi in quella forma di delirio in cui li metteva il vizio, urgeva in tutti, nei giovani e nei vecchi, nei signori e nei popolani. Le facce erano chiuse e dure, impietrite nella ferocia, e fu con un atto energico che il dottor Trifari si avviò ad aprire. Per rassicurare l'assemblea, di là, che l' assistito ra venuto, lo salutò subito, ad alta voce, lui e il marchese Cavalcanti. - Buona sera, buona sera, marchese, - don Pasqualino, tutti vi aspettavano. E si mise da parte, per lasciarli entrare. Di là, respiravano con una gioia truce: non vi era più pericolo che l' l'assistito oro sfuggisse. E colui che parlava con gli spiriti ogni giorno e ogni notte, colui che aveva comunicazioni speciali di grazia con le anime errabonde, colui che doveva sapere tutte le verità, entrò quietamente nella stanzetta, dove erano i congregati, senza nulla supporre. Gittò, al solito, una obliqua occhiata intorno, ma le facce dei cabalisti non gli dissero niente di nuovo: avevano quel pallore, quello stravolgimento, quel febbrile turbamento consueto del venerdì sera, non altro. Solo il marchese Cavalcanti, accompagnandolo, due o tre volte era stato scosso da un brivido e quasi pareva avesse voluto tornare indietro. Ma il marchese era così nervoso, da tempo! Balbettava, parlando: e la sua nobile figura era oramai degradata dalle ignobili tracce della passione, mal vestito, disordinato, con le scarpe sporche e il solino sfilacciato, con la faccia dalla barba mal rasa, faceva ribrezzo e pietà. Era così nervoso, da che non trovava più denaro, da che la sua figliuola si era fidanzata col dottor Amati! L' assistito on ne poteva avere più denaro e lo fuggiva, vedendolo soltanto nelle riunioni dei venerdì sera, via Nardones: ma in quella settimana le relazioni erano ricominciate, il marchese cercava dovunque l' assistito, nella giornata gli aveva dato cinquanta lire, prendendo convegno, per la sera, alle dieci. Anzi, si era ostinato ansiosamente per questo convegno: e l' assistito 'aveva attribuito all'ardore dei giuocatori delusi per avere i numeri, il contegno del marchese, durante la strada, era stato dubbio: pure, don Pasqualino, abituato alle bizzarrie dei giuocatori, non vi aveva badato. E andò a sedersi al suo posto di ogni settimana, presso la tavola, mettendosi una mano sugli occhi, per ripararsi contro la fiammella della lampada a petrolio. Intorno era il silenzio in cui ogni tanto un sospiro si udiva: e guardando tutte quelle facce pallide, mute, ardenti, l' assistito bbe un primo, vaghissimo sospetto. E cercò di fare il suo solito lavoro fantastico d'ingarbugliamento: - Piove, ma il sole uscirà a mezzanotte. - Chiacchiere - gridò Trifari, scoppiando in una ironica risata. Gli altri, attorno, mormorarono, ghignando. Oramai, non ci credevano più, alle parole misteriose di don Pasqualino. E questa sfiducia risultò così chiaramente, che l' assistito i trasse indietro, come se volesse schermirsi da un attacco. Ma tentò di nuovo, credendo di poter profittare, come sempre, della immaginazione bollente di quei cabalisti, facendo stridere le corde capaci di dar suono: - Piove, il sole uscirà a mezzanotte: ma chi porta lo scapolare della Madonna, non si bagna. - Don Pasqualino, voi scherzate, - disse sarcasticamente il tagliatore di guanti. L' assistito li vibrò una occhiata collerica. - Senza che mi guardiate come se voleste mangiarmi, don Pasqualino: col permesso di questi bravi signori, voi volete burlarvi di noi…e noi non siamo gente da farci burlare. - Marchese, fate tacere questo stupido, - mormorò l' assistito, on un cenno di disprezzo. - Non tanto stupido, don Pasqualino, - disse Cavalcanti, reprimendo a stento la sua commozione. - Che volete dire, marchese? - chiese vivacemente con Pasqualino, levandosi da sedere e facendo per andarsene. Ma Trifari che non si era mai mosso dalle spalle dell' assistito, enza parlare, gli mise una mano sul braccio e lo costrinse a sedersi di nuovo. L' assistito iegò un minuto il capo sul petto, a meditare, e guardò obliquamente la porta. - Restate seduto, don Pasqualino, - disse lentamente Cavalcanti. - qui dobbiamo parlare a lungo. Una lieve espressione di angoscia passò sul volto di colui che evocava gli spiriti: e ancora una volta, guardando gli astanti, egli non vide che fisonomie dure, ansiose, indomabili nel desiderio del guadagno. Capiva, adesso, confusamente. - Gaetano, il tagliatore di guanti, non è uno stupido, quando dice che voi vi burlate di noi. Quello che ci state facendo, da tre anni a questa parte, pare una burla. Sono tre anni, capite, che voi ci andate ripetendo le cose più strampalate, con la scusa che ve le dice lo spirito: tre anni che ci fate giuocare l'osso del collo, con queste vostre strampalerie, e ognuno di noi, non solo non ha mai guadagnato niente, ma ha buttato la sua fortuna, dietro le vostre chiacchiere, ed è pieno di guai, alcuni dei quali irreparabili. Coscienza ne avete, don Pasqualino? Voi ci avete rovinati! - Rovinati, rovinati! - gridò un coro di voci straziate. Spesso, il parlatore con gli spiriti, aveva udito queste lamentazioni massime negli ultimi tempi: ma la fiducia era ricomparsa subito, negli animi dei suoi affiliati. Adesso, lo intendeva, non ci credevano più. Pure, nascondendo la sua paura, tentò di discutere. - Non è colpa mia, la fede vi manca. - Frottole! - gridò il vecchio, esasperato, mentre gli altri tumultuavano contro l' assistito, he ripeteva loro l'eterna ragione della delusione. - Frottole! Come, manca la fede a noi, che abbiamo creduto in voi, come si crede in Gesù Cristo? Manca la fede, quando, per premiarvi delle troppe parole che ci avete dette, vi abbiamo pagato profumatamente? Avete incassato migliaia di lire, in questi tre anni, non lo negate! Non abbiamo fede, noi che abbiamo fatto dire tridui, messe, orazioni, rosari, noi che ci siamo inginocchiati, ci siamo battuti il petto, chiedendo al Signore la grazia? Non abbiamo fede, quando la dobbiamo avere per forza, per forza, capite, altrimenti lo sperpero, lo sciupio del denaro, l'infelicità nostra e quella delle nostre famiglie, sarebbero altrettanti delitti?! Non abbiamo fede, quando voi siete stato il nostro dio, per tre anni, e ci avete ingannati, e non vi abbiamo detto niente e abbiamo seguitato a credere in voi, che ci avete tolto tutto, tutto? - Tutto ci avete tolto! - urlò l'assemblea. - Voi mi offendere, basta così, - disse risolutamente l' assistito, evandosi. - Io me ne vado, buona sera. - Voi non uscirete di qui! - urlò il marchese Cavalcanti, giunto al colmo del furore. - È vero che non uscirà di qui? - domandò all'assemblea dei cabalisti. - No, no, no! - urlò ferocemente la congrega di quei pazzi feroci. L' assistito veva compreso. Un mortale lividore gli covrì le guance pallide e scarne: lo sguardo smarrito errò intorno, a una ricerca disperata di fuga. Ma i truci cabalisti si erano levati e gli si erano stretti addosso in un breve cerchio: alcuni di loro erano pallidissimi, quasi reprimessero una forte emozione, altri erano rossi di collera. E negli occhi di tutti, l' assistito esse la medesima, implacabile crudeltà. - Io voglio andarmene, - disse lui, sottovoce, con quel tono roco, che dava tanta misteriosa attrazione alla sua voce. - Nessuno di noi vi vorrebbe trattenere, don Pasqualino, - rispose con ossequiosa ironia il marchese Cavalcanti, se non avessimo bisogno di voi. Se non ci date i numeri, di qua non uscite, - finì gridando, preso da un impeto di furore. - I numeri, i numeri, - fischiò la voce sottile di Colaneri. - Se no, non si esce! - strillò Ninetto Costa. - O i numeri, o qua dentro! - tuonò il dottore Trifari. - Sono finite le burlette, dateci i numeri, - disse, digrignando i denti, Gaetano, il tagliatore di guanti. - Don Pasqualino, persuadetevi che questi signori non vi lasciano andar via, se non date loro i numeri. Persuadetevi!… - osservò saviamente don Crescenzo, che volea fingere di essere disinteressato nella questione. - La settimana ventura… ve li prometto… ora non li ho…ve lo giuro sulla Madonna! - balbettò l' assistito, olgendo gli occhi al cielo, desolatamente. - Che settimana ventura! - urlarono tutti. - Deve esser stasera, o domattina, presto! - Non li ho, non li ho, - balbettò lui, nuovamente, crollando il capo. - Ce li dovete dare, a forza, - ruggì il marchese. - Non ne possiamo più. O vinciamo questa settimana, o siamo perduti, don Pasqualino. Abbastanza abbiamo atteso: vi abbiamo creduto troppo, ci avete trattati indegnamente. Lo spirito ve li dice i numeri veri voi li sapete; li avete saputi sempre; ma ci avete sempre burlati, raccontandoci delle sciocchezze. Non possiamo aspettare la settimana ventura: fino allora possiamo morire, o veder morire qualcuno o andar in galera. Questa sera o domattina: i numeri veri, apite? apite?- I veri, i veri! - fischiò Colaneri. - Non ci dite stupidaggini, non è più tempo! - gridò Ninetto Costa, al massimo della indignazione. Eppure, malgrado che si sentisse vinto e preso, in balia alla irragionevole passione di cui egli stesso aveva acceso le fiamme, l' assistito oleva combattere ancora. - Lo spirito non dà numeri per forza, - dichiarò lentamente. - Lo avete offeso, non mi parlerà più. - Bugie, bugie! - ribattè il marchese. - Centomila volte, ci avete detto che lo spirito vi obbedisce, che voi fate di lui quello che vi pare, che voi ne ottenere tutto: centomila volte, ci avete detto che l'urna dei novanta numeri è comandata. ite la verità, è meglio, ve lo assicuro, è meglio. Siete a un mal passo, don Pasqualino: lo spirito vi deve aiutare. La nostra pazienza è esaurita, sono esauriti i nostri denari e anche quelli degli altri: lo spirito vi deve are arei numeri. Allora egli tacque un poco, come se si concentrasse, e gli occhi gli si stravolsero, mostrando il bianco della cornea. Tutti lo guardavano, ma freddamente, abituati a questi suoi stralunamenti. - Fra breve fioriranno le camelie, - egli disse, a un tratto, tremando tutto. Ma nessuno dei cabalisti si commosse, a questa enunciazione mistica dei numeri. Il dottor Trifari, che portava sempre la chiave dei sogni n tasca, non cavò neppure lo sdrucito libro, per vedere camelie fiorite, che numero corrispondessero. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina, - ripetette, tremando sempre più, l' assistito. essuno si mosse. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina e sulla montagna, - replicò per la terza volta, tremando di ansietà, guardando in faccia i suoi persecutori. Una sghignazzata d'incredulità gli rispose. - Ma che volete da me? - gridò lui, con un singhiozzo di spavento. - I numeri veri, - disse freddamente Cavalcanti, - queste cose che ci dite, non le crediamo: cioè, per uno scrupolo, noi giuocheremo i numeri che rispondono alla montagna, alla Marina e alle camelie fiorite. Ma altri debbono essere i numeri veri: così aspettandoli, noi giuocheremo questi tre, ma vi terremo chiuso qua dentro. - Sino a quando? - chiese lui, precipitosamente. - Sino a quando i vostri numeri saranno usciti, - ribattè il marchese duramente. - Oh Dio!… - disse l' assistito, ian piano, come un soffio. - Capite, don Pasqualino, questi signori vogliono avere una garanzia e vi vogliono tenere in pegno, - spiegò don Crescenzo, il tenitore del Banco del lotto, volendo legittimare il sequestro. - E a voi che fa? Che fatica vi costa dire la verità? Se li avete tenuti in asso, finora, è il tempo di parlare sul serio, don Pasqualino: questi signori hanno ragione, e lo so io, di essere esasperati. Parlate, don Pasqualino, mandateci via contenti. Voi rimarrete qui fino a domani, alle cinque: e appena fatta l'estrazione, vi verremo a prendere, in carrozza, per una scampagnata. Su, su, fate quel che dovete fare. - Non posso - disse l' assistito, prendo le braccia. - Non mentire, voi potete e non volete; gli spiriti vi obbediscono, - disse Colaneri, scattando, in un impeto di furore. - Diteli questa sera, è meglio, è meglio per voi, - mormorò Gaetano, il tagliatore di guanti, con un malvagio tono di voce. - Levatevi questa preoccupazione, - consigliò fraternamente Ninetto Costa. - La verità, la verità, - balbettò il vecchio avvocato Marzano. - Non posso, - disse ancora l' assistito, guardando le finestre e le porte. Allora i cabalisti, a un cenno del marchese Cavalcanti, si riunirono nel vano della finestra: presso l' assistito, estò soltanto Trifari, dalla feroce faccia minacciosa, che gli aveva posta la mano grassa, corta, coperta di pelame rossiccio, sulla spalla. I cabalisti confabularono fra loro, a lungo: discutevano, in cerchio, tutte le teste riunite, parlandosi nel volto. Poi, decisi, ritornarono. - Questi signori dicono che sono fermi nella loro intenzione, anzi nel loro diritto di avere i numeri, dopo i tanti sacrificii che hanno fatti, - parlò, freddamente, il marchese Cavalcanti, - e che quindi don Pasqualino resterà qui, chiuso, sino a che non si sarà deciso di far paghi i nostri giusti desiderii. Di qui non si può andar via: d'altronde, il dottor Trifari, che non ha paura di niente, resterà in compagnia di don Pasqualino. Fare del chiasso sarebbe inutile, tanto i vicini non udrebbero; e se per caso don Pasqualino volesse ricorrere alle autorità per farsi ragione, noi teniamo pronta una querela di truffa, con testimoni e documenti, da mandare in carcere venti assistiti. meglio, dunque, chinare la testa, per questa volta, e cercare di scamparsi, dando i numeri veri. oi siamo fermi. Fino a che non avremo guadagnato, don Pasqualino non esce il dottor Trifari si sacrificherà a tenergli compagnia. In quell'altra stanza, vi è da dormire per due, e da mangiare per vari giorni. Fra questa notte e domani, uno di noi, per turno, verrà, ogni quattro ore, a vedere se don Pasqualino si è deciso. Speriamo che si decida presto. - Voi volete farmi morire, - disse l' assistito, on un'angelica rassegnazione. - Voi potete liberarvi, se volete. Vi auguriamo la buona nottata, - conchiuse, implacabile, il marchese Cavalcanti. E i sette sciagurati cabalisti passarono davanti all' assistito, ugurandogli sardonicamente la buona notte. L' assistito tava in piedi, presso la tavola, con una mano lievemente appoggiata sul piano del legno, con una espressione di stanchezza e di pena sulla faccia, guardando ora questo, ora quello dei cabalisti, come se li interrogasse, se alcun di loro fosse più pietoso. Ma le delusioni dolorose avevano indurito i cuori di quegli uomini: e l'esaltamento del loro spirito impediva loro d'intendere che commettevano una colpa. Passavano innanzi all' all'assistito, alutandolo, dicendogli una frase fredda a mo' di consolazione, senza veder la penosa espressione del suo volto, la supplica dei suoi occhi. - Buona notte, don Pasqualino: Dio v'illumini, - disse il vecchio avvocato Marzano, crollando il capo. - Chiediamo troppo a Dio, - rispose l' assistito, on una grande malinconia nella voce. - Buona notte: dormite tranquillo, - augurò ironicamente il tagliatore di guanti in cui tutto parea fosse diventato tagliente, la parola, la voce, la figura. - Così vi auguro, - rispose enigmaticamente l' assistito, bbassando le palpebre, a smorzare il lampo crudele di vendetta che gli era balenato negli occhi. - Buona notte, buona notte, don Pasqualino - mormorò Ninetto Costa, con un po' di rammarico, tanto la sua frivola natura si opponeva a quel dramma. - A rivederci presto. - E già! - mormorò l'uomo degli spiriti, con un lieve sogghigno. - Buona notte, - osò dire il lustrino Michele, che si era ficcato complice in quella congiura di signori, e che parea nobilitato da tanta compagnia. - buona notte e mantenetevi forte… L' assistito on gli rispose neppure, non si degnò neppure di abbassare lo sguardo sopra lo sciancato, appartenente a quel vile popolo cui anche egli apparteneva, e da cui non arrivava mai a cavar denaro. - Pasqualino, li volete dare, questi numeri certi? - domandò Colaneri, passandogli innanzi, sempre accanito. - Non li posso dare, così, violentato… - Voi scherzate, noi siamo tutti amici vostri, - squittì il professore. - Fate come credete, buona notte. - Buona notte: la Madonna vi accompagni, - mormorò l' assistito, iamente, aumentando l'intensità mistica della sua voce. - Caro don Pasqualino, via, un buon movimento, prima che andiamo via, - disse con una improvvisa bonomia il marchese Cavalcanti, - dateci i numeri certi e la vostra prigionia dura sino a domani, alle cinque. - Non so niente, - disse l' assistito, ardeggiando uno sguardo di odio sul marchese, poiché era stato il nobile signore a condurlo in quel mal passo. Essi si riunirono sotto la porta, per partire, per lasciarlo solo col dottor Trifari che andava e veniva dalla stanza accanto, pacificamente e freddamente, con quella gelida volontà che mettono i malfattori nati, nella esecuzione dei loro misfatti. L' assistito ino allora, salvo qualche ombra che gli era passata sul viso, lasciandovi la sua traccia di fastidio, di dolore, salvo un'umile espressione di preghiera che era nel suo sguardo, aveva dato segno di molto coraggio: ma quando vide che essi partivano, quando comprese che sarebbe rimasto solo, col dottor Trifari, per lunghe ore, per giorni, per settimane, forse, tutta la sua forza d'animo cadde, la viltà dell'uomo imprigionato sorse, ed egli, stendendo le braccia gridò: - Non ve ne andate, non ve ne andate! A quel grido straziato, gli uomini complici di quel carceramento si fermarono: e le loro facce di giustizieri violenti, furono coperte da un improvviso pallore. Fu quello il solo momento di tutta la tetra serata, in cui essi pensarono che dannavano a una pena atroce, una creatura umana, un cristiano, un uomo come loro, fu il solo momento in cui videro tutta l'entità di quello che commettevano, nella sua portata legale e morale. Ma il demone del giuoco aveva messo sede nella loro anima, impossessandosene completamente: e tutti quanti insieme, tornando indietro, circuirono l' assistito, omandandogli ancora i numeri, i numeri certi i veri numeri che egli conosceva e che fino allora non aveva voluto loro dare. E allora, soffocato dall'emozione, comprendendo di aver rivolta contro sé l'arma di cui sino allora li aveva feriti, colui che li aveva a poco a poco sommersi sotto le onde di un naufragio lento, colui che aveva preso il loro denaro e le loro anime, innanzi a quella insistente malnata ferocia che niente più poteva placare, innanzi a quel vero Spirito del Male, con cui, realmente, egli si era messo in comunicazione, l' assistito, igliaccamente, provò una immensa paura e si mise a singhiozzare come un fanciullo. Gli altri, interdetti, sconvolti, lo guardavano: ma più forte, più forte era il Demonio, di tutte le loro volontà riunite insieme. L'ora suprema della loro esistenza era giunta, pel vecchio e pel giovane, pel signore e per il plebeo, l'ora tragica in cui niuna cosa arriva a dissuadervi dalla tragedia. Udendo piangere come un bimbo quell'uomo che si asciugava le lagrime con un lurido e lacero fazzoletto, nessuno di loro provò pietà: tutti sentirono più ardente, più acre il desiderio di avere i numeri del lotto, per salvarsi dalle ruine che minacciavano le loro teste. Lo lasciarono che piangeva, vilmente, come uno sciocco pauroso: e a uno a uno, senza far rumore, uscirono lentamente da quella casa, che era diventata una prigione. Egli, pur continuando a singultare, tese l'orecchio: udì richiudere la porta, lugubremente, con quel rumore che si ripercuote nell'anima. Trifari, dietro la porta, andava mettendo catenacci e lucchetti, serrandosi dentro il carcere con il nuovo carcerato, senz'aver paura, né di lui come uomo, né degli spiriti che egli avrebbe potuto evocare. La faccia dal pelame rossastro, quando appariva nel giro luminoso della lampada a petrolio, aveva qualche cosa di animalesco, come crudeltà e come ostinazione nella crudeltà. E rientrando, il dottore aveva respirato di sollievo: si era guardato intorno, quasi che la partenza di tutti quei cabalisti, amici suoi, che lo avevano delegato a far da carceriere, gli fosse piaciuta. Adesso, ancora andava e veniva dalla stanza accanto, portando e riportando non so quali cose; poi rientrò, essendosi cambiato di vestito, avendo indossata una vecchia giacchetta, in cambio del soprabito. L' assistito eguiva con l'occhio tutte le mosse del suo carceriere, come tutti i prigionieri che studiano l'unica loro compagnia, con tutta la profondità dell'osservazione. A un certo punto avevano scambiato una occhiata fredda, dura, da carcerato ad aguzzino. - Volete fumare? - aveva chiesto il dottore, da un cantuccio della stanza. - Non fumo, - aveva risposto, cupo, l' assistito Non sedete? - aveva chiesto all' assistito, ottovoce. ottovoce.- Grazie, - aveva risposto costui, lasciandosi cadere sopra una seggiola. - Volete dormire? - No, grazie. Il dottore sedette allora anche lui, accanto alla tavola, mettendosi una mano sugli occhi, quasi a ripararsi dal lume. Silenzio profondo notturno. Fuori, anche la pioggia era cessata. Dentro, la lunga e tetra veglia cominciava.