Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbarbagliato

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Saggi di critica d'arte

261946
Cantalamessa, Giulio 1 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Qui par veramente che il Bagnacavallo, più che abbarbagliato dalle esteriorità raffaellesche, sia stato agitato e incalorito dallo spirito di lui; la qual cosa poi in altri termini vuol dire che, levato il pensiero ad un’alta e indefinita intonazione artistica, egli ha potuto rendere un abbastanza largo margine alla sua libertà individuale. Questi santi sono notevoli pel carattere semplice, austero e maestoso degl'insiemi, per la convenienza dei tipi, pel getto decoroso dei panni. Sono esseri che veramente vivono al disopra di noi; si sente di aver con essi un rapporto da inferiori a superiori; appaiono come nobile trasfigurazione dell’aspetto umano. E questo suggello di superiorità è mirabilmente secondato dal disegno largo quanto puro, dal colore sapientemente discreto, dalla ricchezza stessa dei tappeti e degli arazzi sui quali l’artista ha fatto posar le figure. Un po’róse dal tempo e non immuni dalla tabe dei ritocchi, esse tuttavia sono assai lontane dal mostrarsi a noi in quell’eccellenza che fruttò all’artista, nel suo tempo giustissima ammirazione.

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

656375
Boito, Camillo 1 occorrenze

Troviamo, per esempio, nel taccuino certi scarabocchi abbreviati, che a decifrarli occorre la scienza paleografica, in testa ai quali si legge: Io scrivo queste righe abbarbagliato dal sole caden- te Poi: "Il sole scende tra la Chiesa della Salute ed il Palazzo Ducale. Manda nell'acqua il suo risplendore di fuoco giallo, che prende una larga zona tra i lontani palazzi del Canal Grande e la Riva degli Schiavoni. Quando le barchette passano in quel giallo incandescente sfumano, come nelle fornaci di Murano i vetri che si fondono; quando entrano nel colore azzurro dell'acqua, i remi fanno ancora sgocciolare oro fuso. I piccoli vetri dei bastimenti ri- flettono scintillando i raggi del sole, e gli alberi dei vascelli stac- cano in luce d'oro sull'oltremare della laguna". E noi ci rammen- tiamo che quel tramonto, dal quale non potremmo cavare né un quadro decente, né un onesto periodo di novella, ci era parso me- morabile. Certo, conviene dubitare assai sulla bontà artistica di ciò che scuote ed esalta lo spirito dell'uomo, poiché alle volte la nostra boria, che è sempre desta, fa che si confonda la virtù comunissima della sensibilità nervosa con la osservazione veramente estetica. Siamo donnicciuole malaticcie e, appunto per questo, ci crediamo artisti; e codesta irritabilità delle fibre ci fa gonfiare come ranoc- chie in faccia alla natura. Del resto, quanti misteri nell'impulso all'idea nell'arte! Come l'in- gegno resta sovente soffocato da un grande spettacolo della natura, della bellezza umana, della vita sociale; come invece si rafforza e rassoda nella vista di certi niente, nel confronto di certe cosette in- sulse! Il lavoro delle molecole del pensiero è fatale e nello stesso tempo supremamente illogico: è tutto a molle che scattano senza un perché, a spirali che s'allungano e s'accorciano come il bau-bau dei bambini: con una leva da sollevare il mondo si al- za un granello di sabbia, con un granello di sabbia si crea un vorti- ce nel mare. Ma, senza uscire dall'arte, accade non di rado che una sensazione puramente ideale ritempri la mente ad un lavoro arti- stico sodo, il quale non ha con tale sensazione altro nesso che di un certo colore morale. Uno stato dell'anima tetro, prodotto da un caso triste, fa che il poeta immagini una storia nuova, sostanziosa, effettiva, che è triste. Ma codesta storia, con il seguirsi infinito delle transazioni e con la mutabilità rapidissima del cuore, può - chi lo sa? - diventare allegra. Allora chi ritrova più il primo impul- so? L'artista che si muti in critico può ritrovarlo forse; e una così fatta ricerca della genesi dell'idea sarebbe piena di ammaestra- menti filosofici e morali, ma vuota, com'è la filosofia e la morale, d'insegnamenti per l'arte. Il taccuino ci dà ancora queste righe sgorbiate una sera alla Birre- ria, un'ora appena dopo il nostro arrivo a Venezia: "Dovevo anda- re al Ponte del Sepolcro Era notte buia; tirava vento; alcu- ne grosse goccie di pioggia cadevano sul felse della gon- dola. Lo sportello e i finestrelli stavano aperti. Il fanaletto della mia propria barca, che m'era vicino a tre spanne, mi sembrava di- stante come un faro nel mare. Si traversò una parte del Gran Ca- nale, poi s'entrò in certi rivi stretti, dove a lunghe distanze le lan- terne mandavano la loro pallida striscia di luce sull'acqua agitata. Il gondoliere, incurvandosi, passava sotto l'arco dei ponti scuri. Sui gradini delle rive e sui basamenti delle case, certe macchie ne- re si muovevano lente, poi all'avvicinarsi della gondola davano un tonfo nell'acqua. Non mi raccapezzavo in mezzo a quei canali gobbi, storti, stretti, incassati fra le alte case. Guardavo se alla de- serta imboccatura di qualche viuzza ci fosse una scritta, e final- mente, fissando lettera per lettera, lessi in un angolo oscuro: Calle dei Morti. Il taccuino aggiunge: Peccato non essere pittore! L'esclamazione, sincera nel minuto in cui fu scritta, era assurda. Ciò che aveva mosso il nostro animo non si addiceva punto ai mezzi dell'arte, e, non ostante, quei grossi topi che dava- no un tonfo nell'acqua avrebbero potuto per un abile pennello di- ventare l'occasione morale di un dipinto terribile. Eppure Venezia, oltre l'occasione e l'impulso all'arte, dà anche i quadri belli e dipinti. Basterebbe che alla mente fosse concesso, più fortunata della macchina fotografica, serbare vivo il ricordo dei moti, delle espressioni, delle forme, della luce, delle tinte; ba- sterebbe che il pennello non togliesse nulla all'efficacia della me- moria, e il quadro riescirebbe in ogni sua parte perfetto. In nessuna città il fondo prospettico, il fondo naturale, i tipi, i vestimenti, le mezze nudità s'accordano con tanta armonia. La stessa indolenza veneziana contribuisce al vantaggio dell'arte. L'uomo affrettato, ne' suoi atti scomposti, ne' suoi gesti rapidi, nella sua indifferenza per le cose circostanti, è esteticamente brutto. Bello è invece l'uomo per il quale il tempo non è danaro; l'uomo che non ha anzi altro fine durante la più parte del giorno e della sera che di spendere le ore, e si muove piano; e s'atteggia, e ha l'agio di riflettere sul proprio volto le gioie e i dolori degli altri, le allegrezze e le melanconie della natura. Poi le piazze e le vie non sono traversate romorosamente da carrozze e da carri, che di- sperdono i crocchi, che cacciano la gente sui marciapiedi, che rompono barbaramente le dolcezze ineffabili del ciarlare e del pettegolare. Il cocchiere di fiacre sta lì stecchito a cassetta, non si può muovere, se vuole discorrere deve gridare e interrompersi ad ogni tratto; ma il barcaiuolo lega all'anello della riva la gondola e, aspettando al traghetto o sul Molo, si mette a sedere, si rizza, cammina, ragiona, guarda la passera che vola. Se lo scirocco, come dicono a Venezia, è cagione di tante belle cose, viva lo scirocco. Oh il sior Tonin Bonagrazia, gentiluomo di Torcello, con le sue storielle, che raccontava al popolo sulla riva degli Schiavoni, e il dito mignolo, che si metteva per vezzo smor- fiosamente all'angolo destro della bocca "morto pover'uomo!" oh il casotto dei vecchi Burattini, con Arlecchino e Pantalone e Co- lombina e siora Rosaura "dolce nella memoria!" oh le Sagre, con le ghirlande e i damaschi che ornavano finestre e botteghe, con le bande che suonavano, e gli stendardi che sventolavano, e la folla che si pigiava, e le frittelle di Zamaria de le fritole in quei grandi piatti di rame e d'ottone lucidi più dell'oro, calde, fumanti e olezzanti di un'olezzo divino "l'acquolina ci ritorna in bocca!". Il pittoresco Oriente ha lasciato la sua impronta, non solamente negli edifici, ma ben anco nell'indole veneziana e nell'amore dei bei colori. I funerali, che nelle città di terraferma coi neri carri mortuarii tirati da cavalli neri, condotti da necrofori neri e seguiti da gente nera, fanno parere il cielo nuvoloso anche quando è sere- no: i funerali a Venezia fanno splendere il sole anche tra la nebbia, tanto sono ridenti. Ci ricordiamo di una mattina nel cortile del Pa- lazzo ducale, che, stando all'alto della scala dei Giganti, vedemmo uscire dalla porta laterale della chiesa di San Marco e traversare fino al portico il quale riesce sul Molo una bara tutta coperta di fiori freschi. I becchini sfoggiavano le loro cappe rosse scarlatte; i sagrestani vestivano di pavonazzo, e non sappiamo quali Confra- ternite avessero mandato i loro rappresentanti verdi e turchini. Certi colossali ceri tutti dipinti erano portati con fatica da grossi uomini robusti. Alcuni monelli porgevano la mano sotto le candele per raccogliere nella palma le sgocciolature, mentre gli altri ra- schiavano sul lastrico le goccie di cera, piegandosi, dimenandosi in cento modi e sgattaiolando di qua e di là tra le gambe dei preti in camice, i quali davano loro ridendo qualche benevolo scapez- zone. Il fondo era riempiuto da vecchi bianchi poggiati sul basto- ne, da donne con bimbi che chiedevano l'elemosina, e finalmente dalle bigolanti sode Friulane tarchiate, che, interrompendo la loro fatica del tirar su l'acqua dal grande pozzo di bronzo del 1556 tutto fogliami a sirene, guardavano passare la processione, la quale dalla gaiezza del sole; che brillava vicino al fianco della chiesa, entrava disordinatamente nell'ombra cupa e si perdeva sotto il portico del Molo. Un altro dì a San Samuele, fuori della botteguccia di un intaglia- tore, avevano messo al sole una enorme cornice, di legno, scolpita a gonfi ricci barocchi ed a putti rotondi. Dall'altra parte della via, un po' in isghembo per avere la necessaria distanza, s'era piantato il fotografo con la sua macchina, e già aveva la testa sotto il pan- no, pronto a ricavare l'immagine della cornice. Nella calle, dove tutti questi apparecchi avevano prodotto un poco di ingombro, la gente guardava con faccia ansiosa, e qualcuno, per passare, dava degli spintoni alle donne, che brontolavano; e i garzoni legnaiuoli tiravano da parte quei ragazzacci, che in atto di comica prosopo- pea si piantavano di contro alla lente; e l'artista intagliatore, ap- poggiato con maestà allo stipite della bottega, pareva nella sua gran pancia assai contento di sé. Tutte le figure, illuminate ad ab- baglianti colpi di luce, staccavano Sul fondo della casa, che era come bagnato in un'ampia ombra trasparente e celestina. Bene ci ricordiamo pur troppo, che questo brioso quadro ci fu sciupato dal passaggio di tre uomini e di una carriuola chiusa. Il primo di que- gli uomini camminava lento lento e guardava a terra negli angoli con occhi torvi; magro, lungo; aveva la corda di un laccio in mano e portava non sappiamo più se un panciotto od un fazzoletto di color giallo stonato. Sul suo berretto si leggeva in grosse lettere Canicida parola che fa gelare il sangue. Né a Venezia mancano le novità dei tipi: marinai Indiani, di membra asciutte, coi muscoli snelli da tigre, giranti per le vie in- quieti come pantere in gabbia, e gli occhi sembrano buoni, ma di una bontà sospettosa e selvaggia; Giapponesi e Chinesi astuti, pla- cidi, pazienti, sorridenti e, anche in quella loro bassa condizione, filosofi e ironicamente orgogliosi della loro antica civiltà; Negri con il naso camuso e le labbra grosse, vestiti di bianco. Questi so- no i doni che, quanto all'arte, porta a Venezia la Peninsula- re: e la mattina, chi passeggia lungo la fondamenta delle Zattere può vedere, appoggiati al parapetto della coperta su quegli immensi Battelli a vapore, mentre, guardano la terra ed ascoltano le suonate degli organini, quegli uomini, i quali pensano ai loro paesi lontani: curiose mostre di altre razze e di altri costu- mi. I pittori, che volevano inviscerarsi Venezia, giravano, portando la loro cassetta ed il sedile a tre piedi, di qua e di là nelle stradic- ciuole deserte, con gli occhi intenti, come il medico che si vede innanzi un caso nuovo e gravissimo. Avevano dello stralunato; non ridevano, non parlavano: certo il loro polso doveva battere più lento, tanto la mente era concentrata. Lo studio del vero, qualun- que ne sia l'oggetto, ha qualcosa di ansioso e di avido: pare il so- gno di un avaro, che veda il proprio tesoro volargli via con l'ali per l'aria, e voglia corrergli dietro, e si senta de' pesi alle gambe, e non lo possa raggiungere. Pensare poi un vero così singolare e fanta- stico qual è Venezia, e in questo tempo nostro, nel quale non basta dipingere un ponte, una gondola, una stola da senatore od un cor- no da doge per ottenere il color locale Nel vero e nella storia i pittori di trenta, di vent'anni addietro si contentavano della buccia: quelli d'oggi vogliono il midollo. Cer- cano nelle cose il carattere si lambiccano per entrare nel- l'anima di una veduta prospettica, di una marina, di una figura: e a Venezia vogliono proprio l'anima veneziana. Il mezzo per espri- mere al di fuori quest'anima non conta. Non importa se la pennel- lata sia liscia o rugosa, disinvolta o faticata, larga o minuta, o, co- me faceva il Fortuny - povero Fortuny, morto di trentacinque anni, marito, padre felice, artista lieto e glorioso! - mezza strapazzata e mezza in miniatura. Non importa neanche se il colore sia succoso od asciutto, a colpi di sole o annuvolato: importa solamente che il cuore dell'artista, a forza di concentrare il suo fluido estetico, si metta in comunicazione con il cuore della cosa che imita, lo faccia parlare, e lo sveli o in tutto od anche solo in una piccola parte agli occhi degli altri. Nel vedere come uno dei migliori artisti d'Italia, un Romano, si travagliava, seduto dinanzi al cavalletto presso al Caffè Florian, tutti i giorni, per tante settimane, ricercando i misteri profondi della facciata di San Marco, del Campanile, della Fabbrica del- l'Orologio, e come, principiando e terminando religiosamente sul posto non un bozzetto, ma il quadro medesimo, confrontava tra i valori delle tinte e li paragonava con l'azzurro del cielo, si capiva bene come egli non intendesse a riprodurre sulla tela ciò che la fotografia porge materialmente e che centinaia di pittori ritrassero prima di lui, bensì volesse dare una sostanza corporea all'impres- sione tutta ideale, che la piazza di San Marco aveva suscitato in date condizioni di luce e in date circostanze sull'animo di lui pitto- re. Fare vivere e parlare i sassi è più difficile che non l'eccitare la eloquenza degli alberi, delle onde, delle bestie e dei corpi umani; ma oggi anche i pittori figuristi si compiacciono in questa anima- zione della prospettiva, la quale pareva dianzi ed era il genere più insulso e più freddo dell'arte. Ed in ciò, come in tante altre cose, è giovata la fotografia, poiché ha mutato lo scopo della pittura pro- spettica, che prima era la fedeltà materiale, e che ora è la fedeltà quasi a dire morale. Le navate, le absidi, le cappelle, le nicchie della chiesa di San Marco erano invase da decine di pittori, vecchi con la bella barba lunga e giovinotti di primo pelo: non mancavano sette od otto si- gnore. Tutti facevano le loro divozioni all'arte. Chi s'arrovellava nell'imitare le larghe vòlte a mosaico, cercando di seguirne via via tra i Santi allampanati e gli Angeli stecchiti, le tinte dell'oro, che secondo la luce, le ombre, le penombre, i riflessi mutano dal giallo al rosso, dal rosso al verde, dal verde al nero; chi s'era messo di- nanzi ai pulpiti bizantini e studiava il lustro dei marmi; chi si stil- lava il cervello nello scortare del pavimento a quadrelli, a formel- le, a pavoni, a mostri, a intrecci d'ogni maniera e ondulato come le acque calme del mare; chi nelle vesciche voleva trovare i toni cupi e misteriosi delle alte conche ai lati del coro, dove nel buio brilla qualche striscia di sole e luccica qualche macchia dorata; chi sen- tiva invece la pace maestosa e solenne del tempio; chi; non badan- do ad altro che allo sfarzo delle materie e delle forme, non ricor- dava che le pompe del passato; chi, ingenuo, intendeva alla sem- plicità candida e casta. Altri pittori s'erano, lungo il Canalazzo, nell'aperta laguna o nel- l'angolo remoto di qualche rio, accomodato il loro studiolo in bar- ca, e ad ogni gesto facevano dondolare il cavalletto. Altri si fer- mavano a coppie in certi campielli a ritrarre la vera di un pozzo, la punta di un alberello, che sbucava sopra un muricciuolo rosso, le finestre delle casupole, dalle quali, tenute in fuori con due lunghi bastoni, pendevano sulla fune la camicia cenciosa e la gon- nella bucata di qualche popolana, coi capelli arruffati e gli occhi curiosi, che guardava in giù canticchiando. Un celebre acquerellatore dipingeva intanto sulla carta il bel qua- dro della Processione dopo avere fatto uno studio così per- fetto della fondamenta col suo selciato sconnesso, delle ca- se coi loro pèrgoli del ponte storto che scorta, dei gradini della riva, verdastri lì dove l'acqua ora li bagna, ora li lascia a sec- co d'un verde arcimaledettissimo a trovare, del battello, delle pic- cole increspature del canale riflettenti tutti i colori della tavolozza, uno studio così perfetto che vale quasi più del dipinto. Ma se per mostrare agli altri ciò che si sente occorre tanto genio e così lungo studio, per vedere a Venezia con i propri occhi i quadri già fatti e vederli ammirabilissimi non occorre altro che avere un briciolo di fantasia. Mettetevi al basso di un ponte, alla riva di un canale, al- l'angolo di un campiello qualunque e, avendo un poco di pazienza, vedrete che nuove scene vi comporranno dinanzi questi tre ele- menti vivi dell'arte: i monelli, i barcaiuoli e le donne. I pittori non istudiano abbastanza la donna. Hanno visto per altro che i zendali, i domino bruni, le mascherine incipriate, le gentil- donne sensuali della scuola che sta per finire, figuravano la natura veneziana come i Piombi ed i Pozzi rappresentano la verità stori- ca. Non diciamo che così i Pozzi ed i Piombi, come le femmine cincischiate e leccate dei pittori vecchi - s'intende vecchi di questo secolo - sieno cose tutte bugiarde; ma le impressioni che un dab- ben uomo riceve nei sotterranei e sotto i tetti del Palazzo Ducale, toccando le gravi catene, contemplando la pietra, sulla quale il carnefice nel buio tagliava il capo dei condannati, e calpestando la soglia della porticina, da cui il corpo monco era gettato in barca per venire sepolto nel Canal dei Marrani, così fatte impressioni sono romanzesche e false, quando non vengono mitigate e rad- drizzate da una conoscenza più larga, più effettiva del vero. Di Venezia certi storici, facendosi complici dei poeti, e certi pittori, credendo di seguire, poverini! le tradizioni gloriose del passato, avevano costrutto in fantasia una città teatrale da gonfii drammi e da tetre ballate, dove i colori letterarii erano, come i colori pittori- ci, stridenti e stonati. Tra quegli artisti pesanti pareva una serena eccezione Natale Schiavoni, il quale i colmi seni e le spalle mor- bide delle sue mezze figure, che si somigliano tutte, sfumava nel vapor latteo, non senza una certa grazia pudicamente carnale. Ma i giovani d'oggi guardano invece, o vorrebbero almeno guardare dritti alla natura. C'è a Venezia due tipi femminili molto diversi: quello roseo e carnoso delle donne del Giorgione, delle Veneri di Tiziano, e l'al- tro bruno e magro, che i pittori non hanno ancora celebrato. Nel primo i capelli di un biondo rossastro, gli occhi del color del cielo o del mare, l'incarnato delle guance, il corallo delle labbra, le nevi del seno e tutte le altre qualità blande fanno della bellezza qualco- sa di placidamente materiale, dove la poesia sonnecchia. Il secon- do tipo ha il seno modesto, i capelli corvini, gli occhioni neri se- gnati sotto con due sfumature livide, le labbra strette, il naso leg- germente aquilino, e la carnagione scuretta sparsa di macchiettine verdastre. Se i denti sono candidi e regolari, cosa difficile a trova- re in Venezia, questo secondo tipo è potente. Ha in sé come una fiamma concentrata, che rende vivaci i gesti, la parola, gli sguardi, il sorriso. E ha un fondo di mestizia; e si lascia andare agli affetti con una sincerità scivolante, che toglie quasi alla passione il sapor di peccato. L'amore in Venezia nasce dalle ondette della laguna, dalle cadenze labbiali del tenero dialetto: non è più né spirituale, né sensuale: è fatale. E le donne camminano stupendamente. Forse - non lo sappiamo - l'andare grandioso e pittoresco delle popolane viene dagli scialli, che portano sulle spalle o sul capo, non puntati da spilli, ma tenuti fermi al petto con le mani, sicché i fianchi in quella fasciatura si disegnano netti; o forse viene dallo scendere i ponti, che obbliga la persona a tenersi un poco incurvata col seno innanzi e colle spalle indietro, mentre le sottane formano un bell'arco di strascico sui gradini; o forse viene dalla frequente necessità del camminare lenti nelle vie, o forse dal non portare il maledetto busto imprigio- natore del corpo, ond'è che le membra restano più libere, i movi- menti più sciolti, e le linee del torso girano più naturali su quelle delle anche. È singolare come la donna e l'uomo a Venezia paiano, tanto nel- l'aspetto quanto nell'animo, più naturali che non negli altri paesi, e pure più complessi. Sono lagrimatori e festivi, espansivi e mali- ziosi. Hanno molto dell'ingegno, qualcosa dello scetticismo ate- niese. Il sarcasmo sfiora ad ogni istante le loro labbra, ma senza livore, senza cattive intenzioni, così per indole o per giuoco; tanto che il forestiere è molto spesso impacciato nel conoscere se un Veneziano parli da senno o per burla. Il sarcasmo è una parte della loro saggezza e disgraziatamente della loro pigrizia. Si contentano di capire le cose al volo; quanto al farle è un altro paio di maniche. Per operare non bisogna dubitare; per non dubitare non bisogna vedere delle questioni tutti i lati ugualmente, e indovinarne troppo i vantaggi ed i danni. Molte sere, mentre splendevano le stelle e il vaporetto del Lido mandava il suo fischio, sentimmo cantare sulla Riva degli Schia- voni una canzone popolare, che ci sembra il ritratto di quella iro- nia veneziana, la quale si torce persino contro se stessa. In coda ad ogni quartina il ritornello serio, grave, bene armonizzato, diceva: Viva l'Italia e la libertà e a un tratto una sola voce nasale, fessa, stonata, interrompeva con un Ma secco, e ripigliava dopo una pausa: Se spera che i sassi Deventa paneti, Perché i povareti Se possa saziar. (Viva, ec... Ma!) Se spera che el caldo Principia in genaro E senza tabaro Poder caminar. (Viva, ec... Ma!) Se spera che adesso No nassa più tose, Perché le morose Se possa sposar. (Viva, ec... Ma!) Se spera, se spera Che el nostro Governo No deva in eterno Le tasse lassar. (Viva, ec... Ma!) Se spera, e sperando Ne capita l'ora De andar in malora Col nostro sperar. Coi barcaiuoli, come s'è detto per le donne, i pittori vecchi face- vano dei còsi rettorici, trasformando il gondoliere o in un rematore sentimentale, che aveva le grazie da ballerino di teatro, oppure in un pescatore Chioggiotto, che sembrava una specie di Masaniello o di can barbone. Nel vero i due tipi del barcaiuolo veneziano, quello di casada e quello di traghetto si dividono in molte varietà curiose, che noi abbiamo avuto la bella fortuna di contemplare a nostro agio durante un'adunanza della Società di Mutuo soccorso fra i servitori di barca, batellanti e traghet- tanti Credevamo di risalire i secoli, di trovarci per magia in un angolo della Sala del Gran Consiglio, e di ascoltare i discorsi dei vecchi patrizii, che parlavano anch'essi in dialetto e alla buona e brevi e succosi. Il buon senso pratico del popolo veneziano ci si rivelò intiero nelle discussioni di questi barcaiuoli, i quali, smessa per un poco l'ironia, ragionando di cose che importavano a tutti, diventavano uomini d'affari e calmi diplomatici. Vi era il Polentina cantore e chiosatore dell'Ariosto e del Tasso, con la sua barba nera brizzolata di bianco, la testa mezzo calva, la carnagione abbronzita, simile alla patina rossastra e scre- polata di un quadro antico. La sua faccia al primo aspetto ha qual- cosa di sinistro, quasi di truce, come alcuni ritratti del Tintoretto; poi, come in quei ritratti, a poco a poco dal moto delle labbra - le labbra nei ritratti del Tintoretto si muovono - e dall'umidore dello sguardo splende il raggio d'una bontà mansueta. Alle sue orecchie pendevano due anelli d'oro, dai quali pendevano alla loro volta due triangoletti pur d'oro, dondolanti a ogni gesto. C'era un vecchio di settant'anni, dritto; portava il pizzo bianco: oratore pieno di saggezza, ma di voce stentorea e di parola impe- tuosa. Raccontano che nel quarantotto pacificasse con un discorso Nicolotti e Castellani, le due fazioni di Venezia, che d'allora in poi, salvo i molti pettegolezzi e qualche scappellotto dopo le re- gate, vivono in santa pace. I volti da Carpaccio, sbarbati, col naso grosso, gli zigomi prominenti, il mento largo, si alternavano ai volti da VanDyck, pallidi, di barbetta rossigna, di occhi profondi e languidi, nel fronte meditabondi. La ruvidezza maschia e libera dei traghettanti contrastava con le livree a bottoni dorati, dei gondolieri aristocratici, ben rasi il volto. Non c'era, pur troppo! il gondoliere della Divina Comme- dia Antonio Maschio, che ha studiato il Convito il Volgare Eloquio la Vita Nuova tutto Dante, e conosce le opere sesquipedali de' suoi commentatori, e ha sul Poema una propria teoria, intorno alla quale tenne delle pubbliche conferenze e stampò dei libri; chiosatore dotto e sottile, parla in toscano con garbo: dovrebbe essere professore, membro di Accademie, cava- liere. Figlio di un biadaiuolo di Murano, in bottega andava frugan- do nella carta da far cartocci; gli piacevano più le righe corte che le lunghe e aveva letto così qualche sonetto del Petrarca e alcune ottave dell'Ariosto e del Tasso. Un dì gli caddero in mano i fogli staccati di tre canti del Purgatorio lesse e non capì nulla; corse da un vecchio prete dell'isola, che gli spiegò bene o male il grosso delle cose; vogò subito a Venezia a comperare con pochi soldi il Poema senza note. Allora il nostro barcaiuolo, inna- morandosi del mistero, esaltandosi in ciò che intendeva e ancora più in ciò che non intendeva, netto da ogni preoccupazione, s'andò creando nel cervello un concetto intiero della filosofia e della geo- grafia della Commedia ruminandolo da sé solo, finché gli venne regalato un commento, e poté un po' alla volta confrontare le proprie idee con le faticose ricerche degli eruditi. Nel sessantacinque voleva andare alle Feste dantesche di Firenze; ma non avendo il permesso della Polizia austriaca, camminò di soppiatto fino al Po, sperando di trovarvi una barca. Trova invece i gendarmi; si getta in fiume nudo, col suo fardello degli abiti sulle spalle e il volume di Dante; il fardello sprofonda, Dante sprofon- da; egli stesso, dopo sovrumani sforzi per toccare l'opposta riva, è lì lì per annegarsi; lo ripescano; lo riconsegnano agli Austriaci; è maltrattato, messo in prigione e dopo un pezzo, quando Dio volle, liberato. Il suo rammarico era questo solo, di non avere potuto as- sistere all'onoranza del suo Poeta. Oggi è alla Banca nazionale, gondoliere. Ma in quella adunanza, dove il Maschio dunque non c'era, dove- vano discutere, tra gli altri affari, la domanda di un socio fondato- re, il quale, mettendo innanzi i beneficii resi alla Società, chiedeva una gratificazione. Un bell'omone grande e grosso, col viso tondo tra il gioviale e il solenne - somigliava al maggiordomo della Cena di Paolo - chiede la parola e dice: "Far el ben e po domandar el compenso xe perder el dirito a la ri- conoscenza. Mi a quel sior ghe verzo la mia povara casa: el vegna a magnar, se el ga bisogno, e a bevar da mi; ma dei soldi de la So- cietà no sepol darghe un boro". Tutti consentirono nella opinione del buon uomo, votando coll'al- zare la mano, eccetto uno, che diceva di avere un reumatismo al braccio destro: "Ciò, parché non votistù? E se gavesse una dogia?". Allora il presidente, un signore in cappello a cilindro, molto pro- saico, pose in discussione l'indirizzo di non sappiamo quale So- cietà di operai, il quale puzzava di demagogia ed al quale bisogna- va rispondere. Un barcaiuolo si rizza, e discorre così: "Ghe xe dei intriganti che ne monta la testa a nualtri, tanto per far del ciasso e per pescar nel torbio. I fa finta de credar che brusando le fabriche i operai ghe guadagni, e rovinando i altri i se faza si- gnori. No i rovina i paroni, e eli i more de fame. Ma sti intriganti no ga altro fin che quelo de condur el popolo a la miseria, a la di- sperazion; parché alora quel revolton, che i voria far de tuto e de tufi, deventaria più facile". Mentre l'oratore pronunciava queste parole il Polentina crollava il capo, scuotendo i suoi orecchini, e aggrottava le ciglia. Noi lo credevamo un comunista arrabbiato. Domanda la parola, e grida: "El dise ben: paroni e operati xe tuti una famegia". Insomma, poveri i Veneziani, che devono abitare a Venezia! La consuetudine li ha da far quasi ciechi a tante gioie dell'intelletto e della vista, a tante disinteressate emozioni del cuore. Il loro orec- chio non bada più, è vero, alle terribili oscenità ed alle laide be- stemmie, che barcaiuoli, monelli, donne del popolo pronunciano ad ogni frase, discorrendo placidamente fra loro; non bada alle particole, di cui la gente abbastanza civile infiora così per vezzo ogni periodetto delle proprie ciarle. Ma i loro occhi non si fermano forse più a un fregio bisantino, a un intrecciamento arabo, ad una nuvola riflessa nelle onde, alla macchia rossastra di un muro in ro- vina od ai rappezzi e tacconi di un bel putto biondo, magretto e mezzo nudo, che porge sorridendo la mano per domandare uno scheo Può restar loro la voglia sotto i portici delle Procu- ratie nuove, in faccia alle Procuratie vecchie e avendo alla destra il palazzo dei Dogi, di compiacersi in quelle ciance, delle quali cin- quecent'anni addietro si lagnava messer Francesco Petrarca. Il cantore di Laura si scagliò contro "la troppa libertà del parlare, per la quale in Venezia, più che in altro luogo qualunque, gli uomini onesti dagli infami, i dotti dagli ignoranti, i forti dai vili, i buoni dai malvagi sono impunemente vituperati". Si vede che il pette- golezzo non è cosa recente su questa terra mortale. E il Petrarca aveva amato con fervore Venezia: le aveva regalato una preziosa parte de' suoi libri; s'era molto compiaciuto che nelle feste per la vittoria di Candia il Doge l'avesse fatto sedere alla sua destra in cospetto di tutto il popolo, sulla loggia che sovrasta alla porta maggiore della basilica di San Marco; aveva invitato a tornare ospite suo nel suo palazzo della Riva degli Schiavoni, messer Giovanni Boccaccio, scrivendogli: "Tu conosci per prova quanto soavi e dolci riescano le notturne passeggiate sul mare". Anche il fiero Dante fu allettato dalla vaghezza della sin- golare città. Se non restasse una sua epistola a Guido da Polenta, si direbbe ch'egli non avesse guardato in Venezia ad altro che all' arzaná, dove bolle la tenace pece da lui in tre terzine dipinto; ma, dopo aver raccontato a Guido, del quale era in quei di amba- sciatore presso i Veneziani, che in faccia al Consiglio, poiché ebbe principiato la sua orazione in latino, gli fu mandato a dire "che cercasse di alcuno interprete o che mutasse favella" ond'egli mez- zo tra stordito e sdegnato cominciò a parlare in italiano, e capiva- no poco anche di questo; dopo avere notato che non si maraviglia- va di tanta ignoranza e accennato ai "vituperosissimi costumi dei Veneziani ed al fango della loro sfrenata lascivia", chiude l'epi- stola col dire: "Mi fermerò qui pochi giorni per pascere gli occhi corporali naturalmente ingordi della novità e vaghezza di questo sito". Dante dovette parere a quegli astuti e pieghevoli senatori un ambasciatore disgraziatissimo: rigido, impaziente, altero, dispetto- so. E di tale cattiva impressione da lui prodotta sul Consiglio, s'ac- corse certo il poeta fiorentino, e il suo malumore lo fece abbonda- re nelle accuse non giuste. Si può prestare più fede ad un placido ed imparziale francese, Michele di Montaigne, che andò a Venezia nel 1580, quando vi dipingeva Paolo e il Tintoretto e vi scolpiva Alessandro Vittoria. Veronica Franco, la famosa cortigiana poetessa, gli mandò a re- galare un suo volume di Lettere Egli diede due scudi al messo; ma è gran peccato che non ne dica di più. Nelle donne non trovò "cette fameuse beauté qu'on attribue au Dames de Venise"; e pur vide "les plus nobles de celles qui en font traficque", nelle quali più che d'ogni altra cosa si maraviglia in quella sua vecchia ortografia: "d'en voir un tel nombre faisant une dépense en meu- bles et vestemans de princesses". I broccati, i damaschi, il bisso, la porpora, i pizzi, i merletti, le stoffe d'oro e d'argento, i velluti, le sete, le perle, le pietre prezio- se, ogni splendore, ogni fasto della vita mondana aveva la sua in- fluenza sull'indole dell'arte. L'amore delle tinte vivaci era antico nei Veneziani: già prima del XII secolo il loro colore favorito fu nelle vesti il turchino, tanto che i Romani dicevano Turchi- no per Veneto E l'arte bisantina e l'arte araba e l'arte moresca e l'arte tedesca e l'arte fiamminga si diedero convegno nella città delle lagune per compiere l'orgia del bello. I gastaldi delle Arti avevano un bel decretare, che nessuno potesse vendere quadri, fuorché quelli "che avranno zurado l'arte, intendendo che loro sia habitatori de Venetia et a loro sia licito vender ne le loro botteghe et non in altro luogo"; quella che il Montaigne chiama la presse des peuples etrangers vinceva coteste paurose esclusioni. Lo Shakespeare fa dire ad un mercante Veneziano, che, soffiando sul brodo della zuppa per raffreddarla, egli pensa alle sue navi, volanti in tutti i mari con le loro ali di tela. E mentre i Veneziani si spandevano così nel mondo conosciuto, gli stranieri si concentravano in Venezia. Nel 1505 il Senato fece ricostruire il Fondaco dei Tedeschi da un Girolamo tedesco. Questo eclettismo, questo sensualismo, questo splendore dell'arte veneziana e nello stesso tempo questo suo carattere eminente- mente veneziano, spiegano la sua straordinaria forza affascinatri- ce. È una ghirlanda di fiori olezzanti; è una collana di pietre pre- ziose. E una cosa lasciva e imponente.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675742
Garibaldi, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Un naso Romano divideva due occhi azzurri che avrebbero abbarbagliato un leone: benché coperte il contorno delle spalle era mirabile e mostravano di appartenere a tale che non sarebbe stato facile insultare impunemente. L’attitudine, il contegno della persona apparivano imponenti, e lo scultore spesso dovette aver ricorso a quel mendico quando volle inspirarsi ad un atteggiamento eroico.

Fu ventura per Muzio che la ricchezza della preda avesse abbarbagliato i ladri a tal che, dopo quella conversazione del prete colla strega sul conto suo, non ne fecero più caso ed egli rimase in un canto dimenticato come uno straccio, piangendo dalla fame e dal freddo. Siccio, l’onesto Siccio, non lo dimenticò. Pratico della casa profittò della confusione dei depredatori, e col pretesto di andare per la roba sua menò seco Muzio in una stanza recondita di Roma ove egli aveva preso dimora. Gioverà sapere che il padre di Muzio era stato antiquario, e che nelle sue peregrinazioni fra i monumenti e le ruine aveva l’abitudine di condur seco Siccio. Egli dunque nelle escursioni col suo padrone erasi fatto pratico alquanto delie meraviglie di Roma e ciò gli valse per professare il ciceronismo nel presente suo stato di bisogno poiché, col carico del giovine, egli non avrebbe potuto più oltre stare a padrone. Come cicerone

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676005
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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