Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandono

Numero di risultati: 26 in 1 pagine

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La tecnica della pittura

254375
Previati, Gaetano 9 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
  • UNIFI
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Emerge da questo semplice riflesso la inattendibilità che le sole dette mende del processo a tempera fossero alimento al calore d’indagini degli artefici ai primordi del secolo XV obiettandosi ragionevolmente che se difficoltà d’indole puramente tecnica affliggevano l’uso della tempera, quelle specifiche del processo ad olio si mostravano già tali alla sua scoperta da determinarne l’immediato abbandono piuttosto che il rapido e generale suo diffondersi.

Pagina 80

Racconti 3

662760
Capuana, Luigi 3 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Nei primi mesi della nostra unione, era stata anzi gran delizia per me comunicarle i piú riposti pensieri, chiederle consigli, suggerimenti che mi rivelavano sempre piú squisite delicatezze d'animo, sempre piú fine penetrazioni d'intelligenza in ricambio del mio cordiale abbandono. Volevo cosí dimostrarle la mia profonda gratitudine per la gioia, la felicità, la nuova essenza di vita che ella era venuta a diffondere attorno a me, tanto da farmi credere divenuto un altro, quando mi accorgevo dell'agile sviluppo di alcune mie facoltà artistiche rimaste fin allora quasi latenti. E provavo un senso di mortificazione, se Delia, con delicata modestia, mi diceva: «Che bisogno hai tu di consultarmi? Tutto quel che tu fai lo giudicherò sempre ben fatto, anche quando gli altri potranno giudicarlo altrimenti». Non avevo dunque proprio niente da nasconderle. E intanto ora stimavo violato il sacro penetrale del mio pensiero, di cui prima le spalancavo a due battenti le porte. Una cupa irritazione mi invadeva a ogni nuova manifestazione della sua inevitabile chiaroveggenza e nello stesso tempo una viva indignazione per quello che, in certi momenti, mi sembrava atto di ingrato ribelle. Non avrei dovuto essere piuttosto felicissimo per l'assoluta compenetrazione delle nostre anime, della quale la chiaroveggenza di Delia era mirabile testimonianza? «No! - riflettevo subito. - Ella rimane chiusa, impenetrabile. Io, soltanto io, sono in sua compiuta balia!» Tentai di difendermi con lo stesso mezzo servito, involontariamente, a produrre l'incredibile fenomeno. Ma Delia non sentiva piú il mio influsso; era già piú forte di me. - Avresti dovuto ricorrere ad uno specialista - lo interruppe Blesio. - Un magnetizzatore di professione, probabilmente avrebbe domato quelle forze ancora non bene conosciute e che la tua malaccortezza aveva scatenate ... Ma, te ne prego, rimandiamo a qualche altro giorno questi dolorosi ricordi ... Nella foga del parlare, non ti accorgi che essi ti commovono fortemente. - Li ripenso quando non parlo; vale lo stesso. Lasciami proseguire - rispose Raimondo, stirandosi nervosamente i baffi e la barba. - Sopravvennero intanto alcuni mesi di sosta. Credei che la eccitazione nervosa da me provocata, si fosse finalmente esaurita, e che la cura consigliatami da un dottore consultato all'insaputa di Delia avesse realmente contribuito a fortificarne l'organismo. Era un po' dimagrita in quei mesi, e aveva perduto la vivace tinta che coloriva le sue guance di bruna con lieve sfumatura rosea. Soltanto lo splendore degli occhi era rimasto immutato. Vedendola rifiorire, non sospettando affatto che quella tregua potesse essere passeggera, avevo ripreso a lavorare alla statua La Giovinezza, quasi suggeritami da lei, un mattino di primavera, passeggiando insieme tra la splendida esplosione dei fiori delle aiuole che fiancheggiavano i brevi viali del nostro giardinetto. La Giovinezza, nella mia intenzione, doveva essere Delia trasformata in dea, idealizzata, se pure ci fosse stato bisogno d'idealizzare una figura che era, pei miei occhi, un'idealità artistica in atto. Il lavoro mi assorbiva talmente che le lunghe ore di quella giornata di estate sembravano insufficienti alla mia smania di condurre a termine la statua in brevissimo tempo. Delia veniva spesso a tenermi compagnia, seduta in un angolo, leggendo e ricamando zitta zitta per non distrarmi: ed io mi accorgevo della sua presenza soltanto nei momenti di riposo della modella. Mi accorgevo pure, con doloroso stupore, che mai Delia mi era parsa cosí lontana da me, come in quelle lunghe giornate che piú mi stava silenziosamente vicina. Eppure quella statua che mi si vivificava sotto la stecca e il pollice era la libera traduzione del bozzetto improvvisato con insolita rapidità mentre ella, che me n'aveva quasi suggerito l'idea, posava perché io fissassi nella creta il movimento delle linee della sua persona, cosí come l'immaginazione me la andava trasformando in fantasia d'arte. Una sera, tutt'a un tratto, Delia mi disse: «Ah, Raimondo! ... Tu stai per cessare di amarmi!» «Non pensare assurdità!» risposi bruscamente. «Tu però in quest'istante mentre neghi, pensi: "Oh, Dio, ella indovina!"» Tornai a negare: ma era vero. In quell'istante pensavo proprio: «Oh, Dio, ella indovina». «Come avvenga non so - riprese Delia. - C'è dentro di me o una anima nuova, o qualcosa che direi malia, se potessi credere alla malia. Strana malia, Raimondo; malefica malia che mi fa vedere quel che non vorrei vedere, che mi fa udire quel che non vorrei udire, quasi il tuo pensiero parli per me ad alta voce ... E sto in ascolto, da mesi, costretta, decisa di non dirti niente, di soffrire in silenzio perché mi sembra che anche tu soffri ... Ah, Raimondo! Tu stai per cessare di amarmi ... Mi sento impazzire!» Non ricordo piú quel che dissi per consolarla, per confortarla. Dovetti essere efficacissimo, se Delia mi si gettò tra le braccia scoppiando in pianto dirotto, balbettando tra i singhiozzi «Perdonami! Ti faccio soffrire!» Ma il giorno dopo e cosí tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò piú, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le piú riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi. E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io era stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: «Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?» corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita piú bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sí, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non aveva badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato -. Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano piú triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: - Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della dea, assai piú di essi, prendeva cosí mirabili chiaro scuri, riflessi cosí formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! «No, non è cosí! - balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. - No, non è cosí!» E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. «No, non è cosí! ... Non è cosí!» E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: «Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sí!» E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva piú! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! «Mi amava davvero?» Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu! - E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

Di tratto in tratto, esse venivano improvvisamente interrotte; melodie dolcissime, sognanti, si elevavano allora, sospiravano, simili a invocazioni, simili a richiami, smorivano quasi andassero lontano lontano dove il cuore della sonatrice le inviava; e si sarebbe detto che esse recassero contristanti risposte, se, poco dopo, le desolatissime note riprendevano con impeto, prolungatamente; e il silenzio che seguiva finalmente, per stanchezza, produceva infatti un senso di disperato abbandono alla marchesina proprio come se colui al quale ella inviava, a quel modo, il grido del suo cuore, le avesse risposto: - Non c'è piú speranza! È finita! - E rivedeva, quasi in sogno, l'albergo di Catania dove era andata, pochi mesi dopo di essere uscita dal convento, per assistere la marchesa che doveva subire una difficile operazione chirurgica. Questi stanzoni del vecchio palazzo signorile trasformato in albergo erano severi e malinconici come gli stanzoni del suo palazzo a R***. Un via vai di medici, di chirurgi, di persone di servizio ... Un silenzio greve, un raccoglimento malauguroso, una segregazione ... E al balcone accanto alla sua camera, quel giovane pallido, biondo, malato anche lui, che un giorno aveva ardito di chiederle notizie della signora marchesa che doveva essere operata e della quale tutti nell'albergo s'interessavano. Poi, nelle ore in cui il male concedeva qualche riposo alla sofferente, un piú lungo scambio di parole, e d'intensi sguardi che, dalla parte del giovane, dicevano assai piú che non le parole, anzi quel che esse non osavano di esprimere, ella se n'era subito accorta. - Ora che sua madre sta meglio, lei partirà ... e non la rivedrò piú! Anch'io sto meglio ... È doloroso conoscere una persona e non aver speranza di rivederla piú. - Chi non muore si rivede. - Perché desiderare di rivedersi? È sciocco quel che io dico ... - Ella aveva interrotto la conversazione col pretesto che l'avevano chiamata; ma le era rimasta negli occhi la desolazione di quel viso pallido che già stava per dirle quel che ella aveva indovinato, quel che l'aveva turbata profondamente nei giorni avanti e nelle notti senza sonno, dandole insieme col turbamento una sensazione nuova, un fremito di vita, la sodisfazione ineffabile di un inconsapevole bisogno del suo cuore e della sua giovinezza, una nova coscienza di se stessa. Quante volte non aveva ella evocato questi ricordi nella solitudine della sua camera, e quel che le era accaduto poche ore prima di lasciare l'albergo e ripartire per R***! - Poiché non ci rivedremo piú ... Mi perdoni, non posso fare a meno di dirglielo ... quantunque sia convinto che lei dimenticherà presto le mie parole ... - Ella gli aveva accennato di tacere, tremante di commozione, ma con negli occhi un tal sorriso di felicità da rendere inutile il divieto ... E appena colui avea finito di parlare, uno scoppio era avvenuto nel cuore di lei, uno scoppio che le aveva fatto dimenticare ogni ritegno, che l'aveva violentemente spinta a dire quel ch'ella si era immaginato dovesse restarle sepolto nel profondo petto, come un segreto da portar con sé nella tomba. Poche e semplici parole, ma esaurienti, definitive, chiamandolo per nome, dandogli del tu, quasi per fargli cosí un'affettuosa carezza, per stringere un patto infrangibile, urgente, giacché qualche ora dopo sarebbero stati divisi, ma legati almeno da quel patto, ma sostenuti almeno da un barlume di speranza! - Ti scriverò io; troverò io il modo con cui tu possa farmi pervenire le tue lettere! - E la marchesina era sparita dal balcone, con lo spavento di chi ha commesso un atto di audacia incredibile, e nello stesso tempo con l'intima gioia di aver operato quell'incredibile atto di audacia. Non rileggeva piú le tre lettere da lui ricevute per mezzo di una povera donna che aveva acconsentito, dopo molte preghiere e molte promesse, a ritirarle dalla posta indirizzate al marito. C'era mancato poco che costui non l'avesse picchiata quando avea saputo dell'incarico assunto da sua moglie, per pietà della marchesina, d'impostare cioè le lettere di lei e ritirare quelle dell'«altro» e portargliele a palazzo nelle rare occasioni che vi andava. Quelle lettere ella non le rileggeva piú; già le sapeva a memoria: lettere infiammate, sconsolatissime, nelle quali egli tornava a domandarle perdono di averle svelato il suo amore servito unicamente a renderla infelice, mentre da parte sua non avrebbe mai osato di pensare che la marchesina di Santacroce potesse un giorno abbassare gli occhi fino a lui e concedergli il suo cuore. Per disgrazia, quella povera donna era morta da quattro mesi; e la marchesina non aveva potuto trovar altro mezzo di comunicazione col lontano; che però era stato avvisato della probabilità di una lunga interruzione della loro corrispondenza e incoraggiato a non sospettare di lei. Ella si dichiarava sempre pronta a combattere contro ogni resistenza dei genitori quando il momento opportuno fosse arrivato. Ed ora si lusingava che la disperazione l'avrebbe resa fin temeraria, quantunque la remissione al consiglio del confessore non sembrasse a lei stessa buon indizio, oh, no! Il barone di Pietrerase non era una figura signorile. Aveva qualcosa tra di maggiordomo o di cocchiere di buona famiglia, con la folta chioma spartita da lato e le fedine all'austriaca. All'entrata della marchesa, che teneva ancora per mano la marchesina quasi avesse temuto di vederla tornare addietro attraversando il largo corridoio per recarsi nel salone di ricevimento, egli le aveva fatto un profondo inchino e le aveva baciato la mano; un altro inchino aveva fatto alla marchesina, che rispose abbassando un po' il capo e squadrandolo con rapida occhiata indagatrice. - Cilia , - disse il marchese - il barone di Pietrerase ci ha fatto l'onore di chiedere la vostra mano, ed io e la marchesa siamo stati lieti di fargli sapere che la sua richiesta vi è gradita quanto a noi. - L'onore, marchese, è tutto mio. Ringrazio la marchesina del suo benigno acconsentimento, e voglio credere che ... e voglio augurarmi che ... - Cosí parlando, cercava nelle tasche posteriori dell'abito nero qualche cosa che doveva compire la frase imbarazzata e rimasta interrotta. Ne cavò due astucci di velluto azzurro, e presentandoli alla marchesina, con aria di volgare compiacenza, soggiungeva - E voglio augurarmi che accetterà gentilmente questo piccolo segno di affetto che mio fratello il principe ed io ci permettiamo di offrirle -. La marchesina balbettò qualche parola di ringraziamento intanto che la marchesa, aperti gli astucci, ammirava il regalo e ringraziava da parte sua. - Gioie di famiglia - disse il marchese - e per ciò di maggior valore. È stato delicatissimo pensiero. - Ricordo della principessa mia madre. Il principe mio fratello è dispiacente che uno dei soliti attacchi di podagra a cui va soggetto - fa pena a vederlo soffrire, inchiodato su una poltrona, come l'ho lasciato ieri! - gli abbia impedito di accompagnarmi per conoscere personalmente la futura cognata -. E tutt'a un tratto, mutando tono, aggiungeva: - Bisogna essere allegra in casa mia, cara marchesina! Io sono sempre di buon umore. Bado ai miei affari; non m'impaccio di cose pubbliche; e non amo certi contatti con certa gente venuta su a galla al giorno di oggi. Mio fratello il principe è di parere diverso ... È però appassionato della musica, come voi; so che siete una pianista di prima forza. Mio fratello è bravo suonatore di violoncello; la principessa mia cognata canta discretamente ... Vi troverete in buona compagnia con loro ... Io ... io faccio qualcosa di piú utile; bado agli affari di casa mia, che non sono pochi ... Per la musica ho l'orecchio duro ... Stono terribilmente cantando. Non sembro della razza dei Cavanna che sono stati tutti, chi piú chi meno, musicisti. Non vi dispiacerà. Sono sincero; è meglio farsi conoscere subito per quel che si è. Con me bisogna stare sempre allegri; le barzellette mi piacciono, lecite, s'intende. Non posso patire i collitorti. «Servite Domino in laetitia», come diceva mio zio il vicario capitolare, che non volle esser vescovo per non avere troppi grattacapi. Io rassomiglio a lui ... - Pareva che, preso l'aire, non potesse fermarsi; e parlando, si stropicciava le mani, contento di sé e di quel che diceva. E non si accorgeva dell'impressione di repugnanza e di nausea che la marchesina non riusciva a nascondere, seria, impallidita un po', con le labbra lievemente contratte da un lato, e gli occhi socchiusi. Oh, si sentiva salir dal cuore una forza inattesa! Davanti a quell'uomo ella avrebbe parlato forte, dignitosamente, da vincerlo in pochi istanti, da abbatterne la sciocca vanità. Che confronto con l'«altro», col lontano, con l'amato! Tutta l'anima sua si protendeva verso l'assente, e la persona secondava il moto dell'anima, inchinando il busto, irrigidendo il collo, quasi rapita dalla visione che le sorrideva davanti. Piú tardi, poco prima di andare a pranzo, si erano trovati soli sul terrazzino del salone che guardava verso la cittaduzza sottoposta, gran mucchio di case addossato alla collina, con le punte dei campanili e le cupole delle chiese indorate dagli ultimi raggi del sole prossimo a tramontare. - Bella vista! - egli disse. La marchesina approvò con la testa. Poi cominciò: - Per scrupolo di coscienza e confidando nella vostra generosità ... - Siccome egli aveva fatto un gesto di sorpresa alle prime parole di lei, cosí la marchesina si era arrestata. - Quale scrupolo? - egli fece dopo breve pausa. - Dicono che una Santacroce deve rassegnarsi alla volontà dei parenti; mi sono rassegnata. A voi però, non posso né devo nascondere ... che il mio cuore ... - E si arrestò di nuovo a un piú vivo gesto di sorpresa del barone, che, rizzandosi su la persona, appoggiate le mani sul ferro della ringhiera, la fissava curiosamente, quasi egli non avesse capito bene ... - ... che il mio cuore non è libero, da due anni ... I miei parenti lo ignorano - riprese la marchesina. - Tutte le ragazze, alla vostra età, hanno il segreto di un amoruccio ... senza conseguenze. Grazie della confidenza. Questo intanto non influisce ... Eh, via! Se si dovesse tener conto di simili picciolezze! ... - Picciolezze? Barone, v'ingannate ... - Eh via! Io conosco la vita ... Va bene! ... Non vi affliggete per ciò. Il matrimonio è un'altra cosa. Il matrimonio scancella ben piú che un amoruccio ... di convento, mi figuro. Non c'è da avere scrupoli ... Io conosco la vita! - Dovreste fare un atto degno di voi ... Rinunziare alla mia mano; trovare una scusa, un pretesto qualunque ... - Anzi! Anzi! Questa vostra confessione, mi fa anzi capire che ho scelto bene, molto bene. Un'altra, nel vostro caso, avrebbe taciuto. Inezie! Io mi ritengo un confessore in questo momento; dimenticherò ... Non ne parliamo piú! - Rideva, si stropicciava le mani; e la marchesina lo guardava sbalordita, con un fiotto di sdegno che la soffocava e le strozzava le parole in gola. - Parliamone piuttosto - ella balbettò - mentre siamo in tempo. Ho fatto appello alla vostra lealtà, alla vostra generosità. Io, ve lo dico schiettamente, non potrò esser felice con voi. Voglio risparmiarvi l'umiliazione di un rifiuto; l'accetto, la invoco da voi. Trovate un pretesto qualunque.,. - Ma queste cose si fanno nei romanzi francesi! - egli la interruppe - La gente riderebbe di voi e di me, se mai arrivasse a sapere ... - Nessuno saprà niente. Sarà un segreto tra noi due ... Come potrete sposarmi, ora che conoscete che il mio cuore appartiene a un altro? - Eh, via, marchesina! Parlate sul serio? - Come se fossi in punto di morte! - ella rispose. - Ho detto cosí non perché io dubiti della vostra sincerità, ma perché i vostri scrupoli, scusate, mi sembrano puerili. Voi siete inesperta. Siete vissuta in convento fino a diciotto anni. La vostra casa è peggio di un convento ... Io non sono d'accordo col principe mio fratello, che ... liberaleggia; ma non approvo neppure il marchese vostro padre che si è chiuso in questo palazzo come in una prigione ... Io batto la via di mezzo. In casa mia si prende il mondo com'è; tanto, il mondo va senza di noi; è inutile affannarsi per esso. Dobbiamo badare ai fatti nostri. Chi ha tempo da perdere ... Io non ne ho, e voglio vivere tranquillo, come mio zio il vicario capitolare che rinunziò di esser vescovo ... Vescovo di casa mia, sí ... Ho pensato sempre cosí. Penserete cosí anche voi, perché il matrimonio accomuna ... E gli amorucci ... di convento, svaniscono presto ... Avrete altro a cui badare quando sarete baronessa di Pietrerase! - Ma voi mi giudicate male ... - Vi giudico benissimo. Lasciate fare a me. Se il vostro amoruccio fosse una cosa seria, già sarebbe un matrimonio, o un principio di matrimonio; non avreste avuto ritegno di confessarlo ai vostri parenti ... Uno studentucolo, mi figuro! Ah! Ah! Vi ammiro, per l'ingenuità ... Vapori! Nebbia! Un soffio di vento porta via ogni cosa! E poi, e poi ... farei una bella figura presso il marchese vostro padre e presso la marchesa! E perché? Per una fisima! Se ne aveste parlato a vostra madre, l'avreste veduta sorridere, vi avrebbe risposto come me: Non c'è d'avere scrupoli, figlia mia! ... Zitta! Eccola ... Per me è come se non sapessi niente. E non ve ne riparlerò mai; contate su la mia parola -. Quasi le fosse cascato un macigno addosso! Quasi tutto quel rosso che tingeva cupamente il cielo là di faccia fosse stato il sangue del suo cuore sgorgato dalla ferita ch'ella si sentiva fatta dalla barbara mano del barone! ... - Fa un po' fresco; sei pallida - le disse la marchesa. - Bella vista! - esclamò il barone, per rompere il silenzio. - I polmoni si dilatano nel respirare tant'aria. - Non abbiamo altro qui - rispose la marchesa. La marchesina trambasciava e sfuggiva gli sguardi di sua madre che sembrava volessero interrogarla. Aveva perduto ogni ardire, ogni forza. Era inutile ribellarsi contro il destino. Si vedeva già in balia di quell'uomo che si accarezzava stupidamente le fedine, che appariva pago di sé per la risposta data a lei poco prima, quasi assaporasse la vittoria, poiché sorrideva senza nessun motivo, mentre tutti e tre tacevano e anche la marchesa sembrava assorta da qualche dolorosa riflessione. - Ho avuto torto di non confidarmi con mammà! - pensava la marchesina. - Ma ormai ... è troppo tardi! ... - A tavola, il barone avea parlato per dieci. Don Paolo Forti, unico commensale estraneo alla famiglia, si era creduto in obbligo di applaudire, ridendo, le volgari spiritosità del futuro marito della marchesina. Certamente essa non aveva ancora avuto l'occasione di parlargli da solo a solo, altrimenti il barone non sarebbe stato di umore cosí allegro - pensava don Paolo. - Ma pensava anche che i signori sogliono prendere le cose in modo diverso dagli altri. Poteva darsi benissimo che quell'allegria fosse finta, per mascherare la sconfitta. - Cappellano, siete di poco appetito oggi! - Ah, signor barone! La mia tavola ordinaria non va piú in là di due pietanze alla buona. - Ma quando capita ... - Lo stomaco ha le sue abitudini. - Io non ho preferenze né repugnanze in fatto di mangiare. In campagna mangio anche pane e cipolla come i contadini, se occorre. «T'invidio» mi dice sempre il principe mio fratello. Lui, con la podagra, deve privarsi di questo, di quello; non sa piú che cosa mangiare. Stomaco di ferro ci vuole. Io digerirei anche i ciottoli, come gli struzzi. La marchesina non dovrà impazzire per la mia tavola. - Dovrà pensarci il maestro di casa o il cuoco - disse la marchesa con lieve punta di ironia. - Certamente; ma le redini della casa - è tradizionale nella famiglia Cavanna - stanno in mano della padrona. La principessa mia cognata bada a tutto, ha occhio per tutto; una vera massaia. Se non si fa cosí, specialmente oggi che l'Italia ci scortica, anche le piú solide famiglie vanno giú -. Il marchese scosse la testa, confermando. Durante il pranzo, la marchesina Cilia aveva detto poche parole. Ma non era una Santacroce per nulla; capiva istintivamente che era indegna di una sua pari mostrarsi abbattuta. La sottomissione ai riguardi, ai pregiudizi della razza ella la portava nel sangue. Cosí avevano fatto l'ava, la nonna, sua madre; cosí doveva far lei; non poteva avvenire diversamente! Quando il pericolo era lontano ella si era illusa che avrebbe saputo sfidarlo e superarlo: ora che era prossimo, anzi là accanto a lei, sotto la forma di quell'uomo non giovane né vecchio, senza età apparente, con quella voce grossolana, con quelle fedine da cameriere, con l'aria di sciocca superiorità e di volgare bonomia con cui aveva trattato da «picciolezza», da «ingenuità» il vibrante appello del cuore di lei, la confessione fattagli, e ne aveva riso; ora che ella era stata incapace di mostrare la minima resistenza alla volontà dei suoi genitori e si era vista sfuggire l'unica speranza di salvezza riposta nella generosità di quell'uomo; ora ella sentiva soltanto l'orgoglio di non dover dare a nessuno la sodisfazione di mostrarsi vinta; sentiva soltanto la fiera voluttà di una vendetta - ancora non sapeva quale - con cui punire, prima, se stessa in espiazione del dolore che avrebbe arrecato al «lontano» la notizia del matrimonio di lei, quantunque egli non avesse mai concepito l'illusione che il loro amore potesse finire altrimenti; e poi punire quel vanitoso che si stimava tale da strapparle facilmente il dolce conforto di quell'amore dal cuore! Ella sentiva anzi, nel momento che il barone rispondeva ai brindisi di auguri di don Paolo Forti, ancora in piedi, con una punta del tovagliolo infilata tra collo e collare - specie di sermoncino piú che brindisi, che il prete aveva preso a memoria come soleva con le sue prediche - ella sentiva anzi in quel momento qualcosa di piú che la fiera indeterminata voluttà della vendetta; qualcosa che si maturava nella misteriosa oscurità del suo cervello o del suo cuore, e che presto si sarebbe rivelata perché lei la mettesse in atto; e con questo senso di prossima vendetta, ella toccò la coppa da sciampagna che il barone le stendeva; e il gesto fu cosí vivace che don Paolo Forti pensò: - Tutto è accomodato; tanto meglio! - E se ne rallegrò, poco dopo, con la marchesa. - Come? Voscenza ne dubita? - egli esclamò, vedendole scotere tristamente la testa. - In certi momenti, mia figlia mi fa paura! - rispose la marchesa. Le nozze dovevano aver luogo nei primi di settembre. Durante i quattro mesi d'intervallo, i preparativi venivano fatti quasi alla chetichella, per non dar nell'occhio, perché il marchese voleva che l'avvenimento si limitasse a un'intima festa di famiglia, e apparisse anche un atto di protesta contro le «novità» che ormai non piú erano «novità», e non lasciavano intravedere nessuna speranza di cangiamento. Don Paolo Forti recava lassú, a «palazzo», le strabilianti notizie della guerra franco- prussiana. - Ebbene? ... Che ne sperate? - domandava il marchese. - Bismarck, dicono, restituirà alla chiesa le province toltegli dal governo usurpatore. - È protestante ... Come vi illudete! - Io ripeto le voci che vanno attorno; rimetterà i Borboni sul trono di Napoli e di Parma, costituirà la Confederazione italiana sotto l'alta presidenza del Pontefice; notizie che vengono da Roma -. E il barone di Pietrerase, nelle sue frequenti visite, ripeteva le stesse cose. - Il principe però ... - obiettava il marchese. - Mio fratello è divenuto liberale, piú per mostra che per altro, credo. Egli è di opinione che i nobili non devono lasciarsi prendere la mano ... È sindaco, quasi un impiegato del governo; non può parlare altrimenti. L'ultima volta che è stato qui, però, lo avete udito: egli ha rimpianto la indipendenza siciliana, il parlamento siciliano ... È opportunista mio fratello. La nostra politica, marchesina, consisterà nel buon governo della nostra casa; dico bene? Voi regina, io re, e assoluti. E per ciò - scusate, marchese - non è necessario sequestrarsi, segregarsi ... Io la penso cosí. - I veri Santacroce spariscono dal mondo! - rispose tristamente il marchese. - Questo nome, tra qualche anno, alla mia morte, sarà portato quasi per irrisione da un miserabile che lo disonorerà ... Non mi importa piú di niente! - E cosí, non ostante le prossime nozze, una gran tristezza continuava a invadere le stanze del suo palazzo, di cui i balconi a ponente rimanevano chiusi, nelle settimane che il barone non veniva a R*** per fare a modo suo la corte di fidanzato alla marchesina, irritandola sovente con la solita esortazione: - Con me bisogna stare sempre allegri! - Invece ella era sempre piú cupa e piú chiusa che mai. Sacrificarsi alla volontà del padre stimava ormai un dovere impostole dalla sua condizione e dal sentimento religioso; ma sacrificarsi a colui che avrebbe dovuto salvarla dopo ch'ella gli aveva aperto confidentemente il cuore, le sembrava enorme. Dell'«altro» non aveva piú nessuna notizia e non era riuscita a fargliene avere da parte sua. Aspettava di esser libera, maritata, per spedirgli la lunga e straziante lettera, alla quale aggiungeva ogni giorno qualche pagina e che teneva chiusa sotto chiave in un armadietto in camera sua. Scriveva la notte, quando non le riusciva di prender sonno, o quando era stanca di mulinare la vendetta che avrebbe dovuto mettere in atto, già abbozzata nella sua mente, e per la quale temeva soltanto di non essere abbastanza forte e persistente, perché le circostanze della vita infiacchiscono le piú nobili energie, rendono vigliacchi i piú risoluti caratteri! Talvolta ella amava figurarsi che il barone, all'ultimo momento, si lasciasse vincere dalla riflessione. Egli aveva mantenuto la parola, non aveva mai accennato, neppure velatamente, al loro colloquio di quella sera, mentre il sole tramontava dietro i colli lontani; ma non poteva averlo dimenticato. La sua vanità non gliel'aveva fatto valutar bene quel giorno; dopo, però ... Ma forse egli contava su la bontà dell'animo di lei, su la sua dignità di donna e di marchesina Santacroce, che le avrebbe impedito di commettere una pazzia o una bassezza! E si sdegnava riconoscendo che era vero: ella non sarebbe stata capace di commettere una bassezza o una pazzia! Si considerava come divisa in due metà: il suo corpo, impassibile, lo avrebbe dato in balia di colui; ma il cuore, ma lo spirito sarebbero stati sempre di quell'«altro» ... E se questo era peccato, tanto peggio per coloro che la forzavano a peccare! Suo padre e sua madre non avrebbero potuto lagnarsi di lei: non obbediva ciecamente? Il giorno in cui essa diventerebbe baronessa di Pietrerase, la situazione non era piú la stessa; ella acquistava, quel giorno, piena libertà di azione. Suo marito avrebbe saputo anticipatamente quel che doveva attendersi. Voleva essere leale, ingenua, come diceva lui, fino all'ultimo! Appunto il giorno precedente alle nozze, ella parlò al barone: - Ascoltatemi attentamente: debbo dirvi poche parole, ma di suprema importanza. - Oh! oh! - egli rispose. - Qualche altro segreto? Il primo l'ho dimenticato; credo che l'abbiate già dimenticato anche voi. - Io non dimentico, tenetelo a memoria! - Dunque ... ? - Sembrava ch'egli intendesse di provocarla con quell'aria di sfida, con quel sorrisetto compassionevole tra le ispide fedine all'austriaca. - Non prendete a scherzo quel che sto per dirvi. I miei genitori hanno diritto a un'assoluta obbedienza. Nel monastero, in casa, nel confessionale, tutti hanno ribadito questa convinzione, ed io l'ho accettata come un domma di fede. I Santacroce però, dice mio padre, hanno una volontà di acciaio; sento di averla anch'io ... e non vorrei darvene una prova. - Quale, in caso? - Ho giurato a me stessa ... - Io non giuro mai, per precauzione. - Ho giurato a me stessa ... che se domani dovrò pronunziare il fatalissimo «sí» ... - E chiaro e sonoro, spero, perché il sindaco e il cappellano lo odano bene! - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra! - Non capisco ... Non sarà una sillaba mortale. - Cosí fosse! ... Siete ancora in tempo! Trovate, ve ne supplico, un pretesto! - Di nuovo quella storia? Ve lo ripeto: la vostra bella coscienza può vivere tranquilla. Io non vi farò mai una colpa di un sentimento ... naturalissimo ... Nessuna donna e nessun uomo sono mai andati dal sindaco o a piè dell'altare con la verginità del cuore ... Il matrimonio è come il battesimo: scancella il peccato originale di qualunque amoretto ... Se io sospettassi che quella vostra confidenza ... - e ve ne torno a ringraziare e ve ne sono gratissimo! - Ma essa non mi ammonisce di un pericolo ... Mi sembrate una bambina che si accusa di aver mangiato, di nascosto della mamma, qualche dolce ... Si sa, i dolci piacciono ai bambini; ed essi sono scusabili se li mangiano non ostante i timori della mamma per un'indigestione, Via! via! Non torniamo piú su questo argomento ... ! Con me bisogna stare allegri! - Ancora dopo una settimana egli non sapeva persuadersi che non si trattasse d'un semplice scherzo; o, se non di uno scherzo, di una cattiva scontrosità femminile; o, se non di questa, di un irragionevole tentativo di rivincita che non poteva certamente né doveva durare molto a lungo. Dopo il «sí» davanti al sindaco e a piè dell'altare nella cappella privilegiata di famiglia, la marchesina Cecilia Santacroce, ora baronessa di Pietrerase, non si era piú lasciata sfuggir di bocca una sola parola. Aveva detto: - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra, l'ho giurato a me stessa! - Ed era stato davvero l'ultima sillaba da lei pronunziata. Nei primi momenti tutti avevano creduto che la commozione pel prossimo distacco dai genitori le impedisse di parlare. Era un po' pallida, un po' sbalordita, ma non piangeva, non si mostrava agitata; e anche questa mancanza di uno sfogo di lagrime era stata creduta effetto dell'eccessiva commozione nervosa. Piú tardi, soltanto la marchesa aveva intravista la verità. - Figlia mia! Figlia mia! - La baronessa le sorrideva, la baciava in fronte, le passava per confortarla, amorosamente, quasi maternamente, le mani su le guance bagnate di pianto, e con umile gesto le chiedeva perdono. - Parla! parla! - insisteva la marchesa. La baronessa scoteva la testa, negativamente, e alzando gli occhi, e accompagnando l'espressione di essi con un risoluto movimento della destra rispondeva. - Mai piú! Mai piú! - E per calmare la desolazione della mamma, ella scrisse su un foglio: - È un voto! Lasciami fare, mammà ! - Il barone fingeva di prender la cosa rassegnatamente: - Avrò sposato una muta! - Ma pensava che, prima con le buone, poi un po' con le cattive avrebbe finalmente sciolto la lingua alla moglie. Rimaneva intanto molto imbarazzato davanti al contegno di lei: nessuna resistenza, nessun atto di repugnanza; egli poteva fare di quel corpo senza parola quel che piú le piaceva. Baci, abbracci, parole affettuose, preghiere, scuse umilissime, ragioni di ogni sorta, tutto però riusciva inutile contro quell'ostinatezza inflessibile. - Ma è ridicolo; dovreste capirlo! Se non per me, per vostra madre almeno ... Siate ragionevole, siate buona! - La baronessa lo lasciava dire, quasi non comprendesse. Una gran serenità le risplendeva nel volto, nella persona. Ella andava e veniva per le stanze, accennando benevolmente alla gente di servizio qualche ordine e riuscendo a farsi intendere senza stento. Quella figura silenziosa, che pareva avesse imposto silenzio anche ai suoi passi, ispirava rispetto e compassione insieme, perché si era sparsa la voce che una strana paralisi della lingua l'avesse colpita durante la cerimonia nuziale. Qualcuno si maravigliava che il barone non consultasse un dottore, uno specialista. - La baronessa si rifiuta. E poi, dicono che le malattie di questo genere si risolvano da sé all'improvviso; vanno via come vengono, senza sintomi apparenti -. Si scusava in tal modo, lasciando volentieri accreditare la voce della paralisi, intestato nel convincimento che un giorno o l'altro sua moglie si sarebbe stancata. Ci voleva la gran caparbietà di una donna per condannarsi al silenzio e perdurare! E cominciava a irritarsi, vedendo che tutti i suoi calcoli venivano sconvolti. Dapprincipio egli si era detto: - La ridurrò con le buone maniere; un po' con le cattive, se occorrerà -. Ma la baronessa non gli dava nessun pretesto di mostrarsi irritato con lei, all'infuori di quella maledetta mutezza, che, prolungata, poteva, da finta, diventare reale. Egli rammentava una sua visita al carcere cellulare di Noto, inaugurato pochi mesi avanti. Tra i condannati, il direttore gli aveva fatto notare un fabbroferraio che costruiva serrature complicatissime, da sfidare qualunque ingegnosità di ladri per aprirle; una di esse era stata premiata all'esposizione universale di Parigi. Costui, condannato a vita per omicidio, da sedici anni, secondo il regolamento carcerario, non parlava. Dal cellulare di Pallanza lo avevano trasportato a quello di Noto; intanto le corde vocali gli si erano atrofizzate, e la lingua articolava a stento poche parole. Alla baronessa sarebbe accaduta la stessa cosa? Glielo disse, per spaventarla con l'idea di tal pericolo. Non se ne mostrò affatto scossa. Ella aveva un mezzo per manifestare i sentimenti del suo cuore; il pianoforte. Tre, quattro volte al giorno, specialmente quand'era sola in casa, tutta l'abbondanza dell'anima sua vibrava dalle corde dello strumento, diventava parola per lei, si effondeva fuori dell'aperto balcone, volava via, lontano, lontano! Ella non sapeva precisamente dove indirizzare quelle note tristi, fremebonde, lamentose; era certa però che esse avrebbero trovato la giusta strada e sarebbero arrivate dove dovevano arrivare! E che importava se si smarrivano a metà di cammino? se morivano nello spazio inascoltate? L'«altro», ormai, era divenuto, piú che un ricordo, una lontana visione fantasticata o sognata. Non ne aveva saputo piú niente. Era ancora vivo? Era morto? ... Non gli aveva piú spedito la lunga lettera stimando inutili le scuse, le proteste, e sembrandole che avrebbe commesso un atto indegno di lei ora che portava il nome altrui e piú non era libera di sé. Un giorno aveva riletto quei fogli piangendo e li aveva bruciati. Le pallide sembianze di lui, il suono della voce, gli occhi che la penetravano con intensi sguardi dal balcone dell'albergo, dopo quest'ultimo sacrificio le si erano attenuati, spiritualizzati nella memoria; e la parola interiore, che non prendeva suono neppure quando avrebbe potuto sfogarsi in soliloqui, infondeva a quella figura attenuata, spiritualizzata un prestigio indefinibile; e stimolava acutamente la baronessa a perseverare nel giuramento, non ostante che questo l'avesse fatta incorrere nello sdegno dei suoi genitori, e ora provocasse impeti scortesi da parte di suo marito. Una notte ella avea sognato che, nell'assenza del barone, la posta le recava una lettera. Riconosciuta subito la calligrafia, s'era sentita invadere da tal tremore per tutto il corpo che le era parso di morire. Doveva aprirla? Doveva leggerla? Lungamente indecisa, guardava la busta gettata sul tavolino con inconsapevole gesto di terrore. Poi le era sembrato di sentire la voce, lontana, del pallido giovane innamorato che la supplicava di leggere. Aveva resistito ancora. Come mai, dopo un anno e mezzo, egli si era risoluto a farsi vivo con lei? Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva da lei? E il timore che, non ricevendo risposta, egli potesse commettere l'imprudenza di tornare a scriverle e che la lettera potesse capitare in mano del barone, l'aveva spinta ad aprire con mani tremanti la busta. Poche righe: e, appena finito di leggerle, si era destata di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime e il cuore penetrato da dolcezza infinita. Non aveva dubitato un istante che colui che nel sogno le indirizzava cosí semplici, cosí affettuose e cosí tristi parole, non era piú! Ella però non lo rimpiangeva. Se lo sentiva accanto, invisibile, come non aveva pensato mai che fosse potuto accadere nella realtà, come non avrebbe permesso mai che accadesse se le circostanze della vita avessero apportato davvero un incontro! Le sembrava intanto che da ora in poi tutta la sua esistenza sarebbe trascorsa sotto gli occhi vigilanti di lui. Arrossiva provava brividi acuti al solo pensiero che il suo contegno verso il marito potesse offendere il povero morto e dargli angosce e tormenti di gelosia che la lontananza gli aveva probabilmente risparmiati quando era vivo. In certi momenti, il sospetto che il sogno fosse stato fallace eccitava la sua fantasia alla ricerca di un mezzo con cui accertarsene. Ma l'idea di arrivare a una scoperta che confermasse il sospetto la distoglieva da qualunque piú timido tentativo. Era cosí consolante saperlo morto fedele a lei, come la sognata lettera diceva! Ella avea sentito parlare tante volte di sogni veritieri. Anche lei, parecchie notti avanti di lasciare il convento, aveva sognato l'arrivo dei suoi parenti che venivano per condurla via. Ignorava che dovessero venire, ed era rimasta stupita vedendoli apparire inattesamente, realizzando il suo sogno! Fin allora ella aveva soffocato la ripugnanza che le ispirava il contatto del barone. L'impero delle convenienze sociali e dei sentimenti religiosi le avevano imposto una rassegnazione passiva. - Questo ghiaccio non si scioglierà mai? - le diceva talvolta il barone. - Io sono paziente; attendo, attenderò. E vi si snoderà anche la lingua. San Sebastiano opererà il miracolo! Vedete che vita mi fate fare? - Ella crollava la testa, negando. Il barone infatti per stanchezza, per fiacchezza anche, aveva già ripreso la sua solita vita di scapolo. Quando non andava in campagna, passava molte ore della giornata al casino di convegno giocando a tressette, al bigliardo; o nella farmacia dei Sorci, come veniva chiamata la farmacia Garano, dove si riunivano i clericali, i borbonici che si sfogavano a dir male del governo e a rimpiangere il passato. Egli veramente non si scalmanava né pel papa, né per Francesco II, ma si compiaceva di mostrarsi colà per darsi l'aria di persona seria e un po' per far dispetto al principe suo fratello che «liberaleggiava» e riceveva il sottoprefetto e gli ufficiali della piccola guarnigione. Spesso però restava in casa, a tormentare la baronessa con interminabili discorsi, nei quali egli ormai aveva preso l'abitudine di farsi le domande e di rispondersi, quasi sua moglie lo interrompesse. O andava a sedersi sul canapè di faccia al pianoforte mentre ella suonava, rimproverandole talvolta che avesse suonato distrattamente lo stesso pezzo la sera avanti nel salone del principe, e avesse accompagnato male la cognata principessa che se n'era indispettita, quantunque non lo avesse lasciato scorgere davanti agli altri. Lo faceva a posta? Anche questo? Fortuna ch'egli non era un marito brutale! ... E la baronessa cessava tutt'a un tratto di sonare, indignata perché quel ch'egli chiamava rassegnata aspettazione veniva da lei giudicata atto di villano orgoglio e sciocca lusinga di vincerla. Oh! Avrebbe preferito di sperimentarlo brutale. Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 6 occorrenze

Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile abbandono delle proprie idee circa l'avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua volontà e se non la scopriva. "Si vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum benedictus." E si avviò alla sua cella. Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando davanti all'uscio dell' Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole "fiat voluntas tua" che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le nostre forze per il prevalere della legge Divina nel campo della libertà umana. Il signor Giovanni gli aveva fatto battere il cuore più forte e l' Abate glielo aveva fatto battere più fiacco. Quale dei due aveva detto la parola di Vita e di Verità? La sua cella era l'ultima a destra, presso il balcone che guarda la conca rigata dall' Aniene, Subiaco e i monti Sabini. Prima di entrar nella sua cella don Clemente si fermò a guardar i lumi lontani di Subiaco, pensò alla villetta rossa, più vicina ma invisibile, pensò a quella donna. Trame, aveva detto l' Abate. Amava ella ancora Piero Maironi? Aveva scoperto, sapeva ch'egli si era rifugiato a Santa Scolastica? Lo aveva riconosciuto? Se sì, che meditava di fare? Probabilmente non aveva preso stanza nel minuscolo quartiere dei signori Selva; probabilmente alloggiava in un albergo di Subiaco. Quei lumi lontani erano fuochi di un campo nemico? Si fece il segno della croce ed entrò nella sua celletta per un breve sonno fino alle due, ora di coro. Benedetto prese la via del Sacro Speco. Oltrepassato, all'altro angolo del monastero, il letto asciutto di un torrentello, raggiunto a destra l'oratorio antichissimo di Santa Crocella, salì per la petraia che ruina giù verso il rombo dell' Aniene di fronte ai carpineti del Francolano, erto e nero fino alla croce del vertice, incoronata di stelle. Prima di toccare l' Arco che mette al bosco del Sacro Speco, uscì di via, si arrampicò a sinistra, cercando il posto dell'ultima sua veglia, alto sui tetti quadrati e sulla torre tozza di Santa Scolastica. La ricerca del sasso dove aveva pregato ginocchioni un'altra dolorosa notte, sviandogli il pensiero dal mistico foco in cui era chiuso, glielo raffreddò. Se ne avvide tosto, ne sentì un rammarico affannoso, una impazienza di ricuperar calore acuita dal timore di non riuscirvi, dal senso di esserne in colpa, dal ricordo di altre aridità tristi. Gelava, gelava sempre più. Cadde ginocchioni, chiamò Iddio con uno spasimo di preghiera. Come piccola fiamma inutilmente apposta ad un fascio di legna verde, lo slancio della volontà gli venne meno senza movere il cuore inerte e mancò in uno stupido ascoltare del rombo eguale dell' Aniene. La mente gli ritornò in un assalto di terrore. Forse la notte passerebbe intera così; forse al gelo arido seguirebbe la tentazione calda! Impose silenzio al fervere delle immaginazioni, si raccolse nel proposito di non smarrirsi d'animo. Allora sorse in lui l'idea chiara che spiriti nemici gli erano sopra. Se avesse veduto intorno a sé fiammeggiare occhi diabolici nei fessi delle pietre, ne sarebbe stato meno certo. Sentiva in sé il vaporare di un veleno, sentiva un'assenza di amore, un'assenza di dolore, un tedio, un peso, l'aggravarsi di un assopimento mortale. Ricadde nello stupido ascoltare il rumore del fiume, fissi gli occhi senza sguardo al bosco nero del Francolano. Gli passò nella visione interna, lento automa, la immagine del prete malvagio vissuto là colla sua corte di peccatrici. Sentì stanchezza di star ginocchioni, si accasciò su sé stesso. Ecco ancora l'automa lento. Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le mani sui ciuffi dell'erba soffice, fra sasso e sasso, odorante. Chiuse gli occhi nella dolcezza di quel tocco morbido, dell'odor selvaggio, del riposo; e vide Jeanne pallida sotto l'ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli sorrideva con gli occhi umidi di lagrime. Il cuore gli batté forte, forte, forte; un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla china dell'abbandono all'invito di quel volto. Spalancò gli occhi, mise, a braccia distese, a mani aperte, un lungo gemito. E subito pensò che qualche viandante notturno potesse averlo udito, trattenne il respiro, stette in ascolto. Silenzio; silenzio di tutte le cose fuorché del fiume. Il cuore gli si venne chetando. "Dio mio, Dio mio" mormorò, inorridito del pericolo corso, dell'abisso intravvisto. Si afferrò con gli occhi, con l'anima, al gran dado sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che amava. Trapassò con lo spirito l'ombre e i tetti, attrasse in sé la visione della Chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato. Durò nello sforzo quanto poté, reprimendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell'obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell'anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell'Imitazione: "Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit." Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell'ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d'erba che le mani giunte odoravano ancora. L'aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull'erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch'egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell'anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores. Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l'obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell' Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl'indici verso Castel Sant'Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un'ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull' Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: "Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!" E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la Vita, la pace ardente dell'anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l'erbe intorno. "Sei Tu" egli gemette "sei Tu, sei Tu?" Il vento tacque. Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio non gli parlerà. L'anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento. L'anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l'ultima parte della Visione, il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perché rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà. Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perché non scendo a dormire? Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea. Il cielo si era tutto coperto di nuvole pesanti fino ai monti di Jenne, dove la valle dell'alto Aniene gira. Appena Benedetto poteva discernere la tenebra nera del Francolano, in faccia, e i lividori, a' suoi piedi, della petraia. Mosse per discendere e al secondo passo si arrestò. Le gambe non lo reggevano, un soffio di sangue gli accese il viso. Era quasi digiuno da trent'ore. Non aveva preso che un tozzo di pane a mezzodì. Si sentì punger la persona da miriadi di spilli, batter forte il cuore, annebbiar la mente. Quali viluppi di serpi gli si attorcigliavano ai piedi simulando la innocenza dell'erba? E qual demonio sinistro lo attendeva lì sotto, carponi sulla pietra, simulando un cespuglio per avventarglisi? Non lo aspettavano i demonii anche nel monastero? Non si annidavano negli occhi del torrione? Non avevano quegli occhi una fiamma nera? No, no, adesso non più; adesso lo fissavano semichiusi e beffardi. Il rombo dell' Aniene, questo? No, il ruggito dell' Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a quello che udiva, ma tremava tremava come una festuca nel vento e le miriadi di spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: "devo potere!" esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono. Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la leonina voce del tuono lo minacciò. "Cosa faccio?" si diss'egli, cercando raccapezzarsi. "Perché voglio scendere?" Non lo sapeva più, ebbe bisogno di uno sforzo mentale per ricordare. Ecco, aveva pensato di scendere a dormire perché la preghiera era inutile a un uomo sicuro di salire al cielo. E un lampo arse anche dentro di lui: "Io tento Iddio!" Le serpi lo stringevano, il demonio strisciava carponi alla sua volta per la petraia tutta infernalmente viva di spiriti feroci, le fiamme nere ardevano negli occhi del torrione, ruggendo sempre l' Abisso a trionfo. Ma il rugghio sovrano del tuono romoreggiò per le nubi: "Non tentare il Signore Iddio tuo." Benedetto levò al cielo il viso e le mani congiunte, adorando, come poté, con l'ultimo lume della offuscata coscienza, vacillò, allargò le braccia, afferrò l'aria, piegò lentamente all'indietro, stramazzò riverso sulla china, giacque senza moto. Il suo corpo giaceva immobile nel vento del temporale, come un tronco schiantato, fra il dibattersi delle ginestre e il mareggiare dell'erba. L'anima dovette chiudersi nel contatto centrale con l' Essere senza tempo e senza spazio, perché Benedetto, al primo ritorno della coscienza, non ebbe senso né del luogo né dell'ora. Sentiva una levità strana delle membra, una spossatezza fisica piacevole, una infinita dolcezza interna; prima sul viso, poi sulle mani tanti minuti titillamenti come di animati atomi amorosi dell'aria: teneri sussurri di voci timide intorno a quello che gli pareva il suo letto. Si rizzò a sedere, guardò smarrito ma in pace; dimentico del dove e del quando, ma tanto in pace, tanto contento della quieta fonte interna di un indistinto amore che gli fluiva in tutti i vasi della Vita e se ne spandeva per le cose intorno, per le dolci piccole vite fatte amorose a lui. Sorridendo fra sé del suo proprio smarrimento, riconobbe il dove e il come. Il quando, no. Neppure ne sentì desiderio, neppure si domandò se dalla caduta fossero trascorse ore o minuti, tanto lo appagava il beato presente. Il temporale era disceso verso Roma. Nel mormorio della pioggia senza vento, piana piana, nella voce grande dell' Aniene, nella riposata maestà dei monti, nell'odore selvaggio della petraia umida, nello stesso proprio cuore, Benedetto sentiva un Divino confuso alla creatura, un'ascosa essenza di paradiso. Sentiva di fondersi con le anime delle cose come piccola voce in un coro immenso, di essere uno con la montagna odorante, con l'aria beata. E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento gli ritornarono a mente i perché della presenza sua sul monte deserto nelle tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l'esilio dal monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all'anima sua ferma in Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie. Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall'alto di una inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l'ufficio suo, egli si accorse di esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana, continuava. Che fare? Rientrare all' Ospizio dei pellegrini no perché il vaccaro dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto né sarebbe stato facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all' Arco d'ingresso nel bosco. Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al bosco, cadde a sedere, sfinito. Desiderava un po' di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L'aria era tepida, il suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all'ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l'impero, benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l' Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall'uno e dall'altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l'Arco. Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell'ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all'udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte. "Oh, Benedè!" esclamò riconoscendo Benedetto. "Qui, siete?" Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio. "Lo racconterete ai padri" diss'egli. "Direte ch'ero sfinito e che vi ho chiesto un po' di latte per amor di Dio." "Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!" fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. "Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!" Benedetto bevve. "Benedico Iddio" diss'egli "per la bontà vostra e per la bontà del latte." Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s'inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: "ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro." Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s'incamminò egli stesso verso Santa Scolastica. La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell' Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.

Si raccolse in un atto di abbandono alla Divina Volontà. "Il Signore vuole che io muoia qui" diss'egli. "Però mi permette di avere almeno l'abito sul letto prima di morire." Don Clemente si chinò sopra di lui e lo baciò in fronte. Intanto i Selva attendevano in disparte. Benedetto li chiamò a sé, disse loro che avrebbe ricevuto la signora Dessalle fra mezz'ora, ma che la pregava di non venire sola. Poteva venire con loro. Insieme ai Selva uscì anche Mayda. La suora dormicchiava. Allora Benedetto pregò don Clemente di recarsi poi dal Pontefice, di dirgli come la fine della Visione non si fosse avverata, come quindi tutto l'apparente miracoloso della sua Vita svanisse, come finalmente egli avesse sentita con grande dolcezza, prima di morire, la benedizione del Papa. "E gli dica" finì "che spero di poter parlare ancora nel suo cuore." L'ambascia era diminuita ma la voce si affiochiva, le forze venivano mancando colla febbre. Don Clemente gli prese e tenne a lungo il polso. Poi si alzò. "Lei va a prendere l'abito?" mormorò Benedetto con un sorriso dolcissimo. Il bel viso del Padre si coperse di rossore. Egli vinse presto il sentimento umano che gli consigliava di simulare, e rispose: "Sì, caro. Credo che sia il tempo." "Che ore sono?" "Le cinque e mezzo." "Lei crede alle sette? Alle otto?" "No, non così presto, ma desidero che tu abbia questa consolazione subito." In un salottino della villa, Giovanni Selva, guardato l'orologio, disse a sua moglie: "Andate." L'intelligenza era che con Jeanne andassero da Benedetto Maria e Noemi. Questa stese le mani a suo cognato. "Sai" diss'ella, tutta tremante " vado a dargli una notizia che riguarda l'anima mia. Non ti offendere se la do a lui prima che a te." Jeanne intuì la notizia che Noemi avrebbe portato al morente: la sua prossima conversione al Cattolicismo. Tutta la forza ch'ell'aveva raccolto in sé per il momento supremo l'abbandonò. Abbracciò Noemi e scoppiò in lagrime. I Selva le fecero animo, ingannandosi circa quel pianto. Ella pregò, fra i singhiozzi, che andassero, che andassero; a lei era impossibile di venire. Noemi sola intese. Jeanne non voleva venire perché aveva indovinato e non poteva fare quanto avrebbe fatto lei. La supplicò, la scongiurò, le mormorò tenendola abbracciata: "perché non cedi, in questo momento?" Jeanne rispose solamente, singhiozzando: "Oh tu mi capisci!" E perché Noemi protestava di non voler più andare, la supplicò alla sua volta di andare, di andare subito, di non tardare a dargli questa consolazione. Ella non poteva, non poteva, non poteva! Non ci fu verso di smuoverla. Un domestico venne a chiamare Selva. Maria e Noemi uscirono. Rimasta sola, Jeanne ebbe un momento l'idea di raggiungerle, di arrendersi, di andargli a dire ella pure una parola di gioia. Cadde ginocchioni, stese le braccia, quasi a lui che le stesse davanti, singhiozzò: "caro, caro, come ti potrei ingannare?" Aveva lottato più volte col proprio scetticismo imperioso e sempre invano. Uno slancio di dedizione alla fede, lo sapeva, non sarebbe stato durevole. "Perché non mi vuoi sola?" gemette ancora, sempre ginocchioni. "Perché non mi vuoi sola? Perché le coscienze pie non si offendano? Perché la mia disperazione non ti turbi? Perché non mi vuoi sola? Posso io dire davanti a loro quello che ho dentro di me? Tu che sei buono come il tuo Signore Gesù, perché non mi vuoi sola? Oh!" Ella scattò in piedi, convinta che se Piero la udisse risponderebbe "sì, vieni." Stette un attimo come impietrata, colle mani alle tempie; e mosse poi lentamente, simile a una sonnambula, uscì del salotto, attraversò il vestibolo, scese in giardino. Pioveva tanto dirottamente, il cielo, corso tuttora di tempo in tempo dal tuono, era tanto fosco che prima delle sei, quella sera di febbraio, pareva già quasi notte. Jeanne entrò come stava, a capo scoperto, nella pioggia fitta e fredda, prese, senz'affrettar il passo, non il viale degli aranci a destra ma il sentiero che scende a sinistra fra due righe di grandi agavi a un boschetto di lauri, di cipressi e di ulivi cui si aggrappano rose. Passò dal gran pino che guarda il Celio e girando al basso verso destra per un lungo arco di via, si condusse alla fonte che un avello antico raccoglie nel pendìo ripido fra una cintura di mirti, pochi passi più giù che la casina del giardiniere. Ivi si fermò. Una finestra della casina luceva; certo la finestra di Piero. Vi passò un'ombra; forse Noemi!Jeanne sedette sull'orlo marmoreo della vasca. Era possibile di affogare lì dentro? Avrebbe cercato di morire se non ci fosse Carlino? Pensieri vani; non vi si trattenne. Attese, attese, sotto la pioggia fredda, con gli occhi e l'anima fermi alla finestra lucente. Altre ombre. Partono, adesso? Sì, forse partono Maria e Noemi ma non lasceranno Piero solo. Ci sarà Mayda, ci sarà il benedettino, ci sarà la suora. Ebbene, ella tenterà. Un passo frettoloso nel viale degli aranci; qualcuno che si avvia alla casina. Jeanne, che si era alzata, torna a sedere. Ecco, quell'ignoto è entrato. Movimento di ombre alla finestra. Due persone escono parlando vivacemente; le voci del professore e di Giovanni Selva. Pare che parlino di qualcuno venuto a prendere notizie. Altre persone escono, l'acqua delle grondaie mormora sugli ombrelli. Devono esser loro, Maria e Noemi. Jeanne si alza da capo, si avvia. Passa l'uscio della casina, vede gente nella cucina del giardiniere, prega una ragazza di salire a vedere presso l'ammalato, chi ci sta. Quella esita, cerca schermirsi, ma poi va, scende subito. Ci stanno il prete e la suora. Jeanne domanda un po' di carta, una matita, un lume. Comincia a scrivere: "Padre - Mi rivolgo ..." S'interrompe, sta in ascolto. Qualcuno scende la scaletta di legno. Un passo d'uomo; dunque il Padre. Allora gli parlerà. Butta via la matita, gli va incontro sulla scaletta. È scuro, don Clemente la scambia per Maria Selva. "È quieto" dice, prima ch'ell'apra bocca. "Pare che dorma. Gli ha fatto tanto bene quello che Sua sorella gli ha detto. Il professore crede che passerà la notte. Faccia venire anche l'altra signora. L'ha domandata. Credevo che fossero andate a prenderla." Jeanne tace, si fa da banda. Egli dice "permesso" e passa senza guardarla, va in cucina per avere un po' di pane e un po' d'acqua, digiuno com'è dalla sera precedente. Jeanne trema come una foglia. Egli l'ha domandata! Queste parole, il favore del caso le danno le vertigini. Sale piano piano, spinge l'uscio piano piano. La suora la vede, fa per alzarsi. Ella le accenna, col dito alla bocca, di non si muovere, si accosta piano piano al letto, vede una lunga cosa nera distesa sulle coltri, si arresta esterrefatta, non comprende. Ode un lievissimo gemito. Il giacente alza la mano destra con un gesto vago, come se cercasse qualche cosa. La suora si alza ma Jeanne, più pronta, è di slancio al guanciale, si china su Piero che ha ripreso a gemere, ad agitar la mano. Jeanne lo interroga affannosa, egli non risponde, geme, guarda qualche cosa accanto al letto e Jeanne offre un bicchiere d'acqua, gli vede scotere il capo, si dispera di non capire. Ah, il Crocifisso, il Crocifisso! La suora alza il lume da terra, Jeanne porge il Crocifisso a Piero che gli affligge le labbra e la guarda, la guarda con gli occhi grandi, vitrei, dov'è la morte. La suora getta un grido, corre a chiamare il Padre. Piero guarda Jeanne, guarda Jeanne, si sforza di prendere il Crocifisso a due mani, di alzarlo verso lei, le sue labbra si agitano, si agitano, non ne esce suono. Jeanne si raccoglie nelle proprie le mani di Piero, bacia il Crocifisso di un bacio appassionato. Egli chiude allora gli occhi, il suo volto s'irradia di un sorriso, si piega un poco sulla spalla destra, non si move più. FINE.

Se mi sforzo di richiamare ogni mio pensiero nel pensiero della Presenza Divina, ogni mio sentimento in un atto di abbandono alla Divina Volontà, non ne ho che pena e scoramento, mi par di essere una bestia caduta sotto il carico, che a un primo colpo di frusta fa uno sforzo, ricade; a un secondo colpo, a un terzo, a un quarto trasalisce appena, neppure tenta rialzarsi. Se apro il Vangelo o l' Imitazione, non vi trovo sapore. Se ripeto preghiere mi vince il tedio e ammutolisco. Se mi prostro sul pavimento, il pavimento mi gela. Se mi lamento a Dio di essere trattato così, il Suo silenzio mi par diventare più ostile. Se con l'autorità dei grandi mistici mi dico che ho torto di avere tanto affetto alle dolcezze spirituali, di soffrire tanto per la loro privazione, mi rispondo che hanno torto i mistici, che nello stato di grazia sensibile si cammina sicuri e che invece in questa notte spirituale senza stelle il cammino non si vede, non c'è altra regola che ritrarre il piede quando si sente molle l'erba, e ciò non basta, ch'è anche possibile di porlo addirittura, il piede, nel vuoto. Padre, Padre mio, mi apra le Sue braccia, ch'io senta il calore del Suo petto pieno di Dio! Vi sono cento ragioni per me di non venire a Santa Scolastica, ma in ogni modo preferirei scrivere. Ella è qui presente a me più che nel corpo; io mi unisco, mi confondo meglio a Lei col pensiero che se Le fossi davanti; e ho bisogno di confondermi a Lei col pensiero, ho bisogno di costringere l'anima mia dentro la Sua. Forse Le manderò questa lettera, forse neppure la manderò. Padre mio, Padre mio, mi fa bene di scriverti più che di parlarti, non ti potrei parlare colla foga che ora mi viene alla penna e non mi verrebbe alle labbra. Scrivendo, io parlo, io grido a te immortale, io ti spoglio dalle mortalità che sono anche nell'anima tua e che mi romperebbero, nella tua presenza, questa foga, delle mortalità di conoscenze incomplete delle cose, di prudenze che ti consiglierebbero veli al tuo pensiero. No, non te la spedirò questa lettera, eppure tu l'avrai; l'arderò, eppure tu l'avrai, sì, tu l'avrai, non è possibile che il mio tacito grido non ti raggiunga, forse adesso nelle tenebre della notte, mentre dormi, forse fra due ore, ancora nelle tenebre della notte, mentre preghi con i fratelli nella dolce Chiesa dove tanto abbiamo adorato insieme. Io so perché sono arido, io so perché Dio mi abbandona. Sempre quando Dio mi abbandona, quando tutte le sorgenti vive dell'anima mia inaridiscono e i germi vivi si disseccano e il mio cuore diventa un mare morto, io so perché. Perché ho udita una musica soave alle mie spalle e mi sono voltato, oppure perché il vento mi recò fragranze dai prati in fiore a lato della mia via e mi arrestai, oppure perché la nebbia mi è salita di fronte e ho temuto, oppure perché uno spino mi offese il piede e ne ho concepita ira. Istanti, baleni, ma intanto l'uscio si apre, un soffio maligno entra. È sempre così, basta uno sguardo raccolto, una lode gustata, una immagine trattenuta, una offesa rimeditata, il soffio maligno entra. E adesso è tutto questo insieme! È scesa la notte sul mio cammino, ho messo il piede nell'erba molle, la ho sentita, ho ritratto il piede ma non subito. Perché adopero figure? Scrivi scrivi, mano mia vile, la nuda Verità! Scrivi che questa casa è un nido di mollezza e che se ho gustato il letto soffice, la biancheria fine, l'odore di lavanda, ho molto più gustato la conversazione del signor Giovanni e le letture assorbenti nel diletto della mente, l'aura di due giovani donne pure, intellettuali, piene di grazia, la loro ammirazione segreta, il profumo di un sentimento che una di esse mi è parsa chiudere in sé, la visione di una Vita nascosta in questo nido fra queste persone, lontana da tutto ch'è volgare, ch'è basso, ch'è immondo, ch'è schifoso. Ho sentito il male del mondo con il ribrezzo che se ne ritrae e non con il focoso dolore che lo affronta per strappargli le anime. Istanti, baleni; mi rifugiai come un tempo nell'abbraccio della Croce ma la Croce, poco a poco, altrimenti da un tempo, mi diventò nelle braccia legno insensibile e morto. Mi sono detto: spiriti di nequizia, male volontà sapienti e forti che sono nell'aria, congiurano contro di me, contro la mia missione. Mi sono risposto: superbia, giù! E poi la prima idea mi riprese, ondeggiai cieco in questa vicenda trista, ogni giorno, tutto il giorno. E poiché niente ne ho lasciato trasparire, poiché capivo che il signor Giovanni e le Signore non dubitavano che io non fossi nell'interno così sereno, così puro come il mio esterno pareva, mi disprezzai, certi momenti, come un ipocrita, per dirmi, il momento dopo, che invece il mio esterno puro e sereno mi aiutava a vivere, parlo della Vita spirituale; che il parer forte mi obbligava a esser forte. Mi paragonai a un albero che ha il midollo divorato dai vermi, il legno consunto dalla putrefazione e vive per la corteccia, può dare foglie e fiori per lei, può dare ombra benefica. E poi mi dissi che questo era buono per gli uomini; ma davanti a Dio, davanti a Dio? E poi mi dissi ancora che Dio mi potrebbe sanare perché l'albero divorato nel midollo non è sanabile ma l'uomo sì; e allora mi torturai per la impotenza di fare quello che Dio avrebbe chiesto a me come cooperazione della mia volontà alla Sua: fuggire, fuggire. Dio è nella voce dell' Aniene che dalla sera della mia partenza da Jenne mi dice: "Roma, Roma, Roma"; e Dio è pure nella forza dei vermi invisibili che mi hanno rosô le virtù vitali del corpo. E allora e allora e allora? Signore, ascolta il mio gemito che Ti domanda giustizia. Ho detto tante volte che certamente partirò appena ne avrò la forza e qui mi vorrebbero trattenere e come potrò io dir loro: amici miei, voi mi siete nemici? Ecco, viltà mia! Perché non potrei dirlo? Perché non lo dirò? Ho letto un giorno nello sguardo della giovine protestante: - Se Lei parte che sarà dell'anima mia? Non deve Lei desiderare di condurmi alla fede Sua? Io non mi lascio condurre ancora. - No, non posso, non debbo scrivere tutto. E come scrivere l'espressione di uno sguardo, l'intonazione di una parola per sé indifferente? Non sono sguardi come quello per il quale San Girolamo s'immerse nell'acqua gelata o almeno la commozione mia non somiglia alla sua. Non vale acqua gelata contro uno sguardo puro nella sua dolcezza. Solo il fuoco vi arriva, il fuoco dell'Amore supremo. Oh chi mi libera dal mio cuore mortale che non si move di un solo picciol moto senza movere tutte le fibre del corpo, chi mi libera il cuore immortale che gli è interno come il germe al frutto e si prepara un corpo celeste? Non posso, non debbo scrivere tutto, ma questo sì lo voglio scrivere: il Signore mi tende insidie e lacci! Caduto, mi deriderà! Perché è avvenuto che io scrivessi il passo latino sulla gente che vive in penitenza fra il Mar Morto e il deserto, "sine pecunia, sine ulla femina, omni venere abdicata, socia palmarum" su quel pezzo di carta che recava sull'altra faccia parole di J. D., calde ancora del mio peccato antico e del suo, delle memorie più terribili? Perché una persona così timida ha osato impormi una comunicazione segreta? Il vento mi ha spalancata la finestra. Oh Aniene Aniene, come non ti stanchi di ruggirmi il tuo comando! Che io parta sul momento? Impossibile, le porte sono chiuse. E poi sarebbe indegno di partire così. Disonorerei Dio, farei dire: che qualità di servi ingrati e pazzi ha il Signore? Vieni, spirito del mio Maestro, vieni, vieni, parla, io ti ascolto. Che mi dici? Che mi dici? Ah tu sorridi delle mie tempeste, tu mi dici di partire, sì, ma di partire nobilmente, di annunciare che il Signore me lo comanda. Tu mi dici di obbedire alla voce di Dio nell' Aniene. Ecco che il vento si allontana, pare chetarsi, contento. Sì, sì, sì, con lagrime. Domani, domattina. Lo annuncierò. E so a chi andrò in Roma. Oh luce, oh pace, oh sorgenti redivive dell'anima mia, oh mare morto che ti gonfii in una calda ondata! Sì, sì, sì, con lagrime. Grazie, grazie. Gloria a Te, Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il nome Tuo, venga il regno Tuo, sia fatta la Tua volontà! _______________________

La condussero al canapè del salottino; e là, dopo un momento di silenzioso abbandono a occhi chiusi, poté dire alla signora Selva, sorridendo ancora, ch'erano affetti di anemia e che c'era avvezza. Noemi e Maria si parlarono piano fra loro. Jeanne intese le parole "a letto" e assentì del capo con uno sguardo di gratitudine. Maria aveva disposto per lei e per Noemi la migliore camera del piccolo alloggio, la camera d'angolo opposta allo studio di Giovanni, dall'altra parte del corridoio. Mentre Jeanne vi si avviava stentatamente a braccio di Noemi, ritornò Selva che aveva accompagnato gli amici sino al cancello. Sua moglie ne udì il passo sulla scala, gli scese incontro, lo trattenne. Si parlarono al buio, sotto voce. Era dunque lui, ma come lo aveva riconosciuto? Eh, Giovanni aveva ben cercato di frapporsi, nel momento pericoloso, fra la signora e don Clemente, il Padre era anche passato quasi di corsa, ma egli aveva sospettato subito, perché la Dessalle non aveva quasi risposto al suo saluto, non gli aveva stesa la mano, era rimasta come una statua. Anche il Padre, quando aveva udito sulla terrazza ch'era arrivata la signora Dessalle, si era mostrato inquieto; poi aveva mostrato un vivo desiderio di evitarla; si era però serbato molto padrone di sé. Oh sì, molto padrone di sé! Questo era pure il giudizio di Maria che raccontò il suo colloquio con lui, lì in fondo alla scala. Marito e moglie salirono lentamente, compresi di quello straordinario dramma, di quel dolor mortale della povera donna, dell'impressione terribile che doveva aver riportato anche lui, dopo tutto, della notte che passerebbero l'uno e l'altra; pensosi di quel che accadrebbe l'indomani, di quel che farebbe lui, di quel che farebbe lei. "Per queste cose è bene di pregare, non è vero?" disse Maria. "Sì, cara, è bene. Preghiamo ch'ella sappia donare il suo amore e il suo dolore a Dio" rispose suo marito. Entrarono, tenendosi per mano, nella camera nuziale, divisa in due da un cortinaggio pesante. Si affacciarono alla finestra guardando il cielo, pregarono silenziosamente. Un alito di tramontana passò come un lamento per la quercia che pende sulla piccola Santa Maria della Febbre. "Povera creatura!" disse Maria. Parve a lei e a suo marito di amarsi anche più teneramente del solito e tuttavia sentirono ambedue, senza dirselo, che qualche cosa li tratteneva dal bacio dell'amore. Jeanne, appena Noemi ebbe chiuso dietro a sé l'uscio della loro camera, le si avvinghiò al collo, ruppe in singhiozzi irrefrenabili. La povera Noemi, avendo compreso, per l'effetto vedutone, che quell'ecclesiastico passato in fretta davanti all'amica sua era Maironi, si struggeva di pietà. Disse parole della più ardente, della più soave tenerezza con la voce di chi blandisce un bambino che soffre. Jeanne non rispondeva, singhiozzava sempre. "È quasi meglio, cara" si arrischiò a dire Noemi "è quasi meglio che tu sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con quell'abito!" Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati "no, no" così strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese quindi i suoi conforti ma più timidamente. "Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio ..." Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso. "Non capisci che non è lui?" diss'ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle sue braccia. "Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?" Ancora Jeanne le si lanciò al collo. "Non è quel frate che mi è passato davanti" disse fra i singhiozzi "è l'altro!" "Chi, l'altro?" "Quell'uomo che lo seguiva, che è partito con lui!" Noemi neppure se n'era accorta, di quest'uomo. Jeanne le strinse il collo da soffocarla, con un riso convulso.

POESIE

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MICHELSTAEDTER, Carlo 4 occorrenze

«No, la morte non è abbandono» disse Itti con voce più forte «ma è il coraggio della morte onde la luce sorgerà. Il coraggio di sopportare tutto il peso del dolore, il coraggio di navigare verso il nostro libero mare, il coraggio di non sostare nella cura dell'avvenire, il coraggio di non languire per godere le cose care. Nel tuo occhio sotto la pena arde ancora la fiamma selvaggia, abbandona la triste spiaggia e nel mare sarai la sirena. Se t'affidi senza timore ben più forte saprò navigare, se non copri la faccia al dolore giungeremo al nostro mare. Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride la morte a chi libero la sfidò». - Carsia, 2 settembre 1910

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 4 occorrenze

- e rideva con abbandono, con tanta spontaneità come se avesse avuto quindici anni. Velleda volle un bacio in fronte, uno solo. Dopo, quando mi sarò trasformata, non vorrà più darmene: sarò tanto brutta! - e con una mossa infantile protese la fronte. Era così carina, così ingenuamente provocante, che Roberto l'attrasse a sé e la baciò sugli occhi, fremente di passione, ma lei gli sfuggì e di sulla porta gl'invio con le dita un bacio. Ma appena in camera, quella gaiezza, che era un'altra forma della malattia nervosa, svanì, il passaggio da una stanza molto illuminata; in un'altra quasi buia, produce spesso questo effetto nei nevrotici, e la camera era appunto rischiarata debolmente da una sola candela. Da quella oscurità Velleda credè di veder risorgere, come da una tomba scoperchiata a un tratto, tutto il lungo corteo dei suoi dolori; ansie e delusioni di giovane sposa; strazi di donna offesa; angoscio e disperazione di madre; umiliazioni, vergogne, e dinanzi a questa orrenda processione di fantasmi vedeva camminare il marito, con la faccia cinica, floscia, le vesti sdrucite, spoglio di tutte le falsità che la cura di piacere e d'ingannare inette sui volti- ignobili, sui corpi corrotti, e che il carcere, la miseria e la morte fanno sparire. E allora ella fu presa da un'altra forma d'eccitamento nervoso, che avevala assalita già quando aveva detto addio alla gloria e al mondo. Le parve che la sua anima, la sua carne, tutto l'essere suo fosse macchiato dal contatto morale, dal contatto fisico di quel forzato, che anch'olla dovesse arrossire, abbassar gli occhi dinanzi a tutti; e l'illusione era così grande che sentiva anche lei una stretta al collo del piede, la pressione di un anello, come se avesse trascinato, se trascinasse la catena. Oh! io impazzisco! - esclamò balzando in piedi dalla poltrona su cui erasi seduta e accendendo quante candele potè trovare. La luce parve la calmasse e, svestitasi lentamente, si coricò dopo avere spento i lumi. Ma, appena al buio, ecco di nuovo l'incubo a tormentarla. Questa volta prendeva la figura di Franco, di colui che l'aveva perseguitata, che sentiva la perseguitava ancora, che doveva aver fatto liberare il marito dal carcere, per infliggerle quell'onta. E se lo vedeva accanto con le braccia protese, ne sentiva l'alito infuocato e la pressione bramosa delle mani sulle carni nude. Le pareva addirittura di morire. Cercò i fiammiferi sul comodino senza trovarli, tastò per sentire se v'era la bottiglia della morfina e non riuscì a trovarla e allora urlò: Costanza! Costanza! Il grido fu udito subito dalla donna, che vegliava ancora, ebra dei baci d'Alessio. Ella comparve in camera col lume e ne accese altri. La morfina! la morfina! - diceva Velleda cui il professor Angelini aveva prescritto quel rimedio, raccomandandole di non abusarne. Costanza le versò la medicina in un bicchierino ed ella guardò la dose e quindi la bevve. Ora dormirò fino a domattina, - disse. - Andate pure a riposare. Costanza uscì, ma poco dopo ritornava scalza. Velleda dormiva già di un sonno profondo. Vedendo l'effetto prodotto da quel rimedio, che non aveva odore e che aveva l'apparenza dell'acqua sorgiva, Costanza sorrise malignamente, e nel suo cervello, in cui non aveva posto altro che un pensiero di vendetta, concretò l'infernale disegno che andava architettando da tanto tempo. Ella vegliò tutta la notte Velleda; la toccava, le tirava via le coperte, le faceva cambiar posizione, le metteva altri guanciali sotto il capo, come se volesse esperimentare la profondità del sonno; la dormente mugolava a pena, ma non apriva gli occhi, non faceva nessun movimento, dormiva sempre. E Costanza, con l'orologio alla mano, osservò che quel sonno aveva durato sei ore. È quel che ci vuole, - disse fra sé, mentre con premura domandava alla signora se si sentiva meglio. Molto meglio, ma stanca, stanchissima, - rispose, non ho forza di alzare un braccio. Ma quando Costanza le ebbe detto che il padrone non era ancora partito, riunì le forze e vestitasi in fretta, scese a recargli in giardino il suo augurio. Torni eletto, - gli disse. La carrozza si allontanò e Franco dalla finestra del suo stanzino da bagno la vide sparire sulla via maestra. Nessuno parlavagli mai, meno che Costanza, eppure da quella finestra e dalle altre che guardavano sul viale, aveva tanto veduto e udito, che avrebbe potuto far la storia degli avvenimenti di quegli ultimi giorni. Nulla eragli sfuggito, neppure l'arrivo dell'ex forzato, di cui aveva ottenuto la liberazione mercé donna Paola, dipingendole Velleda, la sirena, con tinte fosche, e supplicandola di far sì che il marito la strappasse da quel luogo, ove esercitava una funesta influenza. E quel giorno, come ogni volta quando vedeva che una delle sue perfidie, susurrate all'orecchio di un perverso o dette in confidenza a Costanza, producevano l'effetto voluto, sussultava di gioia credendosi anch'egli una forza. In quella solitudine, disprezzato da tutti, da tutti sospettato, Franco inasprivasi ogni giorno di più. Dal tristo che invidiava tutti, odiava tutti e si compiaceva nel commettere il male, all'indifferente disoccupato che non calcolava la portata delle azioni; dal don Franco di Selinunte al duca d'Astura di Roma, correva un gran divario. Finché la vita gli aveva sorriso, la ricchezza e la posizione gli avevano appianato la via, era rimasto un uomo relativamente onesto; ora che tutto gli mancava, ridiveniva tale quale lo avevano fatto la natura e l'educazione: uno sciagurato. Era ancora appoggiato alla finestra dietro le persiane, pregustando il piacere che avrebbe provato il giorno dopo nel veder Roberto tornare battuto dalle mene elettorali alle quali sentiva di aver fornito tanto contributo, quando si sentì battere familiarmente sulla spalla. Si voltò a un tratto e vide Costanza dinanzi a sé. Don Franco, la volete stasera la fiorentina? - gli disse brutalmente. Che dici? Stasera, dove? - domandò il duca sentendosi ribollire il sangue a quella notizia. Sì, stasera alle undici, nella grotta sul mare, dopo la villa. Costanza, come farai a indurla ... ? La donna abbassò gli occhi e alzò il mento con una mossa che significava: "Lasciate fare a me!. Ma dimmi ... ? Non saprete nulla; trovatevi là alle undici. Non è perché voi mi facciate compassione, che ve la metto nelle braccia, no. Rammentatevi che è per vendicarmi di lei. Queste sottigliezze importavano ben poco al duca; gli bastava che Costanza mantenesse la promessa, che alla fine, dopo tanti mesi di acre desiderio, egli potesse farla sua, procurarsi l'appagamento di quel desiderio e la soddisfazione di umiliarla. La conosceva bene, aveva su di lei concentrato tutta la sua osservazione in quegli ultimi tempi e sapeva che Velleda si sarebbe sentita così macchiata dai baci di lui, da ricusare la sua bocca a quelli di Roberto. Così li avrò divisi e dopo tornerà a me; poche donne sanno negare l'amore a chi glielo ha rubato una volta; Velleda sarà mia, mia! Impazziva davvero, ora che il sogno stava per avverarsi, che la brama stava per essere appagata. Sarà mia, mia! - ripeteva socchiudendo gli occhi.

Io non abbandono il campo, perché, quando mi sono messo in una impresa, anche disastrosa, vado fino in fondo, ma mendicare i voti degli operai, no. Allora non sarete eletto e la tirannìa dell'Orlando si aggraverá su noi per altri cinque anni. Pazienza, - rispose Roberto. - Se questa tirannìa. vi pesa, collegatevi con altri cui questo giogo riesce grave ed eleggetemi. Non siete di questo parere, Lo Carmine? Io non supponevo mai tanta perfidia nell'avversario, rispose lo scienziato, - se l'avessi supposto non vi avrei dato quel fatale consiglio. Perché fatale? - domandò Roberto. - Che sapete d'altro, parlate! La ribellione serpeggia fra i vostri operai; le parole dell'Orlando non hanno fatto tutto quel male che dice don Calogero. Sabato essi erano già stati subordinati, sabato hanno dichiarato che non avrebbero più accettato il pranzo delle cucine economiche. Io non sapevo questo fatto. Assicuratevi, don Roberto, che è vero. Fra di essi vi è qualche malvagio, istigato forse dal di fuori. Sorvegliate e ve ne accorgerete. Credete, è ben triste, - diceva Roberto, rivolto agli amici, - di non sapere da qual parte vi vengono i colpi che ricevete. Di qua, di là, mi trovo bersagliato e non veggo il nemico. Ma chi mi ha scatenato contro tutta questa inimicizia? Don Calogero e lo scienziato tacquero; ma un nome era corso alle loro labbra e con uno sguardo si comunicarono il loro pensiero, in quel punto il professore Angelini salì insieme con Maria, e il Lo Carmine prese commiato. Roberto accompagnò a letto la piccina e quindi seguì i due medici nella camera dell'inferma. Questa dormiva ancora, ma al rumore dei passi aprì gli occhi e, riconosciuto nella penembra Roberto, gli sorrise. Mi sento meglio, - disse, - ma ho tanto sofferto. Mi dica, come è andata radunanza elettorale? Benone. Mi farà leggere il suo discorso, l'avrà fatto stampare? Non ancora; non ho pensato a nulla; lei stava così male, che io non poteva rivolgere la mente ad altro. Lo so, mio buon signore, - rispose Velleda ma ora bisogna riprendere la lotta, fare stampare a migliala e migliaia di copie il discorso, girare, darsi moto, accaparrare voti oltre quelli già sicuri. Se sapesse quanto mi affliggevo di essere così malata, perché capivo che la distraevo dal suo scopo! I due medici erano rimasti a parlare sotto la porta, mentre Yelleda e Roberto si comunicavano a voce bassa i loro pensieri. Come le voglio bene! - disse egli, coprendo con la mano quella di lei, che era abbandonata sulla rovescia. E io ... . - rispose Yelleda, avvolgendolo in uno sguardo d'amore. Non la faccia parlar tanto, - ordinò l'Angelini; accostandosi al letto. - Si rammenti che la febbre potrebbe tornare gagliarda se si eccitasse. Ma non è fuori di pericolo? - domandò Roberto. Sì, ansi il miglioramento continua e fra pochi giorni sarà rimessa, ma bisogna evitarle eccitamenti e commozioni; i nervi sono sempre scossi. Il professore tornò presso don Calogero per indicargli la cura da seguire; Roberto rimase presso l'inferma. Velleda, povera amica, so tutto, - le disse, - mi e divenuta doppiamente cara da che sono informato di quanto ha sofferto per me. Sì, ho sofferto tanto, ma ora non possono impormi più nessuna tortura, poiché hanno detto tutto, tutto. Ma basta, - disse il professore, - la signora ha bisogno di calma e di silenzio! Velleda sollevò la testa ricciuta dai guanciali e, rivolta all'Angelini, disse: Crede, signor professore, che nel silenzio io sia più calma? Non è vero, anzi, quando tutto tace d'intorno a me, la mia fantasia lavora febbrilmente. Ora la crisi morale, che ha determinato il mio male; è superata, non corro più nessun pericolo. Non ostante questa assicurazione, Roberto tacque pensando che ella ignorava ancora il peggio: l'allusione velenosa contenuta nel discorso dell'Orlando, il voltafaccia degli operai e le perfidie che forse si ordivano in quel momento in casa Purpura. E, nel pensare a tutto questo; il volto di Roberto si rannuvolò e una ruga profonda gli solcò la fronte. Fino a ora tarda i due medici e Roberto rimasero in camera di Velleda; don Calogero avrebbe voluto vegliarla fino a giorno e Roberto non si sarebbe allontanato da quella camera per proteggere il sonno della sua cara, ma ella non lo permise. Mi sento bene, - disse, - e dormirò profondamente. Andate a riposare e grazie, grazie di tutto. Nel dir questo, stese ai due medici la mano per stringere anche quella di Roberto. Questi accompagnò i suoi ospiti nelle camere destinato loro, ma non si coricò. Egli rimase tutta la notti' in sala a pensare a quel che avrebbe fatto il giorno seguente e ogni tanto andava a origliare alla porta di Yelleda. Ma nel pensare a quello che doveva fare, per togliere fin da principio ogni speranza negli operai sul lucro che potevano ricavare dal loro voto, egli si affannava a cercare chi poteva avere scatenato contro di lui e contro Yelleda tanto odio, tanto livore; chi poteva avere svisato le sue oneste intenzioni, chi era la vipera che si teneva celata e all' improvviso lanciava contro di loro il suo veleno. Ma per quanto cercasse non trovava nessuno su cui appoggiare i suoi sospetti; e quella incertezza, quel buio pesto nel quale si sentiva avvolto, lo sgomentavano. Se lo avesse conosciuto quel nemico vigliacco, sarebbe stato più calmo; ma così come poteva difendersi? Roberto passò angosciosamente la notte e sul far del giorno s'addormentò in un seggiolone, in sala, e dormì un paio d'ore di un sonno pesante; avrebbe dormito anche più lungamente se non avesse sentito due manine che gli cingevano il collo e una bocca che si posava sulla sua. Babbo, stamane sono io che ti vengo a destare con un bacio, - disse Maria. Come, sei già alzata? Si, sono stata anche da Leda, che sta benino; vieni, vieni a vederla. Roberto seguì l'invito della bambina e tutti i pensieri angosciosi, che gli erano ritornati a un tratto alla mente nel destarsi; svanirono vedendo la sua cara seduta sul letto, pallida ancora, ma col viso composto e il dolce suo sorriso sulle tenui labbra. Sono guarita - esclamò ella. - Oggi starò ancora a letto; ma domani, Maria, voglio alzarmi e poi riprenderemo le nostre dolci consuetudini. Piccina mia, ti ho tanto trascurata in questi giorni! - e se l'attirava a sé e la baciava. Roberto; nel vederle così abbracciate; stese le mani per avvolgerle tutte e due in un amplesso, ma le lanciò ricadere sulle spalle di Maria. Perché, perché non poteva realizzare il sogno di dare una madre alla sua piccina e alla sua cara una famiglia? Nessuno avrebbe osato insultare Velleda se portava il suo nome; egli avrebbe avuto il diritto di difenderla; mentre ora doveva lasciarla coprire di fango, senza raccogliere l'insulto. Che orribile situazione! - Scenda a far colazione, - dissegli Velleda vedendolo pensoso; - Maria deve aver fame. Egli scese di fatto e poco dopo, raccomandando alla. piccina di non parlar troppo e di non far rumore, se voleva stare presso la malata, andò allo stabilimento. I pennacchi di fumo s'inalzavano dai diversi edifizi, un vapore era ormeggiato poco distante dalla banchina; ma nessuna barca si accostava a quello recandogli il carico, nessun rumore di martelli partiva dalle officine. I carri erano allineati senza essere attaccati, le botti piene di catene non erano rotolate, perché non si udiva quel cigolìo del ferro che batte contro il ferro. Roberto capì che il lavoro era sospeso, che il nembo si addensava. bisognava esser calmi e lottare. Egli entrò nel piazzale dal lato di terra e si fermò sotto la vòlta. Crii operai erano tutti lì, col breve mantello sulle spalle e il cappuccio sulla testa, com'eran giunti, e parlavano fra di loro a voce bassa; quando lo videro, tacquero. Roberto fece alcuni passi e giunto nel centro volge in'rorno uno sguardo e disse con voce sonora: Che vuoi dire che non lavorate? Giovanni, il solito caporione, volse uno sguardo ai compagni, come se chiedesse loro il permesso e vedendo cenni d'incoraggiamento, disse: Padrone, prima di riprendere il lavoro, vogliamo una promessa. Gli occhi di Roberto lampeggiarono, ma si dominò. Avrai voluto dire desideriamo? - domandò. No; - rispose l'operaio facendo due passi avanti per essere più vicino a Roberto, - ho detto vogliamo; e così intendevo dire. Quelle promesse tu me le hai chieste anche ieri, replicò Roberto, - e io te le ho negate, perché non vaglio mi si detti legge. Oggi sono della stessa opinione. Ebbene, padrone, voi non avrete i notri voti. Chi ve li ha chiesti? - rispose Roberto gettando uno sguardo altero intorno a sé. - Siete venuti ad offrirmeli. È vero, ma non si fa nulla per nulla. Voi volete essere deputato e noi vogliamo assicurato il pane, i nostri voti valgono qualcosa; non vogliamo regalarli. Roberto si sentiva accecare dalla collera, da una di bielle, collere tremende che raramente scoppiavano, ma erano violente come i temporali dopo un lungo periodo di tempo sereno. Egli fremeva in tutta la persona e la voce stessa era divenuta aspra e stridula. Offriteli al migliore acquirente, vendeteli altrove ma non qui; - rispose alteramente. Sta bene, - rispose Giovanni. - Compagni, avete udito? li padrone rifiuta il nostro appoggio. Noi gli diamo tre giorni di tempo per riflettere; poi, se non cede, peggio per lui. Roberto avrebbe voluto mandarli via subito tutti; ma si dominò per il timore che si dicesse che egli aveva cacciato i suoi operai perché non volevano eleggerlo. Andate al lavoro; oggi avete perduto tre ore in conciliaboli: vi saranno trattenute sulla settimana. Anche questo. - esclamò Giovanna digrignando i denti e volgendo sui compagni uno sguardo significante. Andate a lavorare! - ordinò Roberto cui nulla sfuggiva. Il vecchio Federigo; che era rimasto in disparte insieme con pochi compagni; scrollando mestamente la testa canuta, si accostò a Roberto e gli disse: Padrone, io sono un ignorante, non so ne leggere. ne scrivere e non posso votare, ma se potessi vi eleggerei re, perché siete giusto e buono. Pecora! Vile! - gridarono i caporioni degli insubordinati; e dalla massa, che stava loro dietro, partirono fischi prolungati. Federigo si era avviato verso il magazzino in cui era solito lavorare, i suoi compagni erano andati chi di qua chi di là; Giovanni era ancora in atteggiamento di sfida dinanzi al padrone. Al lavoro! - gridò .Roberto. Noi non lavoreremo, - risposero diversi. Non lavoreremo; se non ci rimettete le tre ore di lavoro; è una prepotenza! In quel momento giunse la carrozza alla porta dello stabilimento e ne scese il Varvaro; il quale; vedendo gli operai assembrati; corse a fianco di Roberto. Al lavoro! - gridò Roberto, - Se non mi ubbidite, chiudo lo stabilimento e lo riapro con operai forestieri. Alcuni, intimoriti da quella minaccia, borbottarono, ma a testa china si diressero verso i magazzini o lo officine. Quell'esempio fu seguito da altri; Giovanni e i suoi amici accompagnarono con fischi quelli che si allontanavano e rimasero nel centro del piazzale. Roberto e il Varvaro scambiarono poche parole e quest'ultimo, volgendosi a Giovanni, gli disse: Da un pezzo il padrone ed io siamo malcontenti di te. Lascia subito lo stabilimento. Ah! mi cacciate come un ladro! - esclamò. No, come un insubordinato. I cattivi elementi vanno eliminati. Passa dalla cassa e ti sarà data la settimana. Compagni! - urlò, - se non siete vili, seguitemi. Nessuno si mosse, ed egli traversò solo il piazzale, bestemmiando; si fermò un momento allo sportellino del cassiere e uscì; gli altri ritornarono al lavoro. Narratemi l'esito della vostra gita, - domandò Roberto al Varvaro, quando furono soli. Ieri l'altro sera, appena giunto, andai alla TrinaCria In redazione non v'era che un cronista, il quale non sapeva nulla di nulla e m'invitò a tornare la mattina dopo, quando il direttore soleva essere in ufficio; all'ora stabilita lo incontrai infatti e mi ricevè con molta cortesia e, quando gli esposi il perché della mia visita, si mostrò meravigliato e, facendomi rileggere l'articolo, voleva persuedermi che era pieno di lodi per la signora. Altro che lodi i - esclamò Roberto. Io non lo lasciai continuare e gli domandai quanto aveva avuto dall' Orlando per inserirlo. Si turbò e volle negare, ma io che m'ero accorto di aver colpito giusto con la mia supposizione, gli asserii che lo sapevo e che era inutile facesse misteri, che, se non mi rivelava tutto, lo avrei costretto a battersi alla pistola. Non credete che mi arrischiassi; mi ero accorto di aver a che fare con un vile. Infatti, rivelò che il Bonaiuto, l'antico corrispondente, non era l'autore dell'articolo; ma il Sarno. quel velenoso farmacista, e che le correzioni erano di pugno dell'Orlando, il quale aveva fatto ottenere un sussidio mensile alla Trinacria per il tempo delle elezioni, ed era perciò padrone lui. Che mi rimaneva a fare? Smentire l'articolo era peggio, e così sono tornate per consigliarmi con voi. E il mistero perdura! - esclamò Roberto. - Ma chi può aver fornito quei dati all'Orlando? Chi? Il Varvaro involontariamente alzò gli occhi alle finestre di Franco e stette per tradirai. Rifletteremo, - disse Roberto; - ora occorre invigilare gli operai: il licenziamento di Giovanni avrà uno strascico, - e con passo sollecito entrò nei magazzini. Nessuno lavorava, meno il vecchio Federigo; che portava una piccola bigoncia piena di vino sulla spalla destra e andava a versarla in una botte più piccola di quella da cui lo aveva tolto. Gli altri stavano a gruppi. ciarlando e; quando lo vedevano passare, gli gridavano : Pecora! Vile! Perché lo insultate? - domandò Roberto. - Seguitene l'esempio; egli non sciupa il tempo che è danaro per me, e guadagna coscienziosamente la giornata Andate a lavorare. A quella voce, cui erano soliti ubbidire, i facinorosi si dispersero e incominciarono anch'essi a andare in su e in giù per il lungo magazzino oscuro, nel quale a sciami ronzavano le mosche e le vespe attratte dalle forti esalazioni del vino. Roberto si era fermato dinanzi a una botte che gli pareva gemesse da un lato; così volgeva le spalle agli operai che passavano senza far rumore, poiché sul terreno di quelle specie di gallerie. fiancheggiate da una doppia e talvolta triplice fila di botti, era sparga una sabbia sottile. A un tratto, mentre Roberto stava così curvo, udì in fondo al magazzino un grido seguito da un tonfo. Ebbe un sinistro presentimento e corse verso il punto dal quale era partito il grido; verso quel punto correvano pure tutti gli operai. Quando ebbe fatto un centinaio di passio si fermò. In terra giaceva il vecchio Federigo con la bocca spalancata, vuota di denti, gli occhi vitrei, con quel viso buono, solcato di rughe, che parevano scavate dalle fatiche e dalle lagrime, con i capelli canuti, più bianchi della camicia che lasciava scoperto un collo tutto solchi, come la corteccia di un vecchio castagno. Gli è preso un colpo! È caduto! - dicevano gli operai. Roberto non credeva a tutto questo; era convinto che si trattasse di un assassinio, di uno di quei colpi dati a un infelice, scelto come vittima, e che sono un avvertimento e una minaccia per altri. Difatti, allorché più braccia si protesero per rialzare il vecchio, Roberto, avendo orrore che fra quelli che fingevano pietà si trovasse l'assassino, ordinò : Fermatevi! - e tremante e commosso passò le braccia sotto le ascelle del vecchio e lo sollevò, cercando con l'occhio la ferita. È stato assassinato! - urlò, vedendo dal lato sinistro della schiena, all'altezza del cuore, una macchia di sangue; e sperando che Federigo vivesse ancora lo alzò da terra e lo portò sul piazzale. Ai guardiani, che erano accorsi, ordinò di chiudere le porte dello stabilimento, di frugare a uno a uno tutti gli operai, di scoprire l'assassino; al Varvaro disse di chiamare i medici dalla villa e intanto accostava l'orecchio al cuore di Federigo; ma quel cuore non batteva più, non poteva più battere. Un sottilissimo stile lo aveva perforato da parte a parte, in un momento. Il professore Angelini disse questo appena ebbe esaminata la ferita. Gli operai furono allineati sul piazzale, dinanzi al cadavere. Tutti si lasciarono frugare, stesero le mani all'esame del medico e di Roberto, ma nessuno le aveva macchiate di sangue, nessuno aveva acido - o l'arme tremenda; che non fu trovata in alcun luogo. L'assassino l'aveva gettata in uno dei pozzi del vino. Dinanzi al cadavere di quel vecchio, barbaramente ucciso senza rancore, senza la truce attenuante della vendetta, di quel vecchio pio, onesto e fedele, che Roberto aveva ammesso per il primo nello stabilimento; perde la calma; perde il dominio di sè e urlo : Assassini, perché non avete ucciso me, perché non osate uccidermi? Che cosa vi ha fatto il vecchio Federigo? Nulla! Noi non siamo assassini, - dissero alcuni operai. Si; tutti assassini e vili, se non vendicate il compagno morto, indicando chi lo uccise. Un silenzio profondo regnava sul piazzale. Dunque? - domandò Roberto, facendosi pallidissimo dalla rabbia. - Dunque? Se denunziassimo un compagno, saremmo spie! dissero alcuni. - Non siamo sbirri noi! Roberto incontrava ovunque l'omertà, quella lega del silenzio, quel mistero impenetrabile che avvolge ogni atto vergognoso; infame; ovunque s'imbatteva nell'indifferenza apparente, contro la quale doveva infrangersi la sua potente volontà. Che cosa poteva fare, egli solo col Varvaro e quattro guardiani, contro trecento uomini? Tenerli sequestrati fino all'arrivo dei carabinieri? Questa idea gli balenò nella niente; ma la respinse. Si sarebbero ammutinati, avrebbero dato fuoco agli alcools, sarebbe stata la rovina. E intanto il cadavere di quel povero vecchio; con gli occhi spalancati, pareva che chiedesse a Roberto di esser vendicato. L'orologio dello stabilimento suonò mezzogiorno e gli operai ruppero le file, andarono in cerca dei loro mantelli e uscirono salutando il padrone, il quale non osò trattenerli. Signor Frangipane - disse il professor Angelini, che aveva assistito a quella scena, - la vostra vita non è lieta; ne la vostra missione facile. Non è stato sempre così; - rispose Roberto. Da qualche tempo tutto misi scatena contro; ci deve essere qua dentro qualcuno che mi odia, - e, chinatesi sul cadavere del vecchio, le cui labbra avevano tante volte invocata su di lui la benedizione del ciclo, i cui occhi lo avevano per tanti anni fissato con riconoscenza; li chiuse e ordinò che il cadavere fosse composto sul letto di un guardiano. Poco dopo il professore partiva insieme con don Calogero, il quale doveva far la denunzia alla giustizia. Il professore, prima di salire in carrozza, disse a Roberto: Se le è cara la vita della signora, le nasconda questo fatto e l'allontani di qui. Ha un temperamento nevrastenico e queste scosse potrebbero esserle fatali. Mentre il medico oculato faceva questa raccomandazione a Roberto, Costanza entrava in camera della signora, urlando: Hanno assassinato Federigo! Hanno assassinato Federigo! Velleda a quel grido era balzata dal letto, s'era gettata addosso, una veste e scendeva barcollando le scale. Roberto, che era accorso alla villa per raccomandare a tutti il silenzio su quel fatto, la raccolse fra le broccia mentre stava per cadere e la riportò in camera. È troppo! - gridò Velleda avvitichiandoglisi al collo.

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