Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonavano

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CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

E quelli che non riconoscono i propri figli, e che invece di raccoglierli ed allevarli cristianamente, come egli faceva, li abbandonavano alla miseria ed alla mala sorte? Sì, anche certe persone ricche, anche certi signori facevano così. Sì, anche il padrone ... sì, anche il signor Carboni ... Basta, Anania grande si consolava pensando a ciò; tuttavia gli rimaneva in cuore un senso di tristezza, e guardando in lontananza gli pareva di scorgere i nuraghi che circondavano la cantoniera di Olì; e durante l'ora dei pasti, o mentre si riposava all'ombra dei pini sonori, interrogava il figliuolo sulle sue vicende passate. Anania aveva soggezione del padre, e non osava mai guardarlo negli occhi; ma una volta spinto nella via dei ricordi chiacchierava volentieri, abbandonandosi al piacere nostalgico di raccontare tante cose passate. Ricordava tutto; Fonni, la casa e i racconti della vedova, il buon Zuanne dalle grandi orecchie, i carabinieri, i frati, il cortile del convento, le castagne, le capre, le montagne, la fabbrica dei ceri. Ma parlava pochissimo di sua madre, mentre il mugnaio lo tirava sempre su quell'argomento. «Ebbene, ti bastonava tua madre?» «Mai, mai!», protestava Anania. «Io so invece che ti bastonava.» «Possiate vedermi senza occhi, se è vero!», spergiurava il ragazzetto. «E dimmi ... che cosa faceva essa?» «Lavorava sempre ... » «È vero che un carabiniere la voleva in isposa?» «Non è vero! Essi i carabinieri, mi dicevano: "Di' a tua madre che venga; abbiamo da parlarle ... ".» «Ed essa?», chiedeva un po' ansioso il mugnaio. «Ah, essa si arrabbiava come un cane!» «Ah!» Il mugnaio sospirava: provava un senso di sollievo nel sentire che ella non andava dai carabinieri. Ebbene, sì; egli le voleva ancora bene, egli ricordava con tenerezza gli occhi chiari e ardenti di lei, ricordava i fratellini, il povero e sofferente cantoniere; ma che poteva farci? Se fosse stato libero l'avrebbe certamente sposata; invece aveva dovuto abbandonarla: adesso tornava inutile pensarci. «Va», diceva ad Anania, finito il pasto frugale; «là dove c'è quel fico, vedi, c'era una casa antichissima. Va e fruga per terra, chissà che tu trovi qualche cosa.» Il fanciullo partiva di corsa, mentre il padre pensava: «Le anime innocenti trovano più facilmente i tesori. Se trovassimo qualche cosa! Passerei un tanto ad Olì, e, morta mia moglie, la sposerei. Dopo tutto sono stato io il primo ad ingannarla». Ma Anania non trovava niente. Verso sera padre e figlio tornavano lentamente in paese, attraversando lo stradale chiaro nei cui sfondi ardeva il crepuscolo d'oro. Zia Tatàna li aspettava con la cena pronta ed il fuoco cigolante nel focolare pulito. Ella soffiava il naso al piccolo Anania, gli puliva gli occhi, narrava al marito gli avvenimenti della giornata. Nanna l'ubriacona era caduta sul fuoco, Efes Cau aveva un paio di scarpe nuove, zio Pera aveva bastonato un bambino; il signor Carboni era stato al molino per vedere il cavallo. «Dice che è orribilmente dimagrato.» «Diavolo, ha lavorato tanto: cosa vuole il padrone? Anche le bestie son di carne e d'ossa.» Dopo cena il mugnaio andava alla bettola, perfettamente dimentico di Olì e delle sue avventure; e zia Tatàna filava e raccontava una fiaba al suo figlio d'adozione, qualche volta assisteva anche Bustianeddu. «"Dicono che una volta c'era un re con sette occhi d'oro in fronte che sembravano sette stelle."» Oppure la fiaba dell'Orco e di Mariedda. Mariedda era fuggita dalla casa dell'Orco: «" ... Ella fuggiva, fuggiva, gittando dei chiodi che si moltiplicavano, si moltiplicavano, coprivano tutta la pianura. Zio Orco la inseguiva, la inseguiva, ma non riusciva a prenderla perché i chiodi gli foravano i piedi ... "» Dio, Dio, che brivido di piacere destava nei bimbi la fuga di Mariedda! Che differenza fra la cucina, la figura e i racconti della vedova di Fonni, e la cucina pulita e calda e la figura soave e le storielle meravigliose di zia Tatàna! Eppure qualche volta Anania si annoiava, o almeno non provava l'emozione fremente che i racconti della vedova gli avevano un tempo destato; forse perché al posto del buon Zuanne, del fratellino amato, c'era Bustianeddu cattivo e maligno, che gli dava dei pizzicotti e lo chiamava spia e bastardo anche davanti alla gente e nonostante gli ammonimenti di zia Tatàna. Una sera lo chiamò bastardo davanti a Margherita Carboni, che assieme con la serva era venuta per una commissione in casa del mugnaio. Zia Tatàna gli si gettò sopra e gli turò la bocca, ma troppo tardi. Ella aveva udito, ed Anania provò un dolore indicibile, non raddolcito neppure dal pezzo di pane intinto nel miele che zia Tatàna diede a lui ed a Margherita. A Bustianeddu niente. Ma che cosa era un pezzo di pane intinto nel miele dopo la profonda amarezza di sentirsi chiamato bastardo davanti a Margherita Carboni? Ella era vestita di verde, con calze violette ed aveva intorno al capo una sciarpa di lana rossa che coloriva ancor più le sue guancie paffute e faceva risaltare l'azzurro degli occhi lucenti. Quella notte Anania la sognò così, bella e colorita come l'arcobaleno, ed anche nel sogno provava il dolore d'essere stato chiamato bastardo davanti a lei. Nella Settimana Santa, però, - quell'anno la Pasqua ricorreva agli ultimi d'aprile, - il mugnaio compié il precetto pasquale ed il confessore gli impose di riconoscere legalmente il figliuolo. Nello stesso tempo Anania, che compiva gli otto anni, venne cresimato: padrino il signor Carboni. Fu un grande avvenimento per il ragazzo e per la città tutta che s'era data convegno nella cattedrale, ove Monsignor Demartis, il bel vescovo imponente, impartiva la cresima a centinaia di fanciulletti. Per le porte spalancate, che ad Anania parevano grandissime, la primavera con la sua viva luce e il suo tepore fragrante penetrava nella chiesa gremita di donne dai costumi di porpora, di signore, di bimbi lieti. Il signor Carboni, grosso, rosso in viso, con gli occhi azzurri e i capelli rossicci, col gilè di terziopelo attraversato da una enorme catena d'oro, veniva salutato, riverito, ricercato dai personaggi più cospicui, dai paesani e dalle paesane, dalle signore e dai bimbi che gremivano la chiesa, Anania si sentiva altero e felice di tanto padrino; è vero che il signor Carboni doveva cresimare altri diciassette bambini; ma ciò non toglieva importanza al singolo onore di tutti i diciotto figliocci. Dopo la cerimonia questi diciotto figliocci, coi rispettivi parenti, accompagnarono a casa il padrino, ed Anania poté ammirare la sala di Margherita, di cui aveva sentito dir mirabilia, - una vasta stanza tappezzata di carta rossa, con seggioloni del secolo scorso e cassettoni ornati di fiori artificiali sotto lampade di cristallo, nonché di alzatine con frutta di marmo e piattini con fette di salame e di cacio pure di marmo. Furon serviti liquori, caffè, biscotti e amaretti; e la bella signora Carboni, che aveva due profonde fossette sulle guancie e i capelli neri tirati tirati sulle tempie, graziosamente adorna d'un vestito da camera, d'indiana a quadretti azzurri e rossi, con volante e merletto in fondo, fu amabile con tutti e baciò i bimbi consegnando a ciascuno di loro un involtino. Lungamente Anania ricordò questi particolari. Ricordò che invano aveva ardentemente desiderato che Margherita entrasse nella sala e notasse il suo costumino nuovo, di fustagno gialliccio, duro come la pelle del diavolo, e ricordò che la signora Cicita Carboni, baciandolo e battendogli lievemente la mano inanellata sulla testina orribilmente rasa, aveva detto al mugnaio: «Ah, compare, perché l'avete conciato così? Sembra calvo ... ». «Lasciate, comare», aveva risposto Anania grande, secondando il benevolo scherzo della signora, «la testa di questo buon pulcino sembrava un bosco ... » «Ebbene», riprese la signora, «avete dunque fatto il vostro dovere?» «Fatto! Fatto!» «Me ne rallegro. Credete pure, solo i figli legittimi sono il sostegno dei padri nella vecchiaia.» Poi s'avvicinò il signor Carboni. «Che occhi indiavolati ha questo montanaro!», disse, guardando il bimbo negli occhi. «Ebbene, perché li abbassi? Ridi? Ah, diavoletto ... » Anania rideva di gioia nel vedersi osservato dal padrino, e guardato con affetto dalla signora Carboni. «Che cosa diventerai, diavoletto?» Egli abbassava e sollevava gli occhi lucenti (che le cure di zia Tatàna avevano guarito perfettamente), e cercava di nascondersi dietro del padre. «Dunque, rispondi al padrino!», esclamò il mugnaio scuotendolo. «Che cosa ti farai, diavoletto?» «Mugnaio?», chiese la signora. Egli accennò di no, di no. «Ah, non ti piace? Contadino?» No, e sempre no. «Ebbene, vuoi studiare?», chiese astutamente il mugnaio. «Sì.» «Ah, bravo!», disse il signor Carboni, «tu vuoi studiare? ti farai prete?» «Ancora no.» «Avvocato?», chiese il mugnaio. «Sì.» «Diavolo! Diavolo! Lo dicevo io che ha gli occhi vivi! Vuol farsi avvocato il piccolo topo!» «Ah, caro mio, siamo poveri», osservò sospirando il mugnaio. «Se il bimbo ha voglia di studiare la provvidenza non mancherà», disse il padrone. «Non mancherà!», ripeté come eco la padrona, queste parole decisero il destino di Anania: ed egli non le dimenticò mai più. Il frantoio venne definitivamente chiuso, - per quell'anno, - ed il mugnaio si trasformò del tutto in contadino. Una primavera ardente ingialliva già le campagne; le vespe e le api ronzavano intorno alla casetta di zia Tatàna; il grande sambuco del cortiletto coprivasi di un meraviglioso merletto di fiori giallognoli. Nel cortile d'Anania conveniva quasi sempre tutti i giorni la compagnia che già usava riunirsi nel molino: zio Pera col randello, Efes e Nanna costantemente ubriachi, il bel calzolaio Carchide, Bustianeddu ed il padre, nonché altre persone del vicinato. Inoltre Maestro Pane aveva messo su bottega in un bugigattolo in faccia al cortiletto; tutto il santo giorno era un viavai di gente che rideva, gridava, s'insultava, diceva male parole. Il piccolo Anania passava le sue giornate fra questa gente meschina e violenta, dalla quale apprendeva atti e parole sconcie, abituandosi allo spettacolo dell'ubriachezza e della miseria incosciente. A fianco della bottega di Maestro Pane, in un altro bugigattolo nero di fuliggine e di ragnatele, marciva una misera ragazzetta inferma, del cui padre, partito per lavorare in una miniera africana, non s'era saputo più nulla: l'infelice creatura, soprannominata Rebecca, viveva sola, abbandonata, piagata, su una stuoia lurida, fra nugoli d'insetti e di mosche. Più in là abitava una vedova con cinque bambini che mendicavano; lo stesso Maestro Pane chiedeva spesso l'elemosina. Con tutto ciò la gente era allegra: i cinque bimbi mendicanti ridevano sempre, Maestro Pane parlava con se stesso ad alta voce, raccontandosi storielle amene e ricordandosi fatti allegri della sua gioventù. Solo nei meriggi luminosissimi, quando il vicinato taceva e le vespe ronzavano tra i fiori del sambuco, conciliando il sonno al piccolo Anania coricato supino sul limitare della porta, vibrava nel silenzio caldo il lamento acuto di Rebecca, che saliva, si spandeva, si spezzava, ricominciava, slanciavasi in alto, sprofondavasi sotterra, e per così dire pareva trafiggesse il silenzio con un getto di freccie sibilanti. In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l'abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone; era la voce stessa delle cose, il lamento delle pietre che cadevano ad una ad una dai muri neri delle casette preistoriche, dei tetti che si sfasciavano, delle scalette esterne e dei poggiuoli di legno tarlato che minacciavano rovina, delle euforbie che crescevano nelle straducole rocciose, delle gramigne che coprivano i muri, della gente che non mangiava, delle donne che non avevano vesti, degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino, delle malattie non curate, della miseria accettata incoscientemente come la vita stessa. Ma chi ci badava? Lo stesso piccolo Anania, coricato supino sul limitare della porta, scacciava le mosche e le vespe agitando un fiore di sambuco, e pensava istintivamente: «Uh! Perché grida sempre quella lì? Cosa la fa gridare? Non ci devono essere gli ammalati nel mondo?». Egli s'era fatto tondo tondo, ingrassato dai cibi abbondanti, dal dolce far niente, e sopratutto dal sonno. Dormiva sempre. Ed anche nei meriggi silenziosi, nonostante il grido continuo di Rebecca, egli finiva con l'addormentarsi, col fior di sambuco nella manina rossa, e il naso coperto di mosche. E sognava di trovarsi ancora lassù, nella casa della vedova, nella cucina vigilata dal gabbano nero che pareva un fantasma appiccato: ma sua madre non c'era più, era fuggita, lontano, in una terra ignota. Ed un frate veniva dal convento, ed insegnava a leggere e scrivere al piccolo abbandonato, che voleva studiare per mettersi in viaggio alla ricerca di sua madre. Il frate parlava, ma Anania non riusciva a sentirlo, perché dal gabbano usciva un lamento acuto e straziante che assordava. Dio mio, che paura! Era la voce dello spirito del bandito morto. Ed oltre alla paura, Anania provava un gran fastidio al naso ed agli occhi. Erano le mosche.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Al primo vederlo si capiva come discendesse direttamente da quei leziosi cavalieri settecenteschi, che portavano la spada per solo ornamento ed avevano rinnegato tutte le virtù civili e le atroci prepotenze degli antenati; da quegli arcadi che abbandonavano i nomi aviti per portarne altri di pastori da burla, e si capiva anche come avesse sciupato stupidamente un grande patrimonio. Appena furono seduti nella sala da pranzo, con le pareti rivestite di azulejos siciliani, con i mobili di bambù, bambù,con la tavola scintillante di bellissimi cristalli e di argenteria antica. Velleda si diede a osservare Franco e lo giudicò per quello che valeva. Franco, entrando in quella sala si era rasserenato; tutte le impressioni penose ricevute durante il viaggio e al momento dell'arrivo si erano dileguate ed era lieto di trovarsi in quella casa comoda, dinanzi a quella tavola elegante, alla quale non mancava nessuna delle raffinatezze del lusso. Il viaggio gli aveva dato appetito e mangiando osservava Velleda e rideva fra se pensando di essersela figurata vecchia e brutta. Mio fratello, - egli disse a un certo momento, mi aveva dipinto questa villa come un eremo piantato sulla sabbia; invece mi par d'essere in una di quelle graziosissime abitazioni, che i ricchi signori inglesi si costituiscono a Nizza e a Cannes; nulla manca, mi pare, alle comodità della vita. Nulla assolutamente. Il signor Roberto è previdentissimo e sa utilizzare tutto quello che offre il paese. Così, senza spesa, abbiamo sempre pesce eccellente, caccia prelibata, frutta e legumi squisiti, e quello che manca lo portano i vapori da Napoli, da Palermo, o dai porti della Spagna e dell'Inghilterra o dell'Africa. Ella non conosce ancora la casa e stasera non potrà vederla; ma domani gliela farò visitare, come il Varvaro le farà visitare lo stabilimento, e dopo ella ammirerà suo fratello per il gusto di cui ha dato prova creandosi questo piccolo Eden, e per le larghe vedute con cui dirige il suo commercio. Egli deve provare una grande soddisfazione nel poter dire a sé stesso: Tutto questo è opera mia! Franco non era permaloso, ma quegli elogi tributati al fratello lo umiliavano assai, tanto più che Velleda metteva molto calore nell'esprimerli. Il babbo è un uomo come non ce ne sono altri! disse Maria che era stata zitta e composta fino a quel momento. Franco sorrise alla nipotina e mentre ella con insistenza gli domandava notizie del carissimo assente, egli esaminava Velleda. La istitutrice di Maria aveva maniere così garbate e un fare tanto signorile che Franco pensò come erano state superflue le raccomandazioni fattegli da Roberto di trattarla con riguardo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto fare altrimenti. Velleda era una signora, una vera dama, molto più di tante principesse. Non era giovanissima; poteva avere da trenta a trentadue anni; ma la voce, il gesto, la perfetta sicurezza che dimostrava facendo da padrona di casa, si addicevano all'età, che ella non si studiava di celare. Di statura era piuttosto piccola e sottile come una giovinetta di quindici anni e le forme della snella personcina erano poste in rilievo da un vestito bigio, di lana tagliato da un sarto inglese. Non aveva altri gioielli che una spilla d'oro opaco che le fermava il colletto del vestito. E da quel colletto semplice e un po' maschile si sprigionava un collo sottile, bianco, sorreggente una testina ricciuta. Velleda portava i capelli corti dopo una grave malattia, ma questo non le disdiceva punto, anzi dava una grazia gio vanile alla sua testina piccolissima. Non aveva tratti regolari, perché il naso invece di formare una linea retta con la fronte, era un poco rivolto all'insù ed ella scambiava leggermente un occhio, ma aveva il mento così grazioso, e gli orecchi cosi piccoli e chiusi come fiori ancora in boccio, e la pelle era così trasparente che pareva, secondo l'atteggiamento del volto, lumeggiata di argento. Tutto era luce in quel visino e senza quei cerchi profondi che le attorniavano gli occhi, sarebbe parsa una bimba, tanto aveva fresca la bocca e rotonda la linea che tal mento va fino alla nuca. Velleda non era una di quelle donne che attirano l'ammirazione della folla nelle vie, in un teatro o in un ballo. La cornice adatta per quella singolare testina era una stanza semplice ed elegante; era la casa dove la sua figurina poco ingombrante si aggirava senza far rumore. Forse vestita sfarzosamente, coperta di gioielli, non sarebbe stata bella: ma con quel vestito, che rivelava un gusto finissimo di signora, dinanzi a quella tavola di una eleganza sobria; ella appariva seducentissima anche a Franco che era buon conoscitore. Eppoi la sua voce era una musica. Aveva l'accento toscano, gentile e carezzevole all'orecchio e nel parlare sfoggiava naturalmente tutto l'incanto di quella favella, così precisa nell'espressione e così pura nei suoni Fra reo le domandò se era fiorentina. Sono nata a Fiesole, - ella rispose, - la mamma era russa e il babbo fiorentino; ma aveva passato lunghi anni ini Inghilterra esule; così in casa nostra si parlavano tutte le lingue; ma io ho avuto sempre una grande predilezione par l'italiana ed è la sola che ho veramente studiata. Qui la sento parlar poco, ma leggo molto e specialmente i classici. Se a lei non dispiace, - aggiunse con un sorriso, - noi continueremo il nostro metodo di vita. La domenica, il martedì e il giovedì parliamo italiano, perché Maria deve imparar bene la sua lingua; il lunedì e il venerdì parliamo inglese e il mercoledì e il sabato tedesco. Osservando severamente questo programma in un anno ho ottenuto che la mia piccina possa esprimersi in queste tre lingue; quando venni non sapeva altro che il siciliano, insegnatele dalla sua balia. Oggi quale lingua tocca? - domandò Franco. - Io non parlo tedesco. Oggi toccherebbe appunto il tedesco; ma faremo una eccezione. Non posso condannarla a sentirci parlare una lingua che non capisce. Maria le deve questo riguardo, tanto più che una bambina deve imparare prima l'educazione che ogni altra cosa. Il pranzo era servito dal cameriere di Roberto; vestito con una semplice livrea di tela, ma il servo era così esperto nel servizio che a Franco pareva di essere in casa propria. Mio fratello ha un cuoco eccellente, - disse il duca vedendosi servire un beli gelato di mandarino. Velleda sorrise. È un contadino di Castelvetrano, che ho preso dalla vanga pochi mesi fa, - rispose. - Con un po' di pazienza gli ho insegnato quanto occorre perché ci serva un buon pranzo tutte le sere. Ma per ottener questo abbiamo spesso mangiato otto giorni di seguito le stesse pietanze per farlo impratichire. Ci vuoi pazienza, ma poi si giunge a tutto, - ella aggiunse con una bella sicurezza. Terminato il pranzo Velleda fece salire Franco sulla terrazza del piano superiore, che guardava il mare e dove era servito il caffè. Il vento s'era calmato e Maria andava e veniva dall'ampia sala portando a far vedere allo zio i suoi ritratti e i balocchi e con quella insistenza comune nei bambini cercava di cattivarne l'attenzione ; ma Franco le rispondeva distrattamente, fumando un eccellente sigaro offertogli da Velleda e interrogandola continuamente. Il giovane signore fin dal primo momento che l'aveva veduta, aveva capito che quella colta ed elegante donnina, tutta grazia, non poteva essere una istitutrice di professione e cercava di scoprire il mistero di quella esistenza, perché parevagli impossibile che un mistero non ci fosse. E le domande che le rivolgeva miravano a questo. Ho molti amici anch'io a Firenze, - diceva egli, è molto tempo che manca da quella città? No, da un anno solamente, - rispondeva ella. Mi sorprende, continuava Franco, - che uscendo da quella città gentile e gaia, ella si sia potuta adattare a viver qui. Non mi è stato difficile punto. Per un carattere come il mio, amico della quiete e del lavoro, Selinunte è un paradiso. Eppoi non crede ella che l'ambiente abbia poca influenza sull'animo nostro! I noiati, gl'infelici, portano seco ovunque il loro tedio e il loro dolore, e sono essi soli che incolpano il paese in cui vivono, la gente che li circonda, di esser cagione della tristezza della loro esistenza. Spesso ci rammentiamo con piacere di un luogo e ci pare bello e ridente, perché nel breve tempo che vi abbiamo passato eravamo lieti e predisposti all'ammirazione. Se ci torniamo in condizioni d'animo diverse, non ci par più quello. Ovunque si lavora, ovunque c' è attività, ovunque mi posso rendere utile, io sono felice, relativamente, e mi sento vivere, come qui. Bisogna che io impari da lei; voglio farmi suo scolaro anch'io; qual lavoro mi assegna? - domandò Franco in tono leggermente ironico. Per ora nessuno; domattina, se le annoia di venir qui per la seconda colazione, posso fargliela servire allo stabilimento, come la faccio servire al Varvaro. Visiti i magazzini, s'imbarchi se vuole, sull'yacht, monti a cavallo. Il Varvaro penserà a darle una buona guida. Nel dopopranzo, se non le dispiace, andremo a Castelvetrano. No, no, - rispose Franco, - odio le piccole città dove siamo guardati come bestie feroci. Mi lasci vedere la villa, passeggiare e montare a cavallo; a Castelvetrano vi andrò il meno possibile. Allora lo aspetterò a mezzogiorno. Franco non aveva nessuna voglia di andarsene e Velleda, che vedeva Maria mezza addormentata sopra un sofà, in sala, la prese fra le braccia e presentatala allo zio, perché la baciasse, alzò il volto della bambina fino a quello di lui e poi si allontanò per portarla alla balia e farla mettere a letto. La signora in quell' atteggiagiamento affettuoso, quasi materno, con gli occhi fissi sulla Maria, era cosi graziosa, che Franco la seguì con lo sguardo e quando la vide ritornare, non seppe resistere al desiderio di domandarle: È maritata? ha figli? Sono vedova e ho perduto una cara bambina, che avrebbe l'età di Maria e portava lo stesso nome, - rispose Velleda brevemente. Ho capito subito che ella era stata madre, - osservò Franco. - Non si vuol bene ai bambini altrui, se non si è imparato a voler bene ai proprj. Non sono del suo parere, - replicò Velleda che voleva riportare la conversazione sopra un terreno generale. - L'affetto della donna per le creature deboli non è soggettivo, come ella afferma. La donna ama i piccini per istinto, e le giovanissime maestre degli asili d'infanzia e delle classi elementari adorano i loro scolaretti obbedendo a quell' istinto. Una madre, anzi, separata dai proprj figli o privata di loro dalla morte, deve essere o molto indifferente o molto forte di carattere per affezionarsi ai figli degli estranei. Dunque lei è molto forte? Forse. Non è una virtù, nè un pregio per una donna. Se tornassi bambina e potessi dirigere la mia educazione, invece di studiarmi di esser forte, vorrei esser debole, inetta a ogni lavoro della mente, superstiziosa, devota: una donna vera insomma. Noi, che abbiamo studiato, che abbiamo una personalità, un carattere proprio, siamo generalmente molto infelici, se non sappiamo assuefarci alla ostilità e alla gelosia degli uomini, che vedono in noi altrettanti pericolosi concorrenti, e al disprezzo delle donne ignoranti. È vero che la coscienza del nostro valore, della nostra forza, ci da compensi talvolta sublimi, ma è anche vero che siamo prive di tante soddisfazioni veramente femminili e che dobbiamo camminar sole nella vita per non correre il rischio di cadere sotto il dominio di un uomo volgare, il quale fa pagare alla povera creatura che riduce sua schiava, tutte le ferite alla sua vanità maschile, che egli ha sofferto non solo per lei, ma per colpa di tutte le donne che hanno fatto sforzi per inalzarsi. Peraltro, se noi incontriamo un uomo di sentimenti generosi, privo d'insulse vanità, che ci stima e ci ama appunto per il nostro valore, gustiamo una felicità che la comune delle donne non sogna neppure; ma gli uomini di quel genere sono rari,rarissimi; sono nature quasi divine, e crescendo, come fa ogni giorno, il numero delle donne che anelano ad avere la loro parte nella vita del pensiero e del lavoro, cresce quello delle infelici. Queste teorie non mi pare che le applichi; perché istruisce Maria? Perché il signor Roberto così vuole e per questo mi ha posto a fianco di sua figlia. Per credere alla verità della mia massima, bisogna aver lottato e aver sofferto; bisogna essersi trovate in mezzo alla fiera battaglia fra uomini e donne, combattuta da queste per rivendicare il loro diritto al lavoro dell'umanità; da quelli per impedire soprattutto che questo diritto sia riconosciuto e che nella divisione i loro interessi vengano lesi da una falange di volonterose, che portano nel nuovo campo della loro attività forze giovanili e quello zelo proprio dei neofiti. Ma vedrà quante vittime cagionerà questa battaglia! Il vero debellato sarà l'amore, perché gli uomini, meno quei pochi eletti di cui ho parlato prima; non lo capiscono altro che come un sentimento da padrone a schiava e quando vedranno nella donna la loro eguale, non sapranno amarla e le unioni legittime o no saranno determinate dall'interesse soltanto, senza poesia, senza passione; saranno vere associazioni costituite da due persone capaci di menare avanti col loro lavoro la costosa baracca della famiglia. L'eguaglianza dei diritti porta all'uguaglianza degli obblighi e la donna in questa associazione avrà la soma più pesante; perché oltre a quelli nuovi, non potrà rifiutare i vecchi, che la natura le impone, i suoi doveri verso i figli. Franco ascoltava attentamente Velleda, fissandola. Quella donnina, che pensava ai problemi sociali, che parlava con quella voce armoniosa e con quella grazia femminile di cose che egli non aveva mai sentito trattare da altre donne, lo incuriosiva e lo meravigliava. Questa meraviglia peraltro non era suscitata da un sentimento alto di stima e d'ammirazione, ma da una curiosità quasi infantile di scoprire per quale occulto congegno il cervello di lei presentava certe anormalità, mentre l' involucro esterno era cosi seducente, poiché fino dal primo momento ella eragli piaciuta moltissimo. E quella sera Franco l'avrebbe lasciata parlare lungamente di cose che a lui poco premevano, ma che acquistavano un valore udendole esprimere da lei, se Velleda, sentendo suonar le undici dall'orologio della torre dello stabilimento, non gli avesse fatto capire che quella era l'ora in cui ella doveva coricarsi, per essere alzata alle sei. Franco le augurò la buona notte e le baciò la mano. Saverio, il cameriere di Roberto, con una lanterna rischiarava la via al giovane signore sino allo stabilimento silenzioso, dove col fucile in ispalla vegliava un guardiano, che gli dette la buona sera. Franco dispensò Saverio dall'aiutarlo a spogliarsi e si mise alla finestra di camera sua. Da quella vide chiudere le finestre della villa, spegnere i lumi e poco dopo udì abbaiare festosamente i cani, come se qualcuno li avesse sciolti. Dinanzi a Franco si stendeva il mare illuminato dalla luna e sulle onde si cullavano barche e vaporetti ancorati vicino alla gettata. Un silenzio solenne regnava su quella spiaggia deserta: nessun grido turbavalo, ora che i cani avevano sfogata la gioia di sentirsi liberi nel giardino. Capisco che Roberto possa viver qui, - pensava Franco, - egli si è procurata una esistenza comoda, signorile, allietata dalla presenza di una graziosa donnina; è molto molto abile quel caro fratello! E l'immagine di Velleda gli s'imprimeva negli occhi e la rivedeva ora a tavola, signorilmente composta, ora con Maria fra le braccia, sorridente e affettuosa, ora parlando eccitata della questione femminile, sempre carina sotto quegli aspetti diversi di dama, di madre e di pensatrice. Sapro chi è, conoscerò il mistero di quella esistenza, - disse fra sè Franco, invaso da una malsana curiositá. - Non è una donna comune e a Firenze non può esser passata inosservata. Il Signorini deve conoscerla certo, conosce tutti! E ruminando nella mente il disegno di scrivere a quello sfaccendato fiorentino, che lo distraeva quando passava per Firenze, Franco si coricò e dormì saporitamente.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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A un tratto uno di essi si voltò e fece, sul paese che abbandonavano, un gesto di maledizione. Turno si gettò di sotto impaurito e cadde sulla neve. In quello stesso momento udì un rumore tremendo, e la casetta crollò e scomparve giù nel le profondità della terra, per incanto com'era sorta. I montecorniolesi videro in quella notte, sull'apertura della grotta, due diavoli col piede di capro, che tramandavano un così acuto odore di zolfo, da soffocare quanti si accostavano. Quei due diavoli avevano in mano spade fiammeggianti. I montecorniolesi non solo, ma anche gli abitanti delle valli più basse e dei casolari di montagna s'impaurirono di questo succedersi d'incantesimi, e nessuno osava più passare, neppur di pieno giorno, davanti alla bocca della caverna. Di notte poi non se ne parla, perché stavano tutti rintanati in casa, e dopo la prima notte nessuno volle più esporsi a vedere quei brutti ceffi di diavoli con le spade di fuoco. La notizia di questo fatto giunse fino al beato Romualdo, abate di Camaldoli, il quale scese con una lunga processione di frati del suo Eremo, portando in mano la croce, e si recò a benedire la bocca della caverna di Montecornioli. Il santo abate però disse che sotto quel fatto ci doveva essere un mistero, quando gli fu assicurato da un suo frate che dopo poche notti che la caverna era stata benedetta, erano ricomparsi i demoni a farvi la guardia. L'abate Romualdo ordinò preci e digiuni a tutti gli abitanti del paese di Montecornioli, per impetrare da Dio la liberazione da quel tremendo flagello; ma neppur questi valsero, e i demoni continuavano a mostrarsi. In quel frattempo Turno era ridotto al lumicino. Nella notte stessa dalla scomparsa degli angioli e della casa, egli, sentendosi opprimere da quelle gemme rubate ai poveri, invece di portarsele a casa e nasconderle sotto il mattone del pavimento, aveva scavato una buca in cantina e ve le aveva rimpiattate, e poi era andato a letto. Ma non aveva potuto dormire in tutta la notte, e nell'uscire la mattina per andare nel bosco a segar le legna, come faceva ogni giorno, aveva sentito tutta la gente sgomenta dall'apparizione dei demoni e dalla scomparsa degli angeli, che avevano recato nella notte di Natale tanti doni ai bimbi buoni, ai bimbi poveri di tutta la contrada. Quelle lamentazioni che udiva gli arrivavano al cuore, perché sapeva che senza la sua curiosità e il suo furto, gli angeli avrebbero continuato a beneficare i poverelli del paese. Egli si sentiva un gran malessere dentro e le braccia cionche come se non potesse fare nessun lavoro. Tutto il giorno vagò per il bosco evitando d'imbattersi negli altri boscaiuoli, e non si avviò a casa altro che a ora tarda. Ma prima di oltrepassare gli ultimi alberi, sentì uno sbatter d'ali sulla sua testa, e a un tratto vide un pipistrello, grosso come un'aquila, con gli occhi e la lingua di fuoco. Il pipistrello rimase ad ali aperte davanti a lui, e gli disse: - Turno, tu hai reso al Diavolo un gran servigio, scacciando gli angioli dalla caverna. Devi sapere che essi vi avevano nascosto il tesoro della regina Saba e del re Salomone, salvato da Gerusalemme dopo la distruzione di quella città. Si erano ridotti qui dopo lunghe peregrinazioni e ad essi lo aveva confidato il Nazzareno. Se occhio umano riusciva a mirarlo, essi ne perdevano la custodia, e il tesoro passava nelle mani del nostro signore, Belzebù. Egli ora ti vuole ricompensare e ti permette di penetrare nella caverna e di sceglier magari lo scettro di Salomone e la corona di Saba. - Non voglio nulla! - diceva Turno tremando. - Non voglio nulla; è roba del Diavolo! - e si fece il segno della croce. Il pipistrello con gli occhi di fuoco cadde in terra come fulminato, e dove era caduto si aprì una buca fonda fonda, che ancora si chiama "Buca del Diavolo" e chi ci precipita non riesce a tornar più su. Turno, dopo questo fatto, tornò a casa come immelensito. La sua mamma non gli poté cavar di bocca neppur una parola assennata, perché vaneggiava come un matto. La sera gli venne la febbre, una febbre da cavalli, e nessuno sapeva da che derivasse. Così rimase un mese, fra la morte e la vita. Sua madre chiamò i medici a curarlo, ma essi non ci capivano nulla in quella malattia; chiamò le donne che sanno togliere il mal d'occhio, ma neppure quelle riuscirono a guarirlo; finalmente chiamò il curato a benedirlo, e allora Turno si sentì a un tratto sollevato, cessò di gridare e volle confessarsi. Dopo la confessione si comunicò, e appena si sentì in forze, scese in cantina, prese le gioie che vi aveva nascoste e se ne andò col bordone da pellegrino e col capo coperto di cenere, prima alla Verna, dove rimase in preghiera tre giorni, poi all'Eremo di Camaldoli, e finalmente alla Madonna di San Fedele a Poppi. Dinanzi a quella immagine egli depositò le gemme prese nel tesoro della caverna, e la collana e il diadema che nei giorni di festa ornano il collo e la testa della Madonna, sono ancora formate delle stesse perle e delle stesse gemme donate da Turno. Il quale, finché visse sua madre menò un'esistenza laboriosa, alternando il lavoro con le preghiere; ma alla morte della madre vendé la casetta, distribuendone il prezzo ai poveri, e poi andò a farsi frate a Camaldoli e per le sue virtù fu tenuto in concetto di santità. I montecorniolesi non hanno più veduto i diavoli con le spade fiammeggianti a guardia della caverna, ma nessuno ha osato mai di scavare il monte per impossessarsi delle ricchezze. Due ladri soltanto una volta vennero da lontano per rubare quello che sta nascosto nella caverna, ma sull'imboccatura furono tutti e due colpiti da una saetta, che li incenerì. Ma neppure i bimbi buoni, i bimbi poveri dei casolari sparsi sulla montagna hanno avuto più i ricchi doni, e questo fa supporre che in paese gli angeli non siano più tornati. La Regina tacque, e Cecco, il bell'artigliere, esclamò: Mamma, la memoria vi regge, ma una cosa sola avete dimenticato di raccontare a questi bimbi, che vi stanno a sentire a bocca aperta. - Che cosa? - domandò la Regina. La storia del turbante! - Non l'ho dimenticata; gliela serbo a domani sera, e per ogni festa del Natale ne ho un'altra. - Dunque, mamma, ne sapete tre solamente, perché tre son le feste di Ceppo? - esclamò l'Annina, una bimba vispa, che già aiutava in casa come una donnina. - No, no; intendo dire che ne ho in serbo anche per la sera di Capo d'anno, per quella di Befana e per le domeniche di gennaio. - Siete una gran nonna! - disse, mettendo la testa in grembo alla vecchia, un maschietto di capello rosso, con una testina sempre arruffata e certi occhietti furbi, nei quali si leggeva tutto quel che gli passava nella mente. - Peraltro la novella di stasera non mi capacita. - Perché? - domandò Cecco alzando Gigino e mettendoselo a cavalluccio sulle ginocchia. - Perché gli angioli non se la dovevano prendere con i bambini se Turno era sceso nella caverna. Mi pare che paghi il giusto per il peccatore, e a noi, a noi che ci si sforza di non far birichinate in tutto l'anno, quando vien la vigilia di Natale, non ci tocca nulla. - Son novelle! - sentenziò l'Annina, - e si raccontano così per divertire. Se ci credessi, io non porterei mai le pecore a pascere dalla parte di Montecornioli: avrei paura. - Però Gigino ha ragione, è un'ingiustizia! - dissero a mezza voce altri due piccinucci, che erano sempre del parere del Rossino. In quel momento si sentì alzare il saliscendi dell'uscio e le mamme tornarono con lo scialle tutto tempestato di sottilissimi cristalli di ghiaccio. Esse vuotarono sulla tavola una fazzolettata di brigidini e di confetti, sui quali i bimbi si gettarono avidamente. - Eccoli i nostri angioli! - esclamò l'Annina. - Ecco il mio angiolo! - disse Cecco abbracciando la sua vecchina. Dopo poco, grandi e piccini, tutti riposavano al podere dei Marcucci, e i bei sogni rallegravano la mente dei bimbi dormenti.

Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Appena liberati, avevano subito scavato nelle aiuole i cunicoli da cui traggono il nome, ed al minimo allarme abbandonavano a mezzo le loro nozze e ci si rifugiavano. L' Ambrogio ebbe pena a recuperarli ed a richiuderli in gabbie nuove; il lavoro delle glicemie dovette essere interrotto, perché solo le gabbie erano contrassegnate e non gli animali, e dopo la dispersione non fu più possibile identificarli. Venne Giulia tra un coniglio e l' altro, e mi disse a bruciapelo che aveva bisogno di me. Ero venuto in fabbrica in bicicletta, non è vero? Ebbene, lei quella stessa sera doveva andare subito fino a Porta Genova, c' erano da cambiare tre tram, lei aveva fretta, era una faccenda importante: che per favore la portassi in canna, d' accordo? Io, che secondo il maniaco orario sfalsato del Commendatore uscivo dodici minuti prima di lei, l' attesi girato l' angolo, la caricai sulla canna della bicicletta e partimmo. Circolare per Milano in bicicletta non aveva allora nulla di temerario, e portare un passeggero in canna, in tempi di bombe e di sfollamenti, era poco meno che normale: qualche volta, specie se di notte, accadeva che estranei domandassero questo servizio, e che per un trasporto da un capo all' altro della città ti ricompensassero con quattro o cinque lire. Ma Giulia, già di regola piuttosto irrequieta, quella sera comprometteva la stabilità dell' equipaggio: stringeva convulsamente il manubrio contrastando la guida, cambiava di scatto posizione, illustrava il suo discorso con gesti violenti delle mani e del capo che spostavano in modo imprevedibile il nostro comune baricentro. Il suo discorso era in principio un po' generico, ma Giulia non era il tipo che si tiene i segreti in corpo ad intossicarlo; a metà di via Imbonati usciva già dal vago, e a Porta Volta era in termini espliciti: era furiosa perché i genitori di lui avevano detto di no, e volava al contrattacco. Perché lo avevano detto? _ Per loro non sono abbastanza bella, capisci? _ ringhiò, scuotendo il manubrio con ira. _ Che stupidi. A me sembri abbastanza bella, _ dissi io con serietà. _ Fatti furbo. Non ti rendi conto. _ Volevo solo farti un complimento; e poi lo penso proprio. _ Non è il momento. Se cerchi di farmi la corte adesso ti sbatto per terra. _ Cadi anche tu. _ Sei uno scemo. Dài, pedala, che si fa tardi. In Largo Cairoli sapevo già tutto: o meglio, possedevo tutti gli elementi di fatto, ma talmente confusi e dislocati nella loro sequenza temporale che non mi era facile cavarne un costrutto. Principalmente, non riuscivo a capire come non bastasse la volontà di quel lui a tagliare il nodo: era inconcepibile, scandaloso. C' era quest' uomo, che Giulia mi aveva altre volte descritto come generoso, solido, innamorato e serio; possedeva quella ragazza, scarmigliata e splendida nella sua rabbia, che mi si stava dibattendo fra gli avambracci impegnati nella guida; e invece di piombare a Milano e farsi le sue ragioni, se ne stava annidato in non so più quale caserma di frontiera a difendere la patria. Perché, essendo un "gòi", faceva il servizio militare, naturalmente: e mentre così pensavo, e mentre Giulia continuava a litigare con me come se fossi stato io il suo don rodrigo, mi sentivo invadere da un odio assurdo per il rivale mai conosciuto. Un gòi, e lei una gôià, secondo la terminologia atavica: e si sarebbero potuti sposare. Mi sentivo crescere dentro, forse per la prima volta, una nauseabonda sensazione di vuoto: questo, dunque, voleva dire essere altri; questo il prezzo di essere il sale della terra. Portare in canna una ragazza che si desidera, ed esserne talmente lontani da non potersene neppure innamorare: portarla in canna in Viale Gorizia per aiutarla ad essere di un altro, ed a sparire dalla mia vita. Davanti al 40 di Viale Gorizia c' era una panchina: Giulia mi disse di aspettarla, ed entrò nel portone come un vento. Io mi sedetti ed attesi, lasciando via libera al corso dei miei pensieri, sgangherato e doloroso. Pensavo che avrei dovuto essere meno gentiluomo, anzi, meno inibito e sciocco, e che per tutta la vita avrei rimpianto che fra me e lei non ci fosse stato altro che qualche ricordo scolastico e aziendale; e che forse non era troppo tardi, che forse il no di quei due genitori da operetta sarebbe stato irremovibile, che Giulia sarebbe scesa in lacrime, e io avrei potuto consolarla; e che queste erano speranze nefande, un approfittare scellerato delle sventure altrui. E finalmente, come un naufrago che è stanco di dibattersi e si lascia colare a picco, ricadevo in quello che era il mio pensiero dominante di quegli anni: che il fidanzato esistente, e le leggi della separazione, non erano che alibi insulsi, e che la mia incapacità di avvicinare una donna era una condanna senza appello, che mi avrebbe accompagnato fino alla morte, restringendomi ad una vita avvelenata dalle invidie e dai desideri astratti, sterile e senza scopo. Giulia uscì dopo due ore, anzi, eruppe dal portone come un proiettile da un obice. Non occorreva farle domande per sapere come era andata: _ Li ho fatti diventare alti così, _ mi disse, tutta rossa in viso e ancora ansimante. Feci il mio miglior sforzo per congratularmi con lei in modo credibile, ma a Giulia non si possono far credere cose che non si pensano, né nascondere cose che si pensano. Ora che era sollevata dal suo peso, e allegra di vittoria, guardò diritto negli occhi, vi scorse la nube, e mi chiese: _ A cosa stavi pensando? _ Al fosforo, _ risposi. Giulia si sposò pochi mesi dopo, e si congedò da me tirando su lacrime dal naso e facendo minuziose prescrizioni annonarie alla Varisco. Ha avuto molte traversie e molti figli; siamo rimasti amici, ci vediamo a Milano ogni tanto e parliamo di chimica e di cose sagge. Non siamo malcontenti delle nostre scelte e di quello che la vita ci ha dato, ma quando ci incontriamo proviamo entrambi la curiosa e non sgradevole impressione (ce la siamo più volte descritta a vicenda) che un velo, un soffio, un tratto di dado, ci abbia deviati su due strade divergenti che non erano le nostre.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Alzò il pugno e percosse quel disgraziato sul viso, ma inutilmente: quelle mani non lo abbandonavano, anzi gli conficcavano le unghie nel collo. "Ah! Non vuoi lasciarmi?" disse l'irlandese. "Ebbene, muori tu solo!" Allora, fra quell'oscurità, in mezzo a quelle onde che a volta a volta coprivano i due uomini, s'impegnò una lotta suprema. Il negro resisteva con disperata energia e faceva udire, di tratto in tratto, i suoi scoppi di risa; l'irlandese cercava di liberarsi da quelle strette mortali e lo tempestava di pugni per stordirlo, emettendo grida sempre più rauche, più strozzate. Scendevano, risalivano a galla, si rotolavano fra le onde, si mordevano, urlavano. O'Donnell, già strozzato per tre quarti, si sentiva venir meno le forze, i suoi occhi non scorgevano più l'avversario se non attraverso una nebbia, e si sentiva trascinare negli abissi misteriosi dell'Atlantico, aperti sotto di lui. Con un supremo sforzo trascinò ancora il negro alla superficie, poi si lasciò andare nuovamente a picco. A un tratto si sentì urtare bruscamente e quasi strappare l'epidermide da un corpo ruvido, e gli parve di udire, fra le onde che lo inghiottivano, un grido orribile. Quasi subito sentì allentarsi la stretta e si trovò libero. Senza perdere tempo rimontò a galla, girando all'intorno uno sguardo smarrito. A tre passi vide sorgere bruscamente una forma nera, girare su se stessa un istante, poi sparire. Mandò un grido d'orrore: quella forma nera era un tronco umano, che pareva fosse stato tagliato a metà da una gigantesca forbice. Allora si ricordò dell'urto, dello sfregamento e del grido udito sotto le onde e comprese tutto. Uno squalo aveva tagliato in due il disgraziato Simone. L'irlandese era coraggioso: lo si è già visto alla prova, ma nel ritrovarsi da solo in mezzo all'oceano, forse spiato dai pesce-cani con dinanzi agli occhi l'orribile fine del negro, credette di impazzire per lo spavento. Rimase parecchi istanti immobile, come istupidito, livido, agghiacciato dal terrore, non osando fare il più lieve movimento per paura di attirare gli squali e raggrinzando le gambe, per timore di sentirsele mozzare da un istante all'altro. Una lontana detonazione, che pareva scendesse dal cielo, lo strappò da quell'immobilità, che a poco a poco lo trascinava sotto le onde. "Mister Kelly ... " mormorò. "Ah! Se sapesse in quale situazione mi trovo ... !" Alzò gli occhi e guardò in aria, ma non riuscì a scorgere l'aerostato. Attese alcuni minuti in preda a una tremenda ansietà, poi verso il sud, a una distanza di due miglia vide brillare a grande altezza una striscia luminosa, poi udì un'altra lontana detonazione. "Vi comprendo," disse, "mi segnalate la vostra direzione, ma non posso rispondervi e nemmeno raggiungervi. A quale altezza si troverà il Washington? Questo doppio capitombolo lo pagheremo forse caro." Abbassò gli occhi sul mare, e gli sembrò di vedere qualche cosa di nero agitarsi in mezzo alla spuma di un'onda. "Che cosa può essere?" si chiese. "Che Mister Kelly, nel momento che il pallone si alzava, ci abbia gettato degli oggetti galleggianti? Ho veduto dei salvagente fra le casse della scialuppa. Orsù, non debbo rimanere qui in eterno: se i pesce-cani mi spiano, possono tagliarmi in due anche qui." Rabbrividì a quel pensiero, pure si fece animo e si diresse, procurando di non far rumore, verso quell'oggetto che le onde trastullavano. In pochi istanti lo raggiunse e lo ghermì strettamente. "Non mi ero ingannato!" mormorò, respirando più liberamente. "Grazie, Mister Kelly, di aver pensato a me ! " L'oggetto che aveva afferrato era uno di quei grandi cerchi di sughero, avvolti in tela grossa e robusta e che le navi usano portare attaccati alle murate, per gettarli ai marinai o ai passeggeri che cadono accidentalmente in mare. Sorreggono comodamente una persona per quanto sia pesante, mantenendola a galla anche in mezzo alle più grandi ondate. Ma se l'ingegnere aveva pensato a dare un punto d'appoggio ai due naufraghi, non aveva dimenticato di fornirli di mezzi di difesa contro i formidabili assalti dei mostri marini. Infatti, O'Donnell trovò appesi al salvagente due lunghi e affilati coltelli, due di quei bowie-knives usati dagli americani del Nord. "Se gli squali vorranno mangiarmi, avranno un osso duro da rodere." disse l'irlandese, passandosi le armi nella cintola. "Orsù, in viaggio, e cerchiamo di seguire il pallone." Si passò il salvagente sotto le ascelle e, meravigliosamente sorretto da quell'anello di sughero, si spinse verso il sud, gettando però degli sguardi inquieti sulle acque circostanti e fermandosi di tratto in tratto ad ascoltare se qualche mostro lo seguiva. Le detonazioni erano cessate, ma ormai sapeva che l'aerostato si trovava verso il sud, e ciò gli bastava. Era certo che in quel momento l'ingegnere stava sacrificando il suo gas per discendere verso la superfìcie dell'oceano. Aveva percorso circa seicento metri, quando vide verso il sud, ma quasi a fior d'acqua, balenare un lampo, e poco dopo intese una debole detonazione. "To'!" esclamò. "Che vi sia una nave laggiù, o che l'ingegnere sia già disceso?" Si arrestò, guardando attentamente in quella direzione, e gli parve di distinguere, sul fondo azzurro del cielo, che cominciava a tingersi dei primi riflessi dell'aurora, una massa oscura sospesa a breve distanza dalla superficie dell'oceano. "Dev'essere il Washington" mormorò. "Quale salasso avrà dovuto fare ai palloni Mister Kelly per abbassarsi così presto! Fortunatamente c'è la riserva nei cilindri e la zavorra è ancora abbondante. Dannato polipo! E stato la causa di tutte le nostre disgrazie e della fine orribile del povero Simone. Per mille merluzzi! Sento gelarmi il sangue quando penso a quel tronco umano che ho visto sollevarsi sulle onde e quel ... " S'arrestò bruscamente, girando intorno lo sguardo spaurito. Gli era sembrato di sentire un rauco sospiro e un tonfo sordo. "Qualche pesce-cane?" mormorò battendo i denti. "Che sia destinato anch'io ad avere per tomba lo stomaco di uno squalo? Ventre di balena! C'è da impazzire, anche senza essere paurosi." Stette in ascolto parecchi minuti, trattenendo perfino il respiro: ma non udì più nulla. Credendo di essersi ingannato, riprese le mosse verso il sud, nella cui direzione cominciava già a scorgere il Washington che pareva ancorato a breve distanza dalla superficie dell'oceano. L'onda larga, investendolo e coprendolo di spuma, lo stancava, paralizzandogli le forze, che cominciavano ad esaurirsi. Si sentiva le estremità irrigidirsi a poco a poco e provava una grande oppressione al petto, che gli rendeva penoso il respiro. Tuttavia, la paura di venire assalito da qualche torma di squali affamati, lontano dall'aerostato, lo spingeva a tirare innanzi senza prendere riposo. Il Washington spiccava ora nettamente sul fondo madreperlaceo dell'orizzonte, avvicinandosi rapidamente l'alba, ma pareva che la distanza non scemasse mai. Per maggior disgrazia, la paura invadeva poco a poco il disgraziato irlandese, il quale credeva di udire dietro di sé i rauchi sospiri dei mostri marini e temeva che s'avvicinassero sott'acqua. Allora ripiegava le gambe e si arrestava in preda a un'angoscia indescrivibile, impallidiva come un morto e, malgrado il freddo che quel bagno prolungato gli procurava, si sentiva scendere sulla fronte grosse gocce di sudore. "Arriverò vivo al Washington o lascerò le mie gambe in quest'oceano?" si chiedeva ad ogni istante, con terribile perplessità. Alle cinque il sole apparve bruscamente sull'orizzonte, inondando l'oceano di raggi abbaglianti. O'Donnell respirò e salutò l'astro con un vero e proprio grido di gioia. "Almeno potrò vedere qualcosa e scorgere forse a tempo gli squali." disse. Guardò verso il sud. L'aerostato non era lontano che un miglio, e nella navicella scorgeva l'ingegnere, il quale alzava le braccia come per incoraggiarlo a fare presto. Raddoppiò gli sforzi e avanzò in quella direzione, respirando a grande fatica. Ma, percorsi tre o quattrocento metri, si arrestò con i capelli irti e il viso sconvolto da un'inesprimibile angoscia. A venti passi aveva scorto un punto nerastro emergere dalle onde e poi una larga pinna natatoria, che era subito scomparsa. "Gran Dio!" esclamò. "Ecco il nemico!" Abbandonò il salvagente, impugnò il bowie-knife e si tuffò. L'acqua era limpida, e si poteva scorgere, a grande profondità, un pesce di grosse dimensioni. Guardò a destra e a sinistra e vide una grande ombra che pareva s'immergesse venti o trenta metri più lontano. La seguì con gli occhi smarriti finché poté, poi tornò in superficie, aggrappandosi al salvagente. Non vide nulla. Aveva scambiato qualche grosso delfino con uno squalo, o lo squalo non l'aveva ancora visto? Si sa che questi terribili mostri, specialmente i tintoreas ci vedono assai male, e poteva darsi che il mostro che si trovava in quelle acque non avesse scorto la preda umana. O'Donnell rimase parecchi minuti immobile, con gli orecchi tesi e gli occhi ben aperti, poi si decise a riprendere il faticoso esercizio. Comprendeva che ormai la sua salvezza non dipendeva che dalla sua rapidità, perché lo squalo non avrebbe tardato a scoprirlo. Fece un ultimo e disperato appello alle proprie forze e si spinse innanzi con la maggior velocità possibile, ma procurando, nello stesso tempo, di non far rumore. Alle sei non era che a cento passi dal Washington, il quale si trovava trattenuto dalle due àncore a soli sessanta metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere aveva calato le guide-ropes, alle cui estremità pendeva l'ancorotto a patte, che non era stato più staccato dopo l'abbordaggio con la nave dei morti. "Coraggio, O'Donnell!" gli gridò Kelly. "Ancora uno sforzo e siete salvo." "Vengo, Mister Kelly." rispose l'irlandese che era esausto. "Ma dov'è Simone? È morto ... ?" "Mor ... to." rispose O'Donnell, rabbrividendo. "Forse che ... " L'ingegnere si era bruscamente interrotto, gettando un grido di terrore.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Non abbandonavano invece totalmente la loro religione, fossero francesi, inglesi od olandesi; ma questa consisteva soltanto nel nominare Dio e nel farsi di Lui un'idea quale giovava alle loro abitudini. Strano era in essi il modo con cui si univano talvolta in matrimonio colle donne, per la maggior parte indiane o prigioniere europee, comperate come schiave alla Tortue. - Mi dovrai rendere ragione di quanto farai d'ora innanzi con me, - dicevano quei fieri uomini. Poi, battendo sulla canna del loro infallibile archibugio, aggiungevano con voce minacciosa: - Ecco quella che mi vendicherà, se tu non mi ubbidirai! I bucanieri partivano ordinariamente per la caccia allo spuntare del giorno, preceduti dai loro cani e seguiti dall'arruolato. Un bracco camminava dinanzi alla muta e, scoperto il toro o il cinghiale, dava segno agli altri, i quali correndo ed abbaiando, gli si mettevano intorno finché giungesse il padrone. Il colpo era quasi sempre sicurissimo e la prima cosa che faceva il cacciatore, se riusciva a gettare a terra la selvaggina, era quella di tagliarle il garretto. Se la ferita era leggera e la bestia infuriava e caricava, il bucaniere, agilissimo, sapeva mettersi sempre in salvo, arrampicandosi su d'un albero. Di lassú poi finiva facilmente a colpi d'archibugio la bestia, la quale non aveva mai tempo di scappare. Essa veniva subito scorticata, poi il bucaniere ed il suo arruolato ne traevano uno degli ossi maggiori, lo spezzavano e ne succhiavano il midollo ancora caldo e quella era ordinariamente la loro colazione! Mentre l'arruolato s'incaricava di tagliare i pezzi migliori da seccare o affumicare e li trasportava nella capanna, il bucaniere continuava la sua caccia, aiutato dai cani, né smetteva finché calava la notte. Quando poi aveva messo all'ordine quella quantità di pelli sufficiente per costituire un piccolo carico, lo portava alla Tortue o in qualche altro porto tenuto dai filibustieri. Una esistenza condotta con siffatti esercizi e sostenuta col genere di alimenti che abbiamo accennati, salvava quei terribili cacciatori dalle tante malattie alle quali altri andavano soggetti. Tutt'al piú li colpiva talvolta una febbre effimera, che spariva prestissimo con semplici profumi di foglie di tabacco. A lungo andare però le fatiche eccessive e le intemperie dovevano a poco a poco esaurirli. Gli spagnuoli, inquieti per la presenza di quei cacciatori tutti stranieri, per un po' di tempo li lasciarono cacciare, ma quando li videro fondare degli stabilimenti nella penisola di Samana al porto di Margot, nella Savana bruciata, verso i Goniaives, nell'imbarcadero di Mirfolais ed in fondo all'isola Avaches, presero il partito di cacciarli dalla grande isola, dichiarando a quei disgraziati una vera guerra di esterminio. La guerra scoppiò ferocissima. Gli spagnuoli si erano facilmente lusingati di fare una vera strage di quei miserabili, i quali, dopo tutto, non avevano mai recata a loro alcuna offesa. Li sorprendevano spesso quando si trovavano in piccolo numero nelle loro corse, oppure di notte nelle loro abitazioni e, quanti ne prendevano, altrettanti ne trucidavano o li tenevano come schiavi, quasi fossero negri od indiani, facendoli lavorare duramente nelle piantagioni a colpi di sferza. Certamente i bucanieri in tal guisa sarebbero stati a poco a poco distrutti, dalle tante cinquantine lanciate attraverso i boschi, se con miglior consiglio i cacciatori non si fossero finalmente decisi a raccogliersi in corpo, per difendersi. Il bisogno di caccia portava che di giorno si sbandassero, ma alla sera si univano tutti in un luogo stabilito e se qualcuno mancava, argomentando che fosse stato ucciso, sospendevano le loro scorrerie fino a che o l'avessero trovato o vendicato. E cominciò allora una lotta a tutta oltranza, I bucanieri fino allora si erano lasciati trucidare; da quel momento cominciarono a prendersi cosí spaventose rivincite, che tutta l'isola fu inondata di sangue e molti luoghi ricordano anche oggidí coi loro nomi le stragi avvenute. Temendo però i bucanieri di non poter tenere testa alle innumerevoli cinquantine spagnuole, si decisero di trasportare, dopo una lunga lotta, i loro stabilimenti sulle isolette che circondano San Domingo. Non andavano piú ormai alla caccia che in grosse partite, combattendo fieramente quando incontravano il nemico. Alcuni stabilimenti salirono in fama, come quello di Bayaba, il quale aveva un porto vastissimo molto frequentato da navi inglesi, francesi ed olandesi. Appunto da Bayaba, essendo mancati un giorno quattro bucanieri, i loro compagni organizzarono una grossa spedizione per liberarli o vendicarli. Avendo appreso, strada facendo, che erano stati condotti a Santiago ed appiccati, trucidarono gli informatori che erano spagnuoli, poi assalirono furiosamente la città, prendendola d'assalto e massacrando quanti uomini si trovavano rinchiusi fra le mura. Non mancavano però gli spagnuoli di rifarsi di tratto in tratto delle sconfitte che subivano, ma era ben difficile di snidare, come essi desideravano, tutti i bucanieri che scorazzavano per le foreste dell'isola. Col tempo però vi riuscirono, distruggendo tutti i tori e tutti i porci selvatici che infestavano le foreste e le paludi, e quel colpo fu cosí fatale ai bucanieri, da deciderli a rivolgersi al mare per trovare nuovi alimenti e alla terra per ottenere raccolti da trafficare. Gli spagnuoli però si erano ingannati sulle loro speranze, perché i bucanieri, da cacciatori di terra si erano trasformati in scorridori del mare, diventando quei terribili filibustieri che dovevano recare tanti danni alle colonie spagnuole del golfo del Messico e dell'Oceano Pacifico. ... ... ... Il bucaniere, come abbiamo detto, udendo le parole del figlio del Corsaro Rosso, aveva lasciato cadere l'archibugio e si era fatto innanzi, col cappellaccio in mano, salutando rispettosamente con un profondo inchino. - Signore, - disse. - Che cosa desiderate da me? Sarebbe per me un grandissimo onore poter essere utile in qualche cosa al nipote del grande Corsaro Nero. - Non vi chiedo che un asilo sicuro per riposarmi qualche ora ed una colazione, se è possibile averla, - rispose il conte. - Io vi offrirò delle bistecche quante vorrete ed una superba lingua di bue, - rispose il bucaniere. - Tengo in serbo sempre qualche bottiglia di aguardiente per le visite inaspettate e sarò ben felice di offrirvela. - Buttafuoco - rispose il bucaniere sorridendo. - Un nome di battaglia, non è vero? - Il mio l'ho dimenticato - disse il cacciatore, corrugando la fronte. - Varcando l'Oceano, perdiamo i nostri nomi, ma vi posso dire che ero figlio di una buona famiglia della Linguadoca. Che cosa volete? La gioventú talvolta fa commettere delle cattive azioni ... Orsú, non parliamo di questo. È un mio segreto. - Che io non desidero affatto conoscere - rispose il conte. Il bucaniere si passò tre o quattro volte la mano callosa e macchiata di sangue sulla fronte, come se volesse scacciare lontani e dolorosi ricordi, poi disse: - Mi avete domandato un ricovero ed una colazione, ed io sarò orgoglioso di offrire l'uno e l'altra al nipote del grande corsaro. Accostò una mano alle labbra, si mise due dita in bocca e mandò un lungo fischio. Pochi momenti dopo un giovanotto di venti o ventidue anni, biondo, magro, con gli occhi azzurri, vestito come il bucaniere, accompagnato da sette od otto grossi cani, uscí dalla foresta. - Leva la pelle a questa bestia - gli disse ruvidamente Buttafuoco - e portaci al piú presto la lingua e delle costolette. Potranno servire per questa sera. Poi, volgendosi verso il corsaro con una gentilezza strana in un uomo di apparenza cosí rozza, disse: - Signore, seguitemi. La mia povera capanna e la mia misera dispensa sono a vostra disposizione. - Non vi chiedo di piú - rispose il conte. Il bucaniere raccolse il suo grosso archibugio e si mise in cammino, osservando attentamente le macchie, forse piú per abitudine che per altro, poiché i cani non davano alcun segno di inquietudine. - E il bufalo che avete ucciso, lo lasciate là? - chiese ad un certo momento il conte. - Il mio amico non dev'essere lontano - rispose il bucaniere. Incaricherò lui di scorticarlo e di togliergli le parti migliori. - E il resto? - Lo lasciamo ai serpenti e agli avvoltoi, signore, quello che a noi importa sono le pelli che si vendono vantaggiosamente a Porto Bayada agli inglesi o ai francesi che vi approdano in buon numero ogni sei mesi. - Senza venire disturbati dagli spagnuoli? - Oh! guai se ci lasciamo prendere! Ma noi siamo furbi, e poi siamo protetti dai filibustieri della Tortue, nostri buoni alleati. - Avete conoscenti alla Tortue? - Molti, signor conte. - Quando vi siete stato? - Appena tre mesi fa. - Grogner e Davis si trovano ancora colà? Ho delle lettere di raccomandazione per loro e anche per Tusley. Sono i filibustieri piú noti al giorno d'oggi, non è vero? - Sí, signor conte; ma dovreste correr molto, prima di presentargliele. - Perché? - Perché in questo momento lavorano sul continente o, meglio, sull'istmo di Panama, verso il Pacifico. Le loro ultime notizie, recate da un gruppo di filibustieri, sono giunte dall'isola di San Giovanni. Pare che si siano stabiliti colà per dare la caccia ai galeoni che il Perú manda di quando in quando a Panama. - Sicché sarò costretto ad attraversare l'istmo se vorrò trovarli? disse il signor di Ventimiglia, il quale sembrava non troppo lieto di quelle risposte. - Capitano, - disse Mendoza, il quale si era accorto del malumore del corsaro - Pueblo-Viejo si trova sull'istmo e non potremmo giungervi con la nostra fregata. Visiteremo quella graziosa città per andare a stringer la mano al marchese di Montelimar; poi andremo a cercare i famosi filibustieri, senza dei quali nulla potreste fare. - Tu hai sempre ragione, amico - rispose il conte rasserenandosi un poco. - Ecco la mia capanna - disse in quel momento il bucaniere, mentre i cani si slanciavano innanzi, latrando festosamente. Sotto un gruppo di splendide e altissime palme e di cavoli palmisti, sorgeva una miserabile abitazione formata da rami malamente intrecciati e da poche pertiche, con alcune pelli gettate al di sopra per riparare alla meglio il suo proprietario e il suo servo dagli acquazzoni diluviali che, di quando in quando, si rovesciavano sull'isola con furia inaudita. Sotto una piccola tettoia, innalzata a pochi metri di distanza, si trovava la cucina che consisteva in tre o quattro sassi, che dovevano servire da camino, da un paio di spiedi e da un vaso di terra pieno d'acqua. Tutto all'intorno vi erano pelli di bufali stese a seccare e ammassi di carne affumicata e seccata, coperti da gigantesche foglie di banano. - Ecco il mio palazzo! - disse il bucaniere ridendo. - Avrebbe bisogno di molte riparazioni, ma non trovo mai il tempo di diventare un boscaiuolo. Entrate, signor conte. L'interno della catapecchia non valeva piú dell'esterno. Uno strato di foglie secche serviva da letto, ed era tutto il mobilio di quel cacciatore, il quale forse un tempo era abituato al lusso raffinato della capitale della Francia. Appesi ai pali vi erano dei coltellacci imbrattati di sangue fino alle impugnature; dei corni immensi contenenti probabilmente della polvere da sparo; dei sacchetti di cuoio per il piombo e delle zucche che servivano da fiasche. - Un'abitazione da indiani! - disse il conte. - Peggio, signore! - rispose il bucaniere. - Quei selvaggi sanno fabbricarsi delle capanne assai piú comode delle nostre ... Accomodatevi, signori, mentre io vi preparo la colazione. Ecco il mio arruolato che giunge ben carico. Il giovane, lordo di sangue dal viso alle scarpe, avanzava penosamente, portando sulle spalle dei lunghi pezzi di carne che aveva allora levati dal bufalo, ed una magnifica lingua. - Spicciati, Cortal - disse il bucaniere ruvidamente. - Abbiamo delle persone a pranzo e offriremo loro un bell'arrosto di lingua. Vi è del maiale freddo avanzato da ieri? - Sí - rispose il giovanotto. - E la pelle del bufalo? - Andrai a raccoglierla piú tardi. Nessuno ce la porterà via. L'arruolato gettò in mezzo alle erbe la carne, diede uno sguardo di sfuggita agli ospiti, toccandosi con la destra grondante di sangue la tesa del suo cappellaccio scolorito e bucato almeno in dieci punti; poi alimentò il fuoco, mentre il padrone preparava la lingua e la infilava nello spiedo. - Non invidio di certo la vita di quel povero garzone - disse il guascone, indicando l'arruolato. - E forse anche lui appartenne un giorno a qualche buona famiglia. - Quanto dura il loro arruolamento? - chiese il conte. - Tre anni, ordinariamente - disse Mendoza. - Dopo passano a loro volta bucanieri; ma sono tre anni di tribolazioni, poiché vengono trattati come schiavi, e non sono loro risparmiate né percosse, né sofferenze d'ogni specie. I bucanieri, abituati a vivere sempre in mezzo al sangue, diventano ben presto brutali, e per loro, uccidere un toro o un uomo è la stessa cosa. Hanno una sola qualità buona: sono leali e ospitalissimi. - Sicché quando l'arruolato sarà diventato bucaniere, non tratterà meglio il garzone che prenderà al suo servizio. - È cosí, capitano - rispose Mendoza. - Si direbbe anzi che vogliano vendicarsi a loro volta delle busse prese e dei patimenti subiti durante la loro schiavitú. Mentre chiacchieravano, Buttafuoco e il suo servo si facevano in quattro per allestire il pranzo, molto abbondante, è vero, ma anche molto modesto, poiché non consisteva che in un pezzo di maiale freddo, nella lingua del bufalo malamente arrostita e in un cavolo palmista che, bene o male, surrogava il pane che mancava assolutamente. Quei poveri cacciatori soltanto qualche rarissima volta potevano ottenere un po' di grano, e allora era una vera festa per loro. L'arrosto fu presto pronto e fu servito dall'arr uolato su una foglia di banano, insieme con alcune enormi ossa già spezzate per poterne succhiare piú comodamente il midollo crudo e ancora tiepido. - Mi rincresce, signor conte, di non potervi offrire di piú - disse Buttafuoco, il quale cercava di mostrarsi amabile. - Se possedessi ancora il mio castelluccio in Normandia, avrei fatto ben altra accoglienza al nipote del grande Corsaro Nero ... Bah! - aggiunse poi, mentre la sua fronte si aggrottava ed una profonda emozione si dipingeva sul suo volto abbronzato - non vale la pena di risvegliare dei lontani ricordi. Il passato è morto per me, dopo che ho varcato la linea ... Mangiamo, signori! Tagliò la lingua e l'arrosto di maiale, servendosi d'un enorme coltellaccio; spaccò in vari pezzi il cavolo palmista con degli scatti d'ira che tradivano una profonda agitazione, poi con un gesto fece segno ai convitati di servirsi. Mangiarono in silenzio. Il conte di quando in quando fissava il bucaniere e questi, quasi temesse che egli indovinasse la causa della sua profonda emozione, si affrettava ad abbassare lo sguardo o a volgere altrove il viso, con la scusa di dare al suo arruolato qualche ordine. Quando il pranzo fu terminato, Buttafuoco offrí ai suoi ospiti dei grossissimi sigari da lui stesso fatti con tabacco probabilmente rubato nelle piantagioni spagnuole; poi disse a Cortal, che aveva mangiato fuori della capanna accanto al fuoco: - La fiasca d'onore: vi è un conte fra noi, amico. L'arruolato frugò sotto un banano e ne trasse un'enorme zucca, parecchi bicchieri di corno di bufalo e portò l'una e gli altri nella catapecchia. - Signor conte, - disse il bucaniere con una certa amarezza - io non posso offrirvi né dello champagne, né del Borgogna, né del Medoc, perché non siamo in Francia. Qui non abbiamo che meschina aguardiente o del megeol, perché l'isola non ci dà niente di meglio. È la mia provvista che talvolta cerco a prezzo della mia vita che se ne va ... quella provvista che certe notti mi è necessaria per dimenticare il passato, per non piangere ... Signor conte, accettate. - Voi siete commosso, Buttafuoco! - gli disse il signor di Ventimiglia. - Si può esser forti, signor conte, - rispose il bucaniere - si può aver varcata la linea equatoriale; si può aver giurato di aver dimenticato il proprio paese ... la mia Normandia ... il mio castello ... una sorella amata e che per me è ormai morta per sempre ... il padre gentiluomo che riposa laggiú accanto a mia madre sotto le zolle dell'abbazia ... Morte dell'inferno! Bevete, signor conte ... berrò anch'io! Afferrò rabbiosamente la tazza di corno e la vuotò d'un fiato, gridando poi: - Ancora, Cortal, ancora! Bisogna che affoghi i ricordi lontani! Ah, la triste sorte che mi ha colpito! Il viso del fiero bucaniere si era spaventosamente alterato. Non piangevano i suoi occhi, eppure s'indovinava che faceva degli sforzi supremi per trattenere le lacrime, vergognoso forse di tradire il segreto delle sue pene. - Bevete, signor conte, - riprese dopo qualche istante, vuotando un'altra tazza. - Non avrei mai creduto di dover ospitare sotto questa miserabile capanna un gentiluomo della lontana Europa. L'avevo sperato un giorno, era una follia certamente ... un uomo che fosse venuto qui a trovare me per caso o per combinazione. - Continuate, Buttafuoco, - disse il conte - siete fra amici. Il bucaniere vuotò il terzo bicchiere di aguardiente, poi, facendo un gesto di ira terribile, riprese con voce strozzata: - Parigi maledetta! Sirena infame che mi hai stretto fra le tue spire! Meglio sarebbe stato che io non ti avessi mai veduta! Le tue mille e mille seduzioni hanno fatto di me un miserabile bucaniere, un macellaio delle foreste di San Domingo! ... Maledetto giuoco! Sei stato la mia rovina! - Ma chi siete voi? - chiese il conte, profondamente commosso dall'intenso dolore che traspariva sul viso del bucaniere. - Lo vedete, - rispose Buttafuoco, ridendo nervosamente - un cacciatore di buoi ... un miserabile avventuriero. Da quando ho passata la linea, io non ho piú patria, non ho piú famiglia, non ho piú nobiltà, piú nulla fuorché il mio archibugio che tutti i giorni uccide per non uccidere il mio cuore. Per la quarta volta vuotò la tazza che l'arruolato gli aveva riempita. - Gli anni sono passati, - riprese il disgraziato, serrando la fronte fra le mani, come se cercasse di comprimere i pensieri che lo tormentavano - Eppure vedo ancora il mio castello, là, sulle rive dello stagno, ergersi superbo con i suoi pinnacoli e le sue torri; vedo ancora in certe notti passeggiare sulle terrazze quella dolce fanciulla che era mia sorella e per la quale avrei dato la vita pur di vederla felice ... Un barone della Bretagna la fece sua sposa ... Sia felice, ed ignori per sempre la sorte del suo disgraziato fratello ... Cortal, dammi ancora da bere. Ho sete, una terribile sete! Rimase alcuni istanti silenzioso, fissando il bicchiere colmo con gli occhi dilatati, cupo, fremente, poi disse: - Eh, la vita talvolta è cosí, se si è preda d'un genio maligno. Eppure quanto è stata terribile la discesa! Meglio sarebbe stato che sui vent'anni un colpo di spada m'avesse finito fra i pometi della Normandia! Cosí non avrei veduta mai Parigi, almeno non sarei disceso, di gradino in gradino, fino nel fango d'una prigione ... non avrei macchiato il blasone dei miei avi ... non avrei dimenticata la mia Francia ... non avrei cambiato nome ... non sarei diventato un avventuriero ... non sa rei fuggito come un ladro ... e non avrei fatto piangere mia sorella, povera creatura! - Buttafuoco! - gridò il conte. Il bucaniere si era alzato di scatto, con gli occhi dilatati, il viso bagnato di sudore. Staccò da un palo della capanna il suo archibugio, poi uscí rapidamente, scomparendo fra gli alberi. - È sempre cosí il tuo padrone? - chiese il conte all'arruolato che stava fermo sulla soglia della capanna. - Io non l'ho mai veduto sorridere - rispose Cortal. - È sempre triste - E non sarà il solo - disse il guascone. - Quanti uomini, che un giorno furono ricchi e stimati, si trovano fra questi bucanieri! - E quanti gentiluomini ha rovesciato l'Europa in America! - rispose il corsaro. - È vero, signor conte - rispose il guascone con un sospiro. Io peraltro ho dimenticato presto Pau e il mio castelluccio semidistrutto. Io non ho veduto Parigi, né ho provato le sue seduzioni fatali. - Rovina di tanta gente dabbene! - disse il conte. - Vale meglio la Provenza! A sua volta si era alzato ed era uscito dalla capanna, cercando il bucaniere. Il cacciatore era scomparso, ma udí parecchi colpi di fucile tra le macchie. Aveva appena terminato il sigaro e stava per rientrare nella capanna, quando vide giungere Buttafuoco piú tetro che mai. Osservandolo attentamente, s'accorse che il fiero cacciatore aveva gli occhi rossi; come se avesse lungamente pianto. - È passata la tempesta? - gli chiese il signor di Ventimiglia con voce dolce. - Gli uragani durano poco a San Domingo - rispose il bucaniere con un triste sorriso. - Bah, tutto è passato, tutto è stato dimenticato! Ho ucciso due maiali selvatici, laggiú sul margine delle paludi ... è il mio mestiere. Il conte gli porse la destra: - Stringetela! - disse. - No, signor conte, io non sono piú degno di porgere la mano ad un onesto gentiluomo. Qui non siamo in Normandia. - Stringetela, vi dico. - Sí, non ora però. Quando noi ci lasceremo per sempre e vi dirò chi sono stato io un giorno ... forse allora ... Signor conte, fra quattro ore il sole tramonterà e la villa della marchesa di Montelimar è lontana. Volete che ci mettiamo in cammino? Non giungeremo a San Josè prima dell'alba, ed in questo paese è meglio marciare di notte. Le cinquantine di quando in quando perlustrano queste foreste e se non sono pericolose le loro alabarde, sono terribili i cagnacci che le accompagnano. - Sono pronto a seguirvi e ad obbedirvi - rispose il corsaro. - Siete ben sicuro che la marchesa non vi tradirà? Io conosco quella bella signora, avendola qualche volta incontrata nei dintorni della sua fattoria. - È una perfetta gentildonna che mi ha già salvato una volta. - Allora basta - rispose il bucaniere. - Chiamate i vostri compagni, signor conte, e dite che si prendano degli archibugi. Ne ho sempre tre o quattro di riserva e tutti di buon calibro, con palle di un'oncia. Mendoza ed il guascone, udendo il comando del conte, erano accorsi, seguiti dall'arruolato, il quale, come se avesse indovinato il pensiero del suo padrone, portava dei fucili e delle munizioni. - In marcia, amici - disse il signore di Ventimiglia. - Buttafuoco ci servirà da guida. Il bucaniere s'accostò all'arruolato, il quale lo interrogava con lo sguardo. - Tu rimarrai qui - gli disse con ruvida bonarietà - e aspetterai il mio ritorno. Che io stia lontano una settimana od un mese, non ti dar pensiero di me. Se gli spagnuoli ti minacciano, rifugiati nella colonia del capo Tiburon e là ci ritroveremo. Guardati dalle cinquantine, e abbi cura dei miei cani. Addio! Chiamò con un fischio stridente il suo bracco favorito e si mise in cammino a fianco del conte e seguito dal guascone e da Mendoza, calandosi il cappellaccio sulla fronte per meglio ripararsi dagli ardentissimi raggi del sole. Attraversò la macchia che serviva a nascondere la sua capanna e dopo essersi orientato con l'astro diurno, si cacciò risolutamente tra le immense boscaglie che si prolungavano verso occidente. Il bracco lo procedeva, fiutando di quando in quando il terreno, e volgendo la testa come per chiedere se era sulla buona via. - Avete la vostra nave, signor conte? - chiese il bucaniere, dopo aver percorso qualche miglio. - Deve attendermi al capo Tiburon - rispose il corsaro. - La villa della marchesa di Montelimar non si trova che a breve distanza dalla rada. La potrete scorgere dalle finestre della fattoria. - Non verranno a cercarci colà, le cinquantine? - Chi lo sa? Battono l'isola in lungo ed in largo, e non si sa mai dove si fermano. La marchesa però è troppo potente a San Domingo per non proteggervi. - Ne ho avuto la prova. - Allora potrete attendere tranquillamente la vostra nave, senza correre il pericolo di farvi prendere - rispose il bucaniere, sorridendo. - So quanto vale quella signora. - La conoscete? - L'ho veduta una sola volta, mentre attraversava a cavallo una foresta e le ho reso, anzi, in quell'occasione, un piccolo servigio. Se non mi fossi trovato sulla sua strada e non le avessi ammazzato il cavallo con un buon colpo di archibugio, non so se la signora di Montemilar sarebbe ancora viva, e se ... Il bucaniere si era interrotto, mentre il suo bracco scuoteva gli orecchi e puntava. - Che cosa c'è? - chiese il corsaro. - Nulla per ora - rispose Buttafuoco la cui fronte si era leggermente aggrottata. - Mi sembrate inquieto. - Posso essermi ingannato - Anche il vostro cane? Il Bucaniere stette un momento silenzioso, osservando attentamente il suo bracco il quale si era fermato e non cessava di alzare e di abbassare le orecchie. - Mi è sembrato d'aver udito un lontano latrato. - Che qualche cinquantina ci dia la caccia? - Può darsi, signor conte. Lasciamo i terreni scoperti e gettiamoci nella foresta. Là saremo piú sicuri.

Mentre Raveneau ed i suoi compagni cercavano asilo in una casa abbandonata, i filibustieri, diventati ormai padroni dell'ultimo forte, si abbandonavano ad un saccheggio furibondo. Non possiamo però passare sotto silenzio la bizzarra singolarità di cui, in quella presa, i filibustieri francesi dettero spettacolo, poiché meglio d'ogni altra cosa dimostra l'indole strana di quella razza di ladroni. Mentre i loro compagni inglesi correvano dietro agli abitanti rifugiatisi nei boschi colle loro ricchezze, facendone ben settecento prigionieri, i francesi si recavano nella cattedrale della città per cantarvi il Te-deum, credendo cosí di praticare le parti di buoni cattolici e di rispettare in tale modo la religione! ... Ingentissimo fu il bottino raccolto dai filibustieri, consistente per lo piú in una quantità straordinaria di perle e di smeraldi, in verghe d'argento ed in settantamila piastre. Si aggiungano a ciò un cannone d'argento massiccio del valore di ventiduemila piastre ed un'aquila d'oro tempestata di smeraldi che pesava sessant'otto libbre, destinati in pia oblazione alla chiesa maggiore della città e presi agli schifi che scendevano il fiume. Inoltre avevano preso oltre settecento prigionieri, anche il governatore della città e siccome non trovavano conveniente condurre con loro tante persone, tanto piú che sapevano essere usciti da Panama grossi corpi di truppe scelte per sterminarli prima che ritornassero verso l'Oceano Pacifico, mandarono un messo al Presidente dell'Udienza Reale affinché li riscattasse tutti contro la consegna d'un milione di piastre e di quattrocento sacchi di mais, essendo a corto di viveri. Avevano iniziate le trattative e già non dubitavano di ricevere le une e gli altri, quando la terza notte dopo l'espugnazione dei forti s'alzò un furioso incendio, prossimo al luogo ove i filibustieri avevano accumulate le loro ricchezze ricavate dal saccheggio. Però non fecero essi alcuna perdita, essendo prontamente accorsi a trarre in salvo le loro cose, meravigliosamente affrontando ogni pericolo; rivolsero poi i loro sforzi a salvare la disgraziata città che in piú parti avvampava; però un buon terzo andò distrutto insieme ad un grosso numero di abitanti. Infettatasi l'aria in causa dei numerosi cadaveri rimasti insepolti, e cominciando a patire molte malattie per tale cagione suscitatesi, inchiodati i cannoni delle fortezze che loro non erano affatto utili, quei terribili ladroni di mare s'avviarono verso l'Oceano Pacifico, conducendo con loro cinquanta ostaggi d'ambo i sessi, i quali dovevano rispondere del riscatto che doveva in parte essere loro pagato e veleggiarono verso l'isola di Puna dove rimasero un mese, Fu un mese di baldoria e fu insieme un sorprendente spettacolo il vedere quei ruvidi avventurieri improvvisarsi gentiluomini, organizzare danze e banchetti che non avevano mai fine, avendo fra i prigionieri moltissimi suonatori di chitarre e di mandole e le piú belle donne di Guayaquil, le quali non vedevano nei loro rapitori piú i disturbatori della loro città e delle sostanze delle loro famiglie, bensí uomini per la maggior parte cortesi e rispettosi, cosicché ebbero quelle disgraziate un non ingrato comp enso dei sofferti terrori e poterono godere di quella libertà che tra le domestiche mura, sotto i gelosi mariti, l'orgoglio e la severità spagnuola non concedeva alle donne. L'amenità dell'isola dava d'altronde maggior risalto a quell'avventura né fuvvi mai prigionia, specialmente per le prigioniere, piú divertente. Verso la fine del mese però quell'allegria fu gravemente turbata, in causa del mancato pagamento del riscatto. Il presidente dell'Udienza Reale di Panama continuava a chiedere dilazioni, sinché i filibustieri insospettiti che, non difficoltà di trovare il denaro cagionasse quel ritardo, bensí la segreta mira di defraudarli e di prendere tempo per radunare forze sufficienti a combatterli, ricorsero ad una crudele risoluzione, malgrado le proteste di Raveneau de Lussan il quale, al pari di Grogner, abborriva le crudeltà. Radunarono perciò gli ostaggi e li obbligarono a tirare a sorte, avendo ormai deciso che le teste di quattro di quei disgraziati dovessero essere consegnate all'ufficiale spagnuolo che era giunto per chiedere una nuova dilazione al pagamento. Purtroppo quegli infelici dovettero sottomettersi alla dura sorte e le quattro teste furono date all'ufficiale, colla dichiarazione che se entro quattro giorni il pattuito riscatto non fosse stato saldato, altre ne sarebbero state mandate al Presidente dell'Udienza Reale di Panama. I sospetti dei filibustieri non erano d'altronde senza fondamento, poiché il giorno seguente riuscivano a catturare un corriere che da Guayaquil andava a Lima, apportatore di lettere nelle quali era detto chiaramente come in aspettazione dei soccorsi attesi si sarebbe mandata qualche somma a Puna per tenere a bada i corsari, aggiungendo che l'esterminio di costoro stimavasi ben piú importante sacrificio che la perdita di cinquanta prigionieri. Come abbiamo detto, fra gli ostaggi vi era il governatore di Guayaquil e siccome ci teneva a non perdere la testa, incaricò un frate che era della brigata, uomo tenuto in molta considerazione presso gli spagnuoli e lo mandò sul continente con pieni poteri perché accumulasse a tutti i costi quanto denaro occorreva per saldare il riscatto. Nell'atto però che il frate partiva, giungeva all'isola uno schifo il quale portava ai filibustieri ventimila piastre in oro e venti sacchi di farina. L'ufficiale che lo montava chiedeva nel medesimo tempo una dilazione di altri tre giorni pel resto del riscatto. I filibustieri non furono renitenti a concederla, dichiarando però che se gli spagnuoli avessero mancato alla promessa avrebbero fatta una nuova visita a Guayaquil e che l'avrebbero distrutta da capo a fondo. La risposta che ne ebbero non poteva essere piú risoluta. Un nuovo messo di chi amministrava le cose di Guayaquil giunse qualche giorno dopo, dicendo che per tutto ciò che rimaneva a pagarsi gli spagnuoli offrivano solamente ventiduemila piastre e che se i filibustieri volevano riattaccare la città vi erano cinquemila uomini agguerriti pronti a riceverli. Nessuno può sorprendersi se a quella dichiarazione vi fu fra i corsari di Raveneau chi proponesse di tagliare all'istante la testa a tutti i prigionieri, le donne comprese. Si opposero molti altri, dicendo che una tale crudeltà nessun vantaggio avrebbe recato, perciò accettate le ventiduemila piastre e messi in libertà gli ostaggi, ripresero il mare per ritentare nuove e piú stupefacenti imprese. %CONCLUSIONE Due giorni dopo la caduta di Guayaquil, il conte di Ventimiglia, sua sorella ed i tre spadaccini lasciavano la città con una scorta di trenta corsari e di dieci filibustieri, i quali avevano deciso di far ritorno in Europa, avendo ormai accumulate sufficienti ricchezze per potere vivere comodamente nei loro paesi. Il marchese di Montelimar era partito il giorno innanzi, non senza pronunziare parole di vendetta contro la giovane meticcia e anche contro il conte. La traversata dell'istmo di Panama fu compiuta a piccole tappe, per non stancare eccessivamente la sorella del conte, e dodici giorni dopo, la piccola carovana giungeva felicemente nel minuscolo porto di Riva dove da tre mesi trovavasi all'âncora la fregata, innalzando lo stendardo di Spagna per farsi credere, dai pochi abitanti della costa, una nave incaricata d'impedire lo sbarco dei legni filibustieri provenienti dalla Tortue. Una scialuppa già aveva raggiunta la spiaggia e si preparava ad imbarcarli, quando il guascone, che durante tutto il viaggio pareva avesse perduto il suo buon umore, trasse in disparte il conte e Mendoza, e disse loro: - Signori, io devo dichiararvi che non ho alcun desiderio di far ritorno in Europa. Per me è questo un grande colpo, tuttavia spero, col tempo, di potermi consolare. Non dimenticate però, signor conte, che la mia spada sarà sempre a vostra disposizione nel caso che vi fosse ancora necessaria. - Che cosa dite, signor di Lussac! - esclamò il figlio del Corsaro Rosso veramente sorpreso. - Oggi siete abbastanza ricco per riparare il vostro castelluccio di Guascogna e coltivare tranquillamente viti e mele. - Che cosa volete, signor conte? Ho quarant'anni e sento un desiderio irresistibile di avere una famiglia. - Ah! ... Birbante! - gridò Mendoza, mentre don Ercole, il quale si era avvicinato al gruppo, scoppiava in una risata. - Si è innamorato della bella sivigliana! ... - Avete indovinato, compare, - rispose don Barrejo. - Di quella graziosa vedova ne farò una signora de Lussac e venderemo vini di Spagna e di Francia all'insegna della Draghinassa guascone! L'indomani, mentre don Barrejo o meglio il signor de Lussac, dopo commoventi addii, riprendeva la via di Panama per raggiungere la sua bella, la fregata spiegava le vele, dirigendosi verso il Capo Tiburon. Anche il figlio del Corsaro Rosso aveva lasciato, al pari del guascone, una gran parte del suo cuore in America, ma voleva riportarlo in Europa unitamente ad un altro che già da tanto tempo batteva insieme al suo: quello della marchesa di Montelimar. E cosí infatti avvenne. Venti giorni piú tardi la magnifica fregata del conte lasciava, durante una notte oscurissima, per sfuggire le crociere spagnuole, l'isola di San Domingo, portando con sé una signora di piú e tre uomini di meno. La bellissima marchesa aveva dato senza rimpianti un addio all'isola, dopo aver affidate le sue immense piantagioni a Buttafuoco, a Mendoza ed al fiammingo, tre amici che al pari del guascone non avrebbero ormai piú potuto trovarsi bene fra la civiltà europea. Rivedremo un giorno quei bravi? È probabile, poiché la storia dei filibustieri non è ancora terminata.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

- gridò Sambigliong ai suoi prodi che non abbandonavano i loro posti, quantunque molti fossero stati già feriti. - Ecco il momento terribile! Sappiate morire da eroi! I dayaki per la seconda volta si erano precipitati all'assalto, sostenendosi con un fuoco vivissimo. Malgrado le enormi perdite che subivano, avevano cominciato ad arrampicarsi su per le roccie, vociando sempre, balzando come scimmie, impazienti d'impadronirsi delle teste di quegli ostinati difensori e di vendicarsi di tante sconfitte subite. Il drappello guidato da Sambigliong e da Kammamuri resisteva tenacemente. La lotta diventava terribile! Era un battagliare selvaggio, feroce, inumano. Gli uomini cadevano mandando urla furiose, tentando ancora di offendere o col fucile o coi kampilang o coi parangs gli avversari. Sambigliong e Kammamuri vedevano con angoscia assottigliarsi sempre più il loro drappello. Tutti quelli che si trovavano a metà della rupe erano stati decapitati dalle pesanti sciabole degli assalitori o fucilati sul posto ed il segnale ancora non si udiva! Che cosa poteva essere successo a Yanez? Che i prahos dei pescatori non fossero ancora rientrati in porto? Era quello che si chiedevano con ansietà estrema Kammamuri e Sambigliong, i quali ormai si vedevano impotenti a frenare l'attacco. I dayaki salivano sempre, sfidando intrepidamente la morte e facendo scintillare i loro terribili kampilang. Non facevano quasi più fuoco, tanto erano sicuri della vittoria. Sambigliong, vedendo sciabolare gli uomini che si erano appiattati a due terzi della salita, mandò un grido tuonante: - Kammamuri! Lancia la tigre! - A te, Darma! - urlò il maharatto. - Sbrana! La belva, che durante quella intensa fucilata era rimasta nascosta dietro una roccia, mugolando sordamente e rizzando il pelo, a quel comando balzò innanzi con un aug spaventevole e piombò su un uomo che stava decapitando un giavanese, puntandogli i denti nella nuca. I dayaki, vedendo rovinarsi addosso quella belva, che pareva volesse divorarli tutti, si erano precipitati all'impazzata giù dalla roccia, ricaricando precipitosamente i loro moschetti. Vedendoli retrocedere, Darma aveva subito abbandonato il primo uomo per scagliarsi sopra un altro. Con un secondo slancio piombò addosso ad uno dei fuggiaschi, rovesciandolo di colpo, quando una scarica vivissima la colpì. La povera bestia si era bruscamente rizzata sulle zampe posteriori, rimanendo in quella posa alcuni istanti, poi s'abbattè, mentre Kammamuri mandava un urlo disperato: - La mia Darma! Me l'hanno uccisa! Quasi nel medesimo istante si udirono in lontananza tre spari. - Il segnale! Il segnale! - gridò Sambigliong. - In ritirata! Del drappello non rimanevano che undici uomini. Tutti gli altri erano caduti sotto le palle e i kampilang dei dayaki e i loro corpi giacevano sui pendii della rupe, privi della testa. Sambigliong afferrò Kammamuri che stava per scendere verso la tigre, a rischio di farsi fucilare e lo trascinò con sè, dicendogli: - È morta: lasciala. Si erano precipitati a corsa disperata nel burrone, mentre una seconda scarica rumoreggiava verso la costa. Yanez doveva avere molta premura. Il drappello con una corsa fulminea percorse tutta la gola, sotto una grandine di palle, avendo i dayaki ripreso l'inseguimento e sbucò su una piccola pianura alla cui estremità s'alzavano quindici o venti capanne, piantate su dei pali. Al di là rumoreggiava il mare. - Signor Yanez - gridarono Sambigliong e Kammamuri, vedendo dei piccoli prahos ancorati dinanzi al minuscolo villaggio, colle vele già spiegate, pronti a prendere il largo. Il portoghese usciva in quel momento da una capanna, accompagnato da Tremal-Naik e dalla fanciulla, mentre la loro scorta accostava i due legnetti alla riva. - Presto! - gridò Yanez, vedendo i superstiti ad attraversare, sempre correndo, la piccola pianura. Pochi minuti dopo, estenuati e insanguinati, madidi di sudore, si precipitavano sulla riva. - E gli altri? - chiesero a una voce Yanez e Tremal-Naik. - Tutti morti, - rispose Kammamuri con voce affannosa; - anche la tigre, la nostra brava Darma. - Sia dannato quel cane di pellegrino! - gridò l'indiano, sul cui viso traspariva un intenso dolore. - Anche la mia tigre perduta! - Ed i dayaki? - chiese Yanez. - Fra poco saranno qui, - disse Sambigliong. - Lesti, imbarchiamoci. Tu sul più grosso, Tremal-Naik, con tua figlia e la scorta. A me l'altro con Kammamuri ed i superstiti. S'imbarcarono rapidamente e i due legni presero il largo, mentre la popolazione della borgata udendo le grida dei dayaki si salvava precipitosamente nei boschi vicini. Il vento era favorevole, sicchè i due prahos con poche bordate uscirono dalla piccola baia, filando rapidamente verso il sud-ovest, non volendo scostarsi troppo dalla spiaggia, almeno pel momento. I dayaki giungevano allora sulle rive della baia, ma troppo tardi. La preda tanto sospirata ancora una volta sfuggiva loro e proprio nel momento in cui credevano di averla finalmente nella mani. Non sapendo su chi sfogarsi, avevano dato fuoco al villaggio. - Canaglie! - esclamò Yanez, che teneva la barra del timone. - Se avessi ancora la mia Marianna vi darei io una tale lezione da non scordarvela più. Tutto forse non è finito fra noi e voi e chissà che un giorno non vi ritroviamo sui nostri passi e allora guai al vostro pellegrino! I due legnetti, spinti da un fresco vento di settentrione, erano già lontani e stavano girando il capo Gaya, per entrare nella baia di Sapangar, entro cui sbocca il Kabatuan. Erano due piccoli prahos pescherecci, con grandi vele formate di vimini intrecciati, bassi di scafo, privi di ponte e col bilanciere per poter meglio appoggiarsi e resistere alle raffiche senza correre il pericolo di rovesciarsi. Quello montato da Tremal-Naik, dalla fanciulla e dagli otto uomini della scorta era un po' più grosso e portava per armamento un lilà; quello di Yanez invece non aveva che una vecchia spingarda collocata su un cavalletto fissato sulla prora. - Pessimi velieri, - disse Sambigliong, dopo un rapido esame. - Sono vecchi quanto me. - Non vi era di meglio, mio bravo tigrotto, - rispose Yanez. - È stata anzi una vera fortuna trovarli e non ci volle poco a indurre quei pescatori a venderceli. - Muoviamo subito su Mompracem? - Costeggeremo fino a Nosong, prima di intraprendere la traversata. Non vi è molto da fidarsi di queste barcacce che assorbono acqua come le spugne. - Sono impaziente di giungervi, capitano. - Ed io non meno di te, Sambigliong. Che cosa sarà successo laggiù, dopo le notizie portate da Kammamuri? Come desidero saperlo! - Che la Tigre stia combattendo contro gli inglesi? - Non mi stupirei: Sandokan non è un uomo d'abbassare la bandiera e di cedere alle pretese del governatore di Labuan senza opporre una fiera resistenza. Come rimpiango ora d'aver perduto la mia nave! Colla mia Marianna e la sua appoggiati dai prahos da guerra, avremmo potuto dar da fare alle cannoniere di Labuan. - Non è colpa mia, capitano Yanez, - disse Sambigliong. - Tu hai fatto anche troppo per difendere la mia nave, - rispose Yanez, con voce dolce. - Non ho alcun rimprovero da farti, mio bravo. Stringiamo verso la costa e cerchiamo di guadagnare più via che potremo. Se il vento si mantiene, domani notte noi approderemo a Mompracem. Era allora calato il sole e le tenebre scendevano rapide. Il mare era calmo, con leggere ondulazioni che non davano alcun fastidio ai due legnetti, i quali continuavano la loro rotta verso il sud-ovest, tenendosi a due o tre gomene l'uno dall'altro. Yanez, seduto a poppa, su una grossa pietra che serviva da ancora, teneva la mano sulla barra, consumando le sue ultime sigarette, mentre la maggior parte dei suoi uomini russavano stesi sul fondo del legno. Soli quattro vegliavano a prora, per la manovra. Nessun lume brillava sul mare, già divenuto color dell'inchiostro. Anche verso la costa tutto era tenebroso. Solo verso l'isolotto di Sapangar, che chiude a ponente la baia omonima, un punto rossastro brillava, la torcia forse di qualche pescatore notturno. Al di là del capo Gaya, il vento era venuto quasi a mancare ed i due velieri non avanzavano che con estrema lentezza. - Bramerei trovarmi ben lontano dalla baia prima dell'alba, - mormorò il portoghese. - La foce del Kabatuan per poco non è stata fatale alla mia Marianna. Vegliò fino alle una del mattino, poi non scorgendo nulla di sospetto, cedette la barra a Sambigliong, sdraiandosi sotto un banco, su una vecchia vela di vimini. Un grido del mastro lo svegliò bruscamente alcune ore dopo: - All'armi! Tutti in piedi! Cominciava allora ad albeggiare e i due prahos, che durante la notte avevano camminato pochissimo, si trovavano verso la punta settentrionale dell'isola di Gaya. Yanez, udendo il grido del suo fedele mastro, era balzato rapidamente in piedi, chiedendo: - Ebbene, che cosa c'è? Che non si possa dormire un momento tranquilli e ... Si era bruscamente interrotto, facendo un gesto che tradiva una viva ansietà. Un grosso giong, un veliero assai più rotondo e più lungo dei soliti prahos, con due vele triangolari, usciva in quel momento dalla baia, seguìto da una mezza dozzina di doppie scialuppe munite di ponte e da una scialuppa a vapore che non portava alcuna bandiera sull'asta di poppa. - Che cosa vuole quella flottiglia? - si era domandato il portoghese. Un colpo di mirim, partito dal giong, sparato a bianco, fu la risposta. La flottiglia intima ai due prahos di fermarsi. - I dayaki, signori! - gridò in quell'istante Sambigliong, che si era slanciato verso prora per meglio osservare gli uomini che montavano il veliero e le doppie canoe. - Signor Yanez, virate di bordo e gettiamoci verso la costa! Il portoghese mandò una bestemmia. - Ancora essi! - esclamò poi. - Ecco la fine! Era una follia tentare d'impegnare la lotta con forze così poderose e munite di lilà e di mirim e fors'anche di spingarde. Fuggire era pure impossibile: la scialuppa a vapore, che era pure montata da uomini di colore, malesi e dayaki, non avrebbe tardato a raggiungere i due vecchi e pessimi velieri. Gettarsi verso la costa o meglio ancora verso l'isola di Gaya che era coperta di folte foreste, era l'unica salvezza che restasse ai fuggiaschi. - Appoggiate sulla costa! - gridò Yanez. - E armate i fucili. Il praho di Tremal-Naik che si trovava a sette o otto gomene da quello di Yanez, aveva già virato di bordo e muoveva sollecitamente verso Gaya. Disgraziatamente il tempo mancava. Il giong, accortosi dell'intenzione dei fuggiaschi, con una lunga bordata si era frammesso fra i due prahos, seguìto subito dalla scialuppa a vapore ed aveva cominciato a far fuoco coi suoi lilà, cercando di abbattere le manovre. - Ah! Canaglie! - aveva gridato Yanez. - Ci separano per distruggerci più facilmente. Su, tigri di Mompracem, diamo battaglia e affondiamo tutti piuttosto che cadere vivi nelle mani di quei selvaggi. Afferrò la carabina e pel primo aprì il fuoco, sparando sul ponte del giong. I suoi uomini avevano pure impugnate le armi, moschettando vigorosamente l'equipaggio della nave avversaria. Anche sul praho di Tremal-Naik, quantunque stretto fra il grosso veliero e la scialuppa a vapore che tentava di abbordarlo, le carabine tuonavano furiosamente, tentando una suprema resistenza. Non doveva durare a lungo quella lotta così impari. Una bordata di mitraglia disalberò d'un colpo solo il praho dell'indiano rasandolo come un pontone ed immobilizzandolo, mentre una piccola granata, sparata dal pezzo d'artiglieria che armava la scialuppa a vapore sfondava la ruota di prora, aprendo una falla enorme. - Tigrotti di Mompracem! - aveva gridato Yanez, che si era subito accorto della disperata situazione in cui trovavasi Tremal-Naik. - Andiamo a salvare la fanciulla! Il praho virò per la seconda volta di bordo cercando di accostarsi a quello dell'indiano, quando si vide tagliare la via dal giong. Il grosso veliero, compiuta la sua opera di distruzione, si era rivolto verso quello di Yanez, mentre la scialuppa a vapore abbordava, con due doppie scialuppe d'appoggio, quello di Tremal-Naik che cominciava ad affondare. - Fuoco sul ponte, Tigrotti! - gridò il portoghese. - Almeno vendichiamo gli amici! Una voce dall'accento metallico, si levò in quel momento dalla poppa del giong: - Arrendetevi al pellegrino della Mecca! Vi prometto salva la vita! Il misterioso nemico era apparso sul cassero col suo turbante verde in capo, impugnando una di quelle corte scimitarre indiane chiamate tarwar. - Ah! Cane! - gridò Yanez. - Anche tu ci sei! Prendi! Aveva in mano la carabina carica. La puntò e fece fuoco rapidamente. Il pellegrino aprì le braccia, le richiuse, poi cadde addosso al timoniere, mentre un altissimo urlo di furore s'alzava fra l'equipaggio del giong. - Finalmente! - gridò Yanez. - Ed ora fumiamo la nostra ultima sigaretta!

Specialmente di notte abbandonavano di rado la coperta, accontentandosi di riposare solo poche ore dopo il levar del sole. - Sandokan, - disse Tremal-Naik, quando già il Re del Mare aveva oltrepassata la seconda bocca del Sarawak di qualche dozzina di miglia, - mi sembri molto inquieto. - Sì, - rispose la Tigre della Malesia, - non te lo nascondo, mio caro amico. - Temi qualche incontro? - Io sono certo di essere seguìto o preceduto, e un marinaio difficilmente s'inganna. Si direbbe che io senta odor di fumo e di fumo di carbon fossile. - E da chi? Da squadre inglesi o da quelle del rajah? - Di quelle del rajah non mi occupo troppo, perchè l'unica nave che poteva misurarsi colla mia, ora giace sventrata in fondo al mare. - Quella di sir Moreland? - Sì, Tremal-Naik. Le altre che possiede il rajah sono vecchi incrociatori di ordine secondario, che non valgono assolutamente nulla come navi da battaglia. È la squadra di Labuan che mi preoccupa. - Sarà forte? - Molto forte no, numerosa di certo. Potrebbe prenderci nel mezzo e crearci molti fastidi, quantunque io ritenga il nostro incrociatore così poderoso d'aver ragione di essa. I migliori, l'Inghilterra se li tiene in Europa. - Sono ben lontani da noi, - disse Tremal-Naik. - E chi mi assicura che non ne mandi alcuni a darci la caccia? Mi hanno detto che ve ne sono dei poderosi anche nell'India. Quando si apprenderà quali danni noi abbiamo recato alle loro linee di navigazione, gli inglesi non esiteranno a lanciare su questi mari il meglio della loro squadra indiana. - E allora? - chiese Tremal-Naik. - Faremo quello che potremo, - rispose Sandokan. - Se il carbone non ci mancherà la faremo correre e molto. - È sempre il carbone il nostro punto nero. - Di' il nostro lato debole, Tremal-Naik, perchè a noi tutti i porti sono chiusi. Fortunatamente la marina inglese è la più numerosa del mondo e piroscafi ne troveremo sempre, dovessimo andarli a cercare perfino nei mari della Cina. Ah! Cala la nebbia! È una fortuna per noi, che stiamo per passare dinanzi alle coste del sultanato. - Quanto distiamo dal Sedang? - Forse duecento miglia. Queste sono le acque più pericolose. Se questa notte non facciamo alcun incontro, domani troveremo la Marianna. Apriamo gli occhi, Tremal-Naik ed aumentiamo la nostra velocità. Tanto peggio a chi tocca se taglieremo qualche legno. Pareva che la fortuna proteggesse le ultime tigri di Mompracem, perchè poco dopo il tramonto del sole una folta nebbia era cominciata a scendere sul golfo, in dense ondate. Il Re del Mare aveva quindi maggiori possibilità di sfuggire alla caccia delle navi alleate, ammesso che si fossero realmente messe in moto per sorprenderlo. Nondimeno Sandokan e Yanez avevano dati gli ordini per tenersi tutti pronti. Qualche nemico poteva comparire, impegnare subito la lotta e colle sue cannonate attirare l'attenzione della squadra. L'incrociatore, che aveva aumentata la sua velocità portandola a tredici miglia, muoveva rapido attraverso il nebbione che sempre più si addensava. Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l'ingegnere americano erano tutti sul cassero, presso i timonieri, cercando, ma invano, di distinguere qualche cosa attraverso le ondate caliginose che il vento, di quando in quando, scompaginava. Gli artiglieri erano dietro i loro mostruosi pezzi o accanto alle piccole artiglierie; i malesi ed i dayaki dietro le murate. Tutti tacevano ed ascoltavano attentamente. Non si udivano che i rauchi muggiti del vapore ed il gorgoglìo prodotto dalle eliche e dallo sperone fendente le acque. La seconda foce del Sarawak doveva essere stata oltrepassata di una cinquantina di miglia, quando tutto d'un tratto si udì a echeggiare una sirena. - Una nave esplora il mare e segnala la sua presenza ad altre, - disse Yanez a Sandokan. - Sarà mercantile o da guerra? - Suppongo che sia qualche avviso del rajah, - rispose la Tigre della Malesia. - Ci aspettavano? - Fa' puntare verso levante. - Vorrei però prima conoscere con quale avversario abbiamo da fare. - Con questa nebbia non sarà cosa facile, Sandokan, - disse Tremal-Naik. - Quando potremo giungere alla foce del Sedang? - Fra cinque o sei ore. Vedi nulla, Yanez? - Null'altro che nebbia, - rispose il portoghese. - Non devieremo: tanto peggio per chi si caccerà sotto il nostro sperone. Poi, accostandosi al tubo che comunicava colla sala della macchina, gridò con voce poderosa: - Signor Horward! Avanti a tutto vapore, a tiraggio forzato! Il Re del Mare continuava la sua corsa, aumentandola rapidamente. Da tredici nodi era salita a quattordici all'ora, e non bastava ancora. L'ingegnere americano aveva comandato il tiraggio forzato per raggiungere possibilmente i quindici. Era ben vero che il carbone se ne andava rapidamente, però ne avevano in quantità sufficiente per tenere il mare alcune settimane senza bisogno di provvedersi. Erano già trascorse due ore, quando tutto d'un tratto la nebbia s'illuminò come se un gran fascio di luce l'attraversasse. Luce lunare non doveva essere, perchè assai più intensa e brillante e poi non ne aveva l'immobilità. Veniva dall'est e scorreva dal sud al nord, facendo scintillare vivamente le acque. - Un fanale elettrico! - esclamò Yanez, trasalendo. - Ci si cerca. - Sì, ci cercano, - disse Tremal-Naik. - Che siano in molti? Sandokan non aveva aperto bocca; la sua fronte però si era bruscamente aggrottata. Trascorsero alcuni minuti ancora. - Macchina indietro! - tuonò ad un tratto la Tigre della Malesia. Il Re del Mare trasportato dal proprio slancio, s'avanzò per due o trecento metri, poi s'arrestò lasciandosi cullare dall'onda larga del golfo. Una nave e forse non sola, si trovava dinanzi all'incrociatore ed esplorava il mare, proiettando dovunque fasci di luce. - Che la squadra di Sarawak si sia accorta della nostra presenza? - chiese Tremal-Naik. - Dobbiamo essere stati segnalati da qualche veliero, forse da qualche praho che è sfuggito alla nostra sorveglianza, - disse Sandokan. - Che cosa farai, Sandokan? - Aspetteremo, per ora, poi passeremo, dovessi fracassare dieci navi a colpi di sperone. Il Re del Mare ha la prora a prova di scoglio e le macchine d'una solidità tale che non si sconquasseranno per l'urto. Il fascio di luce continuava a scorrere lentamente dal nord al sud, tentando di forare la nebbia, fortunatamente sempre foltissima. D'improvviso, un secondo ne apparve dal lato opposto, ossia verso la poppa dell'incrociatore, poi altri due al nord e uno al sud. Una sorda imprecazione sfuggì dalle labbra del portoghese, il quale stava a guardia dei timonieri. - Ci hanno ben circondati! Alla malora quegli squali! Fra poco qui farà caldo! La Tigre della Malesia aveva seguìto attentamente la direzione di quei diversi fasci di luce. La sua nave che occupava il centro, non poteva essere stata ancora scorta, però non poteva slanciarsi innanzi nè retrocedere senza farsi scoprire. Con un gesto chiamò Yanez e l'ingegnere americano. - Si tratta di forzare il passo, - disse. - Dinanzi, presumibilmente, non abbiamo che una sola nave. Il nostro carico è stato ben stivato? - Assaliremo collo sperone? - chiese l'americano. - Ne ho l'intenzione, signor Horward. Fate raddoppiare il personale delle macchine. - Bene, comandante, - rispose lo yankee. - I miei compatriotti non agirebbero diversamente in simile frangente. - Sono tutti ai pezzi gli artiglieri? - Sì, - rispose Yanez. - Avanti a tutto vapore! Passeremo a qualunque costo. I fasci di luce elettrica continuavano ad incrociarsi in tutti i sensi e a poco a poco diventavano più luminosi. Probabilmente i comandanti di quelle navi dovevano aver scorta l'ombra immensa del Re del Mare e si preparavano ad assalire, dirigendosi verso uno stesso punto. Il momento stava per diventare terribile; tuttavia malesi, dayaki ed americani conservavano anche in quel supremo momento, una calma ammirabile. - Tutti nelle batterie! - gridò Sandokan, entrando nella torretta di comando con Yanez e con Tremal-Naik. Il Re del Mare balzò avanti. La sua velocità aumentava di momento in momento ed il fumo usciva turbinando dalle due ciminiere abbattendosi sui ponti in causa della nebbia. Un fremito sonoro lo scuoteva tutto, mentre gli alberi delle eliche raddoppiavano i giri ed il vapore muggiva nelle caldaie. L'incrociatore attraversò come un gigantesco proiettile la zona luminosa, ma appena rientrato nella nebbia oscura, altri fasci di luce lo raggiunsero, diventando rapidamente più luminosi. Le navi nemiche si erano messe in caccia e cercavano di rinchiuderlo in un cerchio di ferro e fuoco. Sandokan non si sgomentava e lasciava che la sua nave corresse sempre verso l'est. Alcune cannonate rimbombarono al largo e si udì in aria il rauco sibilo dei proiettili. - Pronti pel fuoco di bordata! ... - gridò Yanez. - Per Giove! ... E le fanciulle? - Sono al sicuro nel quadro, - rispose Tremal-Naik. - Manda qualcuno ad avvertirle che non si spaventino se succede un urto, - disse Sandokan. Delle ombre gigantesche si muovevano fra la nebbia che i riflettori elettrici rendevano sempre più luminosa. La squadra nemica stava per piombare sull'incrociatore delle tigri di Mompracem per tentare di sbarrargli il passo. Ad un certo momento una massa nera comparve bruscamente dinanzi la prora, sulla dritta del Re del Mare, a meno di quattro gomene di distanza. Era impossibile arrestare lo slancio dell'incrociatore. - Speronate! - gridò Sandokan con voce tuonante. Il Re del Mare si precipitava sul legno nemico come un ariete. Un rombo assordante, spaventevole, seguìto da urla d'angoscia echeggiò fra la nebbia perdendosi lontan lontano sul mare. Lo sperone dell'incrociatore era entrato tutto dentro la nave avversaria, producendole uno squarcio immenso ... Il Re del Mare s'arrestò un momento inclinandosi a prora, mentre degli scoppi accadevano sulla nave investita e colpita a morte da quella terribile speronata. Le caldaie scoppiavano. - Macchina indietro! - gridò l'ingegnere americano. Si udirono a prora dei sordi scricchiolii, poi il Re del Mare con una brusca scossa liberò il suo sperone indietreggiando e virando a babordo. La nave sventrata calava a fondo a vista d'occhio, fra i clamori assordanti del suo equipaggio. Il Re del Mare aveva ripresa la corsa, passando a poppa della nave sommergentesi, gettandosi nuovamente tra mezzo alla nebbia. Altre ombre pure apparivano a babordo e a tribordo. Le navi della squadra, approfittando di quel momento di sosta, avevano raggiunto il Re del Mare e gli proiettavano sul ponte fasci di luce. - Fuoco accelerato! - comandò Yanez. L'incrociatore s'infiamma come un vulcano in eruzione, con un rimbombo orrendo. I giganteschi pezzi delle torri hanno fatto fuoco quasi simultaneamente, facendo tremare la nave dalla chiglia alla punta degli alberi, scagliando sulle navi nemiche i loro grossi proiettili, poi i pezzi di medio calibro delle batterie hanno seguìto l'esempio, tempestando i nemici. Gli inseguitori non parvero spaventarsi, quantunque quella tremenda scarica delle più grosse artiglierie moderne dovesse aver prodotto danni gravi e forse, per qualche piccolo e maldifeso legno, irrimediabili. Da tutte le parti i lampi spesseggiano. I proiettili delle granate che si spaccano sulla solida blindatura della nave corsara, scoppiano sui ponti lanciando dovunque schegge di metallo. Colpiscono il tribordo ed il babordo, piombano a poppa ed a prora, scivolando sui ponti e rimbalzano sulle cime delle torri. Il Re del Mare nondimeno non s'arresta, anzi risponde con una furia spaventevole, mandando palle a destra, a sinistra e dietro la poppa. Una piccola nave, che fila con una velocità vertiginosa, emerge bruscamente fra la nebbia e con una pazza temerità corre addosso all'incrociatore. È una grossa scialuppa a vapore che porta a prora una lunga asta, l'antica torpediniera Horward. L'ingegnere americano, che conosce quell'arme micidiale, manda un grido: - Badate, cercano di torpedinarci! Sandokan e Yanez erano balzati fuori della torretta di comando. La scialuppa, che era illuminata dalle lampade elettriche delle altri navi, muoveva veloce verso il Re del Mare, cercando di raggiungerlo. Un uomo, il comandante, stava a prora, dietro l'asta. - sir Moreland! - gridarono ad una voce. Era infatti l'anglo-indiano che cercava, con una pazza temerità, di torpedinare l'incrociatore. - Arrestate quella scialuppa! - aveva gridato Sandokan. - No, nessuno faccia fuoco! - urlò invece Yanez. - Che cosa fai, fratello? - chiese la Tigre della Malesia, stupita. - Non uccidiamolo: Darma piangerebbe troppo. Lascia fare a me. A tribordo vi erano parecchi pezzi di medio calibro. Yanez s'appressò al più vicino che era stato già puntato sulla scialuppa, corresse rapidamente la mira, poi diede uno strappo al cordone tirafuoco. La scialuppa non si trovava allora che a trecento metri, non riuscendo a guadagnare via sull'incrociatore. Il proiettile la colpì con matematica precisione a poppa, asportandole ad un tempo il timone e l'elica e fermandola, per modo di dire, in piena volata. - Buon viaggio, sir Moreland! - gli gridò il valente artigliere, con voce ironica. L'anglo-indiano aveva fatto un gesto di minaccia, poi il vento portò fino agli orecchi delle tigri di Mompracem queste parole: - Fra poco incontrerete il figlio di Suyodhana! ... V'aspetta nel golfo! ... L'incrociatore aveva allora oltrepassata la zona luminosa e si rituffava nella nebbia. Scaricò un'ultima volta i suoi pezzi da caccia in direzione delle navi nemiche, che non potevano gareggiare colle sue macchine e sparve verso l'est, mentre i malesi ed i dayaki urlavano a squarciagola: - Viva la Tigre della Malesia! ...

I FIGLI DELL'ARIA

682302
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Le gambe gli tremavano, le forze lo abbandonavano e gli pareva che il letto di Sing-Sing e tutti gli altri mobili gli girassero intorno. - Fedoro! - chiamò facendo uno sforzo supremo. - Sing-Sing. Nessuno rispose. Il suo amico si era accasciato sulla sedia come se si fosse addormentato ed il cinese conservava una immobilità perfetta. Un terrore improvviso lo prese. - Che siano morti? - si chiese. Quasi nello stesso momento gli parve di vedere un lembo della parete aprirsi e sbucare fuori delle forme umane armate di pugnali. La visione però non ebbe che la durata d'un lampo, perché senti che le forse lo abbandonavano e che le palpebre si chiudevano irresistibilmente, come se fossero diventate di piombo. . . . . . . . . . . . . . . . Quando si risvegliò, Rokoff si trovò a letto, nella stanza che la sera innanzi gli era stata destinata dal maggiordomo del ricco cinese. Su un altro letto Fedoro dormiva profondamente, senza fare alcun gesto che annunciasse un prossimo risveglio. Il cosacco, stupito, girò intorno un lungo sguardo, non potendo credere ai propri occhi. - Che io abbia sognato? - si chiese Rokoff. - Le società segrete ... le ombre misteriose ... i terrori ... Sì, devo aver fatto un cattivo sogno. A un tratto si slanciò verso il letto di Fedoro, mandando un urlo. Nelle vicine stanze, nei corridoi, sulle verande, aveva udito alzarsi acute grida improntate al più vivo terrore: - L'hanno assassinato! Ah! Povero padrone! L'hanno ucciso! - Fedoro! Svegliati! - urlò. Il russo si era alzato bruscamente, stropicciandosi gli occhi. Vedendo Rokoff fermo dinanzi al letto, col viso sconvolto e gli occhi strabuzzati, fece un gesto di meraviglia. - Che cos'hai? Poi, prima che l'amico potesse rispondergli, gli sfuggì un grido. - E Sing-Sing? - Ucciso! Lo hanno ucciso! - disse Rokoff facendo un gesto disperato. - Sing-Sing morto! Ah! Ma dove siamo noi? ... Ieri sera non eravamo in questa stanza! ... Rokoff! Che cosa è successo? Chi ci ha portati qui? - Non so ... non so nulla ... è tutto un mistero inesplicabile ... Vieni ... usciamo ... l'hanno ucciso Le grida, i pianti, i singhiozzi della numerosa servitù del ricco cinese, echeggiavano dovunque. Fedoro e Rokoff, non essendo stati spogliati dai misteriosi nemici che li avevano trasportati in quella stanza, approfittando dell'inesplicabile sonno che li aveva colpiti, si slanciarono verso la porta. Nel corridoio s'incontrarono col maggiordomo, il quale singhiozzava. - È vero che è morto il tuo padrone? - chiese Fedoro, afferrandolo per le braccia. - Sì, signore ... assassinato ... assassinato! - E i suoi uccisori? - Scomparsi. - E non sai dirmi chi ci ha trasportati qui, mentre eravamo col tuo padrone? Il maggiordomo li guardò con sorpresa. - Voi ... col padrone! - esclamò. - Eravamo nella sua stanza per vegliare su di lui e ci siamo svegliati in questa, sui nostri letti. - È impossibile! ... Voi avete sognato! - Andiamo da Sing-Sing - disse Rokoff. - A più tardi le spiegazioni. Preceduti dal maggiordomo, il quale pareva inebetito, entrarono nella stanza del ricco cinese, che era guardata da quattro servi. Sing-Sing giaceva sul letto, cogli occhi sbarrati esprimenti un terrore impossibile a descriversi, colle labbra aperte e lorde d'una schiuma sanguigna, colle braccia penzolanti. Una macchia di sangue si era allargata sopra la ricca casacca in direzione del cuore e altro sangue si vedeva sulle lenzuola di seta bianca. - Morto! - esclamò Rokoff, indietreggiando. Fedoro si curvò sull'assassinato, aprì la casacca, strappò la camicia e mise allo scoperto il petto. Una ferita, che pareva prodotta da un pugnale triangolare, a margini taglienti, si vedeva dal lato sinistro, un po' sotto la mammella. Il colpo, vibrato da una mano robusta e sicura, doveva aver spaccato il cuore del povero cinese e la morte era stata certo fulminante. - I miserabili hanno mantenuto la parola! - esclamò. - E da dove sono entrati? Rokoff, non eri appoggiato contro la porta tu? - Sì - rispose il giovine. - Non l'hai udita aprirsi? - No, almeno fino a che ero sveglio. - Ah! Sì, mi ricordo che un sonno irresistibile mi aveva preso. Anche tu? - Sì, Fedoro, ma prima di chiudere gli occhi ho veduto un lembo della parete aprirsi ed entrare degli uomini. - E non hai fatto fuoco? - Mi è mancato il tempo; un momento dopo cadevo addormentato. - Allora ci hanno dato qualche narcotico per ridurci all'impotenza! - E chi? Io non avevo bevuto nulla dopo il banchetto - disse Rokoff. - Prima di addormentarti non hai notato alcun che di straordinario? - Assolutamente nulla. - Non hai avvertito alcun odore? - Non mi parve. - Devono aver bruciato qualche sostanza per farci addormentare. - Lo credi? - Ne sono certo - rispose Fedoro. - Eppure prima non ho veduto entrare nessuno. - Da qual parte si sono introdotti quegli uomini? - Da quella - rispose Rokoff, indicando un angolo della stanza. - Stavo per addormentarmi, eppure ho veduto aprirsi una porta o qualche cosa di simile. Fedoro si recò a visitare la parete battendola col calcio della rivoltella e udì un suono sordo che non annunciava di certo che al di là ci fosse un vuoto. - È strano! - disse. - Eppure tu li hai veduti entrare per di qui? - Sì, me lo ricordo. - E non vedo alcuna traccia sulla tappezzeria; tuttavia non mi stupisco. Questi cinesi hanno inventato mille segreti. Dov'è il maggiordomo? - Eccomi, signore - rispose il cinese, il quale stava ritto accanto al letto, piangendo silenziosamente. - Sono devoti i servi di questa casa? - Lo credo, signore. - Sono affiliati a qualche società? - Non potrei dirvelo, perché nessuno lo direbbe, anche se sottoposto alla tortura. - Chi è stato il primo ad accorgersi del delitto? - Io - rispose il maggiordomo. - Ogni mattina premo il bottone d'un campanello elettrico per svegliare il mio padrone. Stamane feci come il solito, e non ricevendo risposta, né udendo alcun rumore, mi nacque il sospetto che fosse accaduta qualche disgrazia. Fatta abbattere la porta, ho trovato il mio signore assassinato. - Era ben chiusa? - chiese Fedoro. - E per di dentro. - Non vi era alcuna traccia che fosse stata forzata? - Nessuna, signore. - Sapevi che noi eravamo chiusi qui col tuo padrone? - Lo ignoravo, e poi ... come spiegare questo mistero? Voi vi siete svegliati proprio nella stanza che io stesso vi ho assegnata per espresso ordine del mio padrone. - Ti dico che eravamo qui. Chi può averci trasportati in quella stanza? - Ne siete certo, signore? - chiese il maggiordomo con accento alquanto incredulo. - Sì, noi eravamo qui. - Se la porta era chiusa! - Eppure non abbiamo sognato. Il tuo padrone aveva paura di venire assassinato e ci aveva pregati di tenergli compagnia. - E vi siete svegliati nella vostra stanza? Oh! - Ci hai ben veduti uscire. - È vero - disse il cinese, il cui stupore non aveva più limiti. Poi, come fosse stato colpito da un improvviso pensiero, chiese: - Voi avete veduto il mio padrone toccare la molla segreta che doveva aprire la porta? - Eravamo assieme a lui - rispose Fedoro. Il viso del maggiordomo si fece oscuro ed i suoi occhi si fissarono sul russo. - Ah - disse poi. - Che cos'hai? - chiese Fedoro con inquietuline. - Dico che se conoscevate il segreto della molla, potevate anche uscire e tornare nella vostra stanza. - Tu oseresti sospettare di noi? - Non è a me che tocca indagare su questo affare misterioso, - disse il cinese con voce lenta - bensì ai magistrati della giustizia. Ecco la polizia: sbrigatevela come meglio potete.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Ogni tanto, come presa da un pensiero dominante, ella si arrestava, le mani si abbandonavano, come stanche. - Felice notte - disse una forte voce, alle sue spalle. Ella si levò subito, posò il tombolo e, appressandosi al padre, la pensosa faccia della giovinetta aveva uno stiramento. Ella si chinò a baciargli la mano. Il marchese di Formosa accettò l'omaggio, e dopo toccò fugacemente la fronte di sua figlia con la mano, fra la carezza e la benedizione. Ella aspettò un momento, in piedi, che egli si sedesse, per sedere anche lei: ma visto che egli cominciava a passeggiare su e giù per il salone, come aveva l'abitudine di fare, lo interrogò con lo sguardo, chiedendogli il permesso di sedere. Egli annuì con un cenno del capo, continuando la sua passeggiata. Seduta presso il tavolino, ella aveva ripreso il suo lavoro di trina, aspettando di essere interrogata per parlare. Il marchese di Formosa, il cui passo ancora elastico e sonoro empiva di rumore gli echi del nudo salone, era un bellissimo uomo, malgrado i sessant'anni, malgrado i capelli bianchi come la neve. Alto, svelto, più asciutto che magro, tanto la persona come la testa conservavano in quell'età avanzata che era già quasi vecchiaia, una nobiltà, un carattere di forza a cui spesso i subiti rossori del volto davano aria di violenza. Gli occhi bigiastri, il naso forte, i folti mustacchi bianchi e sopratutto l'ampiezza della fronte ispiravano ammirazione e rispetto. Giovane, dicevano, il marchese di Formosa aveva fatto peccare più di una donna della corte di Ferdinando Il di Borbone: dicevano che era stato rivale fortunato presso una dama di Sicilia, finanche dello stesso re, e, nella lotta incruenta della galanteria, aveva vinto il più galante dei ministri borbonici, il don Giovanni di quella generazione, il celebre ministro di polizia marchese Del Carretto. Certo, qualche cosa d'imperioso che era venuto aumentando con l'età, induriva la fisonomia del marchese di Formosa e gli dava, talvolta, un aspetto ripugnante. Ma l'antichità della famiglia che si vanta discendente del grande Guido Cavalcanti, e l'altezza della posizione, e una naturale fierezza d'animo, autorizzavano anche quella imperiosità. Ora, il marchese invecchiava: e spesso lo sguardo scintillante si faceva smorto e l'alta persona, maestosa malgrado la magrezza, si curvava. Pure, imponeva un grande rispetto: e quando lo vedeva apparire, sua figlia, Bianca Maria, aveva come un tremito di venerazione e le fuggivano dalla mente tutti i mali giudizii della gente e suoi su suo padre. - Sei stata al monastero, oggi? - chiese il marchese di Formosa, passando accanto alla figliuola. - Sì, papà. - Sta bene, Maria degli Angioli? - Bene, sta: ma vorrebbe vedervi. - Non ho tempo, ora: ho un grande affare, un grande affare… - disse lui, facendo un gesto largo e vago. Ella tacque, lavorando con grande alacrità, astenendosi dall'interrogare. - Si è assai lagnata di me, Maria degli Angioli? - domandò lui, senza mai cessare la sua concitata passeggiata. - No - diss'ella timidamente - vorrebbe vedervi… ve l'ho detto… - Vedermi, vedermi… per raccontarmi dei guai, per sentire il racconto dei miei guai… bel modo di occupare il tempo. Eppure, se ella volesse, Maria degli Angioli, se volesse… i nostri guai sarebbero finiti. Le mani tremanti di Bianca Maria confusero i bastoncelli dove era avvolto il filo, intorno agli spilli del disegno. - Queste sante donne, - soggiunse lentamente il marchese di Formosa, come se parlasse in sogno, - queste sante donne, che pregano sempre, hanno il cuore puro, sono in grazia del Signore e dei suoi santi, godono grazie speciali, vedono cose che noi poveri peccatori non vediamo… suor Maria degli Angioli potrebbe salvarci se volesse… ma non vuole, non vuole, è troppo santa, non sente più nulla delle cose di questa terra, non le importa se noi soffriamo, o non lo capisce…Non mi ha voluto dir niente, mai, mai… Levato il capo, abbandonate le bianche mani sul merletto, Bianca Maria fissava suo padre con certi occhi pieni di una penosa maraviglia. - Tu non le hai mai chiesto nulla, di', Bianca? - disse lui, fermandosi presso sua figlia. - Che cosa? - chiese ella, smarrita. - Maria degli Angioli ti ama, ti sa infelice, a te avrebbe detto tutto, per aiutarti… perché non le hai domandato nulla? - proseguì, con la voce concitata dove già una tempesta di collera si addensava. - Che le dovevo domandare? - ripetè lei, sempre più smarrita. - Ah, tu fingi di non capire? - gridò lui, già furioso - Tutte così queste donne, tutte una mandra di pecore, o pazze o egoiste. Che state a dire, le ore intiere, tu e tua zia, nel parlatorio del convento? Su quali morti piangete? Pensate ai vivi! Non lo vedete che casa Cavalcanti scende alla miseria, al disonore e alla morte? - Che Dio ci scampi! - mormorò la figliuola, a bassa voce, segnandosi pianamente. - Pazze ed egoiste, le donne! - urlò lui esasperato da quella mancanza di resistenza, da quella dolcezza. - Ed io che penso solo a questo dalla mattina alla sera e che m'inginocchio, ogni sera e ogni mattina, innanzi alle sacre immagini, per ottenere la salvazione dei Cavalcanti! E tu che potresti, domandando a tua zia il segreto delle sue visioni, tu che con una parola sua potresti salvare te e me, e il nome, e tutto, tu fingi di non capire? Ingrate e perfide, le donne!… Ella, abbassato il capo, si mordeva le labbra per non scoppiare in singhiozzi. Poi, con voce tremula, rispose: - Un'altra volta, le domanderò… - Domani - ribattè imperiosamente il padre. - Domani. Subito, lo sdegno di lui cadde, improvvisamente calmato. Avvicinatosi a lei, le toccò fugacemente la fronte china, con quell'atto paterno che gli era consueto, che era metà benedizione, metà carezza. Allora, come se non potesse più resistere, sentendosi struggere il cuore, ella cominciò a lagrimare, in silenzio. - Non piangere, Bianca Maria, - disse lui, quietamente, - non piangere. Io ho buone speranze. Siamo così infelici da tanto tempo, che certo la Provvidenza ci deve preparare una grande gioia. Il tempo, naturalmente, non ci è dato di conoscerlo, ma non deve essere lontano. Se non è una settimana, sarà un'altra. Che sono le ore, e i giorni, e i mesi, di fronte alla grossa fortuna che ci si prepara, nell'ombra? Saremo così ricchi, così ricchi, che tutto questo lungo passato di ristrettezza e di oscurità ci sembrerà un breve sogno di spasimo, un'ora di incubo che la luce del sole ha fatto scomparire. Così ricchi, saremo! E chissà di quale istrumento si servirà la Provvidenza… forse di Maria degli Angioli, che è un'anima buona… tu le domanderai, domani, non è vero? Forse di qualche altro buono spirito, fra i miei amici che vedono forse di me, indegnamente, così peccatore come sono stato e come sono… ma io lo sento, ci salverà la Provvidenza, e per quel mezzo, solo con quel mezzo!… Parlando, aveva ripreso le sue passeggiate su e giù per il salone, dirigendo sempre il suo discorso a sé stesso, come se si fosse abituato a pensare ad alta voce. Solo ogni tanto, a traverso la sua esaltazione, intravvedeva la figura di sua figlia e riprendeva da lei il suo ostinato vaneggiamento intorno a una sola idea: - D'altronde, Bianca, che scampo potremmo avere? Il lavoro? Io sono vecchio e tu sei una fanciulla: i Cavalcanti non hanno mai saputo lavorare, né in gioventù, né in vecchiaia. Gli affari? Siam gente, il cui unico affare è stato di spender generosamente il proprio danaro. Solo una grande fortuna, conquistata in un giorno solo… lo vedrai, l'avremo. La tengo per sicura, mille rivelazioni, mille sogni me lo hanno detto… vedrai. Avrai di nuovo, Bianca Maria, cavalli e carrozze, la victoria er le passeggiate alla riviera di Chiaia, dove riprenderai il tuo posto, la elegante vettura chiusa, per la sera, per andare a San Carlo… vedrai, figlia, vedrai. Ti voglio comperare una collana di perle, otto file di perle legate da un solo zaffiro e un diadema di brillanti, come lo hanno avuto tutte le donne di casa Cavalcanti, fino a tua madre… Egli si arrestò a questa frase, come se una improvvisa emozione lo vincesse; ma la contemplazione del suo sogno di lusso, di fulgore lo distrasse subito. - …ogni giorno corte bandita: penseremo ai poverelli, agli affamati, a quanti mancano di soccorso; le elemosine pioveranno, ci sono tanti sofferenti… ho fatto anche un voto, un voto di dotare delle ragazze povere e oneste… tanti altri voti, ho fatto, per ottenere questa grazia. E tacque, come contemplando nella penombra del salone tutto lo splendido miraggio di fortuna, che la sua fantasia eccitata gli faceva palpitare innanzi agli occhi. La figlia lo ascoltava, rifattasi calma, pensosa: e nel cuore quella voce paterna le risuonava, nei consueti discorsi che gli sgorgavano ogni sera dall'animo troppo caldo, le risuonava con echi angosciosi, come un lento tormento. È vero, ella non credeva a quelle visioni, ma esse le facevano paura, ogni sera sgorganti nella frase impetuosa, talora tenera, talora collerica, di suo padre; né si poteva abituare a quegli sfoghi di passione che facevano trasalire e sussultare la sua anima innamorata di pace e di silenzio. - L'avvocato Marzano - annunziò Giovanni. Entrò un vecchietto piccolo, un po' curvo, con un folto mustacchio sale e pepe, e gli occhi fra arguti e dolci: era vestito di panni assai modesti. Passando accanto a Bianca Maria la salutò piano e con un cenno le chiese permesso di tenere il cappello in capo. E tenne anche il bastone grosso di canna d'India. Dopo aver regolato il suo passo su quello del marchese di Formosa, furono in due ad andare su e giù, parlando a voce bassissima. Quando passava accanto al lume, l'avvocato Marzano, si vedeva che gli occhi gli scintillavano di compiacenza e il grosso mustacchio, un po' militaresco, si agitava, come se egli facesse dei calcoli mentalmente. Ogni tanto, Bianca Maria che s'immergeva sempre più nel suo lavoro di trina, esagerando la sua attenzione, per non ascoltare: ogni tanto, involontariamente udiva qualche frase del gergo cabalistico, pronunziata da suo padre o dall'avvocato Marzano. - La cadenza i sette deve trionfare… - Potremmo anche avere il due di ritorno - La giuocata per situazione troppo forte… - Il bigliettone necessario… Parlavano, fra loro, assorbiti, con certi occhi lampeggianti e smarriti in quelle fantasticherie, che hanno il falso aspetto preciso e affascinante della matematica, quando Giovanni entrò di nuovo ad annunziare: - Il dottore Trifari. Entrò un uomo trentenne, tarchiato, grosso, con una grossa testa, dal collo troppo corto, la faccia rossastra resa ancor più vivida da una barba rossa e riccia con le labbra gonfie, come tumefatte, e gli occhi azzurri a fior di testa: occhi sospettosi, diffidenti, che ispiravano diffidenza. Era vestito ruvidamente, con un goletto stretto che gli segava il collo, con un grosso brillante falso sulla cravatta di raso nero, conservando sempre l'aria del provinciale, che né l'Università di Napoli né la laurea eran giunti a fargli perdere. Appena appena se salutò Bianca Maria: e posato il cappello sopra una mensola, si mise all'altro lato del marchese di Formosa. Camminarono su e giù tutti e tre, più piano. Ogni tanto, il dottor Trifari diceva qualche parola, facendo un atto energico, pur parlando sottovoce: e il suo sguardo obliquo interrogava sospettosamente i suoi interlocutori e le ombre intorno come se ne temesse il tradimento. Il marchese di Formosa conservava la sua ciera vivace di vecchio impetuoso, l'avvocato Marzano ostinatamente e bonariamente rideva dagli occhi furbi e dolci, mentre il dottor Trifari si muoveva con precauzione, pur parlando violentemente, come se temesse sempre un tradimento. Quando i due vecchi levavano un po' la voce, egli subito li reprimeva con un gesto, indicando loro le finestre, le porte: arrivò, a un momento, a indicar loro Bianca Maria: il marchese fece un gesto largo d'indulgenza, come a dire che era una creatura innocente; quando, ancora, Giovanni entrò ad annunziare: - Il professor Colaneri. Immediatamente, vedendolo, si indovinava il prete spretato. Sulle guance sempre rase era cresciuta una folta barba nera: ma i capelli tagliati corti sulla fronte e cresciuti male sulla chierica conservavano una piega ecclesiastica; ma la forma della mano in cui il pollice un po' curvo pareva attaccato all'indice; ma il gesto con cui egli si assoggettava meglio gli occhiali sul naso; ma l'altro gesto involontario con cui si passava due dita nel goletto, come se si allargasse il collarino pretino assente; ma il modo di guardare, facendo cadere lo sguardo dall'alto, era tutto un insieme di linee, di moti, di atti così evidentemente clericali, che si capiva subito il suo carattere. Formosa lo ricevette un po' freddamente, come sempre, quell'apostasia procurando un brivido di repulsione al suo misticismo. Il Colaneri anche parlava con cautela: e oramai, non potendo passeggiare più in quattro senza far udire i loro discorsi, si fermarono in gruppo, nel vano scuro di una finestra. Fu là che li venne a raggiungere Ninetto Costa, un bel giovanotto bruno, elegantissimo, che mostrava i denti bianchissimi in un continuo sorriso ed era uno dei più fortunati agenti di cambio della Borsa di Napoli: e infine un uomo che Giovanni aveva annunziato più sottovoce, solo col nome, sbadatamente, don Crescenzo, un tipo fra l'impiegato e il commesso, che scivolò nel salone con una certa timidità, ma che pure quei signori trattarono da paro a paro. Nel vano della finestra, fra i sei uomini la discussione ferveva, ma il tono della voce non si elevava. Bianca Maria continuava a lavorare, macchinalmente, ma era combattuta da un crudele imbarazzo: non osava andarsene senza il permesso di suo padre e capiva di esser superflua in quel salone. Quei parlari misteriosi, in un gergo che non intendeva e che le sembrava un linguaggio di folli, con quell'eccitamento, con quell'accanimento di tutti, quelle occhiate fra stralunate e torve, quegli sguardi dove si leggeva il sorriso di una pazzia cocciuta, quelle faccie che ora impallidivano, ora arrossivano, quei gesti violenti, concitati, tutto ciò cominciava per turbarla e finiva per ispirarle uno spavento invincibile: suo padre, specialmente suo padre, le pareva perduto in mezzo a tutti quegli esaltati, alcuni freddamente esaltati, alcuni furiosi, ma tutti eccessivamente ostinati: ella lo guardava ogni tanto, disperatamente, come se lo vedesse naufragare e non potesse dare un passo, fare un grido per salvarlo. A un certo punto, lentamente, i sei uomini uscirono da quel vano di finestra, e muti, in fila, uno dopo l'altro, andarono a sedersi intorno all'altro tavolino da giuoco, dove non vi era lume; strinsero le sedie intorno al tavolino, per avvicinarsi anche più, appoggiarono i gomiti sul piano di panno verde e si presero la testa fra le mani, identicamente, tutti sei, nella penombra, cominciando a discorrere, sottovoce, l'uno nella faccia dell'altro, soffiandosi le parole nel viso, guardandosi negli occhi, come se facessero un'opera di magia e di fascino. Bianca Maria non vi resistette. Facendo il minor rumore possibile, avvolse il suo tombolo in una striscia di tela nera, si levò senza muovere la sua sedia per non farla scricchiolare e uscì dalla vasta sala rapidamente, come se temesse che la potessero richiamare, sentendo sempre dietro di sé una impressione di paura, come se qualcuno continuasse a inseguirla. Fu rassicurata un poco solo quando entrò nella sua stanza, una semplice stanza da fanciulla buona e pia, nitida, un po' fredda, piena d'immagini sacre, di rosarii, di cerei pasquali. Lì dentro Margherita, la cameriera, che aveva udito il suo passo, la venne a raggiungere e le chiese, con un umile affetto, se voleva coricarsi: - No, no, - disse la fanciulla, - non ho sonno, aspetterò. Non ho salutato mio padre. - Il marchese farà notte tarda, - mormorò la cameriera, - Vostra Eccellenza si stancherà ad aspettare, qui, sola sola. - Leggerò; voglio aspettare. Ubbidiente, la vecchia cameriera sparve. Bianca Maria prese da una piccola scansia un romanzo religioso di Paolina Craven: Le mot de l'énigme, n libro pio e consolante. Ma la sua mente non poteva esser confortata, quella sera, dalle dolci parole della scrittrice francese; ogni tanto Bianca Maria tendeva l'orecchio, per udire se alcun rumore giungeva dal salone, se gli amici di suo padre se ne andavano o se altri ne giungevano. Niente. Nessun rumore. La gran congiura settimanale cabalistica continuava, soffiava di volto in volto, come se fosse un'opera tremenda di stregoneria; e questa impressione cresceva tanto nell'anima di Bianca Maria, che, ora, lo stesso silenzio la sgomentava. Ella ritentò, due o tre volte, di leggere il dolce libro, ma i suoi occhi si arrestavano, immobili, sulle linee nere stampate, senza più vederle, e il senso delle parole lette a forza le sfuggiva, mentre tutto il suo spirito si tendeva a cogliere i rumori del salone. Silenzio, sempre, come se non vi fosse dentro anima viva. Ella chiuse il libro e chiamò la sua cameriera, non sentendosi di sopportare quella solitudine piena di fantasmi. Margherita accorse subito e aspettò, muta, gli ordini della sua giovane padrona: - Diciamo il rosario, - mormorò costei, sottovoce. Ogni tanto, quando più le ore sembravano lunghe alla solitaria nepote dei Cavalcanti, quando l'insonnia le teneva gli occhi aperti, quando troppo lugubri le si aggravavano le fantasie nella mente, ella amava pregare ad alta voce, con la sua domestica, per ingannare il tempo, la veglia e l'agitazione. Temeva la conversazione dei servi, la evitava per una naturale fierezza, ma il pregare insieme non le pareva che un semplice atto di affettuosa umiltà cristiana. - Diciamo il rosario, - ripetette, sedendosi presso il suo bianco letto di fanciulla. Margherita sedette presso la porta, a una distanza rispettosa. Bianca Maria pronunziava le preghiere preliminari, annunziava il mistero diceva metà del Pater noster; 'altra metà la pronunziava Margherita. Così delle avemmarie, a prima metà la diceva Bianca Maria: l'altra metà spettava a Margherita. Pregavano sommesse: ma l'una distinguendo bene la voce dell'altra, riprendendo sempre a tempo il frammento della preghiera. A ogni diecina di avemmarie o posta el rosario, le due donne si segnavano pianamente: al principio di ogni Gloria Pater hinavano la testa, profondamente, per salutare lo Spirito Santo. Così, fra la mistica attenzione della preghiera e la emozione naturale che le suscitavano quelle consuete ma sempre poetiche orazioni, fra il ronzìo della propria voce e quello della voce di Margherita, la fanciulla dimenticava per un poco il grande dramma paterno che si svolgeva di là. Tutto il rosario fu detto così, lentamente, con la pietà delle anime veramente e ingenuamente credenti. Alle litanie della Vergine, prima di cominciarle, Bianca Maria s'inginocchiò innanzi alla sua sedia, appoggiando i gomiti sulla paglia; nel suo cantuccio s'inginocchiò la cameriera: la fanciulla invocava, in latino, la Vergine, sotto tutte le tenere apostrofi che le dedicarono i suoi devoti, e la cameriera rispondeva l' ora pro nobis. a dal principio delle litanie un rumorìo crescente di voci giungeva dal salone; rumorìo che turbava la preghiera di Bianca Maria, la quale cercava di non udirlo, levando sempre più la sua voce. Ma era impossibile oramai sottrarsi a quel chiasso di voci che diventavano alterate, rabbiose. - Che sarà? - diss'ella, arrestandosi nelle invocazioni alla Madonna. - Niente, - rispose Margherita. - Parlano dei numeri. - Litigano, mi pare… - soggiunse Bianca Maria timidamente. - Sabato sera rifaranno la pace… - mormorò Margherita, con la sua filosofia popolana. - E come? - chiese la fanciulla, lasciandosi trascinare al dialogo. - Perché nessuno di loro vincerà niente. - Preghiamo, - rispose Bianca, levando gli occhi al cielo della stanza, come se cercasse il firmamento stellato. Impossibile, adesso, di finire le litanie. La discussione, in salone, era diventata vivace così, che si udiva tutto; le voci, ora si allontanavano, ora si avvicinavano, come se i cabalisti si fossero nuovamente levati dal tavolino dove si soffiavano in volto le loro congiure e passeggiassero, su e giù, presi da quel bisogno di andare, di andare, avanti, indietro, in giro, in giro, che è di tutte le persone esaltate. - Chiudo la porta? - domandò Margherita. - Chiudete, preghiamo, - disse Bianca Maria, con rassegnazione. Le voci giunsero più fioche; le litanie poterono proseguire sino alla fine, senza interruzione, ma l'anima della fanciulla non apparteneva più alle parole che diceva: ella le pronunziava in preda a una profonda distrazione: la Salve Regina inale che riassume tutte le glorie di Maria fu sbrigata presto, come se il tempo le si affannasse alle spalle. - La Madonna benedica Vostra Eccellenza, - disse Margherita, levandosi, dopo essersi segnata. - Grazie, - rispose semplicemente la giovanetta, sedendosi di nuovo accanto al suo letto, dove passava, meditando o leggendo, tante ore della sua giornata. Margherita, allontanandosi, aveva lasciata la porta aperta. Ora le voci scoppiavano, irose. Gli arrabbiati cabalisti contendevano fra loro, furiosamente, ciascuno vantando a grandi grida i propri studii, le proprie visioni, ciascuno cercando di togliere la parola all'altro, interrompendolo, strillando più forte, essendo a sua volta bruscamente interrotto. - Ah non ci credete, voi, non ci credete alla forza di Cifariello, l ciabattino? - gridava l'avvocato Marzano, col furore intenso delle persone molto dolci, molto bonarie. - Forse perché è un ciabattino? Forse perché scrive le sue cabale con la carbonella, sopra uno sporco pezzetto di carta? Eccole qua, eccole qua; vi è il ventisette che è uscito secondo invece di quarto, ma è uscito! E vi è l'ambo, l'ambo del quattordici e settantanove, che ho avuto la disgrazia di abbandonare, a che è uscito tre settimane dopo che l'ho abbandonato. Son fatti questi, signori miei, fatti e non parole! - Sono le sessanta lire che gli date al mese, perché non faccia più il ciabattino e vi faccia la cabala! - interruppe vivamente il dottor Trifari. - Cifariello un'anima ignorante, innocente: egli mi ha dato il quattordici e settantanove, e io l'ho abbandonato! - Anche padre Illuminato mi ha dato quattordici e settantanove, - ribattè il dottor Trifari, - ma nella settimana buona. - E avete preso? Non avete detto niente agli amici? - domandò, concitato assai, il marchese Formosa. - Niente ho preso! Ho diviso i due numeri, in due biglietti diversi. Non ho capito la fortuna che mi dava padre Illuminato; quello solo li sa i numeri, signori miei, e nessun altro, nessun altro, perdio! Quello tiene in mano la nostra fortuna, il nostro avvenire. È una cosa forte: quando gli tasto il polso per vedere se ha la febbre, io mi sento tremare tutto… - Padre Illuminato è un egoista, - fischiò la voce sarcastica, tagliente del professor Colaneri. - Perché vi ha cacciato di casa sua, un giorno, che volevate a forza i numeri! Egli non dà numeri ai sacerdoti che hanno buttato via la tonaca: è un credente, padre Illuminato… - Io li vedo da me, i numeri! - strillò acutamente il Colaneri. - Mi basta non cenare, la sera, quando vado a letto: e meditare per un'ora, per due ore, prima di dormire: e poi li vedo, capite che li vedo? - Ma poi non escono, non escono! - urlò il marchese di Formosa. - Non escono perché ho la mente ottenebrata dagli interessi umani, perché non so staccarmi completamente dal desiderio di vincere, perché ad avere la visione lucida, bisogna avere l'anima pura, purissima, lasciare ogni torbidezza di passione, elevarsi nel dominio della fede. Ah io li vedo, ma spesso, ma quasi sempre uno spirito maligno ottenebra i miei occhi… - Sentite, sentite, - disse forte Ninetto Costa, l'elegante e ricco agente di cambio, - io ho fatto di più, io ho saputo che una giovane modista che abita al vico Baglivo Uries, aveva reputazione di dare i numeri buoni, i numeri veri: essa, non può giuocarli, come sapete, le è proibito sotto pena di non conoscere più i numeri. Ma li dà! Me le sono messo attorno, con la scusa di un amore improvviso, pazzo, le ho fatto dei regali, la vedo ogni sera e ogni mattina, sono giunto finanche a promettere di sposarla. - E vi ha dato niente? - chiese ansiosamente il marchese di Formosa. - Niente ancora! Evita il discorso, quando io gliene parlo, timidamente. Ma li darà, perdio, se li darà! Oh! come Bianca Maria avrebbe voluto che quel rosario recitato così distrattamente, quella sera, continuasse ancora, per non farle udire quei folli discorsi, di cui non perdeva una parola e che le turbinavano nel cervello, dandole la sensazione di un vortice in cui fosse travolta la sua anima. Come non avrebbe voluto udire gli impeti di quelle menti stralunate, assorbite nella idea fissa! Ora parlava il marchese di Formosa, vibratamente: - Sta bene l'ignoranza sapiente del ciabattino Cifariello, ta bene la santità di padre Illuminato, stanno bene le visioni lucide del nostro amico Colaneri, ma dove è il risultato? Che si vede? Che abbiamo ottenuto? Noi qui ci giuochiamo l'osso del collo, ogni settimana, cavando denari dalle pietre, ognuno di noi, e vincendo, ogni cento anni, la miseria di un piccolo ambo, o la più grande miseria di un numero per estratto. Qui ci vogliono mani più potenti! Qui ci vogliono forze più alte! Qui ci vogliono miracoli, signori miei! Si dovrebbe far decidere mia sorella monaca, Maria degli Angioli, a dare i numeri! Mia figlia dovrebbe farla decidere. Qui ci vorrebbe mia figlia stessa, che è un angelo di virtù, di purezza, di bontà, che chiedesse i numeri all'Ente Supremo! Un profondo silenzio seguì queste parole. Suonò il campanello della porta di entrata. Bianca Maria che, tremando tutta, si era trascinata sin dietro la tenda della sua porta, vide passare ed entrare nel salone un uomo miserabilmente vestito, dall'aspetto ignobile, con le guance smunte, livide, striate di rosso e la barbaccia nera di un convalescente che esce dall'ospedale, un'apparizione penosa e paurosa. All'entrata del bizzarro individuo nel salone, era subentrato il silenzio, come se improvvisamente si fossero placati tutti gli animi, come se una grande misteriosa tranquillità fosse apportata dallo sconosciuto. Bianca Maria, appoggiata allo stipite della sua porta, tendeva l'orecchio, ansimando. Forse i cabalisti erano ritornati al loro tavolino, portandosi seco loro quel nuovo arrivato. Durò a lungo il silenzio. Immobile, quasi rigida, essa si aggrappava al legno della porta, per non cadere: quello che aveva udito era troppo crudelmente doloroso, per non sentirsi spezzar l'anima. La teneva un'umiliazione, un'angoscia senza nome, come se tutta la sua sensibilità non fosse oramai che un dolore solo. Soffriva in tutto, nella fierezza natia, nel suo riserbo di fanciulla offesa dal suo nome buttato così, in una disputa di pazzi, da suo padre: soffriva nella sua tenerezza filiale, per sé e per suo padre, come avrebbe sofferto per ambedue, se egli l'avesse schiaffeggiata in pubblico: l'angoscia le saliva al cervello come se volesse abbruciarlo fra le sue strette roventi. Quanto tempo ella stette così, quanto tempo durò il silenzio, nuovamente, nel salone? Ella non lo avvertì. Solo, nel suo affanno, udì passare dietro la tenda della sua porta e uscire chetamente di casa, come tanti cospiratori, uno ad uno, tutti gli amici di suo padre. Allora, macchinalmente, uscì dalla sua stanza per cercare di lui. Ma il salone era scuro: era scura la piccola stanza da studio dove il marchese di Formosa entrava ogni tanto, a consultare qualche vecchio libro di cabala. Bianca Maria cercava suo padre affannosamente. Alla fine, una luce la guidò. Don Carlo Cavalcanti era entrato nella piccola cappella; aveva ravvivato la lampada innanzi alla Vergine Addolorata; aveva acceso la lampada spenta per suo ordine, innanzi all' Ecce Homo aveva acceso le due candele di cera nei candelabri dell'altare e li aveva trasportati innanzi a Gesù Cristo. Non contento di ciò, aveva anche portato nella piccola cappella il lume a petrolio del salone e in quella grande illuminazione si era prostrato, buttato giù, disperatamente, innanzi al Cristo, e trasalendo, sussultando, singhiozzando, pregando ad alta voce, diceva al Redentore: - Ecce Homo io, perdonatemi, sono un ingrato, sono uno sconoscente, sono un misero peccatore. Ecce Homo perdonatemi, perdonatemi, non mi fate scontare i miei peccati. Fatemi la grazia per quella figlia che languisce, per la mia famiglia che muore! Io sono indegno, ma beneditemi per quella creatura! O Vergine dei Dolori, voi che tutto avete sofferto, capitemi voi, soccorretemi voi! Mandatela voi una visione a suora Maria degli Angioli! O anima santa di Beatrice Cavalcanti, moglie mia benedetta, se io ti ho addolorata, perdonami, perdonami se ti ho abbreviata la vita, fallo per tua figlia, salva la tua famiglia, comparisci a tua figlia, che è innocente, digliele a lei le parole che ci debbono salvare…anima santa, anima santa… La fanciulla, che tutto aveva inteso, fu presa da tale invincibile paura che fuggì, tenendosi la testa fra le mani, con gli occhi chiusi; ma giunta nella sua camera, le parve udire come un profondo, triste sospiro dietro a sé, le parve che una lieve mano le si posasse sulla spalla; e folle di terrore, senza che un grido potesse uscire dal petto, crollò per tutta la sua altezza sul pavimento e giacque come morta.

STORIA DI DUE ANIME

682508
Serao, Matilde 1 occorrenze

Chiacchierando, con la sua figliuola, ambedue avevano un gergo familiare, dei ricordi a cui Domenico nulla intendeva, dei sorrisi d'intelligenza, dei sensi sottintesi nelle frasi; e citavan nomi, fatti e date che egli ignorava; e si abbandonavano alle memorie, ai progetti, alle speranze, isolandolo, obliandolo, come se egli mai fosse esistito, escludendolo, persino, da ogni discorso di avvenire. Alla sfuggita, ogni tanto, Mimì comprendeva che Anna e il padre si eran veduti, nella giornata, che erano andati insieme, chi sa dove, chi sa in quale ora. Talvolta, sempre al principio, un po' scherzando, un po' sul serio, egli aveva rivolto, a tavola, qualche dimanda suggestiva. Subito, aggrottate le sopracciglia, Don Carluccio aveva assunto un contegno offeso: - No, no, caro Mimì, non scherziamo. Quando mia figlia è con me, voi nulla dovete sapere. Sono il padre e basta. È già molto, avervela data in moglie. Non intendo sopportare altro. Quanti Dentale esistevano, e loro affini, e amici loro, tutti in rapporto con Anna e che costei vedeva sempre, mentre suo marito si affannava a plasmare i visi rosei e ridenti agli angioletti, intorno all'Assunzione di Maria, e dipingeva di un bianco latteo le nuvole che portavano in Cielo la Vergine! Abitava, tutta questa gente, nei quartieri più eccentrici, più lontani fra loro, a santa Teresa di Capodimonte, all'Arenaccia, a Montecalvario, a santa Lucia, a Basso Porto, a Materdei; ve ne era persino una, Francesca Dentale Catalano, oltre la Riviera di Chiaia, alla Torretta! E Mimì si figurava Anna, andando a piedi, alle visite più vicine, in tram verso quelle più accessibili, in carrozza da nolo alle più lontane, se la figurava... dove, dove, posto che egli si confondeva, in tanta parentela, in tante amicizie, con tanti nomi? La sera, egli, malgrado che sapesse di annoiarla. non poteva reprimere la domanda: - Sei uscita? Per lo più, ella non rispondeva alla prima richiesta, in una di quelle sue distrazioni tanto opportune. - Già. - Sei andata... dove? - A fare una visita. Silenzio, ancora. - Dalla tua madrina, donna Giuseppina? -... no. - Da tuo padre? -... no. - Da Francesca Dentale? -... no, no. Sono andata altrove... - Ah!... - esclamava lui, come aspettando. Ella si decideva.. - Sono stata da Maria Garzes. - E chi è, costei? - Non la conosci. Una mia compagna di monastero. - E dove abita? - A Salvator Rosa. - È maritata? - Sì, maritata; agiata. - E chi ha sposato? - Un signore, naturalmente - concludeva lei, per punirlo delle sue investigazioni. Raumiliato, egli cessava d'indagare. E le doveva credere sulla parola: poichè, per metodo, Anna aveva fatto sì, che i suoi parenti, salvo suo padre, non vedessero che raramente, molto raramente, suo marito. Con un'abilità perfetta, dovendo egli stare a bottega, tutto il giorno, non facendosi restituire che pochissime visite, non andando con lui, di domenica, quando egli era libero, che a messa, a passeggiare in Villa e, la sera, in un teatro, ma sempre sola, con lui, evitando gl'incontri, fuggendo ogni gita in compagnia. Anna aveva isolato Mimì Maresca. A qualche tentativo infelice lui, per vedere qualcuno di costoro, almeno i parenti più prossimi, a qualche atto di cortesia, di familiarità che egli aveva voluto compiere, ella aveva opposto un rifiuto secco: e se il pittore dei santi aveva voluto insistere, Anna gli aveva fatto intendere, pur senza dirlo, che i suoi parenti. essendo di un ceto molto più alto del suo, non avevano piacere di trattarlo. Immediatamente, nella sua triste semplicità. egli aveva ceduto. Sempre gli ricadeva sulle spalle, come un peso di pietra, questa differenza di condizione: Anna non gli risparmiava una sola volta questa verità, in ogni particolare quotidiano della vita, in certe lezioni che gli infliggeva, con fare altezzoso e noncurante, in certi segni costanti di disprezzo, che ella esercitava contro di lui. Ogni sua consuetudine semplice, ogni suo costume, ogni tradizione familiare, ogni uso popolare, tutto questo svolgersi dell'esistenza, in una certa maniera, avevan trovato in Anna un giudice rigido, inesorabile: e tutto, lentamente, malvolentieri, egli aveva dovuto mutare, anche quello che più gli era caro, anche quello che era stato caro a suo padre, a suo nonno, anche quello che egli vedeva fare a tutta la gente della sua condizione. Frizzante, sardonica, Anna colpiva, dalla sommità della sua signorilità, tutto ciò che per tanti anni era stato il fondo della vita di Mimì Maresca, fondo grezzo ma onesto, volgare, forse, ma bonario, superstizioso, forse, ma non mancante di tenerezza: e Mimì chinava il capo, rinunziava a mangiare certi cibi, in certi giorni, rinunziava a certe ore di riposo, nella stagione estiva, rinunziava a celebrare certe feste, rinunziava a certi pellegrinaggi, in certi anniversarii. Ella non transigeva. Era una signora: e tale voleva restare, e tentava, inutilmente, diceva lei, di dargli qualche gusto di signore. Ella si era rifiutata, violentemente, a ricambiare nessuna delle visite fattele, con pompa, dai parenti Maresca. Solo negli otto giorni, dopo le nozze, in gran lusso, col suo più bell'abito, coi suoi più ricchi gioielli, ella aveva acconsentito a visitare la moglie del compare di anello, donna Gabriella Scafa, la ricca moglie del Re della Immagine, quel marito e quella moglie che dominavano, con un imperio sovrano, tutta la regione di san Biagio dei Librai, sino a via Tribunali, sino a Forcella, sino al Duomo, dovunque una piccola o grande bottega di figure e di figurelle esponesse le sue immagini, quei possenti Scafa che il trionfo della oleografia sacra, a buon mercato, aveva arricchito. Con costoro, sì, una o due volte l'anno, in cerimonia, accompagnata da Domenico Maresca, trattenendosi un quarto d'ora, scambiando delle frasi convenzionali, senza nessuna cordialità: e ricevendo la visita di ricambio, allo stesso modo, in via Donnalbina. mandando a chiamare Mimì in bottega e portando, Anna, la sua più ricca vestaglia. A nessun altro, una visita: neppure alla zia Gaetanella Improta, quella dell'eredità, quella che non portava cappello, pur avendo molti danari. Quando la Improta era nominata, quando si nominava un parente Maresca, la bella bocca di Anna Maresca si gonfiava di sprezzo e il suo silenzio, ostinato, ingrandiva anche più quella espressione costante. Nessuno di essi aveva osato farle una visita, avendone compreso l'animo nella festa di nozze, e man mano, Domenico Maresca, era stato messo da parte anche da queste antiche parentele, da quelle umili conoscenze, gente che gli voleva bene, prima, ma che, adesso, lo compativa, crollando il capo, prevedendo chi sa quali brutte conseguenze, da questo matrimonio; e se, per caso, egli s'incontrava con uno di costoro, se egli andava loro incontro, con le braccia aperte, con il suo buon sorriso sulle grosse labbra smorte, l'altro assumeva un contegno gentile ma distaccato: se egli nominava sua moglie, l'altro, subito, troncava il discorso. Tutto egli comprendeva, Mimì Maresca, con una sensibilità profonda, affinata, adesso, da un amore che ne eccitava i nervi e le facoltà: sentiva che lo sfuggivano, sentiva che lo compativano, sentiva che essi temevano di Anna, sentiva che essi prevedevano cose molto cattive. E si rinchiudeva, sempre più, nella solitudine della sua passione ardente, oscura, esclusiva e unica: e si aggrappava, per poter vivere, a questa passione di cui Anna non gli permetteva, oramai, più, che pochissima o niuna manifestazione. E non avevano figli! - Ringrazio Iddio, mattina e sera, perchè non mi manda figli - esclamava lei, ogni tanto, guardando suo marito nel viso, perversamente. A questa parola sacrilega, a questa preghiera sacrilega. Domenico Maresca allibiva. In tutte le classi sociali napoletane, è così profondo il desiderio, il bisogno, la necessità di avere dei figliuoli, che un matrimonio senza figli, è considerato con viva compassione per i coniugi e, anche, con una senso di disistima. Scendendo, poi, nella piccola borghesia, nel popolo, le nozze infeconde sembrano una sventura familiare. Più innamorato che marito, più amante che padre, Mimì Maresca provava, sul principio, molto superficialmente la nostalgia di questi figli che non venivano: ma, un anno e mezzo dopo, in lui, fatto più preoccupato, più triste, più segretamente infelice, deluso profondamente dall'amore, crucciato dai sospetti più intimi, non potendo più orientare la sua misera vita sentimentale, cercando un punto sull'orizzonte cui tendere il suo cuore deserto, questa nostalgia si era fatta più acuta: e non poteva comporre, con le sue nobili mani dedicate alla più sacra delle fatiche, con quelle mani che erano la sola bellezza della sua brutta persona, con quelle mani in cui si traduceva la dolcezza della sua anima, non poteva plasmare, o dipingere una testa di angioletto, senza fremere di invincibile malinconia. Egli voleva fare, nel suo ardente desio, una statuetta del bambino Gesù, alla maniera antica, come i pittori di santi antichissimi: una statuetta, alta come un bambino di due anni, un piccolo Gesù roseo e biondo, con le manine aperte e distese, con la boccuccia schiusa. Questo bambino Gesù si veste di un abituccio di raso grigio perla, abituccio orlato al collo, alle maniche e alla gonnelluccia di una trina di oro, e la stoffa è tutta ricamata a zecchini di oro, scintillanti: sul bel capino riccioluto si posa una coroncina chiusa di argento: e al collo, sul petto, sulle braccia tese del piccolino, si appendono fili di oro con medaglioni, vezzi di perle, vezzi di coralli, e tutti gli strani ex voto della fede meridionale. Se Dio gli dava un figlio, una figlia, Mimì Maresca avrebbe offerto al Signore questa sorridente e ricca effigie del suo Divin Figlio, opera di Mimì Maresca, la statuettina dai piedini rosei e nudi sul piedistallo, e tutto fornito da lui, la veste, la coroncina, l'oro, i voti. Nulla sapeva Anna di questo già potente e dolente desiderio del marito, poichè egli non osava parlarne. Solo, qualche volta, indirettamente, gli usciva dal cuore, al derelitto pittore dei santi, innanzi all'altiera creatura del suo inutile amore, una esclamazione d'invidia, se si parlava di una coppia cui era nato un figliuolo: solo, qualche sospiro, gli usciva dal petto, se incontravano, nelle loro passeggiate della domenica, delle famiglie placide. precedute da una piccola schiera di figliuoli, vestiti graziosamente. - Beati loro! - mormorava lui. E, subito, Anna Maresca ribatteva: - Anche tua madre, non ne ha fatto che uno. Egli impallidiva mortalmente. Era una cosa insopportabile, per lui, udir nominare sua madre da Anna: poichè ella lo faceva glacialmente, con una malvagità premeditata, guardando negli occhi suo marito, costringendolo ad abbassarli, costringendolo a tacere e a divorare la sua amarezza. Alle otto di sera, un sabato, di settembre, Mimì Maresca bussò in fretta alla porta di casa sua, in via Donnalbina. Ordinariamente rientrava alle sette, per il pranzo: ma, in quel giorno, il lavoro forte che vi era stato in bottega, il viavai di clienti, degli ordini da dare a Ursomando e allo sciancato Nicolino, per il lunedì, gli avevano portato via più di un'ora. - È tardi, Mariangela, ho fatto tardi - disse lui, alla vecchia domestica che era venuta ad aprirgli, passandole avanti. - Il pranzo sarà pronto? - Sì - rispose costei, con un accento singolare. In un minuto, Mimì, aveva percorso le tre piccole stanze dell'appartamentino. Anna non vi era. Sconvolto, egli corse in cucina, ove la serva si affaccendava attorno ai fornelli. - Mariangela, dove è la signora? - È uscita. - Uscita? Da quando? - Dalle quattro. prima, forse. - E non è tornata? Alle otto? Come è possibile? Una pena viva ispirava le sue esclamazioni. La antica domestica che lo aveva visto nascere, che lo aveva cullato, portato a scuola, amato come un figlio e venerato come un padrone, lo guardava con atto di profonda pietà: - La signora ha mandato una lettera per voi - ella mormorò. - La lettera è in istanza da pranzo, al vostro posto, dove si mettono sempre le lettere. Egli vi corse. Un bigliettino era deposto, sul suo tovagliolo: scritto a lapis, sovra un mezzo foglietto che pareva strappato da un taccuino maschile, e chiuso in una busticina da carta da visita. Diceva, il biglietto: "Caro Mimì, devi pranzare solo. Sono andata a far visita a Francesca Dentale, perchè era l'onomastico di suo marito Gennarino, e mi hanno gentilmente trattenuta a pranzo. Non t'imbarazzare per venirmi a prendere, perchè vi è chi mi accompagna - Anna". In una profonda confusione, egli cadde sovra una sedia, al suo posto, in quella stanza da pranzo, ove erano sempre in due, da un anno e mezzo, e dove, quella sera, gli toccava restar solo, pranzar solo, poichè Anna lo abbandonava, con una libertà di azioni, una disinvoltura e una indifferenza completa. Mai, mai, era restata a pranzo fuori di casa, neppure col padre, nè per un invito formale, nè per una occasione fortuita e, così, a un tratto, per affermare la propria indipendenza, di fronte ai parenti Dentale, ella non rientrava, pranzava altrove, lontana, avvertendone con un biglietto arido, senza una parola di scusa, senza un saluto, senza dire a che ora sarebbe rientrata, togliendogli anche, brutalmente, il diritto di andarla a riprendere, facendogli intendere, chiaramente, che voleva fare il suo comodo e non esser infastidita da lui. - Debbo servire? - domandò timidamente, dalla porta, Mariangela, al suo padrone che, con la testa fra le mani, coi gomiti puntati sulla tavola da pranzo, cercava vincere i suoi nervi tesi dallo spasimo. - Servi pure. Ma della buona zuppa di erbe fumanti, egli non prese che una cucchiaiata: brancicò, col coltello e con la forchetta, un pezzo di carne allesso e lasciò stare tutto. Si passava, macchinalmente, la mano sulla fronte, volendo calmarsi, volendo riprendere un po' di tranquillità, sempre con la paura che qualcuno indovinasse la cura insopportabile che aveva dentro. Anche di Mariangela aveva soggezione, quantunque ne conoscesse la devozione assoluta. E tentò, con uno sforzo, di chiarire, alla sua domestica, quell'assenza così strana, la padrona che lascia la casa e il marito, per andarsene a pranzo, da parenti che egli non vedeva mai, in un rione lontano, per ritornare chi sa a quale ora della sera, forse avanzata. - Me lo imaginavo... - egli mormorò, come fra sè... - Era naturale che donna Francesca Dentale la trattenesse a pranzo... è san Gennaro, oggi... aveva un bell'abito, Anna, oggi? - Sissignore. Quello nero, tutto ricamato di perline. - Oh! E ti ha detto nulla, per me?. - No. Se lo doveva immaginare, però, che sarebbe ritornata di notte, perchè ha portato via la mantellina - soggiunse la domestica, candidamente. - Ah! - esclamò lui, trafitto di nuovo. - E chi ha portato questa lettera? - Un fattorino di piazza. - Da dove veniva? - Da Chiaia, mi ha detto. - Già. E chi gliela aveva consegnata?. - Un giovanotto, mi ha detto. - Ah! - disse lui, senza aver forza di conoscere altro. Col coltello, tagliuzzava minutamente la corteccia dell'arancia, che aveva cercato di mangiucchiare. Si levò di tavola, andò in salotto, vi restò, in piedi, guardandosi intorno con quello sguardo sperso che egli assumeva, nelle ore difficili della sua vita. - Volete del caffè? - chiese la vecchia fedele, dalla porta. - No, no. E per non mostrare anche più la sua miseria morale, aprì un giornale della sera che Anna comperava, con un soldo, quotidianamente, da uno strillone: e che ella leggeva lungamente, per isfuggire, spesso, alla conversazione con suo marito. Mimì scorreva le colonne di parole e di lettere e non intendeva nulla. Due volte, guardò l'orologio: non erano ancora le nove. E pensava, tra sè stesso, che non avrebbe resistito, ad attendere, in casa, Anna. Egli non esciva mai, dopo pranzo: e certo, Mariangela, avrebbe compreso la sua ansia, vedendolo partire: e si vergognava. Ma come resistere? Si sentiva male: correnti di gelo, correnti di fuoco gli attraversavano la persona: ebbe paura di aver la febbre, una febbre improvvisa, che gl'impedisse di andare. Mariangela rientrava, adesso, in salotto e lo guardava coi suoi buoni occhi amorosi e pieni di pietà. Voleva dirgli qualche cosa, si vedeva, mentre egli fremeva di fuggire. - Che vuoi? - chiese lui, rodendo il freno, fingendo una calma perfetta. - Volevo dirvi, don Domenico, che questi sono gli ultimi giorni che resto al vostro servizio ella pronunciò, con uno sforzo per celare la sua emozione. - E perchè? Perchè? - esclamò il padrone, stupito. - Perchè me ne vado - ella soggiunse, rassegnatamente. - Te ne vai? Dove, te ne vai? - Ho una sorella, ad Airola, vicino Benevento; è il paese dove sono nata, Airola. A questa sorella e a me, nostro padre ha lasciato una casetta, una stanza e una cucina sola; niente altro. Vado a morire là, nel mio paese, don Domenico. - E mi vuoi lasciare? Dopo tanti anni! - gridò lui, sinceramente commosso, dimenticando i suoi guai. - Io non vi lascerei - mormorò essa, con dolcezza servile. - È la vita che mi lascia. - Tu puoi campare molti anni ancora, Mariangela! - Ma non posso più servire - ella replicò, sempre con umiltà, a capo basso. - E come vivrai, poveretta? La casa non basta. - Ho qualche soldo, da parte, dopo tanti anni, che servivo qui: io non spendevo nulla, papà vostro e voi, eravate così buoni! Non pensate; avrò sempre un tozzo di pane. - Oh Mariangela, Mariangela, tu te ne vai! - disse lui, dolorosamente. - Te ne vai, così, dopo tanti anni! E Anna lo sa? - Lo sa - disse l'altra, con tono rassegnato. - E che dice? Che ti ha detto? La vecchia domestica non rispose. Mimì ebbe l'animo attraversato da un sospetto. - Non ha detto nulla, per trattenerti? Mariangela levò gli occhi sul volto e, a bassa voce, confessò la verità. - È lei che mi ha licenziata. - Lei? Lei? - Sì, lei. - Licenziata, proprio? - Oggi. Prima di uscire. Per la fine del mese. - E perchè? perchè? - Dice che sono vecchia, che non posso più servire, che non ho mai saputo servire. Sono vecchia, io; ed essa ne vuole una giovane - disse rapidamente, tremando, la poveretta. E per umiltà di animo cristiano, soggiunse: - La padrona ha ragione. Sono vecchia. non mi reggo più in piedi, me ne debbo andare. E, involontarie, sole, due lunghe lacrime discesero sulle guance scarne e rugose, gelide lacrime di vecchia creatura povera e finita, oramai. - Povera Mariangela - disse lui, con un sospiro profondo, ove parve si esalasse tutto il suo rammarico impotente e inutile. Non altro. Il suo tormento lo riprendeva, a morsi atroci, e, senza più aver la forza di reprimersi, afferrò il cappello e uscì di casa, accompagnato dal pio e tenero augurio di Mariangela, un augurio in cui, quella sera, trapelava, anche. la tristezza delle cose che non sono più. - La Madonna vi accompagni, in ogni passo che date. Quando fu fuori di casa, Mimì Maresca, nella molle serata di settembre, attraversata da qualche debole soffio fresco di un autunno che si avanzava, quando i suoi rapidi passi lo ebbero portato, dalla stretta e tetra e deserta via di Donnalbina, ove solo due fanali a gas, fiochi, diradavano le tenebre, in via Monteoliveto, bene illuminata, animata da viandanti, in ogni senso, attraversata continuamente dai trams che venivano da lontano, dai quartieri estremi sul mare, quando egli fu tra la gente, camminando in fretta, si sentì sollevato. un poco. Niuno sapeva dove corresse quell'uomo dallo scialbo e floscio viso, tutto assorto in un pensiero fisso, ed egli stesso andava, andava, verso via Fontana Medina. verso Piazza Municipio, spinto da un istinto di ricerca affannosa, d'inquieta indagine. Come quegli si accostava al centro della città, l'animazione della sera di morente estate, si facea più viva. File di donne passavano, venendo da Santa Lucia, da Chiaia, risalendo verso Toledo, verso i quartieri alti: altre file discendevano, e tante donne erano vestite di chiaro, quasi tutte; e molte erano vestite di bianco; e dei ventaglini si agitavano, nelle mani muliebri, delle risa trillavano, qua e là, una gaiezza circolava nell'aria, nelle cose, nelle persone; e i caffè avevano le loro tavole sui marciapiedi, sulle piazze, e la folla le occupava da pertutto; e delle musiche risuonavano, eseguendo dei pezzi popolari, delle canzoni alla moda, delle arie di ballo. Era giorno di festa, infine, per chi rispettava san Gennaro, il Patrono: e, sovra tutto, era una di quelle splendide sere di settembre, quando la gente si riversa ovunque si possa godere il fresco, sotto il chiarore delle stelle. Colui che scendeva per via Chiaia, sempre a piedi, sempre rapidamente, Mimì Maresca, percepiva superficialmente lo spettacolo così vivido e così simpatico della sera di estate: egli si urtava con le persone, scansandosi macchinalmente, proseguendo la sua via, cieco e sordo a ogni altra cosa, che il suo furioso desiderio non fosse: ritrovare Anna, subito, riprendersela, riportarsela a casa. E, animato da questa monomania, non si fermava a rammentare tutti i particolari bizzarri di quell'avventura disgraziata: la premeditazione, certo, che Anna aveva avuta in quella giornata: la brevità offensiva del biglietto: quel foglietto di provenienza non femminile: e quell'uomo, quel giovanotto che aveva consegnato la lettera al fattorino. No, tutto ciò gli era sfuggito dalla mente; egli correva, soltanto, per ritrovare Anna, non sapeva altro, andava, andava, diritto innanzi a sè. Fu sotto le grandi lampade elettriche di piazza Vittoria, ove i più bei palazzi patrizi mettono le loro facciate, ove il più elegante club di Napoli, il Nazionale , aveva la sua veranda illuminata e, fra le piante, sdraiati nei seggioloni di paglia, i socii sorbivano delle bevande ghiacciate e fumavano delle sigarette, fu solo lì, in piazza Vittoria, fra un andirivieni di persone, fra il rumorio sempre più forte dei trams , che Mimì Maresca si fermò di botto. Dove andava? Dove andava? Non ignorava, egli, forse, l'indirizzo di Francesca Dentale? Dove andava? Egli sapeva soltanto che la bella cugina di Anna, sua moglie, abitava alla Riviera di Chiaia; ma quella via è così lunga, così lunga! Sapeva, ancora, che Francesca Dentale abitava verso la Torretta, alla fine, proprio alla fine della Riviera di Chiaia, ma dove, specialmente, a qual numero, egli lo ignorava, Dove si dirigeva? A chi chiedere? In che posto fermarsi? Con quale indizio trovare questa casa? La sera si inoltrava, la Riviera di Chiaia, fatta di grandi edifizi aristocratici, fiancheggiati da piccole case borghesi, aveva pochissime botteghe, quasi tutte chiuse, o che si andavano chiudendo. Dove andava, dunque, Mimì Maresca, in una regione di Napoli così lontana dalla sua, in vie belle e popolose, ma che egli non frequentava quasi mai, dove andava, a cercare sua moglie, una donna, in una grande strada lunghissima, di cui l'occhio non scorgeva la fine, la cui larghezza impediva di riconoscere qualcuno, da un lato all'altro, con un fluttuamento costante di persone, con un movimento rapidissimo di equipaggi, dove andava egli, dunque, a cercare Anna, in una casa sconosciuta, egli non esperto, non pratico, profondamente scosso e già pentito dell'invincibile impulso che lo aveva spinto colà? E, dove andava, dunque, costui, quando gli si era detto che non lo volevano? Perchè andava, quando niuno lo desiderava, quando, egli ne era certo, sarebbe giunto inaspettato e mal gradito? Dove andava egli mai, quando la volontà di Anna era stata così chiara, così limpida, proibendogli di andarla a prendere, poichè aveva compagnia, e migliore della sua? Dove andava, quando ella lo aveva confitto a casa, in via Donnalbina, con quel biglietto, quando ella non voleva saperne, della sua presenza, divertendosi, ballando, forse, fra gente del suo ceto, ed escludendo lui, escludendolo assolutamente, lui popolano, pittore dei santi, senza finezza, goffo, goffissimo, insopportabile a lei? Dove andava mai, dunque, per farsi ricevere come un cane in chiesa, anche se avesse ritrovata la casa di Francesca Dentale, per farsi scacciare, forse, da sua moglie? E tutto l'ardor di ricerca, dunque, di Mimì Maresca era caduto: la debolezza spirituale, che era il fondo del suo essere, lo assaliva, novellamente, gli spezzava le forze fisiche e le morali. A passi lenti, oramai, si era messo sul marciapiede che rasenta il trottatoio della Villa e si trascinava lungo la ringhiera di ferro che difende i pedoni, alla mattina, dal trotto dei cavalli, su cui gli sportmen vanno e vengono, sotto le ombre dei grandi alberi del giardino pubblico, Di sera, alle nove e mezzo, non vi erano sportmen , ma il marciapiedi era ancora affollato, con la freschezza settembrina, con i profumi che venivano dai giardini di casa Colonna, di casa Alvarez de Toledo, del Vasto, di Monteleone. I suoi pensieri, in piazza Vittoria, avevan distrutto la sua esaltazione momentanea e, con essa, la sua momentanea forza. Camminava, sì, ma come un'ombra folle e vana, rallentando il passo, fermandosi, fissando gli occhi innanzi, ma senza vedere nulla, respinto spesso da chi gli passava accanto, respinto a diritta, a sinistra, sorpreso, costantemente, dal passaggio filante e rumoreggiante dei trams pieni zeppi di donne e di uomini, che tornavano da Posillipo, dalla Torretta, trasalendo a ogni volto femminile che gli appariva, e non osando neppure fissarlo bene, quasi avendo paura, oramai, d'incontrare sua moglie, chiedendo a sè stesso perchè non fosse restato, laggiù, nella solinga casa di via Donnalbina, ad aspettarla, come essa gli aveva ingiunto, perchè non le avesse ubbidito, senza discutere, anche a costo di soffrire le più acute torture, poichè il suo destino, oramai, era di vivere e di morire per lei, vivere di dolore e morire di dolore, ancora chiedendo perchè, perchè mai si trovasse colà, a quell'ora della sera, sgomento di un incontro, di cui sentiva il presentimento fatale nel suo spirito. Sfiaccolato, affranto da una giornata di fatica materiale, passata in piedi, e da una crisi morale che aveva debellato le sue fragili e fugaci energie, tremante di un pericolo morale di cui, con singolare percezione, egli pareva sentisse la imminenza, Mimì Maresca, mise moltissimo tempo per giungere, come uno spettro vagolante, sin quasi alla fine della Riviera di Chiaia, ove, forse, sorgea la casa di Francesca Dentale, ove, forse, stava Anna, sua moglie, e dove egli, adesso, aveva un terrore invincibile di ritrovare questa casa e di ritrovar questa donna. Egli si era arrestato, macchinalmente, in un punto ove l'andare e venire della gente, nella limpida e morbida sera di estate, era più forte e più allegro. Innanzi a Mimì Maresca che stava immobile, sul marciapiede, in un incrocio largo di binarii, vi era la grande fermata dei trams della Torretta: la Riviera di Chiaia vi finiva, biforcandosi in due strade, quella di Mergellina, quella di Piedigrotta, una che andava a Posillipo, verso il mare sonoro e fragrante, una che andava verso la campagna di Fuorigrotta, nell'ombra solinga e odorosa delle vigne e degli orti, Alle sue spalle, una larga, ma breve traversa, frequentatissima, conduceva all'elegante e aristocratico Viale Elena, conduceva tra palazzi maestosi e villini civettuoli, alla magnifica via Caracciolo. E i carrozzoni dei trams , dalla città, dal mare, giungevano carichi, gremiti di persone, alla fermata della Torretta, ove altra gente attendeva, in piedi, per prender posto, ove molti scendevano, molti salivano, fra gli squilli di campanelli, il rumorio delle voci e il fragor sordo e continuo degli equipaggi signorili, delle carrozze da nolo, e i canti lontani e vicini, e tutto un chiasso umano, ora basso ora alto, ora dolce ora stridente. Continuamente Maresca era urtato, spinto, investito, talvolta da gruppi di persone, mentre, alle sue spalle, in via Mergellina e nella larga traversa, il Caffè Stinco aveva collocato i suoi tavolini all'aria aperta, tutti occupati da gente. Ogni tanto, Mimì Maresca indietreggiava, verso la traversa, verso il Viale Elena: una volta, lentamente, trascinando i suoi piedi morti di fatica e la sua anima morta di tristezza, giunse sino alle acacie del Viale Elena. E fu in fondo a questa traversa che una donna, passando, lo sfiorò e si voltò, subito, a guardarlo, fisamente; la donna mosse pochi passi, indecisi, innanzi: poi, a un tratto, si voltò di nuovo, gli venne incontro, gli si piegò, vicina, dicendogli, con voce bassa e roca: - Non mi conosci? Non mi conosci più? Al chiarore che veniva da una bottega illuminata, ove delle stiratrici lavoravano, nel biancore delle tende e della tavola da stiro, egli fissò bene la donna e la riconobbe Gelsomina, che toccava i venti anni, pareva fatta più alta e più magra: il suo vestito di mussolina bianca, tutto adorno di merlettini bianchi, pareva che le andasse largo, un po' cascante sul busto e sui fianchi. Sotto un grandissimo cappello nero, carico di corte piume nere, il suo viso sembrava più smunto, più allungato. Era oltraggiosamente carico di rossetto e di polvere di riso: il colorito naturale di questo viso era sparito, completamente: sottolineati di bistro i suoi occhi, e delineate, anche in bistro, le sovracciglie fini: con atto costante, ella seguitava a mordersi le labbra, per farle diventar rosse. E, strano a dirsi, era leggermente toccato, delineato col rossetto, il segno che ella portava dalla sua nascita, sul mento, la piccola voglia, la piccola fragola. Alle gentili orecchie portava dei pesanti orecchini; delle grosse pietre verdi, quadrate, circondate da pietre bianche, falsi smeraldi con falsi brillanti. Al collo, aveva una grossa spilla, simile: e, sul braccio, uno scialletto di seta rossa, di un colore vivissimo. - Non mi riconosci? Non mi vuoi riconoscere? - ella domandò, ancora, con quella sua voce lamentevolmente rauca. - Sì, sì, - mormorò lui, con una pena immensa - ti riconosco, sei Gelsomina, buona sera! - Non mi chiamo più così! - replicò ella, crollando il capo. - Gelsomina non esiste più. - E come ti chiami? - Fraolella , solamente Fraolella . Tutti così mi chiamano. - Chi, tutti ? - chiese lui, inconsciamente. Ella lo guardò, amara, senza rispondere. Sparita, per sempre, da quegli occhi grigiastri e grandi la espressione maliziosa di dolcezza infantile e l'altra, anche infantile, d'improvviso smarrimento: un avvicendarsi, invece, di una rassegnazione passiva, di una tristezza torbida, di una curiosità dolente, di uno stupore dolente. E quegli occhi ove tutta la sua istoria si poteva leggere, per chi ricordava quelli di un tempo, quegli occhi donde tutta la gioia della innocenza e della gioventù era fuggita, contrastavano malamente con quel viso delicato, tutto imbellettato. - E che fai, qui, a quest'ora…. Fraolella ? - domandò Mimì, per dire qualche cosa, superando la sua pena. - Aspetto... aspetto qualcuno... - ella rispose, girando la testa in là. - Un innamorato? - Già. - Don Franceschino Grimaldi? Un breve riso, impresso di cinismo, uscì dalle labbra dipinte e morsicchiate di Gelsomina. - Le tue notizie sono vecchie! - ella esclamò, ridendo ancora, e fermandosi, subito, per respirare, come un tempo. - Non è più il tuo innamorato? - Ma no! - Lo hai lasciato? - Mi ha lasciata - ella soggiunse, piano, come se parlasse in sogno - Dopo tre mesi, mi ha lasciata. - Così poco? - Così poco, Mimì - disse lei, mentre, nella arrocatura della voce, qualche cosa tremava. Temeva,.. temeva.., qualche guaio... un figlio… - Non vi è stato..?- esitò lui, a domandare. - No..- niente... meglio così, Come avrei fatto, Mimì? Mi sarei dovuta buttare dalla finestra. Essi si guardarono, un momento, ambedue stravolti. Stavano innanzi a quella bottega, ove si lavorava, a grandi colpi di ferro e, vicinissimi, parlavano piano. La gente che passava, o non si accorgeva di loro, andando ai suoi piaceri e ai suoi doveri, o, accorgendosene, aveva un sorriso maligno, vedendo l'interesse di quel colloquio, credendo a discorsi amorosi o, piuttosto, a discorsi sensuali, fra quella giovine il cui aspetto, ahimè, non ingannava nessuno e quell'uomo giovine, smorto, che l'ascoltava attentamente. - Ascolta, Mimì, ascolta, - ella proruppe, ma pianissimo, dopo essersi guardata intorno, e mettendogli una mano sul braccio - due o tre volte, mi son voluta buttare dalla finestra… - E chi ti ha fermato, chi ti ha fermato? - chiese lui, ansiosamente. - La paura. Ho venti anni. Ed ero in peccato mortale! E chi si uccide, è chiaro, muore in peccato mortale! - Ma perchè volevi morire, Gelsomina? - esclamò lui, obliando di chiamarla col suo soprannome, - Faccio una vita disperata, Mimì - rispose lei, chinando il capo sul petto. Tacquero, un poco. Come il senso della fatalità passava sulle loro teste, sulle loro vite, egli, infelice, tentò reagire, e rispose: - Non ti potrei salvare, io, non potrei? - Tu? - disse lei, con accento singolare. - Io, si, io! Dimmi se posso, dimmelo, purchè io non ti sappia… così… purchè io non ti vegga... in questo stato. - Tu non puoi fare niente - ella rispose, con una tetraggine cupa, - Niente. - Ma perchè? - Perchè troppo tardi. - Troppo tardi? - È troppo tardi - ella concluse, aprendo le braccia, con un gesto desolato, non volendo soggiungere altro. Pure, vi era tanta espressione di rammarico inconsolabile, di un lungo rimpianto antico, senza conforto, tanta evocazione di un passato che era stato dolce e che avrebbe potuto essere felice, che egli, ottuso, sordo e cieco, intese il rimprovero, ma senza approfondirne la essenza disperata. Girò lo sguardo intorno, vagamente, come a raccogliere le sue idee, i suoi sentimenti, i suoi ricordi: ma preso dal suo dolore personale, ancora più veemente, perchè non espresso, non trovò nulla da soggiungere. Ella fece un atto lieve, di disdegno pietoso, con le labbra, innanzi a quella sordità, a quella cecità e riprese, lentamente, parlando in sogno come un tempo: - Solo Dio.. solo la Madonna.. possono fare qualche cosa, per me… - Ma tu li preghi? - Tu preghi, ancora? - chiese lui, con ansia ingenua. - Ancora: indegnamente. Ho portato dei ceri all'Addolorata di Santa Brigida.. ho fatto tanti voti... voglio andare scalza, da Napoli a Valle di Pompei... - Ebbene? - Niente - disse lei, con voce desolata, - Bisogna pregare, sempre: sperare sempre… - Tante altre, come me, tante altre poverette, hanno pregato, hanno fatto voti… e nulla hanno ottenuto... Certe non pregano più... forse così vuole, Dio, per farci fare il Purgatorio in terra ella disse, con quello accento di sogno, di lungo sogno interiore e triste. - Così vuol Dio, forse! - Amen - disse lei, aprendo le braccia e abbassando la testa. Poi, come avendo accettato questa croce, questa pietra che le ricadeva sul petto, ella mutò discorso: - E tu, Mimì, tu? Che fai? Hai già un figlio? - No - egli disse, trasalendo. - Come? Non hai un figlio? Me lo avevano detto... che avevi avuto un maschio... un bel maschio... che bugiardi! E ti dispiace, di non averne? - Mi dispiace - rispose lui, sempre a occhi bassi. - E ad Anna, dispiace? - No. Le fa piacere, non aver figli. - Piacere? Piacere? - gridò lei, stupita. - Le può far piacere, questo ? - Già. - Non ha cuore, dunque? Domenico Maresca non rispose. E, sul volto, gli si vedeva la tortura che subiva per quell'interrogatorio; ma, strano a dirsi, anche il desiderio morboso di non troncarlo. - Ma ti vuol bene, Anna? Ti vuol bene? Alla domanda incalzante, egli seguitava a non rispondere. Un'altra ambascia lo soffocava: ma in quell'ambascia, almeno, egli poteva concentrare tutto quanto aveva sofferto in quel giorno, tutto quanto aveva sofferto in un anno e mezzo. A quella povera ragazza, diventata una creatura perduta, a quel povero essere dalle guance brucianti di rossetto, dall'acconciatura equivoca, che ronzava, sola, in quell'ora tarda, in quel quartiere di piacere, egli sentiva di poter denudare il suo cuore, senza tema di esser deriso, senza tema di esser beffato. - Anna non ti vuol bene? - chiese ancora, lei, con la insistenza della pietà, della tenerezza. E, infine, come non lo aveva mai detto a nessuno, come non lo aveva confessato mai apertamente, neppure a sè stesso, come lo aveva detto solo al Signore, nelle sue orazioni, Domenico Maresca, a Gelsomina, che non si chiamava neppure più così, portando, oramai, solo il nome di Fraolella , portando solo il soprannome di una di queste disgraziate donne, a Fraolella , rispose questo: - No, Anna non mi vuol bene. Un silenzio tragico regnò fra loro. - E allora, allora - lo interruppe lei, alzando la voce, come per protestare contro il Destino allora, è stato inutile che tu la sposassi? - È stato inutile. - Sei certo, che non ti vuol bene? - Come della morte, ne sono certo. - Oh Dio! - disse lei, celandosi il viso tra le inani. - Essa mi ha sposato per il danaro - continuò lui che, oramai, era preso dal delirio della confidenza. - Non per altro: per danaro. Ne ho speso tanto, Gelsomina: e non è bastato: e non basta: ce ne vuole sempre: se no, Anna mi disprezza e mi disprezzerà più che mai... - Gesù, Gesù... - ripeteva lei, sommessamente. - Non solo non mi ama, ma le sono odioso: lo mostra, lo dice, in ogni atto, in ogni parola. Non posso più accostarmi a lei, senza che mi respinga: non posso volerle dare un bacio, senza che mi faccia uno sgarbo... - Che ingrata... che ingrata... - La mia famiglia, i miei parenti, i miei amici, tutti, tutti li disprezza, sputerebbe loro in faccia, se potesse ... e, invece, sta sempre con i suoi... non so dove... non so con chi ... - Che dici? Non sai, dove? Non sai, con chi? - Gelsomina, Gelsomina, - gridò lui, giunto al colmo del parossismo - da oggi, alle quattro, è andata via, e mi ha scritto che sarebbe rientrata tardi, mi ha lasciato solo... disperato... - Non sai dove è? - Qui, qua vicino, qua attorno, deve essere in una di queste case della Torretta, da una sua parente, e non so il numero di casa, non so nulla, e sono in giro da due ore, Gelsomina, per trovarla e cammino, cammino come un pazzo, per incontrarla, così, mia moglie, Anna, capisci! Vedendolo così esaltato, come mai lo aveva visto, Gelsomina lo aveva attirato verso il Viale Elena, ove era meno gente che osservasse, che udisse, lo aveva attirato sotto le acacie in fiore. E, lentamente, gli prese le mani, gli disse con dolcezza: - Oh povero Mimì, povero Mimì, che hai fatto, che hai fatto! - Mai, lo avessi fatto, mai! - gridò lui, disperato. - Era meglio morire che far questo! E i due sventurati, ambedue precipitati in fondo a un abisso, ambedue incapaci di altro che di esalare il proprio dolore in vane parole, si teneano per le mani, come due morenti. - Almeno... - mormorò lei, lentamente - almeno... ti è fedele? - Sì - disse lui, sordamente. - Mi è fedele. - Ne sei sicuro? - Ne sono sicuro. È così cattiva, così fredda che non ha voluto bene e non vorrà bene, mai, a nessuno. Ah io dovevo morire e non sposarla mai! Dovevo vivere senza amore, io! Non ero destinato all'amore, io! Come mio padre, come il mio povero padre, non era mio destino, voler bene a una donna ed esserne corrisposto... - Tuo padre, Mimì? Tuo padre? - Nulla - disse lui, troncando subito tale divagazione, mordendosi le labbra. - Vedi bene, Gelsomina, che non sei la sola, a fare una vita disperata. Io sono solo, come un cane: come un cane che abbia un padrone tiranno, perverso, malvagio, che lo colmi di frustate, a ogni buona azione che fa. Non sei sola, a fare una vita disperata. Almeno, l'hai un innamorato... - Già! - disse lei, con un riso cinico. - L'hai detto tu! - L'ho detto. È la verità. Sai chi è, il mio innamorato? Non lo sai? È Gaetanino Calabritto, il figlio del sellaio in via Cavallerizza: un bel giovanotto, non lo hai mai visto, ma, se aspetti un poco, lo vedrai! Un bel giovanotto - continuò lei, ansimando, con gli occhi pieni di lacrime - che non ha nè arte nè parte, che prende o ruba danaro, a sua madre, che prende o ruba danaro, a suo padre, che è affiliato alla mala vita , che è stato già in carcere, tre volte, che vi tornerà... e che è il mio innamorato! - Che orrore! - esclamò lui. - Ti fa orrore? Pure a me. Ogni giorno, ogni sera, egli viene da me... e io debbo dargli quel che vuole, quello che ho, dieci lire... cinque lire... due lire... quello che ho... capisci!... - Capisco! Che orrore! - Anche a me, anche a me fa orrore! Io non ho un soldo, questi abiti che ho addosso, me li ha venduti la mia padrona di casa, e non glieli ho pagati... e non so come fare certi giorni, per mangiare... ed egli vuol sempre quattrini... capisci, capisci?. - Capisco! È orribile! Ma come sei capitata con lui? - Così! Per non esser sola, come una povera bestia abbandonata, nella sua cuccia, per non esser sola, comprendi, per avere una finzione di amore, una finzione di protezione, una finzione di compagnia... ho messo la mia esistenza in mano di costui... che mi fa ribrezzo. Domenico, te lo giuro, per quella Vergine che non dovrei nominare, tanto le mie labbra sono piene di peccato, Domenico, egli mi fa schifo, e intanto, egli viene, e io gli do quello che ho, così, per debolezza, per viltà... per non esser battuta, la sera e la mattina... - E non puoi lasciarlo? - Egli mi ucciderebbe - disse lei, tetramente. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ambedue, tacendo, eran ritornati dal Viale Elena, verso la Torretta: e camminavan un po' lontani l'uno dall'altro, oppressi, schiacciati, ognuno, dalla propria sventura, più angosciati, ancora, dell'incontro che avevano fatto, l'uno dell'altro, più esterrefatti, ancora, dagli sfoghi terribili che avevan fatto, ognuno, della propria miseria, senza che, malgrado la compassione, malgrado la tenerezza, l'uno potesse consolare l'altro. La gente era meno folta, perchè l'ora si avanzava: un'aria assai più fresca, soffiava, dal mare. Macchinalmente, Gelsomina si gittò sulle spalle, si strinse al collo, il suo scialletto rosso, di un rosso ardente. Un istante, restarono fermi allo sbocco della traversa, sulla Riviera di Chiaia, rimpetto all'incrocio dei trams della Torretta, che giungevano, partivano, ora, meno colmi di persone, con un tinnìo di campanelli più languido. E a un tratto, quasi involontariamente, dalle labbra della poveretta, escì un grido: - Ecco Anna. Dirimpetto ai due, ma lontana, Anna Dentale aspettava, in piedi: e malgrado la distanza, si riconosceva, al suo viso bellissimo e calmo, ai suoi grandi occhi che vagavano, placidamente, intorno, in attesa quieta di qualche cosa. Ella era vestita riccamente di nero e delle pagliuzze scintillavano, su lei, qua e là, alla luce elettrica delle grandi lampade; una mantellina ricca le stringeva le spalle e una mano guantata di bianco, ne appariva, fra i merletti, tenendo delle rose bianche, un fascetto di rose, mentre l'altra era abbandonata lungo la persona, stringendo un ventaglio. Anna non era sola. Accanto a lei stava un giovanotto alto e snello, dalla ben formata persona, vestito elegantemente di oscuro, con un cappello di paglia, sul capo: un giovanotto dal viso fresco e grazioso, sul cui pallore fine si arcuavano dei sottili baffetti biondi, brillavano gli occhi oscuri e scintillanti, la cui bocca era sfiorata da un sorriso di compiacenza e di sarcasmo. Ogni tanto, questo giovine, che si teneva accanto ad Anna, si chinava verso lei, e le diceva una parola, con un sorriso anche più espressivo, mentre ella gli levava gli occhi, in viso, gli sorrideva, tenuemente, gli rispondeva a fior di labbro. E i due, Anna Maresca e Mariano Dentale, soli, a quell'ora avanzata, a cui la serata di metà settembre, dava una poesia anche più intensa, colpiti vivamente dalla luce elettrica, sul loro lato, non vedevano chi passava loro accanto, non scorgevano chi li guardava, dall'altro lato della via. Al grido di Gelsomina, che indicava Anna, Domenico Maresca, aveva avuto un sussulto, aveva cercato, con gli occhi, dapertutto, esclamando. - Anna... dove... dove...? - Là - indicò l'altra, con un gesto breve, della mano, con un accento bizzarro. Tutto vedeva e scorgeva, adesso, il povero Domenico Maresca, stupefatto, inchiodato al suo posto da quella visione. E nell'inaspettata, mortale rivelazione che chiudeva orribilmente il suo calvario di quella giornata, in quella rivelazione che infrangeva, di un colpo solo, tutta la sua ultima sicurezza, come tutti i deboli, come tutti i fiacchi, una paralisi morale lo abbattè, una paralisi fisica gli legò i piedi, le mani, la voce. Non visti, Gelsomina e Domenico scorsero, dall'altra parte della lunga via, Anna e Mariano scambiare qualche parola, ancora, fra loro, poi avanzarsi, un poco, in linea retta, verso loro: e Gelsomina udì il pittore dei santi, spaventato, dire con voce sorda, come se morisse. - Oh Dio... oh Dio! Ma, fra i quattro personaggi, un trams che veniva da Posillipo si fermò, s'interpose. Nell'istante della fermata, dall'altro lato, Anna e Mariano, leggermente, disinvoltamente, vi salirono, si sedettero, uno accanto all'altro, tranquilli e sorridenti, con l'aria soddisfatta di chi completa bene la propria giornata. E, avanti a Gelsomina e a Domenico, il tram filò, nettamente, fuggendo, sparendo, verso l'alto della Riviera di Chiaia. Solo allora, vincendo il suo profondo stupore, Domenico Maresca, con un ruggito forte, tentò slanciarsi: - Dove vai?, dove vai? - lo trattenne, Gelsomina, afferrandolo pel braccio. - Lasciami!... lasciami!... - smaniò lui. - Sono lontani... - mormorò lei - non li raggiungi più. Erano lì... ora sono lontani. - Dove andranno? Dove vanno? - chiese lui, puerilmente, con un singhiozzo nella voce. Ella ebbe una lieve stretta di spalle, innanzi a quella domanda imbelle. - Eh! chi lo sa! A casa tua... forse... - Credi? Credi che Anna rientri a casa? - balbettò lui. - Credo. - La troverò, tu dici? - Eh! sì, sì, la troverai! - s'impazientì lei, dinanzi ad una viltà così profonda. - E se non vi è? Se non vi è? Gelsomina non rispose. Distratta, occhieggiava a diritta e a sinistra della Riviera di Chiaia, come se dovesse scorgervi qualche cosa di strano, ma di cui fosse in attesa, in agitata attesa. - Se non la trovo, Gelsomina, se non la trovo, che ne sarà, di me? - gemette l'infelicissimo. Ella non l'ascoltava più, vinta, adesso, dalla imminenza di qualche cosa che temeva e che, senz'altro, doveva accadere. E come un fanciullo debole e malato, Domenico Maresca gemette, ancora: - Gelsomina, se non la trovo, io ti vengo a cercare! Dimmi dove stai, io ti vengo a cercare, se non la trovo... - A far che? - disse lei, con una voce ove fischiava l'ironia. - A piangere con te... a piangere... Gelsomina, se non la trovo! Dimmi, dove stai? - No - disse lei, brevemente. - Ma perchè? Perchè? Neppure tu! Neppure tu! - Non posso - ella soggiunse. - E perchè, non puoi? Perchè? Se non la trovo, che ne sarà di me? - Guarda - ella disse, con un cenno. Verso loro due si avanzava un uomo, un giovane. Portava un vestito grigio chiaro, attillatissimo, un cappelletto nero sull'orecchio, le mani in tasca, un bastoncino che usciva da una delle tasche: le sue scarpe scricchiolavano: e tutta la sua persona di una volgare beltà, aveva un'andatura provocante, la sua faccia bella e triviale, un'aria provocante. Di lontano, scorse Gelsomina che parlava con Domenico, si fermò. Egli attese, così, un minuto. Poi un fischio leggiero e lungo gli escì dalle labbra. - Eccomi - disse, come fra sè, Fraolella . - Qui sta il cane. E senza voltarsi, senza guardare, soggiunse, al pittore dei santi: - Addio, Domenico. Il pittore dei santi la vide allontanarsi, rapidamente, fermarsi col giovanotto, parlargli, a lungo. Costui, silenzioso, con un mozzicone spento all'angolo della bocca, l'ascoltava, con le sovracciglia aggrottate, l'occhio torbido. Precipitosamente, con grandi gesti, Fraolella continuava a dare spiegazioni, mentre l'altro, sempre più arcigno, crollava il capo. E si allontanarono, ambedue, nella notte: l'uomo, innanzi, col suo passo elastico, con lo scricchiolìo dei suoi stivalini, con il suo aspetto spavaldo: la donna, più indietro, con passo stanco, con le spalle curve, a capo chino, come un povero cane. Sdraiata in una poltroncina del suo salotto, Anna leggeva un libro, quietamente. Aveva indossata una vestaglia bianca, le sue belle mani escivano dalle maniche larghe. Quando Domenico rientrò in casa, era mezzanotte. E, stravolto, si fermò sulla soglia; un profondo sospiro gli sollevò il petto. Ella appena levò gli occhi, dalla lettura: - Sei qui, Anna, sei qui! - balbettò lui. - Dove dovrei essere? - chiese ella, freddamente. - Ti aspetto da tre quarti d'ora. È tardi. - Ero venuto... ero venuto, a cercarti... - Ti avevo detto di non farlo - replicò lei, con un lieve aggrottamento di sopracciglia. - Io ti ho cercata... laggiù... tutta la serata. - Hai fatto male - ella concluse, rimettendosi a leggere, senza dargli più retta. E Domenico, a un tratto, esplose la sua angoscia, tutta la sua angoscia: - Ti ho incontrata, Anna, ti ho vista! Non eri sola! Ho visto con chi eri! - Ebbene? - chiese lei, glacialmente, posando il libro sulle ginocchia. - Eri con Mariano Dentale, con Mariano! - E poi? - chiese, ancora, Anna, fissando suo marito negli occhi, con tale una collera gelida che egli allibì. - Con Mariano... con Mariano... - gridò Domenico, pianse Domenico, torcendosi le mani. Anna si alzò, chiuse il libro, lo posò sul tavolo, si avviò verso la stanza da letto, piena di un'ira muta, superbissima di sdegno taciturno. - Con Mariano... con Mariano, Anna! - piangeva lui, nella idea fissa. - Se dici un'altra parola, Domenico, - pronunciò lei, nettamente, dalla soglia - prendo il cappello e me ne vado. Ed egli tacque.

Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

682915
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Mi arrestai a mezzo dell'atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano ... vacillai e caddi privo di sensi. Quando rinvenni mi trovai carico di catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi. Mi fu letto l'atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze del paese - usanze che avevano forza di legge - rifiutandomi a trafiggere il mio naso greco con quell'ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati io veniva considerato come decaduto dal trono di Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione. Fui invitato ad esporre le mie difese. Anzi tutto, io dissi non posso ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della nazione. Ove è l'altra metà? Ove sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere discussi da suoi sudditi, e le sue colpe - se un re può commettere delle colpe - non possono essere né giudicate, né punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un'anarchia impossibile ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di tutti i governi d'Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi venni per un puro istinto di umanità, per un semplice spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra tutte le dinastie di quel gran continente incivilito. Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi l'ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia ... aveva fatto tutto questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle generazioni future mi giudicheranno. Ho detto. Uno scroscio di risa feroci accolse le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla corda, alla corda. Fui condotto al luogo destinato ai supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti come lame, roteavano stormi di astori e di aquile. Fui legato ad una corda annodata alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull'abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sé, mi sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole ai Denti bianchi: - Domando, io dissi, che la salma reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de' miei padri. Che, ove non ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell'isola. Né io pensava in quel momento che era impossibile tornar da quell'abisso, e che mi sarei fatto a brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più sacro della salma d'un zoccolante; poiché il corpo d'un re e quello d'un mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si può gettar l'amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a proferire quelle parole. Vanità inutile, poiché i Denti bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc'anzi agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia infernale, di cui non saprei darvi un'idea se non richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare col dire: mostrano i denti. Non si frappose più indugio alcuno al mio supplizio. Fui condotto sull'orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla corda, mi trovai sospeso perpendicolarmente sopra l'abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello Stato disposti in circolo sull'orlo della voragine, tentavano di tagliare a colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso. Era un supplizio lungo, lento, crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da una parte e dall'altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice filo al mio peso. Curvandomi e guardando sotto di me, io vedeva l'abisso nero e profondo che mi attendeva, gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio tremendo .... Un solo filo reggeva ancora la corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io guardava la corda e l'abisso, poi la corda, poi ancora l'abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto con ciò sollevarmi dal fondo della voragine. Non so quanto durasse quell'agonia. A un tratto una freccia colpì nella corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e ... oh mio Dio! .... mi svegliai, e mi trovai nel mio letto. - Che vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore .... - Ventiquattro ore! - Sì cotesta tua abitudine di bere ... io ti vegliava inquieta ... - Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno, perocché adesso ... - Siamo di sera. Hai, dormito un giorno intero. - Un giorno! Ed ora, miei lettori, dubiterete ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?

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Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

La mia statuina di gesso faceva una lettura assai disattenta; era preoccupata: le mani a poco a poco le si abbandonavano col libro, ed ella si perdeva a pensare, gli occhi sbarrati nel vuoto. - Pare un sogno! - esclamò di repente. - Che cosa? - domandai con inquietudine. - Che cosa? Tutto! Tutto pare un sogno; da stanotte, mi sembra di vivere una vita nuova..... Chinò la testa sul libro e continuò la lettura. - C'è la finestra con le persiane spalancate, - osservai dopo qualche tempo. - Ciò non si usa in un convegno. Volete che chiuda? Accenderò il lume. - No: mi fa melanconia - rispose la giovane, continuando a leggere. - Piuttosto, avete chiuso la porta a chiave? - Me ne sono dimenticato. Del resto, è un particolare ch'egli ignorerà. - Non si sa mai..... - mormorò Clara, senza alzar gli occhi dal volume. - Supponete che egli abbia l'imprudenza di salire in casa mia? - La gelosia non ragiona. Io mi misi a ridere. - A quest'ora - dissi - un uomo geloso mi avrebbe già provocato. Clara depose il libro vivamente sulle ginocchia e fece un gesto di paura. Mio Dio, - proruppe. - A questo non avevo pensato! Sì, egli può provocarti, batterti, ucciderti! Come non ho pensato a questo? Ho commesso una imprudenza stupida, e tu ne avrai le conseguenze più dolorose. Io lo irrito, lo esaspero, ed egli non può nulla contro di me. A chi farà scontare la sua rabbia? A te certamente. Come non ho visto una cosa tanto semplice? Adagiato nella poltrona, io la lasciava parlare, compiacendomi egoisticamente di quella sua affezione che prorompeva. Ella agitatissima, e parlando, mi guardava quasi per implorare un conforto, una parola che la rassicurasse; io ascoltava, godeva e taceva. - Ti farà del male, di'! - ella seguitò. - Due uomini che si odiano sono terribili: e voi vi odiate furiosamente. Ah, che cosa ho mai fatto, amico mio! Ho giuocato la tua vita, come una pazza! Egli può ucciderti. Ecco in qual modo io ti ringrazio. Ah, quale follìa ho commesso! Ma io gli dirò che non ti amo: che vengo qui per isfuggire lui, non per essere la tua amante. Glielo dirò oggi stesso, ora, subito....... Devo salvare te, prima di tutto. - Clara! - esclamai, vedendo ch'ella si levava in piedi e si dirigeva alla porta. La giovane si fermò. - Che vuoi? - chiese. - Non c'è tempo da perdere: egli può provocarti quando esci di casa. Ora vado da lui e gli parlo. - Clara - mormorai - non ti credevo tanto sciocca. La poveretta restò presso la porta come fulminata. - Sì, sciocca - seguitai crudelmente. - Bisogna essere sciocchi per supporre che colui venga a cercarmi. Egli non farà nulla, egli non agisce mai per conto proprio, direttamente; è una bestia viscida e tu lo temi come un leone furibondo. Siediti, va! Non commettere altre ragazzate. Sei qui: rimani; egli deve credere che tu sei la mia amante; farglielo credere. Non lasciarti prendere da tenerezze ridicole. Dal modo con cui ella tornò a sedersi, umile e sommessa, compresi di avere trasmodato; ma la mia ira non si calmò. - Del resto, - soggiunsi - pensi che queste inquietudini mi commuovano molto? Sei la sorella, tu; me lo dicevi anche ieri. Ma io non posso essere un fratello, per te, e la tua affezione casta m'irrita. Non mi ami, ma mi vuoi bene: quali invenzioni, che piccinerie, che puerilità! Se mi uccidono, sarai disperata perché ti è morto il fratello d'anima! Quanto è goffo tutto questo; che settecento irrancidito, che smorfiette isteriche!.... - Eppure - susurrò Clara - se ho torto, potresti perdonarmelo. - Perdonare non è tacere, - osservai freddamente. - Prima ti dico quel che penso, e poi ti perdono! Quanto a me, non avere inquietudini..... Sarebbe troppo risibile ch'io mi facessi ammazzare per una sorella di passaggio. Ah, la frase volgare m'era scappata! Mi morsi la lingua troppo tardi, e mi serrai furiosamente le mani per richiamarmi alla realtà, al rispetto, al dovere. Ma mi giunse quasi in un soffio la voce di Clara, dolce, stanca, velata di lagrime: - Che posso fare di più? Quando vuoi, sono tua, anche ora. Ti devo tutto: mi hai salvata. Dimmi che mi vuoi, e sono cosa tua. - Morta, fredda, senz'anima, morta, fredda, - mormorai. Clara prese il libro e continuò la lettura. - Lo sapevo - ella disse - che non si può parlare con voi. Vi avevo pregato di tacere. - Verrai anche domani? - - chiesi, impaurito ch'ella mi sfuggisse. Devi venire qua, se vuoi che la finzione abbia un significato. La giovane dissimulò a stento un sorrisetto malizioso. In realtà, continuando con quella commedia, il barone avrebbe finito per credermi il più indomito amatore del secolo. Guardandoci negli occhi, vi leggemmo lo stesso pensiero, ed io mi arricciai i baffi per trattenere qualche parola piena di rimpianti. - Verrò, - ella disse, - s'egli verrà a cercarmi, benchè non creda che vi divertiate molto. Non penso a divertirmi, ora; penso a rendere impossibile il vostro matrimonio, senza provocare spiegazioni difficili fra voi due. Tacemmo: io mi avvicinai alla finestra e guardai cautamente giù, sul Lungarno. Il barone non si vedeva, forse stava celato in un negozio vicino, indugiando fino al ritorno di Clara. - Non andartene così, - dissi, vedendo che la donna si levava, e abbassava il veletto del cappellino - Aspetta ch'io chiami una carrozza. - Ma sono a due passi da casa mia, - ella obiettò. - Non importa; di costui non mi fido. In un istante son di ritorno..... Uscii: il barone seguitava ad essere invisibile; tornai con una carrozza chiusa; ciò era più romantico. La giovine vi saliva qualche istante appresso, ed io, dalla finestra, seguii dello sguardo la carrozza che si allontanava rapida e voltava per via Tornabuoni. - Anche voi siete fraterno, nelle vostre idee, - ella m'aveva detto, stringendomi la mano, e partendo. E il complimento, nello stato in cui mi trovavo, non poteva essere più sarcastico.

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