Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220278
Storie d'amore e di dolore 5 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Ma Giulio Sermanni, con la sua tradizionale poesia, quando aveva fatto tanto d'entrar nel campo del sentimento, non lo abbandonava a quel modo senza un po' di sfogo, e specialmente dopo aver sorbito qualche bicchierino di più. — Sì, da vero. Matilde dieci anni fa era magra, bruna, palliduccia. Abitava in una stamberga attigua alla mia, nelle soffitte d'un vecchio palazzo a Porta Genova, e a traverso l'assito che ci separava ella poteva, osservando dalla mia parte, godersi lo spettacolo d'una confusione di tele, di cartoni, di gessi, in mezzo ai quali io badavo a tirar giù alla brava pennellate e freghi di matita. Ma aveva altro da pensare, poverina! In vece, per conto mio, quando udivo il suo passo svelto su' mattoni o la sua fresca vocetta che rispondeva al brontolìo della madre, non mi facevo per nulla scrupolo di curiosare dalle commettiture del legno nella camera della mia vicina. Questo accadeva sempre di mattina presto, o di sera. Nelle altre ore del giorno, silenzio perfetto: meno lo strascicar lento delle ciabatte della vecchia e la sua tosse ostinata. La ragazza, ch'era giornante da una sarta, s'alzava nel cuor dell'inverno verso le sei. Acceso un lumicino che spandeva su l'oscure pareti un barlume fioco fioco da stanza mortuaria, indossava un vestito a quadrelli che nella notte le aveva servito da coperta, e, ancor tutt' assonnata, si scioglieva le trecce guardandosi in un pezzo di specchio rotto che s' appoggiava su le ginocchia. Aveva de' capelloni lunghi, folti, bellissimi, ma che una volta acconciati non facevano più nessuna figura, perchè se li spartiva lisci lisci a sommo del capo, e se li fermava di dietro, come stretti da una morsa, con un brutto pettinaccio sdentato. Terminata quest'acconciatura, ella si metteva a spazzar la camera, a spolverare i tre o quattro mobili tarlati che c'eran dentro, ma pian pianino perchè non si destasse la madre, che russava ancora, raggomitolata in una specie di canile; poi, aperta la cassetta Contessa Lara. 9 del tavolino, prendeva da un foglio mezzo lacero un cucchiaio di caffè di ghiande, e lo metteva a bollire sopra un veggio. Questo modo di riscaldarsi lo stomaco era l'unico lusso di Matilde, allora! — Montazzi inghiottì quattro o cinque sorsi di chartreuse tutti di seguito, astrattamente, e Bertino Fragni s'accostò più che mai alla tavola. II pittore riprese: — Dopo queste faccende, la ragazza trottava lesta lesta verso il suo magazzino e fino a un'ora di notte era tutta una tirata di lavoro. Spesso, al suo ritorno, c'incontravamo per le scale. Io scendeva per recarmi in Galleria, al Gnocchi, dove s'era formata una combriccola di glorie in erba cui davamo il nome pomposo di cenacolo. C'era un po' di tutto: pittori, scultori, musicisti, uomini politici, e non mancava nè anche qualche poeta di genere pornografico; però una razzamaglia di buon umore e con un certo bagaglio di talentaccio, più che altro poi di sfacciataggine. On ne doutait de rien! Bisognava sentir che teorie strampalate, che sublimi paradossi difesi a forza di pugni su' tavolini!... Basta, so che adesso darei molte opere mie che il pubblico loda e paga, per l'entusiasmo pazzo d'una di quelle ore giovenili. Matilde, lei, povera piccina, saliva al nostro quinto piano intirizzita dal freddo, e ravvolta in uno scialletto a maglia che a pena le copriva le braccia; ma era un amore con quel visino livido sotto la paglia d'un cappello scolorito e sbertucciato da chi sa quanti acquazzoni, con quelle dita che facevan capolino in cima ai guanti, tutte rosse per le punture dell'ago e pe' geloni; era un amore tutta impacciata a dissimular sotto le gonnelle troppo corte i tronchi di certi stivaletti larghi e sformati dove il pieduccio le ballava; sicchè ci avevo preso gusto a fermarla. - Buona sera, come sta? Ha fatto tardi, eh? O non ha paura a girar sola a quest'ora? — Quasi sempre le stesse domande e sempre le stesse risposte: - Grazie, sì, stava bene. No, paura no, perchè sceglieva le strade con molti lampioni. Nel carnevale, si sa, c'era il lavoro a monti in magazzino, e non si poteva finir prima. Ma non era mica stanca! Quando si fatica si dorme meglio, nevvero? Buona notte, grazie. - - Buona notte! — E, sorridendo, correva su tutta contenta di appendere a un arpione lo scialletto a maglia e il cappello di paglia, e di mangiar finalmente quel po' di minestra su l'acqua che la mamma avea preparata. Qualche sera, quando la porta di Matilde s'era gia richiusa, io rientravo dietro a lei zitto e cheto nella mia stanza, e mi godevo un quadretto da innamorare un pennello fiammingo. Al lume d'un mozzicone di candela di sego infilato nel collo d'una bottiglia posta in mezzo alla tavola, cenavano le due donne: la vecchia, faccia caratteristica della popolana dalle fattezze ruvide, accentuate, con una pezzuola di cotone a fiorami gialli in testa, legata sotto il mento, e una a fiorami rossi incrociata su 'l seno, piegava il naso fin quasi al piatto, biasciando lentamente i bocconi; la giovanetta, con una cornice di capelli bruni su la fronte, due begli occhi d'un grigio d'acciaio brunito, allargati dalle ciglia lunghe, col profilo regolare, si coloriva e pareva rianimarsi al caldo della zuppa fumante. In un angolo della stanza brillava la nota rossa di qualche tizzo acceso dentro un fornello di terra; a una parete era un'asse con sopra un boccale e de' piatti sbocconcellati ma lucidi, puliti; più là il letto, con a capo un gran ramo d'ulivo ombreggiante una Madonna di carta colorata e un quadretto nero con una medaglia al valor militare: memoria del padre morto in guerra: una reliquia. Matilde, mangiando, raccontava il gran da fare che c'era in magazzino. Madama era diventata più stucca, più rigorosa che mai. E certe volte si metteva a descriver minutamente un abito che avea finito in giornata; era d'una signora forestiera, chi diceva una marchesa, chi una mantenuta, non si sapeva. — Eh!... Bisogna esser di quelle per aver fortuna! — filosofava tra un sospiro e l'altro la madre, scrollando la faccia ossuta. La ragazza terminava a dire: — Bisogna veder che vestito!... — E l'idea di quei monti di stoffe dalle morbidezze di velluto, da' riflessi di raso, di quell'onde di tralci e di merletti in cascate d'argento, era il contrasto più forte, l'antitesi più potente che si potesse opporre a quell'interno miserabile. Un giorno, il proprietario del nostro palazzo fece sloggiar le mie vicine co' loro quattro stracci, per un'unica, ma valida ragione: non avevano pagato l'affitto. Questo io lo seppi qualche giorno dopo dalla portinaia, che mi raccontò per filo e per segno tutti i fastidi sofferti da quel galantuomo del padrone per dare lo sfratto alle due donne. La ragazza, quando caricavan la roba sur un carretto a mano, stava lì ferma al portone con gli occhi rossi, più muta e più sbiancata d'una statua.... Ma, Dio mio, certe cose si sanno senza imparar l'abbaco! O che forse credevan di stare in casa gratis? Quanto a mance, non c'era pericolo che cascasse mai un soldo; po' poi la Matilde doveva guadagnar bene in quel gran magazzino... E la degna portinaia concludeva con una strizzatina d'occhi: — Quando si è giovani si trova sempre da far bene. - - Dove mai sarà andata a finire la povera Matilde? — mi domandavo io con un certo senso di tristezza. Passò più d'un anno senza che rivedessi la sartina. Non la cercai, è vero, perchè non c'era nulla di comune tra di noi; ma di tanto in tanto quella sua figura patita ed ingenua mi tornava nella memoria; massime poi da quando nella sua camera era venuta a star una famiglia d'operai carica di bambini che vociavano e piagnucolavano in tutte l'ore del giorno e della notte; a segno che una bella volta dovetti prender io pure le mie carabattole e andare ad alloggiare altrove. Ora, sentite. Una sera, al Gnocchi, mentre me ne stavo secondo il solito in mezzo al così detto cenacolo, viene una coppia, maschio e femmina, a sedersi al tavolino dirimpetto. Il maschio mostrava una cinquantina d'anni. Alto, con la barbetta ancora biondiccia tagliata corta e un po' calvo, con modi riservati, magari freddi, aveva in tutta la persona un'eleganza esotica, da gentiluomo russo o svedese. M'era ignoto. La femmina, in vece, mi ricordava un viso da me conosciuto, ma non mi sovvenivo nè dove nè quando. Bruna, snella, con due lunghe trecce penzoloni su le spalle, indossava un vestito d'ultima moda fatto di seta e di velluto color lontra: un vestito da signora autentica. Ma in pari tempo erano in lei delle stonature da non isfuggir a un occhio pratico di donne: per esempio, un cappello con delle penne rosee troppo vistose, e brillanti agli orecchi, al collo, ai polsi; sopra tutto poi una larga striscia nera giro giro agli occhi. Che volete? Sarò retrogrado, ma per me, lasciando da parte le voluttuose usanze orientali, ho un'idea fissa: le donne oneste non si tingono. Poi questa donna rideva, rideva da bimba sguaiata, e mangiava per due. Guardandola bene ravvisai la Matilde. Passarono circa altri quattro anni e la rividi quando proprio non mi ricordavo più che fosse al mondo, un inverno, di carnovale, ai veglioni della Scala. Ella tornava allora da Vienna o da Parigi dov'era andata a scuola; portava una parrucchina fulva come il granturco e s'era ingrassata a furia di mangiar dolci e di girare in carrozza. Aveva una stupenda pariglia di sauri e degli abiti di trine vere. — Bisogna esser di quelle per aver fortuna! — aveva filosofato sua madre. Un amico comune mi presentò alla nuova stella, una sera, al Manzoni. Per me pure, in tanto, era girata la ruota. Le mie tele cominciavano a vendersi bene; nel mio studio era già una profusione alla Makart di ninnoli eleganti e d'oggetti d'arte, e più d'una volta Matilde mi ha fatto volentieri da modella per raffigurare qualche baccante. Entrava da me con un incantevole sorriso com'è entrata or ora qui; toccava tutto, curiosava dovunque, poi sedendosi a canto a me mentre lavoravo, si metteva a narrarmi — chi sa perchè - le sue tante avventure amorose, con la franchezza, con l'abbandono d'una folle compagna d'infanzia. - Ma un amore non l'ho mai avuto, sai! — mi disse una volta facendosi triste d'un tratto; poi scrollò le spalle e soggiunse: - Chi sa se l'amore esiste! — Cosa strana! Matilde non ha mai voluto convenire d'esser lei la mia piccola vicina della soffitta a Porta Genova. Quando io, talvolta, gliene ho parlato, massime ne' tempi a dietro, insistendo su' particolari delle nostre prime relazioni e facendogliene vedere il lato gentile, ella protestava energicamente ch'io non l'avevo mai conosciuta, e al fine indispettita, nervosa, mi piantava lì senza salutarmi. Sostiene d'esser nata a Torino e di non saper nulla de' propri genitori. Un giorno, mi ricordo che a questo proposito fui crudele con lei; guardandola fisso fisso le chiesi a bruciapelo: — O della medaglia al valore ch'era a capo del tuo letto, che cosa n'hai fatto? — Ella impallidì, e mi rispose soltanto con una occhiata: un'occhiata che non dimenticherò più. Fu la sua sola vendetta, povera Matilde! - Il fragore delle voci e delle risa misto a un tintinnio di posate e di cristalli cresceva nel gabinetto a costo, simile alla marea. Sermanni ascoltava astrattamente; non parlava più. - Andiamo! — disse Bertino Fragni,voltandosi agli amici. Montazzi si versò dell'altro liquore. - Eh, che volete farci? Questa è la vita — dichiarò come per rispondere al baccano della vicina comitiva e al silenzio improvviso del narratore; quindi soggiunse a mo' di morale: - Matilde, però, nel suo genere, è una buona diavola. - - Dieci anni fa era un angiolo — pensava Giulio Sermanni. - Andiamo, andiamo! — ripetè Bertino — lo sapete che di là ci aspettano. Accesero degli altri sigari; s'infilarono i soprabiti e uscirono. Ma il pittore si fermò di botto. - Scusatemi se non vengo con voi — disse a' due giovanotti maravigliati. — Ho da fare. Proprio vi giuro che non mi sarebbe possibile.... — I compagni protestarono forte. No, perdio! che non doveva lasciarli. Che c'era di nuovo? Qualche convegno amoroso, si capisce. Ma per quella volta la sua bella poteva aspettare!... E a troncare il battibecco, Bertino spalancò l'uscio della stanza dove avea luogo la cena ed annunziò il tradimento meditato dal Sermanni. Allora sì che fu un vocio da stordire; e Sermanni era già in fondo al corridoio quando una donna mezz'ubriaca, con gli occhi lustri, con le labbra ardenti, gli corse dietro incespicando nello strascico di damasco del proprio vestito, e tra risa sgangherate gridò: — Disertore! disertore! — buttandogli il suo bicchiere colmo di sciampagna.

Rimasta ritta davanti alla scrivania, abbandonava le braccia, che le pendevano sotto lo scialle di lana nera, e sporgeva innanzi la testa bassa, con l'occhio vitreo, con la bocca mezzo aperta, cadente. — Del resto, — soggiunse il direttore — le cose sono state fatte ammodo; i genitori di quell'altro ragazzo hanno ordinato un mortorio decente al bambino vostro, credendolo il loro; questo deve consolarvi. E in ultima analisi, — concluse — con la morte c'è poco da fare: pur troppo, lo sapete come me. Quanto ai panni, ve li restituiranno, non c'è dubbio: m' impegno io. — Lucia udiva un rumore di parole vaghe, assordante come uno scrosciar d'acque invisibili. Non rispose mai. Soltanto, quando il direttore s'alzò, ella capì che doveva andarsene. Che cosa ci stava ormai a fare? Chi aspettava? E s'avviò verso l'uscio, col desiderio intenso di ritrovarsi in casa sua, nel suo covo, che le pareva lontano, lontano, come se, per arrivarci, avesse dovuto far un viaggio interminabile, eterno.

Emma, my darling, alzati e senti se il signor conte ha la febbre — ordinò alla figliuola; poi si mise a spiegare a' suoi ospiti come Emma fosse abilissima a conoscere la febbre, da quando lei, sua madre, aveva avuta la perniciosa a Roma; in tanto che la giovanetta, con un sorriso birichino, tastava il polso del vecchio, che le abbandonava la mano, guardandola beatamente fisso, di sopra le lenti. — No, no, miss Emma, il conte non ha febbre — insinuò con rispettosa confidenza San Teodoro. — Il conte è innamorato, come diceva benissimo ieri la signora Alford. Emma scoppiò in una sonora risata di bimba; gli altri risero meno rumorosamente; ma in quella che il capitano apriva bocca per lasciarne andare qualcuna delle sue, e Sampieri pensava: — Dio ti mandi un acci... — ecco un cameriere avvertir sottovoce la padrona che c'erano due uomini con un mobile fatto di fiori. — Io non ho ordinato fiori — rispose la signora; poi si volse alla sua ragazza: — va a vedere di che si tratta, my darling, perchè dev'esservi uno sbaglio d'indirizzo. Emma era a pena uscita che di nuovo si precipitava nella sala da pranzo, con gli occhi lucenti di gioia, esclamando: — La fontana! Una fontana più alta, più bella di quell'altra! — poi subito, volta al tenente: — Ma che pazzia, Totò! che gran pazzia! Dopo che ve l'avevo proibito, dopo che v'avevo fatto promettere, giurare che non l'avreste ordinata! Un oooh! d'ammirazione generale salutò quel trionfo di fiori che lentamente i camerieri trasportavano nella stanza, in tanto che Emma, a cui s'univano la madre e il capitano, badava a colmar di dolci rimproveri e di effusioni di gratitudine l'ufficialino: il quale si difendeva, in vano, giurando su tutti i toni e in tutti i modi ch'egli non ne intendeva una buccicata. Quando il cicaleccio si fu alquanto acquetato, Emma andò a posar la testa bionda su l'orlo odoroso della vasca di gardenie, come una colomba assetata. — Avrei dovuto figurarmelo — diss'ella dolcemente commossa. — son proprio del carattere di Totò queste premure senza parole... — e seguitando ad aspirare il profumo acuto, mormorò: — I bellissimi fiori dovranno appassire, ma il ricordo resta.... L'avvocato guardava fisso fisso il suo amico. — Che diamine faccio io? — gridò il tenente guardando l'orologio - M'ero assolutamente dimenticato che debbo tornare a Salerno. E a quest'ora mi pare impossibile di fare in tempo al treno, con tanta distanza dalla stazione! Rapido come un lampo, balzò a riprendere la sciabola che aveva deposta in un canto, e affibbiandosi il cinturino, salutava in fretta e furia la società; poi volò giù a precipizio per le scale; ma Emma, afferrando una manata dei tralci di rose che figuravano il getto della fontana, senza udir un grido soffocato d'ira e di dolore del povero conte Sampieri — a cui nessuno, tranne il Bencini, badava — corse al balcone e buttò i fiori nella carrozzella che si portava via San Teodoro. Quando la fanciulla rientrò nella sala, il vecchio n'era scomparso. L'amico si mise in cerca di lui per tutta la pensione; ma senza frutto. Allora, inquieto, insospettito, fantasticando che un originale di quella fatta era capace di commettere qualunque sciocchezza, uscì subito in traccia di lui, percorrendo tutti i luoghi ch'erano usi a frequentare insieme; e finalmente, dopo più d'un'ora di palpiti, trovò il conte dentro la Villa, solitariamente accasciato sur una panchina, come un povero diavolo che non ha nè pane nè tetto. L'infelice non gli lasciò tempo di parlare. - Ma è orribile! è atroce, sai! — esclamò battendosi tutt'e due le mani su le ginocchia. — Chi poteva immaginare che quell'animale si sarebbe appropriato così tutto il merito?... mentre son io che ho regalato il mazzo ad Emma; io, io, non già lui! - Me lo figuravo, non dubitare. - asserì l'altro - Ma, che tu sia benedetto! o perchè non glielo accompagnavi con una tua carta? O almeno perchè non hai parlato quando la cosa è andata come è andata? Ci voleva tanto! - Mio caro, non è da oggi che tu mi conosci! Io, lo sai come son fatto. Con le donne ho avuto un sistema tutto di discrezione; e figúrati se questo sistema mi si è fatto più sacro da quando ho capito che è proprio quello che piace a Emma. Le dichiarazioni brusche non valgon a nulla, di certo: in vece la delicatezza.... Ora, però, so io quel che ho da fare. — Come? — domandò con sorpresa l'avvocato. — E intenderesti di corteggiar ancora quella ragazza... a ogni costo?... - Intendo di farla mia moglie, capisci? — dichiarò il conte risoluto. - La passione, eh? dà ogni scaltrezza, e io ho trovato un mezzo ingegnosissimo per impossessarmi di quel coricino cosi sensibile. — Sì molto sensibile, ma non per te! — ribatteva l'avvocato. — Per adesso, mi sembra che tutti i tuoi espedienti ingegnosi, tutte le tue delicatezze mute sieno state soltanto buone ad avvantaggiare il tuo rivale, il bel Totò.... - Bencini, non mi nominar mai più quello sfacciato straccione, o ci guastiamo! — Caro Sampieri, ci guastiamo senza dubbio e su 'l serio, se tu non mi giuri su 'l tuo onore che domattina stessa andiamo via di qui. Ma il conte era nello stato acuto della passione. Partire! Partire ora proprio ch'egli aveva trovato il modo di conquistare il paradiso? No, no, e poi mille volte no, che non partiva! E fece e disse tutto quel che potè per persuader l'avvocato che questo era l'esperimento decisivo, l'estremo. — Ti chiedo per grazia, per misericordia, di tentar quest'ultima prova; dopo di che partirò per sempre, sì, per sempre; ma mi devi promettere che questa volta mi aiuterai molto anche tu. Fuori di sè per la stizza che gli faceva l'ostinazione del conte, il Bencini protestò energicamente su 'l proprio intervento in una ridicolaggine come quella; e sa Dio se risparmiò, mescolati insieme, consigli e rimproveri. Ma quando vide quella povera figura grottesca, compassionevole pregarlo con gli occhi pieni di lagrime, quando s'accorse che il cervello del suo vecchio amico ci andava di mezzo, si calmò e cercò di calmare l'altro; ascoltò con pazienza i progetti di lui, e gli promise il suo appoggio a conseguirne l'adempimento. Poco dopo l'avvocato tornava solo alla pensione.

Pagina 317

D'Ambra, Lucio

220397
Il Re, le Torri, gli Alfieri 4 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Non abbandonava lo scacchiere un solo minuto. Pensava a questa o a quella mossa da fare o da tentare dalla mattina alla sera e vi pensava ancora dalla sera alla mattina. Ogni giorno, nelle prime ore della mattinata, il principe ed io avevamo preso l'abitudine di fare tre o quattro giri a cavallo nel galloppatoio del Parco delle Delizie, la grande villa di Pulquerrima, ove, nelle ore mattutine, conviene il fior fiore della società pulquerrimese. Ma durante quelle nostre prime passeggiate, più che a giuocare, Sua Altezza badava a studiare meticolosamente lo scacchiere, ed una volta ancora io avevo cosi l'onore d'iniziare Sua altezza in tanto ardue discipline. Sua Altezza, che a Londra aveva mosso i suoi primi passi a traverso stati civili assai meno complicati, si meravigliava di dover rilevare che, quasi senza eccezione, ogni pedina era fiancheggiata da almeno due alfieri, di cui uno solo avrebbe a rigore potuto precisare ufficialmente la sua posizione su lo scacchiere. E giunse così rapidamente a concludere che nello scacchiere sul quale egli si trovava a giuocare le pedine più rigidamente virtuose eran quelle che d'alfieri si contentavan d'averne solamente due. Per sua fortuna, in questi giuochi galanti Sua Altezza aveva di Ferro la memoria come la salute, e, in capo ad una settimana infatti, non sbagliava d'un alfiere per nessuna pedina. Le elencava ad una ad una, coi loro due, tre o quattro alfieri. Avevo adoperato, per condurlo a questo risultato, un eccellente sistema mnemonico: il nome di ogni signora era seguito da un numero ch'era quello dei suoi alfieri e, per brevità, da alcuni nomi di battesimo ch'eran quelli degli alfieri medesimi. Esempio: la principessa Urquela, quattro: Emanuele, Alvaro, Marcello, Venceslao; la contessa de la Rochebleue, tre: Tizio, Caio e Sempronio. II principe ne recitava cinquanta di seguito, senza riprendere fiato e senza il più piccolo errore. Ripetevamo l'esercizio la sera e la mattina. E l'dentificazione dei soggetti durante le nostre mattutine passeggiata a cavallo al Parco delle Delizie era semplicissima. Sua Altezza notava una signora bionda, bruna o castana, e mi chiedeva sùbito chi fosse. Se io la nominavo, immediatamente il principe, senza un attimo di perplessità, aggiungeva lo stato di servizio galante della signora: Quattro: Antonio, Armando, Serafino e Gioachino.... Cinque: Pietro, Paolo, Giuseppe, Giacomo e Giovanni! Pochi giorni più tardi cominciammo a scendere da cavallo dopo due o tre giri e a prendere l'abitudine di fare un mezzo chilometro a piedi in quel viale dei Tigli che in quelle ore mattutine era un vero salotto all'aria aperta, fra cielo e mare. Ad una ad una, tutte le signore sollecitarono l'onore di essere presentate al principe contemporaneamente ai loro alfieri ufficiali e ufficiosi. Talchè in capo ad una diecina di giorni il principe teneva circolo di belle signore, con una scioltezza, con una sicurezza, con una tranquillità che non avrei superate io che in mezzo a quelle buone amiche mie avevo vissuto fin dai miei più teneri anni, nel viale dei bambini. Ne corteggiava insieme tre o quattro, e con alcune, che piu agilmente si prestavano al suo giuoco, andava avanti a vapore. E gli alfieri guardavano, vedevano e lasciavano fare, più lieti e pettoruti che mai se la loro pedina era la favorita. Una volta Sua Altezza mi disse: — Se stesse ai loro mariti, mi toccherebbe, per non far dispiacere a nessuno, di prenderle tutt'insieme.... Una alla volta, per carità. Posso distribuire i numeri d'ordine, come negli stabilimenti di bagni. Non scontento nessuno. Una sola volta un alfiere ufficiale parve un poco seccato della come a briglia sciolta che Sua Altezza faceva una mattina a sua moglie, sotto i suoi occhi e, peggio ancora, sotto quelli di tutta Pulquerrima. Mentre ritornavamo a casa a cavallo il principe mi raccontò il piccolo incidente: quando aveva potuto finalmente raggiungere sua moglie in un viale appartato dove il principe l'aveva dolcemente trascinata, l'alfiere aveva fatto capire a Sua Altezza, con un sorriso amaro, che anche i doveri della sua devozione di cittadino dovevano avere un limite là dove incontravano i suoi inalienabili diritti di marito. «Ma che aveva quell'uomo impossibile per guardarmi di traverso in quel modo?» mi disse il principe, meravigliato. Fermò la sua attenzione e si riconcentrò, e, dopo un silenzio, lo sentii aggiungere, ripetendo il cognome della pedina facile e dell'alfiere difficile: «Carenda, sei: Luca, Luigi, Luciano, Leone, Lorendo e Leopodo. è quella che batte il record del sei, ora mi ricordo benissimo. Ma che ha dunque da brontolare, lui? Ho forse il solo torto di chiamarmi Rolando per il marito di quella collezionista d'Elle?

Accompagnato dal suo aiutante di campo e da me, Sua Altezza scene lo scalone reale fra la folla degli invitati che, commentando, abbandonava la festa. Le dame chiuse nelle chiare sorties de bal, i gentiluomini impellicciati si ritrassero ai due lati dello scalone inchinandosi e scoprendosi. Sua Altezza passò senza battere ciglio, con la mano al berretto, senza vedere nessuno. Non degnò d'uno sguardo neppure la duchessa di Frondosa. Salimmo in automobile tra un gran sfolgorio di luci, un gran frusciare di sete, un vivo odore di fiori. E l'automobile, veloce e leggera, filò via immediatamente, nella notte, prima attraverso due interminabili file di automobili e di carrozze che attendevano e poi attraverso la città addormentata cui Sua Altezza non doveva ritornare che molto più tardi, in viaggio ufficiale, dietro la nera siepe di alti colbacchi della Guardia Reale. Per le persone che hanno un esagerato concetto di loro stesse c'è un metodo infallibile per superare il dolore: quello di sapere che questo dolore è guardato, che l'ora dolorosa ha una platea. Era evidente in ogni gesto e in ogni atteggiamento di Sua Altezza durante il breve tragitto da Pulquerrima ad Effemeris che, più di un figliuolo che accorre a seguire il funerale di suo padre, egli sentiva di essere un re di più che entrava nella storia. Ogni giro di ruote sui lucidi infiniti binarii avvicinava non il principe Rolando a suo padre ma Rolando II al suo trono. La commozione figliale era quindi superata da un altro sentimento più forte e più necessario: il sentimento della dignità regale, il raccoglimento con cui occorre sentir battere all'orologio del mondo i minuti primi che, quando sono sessanta, hanno formate senza saperlo, col loro passettino solito e indifferente, una delle grandi ore della Storia. Una delle grandi ore della Storia! La frase ricorre sovente nei più bei periodi dei giornalisti. Ed è singolare osservare che le grandi ore della storia sono, per coloro che le vivono, proprio quelle in cui sembra che non avvenga mai nulla. Evidentemente la storia si elabora in silenzio o, se dice le sue grandi parole, le dice in una lingua misteriosa che gli storici potranno interpretare più tardi ma che sono e restano indecifrabili pei contemporanei. Mentre scrivo queste righe sento su la mia fronte il peso delle mie trentasette primavere: si dice così, come se nella vita degli uomini contasse solo, come fardello, la più leggiadra delle quattro stagioni. Da che ho uso di ragione di grandi ore della storia ne ho sentite suonare più d'una, ma non di una sola potrei dire oggi quale fu la grandezza. Perchè una grande ora della storia consenta a rivelare che cosa aveva nel grembo dei suoi sessanta minuti occorre che quella ora sia guardata almeno a mezzo secolo di distanza. L'età ragionevole dell'uomo essendo posta dall'opinione comune a un'epoca che coincide con quella alla quale un onesto padre permette per la prima volta al suo figliuolo d'uscir solo di sera e con la chiave di casa, ed essendo raro che un uomo possa aspettare, indisturbato dal destino, sino a settant'anni l'ora di capire anche lui cosa fossero e contenessero le grandi ore della storia, a senza altro evidente che l'uomo non può farsi un'idea esatta che delle grandi ore vissute dai suoi predecessori. Le grandi ore della storia che ha vissuto lui apparterranno ai suoi lontani nipoti. Essi soli avranno il segreto che apre quei lucchetti indecifrabili. La storia ha due tempi: un primo tempo che è quello delle generazioni che la vivono ed un secondo che è quello delle generazioni cui è concesso d'interpretarla. Io non potei che vivere quella grande ora della storia di Fantasia di cui parlavano a lettere di scatola i giornali di Effemeris. La vissi, come sempre, ai talloni di Sua Altezza la quale, poichè le abitudini comode sono le più difficili a sradicarsi, mi conservava la sua benevolenza, anche ora che era diventata Sua Maestà. È segreto della gente seria quello di vivere le grandi ore inesplicabili con una gravità e una dignità compatibili solamente con grandi ore che sarebbe possibile spiegare. E Rolando II, nel breve tragitto ferroviario da Pulquerrima a Effemeris, aveva fatto trar fuori dai suoi bauli non solamente una fascia di crespo con cui mettere il segno del lutto su la sua bella tunica verde, ma anche una serietà che dava, se mai avesse potuto durare, le migliori speranze per l'avvenire del regno di Fantasia. Giunto ad Effemeris, aveva ricevuto con regale compunzione le condoglianze dei ministri e degli alti dignitari della Corte e dello Stato. Uscito dalla stazione per salire in automobile aveva ricevuto con un mesto sorriso di re benevolo e di figlio addolorato i plausi del popolo di Fantasia che — morto il Re, viva il Re!— dopo avere bagnato montagne di fazzoletti con fiumi di lacrime per la morte del vecchio Sovrano, ora, all'arrivo del Sovrano nuovo, li rasciugava agitandoli in segno di giubilo al sole della più bella giornata di primavera che mai re possa desiderare per ascendere in letizia il suo trono. E l'indomani, ai funerali del re defunto il giovane re, passando diritto e fiero dietro l'affusto di cannone dove suo padre, così poco militare in vita, dormiva in morte il suo primo ed ultimo sonno guerriero, Rolando II rapiva i cuori di tutta la popolazione femminile della capitale. La sua figura era popolare poichè il re defunto soleva far pubblicare sui giornali, almeno una volta alla settimana, con la periodicità fissa d'una inserzione a pagamento, i ritratti del suo augusto figliuolo: chè, abile amministratore della sua casa regnante, amava mettere in mostra quel bel giovanotto che anche i nemici più acerrimi del suo regno dovevano riconoscere per l'unica cosa ben fatta della sua lunga storia regale: storia quanto mai felice e però, se oso esprimermi così, storia senza storia. Quando, compiuto il funerale, Rolando II risalì in automobile con le gambe spezzate per aver percorso mezza Effemeris a piedi e con gli occhi stanchi per aver fatto quel lungo sforzo di non battere ciglio cui son condannati gli occhi umani quando hanno l'onore d'essere occhi di re, Pulquerrima tornò nel cuore del Sovrano che Effemeris acclamava in una limousine ermeticamente chiusa dove non si vedeva sagoma umana se non quella dello chauffeur. A venticinque anni la dolce giovinezza alterna senza difficoltà i più frivoli piaceri della tavola e i più gravi problemi dello spirito. Talchè, acceso in volto dai vapori d'una gioconda digestione, Sua Maestà, ritrovandomi dopo colazione nello studio paterno dove un suo ritratto ad olio era già stato sostituito a quello non meno oleoso ed oleografico del defunto genitore, tornò con me alle leggere conversazioni di Pulquerrima e vi tornò nel modo più impreveduto: sfogliando i telegrammi di condoglianza che i segretari avevan deposti, debitamente annotati, su la scrivania regale. Li leggeva ad uno ad uno, Sua Maestà, con pacata melanconia. Ogni volta che ne sollevava uno dal pacchetto di sinistra per passarlo, dopo letto, al pacchetto di destra, diceva a me i nomi dei mittenti: erano colleghi amabili e cortesi, imperatori e re d'altre nazioni, principi ereditari e principi cadetti, colleghi di domani o di dopodimani, ministri e ambasciatori, generali e ammiragli, senatori e deputati. Vidi ad un tratto disegnarsi sul suo volto uno dei suoi più chiari sorrisi e udii la sua voce dire allegramente: «Anche lei.... Isabella....Molto gentile...». E mi passò il telegramma di condoglianza della duchessa di Frondosa, telegramma che era firmato anche dal duca; ma il duca aveva il torto d'esser marito ed è noto da che mondo è mondo che i mariti non contan mai nulla per gli amanti nè in fondo ai telegrammi nè in fondo ad ogni altra cosa. E quand'ebbi restituito il telegramma che Sua Maestà piegò e infilò nella tunica, in fondo alla tasca interna, proprio lì, sul cuore, la voce di Sua Maestà sospirò dolcemente: «Isabella!» Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Era, l'altra sera, molto più gentile dell'usato. Il ghiaccio del suo cuore cominciava a fondersi. Cominciavo a sperar seriamente di poter giungere a cogliere il frutto di ciò che avevo seminato». Non è mia colpa se lo stile conversativo di Sua Maestà non sapeva trovare imagini più personali di queste. Il volto del giovane re s'era di nuovo oscurato e la sua voce aggiungeva: «Ero, ne son certo, alla vigilia della resa». A queste parole seguì un lungo sospiro. Al lungo sospiro seguì un lungo silenzio. Al lungo silenzio seguì un nuovo lungo sospiro. Al nuovo lungo sospiro seguì un nuovo lungo silenzio. E poichè sospiri e silenzi diventavano sempre più lunghi e non era evidentemenle possibile andare così, a un ultimo lungo sospiro e a un ultimo lungo silenzio seguirono finalmente queste memorabili parole: — Ma sul più bello.... Ah, mio padre non è morto a tempo!... E mentre a questo elogio funebre seguivano ancora un sospiro e un silenzio, io pensai a quel povero re gaffeur che anche morendo aveva dovuto dare ancora noia a qualcuno. E mentre per scuotere l'impressione di ciò che quelle parole avevan di troppo personale mi dicevo che non era colpa mia se al re defunto non toccava che quell'elogio, dovevo anche riconoscere che quell'elogio era meritato e che un re il quale abbia un figliuolo impegnato in una galante avventura può, valendosi dei privilegiati rapporti col divino benefattore che l'ha fatto re per grazia celeste, ottenere, quando l'ora di morire sia giunta, almeno una proroga di cinque o sei giorni. Che per cinque o sei giorni non avuti a disposizione al momento buono c'è sempre il rischio di dovere poi aspettare una nuova occasione per cinque o sei mesi. Accadde così a Sua Maestà, la quale, pur tra le nuove gioie e i nuovi affanni del regno, non dimenticava la bella torre rimasta laggiù, su lo scacchiere di Pulquerrima, proprio alla vigilia di crollare finalmente anche lei. Ne parlava ogni giorno, quasi ogni ora. Per una via o per l'altra giungeva sempre a insinuare nella conversazione il nome della duchessa di Frondosa; e, quand'era coi ministri e della duchessa non c'era assolutamente modo di parlare, parlava del duca, chiedeva che uomo fosse, che valore avesse diplomaticamente, quale fosse attualmente la sua posizione politica. Anche a parlar del duca si sentiva in cuore un po' di duchessa. E il vantaggio, questo, dei mariti: che non solo vedono amata la loro metà ma si sentono amati anche loro, almeno per metà. Il teatro cinematografico ha un gesto quanto mai espressivo e quanto mai falso: e il gesto che fa un attore, movendo la mano, portandola alla fronte, raggruppando su questa perpendicolarmente le dita, quando vuole far comprendere al pubblico che gli è venuta improvvisamente un'idea. Il gesto è falso perchè le idee non vengono generalmente così, e perchè le idee prima di trovarle nella nostra testa noi le troviamo nella testa degli altri. Nulla nasce da nulla e però un'idea non sorge in un cervello d'improvviso e spontaneamente. Poichè tutto è derivazione, generazione, concatenazione, completamento e perfezionamento, mise au point come dicono i francesi, una idea nostra nasce da un'idea d'un altro, un pensiero che ci è manifestato ce ne suggerisce un altro che noi manifestiamo a nostra volta. Solo Adamo avrebbe avuto il diritto di fare il gesto caro agli attori cinematografici. Ebbe egli solo la prima idea da cui poi venne tutt'il resto. E in fondo anche Adamo, come generatore spontaneo d'idee, è sospettabile e discutibile dal momento che per dargli l'idea di che cosa poteva fare di Eva fu necessario l'intervento del serpente. Il serpente che suggerì a Sua Maestà, alcuni mesi dopo la sua ascesa ai trono, che cosa potesse fare della duchessa Isabella di Frondosa, aveva nome don Pedro de Aldana ed era presidente del Consiglio, press'a poco inamovibile, del dolce regno di Fantasia. Ebbi la fortuna d'assistere anche a quest'altra grande ora della storia d'una dinastia. Conseguentemente a quanto ho detto più sopra, era impossibile che un'idea sbocciasse nel cervello di don Pedro senza che un'altra idea nel cervello o su le labbra di un altro le offrisse il modo di venire al mondo. L'idea forcipe apparve su le labbra di Sua Maestà, in un grigio giorno d'inverno, nella solitudine del suo studio ov'egli non aveva mai nulla da studiare: era un'idea semplice, senza parole, molto aperta, un po' rumorosa: uno sbadiglio, uno sbadiglio che voleva dire: «Mi annoio!» E allora, nel desiderio d'alleviare la noia di Sua Maestà, don Pedro de Aldana trovò a sua volta la sua idea che manifestò con un garbato sorriso e con cinque semplici e timide parole: «Vostra Maestà dovrebbe prender moglie.» Se le idee sono concatenate, non e detto che questa concatenazione debba sempre essere immediata. Tra un'idea madre e un'idea figlia può correre uno spazio di tempo anche piu grande dei nove mesi necessarii alla funzione generativa. Così può accadere che l'idea madre sia madre senza saperlo, il che accade anche, nei primi tempi, in natura. I primi travagli della gestazione solo infatti misteriosi e impenetrabili, e i contraccolpi ch'essi dànno sono generalmente addebitati alle cause più innocentemente estranee a quelli effetti. Così Sua Maestà, quando si diede attivamente a cercar moglie per le più antiche Corti d'Europa, attribuiva quella sua improvvisa vocazione di marito al peso della sua solitudine di scapolo e alla necessità imperiosa della ragione di Stato. Credeva di dare retta alle esortazioni di don Pedro nel senso della necessità di mettersi a posto definitivamente, di dare al popolo di Fantasia il prestigio d'una nuova regina, di consolidare la posizione politica del suo regno in Europa imparentando due dinastie per creare fra due popoli quella cordialità di sentimenti che dura quanto durano i rapporti di famiglia: fin quando, cioè, l'interesse preciso dell'individuo non soverchia quello astratto del gruppo d'individui. Credeva insomma di cercare moglie, viaggiando l'Europa e raccogliendo in tutte le lingue, in tutte le capitali, i più eloquenti segni di simpatia universale per il suo vecchio regno e la sua annosa dinastia. In realtà, cercando sua moglie, cercava ancora la duchessa di Frondosa. Invano aveva tentato di dimenticarla, ignorando che se è lecito e possibile dimenticare il passato non si può dimenticare l'avvenire, il quale cammina sempre davanti a noi e non possiamo levargli gli occhi di dosso se non a patto di volgergli le spalle e di tornarcene indietro. Ma, poichè Sua Maestà. Rolando II cominciava appena il viaggio d'andata, non era assolutamente il caso di parlare di ritorno. Anzi il suo ardente entusiasmo, il suo amore della vita, gli facevano assolutamente escludere la possibilità d'un qualsiasi viaggio di ritorno. Sarebbe ritornato senza saperlo, come ritornano gli uomini che s'illudono di poter andare sempre avanti: con uno, cioè, di quei viaggi circolari che dopo aver girato mezzo mondo e mezza vita vi riportano infallibilmente al punto di partenza. Aveva riveduto la duchessa Isabella quanto più sovente gli era stato possibile. Se ricusava di andare ad inaugurare magari un'esposizione mondiale in una qualunque delle più insigni grandi città di Fantasia, non si lasciava mai sfuggire l'occasione d'inaugurare sia pure un asilo infantile nella dolce città di Pulquerrima dove la duchessa continuava, più virtuosamente che mai, a dimorare. Trovava così, almeno un paio di volte al mese, qualche cosa da inaugurare a Pulquerrima. E, quando i bilanci municipali della città non bastavano al collocamento di tante «prime pietre», quelle «prime pietre» erano fornite sottomano dalla cassetta privata di Sua Maestà. Poichè non è l'uso che i sovrani assistano anche al collocamento della seconda, della terza o della quarta pietra, posta la prima quelle altre pietre non venivano mai. Talchè Pulquerrima fu in capo a due anni di segno lastricata di «prime pietre», così come quelli che ci sono stati affermano che l'inferno sia lastricato di buone intenzioni. Ma per quante «prime pietre» collocasse, Sua Maestà non riusciva mai, ad ogni viaggio a Pulquerrima, che a collocare e a ricollocare nulla più che la «prima pietra» anche della sua felicità sentimentale. Riportava sempre indietro nella valigia tulle le altre pietre che la duchessa Isabella, fra un tè e un pranzo, rifiutava col suo più bel sorriso di donna fermamente decisa a non farsi costruire una nuova casa per far mutare di residenza alla sua onesta felicità. Partiva cosi, Sua Maestà, ogni quindici giorni, pieno di speranze, e ritornava sempre di pessimo umore. A tal segno che c'era da temere ogni volta, al suo ritorno, una crisi di gabinetto; e i ministri, non appena Sua Maesta metteva piede nel treno reale per Pulquerrima, s'affrettavano, per paura di non fare più a tempo, a distribuire tutte le onorificenze che coi loro nastri multicolori dovevano saldamente legare il loro avvenire politico al carro leggero della gratitudine nazionale. Dopo un anno di viaggi a Pulquerrima e all'estero, don Pedro de Aldana, senza averla mai veduta, fissò finalmente la sua scelta per la sposa del Re. Se l'idea figlia non era ancora venuta al mondo, già Rolando II sentiva nel sub-cosciente — si parla così in alto stile scientifico — che non valeva la pena di preferir come moglie questa o quella, visto che cercare moglie per sè voleva dire cercare il modo di raggiungere finalmente la moglie d'un altro. Aveva osservato, viaggiando, a titolo di pura curiosità, che le spose veramente affascinanti erano nelle Corti e negli Stati più modesti: e, se convenivano ai suoi gusti estetici, non potevano convenire ai gusti politici del suo primo ministro. Talchè, persuaso dell'inconciliabilità di questi gusti, lasciò che don Pedro de Aldana gli desse moglie a piacer suo, e dopo avere percorso l'Europa disse a don Pedro le grandi parole remissive con cui un uomo incerto fra due qualità di cioccolatine lascia al commesso del negozio la facoltà di decidere: «Faccia lei!» Cadde così la scelta di don Pedro su la principessa Alice di Cardun, figlia del Re di Asturia. Asturia e Fantasia essendo state poste dal capriccio della geografia politica porta a porta; conveniva oltremodo alla politica di Fantasia e di Asturia porre su l'armata frontiera un ramoscello di fiori d'arancio. Se non era bella la sposa, era bellissima la combinazione diplomatica e, poichè un re non ha il diritto di portare nel talamo coniugale la grazia d'una sposa ma ha dovere di portarvi la tranquilla garanzia d'un trattato di alleanza, conveniva a Rolando II di tacere, per la ragione di Stato, lo stato di qualsiasi sua altra ragione. Se è vero che si dà prova di maggiore generosità e di più larga benevolenza regalando la roba propria che non regalando quella, degli altri, la benignità celeste s'era dimostrata incomparabilmente generosa, accordando alla futura regina di Fantasia ogni sorta di beni, forse celesti, ma non certamente terreni. Sua Maesta aveva, nel cassetto della sua scrivania, il ritratto della regale fidanzata. Lo guardava di tanto in tanto, per abituarsi, e lo guardava sempre quando c'ero io, forse perchè io potessi al caso fargli coraggio. Vedevo allora sul suo volto disegnarsi, con un'ombra nera, un dubbio: il dubbio che la ragion di Stato esigesse troppo da lui, e che con la sola ragion di Stato non fosse possibile fare ciò che assicura attraverso i secoli, di rampollo in rampollo, la durata delle dinastie..Lo incoraggiavo affermandogli che bisogna far fronte al proprio destino, quando si e re, ad occhi chiusi. E lo sentii rispondere un giorno, con un sospiro ch'era di sollievo: « Ad occhi chiusi. È tutt'un programma coniugale questo, mio caro d'Aprè!» E finalmente un giorno, quando mancavano tre mesi alle nozze regali, Sua Maestà, guardata ancora una volta, con la solita ombra nera sul viso, la fotografia della sposa promessa, bella d'una bellezza forse invisibile a noi perchè non di questo mondo, Sua Maesta sentì nascere d'improvviso l'idea figlia. Poichè le sue labbra non erano abituate a serbare i segreti del suo cervello, l'idea figlia era appena nata nel mistero della scatola cranica che già si manifestava con queste parole: — Ma, ora che ci penso, bisognerà pensare alla Corte della Regina. Bisognerà nominar le sue dame d'onore. E, prima di tutte, naturalmente, Isabella. Poichè è fatica insopportabile anche quella di essere sinceri con noi stessi, Sua Maestà aggiunse sùbito: — La Regina non potrebbe trovare migliore amica. Poi si riprese e, levatosi dal tavolino, venutomi davanti, mi disse: — Senta: quando Isabella sarà qui.... Si resiste ad un principe, ma non ad un Re.... E poichè un po' della storia — reparto storia galante — somministratagli dal povero vecchio capitano dei dragoni gli era rimasta ancora nella memoria, sorrise e, gettando via leggermente assieme al fiammifero con cui aveva acceso la sigaretta anche tutte le piccole possibili differenze fra lui e Luigi decimo-quinto, esclamò: — La mia Pompadour!

Sua Altezza abbandonava così la festa prima che se ne fossero allontanati suo padre e l'imperatore Goffredo: il che poteva anche essere assolutamente necessario per un uomo che una donna desiderosa di metter le cose a posto aveva garbatamente ma esplicitamente licenziato, ma non era niente affatto protocollare per un principe reale che giungeva così a filar via all'inglese, senza salutare nessuno, come fosse il più libero ed il più oscuro degli invitati. Per il momento il malumore del principe si sfogò in un silenzio ostinato. Ma, giunti a terra e saliti che fummo nella vettura di Corte che ci riaccompagnava a palazzo, Sua Altezza mi fece capire che anche io non ero affatto escluso dal suo risentimento. Aveva preso una sigaretta e tentato d'accenderla — altra negligenza di etichetta — contro il vento della sera. Ma s'era bruciato le dita e gittando via, con gesto irritato, sigaretta e fiammifero, aveva brontolato a denti stretti: «Ma anche lei poteva dirmelo, perdio, che quella duchessa era una Giovanna d'Arco!». Povero, dimenticato capitano dei Dragoni azzurri che aveva passato le sue più belle ore a insegnare storia a Sua Altezza senza che Sua Altezza riescisse a farsi, per esempio, almeno un'idea approssimativamente chiara della vergine guerriera! Per pigro abito di semplificazioni il giovane principe aveva solo ritenuto di tanti lunghi commenti che Giovanna d'Arco era vergine e però ritrosa e restia. Ciò gli bastava, poichè non aveva seguito alla Sorbona i corsi del professor Thalamas, per raffigurare in lei il tipo rappresentativo dell'austerità femminile. Mi guardai bene quindi dal ripetere schiarimenti che il capitano dei Dragoni azzurri aveva già dovuti somministrare inutimente e mi limitai a chiedere rispettosamente al principe che cosa fosse avvenuto. E il principe, com'era sua abitudine, non in avaro di spiegazioni. La conversazione sera fatta a mano a mano molto galante e la duchessa sembrava ed era semplicemente incantevole. Abituato a non incontrare mai difficoltà, Monsignore credeva che la via dell'avanzata gli fosse facile e piana anche con quella bella signora. Io l'avevo avvertito, è vero, della sua incensurabile fama. Ma Monsignore, ch'è testardo come son testardi tutti gli «enfants gatés», si era ficcato in mente che io ero, che non potevo essere che male informato. Lo provava anche il fatto, del resto, che la duchessa civettava deliziosamente e che si lasciava far la corte con la più affabile condiscendenza, tanto che a un dato punto l'odore dei fiori, la bellezza della duchessa, il fascino della notte primaverile, la voluttuosa carezza del valzer viennese avevano provocato l'ardire del principe e l'ombra che circondava la coppia l'aveva decentemente favorito. Che cos'è mai, del resto, alla stregua dei peccati mortali, prender la mano d'una bella signora e baciarla lungamente schiacciandovi un po' sopra le labbra? Senonchè la duchessa aveva ritratto la mano e aveva tranquillamente invitato il principe a rimanere al suo posto. E perchè vi rimanesse ve l'aveva prima rimesso. Ma il principe, che per le gaffes grandi e piccine non aveva mai avuto una istintiva ripugnanza, stimando che fosse il caso di scherzare ancora e tentando di riprendere la mano restia, aveva detto alla duchessa con un sorrisetto superiore e maleducato:«Via, duchessa, perchè volete essere tanto difficile?». E proprio a questo punto donna Isabella s'era bruscamente levata rispondendogli di botto chemcertamente il principe da Sua Altezza l'Infante Anna-Maria, sua zia, era stato abituato a un'assai minore severità. E quindi, dopo la botta e la risposta, la scena innocente cui anch'io ero stato chiamato a partecipare. La poca severità dell'Infante Anna-Maria verso di tutti e specialmente verso il suo regale nipote che sin dalla più tenera adolescenza, prima ancora di recarsi ad Oxford, aveva portato alla vetusta e venusta parente i suoi lion d'arancio, era notissima a tutto il regno di Fantasia ed era per, difficile per Sua Altezza considerare come un'offesa alla regale famiglia il richiamo ad una verità ch'era ormai incontrastabile per voce di popolo confermata anche dall'esperienza personale di varie centinaia di sudditi. Non tenne quindi, oltre quella sera della prima impressione, alcun rancore per quella mancanza di rispetto ad una zia cui egli doveva la rivelazione precoce della sua sola e vera vocazione; e, nei giorni e nelle settimane seguenti, ricercò e rivide la duchessa di Frondosa come se nulla fosse stato, sperando di riuscire col tempo, con la pazienza e col fascino della sua futura corona, a ridurre Giovanna d'Arco a più miti e condiscendenti consigli. Cominciò a frequentare i salotti che la duchessa frequentava, a correre in vettura, lui che amava tanto di vedere e di farsi vedere, le passeggiate eccentriche e solitarie che la duchessa prediligeva, a frequentare assiduamente il teatro di musica cui la duchessa non mancava mai, lui che in fatto di musica non poteva sopportare idee melodiche più complicate di quelle d'una canzonetta da caffè-concerto o d'una marcia da circo equestre. La duchessa leggeva molto e il principe faceva la fortuna delle librerie. La duchessa era assidua alle conferenze e il principe non ne trascurò più una. Cercava di vederla ogni mattina, ogni giorno, ogni sera. La giornata gli sembrava insopportabile se non aveva alcuna possibilità d'incontrare la duchessa. Io ero il suo lieto confidente nelle buone giornate. Scontavo il suo malumore nelle cattive. E, finalmente, si decise a mancarmi di rispetto per la prima volta e, poichè mi vide docile ai suoi capricci, non fu certo l'ultima. Eravamo a colazione a palazzo, due ore prima d'una garden-party che Sua Altezza offriva, per completare le presentazioni, alla società pulquerrimese. Facevamo colazione soli, come quasi tutti i giorni. Intuii che aveva qualche cosa di serio da dirmi poichè vedevo che non apriva bocca neppure per mangiare e che non cessava d'arricciarsi i baffetti. N'ebbi la conferma quando fummo al caffè e quando, ordinato al maggiordomo di lasciarci, cominciò a parlare. Capii sùbito che voleva qualche cosa da me e lo capii appunto perchè aveva l'aria di non volermi chiedere nulla. Parlava invece della nostra buona amicizia, della grande fortuna che aveva avuto di ritrovarmi inopinatamente a Pulquerrima e faceva l'elogio sperticato, che io ascoltavo senza arrossire come una bella donna che si guardi e, si ammiri allo specchio, della mia abilità diplomatica, del mio tatto, della mia mia astuzia, della mia esperienza mondana. E quand'ebbe esaurito gli aggettivi, ch'erano per lui un lusso forzatamente limitato, ricorse alle imagini. Io ero il pilota abilissimo della sua navicella gettata, al suo primo viaggio, in pieno alto mare. Avevo anche la suprema delicatezza di non far punto sentire la mia presenza e di tenere silenziosamente il timone in modo da lasciare a lui l'illusione d'essere già un vecchio capitano di lungo corso, sicuro del mare. Ma la sua navicella andava oramai purtroppo per una rotta che non seguiva la mia traccia ma che dipendeva unicamente dalla sua volontà. E dopo gli aggettivi e le imagini, quando si accorse che queste erano molto comode per dire quasi con facilità la cosa molto difficile che aveva da dire, le imagini si complicarono di metafore e imagini e metafore, incrociandosi e confondendosi, davano luogo ad un discorso straordinario col quale Sua Altezza, con l'aria piu serena di questo mondo, mi proponeva semplicemente di aiutarla, se non in tutti i suoi amori, almeno nei suoi amori difficili. Insomma, per far breve il discorso, si trattava nè più nè meno che di questo: la navicella dell'amore di Sua Altezza faceva rotta verso l'isola di felicità promessa dall'amore restio della duchessa di Frondosa. Per non rischiar d'incagliare in qualche secca e per non perdere inutilmente e faticosamente molte ore di navigazione occorreva sapere se in quell'isola inesplorata c'era almeno la più lontana speranza di trovare un punto d'approdo. E a chi domandarlo, per avere un dato geografico sicuro, se non alla duchessa in persona? Lei sola conosceva la sua isola. Continuava ella, infatti, a scherzare, a civettare col Principe, a giuocare col fuoco. Il faro, dunque, era acceso. Ma era mai possibile che quel faro fosse una burla tentata ai danni dei navigatori più arditi e più ostinati e che veramente poi, dietro quel faro, come la duchessa pretendeva, non ci fosse alcun porto? Questo, io dovevo tentar di sapere, poichè purtroppo le carte galanti dei più esperti marinai di Pulquerrima erano mute al riguardo. E saperlo era facile. Bastava parlare alla duchessa Isabella della lunga e disperata navigazione di Sua Altezza, di quella sua povera navicella sentimentale sbattuta dalle onde che volta a volta l'avvicinavano e l'allontanavano dall'isola irraggiungibile e misteriosa. Si trattava, insomma, di far sapere all'austera signora dell'isola che la povera navicella non navigava così a casaccio per puro capriccio, ma che il suo povero capitano aveva veramente e definitivamente perduto la bussola e che in tal caso era elementare dovere di umanità e di pietà aprire al fragile legno le braccia tranquille d'un dolce porto ospitale. Non esito a confessarlo. Non so quale specie di sadismo morale mi traeva ad ascoltare quasi con voluttà da Sua Altezza quest'inconcepibile discorso di cui non avrei tollerato da nessun altro neppure la prima sillaba. Questa condiscendenza tacita della prima volta doveva essermi fatale in seguito. Tuttavia, per quella prima volta, riuscii a declinare il poco onorevole incarico. Continuando le metafore di Sua Altezza, che comodamente permettevano a entrambi di non arrossire, dichiarai che la mia esplorazione era forse impossibile, ma che era, ad ogni modo, sopratutto superflua. Affermai recisamente che l'isola non aveva porti nè grandi nè piccini, che l'isola era stata sempre disabitata e che la luce che Sua Altezza scambiava per quella d'un faro era invece quella d'una dolce capanna sotto la quale la duchessa e suo marito filavano un amore perfetto degno dei più leggendarii amanti. Non c'era quindi altro da fare che macchina indietro. Per approdare c'erano cento isole abitabilissime attorno a quell'isola inospitale, isole con porti garentiti e provati, con visibilissimi fari accesi che veramente invitavano i navigatori, isole che costituivano tutto l'arcipelago del salotti di Pulquerrima e tra le quali non c'era, per navigare, altro imbarazzo che della scelta. Sua Altezza, bontà sua, non insistè. Mi chiese solamente, lasciando le metafore, se veramente credevo la duchessa di Frondosa così onesta e risposi che la reputavo veramente onestissima. Monsignore volle anche degnarsi di farmi osservare che in tal caso disperato egli avrebbe finito per innamorarsene sul serio. Ed io non potei che stringermi nelle spalle, senza rispondere. Non se ne parlò più. Venne l'estate. Passarono giorni, settimane e mesi. Sua Altezza continuava intanto a muoversi come voleva su lo scacchiere galante di Pulquerrima, ma io comprendevo che tutte le pedine cui dava caccia fortunata, che tutte le torri che faceva cadere con un sospiro e qualche volta anche con uno sbadiglio non erano altro per lui che tentativi per distrarsi dalla sua idea fissa, che pretesti per sfogare su le torri che precipitavano le esuberanze d'ogni genere che la torre incrollabile provocava in quel cuore e in quel sangue di ventitrè anni. Intanto Sua Altezza continuava a vedere ogni giorno la duchessa di Frondosa, la quale, dal canto suo, continuava a giuocare con lui di parole con quella sua bella serenità che non si turbava mai. Educata dalla prima aspra lezione, Sua Altezza non tentava più il passaggio troppo rischioso dalle parole molto vaghe ai gesti abbastanza precisi. E, una sera, tornando da un pranzo dai Frondosa al quale avevamo assistito insieme, Sua Altezza mi confessò che non solo il fascino della duchessa Isabella lo attirava in quella casa, ma che anche il duca Alvaro gli era oramai simpaticissimo. Non aveva mai visto, mi diceva, uomo più compìto, gentiluomo più perfetto, diplomatico più illuminato e padron di casa che gli fosse paragonabile. Contava di farne oramai un suo amico, un suo strettissimo amico, senza nulla togliere per altro all'affetto di lunga data ch'egli aveva per me. Lo lasciai dire e mi proposi di lasciarlo fare. Non c'era più d'altronde da discutere. Dopo la moglie, il marito.... Era, decisamente, l'amore.

Mitchell, Margaret

221111
Via col vento 2 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
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Pagina 254

Pagina 567

Il romanzo della bambola

222101
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
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Pagina 27

Il sole, ch'entrava pallido pallido, a fare il suo giro obliquo - il giro invernale - per la stanza, si fermava un momento, passando sul corpo della pupattola, coricato come l'avevan lasciato lì con mano distratta; animava, d'un tratto, i capelli biondi, i vivi colori del vestito, poi abbandonava nell'ombra quel dolore a cui nessuno badava: un dolore, è vero, senza espressione, ma non per questo meno angoscioso e sincero. Dai discorsi uditi in casa, un po' qua un po' là, la bambola aveva capito molte cose e le andava rimescolando nel suo povero capo vuoto. Oh, se si potesse sapere tutti i pensieri contenuti in una testa che sembra insensibile, si commetterebbero, certo, meno leggerezze e meno crudeltà. Il Moro era il rivale temuto e odiato dalla Giulia. Ella aveva inteso decantare tutte le virtù del cavallino: sapeva di quale colore aveva il manto e quanto era acuta la sua intelligenza; sapeva perfino, oh dolore! di quella piccola stella bianca su la fronte, dove la Marietta lo baciava più spesso e più volentieri. E pensare che a lei non aveva mai dato un bacio, la Marietta! Che cosa erano i baci, in conclusione? Un'espressione dell'amore, se alla bambina i genitori ne davano tanti, da mattina a sera, e se lei, cattiva, ne dava tanti al Moro! La gelosia che rodeva la Giulia non la fece nè dimagrire nè impallidire, s'intende; ella sentiva, però, dentro di sè, qualcosa che le andava consumando il cuore, l'anima, chi sa? e la sensazione era delle più penose. Dov'erano i tempi in cui la Marietta le diceva, pigliandola in braccio: - Vieni, bella mia! Adesso usciamo insieme, sai! Ti porto in legno, e tutti credono che tu sia viva come me!

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222716
Misteri del chiostro napoletano 3 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
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La risoluzione di ripudiare lo stato monastico era, a parer suo, opera di Satanasso, il quale erasi preso l'impegno di attirarmi seco nell'Inferno; per la mia lunga renitenza, Iddio mi abbandonava agli artigli del Demonio; essere nullameno tempo ancora di fare ammenda del passato, rimanendo nel chiostro. Conchiudeva, che nel mettere il piede fuori del monastero sarei stata sospinta da mano invisibile, al quale segno del divino intervento se non ne fossi stata dissuasa, egli (lo scrivente) nel dì dell'estremo giudizio sarebbe stato il mio inesorabile accusatore innanzi a Dio. Esaminai quella scrittura: non mi parve totalmente nuova. Esplorai le mie carte: non vi trovai alcun carattere somigliante. Pure era ben sicura di averla altre volte veduta. - Domandai alla portinaia chi avesse recato quel foglio; mi rispose: "Un tale, ignoto a me, che dopo di averlo posto nella ruota, frettoloso se ne partì." In un angolo dell'arcato corridoio eravi una cappelletta, dedicata a sant'Antimo, santo di origine basiliana. Passandovi quel giorno stesso in compagnia di mia zia, vi osservai una preghiera manoscritta sur una tavoletta appesa al muro. Mi approssimo, la guardo: il carattere era perfettamente simile a quello della lettera anonima, ed appunto in quel luogo lo aveva altra volta veduto. Ricondussi mia zia al coro, e volai in cerca della conversa, cui la cappelletta apparteneva. Seppi che la preghiera erale stata scritta da quel pretino, che al vedermi passare pel parlatorio, soleva cinguettare: "Ps! cara, vien qua!" Aveva intanto disposto mia madre che, uscendo del monastero, mi portassi in casa della sorella maggiore, e colà attendessi la signora che doveva accompagnarmi. A cagione dei fantastici ragionamenti che i preti e le monache mi tenevano tutto il giorno, i miei sonni erano spesso turbati da apparizioni spaventose di spettri, di demonii, di sante reliquie. La notte, che precedeva all'uscita, la commozione mi fece prendere riposo tardissimo. Era adunque fra la veglia e il sonno, allorchè parvemi udire all'orecchio il tintinnío d'un campanello. Mi desto incontinente, schiudo gli occhi, tendo l'orecchio: sono circondata dal solito silenzio. Di là a poco raccontai ad una monaca l'effetto di quella allucinazione. Essa si mise a piangere, a farsi il segno della croce, a strillare: "Miracolo! Miracolo!" "E chi può avere operato il miracolo?" le domandai. "Ci vuol tanto a capirlo? È il campanello di san Benedetto, che ti chiama." Mezz'ora dopo, il convento era sossopra: le monache, le converse, le educande non ragionavano d'altro che del miracolo, e già parlavasi d'una messa, destinata a perpetuarne la memoria negli annuali e ne' fasti del chiostro. Ma, non ostante il misterioso tintinnío, restai ferma nella mia deliberazione. All'ora fissata abbracciai teneramente la vecchia zia, valicai esultante la soglia del monastero, e dopo d'aver visitata Giuseppina, che non aveva veduta da qualche tempo per la sua infermità, mi recai in casa dell'altra sorella, ove mi trattenni dieci giorni, aspettando l'ora della partenza. Ma era scritto che il mio riscatto esser dovesse di breve durata! In questo mentre io riceveva da Reggio due lettere: erano delle altre due sorelle, colà maritate, che, per urgenza e a tutta possa, mi consigliavano di restituirmi all'abbandonato cenobio. Erano poi dolorosissime le ragioni che le inducevano a darmi tale consiglio. Mia madre era in procinto di passare a seconde nozze; Domenico, posto in oblio l'amor mio, ed impassibile alle mie sventure, erasi dedicato ad altra donna; del resto, io correva il rischio di passare da un monastero della capitale in uno di quelli della provincia. Queste infauste notizie mi atterrirono: scaricavasi d'un sol tratto sul capo mio tutto quanto il peso dell'orfanezza. Dopo d'aver lungamente ponderate le condizioni della critica situazione in cui quelle novelle mi ponevano, mi spinsi, benchè a malincuore, a domandare, se voleva il cognato ritenermi presso di sè, insino a che fosse piaciuto al Signore di procurarmi altro rifugio. Il cognato gentilmente vi consentì. Deliberai allora, che quando quella dama di Messina fosse venuta per prendermi seco lei, le direi che si partisse sola. - Così feci, ed essa se ne partì senza di me. Ma da lì ad otto giorni con una lettera fulminante mia madre protestava di non voler sopportare in pace la mia disubbidienza. Ella erasi trasferita a Messina per ricevermi, e non avendomi incontrata, come s'aspettava, era montata in furia. Non basta questo. Il ministro di Polizia citava nello stesso tempo mio cognato, per indurlo a farmi subito partire, conforme al volere di mia madre. "Cara cognata," mi disse quest'uomo dabbene, dopo l'avvertimento ricevuto: "vi ho offerta di buon grado l'ospitalità in mia casa, ed avrei seguitato a ritenervi con piacere, se vostra madre non ne mostrasse rincrescimento; ora, nel modo che le cose vanno, spiacemi di dirvi che non posso resistere agli ordini di mia suocera." Io era recisamente licenziata. - Che fare? Dove andare? A chi ricorrere? - Mi trovava in un bivio terribile. Un carcere a destra, un altro a sinistra, e d'ogni intorno l'abbandono e la desolazione! "Dio mio! diceva a me stessa, non potendo contenere le lagrime: che mai sarà di me, priva, come mi trovo, di mezzi, priva d'ogni appoggio, priva per fino della mia volontà? Se un destino crudele muove tutto a congiura contro di me, non v'ha almeno qualche legge pietosa che mi difenda?" Fu suonato all'uscio: era un amico di casa settuagenario, curvato sotto il peso degli anni. All'udir l'accaduto, quel buon vecchio mi esortò a ritornare nel monastero, finchè (diceva) fosse dissipata, la tempesta che addensavasi sul mio capo; più tardi poi si sarebbe cercato di rappattumare la madre con me. A questo consiglio si conformarono eziandio e la sorella ed il cognato ed altre persone familiari, nè, a dire il vero, scorgeva neppur io, fuori di quello, altro schermo che mi campasse dalla disperazione. Non sapendo dunque a quale miglior santo rivolgermi, secondo il detto comune, mi feci il dopo pranzo ricondurre al convento. Ivi, chiamata la zia in disparte, le dissi volermi novellamente chiudere per pochi altri mesi ancora, al che essa rispose, che sopra tale risoluzione faceva d'uopo consultare la disposizione delle monache. Poco dopo, convocate queste nel parlatorio, e udita per bocca della badessa la mia domanda, risposero, che mi avrebbero accolta volentieri nello stabilimento, se dichiarava in quell'istante medesimo di rientrarvi, non provvisoriamente, ma per farmi religiosa; nel caso contrario, dichiaravano di volermi chiudere le porte. Quale orribile alternativa! Mia sorella, vedendomi sulle spine, notando massimamente l'esitazione mia nel rispondere, mi esortò sottovoce a dire pel momento di sì, che poi, rientrata, non mi avrebbero di leggieri respinta. Me ne persuasi, e risposi sommessamente, che rientrava col disegno di farmi monaca. "Affermatelo pure ad alta voce," mi disse la badessa. - "Siete alfine determinata di dare i voti?" Il cuore mi batteva forte, il capo mi girava: credeva di venir meno. Chiesi d'una seggiola, tersi colla pezzuola il freddo sudore che mi colava dalla fronte, e con voce di agonizzante risposi: "Sì." -Il dado era tratto.... Fatale SÌ!- Non appena ebbi pronunziata l'affermativa, uno scoppio d'acclamazioni e di festose grida mi percosse l'udito. Le monache tutte proruppero di comune accordo in proteste, tendenti ad assodare, che la mia conversione era effetto manifesto del campanello di san Benedetto, da me stessa inteso qualche ora prima della mia uscita; perlochè con tutta fretta mandarono uno stuolo di converse sul campanile per suonare a festa. Nell'udire a quell'ora insolita la campana, i vicini fecero domandare che cosa fosse successo alle monache; e queste divulgarono largamente, che la nipote della badessa erasi per superiore ispirazione dichiarata religiosa. Perduta d'animo, confusa, dalle inaspettate combinazioni soperchiata, io tremava a guisa di foglia cadente al vento d'autunno. Dato pertanto l'impegno di chiudermi il giorno appresso, me ne tornai in casa della sorella, immersa nella più cupa costernazione; essa pure mostravasi molto dolente dell'andamento che l'affare avea preso all'improvviso. Il suono funesto delle campane rintronò al mio orecchio per tutta la notte: mi pentii cento volte di aver detto quel SÌ, ed accusai me stessa di fiacchezza. Ma guai a chi è trascinato dalla fatalità!.... Alle dieci della mattina mi avviava al convento, alle porte del quale parecchie persone famigliari mi attendevano. Fui ricevuta con nuova scampanata a festa, e collo sparo dei mortaletti, alla cui esplosione una folla immensa di gente si radunò. Per tutta quella giornata d'altro non si ragionò, che del miracoloso campanello, e della mia prossima vestizione. Il canonico gongolava di gioia, le suore ne esultavano, era un andirivieni continuo nella chiesa di preti e di confessori. Il cardinale Caracciolo, e il vicario vennero pur essi a congratularsi meco della mia risoluzione, e la sera un lauto trattamento di gelati e di pasticceria fu offerto dalla mia zia alla comunità. - Insomma, per vincolarmi ne' lacci, dov'era incappata, in modo da non potermene più disimpegnare, i preti e le suore strombazzarono il prodigio di san Benedetto e l'atto della mia conversione con ogni mezzo possibile di pubblicità. A sollievo delle solitarie pene che m'attendevano, m'era provveduta di alcuni volumi, che cacciai nel fondo del baule. Eranvi fra quelli la Bibbia, il Manuale d'Epitteto, e le Confessioni di sant'Agostino. Aveva pur cercato delle Consolazioni di Boezio, ma non mi venne fatto di rinvenirle. Mi fu bensì da mano amica favorito un altro libro, il cui titolo pareva alla mia situazione particolarmente confacevole: era la Solitudine di Zimmermann. Da quello scritto mi riprometteva una novella vena di conforti, e però mi sapeva mill'anni di cominciarne la lettura. Come, dopo il trattamento dei gelati, si furono le monache ritirate, preso a mia volta commiato dalla zia, m'affrettai di tirar fuori del baule il sospirato volume. Con quale palpitante avidità ne divorai al lume della lucerna le prime pagine! La storica facondia, lo stile animato e leggiadro, la soave malinconia, il movimento de' sentimenti e delle passioni, con che l'autore studiasi d'infondere l'amore della solitudine a chi lo legge, mi rapirono fin dal principio in una sfera sconosciuta di poesia, e ringraziai la provvidenza d'avermi dato a compagno un maestro, capace di poetizzare le amarezze dell'esilio, di rendermi affezionata alle mie catene, di temprare il mio cuore ribelle all'uniformità dell'inerzia, alla perpetua monotonia del quietismo. Ma di repente un triste pensiero m'assalì. - Cotesto filosofo, che sugl'incanti della solitudine a larga mano profonde i fiori dell'eloquenza, era egli infatti il mio compagno di prigionia? Era egli stato, per forza superiore ed ineluttabile, costretto, al par di me, a consumare il suicidio della propria volontà? Egli, che con tanto ardore decanta i vantaggi del ritiro, conosce forse come sa di morte la solitudine, quando priva è d'affetti, di vincoli, di memorie, d'aspirazioni; la solitudine, sfrondata da ogni germoglio d'amore, impastoiata da mille pratiche, l'una più servile dell'altra, sentenziata a perenne ed ignobile sterilità? - Ricaddi più che mai nell'abbattimento. Una mano di ferro m'adunghiò alla gola: credetti di restarne soffogata. L'orologio del vicinato aveva già suonato il tócco dopo la mezzanotte. Richiusi il libro, spensi il lume, e spalancai la finestra in cerca d'aria. Era il cielo velato da foschi nuvoloni, vaganti a seconda del vento. All'estremo orizzonte qualche stella romita avventurava un raggio, offuscato dalla caligine; e la luna, involta pur essa nella nebbia, batteva con incerta luce le mura del monastero. Alcune goccie di pioggia, che di tratto in tratto scrosciavano sul lastrico, interrompevano per un istante il vasto silenzio, e poi tutto rientrava nella muta solitudine. Mi venne in mente di scrivere a mia madre una lettera grondante di lagrime. Riaccesi la lucerna, ne gettai lo sbozzo sulla carta, ma troppo agitato giudicando lo stile, lo stracciai subito. - Non sarebbe meglio, domandai a me stessa, confidare alla zia le mie angustie? - Ma ella dorme a quest'ora! - La sveglierò. Per giungere alla sua stanza, bisognava traversare un tenebroso corridoio. Bussai all'uscio: nessun risponde. Torno a bussare: la conversa riconosce la mia voce, ed apre, sgomentata da tale visita. Nel vedermi a quell'ora, e sì fortemente conturbata, anche la badessa trasecolò. Dopo aver fatto uscire la conversa: "Cara zia," le dissi, contenendo appena la commozione che m'agitava: "duolmi assai di recarvi tante e sì gravi molestie; ma il tempo stringe, gli affari miei camminano con soverchia celerità, poichè non voglio lasciarmi sorprendere degli eventi al di là del dovere." L'informai allora minutamente del concorso di circostanze, che mi avevano indotta a ritornare nel monastero, non senza la riserva d'un imminente e definitivo riscatto, e conclusi il ragionamento dichiarandole ch'io provava per lo stato monastico la più ferma ed insuperabile ripugnanza. La povera vecchia diè tosto nel pianto, e fattosi delle mani velo, esclamò: "Lassa! Quale vergogna attendeva la mia vecchiaia, e l'ultimo mio badessato! Che mai diranno le monache? Che dirà il cardinale? Che dirà il vicario? Che dirà il mondo intero? Chiameranno pazzarella te, e me più pazza ancora, per averti persuasa a rientrare. E la riputazione del convento!.... E il campanello di San Benedetto che ha suonato!.... E le gazzette che ne parleranno!.... Qual ampia materia di scandalo! Quale argomento di favole presso gl'increduli della città!" A queste riflessioni la poveretta si diede a piangere e singhiozzare dirottamente. Il turbamento di quell'ottuagenaria, la sua somiglianza col mio adorato padre, al quale io non aveva cagionato mai il menomo cruccio, queste cose mi scossero. Veggendo ch'ella non si dava nè pace nè tregua, e andava ripetendo lamentevolmente: "Ahimè, quale tremenda sventura! Quale vergogna!" le presi una mano fra le mie, e dando allora libero sfogo al dolore, "Amata zia," le dissi, "ricoricatevi, e datevi pure pace: contro il destino mio non mi rivolterò più." Alzò la testa, mi guardò fisa: io, senza prender fiato: "Sì," le soggiunsi, "mi farò monaca. Mi costerà la vita: una disgraziata di meno: ma non amareggerò per certo gli ultimi giorni di vita della sorella di mio padre." Non potei andar oltre, perchè la foga dei singhiozzi mi soffocò le parole. Restammo entrambe abbracciate per qualche tempo senza dir motto. Alfine riprendendo essa il discorso, e sul mio capo poggiando la santa reliquia, che pendeva al di lei collo: "Sta' tranquilla, figlia mia," mi disse. "Iddio e il nostro patriarca ti sosterranno in questo sagrifizio. Pregherò dalla mattina alla sera per farti venire la vocazione che ti manca, e sarò esaudita." Volle da me la promessa di non ripetere a chicchessia gl'incidenti di quella notturna conferenza, e lo promisi. Il mio sagrifizio da quel momento era consumato: mi considerai una vittima. L'ingresso del giornalismo è interdetto nel convento. Ciò nondimeno, tiratami il canonico in disparte la seguente mattina, mi pose sott’occhio due giornali, umidi ancora dalla stampa, ove davasi al pubblico la notizia della mia deliberazione. Dicevasi in uno di quei fogli: «Ci facciamo solleciti di partecipare un fatto, che a' devoti d'ogni classe recherà piacere. Una delle figlie del defunto e compianto maresciallo Caracciolo, la signorina Enrichetta, de' principi di Forino, giovine di rara pietà, si è determinata di ripudiare la vanità del mondo, per prendere il velo nel monastero di San Gregorio.» Portava l'altro diario, organo ben noto della pretesca consorteria: «Il campanello di San Benedetto ha tornato a risuonare poc'anzi, e questa volta per conquistare all'angelica regola Benedettina un'altra Caracciolo in età tenera, e discendente in linea diretta da san Francesco dello stesso cognome. Questa giovinetta, che somma reluttanza avea mostrato nell'abbracciare lo stato monastico, ora, per essere stata evocata durante il sonno dal suddetto miracoloso campanello, ha formalmente espressa la sua intenzione di farsi monaca..... Empi e miscredenti, favete linguis animisque!» Intanto mia madre non mi scriveva. Le indirizzai una lettera; un'altra ne scrisse mia zia per annunziarle la mia risoluzione di farmi monaca. Rispose non volerlo affatto permettere, e per molti mesi oppose la più ostinata resistenza. Era suo intendimento, diceva, di maritarmi a persona di suo aggradimento, nè mi avrebbe ritenuta nel chiostro, se non infino a che tale opportunità si presentasse. Se non che, soggiunse mia zia, non poteva essa opporsi ai decreti della Divinità. Questi decreti per altro non potevano effettuarsi immediatamente. Al mese d'agosto del 1840 non aveva ancora raggiunta l'età disciplinale per vestirmi monaca; compiva vent'anni nel 1841. Si dovette perciò attendere sino al mese d'ottobre di quest'ultimo anno, ossia un intervallo di venti mesi dopo il mio primo ingresso nel chiostro. Questo tempo fu dalla comunità dedicato ad apparecchiare a spese mie..... i confetti pel giorno della festa. Frattanto mia zia che per un intero decennio aveva esercitato le funzioni di badessa, fu surrogata da un'altra Caracciolo, donna piuttosto burbera e rigorosa. Questo rigore, contrapposto alla soverchia affabilità di mia zia, fece sì che malcontente ne uscissero tutte le monache. Quaranta giorni prima della mia vestizione fu deciso, per contentare mia madre, ch'io passassi questo spazio di tempo presso di lei. Però, prima di uscire, mi fu fatto sborsare per le spese della funzione ducati 700, e qui cade acconcio di notare, che l'egregio generale Salluzzi mantenne la sua promessa, donandomi ducati mille. In questo mentre mia madre, reduce dalla Calabria, prese alloggio in casa di Giuseppina di conserva colle mie due sorelline. Tanto essa che gli altri parenti, nel notare la mia rassegnazione ad un male che ormai sembravami inevitabile, riputarono vera e spontanea la mia vocazione. Dal canto mio, dovendo rinunziare al mondo per sempre, e volendo evitare ulteriori rammarichi, schivai, per quello spazio di tempo, e teatro, e passeggio, e società. Tentai soltanto un giorno di cantare sul piano-forte un'arietta popolare, quella che tanto era piaciuta altra volta a Domenico; ma la commozione che mi sorprese, ma i rimpianti amari che nel cuore mi ripullularono, diedero ai miei nervi sì gagliarda scossa, che d'allora in poi feci divorzio anche colla musica, nè suonai più che l'organo della chiesa. Più d'una volta mi venne il pensiero di aprire il mio cuore al Generale, mio secondo padre, e chiedergli aiuto: ma la parola data mi chiudeva le labbra. Egli aveva già sborsato il danaro, del quale molta parte erasi presa; ora, volendo pur mancare all'impegno solenne, fermato colla zia e colle monache, poteva io più ritrattarmene, senza far trista figura davanti al benefattore? Non vi era alcuno scampo plausibile. Doveva assolutamente chiuder gli occhi, ed abbandonarmi alla discrezione della fatalità. Spuntò il critico giorno. Una folla di parenti e d'amici affluì fin dal mattino nella sala di mio cognato: gli uomini discorrevano allegramente; le donne chiassavano, le zittelle si erano impadronite del piano-forte; io sola era mesta con in bocca l'amarezza dell'assenzio. A dieci ore fui chiamata all'allestimento. M'inghirlandarono di fiori gemmati, a guisa di sposa: mi fecero indossare un abito sontuoso di velo bianco, ed al capo mi attaccarono un altro velo dello stesso colore, scendente sino ai piedi. - Quattro dame assistettero all'acconciatura, due altre dovevano accompagnarmi: la duchessa di Carigliano e la principessa di Castagnetto. Conformandosi alla consuetudine, queste dame cominciarono dal condurmi a diversi monasteri, onde farmi vedere dalle altre monache: le seguitai automaticamente, muta d'accento, col pensiero assente. Mi scossi solo, allorchè seduta nella porteria del monastero di Santa Patrizia, accanto all'altra zia Benedettina, vidi entrare frettolosi ed anelanti due chierici, che gridarono: "Ma, signore, venite presto a San Gregorio Armeno! Il pontificale è finito: non si attende che la monaca." Una pugnalata al cuore non ha effetto diverso di quello che provai da tale chiamata. Un tremito generale s'impossessò delle mie membra, e divenni livida al par di cadavere. La prima ad alzarsi fu la duchessa Carigliano. Compressi la mano sul cuore, mi levai a stento, e baciai quella vecchia zia, che mi disse lagrimando: "È questo l'ultimo nostro bacio.... Addio, figlia mia! ci rivedremo in cielo." La principessa, venutami più d'appresso, mi guardò in volto. "Fermatevi, duchessa," disse alla Carigliano: "non vedete che la monachella si sviene?" Infatti, appuntellata alla spalliera della seggiola, io vacillava, pronta a cadere. Mi posero a sedere, e chiesero un bicchier d'acqua, dal che refrigerata un poco, ripresi lena, e mi rialzai. "Scommetto, che non siete contenta di farvi monaca," mi disse per via la principessa. "Al contrario," risposi, inghiottendo un sospiro traditore; "ne sono contentissima." Avanzava frattanto la carrozza, ed avanzando entrava nel quartiere di San Lorenzo. Approssimatici alla città dolente, misi il capo allo sportello, cercando con lacerante curiosità le persiane delle finestre, le cancellate di legno, le inferriate, e gli altri ripari del monastero. Alla vista del sepolcro che stava lì per ingoiarmi, non so come, spinta da un istintivo impulso, non mi sia rovesciata dalla carrozza in mezzo alla strada. - Mi risostenne l'intima autorità dell'amor proprio. Quanto mi avvicinava a San Gregorio, tanto più distinto facevasi il suono delle campane. Ogni tócco era suono funereo nell'animo mio. All'angolo della strada, il confuso cicalar della moltitudine, accorsa da ogni parte, lo sparo dei mortaletti, le acclamazioni delle donnicciuole a' balconi, e la banda degli Svizzeri finirono di impietrirmi. - Io ho provate le estreme sensazioni del suppliziato! Al portone della chiesa fui ricevuta da una processione di preti colla croce in alto. Due altre dame si posero al mio fianco, la principessa di Montemiletto, e la marchesa Messanella. Il prete colla croce in mano camminava innanzi, gli altri formavano due ale. La chiesa era parata con eleganza, illuminata con profusione, e divisa nel mezzo da uno steccato bianco e rosso, alla cui dritta stanziavano le signore, che erano state invitate e ricevute da mia madre, ed a sinistra stavano i cavalieri, ricevuti da mio cugino il principe Forino. Di quella assemblea numerosa, delle variopinte decorazioni, di quell'oceano di luce altro non vidi che una masse informe e confusa. Giunta che fui al mezzo del tempio, mi fecero inginocchiare, e mi presentarono una piccola croce d'argento, e una candela accesa. Dovetti poggiare la prima sul petto, tenendola colla sinistra, e portar nella destra la fiaccola. Nel passare vicino alle signore, la mia sorellina Giulietta stese le mani per afferrarmi dal velo, e gridò tanto alto da farsi sentire da tutti: "Non voglio, no, non voglio che tu vada a chiuderti!" Quella voce argentina attirò l'attenzione d'ogni persona. Era la voce dell'innocenza che gridava alla barbarie. Mi volsi a quella parte: una signora imbavagliava la bocca della fanciulla col fazzoletto. Mi corsero le lagrime agli occhi, asciutti fino a quel punto. Arrivai all'altar maggiore. Il vicario, che funzionava, essendo infermo il cardinale, stava seduto dal lato dell'Epistola. Ivi, io e le dame rimanemmo per pochi minuti genuflesse; poi mi menarono al vicario, e mi posero ginocchione ai suoi piedi. Un prete, dalla cotta superbamente ricamata, presentògli un piccolo bacile d'argento con forbicette, con le quali mi recise una piccola ciocca di capelli. Mi rialzai allora; e fiancheggiata dallo stesso corteggio, preceduta dalla banda che suonava, uscíi nuovamente della chiesa. Il tratto di strada, che da questa mena alla porteria, fu fatto da tutti a piedi, in mezzo ad una fittissima calca di curiosi. Appena posi il piede al soglio della clausura, proruppi in uno di quei pianti sfrenati, che non può forza umana contenere: e le monache a chiuder tosto le porte, ad internarmi sollecitamente, a dirmi in coro: "Non piangere, per carità! Altrimenti diranno i secolari, che non ci monachiamo per vocazione, ma per forza.... Zitto, zitto, per carità!" Scesi al comunichino. Il vicario, i canonici, i preti e gl'invitati erano tutti affollati presso al cancello. Ivi, condotta in un angolo, fui per mano delle monache spogliata via via degli abiti di gala, del velo, della ghirlanda, dei guanti e perfino dei calzarini. Quando in vesta di lana nera, colla chioma scarmigliata, cogli occhi tumefatti dal pianto m'accostai al portellino del comunichino, intesi tra la folla alcuni gemiti, provocati dalla commozione. Chi mi deplorava? Lo ignoro. Il vicario benedisse lo scapolare, ed offertomelo di propria mano, me l'indossai. Quindi mi prosternai dinnanzi alla badessa. M'avevano spogliata dell'abito secolare: dovevano pur togliermi la chioma. Le monache strinsero in una sola treccia i miei lunghi capelli, e la badessa impugnò delle grandi forbici per reciderla, mentre un silenzio profondo regnava intorno. Una voce potente, uscita da mezzo i convitati, gridò: "Barbara, non tagliare i capelli a quella ragazza!" Tutti si volsero: bisbigliarono di un pazzo. Era un membro del Parlamento inglese. I preti imposero silenzio, e le monache, le quali in altre simili funzioni avevano veduto de' protestanti, dissero alla superiora, ch'era rimasta colla mano sospesa, stringendo le forbici: "Tagliate! È un eretico." La chioma cadde, e presi il velo.

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Io mi abbandonava alla più sfrenata desolazione. Feci una nuova e più vigorosa istanza, e la mandai a Roma. Coerente intanto alla sua promessa. Riario venne più di frequente al monastero. Ogni volta che il campanello chiamava la comunità al parlatorio, io mi sentiva rabbrividire. Per evitare quel disgustoso incontro, avrei dato non so che: ma come fare? Non appena giunto, egli diceva; "E la vostra Caracciolo dov'e?" - Benchè fremente di dispetto, doveva farmi innanzi e udirmi domandare con voce melliflua come stessi di salute, e se fossi tranquilla d'animo: complimenti del carnefice al condannato. "Povera figliuola! È così buona! Non si vede, nè si fa sentire:" rispondeva per me l'ipocrita badessa, solita sempre a lodare le persone nella loro presenza. "Brava!" soggiungeva l'eminente visitatore: "così va bene." Un giorno la superiora mi fece mettere nella prima fila. Tale studiata preferenza indignò le monache, le quali bisbigliarono contro la badessa, e dissero, dietro le mie spalle: "Che fastidio! si parlerà dunque in eterno della Caracciolo?" "Eminenza," fece la superiora, "debbo denunziarvi questa signora monachella che ogni giorno più si atteggia a misantropa. Fugge la compagnia, passa gran parte della giornata rinserrata nella sua cella, e nelle ore di ricreazione non si vuol unire colle altre monache. "Lasciatela un momento sola con me," disse l'arcivescovo in tuono di potestà patriarcale. Le monache uscirono malcontente, ed io mi sedetti a qualche distanza, curiosa di vedere come Sua Eminenza avrebbe intavolata la sua orazione. Ei si compose in atto affabile, affine di ispirarmi fiducia, si terse il sudor del volto colla pezzuola di batista, poscia m'interrogò: "Per qual motivo ve ne state sempre sola e pensierosa?" "Sarebbe anche questo un delitto? Quando adempio a' miei doveri ed obbedisco a' precetti, mi pare che gli altri non dovrebbero brigarsi delle mie abitudini." "Però vorrei poter vedere traverso le pareti ciò che fate per tante ore sola nella vostra stanza. Il confessore non deve internarsi in tutto?" "Leggo, scarabocchio, lavoro: è forse anche questa un'infrazione?" "Sicuramente. Non vi è lecito leggere o scrivere se non opere di devozione. E, di grazia, che state leggendo e scrivendo?" "Cerco nella lettura di qualche libro istruttivo un conforto alla oppressione che m'abbrutisce; sbozzo le memorie di questa mia captività per lasciarne un ricordo, se mi verrà fatto." "Oppressione..... memorie..... captività....! A maraviglia! Dove diamine avete attinto questo frasario da Carbonaro? Sapete che dovrei castigarvi severamente per tali fantasie spropositate?" "Potete fare anche questo. Mi manca solamente la catena al piede: ordinatela." "Non me lo permette l'interesse che sento per voi. Pur nondimeno vorrei farvi deporre quella smania maledetta di ricuperare la libertà; su questo argomento sono assoluto, implacabile, inesorabile, nè vi acconsentirò mai." "Tentate invano di togliermi l'ultimo barlume di speranza. Ho riscritto alla Santa Sede." "Lo so, lo so, ed io controscriverò sempre negativamente. Vogliate per altro confidarmi dove vorreste andarvene, uscita che foste di convento." "In casa di mia madre. Ormai non ho bisogno di tutela, ma credo che nessuna donna possa custodire una giovine meglio della propria genitrice." Nel pronunziare quest'ultime parole, gli occhi mi si gonfiarono di lagrime: mi era balenata alla monte la memoria di mio padre. - Il cardinale proruppe in un riso mefistofelico, e disse: "Pastocchie! Vorreste piuttosto uscire per ballare: in casa di vostra madre si danno feste di ballo a' liberali; ma badi bene a quello che fa, altrimenti ci baderà la polizia!" Quest'ultimo tratto esaurì la mia pazienza. Afferrato il lembo dello scapolare, "Con quest'abito abborrito da tutti," gli dissi, "avrei vergogna di farmi vedere, ed ancor più di prendere parte ad una festa. Non chiedo la liberazione, altro che per riconquistare un bene supremo, al cui godimento ho rinunziato per inesperienza, per debolezza, per forza d'avverso destino." "Non posso," ripetè più volte il cardinale, rinforzando ad ogni passo il tuono. "Per ora," soggiunse, "sto per ripartire alla volta di Roma; appena tornato, vi rivedrò." "Ed io, da parte mia, non cesserò giammai d'aspirare al mio riscatto. Buon viaggio!" E quand'ebbe voltate le spalle, gli dissi: "Vattene alla malora!" Ciò nondimeno l'abbattimento mio andava crescendo di giorno in giorno, ed il cervello cominciava realmente a risentirsene. Io confrontava le mie sofferenze morali con quelle delle due converse impazzite, e temetti di trovarmi anch'io vicina a diventar pazza. Le speranze, riposte da me nell'animo liberale di Pio IX, andavano frattanto dileguandosi. Erasi prima parlato di scioglimento di voti; si disse poi d'una quinquennale rinnovazione degli stessi; in ultimo si spacciò che tale rinnovazione sarebbe stata ristretta soltanto a quanti avevano fatta la professione dopo il Breve; finalmente si cessò di parlare su tale argomento. - Nell'animo di Pio IX l'emancipazione monastica e la patria carità subirono la medesima sorte: «E quando Roma non voltò mantello?» Mio primo intendimento, come ho già detto, era quello di uscire per soli sei mesi, riservandomi di rinnovare il permesso al termine di questo periodo, e di passare da quello in altro chiostro, nel caso che negate mi fosse il prolungamento. La capricciosa repulsa, l'avermi ricusato quello che tutti i giorni si concedeva a tante che ammorbavano Napoli; massimamente in tempo d'estate; queste cose mi punsero al vivo. Era evidentemente un tratto di personalità, cui piuttosto che soccombere avrei rinunziato all'esistenza stessa. Da quel momento diedi l'addio ad ogni sorta di palliativo, di mezzo termine, e mirai a dirittura al definitivo scioglimento dei voti. Raccolte adunque delle informazioni intorno a tale bisogna, letti più libri su questa materia, ed abboccatami con un dottore in gius canonico, seppi che conveniva anzi tutto mandare il reclamo prima che fosse spirato il quinto anno della professione: che bisognava poi provare la violenza morale nell'atto della monacazione: infine che la causa doveva trattarsi prima alla curia di Napoli, e poi a quella di Roma, locchè avrebbe preso molto tempo e moltissimo danaro con iscarsa probabilità di riuscita. Questi ragguagli mi sconcertarono. Prossimo a spirare era il quint'anno della mia professione..... E poi, la curia di Napoli avrebbe essa urtate di fronte le disposizioni d'un cardinale arcivescovo per esaudire i reclami d'una monaca priva di protettori......? E poi, dove mi sarei procacciata il denaro necessario per spedire personalmente l'avvocato a Roma, e per dare l'inevitabile boccone alle signorie reverendissime di quella capitale? - Questa trista prospettiva, dico, mi sbigottì. Nulladimeno, per non cadere nella prescrizione, deliberai di mandare il ricorso alla curia napoletana; e così feci, mettendo in luce le circostanze tutte che fecero violenza alla mia volontà dal punto ch'entrai nel convento sino al giorno de' voti. Quale fu la sorte di questa istanza? fu essa intercettata alla curia di Napoli che non le diede alcuno sfogo, od invece cadde negli artigli del cardinale che se ne impossessò? Non mi venne mai fatto di penetrare questo mistero: certo si è, peraltro, che l'istanza mia sparì, senza lasciar dietro di sè alcuna traccia. Trovatami pertanto alle strette, nè più sapendo che mi fare, divisai di scrivere a dirittura al Santo Padre, affine di aprirgli il mio cuore, manifestargli le mie disposizioni con filiale franchezza, muoverlo a pietà del mio stato. Pio IX era allora in grido d'uomo d'alto ingegno e d'uomo di mondo. Nella relazione, che per lui in particolare scrissi, credetti acconcio non tenergli soltanto parola della mia salute, che di giorno in giorno deperiva, ma notificargli eziandio alcun che di non meno rilevante: cioè, che avendo avuto sin da giovinetta inclinazione pel matrimonio, sarei passata a marito, ov'egli avesse condisceso a svincolarmi dagli obblighi, che mio malgrado aveva contratti trasportata dalla corrente di disastrose e fatali circostanze. - Per rendere inviolabile il segreto della relazione, immaginai di premettere a quell'istanza il confiteor, orazione la quale, come ben si sa, precede la confessione auricolare. Il cardinale era frattanto ritornato da Roma. Venuto al monastero, volle trovarsi di bel nuovo a quattr'occhi con me. Inaugurò il colloquio facendomi dono di una corona benedetta, portata dalla Santa Città, e chiese in ricambio un qualche lavoretto di mia mano. Il regalo mi parve di cattivo augurio. Più bramosa della mia libertà, che vaga di tali ninnoli da santocchia, dissi corrucciata a Sua Eminenza ch'io non sapea fare nulla di lavori donneschi. "Non è vero," diss'egli leziosamente: "non mi sono ignoti i vostri lavori. Applicatevi a qualche cosa; ad un elegante ricamo, per esempio: ciò vi servirà di distrazione." In questo mentre si fece innanzi l'abbadessa e saputo dal cardinale il mio rifiuto, torse sdegnata il viso. "Il lavoro sarà fatto immancabilmente," disse in tuono imperioso al cardinale: "glielo farò avviare e terminare io stessa." Per più giorni m'annoiò, reiterandomi la domanda, se già l'avessi incominciato, e di quale sorte sarebbe stato. Stizzita alfine dall'incessante molestia le dissi: "Vorreste forse impormelo per disciplina?" "Ohibò! spero che lo farete di buon grado." "Allora con vostra buona pace, fatela finita! Io detesto quell'uomo quanto un prigioniero di Stato detesta l'autore del suo imprigionamento. Non è forse desso che a viva forza mi trattiene in questo stato di violenza?" "Ma lo fa perchè ti vuol bene." "Mi vuol bene? obbligatissima! Dio voglia che mi porti odio, invece di quella funesta amicizia." "Ora però," soggiunse l'abbadessa con affettazione, "ora dovresti passarlela più tranquillamente. Quelle fraschette delle monache giovani non t'importunano più." "Me ne accorgo," risposi: "temono che io, uscita per avventura dal chiostro, non le paghi a contanti come si meritano." La superiora si morse le lebbra. Seppi di poi che l'argomento del mio congedo, considerato come peccato politico, e messo nel numero degli affari di Stato, preoccupava più ch'io non immaginassi, le autorità; e che tra il Riario, la badessa e il confessore regnava su tal proposito un'intelligenza non meno arcana che intiera. Un'altra volta, avendo saputo che dall'ufficio d'infermiera io era stata trasferita a quello di panettiera, il cardinale venne a recarmi le sue congratulazioni (!), e di più a domandarmi de' dolci, fatti di mia propria mano. - Egli ebbe la stessa negativa. Dovette più tardi visitare il convento per affari della comunità. Disbrigata la faccenda che ve l'avea menato, si fece condurre dalle monache nella mia cella, che prese ad esplorare a parte a parte; quindi, uscito sul terrazzo, e scorto lì di faccia il Vesuvio colle adiacenti colline e coll'ameno paesaggio che intorno intorno lo corteggia disse: "Di quale magnifico prospetto gode la vostra stanza! che immenso orizzonte! questa vista solleva il cuore e edifica lo spirito!.... E voi volete lasciarla!" "Questo prospetto," risposi, "non fa che rendere più sospirato al prigioniero il bene della libertà." "Ma voi siete libera quanto basta: chi sa, che una dose maggiore di libertà non vi tornasse dannosa!" "Con simili detti era pure confortato dal suo tiranno l'afflitto popolo d'Agrigento," risposi a Sua Eccellenza, accompagnando l'ironia con un sorriso. M'intese, si tacque, e partì. Era quello il tempo de' monsignori Apuzzo, de' Pietrocola, de' Del Carretto; il tempo, in cui a furia di sofismi erasi elevata a dignità d'assioma la dottrina, che il popolo delle Due Sicilie, troppo felice nello stato d'innocenza pecorina in cui viveva, non dovesse punto correre il rischio di restarne defraudato col cercar di spingere le sue letterarie cognizioni più in là dell'abbiccì. In qual parte del mondo cristiano non risuona l'ignominia del Catechismo di monsignor Apuzzo? Potevano l'oscurantismo clericale e il dispotismo borbonico lasciarsi addietro un monumento più infame di questo? Circa un mese e mezzo dacchè aveva spedita la lettera al Santo Padre, mi venne incontro il confessore tutto contristato, e di pessimo umore. Veniva dal palazzo arcivescovile. Chi lo crederebbe? quella lettera, di cui io sperava aver fatto un mistero allo stesso canonico, era stata rimessa tal quale originalmente al cardinale arcivescovo! E il segreto epistolare? - Violato! E il sigillo della confessione? - Infranto! Sua Eminenza voleva sapere dal canonico il come, il quando, il perchè avesse costui permesso che tale scritto fosse stato diretto a Sua Beatitudine, e chiedeva inoltre se qualche procellosa passione mi avesse suggerito tale spediente. Il canonico asserì di non saperne nulla: almeno così mi disse. - Son tutti d'una buccia. È certo però, che nella confessione io m'era fatta una legge di non rivelargli, se non le mere infrazioni alla disciplina. Il cardinale, saltato in collera per questo tratto novello di ciò ch'egli piacevasi di qualificare col nome di mia irrefrenabile cospirazione, lasciò trascorrere lungo tempo, senza venire a trovarmi. Intanto quella lettera, caduta in sua mano, troncava l'ultima mia speranza di vedere prossimamente terminato il mio purgatorio. Se non che, in luogo di quelle illusioni, che di mano in mano svanivano in sul nascere, andava per me spuntando un diverso, e più chiaro lume di salvezza. Ridesto nel sepolcro, ove chiuso da già ventisett'anni giacevasi, il genio dell'italica libertà scuoteva dal crine la polvere della tomba, e riprendeva più bella e più forte l'antica sua vita.

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Io e Maria Giuseppa, che non mi abbandonava, entrammo dunque nel ritiro, e mia madre due giorni dopo se ne partì. Molti riguardi mi furono usati dai superiori dello stabilimento; veniva ogni giorno il cameriere del vicario per sapere se avessi ordini da dargli, e il cardinale aveva commesso sì alle religiose, che alle ragazze, di usarmi il massimo rispetto. Ebbi per questa ragione da esse il titolo rancidissimo di Eccellenza. Intanto scorsero parecchi giorni prima che Riario avesse scoperto il mio rifugio. Saputolo alfine, si morse le dita, e scrisse a Capano una lettera piena d'impertinenti rimproveri per avermi dato asilo. Questi rispose trattarsi d'un'onorata religiosa non d'altri scontenta, che di lui, e non già, come dal suo foglio sarebbe sembrato, d'una fuggitiva dal carcere, rea di qualche enorme misfatto; del resto, essere l'arcivescovo di Napoli in dovere più di ringraziarlo per avermi accolta, che di censurarlo. Riario sopì la collera, per ridestarla in sè a miglior tempo. Veniamo ora all'ignobile ritiro, dove il destino mi aveva balestrata. Grandiosa è l'Annunziata di Capua: ha vasto fabbricato e chiesa bellissima. Le religiose vi occupano stanze separate, ma le proiette dormono stivate in lunghi ed oscuri corridoi, ove non si può penetrare senza disgusto. Vi alloggiavano in quel tempo trecento in circa di queste femmine. Rimasi spiacevolmente colpita dello squallore, dal sudiciume, dal misero aspetto di quelle vittime di malcauti amori. Prive delle domestiche virtù e de' requisiti che nobilitano il sesso debole, destitute d'ogni elementare istruzione, rozze, garrule, petulanti, infingarde, esse convivevano lì in uno stanzone comune incatenate: parevan piuttosto un branco di bruti, che una famiglia di creature ragionevoli viventi in terra cristiana, e lì riunite sotto gli auspicii della Chiesa per uno scopo di riforma morale. A questo prospetto stomachevole aggiungevasi una scostumatezza nauseante per famigliarità ch'esse trattenevano coi soldati della guarnigione. Nè l'abbadessa delle religiose, ch'era in pari tempo superiora delle proiette, riusciva a frenare la depravazione. Addivenuta burbera ed intrattabile sì per le infermità, sì per i continui travagli che la comunità le cagionava, essa aveva deposte per intero la prudenza e l'affabilità, ch'erano indispensabili al reggimento d'un istituto tanto male accozzato ed eteroclito. Era in quel mentre afflitta Capua da gravi trambusti. I carcerati eransi rivoltati, ed avevano fatto altrettanto i seminaristi colla mira di trucidare il proprio rettore; e già si accingevano a far lo stesso quelle disgraziate dell'Annunziata, a niente meno risolute, che ad immolare la povera badessa. Le trattenne un poco il rispetto che volevano dimostrare a me. Non sì però che una di esse non le tendesse una maligna trappola. Eravi al disopra della gradinata una stanza formata a guisa di tunnel, passaggio piuttosto pericoloso; quella briccona si pone in agguato ad una finestra superiore, e nel punto che la badessa passava di lì, rovescia a perpendicolo sul mal fermo terreno un vaso di fiori pesantissimo. La misera vecchia dovè la sua salvezza alla pura combinazione d'essersi soffermata un momento prima di porre il piede sul passo fatale. Una mattina le fecero trovare, dipinte alla sua perta, due grandi croci nere, sovrapposte ad un cranio: minaccia di morte. Quelle ribalde misero in opera tutti i mezzi di seduzione onde attirare a' loro conciliaboli la mia conversa; ma Maria Giuseppa, la quale per probità e saviezza faceva eccezione al proverbio, non solo assurdo ma falso, che il tuo più gran nemico, dopo il fratello, è il servitore, Maria Giuseppa, dico, lungi dal prestare orecchio alle loro parole, si fece rigida censora del loro contegno. E le biasimò altamente nell'occasione che, essendo stata la badessa confermata dai superiori nella sua carica, elle si diedero a suonare tutte le campane a lutto. Fecero anche di peggio in un'altra circostanza. La sera d'una festa popolare, avendo la superiora proibito a quelle sciagurate di salire sul belvedere, attesochè, sotto il pretesto di vedere i fuochi artificiali, questo indispensabile condimento dello spettacolo napoletano, esse non avrebbero mancato di fare delle pezzuole altrettanti telegrafi corrispondenti col quartiere militare, esse, fortemente per tale divieto indispettite, ammonticchiarono all'uscio della badessa una dozzina dei loro pagliericci, e vi appiccarono il fuoco; poscia, come la paglia ebbe divampato, presero a saltare sulle fiamme, a modo dei monelli di Napoli, quando, riuniti d'inverno alle cantonate, possono attaccar fuoco agli avanzi di paglia delle scuderie. Chi le avesse viste a qualche distanza lacere, scalze, coi capelli scarmigliati infuriare a quel modo; chi ne avesse udito l'orribile baccano, avrebbe creduto di assistere a un sabato misterioso di streghe e di versiere. Un giorno, avendo io incontrata quella di loro che faceva più rumore delle altre, una giovine magra e spilungona, cui non moriva in bocca mai la lingua, la pregai di volersene stare, se poteva, un po' più tranquilla. Ella, dopo avermi baciata la mano: "Eccellenza, fo l'impertinente e la chiassona apposta." "Tu mi canzoni!" "Gnoranò: fo l'impertinente per pigliar marito." "Non t'intendo." "Eccellenza sì: chi non fa la pazza, qui va a pericolo di restar sempre ragazza. In questa Annunziata qui, non si fa mica come in quella di Napoli, dove i giovanotti si scelgono la sposa, buttando il fazzoletto alla ragazza che vogliono. Qui gli uomini (belli o brutti, giovani o vecchi importa poco) vengono al parlatorio; la superiora chiama allora per nome ognuna di noi una dopo l'altra, finchè al compratore non piaccia la mercanzia. Ora dovete sapere, che quella furbacchiona, le prime che chiama al parlatorio son le più impertinenti, quelle che l'hanno fatta più disperare." "Perchè?" "Per liberarsene più presto." Non potei frenar le risa a siffatto ricambio di furberia, e quando m'imbattei nella superiora, la quale più volte erasi consigliata meco rispetto al modo di regolare quel pandemonio, le suggerii lo spediente di chiamar le ragazze, non ad arbitrio, ma per età; poichè così avrebbe tolto il caso che facessero le cattive per speculazione. Tutte le mattine veniva a salutarmi una giovine contegnosa, ma pallida e molto mesta, che celava un mistero difficile molto a indovinare. Le domamdai se soffriva di qualche indisposizione: esitò sulle prime a rispondere, ma poi, con parole interrotte e sospirando, consentì a rivelarmi ch'ell'era vittima d'una malìa. Io presi l'impegno di persuaderla che le stregherie sono mere imposture, e non bisogna crederci; ma mi avvidi che pestava l'acqua nel mortaio, poichè la poveretta erasi fissata in quell'idea. Avendola pregata a raccontarmi come credeva essere stata ammaliata, ella condiscese a manifestarmelo. Aveva ella, mi disse, amoreggiato per più anni con un tale, che era andato provvisoriamente a Napoli co' suoi padroni. Prima di separarsi, recandosi costui a qualche distanza della città, vollero vicendevolmente giurarsi fedeltà inviolabile. Ma se fedele si serbò il giovine nell'assenza, non ne fece altrettanto la Capuana, perchè, contratta amicizia con un sergente, violò il giuramento. Di quest'infrazione avvertito il primo amante, volò sollecito in Capua, ove, fingendo di trattare la perfida come prima, invitatala a pranzo, le regalò delle paste che aveva portato da Napoli. Il giorno appresso, assicuratosi che la sleale amante aveva già divorato il regalo, gittò la maschera e rinfacciandole con virulenza il tradimento: "Ora sono vendicato!" le disse: "già la malìa opera nelle tue viscere.... Addio!" Da quel giorno in poi fu turbata la ragione di quella infelice: un'estrema confusione di idee e di sentimenti la condusse a quello stato lagrimevole. "Ma perchè," le domandai io, "attribuite ostinatamente alla fattucchiería quello che potrebb'essere l'effetto d'una mera combinazione, o, seppur volete, di qualche veleno messo in quelle paste?" "No, no!" rispose: "io ho il demonio in corpo; non posso entrare in chiesa, nè accostarmi ai Sacramenti." "Vieni con me: ti condurrò nel coro io stessa; il tuo diavolo avrà paura di me!" "No, no, per carità.... non posso; morirei subito." L'afferrai per la mano, e quasi trascinandola, le feci scendere le scale: essa piangeva, tremava, imprecava, tentava continuamente di svincolarsi. Dopo lunga resistenza, raddoppiata presso alla porta, al fine vi entrò. La forzai ad inginocchiarsi a piè dell'altare; ella mandò un urlo spaventevole, e fuggì come un lampo. - Povera Napoli, ad estirpare la superstizione feroce che t'insozza non basterà la libertà di mezzo secolo!

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