Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Quando Enrico, al colmo della passione le ricingeva la vita e la copriva di insaziabili baci, ella si abbandonava per un istante alle voluttà di quell'adorazione e gemeva come donna a cui pel soverchio piacere sta per mancare la vita; poi si scioglieva a un tratto da lui, sicura ormai di non cedere. Era l'abbominazione d'una depravazione parigina, che, se Dio vuole, non è ancora comune fra le nostre donne! Questo giuoco andava da più settimane, quando avvenne un caso che diede una grande rinfiammata alla passione di Enrico. Nanà in quel tempo stava con lui buona parte del giorno. Essa andava al di lui studio al mattino e vi stava fino alle due. Al dopo pranzo Enrico tornava da lei fino a mezzanotte e ne partiva congedato sempre, e sempre più appassionato. Ma appena partito lui, un ombra d'uomo, che si spiccava da un angolo buio, dov'era stato a vedetta, scivolava lungo il muro della casa d'onde era uscito il sofferente giovine, lo seguiva da lungi per un tratto e quando lo vedeva bene avviato, e s'era assicurato che non pensava a spiare, tornava rapido, metteva la chiave nella toppa dello sportello di Nanà e spariva in esso. Quell'ombra, che alla luce appariva essere quella del marchesino Sappia, l'intimo amico di Enrico, usciva poi da quello sportello, verso le cinque del mattino. Enrico non aveva pensato ancora di essere geloso. Un'idea fissa lo consolava dei rifiuti costanti di quella donna, ch'egli amava ormai alla follia; un'idea che l'amor proprio gli faceva sembrare eminentemente logica e chiara. Se Nanà era tanto riservata con lui, come avrebbe potuto egli accogliere il sospetto ch'ella non lo fosse con tutti? Alle necessità della sua vita dispendiosa egli ci aveva già pensato assai. Era pronto a rinnovar la dose appena Nanà gli avesse lasciato intendere di non aver più danaro, e glielo aveva detto esplicitamente. Non le doveva mancar nulla! Perchè lo avrebbe essa tradito? A che scopo? Una sera Nanà gli disse: - Domani non posso venire allo studio. - Perchè? - È arrivata da Parigi una mia amica. Debbo passar la giornata con lei. - Chi è? - Madame Monrichard - rispose Nanà molto franca. - Dove stà? - Non so bene - disse la donna con un poco di impazienza. - Domani verrà qui e mi farò dire dov'è discesa ad alloggiare. - A che ora verrà domani da te? - Non lo so. Potrà venire prima di mezzo giorno e forse potrà venir dopo. È però necessario ch'io l'aspetti in casa. - Bene, verrò io da te all'ora che tu avresti dovuto venir da me. Nanà restò un poco perplessa, poi disse: - No, non voglio che tu la veda. - Perchè? - Perchè è molto bella. - Che idea! - Ho paura che la ti piaccia più di me. - Non c'è pericolo. Via! - No, non voglio assolutamente. La mattina dopo Enrico entrava alle dieci nell'andito della porta di Nanà, e il portinaio gli andava incontro porgendogli una lettera. Aveva le cifre di Nanà e diceva: "Caro Enrico" "Madame Monrichard è venuta alle otto e mezza e mi ha condotto con lei in campagna a godere gli ultimi giorni di autunno. Non torneremo a Milano che a notte. Amami. A rivederci domani al tuo studio." "LA TUA NANÀ." - A che ora è uscita stamattina la signora? - domandò Enrico scevro ancora da vero sospetto, ma col cuore molestato da un vago presentimento di sciagura... - È uscita alle nove con una signora. - Bella molto? - Oh no, tutt'altro; brutta e vecchia. - "Brutta e vecchia!" - sclamò fra sè Enrico il quale si ricordava che Nanà il giorno prima gli aveva detto madame Monrichard essere giovine e bella. - È andata in campagna n'è vero? - Non so. Non m'ha detto nulla. - Com'era vestita? - Come al solito, di nero. - Grazie - rispose Enrico, e uscì turbato. Era quello il primo attacco di gelosia che risentisse di sua vita. Ora come assicurarsi? Come avere le traccie di lei? Dove rincorrerla? Dove sperare di trovarla? Ricorse anche lui al solito mezzo comune, antico, volgare, come i sospetti negli innamorati e la cupidigia nelle cameriere, ma sicuro sempre, per quanto sfruttato da secoli. Tornò indietro, levò dal portamonete un biglietto da dieci lire, lo pose in mano al portinaio, che si guardò bene dal ritirarla senza di esso, e gli disse: - Stasera quand'essa torna a casa ne avrete il doppio se mi saprete dire da chi è accompagnata e se verrete ad avvisarmene subito. E gli diè l'indirizzo. - Signor conte illustrissimo - sclamò il portinaio cavando il berretto fino a terra - lei sarà servita. "Guadagnar trenta lire, solo per accontentare un capriccio di innocente curiosità ad un bel giovane... non c'è male" pensava il portinaio. "A Milano queste cose si vedono di rado." Verso la mezzanotte Enrico si vide comparir dinanzi, nel luogo fissato al convegno, il valentuomo sorridente, che gli narrò come avesse avuta la pazienza di stare dalle nove fino allora ad aspettar nella via il brougham, che doveva portar a casa la signora Nanà. - Ebbene? Con chi tornò? - È arrivata in un brougham, accompagnata da un signore, che è rimasto nel legno. Essa discese, senza farsi aiutare da lui, si volse gli disse À revoir entrò in casa; e il brougham partì di galloppo. A Enrico si aprivano gli occhi. Nanà lo tradiva. Diede al portinaio i venti franchi promessi, dicendogli: - Va bene. State attento che ne guadagnerete degli altri. E lo congedò con un gesto severo. Il povero giovane, non sapeva ancora per prova che cosa fosse gelosia. Non imaginava di quali morsi orrendi sia capace questo egoismo esimio, questo desiderio violento di conservare tutta per sè la donna che si ama e di impedire che altri ce la possano togliere. La Elisa, la vergine bella e pudica, scelta dal suo cuore adolescente, della quale egli aveva creduto per un pezzo d'essere innamorato, non gli aveva fatto provar mai neppure l'ombra di quell'uragano, di quella disperazione, che sentiva in quel punto sorgere nel cuore, e pigliarvi delle proporzioni rapide e spaventose. La Elisa non gli aveva fatto provare tutt'al più che una leggera puntura dell'amor proprio, quel giorno ch'ella s'era data a civettare con Aldo Rubieri, per tentar di smoverlo dalle freddezze, che a sua volta le davano tanto dolore! E si ricordò di quella leggera velleità di gelosia, e la paragonò allo spasimo atroce di quel momento in cui il portinaio, che pensava di poter guadagnare i venti franchi, era venuto sorridente e lieto a raccontargli il tradimento della sua donna. Passata la botta però, cominciò il dubbio che in simili casi, è, per così dire, di prammatica. La gelosia invero non esiste che allo stato di dubbio. Se fosse certezza non sarebbe più gelosia. La gelosia spinge la creatura alla ricerca della propria disgrazia, e finchè v'ha ricerca, v'ha dubbio. Quando la certezza è entrata, la disperazione o la guarigione sono vicine. Enrico, adunque, cominciò a dubitare e a cercare tutte le ragioni plausibili per scusare Nanà e per non crederla rea. Perchè, perchè lo avrebbe tradito? E non trovava risposta al perchè? Era invece così facile il trovarla, s'egli avesse conosciuto Nanà o avesse avuto soltanto una maggiore esperienza dell'animo femminile. Come al solito, dunque il paravento dell'orgoglio gli celò i molti perchè, dai quali una donna della tempra di Nanà può essere spinta a tradir un'amante, ch'ella abbia scelto a marito, e decise di aspettar a condannarla dopo di averla bene interrogata. La notte gli portò consiglio. Aspettò di piè fermo Nanà nel suo studio, cercando di nascondere sotto una calma completa la sua immensa emozione. Nanà alle dieci fece la sua comparsa più bella e più lieta che mai. Egli l'accolse, come il solito, andandole incontro e stendendole le due mani; Nanà gli presentò la fronte da baciare. Ella s'accorse ch'egli era pallido come un cadavere. Egli invece fece mostra di non accorgersi del moto gentile di Nanà, e la fece sedere: - Dunque ti sei divertita? - Quando?- domandò la donna col suo sorriso più sincero. - Ieri in campagna. - Ah sì, moltissimo. - A che ora sei tornata a Milano? - Coll'ultima corsa. - E chi è che ti accompagnò a casa? - Monrichard. - Il marito della tua amica? - Precisamente. Poco mancò che Enrico non mandasse un grido di gioia e non si curvasse ad abbracciare Nanà e a dimandarle scusa de' suoi sospetti. Tutto si spiegava perfettamente. Egli era stato geloso d'una vana ombra. Come mai non aveva pensato prima che quell'uomo che aveva accompagnata a casa la sua Nanà, era, doveva essere, il signor Monrichard? Rise fra sè di aver sofferto tanto! La sua gioia però doveva durar poco. Tutt'a un tratto si ricordò che la portinaia, il giorno prima, gli aveva detto che Nanà quella mattina era uscita di casa con una vecchia. Allora le domandò. - Ieri mattina a che ora è venuta a prenderti questa bellezza che tu non vuoi che io conosca? Nanà ebbe dal canto suo un sospetto. Quell'interrogatorio di Enrico, quel suo fare un po' diverso dal solito, non la lasciava tranquilla. - Son venuti a prendermi alle nove - rispose stando a cavallo sulle frasi. - E sei uscita con lei? Nanà non rispose subito. Il suo sospetto s'accresceva. - Ma perchè mi fai tante domande quest'oggi? - gli domandò. - Perchè mi interesso de' fatti tuoi - rispose Enrico colla voce più indifferente, che gli fu possibile di trovare in gola. Egli fingeva d'essere tutto intento a preparare la tavolozza. - Dunque? - Dunque che cosa? - domandò Nanà. - T'ho pregata di dirmi se fu madame Monrichard che venne a prenderti. - E con chi t'imagini che io sia uscita di casa? - sclamò Nanà levandosi. - Io non imagino nulla. Domando. - Ebbene no. Uscii con sua madre che è venuta a prendermi in vece sua. Enrico fu nuovamente sul punto di saltar al collo di Nanà. Ma ebbe vergogna di confessarsi reo, e non gliene disse nulla. E quel giorno passò senz'altri incidenti. Nell'animo di Enrico però era rimasto un lievito di inquietudine vaga, un'intuizione dell'inganno, un presentimento di sventura, che non lo lasciavano quieto. Tornò dal portinaio della casa di Nanà: - Questi sono quaranta franchi - disse. - Io ho bisogno di sapere chi viene a trovare la signora quando io non ci sono. - Se me l'avesse domandato prima glielo avrei già detto - rispose il portinaio. - Parla dunque? - Quando lei è partito, verso mezzanotte viene un signore che ha la chiave. Io sono a letto, ma lo sento entrare e montar piano, piano. - Possibile; - sclamò Enrico. - Ch'ella sia così imprudente? - Ella spera che io non glielo dica; ma lei è più generoso della signora, dunque.... - Ah, dunque la signora vi ha fatto dei regali per comperare il vostro silenzio? - Oh, no, signore - rispose il portinaio - perchè poi io sono un galantuomo, e se la signora mi avesse pagato per tacere, io avrei taciuto. Mi ha fatto un regalo sì, ma un'inezia, e non mi ha detto nulla di tacere, perchè essa spera forse che io non senta a entrare l'amico Ciliegia. - E voi siete certo che egli va da Nanà? - Può figurarsi! Dopo due o tre sere che l'avevo sentito a entrare, mi sono preparato giù dal letto a piè scalzi, e pian pianino sono uscito fuori e ho veduto che andava al primo piano. - Ma a che ora viene egli? - Un quarto d'ora dopo che lei è partito. - Non sareste capace di dirmi chi è? - Credo di saperne il nome. - Ed è? - È il signor Aldo Rubieri - rispose il portinaio confondendo un nome con un altro. Forse a bella posta? Chi lo sa! - Aldo Rubieri; - sciamò Enrico volgendo il dorso al portinaio e andandosene senza dirgli crepa: - "Lo avrei giurato!" - pensava. - "Ah! giustizia di Dio, egli dunque mi ha vilmente ingannato quand'io l'ho scongiurato di dirmi se fra lui e lei erano passate delle intimità?... E d'altronde?... Non ebbe il coraggio di posare nuda dinanzi a lui? Non ci sono che le modelle o le amanti che posino nude. Ma modella non è. Dunque! Stupido, idiota che fui finora a non capirlo." Enrico a quel punto si sentì assalito da una violentissima smania di piangere; e per soffocare l'esplosione del dolore che lo soffocava e per non farsi scorgere per la via coi lucciconi, che nessuna forza umana è valida a trattenere quando il cordoglio è al colmo, si cacciò in un brougham, brougham,disse al cocchiere: - Va a casa del marchese Sappia. E gli indicò la via calando le cortine. Ferdinando Sappia era in casa. Enrico fece irruzione nella sua camera allo stesso modo e peggio di quel giorno ch'era andato da lui a chiedergli diecimila franchi da prestare a Nanà. Vedendolo entrare pallido, cogli occhi rossi, sottosopra, convulso, il marchese, che in quel punto stava studiando sulla carta geografica un certo suo progettato viaggio in Europa, si volse, mise le due mani sui fianchi e stette ad aspettare che Enrico si spiegasse. Enrico si lasciò cadere, un po' drammaticamente, ma pur senza aria di posare, in una sedia e taceva. - Cosa c'è? - domandò il Sappia. - Nanà è una gran p....! - sclamò Enrico. Il Sappia capì che si trattava forse di lui stesso e si armò di dissimulazione. L'autore dei Promessi Sposi scrisse che: l'uomo onesto in faccia al malvagio piace generalmente imaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguàgnolo bene sciolto. Il marchese Sappia non era un malvagio, ma sentiva, da quella frase appassionata di Enrico, di avere verso di lui tutto il torto che un amico può confessare a sè stesso di avere in faccia all'amico tradito. Sciaguratamente, in questa nostra vita contemporanea, la morale amorosa ha create tali e tante leggi in contrasto flagrante fra di loro, che il raccappezzarne una assoluta e fissa nel caso di Sappia sarebbe opera superiore ad ogni filosofico criterio. Sappia tradiva davvero l'amico? Non faceva egli quello che volgarmente - chiamasi il suo mestiere di uomo elegante? Non aveva egli un diritto su Nanà, anteriore a quello di Enrico? Poteva egli in coscienza credersi reo di lesa amicizia? Avrebbe egli avuto il dovere di raccontare ad Enrico il perchè ed il come Nanà fosse stata obbligata a riceverlo lui, di notte, mentre s'era mostrata sempre restìa e inflessibilmente, se non casta, cauta, con lui? Tutte queste domande si erano affollate nel cervello di Sappia nel breve spazio di tempo, che scorse fra l'esclamazione di Enrico e quella che egli fu obbligato di rispondergli, per non metterlo in sospetto. - Te l'avevo pur detto di guardarti! - sclamò Sappia. - Ora spiegati. Enrico gli raccontò tutto sinceramente. - Ma chi è costui che va da lei di notte? - domandò il Sappia con finta indifferenza. - Il portinaio ti ha detto chi sia? - Sì - rispose Enrico - è lo scultore. - Lo scultore? - Aldo Rubieri! Il marchese tirò dai precordi un gran fiato; egli intanto si sentì sollevato da un bel peso. La tempesta che vedeva scatenarsi sul proprio capo, si scioglieva in sereno per andar a devastare il campo del vicino. E il primissimo moto del suo egoismo fu di lietezza. Ma il secondo, repentissimo, nel suo animo fu di sorpresa e di rabbia. L'amor proprio pigliò tosto il sopravvento. Così subitaneo, a dir vero, che si confuse col primo e gli fece sclamare con accento sincero: - Dici vero? Aldo Rubieri? Ah, canaglia! Non lo sapevo! Enrico scambiò l'interesse, che la voce, lo sguardo e il gesto del marchese gli dimostravano come una commiserazione per la propria sventura, e rispose ingenuamente: - Ti pare? Tu che sai tutto di me; dimmi che nome merita Nanà? Dillo che nome merita quella donna infame? A questo punto la chimica - per modo di dire - amorosa di que' due amici diventava assai complessa e confusa. Enrico si credeva di fronte ad un amico senza colpa. Il marchese che non aveva "il buono testimonio della propria coscienza, nè il sentimento della giustizia della propria causa" era rimasto leggermente imbarazzato e silenzioso. O'Stiary proseguiva: - Tu che ne dici? Che cosa mi resta a fare? Levarmela dalla mente ora è impossibile! Non avrei mai creduto che una donna potesse rendermi così vile e stupido! Lo riconosco.... Ma è più forte di me, è più forte della mia volontà! Oramai non posso più far senza di lei. - Non c'è che un viaggio! - disse Sappia - Va via... va a Parigi. Vengo anch'io. - Impossibile! Ci ho pensato. Ma ritornerei dopo tre giorni. Che cosa vorresti facessi in viaggio se ella mi ha come... ammaliato? - Capisco, capisco! - ripetè il Sappia sopra pensiero. - Ma sai bene, Enrico, in queste cose non si possono dare consigli. Io non ho mai provato che cosa sia questo tormento. La mia Luisa io non l'amo abbastanza per esserne geloso. E stettero silenziosi entrambi per un cinque minuti. La conclusione fu che il Sappia non diede altro consiglio ad Enrico e che Enrico si accontentò per quel giorno d'essersi sfogato coll'amico traditore. Così, e non altrimenti, corre ai giorni nostri la vita vera E chi desideroso di non trovarla tanto sconclusionata e smorta volesse caldeggiarla e idealizzarla, per seguire i dettami di chi odia la pretta verità, correrebbe rischio di dipingere una società di fantasia, mille e mille altre volte descritta dai maestri del passato, ma sterile poi e vuota di ammaestramenti ai filosofi socialisti.

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