Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

219899
Storie d'amore e di dolore 1 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Il fanciullo, che pareva un fagotto di panni, restava immobile, pesante, tutto abbandonato. Ella non osava tirargli su neanche un lembo dello scialle per vederlo in faccia, temendo di fargli pigliar fresco; e ogni momento avvicinava la bocca verso il capo di lui, e susurrava: - Santino! Cuore di mamma! — Ma la creatura non le rispondeva. Scese, dopo un po' di tempo il medico di guardia, e constatato lo stato del vaioloso, ordinò che lo si mettesse per quella notte nella stanza d' osservazione. Mentre il bimbo stava per essere trasportato via da un infermiere, sua madre gli scoccò due, tre, dieci baci su 'l viso rosso, tumefatto, su gli occhi chiusi, vischiosi. - Madonna santa, beneditelo! — pregò, tendendo in alto le braccia, mezzo strozzata dalla violenza dell'emozione; poi raccomandò all'infermiere, che già saliva la scala: - Abbiate compassione! Guardatemelo voi, per l'anima dei vostri morti! — e fuggì barcollando, senza voltarsi. Lo spedale di San Francesco de' Poverelli sorgeva in un punto lontanissimo da quel palazzo de' quartieri nuovi, dove Lucia era portinaia. Ci volevan tre buoni quarti d'ora per farsi trascinare fin là in carrozza, e poco men che due ore per andarci a piedi, anche camminando di buon passo. Ora, il maggior dolore che lacerava il cuore di Lucia, da che non aveva più davanti a sè lo spettacolo del suo fanciullo in lotta con la morte, era di non potersi recar tutti i giorni, a tutte l'ore, là dove egli stava rinserrato fra gente estranea, alla quale il poverino doveva pur essere indifferente come chi sa quante altre creature che soffrivano al par di lui, intorno a lui. — Come starà, in questo momento, Santino mio? — era la domanda unica, insistente, fissa simile a un chiodo piantatosegli nel cervello, che la madre si rivolgeva, certe volte persino a voce alta, mentre, pallida come un cadavere, con un tremor nello stomaco, invecchiata, consumata, tornava a lavorar come prima per gl'inquilini del casamento, correva a comprar loro della roba, faceva de' bucati, in fine disbrigava tutte le solite faccende, tranne quella di cucire a macchina, che avrebbe tenuta ferma, mettendole nei nervi un convulso insoffribile. E, con la visione netta delle corsie dai muri bianchi d'intonaco, lungo i quali si schieran le file dei letti uniformi: le corsie di quello spedale ch'ella non avea mai veduto, la desolata si figurava tutti i pensieri che dovevano Contessa Lara. 7 affollarsi nel cervellino febbrile del suo bimbo, quando, se schiudeva gli occhi, non trovava più lei al capezzale. — Chi sa se gli fanno male, quando gli mutan la camicia! Chi sa se badano che il lenzuolo non gli s'aggrinzi sotto ! Ci vuol così poco a impiagarsi ! Brodo, ghiaccio, ne avrà quanto n' ha di bisogno ? Oh, Dio! oh, Dio mio ! — Ma l' idea più orrenda di tutte, una vera follìa che s' impossessava di lei a poco a poco a crisi acute, era quella che al fanciullo non si desse abbastanza spesso da bere. E le sembrava vederlo smaniare in quel letto non suo, senza potersi esprimere, stordito dall' intensità della febbre, e allungare il labbruccio inferiore nel desiderio d'un sorso fresco; ella sentiva come scottar su la propria bocca quel labbruccio arido, enfiato ; un suono indefinito le portava un lamento ch' ella avea sempre nell' orecchio... — Soffre la sete quella creatural — E Lucia allora, presa da una disperazione tanto crudele quanto impotente, si morsicchiava le mani, si stringeva la testa, torcendosi, come si torcono i tronchi delle serpi mutilate. Quanto più spesso le riusciva di scappare, si recava all'ospedale: due e anche tre volte alla settimana; ma quel giorno poteva contar di perdere quattro o cinque ore di lavoro: di più, la portineria restava abbandonata. Veniva il portalettere, veniva gente a chieder di questo o di quell'altro inquilino, e non c'era alcuno per rispondere. Lei si figurava il brontolío dei casigliani, il malumore del padrone, se fosse giunto a saper la faccenda, e correva verso San Francesco de' Poverelli, correva col viso in fiamma, con le gambe che tanto più le pesavano, come fatte di piombo, quanto più le premeva di far presto. E quando, trafelata, trovavasi finalmente allo spedale, davanti al pancione in livrea, che, non avendo nulla da fare, non aveva premura nè per sè, nè per gli altri, ella si struggeva lì una mezz'ora, avvolgendosi e svolgendosi macchinalmente una punta del fazzoletto intorno a due o tre dita della mano. Il tempo non le passava mai; scendevano e salivano inservienti, medici, impiegati, su e giù per l'ampia scala che mena alle corsíe; la donna sospirava, si raccomandava a Gesù, alla Vergine, a tutti i santi e martini benedetti... Stava su' carboni ardenti... Finalmente, qualcuno le si avvicinava a farle l'elemosina delle desiderate notizie; ed ella riprendeva la sua corsa verso casa, con le gambe che pareva non si volessero staccare dal suolo, col capo che le andava per aria, ma più serena d' animo, un po' rassicurata. Di fatti, le notizie di Santino eran sempre migliori. Una volta, dissero a sua madre che il medico lo aveva messo a un quarto di vitto, poi a metà. Un'altra volta seppe che gli era stato permesso d'alzarsi, e allora ebbe due terzi di vitto, non ostante che, a dar retta a lui, avrebbe mangiato anche il desinare del personale di servizio; tanto era l'appetito che gli tornava con le forze. Lucia sorrideva, con gli occhi inondati di lagrime, a sentir tante cose consolanti, e se le sarebbe fatte ripetere sa Dio quante volte. — Madonna cara! Che grazia mi avete fatta! — esclamava col cuore traboccante di gratitudine verso la Provvidenza. Un giorno, la superiora delle monache addette all'ospedale, le disse che il bambino, ormai perfettamente ristabilito, non avrebbe certo tardato a uscire. Quel giorno, prima di tornare a casa, la Lucia non seppe resistere al desiderio di fermarsi da un merciaio che conosceva, a pigliarsi quattro metri di frustagno marrone, per farne un vestitino nuovo a Santino. Fissò di pagarlo un tanto il mese. Ora che non aveva più da perder tempo in queste gite, poteva guadagnare qualche altra cosa; poi le si presentava un nuovo provento: era venuta ad abitare un quartierino del palazzo una giovane sposa incinta, moglie d'un tenente, la quale voleva la Lucia a mezzo servizio, non facendo ella quasi niente da sè in casa, un po' perchè non c'era avvezza, e un po' perchè soffriva di quella prima gravidanza. In questo modo le cose sarebbero andate meglio, si capisce: una spinta di qua, una di là, e la barca va avanti. Tutto questo, la Lucia ripeteva nell'intimo suo, mentre, con un sorriso felice, si stringeva al petto l'involto del frustagno. E come unse e riordinò con compiacimento la sua macchina per cucire il vestitino, non appena l'ebbe tagliato! Lavorava di sera: mentre quel tic-tac fitto fitto ch'ora le faceva l'effetto d'una musica allegra, s'accompagnava al ritmo eguale del respiro dei due bimbi dormenti uno da capo, l'altro da piedi del letto, certe lagrime grosse e calde rigavan la faccia della madre, perchè andava ripensando che in quei giorni di strazio, quando Santino era lontano, tanto malato, ella se la pigliava persino con la Marietta e con Checco, poverini! vedendoli così allegri, sani, chiassoni... Il vestitino era già pronto; la Lucia se l'era già rigirato fra le mani chi sa quante volte, immaginandosi la figura che avrebbe fatto indossato, quando finalmente giunse la famosa lettera diretta ai genitori o parenti di Santino Naldi, invitandoli a ritirare il fanciullo dallo spedale di San Francesco de' Poverelli. Era guarito. La vigilia del ritorno di lui, la madre non trovava il verso d'andare a letto: un'altra ferrata alla camicina con l'amido dal goletto lustro e interito; un'altra stiratina alle calze a costole d'un color marrone scuro, compagne al vestito. A un tratto, fu bussato all'uscio: potevano esser le dodici. — Chi è? — fece la Lucia, che non aspettava gente a quell'ora. - Son io, Trevisani: apri. — Era il tenente: l'inquilino nuovo. La portinaia gli aperse. Un bel giovane, alto e bruno, co' pantaloni alla militare e una giacchetta da borghese, si presentò su la soglia, occupando l'intero vano con la sua poderosa corporatura. Aveva il viso sconvolto, gli occhi cerchiati di rosso. - Mia moglie sta poco bene — disse - ha abortito. - - Oh Dio, come mai? — chiese la Lucia, incrociando le braccia in atto di rincrescimento. — Non so... proprio non so... senza motivo. Son solo... vieni su, fammi il favore... Tu, di queste faccende non te ne devi intendere... — Ella assentiva col capo. Pur troppo, pur troppo! Così non avesse mai saputo quel che costano i figliuoli! E, spenta la sua candela di sego, chiuse la portineria per seguir l'ufficiale. Se la brutta faccenda de' Trevisani fosse accaduta qualche giorno avanti, Lucia non avrebbe saputo come fare a aiutarli, a incoraggiarli, perchè aveva ella medesima troppe pene sue. Ma adesso, era tutt'altra cosa. L'idea d'abbracciare fra poche ore il suo Santino, il suo tesoro, le metteva a dosso un'energia singolare: vedeva ogni cosa sotto un aspetto di pace. — Coraggio, signora, coraggio! — ripetè più volte alla moglie del tenente, un'esile donnina di circa vent'anni, meravigliata e sfinita di quel che aveva patito, con la testa d'un biondo cenere affondata fra' guanciali. La sofferente non rispondeva; ma dalla mezz'ombra in cui trovavasi l'ampio letto matrimoniale, e che pareva dare a quel viso pallido qualcosa di fantastico, sbarrava, spauriti, gli occhi turchini, sforzandosi a sorridere, forse inconsciamente. — Ora rivedo Santino mio! Fra poco Santino mio è qui! — pensava la Lucia, affaccendata in torno a quella povera giovane; e mentre le porgeva una tazza di brodo, fatto lì per lì con dell'estratto di came d'un vasetto dal coperchio polveroso, trovato per caso in una credenza fra altra roba alimentare che il tenente avea riportata dal campo, la madre già vedeva il suo bimbo col vestitino nuovo. Che cosa le avrebbe detto, lui, per solito tanto amoroso? Che faccia avrebbe fatta? Povera, povera faccina, tutta rovinata dal vaiolo! Che importa? Per la mamma era sempre bello, bello come un sole! E mentre andava qua e là, dalla cucina alla camera, bisognava che la Lucia ripensasse al dispiacere di que' poveri signori Trevisani, perchè lei, la madre felice, non si mettesse a canterellare come a' suoi bei tempi, quando ancora non conosceva tribolazioni. Se Santino fosse rimasto in portineria, certo sarebbe morto come il padre. Povero, povero Peppe! Poveri tutti, i morti, anime sante del Purgatorio! E la Lucia si commoveva d'una commozione indefinita, piena di dolcezza. A giorno, appena vide aperta la finestra di cucina dei Lantoni, corse dall'Adele. — Abbiate pazienza — le disse: — il tenente m'è stato a tormentar tutta la notte, perchè non gli abbandoni la moglie, ora che sta meglio. È matto: dice che gliel'ho salvata io. Io non ho fatto nulla, figuratevi! ma, poveretta, è novellina, e sa ch'io me ne intendo. M'avreste dunque a fare un piacere, Adele. Andatemi a San Francesco de' Poverelli a riprender Santino. Tanto, lui sta bene, grazie a Dio, e non ha bisogno di me. Anzi, me lo rivedo a casa tutt'a un tratto...- - Volentieri — fece semplicemente l'Adele: — basta che loro sien contenti. — Loro — erano i suoi padroni; e gente di cuore, non soltanto permisero alla serva d'assentarsi, ma aggiunsero al vestiario di frustagno, che l'Adele portava allo spedale in una pezzuola, un berretto alla marinara, nuovo fiammante, con l'àncora d' oro sui nastri che pendevano dietro. Svelta, la fiorentina camminò fino a piazza San Carlo, dove prese l' omnibus per via dell'Archibugio; e di lì si recò allo spedale. Quella mezz'ora, o poco meno, ch'ella dovette far d'anticamera, le parve assai lunga; e alla madre quel tempo parve infinito. Sempre più nervosamente ella girava per casa Trevisani. Che ora poteva essere? O perchè non tornava l'Adele? Che cosa ci voleva a pigliarsi quella creatura e a portarsela via? Se avevano scritto che Santino era ormai in piena salute, che allo spedale non poteva rimanerci più... O dunque? Ma quando, dopo parecchie ore, che le parvero un secolo, ella vide tornare l'Adele sola, sottosopra, tutta scombussolata e con gli occhi pieni di bile, Lucia non capì più nulla. - O che c' è? Che vuol dire?.. — interrogò interdetta. - Non me l'hanno dato — rispose l'altra lasciandosi cader le braccia, come dopo aver fatta una grande fatica. Lucia non capiva; chiese: - Perchè? - - Non era lui! - - Come? - - Non era lui, no, no, non era lui - asserì l'Adele entrando e buttandosi sur una sedia. Poi raccontò per filo e per segno il fatto. Aveva dovuto pazientare un secolo: non fa niente; il portiere, un buzzone schifoso che si dava Dio sa che importanza, le aveva significato che lì era inutile aver fretta, angustiarsi, spazientirsi; facevano come gli pareva; ci voleva pazienza: c'era un buscherio di gente; chi andava, chi veniva... non si capiva un' acca... Lucia accennava di sì, di sì, sempre più frequentemente, per mostrare che capiva, capiva... Ma poi, poi che cosa era accaduto? Questo le stava a cuore. Poi, poi era accaduto che all'Adele avevan presentato un bambino di circa cinque anni, che lei non aveva riconosciuto. Quello lì, Santino? Ma nè pure per sogno! Era venuto un inserviente, e dopo, una monaca, e dopo anche la superiora, poi il medico di guardia: tutta una processione. Avevan detto: - Che mai dite che non è lui? — E l'Adele: - Nossignori che 'unn' è lui! - - Il vaiolo, lo sapete, muta la fisonomia. - - E' muterà quanto gli pare, ma questo 'unn'è Santino! Già Santino, gli ha sett'anni: e questo? - - La malattia l'avrà fatto dimagrare. - In vece, questo bimbo qui gli è grasso e robusto, e il nostro gli era mingherlino, piuttosto civile. - - È stato ben nutrito — osservò il dottore. - Poi, Santino gli aveva gli occhi celesti, e questo qui gli ha neri! — - Ve lo volete portar via, sì o no? — chiese il direttore, ch'era sopraggiunto in mezzo a questa discussione. - Io no, ecco! — dichiarò l'Adele o come ho a fare a portar via uno che 'unn' è Santino? - - Fate venir la madre, in questo caso — finirono col dire tutti. Di modo che l'Adele se n'era tornata sola, senza sapere che cosa la si facesse, accorata, con un diavolo per pelo. La madre ascoltò tutto il racconto per filo e per segno, senza batter palpebra; un ghiaccio, come di svenimento, le era corso per le vene. Madonna santa! Che voleva dire ciò?.. E due sole parole le uscirono di bocca: - Vado io. — Ma la mattina di poi, a punto mentre ella si preparava a recarsi allo spedale, s'affacciò alla portineria una femmina che teneva per mano un ragazzino; e chiese di Lucia Naldi, quella che aveva un malato a San Francesco de' Poverelli. Il bimbo indossava il vestito color marrone cucito a macchina, di sera, quando le fatiche diurne erano finite; portava le calzette a costola, il berretto con l'àncora. Ma il vestitino gli era largo e lungo: ci stava come in un sacco, goffo, impacciato, malinconico. - Vi riporto il vostro figliuolo, per ordine del direttore — disse la femmina. — Ormai sta benone e allo spedale non possiamo più tenerlo. — Lucia s'era fermata di botto, come se in un attimo le avessero inchiodato le piante al suolo. Fissò il ragazzo con le pupille dilatate, con le labbra strette, con tutta la faccia che si protendeva in atto di eccezionale stupore. Contessa Lara. 8 - Ma non è il mio, questo! — gridò ella. - Chi, questo? — chiese l'infermiera con tono d'incredulità. - Questo, questo qui! - - Eh diamine! Siete matta! Nome, cognome, età, sta scritto tutto su la tabella. Come volete che non sia il vostro? Guardatelo bene. - - Non è il mio, vi dico! — badava ad affermare la portinaia — Santo Dio, volete che una madre non riconosca il suo figliuolo? - - Si sa, ha avuta una malattia che cambia tutti. Gli è come se uno si mettesse una maschera, credete a me. - - Non può cambiare il sangue, la malattia! Questo bambino nè anche mi conosce. Vieni qua, dimmi come ti chiami — fece la Lucia, attirando verso di sè il fanciullo, intento a fissar la stanza dove si trovava con occhi attoniti, lustri fra la came lustra, tuttora chiazzati di rosso, e occupato, quando non fissava la stanza, a osservare l'abito marrone da lui indossato, del quale particolarmente sembravano interessarlo i bottoni e le tasche. - Come ti chiami? — ripetè la Lucia. Il bambino alzò lo sguardo un po' selvaggio; poi lo tornò subito a chinare, e rimase muto. Allora la Lucia lo respinse dolcemente: - Non è il mio!- Non è il mio! — esclamò sicura — Riportatevelo pur via, chè oggi stesso vengo a pigliar Santino. - E siccome, a punto la Marietta e Checco entravano in casa di corsa, come una folata di vento, la madre li interrogò, spingendoli davanti al piccolo sconosciuto: - È Santino nostro, questo? Ditelo voi! — I ragazzi smisero di ridere; squadrarono il nuovo arrivato con atto di diffidenza, poi se ne allontanarono un po' ammusoniti, facendo segno di no, col capo. - Vedete? Vedete bene che non è il mio! tornò a protestare la Lucia. L'infermiera insistè un altro poco, tanto per fare: raccontò qualche aneddoto straordinario su 'l vaiolo, che rende irriconoscibili anche alle persone di famiglia; ma, vedendo che la portinaia, anzi che persuadersi, sempre più si irritava, si strinse nelle spalle, come chi, in fin de' conti, si sente affatto estraneo ad una faccenda nella quale è immischiato senza sua volontà; e, ripreso per mano il fanciullo da lei condotto, se ne andò con un indifferente: — Arrivederci. — Lucia aveva la febbre a dosso. Saper guarito il suo Santino, saper di poterlo riabbracciare, e in tanto non averlo in casa! Lasciò andar tutto, servizio, bucato: salì soltanto a scusarsi con la Trevisani: e partì. All'ospedale, le dissero che il direttore non c'era. Bisognava aspettarlo. Aspettò. Quanto le parve lungo e angoscioso quel tempo, Dio solo lo sa: Lui che tien conto degl'istanti dei nostri dolori. Era sola, in una vasta camera dalle pareti nude, dipinte a stampino e scolorate. Di mobili, non altro che una vecchia scrivania di noce, ormai senza lustro, con sopra mucchi d'incartamenti giallognoli e un calamaio di porcellana bianca dal piattello attaccato, tutto sbocconcellature e macchie d'inchiostro. Davanti alla scrivania, dalla parte del muro, una poltrona, egualmente di noce, a guanciale di cuoio nero, fiancheggiata d'una fila di sedie impagliate. A sinistra, uno scaffale ingombro di registri luridi, per gli anni e per la polvere. Non osando passeggiare, per il timore di fare strepito e parer troppo ardita, la Lucia stava lì immobile. Non si metteva neanche a sedere per l'agitazione, per l'impazienza che aveva a dosso; quasi che lo star lì in piedi avesse sollecitato l'arrivo del direttore. Ogni rumore più lieve, venuto di fuori, la faceva riscuotere, le rimescolava il sangue, le dava come un colpo nel petto e una stretta alla gola. Teneva fissi gli occhi su la porta: una porta mezzo sgretolata, da cui sperava, a ogni istante, di veder comparire il suo bambino. Ma il tempo passava: nulla, nulla! Dopo un gran pezzo, che a lei parve incalcolabile, l'uscio s'aperse a un signore di una cinquantina d'anni, alto, con in testa un cappello a cilindro, e tutt'insieme un aspetto burbero e confuso. Lucia lo guardava tra ossequiosa e incerta. Egli sedette nella poltrona di cuoio nero, davanti alla scrivania, e rimescolò un gran numero degli scartafacci accatastati iì sopra. Un plico, un incartamento, chi sa che cosa fosse? lo tenne particolarmente attento; sfogliava avanti e indietro le pagine, come se non trovasse quel che cercava. Finalmente alzò la faccia, ombreggiata dal cappello, e, piantando i gomiti su la tavola, mentre badava a stropicciarsi le mani all' altezza del viso, cominciò: - Mi rincresce di dovervi dare una cattiva notizia. — - Lucia lo fissava. D'un tratto, ebbe l'impressione d'una corrente fredda che avvolgesse tutta, e inghiottì a forza la saliva, che non le voleva passar dalla gola. - Proprio mi rincresce — continuò l'uomo — ma che volete? c'è stato un errore... Si son messe le corsíe sossopra, per ripulirle, e questo ha cagionato l'equivoco. Han posta la tabella d'un ammalato a capo al letto d'un altro... e... — Ella lo fissava sempre, smarrita, senza comprendere ancora, ma col presentimento di qualcosa d'orribile, di nuovo, d'ignoto, d'inaspettato. Battendo le palpebre, faceva con le labbra il movimento di chi parla, quasi avesse ripetuto a sè, in silenzio, ogni parola di lui, per meglio intenderla, per crederla. Egli riprese ancora: - E, dunque... in questa confusione, è capitata al bambino che vi avevo rimandato la tabella del bambino vostro, morto il sei di marzo, cioè pochi giorni dopo che ce lo avete portato. - Morto? — chiese lei, calma, con lo stordimento incosciente d'un bue che riceve il primo colpo mortale. - Eh sì, cara mia! Ci vuol pazienza; è stato uno sbaglio, che m'ha proprio fatto dispiacere. Adesso ci vorranno almeno quarantott'ore per rimetter le cose a posto, e farvi avere un certificato di morte in regola. — La donna pareva fulminata. Rimasta ritta davanti alla scrivania, abbandonava le braccia, che le pendevano sotto lo scialle di lana nera, e sporgeva innanzi la testa bassa, con l'occhio vitreo, con la bocca mezzo aperta, cadente. — Del resto, — soggiunse il direttore — le cose sono state fatte ammodo; i genitori di quell'altro ragazzo hanno ordinato un mortorio decente al bambino vostro, credendolo il loro; questo deve consolarvi. E in ultima analisi, — concluse — con la morte c'è poco da fare: pur troppo, lo sapete come me. Quanto ai panni, ve li restituiranno, non c'è dubbio: m' impegno io. — Lucia udiva un rumore di parole vaghe, assordante come uno scrosciar d'acque invisibili. Non rispose mai. Soltanto, quando il direttore s'alzò, ella capì che doveva andarsene. Che cosa ci stava ormai a fare? Chi aspettava? E s'avviò verso l'uscio, col desiderio intenso di ritrovarsi in casa sua, nel suo covo, che le pareva lontano, lontano, come se, per arrivarci, avesse dovuto far un viaggio interminabile, eterno.

D'Ambra, Lucio

220640
Il Re, le Torri, gli Alfieri 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Almeno aveva le braccia conserte, gli occhi chiusi, il grosso labbro inferiore rilasciato, il mento abbandonato sul petto, tutto l'atteggiamento abituale del suo attuale letargo durante le più fiere orazioni parlamentari. Era la prova d'una coscienza tranquilla d'uomo pratico che sa che solo i fatti e non le parole contano, d'un capo di governo che poteva liberamente lasciar dire chè tanto lui sapeva sempre, destandosi, come doveva fare per avere il voto unanime e costante della sua schiacciante maggioranza. Si destò finalmente e col suo tranquillo sorriso argomentò: — Onorandissimi colleghi, io v'invito vivarnente alla calma. Lo scambio delle idee fra voi è stato oramai ampio e completo. Ora possiamo decidere. Il marchese d'Aprè, che rappresenta qui Sua Maestà, ha posto assai chiaramente il problema, e, venendo da lui, possiamo esser certi che questo solo problema interessa Sua Maestà. Poichè abbiamo veduto la impossìbilità assoluta in cui si trova Sua Maestà di riparare l'ingiuria subita, bisogna evitare prima di tutto che lo spiacevole fatto possa ripetersi e allontanare inoltre da Sua Maestà la persona del suo offensore. Per raggiungere questo scopo una via ci deve essere. — Si tratta di trovarla, — spiegò il ministro delle Comunicazioni che fino allora non aveva aperto bocca. — Semplicemente! — annuì il dotto filologo — Pensiamo! Pensiamo! — opinarono contemporaneamente, con fiero cipiglio, i due ministri militari che, come si conviene in un paese libero alle più moderne riforme, erano la condanna vivente della superstizione delle competenze ed erano ambedue borghesi: ex-agente di cambio il ministro della Marina e ex-professore di filosofia nei licei regi il ministro della Guerra, entrato nella vita politica grazie ad una fervida propaganda antimilitarista che gli aveva fatto perdere il posto d'insegnante e guadagnare quello di ministro della Guerra. Poichè era evidente che se nell'esercito tutto era da riformare, il ministro meglio indicato per le riforme era l'apostolo antimilitarista che del militarismo aveva istruito minuziosamente il processo. Invitati a pensare dai loro due colleghi per cosi dire militari, i ministri si raccolsero in meditazione. E quando un ministro si mette a pensare e a meditare, non si sa mai quando lo scherzo potrà finire: lo sanno i deputati che proponendo al Governo un'utile riforma si senton rispondere che il ministro sta studiando su quella materia un disegno di legge. La cerimonia durava già da una diecina di minuti e già due ministri dei più attempati, esausti da quella levataccia cosi di buon'ora, cominciavano a russare, quando un gran colpo destò i dormienti e i cogitabondi. Era il presidente del Consiglio che con un gran colpo sul tavolino annunziava la nascita impreveduta ed improvvisa d'una grande idea. — Ho trovato! — gridò. Fu evidentemente una grande consolazione per tutti quelli altri poveri diavoli che si affaticavano a cercare, a costo d'una meningite per un eccessivo esercizio cerebrate cui non erano naturalmente abituati. L'opinione di tutti fu sintetizzata dal solito filologo con uno dei suoi soliti avverbii: — Fortunatamente! — Ho trovato! — ripetè il presidente del Consiglio che prima di persuadere gli altri provava il bisogno di persuadere addirittura sè stesso d'aver potuto trovare qualche cosa. E col gesto indicava il ministro degli Esteri, dignitoso e pettoruto, dalla bocca ermeticamente chiusa come se aprendola potessero scapparne fuori i segreti di tutte le cancellerie europee. Il ministro degli Esteri, atterrito all'idea che il presidente del Consiglio non avesse trovato di meglio che far risolvere il problema da lui, si grattò le onorate e brizzolate basette e il labbro glabro e con un fil di voce domandò: — Io? — Si, proprio lei. Il viso del povero ministro degli Esteri si disfece. Ma fortunatamente il presidente già spiegava: — Non è il duca don Alvaro di Frondosa ministro plenipotenziario a disposizione del Ministero? — Per l'appunto. — Ebbene, bisogna sùbito richiamarlo in servizio. Cosi tutto è accomodato. È semplicissimo. Mi sono spiegato? — Chiaramente. Era l'inevitabile filologo. Ma il ministro degli Esteri, che, rinsanguato, cominciava a riprendere i suoi colori, rispondeva: — Richiamarlo in servizio è presto detto. Ma comunicherò ai miei colleghi, poichè ho l'onore d'esser ministro degli Esteri da diversi anni, che egli fu messo a disposizione appunto sotto la mia amministrazione. Il duca di Frondosa sarebbe un diplomatico di primissimo ordine: gran nome, grande fortuna, riceve moltissimo, ha bellissimi cavalli, è elegantissimo, ha una bellissima signora.... e, per un diplomatico, le grazie della sua metà fanno valere il doppio il suo talento. Ma il duca di Frondosa è un uomo di carattere fermo e risoluto. È sembrato spesso impetuoso e impulsivo perchè era coerente. Ma loro tutti m'insegnano che in politica estera le due cose si confondono e che la coerenza di un diplomatico non e meno pericolosa della sua impulsività per il paese che egli rappresenta. — Perfettamente! — commentò il filologo che di avverbi ne consumava molti ma, per quanto filologo, ne aveva pochi, ed era perciò costretto a ricorrere sovente agli stessi, aggravando anche pia la monotonia delle sue interruzioni concise: — Già tre volte, lor signori lo sanno, — riprese il ministro degli Esteri, — già tre volte il duca di Frondosa ci mise in gravissimi imbarazzi, a Lisbona, a Pietroburgo, a Madrid. Anzi, l'ultima volta, la sua coerenza fu addirittura sul punto di far scoppiare la guerra; e fu proprio dopo questo gravissimo incidente che, per una prudenza elementare, decidemmo di rinunziare ai suoi servizi, di richiamarlo e di tenerlo, vita natural durante, indisponibilmente a disposizione del Ministero. Il presidente del Consiglio era uomo di poche parole, e, una volta che s'era deciso a una cosa, nulla più poteva rimuoverlo. Talchè alla bella orazione del suo collega degli Esteri egli rispose semplicemente: — Tutto ciò sta bene. Ma guardiamoci anche noi dai pericoli della coerenza. Sarebbe ingenuo, e però eminentemente antipolitico, non riparare a un danno certo per paura d'un danno ipotetico. Ora conviene richiamarlo in servizio e dargli un'ambasciata. Non c'è altra via per uscire da quest'impiccio. La volontà di Sua Maestà è esplicita su questo punto: per dire le cose col loro vero nome permettetemi di affermare che Sua Maestà non se lo vuole, insomnia, trovare più tra i piedi. Il ministro degli Esteri si strinse nelle spalle. Gli altri si strinsero attorno all'opinione del presidente del Consiglio; desiderosi oramai d'andare a far colazione e stanchi d'una discussione che li aveva letteralmente esauriti. — Dunque, — domandò il presidente, — si può sapere quale ambasciata è disponibile? — Non c'è che Zarzuelopoli. - Ahi, ahi! — esclamò don Pedro de Aldana grattandosi la fronte come già vi fossero insediati tutti i grattacapi futuri. — E se lo mandassimo invece a Londra? O a Vienna? O a Parigi? O a Pietroburgo? O a Washington? Riprese la parola il ministro degli Esteri. Per varie ragioni nessuno degli ambasciatori che occupavano quelle residenze poteva essere mosso. Uno era un antico ministro degli Esteri cui era stata promessa. Parigi a vita, un altro era graditissimo al sovrano della nazione presso la quale era accreditato, un terzo aveva sposato una signora imparentata a Corte nell'impero presso il quale rappresentava il regno di Fantasia, un quarto era coperto di debiti e solo l'immunità diplomatica poteva salvarlo da un fallimento sicuro. Non c'era dunque che Zarzuelopoli, dove il vecchio ambasciatore aveva chiesto il collocamento a riposo. A posti minori non c'era da pensare: il duca di Frondosa era ministro plenipotenziario di prima classe e li avrebbe certamente rifiutati. — Non c'è dunque che Zarzuelopoli: — Disogna pensarci su due volte, — ammonì il ministro degli Esteri. — Ci abbiamo pensato anche troppo. E poi non c'è da scegliere. Non c'è che Zarzuelopoli. Vada per Zarzuelopoli. Tutti i ministri, meno tre, quello degli Esteri e i sedicenti militari, fecero eco alle energiche parole del loro presidente. — Vada dunque per Zarzuelopoli! — Irrevocabilmente! — credette necessario di aggiungere il dotto filologo. Il povero ministro degli Esteri sudava freddo. L'ambasciata più delicata, più gelosa, più pericolosa toccava a quel rompicollo d'uomo di carattere ch'era il duca di Frondosa. Il povero ministro, già prevedeva le più spaventevoli complicazioni. Se quel diavolo di Frondosa ne faceva una delle sue! Anche i due ministri militari erano preoccupati e cogitabondi. Il diavolo era capace di metterci la coda e di mandare alla guerra sul serio, in redingote e cappello a staio, proprio l'agente di cambio che aveva paura anche dell'acqua dolce e il bollente antimilitarista che aveva una crisi di nervi solo a sentir sparare inaspettatamente una castagnola. Ma la volontà del presidente del Consiglio era dispotica. Aveva già preso un foglio da decreti e già l'aveva passato al ministro degli Esteri perchè vi scrivesse immediatamente, di suo stesso pugno, il decreto di nomina del duca di Frondosa, decreto che doveva essere immediatamente sottoposto all'augusta firma del Sovrano. Guardavo il povero vecchio ministro mentre scriveva. Le mani gli tremavano. Paventava per la sua cara patria le più terribili vicissitudini. E, consegnando il decreto a don Pedro de Aldana, raccomandò ancora con un fil di voce: — Onorevoli colleghi, pensateci - ancora una volta. Ma già don Pedro de Aldana s'era levato, aveva suonato un campanello e a un giovane ufficiale di servizio aveva chiesto di pregare Sua Maestà di volere onorare il Consiglio dei ministri della sua augusta e necessaria presenza. Poi si rivolse verso di me e mi diede congedo. — Ella può, marchese, abbandonare il suo posto. Sua Maestà il Re viene ad occuparlo. Il Re infatti entrava poco dopo, ristorato da alcune ore di sonno tranquillo, fresco, sorridente, allegro, indossando il più delizioso abito da mattina che mai sarto elegantissimo abbia cucito per un giovane re. Strinse la mano a don Pedro, sorrise e inchinò il capo a tutti gli altri, salutò me con un leggero cenno di mano e sedette su la poltrona Impero che io occupavo poco prima. Dalla comoda poltrona di marocchino rosso dove ero tranquillamente tornato, benevolo spettatore, dopo aver anch'io recitato la mia breve parte in commedia, vidi il mio regale amico trarre dalla tasca posteriore del suo pantalone il portasigarette dorato da cui prese una sottile sigaretta bionda che accese ad un fiammifero offertogli con sussiego dal presidente del Consiglio. Immediatamente, dopo aver scambiato poche parole indifferenti coi ministri su la bella giornata che si annunziava dal cielo limpidamente sereno, prese la penna e incominciò a firmare con la sua grossa scrittura diritta il pacco di decreti che don Pedro aveva rispettosamente posto d'innanzi a lui. Quando, dopo altri venti decreti, gli capitò davanti quello che riguardava don Alvaro e che il primo ministro aveva delicatamente insinuato tra gli altri, Sua Maestà lo scorse rapidamente e lo firmò sera muovere ciglio, con un'ombra appena di sorriso che poteva sfuggire agli altri ma che non sfuggiva a me. Il Re si levò sùbito dopo, mentre i ministri lo imitavano. M'ero levato anch'io e il caso m'aveva posto vicino al ministro della Guerra antimilitarista, che s'era avvicinato al presidente del Consiglio. — Io non mi sono opposto, — disse il ministro della Guerra — non mi sono opposto alla nomina di don Alvaro di Frondosa a Zarzuelopoli perchè conosco il vostro senno e sono sicuro che voi avrete già pensato a chiedere al Congresso i crediti per le nuove spese militari. Non si fa la guerra senza un esercito forte. Con mio rammarico perdetti la risposta del presidente del Consiglio poichè proprio in quel punto, mentre i ministri raccoglievano le loro carte e i loro cappelli a staio, Sua Maestà mi chiamava e mi manifestava con due parole succinte il suo compiacimento nel vedere che la difficile situazione era stata delicatamente spianata. — La soluzione, infatti, è un po' delicata, — risposi ricordando le parole del ministro degli Esteri. Sua Maestà, che è molto intelligente, capì tutto in un batter d'occhi. — Capisco. C'è il pericolo d'una nuova Iliade in pieno secolo ventesimo. Vuol dire che in tal caso lei ne detterà il poema. Il mio regale amico alludeva alle mie lontane velleità letterarie. — Non potrei tutt'al più che scrivere in prosa, Maestà, — risposi sorridendo con umiltà di prosatore. — Scusi, — rispose il re che è sempre pieno di spirito, — quel decreto è scritto in prosa ma, francamente, vale un poema.... Osservai in quel punto, volgendomi, che tutti i ministri s'erano radunati verso la finestra da dove potevano scorgere, esposti alla luce, la regale guancia e lo storico segno di cravache. Ma tutto era scoparso sotto un po' di cipria rosea, poichè, come c'insegna il Vangelo, torna alla cipria ciò che dalla cipria è venuto.

Assolutamente refrattaria a resistere al più modesto segno di dolore fisico, Sua Maestà si trovò a ricevere la notizia che il Congresso aveva compiuto il colpo di Stato e proclamato la Repubblica, proprio nel momento in cui l'insigne odontoiatra, al quale erano affidati, con congruo stipendio annuo, i denti di Sua Maestà, s'nchinava al re che pallido e abbandonato su la poltrona lo guardava con la bocca ancora spalancata, e gli annunziava che la misura più urgente da premiere per ridare a Sua Maestà il benessere fisico era quella di strappare il dente malato. Fra l'insigne odontoiatra che rispettosamente chiedeva con un sorriso a Sua Maestà se era il caso d'armare i ferri del mestiere e di passare all'estirpazione del dente cariato, e don Pedro de Aldana il quale, con aria desolata, attendeva di sapere dal re deposto com'egli intendesse regolarsi di fronte al Presidente della Repubblica che le Camere avrebbero certamente eletto nella serata, Rolando II se ne rimaneva lì, su la poltrona, sempre a bocca aperta, con l'aria di chiedere un miracolo così alla scienza dell'insigne odontoiatra come alla politica del suo primo ministro: ed il miracolo non era quello di fargli, finchè s'era ancora in tempo, restituire il trono, ma quello di fargli passare il dolor di denti senza che dovesse subire il tremendo dolore dell'estirpazione proclamata imperiosamente necessaria. Compresi in quel momento che a Rolando II doleva solamente di aver dovuto perdere il regno senza avere avuto almeno il tempo di barattarlo. Chè se un suo illustre e remoto collega aveva offerto di barattarlo per un cavallo, egli l'avrebbe, senza pensarci un solo minuto, barattato volentieri col mezzo di farsi passare il mal di denti senza doversi lasciar strappare l'iniquo molare ch'era causa di tanto male. Senonchè l'dontoiatria e la filosofia della storia hanno la medesima inesorabilità e Rolando II dovette, nella stessa mezz'ora, lasciarsi strappare un dente di bocca e la corona dalla fronte. La coincidenza dei due dolori fu, del resto, probabilmente preparata con benignità verso Rolando II dai misteriosi dottori in fisio-psicologia che reggono e governano il nostro destino. Se, prima che il dente gli fosse strappato, Rolando II non si preoccupò che di questo dolore, dopo che il dente fu avulso dalla delicata gengiva regale la gioia del Sovrano fu tale che l'aiutò a considerare con occhio sorridente qualsiasi altra avversità. Tuttavia al pensiero di questa avversità Rolando II fu chiamato dal brusìo lontano, poi dal vocìo vicino d'una dimostrazione popolare la quale veniva sotto le finestre del palazzo reale a confermare a Sua Maestà ch'era veramente il caso di disporre che le valigie fossero preparate. Guardai dalla finestra la grande piazza esagonale su la quale aprivano le duecento finestre del palazzo reale: era gremita di popolo. Ma non era l'orda terribile e incendiaria dei Sanculotti. Era una Pacifica popolazione domenicale d'onesti borghesi e di padri di famiglia la quale non aveva l'aria di venire ad avvertire il Monarca che il popolo aveva deciso di cambiar di regime e che la Repubblica era stata proclamata, ma piuttosto quella di venire garbatamente ad augurare al re un ottimo viaggio verso la frontiera. Rolando II, intanto, mentre giù nella piazza la folla, tanto per aver l'aria di fare qualche cosa, cantava un inno rivoluzionario, guardava con occhi esterrefatti l'insigne dottore in odontoiatria che preparava i ferri per la terribile operazione. Ebbe appena, Rolando II, quando il canto giù n ella piazza si fece più alto, la curiosità di volgersi a me per domandarmi di che cosa si trattava. Informato sommariamente da me di quanto avveniva, sorrise amaramente come per dire: «Beata tutta questa gente che può pensare a far la rivoluzione! Se soffrisse coi denti come soffro io!...» E si volse di nuovo, con occhi sempre più esterrefatti, all'insigne dottore in odontoiatria il quale prese rispettosamente con due dita il re per il naso e per il mento e nella bocca violentemente spalancata introdusse il ferro liberatore. Con azione fulminea l'insigne dottore in odontoiatria afferrò il dente regale e lo strappò con un dolce moto della mano. Ma, dolce a vederlo, il moto non dovette essere dolce a sentire, poichè dalla gola del re partì un grido straziante che scompigliò il mio essere sin nelle viscere più profonde. Poi, dalla bocca regale, versandosi nel vaso di cristallo che l'insigne dottore in odontoiatria offriva a Sua Maestà, uscì un mezzo bicchiere di sangue: il solo sangue che resti per me legato al ricordo dell'esangue rivoluzione di Fantasia. Dolore e piacere, avvertiva Platone, sono cosi saldamente uniti che non si sa dove l'uno cominci e dove l'altro finisca. Questa mancanza d'una linea di demarcazione fra sofferenza e voluttà è fortunatamente solo filosofica e non ha niente a che vedere con la estirpazione d'un dente cariato. Se nell'astrazione del filosofo non si sa dove il piacere cominci e dove finisca il dolore, sotto le mani d'un insigne dottore in odontoiatria si sa benissimo che dopo cinque minuti di stupimento finisce il grande dolore d'avere un dente cariato e comincia il grande piacere di non averlo più. Così Rolando II, dopo che ebbe con un ultimo colluttorio calmante sedato anche l'ultimo nervo doloroso delle sue regali gengive, levandosi dalla poltrona ove aveva tanto sofferto, si volse a me con un sorriso beato. Ed era così lieto di non soffrire più, manifestava la sua gioia fisica in una tale esuberanza di gesti e di parole, che parve a me delittuoso troncare sul nascere quella gioia commovente ricordando a Sua Maestà che giù la rivoluzione aspettava che lui se ne andasse. Ma, poichè non tutti gli uomini hanno la stessa delicata sensibilità, don Pedro de Aldana ebbe il cuor ch'io non ebbi, e vibrò nell'estasi di Sua Maestà il colpo brutale d'un improvviso richiamo agli avvenimenti. Don Pedro mise rapidamente al corrente il Re di quanto avveniva: il colpo di Stato avvenuto al Congresso, la Repubblica proclamata, le Camere convocate per la sera per eleggere il primo magistrato della Repubblica, la sommossa popolare scatenata per le vie e le piazze di Effemeris, la guarnigione divisa, metà già passata armi e bagagli alla Rivoluzione; metà ancora fedele al Re per usargli la cortesia di presentargli un'ultima volta le armi al momento della sua partenza. Sopratutto di questa partenza don Pedro de Aldana si preoccupava. E la sua preoccupazione non era del tutto ingiustificata poichè se dalla piazza esagonale gremita di folla non saliva un solo grido ostile alla personalità di Rolando II, giungeva sonante nelle nostre stanze il grido di: «Morte a don Pedro! Don Pedro alla lanterna!» Formula fuori luogo, in verità, ma anche le rivoluzioni hanno il loro tradizionalismo, e nessun rivoluzionario saprebbe rinunziare al dovere di impiccare un aristocrate alla lanterna anche quando si tratti d'un ministro democratico e quando le lanterne della rivoluzione francese sono state sostituite da globi elettrici situati a tale altezza che a volervi impiccare qualcuno il rischio non sarebbe meno grave per l'impiccatore che per l'impiccato. Nelle ore delle grandi prove si misurano i grandi caratteri. Lo stoicismo che Rolando II rivelò in quell'occasione fu, o mi parve, veramente insuperabile. Poichè la gioia d'essersi liberato d'un dente cariato non saprebbe essere eterna, Rolando II degnò di occuparsi anche della Rivoluzione, e, saputo quanto avveniva, domandò se nessuna resistenza fosse possibile. Informato che pensar di resistere sarebbe stato semplicemente follia, si passò la mano su la fronte, vi raccolse un'idea, prendendo uno di quei fieri e teatrali atteggiamenti che la storia deve ricordare e che per la storia sono opportunamente preparati, guardò me, guardò don Pedro de Aldana impaziente di correre alla stazione, guardò l'insigne dottore in odontoiatria che puliva e riponeva i suoi piccoli strumenti, ed esclamò: — C'è, o signori, qualche cosa di più potente della Volontà del Sovrano: ed la sovrana volontà del popolo! Salendo a palazzo reale, don Pedro de Aldana doveva avere una sola preoccupazione: quella che al giovane re dovesse mai saltare in mente l'idea di ostinarsi a resistere e di volersi fare uccidere, assieme al suo Primo Ministro, sui gradini del trono. Così, quando nella storica frase di Rolando II trove tanta rassicurante remissività, don Pedro de Aldana trasse dal largo petto carico d'onori e d'oneri il respire d'un uomo che dopo aver veduto la morte sicura ritorna inopinatamente alla vita. Ma, poichè la felicità dell'attimo fuggente è pavida e teme sempre che l'attimo che fuggirà immediatamente dopo debba minacciarla, don Pedro tentò d'indurre Sua Maestà ad una partenza immediata, prima cioè che potesse venire a Sua Maestà l'idea di tornare su la sua prima, prudente e ragionevole deliberazione. Ma Rolando II che s'era intanto avvicinato alla finestra ed aveva veduto che la Rivoluzione non aveva un aspetto terribile — poichè in mezzo alla lavagna nera d'una densa folla pacifica un paio di compagnie della Guardia Reale disegnavano alcune mobili «esse» di corazze d'argento mentre nel silenzio d'una folla che aveva l'aria d'assistere ad uno spettacolo alcune dozzine di tenori volontari cantavano qualche canzone proibita che non faceva male a nessuno — Rolando II non vide la necessità d'una partenza precipitosa. Ma, don Pedro de Aldana ch'era prudente avendo opinato che le cose potevano guastarsi da un momento all'altro e che l'ombra della notte favorisce intemperanze delle folle rivoluzionarie, Sua Maestà mise il suo Primo Ministro in libertà e lo autorizzò a partire senza attendere che anche lui fosse pronto alla partenza. Così don Pedro e l'insigne dottore in odontoiatria si ritirarono simultaneamente e frettolosamente, dopo avere confermato a Sua Maestà, con telegrafiche parole, una devozione la quale non chiedeva che d'essere messa alla prova quando la prova non fosse per riuscire troppo pericolosa. Quando rimanemmo soli, Rolando II si mise a sedere e accese una sigaretta, con una certa sprezzante bravura e con l'aria d'un uomo che non ha nessuna ragione d'aver fretta a cambiare di residenza. Stimai quella tranquillità ammirevole ma eccessiva e non mi sottrassi al dovere di avvertirne Sua Maestà: — Vostra Maestà, — dissi, — ricorderà che il poeta di una commedia famosa, la quale fu la fanfara d'allarme di un'altra memorabile Rivoluzione, avvertiva che tout finit par des chansons. Nella Rivoluzione che sconvolge oggi l'ordine delle cose nel regno di Fantasia, invece che finire con le canzoni, con le canzoni si comincia. Ma non c'è da fidare eccessivamente nell'innocua temperanza di questi preludi musicali. Del resto, se vogliamo rimanere nella musica, anche nella sinfonia i tempi si seguono e non si rassomigliano; e se dopo l'«allegretto» viene l' «andante», dopo «l'andante» viene l'«appassionato». Però io consiglio rispettosamente a Vostra Maestà di scegliere per sè in questa musica, e finchè siamo in grado di farlo comodamente, il tempo più consigliabile in questo momento: intendo dire: la «fuga». Gli avvenimenti che ho raccontati fin qui hanno provato che il temperamento di Rolando II, pur senza giungere ad avere l'inclinazione precisamente contraria, non aveva certo l'inclinazione eroica. È quindi quasi superfluo all'economia del racconto avvertire che Sua Maestà accolse con docilità il mio consiglio, talchè non erano trascorsi venti minuti che egli aveva già mutata la sua uniforme militare col più leggiadro abito da viaggio che sia mai stato confezionato dai grandi sarti di Fantasia. Intanto il telefono aveva annunziato che una folla in atteggiamento minaccioso stazionava attorno alla stazione nella speranza di poter dare un rumoroso saluto agli alti papaveri della monarchia che si sarebbero certo affrettati a partire per l'esilio. Ma un gentiluomo di Corte sopraggiunto in quel mentre comunicò che infatti gli alti papaveri già partivano tutti ma che avevano tutti preferito di partire in automobile. E già a quell'ora le automobili in partenza s'inseguivano in lunga fila per le strade che conducevano alle porte della città. La modernità dei mezzi toglieva, mi parve, a questa fuga ogni carattere veramente drammatico, e gliene dava in ricambio uno ch'era piuttosto sportivo, poichè tutta quella fila di eleganti limousines, più che d'una tragica fuga negli orrori della rivoluzione, dava idea d'un placido ritorno da una giornata di corse in un pomeriggio di bel tempo. Rolando II non esitò a scegliere anche lui questo sistema di partenza, pur conciliandolo col proposito di prendere un treno alla prima stazione dopo la capitale. Intanto il più fidato cameriere di Sua Maestà preparava una valigia per le necessità immediate, mentre gli altri domestici riempivano, con uno zelo inconsueto, che rivelava l'ansia di mandarla via presto, i grossi bauli in cui Sua Maestà aveva dato ordine di chiudere il suo guardaroba, la sua biancheria; le sue carte politiche e il magazzino variopinto delle sue decorazioni. Bisogna non aver mai veduto partire un re per l'esilio per credere che l'addio di un Sovrano alla sua Corte abbia la medesima povertà di commozione dell'addio di un sottosegretario di Stato ai suoi uscieri all'indomani d'una crisi ministeriale. Sparsasi la notizia che Sua Maestà partiva, dame e gentiluomini, vecchi uomini politici fedeli al Sovrano, erano accorsi per inchinarsi l'ultima volta alla Maestà di Rolando II. Vidi così tra coloro che affollavano le sale per cui il Re, andandandosene, passava e distribuiva strette di mano copiose e sorrisi commoventi, anche il duca e la duchessa di Frondosa, vecchia nobilta monarchica, ligia al regime, e, non ostante tutte le cose profane che avevano potuto dividde momentaneamente i due coniugi da Sua Maestà, profondamente compresa di quarto di sacro era nell'ora storica in cui la Corte cedeva alla sopraffazione della piazza. Non c'era più sul volto del duca di Frondosa traccia alcuna degli antichi sentimenti. Al ricordo della corte che Rolando II aveva fatta a sua moglie, s'era adesso sostituito il pensiero della Corte da cui Rolando II esciva per sempre. Vidi il grande gentiluomo stringere devotamente la mano del re e baciarla con profonda commozione. E vidi la duchessa Isabella inchinarsi sin quasi a inginocchiarsi d'innanzi a Rolando II, il quale le si fermò davanti e le baciò la mano guardandola un momento negli occhi con suprema rassegnazione come a dire: «Mi è grato salire anche l'ultima stazione di questo calvario per amor tuo». Il momento fa, in verità, singolarmente patetico, e se Rolando II mormorò a fior di labbra: «Arrivederci!», a me parve che gli occhi della duchessa e del Re, lucidi di lacrime, si dicessero invece malinconicamente: «Addio!». Un poeta ha detto quale sia la suggestione d'un muro derrière lequel se passe quelque chose. Io conobbi quella notte la suggestione che esercita la porta di una cabina di sleeping-car nella quale sia chiuso un re che, deposto, parta involontariamente per l'esilio. Rolando II vi si era chiuso non appena fummo saliti nel direttissimo diretto al confine, il quale ci aveva raggiunti nella quieta stazione secondaria che cento chilometri appena separavano dalla capitale ma che secoli interi sembravano separare invece dalla Rivoluzione. Spettatore per lunghi anni dell'amabile commedia, io mi sentivo ora preso dal patetico afflato dell'improvvisa situazione tragica inseritasi nell'ultimo atto dell'azione che ho raccontata. Se l'insonnia di un re è legittima, in una notte come quella non apparirà meno legittima, io credo, l'insonnia d'un cortigiano che il re ha invitato ad accompagnarlo per l'ultima volta fin oltre la frontiera. Da una parte e dall'altra della porta della cabina regale le nostre due insonnie si cercavano senza avere tuttavia il coraggio d'aprir la porta e di trovarsi di fronte. Intuivo che l'orgogliosa spavalderia del re durante i preparativi della partenza doveva ora, nella solitudine, aver dato luogo alla tragica angoscia della tremenda catastrofe. Imaginavo Rolando II intento ad arrampicarsi, per risalirlo, su per l'albero genealogico della regale famiglia, con lo scopo di ritrovare attraverso i secoli e i costumi le glorie insigni della dinastia. Che tanto splendor di glorie dovesse spegnersi prematuramente con lui, era certo per Rolando pensiero intollerabile. Trascorsi la notte in queste mie inquietudini senza osare di portare sollievo e conforto alla inquietudine di Sua Maestà. Vedevo, intanto, dalle finestre del corridoio, le stazioni notturne ingombre di soldati, di feriti, di carri militari, di tutta la congestion ferroviaria d'un esercito in ritirata. Lo spettacolo della guerra perduta e della rivoluzione già scoppiata era squallido. Dal finestrino opposto Rolando II doveva vederlo come io lo vedevo, e quella contemplazione del sanguinoso epilogo in cui la sua corona cadeva spezzata non poteva non indurlo in desolate e disperate meditazioni. La mia ansia giunse anzi a tal segno che, spuntata in cielo l'alba, non seppi reggere più a lungo e aprii la porta della cabina regale. Se vi sono gradi di scetticismo che preparario ad affrontare impavidi ogni spettacolo vi sono però spettacoli che impavidamente superano, col loro impreveduto, qualsiasi grado di scetticismo. Tale fu quello che mi si offrì appena ebbi aperta la cabina regale e appena mi vidi davanti Rolando II stretto nella seta d'un pigiamino changeant, col volto fresco di chi ha riposato tranquillamente la notte intera e intento a radersi, con un rasoio di sicurezza d'innanzi a uno specchio a due luci aperto su un tavolinetto ch'era ai piedi della cuccetta ancora calda del quieto sonno regale. Se Rolando II lavorava così a non aver più peli su la faccia, non era ancora lecito a me di non avere con lui finalmente peli su la lingua. Ma confesso che ne ebbi, per la prima volta, violentemente la tentazione. Sui suoi confini nord-occidentali il regno di Fantasia è diviso dal limitrofo regno d'Asturia da un lungo tunnel sotto cui i direttissimi internazionali corrono per quaranta minuti senza prendere una boccata d'aria o un filo di luce. Passato il tunnel, il direttissimo si ferma, esausto, a fare un po' d'acqua prima di riprendere la sua corsa. A quella stazione Rolando II aveva deciso di scendere dal treno per prendere congedo da me, pernottarvi e riprendere in automobile l'indomani il suo viaggio verso Parigi. Era una stazioncina solitaria, e sorridente, tutta rosea e fiorita, a varii chilometri dal paesello inerpicato lassù su la montagna. Accanto alla stazioncina una piccola trattoria invitava i viaggiatori prendere qualche ristoro. E, poichè il mezzogiorno era ormai passato, vi entrammo anche noi per far colazione. Nelle commedie ben fatte, all'ultimo atto, quando tutto pare finito, entra un nuovo personaggio particolarmente adibito a riprendere l'interesse illanguidito che sta sul punto d'estinguersi. Questo nuovo personaggio, ch'era di sesso femminile e quanto mai grazioso, ce lo trovammo seduto a tavola, d'innanzi a noi, occupato a far colazione in compagnia d'un elegante adolescente che ostentava i modi estremamente disinvolti con cui gli efebi impegnati in una prima avventura cercano di nascondere agli esperti gli smarrimenti di un'inesperienza estremamente intimidita. Rolando II, che durante il viaggio non aveva degnato d'un solo sguardo lo spettacolo del suo regno insanguinato dalla disfatta e dalla sommossa, non ebbe occhi che per la giovane ed elegante viaggiatrice, la quale parlava francese e dalle parole che pronunziava ad alta voce dimostrava il desiderio di far sapere a noi ch'era di Parigi, ch'era chanteuse di caffè-concerto e che si chiamava Loulette Louly. Ma se Rolando non le levava gli occhi di dosso non bisogna ricercare in questo un altro segno della sua inguaribile vocazione per il commercio femminile, ma piuttosto un segno del suo non meno inguaribile e sventurato amore per la duchessa di Frondosa. Non appena c'eravamo seduti, Sua Maestà aveva infatti afferrato il mio braccio e, stritolandomelo quasi nel parossismo d'una improvvisa commozione, aveva esclamato: «Ma guardi, guardi.... Pare il ritratto, il ritratto parlante d'Isabella....» Ma se m'era facile convenire, nell'udirla rovesciare sul commensale adolescente un diluvio di parole, che Loulette Louly era anche troppo parlante, non potevo con eguale tranquillità di coscienza affermare ch'ella fosse veramente il ritratto della duchessa Isabella. Occorreva almeno stabilire se Sua Maestà intendeva parlare d'un ritratto eseguito da un fotografo o da un pittore, poichè è noto che i ritratti dei pittori sogliono essere discreti verso i moderni sino a non spingersi mai più oltre d'una somiglianza vagamente approssimativa. Ma gli innamorati hanno cosi vivo negli occhi l'oggetto amato che basta loro un qualsiasi pretesto appena tollerabile per trasportarlo sul volto di un'altra persona. È una disposizione che gl'innamorati hanno in comune, quando si tratti d'identificazione errata di persone, con gli uffici antropometrici della polizia. Ma non occorre che una somiglianza sia autentica perchè sia irresistibile: basta che sia semplicemente supposta. Così Rolando II guardò con tanta insistenza la giovane chanteuse che giovane efebo che l'accompagnava dimostrò a più riprese, con gesti di fastidio, di trovare assolutamente insopportabile l'insistenza contemplativa di quell'ignoto viaggiatore. Si dice che il destino degli uomini può essere legato ad un filo, ma in mancanza d'un filo esso può anche essere legato a un po' di cenere di sigaretta. Difatti, levatici per uscire, passando accanto alla giovane coppia che troppo occupata a discorrere non aveva ancora finito di far colazione, Sua Maestà lasciò cadere involontariamente la cenere della sua sigaretta, che, nell'estasi, s'era dimenticato di scuotere, su le spalle dell'elegante giovinetto. Il quale, irritato com'era, alle scuse di Sua Maestà si voltò irritatissimo, invitando il viaggiatore a badare meglio così alla sua sigaretta come ai fatti suoi. Nelle grandi catastrofi gli avvenimenti si succedono con rapidità fulminea. Così l'elegante giovinetto non aveva ancora terminato di rimproverare a Rolando II la sua sbadataggine che già la mano di Rolando II s'appoggiava su la guancia del giovinetto con assai minor leggerezza di quella con cui la cenere della sigaretta regale s'era appoggiata su la sua spalla. Ai grandi urti seguon, di solito, lunghi sbalordimenti. Così Rolando II ed io avemmo tutto il tempo d'uscire dalla piccola trattoria senza che alla via di fatto al singolare seguisse un pugilato al plurale. Quando fu fuori Sua Maestà mi fermò per un braccio e, col volto illuminato da un grande sorriso, mi disse: — Lo crederebbe? Sto meglio. Morivo di voglia anch'io di dare uno schiaffo a qualcuno. Poi si fermò a pensare e battendo le mani in segno di giubilo esclamò: — E questa volta, perdio, mi batto. Sono un borghese qualunque, finamente! Convenne trovare per questo borghese qualunque un nome, il che fu facile perchè, abituato a non far mai complimenti con me, decise sùbito, per l'occasione, di prendersi il mio. Convenne anche cercare un secondo padrino che avesse potuto assistere Sua Maestà nel duello inevitabile. Toccò naturalmente a me anche il còmpito di sbrogliare quest'ultima situazione difficile, tanto più difficile in quanto, a vista d'occhio, in un raggio di chilometri, non era possibile trovare altra forma umana che quella imberrettata del capostazione. Inoltre, a meno di farli battere con due coltelli da tavola, non era lecito pensare alla possibilità dello scontro in quel luogo. Ma conveniva essere comunque in due, pronti almeno a ricevere e ad accettare la sfida, per poi stabilire ad altra data e ad altro luogo la possibilità dello scontro. Ho avuto nella mia vita d'amico di Rolando II missioni difficili, ma nessuna mai che potesse essere paragonabile a quella di riuscire a decidere il piu pacifico dei capistazione del regno d'Asturia e d'ogni altro regno di questo mondo. Dio volle che riuscissi allo scopo; ma questa riuscita non fu possibile se non a patto di rivelare al capostazione la vera personalità di Rolando II, poichè la suggestione del diritto divino e tale che anche un re deposto induce in ogni umile mortale l'impressione che non sia assolutamente possibile disubbidirgli. Come tornai da Rolando II che passeggiava impaziente tra la stazione e la trattoria, la gioia del mio regale amico non conobbe più limiti. Poteva dunque battersi, poteva finalmente questa volta sbrigare una faccenda di questo genere come la sbrigano tutti gli uomini, e senza dovere una seconda volta rimetterci il trono, che del resto non aveva più. Le gioie che si fanno più lungamente aspettare sono quelle che meno hanno l'intenzione di venire. Così noi aspettammo per tre ore i padrini dell'elegante giovanetto. Cercato costui da ogni parte, non fu possibile ritrovarlo, e, solo al termine di lunghe peregrinazioni per le campagne circostanti, un piccolo telegrafista avvertì d'averlo veduto ripartire in uno dei treni che ogni mezz'ora eran venuti ad interrompere con la loro esposizione di facce ai finestrini la monotonia della lunghissima attesa. Mi fu facile ricostruire l'accaduto. Sebbene non ci fosse attorno, per così dire, anima viva e sebbene io avessi vivamente raccomandato al secondo testimonio la cautela del massimo segreto, il capostazione aveva dato alla notizia e alla vera personalità di Rolando II la massima diffusione compatibile con l'estremamente ridotta densità di popolazione in quelle amene contrade. Gli uomini che non hanno storia solo, si afferma, gli uomini felici. Ma questi uomini felici sono singolarmente più felici il giorno in cui possono raccontare di essere comunque partecipi d'un avvenimento che li dovrà far entrare, insalutati ospiti, nella storia. Le spiegazioni ulteriori le fornì, loquacemente, Loulette Louly sorpresa a sua volta dall'inopinata partenza che la lasciava sola in quel luogo perduto, e con su le spalle, per modo di dire, un'automobile noleggiata ad alto prezzo. E tra me e Loulette Louly fu facile ricostruire il dramma prospettatosi agli occhi d'un timido figlio di famiglia ch'era alla sua prima scappatella d'adolescente e che inopinatamente si trovava a doversi battere niente di meno che con un re. Di fronte alla certezza d'uno scandalo europeo il giovinetto aveva considerato opportuno conservare lo schiaffo, del resto augusto, di Rolando II, piuttosto che incorrere nella violenta sanzione dei piu sacrosanti scappellotti paterni. Se alla notizia che l'avversario era scomparso il capostazione riacquistò gli spiriti che gli s'erano ottenebrati nell'ansia delle misteriose responsabilità cui andava incontro, alla stessa notizia Rolando II perdette invece definitivamente i suoi. Gli vidi, con gli spiriti, cascare anche le braccia e col volto desolato d'un uomo che accetta, poichè non può più rifiutarvisi, un mostruoso destino, lo sentii dire: - Vede? Non c'è che fare. La mia cattiva stella vuole inesorabilmente così. Se prendo uno schiaffo, lo devo tenere, e ci perdo il trono. Se lo do io, se lo tengono gli altri, e ci perdo il treno. Partiva infatti in quel punto l'ultimo treno della sera che, attraverso il regno di Asturia, correva verso la Francia e Parigi. Rimaneva solo sul binario, in attesa di ripartire, l'ultimo treno della sera che, attraverso l'interminabile tunnel, riconduceva nel regno, pardon, nella repubblica di Fantasia. Disposi sùbito per la mia partenza. E, tornato indietro per salutare Rolando II, trovai che già Rolando II e Loulette Louly s'erano messi d'accordo per fare insieme il viaggio verso Parigi nell'automobile abbandonata, senza pagarla, dal'elegante giovinetto. Già sorrideva fra loro, nella sera che scendeva, nella notte che s'apriva, il primo quarto di luna di miele. Già Rolando II guardava estatico la sua compagna e più la guardava più diceva a me con gli occhi e coi sospiri: — È proprio lei, Isabella, proprio lei! La cocottina abbandonata e il re deposto filaron via così, verso Parigi, nella letizia degli incontri felici e predestinati. E, mentre Rolando II volava in quarta velocità verso il suo nuovo mestiere di roi en exil, io ripresi con filosofica malinconia il treno che doveva ricondurmi nell'amata patria, dove mi riattendeva lo spettacolo della disfatta e della sommossa, nate, come ho troppo lungamente raccontato, da un bacio di donna che senza aver fatto provvisoriamente felice un uomo aveva definitivamente perduto un re. FINE.

Mitchell, Margaret

221276
Via col vento 8 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Il lamento era stato evidentemente il canto del cigno di Geraldo, il quale ora era completamente abbandonato fra le braccia del suo compagno. Gli era caduto il cappello e i lunghi capelli crespi erano scompigliati come una bianca criniera. Aveva la cravatta tutta storta e il davanti della camicia era macchiato di liquore. - Vostro padre, credo? - disse il capitano Butler i cui occhi brillavano gaiamente nel volto bruno. Le lanciò un'occhiata che sembrò attraversare la leggera vestaglia. - Portatelo dentro - replicò ella brevemente, confusa per il suo abbigliamento e furibonda contro Geraldo che la esponeva a farsi canzonare da quell'uomo. Rhett sospinse Geraldo. - Debbo aiutarvi a portarlo di sopra? Per voi è impossibile; è troppo pesante. Ella spalancò la bocca inorridita dall'audacia di questa proposta. Figuriamoci che cosa avrebbero pensato Pitty e Melly se il capitano Butler fosse salito di sopra! - No, per l'amor di Dio! Qui, in salotto, su quel divano. - Debbo levargli le scarpe? - No. Ha già dormito altre volte tenendole. Si sarebbe morsa le labbra per essersi lasciata sfuggire questo, sentendolo ridere piano mentre stendeva le gambe di Geraldo. - Vi prego, ora andate. Butler attraversò il vestibolo buio e raccolse il cappello che aveva lasciato cadere sulla soglia. - Vi vedrò domenica sera a pranzo - disse, e se ne andò chiudendo la porta senza strepito. Rossella si alzò alle cinque e mezzo, prima che la servitú fosse entrata in casa a preparare la colazione e scese silenziosamente al pianterreno. Geraldo era sveglio, seduto sul divano, stringendosi la testa fra le mani come se si volesse spremere il cranio. Alzò gli occhi furtivamente sentendola entrare. A muoverli, gli dolevano: emise un gemito. - Accidempoli! - Hai fatto un bell'affare, papà - cominciò Rossella con voce sommessa ma irritatissima. - Venire a casa a quell'ora e svegliare tutto il vicinato col tuo canto! - Ho cantato? - Eccome! Hai svegliato tutti gli echi cantando il «lamento». - Non me ne ricordo affatto. - I vicini se ne ricorderanno finché vivranno; e cosí zia Pittypat e Melania. - Madre dei Sette Dolori! - si lamentò Geraldo passandosi la lingua ingrossata sulle labbra aride come pergamena. - Tutti i miei ricordi si confondono dopo la partita... - Che partita? - Quel ragazzaccio di Butler sosteneva di essere il miglior giocatore di poker in... - Quanto hai perso? - Macché! Naturalmente ho vinto. Qualche bicchiere mi ha aiutato a giocare. - Guarda nel tuo portafogli. Come se ogni movimento fosse una sofferenza, Geraldo trasse di tasca il portafogli e lo aperse. Era vuoto; ed egli lo guardò con desolato stupore. - Cinquecento dollari - disse. - Mi servivano per comprare della roba del blocco per la mamma; ed ora non ho piú neanche il denaro per pagare il viaggio di ritorno. Nel guardare con indignazione il portamonete vuoto, alla mente di Rossella balenò un'idea che prese forma rapidamente. - Non potrò piú alzar la fronte in questa città. Ci hai disonorati tutti. - Tieni la lingua a posto, gattina. Non vedi che ho la testa che mi scoppia? - Venire a casa ubbriaco con un uomo come il capitano Butler, e cantare con tutta la forza dei tuoi polmoni e perdere tutto il tuo denaro! - Quell'uomo è troppo abile alle carte per essere un gentiluomo. Egli... - Che dirà la mamma quando lo saprà? Geraldo alzò il capo con improvviso spavento. - Non andrai a dirlo alla mamma per farle fare il sangue cattivo, eh?! Rossella non rispose ma strinse le labbra. - Pensa che dolore per lei che è cosí buona! - E pensa, papà, che solo ieri sera hai detto che io ho disonorato la famiglia! Io, con un misero balletto per guadagnare un po' di denaro per i soldati! Oh, vorrei mettermi a piangere! - No, non piangere - pregò Geraldo. - Sarebbe piú di quello che la mia povera testa può sopportare; e ti assicuro che mi sta scoppiando. - E hai detto che io... - Gattina, gattina, non essere offesa di quello che ha detto il tuo povero vecchio babbo, che non ne pensava una parola e non ne capisce nulla! Ma sí, sei una figliuola piena di buone intenzioni; questo è certo. - E volevi riportarmi a casa in punizione! - No, tesoro, non volevo far questo. Era solo per spaventarti e tormentarti un poco. Non dirai niente alla mamma? - No - rispose Rossella con franchezza - se tu mi lasci qui e le dici che sono state tutte chiacchiere di quelle vecchie streghe. Geraldo guardò cupamente sua figlia. - E ieri sera è stato un vero scandalo! - Beh - cominciò adescandola - dimentichiamo tutto questo. Non credi che una brava signora come Miss Pittypat abbia in casa un po' di acquavite? Rossella si volse e attraversò in punta di piedi il vestibolo silenzioso per recarsi in sala da pranzo a prendere la bottiglia di acquavite, che lei e Melly chiamavano segretamente la «bottiglia dello svenimento» perché Pittypat ne prendeva sempre un sorso, quando il suo cuore delicato la faceva svenire - o fingere di svenire. Sul suo volto era scritto il trionfo e non vi era traccia di vergogna per il trattamento poco filiale usato verso Geraldo. Ora, se qualcun altro avesse scritto a Elena delle malignità, Geraldo saprebbe tranquillizzarla. E lei poteva rimanere ad Atlanta. E fare quasi tutto ciò che le piaceva, data la debolezza di Pittypat. Aperse l'armadio dei liquori e rimase un istante con la bottiglia e il bicchiere stretti contro il suo petto. Ebbe una lunga visione di picnic sulle acque gorgoglianti del fiumicello che scorreva lungo la Ripa dell'Albero di Pesco, e di banchetti alla Montagna Pietrosa, ricevimenti e balli, pomeriggi danzanti, gite in carrozzino e cene domenicali. Sarebbe stata dovunque, centro d'attrazione di una folla maschile. E gli uomini si innamoravano cosí facilmente, dopo che si facevano tante piccole cose per loro all'ospedale. Ora non le dispiaceva piú andarvi. Gli uomini si lasciano menare per il naso cosí volentieri quando sono stati ammalati! Cadono ai piedi di una bella ragazza come le pere di Tara cadono solo a scuotere l'albero, quando son mature. Tornò verso suo padre col liquore vivificante, ringraziando Dio che la testa di O'Hara non fosse stata capace di resistere al bere smodato della sera prima; e a un tratto si chiese se Rhett Butler non entrasse per nulla in quella faccenda.

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Perciò Rhett era un ottimo sostituto al «Godey's» per le signore; e ogni volta che arrivava era il centro di gruppi femminili a cui riferiva che le cuffie erano piú piccole e collocate piú in alto, che si ornavano di piume e non di fiori, che l'Imperatrice dei Francesi aveva abbandonato lo «chignon» per la sera, e portava i capelli raccolti in alto scoprendo tutte le orecchie, e che le scollature erano di nuovo scandalosamente profonde.

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E ripeteva volentieri che se avesse potuto guadagnare altrettanto altrimenti, per esempio coi contratti governativi, avrebbe abbandonato i pericoli del blocco, e si sarebbe messo a vendere alla Confederazione stoffe fatte di stracci, zucchero misto con sabbia, farina guasta, e cuoio d'infima qualità. A molte delle sue osservazioni era impossibile rispondere. Vi erano già stati degli scandali sulle forniture militari. Lettere di uomini al fronte che si lamentavano che le scarpe non duravano piú di una settimana, che la polvere da sparo non valeva nulla, che i finimenti cadevano a pezzi, che la carne era immangiabile e la farina verminosa. Gli abitanti di Atlanta cercavano di persuadersi che chi vendeva roba simile al Governo era gente di Alabama o della Virginia o del Tennessee, e non della Georgia. Non appartenevano forse alle migliori famiglie, i georgiani che avevano dei contratti di forniture? E non erano stati fra i primi a sottoscrivere in favore degli ospedali? L'ira contro i profittatori non era ancora desta e le parole di Rhett erano ritenute una prova della sua malvagità. Non solo egli offendeva la città con l'accusa di venalità a coloro che occupavano alte posizioni e di codardia agli uomini che erano in campo, ma si divertiva anche a mettere i dignitosi cittadini in posizioni imbarazzanti. Non sapeva resistere alla tentazione di pungere l'ipocrisia, la presunzione e il fiammeggiante patriottismo di quelli che lo circondavano, come un ragazzo che non può fare a meno di ficcare uno spillo in un palloncino gonfio di idrogeno. E lo faceva con tale garbo e tale apparenza di interessamento, che le sue vittime non erano mai sicure di ciò che era accaduto finché non si sentivano chiaramente messe in berlina. Rossella non aveva illusioni sul conto di quell'uomo. Ella sapeva la mancanza di sincerità delle sue elaborate galanterie e dei suoi madrigali fioriti. Sapeva che recitava la parte dell'eroico sfidatore del blocco unicamente perché ciò lo divertiva. A volte le sembrava fosse uno dei ragazzi insieme ai quali era cresciuta; ma sotto l'apparente leggerezza di Rhett ella sentiva che vi era qualche cosa di malizioso, quasi di sinistro nella sua soave brutalità. Benché si rendesse perfettamente conto della sua impostura, pure Rossella preferiva vederlo nel ruolo di romantico comandante di un brigantino. Questo, in un primo tempo, giustificava in certo modo la sua cordialità con lui. Perciò fu molto seccata quando egli lasciò cadere la maschera; e le parve che una parte delle critiche contro quell'uomo ricadesse anche sopra di lei. Fu alla riunione musicale della signora Elsing a beneficio dei convalescenti che Rhett firmò il suo definitivo mandato di ostracismo. Quel giorno la casa Elsing era affollata di soldati in licenza, di convalescenti, di membri della Guardia Nazionale e della Milizia Unitaria; di signore, vedove e fanciulle. La grande coppa di vetro inciso che il maggiordomo degli Elsing teneva fra le mani, accanto all'ingresso, era stata già riempita due volte di monete d'argento: l'offerta individuale di tutti gli intervenuti. Questo rappresentava già un successo, perché ogni dollaro d'argento valeva sessanta dollari di carta. Ogni giovane donna un po' musicista aveva suonato e cantato e i quadri viventi erano stati accolti da vivissimi applausi. Rossella era molto contenta di sé, perché non solo aveva cantato con Melania il commovente duetto «Quando sui fiori brilla la rugiada», ma era stata scelta per rappresentare nell'ultimo quadro lo Spirito della Confederazione. Era stata affascinante, vestita di tarlatana bianca orlata di rosso e di blu, con le Stelle e le Sbarre in una mano, mentre con l'altra tendeva al capitano Carey Ashburn, di Atlanta, inginocchiato dinanzi a lei, la spada con l'elsa dorata, che aveva appartenuto a Carlo e a suo padre. Terminato il quadro, cercò gli occhi di Rhett per vedere se egli avesse apprezzato la sua esibizione e vide con un senso di dispetto che egli era tutto intento a discutere e probabilmente non l'aveva neanche notata. Dai volti di coloro che lo circondavano ella comprese che erano furibondi per ciò che Butler stava dicendo. Rossella si aperse un varco tra la folla e, in uno di quegli strani silenzi che piombano a volte su una riunione, udí Guglielmo Guinan della Milizia dire semplicemente: - Debbo comprendere, signore, che intendete dire che la Causa per la quale sono caduti i nostri eroi non è sacra? - Se voi foste maciullato da un treno in corsa, la vostra morte non santificherebbe la Compagnia Ferroviaria, non è vero? - replicò Rhett; e la sua voce sembrava che chiedesse umilmente un'informazione. - Signore - e la voce di Guglielmo tremava - se non fossimo sotto questo tetto... - Io tremo al solo pensiero di ciò che accadrebbe - rispose Rhett. - Perché il vostro coraggio è ben noto. Guglielmo divenne scarlatto e tutte le conversazioni cessarono. Tutti erano imbarazzati. Guglielmo era sano e forte e in età da prestar servizio, eppure non era al fronte. Era figlio unico, questo è vero; e poi, bisognava pure che qualcuno rimanesse a casa per proteggere lo Stato. Ma quando Rhett parlò di coraggio, vi furono da parte degli ufficiali convalescenti delle risatine beffarde. «Ma perché non tace!» pensò Rossella indignata. «Rovina tutto il ricevimento!» Le sopracciglia del dottor Meade erano minacciose. - Per voi, giovinotto, non vi è nulla di sacro - cominciò con la voce che usava per i suoi discorsi. - Ma per i patriotti del Sud, uomini e donne, vi sono molte cose sacrosante. Una di queste è la libertà del nostro paese dagli usurpatori; un'altra è il Diritto di Stato, e... Rhett ebbe l'aria infastidita. - Tutte le guerre sono sacre - replicò. - Per quelli che debbono combatterle. Se coloro che cominciano una guerra non la dichiarassero sacra, chi sarebbe tanto sciocco da andare a battersi? Ma checché dicano gli oratori agli idioti che vanno a farsi ammazzare, qualunque sia il nobile scopo che assegnano alla guerra, la ragione di questa è sempre una sola. Il denaro. Tutte le guerre non sono che questioni di quattrini. Ma poca gente se ne rende conto. Le loro orecchie sono troppo piene di squilli di tromba e di rullar di tamburi e delle belle parole degli oratori che rimangono a casa. A volte il grido di guerra è: «Liberiamo il Sepolcro di Cristo dagli Infedeli!»; altre volte «Abbasso il Papato!»; altre volte ancora: «Libertà!» e qualche volta anche: «Cotone, schiavismo e Diritti di Stato!» «Che diavolo c'entra il Papa?» si chiese Rossella. «E il Sepolcro di Cristo?» Ma mentre tentava di raggiungere il gruppo, vide Rhett inchinarsi seccamente e avviarsi alla porta. Tentò di raggiungerlo ma la signora Elsing la trattenne per la gonna. - Lasciatelo andare! - le disse con una voce chiara che risuonò nella sala improvvisamente silenziosa. - E un traditore e uno speculatore. È un serpe che abbiamo nutrito nel nostro seno! Rhett, in anticamera e col cappello in mano, udí ciò che era stato detto appunto perché lo udisse e si volse ad esaminare un istante il salone. Fissò impertinentemente il seno piatto della signora Elsing, sogghignò e, facendo ancora un inchino, uscí.

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Essi avevano abbandonato la sicurezza delle retrovie per i pericoli della battaglia; molti di loro avevano lasciato una vita facile per una morte dolorosa. Ora erano dei veterani, veterani di un servizio breve, ma veterani ugualmente per la maniera in cui s'erano comportati. E cercavano nella folla i volti degli amici, fissandoli con fierezza. Adesso potevano tenere la fronte alta. I vecchi e i ragazzi della Guardia Nazionale marciavano: i primi movendo a stento il passo, e i secondi col volto di bimbi stanchi che avevano troppo presto conosciuto le tristezze della vita. Rossella scorse Phil Meade e stentò a riconoscere il suo volto nero di polvere e di sudiciume, irrigidito dallo sforzo e dalla stanchezza. Zio Enrico si avanzava zoppicando, senza cappello sotto la pioggia, col capo riparato alla meglio da un pezzo di tela impermeabile. Il nonno Merriwether era in un carro d'artiglieria coi piedi nudi avvolti in ritagli di coperte. Ma per quanto guardasse non riuscí a scorgere John Wilkes. I veterani di Jonhson, però, camminavano col passo instancabile che avevano avuto per tre anni, ed avevano ancora la forza di sorridere alle belle ragazze e di insolentire gli uomini senza uniforme. S'avviavano alle trincee che circondavano la città; non fossati scavati in fretta, ma trincee costruite in piena regola, con parapetti all'altezza del petto, rinforzati con sacchi di terra e travi di legno. Erano miglia e miglia di solchi purpurei, che attendevano gli uomini che dovevano riempirli. La folla salutava le truppe come le avrebbe salutate se fossero state vittoriose. In ogni cuore era la paura; ma ora che si conosceva la verità, ora che il peggio era accaduto, ora che la guerra era tra loro, un mutamento sopravvenne. Non vi era piú panico né isterismo. Ciò che era nel cuore non si leggeva sul volto. Ciascuno cercava di mostrarsi coraggioso e fiducioso dinanzi ai soldati. E tutti ripetevano ciò che il Vecchio Joe aveva detto proprio prima di essere esonerato dal comando: «Terrò Atlanta indefinitamente.» Ora che Hood si era dovuto ritirare, molti desideravano, come i soldati, il ritorno del Vecchio Joe; ma non osavano dirlo e si limitavano a ripetere la sua frase: «Conserverò Atlanta indefinitamente!»

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Tranne il signor Meade e i Merriwether, tutti avevano abbandonato quella zona! Rimpianse di non avere zio Pietro, il quale avrebbe potuto andare al Quartier Generale per sapere qualche cosa. Se non fosse stato per Melania, sarebbe andata lei stessa; ma non poteva lasciarla prima che venisse la signora Meade. Perché non veniva? E dove si tratteneva Prissy? Si alzò e andò a mettersi sotto il porticato per vederle arrivare. Dopo un pezzo vide spuntare Prissy sola: camminava pigramente come se avesse avuto tutta la giornata di tempo e cercava di fare ondeggiare le sue sottane, torcendo il collo per vederne l'effetto. - Come te la prendi comoda! - esclamò Rossella quando la negra aperse il cancello. - Che ha detto la signora Meade? Quando viene? - Non c'era. - E dov'è? A che ora torna? - Io dire. - Prissy parlava lentamente, come per darsi la gioia di accrescere importanza al suo messaggio. - Cuoca avere detto che Miss Meade essere uscita presto perché giovine badrone Phil essere ferito; e miss Meade avere preso carrozza con vecchio Talbot e Betsy ed essere andata a cercarlo. Cuoca dice essere ferito grave e forse miss Meade non poter venire qui. Rossella ebbe l'impulso di scrollarla. I negri erano sempre fieri quando potevano dare una cattiva notizia. - Avanti, non stare lí come un idiota. Corri dalla signora Merriwether e pregala di venire o di mandare la sua Mammy. - Non essere in casa, miss Rossella. Io essere passata da lei venendo a casa. Essere andata via. Casa tutta chiusa. Credo essere a ospedale. - Perciò sei stata tanto tempo! Per tua regola, quando ti mando in qualche posto, non devi «passare» da nessuno; capito? Ora vai... Si interruppe. Chi era rimasto in città, dei loro amici, che potesse aiutarla? Ah, la signora Elsing. Certo non aveva alcuna simpatia per Rossella, ma voleva molto bene a Melania. - Vai dalla signora Elsing e spiegale bene tutto pregandola di venire qui. E stammi a sentire. Il bimbo di miss Melly sta per arrivare: ci può essere bisogno di te da un momento all'altro. Perciò spicciati! - Sí, badrona. - Svelta, ti dico! Prissy accelerò il passo in modo quasi insensibile e Rossella rientrò in casa. Esitò ancora prima di salire. Dovrebbe spiegare a Melania perché la signora Meade non poteva venire; e la notizia che Phil era gravemente ferito le avrebbe certo fatto male. Beh, le racconterebbe una frottola. Trovò Melania coricata di lato: il vassoio della colazione era intatto. - La signora Meade è all'ospedale; ho mandato a chiamare la signora Elsing. Ti senti male? - Non molto - mentí Melania. - Dimmi, Rossella, quanto tempo ci mise Wade a venire al mondo? - Pochissimo - rispose Rossella con una tranquillità che era lontana dal provare. - Ero nel cortile e feci appena a tempo a rientrare in casa. Mammy disse che era una cosa scandalosa... proprio come se fossi stata una negra! - Spero di fare anch'io come una negra - riprese Melania accennando un sorriso che si trasformò in una smorfia di dolore. Rossella guardò le anche strette di Melania, ma disse incoraggiandola: - Oh, non è poi una cosa tanto terribile. - Lo so. Forse io sono un po' vile. E... viene subito la signora Elsing? - Subito. Ora vado giú a prendere un po' d'acqua fresca per lavarti. Fa molto caldo oggi. Impiegò molto tempo a prender l'acqua, correndo continuamente alla porta per avvistare Prissy. Ma questa non si vedeva; sicché ella si decise a salire. Passò la spugna sul corpo in sudore di Melania e le pettinò i lunghi capelli neri. Dopo un'ora udí uno scalpiccío sordo sulla strada: si affacciò e vide Prissy che veniva lentamente, come prima, prendendo degli atteggiamenti come se vi fosse stato del pubblico ad ammirarla. «Un giorno o l'altro la picchierò» pensò Rossella affrettandosi a scendere le scale per andarle incontro. - Miss Elsing essere all'ospedale. Cuoca dire che molti soldati feriti arrivare con treno. Cuoca preparare zuppa per portare a badrona. E dire... - Non m'importa niente di quello che dice - interruppe Rossella sentendosi riempire di sgomento. - Mettiti un grembiale pulito perché ora ti mando all'ospedale. Ti darò un biglietto per il dottor Meade; e se non c'è, lo darai al dottor Jones o a uno degli altri medici. E se non ti sbrighi a tornare, questa volta ti scortico viva. - Sí, badrona. - E domanda a quei signori le notizie della battaglia. Se non lo sanno, vai al deposito e domanda ai macchinisti che hanno condotto il treno. Domanda se stanno combattendo a Jonesboro o nelle vicinanze. - Dio Signore, miss Rossella! - e un subitaneo terrore invase il volto nero di Prissy. - Yankees non essere a Tara, vero? - Non lo so. Perciò ti dico di domandare. Prissy cominciò improvvisamente a singhiozzare ad alta voce, aumentando il senso di ansia di Rossella. - Smettila! Miss Melania ti sente. Vai presto a cambiarti il grembiale. Frettolosamente, Prissy corse nella parte posteriore della casa, mentre Rossella scarabocchiava due parole sul margine dell'ultima lettera di Geraldo: l'unico pezzetto di carta che fosse in casa. Nel ripiegarla, le caddero sott'occhio le parole di Geraldo «... la mamma... il tifo... a nessun patto... venire a casa...» Singhiozzò quasi. Se non vi fosse stata Melania, sarebbe partita subito; anche se avesse dovuto andare a piedi! Prissy uscí di corsa, col biglietto in mano, e Rossella andò al piano di sopra, cercando una fandonia plausibile per spiegare l'assenza della signora Elsing. Ma Melania non chiese nulla. Era coricata sul dorso, e il suo viso era tranquillo; quella vista calmò per il momento Rossella. Sedette e cercò di parlare di cose indifferenti; ma il pensiero di Tara e di una possibile disfatta per opera degli yankees la torturava. Vedeva Elena morente, gli yankees che entravano in Atlanta, che bruciavano tutto, uccidevano tutti. E il tuonare lontano intanto persisteva, penetrando nelle sue orecchie in ondate di spavento. Finalmente non riuscí piú a pronunciar parola e rimase a fissare la finestra aperta sulla strada assolata, sugli alberi le cui foglie pendevano immote coperte di polvere. Anche Melania taceva; ad intervalli, però, il suo viso si contorceva pel dolore. Dopo ogni trafittura diceva: - Non è poi tanto terribile - ma Rossella sapeva che mentiva. Avrebbe preferito degli urli a quella silenziosa sopportazione. Sentiva che avrebbe dovuto aver compassione di Melania, ma non riusciva a mostrarle una briciola di simpatia. Era troppo tormentata dalla propria angoscia. Una volta guardò quel viso contorto dalle doglie e si chiese perché proprio lei - fra tutti al mondo - doveva essere qui con Melania in quel momento; lei che non aveva con quella donna nulla di comune, che la odiava, che sarebbe felice di vederla morta. Chi sa, forse questo desiderio sarebbe appagato, magari prima di sera. A quest'idea fu presa da un terrore superstizioso. Portava disgrazia desiderare la morte di qualcuno! E anche imprecare! - Le imprecazioni ricadono su chi le lancia - diceva Mammy. Si affrettò a pregare che Melania non morisse e cominciò febbrilmente a parlare, senza neanche sapere quel che diceva. Finalmente Melania le posò una mano ardente sul polso. - Non sforzarti a discorrere, cara. So quanto sei preoccupata. E sono desolata di darti anch'io tanto pensiero. Rossella tacque, ma fu incapace di rimaner tranquilla. Che farebbe se né il dottore né Prissy tornavano in tempo? Andò alla finestra, guardò in istrada e tornò a sedere. Passò un'ora. E poi ne passò un'altra. Giunse il mezzogiorno; il sole era alto e scottante e non un soffio agitava le foglie polverose. Le doglie di Melania erano piú forti adesso. I suoi lunghi capelli erano bagnati di sudore e la camicia da notte le si incollava al corpo. Rossella le asciugò il viso senza parlare; ma si sentiva invadere dal timore. Dio mio, se il bimbo si presentasse prima dell'arrivo del dottore! Che fare? Non aveva la piú piccola nozione di ostetricia. Aveva contato, nell'eventualità, su Prissy, la quale sapeva tutto; almeno cosí aveva detto piú volte. Ma dov'era Prissy? Perché non tornava? Perché non veniva il dottore? Andò di nuovo alla finestra e in quel momento le sembrò che il rombo del cannone fosse cessato. Se si allontanava, poteva significare che la battaglia era piú vicina a Jonesboro oppure che... Vide Prissy che si avvicinava correndo e che, scorgendola alla finestra, aperse la bocca per un grido. Ma vedendo il panico scritto su quel volto nero e comprendendo che Melania si sarebbe spaventata udendo gridare una cattiva notizia, Rossella posò rapidamente il dito sulle labbra e lasciò la finestra. - Vado a prendere un po' d'acqua fresca - disse cercando di sorridere. Poi uscí chiudendo accuratamente l'uscio. Prissy era seduta sui gradini della scala, ansimando. - Stare combattendo a Jonesboro, miss Rossella! Dire che nostri stare perdendo. O Dio, miss Rossella! Che cosa succedere di mamma e di Pork? Oh Dio! Cosa succedere se yankees venire qui? Oh Dio... - Per l'amor di Dio, taci! - E Rossella le pose una mano sulla bocca. Che cosa succederebbe qui... e a Tara? Scacciò questo pensiero per preoccuparsi dell'urgenza immediata. - Dov'è il dottor Meade? Viene? - Non averlo visto, miss Rossella. - Come? - Non essere all'ospedale. Nemmeno miss Merriwether e miss Elsing. Un uomo aver detto che dottore essere sotto tettoia dei carri con feriti di Jonesboro, ma io avere avuto paura di andare sotto tettoia... esservi tanti moribondi. Io aver paura di morti... - E gli altri dottori? - Miss Rossella, non aver potuto trovare uno per far leggere tuo biglietto. Tutti correre per l'ospedale come matti. Un dottore aver detto a me di non seccare con bambini che nascere quando esserci tanti uomini che morire. Trovare donna per aiutarti. E allora io essere andata a chiedere notizie di battaglia perché tu avermi detto di domandare e tutti dire che si combatte a Jonesboro e... - Hai detto che il dottor Meade è al deposito? - Sí, badrona. - Stammi a sentire. Io vado a cercare il dottore e tu vai disopra, da miss Melania e farai tutto quello che ti dirà di fare. Ma se ti sfugge una parola sulla località della battaglia, ti mando subito nel Sud, quanto è vero Dio. E non dirle neanche che gli altri medici non possono venire. Hai capito? - Sí, badrona. - Asciúgati gli occhi, prendi una brocca d'acqua fresca e vai su. Rinfresca miss Melania con la spugna. E dille che io sono andata a chiamare il dottore. - Essere arrivato momento, miss Rossella? - Non lo so. Ho paura che sia, ma non me ne intendo. Tu devi saperlo. Vai su. Rossella prese sulla tavola dell'anticamera il suo largo cappello di paglia e se lo mise sulla testa. Si guardò nello specchio e automaticamente respinse qualche ciocca di capelli, ma senza vedersi. Piccoli brividi irradiavano dal suo stomaco per tutto il corpo, benché si sentisse tutta sudata. Uscí in fretta nella strada assolata; nel calore soffocante sentiva le tempie batterle con violenza. Da lontano udí levarsi e poi diminuire un vocío confuso. Dopo un poco cominciò ad ansimare, perché il busto era allacciato molto stretto, ma non rallentò il passo. Il vocío diventava piú forte. Verso la casa dei Leyden, in prossimità dei Cinque Punti, vi era un gran movimento; il movimento di un formicaio distrutto. Si vedevano negri correre col panico dipinto sul viso; sotto ai porticati alcuni bambini bianchi piangevano senza che nessuno se ne curasse. La strada era affollata di carri e di ambulanze rigurgitanti di feriti, e di carrozze su cui si accatastavano bauli, valige, mobili. Uomini a cavallo venivano dalle strade laterali e correvano verso il quartier generale. Dinanzi alla casa dei Bonnell vide il vecchio Amos che teneva le redini del cavallo e che la salutò con gli occhi spalancati. - Tu non andare ancora, miss Rossella? Noi andare adesso. Vecchia miss stare facendo valigia. - Andar dove? - Dio lo sa, miss. In qualche posto. Yankees stare venendo. Si affrettò senza neanche salutarlo. Gli yankees stavano venendo! Si fermò un attimo per riprender fiato e calmare il batticuore, appoggiandosi a un lampione per non svenire; in quel momento vide giungere a spron battuto un ufficiale. Istintivamente si pose in mezzo alla strada e gli fece cenno. - Fermate, per carità! Fermatevi! Egli trattenne il cavallo cosí improvvisamente che questi si drizzò sulle zampe posteriori. Il volto dell'ufficiale era segnato di stanchezza, ma egli si tolse ugualmente il cappello grigio. - Signora? - Ditemi, è vero? Gli yankees stanno venendo? - Temo di sí. - Non siete certo? - Sì, signora, sono certo. Mezz'ora fa è arrivato al Quartier Generale un dispaccio dei combattenti di Jonesboro. - Di Jonesboro? Siete sicuro? - Sicuro. Inutili le menzogne pietose, signora. Il dispaccio era del generale Hardee e diceva: «Ho perduto la battaglia e sono in piena ritirata». - Oh Dio! Il volto abbronzato dell'uomo non mostrò commozione. Egli raccolse le redini e si rimise il cappello. - Un momento, signore, vi prego... Che dobbiamo fare? - Non saprei, signora. L'esercito sta evacuando Atlanta. - E ci lascia in balia degli yankees? - Pare di sí. Spronò il cavallo e Rossella rimase in mezzo alla strada coi piedi affondati nella polvere rossa. Gli yankees stavano venendo. L'esercito partiva. Che fare? Dove fuggire? No, non poteva fuggire. C'era Melania a letto, che aspettava il bambino. Ma perché le donne partorivano? Se non ci fosse Melania, lei prenderebbe Wade e Prissy e si nasconderebbe nei boschi dove gli yankees non potrebbero trovarla. Ma era impossibile portare Melania nei boschi. No, bisognava trovare il dottor Meade. Forse potrebbe affrettare il parto. Raccolse le gonne e riprese la corsa ritmando il passo sul ritornello: «Arrivano gli yankees! Arrivano gli yankees!» Cinque Punti era formicolante di gente, di carri, di ambulanze, di carrozze cariche di feriti. Da quella folla giungeva un fragore simile a quello di un mare in burrasca. Allora uno strano spettacolo colpí i suoi occhi. Frotte di donne venivano dalla parte della ferrovia portando sulle spalle prosciutti, sacchi di patate. Accanto a loro trotterellavano bambini che inciampavano sotto fasci di canne da zucchero; ragazzi piú grandicelli trascinavano sacchi di granturco e di farina gialla. Donne, uomini, bambini, bianchi e negri si affrettavano, con visi sconvolti, trasportando involti e sacchi di viveri; piú viveri di quanti ella ne avesse visti in un anno. A un tratto la folla si aperse per dare il passo a una carrozza nella quale era la fragile ed elegante signora Elsing, con le redini in una mano e la frusta nell'altra. Pallidissima e senza cappello, coi capelli grigi che le ciondolavano sul d'orso, ella frustava il cavallo come una furia. Sul sedile posteriore della carrozza era la sua mammy negra, Melissy, che stringeva al petto con una mano un pezzo di lardo, mentre con l'altra e coi piedi cercava di trattenere le valige e le scatole ammonticchiate attorno a lei. Un sacco di piselli secchi si era aperto e il contenuto si andava disseminando lungo la strada. Rossella gridò per chiamarla, ma il vocío della folla coperse la sua voce e la carrozza continuò la sua pazza corsa. Per un istante non comprese il significato di quel movimento; ma poi, ricordando che i magazzini del commissariato erano accanto alla ferrovia, capí che erano stati spalancati al popolo perché potesse salvare quanto poteva, prima dell'arrivo degli yankees. Si aperse un varco attraverso la calca, oltrepassò la folla isterica che si agglomerava ai Cinque Punti, e si diresse con la maggior velocità possibile verso il deposito. Attraverso il groviglio dei carri e delle ambulanze e una nuvola di polvere, scorse dottori, infermieri e portatori che fasciavano frettolosamente, si chinavano, sollevavano dei corpi. Meno male; almeno troverebbe subito il dottor Meade. Quando svoltò l'angolo dell'Albergo Atlanta e giunse completamente in vista del deposito e delle rotaie, si fermò sbigottita. Sotto il sole spietato, a spalla a spalla, teste contro piedi, giacevano centinaia di feriti, sulle rotaie, sui marciapiedi, sotto le tettoie dove usualmente si ricoveravano i vagoni. Alcuni erano rigidi e tranquilli, altri si torcevano gemendo. Dovunque, sciami di mosche si avventavano ronzando sui volti degli uomini; dovunque sangue, bende sudice, gemiti, imprecazioni. Sentore di sangue, di sudore di corpi non lavati, di escrementi si levava in ondate nauseabonde. Indietreggiò portandosi le mani alla bocca, sentendo che stava per rigettare. Non poteva andare avanti. Aveva visto feriti nell'ospedale, nel prato di zia Pitty, ma mai nulla di simile. Nulla che somigliasse a quest'inferno di spasimi, di fetore, di lamentazioni e... Presto, presto, presto!... Gli yankees stavano arrivando! Fece uno sforzo su se stessa e si avanzò, cercando di distinguere fra le figure di coloro che erano in piedi il dottor Meade. Ma si accorse che se non guardava dove metteva i piedi correva rischio di calpestare qualche soldato. Sollevò le gonne e cercò di dirigersi verso un gruppo di uomini che davano degli ordini ai portantini. Mani febbrili le afferravano gli abiti e voci rauche supplicavano: - Signora... acqua! Per pietà, signora, acqua! In nome di Cristo, acqua! Il sudore le rigava il volto mentre strappava il suo abito da quelle mani convulse. Se avesse calpestato uno di quegli uomini, avrebbe urlato e sarebbe svenuta. Calpestò dei morti, uomini che avevano gli occhi spalancati e le mani rattrappite sul petto dove il sangue coagulato era appiccicato alle uniformi lacere, uomini che avevano la barba indurita dal sangue rappreso e dalle cui mascelle frantumate usciva un gemito che voleva dire: «Acqua! Acqua!» Se non trovava il dottor Meade, comincerebbe a urlare anche lei, come una pazza. Guardò verso il gruppo degli uomini e gridò con tutta la sua voce: - Dottor Meade! C'è il dottor Meade? Un uomo si staccò dal gruppo e guardò verso di lei. Era il dottore. Senza giacca e con le maniche rimboccate sino alle spalle. La camicia e i calzoni erano rossi come quelli di un macellaio, e perfino l'estremità della sua barba grigia era insanguinata. Aveva il viso di un uomo ubriaco di stanchezza, di ira impotente e di ardente pietà. Ma la sua voce era calma e decisa. - Meno male che siete venuta. Ho bisogno di tutti quanti. Per un attimo ella lo fissò sbalordita, lasciando ricadere le sue gonne che andarono a sbattere sul viso di un ferito che cercò di voltare la testa per evitare quelle pieghe soffocanti. Che voleva dire il dottore? - Presto, figliuola! Venite qui. Ella raccolse nuovamente le gonne e lo raggiunse il piú presto che poté attraverso le file di corpi. Gli mise una mano sul braccio e sentí che tremava di stanchezza; ma il suo volto non aveva traccia di debolezza. - Dottore! - esclamò. - Dovete venire. Melania sta per avere il bambino. Il dottore la guardò come se non capisse. Ella ripeté: - Melania. Il bambino. Dovete venire. Le... Come fare a dire certe cose con tanti uomini che sentivano? Ma non si poteva fare altrimenti. - Le doglie stanno aumentando. Vi prego, dottore! - Un bambino! Santo Dio! - tuonò il dottore. E a un tratto il suo volto si contrasse di odio e di rabbia verso un mondo nel quale potevano accadere simili cose. - Siete pazza? Io non posso lasciare questi uomini. Muoiono a centinaia. Non posso lasciarli. Trovate una donna che vi aiuti. Chiamate mia moglie. Aperse la bocca per dirgli la ragione per cui la signora Meade non poteva venire, ma si trattenne. Egli ignorava che suo figlio fosse ferito! Chi sa se sapendolo sarebbe rimasto lí... Qualche cosa nel suo intimo le disse che anche se Phil fosse moribondo, egli sarebbe rimasto al suo posto, dando il suo aiuto a centinaia di uomini anziché a uno solo. - Dovete venire, dottore. Voi stesso avete detto che sarà un parto difficile... - Era proprio lei, Rossella, che diceva quelle cose indelicate ad alta voce, in quell'inferno di spasimi e di lamenti? - Morrà se non venite! Meade si liberò sgarbatamente dalla mano che posava sul suo braccio e parlò come se non la udisse. - Morire? Sí, muoiono tutti quanti... tutti questi uomini. Mancano le bende, i medicinali... chinino, cloroformio. Dio, Dio, un po' di morfina! Solo un po' di morfina per i piú gravi. Solo un po' di cloroformio. Maledizione agli yankees! Maledizione agli yankees! Rossella cominciò a tremare; i suoi occhi si riempirono di lacrime di spavento. Il dottore non poteva venire. Melania morrebbe... e lei aveva desiderato che morisse. Il dottore non veniva. - In nome di Dio, dottore! Vi scongiuro! Il dottor Meade si morse le labbra; la sua mascella si irrigidí, il suo volto ridiventò freddo. - Tenterò, figliuola. Non posso promettere. Gli yankees stanno per arrivare e le truppe abbandonano la città. Non so che cosa faranno dei feriti. Non vi sono piú treni. La linea di Macon è in mano loro... Ma tenterò. Correte a casa adesso. Del resto, non ci vuol molto a raccogliere un bambino. Tagliate il cordone... Si voltò perché un sergente era venuto a parlargli, e ricominciò a dare ordini indicando questo e quel ferito. L'uomo che era ai suoi piedi guardò Rossella con compassione. Ella si volse altrove: il dottore l'aveva dimenticata. Si fece nuovamente strada in mezzo ai feriti e tornò alla Via dell'Albero di Pesco. Il dottore non veniva. Doveva cavarsela da sola. Meno male che Prissy se ne intendeva... Le doleva il capo e sentiva che il corpetto dell'abito le si incollava alla pelle per il sudore. Le gambe sembrava che non volessero piú portarla, e la strada le parve interminabile. Ma il ritornello «arrivano gli yankees!» ricominciò ad ossessionarla. Il cuore riprese a batterle con furia e le gambe ritrovarono un po' di forza. Attraversò nuovamente la folla ai Cinque Punti, tanto densa che non si poteva camminare sui marciapiedi. Passavano lunghe file di soldati coperti di polvere, disfatti dalla stanchezza. Sembravano migliaia, sudici, con la barba lunga, i fucili appesi alle spalle. Dietro a loro erano i carri d'artiglieria; i conducenti frustavano le mule macilente con rozzi staffili di pelle. Non aveva mai visto tanti soldati insieme. Ritirata! Ritirata! La soldatesca la respinse contro il marciapiedi affollato, ed ella sentí un acre odore di whisky di grano. Nella calca presso Via Decatur erano donne in abiti vistosi, i cui volti dipinti davano una nota di festa stranamente discordante. In gran parte erano ubriache, e i soldati a cui davano braccio erano piú ubriachi di loro. Ella scorse fuggevolmente una massa di riccioli rossi e vide Bella Wading; udí il suo riso stridente e avvinazzato, mentre si aggrappava a un soldato mutilato di un braccio che barcollava. Dopo avere oltrepassato i Cinque Punti, trovò la folla meno densa; raccolse allora le gonne e riprese a correre. Dinanzi alla Chiesa wesleyana si fermò: ansimava, aveva un tremendo mal di stomaco e il busto troppo stretto le segava la vita. Piombò sui gradini della chiesa e si nascose il capo fra le mani, cercando di respirare profondamente. Non aveva mai dovuto agire di sua iniziativa, in tutta la vita. Vi era sempre stato qualcuno che aveva fatto le cose per lei, che l'aveva aiutata e protetta. Le sembrava impossibile di trovarsi cosí sola, senza un vicino, senza un amico. Aveva sempre avuto amici, conoscenti e schiavi volenterosi. E in quest'ora di necessità, nessuno. Era completamente sola, atterrita, lontana da casa sua. La sua casa! Se almeno fosse laggiú, a Tara... Anche con gli yankees. Anche se Elena era ammalata. Anelava al dolce viso di Elena, alle forti braccia di Mammy attorno al suo corpo. Si alzò a fatica e riprese a camminare. Giungendo in vista della casa scorse Wade che usciva dal cancello per correrle incontro, e che, vedendola, cominciò a frignare mostrandole un ditino scorticato. - Bibi! - gridava. - Fatto bibi! - Zitto! Zitto! Altrimenti ti batto. Vai nel cortile dietro alla casa a giocare. E non ti muovere. - Wade ha fame... - piagnucolò il bimbo ficcandosi in bocca il dito ferito. - Non me n'importa. Vai nel cortile e... Guardò in alto e vide Prissy alla finestra, con lo sguardo e la preoccupazione dipinti sul viso. Rossella le accennò di scendere ed entrò in casa. Che bel fresco in anticamera! Si sciolse i nastri del cappello e lo gettò sulla tavola, passandosi il braccio sulla fronte madida di sudore. Prissy scese i gradini a tre per volta. - Essere venuto dottore? - No. Non viene. - Dio, miss Rossella! Miss Melania star male. - Il dottore non può venire. Siamo sole. Bisogna che tu prenda il bambino; io ti aiuterò. Prissy spalancò la bocca agitando la lingua senza riuscire a spiccicar parola. Guardò Rossella di sbieco, agitò i piedi, inquieta, Si contorse tutta. - Non fare la sciocca! - gridò Rossella infuriata da quell'espressione idiota. - Che c'è adesso? Prissy indietreggiò verso la scala. - Per carità, miss Rossella... - I suoi occhi erano pieni di vergogna e di spavento. - Ebbene? - Per carità... Bisogna avere dottore. Io... io... miss Rossella, io non saper niente di nascite di bambini. Mamma non aver mai voluto che io stare presente quando partorivano. Rossella si sentí mancare il respiro in un brivido di orrore, prima di essere invasa dall'ira. Prissy tentò di prender la fuga, ma Rossella l'afferrò. - Brutta negra bugiarda... che vuoi dire? Mi hai detto che sapevi tutto quello che bisogna fare... Qual è la verità? Parla! - La scrollò furiosamente. - Aver detto bugia! Non sapere come aver mentito... Io aver visto solo un bambino, dopo essere nato, perché Mamma avermi mandata via per non farmi guardare. Rossella la fissò; Prissy indietreggiò nuovamente. Per un attimo la mente della giovine donna si rifiutò ad accogliere la verità; ma quando comprese che Prissy non ne sapeva di ostetricia piú di quanto ne sapesse lei, si sentí infiammare dalla collera. Non aveva mai battuto uno schiavo in tutta la sua vita; ma ora percosse quella guancia nera con tutta la forza del suo braccio stanco. Prissy urlò, piú per paura che per dolore e cominciò ad agitarsi per liberarsi dalla stretta di Rossella. Mentre quella gridava, il gemito al secondo piano cessò e la voce di Melania, debole e tremante, chiamò: - Sei tu, Rossella? Vieni, ti prego! Rossella lasciò il braccio di Prissy, la quale cadde a terra piagnucolando, e per un attimo rimase immobile, ascoltando il gemito che era ricominciato. Ebbe l'impressione di sentirsi schiacciare da un giogo; un peso che le gravava sulla nuca e che avrebbe sentito piú greve appena avesse mosso un passo. Cercò di ricordarsi tutto quello che Elena e Mammy avevano fatto per lei quando era nato Wade; ma quasi tutto si perdeva in una nebbia confusa. Comunque, ricordando qualche cosa, parlò rapidamente e con autorità a Prissy. - Accendi il fuoco e metti a bollire dell'acqua nella caldaia. E porta su tutti gli asciugamani che trovi e quella balla di cotone. Portami anche le forbici. Non venirmi a dire che non le trovi. Cercale e portamele. Svelta. Rimise in piedi Prissy e la mandò in cucina con una spinta. Poi si irrigidí e cominciò a salire le scale. Sarebbe difficile dire a Melania che solo lei e Prissy avrebbero dovuto aiutare il bimbo a venire al mondo.

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Se i Confederati avrebbero abbandonato il posto senza combattere? I Confederati... com'erano pochi! E Sherman aveva tanti uomini e tutti ben nutriti! Sherman! Quel nome la sgomentava come quello di Satana. Ma non vi era tempo di pensarci adesso, perché Melania chiamava per avere un po' d'acqua, un asciugamani asciutto sulla testa e perché le scacciasse le mosche dal viso. Al crepuscolo, mentre Prissy, sgambettando come un piccolo fantasma nero, accendeva la lampada, Melania si sentí piú debole. Cominciò a chiamare Ashley, con una insistenza che sembrava delirio, finché Rossella provò il desiderio di soffocare quella voce monotona con un guanciale. Forse il dottore avrebbe finito col venire. Con un barlume di speranza, alzò la testa e ordinò a Prissy di correre alla casa del dottor Meade a vedere se lui, o la signora, fossero tornati. - E se non c'è, chiedi alla signora Meade o alla cuoca che cosa bisogna fare. Pregale di venire! Prissy uscí di corsa e Rossella la vide allontanarsi con una velocità di cui non l'avrebbe creduta capace. Dopo un certo tempo tornò, sola. - Dottore non essere venuto a casa tutto il giorno. Forse essere andato via con soldati. Miss Rossella, Mist' Phil essere finito. - Morto? - Sí, badrona. Talbot, il cocchiere avere detto che essere stato... - Non importa. - Non avere visto miss Meade. Cuoca aver detto che miss Meade voler lavarlo e seppellirlo prima che arrivare yankees. Cuoca dice che se doglie essere troppo forti, tu mettere un coltello sotto il letto e questo tagliare doglie in due. Rossella provò il desiderio di batterla ancora; ma Melania aveva spalancato gli occhi terrorizzata e stava bisbigliando... - Dio mio... stanno venendo gli yankees? - No - rispose Rossella risoluta. - Prissy è una bugiarda. - Sí, badrona - annuí Prissy con calore. - Stanno arrivando - sussurrò Melania senza lasciarsi ingannare; e nascose il viso tra i guanciali. La sua voce giunse alle orecchie di Rossella come un soffio. - Il mio povero piccino... Il mio povero piccino... - E, dopo un lungo intervallo: - Tu non devi restare qui, Rossella. Devi prendere Wade e andar via. Era ciò che Rossella pensava; ma udirlo da Melania la irritò, e le diede un senso di vergogna, come se la sua vigliaccheria fosse scritta a chiare lettere sul suo viso. - Non dire sciocchezze. Non ho paura. E sai che non ti lascerò. - Potresti anche andare... Tanto, io sto per morire... - E riprese a mugolare.

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Quelle due linee parallele di alberi cupi erano sue, suo quel prato abbandonato, invaso dalle erbacce cresciute enormemente sotto i giovani alberelli di magnolie. I campi incolti e circondati di pinastri e di cespugli spinosi, che ai quattro lati stendevano lontana la loro superficie di argilla rossiccia, appartenevano a Geraldo O'Hara... erano suoi perché egli aveva un ostinato cervello irlandese, e il coraggio di arrischiare tutto su un colpo alle carte. Geraldo chiuse gli occhi e, nel silenzio del terreno senza lavoratori, sentí di essere giunto a casa. Qui, sotto i suoi piedi, sorgerà una casa di mattoni intonacati. Al di là della strada saranno nuove barriere di legno e di ferro, dietro alle quali pascoleranno mandrie ben pasciute e cavalli di razza; e il terreno sanguigno che giunge dalla collina al fertile fondo valle risplenderà al sole di un candore piumoso: cotone, jugeri e jugeri di cotone! La fortuna degli O'Hara risorgerà a nuovo splendore! Col piccolo peculio guadagnato che i fratelli gli liquidarono con scarso entusiasmo, e con una sommetta ottenuta mettendo un'ipoteca sul terreno, Geraldo comprò i primi agricoltori e si stabilí a Tara vivendo in solitudine nella casetta di quattro stanze del sorvegliante, fino al giorno in cui avrebbe potuto costruire la casa bianca. Dissodò i campi in cui piantò il cotone e si fece prestare altro denaro da Giacomo e da Andrea per comprare un maggior numero di schiavi. Gli O'Hara erano una tribú irlandese, unita nella prosperità come nell'avversità, non per eccessiva affezione famigliare, ma perché avevano imparato durante gli anni dolorosi, che una famiglia deve, per poter sopravvivere, presentare al mondo un fronte compatto. Prestarono il denaro a Geraldo, il quale, negli anni seguenti, lo restituí con gli interessi. Gradatamente la piantagione s'ingrandí, perché Geraldo comprò ancora del terreno vicino; e col tempo la casa bianca divenne una realtà invece di un sogno. Fu costruita dagli schiavi ed era un edificio largo e pesante che coronava il cocuzzolo dominante il verde pendio che giungeva sino al fiume; e piaceva molto a Geraldo perché anche quand'era nuova aveva l'apparenza di essere fabbricata da diversi anni. La vecchie quercie che avevano visto passare sotto il loro fogliame gli indiani circondavano la casa coi loro grossi tronchi e spandevano coi loro rami un'ombra densa sul tetto. Il prato, ripulito dalle erbacce, si ricoprí di trifoglio e di erba medica e Geraldo sorvegliò che fosse ben tenuto. Dal viale dei cedri alle bianche capanne del quartiere degli schiavi era in tutta Tara un'aria di solidità e di stabilità; e quando Geraldo girava al galoppo la curva della strada e vedeva tra i rami verdi il tetto della sua casa, il suo cuore si gonfiava di orgoglio, come se lo vedesse per la prima volta. Era tutto opera sua, del piccolo, cocciuto e rumoroso Geraldo. Ed egli era in ottimi rapporti con tutti i suoi vicini, meno coi MacIntosh, il cui terreno confinava col suo a sinistra, e con gli Slattery i cui miseri tre jugeri si stendevano alla destra, lungo le paludi tra il fiume e la piantagione di John Wilkes. I MacIntosh erano scozzesi - irlandesi e Orangisti; e se anche avessero posseduto tutte le sante qualità del calendario cattolico, questa provenienza li avrebbe resi maledetti per sempre agli occhi di Geraldo. Veramente vivevano in Georgia da settant'anni e, prima, avevano trascorso il tempo di una generazione nella Carolina; ma il primo della famiglia che aveva messo piede sulle rive americane era giunto da Ulster, e questo bastava per Geraldo. Era una famiglia di gente rigida e taciturna, che viveva per conto proprio e si sposava fra parenti; Geraldo non era il solo ad avere antipatia per loro, perché la gente della Contea era socievole e cordiale, e non tollerava negli altri la mancanza di queste qualità. La fama di aver simpatia per gli abolizionisti non aumentava la popolarità dei MacIntosh. Il vecchio Angelo non aveva mai manomesso un solo schiavo ed aveva commesso l'imperdonabile colpa di vendere alcuni dei suoi negri a mercanti di schiavi di passaggio che si recavano ai campi di zucchero della Luisiana; ma le voci persistevano. - È un abolizionista, non vi è dubbio, - osservava Geraldo a John Wilkes: - Ma in un Orangista, quando un principio è contrario all'avarizia scozzese, non viene piú rispettato. Con gli Slattery la faccenda era diversa. Essendo essi dei bianchi miserabili non si aveva per loro neanche il forzato rispetto che l'indipendenza di Angelo Macintosh otteneva dalle famiglie dei vicini. Il vecchio Slattery, che rimaneva disperatamente attaccato ai suoi pochi jugeri di terreno malgrado le ripetute offerte di Geraldo e di John Wilkes, era inetto e piagnucoloso. Sua moglie era una donna coi capelli scarmigliati, di aspetto pallido e malaticcio, madre di una nidiata che aumentava regolarmente ogni anno. Tom Slattery non possedeva schiavi; lui e i suoi due figli maggiori coltivavano spasmodicamente i Ioni pochi jugeri di cotone, mentre la moglie e i figli minori si occupavano del cosiddetto podere. Ma il cotone non cresceva mai bene e l'orto, a causa delle continue gravidanze della signora, forniva raramente di che nutrire il modesto armento. La vista di Tom Slattery che gironzolava sotto i porticati dei vicini, mendicando dei semi di cotone o un po' di lardo per poter tirar avanti, era frequente. Slattery odiava i suoi vicini con quel po' di energia che possedeva, intuendo il loro disprezzo sotto alla loro cortesia; e specialmente odiava i negri servi di questi ricchi. Gli schiavi negri della Contea si consideravano superiori ai «rifiuti bianchi» e il loro non celato disprezzo lo feriva, cosí come la loro piú sicura posizione nella vita destava la sua invidia. Egli conduceva un'esistenza miserabile mentre essi erano ben nutriti, ben vestiti, e curati quando erano vecchi e ammalati. Essi erano fieri del buon nome dei loro padroni e generalmente fieri di appartenere a gente che era «qualcuno», mentre Slattery era disprezzato da tutti. Egli avrebbe potuto vendere la sua proprietà per il triplo del suo valore a qualsiasi piantatore della Contea; chiunque avrebbe considerato bene speso il denaro che liberava il Paese da un individuo spiacevole; ma egli preferiva rimanere e vivere miseramente del ricavato di una balla di cotone all'anno e della carità dei suoi vicini. Col rimanente degli abitanti della Contea, Geraldo era in rapporti di amicizia e con qualcuno di intimità. I Wilkes, i Calvert, i Tarleton, i Fontaine sorridevano quando la piccola figura sul grande cavallo bianco galoppava lungo i loro viali; e facevano cenno perché fossero portati dei grandi bicchieri in cui era stato versato una buona quantità di whisky su una cucchiaiata di zucchero e un pizzico di menta tritata. Geraldo era simpatico e i vicini apprendevano col tempo ciò che i bambini, i negri e i cani scoprivano a prima vista e cioè che dietro ai suoi modi truculenti e alla sua voce reboante si nascondeva un cuore ottimo, un orecchio sempre pronto ad ascoltare e un portafogli che si apriva con facilità. Il suo arrivo provocava sempre un tumulto di cani che abbaiavano e di bambini negri che urlavano correndogli incontro, litigando fra loro per il privilegio di tenere il suo cavallo, e poi si torcevano e ridevano ai suoi insulti scherzosi. I bambini bianchi volevano sedere sulle sue ginocchia per fare il cavalluccio, mentre egli denunciava ai loro genitori l'infamia degli uomini politici inglesi; le figlie dei suoi amici gli confidavano i segreti amorosi e i giovinotti del vicinato, che avevano paura di confessare ai loro padri i debiti d'onore, trovavano in lui un amico pronto ad aiutarli. - Avevi questo debito da un mese, ragazzaccio! - gridava. - Ma, in nome di Dio, perché non mi hai chiesto il denaro prima? Il suo modo ruvido di parlare era troppo noto per offendere; il giovanotto si limitava a sorridere imbarazzato rispondendo: - Non volevo disturbarvi, signore, e mio padre... - Tuo padre è un buon uomo, ma un po' tirato; prendi questi e non ne parliamo piú. Le mogli dei piantatori furono le ultime a capitolare. Ma la signora Wilkes (una gran signora che ha il dono di saper tacere, come la definiva Geraldo) disse una sera a suo marito, dopo aver visto Geraldo scomparire in fondo al viale - parla in modo volgare, ma è un signore; e allora la posizione di O'Hara fu assicurata. Egli non sapeva che gli c'erano voluti quasi dieci anni per arrivare, perché non si era mai accorto che da principio i suoi vicini lo guardavano storto. Nella sua mente non vi era mai stato alcun dubbio in proposito, dal momento in cui aveva messo piede a Tara. Quando ebbe compiuto quarantatré anni - cosí atticciato di corpo e florido di volto che sembrava un gentiluomo sportivo - gli venne in mente che Tara, per quanto fosse piacevole, e gli abitanti della Contea, per quanto avessero il cuore e la casa aperti per lui, non erano abbastanza. Gli ci voleva una moglie. Tara aveva bisogno di una padrona. Il grasso cuoco, un negro agricoltore elevato a quel grado per necessità di cose, non era mai puntuale nel preparare i pasti; e la cameriera, che prima lavorava essa pure nei campi, lasciava che la polvere si accumulasse sui mobili e non aveva mai tovaglie pulite, sicché l'arrivo di ospiti era sempre occasione di subbuglio e di confusione. Pork, l'unico negro abituato a servire in casa, aveva l'incarico di sorvegliare gli altri servitori, ma anche lui era diventato negligente e trascurato dopo tanti anni di vita rilassata. Come servitore teneva in ordine la camera da letto di Geraldo, e come cameriere serviva a tavola con dignità e con stile; ma oltre a questo, lasciava che le cose seguissero il loro corso. Con l'infallibile istinto africano, i negri avevano tutti scoperto che Geraldo era un cane che abbaiava ma non mordeva, e ne approfittavano vergognosamente. Si sentivano sempre alte minaccie di vendere gli schiavi o di frustarli a sangue, ma nessuno schiavo era mai stato venduto fra quelli di Tara e una sola frustata vi era stata; somministrata soltanto perché il cavallo preferito di Geraldo non era stato strigliato dopo una lunga giornata di caccia. Gli occhi azzurri di Geraldo osservavano come erano ben tenute le case dei suoi vicini e con che facilità le donne dai capelli ravviati e dagli abiti fruscianti, dirigevano la servitú. Egli ignorava l'attività di queste donne dall'alba a mezzanotte, fra la sorveglianza della cucina, del bucato, del rammendo e l'allevamento dei bimbi. Vedeva soltanto i risultati esteriori e questi l'impressionavano. L'urgente necessità di una moglie gli apparve chiaramente una mattina mentre si stava vestendo per recarsi in città ad assistere a un'udienza al Tribunale. Pork tirò fuori la miglior camicia a pieghettine di Geraldo cosí malamente rammendata che ormai solo il domestico avrebbe potuto metterla. - Mister Geraldo - aveva detto mentre ripiegava con riconoscenza la camicia e Geraldo strepitava - quello che tu avere bisogno è moglie; una moglie che avere buon numero di negri per la casa. Gerardo rimproverò Pork per la sua impertinenza, benché fosse convinto che aveva ragione. Aveva bisogno di una moglie e aveva bisogno di bambini; e se non provvedeva subito, poi sarebbe troppo tardi. Ma non voleva sposare la prima venuta, come aveva fatto il signor Calvert, che aveva impalmato la governante inglese dei suoi bambini orfani di madre. Sua moglie doveva essere una signora, una vera signora dignitosa ed elegante come la signora Wilkes, e capace di governare Tara come la signora Wilkes governava la sua proprietà. Ma nelle famiglie del Contea vi erano due difficoltà. La prima era la scarsità di fanciulle in età da marito. La seconda, piú seria, era che Geraldo era un «uomo nuovo», malgrado i suoi dieci anni di residenza, e uno straniero. Non si sapeva nulla della sua famiglia. Pur essendo meno inespugnabile dell'aristocrazia della Costa, la società della Georgia settentrionale non avrebbe mai ammesso che una delle sue figliuole sposasse un uomo del quale si ignorava chi fosse il nonno. Geraldo sapeva che, malgrado la simpatia sincera degli uomini della Contea coi quali cacciava, beveva e parlava di politica, non avrebbe potuto sposare la figlia di nessuno di loro. E non voleva che si potessero far delle chiacchiere attorno alle tavole, a cena, sul fatto che questo o quell'altro padre avesse con rammarico rifiutato a Geraldo O'Hara il permesso di far la corte alla sua figliuola. Non per questo Geraldo si sentiva inferiore ai suoi vicini; d'altronde nulla e nessuno avrebbe mai potuto far sí che egli si sentisse inferiore a chiunque. Soltanto, riconosceva che era una strana costumanza della Contea, quella che faceva maritare le ragazze solo con persone appartenenti a famiglie che vivevano nel sud da oltre vent'anni, e che durante tutto quel tempo erano stati possessori di schiavi e si erano dedicati unicamente ai vizi eleganti. - Prepara il bagaglio. Andiamo a Savannah - disse a Pork. - E se ti sento emettere una sola imprecazione, ti vendo immediatamente, perché sono espressioni che io stesso uso ben raramente. Giacomo e Andrea avrebbero potuto certamente dargli dei consigli intorno a questa faccenda del matrimonio; e forse tra i loro vecchi amici poteva esservi qualche fanciulla che avesse i requisiti voluti e che lo trovasse accettabile come marito. I fratelli ascoltarono pazientemente la sua storia ma non gli diedero eccessivo incoraggiamento. Non avevano parenti a Savannah a cui rivolgersi, perché entrambi erano già sposati quando erano venuti in America! E le figlie dei loro vecchi amici erano maritate da un pezzo e avevano già dei bambini. - Sei un uomo ricco ma non di grande famiglia - osservò Giacomo. - Sono diventato ricco e la grande famiglia me la farò. Ma non voglio sposare la prima venuta. - Hai delle vedute alte - replicò Andrea seccamente. Ma fecero del loro meglio per aiutare Geraldo. Erano ormai anziani e si erano creati a Savannah un cerchio di amicizie. Per un mese condussero Gerardo di casa in casa, facendogli frequentare balli, cene, picnic. - Ce n'è una che mi piace - disse finalmente Geraldo - una ragazza che quando io sbarcai in America non era ancora nata. - E chi sarebbe? - Miss Elena Robillard - e la risposta cercò di avere un tono indifferente, perché gli occhi neri e lievemente obliquati in basso di Elena lo avevano colpito piú di quanto volesse dire, e il suo modo di fare, ingannevolmente incurante, cosí strano in una fanciulla quindicenne, lo aveva affascinato. Inoltre vi era in Elena una continua espressione di disperazione che gli andava al cuore e lo rendeva piú gentile con lei che non fosse mai stato con nessun altro. - Ma potresti esser suo padre! - Sono nel fiore della vita! - ribatté Geraldo, punto. Giacomo prese la parola, con calma. - Ascoltami, Jerry: non vi è ragazza in Savannah con la quale tu possa aver minori probabilità. Suo padre è un Robillard; e questi francesi sono orgogliosi come Lucifero. E sua madre - Dio l'abbia in gloria - era una gran signora. - Non me n'importa - si ostinò Geraldo. - Del resto, sua madre è morta e il vecchio Robillard mi vuol bene. - Come uomo, sí; ma come genero, no. - E poi la ragazza non ti accetterebbe - intervenne Andrea. - Da un anno fa l'amore con quel ragazzaccio di suo cugino, Filippo Robillard, benché la sua famiglia la tormenti giorno e notte perché lo lasci. - È partito il mese scorso per la Luisiana. - Come lo sai? - Lo so. - E Geraldo non volle svelare che quest'informazione gli veniva da Pork né che Filippo era andato in Occidente per espresso desiderio della sua famiglia. - E non credo che ne sia tanto innamorata da non poterlo dimenticare. Quindici anni son troppo pochi, perché l'amore sia profondo. - Preferiranno quel rompicollo di cugino a te. Giacomo e Andrea furono quindi stupiti come tutti gli altri quando si sparse la notizia che la figlia di Pierre Robillard avrebbe sposato il piccolo irlandese. I commenti furono infiniti e tutta la città chiacchierò sul conto di Filippo Robillard che era andato in Occidente; ma le chiacchiere rimasero lettera morta. E fu sempre per tutti un mistero perché la piú bella delle figlie di Robillard accettasse di sposare quel rumoroso ometto dal viso rosso, che le arrivava appena alle spalle. Neanche Geraldo comprese mai perfettamente com'era andata la cosa. Sapeva soltanto che era accaduto un miracolo. E fu l'unica volta in vita sua che si sentí umile umile, quando Elena, pallidissima ma calma, posò leggermente una mano sul suo braccio dicendogli: - Vi sposerò, Mr. O'Hara. I Robillard, sbalorditi, conobbero la risposta; ma solo Elena e la sua Mammy seppero tutta la tristezza di quella notte in cui la fanciulla singhiozzò fino all'alba come una bambina col cuore spezzato, alzandosi al mattino con una ferma decisione. Con un doloroso presentimento, la bambinaia aveva portato alla sua padroncina un pacchetto proveniente da Nuova Orléans, con l'indirizzo scritto da una mano ignota; nel pacchetto era una miniatura di Elena, che ella lasciò cadere a terra con un grido, quattro lettere scritte da lei a Filippo Robillard e poche parole di un sacerdote di Nuova Orléans che le annunciava la morte di suo cugino in una rissa d'osteria. - Lo hanno cacciato via, il babbo, Paolina e Eulalia. Lo hanno cacciato via. Li odio. Non voglio piú vederli. Voglio andar via. Voglio andare tanto lontano da non vedere mai piú né loro né questa città né chiunque mi ricordi... lui. E al sorger del giorno, la nutrice, che aveva anch'essa pianto china sul capo bruno della sua padrona, aveva esclamato: - Ma non puoi far questo, tesoro! - Lo farò. È un brav'uomo. Lo farò, o andrò a chiudermi in un convento a Charleston. Fu la minaccia del convento che finalmente strappò il consenso a Pierre Robillard, che non rinveniva dallo stupore e dal dolore. Era un fedele presbiteriano, benché la sua famiglia fosse cattolica; e l'idea che sua figlia diventasse monaca gli era anche piú penosa del pensiero che fosse moglie di Geraldo O' Hara. Dopo tutto, contro costui non si poteva dir nulla, se non che non aveva famiglia. Cosí Elena, non piú Robillard, volse le spalle a Savannah per non rivederla mai piú e partí per Tara con un marito di mezz'età, la sua nutrice e venti «negri di casa». Dopo un anno nacque la prima bambina a cui diedero il nome di Caterina Rossella, come la mamma di Geraldo. Geraldo fu deluso, perché desiderava un maschio, ma ciò nondimeno fu abbastanza soddisfatto della sua bambina bruna da offrire, in segno di gioia, il rum a tutti i suoi schiavi, ubbriacandosi anche lui, felice e rumoroso. Nessuno può dire se Elena rimpianse mai la sua decisione di sposare Geraldo; meno di tutti suo marito, il quale non stava nella pelle ogni volta che la guardava. Ella aveva scacciato dalla sua mente Savannah e i suoi ricordi, da quando aveva lasciato quella graziosa città marittima; e dal momento in cui era giunta nella Contea, la Georgia era diventata il suo paese. Lasciando per sempre la dimora di suo padre, ella aveva abbandonato una casa le cui linee erano dolci e morbide come quelle di un corpo di donna, come quelle di una nave a vele spiegate; una casa intonacata di un pallido rosa, costruita nello stile coloniale francese, elegantemente sollevata sul suolo da palafitte a colonne, e a cui si saliva mediante scale a spirale, con ringhiere di ferro battuto che sembravano un merletto: una casa ricca e graziosa, ma lontana. Ella aveva abbandonato non solo la bella abitudine, ma anche tutta la civiltà che era dietro quell'edificio; e si trovava in un mondo cosí strano e diverso come se fosse addirittura in un altro continente. La Georgia settentrionale era una regione aspra, abitata da gente aspra anch'essa. Dall'altipiano che si ergeva al disotto delle cime delle Montagne Azzurre, ella vedeva ovunque distese ondulate rossicce, con vasti spazi su cui affiorava il granito sottostante ed enormi pini che torreggiavano cupamente dovunque. Tutto sembrava selvaggio e inospitale ai suoi occhi abituati alla costa e alla tranquilla bellezza delle isole drappeggiate nel muschio grigio e verde, con le larghe strisce di rena ardente sotto il sole semitropicale, le lunghe distese di terra sabbiosa ornata di palmizi. Questa era una regione che conosceva tanto il freddo dell'inverno quanto il calore dell'estate; e nel popolo erano un vigore e un'energia che la sorprendevano. Era gente buona, gentile, generosa, ma risoluta, virile, facile all'ira. Gli abitanti della Costa che ella aveva abbandonato si vantavano di occuparsi di ogni cosa, anche dei loro duelli e delle loro proprietà, con aria noncurante; ma questi Georgiani erano invece dotati di violenza. Sulla Costa la vita era molle; qui era giovanile, nuova, piena di vivacità. Tutte le persone che Elena aveva conosciuto a Savannah erano dello stesso stampo: avevano tutti quanti gli stessi punti di vista, e le stesse tradizioni; qui vi era invece una grande varietà. I colonizzatori della Georgia settentrionale venivano da molti luoghi diversi: da altre parti della Georgia stessa, dalla Carolina, dalla Virginia, e anche dall'Europa e dal Nord. Alcuni, come Geraldo, erano individui recatisi colà a cercar fortuna. Altri, come Elena, erano membri di vecchie famiglie che trovavano la vita insopportabile nel loro paese e avevano cercato rifugio altrove. Altri ancora si erano trapiantati senza alcuna ragione se non che il sangue irrequieto dei loro padri nomadi scorreva ancora nelle loro vene. Questa gente, arrivata da luoghi diversi e con diverse origini, dava alla vita della Contea una mancanza di formalismo che per Elena era assolutamente nuova ed alla quale non riuscí mai ad abituarsi completamente. Sapeva per istinto che cosa avrebbe fatto uno della Costa in certe date circostanze; non riuscí mai a prevedere che cosa avrebbe fatto, nelle stesse circostanze, un Georgiano del nord. Ciò che dava vita al commercio della regione era l'ondata di prosperità che allora volgeva verso il Sud. Tutto il mondo chiedeva cotone, e il nuovo terreno della Contea, fertile e non sfruttato, ne produceva in abbondanza. Il cotone era la pulsazione del cuore del paese; la semina e il raccolto erano la sistole e diastole della vermiglia terra. Dai solchi sinuosi veniva la ricchezza e anche l'arroganza; arroganza fondata sui verdi cespugli e sugli ettari di un bianco fioccoso. Se il cotone poteva farli ricchi in una generazione, quanto piú ricchi sarebbero nella prossima! La certezza dell'indomani dava entusiasmo e gioia di vivere; e la gente della Contea godeva la vita con un fervore che Elena non riuscí mai a comprendere. Avevano abbastanza denaro e abbastanza schiavi per avere anche il tempo di divertirsi; e si divertivano volentieri. Sembrava che non fossero mai tanto occupati da dover mancare a una partita di pesca, a una caccia o a una corsa di cavalli: ed era raro che passasse una settimana senza la sua riunione a base di porchette arrostite e il suo ballo. Elena non avrebbe mai potuto o voluto diventare simile a loro - aveva lasciato a Savannah troppo di se stessa - ma li rispettava e, col tempo ammirò la franchezza e la rettitudine di quel popolo che aveva poche reticenze ed apprezzava un uomo per quel che valeva. Divenne la signora piú amata della Contea. Era una vigile ed economa padrona di casa, una buona madre e una moglie devota. L'altruismo che avrebbe dedicato alla Chiesa fu invece consacrato al servizio dei suoi figliuoli, della sua casa e dell'uomo che l'aveva allontanata da Savannah e dai suoi ricordi e non le aveva mai rivolto alcuna domanda. Quando Rossella ebbe un anno - piú sana e vigorosa di qualsiasi altra bambina, secondo Mammy - nacque la seconda bambina di Elena, Susanna Eleonora, sempre chiamata Súsele, e, alla debita distanza, venne Carolene, iscritta nella Bibbia familiare come Carolina Irene. Seguirono poi tre maschietti, ognuno dei quali morí prima di avere imparato a camminare; tre bambini che ora dormivano sotto i cedri contorti, nel cimitero a cento metri dalla casa, sotto tre pietre ciascuna delle quali portava l'iscrizione «Geraldo O' Hara, Jr.» Dal giorno in cui Elena giunse a Tara, il luogo fu trasformato. Benché avesse solo quindici anni, ella era nondimeno pronta per tutte le responsabilità di una padrona di piantagione. Anche allora, prima del matrimonio, le ragazze dovevano essere soprattutto belle, gentili, decorative; ma dopo sposate, bisognava che fossero in grado di dirigere un'azienda domestica che contava oltre cento persone, fra bianchi e negri; e venivano educate in vista di questo. Elena aveva ricevuto quella preparazione per il matrimonio che veniva data a tutte le fanciulle di buona nascita; inoltre aveva con sé Mammy, la quale, con la sua energia, era capace di galvanizzare il negro piú inetto. In breve ella portò nel governo della casa di Geraldo ordine e dignità e diede a Tara una bellezza che non aveva mai avuta prima. La casa era stata costruita senza alcun piano architettonico prestabilito, aggiungendo delle camere quando occorrevano; ma con l'attenzione e la cura di Elena, acquistò un fascino speciale che derivava appunto dalla sua mancanza di disegno. Il viale di cedri che conduceva dalla strada principale alla casa - quel viale di cedri senza il quale nessuna casa di piantatore georgiano sarebbe stata completa - spandeva un'ombra cupa e fresca che per contrasto dava maggior vivezza e splendore al verde degli altri alberi. Il convolvolo che si arrampicava sulle verande appariva di un verde chiaro sul bianco delle mura; e insieme ad esso il rosa dei cespugli di ibisco accanto alla porta e le magnolie dai candidi fiori che si ergevano sulla spianata, nascondevano alquanto le linee goffe dell'edificio. In primavera e in estate il trifoglio e l'erba medica del prato diventavano color smeraldo, di uno smeraldo cosí seducente che rappresentava una tentazione irresistibile per i branchi di tacchini e di oche bianche che avrebbero, in realtà, dovuto abitare solo le regioni dietro alla casa. I volatili tentavano sempre delle clandestine avanzate sulla spianata, attratti dal verde dell'erba e dalla seducente promessa dei cespugli di gelsomini del Capo e delle aiuole di zinnie. Contro le loro ruberie era stata installata sotto al porticato una piccola sentinella nera. Il bambino seduto sui gradini, armato di un grande straccio bianco, faceva parte del quadro di Tara; ma era molto infelice perché gli era proibito di inseguire i gallinacei e doveva limitarsi a gridare e ad agitare lo straccio per spaventarli. Elena addestrava a questo còmpito dozzine di bambini negri: era il primo ufficio con una responsabilità che gli schiavi maschi avessero a Tara. Dopo i dieci anni venivano mandati dal vecchio Daddy, il ciabattino della piantagione per imparare il suo mestiere, o da Amos, il carpentiere, o da Filippo, il vaccaro, o da Cuffee, il guardiano delle mule. Se non mostravano attitudine per alcuno di questi mestieri, diventavano coltivatori e, nell'opinione dei negri, avevano perso il diritto a qualsiasi posizione sociale. La vita di Elena non era facile né felice; ma ella non si era aspettata che fosse facile, e quanto alla felicità, quello era il destino della donna. Il mondo era degli uomini ed ella lo accettava cosí. L'uomo era lodato per l'ordine della sua proprietà e la donna lodava la sua abilità. L'uomo rugghiava come un toro se una scheggia gli si ficcava in un dito e la donna soffocava i gemiti, quando metteva al mondo un figlio, per timore di disturbarlo. Gli uomini erano sgarbati e spesso ubriachi. Le donne ignoravano le cattive parole e mettevano gli ubriachi a letto senza parlare. Gli uomini erano rudi e brontoloni, le donne erano sempre buone, gentili e disposte a perdonare. Era stata educata nella tradizione delle grandi dame e le era stato insegnato a sopportare i propri dolori conservando il suo sorriso; ed ella intendeva che anche le sue tre figlie fossero, come lei delle vere signore. Con le figlie piú giovani era riuscita, perché Súsele desiderava tanto di essere piacente che prestava orecchio attento agli insegnamenti di sua madre, e Carolene era timida e facile da guidare. Ma, per Rossella, figlia di Geraldo, la via della signorilità fu dura. Con grande indignazione di Mammy, ella preferiva compagni di gioco che non fossero le sue ubbidienti sorelline o le bene educate fanciulle Wilkes, ma i bambini negri della piantagione e i maschietti del vicinato, ed era capace di arrampicarsi su un albero e di lanciar sassi. Mammy era molto turbata che la figlia di Elena avesse simili inclinazioni, e spesso la scongiurava di «condursi come una signora», ma Elena considerava la faccenda con una tolleranza piú lungimirante. Ella sapeva che i compagni d'infanzia sarebbero piú tardi diventati dei corteggiatori; e il primo dovere di una ragazza era sposarsi. Diceva quindi fra sé che la bimba era semplicemente piena di vita e che vi era tempo per insegnarle le arti e i modi che attraggono gli uomini. A tal fine Elena e Mammy riunirono i loro sforzi, e col passare degli anni, Rossella divenne una buona allieva, ma solo in questa materia, ché per tutto il resto imparava assai poco. Malgrado una successione di istitutrici e due anni trascorsi nella Accademia Femminile di Fayetteville, la sua educazione era incompleta; ma nessuna fanciulla della Contea parlava piú graziosamente di lei. Ella sapeva sorridere con garbo, camminare facendo ondeggiare i cerchi della sua gonna in modo attraente, sapeva guardare un uomo in faccia e poi abbassare gli occhi e battere le palpebre rapidamente in modo che sembrasse il tremito di una dolce emozione; e, soprattutto, aveva imparato a nascondere agli uomini un'intelligenza acuta sotto un viso dolce e semplice come quello di un bambino. Elena con la sua voce ammonitrice e Mammy con le sue costanti censure cercavano d'inculcare in lei le qualità che l'avrebbero resa veramente desiderabile come moglie. - Devi essere piú dolce, cara, piú remissiva - diceva Elena. - Non devi interrompere gli uomini che ti parlano, anche se credi di saperne piú di loro sull'argomento. Gli uomini non amano le ragazze troppo perspicaci. - Ragazze superbe che darsi arie e dire «voglio questo, voglio quello» di solito non trovare marito - profetizzava cupamente Mammy. - Le ragazze dovere abbassare occhi e dire «bene signore» e poi «Sí signore» e «avete ragione signore.» Le insegnarono dunque tutto ciò che una gentildonna doveva sapere, ma ella imparò soltanto la vernice della gentilezza. Non apprese mai la grazia interiore da cui questa gentilezza doveva sgorgare, e non vedeva neppure la ragione di apprenderla. Le apparenze bastavano, perché le apparenze della signorilità le acquistavano dei corteggiatori; ed ella non desiderava di piú. Geraldo proclamava che sua figlia era la piú bella di cinque Contee, e con un certo fondo di verità; infatti ella ebbe proposte di matrimonio da quasi tutti i giovani del vicinato ed anche da luoghi lontani, come Atlanta e Savannah. A sedici anni, grazie a Mammy e ad Elena, appariva gentile, simpatica e briosa, mentre in realtà era volontaria, vana e caparbia. Aveva ereditato la facile eccitabilità del padre irlandese e nulla della natura altruista e indulgente di sua madre, se non d'apparenza. Elena non si rese mai completamente conto che era soltanto una vernice, perché Rossella le mostrava soltanto il suo volto migliore, nascondendo le sue scappate, piegando il suo temperamento e apparendo in presenza di Elena piú dolce che poteva, perché sua madre, con un solo sguardo di rimprovero, riusciva a mortificarla fino alle lagrime. Ma Mammy non aveva illusioni sul suo conto ed era continuamente sul «chi vive» per le screpolature della vernice. Gli occhi di Mammy erano piú acuti di quelli di Elena, e Rossella non ricordava di essere mai riuscita ad ingannarla per molto tempo. Non che questi due mentori affettuosi deplorassero la vivacità, il fascino e la disinvoltura della giovinetta. Di tali qualità le donne meridionali andavano fiere. Erano invece preoccupate dalla natura impetuosa e dalla cocciutaggine di Geraldo che risorgevano in lei; e talvolta temevano che questi difetti non si sarebbero potuti nascondere prima che ella facesse un buon matrimonio. Ma Rossella intendeva sposarsi - e sposare Ashley - e perciò voleva apparire modesta, docile, e leggera, se queste erano le qualità che attraevano gli uomini. Non sapeva perché gli uomini fossero cosí; sapeva soltanto che questi metodi funzionavano. La cosa non l'interessò mai tanto da farle cercare la ragione di questo, poiché ella ignorava il lavorio interiore di ogni essere umano, e perfino il suo. Sapeva soltanto che se ella diceva o faceva «cosí - e cosà» gli uomini invariabilmente rispondevano col complimento «cosí - e cosà». Era come una formula matematica e non piú difficile di questa, perché la matematica era l'unica materia che era sembrata facile a Rossella quando andava a scuola. Se conosceva poco il raziocinio maschile, conosceva ancor meno quello femminile, perché le donne l'interessavano poco. Non aveva mai avuto un'amica e non ne aveva mai sentito la mancanza. Per lei tutte le donne, comprese le sue due sorelle, erano nemiche naturali che inseguivano la stessa preda: l'uomo. Tutte le donne, eccetto sua madre. Elena O'Hara era diversa, e Rossella la considerava come qualche cosa di sacro, fuori da tutto il resto del genere umano. Da bambina confondeva sua madre con la Vergine Maria, ed ora che era grande non vedeva ragione di mutare la sua opinione. Per lei Elena rappresentava la completa sicurezza che solo il cielo o una madre possono dare. Ella sapeva che sua madre era la personificazione della giustizia, della verità, della tenerezza affettuosa e della profonda saggezza: una gran dama. Rossella desiderava molto di essere come sua madre. La sola difficoltà era che essendo giuste e sincere, tenere e altruiste, si lasciavano sfuggire la maggior parte delle gioie della vita e senza dubbio si allontanavano molti corteggiatori. La vita era troppo breve per rinunciare a tante cose piacevoli. Un giorno, quando avesse sposato Ashley e fosse vecchia, un giorno, quando ne avrebbe il tempo, cercherebbe di essere come Elena. Ma fino allora...

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Il Sud era troppo bello per poter essere abbandonato senza lotta, troppo amato per essere calpestato dagli yankees che odiavano i meridionali sino al punto di esser felici di trascinarli nel fango, troppo diletto per essere lasciato in potere di negri ignoranti, ebbri di whisky e di libertà. Ripensando al subitaneo arrivo di Toni e alla sua rapida partenza, ella si sentí affine a lui, ricordando la vecchia storia della partenza di suo padre dall'Irlanda, in fretta e furia e di notte, dopo un omicidio che per lui e per la sua famiglia non era stato delitto. Il sangue violento di Geraldo era in lei. Ricordò la sua gioia ardente nell'uccidere il ladro yankee. Il sangue violento era in tutti loro, pericolosamente a fior di pelle, sotto la cortesia esteriore. Tutti gli uomini che ella conosceva, perfino il sonnolento Ashley e l'irrequieto Franco, erano cosí nel loro intimo: pronti a uccidere in caso di necessità. Anche Rhett, benché fosse un farabutto senza coscienza, aveva ucciso un negro perché era stato «insolente verso una signora». Quando Franco rientrò tossendo, gocciolante di pioggia, ella balzò in piedi. - Oh, Franco, quanto durerà? - Finché gli yankees ci odieranno cosí. - E non si può far nulla? Franco passò la mano stanca sulla sua barba bagnata. - Stiamo facendo qualche cosa. - Che cosa? - Perché parlarne prima di averla compiuta? Può darsi che ci vogliano degli anni. Forse... forse il Sud sarà sempre cosí. - Oh, no! - Vieni a letto, tesoro. Devi essere infreddata. Tremi. - Quando finirà? - Quando potremo ancora votare. Quando ogni uomo che ha combattuto per il Sud potrà mettere il suo voto nell'urna per un meridionale democratico. - Un voto? - ella esclamò disperata. - E a che può servire quando i negri hanno perso il cervello... quando gli yankees li aizzano contro di noi? Franco continuò a spiegare con pazienza; ma l'idea che i voti potessero porre rimedio a tutto quello, era troppo complicato per lei. Ella pensava soltanto con soddisfazione che Giona Wilkerson non potrebbe piú minacciare Tara; e di questo era grata a Toni. - Quei poveri Fontaine! È rimasto il solo Alex, e a Mimosa c'è tanto da fare! Perché Toni non ha avuto il buon senso di... di farlo di notte quando nessuno poteva vederlo? Franco le passò un braccio attorno alla vita. Di solito ella diventava nervosa quando egli la prendeva in quel modo; ma stanotte vi era negli occhi di suo marito una strana espressione, e il suo braccio era fermo. - Non è cosa di poca importanza spaventare i negri e dare una lezione ai rinnegati nella persona di uno di loro. Finché vi sono dei giovinotti come Toni, non avremo bisogno di preoccuparci troppo per il Sud. Se riusciamo a stare uniti e a non cedere di un pollice agli yankees, forse un giorno vinceremo. Ma non preoccuparti, tesoro. Lascia che pensino gli uomini. Forse noi non vedremo piú questo; ma certo un giorno verrà. Gli yankees si stancheranno di molestarci quando vedranno che non riescono a spuntarla; e allora potremo vivere e allevare i nostri figlioli. Ella pensò a Wade e al segreto che da qualche giorno teneva chiuso in sé. No, non desiderava che i suoi figlioli crescessero in questo lievito di odio e di incertezza, di amarezza e di violenza, di miseria e di disperazione. Per i suoi figlioli desiderava un mondo sicuro e ordinato in cui poter guardare all'avvenire e sapere che questo era sicuro per loro; un mondo in cui i suoi figlioli conoscessero solo dolcezza, tepore, abiti caldi e cibi nutrienti. Franco credeva che ciò si sarebbe ottenuto coi diritti politici. Ma a che serviva il voto? Alle persone per bene nel Sud non sarebbe mai piú concesso di votare. Una sola cosa al mondo poteva essere un baluardo sicuro contro le calamità del destino: il denaro. Ella pensò febbrilmente che bisognava guadagnarne molto e metterlo al sicuro. E bruscamente disse a suo marito che aspettava un bambino.

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

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Misteri del chiostro napoletano 4 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
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Poscia, ripresa la perduta energia, tornai ad occupare il posto abbandonato accanto al confidente delle mie pene. "Un ultimo favore vi chieggo," gli dissi con fermo accento. "Vogliate riabboccarvi con Domenico, non per altro se non per annunziargli a nome mio che la parte offesa sono io. Può partire o restate a suo agio, non me ne curo più, conoscendomi innocente della colpa che m'attribuisce. Possa trovar egli in Napoli donna più fedele di me!" Da quel momento, coerente alla risoluzione presa, e forte della mia lealtà, feci le viste di volermi totalmente staccare da lui; ma egli, sinceramente ravvedutosi, avea digià riprese le consuete passeggiate sotto le mie finestre. Era un giorno di domenica, ed il giorno fissato alla sua partenza era il seguente martedì. Come ho già detto, trovavasi nella nostra casa un coretto che dava nell'interno della chiesa di Sant'Agostino. Ivi recatami per ascoltare la messa, vidi Domenico di rimpetto a me. L'amore, che spento non era nel mio cuore, malgrado gli sforzi che faceva per soffocarvelo, mi fece volgere lo sguardo verso di lui. Finita la messa, volea ritirarmene: al patetico segno ch'egli mi fece di volermi arrestare per poco, ebbi la debolezza di condiscendere. Come tutta la gente fu uscita di chiesa, egli, avvicinatosi al cancello, e giunte le mani in atto supplichevole, mi disse: "Perdonatemi! Confesso il delirio mio!" Lo guardai: l'espressione del suo volto era tale da disarmare il più forte risentimento. Colle lagrime agli occhi risposi: "Crudele! posdomani parti, m'abbandoni, e chiedi perdono!?" "Per questo sacro luogo in cui ci ritroviamo," soggiunse, "giuro che fra un mese sarò restituito a te, malgrado gli ordini del padre, il quale mi vorrebbe allontanato per un anno intero!" "Accetto il tuo impegno: a questo patto dimentico gli oltraggi." Un leggero tossire ci avvertì essere entrato qualcuno in chiesa. "Addio!" disse Domenico. "Addio!" ripetei con voce velata dalla commozione. Allontanossi, e giunto alle spalle dell'altare, presso alla porta minore della chiesa, si volse di nuovo, e mi disse: "Non mi tradire!" -Tradirlo! Or che mi rendeva l'amor suo, qual altra fortuna poteva io desiderare?-

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So che non pochi, nè inoperosi sono, colla sottana e senza, i partigiani del monachismo; e che potrebbero essi obiettare, che, se veri fossero i miei giudizi intorno agli effetti della reclusione monastica, tutte le monache, ora che ne hanno la libertà, avrebbero già abbandonato i chiostri; il che non avviene, massime nelle nostre provincie meridionali. Risponderò che i confessori di quelle infelici fanno loro prima, anzi sola ed esclusiva cura del deprimerne e immiserirne gli spiriti, insinuandovi massime d'egoismo e di misantropia, che non sono certamente quelle della religione di Cristo, facendo lor vedere fuori del parlatorio la perdizione e l'abisso; mostrando sul limitare del chiostro le maledizioni del Cielo e i fulmini di Roma, pronti a scoppiare sul capo di chi osasse oltrepassare. D'altronde la mia è narrazione di fatti recentissimi: io cito date, luoghi, persone: ognuno potrà riscontrar la verità agevolmente. Mi si potrà piuttosto apporre d'aver taciuto qualche particolare che mi riguarda, d'aver lasciato nell'ombra alcune vicende non indegne forse di esser tratte a miglior luce: ma io risponderò che il danno è tutto mio, avendo più d'una volta con ciò tolto alle mie Memorie il vantaggio del colorito e quel drammatico rilievo che le avrebbe fatte più attrattive. Ma a quel silenzio e a quelle omissioni fui indotta dal rispetto dovuto agli estinti, alle famiglie, ed anche a me stessa. ENRICHETTA CARACCIOLO. Castellamare (Napoli) 1864.

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