Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 3 occorrenze

Adesso è ammalato, s'irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare poveri, né di proteggere ragazze, né di raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch' Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne, spera che non rifiuterà." "Poiché suo fratello" rispose Benedetto "è ammalato di corpo e anche di spirito, non le si offre il bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con tutto l'amore che ..." Stava per dire "che gli porta" si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, " ... con tutto l'amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d'incarnare in sé la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest'abitudine del bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio." "Grazie" disse Noemi. "Grazie per l'amica mia e anche per me, perché mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?" La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell'amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne. "Chi son io?" diss'egli. "Che autorità posso avere? Le dica che pregherò." Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d'ora a quello che direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente. "Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le approva tutte, le idee religiose di mio cognato?" Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più sciocca e dicendola irresistibilmente: "Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi." "Signorina" rispose Benedetto "verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre in ispirito e Verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la Verità; molti non possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l'aiuto di suo cognato, perché non vi è un solo protestante convinto che lo conosca bene." "Lei non verrà a Subiaco?" chiese Noemi timidamente. Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo. "No" diss'egli "non credo." Noemi volle e non volle dire che n'era dolente, pronunciò alcune parole confuse. Si udì gente nell'anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il colloquio si sciolse senz'altro saluto. Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de' suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po' per divertimento, un po' per curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo. Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in quell'arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il dogma dell'inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo; che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito - ella non era spiritista ma un'amica sua lo era -anzi proprio lo spirito della contessa Blawatzky aveva rivelato questo; ch'era perciò necessaria la sua venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così: "Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!" Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce sardoniche o stolide, dall'occhialetto della duchessa alla caramella del giornalista, rispose: "A l'instant, madame!" E uscì della camera. Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo, pensando passar la notte sotto qualche albero e l'indomani portarsi a Subiaco e di là, con l'aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All'ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l'accento mesto col quale aveva detto: "Lei non verrà a Subiaco?" gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato perché gli balenasse in mente questo pensiero: "se Jeanne fosse stata così non mi sarei sciolto." Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l'umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All'uscita del villaggio Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L'abito laico le fece allibire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio. Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi. "Lei va a Roma, Signore Maironi?" diss'egli. "La prego di non chiamarmi così" rispose Benedetto, spiacente di apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. "Non so se vado a Roma." "Io La seguo" disse il giovine, impetuoso. "Mi segue? Perché mi segue?" Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto. "Perché?" diss'egli. "Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La segua!" "Caro" rispose Benedetto, commosso, "non so neppur io dove andrò." Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo, e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò: "Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!" Benedetto sorrise. "A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?" Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti saprebbero dove trovarlo. "Se Dio vorrà!" disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto. Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano. "Sono lombardo anch'io" diss'egli. "Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di me!" E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della mulattiera, disparve. Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull'orlo della discesa, Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si lasciò cadere sull'erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch'era qualche cosa di più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l'udito, il tatto, la memoria, la nozione del tempo. Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso, diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non tormentosa, quasi divertente, circa l'identità propria. Si andò tastando il petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo giaceva morto sull'erba, presso la croce. Benedetto pensò con quell'ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì esclamare: "Dio, è Lei!" riconobbe la voce della donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per udire. L'uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo quest'ultimo, con due muli per le Signore, credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all' Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne notizia. Noemi che doveva prendere l'ultimo treno per Tivoli, era partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino dimenticato all'osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie dell'Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da Jenne un po' d'acqua. I due si parlarono ancora ma lei non attese altro, scomparve. Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l'acqua e con l'ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e l'erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose innocenti. Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po' discosto. Una bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d'acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice: "È la bambina dell'oste." Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto prender con sé la bambina. "Grazie" diss'egli. Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò: "Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna accusa Lei di averlo fatto morire?" Benedetto rispose con qualche severità nella voce: "Perché mi dice questo?" Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata: "Oh mi perdoni!" E riprese: "Posso farle una domanda?" "Dica." "Ritornerà mai a Jenne?" "No." La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo. Ella disse, a voce più bassa: "Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l'altra Vita? Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?" Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine. "Credo" rispose gravemente "che fino alla morte del nostro pianeta l'altra Vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla Verità e all' Unità vi si ritroveranno insieme all'opera." Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice: "Addio." Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde: "A Dio." Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell'anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell' Aniene gli rugge in profondo, più e più forte: "Roma, Roma, Roma."

Quando abbandonati sovr'esso entrate nelle tenebre della morte, vi è meno dolce la pace che a voi ne spira, perché un Papa è, contrario alla democrazia cristiana? "Amici miei, voi dite: noi abbiamo riposato all'ombra di questo albero, ma ora la sua corteccia si fende, la sua corteccia si dissecca, l'albero morrà, andiamo in cerca di un'altra ombra. L'albero non morrà. Se aveste orecchi udreste il moto della corteccia nuova che si forma, che avrà il suo periodo di Vita, che si fenderà, che si disseccherà alla sua volta perché un'altra corteccia le succeda. L'albero non muore, l'albero cresce. Benedetto sedette spossato e tacque. L'uditorio ebbe un moto e un fremito di onda verso di lui. Egli, lo arrestò alzando le mani. "Amici" riprese con voce stanca e dolce "ascoltatemi ancora. Scribi e Farisei, anziani e principi dei sacerdoti zelanti contro le novità sono in ogni tempo e anche in quest'ora. Non ho a parlar di loro a voi, Iddio li giudicherà. Noi preghiamo per tutti coloro che non sanno quello che fanno. Ma forse nell'altro campo cattolico militante non si è senza peccato. Nell'altro campo si è inebbriati della idea di modernità. La modernità è buona ma l'eterno è migliore. Io temo che colà non si tenga l'eterno nel debito conto. Vi si attende molta salute alla Chiesa di Cristo dall'azione cattolica collettiva nel campo amministrativo e politico, azione di battaglia per la quale il Padre riceverà ingiuria dagli uomini, e non se ne attende abbastanza dalla luce delle opere buone di ciascun cristiano per la quale il Padre è glorificato. Supremo fine delle creature umane è glorificare il Padre. Ora gli uomini glorificano il Padre di coloro che hanno lo spirito di carità, di pace, di sapienza, di povertà, di purità, di fortezza, che adoperano per i fratelli le energie della Vita. Uno di questi giusti che professi e pratichi il Cattolicismo è profittevole alla gloria del Padre, di Cristo e della Chiesa più di molti Congressi, di molti Circoli, di molte vittorie elettorali cattoliche. "Ho inteso testé uno di voi mormorare: "e l'azione sociale?" L'azione sociale, amici miei, è sicuramente buona come opera di giustizia e di fraternità, ma, simili ai socialisti, certi cattolici la marchiano con il marchio delle loro opinioni religiose e politiche, rifiutano di accomunarvi gli uomini di buona volontà se non accettano quel marchio, respingono da sé il buon Samaritano e questo è abbominevole agli occhi di Dio. Improntano col marchio cattolico anche opere che sono strumenti di lucro e questo pure è abbominevole agli occhi di Dio. Predicano la giusta distribuzione della ricchezza ed è bene, ma troppo dimenticano di predicare insieme la povertà del cuore; e se lo ommettono deliberatamente per ragioni di opportunità, questo è abbominevole agli occhi di Dio. Purgate l'azione vostra di questi abbominii. Chiamate alle opere particolari di giustizia e di amore tutti gli uomini di buona volontà, contenti di esserne voi gli iniziatori. Predicate a ricchi e poveri, con la parola e con l'esempio, la povertà del cuore." L'uditorio ondeggiò confusamente, sospinto in parti diverse. Benedetto si raccolse un momento celando il viso fra le mani. "Voi mi avete domandato che fare?" diss'egli, scoprendo il viso. Pensò ancora un poco e riprese: "Io vedo nell'avvenire cattolici laici, zelatori di Cristo e della Verità, trovar modo di costituire unioni diverse dalle presenti. Si armeranno un giorno cavalieri dello Spirito Santo per l'associata difesa di Dio e della morale cristiana nel campo scientifico, artistico, civile, sociale, per l'associata difesa delle legittime libertà nel campo religioso, con certi particolari obblighi, non però di convivenza né di celibato, integrando l'ufficio del clero cattolico dal quale non avranno a dipendere come Ordine, ma solo come persone nella pratica individuale del Cattolicismo. Pregate che la volontà di Dio si manifesti circa quest' Opera nelle anime che la pensano; pregate ch'esse anime si spoglino lietamente della compiacenza di averla immaginata e della speranza di vederla compiuta, se Dio si rivela contrario ad essa. Se Dio si rivela favorevole, pregate che gli uomini la sappiano bene ordinare in ogni parte a gloria di Lui e a gloria della Chiesa. Amen." Egli aveva finito e nessuno si mosse. Tutti gli occhi lo fissavano, ansiosi, avidi di altre parole dopo le inattese ultime di tôno scuro e grande. Molti avrebbero voluto e non osarono rompere quel silenzio. Ma quando Benedetto si alzò e tutti gli si scostarono d'intorno a cerchio riverenti, si alzò pure il vecchio Signore dal viso rosso e dai capelli bianchi, e disse con voce rotta dalla emozione: "Ella riceverà oltraggi e battiture, sarà incoronato di spine e abbeverato di fiele, sarà deriso dai farisei e dai pagani, non vedrà l'avvenire che desidera, ma l'avvenire è per Lei, i discepoli dei discepoli suoi lo vedranno." Abbracciò Benedetto e lo baciò in fronte. Due o tre vicini batterono le mani timidamente, uno scroscio di applausi suonò nella sala. Benedetto, turbatissimo, accennò a un giovinetto biondo che lo aveva accompagnato, e questi corse a lui, proprio lucente in viso di commozione e di gioia. Qualcuno sussurrò: "Un discepolo." Altri soggiunse, piano: "Sì, e il prediletto." Il padrone di casa si prostrò, quasi, davanti a Benedetto con parole di ossequio e di gratitudine. Allora uno dei sacerdoti ardì pure farsi avanti, disse con voce commossa: "E per noi, Maestro, non avrà un consiglio?" "Non mi chiami Maestro" rispose Benedetto, tutto ancora turbato; "preghi luce a questi giovani, ai nostri Pastori e anche a me." Uscito ch'egli fu, si levò nella sala un crepitìo di voci vibrate, brevi e fioche, premendo ancora lo stupore sulle anime commosse. Poi la commozione scoppiò qua e là, forte, ruppe da ogni banda, urtandosi anche le ammirazioni fra loro nell'esaltare queste o quelle parole, queste o quelle idee del discorso, l'accento o lo sguardo dell'oratore, o lo spirito di santità diffuso nel suo volto, spirante anche dalla sua mano. Ma il padrone di casa congedò gli ospiti; con molte scuse, sì, con molte parole di cerimonia, ma con una fretta quasi scortese. Rimasto solo, aperse un uscio ch'era chiuso a chiave, s'inchinò dentro l'apertura. "Signore!" diss'egli. E spalancò l'uscio. Uno sciame di Signore irruppe nella sala vuota. Una signorina matura si slanciò addirittura verso il giovine, a mani giunte, esclamando: "Oh quanto Le siamo grate! Oh che Santo! Non so perché non siamo corse tutte fuori ad abbracciarlo!" "Cara" disse una signora con ironica flemma veneta, sorridendo nei due grandi belli occhi, "perché, fortunatamente per lui, l'uscio era chiuso a chiave." Erano dodici Signore. Il padrone di casa, professore Guarnacci, figlio dell'agente generale di una di queste, la marchesa Fermi, romana, le aveva raccontato della riunione che doveva tenersi in casa sua, del discorso che vi avrebbe pronunciato lo strano personaggio di cui si parlava già in Roma come di un agitatore religioso entusiasta e taumaturgo, popolare nel quartiere del Testaccio. La marchesa si era posta in capo di udirlo non veduta. Presi gli accordi col Guarnacci, aveva tratte nella congiura tre o quattro amiche e ciascuna di queste aveva ottenuto di aggregarsi delle appendici. Era una miscela curiosa, in vista. Molte avevano toilettes da società, due vestivano proprio come quacchere, una sola di nero. Le due quacchere, straniere, parevano impazzite dall'entusiasmo e fremevano contro la marchesa, una vecchia scettica, alquanto sarcastica, che diceva tranquillamente: "Sì, ha parlato bene ma però avrei voluto vedere la sua faccia mentre parlava." E dichiarando di saper giudicare gli uomini dalla faccia meglio che dalle parole, la vecchia marchesa rimproverò il Guarnacci di non aver praticato un buco nell'uscio o almeno levata la chiave dalla toppa. "Sei troppo Santo" diss'ella. "Non conosci le donne." Il Guarnacci rise, si scusò con l'ossequio dovuto alla padrona di suo Padre e affermò che Benedetto era bello come un angelo. Ma una giovine signora insipidetta, venuta, pensavano rabbiosamente le quacchere, Dio sa perché, uscì a dire quieta quieta che lo aveva veduto due volte e ch'era brutto. "Bisognerebbe conoscere la Sua idea di bellezza, signora" disse acremente una quacchera. E l'altra quacchera mise subito fuori, ma sottovoce per acuire la malignità espressamente, un velenoso: "Naturellement!" La signora insipidetta replicò, un poco arrossendo fra l'imbarazzo e il dispetto, ch'era magro, pallido; e le due quacchere si guardarono, si sorrisero con tacito disprezzo. Ma dove lo aveva veduto? Questo volevano sapere le altre dalla Insipidetta. " Eh! Sempre nel giardino di mia cognata" diss'ella. "Sempre nel giardino?" esclamò la marchesa. "È un angelo in piena terra o è un angelo in vaso?" La Insipidetta rise e le quacchere fulminarono la marchesa con gli occhi furiosi. Entrò il thè, compreso nell'invito del professore Guarnacci. "Bella discussione, eh?" disse piano la signora Albacina, moglie dell'onorevole Albacina, sottosegretario di Stato per l'Interno, all'orecchio della signora vestita di nero, che non aveva mai aperto bocca. Colei sorrise tristemente e non rispose. Il thè, servito dal professore e da una sua sorellina, ammorzò per un momento la conversazione che si riaccese sul discorso di Benedetto e diventò un guazzabuglio tale di ragionamenti senza ragione, di giudizi senza giudizio, di dottrine senza dottrina, che la signora silenziosa vestita di nero propose all' Albacina, con la quale era venuta, di andarsene. Ma in quel momento la marchesa Fermi, scovato un campanellino sopra una caminiera, si mise a scampanellare per ottenere silenzio. "Vorrei sapere di questo giardino" diss'ella. Le quacchere e la signorina matura, infervorate a discutere l'ortodossia cattolica di Benedetto, non avrebbero taciuto per dieci campanelli; ma la curiosità della signorina matura, all'udire la parola "giardino" scattò. Scattò fuori tutta intera. Altro che giardino! Il signor professore doveva raccontare tutto che sapeva di questo Padre Hecker italiano e laico. Un po' per sfoggio di cultura, un po' per avventatezza, ella aveva già battezzato Benedetto così. Allora la Insipidetta guardò l'orologio. La sua carrozza avrebbe dovuto trovarsi alla porta. La piccola Guarnacci disse che di carrozze ce n'erano già quattro o cinque. La Insipidetta voleva arrivare al Valle per il terzo atto della commedia. Due altre Signore avevano altri impegni e partirono con lei. La Fermi restò: "Fa presto, però, professore, " diss'ella, "perché stasera mia figlia ci aspetta, me e queste altre Signore di cui vedi le spalle." "Faccia prestissimo" disse, dispettosetta, la signorina matura. "Dopo parlerà per la povera gente che non mostra le spalle." Una forestiera bionda, molto scollata, bellissima, lanciò uno sguardo ineffabile allo povere coperte spallucce magre della dispettosa, che diventò rossa di rabbia come un gambero. "Allora" incominciò il professore "siccome la signora marchesa e forse anche le altre Signore che hanno fretta sanno già quanto so io del Santo di Jenne prima della sua partenza da Jenne, quello lo lascio. Io dunque un mese fa, in ottobre, neanche ricordavo di aver letto nei giornali, in giugno o in luglio, di questo Benedetto che predicava e faceva miracoli a Jenne, quando un giorno uscendo da S. Marcello m'incontrai in un tale Porretti che una volta scriveva nell'Osservatore e adesso non vi scrive più. Questo Porretti mi si accompagna, si parla della condanna dei libri di Giovanni Selva che si aspetta di giorno in giorno e, tra parentesi, non è ancora venuta, e Porretti mi dice che adesso in Roma c'è un amico di Selva, il quale farà parlare di sé più che lo stesso Selva. "Chi è?" faccio io. "II Santo di Jenne" dice. E mi racconta questo. L'uomo è stato cacciato da Jenne per opera di due preti, farisei terribili, che a Roma si conoscono. Si è rifugiato a Subiaco presso i Selva che villeggiano lì e si è ammalato gravemente. Guarito, è venuto a Roma circa alla metà di luglio. Il professore Mayda, amico del Selva anche lui, e che lo aveva conosciuto a Subiaco, lo prese per aiuto-giardiniere nella villa che si è fabbricata due anni sono sull' Aventino, sotto Sant' Anselmo. Il nuovo aiuto-giardiniere che si fa chiamare Benedetto e nient'altro, come a Jenne, è diventato presto popolare in tutto il quartiere del Testaccio. Divide il pane con pezzenti, assiste malati, pare che ne abbia guarito qualcuno con l'imposizione delle mani e la preghiera. È divenuto tanto popolare che la nuora del professore Mayda, benché sia credente e praticante, lo avrebbe licenziato volentieri per non avere la seccatura di tanta gente che viene a cercarlo; ma il suocero, che non è né praticante né credente, non ha voluto. Il suocero gli ha riguardi grandissimi. Se sopporta di vederlo rastrellare i viali, annaffiare i fiori, è solo per rispetto alle sue idee di Santo, e non glielo permette oltre una certa misura di tempo, molto breve. Vuole che attenda liberamente alla sua missione religiosa. Egli stesso scende sovente in giardino a parlare di religione con lui. Benedetto, per compiacergli, ha smesso il regime di pane, erbaggi e acqua che teneva a Jenne, prende carne e vino. E per compiacere a Benedetto il professore ne fa distribuire molto largamente agli ammalati del quartiere. Vi ha chi ride di lui e magari lo ingiuria, ma dal popolino è venerato come, in principio, a Jenne. Ed esercita la carità delle anime più ancora che l'altra. Ha levato certi disordini morali di famiglie, fu minacciato di morte per questo da una mala femmina, ha fatto ritornare in Chiesa gente che non ci aveva più messo piede dalla fanciullezza in poi. Lo sanno i benedettini di Sant' Anselmo. La sera poi, due o tre volte la settimana, parla nelle catacombe." La signorina matura esclamò: "Nelle catacombe?" E si porse, palpitante, verso il narratore. Una delle quacchere mormorò: "Mon Dieu! Mon Dieu!" e un'altra voce, grave di stupore riverente: "Che senso!" "Ecco" riprese il giovine, sorridendo "Porretti ha detto "nelle catacombe" ma intendeva in un luogo privato, conosciuto da pochi. Adesso lo conosco anch'io." "Ah!" fece la signorina matura. "Lei lo conosce? Dov'è?" Guarnacci tacque ed ella sentì la sua indiscrezione. "Scusi, scusi!" disse, frettolosa. "Lo sapremo, lo sapremo" fece la marchesa. "Ma senti un po', figliuolo mio, questo tuo Santo che predica in segreto, non sarebbe una specie di eresiarca? Cosa ne dicono i preti?" "Stasera" rispose il professore Guarnacci "ne avrebbe veduto qui tre o quattro e sono andati via contentissimi." "Saranno preti poco preti, preti mal cotti, pretoidi. Ma cosa dicono gli altri? Vedrai che gli altri, presto o tardi, gli daranno il torcibudella." E con quest'allegra profezia la marchesa se n'andò seguita da tutte le spalle scoperte. La signorina matura e le quacchere, felici che quello spregevole sciame mondano se ne fosse andato, assalirono il professore con domande. Non si poteva proprio sapere il posto delle nuove catacombe? Quante persone vi si radunavano? Anche donne? Quali erano i temi dei discorsi? Cosa dicevano i frati di Sant' Anselmo? E della Vita passata di quest'uomo si era venuti a sapere nulla? Il professore si schermì quanto poté, riferì solamente le parole di un Padre di Sant' Anselmo: "un Benedetto per ogni parrocchia di Roma e Roma diventa davvero la Città Santa." Ma quando, partite tutte le altre Signore, si trovò solo con l' Albacina e con la Silenziosa che aspettavano la loro carrozza, siccome all' Albacina era legato di amicizia, lasciò capire a questa che avrebbe parlato ma che la presenza di una signora sconosciuta lo imbarazzava, pregò l' Albacina di presentarlo. L' Albacina non ci aveva pensato. "Il professore Guarnacci" diss'ella. "La signora Dessalle, mia buona amica." La "catacomba" era proprio la sala stessa dove stavano in quel momento. Prima, le riunioni avevano luogo nell'alloggio dei Selva, in via Arenula. Quel posto non pareva molto adatto, per diverse ragioni. Guarnacci, fattosi discepolo egli pure, aveva offerto la casa propria. Le riunioni vi si tenevano due volte la settimana. Ci venivano i Selva, una sorella della signora, alcuni ecclesiastici, quella stessa signora veneta ch'era partita poc'anzi, alcuni giovani fra i quali certo Alberti, prediletto dal Maestro che quella sera era venuto e partito con lui, e anche un ebreo, certo Viterbo, già prossimo a farsi cattolico e dal quale il Maestro sperava cose grandi; un operaio tipografo, qualche artista, persino due membri del Parlamento. Lo scopo delle riunioni era di far conoscere a persone attratte da Cristo ma ripugnanti al Cattolicismo, ciò che il Cattolicismo è veramente, la essenza vitale, indistruttibile della religione cattolica e il carattere umano di quelle sue diverse forme che la rendono appunto ripugnante a molti, che sono mutabili e mutano e muteranno per una elaborazione dell'interno elemento divino combinata con le reazioni dell'esterno, della scienza e della coscienza pubblica. Benedetto era severissimo nell'ammettere alle riunioni perché nessuno più di lui sapeva trattare delicatamente colle anime, rispettarne i candori, farsi piccino alle piccine, alto alle alte, usare con le timide il linguaggio riguardoso che istruisce e non turba. "La marchesa" continuò il professore "dice: sarà un eresiarca, i preti che lo seguono saranno eretici. No. Con Benedetto non c'è a temere di eresie né di scismi. Proprio nell'ultima riunione egli ha dimostrato che scismi ed eresie, oltre ad essere condannabili per sé, sono funesti alla Chiesa non solamente perché le sottraggono anime, ma perché, anche, le sottraggono elementi di progresso, perché se i novatori restassero nella soggezione della Chiesa gli errori loro perirebbero e quell'elemento di Verità, quell'elemento di bene che quasi sempre è unito, in qualche misura, all'errore, diventerebbe vitale nel corpo della Chiesa." L' Albacina osservò che questo era molto bello e che se le cose stavano a questo modo la sinistra profezia della marchesa non si sarebbe avverata. "La profezia del torcibudella, no!" disse il professore, ridendo. "Queste cose non accadono e io non credo che sieno accadute mai. Sono calunnie. Bisogna essere la marchesa e certa gente come la marchesa che si trova qui a Roma per crederle. Un prete romano, capisce, un prete ha osato avvertire Benedetto che si guardasse! Ma Benedetto gli ha levato il coraggio di parlargliene un'altra volta. Dunque, torcibudella no; ma persecuzione sì. Quei tali due preti di Roma ch'erano a Jenne non hanno mica dormito. Io non volli dirlo prima perché la marchesa non è persona cui raccontare queste cose, ma ci sono in aria dei guai grossi. Si è spiato ogni passo di Benedetto, si è adoperata anche la nuora di Mayda, a mezzo del confessore, per avere informazioni dei suoi discorsi, si è saputo delle riunioni. La sola presenza di Selva dà loro il carattere che quella gente abborre e siccome contro un laico non può far niente, così pare che si cerchi l'aiuto del braccio secolare contro Benedetto, l'aiuto dei carabinieri e dei giudici. Loro si meravigliano? Eppure è così. Finora non c'è niente di positivo, niente di fatto, ma si macchina. Siamo stati avvertiti da un ecclesiastico straniero che un'altra volta ha chiacchierato male ma stavolta ha chiacchierato bene. Si preparano e si fabbricano materiali per un'azione penale." La Silenziosa trasalì, uscì finalmente del suo mutismo. "Come è possibile?" diss'ella. "Signora mia," disse il professore "Lei non sa di cosa sieno capaci alcuni intransigenti in tonaca. Gl'intransigenti laici sono agnelli, in paragone. Si vuol servirsi di un disgraziato caso successo a Jenne. Ora però noi speriamo in un fatto nuovo, che non occorre di raccontare a molti, senza discernimento, ma ch'è importantissimo." II professore tacque un momento, assaporando l'acuta curiosità che aveva destato e che, muta sulle labbra, sfavillava dagli occhi intenti delle due dame. "L'altro giorno" riprese "il segretario del cardinale. ... un giovine prete tedesco, si recò a Sant' Anselmo e parlò coi frati. In seguito a questa visita Benedetto fu chiamato a Sant' Anselmo dove i benedettini gli hanno un grande affetto e un grande rispetto. Gli fu chiesto se non avesse intenzione di rendere omaggio a Sua Santità, di domandare udienza. Rispose ch'era venuto a Roma con questo desiderio nel cuore, che aspettava un cenno dalla Provvidenza, e che questo era il cenno. Allora gli fu detto che Sua Santità lo avrebbe ricevuto certamente volentieri ed egli domandò l'udienza. Questo fu raccontato a Giovanni Selva da un benedettino tedesco." "E quando ci va?" chiese l' Albacina. "Posdomani sera." Il professore soggiunse che da parte del Vaticano la cosa era tenuta segretissima, che si era imposto a Benedetto di non parlare con alcuno, che niente ne sarebbe trapelato senza l'indiscrezione di quel frate tedesco, e che gli amici di Benedetto speravano grandi cose da questa visita. L' Albacina domandò cosa si proponesse Benedetto di dire al Pontefice. Il professore sorrise. Benedetto non se n'era aperto con nessuno e nessuno aveva osato interrogarlo. Secondo il professore, Benedetto parlerebbe a favore di Selva, pregherebbe che i suoi libri non fossero posti all'Indice. "Sarebbe poco" disse l' Albacina, sottovoce;Jeanne ebbe un fremito di consenso. "Pochissimo!" esclamò, quasi pigliandosela col professore che parve sorpreso di quel subito scatto dopo tanto silenzio. Egli si scusò. Non aveva inteso dire che Benedetto non parlerebbe anche di altre cose, al Papa. Aveva inteso dire che, secondo lui, di quell'argomento gli parlerebbe certo. L' Albacina non sapeva spiegarsi il desiderio del Papa di vedere Benedetto. Come lo spiegavano i suoi amici? Come lo spiegava Selva? Eh, nessuno lo sapeva spiegare; né Selva né gli altri. "Io lo spiego!" disse Jeanne, impetuosa, compiacendosi di capire quello che nessuno capiva. "Il Papa, non è stato vescovo a Brescia?" Guarnacci sorrise di un sorriso fra l'ammirativo e l'ironico, rispose. Ah, la signora era molto informata del passato di Benedetto! La signora sapeva con certezza cose che a Roma si dicevano ma che però trovavano anche degli increduli! Solo una cosa non sapeva. Il Papa non era mai stato vescovo a Brescia, aveva coperto due sedi vescovili nel Mezzogiorno. Jeanne irritata con se stessa, vergognosa di essersi quasi tradita, non replicò. L' Albacina voleva sapere quale opinione Benedetto avesse del Papa. "Oh lui" rispose il professore "nel Papa non considera e non venera che l'ufficio. Almeno credo. Della persona non l'ho inteso parlare mai. Dell'ufficio sì. Ne ha discorso una sera magnificamente, contrapponendo il Cattolicismo al Protestantesimo, svolgendo il suo ideale di governo della Chiesa: principato e giusta libertà. Del resto il nuovo Papa non si sa ancora cosa sia. Si dice che sia Santo, intelligente, malato e debole. Nell'accompagnare le Signore alla carrozza, sulla scala buia, il professore uscì a dire sospirando: "Quello che pur troppo si teme è che Benedetto non viva. Almeno Mayda lo teme." L' Albacina, che scendeva a braccio del professore, esclamò senza fermarsi: "Oh poveretto! Di che soffre?" "Ma!" rispose il professore. "Di un male inguaribile, pare; conseguenza della tifoide ch'ebbe a Subiaco e sopra tutto della Vita disagiatissima che ha fatto, delle penitenze, dei digiuni." E continuarono la lunga discesa in silenzio. Soltanto in fondo alla scala si avvidero che la loro compagna era rimasta indietro. Il professore risalì rapidamente e trovò Jeanne ferma sul penultimo pianerottolo, aggrappata alla ringhiera. Sulle prime non si mosse né parlò. Poi mormorò: "Non ci si vede." Guarnacci non sapeva e non fece attenzione né a quel momento di silenzio né al tôno sommesso e incerto della voce. Le offerse il braccio e discese con lei, scusando sé del buio, accusandone l'avarizia del padrone di casa. Jeanne salì nella carrozza dell' Albacina che la portò al Grand Hôtel Nel tragitto l' Albacina parlò con rammarico della notizia che le aveva dato il Guarnacci. Jeanne non aperse bocca. Il suo mutismo dispiacque all'amica. "Lei non è stata contenta del discorso?" diss'ella. Non conosceva affatto le idee religiose di Jeanne. "Sì" rispose questa. "Perché?" "Così. Mi pareva. Allora non Le dispiace di essere venuta?" L' Albacina si sentì, con molta sorpresa, prendere una mano e rispondere: "Le sono tanto grata!" La voce fu sommessa e quieta, la stretta della mano quasi violenta. "Nientemeno!" pensò l' Albacina. "Questa è una futura dama dello Spirito Santo." "Per conto mio" riprese ad alta voce "capisco che mi terrò la mia religione vecchia, quella degl'intransigenti. Saranno farisei, saranno tutto quello che vi piace, ma ho paura che a volerla tanto ritoccare e ristaurare, la religione vecchia, essa crolli e non resti più niente in piedi. E poi volendo seguire i Benedetti bisognerebbe cambiare troppe cose. No no. Però l'uomo m'ispira un interesse straordinario. Adesso bisognerebbe cercare di vederlo. Bisogna che lo vediamo. Molto più se proprio è condannato a morire presto. Non Le pare? E come si fa? Pensiamo." "Io non desidero di vederlo" s'affrettò a dire Jeanne. "Davvero?" esclamò l'amica. "Ma come? Mi spieghi questo enigma." "Così. Non desidero." "Curiosa!" pensò l' Albacina. La carrozza si fermò davanti all'entrata del Grand Hôtel Nell'atrio Jeanne s'incontrò con Noemi e suo cognato, che uscivano. "Finalmente!" disse Noemi. "Va, corri, tuo fratello è arrabbiatissimo con questa Jeanne che non arriva mai. Noi siamo discesi ora perché è venuto il medico." I Dessalle erano a Roma da quindici giorni. Un principio di ottobre umido e freddo, preoccupazioni di salute, il progetto di uno studio sul Bernini seguito al progetto di romanzo, avevano persuaso Carlino ad accontentare la signora Albacina più presto che non avrebbe voluto, a lasciare villa Diedo per i tepori di Roma prima dell'inverno, con molta chiusa gioia di sua sorella. Due o tre giorni dopo l'arrivo fu preso da una leggera bronchite. Si diede per tisico, si tappò in camera con il proposito di starci tutto l'inverno, volle il medico due volte al giorno, tiranneggiò Jeanne con un egoismo spietato, le numerò i minuti di libertà. Ella si fece sua schiava, parve godere di quell'irragionevole soprappiù di sacrificio, che passava la misura del suo affetto fraterno. Lo donava mentalmente, con dolce ardore, a Benedetto. Vedeva spesso i Selva e Noemi, non a casa loro, al Grand Hôtel Anche i Selva erano soggiogati dal suo fascino di donna superiore, bella, gentile e triste. Tutto che aveva udito di Benedetto in casa Guarnacci lo sapeva già da Noemi. Solo non sapeva che Mayda avesse espresso quel giudizio. Noemi, pietosamente e anche per non lasciar trasparire la commozione propria, gliel'aveva taciuto. Carlino l'accolse male. Il medico, che gli aveva trovato il polso frequente, capì subito che era un polso collerico. Scherzò un poco sulla gravità del male e se ne andò. Carlino, burbero, volle sapere dove Jeanne si fosse tanto indugiata ed ella non glielo nascose. Solamente gli nascose il nome vero di Benedetto. "Non ti sei vergognata" diss'egli "di star ad ascoltare alle porte?" E senza lasciarle il tempo di rispondere inveì contro le nuove tendenze che le aveva scoperte. "Domani andrai a confessarti! E posdomani reciterai il rosario!" Sotto la usuale tolleranza cortese del suo linguaggio, la benevolenza che mostrava pure a non pochi ecclesiastici, si nascondeva una vera fobìa antireligiosa. L'idea che sua sorella potesse un giorno accostarsi ai preti, alla fede, alle pratiche, gli faceva perdere il lume degli occhi. Jeanne non rispose, si offerse mansuetamente per la solita lettura serale. Carlino le dichiarò netto di non volerne sapere, pretese di sentire degli spifferi, la tenne un quarto d'ora colla candela in mano a scrutar usci, finestre, pareti, pavimento, e poi la mandò a dormire. Ma Jeanne entrata nella sua camera, non pensò a dormire né a coricarsi. Spense la luce e sedette sul letto. Strepiti di carrozze sonavano nella via, passi e fruscii di vesti femminili nei corridoi; immobile fra le tenebre, ella non udiva. Aveva spento la luce per pensare, per non vedere che il proprio pensiero, l'idea balenatale nello scender la scala di casa Guarnacci al braccio del professore dopo che, udite le parole sinistre "si teme che non viva" aveva quasi smarriti i sensi. In carrozza con l' Albacina, in camera con suo fratello, mentre doveva pur parlare e con l'una e con l'altro, fare attenzione a tante diverse cose, era stato un balenar continuo, nel suo profondo, di quest'idea, di questa proposta offerta dal cuore ardente alla volontà. Adesso non balenava più. Jeanne la contemplava in sé, ferma. Nella figura seduta sul letto, immobile fra le tenebre, due anime si stavano tacite a fronte. Una Jeanne umile, appassionata, persuasa di poter tutto sacrificare all'amore, si misurava con una Jeanne inconsciamente orgogliosa, persuasa di possedere una dura e fredda Verità. Gli strepiti delle carrozze si fecero più radi nella via, i passi e i fruscii più radi nei corridoi. A un tratto le due Jeanne parvero riconfondersi in una che pensò: "Quando mi annuncieranno la sua morte, mi potrò dire: almeno hai fatto questo." Si alzò, accese la luce, sedette alla scrivania, prese un foglietto e scrisse: "A Piero Maironi, la notte del 29 ottobre ... "Credo. "Jeanne Dessalle." Scrisse e guardò a lungo, a lungo, la parola solenne. Più la guardava, più le due Jeanne si venivano lente ridividendo. La Jeanne inconsciamente orgogliosa soverchiò, oppresse l'altra quasi senza lotta. Tutta amara di amarezza mortale, lacerò il foglio macchiato della parola impossibile a mantenere, impossibile a scrivere sinceramente. Spenta da capo la luce, accusò di crudeltà Iddio se mai esistesse, pianse, pianse nelle volontarie tenebre, senza freno.

Era là, il Pietoso, nel Tabernacolo e spirava l'invito ineffabile: vieni, apriti, abbandonati a me. E Clemente si abbandonò, gli disse quello che non aveva mai confessato neppure a sé stesso. Sentiva nell'antico monastero, tutto, tranne Cristo nel Tabernacolo, morire. Come cellula dell'organismo ecclesiastico, elaboratrice di calore cristiano radiante al mondo, il monastero si ossificava nella vecchiaia inesorabile. Onorandi fochi di fede e di pietà chiuse nelle forme tradizionali, simili alle fiamme dei ceri accesi sugli altari, vi consumavano i loro involucri umani inviandone al cielo il vapore invisibile, senza che una sola onda calorifica o luminosa ne vibrasse al di là delle muraglie antiche. Le correnti dell'aria viva non vi entravano più e i monaci non uscivano più a cercarle come nei primi secoli, lavorando nei boschi e sui prati, cooperando alle vitali energie della natura, nell'atto stesso che magnificavano Iddio col canto. I colloquii con Giovanni Selva lo avevano indirettamente condotto, poco a poco, a sentire così della Vita claustrale nelle sue forme presenti, pure essendo convinto che ha indestruttibili radici nell'anima umana. Ma forse ora per la prima volta gli avveniva di guardare il suo sentimento in faccia. Era da un pezzo suo voto, era sua speranza che Benedetto diventasse un grande operaio del Vangelo; non un operaio comune, un predicatore, un confessore, bensì un operaio straordinario; non un soldato dell'esercito regolare, impedito dall'uniforme e dalla disciplina, bensì un libero cavaliere dello Spirito Santo; ma la Regola monastica non gli si era mai ripresentata in tale antagonismo con il suo ideale di un Santo moderno. E se ora la Volontà Divina si manifestasse a Benedetto proprio diversa dal desiderio suo? Ah non era egli già quasi sull'orlo di un peccato mortale? Non presumeva già egli quasi, polvere tracotante, di giudicare le vie di Dio? Prosternato sull'inginocchiatoio, s'immerse nell' Onnipotente, anelando senza parole al perdono, alla rivelazione, in Benedetto, della Volontà Divina, adorandola da quel momento qualunque fosse. Nell'alzarsi con un naturale defluire dell'onda mistica dal cuore, con gli occhi vôlti ancora all'altare ma non più fissi nel Tabernacolo, non poté a meno di pensare alla Dessalle e al discorso di Benedetto. La mediocre pala di quell'altare rappresenta la martire Anatolia che offre dal paradiso la palma simbolica ad Audax, il giovine pagano che tentò sedurla e ne fu invece condotto a Cristo. La Dessalle aveva sedotto Benedetto; per quanto Benedetto si fosse studiato di scolpare lei e d'incolpare sé, don Clemente non dubitava che le cose fossero andate così. Se ora egli operasse la conversione di lei? Se fosse giusto che la tentasse? Se il sentimento di Benedetto fosse realmente più cristiano che il timore suo e gli spasimi del Padre Abate? Don Clemente si dibatteva in testa questi problemi attraversando a capo basso la Chiesa. Anatolia e Audax! Gli sovvenne che un forestiere scettico, udita da lui la spiegazione del quadro, aveva detto: sì, ma se non li avessero ammazzati, né l'uno né l'altra? E se Audax avesse avuto moglie? E queste beffarde parole gli erano parse una indegna profanazione. Le ripensò e, sospirando, raccattò da terra il lanternino posato nel Capitolo. Invece di avviarsi alla sua cella si recò nel secondo chiostro a guardare il dorso del Colle Lungo, dove forse Benedetto stava in orazione. Alcune stelle brillavano sul roccioso dorso grigio macchiato di nero e il loro lume oscuro mostrava nel chiostro il piazzale, gli arboscelli sparsi, la torre possente dell' Abate Umberto, le arcate, le mura vecchie di nove secoli e, sulla ogiva del portale grande dove don Clemente stava contemplando, la doppia riga dei fraticelli di sasso che vi salgono in processione. Il chiostro e la torre si affermavano nella notte con maestà di potenza. Era proprio vero che stessero morendo? Nel lume delle stelle il monastero pareva più vivo che nel sole, grandeggiava in una mistica comunione di senso religioso con gli astri. Era vivo, era pregno di effluvi spirituali diversi, confusi in una persona unica, come le diverse pietre tagliate e scolpite a comporre la unità del suo corpo, come diversi pensamenti e sentimenti in una coscienza umana. Le vetuste pietre, sature di anime commiste ad esse in amore, sature di desiderii santi e di Santo dolore, di gemiti e di preci, radiavano un che oscuro, penetrante nel subcosciente. A quei lavoratori di Dio che nelle ore aride vi si ritraessero dal mondo a breve riposo, potevano rinfondere forza come d'estate al falciatore in deserti montani una fonte. Ma perché le pietre durassero vive, un continuo fiume di Vita doveva pure trapassar per esse, un fiume di spiriti adoranti, contemplanti. Don Clemente sentì quasi rimorso dei pensieri volontariamente accolti in Chiesa circa la decrepitezza del monastero, pensieri radicati nel suo giudizio personale, piacenti al suo amor proprio, quindi viziati di quella concupiscenza dello spirito che i suoi diletti Mistici gl'insegnavano a discernere e ad aborrire. Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile abbandono delle proprie idee circa l'avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua volontà e se non la scopriva. "Si vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum benedictus." E si avviò alla sua cella. Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando davanti all'uscio dell' Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole "fiat voluntas tua" che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le nostre forze per il prevalere della legge Divina nel campo della libertà umana. Il signor Giovanni gli aveva fatto battere il cuore più forte e l' Abate glielo aveva fatto battere più fiacco. Quale dei due aveva detto la parola di Vita e di Verità? La sua cella era l'ultima a destra, presso il balcone che guarda la conca rigata dall' Aniene, Subiaco e i monti Sabini. Prima di entrar nella sua cella don Clemente si fermò a guardar i lumi lontani di Subiaco, pensò alla villetta rossa, più vicina ma invisibile, pensò a quella donna. Trame, aveva detto l' Abate. Amava ella ancora Piero Maironi? Aveva scoperto, sapeva ch'egli si era rifugiato a Santa Scolastica? Lo aveva riconosciuto? Se sì, che meditava di fare? Probabilmente non aveva preso stanza nel minuscolo quartiere dei signori Selva; probabilmente alloggiava in un albergo di Subiaco. Quei lumi lontani erano fuochi di un campo nemico? Si fece il segno della croce ed entrò nella sua celletta per un breve sonno fino alle due, ora di coro. Benedetto prese la via del Sacro Speco. Oltrepassato, all'altro angolo del monastero, il letto asciutto di un torrentello, raggiunto a destra l'oratorio antichissimo di Santa Crocella, salì per la petraia che ruina giù verso il rombo dell' Aniene di fronte ai carpineti del Francolano, erto e nero fino alla croce del vertice, incoronata di stelle. Prima di toccare l' Arco che mette al bosco del Sacro Speco, uscì di via, si arrampicò a sinistra, cercando il posto dell'ultima sua veglia, alto sui tetti quadrati e sulla torre tozza di Santa Scolastica. La ricerca del sasso dove aveva pregato ginocchioni un'altra dolorosa notte, sviandogli il pensiero dal mistico foco in cui era chiuso, glielo raffreddò. Se ne avvide tosto, ne sentì un rammarico affannoso, una impazienza di ricuperar calore acuita dal timore di non riuscirvi, dal senso di esserne in colpa, dal ricordo di altre aridità tristi. Gelava, gelava sempre più. Cadde ginocchioni, chiamò Iddio con uno spasimo di preghiera. Come piccola fiamma inutilmente apposta ad un fascio di legna verde, lo slancio della volontà gli venne meno senza movere il cuore inerte e mancò in uno stupido ascoltare del rombo eguale dell' Aniene. La mente gli ritornò in un assalto di terrore. Forse la notte passerebbe intera così; forse al gelo arido seguirebbe la tentazione calda! Impose silenzio al fervere delle immaginazioni, si raccolse nel proposito di non smarrirsi d'animo. Allora sorse in lui l'idea chiara che spiriti nemici gli erano sopra. Se avesse veduto intorno a sé fiammeggiare occhi diabolici nei fessi delle pietre, ne sarebbe stato meno certo. Sentiva in sé il vaporare di un veleno, sentiva un'assenza di amore, un'assenza di dolore, un tedio, un peso, l'aggravarsi di un assopimento mortale. Ricadde nello stupido ascoltare il rumore del fiume, fissi gli occhi senza sguardo al bosco nero del Francolano. Gli passò nella visione interna, lento automa, la immagine del prete malvagio vissuto là colla sua corte di peccatrici. Sentì stanchezza di star ginocchioni, si accasciò su sé stesso. Ecco ancora l'automa lento. Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le mani sui ciuffi dell'erba soffice, fra sasso e sasso, odorante. Chiuse gli occhi nella dolcezza di quel tocco morbido, dell'odor selvaggio, del riposo; e vide Jeanne pallida sotto l'ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli sorrideva con gli occhi umidi di lagrime. Il cuore gli batté forte, forte, forte; un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla china dell'abbandono all'invito di quel volto. Spalancò gli occhi, mise, a braccia distese, a mani aperte, un lungo gemito. E subito pensò che qualche viandante notturno potesse averlo udito, trattenne il respiro, stette in ascolto. Silenzio; silenzio di tutte le cose fuorché del fiume. Il cuore gli si venne chetando. "Dio mio, Dio mio" mormorò, inorridito del pericolo corso, dell'abisso intravvisto. Si afferrò con gli occhi, con l'anima, al gran dado sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che amava. Trapassò con lo spirito l'ombre e i tetti, attrasse in sé la visione della Chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato. Durò nello sforzo quanto poté, reprimendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell'obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell'anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell'Imitazione: "Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit." Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell'ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d'erba che le mani giunte odoravano ancora. L'aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull'erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch'egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell'anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores. Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l'obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell' Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl'indici verso Castel Sant'Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un'ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull' Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: "Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!" E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la Vita, la pace ardente dell'anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l'erbe intorno. "Sei Tu" egli gemette "sei Tu, sei Tu?" Il vento tacque. Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio non gli parlerà. L'anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento. L'anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l'ultima parte della Visione, il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perché rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà. Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perché non scendo a dormire? Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea. Il cielo si era tutto coperto di nuvole pesanti fino ai monti di Jenne, dove la valle dell'alto Aniene gira. Appena Benedetto poteva discernere la tenebra nera del Francolano, in faccia, e i lividori, a' suoi piedi, della petraia. Mosse per discendere e al secondo passo si arrestò. Le gambe non lo reggevano, un soffio di sangue gli accese il viso. Era quasi digiuno da trent'ore. Non aveva preso che un tozzo di pane a mezzodì. Si sentì punger la persona da miriadi di spilli, batter forte il cuore, annebbiar la mente. Quali viluppi di serpi gli si attorcigliavano ai piedi simulando la innocenza dell'erba? E qual demonio sinistro lo attendeva lì sotto, carponi sulla pietra, simulando un cespuglio per avventarglisi? Non lo aspettavano i demonii anche nel monastero? Non si annidavano negli occhi del torrione? Non avevano quegli occhi una fiamma nera? No, no, adesso non più; adesso lo fissavano semichiusi e beffardi. Il rombo dell' Aniene, questo? No, il ruggito dell' Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a quello che udiva, ma tremava tremava come una festuca nel vento e le miriadi di spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: "devo potere!" esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono. Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la leonina voce del tuono lo minacciò. "Cosa faccio?" si diss'egli, cercando raccapezzarsi. "Perché voglio scendere?" Non lo sapeva più, ebbe bisogno di uno sforzo mentale per ricordare. Ecco, aveva pensato di scendere a dormire perché la preghiera era inutile a un uomo sicuro di salire al cielo. E un lampo arse anche dentro di lui: "Io tento Iddio!" Le serpi lo stringevano, il demonio strisciava carponi alla sua volta per la petraia tutta infernalmente viva di spiriti feroci, le fiamme nere ardevano negli occhi del torrione, ruggendo sempre l' Abisso a trionfo. Ma il rugghio sovrano del tuono romoreggiò per le nubi: "Non tentare il Signore Iddio tuo." Benedetto levò al cielo il viso e le mani congiunte, adorando, come poté, con l'ultimo lume della offuscata coscienza, vacillò, allargò le braccia, afferrò l'aria, piegò lentamente all'indietro, stramazzò riverso sulla china, giacque senza moto. Il suo corpo giaceva immobile nel vento del temporale, come un tronco schiantato, fra il dibattersi delle ginestre e il mareggiare dell'erba. L'anima dovette chiudersi nel contatto centrale con l' Essere senza tempo e senza spazio, perché Benedetto, al primo ritorno della coscienza, non ebbe senso né del luogo né dell'ora. Sentiva una levità strana delle membra, una spossatezza fisica piacevole, una infinita dolcezza interna; prima sul viso, poi sulle mani tanti minuti titillamenti come di animati atomi amorosi dell'aria: teneri sussurri di voci timide intorno a quello che gli pareva il suo letto. Si rizzò a sedere, guardò smarrito ma in pace; dimentico del dove e del quando, ma tanto in pace, tanto contento della quieta fonte interna di un indistinto amore che gli fluiva in tutti i vasi della Vita e se ne spandeva per le cose intorno, per le dolci piccole vite fatte amorose a lui. Sorridendo fra sé del suo proprio smarrimento, riconobbe il dove e il come. Il quando, no. Neppure ne sentì desiderio, neppure si domandò se dalla caduta fossero trascorse ore o minuti, tanto lo appagava il beato presente. Il temporale era disceso verso Roma. Nel mormorio della pioggia senza vento, piana piana, nella voce grande dell' Aniene, nella riposata maestà dei monti, nell'odore selvaggio della petraia umida, nello stesso proprio cuore, Benedetto sentiva un Divino confuso alla creatura, un'ascosa essenza di paradiso. Sentiva di fondersi con le anime delle cose come piccola voce in un coro immenso, di essere uno con la montagna odorante, con l'aria beata. E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento gli ritornarono a mente i perché della presenza sua sul monte deserto nelle tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l'esilio dal monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all'anima sua ferma in Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie. Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall'alto di una inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l'ufficio suo, egli si accorse di esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana, continuava. Che fare? Rientrare all' Ospizio dei pellegrini no perché il vaccaro dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto né sarebbe stato facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all' Arco d'ingresso nel bosco. Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al bosco, cadde a sedere, sfinito. Desiderava un po' di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L'aria era tepida, il suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all'ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l'impero, benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l' Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall'uno e dall'altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l'Arco. Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell'ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all'udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte. "Oh, Benedè!" esclamò riconoscendo Benedetto. "Qui, siete?" Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio. "Lo racconterete ai padri" diss'egli. "Direte ch'ero sfinito e che vi ho chiesto un po' di latte per amor di Dio." "Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!" fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. "Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!" Benedetto bevve. "Benedico Iddio" diss'egli "per la bontà vostra e per la bontà del latte." Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s'inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: "ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro." Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s'incamminò egli stesso verso Santa Scolastica. La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell' Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.

CAINO E ABELE

678774
Perodi, Emma 1 occorrenze

Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

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