Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220261
Storie d'amore e di dolore 4 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Questa anzi è una posizione che non ho mai abbandonata per cinquant'anni di seguito, e mi par d'aver avuto un coraggio non comune! Ma ora che da un lustro quella posizione felice è soltanto un ricordo, mi stimerei un vecchio matto da legare, se certe corbellerie mi saltassero in testa: certe corbellerie che del resto — soggiunse in tono più grave — a te meno che mai possono venire, perchè, se non mi sbaglio, tu mi sei d'un bel po' più maturo, mio povero Sampieri. Questi tacque, e tirato fuori un fazzolettone di seta rossa a quadrelli, cancellò, a malincuore, si vedeva, la grossa E poc'anzi tracciata. Ma dopo un silenzio di qualche minuto riprese: - Bencini, posso confidarti un segreto? - Di', di' pure, mio caro, foss'anche un segreto di Stato; pur che amore non ci abbia.... - In questo caso posso risparmiarti la noia — interruppe il conte un po' stizzito. L'avvocato che in tanto s'era messo a passeggiar su e giù per la sala, gingillandosi con la catenella dell'orologio, si fermò di botto davanti al suo compagno, e tra commosso e incredulo gli domandò lentamente: - Ma Tonino, che dici su 'l serio o mi canzoni? Innamorato? Innamorato, tu? Contessa Lara. 19 L'uomo da' sospiri sospirò di bel nuovo, rivolto ancora al cristallo confidente, su cui si ripreparava a tracciar l'iniziale misteriosa. - Oh, Bencini mio! — scoppiò finalmente a dire — se tu avessi un briciolo di cuore, me lo dimostreresti in quest'occasione! - Sì, carissimo, to lo dimostrerei se; Dio liberi, ti vedessi affogare, bruciare, restar sotto un tranvai, e che so io? Vale a dire se ti vedessi correre un pericolo vero e proprio, ma ti confesso sinceramente che non mi sento capace a stemperarmi in lacrime perchè un vecchio collezionista di flauti s'innamora alla fresca età di sessant'anni, e di più, per la prima volta in vita sua! Questa è carina da vero, e non me l'aspettavo. Ma sentiamo, dunque, il tuo romanzo, perchè capisco che tu spiri dalla voglia di raccontarmelo. Butta fuori! - E a chi dovrei parlarne se non a chi n'è la causa? — sospirò il conte. - Io ne sono la causa? Io? — gridava l'avvocato cascando dalle nuvole, preso, questa volta, da un impeto d'ilarità romorosa. - Sì, tu, tu solo — insistè il poveraccio — perchè se non eri tu, non avrei mai messo piede nè a Napoli, nè in questa fatale pensione! - Sì che è proprio una urì di questo paradiso che t'ha rubato il cuore, eh? — continuava, ridendo, l'amico. — E mi permetti di nominarla? Sampieri anch'egli sorrideva con una strana smorfia a fior di labbra, e consentendo col capo mostrava grande soddisfazione d'esser finalmente giunto a intrattenersi col compagno dell'oggetto de' suoi sospiri. — L'indovino subito. La bella è certo Miss Gingerly, quell' inglese sui cinquanta, lunga, magra, angolosa come un angiolo del Cimabue, con due riccioli che sembrano due trucioli calanti sopra gli orecchi; Miss Gingerly, inseparabile da tre cose: le scarpe di gomma elastica, l'ombrello da acqua e il velo verde pisello; Miss Gingerly, che c'empie le tasche di libriccini evangelici... e.... - Stupido! - l'interruppe il conte in tono di supremo disgusto. - Dunque, non è lei? E allora sarà la contessa Bobriskoff, quella russa divisa dal marito che pare una tavolozza ambulante, tanti sono i colori coi quali s'illude di appianarsi e rifarsi il viso; ti avrà preso al laccio con le sue trecce sciolte a uso bambina, e incantato con le romanze slave che la ci bela tutte le sere in un trillo continuato quanto stonato. È lei, eh? Sampieri scrollava la testa, negando. - Come? — ripigliava l'altro — e tu macchineresti di portar la discordia e il disonore in quella coppia di pacifici olandesi de' quali ora non ricordo più il nome — un nome in ick o in ock — che mangiano silenziosamente e formidabilmente accosto accosto come due colombi? Oh, uomo immorale! Ma che seduzioni hanno mai per te gli occhi tondi, chiari e a fior di testa della signora e il suo naso largo all'insù ampiamente sottolineato dalla bocca?... - Grullo, grullissimo! — opponeva l'amoroso con aria fatua. — Smetti, per carità! Quella non è roba alla quale io tiri. - In questo caso non si sbaglia: sfido io, non c'è ora altre donne nella casa! Tu vagheggi le cupolesche rotondità e la facciona di luna rossa della vedova Alford, la proprietaria della pensione; ma perdincibacco, perdi il tempo, sai, caro! oh, se lo perdi! perchè il posto è bell'e accaparrato dal capitano Borise, quel Lupo di mare napoletano, brav'uomo, sì, ma tagliato con l'accetta. Lui, nella grassa vedova ha subodorati parecchi soldi, e non se la lascia sfuggire. - Cretino! Vero cretino! — masticava, come bestemmiando, il buon Sampieri, questa volta in collera per da vero. — Non c'è altre donne nella casa? E Emma, Miss Alford? - Che? Tu pretenderesti — chiese l'avvocato — di far la corte a quella bambina? - No, caro; intendo semplicemente d'offrirle il titolo di contessa Sampieri. - A quella bimba? - Bimba! Bimba, poi, non tanto. A sentir te parrebbe che quella figliuola fosse ancora nelle fasce! Miss Emma ha diciassette anni. Io... io ne ho certo parecchi di più, ma ho anche in compenso un bravo milioncino e mezzo che mi ringiovanisce non poco. Che te ne pare, eh, de' miei progettini? L'amico si fece quasi serio. - Sampieri mio, sono i progetti d'un matto, null'altro; tanto più che ci deve esser di mezzo anche un amoretto, perchè parecchie volte ho intesa Miss Alford parlare con la madre di un certo Toto.... E lo nominava in un tono.... — Nominava me, povero angelo! — esclamò il conte tutto lieto. — Che forse io non mi chiamo Antonio... Tonino? Lo diceva in napoletano, ecco. Ora — seguitava ragionando - se pretendessi combinar le cose da un giorno all'altro, sarebbe troppo pretendere; nè io sono uso a schiccherar dichiarazioni a bruciapelo, come uno studentino senza cervello; ma a forza di manovre abili e coperte, che so io? d'attenzioni mute e delicate, come dice appunto Emma che le piacciono, a forza di piccole finezze, di galanterie, e sopra tutto lasciando tempo al tempo, finirò per impadronirmi di quel coricino; perchè le donne, vedi, vogliono esser vinte così. L'avvocato ascoltava guardandolo fisso; poi domandò: - E quando intendi di cominciar l'assedio... spirituale? Il conte volse gli occhi in torno per assicurarsi ch'erano proprio soli, poi confessò sottovoce, visibilmente contento di sè: - Il primo passo è fatto, e secondo me proprio da grande stratega. Senti: sai di quel romanzo di Paoli, uscito ora, che si titola Lei sola? A te Paoli non piace, capisco, perchè scrive in barbarico, ma non si tratta di ciò; l'autore è il preferito di Miss Alford, e il titolo del suo nuovo libro mi conviene perfettamente. Io dunque non a pena questo volume è uscito l'ho comprato; ho posto un nodo di nastro celeste tessuto d'oro fra le pagine, alla scena — un po' ardita, se vogliamo — in cui l'eroina si leva in presenza dell'amante, lì seduto su 'l tappeto, certe calzette a trafori... - stile moderno, ma che fa? — e l'ho mandato alla mia Emma. Non ti pare un pensiero delicato farle pervenire in questo modo quel romanzo che certo ella desiderava? Con quel titolo eloquente, per di più? Con quel nastro simbolico, sopra tutto? - Amico, le mie congratulazioni sincere; quest'idea è il più bel giorno della tua vita! – declamò con enfasi canzonatoria il Bencini. — Soltanto io direi.... La conversazione sarebbe durata dell'altro se il leggiadro lupus in fabula non avesse spalancata proprio in quel momento la porta del salone. Emma Alford era una figura tutta settentrionale, alta e sottile, con un visetto ovale dalla pelle diafana come una bimba. I suoi larghi occhi d'una tinta luminosa, tra l'azzurro cupo e il grigio, si velavan sotto le ciglia nere che ne raddolcivano l'espressione un po' birichina. Ma la maggior bellezza di Emma erano i capelli, rossicci, ondulati, e lucidi come finissima seta; li portava rialzati su la nuca da un pettine di tartaruga bionda, senz'alcun artifizio, ma in una foggia grecamente elegante, e dietro il collo gliene cadeva qualche ciocca giù per le spalle. La bocca era rosea, un po' larga, fatta per ridere e per cantare, guarnita di dentini bianchi e uniti; e Miss Alford passava, a Napoli, per una gran bella ragazza. La fanciulla salutò con disinvoltura i due ospiti della pensione materna; poi si diresse verso la tavola di mezzo dove posò un libro, subito riconosciuto dal donatore. Impacciato e tremante, questi dichiarò ch'e' stava su 'l punto d'uscire, e balbettando qualche scusa lanciò una grottesca occhiata di desiderio alla donna, un'occhiata supplichevole all'amico, come per raccomandarsi all'alleanza di lui, e sparve. - Quant'è curioso! — saltò su a dire Emma, non a pena il conte ebbe richiuso l'uscio, eseguendo l'ultimo inchino. - Ahi, si comincia male! — pensava l'avvocato, mentre la signorina continuava ridendo: - È tutto cambiato dai primi giorni che venne. Prima era espansivo, loquace; ora dice sì e no quattro parole.... Ma in vece dà certi sguardi paurosi! lersera mamma e il capitano risero Dio sa quanto di lui. Io presi le sue difese, perchè, poveretto, tutt'assieme non è poi un vecchio antipatico, soltanto... bisognerebbe consigliarlo a mettersi una parrucchina; con quella zucca pelata fa un certo senso — (qui ebbe un gesto di ribrezzo, passandosi rapidamente il fazzolettino su la bocca). - De malo in peius... — badava a pensare il Bencini; pure non volendo darsi subito per vinto, s'arrischiò a dire: - Cara signora Emma, lei è troppo severa. Il mio amico Sampieri non è un Adone, glielo concedo, ma non è nè pure vecchio... cioè non è tanto vecchio quanto lei si figura. È d'una delle piu antiche famiglie d'Italia, e poi... è tanto ricco! — concluse enfaticamente l'avvocato. Queste parole erano destinate a produrre un grande effetto: e lo produssero. - Ah, è molto ricco ? — chiese con vivo interessamento Miss Alford. — Peccato che non sia mio nonno! Dev'essere un gran brav'uomo co' nipoti. Allora l'amico, che in qualche modo voleva entrare in argomento, dichiarò alla signorina, che il conte Sampieri, essendo scapolo e perfettamente libero, non aveva figli e... per conseguenza nè pure nipoti; poi abbordò il soggetto del libro: - Vedo che lei legge il nuovo romanzo del Paoli. - Sissignore. S'è pubblicato proprio ora. - Lo so. Volevo leggerlo anch'io, ma va a ruba; è difficile averlo. Anzi, lei è stata fortunata.... - Che dice? Per conto mio temo che lo avrei desiderato un anno, se non fosse per... una persona anonima... che conosce bene i miei gusti, che indovina i miei pensieri.... L'avvocato la guardava e mormorò: - Ah, da vero?... - Si figuri, — riprese la fanciulla — ho trovato fra queste pagine perfino un nodo di nastro celeste — il mio colore — alla scena... a una scena che fa venire i brividi... Il visino roseo le si era fatto rosso come una fragola matura. Ella si vergognava non poco di quella confidenza d'amore, ma la faceva, non ostante, vinta dalla manìa che hanno quasi tutte le donne di raccontar le loro faccende intime. Il Bencini, stuzzicato da una certa curiosità, le si fece piu vicino: - E... mi dica, signora Emma, — domandò — lei dunque sa presso a poco chi le ha mandato questo romanzo? - Se lo so! È il più bel giovane del mondo, e pieno di delicatezza, di delicatezza muta.... Oh, se sapesse.... In quel punto il conte Sampieri rientrò nel salone, impaziente, agitato, nervoso, e di lì a pochi minuti una cameriera venne ad avvertire Emma che sua madre la chiamava. - E bene? — chiese il timido amatore, quando si ritrovò solo con l'amico. — T'ha ella parlato di me? - Me ne ha parlato. - Le ha fatto buon effetto l'invio anonimo del libro? - Ottimo. - T'ha detto qualcosa della scena della dichiarazione e del nodo celeste proprio in quel punto.... - Molte cose. - Dunque vedi, Bencini mio, che avevo ragione dicendoti che le donne vanno prese con garbo, vanno conquistate a furia di delicatezze? E il bravo conte fissava l'amico , piantato dinanzi a lui co' pollici infilati al panciotto sotto le ascelle, agitando su 'l petto le altre dita tese e dimenando il capo con piglio di profonda soddisfazione. - Mio povero Sampieri, che posso dirti per farti persuaso che... che quel nodo celeste è proprio un nodo gordiano.... Ma nè anche a farlo a posta, ecco che la campana annunziante il pranzo a tavola rotonda principiò il suo gaio squillo per l'appunto in quell'istante; e mentre il Bencini, determinato a salvar a ogni costo dal ridicolo il suo compagno, si preparava a combatterne la follia amorosa, magari ripetendogli parola per parola tutta la conversazione testè avuta con la ragazza, il conte, infatuato e felice, se lo prese a braccetto e se lo trascinò fuori della stanza senza nulla ascoltare.

Allora Lo Santo dovette aver la visione netta della verità, come in un lampo; e abbandonata la figliuola con una stratta che la fece traballare e cadere a terra, venne difilato a me e mi si piantò dinanzi con le braccia incrociate, fissandomi negli occhi, quasi avesse voluto mangiarmi. - Dunque, sei stato tu? — domandò ansando. - No! no! non è vero! non è vero! — strillava Tinuzza che s'era rialzata e veniva a mettersi tra suo padre e me, intanto che mi faceva de' segni perchè tacessi. - Sì, sono stato io — confessai — ma la sposo. - Ah, infame! Ah, schifoso! — sbraitava la madre con quella vociaccia da strega. - Ah, infame! Ah, schifoso! Ma il padre le impose silenzio: - Taci, ora. Infame e schifosa sei tu che non hai saputo insegnar l'onore a tua figlia. — E vòlto verso me disse gravemente: - La sposi, va bene; ma quando? - Anche subito: appena son pronti i fogli. - Bada, — soggiunse il vecchio, — o in chiesa o... dove sai. — Così dicendo accennava al suo fucile appeso al muro. Io feci un gesto che significava: Non dubitate! e tutti mi credettero. Sapevan che avevo una parola sola, come mio padre, come i miei fratelli, come tutti di famiglia. Tinuzza si stropicciava il braccio illividito e aveva ricominciato a ridere. - Ricòrdati però una cosa, — soggiunse Lo Santo parlando alla figlia; tu esci di qui, ma non c'entri più. Male femmine in casa mia non ci stanno! Di lì a meno d'un mese ci eravamo già sposati. Il male era ch'io non avevo ancora vent'anni: e mi restava a passar la coscrizione. - Se tiri un numero basso, vengo con te, — mi dichiarava Tinuzza, che non voleva saperne di malinconie. — Dai miei, lo sai, non posso più voltarmici; mio padre è una bestia; e co' tuoi genitori, che mi guardano male, non rimango certo. Tanto, che noia ti do? E rideva all'idea di seguirmi, di mutar paese, di veder gente e cose nuove, senza preoccuparsi affatto de' fastidi e della miseria che ci avrebbe creati quell'esistenza in città sconosciute, senza speranza di guadagno nè dell'uno nè dell' altro, e per di più con un bimbo su le spalle. — Quando ci si vuol bene non ci son guai, — concludeva, scrollando le spalle; perchè in que' tempi Tinuzza credeva d'amarmi con tutta l'anima, come io veramente amavo lei; e, più d'una volta quella sua fiducia nell'avvenire, che non l'impauriva purchè me la fossi tenuta a fianco, metteva coraggio anche a me. Qualche soldo, a forza di faticare col carro, me l'ero posto da parte; mio padre m'aveva promesso un'altra sommetta per quando fossi partito; sì che mi lasciavo andar anch'io a non disperarmi per quel mutamento. Chi sa mai? da cosa nasce cosa; si fanno fuori conoscenze nuove che posson essere vantaggiose; e sorridevo a quel destino presso a buttar me con la mia famigliuola, quasi tre bimbi, spersi nel mondo. Mi toccò proprio un numero basso, come m'aspettavo; sì che non c'era rimedio: marcia! Intanto che mia madre pigiava dentro un sacco quel po' di biancheria che a mano a mano, di nascosto a tutti, m'era andata preparando: calzette a maglia, camicie e camiciole, roba ordinaria, sì sa, badava a dire brusca brusca, con una voglia di piangere che l'affogava: — Io, vedi? se tu non avessi preso moglie, sarei morta di dolore quando tu mi fossi andato via soldato; ma ora com'ora, poco me ne importa; anzi, non me ne importa affatto; direi perfino che ci ho gusto di non averti davanti agli occhi. Voglio mangiare un boccone di più; voglio ingrassarmi; non muoio, sai; no, che non muoio! — Merulla sorrise al ricordo di quelle parole materne, come avrà sorriso a chi sa quanti rimbrottoli della brava donna quando era fanciullo; e soggiunse: - Diceva di non morire; e pure è morta, proprio di dolore, quando.... Basta... è morta anche lei. - E con l'avambraccio velato di lanuggine bruna, s'asciugò una grossa lacrima che stava per iscorrergli giù su 'l mento. Subito riprese: - Tinuzza m'ammiccava dietro le spalle di mia madre, come per dire: — La senti? Ma la senti? Difatti, quella povera vecchia, ch'era un angiolo con tutti, non poteva soffrir mia moglie. Andava ripetendo che m'aveva stregato quella buon'a nulla; che m'aveva fatto bollir nel caffè un ciuffo de' suoi capellacci gialli come le pannocchie del granturco per attaccarmi a lei in quel modo. Quando Tinuzza rideva col solito fare spensierato, mia madre si mordeva le labbra per non le vociare qualche imprecazione. — Dio voglia che quella donna non ti porti disgrazia! — esclamava a mezza voce, voltandosi a me. - Non mi rispetta, vedi; e non rispetterà neanche te. Fra loro due la guerra era implacabile, continua; a segno che, da questo lato, la partenza mi fu di sollievo. Su 'l medesimo piroscafo che mi trasportava da Palermo a Napoli insieme agli altri giovani del mio paese, destinati a un reggimento di bersaglieri, che pigliava le reclute là giù, s'era imbarcata anche mia moglie col piccino, ch'essa allattava. A Napoli, ci ammucchiarono, noi soldati, in un convoglio diretto a Roma: era quella la nostra destinazione. Tinuzza viaggiò in un'altra terza classe, ma sempre nel treno che mi portava. Oh, Dio! che spasimo quella prima notte e quel primo giorno di quartiere, senza saper dove era andata a sbattere la mia donna con la creatura, in mezzo a una città così grande, senza conoscervi un'anima! A poco a poco ci si acclimatò tutti e due in quella Roma che mette paura. Lei era andata a alloggiare in una cameretta a pianterreno su la svolta d'una via che s'allungava a destra dietro la caserma. Glie l'affittava una portinaia vedova, la quale, presso il padrone dello stabile figurava d'aver presa seco, per favore, una sua cugina. Lì capitavo sempre a trovar Tinuzza, all'ora dell'uscita. — Ma è proprio vostro marito questo ragazzo? — domandava la sora Rosa a Tinuzza mia con un certo sorriso e un dondolar del capo che dimostravano quanto poco ci credesse. - Sicuro ch'è mio marito; ci abbiamo anche un figlio: volete più bella prova? — rispondeva l'altra con quel riso che si poteva interpretare in qualunque modo. - Sora Rosa, le giuro che siamo sposati in chiesa e al Comune, quanto è vero che questo è un innocente — asserivo io prendendo in collo il mio bambino, che già aveva imparato a conoscermi e mi tendeva le braccia. Allora la vedova pronunziava un: — Sarà vero, sarà... — così pieno di dubbi e così canzonatorio che mi veniva voglia di darle una manata in faccia. Tinuzza, lei, quasi ci si divertiva, perchè il suo carattere non somigliava al mio. - Hai fatto presto da vero a farti l'amorosa! - mi dicevano i miei compagni, quando invece d'andar con essi a passeggio e poi finire in qualche osteria fino all'ora della ritirata, li lasciavo appena vedevo spuntar mia moglie che mi veniva incontro su 'l marciapiede dirimpetto. - Accidenti, che bella biondina! — esclamò una volta un sergente furiere di cavalleria col quale m'ero accompagnato per istrada. Era anche lui del mio paese; ma faceva già il militare da qualche anno. Ci eravamo rintoppati per caso, e non ci pareva vero di chiacchierar un po' dei parenti e degli amici lasciati là giù. - È Tinuzza, — risposi, — o che non la riconosci? - Chi, Tinuzza? - Tinuzza, Agata Lo Santo, quella ragazzetta che stava vicino a casa mia. - Corpo! — bestemmiò maravigliato. - Com'è cresciuta in un momento e come s'è fatta bella! - In un momento, no, — osservai io - ne son passati degli anni! Tinuzza s'era unita a noi, dietro un mio cenno, e rideva di Puddu Cassione, che la guardava mordendosi i baffi e mormorando: - Passa, passa il tempo! - Son vecchia, lo so — disse lei, forse per il gusto che provava a farsi ripetere che, crescendo, s'era fatta bella. Lui rise rumorosamente, col petto da colosso che gli sussultava. - Corpo! ci voleva un bel coraggio a chiamarsi vecchia a quindici o sedici anni: quanti ne poteva avere? - Ne ho diciotto, — fece gravemente Tinuzza, come se ne avesse confessati cinquanta. Ridemmo tutti. Cassione le domandò poco dopo: - Non per offendervi; ma come mai vi trovate?... Io l'interruppi: — A Roma, eh? Ci si trova perchè è mia moglie: ci siamo sposati or son sedici mesi. Allora, dopo le solite esclamazioni e i rallegramenti d'uso, Cassione sentenziò che tutti e due, tanto io quanto lei, avevamo fatta una corbelleria delle più grosse. S'intende non aver giudizio, ma a quel punto, corpo! E rideva, corrucciandosi di quell'inesperienza da ragazzacci che ci doveva trascinare a tanti guai. Passeggiammo per circa un paio d'ore tutti e tre in fila, un po' fuori d'una porta, un po' in città; e s'entrò in un'osteria, dove mangiammo un piatto di fettuccine al sugo. Avvicinatasi l'ora della ritirata, si accompagnò Tinuzza a casa. Io stavo in pena per il bambino, che quel giorno era stato affidato alla sora Rosa. Tinuzza invece, non ostante che lo allattasse, non sembrava ricordarsene; a segno che le feci un rimprovero, e ci lasciammo piuttosto freddi su la soglia della portineria. — Vedi quanto sei stupido! — mi disse mia moglie il giorno dipoi. — Ciccu sta più volentieri con la sora Rosa che con me. Iersera l'ho trovato che dormiva. Essa gli aveva dato da succhiar un torrone. Così la vita andò avanti per noi un certo tempo. Tinuzza guadagnava qualcosa presso due o tre famiglie dove la portinaia le aveva trovato da cucir da uomo; io, che non ispendevo un soldo quando non ero con lei, le mettevo in mano la mia misera paga della cinquina; e co' denari portati da casa si campava da gente onesta. Il mio maggior piacere era di fuggir l'oppressione, la monotonia del quartiere, e andarmene in campagna insieme alla mia sposa e a mio figlio, ch'ella portava in braccio. Là ci mettevamo in libertà, su qualche prato. Lei posava a terra il bambino, che scherzava co' più alti fili d'erbe smossi dal vento, con qualche insetto che passava, co' fiori, che più gli piacevano quanto più eran coloriti; teneva la boccuccia aperta, serio, e metteva un suono inarticolato di maraviglia e di desiderio tendendo la mano grassa, tutta pozzette, per afferrar quel che vedeva anche lontano. Sdraiato accanto a lui, io gli facevo il solletico su le gambe sotto i calzerotti a rigoline, e, mentr'egli si rovesciava su la sottana di sua madre, ridendo, da pazzarello, e mostrava quattro dentini bianchi come il latte appena spuntati, la mia mano saliva, saliva su fino alle coscette, e allora ci ravvoltolavamo insieme, come due cani. La sua passione erano i bottoni della mia giubba; li toccava; ci si specchiava il visetto roseo che appariva lì su l'ottone allargato e gonfio come una palla. - Una seconda volta Merulla sostò per asciugarsi Contessa Lara. 18 gli occhi. Bella Madre! che c'era da fare? Ormai era andata com'era andata. — Dopo una di queste gite all'aria aperta, sembra che il mio piccino prendesse dell'umidità. Tanto è vero, che il giorno dopo piagnucolò di continuo; nè latte nè minestra gli volevano passare dalla gola; la madre gli canterellava per acquetarlo — così mi raccontò — ma lui non potè prender sonno. E scottava, tutto rosso. La sora Rosa, donna d'esperienza, dichiarò che aveva un febbrone. Dire come rimanessi io a queste notizie, non avrei saputo nè anche allora; figuriamoci adesso, che son passati tanti anni... e tante cose! Mi prese un tremito come a un ragazzino che ruba la prima volta, e dopo aver baciato e ribaciato quel povero angiolo, che mi lasciava su le mani e su la bocca un'impressione come di metallo scaldato, tornai al quartiere, più stordito d'un ubbriaco. Anche il giorno dopo, in piazza d'armi, barcollavo; toccai appena qualche boccone del rancio e, quando fui libero, corsi a casa. Il bambino stava peggio. Mi parve che Tinuzza me l'annunziasse con tanta indifferenza, che mi misi a insultarla. — O che forse non è sangue tuo, che stai lì così come se morisse la gatta? Lei alzava le spalle, mostrando di compatir me come un esaltato e di non saper che fare alla creatura: gli dava la zinna, e lui non la voleva; gli dava la farinata, lo stesso; aveva anche chiamato il medico; o che cosa doveva far di più? Io stavo intontito a guardare il mio bimbo. Mi ero seduto su la sponda del letto e gli appressavo la bocca su le labbra enfiate da cui usciva un alito infocato. Lo chiamavo: Ciccu, Ciccu! Non apriva nè pure gli occhi! Il catarro gli serrava la gola per modo che, respirando penosamente pareva rantolasse. — Senti, io stasera non vado alla ritirata. M'infischio di tutto, io! Tinuzza si stizzì. Che diamine! O non c'era lei? Per un po' di mal di gola, una semplice frescata, far tutto quel diavoleto! E s'io insistetti dal canto mio, lei insistè più ancora. Diceva fra i denti: — Maledetto il momento che fu generato! — Ma non si spiegava chiaro per paura di me, sapendo che adoravo il bambino. Quando furono le sette, mi si piantò davanti; disse ruvidamente: - Senti che sona! Insomma, vai o non vai? Per me, se ti ficcano in prigione poco m'importa; ma deve importare a te, che non potrai più mettere il naso fuori. E di Ciccu, di', chi ti dà notizie, allora? Io, lo sai che in quartiere non ci vengo; già, neppure mi farebbero passare. In quel momento un urto convulso sollevò il pettuccio del piccolo malato; la tosse che doveva uscire a colpi non trovava in quell'esserino la forza per isfogarsi; lui si dibatteva, si lamentava, soffocato.... Io me lo presi in braccio, e sollevandolo cercavo di farlo star un po' meglio; ma inutilmente spalancava gli occhi, apriva la boccuccia: il catarro gli metteva in gola come un involto di bambagia. A momenti la faccia gli diventava livida. Come un pazzo, per lo spavento che mi morisse lì per lì fra le mani, lo posai di nuovo su 'l letto e corsi in cerca d'un medico. In due farmacie mi fu impossibile trovarlo. Nella terza, un grosso dottore stava seduto sur una poltrona e parlava di politica col ministro del negozio, quietamente. Quando mi videro arrivare così trafelato e che gli raccontai il fatto, il medico s'alzò, rivolse ancora quattro parole al farmacista a proposito del discorso da me interrotto, e mi seguì fino a casa. Visitato il piccino, disse che si trattava di crup; scrisse in fretta una ricetta e promise di tornar al mattino presto. — Vai o non vai? — mi chiese Tinuzza forse preoccupata della punizione che doveva aspettarmi. Diedi un altro bacio, un altro sguardo in cui lasciavo l'anima mia a quel povero corpicino scarlatto per la febbre, e a capo basso, di corsa, tornai al quartiere. Prima che ne varcassi la cancellata, sonava il silenzio. Andai in prigione, si capisce. La vita militare non conosce riguardi. Il regolamento... non esiste altro al mondo. Allora scrissi due righe a Tinuzza. Ero disperato, mi sarei dato la testa contro i muri: le dicevo che per cinque giorni avrei dovuto star chiuso senza veder nè lei nè il bambino; il bambino sopra tutto mi premeva; badasse a curarlo, a non fargli mancar nulla, a chiamare il medico quante volte al giorno c'era bisogno; magari ci fosse voluto tutto quel poco che avevamo in casa; vendesse pure anche la biancheria, non m'importava, per amor del bambino. II domani, questa lettera fu rimessa a mia moglie da un mio compagno informato della faccenda. II caso volle — dico il caso, vede, signora, non dico la fortuna — ch'essendo quella la mia prima punizione, mi venisse diminuita da cinque a tre giorni. Avevo un capitano ch'era un cuor d'oro, ecco come fu. Appena fuori di prigione, all'ora dell'uscita, mi precipitai a casa. Il cuore mi batteva; mi sembrava che i miei piedi si mangiassero la strada. Bella Madre! Come l'avrei trovato, il bambino? Penetrai come un fulmine in portineria, e mentre cercavo d'aprir uscio di camera di mia moglie, la sora Rosa, tutta turbata, me ne tratteneva. - Non entrate, per carità, che fate ? La sor'Agata non c'è, — diceva essa balbettando - aspettate, aspettate ! - Perchè non c'è Dov'è andata ? O non è malato il bambino ? La vedova mi guardava, smarrita. - Ma che cosa è accaduto, per la Madonna? — urlai io inferocito — voglio saperlo ! La sora Rosa mi s' era avvicinata, più pallida d'un cadavere; mi prendeva per le braccia ; mi faceva de' cenni senza significato, e tremava, tremava sempre più. Io la respinsi, buttandola da parte, e dati alla porta un paio di colpi di spalla con tutta la mia forza , apersi. Volevo veder il mio Ciccu ; non intendevo ragione. Ma il bambino non c'era; il letto era vuoto : soltanto un po' acciaccato sur una sponda. Vidi Tinuzza mezzo svestita, con una treccia de' suoi capelloni biondi disfatta su 'l petto; e vidi Puddu Cassione, che cercava nascondere la sua alta statura dietro certe gonnelle di lei attaccate a un chiodo su 'l muro. C'erano su la tavola due bicchieri di vino quasi vuoti. Mi bastò un'occhiata per capir tutto. - È morto, è vero, è morto?... — mugghiai peggio d'un bufalo. Lei si coprì la faccia con tutte e due le mani. Non rideva più. - È morto, e to fai la.... — Prima di finir la frase le avevo piantata la mia daga nella gola. Nella confusione che seguì, il furiere se l'era svignata. - Il barcaiolo tacque. Il crepuscolo s'oscurava diffondendo una tinta di mistero su la distesa enorme dell'acque. La signora sollevò la testa; quel dramma semplice e plebeo l'aveva scossa. - Perchè, — diss'ella — condannarvi a una così lunga reclusione quando c'erano tante attenuanti in vostro favore? - Ero soldato — spiegò lui; — e poi dicono che non li avevo sorpresi proprio su 'l fatto. Insomma ci sono, e pazienza — concluse filosoficamente. - E dovrete restarci ancora un pezzo? — chiese la signora. - Altri dieci mesi soltanto. - Poveretto! Non vi parrà vero d'uscire! — fece ella, tutta intenerita. L' ex bersagliere gettò indietro la testa e respirò fortemente, come se i polmoni gli si aprissero a un'aria balsamica, nuova. - Sfido io! — diss'egli. — Vado subito a far la pelle a Puddu Cassione.

Quanto più spesso le riusciva di scappare, si recava all'ospedale: due e anche tre volte alla settimana; ma quel giorno poteva contar di perdere quattro o cinque ore di lavoro: di più, la portineria restava abbandonata. Veniva il portalettere, veniva gente a chieder di questo o di quell'altro inquilino, e non c'era alcuno per rispondere. Lei si figurava il brontolío dei casigliani, il malumore del padrone, se fosse giunto a saper la faccenda, e correva verso San Francesco de' Poverelli, correva col viso in fiamma, con le gambe che tanto più le pesavano, come fatte di piombo, quanto più le premeva di far presto. E quando, trafelata, trovavasi finalmente allo spedale, davanti al pancione in livrea, che, non avendo nulla da fare, non aveva premura nè per sè, nè per gli altri, ella si struggeva lì una mezz'ora, avvolgendosi e svolgendosi macchinalmente una punta del fazzoletto intorno a due o tre dita della mano. Il tempo non le passava mai; scendevano e salivano inservienti, medici, impiegati, su e giù per l'ampia scala che mena alle corsíe; la donna sospirava, si raccomandava a Gesù, alla Vergine, a tutti i santi e martini benedetti... Stava su' carboni ardenti... Finalmente, qualcuno le si avvicinava a farle l'elemosina delle desiderate notizie; ed ella riprendeva la sua corsa verso casa, con le gambe che pareva non si volessero staccare dal suolo, col capo che le andava per aria, ma più serena d' animo, un po' rassicurata. Di fatti, le notizie di Santino eran sempre migliori. Una volta, dissero a sua madre che il medico lo aveva messo a un quarto di vitto, poi a metà. Un'altra volta seppe che gli era stato permesso d'alzarsi, e allora ebbe due terzi di vitto, non ostante che, a dar retta a lui, avrebbe mangiato anche il desinare del personale di servizio; tanto era l'appetito che gli tornava con le forze. Lucia sorrideva, con gli occhi inondati di lagrime, a sentir tante cose consolanti, e se le sarebbe fatte ripetere sa Dio quante volte. — Madonna cara! Che grazia mi avete fatta! — esclamava col cuore traboccante di gratitudine verso la Provvidenza. Un giorno, la superiora delle monache addette all'ospedale, le disse che il bambino, ormai perfettamente ristabilito, non avrebbe certo tardato a uscire. Quel giorno, prima di tornare a casa, la Lucia non seppe resistere al desiderio di fermarsi da un merciaio che conosceva, a pigliarsi quattro metri di frustagno marrone, per farne un vestitino nuovo a Santino. Fissò di pagarlo un tanto il mese. Ora che non aveva più da perder tempo in queste gite, poteva guadagnare qualche altra cosa; poi le si presentava un nuovo provento: era venuta ad abitare un quartierino del palazzo una giovane sposa incinta, moglie d'un tenente, la quale voleva la Lucia a mezzo servizio, non facendo ella quasi niente da sè in casa, un po' perchè non c'era avvezza, e un po' perchè soffriva di quella prima gravidanza. In questo modo le cose sarebbero andate meglio, si capisce: una spinta di qua, una di là, e la barca va avanti. Tutto questo, la Lucia ripeteva nell'intimo suo, mentre, con un sorriso felice, si stringeva al petto l'involto del frustagno. E come unse e riordinò con compiacimento la sua macchina per cucire il vestitino, non appena l'ebbe tagliato! Lavorava di sera: mentre quel tic-tac fitto fitto ch'ora le faceva l'effetto d'una musica allegra, s'accompagnava al ritmo eguale del respiro dei due bimbi dormenti uno da capo, l'altro da piedi del letto, certe lagrime grosse e calde rigavan la faccia della madre, perchè andava ripensando che in quei giorni di strazio, quando Santino era lontano, tanto malato, ella se la pigliava persino con la Marietta e con Checco, poverini! vedendoli così allegri, sani, chiassoni... Il vestitino era già pronto; la Lucia se l'era già rigirato fra le mani chi sa quante volte, immaginandosi la figura che avrebbe fatto indossato, quando finalmente giunse la famosa lettera diretta ai genitori o parenti di Santino Naldi, invitandoli a ritirare il fanciullo dallo spedale di San Francesco de' Poverelli. Era guarito. La vigilia del ritorno di lui, la madre non trovava il verso d'andare a letto: un'altra ferrata alla camicina con l'amido dal goletto lustro e interito; un'altra stiratina alle calze a costole d'un color marrone scuro, compagne al vestito. A un tratto, fu bussato all'uscio: potevano esser le dodici. — Chi è? — fece la Lucia, che non aspettava gente a quell'ora. - Son io, Trevisani: apri. — Era il tenente: l'inquilino nuovo. La portinaia gli aperse. Un bel giovane, alto e bruno, co' pantaloni alla militare e una giacchetta da borghese, si presentò su la soglia, occupando l'intero vano con la sua poderosa corporatura. Aveva il viso sconvolto, gli occhi cerchiati di rosso. - Mia moglie sta poco bene — disse - ha abortito. - - Oh Dio, come mai? — chiese la Lucia, incrociando le braccia in atto di rincrescimento. — Non so... proprio non so... senza motivo. Son solo... vieni su, fammi il favore... Tu, di queste faccende non te ne devi intendere... — Ella assentiva col capo. Pur troppo, pur troppo! Così non avesse mai saputo quel che costano i figliuoli! E, spenta la sua candela di sego, chiuse la portineria per seguir l'ufficiale. Se la brutta faccenda de' Trevisani fosse accaduta qualche giorno avanti, Lucia non avrebbe saputo come fare a aiutarli, a incoraggiarli, perchè aveva ella medesima troppe pene sue. Ma adesso, era tutt'altra cosa. L'idea d'abbracciare fra poche ore il suo Santino, il suo tesoro, le metteva a dosso un'energia singolare: vedeva ogni cosa sotto un aspetto di pace. — Coraggio, signora, coraggio! — ripetè più volte alla moglie del tenente, un'esile donnina di circa vent'anni, meravigliata e sfinita di quel che aveva patito, con la testa d'un biondo cenere affondata fra' guanciali. La sofferente non rispondeva; ma dalla mezz'ombra in cui trovavasi l'ampio letto matrimoniale, e che pareva dare a quel viso pallido qualcosa di fantastico, sbarrava, spauriti, gli occhi turchini, sforzandosi a sorridere, forse inconsciamente. — Ora rivedo Santino mio! Fra poco Santino mio è qui! — pensava la Lucia, affaccendata in torno a quella povera giovane; e mentre le porgeva una tazza di brodo, fatto lì per lì con dell'estratto di came d'un vasetto dal coperchio polveroso, trovato per caso in una credenza fra altra roba alimentare che il tenente avea riportata dal campo, la madre già vedeva il suo bimbo col vestitino nuovo. Che cosa le avrebbe detto, lui, per solito tanto amoroso? Che faccia avrebbe fatta? Povera, povera faccina, tutta rovinata dal vaiolo! Che importa? Per la mamma era sempre bello, bello come un sole! E mentre andava qua e là, dalla cucina alla camera, bisognava che la Lucia ripensasse al dispiacere di que' poveri signori Trevisani, perchè lei, la madre felice, non si mettesse a canterellare come a' suoi bei tempi, quando ancora non conosceva tribolazioni. Se Santino fosse rimasto in portineria, certo sarebbe morto come il padre. Povero, povero Peppe! Poveri tutti, i morti, anime sante del Purgatorio! E la Lucia si commoveva d'una commozione indefinita, piena di dolcezza. A giorno, appena vide aperta la finestra di cucina dei Lantoni, corse dall'Adele. — Abbiate pazienza — le disse: — il tenente m'è stato a tormentar tutta la notte, perchè non gli abbandoni la moglie, ora che sta meglio. È matto: dice che gliel'ho salvata io. Io non ho fatto nulla, figuratevi! ma, poveretta, è novellina, e sa ch'io me ne intendo. M'avreste dunque a fare un piacere, Adele. Andatemi a San Francesco de' Poverelli a riprender Santino. Tanto, lui sta bene, grazie a Dio, e non ha bisogno di me. Anzi, me lo rivedo a casa tutt'a un tratto...- - Volentieri — fece semplicemente l'Adele: — basta che loro sien contenti. — Loro — erano i suoi padroni; e gente di cuore, non soltanto permisero alla serva d'assentarsi, ma aggiunsero al vestiario di frustagno, che l'Adele portava allo spedale in una pezzuola, un berretto alla marinara, nuovo fiammante, con l'àncora d' oro sui nastri che pendevano dietro. Svelta, la fiorentina camminò fino a piazza San Carlo, dove prese l' omnibus per via dell'Archibugio; e di lì si recò allo spedale. Quella mezz'ora, o poco meno, ch'ella dovette far d'anticamera, le parve assai lunga; e alla madre quel tempo parve infinito. Sempre più nervosamente ella girava per casa Trevisani. Che ora poteva essere? O perchè non tornava l'Adele? Che cosa ci voleva a pigliarsi quella creatura e a portarsela via? Se avevano scritto che Santino era ormai in piena salute, che allo spedale non poteva rimanerci più... O dunque? Ma quando, dopo parecchie ore, che le parvero un secolo, ella vide tornare l'Adele sola, sottosopra, tutta scombussolata e con gli occhi pieni di bile, Lucia non capì più nulla. - O che c' è? Che vuol dire?.. — interrogò interdetta. - Non me l'hanno dato — rispose l'altra lasciandosi cader le braccia, come dopo aver fatta una grande fatica. Lucia non capiva; chiese: - Perchè? - - Non era lui! - - Come? - - Non era lui, no, no, non era lui - asserì l'Adele entrando e buttandosi sur una sedia. Poi raccontò per filo e per segno il fatto. Aveva dovuto pazientare un secolo: non fa niente; il portiere, un buzzone schifoso che si dava Dio sa che importanza, le aveva significato che lì era inutile aver fretta, angustiarsi, spazientirsi; facevano come gli pareva; ci voleva pazienza: c'era un buscherio di gente; chi andava, chi veniva... non si capiva un' acca... Lucia accennava di sì, di sì, sempre più frequentemente, per mostrare che capiva, capiva... Ma poi, poi che cosa era accaduto? Questo le stava a cuore. Poi, poi era accaduto che all'Adele avevan presentato un bambino di circa cinque anni, che lei non aveva riconosciuto. Quello lì, Santino? Ma nè pure per sogno! Era venuto un inserviente, e dopo, una monaca, e dopo anche la superiora, poi il medico di guardia: tutta una processione. Avevan detto: - Che mai dite che non è lui? — E l'Adele: - Nossignori che 'unn' è lui! - - Il vaiolo, lo sapete, muta la fisonomia. - - E' muterà quanto gli pare, ma questo 'unn'è Santino! Già Santino, gli ha sett'anni: e questo? - - La malattia l'avrà fatto dimagrare. - In vece, questo bimbo qui gli è grasso e robusto, e il nostro gli era mingherlino, piuttosto civile. - - È stato ben nutrito — osservò il dottore. - Poi, Santino gli aveva gli occhi celesti, e questo qui gli ha neri! — - Ve lo volete portar via, sì o no? — chiese il direttore, ch'era sopraggiunto in mezzo a questa discussione. - Io no, ecco! — dichiarò l'Adele o come ho a fare a portar via uno che 'unn' è Santino? - - Fate venir la madre, in questo caso — finirono col dire tutti. Di modo che l'Adele se n'era tornata sola, senza sapere che cosa la si facesse, accorata, con un diavolo per pelo. La madre ascoltò tutto il racconto per filo e per segno, senza batter palpebra; un ghiaccio, come di svenimento, le era corso per le vene. Madonna santa! Che voleva dire ciò?.. E due sole parole le uscirono di bocca: - Vado io. — Ma la mattina di poi, a punto mentre ella si preparava a recarsi allo spedale, s'affacciò alla portineria una femmina che teneva per mano un ragazzino; e chiese di Lucia Naldi, quella che aveva un malato a San Francesco de' Poverelli. Il bimbo indossava il vestito color marrone cucito a macchina, di sera, quando le fatiche diurne erano finite; portava le calzette a costola, il berretto con l'àncora. Ma il vestitino gli era largo e lungo: ci stava come in un sacco, goffo, impacciato, malinconico. - Vi riporto il vostro figliuolo, per ordine del direttore — disse la femmina. — Ormai sta benone e allo spedale non possiamo più tenerlo. — Lucia s'era fermata di botto, come se in un attimo le avessero inchiodato le piante al suolo. Fissò il ragazzo con le pupille dilatate, con le labbra strette, con tutta la faccia che si protendeva in atto di eccezionale stupore. Contessa Lara. 8 - Ma non è il mio, questo! — gridò ella. - Chi, questo? — chiese l'infermiera con tono d'incredulità. - Questo, questo qui! - - Eh diamine! Siete matta! Nome, cognome, età, sta scritto tutto su la tabella. Come volete che non sia il vostro? Guardatelo bene. - - Non è il mio, vi dico! — badava ad affermare la portinaia — Santo Dio, volete che una madre non riconosca il suo figliuolo? - - Si sa, ha avuta una malattia che cambia tutti. Gli è come se uno si mettesse una maschera, credete a me. - - Non può cambiare il sangue, la malattia! Questo bambino nè anche mi conosce. Vieni qua, dimmi come ti chiami — fece la Lucia, attirando verso di sè il fanciullo, intento a fissar la stanza dove si trovava con occhi attoniti, lustri fra la came lustra, tuttora chiazzati di rosso, e occupato, quando non fissava la stanza, a osservare l'abito marrone da lui indossato, del quale particolarmente sembravano interessarlo i bottoni e le tasche. - Come ti chiami? — ripetè la Lucia. Il bambino alzò lo sguardo un po' selvaggio; poi lo tornò subito a chinare, e rimase muto. Allora la Lucia lo respinse dolcemente: - Non è il mio!- Non è il mio! — esclamò sicura — Riportatevelo pur via, chè oggi stesso vengo a pigliar Santino. - E siccome, a punto la Marietta e Checco entravano in casa di corsa, come una folata di vento, la madre li interrogò, spingendoli davanti al piccolo sconosciuto: - È Santino nostro, questo? Ditelo voi! — I ragazzi smisero di ridere; squadrarono il nuovo arrivato con atto di diffidenza, poi se ne allontanarono un po' ammusoniti, facendo segno di no, col capo. - Vedete? Vedete bene che non è il mio! tornò a protestare la Lucia. L'infermiera insistè un altro poco, tanto per fare: raccontò qualche aneddoto straordinario su 'l vaiolo, che rende irriconoscibili anche alle persone di famiglia; ma, vedendo che la portinaia, anzi che persuadersi, sempre più si irritava, si strinse nelle spalle, come chi, in fin de' conti, si sente affatto estraneo ad una faccenda nella quale è immischiato senza sua volontà; e, ripreso per mano il fanciullo da lei condotto, se ne andò con un indifferente: — Arrivederci. — Lucia aveva la febbre a dosso. Saper guarito il suo Santino, saper di poterlo riabbracciare, e in tanto non averlo in casa! Lasciò andar tutto, servizio, bucato: salì soltanto a scusarsi con la Trevisani: e partì. All'ospedale, le dissero che il direttore non c'era. Bisognava aspettarlo. Aspettò. Quanto le parve lungo e angoscioso quel tempo, Dio solo lo sa: Lui che tien conto degl'istanti dei nostri dolori. Era sola, in una vasta camera dalle pareti nude, dipinte a stampino e scolorate. Di mobili, non altro che una vecchia scrivania di noce, ormai senza lustro, con sopra mucchi d'incartamenti giallognoli e un calamaio di porcellana bianca dal piattello attaccato, tutto sbocconcellature e macchie d'inchiostro. Davanti alla scrivania, dalla parte del muro, una poltrona, egualmente di noce, a guanciale di cuoio nero, fiancheggiata d'una fila di sedie impagliate. A sinistra, uno scaffale ingombro di registri luridi, per gli anni e per la polvere. Non osando passeggiare, per il timore di fare strepito e parer troppo ardita, la Lucia stava lì immobile. Non si metteva neanche a sedere per l'agitazione, per l'impazienza che aveva a dosso; quasi che lo star lì in piedi avesse sollecitato l'arrivo del direttore. Ogni rumore più lieve, venuto di fuori, la faceva riscuotere, le rimescolava il sangue, le dava come un colpo nel petto e una stretta alla gola. Teneva fissi gli occhi su la porta: una porta mezzo sgretolata, da cui sperava, a ogni istante, di veder comparire il suo bambino. Ma il tempo passava: nulla, nulla! Dopo un gran pezzo, che a lei parve incalcolabile, l'uscio s'aperse a un signore di una cinquantina d'anni, alto, con in testa un cappello a cilindro, e tutt'insieme un aspetto burbero e confuso. Lucia lo guardava tra ossequiosa e incerta. Egli sedette nella poltrona di cuoio nero, davanti alla scrivania, e rimescolò un gran numero degli scartafacci accatastati iì sopra. Un plico, un incartamento, chi sa che cosa fosse? lo tenne particolarmente attento; sfogliava avanti e indietro le pagine, come se non trovasse quel che cercava. Finalmente alzò la faccia, ombreggiata dal cappello, e, piantando i gomiti su la tavola, mentre badava a stropicciarsi le mani all' altezza del viso, cominciò: - Mi rincresce di dovervi dare una cattiva notizia. — - Lucia lo fissava. D'un tratto, ebbe l'impressione d'una corrente fredda che avvolgesse tutta, e inghiottì a forza la saliva, che non le voleva passar dalla gola. - Proprio mi rincresce — continuò l'uomo — ma che volete? c'è stato un errore... Si son messe le corsíe sossopra, per ripulirle, e questo ha cagionato l'equivoco. Han posta la tabella d'un ammalato a capo al letto d'un altro... e... — Ella lo fissava sempre, smarrita, senza comprendere ancora, ma col presentimento di qualcosa d'orribile, di nuovo, d'ignoto, d'inaspettato. Battendo le palpebre, faceva con le labbra il movimento di chi parla, quasi avesse ripetuto a sè, in silenzio, ogni parola di lui, per meglio intenderla, per crederla. Egli riprese ancora: - E, dunque... in questa confusione, è capitata al bambino che vi avevo rimandato la tabella del bambino vostro, morto il sei di marzo, cioè pochi giorni dopo che ce lo avete portato. - Morto? — chiese lei, calma, con lo stordimento incosciente d'un bue che riceve il primo colpo mortale. - Eh sì, cara mia! Ci vuol pazienza; è stato uno sbaglio, che m'ha proprio fatto dispiacere. Adesso ci vorranno almeno quarantott'ore per rimetter le cose a posto, e farvi avere un certificato di morte in regola. — La donna pareva fulminata. Rimasta ritta davanti alla scrivania, abbandonava le braccia, che le pendevano sotto lo scialle di lana nera, e sporgeva innanzi la testa bassa, con l'occhio vitreo, con la bocca mezzo aperta, cadente. — Del resto, — soggiunse il direttore — le cose sono state fatte ammodo; i genitori di quell'altro ragazzo hanno ordinato un mortorio decente al bambino vostro, credendolo il loro; questo deve consolarvi. E in ultima analisi, — concluse — con la morte c'è poco da fare: pur troppo, lo sapete come me. Quanto ai panni, ve li restituiranno, non c'è dubbio: m' impegno io. — Lucia udiva un rumore di parole vaghe, assordante come uno scrosciar d'acque invisibili. Non rispose mai. Soltanto, quando il direttore s'alzò, ella capì che doveva andarsene. Che cosa ci stava ormai a fare? Chi aspettava? E s'avviò verso l'uscio, col desiderio intenso di ritrovarsi in casa sua, nel suo covo, che le pareva lontano, lontano, come se, per arrivarci, avesse dovuto far un viaggio interminabile, eterno.

Se Emma si fosse subito abbandonata alla mia prima manifestazione d'amore non l'avrei stimata come ora la stimo. Ma la sua riservatezza, la sua modestia... quel desiderio di farsi accompagnare da me, ch'ella non ha osato esprimere.... - Che desiderio e non desiderio, se avevan già tutto combinato col suo tenente? Già, a me, ecco, questi usi americani e inglesi di mandar fuori le ragazze sole con gli amici, mi garbano poco. Le donne.... - Le donne, mio caro, non son mica delle schiave! — sentenziò Sampieri, il quale nella pensione Alford si era sciolto da parecchi pregiudizi tutti nostrani. — Anzi, nella libertà che si accorda loro da fanciulle, vale a dire quando non hanno nè obblighi nè legami, si rivelano le loro vere inclinazioni senza convenzionalismo e senza ipocrisia, e un uomo che le frequenti giudica dalla fanciulla quel che sarà la donna. L'altro scrollava il capo con ciera incredula; il conte ripigliava: - E vedi, se stasera quell'imbecille non fosse saltato su a strapparmela con quell'invito a bruciapelo: un invito che lei non ha potuto ricusare, si capisce, perchè ci sarebbe stata poca modestia a far vedere che preferiva la mia compagnia a quella d'altre ragazze, lei, credi.... - Sampieri, fammi il piacere di smettere, perchè mi fai uscire da' gangheri, con questi ragionamenti da grullo! — disse l'avvocato, visibilmente stizzito. Ma il vecchio ostinato non cedeva. — Va bene, va bene, acqua in bocca! Ma vedrai se a forza d'attenzioni discrete e gentili io non arrivo a far di Emma la mia signora!

Pagina 304

D'Ambra, Lucio

220681
Il Re, le Torri, gli Alfieri 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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E, tornato indietro per salutare Rolando II, trovai che già Rolando II e Loulette Louly s'erano messi d'accordo per fare insieme il viaggio verso Parigi nell'automobile abbandonata, senza pagarla, dal'elegante giovinetto. Già sorrideva fra loro, nella sera che scendeva, nella notte che s'apriva, il primo quarto di luna di miele. Già Rolando II guardava estatico la sua compagna e più la guardava più diceva a me con gli occhi e coi sospiri: — È proprio lei, Isabella, proprio lei! La cocottina abbandonata e il re deposto filaron via così, verso Parigi, nella letizia degli incontri felici e predestinati. E, mentre Rolando II volava in quarta velocità verso il suo nuovo mestiere di roi en exil, io ripresi con filosofica malinconia il treno che doveva ricondurmi nell'amata patria, dove mi riattendeva lo spettacolo della disfatta e della sommossa, nate, come ho troppo lungamente raccontato, da un bacio di donna che senza aver fatto provvisoriamente felice un uomo aveva definitivamente perduto un re. FINE.

Mitchell, Margaret

222010
Via col vento 12 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Sentendosi sgomenta e abbandonata, ella avrebbe voluto, se le fosse stato possibile, spezzare quella barriera; ma trovò che egli conservava la distanza, come se non avesse voluto scambiare con lei altre parole che non fossero quelle superficiali. Ora che la sua collera andava diminuendo, ella desiderava dirgli che lo riteneva innocente della morte della bimba. Provava il bisogno di piangere fra le sue braccia e di affermargli che anche lei era stata orgogliosa dell'abilità di amazzone della figliola, anche lei era stata indulgente alle sue insistenze. Avrebbe voluto umiliarsi, e riconoscere che gli aveva lanciata quell'accusa dal fondo della propria disperazione, nella speranza di alleviare il proprio dolore. Ma non trovava mai il momento opportuno. Egli la guardava con occhio cosí indifferente che non le dava la possibilità di parlare. E le scuse rimandate diventano sempre piú difficili e finalmente impossibili. Egli era raramente in casa. Le poche volte che cenavano insieme, Rhett era generalmente ubriaco. La sua ubriachezza non era piú quella di una volta, che lo rendeva gentile, ma mordente, e gli faceva dire cose divertenti e maliziose, che la costringevano a ridere suo malgrado. Ora era un'ubriachezza cupa e silenziosa. A volte lo sentiva rientrare a cavallo all'alba nel cortile posteriore, e battere alla porta dell'abitazione dei servi, affinché Pork lo aiutasse a salire le scale e lo mettesse a letto. Metterlo a letto! Rhett che aveva sempre fatto ubriacare gli altri senza scomporsi e poi li aveva aiutati a coricarsi! Mentre una volta era sempre impeccabile, adesso era spesso sciatto e in disordine; ci voleva tutta l'energia scandalizzata di Pork per fargli, cambiare la camicia prima di andare a cena. Aveva fatto gli occhi infiammati del bevitore di whisky e la linea della sua mascella si andava deformando per il grasso malsano che la invadeva. Il suo corpo agile e muscoloso cominciava a diventare molle e rilassato. Spesso non tornava affatto a casa, o mandava un biglietto per avvertire che avrebbe passato la notte fuori. Certamente rimaneva a smaltire la sbornia in qualche camera sopra uno spaccio di bevande alcooliche; ma Rossella immaginava sempre che egli fosse in casa di Bella Watling. Una volta le era capitato di vedere Bella in una bottega; una donna grossolana e appassita, che aveva perduto gran parte della sua bellezza; ma malgrado il belletto e l'abito appariscente il suo aspetto era gentile e l'espressione quasi materna. Invece di abbassare gli occhi o di guardarla con aria di sfida come facevano le altre donne allegre quando si trovavano dinanzi alle signore, Bella aveva ricambiato il suo sguardo, fissandola con un'espressione quasi compassionevole che aveva fatto salire le fiamme al volto di Rossella. Ma ora non poteva accusarlo; non poteva adirarsi, chiedergli fedeltà né svergognarlo, come non poteva scusarsi di averlo incolpato della morte di Diletta. Si sentiva oppressa da un'apatia stupefatta, da un'infelicità che non riusciva a comprendere, un'infelicità piú profonda di qualunque cosa ella avesse mai conosciuto. Era abbandonata come non era mai stata. E aveva paura di non potersi piú rivolgere a nessuno, eccettuato a Melania. Perfino Mammy, il suo principale appoggio, era tornata a Tara. Tornata per rimanervi. Non aveva dato spiegazioni della sua partenza. I suoi occhi stanchi avevano guardato con tristezza Rossella, quando le aveva chiesto i danari per il biglietto ferroviario. Alle lagrime, alle suppliche di Rossella che le chiedeva di rimanere, Mammy aveva solo risposto: «Mi pare di sentire miss Elena che dire: "Mammy, vieni a casa; tuo compito essere finito". Cosí io andare a casa». Rhett che aveva udito il discorso, le diede il denaro e le accarezzò un braccio. - Hai ragione, Mammy, miss Elena ha ragione. Il tuo compito qui è finito. Vai a casa. Se hai bisogno di qualche cosa fammelo sapere. - E poiché Rossella prorompeva in nuove insistenze: - Taci, sciocca! Lasciala andare! Come vuoi che qualcuno rimanga volentieri in questa casa.... adesso? Nei suoi occhi era una luce cosí strana e cosí viva, che Rossella indietreggiò sgomenta. - Dottor Meade, credete che possa... che abbia perso il cervello? - interrogò piú tardi, trascinata a consultare il dottore dalla propria inquietudine. - No, - disse il medico; - ma beve come un otre e se non la smette si ammazzerà. Voleva molto bene alla bimba, Rossella; e scommetto che beve per dimenticarla. Quello che vi consiglio è di dargli un altro bambino piú presto che potrete. - Ah! - esclamò Rossella amaramente, nell'uscire dallo studio. Era piú facile a dirsi che a farsi. Sarebbe ben contenta di avere un altro bambino, molti altri bambini, se in tal modo avesse potuto togliere quell'espressione dagli occhi di Rhett e riempire gli spazi dolorosi del proprio cuore. Un bimbo che avesse la bruna bellezza di Rhett, e un'altra piccina. Sí, un'altra piccina, bella, gaia, vivace, piena di risa, non come quella scioccona di Ella! Perché Dio non aveva preso Ella, se doveva toglierle uno dei suoi figli? Ella non le dava alcun conforto ora che Diletta era scomparsa. Ma sembrava che Rhett non desiderasse un'altra creatura. Almeno, non veniva mai nella sua camera, quantunque la porta non fosse mai chiusa, ma anzi socchiusa in maniera invitante. Pareva che non vi tenesse. Che non tenesse a nulla, se non al whisky e a quella donna sciupata coi capelli rossi. Era diventato amaro, mentre prima era piacevolmente beffardo; brutale, mentre le sue frecciate erano una volta temperate dalla celia. Dopo la morte di Diletta, molte signore del vicinato che erano state attratte dalle maniere graziose che aveva con la sua piccina, desiderarono mostrargli la loro simpatia. Lo fermavano per istrada per dirgli delle parole gentili o gli rivolgevano un saluto dai loro porticati o dai cortili. Ma ora che Diletta era scomparsa, anche le sue buone maniere scomparvero. Egli rispondeva brevemente e con asprezza ai saluti e alle condoglianze piú affettuose. Ma, cosa strana, le signore non si offesero. Comprendevano o credevano di comprendere. Quando lo vedevano passare al tramonto, tanto ubriaco che a stento si reggeva in sella, scansando quelli che volevano salutarlo, dicevano: - Povero diavolo! - e raddoppiavano i loro sforzi per essere buone e gentili. Provavano molta pena per lui che nel suo crepacuore non trovava a casa altro conforto che Rossella. Tutti sapevano quanto ella fosse fredda e senza cuore; ed erano inorriditi dell'apparente facilità con cui si era rimessa dal colpo provato per la morte della figliuola, non accorgendosi o non volendosi accorgere dello sforzo che si nascondeva dietro a quella tranquillità. Rhett aveva tutte le simpatie della città; cosa di cui non gli importava nulla. Rossella aveva le antipatie generali e, per una volta, avrebbe accolto ben volentieri la cordialità dei vecchi amici. Invece nessuno andava da lei, eccetto zia Pitty, Melania e Ashley. Solo i nuovi amici vennero, nelle loro magnifiche carrozze, ansiosi di mostrarle la loro solidarietà, di distrarla con pettegolezzi sul conto di altri amici di cui non le importava nulla. Tutti quei «nuovi venuti», tutti quegli estranei! Non la conoscevano. Non la conoscerebbero mai. Non sapevano che cos'era stata la sua vita prima di raggiungere quella salda posizione nella bella casa di Via dell'Albero di Pesco. Ed essi non le parlavano di quella che era stata la loro vita prima di avere i ricchi broccati e gli eleganti equipaggi. Ignoravano le sue lotte, le sue privazioni, tutto ciò che dava valore oggi alla grande casa, ai vestiti lussuosi, all'argenteria, ai ricevimenti. Non sapevano. Gente venuta chi sa da dove, che viveva alla superficie delle cose, che non aveva in comune con lei ricordi di guerra, di fame, di lotte, che non aveva radici che sprofondavano nella stessa terra rossa. Nella sua solitudine, le sarebbe piaciuto passare i pomeriggi con Maribella o con Fanny, con la signora Elsing o la signora Whiting e perfino con la temibile e bellicosa signora Merriwether. O con la signora Bonnell o... con qualsiasi delle vecchie amiche e vicine. Perché esse sapevano. Avevano conosciuto la guerra, il terrore, l'incendio, avevano visto morire persone care prima del tempo; erano state affamate e stracciate, avevano vissuto col lupo dietro alla porta. E avevano ricostruito la loro fortuna dalle rovine. Sarebbe un conforto sedere con Maribella, ricordando che anche questa aveva perduto un bimbo, morto nella pazza fuga dinanzi all'esercito di Sherman. Sarebbe un sollievo la presenza di Fanny, poiché entrambe avevano perduto il marito nei tremendi giorni della legge marziale. Sarebbe una triste gioia ridere con la signora Elsing, ricordando il viso della vecchia signora mentre spingeva a pazza corsa il suo cavallo il giorno in cui Atlanta era caduta, mentre il bottino di viveri presi al commissariato veniva disseminato per istrada. E sarebbe piacevole discorrere con la signora Merriwether, ormai sicura per la produzione della sua panetteria; piacevole dire: - Vi ricordate come andavano male le cose subito dopo la resa? Vi ricordate quando non sapevamo come avremmo fatto per procurarci un paio di scarpe? E guardate adesso come stiamo! Sí, sarebbe piacevole. Ora comprendeva perché, quando due ex-confederati si incontravano, parlavano della guerra con sollievo, con orgoglio, con nostalgia. Erano stati giorni che avevano messo alla prova i loro cuori; ma essi li avevano superati. Erano veterani. Anche lei era una veterana, ma non aveva camerati coi quali rievocare le vecchie battaglie. Oh, essere nuovamente con la propria gente, con la gente che era passata attraverso le stesse vicende e di cui conosceva i patimenti... eppure sapeva quanta parte di se stesso ciascuno vi aveva lasciato! Ma tutti costoro, non sapeva come, si erano allontanati. Capiva che era colpa sua. Non se ne era mai curata finora... ora che Diletta era morta ed essa era sola e spaurita; e vedeva dall'altra parte della sua lucente tavola da pranzo un estraneo bruno e ubriaco che dileguava dinanzi ai suoi occhi.

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- Non fare la moglie abbandonata, Rossella. La parte drammatica non è adatta per te. Mi par di capire che non desideri un divorzio e neanche una separazione. Va bene; vuol dire che ornerò abbastanza spesso per impedire i pettegolezzi. - Che me ne importa delle chiacchiere! - esclamò con impeto. - Voglio te. Portami con te. - No. - E nella sua voce era una nota decisiva. Per un attimo stette per scoppiare in lagrime come una bambina. Ebbe voglia di gettarsi a terra, di imprecare, di urlare, di battere i piedi. Ma un rimasuglio di orgoglio la trattenne. Pensò che se lo avesse fatto egli avrebbe riso. «Non devo urlare; non debbo piangere. Non debbo far nulla che possa suscitare il suo disprezzo. Deve rispettarmi anche... anche se non mi ama. Levò il capo e cercò di chiedere con calma. - Dove vuoi andare? - Forse in Inghilterra... o a Parigi. Forse a Charleston a cercare di far la pace coi miei. - Ma li detesti! Ti ho sentito ridere tante volte quando... Egli alzò le spalle. - Rido ancora, Rossella; ma ho finito di vagabondare. Ho quarantacinque anni; l'età in cui un uomo comincia a valutare quello che ha gettato via leggermente in gioventú; l'unione familiare, l'onore, la solidarietà, tutte cose che hanno radici profonde... Oh, non mi pento, non rimpiango nulla di ciò che ho fatto. Mi sono divertito; tanto che ora comincio ad averne abbastanza e a desiderare qualche cosa di diverso. Desidero la parvenza della rispettabilità - da parte degli altri, cara, non mia - la calma dignità che la vita può avere tra persone perbene, grazia gentile dei giorni passati. Allora, ne realizzavo il fascino dolce e lento... Nuovamente Rossella ebbe l'impressione di trovarsi nel frutteto di Tara; negli occhi di Rhett era la stessa espressione che aveva visto quel giorno in quelli di Ashley. Erano le stesse parole; come se fossero pronunciate da Ashley e non da Rhett. Frammenti di frasi le ritornarono, ed ella citò, pappagallescamente: - Un fascino... una perfezione, una simmetria, come nell'arte greca. Rhett chiese bruscamente: - Perché dici questo? È proprio il mio pensiero. - Lo ha detto Ashley una volta... a proposito degli antichi tempi. Egli si strinse nelle spalle e la fiamma scomparve dai suoi occhi. - Sempre Ashley - disse; e per un attimo rimase in silenzio. - Quando avrai quarantacinque anni, Rossella - riprese - forse comprenderai quello che ti dico adesso; e forse allora sarai stanca anche tu di falsa aristocrazia, di maniere pretenziose, di emozioni a buon mercato. Ma ne dubito. Credo che sarai sempre più attratta dall'orpello che dall'oro. Ad ogni modo, non posso aspettare fino allora per vedere. E non lo desidero neppure. Non mi interessa. Andrò in cerca di vecchie città e di vecchie campagne dove sia rimasto qualche cosa degli antichi tempi. Sono un sentimentale. Atlanta è troppo rude per me, troppo nuova. - Basta - disse ella improvvisamente. Aveva appena ascoltato ciò che egli veniva dicendo. Certo non lo aveva compreso. Ma sentiva che non poteva più sopportare con forza d'animo il suono della sua voce, se non vi era amore in essa. Egli fece una pausa e la guardò in modo strano. - Insomma, hai capito le mie intenzioni? - chiese alzandosi in piedi. Ella gettò le mani in avanti, col vecchio gesto supplichevole; e il suo cuore fu di nuovo sul suo viso. - No! - gridò. - So soltanto che non mi ami e che te ne vai! Amore mio, che farò se tu te ne vai? Per un momento egli esitò come chiedendosi se una dolce menzogna fosse migliore della verità. Poi si strinse nelle spalle. - Rossella, non ho mai avuto la pazienza di raccogliere i frammenti di un oggetto rotto per incollarli insieme e dire a me stesso che l'oggetto riappiccicato vale quanto l'oggetto nuovo. Quello che è rotto è rotto... e preferisco ricordarmelo quando era in buono stato piuttosto che aggiustarlo e vedere le tracce della rottura finché vivo. Forse se fossi piú giovine... - sospirò. - Ma sono troppo vecchio per credere in questi sentimentalismi e per ricominciare. Troppo vecchio per portare quel peso di continue menzogne che accompagna la vita fatta di cortesi disillusioni. Non potrei vivere con te e mentirti; e non potrei certo mentire a me stesso. Non posso mentire neanche adesso. Vorrei potermi interessare di ciò che fai e di dove vai, ma non posso. Respirò brevemente e soggiunse: - Non è il caso, mia cara. Rossella Io guardò mentre saliva le scale ed ebbe l'impressione che il dolore la soffocasse. Il rumore dei suoi passi sul pianerottolo si allontanò; e con esso si allontanò l'ultima cosa al mondo che la interessava. Ella sapeva che nessun appello alla ragione o all'emozione avrebbe potuto mutare quel gelido verdetto. Sapeva che tutto ciò che egli aveva detto era il suo pensiero, anche se in certi momenti aveva parlato leggermente. Lo sapeva perché sentiva in lui qualche cosa di forte, di inflessibile, di implacabile... tutte le qualità che ella aveva cercato in Ashley senza trovarle. Non aveva compreso nessuno degli uomini che aveva amato; e li aveva perduti entrambi. Ora si rendeva conto vagamente che se avesse compreso Ashley non lo avrebbe mai amato; e che se avesse compreso Rhett, non lo avrebbe mai perduto. E si chiese tristemente se aveva mai compreso nessuno al mondo. Vi era adesso nella sua mente un'inerzia che si sarebbe potuta dire misericordiosa; un'inerzia che per lunga esperienza ella sapeva che avrebbe dato luogo fra breve a una sofferenza acuta, come i tessuti che, separati violentemente dal ferro del chirurgo, hanno un breve istante di insensibilità prima che cominci il loro tormento. «Non voglio pensarvi adesso» si disse cupamente, ricorrendo all'antico incantesimo. «Se penso che debbo perderlo, diventerò pazza. Vi penserò domani.» Ma il suo cuore, scacciando l'incantesimo, cominciò a dolere. «Non posso lasciarlo andar via! Deve esservi un mezzo!» - Non voglio pensarvi adesso - ripeté ad alta voce, tentando di respingere la sua disperazione nel fondo della mente, cercando di trovare un riparo al fiotto crescente di patimento. - Voglio... Andrò a casa, a Tara, domani. - E il suo spirito si risollevò impercettibilmente. Era già tornata a Tara una volta, cacciata dallo spavento e dalla sconfitta; e dalle sue mura riparatrici era tornata forte e armata per la vittoria. Potrebbe - se Dio l'aiutasse! - rifare ciò che aveva fatto una volta. Non sapeva come. Ora non voleva pensarvi. Tutto ciò che desiderava adesso era un luogo di riposo dove poter soffrire, dove poter sanare le sue ferite; un rifugio dove potere studiare un piano di battaglia. Pensò a Tara; e fu come se una mano dolce e fresca si posasse furtivamente sul suo cuore. Le apparve la bianca casa che le dava il benvenuto tra le rosse foglie autunnali, sentí il tranquillo sussurro del crepuscolo che scendeva sopra di lei come una benedizione, udí la rugiada cadere sui verdi cespi ornati di un candore fioccoso, vide il colore rugginoso delle zolle e la tetra bellezza dei pini sulle colline ondulate. Si sentí vagamente riconfortata da questo quadro; e la sua sofferenza e il suo frenetico rimpianto furono un poco attenuati. Per un attimo rimase a ricordare tante piccole cose: il viale di cedri che conduceva alla piantagione, i cespugli di gelsomini del Capo, di un verde vivido sul muro bianco, il fluttuare delle tendine candide. E vi sarebbe Mammy. Improvvisamente desiderò disperatamente Mammy, come l'aveva desiderata quando era una bambina, desiderò l'ampio seno su cui posare il capo, la mano nera e nodosa sui suoi capelli. Mammy, l'ultimo legame con gli antichi tempi. Con lo spirito del suo popolo che non riconosce la sconfitta anche quando se la trova di fronte, rialzò il mento. Riconquisterebbe Rhett. Sapeva di poterlo fare. Non era mai esistito un uomo che ella non potesse avere, se lo voleva. «Penserò a tutto questo domani, a Tara. Sarò piú forte, allora. Domani penserò al modo di riconquistarlo. Dopo tutto, domani è un altro giorno.» FINE

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Ma in massima parte la valle era abbandonata e desolata e i raccolti si disseccavano sui campi lasciati nella piú assoluta incuria. Da Calhoun, Johnston indietreggiò a Adairsville, poi a Cassville e a Cartersville. Oramai il nemico aveva percorso cinquantacinque miglia dopo Dalton. A Chiesa della Nuova Speranza i grigi si fermarono per una tappa decisiva. E gli azzurri si avanzarono, senza tregua, come un serpente mostruoso che si snodava, colpiva velenosamente, ritraeva le sue spire ferite, ma colpiva di nuovo. Vi furono undici giorni di battaglia continua, disperata, a Chiesa della Nuova Speranza; gli assalti yankee vennero sanguinosamente respinti. Finché Johnston, investito ancora una volta di fianco, dové di nuovo ritirar di qualche miglio le sue linee assottigliate. I morti e feriti a Chiesa della Nuova Speranza furono numerosissimi. I feriti affluirono ad Atlanta nei treni rigurgitanti e la città fu atterrita. Mai, neanche dopo la battaglia di Chickamauga, ve n'erano stati tanti. Gli ospedali erano gremiti; si collocavano i feriti sul pavimento di magazzini vuoti, sopra balle di cotone. Negli alberghi, nelle pensioni, nelle case private i sofferenti si accalcavano. Zia Pitty ebbe la sua parte, benché protestasse contro la scorrettezza di avere degli estranei in casa quando Melania era in condizioni speciali, e certe visioni raccapriccianti potevano provocare un parto prematuro. Ma Melania tirò un po' piú su la sua crinolina per nascondere la vita ingrossata e i feriti invasero la casa di mattoni. Bisognò cucinare in continuazione, servire, far vento agli ammalati, lavare e arrotolare bende, e infinite furono le notti insonni, turbate dal parlare sconnesso di uomini in delirio. Finalmente la città fu satura, sicché i nuovi feriti furono incanalati verso Macon e Augusta. La nuvoletta all'orizzonte si era allargata rapidamente, e il temporale era ormai sulla città, con un vento pauroso e gelido. Nessuno aveva perduto la fede nell'invincibilità delle truppe; ma tutti - almeno i borghesi - avevano perso la fede nel generale. La Chiesa della Nuova Speranza era soltanto a trentacinque miglia da Atlanta! Il generale si era ritirato di sessantacinque miglia in tre settimane! Perché non resisteva, invece di ritirarsi? Era un pazzo, e peggio che un pazzo. Membri della Guardia Nazionale e della Milizia sostenevano che essi avrebbero condotto la campagna molto meglio e stendevano sulle tavole carte topografiche per dimostrare la verità di quanto asserivano. Quando le linee si assottigliarono ancora, il generale chiese disperatamente al Governatore Brown i suoi uomini; ma le truppe dello Stato erano in salvo e non vi era ragione di mandarle al macello. Combattere e ritirarsi! Per settanta miglia e venticinque giorni, i confederati avevano combattuto quasi quotidianamente. La Chiesa della Nuova Speranza era ormai un ricordo in mezzo ad altri tremendi ricordi del genere: caldo, polvere, fame, debolezza, marciare sulla strada rossa, sfangare nella mota rossastra, ritirarsi, trincerarsi, combattere... ritirarsi, trincerarsi, combattere. La Chiesa della Nuova Speranza era un incubo di vita trascorsa, e cosí Big Shanty, ove essi si rivoltarono a combattere come dèmoni. Ma anche dopo che i campi furono tutti turchini di morti yankee, sempre dei nuovi ne arrivavano, sempre di piú; sempre vi era quella sinistra curva delle linee azzurre, laggiú a sud-est, verso le retroguardie dei confederati, verso la ferrovia... verso Atlanta! Da Big Shanty le linee indebolite si ritirarono sulla strada della Montagna Kennesaw, presso la cittadina di Marietta, e quivi esse si allargarono in una curva di dieci miglia. Sui pendii delle montagne scavarono le loro trincee e stabilirono le feritoie, mentre sulle alture collocarono le loro batterie. Imprecando e sudando, gli uomini trascinarono i pesanti cannoni su per i versanti troppo ripidi perché i muli potessero arrampicarvisi. Messaggeri e feriti che giungevano ad Atlanta rassicurarono il popolo spaventato. Le alture di Kennesaw erano inespugnabili. Atlanta respirò di sollievo... Ma le montagne di Kennesaw distavano solo ventidue miglia! Il giorno in cui i primi feriti giunsero da Kennesaw, la carrozza della signora Merriwether fu dinanzi alla casa della zia Pitty alle sette di mattina; un'ora inverosimile! Il negro Zio Levi era latore di un biglietto che ingiungeva a Rossella di vestirsi immediatamente e recarsi all'ospedale. Fanny Elsing e le ragazze Bonnell, chiamate anche loro, sbadigliavano sul sedile in fondo, e la Mammy degli Elsing sedeva malinconicamente a cassetta con in grembo un cestino di materiale di medicazione appena lavato. Rossella si alzò malvolentieri, perché aveva ballato fino all'alba alla festa della Guardia Nazionale, e i piedi le dolevano. Maledisse silenziosamente l'instancabile e premurosa signora Merriwether, i feriti e tutta la Confederazione degli Stati del Sud, mentre Prissy le abbottonava il piú vecchio e sciupato dei suoi abiti di cotone, che usava per il servizio ospedaliero. Inghiottí l'amaro beveraggio di orzo e patate dolci disseccate che passava per caffè e scese a raggiungere le ragazze. Era stufa di tutto quel lavoro. Proprio quel giorno, direbbe alla signora Merriwether che Elena le aveva scritto di andare a Tara per un po' di tempo. Ma non le serví a nulla, perché la degna matrona, con le maniche rimboccate e il corpo robusto coperto da un ampio grembiale, le lanciò un'occhiata dura dicendole: - Non dite sciocchezze, Rossella Hamilton. Scriverò io oggi a vostra madre dicendole che ho bisogno di voi; e sono sicura che comprenderà e vi permetterà di restare. Svelta, mettetevi il grembiale e andate dal dottor Meade che ha bisogno di un aiuto per fare le fasciature. «Dio mio, che guaio!» pensò Rossella. «Certo la mamma mi dirà di restare; e io morirò se continuerò a sentire questo terribile odore! Vorrei esser vecchia, per poter comandare alle giovani, invece di ricevere ordini... e mandare le vecchie streghe come la Merriwether a farsi benedire!» Sí, era stanca di quella vita. Se vi era stato qualche cosa di romantico nel far l'infermiera, questo era finito da un pezzo. E poi, i feriti nella ritirata non erano simpatici come i primi. Non si curavano punto di lei e le chiedevano soltanto: - Come va la battaglia? Dov'è il Vecchio Joe? - E poi: - È bravo, sapete, il Vecchio Joe! Lei non credeva affatto alla bravura del Vecchio Joe, che aveva lasciato penetrare gli yankees nella Georgia per una profondità di ottantotto miglia. E tutti quei disgraziati che morivano, rapidamente, silenziosamente, essendo troppo indeboliti per combattere l'avvelenamento del sangue, la cancrena, il tifo e la polmonite che li avevano colpiti prima che fossero giunti ad Atlanta e avessero trovato un medico! La giornata era calda e le mosche entravano dalle finestre a sciami: grosse mosche che tormentavano gli uomini piú che non facessero le sofferenze. L'odore e i gemiti andavano aumentando. Il sudore bagnava il suo abito appena inamidato, mentre ella seguiva il dottor Meade con un catino fra le mani. Che nausea a stare accanto al dottore, cercando di non vomitare quando il suo bisturi tagliava le carni putride! E che orrore, gli urli della sala operatoria dove si facevano le amputazioni! Il cloroformio era cosí scarso che lo si adoperava soltanto per le amputazioni piú gravi e l'oppio era una cosa preziosa che serviva ad alleviare le pene dei moribondi, non quelle dei viventi. Non vi era né chinino né iodio. Rossella invidiava Melania che aveva il pretesto della gravidanza: l'unico accettato in quei momenti. A mezzogiorno si tolse il grembiale e sgusciò fuori dall'ospedale, incapace di resistere piú a lungo. Sapeva che quando fossero giunti i feriti col treno pomeridiano, vi sarebbe da fare per lei fino a sera, e probabilmente senza neanche mangiare. Si affrettò verso la Via dell'Albero di Pesco, respirando a grandi sorsate l'aria pura, per quanto glielo permetteva il busto allacciato stretto. Si fermò all'angolo, incerta sul da fare, poiché si vergognava di tornare a casa da zia Pitty, ma ben decisa a non tornare all'ospedale. In quel momento passò Rhett Butler in carrozzino. - Sembrate la figlia di un cenciaiolo - osservò, guardando con occhio critico l'abito di cotone rammendato e bagnato di sudore e d'acqua che era schizzata dal catino. Rossella fu irritatissima. Perché quell'uomo osservava sempre l'abbigliamento delle donne, e perché era cosí indelicato da rilevare la sua attuale ineleganza. - Non voglio che mi diciate nulla. Fatemi salire e conducetemi in qualche luogo dove nessuno mi veda. Non voglio tornare all'ospedale neanche se m'impiccano! Vi assicuro che non ne posso piú... - Traditrice della nostra gloriosa Causa! - Lo zoppo dà del cionco allo sciancato! Aiutatemi. Non m'importa dove stavate andando. Ora dovete condurmi a fare una passeggiata. Egli balzò a terra e Rossella pensò che era molto piacevole vedere un uomo non mutilato o pallido per la febbre o giallo per la malaria, ma di aspetto sano e ben nutrito. Era anche vestito elegantemente, e non aveva affatto l'aria preoccupata o turbata come tutti gli altri uomini. Il suo volto bruno era piacente e la sua bocca, dalle labbra rosse e ben tagliate, francamente sensuali, sorridevano distrattamente mentre egli l'aiutava a salire in carrozza. I muscoli del suo corpo robusto si disegnavano sotto l'abito fatto da un buon sarto; e, come sempre, la sensazione della sua forza fisica, la colpí, appena gli fu seduta accanto. Da lui emanava una vitalità gagliarda ed elastica, come quella di una pantera che si stirasse al sole, una pantera pronta a balzare e a colpire. - Piccola imbrogliona - disse mentre frustava il cavallo - ballate tutta la notte coi soldati, dando loro rose e nastri e dicendo che sareste pronta a morire per la Causa, e appena si tratta di fasciare quattro feriti e di togliere pochi pidocchi, tagliate la corda! - Non potreste parlare di qualche altra cosa e far correre di piú il cavallo? Non ci mancherebbe altro, che il vecchio Merriwether uscisse in questo momento dal suo negozio e poi andasse a dire alla vecc... a sua nuora che mi ha visto! Egli toccò la giumenta con la frusta e quella trottò vivamente lungo la strada dei Cinque Punti e attraversò i binari che tagliavano in due la città. Il treno carico di feriti era già arrivato e i portaferiti lavoravano attivamente a trasportare gli uomini malconci nelle ambulanze e nei carri coperti. Rossella non provò alcun rimorso vedendoli, ma solo un grande sollievo per essere riuscita a sfuggire. - Sono stanca dell'ospedale - riprese rassettandosi le gonne e legandosi meglio il nastro del cappello. - E ogni giorno ne arrivano di piú. Tutta colpa del generale Johnston. Se avesse tenuto testa agli yankees a Dalton... - Ma gli ha tenuto testa, bambina ignorante. E se avesse insistito a rimanere là, Sherman lo avrebbe aggirato e lo avrebbe schiacciato fra le due ali del suo esercito. Ed egli avrebbe perduto la ferrovia. - Insomma - fece Rossella per cui la strategia militare era arabo. - È sempre colpa sua. Avrebbe dovuto fare qualche cosa e mi pare che farebbero bene a mandarlo via. Perché non continua a combattere, invece di ritirarsi? - Anche voi, come tutti gli altri, chiedete la sua testa perché egli non può fare l'impossibile. A Dalton era Gesú il Salvatore; e alle montagne Kennesaw è Giuda il traditore. Tutto questo in sei settimane. Se riesce a respingere di nuovo gli yankees per venti miglia sarà nuovamente Gesú. Cara bambina, Sherman ha il doppio di uomini, e perciò può perderne due per ognuno dei nostri valorosi ragazzi. Invece Johnston non può perdere un solo uomo; anzi ha bisogno di rinforzi. - È vero che sarà chiamata la Milizia? e anche la Guardia Nazionale? - Cosí si dice. Sicuro, i beniamini del governatore Brown probabilmente dovranno andare a sentire l'odore della polvere e la maggior parte di essi sarà molto sorpresa. Il Governatore aveva promesso che non sarebbero andati; quindi si credevano al sicuro. Ma chi avrebbe creduto che la guerra sarebbe arrivata fin qui, e che essi avrebbero dovuto realmente difendere il loro Stato? - Come siete crudele a ridere di tutto questo! Figuratevi i vecchi e i ragazzi della Guardia Nazionale! Dovrà andare anche il piccolo Phil Meade e il nonno Merriwether e anche lo zio Enrico. - Ma io non parlo dei ragazzi né dei veterani della guerra messicana; alludevo ai bravi giovanotti come Guglielmo Guinan che ama portare una bella uniforme e agitare la sciabola... - E voi! - Mia cara, io non porto uniforme e non agito la sciabola; e la fortuna della Confederazione non m'interessa. Non faccio parte della Guardia Nazionale né di nessun esercito. Ne ho avuto abbastanza delle cose militari a West Point... Beh! spero che il Vecchio Joe abbia fortuna. Il generale Lee non può aiutarlo perché ha da fare nella Virginia. Perciò le truppe della Georgia sono l'unico rinforzo che può avere. Ma se fanno tanto da respingerlo dalle montagne e farlo scendere nella pianura di Atlanta ricordatevi le mie parole: sarà un macello. - La pianura di Atlanta? Ma è impossibile che gli yankees vi arrivino. - Kennesaw è soltanto a ventidue miglia, e scommetto... - Guardate lí in istrada, Rhett! Tutta quella gente! Non sono soldati! Che diamine...? Sono negri! Sulla strada si avanzava una nube di polvere rossa da cui veniva uno scalpiccio di piedi nudi; un centinaio e piú di voci negre, rauche e profonde, cantavano un inno. Rhett trasse la carrozza al di là della curva della strada e Rossella guardò curiosamente il gruppo di negri con zappe e picconi sulle spalle, guidati da un ufficiale e accompagnati da un gruppo di uomini che portavano le insegne del corpo del genio. - Che diamine...? - ricominciò. A un tratto i suoi occhi si posarono su un negro che era nella prima fila: un gigante alto quasi un metro e novanta, di un nero d'ebano, che camminava con la grazia flessuosa di una belva; i suoi denti bianchi brillavano mentre cantava «Scendi, o Mosè». Certamente sulla terra non vi era un altro negro cosí alto e con una voce cosí forte, eccettuato il grosso Sam, il capolavorante di Tara. Ma che diamine faceva qui il grosso Sam, cosí lontano da casa, specialmente ora che mancava il sorvegliante ed egli era il braccio destro di Geraldo? Mentre Rossella si sollevava a metà sul sedile della carrozza per vedere meglio, il gigante la scorse e sul suo volto nero si disegnò una smorfia di contentezza. Si fermò, lasciò cadere la sua zappa, e si avviò verso di lei, chiamando i negri piú vicini: - Dio onnipotente; Essere Miss Rossella! Guarda, Elia! Profeta! Apostolo! Vedere Miss Rossella! Vi fu confusione nei ranghi. La folla si fermò incerta, ghignando, e il grosso Sam, seguito da altri tre grandi negri, attraversò di corsa la strada verso la carrozza, seguito dall'ufficiale che gridava. - Tornate in linea! Tornate indietro vi dico, o... Oh, ma è Mrs. Hamilton! Buon giorno, signora; ed anche a voi, signore. Ma che cosa fate? Provocate l'ammutinamento e l'insubordinazione? Dio sa se mi hanno dato poco da fare stamattina, costoro! - Oh, capitano Randall, non li sgridate! Sono i nostri schiavi. Questo è il grosso Sam, il nostro capolavorante. E gli altri sono Elia, Apostolo e Profeta di Tara. È naturale che vengano a salutarmi. Come state, ragazzi? Strinse le mani a tutti; la sua bianca manina scomparve in quelle enormi dei negri, i quali furono pieni di gioia e di orgoglio, mentre spiegavano ai loro compagni che quella era la loro bella signorina. - Ma che cosa fate, cosí lontano da Tara? Scommetto che siete scappati. Essi risero compiaciuti. Poi il grosso Sam rispose: - Scappati? No, non essere scappati. Loro essere venuti a prenderci perché noi essere i piú grandi e piú forti di Tara. Avere specialmente cercato me, perché cantare cosí bene. Sí, Mist' Frank Kennedy essere venuto a prenderci. - Ma perché, grosso Sam? - Come, Miss Rossella! Non avere sentito? Noi dovere scavare trincee per signori bianchi per nascondersi dentro quando venire yankees. Il capitano Randall e i due che erano in carrozza nascosero un sorriso per questa ingenua spiegazione dell'uso delle trincee. - Mr. Geraldo non volere lasciarmi andare perché dire che non poter fare senza me, ma Mrs. Elena avere detto: «Prendere lui, Mr. Kennedy; Confederazione avere bisogno di grosso Sam piú di noi». E avere dato a me un dollaro e detto di fare tutto quello che ufficiali bianchi ordinare. E noi essere qui. - Che vuol dire tutto questo, capitano Randall? - Oh, molto semplice. Dobbiamo aggiungere alle fortificazioni di Atlanta parecchie miglia di trincee, e il generale non può occupare a questo dei combattenti. Perciò abbiamo cercato nelle campagne i tipi piú robusti per fare tutto il lavoro. - Ma... Un freddo principio di spavento strinse il petto di Rossella. Miglia di trincee! Per che cosa potevano servire? L'anno prima era stato costruito un certo numero di ridotte con piazzole per artiglieria tutto intorno ad Atlanta, a un miglio dal centro della città. Questi grandi lavori sotterranei erano collegati con fossati che circondavano completamente la città. - Ma... perché dobbiamo essere fortificati piú di quanto siamo già? Certamente il generale non lascerà che... - Le nostre fortificazioni attuali sono soltanto a un miglio dalla città - replicò brevemente il capitano Randall. - E sono troppo vicine per essere comode... o sicure. Queste nuove giungeranno assai piú lontano. Un altro ripiegamento condurrebbe i nostri uomini in Atlanta. Rimpianse immediatamente di aver detto queste parole, perché vide gli occhi di lei dilatarsi dal terrore. Ma certamente non vi sarà un altro ripiegamento - si affrettò a soggiungere. - Le linee attorno a Kennesaw sono inespugnabili. Le batterie sono piantate al sommo delle montagne e dominano le strade; quindi gli yankees non possono in nessun modo attraversarle. Ma Rossella vide che egli abbassava gli occhi dinanzi allo sguardo penetrante di Rhett e fu sgomentata. Ricordò l'osservazione di Butler: «Se riescono a farlo ritirare nella pianura d'Atlanta, sarà un macello». - Ma credete, capitano... - Ma no! Non vi preoccupate. Il Vecchio Joe ritiene giusto prendere delle precauzioni che sono eccessive. Questo il motivo delle nuove trincee... Ma ora dobbiamo andare. Molto lieto di avervi veduta. Salutate la vostra padrona, ragazzi, e andiamo. - Addio, ragazzi. Se state poco bene, o altro, informatemi. Abito in Via dell'Albero di Pesco; quasi l'ultima casa della città. Un momento... - Frugò nella sua reticella. - Dio mio, non ho neanche un quattrino. Per favore, Rhett, datemi qualche spicciolo. Tieni, grosso Sam, compra un po' di tabacco per te e per i tuoi compagni. E siate buoni e ubbidienti col capitano Randall. Il gruppo si riformò, la polvere si levò nuovamente in una nuvola rossa quando essi ripresero a camminare. E la voce del grosso Sam si levò un'altra volta a cantare: «Scendi, Moseeeè! Quaggiú, sulla teeeerra d'Egiiiitto! E di' al vecchio Faraooone di lasciarci andar liiiiberi!» - Rhett, il capitano Randall mi ha mentito, come tutti gli uomini... che cercano di nasconderci la verità per timore dei nostri svenimenti. Se non vi è pericolo, Rhett, perché fanno queste nuove fortificazioni? E l'esercito è cosí povero d'uomini che occorre servirsi dei negri? Rhett diede la voce alla giumenta. - L'esercito è terribilmente impoverito. Altrimenti, perché verrebbe chiamata la Guardia Nazionale? Quanto alle fortificazioni, possono servire in caso d'assedio. Il generale si prepara a compiere qui la sua ultima ritirata. - Un assedio! Oh, voltate il cavallo. Voglio tornare a casa mia, a Tara, subito subito. - Perché tanta fretta? - Un assedio! Ma ci pensate: un assedio! Dio mio, ne ho sentito parlare... Il babbo ci si è trovato, o forse suo padre, e mi ha raccontato... - Quale assedio? - Quello di Drogheda, quando Cromwell strinse gli irlandesi e questi non avevano nulla da mangiare... Il babbo mi ha detto che morivano di fame per le strade e che finirono col mangiare gatti e topi e perfino scarafaggi... E mi ha detto che prima di arrendersi si mangiarono gli uni con gli altri... ma non so se questo sia vero. Un assedio! Madre di Dio! - Siete la donna piú barbaramente ignorante che io abbia conosciuta. L'assedio di Drogheda è stato nel Seicento e qualche cosa, e il signor O'Hara non può esservisi trovato. Del resto, Sherman non è Cromwell. - Ma è peggio! Dicono... - Quanto alle carni strambe mangiate dagli irlandesi... vi assicuro che per conto mio preferirei un topo ben cucinato a certa roba che mi propinano all'albergo. Credo che farò bene a tornare a Richmond. Lí c'è ancora da mangiar bene se si ha denaro per pagarlo. I suoi occhi irridevano lo sgomento dipinto sul volto di lei. Irritata di aver lasciato vedere la propria paura, ella gridò: - Non so davvero perché siate rimasto qui tanto tempo! Non pensate se non a mangiar bene e altre cose del genere! - Trovo che è il miglior modo di passare il tempo: mangiare e... hm, altre cose del genere. Quanto all'essere rimasto qui... ho letto tante descrizioni di assedi, ma non ne ho mai visto nessuno. Non mi dispiacerebbe assistervi. Non ho nulla da temere, non essendo un combattente; e quest'esperienza mi attira. Non bisogna mai trascurare le esperienze, Rossella: esse arricchiscono la mente. E poi rimango per salvarvi quando vi sarà l'assedio. Non ho mai salvato una donna in pericolo. Anche questa sarà un'esperienza interessante. Rossella sentiva che egli la prendeva in giro; ma che nelle sue parole era un fondo di serietà. Crollò la testa, infastidita. - Non ho nessun bisogno che mi salviate. So badare a me stessa, grazie. - Non lo dite, Rossella! Pensatelo, se volete, ma non ditelo mai a un uomo. Questo è il torto delle ragazze yankee, che sarebbero simpaticissime se non dicessero sempre che non hanno bisogno di nessuno. E allora gli uomini lasciano che se la sbroglino da sole. Fu seccatissima, perché nessun insulto poteva esser peggiore che l'essere paragonata a una ragazza yankee. - Come correte! - gli disse quindi gelida. - Mi raccontate delle frottole; sapete benissimo che gli yankees non arriveranno mai ad Atlanta. - Scommetto che saranno qui fra meno di un mese. Scommetto una scatola di dolci contro... - I suoi occhi neri corsero alle rosee labbra di lei. - Contro un bacio. Per un attimo il timore dell'invasione yankee le strinse il cuore, ma la parola «bacio» la distrasse subito. Questo era un terreno conosciuto, assai piú interessante delle operazioni militari. Represse a stento un sorriso di trionfo. Dal giorno in cui le aveva regalato il cappello verde, Rhett non aveva mai detto una parola che potesse essere interpretata come quella di un innamorato. E adesso, senza nessun incoraggiamento da parte sua, eccolo che parlava di baci. - Non mi piacciono questi discorsi - replicò con freddezza. - E del resto, preferirei baciare un maiale. - Non si tratta di gusto; e d'altronde ho sempre sentito che gli irlandesi hanno simpatia per i porci. Li tengono perfino sotto al letto. Ma voi, Rossella, avete un tremendo bisogno di baci. Tutti i vostri spasimanti vi hanno rispettata troppo, Dio sa perché!, o hanno avuto paura di comportarsi come bisognava con voi. Il risultato è che vi date delle arie insopportabili. Avete bisogno di esser baciata, e da uno che sa baciare. La conversazione non si svolgeva come Rossella desiderava; cosa che le accadeva sovente con lui. - E probabilmente credete di esser voi la persona adatta? - gli chiese con sarcasmo, dominandosi a stento. - Senza dubbio, se volessi prendermi la pena... Dicono che so baciare molto bene. - Oh... - cominciò indignata nel sentire cosí messo in non cale il suo fascino. Ma abbassò gli occhi confusa, vedendo nella profondità dei suoi occhi, malgrado il sorriso irridente, una fiammella che si spense subito. - Probabilmente, vi sarete chiesta perché non ho dato alcun seguito a quel casto bacetto che vi diedi, il giorno in cui vi portai il cappello... - Non ho mai... - Vuol dire che non siete sensibile, Rossella; e questo mi dispiace. Tutte le ragazze sensibili si stupiscono se un uomo non tenta di baciarle. Sanno che non dovrebbero desiderarlo e che dovrebbero sentirsi insultate se un uomo lo facesse... ma lo desiderano ugualmente. Fatevi coraggio, cara. Un giorno o l'altro vi bacerò e la cosa vi piacerà. Ma adesso no; perciò vi prego di non essere impaziente. Come sempre, il suo scherno la rendeva furente. Vi era sempre troppa verità in quello che egli diceva. Ma questo era troppo. Gli darebbe una buona lezione, il giorno in cui fosse tanto villano da tentare di prendersi qualche libertà! - Volete aver la bontà di voltare il cavallo, capitano Butler? Desidero tornare all'ospedale. - Davvero, bell'angelo assistente? Pidocchi e catini di sangue sono preferibili alla mia conversazione? Lungi da me impedire a due mani volenterose di lavorare per la Nostra Causa Gloriosa! - Voltò il cavallo e questo riprese il cammino verso i Cinque Punti. - Quanto al fatto di non aver mosso piú alcun passo - riprese come se ella non gli avesse fatto comprendere che la conversazione era terminata - vi dirò che aspettavo che foste un po' piú donna. Sono egoista, nei miei piaceri; e non ho mai amato baciare le bambine. Accennò a un sogghigno, vedendo con la coda dell'occhio il seno di lei che ansimava di collera silenziosa. - E poi - continuò dolcemente - aspettavo che il ricordo dello stimabile Ashley Wilkes impallidisse alquanto. All'udire il nome di Wilkes, una pena improvvisa le strinse il cuore, mentre le lagrime le pungevano gli occhi. Impallidire, il ricordo di Ashley? Neanche se fosse morto da mille anni. Pensò al giovine ferito, moribondo in una lontana prigione yankee, senza un cencio per coprirsi, senza una persona amata che gli tenesse la mano, e fu piena di odio verso l'uomo ben pasciuto che le sedeva accanto e che le parlava con un leggero sarcasmo nella voce strascicata. Era troppo adirata per parlare, sicché continuarono per un poco a procedere in silenzio. - Ora ho ricostruito tutto sul conto vostro e di Ashley - riprese Rhett dopo un certo tempo. - Ho cominciato quando avete fatto quella volgare scenata alle Dodici Querce; e da quel giorno ho appreso molte cose tenendo gli occhi aperti. Quali cose? Per esempio, che voi nutrite ancora per lui una romantica passione da scolaretta, che egli ricambia nei limiti che la sua natura di uomo onesto gli permette. E che Mrs. Wilkes non ne sa nulla; fra tutti e due, le avete fatto un bello scherzo. Ho capito tutto, meno una cosa che punge la mia curiosità. L'ineffabile Ashley ha mai compromesso la sua anima immortale baciandovi? Un silenzio e un gesto del capo che si volgeva altrove furono la risposta. - Bene; dunque vi ha baciata. Immagino che sia stato quando fu qui in licenza. E ora che probabilmente è morto, voi circondate di un culto quel ricordo. Ma sono certo che finirete col dimenticarlo e allora... Ella si volse come una furia. - Allora... andate al diavolo! - E i suoi occhi verdi brillavano di collera. - E fatemi scendere da questa carrozza prima che io mi getti a terra. E non voglio che mi rivolgiate la parola mai piú! Egli fermò la carrozza; ma prima che potesse scendere per aiutarla, ella era balzata a terra. L'abito le si impigliò nella ruota, e per un attimo la folla dei Cinque Punti ebbe una rapida visione di sottovesti e mutandine. Ma Rhett si chinò e la liberò con sveltezza. Ella sfuggí senza una parola, senza neanche voltarsi indietro; l'uomo rise piano e diede la voce al cavallo.

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La signora Meade cercò di sorridere e fargli cenni di saluto finché fu passato; poi appoggiò la testa sulla spalla di Rossella come se le forze l'avessero improvvisamente abbandonata. Molti erano completamente disarmati: la Confederazione non aveva piú fucili né munizioni. Questi uomini speravano di provvedersi di armi, togliendole agli yankees uccisi o prigionieri. Parecchi portavano dei pugnali infilati negli stivali, e in mano lunghe aste di ferro appuntite. I piú fortunati avevano dei vecchi moschetti appoggiati alla spalla e fiaschette di polvere alla cintura. «Johnston aveva perduto diecimila uomini nella sua ritirata; aveva quindi bisogno di altrettanti uomini freschi. Ed ecco che cosa gli giungeva!» pensò Rossella terrorizzata. Al passaggio dell'artiglieria che spruzzava di fango la folla ammassata, l'occhio di Rossella fu colpito da un negro che cavalcava un mulo di fianco a un cannone. Era un giovinotto color sabbia e Rossella vedendolo esclamò: - Ma è Mosè! L'ordinanza di Ashley! Che cosa fa qui? - Si aperse un varco tra la folla e gridò: - Mosè! Fermati! Il giovine negro, vedendola, tirò le redini, sorrise contento e fece per scendere dal mulo. Ma un sergente che cavalcava dietro a lui urlò: - Non ti muovere dalla sella, altrimenti guai a te! Ti faccio vedere io... Incerto, Mosè volse lo sguardo dal sergente a Rossella; questa, incurante della mota e della vicinanza delle ruote, giunse ad afferrare la staffa di Mosè. - Solo un momento, sergente! Non scendere, Mosè. Che diamine fai qui? - Andare di nuovo alla guerra, Miss Rossella. Questa volta con vecchio Mist' John invece che con Mist' Ashley. - Mr. Wilkes! - Rossella rimase sbalordita; il signor Wilkes aveva quasi settant'anni. - Dov'è? - Dietro, con ultimo cannone. Là, in fondo. - Scusate, signora. Avanti, ragazzo! Rossella rimase immobile, col fango sino alla caviglia, mentre i cannoni passavano. «No!» pensò. «È impossibile. È troppo vecchio. E non ama la guerra, come Ashley!» Si ritrasse di qualche passo, verso il marciapiede e scrutò i volti di quelli che passavano. Accanto all'ultimo cannone lo vide, magro, dritto, coi lunghi capelli d'argento sul collo, a cavallo di una piccola giumenta baia, che zampettava tra il fango come una signora in abito di raso. «Ma è Nellie! La cavalla della signora Tarleton! La prediletta di Beatrice, rossa come lei!» Vedendola, il signor Wilkes tirò le redini con un sorriso di contentezza e scese a terra movendole incontro. - Speravo di venire da voi, Rossella. Debbo dirvi tante cose da parte dei vostri. Ma non ho avuto tempo. Siamo arrivati stamattina, e come vedete proseguiamo subito. - Oh, non andate, Mr. Wilkes - gridò Rossella disperatamente tendendo le braccia. - Perché dovete andare? - Vi sembro troppo vecchio? - E sorrise con lo stesso sorriso di Ashley. - Forse per marciare; ma non per cavalcare e per sparare. E Mrs. Tarleton è stata tanto buona da prestarmi Nellie... spero non le capiti nulla, altrimenti non avrei piú il coraggio di guardarla in faccia! Nellie era l'ultimo cavallo rimastole! - Rideva; e Rossella sentí svanire i suoi terrori. - Vostra madre e il babbo e le sorelle stanno bene e vi mandano tutte le loro tenerezze. Vostro padre stava per venire con noi! - Oh no, non il babbo! - esclamò la giovine, terrorizzata. - No! Non vorrà andare alla guerra?! - Voleva. Non può camminare, col suo ginocchio rigido; ma voleva venire a cavallo. Vostra madre ha acconsentito, purché egli riuscisse a saltare la barriera del pascolo; vostro padre ha creduto che fosse cosa facile ma... lo credereste? Il cavallo, arrivato alla barriera, si fermò bruscamente e vostro padre gli filò per le orecchie. Non so come non si è rotto il collo! Con la sua consueta ostinazione, volle ritentare. La terza volta la signora O'Hara e Pork dovettero aiutarlo a mettersi a letto. Era furibondo e diceva che vostra madre doveva «essersi messa d'accordo col cavallo»! Del resto, non c'è da vergognarsi. E bisogna bene che qualcuno rimanga a casa, altrimenti chi procura la farina per le truppe? Rossella non provava alcuna vergogna; soltanto un senso di profondo sollievo. - Ho mandato Lydia e Gioia dai Burr, a Macon - proseguí il vecchio Wilkes - e Geraldo si occuperà delle Dodici Querce come di Tara... Debbo andare, figliuola. Lasciate che baci il vostro bel visino. Rossella ricambiò il bacio con un dolore acuto che le stringeva la gola. Voleva molto bene al signor Wilkes; e una volta, tanto tempo fa, aveva sperato di diventare sua nuora. - E date questo bacio per me a Zia Pitty e quest'altro a Melania. Come sta, la cara Melly? - Sta bene. - Ah! - I suoi occhi grigi la fissarono, ma come se guardasse al di là, nella stessa maniera che aveva guardato Ashley. - Mi sarebbe piaciuto vedere il mio primo nipotino... Addio, mia cara. Balzò su Nellie e si avviò, tenendo il cappello in mano, coi capelli d'argento esposti alla pioggia. Rossella aveva raggiunto Maribella e la signora Meade prima di aver compreso la portata di quelle ultime parole. Ma improvvisamente l'afferrò, con un superstizioso terrore, e tentò di pregare. Aveva parlato di morte! E mentre le tre donne tornavano all'ospedale sotto la pioggia, Rossella non fece che pregare silenziosamente. - Non fate morire anche lui, Dio onnipotente, anche lui oltre ad Ashley! Le giornate piovose di giugno passarono per dar luogo ad un luglio cattivo. I confederati, battendosi disperatamente attorno alle alture fortificate, riuscivano a tenere ancora Sherman in scacco; sicché una selvaggia gaiezza si impadronì di Atlanta. La speranza dava alla testa come lo champagne. Hurrah! Hurrah! Li teniamo a bada! Fu un'epidemia di balli e di ricevimenti. Ogni volta che qualche gruppo di uomini veniva dal campo di battaglia in città, si organizzavano pranzi in loro onore, seguiti da danze; le ragazze, che erano dieci per ogni uomo, facevano a gara per poter ballare con loro. Atlanta era affollata di visitatori, profughi, famiglie di feriti, madri e mogli di combattenti. Rossella era occupatissima, fra il servizio ospedaliero e i divertimenti. A differenza della altre signore, che portavano abiti rivoltati e scarpe rattoppate ella era sempre elegantissima, grazie al materiale che Rhett Butler le aveva portato dal suo ultimo viaggio. Nelle calde notti estive le case di Atlanta erano aperte ai soldati, difensori della città. Suoni di banjo e di violini venivano dalle finestre illuminate, insieme a scalpiccii e a risate che l'aria notturna portava lontano. Attorno ai pianoforti erano gruppi numerosi che cantavano allegramente le tristi parole di «La tua lettera giunse, ma troppo tardi», mentre i giovani valorosi rivolgevano alle fanciulle ridenti dietro ai ventagli di penne di tacchino sguardi che chiedevano di non aspettare che fosse troppo tardi. E nessuna delle fanciulle aspettava, se poteva. I matrimoni erano affrettati; matrimoni con la sposa che arrossiva negli ornamenti presi frettolosamente in prestito, e lo sposo la cui sciabola batteva sui calzoni rattoppati. Quanta eccitazione! Urrà! Johnson teneva in iscacco gli yankees a ventidue miglia dalla città!

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Tara non era dunque abbandonata! C'era qualcuno in casa! Un grido di gioia le salí alla gola, ma rimase soffocato. La casa era buia e silenziosa, eppure la figura non si muoveva. Che cosa era successo? Ma ecco: l'ombra si era mossa; scendeva lentamente i gradini. - Babbo? - mormorò Rossella, rauca, quasi dubitando che fosse lui. - Sono io... Caterina Rossella. Sono tornata. Geraldo avanzò verso di lei, come un sonnambulo, trascinando la gamba rigida. Le giunse accanto, la fissò stranamente come se credesse che fosse un sogno. Poi le posò una mano sulla spalla. Rossella lo sentí tremare, come se fosse stato svegliato da un incubo e non avesse ancora il senso completo della realtà. - Figlia... - mormorò con sforzo - Figlia mia. Poi tacque. «È un vecchio!» pensò Rossella. Geraldo aveva le spalle curve. Nel volto, che ella scorgeva confusamente, non era piú nulla della vitalità che ricordava in suo padre, e i suoi occhi avevano quasi l'espressione sgomenta di quelli del piccolo Wade. Era un piccolo vecchio accasciato. Lo spavento di mille cose ignorate la afferrò; ed ella rimase a fissarlo, con un fiume di domande che le urgevano in gola e non riuscivano a formularsi. Dal carretto giunse di nuovo il vagito lieve e Geraldo si volse con sforzo. È Melania col suo bimbo - sussurrò Rossella rapidamente. - Sta molto male. L'ho portata a casa. Geraldo lasciò cadere la mano che le teneva sul braccio e cercò di raddrizzare le spalle mentre si dirigeva a passi lenti verso il carretto. Era lo spettro dell'antico padrone di casa che si recava a dare il benvenuto agli ospiti. - Cugina Melania! La voce di Melania mormorò indistintamente. - Cugina Melania, questa è casa vostra. Le Dodici Querce sono state bruciate. Dovete stare con noi. Il pensiero della prolungata sofferenza di Melania spinse Rossella all'azione, insieme alla necessità di mettere lei e il suo piccino in un letto morbido, e di fare per lei ciò che si poteva. - Bisogna portarla. Non può camminare. Si udí un fruscío di piedi e dal porticato emerse una figura scura. Pork scese i gradini di corsa. - Miss Rossella! Miss Rossella! - gridò. Rossella gli afferrò le braccia. Pork, parte di Tara, caro quanto le sue pietre e i freschi corridoi! Sentí le lagrime di lui scorrerle sulle mani, mentre egli l'accarezzava goffamente esclamando: - Tanto contento tu essere tornata! Tanto... Prissy era scoppiata in lagrime e balbettava parole incoerenti: - Pork! Pork! Caro! - E il piccolo Wade, incoraggiato dalla debolezza dei grandi, cominciò a piagnucolare: - Wade ha sete! Rossella prese la direzione. - Miss Melania è nel carretto col suo bambino. Devi prenderla in braccio, Pork, e portarla di sopra, nella stanza degli ospiti in fondo al corridoio. Prissy, porta dentro il piccolo e Wade, e dài a Wade un sorso d'acqua. C'è Mammy? Dille che ho bisogno di lei, Pork. Galvanizzato dall'autorità di quella voce, Pork si avvicinò al carretto. Un gemito uscí dalle labbra di Melania quando egli la sollevò dal materassino di piume su cui giaceva da tante ore. E poi fu nelle forti braccia di Pork, con la testa sulla sua spalla. Prissy, col bimbo in braccio e tenendo Wade per mano, lo seguí e scomparve nelle tenebre del vestibolo. Le dita infiammate di Rossella cercarono la mano di suo padre. - Come stanno, babbo? - Le ragazze si stanno rimettendo. Nel silenzio che seguí, un'idea troppo mostruosa per essere detta in parole prese forma. No, ella non poteva costringere le sue labbra ad aprirsi. Inghiottí a piú riprese, ma la sua gola era arida come pergamena. Era dunque quello il significato dello spaventoso enigmatico silenzio di Tara? Come per rispondere al suo spirito, Geraldo parlò. - La mamma... - disse; e si fermò. - La mamma? - È... è morta ieri. Col braccio di suo padre stretto al suo, Rossella attraversò il grande vestibolo nel quale, malgrado l'oscurità, sapeva muoversi senza esitazione. Evitò le sedie ad alta spalliera, la vecchia credenza con le zampe sporgenti, la rastrelliera vuota, e si sentí portata dall'istinto allo studietto dove Elena sedeva sempre riordinando la sua interminabile contabilità. Certo la troverebbe dinanzi alla scrivania; e la vedrebbe alzarsi in un fruscio di gonne che sapevano di verbena, per andare incontro alla figlia cosí stanca, ed esausta. Elena non poteva essere morta, benché il babbo avesse detto e ripetuto, come un pappagallo che sa una sola frase: - È morta ieri... è morta ieri... è morta ieri. Strano: non sentiva altro, ora, che una stanchezza che le inceppava le membra come catene di ferro e una fame che le faceva tremare le ginocchia. Alla mamma penserebbe piú tardi. Doveva allontanarla dalla sua mente in questo momento, altrimenti si metterebbe a balbettare stupidamente come Geraldo o a singhiozzare come Wade. Pork ridiscese frettolosamente le scale, ansioso di avvicinarsi a Rossella come un animale che ha freddo si avvicina al fuoco. - Luce? - chiese Rossella. - Perché tutta la casa è cosí buia, Pork? Porta delle candele. - Loro avere preso tutte le candele, miss Rossella, meno una che adoperare per lavori piú fini ed essere quasi finita. Mammy adoperare stracci in un piatto di grasso di porco per potere curare miss Carolene e miss Súsele. - Porta quello che è rimasto della candela - ordinò. - Portala nello studio della... nello studio. Pork trotterellò verso la stanza da pranzo e Rossella penetrò nella stanzetta e si lasciò cadere sul divano. Il braccio di suo padre era ancora sotto al suo, aggrappato disperatamente, supplichevole, come possono esserlo soltanto le mani dei giovanissimi e dei vecchi. «È invecchiato e stanco» pensò di nuovo; e vagamente si stupí che non gliene importasse nulla. La luce penetrò nella stanza quando Pork entrò portando una candela consumata a metà in un piattino. L'ambiente si ravvivò: il vecchio divano logoro su cui sedeva, la grande scrivania con la fragile sedia intagliata dietro ad essa, gli scaffali ancora pieni di carte scritte dalla mamma, il tappeto consunto... tutto, tutto era come prima; soltanto Elena non vi era, Elena con la lieve fragranza di verbena e la dolce espressione dei suoi occhi dagli angoli tirati in basso. Rossella provò una leggera stretta al cuore, come se i nervi, lesi da una profonda ferita, cercassero di riprender vita. Ma non poteva lasciarli rivivere adesso: c'era davanti a lei tutto il resto della sua vita per soffrire! Non adesso, Dio, non adesso! Guardò Geraldo e per la prima volta in vita sua lo vide non raso, col viso non piú florido irto di setole grige. Pork collocò la candela nel candeliere e le venne accanto. Se fosse stato un cane, le avrebbe posato il muso in grembo, aspettando una carezza. - Pork, quanti negri ci sono? - Miss Rossella, quei mascalzoni negri essere scappati e alcuni essere andati con yankees e... - Quanti ne sono rimasti? - Rimasti io e Mammy. E poi Dilcey. Mammy aver curato signorine tutto giorno e Dilcey tutta notte. Noi tre, miss Rossella. «Noi tre», mentre erano cento. Rossella alzò la testa con sforzo; il collo le doleva. Bisognava che la voce non le tremasse! Ma, con sua sorpresa, parlò freddamente e naturalmente, come se non vi fosse mai stata la guerra ed ella avesse potuto, con un cenno, chiamare una decina di schiavi. - Pork, muoio di fame. C'è qualche cosa da mangiare? - No, miss. Loro avere portato via tutto. - E nell'orto? - Loro avere fatto camminare dentro cavalli che aver pestato tutto. - Anche le patate dolci? Qualche cosa come un sorriso si disegnò sulle grosse labbra del negro. - Miss Rossella, io avere dimenticato patate dolci. Credo che essere ancora. Yankees non conoscere queste e credere che essere radici inutili... - A momenti si leverà la luna. Andrai a scavarne un certo numero e le farai cuocere. Non c'è grano saraceno? Piselli secchi? Polli? - No, badrona. Niente. I polli che non aver potuto mangiare avere portato via legati a loro selle. Non vi era dunque cosa che non avessero fatto, coloro? Non bastava avere incendiato e ucciso? Avevano anche lasciato donne e bambini a morir di fame nei luoghi che avevano devastati? - Miss Rossella, io avere alcune mele che Mammy aver seppellito dietro alla casa. Oggi esserci nutriti con quelle. - Portale prima di andare a scavare le patate. E... Pork, mi sento tanto debole. C'è vino in cantina, magari di amarasche? - Oh, miss Rossella, in cantina essere andati per prima cosa! Una nausea fatta di fame, di esaurimento, di sbalordimento la assalí improvvisamente, ed ella si drizzò aggrappandosi alla scrivania. - Non c'è vino - ripeté con voce opaca, rivedendo le file di bottiglie nella cantina. Un ricordo le balenò. - E quel whisky di grano che babbo mise in un bariletto di quercia e che sotterrò ai piedi dell'albero di noce moscata? Un altro barlume di sorriso illuminò il viso nero. - Oh, miss Rossella, io non dimenticare quel bariletto. Ma whisky non essere buono. Essere lí sotto da quasi un anno e non essere buono per signorine! Com'erano stupidi i negri! Non avevano mai l'idea di nulla, se uno non glielo diceva. E gli yankees volevano liberarli! - Sarà buono per questa signorina e per babbo. Svelto, Pork, vai a dissotterrarlo e portaci due bicchieri, un po' di zucchero e qualche foglia di menta. - Non essere zucchero a Tara da un pezzo. E cavalli aver mangiato tutta la menta; e loro aver rotto tutti bicchieri. «Se dice "loro" ancora una volta, non potrò fare a meno di urlare!» pensò Rossella. Poi, disse: - Va bene; corri a prendere il whisky. Lo berremo puro. E... aspetta. Mi pare di dover pensare a tante cose... Ah, sí. Ho portato a casa un cavallo e una mucca. Questa ha bisogno di essere munta. E bisogna togliere i finimenti al cavallo e dargli da bere. Di' a Mammy di occuparsi della mucca. Che la metta in qualche posto. Il bimbo di Melania morirà se non gli si dà un po' di latte. - Miss Melania... non avere...? - Pork si interruppe per delicatezza. - No, non ha latte. - Dio mio, se la mamma la sentisse parlare cosí! - Allora, miss Rossella, mia Dilcey occuparsi del pupo di miss Melania. Mia Dilcey avere avuto anche lei bambino e avere abbastanza latte per due. - Tu hai un altro bimbo, Pork? Bambini, bambini, bambini. Perché Dio metteva al mondo tanti bambini? Ma no, non era Dio che li metteva al mondo: era la gente stupida. - Sí, badrona: grosso bambino nero. E... - Vai a dire a Dilcey che lasci per un poco le ragazze. Che si occupi del bimbo di miss Melania e faccia anche per miss Melania quello che occorre. Di' a Mammy che provveda per la mucca e metti nella stalla quel povero cavallo. - Non esservi stalla. Loro avere demolito per fare legna da ardere. - Non dirmi piú nulla di ciò che «loro» hanno fatto. Ripeti a Dilcey quello che ti ho detto. E poi vai a prendere il whisky e qualche patata. - Non potere scavare al buio. - Non puoi accendere un pezzo di legno e con la fiamma...? - Non avere legna. Loro... - Fai quello che ti pare. Arrangiati. Ma fai quello che ti ho ordinato e sbrígati. Pork si affrettò fuori della stanza e Rossella rimase sola con Geraldo. Gli accarezzò dolcemente una gamba; e notò che i muscoli saldi si erano afflosciati. Bisognava fare qualche cosa per toglierlo da quell'apatia... ma non poteva chiedergli della mamma. Piú tardi... - Perché non hanno incendiato Tara? Geraldo la fissò un momento come se non avesse compreso; e Rossella ripeté la domanda. - Perché... - mormorò - hanno fatto qui il loro quartier generale. - Gli yankees... in questa casa? Ebbe la sensazione che fosse stata compiuta una profanazione. Quelle mura, sacre perché vi aveva vissuto Elena... e coloro vi erano penetrati! - È stato cosí. Avevamo visto il fumo delle Dodici Querce prima che giungessero qui. Ma Lydia e Gioia si erano rifugiate a Macon, con alcuni schiavi, perciò non ce ne preoccupammo. Noi non ci potevamo muovere. Le ragazze stavano molto male... e la mamma... Non potevamo muoverci. I nostri negri fuggirono... non so dove. Rubarono i carri e i muli. Mammy, Dilcey e Pork... non sono fuggiti. Le ragazze... e la mamma... impossibile trasportarle. - Sí, sí. - Non doveva parlare della mamma. Qualunque altra cosa; magari dirle che il generale Sherman in persona aveva usato quella stanza, lo studio della mamma, per il suo quartier generale. Qualunque altra cosa. - Gli yankees marciavano su Jonesboro, per tagliare la ferrovia. E attraversarono il fiume... migliaia e migliaia... coi cannoni e i cavalli... a migliaia... ed io andai a riceverli sotto il porticato. «Valoroso piccolo Geraldo!» pensò Rossella sentendosi venir meno. Geraldo che andava a ricevere il nemico sui gradini di Tara, come se avesse dietro un esercito, anziché dinanzi. - Mi dissero di andar via, perché volevano incendiare la casa. Risposi che l'avrebbero bruciata con me dentro. Non potevamo partire... le ragazze... la mamma... - E allora? - Possibile che tornasse sempre a parlare di Elena? - Dissi che vi erano ammalati in casa; il tifo; e che farli muovere sarebbe stato ucciderli. Bruciassero pure il tetto sulle nostre teste. Non potevo partire... lasciare Tara... La sua voce si spense; egli guardò le pareti e Rossella comprese. Troppi antenati irlandesi erano morti combattendo sino alla fine, piuttosto che lasciare le case dove avevano vissuto, lavorato, amato, generato dei figliuoli. - Dissi che vi erano tre donne moribonde: bruciassero pure la casa con loro dentro. Il giovine ufficiale era... era un gentiluomo. - Uno yankee gentiluomo? Andiamo, via, babbo! - Un gentiluomo. Se ne andò al galoppo e tornò dopo poco con un capitano medico che visitò le ragazze... e la mamma. - Hai lasciato entrare in camera loro un maledetto yankee? - Aveva dell'oppio. Noi non ne avevamo. Salvò le tue sorelle. Súsele aveva un'emorragia. Era un brav'uomo. E quando andò a riferire che erano... ammalate... rinunciarono a incendiare la casa. Entrarono, il generale e il suo Stato Maggiore, e occuparono le stanze, meno quella delle ammalate. E i soldati... Si interruppe di nuovo, come se fosse troppo stanco per continuare. Il mento gli ricadde pesantemente sul petto, formando delle pieghe di carne floscia. Poi fece uno sforzo per parlare ancora. - Si accamparono intorno alla casa, dovunque, nel cotone, nel grano. I campi erano turchini delle loro uniformi. Quella notte vi furono mille fuochi di bivacco. Strappavano le barriere e le bruciavano per cucinarvi sopra il loro cibo; e cosí le tettoie e le stalle. Uccisero le mucche, i maiali, i polli... perfino i miei tacchini. - I preziosi tacchini di Geraldo. - Presero tutto; i quadri, le porcellane... - L'argenteria? - Non so che cosa ne hanno fatto Pork e Mammy; messa nel pozzo... non mi ricordo. - La voce di Geraldo era stizzosa. - E poi iniziarono la battaglia da qui... da Tara... Uno strepito infernale, gente che galoppava e calpestava tutto. E piú tardi, le cannonate a Jonesboro; sembravano tuoni... Anche le ragazze le sentivano, benché stessero tanto male... - E... la mamma? Ha saputo che c'erano gli yankees in casa? - Non ha mai saputo nulla. «Dio sia ringraziato!» pensò Rossella. Almeno, questo era stato risparmiato alla mamma. Non aveva saputo, non aveva udito il nemico nelle stanze, non aveva sentito i cannoni a Jonesboro, non aveva sofferto perché la terra cara al suo cuore era sotto ai piedi degli yankees. - Li ho visti poco perché stavo al piano di sopra con le ragazze e con la mamma. Ho visto piú di tutti il giovine medico. Era tanto buono, tanto! Dopo aver lavorato tutto il giorno intorno ai feriti, veniva a sedersi di sopra, con loro. Ha anche lasciato qualche medicina. Nel partire mi disse che le ragazze sarebbero guarite, ma la mamma... Era cosí fragile... troppo fragile per resistere a questo. Disse che aveva abusato delle sue forze... Nel silenzio che seguí, Rossella vide sua madre come doveva essere stata in quegli ultimi tempi; il sostegno di Tara, sempre pronta ad assistere, a lavorare, senza dormire e senza mangiare, perché gli altri potessero mangiare e dormire. - E poi, se ne sono andati. Tacque a lungo, poi cercò la mano di lei. - Sono contento che tu sia tornata. Dal porticato posteriore giunse uno scalpiccio. Il povero Pork, abituato da quarant'anni a pulirsi le scarpe prima di entrare in casa, non dimenticava di farlo neanche in questi momenti. Entrò, portando con precauzione due piccole borracce di zucca e con lui entrò un forte sentore di grappa. - Averne sprecato parecchio, miss Rossella. Essere difficile fare entrare grosso getto in piccola zucca. - Va bene, Pork; grazie. - Gli prese di mano la zucca sgocciolante, torcendo il naso per il disgusto di quell'odore forte. - Bevi, babbo - disse ponendogli in mano lo strano recipiente e prendendo dalle mani di Pork la seconda zucca, piena d'acqua. Geraldo, ubbidiente come un bambino, bevve rumorosamente. Ella gli porse l'acqua, ma Geraldo crollò il capo. Riprese la borraccia e se la portò alle labbra; e nel far questo vide che gli occhi di lui la seguivano, con una vaga espressione di disapprovazione. - So che le signore non bevono liquori - disse brevemente. - Ma oggi non sono una signora; e stasera c'è da lavorare, babbo. Sollevò il recipiente, trasse un profondo respiro e bevve. Il liquore le bruciò la gola e lo stomaco, soffocandola e facendola lagrimare. Trasse un altro respiro e sollevò di nuovo la zucchetta. - Caterina Rossella - fece Geraldo; e nella sua voce era la prima nota di autorità che ella avesse udito dopo il suo ritorno, - ora basta. Non sei abituata all'alcool e ti renderebbe brilla. - Brilla? - E rise di un riso cattivo. - Spero che mi ubbriachi addirittura. Mi piacerebbe ubbriacarmi e dimenticare tutto questo. Bevve ancora, sentendosi scorrere entro le vene un calore che giunse fino alla punta delle dita. Che piacevole sensazione, quel calore benefico! Le parve che penetrasse fino al suo cuore ghiacciato e le desse nuova forza. Vedendo il viso perplesso di Geraldo lo accarezzò di nuovo sforzandosi al sorriso che egli amava. - Come vuoi che mi ubriachi, babbo? Non sono tua figlia? Non ho ereditato la testa piú salda della Contea di Clayton? Anche Geraldo abbozzò quasi un sorriso. Il whisky stava risollevando anche lui. Rossella gli porse nuovamente la borraccia. - Bevi ancora un poco; poi ti porterò di sopra e ti metterò a letto. Fu stupita. Quello era il modo in cui parlava a Wade; non poteva parlare nella stessa maniera a suo padre! Era poco rispettoso. Ma egli pendeva dalle sue labbra. - Sí, ti metterò a letto - proseguí leggermente - e ti darò ancora da bere... forse tutta la borraccia; cosí dormirai. Hai bisogno di dormire; e qui ora c'è Caterina Rossella e non devi preoccuparti di nulla. Bevi. Egli bevve di nuovo, ubbidiente; quindi, passando il suo braccio sotto a quello di lui, ella lo fece alzare in piedi. - Pork... Pork s'impadroní della borraccia con una mano e del braccio di Geraldo con l'altra. Rossella prese la candela e tutti e tre si avviarono lentamente per il vestibolo e poi per le scale fino alla stanza di Geraldo.

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Quando si rialzò e vide nuovamente le rovine delle Dodici Querce, le parve che gioventú e bellezza l'avessero abbandonata per sempre. Il passato era passato. I morti erano morti. La beata indolenza di altri tempi era sparita e non tornerebbe piú. Impossibile indietreggiare: bisognava andare avanti. Per cinquant'anni negli Stati del Sud vi sarebbero donne desolate che guarderebbero indietro; che rievocherebbero i loro morti e i ricordi della vita trascorsa, sopportando orgogliosamente la povertà, perché ricche di memorie. Ma Rossella non guarderebbe mai piú indietro. Fissò le pietre annerite e per l'ultima volta rivide le Dodici Querce com'erano una volta, simbolo di una razza e di un sistema di vita. Poi riprese la strada verso Tara, col cestino pesante che le affaticava il braccio. La fame le torturava nuovamente lo stomaco vuoto, ed ella disse ad alta voce: - Dio mi è testimone che gli yankees non mi abbatteranno. Supererò questo; e quando sarà passato, non soffrirò mai piú la fame. Né io né i miei. Dovessi rubare o uccidere... Dio mi è testimone che non soffrirò la fame mai piú.

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Avrebbe preferito quest'ultima ipotesi a quella di essere stata dimenticata; perché almeno vi era una certa dignità nell'aver perduto il fidanzato, come Carolene e Gioia Wilkes, piuttosto che essere stata abbandonata. - Sssst! - fece Rossella. - Già, tu puoi parlare - singhiozzò Súsele - perché tu sei stata sposata e hai un bambino e tutti sanno che hai avuto la tua parte... Ma venire a farmi capire che morirò zitellona! Sei odiosa, ecco! - Smettila! Com'è insopportabile la gente che piange sempre! Sai benissimo che il tuo vecchio non è morto e che tornerà per sposarti. Quantunque, io personalmente preferirei rimaner zitella piuttosto che sposarlo! Vi fu un silenzio durante il quale Carolene cercò di confortare la sorella accarezzandola, ma con lo spirito assente, tutta al ricordo delle sue cavalcate di tre anni prima con Brent Tarleton accanto. - Ah - sospirò Melania - che cosa sarà il Sud senza tutti i nostri bei ragazzi? Pensa, invece, se potessimo usare il loro coraggio, la loro energia, i loro cervelli! Tutte noi che abbiamo dei bambini, Rossella, dobbiamo educarli per prendere il loro posto, per essere bravi e coraggiosi come loro. - Come loro non ve ne saranno mai piú - disse Carolene sottovoce. - Nessuno può sostituirli. E percorsero il resto della strada in silenzio.

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Mi dispiace dirvi che la mia coscienza non mi ha punto rimproverato di avervi abbandonata. Ma quanto all'arruolarmi... Quando penso che ho raggiunto l'esercito in scarpette verniciate e abito di lino bianco, armato in tutto e per tutto con due pistole da duello... E tutti quei chilometri nella neve dopo che le mie scarpe si erano consumate, ed io non avevo soprabito e niente da mangiare!... Non so proprio perché non ho disertato. Vera pazzia. Ma è nel sangue. I meridionali non sono capaci di resistere quando una causa è perduta. Ma lasciamo andare le mie ragioni. L'importante è che mi abbiate perdonato. - Ma niente affatto. Siete una canaglia. - Disse quest'ultima parola come se avesse detto «tesoro». - Non raccontatemi storie. Mi avete perdonato. Una giovane signora non affronta le sentinelle yankee per venire a trovare un detenuto per puro spirito di carità; e non viene tutta vestita di velluto con penne e manicotto. Come siete carina, Rossella! Grazie a Dio non siete in lutto né vestita di stracci. Non ne posso piú di donne malvestite. Sembra che veniate da Rue de la Paix. Voltatevi, cara, e lasciatevi guardare. Aveva notato il vestito. Era naturale che Rhett notasse queste cose. Ella rise dolcemente eccitata e si girò sui tacchi con le braccia tese, facendo ondeggiare i suoi cerchi per mostrare la guarnizione di pizzo della sottoveste. Gli occhi neri di lui la abbracciarono in un solo sguardo dalla testa ai piedi; era ancora quel suo sguardo impudente che sembrava svestirla e che le faceva accelerare i battiti del cuore. - State molto bene e molto elegante. Mi date proprio il desiderio... Se non ci fossero quegli yankees là fuori... Ma potete star tranquilla, cara. Sedete. Non approfitterò di voi come ho fatto l'ultima volta che ci siamo visti. - Si strofinò la guancia con finta tristezza. - Sinceramente, Rossella, non vi pare che quella notte siete stata abbastanza egoista? Pensate: con tutto ciò che avevo fatto per voi, arrischiato la vita, rubato un cavallo. e che cavallo! Rapito alla difesa della Nostra Causa Gloriosa! E che cosa ho avuto per ricompensa? Poche parole dure e uno schiaffo sonoro. Ella sedette. La conversazione non si svolgeva secondo il suo desiderio. - Volete sempre avere qualche cosa in cambio di ciò che fate? - Si capisce! Dovreste sapere che sono un mostro di egoismo. Pretendo sempre il pagamento, per qualunque cosa. Questo le diede un leggero brivido. Ma si riprese subito e agitò nuovamente gli orecchini. - Ma no, non è vero che siete tanto cattivo, Rhett. Vi piace farlo credere. - Siete proprio cambiata sul serio! - E Rhett rise. - Ma chi è che ha fatto di voi una cosí buona cristiana? Ho avuto vostre notizie da miss Pittypat, la quale non mi ha detto che in voi si fosse sviluppata la dolce femminilità. Ma parlatemi di voi. Che avete fatto da quando non ci siamo piú visti? L'antica irritazione verso di lui e lo spirito antagonistico erano già risorti in lei, e l'impulso fu di rispondere con asprezza; ma lo dominò e sorrise mostrando le fossette delle guance. Egli aveva avvicinato la sedia alla sua, e Rossella gli posò dolcemente mia mano sul braccio. - Oh, me la sono cavata, e le cose a Tara vanno benino adesso. Certo, abbiamo passato dei brutti momenti dopo la venuta di Sherman; ma per fortuna la casa non fu bruciata, e i negri salvarono la maggior parte delle nostre provviste nascondendole nella palude. Abbiamo anche fatto un discreto raccolto: venti balle. Senza dubbio, è un'inezia in confronto di quello che potrebbe produrre Tara; ma abbiamo pochi contadini. Il babbo dice che l'anno venturo andrà meglio. Ma com'è malinconica adesso la campagna, se sapeste! Né balli né riunioni; e non si parla d'altro che della tristezza dei tempi! Vi assicuro che non ne posso piú! Finalmente, la settimana scorsa ho sentito che proprio ero stufa, e allora il babbo mi ha consigliato di fare un viaggetto per distrarmi un poco. Perciò sono venuta qui a farmi qualche abito e poi andrò a Charleston da mia zia. Sarà piacevole frequentare di nuovo qualche ballo! «Bene» pensò con soddisfazione «gliel'ho detto proprio come dovevo! Senza aver l'aria troppo ricca, ma neanche troppo povera!» - Siete molto bella vestita da ballo, mia cara; e quel ch'è peggio, è che lo sapete! Probabilmente la vera ragione per cui andate a far visita alle vostre parenti è perché avete esaurito tutti i corteggiatori della Contea e avete bisogno di andare a mietere altre conquiste in campi lontani! Rossella fu ben lieta al pensiero che Rhett avesse trascorso gli ultimi mesi all'estero. Altrimenti, non avrebbe fatto quella ridicola affermazione. Pensò con amarezza ai corteggiatori della Contea: i piccoli Fontaine vestiti di abiti logori, i poveri Munroe, i giovinotti di Jonesboro e di Fayetteville, tanto occupati ad arare, spaccare legna, curare vecchi animali infermi, che avevano completamente dimenticato l'esistenza di cose piacevoli come balli e corteggiamenti. Ma respinse questo pensiero e sorrise ammettendo la verità dell'asserzione. - Andiamo, via! - esclamò. - Siete una creatura senza cuore, Rossella; ma forse questo fa parte del vostro fascino. - Sorrise del suo vecchio sorriso un po' beffardo. - È un fascino veramente eccessivo, il vostro. L'ho sentito perfino io, benché sia cosí indurito... Spesso mi sono chiesto perché avevo cosí vivo il vostro ricordo, mentre ho conosciuto tante signore piú belle di voi, piú intelligenti e, probabilmente, piú buone e moralmente piú oneste di voi. Eppure, non vi ho mai dimenticata. Anche quando, dopo la sconfitta, sono stato in Inghilterra e in Francia, e ho conosciuto tante donne piacevoli, mi è accaduto spesso di pensare a voi e di chiedermi che cosa stavate facendo. Per un momento fu indignata nel sentirgli dire che altre donne erano piú belle, piú intelligenti e piú buone di lei, ma questo pensiero svaní dinanzi alla gioia di sapere che aveva sempre ricordato lei e il suo fascino. Questo le facilitava il compito. Ora bisognava parlare di lui, fargli comprendere che anche lei non aveva dimenticato e poi... Gli strinse dolcemente il braccio e sorrise ancora. - Oh Rhett, perché prendere in giro una ragazza di campagna come me! So benissimo che non vi siete piú ricordato che io fossi al mondo dopo quella notte... Con tutte quelle belle inglesine e francesine... Ma non sono venuta qui per sentirvi dire delle galanterie. Sono venuta... sono venuta... perché... - Perché...? - Perché... ero tanto preoccupata per voi! Tanto spaventata! Quando uscirete da questo orribile luogo? Rapidamente egli le coperse la mano con la sua e la trattenne contro il proprio braccio. - Siete molto carina. Non so dirvi quando potrò uscire. Probabilmente quando avranno tirato un poco piú la corda. - La corda? - Ma sí; immagino che uscirò da qui sospeso a una corda! - Non volete dire che vi impiccheranno...? - Lo faranno se riusciranno ad avere qualche prova di piú a mio carico. - Rhett! - e Rossella si portò la mano al cuore. - Ne avrete dolore? Se sarete abbastanza addolorata, mi ricorderò di voi nel mio testamento. Gli occhi neri ridevano incuranti. Le strinse la mano. «Il suo testamento!» pensò Rossella. E abbassò gli occhi per tema che la tradissero. Ma non abbastanza rapidamente: e gli occhi di lui improvvisamente si accesero di curiosità. - Secondo gli yankees, dovrei fare un bellissimo testamento. Si interessano molto dello stato delle mie finanze. Tutti i giorni mi rivolgono un'infinità di domande stupide. A quanto pare, corre voce che io abbia portato via il mitico oro della Confederazione... - E... non lo avete fatto? - Che domanda! Voi sapete meglio di me che la Confederazione aveva una macchina litografica invece di una zecca. - E da dove veniva tutto il vostro denaro? Speculazioni. Zia Pitty dice... - Che domande insidiose? Dio lo benedica! Certamente aveva il denaro... Rossella era cosí eccitata che ormai trovava difficile parlargli con dolcezza. - Rhett, sono tanto sconvolta all'idea che siate rinchiuso qui dentro... Non vi è nessuna possibilità di uscirne? - Il mio motto è "nihil desperandum". - E che significa? - Significa "forse", mia graziosa ignorantella. Rossella agitò le palpebre frangiate come ali di farfalla. - Siete troppo abile per lasciarvi impiccare! Certo troverete il modo di cavarvela. E quando sarete riuscito... - Ebbene? - chiese Rhett dolcemente, chinandosi ancor di più - Ebbene, io... - Riuscí a fingere un grazioso imbarazzo e ad arrossire. Il rossore non le riuscí troppo difficile, perché era ansimante e il cuore le batteva come un tamburo. - Rhett, sono cosí spiacente di... di quello che vi dissi quella sera... lí, sulla strada. Ero... tanto spaventata e sconvolta e voi... - Abbassò gli occhi e vide le mani brune di lui sulle sue.... E credetti... che non vi avrei mai piú perdonato! Ma quando zia Pitty ieri mi ha detto che voi... che potrebbero impiccarvi... io... io... - Gli lanciò un rapido sguardo d'implorazione in cui mise tutta l'angoscia di un cuore spezzato - Oh, Rhett, se vi impiccassero morirei! Non potrei resistere! Io... - E non potendo sostenere la luce ardente degli occhi di lui, abbassò nuovamente le palpebre. «Sento che sto per piangere» pensò eccitata, frenetica. «Debbo dar corso alle lagrime? Sembrerà piú naturale? Rhett le strinse le mani cosí forte da farle male, mentre mormorava: - Dio mio, Rossella, non volete dire che... Ella chiuse gli occhi cercando di spremerne qualche lagrima, ma volgendo lievemente in alto il viso perché egli potesse baciarla piú facilmente. Fra un secondo la sua bocca sarebbe sulla sua; quella bocca dura che improvvisamente ricordò con un'intensità che parve la svuotasse di tutto il sangue. Ma egli non la baciò. Delusa e stupita, riaperse gli occhi e arrischiò una breve occhiata. Il capo bruno era chino sulle sue mani; egli ne sollevò una e la baciò; poi, prendendo l'altra, se la posò per un momento sulla guancia. Aspettandosi qualche cosa di violento, questo gesto gentile e affettuoso la stupí. Avrebbe voluto vedere l'espressione del suo volto, ma non poté scorgerlo. Riabbassò in fretta gli occhi per timore che egli sollevasse i suoi e vedesse la sua espressione. Era sicura di non poter celare la gioia per il trionfo imminente. Certo fra un minuto le chiederebbe di sposarlo o perlomeno le direbbe che l'amava; e allora... Mentre attraverso le folte ciglia abbassate ella lo guardava, Rhett le rivoltò la mano per baciarne anche il palmo, e a un tratto respirò piú velocemente. Anche Rossella in quel momento vide il palmo della propria mano, come se non lo avesse mai visto, e si sentí mancare il cuore. Era la mano di un'estranea, non la mano bianca, morbida, tutta fossette di Rosella O'Hara. Era una mano indurita dal lavoro, arsa dal sole, screpolata e incallita. Le unghie erano spezzate e irregolari; nel pollice era una vescica in via di guarigione. La cicatrice della bruciatura prodotta il mese scorso dal grasso bollente era lucida e rossa. Rossella vide tutto ciò in un lampo, con orrore, e istintivamente strinse il pugno. Neanche adesso Rhett levò il capo. Neanche adesso ella vide il suo volto. Le riaperse il pugno senza pietà, le prese l'altra mano e rimase a fissarle senza parlare. - Guardatemi - disse finalmente alzando la testa; la sua voce era tranquilla. - E smettete quell'aria umiliata. Involontariamente ella lo guardò con un'espressione di sfida e di turbamento. Gli occhi di lui scintillavano e le sue sopracciglia brune erano inarcate. - Dunque le cose vanno benino a Tara, non è vero? E il raccolto del cotone rende tanto che voi potete andare in giro a visitare i parenti. Che cosa avete fatto con queste mani...? Vangato? Ella cercò di svincolarsi; ma Rhett la trattenne e le posò un dito sui calli. - Queste non sono le mani di una signora - e gliele posò nuovamente in grembo. - Tacete! - ella esclamò provando un attimo di sollievo nel sentirsi nuovamente capace di esprimere i propri sentimenti. - Che cosa v'importa di quello che faccio con le mani? «Che sciocca!» pensò frattanto con ira. «Dovevo farmi prestare i guanti di zia Pitty o rubarglieli. Ma non mi ero accorta che le mie mani fossero in questo stato. E ora ho perso il controllo di me stessa ed ho rovinato ogni cosa!» E questo proprio nel momento in cui stava per fare la sua dichiarazione! - Senza dubbio le vostre mani non mi riguardano - rispose Rhett freddamente e si appoggiò indolentemente alla spalliera della sua sedia con aria ingenua. La faccenda diventava difficile. Chi sa, forse parlandogli con dolcezza... - Siete poco gentile a respingere le mie povere mani, soltanto perché la settimana scorsa sono andata a cavallo senza guanti e me le sono sciupate... - Accidempoli, che cavallo! - La voce di lui era ugualmente calma e dolce. Avete lavorato come un negro, con quelle mani. Perché non dite la verità? Perché darmi ad intendere che le cose a Tara vanno bene? - Ma insomma, Rhett... - Qual'è il vero scopo della vostra visita? Avevo quasi creduto alle vostre moine e stavo per convincermi che eravate addolorata che io... - Ma sí, Rhett, sono addolorata! Davvero... - Niente affatto. Se anche mi appiccassero a non so che altezza, non ve ne importerebbe nulla. È scritto chiaramente sul vostro viso, cosí come il lavoro faticoso è scritto sulle vostre mani. Voi volete qualchecosa da me e perciò avete inscenato questa commedia. Perché non siete venuta a dirmelo francamente? Avreste avuto piú probabilità di raggiungere il vostro scopo, perché se vi è una virtú che stimo in una donna è la franchezza. Ma no: siete venuta qui a far dondolare i vostri orecchini e a fare delle smorfie come una prostituta che spera di accaparrarsi un cliente. Non aveva alzato la voce pronunciando queste ultime parole, ma per Rossella furono come una frustata; ed ella vide con disperazione il naufragio di tutte le sue speranze. Se egli avesse avuto uno scoppio d'ira come a molti altri uomini sarebbe accaduto, Rossella avrebbe ancora trovato modo di prenderlo. Ma la calma mortale della sua voce la sgomentò. Benché fosse un detenuto e nella stanza accanto vi fossero gli yankees, ella comprese improvvisamente che era pericoloso mettersi in contrasto con Rhett Butler. - Evidentemente la memoria mi ha fatto difetto. Dovevo ricordarmi che voi siete come me e non fate mai nulla senza uno scopo. Vediamo, dunque. Che diamine potevate avere in mente, signora Hamilton? Possibile che abbiate supposto che vi avrei chiesta in moglie? Ella divenne di porpora e non rispose. - Eppure non potete aver dimenticato che molte e molte volte ho affermato che non sono tipo da matrimonio! Poiché ella non rispondeva, egli riprese con subitanea violenza. - Non lo avevate dimenticato? Rispondetemi! - Non lo avevo dimenticato - rispose Rossella miserabilmente. - Siete una giocatrice, Rossella - rise Rhett. - Avete creduto che l'essere chiuso qui, lontano da ogni contatto femminile, mi avrebbe messo in tale stato che avrei abboccato all'amo come un povero pesciolino... «E se non fosse stato per le mie mani...!» pensò Rossella con ira. - Ora la verità è venuta fuori; mi manca soltanto conoscere i vostri motivi. Vedete un po' se siete capace di dirmi perché volevate accalappiarmi nella rete matrimoniale. Nella sua voce era una nota soave, quasi beffarda, ed ella riprese un po' di coraggio. Forse tutto non era ancora perduto. Certo non vi era piú da pensare al matrimonio; ma di questo, malgrado la sua disperazione, fu quasi contenta. Vi era qualche cosa, in quell'uomo immobile, che la sgomentava; sicché ora il pensiero di sposarlo le appariva spaventoso. Ma forse, con un po' di abilità e sapendo toccare il tasto dei ricordi, potrebbe ottenere il prestito. Diede al suo viso un'espressione infantile e supplichevole. - Oh, Rhett... potreste aiutarmi... se voleste esser buono! - Non c'è nulla che mi piaccia di piú che l'esser buono. - Rhett, per la nostra vecchia amicizia, vorrei che mi faceste un favore. - Oh, finalmente la signora dalle mani callose viene a dirmi il vero scopo della sua visita. Mi pareva bene che «visitare gli infermi e i carcerati» non fosse il vostro genere. Di che avete bisogno? Denaro? La rudezza di questa domanda distrusse ogni speranza di condurre la faccenda in maniera guardinga e sentimentale. - Non siate cosí cattivo, Rhett! - La sua voce era lusingatrice. - Ho bisogno di un prestito da voi... Trecento dollari. - Finalmente la verità! Si parla d'amore ma si pensa ai quattrini. Com'è femminile questo! E vi occorrono assolutamente? - Sí... Cioè, non assolutamente, ma mi farebbero comodo. - Trecento dollari. È una bella somma. Per che cosa vi serve? - Per pagare le imposte su Tara. - Dunque, vi occorre una sovvenzione. Giacché siete qui per affari, parlerò anch'io da uomo d'affari. Che garanzia mi date? - Come? - Garanzia. Sicurezza della restituzione. Non ho nessuna voglia di perdere una simile cifra. - La sua voce aveva una falsa dolcezza; ma Rossella non la rilevò. Sperava ancora che la faccenda potesse aggiustarsi. - I miei orecchini. - Non mi interessano. - Vi darò un'ipoteca su Tara. - Che volete che ne faccia di una proprietà fondiaria? - Potreste... potreste... è un'ottima piantagione. E non perderete nulla. Vi rimborserò col ricavato del prossimo raccolto. - Non ne sono molto sicuro. - Si appoggiò indietro, alla spalliera della sedia, e si mise le mani in tasca. - I prezzi del cotone stanno scendendo. I tempi sono difficili e il denaro è scarso. - Mi prendete in giro, Rhett! Coi milioni che avete... Gli occhi neri di lui brillavano maliziosamente mentre egli la fissava. - Dunque, tutto va bene e voi non avete un bisogno assoluto di questo denaro. Mi fa piacere di saperlo. Sono ben contento che per i vecchi amici la vita sia abbastanza facile. - Rhett, per l'amor di Dio... - riprese Rossella disperata, perdendo il coraggio e il controllo di sé. - Parlate piú sommessa. Spero che non vorrete che gli yankees vi sentano. Vi hanno mai detto che avete gli occhi di un gatto... di un gatto nell'oscurità? - Non mi tormentate, Rhett! Vi dirò tutto. Ho assoluto bisogno del denaro. Ho... ho mentito in tutto e per tutto. Le cose... vanno alla peggio. Il babbo è... non è piú in sé, da quando è morta la mamma; e non può aiutarmi in nessun modo; è ridotto come un bambino. Non abbiamo un solo contadino per coltivare il cotone e siamo in tanti a mangiare: tredici persone! Le tasse sono altissime. Voglio dirvi tutto, Rhett! Per un anno siamo stati sempre in procinto di morire di fame. Oh, non potete sapere! È terribile svegliarsi con la fame e andare a letto con la fame... E non avere un vestito che dia un po' di calore; i bambini sono sempre raffreddati e sofferenti... - Dove avete preso questo bel vestito? - È fatto con le tende della mamma - rispose, troppo disperata per tacere questa vergogna. - Ho resistito al freddo e alla fame, ma ora... i «carpetbaggers» hanno aumentato le tasse. E bisogna pagare! Non ho che una moneta d'oro da cinque dollari. E se non pago... mi prenderanno Tara! E io... noi non possiamo perdere la nostra terra, la nostra casa! - Perché non mi avete detto subito tutto questo invece di far languire il mio cuoricino suscettibile... sempre debole quando si tratta di belle signore? No, Rossella, non piangete. Avete usato tutti i trucchi possibili, meno questo; e non so se potrei resistere. Ho già il cuore abbastanza lacerato dalla delusione di avere scoperto che volevate il mio denaro e non la mia affascinante persona. Ella ricordò che Rhett spesso diceva delle verità scherzando e lo guardò per comprendere se egli era veramente addolorato. Si interessava davvero a lei? Era realmente stato in procinto di farle una proposta quando si era accorto delle sue mani callose? Ma gli occhi neri la guardavano con un'espressione che non era amorosa, e la bocca rideva beffarda. - Non mi piace la vostra garanzia. Non sono un piantatore. Che altro potete offrirmi? Finalmente era giunto il momento... Coraggio! Trasse un profondo respiro e lo guardò schiettamente, senza civetteria, mentre la sua mente cercava di non indietreggiare dinanzi a ciò che temeva di piú. - Ho... ho me stessa. - Davvero? La linea della mascella di lei si assottigliò e i suoi occhi divennero di smeraldo. - Vi ricordate quella sera, durante l'assedio, sotto al porticato di zia Pitty? Mi diceste... che mi desideravate. Egli si gettò nuovamente indietro, appoggiando la spalliera della seggiola alla parete; il suo volto bruno era impenetrabile. Una luce si agitò un attimo nei suoi occhi, ma egli tacque. - Diceste... che non avevate mai desiderato tanto nessuna donna. Se mi desiderate ancora, Rhett, potete avermi. Farò tutto ciò che vorrete; ma per carità, scrivetemi un ordine per il denaro! La mia parola vi deve bastare. Giuro che non mi trarrò indietro. Se volete, ve lo metterò in iscritto. Egli la guardò in modo strano, sempre impenetrabile; Rossella non avrebbe saputo dire se era divertito o disgustato. Se almeno avesse pronunciato una parola! Ella sentí le fiamme salirle al viso. - E bisogna che io abbia il denaro senza indugio, Rhett. Altrimenti ci metteranno in mezzo alla strada; quel maledetto sorvegliante che era alle dipendenze del babbo vuoi diventare proprietario di Tara... - Un momento. Che cosa vi fa credere che io vi desideri ancora? Che cosa vi fa supporre che potete valere trecento dollari? Generalmente le donne non raggiungono questo prezzo. Ella arrossí fino alla radice dei capelli; non poteva essere piú umiliata di cosí. - Perché fate questo? Perché non lasciate perdere la proprietà e non ve ne andate ad abitare con miss Pittypat? Metà della casa vi appartiene... - Dio benedetto! - esclamò Rossella. - Siete pazzo? Io non posso lasciar perdere Tara. È la mia casa. Non la lascerò finché avrò respiro! - Gli irlandesi - e riabbassò i piedi anteriori della sedia togliendosi le mani di tasca - sono la razza piú infernale che vi sia. Mettono un ardore inverosimile nelle cose piú sbagliate. Per esempio, la terra. Come se una zolla non fosse identica a un'altra zolla... Dunque, stabiliamo chiaramente questa faccenda. Siete venuta da me con una proposta commerciale. Io vi darò trecento dollari e voi diventerete la mia amante. - Sí. Ora che la parola ripugnante era stata detta, ella si sentí sollevata; la speranza si ridestò in lei. Rhett aveva detto «vi darò». Nei suoi occhi era una luce diabolica, come se la cosa lo divertisse sommamente. - Eppure, quando ho avuto la sfacciataggine di farvi la stessa proposta, mi avete messo alla porta. E mi avete gratificato di un certo numero di insulti, aggiungendo che non volevate arrischiare di mettere al mondo «un mucchio di bastardi». Questo lo dico soltanto perché sto cercando di capire le stranezze della vostra mentalità. E tutto questo mi convince una volta di piú che la virtú è semplicemente una questione di prezzo. - Oh, Rhett, continuate pure! Se avete voglia di insultarmi, dite tutto quello che volete, ma datemi il denaro! Ora si sentiva piú tranquilla. Conoscendo Rhett, era certa che egli l'avrebbe tormentata e insultata per vendicarsi del passato e anche del suo recente tentativo. Ebbene, sopporterebbe tutto. Per Tara, valeva la pena. Tutto si poteva sopportare. Rialzò il capo. - Me lo darete? Egli la fissò come se si stesse divertendo, e quando rispose la sua voce ebbe una soave brutalità: - No, non ve lo darò. Le sembrò quasi di non capire. - Non potrei darvelo, anche se volessi. Non ho un quattrino con me. E non ho un dollaro ad Atlanta. Ho un po' di denaro, sí, ma non qui. E non vi dirò quanto né dove. Ma se io cercassi di fare un assegno, gli yankees vi si avventerebbero sopra e non prenderemmo piú nulla, né voi né, io. Che ne dite? Il volto di lei divenne verdastro, e la sua bocca si contorse come quella di Geraldo in una rabbia omicida. Balzò in piedi con un grido incoerente che fece immediatamente cessare il mormorio di voci nella stanza accanto. Con un guizzo di pantera Rhett le fu vicino, mettendole una mano sulla bocca e afferrandola alla vita con l'altro braccio. Ella lottò violentemente, cercando di mordergli la mano, di dargli dei calci, di urlare la sua ira, la sua disperazione, il suo odio, la sua angoscia, il suo orgoglio ferito. Si dibatté e si torse su quel braccio di ferro, ma egli la teneva cosí stretta da farle male; anche la mano che le aveva posto sulla bocca le serrava crudelmente le mascelle. Era pallidissimo sotto il suo colore abbronzato e i suoi occhi erano ansiosi mentre la sollevava completamente da terra; sedette nuovamente, stringendosela al petto, raccogliendola sulle sue ginocchia tutta contorta. - Cara, per l'amor di Dio! Zitta! Non urlate! Altrimenti entreranno qui... Calmatevi! Volete che gli yankees vi vedano in questo stato? Non le importava nulla di essere vista da chiunque; non aveva altro che un feroce desiderio di ucciderlo. Ma si sentí prendere dal capogiro: stentava a respirare; Rhett la soffocava; il busto la stringeva come una morsa di ferro. Udí la sua voce diventare piú fievole e lontana e il volto di lui chino sul suo fu avvolto da una specie di nebbia sempre piú densa, finché non lo vide piú. Tornando in sé, fece qualche lieve movimento: le dolevano tutte le ossa e si sentiva debole e sbalordita. Semisdraiata sulla sedia, era senza cappello; Rhett le dava dei lievi colpetti sul polso, mentre i suoi occhi neri la scrutavano ansiosamente. Il giovine capitano cercava di farle inghiottire un bicchierino di acquavite; gliene aveva sparso metà sul collo. Gli altri ufficiali giravano intorno senza saper che fare, parlando sottovoce e agitando le mani. - Credo... di essere svenuta. - E la propria voce le parve cosí lontana che la spaventò. - Bevi questo - disse Rhett prendendo il bicchiere e accostandoglielo alle labbra. Ella ricordò l'accaduto e lo guardò; ma era troppo stanca per adirarsi. - Ti prego, per amor mio. Inghiottí un sorso e cominciò a tossire; ma egli la costrinse ad inghiottire ancora. Ingoiò e il liquido ardente le bruciò la gola. - Ora mi pare che stia meglio, signori - disse Rhett - ed io vi ringrazio molto. L'idea che io debba essere giustiziato l'ha sconvolta. Il gruppo in uniformi azzurre si agitò un poco confusamente; vi fu qualche sguardo imbarazzato, qualche colpetto di tosse, poi tutti uscirono. - Se posso ancora esservi utile... - disse il giovine capitano soffermandosi sulla soglia. - No, grazie. Uscí e richiuse l'uscio. - Bevete un altro sorso. - No. - Bevete. Bevve ancora; il calore si diffuse per il suo corpo e le diede un po' di forza. Fece per alzarsi in piedi, ma egli la trattenne. - Lasciatemi. Ora me ne vado. - Non ancora. Aspettate un momento. Potreste svenire di nuovo. - Preferisco svenire per istrada piuttosto che stare qui con voi. - Ma io non voglio che vi sentiate male per istrada. - Lasciatemi andare. Vi odio. Egli accennò un debole sorriso. - Questo vi somiglia. Si vede che state meglio. Rossella cercò per un momento di richiamare la sua collera; ma era troppo stanca e debole per potere odiare e provare qualsiasi sentimento violento. La sconfitta le pesava come il piombo. Aveva giocato e aveva perduto tutto. Questa era la fine della sua ultima speranza; la fine di Tara e di ogni cosa. Rimase a lungo con gli occhi chiusi, sentendo vicino a sé il respiro di lui; il calore dell'acquavite diffondendosi nel suo corpo le diede una fittizia energia. Quando finalmente riaperse gli occhi e lo vide, la collera la invase nuovamente. Vedendole aggrondare le sopracciglia, Rhett sorrise. - State meglio. Si vede dal vostro cipiglio. - Sí, sto bene. Ma voi, Butler, siete un odioso farabutto, il piú gran mascalzone che io abbia mai conosciuto! Sapevate benissimo quello che vi avrei detto e sapevate che non potevate darmi il denaro. Avreste dunque potuto evitarmi... - Evitarvi di dire quello che avete detto? Neanche per sogno. Ho cosí poche distrazioni qui! E non ho mai udito nulla di piú piacevole. - Improvvisamente rise del suo vecchio riso beffardo. Udendolo ella balzò in piedi afferrando il suo cappello. Egli la prese per le spalle. - Non ancora! Vi sentite abbastanza bene da poter parlare con un po' di senso comune? - Lasciatemi andare! - Vedo che state bene. E allora ditemi una cosa. Ero io la sola cartuccia che potevate sparare? - I suoi occhi erano attenti e pronti a spiare ogni mutamento del volto di lei. - Che volete dire? - Ero il solo uomo col quale potevate tentare...? - Che ve ne importa? - Piú di quello che immaginate. Ditemi dunque. Avete altri uomini a cui ricorrere? - No! - Incredibile. Non riesco a immaginarvi senza una riserva di cinque o sei innamorati. Certamente qualcuno potrebbe accettare la vostra proposta. Ne sono tanto sicuro che vorrei darvi un piccolo consiglio. - Non so che farmene dei vostri consigli. - Voglio darvelo lo stesso. È la sola cosa che posso darvi adesso. Quando volete ottenere qualche cosa da un uomo, non siate cosí schietta come siete stata con me. Siate piú insinuante, piú seducente. Il risultato sarà migliore. Una volta eseguivate questo gioco alla perfezione. Ma poco fa, quando mi avete offerto la vostra... hm.... garanzia per il mio denaro, siete stata troppo dura. Ho visto degli occhi come i vostri una volta, a venti passi di distanza, durante un duello alla pistola; e vi assicuro che non è una vista piacevole. Ciò non risveglia l'ardore nel petto di un uomo. Non è cosí che si trattano gli uomini, mia cara. Voi state dimenticando la vostra educazione e tutte le arti che vi sono state insegnate. - Non ho bisogno che mi diciate come devo comportarmi - replicò Rossella; e si mise il cappello con le mani tremanti di stanchezza. Fu stupita che egli avesse voglia di scherzare, sentendosi la corda intorno al collo, e sapendo lei in condizioni cosí pietose. Non si accorse neppure che egli aveva le mani sprofondate in tasca, coi pugni stretti, come se facesse uno sforzo contro la propria impotenza. - Allegra - le disse mentre ella si annodava i nastri del cappello. - Potrete venire ad assistere alla mia impiccagione; questo vi farà bene. Salderà tutti i vostri vecchi rancori contro di me... anche quest'ultimo. E io vi nominerò nel mio testamento. - Grazie; ma c'è il pericolo che vi impicchino quando sarà troppo tardi per pagare le tasse - rispose Rossella con una subitanea malizia che superò quella di lui.

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Era una povera creatura, dolce, femminile, abbandonata. E come era coraggiosa! Cercava di guadagnar denaro col suo ago! Ma andare a trattare con gli yankees... questo era troppo. - Non lo dirò a miss Pittypat, ma dovete promettermi che non lo farete mai piú. L'idea che la figlia di vostro padre.... Gli occhi verdi pieni di lagrime lo fissarono smarriti. - Ma, Mr. Kennedy, debbo fare qualche cosa. Devo pensare al mio povero bambino, visto che non c'è nessuno che possa aiutarci! - Siete una donnina coraggiosa; ma la vostra famiglia morirebbe di vergogna. - E allora che debbo fare? - Lo guardò ancora come se pendesse dalle sue labbra. - Adesso non lo so, ma ci penserò. - Oh, come siete buono, Franco... Non l'aveva mai chiamato per nome; e questo gli diede un'impressione di piacevole sorpresa. La povera ragazza era cosí sconvolta che probabilmente l'aveva fatto senza accorgersene. Certo, se egli potesse fare qualche cosa per la sorella di Súsele O'Hara, lo farebbe con gioia. Trasse un fazzoletto di seta rossa e glie lo porse. Rossella si asciugò gli occhi e cominciò a sorridere di un sorriso tremulo. - Sono un'ochetta - disse scusandosi. - Perdonatemi. - Non siete un'ochetta; siete una brava donnina che cercate di portare con disinvoltura un fardello troppo pesante. Temo che miss Pitty non possa esservi molto utile. Ho saputo che ha perduto quasi tutto e anche il signor Enrico Hamilton si trova in cattive acque. Vorrei soltanto avere una casa per offrirvi un ricovero. Ma ricordatevi, miss Rossella, che quando avrò sposato vostra sorella, vi sarà sempre un posto per voi sotto il nostro tetto, e anche per Wade Hamilton. Questo era il momento! Certamente gli angeli e i santi l'aiutavano; perciò le avevano dato l'opportunità. Ella fece in modo di sembrare molto stupita e imbarazzata e aperse la bocca come per parlare in fretta, ma la richiuse subito. - Non ditemi che non sapete che questa primavera diventerò vostro cognato - riprese Franco con gaiezza nervosa. Quindi, vedendo i suoi occhi pieni di lagrime, chiese spaventato: - Ma che c'è? Forse miss Súsele è ammalata? - Oh, no! No! - Ma c'è qualcosa che non va... parlate. - No, non posso! Non sapevo! Credevo che vi avesse scritto... Ma che infamia!... - Scritto che cosa? - tremava. - Fare questo a un brav'uomo come voi! - Ma che ha fatto? - Non ve lo ha scritto? Ah, certo si vergognava troppo! Ed è naturale che si vergognasse! Oh, avere una sorella cosí infame! Franco non riusciva neanche piú a parlare. Col viso color di cenere e le redini allentate fra le mani, la fissava. - Sposa Toni Fontaine il mese prossimo. Oh, come mi dispiace, Franco! Mi dispiace di essere proprio io a dirvelo! Ma era stanca di aspettare e aveva paura di rimanere zitella.

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Nel suo intimo egli si torturava all'idea che Súsele non saprebbe mai la verità e vivrebbe nella persuasione di essere stata abbandonata senza motivo. Probabilmente anche altri pensavano questo e lo criticavano; comunque, egli si sentiva in una posizione falsa. Né aveva modo di uscirne, perché un uomo non può dire che ha perso la testa, e un gentiluomo non può rivelare che sua moglie lo ha preso in trappola con una bugia. Rossella era sua moglie; e una moglie dev'essere rispettata. Inoltre, la sua vanità non gli consentiva di credere che essa lo aveva sposato freddamente e senza nessun affetto. Era piú piacevole credere che si era cosí improvvisamente innamorata di lui che era stata capace di mentire per averlo come marito. Ma Franco tenne per sé le sue osservazioni e la sua sorpresa; egli non poteva insultare sua moglie rivolgendole domande indiscrete che, d'altronde, non avrebbero rimediato a nulla. D'altra parte, non era forse il caso di rimediar nulla, perché il matrimonio prometteva di esser felice. Rossella era una donna deliziosa ed egli la credeva perfetta in tutto; eccettuato il fatto di essere troppo ostinata. Finché le si lasciava libertà d'azione, tutto andava bene; ma quando la si contraddiceva... Nel primo caso era gaia e fanciullesca, rideva, scherzava, gli sedeva sulle ginocchia tirandogli la barba e facendogli desiderare di aver venti anni di meno. Sapeva essere gentile e affettuosa; gli faceva trovare le pantofole accanto al fuoco quando tornava a casa la sera, si preoccupava dei suoi raffreddori, ricordava che del pollo gli piaceva il ventriglio e che metteva tre cucchiaini di zucchero nel caffè. Sí, la vita era piacevole: con Rossella... finché le si lasciava libertà d'azione.

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Ha l'aria cosí abbandonata! Fu un nuovo clamore di voci eccitate; questa volta le due organizzazioni si trovarono d'accordo. - Sulla tomba di uno yankee! - Piuttosto dissotterrarlo e gettare al vento i suoi resti! - Oh, Melly, come hai potuto...! - Hanno ucciso tuo fratello! - C'è mancato poco che non ti ammazzassero! - E il tuo bambino! - Hanno cercato di incendiare Tara! Melania si appoggiò alla spalliera della sedia per sorreggersi dinanzi a quell'ondata di biasimo. - Lasciatemi finire, signore! - gridò supplichevole. - So che non ho il diritto di parlare in questa faccenda perché nessuno dei miei è stato ucciso, eccetto Carlo; e grazie a Dio so dov'è sepolto! Ma vi sono tante fra noi che non sanno dove sono sepolti i loro mariti, figli e fratelli, e... Si sentí soffocare; nella stanza fu un silenzio di tomba. Gli occhi fiammeggianti della signora Meade si incupirono. Ella aveva fatto un viaggio lungo e penoso fino a Gettysburg, dopo la battaglia, per riportare a casa la salma di Darcy; ma nessuno le aveva saputo dire ove fosse stato sepolto. In qualche fossa scavata frettolosamente in terra nemica. E la bocca della signora Allan tremò: suo marito e suo fratello si erano trovati a Ohio durante l'incursione di Morgan e l'ultima cosa che aveva saputo sul loro conto era che erano caduti sulle rive del fiume quando la cavalleria yankee aveva fatto irruzione. Non sapeva dov'erano stati sepolti. Il figlio della signora Allison era morto in un campo di prigionieri nel Nord; e lei, piú povera di tutte, non aveva avuto i mezzi per riportarne la salma a casa. Altre avevano letto sulle liste: «Disperso - probabilmente morto» e non avevano mai piú saputo altro degli uomini che avevano visto partire. La voce di Melania si levò nuovamente nel silenzio. - Le loro tombe sono in qualche luogo, in paese yankee, come le tombe dei loro soldati sono qui... e sarebbe tremendo pensare che qualche donna yankee propone (come ho udito dire da qualcuna) di dissotterrarli per gettare al vento i loro resti... Si udí nella sala un singhiozzo represso. - Ma com'è tranquillizzante il pensare che qualche buona donna yankee... (deve esservene qualcuna, checché si dica!) strappa le erbacce dalle tombe dei nostri caduti e porta loro un fiore! Se Carlo fosse morto nel Nord, sarebbe un conforto per me il pensiero che qualcuno... E non m'importa di quello che voi, signore pensate di me.... - la sua voce si spezzò... - ma darò le dimissioni da tutti e due i Circoli e... estirperò le erbacce da tutte le tombe yankee che troverò e vi pianterò dei fiori... Voglio vedere chi oserà impedirmelo! Con questa sfida finale, Melania scoppiò in lagrime e cercò di avviarsi vacillando verso la porta. Il nonno Merriwether raccontò che dopo questo discorso tutte le signore piangevano abbracciando Melania; la riunione finí con un accordo generale e Melania fu eletta segretaria di tutt'e due le associazioni. - E tutte quante hanno promesso di adoperarsi per le tombe yankee. Il male è che mia nuora voleva che andassi anch'io ad aiutare, visto che non ho nulla da fare. Io ritengo che miss Melly abbia avuto ragione e che le altre avessero torto; ma andare ad estirpare le erbacce alla mia età e con la mia lombaggine! Melania faceva parte del Comitato femminile dell'Orfanotrofio e aiutava a scegliere i libri per l'Associazione Libraria Maschile di recente formazione. Perfino i Tespiani che una volta al mese recitavano una commedia, reclamarono il suo aiuto. Melania era troppo timida per apparire alla ribalta; ma le toccò occuparsi dei costumi, fatti, si capisce, in grandissima economia. Fu lei che diede il voto decisivo nel Circolo di Lettura Shakespeariano perché le opere del poeta fossero alternate con quelle di Dickens e di Bulwer-Lytton piuttosto che coi poemi di Byron com'era stato suggerito da un giovine membro del Circolo che Melania, nel suo intimo, temeva fosse un tipo impertinente e sfacciato. Nelle sere della tarda estate la sua piccola casa debolmente illuminata era sempre piena di ospiti. Non vi erano mai sedie sufficienti e spesso le signore sedevano sui gradini del porticato anteriore, con gli uomini appoggiati alla balaustra o seduti sul prato. A volte Rossella, vedendo gli ospiti che sedevano sull'erba sorseggiando il tè - l'unico rinfresco che i Wilkes potevano permettersi di offrire - si chiedeva come mai Melania potesse esporre la sua povertà cosí, senza vergogna. Ella si guarderebbe bene dal ricevere - specialmente persone di riguardo come quelle che andavano da Melania - finché non potesse arredare nuovamente la casa di zia Pitty com'era prima della guerra e non potesse offrire agli invitati vini scelti e sciroppi, prosciutto e pasticci di cacciagione. Il generale John Gordon, l'eroe della Georgia, si recava spesso in casa Wilkes con la sua famiglia. Padre Ryan, il prete-poeta della Confederazione, non mancava mai di andare a salutare Melania quando si trovava di passaggio per Atlanta e in quelle serate deliziava gli altri invitati recitando loro qualcuno dei suoi poemi. Alew Stephens, l'ex-vice-presidente, era egli pure fra gli assidui; e quando si sapeva della sua presenza preso i Wilkes, la casa si riempiva di gente che rimaneva per ore ed ore sotto l'incanto della voce squillante di quel debole invalido. Di solito vi erano dozzine di bambini col capo ciondoloni per il sonno fra le braccia dei genitori; non vi era famiglia che non desiderasse che i suoi figliuoli potessero piú tardi raccontare di essere stati baciati dall'uomo che aveva tenuto le redini della Grande Causa. E tutti i personaggi eminenti che per una ragione o per l'altra giungevano in città, non mancavano di andare in casa Wilkes dove spesso passavano la notte. In queste occasioni Lydia era costretta a dormire su un materasso nella stanzetta di Beau e Dilcey correva da zia Pitty a farsi prestare le uova per la colazione della mattina seguente; ma Melania intratteneva gli ospiti graziosamente come se fosse stata la dama di un castello. No, Melania non si accorgeva che la gente si riuniva attorno a lei come attorno a una logora e amata bandiera. Quindi fu stupita e imbarazzata una sera quando il dottor Meade, dopo aver passato in casa sua una piacevole serata durante la quale aveva letto il «Macbeth» con delizia dell'uditorio, le aveva baciato la mano dicendole con la stessa voce usata in altri tempi nei discorsi in pro della Causa Gloriosa: - Cara miss Melly, è sempre un privilegio e un piacere venire in casa vostra, perché voi - e le donne come voi - siete il cuore di noi tutti; siete tutto ciò che ci è rimasto. Ci è stato tolto il fiore della nostra gioventú e il riso delle nostre donne. Ci hanno rovinato la salute, hanno distrutto le nostre abitudini, annichilito la nostra prosperità, ci hanno ricacciato indietro di cinquant'anni e hanno collocato un fardello troppo pesante sulle spalle dei nostri ragazzi che dovrebbero andare a scuola e dei nostri vecchi che dovrebbero godere il sole. Ma potremo ricostruire, perché abbiamo dei cuori come il vostro su cui posare le fondamenta. E fintanto che abbiamo questa ricchezza, si prendano pure tutto il resto, gli yankees!

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No, Rossella non ricordava volentieri l'aspetto della contea abbandonata. Sembrava ancor piú triste di quanto non fosse in realtà, a paragone del movimento di Atlanta. - E qui, c'è niente di nuovo? - chiese quando furono finalmente a casa, seduti sotto al porticato. Per tutta la strada aveva continuato a discorrere, per paura del silenzio. Non aveva scambiato una parola da sola con Rhett dal giorno della sua caduta, e non era troppo ansiosa di restare a quattr'occhi con lui. Ignorava quali fossero i suoi sentimenti verso di lei. Era stato di una grande bontà durante la sua convalescenza; ma era la bontà di un estraneo indifferente. Aveva prevenuto i suoi desideri, impedito ai bambini di infastidirla, sorvegliato il negozio e l'azienda. Ma non aveva mai detto «Perdonami». Forse non era neanche addolorato. Forse continuava a credere che il bambino che non era nato non era suo figlio. Come poteva, Rossella, sapere ciò che si nascondeva dietro a quel viso bruno e simpatico? Però, in quel periodo aveva mostrato una certa disposizione alla cortesia, per la prima volta da quando erano sposati; e il desiderio di lasciare che la vita proseguisse come se fra loro non vi fosse mai stato nulla di spiacevole. «Come se...» pensa tristemente Rossella «fra loro non vi fosse mai stato nulla addirittura.» Ebbene, se era questo che desiderava, lei si comporterebbe nello stesso modo. - Tutto va bene - ripeté. - Hai avuto i nuovi embrici per la bottega? Hai cambiato le mule? Per carità, Rhett, togliti quelle penne dal cappello. Sembri uno scervellato, e sei capace di andare in città senza ricordarti di levarle! - No - fece Diletta prendendo il cappello di suo padre. - Tutto va bene qui - rispose Rhett. - Diletta ed io ci siamo divertiti; credo che non sia mai stata pettinata dopo la tua partenza. Non rosicchiare le penne, tesoro; sono cattive. Sí, gli embrici sono a posto; per le mule ho fatto un buon affare. Veramente non c'è niente di nuovo: tutto procede regolarmente. Poi, dopo un attimo riprese: - L'egregio Ashley è stato qui ieri sera. Voleva sapere se tu saresti disposta a cedergli il tuo stabilimento e la parte che hai nel suo. Rossella che si stava cullando in una sedia a dondolo e sventolando con un ventaglio di penne di tacchino, si fermò bruscamente. - Cedere? E dove diamine ha preso il denaro? Sai che non hanno mai un centesimo. Melania spende subito tutto quello che suo marito porta in casa. Rhett si strinse nelle spalle. - Ho sempre pensato ch'ella fosse una personcina molto economa. Ma non sono informato sui particolari delle finanze dei Wilkes come sembri esserlo tu. Era una frase nel vecchio stile di Rhett e Rossella ne fu seccata. - Vai, cara - ella disse a Diletta. - La mamma ha bisogno di discorrere col babbo. - No - rispose risolutamente Diletta arrampicandosi sulle ginocchia paterne. Rossella aggrottò le sopracciglia e Diletta la guardò a sua volta con un cipiglio tanto rassomigliante a quello di Geraldo O'Hara che sua madre quasi rise. - Lasciala stare - intervenne Rhett. - Quanto al denaro, pare che gli sia stato mandato da un tale a cui egli prestò assistenza a Rock Island, quando costui aveva il vaiolo. Il fatto che la riconoscenza esista ancora rinnova la mia fede nella natura umana. - Chi è? Una persona che conosciamo? - La lettera non era firmata e veniva da Washington. Ashley ha stentato a capire chi poteva averla mandata. Ma è naturale che un individuo come Ashley vada compiendo tante buone azioni nel mondo che gli è impossibile ricordarle tutte. Se non fosse stata enormemente stupita per la fortuna inattesa di Ashley, Rossella avrebbe raccolto il guanto, quantunque durante il suo soggiorno a Tara si fosse proposta di non lasciarsi mai piú trascinare a litigare con Rhett a proposito di Ashley. I suoi rapporti coi due uomini erano troppo incerti: ed ella non aveva intenzione di eccitarsi in proposito finché non fosse sicura del fatto suo. - E vuol comprare? - Sí. Ma gli ho detto che certamente tu non pensi di vendere. - Ti prego di lasciare che mi occupi io dei miei affari. - Mah, so che non hai nessuna voglia di rinunziare all'azienda. Gli ho detto che tu non sopporteresti di non ficcare il naso negli affari altrui... - Hai osato dirgli questo? - Perché no? Non è la verità? Credo che in cuor suo fosse d'accordo con me; ma è troppo gentiluomo per convenirne. - Non è vero! Gli venderò l'azienda! - esclamò Rossella. Fino a quel momento non aveva pensato affatto ad abbandonare la sua industria. Per molte ragioni desiderava conservarla; e il suo valore finanziario era il motivo meno importante. Negli ultimi anni aveva avuto piú volte occasione di venderla ad ottime condizioni, ma aveva sempre rifiutato. Gli stabilimenti erano la prova evidente di ciò che aveva fatto con le sole sue forze, ed ella ne era orgogliosa. Inoltre rappresentavano il solo contatto possibile con Ashley. Se li avesse venduti, avrebbe avuto assai raramente occasione di vederlo, e probabilmente non lo avrebbe mai visto solo. E voleva vederlo; voleva sapere quali erano adesso i suoi sentimenti verso di lei, se il suo amore era morto, seppellito dalla vergogna, in quella terribile sera del ricevimento. Rimanendo in rapporti di affari, avrebbe avuto l'opportunità di parlargli, senza che nessuno potesse fare osservazioni. E col tempo, ella avrebbe certo riconquistato il terreno che forse aveva perduto nel suo cuore. Ma se vendeva gli stabilimenti... No; non aveva voglia di venderli; ma stimolata dall'idea che Rhett l'aveva fatta apparire ad Ashley in cosí cattiva luce, aveva immediatamente mutato pensiero. Ashley avrebbe l'azienda, e a prezzo cosí favorevole che sarebbe costretto a riconoscere la sua generosità. - Voglio vendere!... - esclamò adirata. - Che ne pensi, adesso? Negli occhi di Rhett passò una lievissima luce di trionfo mentre egli si curvava ad allacciare una scarpina di Diletta. - Credo che te ne pentirai - rispose. Ella era già pentita delle sue parole impulsive. Se le avesse dette dinanzi a chiunque altri che Rhett, le avrebbe ritrattate senza vergogna. Perché precipitare in quel modo? Guardò suo marito con la fronte aggrondata e vide che la stava osservando col suo antico sguardo ansioso di gatto dinanzi alla tana di un topo. Quando le vide aggrottare le ciglia, rise improvvisamente, con un balenío dei suoi denti bianchi. Rossella intuí vagamente che egli l'aveva costretta in quella posizione. - C'entri per qualche cosa in questo? - gli chiese furibonda. - Io? - Inarcò le sopracciglia con sorpresa beffarda. - Dovresti conoscermi meglio. Non compio mai delle buone azioni io... se posso farne a meno.

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Il romanzo della bambola

222118
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
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Un giorno la governante, avvezza com'era alle stravaganze della Marietta, perch'ella l'aveva veduta nascere, s'accostò alla pupattola abbandonata, se la prese in braccio e la ripose in un armadio, dicendo a voce alta, con un sorriso malinconico: - Tanto, prima che ti ricerchino ci sarà un pezzo! Se un lungo spillo avesse trapassato il petto della Giulia, le avrebbe fatto meno male di quelle parole. Dunque, ella non era più un oggetto di desiderio! Era inutile, finita. La Marietta, fanatica del Moro, non pensava che alle sue passeggiate a cavallo. Già era stata tre volte fino a Bellavista, una tenuta de' Rivani, fuori di porta San Sebastiano; e raccontava, rossa dal piacere, come l'ammirassero quando passava sul suo puledro cosi piccolo, con dietro il servitore montato sur un cavallo grande. Gli occhi della gente erano tutti per lei. Le faceva fare una cosi bella figura, il Moro! La povera Giulia ripensava tutto ciò nel buio dell'armadio, più nero d'una prigione, e ripensava anche ai giorni di malattia della Marietta, quando ella le avea tenuto una compagnia buona e fedele distraendola e divertendola. Più dell'esser lasciata lì sola, senza che la bimba richiedesse di lei; più ancora dell'averle tolto la luce e l'aria, l'addolorava l'ingratitudine della sua piccola amica. Questo strazio poteva perdonarglielo, ma dimenticarlo giammai! Un dopo pranzo, intese aprire l'armadio in fretta. Erano le donne, venute a prendervi della tela per fasciare una gamba alla Marietta, che il cavallino aveva buttata a terra. Se la bambola fosse stata d' animo cattivo avrebbe detto: - Ben le sta, perchè ha lasciata me per il Moro! - invece ella sofferse del brutto accidente, sperando, in cuor suo, che mentre la bambina stava in letto, avrebbe richiamata lei vicino a sè, lei che non le aveva mai fatto il più piccolo male dacchè s'erano conosciute. Ma i giorni passarono; passarono forse dei mesi, che nella vita di una bambola rappresentano tanti anni de' nostri; e nessuno venne a tirarla fuori, a consolare la sua profonda afflizione. L'oscurità, la solitudine; la solitudine, l'oscurità, non altro, in quell'armadio, dov'ella era in mezzo ai vecchi vestitini della Marietta: certi spogli destinati a darsi per elemosina. E si era addormentata d'un sonno grave, senza sogni, un sonno da cosa, non da essere che sente e pensa e gode e soffre. Così avrebbe voluto, magari, finir la sua piccola vita, cominciata troppo bene per poter andar avanti sempre allo stesso modo: perchè a questo mondo non durano di continuo nè il bene nè il male, e bisogna contentarsi, pigliando con coraggio quello che Dio ci manda. Se ne stava, dunque, immobile e triste, le braccia aperte, il corpicino coperto di polvere, quando, una notte, le parve udire un rumor leggiero, insistente, eguale, come quello d'una piccola sega che lavori. Stette in ascolto un pezzo. Non era la chiave che girava nella serratura; la chiave non fa quel rumore. O allora, che cosa poteva essere? I ladri? Ma i ladri, se per disgrazia càpitano in casa, scassinano i mobili, presto e senza dare l'allarme. I topi, dunque? I topi, Dio mio! Uno spavento terribile la invase. Aveva inteso, una volta, la signora de' Rivani dire che i topi le avevano rovinato una dozzina di lenzuoli in tela di Fiandra, de' merletti antichi di grande valore e anche altra roba. Sicchè i topi erano terribili se, affamati come sogliono essere, arrivano a buttarsi su qualcosa. Il rumore della piccola sega durò tutta la notte: tacque il giorno, perchè qualcuno, entrando in guardaroba per cavarne una cosa o un'altra, impauriva il topo, che ricominciava però subito il suo lavoro monotono, non appena il silenzio tornava a regnare in casa. Ah, se la Giulia avesse potuto chiamare, avvertire che c'era il nemico lì accosto, lì dentro; chiedere aiuto, misericordia, pregando che la si levasse da quel luogo dove aveva paura come una povera bimba in pericolo!... Ma no, no, sempre no! Non poteva da sè sola metter fuori la voce, non poteva alzar le mani e bussare, bussar disperatamente come avrebbe voluto, co' piccoli pugni stretti... Bisognava aspettare, come un pezzo di stoffa qualunque, l'ora de' patimenti più atroci, forse chi sa? l'ora della morte, s'egli era destinato ch'ella dovesse morire così, senza più rivedere il sole. Il topo si avanzò nell'ombra, sicuro di non essere disturbato da alcuno nella sua opera di distruzione; corse qua e là per l'armadio, fiutò, tornando indietro, andando avanti... Se le bambole potessero sudar freddo, la povera Giulia avrebbe avuto i bei capelli biondi tutti intrisi alle tempie, tanto era il suo terrore. Si raccomandò al cielo; ma in cielo ci sono i santi che, a volte, proteggono le bestie, perchè le amarono in vita, come sant'Antonio, san Francesco, san Benedetto, san Rocco; nessuno protegge i giocattoli, abbandonati da tutti quando li abbandonano i bambini. Nelle sue corse rapide, il sorcio le si accostò parecchie volte; poi, da bravo, forse perchè glie n'era piaciuto l'odore, si mise a rosicchiarle una scarpina, una delle sue belle scarpine di cuoio bronzato. Dati i primi morsi, staccò un pezzetto della suola sottile di pelle di guanto; e per un poco, finchè non ebbe terminato il boccone, la Giulia non sentì più scosse. Ah, fosse finito lì il suo spavento! Ma che! L'animale, fatto un foro nella scarpa, attaccò la calza di seta, che i suoi denti lunghi e puntuti ragnarono tutta. Allora principiò per l'infelice pupattola il martirio di sentirsi divorar lentamente il povero piccolo piede, senza poterlo ritirare, anzi, dovendolo abbandonare inerte, come cosa morta. Le sembrava che, insieme al piede, la bestia le dilaniasse il cuore, la testa, ogni nervo del corpicino. Perchè, perchè non veniva ora la sua Marietta a strapparla di lì, a salvarla? Nessuno! Nessuno si ricordava piú di lei, rifiutata, buttata via senza pietà, come un impiccio, come un limone spremuto. Dal buco fatto nella pelle fina del roseo pieduccio, una ferita orrenda, la segatura scorreva, e ne' sussulti impressi dal topo nel roderla, si vuotava parte della gambina; che rimase poi lì con la sua pelle floscia, cadente, quando l'animale si fu ben impinzato e volle mutar cibo. Fuori, l'inverno era finito, e la primavera, con le sue magnifiche giornate, già tiepide e odorose di fiori, invitava a lasciar la città per i semplici divertimenti all'aria aperta della bella campagna. Anche per i signori de' Rivani era prossima la partenza; e già si facevano in casa tutti i preparativi. Il Moro era stato il primo a esser nominato dalla Marietta tra le cose da portare con sé. Con lui ella avrebbe fatto chi sa quante galoppate allegre per il bosco, sotto gli alberi, dove anche a mezzogiorno c'è ombra. Si trattava di condurlo perfino ai bagni di Viareggio; per le gite lungo la spiaggia e le colazioni nella pineta, dove tutte le sue amiche e più ancòra le bambine conosciute colà l'avrebbero invidiata. Innanzi di lasciare Roma per tutti i mesi della villeggiatura, la signora de' Rivani soleva fare una distribuzione degli oggetti usati di vestiario alle sue persone di servizio e a' suoi poveri; ma prima che agli altri alla famiglia della propria sorella, signora Amalia Cerchi, mamma di Camilla: una signora che, come abbiamo detto, s'era maritata male ed era poco felice. Alla signora Amalia e a Camilla, dunque, venivano, quasi di diritto, gli oggetti migliori fra quelli scartati; e si dava loro anche roba addirittura nuova perchè non si mortificassero. Quell'anno, poi, c'era un monte di vestiti, di sottane, di mantelletti, una sfilata di cappelli, e scatole di guanti, e cassette di scarpe; più regali del solito, perchè anche il signor Giovanni aveva inzeppato il guardaroba al suo ritorno da Milano. Nella stanza degli armadi, davanti agli sportelli spalancati, stavano la signora de' Rivani con la signora Amalia e le due cuginette: la Marietta e Camilla. Nessuna persona di servizio assisteva a quella scelta, per non offendere la miseria della signora Cerchi. - Questo non lo prendo, sai - diceva la signora Amalia alla sorella, tenendo in mano un abitino di velluto - perchè per Camilla è troppo bello. - No, anzi, prendilo; l'ho messo da parte proprio per lei - insisteva la madre della Marietta.

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Chi sa dove era andata a finire la roba della povera Giulia, mentre la Marietta la lasciava cosi abbandonata rovinarsi in fondo a un armadio! - Non importa, non t'incomodare, zia - disse Camilla con gentilezza - io so un po' cucire, e nell'ore che non sono a scuola le farò io un vestitino con qualcosa di mio che non porto più. La Marietta, che rientrava allora in guardaroba, a corsa, dopo aver inutilmente cercato il famoso baulino, osservò che doveva esservi una bella differenza tra gli abiti che la sua pupattola aveva prima e quelli che avrebbe avuti ora: osservazione che sua madre troncò con un: - Taci! - ben meritato. Era vero; la Giulia era entrata in quella casa circondata da un lusso straordinario per una bambola; e ne usciva povera, con soltanto l'abito, ormai sgualcito, che teneva in dosso. Ma c'era entrata accolta dal capriccio, e ne usciva accompagnata dall'amore; e per un essere che ha sentimento, il cambio non era poi cattivo. Il cuore tiene luogo di molta ricchezza; Camilla non avea che il suo povero cuore di bimba diseredata da offrirle; ma la Giulia aveva sofferto abbastanza, trascinata da un mobile all'altro, rinchiusa dentro l'armadio come uno straccio in disuso, perchè non le importasse più nulla, nè di balli, nè di cene, nè di gite in carrozza, nè di case signorili. Capiva che il carattere di quella bambina era serio, che il suo cuore era buono, costante; e un benessere nuovo, un sentimento di sicurezza de' più dolci la riempivano di gioia, di serenità. Povera e felice! non si curava di tutto quanto lasciava dietro a sè di frivolo. Avrebbe fatto vita nuova... pelle nuova - almeno nel piedino straziato. Sicchè disse addio, malinconica ma senza rimpianti, alla elegante casa de' Rivani, dove aveva conosciuto la vita di chi si diverte, non quella di chi è amato davvero. La Marietta la vide andarsene senza farle una carezza, senza darle un addio, senza nè anche prenderla in braccio un'ultima volta: ormai, agli occhi suoi, la Giulia era un balocco guasto e null'altro. Nel cortile, dappiede alle scale, il Moro insellato per la passeggiata a Villa Borghese, aspettava, tenuto per la cavezza, la padroncina, sbuffando e raspando, co' segni della più viva impazienza. Girò la testa quando la signora Amalia e Camilla scesero le scale. La bambola avrebbe voluto stringersi ancòra più alla sua nuova amica; fissò gli occhi sul cavallo capriccioso come la Marietta... e se le lacrime del cuore potessero filtrare attraverso il vetro, due lacrime, forse, avrebbero rigato quel visetto di porcellana rosea, nell'ultimo distacco dalla prima persona amata.

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

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Misteri del chiostro napoletano 6 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Abbandonata alla più cupa, disperazione non cessò di ripetere le mille volte ch'ella era irreparabilmente dannata. Orride, strane allucinazioni sopravvennero a funestarle gli estremi istanti. Di notte tempo mentre tutte dormivano, tranne due o tre che vegliavano al suo fianco, gridava: "Questo luogo è infestato da' demonii.... eccoli là.... li veggo.... uno per uno! Ohè, perchè tu in codesto angolo fai mille sberleffi? E tu in codest'altro, perchè scuoti le pareti, urtando colle corna la soffitta?" Altre volte diceva: "E voi, anime innocenti, non contaminate d'impurità, fuggite, involatevi presto dal mio contatto! Se ne usciste macchiate, ohimè, non basterebbero tre anni di penitenza a purgarvene!" Le monache perfettamente convinte che la delirante fosse ossessa da spirito maligno, pensarono di farla esorcizzare da un monaco crocifero; nè è a dire l'universale spavento all'idea che il monastero fosse invaso da' demonii. L'esorcismo fu praticato con imponente solennità, ma non ebbe alcun effetto. Le monache tutte affollate nel luogo della cerimonia, e facendosi continuamente segni di croce, si aspettavano a bocca aperta di veder sbucare dal corpo dell'invasata la figura di Satanasso; ma la curiosità loro fu delusa: non era ancor vicino il nono mese. Il sacerdote non potè entrare nella stanza per recitare qualche prece, se non nel solo momento in cui l'infelice esalava lo spirito. Restitui essa l'anima al Creatore intorno al vespro. La beltà che nell'assenza della ragione erasi spenta, riapparve commovente sull'esanime spoglia di quella infelice. Quale serenità rifluì allora sulle sue fattezze, insino a quel punto sconvolte dalla follía, tramutate dall'occulto cordoglio! Era sul tramonto. Un raggio di sole morente, dardeggiato traverso le imposte della finestra, venne per un momento a posarsi sul sembiante della morta, a baciarle tremolando la punta delle ciocche..... Anche quel messaggiero della divina misericordia un momento appresso era scomparso! Ella se n'era ita libera: io rimaneva. Sfogliai un mazzo di purpurei garofani, e ne versai un pugno sul corpo della defunta.

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Mi spogliò allora, assistita dalla fantesca, e mi mise in letto, dove, non sì tosto entrata, fui colta dal primo di quegli attacchi nervosi, che non mi hanno più abbandonata, e de' quali sovente fui sul punto di restar vittima. Mi fecero odorare de' sali. Il mio petto era ansante, le fauci inaridite, un fortissimo freddo facevami balzare sul letto. Dopo un'ora soltanto, le lagrime poterono farsi strada, e scorrere abbondanti per le guancie. Mio padre, dotato d'impareggiabile mansuetudine, aveva interamente abbandonata alla moglie la direzione delle figlie, nè mai si opponeva alle risoluzioni di lei, credendole sempre convenienti. Saputo adunque l'accaduto, egli acconsentiva alla sentenza che escluder doveva Domenico dalla nostra società. Questi, ignaro di tutto, non mancò di venir quella sera, secondo l'usato. Notò l'assenza mia, ma credette sul principio che qualche cura impreveduta m'avesse trattenuta in altra stanza. Frattanto il tempo scorreva; non vedendomi punto comparire, cominciò a sospettare del vero, e se ne turbò. S'accostò a mio padre, il quale, incapace d'usare scortesia a chiunque, lo trattò come sempre. S'appressò a mia madre: fu agghiacciato dalla severità di lei, ch'egli non aveva notata nell'entrare in sala. Attese adunque palpitando l'opportunità per potersi avvicinare a Giuseppina, che in quel momento stava discorrendo con giovanette della sua età. "La signora Enrichetta è malata forse?" domandò finalmente, non appena si fu aperto un varco sino alla sorellina. "Sì;" rispose questa, fissando la madre. "Ma ieri stava tanto bene!" La sorella tacque. Dopo una lunga pausa, Domenico ripigliò: "È pure strano il cangiamento della Marescialla a mio riguardo! Ditemi, signorina, ve lo chieggo in grazia, sarebbe forse la malattia di vostra sorella cagionata dall'essermi seduto un istante a lei vicino ieri sera?" "Credo di sì." "Dio buono! Pare che la signora madre sia andata in cerca d'un pretesto per allontanarmi. Sono stati tanto innocenti i nostri discorsi, tenuti d'altronde in sua presenza, che non so a qual altro motivo attribuire la mia disgrazia." Il giovine trasse un sospiro, e continuò: "Ebbene..... non verrò più! Sia fatta la volontà di vostra madre! Vogliate però assicurare vostra sorella, che niente avrà la forza di cangiare il mio cuore per lei." Si alzò, e senza prendere commiato, senza guardare alcuno, celermente uscì. - Sera nefasta della mia vita! I tuoi affanni non saranno cancellati giammai dalla mia memoria! La separazione non poteva che esacerbare le furenti gelosie di Domenico. Per mezzo dell'amico suo mi fece conoscere, che se io voleva dargli una prova della mia costanza, doveva astenermi dal ballare con chicchessia. Niente di più confacevole al mio cordoglio: promisi d'astenermene totalmente. Una sera mi posi al piano-forte mentre si ballava una quadriglia. "Perchè non balli?" venne a domandarmi la madre, atteggiata di sdegno. "Non mi sento bene." "Vorresti, ragazza darla ad intendere a me! Qui, non m'inganno, ci deve star sotto qualche divieto dell'amante....." "Vi assicuro che....." "Bada che non soffro capricci. Alzati e balla!" Mi convenne ubbidire; ma fui tratta della danza in uno stato non lontano dal deliquio. Nè s'arrestarono lì i rigori della madre. Saputosi che Domenico ronzava l'intera notte intorno alla nostra casa per osservare i passi di coloro che ci visitavano, e conoscere se fra quelli vi fosse per avventura qualche rivale, mi venne imposto di non affacciarmi ad altra finestra, se non a quella solamente che non dava sulla via maggiore, ed era riparata da ogni parte. Se l'incalzare delle restrizioni ebbe per effetto di fomentare sino allo stato di frenesia l’umore naturalmente permaloso, e la passione fosca del giovine, io, dal canto mio, mi trovai in una di quelle crudeli alternative, dalle quali impossibil cosa è l'uscir senza discapito. Relativo a questa mia situazione avvenne in quel mentre un fatto, che mi credo in dovere di non passare in silenzio. Messina, cospicua città, situata, come si sa, a dodici miglia di distanza da Reggio, e divisa da quello stretto che in tempo procelloso fa impallidire il più esperto nocchiero, suole festeggiare con pompa solenne l'Assunzione della Vergine per quattro giorni, che cominciano al 12 e finiscono al 15 d'agosto. Questa festa, singolare miscuglio di sacro e di profano, di cristiano e d'idolatrico, di costume europeo e di indiano, mette in gran movimento le genti de' paesi limitrofi e delle Calabrie. Due smisurati cavalli di carta pesta, montati da due giganti della stessa materia, veggonsi drizzati nella piazza dell'Arcivescovado. Una pelle di cammello, da' Messinesi chiamato Beato (non so perchè) copre due altri uomini della plebe. Il cammello si accosta ai venditori d'ogni genere, e questi, per devozione, intromettono nella bocca spalancata del questuante quadrupede una porzione della loro merce, la quale viene raccolta in sacchi per le spese della festa. La parte più rilevante della solennità consiste nella seguente processione: Una macchina enorme è condotta per la città. Sopra la stessa sono messi in movimento rotatorio parecchi pezzi, simboleggianti i corpi celesti, come il sole, la luna, i pianeti ec. Vi sono pur fatti rotare de' cerchi, che grandi alla base, vanno impicciolendosi alla sommità. Bella e sontuosamente fregiata è quella macchina, eretta e posta in azione ad onore di Colei che diede la luce al Dio della carità! Ma le sue funzioni ti rammentano il famoso carro di Jagganatha, o le nefande ecatombe de' Druidi. A quella vista ti rifugge il cuore, nè puoi contenerti dal gridare all'orrenda barbarie. A' raggi del sole, della luna, e intorno a' cerchi sono legati de' bambini lattanti, le cui snaturate madri, mercè il vile guadagno di pochi ducati che dà loro l'impresario dello spettacolo, li fanno simboleggiare gli angioletti che accompagnano l'Assunta al cielo. Questi innocenti pargoletti, non d'altro colpevoli se non d'essere nati figli di madri inumane, e d'aver veduto il mondo in un secolo non abbastanza dirozzato, scendono o morti o moribondi dalla ruota fatale, dopo di aver girato in sensi opposti per sette ore. Terminate la festa, o per meglio dire, giunto al termine il sagrifizio, accorrono stipate, affollate, urlanti le madri, l'una respingendo l'altra, questa bussando quella, e tutte di conserva impazienti di verificare se morta o salva sia uscita la respettiva loro creatura. Comincia allora una scena d'altro genere, che talvolta finisce con ispargimento di sangue. Non essendo, pel grande numero, facili a riconoscersi dalle madri i sopravvissuti figli, l'una disputa all'altra il frutto delle sue viscere, mentre le imprecazioni delle disputanti e i lamenti delle più addolorate si mescolano agli scherni assordanti degli spettatori e a' fischi della ciurmaglia. Quelle poi fra le devote, che tornano in casa loro prive del proprio figlio, consolansi dicendo, che Maria, invaghitasi dell'avvenente angioletto, ha voluto menarlo seco lei in paradiso. Appagate da tale convinzione, s'intrattengono a banchettare colle femmine del vicinato, infino a che scialacquato sia del tutto il prezzo ottenuto, non dubitando di percepire da' preti ulteriori soccorsi, in memoria de' loro angioletti involatisi gloriosamente a' beati Elisi. Avvicinavasi dunque il tempo di questa festa, manifestazione di uno de' sopraddetti tre F Borbonici. I nostri amici, unitamente a' miei genitori, progettarono di assistervi. La brigata era di quaranta persone, ed una sarebbe stata la casa che doveva alloggiare tutti. Io mi trovava agitata, immaginando il cruccio che avrebbe arrecato a Domenico l'annunzio di tale divertimento, perchè nella brigata s'erano insinuati dei giovani, pe' quali egli sentiva un'ingiusta, ma pure straziante gelosia. Ve n'era uno fra gli altri, il quale, ignaro del nostro amore, aveva confidato a Domenico stesso il segreto della simpatia che disgraziatamente io gli aveva ispirata. Appena seppe il progetto, si abbandonò alle più spropositate smanie, e col solito messo mi fece conoscere, che se avessi lasciato Reggio si sarebbe ucciso. Invano Paolo, l'amico suo, gli fece osservare che esigeva da me cosa superiore alla mia volontà, non essendo presumibile che i miei genitori volessero lasciarmi sola; nè d'altronde potendo io lottare contro il loro comando. Cercò persuaderlo co' più efficaci argomenti, promettendogli inoltre ch'egli stesso non si sarebbe mosso dal fianco mio, e m'avrebbe dato il braccio nelle passeggiate, per evitare ch'altri mi avesse approssimata. Gli giurò di più, in nome dell'amicizia che li univa, come schietto e sincero, che al suo ritorno gli avrebbe reso conto della mia condotta rispetto ai rivali immaginarii. Rassicurato alquanto da questa promessa, mi precedette di poche ore nel viaggio; talchè, non appena giunti al porto di Messina, lo vidi lungo il molo che stava aspettandomi. Egli ci seguì da lontano, e conosciuta la nostra dimora s'installò in un caffè, donde senza esser veduto da mia madre, potea vedere i balconi della casa da me abitata. Paolo mantenne puntualmente la promessa. Si allogò a me dappresso, come l'ombra mia stessa, facendo del corpo suo una barriera insormontabile per ogni altra persona che avesse voluto avvicinarmisi. Mi sapeva mill'anni che, scevro di qualche dispiacere, giungesse l'ultimo giorno della festa. - Disgraziatamente non fu così. Erano le nove di sera, allorchè Paolo mi disse che usciva un momento solo, per fare acquisto d'un oggetto che gli era necessario. "Fate presto, Paolo, per carità," gli dissi: "sapete bene che alle dieci dovrò seguire la brigata al palazzo della Borsa." "Sì," rispose; "ma c'è un'ora ancora di tempo, ed io chiedo solamente pochi minuti." Ciò detto, se ne partì. Non aveva appena scesa la scala, che mia madre ordinò a me e a Giuseppina di prepararci per uscir di casa. "Ma che faremo," le dissi, "sino alle dieci, ora fissata per recarci alla Borsa?" "Andremo attorno per godere della luminara." "Non siamo tutti," soggiunsi: "manca ancora qualcuno della comitiva." "Chi manca ci raggiungerà," replicò essa in tuono che non ammetteva replica. Mi tacqui, e feci lentamente gli apparecchi necessari, colla speranza che Paolo esser dovesse di ritorno per darmi il braccio. Mia madre, Giuseppina, e gli altri aspettavano già pronti che mi unissi a loro. Strappai un bottoncino dal guanto, e pregai che avessero la pazienza di attendermi, finchè con un ago me lo riattaccassi. "Inutile!" fece mia madre in collera. "Eccoti uno spillo, che farà le veci del bottoncino." Presi lo spillo, e seguii la brigata, guardando affannosamente se Paolo arrivasse. Una voce mi scosse: "Signorina, poichè il vostro cavaliere è assente, vorrete gradire il braccio mio, invece del suo?" Alzai gli occhi: era quel desso, che aveva detto a Domenico sentire particolare simpatia per me... - Oh, Dio, quale imbarazzo! Come fare per disimpegnarmene? - Restai in forse, se accettare, o bruscamente ricusare. Mia madre mi guardava fissa; parecchi altri signori avevano udita l'offerta. L'urbanità, la confusione, il timore prevalsero. Gli porsi il braccio per metà, come se paventassi qualche contagio, e seguitai il cammino senza far motto. Allo svolgere della strada, non ostante l'immensa calca di gente, chi mi veggo innanzi? Domenico. Egli moveva alla volta mia. Il lividore di un morto è forse minore di quello che copriva il suo volto: aveva l'aspetto d'un vampiro infuriato. Guardò biecamente, ferocemerte il mio compagno, indi, volto quell'occhio terribile su di me, avventossi, come per atterrarmi, pronunziando parole inintelligibili. Misi un grido. Il frastuono della strada, per buona fortuna, lo coprì. Frattanto la folla mi aveva separata da Domenico, e siccome opposte eran le vie che facevamo, egli tirò per la sua, noi proseguimmo la nostra. Non perciò sedato fu il mio spavento, chè anzi, consapevole dell’impetuoso carattere dell'innamorato, temetti non ritornasse munito di un'arma micidiale, onde attentare alla mia od alla vita del povero giovine. Mi quetai un poco, soltanto quando fui giunta alla Borsa. Entrata nella grande sala, dissi a Paolo sotto voce di seguirmi al balcone, ed ivi gli narrai l'accaduto; al che, mostratosi questi dolentissimo, disse di volere mettervi pronto riparo, correndo immantinente in cerca dell'amico suo, e rappresentandogli la mia innocenza. Chi ha provato l'amore, può di leggieri comprendere quale fosse il mio stato. Amava Domenico con amore tenero ed affettuoso; era attentissima a non dargli alcun motivo di gelosia - ed intanto passava ai suoi occhi per donna frivola ed incostante. Spuntò l'alba, sempre desiderata dagli amanti afflitti, e la gente di servizio cominciò a fare gli apparecchi del ritorno. Poche ore dopo eravamo in Reggio. Paolo fu sollecito a venir la sera prima dell'usato. Lo interrogai cogli occhi se avesse veduto Domenico. - Con un leggero chinar di capo m'accennò di sì. Mi raccontò più tardi, che il furore aveva condotto l'amico suo ad un passo di pazza disperazione. Determinato di troncare meco, ed una volta per sempre, qualunque relazione, egli avea promesso a suo padre di partire, senz'altro indugio per Napoli. La parola era già data, nè più potevasi ritrattare. Nondimeno, gli acerbi rimproveri di Paolo, e gli atti della mia giustificazione, aveano esercitato un'influenza benefica sullo spirito di lui, nè era lontano dal pentirsi del passo, che fatto aveva in un momento di folle dispetto. M'alzai, non potendo frenare la commozione prodotta dalle parole di Paolo, e ritiratami in disparte, meditai un istante. Poscia, ripresa la perduta energia, tornai ad occupare il posto abbandonato accanto al confidente delle mie pene. "Un ultimo favore vi chieggo," gli dissi con fermo accento. "Vogliate riabboccarvi con Domenico, non per altro se non per annunziargli a nome mio che la parte offesa sono io. Può partire o restate a suo agio, non me ne curo più, conoscendomi innocente della colpa che m'attribuisce. Possa trovar egli in Napoli donna più fedele di me!" Da quel momento, coerente alla risoluzione presa, e forte della mia lealtà, feci le viste di volermi totalmente staccare da lui; ma egli, sinceramente ravvedutosi, avea digià riprese le consuete passeggiate sotto le mie finestre. Era un giorno di domenica, ed il giorno fissato alla sua partenza era il seguente martedì. Come ho già detto, trovavasi nella nostra casa un coretto che dava nell'interno della chiesa di Sant'Agostino. Ivi recatami per ascoltare la messa, vidi Domenico di rimpetto a me. L'amore, che spento non era nel mio cuore, malgrado gli sforzi che faceva per soffocarvelo, mi fece volgere lo sguardo verso di lui. Finita la messa, volea ritirarmene: al patetico segno ch'egli mi fece di volermi arrestare per poco, ebbi la debolezza di condiscendere. Come tutta la gente fu uscita di chiesa, egli, avvicinatosi al cancello, e giunte le mani in atto supplichevole, mi disse: "Perdonatemi! Confesso il delirio mio!" Lo guardai: l'espressione del suo volto era tale da disarmare il più forte risentimento. Colle lagrime agli occhi risposi: "Crudele! posdomani parti, m'abbandoni, e chiedi perdono!?" "Per questo sacro luogo in cui ci ritroviamo," soggiunse, "giuro che fra un mese sarò restituito a te, malgrado gli ordini del padre, il quale mi vorrebbe allontanato per un anno intero!" "Accetto il tuo impegno: a questo patto dimentico gli oltraggi." Un leggero tossire ci avvertì essere entrato qualcuno in chiesa. "Addio!" disse Domenico. "Addio!" ripetei con voce velata dalla commozione. Allontanossi, e giunto alle spalle dell'altare, presso alla porta minore della chiesa, si volse di nuovo, e mi disse: "Non mi tradire!" -Tradirlo! Or che mi rendeva l'amor suo, qual altra fortuna poteva io desiderare?-

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In Toscana veniva ristabilito il dominio granducale per una sollevazione popolare in favor dell'antico regime, mentre Venezia, abbandonata a sè sola, e Roma strettamente assediata, lottavano: questa contro i Francesi, quella contro gli Austriaci, con sforzi eroici di prodezza. Benchè profondamente afflitta dalle infelici condizioni dell'Italia, non perdetti di vista la speranza di finirla coll'Ordine benedettino. Da me pregata, mia madre portossi a Gaeta all'incontro di Pio IX, con una supplica, nella quale io chiedeva al pontefice l'atto di secolarizzazione, coll'impegno di rimanere vincolata a' voti, non altrimenti che come semplice canonichessa. E perchè le monache di San Gregorio avevano mosso lite per indennizzazione a quel mio parente, che simulato aveva nel tempo della professione d'essermi debitore di ducati mille, io implorava inoltre dal pontefice d'esser dichiarata immune da tale ingiusta esigenza. Pio IX parve commosso alle istanze di mia madre, alle preci delle mie sorelline. Si volse attorno per vedere se nella stanza vi fosse l'occorrente da scrivere, e non avendovelo trovato, disse alla mia famiglia di ritornare dopo due giorni. Intanto il mio acerrimo persecutore, l'arcivescovo e cardinale, informatosi di queste pratiche, partiva premurosamente da Napoli alla volta di Gaeta, e vi giungeva l'indomani dell'arrivo di mia madre, latore di quella lettera famosa, da me indirizzata al papa sotto la salvaguardia della confessione, e da lui intercettata e aperta. Mia madre tornando dal pontefice lo trovò cambiato. "Signora," le disse con gravità, "fate che vostra figlia si contenti di quello che ha ottenuto finora; chi troppo vuole, niente ha. Ella vorrebbe mutar abito e condizione: non possiamo consentirvi. Che direbbero, che farebbero le altre monache, vincolate nella medesima sua condizione? Avevamo dimenticato il suo nome l'altr'ieri: ce l'ha rammentato il cardinale Riario, ed oggi stesso abbiamo letta una carta, ch'essa cindirizzava due anni fa." Era evidente, che, come quelle della povera Italia, le mie sorti andavano in rovina. Un mese dopo mi veniva dal Riario partecipato un Breve pontificio, per cui Pio IX mi concedeva la grazia di starmene stabilmente in conservatorio, sotto condizione di clausura: potendo però uscirne l'estate per i bagni di mare, purchè i medici li avessero ordinati, e di più che fosse piaciuto all'arcivescovo di permetterli. Quanto poi alla lite mossa dalle monache, ordinava ch'io dovessi versare alla cassa di San Gregorio ducati mille, e che da quel monastero percepissi, vita durante, un assegnamento mensile, proporzionato alla somma da me versata. Insino allora aveva ricevuto pel mio mantenimento ducati 14 e mezzo; da quel momento non mi vidi più consegnare che una polizzetta mensile di ducati sei, a titolo d'alimento mio, e della conversa. - Carità e munificenza fratesca! Alla necessità non resistono neanche gli Dei. Giuocoforza mi fu ristringere il vitto ad una sola pietanza, ed assuefare il palato al pane nero. Ciò dovei fare, mentre, di porpora decorato, l'autore della mia indigenza dava pranzi sontuosi a' parassiti papassi, suoi colleghi, che, da Roma trafugati, rifluivano presso i Borboni, affine di seco loro consultarsi intorno a' mezzi di ribadire più sicuramente i ferri al popolo d'Italia. Venne Pio IX in Napoli, tramutato di luogo, come di colore e di sentimenti. Sebbene uscissi spesso, reputai superfluo, anzi pericoloso, il disegno di ricorrere nuovamente alla sua misericordia. Egli, che chiudeva l'orecchio a' gemiti della sua patria, per quale supremo privilegio l'avrebbe aperto alle lamentazioni d'una povera monaca? E fiancheggiato qual era da un Ferdinando II, da un Riario, come poteva, poniamo pure che avesse voluto, dar ascolto ai miei lamenti? Il solo fanatismo della infima plebe napoletana sorreggeva ancora nel vacillante seggio que' due volgari nemici di ogni bene. E il re di Roma, debole di cuore, più debole di mente, assetato di popolarità, incapace di acquistarla durevolmente, metteva la barca sdrucita della povera Chiesa a rimorchio della loro galera. Una sera, mentre sull'imbrunire io mi ritirava, la Polizia vietò alla carrozza ov'io era di traversare la piazza delle Pigne. Ritrovandosi il Santo Padre nel Museo delle antichità pagane, Ove il principe reale gli faceva da cicerone, non sarebbesi potuto aprire un varco nella folla, senza far calpestare dai cavalli la gente. Mi convenne, voltando strada, fare un lunghissimo giro, scendere per la Vicaria e risalire per San Pietro a Majella. Quest'involontario ritardo eccitò la rabbia dell'idrofoba portinaia del conservatorio, la quale con quegli occhi biechi e sanguigni, che mi facevano rizzare i capelli in capo dalla paura, mi disse: "Se un altr'anno avremo la disgrazia di tenervi con noi, affè di Dio che non metterete più il piede fuori di questa porta!" E così dicendo, alzava minaccioso l'indice in aria, a guisa di maestro di cappella. Prima di partir da Napoli, volle il papa visitare uno ad uno tutti i monasteri di clausura. Quando toccò al monastero di San Giovanni, le suore di Costantinopoli manifestarono a quelle religiose il desiderio di vedere la persona del pontefice in un luogo, che, per la vicinanza dei due monasteri, a ciò si prestava. Salito adunque il papa sopra una certa terrazza, benedisse complessivamente tutto il gregge a lui dintorno. Non so chi m'accennasse all'attenzione sua. Fissò egli lo sguardo sopra di me, e disse: "Una benedizione particolare alla monaca claustrale!" Ed alzata la destra, mise la parola in effetto. Quell'atto non mi recò alcun conforto. Io m'augurava salute, tranquillità, ed emancipazione dall'ignobile servaggio. - Ora, quali di questi beni mi recava quella benedizione? Da lì a pochi giorni Pio IX ritornava in Roma, lieto quanto quel suo predecessore, che alla caduta di Rienzo ritornava vescovo e signore nell'Eterna Città. Il cardinale colse il momento per infierire contro di me. Mi giunse all'orecchio allora che tutti i rigori della clausura stavano per essermi scaricati addosso; per lo che mi veniva proposto di restituirmi presto al primiero carcere, di rinunziare una volta per sempre a qualsiasi speranza d'affrancamento, di rassegnarmi alla sorte delle altre monache, senza più ruminare ulteriori tentativi: e in compenso di tale atto d'abdicazione, mi si lasciava travedere l'onore d'un badessato, che per un Breve di speciale condonamento, nonostante l'età giovanile, avrei ottenuto. Quanto più attraente di tale prospetto era il pan nero che divideva colla mia buona e fidata Maria Giuseppa! Feci rispondere al porporato, ch'io preferiva soggiornare libera in una capanna, anzichè badessa in un carcere. Come rispose Sua Eminenza? - Mi tolse anche quel magrissimo assegnamento mensile di sei ducati! Me ne rimasi dunque, come i Toscani dicono, nelle secche di Barbería. Di lavori donneschi io ne sapeva un po', e l'Onnipotente, che tempera i venti per l'agnello tosato, non m'aveva privata d'operosità e d'industria. Per non viver d'accatto nel conservatorio, per non essere a carico altrui, avrei dunque preferito di guadagnarmi la vita colle proprie mani. - Ma come si fa ad industriarsi dimorando in casa di nemici, e brancolando nel buio che cuopre l'avvenire? Ad un mio parente che rinfacciava al cardinale quell'accanimento codardo contro una donna, duro come un macigno, costui rispondeva: "La madre è ricca: ci penserà lei." Distesa in quel letto di Procuste; stretta, per meglio dire, fra l'uscio e il muro; destituita al fine dei mezzi di sussistenza, feci ricorso all'energia dell'animo per cercare scampo in una disperata uscita. A mali estremi, rimedi estremi. Una sera, invece di ritirarmi secondo il solito al conservatorio, avvertii per lettera la badessa di voler chiudere la porteria tra vespro e nona, perchè, non volendo mangiare il pane altrui, sarei rimasta in casa mia.

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Il sonno, di che la madre e le sorelline godevano, mentr'io desta e abbandonata alla mia vertigine, lottava fra contrari affetti; il cupo silenzio che m'avviluppava come per separarmi più presto dal commercio de' miei cari, non servirono che a rendermi maggiormente orrida e spaventosa l'immagine dell'esilio. - Piuttosto che camminar di porta in porta, e limosinare il pane amarissimo dell'esilio, non sarebbe meglio, ripresi a dirmi, cedere al destino, rassegnarmi alla dura necessità, placare colla simulazione l'ira de' superiori, colla compiacenza insinuarmi nella loro grazia; e, non potendo rompere le catene, ottenere almeno che mi siano alleggerite al piede....? Rapiti dal mio ravvedimento, assicurati della mia devozione, non solamente mi lasceranno in pace, ma mi colmeranno inoltre di favori, m'accorderanno gradi, potere, dignità.... Alla fin fine un badessato non è pascolo tanto meschino per l'ambizione d'una monaca! - Mi rialzai sollecita, accesi il lume, trassi dallo scrittoio un foglio bianco, e intinta la penna nel calamaio, presi, con dita tuttavia tremanti dalla convulsione, a segnarvi le seguenti parole, che non saranno mai cancellate dalla mia memoria: Eminenza! Tutti nel mondo siamo soggetti a deviare dal retto sentiero; il solo Nostro Signor Gesù Cristo nacque impeccabile. Sedotta pur io da rea tentazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qui la penna si fermò ad un tratto, poi mi cadde dalla mano sulla carta: per lungo tempo io rimasi col capo appoggiato sulla tavola....... - Sciagurata! esclamai alfine, balzando in piedi furibonda, e mettendo in pezzi quel foglio. Sciagurata! Non ti bastano i ferri che trascini al piede, ma porgi anche il collo al capestro? Hai tu dunque aspirato alla libertà solamente per disertare il suo vessillo in tempo di battaglia? E l'onore? e le generose aspirazioni, e la fede, e il cuore? Che ne hai tu fatto, vile, del cuore? E la coscienza? Ancorchè tu possa rimanertene sorda ai gemiti della tua patria, credi peter soffocare la voce della coscienza? Perchè non prendi consiglio e conforto dalla storia di questa tua patria? Spinta da contrarie passioni, governata da fiacco volere, abbandonata alle seduzioni altrui dalla propria famiglia, adescata da ogni parte, cadde la misera Italia nel servaggio, come precisamente vi cadesti anche tu. Così pur essa languì per lungo tempo carcerata nel chiostro, che principi spirituali e temporali le fabbricarono; così pianse, implorò, protestò. Conformi sono le tue vicende alle peripezie di lei: comune l'espiazione, comuni i voti al rinnovamento, comuni perfino gli sforzi recenti a ricuperar l'esercizio della propria volontà.... Ed ora tu retrocedi....! E in qual momento? Alla vigilia della redenzione; mentre allo splendore della giovine Italia si dileguano le ombre della tirannide. - Spuntato il giorno, partii con mia madre alla volta di Capua. Il cardinale Capano mi accolse con rara gentilezza; era uomo di facile accesso, scevro di pregiudizi e superiore alle basse vendette. Ei mi promise la sua protezione, e nell'udire il racconto delle mie vicende, affermò di voler operare quanto poteva, per togliermi da quell'infelice stato. Il pomeriggio dello stesso dì venne a trovarmi il suo vicario, mandato da lui per mettersi d'accordo con me. Conobbi in quell'uomo un sacerdote rispettabile. Non contento di ricevere la mia confessione, che deposi ai suoi piedi bagnata di lacrime, ei volle inoltre che mi recassi l'indomani all'arcivescovado, per narrargli tutta intera la mia vita. Assicurato che io non operava per fini men che nobili e puri, mi chiese i Brevi pontificii ricevuti fino a quel giorno. Questi Brevi erano stati, nella fretta della partenza, dimenticati; perlochè convenne che mia madre ritornasse subito in Napoli; e siccome l'affare richiedeva tempo, il buon vicario consigliò che intanto io fossi entrata in un ritiro della città. libera di uscirne in tutte le ore del giorno, purchè vi pernottassi. Uno di quella specie di ritiri portava il nome dell'Annunziata. Il vicario, trovata ivi una stanza libera, mi pregò di non prendere in mala parte il nome del locale, poichè se quello era per consuetudine il deposito delle proiette, vi dimorava pure un picciol numero di religiose, che non appartenevano a quella classe di femmine. Parte della mobilia mi fu garbatamente favorita da lui stesso, e parte ne presi a nolo dall'albergo. Io e Maria Giuseppa, che non mi abbandonava, entrammo dunque nel ritiro, e mia madre due giorni dopo se ne partì. Molti riguardi mi furono usati dai superiori dello stabilimento; veniva ogni giorno il cameriere del vicario per sapere se avessi ordini da dargli, e il cardinale aveva commesso sì alle religiose, che alle ragazze, di usarmi il massimo rispetto. Ebbi per questa ragione da esse il titolo rancidissimo di Eccellenza. Intanto scorsero parecchi giorni prima che Riario avesse scoperto il mio rifugio. Saputolo alfine, si morse le dita, e scrisse a Capano una lettera piena d'impertinenti rimproveri per avermi dato asilo. Questi rispose trattarsi d'un'onorata religiosa non d'altri scontenta, che di lui, e non già, come dal suo foglio sarebbe sembrato, d'una fuggitiva dal carcere, rea di qualche enorme misfatto; del resto, essere l'arcivescovo di Napoli in dovere più di ringraziarlo per avermi accolta, che di censurarlo. Riario sopì la collera, per ridestarla in sè a miglior tempo. Veniamo ora all'ignobile ritiro, dove il destino mi aveva balestrata. Grandiosa è l'Annunziata di Capua: ha vasto fabbricato e chiesa bellissima. Le religiose vi occupano stanze separate, ma le proiette dormono stivate in lunghi ed oscuri corridoi, ove non si può penetrare senza disgusto. Vi alloggiavano in quel tempo trecento in circa di queste femmine. Rimasi spiacevolmente colpita dello squallore, dal sudiciume, dal misero aspetto di quelle vittime di malcauti amori. Prive delle domestiche virtù e de' requisiti che nobilitano il sesso debole, destitute d'ogni elementare istruzione, rozze, garrule, petulanti, infingarde, esse convivevano lì in uno stanzone comune incatenate: parevan piuttosto un branco di bruti, che una famiglia di creature ragionevoli viventi in terra cristiana, e lì riunite sotto gli auspicii della Chiesa per uno scopo di riforma morale. A questo prospetto stomachevole aggiungevasi una scostumatezza nauseante per famigliarità ch'esse trattenevano coi soldati della guarnigione. Nè l'abbadessa delle religiose, ch'era in pari tempo superiora delle proiette, riusciva a frenare la depravazione. Addivenuta burbera ed intrattabile sì per le infermità, sì per i continui travagli che la comunità le cagionava, essa aveva deposte per intero la prudenza e l'affabilità, ch'erano indispensabili al reggimento d'un istituto tanto male accozzato ed eteroclito. Era in quel mentre afflitta Capua da gravi trambusti. I carcerati eransi rivoltati, ed avevano fatto altrettanto i seminaristi colla mira di trucidare il proprio rettore; e già si accingevano a far lo stesso quelle disgraziate dell'Annunziata, a niente meno risolute, che ad immolare la povera badessa. Le trattenne un poco il rispetto che volevano dimostrare a me. Non sì però che una di esse non le tendesse una maligna trappola. Eravi al disopra della gradinata una stanza formata a guisa di tunnel, passaggio piuttosto pericoloso; quella briccona si pone in agguato ad una finestra superiore, e nel punto che la badessa passava di lì, rovescia a perpendicolo sul mal fermo terreno un vaso di fiori pesantissimo. La misera vecchia dovè la sua salvezza alla pura combinazione d'essersi soffermata un momento prima di porre il piede sul passo fatale. Una mattina le fecero trovare, dipinte alla sua perta, due grandi croci nere, sovrapposte ad un cranio: minaccia di morte. Quelle ribalde misero in opera tutti i mezzi di seduzione onde attirare a' loro conciliaboli la mia conversa; ma Maria Giuseppa, la quale per probità e saviezza faceva eccezione al proverbio, non solo assurdo ma falso, che il tuo più gran nemico, dopo il fratello, è il servitore, Maria Giuseppa, dico, lungi dal prestare orecchio alle loro parole, si fece rigida censora del loro contegno. E le biasimò altamente nell'occasione che, essendo stata la badessa confermata dai superiori nella sua carica, elle si diedero a suonare tutte le campane a lutto. Fecero anche di peggio in un'altra circostanza. La sera d'una festa popolare, avendo la superiora proibito a quelle sciagurate di salire sul belvedere, attesochè, sotto il pretesto di vedere i fuochi artificiali, questo indispensabile condimento dello spettacolo napoletano, esse non avrebbero mancato di fare delle pezzuole altrettanti telegrafi corrispondenti col quartiere militare, esse, fortemente per tale divieto indispettite, ammonticchiarono all'uscio della badessa una dozzina dei loro pagliericci, e vi appiccarono il fuoco; poscia, come la paglia ebbe divampato, presero a saltare sulle fiamme, a modo dei monelli di Napoli, quando, riuniti d'inverno alle cantonate, possono attaccar fuoco agli avanzi di paglia delle scuderie. Chi le avesse viste a qualche distanza lacere, scalze, coi capelli scarmigliati infuriare a quel modo; chi ne avesse udito l'orribile baccano, avrebbe creduto di assistere a un sabato misterioso di streghe e di versiere. Un giorno, avendo io incontrata quella di loro che faceva più rumore delle altre, una giovine magra e spilungona, cui non moriva in bocca mai la lingua, la pregai di volersene stare, se poteva, un po' più tranquilla. Ella, dopo avermi baciata la mano: "Eccellenza, fo l'impertinente e la chiassona apposta." "Tu mi canzoni!" "Gnoranò: fo l'impertinente per pigliar marito." "Non t'intendo." "Eccellenza sì: chi non fa la pazza, qui va a pericolo di restar sempre ragazza. In questa Annunziata qui, non si fa mica come in quella di Napoli, dove i giovanotti si scelgono la sposa, buttando il fazzoletto alla ragazza che vogliono. Qui gli uomini (belli o brutti, giovani o vecchi importa poco) vengono al parlatorio; la superiora chiama allora per nome ognuna di noi una dopo l'altra, finchè al compratore non piaccia la mercanzia. Ora dovete sapere, che quella furbacchiona, le prime che chiama al parlatorio son le più impertinenti, quelle che l'hanno fatta più disperare." "Perchè?" "Per liberarsene più presto." Non potei frenar le risa a siffatto ricambio di furberia, e quando m'imbattei nella superiora, la quale più volte erasi consigliata meco rispetto al modo di regolare quel pandemonio, le suggerii lo spediente di chiamar le ragazze, non ad arbitrio, ma per età; poichè così avrebbe tolto il caso che facessero le cattive per speculazione. Tutte le mattine veniva a salutarmi una giovine contegnosa, ma pallida e molto mesta, che celava un mistero difficile molto a indovinare. Le domamdai se soffriva di qualche indisposizione: esitò sulle prime a rispondere, ma poi, con parole interrotte e sospirando, consentì a rivelarmi ch'ell'era vittima d'una malìa. Io presi l'impegno di persuaderla che le stregherie sono mere imposture, e non bisogna crederci; ma mi avvidi che pestava l'acqua nel mortaio, poichè la poveretta erasi fissata in quell'idea. Avendola pregata a raccontarmi come credeva essere stata ammaliata, ella condiscese a manifestarmelo. Aveva ella, mi disse, amoreggiato per più anni con un tale, che era andato provvisoriamente a Napoli co' suoi padroni. Prima di separarsi, recandosi costui a qualche distanza della città, vollero vicendevolmente giurarsi fedeltà inviolabile. Ma se fedele si serbò il giovine nell'assenza, non ne fece altrettanto la Capuana, perchè, contratta amicizia con un sergente, violò il giuramento. Di quest'infrazione avvertito il primo amante, volò sollecito in Capua, ove, fingendo di trattare la perfida come prima, invitatala a pranzo, le regalò delle paste che aveva portato da Napoli. Il giorno appresso, assicuratosi che la sleale amante aveva già divorato il regalo, gittò la maschera e rinfacciandole con virulenza il tradimento: "Ora sono vendicato!" le disse: "già la malìa opera nelle tue viscere.... Addio!" Da quel giorno in poi fu turbata la ragione di quella infelice: un'estrema confusione di idee e di sentimenti la condusse a quello stato lagrimevole. "Ma perchè," le domandai io, "attribuite ostinatamente alla fattucchiería quello che potrebb'essere l'effetto d'una mera combinazione, o, seppur volete, di qualche veleno messo in quelle paste?" "No, no!" rispose: "io ho il demonio in corpo; non posso entrare in chiesa, nè accostarmi ai Sacramenti." "Vieni con me: ti condurrò nel coro io stessa; il tuo diavolo avrà paura di me!" "No, no, per carità.... non posso; morirei subito." L'afferrai per la mano, e quasi trascinandola, le feci scendere le scale: essa piangeva, tremava, imprecava, tentava continuamente di svincolarsi. Dopo lunga resistenza, raddoppiata presso alla porta, al fine vi entrò. La forzai ad inginocchiarsi a piè dell'altare; ella mandò un urlo spaventevole, e fuggì come un lampo. - Povera Napoli, ad estirpare la superstizione feroce che t'insozza non basterà la libertà di mezzo secolo!

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Rassicurata dalle parole dell'eccellente missionanario, me ne ritornai a casa alquanto confortata dalla speranza che la provvidenza non m'avesse abbandonata del tutto. Passati pochi giorni, veniva Spaccapietra a riferirmi d'aver tenuto col cardinale un lungo discorso sul proposito di me. Riario aveva formalmente negato d'essersi recato dal re, ed aver ottenuto l'ordine del mio arresto. - Ei mentiva, sì, mentiva assolutamente! Spaccapietra aveva osservato non potermisi usurpare i frutti della dote: Riario condiscendeva a farmi avere le cinque mesate arretrate, e prometteva di lasciarmi in pace d'allora in poi. Trascorsero alquanti mesi di tregua. Mia madre, paga di vedermi liberata dall'accanimento dei preti, evitò nel carnevale di dare in casa festini e trattenimenti, com'era usa di fare ogni anno. Di questo provvedimento altamente mi compiacqui, risoluta com'era a schivare nuove molestie, e condurre vita ritirata, divisa fra le cure domestiche e lo studio. E perchè l'apprendimento delle storie patrie mi parve doveroso non soltanto all'uomo, ma pure alla donna italiana dei tempi nostri, trovai modo di procurarmi i migliori autori in questo ramo dell'educazione nazionale. Allora scorsi il Machiavelli, il Guicciardini, il Botta, il Santarosa, il Colletta, e qualche storico della guerra d'indipendenza dell'America, e della rigenerazione dei Greci. Nel mese di giugno una mia sorella, dimorante in Gaeta, scrisse che suo marito era gravemente malato. Mia madre partì per visitare il genero infermo; io non volli accompagnarla. Trovavasi colà Ferdinando II, il quale era allora disgustato del soggiorno di Napoli, non altrimenti che quel discendente d'Eraclio, che, fattosi assassino del proprio fratello e flagello de' sudditi, preso in disgusto e reggia e capitale, si ricoverò in Sicilia, perseguitato dì e notte dall'ombra dello sgozzato germano. Partita adunque la madre, passai con Maria Giuseppa in casa d'un'altra sorella maritata, dimorante in Napoli. Ella abitava nel Vico Canale sopra Toledo, in un sesto piano, molte in quel tempo essendo le sue ristrettezze per cagione del consorte, il quale, compromesso nelle convulsioni del 1848, era stato sospeso nell'esercizio dell'avvocatura, e viveva tuttora in angustie sotto la sorveglianza della polizia borbonica. La scarsezza de' miei mezzi e la penuria del cognato, non mi permettevano di far uso della carrozza ogni volta che qualche urgente faccenda mi chiamava fuor di casa. E fra tali faccende urgenti entrava pure la necessità di dispensare il segreto carteggio degli affiliati ad una società patriottica, allora non meno efficace che benefica, oggi superflua, se non dannosa: ufficio, che persone dell'altro sesso prestar non potevano, senza risvegliare i sospetti di qualcuna delle innumerevoli spie, che in quel tempo formicolavano per le vie, nelle case, e perfino dentro le chiese di Napoli. Ora se non m'era dato uscire ogni volta in legno, come avrei potuto girare a piedi col vestimento benedettino, in una città, ove gli scioperati giovanastri si facevano un vezzo di non lasciare libero il passo alle donne per la via? Lasciato perciò l'abito di monaca, ne presi uno di seta nera, conforme al parere che dato mi aveva il cardinale Capano, e come pure altre persone di buon senso mi consigliavano. Il padre Spaccapietra partiva frattanto pel Giappone in un colla Missione, lasciandomi in ricordo l'Imitazione di Cristo, e la memoria della sua carità esemplare. La sera del 13 giugno, ritirata nella mia stanza con Maria Giuseppa, mi tratteneva seco lei riandando le peripezie sofferte nei diversi chiostri, e scambievolmente consolandoci e rallegrandoci di poter alfine respirare liberamente. Tutto infatti d'intorno a noi spirava calma, benessere, espansione: regnava dappertutto la felicità. L'aria era tepida e imbalsamata dai profumi, che le piante innamorate del belvedere spiravano, mentre ingenue giovinette bisbigliavano nelle sottoposte finestre, mandando di tratto in tratto sospiri, manifestazione di desiderii arcani. La luna in alto proseguiva solinga il corso superba del suo splendore, framezzo un corteggio di nuvolette, frangiate, inargentate con stupenda leggiadria. Io mi sentiva rinascere al pensiero di aver ricuperato il posto che assegnato m'aveva da principio la Provvidenza, di potere liberamente ormai offerire la tenuissima mia cooperazione al servigio de' miei simili. Ma la fortuna, che tanto sovente si prende giuoco dell'umana felicità, accingevasi a farmi pagar caro quel lampo di ebbrezza. Maria Giuseppa, la più costante e fedele partecipe delle mie disgrazie, riponeva tutta la sua felicità nell'assicurarmi che non mai m'avrebbe abbandonata, finchè sarei infelice.... Chi le avrebbe detto che quella sera era l'ultima in cui stessimo insieme? Il giorno appresso, ad un'ora pomeridiama era a pranzo coi miei parenti.... Fu suonato alla porta. La vecchia fantesca di mia sorella s'affaccia alla finestra che metteva sulle scale, e tutta turbata ci dice che un prete cercava di me. "Fatelo entrare!" rispondo, credendo fosse non altri, che l'ex-vicario di Capua, uso a visitarci talora. Ma il cuore, a' disastri assuefatto, presago sempre di malore, cominciò a palpitarmi gagliardamente. Odo i passi, non d'una sola, ma di più persone. M'accosto all'uscio di sala per udire, e odo un alterco fra i venuti e mio cognato. Oltrepasso la soglia, e vedo un uomo di proporzioni colossali, di testa enorme, di faccia a luna piena, una specie di Briareo, che stavasi padronalmente adagiato sul divano; accanto a lui sedeva un prete livido, smilzo, di sinistro aspetto, mentre mio cognato, costernato, puntava entrambe le mani alla spalliera di una seggiola. Sebbene ignoti, quei due sembianti mi fecero raccapricciare. Il gigante, dato fiato alle fauci, con voce non dissimile al muggito della conca marina: "È ella la religiosa Enrichetta Caracciolo Forino?" mi domandò. "Sì," risposi: "con chi ho l'onone di parlare?" "Col commissario Morbilli." Dio, qual nome! Mi scossi, come per violenta scarica d'elettricità.... Era lo spavento di tutta Napoli. Il duca Morbilli (povera nobiltà della patria di Vico!), cagnotto fedelissimo del re, e satellite de' Del Carretto, era salito in grido meno per virtù del suo operosissimo servizio che pel terrore sparso dalle sue visite, e per la mitologica voracità che lo travagliava. Chi de' Napoletani non avrebbe preferito d'avere in casa, non dirò lo spirito maligno, ma almeno il fuoco, od il vaiuolo, od altro micidiale malanno, anzichè il Morbilli? "E questi," continuò egli a dire, accennando al compagno, "questi è un prete della curia." Capíi subito tutto quello che mi aspettava. "Che cosa vogliono da me?" domandai, a modo di carbonaro sorpreso in flagrante dal commissario. "Ella è arrestata." "Arrestata! Possibile! Perchè?" "Possibilissimo, e dovrà seguirci." "Dove?" "In convento." "In quale convento?" "Nel Ritiro di Mondragone." "Posso io sapere per sentenza di quale tribunale, od almeno per ordine di chi?" "Questo non la riguarda." Havvi dei momenti critici nei quali Dio infonde al debole magnanimità, perchè non si lasci schiacciare dalla prepotenza del più forte. "Mi riguarda più che non riguarda lei stessa," dissi con fierezza a quella strisciante Eccellenza: "nondimeno sarà seguita; vo a vestirmi." Iniziato in tutti i segreti della professione di berroviere, Morbilli volle indagare se dalla mia stanza si fosse potuta effettuare qualche evasione, e veduta una sola uscita, si compiacque di permettere ch'io mi vestissi in libertà. Fui allora seguita da Maria Giuseppa, la quale dall'estremo spavento privata di ragione e di favella, gittò la più grande confusione sì nella mia, che nella sua propria acconciatura. Mezz'ora dopo eravamo entrambe pronte. "Non vi fate così abbattuta!" dissi alla conversa, carezzandole leggermente la guancia: "ricomponetevi, prima di uscire, che quella gente non ne provi soddisfazione!" "Dite bene, signora," rispose essa: e per compiacermi si sforzò di sorridere, mentre a stento ratteneva le lagrime. "Potete andare avanti," disse il commissario al prete; "la signora non ha fatto resistenza." Il vampiro, fatta la riverenza, disparve. Morbilli, voltosi a Maria Giuseppa, che carica di scialli e d'altri oggetti, stava pronta a seguirmi, "E tu chi sei?" le domandò. "Sono la conversa." "Tu non accompagnerai la signora al convento!" soggiunse il ciclope. "Perchè?" disse l'una di noi: "Perchè?" replicò l'altra. "La signora sarà condotta al ritiro: tu verrai meco al commissariato per esservi interrogata, e quindi rimandata al tuo paese." Gli urli, le strida, i lamenti che mandò la povera giovine, il suo avviticchiarsi alla mia persona, come per cercare rifugio e protezione, poi il pianto e i gemiti e la disperazione cui davasi in preda, stavano per farmi perdere il contegno. Se non che la commozione, repressa a forza dall'amor proprio, in tale spasimo mi metteva i muscoli della bocca, che pur volendo parlare non avrei potuto. La povera Giuseppa non cessava di abbrancare ora l'abito, ora la mano mia, e di gridare: "Oh, cara, adorata signora, se non volete staccarvi dalla vostra povera conversa, perchè non scacciate questi birboni?" Il commissario, chiamato un ispettore che attendeva all'uscio, gliela consegnò. Io non parlai punto, per tema di prorompere in pianto, ma diedi soltanto a Giuseppa un bacio d'ultimo addio, e pregai la vecchia fantesca di non abbandonarla finchè non fosse rimandata ai suoi parenti. Indi volta al commissario, "Spero," dissi, "che sapendo di chi io son figlia; non vorrete farmi fare il tragitto a piedi." "Nè impedirete che io e sua sorella l'accompagniamo," soggiunse mio cognato. Morbilli fece venire una carrozza, e permise che i congiunti mi accompagnassero. Intanto Maria Giuseppa non cessava di stringermi le mani e coprirle di baci; era tanto straziante la desolazione di quella infelice, che n'ebbe pietà perfino.... un Morbilli. "Coraggio!" le dissi finalmente; e, svincolandomi da lei, uscii la prima dalla porta. Le scale erano tutte gremite di birri, come se si fosse trattato di sorprendere nella macchia una banda di briganti, e più di cento persone eransi radunate fuori del portone per godere dello spettacolo. La chiesa e l'edifizio di Santa Maria delle Grazie di Mondragone posti presso San Carlo alle Mortelle formano il ricovero che Elena Aldobrandini, duchessa di Mondragone, preparava nel 1653 per le dame napoletane, che, venute in basso stato e rimaste vedove, volessero trarvi vita tranquilla e monastica. Oggi vi è pur ammessa qualche educanda, ma in sostanza lo stabilimento è destinato all'uso di ergastolo. Giuntavi poco innanzi alle 3, montai la scalinata, che dalla prima porta di strada conduce sopra; all'ingresso della seconda trovai postati due preti, e presso a loro la superiora che colà chiamasi priora. Uno dei preti era quello spettro di Banco, che condotto aveva Morbilli pel mio arresto; era l'altro il superiore ecclesiastico del locale, quel desso che per la sua furibonda reazione lasciò nel 1848 tristissima rinomanza del suo carattere, quel desso, che come regio revisore cancellava sempre da' manoscritti l'italiano vocabolo eziandio, forse perchè ricordava nella desinenza il nome d'un vindice supremo. Per l'immensa sua devozione alla dinastia Borbonica, e pel famigerato suo oscurantismo decorato coll'ordine di Francesco I, non voleva esser chiamato altrimenti che cavaliere. Dagl'inchini che fece costui al commissario, e dalle parole che si scambiarono fra loro, compresi ch'erano amici di vecchia data: cagnotti attaccati allo stesso guinzaglio. Mio cognato, che a stento aveva fino a quel punto rattenuto lo sdegno, proruppe in acerbe rimostranze contro la condotta del cardinale. "Se non tacete all'istante," gli disse il superiore ecclesiastico, "vi ricaccerò le parole in gola con due schiaffi." "Se non andate, e subito, pe' fatti vostri," soggiunse il commissario, "vi manderò in prigione." Afferrai il cognato per un braccio, e scossolo fortemente, "Perchè vi riscaldate voi," gli dissi; "mentre io che son la vittima taccio? Ora sono giunta al carcere: potete ricondurre la sorella." Tutti serbarono silenzio. Il commissario, avuto dal prete della curia la ricevuta della mia persona, se ne partì, ed io accennai alla sorella di alzarsi per non dare al marito l'occasione di compromettersi. "Scrivi tosto a Gaeta," le dissi nell'atto d'abbracciarla: "scrivi tutto alla mamma, e, per carità prendi per Maria Griuseppa le stesse cure che ti saresti presa per me!" Rimasta sola col birro e coi due carcerieri al fianco, mi fecero salire al terzo piano del fabbricato, quindi mi menarono in una vasta e tetra camera, che aveva l'aspetto d'una prigione da suppliziato: due soli pertugi vi davano luce, ma luce scarsa e cupa, per cagione dell'alto palazzo Villanova che vi era di faccia. Le pareti ignude e insudiciate, la soffitta a travatura, il pavimento a mattoni rotti, per mobilia due sole sedie apopletiche, e null'altro. La priora e il prete superiore dell'inquisizione letteraria uscirono fuori per discorrere a bassa voce; rimase meco il solo prete della curia. Chi crederebbe alla galanteria d'un vampiro? Vedutami sola, derelitta, sconsolata, e priva d'ogni difesa, quel prete, che non era vecchio, pensò di trarre profitto dall'opportunità, facendomi travedere il vantaggio della sua protezione; preso dunque un atteggiamento da cascamorto, che fece maggiormente spiccare la sua ributtante fisionomia, stendendo le scarne mani verso di me: "Se qualche cosa vi occorre," mi disse, "ditelo pur liberamente alla priora, colla quale avrete già simpatizzato; come, suppongo, vorrete simpatizzare anche col vostro devoto servitore." Accompagnarono l'ultima frase un profondo inchino ed un sorriso, che mise allo scoperto l'orrida sua dentatura. "Mostro esecrando!" gridai cogli occhi stralunati, e additandogli la porta coll'indice. "Vattene in malora, e riferisci a chi ti manda qui, che spero coll'aiuto del Cielo di vedere ben presto e lui e te e tutti quelli che vi somigliano mandati, in perdizione!" Non diede alcun indizio di rossore, ma ripreso il cappello, quatto quatto guadagnò l'uscio, che io richiusi con furia alle sue spalle. Allora, ritornata nel mezzo della stanza, m'inginocchiai, giunsi le mani, e, sollevati gli occhi al cielo, il cuore a Dio, pregai dal più profondo dell'anima per la calunniata innocenza. - Il Signore non ributta, ma esaudisce il cuore contrito ed umiliato! -

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"Sono stata abbandonata dagli amanti." "E la mamma?" "La mamma s'indispettì nel vedermi serbar la fede al secondo amante." "Ecco, figlia mia," sclamò allora, " ecco la differenza che passa fra lo sposo mondano e lo sposo Celeste! Quelli vi hanno abbandonata, benchè li amaste: questi vi ha seguíta, e fedelmente vi seguita, mentre di lui non vi cale, e tuttavia persistete a respingerlo. I primi hanno amareggiato il calice puro della vostra giovinezza: il secondo vuol colmarvi d'ineffabili e sempiterne voluttà. Egli vi apre la sua casa, v'introduce in questa sua famiglia, vi schiude le braccia con tenerezza, ed ansiosamente vi aspetta, per farvi dimenticare nei sublimi conforti dell'amor suo, i dissapori di che gli uomini vi abbeverarono." Continuò per lunga pezza su questa solfa mediocremente edificante. Alfine, io, presa alla mia volta la parola, "È o non è vero," dissi, "che l'uomo è stato creato per l'umanità? Se, come dite, la famiglia di Cristo, fosse questa ristretta comunità, perchè dunque il figlio di Dio sarebbesi fatto crocifiggere a salvamento dell'intero genere umano? Dice la santa Scrittura che, per compiacersi nella solitudine, fa d'uopo essere o Dio, o bruto: Quis solitudinem delectatur, aut Deus, aut fera est. Ora, reverendo mio, io non sono nè all'altezza della Divinità, nè nella condizione delle belve: amo il mondo, e mi compiaccio nella società dei miei simili. Nè credo, d'altronde, che voi stesso abbiate in orrore l'umano consorzio; poichè, se così fosse, non sareste pur voi monaco confesso almeno, se non anacoreta della Tebaide?" "A questi quesiti," disse il canonico, alzandosi e pigliando il cappello "darò risposta alla prossima nostra conferenza. Mi promettete di ritornare un'altra volta da me?" Dovetti acconsentire. Era d'altronde vaga di sperimentare la famigerata persuasiva di quell'alto ingegno. Di lì a due giorni mi richiamò a sè per annunziarmi avergli il Crocifisso ispirato nelle sue preci, ch'egli stesso, e non altri, dovea confessarmi. M'intimava pertanto d'indirizzare al mio vecchio confessore una lettera nelle quale, ringraziandolo della carità (nel glossario monastico far la carità significa confessare), gli avessi dichiarato di essermene provveduta d'un altro confessore. Mostrai qualche renitenza a tale intimazione; ma il canonico, dicendo la virtù più cara a Dio essere l'ubbidienza al Crocifisso, mi vietò l'uscita, prima d'avergli promesso l'invio della lettera propostami, non sì tosto salita sulla mia stanza. - La lettera fu scritta, benchè con mio dolore. Ora, se il cambiamento di confessore spiacque a me, cagione di non minor dispetto fu a suor Maddalena, la quale, se bramava di far spiccare la facondia portentosa del suo confessore, era peraltro ben lungi dall'immaginare che l'atto della mia conversione avrebbe richiesto più d'una conferenza. La incontrai, e nel guardarmi divenne livida in volto, inurbanamente mi voltò le spalle, e, borbottando non so che, andossene via. "È curiosa davvero Maddalena!" venne a dirmi un'altra monaca, che pur dicevasi amica di costei. "Non è essa stessa che ti ha condotta forzatamente dal suo confessore? Eppure adesso piange e si dispera per gelosia." "Gelosia!" esclamai io, sbruffando dalle risa.... "gelosia, di che?" "Il canonico dal canto suo mostra meno affetto per lei che per te, e tu del resto, congedato il primo confessore, divieni la penitente del canonico." Ne rimasi stupefatta. Non potendo più richiamare il vecchio prete, dopo la lettera speditagli, ne scrissi un'altra al canonico, ove gli diceva che, non avendo intenzione di procurarmi nemiche nel chiostro, avrei cercato d'un altro confessore. Un'ora dopo io udiva, sei tócchi alla campana della porteria: era la mia chiamata. - Trovai il canonico nel parlatorio. "Mi avete mandato una lettera di licenziamento?" Disse ridendo nel vedermi. "Sì," risposi; "non sarò per certo motivo di discordia nel chiostro durante il breve tempo che vi soggiornerò; e come non sono scortese con nessuno, così, non darò ad altri il diritto di usarmi degli sgarbi." "Per me, tanto," soggiunse egli, sempre ridendo, "non farò conto alcuno della vostra lettera, anzi per affrancarvi da ogni soggetto di molestía, annunzierò oggi stesso a Maddalena che non la voglio confessar più; per tal modo essa non avrà più motivo di esplorare se sento o non sento affetto per voi. Ho il cómpito sacrosanto di condurre all'ovile la pecorella smarrita da Dio consegnatami, e non mi è lecito abbandonarvi." "Non so," risposi con sostenutezza, "come la gelosia possa insinuarsi nel sacramento della confessione, nè a me tocca di esaminare la causa di sì inqualificabile associamento. Devo però dirvi, che se lascerete Maddalena, mi susciterete una persecuzione più forte. Fatemi questo favore: tenete lei, e lasciate me! Da questo punto vi dichiaro che al confessionale non mi ritroverete più." "Allora," disse, deponendo l'ilarità, ed assumendo un tuono contenuto, "allora impiegherò un altro spediente." Ciò detto, se ne partì, lasciandomi nel dubbio di quello che proponevasi di fare. Avendo frattanto deliberate di non cedere sopra questo argomento, pregai mia zia la badessa di trovarmi un altro confessore badando ch'egli fosse un vecchio, e che non avesse altra penitente nel monastero. Ella ne prese l'incarico, tanto più ch'era pur essa lei dispiacente di vedermi involontariamente caduta in quell'impiccio. Verso le tre intesi nel corridoio un gran fracasso. Mi affacciai dalla loggia, e vidi Maddalena nel mezzo d'un crocchio di monache e di converse, nell'atto di giungere e presentare alle sue compagne un foglio piegato in forma di lettera. Parlavano, o per meglio dire strillavano tutte insieme, con gesticolazioni esagerate, che ricordavano la scena delle streghe di Macbeth. Un affare di confessore per le monache è affar di Stato, è un casus belli. Compresi non poter esser altro che una lettera del canonico, e dal fondo del cuore maledissi il momento che m'avevano portata in quel santo pandemonio. Il fracasso andava crescendo; era in piedi tutta quanta la comunità: dalle confuse strida della rivolta non distinguevasi che una sola parola, mille volte ripetuta, la parola canonico. Intanto la vecchia badessa appoggiata ad un'educanda accorreva al tafferuglio, e cercava di calmar Maddalena, promettendo che sua nipote non si sarebbe più confessata dal canonico, e ch'essa stessa m'avrebbe trovato un altro confessore. "Me ne date la vostra parola?" gridò Maddalena da spiritata, mentre settanta bocche le stavano chiuse d'intorno in atto di silenziosa aspettativa. "Tenetemi per impegnata," soggiunse la badessa. "Brava! brava!" esclamarono in coro le monache. "Era insopportabile, era troppo doloroso vederlo chiuso nel confessionale con un'altra." E congratulandosi con Maddalena della rivendicata proprietà, le andavano dicendo: "Giustizia è fatta! stattene omai tranquilla!" Da quella scene singolare, che non sarà mai cancellata dalla mia memoria, incominciai a convincermi che la premura delle penitenti pei confessori e quella dei confessori per le penitenti aveva la sua ragione d'essere in un certo tale sentimento, non troppo conforme al precetto evangelico, ama il tuo prossimo come te stesso. Ma non doveva la scena terminate lì. Stava scritto che l'argomento della mia confessione trovasse la soluzione presso eminenti autorità della Chiesa apostolica romana. Il mattino seguente fui chiamata al parlatorio: indovinate chi cercava di me! Monsignor vicario; - che voleva da me? Voleva dirmi che il canonico era stato da lui: avevagli raccontato il fatto successo fra Maddalena e me; ed egli, nella sua qualità di capo della Chiesa napoletana, aveva deliberato dovere rimanere a me, e non a Maddalena, la contesa confessione. A completare la commedia, non ci mancava che l'autorità del papa. Non valsero nè le mie proteste nè il mio pianto. La zia mi sgridò, affermando, che al vicario bisognava ubbidire senza replica. Salii piangendo nella mia stanza, ove scrissi una lunga lettera a mia madre, raccontandole tutto, e rammentandole, che, prossimo essendo a spirare il secondo mese, io desiderava di lasciare il convento al più presto possibile. Troppo lungo sarebbe il racconto delle mie sofferenze, per causa di questa ridicola gelosia. Ebbe termine soltanto le persecuzione, allorchè Maddalena trovò un altro confessore, e dimenticò il primo. Avendo intitolato questo capitolo Scene e Costumi, riunirò in esso tutto ciò che relativamente alle monache ed ai preti ho io stessa veduto nei quattro monasteri da me abitati, o che mi giunse all'orecchio di altri chiostri napoletani; come pur farò laddove discorrerò de' tre voti d'umiltà, di castità e di povertà delle monache. Seguirò questo metodo d'esposizione, per non aver a ritornare più volte sullo stesso argomento, troncando il racconto. La frenetica passione delle monache pei preti e pei monaci supera ogni credere. Ciò che specialmente le rende affezionate al loro carcere si è l'illimitata libertà che godono di vedere e di scrivere alle persone amate. Questa libertà le localizza, le incorpora, le identifica al chiostro sì fortemente, che sono infelici allorchè per causa di grave malattia, o prima di prendere il velo, debbono passare qualche mese in seno alla loro famiglia, accanto del padre, della madre, dei fratelli, non essendo presumibile che questi parenti permettano ad una giovinetta di passare più ore al giorno in misteriosi colloqui con un prete od un monaco, e di mantenere seco lui continua corrispondenza. Havvi delle Eloise che più ore spendono nel confessionale in soave trattenimento col loro Abelardo in sottana. - Peccato che non capiscano un iota di latino! Altre, avendolo vecchio, hanno di soprassello un direttore spirituale con cui si trattengono lungo tempo da solo a sola nel parlatorio. Quando questo non basta, trovano il mezzo d'una malattia simulata, per averselo più ore da solo nella propria stanza. V'ha delle monache che, senza l'intervento del confessore, non ardiscono fare neppure la lista del bucato. Una di queste penitenti vedeva il suo tre volte al giorno; la mattina le portava le pietanze pel pranzo, più tardi, venendo egli a dir messa in chiesa, la penitente lo serviva di biscottini e di caffè, e il dopo pranzo poi ritrattenevasi con lui fino ad ora tarda, per fare (diceva essa) il conto di quanto aveva speso la mattina. Non contenti, del resto, di tante conferenze, si scriveano due volte negl'intervalli delle visite. Un'altra monaca aveva amato un prete fin dal tempo che questi serviva in chiesa da chierico. Pervenuto al sacerdozio, fu fatto sacrestano; ma da' suoi compagni denunziata la tresca che da diversi anni manteneva colla monaca, gli fu dai superiori proibito finanche di passare per la via dove il monastero era posto. La monaca ebbe la romanzesca virtù di restargli fedele per sedici anni, nel corso dei quali si scrissero ogni giorno, si scambiarono regali, e di tratto in tratto si videro di soppiatto al parlatorio. Cambiato finalmente il personale dei superiori, ottenne la monaca, benchè ormai giunta all'età matura, di averselo per confessore. Allora, riconoscente alla Santa sua protettrice della grazia ricevuta, le fece dono di numerose candele e di fiori, dispensò confetti a tutta la comunità, siccome in occasione di sposalizio, gradì le felicitazioni delle compagne, non ricusando anche qualche madrigaletto congratulatorio, e finalmente costruì a proprie spese un confessionale distinto, onde aversi le pratiche spirituali libere a tutte le ore della giornata. Un personaggio, altamente collocato, fece un mattino chiamare la badessa del monastero, e consegnolle una lettera, da lui stesso trovata per la via. Quel foglio, mandato da una delle spose di Cristo al suo prete, era stato smarrito dalla domestica. Le espressioni materiali che in esso leggevansi avevano scandalizzata la coscienza del gentiluomo. Una cortigiana avrebbe fatto uso di più modeste frasi. Un giovedì santo, a notte avanzata, trovandomi nel coro, vidi svolazzare, girando per aria, un foglio, che andò a cadere ai piedi del santo sepolcro: era il viglietto che un’educanda del luogo indirizzava al chierico. Una giovine novizia, non avendo di che fare le spese della professione, pensò di ricorrere alla carità d'un confessore vecchio, ma ricchissimo, coll'intenzione di fargli delle moine, sino a che le avesse fornito il denaro occorrente, ma colla riserva però di surrogargliene poscia un giovine, con cui già trovavasi in recondita intrinsechezza. Il vecchio era di cuor tenero, ma circospetto per propria esperienza; le presentò molti regaletti, ma fu restío a somministrarle il denaro richiesto, essendosi avveduto ch'essa confabulava nel parlatorio con un rivale più giovine di lui. La novizia, indispettita, congedò allora lo spilorcio vecchio, e si prese per confessore il prediletto; perlochè, montato in furia e consumato da gelosia il ripudiato, appostossi presso la porta della chiesa il primo giorno che andò il rivale a confessare la sua penitente: "Prosit," vedendolo, gli disse col fiele in bocca. "Vobis," rispose l'altro sogghignando. Di là a poco il vecchio morì di crepacuore, ed il giovine, perchè povero, fu supplantato da un altro confessore, di meno fresca età, ma fratello d'un ricco funzionario. Essendo inferma una monaca, il prete la confessò nella cella. Indi a non molto l'ammalata si trovò in uno stato interessante, ragion per cui il medico, dichiaratala idropica, la fece uscire del monastero. Una giovanetta educanda scendeva tutte le notti al luogo delle sepolture, ove da un finestrino, che comunicava colla sagrestia, entrava in colloquio con un pretino della chiesa. Consumata dall'amorosa impazienza, non era in quelle escursioni impedita nè dal cattivo tempo nè dal timore d'essere scoperta. Udì una volta un forte strepito vicino a sè: nel fitto buio che la circondava credette scorgere un vampiro nell'atto di aggraticciarsi ai suoi piedi. Erano i topi. Ne fu talmente percossa di spavento, che di là a pochi mesi morì di consunzione. I confessori di comunità sono scelti dai superiori per un triennio, ad uso di quelle monache e di quelle converse che non ne hanno uno particolare, per essere pervenute ad un'età disadatta agli intrighi amorosi. Ora, un confessore di comunità aveva prima della sua nomina una penitente giovane. Ogni volta che veniva per assistere una moribonda, e quindi pernottava nel monastero, la giovane monaca, scavalcando le logge che separavano la sua dalla stanza del prete, si recava presso il maestro e direttore dell'anima sua. Un'altra fu assalita dal tifo; durante il delirio, altro non fece che inviar baci al confessore, assiso accanto al letto. Egli, coperto di rossore, per la presenza di persone estranee, portava innanzi agli occhi della sua inferma un Crocifisso, lamentevolmente esclamando: "Poveretta, bacia il suo sposo!" Sotto vincolo di segretezza mi confidò un'educanda tanto bella di forme e candida di costumi, quanto nobilissima di prosapia, d'aver avuto nel confessionale, e per mano del suo confessore, una lettura (come diceva) interessantissima, perchè relativa allo stato monastico. Spiegai il desiderio di saperne il titolo, ed ella, per farmi vedere lo stesso libro, anticipò la precauzione di mettere all'uscio il chiavistello. Era la Monaca di Didérot, libro, come tutti sanno, pieno di disgustose laidezze, e però nelle mani di un'innocente giovinetta più che libro al mondo perniciosissimo. Dalla conversazione dell'educanda avendo raccapezzato di che in quello scritto trattavasi, le suggerii d'interromperne la lettura, e restituire immantinente lo sconcio prestito. Ma qual fu la mia sorpresa nell'udire dalla tenera zittella non esser essa nuova in letture di simile natura! Per favore del confessore medesimo aveva anteriormente divorato, e per ben quattro volte, un altro libro scandaloso, la Cronaca del monastero di Sant’Arcangelo a Bajano: libro allora proibito dalla polizia borbonica. Io stessa ricevetti da un monaco impertinente, lettera in cui mi significava, che non appena mi aveva, veduta, concepita aveva la dolcissima speranza di divenir mio confessore. Un attillato vagheggino, un muschiato bellimbusto non avrebbe impiegato frasi più melodrammatiche, per domandare se nutrire o soffocar doveva la detta speranza. Un prete (che del resto godeva presso tutti una riputazione d'integerrimo sacerdote), ogniqual volta mi vedeva passare dal parlatorio, soleva farmi: "Ps, cara, vien qua...! Ps, ps, vien qua!" La parola cara in bocca di un prete mi moveva non meno nausea, che raccapriccio. Un prete infine, il più fastidioso di tutti per l'ostinatissima sua assiduità, voleva esser amato da me ad ogni costo. Non ha immagini la poesia profana, non sofismi la rettorica, non scaltre interpretazioni la parola di Dio, ch'egli non abbia adoperate per convertirmi alle sue voglie. Dare un saggio succinto della sua dialettica: "Bella figliuola," mi disse un dì, "sai tu quello che veramente sia Iddio?" "È il Creatore dell’universo," risposi io seccamente. "No, no, no, no! non basta questo," riprese egli, ridendosi della mia ignoranza. "Dio è amore, ma amore astratto, che riceve la sua incarnazione nel mutuo affetto di due cuori che s'idolatrano. Tu, adunque, non puoi nè devi amare Iddio nell'esistenza astratta: devi altresì amarlo nella sua incarnazione, ossia nell'esclusivo amore di un uomo che ti adori, quod Deus est amor.... nec colitur, nisi amanda." "Dunque, nell'atto di adorare il proprio amante, la donna nubile adorerebbe la stessa Divinità!" diss'io. "Sicuramente!" ripetè dieci volte il prete, ripigliando coraggio della mia conclusione, e lieto pel felice effetto del suo catechismo. "In tal caso," ripresi io prestamente, "mi sceglierei per amante un uomo del mondo, piuttosto che un prete...." "Dio ti liberi! figlia mia: Dio ti liberi da quella peste!" soggiunse inorridito il mio interlocutore...... "Amare un uomo del mondo, un profano, un empio, un miscredente, un infedele! Ma, tu andresti inevitabilmente all'inferno! L'amore del sacerdote è amore sacro; quello del profano è vituperio; la fede del prete emana dalla stessa fede prestata alla santa Chiesa: quella, del profano è menzognera, quanto è falsa la vanità del secolo; il prete purifica giornalmente l'affetto suo nella comunione della santissima sostanza: l'uomo del mondo (seppur sente amore) spazza dì e notte coll'amor suo tutti i fangosi ruscelli del trivio." "Ma tanto il cuore, che la coscienza mia rifuggono dal prete," rispos'io. "Ebbene, se non volete amarmi, perchè sono vostro confessore, avrò il mezzo di togliervene gli scrupoli. Alle nostre amorose espansioni premetteremo sempre il nome di Gesù Cristo; così l'amore nostro sarà un'offerta gratissima al Signore, e monterà pregno di profumi al Cielo, siccome fumo d'incenso nel santuario. Ditemi, per esempio: - Vi amo in Gesù Cristo; - questa notte ho sognato di voi, in Gesù Cristo: avrete la coscienza tranquillissima, poichè, così facendo, santificherete qualunque trasporto." Talune circostanze, non indicate qui che alla sfuggita, m'obbligavano a ritrovarmi in frequente contatto con questo prete, di cui taccio il nome. Se non che, ad un monaco, rispettabile per l'età e per la morale, avendo io domandato che mai significasse quel premettere il nome di Gesiù Cristo alle amorose apostrofi, "È," mi disse, "una setta orrenda, e sfortunatamente troppo estesa, la quale, abusando del nome di Cristo, si fa lecite le maggiori nefandità."

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