Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandonarono

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UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

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Bazzero, Ambrogio 1 occorrenze

IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Chiusi dentro nel loro bel vagone di seconda classe, sia che non li avessero avvertiti o che vi fosse gente disposta a divertirsi alle loro spalle, i guardiani spinsero il carrozzone in un prato e li abbandonarono ai dolci sonni. Fu solamente verso le undici di sera che a un terribile fischio d'una macchina che zufolò passando via, essi balzarono su di botto. Si stirarono, si cercarono, si trovarono, guardarono fuori. Tutto è buio, il luogo deserto, il vagone fermo. Che cos'è? dove siamo? Gesummaria! che ora è? La sora Ballanzini getta un grido e sviene. Accorre della gente, portano dei lampioni, è avvisato il capostazione, corre la questura. Figuratevi le risa, il chiasso, il movimento. La sora Ballanzini fu portata da quattro uomini nella sala del buffet . Si dovette aprirle un poco il vestito, spruzzarle il viso d'aceto, e quando il sor Claudio volle ricompensare quella buona gente della loro carità, il portafogli... itibus ... era scomparso. Questo, ripeto, era accaduto l'anno prima; ma dovessero campare cento e un anno, essi se ne ricorderanno sempre. Soltanto a parlarne, la povera signora prova una specie di vertigine, che le par di morire, e un giorno o l'altro vuol pregare qualche poeta di farne un bel sonetto. Immaginatevi ora, se al sedersi di nuovo su quei cuscini e nella medesima circostanza, dovevano ricordarsi dell'avventura. Il topo non casca due volte nella medesima trappola; ma pretendere che il sor Claudio non avesse a dormire, era come un volere che volasse, perciò la sora Ballanzini si assunse tutta la responsabilità di svegliarlo a tempo. In quanto a lei, se il diavolo non aveva proprio giurato di tradirla, non c'era pericolo che velasse un occhio. Infatti dopo un quarto d'ora il marito era già scomparso sotto le grandi ali del suo cappello e sognava già di pigiare dell'uva in fondo a una tinozza. Intanto s'era fatto buio. Un lumicino scarso e fumoso, chiuso dentro una scatola di vetro torbido, spandeva dall'alto quel tanto di luce che basta per vederci a dormire. Il rumore monotono delle ruote, l'abballottolìo, la ninna nanna delle carrozze, ma più di tutto i fumi ed i calori della vernaccia e del rosolio bevuto, tentavano bene di tanto in tanto di accalappiare anche la sora Ballanzini in una rete invisibile e tenuissima di sonno; ma la paura di lasciarsi cogliere all'agguato vegliava in lei come un cane di guardia. Fra il sonno e la paura avveniva spesso a intervalli una specie di baruffa, come fanno i cani e i gatti in un buio sottoscala: e la zuffa serviva a dare alla donna quella scossa che bastasse a svegliarla del tutto. Affacciava il viso alla finestruola, si scuoteva di dosso la pigrizia, finché il sonno più forte di lei non ritornava ad avvilupparla nella sua rete di ragno. Chi certamente non dormiva era il cavaliere Leopoldo Spazzoletti in causa di quel pappagallo che sapete, e che sentiva starnazzare nello stomaco come un pappagallo vivo. Avete mai provato il tormento d'essere strapazzato da una donna che credevate obbediente e docile a tutti i vostri sguardi? Ognuno ha il suo amor proprio e vi affila i coltelli de' suoi mali. Nessuno in trentatré o trentaquattro anni aveva osato buttare sul viso del cavaliere Spazzoletti una parola meno che gentile; anzi egli aveva veduto impallidire e tremare innanzi a sé, e vedeva tuttavia, dei pezzi d'uomini alti come giganti, dei facchini di magazzino forti come tori, che sollevavano mezzo quintale sulle braccia come io e voi il cuscino della poltrona. Tutti dicevano che il cavaliere Spazzoletti era un uomo di grande energia, giusto, insofferente di ogni soperchieria, capace di affrontare da solo uno sciopero di operai e di macchinisti ubbriachi, come si piglia un branco di ragazzacci insolenti. E ora quest'uomo doveva trangugiare i frizzi e i sarcasmi di una pettegola? Capite che se egli sentivasi del tossico in bocca, il torto non era tutto dalla sua parte. Perché avrebbe sopportato da sua moglie ciò che un gentiluomo non perdona al più vecchio de' suoi amici? perché non avrebbe dovuto dominare un caratterino di porcellana? Dopo questi pensieri giurò in cuor suo di non aprire più bocca, finché Margherita non fosse venuta da sé a implorare un perdono, che non si ottiene se non a patto di meritarselo: e una volta fatto questo giuramento, fu come se gli avessero cucita la bocca col fil di ferro. Margherita dal canto suo fingeva di dormire, colla testa appoggiata allo schienale e colle braccia sul petto in un atteggiamento di capitano vincitore che detta i patti della resa. Non minori né meno forti erano le ragioni ch'ella andava ripetendo a sé stessa, come se studiasse una parte da recitare fra poco a voce alta. Leopoldo, pensava, non era sempre stato quel brontolone e quel grande intollerante che da qualche tempo si vantava di essere: ma quante carezze, quante paroline sussurrate nei mesi prima di sposarla! e anche dopo quante promesse poetiche di casette, di nido, di paradiso! Era bello allora, pieno di delicatezze e di cortesia, tenero come una fanciulla, affezionato come un cagnolino. A credergli, egli avrebbe voluto passar la giornata a' suoi piedi, tutto rapito a guardarla in fondo agli occhi, in cui diceva di vedere il cielo, il mare e l'oltremare. A credergli, nessuna aveva occhi più belli, chiome più morbide, mani più alabastrine delle sue, e avrebbe voluto collocare i piedini di sua moglie sotto una campana di vetro per guardarli dalla polvere. Andate a credere a questi canzonatori! Quando vi hanno fra le mani - seguitava sempre la testa di Margherita, che pareva un molino - quando vi hanno fra le mani, fanno anch'essi, i signori uomini, come i ragazzi, che vogliono vedere com'è la bambola di dentro. Allora vi dicono che anche voi siete bambole di stracci e di cartapesta come tutte le altre. Cominciano allora ad annoiarsi del giuoco; non ve lo dicono, ma sbadigliano. Si sdraiano sulla vostra poltrona, una gamba sull'altra, in pantofole, col sigaro in bocca o anche colla pipa, e annerire una pipa diventa per essi un'occupazione più divertente che far carezze a una bambola. Gli affari d'Europa continuava quel molino - diventano a un tratto intricatissimi: il paese è in pericolo; il commercio in cattive acqua; Bismarck e la Russia si guardano in cagnesco. Quindi viene per loro la necessità di leggere due o tre giornali, grandi come lenzuoli, di correre alla Borsa, a un'assemblea di azionisti alla Camera di Commercio. E la moglie? Giungono telegrammi a mezzo il pranzo, sul punto di andare a teatro o d'abbigliarsi per una festa da ballo. Da tutte queste faccende affaccendato il pover'uomo torna a casa stracco, svogliato, pieno di sonno. E la moglie? Egli ha pranzato all'osteria e c'era dell'aglio nello stufato. L'aglio gli fa male, lasciamolo stare, gli passerà. Non c'era più tempo di scambiare due parole insieme, né di prendere un sorbetto a un tavolino dei giardini pubblici, né d'ascoltare cinque minuti di messa in Duomo, l'una accanto all'altro, come si ha il diritto e il dovere di fare. La politica, la Borsa, gli affari - seguitava sempre quel molino a vento - i concimi, il mal di denti, l'egoismo... eccola la gran parola! e tutto ciò sapete perché? le più maligne vi dicono: cherchez la femme : no, no, mie care, questa è la catastrofe. Prima è la bambola che bisogna cercare. E le bambole sono le donne che non sanno cambiarsi gli occhi e i capelli tutti i giorni, ma preferiscono essere come la natura le ha fatte... A questi pensieri se ne mescolano altri. Essa non era nata né per far la serva né per far la monaca. Sua madre aveva nelle vene sangue di dogi, e suo padre era stato consigliere di governo! Il sangue ha i suoi diritti! Non bisogna mai che un marito sia peggiore d'ogni altro uomo, se non vuole soffrire le conseguenze dei confronti. Quando una donna è sulla via dei confronti, è come se avesse sotto le suole il burro, che fa sdrucciolare di più i più arditi e i più forti. C'è sempre a questo mondo un uomo a cui piacerete più che a vostro marito, e allora, o bisogna essere nate di marmo, o bisogna... A questo punto, mentre cioè la sora Margherita Spazzoletti andava annaspando al buio queste riflessioni, il sor Claudio si sentì toccare sul braccio. Siccome dormiva con qualche sospensione, si scosse, aprì gli occhi e senti il suo vicino di sinistra (quel del pappagallo) che lo pregava di lasciarlo sedere presso lo sportello di destra, dovendo discendere alla vicina stazione di Parabiago con una moltitudine di cose da portar giù. - Si figuri! - disse il signor Claudio, alzandosi e cedendogli il posto. Il lumicino era agli estremi e guizzava or sì or no come se gli rincrescesse di morire. Inoltre il cambiamento di posto fu fatto con tanta naturalezza che la sora Ballanzini, la quale forse in quel momento pisolava sulla propria preoccupazione, non se ne accorse. Molto meno se ne accorse la sora Spazzoletti, che ad occhi chiusi, nel suo cantuccio, sdegnata, pensava che o bisogna essere di marmo o bisogna diventarlo. Se si può pretendere sempre che una donna sia virtuosa, non egualmente si può pretendere ch'ella faccia di continuo l'elogio della sua virtù. Vi sono verità che non bisogna mai assumere di dimostrare, se si vogliono credere, e guai alla donna che voi, mariti, obbligate a diventare più onesta di quello che è... Sarebbe lungo ripetere tutto ciò che passò in testa a Margherita, mentre il treno si avviava verso la stazione di Parabiago. Ella non si curava del viaggio, ma più dei patti chiari, che una volta tornati a Milano, intendeva mettere innanzi a suo marito. O così, o così... e se non era così... - Margherita! Le parve ad un tratto di sentirsi chiamata. Si scosse, aprì gli occhi, e prima che avesse il tempo di racapezzarsi, vide la sua vicina dei papaveri balzare come una trappola che si smonta correre allo sportello, precipitarsi giù dicendo: - Aspettami, Claudio... Il signore che poco prima sedeva in faccia presso lo sportello di destra era già disceso. Fu un lampo. I conduttori, cacciati dall'orario, richiusero in fretta gli sportelli, il vapore fischiò, partì come il vento. Margherita lanciò anche una rapida occhiata a suo marito che, immerso nelle tenebre, dormiva o fingeva di dormire. Peggio per lui se pativa di questi mali! ella non lo avrebbe pregato per tutto l'oro del mondo a parlare. Chi tace non perde il fiato e campa un pezzone.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Quindi i preti, come usano, quando trincano fra loro, si abbandonarono a caricature pretesche. Don Iginio Lampanti, vivace ingegno con tendenze demo- cristiane, rifece il verso di un predicatore napolitano al Duomo di Casale Monferrato: * C'era uno villanu, che aveva malata la porchetta, unico tesoro suo; la alzò, la strinse fra le braccia, e la votò alla Madonna, pregando: O Madonna, dispensiera di grazie, salvatemi la porchetta mia, unico tesoro mio ... La Madonna gli fece la grazia di guarire la porchetta sua, l'unico tesoro suo ... E così sorgette il Santuario della Santissima Vergine della Porchetta ... * (sfrenata ilarità, per cui il cerchio delle mani doveva contenere le pancie sbellicanti). Il curatino volle emulare quel successo con la predica dialettale recentissima del pievano di Montecatino Monfrà, che supera quella del pievano di Montemagno dei secoli scorsi: * Vardè, matasse; cherdé pa' da deila d'intende con la vostra bertavela a Nost'Signour. Al giudissi Universal ij sarò mi ai pe' del trono di Dio, e i dirò: Santissima Trinità, Catlina la stiroira a l'è tut aut che na santificetur, come vorria fesse paresse adess ... I so mi, ch'a fatta l'amour da scondon antl la stala con Pero d'l'Osto ... E il Signor a m'à scutrà mi, e nen voiace lengasse polide come 'l baston del gionch, e a ordonrà a Bergnif de piesse la bela Catlina sui brich, e d' campela drinta la caudera pu bujenta d' l'Infern ... L'abate Trippone prevede, che ci vorranno due diavoli a portare la Contessa de Ritz all'Inferno, se non la salverà la Santissima Vergine della Porchetta. Poi accusando uno stomaco di ghiaia asciutta, ricordava papa Martino del Torso, quello delle anguille annegate nella vernaccia, e ne ripeteva la conclusionale di ritorno dal Concistoro: Quanta mala patimur prae Sancta Ecclesia Dei Jesus ... bibamus. Il priore anfitrione con il polso tuttavia fermo sta per versare un'altra bottiglia, quando scocca la mezzanotte e tronca automaticamente la cena per il digiuno della messa mattutina. Recitato con improvvisa compunzione l'agimus tibi gratias , la seduta è sciolta. E il baroncino Svolazzini, tirando su i cernecchi biondi dalla fronte, che una volta era apparsa erroneamente cretina, meditò: * Che danno recano alla Società i preti, se anch'essi mangiano e bevono, senza fare del male a nessuno, anzi si sostengono per fare poi della carità al prossimo?! * * * Il Conte De Ritz ed Adriano Meraldi vennero con molte cautele trasferiti il primo al suo Castello di Ripafratta, e il secondo alla casa paterna e materna di S. Gerolamo; ambidue con le migliori speranze di guarigione, che possono dare le cure terrene, avendo ambidue l'assistenza dei rispettivi genitori. Nonostante le inchieste giudiziarie, amministrative ed ecclesiastiche, la grande tempesta addensatasi sull'Ospizio del Santo Oblio parve per il momento sciogliersi in un bicchiere d'acqua. Ringraziando la Provvidenza Divina del miracoloso favore, Suora Crocifissa volle mantenere la promessa di aiutare il baroncino Svolazzini nella sua testarderia matrimoniale. Indarno il canonico Puerperio, ossia Giunipero, bofonchiava: * Adagio, adagio a ma' passi. Svembaldo, proprio al Sant'Oblio, riuscì a sposarsi religiosamente la sua Gilda di Simone, confermando i nodi allo Stato Civile di Passabiago. Per assicurarsi l'indipendenza economica, egli aveva ottenuto un posto in una acciajeria a S. Pier d'Arena. Il suo matrimonio, secondo le previsioni del Canonico protettore, fu certamente un passo falso calamitoso per l'Ospizio. La baronessa madre ne ricevette tale colpo da parere stecchita con gli occhi di ceramica e i denti lunghi di smalto. Il barone padre, che per lustrare la sua nobiltà napoleonica a quella delle Crociate, faceva le smorfie a recarsi in senato a Roma tolta al Santo Padre, ora precipitò a giurare a Palazzo Madama, e fece presso il governo usurpatore i maggiori sforzi per la soppressione del Sant'Oblio, e avutone il destro con l'alleanza di una principessa dell'Aristocrazia Nera non risparmiò le sue sollecitazioni all'Augusto Prigioniero del Vaticano, perché fulminasse di scomunica quell'istituto di mezzaneria sacrilega. Onde all'Ospizio fondato da Suora Crocifissa e dal Canonico Puerperio ossia Giunipero si preparava la sorte del prete martire Tazzoli impiccato dall'Austria e sconsacrato dal Papa. Non rimase in panciolle la Massoneria. E non tardarono a manifestarsi sintomi gravi di quell'agitazione contra il pio istituto. Anzitutto apparve un tremendo articolo sulla Gazzetta del Popolo di Torino nella rubrica del Sacco Nero allora destinata a mazzerare preti, frati e monache. Se ne attribuì con qualche approssimazione la paternità al dottore Giambattista Bottero, patriota, padre, cane guardiano del liberalismo progressista irreducibile da ogni riserva conservatrice, tetragono ad ogni seduzione clericale o clericaleggiante. Senza titolo, tra due sbarre, come una necrologia, l'articolo si conficcava, si incastrava, saldo al pari di un mattone o di una lastra tra le colonne del giornale. Cominciava: " Avremmo voluto intitolare queste righe Cose Medioevali , se la trascendente novità non fosse Cosa dell'altro mondo" . E l'articolo procedeva velenoso, come se rigirasse, invece di caramelle, uno scaglione in bocca all'articolista. " Metteva il conto che con la firma di un re da noi battezzato GALANTUOMO, si promulgassero le leggi di soppressione degli ordini religiosi, e che con la sottoscrizione promossa dal nostro giornale si innalzasse l'obelisco Siccardi per l'abolizione del foro ecclesiastico, meritava che si versasse tanto sangue di martiri e soldati, si consumasse tanto fosforo di pensatori, e si spandessero tanti inni, o se vogliamo, ragli di poeti, per la libertà politica e religiosa, quando le leggi dello Stato Italiano diventano come gli antichi ordin d'Turin, ch'a duravo da la seira a la matin, e quando i voti migliori del popolo italiano vengono proprio considerati dall'alto come ragli d'asino indegni di salire in Cielo? Non si potrebbe con insipienza più asinina né più supina tollerare e forse fomentare ciò che si tollera e si fomenta dal nostro sgoverno a favore della Santa Bottega gesuitica. Mentre la sana Germania con il suo cancelliere di ferro ricusa di ritornare a Canossa, vi si incammina la bigotta, pellagrosa Italia con la sua politica di polenta fatta di mais avariato a implorare perdono di essersi lasciata condurre in Campidoglio tirata per un orecchio e spinta a calci nel preterito. Si domanda perdono delle balossade confessate da un fossile bigottismo. Nel più bello del Piemonte, che si direbbe inutilmente inaffiato dal sangue di Andrea Vochieri, si lasciò formare e si lascia prosperare e spadroneggiare un nuovo nido claustrale di infezione loiolesca. Tutto l'armamentario dell'antica inquisizione con i cavalletti, i trabocchetti e gli in pace , è congiunto al comfort moderno parigino-americano, dernier crì d' la mode, fin du siècle . Si parla di vere corride di tori ecclesiastici, e di caccie muliebri esercitate coi cappelli da prete, come si trattasse di lucciole o farfalle, orgie di sacerdoti di Bacco e sacerdotesse di Venere. Un orrore di lue sanguinosa alla tenera infanzia, da spaventare la fantasia di Mefistofile perforatrice degli angeli. Impedita violentemente la fuga delle recluse stomacate; un succhionismo adoperato larghissimamente sulle ricchezze peccaminose e sulle disgrazie cordiali; manipolati i matrimonii di giovani ricchi e imbecilli con le serve dell'istituto a disperazione di nobili madri, a corruccio ed onta di alti benemeriti intemerati patrioti. Insomma un pervertimento di antico e nuovo genere tale e tanto da attrarre un onorevole rappresentante della nazione e genuino eroe dell'epopea garibaldina, e un valido campione della stampa internazionale a rompersi definitivamente la testa contro il cancello di questo nuovissimo Eden infernale. Noi osserviamo semplicemente che tutto ciò non è tollerabile con le tradizioni morali del nostro antico e forte Piemonte, a meno che non lo si voglia convertire in una casa di tolleranza cattolica. In altri tempi noi abbiamo condannato irremissibilmente le circolari reazionarie del ministro Pernati, come circolari per ... natiche; ma ora non siamo disposti assolutamente a permettere che le leggi liberali del Regno d'Italia siano considerate realmente, come leggi per ... natiche. Nei giorni nefasti delle sconfitte e delle fughe del 48 e del 49 noi non indarno abbiamo minacciato due dita nella gola ai generali traditori: siamo disposti a ripetere il gioco davanti a un'amministrazione traditrice della libertà. Lo si senta bene anche in alto. Se esistono ancora membri non bacati del Gabinetto, non si lascino corrompere dalla fetida Consorteria caduta sul lastrico di Torino insanguinato da lei vilmente. Uno sgoverno avvisato può essere ancora un governo mezzo salvato." * * * A questo articolo del Popolo di Torino, rispondeva la Perseveranza di Milano con un' articolessa degna della marchesa Paola Travasa. L'articolo dell'organo magno della consorteria lombarda era firmato dottor Bambagino; e venne erroneamente attribuito a Ruggero Bonghi. Certo in quella prosa si scorgeva una pretesa involuta, accartocciata di sottigliezza rosminiana ed arguzia manzoniana nella superbietta sofistica della Magna Grecia; una pretesa di far sentire il sonito della chioma sulle spalle dell'Apollo omerico con i rari e corti ricci spioventi da una pallida calvizie e una risata stridente di pavone. Ma dopo lo sfogo della critica letteraria, salviamo, districando, la sostanza delle verità avviluppate. Ecco un sunto del lungo articolo intitolato: Anacronismo di Giacobini spostati. Il dottor Bambagino cominciava col deplorare schiettamente lo sciupo di forze fuori di tempo e fuori di luogo: anacronismi ed anatopismi. Senza inchinarsi eccessivamente alla gazzetta cosidetta veterana della libertà costituzionale e dell'unità nazionale , era disposto a riconoscere che il dottor Bottero aveva potuto fare qualche bene al servizio del Cavour, e potrebbe ancora farne, rievocandone gli ammaestramenti. Se non si era potuto andare a Roma coi mezzi morali prescritti dal gran Conte, si dovevano applicare per rimanervi; e non già con una revulsione antitetica del cavourrismo risuscitare quel giacobinismo ostile non meno alla morale che al diritto della libertà, mentre sarebbe più opportuno divulgare un manuale del perfetto girondino. Omnia tempus habet . Secondo Pindaro, il tempo a tutto è padre. Anche il giacobinismo distruttore semplicista ebbe la sua ora locale. Quando l'oscurantismo clericale era una selva selvaggia aspra e forte, fu buona la scure. Ma ora è un peccato, che si sciupino armi, strumenti e valori di altri tempi. Ora abbiamo bisogno di costruire, vivificare, e non di fare nuove carneficine, produrre nuove ingombranti macerie. Quando l'eccessiva Rivoluzione francese uccise i preti a torme, come gibier noir , incarnava e preparava peggiori tirannidi. La nostra immacolata evoluzione italiana, acquistando Roma, non solo ha dato una capitale alla nazione, ma ha risolto il problema più delicato e geloso del mondo civile, togliendo il potere temporale al Sommo Pontefice del Cattolicismo e lasciandone nobilmente, puramente libero lo spirituale. Bisogna svolgere gli effetti dell'importante avvenimento con le massime cautele della libertà sperimentale. Allorché si abolisce una istituzione corrotta, non si ha a credere distrutto il germe, che ha dato ragione alla sua vita sana. L'umanità per non abbrutire avrà sempre necessità della religione, che la colleghi ad un Ideale Eterno. L'anima religiosa avrà sempre uopo della ritiratezza per salvarsi dalle insidie e crudeltà mondane. Non forziamo vocazioni; non combattiamo la Natura onesta, per astringerla a disonestà. Sia anche permessa la propaganda contro il celibato forzoso dei preti. Insomma riformiamo ma non distruggiamo. E soprattutto riconosciamo lealmente che negli strati sociali, che si passano della religione, ha luogo maggiormente lo sfruttamento della dissolutezza, la speculazione sul vizio, sale of dissipation , come dicono i buoni nord-americani, che veggono con orrore evangelico dilagare mondanamente l'industria dell'immoralità. Noi cattolici abbiamo molto da imparare dai protestanti. Qui il dottor Bambagino, citando l'Inghilterra maestra di libertà costituzionale, recava a cagion d'onore l'esempio della baronessa Burdett-Coutts, la quale con la penna di Carlo Dickens rivolse un cordiale invito alle donne perdute nella notte, affinché accettassero da lei un ricovero di onesta sorella: " Vi è, scrisse per lei il romanziere della buona arte e del buoncuore, vi è in questa città una signora, che dalla sua finestra ha veduto tante donne andare come voi in mezzo alla notte, e il suo cuore si è rattristato nel vedervi. In questa dimora, che sorge in un ameno bel paesaggio, sarete ricevuta con affetto ... Condurrete vita, sana, lieta, attiva. Apprenderete dei doveri, che è bene conoscere; e dimenticherete tutto quanto avete appreso di cattivo ... Incomincerete una vita nuova ... Venite, o mia sorella." Ebbene la baronessa Burdett-Coutts sarà nominata, la prima fra le donne, pari d'Inghilterra su proposta di Gladstone; prima fra le donne avrà onoranze funebri nell'Abbazia di Westminster tra i grandi benemeriti del Regno Unito; e tra onoranze vitali avrà potuto campare quasi centenaria, ciò che le auguriamo di cuore. Invece noi distruggeremo, calpesteremo, disperderemo l'opera similare di Suora Crocifissa; e la faremo morire immaturamente di crepacuore. È questo, domandava concludendo il dottor Bambagino, è questo il vostro programma, o crudele dottor Bottero? No! Le vostre crudeltà vogliono essere soltanto chirurgiche. Mandate i ferrovecchi al Balon . Guardate coi vostri formidabili occhiali al presente e all'avvenire. Dottor Bottero, già utile messo cavouriano in Sicilia e in Calabria! La lancia, o la lancetta, o meglio la penna in resta per la libera Chiesa e il libero Stato del Conte Camillo Cavour. E soprattutto adelante Don Giovanni dott. Bottero, adelante con juicio ! * * * Il Ministero stette un po' in tentenne senza risolversi a che pesci pigliare. Ma, oltre il desiderio di non parere arretrato di fronte ai progressisti, che volevano scavalcarlo, si aggiunse l'intransigenza clericale a determinare la politica rigidamente anticlericale, per cui andò insigne la Destra moderata al Potere. Figuriamoci, che nello stesso Piemonte da secoli devoto alla Dinastia di Savoia, casa di beati e di Santi, i nuovi vescovi ricusavano di domandare il R. Exequatur. E il Governo, impadronitosi delle loro laute mense, costringerli a vivere a stecchetto in seminario. Per l'Ospizio del Santo Oblio si cominciò ad ordinare una severa inchiesta, la cui commissione presieduta dal comm. Accademone prefetto di Torino era composta di un magistrato dell'ordine giudicante (il consigliere d'appello conte Roberto d'Altavilla) di un sostituto procuratore generale (barone Ernesto Monasteri) di un ispettore demaniale per la parte economica amministrativa (cav. uff. Michele Pagliazzi) e per la parte didattica di un professore, che era il nostro Spirito Losati. A lui voleva tenere compagnia la moglie per impulso di appagare una cordiale, se non legittima curiosità, e rendere possibilmente qualche sorellevole servizio all'amica Contessa Nerina. Il marito le obbiettò a lungo, che in un governo costituzionale tutto teso sui limiti dei varii poteri era impossibile la larghezza patriarcale dei governi paterni, che comunicavan i poteri in famiglia. Ma il comm. Accademone, antico borbonico, funzionario facilone che si vantava di idee e maniche larghe, divisando eziandio di procurare uno svago estetico alle fatiche incresciose dei commissarii, pensò di aggregare la signora Lorenzina Losati Calzaretta quale ispettrice referendaria dei lavori femminili. E chi sa, aggiungeva in comitato segreto con una avvedutezza da presidente Ajossa, chi sa non ci aiuti a cavare meglio il verme dalla superiora? Spirito Losati, che si era votato, precipitato al suicidio per il matrimonio di tota Nerina con Federico De Ritz, Spirito Losati, che era stato salvato dalle acque per la vigile pietà di Lorenzina Calzaretta sposa donatale da Dio, ora attendeva a studi profondi sui santi padri del Risorgimento Italiano per trovare la via di uscita rettilinea ai destini d'Italia e del cattolicismo dopo la liberazione di Roma. Poiché nel disegno di legge per guarentigie al Sommo Pontefice si era stralciata letteralmente una profezia del Rinnovamento giobertiano, egli avrebbe voluto compire l'opera; alla libertà esteriore della Chiesa cattolica, fare corrispondere una riforma interiore di essa. Questo il binario della nuova via: una libertà attiva per i patrioti cattolici e per i galantuomini e scienziati universali. Da questo binario rettilineo accennò di farlo deviare la prima vista della Contessa Nerina rinchiusa nel Santo Oblio. Essa gli rivolse uno sguardo implorante di martire. E fece il resto e più gettandosi nelle braccia della ottima signora Lorenzina. Noi non vogliamo in un romanzo riferire gli atti testuali di una Commissione d'Inchiesta, che pubblicati in una edizione ufficiale costerebbero all'Erario dello Stato una sessantina di mila lire, forse compresa la discreta mancia alla intramettenza di qualche onorevole perito di tariffe. Ci basta darne il sugo. L'indagine principale versava sulla libertà personale delle maggiorenni ricoverate. Dimostrandosi violata questa garanzia statutaria, il ritiro del Sant'Oblio, secondo la logica giacobina, non aveva titolo per sussistere, se non era una prigione dello Stato, o un manicomio autorizzato. Il Sant'Oblio non era evidentemente né una cosa, né l'altra. Ergo ... * È una istituzione religiosa! * affermò la superiora Suora Crocifissa. * Di quella religione cattolica * soggiungeva il canonico Giunipero * contemplata nel 1o articolo fondamentale dello Statuto del Regno ... Il Commissario conte Roberto d'Altavilla oppone la scuola storica di Savigny, per cui articoli di leggi e di statuti cadono di fatto come foglie secche. Così è stato della coccarda azzurra, così sarà della guardia nazionale ... * Ma * rintostava il canonico Giunipero: * Ma ci vogliono dichiarazioni autentiche di caducità ... Se no, sottentra l'arbitrio dei funzionarii, i quali dovrebbero soltanto applicare le leggi notoriamente promulgate e non cassate. Si ritorna ai colpi di bastone ad arbitrio di Sua Eccellenza. La logica canonicale offese non poco la dignità dei magistrati inquirenti. Ma più grave danno a sé e al Santo Oblio produsse nei suoi responsi la superiora Suora Crocifissa, la quale possedeva il genio della carità dittatoria, non la pieghevolezza per salvarsi dalle circuizioni di una ostilità inquisitoriale. Il quesito decisivo era quello rivolto alle ricoverate maggiorenni: se erano entrate nel Ritiro di spontanea volontà, e se non preferivano uscirne. Quasi tutte si sentivano penetrate dagli sguardi della Superiora, le cui pupille dilatate e vibranti raggiavano e dardeggiavano come stelle. Per quel fondo di sincerità generosa, che si trova in tutte le anime non omninamente distrutte, le poverette sentirono l'impulso di salvare quella Madre Spirituale che si era consacrata alla loro salvezza; e risposero che nessuna costrizione esteriore le aveva condotte là dentro, e ci rimanevano volontieri per la salvezza delle anime proprie e per dare gloria a Gesù e a Maria. * Ma * osservava l'alto e membruto prefetto comm. Accademone presidente della Commissione, scotendo sulla pancia la catena dell'orologio, la quale collegava le due tasche del panciotto: * come va, che ci è stato un tentativo di evasione spontanea? * Ciò non vuol dir nulla! * controsservò il commissario barone Monasteri studioso della nuova Scuola Antropologica positiva: * Il germe patogeno della rivolta incosciente può essere stato portato dal vento in questo ritiro, come le statistiche dimostrano, che è portato periodicamente in qualsiasi comunione umana, anche governata dalle norme e dalle personalità più caritatevoli e più savie. Le suddette risposte e le suddette spiegazioni avrebbero dato del filo da torcere ai maleintenzionati contra il Santo Oblio, se la superiora con la sua rigidità intransigente non si fosse data da se stessa della zappa sui piedi. Alla domanda, se le ricoverate maggiorenni potevano mai uscire liberamente dal recinto, essa rispose categoricamente: no! Da quel no inchiodato non valsero a svellerla le ciglia inarcate di tutti i commissarii. * E perché no, assolutamente no? * Perché lo scopo del Sant'Oblio è appunto di preservare le ricoverate dalla contaminazione del mondo. Le esigenze morali della superiora, che avrebbe voluto la moralità anche nelle galline e nei piccioni, non le permettevano di transigere sulla regola del suo Istituto. * E chi vi dà il diritto di limitare la libertà personale a cittadine non colpite da mandato di cattura e sprovviste di fede medica per il Manicomio? * La Santa Fede. * Ritorniamo * volle dire il canonico Giunipero, ma con la sensazione di mettere un piede in fallo: * ritorniamo all'applicazione del primo articolo dello Statuto. * Basta! * impose il Presidente della Commissione, oscurando il volto, come se spegnesse i lumi al suo proscenio. Era rimasta da esaminare la Contessa Nerina De Ritz-Vispi, la quale rinchiusasi nella sua cella in preda alla più commovente emozione ricusavasi ad ogni interrogatorio ufficiale e gemeva, che non voleva altra compagnia fuorché quella della sua amica, sorella di cuore , signora Lorenzina Losati mandatale visibilmente colà dalla Divina Provvidenza. I commissarii si dicevano troppo cavalieri per violare la consegna, e forse il segreto di una gentildonna; e incaricarono la signora Losati delegata per l'ispezione dei lavori femminili ad essere sottoinquirente intima di quella spettabile reticente. La nota direttiva finale di Nerina persisteva nel parere vittima ed essere carnefice. Perciò adottò il sistema dell'abbandono per essere sollevata; e adoperò la più feroce eloquenza con le tacite lagrime ed i singhiozzi compassionevoli. * Soffre, soffre immensamente. * Fu la relazione conclusionale della sottoinquirente signora Losati. E questa conclusione fu presso la Commissione più efficace di qualsiasi dimostrazione diffamatoria. Non tardò ad uscire il decreto ministeriale, che scioglieva il ritiro detto del Sant'Oblio nel Comune di Passabiago Monferrato, e si incaricava dell'esecuzione il Prefetto della Provincia di Torino con incarico di far tradurre per mezzo di funzionarii della Pubblica Sicurezza le ricoverate presso le rispettive famiglie, o in difetto, al Comune di origine, e, se povere, alle Rispettive Congregazioni di Carità. Figuriamoci, come potevano provvedere, rimediare a quella cacciata certe congregazioni di carità con l'unica rendita consolidata di 75 o 50 lire all'anno! Allorché il delegato di Pubblica Sicurezza avv. Egidio Lapislazzuli seguito da una squadra volante di questurini si presentò al Santo Oblio per l'esecuzione del decreto, Suora Crocifissa pareva disfatta dopo aver voluto baciare e benedire tutte le bandite, che essa invano aveva sperato restituire da un Paradiso terrestre al Paradiso celestiale. Essa si era raccomandata al Canonico Giunipero, affinché si facesse in pezzi per trovare un appoggio, un altro ricovero onesto alle disgraziate. Essa stessa per suo conto si era fatta centimane a scrivere lettere di raccomandazione a tutte le vecchie contesse, marchese, banchiere, industriali di sua conoscenza, a tutti i generali e magistrati giubilati, che avendo già un piede nel sepolcro si sentivano vicini a rendere conto a Dio e inclini a fare del bene al prossimo. Ma essa sempre sperò, che la Misericordia Divina allontanasse il giorno dell'esecuzione del decreto. Quando venne il giorno fatale, essa inginocchiatasi davanti l'altare maggiore della sua chiesetta pregò pregò tutte le sue preghiere. Ma dai meccanici Pater ed Ave esalava un sentimento storico: * O chiesa millenaria, che da Carlo Magno a Napoleone hai viste tante invasioni e tante sventure, tante liberazioni e tanti sollievi, che hai guarita la pazzia del conte Orlando e hai dato conforto ad artigiane tradite e maestre licenziate, o chiesa di Dio, concedi tuttavia un ristoro a questo abbattimento. Invece la superiora cadde svenuta. Il canonico Giunipero additandola al delegato di Pubblica Sicurezza, mentre essa rinveniva per le ultime cure delle sue beneficate, uscì in questi termini: * Signor avvocato, e forse cavaliere! Noi inermi non possiamo lottare contro la vostra forza armata. Ma notate: se io divenissi infame, come tante rispettate persone, che so io, ed in questo fabbricato legalmente mio, che Voi fate forzatamente sgombrare di tante anime pie, io domandassi di istituire un postribolo secondo i vostri regolamenti, un postribolo- villeggiatura, io sarei tollerato e non solo tollerato, ma protetto, privilegiato ... O vergogna della civiltà liberale! Appena si vide nel suo fabbricato vuoto delle disgrazie umane e della vita spirituale, che egli e Suora Crocifissa avevano voluto addensarvi, egli per l'educazione classica sentì quasi un sollievo nella visione del Giove oraziano, pater deorum, rubente dextera sacras iaculatus arces. Esula dall'euritmia del nostro racconto il seguire le varie sorti delle numerose espulse, di cui alcune troveremo tuttavia nell'orbita della protagonista. Di essa dobbiamo principalmente occuparci. La Contessa Nerina, perpetua Dea dei Capricci, dopo avere provate le emozioni claustrali ed essersene liberata, si vide ancora dinnanzi una lunga gamma musicale da suonare per esaurire il programma della sua vita: Capricci per pianoforte , programma quasi consono al fortiter et suaviter dei gesuiti. Perché il trapasso non fosse troppo dissonante dal ritiro del Santo Oblio al ritorno mondano, essa vagheggiò di ripigliare la parte di infermiera, che già aveva sostenuta così bene a Firenze, quando il suo primo marito era curato della gloriosa ferita di Mentana. Anzi ora essa fantasticava di progredire nella carriera e diventare una infermiera scienziata, come una nurse inglese. Se non che intendeva applicare la sua scienza pratica non più al primo marito, i cui genitori d'altronde non l'avrebbero ricevuta, ma al secondo, che essendo un celebre scrittore l'avrebbe rimorchiata alla posterità. A San Gerolamo, dove Adriano Meraldi degente aveva la migliore cura dalla sua semplice maman e dal suo bravo papà, Nerina avrebbe rivissuto gli idillii giovanili, che impropriamente essa chiamava innocenti, poiché la tenera Aracne vi aveva tessuta la ragnatela per acchiappare i moscerini, non ancora emancipati da lei, benché divenuti mosconi. Il padre di lei si oppose irremovibilmente a quel divisamento. Nella sua testa di droghiere consumato si era assodata la convinzione, che l'unica riparazione di certi enormi peccati o misfatti mondani era nella segregazione giudiziaria o religiosa dal mondo. * Adunque, Nerina, dato che tu eviti la prigione per la tua bigamia, almeno rinserrati in un chiostro. Se mancano in Italia, chiostri non mancheranno all'estero. Gli ottimi coniugi Losati credettero di rappresentare, in mancanza di meglio, la Divina Provvidenza offrendo essi ospitalità generosa all'amica contessa. La loro modesta, ma intemerata casa, sarebbe naturale e logica transizione, tra la vita del chiostro ed il ritorno alla vita familiare. Nerina accettò con uno slancio di riconoscenza quell'offerta, che le permetterebbe di penetrare a fondo un ambiente di borghesia modello e probabilmente guastarlo come un giocattolo. Sì! Vero modello di borghesia: il nonno per antonomasia, macellaio emerito, che serbava un passo e un vocione da far tremare i vetri, e non aveva ancora bisogno degli occhiali per leggere Il Diritto , organo della Democrazia italiana ; la moglie Lorenzina, l'anima popolana più rettilinea, che sia entrata nell'intelligenza e nella virtù borghese; la bambina Cecchina di tre anni, un fiore per le guancie e pei capelli, una luce per gli occhi furbetti e carezzosi, una civettuola innocente per gli inchini, un amorino, un'angioletta in tutto; e lui, il padre, il marito esemplare, il prof. Spirito Losati, che dalle crudeltà infantili, e dal vulcano esplosivo di una passione d'adolescente era uscito redento, temprato in un equilibrio di studio, amore e sanità. Serbava a lungo il calore come una pietra di fornace. Senza mancare per nulla alla sua cattedra di professore, alternava lo studio rigoroso e passionato del problema religioso e civile, dopo la breccia di porta Pia, alla amena cura di una 2a edizione della sua fortunata, benché scabra, traduzione di Anacreonte. Fu Anacreonte, che produsse un'incrinatura al metallo corinzio del vaso di sue virtù? Certamente la filosofia e la poesia pagana non è fatta per serbare immacolata la purezza dei sentimenti cristiani. Quando egli studiava l'immenso Vincenzo Gioberti, feroce anche contro i vizii illustri del Byron, Spirito Losati si sentiva nell'anima flavilli, ch'aveano spirto sol di pensier santi . Ma quando ripassava il suo Anacreonte, uno sciame di genietti lascivi lo tormentava, come nel prologo del Faust; alcuni di quei folletti gli scantuffiavano i ricci neri della testa poderosa; altri gli pesavano plumbei sopra un ginocchio o sopra un piede da farlo arrancare. Egli si provava a cacciarli con una minaccia da Mefistofele napolitano. Con fiotti torrentizii di bile giobertiana scomunicava l'amor socratico, l'amor platonico, come idealizzazione, glorificazione di ignominiosa pederastia. Pure era così artisticamente leggiadro quel Batillo di Anacreonte ... E quella Ciprigna dal rosato seno ! * Oh! con Batillo Ganimede, che mi porga il nappo di nettare, avendo a lato Ciprigna dal rosato seno, cinto il crin d'edera bruna, sdraiato calco coll'animo tutto il creato. La contessa Nerina in casa gli era il commento vivente, seducente di Ciprigna dal rosato seno. Con sapienti scuciture della serica veste sul busto scultorio, scuciture, che si scordava risarcire, con il calorico estasiante di fortuite necessarie vicinanze, essa gli comunicava desiderii peccaminosi, rovelli incendiarii. Gli scompariva dinnanzi l'onesta bellezza di quell'ambiente famigliare. Quando si era vicini a dare in tavola, e il nonno impaziente di avere la bambina sua subordinata commensale ordinava: ciamela, coula benedeta masnà, deje 'na cichinada , la comparsa di Cecchina era come la vista di un fiore ordinario da fieno ed inodoro per lo straniato papaloto. L'antica servitù più non lo contentava. Egli che già poteva dirsi servo dei servi sul serio, mentre il papa si firmava tale per finta, ora aveva frequenti cose a ridire contra la vecchia cuoca brofferiana Marcolfa, contra la cameriera Barberina, e contro il domestico carrozziere Bertrame, personale inamovibile, secondo lo statuto patriarcale, passato dalla casa Calzaretta alla casa Calzaretta Losati. Che più? Egli si sentiva svanire l'amore per la sua penelopea consorte. La consuetudine smaga l'estetica; le necessità uxorie sono prosa, che elimina la poesia dell'amore. E quando l'amore viene meno, allora sfiorare un seno di ninfa è come toccare una palla di gomma elastica od una pera di guttaperca; premere un piedino di dea, è come manomettere un soprascarpe di cautciù. Invece nell'accensione erotica per la Contessa, ogni materialità di questa gli diventava un poema ideale; i legaccioli degli stivaletti di lei, anche impolverati, gli diventavano un cinto di Venere, un laccio di amore, un laccio da strangolarvici dentro, se egli non fosse giunto a possedere la Diva sullodata. La sua virtù oramai zoppicava maledettamente. Egli si sentiva pervertito anche nella interpretazione dei suoi classici prediletti. Egli, che già aspirava all'alta gloria di dare alla Patria Italiana e all'Umanità un valente filologo, un filosofo riformatore religioso e un virtuoso cittadino, ora si sentiva invasato dall'ossessione brutale di possedere Nerina. Egli rimpiangeva, rievocava i tempi, in cui coltivava la sola parte spirituale di sé; sentiva fastidiosi i legami, onde il suo spirito era avvinto al corpo, e anelava sciolto dai terreni impacci, di ricongiungersi al sommo Bene. Ma Nerina nel ritiro del Santo Oblio aveva accumulato tante energie di elettricità amorosa, che la sua batteria era inoppugnabile. La voglia di lei entrava come succhio afrodisiaco anche nelle più serie e sante di lui letture. Spirito Losati profanava, applicando a Nerina con doppi sensi salaci da Nice del Guerrin Meschino , la sua assidua, quotidiana lectura Dantis , il suo breviario poetico. Così nelle sue procaci speranze, la mossa spirituale della santa Contessa Matelda è profanata in un programma di facile conquista della porca contessa Nerina: Come anima gentil che non fa scusa Ma fa sua voglia della voglia altrui, Tosto com'è per segno fuor dischiusa. E già Nerina è per lui La bella image, che nel dolce frui Liete faceva l'anime conserte. Ma così audace nell'oscenità dei doppi sensi letterarii egli trovasi impacciato, più di un seminarista nel fare realmente la corte a Nerina. Basti dire, che incredibile dictu ! egli era vergine prima del matrimonio. Deve Nerina, somma sofista del cuore, casista inesauribile del sentimento, egoista raffinata dei sensi, intraprendere direttamente la seduzione di Spirito Losati. Un giorno, in cui la signora Losati con la sua Cecchina si era recata nel gabinetto di un prezioso dentista, per cui aveva fissato l'orario tre giorni prima, e la servitù di casa era tutta occupata altrove od altrimenti, il prof. Losati si sprofondava caldamente nel suo studio a rileggere i Prolegomeni al Primato Civile e Morale degli Italiani di Vincenzo Gioberti. Al profondo e focoso lettore balenò la visione che il conte Federico De Ritz dei migliori tempi rappresentasse l'ideale giobertiano dell'uomo pelasgico innestato nel cattolico, avente per contrassegno speciale " il genio virile, la gioventù del cuore, il fiore dell'età maturati dal senno, l'operosità, la maschiezza, che è quanto dire la natura umana nel colmo delle sue forze e della sua perfezione" . In quel punto apparve la Contessa Nerina davanti la libreria, come Venere sorta da un mare spumante di idee. E sembrò comicamente aristofanesca la situazione del prof. Spirito Losati forse costretto a tradire l'uomo pelasgico cattolico, immediatamente dopo l'apoteosi. Nerina con un gesto da Beatrice e Laura fuse in un solo invito di paradiso terrestre gli offre e porge una delle prime rose sbocciate in quel tardo aprile. Losati accalappiato con il capo chino confuso ardisce baciare quel fiore. Nerina desiosa di essere baciata fin dentro le carni, sorride dentro l'anima con disprezzo di quel pusillo, che si crede audace; ed ammagliandolo dagli occhi grandi e luminosi mostra sulle proprie labbra lo sboccio di un bacio, come il fiore più bello del Paradiso celeste. Losati coglie avidamente il bacio. Nerina con un gemito, un sussurro confidente, imperioso, supplice: * Qui no! Spirito Losati, dopo avere accettato e prolungato il primo bacio peccaminoso, sente tale palpito di rimorso profondo da soffocargli il cuore, tale mortificazione intima e cervellotica, da farlo vagellare nel proposito ossia nello sproposito di emigrare in America.

Piccolo mondo antico

674676
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

I suoi grandi, compunti occhi neri si ravvivarono quando il signor Giacomo pronunciò un gran soffio finale, e i colleghi, lasciate le carte, si abbandonarono sulle spalliere delle rispettive seggiole a riposare alquanto, a ruminar il piacere del giuoco. Finalmente il suo signore si avvicinò al canapè, le fece segno di alzarsi. Per la prima volta in vita sua, forse, ella fu contenta di salire in barca, con grande meraviglia del Puria il quale dichiarò che sul lago, di notte, era un "fifone". È vero che a cento passi da Cressogno l'orrore del lago e delle tenebre la riprese. Pensò allora con invidia al curato del quale udiva la voce sopra il Tentiòn, fra gli ulivi. "Addio, fifone!", gridò Pasotti. Il "fifone" non udì. Egli e il Paolino discorrevano sottovoce ma con gran calore, commentando le parole della marchesa, del prefetto, di Pasotti, cercando di frugar nel cuore della vecchia, disputando se vi fossero pietà e rimorsi. Il curato era per il sì, il Paolino per il no. Il Paolon precedeva con la lanterna mettendo continui, inintelligibili grugniti. Il Paolino andò poi mordendo tutto che fosse da mordere, la durezza della marchesa, la malignità di Pasotti, la dabbenaggine di sua moglie, la cortigianeria del Cima, la temerità del prefetto, le pazzie di Luisa e di Franco, la debolezza dell'ingegnere Ribera, tante altre colpe di vivi e di morti. Durezze, debolezze, malignità, ostinazioni, cortigianerie: dappertutto, secondo lui, c'era in fondo quell'egoismo porco. "Che gran mond mincion!", fu il suo riassunto finale. "Ch'el senta car el me curat, quand gh'è quel poo de ris e verz con quel poo de formagg per sora, lassèm pür andà tüsscoss al diavol che l'è mej." Dopo una sentenza tanto logica nulla restava più a dire né a grugnire e la piccola comitiva giunta in capo alla salita procedette silenziosa per le umide ombre del Campò, nell'odor fresco dei castagni e dei noci, senz'accorgersi di uno spettro che passava in aria, vôlto a Cressogno. Partiti i suoi ospiti, la marchesa suonò il campanello per il rosario che non s'era potuto dire alla solita ora. Il rosario di casa Maironi era una cosa viva che aveva le sue radici nei peccati antichi della marchesa e veniva sempre più sviluppandosi, mettendo nuovi Ave e nuovi Gloria a misura che la vecchia dama avanzava negli anni e si scorgeva più netto e più visibile a fronte un teschio schifoso, il proprio. Perciò il suo rosario era lungo assai. I peccati dolci della protratta gioventù non le pesavano troppo sulla coscienza; ma qualche grossa furfanteria d'altro genere, misurabile in lire, soldi e denari, mal confessata e quindi mal perdonabile, le dava una molestia sempre compressa a furia di rosari e sempre rinascente. Mentre chiedeva al Creditore Grande la remissione de' suoi debiti le pareva ch'Egli avesse facoltà d'accordarla intera; invece dopo le si levavano da capo in mente le facce crucciose dei creditori piccoli, ritornava con esse il dubbio del perdono, e la sua avarizia, la suasuperbia avevano a lottare con il terrore di un carcere perpetuo per debiti, oltre la tomba. Recitare le preghiere per la conversione dei peccatori e quelle per la guarigione degl'infermi, prima di venire ai Deprofundis , annunciò tre Avemarie nuove secondo la sua intenzione. La guattera, una semplice pia contadina di Cressogno, suppose che le tre Avemarie fossero domandate per quei poveretti di Oria e le recitò con tutto lo zelo. Le Avemarie della guattera urtarono e dispersero quelle della padrona, che chiedevano sonno, riposo di nervi e di coscienza. Quanto alle Avemarie degli altri, esse furono dette secondo la loro comune intenzione che non restassero, come troppo spesso accadeva, definitivamente appiccicate al rosario. Nessuna insomma poté arrestare lo spettro nel suo cammino. La marchesa si ritirò verso le undici. Prese dell'acqua di cedro e avendo la cameriera incominciato a parlare di Oria, di don Franco che si sussurrava essere arrivato, le impose silenzio. Era tocca, sì. Aveva sempre davanti agli occhi l'immagine di Maria come l'aveva veduta una volta passando in gondola sotto la villetta Gilardoni, piccina, con un grembiale bianco, i capelli lunghi e le braccia nude, stranamente somigliante ad un bambino suo, mortole a tre anni. Sentiva ella affetto, pietà? Non sapeva ella stessa quello che sentisse. Forse dispetto e sgomento di non sapersi liberare da una immagine molesta; forse paura di questo pensiero, che se non fosse stato commesso certo grosso peccato antico, se il testamento del marchese Franco non fosse stato arso, la bambina non sarebbe morta. Come fu a letto si fece leggere altre preghiere dalla cameriera, le ordinò di spegnere il lume e la congedò. Chiuse gli occhi, cercò di non pensare a niente, e si vide sotto le palpebre una chiara macchia informe che si venne disegnando in un guancialetto, poi in una lettera, poi in un gran crisantemo bianco e poi in un viso supino, morto, che diventava via via più piccolo. Le pareva già di assopirsi ma per effetto di quest'ultima trasformazione le vibrò nel cuore il pensiero della bambina, non vide più nulla sotto le palpebre, il sopore si dileguò ed ella aperse gli occhi, inquieta, malcontenta. Si propose di pensar una partita di tarocchi per cacciar le immaginazioni moleste e richiamar il sonno. Pensò ai tarocchi, poté, con uno sforzo, vedersi nella testa il tavolino da giuoco, i giuocatori, i lumi, le carte; ma quando cessò dallo sforzo per abbandonarsi ad una visione passiva di questi soporifici fantasmi, le comparve sotto le palpebre tutt'altra cosa, una testa che cambiava continuamente lineamenti, espressione, attitudini e che venne per ultimo lentamente ripiegandosi avanti sopra se stessa come nel sonno o nella morte, non mostrando più che i capelli. Altra scossa di nervi; la marchesa riaperse gli occhi e udì l'orologio della scala suonare. Contò le ore: dodici. Già mezzanotte e non poter dormire! Stette alquanto ad occhi aperti ed ecco adesso immagini nel buio come prima sotto le palpebre. Cominciavano da un nucleo informe e si svolgevano continuamente. Si disegnò un quadrante d'orologio, che diventò un occhio spaventato di pesce, un occhio umano severo. Ad un tratto venne alla marchesa l'idea che non riuscirebbe a dormire e il sopore già inoltrato andò rotto da capo. Allora ella suonò il campanello. La cameriera si fece chiamar due volte e poi venne mezzo svestita, dormigliosa. L'ordine fu di posar il lume sopra una sedia per modo che dal letto non si potesse veder la fiamma; di prendere un volume di prediche del Barbieri e di leggere a mezza voce. La cameriera era abituata a somministrare questi narcotici. Si pose a leggere e in capo alla seconda pagina, udendo il respiro della padrona farsi greve, andò pian piano smorzando la voce per un mormorio inarticolato, fino al silenzio. Aspettò un poco, ascoltò il respiro regolare e pesante, si alzò a guardar la faccia cupa, supina sul doppio guanciale con le sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta, prese il lume e si ritirò in punta di piedi. La marchesa dormiva e sognava. Sognava di giacer sulla soglia nello stanzone buio di un carcere, con i ceppi ai piedi, accusata di assassinio. Entrava il giudice con un lume, sedeva presso a lei e leggeva una predica sulla necessità della confessione. Ella gli si protestava innocente, ripeteva: "Ma non sa che si è annegata da sé?". Il giudice non rispondeva, leggeva, leggeva sempre con voce compunta e solenne, e la marchesa insisteva: "No, non l'ho uccisa". Non era flemmatica nel sogno, si agitava come una disperata. "Badi", rispondeva il giudice. "La bambina lo dice." Egli si alzava in piedi e ripeteva: "Lo dice". Poi batté forte le mani palma a palma ed esclamò: "Entrate!". Fino a questo punto la marchesa aveva sentito, sognando, di sognare; qui credette svegliarsi, vide con orrore che qualcuno era entrato infatti. Una forma umana debolmente luminosa stava a sedere sulla poltrona ingombra di vesti, presso il suo letto, sì ch'ella non poteva vedere la parte inferiore dell'Apparizione. Il busto, le braccia, le mani raccolte insieme avevano un colore biancastro e contorni alquanto incerti; la testa, appoggiata alla spalliera, era nitida e circonfusa d'un chiaror pallido. Gli occhi scuri, vivi, fissavano la marchesa. Che orrore! Era veramente la bambina morta. Che orrore, che orrore! Gli occhi dell'Apparizione parlavano, lo dicevano. Il giudice aveva ragione, la bambina lo diceva, senza parole, con gli occhi. "Tu, nonna, tu sei stata, tu. Io avrei dovuto nascer e vivere nella tua casa. Tu non l'hai voluto. Sei condannata alla morte eterna." Gli occhi soli, i fissi, tristi, pietosi occhi dicevano tutto questo ad un tempo. La marchesa mise un lungo gemito, stese le braccia verso l'Apparizione, credendo dir qualche cosa e non riuscendo che a rantolare "ah ... ah ... ah ..." mentre le mani, le braccia, il busto del fantasma sfumavano in una nebbia, i contorni del viso illanguidivano e solo rimaneva intenso lo sguardo, che finalmente pure si velò e rientrò quasi in un lontano e profondo Se stesso, null'altro rimanendo dell'apparizione che poca fosforescenza poi assorbita dall'ombra. La marchesa si svegliò di soprassalto, ansante, non si ricordò del campanello, si provò a gridare e non riuscì a metter fuori la voce. Con un impeto della sua volontà potente ancora nello sfacelo delle forze, cacciò le gambe dal letto, discese, fece due passi brancolando nel buio, incespicò nella poltrona, si aggrappò a una sedia, cadde con essa pesantemente sul pavimento, si mise a gemere. La cameriera si svegliò al tonfo, chiamò, non ebbe risposta, udì il gemito e, acceso il lume, accorse, vide nella penombra, tra la sedia e la poltrona, qualche cosa di bianco e d'enorme che si divincolava sul pavimento come una bestia mostruosa del mare tirata in secco. Gridò, corse al campanello, svegliò d'un colpo tutta la casa e si precipitò ad aiutar la vecchia che rantolava: "Il prete, il prete! Il prefetto, il prefetto!"

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675741
Garibaldi, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Abbandonarono sui cuscini il capo già insensibile della vecchia infelice, si ritirarono quindi tranquillamente a sedere in un angolo della stanza. Quivi Flavia passava nelle mani del prete un foglio; questi, senza leggerne il contenuto, che ben conosceva, volava coll’occhio alla firma, la fissava per qualche momento, poi ripiegando lo scritto, lo intascava con mano convulsa, senza aggiungere altro che un «Sta bene! Voi avrete la vostra ricompensa!». Era quel foglio il testamento della signora Virginia, madre di Emilio Pompeo, morto sulle mura di Roma, da piombo napoleonico. La moglie di Enrico dopo averlo assistito nella lunga agonia, vinta dal dolore, alla sua volta soccombette lasciando un bimbo di due anni, unica prole orbata dei genitori, cui rimaneva soltanto l’appoggio della vecchia ava. Virginia amava ancora il suo Muzio, unico rampollo dell’antichissima stirpe dei Pompei, con affetto vivissimo, e certo non avrebbe mancato di lasciarlo in possesso della vasta eredità di famiglia: ma che volete? come tante donne ignorava che sotto la nera sottana batte l’anima dell’inferno. Don Ignazio con quella ipocrisia e sottigliezza che paiono privilegio della casta pretina, Don Ignazio confessore della vecchia, a forza di giri e rigiri era pervenuto ad ottenere che sul suo testamento s’introducesse un legato a suffragio delle anime del Purgatorio, ma se questo accontentava le anime del Purgatorio, non rendeva pago lo scellerato, il quale agognava all’intera proprietà della casa Pompeo. Ammalatasi la vecchia Virginia, Ignazio le fece accettare Flavia per infermiera e col suo mezzo, e assiduamente vigilandola senza quasi permettere ch’altri l’avvicinasse, quando il corpo e la mente dell’infelice per l’aggravarsi del male s’andarono indebolendo, il ribaldo non trovò difficoltà a sostituire al testamento che portava il legato un nuovo testamento che lasciava per intero l’eredità Pompea alla corporazione di S. Francesco di Paola, creando per giunta don Ignazio stesso esecutore testamentario. Non mancavano i testimoni idonei e la bigotta sottoscrisse la miseria e lo spoglio dell’infelice bambino per impinguare la crapula di quei figli della maledizione. Intanto Muzio, diseredato, dormiva placidamente nella sua cameretta ancora adorna dalla mano materna in un magnifico letticino. Orfano infelice! che il domani doveva svegliarsi mendico.

Quando Cortez sbarcato al Messico abbruciò le navi, quando i mille di Marsala sbarcando in Sicilia abbandonarono i loro piroscafi al nemico, si tolsero ogni speranza di ritirata e tale risoluzione fruttò il contegno trepido delle due spedizioni. Ma la vicinanza di frontiere amiche è stata spesso causa di defezione nelle fazioni degli italiani. Io ho veduto tale scandalo in Lombardia nel 1848 per la vicinanze della Svizzera e disgraziatamente nell’agro romano per essere il territorio regio troppo vicino. Così successe al corpo dei trecento, nelle circostanze qui raccontate. Benché composto d’uomini coraggiosi, si sciolse come la nebbia al toccare la frontiera italiana non pontificia e dopo avere ricordato ai militi che schiava ancora rimaneva la loro terra e che era dovere di tutti di prepararsi a muover di nuovo pugna per liberarla, i soli quattro capi, che noi ben conosciamo, con Gasparo e John, presero la via della Toscana per recarsi a Livorno ove dovevano trovare lo Yacht e notizie dei loro cari e dove li lasceremo godere un po’ di riposo per rivederli sovra nuove scene e in mezzo a nuove avventure. FINE DELLA PARTE PRIMA

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676014
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Appena le trombe mandarono il terzo squillo, i cittadini silenziosi e commossi abbandonarono la piazza. Era triste spettacolo. - Le tribune e le logge nello spazio di pochi minuti rimasero vuote. - I magistrati, i savii e gli anziani erano scomparsi ... I cittadini pei larghi sbocchi delle vie si disperdevano, affrettando il passo come a fuggire un luogo di desolazione. Sulla piazza deserta, poco lungi dal tempio, non rimaneva che un solo essere vivente - e questi, curvato, immobile, incatenato al palco di infamia, dominava la vasta solitudine, simile ad uno di quei neri fantocci che i contadini pongono a guardia dei campi. L'Albani, durante la tremenda cerimonia, aveva provato tutti gli spasimi dell'agonia morale. Atterrito dal silenzio e dalla solitudine, il condannato fece uno sforzo per sollevare la fronte ... aperse gli occhi ... Poi, ricurvando la testa, ruggì coll'accento della disperazione: «Tutti dunque mi hanno abbandonato!» - Non tutti! - rispose una voce melodiosa e soave come la voce di un angelo. - Non tutti! Gli uomini hanno sentenziato nella giustizia, ma Dio viene a te nella misericordia! E l'uomo che parlava di tal guisa, posò la mano sulla spalla del condannato: e questi rianimandosi, levò di nuovo lo sguardo, e vide un giovane levita, coperto di bianche vesti, che con affettuosa pazienza si adoperava a rimuovergli le catene. - Coraggio, fratello mio! - proseguì il sacerdote ... - Voi mi chiamate fratello? - mormorò l'Albani ricurvando la testa. - Io solo ho questo diritto; è un santo diritto, che mi accorda l'altare, che il tribunale degli uomini non potrebbe contendermi. Al condannato, al reietto dalla umana famiglia, la Chiesa accorda un fratello, un compagno di pellegrinaggio, perchè sostenga il paziente sul cammino della espiazione. Questo incarico di sublime pietà venne a me accordato dal grande Levita, ed io gli resi grazie - e il mio cuore esulta di trovarmi teco. - Sorgi dunque! sorgi, cristiano fratello, appoggiati al mio braccio - noi procederemo insieme o insieme cadremo. L'Albani si levò macchinalmente, e discese i gradini del palco sorreggendosi al braccio del giovane sacerdote. Attraversarono a lenti passi la Via della Misericordia Il bianco levita, colla bisaccia sulle spalle, un largo cappello in testa, e un bastone di giunco alla mano, era costretto di soffermarsi ad ogni tratto perchè il compagno riprendesse lena. La lunga via era affatto deserta, le finestre e le porte serrate, la solitudine resa più tetra dalle ombre crepuscolari. Dopo un'ora di cammino, i due pellegrini si trovarono lunge dalle case, all'aperta campagna. Le ombre si eran fatte più dense - la Stella d'Amore spuntava nel firmamento. I due viandanti udirono uno squillo lontano - entrambi si fermarono. - Fratello! - disse il levita - è l'ora di benedizione! Questo suono tu devi conoscerlo. In questo punto tutti i tuoi fratelli piegano il ginocchio, e ringraziano Dio colla preghiera del cuore che in parole non si traduce. Il gran levita dalla torre del tempio inaccessibile, stende la mano a benedire tutti i figli della terra ... Inginocchiati, o fratello! L'Albani piegò le ginocchia - un tremito convulso gli scosse le membra - indi proruppe in uno sfogo di lacrime. Quand'egli levossi per riprendere il cammino: - Ho sentito la voce di Dio! - esclamò l'Albani con accento rassegnato: - io avrò forza per compiere il duro pellegrinaggio ... Espierò la mia colpa ... rivivrò nella stima e nell'amore dei fratelli ... purchè voi non mi abbandoniate! - Abbandonarti! - esclamò il levita colla sua voce d'angelo - qual altra missione può avere il sacerdote di Cristo fuori quella di portare la croce degli infelici, di perdonare e di redimere? I due viandanti si abbracciarono, e di nuovo si posero in cammino. FINE DEL PROLOGO.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Allora i bifolchi le portarono fino ai confini del regno, le slegarono e le abbandonarono al loro destino.

VORTICE

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva: - Non importa, non importa! Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia. Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò: - Mio Dio! Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile parola. FINE

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Poi, così conciato, lo abbandonarono, e volando via dal finestrone se ne andarono per non farsi vedere mai più ! Figuratevi la rabbia del gobbo ! Figuratevi le esclamazioni della sora Maruzza e della sora Leonora quando entrarono in camera di Ruggiero e lo videro ritornato come prima e anche peggio! Figuratevi i commenti del vicinato ! Basta dire che Ruggiero non si alzò più, non si fece più vedere da nessuno e di li a pochi mesi morì dalla rabbia. Il cortile dove le Fate ballarono si chiama ancora Lu curtigghiu di li sette Fati ed il perché ve l'ho detto.

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Se non ora quando

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Levi, Primo 1 occorrenze

Prima alcuni, poi tutti si abbandonarono al ritmo ipnotico della canzone e cominciarono a ballare; tenendosi per mano, a cerchio, sorridendo smemorati, volgendo il capo ai lati e all' in su, battendo i piedi in cadenza: fràilech sol sàin, che regni l' allegria! Anche Dov dai capelli bianchi, anche i due timidi sposi, anche Line la troppo sicura, anche i tessitori di Slonim dalle movenze goffe, anche Mottel il tagliagole. Che regni l' allegria! In breve, il piccolo spazio fra le panche e le pareti della baracca fu pieno di danza e di festa. Ad un tratto la terra tremò e tutti si fermarono. Non era un terremoto, era una salva di artiglieria pesante; subito dopo si udirono stormi di aerei che riempivano il cielo con il loro fracasso. Ci fu un gran trambusto; tutti corsero alle armi, ma né Gedale né Edek sapevano quali ordini dare. Poi si sentì Marian gridare: _ Non uscire! Restare al coperto! _; le pareti delle baracche, fatte di solidi tronchi, potevano infatti dare una certa protezione. Le esplosioni si fecero più fitte ed assordanti; Mendel tese l' orecchio: La sua esperienza di artigliere gli disse che i colpi di partenza erano a levante, e che i proiettili esplodevano a ponente, intorno a Zarnowiec; passavano urlando al di sopra delle loro teste. Era dunque un attacco russo, non c' erano dubbi: un attacco su grande scala, forse quello definitivo. Si sentì al di sopra del frastuono la voce di Dov: _ È il fronte! È il fronte che passa! _ Allo stesso istante entrò nella baracca Bogdan, il polacco che stava fuori di sentinella. Si spingeva davanti un uomo pieno di fango, dalla barba incolta, infagottato in una lunga palandrana lacera: _ Vedete un po' voi chi è questo tipo! _ disse a Edek e a Marian; ma i due non gli diedero ascolto, stavano discutendo convulsamente, fra loro e con altri polacchi che gli stavano intorno. Bogdan ripeté la sua richiesta; poi, spazientito, si volse per tornare al suo posto, ma Edek lo richiamò: _ No, resta qui anche tu, dobbiamo decidere _. Bogdan si rivolse al gruppo dei gedalisti: _ Con questo qui vedetevela voi, dev' essere uno dei vostri. Armi non ne ha. L' uomo si guardava intorno stranito, confuso dagli scoppi e dalle voci concitate, abbagliato dalle lampade a carburo. Mottel gli chiese: _ Chi sei? di dove vieni? _ Al suono delle parole jiddisch trasalì sbalordito; non rispose, e chiese a sua volta: _ Ebrei? Ebrei qui? _ Sembrava una bestia presa in trappola. Cercava con gli occhi la porta, Mendel lo trattenne con un gesto, e lui si ritrasse in uno spasimo di difesa: _ Lasciatemi andare! Che cosa volete da me? _ Nella baracca ci si poteva oramai intendere solo urlando; ciò non ostante, Mendel finì col capire che l' uomo, che si chiamava Schmulek, era stato fermato dalla sentinella mentre passava di corsa accanto al posto di blocco: nel buio, era stato scambiato per un tedesco. Insieme, si rese conto che i polacchi stavano deliberando se aspettare sul posto l' Armata Rossa o disperdersi. Quando Schmulek ebbe capito che né gli ebrei erano prigionieri dei polacchi, né questi di quelli, e che nessuno voleva trattenerlo né fargli del male, scoppiò a parlare: che tutti lo seguissero, presto, subito. Lui era sfuggito a una bomba per miracolo, era rimasto sepolto dal terriccio smosso. Quasi a confermare le sue parole, ecco una esplosione assordante, vicinissima: la porta della baracca si sfondò, poi fu aspirata verso l' esterno dal risucchio. Le luci si spensero e il frastuono si fece assordante: adesso le bombe cadevano fitte, lontane e vicine, e le pareti della baracca scricchiolavano minacciando di schiantarsi. Non si capiva se venissero dagli aerei o dall' artiglieria. Tutti uscirono in disordine, nell' aria gelida illuminata dalle vampe: con l' autorità dell' uomo terrificato Schmulek gridava che gli venissero dietro, lui aveva un riparo, vicino, sicuro. Acchiappò a caso Bella per un braccio e la trascinò via a strattoni; Mendel ed altri li seguirono, forse più di una dozzina; gli altri si dispersero nel bosco. Schmulek correva curvo, di albero in albero, e gli altri venivano in fila indiana dietro di lui tenendosi per mano come ciechi. Alcuni alberi bruciavano. Mendel raggiunse Schmulek e gli gridò alle orecchie: _ Dove ci porti? _ ma quello continuò a correre. Li guidò a un bunker di tronchi, semiinterrato; accanto c' era un pozzo. Schmulek scavalcò il bordo, scese finché solo la testa emergeva, e disse: _ Venite, si passa di qui _. Nel bagliore rossastro degli incendi Mendel e gli altri scesero a loro volta; nell' interno del pozzo erano murati arpioni di ferro arrugginiti. A due o tre metri più in basso si apriva un foro, entrarono a tentoni e si trovarono in un cunicolo in leggera discesa; più oltre era una cavità scavata nella terra argillosa, con la volta puntellata da paletti. Qui li aspettava Schmulek, ansimante, con una torcia accesa in mano. _ Io vivo qui, _ disse a Mendel. Mendel si guardò intorno. C' erano Dov, Bella, Mottel, Line, Piotr; Gedale non c' era, c' erano invece sei o sette degli scampati di Ruzany e di Blizna, e quattro polacchi che non conosceva. Là sotto i rombi delle esplosioni arrivavano attutiti; l' aria era umida e odorava di terra. Nelle pareti erano scavate delle nicchie in cui si intravvedevano oggetti indistinti, coperte arrotolate, vasi, pentole. Lungo una parete correva una panca; sul pavimento di terra battuta c' erano frasche e paglia. _ Sedetevi, _ disse Schmulek. _ Da quanto tempo stai qui? _ chiese Dov. _ Da tre anni, _ rispose. Intervenne Line: _ Sei solo? _ Sono solo. Prima c' era mio nipote, un ragazzo. È uscito a cercare da mangiare e non è ritornato. Ma sei mesi fa eravamo dodici, l' anno scorso eravamo quaranta e due anni fa più di cento. _ Tutti qui dentro? _ chiese Line incredula e inorridita. _ Guardate laggiù, _ disse Schmulek alzando la torcia: _ il cunicolo prosegue, si dirama, ci sono altre tane. Ci sono anche altre due uscite, dentro due querce scavate dal fulmine. Vivevamo male, ma vivevamo. Se avessimo potuto rimanere sempre sotto terra, non ci avrebbero trovati, e sarebbero morti solo quelli che si sono presi il tifo. Ma dovevamo pure uscire, per trovare da mangiare, e allora ci sparavano. _ I tedeschi? _ Tutti. I tedeschi, gli ungheresi, gli ucraini. Qualche volta anche i polacchi: eppure noi eravamo tutti polacchi, eravamo fuggiti dai ghetti qui intorno. Non si poteva mai sapere: a volte ci lasciavano passare, a volte ci sparavano come alle lepri, altre volte invece ci davano da mangiare. Gli ultimi che sono venuti non erano partigiani, erano banditi, avevano solo dei coltelli. Sono venuti di sorpresa. Hanno scannato quelli che restavano e hanno portato via tutto quello che avevamo. _ Tu come ti sei salvato? _ chiese Mendel. _ Per caso, _ disse Schmulek. _ Nella vita civile io ero mercante di cavalli, giravo per i villaggi di questa zona, conoscevo tutte le vie dei boschi. Parecchie volte ho fatto da guida ai partigiani. In settembre ho fatto da guida a un gruppo di soldati russi che erano scappati da un Lager tedesco; volevano andare sui monti della Santa Croce, e io li ho condotti fuori della foresta. È stato allora che sono venuti i banditi e hanno fatto il massacro. Anche il ragazzo era fuori per caso. _ Li abbiamo trovati, quei soldati russi, _ disse Mendel. _ Sono stati accerchiati dai tedeschi; sono morti tutti. Ma adesso la guerra sta per finire. _ Non mi importa che finisca la guerra. Quando la guerra sarà finita, anche gli ebrei di Polonia saranno finiti. Non mi importa più di niente. Mi importa che voi avete avuto il coraggio di prendere il fucile, e io questo coraggio non l' ho avuto. _ Questo non vuole dire nulla, _ disse Mendel, _ ti sei reso utile diversamente. Combattere non è un mestiere per gente anziana. _ Quanti anni credete che io abbia? _ Cinquanta, _ tentò Dov: ma pensava settanta. _ Ne ho trentasei, _ disse Schmulek. Fuori, la battaglia continuava; nella tana di Schmulek non perveniva che un rombo sordo, interrotto a tratti da colpi più forti che facevano tremare la terra, e piuttosto che con le orecchie si percepivano col corpo intero. Ciò non di meno, a metà della notte dormivano tutti, benché sapessero che quelle ore erano decisive: l' ansia stessa e l' attesa li avevano estenuati. Mendel si trovò sveglio a tarda mattina, e si accorse che lo aveva svegliato il silenzio. La terra non tremava più; non c' era altro suono se non il respiro pesante dei dormienti. L' oscurità era assoluta. Tastò accanto a sé; riconobbe a sinistra il corpo sottile di Bella, a destra i panni ruvidi e il cinturone di un polacco. Poteva essere solo una tregua; o i russi potevano essersi ritirati, e il loro rifugio trovarsi nella terra di nessuno. Ma poi il suo orecchio, acuito dal silenzio, colse un suono improbabile, infantile, non sentito da anni. Campane: erano proprio campane, uno scampanio tenue, fragile, filtrato dalla terra che li seppelliva; un carillon giocattolo che suonava a festa, e voleva dire che la guerra era finita. Fu sul punto di svegliare i compagni, ma si trattenne: più tardi, c' era tempo, ora aveva altro da fare. Che cosa? Fare i conti, i suoi conti. Si sentiva come sfuggito a un mare in tempesta, e approdato solo su una terra deserta e sconosciuta. Non pronto, non preparato, vuoto; tranquillo e scarico, come è tranquillo un orologio scarico. Tranquillo e non felice, tranquillamente infelice. Gonfio di memorie: Leonid, l' usbeco, la banda di Venja, fiumi e boschi e paludi, la battaglia del monastero, Ulybin, il ritorno di Dov. La bambina di Valuets con le sue capre, Line, Sissl. Mendel il senza-donne. Rivide, al di là delle palpebre, il viso affilato di Rivke, con gli occhi suggellati, i capelli contorti come serpenti. Rivke sotto terra come noi. È lei che mi soffia via le altre donne d' intorno, come la crusca dal grano. Balebusteh ancora; chi ha detto che i morti non hanno più potere? Gremito di memorie, e insieme pieno di dimenticanza: le sue memorie, anche recenti, erano sbiadite, avevano contorni incerti, si accavallavano con sua fatica, come se qualcuno tracciasse disegni sulla lavagna e poi li cancellasse a mezzo e ne facesse dei nuovi sopra i vecchi. Forse ricorda così la sua vita chi ha cento anni, o i patriarchi che ne avevano novecento. Forse la memoria è come un secchio; se ci vuoi mettere più frutti di quanti ce ne stiano, i frutti si schiacciano. Le campane intanto continuavano a suonare, chissà dove: in un qualche villaggio i contadini dovevano fare festa, l' incubo nazista per loro era finito, il peggio era finito. Dovrei anch' io far festa e suonare le mie campane, pensava Mendel aggrappandosi al sonno perché non lo lasciasse. Anche la nostra guerra è finita, è finito il tempo di morire e di uccidere, eppure io non sono contento e vorrei che il sonno non finisse mai. La nostra guerra è finita, e siamo sigillati in una tana di terra e dobbiamo uscire e ricominciare a camminare. Questa è la casa di Schmulek che non ha casa, che ha perso tutto, anche se stesso. Dov' è la mia casa? È in nessun luogo. È nello zaino che mi porto dietro, è nel Heinkel abbattuto, è a Novoselki, è nel campo di Turov e in quello di Edek, è di là dal mare, nel paese delle fiabe, dove scorre il latte e il miele. Uno entra in una casa e appende gli abiti e i ricordi; dove appendi i tuoi ricordi, Mendel figlio di Nachman? Ad uno ad uno si svegliarono tutti, e tutti facevano domande ma nessuno sapeva rispondere. Il fronte era passato, non c' era dubbio; che fare adesso? Aspettare ancora, come raccomandava Schmulek? Uscire incontro ai russi? Uscire a cercare cibo? Mandare qualcuno in avanscoperta? Dov si offrì di andare ad esplorare la situazione: aveva le carte in regola, parlava russo, aveva addosso l' uniforme russa, un documento russo, era russo infine, più regolare di Piotr. Si avviò per il cunicolo ma subito tornò indietro: bisognava aspettare, qualcuno stava calando un secchio nel pozzo. Il secchio risalì pieno, Dov poté uscire, e si trovò in mezzo ad un plotone di soldati che, nudi fino alla cintura, si stavano lavando gioiosamente nell' acqua che avevano raccolta in un abbeveratoio. Sul terreno c' era un palmo di neve, scalpicciata e mezza sciolta dagli incendi della notte. Poco lontano altri soldati avevano acceso un fuoco e vi facevano asciugare gli abiti. Accolsero Dov con indifferenza bonaria: _ Ehi, zio! Da dove spunti? Di che reggimento sei? _ Per poco non ti tiravamo su dentro il secchio! _ Ve lo dico io, da dove viene: ha preso una sbornia e ci è caduto dentro. _ O ce lo hanno buttato. Di' , zio: sono stati i tedeschi a buttarti nel pozzo? o ci sei sceso tu per metterti al riparo? _ In questo paese si vedono delle cose strane, _ disse pensieroso un soldato mongolo. _ Ieri, in mezzo alla battaglia, ho visto una lepre: invece di scappare stava lì come incantata. E il giorno prima ho visto una bella ragazza in una botte .... _ Che cosa faceva nella botte? _ Niente. Stava lì nascosta. _ E tu che cosa hai fatto? _ Niente. Le ho detto "Buon mattino, panienka, mi scusi il disturbo", e ho richiuso il coperchio. _ O sei bugiardo o sei stupido, Afanasij; una lepre si fa arrosto, e con una ragazza si fa all' amore. _ Insomma, volevo solo dire che questo è un paese strano. Ieri la lepre, ieri l' altro la ragazza, e adesso salta fuori dal pozzo un soldato con i capelli bianchi. Vieni qui, soldato: se non sei un fantasma prendi un po' di vodka, e se sei un fantasma torna da dove sei venuto. Si avvicinò a Dov il caporale del plotone, lo palpò e disse: _ Ma tu non sei neppure bagnato! _ Nel pozzo c' è un' apertura, _ disse Dov; _ adesso ti spiego. Il caporale disse: _ Vieni con me al Comando: spiegherai tutto laggiù. Mezz' ora dopo Dov e il caporale ritornarono accompagnati da un tenente che portava al braccio la fascia dell' NKVD; al vederlo, i soldati interruppero le loro chiacchiere e ripresero a lavarsi. Il tenente disse a Dov di ridiscendere nel pozzo e di fare uscire tutti quelli che stavano nascosti. Vennero fuori uno per uno, nella luce bianca del cielo che minacciava altra neve, fra lo stupore silenzioso dei russi. Il tenente ordinò a due soldati di rivestirsi e prendere le armi, e fece scortare il drappello lungo il cammino inverso di quello che avevano percorso nella notte sotto la guida di Schmulek; li riportò cioè alle baracche del campo polacco. Qui trovarono Edek con Marian e quasi tutti i loro uomini; c' era anche Gedale con i gedalisti che non avevano seguito Schmulek. Sia i polacchi, sia gli ebrei erano stati disarmati, e la baracca dove essi erano rinchiusi era sorvegliata da due sentinelle russe. Per tutto il giorno non avvenne nulla. A mezzogiorno vennero due soldati e portarono pane e salsiccia per tutti; a sera arrivò una marmitta con zuppa calda di miglio e carne. I prigionieri erano più di cento, e nella baracca stavano stretti, protestarono con le sentinelle, venne il caporale e li divise in due gruppi, uno per baracca, per il che dovette raddoppiare la sorveglianza. Né il caporale né i soldati erano ostili; alcuni sembravano incuriositi, altri seccati, altri ancora avevano l' aria di volersi scusare. I polacchi erano inquieti, ed umiliati per aver dovuto consegnare le armi. _ Coraggio, Edek, _ disse Gedale. _ Il peggio è passato. Per male che vada, questi non ci tratteranno come facevano i tedeschi. Lo hai visto, con loro si ragiona _. Edek non rispose. Al mattino arrivò un bidone di surrogato di caffè, e poco dopo venne il tenente, accompagnato da uno scrivano. Sembrava di cattivo umore ed aveva fretta. Trascrisse i dati personali di tutti su un quadernetto da scolaro, e a tutti fece mostrare le mani, il palmo e il dorso, esaminandole con attenzione. Quando ebbe finito, ripartì i reclusi in tre gruppi. Il primo gruppo era costituito dalla maggior parte dei polacchi. _ Voi siete soldati, e continuerete ad essere soldati. Riceverete divise ed armi, e sarete inquadrati nell' Armata Rossa _. Ci furono commenti, mormorii, qualche protesta; le sentinelle abbassarono le canne dei mitra, e le proteste si spensero. _ Voi ci sarete utili in altro modo, _ disse rivolto al secondo gruppo. Questo era assai smilzo: ne faceva parte Edek con una mezza dozzina di ex studenti ed impiegati. _ Io sono il comandante di questo plotone, _ disse Edek pallido come la neve. _ Non c' è più plotone e non c' è più comandante, _ disse il tenente. _ L' Armia Krajowa è stata disciolta. _ Disciolta da chi? Disciolta da voi! _ No, no. Si è disciolta da sola, non aveva più ragione di esistere. La Polonia la stiamo liberando noi. Non avete sentito la radio? No, non la nostra, Radio Londra: sono tre giorni che trasmette un messaggio del vostro comandante. Vi saluta, vi ringrazia, e vi dice che la vostra guerra è finita. _ Dove ci manderete? _ chiese ancora Edek. _ Non lo so, e non mi riguarda. Io ho solo ordine di mandarvi al comando di zona; lì avrete tutte le informazioni che desiderate. Il terzo gruppo era costituito dai gedalisti più Schmulek, ossia da tutti gli ebrei più Piotr. Mendel non aveva notato prima, e notò allora, che Piotr aveva deposto la sua logora divisa di partigiano, quella che gli aveva vista indosso fin dal campo di Turov. Era alto e snello come Gedale, e indossava i panni borghesi che Gedale aveva sfoderati dopo il colpo di Sarny. _ Quanto a voi altri, _ disse il tenente, _ per ora non ci sono ordini. Civili non siete, militari neppure, non siete prigionieri di guerra, siete uomini e donne e non avete documenti. _ Compagno tenente, noi siamo partigiani, _ disse Gedale. _ I partigiani sono quelli che fanno parte dei reparti partigiani. Di partigiani ebrei nessuno ha mai sentito parlare, è una voce nuova. Voi non fate parte di nessuna categoria. Per adesso restate qui: ho chiesto istruzioni. Avrete il trattamento che spetta ai nostri soldati. Poi si vedrà. La banda di Gedale, ritornata dopo più di tre mesi allo stato puro originario, conobbe giorni d' inerzia e di sospetto. Verso la fine di gennaio, dalla finestrella della baracca videro partire i polacchi del secondo gruppo in mezzo alla neve che cadeva fitta. Per l' occasione, il tenente aveva fatto sbarrare le porte; dovettero accontentarsi di salutare Edek attraverso i vetri. Salito sull' autocarro, Edek agitò la mano verso di loro; l' autocarro partì con un sobbalzo, e Sissl scoppiò a piangere. A differenza dagli altri, Dov, Mendel, Arié e Piotr avevano appartenuto all' Armata Rossa, e non avrebbero avuto difficoltà a chiarire la loro posizione. Piotr non ebbe dubbi: _ Non hanno fatto distinzioni, e per me va bene così. È chiaro che all' NKVD in questo momento interessano solo i polacchi: Stalin non vuole partigiani polacchi fra i piedi. _ Ti hanno preso per un ebreo! _ disse Gedale divertito. _ Del resto, te lo sei meritato. _ Non lo so. Il tenente mi ha fatto due o tre domande, ha visto che rispondevo in russo e si è accontentato. _ Hm, _ disse Gedale, _ secondo me la tua faccenda non è ancora conclusa. _ Per me è conclusa, _ rispose Piotr. _ Io resto con voi. Neppure Dov ebbe dubbi, ma nel senso opposto. La sua decisione non era cambiata, anzi, era stata rafforzata dalle avventure più recenti; era stanco di combattere e di vagabondare, stanco di incertezze e di vita precaria, voleva tornare a casa, lui che una casa ce l' aveva. Una casa lontana, non toccata dalla guerra, in un paese che la distanza nel tempo e nello spazio aveva reso fiabesco: il paese delle tigri e degli orsi, dove tutti erano come lui, ostinati e semplici. In quel paese, che Dov non si saziava di descrivere, il cielo invernale era viola e verde: vi tremolavano le aurore boreali, e ne era scaturita quando lui era bambino la cometa terribile. Mutoraj, con i suoi quattromila abitanti confinati, nichilisti e samoiedi, era un paese unico al mondo. Dov se ne andò in silenzio, triste senza disperazione. Si mise a rapporto con l' intendenza russa, dichiarò la sua posizione militare e i suoi trascorsi, a loro richiesta stese in bella scrittura una relazione sulle circostanze in cui era stato prelevato da Turov, curato all' ospedale di Kiev e riportato in zona partigiana, ed attese. Dopo due settimane prese congedo da tutti, ed uscì decorosamente di scena. Quanto a Mendel ed Arié, sotto questo aspetto non si posero problemi, né alcun problema gli fu posto dai russi. Il fronte si era rapidamente allontanato verso ponente; il tenente dell' NKVD non si fece più vedere, e la sorveglianza intorno alle baracche si fece sempre più rilassata fino a sparire del tutto. La banda di Gedale, al completo, venne trasferita ai primi di febbraio in una scuola, nella cittadina di Wolbrom poco lontana, e qui abbandonata a se stessa: il presidio russo, che del resto era costituito soltanto da un vecchio capitano e da pochi soldati, non si curava di loro, se non per portare i rifornimenti prelevati dai magazzini militari: patate, rape, orzo, carne, sale. Il pane arrivava già pronto da un forno requisito, ma le operazioni di cucina dovevano essere svolte sul posto, e attrezzi nella scuola non ce n' erano né i russi ne avevano forniti. Gedale ne fece regolare richiesta, il capitano promise, e non arrivò niente. _ Andiamo in città e ce li procuriamo, _ disse Gedale. L' impresa si rivelò più facile del previsto. La cittadina era deserta e sinistra; doveva essere stata bombardata, e poi saccheggiata più volte, ma sempre con fretta. Nelle case smozzicate, nelle cantine, nei solai, nei rifugi antiaerei, si trovava di tutto. Non solo le marmitte, ma sedie, coperte imbottite, materassi, mobili di ogni tipo. Altri mobili arrivavano ogni giorno sul mercato che si era spontaneamente costituito sulla piazza principale. Cumuli di mobilio mezzo sfasciato venivano venduti come legna da ardere: l' offerta era grande e la quotazione bassa. In breve tempo la scuola venne trasformata in un ricovero abitabile, seppure poco accogliente; ma fornelli non ce n' erano, né nei locali né nelle vicinanze, e la zuppa doveva essere cotta su fuochi all' aperto, nel cortile, accanto alla pista di sabbia per il salto in lungo. In compenso, in una delle aule i gedalisti eressero un maestoso letto matrimoniale per Ròkhele Bianca e Isidor, sormontato da un baldacchino che avevano ricavato da coperte militari. Il capitano russo era un uomo malinconico e stanco. Gedale e Mendel andarono più volte a parlargli, per avere da lui qualche informazione sulle intenzioni delle autorità russe nei loro riguardi. Fu gentile, distratto ed elusivo; lui non sapeva nulla, nessuno sapeva nulla, la guerra non era finita, bisognava aspettare la fine della guerra. In guerra lui aveva perso due figli, e di sua moglie a Leningrado non aveva più notizie. Avevano da mangiare e da scaldarsi: aspettassero, come tutti aspettavano. Anche lui aspettava. Forse la guerra non sarebbe finita così presto; nessuno poteva saperlo, forse sarebbe continuata, chi sa? Contro il Giappone, contro l' America. Un permesso per andarsene? Lui non poteva dare permessi, era un' altra amministrazione; e del resto andarsene dove? Verso dove? C' erano in giro bande di ribelli polacchi e tedeschi, bande di briganti; su tutte le strade i sovietici avevano stabilito posti di blocco. Che non tentassero di uscire dalla città: non sarebbero andati molto lontano, i posti di blocco avevano ordine di sparare a vista. Lui stesso evitava di spostarsi, se non per obblighi di servizio; era già successo che i soldati sovietici si sparassero fra loro. Ma Gedale sopportava male la clausura. A lui, e non solo a lui, quel modo di vivere sembrava vuoto, umiliante e ridicolo. Uomini e donne svolgevano a turno le operazioni di cucina e di pulizia, e rimanevano valanghe di tempo libero; paradossalmente, con una città intorno, un tetto sul capo e una tavola attorno a cui mangiare, provavano un disagio indefinito, che era la nostalgia per la foresta e per la libera strada. Si sentivano inetti, stranieri: non più in guerra, non ancora in pace. A dispetto delle raccomandazioni del capitano, uscivano spesso, a piccoli gruppi. A Wolbrom la guerra era finita, ma continuava accanita non molto lontano. Attraverso la cittadina, e sulla strada di circonvallazione in terra battuta, passavano senza sosta, di giorno e di notte, i reparti militari sovietici diretti al fronte slesiano. Di giorno, piuttosto che un esercito moderno sembrava che passasse un' orda, una migrazione: uomini di tutte le razze, giganti vichinghi e lapponi atticciati, caucasici abbronzati e siberiani pallidi, a piedi, a cavallo, su autocarri, su trattori, su grandi carri trainati da buoi, alcuni perfino a dorso di cammello. C' erano militari e borghesi, donne vestite in tutti i modi possibili, vacche, pecore, cavalli e muli: a sera, le squadre si fermavano dove si trovavano, piantavano le tende, macellavano le bestie e arrostivano la carne su fuochi improvvisati. Questi bivacchi estemporanei brulicavano di bambini, infagottati in panni militari fuori misura; alcuni portavano pistole e coltelli alla cintura, tutti avevano la stella rossa appuntata sull' enorme berretto di pelliccia. Chi erano? Da dove venivano? Mendel e i suoi compagni si soffermarono a interrogarli: parlavano russo, ucraino, polacco, alcuni anche jiddisch, altri rifiutavano di parlare. Erano restii e selvaggi, erano orfani di guerra. L' Armata Rossa, nella sua avanzata attraverso paesi devastati, ne aveva rastrellati a migliaia, tra le macerie delle città, sperduti per i campi e i boschi, affamati e raminghi. I sovietici non avevano tempo di sistemarli nelle retrovie né mezzi per trasferirli più lontano: se li trascinavano dietro, figli di tutti, soldati anche loro, anche loro in cerca di preda. Si aggiravano intorno ai fuochi; alcuni militari davano loro pane, zuppa e carne, altri li cacciavano via infastiditi. Sorprendentemente diverse erano le truppe che attraversavano la città nelle ore buie. Mendel, che conservava il ricordo bruciante dei reparti accerchiati e fatti a pezzi nelle grandi battaglie di annientamento del '41 e del '42, stentava a credere ai suoi occhi. Ecco, era quella la nuova Armata Rossa che aveva spezzato la schiena della Germania; un' altra, irriconoscibile. Una macchina poderosa, ordinata, moderna, che sfilava quasi senza rumore per la via principale della città oscurata. Carri armati giganteschi montati su rimorchi dalle ruote gommate; cannoni semoventi mai visti né sognati prima; le Katijuse leggendarie, coperte da teli che ne nascondevano le fattezze. Frammiste alle artiglierie ed ai reparti corazzati marciavano anche squadre appiedate, in ordine chiuso, cantando. I loro non erano canti bellicosi, anzi melanconici e sommessi; non esprimevano sete di guerra, come quelli dei tedeschi, bensì il lutto accumulato in quattro anni di strage. Mendel, l' artigliere Mendel, assisteva al passaggio con l' animo scosso. Nonostante tutto, nonostante la sconfitta disastrosa e colpevole che lo aveva costretto alla macchia, nonostante il disprezzo e i torti che in altri tempi aveva subiti, nonostante Ulybin, era pure quello l' esercito di cui lui ancora portava addosso l' uniforme logora e stinta. Un "krasnoarmeetz": tale era ancora, anche se ebreo, anche se in cammino verso un altro paese. Quei soldati che passavano cantando, miti in pace e indomabili in guerra, quei soldati fatti come Piotr, erano i suoi compagni. Sentiva il suo petto sollevarsi per una piena di affetti che facevano lite: fierezza, rimorso, risentimento, reverenza, gratitudine. Ma un giorno udì gemiti uscire da una cantina; vi discese con Piotr, e vide dieci militi della Waffen-SS coricati sul ventre e seminudi: alcuni si trascinavano a forza di braccia, tutti avevano un taglio sanguinante a metà della schiena. _ I siberiani fanno così, _ disse Piotr, _ quando li trovano non li uccidono, ma gli tagliano il midollo _. Risalirono in strada, e Piotr aggiunse: _ Non vorrei essere un tedesco. Eh no, nei prossimi mesi non vorrei proprio essere un berlinese. Un mattino si svegliarono e trovarono, tracciata a catrame sulla facciata della scuola, una croce uncinata; sotto stava scritto: "NSZ _ Morte agli ebrei bolscevichi". Poco dopo, dalla finestra del primo piano, videro in strada tre o quattro giovani che parlavano fra loro e guardavano in su. La sera stessa, mentre erano seduti a mangiare, il vetro della finestra volò in schegge, e tra le gambe del tavolo piombò una bottiglia a cui era legata una miccia accesa. Il più pronto fu Piotr: in un lampo acchiappò la bottiglia, che non si era rotta, e la ributtò in strada. Ci fu un tonfo, e sul selciato si formò una pozza accesa che bruciò a lungo; la fiamma fumosa arrivava fino alla loro finestra. Gedale disse: _ Bisogna trovare armi e andare via. Anche trovare armi fu più facile di quanto si erano aspettato: vi provvidero, per vie diverse, Schmulek e Pavel. Nella sua tana c' erano armi, disse Schmulek: non molte ma ben conservate, sepolte sotto la terra battuta. Chiese a Gedale un accompagnatore, partì al tramonto e tornò all' alba con diverse pistole, bombe a mano, munizioni e un mitra. Dopo la morte di Jòzek, Pavel gli era subentrato nella funzione di furiere, e riferì che comperare armi al mercato era più facile che comperare il burro e il tabacco. Ne offrivano tutti, alla luce del sole; i russi stessi, sia i militari di passaggio, sia i civili che seguivano le truppe, vendevano armi leggere tedesche trovate nei depositi o sui campi di battaglia; altro materiale lo offrivano con disinvoltura i polacchi della milizia che i russi avevano frettolosamente messa in piedi. Molti di questi, appena arruolati, disertavano con le armi e raggiungevano bande che si preparavano alla guerriglia; altri vendevano o barattavano le armi al mercato. In pochi giorni i gedalisti si trovarono in possesso di parecchi coltelli e di una dozzina di bocche da fuoco scompagnate; non era molto, ma poteva bastare per tenere lontani i terroristi della destra polacca. A fine febbraio il capitano russo chiamò Gedale a rapporto, e lo tenne a parlare per più di un' ora. _ Mi ha offerto da fumare e da bere, _ riferì Gedale ai compagni. _ Non è così distratto come sembra, e secondo me ha ricevuto un' imbeccata. Ha saputo della bottiglia Molotov, dice che sono tempi difficili e che è preoccupato per noi. Che loro non sono in grado di garantire la nostra sicurezza, e che faremmo bene a proteggerci da soli: in altre parole, si è accorto delle armi e gli sta bene che noi le abbiamo. È naturale, l' NSZ gli deve piacere come a noi. Ha ripetuto che questo è un brutto posto; me lo aveva già detto l' altra volta, ma allora diceva che uscire di città era pericoloso, e invece oggi mi ha chiesto perché restiamo qui. "Potreste andare più avanti, ormai il fronte è lontano: più avanti, incontro agli alleati ...." Io gli ho detto che vorremmo andare in Italia, e di lì cercheremmo di passare in Palestina, e lui ha detto che facciamo bene, l' Inghilterra dalla Palestina se ne deve andare, e così pure dall' Egitto e dall' India: gli imperi coloniali hanno le ore contate. E in Palestina dobbiamo andarci noi, a costruire il nostro stato. Mi ha detto che lui ha molti amici ebrei, e che ha perfino letto il libro di Herzl: ma questo credo che non sia vero, oppure lo ha letto male, perché mi ha detto che in fondo anche Herzl era un russo, mentre invece era ungherese; io però non l' ho contraddetto. In breve: il capitano è uno che la sa lunga; ai russi fa comodo che noi andiamo a dare fastidi agli inglesi; e per noi è ora di partire. Ma niente permessi ufficiali: su questo argomento ha fatto subito macchina indietro. _ Ce ne andremo senza permessi, _ disse Line alzando le spalle. _ Quando mai abbiamo avuto permessi? Si udì la voce nasale di Bella: _ Quelli dell' NSZ sono dei fascisti e dei vigliacchi, ma c' è un punto su cui noi andiamo d' accordo con loro e con i russi: loro ci vogliono mandare via, e noi ce ne vogliamo andare. Pavel aveva preso l' abitudine di uscire dalla scuola di buon mattino e di non farsi più vedere fino a sera. Nel giro di pochi giorni l' atmosfera di Wolbrom era cambiata: adesso, sul flusso delle truppe dirette in Germania prevaleva il flusso inverso, di soldati che tornavano dal fronte. Alcuni andavano in licenza, ma per la maggior parte erano militari feriti o mutilati, appoggiati su stampelle di fortuna, seduti sui mucchi di calcinacci che fiancheggiavano le vie, con pallidi visi imberbi da adolescenti. Dai suoi giri di esplorazione Pavel non rientrava mai a mani vuote: sul mercato nero si trovava ormai di tutto. Portò caffè, latte in polvere, sapone e lamette da barba, polvere per budini, vitamine, tesori che i gedalisti non vedevano da sei anni o non avevano mai conosciuto prima. Un giorno si portò dietro uno spilungone dai capelli color sabbia, che non parlava né russo né polacco né tedesco, e solo qualche parola di jiddisch: lo aveva trovato sulle macerie della sinagoga di Wolbrom che recitava le preghiere del mattino, era un soldato ebreo di Chicago che i tedeschi avevano fatto prigioniero in Normandia e che l' Armata Rossa aveva liberato. Fecero festa insieme, ma l' americano non era bravo ad esprimersi ed ancora meno a bere; dopo il primo giro di vodka finì sotto il tavolo, dormì fino al mezzogiorno seguente, e poi se ne andò senza salutare nessuno. Per le strade vagabondavano ex prigionieri di tutti i paesi e di tutte le razze, e nugoli di prostitute. Il 25 di febbraio Pavel rincasò con cinque paia di calze di seta, e ne nacque un gran brusio eccitato: le donne si affrettarono a provarle, ma erano di misura tollerabilmente giusta solo per Sissl e per Ròkhele Nera; per l' altra Ròkhele, Line e Bella erano troppo grandi. Pavel fece tacere il brusio: _ Niente, non ha importanza, domani le cambio o ne porto delle altre. Ho altro da dirvi, ho trovato un camion! _ Lo hai comperato? _ chiese Isidor. No, non lo aveva comperato. Venne fuori che dietro alla stazione ferroviaria i russi avevano costituito un campo di rottami e di materiale smobilitato, e che qui si poteva trovare di tutto. Pavel non era pratico, bisognava che l' indomani stesso qualcuno andasse sul posto con lui. Chi era pratico di camion? Chi li sapeva guidare? La banda aveva fatto a piedi più di mille chilometri: non era forse ora di viaggiare in camion? _ Bisognerà pure pagarlo, _ disse Mottel. _ Non credo, _ disse Pavel. _ Il campo non è recintato, intorno non c' è che un fosso, e di sentinelle ce n' è una sola. L' importante è sbrigarsi: c' è già una quantità di gente che va e viene, proprio stamattina ho visto due ragazzi che si portavano via una motocicletta. Chi viene con me domani mattina? Avrebbero voluto andare tutti, se non altro per il diversivo. Line ed Arié fecero sapere che avevano guidato trattori; Piotr e Mendel avevano la patente militare, ed in più Mendel al suo paese aveva avuto occasione di riparare trattori ed autocarri. Gedale, con inconsueto abuso di autorità, disse che sarebbe andato lui perché era il capobanda, ma il più insistente era Isidor, che non poteva vantare alcun titolo. Voleva a tutti i costi andare con Pavel: per le macchine, per tutte le macchine, aveva una passione disinteressata ed infantile, e diceva che il camion avrebbe imparato a guidarlo in un momento. Andò Mendel, e vide che Pavel non aveva esagerato: nel campo rottami c' era veramente di tutto, non solo rottami. I russi, riforniti dagli Alleati di materiale militare di tutti i generi, non andavano per il sottile: non appena un' apparecchiatura o un veicolo davano qualche fastidio, lo scartavano e ne prelevavano uno nuovo. Altro materiale danneggiato arrivava giorno per giorno dalla zona di combattimento, su autocarri o per ferrovia; nessuno lo esaminava o controllava, veniva scaraventato nel campo e restava lì ad arrugginire. Nel lugubre cimitero metallico si aggiravano curiosi, esperti, e torme di ragazzini che giocavano a rimpiattino. I camion c' erano: di tutte le marche e in tutti gli stati di conservazione. L' attenzione di Mendel si appuntò su una fila di camion italiani; erano Lancia 3 Ro da trenta quintali, e sembravano nuovi: forse venivano da qualche deposito tedesco. Mentre Pavel cercava di distrarre la sentinella, offrendole tabacco e gomma da masticare, Mendel esaminò i veicoli più da vicino. Avevano addirittura ancora la chiave nel cruscotto e sembravano pronti a partire; Mendel provò a dare il contatto, ma non accadde nulla. Fu presto capito: i camion non avevano batteria, e non l' avevano mai avuta; i capicorda dell' impianto elettrico erano ancora coperti di grasso. Quando Pavel tornò, Mendel gli disse: _ Ritorna dal tuo uomo e tienilo occupato. Io vado a vedere se trovo in giro una batteria carica. _ Ma che cosa gli racconto? _ Arrangiati. Raccontagli di quando facevi l' attore. Mentre Pavel sforzava la sua memoria e la sua fantasia per intrattenere la sentinella senza insospettirla, Mendel prese ad esplorare metodicamente gli altri veicoli. Presto trovò quanto cercava, un autocarro russo della stessa portata dei Lancia, in condizioni relativamente buone: doveva essere arrivato da poco. Aprì il cofano e toccò i poli della batteria con la lama del coltello. Ci fu uno schiocco ed un lampo azzurro, la batteria era carica. Rientrò con Pavel alla scuola, le ore passavano lente, sembrava che la notte non venisse mai. Quando fu buio, presero le armi e tornarono al campo rottami. Della sentinella non c' era traccia, o dormiva nei pressi o era tranquillamente rientrata in caserma. Invece, fra le sagome buie dei veicoli e dei rottami si aggirava una popolazione furtiva: come termiti, smontavano e demolivano tutto quanto potesse dimostrarsi utile o commerciabile: sedili, cavetti, pneumatici, i motorini ausiliari. Alcuni sifonavano via il carburante dai serbatoi; Pavel si fece imprestare un tubo, fece altrettanto e versò un po' di nafta nel serbatoio del primo 3 Ro della fila. Poi Mendel smontò la batteria buona, ed aiutato da Pavel la trascinò all' autocarro. La rimontò, fece la connessione, salirono in cabina e Mendel girò la chiavetta. Cercò a tentoni la levetta dei fari, e i fari si accesero: "... e la luce fu", pensò tra sé. Li spense e fece l' avviamento: il motore partì subito, liscio e rotondo; rispondeva obbediente al pedale del gas. Perfetto. _ Siamo a posto! _ disse Pavel sottovoce. _ Vedremo, _ rispose Mendel. _ Bestioni come questo io ne ho riparati diversi, ma non ne ho mai guidato nessuno. _ Non hai detto che avevi la patente? _ Per averla, ce l' ho, _ disse Mendel fra i denti. _ A quel tempo la davano a tutti, c' erano i tedeschi a Borodinò e a Kaluga, sei mezze ore di lezione e via. Ma poi io ho solo guidato vetture e trattori; e di notte è un' altra faccenda. Adesso stai zitto, per favore. _ Solo ancora una cosa, _ disse Pavel, _ non uscire dalla porta. Lì c' è la garitta, ci potrebbe essere qualcuno. E adesso sto zitto. Con la fronte aggrottata, intento come un chirurgo, Mendel premette il pedale della frizione, ingranò la marcia e sollevò il piede: il camion si avviò con uno strappo selvaggio. Riaccese i fari, e col motore imballato si diresse lentissimo verso il fondo del campo, lungo una corsia sgombra. _ Non sperare che io cambi marcia. Cambio poi domani: per oggi andiamo avanti così. Il camion navigò fino al fossato, si inclinò in avanti e puntò maestosamente verso il cielo. _ Siamo fuori, _ disse Pavel aspirando l' aria piovosa: si accorse che da forse un minuto non aveva più respirato. Una voce gridò alle loro spalle: _ Stòj! Halt! _; Pavel si sporse dal finestrino e sparò una breve raffica verso l' alto, più per allegria anche per intimidazione. Arrivato sulla strada, Mendel raccolse tutto il suo coraggio ed ingranò la seconda ridotta: il ruggito del motore calò di un tono e la velocità aumentò leggermente. Nessuno li inseguì, e raggiunsero la scuola in pochi minuti. Gedale, armato anche lui, li aspettava in strada. Abbracciò Mendel ridendo e recitando la benedizione dei miracoli. Mendel, con la fronte imperlata di sudore a dispetto del freddo, gli rispose: _ Meglio l' altra, quella dello scampato pericolo. Non perdiamo tempo, partiamo subito. Svegliati di soprassalto, i gedalisti portarono giù i bagagli e le armi e si pigiarono nel cassone. Mendel riaccese il motore. _ Verso Zawiercie! _ gli gridò Gedale, che aveva preso posto accanto a lui nella cabina. Seguendo i cartelli indicatori che i russi avevano affissi alle cantonate, Mendel uscì di città e si trovò su una strada secondaria piena di buche e di pozzanghere. A grado a grado, e con parecchie grattate, imparò ad innestare le marce alte, e la velocità divenne discreta. Aumentarono anche gli scossoni, ma nessuno si lamentava. Superò una salita, imboccò la discesa: i freni rispondevano e si sentì rassicurato, ma la tensione della guida lo stravolgeva. _ Non resisto più per molto. Chi mi darà il cambio? _ Vedremo, _ urlò Gedale sul fracasso del motore e delle lamiere. _ Adesso pensa a uscire dall' abitato. A metà discesa incontrarono un posto di blocco: un tronco non sgrossato, appoggiato su due fusti ai lati della strada. _ Che cosa faccio? _ Non fermarti! Accelera! Il tronco volò via come una paglia e si udirono raffiche di mitra; dal cassone qualcuno rispose con colpi isolati. Il camion proseguì la sua corsa nella notte, e Gedale gridò ridendo: _ Se non così, come? E se non ora, quando?

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

I naufraghi, comprendendo che il soccorso stava per giungere, avevano cessato le loro grida minacciose, ma non abbandonarono i due coni, che avevano tratti presso la zattera per impedire la fuga dell'aerostato. Coi visi in aria, gli occhi fissi, non perdevano di vista una mossa degli aeronauti. L'ingegnere e O'Donnell, legata la cassa attorno alla fune dell'ancora poppiera, la lasciarono andare gridando: "Attenti alle teste!" La cassa filò lungo la fune e piombò sopra il cono. I naufraghi vi si precipitarono sopra urtandosi e respingendosi per essere i primi a metter le mani su quei viveri, la tirarono a bordo e con pochi colpi di scure la sfondarono. Ad un tratto un urlo di furore scoppiò fra quei disgraziati. "E l'acqua! ... Noi vogliamo dell'acqua!" urlarono, tenendo le mani raggrinzite verso gli aeronauti. "Ne abbiamo appena per noi" disse l'ingegnere. "Dateci la vostra acqua, canaglie!" tuonò Mac-Canthy. "Ti schiaccio nel cranio una palla, brigante!" urlò O'Donnell. "La canaglia sarai tu!" "A me amici!" gridò il marinaio. "Tiriamoli giù!" "Sì, giù, giù, o dateci la vostra acqua!" urlarono i marinai furiosi. L'ingegnere raccolse il winchester e lo armò risolutamente, mentre O'Donnell impugnava una scure, pronto a tagliare le funi. "Il primo che tocca le àncore lo uccido come un cane!" tuonò Mister Kelly con tono minaccioso. I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l'aerostato di parecchi metri. "Tagliate, O'Donnell!" gridò l'ingegnere. L'irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l'aerostato, il quale fece un balzo in aria. Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco. Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l'altra non fu udita. O'Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l'ingegnere lo trattenne. "È inutile" disse. "Lasciateli: la fame e la sete non ragionano." "Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy." "È lui che voleva mangiarmi" disse il mozzo. "Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter" disse O'Donnell. Il Washington intanto s'innalzava rapidamente, alleggerito com'era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l'aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: "Scendi, cane di un mozzo!" Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s'armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell'inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista. "Che l'oceano v'inghiotta, canaglie!" esclamò O'Donnell che era ancora esasperato. "Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato." "Le privazioni li hanno resi feroci, O'Donnell disse l'ingegnere. "Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente." "Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo." "Questo é vero, O'Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti." "Perdita grave e ... " Si era arrestato col viso in aria, fiutando l'atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione. "Mister Kelly" disse con voce alterata "sentite odore di gas." "Sì, sì" disse l'ingegnere. "Che una valvola si sia aperta o che ... ?" "Una valvola? ... È impossibile. O'Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni." "Una palla di quelle canaglie, forse?" Kelly, che non era meno agitato dell'irlandese, salì sull'asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento. In alto, udì dei leggeri scoppiettii. "Infami!" esclamò. "E io li ho soccorsi!" Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O'Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina. "Ebbene?" chiese l'irlandese con ansietà. "L'idrogeno fugge" rispose l'ingegnere. "Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?" "Sì e forse tutti e due." "Sono ferite gravi?" "Sì, O'Donnell, perché fra poco quei fori s'ingrandiranno, e noi cadremo sull'oceano." "Se provassimo a turarli? Non v'è qualche mezzo?" "Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?" "Io, Mister Kelly." "No, Mister O'Donnell" disse il giovane Walter, "è affar mio." "Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?" chiese l'ingegnere . "Sono un mozzo, Mister Kelly." "Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri." "Non avrò paura" rispose il ragazzo con voce ferma. "Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell'oceano" disse O'Donnell. "Lascia che vada io." "Voi siete troppo pesante, O'Donnell" disse l'ingegnere "e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto." "Grazie, Mister Kelly" rispose il ragazzo. L'ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: "Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge." Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s'arrampicò coraggiosamente sull'asta sostenente la scialuppa. "Hai paura?" gli chiesero O'Donnell e l'ingegnere. "Se ti coglie un principio di vertigine, scendi." "Il vuoto non mi spaventa" rispose il ragazzo con voce ferma. S'aggrappò alla rete e s'innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla. Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l'esterno, ma essendo solidamente legato all'altro non si rovesciò. "Ci sei?" chiese l'ingegnere, che non scorgeva più il mozzo. "Sì, Mister Kelly" rispose Walter. "È un buco o uno strappo?" "E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull'altro fuso." "Puoi turare le ferite?" "Lo spero, Mister Kelly." Il mozzo si mise subito all'opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l'ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Abbandonarono la fregata e s'imbarcarono sulla Devonshire, la quale riprese la corsa a tutto vapore, inoltrandosi nel Mangal. Tremal-Naik aveva assunto il comando e la faceva volare sulle acque fangose del fiume. Ben presto la sua rapidità si accrebbe spaventevolmente. Tonnellate di carbone scomparivano dentro i forni scaldati a bianco, il vapore usciva dalle valvole emettendo acuti fischi; un tremito formidabile scuoteva il battello dalla chiglia alla cima degli alberi, dall'asta di prua a quella di poppa. Ben presto il manometro segnò sei atmosfere e mezzo! Ma Tremal-Naik ed il capitano, assaliti da un'impazienza furiosa, da una specie di delirio, non erano ancora contenti. La loro voce risuonava ad ogni istante, stimolando i macchinisti ed i fuochisti che arrostivano dinanzi ai forni. Tre ore erano già trascorse, tre ore lunghe come tre secoli per l'indiano che anelava di rivedere quella donna che le era costata tanti sacrifici e tante emozioni. Il canale andava a poco a poco restringendosi ed ingombrandosi di isole e di isolette fangose, in mezzo alle quali slanciavasi la cannoniera sfondando masse compatte di putridi vegetali. Tutto indicava che il viaggio stava per terminare. D'un tratto sulla cima dell'albero s'udì un grido: - Il banian! Al nord era apparso il gigantesco albero, coi suoi trecento tronchi. Tremal-Naik si sentì scuotere da capo a piedi da una violenta commozione. - Ada! ... - esclamò egli. - Eccomi alla fine delle mie pene! Si gettò d'un balzo giù dalla lunetta e corse a prua. La riva era deserta. Solamente dei marabù stavano appollaiati sui rami del banian, crocidando lugubremente. La vista di quei funebri uccelli gli fe' correre un brivido per le ossa. - Macchina indietro! - gridò. La battuta delle tambure cessò. La cannoniera, trasportata dal proprio slancio, andò a cozzare colla prua la costa dell'isola, incagliandovisi profondamente. Il capitano si avvicinò a Tremal-Naik, che si era arrestato, stringendo con mano convulsa la murata. - Nessuno?, - chiese. - Nessuno, - rispose Tremal-Naik. - Allora li sorprenderemo nel loro covo. - Lo spero. - Conosci l'entrata? - Sì capitano. - Sarà accessibile? - Lo credo. - A terra adunque! ... - Una parola: lasciate che entri prima io. Mi si conosce e vi aprirò il passo. Quando udirete un fischio, avanzatevi liberamente. Ciò detto si mise a correre, come un delirante, verso l'albero, vi si arrampicò, raggiunse il tronco e si lasciò cader giù. Ai piedi della scala brillava una torcia, e accanto ad essa vegliava un thug, con una carabina in mano. - Avanti, - diss'egli. - Cosa succede nei sotterranei? - chiese Tremal-Naik. - Nulla. - La mia Ada? - Aspetta nella pagoda il suo regalo di nozze. S'avvicinò ad un enorme tamburo sospeso alla volta, e batté tre colpi. In lontananza s'udirono tre colpi eguali. - Sei atteso, - disse il thug, porgendogli la torcia. - Allora muori! ... Tremal-Naik, pronto come il lampo, erasi gettato addosso al thug col pugnale in mano. Afferrarlo strettamente per la gola e cacciargli l'arma nel petto fu cosa d'un solo istante. Lo strangolatore cadde senza emettere un grido. Tremal-Naik spinse da un lato il cadavere, poi emise un fischio. Il capitano ed i suoi uomini, che erano già entrati, lo raggiunsero.- La via è libera, - disse l'indiano. - E mia figlia? - chiese Corishant, con voce soffocata. - Ci attende nella grande caverna. - Avanti! ... Armate i fucili! ... - No, lasciate che io vi preceda. Li sorprenderemo più facilmente. - Va', noi ti seguiremo a breve distanza. Tremal-Naik si mise in cammino procedendo rapidamente. Mille angoscie lo agitavano in quel supremo istante. Gli pareva che un tremendo pericolo lo minacciasse, ora che stava per raggiungere la felicità suprema. La sua corsa, attraverso a quelle lunghe fughe di corridoi, durò dieci minuti. Dodici colpi sonori rimbombavano in quegli spaventevoli sotterranei, quando giunse alla pagoda, in mezzo alla quale giganteggiava la sinistra figura di Kâlì, la mostruosa divinità dei thugs indiani. Uno spettacolo strano, mai più visto, si presentò tosto dinanzi ai suoi occhi. Sotto le volte splendevano ricche e bizzarre lampade, le quali versavano torrenti di luce azzurrognola, livida. Dalle pareti pendevano migliaia e migliaia di lacci e migliaia e migliaia di pugnali. Dinanzi ad una vaschetta di marmo bianco, colma d'acqua, nella quale guizzava il pesciolino sacro delle acque del Gange, su di un cuscino di seta cremisi sedeva Suyodhana, avvolto in un grande dubgah di seta gialla, e attorno a lui, ritti e immobili come statue, stavano cento thugs, alcuni dalla pelle nera come gli africani, altri olivastra come i malesi ed altri ancora bronzina, rossiccia o gialla, quasi nudi, unti d'olio di cocco e col petto tatuato. Tremal-Naik, anelante, stupefatto, s'era arrestato in mezzo alla pagoda, saettato da quei cento sguardi acuti come punte di spillo. - Sii il benvenuto, - disse Suyodhana con uno strano sorriso. - Torni vinto o vincitore? - Dov'è la mia Ada? - chiese Tremal-Naik con angoscia. Un sordo mormorìo percorse il cerchio dei thugs. - Sii paziente, - disse il capo dei settari. - Dov'è la testa del capitano? - Hider mi segue, e fra qualche minuto te la presenterò. - L'hai dunque ucciso? - Sì. - Fratelli, il nostro nemico è morto! - urlò Suyodhana. S'alzò, anzi scattò su come una tigre. Sulla sua faccia passò come un fremito e rimase lì, immobile a guardare Tremal-Naik. - Odimi, - disse, dopo qualche minuto. - Vedi tu quella donna di bronzo che sta di faccia a noi? - La vedo, - rispose Tremal-Naik. - Ma quella donna non è la mia. - Lo so, ma quella donna è possente, più possente di Brahma, di Visnù, di Siva e di tutte le divinità adorate dagli indù. Vive nel regno delle tenebre, parla a noi a mezzo di quel pesce che tu vedi nuotare in quella vaschetta, è giusta e terribile. Disprezza gli incensi e le preci, non vuole che vittime. Quella donna rappresenta la libertà indiana e la distruzione dei nostri oppressori dalla pelle bianca. Suyodhana si arrestò per vedere quale effetto producevano quelle parole su Tremal-Naik, ma questi rimase freddo, insensibile all'entusiasmo del settario. Egli non pensava che alla sua Ada, che per lui era la sua dea, la sua patria, la sua vita. - Tremal-Naik, - ripigliò Suyodhana. - Tu sei uno di quegli uomini che nell'India sono rari, tu sei forte, tu sei audace, tu sei terribile, tu sei un indiano, che come noi langue sotto il giogo degli stranieri dalla pelle bianca. Abbracceresti la nostra religione? - Io! - esclamò Tremal-Naik. - Io thug! - Ti fanno orrore i thugs? Forse perché strangolano? Gli europei ci schiacciarono col ferro dei loro cannoni, noi li schiacciamo col laccio, l'arma della nostra possente dea. - E la mia Ada? ... - Rimarrà fra noi, come rimane Kammamuri che ormai è diventato un thug. - Ma sarà mia sposa? - Giammai! Ella appartiene alla nostra dea. - E Tremal-Naik non ha altra dea che Ada Corishant! Per la seconda volta un sordo mormorio percorse il circolo dei thugs. Tremal- Naik si guardò attorno con furore. - Suyodhana! - esclamò. - Sarei io forse tradito? ... Mi si negherebbe ora quella donna dopo tutto quello che feci per la vostra dea? ... Saresti tu uno spergiuro? - Quella donna ti appartiene, - disse Suyodhana con un tono di voce che metteva i brividi. Un indiano batté dodici colpi su di un tam-tam. Nella pagoda regnò per alcuni istanti un profondo silenzio, un silenzio di morte. Si avrebbe detto che quei cento uomini non respiravano più. D'un tratto una porta s'aprì e si slanciò fuori Ada, coperta di candidi veli, col petto racchiuso da una corazza d'oro dalla quale scaturivano acciecanti bagliori. Due grida rimbombavano nella pagoda: - Ada! ... - Tremal-Naik. E l'indiano e la giovanetta si slanciarono l'una nelle braccia dell'altro. Quasi subito si udì una voce tuonante a gridare: - Fuoco! ... Una scarica tremenda rimbombò nel sotterraneo scuotendo tutti gli echi delle gallerie, poi sessanta uomini, irrompendo dal tenebroso corridoio, si slanciarono nella pagoda a baionetta calata. I thugs, stupefatti, atterriti, si rovesciarono confusamente attraverso alle gallerie, lasciando sul terreno una ventina di loro. Suyodhama, con un balzo di tigre si era lanciato in uno stretto passaggio, chiudendo dietro di sé una pesante porta di legno di tek. Il capitano si era precipitato verso Ada, gridando: - Figlia mia! ... finalmente di rivedo! ... - Mio padre! ... - aveva gridato la giovanetta, ed era svenuta fra le braccia di lui. - In ritirata! ... - tuonò Tremal-Naik. - I soldati si ripiegarono verso la pagoda, per tema di smarrirsi sotto le tenebrose gallerie. - Partiamo! - disse il capitano. - Vieni, mio valoroso Tremal-Naik la mia Ada è tua sposa! ... Tu l'hai ben meritata. E si misero a ritirarsi, ma prima che uscissero dall'immenso sotterraneo, si era udita la voce del terribile Suyodhana a gridare con accento minaccioso: - Andate! ... Ci rivedremo nella jungla. -

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Abbandonarono la stiva e tornarono sulla tolda ove i marinai, ancora pallidi, li attendevano con grande ansietà. Il capitano con poche parole li rassicurò. Pel momento nulla eravi da fare, poichè l'uragano continuava a infuriare in siffatta maniera da rendere impossibile la calata delle baleniere. Il capitano fece gettare un'àncora a poppa per assicurare maggiormente il vascello, e altre due ne fece gettare fra gli scoglietti, a babordo l'una e a tribordo l'altra. Ciò fatto attese, in preda ad una certa agitazione che non riusciva a vincere, che il mare si calmasse. La sua pazienza e quella dell'equipaggio furono messe a dura prova, poichè l'uragano infuriò tutto il giorno, scuotendo fortemente la nave che gemeva sinistramente sul suo letto di sabbia. Verso però le 11 pomeridiane quei formidabili soffi a poco a poco scemarono di violenza e attraverso gli squarciati vapori tornò a mostrarsi il sole che allora radeva l'orizzonte occidentale. Alla mezzanotte una calma assoluta regnava negli strati superiori, e l'aria, poco prima così agitata e fredda, era diventata così tiepida da far quasi credere di essere nel Messico anzichè nello stretto di Behring. Il mare però mantenevasi ancora agitatissimo e continuava a infrangersi con grande violenza contro le isole, inoltrandosi nei "fiords" con muggiti prolungati. L'indomani, 2 settembre, a bassa marea il capitano, il tenente, Widdeak e il carpentiere scesero in una baleniera e approdarono sul banco dove la prua del vascello era rimasta quasi interamente allo scoperto. L'avaria causata dal violentissimo urto era gravissima ma non irreparabile. A pochi piedi dall'asta di prua, subito sotto la linea di galleggiamento, la punta aguzza di uno scoglietto aveva aperto un buco così grande che vi poteva passare comodamente un barile. La chiglia fortunatamente non aveva riportato alcun guasto, avendo incontrato un banco di sabbia, in cui vi si era quasi interamente seppellita, - Che ne dici, carpentiere?- chiese il capitano con inquietudine. - Il colpo è stato fierissimo, - rispose l'interrogato, - e la falla è ragguardevole. Però ... . - Però? ... - disse il capitano, nei cui sguardi brillò un lampo di gioia. - La si turerà. - Quanto tempo chiedi? Bisogna che sia breve affinchè possiamo approfittare della gran marea del 12 settembre. - Per quel giorno il Danebrog sarà pronto a prendere il mare. - E quando avremo lasciato il banco, dove andremo? - chiese il tenente che caricava flemmaticamente e con profonda attenzione la sua pipa. - Vi spiacerebbe seguirmi verso il nord? - disse il capitano, guardandolo fisso fisso. - Ne sarei lietissimo, signore. Il capitano gli prese la destra e gliela strinse fortemente. - Siete un brav'uomo, signor Hostrup. - Mi sta sul cuore la scommessa, signor Weimar, - rispose Hostrup. - E da parte mia rischierò senza esitare la mia vita, pur di tenere sempre alta la fama dei balenieri danesi. - Grazie, tenente. Ed ora, carpentiere, al lavoro. Dovendosi approfittare della sola bassa marea, il carpentiere si mise alacremente all'opera, aiutato da una squadra di marinai che su un'altra baleniera gli avevano recato gli attrezzi necessari, una considerevole quantità di legname e parecchie grosse lastre di rame, mentre alcuni altri sgombravano la prua delle botti che l'occupavano e mettevano in opera le pompe per estrarre l'acqua entrata dalla falla. Il tenente Hostrup, che di simili lavori si intendeva poco, tornò a bordo a prendere il suo fucile. - Faremo una passeggiata sull'isola, - disse a Koninson. - Vedo dei grossi uccelli e forse nei "fiords" si nasconde qualche foca o qualche tricheco. Prendi un fucile e seguimi ... . - Maneggio meglio il rampone che le armi da fuoco, tenente, - rispose il fiociniere. - Voi penserete ai volatili e io alle foche. - Come vuoi, amico. S'imbarcarono sul piccolo canotto e presero il largo girando attorno agli scoglietti sui quali venivano a rompersi le ultime onde sollevate dall'uragano. Arrancando con lena, in brevi istanti raggiunsero l'isola, ma da quella parte la costa non offriva approdi, essendo tagliata quasi a picco e molto alta. Attorno vi volteggiavano numerosi uccelli marini, i quali fra i crepacci avevano piantato i loro nidi. Proseguendo, i due cacciatori scoprirono ben presto un piccolo "fiord", il quale terminava in una sponda bassa coperta in parte d'una sabbia finissima e in parte di ciottoloni neri e arrotondati dal continuo lavorio delle onde. Legarono il piccolo canotto ad una rupe e balzarono a terra portando le loro armi. L'isola offriva un brutto aspetto. Qua e là si rizzavano delle alture aridissime, più oltre delle grandi rocce nere nei cui crepacci scorgevansi alcuni magri licheni, qualche rosa canina selvatica, o qualche pianticella di ribes o di uva spina. - Che desolazione! - esclamò Koninson. - Troveremo almeno delle foche? - Lo spero, fiociniere, - rispose il tenente. - Una volta qui erano talmente numerose, che alcuni balenieri vi facevano i loro carichi d'olio; oggi però, in causa delle cacce accanite, non se ne incontrano che pochissime. - Dovevano, distruggerne un numero enorme quei balenieri per fare un carico intero. - Delle migliaia, Koninson. - Allora non tarderanno a sparire dappertutto. - Ciò avverrà sicuramente e forse fra non molto. Già le sponde dell'America settentrionale cominciano a essere spopolate. - Che disgrazia! E dire che sono animali così inoffensivi! Se la prendessero almeno cogli orsi bianchi, quei balenieri paurosi. Dato uno sguardo alle rive, i due cacciatori si addentrarono nell'isola, ove gli uccelli si mostravano talmente numerosi da oscurare talvolta la luce del sole. Ora passavano immense bande di urie, uccelli dalle penne nere e bianche, il becco lungo e dritto e le gambe collocate così indietro da costringere quei volatili a sedersi anzichè coricarsi; ora stormi di strolaghe, bellissimi uccelli col petto e il dorso neri, le ali macchiate e le parti inferiori di un bianco niveo, e ora lunghe file di oche bernine, grosse come un'oca comune e che facevano un baccano indiavolato. - Per bacco! - esclamò il tenente. - Se si volesse fare un carico di uccelli la fatica non sarebbe molta. - Accontentiamoci di empire la dispensa del cuoco, - disse Koninson. - All'opera, signore. II tenente si arrampicò su di una rupe, si accomodò sulla cima e di là cominciò a sparare contro le bande di volatili che gli passavano sopra, a destra, a sinistra e dinanzi senza mostrarsi spaventate. In breve parecchi gabbiani, oche, urie e strolaghe si trovarono a terra colpite dal piombo del valente cacciatore. Koninson ammazzava gli uccelli feriti a colpi di rampone. Quelle continue detonazioni finirono però collo spaventare i volatili, i quali si allontanarono dalla rupe volando verso le coste dell'isola. - Siete un tiratore da far paura, - disse Koninson al tenente, che raccoglieva le vittime. - C'è qui tanta carne da nutrire per un'intera settimana l'equipaggio del "Danebrog". - E non ho ancora finito, fiociniere. Ho visto laggiù due grossi uccelli e conto di abbatterli. Ammucchiarono le vittime sotto la sporgenza di una rupe e si rimisero in cammino riaccostandosi al mare, e precisamente verso un piccolo "fiord", sopra il quale volteggiavano due grandissimi uccelli dalle penne bianche e nere. - Cosa sono? - chiese Koninson. - Aquile forse? - Aquile qui? A me sembrano due albatros. - Ma gli albatros sono uccelli dei mari australi, signore. - Non ti dico, di no, ma non pochi di quei voraci giganti vanno a piantare i loro nidi, sulle isole dei mari della Cina e del Giappone e in giugno si spingono, sin qui. - La loro carne è eccellente? - Se devo dirti la verità, è coriacea; però tenuta qualche tempo nel sale e condita con una salsa piccante, non è sgradevole. I due cacciatori giunsero ben presto al "fiord", ma i due albatros, un po' magri si ma veramente giganteschi, le cui ali spiegate misuravano non meno di cinque metri, si allontanarono e così rapidamente, che in pochi istanti, furono fuori di vista. - Vigliacchi! esclamò il fiociniere. - E lo sono davvero, malgrado la loro mole e, il loro formidabile rostro - disse il tenente. - Ma ... oh! ... - Che hai? - Guardate alla vostra sinistra, presso il mare! - disse Koninson a bassa voce. Il tenente guardò nella direzione indicata e sopra una roccia che cadeva a picco sul mare, ma poco alta, scorse una massa rossiccia, di dimensioni ragguardevoli. - È una foca! - disse Koninson. - No, deve essere un tricheco - disse il tenente, che caricò subito il fucile a palla. - Bisogna ammazzarlo. - Lo ammazzeremo, fiociniere. Cerchiamo però di non farci vedere, altrimenti si lascerà cadere in mare. Si gettarono in mezzo alle rocce e tenendosi sempre nascosti giunsero a soli duecento passi dalla preda che si scaldava ai raggi del sole mezza coricata su un fianco. Il tenente non si era ingannato. Era proprio un tricheco, che taluni chiamano anche morsa, lungo quasi quattro metri e con una circonferenza di tre, coperto di un pelo corto, scarso e rossiccio. Si vedevano distintamente i suoi lunghi denti di avorio che scendono verticalmente dalla mascella superiore. Tali animali, che un tempo erano numerosissimi su tutte le coste settentrionali dell'Asia e dell'America, sono inoffensivi a terra, ove si muovono con molto stento, ma aggrediti in mare, ove nuotano con grande sveltezza, si difendono disperatamente e più di una volta i loro solidi denti spezzarono le scialuppe dei cacciatori. Il tenente mandò Koninson dietro una rupe che era a breve distanza da quella occupata dal tricheco, poi puntò lentamente il fucile, mirò con somma attenzione e sparò. Il tricheco, colpito alla testa, fece un brusco salto mandando una specie di ruggito e si mise a dibattersi, cercando tuttavia di guadagnare l'orlo della roccia per precipitarsi in mare. Ma Koninson era vicino; in dieci salti lo raggiunse e gli vibrò una tale ramponata da finirlo quasi sul colpo. - Bella fucilata - esclamò il fiociniere volgendosi al tenente che si avvicinava colla solita calma. - Questi sì che sono animali che valgono una palla! - Lo credo, Koninson. È tanto grasso questo tricheco che ci fornirà più di due barili d'olio. - E olio migliore di quello della balena, signor Hostrup. - Che ce ne siano degli altri? - Ne dubito, Koninson. I balenieri hanno distrutto anche i trichechi. - E ve n'eran molti in quest'isola? - Delle migliaia, fiociniere. Mi fu narrato da un capitano olandese, quindici anni, or sono, che un baleniere norvegese in quattro sole ore ne ammazzò più di cinquecento. - Che strage! - E so pure, ma non mi ricordo più ora in quale località, che l'equipaggio di un bastimento inglese nel 1705 ne uccise ben ottocento nello spazio di sei ore e che tre anni più tardi un altro equipaggio ne uccise novecento in sette ore. - In una giornata, in quei tempi si caricava un bastimento di olio. - Ed erano carichi quelli che valevano molto di più dei nostri, poichè anche le pelli dei trichechi hanno valore e i denti, che danno un avorio più compatto e più bianco di quello degli elefanti, si pagavano molto cari. - E come faremo a trasportare a bordo questo bestione? - Lasciamolo qui. Manderemo i marinai a raccoglierlo. Continuiamo l'escursione Koninson. - I due cacciatori si misero a costeggiare l'isola facendo un'ampia raccolta di uova di uccelli marini, per lo più depositati sulle sabbie o nei crepacci delle rocce e sparando di quando in quando sui gabbiani. Alle 6, carichi come muli, s'imbarcavano nel piccolo canotto e tornavano a bordo dove il carpentiere, il capitano, mastro Widdeak e i marinai lavoravano febbrilmente attorno alla falla.

Per la seconda volta i marinai abbandonarono i loro posti fuggendo a tribordo. Il capitano Weimar gettò un vero ruggito e il tenente, malgrado tutto il suo coraggio, impallidì. Entrambi credettero che questa volta pel "Danebrog" fosse proprio finita. Un'altra onda avvicinò di più la montagna di ghiaccio. Un pennone, quello di maestra, che sporgeva assai fuori dal bordo, fu smussato da un blocco di ghiaccio staccatosi dalla cima dell'"iceberg" - Si salvi chi può! - urlarono alcuni marinai, che avevano perduto completamente la testa. - Fermi! Fermi! Passiamo! - tuonò il capitano Weimar sempre ritto dietro la ruota del timone. Il "Danebrog", trasportato dal vento che soffiava con forza irresistibile, filava come una rondine marina quasi strisciando sul fianco della montagna. Due volte toccò, ma finalmente uscì dal pericoloso passo e si slanciò sulle onde furenti lasciandosi addietro i due "icebergs", i quali in brevi istanti scomparvero nel nebbione. Un grido di gioia s'alzò fra l'equipaggio, unito al grido di: "Viva il capitano"! Ma quel grido cessò quasi subito. Uno strano e formidabile fragore si era improvvisamente udito verso sud-est. Pareva che l'oceano si rompesse contro una costa che il nebbione non permetteva di vedere. - Tenente Hostrup! - gridò il capitano che aveva pure udito quel lungo muggito. - Cosa abbiamo dinanzi a noi? La costa americana forse? Il tenente salì sul castello di prua e guardò attentamente dinanzi, a babordo e a tribordo, ma altro non vide che furiosi marosi i quali trascinavano nei loro disordinati movimenti ghiacci di ogni dimensione, sfracellandoli gli uni contro gli altri. Si curvò più che potè verso l'acqua e tese attentamente gli orecchi. Fra i fischi del vento e i cozzi dei ghiacci udì distintamente un sordo muggito. - Sì, capitano - gridò. - Noi abbiamo vicina la costa o una scogliera. - Tutti ai bracci delle vele pronti a virare! - comandò il capitano, Il "Danebrog" per dieci minuti tirò innanzi, sempre orribilmente sballottato dalle onde, che saltavano sopra le murate inondando la tolda da prua a poppa. Ad un tratto, a breve distanza apparve una spuma biancastra e il muggito poco prima udito divenne così intenso da credere che la costa o le scogliere fossero a poche gomene. Il capitano Weimar stava per dare il comando di virare, quando avvenne un leggero cozzo che arrestò subito la marcia del "Danebrog". Il tenente e Koninson corsero a prua e si issarono, per meglio vedere, sul bompresso. Quasi subito avvenne un secondo urto e questa volta così forte da rovesciare tutto l'equipaggio. Una montagna d'acqua, varcate le murate, si precipitò sulla tolda atterrando tutto ciò che incontrava. Tra i fischi del vento ed i muggiti delle onde s'udirono due grida d'aiuto, poi più nulla. Quando i caduti si rialzarono, il "Danebrog" galleggiava ancora, ma due uomini mancavano. Il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, che al momento dell'urto si trovavano sull'albero di bompresso, erano stati trascinati via dal colpo di mare!

Rimisero a galla i canotti, vi si cacciarono dentro e abbandonarono il gruppo d'isolette colla maggior sollecitudine, temendo di vedere ritornare gli orsi bianchi che forse si tenevano celati dietro le rocce. Fortunatamente i tre carnivori non si fecero vedere, sicchè poterono proseguire tranquillamente il loro viaggio costeggiando la sponda opposta che si manteneva così dirupata da non permettere la discesa ad alcun animale per quanto fosse fornito di solidi artigli. A mezzogiorno fecero una breve sosta dentro un profondo "fiord" che li teneva riparati dai ghiacci che la corrente continuava a trascinare, mangiarono alla meglio un pezzo d'orsacchiotto, poi ripartirono. Il viaggio fu però di breve durata, poichè ben presto si alzò sul fiume un nebbione così denso da non permettere più di discernere i ghiacci anche a pochi passi di distanza. Le due rive in breve scomparvero ai loro occhi. - Approdiamo - disse il tenente, che temeva pei fragili canotti. - Vedo dinanzi a noi un isolotto boscoso che ci offrirà un buon fuoco e un riparo contro il freddo della notte. - Non faremo cattivi incontri, spero. - No, ma veglieremo per turno. Hai veduto come nuotano gli orsi bianchi? Se qualcuno si aggira sulle rive e si accorge della nostra presenza, non ci penserà su due volte a farci una visita durante il nostro sonno. Presero terra all'estremità dell'isolotto che non aveva una estensione maggiore di trenta metri, tirarono a secco i canotti e si accamparono fra due alti pini. Koninson, dopo aver acceso il fuoco, fece una corsa attraverso quel brano di terra per assicurarsi che nessun animale fosse celato fra le piante, poi allestì la cena. Alle 10 di sera, quando il nebbione era più fitto, il tenente sì coricò accanto al fuoco sotto la guardia del compagno, cui spettava il primo quarto. Nessun incidente venne a interrompere il suo sonno. Alle due del mattino surrogò Koninson che cadeva dalla stanchezza. Nessun rumore fino allora era stato avvertito, all'infuori del gorgoglio della corrente che si rompeva contro l'isolotto e gli urti dei ghiacci. Ma verso le quattro, quando il nebbione cominciava ad alzarsi, il tenente, che si teneva seduto accanto al fuoco col fucile in mano, avvertì dei vaghi rumori che venivano dalla riva destra. Si alzò rapidamente e s'avvicinò al fiume curvandosi verso la corrente. Ben presto udì in mezzo al nebbione un lungo fischio che si ripetè parecchie volte. - Che animale è mai questo? - si chiese egli. - Un orso no di certo. Stette in ascolto e gli parve di udire degli scoppi di risa che era si avvicinavano ed ora si allontanavano. - Se non mi trovassi sul Makenzie, direi che sulla riva ci sono delle jene, ma le terre della Baia d'Hudson non hanno mai ospitato questi animali dei climi caldi. - Signor Hostrup! - disse in quell'istante il fiociniere che si era svegliato. - C'è della gente allegra, a quanto pare. Chi ride in questo brutto paese? - È ciò che io sto chiedendomi - rispose il tenente. - Sono persone o animali? - Persone senza dubbio. - Forse siamo giunti al forte senza accorgercene? - Io credo che sia ancora molto lontano. - Provate a chiamare. - Olà, chi ride? - gridò il tenente. Una specie di grugnito vi rispose, seguito tosto da risa sgangherate e un vociare di persone. - Senza dubbio ci sono degli Indiani - disse il fiociniere raggiungendo il tenente. - Ci saranno amici o nemici? - In questo paese non si può dire mai nulla, poichè le tribù indiane oggi rispettano i bianchi e domani sono capaci di assassinarli a tradimento. - Provatevi a interrogarli. Che lingua parlano gli abitanti di questa regione? - Una lingua che ben pochi conoscono, ma avendo essi frequenti comunicazioni coi forti della Compagnia comprenderanno l'inglese o almeno il russo. - Proviamoci. - Olà, chi siete e da dove venite? - chiese egli in inglese. - Co-yuconi, - rispose una voce forte e distinta. - Corpo d'un vascello sventrato! - esclamò Koninson, facendo un salto. - Io conosco questa voce! - È quella ... - Del capo Tanana che ci ha derubati. - Se è proprio lui che ha parlato, gli farò pagar caro il tradimento. Arma il fucile e teniamoci pronti a tutto.

I PIRATI DELLA MALESIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Coloro che lavoravano alle zattere abbandonarono il lavoro; quelli inerpicati sugli alberi dopo un po' d'esitazione si lasciarono scivolare giù. La calma non tardò a regnare sul ponte del vascello naufragato. Del resto la burrasca, dopo d'aver raggiunta la massima intensità, cominciava a scemare. I nuvoloni, qua e là squarciati, lasciavano intravvedere di quando in quando il tremulo luccichìo degli astri. Il vento, dopo d'aver fischiato, urlato, ruggito, si calmava a poco a poco. Tuttavia il mare continuava a mantenersi assai agitato. Gigantesche ondate correvano in tutte le direzioni investendo con furia estrema le scogliere e sfasciandovisi sopra con spaventevole fracasso. Il vascello scosso, sbattuto a prua e a poppa, gemeva come un moribondo, lasciandosi portar via pezzi di murate e frammenti della chiglia infranta. Talvolta, anzi, oscillava da prua a poppa così fortemente, da temere che venisse strappato dal banco madreporico e travolto in mezzo ai marosi. Per fortuna stette saldo, ed i marinai, malgrado l'imminente pericolo e le ondate che si rovesciavano in coperta, poterono gustare anche qualche ora di sonno. Alle quattro del mattino, verso oriente, il cielo cominciò a schiarirsi. Il sole sorgeva con la rapidità che è propria delle regioni tropicali, annunciato da una tinta rossa magnifica. Il capitano, ritto sulla coffa dell'albero di maestra, con mastro Bill vicino, teneva gli occhi fissi al nord, dove sorgeva, a meno di due miglia, una massa oscura, che doveva essere una terra. - Ebbene, capitano - chiese il nostromo che masticava rabbiosamente un pezzo di tabacco, - la conoscete quella terra? - Credo di sì. Fa scuro ancora, ma le scogliere che la cingono da tutte le parti mi fanno sospettare che quell'isola sia Mompracem. - By God! - mormorò l'americano facendo una smorfia. - Ci siamo rotte le gambe in un brutto luogo. - Lo temo purtroppo, Bill. L'isola non gode buon nome. - Dite che è un nido di pirati. È tornata la Tigre della Malesia, capitano. - Che? - esclamò Mac Clintock, mentre si sentiva correre per le ossa un brivido. - La Tigre della Malesia tornata a Mompracem? - Sì. - È impossibile, Bill! Sono parecchi anni che quel terribile individuo è scomparso. - Ma vi dico che è tornato. Quattro mesi or sono egli assalì l'Arghilah di Calcutta, il quale non gli sfuggì che con gran fatica. Un marinaio che aveva conosciuto il sanguinario pirata mi narrò di averlo scorto a prua di un praho. - Allora siamo perduti. Non tarderà ad assalirci. - By God! - urlò il mastro, divenendo di colpo pallidissimo. - Che cos'hai? - Guardate capitano! Guardate laggiù! ... - Dei prahos, dei prahos! - gridò una voce dal ponte. Il capitano, non meno pallido del mastro, guardò verso l'isola e scorse quattro legni che doppiavano un capo, lontano appena tre miglia. Erano quattro grandi prahos malesi, bassi di scafo, leggerissimi, snelli, con vele di forme allungate sostenute da alberi triangolari. Questi legni, che filano con una sorprendente rapidità e che, grazie al bilanciere che hanno sottovento e al sostegno che portano sopravento, sfidano i più tremendi uragani, sono generalmente usati dai pirati malesi, i quali non temono di assalire con essi i più grossi vascelli che s'avventurano nei mari della Malesia. Il capitano non lo ignorava, sicché appena li ebbe scorti, s'affrettò a discendere sul ponte. In poche parole informò l'equipaggio del pericolo che li minacciava. Solo un'accanita resistenza poteva salvarli. L'armeria di bordo, per disgrazia, non era troppo ben fornita. I cannoni mancavano totalmente, i fucili erano appena sufficienti per armare l'equipaggio e in gran parte assai malandati. V'erano però delle sciabole d'arrembaggio, arrugginite sì, ma ancora in buono stato, qualche pistolone, qualche rivoltella e un buon numero di scuri. I marinai e i passeggeri, armatisi alla meglio, si precipitarono verso poppa, la quale trovandosi immersa, poteva offrire una buona scalata. La bandiera degli Stati Uniti salì maestosamente sul picco della randa e mastro Bill la inchiodò. Era tempo. I quattro prahos malesi che filavano come uccelli non erano più che a sette od ottocento passi e si preparavano ad assalire vigorosamente il povero tre-alberi. Il sole si alzava allora sull'orizzonte e permetteva di vedere chiaramente coloro che li montavano. Erano ottanta o novanta uomini, semi-nudi, armati di stupende carabine incrostate di madreperla e di laminette d'argento, di grandi parangs di acciaio finissimo, di scimitarre, di kriss serpeggianti con la punta senza dubbio avvelenata nel succo d'upas, e di clave smisurate, dette kampilang, che essi maneggiavano come fossero semplici bastoncini. Alcuni erano malesi dalla tinta olivastra, membruti e di lineamenti feroci; altri erano bellissimi dayaki di alta statura, con le gambe e le braccia coperte di anelli di rame. C'erano pure alcuni cinesi, riconoscibili per i loro crani pelati e lucenti come avorio, alcuni bughisi, macassaresi e giavanesi. Tutti quegli uomini tenevano gli occhi fissi sul vascello e agitavano furiosamente le armi, emettendo urla feroci che facevano fremere. Pareva che volessero spaventare i naufraghi prima di venire alle mani. A quattrocento passi di distanza un colpo di cannone rimbombò sul primo praho. La palla, di calibro considerevole, andò a fracassare l'albero di bompresso, il quale si piegò, tuffando la punta in mare. - Animo, ragazzi! - urlò il capitano Mac Clintock. - Se il cannone parla, è segno che la danza è cominciata. Fuoco di bordata! Alcuni colpi di fucile seguirono il comando. Urla atroci scoppiarono a bordo dei prahos, segno che non tutto il piombo era andato perduto. - Così va bene, ragazzi! - urlò mastro Bill. - Quei brutti musi là non avranno tanto coraggio da spingersi fino a noi. Ohé! Fuoco! La sua voce fu coperta da una serie di formidabili detonazioni che venivano dal largo. Erano i pirati che cominciavano l'attacco. I quattro prahos parevano crateri infiammati, eruttavano tremende grandinate di ferro. Tiravano i cannoni, tiravano le spingarde, tiravano le carabine, schiantando, atterrando, distruggendo tutto con una precisione matematica. In men che non si dica quattro naufraghi giacevano sulla tolda senza vita. L'albero di trinchetto, schiantato sotto la coffa, precipitò sul ponte ingombrando di pennoni, di vele, di cavi. Alle urla di trionfo erano succedute urla di spavento e di dolore, gemiti e rantoli d'agonia. Era impossibile resistere a quell'uragano di ferro che arrivava con rapidità spaventosa facendo saltare alberi, murate, madieri. I naufraghi, vistisi perduti, dopo aver scaricato sette od otto volte i loro moschettoni, malgrado i sagrati del capitano e di mastro Bill, abbandonarono il posto fuggendo a tribordo, riparandosi dietro i rottami dell'attrezzatura e delle imbarcazioni. Alcuni di loro perdevano sangue e gettavano grida strazianti. I pirati, protetti dai loro cannoni, in capo a un quarto d'ora giunsero sotto la poppa del vascello tentando di issarsi a bordo. Il capitano Mac Clintock si gettò da quella parte per ribattere l'abbordaggio, ma una scarica di mitraglia lo freddò assieme con tre uomini. Un urlo terribile echeggiò per l'aria: - Viva la Tigre della Malesia! I pirati gettano le carabine, impugnano le scimitarre, le scuri, le mazze, i kriss e danno intrepidamente l'abbordaggio aggrappandosi alle murate, ai paterazzi e alle griselle. Alcuni si slanciano sulla cima degli alberi dei prahos, corrono come scimmie lungo i pennoni e piombano sull'attrezzatura del tre-alberi lasciandosi scivolare in coperta. In un attimo i pochi difensori, sopraffatti dal numero, cadono a prua, a poppa, sul cassero e sul castello. Presso l'albero di maestra un solo uomo, armato di una pesante e larga sciabola d'abbordaggio, rimaneva ancora ... Quest'uomo, l'ultimo della Young-India, era l'indiano Kammamuri, il quale si difende come un leone, smussando le armi del nemico incalzante e percuotendo a destra e a sinistra. - Aiuto! aiuto! ... - urlò il poveretto con voce strozzata. - Ferma! - tuonò d'improvviso una voce. - Quell'indiano è un prode! ...

I pirati abbandonarono precipitosamente le feritoie e si arrampicarono come gatti sul recinto. Tremal-Naik, Sambigliong, Tanauduriam e Aïer-Duk li dirigevano, incoraggiandoli con la voce e con l'esempio. Ben presto la moschetteria ricominciò con furia incredibile. Sotto ogni albero della costa balenava un lampo, seguito da una detonazione. Centinaia e centinaia di palle s'incrociavano nell'aria con fischi lamentevoli. Di quando in quando, fra il crescente frastuono, si udivano la voce tonante della Tigre della Malesia, le imprecazioni dei tigrotti, i comandi degli ufficiali del rajah e le urla selvagge degli indiani e dei dayachi. Talvolta però non erano esclamazioni di trionfo o di entusiasmo: erano grida strazianti, gemiti di feriti e di moribondi. D'improvviso, verso il mare, si udì una fortissima detonazione che coprì lo scrosciare della moschetteria. Era la possente voce del cannone. - Ah! - esclamò Sandokan. - La flotta del rajah! Guardò verso l'Oceano. Una grande ombra entrava nella baia accostandosi all'isola; due fanali, verde l'uno, rosso l'altro, brillavano ai suoi fianchi. - Ehi! Sandokan! ... - gridò una voce. - Corpo di una spingarda! - Coraggio, Yanez! - rispose Sandokan. - Per Giove! Abbiamo una nave alle spalle. - Se occorre l'abborderemo e ... Non finì. Una fiammata era balenata a prua della nave che entrava nella vasta baia e una palla aveva abbattuto un pezzo di recinto. - Il Realista! - esclamò Sandokan. Infatti quella nave che accorreva in aiuto degli assalitori era lo schooner del rajah Brooke, lo stesso che alla foce del Sarawak aveva attaccato e mandato a picco l'Helgoland. - Maledetto - ruggì Sandokan, guardandolo con due occhi che mandavano fiamme. - Ah! Perché non ho un praho anch'io? Ti farei vedere come sanno battersi all'arma bianca i tigrotti di Mompracem! ... Un nuovo colpo di cannone rimbombò sul ponte del legno nemico e una nuova palla venne ad aprire un nuovo foro. La Tigre della Malesia mandò un urlo di dolore e di rabbia. - Tutto è finito! - esclamò. Si precipitò giù dal tetto della capanna, seguito da tutti i suoi compagni, mentre un nembo di mitraglia spazzava la sommità del forte, salì sulla barricata che chiudeva l'entrata del fortino gridando: - Fuoco, tigrotti di Mompracem, fuoco! Mostriamo al rajah come sanno battersi i pirati della Malesia! ... La battaglia prendeva allora proporzioni spaventevoli. Le truppe del rajah, che fino allora si erano tenute nascoste sotto i boschi, si erano spinte verso la spiaggia e di là facevano un fuoco infernale; la flottiglia, tenutasi sempre ad una rispettabile distanza, vedendosi appoggiata dai cannoni del legno, aveva ora fatto una mossa innanzi, risoluta, a quanto pareva, ad approdare all'isola. La posizione dei pirati divenne ben presto disperata. Combattevano con rabbia estrema, ora tirando sulla nave, ora tirando sulla flottiglia, ora sparando sulle truppe ammassate sulla spiaggia della baia, entusiasmati dalla voce della Tigre della Malesia; ma erano troppo pochi per tener testa a tanti nemici! Le palle cadevano fitte, entrando per le feritoie e le fessure della cinta, e facevano cadere a due, a tre alla volta i pirati che sparavano dall'alto della palizzata. E spesso non erano semplici palle, ma granate che i cannoni del Realista vomitavano e che, scoppiando con terribile violenza, aprivano brecce enormi, per le quali il nemico, una volta sbarcato, poteva penetrare nel fortino. Alle tre del mattino un nuovo soccorso giungeva agli assalitori. Era uno svelto yacht armato di un solo ma grosso cannone, il quale aprì subito il fuoco contro le ormai cadenti palizzate del forte. - È finita! - disse Sandokan dall'alto della barricata, mentre con le dita arse, la faccia stravolta, tirava contro la flottiglia che continuava ad avanzare. - Fra dieci minuti bisognerà arrendersi. Alle quattro del mattino, nel fortino non rimanevano che sette persone: Sandokan, Yanez, Tremal-Naik, Ada, Sambigliong, Kammamuri e Tanauduriam. Avevano lasciato la cinta che non offriva più riparo alcuno e si erano ritirati nella gran capanna, una parte della quale era stata già distrutta dalle cannonate del Realista e dello yacht. - Sandokan - disse Yanez ad un certo momento, - non possiamo più resistere. - Finché abbiamo polvere e palle non dobbiamo arrenderci - rispose la Tigre della Malesia, guardando la flottiglia nemica che, respinta sei volte di seguito, tornava alla carica per sbarcare i suoi uomini. - Noi siamo soli, Sandokan. Abbiamo con noi una donna, la vergine della pagoda. - Possiamo ancora vincere, Yanez. Lasciamo che i nemici sbarchino e gettiamoci a corpo perduto contro di loro. - E se una palla cogliesse la Vergine? Guarda, Sandokan, guarda! ... Una granata lanciata dal Realista era in quel momento scoppiata, sfondando un lungo tratto della parete. Alcuni frammenti di ferro entrarono nel camerone, fischiando sopra il gruppo dei pirati. - Ammazzano la mia fidanzata! ... - esclamò Tremal-Naik che si era prontamente gettato dinanzi alla vergine della pagoda. - Bisogna arrendersi o prepararsi a morire - disse Kammamuri. - Arrendiamoci, Sandokan - gridò Yanez. - Si tratta di salvare la cugina di Marianna Guillonk. Sandokan non rispose. Dinanzi ad una delle finestre col fucile fra le mani, gli occhi fiammeggianti, le labbra semiaperte, i lineamenti alterati da una rabbia violenta, guardava il nemico che si avvicinava rapidamente all'isola. - Arrendiamoci, Sandokan - ripeté Yanez. La Tigre della Malesia rispose con un rauco sospiro. Una seconda granata entrò da un foro e cadde contro la parete opposta dove scoppiò, scagliando all'intorno schegge infuocate. - Sandokan! ... - gridò per la terza volta Yanez. - Fratello - mormorò la Tigre. - Bisogna arrendersi. - Arrendersi! ... - gridò Sandokan con un accento che più nulla aveva di umano. - La Tigre della Malesia arrendersi a James Brooke! ... Perché non ho un cannone da opporre a quelli del rajah? Perché non ho qui i tigrotti lasciati nella mia Mompracem? ... Arrendermi! ... Arrendersi la Tigre della Malesia! ... - Hai una donna da salvare, Sandokan! ... - Lo so ... - E questa donna è la cugina di tua moglie. - È vero! è vero! - Arrendiamoci, Sandokan. Una terza granata scoppiò nella stanza mentre due palle di grosso calibro, colpendo la sommità della capanna, facevano rovinare buona parte del tetto. La Tigre della Malesia si volse e guardò i suoi compagni. Avevano tutti le armi in pugno ed erano pronti a continuare la lotta; in mezzo ad essi la vergine della pagoda. Sembrava tranquilla, ma nei suoi occhi si leggeva la più viva ansietà. - Non vi è più speranza alcuna - mormorò con voce cupa il pirata. - Fra dieci minuti nessuno di questi prodi rimarrà in piedi. Bisogna arrendersi. - Si prese il capo fra le mani e parve volesse schiacciarsi la fronte. - Sandokan! - disse Yanez. Un urrah fragoroso coperse la sua voce. I soldati del rajah avevano attraversato il braccio di mare e si dirigevano verso il forte. Sandokan si scosse. Impugnò la sua terribile scimitarra e fece l'atto di slanciarsi fuori della capanna per contrastare il passo ai vincitori, ma si trattenne. - L'ultima ora è suonata per le tigri di Mompracem! - esclamò con dolore. - Sambigliong, issa la bandiera bianca. Tremal-Naik con un gesto arrestò il pirata che stava legando uno straccio bianco sulla canna di un fucile, e si avvicinò a Sandokan tenendo per mano la sua fidanzata. - Signore - gli disse, - se vi arrendete, io, Kammamuri e la mia fidanzata saremo salvi, ma voi, che siete pirati e perciò odiati a morte dal rajah, verrete senza dubbio tutti impiccati. Voi ci avete salvati: noi mettiamo nelle vostre mani la vita di noi tutti. Se avete ancora la speranza di vincere, comandate l'assalto e noi ci slanceremo contro il nemico al grido di: Viva la Tigre della Malesia! Viva Mompracem! - Grazie, miei nobili amici - disse Sandokan con voce commossa, stringendo vigorosamente le mani della giovinetta e dell'indiano. - Ormai il nemico ha approdato e noi non siamo che sette. Arrendiamoci. - Ma voi? - chiese Ada. - James Brooke non mi appiccherà, signora - rispose il pirata. - La bandiera bianca, Sambigliong - disse Yanez. Il pirata s'arrampicò sul tetto della capanna e agitò lo straccio bianco. Subito s'udì uno squillo di tromba echeggiare sul ponte del Realista, seguito da strepitosi urrah. Sandokan con la scimitarra in pugno uscì dalla capanna, attraversò il piazzale del forte ingombro di rottami e di cadaveri, di armi e di palle di cannone, e si fermò presso la barricata sfondata. Duecento soldati del rajah erano sbarcati e stavano allineati sulla spiaggia con le armi in mano, pronti a slanciarsi all'assalto. Una scialuppa montata dal rajah Brooke, da lord Guillonk e da dodici marinai si era staccata dal fianco del Realista e si avvicinava rapidamente all'isola. - Lui è mio zio - mormorò Sandokan con voce triste. Incrociò le braccia sul petto, dopo aver ringuainata la scimitarra, e aspettò tranquillamente i suoi due più acerrimi nemici. L'imbarcazione, vigorosamente spinta innanzi, in pochi minuti approdò presso il fortino: James Brooke e lord Guillonk sbarcarono, e, seguiti a breve distanza da un forte drappello di soldati, s'avvicinarono a Sandokan. - Chiedete una tregua o vi arrendete? - chiese il rajah salutando con la sciabola. - Mi arrendo, signore - disse il pirata restituendo il saluto. I vostri cannoni ed i vostri uomini hanno domato le tigri di Mompracem. - Lo sapevo che avrei finito col vincere la indomabile Tigre della Malesia - disse. - Signore, io vi arresto. Sandokan, che fino allora non si era mosso, nell'udire quelle parole rialzò fieramente la testa, gettando sul rajah uno sguardo che lo fece fremere. - Rajah Brooke - disse con voce sibilante. - Ho dietro di me cinque tigri di Mompracem, cinque sole, ma capaci di sostenere ancora una lotta contro tutti i vostri soldati. Ho dietro di me cinque uomini capaci di scagliarsi ad un mio cenno contro di voi e di stendervi a terra senza vita. Mi arresterete quando a quegli uomini avrò dato l'ordine di deporre le armi. - Non vi arrendete? - Mi arrendo, ma ad un patto. - Signore, vi faccio notare che le mie truppe son già sbarcate; che voi siete in sei e noi duecentocinquanta; vi faccio notare che basta un mio cenno per farvi fucilare. Mi sembra strano che la Tigre della Malesia vinta voglia dettare ancora delle condizioni. - La Tigre della Malesia non è ancora vinta, rajah Brooke disse Sandokan con fierezza. - Ho ancora la mia scimitarra e il mio kriss. - Devo comandare l'assalto? - Quando vi avrò detto ciò che io chiedo. - Parlate. - Rajah Brooke, io, il capitano Yanez de Gomera e i dayachi Tanauduriam a Sambigliong, tutti appartenenti alla banda di Mompracem, ci arrendiamo alle seguenti condizioni: "Che ci si giudichi alla Corte Suprema di Calcutta e che si accordi ampia libertà di andarsene dove meglio crederanno a Tremal-Naik, al suo servo Kammamuri e a miss Ada Corishant! ... " - Ada Corishant! Ada Corishant! - esclamò lord Guillonk, slanciandosi verso Sandokan. - Sì, Ada Corishant - rispose Sandokan. - È impossibile che sia qui! - E perché, milord? - Perché ella fu rapita dai thugs indiani e non se ne udì più parlare. - Eppure è in questo forte, milord. - Lord James - disse il rajah. - Avete conosciuto miss Ada Corishant? - Sì, Altezza - rispose il vecchio lord. - La conobbi pochi mesi prima che fosse rapita dai settari di Kalì. - Vedendola, la riconoscereste? - Sì, e sono certo che anch'ella mi riconoscerebbe, quantunque siano trascorsi da quell'epoca funesta ben cinque anni. - Ebbene, signori, seguitemi - disse Sandokan. Fece loro varcare la palizzata e li condusse nella gran capanna, in mezzo alla quale stavano, riuniti attorno alla vergine della pagoda, coi fucili in mano e il kriss fra le labbra, Yanez, Tremal-Naik, Kammamuri, Tanauduriam e Sambigliong. Sandokan prese Ada per mano e, presentandola al lord, gli disse: - La riconoscete? Due grida gli risposero: - Ada! - Lord James! Poi il vecchio e la giovanetta si abbracciarono con effusione, baciandosi. Entrambi si erano riconosciuti. - Signore - disse il rajah volgendosi verso Sandokan, - come mai miss Ada Corishant si trova nelle vostre mani? - Ve lo dirà ella stessa - rispose Sandokan. - Sì, sì, voglio saperlo! - esclamò lord James che continuava ad abbracciare e baciare la giovanetta, piangendo di gioia. - Voglio sapere tutto. - Narrategli tutto, dunque, miss Ada - disse Sandokan. La giovanetta non se lo fece ripetere e narrò brevemente al lord e al rajah la sua storia, che i lettori già conoscono. - Lord James - diss'ella, quando ebbe finito - la mia salvezza la devo a Tremal- Naik e a Kammamuri; la mia felicità alla Tigre della Malesia. Abbracciate questi uomini, milord. Lord James si avvicinò a Sandokan che, con le braccia incrociate sul petto e il volto lievemente alterato, guardava i suoi compagni. - Sandokan - disse il vecchio con voce commossa. - Mi avete rapito mia nipote, ma mi ridonate un'altra donna che io amavo quanto l'altra. Vi perdono; abbracciatemi, nipote, abbracciatemi! ... La Tigre della Malesia si precipitò nelle braccia del vecchio e quegli accaniti nemici, dopo tanti anni, si baciarono in viso. Quando si separarono, grosse lacrime cadevano dagli occhi del vecchio lord. - È vero che tua moglie è morta? - chiese egli con voce rotta. A quella domanda la faccia della Tigre della Malesia si alterò spaventevolmente. Chiuse gli occhi, se li coprì con le dita contratte e mandò un rauco gemito. - Sì, è morta - disse la Tigre con un gemito straziante. - Povera Marianna! Povera nipote! - Tacete, tacete - mormorò Sandokan. Un singhiozzo soffocò la sua voce. La Tigre della Malesia piangeva! Yanez si avvicinò all'amico e, mettendogli una mano sulla spalla: - Coraggio, fratellino mio - gli disse. - Dinanzi allo sterminatore dei pirati, la Tigre della Malesia non deve mostrarsi debole. - Sandokan si terse quasi con rabbia le lacrime e rialzò il capo con fiero gesto. - Rajah Brooke, sono a vostra disposizione. Io e i miei compagni ci arrendiamo. - Quali sono questi vostri compagni? - chiese il rajah con la fronte abbuiata. - Yanez, Tanauduriam e Sambigliong. - E Tremal-Naik? - Come! ... Voi osereste ... - Io non oso nulla - disse James Brooke. - Obbedisco e niente più. - Che cosa volete dire? - Che Tremal-Naik rimarrà prigioniero al pari di voi. - Altezza! ... - esclamò lord Guillonk. - Altezza! ... - Mi rincresce per voi, milord, ma non sta a me accordare la libertà a Tremal- Naik. Io l'ho avuto in consegna e devo restituirlo alle autorità inglesi, le quali non mancheranno di reclamarlo. - Ma voi avete udito tutta la storia di questo mio nuovo nipote. - È vero, ma non posso trasgredire gli ordini ricevuti dalle autorità Anglo- Indiane. A giorni un vascello di deportati toccherà Sarawak ed io dovrò consegnarlo a quel comandante. - Signore! ... - esclamò Tremal-Naik con voce rotta - voi non permetterete che mi separino dalla mia Ada e che mi conducano a Norfolk. - Rajah Brooke - disse Sandokan, - voi commettete una infamia. - No, obbedisco - rispose il rajah. - Lord Guillonk potrà recarsi a Calcutta, spiegare le arti codarde dei thugs e fargli ottenere la grazia ed io prometto, da parte mia, di appoggiarlo. Ada, che fino allora era rimasta muta, oppressa da un'angoscia mortale, si fece innanzi: - Rajah - diss'ella con voce commovente, volete dunque che ritorni pazza? ... - Riavrete presto il fidanzato, miss. Le autorità Anglo-Indiane rivedranno il processo e non indugeranno a rimettere in libertà Tremal-Naik. - Allora lasciate che m'imbarchi con lui. - Voi! ... Eh via! ... Scherzate, miss? ... - Voglio seguirlo. - Su di un vascello di forzati! ... In una simile bolgia infernale! ... - Vi dico che voglio seguirlo - ripeté ella con esaltazione. James Brooke la guardò con una certa sorpresa. Pareva che fosse impressionato della suprema energia di quella giovanetta. - Rispondetemi - disse Ada, vedendo che rimaneva muto. - È impossibile, miss - disse poi. - Il comandante della nave non vi accetterebbe. Sarà meglio per voi che seguiate vostro zio in India per ottenere la grazia del vostro fidanzato. La vostra testimonianza basterà per fargli rendere la libertà. - È vero, Ada - disse lord Guillonk. - Seguendo Tremal-Naik io rimarrei solo e mi mancherebbe il testimonio principale per salvare il tuo fidanzato. - Ma volete che l'abbandoni ancora! ... - esclamò ella scoppiando in singhiozzi. - Ada! ... - disse Tremal-Naik. - Altezza - disse Sandokan avanzandosi verso il rajah. - Mi accorderete cinque minuti di libertà! - Che cosa volete fare? - chiese James Brooke. - Voglio persuadere miss Ada a seguire lord James. - Fate pure. - Ma la vostra presenza non è necessaria: voglio parlare libero, senza che altri odano. Uscì dalla semi-diroccata capanna e condusse i suoi amici nella cinta del forte. - Vi accordo ciò che chiedete. Vi acerto però, che se sperate di fuggire v'ingannate, perchè la baia è tutta circondata. - Lo so. Seguitemi, amici. - - Ascoltatemi, amici - diss'egli. - Io possiedo ancora tali mezzi da far impallidire il rajah se potesse conoscerli. Miss Ada, lord James ... - Non lord James, chiamatemi zio, Sandokan - osservò l'inglese.- Siete pur voi mio nipote. - È vero, zio mio - disse la Tigre con voce commossa. - Miss Ada, non insistete oltre e rinunciate all'idea di seguire il vostro fidanzato all'isola di Norfolk. Cerchiamo invece di ottenere dal rajah che trattenga in Sarawak Tremal-Naik fino a che le autorità di Calcutta avranno riveduto il processo e deciso della sua sorte. - Ma sarà una lunga separazione - disse Ada. - No, miss, sarà breve, ve l'assicuro. Cerco di ottenere ciò dal rajah per guadagnare tempo. - Cosa volete dire? - chiesero Tremal-Naik e lord Guillonk. Un sorriso sfiorò le labbra di Sandokan. - Ah! - diss'egli. - Credete che io ignori la sorte che mi attenderebbe anche a Calcutta? ... Gli inglesi mi odiano ed ho fatto loro una guerra troppo aspra e feroce per sperare che mi lascino la vita. Voglio ancora essere libero, scorrere il mare e rivedere la mia selvaggia Mompracem. - Ma che cosa vuoi fare? Su chi speri? - chiese lord Guillonk. - Sul nipote di Muda-Hassin. - Del sultano spodestato da Brooke? - chiese lord James. - Sì, zio. Io so che sta congiurando per riacquistare il trono e che mina, lentamente ma incessantemente, la potenza di Brooke. - Che cosa possiamo fare? - chiese Ada. - A voi devo la mia salvezza e dovrò la libertà di Tremal-Naik. - Andare a trovare quell'uomo e dire a lui che le tigri di Mompracem sono pronte ad aiutarlo. I miei pirati sbarcheranno qui, si porranno alla testa degli insorti e verranno ad assalire prima di tutto la nostra prigione. - Ma io sono inglese, nipote - disse il lord. - E nulla esigo da voi, zio mio. Voi non potete cospirare contro un compatriota. - Ma chi agirà? - Miss Ada e Kammamuri. - Oh, sì, signore - disse la giovanetta. - Parlate. Che cosa devo fare? Sandokan si slacciò la casacca e trasse dalla fascia che teneva sopra la camicia di seta una borsa rigonfia. - Vi recherete dal nipote di Muda-Hassin e gli direte che Sandokan, la Tigre della Malesia, gli regala questi diamanti, che valgono due milioni, per affrettare la rivolta. - E io che cosa devo fare? - chiese Kammamuri. Sandokan si levò un anello, d'una forma speciale, adorno d'un grosso smeraldo e glielo porse dicendogli: - Tu andrai a Mompracem e farai vedere ai miei pirati questo anello, dirai loro che io sono prigioniero e che si imbarchino per aiutare l'insurrezione del nipote di Muda-Hassin. Ritorniamo: il rajah è sospettoso. Rientrarono nella capanna diroccata dove Brooke li aspettava, circondato dai suoi ufficiali che erano già sbarcati. - Ebbene? - chiese brevemente. - Ada rinuncia all'idea di seguire il fidanzato, a condizione che voi, Altezza, tratteniate prigioniero in Sarawak Tremal-Naik fino a che la Corte di Calcutta avrà riveduto il processo disse il lord. - Sia - disse Brooke dopo alcuni istanti di riflessione. Allora Sandokan si avanzò e, gettando a terra la scimitarra e il kriss, disse: - Sono vostro prigioniero. Yanez, Tanauduriam e Sambigliong gettarono pure le loro armi. Lord James, con gli occhi umidi, si gettò fra il rajah e Sandokan. - Altezza - disse, - che cosa farete di mio nipote? - Gli accordo ciò che mi ha chiesto. - Cioè? - Lo manderò in India. La Corte Suprema di Calcutta s'incaricherà di giudicarlo. - E quando partirà? - Fra quaranta giorni, col postale proveniente da Labuan. - Altezza ... è mio nipote, ed io ho cooperato alla sua cattura. - Lo so milord. - Ha salvato Ada Corishant, Altezza. - Lo so, ma nulla può fare colui che si chiama lo sterminatore dei pirati. - E se mio nipote vi promettesse di lasciare per sempre questi mari? ... E se mio nipote vi giurasse di non rivedere più Mompracem? - Fermatevi, zio - disse Sandokan. - Né io né i miei compagni abbiamo paura della giustizia umana. Quando l'ultima ora sarà suonata, le tigri di Mompracem sapranno morire da forti. - S'avvicinò al vecchio lord che piangeva in silenzio e lo abbracciò, mentre Tremal-Naik abbracciava Ada. - Addio, signora - disse poi, stringendo la mano alla giovanetta che singhiozzava. - Sperate! ... Si volse verso il rajah che lo attendeva presso la porta e, alzando fieramente il capo, gli disse: - Sono ai vostri ordini, Altezza. I quattro pirati e Tremal-Naik uscirono dal fortino e presero posto nelle imbarcazioni. Quando queste presero il largo dirigendosi verso il Realista, volsero gli sguardi verso l'isolotto. Sulla porta del recinto stava il lord con Ada a destra e Kammamuri a sinistra. Tutti e tre piangevano. - Povero zio, povera miss - esclamò Sandokan, sospirando. - Fatalità! ... Fatalità! ... Ma la separazione sarà breve, e tu, James Brooke, perderai il trono! ...

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Vedendo sopraggiungere quei quattro cavalieri guidati dal moro i predoni esitarono, poi abbandonarono le casse e si salvarono a tutte gambe, inseguiti dai beduini per un breve tratto. "A terra!" esclamò il marchese. Aiutato da Rocco, da Ben e da El-Haggar trasportò le casse nella scialuppa. "Presto, Esther," disse Ben. "Eccomi," rispose la giovane, balzando nella barca, mentre i due battellieri afferravano i remi. I beduini in quel momento ritornavano. "Dove sono i cammelli?" chiese il signor di Sartena. "Presso un nostro amico, signore," rispose uno dei due. "Sono vostri." "Signore!" esclamarono i beduini, non potendo credere a tanta fortuna. "Sì, ad una condizione però." "Parlate, signore." "Che riconduciate ad un vecchio chiamato Samuele i quattro mehari. Fuggite, non lasciatevi sorprendere dai kissuri che c'inseguono." "Che Dio vi guardi, signore," dissero i beduini, balzando verso i quattro cammelli corridori. "Al largo!" comandò il marchese. La scialuppa si scostò dalla riva e filò lungo il canale, mentre i negri, vedendo sfuggire la preda, accorrevano da tutte le parti, urlando "Fermatevi o facciamo fuoco! Ordine del sultano!" "Sì, prendeteci ora," disse il marchese caricando il fucile. "Il sultano non ci avrà mai più."

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

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Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Si abbandonarono col capo e con le braccia stese sul piano del tavolino, affranti dalla terribile rivelazione e rimasero così sopraffatti dai loro rimorsi, per parecchio tempo. La prima a riaversi fu la signora Geltrude che domandò: - Ah zio... adorato zio... Degnatevi di dire i nostri torti e noi li ripareremo. - Li sapete! - risposi con voce grave. Ella parve riflettere; poi riprese: - Ma ditemeli... Ditemeli!... - Io non risposi. Mi ero già imposto di non rispondere che alle domande che favorivano il nostro progetto e oramai non ve n'era che una che aspettavo, e che non poteva indugiare a essermi rivolta. - Zio!... Non rispondete più?... - disse ancora la Direttrice con voce insinuante. Lo stesso silenzio. - Sei dunque molto sdegnato con noi? - aggiunse ella. E io sempre zitto. - Che sia andato via? - chiese al cuoco. - Pierpaolo Pierpaoli! - disse l'odiato manipolatore delle minestre di magro con le rigovernature. - Ci sei sempre? - Ssssss... - risposi. - C'è sempre; - disse il medium - se non risponde vuol dire che a certe domande non vuol rispondere e bisogna fargliene delle altre. - Zio, zio!... - esclamò la signora Geltrude. - Abbiate pietà di noi, poveri peccatori!... - A questo punto io mi scostai dal forellino fatto da me nella tela e piantai gli occhi nei buchi fatti da Carlino Pezzi e incominciai a roteare le pupille a destra e a sinistra e, ogni tanto, a fissarle sui tre spiritisti. Essi che tenevano sempre lo sguardo intento al ritratto, poco dopo si accorsero che esso moveva gli occhi, e presi da un gran tremito si scostarono dal tavolino e caddero in ginocchio. - Ah, zio! - mormorò la signora Geltrude. - Ah, zio!... pietà... pietà di noi!... Come potremo riparare ai nostri torti? - Era qui che l'aspettavo. - Togliete il segreto alla porta - dissi - perché io possa venire a voi... - Il cuoco si alzò e pallido, camminando a zig-zag come un ubriaco, andò a togliere il segreto alla porta. - Spengete il lume e aspettatemi tutti in ginocchio! - Il cuoco spense il lume e io sentii poi tornare a inginocchiarsi accanto agli altri due. Il gran momento era giunto. Lasciai il mio posto d’osservazione e affacciatomi all'ingresso dell'armadietto feci con la gola un suono come si fa quando si russa. Immediatamente Gigino Balestra si alzò dal mio letto ov'era ancora disteso e, senza far rumore, uscì dalla camerata. Egli andava a dar l'avviso ai compagni della Società segreta che eran tutti pronti per irrompere nel salone di Pierpaolo Pierpaoli e, armati di cinghie e di battipanni, farne le giuste vendette. Io mi rivoltai nel mio sgabuzzino e accostai l'orecchio alla tela del ritratto per godermi un po' la scena. Sentii aprire l'uscio della sala, richiuderlo col segreto, e poi ad un tratto le grida dei tre spiritisti sotto i primi colpi. - Ah! gli spiriti!... Pietà!... Aiuto!... Soccorso!... - Mi ritirai precipitosamente, e uscito di camerata accesi uno stoppino del quale mi ero provvisto, andai nella stanzetta dei lumi a petrolio, aprii con la chiave che mi aveva dato il Barozzo, staccai la grossa chiave che trovai attaccata dietro la porta secondo le istruzioni che mi aveva dato, e corsi al portone d'ingresso del collegio. Tito Barozzo era lì. Prese la chiave, aprì il portone, poi si rivolse a me e mi avvinghiò con le braccia, e mi tenne stretto stretto al suo petto; mi baciò e le nostre lacrime si confusero insieme sui nostri visi... Che momento! Mi pareva d'essere in un sogno... e quando ritornai in me io ero solo, appoggiato al portone dell'Istituto, chiuso. Tito Barozzo non c'era più. Girai la mandata e ritirai la chiave dal portone e rifacendo rapidamente la strada già fatta l'andai a rimettere al suo posto, richiusi l'uscio dello stanzino dei lumi e ritornai in camerata dove mi affacciai con la massima precauzione, assicurandomi se i miei piccoli colleghi dormivano tutti. Dormivano infatti. Il solo desto era Gigino Balestra, a sedere sul mio letto, che mi aspettava inquieto, non sapendo il motivo per il quale ero uscito. - Siamo tutti ritornati in dormitorio - mormorò. - Ah, che scena!... - Voleva parlare, ma io gli accennai di stare zitto; salii sul comodino, mi tirai su a sedere nell'armadietto e feci cenno a Gigino di venir su anche lui. Con molti sforzi si riuscì a ficcarci tutti e due nel mio osservatorio tra le cui anguste pareti, stavamo distesi, stretti l'uno all'altro come due sardine di Nantes, con la differenza che non eravamo senza testa come loro, ma anzi avevamo i nostri visi, anch'essi appiccicati insieme, dentro la finestrina da me aperta sulla gran sala di Pierpaolo che era nella più completa oscurità. - Ascolta, - dissi in un soffio di voce a Gigino. Si udiva già un singulto cadenzato. - Geltrude - sibilò il mio compagno. Doveva essere intatti la Direttrice che piangeva e ogni tanto borbottava con accento fioco: - Pietà!... Perdono!... Mi pento di tutto! Non lo farò più!... Misericordia dell'anima mia!... - A un tratto nel silenzio tragico di quel momento s'alzò una voce tremula che diceva: - Pierpaolo Pierpaoli... possiamo riaccendere il lume? - Era quel mascalzone del cuoco, inventore della minestra di rigovernatura. Non mi pareva vero di vedere come lo avevano conciato i compagni della Società segreta e mi affrettai a rispondere col solito sibilo: - Sssssss... - Si udì inciampare; poi lo sfregamento scoppiettante di un fiammifero di legno contro il muro, si vide una piccola scialba fiammella giallognola vagar qua e là nel buio come un fuoco fatuo nel cimitero e finalmente un lume si accese. Ah, che spettacolo! Non lo dimenticherò mai. Le sedie, i tavolini erano rovesciati per terra. Sulla consolle il grande orologio, i candelabri erano in bricioli. Dovunque regnava uno spaventevole disordine. Da un lato, accanto al lume acceso, appoggiato alla parete, il cuoco col faccione verde pieno di bitorzoli, vòlto verso di noi, guardava con gli occhi languidi e lacrimosi il ritratto. Dall'altra parte, accovacciata in un angolo, era la Direttrice, col viso sgraffiato, i capelli disciolti e le vesti in brandelli. Anche lei aveva gli occhi gonfi, stralunati, e fissava sul ritratto le inquiete pupille. Poi sopraffatta dal rimorso e dal dolore dètte in un pianto dirotto, balbettando sempre rivolta alla venerata effige del defunto Pierpaolo: - Ah, zio! hai avuto ragione di punirci! Sì... noi siamo indegni di questa tua grande istituzione alla quale dedicasti tutta la tua vita intemerata!... E hai fatto bene a mandarci gli spiriti a punirci, a gastigarci delle nostre colpe... Grazie, zio! Grazie... E se ci vuoi dare altri gastighi, fa' pure!... Fa' pure! Ma ti giuro che da qui in avanti noi non ricadremo più nel peccato tremendo dell'egoismo, dell'avarizia, della prepotenza... Te lo giuriamo, non è vero, Stanislao!... - E si volse lentamente alla sua destra, poi girò lo sguardo da ogni parte, sgomenta. - O Dio! Stanislao non c'è più!... - Infatti il Direttore mancava, e io sentii una stretta al cuore. Che ne avevano fatto, i compagni della Società segreta?... - Stanislao!... - chiamò con voce più alta la Direttrice. Nessuno rispose. Allora il cuoco alzò la voce verso il ritratto: - Pierpaolo Pierpaoli! Gli spiriti punitori hanno forse portato il nostro povero Direttore all'inferno?... - Io rimasi zitto. Volevo dimostrare, ora, che lo spirito del fondatore del Collegio non era più presente. E vi riuscii perché il cuoco, dopo averlo più volte chiamato, disse (e nel dir questo la sua voce aveva ripreso il suo tono calmo e naturale): - Non c'è più! - Anche la signora Geltrude fece un sospiro di sollievo e parve liberata da una gran preoccupazione. - Ma Stanislao? - disse. - Stanislao! Stanislao, dove sei?... - A un tratto dall'uscio che dalla sala mette nella camera dei due coniugi venne fuori una lunga figura così comicamente fantastica che, pur essendo recente la drammatica solennità di quel terribile convegno spiritistico, il cuoco e la direttrice non poterono frenar le risa. Il signor Stanislao pareva diventato più secco e più allampanato di prima; ma il pezzo della sua persona cui era impossibile volger lo sguardo senza ridere era la testa tutta monda e bianca come una palla di biliardo e con un occhio tutto cerchiato di nero intorno e con espressione di così comica desolazione che tanto io che Gigino Balestra, malgrado i nostri più eroici sforzi, non potemmo frenare una risata. Fortunatamente in quel momento ridevano anche il cuoco e la signora Geltrude, sicché non si accorsero di noi. Ma il direttore che non rideva dovette udire qualcosa perché volse l'atterrito occhio cerchiato di nero verso di noi... e noi ci frenammo ancora, resistendo finché ci fu possibile, ma la risata ad un tratto ci scappò via dal naso in un sordo grugnito e ci ritirammo, più in fretta che ci fu possibile in quella ristrettezza, nell'armadietto scendendo poi giù nella camerata. Gigino raggiunse il suo lettuccio e tutti e due spogliatici in un baleno ci ficcammo sotto le rispettive lenzuola palpitanti... Non ho chiuso occhio in tutta la notte, temendo sempre che tutto fosse stato scoperto e che un'improvvisa ispezione venisse a sorprenderci. Fortunatamente nulla di nuovo è accaduto e io posso stamani confidare al mio Giornalino e ultime vicende del collegio Pierpaoli.