Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Epistolario ascetico Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Godo dunque che amiate cotesta solitudine, dove avete trovato il riposo dell' anima, ma in modo però d' essere sempre pronto ad abbandonarla, quando l' ubbidienza ve lo imponesse. A questa condizione l' amore che avete ad essa è buono, utile e a Dio gradito. Ma senza questa condizione sarebbe un' illusione e per certo un inganno dell' inimico che è sottilissimo, prendereste il male per bene, e quella che è vostra propria, per cosa di Dio. Quando amaste cotesto luogo e cotesta vita, che ci fate, con attacco impeditivo dell' ubbidienza, benchè apparentemente per un fine e un intento buono e santo, quell' attacco vi pregiudicherebbe alla vera perfezione dello spirito. E sapete che cosa ne potrebbe avvenire? Che quello che ora appare un così forte attacco , dopo qualche tempo potrebbe non essere più nè pure un affetto , e convertirsi in avversione: nè è già la prima volta, che quelli che dicevano di volere per puro amor di Dio un certo genere di vita che credevano indispensabile per salvarsi l' anima, poi si cangiassero, prendendo sentimenti del tutto opposti, e per la stessa ragione del salvarsi l' anima ne volessero un altro tutto diverso e con un' uguale ostinazione. Onde mettiamo per inconcusso fondamento il principio che non falla e che non inganna di sicuro, quello della semplice ubbidienza. E non è già necessario di occupare la nostra mente di pensieri sull' avvenire, e di domandare a sè stessi che sarebbe di noi in questa o quella ipotesi; chè non ci sono pensieri più vani di questi, nè più atti a turbare la pace interiore e scompigliare l' immaginazione. All' incontro la bella semplicità che s' abbandona a Dio senza pensare all' indomani, ma che adempie alacremente tutti i doveri dell' oggi, ecco la maniera d' andare avanti in « pulchritudine pacis . » Pregate dunque, servite la Chiesa e la casa, edificate il prossimo, acquistate collo studio assiduo e ordinato le cognizioni necessarie per rendervi atto a esercitare i ministeri della predicazione e della confessione, abbiate un grande zelo delle anime del prossimo e un grande amore di fargli del bene in ogni modo, conservate un umore ugualmente lieto ed affabile con quelli con cui trattate, e del resto non pensate più avanti: Iddio ci pensa. Scrivetemi poi a quando a quando, se le cose vi continuano bene, come grandemente spero e prego.

Epistolario ascetico - Vol. IV

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ancora credo importante, quando si è incominciato a praticare un metodo, o anche solo una regola metodica, badare di non abbandonarla, ma insistere in essa costantemente; poichè qualunque metodo e qualunque regola non può arrecare notabile frutto, se non viene applicata per lungo tempo con costanza e vigilanza. E non giova il voler subito ridurre all' atto molte e varie regole; ma esperimentarne poche alla volta successivamente. Finalmente non conviene pretender troppo, ma rallegrarsi e incoraggiarsi, tenendo conto di qualunque anche piccolo profitto si veda di riportare, ringraziandone il Signore. Questa massima non è solo conforme alla prudenza, ma anche all' umiltà. Come si può volgere ogni cosa alla cultura del cuore? voi mi domandate ancora. Io risponderò semplicemente, ma in modo che vi potrà essere molto utile, se sarete fedele a una tale risposta. Si ottiene di rivolger tutto alla cultura e alla formazione del cuore degli allievi, quando in tutto quello che si dice e s' insegna, si fa risplendere la virtù e si dimostra amabile e degna d' essere seguìta, e si copre il vizio d' infamia in modo da doversene avere tutto l' orrore che merita. Mai non deve il maestro mostrare indifferenza tra la virtù e il vizio, o far credere quasi che non passi una gran differenza tra l' azione viziosa e la virtuosa. E avvertite bene che nominando la virtù in generale, intendo favellare di tutte le virtù qualunque forma s' abbiano, e nominando il vizio, intendo favellare di tutti i vizi i più speciali, e segnatamente dei più seducenti. Questo dimostra, che ogni maestro deve rendersi famigliare l' etica, che appunto insegna a conoscere distintamente i vizi e le virtù. E con questo poco parmi d' aver risposto in qualche modo non solo alla terza, ma ben anco alla quarta delle vostre difficoltà. Purchè tanto nell' insegnamento della storia, quanto in quello della mitologia si faccia risaltare il pregio delle virtù e la turpitudine de' vizi, potrà l' una e l' altra giovare alla formazione del cuore degli alunni, coll' avvertenza però di coprire con riservate e modeste parole quei vizi che i fanciulli ancor non conoscono, e che hanno qualche cosa di seducente. Finalmente io credo che il maestro diverrà molto buono e acquisterà un gran merito presso Dio, se si darà cura d' imbeversi di quello spirito che troverà nelle nostre regole pe' maestri di grammatica, e procurerà di eseguirle fedelmente. - Del resto rilevo dalla vostra lettera che non vi manca punto il vero spirito e lo zelo del santo officio che Iddio al presente vi ha affidato; e non dubito punto, che qualunque cosa voi diciate, molto sia il profitto intellettuale e morale che riporteranno dalle vostre fatiche i vostri scolari, e molto sia il merito che ne caverete davanti a Dio: onde non solo Egli vi rimetterà i debiti, ma ben anche vi destinerà una corona immortale. Non può essere diversamente, poichè Egli riceve come fatto a sè quello che voi fate ai fanciulli, e il giovare alle loro anime è da Lui considerato come la prova dell' amore che noi gli abbiamo. [...OMISSIS...] 1.52 L' ambizione è un desiderio disordinato di onori, ed è disordinato questo desiderio ogni qualvolta si vogliono ottenere onori contro la volontà de' propri Superiori. Voi avete il desiderio dell' onore sacerdotale, e lo volete ottenere anche contro la volontà de' vostri Superiori, cioè avete quel desiderio disordinato che si chiama ambizione. Non ho dunque bisogno di vedere nel vostro cuore per ammonirvi di questo difetto dell' ambizione, secondo l' obbligo che ho da Dio nella mia condizione; perchè bastano a ciò le opere e i fatti. Gesù Cristo ci ha insegnato a giudicare « ex fructibus », e così devono fare i Superiori. Onde male a proposito voi dite, che non posso leggere nel vostro cuore: non avendo io bisogno di ciò, bastandomi di leggere ne' vostri fatti e nelle vostre parole: « ex fructibus eorum cognoscetis eos ». Se dunque vedo alcuno de' miei fratelli amare le cose basse ed umili, e conservare in queste la sua pace e tranquillità, seguendo Gesù Cristo, dico che questi è umile, e ne ringrazio il Signore: ma quelli che hanno sempre la mira ad una via opposta, non posso e non devo reputarli tali, perchè ingannerei me stesso e loro altresì; e farei loro del danno se li lodassi o assecondassi nella loro passione. L' esempio, che voi portate, de' secolari non fa a proposito, perchè essendo noi religiosi, abbiamo fatto professione di seguire Gesù Cristo nell' amore dell' umiltà e del dispregio, e sopratutto dell' ubbidienza, e di trovare in queste virtù la nostra consolazione e la nostra pace. D' altronde anche nel secolo, quelli che si facessero sacerdoti contro il giudizio de' loro direttori, ne dovrebbero render conto a Dio: e quanti vanno all' inferno per la passione dell' ambizione! Non sono questi che noi dobbiamo seguire, ma i santi che hanno sempre temuto il sacerdozio, e non l' hanno accettato che costretti dall' ubbidienza. A voi sembra un peso intollerabile l' esercitare l' onorevolissimo e nobilissimo ministero di professore senza essere sacerdote; ma questo cruccio da che mai nasce? Dalla passione , che vi esagera, e vi fa vedere il disonore, dove non c' è alcun disonore. Vincete dunque l' amor proprio, deponete l' ambiziosa voglia che vi tormenta, e subito ritroverete la pace e la contentezza: non solo vi sarà facile di rassegnarvi alla condizione in cui siete, ma quella vi riuscirà cara, da non volere cangiarla con alcun' altra; e allora non sarete disturbato e impedito nella pietà e nei religiosi esercizii, ma bensì aiutato in questi, perchè Iddio sparge le sue grazie in abbondanza nelle anime umili che lo cercano, e in lui ritrovano la soddisfazione di tutte le loro brame, come in un bene infinito, a cui non manca nulla. Conviene dunque che cerchiate di conoscere voi stesso, conviene aprire gli occhi sulle proprie piaghe, e non interpretar male gli avvisi dei Superiori: per eccitarvi a ciò fare, conviene mettere il ferro alla radice del male e tagliarla. Se voi vi darete allo studio di voi stesso, e vi persuaderete del difetto che io spassionatamente vi fo osservare, se vi darete alla pratica di una vera e sincera e lieta umiltà ; oh allora svaniranno tutte quelle malinconie che ora vi opprimono, e non giudicherete di essere avvilito, come supponete, e nè pure v' irriterete quando i Superiori vi correggono per vostro bene. Il darvi a credere, come rilevo con dolore dalla vostra lettera, di non essere amato dai Superiori e di essere una spina nei loro occhi, nasce dalla stessa radice infetta, la quale vi rende cieco, e prendete l' amore per odio, le necessarie ammonizioni per persecuzioni. Ma quanto siete ingannato! E quello che è più, non riconoscete mai i vostri falli, ma v' imbrogliate la testa coi sofismi che la passione vi suggerisce, e che sono tenebre. Lo so anch' io che se voi non fate senno, e non v' investite del santo spirito dell' Istituto a cui Iddio vi ha chiamato, e non volete esser docile e ubbidiente, non potrete trovar pace! lo so anch' io; ma quale sarà il rimedio a un tanto male? Non altro che il convertirsi di cuore a Dio, e il regolare la vostra mente colle regole sante dell' Istituto, che sono quelle di Gesù Cristo, l' esaminarsi, l' andare al fondo del proprio cuore, facendo tacere ogni amor proprio ed ogni passione. Se farete così, conoscerete allora quella felicità di cui potreste godere, e non volete, per rendervi infelice, lasciando che la passione vi acciechi. Ascoltate dunque la mia voce, e conoscete in essa il divino volere: amatelo con tutto il cuore questo volere, e imparate così a conoscere che è buono il Signore, il quale conduce i suoi per varie strade, e assegna a ciascuno la sua, cui battendo salverà l' anima in eterno. [...OMISSIS...] 1.52 E` un errore il credere che qualche cosa di quello che è soprannaturale, e che perciò viene da Dio, possa esser contrario alla perfezione; anzi si deve credere che sia conducente alla medesima. Essendo tra queste cose che vengono da Dio anche le consolazioni sensibili ch' egli dà all' anime sante e pure, o ai peccatori che vogliono ritornare a lui, le quali consolazioni sono comprese nei frutti dello Spirito Santo, la cui enumerazione fatta da san Paolo incomincia « charitas, gaudium, pax , ecc. (Galat. V, 22) »; è dunque un errore il credere che questi sentimenti e affetti sensibili soprannaturali sieno contrari alla perfezione. E` dunque un errore anche il credersi obbligato in coscienza a rinunziare a tali consolazioni sensibili, o ai sentimenti affettuosi sovrannaturali, con pretesto di seguire una perfezione maggiore, contrariamente alla dottrina della Chiesa ed all' esempio di Cristo. L' aridità è di due specie: 1 talora è un castigo di Dio per la superbia, per l' accidia, per la tepidezza, e anche pe' piccoli e continui mancamenti che commette l' anima negligente: e in tal caso conviene cacciarla da sè col levarne le cause; 2 talora poi è permessa da Dio per purificare ed esercitare le anime sante nella pazienza, nella rassegnazione e nella fede. Ma è un grave e pernicioso errore, ed è un atto di presunzione il credere che l' uomo deva cercarla e procacciarsela da se stesso, presumendo d' aver le forze di sostenere un tale stato; specialmente poi se fosse tale, che gli rendesse necessarie maggiori soddisfazioni della natura, prova evidente che non ha le dette forze. E` un errore il credere che tali consolazioni e affetti soprannaturali non sieno infinitamente migliori di tutti i sollievi naturali, e questi non possano esser contrari alla perfezione se sono onesti, e quelle sì. Quindi il voler privarsi delle prime, e poi conchiudere di aver bisogno delle seconde per poter sostener il peso dell' aridità volontaria, e ciò col pretesto della perfezione, è una dottrina falsa e un' illusione diabolica, che distoglie dal bene e conduce al minor bene ed al male, e che fa rinunziare ai doni della grazia e secondare la natura, che è guasta ed ha bisogno di essere repressa e mortificata secondo l' esempio di Cristo e de' santi. E` un errore il credere che le opere penitenziali, le mortificazioni corporali, in particolare quelle della bocca, non sieno salutari e grate a Dio, e che impediscano la perfezione; quando invece esse conducono ad essa mortificando la carne e umiliando la superbia dell' uomo; ed anzi esse in parte sono obbligatorie, sia per soddisfare alla divina giustizia, sia per reprimere la concupiscenza. Gesù Cristo e tutti i santi, senza eccezione, le hanno praticate. Il contrario è un errore contro la dottrina cattolica. E` un errore del pari il credere, che si dia una perfezione puramente speculativa, interna, formata solo con una intenzione generale; priva delle opere esterne. E` un errore del pari il credere, che le opere virtuose esterne, d' ogni maniera di virtù, diminuiscano la perfezione interna; chè anzi la producono, e sono ad un tempo causa di essa ed effetto. E` dunque un errore il credere che, per essere perfetti, basti « avere l' intenzione e il desiderio di volere tutto quello che vuole Iddio e come lo vuole Dio », senza discendere in particolare a conoscere ciò che Iddio vuole, ed eseguirlo. Quello che Iddio vuole da noi, lo dobbiamo rilevare: 1 dall' insegnamento di Cristo e della Chiesa, e dagli esempi de' santi; e intorno a questo non dobbiamo già aspettare un' altra rivelazione; 2 dalla volontà de' Superiori, che rappresentano Iddio sopra la terra, onde Cristo ha detto: « Qui vos audit, me audit »; 3 dalle circostanze esterne disposte dalla divina Provvidenza e interpretate sempre in modo, che il risultato non si opponga mai all' insegnamento della Chiesa e all' ubbidienza de' Superiori. E` un errore il credere di poter ottenere la perfezione, senza che l' uomo (secondo la volontà di Dio manifestata per la dottrina della Chiesa e le parole di Cristo) neghi se stesso, sottoponga il suo giudizio a quelli che sono da Dio incaricati di dirigerlo, si privi anche delle cose oneste, quando sia il caso, mortifichi gl' istinti della natura, pratichi in ogni cosa l' umiltà, ami la povertà, il disprezzo di se stesso, la fatica, il patire, si presti a giovare il prossimo, non colla sola orazione, ma anche coll' opera faticosa, quando e quanto può: che l' uomo insomma possa ottenere la perfezione, senza che in ogni cosa sia obbediente, docile, sottomesso, eserciti in una parola internamente ed esternamente tutte le virtù insegnate e praticate da Cristo e dai santi. E` un errore il credere che la perfezione si acquisti in poco tempo, con una sola intenzione o desiderio mentale; non potendosi anzi ottenere (senza un miracolo) se non con lunghi combattimenti, assidui esercizi d' orazione, continue mortificazioni e pratiche delle virtù che si dimostrino nel fatto esteriore. E` un errore il credere, che il precetto dell' amor del prossimo si soddisfi solamente con un' intenzione generale e speculativa di amarlo; anzi dev' essere amato secondo l' ordine della carità, e però è necessario eccitare in sè la compassione per tutte le miserie spirituali e corporali del prossimo; e si deve ancora amare con varŒ gradi e modi, e d' un amore più apprezzativo e devoto i più degni, e con un amore più operoso i più indigenti e i più prossimi, specialmente quelli che sono prossimi di una spirituale fratellanza. E` un errore il credere che la perfezione voglia che non s' ami il prossimo che con una volontà generale, arida e sterile; ma egli deve anzi essere amato anche coll' opera esterna, e colle fatiche sostenute per giovargli, e queste, come si dicea, secondo l' ordine della carità e dell' ubbidienza: anzi san Giovanni insegna che dobbiamo esporre la nostra vita per i nostri fratelli, come Cristo la diede per noi (I Io. III, 16). E` un errore il credere che tutti gli atti che si fanno contro le tentazioni per aborrire il male che suggeriscono, non sieno buoni, utili, e praticati dai santi. Nel combattere le tentazioni è anche buono il metodo di rivolgere altrove il pensiero e concentrarlo in Dio; ma è un errore il credere che questo solo sia buono, o l' ottimo; ed è dovere del cristiano di ricorrere secondo il bisogno a tutti i mezzi, che furono praticati da' santi, per liberarsi il più presto dalla tentazione, e non lasciarla dimorare in noi lungamente. E` una dottrina falsa e funestissima, è una perfezione ipocrita e diabolica quella che si fa scrupolo di armarsi preventivamente contro le tentazioni, quasi con questo si commettesse la temerità di prevenire le divine disposizioni. E` del pari dottrina falsa e contraria allo Spirito Santo il pretendere che appartenga alla perfezione il non comprimere i moti della concupiscenza, col pretesto che facendo così « si dubiterebbe che Iddio non potesse reprimere i moti disordinati della natura ed anche ammortirli »; essendo per lo contrario obbligo nostro di reprimerli e contraddirli noi stessi colla grazia divina, giacchè Iddio non vuole operare la salute di coloro che si stanno passivi ed inerti, perchè « qui fecit te sine te, non salvabit te sine te ». E però chi « essendo attivo nel cercare tutti i mezzi indicati dal Vangelo e da' santi per praticare le virtù e reprimere i moti contrarii, crede di sentire la voce di Dio che di ciò lo rimprovera », non sente la voce di Dio, ma quella del demonio che lo illude per tirarlo alla dannazione. E` un errore il dire che « le cose esterne, ossia i mezzi esterni non sono assolutamente necessari, come quelli, che non possono comunicare la virtù nè immediatamente, nè mediatamente quando non sono usati secondo la divina volontà », intendendo di dover aspettare che questa volontà si manifesti, quasi che ella non ci fosse stata manifestata dal Vangelo, e dalla dottrina de' santi e dalla Chiesa. E` un errore il credere e un atto di superbia e una contraddizione il pretendere che l' uomo cristiano possa o debba rinunciare a tutti gli affetti e a tutti i sentimenti santi e divini, senza avere poi scrupolo di lasciare uno sfogo moderato all' amor naturale e alle soddisfazioni della natura, col pretesto che fare il contrario sarebbe un voler varcare i confini posti da Dio alla natura, quasichè i santi che hanno fatto tutto ciò avessero offeso Iddio col varcare i confini da lui posti. E` un errore gravissimo e un' illusione diabolica il credere che sia proibito allo spirito di cercare la sensibilità particolare all' amore divino, cioè d' avere de' particolari affetti sensibili, e « il sentirsi rimordere la coscienza di disubbidire a Dio »facendo il contrario. E la prova che vien dal demonio questa falsa coscienza, è il cattivo, anzi pessimo effetto che produce, « venendo nell' uomo uno stato che è simile alla morte, perchè manca l' elemento della vita che è l' amore »; onde ne nasce il pessimo ed orribile effetto, che non si possano far più nè manco le mortificazioni più leggere comandate dai Superiori, il che cerca appunto il demonio, e che « non si possa più vivere se si avesse a ricevere una mortificazione che mortifichi di troppo la natura ». E da qui un altro effetto, che disvela l' opera del principe delle tenebre, cioè la tristezza all' occasione d' essere tolta alla natura quella qualunque soddisfazione, ch' essa si prendeva in cose oneste; mentre se la cosa fosse venuta dallo Spirito Santo, si avrebbe giubilato nel mortificare la natura, tendendo a questo lo Spirito Santo, e il demonio al contrario. E` una cattiva massima e una manifesta illusione il far nascere, col pretesto della perfezione, bisogni di sollievi naturali, quando anzi la perfezione consiste nel mortificare la natura e fare che domini nell' uomo la grazia, la quale si oppone spesso alle soddisfazioni della natura; ed è una dottrina dettata dalla sensualità il pretendere poi di più, che col mortificarsi si eccedano i limiti posti dal Creatore alla natura, e quindi si disubbidisca al Creatore. Una tale dottrina è suggerita dal demonio che infonde l' ipocrisia, perchè è una perfezione ipocrita quella che con tali ragionamenti arriva a farsi scrupolo di esercitare la mortificazione specialmente in grado minimo, come è quello di cui si tratta. Sono quindi atti d' immortificazione e di superbia il giudicare che i Superiori dieno le mortificazioni (da cui lo spirito ripugna) senza legittimi motivi ; essendo legittimo motivo anche quel solo di far praticare la mortificazione specialmente ad un giovane che ha uno spirito contrario. E` un errore e una dottrina contraria allo Spirito Santo il credere che in questa vita possa ad un tempo stesso esser felice lo spirito e la carne, [...OMISSIS...] . E` un errore gravissimo contro la dottrina cattolica il pretendere, che l' uomo non rimanga mica passivo nel prendersi le mortificazioni, che la dottrina di Cristo e la grazia insinuano, col pretesto ipocrita di lasciare « i mezzi nelle mani di Dio, perchè egli faccia che lo spirito insieme colla natura ottengano nel miglior modo la loro felicità », imponendo anche a Dio la legge che deva collo spirito render felice la natura, guasta com' è, e così non riconoscendo come venienti da Dio le tribulazioni e le infermità con cui a lui piacesse di affliggere la nostra natura. E` un' illusione diabolica l' interpretare i beni naturali, di cui si può godere, come un segno che Iddio vuole che la natura riceva sempre maggiori sollievi, e non come un' occasione di esercitare con più merito la privazione volontaria dei medesimi: quando poi i Superiori impongono qualche mortificazione anche leggerissima, non veder più in questa la volontà di Dio, ma superbamente ricusarla col pretesto ipocrita di disubbidire all' interna voce di Dio, accettando quella mortificazione ed esercitandola. Sebbene si possa e si deva sperare che Iddio dia sempre a quelli che lo servono, il necessario vitto e vestito di cui devono essere contenti secondo la dottrina di S. Paolo; è però un errore sensuale e materiale e contrario allo Spirito Santo il concepire « la più ferma speranza che di mano in mano che Iddio andrà purificandomi da' miei difetti, aggiungerà sempre alla mia natura qualche cosa maggiore; ed io certo mi sento che di gran cose vorrà egli per questo operare in me », quasi Iddio non voglia anzi servirsi delle tribulazioni e afflizioni della natura per purificare le anime dai loro difetti, e quasi l' oggetto della speranza d' un' anima che tende alla perfezione devano essere « grandi cose a favore della natura », e non anzi a favore della mortificazione della natura, di cui erano tanto avidi tutti i santi! E` un grave errore poi il dirigersi da sè stesso nelle vie dello spirito; ma conviene ricevere la direzione con umiltà e docilità dai proprii Superiori legittimi, che fanno le veci di Dio in terra. E` inoltre un atto gravissimo di superbia il prendere a dogmatizzare, specialmente non avendo punto percorso la teologia, e l' ostinarsi con caparbietà e alterezza ne' propri errori, anche dopo esserne stato replicatamente e da più persone avvertito. Le sacre Scritture non si devono interpretare col senso privato , essendo questo l' errore dei protestanti; ma in un senso che non contraddica mai a quello che loro dà la Chiesa ed i santi Padri. Ed è perciò una temerità che un giovine, che non conosce ancora le decisioni dei Concilii, e non ha letti i sacri interpreti, pretenda di argomentare e dogmatizzare con testi della Scrittura. E` parimenti un atto di superbia il pretendere d' interpretare le Regole dell' Istituto meglio de' proprii Superiori; ed è un atto di passione il prendere solamente qualche regola isolata che accomoda alla propria immortificazione, per cavarne il pretesto di fare un rimprovero ai Superiori: come dicendo che « la regola prescrive che l' abito sia decente ed accomodato come si conviene ai religiosi », e dimenticandosi poi della regola assai più importante, che ordina ad ognuno di esser contento, che gli sia dato ciò che v' ha di più vile e logoro in casa, per la di lui maggiore annegazione e spirituale profitto (Reg. 51 fra le comuni ): regola essenziale, che appartiene a tutti, chè tutti amar devono le insegne di Cristo (Reg. 64). E` pertanto un dovere ed un effetto dell' umiltà il diffidare del proprio giudizio, specialmente in opinioni gravissime e dichiarate dai Superiori contrarie alla dottrina stessa della Chiesa. All' opposto è un atto gravissimo di superbia il ricevere con dispetto le correzioni dei Superiori, e dirsi calunniato pei difetti che essi discoprono: e questo dimostra di più la cecità che produce la superbia. E` ancora un atto d' ingratitudine , che è pure un' altra figlia della superbia. Così è un atto di superbia l' alterigia del parlare, la ruvidezza dei modi di trattare, i punti interrogativi, e le affermazioni assolute, e le mentite date in faccia ai propri Superiori, di cui si ricusa la caritatevole istruzione, specialmente da un giovane, che osa farsi maestro a sè stesso di perfezione. E` un atto di superbia, d' immortificazione, e di mancanza di rispetto e di gratitudine verso i Superiori, il trasformare i loro avvisi e correzioni in parole esagerate, per avere occasione di menarne lamenti e chiamarsi offeso della loro carità: come essendo avvisato di usar temperanza e moderazione nel mangiare cose dolci, esclamare d' esser tacciato « da ingordo e ghiottone ». E` opera di superbia il falso punto d' onore: come chi crede di perdere l' onore venendo corretto dei suoi difetti, e vuole impedire che i Superiori lo riprendano, accusandoli, con alterigia pari all' ignoranza, di giudizio temerario, se fanno il loro dovere eseguendo il precetto di Cristo che dice: « Ex fructibus eorum cognoscetis eos , e: Justum judicium judicate ». E` un atto di vanità per un religioso dell' Istituto della Carità, e contrario alle proprie regole, il ricusare, anche per più volte, d' indossare un vestimento per essere alquanto logoro o rappezzato. E` un atto d' immortificazione e di gola l' essere attaccato ai cibi dolci e aggradevoli in modo da irritarsi e chiamarsi calunniato, quando il proprio Superiore avvisa di astenersene, foss' anche di astenersene in tutto; molto più se avvisa d' usarne con maggior moderazione. E` un errore il credere che sia contrario alla perfezione il pregare per persone o classi di persone particolari, come fa la Chiesa in tante orazioni, o il domandare particolari grazie spirituali, specialmente quelle di cui più s' abbisogna, subordinatamente alla volontà divina; ed è contrario alla pratica dei santi il farsi una legge di mantenersi solo in un desiderio universale del bene, che può rimaner anche colle preghiere particolari: come è poi un atto di presunzione e di superbia, rassomigliar se stesso ad una lampada accesa che arde dì e notte al cospetto di sua divina Maestà: il che sta bene che si dica de' Cherubini e de' Serafini, ma non d' un pover uomo, che professa le massime sopra descritte. E` parimente un atto pieno di superbia il credere di essere come in una continua estasi, con tanta immortificazione e coll' affetto diabolico di rendersi inetto a mortificar la natura da sè, e nè manco sopportare le leggere mortificazioni ingiunte dai Superiori, senza lamentarsi, ribellarsi, censurarli amaramente e con alterigia dottrinale, dichiarando legittimo questo malcontento della natura approvato e accompagnato dall' errore dell' intelletto e della volontà. Finalmente è un atto di gran superbia il parlare in modo da credersi oggimai esente da molti difetti, come dicendo: « Fino a tanto che io mi aveva ancora molti difetti ecc., Iddio andò pian piano purgandomi de' miei difetti ecc. »; quasichè al presente non ci siano più molti difetti: il che mostra una deplorabile cecità di spirito in colui, che professa tutti gli errori e le false massime precedentemente enumerate. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.52 Il far molto per il Signore è una parola che ha bisogno d' essere certamente interpretata, per esprimere un sentimento giusto ed evitare tutte le illusioni. Se s' intendesse sotto la parola molto di operare molte azioni esterne, e piuttosto queste che quelle, può accadere che tutto ciò che sembra molto agli occhi degli uomini, sia poco a quelli di Dio, ed anche meno del nulla. Molto dunque non si fa mai nella vita spirituale se non quando si fa molto la volontà di Dio. Questa volontà di Dio può benissimo riguardare molte azioni esterne, ma può anche riguardare poche azioni esterne, ma molte virtù, d' orazione, di contemplazione, di pazienza, ecc.. Così fece molto più Maria Santissima, di cui tante poche azioni si conoscono, che non facesse lo stesso san Paolo con tante fatiche e predicazioni. Questo solido principio evita tutti gli inganni dell' amor proprio, e quando l' uomo desideri unicamente di fare la volontà di Dio e di servirlo ugualmente con aurea indifferenza in tutto ciò che vuole da lui sia in molte opere esterne, sia in molte opere interne, allora senza pericolo d' inganno egli fa molto pel Signore. Ma come si conosce questa volontà di Dio? Una via sicura per conoscerla è quella dell' ubbidienza religiosa. Essendo questo indubitato, è indubitato altresì che tutti quelli che si offeriscono a Dio senza condizioni e gusti particolari, desiderosi unicamente di molto servirlo e di far molto la sua volontà, e per arrivare a conoscerla sottopongono se stessi all' ubbidienza religiosa, è indubitato, dico, che questi ottengono il loro fine. Poichè se Iddio vuole da essi molte opere esterne, il fa loro conoscere per mezzo de' Superiori, non mancandogli mai il mezzo di farlo; se poi vuole altro da essi, anche questo il fa conoscere per lo stesso mezzo. Così l' uomo è sempre guidato da Dio, ed è sicuro di fare molto pel Signore senza ingannarsi, ed ha acquistato diritto al suo aiuto, col merito di più d' aver annegato interamente se stesso. Per questo Gesù Cristo ha invitato ai consigli evangelici tutti quelli che bramano d' essere perfetti. Alcuni fedeli sacerdoti e laici a questo fine e dietro questi principii si offeriscono a Dio in una società religiosa. Tale è l' Istituto della Carità approvato dalla Chiesa, il quale non mette nessun limite all' azione esterna de' suoi membri, ma vuole che quest' azione sia regolata in tutto dall' ubbidienza. Nè Iddio lasciò mai mancare all' Istituto opere di carità esterne in copia maggiore di tutte le forze de' suoi membri. Conviene certamente per intraprendere la fabbrica di questa torre prendere la risoluzione d' annegare se stesso, gettandone i fondamenti sulla mortificazione e sulla umiltà, e sulla viva fede in Dio, che è sempre coll' uomo, che a lui si consacra, e non lascia che sia tentato al di sopra delle sue forze. Chi vuole fare molto pel Signore, deve vincere quelle abitudini che si opponessero alla vita comune, che ha anch' essa non piccola efficacia a dare all' uomo perfezione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.53 Dalla lettura delle lettere, che mi avete indirizzato, ho raccolto il comune vostro desiderio di servire al Signore con fedeltà, i vostri combattimenti ed i vostri sforzi e l' attaccamento alla vostra vocazione in questo Istituto, che si appella dal precetto del Signore . Confido in quella bontà infinita che vi ha segregati dal mondo, che vi farà tutti perseverare sino alla fine in modo che non ne manchi nè pur uno in quel dì che il Signore distribuirà ai suoi servi la mercede. « Non quegli che incomincia, ma quegli che persevera sarà salvo ». Essendo poi utilissimo all' acquisto della costanza nel bene e della perseveranza, che l' uomo spirituale, senza dimenticare nulla di quanto ha insegnato Gesù Cristo, prenda qualche punto luminoso, nel quale concentri i suoi pensieri, quasi in una cotal regola compendiosa di sua condotta, e seguendo dietro ad esso, non ismarrisca nel suo cammino, ma viaggi direttamente al suo termine; perciò m' è paruto dovervi essere cosa gradevole, se io, in facendo risposta alle care vostre, vi additassi appunto quale io mi creda essere la massima che più vi deva giovare aver presente al pensiero, e in ogni vostra operazione riguardare e consultare. Questo punto eminente dunque, che vi sia quasi stella e scorta sicura, vuol essere un altissimo sentimento della vostra santa vocazione, la stima di essa, la premura di custodire gelosamente il dono e d' intendere ogni dì più quant' esso è sublime e prezioso e degno d' essere con tutto il vostro cuore amato. Infatti con quest' arma si vincono i vizii, su questo fondamento si erigono tutte le virtù. Ella è cosa indubitata che niun religioso può perire, se ama sinceramente e costantemente la sua vocazione: che niun religioso può durare lungamente in una vita gravemente difettosa, se si tiene immobilmente affezionato con tutto l' animo alla medesima vocazione. Amore alla vocazione e gravi difetti non possono stare insieme: o devono cessare quei gravi difetti, o deve venire meno la vocazione: elle sono due cose che lottano insieme. Laonde ogni qual volta l' anima, rendendosi infedele a Dio, ha la disgrazia di fare gravi cadute, subito ne suole conseguitare un raffreddamento nella santa vocazione; e viceversa ogni qual volta sopravviene all' anima un raffreddamento notabile nella vocazione, si ha un segno infallibile, che essa è andata indietro nel bene e si è macchiata di volontarie colpe, almeno interne, le quali sono talora difficili da conoscersi. Ma pure a questo segno l' uomo spirituale dee aprire gli occhi sopra se stesso, e, ricercando diligentemente nella sua coscienza, ben troverà le tristi cagioni per le quali s' è più o meno alienato dal primo santo proposito. Sarà forse una secreta superbia, che lentamente lo corrode, saranno dei risentimenti d' amor proprio offeso, che mantiene il suo cuore in uno stato d' amarezza, sarà una prontezza di giudizi temerari, uno spirito di censura, sarà una negligenza e trascuratezza abituale nell' osservanza delle proprie regole, sarà una pigrizia ed accidia, che ricusa di fare un po' di fatica nell' orazione, sarà poca custodia dei sentimenti, sarà una coscienza dormigliosa e torpida, che non si fa scrupolo di commettere molti peccati veniali, anche avvertiti: insomma saranno sempre colpe, di qualsivoglia sia genere e grado, quelle che avranno indebolito il sentimento e l' attaccamento al proprio stato, alla professione della vita perfetta. Quanto, miei carissimi, non dee l' uomo spirituale vegliare e pregare senza intermissione per arrivare a conoscere sè stesso e quello che di giorno in giorno si va operando e formando nell' anima propria! Poichè nell' anima si opera di continuo un secreto lavoro o in bene od in male, e chi non la conosce questa interna operazione e questa graduale trasformazione dell' uomo, può trovarsi un giorno tutto diverso da quello di prima, in uno stato miserando di spirituale languore ed anche di mortale egritudine, senza saper dire a sè stesso come sia arrivato ad un termine così funesto. Quanti per questa neghittosità ed inconsideratezza non fecero gitto del dono inestimabile della propria vocazione, e scaddero dal loro luogo, e precipitarono così nella eterna dannazione! In che modo adunque cansare un tanto male? Quali sono i mezzi più efficaci, o carissimi figliuoli, per impedire che le anime nostre non si rendano brutte di tanta ingratitudine verso quel Dio, che ci ha prescelti con infinito amore e collocati in luogo così distinto, di cui possiamo dire col Salmista, « in loco pascuae, ibi me collocavit », mi ha collocato in luogo di pascolo abbondante? Certo, che il primo di tutti i mezzi è quello di aver sempre una coscienza, scrupolosa no, ma delicata, che senta e rimorda per ogni offesa, anche la più leggera, di Dio; e specialmente per tutte quelle mancanze che riguardano la vocazione medesima, il perfetto mantenimento de' sacri voti, la semplice obbedienza, i doveri annessi agli uffici ed occupazioni imposte dai superiori, procurando di fare ogni cosa come fa il servo fedele. Il secondo mezzo poi è quello di usare ogni sollecitudine per mantenere l' animo sempre tranquillo, mansueto, pacifico, equabile e temperato a dolcezza con tutti. Qual tesoro non è mai la pace di Cristo! quanto profitto fa l' anima camminando in questa pace! qual luce di verità non si diffonde da Gesù Cristo in un animo pacifico! Quest' animo senza passioni che il conturbino, senz' ira, senz' alcuna malignità, vede tutte le cose nella luce del vero: giudica rettamente, non altera coll' imaginazione niuna cosa, distingue con sicurezza il bene dal male, e senza frode o scusa fugge da questo ed abbraccia quello colla più affettuosa semplicità. Convien dunque essere soprammodo gelosi di questa pace, e non permettere che dentro di noi sia mai turbata per qualunque sia interno movimento meno ordinato; e quando incomincia a turbarsi, accorrere subito per impedire che la turbazione non duri e non si accresca, e per rimettere tutti gli affetti nella bella calma e serenità di prima. Tutti dunque abbiamo di ciò somma cura. [...OMISSIS...] Il terzo mezzo sarà quello di studiare con diligenza quale sia il vero spirito dell' Istituto della Carità, di cui formate parte. Penetrandovi di questo spirito, che nelle vostre regole è compendiosamente contenuto, voi lo conoscerete sempre più, e conoscendolo lo apprezzerete, e apprezzandolo lo amerete, amandolo poi stringerete voi stessi a questo nostro Istituto con grande affetto, e ogni giorno più conformerete i vostri sentimenti, le vostre azioni, le vostre abitudini a quella perfezione che il medesimo Istituto propone ai suoi seguaci. Certo non è possibile che l' uomo molto s' affezioni a quello, a cui egli pensa di rado o negligentemente, e a cui non applica il proposito della sua libera volontà. Conviene dunque che consideriate come un vostro dovere, e un dovere gravissimo, cotesto amore e cotesto attaccamento al nostro Istituto e l' assidua cura di nutrirlo e di coltivarlo in voi stessi. Dovete conoscerne ed amarne le massime, dovete affezionarvi ai vostri Superiori, e loro mostrare gratitudine riconoscente per le sollecitudini molte e continue che si prendono del vostro bene, confidenza altresì e tenerezza: dovete con ispeciale affetto abbracciare in cuore tutti i vostri fratelli, tutti i compagni del medesimo Istituto, e considerarvi tutti come un sol corpo, una sola persona morale che bene ordinata e concorde lavora per lo stesso fine, Iddio; che ha per mano la medesima impresa e i medesimi interessi, la gloria di Dio; che compongono un' unica famiglia, ed hanno tutti in Gesù Cristo un solo cuore ed un' anima sola. Sì, conviene, o carissimi, che ciascuno esulti e ringrazii Iddio nel vedersi membro di questa società, che si propone di adempire, per quanto l' umana infermità il permette, il precetto del Signore , la carità. In questa santa ed intima unione i beni spirituali di ciascuno, sono beni di tutti, i mali di ciascuno, mali di tutti: i meriti sono comuni: gli uffici, sebbene distribuiti, comuni anch' essi, perchè ciascuno quegli uffici che egli non può fare e che gli altri fanno, anch' egli dee farli col desiderio; giacchè tutti quegli uffici nel nostro Istituto non sono infine altro, e non devono essere altro che atti ed uffici e ministeri della medesima carità di Gesù Cristo; onde tutti fanno lo stesso, perchè tutti esercitano la carità, e questa universale ed illimitata risiede nel desiderio, nella volontà, nelle opere di ciascuno. Confido, carissimi, che questa carità regnerà anche nei vostri cuori. Tanto può il servo di Dio, quanto ha di carità in sè medesimo. Chi accresce l' amore, accresce la forza spirituale; chi diminuisce l' amore, diminuisce pure in sè la forza del bene operare. Dunque dilatiamo il cuore: noi siamo chiamati da Dio ad avere un cuore grande pel molto amare, siamo chiamati a sdegnare ogni cosa piccola e vile, che restringa, o rattristi. In questo dovete santamente emularvi, nell' amare di più, e chi di più amerà, più si sentirà legato alla vocazione di questo Istituto; di maniera che col raccomandarvi, coll' esortarvi, siccome feci in questa mia lettera, e confermare voi stessi con ogni studio all' attaccamento al medesimo Istituto, non ho fatto altro che raccomandarvi ed esortarvi a confermare voi stessi più che mai saldamente nella dolcissima carità di Gesù Cristo, che è la legge suprema, il fine, i mezzi, la natura dell' Istituto che voi avete professato. [...OMISSIS...] 1.53 Dalla consolazione che il Signore v' ha dato di gustare nel contrarre de' nuovi perpetui legami con Gesù Cristo, quali sono i voti degli scolastici che avete emesso, potete sicuramente argomentare la consolazione che ho gustato io nel ricevere la notizia colla cara vostra del dì stesso della Natività di Maria, che avrà presentata la vostra offerta al suo Figlio. Ogni qualvolta al mistico corpo del nostro Istituto s' aggiunge un nuovo membro, è naturale che tutti gli altri sentano accrescersi la loro vita spirituale e divenire in Gesù Cristo più potenti: è un nuovo pegno della bontà di Dio, che col suo onnipotente Spirito unisce ineffabilmente nella carità e aggrega il pusillo gregge, acciocchè diventi in lui una cosa sola. Crescendo il numero degli uomini in tutte le Case, cresce la nostra fiducia in colui che disse: « quia si duo ex vobis consenserint super terram, de omni re, quamcumque petierint, fiet illis a Patre meo, qui in coelis est: ubi enim sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum ». E il voto e la virtù dell' ubbidienza è appunto il mezzo, pel quale noi tutti diventiamo veramente unanimi in ogni cosa, unanimità che dirige le nostre stesse orazioni; poichè qual cosa altro ci resta da domandare al Signore, se non ch' egli ci aiuti e conforti a far ciò che c' impone l' ubbidienza, guida fedelissima di tutti gli atti oggimai della nostra vita? Poichè dicendo l' ubbidienza, intendo anche dire lo spirito d' ubbidienza, di cui tutta la stessa vita di Cristo fu informata, dicendo egli medesimo: « sicut mandatum dedit mihi Pater, sic facio ». I perfetti ubbidienti dunque sono i veri unanimi di Gesù Cristo; e questi sono veramente congregati in suo nome, perchè sono uniti per adempire il suo precetto: « Hoc est praeceptum meum, ut diligatis invicem », che è lo stesso scopo, e la tessera, e il tesoro del minimo Istituto; l' aggregazione al quale non è in fine altro, che una risoluzione e promessa solennissima di spendere tutte le proprie forze ad adempire quel precetto dolcissimo e latissimo, che Gesù Cristo, con un senso profondo e misterioso, ha chiamato il suo . Onde chi ama Gesù Cristo, non può a meno di godere quando taluno si aggiunge alla schiera di quelli che vogliono vivere per adempire uniti e quasi congiurati insieme il precetto di Cristo, e non per alcun' altra cosa, assumendo, quasi direi, per unica loro professione, il soffiare in quel fuoco che Cristo ha posto tra gli uomini, e la cui accensione è il suo desiderio: « Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur? » Possiamo esser tutti legna aride per la mortificazione, e unte per la dolcezza e la mansuetudine, acciocchè quel divin foco ci s' accenda e ci consumi! Per le quali ragioni fu cosa giusta e naturale se io e noi tutti ci siamo rallegrati all' intendere che voi, e con voi i carissimi Sheehy e Maxwell, vi siete legati con vincoli eterni ed infrangibili all' Istituto, che è quanto dire, alla professione della divina carità. E la mia gioia riuscì anche più viva, perchè la vostra risoluzione fu per me improvvisa. Non vi pentirete giammai d' aver rimosso da voi ogni esitazione all' atto generoso, anzi ogni dì più s' accrescerà la cognizione della grandezza della grazia che avete da Dio ricevuta, e colla cognizione la gratitudine verso il vostro Dio, fino che in cielo ne canterete le lodi. Oh che possiamo consumare il nostro sacrificio! che Iddio lo assuma in odore di soavità! Rallegratevi a mio nome coi due compagni, e coi dodici che hanno rinnovati i voti. Mi rallegro anche d' intendere quanto cotesti nostri novizi gareggino nelle opere della pietà e della carità: sono tali notizie d' una santa emulazione a questi nostri. Abbracciatemi il carissimo nostro Caccia e ditegli che mi furono gratissime le sue lettere; e non solo a me, ma anche a' fratelli a cui ne comunicai alcuni brani. Mi riservo a scrivergli altra volta. Qui tutti meco v' abbracciano e vi risalutano: il Gilardi, il De Vit, il Bertetti, il Paoli, il Beccaria, ecc.. Entra ora il Manzoni, ed io devo qui troncare. [...OMISSIS...] 1.53 Eccomi a rispondere brevemente alle vostre domande: 1 Quali persone debbano essere le prime raccomandate da noi al Signore, e se queste sieno i parenti . Rispondo che non c' è già un' obbligazione di fissar sempre un ordine determinato tra le persone che raccomandiamo al Signore, e perciò intorno a questo non si dee scrupoleggiare. E perciò se taluno raccomandasse prima i parenti, farebbe bene; purchè sempre colla condizione della maggior gloria di Dio. E se ci fosse un altro che raccomandasse prima i ministri della Chiesa, da cui dipende la salute di tante anime, e poi i parenti, anche egli farebbe bene; e i parenti non iscapiterebbero perciò: giacchè Iddio premierebbe forse la generosità di questo adoratore che preferisse la gloria e l' incremento del regno di Dio sopra la terra ai suoi propri parenti, lo premierebbe forse coll' esaudirlo più copiosamente anche a favore de' propri parenti. Ma è da ritenersi che non c' è un obbligo di fare questi confronti, ed è meglio tante volte pregare alla buona e alla semplice, come detta lo spirito; perchè quando abbiamo lo spirito retto, Iddio mett' egli in ordine gli oggetti delle nostre preghiere, anche se non li mettiamo noi, o se erriamo mettendoli. Desideriamo dunque sopratutto la maggior gloria di Gesù Cristo; e poi non cerchiamo il resto troppo per sottile, nè facciamo questioni che potrebbero turbare la carità, o ingenerare dei cavilli. 2 Se la condizione posta al n. 20 della lezione X possa ingenerare perplessità . No, se s' intenda bene: perchè in quel numero si dice che Iddio vuole tutti santi, e che perciò si dee pregare per tutti: la condizione che vi si pone è solamente per togliere le inquietudini alle anime; perchè se queste credessero che all' orazione fatta per altri fosse promessa da Cristo la certa esaudizione, e poi vedessero di non esser esaudite, morendo per esempio uno, per cui si prega, impenitente, esse potrebbero turbarsì, o vacillare nella fede, o mancare di rassegnazione. E` dunque necessario che si sappia, da chi prega per la salute altrui, che deve sempre pregare con rassegnazione al divin volere, che per un maggior bene, talora non esaudisce; e però deve in fine conformarsi a quel divin volere, che è la regola d' ogni nostro affetto. Questo non toglie però, che si deva pregare con egual fervore, anzi perciò appunto dobbiamo pregare con un fervore maggiore, perchè a questo molte volte il Signore cede ed esaudisce, e finchè l' uomo vive, questo può sempre esser convertito; ma se ci fosse rivelato da Dio che una persona, per la quale noi abbiamo pregato, fosse morta in peccato e si fosse perduta, noi non dovremmo perciò turbarci, o scandolezzarci, ma adorare gl' imperscrutabili giudizi di Dio, e lodare Iddio egualmente. Questo vuol dire il citato numero. Onde se uno pregasse così: « Signore, fate che quest' anima assolutamente si salvi anche se la vostra maggior gloria esigesse il contrario », non pregherebbe bene, perchè l' uomo non dee metter legge a Dio, e non deve preferire nulla alla sua maggior gloria. 3 Come si deducono le tre norme indicate al n. 15 dal principio generale della giustizia . E` ben naturale che la giustizia cristiana prima di tutto vuole che si facciano i doveri annessi al proprio stato: si sa già che questo è la volontà di Dio: e questa è la prima norma. Di poi, è naturale, che se si conosce in qualche altro modo il divino volere, anche questo conviene adempirlo: e questa è la seconda norma. Finalmente anche senza di ciò, quanto più ci spingiamo avanti verso il bene insegnatoci da Gesù Cristo, tanto andiamo con più lena verso la perfezione: e questa è la terza norma. Eccovi, mio carissimo, soddisfatto: servite Iddio con semplicità e pregatelo nella rettitudine del vostro cuore, senza sottilizzare di soverchio, ed egli v' istruirà, vi illuminerà, vi consolerà. [...OMISSIS...] 1.53 Ringraziamo Iddio, mio carissimo Marco, che il primo esame è riuscito bene: me n' aveva già scritto anche il prof. Paravia: speriamo che anche il secondo sarà benedetto. Fate pure con tutta diligenza la cura prescrittavi, anche per quello che riguarda il mangiar cibi grassi nei giorni d' astinenza; e circa l' intralasciare qualche giorno la celebrazione della santa Messa e la recita dell' ufficio, attenetevi alla direzione di don Molinari, e a una discreta prudenza, secondo quello che la coscienza vi dirà. Quello che è importantissimo, e che non si deve abbandonare giammai, si è l' orazione e lo spirito d' orazione. Conviene intrattenersi intimamente con Dio e non permettere mai che il cuore si raffreddi: oltre le frequenti e fervide giaculatorie, si deve ricorrere ai modi d' orazione più facili nelle proprie circostanze, come al primo dei tre modi d' orare di s. Ignazio, o al secondo, o al terzo. Si può anche usare questo metodo: 1 fare una breve lettura nel libro dell' Imitazione ; 2 immaginarsi Dio presente, e ottenendo prima l' interno raccoglimento, dire: « Parla, o Signore, che il tuo servo ti ascolta »; 3 stare ad ascoltare Iddio, e secondare quel primo buon pensiero ed affetto che si presenta alla mente, prendendo da quello occasione di fare de' santi desiderŒ, delle offerte, delle preghiere, degli atti di confidenza in Dio, di diffidenza di sè stessi, delle proteste e promesse, de' rendimenti di grazie, ecc., con devozione, compunzione, contrizione de' propri peccati. In tutto questo spirituale trattenimento con Dio conviene non dimenticarsi di far intervenire Maria SS., e altresì quei santi a cui il cuore più facilmente si rivolge. Attendete, adunque, a questi e simili esercizi, ai quali attendere vi sarà tanto più facile, quanto più rimetterete nelle mani di Dio stesso l' esito de' vostri esami, vincendo l' amor proprio, e stabilendo entro di voi quell' aurea indifferenza (non già indolenza o noncuranza), che apporta una dolcissima pace. Non date punto a nessuno de' miei libri che sono costì. Spendete pure il bisognevole con santa discrezione, e Iddio vi conforti, santifichi, benedica. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.54 Vorrei potervi soddisfare rispondendo alle questioni morali che mi proponete nella cara vostra del 13 passato ottobre; ma sono tanto sottili quelle questioni, che non so se mi verrà fatto di cogliere nel segno, o, cogliendo, di esprimermi chiaramente. Se ben intendo la vostra lettera, voi mi dite che quando vi accade di fare qualche buona azione, anche colla migliore intenzione, si move in voi un certo affetto, che vi pare avere qualche cosa d' amor proprio. Mi domandate dunque circa questa specie di gioia interiore che voi ne provate: 1 Se ella sia un secreto movimento d' amor proprio; 2 Se sia un effetto dell' atto stesso buono, o piuttosto l' effetto d' un atto di riflessione sull' atto buono, in occasione del quale quel piacere o quella compiacenza vi nasce. Egli è certo che un uomo non può penetrare fino al fondo il cuore di un altro uomo, e spesso neppure il proprio; onde io non potrei sicuramente accertare o affermare di che natura sia quel movimento che sentite nascere in voi stesso quando fate qualche buona azione, se non forse per via di congettura. Invece dunque di parlare di voi in particolare, credo che sarà meglio che io vi accenni brevemente una dottrina generale, e parmi che questa principalmente voi mi cerchiate. Con questa poi alla mano e con un accuratissimo esame di voi stesso, potrete forse giungere a conoscere l' indole, buona o no, di quel vostro affetto. Conviene in prima osservare, che quando l' uomo fa qualche bella, nobile, utile o santa azione, nasce in lui naturalmente e necessariamente un sentimento di piacere. Ma questo sentimento è di due maniere, che chiameremo, per intenderci meglio con poche parole, un piacere oggettivo, e un piacere soggettivo. Il piacere oggettivo è quello che nasce dall' amor del bene in sè, senza riguardo a noi stessi, per esempio, dall' amor della giustizia, dall' amor della gloria di Dio, dall' amore del bene del prossimo, e così via. Egli è chiaro, che questo è un diletto tutto perfettamente buono, e in nulla è contrario nè all' umiltà, nè ad alcun' altra virtù, perchè è un effetto necessario ed immediato dell' amor del bene. A ragion d' esempio, che un Apostolo, un S. Francesco Saverio godesse ed esultasse della salute delle anime che per suo mezzo si salvavano, e ne ringraziasse Iddio: questo era giusto e lodevole, e nasceva necessariamente come un effetto del grande amore che egli portava a Dio ed alle anime. [...OMISSIS...] Ma la cosa non va del tutto così rispetto a quell' altra maniera di piacere, che si può svegliare in noi quando facciamo delle belle azioni, e che abbiamo chiamato soggettivo. E primieramente egli è certo che si dà un amore obbiettivo anche rispetto a noi stessi; onde quando ci rallegriamo dei doni e delle grazie che ci ha date Iddio e delle buone azioni che per sua grazia facciamo, riservandone a lui ogni onore e gloria, e ci rallegriamo altresì perchè l' anima nostra acquisti così dei meriti, con grande fiducia di ricevere a suo tempo la corona della giustizia in virtù dei meriti di Gesù Cristo: quando facciamo tutto ciò, noi amiamo e godiamo del bene oggettivo, sebbene realizzato in noi, e in tutto questo non c' è ombra di superbia nè difetto di sorte. E` un' allegrezza santa, a cui ci conforta il Salmista quando dice: « laetetur Israel in eo qui fecit eum, et filii Sion exultent in rege suo »: è quella gloria di cui scriveva S. Paolo: « qui gloriatur, in Domino glorietur ». Dissi che questo è un diletto oggettivo: avrei potuto dire con egual verità che è oggettivo e soggettivo ad un tempo: è il punto dove i due diletti si uniscono e si confondono; ma prevale il diletto oggettivo, e questo santifica il soggettivo. Infatti quando si vuole la propria santità, e si gode di questa come del più grande tesoro, che cosa si fa? Che cosa è la santità? E` l' amore, l' unione, la fruizione di Dio come del sommo bene. Si ama dunque l' oggetto degnissimo d' essere amato. Godere della propria santità è godere di quest' amore oggettivo che ad un tempo perfeziona e bea il soggetto che ha la grazia di possederlo. Qui non c' è dunque, come dicevo, nulla di comune colla superbia. Che cosa è dunque quel piacere puramente soggettivo, di cui non si può dire altrettanto? Questa specie di piacere è quello che ha per fine noi stessi e la nostra propria eccellenza. Se in questo godimento ponessimo noi stessi per fine ultimo, ci sarebbe peccato grave, peccato indubitatamente di superbia; ma se noi godiamo bensì di noi stessi e della nostra propria eccellenza, ma in modo subordinato al fine ultimo e in grado moderato che non faccia torto a nessuno, e che l' amore ed il diletto stia nell' ordine; in tal caso non c' è peccato, ma non c' è neppur merito, non eccede, in se stesso considerato, la linea del lecito; poichè questo non è che un amor naturale e spontaneo, di cui non possiamo essere del tutto privi. Sebbene tuttavia da questo naturale amore, preso da sè, non nasca alcun merito, può accompagnarsi a lui non piccolo merito per la fatica che l' uomo fa a raffrenarlo e a tenerlo nell' ordine e anche a sacrificarlo, almeno in parte, ad un amore e ad un diletto più nobile, qual è l' amore oggettivo, l' amore puro di Dio e del prossimo, quando venisse con questo in collisione; e il diletto che in produrre e mantenere quell' ordine si trova, è buono, giusto e degno di lode. Ma qui conviene che l' uomo spirituale vegli di continuo sopra se medesimo, compiendo il precetto del Salvatore: « vigilate et orate, ut non intretis in tentationem (Matt. XVI) »: poichè essendo l' uomo guasto dal peccato d' origine, il diletto soggettivo che per se stesso e per sè solo non è morale, ma piuttosto fisico, e però nè cattivo nè buono moralmente, facilissimamente trasmoda, e si rende sproporzionato, e per ciò stesso disordinato. Se noi vogliamo fare l' analisi di questo diletto, effetto del sentimento e dell' amor di noi stessi, troveremo che egli è di due maniere, l' uno istintivo e l' altro riflesso; e voi vedete che in questo già m' avvicino al vostro secondo quesito. Esaminiamo il diletto istintivo, e vediamone la natura ed i pericoli per la cristiana umiltà; e poi faremo lo stesso del diletto riflesso. Questo primo diletto nasce, come dicevamo, dal sentimento di noi stessi. Ora conviene osservare attentamente un fatto generale, che si manifesta non solo nell' uomo, ma anche nell' animale: si manifesta in tutto ciò che ha un sentimento di vita. Questo fatto si è, che ogniqualvolta nel vivente, sia razionale che irrazionale, si eccita una forte sensazione, un vivace ed insolito sentimento, le sue forze si aumentano, essendo la virtù attiva dell' istinto proporzionata alla virtù passiva attuata nel passivo sentire. Questa nuova forza del vivente è da lui sentita, e dal sentimento di questa nuova forza gli pare d' essere ingrandito, si ingalluzza e trionfa. Per darvene un esempo dei più bassi, ma pure atto ad intendere ciò che vogliamo dire, vedete un' imitazione che il senso fa della superbia nel pavone, nel tacchino, nel gallo, ed in generale in tutti gli animali maschi che sono più forti delle femmine; essi sembrano anche più superbi. Quello che accade in questa specie di sentimento, accade pure in ogni altra specie, quando il sentimento acquista un certo grado d' intensità. L' essere animale vive allora di una vita più potente ed essendo chiuso tutto ìn se stesso, non può fare confronti, perchè il senso non sente altro, che ciò che è nel soggetto senziente, e nulla di ciò che appartiene ad altri soggetti. Qualora adunque questo sentimento eccitato delle proprie forze cada in un ente che, oltre essere sensitivo, è anche ragionevole qual è l' uomo, gli dà naturalmente una certa spinta alla superbia. Poichè egli crede allora di essere o di potere più che non è e che non può, si fa anche cieco a tutto ciò che è fuori di lui o che non è da lui sentito, perchè rimane assorbito da ciò che sente in sè ed in cui si compiace di trattenere l' attenzione; così giudica ad un tempo se stesso con troppo favore, e con troppo sfavore degli altri: ingiusto con tutti, è inclinato a stimare sè, come è inclinato a disprezzare i suoi simili. E questo non solo spiega come i grandi, i ricchi, i potenti sono inclinati alla superbia, ma ancora perchè tutte le passioni vive ed ardenti, anche le più abbiette, sono una disposizione all' orgoglio, hanno un non so che di superbo e arrogante; poichè questo pericolosissimo sentimento delle proprie forze s' estende a tutte le specie di forze e di facoltà. Un sentimento infatti accompagna l' esercizio delle forze e delle sensazioni fisiche: un sentimento, l' esercizio delle forze intellettive: un sentimento, anche l' esercizio delle forze e facoltà morali; e ogni sentimento puramente soggettivo, di qualunque specie sia, s' egli è vivace, è una tentazione di superbia, perchè il sentimento è cieco, e l' intelligenza che lo apprende e percepisce direttamente è pronta a giudicare in fretta sopra una tale percezione, senza riflessioni e senza confronti colle forze altrui, che non sono percepite, e quindi non sono vivamente conosciute. Il sentimento adunque delle proprie forze ha seco un pericolo per l' umiltà e per la giustizia; e per reprimere questo senso insolente e baldanzoso, che s' innalza in noi, guasti dal peccato originale, talora con una terribile potenza, l' uomo deve continuamente combattere, deve con tutte l' armi spirituali rintuzzarlo, acciaccarlo, mortificarlo. Questo è il grande lavoro della mortificazione cristiana, in cui si travagliarono tutti i santi dal principio fino alla fine del loro vivere: la crocifissione dell' uomo vecchio con tutte le sue concupiscenze: [...OMISSIS...] . Che cosa importa negare se stesso, se non disdire e ribattere il sentimento delle proprie forze? che cosa è prendere la sua croce, se non combattere questo arrogante sentimento a costo che ne vada quella vita che lo produce? Di qui anche il gran bene delle tribolazioni che Iddio provvidenzialmente distribuisce ai suoi servi, e colle quali li perfeziona incredibilmente. [...OMISSIS...] E tuttavia l' uomo non può vincere del tutto questo sentimento soggettivo delle proprie forze col solo castigarlo che faccia, se in pari tempo non trova la maniera di fare nascere in se stesso un altro sentimento più potente (sebbene talora profondo e inconsapevole) e soprannaturale che intieramente vinca e soggioghi quel sentimento naturale; e questa è la morte spirituale. Il sentimento vero e soprannaturale, che solo ha virtù di sottomettersi e tenere come schiavo a catena quell' altro della natura, è il sentimento di Dio e del prossimo, raccomandato da Gesù Cristo, il sentimento di ciò che è fuor di noi e che non cade nel senso di noi stessi. Parlando del sentimento istintivo, mi sono limitato a cavarne l' esempio dalla vita animale. Ma, come ho detto, c' è un sentimento soggettivo anche nell' ordine dell' intelligenza e in quello della moralità, benchè in questi ordini una qualche riflessione quasi sempre vi si accompagna. Ogni qual volta la mente, facendo qualche passo insolito, s' eleva a nuove e più nobili cognizioni, e ogni qual volta la volontà opera un bene insolito e, proporzionatamente allo stato abituale, fa degli atti straordinarii di virtù, l' una e l' altra operazione s' accompagna colla coscienza di un proprio ingrandimento; e questo può facilmente inclinare l' uomo alla superbia, ma non è necessariamente superbia, quando sia limitato entro i confini della buona natura, poichè la natura anche buona e bene ordinata sente il proprio bene, ma la natura malvagia e disordinata lo esagera, e, invece di tenerlo in un ordine di ragione, lo asseconda come fosse una grandezza assoluta dell' uomo, il che lo cambia in superbia. Vi farò osservare a questo proposito una fra l' altre leggi singolari, che presiedono a questo sentimento, ed è la seguente: « Quanto più si fa l' abito di quegli atti intellettivi o morali, da cui nasce il detto sentimento soggettivo, questo riesce tanto meno vivo, e però meno pericoloso, e quanto più tali atti sono fatti dall' uomo senza un abito precedente, o con un abito minore, tanto più arrecano un sentimento vivo, e perciò stesso pericoloso ». Con questo si spiega perchè chi è più avanzato in un solido sapere, supposte le altre cose eguali, è meno soggetto ad un sentimento di sè, che lo tenti di superbia; e similmente perchè i principianti nella via della virtù soggiacciano più facilmente alle tentazioni d' insuperbirsi dei progressi che credono di fare nella virtù. Ma infine del conto come il rimedio di quella prima specie di superbia, che viene eccitata dal sentimento della vita e dell' animalità, non è altro che la mortificazione di questo sentimento e la produzione nell' uomo del sentimento d' una vita soprannaturale infinitamente migliore; così il rimedio della seconda specie di superbia, che nasce dal sentimento dei propri atti intellettivi, consiste nel conoscere ed avere vivamente presente all' intelligenza tutte quelle diverse e fortissime ragioni che persuadono l' uomo a mantenersi umile, e sopra tutto la cognizione soprannaturale della vera e assoluta sapienza, verso alla quale tutto quello che noi sappiamo è ignoranza e tenebra. Il rimedio poi verso quella terza specie di superbia, la più maligna di tutte le altre, che nasce dal sentimento dei nostri atti virtuosi, non è che la cognizione intima e la soprannaturale persuasione dell' assoluta nostra impotenza morale [...OMISSIS...] e del venire tutto da Dio quello che facciamo di vero bene (non essendo vero e conosciuto bene quello che non è soprannaturale); e finalmente il sollevarsi col pensiero e col cuore fino alla santità di Dio, e a questa luce intendere come ogni uomo sia mendace e peccatore, e come, qualunque cosa faccia, possa sempre dire con piena verità: « Io sono un servo inutile ». Giova ancora che l' uomo, che vuole appieno difendersi da questa superbia spirituale, sappia e bene intenda che il bene morale è essenzialmente cosa semplice e così compiuta che qualunque grave mancamento distrugge la morale bontà, e che un solo peccato grave esige secondo giustizia una detestazione ed una soddisfazione infinita, e che anche il peccato leggiero è una macchia che impedisce la visione della faccia di Dio. Il che ben inteso recide dall' uomo ogni stima di sè e sospende almeno ogni giudizio favorevole che di sè volesse portare, sia per la consapevolezza di qualche grave od almeno leggiera mancanza, sia pel dubbio che sempre gli rimane circa la sua condizione morale, non potendo egli mai sapere con piena certezza, se sia degno di odio o di amore, qualunque sieno gli atti particolari e le opere virtuose che egli pur faccia. Fin qui del sentimento che accompagna gli atti immediati delle potenze umane: di quel sentimento dico della propria forza intellettiva e della propria grandezza morale che inclina l' uomo alla superbia, e che è superbia quando la volontà lo ama come fine. Noi abbiamo veduto che, opponendo all' istinto una riflessione illuminata dalla fede e gli altri mezzi accennati, l' uomo può vincere per la grazia di Gesù Cristo tutte coteste tentazioni che sorgono spontaneamente dalla morbosa natura; ma la riflessione stessa, qualora congiuri con esse e sia vacillante e debole, accresce il male ed aggiunge nuovi pericoli. La riflessione nell' uomo adulto accompagna la più parte delle sue operazioni, e questa è più o meno elevata, cioè di un ordine più o meno alto. Onde se la riflessione è superba, ci hanno tante maniere o forme di superbia, quanti sono gli ordini della riflessione, a cui l' uomo nel suo sviluppo può arrivare. La riflessione pecca di superbia quando porta un giudizio esagerato ed ingiusto a proprio favore, il quale giudizio suole avere per materia quel sentimento istintivo della propria eccellenza di cui abbiamo parlato. Già se l' uomo giudica con troppa sicurezza a proprio favore, comincia con questo solo a peccare; perchè egli non può esser giudice di se stesso. Più ancora pecca, se da atti particolari di virtù presume di giudicare del proprio stato abituale, stantechè questo è cosa totalmente diversa da quelli, e Iddio solo chiaramente il vede. Talora nondimeno la riflessione è rapidissima, e accompagna quel sentimento con un giudizio oscuro ed implicito, sicchè l' uomo per accorgersi di questo tranello dell' amor proprio dee meditare molto sopra se stesso. E questa è una delle ragioni per le quali la superbia si nasconde talvolta in seno all' uomo profondamente, sebbene faccia degli atti particolari di diverse virtù e anche della stessa umiltà. Avviene che certi uomini si credano e si reputino umili, perchè non sono consapevoli di fare atti espliciti di superbia, e sono anche consapevoli, come dicevo, di fare atti parziali ed espliciti di abbassamento di se stessi, che paion loro umiltà, perchè tali sono in se stessi considerati, e ne hanno tutta l' apparenza; quando nel fatto sono superbissimi a cagione di un continuo e perpetuo giudizio abituale di sè orgoglioso e superbo. Questa specie di superbia abituale si scopre più facilmente osservandone gli effetti, che non sia osservandola in se stessa. L' ira per cagione di piccole offese, cui sente e ingrandisce l' amor proprio, e che talora non sono punto offese: una facilità al disprezzo degli altri: la gelosa cura dei proprii diritti, del proprio onore, ed il valore esagerato dato a quelli ed a questo: la confidenza in sè nell' operare, la temerità del giudicare, la baldanza per la buona riuscita di ciò che s' intraprende, ed altri somiglianti, sono tutti segni che dimostrano l' esistenza di questo nemico, qualunque sieno le parole, le proteste e gli atti particolari in contrario. Quanto poi la superbia appartiene ad una riflessione più elevata, essa è più maligna, più volontaria e più implicita di giustificazioni sofistiche, perchè la riflessione più elevata spazia in un ambiente più vasto d' intelligenza, e da una parte c' è nell' uomo maggiore luce per conoscere il vero, il che aggrava la sua colpa, dall' altra i giudizii superbi ch' egli pronunzia di se medesimo sono più assoluti, più universali, più liberi. I quali giudizi, quelli massimamente che giudicano non di un atto, ma di tutto l' uomo, possono peccare per due ragioni di superbia, o perchè cadono temerariamente su quello che l' uomo non sa, o perchè giudicano falsamente di quel che sa. L' uomo superbo infatti giudica di quel che non sa, ogni qual volta col suo giudizio preferisce in un modo universale se stesso agli altri, come il Fariseo, che diceva, « non sum sicut coeteri hominum, raptores » ecc.: dicendo egli così, li giudicava tutti in massa inferiori a se stesso, come osserva S. Agostino: ora egli non poteva certo sapere come stessero di virtù tutti gli altri uomini: si arrogava dunque di sapere quello che non sapeva, per innalzare se medesimo; la superbia lo spingeva a quella temerità di giudizio. Il che o simile è più facile ad accadere che non paia, ed avviene a molti per quel giudizio abituale di cui abbiamo toccato di sopra, pel quale si credono sempre qualche cosa di più degli altri, di cui non sanno mai concepire un' alta stima, dimenticano volentieri gli altri, e non si occupano che di se stessi: tale è propriamente quella superbia, che si chiama egoismo , alla quale procede direttamente contraria la carità. Ancora, l' uomo superbo giudica di quello che non sa, ogni qual volta antepone se stesso a qualche altro individuo, per rispetto alla virtù interiore o alla santità, come di nuovo faceva il Fariseo quando aggiungeva: « velut etiam hic publicanus (Luc. XVIII) »; perchè lo stato interno e morale dell' anima all' uomo è impenetrabile, e solo a Dio palese, « qui scrutatur renes et corda »; e però con un tale giudizio il superbo s' usurpa la scienza e l' autorità di Dio stesso. L' altra maniera con cui dicevamo potersi peccare di superbia con un giudizio riflesso, è quando l' uomo giudica a favore della propria eccellenza, pronunciando ciò che pur conosce per falso, accecandosi per non riconoscerlo. Questa è la superbia propriamente di Lucifero, il quale non poteva in alcun modo ignorare la infinita eccellenza di Dio, e la sovreminenza della divina natura sopra l' angelica, che era la sua; ma volontariamente rivolgendo gli occhi da quella verità lampantissima, affissò e concentrò il proprio sguardo in se stesso, e a se stesso solamente applaudì con applauso assoluto, dimenticando Iddio, e così facendo Dio se stesso. Or poi se attentamente si consideri, si vedrà che da questa seconda specie di giudizi superbi e falsi deriva anche la specie precedente di giudizi superbi e temerari, e che qui sta il vero principio di tutti gli atti e il fondamento di tutti i generi di superbia riflessa. Perchè in ogni guisa di superbia l' uomo pone sempre più o meno a fine se medesimo, ossia la propria eccellenza, in cui si compiace; e questo equivale ad un pareggiarsi, o ad un anteporsi a Dio che solo è fine di tutte le cose, e dee essere per tale riconosciuto, sia col pensiero, sia coll' affetto, sia coll' opera. Il che è cosa sì chiara che ogni uomo può conoscerla; e se non la riconosce, è solo perchè volontariamente s' accieca, lasciandosi abbagliare al fulgore della propria eccellenza non vera, ma creatasi dall' orgogliosa immaginazione. Si pecca adunque di superbia in questi modi colla riflessione. Questo pericolo conviene ovviare contrapponendo il rimedio di un amore grande e dominante della verità e della virtù, il pensiero e la riflessione abituale dell' assoluta grandezza di Dio e dell' umana pochezza; e oltre a ciò quello della propria e personale infermità e deficienza, al che guida e dà lume e forza la grazia di Dio. Eccovi, mio caro Agar, la teoria: voi solo potete ora applicarla a risolvere quei due quesiti che mi proponevate; perocchè voi solo potete, al lume dell' eterna verità, fare una diligentissima indagine dei movimenti del vostro cuore. [...OMISSIS...] 1.54 Giunsero al sommo grati a tutti noi i vostri buoni augurii, e ve li ricambiamo di cuore. Ma non meno grate ci giunsero le notizie del vostro stato e del vostro esordire nel pastoral ministero, dal quale spero nel Signore che ritrarrete frutti abbondanti e per la perfezione dell' anima vostra e per la salute delle anime altrui. Confidate nel Signore, ed egli vi benedirà. Apprezzate ed amate grandemente il ministero, a cui siete stato chiamato; perchè è un ministero regale, anzi ministero del Re dei re, che fu costituito dal Padre suo sul monte della giustizia praedicans praeceptum Domini . Il zelo ardente del gran Pastore, che dà la sua vita per le sue pecore, vi sia guida e quasi stella nel vostro cammino, perchè nel fuoco del puro zelo luce la sapienza di Dio. Oh voi fortunato, mio caro Giuseppe, se questo fuoco zelatore della giustizia di Dio e diffonditore della santità sarà la vostra vita e l' anima dell' anima vostra! Di questo prego il Signore per voi di cuore, e questi sono gli augurii che io vi faccio per l' anno che abbiamo pur ora incominciato. [...OMISSIS...] 1.54 Rispondendo alle care vostre del 17 febbraio e 7 marzo corrente non mi sembra necessario, per vero dire, ch' io replichi ancora quello che voi già sapete e, conoscendo intimamente il fondo dell' animo mio, potete voi stesso attestare, e quello che tante volte ho già espresso in pubblico ed in privato sul mio figliale e devoto attaccamento alla Santa Sede, sulla mia sommessione ed obbedienza ad ogni suo desiderio e cenno. Iddio m' è testimonio, che non mento: non ho mai desiderato altro che la sana dottrina coll' edificazione del prossimo: e in conseguenza non ho e non ho mai avuta l' intenzione e la voglia di sostenere pertinacemente le mie opinioni, o il mio modo d' esprimerle: ma diffidando troppo giustamente di me stesso, le ho sempre sottomesse al giudizio dell' Apostolica Sede, pronto a cangiarle, ritrattarle, modificarle, esprimerle diversamente, come mi venisse insegnato da questa mia sicura ed amata maestra. Se talora ne' miei libri dimostrai delle persuasioni forti, quando ho creduto che ciò giovasse alla causa della verità, esse cesserebbero subito d' essere forti, e anche d' essere persuasioni per me, ove la legittima autorità parlasse in contrario. Quand' anco m' avvenisse, quello che può avvenire all' uomo, limitato com' egli è, di non intendere la ragione di ciò che mi si prescrivesse, questo non mi cagionerebbe la minima molestia e non mi darebbe il minimo ostacolo a professare la piena e sincera obbedienza; condannerei dunque il giudizio mio proprio, e abbraccerei con tutto il contento ciò che mi fosse insegnato, farei ciò che mi fosse comandato. Ma ora intendo da voi, e parmi di poter raccogliere da tutto quello che s' è fatto fin qui circa l' esame delle mie opere, che non si tratti più di dottrina, ma che, dissipati intorno a questa i timori, rimanga del dubbio sulle espressioni, quasi sentissero di pericolosa novità. Io vi prego primieramente di assicurare tutti, ma specialmente di mettere ai piedi del Santissimo Padre questa mia disposizione, che io non solo desidero, che la dottrina da me professata sia pienamente sana, ma bramo di più che anche le espressioni della medesima sieno immuni da ogni pericolo, e che per conseguente sono sempre pronto a cangiarle o a dichiarare e migliorare in esse tutto ciò che io potessi riconoscere esservi da cangiare, da dichiarare e da migliorare. E lo conoscerò tostochè, per mia gran ventura, il Santo Padre si degnasse di comunicarmi quali sieno le espressioni che meritano questa emendazione: lo conoscerò ancora, se altre persone autorevoli, anche persone private e dotte, avessero la carità di somministrarmi intorno a ciò dei lumi, avendo io sempre bramato d' imparare da tutti, e facendo io gran conto della opinione di persone benevole che conoscano la materia. E perciò appunto vi prego e v' incarico espressamente di raccogliere con ogni possibile diligenza tutte le osservazioni che si facessero costì sulle espressioni o frasi da me adoperate nelle varie mie opere. Raccoglietele da persone autorevoli e dotte, raccoglietele anche dagli indotti, dagli amici e dai nemici, e riferitemele diligentemente: io me ne farò carico, le metterò a profitto per emendare, dichiarare, migliorare comecchessia i miei scritti: che quantunque destinati sieno, pel loro argomento, nella loro maggior parte ai dotti, tuttavia da parte mia desidero di soddisfare a tutti, sapendo che siamo a tutti debitori, a' sapienti e insipienti. Non credo però di poter soddisfare con tutto questo alle persone passionate. Oltrechè io non posso certamente cavarne tutto il profitto che bramerei dicendomi soltanto in un modo indeterminato che alcune espressioni possono riuscire d' inciampo ai giovani e superficiali. Se mi si facesse la grazia di dirmi quali sono queste espressioni, io farei di tutto per soddisfare a tutti i giusti desiderŒ. Una sola espressione voi mi accennaste come notata da taluno, quella dell' essere in universale. Ma questa espressione è così comune in S. Tommaso e in tutti gli Scolastici, che non parmi prezzo dell' opera il parlarne, giacchè non se ne può far senza nè in filosofia, nè in teologia. Voi sapete che il « Nuovo Saggio » è lo sviluppo di questa sentenza di S. Tommaso che ho posta come epigrafe in principio al volume II: « Obiectum intellectus est ens vel verum commune (Summ. I, 55, 1) ». Se non si possono indicare come pericolose e nuove altre frasi che di questa natura, io mi consolo grandemente e ne ringrazio Iddio. Umiliate dunque, se voi lo credete, tutti i sentimenti espressi in questa mia (e sono quelli che ho sempre avuto) al Santissimo Padre, e sopratutto ripetetegli la mia disposizione a uniformarmi in tutto e sempre e con allegrezza ai suoi giudizi, e, se fa bisogno, il mio fermo proposito di correggere, per quanto si stia in me, ogni mio detto che conoscessi, per qualunque sia rispetto o delle cose o delle parole, difettoso. Io mi ricordo vivamente di quanto dice S. Agostino a proposito di un elogio che fa Cicerone di un cotale, scrivendo che « « non ebbe mai proferita parola che volesse revocare » ». S. Agostino soggiunge: [...OMISSIS...] . Non è dunque probabile che io aspiri ad un tanto elogio. [...OMISSIS...] 1.54 Intendo benissimo tutte le vostre pene e i vostri combattimenti, e nello stesso tempo che ve ne sento tutta la compassione, porto fiducia che siano altrettanti mezzi, che adopera con voi l' amorosa Provvidenza del Signore per umiliarvi e così santificarvi. Sarà facile che sulla fine di luglio o in agosto passi da Milano, e allora verrò sicuramente a vedervi; intanto raccomanderò ogni cosa al Signore. La prima cosa, di tutte la più importante, è di non lasciare che venga mai e poi mai meno la confidenza in Dio. Scolpitevi nella mente queste due massime: 1 che non c' è mai nessun motivo ragionevole di diffidare di Dio , nè pure il peccato ; chè anzi il peccatore deve sempre buttandosi nelle braccia di Dio dire: « voi vincerete la mia iniquità, e per occasione del mio peccato s' accrescerà la gloria della vostra misericordia »; 2 che chi conserva la confidenza e la speranza in Dio, non si può perdere : tutti quelli che sperano in Dio non possono essere da Dio abbandonati, e però si salvano. Conviene dunque che vi prefiggiate di fare frequentissimi ed anzi continui atti di speranza e di confidenza, rendendovi questa maniera di pregare abituale; con questi atti vi laverete di continuo nel sangue preziosissimo di Gesù Cristo. La seconda cosa che vi prescriverei, se fossi vostro direttore, si è di evitare che il vostro pensiero non ricada troppo spesso sopra voi stessa. E` meglio non cercar tanto di sapere come si stia, perchè tante volte è impossibile il saperlo; Iddio solo lo sa, perchè è quegli che scruta i reni e i cuori. Col pensare troppo a sè stessi s' arrischia di fare dei giudizi falsi, che ci portino o all' avvilimento o alla presunzione; ovvero, rimanendo nell' oscurità, ci troviamo agitati dalla stessa incertezza. E` meglio dunque dire al Signore: « Io non mi conosco, voi solo mi conoscete; togliete dunque da me tutto quello che vi dispiace, e mi basta, vivo confidata in voi ». E dopo di ciò pensare sempre avanti, pensare a far bene e meglio, senz' altro pensare al passato. Anche quando un' anima avesse la disgrazia di offendere Iddio gravemente, deve pentirsi e confessarsi, e poi ricominciare a far bene, senza pensare più troppo a quello che è accaduto, dicendo: « Vi ho offeso, o Signore, ma ora non voglio offendervi, e se mi accadesse di nuovo la stessa disgrazia, confiderò ancora in voi, risorgerò per la vostra misericordia, e ricomincerò sempre di nuovo ». L' assoluzione sacramentale ha un potere infinito, perchè è un' applicazione fatta al peccatore dei meriti della passione di Cristo; e avendo Gesù Cristo istituito questo Sacramento senza limiti e non per una volta sola, ha mostrato la sua intenzione di perdonare senza limiti. Evitate dunque in ogni caso la soverchia tristezza che abbatte, e consolatevi nella infinita bontà del Salvatore. Una soverchia tristezza toglie le forze e fa venire a noia la vita spirituale; una moderata allegrezza accresce le forze e la rende piacevole. Distinguete tra quello che è di preciso dovere, e quello che omettendolo, non costituisce peccato alcuno. Certe volte, permettendolo Iddio, non si sente l' affetto alla divozione; ma questo non è peccato, perchè tante volte non dipende da noi, ma da disposizioni fisiche. Allora non c' è da fare altro, che sopportare con pazienza e aspettare la visita del Signore. Coraggio adunque, e vincerete e sarete consolata. [...OMISSIS...]

C'ERA UNA VOLTA ... :FIABE

657242
Capuana, Luigi 1 occorrenze

- Se una femmina quando avrà compiti i sette anni, dovrete condurla in cima a quella montagna e abbandonarla lassù: non ne saprete più nuova. - Consulterò la Regina. - Vuol dire che non ne farete nulla. Stretto fra l'uscio e il muro, il Re accettò. Il forestiero cavò di tasca una boccettina, che gli spariva fra le dita e disse: - Ecco il rimedio. Questa notte, appena la Regina sarà addormentata, Vostra Maestà glielo versi tutto intero in un orecchio. Basterà. Infatti, dopo nove mesi, la Regina partorì e fece una bella bambina. A questa notizia il Re diede in uno scoppio di pianto: - Povera figliolina, che mala Sorte! Che mala Sorte! La Regina lo seppe: - Maestà, perché avete pianto: Povera figliolina, che mala Sorte? - Non ne Fate caso. La Reginotta cresceva più bella del sole: il Re e la Regina n'erano matti. Quando entrò nei sette anni, il povero padre non sapeva darsi pace, pensando che presto doveva condurla in cima a quella montagna, abbandonarla lassù e non averne più nuove! Ma il patto era questo: bisognava osservarlo. Il giorno che la Reginotta compì i sette anni, il Re disse alla Regina: - Vo in campagna colla bimba; torneremo verso sera. Cammina, cammina, giunsero a piè della montagna e cominciarono a salire. La Reginotta non potea arrampicarsi, e il Re se la tolse in collo. - Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro. Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia. - Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro. Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia. - Babbo, che siam venuti a fare quassù? Torniamo indietro. - Siediti qui; aspetta un momento. E l'abbandonò alla sua Sorte. Vedendolo tornar solo, la Regina cominciò a urlare: - E la figliuola? E la figliuola? - Calò giù un'aquila, l'afferrò cogli artigli e la portò via. - Ah, figliuola mia! Non è vero! - Le sbucò addosso un animale feroce e andò a divorarsela nel bosco. - Ah, figliolina mia! Non è vero! - Faceva chiasso in riva al fiume e la corrente la travolse. - Non è vero! Non è vero! Allora il Re le raccontò per filo e per segno ogni cosa. E la Regina partì, come una pazza, per ritrovar la figliuola. Salita in cima alla montagna, cercò, chiamò tre giorni e tre notti, ma non scoperse neppure un segnale; e tornò, desolata, al palazzo. Eran passati sette anni. Della bimba non s'era più saputo nuova. Un giorno la Regina si affaccia al terrazzino e vede giù nella via quella vecchiarella tanto ricercata: - Buona donna, buona donna, montate su. - Maestà, oggi ho fretta; verrò domani. La Regina rimase male. E il giorno dopo stette tutta la mattinata ad aspettarla al terrazzino. Come la vide passare: - Buona donna, buona donna, montate su. - Maestà, oggi ho fretta; verrò domani. Il giorno dopo, la Regina, per far meglio, andò ad aspettarla innanzi il portone. - Maestà, oggi ho fretta; verrò domani. Ma la Regina la prese per una mano e non la lasciò andar via; e per le scale le domandò perdono di quella volta che non le aveva fatto l'elemosina. - Buona donna, buona donna, Fatemi ritrovar la mia figliuola! - Maestà, che ne so io? Sono una povera femminuccia. - Buona donna, buona donna, Fatemi ritrovar la mia figliuola! - Maestà, male nuove. La Reginotta è alle mani d'un Lupo Mannaro, quello stesso che diè il rimedio e fece il patto col Re. Fra un mese le domanderà: mi vuoi per marito? Se lei risponde di no, quello ne farà due bocconi. Bisogna avvertirla. - E il Lupo Mannaro dov'abita? - Maestà, sotto terra. Si scende tre giorni e tre notti, senza mangiare, né bere, né riposare, e al terzo giorno s'arriva. Prendete un coltellino, un gomitolo di refe e un pugno di grano, e venite con me. La Regina prese tutto quello che la vecchiarella avea ordinato, e partì insieme con lei. Giunsero ad una buca, che ci si passava appena. La vecchiarella attaccò un capo del refe a una piantina e disse: - Chi semina raccolga, Chi ti attacca, quei ti sciolga. Ed entrarono. Scendi, scendi, scendi, la Regina già si sentiva le ginocchia tutte rotte. - Vecchiarella, riposiamo un tantino! - Maestà, è impossibile. Scendi, scendi, scendi, la Regina non si reggeva più dalla fame. - Vecchiarella, prendiamo un boccone, mi sento svenire! - Maestà, non è possibile. Scendi, scendi, scendi, la Regina affogava di sete. - Vecchiarella, per carità, un gocciolo di acqua! - Maestà, non è possibile. E sbucarono in una pianura. Il gomitolo del refe terminò. La vecchiarella attaccò quell'altro capo ad una pianticina, e disse: - Chi semina raccolga, Chi ti attacca, quei ti sciolga. Cominciarono ad inoltrarsi. Ad ogni passo la Regina dovea lasciar cadere in terra un chicco di grano e la vecchiarella diceva: - Grano, grano di Dio, Com'io ti semino, vo' mieterti io. Il grano nasceva e cresceva subito, colle spighe mature che penzolavano. - Maestà, ora piantate in terra il coltellino e sputate tre volte; siamo arrivati. La Regina piantò il coltellino e sputò tre volte; e la vecchiarella disse: - Coltellino, coltellino di Dio, Com'io ti pianto, vo' strapparti io. Lasciamo costoro e torniamo alla Reginotta. Vistasi sola sola in cima alla montagna, s'era messa a piangere e a strillare; poi, povera bimba, s'era addormentata. Si svegliò in un gran palazzo; ma per quelle stanze e quei stanzoni non vedeva anima viva. Gira, rigira, era già stanca. - Reginotta, sedete, sedete! Le sedie parlavano. Si sedette, e dopo un pezzettino, cominciò a sentirsi appetito. Comparve una tavola apparecchiata, colle pietanze fumanti. - Reginotta, mangiate, mangiate! La tavola parlava. Mangiò, bevve, e poco dopo le vennero le cascaggini. - Reginotta, dormite, dormite! Il letto parlava. Era uno stupore. Così tutti i giorni. Non le mancava nulla, ma s'annoiava a star lì senza vedere un viso di cristiano. Spesso piangeva, pensando al babbo e alla mamma; ed una volta si mise a chiamarli ad alta voce, tra i singhiozzi: - Babbo mio! Mamma mia! Con che cuore mi lasciate qui, mammina mia! Ma una vociona le gridò: - Sta' zitta! Sta' zitta! Ranicchiossi in un canto, e non ebbe animo di più fiatare. Passato un anno, un bel giorno si sentì domandare: - Vuoi vedermi? E non era quella vociona. Rispose: - Volentieri. Ed ecco gli usci si spalancano da loro stessi, e di fondo alla fila delle stanze viene avanti un cosino alto un cubito, vestito d'una stoffa a trama d'oro, con un berrettino rosso e una bella piuma più alta di lui. - Buon giorno. - Buon giorno. Oh, bimbo mio, come sei bello! E lo prese in braccio e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola. - Mi vuoi per marito? Mi vuoi? La Reginotta rideva: - Ti voglio, ti voglio. E un altro salto per aria, prendendolo fra le mani. - Come ti chiami? - Gomitetto. - Che fai qui? - Sono il padrone. - Allora lasciami andare! Lasciami tornare a casa mia! - No, no! Dobbiamo sposarci. - Per ora bada a crescere! Gomitetto se l'ebbe a male ed andò via. E per un anno non si fece vivo. La Reginotta s'annoiava a star lì senza vedere un viso cristiano. Ogni giorno chiamava: - Gomitetto! Gomitetto! Ma Gomitetto non rispondeva. Un bel giorno le domandò di nuovo: - Vuoi vedermi? - Volentieri. In un anno dovea esser cresciuto un pochino: ma gli usci si spalancarono, e le venne innanzi sempre lo stesso cosino alto un gomito, vestito di stoffa a trama d'oro, col berrettino rosso sormontato da quella bella piuma più alta di lui. - Buon giorno. - Buon giorno. La Reginotta, nel vederlo lo stesso, rimase sorpresa. Lo prese in collo e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola. - Mi vuoi per marito? Mi vuoi? La Reginotta rideva: - Ti voglio! Ti voglio! Ma per ora bada a crescere. E qui un capitombolo per aria, prendendolo fra le mani. Gomitetto se l'ebbe a male e andò via. Ogni anno così; ed eran passati sette anni. Intanto la Reginotta s'era fatta una ragazza, che ci volevan quattro paia d'occhi per guardarla. Una notte non potendo prender sonno, pensava al babbo e alla mamma: - Chi sa se più si ricordano di me? Forse mi credono morta! E piangeva sui guanciali; quand'ecco sente buttar dei sassolini all'imposta della finestra. Chi poteva essere, a quell'ora? Si fece coraggio, saltò giù dal letto, aperse adagino adagino l'impòsta, e domandò: - Chi siete? Che cosa volete? - Son io, figliuola mia; siam venute per te! Dall'allegrezza stava per saltar dalla finestra. - Ascolta, figliuola - disse la Regina sotto voce. - Quel Gomitetto è il Lupo Mannaro. Ti s'è mostrato a quel modo per non farti paura. Ma ora che sei grande, fra qualche giorno t'apparirà col suo vero aspetto. Figliuola mia, non atterrirti. E se ti domanda: Mi vuoi per marito? rispondi di sì; altrimenti sarai morta; ne farà due bocconi. La prossima notte a quest'ora ci rivedremo. La mattina, la Reginotta udì la solita voce: - Vuoi vedermi? - Volentieri. Si spalancarono gli usci, ma, invece di Gomitetto, venne avanti il Lupo Mannaro alto, grosso, peloso, con certi occhiacci e certe zanne, che Dio ne scampi ogni creatura! La Reginotta si sentì mancare. - Mi vuoi per marito? Ti feci fare apposta per me. Lei tremava come una foglia. - Mi vuoi per marito? Più la Reginotta sentiva quella vociaccia, e più tremava e si smarriva. - Mi vuoi per marito? Voleva rispondergli: sì! Ma le scappò detto: - Oh, no! no! - Allora vien qui! E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela. - Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia! Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose: - Ti sia concesso! Sarai mangiata domani. La notte, all'ora fissata, lei s'affacciò alla finestra: - Ah, mammina mia! Mi scappò detto di no; sarò mangiata domani. - Fatevi coraggio! - disse la vecchiarella. E picchiò forte al portone. - Chi è? Chi cercate? All'urlo del Lupo Mannaro tutto il palazzo tremava. Son coltellino, Son piantato nella terra dura, Per difender la creatura. Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina, all'alba, venne fuori; e come vide il coltellino, si mordeva le mani: - Se trovo chi l'ha piantato, ne faccio un boccone! Cercò, frugò attorno, ma non trovò nessuno. All'ultimo chiamò la Reginotta: - Vien qua, strappami di terra questo coltellino: non ti mangerò più. La Reginotta gli credette, e strappò il coltellino. - Ed ora vien qui! E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela. - Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia. Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose: - Ti sia concesso. La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra: - Ah, mammina mia! Mi disse: strappa di terra questo coltellino, ed io glielo strappai. Domani sarò mangiata! - Fatevi coraggio! E la vecchiarella picchiò forte al portone. - Chi è? Chi cercate? All'urlo del Lupo Mannaro, tutto il palazzo tremava. Son frumentino, Son seminato nella terra scura, Per difender la creatura. Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina all'alba, venne fuori; e come vide il seminato colle spighe penzoloni, si mordeva le mani: - Se trovo chi lo seminò, ne faccio un boccone. Cercò, frugò intorno, ma non trovò nessuno. E la mattina dopo disse alla Reginotta: - Vieni qua: mietimi questo frumento; non ti mangerò più. La Reginotta gli credette, e si mise all'opera. Per lei non c'era malìa, e in una giornata poté facilmente terminare di mieterlo. - Ed ora vien qui! - Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia. Quegli stette un momentino incerto, e poi rispose: - Ti sia concesso, per l'ultima volta. La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra: - Ah, mammina mia! Mi disse: mieti questo frumento ed io glielo mietei. Domani sarò mangiata. - Fatevi coraggio! E la vecchiarella picchiò forte al portone. - Chi è? - urlò il Lupo Mannaro. Son refe fino Son attaccato alla pianta matura, Per difender la creatura. Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina all'alba venne fuori, e come vide il capo del refe legato alla pianticina, si mordeva le mani: - Vien qua; scioglimi questo refe dai due capi: non ti mangerò più. La Reginotta era stata indettata dalla vecchiarella. Non doveva fermarsi un passo, né mangiare, né bere, ma aggomitolare, aggomitolare e andare avanti. Sciolse quel capo, e lei avanti, aggomitolando, il Lupo Mannaro dietro. - Ripòsati, ripòsati! - Quando sarò stanca, mi riposerò. Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro. - Prendi un boccone, prendi un boccone! - Quando avrò fame mangerò. Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro. - Bevi un gocciolino d'acqua, un gocciolino! - Quando avrò sete, berrò. Eran già arrivati alla buca d'uscita. Come il Lupo Mannaro s'accorse che l'altro capo del refe era attaccato alla pianticina di fuori, cominciò a mordersi rabbiosamente le mani. E vista la vecchiarella, diventò bianco come un panno lavato. - Ah! La nemica mia! Son morto! Son morto! La Regina e la Reginotta si voltarono e, invece della vecchiarella, videro una bellissima signora, che pareva la stella del mattino. Era la Regina delle Fate. Figuriamoci che allegrezza! La Regina delle Fate prendeva intanto dei sassi, e li metteva l'uno sull'altro davanti la buca. - Sassi, sassi di Dio, Io vi muro e vo' smurarvi io! Murata la buca, la Regina delle Fate sparì. E quella brutta bestiaccia crepò di fame lì dentro. La Regina e la Reginotta tornarono sane e salve al palazzo; e un anno dopo la Reginotta sposò il Re di Portogallo.

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