Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonare

Numero di risultati: 14 in 1 pagine

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La tecnica della pittura

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Previati, Gaetano 5 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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. — La facilità del contorcefsi e dello spaccarsi del legno, e i danni che porta seco fecero già da gran tempo abbandonare l’uso di dipingere sulle tavole, una delle abitudini meno rispondenti a quel costante spirito di previdenza per la durabilità delle opere che distingue tutte le pratiche della pittura antica.

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La tela a gesso stropicciandola fra le dita non deve abbandonare il gesso — nè questo screpolarsi — cosa che denoterebbe nel primo caso una deficenza di colla, nel secondo un eccesso di imprimitura.

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Scomparso questo entusiasmo che essenzialmente proviene da una convinzione di bellezza nell’immagine concepita, manca la ragione efficiente dell’opera d’arte e lo stimolo a plasmarla pittoricamente, onde si vede più spesso l’artista abbandonare l’opera sulla quale si è disilluso di riescire, anzichè ritentare, disanimato, la prova.

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Le ragioni di clima per cui logicamente il processo ad olio doveva perfezionarsi ove più importava salvaguardare i colori dall’azione dell’umidità mancavano in Italia, dove l’olio non fu mai stimato necessario neppure in opere di decorazione murale, mostrandosi la tempera resistentissima; nè l’attrattiva dei colori poteva avere un’importanza decisiva ad abbandonare la tempera, mentre questa colla vernice finale si dimostrava di tale forza da competere col dipinto ad olio.

Pagina 92

Racconti 3

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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E un bel giorno si risolse di abbandonare il paese, di andar a dimenticare altrove, lontano, in qualche cura di villaggio colei che non gli lasciava aver pace, mandandogli a baciare le mani col ciabattino sagrestano. Il vicario capitolare lo vide ricomparire con spavento ogni mattina: - Monsignore non ha risposto? - Non ha risposto! E la sorella del vicario era tornata a brontolare: - Almeno si ripulisse le scarpacce prima di entrare! - Vedendo che monsignore non provvedeva, andò a fissarsi a Caltagirone, nella lurida stanzuccia di un luridissimo albergo; e ogni mattina, a ora fissa, si presentava nell'anticamera del palazzo vescovile, per l'udienza. - Monsignore deve farmi la grazia! - Ma non c'è un posto vuoto! - Da coadiutore; mi contento! Monsignore è stato ingannato; deve riparare l'ingiustizia che gli hanno fatta commettere! - Non posso fare ammazzare un curato per dare il posto a voi, figliuolo mio! - Monsignore deve farmi la grazia! - Un mese di supplizio per monsignore. Fatalità! La mattina che don Lucio Bucceri arrivava nel villaggio sperduto su le falde dell'Etna per insediarsi nella cura, si trovava colà un carrettiere del suo paese. - Ah ... - esclamò costui - monsignore vi ha regalato il «Braccaccio»? - E anche colà i nuovi parrocchiani dovettero presto convenire che il soprannome era ben trovato!

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all'ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l'impero, benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l' Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall'uno e dall'altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l'Arco. Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell'ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all'udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte. "Oh, Benedè!" esclamò riconoscendo Benedetto. "Qui, siete?" Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio. "Lo racconterete ai padri" diss'egli. "Direte ch'ero sfinito e che vi ho chiesto un po' di latte per amor di Dio." "Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!" fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. "Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!" Benedetto bevve. "Benedico Iddio" diss'egli "per la bontà vostra e per la bontà del latte." Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s'inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: "ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro." Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s'incamminò egli stesso verso Santa Scolastica. La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell' Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 6 occorrenze

E Roberto rimaneva ad ascoltare lo sfogo di quell'anima sensibile, divorata dall'amore, che pareva da un momento all'altro dovesse abbandonare il corpo. Ed era lei che Franco aveva chiamato a sparger di fiori e di lagrime il suo cadavere! La visita era durata due ore e Roberto, nello scender le scale, pensava con raccapriccio al grande, all'immenso egoismo di Franco che voleva morendo uccidere una povera creatura colpevole soltanto di amarlo. E il fratello allora gii apparve vile come quei Werther da strapazzo, che inducono una donna a farsi ammazzare da loro, esaltandola al pensiero di una riunione eterna nella morte, e quasi sempre tremano nello sparare contro se stessi e vi rinunziano o si feriscono leggermente. Povera donna! - esclamò, - se potesse dimenticarlo! ma non lo dimenticherà. Il cuore di Roberto era una di quelle arpe divine che vibrano al soffio di ogni umano dolore, che si commovono non in ragione della sventura maggiore o minore, ma del grado di resistenza dell'infelice che deve sopportarla. E Paola a gli occhi suoi apparve debolissima. Il sentimento era il perno della vita di quella donna, anzi era la vita stessa. Tutte le altre facoltà, lasciate sonnacchiose da una educazione sbagliata, erano subordinate a quello. Non lo sapeva. Paola non gli aveva fatto nessuna confidenza sulla vita anteriore al matrimonio, ma era sicuro che quella pallida creatura era cresciuta fra le mura claustrali di un convento, ove le tendenze appassionate dell' anima si erano manifestate ora nelle estasi della comunione con lo sposo celeste, ora nell'adorazione di San Luigi, ora nella passione per una compagna. La religione, questo balsamo delle anime forti, questo rifugio delle menti torturate dal dubbio, era stata un eccitamento troppo forte per quella sensitiva. Se le persone cui era affidata l'educazione di Paola, avessero capito il frutto che potevano trarre da quella sensibilità, avrebbero dato vigore alla mente della bambina, esercitandola in severi studi, costringendola a pensare più che a sentire, e nello stesso tempo con i! moto razionale, con l'aria, col cibo, avrebbero dato forza ai muscoli. Stabilito l'equilibrio fra quella triade di forze che costituisce la vita dell'individuo, data al sentimento una direzione più ragionevole, Paola sarebbe stata una donna onesta e utile, una di quelle donne che sono una benedizione per la famiglia, sulla quale spargono i tesori della loro tenerezza. Invece era una infelice; e un cenno di Franco sarebbe bastato a farne una colpevole. Ovunque guardava, Roberto non vedeva altro che vittime di una falsa educazione, che forze disperse a danno dell'umanità e del bene, che elementi buoni sviati dal grande scopo e convertiti in cagione di malessere sociale. Come benediva suo padre di averlo diretto, educato; di aver fatto di lui un uomo! E quanto era grande il desiderio di far del bene che lo animava, ma quanto sentivasi impotente dinanzi a tanti dolori, a tanti pervertimenti. Doveva limitare l'opera sua a Franco, pensare a lui solo per non sperdere le forze in altri tentativi che avrebbe dovuto abbandonare subito. Franco bastava per il momento. E tornando in camera scrisse al fratello una breve lettera ringraziondolo di quello che aveva fatto, dimostrandogli una calda gratitudine. Si protestava suo obbligato per togliere all'altro una parte dell'onere della riconoscenza, che spesso è grave a portare e infonde nell'anima del beneficato un sentimento di avversione per il benefattore. Non voleva che Franco provasse rispetto a lui, nessuna avversione; voleva poter spargere nel cuore di quell'indifferente i semi dell'affetto e sperava raccoglierne i frutti, non perché avesse desiderio di farsi voler bene da Franco, ma per nobilitarlo con un sentimento buono. In quella lettera accennò alla visita a donna Paola, gli descrisse lo stato lagrimevole in cui avevala trovata e lo esortò a scriverle una buona lettera, da amico vero, senza sentimentalità e senza lamenti, per calmarla ancora più e trattenerla dal commettere atti inconsulti che potessero comprometterla. Quando ebbe terminata quella lettera, Roberto si sentì preso da un sonno prepotente. Era il fisico che riprendeva i suoi diritti, che reclamava alcune ore di riposo, dopo due giorni di continua angoscia, di continua tensione della mente. Tutto si confuse a un tratto nel pensiero di Roberto e quasi macchinalmente cercò il letto, e si addormentò di un sonno pesante, scevro di sogni, che sono il ricordo confuso di certe impressioni, che il letargo del pensiero e del sentimento non riesce a dileguare.

Se domani, disgustato 0145 dagli ostacoli che incontro, io chiudessi lo stabilimento, voi dovreste andare in altri paesi, in cerca di lavoro, e forse emigrare in America, abbandonare le vostre famiglie. È dunque soprattutto l'interesse vostro che mi spinge a volere che l'attività non cessi a Selinunte. Aiutatemi, lavorate con amore, e invece di guardare quei pochi più fortunati di voi, fermatevi a considerare i più infelici, quelli ai quali il lavoro manca, che a turbe debbono abbandonare tutto ciò che amano, per recarsi a chiedere a una terra lontana quel pane che rifiuta loro la patria. Figliuoli, a quegli infelici pensate e il lavoro vi parrá lieve e forse lo spettacolo di tante miserie profonde vi farà benedire la mia operosità. Gli occhi di molti operai erano umidi di lacrime e il vecchio Federigo, quegli che soleva intonare la preghiera quotidiana, si alzò e fissando Roberto, disse: Non abbiamo bisogno di guardare i più infelici di noi, per benedirvi, padrone. Quanti sciagurati voi avete trattenuti sull'orlo del precipizio, quanti avete salvati! Questi fatti sono scritti nei nostri cuori. Voi siete il nostro padre severo e amoroso e i morenti si confortano pensando che voi non abbandonate le loro famiglie. Le vostre opere danno frutto, padrone; noi vi siamo devoti e l'azione malvagia di un perverso, di un compagno che rinneghiamo, ci ha fatto sentire meglio quanto vi siamo affezionati. Che Iddio vi benedica, o padrone, e benedica l'opera vostra! Un grido uscì da tutte le bocche, un grido lungo che commosse Roberto e riempì di lacrime gli occhi di Velleda. Le labbra di Giovanni rimasero chiuse e Costanza si fece livida. Franco aveva abbassato gli occhi. Una doppia razione di vino fu distribuita agli operai, i quali sotto il cocente sole meridionale uscirono lieti dallo stabilimento a frotte. E mentre in tante parti del mondo un grido di ribellione e d'odio usciva dal petto 0146 dei lavoratori, e tante fabbriche erano in fiamme, e tanti ribelli cadevano colpiti dalle palle dei soldati, su quella spiaggia della lontana Sicilia un nuovo vincolo d'affetto era creato fra il padrone e gli operai. L'opera d'amore li un cuore buono e di una mente illuminata trovava la sua alta ricompensa. Velleda s'era accostata a Roberto e gli parlava sommessamente, fissandolo. Franco li avvolgeva con uno -sguardo invidioso, che non sfuggi a Costanza. Ella fremè li gioia e disse fra se: Ah! so come vendicarmi!

I più strani pensieri le correvano alla mente; pensieri baldi di resistenze violente, di acerbe lotte; pensieri di fuga. di sparizione senza lasciare traccia di sé: ma tutti cadevano allorché il cuore le ricordava che non era sola, 0169 che non aveva il diritto di abbandonare un uomo buono, del quale aveva accettato l'affetto. Mentre stava così perplessa invocando un'idea cui attaccarsi, un'idea che la salvasse in mezzo a tanto sconforto, udì dei passi dietro a sé e si alzò spaventata. Siala vista del Lo Carmine la calmò. Come mai è divenuta così nervosa che si spaventa a ogni rumore? - le domandò. L'estate mi ha spossata, - rispose Velleda, - uia non è nulla e l'autunno mi renderà vigore. Volevo giusto parlarle, - disse il Lo Carmine, ma è sempre accompagnata e non bramo che le mie parole giano udite da altri. C'è forse qualche pericolo? - domandò ansiosamente. No, si calmi, ha i nervi agitati; anzi ... ! Sono stato a Trapani in questi giorni, e come ella sa, per tutto si prepara la lotta elettorale, benché il decreto di scioglimento della Camera non sia anche firmato. Ebbene, molti amici miei, persone anche influenti, vorrebbero che nella lista dei deputati moderati della provincia figurasse il nome del signor Roberto e mi hanno detto d'interrogarlo se si lascerebbe portare. Che cosa crede lei? Queste poche parole erano bastate a dare un altro avviamento ai pensieri di Velleda. Ritornata a un tratto padrona di sé, esaminava la situazione con calma. Naturalmente, il collegio che gli si offre sarebbe. Castelvetrano? - domandò ella Appunto. Non so se accetterà, ma sono quasi sicura che riu scirebbe se si portasse. Veda, l'avvocato Orlando, ministeriale, riuniva fin ora molti voti, perché vi era lo scrutinio segreto e per lui votavano in altre circoscrizioni della provincia. Ritornati al collegio uninominale, egli avrebbe pochi voti, perché non ha, base a Castelvetrano, dove il partito di sinistra è in minoranza. Sono 0170 tutti moderati o socialisti. I primi voteranno certo per il signor Roberto; i secondi, a meno che non portino un candidato proprio, che non riuscirebbe, darebbero i loro voti a un candidato d'opposizione piuttosto che a un ministeriale. In tutti i casi ci sarebbe dispersione di voti e per conseguenza ballottaggio, ma il risultato finale -sarebbe reiezione del signor Roberto. Questi stessi calcoli sono stati fatti dai miei amici di Trapani, ma ora si tratta di sapere se il signor Roberto accetterà. Vorrebbe ella interrogarlo, per evitarmi un rifiuto, o nel caso affermativo, preparare il terreno alla mia proposta? - Volentieri, - rispose Velleda, tutta infervorata da quell'idea. - Se posso, lo interrogo stasera e domani le darò una risposta per lettera. Allora il Lo Carmine si diede a esporre a Velleda il bene che Roberto avrebbe potuto fare a quel paese così abbandonato dal Governo. Prima di tutto bonificarlo, riprendendo dopo tanti secoli i lavori intrapresi da Empedocle; poi creare una colonia agricola nei terreni strappati alla palude e alla malaria, in terzo luogo ottenere del bilancio dell'istruzione pubblica maggiori fondi per gli scavi. Qui la volevo! - esclamò Velleda. - Dica la verità: ella desidera che un uomo colto, un archeologo, conoscitore di questi luoghi vada alla Camera, per ottenere che Selinunte esca dalla terra che la copre, perché lei possa frugare questa spiaggia in tutti i versi. Sarebbe forse un desiderio colpevole? - domandò il Lo Carmine, balbettando più del consueto. No davvero. Anzi è un'ambizione molto modesta ; le mie sono più vaste, più grandi. Lo scienziato non le domandò a che miravano quelle ambizioni; lo indovinava ed era sicuro che Roberto avrebbe accettato il mandato per compiacerla. Noi vi sorprendiamo! - esclamò Roberto mostrando 0171 la testa di dietro un muro basso. - Ah! ho capito! aggiunse rivolgendosi a Velleda scherzando. - Non è voluta venir con noi perché aveva un appuntamento col Lo Carmine! Il viso di lui mi dice che qui si tratta di un complotto. Sì, - rispose Velleda, - noi si cospira contro l'onorevole Orlando, il quale sarà in questo momento nella suo villetta, senza sospettare che dinanzi al mare due persone attentano alla sua felicità. Franco, che era sopraggiunte insieme con Maria, non capiva nulla; Roberto credere che si trattasse del processo, perché l'avvocato Orlando era appunto il difensore d'Alessio e disse : Io non devo saper nulla di questo complotto? Per ora no; più tardi forse. È curioso? - gli domandò ridendo Velleda. - Un poco. Tutti insieme si diressero verso casa. Roberto aveva pregato il Lo Carmine di pranzare con loro, così che quella sera il pranzo fu più animato. Velleda però era taciturna. Era bastato un sorriso di trionfo di Franco per agghiacciarle il sangue. Evitava d'incontrare lo sguardo freddo, sarcastico del duca, ma bastava la voce di lui per ferirla e barbaramente ripeteva a sé stessa, per risentire la vergogna dell'insulto : Mi ha baciata! Mi ha baciata! Era già notte alta, una notte quieta e serena, quando Velleda si alzò da tavola. Ella offrí il caffè agli ospiti e a Roberto e poi per non parlare con Franco, condusse Maria a letto. Le altre sere lasciava per solito a Costanza quella cura, ma quella sera volle spogliare da sé la bambina. Che cosa hai fatto oggi? - le domandò. Niente; mi sono divertita con lo zio Franco. Figurati; fingeva che io fossi grande e mi trattava come 0172 una signora. Mi diceva che ero bella, che avevo gli occhi come un'orientale, la pelle morbida e tante altre schiocchezze. E tu gli credevi? No! Che me ne importa di esser bella ora? Quando sarò grande, allora sarò duchessa. - Ma che duchessa! Egli non può trasmettere il suo titolo altro che ai proprj figli. - T'inganni, Leda: tu sai tutto, ma queste cose le sa meglio Franco di te. Il duca non lasciò a lui il suo titolo? - Perché era un maschio. Le femmine non ereditano titoli; esse portano il nome del padre e poi quello del marito; e se tu mi vuoi bene, Maria, la prima volta che lo zio ti parla di queste sciocchezze devi rispondergli che tu non hai bisogno di titoli, perché ti basta il nome onorato del babbo. Me lo prometti, Maria? S'era inginocchiata accanto al letto della bimba e la guardava con tale intensità d'affetto, che ella, attratta da quello sguardo, le buttò le braccia al collo, dicendole : Farò quello che tu vuoi; Leda, perché ti voglio tanto bene! Ora; dormi, cara, - disse, e chiamata Costanza ricornò in sala. Il Lo Carmine, già s'era alzato per andarsene. Bravo, - gli disse in modo da essere udita da Franco - Lei sa che devo parlare al signor Roberto. Gli parli subito e farà bene, - rispose l'altro. Il duca rimase un momento perplesso, ma poi si rassicurò pensando che del fatto della mattina non avrebbe letto niente a suo fratello, che si sarebbe fatta piuttosto ammazzare. Per via voleva confessare il Lo Carmine e per questo gli usò la cortesia di ricondurlo fino alla Casa dei Viaggiatori, ma il Lo Carmine non si fece confessare. Era 0173 uomo di poche parole ed aveva quella serietà di carattere che è uno dei tanti pregi dei siciliani; eppoi il duca non gl'ispirava nessuna simpatia. Franco rimase per alcun tempo a passeggiare sulla spiaggia, guardando la villa illuminata e specialmente la sala, nella quale scorgeva Velleda seduta vicino alla vetrata aperta. Non vedeva Roberto, ma ne indovinava la presenza, osservando che Velleda parlava animatamente come se cercasse di convincerlo di un fatto. Gli rivela tutto, lo aizza contro di me! - diceva perplesso e ansioso. - Perfida! Ma un momento dopo, vedendo Velleda che cessava di parlare e appoggiando la testa alla spalliera della poltrona sorrideva ascoltando tranquillamente ciò che rispondevate l'altro, si calmò. Non è di me che parla: c'è un altro mistero; una cosa che la fa felice. Se avesse narrato di me, avrebbe pianto, sarebbe andata in collera; invece ha una espressione severa sul volto; non ha astio! La conversazione fra Velleda e Roberto durava lungamente e Franco non sapeva scendere dal monticello di sabbia dal quale il suo occhio si spingeva dentro la sala. A un tratto vide Roberto alzarsi, accostarsi a lei, ma invece di curvarsi a baciarla, sollevò la mano che Velleda posava sul bracciale del seggiolone e se la portò alle labbra. Un momento dopo Roberto era in giardino, e chiudeva il cancello; dall'alto della terrazza Velleda gli gridava : Buona notte, mio buon signore! - e rientrava in sala per scomparire. Velleda aveva vinto le esitazioni di Roberto perché gli aveva detto: Io, che ho rasentato la gloria, non ho più ambizioni per me; tutte le mie ambizioni sono riposte in lei. Accetti e sarà eletto. Col suo ingegno, con la sua attività, con le larghe vedute e specialmente col suo cuore, 0174 che ha tutte le virtù più elette e si commuove a tutti i dolori, capisce tutti i bisogni dell'età moderna; potrà fare tanto bene. Lei, che è un solitario, un carattere integro e assolutamente puro, portando fra tanti utilitarj la sua rettitudine di giudizio e la sua coscienza retta, farà, dei proseliti. Non è possibile che non si manifesti una reazione; che un bisogno di probità e di onoratezza non si faccia strada nelle masse; e lei sarà l'apostolo di queste due virtù, il rigeneratore. Accetti! Ma saremo spesso divisi! - aveva osservai Roberto. È vero, - aveva risposto Velleda, - ma quello divisioni ci faranno meglio sentire l'affetto che ci lega. Accetti e mi farà felice! Roberto s'era lasciato convincere ed era stato in quel momento che Velleda aveva appoggiato la testa alla spalliera della poltrona, e, sicura della vittoria, aveva tracciato a Roberto tutto quello che poteva far di utile, specialmente nel campo della legislazione sociale, proponendo leggi per migliorare la condizione degli operai, per assicurare le famiglie in caso d'infortunio, per far cessare quell'odio di classe; che si accentua ogni giorno più contro la borghesia, la trionfatrice crudele del 1793. Sì Vellcda, io farò tutto quello che vuole, io mi lascerò guidare da lei, - aveva risposto Roberto e le aveva baciato la mano. Franco aveva assistito a quella scena, avevo udito Velleda dar la buona notte a Roberto, eppure non credeva alla purezza del loro affetto, e la sua fantasia eccitata glieli rappresentava ora stretti in un ardente abbraccio, ora dolcemente stanchi dopo lunghe ore d' amore, ma mai mai egli voleva ammettere che amandosi così profondamente, essi si fossero imposti un sacrifizio sovrumano. Anche quella sera Franco tornò stanco e irritato nel suo quartiere e penò molto prima di addormentarsi. 0175 Perché il Signorini non gli rispondeva? Ah! se avesse potuto scoprire una macchia sul passato di Velleda, l'avrebbe avuta in suo potere! Come sarebbe stato felice allora di sapere umiliata quella superba, di poterla piegare alle sue voglie, di vedersela dinanzi supplichevole, offrendo il suo amore in cambio del silenzio. La solita idea fissa lo torturava. Ora anche l'invidia per Roberto era meno viva; non lo invidiava più per la fortuna negli affari, per la stima di cui godeva, per quella superiorità che tutti gli riconoscevamo su di lui e neppure per i benefizj che Roberto gli aveva fatti ; lo invidiava soltanto per essersi fatto amare da Velleda. Questa invece non pensava a lui. Il passo che stava per dare Roberto dietro suo consiglio, le pareva così grave che ne esaminava con mente calma tutti i vantaggi e gli svantaggi, e in certi momenti si pentiva del consiglio, ma subito dopo ripensava alla nobile opera che egli avrebbe potuto compiere e ricacciava nel fondo dell'anima i dubbj. Fu in uno di questi momenti di fiducia che scrisse al Lo Carmine di comunicar pure ai suoi amici che Roberto accettava. Ella posò la lettera senza chiuderla sulla scrivania, per vederla appena desta e modificarla nel caso che il sonno le avesse dato un altro consiglio. Sia il sonno l'avvalorò, invece, nel suo proposito e la lettera fu recapitata la mattina presto al suo indirizzo.

Aveva tarilo sofferto moralmente, e ora spasimava per l'atroce dolore al capo, eppur non voleva morire, non voleva abbandonare Roberto e alla vita si aggrappava con disperata tenacia. Mi salvi, dottore, - diceva ogni tanto. La salveremo, - rispondeva don Calogero, serio e turbato. Egli le aveva fatto iniezioni di chinino, convinto si trattasse di perniciosa, le faceva trangugiare cognac, le aveva fatto fomente e applicato senapismi e l'accesso della febbre non cedeva; il termometro, che le metteva perché Roberto glielo aveva imposto, oscillava sempre fra quaranta e quarantun grado. Se la febbre persisteva con la stessa violenza, Velleda doveva morire, morire irremissibilmente. Dottore, mi salvi! - ripeteva ella, figgendo su di lui lo sguardo supplichevole. Ogni volta che Velleda rivolgeva al medico questa preghiera, Roberto sentivasi agghiacciare il sangue, e, posando gli occhi in quelli di lei e stringendole la mano. cercava d'infonderle coraggio. Voglio vivere! - gridò la malata dopo una scossa violenta e poi ricadde col capo abbandonato sui guanciali e chiuse gli occhi. Roberto, spaventato, le prese la fronte fra le mani e le accostò la bocca alla bocca per sentire se respirava ancora, Vive! - esclamò, e due lagrime mute gli scesero lungo il viso. Egli non aveva mai passato una notte così straziante, così angosciosa, mai! Dopo quell' accesso, Velleda non riaprì gli occhi. Respirava affannosamente e pareva assorta in una specie di letargo. L' aria, entrandole direttamente nella gola, produceva un lieve gorgoglio, come un rantolo cadenzato, che Roberto non poteva udire. Dio, come si sentiva isolato su quella spiaggia lontana, senza soccorsi della scienza, senza poter calmare la sua ansia, senza poter chiamare al capezzale della malata tutti i medici possibili; a fine di trovarne uno almeno che sapesse suggerire il rimedio pronto, il rimedio sicuro! Vedeva don Calogero dubbioso, ricorrere ogni momento alla farmacia, chiedendo forse il suggerimento al cartellino di una boccetta; lo vedeva preparare ora una ricetta e ora un'aura, incerto forse sulla natura del male, che egli al solito aveva battezzato per infezione malarica, scosso nella sua fede nel chinino, che non faceva punto scemare la febbre, perplesso di fronte a certi sintomi che non sapeva spiegare. Quel sonno stesso lo sgomentava e a un certo punto; rialzando gli occhi dal volto alterato della malata, incontrò lo sguardo di Roberto. È imminente il pericolo? - domandò questi con voce strozzata. Non so, non so nulla, le idee si confondono; speriamo nelle forze dell'inferma. Segui a queste parole un lungo e penoso silenzio; il medico non esperimentava più rimedi, solo rinnovavate il ghiaccio sulla testa e usciva ogni tanto per andarlo a spezzare in una stanza di toilette, dove lo aveva fatto megere; Saverio si era addormentato sul ripiano delle scale e Roberto rimaneva solo presso la malata, solo a piangere senza neppure avvertire quelle lagrime, che dal cuore gli salivano agli occhi. Ora, Velleda, da rossa si era fatta livida, le labbra eransi scolorate e gli occhi chiusi parevano due globi scuri in mezzo a quel pallore terreo del volto. Ogni tanto una recrudescenza di dolore, o un brivido la faceva trasalire e ognuno di quei sussulti strappava a Roberto nuove lagrime. Gli occhi di lui erano velati dal pianto, la sua anima era immersa in un dolore infinito. Avrebbe dato la vita per veder risorgere quella creatura adorala e non poteva far nulla; - nulla! Umiliato da quella impotenza; chinava il capo non rassegnato, ma affranto, sentendo tutta la insufficienza dell'amore, tutta la insufficienza della volontà. A un tratto Velleda fece un movimento con la persona e da supina si mise di fianco; allora il gorgoglio cessò e lentamente le labbra si chiusero. Dottore, - urlò Roberto, assalito da un dubbio atroce, che non poteva esprimere con parole. Don Calogero prese il polso dell' inferma e dopo un momento disse : Le pulsazioni si fanno più regolari, la febbre accenna a declinare. Un lieve filo di speranza s'insinuò nel cuore di Roberto a quelle parole e nuove lagrime gli scesero lungo le guance. Una di quelle cadde sulla mano di Velleda; ella aprì gli occhi, fissò Roberto, e gli sorrise. Oh! quel sorriso! La vista del sole per un cieco non potrebbe procurargli piacere più intenso, gioia più grande che quel -sorriso non procurasse a Roberto. Ella, con quel sorriso gli aveva affermato che viveva, che voleva vivere per amarlo. Dopo, Velleda richiuse gli occhi e si assopì, e Roberto rimase a vegliarla con lo sguardo fisso in lei, con l'anima anelante, ma piena di speranza. I primi albori del giorno nascente penetrarono in camera senza che Velleda si destasse. Il respiro si era fatto eguale e le labbra avevano ripreso una lieve tinta vermiglia. Don Calogero, vedendola calma, si era gettato sul lettino di Maria e dormiva, ma Roberto non sentiva il sonno, non sentiva la stanchezza; sentiva di vivere per quell'affetto immenso che lo legava a Velleda, accresciuto dal timore di perderla. Egli era seduto per modo da volgere le spalle alla porta; udendo un lieve rumore alzò gli occhi e vide, nello specchio che aveva davanti, la figura di Costanza. La donna, credendo che il padrone dormisse al pari di don Calogero, si fermò e, vedendo l'inferma riposare tranquilla, volse su di lei un'occhiata sinistra, un'occhiata che non sfuggì a Roberto, il quale ebbe una percezione subitanea, e non ben definita, dei sentimenti della nutrice, che gli apparve sotto un nuovo aspetto. Egli si volse improvvisamente per non darle il tempo di ricomporre il viso e le domandò: Che cosa significa il tuo sguardo, Costanza? La donna, tremò vedendosi scoperta e tacque. Che cosa significa il tuo sguardo? - ripetè Roberto. Nulla, signore. Non mentire, - le disse accostandosi e parlandole con la bocca accosto al viso. - Che cosa ti ha fatto la signora? Nulla, poveretta, nulla. Ho dormito vestita, mi sono svegliata facendo un brutto sogno e avrò avuto la faccia sconvolta. Poveretta, sta meglio, eh! Roberto non insisté sulla domanda. La sua natura rifuggiva dall'ammettere il male e il cuore fiducioso accettava ogni giustificazione che avesse apparenza di verità. Del resto; Costanza si mostrava così premurosa per Velleda e in punta di piedi andava riordinando la stanza e faceva sparire tutto ciò che attestava delle cure affettate della notte, chiudeva le imposte perché la luce troppo viva non turbasse il senno della malata, e a vederla così attenta, così silenziosa; pareva una creatura, devota. Roberto si alzò per andare a destar Maria con un bacio, come le aveva promesso, e la perfida creatura, non sentendosi più osservata, si chinò su Velleda e mormorò fra i denti: Vivi, vivi pure per la mia vendetta, e io saprò convertire la tua vita in una agonia, in un supplizio! -Al ritorno di Roberto, Costanza era ritornata umile e. premurosa e soltanto dietro invito di lui lasciò la camera per andare a vestir Maria. Ma prima di uscire gli raccomandò di chiamarla se c'era bisogno. Don Calogero, dopo un sonno di, poche ore; si destò e dal polso capì cubito che la febbre non avrebbe continuato con violenza. "Declinava, anzi; rapidamente e il viso della malata era coperto di sudore. Credo che non ci sia più nulla da temere; andate pure ai vostri affari; - disse a Roberto. L'assenza del Varvaro obbligava Roberto a recarsi allo stabilimento. Egli non pensava più alla seduta, eletforale del giorno precedente, ne al discorso dell'Orlando ; tutto spariva dalla sua mente, eccettuato la malattia di Velleda. Col cuore riaperto alla speranza, egli si diresse dunque alla vasta fabbrica che sorgeva sulla riva del mare e dalla quale s'inalzavano pennacchi di fumo. Appena vi pose il piede, traversò con passo rapido il piazzale e andò nel suo studio ad aprire la posta. I capi-officina, vedendolo giungere, si erano affrettati a recarsi da lui. Che cosa volete? - domandò loro Roberto. Padrone, gli operai hanno letto il discorso dell'avvocato Orlando. Ebbene? Essi c'inviano per sapere se sono vere le intenzioni che vi si attribuiscono. Vere! - esclamò Roberto meravigliato. - Non mi conoscete forse? Non vi ho provato che il mio scopo consiste nel dar lavoro e nel far guerra con questo alla miseria del paese? Come può nascervi un sospetto sulle mie intenzioni? I capi-officina uscirono per riferire le parole del padrone, ma esse non distrussero il sospetto destato dallo affermazioni dell'Orlando. Quando lo avremo eletto, - diceva Giovanni ai compagni, battendo svogliatamente sui cerchi dei fusti, questi li farà fabbricare con le macchine che ha già pronte, per nulla non ha fatto quella spesa. E i falegnami ripetevano con rabbia: - E' vero; per nulla non ha fatto quella spesa! La stessa scena avveniva sul piazzale fra quelli che rotolavano i fusti, nei lunghi magazzini, dove gli operai travasavano il vino. Quando due si incontravano; accennando gli elevatori già montati accanto ai pozzi; dicevano: Quando gli avremo dato il voto, metterà in moto quelli e noi saremo licenziati. E questo timore, che si traduceva in malcontento; aveva invaso tutti e delle macchine; del tram, di quelle innovazioni che avrebbero ridotto a una proporzione ineschinissima il numero dei lavoranti, si parlava da tutti, e il lavoro languiva. Roberto, dopo aver letto le lettere, andò a sorvegliare gli operai. Perchè questa rilassatezza? - domandò a Giovanni. Perché è inutile lavorare, quando sappiamo che ci manderete via, padrone. Sì, i pigri non fanno per me e neppure i turbolenti, rispose egli. Udiste? - domandò Giovanni ai compagni appena Roberto fu uscito. - Saremo mandati via; l'Orlando aveva ragione. Roberto non aveva prestato se non una fugace attenzione a quegli incidenti: il suo pensiero era inchiodato presso l'inferma, presso la sua cara. Egli salì un momento da Franco, per dirgli che l'avvocato di Roma aveva avuto una proposta di acquisto per una vigna sulla via Salaria. Rispondigli tu; io non ho tempo ne voglia, aggiunse. Sta meglio la signora? - disse Franco. Credo, spero; ma ora deve giungere il professor Angelini da Palermo e io corro alla villa. Nonostante le esortazioni dei capi-officina, gli operai non lavorarono più non appena il padrone ebbe lasciato lo stabilimento. Soltanto il vecchio Federigo e pochi altri portavano il vino da un punto all'altro dei vasti magazzini deserti. L'officina dei fusti era vuota e Giovanni e gli altri malcontenti erano adunati sul piazzale, discutendo. Franco vedevali dalla finestra di camera sua e gioiva.

In quel momento sentì suonare una campana e vide tutti gli operai abbandonare il lavoro e correre alle fontane del cortile a lavarsi le mani e la faccia e poi dirigersi in fila di quattro verso la porta d'uscita, di fronte al mare. Dove vanno? - domandò Franco. Vanno a desinare. Venga ad assistere al loro pasto. Franco uscì pure e seguì il Varvaro verso una tettoia addossata all'ultimo magazzino di sinistra, ma quando fu a poca distanza ristette colpito di meraviglia. Gli operai in numero di circa trecento, erano seduti davanti a tre lunghissime tavole di pietra. In fondo vi era la cucina di ferro e diverse donne erano intente a colmare di maccheroni un numero grandissimo di scodelle di maiolica, mentre altre tagliavano pezzi di carne lessa e ne mettevano due fette in ciascun piatto ove già era stato posto un contorno di sedani. Le scodelle, a mano a mano che erano ricolme, venivano collocate sopra enormi vassoi di legno bianco, che due donne giravano intorno alle tavole. Ogni operaio aveva dinanzi a se un mezzo litro di vino e due pagnottelle di pan bianco. Quando la pasta era già stata servita, giunse Velleda insieme con Maria. Gli operai si alzarono rispettosamente. Non credevo d'incontrarla qui, - disse Franco alla signora. Il signor Varvaro dunque non disimpegna bene il suo ufficio di cicerone, - rispose ella in tono scherzevole, - altrimenti le avrebbe detto che vengo qui ogni giorno ad assaggiar le pietanze e che ho assuefatto anche Maria a questa ispezione quotidiana, che si estende pure agli utensili di cucina. Voglio esser sicura che i nostri buoni lavoranti mangino roba fresca e sana, cucinata in recipienti puliti. Infatti Velleda e Maria si scostarono da Franco e andarono verso i fornelli, ove furono presentati loro due piatti con un poco di pasta, un pezzetto di carne col contorno. Franco andò incontro a Velleda domandandole: - - Mi dica, signora, è anche questa una creazione di Roberto? No, le cucine sono opera mia. Quando giunsi rimasi dolorosamente colpita vedendo che nell'ore del riposo gli operai mangiavano pane e ulive, pane e sedani, e spesso il loro companatico consisteva in un paio di arance. Allora pensai che la cucina economica sarebbe stata per loro una benedizione, e tanto dissi e tanto feci, che indussi il signor Roberto a costruire questa tettoia e a comprare la cucina economica che è là. Ma era fatto il meno; occorreva avere le derrate a un prezzo discreto. Al vino ci pensa il signor Roberto, per il pane creai un piccolo forno, gli erbaggi crescono in abbondanza negli orti dipendenti dallo stabilimento, il pesce si pesca ogni giorno qui all'amo sulla gettata o con le barche; per la carne e per il resto feci appalti con i fornitori di Castelvetrano. Da principio pochi erano gli operai che volevano pagare trenta centesimi il giorno per il desinare e i più preferivano mangiar poco e male. Ma con l'andar del tempo, tutti si sono convinti che il cibo è buono e non vi è un operaio che non venga qui a mangiare. Anzi, ora ci vengono pure quelli degli scavi, così abbiamo circa trecentoventi bocche da sfamare tutti i giorni con meno di cento lire. Ma si arriva in fondo all' anno facendo qualche economia, che servirà a dotare le figliole degli operai. Questa festa è fissata all' anniversario della fondazione dello stabilimento ed ella vedrà allora suo fratello sotto un aspetto nuovo; quello di educatore di questi uomini, educatore morale e civile. Franco si morse le labbra. Era un tormento continuo cui lo sottoponevano cantando sempre le lodi di quel fortunato. Velleda, almeno, avrebbe potuto risparmiargli quella continua umiliazione! La signora non badava al dispetto del duca; ella era andata a guardare i recipienti di cucina e poi, china sopra una piccola tavola, scriveva la lista del desinare per il giorno seguente e firmava i buoni per i fornitori. Quando ebbe terminata questa occupazione, prese Maria per la mano e la fece salire su una sedia, in testa alla tavola centrale. Gli operai, intanto, avevano terminato di mangiare e vedendo la bimba ritta, si alzarono pure. Ella, con la sua vocina chiara, disse: Fratelli nel Signore. Io v'invito a ringraziare Iddio del cibo che vi ha concesso. Uno degli operai, un vecchio con la barba bianca, intonò il "Paternostro" e tutti gli altri gli fecero coro; tenendo la testa china. Signore, riprese la bimba allorché l'ultima voce ebbe pronunziato: " Amen " - benedite questi lavoratori nel loro lavoro, confortateli nelle loro pene e infondete nei loro cuori la speranza in una vita migliore che li aiuti a sopportare le traversie. Maria tacque e lo stesso operaio con la barba bianca, che aveva recitato il " Paternostro ", il vecchio Federigo, disse: Signore, benedite questa terra, benedite il nostro Re e tutta la casa Reale, illuminate i ministri che ci governano, benedite il nostro padrone che ci da lavoro e tutta la sua famiglia, e proteggete dai mali pensieri tutti noi. " Amen " - risposero gli operai e lentamente uscirono dalla tettoia seri e composti. Franco era stato colpito dalla solennità di quella semplice cerimonia e non sapeva più in che mondo fosse. Le questioni sociali, gli odii di classe gli tornavano alla mente e domandava a se stesso con qual mezzo suo fratello era riuscito a mettere in tacere le une, a far sparire gli altri, a stabilire un legame d'affetto fra lavoratori e proprietario. Velleda leggeva in volto a Franco questi pensieri e invitandolo a seguirla alla villa per la colazione, gli disse: Suo fratello è giunto al risultato di cui è stato spettatore con la giustizia e l'affetto. Questi popolani, mal guidati, sono capaci di tutte le aberrazioni: oppressi, si ribellano atrocemente, ma, come tutti i popoli primitivi, hanno il sentimento della giustizia e della riconoscenza e a quello ubbidiscono. Non creda che siano tutti santi; undici di essi hanno scontato in galera delitti di sangue, trentadue sono ammoniti, quaranta sono ascritti a circoli socialisti: ma qui nessuno osa dire una parola. In passato accadevano ogni momento furti, eppure gli operai erano frugati all' uscire dallo stabilimento. fiancavano utensili, fusti di vino, ogni cosa. Un giorno il signor Roberto li riunì nel cortile e disse loro: " Non vi chiedo di rivelarmi il nome dei ladri, perché la delazione fra compagni è una viltà; vi chiedo soltanto di indurre i colpevoli a desistere dal furto. Se continuassere, saprei scoprirli, ma non voglio, perché mi ripugna fissar gli occhi in faccia a un ladro. Da oggi abolisco la visita alla porta, ma vi prometto che non userò più nessuna indulgenza verso i delinquenti. Vuoi credere, continuò Velleda, - che non è più mancato un chiodo, nulla? Il signor Roberto conosce la via del cuore di questi uomini e li commuove. Essi sanno del resto che nel momento del bisogno possono ricorrere a lui. Se un operaio si ammala, - e la malaria infierisce qui per più mesi, - ha il salario, medico, medicine, carne e vino; se muore, la famiglia non trema. È vero che il guadagno che da lo stabilimento è assorbito in parte da queste piccole elargizioni, ma suo fratello ha la soddisfazione di veder che trecento famiglie vivono bene, mercé la sua attività, ed è questa una gioia che non ha eguale nella vita. Ella ammira molto mio fratello? - domandò Franco a denti stretti. Lo ammiro come l'ideale fatto realtà, come si ammira l'uomo che ha un cuore capace di sentire tutti i dolori altrui e d'indovinare tutte le aspirazioni. Nessuna creatura ha mai mangiato il pane di un altro con maggior devota riconoscenza; se io credessi che la mia vita potesse essergli utile, gliela darei con la serenità di una martire, benedicendolo per il dono che si degnerebbe accettare da me. Com'è innamorata di Roberto! - pensò Franco, e come si vanta di quest'amore! Parlando erano giunti alla villa. Nel viale dei palmizi li attendeva il sotto direttore degli scavi, il Lo Carmine, che Velleda aveva invitato a colazione e che presentò subito a Franco. Era un ometto piccolo, brutto, col naso butterato e vestito semplicemente di tela; aveva in testa uno di quei caschi di paglia, coperti di tela, che usano gl'inglesi nelle Indie e i viaggiatori africani. Egli goffamente offrì il braccio a Velleda, con la quale pareva in grande dimestichezza e Franco rimasto a dietro con Maria non potè trattenersi dal dire: Come è buffo quel vostro amico! Ti pare, zio Franco? Io non me n'ero mai accorta, è tanto buono e vuol tanto bene al babbo. La signora Velleda non ti ha mai fatto osservare che era un uomo buffo, volgare, impresentabile? No, Leda mi dice che ha un carattere onesto, che è molto studioso e molto dotto, ma della sua apparenza non abbiamo mai parlato. Dunque è buffo, e in cosa consiste questa sua ridicolaggine, zio Franco? Nel modo di camminare, di salutare, di vestirsi; ti pare che somigli a tuo padre o a me? No, - rispose la bambina. - E ora che me lo fai osservare, par buffo anche a me; mi dispiace perché gli voglio bene. La colazione era preparata nella stessa sala ove avevano pranzato la sera prima. Le grandi finestre erano chiuse a motivo dello scirocco e in questa stanza protetta dalle piante e rivestita di maiolica, regnava un fresco delizioso, mentre fuori l'afa era opprimente. Franco respirò e prese il posto assegnatogli da Velleda, fra questa e Maria, che egli si divertiva a trattar da signora facendola ridere. La conversazione si aggirava sugli scavi intrapresi nell'antica cittadella di Selinunte e ai quali lavoravano in quel tempo appunto. Il Lo Carmine, che era leggermente balbuziente, nel parlare di una cosa che stavagli tanto a cuore, faceva sentir maggiormente quel difetto di pronunzia e non riuscendo a pronunziare le parole speditamente, s'inquietava e diventava rosso. A un certo momento, in cui il professore non riusciva a dire che in quella mattina appunto aveva scoperto il cardine della porta della cittadella che metteva al mare, Franco guardò Maria, e la bimba si mise a ridere. Velleda aveva capito tutto; con una occhiata la richiamò al dovere e poi continuò la conversazione, alla quale Franco restava indifferente. Però accorgendosi che Velleda se ne affliggeva per il buon professore, si rivolse a Lo Carmine, e gli disse bonariamente : Io, caro professore, sono un grande ignorante e le chiedo scusa di non averle prestato tutta quella attenzione che meritava. Giungo da una terra classica per eccellenza, ma noi, romani moderni, del classicismo ci occupiamo poco e non guardiamo neppure i ruderi che attestano il grande passato della nostra città. Qui è peggio ancora; vedo colonne abbattute, sento parlare di scavi, di acropoli e di cittadelle, ma non so neppure che cosa fosse Selinunte in antico; vuole farsi mio maestro e mia guida attraverso l'antica città? Quando mi avrà istruito un poco, le prometto che non sarò più distratto come dianzi. Il duca aveva posto tanta grazia signorile nel confessare la propria ignoranza, che il professore ne rimase soggiogato e si affrettò a mettersi a disposizione del giovane. La prima visita ai templi fu fissata per la mattina dopo alle sette, poiché il sole era troppo caldo nelle ore successive. Zio Franco, - disse Maria quando si furono alzati da tavola, - perché non insegni anche tu qualcosa al professore? Che cosa potrei insegnargli? Egli è tanto dotto e io non so nulla. Insegnargli a mangiar meglio. Ah! birichina, te ne sei accorta anche tu della sua goffaggine. Oggi per la prima volta, zio; prima no. Come mai ridevi a tavola? - domandò Velleda alla piccina quando furono sole. Non lo so, - rispose arrossendo Maria. Vedrai che se ci pensi, te ne rammenterai. Ah! si; ridevo perché lo zio mi aveva guardato. Ridevi di lui? No; sai il Lo Carmine balbettava, e io non potevo star seria. Ma ha sempre balbettato e tu non hai mai riso ; mi dispiace veder mettere in ridicolo una persona per bene; tuo padre sarebbe dispiacentissimo se lo sapesse. Leda, non glielo scrivere, non lo farò più. Lo zio Franco mi aveva fatto osservare che il Lo Carmine era tanto buffo e quando l'ho visto arrossire, ho riso. Quella influenza malsana, che Roberto temeva per Maria, ecco che già manifestavasi. Oh quel Franco! Bisognava tenerlo lontano, assolutamente lontano, se no avrebbe avvezzata falsa la piccina; avrebbe disseccato in lei ogni sentimento di generosità, sviluppando gl'istinti malvagi che sono allo stato latente nel cuore di ogni bimbo. Toccava a Velleda a difenderla, quella piccina; toccava a lei; ma come fare? In preda a questi pensieri ella rimase triste tutto il giorno e non ebbe la forza di scrivere a Roberto una lettera serena. Aveva il presentimento che la presenza di Franco sarebbe stata fatale a tutti e non voleva che la penna la tradisse. Per questo annunziò con un telegramma l'arrivo di Franco e spedì la lettera tedesca di Maria, senza farvi nessuna postilla, riserbandosi a scrivere il giorno seguente.

Negli anni trascorsi nell'attesa di una parola d'amore, donna Paola sarebbe stata pazza di gioia se Franco le avesse detto di abbandonare il marito, di calpestare tutte le convenienze sociali, pur di appartenergli; ma perché, perché ora non provava nessuna gioia, anzi si sentiva invasa da una mortale tristezza? Ecco; io lo so perché non posso rallegrarmi. Franco non mi ama. In un momento di tenerezza egli ha avuto pietà di me. Egli vuoi darmi una consolazione, vuol farmi l'elemosina di una parvenza d' amore. Poi mi dimenticherà. Ma non fosse che una felicità fugace, io la voglio gustare; poi ... poi io lo amerò tanto da intenerirlo e legarlo a me. Questo pensiero la consolava ed ella lasciava il cantuccio solitario per avvicinarsi a lui. Mentre gli si accostava, lo vide prendere per la mano la bella Guendalina, dicendole : Principessa, facciamo un boston? Io desidero ballare con lei stasera: sarà l'ultima volta che balleremo. Per quest'anno - ribattè la principessa. La conversazione era stata udita dalla marchesa Paola. Tutta la sua serenità era svanita a un tratto e stava per ritornare al suo cantuccio, quando il conte Lewes la invitò a ballare. Il maggiore di Bellegarde s'era messo al pianoforte e già preludiava. Il duca cinse la vita della principessa di San Secondo e dette il segnale del ballo. Soltanto verso le due gli invitati del duca di Astura lasciarono il "palazzo di via Veneto. Eranco accompagnò le signore nell'anticamera, e nel mettere il mantello sulle spalle di Paola le susurrò nell'orecchio: Si rammenti, marchesa, domattina alle undici; dal cancello del giardino. Verrò, - rispose lei trasognata. Ora, - disse fra sé il duca di Astura, - il libro della vita si chiude. Prepariamoci a morire, - e con passo sicuro salì nella sua camera.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Il maestro di scuola non credeva ben fatto di abbandonare i suoi scolari; ma l'am- miraglio e i quattro sapienti appoggiarono l'idea della cuoca. Fu sbarcato il maestro, e la nave partì. L'incrociatore mandato incontro alla nave di Bengodi la oltrepassò la notte senza neppur vederla, e la mattina l'ammiraglio guardando con un cannocchiale l'orizzonte, esclamò: - Ora siamo salvi; ma quale scopo daremo al nostro viaggiò? - I sapienti proposero di fare un viag- gio di scoperta scientifica, e l'ammiraglio accettò. Ma nessuno sapeva quale scoperta fare. I filosofi pensavano; l'ammiraglio, se- duto a poppa, coi trampoli celesti e rossi nell'acqua, pensava; la cuoca, mentre fa- ceva il pranzo e puliva la coperta, pen- sava. Dopo diverse ore l'ammiraglio, rivol- gendosi, vide i sapienti col capo nel sacco. Gli dissero che pensavano meglio al buio. Passarono i giorni, e i sapienti col capo nel sacco, pensavano sempre; l'am- miraglio aveva sempre i trampoli nell'ac- qua, e la cuoca cucinava e pensava. Quando il bastimento non aveva il vento in poppa, essa moveva il timone a destra e a sini- stra, e così modificava il corso della nave. - Se sapessi quanti anni ha il minore di quegli aristocratici, - disse un giorno l'ammiraglio —potrei stabilire quanto dob- biamo ancora navigare prima che siano grandi. Allora andremo a prenderli per condurli a Bengodi. - La cuoca si rammentava che il minore di quei ragazzi aveva dieci anni, e l'am- miraglio fissò che dovevano navigare sette anni precisi. E così fecero. I sapienti col capo nel sacco si lambiccavano il cervello per fare una scoperta utile. Il giorno dopo gli aristocratici erano stati rinchiusi nelle stanze più belle del palazzo reale, la Regina aveva mandato loro un messo per dire che l'idea di mettere il capo nel sacco era molto divertente, e che sarebbe loro molto tenuta se volevano mandarle il modello dei sacchi. Il messag- giero aveva cesoie, carta e spilli, e i ra- dazzi tagliarono un sacco coi fori per gli occhi, il naso, la bocca e gli orecchi, e mandarono il modello alla Regina, la quale ne fece due per le sue serve, e li mise loro in capo, ridendo come una matta. Il Re vide quelle serve in anticamera e fu spaventato. Subito adunò il consiglio dei ministri. - Siamo minacciati da un gran pe- ricolo, - disse quando tutte le porte furono chiuse. - Vorreste vivere con la testa nel sacco? Per me, credo sia meglio star fermi per sempre. Il bastimento che non potem- mo catturare ritornerà carico di sacchi, e fra poco ogni testa sarà messa in un sacco. Già si vedono i segni dell'avvicinarsi di quel giorno nefasto. Benchè quei pericolosi individui che inventarono quel supplizio siano rinchiusi, due serve del mio palazzo hanno già la testa nel sacco. - Un grido d'orrore accolse le parole del Re. Fu stabilito, dopo lunga discussione, che una sentinella fosse posta in vedetta sulla torre più alta della città, per scoprire l'avvicinarsi del bastimento; nuove guardie furono collocate alle porte degli aristocra- tici, e fu ordinato che la città fosse visi- tata per vedere se si scoprissero nuovi casi d'insaccamento. Gli aristocratici incominciarono ad es- sere molto malcontenti. Benché non man- casse loro nè da bere nè da mangiare, ed avessero ogni specie di balocchi, pure erano stanchi di sentirsi prigionieri. - Vi domando che affare è questo? - disse Codino. - Io non intendo star più qui. Andiamocene. - Ma come faremo ad andarcene? - chiesero gli altri. - Vedremo se si può uscire. Qualun- que cosa è preferibile a questa prigionìa. - Dopo lunghe discussioni, stabilirono di fuggire. Le finestre non erano molto alte da terra, ma sempre troppo alte per fare un salto; e nelle stanze non vi era nulla di solido che potesse far le veci di una corda. I lenzuoli, i cortinaggi, tutto era di tela finissimo, e di tulle. Finalmente Alle- grone fece una proposta. Le stanze erano grandi e pavimentate con assi di legno pre- zioso, che ne occupavano tutta la lunghezza. Dovevano levare una di quelle assi, appog- giarne una estremità alla finestra e l'altra giù in terra. Così avrebbero potuto scivolare lungo l'asse e fuggire. Subito ogni aristocratico si diede a la- vorare, e chi col coltello, chi con un pez- zetto di ferro, tolsero i chiodi d'argento che fermavano l'asse al pavimento. - Questa è una pazzia, - disse Ca- porione - vedrai che cadremo tutti. - Non c'è pericolo, - disse Allegrone - e suggerì di ungere l'asse con l'olio del lume; quindi l'appoggiarono alla finestra. A uno per volta i ragazzi scivolarono per terra e andarono a rotolare sull'erba, ad una certa distanza. L'ultimo a scendere fu; Allegrone, che tirò a sè l'asse perchè le guardie non sapessero come fare ad inse- guirli. Era quasi buio e i ragazzi non sape- vano dove passar la notte. Essi giunsero ad un fabbricato le cui porte erano chiuse, ma non serrate a chiave, e vi entrarono. Quell'edifizio era una libreria che veniva chiusa presto la sera e aperta tardi la mat- tina. Gli aristocratici si misero comoda- mente a sedere e accesero i moccoletti che ognuno aveva in tasca. Allora discussero. Allegrone disse che il bastimento, un giorno o l'altro, sarebbe tornato a prenderli, per- chè l'ammiraglio non avrebbe avuto il co- raggio di presentarsi senza di essi ai loro rispettivi genitori. La quistione più urgente era quella di sapere come vivere mentre aspettavano la nave. Per dormire potevano star sicuri dov'erano, ma per mangiare bi- sognava guadagnarselo. Dopo lunghe discussioni, dopo una vo- tazione contrastata, fu stabilito che i ra- gazzi avrebbero fatto i portalettere per gua- dagnarsi il pane. - Ma le lettere da portare dove sono? - chiesero alcuni fra i più grandi. - Vedremo domattina, - disse Allegrone - c'è tempo prima che aprano le botteghe. - La mattina si diedero a cercare, a fru- gare, e trovarono nella libreria molte let- tere lasciate lì prima che la città fosse con- dannata all'immobilità. Ogni ragazzo ne prese alcune e andò in giro a portarle per le case. Gli abitanti le leggevano con pia- cere, perchè molte contenevano notizie im- portanti per essi; perciò davano la mancia a chi gliele portava. E ogni giorno alcuni abitanti ricevevano lettere, e ogni giorno i ragazzi avevano alcune monete. Quando il Re fu informato della fuga dei ragazzi, sapendo che non avevano da vivere, esclamò: - Tanto meglio! morranno tutti di fame e noi saremo liberati da quegli ari- stocratici! - Ma la vedetta rimaneva sempre sulla torre della città, poichà nessuno sapeva quando sarebbe giunta la nave cogli altri insaccatori. Un giorno che Caporione distribuiva le lettere, incontrò un vecchio, che rico- nobbe per il maestro di scuola. Da prima ebbe voglia di fuggire, ma quando il vec- chio lo chiamò, si abbracciarono piangendo, e la pace fu fatta. Quella notte il maestro dormì nella libreria, e le sere successive pure; il maestro sceglieva i manoscritti e i libri istruttivi, e faceva lezione agli ari- stocratici, i quali in poco tempo acquista- rono utili cognizioni. Essi salivano spesso sull'alta torre per vedere se giungeva il bastimento, avendo inteso dire che si scor- geva una nave con le vele rosse e azzurre. Ma passavano gli anni senza che vedes- sero una bandiera. Un giorno lessero sulle cantonate un bando del Re, che ordinava ai cittadini di chiudere porte e finestre e ritirarsi nelle case, perchè la città era minacciata da un nuovo incantesimo. Gli aristocratici ne era- no disperati. Come dovevano fare a vivere senza il rifugio della libreria e senza poter portare le lettere? Andarono dal Re a proporgli di salire novamente la scala finchà la città non fosse tornata alla vita. - Sapete a che cosa v'impegnate? - osservò il Rè - e se le forze non vi ba- stassero? - Risposero che lo sapevano ed erano sicuri delle loro forze. Anzi, era più facile che resistessero alla fatica di salire, perché erano assai più grandi e assai più forti della prima volta. Il Re li riconobbe e Allegrone dovette raccontargli la vita che avevano fatto dopo la fuga. Il Re si mostrò contentissimo e ac- cettò l'offerta di salire la scala. Sali, sali, la scala girava sempre. Fi- nalmente si fermò, e la città fu libera per altri dieci anni. Gli aristocratici vennero colmati di onori e di regali, in segno di gratitudine, dal Re e dal popolo e furono alloggiati sontuosamente nel palazzo, insieme col mae- stro di scuola. La libreria fu aperta ogni sera al pubblico, affinchè potesse leggere ed istruirsi. Dopo un anno giunse in porto la nave con l'ammiraglio. I sapienti si tolsero il sacco di testa; erano diventati vecchi e magri, e abbracciarono gli sco- lari che erano diventati grandi e forti. In capo a pochi giorni la nave salpò per il paese di Bengodi. I ragazzi furono accolti con gioia in quel regno, e ovunque si sparse la notizia del servizio che avevano reso al Re della città incantata.

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