Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Ho chiesto a Dio di poter abbandonare il mondo, e mi hanno risposto che il dovere era di restarci. Ebbene, che cosa ho guadagnato dal mio sacrificar tutto, vocazione, simpatie e fin la mia creatura? e chi ha guadagnato almeno per conto mio? nessuno. Io non ho cambiato nulla, non ho migliorato nulla, il fango è rimasto fango, anzi il fango è cresciuto intorno a me e invece d'amore, vedi, non ho raccolto che oltraggi, odio, tradimento. No, Maria, no: non ne posso più. Non ho più forza per resistere all'onda di questi mali. Se finora ho vissuto inutilmente per gli altri, è tempo ch'io cominci a vivere non inutilmente per me, perché" (e Arabella nel dir queste parole alzò il capo con qualche fierezza) "con questo veleno nel cuore io non posso piacere a Dio e non è con questa disperazione, che mi soffoca anima e respiro, ch'io potrò meritarmi il suo perdono. Se io resto ancora un giorno nella compagnia di questa gente, la disperazione, Maria, potrebbe montare dal cuore alla testa e allora c'è la pazzia, mia cara, c'è qualche cosa di peggio..." La figlia del povero Cesarino Pianelli si attaccò con una forza nervosa al braccio dell'amica, come per sostenersi contro un pericolo nei dibattiti convulsi del suo dolore. Chinò la testa: da accesa divenne di nuovo pallidissima e mormorò come se parlasse a se stessa: "Non ho mai compatito tanto il mio povero papà come in questi giorni..." "O Madonna, tu le perdona perché non sa quel che dice" interruppe vivamente la buona e devota Maria, coprendo colle braccia il bambino, perché non sentisse le brutte parole. "Provassi! ci son dei momenti in cui pare così necessario e così bello il morire..." "Tu sei malata, la mia figliuola" gridò la povera Maria: "tu non pensi, tu non le senti le cose che dici. Scriverò subito a mia sorella, se ciò può farti un po' di bene." "Dille che son disposta a tutto: a far scuola, a servire malati, a rattoppare dei cenci, a tutto, purché sia in un luogo dove possa dimenticare quella che sono stata." "Io farò quello che vuoi, ma promettimi che non dirai più cose spaventose. Tu mi hai fatto piangere anche Napo... Non piangere così, Napo..." prese a cantarellare al bimbo che strillava per conto suo "non ha detto sul serio la zia Arabella. Adesso l'hanno fatta soffrire ed è molto malata. Quando diverrai grande capirai anche tu, Napo, che cosa voglia dire soffrire. Anche tu ti troverai in mezzo a un mondo di tormentatori e di tormentati, ma non ti piacerà far piangere la gente, vero, Napo?" Sentendo che essa stessa non sapeva più resistere alla commozione, la buona Maria si portò il suo bimbo alla bocca, in atto di divorarlo, e soffocò i singhiozzi, asciugando alle carni molli le grosse lagrime, ripetendo la cantilena dell' Ara, bell'Ara , mentre Arabella stringevasi e contorcevasi come una foglia secca nel gelo della sua tristezza. "Promettimi che non farai piangere nessuno" seguitò la mamma cullando il bambino stretto sulla faccia "e se gli altri faranno piangere te, vieni sempre dalla tua mamma, ve', Napo: io ti beverò le lagrime, io mi piglierò i tuoi dolori, ma non maledire mai il giorno in cui ti ho messo al mondo, la mia creatura; non far questo torto alla povera tua mamma, che t'ha messo al mondo con tanti dolori e con tanta gioia. Tu non hai sentito quel che ha detto la zia Ara: non credere alle sue parole. Essa è troppo buona e troppo intelligente per ammettere che i cattivi all'ultimo abbiano a vincerla sui buoni. Essa non vede che il male in questo momento, e non ricorda tutto il bene che ha ricevuto nella sua vita e quel tesoro di beni che la facevano a scuola un modello di virtù, di buon esempio, di talento, di grazia, il tesorino delle maestre, la delizia delle sue compagne. Essa non ricorda il bene che ha ricevuto dal suo benefattore e il bene che gli ha fatto, salvandolo dalla rovina e dalla disperazione. Essa non fa nessun conto del bene che le vogliamo noi, io e te, Napo, per esempio, e parla di voler morire, così, come se non le importasse nulla di chi le vuol bene..." Arabella cadde in ginocchio e si appoggiò all'amica per chiederle perdono: ma non poté pronunciare una parola. I suoi occhi non davan lagrime e portavano dentro una forte risoluzione. Essa chiedeva perdono all'amica, ma lasciava capire che avrebbe combattuto per la difesa della sua dignità. L'uscio in quel momento si aprì e dietro alla ragazza di servizio comparve la Colomba. Questa alla sua volta, volgendosi, fece l'atto di presentare qualcuno che le teneva dietro dicendo: "Guardi chi ho condotto con me." E subito dopo, Arabella vide entrare la sua mamma. Il signor Tognino aveva mandato a pigliarla fin dalle prime ore della mattina. In casa Maccagno essa s'era incontrata colla Colomba, che veniva a implorare misericordia per il Berretta, per Ferruccio, per sé, per i vivi e per i morti. Questa poté dire ove si trovava Arabella, e si offrì di accompagnarla. Arabella le andò incontro con un sorriso addoloratissimo, e stringendole le mani nelle mani, con uno stiramento convulso dei muscoli, non seppe balbettare che il nome di... mamma. Mamma Beatrice, ansante per le scale fatte in fretta e per l'emozione, si lasciò cadere sul divano, e facendo sedere la figliuola, aspettò che questa parlasse per la prima. La Colomba e Maria sedettero sulle poltroncine davanti. Nessuna osava rompere il silenzio e tutte avevan gli occhi su Arabella. Parevano donne convenute nella casa d'un morto a piangere. Fu la Colomba la prima a rompere il silenzio. Raccontò la sua meraviglia, quando s'era vista comparire la sora Arabella in casa con un tempo disperato: raccontò la visita fatta al sor Tognino e come costui l'avesse ricevuta bene, e avesse dichiarato di esser disposto a ritirare la denuncia contro il Berretta, purché Arabella tornasse a casa e si perdonasse un poco da tutte le parti. Così stando le cose, alla Colomba non pareva il caso per il momento di irritare il sor Tognino, considerando che c'erano in lui delle buone disposizioni, e per conto suo veniva a pregare la buona sora Arabella ad aver dell'indulgenza anche lei per riguardo a un povero vecchio, che marciva in una prigione, per pietà di un povero giovine malato. Non c'era tempo da perdere: si fa presto a morire. La sora Arabella aveva visto in che stato giaceva il figliuolo: orbene essa aveva già dato a Ferruccio delle lusinghe, gli aveva detto cioè che il sor Tognino non avrebbe insistito più nel processo. Ma se il sor Tognino si metteva a giocare di puntiglio, chi salvava da una catastrofe? "Nessuno più di me sa capire e compatire" seguitò la buona donna coll'eloquenza che vien dal cuore e dal proprio interesse "ma se questo primo passo verso la conciliazione può portar subito del bene, io non vedo perché dal bene abbia in seguito a derivare del male. I conti si aggiusteranno strada facendo; ma intanto il sor Tognino ha detto: ' Arabella torni a casa e farò quel che vorrà; ma prima torni a casa '. Io parlo, cara la mia creatura, per la vita e per l'anima della mia gente: la sua mamma le dirà il resto." "E il resto è molto semplice ed esplicito" soggiunse mamma Beatrice con un tono fra l'accorato e il sostenuto. "Tuo suocero non ti dà torto, ma disapprova il modo con cui hai creduto di ottenere ragione per forza. Egli è nemico degli scandali e delle pubblicità e pare che quella donna che tu hai offeso..." "Io?..." scoppiò a dire con una risata ironica Arabella. "Abbi pazienza, tu potrai aver cento ragioni, ma non ti deve piacere di mettere i tuoi dolori in piazza. Il sor Tognino è disgustato appunto per la scenata di ieri sera, che servirà ai suoi nemici per muovergli guerra. Vedrai, ne parleranno anche i giornali... Oh! a te non te ne importa; ma devi pure ricordare che il sor Tognino ha fatto del bene alla tua famiglia." "Sì?..." interrogò con una punta di canzonatura Arabella. "Sì, sì, ne ha fatto del bene, a tuo padre e a tua madre. Ad ogni modo è uomo che, disgustato oggi, potrebbe domani rifarsi del bene che ha fatto, e allora? credi che papà Botta non deva tutto a lui, se oggi non è con cinque figliuoli sopra una strada? tu non guardi che alla tua passione, al tuo interesse e dal giorno che ti sei maritata hai sempre affettata una specie d'indifferenza per la tua famiglia. Ma se ti fossi occupata di leggere anche negli interessi di casa, avresti visto che papà Botta oggi sta in piedi solamente perché il sor Tognino lo sorregge col suo credito: e che se domani si dovesse venire a una liquidazione, non è certo il sor Tognino che deve del denaro a tuo padre e a tua madre. È subito detta una divisione! ma una divisione coniugale oggi vuol dire una liquidazione di conti. Oh il sor Tognino su questo punto stamattina mi ha parlato chiaro. O Arabella torna in casa e si rimette alla nostra discrezione o io non conosco più casa Botta. Grazie del complimento! Ciò vuol dire in poche parole una rovina peggiore della prima. Ora io non so se i tuoi diritti, se il tuo vantaggio, se il tuo puntiglio valgono proprio la disperazione di una famiglia, e se potrai essere contenta il giorno che per odio a quella donnaccia saprai d'aver messo su una strada il tuo benefattore e la tua povera mamma..." Mamma Beatrice si portò il fazzoletto agli occhi. Arabella fece un gesto colle mani per togliersi dagli occhi un velo di nebbia, che le nascondeva la vista delle cose. "Creda pure, cara figliuola," entrò ancora a dire la Colomba, ribadendo il chiodo caldo, "creda pure che il diavolo visto da vicino è meno brutto di quel che dicono. Lei è giovine e fa bene ad avere della poesia e anch'io, sa, ne' suoi panni, avrei menato non una, ma tutte e due le mani. Ma creda a me che son la più vecchia. Negli uomini non è sempre questione di cuore. Si sa, anche nostro Signore ha detto che la carne è fragile e un giovinotto non può tutt'a un tratto farsi eremita. L'esempio gli sarà servito, ma a tirar troppo si rompe la corda, mentre l'esperienza insegna che piglia più mosche una goccia di miele che un barile d'aceto. Io non so se mi spiego, ma vorrei dire insomma che in queste cose non bisogna dar troppa importanza alle prime impressioni. Io ho visto in cento altre occasioni dei mariti senza conclusione stufarsi sinceramente, tornare alla famiglia, diventare mariti modello, padri di famiglia eccellenti, tutto per merito di una brava donnina, che aveva saputo perdonare a tempo. Questo in tesi generale. Nel caso suo speciale, il mio angelo, ci penserei dieci volte prima di assumermi una responsabilità, perché, come ha sentito, c'è in gioco il bene, la vita e la morte di molt'altra povera gente." Arabella, che aveva fin qui ascoltato con pazienza e docilità, alzò il capo e sbarrò gli occhi, come se cominciasse a dubitare che si trattasse veramente di lei. Maria Arundelli pensò a non lasciar cadere in terra il discorso: "Una moglie che si divide dal marito" disse "ha sempre un poco di torto. Una divisione è sempre uno scandalo o è un rimedio che non ripara nulla, e che non fa che allargare il male, creando due spostati, ci dà in pascolo alle ciarle e alle maldicenze della gente, che non è sempre disposta a compatire. La gente non ammette mai che il torto sia tutto da una parte: va a supporre che dall'altra parte ci sia stata almeno della freddezza, della poca buona volontà, della indifferenza di cuore, e fortunata la donna di cui non si pensa che questo! Una donna divisa dal marito è un oggetto di malsana curiosità per i buoni e per i cattivi. I primi pensano che abbia fatto troppo poco per andar d'accordo; i secondi che abbia fatto troppo per non andar d'accordo. Gli uni diranno che pretendevi troppo; gli altri che sei rigida, intransigente, bigotta... e, scusa ve', o che avevi un amante." "Ah...!" fece Arabella, schiudendo la bocca a una esclamazione di stupefazione. Parlavan proprio di lei? "Non offenderti. Tu hai troppo buon cuore e troppo buon senso per non tener conto del bene che puoi fare e del male che puoi risparmiare. Qui si tratta di scegliere tra due mali il minore per te e tra due beni il maggiore per gli altri. Un bel partito sarebbe di dare un addio a queste tribolazioni e di rifugiarsi in una grotta a meditare sulla vanità e sull'afflizione delle cose di quaggiù. Ma dove non arriva la voce e il rumore del mondo, arriva sempre la voce della coscienza, il dubbio, lo scrupolo di aver comperata la propria pace a prezzo d'indifferenza, di aver sacrificato troppo all'amor proprio. Quando Arabella sentisse, per esempio, che il suo secondo padre e benefattore è stretto nei bisogni, che la sua povera mamma non trova pane pe' suoi figlioli..." "Che un povero vecchio muore in una prigione, mentre si poteva..." "Mentre si poteva guadagnare la benevolenza e le benedizioni di tutti..." "Mentre si poteva evitare degli scandali." Arabella si alzò. Le labbra si mossero coll'intenzione di dire: andiamo... ma non ne scaturì che un fremito. Fece qualche passo come se cercasse di svincolarsi da tutte quelle mani amorose, che la tenevano prigioniera, da quelle parole, da quelle tenerezze che l'avviluppavano da tutte le parti. Mamma Beatrice avvertì questo primo momento di debolezza, e, tirandola in disparte nel vano della finestra, le strinse il volto nelle mani e proseguì sottovoce: "Sai che cosa mi ha detto tuo suocero? che se tu ti fidi di lui e torni a casa, buona buona e obbediente come prima, non solo farà cacciar via quella donna e obbligherà Lorenzo a volerti bene, ma mette a tua disposizione una somma, perché tu possa disporne per le tue opere di carità. Egli voleva ad ogni costo mettermi in mano duemila lire, sapendo in che imbarazzi si naviga; ma io gli ho detto: ' No, sor Tognino, io non posso riceverli che dalle mani di Arabella. Quando Arabella sarà tornata a casa sua e avrà dato segno d'aver perdonato e dimenticato, allora soltanto potremo accettare senza rimorso qualche sussidio: prima no '. Duemila lire in questi momenti sono per noi più che una bella giornata di maggio; ma tu non soffriresti mai che noi accettassimo la carità da gente che non conosci e peggio da gente a cui vuoi male. Mentre se tu ritorni, puoi mettere dei patti nuovi e puoi domandare anche un risarcimento, non ti pare, Arabella? Vieni, fidati di tua madre, che ne ha passate di peggiori e che ha sempre messo in disparte il puntiglio e la vanità, quando si trattava del bene dei suoi figliuoli. Lorenzo capirà i suoi torti, tornerà a volerti bene, e tu potrai vivere da signora come prima; mentre io, quando il tuo povero papà mi ha lasciato sola a quel modo che sai, non avevo nemmeno da mangiare. E che spavento! e che disonore... Eppure gli ho perdonato e tornerei a volergli bene ancora se comparisse..." Un torrente di lagrime impedì a mamma Beatrice di continuare un discorso, ogni parola del quale cadeva come una pietra acuta sul cuore di Arabella. Non ci voleva che l'evocazione di una triste memoria e di un fantasma non ancor morto del tutto, per debellare l'ultima sua fortezza, per annientare quel rimasuglio d'orgoglio, che la faceva ribelle e ripugnante al suo destino. La condanna del suicida non era ancora scontata del tutto; e bisognava ch'ella mostrasse almeno di perdonare a' suoi persecutori, se voleva che gli altri perdonassero a una povera anima in pena. Non aveva promesso a Dio di consacrare la vita in espiazione? Ebbene, questa era la espiazione. Ai martiri non si concede la scelta del martirio. Come se si svegliasse da uno strano sogno, le parve di ritrovare in se stessa la buona e docile Arabella di Cremenno, arrossì un poco di vergogna, come una bambina colta a commettere un piccolo furto campestre fuori del suo orticello; strinse la mano della mamma, baciò l'Arundelli sul viso, sorrise a tutto ciò che la Colomba, ridendo e corbellando, le raccontò nel discendere le scale, si lasciò condurre per tutto il lungo del corso Genova, fino a un caffè del Carrobbio, dove la mamma la persuase a prendere una bevanda calda o a bagnare un biscotto nel vermouth... Esse avevano bisogno di scaldarsi e di rinforzarsi lo stomaco. Accettò il vermouth e il biscotto; disse sempre di sì col capo a tutte le questioni della mamma; sorrise due o tre volte anche a lei, mostrando tutte le buone disposizioni di perdonare. Ma non pronunciò una parola tutto il tempo, come se la voce fosse morta nel petto. Gli occhi fissi alla vetrina innanzi alla quale si agitava il turbinío di un popoloso quartiere nella piena luce d'una bella giornata d'aprile, essa, più indifferente che turbata, preparavasi a soffrire fino alla fine... o fin quando era necessario.

Per questo voto aveva già ricevuti replicati affidamenti di grazia, talché il venir meno alla promessa sarebbe stato per lei un tradire, un abbandonare sopra l'abisso un'anima bisognosa, l'anima del suo povero papà. In questa convinzione, che le maestre e i confessori avevano più volte ribadita nel suo tenero cuore, la fanciulla si sentì così dotta e agguerrita, che non le mancarono le parole calde e affettuose per convincere sé e gli altri; e dopo tre pagine la sua mano leggera scriveva ancora, come se un angelo guidasse la penna, provando essa stessa una soave emozione nel rileggere parole e frasi scaturite quasi miracolosamente dalla ricchezza del cuore, e che le inondavano il viso di lagrime. Sonavano le nove nel gran silenzio. Alle Cascine eran scomparsi i lumi e parevan già tutti addormentati. Dalla campagna non veniva che il rotolar sordo dei carri che battono la strada grossa, qualche abbaiare lontano di cani, due o tre volte il fischio del vapore della vicina stazione di Rogoredo. La notte era serena e scura, con un cielo gremito di stelle; per tutto un silenzio raccolto, entro il quale bisbigliava lo zampillo d'una bocca d'acqua che dava a bere ai prati. Arabella stava per chiudere la lettera, quando risonò improvvisamente un grido, che fece trasalire il cuore già gonfio e commosso. Pareva la voce della mamma. No, era ancora il piangere dolente di Bertino. Sente uno sbattere d'usci e gente che corre. Poi subito la voce di papà Botta che chiama: "Arabella!" Salta in piedi: "Che c'è?" "Vieni, io corro a cercare il dottore." E sente di nuovo il passo di papà Botta scendere la scala e correre attraverso i campi. "Che cosa c'è mamma?" Corse, entrò nella stanza della mamma e la trovò col bambino in braccio che si dibatteva in feroci convulsioni. La voce del piccino, dopo quel gran grido, usciva soffocata come un rantolo dalla gola e le manine annaspavano con violenza nell'aria, come se si sforzassero di togliere un laccio, lì alla gola. La povera mamma si era accorta da poco tempo che il suo Bertino moriva. Mezza svestita, coi capelli in disordine, bianca come la neve, non sapeva dir altro che: "Gesù, Gesù!" Arabella prese lei il bambino in braccio, spalancò la finestra e ve lo portò in maniera che la respirazione fu subito meno affannosa. Cercò coi diti di schiudere la piccola bocca inchiavata dalla convulsione; ma non poté. Finalmente venne il dottore, che giudicò un caso gravissimo di angina difterica. Bertino, un grassottello roseo, coi riccioli biondi, era il coccolo di tutti alle Cascine, e papà e mamma gli volevano bene anche per quest'ambizione. Ora papà pareva la morte in piedi, e la mamma, dopo aver brancolato un pezzo per la stanza senza conchiudere nulla, finì col cadere svenuta in mezzo alle donne. Il dottore non poté contare che sull'aiuto intelligente di Arabella, che tenne fermo il bimbo, mentre gli bruciavano in gola, soffocando nelle sue braccia i guizzi tremendi del povero angelo, resa forte del coraggio che la donna attinge alla pietà, fatta avveduta e intelligente da quella buona maestra, la natura, che mette nel cuore della donna ciò che la scienza non fa che confondere nei libri. Finita la crudele operazione, la sorella sedette accanto al lettuccio, dette delle ordinazioni, mandò via la gente, comandò che il bimbo fosse suo, notò i consigli del dottore e non si mosse più per ventiquattro ore da quel suo posto, finché durò la tremenda agonia, finché il piccino non ebbe dato l'ultimo respiro. Era la prima volta ch'essa vedeva soffrire a quel modo un'innocente creatura ed era il primo morto a cui chiudeva gli occhi; e le parve, attraverso i patimenti, di veder al di là, nel vasto mistero delle cose. Nella lunga veglia, nel faticoso sforzo dell'animo non sapeva a volte distinguere tra sé e la povera mamma, che andava e veniva come un fantasma. Era un patimento solo che stringeva due cuori; se non che la giovinezza e la baldanza delle forze facevano sentire alla figlia anche una superiorità morale, che la piegava a un senso di protezione verso la povera donna. Senza volerlo si sentì l'anima della casa. Si meravigliò di non aver conosciuto prima quel grande amore che la legava al fratellino, e contemplandolo spirato, provò lo strazio di chi si sente portar via il cuore. Qualche cosa d'irrigidito scioglievasi in lei. Non mai aveva abbracciato con tanta effusione d'affetto e di lagrime la sua povera mamma, che le ricordò nel suo sfasciamento la Madonna addolorata ai piedi della croce. E anche questa stessa pia tradizione di dolori sacri e adorati prese nel suo cuore un significato novissimo di verità, di umanità, di grandiosa comprensione, come se l'umanità saltasse fuori dalle venerate immaginette simboliche della via crucis. Nel dolore immenso conobbe l'amore, si sentì madre anche lei in qualche maniera dei piccini e dei grandi, e quando, dopo un sonno profondo di alcune ore, si risvegliò nella sua stanza e ritornò col pensiero alle cose di qua, le parve di aver fatto un lunghissimo viaggio. Rileggendo la lettera che aveva preparato per il suo patrigno, la trovò fredda e artificiale, e soffrì di non sentirla più come prima. Forse vi sono al mondo per una donna due sorta di vocazioni, di cui essa non aveva finora conosciuta che la più semplice. Nascose la lettera e rimandò la risoluzione del delicato problema a un altro momento. Continuamente ora avevano bisogno di lei. La mamma non faceva che piangere sul cadaverino e in quanto a papà Paolino metteva paura a vederlo. Lungo, scarno, col viso giallo, l'occhio itterico, i capelli irti come setole faceva e rifaceva quelle maledette scale, rispondendo a caso alle domande dei famigliari, alle consolazioni del curato, dimentico degli altri grossi dispiaceri, che per riguardo a questo si rassegnavano a tirarsi indietro. Arabella per mettere una nota di consolazione volle che il funerale del piccino fosse bello e gaio, come si usa in campagna cogli angioletti. Fece sonare a festa e mandò a raccogliere quanti fiori trovò. Preparò essa stessa la bara con molto verde e ordinò alle donne di condurre i bambini, di cui non c'è mai penuria, a ciascuno dei quali mise in mano un ramoscello di mirto. Tutti sentirono la seduzione di quei conforti, e quando il corteo si mosse sotto il sole d'una bella giornata di settembre e cominciò a sfilare lungo il canale pel viale dei salici che mena alla chiesa, tutti avevan gli occhi sopra la monachella, a cui dovevano l'edificazione commovente di quello spettacolo. Il funerale, al ponte, s'incontrò in una carrozza, che si tirò in disparte. Un vecchio signore e un elegante giovinotto saltarono dal legno e stettero col cappello in mano a veder sfilare la processione. Arabella, che veniva in coda alle bambine, credette di riconoscere il cavallo e il legno del signor Tognino e immaginò chi poteva essere il giovane robusto che era con lui. Il cuore, che aveva interamente dimenticato, balzò come al tocco d'uno spillo. Un profondo turbamento scosse il sangue. Il volto pallidissimo, stanco e sbattuto dalle lagrime, si accese improvvisamente d'una fiamma, che parve a chi la guardava dar fuoco ai sottili capelli biondi. Fu, quella la prima volta che Lorenzo Maccagno vide la figlia di Cesarino Pianelli.

Poi, suscitando le speranze dei Maccagno e dei Ratta, dimostrando alla vecchia cugina che frati e preti minacciavano di mangiarla viva, ridestando in lei degli scrupoli per riguardo ai parenti più bisognosi, ch'era ingiustizia abbandonare, riuscì ad avere in mano una procura legale, che l'abile affarista adoperò come una solida spada. Fece ai preti, a don Giosuè, a don Felice un'aria poco respirabile; mandò via una certa Santina, una bigotta messa in casa a far la spia, e prese al servizio una certa Giuditta di piena sua fiducia. Aprì la porta ai parenti più miserabili, ch'egli presentò alla decrepita cugina con parole affettuose, ottenendo da lei oggi un sussidio per una povera donna partoriente, domani una limosina per un infermo, o dei prestiti o dei riscatti di pegno, guadagnando la simpatia e la popolarità di tutti i Ratta più rosicchiati dalla miseria. Quando il figlio d'un Giacomino Ratta celebrò la prima messa nell'oratorio degli Angeli, Tognino volle assistere come padrino a nome della vecchia benefattrice, quantunque da cinquant'anni non vedesse più un Cristo in croce, e seppe tanto fare che passò per un mezzo santo. Tre volte la settimana menava in casa Aquilino Ratta, uno dei veterani del quarantotto e ora vice-ricevitore in un banco del regio lotto, uomo pieno di rispetto, e lasciava che il buon parente divertisse la vecchia ottuagenaria colle storie dell'assedio di Venezia e delle varie combinazioni con cui si può vincere un terno. Alla sera Aquilino e la Giuditta lo aiutavano a fare il quartetto a tarocco, un gioco vecchio e sempre nuovo, in cui la Ratta, quantunque le carte le svolazzassero di mano da tutte le parti, era una birbona matricolata. E mentre si giocava, Tognino, ch'era stato uomo di mondo, contava o ricordava molte storie del suo buon tempo, quand'era di moda portare i calzoni bianchi e il panciotto di piqué, quando c'erano i bei veglioni alla Scala e il risottino alla milanese, dopo il veglione, al famoso caffè della Cecchina. Attingendo agli aneddoti dei "Cento Anni" del Rovani, il bravo cugino sapeva con brio suscitare nei morti sensi della vecchia bigotta l'eco di reminiscenze che risalivano ai baccanali della Cisalpina e della famigerata compagnia della "Teppa". L'aneddoto lesto, raccontato con spirito, senza mai urtare la religione cattolica e il sommo Pontefice, strappava alle volte dal petto della paralitica un cachinno asmatico e strascicato, rotto da colpetti di tosse che davano il rimbombo d'un cembalino scordato e lasciavano nelle profonde rughe della sua faccia accartocciata e morta una sgocciolatura di lagrime contente. Era in questi istanti di serenità, specie dopo certi pranzetti, in cui la Ratta aveva fatto onore al così detto latte dei vecchi, che Tognino le dava a firmare delle note, dei conterelli, delle quietanze. E così andarono avanti benissimo le cose quasi più di tre anni. Solamente negli ultimi tempi l'uomo aveva trascurato un poco la vecchia cugina e gli affari, grazie al matrimonio del figliuolo e a cento altre faccende che assorbirono le sue giornate; poi si dette il caso che verso la fine di dicembre dovette recarsi come giurato a Lodi in un interminabile processo. Un gusto! Proprio in quei giorni la vecchia Ratta ebbe il primo urto della morte. Chiamato in fretta il canonico don Giosuè Pianelli, suo confessore, ricevette i santi sacramenti. Sul punto di battere alla gran porta dell'eternità, tocca e spaventata dalle parole del canonico, le parve di aver diffidato troppo dei vecchi amici, di aver creduto troppo alle parole di Tognino, di aver tradito le pie istituzioni di beneficenza. Lì per lì, sul tamburo della morte, don Giosuè suggerì un codicillo che in nome della santissima Trinità distruggeva quelle qualsiasi disposizioni che avesse potuto dettare o sottoscrivere negli ultimi tre anni e richiamava in vigore un testamento del 1878, già consegnato all'avvocato Baruffa. Don Giosuè scrisse la rettifica sopra un foglio di carta comune e corse in cerca di un notaio. Ma nel frattempo arrivò da Lodi tutto trafelato il cugino, a cui la Giuditta aveva mandato tre telegrammi. Credeva di trovare la cugina agonizzante e invece vide che stava meglio. Sicuro! la consolazione morale di ricevere i sacramenti e di compiere un atto di riparazione aveva fatto tanto bene alla malata, che il giorno del santo Natale poté ancora assaggiare la sua fetta di panettone nel vin bianco. La Giuditta mise a parte il padrone della manovra dei preti, ma non seppe dire se la vecchia avesse o non avesse firmata la carta. La vigilia dell'Epifania, dopo un'agonia in cui la morte ebbe a sudare tre camicie, la buona cristiana in compagnia dei tre Re Magi andò a trovare il suo Ratta in paradiso, se pur ci vanno in paradiso gli appaltatori. Il Berretta tornò con un fascetto di legna, s'inginocchiò davanti al caminetto, e cominciò a soffiare nel fuoco, gonfiando le ganasce. Presto la fiamma si risvegliò, riempì il camino e ravvivò la stanza. "C'è stato nessuno?" "Nessuno." "Che cosa voleva Aquilino?" "Che Aquilino?" "Il vice-ricevitore del lotto. L'ho visto sulla porta verso le cinque." "Voleva vedere la morta." "E tu, asino, l'hai lasciato passare?" "Niente passare. Ho detto che non avevo le chiavi." "Però c'è stato don Giosuè." "Quest'oggi non l'ho visto." Il signor Tognino, carezzando coll'ugna del pollice l'orlo dei baffi (era un suo movimento naturale nei momenti di riflessione), lasciò cadere lo sguardo sul portinaio, che gli stava davanti inginocchiato nella luce viva della fiamma. Era un occhio abituato a pesare gli uomini, che non sbagliava quasi mai, come non sbaglia l'occhio d'un vecchio mediatore nel calcolare il peso di un fascio di legna. "E l'avvocato Baruffa non è venuto?" "Mai..." "Non c'è stato nemmeno un tale dalle gambe lunghe, un giovinotto smorto, senza barba, con un occhio bianco, più grosso dell'altro?..." "Gamba lunga? Occhio bianco?" ripeté lentamente il Berretta, crollando il capo. "Pare anche lui un mezzo prete, o un mezzo avvocato." "Uhm, non l'ho visto." "Un certo Mornigani; lo chiamano precisamente el mèz avvocat ..." "Non lo conosco." "Aquilino che cosa ti ha detto?" "Mi ha domandato l'ora dei funerali. Gli ho detto: domani alle nove e mezza." "E la Santina che cosa è venuta a fare?" "Che uomo!" pensò in fretta prima di rispondere il portinaio "che diavolo d'uomo!" Poi soggiunse a voce alta: "La Santina voleva ritirare alcune sue robe. Dice che la padrona le aveva lasciato un anello con un diamante." "E tu, bestia, l'hai lasciata passare?" "Ha fatto il diavolo sulle scale, ma io son stato agli ordini. Nix per passare." Il padrone tornò a fissare gli occhi acuti e fini sulla nuca del Berretta e sul rovescio delle sue larghe orecchie trasparenti alla luce del fuoco. Vecchio strologo di uomini, credeva di saper scoprire dai movimenti della collottola gli sforzi di una coscienza. Tenne dietro un mezzo minuto di silenzio, durante il quale i due uomini stettero ad ascoltare il muggito e il crepitio della vampa, che riempì la bocca del caminetto. Quindi il padrone uscì a dire: "Chi va adesso da Olimpia?" "Gente ne passa sempre. Cantanti, impresari, gente da teatro." Il padrone fissò gli occhi nel fuoco e lentamente, come se arrischiasse una parola, domandò: "È vero che ci torna ancora qualche volta il mio Lorenzo? " "Io non l'ho visto più dopo che ha fatto giudizio." "Guarda che se gli tieni mano…" "Sor Tognino, che cosa dice?" interruppe con fiera dignità il portinaio, facendo un mezzo giro sui ginocchi. "Ben, ben... uomo avvisato!... Adesso, metti un altro pezzo di legna sul fuoco e apri bene gli orecchi che ho un'altra cosa a dirti." Il Berretta obbedì e pensò intanto: "Che cosa avrà ancora questo demonio d'uomo?" Il padrone, dopo essersi un poco fregate le gambe, picchiò colla mano due colpetti brevi sulla spalla del portinaio, e riprese a dire: "Dalla cantina della mia povera cugina sono scomparse dal settembre a questa parte circa trenta bottiglie di vecchio barolo e mancano tre o quattro fasci di legna forte. Io ho le prove in mano che questa roba fu rubata e che il ladro è in questa casa. Sentiamo un po' che cosa ne sai tu, il mio galantuomo..." "Io, io non so niente" balbettò il Berretta, alzandosi, appoggiando una mano alla pietra del camino, grattando coll'altra i pochi capelli ruvidi. E aggiunse mentalmente questa riflessione: "Stavolta è la Giuditta che ha parlato". "Allora" ripigliò l'altro, soffiando sulle parole una specie di sorriso ironico "allora se tu non sai nulla, io sono più fortunato di te, perché so dove bottiglie e legna sono andate a finire. E siccome di ladri in casa mia non ne voglio, così domani farò la mia brava deposizione alla Questura." "O caro signor Tognino, non mi rovini, per carità" proruppe il Berretta, congiungendo le mani in atto di supplica. "Ah, tu non sai nulla…" "Per i miei poveri morti, per l'anima di quella povera donna, dirò tutto, pagherò tutto, ma non mi faccia, per amor di Dio, questa brutta figura. Servo da trent'anni e non ho mai toccato..." "L'acqua piovana..." "Posso quasi giurare..." "Non hai mai rubato un pilastro, tu: ma il vino ti piace e se è buono meglio." "Se mi lascia dire confesserò tutto. Sono un uomo onesto." "Quando non hai sete..." insistette il padrone colla crudeltà di chi piglia a tormentare con una lesina un topo preso vivo nella trappola. "I casigliani possono far fede che non ho mai toccato un soldo a nessuno." "Un soldo no, ma trenta bottiglie di vin vecchio a tre lire la bottiglia, fanno quanti soldi? E la legna è venuta da sé a farsi bruciare?" "Allora dica che vuol la mia morte e addio!" esclamò il Berretta, asciugandosi la fronte madida d'un sudor freddo. "Non sa che mi ammazzo, se mi fa questa figura? Io giuro, presente cadavere, mi ammazzo." "Non hai pensato, o gola lunga, che quel vino poteva farti male? non hai pensato che devi il buon esempio a tuo figlio?" "Sor padrone, sor padrone, mi senta; io son qui in ginocchio" e il Berretta s'inginocchiò un'altra volta e alzò le due mani in atto di santo martire. "Servirò per nulla fin che campo, fin che non avrò pagato tre volte il mio debito: ma per carità, non dica nulla al mio Ferruccio. Non mi faccia questa tremenda figura davanti a quel bravo ragazzo." "Capisco che ti deve dispiacere che Ferruccio sappia queste tue prodezze. È un buon giovinotto che ha bisogno di farsi una posizione e non è certamente una raccomandazione l'avere il papà al cellulare." "O Madonna santissima, non lo dica nemmeno..." singhiozzò il povero Berretta. "Io potrei far del bene a questo tuo ragazzo. A Natale gli ho dato sessanta lire e potrò dargliene di più, ma non per merito tuo, birbaccione." "Sono stato così malato st'inverno e la povera anima, a nominarla come viva, non dava mai niente." "E hai voluto pagarti da mugnaio." "Ho fatto male, non dico, ma per un po' di vino non si ammazza mica un uomo, angeli custodi!" "Basta, non voglio altro. Se tu mi darai una prova sicura..." "Non vede che piango come un ragazzo?" "Le tue lagrime non valgono il mio vino: ma se potrai darmi una prova seria, con giuramento..." "Son pronto a giurare sull'anima mia." "Allora, va, chiudi bene l'uscio della scala, tira innanzi una sedia, e ascoltami." Il Berretta, rianimato dal tono più dolce con cui gli parlava quell'uomo tremendo, corse e girò la chiave dell'uscio, accostò una sedia al camino, sedette, appoggiò le mani sui ginocchi e ancor tutto tremante stette a sentire. Il padrone con voce fredda e precisa, senza distaccar gli occhi dal fuoco, cominciò: "Ora io vado di là a cercare una carta che mi interessa, ma tu devi giurarmi prima che non dirai a nessuno ch'io sono stato qui stanotte. Vedi questo foglio di carta?" e glielo mise sotto il naso. "Qui è scritta la denuncia del furto delle bottiglie, eccetera. Un avvocato mi ha detto che, trattandosi di un furto qualificato di un valore superiore a cento lire, con uso di chiave falsa, il reo non potrebbe cavarsela con meno di due anni di reclusione. Vedi, Berretta? io posso buttare questo foglio sul fuoco..." "Lo butti, in nome della benedetta Madonna!" pregò l'altro, alzando le mani. "No, questa sarà la mia garanzia. Se tu ti lasci scappare una parola di quel che vedi e senti stanotte, sai quel che ti spetta." E intascò la carta. "Faccia conto che io sia un uomo morto." "Per quante domande ti possa fare don Giosuè, l'avvocato Baruffa, Aquilino Ratta, la Giuditta, il mio Lorenzo, il tuo Ferruccio, o il mezzo avvocato... tu, tu non sai niente, non hai visto niente." "Niente, niente" ripeté il Berretta, chiudendo gli occhi e spazzando l'aria colle mani davanti a sé. "Ci sarà della gente che ti offrirà del denaro per farti cantare: ma tu sarai muto come questo sasso..." Il signor Tognino toccò tre volte col dito il marmo del caminetto. "Come questo sasso, lo giuro: ma non mi faccia una brutta figura. O poveri morti, due anni di reclusione!" "Ben, sta zitto e tien vivo il fuoco. Ora vo di là." Il signor Tognino prese uno dei lumi, e girata la chiavetta nella toppa, entrò nella camera della morta, lasciando solo il portinaio davanti al fuoco. L'ombra sconnessa di quest'uomo rannicchiato sulla sedia, sbattuta dalla fiamma sul soffitto, e ballonzolante alle scosse del fuoco sui marmi e sui mobili, poteva dare un'idea dello stato d'animo e dell'agitazione di tutti i suoi pensieri, che guizzavano senza ordine e senza contorno nel suo povero cervello. Egli conosceva il sor Tognino, e sapeva che con quel carattere non c'era da scherzare. Aizzato negli interessi, il vecchio signore diventava una tigre. L'aveva visto sulle furie il giorno che colse la povera Santina in atto di far la spia dietro l'uscio; misericordia! se non la pigliò a colpi di piede, fu merito della donna, che seppe infilar l'uscio e le scale. Ma dovette far fagotto e andarsene col salario in mano, dopo quasi quindici anni di servizio. Che cosa arresta l'uomo aizzato nel suo interesse? che cosa arresta il toro quando vede rosso? Come, quando, aveva scoperta questa faccenda delle trenta bottiglie? e dire che egli non s'era manco accorto di berne tante... Lo bevevano tutti quel vino, lo beveva anche la Giuditta: e veramente la vecchia Ratta non poteva portarselo via nella cassa: e quando un pover'uomo è malato, e passa la sua vita in una tana scura e umida, se cede a una tentazione, Dio spaventato, non si dovrebbe parlare di furto qualificato e di cellulare!... E ora che cosa andava a fare, lui, nella stanza della morta? L'altro, rinchiuso colle spalle l'antiporto, si fermò sulla soglia un momento, sollevò il lume, cercò la sua morta. La vecchia Ratta giaceva supina sul letto, col volto sprofondato nelle crespe della cuffia, colla povera gonnella indosso, da cui uscivano le gambe sottili, colle mani legate sul ventre, ferma, fissa in quella rigidità quasi violenta che pigliano i corpi nei momenti che presentono l'ultima distruzione. Il signor Tognino, abituato a veder la vecchia cugina raggomitolata nella sua poltrona in preda a una tremolante convulsione, non poté sottrarsi a un senso di stupore, rivedendola a un tratto tanto ingrandita sul suo letto di morte; e suo malgrado fu tratto a riflettere qualche cosa su questa stupida commedia della vita, senza però sprofondarsi troppo nella filosofia, ciò che non era nella sua natura, anzi sforzandosi d'infuriare dentro di sé contro gli imbecilli che non avevano ben chiuso e lasciavano che la neve entrasse dalla finestra. La neve, fioccando nello spazio aperto, aveva già coperto il pavimento presso il candeliere in cui la candela benedetta, ridotta agli estremi, sbrodolava da tutte le parti. Collocato il lume sopra uno stipo, andò a chiudere in fretta i vetri e accostò con una certa furia le due imposte di legno, non osservando nel venir via che una di queste, respinta dal contraccolpo e dall'elasticità stessa del legno, tornò a poco a poco a lasciare un vetro scoperto, in modo che un curioso avrebbe potuto, supponiamo il caso, da una finestra del cortile spiare comodamente nella stanza. Evitando, per un senso di rispetto, di guardare in faccia alla morta, trasse di tasca un mazzo di piccole chiavi e cominciò ad aprire il vecchio scrigno di mogano, di un bello stile napoleonico, ornato di massiccie borchie di bronzo dorato, nel quale la cugina custodiva gelosamente le gioie della sua giovinezza e le sue carte più preziose. Egli conosceva il mobile più che l'anima sua. Aprì, fece scattare i segreti, cavò fuori i tiretti, correndo presto coll'occhio prima ancora che arrivasse la luce della candela. Da un cassetto levò un grosso astuccio di cui seppe far saltare la molla, afferrò colla sinistra tutto il barbaglio d'oro e di brillanti che riempiva il logoro damasco, intascò tutta sta bella roba come avrebbe fatto con un moccichino; mormorando mentalmente: "A buon conto". Posto il lume nel mezzo del mobile, la mano continuò ad aprire e chiudere. L'occhio entrava dappertutto, scivolando, inventariando, seguito da un pensiero non meno svelto dell'occhio che, infilando roba su roba, sommava, computava, registrava tutto in un certo libro. Ma non era venuto per la roba stasera. Era venuto per la carta, se veramente la vecchia aveva sottoscritta una carta, come dubitava la Giuditta. Visto e accertato che nello scrigno non c'era nulla d'importante, chiuse dappertutto, tolse un'altra chiavetta e cominciò ad aprire i tiretti d'un canterale pure di mogano, del medesimo stile dello stipo. Nel primo tiretto trovò una sterminata quantità di calze, ripiegate, sciolte, irrigidite dal bucato, rattoppate, da rattoppare. Entrò colle due mani in quel caos di calze, smosse, palpò, ghermì quella che dette un tintinnìo, la rovesciò sul marmo del mobile... Con un rumorio squillante di gioia cento o centocinquanta vecchie doppie di Genova, d'un bell'oro giallo, uscirono dal pedule e si schierarono in fila, irritando Tognino, che cercava la carta, che, stizzito, votò tutto quel giallo nel tiretto, chiuse respirando forte a denti stretti: aprì l'altro tiretto... Che gl'importava delle doppie e dei marenghi? per lui era più una questione di puntiglio. La carta voleva!... E siccome aveva in testa che una carta ci doveva essere, secondo ciò che aveva riferito la Giuditta, così cominciava a irritarsi di non trovarla subito. Aprì un altro cassetto, dove la padrona teneva la biancheria. Entrò con le due mani in questa roba coll'avidità, colla nervosità di un gatto che graffia un canestro chiuso pieno di pesci. Anche in mezzo alle camicie e ai corsetti non c'eran carte. Aprì allora il terzo cassetto, l'ultimo, che depose sul pavimento, quindi piegato il ginocchio, mentre colla sinistra faceva chiaro, coll'altra mano toccò, palpò, agitò, sconvolse la roba: giubboncini di lana, cuffie di renza e di tulle, gonnelle di varie stoffe, sottovesti, una quantità di vecchi guanti, borsette, manichette, scapolari, boccette d'acque odorose, mozziconi di candela benedetta... tutta roba che la mano eccitata dalla passione scrollò nell'aria, ributtò con rabbia, per tornare di nuovo a toccare, a palpare, a premere. Non c'era uno straccio di carta a pagarlo un milione. Si fermò a riflettere. Che i preti avessero ritirata la carta per farla saltar fuori a tempo opportuno? ciò era in contraddizione con quanto aveva riferito la Giuditta, alla quale pareva di aver visto a firmare una carta, ma da quel momento nessuno aveva accostato la vecchia padrona, tranne lei e il sor Tognino. O la Giuditta aveva fatto un sogno o la carta doveva essere in casa. Intanto il Berretta, cogli occhi addolorati dalle lagrime, sempre fisso nel fuoco non poteva a suo dispetto non sentire il rimestare e il tabussare che faceva il padrone nella stanza della morta. Parlando al fuoco con l'aria di canzonatura, disse (tra sé, s'intende): "Ecco il galantuomo che vuol mandar me al cellulare per una dozzina di bottiglie... ah!" e allungò un muso che non seppe più disfare. La notte, cessato quasi subito il vento, ricadde nel freddo silenzio di prima. Unico rumore era il rimestare, l'aprire, il chiudere che faceva quel diavolo d'uomo, con nessun rispetto al cadavere, accecato dalla cupidigia della roba, più ladro lui cento volte in quel momento che non possa esserlo in cento anni un poveraccio di portinaio che patisce la sete. Ma così va il mondo. O non bisogna rubare o bisogna rubar bene. La discrezione è l'asinità dei ladri. Rimesso a posto non senza qualche stento il cassetto, l'altro si alzò col corpo indolenzito, girò gli occhi per la stanza, li fissò sul letto, sul corpo della cugina, che giaceva colle mani legate nella sua impetuosa immobilità, sentì il freddo della notte cadergli addosso e col freddo un risentimento d'indignazione, che aveva bisogno di scatenarsi sopra qualcuno. Si mosse, tornò in salotto, e stette un momento in mezzo alla stanza come perduto e sconcertato ne' suoi pensieri. "Tu hai ricevuto del denaro" uscì un tratto a dire con furia irragionevole, correndo sopra il Berretta, che trasalì, vedendolo comparire così livido e stravolto. "Tu sai che c'è stato don Giosuè uno di questi giorni, ma ti hanno pagato a tacere. Giura un po' che non ci fu don Giosuè stasera." "Caro sor Tognino," rispose il Berretta colla voce del fanciullo che piange "lei può dire che ho ammazzato quella povera donna." "Andiamo, non farmi delle commedie" soggiunse il padrone più rabbonito. "Non sai che mia cugina abbia sottoscritta una carta?" "Gesù, come posso saper io..." "Vuoi guadagnare qualche cosa subito? devi aiutarmi a cercare una carta che mi preme. Si tratta forse di un intrigo e di un tradimento a danno della povera gente e dei parenti, capisci? Vieni di là, immagino dove è la carta, ma non posso cercarla da solo. Fammi chiaro." Alle scosse violente il Berretta trascinato da quella forza che s'impadronì della sua volontà, dopo aver girato gli occhi trasognati, barcollando come un ubbriaco, mosse i piedi, prese il lume dalla mano del padrone, andò dietro a quel demonio incarnato che lo tirava per la camicia, che gli parlava quasi senza voce col fiato, cogli occhi, si fermò sull'uscio, mentre gli orecchi fischiavano come il vapore. Una volta ancora si sentì tirato innanzi, spalancò gli occhi per veder fuori e scorse il padrone in ginocchio nella stretta del letto, che cacciava la mano tra i materassi, dando certe scosse alla donna... Chiuse gli occhi. Era... era un'infamia, un sacrilegio, per la roba, manomettere i poveri morti. No, Gesù non si può, non si deve in coscienza benedetta! "O Signor, Signor..." sospirò stillando ad una ad una le sillabe con un brivido di raccapriccio. L'altro gli rispose con un soffio di noia. Nel cacciare le mani sotto il materasso aveva sentito qualche cosa di nascosto. Bisognava mandar via il portinaio, che scrollando la candela con scosse di paralitico buttava sego dappertutto e pareva sul punto di cadere in terra sfasciato. "Non c'è nulla, tanto meglio così... Avevo sospettato un tiro. A ogni modo non dire a nessuno che son venuto a cercare. Va a prender dell'aria, Berretta, e in quanto alla denuncia sia per non detto, ma guarda che io so tutto, che a me non la si fa. Va a dormire adesso. Resto io fino a domani. Ho piacere che non ci sia nulla; ma avevo motivo di dubitare. Su, su, non hai ammazzato nessuno, perbacco! Non dirò nulla della faccenda delle bottiglie al tuo Ferruccio; ma segreto per segreto va bene? E se mai vedessi che il mio Lorenzo ripiglia a passare di qui, metto sulla tua coscienza l'obbligo d'avvertirmene, ve'... O che ora non conosci nemmeno l'uscio?" Il sor Tognino rise un poco freddamente, mentre apriva l'uscio di scala e spingeva fuori con una certa furia amorosa il più spaventato degli uomini. Gli mise nelle mani il candeliere, chiuse l'antiporto colla chiave e venne di nuovo a sedersi al caminetto, aprendo le mani al fuoco, coi tratti del volto induriti e contraffatti a un amaro sogghigno, fisso a una cosa sola, che nella rigidezza della mente non sapeva esprimere che con una sola parola con penosa e irritante monotonia: "la carta la carta la carta..." Questa non poteva essere che là, tra un materasso e l'altro. Rimasto a tu per tu colla morta, non avendo ora da fare che con lei, con lei sola, si accorse che anche i morti hanno della forza. In certi casi ne hanno forse più dei vivi. Un vivo lo puoi battere e ammazzare: ma un morto no. Questo nella sua rassegnata impassibilità ti si stende davanti e ti sfida. Forse siamo noi che gli diamo la forza e che lo armiamo delle nostre paure; o è lui che ci disarma là dove la natura è più forte, nell'orgoglio. Non era filosofo abbastanza per risolvere, e neanche per proporsi delle questioni di questo genere: ma se le sentiva addosso, sotto la forma di un malessere che non si sa da dove viene, ma che tiene il corpo in brividi. Si pentì d'aver mandato via il Berretta, che colle smorfie irritava gli spiriti e rendeva almeno grottesca la paura. Palpando nei materassi gli era capitato di sentire sotto la mano il grosso e il liscio d'una certa borsa di seta, che la povera Carolina era solita portare sul braccio e recare tutte le sere in letto, con dentro, insieme al manuale di Filotea, le più care e gelose memorie, in mezzo ai gomitoli e alla calza. Gliel'aveva vista sul braccio fino agli ultimi momenti, e là dentro, senza dubbio, bisognava cercare il documento, se Giuditta non aveva visto male. La curiosità non ammetteva indugio e titubanze. Saltò in piedi di scatto, prese di nuovo il lume, traversò la stanza, pose il ginocchio in terra, ficcò la mano sotto, dove aveva sentito prima il grosso, tirò... Il corpo oscillò sul suo duro giaciglio e mentre Tognino si alzava colla candela in una mano, la preda nell'altra, l'ombra grande della cuffia che il lume prima proiettava sul soffitto, svolazzò abbassandosi sulla parete, si sciolse e lasciò vedere un enorme profilo umano, un fantasma che balzò al capo dell'uomo e l'avviluppò come l'ombra d'un uccellaccio. Fu un colpo di pietra al cuore: ma subito il vivo riprese vantaggio. Alzò il lume, sprofondò l'ombra sfigurata, si volse dall'altra parte, buttò la borsa sul cassettone, ne sciolse i cordoni, la sventrò di tutte le anticaglie che conteneva e vide uscire santini, corone, occhiali, gomitoli; e finalmente una carta ancor fresca, piegata in quattro, che Tognino ghermì, svolse, portò sotto la fiamma. Era una scrittura grossa, sconnessa, traballante che cominciava precisamente nel nome della santissima Trinità e sotto, dove corse l'occhio saltando il testo, uno scarabocchio di firma, il solito "Carolina Ratta", che visto da lontano dava l'idea d'uno scorpione schiacciato, colla sua bella data fresca vicina, tutto in perfettissima regola. E lo scritto, forse copiato da un modello, diceva… Provò a leggere qualche cosa di quelle cinquanta righe, ma alle prime parole gli occhi si fecero pieni di sangue, le lettere balzarono fuori dalla carta, un gruppo di biscie lo morsero alla gola, mentre due piccole lagrime di veleno uscivano a irritare le pupille. Con un secondo sforzo afferrò il senso, e il primo atto fu di voltarsi verso la morta, e la guardò con occhi cattivi come se la provocasse. Che parole gli venissero alla bocca non si può dire perché più che parole erano frantumi d'immagini e di sensi, impastati tutti insieme sotto il peso d'una collera terribile. Finì col sorridere e ciò lo sollevò. Quando Tognin Maccagno tornò il solito Tognin Maccagno, ripiegò lentamente la carta in quattro, se la cacciò in tasca accanto alla denuncia che doveva mandare il Berretta al cellulare. Raccolse con calma, fin con precisione i gomitoli, gli occhiali, i santini, ne riempì di nuovo il ventre della borsa, tirò i cordoni, l'attaccò alla maniglia dell'uscio e uscì mormorando in fondo dell'anima una frase scomposta e indecisa, qualche cosa che mirava ad augurare la buona sera... e tornò nel salotto. "Svelti i pretoccoli!" fu la prima espressione che dal guazzabuglio di tante sensazioni uscì con una formula logica. Buttò un'altra fascinetta sulla brace, e nel crepitìo allegro della fiamma colorita, rallegrò, riscaldò gli spiriti, dissipò le ombre e il ribrezzo. "Svelti i pretonzoli!" tornò a dire mentalmente, corrugando nella piccola fronte un fascio di rughe. E dunque un uomo furbo come lui aveva lavorato tre anni a salvare la sostanza Ratta dalle mani degli intriganti: un uomo abile come lui aveva ristaurato una ricchezza che dilagava come un vino prezioso da una vecchia botte fessa; per tre anni egli aveva sopportato le più strambe fantasie d'una vecchia bisbetica, diviso con lei i suoi pranzi di magro e i due soldi delle eterne partite a tarocco; si era fatto odiare e maledire per venire a questo bel costrutto, che un pezzo di carta, richiamando in vigore il testamento del '78, la dava vinta all'avvocato Baruffa e lasciava il sor Tognin Maccagno con tanto di naso. Oltre il danno, si vide davanti la bocca larga di don Giosuè Pianelli, e a questa idea della canzonatura, lo spirito selvatico si arruffò... Ma il più dannato era il pensiero di dover rendere dei conti a questa gente, di dover forse restituire ciò che non si poteva più restituire... Carta per carta, valevan di più quelle che da sei mesi egli aveva consegnate al notaio Baltresca. La fiamma, dopo aver avviluppato il grosso della fascinetta, scoppiò in una vampa rossastra che vibrò e ruggì nella piccola gola, riempiendo il salotto di vita e di calore, ammaliando colle sue lingue serpentine il vecchio affarista, che data un'occhiata intorno, cacciò la mano nella tasca di sotto. Le due carte uscirono insieme: confrontò alla luce del fuoco, ne scelse una, e obbedendo a uno scatto nervoso, vide il bianco nel fuoco prima che avesse deliberato di buttarvela. Le fiamme mordevano il cartoccio, destando nell'uomo quasi un senso di meraviglia. il cuore d'acciaio picchiò cinque o sei colpi, la bocca si storse a un sogghigno senza gioia, le mani si apersero irrigidite e si aggrapparono alle due gambe anteriori della sedia, come se cercassero un appoggio. La carta ripiegata in quattro resistette più che poté alle lame taglienti, si accartocciò sugli angoli, mostrò nella brace purpurea i graffi della scrittura, ma la santissima Trinità non poté impedire che una sostanza di quasi quattrocento mila lire, scritta in quel foglio, diventasse per chi l'aveva scritta un pizzico di carbone. Tognino Maccagno rimase a contemplare indurito in un senso di stupore quel pugnetto di carta nera, che si ostinava a star compatta in bocca al fuoco, mostrando i segni rossastri della scrittura. Era un acre piacere che lo inchiodava a contemplare gli avanzi di un tradimento. Tradimento di chi? non andò a cercare. Prese le molle e con un colpo violento sfondò sparpagliò, confuse, scombuiando nella cenere e nel fuoco la carta che mandò molte piccole anime nere su per la canna.

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