Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Il di lui modo di esprimersi, quantunque scevro di malizia o di ironia, era sempre così vivo e così sentito, che gli amici di casa, gente avvezza a tutte le ipocrisie, a tutte le smorzature, a tutte le banalità delle solite conversazioni, ne restavano scossi e abbagliati. Perfino Aldo Rubieri, che era pur un artista di vaglia, non approvava sempre certe uscite della Elisa, quantunque ammirasse in lei l'ingegno originale e coraggioso, che gliele suggeriva. Suo padre, non pargliamone! Suo padre, in cuor suo, deplorava di avere contribuito a dar in luce una pazzarella di quel carattere, dal quale, secondo lui, un marito non avrebbe cavato nulla di buono. "Figuratevi! - pensava - alludendo all'antico progetto - Testa falsa lei, testa falsa lui. No, no, no; cento volte no! Non c'erano che l'Enrico e il marchese d'Arco, i quali la capissero pel suo verso e l'applaudissero. Essi davano sempre ragione alla Elisa, il che talvolta faceva arrabbiare il notaio fino all'escandescenza. Sua madre taceva e ne gioiva in segreto. Spieghiamoci bene però anche su questo punto. S'intende acqua e non tempesta! Quella facoltà molto decisa di dir sempre le cose schiette e senza smorzature, non escludeva però nella Luisa un'altra facoltà, senza della quale essa avrebbe potuto qualche volta sembrar una scema in faccia a chi non l'apprezzava. Essa aveva molta schiettezza in cuore, ma aveva pur anche molto criterio e molta finezza in cervello, e sapeva a suo tempo e quando le conveniva, metter in pratica tutte le graziose astuzie della diplomazia femminile. Giacchè altra cosa è saper simulare e altra cosa è saper dissimulare. La Elisa, incapace di simulazione, era forse a tempo e luogo maestra di dissimulazione. Tanto è vero che se le avesser dato un segreto da serbare, si sarebbe lasciata uccidere prima di svelarlo. Tutte le arti, le grazie, le disinvolture, le furberie, le moinerie, le capestrerie che il cuore detta istintivamente alle ragazze d'ingegno, essa le possedeva per istinto. Poche fanciulle, pur senza scuola materna e senza buon esempio in casa, sapevano acconciarsi stupendamente, mostrar, senza farsi scorgere, il piede e la mano bellissimi, muovere il ventaglio, dar il colpetto di mano allo strascico della veste, guardar in viso agli uomini con un sorriso modesto, alzarsi e sedersi, comparire e scomparire, quanto lei. Il fatto è che a dieciott'anni l'Elisa era considerata da tutti come la testa più forte della famiglia. L'era una idea codesta che stava nell'aria. La si capiva chiaramente senza che nessuno l'avesse mai notata o lasciata supporre. Se qualcuno, a tavola o seduto in circolo, diceva qualche cosa d'insolito o di bello, guardava in faccia alla Elisa. Il sorriso di lei era il premio certissimo al buon senso o allo spirito spiegato. Ella, dal canto suo, senza far mostra di accorgersi d'essere stata consultata o preferita, dava uno sguardo repentino a sua madre, e se questa non le diceva col cipiglio di tacere, si era certi di udirla esprimere la sua opinione talvolta perfino tagliente e frizzante, come quella di un piccolo Tayllerand in gonnella. Alcuni allora ridevano e commentavano l'arguzia della fanciulla; altri tacevano, come sopraffatti, e si trovavano quasi a disagio nel nuovo ambiente, che l'idea spiritosa dell'Elisa aveva formato intorno ad essi. Un leggero, un lontano, un vago sospetto li prendeva: quello di poter sembrare per avventura un pochino imbecilli in faccia a lei. Un giorno, tra gli altri, il babbo notaio ricevette la lettera d'un pretendente alla mano di lei; un giovinetto della buona società, un conoscente di casa che da più mesi faceva una corte tacita e modesta alla fanciulla, senza aver avuto da lei la benchè minima lusinga. Costui aveva sentito dire che ogni idea di matrimonio fra l'Elisa e il conte Enrico O'Stiary era andata in fumo. La dote e le speranze in fieri avevangli dunque dato il coraggio di chiedere la mano della vergine bellezza. La lettera giunse dopo pranzo, mentre don Ignazio, colle due donne e il marchese d'Arco, stavano aspettando il caffè nel salotto. Il notaio, dopo aver letto il foglio, lo depose sulla tavola con un'aria fra il serio e il soddisfatto, ed espose ai presenti l'inaspettata domanda. - Diamine! - sclamò la madre. - Non si usa, mi pare, a domandar la mano di una fanciulla per lettera. Si manda un amico a far la proposta. - Non ne avrà! - osservò la Elisa. - C'è della gente che, temendo il rifiuto, non ama che altri lo sappiano osservò il marchese. La Elisa intanto aveva messo, da lontano, lo sguardo sulla lettera, quasi per indovinare chi potesse essere quel pover'uomo, che veniva a chiederla in moglie, e aveva veduto in testa di quella lettera una cosa che l'aveva fatta sorridere; e foggiò subito in testa la risposta che avrebbe data a suo padre, se fosse stata interrogata sulla sua intenzione. In mancanza di un'arma gentilizia, lo scrivente usava dei fogli di carta, che portavano per cifra un ferro di cavallo. - Che ne dici tu, Elisa? - le domandò suo padre. - Ma, io dico la verità - rispose coll'accento più umile che potè trovare nella voce armoniosa la fanciulla - io non mi sento voglia di sposare un maniscalco. Il babbo, il marchese e la signora Eugenia ruppero a ridere saporitamente. Supposero che ella credesse sul serio che quella lettera col ferro di cavallo venisse da un maniscalco. La disingannarono.... Elisa li lasciò dire. - Ma - riprese ella, che sapeva benissimo il fatto suo - perchè dunque questo signore mette in testa delle sue lettere quell'insegna di maniscalco? - È la moda del giorno - disse la madre. - L'insegna dei maniscalchi non è così. È un ferro contornato da un'aureola di chiodi - osservò il marchese. - E questa invece che cosa esprime? - domandò la Elisa. - È un mezzo qualunque per esprimere la propria passione pei cavalli soggiunse il marchese. - Ah, se è così - disse la Elisa - io temerei ch'egli dovesse amare più i cavalli di sua moglie. Quel motto del maniscalco fece il giro delle conversazioni milanesi. Per qualche tempo i cartolai che tenevano della carta da lettera col ferro di cavallo per cifra, stupirono di non vedersene più cercata da nessuno. Oggi la voga ripiglia. Fortunati cartolai! Fra le convinzioni più ferme di Elisa, quella che sovrastava a tutte, la dominante, la sovrana, la inespugnabile nel suo cuore, era quella di non poter essere felice al mondo che unita al suo Enrico. L'affetto della impubere si era mutato, nei tre anni, in sentimento gagliardo ora ch'ella s'era fatta donna. Già fin da bambina, del resto, quand'essa aveva inteso per la prima volta il grido di Roma o Morte, si ricordava che per associazione di idee nella sua testolina era risuonato un altro grido consimile, essa aveva balbettato in cuor suo: Enrico o morte. La Elisa aveva anch'essa, come Madame Aubray le sue idee, innate od acquisite, poco importa. Diversamente della maggior parte delle nostre fanciulle di buona famiglia, dacchè aveva cominciato a pensare al mistero della vita, non era rimasta indifferente agli innumerevoli quesiti, che le si presentavano alla curiosità della mente. Voleva saper tutto continuamente e tormentava sua madre, che talvolta, messa tra l'uscio e il muro, le rispondeva frottole da non dirsi. Quanto più essa la pregava di non farle certe domande, tanto più la Elisa si sentiva presa dalla smania di fargliene un sacco. Su molti punti, specialmente del mistero immenso, essa dubitava ancora; era scettica, non incredula; su altri, essa si era formata un'opinione tutta propria ed incrollabile. In fondo, ell'era socialista senza saperlo. Nè quelle sue verginali certezze erano frutto di lunghi pensamenti fra sè stessa o di ragionamenti con altri; erano intuizioni lucide, portate dal buon senso e dal criterio, che la inducevano a pensare certi veri nobilissimi, da nessuno rivelati, ma dai quali le pareva che non si sarebbe scostata, ancorchè le avessero inflitto il martirio. Fanciulle siffatte sono rare a Milano. Non tanto quanto si potrebbe credere, ma rare. Certo, e forse a ragione, si dice che un'Eulalia romana, al giorno d'oggi, non sia più possibile. Pure la Elisa era proprio della stoffa di Eulalia romana. Eulalia, sapete bene, fattasi cristiana a sedici anni, quando fu accusata e trascinata dinanzi al pretore, avrebbe potuto avere salva la vita, soltanto che avesse consentito a metter un granello d'incenso sul tripode, che ardeva dinanzi all'abiurato idolo pagano. Ella era così giovinetta e così bella, che il pretore, estasiato, avrebbe voluto, forse a suo malcosto, salvarla. Egli le offerse lo scampo. Eulalia diede uno schiaffo all'idolo, sputò in faccia al pretore e fu mandata alla croce, il patibolo dei cristiani. La Elisa teneva di questa tempra diamantina. Per una di quelle inesplicabili contraddizioni femminili, che formano la disperazione dei fisiologi, ella era timidissima e arrossiva tutta e quasi tremava se si trattava di mettersi in vista, di presentarsi in un salone a spalle nude, vestita da ballo, o di entrare in un caffè affollato di gente, che al suo apparire spalancavano gli occhi e la mangiavano cogli sguardi, sussurrandosi all'orecchio le ammirazioni desiose e le frasi procaci. Ma se si trattava di un pericolo serio, fosse pur stato imminente e misterioso, dinanzi al quale tanti uomini smarriscono il sangue freddo, ella si mostrava calma ed intrepida. Suo padre le aveva severamente proibito - non se ne parla - di leggere romanzi. - Neppure i Promessi Sposi e il Marco Visconti - aveva domandato lei. - No, neppur quelli! Questa proibizione le aveva messo indosso una smania cocentissima di leggerne assai più di quello che ne avrebbe letti naturalmente, se suo padre non avesse parlato. Enrico era il di lei complice, che le forniva nascostamente il pasto desiato. Nondimeno spesso la Elisa trovava molto noiosi i romanzi troppo morali che Enrico le portava. Egli era assai puritano in questo; aveva escluso tutti i moderni realisti, e, de' vecchi, anche il Balzac. Una sera l'Elisa mostrò a Enrico desiderio di leggere l' Assommoir Assommoirdi Zola. Enrico si rifiutò di portarglielo. - Ho già fatto troppo - disse - a concederti l'altro giorno: L'homme qui rit rit- Gran che! - sclamò la Elisa. E la terribile fanciulla si mise a sparlare di Vittor Hugo. Enrico la pregò di non farsi sentire da altri. Era come dire a un usignuolo di non cantar in primavera. - Avrò torto - diceva la Elisa al conte - ma a me Vittor Hugo qualche volta fa l'effetto di un uomo che sia lì lì per diventar pazzo. Il marchese mi disse un giorno che questo è il carattere del genio. Sarà! lo sfido a non ridere qualche volta di certe frasi di Vittor Hugo. Per esempio mi ricordo questa: "Un profondo rumore soffiava nella regione inaccessibile." Se invece di essere Vittor Hugo che ha scritto questa frase fossi io, a quest'ora mi avrebbero condotta al manicomio. Un profondo rumore che soffia? E nella regione inaccessibile? Ma cosa vuol dire? La si capisce così a occhio e croce; ma è genio codesto? Il genio, mi pare a me, dovrebbe consistere nel dir chiaramente le cose più difficili ad essere pensate da altri, non nel paccucchiare delle frasi con delle parole assurde. Il Rubieri per spiegarmi la cosa mi diceva che i romanzi di Vittor Hugo vogliono essere tutti poemi cosmici, e che egli crede in buona fede di essere il nuovo Cristo delle miserie umane; ma se è così egli è un Cristo che ritiene i suoi discepoli e i suoi lettori altrettanti badaux, che lo devono capire a lume di naso. La Elisa a dicianove anni era dunque riuscita una piccola enciclopedia ambulante. Si guardava bene dal farne sfoggio, ma lo era. Tutte le arti graziose essa le aveva imparate con una rapidità sorprendente, quantunque sentisse che tutto questo attiraglio di cognizioni superflue non le avrebbe servito a nulla nei suoi rapporti col giovane al quale la si era votata. Quanto agli altri che cosa importava a lei di comparire più o meno istrutta? Sciaguratamente l'Enrico diceva di amarla, ma non l'apprezzava. Egli era freddo, preoccupato, distratto, sviato. Egli era altrove co' suoi pensieri, co' suoi desideri, coll'anima, e pur troppo spesso anche col corpo. Elisa capiva tutto questo, e ne soffriva, pur dissimulando con dignità il suo dolore. L'allegria del conte quand'era con lei era forzata. Le sue stesse espansioni, i ricordi, le tenerezze erano tutte superficiali. Si capiva che dopo un'ora che era stato con lei il giovinetto cominciava a trovarsi sulle spine, e desideroso di prender il volo. Altre passioni, altre illusioni lo chiamavano altrove. Egli aveva veduta Nanà. La Elisa ne era mortificatissima; ma non lasciava trapelar nulla neppur a sua madre. Al marchese una volta aveva lasciato capire qualche cosa del suo cordoglio. Ne era stata consolata con una frase francese: " Il faut que jeunesse se passe" passe"Stavano dunque radunati nel salotto attiguo alla sala da pranzo il notaio, le due donne e il marchese, che era venuto come il solito, verso le otto a far la sua visita per trovarsi fra gli amici di casa e per vedere l'Enrico. Il babbo schiacciava un sonnellino. Il marchese parlava colle due donne di cose indifferenti. Elisa era distratta. La Elisa quel giorno s'era levata con un grande progetto in testa. Un progetto che le si era presentato come un'enormità, ma che sentiva esser diventato necessario. Lo aveva pensato la notte dopo avere sparso sul vergine origliere alquante lagrime di dolore, al solo pensiero di trovarsi obbligata a metterlo in pratica, l'aveva covato tutto il giorno, l'aveva rifiutato e riaccettato venti volte. Il progetto era di mostrarsi molto gentile con Aldo Rubieri, per vedere se Enrico se ne risentisse, per scuotere quella mortale indifferenza in cui egli era immerso e che la faceva morire di segreto cordoglio; per suscitare insomma nel suo amante un poco di gelosia. Ella sapeva bene che questa piccola commedia le sarebbe costato un grandissimo sforzo. Fingere? Lei? Eppure non le rimaneva altra speranza che quella. Se l'Enrico si fosse mostrato insensibile anche a quel tratto, ella sarebbe andata a farsi suora di carità. È lecito pensare che lo sforzo del far un po' la civettuola con Aldo Rubieri non fosse poi tanto sovrumano, neppure per lei. Aldo non era un uomo ordinario; ed era bello, forse più bello del conte. E poi la donna ha in sè un istinto di civetteria così spontaneo, che nulla nulla se ne immischi il bisogno o se ne presenti il pretesto, essa lo mette in opera quasi senza addarsene, forse suo malgrado. C'è nella donna come un fuoco sacro, che non si spegne mai, ed è quello sopratutto di piacere a tutti, per piacere di più ad un solo. Quando Aldo si presentò - prima del conte - la Elisa stava passeggiando al braccio del marchese il quale era beato anche lui di sentire il braccio della giovinetta che doveva formare la felicità del suo Enrico, pesare sul suo. Ella gli stava parlando appunto del conte. Il marchese a dir vero - uomo di studio che aveva il capo ne' suoi incurabili e nelle sue medaglie - non sapeva nulla della vita di Enrico. Questi per coprire ai di lui occhi i suoi errori, gli aveva restituiti dopo pochi mesi i tremila franchi che il marchese gli aveva prestati, dicendogli una piccola bugia per giunta. Vedendo dunque entrare lo scultore, la Elisa premette sul braccio del marchese e gli fece fare una mezza girivolta. - Come va la vostra Venere contemporanea domandò a Rubieri andandogli incontro. - La creta o la creatura? - domandò Rubieri. - Ma la creta! - rispose la Elisa - di una modella che non conosco io non mi curo certamente. Ella non sapeva la povera Elisa, che a quella modella di cui non si voleva curare, il suo Enrico aveva scritta una lettera di fuoco. Ella non sapeva d'essere tradita per colei. - La creta è quasi diventata una creatura - rispose Aldo Rubieri. - Ne sono contento. Egli andò poi a salutare donna Eugenia e il notaio che s'era messo a leggere il Corriere della Sera crollando spesso il capo, e dichiarando che alla fine del trimestre avrebbe lasciato l'abbonamento, perchè quel foglio da qualche tempo tirava al liberale. Aldo ritornò verso la Elisa che lo aspettava. Ella lo fece sedere accanto, per domandargli se era vero ciò che le aveva contato la mattina suo padre... - Cioè? Che il sindaco gli avesse annunciata la sua nomina ad assessore municipale. Aldo annuì. La Elisa sostenne la conversazione variata, saltellante, frivola fino al momento in cui dal campanello capì che chi entrava era il suo Enrico. Allora ell'ebbe un movimento sublime di civetteria; disse tutt'a un tratto a Rubieri: - Lei non s'è neppur accorta che quest'oggi io ho cambiata pettinatura. - Altro che me ne sono accorto - rispondeva Rubieri mentre il conte si presentava sulla soglia dell'uscio della sala. - Come la mi trova dunque? Le piaccio così? - Ah, Elisa, lei è adorabile ancora più del solito - rispose Aldo che volgeva le spalle all'uscio e non poteva accorgersi che Enrico era entrato. Infatti la Elisa quella mattina s'era fatta tagliar i capelli alla Vallière, sulla fronte, e stava superbamente bene. Aldo se n'era accorto, ma la fanciulla lo aveva talmente coperto di domande nel frattempo che egli non aveva avuto neppur l'agio di muoverle un complimento. Ora trovandosi così interrogato con voce più viva del solito aveva risposto: - Oh, Elisa, lei è adorabile più del solito. Era tutto quello che la fanciulla potesse desiderare. Mentre l'Aldo diceva questa frase Enrico gli passava rasente e la udiva. La Elisa non guardò in viso al conte. Finse di essere tutta intenta a quello che le diceva Rubieri. Il conte passò fingendo di non udire le parole di costui. La Elisa ne fu piccata in modo che raddoppiò i graziosi atteggiamenti in faccia allo scultore, e la più glaciale indifferenza pel suo adorato. Era la prima volta che a Rubieri succedesse di veder una cosa simile. Enrico, salutata la madre e il notaio, venne a stringer la mano a Elisa e ad Aldo Rubieri. - Buona sera, Enrico - disse la Elisa sorridente disinvolta. Poi senz'altro si volse a parlare di nuovo allo scultore, che nel frattempo aveva corrisposto alla stretta di mano di Enrico. Il quale, per non aver l'aria di ascoltare il colloquio fra la Elisa e Aldo, si ritrasse colpito dal nuovissimo contegno della fanciulla. Il marchese in quella lo abbordò parlandogli di cose indifferenti. Egli lo ascoltava e gli rispondeva macchinalmente, ma colla coda dell'occhio andava spiando le mosse di Elisa che proseguiva con Rubieri la sua piccola manovra da figlia di Eva. Ella si accorse di avere destato in Enrico qualche cosa di insolito, senza mai far mostra di accorgersi di lui; ma pur strisciando, collo sguardo girante, sullo sguardo del conte, s'accorse ch'egli la studiava ed era sorpreso. Essa continuò ripromettendosi il trionfo finale. Ma per quella sera non vi fu spiegazione alcuna fra loro.

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