Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbagliante

Numero di risultati: 17 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Sull'Oceano

171309
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1890
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Essendosi squarciato poco innanzi al tramonto il velo fitto di vapori che ci avvolgeva da tre giorni, il sole calava nel mare come un rubino enorme, gettando sulle acque tranquille una lunghissima striscia purpurea abbagliante come un torrente di lava accesa che corresse a incenerire il Galileo. E quando il sole toccò l'orizzonte, le nuvole, infocate del più pomposi colori, cominciarono a svolgersi lentamente, presentando mille forme maravigliose, che ci facevano stare a bocca aperta, e sclamare man mano che si cangiavano: - Che peccato! - come allo svanire d'un sogno incantevole. Erano monti d'oro, da cui precipitavano fiumi di sangue, fontane immense di metalli in fusione, padiglioni sublimi, sfolgoranti di sotto d'una così gloriosa luce, che, a fissarvi lo sguardo, la mente vacillava un momento, e s'aspettava con un senso quasi di trepidazione l'ultima visione di Dante, i tre giri di tre colori e d'una contenenza, dipinti dell'effigie umana, davanti a cui mancò possa all'alta fantasia.

Pagina 184

Il successo nella vita. Galateo moderno.

173921
Brelich dall'Asta, Mario 1 occorrenze
  • 1931
  • Palladis
  • Milano
  • Paraletteratura - Galatei
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E su tutta questa bellezza meravigliosa, dai boccali cristallini ai bicchieri scintillanti di vino color sangue, dal lino abbagliante della tovaglia all'argenteria luccicante e ai fiori graziosi, l'illuminazione della sala prodigherà dal soffitto la sua letizia radiosa. Soltanto la luce, la vera luce di sera, dà la vera bellezza, il vero incantesimo a tutta quest'eleganza; risplende su ogni cristallo, fa scintillare l'argenteria, vela benevolmente qualche lineamento spiacevole alle belle faccie delle signore, verso le quali la luce del sole è spesso così spietata. Perciò i pranzi si danno possibilmente tardi, e se c'è ancora la luce naturale, la si esclude, affinchè non disturbi, coi suoi raggi, il nimbo sfumato e incantevole della luce artificiale. L'insieme dei piatti e il corredo dei vini dipende dalle usanze locali. In quanto alla scelta vi sono dei manuali speciali nell' arte culinaria, i quali possono suggerire alle nostre lettrici - qualora non avessero sufficiente esperienza in merito - i più svariati e deliziosi « menus » Alcuni studiosi hanno osato affermare che si potrebbero allestire più di mille pranzi differenti ed egualmente gustosi. Poichè non si ha sempre del personale esperto, è meglio che la padrona di casa faccia alcune prove col suo proprio personale o con quello preso eventualmente a nolo. Tutte le persone di servizio devono apparire vestite accuratamente e pulite: le cameriere in vestito nero, col grembiule e berretto bianco, i camerieri in livrea o in « frac » impeccabili. I camerieri devono calzare dei guanti bianchi di filo: e anche le cameriere, benchè queste possano servire anche con mani non inguantate, ma nette, e con le unghie perfette; in ogni caso devono mettere sulla mano che serve un tovagliolo bianchissimo. Prima di cominciare il pranzo i camerieri devono aver mangiato, perchè hanno da svolgere un lavoro assai impegnativo: sicchè non hanno tempo di appagare la loro fame. Ogni rumore è superfluo e quindi si deve evitare il battere dell'uscio, lo strepito delle stoviglie ecc. I camerieri devono procurare di svolgere il loro lavoro senza scambiare molte parole, perchè una risata o un sussurro può guastare molto. Però i camerieri devono fare sempre un viso amichevole. Se vogliamo che tutto vada in perfetto ordine, dobbiamo istruire con cura i servitori che sono a nostra disposizione. Essi devono badare a tutto. Niente deve sfuggire alla loro attenzione. Se qualche cosa mancasse, devono subito sostituirla; perciò sulla credenza deve essere pronto un numero corrispondente di tutte le specie di posate, stoviglie, etc. Se un ospite lascia cadere qualche posata, devono immediatamente portarne un'altra presentandola

Pagina 135

Eva Regina

203092
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 2 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
  • paraletteratura-galateo
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Misera la donna che non ha appassionatamente amato; che non conosce le attese che sospendono il senso della vita, le emozioni del rivedere un volto adorato che imbiancano il viso come nell'ora della morte; che non sa le notti insonni per la tortura d' una gelosia, d'un dubbio, d'un'ignoranza; che ha atteso una lettera come una sentenza fatale, che non si è sentita, in certe ore, su un culmine, nella gloria abbagliante d' un sole ardente che raddoppiava tutte le sue energie, che le faceva vivere una vita ricca dell'essenza di mille vite, che la dava un' esuberanza di sentimento, di sensibilità, da mutare l'esultanza in una sofferenza fisica: misera la donna che non ha toccato, per un giorno, per un'ora, per un minuto, il limitare del suo sogno...

Pagina 37

Pagina 423

Lo stralisco

208488
Piumini, Roberto 1 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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L'alloggio era completamente rivolto a Nord, verso lo stretto abbagliante, affollato di barche da pesca e da trasporto come un immenso canale veneziano. Stanco per la cerimonia, il pittore si aggirava nelle quattro stanze, osservando i preziosi vasi di ceramica dipinta, i tappeti, i cuscini, le casse di legno lavorato, il letto ampio e alto che, in omaggio alle sue abitudini di straniero, era stato costruito appositamente per lui. Camminò lentamente in quello spazio vasto, protetto, gradevole, e poi nel porticato di trenta metri che correva all'esterno delle stanze. Annusò il vento profumato che scivolava nello stretto come una seconda corrente, portando gli odori dell'Asia a mescolarsi con quelli del Mediterraneo. Sulla costa di fronte, oltre il via vai dei pescatori e dei commercianti del Mar Nero, colline boscose accompagnavano lo sguardo verso Settentrione, come a mostrare già lí, alla terra africana su cui Costantinopoli sorgeva, la freschezza verde del Nord. A sinistra, al di là di minareti variopinti, il sole calava. I quattro servi silenziosissimi che erano a disposizione di Gentile, capaci di soddisfare in anticipo i suoi bisogni, erano all'improvviso scomparsi. Il pittore se ne chiese distrattamente la ragione, guardando il cielo del tramonto e il volo malinconico di due cicogne verso la costa settentrionale. Considerò che, in altre circostanze, gli sarebbe sembrato singolare non aver scambiato col suo soggetto qualche parola intorno al ritratto: ma al momento, immerso nella magica e torpida solennità della corte orientale, egli dubitava che mai addirittura sarebbe accaduto. In fondo, pensava remissivo, perché un pittore chiamato a dipingere il volto dell'Imperatore dei Turchi e capo dell'Islam, avrebbe dovuto avere un colloquio con lui? Quali cose hanno da dirsi un simulacro potente e venerabile, con l'incaricato di riprodurne l'immagine? Fino a quel punto, considerò Gentile, nessun segno era stato dato che il suo rapporto con Maometto potesse essere piú intimo e colloquiale di quello tra un artigiano e una statua divina: certo, pensava, l'avrebbero condotto all'immobile e silenziosa presenza del Sovrano, e li, umilmente e silenziosamente, avrebbe lavorato... Si chiese, senza molto inquietarsi, come avrebbe in quelle condizioni potuto ottenere dall'Imperatore l'espressione o la posizione adatta all'opera, o suggerire gli spostamenti del corpo o del volto rispetto alla luce, che sono necessari alla lunga esecuzione di un ritratto... Decise che si sarebbe adeguato, spostando il cavalletto nel modo opportuno, senza scomodare né interpellare il maestoso soggetto... Smise di porsi quei problemi, rimandando ogni cosa al momento in cui si fossero presentati. Si perse a guardare una luna dorata che a destra, sulle colline della sponda opposta, si spingeva lentamente nel cielo appena abbandonato dagli echi rossastri del sole. Sentì un rumore nella stanza dietro di sé. Pensò che i servi fossero tornati ad accendere le lampade. Anche nella città sotto di lui e nei piccoli villaggi lontani al di là dello stretto, luci di fiamma si accendevano, come frammenti di sole che solo ora, nell'ombra crescente, si facessero notare. Senti alle spalle due leggeri colpi di mano: un frammento d'applauso. Si voltò, incuriosito: e vide a tre passi Maometto, in una liscia veste dorata; al posto del turbante aveva una piccola calotta di seta nera. Due passi dietro all'Imperatore, un po' di lato, stava un personaggio sconosciuto, alto e magro, completamente vestito di scuro, con braghe a fascia aderenti, spada e pugnale appese ad una cinghia di pelle nera che gli attraversava il petto. Gentile, col fiato sospeso, non disse parola. L'Imperatore sorrise, e senza muovere le mani unite davanti al ventre, piegò appena la testa di lato. Poi disse con voce profonda: — Ospite, non spaventarti per la mia visita inattesa: nulla ti minaccia. Considera questo, dopo la parata di oggi, il mio vero e fraterno benvenuto. Gentile goffamente apri le braccia, in un vago gesto di ringraziamento e accoglienza. — Mi cogli impreparato, Signore, — disse. — Qui ogni cosa è tua, né io conosco questa casa abbastanza da saperti offrire qualcosa, come ad un ospite conviene... — Godiamoci dunque senza altre preoccupazioni la stupenda luna, che non appartiene a nessuno, eppure si mostra a tutti con la meravigliosa intimità di una sposa, — disse Maometto, avvicinandosi al pittore, e voltandosi accanto a lui verso il quieto e vasto luccichío dei Dardanelli. L'uomo vestito di nero, ombra silenziosa, rimase alle loro spalle, immoto. — Il mio accompagnatore non è muto, — disse l'Imperatore, — ma è come se lo fosse. Non è sordo, ma è come se lo fosse. È piú fedele a me di quanto sia la mia stessa mano: e della mia mano è anche piú saggio e preciso. Non inquietarti per la sua presenza: egli è solo in certo modo presente. Gentile tornò a guardare la luna. Anche Maometto, accanto a lui, la guardò per un lungo momento: come se lassú ci fosse, svelabile allo sguardo, il modo giusto per dire le parole.

Pagina 94

L'idioma gentile

209878
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Ma facciamo alto a PRESTIGIO, che il vocabolario definisce: influenza, forza abbagliante, ma di cui si fa ora un abuso ridicolo, adoperandolo nel significato più ristretto di stima e d'autorità, e anche di serietà solamente, tanto che tutti credono d'aver del prestigio da perdere, e io intesi dire persino d' un cane da guardia, che aveva perduto ogni prestigio in una fattoria, per averci lasciato entrare i ladri di notte. - Grazioso il verbo PROSPERARE in senso transitivo: - Il Signore vi PROSPERI! - PUGNO, ribeccarsi un pugno, mescere fior di pugni. Sentii dire in Toscana: - Quattro pugni bene scolpiti, che è proprio uno scolpire l'idea. - Mi piace PUNTARE nel senso di fissare con insistenza una persona: La smetta, giovanotto, di PUNTAR quella ragazza; e anche riflessivo, per ostinarsi: - Se si PUNTA, non ottieni nulla. - Ed ecco alla parola PUNTO un mazzo di modi da ricordarsi: - Far punto e da capo, stare a punto e virgola, ci sono i punti e le virgole (in uno scritto perfetto), capitare in brutto punto, prendere in buon punto (nel momento buono), se s'affatica punto punto s'ammala, non è ancora in punto (all'ordine). Per primo punto ti dirò.... - PURE DI, in senso ellittico. PUR di campare, fa di tutto: esprime il concetto con assai più forza che per campare, dicendo l'amor della vita anche più forte del sentimento della dignità e della rettitudine. PUZZARE, PUZZACCHIARE. - Passa di qui a naso ritto: par che si PUZZI tutti! - Il pesce PUZZA DAL CAPO. - Azioni che PUZZAN di ladro. Diciamo anche noi Del dialetto che una cosa non pagata, ma presa a credito, puzza d'inchiostro, e d'una cosa che si ritrova o si riceve inaspettatamente, e che ci fa comodo: - Un pastrano a questi freddi? Non puzza. - Nóta che noi usiamo quasi sempre, in vece di PUZZO, puzza, che è del linguaggio letterario. - Un puzzo che assaetta, un puzzo che si schianta, che si scoppia. - Di questo puzzo non ce n'ho mai avuto in casa mia: s' intende di questi peccati, di queste cattive azioni. E per rumore, putiferio: - Per un nulla non importava far tanto puzzo! - E ancora vari nomi di cose, d' uso raro fra noi, ma che è bene aggiungere al nostro vocabolario manchevole: - POSATURA, quella che lascia l'acqua nella boccia, e che noi diciamo fondo, che è proprio del caffè, com'è del vino e dell'aceto fondigliòlo. - PRODA del campo, del tavolino, del letto, del muro, del fosso, che noi diciamo malamente orlo. - PULCESECCA, sinonimo faceto di strizzatura o pizzicotto, o anche il segno che ne rimane. - Mi son fatto una pulcesecca con la fibbia, e in un sonetto del Fucini: e già na pulcesecca 'n tel nodello. - PULCIAIO, un luogo pieno di pulci o sudicio. - Son capitato in un pulciaio di locanda! - PULCINAIO, un luogo pieno di pulcini. - PULISCISCARPE e PULISCIPIEDI, che si mette all'entrata delle case, e che si chiama Raschino se è di ferro. - PULSANTINO, la mollettina degli orologi, che serve, calcandola e girando il gambo, a rimetter l'ore. - PUNZONE, forte colpo dato con le nocche o con la mano puntata. Gli diede un punzone nel petto che lo mandò con le gambe levate. - E questo è l'ultimo vocabolo della processione del P, che se finisce poco bellamente con due scarpe per aria, non è mia colpa.

Pagina 144

La freccia d'argento

212405
Reding, Josef 1 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Purtroppo non ci è possibile, al momento, vedere quel che avviene alla linea di partenza, perché c'è di mezzo il disco abbagliante del sole. Ma no, non è il sole! È la lucentissima calvizie di un corpulento spettatore! Ecco, ora l'orizzonte è sgombro. Le tre vetture migliori della giornata vengono spinte a braccia sulla linea di partenza. Ora si disputerà il campionato germanico per la vettura migliore e per il pilota di casse da sapone più spericolato della Germania intera. Il tabellone alla partenza portai nomi delle vetture e dei piloti. Essi sono: Kurt Baukloh su Canguro, Walter Eichfeld su Uccello selvatico e Rolf Ramthor su Freccia d'argento. Quest'ultima vettura è degna della massima considerazione: già le è stato assegnato il premio per la vettura più bella. È davvero una meraviglia, questa Freccia d'argento! Eccola là impeccabile, nella sua carrozzeria aerodinamica di color grigio- argento. Ora crepita lo sparo del via dell'ultima corsa odierna, della grandiosa corsa finale! Fin dall'inizio le vetture si sono sganciate le une dalle altre. Il bianco Uccello selvatico vola in testa seguito dalla Freccia d'argento, mentre il Canguro si distacca sempre più, perdendo terreno. Qui non c'è altra alternativa che una vittoria folgorante, trionfale, oppure la più schiacciante delle disfatte! È evidente che i ragazzi forzano al limite massimo le loro vetture e spremono anche l'ultimo atomo delle proprie energie, in uno sforzo sovrumano. La metà del percorso è già raggiunta. Ecco la Freccia d'argento buttarsi in piena andatura all'inseguimento, e in uno slancio irrefrenabile, vittorioso, giungere a ridosso dell'Uccello selvatico! Ed ora... per l'eccitazione mi strappo la cravatta dal collo... con un'avanzata inesorabile, con uno slancio poderoso, gli è a fianco e lo sorpassa! La Freccia d'ar-gen-to è in testa! Il distacco si fa sempre maggiore: una lunghezza, una lunghezza e mezza, due! Ed ora: traguardoooo! Con oltre due lunghezze di vantaggio Rolf Ramthor su Freccia d'argento taglia il traguardo per primo davanti all'Uccello selvatico. È un risultato straordinario! Un'impresa eccezionale! È il degno coronamento della corsa!... Ora mi insinuo pian piano, col microfono in mano, tra la folla degli spettatori, che qui forma un blocco compatto. Cerco di avvicinarmi al giovane trionfatore, preso d'assalto dai lampi al magnesio e da una dozzina e più di giornalisti. Voglio tentare di portare davanti al microfono l'eroe del giorno, per una breve intervista. Ecco, ora son giunto fino alla vettura, alla Freccia d'argento, che si è coperta di gloria! E qui è pure Rolf Ramthor! Allora, Rolf, posso sequestrarti un momento? I miei colleghi del cinema ti hanno già ritratto a sufficienza. Vorresti dire due parole agli ascoltatori della Radio Ovest... Qual è la tua prima impressione, dopo la tua corsa vittoriosa, trionfale? Be', devo dire che sono ancora tutto scombussolato. Tutto è avvenuto così rapidamente! Non ho mai osato sperare di poter un giorno conquistare il campionato germanico? E anche che la mia vettura sia la più bella è per me incomprensibile: qui la pista è stata tutto il giorno percorsa da vetture magnifiche! Naturalmente sono felice della vittoria e soprattutto sono grato ai miei compagni della tribù di San Michele, che ora certamente stanno in ascolto alla radio e vengono a sapere della mia, o meglio della nostra vittoria. Vi ringrazio, amici, che mi avete costruito questa splendida auto!... Ecco: Hai intona sulla sua chitarra la canzone delle casse da sapone... Possiamo cantarla qui al microfono in segno di gratitudine, signor cronista? - Certamente! I nostri ascoltatori saranno felici di sentire per la prima volta la canzone delle casse da sapone! Hai, Stucchino e Jörg attaccano il canto a squarciagola, così che i radioascoltatori crederanno che qui vi sia un coro di cosacchi del Don. Al ritornello della seconda strofa fanno già eco i più vicini, e quando si arriva alla terza strofa è un coro generale quello che si leva con gran clamore dai venticinquemila spettatori. Poi il radiocronista, non ancora sodisfatto, chiede: - Ed ora, che pensi di fare? - Ma... Naturalmente bisogna che anzitutto sopporti con rassegnazione tutti gli onori che comporta la vittoria. E poi mi preparerò al derby internazionale che si disputerà negli Stati Uniti. - Per quell'impresa ti diciamo di cuore fin d'ora, Rolf Ramthor, in bocca al lupo! Al tuo ritorno dagli Stati Uniti vorrei esser tra i primi che ti saluteranno, come si spera, campione mondiale. Di nuovo i migliori auguri per il tuo prossimo viaggio oltreoceano! - Grazie mille! - Ecco, ora devo tirarmi in disparte, perché si iniziano i festeggiamenti. Il vincitore Rolf Ramthor, ossia Stucchino, come lo chiamano qui i suol compagni (l'ho sentito or ora), riceve raggiante la corona d'alloro, una grande coppa, la pergamena del comitato e un assegno per una somma vistosa. Inoltre c'è un profluvio di fiori, addirittura una pioggia di fiori, e una quantità di pacchetti di tutte le forme e delle più svariate provenienze. Il primo derby per il campionato germanico delle casse da sapone è terminato. Il vincitore è Rolf Ramthor su Freccia d'argento! Con questo è terminata anche la nostra trasmissione del derby delle casse da sapone di Amburgo.. Riprendiamo il collegamento con l'auditorio..— - - Qui Radio Ovest con le stazioni in collegamento. Abbiamo trasmesso la cronaca sportiva. Radiocronista: Herbert Bibbermann. La prossima trasmissione, dopo il segnale orario, sarà la commedia poliziesca dal titolo: La dama dalla pelle vellutata e il suo dente del giudizio che sputa fuoco. Signori e signore, vi auguriamo un buon ascolto!

Pagina 103

L'uccellino azzurro

213280
Maeterlink, Maurice 1 occorrenze
  • 1926
  • Felice Le Monnier, Editore
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Ma nel giardino abbagliante di luce non c'è ombra. Perciò, disperati, i più si decidono a oltrepassare il sipario minaccioso che a destra, in un angolo, chiude la caverna delle Sventure. E ogni volta che uno di essi, preso dal panico, solleva un lembo di quella tenda, dal fondo dell'antro si eleva una tempesta d'ingiurie, d'imprecazioni e di maledizioni. Il Pane, il Cane e lo Zucchero, avviliti, raggiungono il gruppo dei bambini cercando, pieni di vergogna, di nascondersi dietro di loro). TYLTYL (guardando i Grassi Piaceri che fuggono) Dio mio! Come son brutti!... Dove vanno?... LA LUCE Hanno perduto la testa, a quanto pare.... Vanno a rifugiarsi presso le Sventure, e vi rimarranno, temo, per sempre.... TYLTYL (guardandosi attorno, estatico) Oh che bel giardino! Che bel giardino!... Dove siamo?... LA LUCE Siamo sempre nello stesso luogo. Ma ora i tuoi occhi vedono oltre la cerchia consueta.... Vediamo ora la verità qual'è; e fra poco scorgeremo le anime dei Piaceri che possono sopportare la luce del Diamante. TYLTYL Com'è bello!... E che bel tempo!.. Par d'essere in estate.... Guarda! Si direbbe che qualcheduno si avvicina a noi per parlarci.... (Infatti i giardini cominciano a popolarsi di forme angeliche che sembrano uscire da un lunghissimo sonno e che scivolano graziosamente tra gli alberi. Portano vesti luminose dalle sfumature dolcissime e soavi: risveglio di rosa, sorriso d'acqua, azzurro di aurora, rugiada d'ambra, ecc.). LA LUCE Vedi? Ecco dei Piaceri amabili e singolari, dai quali potremo sapere tante cose.... TYLTYL Li conosci?... LA LUCE Sì, li conosco tutti; spesso vengo a trovarli senza che sappiano chi io sia.... TYLTYL Quanti!... Quanti!... Sbucano fuori da tutte le parti.... LA LUCE Una volta ce n'erano molti di più. Sono stati assai danneggiati dai Grassi Piaceri. TYLTYL Non importa, ne rimangono sempre abbastanza.... LA LUCE E ne vedrai tanti altri, a mano a mano che si spargerà nei giardini l'influsso del Diamante.... Vi sono sulla Terra molti più Piaceri di quel che non si creda; ma la maggior parte degli Uomini non sa scoprirli.... TYLTYL Eccone alcuni piccolini che vengono verso di noi.... Andiamo loro incontro.... LA LUCE È inutile. Quelli che più c'interessano passeranno di qui. Ci manca, il tempo di conoscere anche tutti gli altri. (Una brigata di Piaceri piccolini, ridendo e saltellando, arriva, di corsa dal fondo verdeggiante e si mette a ballare un girotondo intorno ai due bambini). TYLTYL Come sono bellini!... Chi sono? Di dove vengono?... LA LUCE Sono i Piaceri dei bambini.... TYLTYL Posso parlare con loro?... LA LUCE È inutile. Cantano, ballano, ridono, ma non sanno ancora parlare.... TYLTYL (saltellando) Buongiorno! Buongiorno! Guarda quel grassone lì, come ride!... Che belle gotine che hanno!... E come sono ben vestiti!... Sono forse tutti ricchi qui?... LA LUCE No, no. Qui, come dappertutto, sono molti più i poveri che i ricchi.... TYLTYL E dove sono i poveri?... LA LUCE Non si possono distinguere gli uni dagli altri.... Il Piacere di un bambino è sempre rivestito da ciò che di più bello esiste sulla terra e nei cieli. TYLTYL (eccitato ) Vorrei ballare con loro.... LA LUCE No, caro, non è possibile; ci manca il tempo.... Ho già visito che l'Uccellino Azzurro non e' è neanche qui.... E del resto, vedi, hanno fretta, son già scomparsi.... Non hanno tempo da perdere neanch'essi: l'infanzia è breve..... (Un'altra brigatella di Piaceri, un po' più grandi dei precedenti, si precipita nel giardino cantando a squarciagola: «Eccoli! Eccoli! Ci hanno visto! Ci hanno visto!» e si mettono a ballare intorno ai due bambini un'allegra faràndola. Quando questa è finita, colui che sembra il capo della piccola schiera si avvicina a Tyltyl porgendogli la mano). IL PIACERE Buongiorno, Tyltyl!... TYLTYL E anche lui mi conosce!... (alla Luce) Tutti mi conoscono, un po' per volta—. Chi sei?... IL PIACERE Non mi riconosci? Scommetto che non riconosci nessuno dei miei compagni?... TYLTYL (un po' imbarazzato) No... Non so, non mi ricordo di avervi mai visto.... IL PIACERE Avete sentito?.. Ne ero sicuro?... Non ci ha mai visto!... (Tutti i Piaceri scoppiano in una risata). E io invece ti dico, mio caro Tyltyl, che ci conosci, e molto bene anche!... Siamo sempre intorno a te!.. Con te mangiamo, beviamo, ci destiamo, respiriamo, viviamo!... TYLTYL Si, si, va bene, lo so.... Mi ricordo.... Ma vorrei sapere come vi chiamate. IL PIACERE E io invece capisco benissimo che non sai nulla.... Sono il capo dei Piaceri-della-tua, casa; e questi che vedi, sono tutti gli altri Piaceri che vi abitano con te. TYLTYL Come! Ci sono dunque dei piaceri a casa mia ?. (Tutti i Piaceri scoppiano in una risata). IL PIACERE Avete sentito?... Chiede se ci sono dei Piaceri a casa sua!... Ma, povero scioccherello, la tua casa ne rigurgita!... Noi ridiamo, noi cantiamo, noi sappiamo creare tanta gioia da buttar all'aria i muri, da scoperchiare il tetto. Ma è inutile. Tu non vedi niente, tu non senti niente.... Spero però che d'ora innanzi metterai giudizio.... E intanto, ora saluterai i più autorevoli.... Così, quando sarai tornato a casa, ti sarà più facile riconoscerli e potrai, al chiudersi di una bella giornata, incoraggiarli con un sorriso, ringraziarli con una parola, cortese. Perchè, credilo, fanno il possibile per renderti facile e piacevole la vita.... E io, per il primo, il servitor tuo, il Piacere-di-essere- in-buona-salute—. Non sono il più bello, ma sono il più serio. Saprai riconoscermi? Ed ecco qua il Piacere-dell'aria-pura, che è quasi trasparente.... Ecco il Piacere-di-voler bene-ai-propri-genitori, vestito di grigio e sempre un po' triste perchè nessuno lo guarda mai.... Ecco il Piacere-del-cielo-azzurro, vestito naturalmente di azzurro; e il Piacere-della- foresta, non meno naturalmente vestito di verde, e che rivedrai ogni volta che ti affaccerai alla finestra.... Ed ecco anche il buon Piacere- delle-ore-soleggiate, color di diamante, e il Piacere-della-Primavera color di smeraldo.... TYLTYL E tutti i giorni siete belli così?... IL PIACERE Sì; quando gli occhi si aprono, ogni giorno è giorno di festa, in ogni casa.... E poi, quando vien la sera, ecco il Piacere-dei-Tramonti, più bello di tutti i re della terra, seguìto dal Piacere-di- veder-spuntar-le-stelle, dorato come un dio del tempo antico.... Poi, quando viene la cattiva stagione, ecco che arriva il Piacere- della-pioggia coperto di perle, e il Piacere-del- fuoco-invernale che schiude alle manine gelate il sue bel mantello di porpora.... E non ti parlo del migliore di tutti noi, del più luminoso, del Piacere-dei-pensieri-innocenti, perchè è quasi fratello delle Grandi Gioie limpide che vedrai fra poco.... E poi, ecco, anche.... Ma no, son troppi davvero!... Non si finirebbe più, e devo invece avvertire le Grandi Gioie che sono lassù, in fondo, presso la porta del cielo, e che nulla sanno ancora del vostro arrivo.... Manderò incontro a loro il Piacere-di-correre- a-piedi-nudi-sulla-rugiada, che è il più svelto di tutti.... (Al Piacere or ora nominato, e che si avvicina facendo delle capriole). Va' ! Corri!... (In questo punto una specie di diavoletto in maglia nera, gettando grida inarticolate e dando spinte a destra e a sinistra, si avvicina a Tyltyl e saltellando pazzamente intorno a lui lo carica di calci, di scappellotti e di motteggi). TYLTYL (stupito e indignatissimo) Chi è questo selvaggio?... IL PIACERE Ma guarda un po'!... è il Piacere-d'essere- insopportabile, fuggito un'altra volta, dalla caverna delle Sventure! Non si sa più dove rinchiuderlo. Riesce sempre a svignarsela, tanto che le stesse Sventure non vogliono più saperne di tenerlo con loro. (Il Diavoletto continua a tormentare Tyltyl, che cerca inutilmente di difendersi; poi, a un tratto, con una gran risata, scompare come era venuto, senza che si sappia il perchè). TYLTYL Ma che ha? È pazzo? LA LUCE Non lo so. Dicono che somiglia a te quando sei cattivo.... Ma ora bisognerebbe pensare all'Uccellino Azzurro.... Potrebb'essere che il capo dei Piaceri-della-casa! sapesse dov'è.... TYLTYL (al Capo dei Piaceri) Dov'è?... IL PIACERE Non sa dov'è l'Uccellino Azzurro!... (I Piaceri-della-casa scoppiano tutti in una risata). TYLTYL (seccato) No, non lo so.... Non mi pare che ci sia nulla da ridere. (Nuovi scoppi di risa). IL PIACERE Via.. non te la prendere a male.... E noi, siamo seri.... Se non lo sa, non vuol dire che sia per questo più sciocco e più ridicolo della maggior parte degli Uomini.... Oh ecco le Grandi Gioie che si avvicinano a noi, chiamate dal Piacere-di-correre-a-piedi-nudi-sullar rugiada!... (Infatti alcune alte e belle figure angeliche, coperte di vesti luminose, si avvicinano lentamente). TYLTYL Come sono belle!... Ma perchè non ridono?... Non sono forse felici?... LA LUCE Non è già quando si ride che si è più felici.... TYLTYL Chi sono?... IL PIACERE Sono le Grandi Gioie.... TYLTYL Come si chiamano? Lo sai?... IL PIACERE Certo; giochiamo spesso insieme.... Ecco, innanzi a tutte, la Grande-Gioia-d'esser- giusta, la quale, ogni volta che si ripara a un'ingiustizia sorride. Io son troppo giovane e non l'ho mai vista sorridere.... Dietro di lei, la Gioia-d'esser-buona, che è la più felice, ma anche la più melanconica: e alla quale è difficile impedire di andar a trovare le Sventure, ch'essa vorrebbe. consolare. A destra, ecco la Gioia-del-lavoro-compiuto, e accanto a lei, la Gioia-di-pensare. Poi la Gioia-di-comprendere, che cerca sempre suo fratello, il Piacere-di- non-capir-nulla.... TYLTYL Ma io l'ho veduto, questo suo fratello!... E andato dalle Sventure insieme coi Grassi- Piaceri.... IL PIACERE Lo prevedevo!... Ha preso una cattiva piega, i cattivi compagni l'hanno corrotto.... Ma non parlare di lui con sua sorella. Potrebbe venirle la voglia di andare a cercarlo, e noi perderemmo una delle gioie più belle.... Ecco anche, fra le più grandi, la Gioia-di-veder-ciò- che-è-bello, che ogni giorno aggiunge qualche raggio alla luce che regna in questo luogo.... TYLTYL E quella laggiù, lontano lontano, fra le nuvole d'oro, che riesco appena a vedere rizzandomi sulla, punta dei piedi?... IL PIACERE È la Grande-Gioia-di-amare.... Ma per quanto tu faccia, non la potrai veder tutta. Sei troppo piccola... TYLTYL E quelle laggiù, in fondo, tutte velate e che non si avvicinano a noi?... IL PIACERE Sono le Gioie che gli Uomini non conoscono ancora.... TYLTYL E le altre, che cosa fanno?... Perchè si tirano in disparte?... IL PIACERE Fanno largo alla nuova Gioia che si avanza, forse la più pura fra tutte quelle che si trovano qui.... TYLTYL Chi è? IL PIACERE Non l'hai ancora riconosciuta?... Guarda meglio, apri i tuoi occhi fino al fondo dell'anima!... Ti ha veduto, ti ha veduto!!... E ti corre incontro a braccia aperte!... È la Gioia di tua madre, è la Gioia-incomparabile-dell'amor-materno!... (Le altre Gioie, accorse da ogni parte, dopo averla accolta con acclamazioni, si traggono silenziosamente in disparte). L'AMOR MATERNO Tyltyl!... E c'è anche Mytyl!... Ma come, voi, voi ritrovo quassù!... Non me lo sarei aspettato davvero!... Mi sentivo così sola a casa, ed ecco che tutti e due siete saliti fino al cielo dove l'anima di tutte le madri sfavilla di gioia!... Ma datemi prima tanti baci, tanti tanti.... Venite tutti e due fra le mie braccia; che cosa può dare al mondo maggior felicità?... Tyltyl, non ridi?... E neanche tu, Mytyl?... Non riconoscete dunque l'amore della vostra mamma?... Ma guardatemi bene!... Non sono questi i miei occhi, le mie labbra, le mie braccia?... TYLTYL Sì, sì, riconosco tutto, ma non sapevo.... Somigli, sì, alla mamma, ma sei molto più bella.... L'AMOR MATERNO È naturale! Io non invecchio più.... E ogni giorno che passa mi dà nuova forza, nuova gioventù, nuova felicità.... Ogni tuo sorriso mi toglie un anno.... A casa, tutto questo non si vede. Ma qui shi vede tutto, e la verità è questa.... TYLTYL (meravigliato, guardandola e abbracciandola alternativamente). E codesto bel vestito, di che cosa è fatto?... Di seta, d'argento o di perle?... L'AMOR MATERNO No. È fatto di baci, di sguardi, di carezze.... Ogni bacio aggiunge un raggio di luna oppure un raggio di sole.... TYLTYL Curiosa! Non avrei mai creduto che tu fossi tanto ricca.... Dove la nascondevi, la tua ricchezza?... Forse in quell'armadio che il babbo tiene chiuso a chiave?... L'AMOR MATERNO No no, non la nascondo, ma non si vede perchè nulla si vede quando gli occhi son chiusi.... Tutte le madri sono ricche quando amano i loro figli.... E non esiste al mondo una madre povera, una madre brutta, una madre vecchia.... Il loro amore è sempre la più bella fra tutte le Gioie!... E sei talvolta sembrano tristi, basta un bacio dato o ricevuto perchè tutte le lacrime si trasformino dentro ai loro occhi in stelle.... MAURICE MAETERLINK. - L'Uccellino azzurro. 12 TYLTYL (guardandola con stupore) Ma già, è vero?... I tuoi occhi son pieni, di stelle. Sono, sì, i tuoi occhi, ma, tanto più belli.... E riconosco anche la tua, mano, con l'anellino al dito.... C'è sempre il segno di quella bruciatura che ti facesti una sera accendendo il lume.... Ma, è più bianca, e la, pelle così trasparente?... Sembra quasi di vederci scorrer dentro la luce.... Questa, mano lavora meno, non è vero, della mano di casa?... L'AMOR MATERNO è sempre la stessa mano. Non t'eri mai accorto che diventa bianca, bianca e si riempie di luce quando ti carezza?... TYLTYL E poi non capisco, mamma.... Riconosco, sì, la tua voce; ma parli tanto meglio che a casa L'AMOR MATERNO A casa c'è troppo da fare e il tempo manca.... Ma dentro al cuore si sente tutto quello, che non si dice.... E ora che mi hai veduta, mi riconoscerai sotto la mia veste logora quando tornerai domani nella nostra capanna?... TYLTYL Non voglio tornarci.... Poichè sei qui anche tu, voglio rimanere qui, finchè ci stai tu.... L'AMOR MATERNO Ma non vedi che è la, stessa cosa abito laggiù, abitiamo tutti laggiù.... Quassù sei venuto soltanto per comprendere e per imparare finalmente a saper vedermi quando siamo laggiù.... Capisici, Tyltyl mio?... Tu credi d'essere in cielo; ma, il cielo è dovunque noi possiamo darci un bacio.... Non si possono avere due madri, e tu hai me sola.... Ogni bambino ne ha una sola, sempre la stessa, e sempre la, più bella di tutte. Ma bisogna conoscerla, e saper guardare bene.... Ma tu come hai fatto ad arrivare fin quassù e a trovare una strada che gli Uomini stanno cercando da quando sono scesi sulla terra?... TYLTYL (additando la Luce che, per discretezza, si è allontanata) Ci ha, condotti lei.... L'AMOR MATERNO Chi è?... TYLTYL La Luce.... L'AMOR MATERNO Non l'ho mai veduta.... Sapevo che vi voleva bene e che era tanto buona.... Ma perchè si nasconde?... Perchè non mostra mai il suo volto?.... TYLTYL Sì.... ma teme che i Piaceri si spaventino se ci vedono troppo chiaro.... L'AMOR MATERNO Ma non sa dunque che l'aspettiamo ansiosamente!... (chiamando le altre Grandi Gioie) Venite, venite, sorelle! Venite, accorrete tutte, la Luce viene finalmente da noi!... (Fremito di commozione fra le Grandi Gioie che si avvicinano gridando: «La Luce è venuta?... La Luce !... La Luce...»). LA GIOIA-DI-COMPRENDERE (scostando le altre Gioie per andare ad abbracciare la Luce). Sei la Luce e noi non lo sapevamo!... Sono anni ed anni che ti aspettiamo. Mi riconosci?... Sono la Gioia-di- comprendere.... Ti cerco da tanto tempo.... Siamo felici, sì, ma non possiamo veder di là dal nostro essere.... LA GIOIA-D'ESSER-GIUSTA (abbracciando alla sua volta la Luce) Mi riconosci?... Sono la Gioia-d'esser-giusta, che ti aveva tanto pregata di venire..... Siamo felici, sì, ma non possiamo vedere di là dalle nostre ombre.... LA GIOIA-DI-VEDERE-CIò-CHE-È-BELLO (abbracciandola anch'essa) E me, mi riconosci?... Sono la Gioia-della- bellezza, che ti ha sempre voluto bene.... Siamo felici, sì, ma non possiamo vedere di là dai nostri sogni.... LA GIOIA-DI-COMPRENDERE Via; via, sorella cara, non farci più a lungo aspettare.... Siamo abbastanza forti, abbastanza pure.... Scosta dunque questi veli che ci nascondono ancora le ultime verità e le ultime felicità.... Guarda, le mie sorelle s'inginocchiano tutte ai tuoi piedi.... Sei la nostra regina e la nostra ricompensa.... LA LUCE (avvolgendosi più, ancora nei suoi veli). Sorelle, sorelle mie belle, io obbedisco al mio Signore... L'ora non è ancora venuta, ma forse scoccherà presto: e allora, tornerò senza timori e senza ombre.— Addio, rialzatevi, abbracciamoci ancora come sorelle che si ritrovano, in attesa del giorno che spunterà ben presto.... L'AMOR MATERNO (abbracciando la Luce). Siete stata così buona verso i miei poveri piccini.... LA LUCE Sarò sempre buona verso coloro che si amano.... LA GIOIA-DI-COMPRENDERE Che il tuo ultimo bacio si posi sulla mia fronte.... (Si baciano lungamente: quando si staccano l'una dall'altra, i loro occhi sono pieni di lacrime). TYLTYL (sorpreso) Perchè piangete?... (guardando le altre Gioie) Oh bella! Anche voi piangete.... Ma perchè tutti gli occhi sono pieni di lacrime?... LA LUCE Zitto, bambino mio.... CALA LA TELA

Mitchell, Margaret

221854
Via col vento 4 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Gli rivolse un piccolo cenno e un sorriso abbagliante; egli si inchinò con una mano sul petto. Levi, benché inorridito, si rimise rapidamente e urlò: - Scegliete le vostre dame! E l'orchestra intonò il reel più bello di tutti: «Dixie».

Pagina 206

Gli occhi piccoli e socchiusi per il sole abbagliante, osservavano tranquillamente la casa, da sotto la visiera del berretto azzurro. Scese lentamente e attorcigliò le redini sul pomo della sella; frattanto Rossella sentí che il respiro le ritornava, improvviso e doloroso come dopo aver ricevuto un colpo nello stomaco. Uno yankee, uno yankee con una lunga pistola al fianco! E lei era sola in casa con tre ammalate e due lattanti! Mentre egli percorreva il viale con la mano sulla pistola e guardando vivamente a destra e a sinistra, un caleidoscopio di immagini spaventose le passò dinanzi agli occhi: storie raccontate da zia Pittypat di attacchi a donne indifese, di gole tagliate, di case incendiate, di bambini sventrati; tutti gli indicibili orrori inseparabili dal nome di «yankee». Il suo primo impulso fu di nascondersi nel gabinetto, di scivolare sotto al letto, di fuggire per la scala posteriore e correre urlando verso la palude; qualunque cosa pur di sfuggirgli. Ma udí il suo passo guardingo sui gradini dell'ingresso, e la sua andatura pesante nel vestibolo; e comprese che ogni via di scampo era ormai preclusa. Irrigidita dallo spavento, lo udí passare di camera in camera a pianterreno, con passo che diventava sempre piú sicuro a misura che si accorgeva che la casa era deserta. Ora si trovava nella sala da pranzo; fra poco andrebbe in cucina. Al pensiero della cucina una rabbia subitanea invase Rossella. E lo spavento diede luogo a un furore strapotente. La cucina! Quivi, sul fornello, erano due casseruole: una piena di mele al forno e l'altra di minestrone fatto coi legumi portati faticosamente dalle Dodici Querce e dall'orto di Maclntosh; un pranzo che doveva servire per nove persone affamate ed era appena sufficiente per due. Rossella dominava il suo appetito da qualche ora, aspettando il ritorno degli altri; e il pensiero che lo yankee potesse divorare il loro magro pasto la fece tremare di collera. Dio li maledica tutti! Erano discesi come delle cavallette, distruggendo tutto, ed ora tornavano ancora per rubare i miseri rimasugli. Ah no, per Dio, ecco uno yankee che non ruberebbe piú nulla a nessuno! Si tolse l'altra scarpa e, a piedi scalzi, andò velocemente al cassettone senza neanche piú sentire il dolore della sua ferita. Aperse senza far rumore il cassetto superiore e afferrò la pesante pistola che aveva recata da Atlanta: l'arme che Carlo aveva portata, ma con la quale non aveva mai sparato. Frugò nella borsa di cuoio sospesa alla parete sotto la sua sciabola e trasse una cartuccia che insinuò nell'arme con mano che non tremava. Rapidamente e silenziosamente corse fuori dalla stanza e scese le scale reggendosi alla ringhiera con una mano e tenendo con l'altra la pistola fra le pieghe della gonna. - Chi va là? - chiese una voce nasale. Ed ella si fermò a metà delle scale, col sangue che le ronzava nelle orecchie in modo cosí violento che quasi non le faceva udire la voce dell'uomo. - Fermi, o sparo! - gridò ancora la voce. Era fermo sulla soglia della stanza da pranzo, con la pistola in una mano e nell'altra la cassettina da lavoro di legno rosa in cui erano il ditale d'oro, le forbicine e l'agoraio d'oro. Rossella sentí agghiacciarsi le gambe, ma l'ira le fece avvampare il volto. La scatola da lavoro di Elena in quelle mani! Volle gridare: «Posatela subito! Posatela subito, brutto...» ma le parole non uscirono. Rimase a guardarlo al di sopra della ringhiera e vide il suo volto mutare la sua espressione di turbamento e di tensione in un sorriso fra sprezzante e grazioso. - Dunque c'è qualcuno in casa - disse rimettendo la pistola nel fodero e attraversando il vestibolo fino a trovarsi proprio sotto a lei. - Tutta sola, bella signorina? Con la rapidità del lampo ella sollevó l'arme al di sopra della ringhiera in direzione del viso barbuto. Prima che egli potesse portare la mano alla cintura, Rossella fece scattare il grilletto. Il rinculo della pistola la fece indietreggiare, mentre il fragore dell'esplosione le riempiva le orecchie, e il fumo acre le penetrava nelle narici. L'uomo cadde all'indietro con una violenza che fece tremare il mobilio. La scatola gli sfuggí dalle mani spargendo attorno il contenuto. Senza neanche accorgersi di ciò che faceva, Rossella scese le scale di corsa e fu accanto a lui, guardando ciò che era rimasto di quel volto al di sopra della barba; un buco sanguinoso al posto del naso, gli occhi bruciati dalla polvere. Due rivoli di sangue cominciarono a scorrere sul pavimento, uno proveniente dal viso, l'altro dal capo. Era morto. Senza alcun dubbio. Aveva ucciso un uomo. Il fumo saliva in lente volute al soffitto e il rigagnolo rosso si allargava. Per un tempo incalcolabile ella restò immobile, e nel calore della mattina d'estate ogni minimo rumore e profumo sembrò ingigantire: il battito del suo cuore, il fruscio delle foglie di magnolia, il lontano lamento di un uccello di palude, la lieve fragranza dei fiori fuori della finestra. Aveva ucciso un uomo, lei che non era mai rimasta sino al termine di una caccia, che non sopportava le stride dei maiali al macello, il guaito di un coniglio in trappola. «Ucciso!» pensò stupidamente. «Ho commesso un assassinio. È impossibile.» I suoi occhi corsero alla mano tozza e vellosa che posava sul pavimento, vicino alla scatola da lavoro, e improvvisamente ebbe la sensazione di essere nuovamente viva, viva gioiosamente, di una fredda gioia da figlie. Avrebbe affondato con piacere il tallone nella larga ferita che era al posto del naso di quell'uomo, e il sangue caldo sul piede nudo le avrebbe dato piacere. Aveva colpito per vendicare Tara... ed Elena. Sul pianerottolo superiore udí un calpestio affrettato e incerto; poi una pausa; quindi nuovi passi, lenti e strascicati, accompagnati da un rumore metallico. Riprendendo coscienza del momento e del luogo, Rossella alzò gli occhi e vide in cima alla scala Melania vestita solo dell'accappatoio cencioso che funzionava da camicia da notte; il suo debole braccio era tirato in basso dal peso della sciabola di Carlo. Gli occhi di Melania afferrarono la scena nel suo insieme; il corpo vestito di azzurro nella pozza di sangue, la scatola da lavoro, Rossella scalza e pallida con la pistola stretta nella mano convulsa. I suoi occhi incontrarono quelli di Rossella. Un raggio di orgoglio feroce illuminava il suo volto generalmente dolce; nel suo sorriso era un'approvazione e una gioia che uguagliavano il tumulto che agitava il seno della giovine temeraria. «È come me!» pensò Rossella. «Comprende i miei sentimenti! Avrebbe fatto lo stesso!» Con un brivido, guardò la fragile donna per la quale non aveva mai provato che disprezzo e antipatia. Ora, lottando contro l'odio per la moglie di Ashley, nasceva in lei un sentimento di ammirazione e di camerateria. In un lampo, si accorgeva che sotto la voce gentile e gli occhi di colomba di Melania si celava una lama d'acciaio infrangibile; e sentí pure che nel sangue tranquillo di Melania erano squilli e fanfare di intrepido ardimento. - Rossella! Rossella! - gridarono le voci sgomente di Carolene e di Súsele, soffocate dall'uscio chiuso; e la vocetta di Wade urlò: - Zietta! Zietta! - Melania pose rapidamente un indice sulle labbra e posando la sciabola sul primo gradino, attraversò faticosamente il pianerottolo e aperse la porta delle ammalate. - Non abbiate paura, bambine! - La sua voce era scherzosa. - Vostra sorella ha voluto pulire la pistola di Carlo e involontariamente ha fatto partire un colpo che le ha fatto una paura terribile!... Pensa, Wade, che la mamma ha sparato con la pistola del tuo papà! Quando sarai grande, sparerai anche tu. «Con che freddezza sa mentire!» pensò Rossella con ammirazione. «Io non avrei avuto l'idea... Ma perché mentire? Bisogna che sappiano quello che ho fatto.» Guardò nuovamente il corpo; ora la sua ira e il suo terrore svanivano e la reazione le faceva vacillare le ginocchia. Melania si trascinò nuovamente sino alla sommità della scala e cominciò a scendere reggendosi alla ringhiera, mordendosi il pallido labbro inferiore. - Torna a letto, sciocca; ti ammazzerai! - esclamò Rossella; ma Melania la raggiunse nel vestibolo. - Rossella - bisbigliò - dobbiamo portarlo fuori e seppellirlo. Non può essere che sia solo; e se lo trovano qui... - Dev'essere solo - replicò Rossella. - Non ho visto nessun altro dalla finestra. Sarà uno sbandato. - Anche se è solo, bisogna che nessuno sappia... I negri potrebbero parlare, e tu potresti essere arrestata. Dobbiamo nasconderlo prima che gli altri tornino dalla palude. Spinta ad agire dall'insistenza di Melania, Rossella rifletteva. - Potrei seppellirlo nell'angolo del giardino, sotto il noce... Il terreno dev'essere morbido, perché Pork ha scavato per dissotterrare il bariletto di whisky. Ma come portarlo fin là? - Prendiamo una gamba per ciascuna e trasciniamolo - disse Melania con fermezza. L'ammirazione di Rossella aumentò. - Tu non puoi - riprese. - Lo trascinerò io. Torna a letto. Ti ammazzerai. Non tentare di aiutarmi, altrimenti ti porto su in braccio. Il volto pallido di Melania abbozzò un sorriso di comprensione. - Sei molto buona, Rossella - e le sfiorò la guancia con le labbra. Poi, prima che Rossella si fosse riavuta dalla sorpresa, proseguí - Se tu puoi trascinarlo da sola, io pulirò intanto il... sí, il pavimento prima che gli altri tornino a casa; e... senti... - Di'? - Credi che sarebbe... disonesto frugare nella sua giberna? Potrebbe esservi qualcosa da mangiare. - Hai ragione - rispose Rossella, seccata di non avere avuto lei stessa quell'idea. - Tu guarda nella giberna; io esaminerò le tasche. Chinandosi sul morto con disgusto, finí di sbottonargli la tunica e cominciò sistematicamente a frugare nelle tasche. - Dio mio! - mormorò tirando fuori una saccoccia rigonfia avvolta in uno straccio. - Melania... Melly, questa è piena di denaro! Melania non rispose, ma sedette a un tratto sul pavimento e si appoggiò alla parete. - Non badarci - mormorò - mi sento un po' debole. Rossella tolse il cencio e allargò le pieghe del cuoio con mano tremante. - Guarda, Melly... guarda! Melania guardò e i suoi occhi si dilatarono. Ficcate dentro alla rinfusa erano una quantità di banconote degli Stati Uniti, insieme a denaro della Confederazione, e in mezzo a quelle erano una moneta d'oro di dieci dollari e due da cinque. - Non metterti a contare adesso - riprese Melania mentre Rossella cominciava a sfogliare i biglietti di banca. - Non abbiamo il tempo... - Capisci, Melania, che questo denaro significa che potremo mangiare? - Sí, cara. Lo so; ma ora non abbiamo tempo. Guarda nelle altre tasche mentre io frugo nella giberna. Le tasche dei calzoni contenevano soltanto un mozzicone di candela, un temperino, una borsa da tabacco e un pezzo di spago. Melania trasse dalla giberna un pacchetto di caffè che annusò come se fosse il piú soave dei profumi, un rimasuglio di galletta e la miniatura di una bambina in una cornicetta d'oro ornata di perline, una spilla di granati, due larghi braccialetti d'oro, due catenelle e un ditale anche d'oro, una tazza d'argento da bambino, un anello con un solitario, un paio di forbici d'oro e un paio di pendenti di brillanti a forma di pera che anche ai loro occhi inesperti sembrarono essere non meno di un carato ciascuno. - Un ladro! - mormorò Melania ritraendosi con ribrezzo. - Deve aver rubato tutto questo! - Senza dubbio. Ed era venuto qui sperando di rubare ancora qualche altra cosa. - Hai fatto bene a ucciderlo - e i dolci occhi di Melania s'indurirono. - Ma ora bisogna sbrigarsi. Rossella si chinò e afferrò i piedi del morto. Ma com'era pesante e come si sentí improvvisamente debole! E se non riuscisse a smuoverlo? Si volse di spalle e mettendosi sotto le braccia quei piedi, cominciò a tirare. Il suo piede ammalato che nell'eccitazione aveva dimenticato, ora le dava una sofferenza che le faceva stringere i denti, costringendola a portare tutto il proprio peso sul calcagno. Sforzandosi e sudando riuscí a trascinarlo per tutto il vestibolo, lasciandosi dietro una traccia rossa. - Se fa sangue nel cortile, non potremo nasconderlo - disse rabbrividendo. - Dammi il tuo accappatoio, Melania, glie lo avvolgerò intorno alla testa. Il volto pallido di Melania divenne vermiglio. - Non fare la sciocca, nessuno ti guarda. Se io avessi una sottoveste o delle mutandine, le adoprerei. Accoccolandosi presso la parete, Melania si sfilò l'accappatoio cencioso e lo porse a Rossella, cercando di coprirsi il seno alla meglio con le braccia. «Meno male che io non ho tanto pudore» pensò Rossella sentendo piú che vedere, l'imbarazzo di Melania, mentre ella avvolgeva la tela attorno al viso in poltiglia. Riuscí a trascinare il corpo fino al porticato posteriore e, fermandosi per asciugarsi la fronte col dorso della mano, diede un'occhiata verso Melania che era rannicchiata contro la parete con le ginocchia piegate contro il petto nudo. «Era proprio il momento di stare a pensare al pudore!» disse fra sé Rossella; ma subito dopo si vergognò. Dopo tutto... dopo tutto Melania si era trascinata fuori dal letto per venire in suo aiuto con un'arme troppo pesante per lei. C'era voluto del coraggio, quella specie di coraggio che Rossella riconosceva lealmente di non possedere; quel coraggio tutto d'un pezzo che aveva caratterizzato Melania nella terribile notte della resa di Atlanta e durante il lungo viaggio verso casa. Era l'intangibile, incrollabile coraggio dei Wilkes, qualità che Rossella non possedeva, ma a cui rendeva omaggio. - Torna a letto - le disse voltandosi. - In questo modo arrischi la vita. Pulirò io dopo averlo sepolto. - Ma no; strofinerò con uno di quei tappeti vecchi - sussurrò Melania guardando la pozza di sangue col viso sconvolto. - Ah, be', se vuoi proprio star male, io poi non verrò a curarti! Piuttosto, se qualcuno ritorna prima che io abbia finito, trattienilo in casa e digli che il cavallo è venuto qui non si sa da dove. Melania rimase rannicchiata contro la parete e si coperse le orecchie per non udire la serie di colpi prodotti dalla testa del morto che batteva contro i gradini. Nessuno domandò da dove era venuto il cavallo; era ovvio che fosse un superstite della recente battaglia e tutti furono troppo contenti di averlo. Nessuno spettro si levò dalla tomba scavata da Rossella per spaventarla durante le lunghe notti in cui la stanchezza le impediva di dormire. Nessun sentimento di orrore o di rimorso l'assaliva; e ciò la stupiva perché ella sapeva che fino a un mese prima sarebbe stata incapace di quel gesto. La graziosa e giovane signora Hamilton, con le sue fossette e i suoi pendenti sempre in moto, che riduceva in poltiglia il viso di un uomo e poi lo seppelliva in una fossa scavata frettolosamente! Rossella sogghignò pensando alla costernazione che una simile idea avrebbe dato a coloro che la conoscevano. - Non voglio piú ricordarmene - decise. - Oramai la cosa è fatta e sarei stata molto stupida se non l'avessi ammazzato. Ma credo di essere cambiata parecchio da quando sono tornata a casa, altrimenti non avrei potuto. Era effettivamente cambiata piú di quanto non immaginasse, e la corazza che aveva cominciato a formarsi attorno al suo cuore quel giorno in cui ella giaceva nell'orto degli schiavi alle Dodici Querce, si andava a poco a poco indurendo. Ora che aveva un cavallo, Rossella poteva pensare a informarsi di quel che fosse accaduto ai vicini. Da quando era arrivata a casa si era chiesta disperatamente mille volte: «Ma siamo proprio i soli rimasti nella Contea? Tutto è stato incendiato, tutti si sono rifugiati a Macon?» Con la memoria fresca della rovina delle Dodici Querce e delle abitazioni dei MacIntosh e degli Slattery, aveva paura, quasi, di apprendere la verità. Ma era meglio sapere il peggio che ignorarlo. Decise quindi recarsi prima alla casa dei Fontaine, non perché fossero i piú vicini, ma perché poteva esservi il vecchio dottor Fontaine; e Melania aveva bisogno di un medico. Non si andava rimettendo come avrebbe dovuto e Rossella era spaventata del suo pallore e della sua debolezza. Non appena il suo piede le permise d'infilare una scarpina, ella montò quindi il cavallo dello yankee. Con un piede in una staffa accorciata e l'altra gamba di traverso sul pomo della sella, ella si avviò attraverso i campi, verso Mimosa. Con sua sorpresa e piacere vide che la casa giallo-pallido era ancora ritta fra gli alberi di mimosa. Una felicità che le fece quasi venire le lagrime la invase quando vide uscire dalla casa le tre signore Fontaine che le diedero il benvenuto con baci ed esclamazioni di gioia. Ma quando i primi saluti affettuosi furono scambiati, e tutte si riunirono nella sala da pranzo, Rossella ebbe un brivido. Gli yankees non erano arrivati a Mimosa, perché questa era lontana dalla strada principale; perciò i Fontaine avevano ancora la loro casa e le loro provviste. Ma a Mimosa regnava lo stesso strano silenzio che opprimeva Tara e tutta la regione. Tutti gli schiavi, ad eccezione di quattro serve, erano fuggiti, spaventati dall'avvicinarsi degli yankees. Non un uomo in casa a meno che non si volesse calcolare come tale il bambino di Sally, il piccolo Joe appena fuori dalle fasce. Nella grande casa erano sole la nonna Fontaine, ormai settantenne, sua nuora che era sempre stata chiamata la signora giovane, benché avesse compiuto i cinquant'anni, e Sally che ne aveva appena compiuto venti. Quantunque isolate e prive di qualsiasi protezione, non mostravano terrore; probabilmente, - pensò Rossella - perché Sally e la signora giovane troppo temevano l'indomabile nonna che aveva sempre avuto occhi e lingua ugualmente acuti, per osare lamentarsi. Fra le tre donne non esisteva parentela di sangue, ed esse erano di età assai diversa; ma pure erano unite da un legame di spirito e di esperienza. Tutte portavano abiti neri tinti in casa, tutte erano tristi, preoccupate e amareggiate; ma questi sentimenti non trapelavano dai loro sorrisi e dalle loro parole. I loro schiavi erano fuggiti, il loro denaro non valeva nulla, il marito di Sally era morto a Gettysburg e anche la signora giovane era vedova, essendo il giovane dottor Fontaine morto di dissenteria a Vicksburg. Gli altri due ragazzi, Alex e Toni, erano nella Virginia; e nessuno sapeva se erano vivi o morti; il vecchio dottor Fontaine era rimasto con la cavalleria di Wheeler. - E quel vecchio pazzo, a settantatré anni cerca di fare il giovinotto benché sia pieno di reumatismi - disse la nonna, fiera di suo marito, con gli occhi che smentivano le parole aspre. - Sapete nulla di ciò che sta succedendo ad Atlanta? - chiese Rossella dopo che si furono messi a sedere. - Noi a Tara siamo completamente privi di ogni notizia. - Qui siamo nella stessa condizione, figliola - rispose la vecchia. - Sappiamo soltanto che Sherman si è finalmente impadronito della città. - Ed ora che sta facendo? Dove sta combattendo? - Come vuoi che tre povere donne isolate in campagna sappiano qualche cosa della guerra, quando da settimane non abbiamo visto né una lettera né un giornale? - replicò la vecchia aspramente. - Uno dei nostri negri ha parlato con un altro che ne aveva visto un terzo che era stato a Jonesboro. Hanno detto che gli yankees si erano acquartierati ad Atlanta per far riposare uomini e cavalli; ma non so se sia vero. - Pensare che eravate a Tara e non lo sapevamo! - esclamò la signora giovane. - Come mi rimprovero di non essere mai venuta a vedere! Ma qui c'è tanto da fare dopo che i negri sono andati via, che non mi sono mai potuta muovere. Avrei pur dovuto trovare il tempo; era un dovere. In verità credevamo che gli yankees avessero bruciato Tara, come hanno fatto per le Dodici Querce e per la casa di MacIntosh, e che i vostri si fossero rifugiati a Macon. Non immaginavamo mai che voi, Rossella, foste tornata. - E come potevamo pensare diversamente, se i negri del signor O'Hara, quando passarono di qui, erano tutti spaventati e ci dissero che gli yankees stavano per incendiare Tara? Una sera, poi, vedemmo i riflessi del fuoco da quella parte, e durarono per delle ore; e i nostri stupidi schiavi si spaventarono tanto che fuggirono. Che cosa fu bruciato? - Tutto il nostro cotone: un valore di centocinquantamila dollari - rispose Rossella amaramente. - Ringrazia Dio che non abbiano bruciato la tua casa - replicò la nonna, appoggiando il mento al suo bastone. - Il cotone si può coltivare ancora, mentre la casa non si ricostruisce. A proposito, avete cominciato a raccogliere il cotone, voialtri? - No, - rispose Rossella; - ma è quasi tutto rovinato. Non credo che ve ne sia piú di tre balle. E poi, tutti i nostri negri-contadini se ne sono andati e non c'è nessuno per raccoglierlo. - Dio mio, tutti i contadini andati via e nessuno per raccoglierlo! - scimmiottò la nonna, lanciando a Rossella uno sguardo satirico. - E le tue belle manine, e quelle delle tue sorelle? - Io raccogliere il cotone? - esclamò Rossella inorridita, come se la nonna avesse suggerito un delitto. - Come una contadina? Come una stracciona? Come le donne di Slattery? - Straccioni! Dio mio, com'è delicata e signorile questa generazione! Ti dirò che quando io ero una bambina, mio padre perse tutto il suo patrimonio, e io non ebbi paura di lavorare con le mie mani, anche nei campi, finché papà non mise assieme abbastanza denaro per comprare degli altri schiavi. Ho zappato la terra, ed ho raccolto il cotone, e se sarà necessario, lo farò ancora. - Ma allora - esclamò la nuora lanciando sguardi imploranti alle due ragazze perché la aiutassero a lisciare le penne rabbuffate della vecchia, - erano altri tempi, e adesso tutto è cambiato! - I tempi non cambiano mai quando c'è bisogno di lavorare - affermò la vecchia senza lasciarsi addolcire. - Ed io mi vergogno per te, Rossella, di sentirti parlare come se il lavoro onesto fosse una cosa indegna. Per cambiare argomento Rossella si affrettò a chiedere: - E che notizie dei Tarleton e dei Calvert? Si sono rifugiati a Macon? Hanno avuto la casa incendiata? - Gli yankees non sono arrivati a casa Tarleton, perché come la nostra, è lontana dalla strada maestra; ma sono andati dai Calvert e hanno rubato tutte le provviste e il pollame, e hanno fatto fuggire tutti i negri. Era Sally che aveva cominciato a parlare, ma la nonna l'interruppe. - Sicuro! Promisero a tutte le negre abiti di seta e orecchini d'oro! E Catina Calvert ha raccontato che alcuni soldati son partiti portando in groppa delle stupide negre. I risultati saranno dei bambini gialli, e non credo che il sangue yankee migliorerà. - Oh, mamma! - Non fare quella faccia scandalizzata, Giovanna. Siamo tutte maritate, no? E Dio sa che abbiamo visto dei bambini mulatti anche prima di ora! - Come mai non hanno bruciato la casa dei Calvert? - La casa è stata salvata per gli sforzi combinati della seconda signora Calvert e di quel suo sorvegliante yankee, Hilton - rispose la vecchia signora, la quale parlava sempre della ex- governante come della o seconda signora Calvert» benché la prima fosse oramai morta da venti anni. «Noi siamo simpatizzanti con l'Unione» - continuò con voce nasale e strascicata rifacendo l'accento yankee. Ed affermò che tutti i Calvert erano yankees. Pensare che il signor Calvert è morto nel Wilderness! E Raiford a Gettysburg e Cade è nella Virginia, con l'esercito! Catina era cosí mortificata che avrebbe preferito che la casa fosse incendiata! Disse che Cade diventerebbe idrofobo il giorno in cui, tornando a casa, venisse a saperlo. Ma questo è ciò che accade quando un uomo sposa una yankee: né orgoglio né dignità; non pensano che alla loro pelle... Ma come mai non hanno incendiato Tara, Rossella? Per un attimo Rossella tacque. Sapeva che la domanda seguente sarebbe: «E come state tutti? Come sta la cara mamma?» E non poteva, no, non poteva dire che Elena era morta. Sapeva che se avesse pronunciato quella parola dinanzi a quelle donne simpatiche sarebbe scoppiata in lagrime; e non doveva piangere. Non aveva pianto da quando era arrivata a casa; ed era certa che se aprisse la via alle lagrime, tutto il suo coraggio svanirebbe. Ma capiva anche che se taceva, le Fontaine non le perdonerebbero mai di aver loro nascosto quella notizia. - Suvvia, parla - proseguí con asprezza la vecchia. - Non lo sai? - Ecco: io sono arrivata a casa l'indomani della battaglia - rispose in fretta - e gli yankees erano andati via. Il babbo mi disse che... non avevano bruciato la casa perché Súsele e Carolene stavano tanto male che non si poteva trasportarle altrove. - È, la prima volta che sento dire che uno yankee si è comportato come si deve. - La vecchia signora sembrava si rammaricasse di dovere riconoscere un sentimento umano negli invasori. - E ora come stanno le ragazze? - Molto meglio; ma sono debolissime. - Poi, vedendo la domanda sulle labbra della vecchia signora, si affrettò a cambiare conversazione. - Volevo appunto... volevo chiedervi se potete prestarci qualche cosa da mangiare. Gli yankees hanno distrutto tutto, come uno stormo di cavallette. Ma se siete poco provviste, ditemelo francamente e... - Manda Pork con un carretto e ti daremo la metà di quello che abbiamo: riso, farina, prosciutto, qualche pollo. - No, questo è troppo! Io... - Non una parola! Non voglio sentirla. Altrimenti, perché si sarebbe vicini? - Siete cosí buona che non so... Ma ora debbo andare. A casa saranno preoccupati di non vedermi ancora tornare. La nonna si alzò bruscamente e prese Rossella per un braccio. - Voi due rimanete qui - disse alle altre. - Debbo dire una parola a Rossella. Aiutami a scendere gli scalini, Rossella. La signora giovane e Sally salutarono Rossella, promettendo di andare presto a trovarla. Erano divorate dalla curiosità di sapere di che cosa dovesse parlare la nonna; ma sapevano che questa non lo avrebbe mai detto. Con la mano sulla briglia del cavallo, Rossella attendeva, col cuore angosciato. - Ora dimmi: - cominciò la vecchia - che cosa c'è che non va bene a Tara? Che cosa ci nascondi? Rossella fissò gli occhi acuti che la guardavano e comprese che potrebbe parlare senza piangere. Nessuno piangeva dinanzi alla nonna Fontaine, a meno che non ne avesse il permesso da lei. La mamma è morta - disse piano. La mano appoggiata al suo braccio si strinse e le palpebre grinzose ebbero un battito. - L'hanno uccisa gli yankees? - È morta di tifo. Il giorno prima del mio arrivo. - Non ci pensare. - La voce era severa; e Rossella vide che la nonna inghiottiva con sforzo. - E tuo padre? - Il babbo è... il babbo non è piú lo stesso. - Che vuoi dire? È ammalato? - Il colpo... è cosí stranito... non è... - Non dirmi che non è piú in sé. Il colpo gli ha toccato il cervello? Fu un sollievo per lei udire enunciare cosí schiettamente la verità. Com'era buona la vecchia a non dirle parole di simpatia che l'avrebbero fatta piangere! - Sí - rispose con tristezza - ha perduto il senno. Sembra come addormentato e a volte non si ricorda che la mamma è morta. Rimane delle ore ad aspettarla pazientemente, lui che era cosí impaziente! Ma è peggio quando si ricorda... Improvvisamente balza in piedi e corre fuori di casa, fino al nostro cimitero. Ritorna trascinandosi, con gli occhi pieni di lagrime e dice: «Caterina Rossella, la mamma è morta. La mamma è morta». E lo ripete all'infinito, tanto che mi par di impazzire. Di notte, qualche volta, sento che la chiama; allora scendo dal letto e vado a dirgli che è andata a trovare uno schiavo ammalato. E lui brontola perché dice che si strapazza sempre per curare gli altri. È difficile farlo tornare a letto: è come un bambino. Come vorrei che il dottor Fontaine fosse qui! So che farebbe qualche cosa per il babbo. E anche Melania ha bisogno del medico. Non si è rimessa come dovrebbe dopo il parto e... - Melly... un bambino? Ed è con te? - Sí. - E perché non è a Macon con sua zia e i suoi parenti? Non mi pareva che tu avessi gran simpatia per lei, benché fosse sorella di Carlo. Andiamo, via, raccontami. - È un po' lungo, nonna Fontaine. Non volete rientrare in casa e mettervi a sedere? - Posso stare in piedi - fu la breve risposta. - E se racconti la storia dinanzi alle altre, si mettono a piangere e ti fanno commuovere e dopo ti senti male. Avanti, racconta. Rossella cominciò semplicemente a narrare l'assedio e lo stato di Melania; e mentre andava avanti, trovava negli occhi che la fissavano le parole di sgomento e di orrore che da principio le erano mancate. Tutto le tornò in mente: il calore estenuante della giornata in cui era nato il bimbo, il terrore, la fuga, l'abbandono di Rhett. Parlò dell'oscurità della notte, dei fuochi che potevano essere di amici o di nemici, degli uomini e dei cavalli morti che aveva incontrato lungo la strada, delle rovine fumiganti, della fame, della desolazione, della paura che anche Tara fosse bruciata. - Credevo che arrivando a casa avrei deposto il tremendo fardello. Credevo che mi fosse già accaduto quanto di peggio poteva accadere; ma quando seppi che era morta, compresi che cosa era veramente il peggio. Abbassò gli occhi e attese che la nonna dicesse una parola. Il silenzio era cosí prolungato che temette di non essere stata compresa. Finalmente udí la voce; parlava con un tono di bontà assolutamente nuovo. - Figliuola, è male per una donna trovarsi di fronte al peggio che le può accadere, perché dopo di questo non ha piú paura di nulla. Ed è male, per una donna, non aver paura di nulla. Credi che non capisca tutto quello attraverso cui sei passata? Ho capito benissimo. Avevo circa la tua età quando avvenne la rivolta degli indiani, dopo il massacro del Forte Mims... - la sua voce era stranamente lontana - e riuscii a nascondermi fra i boschi e vidi la nostra casa incendiata e i miei fratelli e sorelle scotennati dagli indiani. E io non potevo fare altro che supplicare il Cielo perché la luce delle fiamme non rivelasse il mio nascondiglio. Trascinarono fuori mia madre e la uccisero a pochi metri dal luogo dove io ero sdraiata nel sottobosco. E anche a lei tolsero il cuoio capelluto; e ogni indiano le ficcava il suo tomahawk nel cranio. Io ero la beniamina della mamma... e vidi tutto questo. La mattina mi avviai all'accampamento piú vicino, che era a circa trenta miglia. Mi ci vollero tre giorni, attraverso le paludi e gli indiani; i nostri, quando li trovai, mi credettero pazza... Là conobbi il dottor Fontaine, che si occupò di me. Sono passati cinquant'anni; e da allora non ho mai piú avuto paura di nulla, perché sapevo che nulla di peggio potrebbe ormai accadermi. Dio vuole che le donne siano creature timide; in una donna che non ha paura è qualche cosa di innaturale... Rossella, cerca che ti rimanga sempre qualche cosa di cui temere... e cerca che ti rimanga qualche cosa da amare... Tacque e rimase con gli occhi fissi, come se rivedesse il giorno in cui aveva avuto paura, mezzo secolo prima. Rossella si mosse impaziente. Aveva creduto che la nonna l'avrebbe compresa e forse l'avrebbe aiutata a risolvere i suoi problemi. Ma, come tutti i vecchi, si era messa a parlare di cose avvenute tanto e tanto tempo prima; cose che non interessavano nessuno. Si pentí di essersi confidata a lei. - Ora vai, bambina; altrimenti a casa staranno in pensiero - riprese a un tratto la vecchia signora. - Manda Pork col carretto oggi nel pomeriggio... E non credere di poter deporre il tuo fardello, perché non lo puoi. Lo so.

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Quel periodo era adatto a lei: magnifico, abbagliante, pieno di donne ben vestite, di case ben arredate, di troppi gioielli, troppi cavalli, troppi cibi, troppo whisky. Qualche volta ella si fermava per un attimo a riflettere che nessuna delle sue nuove conoscenze sarebbe stata chiamata «signora» secondo la stretta regola di Elena. Ma troppe volte ella aveva rinunciato alle regole di Elena, dal giorno in cui, nel salotto di Tara, aveva deciso di diventare l'amante di Rhett; ed ora la coscienza le rimordeva assai raramente. A rigor di termini, questi nuovi amici non erano dei signori; ma erano cosí divertenti! Assai piú dei sottomessi, devoti lettori di Shakespeare che erano stati suoi amici nei primi tempi del suo soggiorno ad Atlanta. E, ad eccezione della sua breve luna di miele, ella non aveva davvero avuto occasione di divertirsi. Né si era mai sentita cosí a posto. Adesso, con la vita assicurata, il desiderio di ballare, giocare, gozzovigliare, vestirsi di seta e di raso, coricarsi tra cuscini di piume e damaschi era diventato prepotente. Incoraggiata dalla tolleranza di Rhett, libera da costrizioni e da timori, si permetteva il lusso - che spesso aveva sognato - di fare tutto ciò che le piaceva e di mandare all'inferno le persone che le erano antipatiche. In breve la sua impertinenza non conobbe limiti. Ella non esitava a mostrarsi arrogante coi suoi nuovi amici; ma era sopratutto sgarbata e insolente con gli ufficiali yankee della guarnigione e con le loro famiglie. Queste erano, nell'eterogenea massa di gente che aveva invaso Atlanta, le sole persone che ella rifiutava di ricevere e di tollerare. Per lei le uniformi azzurre e i bottoni d'oro significavano sempre il terrore dell'assedio, della fuga, del saccheggio, e degli incendi, la disperata miseria e il lavoro estenuante di Tara. Ora che era ricca e sicura, con l'amicizia del Governatore e di eminenti repubblicani, poteva essere insultante verso gli yankees, e lo era. Una volta Rhett le fece notare che la maggior parte degli ospiti che si riunivano sotto il loro tetto aveva indossato fino a poco tempo prima la stessa uniforme: ma ella replicò che uno yankee sembrava tale soltanto quando era in divisa azzurra, alla qual cosa Rhett ribatté: - Stabilità, tu non sei che una parola! Anche le signore che Rossella tollerava, dovevano sopportare non poche impertinenze da lei. Ma lo facevano volentieri, perché essa rappresentava per loro non solo la ricchezza e l'eleganza, ma il vecchio regime coi suoi nomi e le sue tradizioni alle quali esse desideravano ardentemente potersi identificare. Le vecchie famiglie per cui esse spasimavano, avrebbero sconfessato Rossella, ma le signore della nuova aristocrazia lo ignoravano. Sapevano soltanto che il padre di Rossella era stato un grande proprietario di schiavi, la madre una Robillard di Savannah e suo marito era Rhett Butler di Charleston. E questo per loro bastava. Essa rappresentava un punto di contatto con la vecchia società nella quale esse desideravano rientrare; quella società che le disprezzava, non restituiva le visite e rispondeva freddamente al saluto. Signore di princisbecco, non si accorgevano che anche Rossella era di princisbecco; ma la consideravano come veramente appartenente alla buona società. Recentemente salite dal nulla, e malsicure nella loro ansia di apparire raffinate, esse temevano di sembrare poco distinte se avessero risposto per le rime alle scortesie di Rossella. E signore bisognava essere, a qualunque costo. Fingere delicatezza, modestia e innocenza. Nessuno avrebbe immaginato che la signora Flaherty dalla pelle di giglio aveva cominciato la sua carriera come cameriera in un albergo di Nuova York. E chi avesse osservato la delicatezza di Silvia Connington e di Mamie Bart non avrebbe mai supposto che la prima era cresciuta nella bettola di suo padre servendo a volte il vino sui tavolini e che la seconda, - a quanto si diceva - era uscita da uno dei postriboli di suo marito. No; ora erano tutte quante creature timide e delicate. I mariti, benché avessero guadagnato del danaro, imparavano meno facilmente le buone maniere, o forse avevano meno pazienza. Ai ricevimenti di Rossella bevevano con abbondanza; e generalmente accadeva che uno o due ospiti dovessero rimanere a passare la notte nella casa. Non si ubriacavano alla stessa maniera degli uomini che Rossella aveva conosciuto nella sua infanzia: diventavano facilmente brutali od osceni; inoltre, per quante sputacchiere vi fossero nelle stanze, i tappeti mostravano sempre tracce di sugo di tabacco, la mattina seguente. Rossella li disprezzava ma ci si divertiva. Ne aveva sempre una quantità in casa, ma quando si seccava li mandava all'inferno, ed essi lo sopportavano. Sopportavano anche Rhett. Questi non esitava a frustarli con parole che non ammettevano replica. Poiché egli non si vergognava del modo col quale aveva fatto fortuna, pretendeva che essi pure non si vergognassero delle loro origini; e raramente si lasciava sfuggire l'opportunità di fare osservazioni su cose che era meglio lasciare nell'oscurità. Egli non si privava di osservare con affabilità mentre beveva un bicchiere di punch: «Se io avessi avuto piú buon senso, avrei guadagnato un patrimonio vendendo azioni delle miniere d'oro alle vedove e agli orfani, come avete fatto voi, Ralph, invece di correre tanti pericoli col contrabbando attraverso il blocco». «Bravo, Bill, ho visto che avete una nuova pariglia. Avete venduto ancora qualche migliaia di azioni di ferrovie inesistenti?» «Rallegramenti, Amos, per quel contratto che avete fatto col Governo. Peccato che abbiate dovuto ungere troppe ruote per ottenerlo.» Le signore lo trovavano odioso e insopportabilmente volgare. Gli uomini dicevano dietro alle sue spalle che era un porco e un pendaglio da forca. La nuova Atlanta non amava Rhett piú di quanto lo avesse amato la vecchia; ed egli non faceva alcun tentativo per conquistare le simpatie. Continuava per la sua strada, divertito e sprezzante, infischiandosi dell'opinione altrui. Per Rossella era ancora un enigma, ma un enigma intorno al quale non si scervellava piú. Era convinta che nulla gli piaceva né gli sarebbe mai piaciuto; che o desiderava qualche cosa senza averla, o non desiderava nulla. Egli rideva di tutto ciò che ella faceva, incoraggiava le sue stravaganze e le sue insolenze, prendeva in giro le sue pretensioni... e pagava i suoi conti.

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Un piacevole paesaggio di case bianche, di campi tranquilli e ben lavorati, di pigri fiumi dall'acqua giallastra; ma pieno di contrasti, di sole abbagliante e di ombre dense. Le zone dissodate e le vaste estensioni di campi di cotone sorridevano a un sole caldo, placido e compiacente. Ai loro margini sorgevano le foreste vergini, fresche ed oscure anche nei meriggi piú ardenti, misteriose, un po' sinistre, ove i pini sembravano attendere con secolare pazienza e mormorare minacciosi: «Badate! State attenti! Vi abbiamo avuti una volta. Possiamo riprendervi nuovamente». All'orecchio dei tre sotto al porticato giunse uno strepito di zoccoli, un tintinnar di catene di bardature e il riso stridente dei negri, poiché lavoratori e mule tornavano dai campi. Dall'interno della casa si udí la voce dolce della madre di Rossella, Elena O'Hara, chiamare la bimba negra che portava il suo cestello di chiavi. La voce acuta infantile rispose: - Eccomi, signora - e vi fu uno scalpiccío nel retro della casa, verso il luogo dove si conservavano i viveri affumicati e dove Elena doveva misurare il cibo per i coltivatori che tornavano a casa. Vi fu un acciottolio di porcellane e un tramestio di argenti quando Pork, il domestico-maggiordomo di Tara, apparecchiò la tavola per la cena. Udendo questi ultimi rumori, i gemelli si accorsero che era ora di muoversi per tornare a casa. Ma non avevano nessuna voglia di trovarsi di fronte alla madre e rimasero ancora a gingillarsi sotto al porticato aspettando da un momento all'altro che Rossella li invitasse a rimanere a cena. - A proposito, Rossella. E per domani? - cominciò Brent. - Non sarebbe giusto che essendo stati via e ignorando dell'invito e del ballo, dovessimo essere privati di ballare con te domani sera. Non avrai promesso tutti i balli, spero? - Sicuro che li ho promessi! Come potevo sapere che sareste tornati? Non potevo correre il rischio di rimanere a far tappezzeria per aspettarvi! - Tu, far tappezzeria! - i ragazzi risero saporitamente. - Senti, cara - riprese Brent. - Mi darai il primo valzer e darai l'ultimo a Stu; e cenerai con noi. Staremo seduti sulla scaletta dell'approdo come abbiamo fatto all'ultimo ballo e ci faremo dire nuovamente la buona ventura da Mammy Jincy. - Non mi piacciono le predizioni di Mammy Jincy. Sapete benissimo che ha detto che dovevo sposare un signore coi capelli nerissimi e lunghi baffi neri; e sapete che non mi piacciono gli uomini bruni. - Ti piacciono i fulvi, non è vero, gioia? - rise Brent. - Via, promettici tutti i valzer e la cena. - Se ce li prometti, ti riveliamo un segreto - soggiunse Stuart. - Quale? - esclamò Rossella, ansiosa come una bambina. - Quello che abbiamo saputo ieri ad Atlanta, Stu? Se è quello, sai che abbiamo promesso di non parlare. - Sicuro; ce l'ha detto la signorina Pitty. - La signorina chi? - Sai, quella cugina di Ashley Wilkes che sta ad Atlanta: la signorina Pittypat Hamilton; la zia di Carlo e di Melania Hamilton. - La conosco; non ho mai conosciuto una vecchia piú stupida. - Ebbene: ieri mentre eravamo ad Atlanta aspettando il treno per venire qui, la incontrammo in carrozza; si fermò a parlarci e ci disse che domani sera al ballo di Wilkes verrà annunziato un fidanzamento. - Oh, lo so! - esclamò Rossella delusa. - Quell'idiota di suo nipote, Carletto Hamilton, con Gioia Wilkes. Lo sappiamo da anni che un giorno o l'altro dovevano sposarsi, benché lui sia abbastanza tiepido. - Credi che sia un idiota? - chiese Brent. - A Natale hai lasciato che ti ronzasse intorno parecchio. - Non potevo impedirgli di ronzare - e Rossella alzò le spalle negligentemente. - Ma credo che sia proprio uno scemo. - Del resto, non è il suo fidanzamento quello che sarà annunciato - dichiarò Stuart trionfante - ma quello di Ashley con la sorella di Carletto, Melania. Il volto di Rossella non mutò, ma le sue labbra si sbiancarono, come capita a chi riceve un colpo violento senza preavviso e che, nel primo momento, non si rende ben conto di quanto accade. La sua espressione era cosí calma che Stuart, poco osservatore, ritenne per certo che ella fosse soltanto sorpresa e molto incuriosita. - La signorina Pitty ci ha detto che non volevano annunciarlo ufficialmente fino all'anno venturo, perché Melania è stata poco bene; ma con le voci di guerra che ci sono in giro, le famiglie hanno pensato che era meglio sollecitare il matrimonio. Cosí il fidanzamento sarà annunciato domani sera, durante la cena. Ora che ti abbiamo detto il segreto, devi prometterci di cenare con noi. - Senza dubbio - rispose Rossella automaticamente. - E tutti i valzer? - Tutti. - Sei un tesoro! Scommetto che gli altri saranno furenti. - Che ce ne importa? - disse Brent. - In caso l'avranno da fare con noi. Un'altra cosa, Rossella: domattina, a mangiare la porchetta, siedi accanto a noi. - Che cosa? Stuart ripeté la domanda. - Va bene. I gemelli si guardarono giubilanti ma con una certa sorpresa. Benché si ritenessero i corteggiatori favoriti di Rossella, non avevano mai fino ad ora ottenuto cosí facilmente dei segni del suo favore. Di solito ella lasciava che pregassero e supplicassero, prendendoli in giro, rifiutando di dire un sí o un no, ridendo quando si imbronciavano, diventando glaciale quando si adiravano. Ed ora aveva promesso praticamente di trascorrer con loro tutta la giornata seguente: stare con loro durante quella colazione all'aperto in cui si mangiava la porchetta arrostita intera, e poi tutti i valzer (avrebbero pensato loro a far suonare soltanto dei valzer!) e la cena. Valeva la pena di farsi espellere dall'Università. Pieni di nuovo entusiasmo per il loro successo, si gingillarono parlando del pic-nic, del ballo e di Ashley Wilkes e di Melania Hamilton, interrompendosi l'un l'altro, scherzando e ridendo e cercando di farsi invitare a cena. Passò un po' di tempo prima che si accorgessero che Rossella non parlava. L'atmosfera era mutata. I gemelli non capirono perché, ma lo splendore del pomeriggio era scomparso. Sembrava che Rossella prestasse poca attenzione a ciò che essi dicevano, benché rispondesse correttamente. Intuendo qualche cosa che non riuscivano a comprendere, annoiati e contrariati, i gemelli esitarono alquanto; quindi si alzarono con riluttanza, guardando i loro orologi. Il sole era basso al di là dei campi arati, e i grandi boschi oltre il fiume apparivano piú grandi nei loro neri profili. Le ombre dei comignoli spiccavano sul cortile; e galline, anatre, tacchini attraversavano i campi barcollando sulle gambe corte. Stuart urlò: - Jeems! - Dopo un istante un giovinotto negro della loro età, alto e robusto, corse ansante, girando attorno alla casa verso i cavalli legati. Era il loro servitore e, come i cani, li accompagnava dovunque. Era stato il compagno di giochi della loro infanzia, regalato poi ai gemelli, in loro proprietà, per il loro decimo compleanno. Vedendolo, i cani dei Tarleton si alzarono dalla rossa polvere e rimasero ad attendere i loro padroni. I ragazzi si inchinarono e strinsero la mano a Rossella dicendole che l'indomani mattina si sarebbero trovati di buon'ora ad attenderla dinanzi alla casa dei Wilkes. Quindi si affrettarono a raggiungere i loro cavalli, balzarono in sella e, seguiti da Jeems, si avviarono al galoppo lungo il viale di cedri, agitando i cappelli ed emettendo grida di saluto. Oltrepassata la curva della strada polverosa che li nascondeva alla vista di Tara, Brent fermò il suo cavallo sotto a una macchia di còrnioli. Anche Stuart si fermò e il ragazzo negro rimase a qualche passo di distanza. I cavalli, sentendo che le redini erano lente, allungarono il collo a brucare le tenere erbette primaverili, e i cani pazienti si sdraiarono nuovamente nella soffice polvere rossa e guardarono con bramosa nostalgia il fumo dei comignoli che svaniva nel cielo crepuscolare. La larga faccia ingenua di Brent aveva un'espressione di stupore e di lieve indignazione. - Senti: non ti pare che avrebbe dovuto invitarci a cena? - disse a suo fratello. - Infatti - rispose Stuart. - Credevo che lo avrebbe fatto. Lo aspettavo. E invece non ci ha detto nulla. Che ne dici? - Niente. Ma mi pare che avrebbe dovuto invitarci. Dopo tutto, è il primo giorno che siamo a casa, e avevamo tante altre cose da dirle. - Quando siamo arrivati, mi è sembrato che fosse molto contenta di vederci. - È sembrato anche a me. - E poi, circa mezz'ora fa, è diventata silenziosa come se avesse mal di capo. - Infatti; ma lí per lí non ci ho badato. Che cosa credi che avesse? - Non saprei. Abbiamo forse detto qualche cosa che l'ha irritata? Rimasero per un minuto a riflettere. - Non ne ho nessun'idea. Del resto, quando Rossella si irrita, se ne accorgono tutti. Non si comporta come le altre ragazze. - Sí, e questo è quello che mi piace in lei. Non diventa fredda e astiosa, ma dice le sue ragioni. Sarà qualche cosa che abbiamo fatto o detto che l'ha fatta diventare silenziosa e quasi annoiata. Giurerei che quando siamo arrivati è stata contenta e aveva l'idea d'invitarci a cena. - Non sarà perché siamo stati espulsi? - Ma no! Non dire sciocchezze. Ha riso tanto quando glielo abbiamo raccontato... - E poi Rossella non ha maggior passione pei libri di quanta ne abbiamo noi. Si volse sulla sella e chiamò il negro. - Jeems! - Badrone? - Hai sentito di che cosa parlavamo con la signorina Rossella? - Mai piú, Mr. Brent! Come bensare che io stare a spiare signori bianchi? - Spiare! Voialtri negri sapete sempre tutto quello che succede. Del resto, bugiardo che sei, ti ho visto coi miei occhi gironzolare attorno al porticato e accoccolarti nel cespuglio dei gelsomini accanto al muro. Dunque: ci hai sentito dire qualche cosa che può avere irritato la signorina Rossella o aver ferito i suoi sentimenti? Interrogato in questo modo, Jeems smise di fingere di non aver udito la conversazione e aggrottò la sua nera fronte. - Veramende io non essere accorto che aver detto niente che botere irritarla. Mi è sembrato che essere molto condenda di vedere miei badroni, ed essere felice come un uccellino fino a quando avere barlato del fidanzamento di Mr. Ashley con miss Melly Hamilton. Allora essere diventata silenziosa come uccello quando vede volare falco. I gemelli si guardarono e annuirono, ma senza capire. - Jeems ha ragione. Ma non vedo perché - disse Stuart. - Dio mio! Ashley è soltanto un amico per lei. Non è innamorata di lui. È innamorata di noi. Brent annuí. - Forse si sarà adirata perché Ashley non le ha dato la notizia prima che agli altri. Sono amici da tanti anni; e poi le ragazze tengono molto ad essere informate per prime di queste cose. - Può darsi. Ma che ci sarebbe di male? Doveva essere un segreto, una sorpresa... e uno ha bene il diritto di serbare il silenzio sul proprio fidanzamento, no? Noi non lo avremmo saputo se non ce lo avesse detto la zia di miss Melania. Ma Rossella doveva sapere che un giorno o l'altro ci sarebbe stato questo matrimonio. Noialtri, infatti, lo sapevamo da anni. I Wilkes e gli Hamilton si sposano sempre tra cugini. Tutti sapevano che l'avrebbe probabilmente sposata, come Gioia Wilkes sposerà il fratello di Melania, Carletto. - E va bene, sarà cosí. Ma mi secca che non ci abbia trattenuti a cena. Ti giuro che non ho nessuna voglia di andare a casa e sentire quello che dirà la Mamma per la nostra espulsione. Non è la prima volta! - Forse a quest'ora Boyd l'avrà calmata. Ci riesce sempre, con le sue chiacchiere, quel vermiciattolo! - Sí, ci riesce, ma gli ci vuole del tempo. Parla, parla finché la confonde e allora la Mamma gli dice che la smetta e si risparmi la voce per quando farà l'avvocato. Ma in queste poche ore non è stato certo possibile. Scommetto che la Mamma è cosí eccitata per il suo nuovo cavallo che non si ricorderà neppure che siamo tornati, finché non siederà a cena e vedrà Boyd. E prima che la cena sia finita farà fuoco e fiamme. Arriveranno le dieci prima che Boyd trovi il momento opportuno per dirle che non sarebbe stato onorevole che uno della famiglia fosse rimasto in collegio dopo che il rettore ha trattato te e me in quel modo. E ci vorranno due ore perché Boyd le faccia cambiare umore; a mezzanotte sarà diventata furibonda contro il rettore e chiederà a Boyd perché non lo ha ammazzato. No, non possiamo andare a casa prima di mezzanotte. I gemelli si guardarono cupamente. Non avevano paura dei cavalli selvaggi, delle risse e delle questioni che finivano a rivoltellate, ma avevano un sacro terrore delle sgridate della loro fulva genitrice e dello scudiscio che ella maneggiava senza ritegno. - Facciamo una cosa - riprese Brent. - Andiamo dai Wilkes. Ashley e le ragazze saranno contenti di averci a cena. Stuart crollò il capo, sconfortato. - No, non ci possiamo andare. Saranno sottosopra a preparar tutto per domani; e poi... - Oh, non ci pensavo piú - interruppe Brent. - Hai ragione; non ci andiamo. Diedero la voce ai cavalli e per un po' di tempo cavalcarono in silenzio; sulle abbronzate guance di Stuart era apparso un rossore di imbarazzo. Fino all'estate precedente Stuart aveva fatto la corte a Lydia Wilkes con l'approvazione di entrambe le famiglie e dell'intera contea. Tutti pensavano che la fredda e contegnosa Lydia avrebbe prodotto su lui l'effetto di un calmante. O almeno, lo speravano vivamente. E Stuart l'avrebbe sposata volentieri; ma Brent non approvò. Lydia gli piaceva, ma la trovava troppo semplice e innocua; impossibile innamorarsene anche lui, per far compagnia a Stuart. Era la prima volta che i gemelli non la pensavano allo stesso modo; e Brent era seccatissimo che suo fratello avesse delle attenzioni verso la fanciulla che a lui sembrava insignificante. E poi, l'estate precedente era accaduto che a una riunione politica che aveva luogo in un boschetto di querce, tutti e due avevano improvvisamente notato Rossella O'Hara. La conoscevano da molti anni e fin dalla loro infanzia era stata una delle compagne di giochi preferite, perché era capace di andare a cavallo e di arrampicarsi sugli alberi quasi tanto bene quanto loro. Ma adesso, con loro sorpresa, era diventata una giovine donna; ed era la piú graziosa e la piú simpatica del mondo. Per la prima volta si erano accorti che i suoi occhi verdi erano vivi e mobilissimi, che quando rideva faceva le fossette, che aveva mani e piedi piccini e una vita sottile. Queste loro osservazioni l'avevano fatta ridere clamorosamente e, solleticati dall'idea che essa li riteneva una coppia notevole, i due avevano sorpassato se stessi. Era stata una giornata memorabile nella vita dei gemelli. In seguito, ogni qualvolta ne parlavano, essi si chiedevano sempre come mai non avevano prima d'allora notato le qualità di Rossella. E non riuscivano a trovare la soluzione dell'enigma; cioè che Rossella aveva deciso, quel giorno, di farsi notare da loro. Ella era costituzionalmente incapace di sopportare che un uomo - chiunque fosse - si innamorasse di una donna che non era lei; e la vista di Lydia Wilkes che discorreva con Stuart era stata intollerabile per il suo carattere predace. Non contenta del solo Stuart, aveva gettato l'amo anche a Brent, ed era riuscita nel suo intento con una perfezione che sbalordiva entrambi i giovani. Ora erano tutti e due innamorati di lei, e tanto Lydia Wilkes quanto Enrichetta Munroe, di Lovejoy, a cui Brent aveva fatto una corte discreta, eran ben lontane dalla loro mente. Essi non si chiedevano quale sarebbe stato il perdente, qualora Rossella avesse scelto uno dei due. Avrebbero superato questa difficoltà quando fosse giunto il momento. Per ora erano contenti di essere nuovamente d'accordo sul conto della fanciulla, poiché fra loro non esisteva gelosia. Era una situazione che divertiva il vicinato e infastidiva la loro madre, la quale non aveva alcuna simpatia per Rossella. - Vi starà bene, se quella furbacchiona accetta uno di voi - soleva dire. - Oppure, può darsi che vi accetti entrambi, e allora dovrete andare a stare a Utah, se i Mormoni vorranno accogliervi... cosa di cui dubito... Quello che mi preoccupa è che un bel giorno vi picchierete perché sarete gelosi uno dell'altro a causa di quella piccola e falsa creatura dagli occhi verdi, e vi ammazzerete. D'altronde, anche questa non sarebbe una cattiva idea. Dal giorno della riunione politica, Stuart si era sempre trovato a disagio dinanzi a Lydia. Non che essa gli avesse mai mosso alcun rimprovero o avesse dato a divedere menomamente di essersi accorta del suo mutamento. Era troppo signora per farlo. Ma Stuart si sentiva colpevole verso di lei. Sapeva di essere riuscito a farsi amare e che Lydia lo amava ancora; e, nel profondo del cuore, sentiva di non essersi comportato da gentiluomo. Continuava a trovarla molto simpatica e la rispettava per il suo contegno freddo ed educato, per la sua istruzione e per tutte le sue qualità. Ma, accidenti!, era sempre cosí pallida e poco interessante e monotona, paragonata al fascino brillante e mutevole di Rossella. Con Lydia si sapeva sempre a che punto si era, mentre con Rossella non lo si sapeva mai. Questo poteva portare un uomo alla demenza, ma aveva il suo fascino. - Allora, andiamo da Cade Calvert e ceniamo da lui. Rossella ha detto che Caterina è tornata da Charleston. Forse avrà qualche notizia di Forte Sumter che ancora ignoriamo. - Caterina? Sono pronto a scommettere due contro uno che non sa neppure che il Forte era sopra al porto, e tanto meno che era pieno di yankees prima che noi li scacciassimo. Lei sa soltanto parlare dei balli a cui è stata e dei corteggiatori di cui ha fatto collezione. - Ad ogni modo, quando chiacchiera è divertente. Ed è un modo di passare il tempo finché Mammà sarà andata a letto. - E va bene, perbacco! Caterina è simpatica e piacevole, e sarò contento di aver notizie di Càrolo Rhett e dell'altra gente di Charleston; ma che il diavolo mi porti se tollero di mangiare ancora una volta avendo a tavola quella yankee della sua matrigna. - Non essere cosí aspro verso di lei, Stuart. È piena di buone intenzioni. - Non sono aspro. È una donna che mi fa pena, ma non mi piace la gente che mi fa pena. E poi continua a girare intorno, cercando di fare del suo meglio perché uno si senta come a casa sua; ma riesce sempre a fare e dire tutto il contrario di quello che dovrebbe. Mi dà ai nervi! E crede che i meridionali siano selvaggi. Lo ha detto alla Mamma. Ha paura della gente del Sud. Quando siamo da lei, è terrorizzata. Mi dà l'idea di una gallina pelle e ossa, arrampicata su una sedia, con gli occhi brillanti e spauriti, pronta a starnazzare e schiamazzare al piú piccolo movimento dei presenti. - Dopo tutto, non puoi biasimarla. Ricordati che hai ferito Cade in una gamba. - Ero esasperato perché ero stato picchiato, altrimenti non lo avrei fatto. E Cade non me ne ha serbato alcun rancore. E neanche Catina, né Raiford, né il signor Calvert. Solo quella matrigna yankee ha strepitato dicendo che ero un selvaggio e che le persone perbene non potevano stare in mezzo a questi meridionali incivili. - Non si può darle torto. È yankee ed ha avuto un'ottima educazione; e poi, hai ferito il suo figliastro. - Vai all'inferno! Non è una buona ragione per insultarmi! Tu sei figlio, vero figlio, di Mammà; ma si è forse risentita quella volta che Tony Fontaine ti ha ferito alla gamba? Niente affatto; si limitò a mandare a chiamare il vecchio dottor Fontaine per medicarti e gli chiese come mai Tony mirasse cosí male. E disse che secondo lei le frustate danneggiavano l'abilità di un tiratore. Ti ricordi come si infuriò Tony per questo? I due ragazzi risero saporitamene. - La Mamma è un tipo! - approvò affettuosamente Brent. - Si può sempre esser sicuri che sa come regolarsi e che non vi fa mai fare brutta figura di fronte agli estranei. - Sí; ma è capacissima di farci fare una figura pessima dinanzi al Babbo e alle ragazze stasera quando arriviamo a casa - replicò Stuart abbattuto. - Sono sicuro, Brent, che in questo modo non riusciremo ad andare in Europa. Sai che la Mamma ha detto che se ci facevamo espellere da un altro collegio non avremmo fatto il nostro viaggio. - Beh! E che ce n'importa? Che c'è da vedere in Europa? Scommetto che quegli stranieri non hanno da mostrarci nulla che noi non abbiamo già in Georgia. I loro cavalli non sono piú veloci dei nostri né le loro ragazze piú graziose; e sono sicuro che il loro wisky di segala non può stare a paragone di quello del Babbo. - Ashley Wilkes ha detto che hanno un'infinità di teatri e di musica. Ad Ashley l'Europa piace molto. Non fa che parlarne. - Oh, sai bene come sono i Wilkes. Smaniosi di libri, di teatri, di musica. Mammà dice che è perché il loro nonno veniva dalla Virginia, e i Virginiani attribuiscono un grande valore a queste cose. - Beh, facciano pure. Quanto a me, con un buon cavallo e un buon liquore e una brava ragazza da corteggiare e un'altra... non brava con la quale divertirmi, sto benone qui come in Europa! Che ce n'importa di non fare il viaggio? Figúrati, se fossimo in Europa adesso e scoppiasse la guerra? Non avremmo altro pensiero che di tornare a casa al piú presto. Preferisco infinitamente andare alla guerra che in Europa. - Anch'io, il giorno in cui... Oh, senti! Ho pensato dove possiamo andare a cena. Attraversiamo la palude e andiamo a dire ad Abele Winder che siamo tornati tutti e quattro e siamo pronti per le esercitazioni militari. - Ottima idea! - esclamò Brent con entusiasmo. - Sapremo cosí tutte le notizie dello squadrone, e che colore hanno scelto finalmente per le uniformi. - Se sono uniformi da zuavo, mi faccio impiccare piuttosto che andare a fare il soldato! Con quei calzoni larghi, rossi, mi sembrerebbe di essere una donnetta. Somigliano alle mutande da donna di flanella rossa. - Badroni avere intenzione di andare da Mist' Wynder? - chiese Jeems. - Perché se avere quest'idea, gredo che non trovare molto da mangiare. Loro guoco morto e non avere angora gombrato altro. Fare gucinare da una donna, e un negro avere detto che essere peggiore guoca di tutta regione. - Dio benedetto! E perché non lo hanno comprato? - Gosa volere che può gombrare bovero bianco straccione? Non avere mai avuto molti negri e non di buona razza. Nella voce di Jeemes era uno schietto disprezzo. Egli era sicuro della propria condizione sociale, perché i Tarleton possedevano cento negri, e - come tutti gli schiavi delle grandi piantagioni - guardava dall'alto in basso i piccoli coltivatori che possedevano pochi schiavi. - Bada che ti levo la pelle! - gridò Stuart irritato. - Non ti permetto di chiamare Abele Wynder un «bianco straccione». Sarà povero, ma non straccione. E nessuno dei miei uomini, nero o bianco che sia, deve arrischiarsi a parlar male. Non vi è uomo migliore nella Contea; altrimenti perché lo squadrone lo avrebbe eletto luogotenente? - Non avere mai dubitato, badrone - riprese Jeems senza scomporsi per la sfuriata del suo padrone. - Ma io bensare che loro fare meglio scegliere ufficiali fra giovani ricchi invece che fra miserabili della palude. - Non è un miserabile! Vorresti forse paragonarlo ai bianchi veramente poveri, come gli Slattery? Soltanto, non è ricco. È un piccolo coltivatore, non un piantatore in grande; e se i ragazzi hanno avuto tanta stima di lui da eleggerlo luogotenente, nessun negro può arrischiarsi a parlarne impudentemente. Lo squadrone sa quello che fa. Lo squadrone di cavalleria era stato organizzato tre mesi prima, lo stesso giorno in cui la Georgia si era separata dall'Unione; da allora, però, le reclute non avevano piú molta speranza che si facesse la guerra. Il reparto non aveva ancora un nome, benché non mancassero i suggerimenti: ciascuno aveva un'idea in proposito e non aveva voglia di rinunciarvi; come ciascuno aveva anche un'idea intorno al colore e alla foggia delle uniformi. «I gatti selvaggi di Clayton» - «I mangiatori di fuoco» - «Zuavi» - «Fucilieri dell'Interno» (benché lo squadrone dovesse essere armato di pistole, sciabole, pugnali e non di fucili) «Gli sterminatori» - «Rapidi e violenti» - tutti avevano i loro aderenti. Ma finché non si prendeva una decisione, tutti parlavano dell'organizzazione come dello squadrone e malgrado il nome sonoro finalmente adottato, esso fu conosciuto sino alla fine come «Lo Squadrone». Gli ufficiali erano eletti dai membri, perché nessuno nella Contea aveva esperienza militare, ad eccezione di pochi veterani delle guerre col Messico e coi Seminoli; d'altronde, lo Squadrone avrebbe disprezzato un veterano come capo, se non lo avesse personalmente amato e stimato. Tutti quanti avevano simpatia per i quattro ragazzi Tarleton e per i tre Fontaine, ma purtroppo non li avevano potuti eleggere, perché i Tarleton erano troppo vivaci e amavano far delle mattane e i Fontaine avevano un carattere troppo impetuoso e attaccabrighe. Ashley Wilkes era stato eletto capitano perché era il miglior cavallerizzo della Contea e perché si faceva assegnamento sulla sua calma per mantenere un poco d'ordine; Raiford Calvert era stato fatto primo luogotenente perché tutti gli volevano bene, e Abele Wynder, figlio di un cacciatore delle paludi e piccolo coltivatore per conto suo, era stato nominato secondo luogotenente. Abele era un gigante, grave, furbo, illetterato, pieno di cuore, maggiore di età degli altri ragazzi, ma altrettanto educato, e anche di piú, in presenza delle signore. Vi era poco snobismo nello Squadrone. Troppi, fra i padri e i nonni dei componenti, erano arrivati alla loro attuale situazione cominciando con l'essere dei piccoli coltivatori. Inoltre, Abele era il piú bravo tiratore dello Squadrone, un vero puntatore che colpiva la testa di uno scoiattolo a settanta metri; ed era pratico di vita all'aperto, capace di accendere il fuoco sotto la pioggia, di scoprire sorgenti, di catturare animali. Lo Squadrone si inchinava dinanzi al merito; e siccome avevano anche simpatia per lui, lo nominarono ufficiale. Egli accettò l'onore gravemente senza eccessiva ritrosia, come se gli fosse dovuto. Ma le mogli e gli schiavi dei piantatori non potevano lasciar passare il fatto che egli non era nato gentiluomo, benché i loro signori e padroni lo trascurassero. Da principio, lo Squadrone era stato reclutato soltanto tra i figli dei piantatori: una truppa di signori, ciascuno dei quali provvedeva il proprio cavallo, l'equipaggiamento, l'uniforme e l'attendente. Ma i ricchi piantatori non erano numerosi nel giovine paese di Clayton; e per mettere assieme uno squadrone degno di tal nome si era dovuto estendere il reclutamento anche ai figli dei piccoli coltivatori, ai cacciatori della foresta, a quelli che tendevano i lacciuoli nelle paludi, e, in pochissimi casi, anche ai bianchi poveri, se erano al disopra della media della loro classe. Questi ultimi giovinotti erano ansiosi di combattere contro gli inglesi - il giorno in cui scoppiasse la guerra - non meno dei loro ricchi vicini; ma vi era la delicata questione del denaro. Ben pochi fra i piccoli coltivatori possedevano cavalli. Per i lavori della loro proprietà si servivano di muli; e anche di questi, non ne avevano d'avanzo: raramente piú di quattro. Non si poteva privarsene per mandarli in guerra, anche se lo Squadrone li avesse accettati, ciò che non avvenne. Quanto ai rifiuti bianchi della palude, questi stimavano di essere già in condizione abbastanza buona quando possedevano una mula. I cacciatori della foresta e quelli della palude non avevano né cavalli né muli. Essi vivevano esclusivamente dei prodotti della loro terra e di caccia, commerciavano generalmente col sistema degli scambi e vedevano raramente cinque dollari in un anno; quindi cavalli e uniformi erano per loro irraggiungibili. Ma erano tanto orgogliosi nella loro povertà quanto i piantatori nella loro ricchezza; e non avrebbero accettato nulla, da quelli, che potesse apparire un'elemosina. Cosí, per salvaguardare i sentimenti di tutti e per dare allo Squadrone tutta la necessaria efficienza, il padre di Rossella, John Wilkes, Buck Monroe, Giacomo Tarleton, Ugo Calvert, tutti, insomma, i grandi piantatori della Contea con l'unica eccezione di Angus MacIntosh, si erano quotati per equipaggiare completamente lo Squadrone: uomini e cavalli. L'essenza dell'affare fu che ogni piantatore convenne di pagare l'equipaggiamento dei propri figli e di un certo numero di altri; ma la cosa fu trattata in modo che i membri meno ricchi potettero accettare cavalli ed uniformi senza offesa per il loro onore. Lo Squadrone si riuniva due volte la settimana a Jonesboro per fare le esercitazioni e pregare che la guerra cominciasse. Non erano ancora state completate le disposizioni per procurare tutti i cavalli occorrenti, ma quelli che avevano già i cavalli compivano ciò che immaginavano fossero manovre di cavalleria, dietro al Tribunale, sollevando un'enorme quantità di polvere, emettendo grida rauche e agitando le sciabole della Guerra Rivoluzionaria che erano state staccate dalle pareti del salone. Quelli che non avevano ancora il cavallo sedevano sull'orlo del marciapiedi dinanzi alla bottega di Bullard, e osservavano i loro camerati, masticando tabacco e raccontando delle storie. Oppure facevano delle gare di tiro. Non occorreva insegnare a nessuno a tirare a segno. La maggior parte dei meridionali era nata col fucile in mano; e la vita del cacciatore aveva fatto di tutti loro dei tiratori scelti. Dalle case dei piantatori e dalle capanne fra le paludi venne fuori una quantità di armi da fuoco svariate. Lunghi fucili da caccia che datavano dall'epoca della prima traversata degli Alleghany, vecchi tromboni ad avancarica, pistole da cavallo che erano servite nel 1812, pistole da duello con l'impugnatura ageminata d'argento, pistole a canna corta, moschetti a doppia canna e carabine inglesi di nuovo modello, col calcio di legno prezioso. Le esercitazioni terminavano sempre nei saloni di Jonesboro e al cader della notte erano già scoppiate tante risse, che gli ufficiali avevano il loro da fare per evitare ferimenti prima che questi fossero inflitti dagli inglesi. Era stato durante uno di questi tafferugli che Stuart Tarleton aveva ferito Cade Calvert e Tony Fontaine aveva ferito Brent. I gemelli erano appena tornati a casa, espulsi dall'Università di Virginia; lo Squadrone era stato organizzato in quei giorni ed essi avevano aderito con entusiasmo; ma dopo la rissa, avvenuta due mesi prima, la madre li aveva impacchettati e spediti all'Università statale, con l'ordine di non muoversi. Durante la loro assenza, essi avevano penosamente sentito la mancanza dell'eccitazione data dagli esercizi militari; ritenevano che la loro educazione fosse incompleta se non potevano cavalcare, gridare e sparar fucilate in compagnia dei loro amici. - Bene, allora andiamo da Abele - concluse Brent. - Attraversando il fiume degli O'Hara e il prato dei Fontaine, arriviamo in un momento. - Non drovare nulla di mangiare; solo garne di sariga e un po' di legumi - obbiettò, Jeems. - Tu non avrai un bel niente - sghignazzò Stuart. - Andrai a casa ad avvertire la Mamma che non torniamo a cena. - Oh no, no! - esclamò Jeems spaventato. - No, no! non piacere assaggiare scudiscio di miss Beatrice piú forte che con badroni! Brima di tutto lei arrabiarsi con me perché badroni nuovamente espulsi. E poi, perché io non avervi fatti tornare a casa stasera e lei potervi dare grossa lezione. E poi diventare furia come se tutto questo essere colpa mia e frustarmi forte. Se non volete portarmi da mist' Wynder, io restare nei boschi tutta la notte e forse guardie pattuglie prendere povero Jeems, ma io preferire guardie piuttosto che miss Beatrice quando essere infuriata. I gemelli guardarono con perplessità e indignazione il risoluto ragazzo negro. - Sarebbe capace davvero di farsi prendere dalle guardie, e questo darebbe argomento ai discorsi di Mammà per qualche settimana. Giuro che i negri sono un bel fastidio. A volte penso che gli abolizionisti abbiano ragione. - In fondo, non è giusto fare affrontare a Jeems quello che non vogliamo affrontare noi. Lo porteremo con noi. Ma guarda, negraccio impudente, che se ti sogni di darti delle arie coi negri di Wynder e di raccontar loro che da noi si mangia pollo e prosciutto mentre loro non hanno che coniglio e sariga, ti... lo dirò alla Mamma. E non ti faremo neanche venire alla guerra con noi. - Arie? Io darmi arie con quei miserabili? No, badrone; io avere educazione! E miss Beatrice avermi insegnato modo di gomportarmi come avere insegnato a tutti voi. - Non ha avuto un gran risultato con nessuno dei tre - rise Stuart. - Via, andiamo. Diede la voce al suo cavallo rossiccio e spronandolo leggermente gli fece saltare con facilità lo steccato divisorio della proprietà di Geraldo O'Hara, e si trovò nel soffice campo. Il cavallo di Brent lo seguí e dopo di lui quello di Jeems, col negro afferrato alla criniera e al pomo della sella. A Jeems non piaceva saltare gli ostacoli; ma ne aveva saltato anche dei piú alti per seguire i suoi padroni. Mentre si avviavano attraverso i solchi purpurei e scendevano la collina verso il fiume nel crepuscolo che diventava sempre piú cupo, Brent gridò a suo fratello: - Senti un po', Stu! Non ti pare che Rossella avrebbe dovuto invitarci a cena? - Infatti credevo che lo facesse - gridò a sua volta Stuart. - Ma perché...

Pagina 9

Cosima

243805
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Bellissimo era il luogo in pendio sopra la valle, in faccia ai monti arrossati dal sole calante: un muricciuolo lo separava dal sentiero che andava a perdersi verso i pendii di un'altra valle, a nord, e su questo muricciuolo, di contro uno sfondo di cielo abbagliante come una lamina d'oro, sedeva, con un giornale in mano l'agile Antonino. Quando dal fondo del vialetto della vigna Cosima lo vide, si piegò in avanti come dovesse cadere, chiudendo gli occhi quasi con angoscia. Ella non sapeva che era tornato, come del resto non lo sapevano neppure le cugine di lui, che lo guardarono con curiosità insolente e gli corsero incontro senza salutarlo battendogli i pugni sulle ginocchia. Egli le respinse, preoccupato solo per la piega dei suoi pantaloni, e non avrebbe neppure smesso di leggere senza la presenza delle altre due ragazze. Stentò un po' a ricordarsi chi erano, ma quando ebbe riconosciuto bene Cosima balzò in piedi e la salutò, con quel suo sorriso dolce, stanco e beffardo che gli sollevava il labbro sopra i denti luminosi. Tutto era luminoso, in lui, in quel momento, e la luce d'oro del tramonto pareva scaturisse dai suoi occhi, dal suo viso bruno, dai capelli raggianti. Per tutta la sua vita Cosima lo ricordò cosí: e basta ancora che pensi a lui per sentire una gioia misteriosa, fatta di luce e di angoscia, come si prova soltanto al primo rivelarsi della vita cosciente, anche se l'immagine della vita sorrida come in quell'attimo sorrideva Antonino. Eppure, in fondo al suo pensiero rimaneva il ricordo delle sue prime esperienze d'arte, e aspettava con orgoglio che il giovane accennasse alla sua novella, pronta a difendersi se gliela derideva. Ma pareva ch'egli non sapesse nulla: o almeno non accennò nulla. Domandò solo di Santus, e disse che sarebbe andato a trovarlo. Cosima arrossí; egli se ne accorse e non insisté. Poi le due ragazze minori essendosi allontanate, rimasero accanto al muricciuolo le due maggiori, e Lenedda cominciò a stuzzicare Antonino, permettendosi di pigliarlo in giro, per il modo con cui vestiva, e perché i capelli gli lucevano troppo. «Ti sei messo l'olio di lentischio, come le donne di Oliena. A chi vuoi piacere, in questo paese di selvaggi? Qui, dame non ce ne sono.» Cosima abbassava gli occhi. La speranza ch'egli volesse rispondere alla cugina, sull'argomento scottante, le faceva battere il cuore: ma egli non badava a Lenedda piú che alle pietre del muro sul quale si appoggiava: però si passava la mano bianca, con le unghie che riflettevano l'oro del tramonto, sui capelli divisi da un lato da una sottile scriminatura candida, e se li tormentava come per dimostrare che non erano lucidi per artifizio. «E poi, perché non hai il corpetto? L'hai perduto? La tua camicia sembra la camicetta di una donna.» Cosima taceva, mortificata e offesa per lui, e provò una gioia cattiva quando egli allungò il giornale e lo sbatté piú volte sulla testa della cuginetta insolente: ma non fu tutto: allorché Lenedda, con un piccolo salto felino tentò di tirargli i capelli, egli l'afferrò per un braccio, la fece girare intorno a sé come una trottola, la spinse costringendola a scendere di precipizio nel vialetto in declino. Ella strillava come una ghiandaia, e lui non rideva, tutt'altro, anzi stringeva un po' crudelmente i denti e continuava ad agitare il giornale, come avesse un gran caldo. Cosima stava lí quasi tramortita, e avrebbe voluto non assistere a quella scena. Poiché il suo idolo si scomponeva alquanto; eppure se egli avesse fatto su di lei lo scempio toccato alla cugina, ne sarebbe stata paurosamente felice. Egli però le mostrava, pur con la sua indifferenza, il massimo rispetto; non solo, ma ella aveva l'impressione che la lezione data a Lenedda fosse in suo omaggio, per non essere diminuito agli occhi di lei. Ad ogni modo ella respirò quando egli, dopo averla salutata con un lieve cenno del capo se ne andò senza far piú caso degli strilli della cugina.

Pagina 86

Documenti umani

244506
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
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Le pareti, quasi nude, erano d'un candore abbagliante; il pavimento, di marmo, a grandi lastre bianche e nere, aveva una lucentezza di specchio; e nell'ordine rigido, nella severa nudità regnante tutt'intorno, si rivelava uno spirito rifuggente da ogni pompa, sollecito solo della concentrazione interiore e dell'adorazione. Era padre Ladislao il rettore di San Giorgio, l'officiante di quell'ora mattutina; e la figura del giovane ministro, austera nei semplici paramenti, dalla fronte alta e spaziosa, dagli occhi ceruli, dalla carnagione delicata, dalle mani bianchissime mirabilmente modellate che toccavano leggerissimamente i sacri arredi dell'altare, presentava un'intima, una completa corrispondenza con quell'ambiente severo e luminoso ad un tempo. San Giorgio era tutto un mondo per il padre Ladislao, l'oggetto delle sue cure più assidue; e per continuare a regger quella chiesa, egli ritardava volontariamente l'avanzamento che lo aspettava da molto tempo nella gerarchia ecclesiastica. L'anello piscatorio ed il pastorale sarebbero già toccati da tempo a padre Ladislao Mantaldi dei principi di Valdiriva, e qualcuno andava fino a predirgli il rosso cappello cardinalizio. Non erano soltanto le tradizioni della grande famiglia, la sua potenza, le sue relazioni, che gli spianavano così la via ai più alti gradi; era ancora, e più, la vasta intelligenza, la varia cultura, lo zelo illuminato, la modestia esemplare, la purità dei costumi, che facevano di questo gran signore una delle speranze della chiesa napoletana. E bisognava veramente stimare irresistibile quella vocazione che lo aveva fatto rinunziare, in età giovanissima, alle seduzioni del mondo, alla eccelsa posizione che egli vi era naturalmente chiamato a sostenere, per l'umile nera veste del seminarista. Più tardi, quando era giunta l'ora di pronunziare i voti irrevocabili, quando una sua sola parola avrebbe deciso dell'intera sua vita, si era creduto che egli si sarebbe arrestato dinanzi alla definitiva e irreparabile rinunzia. Ma quella parola, Ladislao Mantaldi l'aveva pronunziata con voce ferma e sicura; e tutto era stato detto, per sempre. Per iscoprire l' ignoto autore di un delitto, il magistrato possiede un criterio ordinariamente sicuro: cercare se il delitto può avere arrecato dei vantaggi, ed a chi. Coloro che si fossero rivolta una simile domanda, dinanzi alla rinunzia di Ladislao Mantaldi, sarebbero stati messi sulla via della verità. Dando un addio al secolo, egli primogenito, era suo fratello minore che ereditava, col titolo del nobilissimo casato, i beni terrestri; e la cieca passione che la principessa madre aveva per il suo secondo figlio spiegava il sacrifizio che Ladislao, col suo carattere mite, ossequente, rassegnato, era stato persuaso a compire. Pronunziando i suoi voti, egli non aveva inteso però di adempiere ad una semplice formalità, con una di quelle restrizioni interiori così frequenti che modificano e talvolta annullano gl'impegni che noi affermiamo di prendere dinanzi a noi stessi. Nella sua nuova vita, a cui l'educazione religiosa disposta dalla madre lo aveva preparato del resto fin dagli anni più giovani, quando le sue passeggiate, sotto la scorta d'un vecchio prete, avevano per meta un antico convento, e gli stessi suoi giuochi consistevano in rappresentazioni sacre; in quella sua vita Ladislao era entrato interamente, senza transazioni di sorta, col fervore solo capace di attutire la sorda voce che diceva la dolcezza delle gioie terrene. Per il giovane imbevuto di precetti rigidamente impartiti, fuori di ogni personale esperienza, era stato lungo tempo un argomento di sconforto il ritorno frequente di questa voce, la visione ostinata di quel che egli aveva già appreso a considerar come il Male. La purezza nelle azioni gli pareva una cosa molto mediocre, se ad essa non avesse corrisposto quella dei sentimenti, e con un terrore infinito egli si vedeva impotente non che a domare, ma perfino a guidare il proprio pensiero. In questa sua dolorosa incertezza, in quest'intima impotenza, egli aveva temuto di andare incontro ad una perdizione eterna, ingannando gli uomini e Dio con le aspirazioni ad una santità che si vedeva incapace di conseguire là dove appunto sarebbe stata più meritoria, nel dominio spirituale. Lo spirito d'analisi, grandezza e tormento dell'uomo moderno, non sarebbe che un effetto della legge cattolica dell' esame di coscienza? Qualunque ne sia l'origine, il certo è che esso prende, in certe nature superiori, uno sviluppo esorbitante, nel quale la sottigliezza dell'indagine è in ragione inversa della nettezza dei risultati. A un tale stato intimamente angoscioso la lunga pratica di scendere in fondo alla propria coscienza aveva ridotto padre Ladislao, quando egli era perfino arrivato a temere che quella sua ingenua persuasione di indegnità potesse essere una suggestione perversa, un comodo pretesto trovato per evitare la via della rinunzia e per conseguire il sodisfacimento delle sue brame secrete. Allora, la parola del vecchio maestro che aveva sorretto i suoi primi passi, dell'umile prete venerato come un padre, lo aveva tratto da quell'angoscia, con la dimostrazione della universalità di ciò che egli aveva creduto un caso particolare, una specie di morbosa impotenza di cui egli solo si trovava di essere vittima. Allora, egli aveva misurato l'abisso che separa sempre l'azione dall'intenzione; aveva compresa l'irriducibilità del pensiero, l'incoscienza con la quale si compiono le operazioni dello spirito, e rassegnatosi quindi alle inconfessate e spesso inconfessabili suggestioni della mente, la sua vocazione si era fatta più salda, più sicura, col dovere che gli si tracciava ora nettamente dinanzi, di illuminare le anime umane, di guidarle, di sorreggerle con tanta maggiore sollecitudine quanto più grande, più naturale era la probabilità della colpa. Una reputazione di santità era il frutto di quella abnegazione; una reputazione di cui egli avrebbe sorriso nel suo interno, con qualche sfumatura di amarezza, se non fosse stato più forte in lui lo spirito di compatimento per gli errori degli uomini.... Quel giorno, come sempre allorquando egli dominava dall'altare la folla dei fedeli sparsa qua e là per la chiesa, il pensiero del contrasto fra il rispetto, fra la devozione un poco meravigliata che si leggevano negli sguardi di quanti lo circondavano, e l'intima sfiducia di esserne veramente degno, occupava la sua mente intanto che egli si preparava al mistero dell'elevazione. Se gli uomini avessero potuto leggergli nell'anima in quell'ora; se avessero potuto sospettare il dubbio che vi tenzonava, intanto che egli teneva chini gli sguardi sul messale e le mani congiunte in segno di adorazione?.... In quei momenti, per l'attenzione stessa di cui lo faceva oggetto, il dubbio s'ingigantiva; egli si persuadeva della propria indegnità, dell'ipocrisia che vi era da parte sua nel presumere di farsi curatore di anime, lui che aveva pel primo bisogno di esser guidato! In una rapida evocazione, riprovava allora le inquietanti impressioni dell'adolescenza, quando veniva di tratto in tratto nel sontuoso palazzo degli avi, e come dietro un sipario intravedeva il magico spettacolo del mondo e delle sue attrattive; allora, l'acuto profumo dei fiori freschi, unica nota vivace profusa su quegli altari quasi nudi, gli procurava un turbamento profondo.... Un istante dopo, la crisi era superata; egli aveva degli slanci interiori di sommessione, di sacrifizio, che lo redimevano ai proprii occhi; mentre l'ostia si alzava, in un nembo d'incenso, egli si prostrava con lo spirito, si faceva umile, si annichiliva, e nel suo volto non si leggeva più che una pietosa serenità....

Una peccatrice

249661
Giovanni Verga 3 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
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Pagina 13

Ti aspettai in istrada sino alle tre, ora in cui la tua carrozza venne a prenderti, vedendo passare i fortunati che andavano a quella festa, che dovevano vederti ed esserti vicini; guardando la luce abbagliante che scaturiva dai veroni aperti, le allegre coppie che si aggiravano per le sale; ascoltando il suono di quella musica festante. Due o tre volte mi sembrò di vedere la tua figura, l'ombra tua, che girava fra le vorticose coppie di un valzer... e piansi lagrime ardenti, disperate;... e passeggiai delirante come un pazzo, sotto quella casa... Ora voglio che tu ti vesta di quegli abiti, Narcisa; che quel cappuccio bianco copra i tuoi capelli. Io non posso esprimerti quegli atomi, quelle percezioni di sensazioni ineffabili che provo in queste reminiscenze; cercando d'illudermi spesso sino alla realtà del dolore che provai, per sentire più viva l'ebbrezza della felicità che tu mi dai ora! «E mi abbracciava, e mi baciava frenetico, ardente. «In mezzo a quelle parole che mi facevano piangere di gioia una frase mi era rimasta fitta dolorosamente come una spina nel cuore: egli avea detto. Non puoi vivere sempre come vivi!... «Quella vita che aveva formato il mio paradiso, adunque, quella vita che noi non avevamo vissuto che per amarci, che per comunicarcela l'un l'altro coi baci, non poteva sempre durare... non era stata che la luna di miele!... «Quando pensai al come vivere un sol giorno senza tal vita, fremetti di terrore, e corsi a vestirmi per nasconderlo a lui. «Uscimmo a piedi lungo la cinta esterna della città, per godere di un magnifico lume di luna. Pietro si mostrò sì allegro, sì contento della nostra felicità, che per qualche tempo riuscì a scacciare anche i miei tristi presentimenti. Non seppi nascondergli la penosa impressione che mi avevano lasciato le sue parole: Non puoi vivere sempre come vivi. « - Sì, - mi rispose egli, - i piaceri, lo feste, ti sono necessarii, poichè ti fanno brillare come un diamante messo in luce... sono necessarii al mio istesso amore per provare quello che provavo d'indefinibile nel fascino che ti faceva abbagliante fra tutte le pompe del tuo lusso. « - Queste parole mi fanno male, Pietro! - supplicai stringendomi contro il petto il suo braccio. « - Perchè? - domandò egli sorpreso. « - Perchè mi provano che tu non potrai amarmi sempre come mi hai amata, come ormai è necessario che tu mi ami perchè io viva! « - Sei pazza! - esclamò egli, baciandomi sulla bocca. «Rimasi fredda, muta a quel bacio; fissando i miei occhi nella luna per dissimulare ch'erano umidi di pianto. Le lagrime che solcarono le mie guancie mi tradirono. « - Ma che hai dunque? - esclamò Pietro fermandosi, vivamente commosso, e abbracciandomi: - che ti ho fatto, Dio mio?!... « - Oh, perdonami... perdonami! - singhiozzai, ponendomi le sue mani sulle labbra; - son io che son folle!... perdonami, Pietro!... tu puoi farmi felice con una parola... Mi ami ancora?... mi ami sempre... come mi amavi?... «Pietro soffocò quelle parole sulle mie labbra coi baci, suggendo avidamente le mie lagrime. « - Oh! che ti ho fatto io per meritarmi questo?! - mi diss'egli colla voce tremante, dominando a stento la sua emozione. Non ti adoro come sei degna di essere adorata?!... Amarti ancora!... ma ogni giorno che passa è un affetto nuovo che si aggiunge all'immenso affetto di cui ti amo!.. « - Grazie! grazie, amico mio! Tu non sai qual bene mi facciano queste parole... come io ne aveva bisogno!... E... e... se qualche giorno... se mai... - ed io stentavo a proferire fra i singhiozzi che mi soffocavano, - tu non mi amassi più, tu non mi amassi come prima, come io voglio essere amata da te... tu me lo dirai... dammi parola che me lo dirai!... meglio questo che I'agonia dell'incertezza... Tu non sai mentire, Pietro!... tu me lo dirai!... « - Narcisa!... « - Oh! fammela questa promessa, Pietro!... tu puoi farmi felice con questa parola... « - Ma sei pazza... calmati, amor mio... « - Oh no! te lo chiedo ginocchioni... promettimi... promettimi che tu mi dirai... che me lo dirai quando non mi amerai più!... «E le mie ginocchia, senza avvedermene, si piegarono. « - Mio Dio! Narcisa... lo non so quello che tu abbi stasera; ma se ciò può farti piacere quantunque io senta tutta l'inutilità di tale promessa... se ciò può servire a calmarti... ebbene!... io te la do. « - Oh! grazie, grazie! - esclamai baciandolo in fronte, con un doloroso trasporto; - grazie!... Io sarò più tranquilla!... potrò almeno godere senza sospetto questi giorni di felicità che puoi darmi... « - Narcisa!... per pietà!... « - Oh, no... Pietro! non vedi che son felice ora?!... «Egli rimase triste e pensieroso lungo tutta la strada. «Io provavo un inenarrabile godimento nell'appoggiarmi al suo braccio, nel sentire palpitare contro il mio polso quel cuore che ancora palpitava per me. Tre o quattro volte alzai gli occhi su quel volto maschio ed energico che adoravo, che divoravo dello sguardo, come se fossi avara del bene che possedevo ancora di saziarmene. « - Confessiamo: - disse Pietro nel salire le scale della casa ove andavamo, sorridendo ancora con una lieve tinta di mestizia, come per scacciare la penosa preoccupazione che ci aveva invaso ambedue; - confessiamo che siamo pure i gran fanciulli, e che i nostri discorsi sono stati ben singolari per due innamorati che vanno ad una festa da ballo. «Respirai più liberamente quando la carrozza ci trasportava rapidamente verso la nostra abitazione: mi parea d'essermi levato un gran peso dal cuore col togliermi quella maschera di convenienza che la società esige, e che, quella sera, in mezzo a quella splendida folla, mi era sembrata odiosa. «L'indomani Pietro si rimise a studiare di lena, come non l'avevo mai veduto lavorare. Io passavo i giorni nel suo gabinetto di studio, disegnando o sfogliando i fiori dei quali era sempre piena la giardiniera che contornava il suo tavolino e dei quali spargevo le foglie sulla carta in cui egli scriveva; o, quand'egli lo voleva, andavo al pianoforte e gli suonavo il pezzo che domandava. «Egli usciva sempre la sera per darsi un poco di distrazione, che le occupazioni assidue del giorno gli rendevano necessaria. Qualche volta l'accompagnavo. Una sera volli rimanere in casa per vedere ciò che avrebbe fatto: uscì solo. «Quattro mesi prima sarebbe stato più avaro del tempo che avrebbe potuto passarmi vicino. «Di tratto in tratto egli si mostrava preoccupato, quasi triste... sembrava staccarsi con isforzo alle sue penose meditazioni per prodigarmi ancora quelle sue ferventi carezze, che mi fanno obliare in un bacio tutti i terrori dell'avvenire. «Non potevo esser gelosa... Alla festa, ove l'accompagnai, avevo veduto le più eleganti e belle dame sorridergli con quella grazia che dà diritti a sperare, prodigargli le più obbliganti attenzioni, e l'avevo veduto rimaner freddo e cortese innanzi a quelle attrattive, cercando avidamente il mio sguardo e il mio sorriso. Egli è troppo generoso e nobile per potermi parlare come mi parla e guardarmi come egli lo fa se il rimorso di un altro affetto lo facesse arrossire. No! il mio Pietro è troppo elevato per scendere sino alla dissimulazione... egli avrebbe piuttosto la forza brutale di abbandonarmi. «Eppure questa certezza, che per molte sarebbe una consolazione, per me è il più crudele disinganno, perchè mi toglie persino la speranza dell'avvenire... Quello che scrivo mi scotta le mani, come mi brucia il cuore... Avrei sempre la speranza di riavere il cuore di Pietro che si allontanasse da me per un'altra donna, poichè egli dovrebbe, tosto o tardi, accorgersi che giammai, giammai donna potrà amarlo come lo amo io, giammai simile amore potrà suggerire alla donna tutti gli incanti più raffinati per fargli bella la vita, per fargli sentire tutte le infinite percezioni di questo amore colle pulsazioni violente delle sue arterie... ma Pietro stanco del mio affetto, di me... Pietro disilluso del prestigio che mi faceva bella ai suoi occhi... io non l'avrò più!... mai... mai più!!... «Dio! Dio mio!... la morte... piuttosto la morte!... «Alcune notti egli è rientrato assai tardi... Ho udito che raccomandava di non far rumore per non isvegliarmi... come se avessi potuto dormire, io!... mentre soffocavo i singhiozzi nascosta dietro la portiera dell'uscio. «Oh, egli ha potuto pensarlo ch'io dormissi... prima che egli fosse ritornato!... «È desolante, è spaventevole tutta questa insensibile gradazione che ogni giorno sempre più assopisce nel suo cuore tutte quelle sensazioni minime, delicate, squisite, che la passione suscita e sublima, e che muoiono con essa... «È dunque morto il suo cuore per me... Dio mio?!... «No! egli mi ha parlato ancora di quelle parole, tenendo la mia mano fra le sue, fissandomi sempre del suo sguardo, che avea tutta l'espressione d'allora... Ma ciò non è durato sempre!... sempre!... a dissetarmi di questo bisogno ardente che ne ho!... «Quand'io gli parlo della sua tristezza, della sua preoccupazione, della sua freddezza sin'anche, egli si mostra qualche volta come impaziente, e dissimula appena una lieve tinta del dispetto che prova di non saper meglio nascondere le sue impressioni. Io leggo chiaramente nel suo cuore: egli ha ancora la generosità d'imporsi per me un sentimento che non prova, di nascondermi quelle illusioni perdute che egli si rimprovera come una colpa sua, colpa che però non ha, di cui il pentimento gli dà la forza di stordirsi nelle mie carezze sino alla febbrile e quasi ebbra eccitazione che può scambiarsi coll'esaltazione della passione. «Un giorno era uscito prima ch'io fossi levata, e avea mandato a dirmi che, invitato da alcuni amici, avrebbe desinato fuori. La sera non era ancora venuto a vedermi; verso le 9 feci attaccare, impaziente d'attendere più oltre, e andai a cercarlo dove sapevo trovarsi ogni sera. «Feci fermare il legno dinanzi il Caffè di Sicilia e mandai il piccolo jokey a cercarlo; egli si alzò subito da un crocchio d'amici, fra i quali era seduto, e venne a mettersi in carrozza con me. « - Ti chiedo mille scuse, mia cara, della noiosa giornata che ti ho fatto passare; - mi diss'egli; però distinsi nel suo accento una sfumatura d'impazienza. Io gli strinsi la mano, poichè ero assai commossa, e non risposi. «La carrozza attraversò tutto il corso Vittorio Emanuele e prese la stada d'Ognina. Fuori l'abitato volli scendere e prendere il braccio di lui. Il calesse ci seguì ad una cinquantina di passi. «Entrambi sentivamo di avere un penoso discorso da intavolare, che non avevamo il coraggio di incominciare, e che perciò ci faceva rimanere in silenzio. «Provava il bisogno però di parlargli, di aprirgli il mio cuore; per averne la forza pensai alle sere istesse passate al fianco di lui... sere di cui le rimembranze erano ancora palpitanti di piacere, e a misura che il mio pensiero le vedeva più vive, che il mio cuore batteva più forte, che i miei occhi si velavano di lagrime, io mi stringevo al suo braccio come fuori di me, come se avessi voluto con quella stretta attaccarmi a quel passato che idolatravo; infine non potei più frenare i singhiozzi. «Pietro si fermò in mezzo alla strada, commosso profondamente, ma non sorpreso da quella scena che forse si aspettava. « - Che hai dunque Narcisa? - esclamò egli, prendendomi le mani. « - Oh, Pietro! - esclamai infine, - tu non sei lo stesso di prima! No! tu non mi ami come prima!... « - Narcisa, tu sei folle coi tuoi dubbi penosi... Se non ti amassi come prima, potrei fare la vita che faccio?... «Queste parole, che cercavano di esprimere un pensiero consolante, erano dure per me: esse parlavano di quella vita che avea fatto la nostra felicità come di un sagrifizio. « - È vero adunque, - proseguii, - questa vita ti è penosa?!... tu sei stanco di farla?!... « - Ascoltami, Narcisa! - interruppe egli, stringendomi le mani, quasi avesse voluto infondermi forza per ascoltare quello che avea a dirmi, e raddolcire quanto vi poteva essere di amaro; non si può sempre vivere di questa vita che noi abbiamo fatto, che è la mia più dolce memoria, senza avere delle ricchezze, che io non posseggo, e neanche tu, e le possedessi, io non potrei accettarle da te; bisogna che io mi faccia una posizione, che risponda alle aspettative che si son potute basare sul mio primo lavoro, che è bello del tuo riflesso soltanto. Per ciò fare bisogna piegarsi un poco a tutte quelle convenienze che la società esige rigorosamente. Io ho dimenticato tutto per te, sei intieri mesi: gli amici, il mio avvenire, gli impegni assunti; anche una madre che adoravo, la più buona, la più santa fra le madri, che aveva pur diritto all'amore del figlio suo, e che sei intieri mesi non ha avuto una parola da lui, non l'ha abbracciato una volta... Oh, credimi, Narcisa... è colla più viva commozione, colla più profonda riconoscenza anche, che io rammento questi sei mesi d'amore... Ma perchè quest'amore istesso duri con tutti i suoi incanti bisogna che esso sia assaporato lentamente: in fondo all'ebbrezza che stordisce si trova presto la disillusione che uccide l'amore... ed io voglio amarti sempre, mia Narcisa! «Soffocai i miei gemiti col fazzoletto, e rimasi muta, pietrificata dinanzi a lui che mi stringeva ancora le mani, e mi fissava quasi avesse voluto leggere nei miei occhi. «Dio mio! quello che soffersi in quel punto, credo che non potrò soffrirlo mai più... neanche al momento... «Quand'ebbi la forza di parlare gli dissi tristemente, divorando tutta l'estensione del mio dolore per nasconderglielo: « - Se mi amassi ancora, come dici, non avresti mai proferito ciò... « - Narcisa! - replicò egli, tradendo una viva impazienza, - non son uso a mentire... mi pare... « - Oh no! tu non mentisci... o piuttosto tu vuoi ingannare te stesso, perchè hai pietà di me... Grazie, Pietro! « - Io avrei dovuto parlarti da qualche tempo su questo proposito, - mi diss'egli; ho temuto sempre di farti dispiacere, ed ho indugiato. Tentai di lavorare per adempiere in parte agli obblighi impostimi, ma ti confesso che nulla mi è riuscito.... Mia madre mi ha scritto molte volte le più calde preghiere perchè io vada ad abbracciarla... «Egli aveva esitato a proferire l'ultima frase, e l'avea poscia pronunziata colla precipitazione di colui che prende una risoluzione decisiva. «Mi aggrappai al suo braccio, poichè sentivo le gambe piegarmisi sotto. « - È giusto, - mormorai quindi a metà soffocata: - tua madre ha ragione!... «Ebbi il coraggio supremo di non piangere. Egli rimase muto, facendo sforzi visibili per dominare la sua commozione. « - Mi accorderai almeno quindici giorni prima di partire? - gli diss'io, gettandogli le braccia al collo, piangendo in silenzio. « - Oh! amor mio! - esclamò Pietro quasi con le lagrime agli occhi: - non credevo di essermi meritate tali parole!... « - Ebbene!... fra quindici giorni tu partirai per vedere tua madre!... «Volle abbracciarmi, come per ringraziarmi del sacrifizio che gli facevo, ma mi allontanai di un passo, supplicandolo colle mani giunte di non farlo. «Temevo di perdere la forza della mia risoluzione in quell'abbraccio, al quale mi sentivo spinta violentemente da tutte le passioni, suscitate sino al parossismo, che tumultuavano in me. «Egli rimase colpito e sorpreso da quell'apparente freddezza, e m'accorsi ch'era anche indispettito. « - Grazie! - mi rispose freddamente. «E rimase muto... E non una parola di più... Come se avesse temuto ch'io mi pentissi di ciò che gli avevo accordato. «Ripresi il suo braccio per continuare a passeggiare, mentre non avevo la forza di strascinarmi. Lo guardavo: era freddo, pensieroso, quasi cupo. « - Oh,Pietro - gridai quindi singhiozzante, non sapendo più frenarmi, avvinchiandogli Ie braccia al collo; - mi ami?... mi ami come prima?!... Oh, Pietro!.... una volta mi promettesti, mi giurasti... che mi avresti confessato quando tu non mi avresti amato più... come prima... Pietro!... confessalo che non mi ami più!... « - Narcisa! te ne supplico... queste parole mi fanno male! - m'interruppe egli impallidendo. « - Oh, per pietà!... per pietà, Pietro! Me, l'hai promesso... me l'hai giurato!... Sii uomo!... dillo, dillo che non mi ami più! «Invece di volere questa conferma al mio doloroso sospetto, attendevo, con ansia smaniosa, una parola in contrario, che avesse potuto farmi gettare nella sue braccia, delirante di passione. Egli esitò... egli non l'ebbe;... e rimase muto, immobile... come combattuto da un'interna tempesta. « - Non ha dunque cuore quest'uomo! - gridai come una pazza, dopo avere invano atteso, in una terribile angoscia, col petto anelante, le mani giunte, le lagrime agli occhi, quella risposta. Non ha cuore per comprendere quello che si passa nel mio, per farmi felice anche con una menzogna! avevo detto in quelle parole. « Quelle parole però mi perdettero. « Pietro non capì il vero senso appassionato, addolorato, ansioso, che dava loro il mio cuore in quello stato, proferendole; egli capì soltanto tutte quello che vi è di duro, di sprezzante, d'insultante anche - sì, d'insultante - in queste parole prese alla lettera, che parevano dire: Siete un vile! mentre avevano detto: Non avete pietà di me? «Egli si levò pallido, coll'occhio, un momento innanzi umido di lagrime, asciutto e quasi fosco, coi lineamenti duri e severi; egli... quest'uomo! ebbe la forza di dirmi colla sua voce più calma ed incisiva: « - È meglio forse che ci separiamo, Narcisa. «Ebbi paura di lui. «Non potrei mai riprodurre tutto quello che vi era di lacerante in quelle fredde parole che soffocavano in lui il risentimento, che fa supporre pur sempre l'amore, per esprimere la calma ed inflessibile decisione della mente. «Mi sentivo morire, e caddi annichilata sul muricciolo accanto alla strada; Pietro mi diede il braccio, mi sollevò, e mi strascinò quasi sino alla carrozza. «Là, inginocchiata sul tappeto, col volto nascosto fra i cuscini, piansi lagrime ardenti, disperate. «Ora che ci penso a mente più serena, io non risento tutto il pentimento di quelle parole delle quali gli chiesi perdono a mani giunte, colle espressioni più umili, e che mi parvero aver deciso la mia condanna; se Pietro mi avesse amato ancora, egli non avrebbe dato la significazione letterale a quelle parole;... se il suo cuore non fosse stato morto per me, egli non avrebbe potuto prendere quella risoluzione. «Era finita dunque per me!... per sempre!... Ed io, folle!... folle!... gli chiedevo ancora quella franca confessione che mi avevo fatto promettere in un delirio d'amore, come se le parole avessero potuto illudermi, quando tutto parlava in lui chiaramente. «Passai una notte d'inferno, lacerando coi denti il merletto dei guanciali inzuppati di lagrime. «Quando il chiarore incerto che penetrava dalle tende del verone cominciò ad oscurare il globo d'alabastro della lampada da notte, mi alzai, ancora vestita degli abiti che indossavo la sera scorsa... Esitai un istante prima di tirare il cordone del campanello: volevo illudermi ancora su tutta l'estensione della mia sventura. « - È alzato il signore? - domandai alla cameriera che veniva a prendere i miei ordini. « - Anzi Giuseppe, il suo cameriere, crede che non sia nemmeno andato a letto; poichè l'ha udito passeggiare tutta la notte. «Fui commossa profondamente; dunque anch'egli aveva provato tutta la lotta di quella disperata passione! «Mi acconciai allo specchio, con triste civetteria; non volevo accrescere il suo dolore colle tracce del mio; volevo attaccarmi a lui con tutte le risorse di quell'eleganza che egli aveva tanto ammirato in me; e passai nelle sue stanze. «Lo trovai che scriveva, seduto al tavolino nella sua stanza da studio, con un lume ancora acceso dinanzi, sebbene morente. «Oh, signor Raimondo, mi perdoni questi dettagli, sui quali insisto con il doloroso piacere che si prova a ritornare sui particolari di dolci malinconiche rimembranze. «I fiori che ornavano ogni mattina la giardiniera, situata a semicerchio attorno al suo tavolino, quei fiori fra i quali egli s'immergeva, direi, quando si metteva a scrivere, e che avvolgevano i suoi sensi in un vapore di colori e di profumi, e suscitavano mille indefinite percezioni nella sua mente; quei fiori dei quali egli avea detto di aver bisogno come dell'aria per lavorare e per pensare a me, erano appassiti; le tende delle finestre chiuse, sicchè eravi quasi buio nella stanza; attraverso l'uscio aperto della sua camera da dormire vidi il letto scomposto, colle lenzuola lacerate e cadenti a terra, ed un cuscino sul tappeto accanto ad una poltrona rovesciata. «Pietro mi voltava le spalle, colla testa appoggiala fra le mani; aveva dinanzi un monte di quaderni e di fogli di carta, dei quali alcuni lacerati; sul foglio che gli stava sotto la mano era scritta l'intestazione di una lettera e tre o quattro versi cancellati. Egli non mi udì avvicinare, e si riscosse bruscamente quando mi vide vicino a lui. Poscia si alzò e venne a stringermi la mano, sorridendo tristamente. « - Volevo venire a farmi perdonare le mie cattiverie di ieri sera... però non potevo supporti alzata a quest'ora. « - Non ho dormito, Pietro... - gli risposi colle lagrime agli occhi. «Egli volse i suoi in giro per l'appartamento, quasi avesse voluto nascondermi il disordine; li abbassò, e rimase muto. «Non aveva voluto confessarmi che ancor esso avea sofferto: sentii stringermi il cuore dolorosamente. «Venni ad appoggiarmi alla sua spalla, come nei bei giorni in cui sentivo un brivido percorrerlo allo sfiorargli il volto coi miei capelli, e lo guardai in silenzio, spalancando gli occhi per dissimularne le lagrime. Vidi lo sforzo ch'egli faceva per contenersi, baciandomi sulle labbra; ma quel bacio commosso non aveva il febbrile trasporto di una volta, che gli avrebbe fatto stringere il mio corpo fra le sue braccia fino a soffocarmi... Fu solo.. quasi triste.. « - Tu scrivi? - gli diss'io con un coraggio di cui non mi sarei creduta mai capace. «Come colto in fallo egli abbassò gli occhi sulle carte che gli stavano ammonticchiate dinanzi alla rinfusa, e rispose con un cenno del capo, quasi avesse dubitato di avere la mia forza. « - Scrivi a tua madre, Pietro... Le hai detto che fra quindici giorni sarai da lei?... «Questa volta egli non rispose e si recò la mia mano alle labbra. «Mi portai l'altra al cuore, per comprimerne i battiti, dei quali il rumore mi spaventava. «Oh, signor Raimondo... un uomo di ferro avrebbe avuto pietà di quest'agonia straziante, che mi affascinava però colla forza stessa del dolore, che mi strascinava a misurare tutta l'estensione della mia disgrazia... Pietro!... egli!.. non ebbe pietà di quest'agonia, che pure avrebbe dovuto indovinare dalla calma disperata del mio accento, dal tremito convulso delle mie braccia, che si appoggiavano alla sua spalla, dalla terribile tensione del dolore che inaridiva le lagrime sulla mia orbita... Egli non ebbe una parola... una sola!... o piuttosto non ne ebbe la forza... Egli rimase colle labbra fredde e tremanti sulla mia mano, che recava quella percezione al cuore come una stilettata, cercandovi forse la forza di rispondermi. «Un impeto cieco, disperato mi spingeva. « - Son venuta a chiederti una grazia, Pietro, - gli dissi; - questi ultimi quindici giorni che hai avuto la bontà di concedermi... io... io vorrei passarli in Aci-Castello... su quella bella spiaggia che visitammo sì spesso nelle nostre passeggiate notturne... Siamo al 28 di Ottobre, il 13 di Novembre partirai. «Speravo ch'egli soffocandomi dei suoi baci, avesse annullata la sua risoluzione della sera... Non fu nulla di ciò... « - Oggi stesso manderò Giuseppe ad affittarvi un casino: - mi rispose stringendomi le mani e figgendomi gli occhi in volto come cercandovi la spiegazione di quel desiderio; - e domani partiremo. Vuoi che usciamo assieme oggi? «Quella domanda fu il mio colpo di grazia: quando egli mi amava come un pazzo mi avrebbe pregata di non uscire; in appresso non mi avrebbe fatto quella domanda poichè non si sarebbe potuto supporre che l'uno di noi potesse uscir solo... negli ultimi giorni mi amava ancora abbastanza per non propormi una passeggiata come un compenso, come per ringraziarmi del sacrifizio che gli facevo, ciò che equivaleva a dichiararmela una compiacenza, come avea fatto in quel momento. «Mi voltai a cogliere un fiore da un vaso di porcellana per recare il fazzoletto alla bocca... Mi sentivo soffocare... Ebbi appena la forza di mormorargli: « - No... no... grazie... Non uscirò tutta la giornata... «Io stessa non udii il suono di quelle parole... Forse neanche egli le avrà udite... Uscii barcollando, operando uno sforzo supremo per dominare il mio dolore immenso, aggrappandomi alle tende che incontravo per non cadere... Nel mio salotto caddi su di una duchesse, annichilata. «Pietro passò al mio fianco tutto il giorno. Mi faceva una pena orribile a vedere gli sforzi che faceva per contenere la sua commozione, per combattere la lotta che ferveva in lui, per mantenersi saldo nella risoluzione che parea essersi fissata, e che quei momenti avevano fatto ondeggiare in lui... Egli fu amoroso con me, come si può esserlo sino ai limiti della commozione, senza il trasporto però della passione, di quell'amore caldo, cieco, irresistibile, quale egli me l'avea fatto provare, quale ormai m'era necessario per vivere, quale avrebbemi fatto dimenticare, almeno, per un'ora, in un bacio, tutta l'estensione dell'immensa sventura che mi percuoteva. «Egli non ebbe una parola, non una sola parola che alludesse alla nostra separazione; ma neanche un'altra che la facesse mettere in dubbio. «Un momento mi parve cattivo e spietato quell'uomo che non mi amava più. «Poi gli baciai le mani, delirante, piangendo a calde lagrime; gli avvinchiai le braccia al collo e lo soffocai quasi fra le mie lagrime e i miei baci, come se avessi voluto farmi perdonare la triste impressione di quel momento. «Giammai! giammai io ho amato Pietro di quest'amore immenso, frenetico, divorante di cui l'ho amato in quel punto... «L'indomani partimmo per Aci-Castello. «No! se anche scrivessi questi versi col sangue che tale tortura ha stillato dal mio cuore, io non potrei arrivare a descrivere tutto lo strazio ineffabile di quest'agonia immensa che è durata 15 giorni; in cui ho dovuto divorare lo mie lagrime; soffocare gli urli disperati del mio cuore, perchè m'impedivano di vedere, di sentire come ogni ora di più il cuore di lui s'allontani dal mio; come quelle sensazioni impercettibili, che formavano l'amore sovrumano di cui quest'uomo mi adorava, vadano morendo in lui... lo non potrò esprimere quello che ho provato di orribile in tutta l'intensità del dolore, quando, con la terribile lucidità che mi dà la mia angoscia, ho letto chiaramente in quel cuore... troppo chiaramente, per mia sventura!... la sorpresa, la tristezza di lui, direi anche, il rimorso delle perdute illusioni del suo amore di un tempo che cerca invano... lo l'ho veduto quell'uomo, quel cuore, chiudere gli occhi, immergersi nel vortice delle più tempestose carezze, soffocarmi coi più febbrili trasporti... frenetico... furibondo quasi, cercando quelle illusioni che avea adorato in me... e nulla!!... nulla!!... e staccarsene pallido, annichilato... quasi piangendo come un fanciullo, guardandosi attorno come smemorato, come cercando ancora quelle sensazioni che non sa più trovare in me... e che io!!!... disgraziata!!... io non posso più dargli!!... «Oh, signore! nessuno!... no! nessuno potrà mai arrivare a comprendere la sublime agonia di quell'istante! «Dio!... Dio mio!... se impazzissi! «No! Dio non è giusto! No! Dio non ha pietà di questo dolore sovrumano! «Pietro è triste, malinconico ogni giorno di più, la pietà istessa che risento di me, di quest'amore di cui l'amo, ch'egli comprende, e del quale non può contraccambiarmi, malgrado tutti i suoi sforzi generosi, questa pietà lo distacca da me, lo fa fuggire, come se temesse di trovare un rimorso nei miei occhi, che, Dio sa con qual coraggio gli nascondono quello che si passa in me. Egli è sdegnato contro se stesso e dolente della simulazione che deve imporsi per compassione di me, delle menzogne che deve giurarmi col volto cosperso del rossore della vergogna. La notte lo sento passeggiare spesso sino all'alba, ora in cui parte per la caccia, e non ritorna che a sera, stanco, spossato, come se avesse voluto nella stanchezza dei sensi addormentare il rimorso del suo amore perduto, e trovarvi una pace che la tempesta delle sue passioni non gli accorda giammai. Eppure, dopo queste corse che hanno gonfiato i suoi piedi, che hanno logorato le suo forze sino alla prostrazione, egli non trova sonno nel letto... egli si stanca ancora a passeggiare per la sua camera... «Qualche volta ho trovato l'indomani il suo fazzoletto e i suoi guanciali umidi: al sapore acre ho conosciuto che erano lagrime... «Lui! questo carattere orgoglioso e forte, quest'uomo di ferro... ha pianto!... ha pianto di dolore, di rimorso, di rabbia, per quest'amore che gli sfugge, che vorrebbe imporsi. «No!.. tale martirio non può durare per entrambi... Io sarò forte!... sì, quest'amore istesso me ne darà la forza. «Morire, mio Dio! morire nelle sue braccia almeno... addormentata dalle sue carezze!... «Abbiamo passato 13 giorni su questa spiaggia che mi sembra deliziosa, malgrado le ore crudeli che vi ho provate. Si dice che il dolore rende fosche le tinte più brillanti del luogo ove si prova... Anch'io ho sentito ciò altravolta; ma quì, in questi ultimi giorni, questi luoghi io li ho amati nei loro minimi particolari; forse perchè mi è caro anche il dolore di quest'agonia che posso provare vicino a lui. «Nel momento in cui scrivo per parlare di lui, per illudermi con lui... sola, di notte, nella mia camera da letto... vedo, attraverso le tende della mia finestra aperta, sbattute dal vento tempestoso di questi ultimi giorni d'autunno che spoglia gli alberi delle foglie, la massa antica, imponente, severamente e grandemente poetica del vecchio e rovinoso castello che pende da una balza suI mare; coi suoi muri massicci e screpolati, sui quali stridono i gufi in mezzo alle ginestre che vi germogliano, che disegnano Ia loro massa bruna su questo cielo trasparente ove risplende la più bella luna del mondo; con questo mare immenso, lucido, che da questa lontananza sembra calmo e lievemente increspato e che muggisce colla sua voce potente fra i precipizii dell'abisso che circonda le fondamenta del castello. «L'altro giorno volli vedere questo castello a metà distrutto, su cui sembra talvolta vedere ancora passeggiare le scolte luccicanti di ferro fra i merli dei torrioni; che mi fa vivere in mezzo agli uomini di una volta che l'hanno abitato coi vivi ricordi che tramanda e che sembrano infondersi incancellabilmente alla sua vista. Pietro volle dissuadermene, dicendo che la strada per giungervi era molto pericolosa per una donna. « - Non sarai tu con me? - gli dissi, come se mi fosse stato impossibile un accidente vicino a lui, o come se quest'infortunio avessi dovuto amarlo, dividendolo con lui. «Egli... costui, cui l'amore avea dato squisite percezioni, cui avea fatto oprare un miracolo di genio e di sentimento nel suo dramma, capì appena tutto il senso di quelle parole. «Mi diede il braccio, come per nascondermi il suo imbarazzo, e mi accompagnò alla salita che precede l'ingresso della rocca. «I muri della torre principale che guardano il paesetto, sembrano di un'altezza smisurata, guardati dal basso, in quel punto, elevati come sono su di un immenso scoglio che dalla parte del mezzogiorno sospende le sue torri sul mare. Due tavoloni di querce sono gettati su di un arco in rovina per traversare l'abisso orribile che si stende al di sotto, in fondo al quale mormora il mare di un sordo rumore, e che fa venire le vertigini al solo guardarlo. «Pietro passò innanzi e mi porse la mano raccomandandomi di non guardare il precipizio per non avere la vertigine; all'incontro io provavo un'affascinante sensazione nel mirare quella gola oscura, a quasi duecento piedi sotto di noi, ove, fra le acute punte degli scogli, biancheggiava la spuma minuta delle onde rotte e imprigionate nella caverna, su cui l'assito che ci sosteneva si piegava sotto il peso dei nostri corpi scricchiolando. «Se cadessimo,qui, abbracciati! - esclamai io quasi involontariamente, stringendo la mano di Pietro che mi guidava. «Mi pareva più dolce quella morte; e preferibile alle torture che provavo, e che supponevo anche in lui. « - Quale pazzia! - mormorò egli stringendo il mio braccio, come per prevenire l'effetto di un capogiro, e accelerando il passo, che avea reso ardito e sicuro, quasi per garantire la mia vita ch'eragli sospesa. «Egli non ha detto: Che cara pazzia!... Ha detto semplicemente: Quale pazzia!... «Ho veduto dalla sommità di quelle torri questo mare azzurro che si confonde con il ceruleo dell'orizzonte, che si stende nella sua grande immobilità in lontananza e freme e spumeggia ai miei piedi; ho veduto quelle barche che sembravano giocatoli da quell'altezza, quel litorale sparso di ville e di paesetti, e Catania... Catania ove Pietro mi aveva tanto amato... «Vi fissai un lungo sguardo, non avvertendo le lagrime che bagnavano le mie guance. « - Che guardi? - mi domandò egli, come se mi avesse domandato: Perchè piangi? « - Catania! - risposi colla voce ancora tremante. «Egli sentì forse tutto quanto vi era di passione e di rimembranze in quella parola; e lo provò anch'egli fors'anche in quel momento, poichè soggiunse, come cedendo ad una generosa risoluzione: « - Vuoi che ritorniamo a Catania? «Non risposi e restai cogli occhi umidi e fissi sul golfo in fondo al quale biancheggiavano le cupole che indicavano la città, appoggiandomi al braccio di lui. Sentivo quanto vi era di nobile sacrifizio in quella proposta; ciò ch'escludeva l'amore, ch'era quello che mi bisognava. « - Dov'è Siracusa? - domandai poscia, come non accorgendomene, cedendo ad un intimo impulso. «Pietro mi additò un punto tra mezzogiorno e ponente, dietro il Capo Passaro che si vedeva distintamente, ove dovea essere il suo paese natale. « - Perchè non mi conduci a Siracusa piuttosto? - gli dissi gettandogli le braccia al collo, singhiozzando e fissando nei suoi i miei occhi brillanti di lagrime. Egli abbassò gli occhi, baciandomi le mani, e rispose, dopo avere esitato un istante: « - Se lo vuoi... « - No! Io non lo voglio... Ciò che io voglio è il tuo amore! il tuo amore sfrenato, ardente, quale lo sentivi per me, quale cerchi ancora come smanioso e non sai più trovare, quale io spero qualche volta illudendomi, e tento tutte le occasioni per travedere in te... e non m'accorgo, pazza, disgraziata ch'io sono, che tu non lo trovi... che tu hai la generosità, la nobiltà di fingerlo meco; ciò di cui senti rimorso;... e che tutto... tutto!... perfino le tue carezze, perfino i tuoi sacrifizii mi dimostrano che tu non senti più per me... « - Partiamo! - soggiunsi poco dopo strascinandolo pel braccio, soffocando l'emozione che sentivo prorompere nell'eccitazione della corsa, poichè mi sentivo morire. «L'ultimo raggio di sole rischiarava ancora i merli della più alta torre, e nell'abisso che dovevamo traversare era buio profondo; e gli echi ne erano mugghianti; e gli sprazzi di spuma biancheggiavano come giganteschi fantasmi. «Un momento mi sembrò che l'immenso fascino di quello spaventevole abisso attraesse l'abisso doloroso del mio cuore; che quei bianchi fantasmi mi stendessero le braccia come a prepararmi un letto eterno che dovesse accogliermi assieme all'uomo che adoravo tanto più freneticamente quanto più lo vedevo allontanarsi da me... Un momento il mio piede si stese sul precipizio e la mia mano strinse più forte la sua per allacciarlo in un modo che nulla sarebbe valso a rapirmelo mai più... « - No! no! gridò il mio cuore gemente: no!... ch'egli viva! ch'egli sia felice!... io non potrò mai essergli grata abbastanza dei giorni che mi ha dato, dei sacrifizi che ha avuto la bontà d'imporsi per me!... Ch'egli sia felice... anche con un'altra!... « Un'altra!... Ecco quell'idea terribile, sanguinosa, che mi ha attraversato il cuore come un ferro infuocato, e alla quale non avrei forse saputo resistere se ci avessi prima pensato... «Mi avvidi, quasi con gioia, come se fossi stata salvata da un immenso pericolo, che camminavamo sul selciato della strada. «Una o due volte, in quella notte agitata e febbrile passata al davanzale della mia finestra, ho avuto dei momenti di speranza, d'illusione, speranza tale che mi faceva mettere dei gridi di gioia, che mi faceva comprimere le tempia fra le mani, quasi le arterie che battevano di felicità, minacciassero di sconvolgermi la ragione... Egli mi avea proposto di accompagnarmi a Catania!... egli aveva avuto forse un istante d'amore per me!... dell'amore di una volta!... «Oh! Dio! Dio!... morire almeno in tal momento!... «Ieri volli uscire con lui; volli fare una passeggiata in barca. Egli prese i remi, ed entrambi, soli, ci cullammo nella piccola barchetta da pescatori su quelle onde azzurre come il cielo. «Quand'egli è solo, pensieroso, vicino a me... provo un momento di dubbio, d'incertezza... Mi pare di sperare, mi pare di averlo mio! tutto mio!... e che nulla abbia potenza di strapparlo all'amplesso frenetico delle mie braccia. «Appena fummo al largo egli lasciò i remi e venne a prendere la mia mano. «Lo guardai come non l'avevo mai guardato: sentivo che non potevo amarlo di più di quanto io l'amavo in quel momento; mi pareva impossibile ch'egli dovesse lasciarmi il dopodomani. «Egli baciava le mie mani, e sostava per guardarle in silenzio, come se avesse temuto di alzare gli occhi nei miei, e per tornare a baciarle... Le sentii umide delle sue lagrime. « - Pietro! - esclamai palpitante di una sublime emozione, mentre tutti i pori del mio cuore si dilatavano ad assorbire le inebbrianti emanazioni di una lusinghiera speranza; - ieri ti pregai di condurmi a Siracusa!... con te... «Egli non potè più frenare il pianto, e scosse la testa tristamente. « - Impossibile! - mormorò con un soffio appena intelligibile. « - Impossibile?... - ripetei radunando tutte le forze di cui mi sentivo capace; - e perchè, Pietro?!... « - Oh! grazia! grazia, Narcisa! - singhiozzò egli stringendomi fra le sue braccia, nascondendo la sua testa nel mio petto: - grazia!... io sono molto vile!!... «Era orribile a vedersi l'angoscia disperata di quel volto energico, l'annichilamento completo di quel carattere di bronzo. « - Sì, io son vile! io son colpevole! io sono infame!... - seguitò con voce delirante: - oh! grazia, Narcisa!... «L'amavo tanto che non sentii tutto lo spasimo sublime che quelle parole mi facevano provare: ebbi soltanto pietà di lui. «Lo abbracciai; piangendo anch'io; tremando convulsivamente del suo tremito; mischiando le mie labbra alle sue. « - Dillo! Pietro... dillo! - gridai con disperato sforzo di volontà, - tu non mi ami più!... tu non mi ami più come prima! «Egli rimase abbattuto, in silenzio, sulla panchetta della barca. «Quel silenzio durò cinque minuti. «Quando risollevò il volto fui atterrita dallo spaventevole pallore che copriva i suoi lineamenti solcati profondamente. « - Ascoltami, Narcisa! - cominciò egli con voce solenne, quasi calma: - io ho un sacro dovere di gratitudine verso di te... dovere che mi fanno care le reminiscenze che non potrò dimenticare giammai, e che formano ora il mio inferno... Eppure, te lo giurò sul mio onore, io non mi trovo colpevole... no!... che soltanto queste reminiscenze mi restino ora vicino a te... Tu hai il diritto di disporre di me, in tutto... Io sacrificherò al dovere quello che avrei sacrificato all'amore, e farò quanto è possibile all'uomo per renderti la tua felicità. Ho tanto provato di sì immenso nella voluttà del godimento, nel delirio dell'esser felice che forse all'uomo non è concesso di godere... e Dio mi punisce col soffiare su tutte quelle sensazioni che formavano il mio amore... che cerco invano da due mesi... e spegnerle per me. Nel tremito ardente dei tuoi labbri sul tiepore della tua pelle rosata, nelle nervose e convulse pressioni delle tue braccia, nel delirio fervente delle tue carezze; ho cercato invano un atomo, un atomo solo, di quello che provavo d'arcano, d'indefinibile, di più che terreno, quando, seduto sul lastrico della. strada, ti vedevo al verone, ciò che formava il delirio dei miei sogni; che nei primi trasporti del possederti, quando mi pareva di divenir folle per la felicità dell'amor tuo, io provai sino a quel parossismo del godimento che ci annienta, direi, nel godimento istesso, e che ci lascia sbalorditi della sua estensione. lo ho cercato invano questo profumo, questo vapore che ti circondava d'incenso come gli angeli, e in cui non osavo immergermi per timore di perdervi la ragione o di perdervi l'illusione... È duro, è crudele quello che dico... ma tu hai mente per apprezzarlo e cuore per perdonarmelo... come mi hai perdonato tutto quello che ti ho fatto soffrire da due mesi, che mi son rimproverato, e di cui il rimorso mi lacera... Quello che io piango, Narcisa, è l'amore che ho provato e che non posso più trovare... che cerco assetato per inebbriarmene, poichè la sete che ne ho è ardente, divoratrice, e che mi fugge sempre dinanzi come un fuoco fatuo... Io avrei paura, rimanendoti più a lungo vicino, che la stanchezza dell'animo non vincesse anche il desiderio ineffabile che ho di quest'amore... e che tutto questo tesoro di diletti che trovasi in te, di cui m'abbeverai forse sino all'ebbrietà, non vada perduto dell'intutto per me! Oh! io ho paura di ciò, Narcisa!... poichè la speranza di riamarti un giorno come ti ho amato, m'impedisce che mi bruci le cervella, non avendo più nulla a godere sulla terra. Bisogna che io mi allontani da te per qualche tempo, ch'io torni a dubitare della felicità che ho goduto... ch'io dubiti della speranza fin anche di questa felicità, per esser pazzo di te come ero quando passavo le notti innanzi la tua casa senza sperare un'occhiata da te... bisogna che io ti vegga ancora lontana da me, in mezzo allo pompe del tuo lusso, all'incanto delle tue seduzioni, per cercarti ansioso, cieco, folle, come allora; e stendere le braccia, delirante, invocando un altro sorso di questa coppa fatata... a cui fui tanto stolto da bere troppo... «Egli non potè più proseguire, soffocato dalla violenza della sua commozione; tenendosi il petto colle mani increspate da una violenta contrazione; inginocchiato ai miei piedi; coll'occhio luccicante di una fosca luce sul pallore quasi tetro del suo volto; coi capelli irti sulla fronte madida di freddo sudore. «Quest'addio che quel cuore mi dava era grande, era sublime, come l'amore di cui m'aveva amato. «Lo sollevai fra le mie braccia; lo baciai in fronte, sentendomi ancor io fredda di sudore ghiacciato, provando una forte risoluzione che quelle parole infondevanmi, la quale correva al cuore, quasi con gli smarrimenti di una vertigine, insieme al sangue che da tutte le vene vi affluiva. « - Addio dunque! - gli dissi con una calma nella voce della quale io stessa ero atterrita: - Addio, Pietro!... «Egli cercò i miei labbri coi suoi freddi, tremanti d'angoscia e di voluttà. « - Addio!... gli mormorarono ancora i miei labbri palpitanti nei suoi. - E svenni fra le sue braccia.

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