Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abati

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Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266137
Boito, Camillo 1 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
  • UNIFI
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La prima volta che io entrai nella chiesa di San Giovanni in Laterano, mentre stavo guardando alla prosopopea di quei pilastri e di quelle arcate del Borromini, un cardinale con la testa alta, il portamento altero, l’occhio scintillante, usciva dalla sagrestia, seguito in atto di riverenza servile da uno stuolo di canonici e abati e chierici e servidorame in livrea gallonata. La chiesa, che nel totale mi era parsa goffa ed insulsa, diventò di botto, per merito di quelle figure, cosa tutta diversa. Il rosso, il pavonazzo, il nero, il bianco fecero brillare le tinte uggiose dell’architettura, fecero vivere le linee delle colonne e delle trabeazioni. Niuno meglio di voi può sapere come un colpo di colore trasmuti una scena, come un tono rinnovi un quadro. Voi mi volete interrompere per dire, l’indovino, che senza il Governo dei Papi i preti potrebbero starci a ogni modo. È vero; ma ciò che mi piaceva nel cardinale di San Giovanni in Laterano, ciò che lo accordava sì bene ai dodici apostoli colossali del Le Gros e del Rucconi, non era tanto la sua porpora, quanto quella sicurezza sdegnosamente cattolica, quell’incesso da principe orgogliosamente modesto, che non possono rivelarsi senza la coscienza e l’esercizio del proprio potere.

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Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

663943
Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Il Canonico Puerperio ossia Giunipero era stato colto dal telegramma di Suora Crocifissa, mentre presiedeva ad una conferenza privata di abati della Missione. Il telegramma diceva precisamente così: * Catastrofe sanguinosa. Nome Dio venga subito. Prego Provvidenza Divina. Il telegramma catastrofico non poteva essere l'inganno di un burlone, perché la censura poliziesca non avrebbe lasciato passare una fiaba di tale gravità, e perché esso conteneva un motto di intelligenza devota. Vista la gravità straordinaria del caso, gli abati della congregazione si proffersero di accompagnare il Canonico. La canonica di Passabiago darebbe loro alloggio da pernottarvi, senza violare la clausura del Santo Oblio. A Passabiago sentirono dal procacciante curatino, come l'onor. Conte De Ritz e il celebre scrittore Adriano Meraldi erano stati raccolti presso il Cancello dell'Ospizio con le teste rispettivamente fracassate, dando più poche speranze di vita. Tutte le vetture del luogo erano state requisite per ordine telegrafico dal Procuratore del Re, dalla Regia Prefettura, dalla Curia Vescovile e dalle desolate famiglie, di cui si annunziavano arrivi coi prossimi treni alla stazione di Clavario. Onde il canonico e i suoi neri seguaci si affrettarono a piedi da Passabiago al Sant'Oblio. Parevano corvi feriti, toccando come affannosi anitroni colle ali la terra. A vederli comparire dal Cancello dell'Ospizio, Bimblana esclamò con meraviglia sofferente: * O Signore! O Signore! Sarà il castigo di Dio. Quella minaccia lamentosa sgominò il drappello delle ribelli pentite, le quali scapparono qua e là per il giardino, come per fuggire una vendetta divina. E Suora Crocifissa, e il canonico, e gli abati, e il baroncino, a rincorrerle, ad acchiapparle, a riunirle quelle disperse. Alcuni preti sembravano pigliare passere col cappello sull'erba. Gilda non ebbe bisogno di lasciarsi acchiappare dal suo Svembaldo. Fatto l'appello e non trovata mancare nessuna delle pecorelle smarrite, rimessosi il nicchio sulla fronte sudata, il canonico ordinò la processione di tutte e di tutti in chiesa. Tuonò dal pergamo, svolgendo religiosamente, cattolicamente il motivo oratorio di un avvocato nord- americano. Vi sono tempeste morali, tempeste dell'anima. E come nelle tempeste fisiche, dalla grandine materiale le contadine rifuggono al loro casolare con un sacco sulla testa, noi ripariamo sotto il Manto della Madonna nella casa di Dio. * Domattina confessione e comunione generale! * * * Quando il canonico Giunipero si assicurò che tutte le convittrici erano andate a dormire nelle loro celle e nei loro cameroni, ordinò la ritirata della sua coorte mascolina alla canonica di Passabiago. Durante il breve tragitto, un abatino, Don Pizzichini, che pareva un budello vestito della cotta nera, confessò sbadigliando: * Ho la coscienza lunga. * Non anderai a dormire colla Madonna! * lo affidò il curatino Don Clementino. * Il nostro Priore provvederà. Di vero il priore di Passabiago, Don Alessio Lapesandi godeva la meritata fama di esercitare l'ospitalità su vasta scala. Domò sollecitamente le proteste della servente o meglio cusinera Celestina, la quale si acconciava come alla tempesta della visita pastorale di Monsignore Vescovo. Si rimedia anzitutto con un grosso salame sbrucato in una frittata di dodici uova. Il curatino scova in una credenza una insalata di lesso freddo affettato con le cipolle; e fu un trionfo. Detto il benedicite e fatto il segno della santa croce si muove all'attacco dell'imbandigione, con quella ilarità e vêrve passionale, che i preti mettono nel cibo e nella bevanda a compenso della loro castità professionale. Svembaldo non dava loro soggezione, sembrando ai loro occhi già luccicanti un angelo bagnato nel vino bianco di Canelli. * Bbbeivvv ... ! io sento nel suono della campana maggiore ... * diceva l'abate Trippone: * Bbbeivv! * e faceva bronzire ( sbronzè ) la voce. * A me invece, * soggiungeva il curatino, * quando vado a celebrare nella Confraternita una messa di sedici soldi, sembra di sentire, che la campanella mi canti: Beiv pochin, beiv pochin! (Ilarità strepitosa inaffiata da una enorme bevuta). Quindi i preti, come usano, quando trincano fra loro, si abbandonarono a caricature pretesche. Don Iginio Lampanti, vivace ingegno con tendenze demo- cristiane, rifece il verso di un predicatore napolitano al Duomo di Casale Monferrato: * C'era uno villanu, che aveva malata la porchetta, unico tesoro suo; la alzò, la strinse fra le braccia, e la votò alla Madonna, pregando: O Madonna, dispensiera di grazie, salvatemi la porchetta mia, unico tesoro mio ... La Madonna gli fece la grazia di guarire la porchetta sua, l'unico tesoro suo ... E così sorgette il Santuario della Santissima Vergine della Porchetta ... * (sfrenata ilarità, per cui il cerchio delle mani doveva contenere le pancie sbellicanti). Il curatino volle emulare quel successo con la predica dialettale recentissima del pievano di Montecatino Monfrà, che supera quella del pievano di Montemagno dei secoli scorsi: * Vardè, matasse; cherdé pa' da deila d'intende con la vostra bertavela a Nost'Signour. Al giudissi Universal ij sarò mi ai pe' del trono di Dio, e i dirò: Santissima Trinità, Catlina la stiroira a l'è tut aut che na santificetur, come vorria fesse paresse adess ... I so mi, ch'a fatta l'amour da scondon antl la stala con Pero d'l'Osto ... E il Signor a m'à scutrà mi, e nen voiace lengasse polide come 'l baston del gionch, e a ordonrà a Bergnif de piesse la bela Catlina sui brich, e d' campela drinta la caudera pu bujenta d' l'Infern ... L'abate Trippone prevede, che ci vorranno due diavoli a portare la Contessa de Ritz all'Inferno, se non la salverà la Santissima Vergine della Porchetta. Poi accusando uno stomaco di ghiaia asciutta, ricordava papa Martino del Torso, quello delle anguille annegate nella vernaccia, e ne ripeteva la conclusionale di ritorno dal Concistoro: Quanta mala patimur prae Sancta Ecclesia Dei Jesus ... bibamus. Il priore anfitrione con il polso tuttavia fermo sta per versare un'altra bottiglia, quando scocca la mezzanotte e tronca automaticamente la cena per il digiuno della messa mattutina. Recitato con improvvisa compunzione l'agimus tibi gratias , la seduta è sciolta. E il baroncino Svolazzini, tirando su i cernecchi biondi dalla fronte, che una volta era apparsa erroneamente cretina, meditò: * Che danno recano alla Società i preti, se anch'essi mangiano e bevono, senza fare del male a nessuno, anzi si sostengono per fare poi della carità al prossimo?! * * * Il Conte De Ritz ed Adriano Meraldi vennero con molte cautele trasferiti il primo al suo Castello di Ripafratta, e il secondo alla casa paterna e materna di S. Gerolamo; ambidue con le migliori speranze di guarigione, che possono dare le cure terrene, avendo ambidue l'assistenza dei rispettivi genitori. Nonostante le inchieste giudiziarie, amministrative ed ecclesiastiche, la grande tempesta addensatasi sull'Ospizio del Santo Oblio parve per il momento sciogliersi in un bicchiere d'acqua. Ringraziando la Provvidenza Divina del miracoloso favore, Suora Crocifissa volle mantenere la promessa di aiutare il baroncino Svolazzini nella sua testarderia matrimoniale. Indarno il canonico Puerperio, ossia Giunipero, bofonchiava: * Adagio, adagio a ma' passi. Svembaldo, proprio al Sant'Oblio, riuscì a sposarsi religiosamente la sua Gilda di Simone, confermando i nodi allo Stato Civile di Passabiago. Per assicurarsi l'indipendenza economica, egli aveva ottenuto un posto in una acciajeria a S. Pier d'Arena. Il suo matrimonio, secondo le previsioni del Canonico protettore, fu certamente un passo falso calamitoso per l'Ospizio. La baronessa madre ne ricevette tale colpo da parere stecchita con gli occhi di ceramica e i denti lunghi di smalto. Il barone padre, che per lustrare la sua nobiltà napoleonica a quella delle Crociate, faceva le smorfie a recarsi in senato a Roma tolta al Santo Padre, ora precipitò a giurare a Palazzo Madama, e fece presso il governo usurpatore i maggiori sforzi per la soppressione del Sant'Oblio, e avutone il destro con l'alleanza di una principessa dell'Aristocrazia Nera non risparmiò le sue sollecitazioni all'Augusto Prigioniero del Vaticano, perché fulminasse di scomunica quell'istituto di mezzaneria sacrilega. Onde all'Ospizio fondato da Suora Crocifissa e dal Canonico Puerperio ossia Giunipero si preparava la sorte del prete martire Tazzoli impiccato dall'Austria e sconsacrato dal Papa. Non rimase in panciolle la Massoneria. E non tardarono a manifestarsi sintomi gravi di quell'agitazione contra il pio istituto. Anzitutto apparve un tremendo articolo sulla Gazzetta del Popolo di Torino nella rubrica del Sacco Nero allora destinata a mazzerare preti, frati e monache. Se ne attribuì con qualche approssimazione la paternità al dottore Giambattista Bottero, patriota, padre, cane guardiano del liberalismo progressista irreducibile da ogni riserva conservatrice, tetragono ad ogni seduzione clericale o clericaleggiante. Senza titolo, tra due sbarre, come una necrologia, l'articolo si conficcava, si incastrava, saldo al pari di un mattone o di una lastra tra le colonne del giornale. Cominciava: " Avremmo voluto intitolare queste righe Cose Medioevali , se la trascendente novità non fosse Cosa dell'altro mondo" . E l'articolo procedeva velenoso, come se rigirasse, invece di caramelle, uno scaglione in bocca all'articolista. " Metteva il conto che con la firma di un re da noi battezzato GALANTUOMO, si promulgassero le leggi di soppressione degli ordini religiosi, e che con la sottoscrizione promossa dal nostro giornale si innalzasse l'obelisco Siccardi per l'abolizione del foro ecclesiastico, meritava che si versasse tanto sangue di martiri e soldati, si consumasse tanto fosforo di pensatori, e si spandessero tanti inni, o se vogliamo, ragli di poeti, per la libertà politica e religiosa, quando le leggi dello Stato Italiano diventano come gli antichi ordin d'Turin, ch'a duravo da la seira a la matin, e quando i voti migliori del popolo italiano vengono proprio considerati dall'alto come ragli d'asino indegni di salire in Cielo? Non si potrebbe con insipienza più asinina né più supina tollerare e forse fomentare ciò che si tollera e si fomenta dal nostro sgoverno a favore della Santa Bottega gesuitica. Mentre la sana Germania con il suo cancelliere di ferro ricusa di ritornare a Canossa, vi si incammina la bigotta, pellagrosa Italia con la sua politica di polenta fatta di mais avariato a implorare perdono di essersi lasciata condurre in Campidoglio tirata per un orecchio e spinta a calci nel preterito. Si domanda perdono delle balossade confessate da un fossile bigottismo. Nel più bello del Piemonte, che si direbbe inutilmente inaffiato dal sangue di Andrea Vochieri, si lasciò formare e si lascia prosperare e spadroneggiare un nuovo nido claustrale di infezione loiolesca. Tutto l'armamentario dell'antica inquisizione con i cavalletti, i trabocchetti e gli in pace , è congiunto al comfort moderno parigino-americano, dernier crì d' la mode, fin du siècle . Si parla di vere corride di tori ecclesiastici, e di caccie muliebri esercitate coi cappelli da prete, come si trattasse di lucciole o farfalle, orgie di sacerdoti di Bacco e sacerdotesse di Venere. Un orrore di lue sanguinosa alla tenera infanzia, da spaventare la fantasia di Mefistofile perforatrice degli angeli. Impedita violentemente la fuga delle recluse stomacate; un succhionismo adoperato larghissimamente sulle ricchezze peccaminose e sulle disgrazie cordiali; manipolati i matrimonii di giovani ricchi e imbecilli con le serve dell'istituto a disperazione di nobili madri, a corruccio ed onta di alti benemeriti intemerati patrioti. Insomma un pervertimento di antico e nuovo genere tale e tanto da attrarre un onorevole rappresentante della nazione e genuino eroe dell'epopea garibaldina, e un valido campione della stampa internazionale a rompersi definitivamente la testa contro il cancello di questo nuovissimo Eden infernale. Noi osserviamo semplicemente che tutto ciò non è tollerabile con le tradizioni morali del nostro antico e forte Piemonte, a meno che non lo si voglia convertire in una casa di tolleranza cattolica. In altri tempi noi abbiamo condannato irremissibilmente le circolari reazionarie del ministro Pernati, come circolari per ... natiche; ma ora non siamo disposti assolutamente a permettere che le leggi liberali del Regno d'Italia siano considerate realmente, come leggi per ... natiche. Nei giorni nefasti delle sconfitte e delle fughe del 48 e del 49 noi non indarno abbiamo minacciato due dita nella gola ai generali traditori: siamo disposti a ripetere il gioco davanti a un'amministrazione traditrice della libertà. Lo si senta bene anche in alto. Se esistono ancora membri non bacati del Gabinetto, non si lascino corrompere dalla fetida Consorteria caduta sul lastrico di Torino insanguinato da lei vilmente. Uno sgoverno avvisato può essere ancora un governo mezzo salvato." * * * A questo articolo del Popolo di Torino, rispondeva la Perseveranza di Milano con un' articolessa degna della marchesa Paola Travasa. L'articolo dell'organo magno della consorteria lombarda era firmato dottor Bambagino; e venne erroneamente attribuito a Ruggero Bonghi. Certo in quella prosa si scorgeva una pretesa involuta, accartocciata di sottigliezza rosminiana ed arguzia manzoniana nella superbietta sofistica della Magna Grecia; una pretesa di far sentire il sonito della chioma sulle spalle dell'Apollo omerico con i rari e corti ricci spioventi da una pallida calvizie e una risata stridente di pavone. Ma dopo lo sfogo della critica letteraria, salviamo, districando, la sostanza delle verità avviluppate. Ecco un sunto del lungo articolo intitolato: Anacronismo di Giacobini spostati. Il dottor Bambagino cominciava col deplorare schiettamente lo sciupo di forze fuori di tempo e fuori di luogo: anacronismi ed anatopismi. Senza inchinarsi eccessivamente alla gazzetta cosidetta veterana della libertà costituzionale e dell'unità nazionale , era disposto a riconoscere che il dottor Bottero aveva potuto fare qualche bene al servizio del Cavour, e potrebbe ancora farne, rievocandone gli ammaestramenti. Se non si era potuto andare a Roma coi mezzi morali prescritti dal gran Conte, si dovevano applicare per rimanervi; e non già con una revulsione antitetica del cavourrismo risuscitare quel giacobinismo ostile non meno alla morale che al diritto della libertà, mentre sarebbe più opportuno divulgare un manuale del perfetto girondino. Omnia tempus habet . Secondo Pindaro, il tempo a tutto è padre. Anche il giacobinismo distruttore semplicista ebbe la sua ora locale. Quando l'oscurantismo clericale era una selva selvaggia aspra e forte, fu buona la scure. Ma ora è un peccato, che si sciupino armi, strumenti e valori di altri tempi. Ora abbiamo bisogno di costruire, vivificare, e non di fare nuove carneficine, produrre nuove ingombranti macerie. Quando l'eccessiva Rivoluzione francese uccise i preti a torme, come gibier noir , incarnava e preparava peggiori tirannidi. La nostra immacolata evoluzione italiana, acquistando Roma, non solo ha dato una capitale alla nazione, ma ha risolto il problema più delicato e geloso del mondo civile, togliendo il potere temporale al Sommo Pontefice del Cattolicismo e lasciandone nobilmente, puramente libero lo spirituale. Bisogna svolgere gli effetti dell'importante avvenimento con le massime cautele della libertà sperimentale. Allorché si abolisce una istituzione corrotta, non si ha a credere distrutto il germe, che ha dato ragione alla sua vita sana. L'umanità per non abbrutire avrà sempre necessità della religione, che la colleghi ad un Ideale Eterno. L'anima religiosa avrà sempre uopo della ritiratezza per salvarsi dalle insidie e crudeltà mondane. Non forziamo vocazioni; non combattiamo la Natura onesta, per astringerla a disonestà. Sia anche permessa la propaganda contro il celibato forzoso dei preti. Insomma riformiamo ma non distruggiamo. E soprattutto riconosciamo lealmente che negli strati sociali, che si passano della religione, ha luogo maggiormente lo sfruttamento della dissolutezza, la speculazione sul vizio, sale of dissipation , come dicono i buoni nord-americani, che veggono con orrore evangelico dilagare mondanamente l'industria dell'immoralità. Noi cattolici abbiamo molto da imparare dai protestanti. Qui il dottor Bambagino, citando l'Inghilterra maestra di libertà costituzionale, recava a cagion d'onore l'esempio della baronessa Burdett-Coutts, la quale con la penna di Carlo Dickens rivolse un cordiale invito alle donne perdute nella notte, affinché accettassero da lei un ricovero di onesta sorella: " Vi è, scrisse per lei il romanziere della buona arte e del buoncuore, vi è in questa città una signora, che dalla sua finestra ha veduto tante donne andare come voi in mezzo alla notte, e il suo cuore si è rattristato nel vedervi. In questa dimora, che sorge in un ameno bel paesaggio, sarete ricevuta con affetto ... Condurrete vita, sana, lieta, attiva. Apprenderete dei doveri, che è bene conoscere; e dimenticherete tutto quanto avete appreso di cattivo ... Incomincerete una vita nuova ... Venite, o mia sorella." Ebbene la baronessa Burdett-Coutts sarà nominata, la prima fra le donne, pari d'Inghilterra su proposta di Gladstone; prima fra le donne avrà onoranze funebri nell'Abbazia di Westminster tra i grandi benemeriti del Regno Unito; e tra onoranze vitali avrà potuto campare quasi centenaria, ciò che le auguriamo di cuore. Invece noi distruggeremo, calpesteremo, disperderemo l'opera similare di Suora Crocifissa; e la faremo morire immaturamente di crepacuore. È questo, domandava concludendo il dottor Bambagino, è questo il vostro programma, o crudele dottor Bottero? No! Le vostre crudeltà vogliono essere soltanto chirurgiche. Mandate i ferrovecchi al Balon . Guardate coi vostri formidabili occhiali al presente e all'avvenire. Dottor Bottero, già utile messo cavouriano in Sicilia e in Calabria! La lancia, o la lancetta, o meglio la penna in resta per la libera Chiesa e il libero Stato del Conte Camillo Cavour. E soprattutto adelante Don Giovanni dott. Bottero, adelante con juicio ! * * * Il Ministero stette un po' in tentenne senza risolversi a che pesci pigliare. Ma, oltre il desiderio di non parere arretrato di fronte ai progressisti, che volevano scavalcarlo, si aggiunse l'intransigenza clericale a determinare la politica rigidamente anticlericale, per cui andò insigne la Destra moderata al Potere. Figuriamoci, che nello stesso Piemonte da secoli devoto alla Dinastia di Savoia, casa di beati e di Santi, i nuovi vescovi ricusavano di domandare il R. Exequatur. E il Governo, impadronitosi delle loro laute mense, costringerli a vivere a stecchetto in seminario. Per l'Ospizio del Santo Oblio si cominciò ad ordinare una severa inchiesta, la cui commissione presieduta dal comm. Accademone prefetto di Torino era composta di un magistrato dell'ordine giudicante (il consigliere d'appello conte Roberto d'Altavilla) di un sostituto procuratore generale (barone Ernesto Monasteri) di un ispettore demaniale per la parte economica amministrativa (cav. uff. Michele Pagliazzi) e per la parte didattica di un professore, che era il nostro Spirito Losati. A lui voleva tenere compagnia la moglie per impulso di appagare una cordiale, se non legittima curiosità, e rendere possibilmente qualche sorellevole servizio all'amica Contessa Nerina. Il marito le obbiettò a lungo, che in un governo costituzionale tutto teso sui limiti dei varii poteri era impossibile la larghezza patriarcale dei governi paterni, che comunicavan i poteri in famiglia. Ma il comm. Accademone, antico borbonico, funzionario facilone che si vantava di idee e maniche larghe, divisando eziandio di procurare uno svago estetico alle fatiche incresciose dei commissarii, pensò di aggregare la signora Lorenzina Losati Calzaretta quale ispettrice referendaria dei lavori femminili. E chi sa, aggiungeva in comitato segreto con una avvedutezza da presidente Ajossa, chi sa non ci aiuti a cavare meglio il verme dalla superiora? Spirito Losati, che si era votato, precipitato al suicidio per il matrimonio di tota Nerina con Federico De Ritz, Spirito Losati, che era stato salvato dalle acque per la vigile pietà di Lorenzina Calzaretta sposa donatale da Dio, ora attendeva a studi profondi sui santi padri del Risorgimento Italiano per trovare la via di uscita rettilinea ai destini d'Italia e del cattolicismo dopo la liberazione di Roma. Poiché nel disegno di legge per guarentigie al Sommo Pontefice si era stralciata letteralmente una profezia del Rinnovamento giobertiano, egli avrebbe voluto compire l'opera; alla libertà esteriore della Chiesa cattolica, fare corrispondere una riforma interiore di essa. Questo il binario della nuova via: una libertà attiva per i patrioti cattolici e per i galantuomini e scienziati universali. Da questo binario rettilineo accennò di farlo deviare la prima vista della Contessa Nerina rinchiusa nel Santo Oblio. Essa gli rivolse uno sguardo implorante di martire. E fece il resto e più gettandosi nelle braccia della ottima signora Lorenzina. Noi non vogliamo in un romanzo riferire gli atti testuali di una Commissione d'Inchiesta, che pubblicati in una edizione ufficiale costerebbero all'Erario dello Stato una sessantina di mila lire, forse compresa la discreta mancia alla intramettenza di qualche onorevole perito di tariffe. Ci basta darne il sugo. L'indagine principale versava sulla libertà personale delle maggiorenni ricoverate. Dimostrandosi violata questa garanzia statutaria, il ritiro del Sant'Oblio, secondo la logica giacobina, non aveva titolo per sussistere, se non era una prigione dello Stato, o un manicomio autorizzato. Il Sant'Oblio non era evidentemente né una cosa, né l'altra. Ergo ... * È una istituzione religiosa! * affermò la superiora Suora Crocifissa. * Di quella religione cattolica * soggiungeva il canonico Giunipero * contemplata nel 1o articolo fondamentale dello Statuto del Regno ... Il Commissario conte Roberto d'Altavilla oppone la scuola storica di Savigny, per cui articoli di leggi e di statuti cadono di fatto come foglie secche. Così è stato della coccarda azzurra, così sarà della guardia nazionale ... * Ma * rintostava il canonico Giunipero: * Ma ci vogliono dichiarazioni autentiche di caducità ... Se no, sottentra l'arbitrio dei funzionarii, i quali dovrebbero soltanto applicare le leggi notoriamente promulgate e non cassate. Si ritorna ai colpi di bastone ad arbitrio di Sua Eccellenza. La logica canonicale offese non poco la dignità dei magistrati inquirenti. Ma più grave danno a sé e al Santo Oblio produsse nei suoi responsi la superiora Suora Crocifissa, la quale possedeva il genio della carità dittatoria, non la pieghevolezza per salvarsi dalle circuizioni di una ostilità inquisitoriale. Il quesito decisivo era quello rivolto alle ricoverate maggiorenni: se erano entrate nel Ritiro di spontanea volontà, e se non preferivano uscirne. Quasi tutte si sentivano penetrate dagli sguardi della Superiora, le cui pupille dilatate e vibranti raggiavano e dardeggiavano come stelle. Per quel fondo di sincerità generosa, che si trova in tutte le anime non omninamente distrutte, le poverette sentirono l'impulso di salvare quella Madre Spirituale che si era consacrata alla loro salvezza; e risposero che nessuna costrizione esteriore le aveva condotte là dentro, e ci rimanevano volontieri per la salvezza delle anime proprie e per dare gloria a Gesù e a Maria. * Ma * osservava l'alto e membruto prefetto comm. Accademone presidente della Commissione, scotendo sulla pancia la catena dell'orologio, la quale collegava le due tasche del panciotto: * come va, che ci è stato un tentativo di evasione spontanea? * Ciò non vuol dir nulla! * controsservò il commissario barone Monasteri studioso della nuova Scuola Antropologica positiva: * Il germe patogeno della rivolta incosciente può essere stato portato dal vento in questo ritiro, come le statistiche dimostrano, che è portato periodicamente in qualsiasi comunione umana, anche governata dalle norme e dalle personalità più caritatevoli e più savie. Le suddette risposte e le suddette spiegazioni avrebbero dato del filo da torcere ai maleintenzionati contra il Santo Oblio, se la superiora con la sua rigidità intransigente non si fosse data da se stessa della zappa sui piedi. Alla domanda, se le ricoverate maggiorenni potevano mai uscire liberamente dal recinto, essa rispose categoricamente: no! Da quel no inchiodato non valsero a svellerla le ciglia inarcate di tutti i commissarii. * E perché no, assolutamente no? * Perché lo scopo del Sant'Oblio è appunto di preservare le ricoverate dalla contaminazione del mondo. Le esigenze morali della superiora, che avrebbe voluto la moralità anche nelle galline e nei piccioni, non le permettevano di transigere sulla regola del suo Istituto. * E chi vi dà il diritto di limitare la libertà personale a cittadine non colpite da mandato di cattura e sprovviste di fede medica per il Manicomio? * La Santa Fede. * Ritorniamo * volle dire il canonico Giunipero, ma con la sensazione di mettere un piede in fallo: * ritorniamo all'applicazione del primo articolo dello Statuto. * Basta! * impose il Presidente della Commissione, oscurando il volto, come se spegnesse i lumi al suo proscenio. Era rimasta da esaminare la Contessa Nerina De Ritz-Vispi, la quale rinchiusasi nella sua cella in preda alla più commovente emozione ricusavasi ad ogni interrogatorio ufficiale e gemeva, che non voleva altra compagnia fuorché quella della sua amica, sorella di cuore , signora Lorenzina Losati mandatale visibilmente colà dalla Divina Provvidenza. I commissarii si dicevano troppo cavalieri per violare la consegna, e forse il segreto di una gentildonna; e incaricarono la signora Losati delegata per l'ispezione dei lavori femminili ad essere sottoinquirente intima di quella spettabile reticente. La nota direttiva finale di Nerina persisteva nel parere vittima ed essere carnefice. Perciò adottò il sistema dell'abbandono per essere sollevata; e adoperò la più feroce eloquenza con le tacite lagrime ed i singhiozzi compassionevoli. * Soffre, soffre immensamente. * Fu la relazione conclusionale della sottoinquirente signora Losati. E questa conclusione fu presso la Commissione più efficace di qualsiasi dimostrazione diffamatoria. Non tardò ad uscire il decreto ministeriale, che scioglieva il ritiro detto del Sant'Oblio nel Comune di Passabiago Monferrato, e si incaricava dell'esecuzione il Prefetto della Provincia di Torino con incarico di far tradurre per mezzo di funzionarii della Pubblica Sicurezza le ricoverate presso le rispettive famiglie, o in difetto, al Comune di origine, e, se povere, alle Rispettive Congregazioni di Carità. Figuriamoci, come potevano provvedere, rimediare a quella cacciata certe congregazioni di carità con l'unica rendita consolidata di 75 o 50 lire all'anno! Allorché il delegato di Pubblica Sicurezza avv. Egidio Lapislazzuli seguito da una squadra volante di questurini si presentò al Santo Oblio per l'esecuzione del decreto, Suora Crocifissa pareva disfatta dopo aver voluto baciare e benedire tutte le bandite, che essa invano aveva sperato restituire da un Paradiso terrestre al Paradiso celestiale. Essa si era raccomandata al Canonico Giunipero, affinché si facesse in pezzi per trovare un appoggio, un altro ricovero onesto alle disgraziate. Essa stessa per suo conto si era fatta centimane a scrivere lettere di raccomandazione a tutte le vecchie contesse, marchese, banchiere, industriali di sua conoscenza, a tutti i generali e magistrati giubilati, che avendo già un piede nel sepolcro si sentivano vicini a rendere conto a Dio e inclini a fare del bene al prossimo. Ma essa sempre sperò, che la Misericordia Divina allontanasse il giorno dell'esecuzione del decreto. Quando venne il giorno fatale, essa inginocchiatasi davanti l'altare maggiore della sua chiesetta pregò pregò tutte le sue preghiere. Ma dai meccanici Pater ed Ave esalava un sentimento storico: * O chiesa millenaria, che da Carlo Magno a Napoleone hai viste tante invasioni e tante sventure, tante liberazioni e tanti sollievi, che hai guarita la pazzia del conte Orlando e hai dato conforto ad artigiane tradite e maestre licenziate, o chiesa di Dio, concedi tuttavia un ristoro a questo abbattimento. Invece la superiora cadde svenuta. Il canonico Giunipero additandola al delegato di Pubblica Sicurezza, mentre essa rinveniva per le ultime cure delle sue beneficate, uscì in questi termini: * Signor avvocato, e forse cavaliere! Noi inermi non possiamo lottare contro la vostra forza armata. Ma notate: se io divenissi infame, come tante rispettate persone, che so io, ed in questo fabbricato legalmente mio, che Voi fate forzatamente sgombrare di tante anime pie, io domandassi di istituire un postribolo secondo i vostri regolamenti, un postribolo- villeggiatura, io sarei tollerato e non solo tollerato, ma protetto, privilegiato ... O vergogna della civiltà liberale! Appena si vide nel suo fabbricato vuoto delle disgrazie umane e della vita spirituale, che egli e Suora Crocifissa avevano voluto addensarvi, egli per l'educazione classica sentì quasi un sollievo nella visione del Giove oraziano, pater deorum, rubente dextera sacras iaculatus arces. Esula dall'euritmia del nostro racconto il seguire le varie sorti delle numerose espulse, di cui alcune troveremo tuttavia nell'orbita della protagonista. Di essa dobbiamo principalmente occuparci. La Contessa Nerina, perpetua Dea dei Capricci, dopo avere provate le emozioni claustrali ed essersene liberata, si vide ancora dinnanzi una lunga gamma musicale da suonare per esaurire il programma della sua vita: Capricci per pianoforte , programma quasi consono al fortiter et suaviter dei gesuiti. Perché il trapasso non fosse troppo dissonante dal ritiro del Santo Oblio al ritorno mondano, essa vagheggiò di ripigliare la parte di infermiera, che già aveva sostenuta così bene a Firenze, quando il suo primo marito era curato della gloriosa ferita di Mentana. Anzi ora essa fantasticava di progredire nella carriera e diventare una infermiera scienziata, come una nurse inglese. Se non che intendeva applicare la sua scienza pratica non più al primo marito, i cui genitori d'altronde non l'avrebbero ricevuta, ma al secondo, che essendo un celebre scrittore l'avrebbe rimorchiata alla posterità. A San Gerolamo, dove Adriano Meraldi degente aveva la migliore cura dalla sua semplice maman e dal suo bravo papà, Nerina avrebbe rivissuto gli idillii giovanili, che impropriamente essa chiamava innocenti, poiché la tenera Aracne vi aveva tessuta la ragnatela per acchiappare i moscerini, non ancora emancipati da lei, benché divenuti mosconi. Il padre di lei si oppose irremovibilmente a quel divisamento. Nella sua testa di droghiere consumato si era assodata la convinzione, che l'unica riparazione di certi enormi peccati o misfatti mondani era nella segregazione giudiziaria o religiosa dal mondo. * Adunque, Nerina, dato che tu eviti la prigione per la tua bigamia, almeno rinserrati in un chiostro. Se mancano in Italia, chiostri non mancheranno all'estero. Gli ottimi coniugi Losati credettero di rappresentare, in mancanza di meglio, la Divina Provvidenza offrendo essi ospitalità generosa all'amica contessa. La loro modesta, ma intemerata casa, sarebbe naturale e logica transizione, tra la vita del chiostro ed il ritorno alla vita familiare. Nerina accettò con uno slancio di riconoscenza quell'offerta, che le permetterebbe di penetrare a fondo un ambiente di borghesia modello e probabilmente guastarlo come un giocattolo. Sì! Vero modello di borghesia: il nonno per antonomasia, macellaio emerito, che serbava un passo e un vocione da far tremare i vetri, e non aveva ancora bisogno degli occhiali per leggere Il Diritto , organo della Democrazia italiana ; la moglie Lorenzina, l'anima popolana più rettilinea, che sia entrata nell'intelligenza e nella virtù borghese; la bambina Cecchina di tre anni, un fiore per le guancie e pei capelli, una luce per gli occhi furbetti e carezzosi, una civettuola innocente per gli inchini, un amorino, un'angioletta in tutto; e lui, il padre, il marito esemplare, il prof. Spirito Losati, che dalle crudeltà infantili, e dal vulcano esplosivo di una passione d'adolescente era uscito redento, temprato in un equilibrio di studio, amore e sanità. Serbava a lungo il calore come una pietra di fornace. Senza mancare per nulla alla sua cattedra di professore, alternava lo studio rigoroso e passionato del problema religioso e civile, dopo la breccia di porta Pia, alla amena cura di una 2a edizione della sua fortunata, benché scabra, traduzione di Anacreonte. Fu Anacreonte, che produsse un'incrinatura al metallo corinzio del vaso di sue virtù? Certamente la filosofia e la poesia pagana non è fatta per serbare immacolata la purezza dei sentimenti cristiani. Quando egli studiava l'immenso Vincenzo Gioberti, feroce anche contro i vizii illustri del Byron, Spirito Losati si sentiva nell'anima flavilli, ch'aveano spirto sol di pensier santi . Ma quando ripassava il suo Anacreonte, uno sciame di genietti lascivi lo tormentava, come nel prologo del Faust; alcuni di quei folletti gli scantuffiavano i ricci neri della testa poderosa; altri gli pesavano plumbei sopra un ginocchio o sopra un piede da farlo arrancare. Egli si provava a cacciarli con una minaccia da Mefistofele napolitano. Con fiotti torrentizii di bile giobertiana scomunicava l'amor socratico, l'amor platonico, come idealizzazione, glorificazione di ignominiosa pederastia. Pure era così artisticamente leggiadro quel Batillo di Anacreonte ... E quella Ciprigna dal rosato seno ! * Oh! con Batillo Ganimede, che mi porga il nappo di nettare, avendo a lato Ciprigna dal rosato seno, cinto il crin d'edera bruna, sdraiato calco coll'animo tutto il creato. La contessa Nerina in casa gli era il commento vivente, seducente di Ciprigna dal rosato seno. Con sapienti scuciture della serica veste sul busto scultorio, scuciture, che si scordava risarcire, con il calorico estasiante di fortuite necessarie vicinanze, essa gli comunicava desiderii peccaminosi, rovelli incendiarii. Gli scompariva dinnanzi l'onesta bellezza di quell'ambiente famigliare. Quando si era vicini a dare in tavola, e il nonno impaziente di avere la bambina sua subordinata commensale ordinava: ciamela, coula benedeta masnà, deje 'na cichinada , la comparsa di Cecchina era come la vista di un fiore ordinario da fieno ed inodoro per lo straniato papaloto. L'antica servitù più non lo contentava. Egli che già poteva dirsi servo dei servi sul serio, mentre il papa si firmava tale per finta, ora aveva frequenti cose a ridire contra la vecchia cuoca brofferiana Marcolfa, contra la cameriera Barberina, e contro il domestico carrozziere Bertrame, personale inamovibile, secondo lo statuto patriarcale, passato dalla casa Calzaretta alla casa Calzaretta Losati. Che più? Egli si sentiva svanire l'amore per la sua penelopea consorte. La consuetudine smaga l'estetica; le necessità uxorie sono prosa, che elimina la poesia dell'amore. E quando l'amore viene meno, allora sfiorare un seno di ninfa è come toccare una palla di gomma elastica od una pera di guttaperca; premere un piedino di dea, è come manomettere un soprascarpe di cautciù. Invece nell'accensione erotica per la Contessa, ogni materialità di questa gli diventava un poema ideale; i legaccioli degli stivaletti di lei, anche impolverati, gli diventavano un cinto di Venere, un laccio di amore, un laccio da strangolarvici dentro, se egli non fosse giunto a possedere la Diva sullodata. La sua virtù oramai zoppicava maledettamente. Egli si sentiva pervertito anche nella interpretazione dei suoi classici prediletti. Egli, che già aspirava all'alta gloria di dare alla Patria Italiana e all'Umanità un valente filologo, un filosofo riformatore religioso e un virtuoso cittadino, ora si sentiva invasato dall'ossessione brutale di possedere Nerina. Egli rimpiangeva, rievocava i tempi, in cui coltivava la sola parte spirituale di sé; sentiva fastidiosi i legami, onde il suo spirito era avvinto al corpo, e anelava sciolto dai terreni impacci, di ricongiungersi al sommo Bene. Ma Nerina nel ritiro del Santo Oblio aveva accumulato tante energie di elettricità amorosa, che la sua batteria era inoppugnabile. La voglia di lei entrava come succhio afrodisiaco anche nelle più serie e sante di lui letture. Spirito Losati profanava, applicando a Nerina con doppi sensi salaci da Nice del Guerrin Meschino , la sua assidua, quotidiana lectura Dantis , il suo breviario poetico. Così nelle sue procaci speranze, la mossa spirituale della santa Contessa Matelda è profanata in un programma di facile conquista della porca contessa Nerina: Come anima gentil che non fa scusa Ma fa sua voglia della voglia altrui, Tosto com'è per segno fuor dischiusa. E già Nerina è per lui La bella image, che nel dolce frui Liete faceva l'anime conserte. Ma così audace nell'oscenità dei doppi sensi letterarii egli trovasi impacciato, più di un seminarista nel fare realmente la corte a Nerina. Basti dire, che incredibile dictu ! egli era vergine prima del matrimonio. Deve Nerina, somma sofista del cuore, casista inesauribile del sentimento, egoista raffinata dei sensi, intraprendere direttamente la seduzione di Spirito Losati. Un giorno, in cui la signora Losati con la sua Cecchina si era recata nel gabinetto di un prezioso dentista, per cui aveva fissato l'orario tre giorni prima, e la servitù di casa era tutta occupata altrove od altrimenti, il prof. Losati si sprofondava caldamente nel suo studio a rileggere i Prolegomeni al Primato Civile e Morale degli Italiani di Vincenzo Gioberti. Al profondo e focoso lettore balenò la visione che il conte Federico De Ritz dei migliori tempi rappresentasse l'ideale giobertiano dell'uomo pelasgico innestato nel cattolico, avente per contrassegno speciale " il genio virile, la gioventù del cuore, il fiore dell'età maturati dal senno, l'operosità, la maschiezza, che è quanto dire la natura umana nel colmo delle sue forze e della sua perfezione" . In quel punto apparve la Contessa Nerina davanti la libreria, come Venere sorta da un mare spumante di idee. E sembrò comicamente aristofanesca la situazione del prof. Spirito Losati forse costretto a tradire l'uomo pelasgico cattolico, immediatamente dopo l'apoteosi. Nerina con un gesto da Beatrice e Laura fuse in un solo invito di paradiso terrestre gli offre e porge una delle prime rose sbocciate in quel tardo aprile. Losati accalappiato con il capo chino confuso ardisce baciare quel fiore. Nerina desiosa di essere baciata fin dentro le carni, sorride dentro l'anima con disprezzo di quel pusillo, che si crede audace; ed ammagliandolo dagli occhi grandi e luminosi mostra sulle proprie labbra lo sboccio di un bacio, come il fiore più bello del Paradiso celeste. Losati coglie avidamente il bacio. Nerina con un gemito, un sussurro confidente, imperioso, supplice: * Qui no! Spirito Losati, dopo avere accettato e prolungato il primo bacio peccaminoso, sente tale palpito di rimorso profondo da soffocargli il cuore, tale mortificazione intima e cervellotica, da farlo vagellare nel proposito ossia nello sproposito di emigrare in America.

UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Così Cesare Beccaria chiamato in Francia dagli Enciclopedisti, che volevano festeggiarlo per quel suo Vangelo Dei delitti e delle pene tanto benefico dell'umanità e della civiltà, sentì la battisoffia di Parigi, appena giunto a Novara; - da Chambery voleva già ritornare indietro; - con lo spesseggiare delle sue lettere, che sarebbero state ridicole se non fossero state pietose, si aggrappava alle veste della moglie lontana, come un bambino che piagnucola sul grembiule della mamma; - giunto a Parigi in mezzo al brillante accoglimento fattogli da quegli abati volterriani splendidi, rumorosi ed agevoli come la superficie della migliore seta canterina, egli rigido come la camicia da notte di un sindaco di montagna, chiuso come una marmitta, semplice e casalingo come una lasagna lombarda, - si trovò impacciato peggio di un pulcino nella stoppa; - egli, l'autore di un'opera di sugo filosofico maraviglioso, fu trovato da quegli spiriti eleganti ed allaganti tonto, buzzo e soturno come scrisse lombardamente Cesare Cantù; - e mendicando pretesti di salute, se ne ritornò più presto che in fretta all'ombra del suo Duomo e al tepore della sua sposa, quando prima di partire aveva disposto di fermarsi sei mesi a Parigi. Così Vittorio Alfieri, la cui sublime mania di ferocia ferrea, tirannicida, greco?romana ora sembrerebbe parodia da giornale umoristico, se non avesse spoltrito la nostra antica servitù cortigiana, - il conte Vittorio Alfieri da Asti, per un sequestro di carte e di calze, scriveva in questo tono al Presidente della Plebe Francese: "Il mio nome è Vittorio Alfieri: il luogo dove io son nato, l'Italia: nessuna terra mi è patria. L'arte mia son le muse: la predominante passione, l'odio della tirannide; l'unico scopo di ogni mio pensiero, parola e scritto, il combatterla sempre, sotto qualunque o placido, o frenetico, o stupido aspetto ella si manifesti o si asconda... "Io adunque ridomando alla Plebe Francese i miei libri, carte ed effetti qualunque, da me lasciati in Parigi sotto la custodia del comune diritto delle genti civilizzate. Se mi sarà restituito il mio, sarà mera giustizia; se ritenuto o predato, non sarà altro che una oppressione di più fra le tante, che hanno alienato ed alienano giornalmente i più liberi e sublimi animi dell'Europa dal sistema francese...". E Vittorio Alfieri trovava il cielo di Parigi più sucido del suolo fangoso che ha procacciato alla grande città il nome di Lutezia; e la gentilezza parigina egli chiamava frasario urbano d'inurbani petti - figlio di ratte labbra e sentir tardo. Così discendendo dalle persone grosse alle piccine, ai tempi della banda zingaresca, brigantesca e sanfedista di Brandalucioni, quando il Piemonte era scorrazzato dagli eserciti russi, tedeschi e francesi, una volta il sacrestano di Monticella, che si recava al mercato con una cesta di uova e un mazzo di polli, fu assalito, saccheggiato e picchiato sonoramente per istrada da quattro soldati e un caporale alemanni; - ma egli, ritornato nel paese tutto lacero, svaligiato, pesto e bollato, - da uomo di partito e di convinzione quale era, ebbe la cura di spargere la voce, che erano stati non i tedeschi ma i francesi quelli che l'avevano derubato e malconcio, e ciò per accrescere l'antipatia contro le novità galliche, nemiche del vecchio trono e dell'altare. Per lo contrario, Enrico Heine, benché elettrizzato dal più ampio spirito di libertà, - pure perché egli aveva la febbre beffarda, satanica, ardente e sitibonda del gusto ellenico e mondano - metteva in canzone gli spiriti rudi, puri e sofferenti dei suoi liberali compatrioti tedeschi, e folleggiava di carezze intorno a Parigi, come fosse stata il collo scollacciato di una ballerina, pure professando il timore di farle del male con le sue zampacce da orso alemanno. Geromino non sapeva nemmeno lui se doveva atteggiarsi a Cesare Beccaria, a Vittorio Alfieri, ad Heine, o a sacrestano di Monticella nell'ordine dei sindaci campagnuoli rimpetto a Parigi. Fatto sta ed è che nell'avvicinarsi alla Babilonia moderna egli sentiva una spasimata soggezione di accostarvisi. Il treno si incanalava fra le abitazioni; e il dabben sindaco leggendo sulle porte e sulle finestre delle trattorie suburbane: Stanzini per nozze, salotti per brigate, sentiva scorrere sul suo cuore il diamante degli anelli, che rabescano motti osceni sopra il vetro degli specchi incrinati; sentiva il grido soffocato di fanciulle, a cui si faceva del male; guardava sua moglie, che si ripiegava su se stessa all'annunzio che si entrava in Parigi. Pino Goldi aveva un aspetto da operetta buffa, la signora Clitennestra pareva attendere il prossimo trionfo a lei dovuto e al suo cappellino. Il sindaco si sentiva a volte a volte vuotare la testa e poi riempire da mille ricordi: - Cesare coi suoi piccoli soldati, e le sue parlate superbe, nervose, di due righe a quei parlamenti di giganti, sempre promettenti e sempre mancatori di parola; - Faramondo, e tutta quella galleria di re con chiodi e pettini in testa; - il conte Orlando e Rodomonte; - i Merovingi, i Carolingi, i Capetingi e i Napoleonidi, - la duchessa di Berry accalappiata da Thiers, - Luigi Filippo che faceva da re con la dignità di un negoziante da paracqua, e che usciva al proscenio del suo balcone pei battimani di quattro impresari di applausi pagati dai viaggiatori inglesi; - Napoleone III con il suo plumbeo ingegno da giocatore; - l'occhio di bue di Luigi XIV; - i calzoni unilaterali della figlia di Madama Angot; - il lievito minotaurino che bolle nel ciclo romanzesco di Emilio Zola; - Gustavo Buona Lana del Kock, che gioca al bigliardo alle spalle di un marito baggeo; - il mondo tornito e luccicante di Balzac; - i generali russi di Scribe; - i gesuiti di Sue; - le spalle quadre e le scarpe basse contadinesche del menestrello patriarcale e patriottico Bèranger; - la critica, la tribuna, a cui sta attento tutto il mondo. Il povero sindaco aveva paura di vedersi comparire dinanzi realmente le cose e le persone, che aveva conosciuto pel mezzo fantastico della letteratura; non gli sembrava vero di dovere scendere proprio lui a Parigi; tutte quelle reminiscenze di storie, di commedie, di romanzi e di giornali facevano del suo pensiero un proiettile che andava, volava, quasi fosse lanciato da una balista, e poi cadeva con il languore del convoglio che si fermava. Dopo quell'eruzione scompigliata di evocazioni letterarie il meno che egli si aspettava di vedere a Parigi era una città, le cui case avessero le fondamenta in aria. Invece, appena uscirono dalla stazione di Lione: Déception! fu la voce, che pronunciata dal Goldi con la maggiore imitazione comica dell'accento francese interpretò meglio il sentire di tutti. Una stazionaccia; una piazzaccia rialzata; la prospettiva sprofondata di osterie, e di caffè nell'architettura impolverata degli stabilimenti che si ammirano lungo gli stradoni provinciali; - malgrado lo sciopero dei fiaccherai, quattro vetturaccie disponibili, e un omnibussaccio, sul quale si caricano Geronimo e compagnia. Sentono per via i ribaltoni cagionati dall'acciottolato acuto, rado e scomposto, peggiore di quello di Roma; e credono di camminare con il sedere seduto sopra baionette di nemici sotterranei. - Ah! è quella la grande cattedrale di Notre?Dame?... Un pendolo da caminetto. - Sono quelle le torri del Palazzo di Giustizia?... Tanti spegnitoi. - Quell'altra torre?... Un agoraio. La bocca di Geromino si riversa in un punto di esclamazione: e quella del segretario si virgola in un punto di interrogazione. Palazzi in forma di gabbie, case troncate come tagli di formaggio, spaccati di abitazione sporchi di fuligine, coi segni dei passaggi delle cloache intestine, - muraglie da gioco del pallone, che formano un solo castello da ciarlatano, ecco quello che veggono unicamente i nostri attori nella loro prima entrata in Parigi. Sui loro visi sta dipinto quel broncio di un nero particolare, che si deve quasi sempre ai calzolai per le scarpe che fanno troppo strette. Rotolati fino all'alloggio particolare ed economico, che eglino avevano già fissato in rue du Bac, ecco le impressioni, che si comunicarono a vicenda, appena si sedettero tutti e quattro sulle due sedie del loro appartamento. La signora Clitennestra, cui i Parigini, benché assuefatti a vedere chinesi, beduini e donne dei Paesi Bassi nelle loro fogge originali, avevano guardato fermandosi per istrada con una specie di ammirazione spavalda e di spavento minchionatorio, fermandosi specialmente sull'enorme cappellino munito della terribile penna rossa, disse, che ella già capiva, come in questo paese non ci fossero signori, ma ci fossero soltanto contadini. Pino Goldi confessò che aveva fame, e che dubitava di potersi sfamare a Parigi. La signora Geromino si ricordò con raccapriccio, che non aveva dato i due giri della serratura alla guardaroba della biancheria, prima di partire da casa. E Geromino conchiuse: ? Certi viaggi è meglio leggerli, che farli.

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Egli amava e riveriva Giovanni Selva come un grande cristiano, aveva talvolta a difendersi contro la tentazione di giudicar il suo superiore, l' Abate, che gli aveva interdetto di visitarlo, contro la tentazione di appellarsi dall' Abate a Qualcuno maggiore degli Abati e anche dei Pontefici, interno all'anima sua. Ora Questi gli disse nell'anima: "l'incontro è mio dono" e il monaco si unì lieto agli amici. Maria lo presentò a Noemi ed egli arrossì ancora nel riconoscere la persona che aveva scambiato per la persecutrice di Benedetto. "E la sua amica?" diss'egli, tremando di apprendere che fosse lì presso. Rassicurato, lampeggiò di sollievo nel viso. Noemi ne sorrise ed egli, avvedutosene, rimase confuso. Sorrisero anche gli altri ma nessuno parlò. Il primo a rompere il silenzio fu Giovanni. Certo don Clemente andava a Jenne come loro? E forse ci andava per lo stesso scopo, per vedere la stessa persona, l'ortolano, eh, l'ortolano di quella sera? Ah don Clemente, don Clemente! Sì, don Clemente andava pure a Jenne, ci andava per vedere Benedetto. E quanto all'ortolano, si scusò. Inganno non c'era stato, c'era stato il desiderio che le due anime si avvicinassero senza violenza, nel modo più spontaneo, senza raccomandazioni e informazioni preventive. Preso a salire insieme la costa, parlarono di Benedetto. Noemi, dimentica della stanchezza, pendeva dalle labbra del Padre, e il Padre, appunto per questo, parlava così poco e così circospetto ch'ella ne fremeva d'impazienza, e in breve si sentì stanca da capo. Prese il braccio di Maria, lasciò che don Clemente si dilungasse con suo cognato. Allora don Clemente confidò a Giovanni che aveva una missione penosa. Pareva che qualcuno avesse scritto a Roma da Jenne in modo ostile a Benedetto, accusandolo di tenere discorsi non perfettamente ortodossi, di spacciarsi per taumaturgo e di vestire senza diritto un abito religioso che rendeva gravissimo lo scandalo. Certo da Roma era stato scritto all' Abate e l' Abate aveva dato l'incarico a lui, don Clemente, di recarsi a Jenne e di chiedere a Benedetto la restituzione dell'abito. Don Clemente aveva cercato invano dissuadere il vecchio Abate che se l'era cavata con una barzelletta: "leggete il Vangelo, la Passione secondo S. Marco: chi segue Cristo quando tutti lo abbandonano bisogna che ci rimetta l'abito. È un segno di santità." E poiché qualcuno doveva portare questo messaggio a Jenne, don Clemente preferì di portarlo egli. Aveva poi anche ricevuto una strana lettera dell'arciprete di Jenne. L'arciprete, brav'uomo ma timido, gli aveva scritto che Benedetto, a suo avviso, era veramente un pio cristiano ma che discorreva troppo di religione alla gente e che i suoi discorsi avevano qualche volta un certo sapore di quietismo e di razionalismo; che lo si accusava di esercitare a profitto delle sue idee non tanto ortodosse un potere diabolico; che l'accusa era sicuramente falsa ma ch'egli non aveva potuto, per prudenza, tenerlo ancora presso di sé, che forse il miglior partito sarebbe per lui di andarsene in qualche paese dove non fosse conosciuto e viverci quieto. Il dialogo fu interrotto da una chiamata di Maria. Noemi, spossata dal sole ardente, presa da palpitazione, aveva bisogno di un'altra sosta. Le Signore si erano sedute all'ombra di un sasso. Don Clemente si congedò. Si sarebbero riveduti a Jenne! Maria era molto angustiata per sua sorella, si rimproverava in cuor suo di non essersi opposta a che venisse a piedi. Lei e Giovanni tacevano guardando Noemi che sorrideva loro, pallida. In quel deserto di montagne senza bellezza, su quei sassi bruciati dal sole, il silenzio pesava di un peso mortale. Fu per tutti e tre un sollievo di udire voci di viandanti che salivano. Erano sei o sette persone, avevano seco due muli e salivano cantando il rosario. Quando furono vicini si videro sui muli una giovinetta e un uomo, sparuti ambedue, quasi cadaverici. La giovinetta, visti i Selva, spalancò gli occhi; l'uomo li teneva chiusi. Gli altri guardarono con certe facce compunte, continuando le preghiere. La nenia monotona si dilungò insieme al calpestio dei muli, si perdette nell'alto. Poco dopo la triste processione sopraggiunse dal basso una brigata allegra di giovinotti borghesi che ridevano parlando di Quiriti a caccia piuttosto di Sabine che di Santi. Al vedere Giovanni e le due Signore ammutolirono. Passati, ripresero a ridere e a scherzare; scherzarono su Giovanni che forse era il Santo fra le tentatrici. Una grande nube dagli orli di argento, la prima di una flotta che veleggiava verso ponente, oscurò il sole; e Noemi, alquanto rinfrancata, propose di approfittare dell'ombra per rimettersi in via. Pochi passi sotto la croce sognata, secondo quel Torquato, dall'arciprete, incontrarono un borghese vestito di nero che scendeva sul mulo. "Scusino" diss'egli alle Signore, trattenendo il mulo, "una di Loro è Sua Eccellenza la duchessa di Civitella?" Udita la risposta, si scusò dicendo che un senatore suo amico gli aveva raccomandata questa duchessa, da lui non conosciuta, che doveva capitare a Jenne per vedere il Santo. "Già" diss'egli sorridendo. "Forse anche Loro. Tutti adesso. Una volta ci venivano a vedere un Papa. Sicuro. A Jenne c'era un Papa. Alessandro IV. Vedranno l'iscrizione. "Calores aestivos vitandi caussa." Adesso ci vengono per un Santo. Dovrebb'essere più che un Papa. Ho paura che sia meno! Hanno visto i due malati? Hanno visto gli studenti di Roma? Eh, vedranno altro, vedranno altro! Ma ho paura che sia meno. Buon viaggio a Loro signori!" Oltrepassata la croce, montarono in faccia al cielo aperto, fra i dorsi verdi pendenti alla conca romita di Jenne, incoronata là di fronte dalla povera greggia di casupole che il campanile governa. Giovanni era stato a Jenne altre volte e non gli parve diversa perché ora vi dimorasse un Santo e vi si operassero miracoli. Sua moglie, che ci veniva per la prima volta, ebbe l'impressione di un luogo spirante raccoglimento religioso per quel senso di altezza non suggerito da vedute lontane, per quel cielo profondo dietro il villaggio, per la solitudine, per il silenzio. Noemi pensò con pietà profonda alla povera lontana Jeanne.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Passano contadini nel costume di Gianduia, passa una berlina con due abati dal cappello immenso, alla Don Basilio; passa un saltimbanco con una carrozzella ed una scimmia. Ecco una porta dalla favolosa architettura barocca: Porta Padana: la Porta di Po! Troverò dunque Piazza Vittorio. Entro, ma Piazza Vittorio non esiste più, non esiste ancora. La città comincia dove termina oggi Via Po. Ecco Via Po finalmente! Ha i suoi portici d'oggi, i suoi palazzi, i suoi balconcini, in ferro battuto, ma è deformata da non so che, le manca non so che cosa; forse l'assenza di lastrico, di selciato, di rotaie, e la Dora, quel ruscello che scorre nel mezzo, e la scarsità, la povertà dei negozi le danno quell'aspetto sinistro di fame e di pestilenza. Eppure è rallegrata con grandi archi trionfali di tela e di legno a figure allegoriche barocche, recanti nel mezzo l'anagramma in corsivo sotto lo stemma sabaudo; e la folla è fittissima e gaia; Gianduia e Giromette; contadini che affluiscono alla città, in questo giorno, senza dubbio solenne, borghesi, gentiluomini, soldati a piedi e a cavallo, balenìo d'occhi e di denti, corrugare di labbra e di sopracciglia, rozze parrucche plebee, nere o castane, parrucche di patrizi argentee, calamistrate, guizzare di polpacci muscolosi o smilzi nelle calze di cotone o di seta, di Gianduia o di un marchese, berline e portantine donde traspare il rosso del belletto, il nero artificioso dei nèi, una bocca che ride, una mano che agita un ventaglio, o che accarezza un cagnolino cinese. Interrogo un soldato: non mi risponde; un contadino: nemmeno si volge; un abate: non mi guarda, non batte ciglio. E allora m'accorgo d'una cosa inaudita e terribile: sono ombre (o l'ombra sono io?) divise da me dal mistero del non essere più, del non essere ancora. Vedo e non son veduto, sento e non sono sentito ... Intorno si parla francese o un piemontese arcaico molto serrato nella erre infranciosata o l'italiano pesante dei libri stampati; così dinnanzi a me un tal conte Dellala di Beinasco e un tal cavaliere Mattè macchinista deplorano " ... la fatal pioggia importuna che ieri sera nocque al fontionamento della macchina dei fuochi artefitiali di gioia, a cascatelle e figure molto vaghe e dilettevoli, onde l'ornatissima madama giovinetta volle trarre nefasto presagio ... ". E poco oltre all'angolo di Via San Francesco da Paola uno scrivano pubblico legge ad alta voce un affisso del muro ad un gruppo di analfabeti riverenti: " ... Prima della partenza il Nuziale Corteggio attraverserà la città di Torino uscendo di Palazzo a Piazza San Giovanni per Via Dora Grossa, Piazza Castello, Via Nuova, Porta Nuova, Porta di Po, volendo il Re e la Regina assecondare così la pubblica brama di vedere ancora una volta in essa l'Amata Augusta Figliuola ... " "29 Settembre dell'anno 1781". Leggo anch'io la lista delle "sontuose Nutiali allegrezze per l'eccelso maritaggio, ecc., di Madama Carolina con il Duca di Sassonia rappresentato per procura dal fratello della sposa. Ieri al Castello di Moncalieri ebbero luogo le nozze. Oggi la nuova Duchessa di Sassonia partirà per Dresda e farà per Torino un ultimo giro d'addio". ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... La bela Carulina ... la bela madamin ... Si parlava intorno, a mezza voce, di non so che scandalo provocato ieri dalla sposa sedicenne nell'ora solenne del sì. - Oh, marchese, ieri si sperava di vederla a Moncalieri. - Non ho ricevuta la carta d'accoglienza. - Ma non è possibile! - Proprio così, Monsignore. Ho già fatte le mie rimostranze al Gran Cerimoniere ... Erano in molti? - Non molti. Forse cento invitati. Il Re, la Regina, la Principessa Carlotta di Carignano, il Cardinale Marcolini, il Principe di Salm Salm, i Vescovi, i Cavalieri dell'Ordine, il Principe di Masserano, i Ministri di Stato, il Capitano delle Guardie del Corpo, il Governatore del Principe, il Mastro di Cerimonia, gl'Introduttori, i Sotto Introduttori degli Ambasciatori. - E gli sposi? - Non erano allegri. Già, l'idea del distacco per sempre. E poi una bimba di non ancora sedici anni sposata da un fratello per un Principe che non ha veduto mai ... - Ha smaniato? - No, no. Ha significato come dire la sua rassegnazione. Nel momento del sì ha capito che si decretava l'esilio, l'esilio per sempre in quella Sassonia che deve apparirle come l'estrema Tule. - Ma non ha smaniato? - Affatto; fu un attimo. Il Grande Elemosiniere del Re uscì pontificalmente dalla sacrestia e dopo essersi inginocchiato all'altare ed inchinato al Re e alla Regina, fece agli sposi la consueta interrogazione. Il Principe di Piemonte rispose immantinente; ma la Principessa fu vista impallidire, alzarsi, vacillare, volgersi smarrita verso i genitori inginocchiati alle sue spalle; lo sguardo di Sua Maestà la dominò, la piegò, la fece inginocchiare, prorompere non in uno ma in tre sì consecutivi che fecero ridere tutta la Corte ... Sia detto tra noi, Monsignore, io non vorrei essere oggi nei panni del Conte Lamarmora. - Perchè? - Perchè s'è presa tutta la responsabilità di fronte al Re di questa gita d'addio per compiacere la Regina e la Principessa. Lei sa che ancora sabato scorso era stabilito che subito dopo le nozze il corteo, accompagnato dall'ambasciatore della Corte Elettorale di Dresda, proseguisse, direttamente da Moncalieri senza soffermarsi a Torino e raggiungesse Augusta dove i Commissari del Re di Savoia avrebbero consegnata la sposa ai Commissari del Duca di Sassonia. Sarebbe stato il partito migliore. Ma la Principessa, povera bimba, cerca ogni pretesto per prolungare di un'ora la sua partenza. Ha supplicato, ha smaniato per passare a Torino un giorno ancora e la Regina ha avuto l'idea di una passeggiata d'addio per la città con relativa esposizione della Santissima Sindone alla Galleria di Piazza Castello. Il Re ha resistito, poi ha concesso, previa responsabilità del Conte Lamarmora intercessore, per evitare ogni guaio. Lei sa quanto Sua Maestà sia alieno da scandali. Non vorrei essere cattivo profeta, ma non mi stupirei che la Principessa Carolina desse in convulsioni nel bel mezzo di Piazza Castello o di Via Dora Grossa. Ieri al ballo di gala aveva gli occhi di un'allucinata ... - Povra masnà! Siamo in Piazza del Castello, la Piazza Castello settecentesca quasi simile a quella d'oggi e pure tanto diversa. La illumina un sole non vero: il sole che illumina le vecchie stampe e le cose che si raccontano ... Due gallerie di stile barocco si prolungano ai lati di Palazzo Madama dividendo la Piazza per metà; e l'assenza di lastrico e di rotaie, di globi elettrici e d'intrico metallico, d'insegne e di grida murali, le dànno un aspetto spoglio di cosa morta ... Come noi moderni si vive di questo! Una folla immensa si riversa dai Portici della Fiera, strana folla disposta, accoppiata dalle incisioni in rame e dalle stoviglie di Savona (non l'arte imita la vita, ma la vita l'arte; le cose non esistono se prima non le rivelano gli artisti) e v'è la berlina dai quattro cavalli recalcitranti raffrenati dal postiglione; v'è la portantina ducale, il servo che conduce il cane al guinzaglio, i due abati che s'incontrano e si stringono la mano, la madre che ammonisce il bambino, i comici nella loro baracca, il cerretano che vende l' elisir di lunga vita, la sibilla che predice le sorti. E la folla è disposta secondo il gusto convenuto che importarono in Piemonte i pittori fiamminghi e sulla folla ondeggia con un ritmo vago, insistente, la canzone del giorno. Ma oltre Palazzo Madama, che preclude la vista dell'altra metà della Piazza, s'alza un mormorìo diverso, una melodia liturgica e solenne e l'aria si vela di nubi candide e odora acutamente d'incenso. M'apro il passo per un varco dei Portici e resto immobile, rapito dal quadro più solenne che la fede intatta abbia offerto mai ad occhi mortali. Tutta la Piazza fluttua d'una moltitudine indescrivibile ed è convertita in un tempio che ha per cupola il cielo. In fondo s'eleva la loggia che divide Piazza Castello dalla Piazza del Palazzo Reale ed ogni arcata è occupata da un vescovo officiante. Dall'arcata centrale, protetta da un baldacchino vermiglio pende ben tesa la Santissima Sindone, la reliquia esposta alla folla per poche ore, il tesoro unico sulla terra, quel sudario nel quale Giuseppe D'Arimatea avvolgeva il corpo del Redentore deposto dalla Croce. E mille labbra cantano il Te Deum e mille occhi fissano la duplice immagine del Corpo Divino. Dal mattino si officia di continuo all'aria aperta nella luce del sole; tutto il popolo prega ad alta voce per la giovinetta sabauda che partirà tra poche ore per la terra lontana. Tra i colonnati barocchi dell'alta loggia scintillano le mitre vescovili, spiccano i damaschi e le sete, le porpore, gli zibellini: è adunato tutto l'alto Clero della Metropolitana, i Cavalieri dei SS. Maurizio e Lazzaro, i cavalieri della SS. Annunziata, i Canonici, i Diaconi, i Mazzieri, i Caudatari, i Sindaci, i Decurioni ... Ma la bela madamin della canzone? Il baldacchino reale è deserto. La Corte s'è ritirata da poco per le ultime cerimonie di Palazzo e le udienze di congedo. La bela madamin! ... Voglio vederla ... Entro nella Reggia. Oimè, non è facile nemmeno per un puro spirito invisibile e imponderabile, non è facile trovare una principessa nella sua vasta dimora. Seguo il grande atrio a sinistra, salgo, scendo, mi smarrisco, riesco nella Cappella del SS. Sudario, salgo lungo la grande scala di marmo nero alla sala degli Svizzeri, attraverso la sala degli Staffieri, la sala dei Paggi, la sala del Trono, la sala delle Udienze, la sala del Gran Consiglio. Dame e cavalieri - i più bei nomi della nobiltà Subalpina - quelli che oggi sopravvivono soltanto nelle tele delle pareti, vengono, vanno, ridono, parlano, con le loro labbra di carne ... Ma la bela madamin ... dov'è? dov'è il delicato fantasma delle mie allucinazioni? Attraverso la lunga Galleria del Danieli passo sotto i cieli favolosi del pittore secentesco; fra lo scintillìo cristallino degli immensi lampadari avanzo, apro una porta socchiusa. Odo una voce. La bela madamin No. Non è lei. Allibisco. In mezzo alla sala appoggiato al tavolo di lavoro con le braccia conserte, sta S. M. il Re Vittorio Amedeo III, già vestito di gala, terribilmente rassomigliante al ritratto del Dogliotti, alle incisioni del Rinaudi, il profilo diritto non raddolcito dalla parrucca bianca, il collare dell'Annunziata, i nastri, le croci, le medaglie disposte in bell'ordine sulla corazza troppo corruscante di pacifico guerriero settecentesco, la porpora crociata di bianco del mantello cesareo avvolta con una linea romana illanguidita un poco dalle grazie di Watteau. Sua Maestà rilegge una lettera; la carta pergamenata gli garrisce tra i pollici nervosi scossi dal tremito. E non ascolta il Conte Lamarmora che gli legge le modalità del viaggio ben previste in protocollo ufficiale da deporsi nell'Archivio di Stato secondo che l'uso di Corte comanda; "da Vercelli a Milano, da Milano a Roveredo a Innsbruck, dove conteremo di giungere il sabato prossimo. Saranno nel corteggio della Duchessa Carolina il Marchese di Bianzè, suo primo Scudiere e Cavaliere d'onore, l'Uditore Borsetti, Segretario di Stato, la Marchesa di Cinzano, Dama d'onore, la Contessa di Salmour e la Marchesa di Verolengo, Dame di Palazzo" ... - E souma inteis, e souma inteis - interrompe il Sovrano con un gesto che ammutolisce e licenzia il Conte Lamarmora. - Ca fassa chiel; ma dsôura a tüt gnüne masnôiade, gnün tapage an facia a la pôpôlassiôn ... Oh il mio dolce dialetto così vivo fra tante cose morte, adorato più di qualunque parlare, più dell'italiano (adoratissimo!), l'italiano, estraneo alla mia intima sostanza di Subalpino, appreso tardi con grande amore e con grande fatica come una lingua non mia, il mio dolce parlare torinese, l'unico nel quale penso e l'unico che mi giunga al cuore suscitandovi schietto il riso ed il pianto, il mio dolce torinese sulle labbra d'un re di Savoia, quando il Piemonte era ancora una leggiadra provincia della Francia e l'Italia non era: quale, quale commozione che non so dire! - E souma inteis - conclude Sua Maestà senza alzare gli occhi dalla lettera. E la lettera è del genero lontano, Antonio Clemente Duca di Sassonia, è dello sconosciuto signore che attende in terra barbarica la giovinetta soave. Dice: " ... il en coûtera sans doute à la sensibilité de Madame la Princesse de s'éloigner de ses illustres parents et d'une famille qui doit lui être chère, mais je mettrai tant d'attention à faire diversion à ses soucis et à m'attirer sa confiance et sen estime que je me flatte de lui adoucir l'amertume de cette séparation ... ". *** Ma la bela madamin Passo nel Gabinetto Cinese, attraverso le sale di raso cilestre, cremisi, salice, fragola, canarino, dell'appartamento della Regina, sosto nel corridoio persiano ad ascoltare i commenti di due Dame: "Un amore! un amore!". Si parla di lei; è dunque vicina. Eccomi nel Gabinetto delle Miniature nella Galleria Pompeiana; un profumo acutissimo m'annuncia il penetrale del fiore riposto. E sulla soglia sosto abbagliato dinnanzi alla più delicata interpretazione vivente che mai sia stata fatta de la toilette de la Mariée Maria Carolina Antonietta di Savoia Duchessa di Sassonia è in piedi tra le sue cameriere chine o ginocchioni intente all'opera delicata. La cognata, che presiede da parigina esperta, le ha tolto lo specchio di mano: - Ti vedrai dopo, mignonne, quand le rêve sera achevé Maria Carolina è una visione abbagliante di neve e d'argento. Bianco il ciuffo di penne che le adorna l'alta acconciatura incipriata, bianco il viso passato alla cerussa bianca, la veste di raso splendente dal guardinfante mostruoso, bianche le scarpette, le ghirlande, il cagnolino, il ventaglio. In tanto candore spicca il rosso delle labbra e delle gote, il nero degli occhi e dei sopraccigli. La cognata stessa Adelaide di Francia, nipote di Luigi XV, ha dipinto il volto della bimba diciottenne secondo che l'ultimo dettame di Parigi consiglia: le ha cancellato col cosmetico i delicati sopraccigli biondi e due altri ne ha disegnato a mezzo della fronte, nerissimi, arcuati, imperiosi. Molto s'è discusso sull'acconciatura; il parrucchiere di Corte, De Regault, voleva riprodurre con gl'immensi capelli biondi il Palazzo Madama o la galera capitana degli Stati Sardi; ma la Regina, la Principessa, si sono opposte e l'artista ha costrutto con la chioma densa un edificio a tre piani coronato da un nido dove una colomba cova, teneramente assistita dal compagno. - Ravissante! Ravissante! - mormora la cognata che le sta alle spalle puntandole di sua mano un fiore o una piega del guardinfante. Ma ad un tratto vede le gracili spalle adolescenti scosse da un sussulto, si china, guarda: il volto dipinto con tanta cura è inondato di pianto. - Ah, mon Dieu, tu vas te ravager! ma per carità! Vieni, vieni a vederti e non piangerai più. Prende la sposa per mano, la conduce dinnanzi al grande specchio ovale della parete. Le lacrime s'arrestano d'improvviso. La bimba, che ieri ancora giocava alle dame in visita, sbigottisce d'essere oggi una dama davvero e non pensava di vedersi così bella. Sorride tra gli ultimi singhiozzi, sorride a se stessa, alla cognata, alle cameriere, cancella col batuffolo della polvere l'ultima traccia di lagrime. - Sua Maestà la Regina! - annunzia un servo. Camerieri, parrucchieri, servi balzano in piedi, rigidi, addossati alle pareti. La madre sosta sulla soglia, sorride, tende le braccia alla figlia, l'abbraccia, la bacia, ma con delicatezza trepidante, come si odora un fiore troppo fragile. - Un rêve, vraiment un rêve! *** ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... Oh, l'interminabile fila di berline, le berline di Casa Reale simili ad altissimi triangoli capovolti, sculpite, dorate, sovraccariche di tutta la mitologia e di tutto il simbolismo pazzesco del barocco; così goffe ed aggraziate, così snelle e tozze ad un tempo! Berline a quattro, a sei, a dieci cavalli gualdrappati, frangiati, impennacchiati, con non altro di libero che le zampe e la coda prolissa, cocchieri e staffieri a codino rigidi come automi tolti da un armadio centenario! ... Il corteo fantastico si svolge interminabile come in una fiaba dei Perrault, ma non reca il marchese di Carabattole, non il gatto dagli stivali, non Cenerentola fatta regina, ma tutte le belle dame della nobiltà subalpina, la Marchesa di San Damiano, la Marchesa d'Ormea, la Contessa Morozzo, la Contessa Della Rocca, la Marchesa di San Germano, la Marchesa di Cinzano, la Contessa di Salmour, la Marchesa di Verolengo ... E fra tutte, bellissima, come la Principessa della favola, come la Figlia del Re, leggendaria, è la sposa tutta bianca, tutta d'argento ... - La bela Carôlin! La folla che stipa Piazza Castello, i portici, i colonnati, che brulica sugli alberi, sulle ringhiere, sui tetti, acclama la sposa con un fremito che parte dal cuore. Il popolo ama quell'ultimogenita del Re, l'ama come una delicata bimbetta sua, la bela Carôlin è popolare ovunque, dai parchi della Venaria ai parchi del Valentino, dai bastioni della Cittadella ai bastioni della Dora, dove non sdegna di interrompere i suoi giochi per rivolgere la parola a un giardiniere che pota, a una lavandaia che piange. - Madama Carôlin! la bela Carôlin! Mai il popolo ha sentito così forte la sua tenerezza commossa come in quest'ora dell'ultimo addio. Il bel fiore sabaudo sta per essere còlto da altre mani per un giardino d'oltr'Alpe. ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... Il lungo corteo d'equipaggi passa da Via Dora Grossa a Porta Segusina, da Porta Segusina ai bastioni della Cittadella. Sono quivi schierate tutte le truppe: spiccano i Granatieri e i Guastatori dalla veste di scarlatto guarnita d'argento, con cappotto frangiato e banda intarsiata pure d'argento e d'azzurro, spicca la Compagnia Colonnella con le Corporazioni dei Mercanti e dei Droghieri a divise vivacissime. Lungo Via Santa Teresa e Piazza San Carlo, lungo Via Nuova, sono tutti gli altri Corpi della città: gli studenti della Regia Università col loro Sindaco, i Cavalieri dell'Ordine della SS. SS.Annunziata e dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Tutti formano tra la folla varia un disegno ordinato a colori vivacissimi dove il corteo passa come tra una doppia siepe di divise smaglianti. La sposa diciassettenne non ha mai visto tanto fasto nella sua vita breve e raccolta e pensa che tutta quella gioia di colori e di suoni è per lei e s'alza e batte le mani come ad un bel gioco. Dai bastioni della Cittadella ai bastioni di Po rombano i cannoni di salve, strepitano i mortai e i mortaretti, accompagnando senza tregua con un rombo guerresco il clangore esultante di tutte le campane di tutte le chiese: la Metropolitana, Santa Teresa, la Consolata, i Santi Martiri Tebei, tutti i provincialeschi templi torinesi. Il corteo regale s'avanza. Dame, cavalieri gettano di continuo a piene mani le dragées nuziali, i grossi confetti settecenteschi detti giüraje E la folla s'accalca, fluttua, acclama. La sposa protende le mani e mille mani si protendono affettuose in una stretta d'ultimo addio. - La bela Carôlin! La piazza San Carlo è convertita in una sala immensa: "sta una tavola ivi disposta la quale fa vedere un corpo di bacili di confetti canditi e di molte sorta di paste zuccherate e frutti molto lontani dalla stagione. I bacili suddetti, guarniti a piramidi nella sommità dei quali vagamente pompeggiano stendardi con armi e cifre, il tutto regalato di fiori con una piramide sostenuta da quattro tori argentati carichi di confetture. Per finimento godono le Altezze Reali dell'apparato più con gli occhi che con la bocca e prendono gran piacere in vedere a dare il sacco di detta tavola e dare la scalata alla piramide fruttata e inzuccherata". La sposa giovinetta ride a quel gioco, ride fino alle lagrime della folla che corre, sale, rotola, schiamazza. La sposa ha tutto dimenticato e pensa che la vita prosegua così in un corteo dorato e infiorato tra una moltitudine gaia e plaudente. L'allegrezza dell'ora è per lei come quell'orlo di miele che si mette sul calice della medicina troppo amara. Fuori di Porta Nuova la folla si estende fino al Parco del Valentino. Dinnanzi al Castello, "passatempo delle Dame", il corteo si ferma ancora una volta per un altro rinfresco e per ricevere il complimento del poeta Pancrazio da Bra, arcade di bella fama nell'Accademia degli Incolti. S'avanza costui in sembianza del fiume Po, seminudo, con manto di drappo d'oro e capelli a guisa d'alga ed è seguito dalla Dora fanciulla vestita a guisa di ninfa con le chiome sparse e incominciano un dialogo in versi dove il Po dimostra alla Dora sconsolata per la dipartita della Principessa la necessità che lo splendore della Casa Sabauda s'estenda oltre ogni confine ... Di che bell'astro il nostro ciel si priva! La bela Carôlin s'annoia mortalmente alle interminabili ottave accademiche, sbadiglia, s'abbuia, guarda altrove, s'alza impaziente, invano trattenuta dalla madre e dalla cognata. E l'amarezza del distacco, la realtà dell'ora triste la riprendono ancora e le stringono il cuore distratto per poco ... Il suo volto si vela d'angoscia quando il corteo riesce alla Porta di Po. Là sotto le arcate imbandierate e infiorate attendono le quattro berline di viaggio sulle quali bisogna salire fra pochi secondi; non più graziose berline dorate, ma grandi carrozze fosche e disadorne. Il corteo s'arresta presso la Porta. Bisogna scendere con la Marchesa di Cinzano, con la Contessa di Salmour, con il Marchese di Bianzé, bisogna passare con i compagni di viaggio nei tristi veicoli non più di gala. Un tappeto infiorato segna il breve percorso ... Ma la bela Carôlin che tormenta da mezz'ora la mano della Regina, s'è ora afferrata al braccio di lei e quando il Conte Lamarmora apre lo sportello e l'invita a scendere, la piccola si getta al collo della madre, disperata, folle. Il fratello è costretto a sciogliere le braccia di lei a forza come si spezza una catena; a forza la fanno scendere, le fanno attraversare il breve spazio giuncato di fiori, reggendola alle spalle, costringendola al passo, portandola quasi di peso nella carrozza da viaggio. E là dentro la bimba si vede perduta. - Maman! maman! - grida protendendosi dagli sportelli mentre le quattro carrozze s'aprono il varco tra la folla. - Maman! maman! Oimè, la madre, gli amici restano indietro, ritornano nelle berline dorate verso la Reggia, ch'ella ha dovuto lasciare per sempre. Allora la piccola è presa dal panico folle come chi è trascinato alla morte. Ha di fronte la severa Marchesa di Salmour, l'arcigno Ambasciatore di Sassonia. Si vede sola, perduta, si protende forsennata verso la folla invocando soccorso. - Maman! maman! E nella folla l'hanno udita le madri: molte donne s'accalcano tra le ruote, impediscono quasi alle carrozze di procedere, stringono le piccole bianche mani convulse. - Povra masnà! - Che Dio at giüta! - Fate courâge! - Arvëdse ancoura! - Arvëdse prest! Ma i cocchieri sferzano i cavalli: il convoglio s'affretta, fende la folla, procede di corsa, è sul ponte, è oltre il fiume, dispare ... *** Il Duca di Sassonia fu ottimo sposo per la bela Carôlin Il 17 marzo scriveva alla Regina ringraziandola del dato consenso e della conseguita felicità. "Aussi tous mes désirs ne tendront-ils qu'à me rendre dighe des bontés d'une princesse qui réunit aux charmes de la plus aimable figure, toutes les vertus de ses augustes parents". Il 28 dicembre 1782 la bela Carôlin moriva in Dresda, poco più di un anno dopo le nozze e a diciannove anni non ancora compiuti. Tuchè-me'n po' la man, me cari sitadin, Për vive che mi viva vëdrö mai pi Türin!

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679060
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ho inteso dire e ho veduto che, oltre i signori di castelli, non vi sono che i vescovi, gli abati e le badesse che possano vivere liberamente e liberamente comandare. Tu sai, signor mio, che io sono nata per il comando e non per l'ubbidienza. Così, non scostandomi da questo luogo, potrò ad un tempo vegliare sui feudi di mio fratello e appagare il mio bisogno di dominio. - Quello che tu chiedi, figlia, sarà fatto. Domani messer Baldo, il nostro dottore, redigerà una lettera per l'Imperatore, nella quale io chiederò che sieno aggiunti alla nuova abbazia alcuni terreni e borghi vicini. Tu, intanto, pensa a qual Santo desideri sia dedicato il monastero. Il vecchio signore prese fra le mani tremule la fiera testa di Sofia, e la baciò sulla fronte. La giovane signora si ritirò in camera sua e trasse da un vecchio mobile di quercia un libro, ornato di figure di santi. Ella non sapeva leggere, ma dalle immagini miniate dalla mano abile di un monaco Camaldolense, ricavava la storia dei martirî e dei miracoli di molti beati. Il suo occhio si fermò specialmente sopra una pagina in cui era raffigurata la testa sanguinante di san Giovanni Evangelista, deposta sul bacino, pure insanguinato. Ed a Sofia parve che gli occhi di quella testa la mirassero supplichevolmente e che due lacrime scorressero su quelle livide guance. - Ecco il Santo al quale dedicherò la nuova abbazia! - disse la giovane. - E in memoria del frate Camaldolense, che ha delineato la testa di san Giovanni Evangelista, le mie monache seguiranno la regola di san Romualdo. Quella notte Sofia non sognò altro che la testa insanguinata della vittima di Erode, e si vide vestita del lungo abito bianco dell'ordine, alla testa di una numerosa processione di monache. La mattina dopo, ella scese il ponte levatoio del castello per recarsi sul luogo ove desiderava sorgesse il suo monastero. Era seguita soltanto da due valletti e dal padre confessore. Sofia aveva fatto pochi passi lungo i fossati del castello, quando vide distesa in terra una bianca mula, sfinita di forze e tutta coperta di guidaleschi sulla schiena e sulle gambe. Pareva che la povera bestia stesse per mandare l'ultimo respiro; ma quando vide Sofia, fece uno sforzo supremo e, riunendo i quattro piedi, si alzò all'improvviso e le si accostò nitrendo. La giovane strappò pochi fili d'erba secca sulla proda del fossato e li offrì alla mula, la quale, barcollando e tentennando il capo, li prese e si diede a masticarli. Sempre barcollando sulle malferme gambe, la povera bestia seguì Sofia fino al luogo ove ella aveva in mente di costruire il monastero, e giunta colà cadde di botto in terra. La signora ordinò a uno dei valletti di tornare al palazzo e di chiedere una barella con quattro portatori robusti per trasportare nella stalla la bestia sfinita. I portatori giunsero: ma per quanti sforzi essi facessero, non riuscivano a movere la mula. Allora Sofia, sentendo che il vento soffiava gelato dai monti e vedendo che la neve incominciava a turbinare, ordinò agli uomini di non turbare l'agonia di quel povero animale e di fargli con alcune frasche un riparo, tanto per non lasciarlo seppellire dalla neve. Gli ordini di Sofia vennero subito eseguiti. Fu portato acqua e fieno alla mula, le fu gettato una coltre addosso, e soltanto quando la ragazza vide che nulla mancava alla bestia ammalata, ritornò al castello. Quel giorno stesso il conte Guido di Pratovecchio mandava all'imperatore Lotario, un messo recante una lettera, con la quale egli chiedeva la creazione dell'abbazia di San Giovanni Evangelista, dell'ordine di San Romualdo, nonché l'investitura di quell'abbazia per la figlia. La risposta dell'Imperatore doveva farsi aspettare molto tempo, ma quel periodo d'aspettativa non doveva parer lungo a Sofia; poiché in essa si compierono avvenimenti così meravigliosi che la tennero occupata notte e giorno. La mattina dopo, nonostante che la neve ricoprisse il terreno, ella uscì con la solita scorta per andare a visitare la mula; ma aveva appena varcato il ponte levatoio, che l'animale incominciò a nitrire in segno di gioia. - Madonna, questo è un miracolo! - esclamò il giovine Corrado da Barberino, uno dei valletti che l'accompagnavano. - La mula è viva e io non avrei dato un soldo della sua carcassa, tanto era rifinita. La mula, infatti, non soltanto era viva, ma se ne stava ritta gagliardamente sulle quattro zampe e con le narici fiutava il vento, come se fosse impaziente di slanciarsi alla corsa. I guidaleschi in quelle poche ore erano sanati come per incanto; e l'animale, ringagliardito, dimostrava di non essere una mula comune, ma di quelle bensì che servivano di cavalcatura ai papi, agli abati e alle dame nobili. Sofia la condusse al castello e la fece collocare nella stalla dove si tenevano i cavalli del Conte; le fece fare una morbida lettiera, e ordinò alle sue donne di trapuntarle una ricca gualdrappa di panno cremisi. Da quel giorno Sofia non ebbe altra cavalcatura, e la mula era così agile e sicura che nessun cavallo la vinceva alla corsa, e nessuno s'inerpicava meglio di lei su per le vie scoscese dei monti. Intanto era incominciata la costruzione della chiesa dedicata a san Giovanni Evangelista e del monastero. Sofia andava ogni giorno a vedere i lavori, impartiva ordini, e il conte Guido era più impaziente di lei di veder presto terminato quell'edifizio, che doveva servire d'asilo alla diletta sua figlia. Quando giunse la risposta affermativa dell'imperatore Lotario, già l'edifizio, che aveva più l'aspetto di una fortezza che di un monastero, era coperto, e non rimaneva altro che da benedire la chiesa. Nel nuovo monastero Sofia aveva fatto costruire, sotto la camera sua, una bellissima stalla per la mula. Nell'impiantito stesso della camera vi era una bodola, e sotto a quella una scaletta che metteva nella stalla, per modo che la Badessa potesse scendere direttamente dalla mula e, all'occorrenza, salirle in groppa e correre colà dove il bisogno la chiamava. Poiché Sofia non aveva dimenticato che doveva essere la difesa del fratello e dei beni della famiglia. Appena si seppe in Casentino che la figlia del conte Guido fondava un monastero, giunsero numerose le domande di ammissione per parte delle fanciulle di nobile casato, che preferivano la vita calma del chiostro a quella agitata dei castelli; e il giorno che l'abate scese in gran pompa dall'Eremo di Camaldoli per benedire la chiesa e il convento, già venti ragazze nobili facevano corona a Sofia, e molte contadine, che si contentavano dell'umile ufficio di converse. Il conte Guido e la contessa Emilia vollero che la cerimonia fosse oltre ogni dire sontuosa e non trascurarono di donare alla chiesa ornamenti preziosi, croci, calici, lampade, candelabri e paramenti sacri. Pochi giorni dopo che Sofia ebbe vestito l'abito bianco dell'ordine di San Romualdo, il vecchio Conte spirò fra le braccia de' suoi, raccomandando anco una volta alla figlia di vegliare sulla madre, su Ruggero, sul loro castello, sui terrazzani. Furono fatte solenni esequie, e il corpo del Conte venne deposto nell'avello della chiesa, sotto la custodia della badessa Sofia. Appena il vecchio ebbe chiuso gli occhi, incominciò a destarsi la cupidigia del signor di Porciano. Tutti sapevano che Ruggero era molto debole, e in quei tempi, in cui la forza e la prepotenza equivalevano al diritto, pensavano che un feudo così importante non doveva rimanere nelle mani di chi non sapeva difenderlo. Si armarono dunque, tanto il Conte, che era un fiero cavaliere, quanto i quattro figli, e scesero dalle loro balze seguiti da una turba di soldati, per assediare all'improvviso Pratovecchio, che credevano indifeso, e impadronirsene. Ma Sofia vegliava, e soprattutto vegliava la mula. Appena i signori di Porciano erano scesi dal loro castello, la mula s'era messa a raspare con le zampe, a sbuffare e a nitrire, e Sofia, che credeva fermamente che quell'animale le fosse stato inviato da san Giovanni, si insospettì, e nel cuor della notte corse al castello per prepararlo alla difesa; guarnì di uomini armati tutte le feritoie, e dopo aver dato gli ordini che credeva opportuni, ritornò al monastero e fece sonare a stormo. Da ogni parte giungevano i terrazzani dipendenti dall'abbazia, ed ella, che aveva nelle mura del chiostro un vero arsenale da guerra, li armava e li incitava alla difesa. Così quando i signori di Porciano sbucarono davanti al castello per assalirlo, ella, spiegando il gonfalone su cui era trapunto il capo di san Giovanni Evangelista, montata sulla bianca mula, andò loro incontro alla testa dei suoi uomini armati. - Perché giungete con tanto apparato di guerra, Conte? - domandò Sofia fermandosi a pochi passi dal signor di Porciano. - Quale offesa vi fu fatta da mio fratello o da me? - Io non sono uso di trattare di faccende guerresche con femmine, - rispose il Conte. - Rientrate, dunque, madonna, nel vostro monastero e pensate alle cose dell'anima. - Ci penso quando non ci minaccia nessun pericolo; ma ora non ho altra cura che quella della difesa. Una risata di scherno partì dalle file dei porcianesi. Sofia si sentì ribollire il sangue nelle vene e, afferrato lo scudo e la spada che le offriva il giovine valletto Corrado da Barberino, mosse ardita contro i nemici, gridando: - Per san Giovanni Evangelista, a me, miei fidi! La mula non corse, ma volò a gettarsi nella mischia. Sbuffava, rompeva le file dei combattenti, colpiva con la testa e con le zampe quanti cavalli le si paravano dinanzi, mentre la spada di Sofia faceva strage dei nemici. Quella donna vestita di bianco e quella mula bianca parevano un solo fantasma distruggitore. La spada di Sofia, che mandava lampi, s'immerse nel collo del conte di Porciano, dopo aver ferito molti dei suoi. Un grido di sgomento partì subito dalle file degli assalitori, vedendo cadere il loro capo, e tutti si diedero a fuga precipitosa nella campagna. Sofia, sventolando il gonfalone in segno di vittoria, ordinò ai suoi di raccogliere il ferito e di portarlo al monastero, dicendo: - Se i signori di Porciano vorranno il loro capo, debbono venirlo a prendere nel castello. Gli ultimi fuggiaschi dovettero udir certo queste parole di sfida, perché due giorni dopo, chiesto rinforzo ai loro dipendenti, signori dei piccoli castelli sulle balze dell'Appennino, si presentarono ben più forti della prima volta, e mandarono un messo a Sofia, dichiarandole che volevano misurarsi a corpo a corpo con il conte Ruggero, e non con una monaca che chiamava in suo aiuto il Cielo ... e magari l'Inferno. Sofia ricevé il messo, non nella sala della sua abbazia ma nel cortile del castello, mentre ritornava da una ispezione alle terre, nella quale si era trascinata dietro il fratello. - Direte al vostro signore che domani all'alba il signor di Pratovecchio scenderà in campo aperto attendendolo. Egli parla mal volentieri, ma si batte con piacere, e quando avrà scavalcato il primogenito dei signori di Porciano, affronterà il secondogenito, il terzo e anche il quarto, - rispose la fiera monaca. Il messo s'inchinò e fu riaccompagnato, dai valletti e dagli uomini armati, al di là del ponte levatoio. Sofia, appena il messo fu andato via, corse a sostenere il fratello, che stava per perdere i sensi. - Perché, - diceva egli con voce tremante, - perché hai fatto a nome mio quella promessa? Io non mi batterò mai; morirei se dovessi scendere in campo! - Calmati, signore, - rispose la Badessa con un sorriso di scherno. - Se ho promesso, manterrò, e il cavaliere che scavalcherà il signor di Porciano, sarò io e non tu. Dopo aver detto questo, ricondusse Ruggero alla madre più morto che vivo, ed alla Contessa raccomandò di vegliare sul figlio, poiché era in uno stato miserando. Poi ella distribuì armi, assegnò a ogni uomo il proprio posto e, scelta nella sala d'armi una forbita armatura, una spada, un'asta, un pugnale e uno scudo, se li fece recare al monastero, ordinando che le porte del castello fossero sbarrate e non si aprissero altro che se ella avesse sventolato il gonfalone con san Giovanni Evangelista. Nel monastero ella fece pure preparativi di guerra, schierò dinanzi a quello e al palazzo buon numero d'armati, e prima dell'alba, vestita l'armatura e inforcata la sua mula, scese in campo. Il figlio primogenito del prigioniero non tardò a giungere, e, schierati i suoi uomini dal lato opposto di quelli di Pratovecchio, salutò il cavaliere nemico, e il duello ebbe principio con l'asta. Sofia, portata dalla mula impaziente, fu addosso in un momento al cavaliere, e l'urto che questi ricevé dall'asta della Badessa e che il cavallo si ebbe dalla mula, li fecero precipitare per terra. Quando i fratelli del caduto videro questo, accecati dall'ira, piombarono subito sopra a Sofia, e dietro a loro si avanzò un forte drappello di soldati per aiutarli. I colpi piovevano come grandine sul morione e sull'armatura della Badessa, la quale non poteva neppur sollevare il braccio per difendersi, ma intanto la mula sbuffava, calciava, calpestando il corpo del caduto, che spirò fra atroci dolori. Appena l'anima di lui fu uscita dal corpo, la mula si sollevò da terra come se fosse stata un uccello, sgominando a calci i nemici, e poi depose Sofia in un punto poco lontano dove potesse servirsi delle armi contro di loro. Oltre il primogenito dei signori di Porciano, la prode Badessa scavalcò anche il secondogenito, e avrebbe vinto anche gli altri due, se essi, sgomenti, non si fossero dati alla fuga. Allora ella prese dalle mani di Corrado da Barberino il gonfalone con la testa di san Giovanni Evangelista e lo sventolò in segno di vittoria, invitando i suoi a inseguire i fuggiaschi. Questi, il giorno dopo, vennero umili a chieder pace. Domandavano il cadavere del loro fratello morto, la liberazione del padre e la consegna dell'altro fratello ferito. In cambio offrivano terre e molto denaro. Il messo fu ricevuto da Sofia in abito da cavaliere. Ella accondiscese ai patti, purché i signori di Porciano promettessero che non avrebbero più molestato i signori di Pratovecchio. Queste condizioni le dovevano scrivere, e aggiungere che sarebbero sleali qualora non le mantenessero. Le promesse non costano nulla e si fanno facilmente, ma è più agevole romperle che osservarle, e questo avvenne per i signori di Porciano. Appena riebbero i loro prigionieri, pensarono di vendicarsi. Ormai avevano scoperto che era stata Sofia, la fiera Badessa, che li aveva vinti, e quest'umiliazione inflitta loro da una donna non potevano inghiottirla a nessun costo. Ma che Sofia fosse valente nelle armi, non potevano negarlo, e non volevano misurarsi con lei per non esporsi a nuova vergogna; perciò occorreva rapirla e farle pagare con una lunga prigionia, e forse con la morte, la baldanza dimostrata. Sofia era troppo schietta per supporre che i signori di Porciano macchinassero contro di lei un tradimento, e non poteva supporre che quattro cavalieri, tra cui un vecchio, mancassero alla parola data e si esponessero ad esser accusati da ognuno di fellonìa. Non temendo dunque nessun attacco, ella si dava alle cure del suo monastero, agli esercizî spirituali, e nelle ore che le rimanevano libere, visitava la madre ed il fratello, il quale diveniva ogni giorno più effeminato e quasi stupido. Una sera dunque, mentre se ne tornava dal palazzo all'abbazia pensando alla triste impressione ricevuta nel trovare il fratello curvo sul telaio a ricamare un velo di seta come una femminuccia, vide uscir fuori da un ciuffo d'alberi un branco d'uomini armati. Prima che avesse il tempo di gridare, essi l'avevano legata, imbavagliata, e buttata come un sacco in groppa a un cavallo; poi si erano allontanati, portandola seco prigioniera. All'abbazia aspettarono un pezzo la Badessa, ma quando non la videro giungere, inviarono a cercarla dovunque. - Che cosa sarà successo? - si domandavano le monache fra di loro. Andarono nella camera, era vuota; scesero nella stalla, la mula era legata alla mangiatoia; soltanto sbuffava, raspava, e dagli occhi mandava lampi. Finalmente die' uno strattone alla corda, la quale si spezzò; allora la mula aprì con una zampata la porta della stalla, uscì nel cortile, e con un lancio saltò al di là delle mura dell'abbazia e dei fossati, e via a corsa sfrenata verso Porciano. Le monache, vedendo l'animale in tanta furia, si sbigottirono e, cessate le ricerche, si riunirono in chiesa, davanti a una immagine di san Giovanni Evangelista, che fecero ornare di lumi, e rimasero là in orazione per molte ore. Intanto la mula correva verso Porciano senza toccar quasi il terreno, tanto aveva il piede svelto. Giunse al castello che era già notte buia, e il ponte levatoio, abbassatosi per lasciar passare Sofia e i rapitori, era rialzato. La mula spiccò un salto, varcò il fossato, imboccò la pusterla, rovesciando quanti incontrava, e si fermò davanti all'uscio sbarrato di un sotterraneo. Pareva che udisse una voce a lei nota, perché drizzava le orecchie, sbuffava e calciava contro l'uscio per farsi sentire. Gli uomini d'arme, spaventati nel vedere quell'animale bianco, infuriato, si rinchiusero frettolosamente in una stanza, altri si affacciarono al ballatoio della scala, ma non ebbero coraggio di scendere, e intanto la mula continuava a fare un rumore d'inferno davanti alla porta del sotterraneo. Accorgendosi che l'uscio resisteva ai calci, l'animale s'inferociva sempre più, e imboccata la scala, la salì di corsa e penetrò come un fulmine nella grande sala del palazzo, dove i giovani signori di Porciano erano aggruppati intorno al padre, ridendo per essere riusciti nell'impresa di mettere in gabbia la fiera Badessa. Nel vedere la mula bianca, il vecchio Conte e i figli mandarono un grido di terrore e cercarono di rifugiarsi in altre stanze; ma la mula li rincorreva, li spingeva contro il muro, li gettava in terra e poi a suon di calci, di morsi, di zampate li uccideva. Quando li vide tutti distesi come tanti cenci per terra, scese la scala, e afferrato con i denti il carceriere, che traversava il cortile per darsi alla fuga, lo trascinò davanti all'uscio del sotterraneo e non lo lasciò andare altro che quando questi ebbe aperta la prigione. Allora la mula si diede a nitrire, e Sofia, udendola, salì l'angusta scala scavata nel masso, balzò in groppa all'animale, e poco dopo giungeva sana e salva alla sua abbazia e faceva suonar le campane per avvertire il popolo di Pratovecchio di armarsi; ma non ce n'era bisogno, perché quelli di Porciano avevano da seppellire i loro signori, ed era tanto il terrore che sentivano per la mula, che non avrebbero mai più osato di avvicinarsi all'abbazia e al castello. Dopo questo fatto nessuno turbò più la vita tranquilla di Sofia. Sua madre e il fratello Ruggero si spensero placidamente, e la Badessa sola rimase a guardia del castello. Ella visse lungamente e la mula si mantenne sempre forte e agile tutto il tempo che Sofia rimase a questo mondo. Nell'abbazia e in tutto il Casentino si attribuiva a miracolo quel lungo vivere di un animale, e si diceva che la Madonna e san Giovanni Evangelista avevano mandato quella mula a Sofia per aiuto e sostegno nelle vicende di una esistenza divisa fra le cure del monastero e la difesa di vasti feudi. Infatti il giorno in cui Sofia si spense, la mula ruppe la cavezza e fuggì via, né di lei si seppe altro. Morta la Badessa, ricominciarono gli attacchi al castello e all'abbazia, finché l'imperatore Corrado, che era succeduto a Lotario, non ebbe dato quel feudo a un altro conte Guidi. E così la novella è finita. Ma se la novella era terminata, la veglia non si sciolse subito, perché la Carola aveva preparato la pasta per fare i necci, e appena Regina ebbe cessato di parlare, prese i testi, li arroventò, li rivestì di foglie di castagno e poi, versatavi sopra la pasta, li mise per un momento al fuoco. Quei necci bollenti sono la ghiottoneria dei bimbi dell'Appennino toscano, e anche dei grandi. La Carola ne distribuì a tutti una certa quantità, coprendoli di burro fresco; per i grandi mise fuori una bottiglia di vin santo, e la veglia si protrasse lungamente. A un certo punto, mentre tutti mangiavano, comparve la matrigna di Vezzosa. - È questa un'ora da stare fuori di casa? - disse alla figliastra senza neppur dar la buona sera. - Via subito! Vezzosa si alzò per ubbidire, ma la Carola la trattenne. - Finché è con noi, voi non le potete far rimproveri, - disse alla vecchiaccia. - Andate pure a letto e non vi date pensiero; la riaccompagnerà Maso. La donna se ne andò scorbacchiata, rifiutando di accettare i necci e il vino, e Cecco si accostò a Vezzosa per dirle: - Sai, fra tre domeniche è Pasqua; ci hai poco più da tribolare, abbi pazienza! Ella gli rivolse uno sguardo pieno di gratitudine e non disse nulla. Il martirio era per finire, e ormai la pazienza non le mancava più.

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

gli rideva in faccia, perché il nome non lo sapeva e abati ce ne erano tanti e tanti. Se ne tornò dunque al mulino con le pive nel sacco e prese a perseguitare il piccino che s'era figurato dovesse portare la ricchezza in casa sua, e che invece doveva campare a sue spese, perché a chi poteva renderlo ? A desinare il mugnaio non permise più al bimbo di stare a tavola con lui, la moglie e il loro figlio. Gli faceva mettere un po' di minestra in un tegamino rotto e nero, e lo mandava a mangiare col gatto e col cane per terra, in un cantuccio. A dormire non volle più che stesse in camera con loro ; gli fece mettere un po' di paglia in uno stanzino buio, e lì lo teneva, e quando il figlio lo chiamava a baloccarsi con lui, il mugnaio diceva : - Lascialo stare ; quello lì non è fatto per baloccarsi ; se vuol mangiare un pezzo di pane deve guadagnarselo e deve ripagare a tua madre il latte che gli ha dato e il resto. Quello lì non è tuo fratello ! - Così il piccino crebbe, ed appena potè zampettare dovette lavorare dalla mattina alla sera a coltivar la terra, ed ebbe appena da sfamarsi : sempre e poi sempre marito e moglie gli ripetevano : - Ti teniamo per carità ; meritavi che ti si fosse abbandonato in un bosco. - Una sera il Principino, poteva avere un dieci anni, chiedeva al figlio del mugnaio un'arancia. - Dammela, fratuzzu dammela! - Ma tu non sei fratello mio ! - rispose l'altro. - Se tu fossi mio fratello te la darei, a te non te la do. Tu sei figlio di un'altra madre. Va'-e cercala tua madre in Palermo. La conosci tu? L'hai mai veduta? Che bella madre ! Come si cura del figliuolo ! - Queste stesse parole il Principino se l'era sentite dire tante volte, ma non ci s'era potuto assuefare e gli facevano sempre una gran pena. Zitto zitto se ne andò a piangere nello stanzino buio e fra le lacrime diceva : - È mai possibile che il mio babbo e la mia mamma non si rammentino di me? Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto ? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi ? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, si é impossessato del tuo. Va' a Palermo, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te ! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perché sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d' andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Vicerè, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli : - Alzati, mendicante ; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l' ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli : - Va' oltre, pezzente ! - E andò oltre, finché non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, e disse al padrone : - Mi prenda come garzone ; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non di elemosina, il tono con cui era fatta e l' aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che si imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva : - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò : - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori ? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - II poverino non voleva narrare l' apparizione della madre perché quel segreto era la sua sola gioia e la sua sola ricchezza. Per questo alla domanda del fabbro rispose : - Che so? m' hanno detto che sono figlio del principe di Cattolica e che quel perfido abate s'è impossessato di tutti i miei beni. - Era presente al discorso la moglie del fabbro, la quale provò un senso di pietà sentendo che quel ragazzo, figlio di principi, nato in un palazzo, in mezzo all'oro, dovesse fare tutte le faticacce. - Senti, - disse al marito - io non posso vedere che questo ragazzo fatichi a questo modo. Non sarebbe meglio farlo studiare, invece che lavorare ? Anche se non ricupererà i suoi beni, una volta istruito ci darà sempre aiuto, perché è tanto buono e riconoscente ! Del resto la figlia nostra non potrebbe tirare avanti la bottega ! e lui lo farà bene, avendo un po' d'istruzione. - Il fabbro si lasciò convincere dalle parole della moglie e tolse il Principino di bottega a tirare il mantice, lo mise a scuola e spese di bei quattrini per fargli insegnare prima a leggere e scrivere e fare di conto, e poi il latino, le scienze e tutto quello che si insegnava allora. Intanto il Principino raggiunse l'età maggiore e il fabbro fece fare l'albero genealogico della famiglia di Cattolica, cavò tutti gl'incartamenti e gli atti per intentar lite all'abate e provare che non lui, ma il giovinetto era l'erede dei titoli e delle ricchezze. Incominciò il processo, e l'abate, che sapeva d'aver torto marcio, non si stancava di mandar rotoli di doppie d'oro, ora ai giudici, ora al presidente del tribunale. E via via che il tempo passava e che si avvicinava il momento della sentenza, quei rotoli aumentavano di volume. Il fabbro, poveretto, si limitava a pagar gli avvocati e faceva già un gran sacrifizio, ma non aveva mezzi per battersi con l'abate a rotoli di belle doppie di Spagna. E quando dopo due anni venne pronunziata la sentenza, fu, naturalmente, favorevole all'abate. S'appellarono, e il fabbro, che non voleva darsi per vinto, vendette diverse case per sostener le spese e non badava a spendere; ma l'altro ungeva sempre le ruote, e ogni momento rinfrescava la memoria dei giudici e del presidente a forza di rotoli di belle doppie d'oro sonanti e, naturalmente, vinse. Il Principino, vedendo i gran sacrifizi fatti dal fabbro per lui, lo pregò e lo supplicò di non continuare la causa. - Lasci che mi metta a lavorare in qualche modo per rifarla delle spese incontrate per me, - gli diceva - ma rinunzi a far valere i miei diritti. Io non posso permettere che lei vada in rovina, continuando una lite che l'abate saprà sempre vincere perché dispone di tanti mezzi. - In queste cose non t'ingerire. Io ho una figlia sola e la sua dote è assicurata. Di quel che ho guadagnato con le mie braccia sono padrone di fare quel che voglio, e intendo di continuare la lite, dovessi rimetterci anche la camicia. Lasciami pensare al mezzo di richiamare al dovere questi giudici comprati dall'abate, e poi.... - II Principino intanto si struggeva dalla pena, non perché desiderasse le ricchezze, ma perché, andandone al possesso avrebbe potuto rendere al fabbro tutto quello che aveva speso nella lite. S'accorgeva bene che in casa avevano limitato le spese, che la moglie aveva impegnato l'oro, che nessuno si faceva più un vestito nuovo. E tutto perché ? Per quel processo che non finiva mai. Una notte il Principino non poteva dormire, agitato da mille pensieri, uno più doloroso dell'altro. A un tratto esclamò : - Madre mia, aiutami tu, non permettere che il tuo figlio non possa sdebitarsi con questa brava gente che lo ha raccolto povero, estenuato dalla fame e che per lui ha fatto tanto ; madre mia, aiutami ! - II giovane Principe, dopo questa invocazione, sentì una manina delicata accarezzargli la fronte e una voce debole debole e lontana lontana, disse : - Figlio mio, nessuno ti può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ti può far rendere giustizia. Figlio mio, abbi dunque pazienza, costanza e fermezza ! - La voce tacque, ma, il giovane Principe si sentì consolato, e ogni volta che parlava col fabbro (sempre parlavano della lite, perché, si sa, la lingua batte dove il dente duole) gli ripeteva : - Nessuno ci può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ci può far rendere giustizia. Ci vuoi pazienza, costanza e fermezza ! - II fabbro, a forza di sentir questo, si convinse che, di fatto, il Re solo poteva far rinsavire i giudici e, zitto zitto, di nascosto anche alla moglie, vende un' altra casa e le annunzia che deve partire per certi suoi affari. Invece s'imbarca per la Spagna, sbarca a Barcellona, piglia pratica alla Sanità e se ne parte per Madrid. A palazzo non conosceva nessuno e non era vestito come le persone di Corte ; per questo tutti lo sbirciavano con disprezzo, ma egli non ci badava. Era giorno di udienza e il Re riceveva tutti. Dopo lungo aspettare il fabbro fece passare l' ambasciata al Re, disse che veniva da Palermo e fu ricevuto. Appena alla presenza del Re, che era nientemeno che Carlo V, disse, gettandosi in ginocchio : - Maestà, grazia per il principe di Cattolica ! - Il Re lo guardò maravigliato perché non pareva davvero un Principe, e lo invitò a rialzarsi ed a parlare. Il fabbro allora cavò fuori tutte le carte che comprovavano le ragioni del Principino e le copie delle sentenze. Il Re, senza indugio, le esaminò, chiamò un suo giureconsulto a esaminarle, poi un altro ancora, e vedendo che si commetteva a Palermo certe nefandezze, esclamò : - Povero me, come sono ben servito ! Così si amministra in Sicilia la giustizia in mio nome ? - Proprio così, Maestà, - rispose il fabbro - soltanto chi ha quattrini ha ragione, anche quando commette una sfacciata usurpazione. - Ma questo non accadrà più, - assicurò il Re, e preso penna, carta e calamaio, scrisse una lettera per il Vicerè che doveva esser comunicata ai giudici, la munì del suo reale suggello e consegnandola al fabbro, disse: - Tenete, andate in Sicilia e abbiate fiducia che nessuno oserà più trasgredire agli ordini miei. - II fabbro, tutto consolato e pieno di speranza tornò a Palermo, consegnò la lettera del Re al Viceré, fece riaprire la causa, ebbe di nuovo una sentenza contraria e non se ne curò. Però il Principino se ne afflisse molto, e la notte dopo che fu pronunziata la sentenza, non riuscì mai a dormire. Sempre invocava la madre ed esclamava : - Madre mia, ma la giustizia è proprio morta a Palermo ? Come, non è rispettata neppure la volontà del Re ? Come, dovrò vedere quel perfido abate godersi i beni della mia famiglia e non potrò neppure rimborsare quest'eccellente popolano dei sacrifizi che fa per me? Non vedi, madre mia, che s'è disfatto di tutto quel che possedeva , non vedi che stenta per mantenere tuo figlio ? Non credi che questo sia uno strazio per me ? - L'infelice, dopo questa invocazione sentì un alito freddo sfiorargli il viso e due labbra gelate si posarono sulle sue, e quindi la solita voce affettuosa pronunziò lentamente queste parole : - Figlio mio, abbi pazienza, costanza e fermezza. Io pregherò per te. - E suggellando la promessa con un lungo bacio, si allontanò. Il fabbro sbraitava per la sentenza dei giudici, e tante ne disse che stavano per arrestarlo; ma il Vicerè non lo permise perché aveva nelle mani la lettera del Re e temeva qualche guaio serio. Il Principino, intanto, a tutti gli sfoghi del suo benefattore, rispondeva invariabilmente con le parole della madre : - Ci vuol pazienza, costanza e fermezza ! - Ma che pazienza ! - gridò una volta il fabbro. - Te lo faccio vedere io che cosa ci vuole! - E vende l'ultima casetta che possedeva con la bottega e tutto, e se ne va in Ispagna di nuovo. La moglie, che fino a quel momento non s'era lagnata e le era parso tutto giusto quel che il marito aveva fatto per il Principino, quando vide chiuder la bottega e dovette lasciar la casa, divenne una vipera. - Mio marito è pazzo ! - diceva a chi non voleva sentirla - è pazzo da legare! S'è mai veduto che un padre dia fondo a tutto quello che ha, riducendo la famiglia alla miseria, per far valere i diritti di uno che non è neppur suo parente ? Ecco qui, la nostra Angelina, non per vantarmi, era la ragazza più ricca di tutto il rione, e ora ha appena la camicia ! Chi se la piglierà così nuda bruca ? Nessuno. Ed ella ci rimprovererà sempre di averla sacrificata. - Non lo farò mai, mamma, - disse la fanciulla. - Io sono felice e non mi dispiace punto di non trovar marito. Sto bene così. Non vi pentite di quel che avete fatto per il Principino; io vorrei col mio lavoro, aiutarlo.- Angelina era abilissima nel fare ricami sulla tela, riproducendovi cacce, cortei reali e tante altre cose, che davano un pregio singolare alla biancheria. Ella si mise a lavorare e lavorava per le nobili dame e guadagnava tanto da campare sè e la madre mentre il fabbro viaggiava per la Spagna. Il Principino s'era rimesso a lavorare pure, e così la moglie del fabbro non mancava di nulla. Ecco che il fabbro sbarca a Barcellona, giunge a Madrid e si presenta al Re. - Maestà, il Vicerè di Sicilia ne fece un bel conto della vostra lettera ! - II Re si turbò. - Che sentenza hanno pronunziato i giudici ? - domandò. - Una bella sentenza ! Hanno dichiarato che l' abate ha tutto il diritto di valersi dei beni del principe di Cattolica e che il Principino è un truffatore. E l' abate se la gode nel palazzo e il Principino tira il mantice e suda a battere da mane a sera il ferro sull'incudine ! - Al Re vennero i brividi nel sentir questo. Poi incominciò a gridare e a battere i piedi. Prese la corona e la scaraventò contro il muro dicendo : - Che mi vale questa corona se non sono Re in Palermo ? - Poi prese lo scettro e lo scaraventò in terra dicendo : - A che mi vale questo scettro se non comando nulla in Sicilia e i giudici comandano più di me? - Poi prese il manto d'ermellino e lo strappò tutto, dicendo : - A che mi vale questo manto mentre nel mio Regno mi contano quanto Pulcinella ? - II fabbro, nel vederlo così infuriato, credeva che se la sarebbe presa anche con lui e l'avrebbe mandato a marcire in qualche prigione o a remare su qualche galera. Invece il Re, tutto buono si volse a lui e, mettendogli in mano una borsa piena di doppie d'oro, gli disse : - Andate a Palermo e udrete di gran notizie! - Il pover uomo ringraziò ed uscì lesto lesto. Più presto che potè s'imbarcò su una nave che faceva vela per la Sicilia e con quelle doppie d'oro rabbonì la moglie e levò il Principino da battere il ferro sull'incudine e da limare chiavi e toppe. Ma torniamo al Re. Subito subito fece chiamare un suo fido servitore. - Don Josè, - gli disse - io debbo partire per un lungo viaggio, ma non voglio partire da Re. Qui farete credere che sono all'Escurial a far gli esercizi religiosi e che non voglio esser disturbato, avete capito ? - Maestà, sì. - Procuratemi un vestito da abate, ma vecchio e bisunto, tagliatemi i baffi, fatemi la chierica.... - Don Josè credeva che il Re fosse impazzito. - Presto, don Josè, andate e stasera portatemi il vestito che v'ho chiesto. Non vi movete? Sono o non sono il rè di Spagna, d'Aragona, di Castiglia, di Leone, di Sicilia e del Nuovo Mondo ? Il discendente di Ferdinando e d'Isabella di Castiglia, sono o non sono Carlo V re e imperatore ? - Sì, Maestà, siete il più potente sovrano del mondo e sui vostri domini non tramonta mai il sole; ma appunto per questo, mi pare che l' etichetta richieda che il Re ne' suoi viaggi sia accompagnato.... - Al diavolo l' etichetta e tutto il resto, obbedite ! - E don Josè obbedì e la sera stessa portò il vestito da abate al suo Sovrano e dovette tagliargli i fieri baffi, la barbetta prepotente e col rasoio fargli una bella chierica nel centro della testa. Così trasformato il Re uscì dal Palazzo Reale di Madrid senza esser riconosciuto da nessuno, montò un ronzino, procurategli pure da don Josè e su quello pian piano percorse solo le strade maestre del suo Regno, accorgendosi che molte cose andavano male, che molte altre non erano come gli davano ad intendere ministri e cortigiani, e s' imbarcò finalmente a Barcellona. Una burrasca gettò la nave sulle coste di Trapani, dove il Re comprò un mulo e su quello si avviò alla capitale dell' isola. Ma se le cose andavano male in Ispagna, andavan peggio in Sicilia. Strade non ce n'erano, le campagne erano incolte e deserte, e il Re fu fermato tre volte nel viaggio dai malandrini. I primi gli presero la borsa con le monete d'oro, i secondi il mulo, i terzi, non potendo prendergli altro, gli levarono le scarpe con le fibbie d' argento, il mantello e l'abito talare, cosicché dovette fare il viaggio a piedi e scalzo e senza nulla che lo riparasse dal freddo e dalla pioggia. Figuriamoci che umore avesse quando pose finalmente il piede nella sua fedele città di Palermo. Se gli fosse capitato davanti il Vicerè che governava in suo nome, lo avrebbe per lo meno mandato alla forca. Fortuna che sapeva l' indirizzo del fabbro e andò a trovarlo! Il brav'uomo lo riconobbe subito e lo ristorò, lo calzò e lo vestì, altrimenti il Re sarebbe morto di fame ne' suoi felicissimi Stati. Il fabbro tempestò, fece l'ira di Dio perché di nuovo il Tribunale discutesse la causa e la discusse. Il Re quel giorno era nell'aula vestito da misero abate. A. un certo momento s'accorse che un giudice faceva una soperchieria, e pian piano disse : - Ma perché, signor giudice, non usate giustizia? - Ah, padre abate, occupatevi dei fatti vostri ! Se non ve ne andate, vi tiro il calamaio ! - II Re non voleva altro. Si sbottona la tonaca, si apre il colletto della camicia e fa vedere il Toson d'oro. I giudici rimasero come morti. - Giudici infami, - esclamò il Re drizzandosi - così vendete la giustizia ? Ordino e comando che subito questi cinque furfanti siano legati alle code dei cavalli e trascinati per la città. Voglio che il popolo veda che le loro ingiustizie, le loro infamie non sono approvate dal Re. - Subito questi giudici furono presi, legati alle code di focosi cavalli, trascinati per le strade e in un battibaleno erano bell'e morti. Poi furono squartati, scorticati e con la pelle dei giudici il Re fece fare tanti seggi e su questi seggi ordinò che sedessero sempre i giudici quando dovevano giudicare e condannare, perché non dimenticassero quel che era capitato ai loro predecessori. Il perfido abate perdette la causa e finì la vita in una prigione, e il Principino fu reintegrato nei suoi titoli e nei suoi beni e per riconoscenza sposò Angelina, la figlia del fabbro. Il Re fece alla sposa doni sontuosi e volle che le nozze fossero celebrate nella cappella Palatina, nel Palazzo Reale. Il Vicerè, poveretto, la passò brutta e così tutti i funzionari che governavano l' isola a nome del Re, il quale, facendo giustizia, si acquistò l' amore e la riconoscenza dei Siciliani. Il principe di Cattolica gli fece fare una statua che fu messa di fronte alla casa del presidente Airoldi nel Vicolo degli Agonizzanti. Il vicolo prese il nome di Cortile del Re, e la strada per la quale furon trascinati i giudici rei, fu chiamata la Calata dei Giudici e così si chiama ancora. Angelina e il Principe furono felici e contenti e lei fu Viceregina e il Principe Vicerè dell'isola per anni e anni.

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