Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abate

Numero di risultati: 22 in 1 pagine

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La tecnica della pittura

253650
Previati, Gaetano 8 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
  • UNIFI
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Pagina 278

Lo spagnuolo abate Requeno, soggetto, dice il Lanzi, nel quale si accoppiavano le qualità richieste a disaminare e promuovere la nuova scoperta: «intelligenza di letterato, pratica di pittore, raziocinio di filosofo e pazienza di esperimentatore», prese occasione da questo stato di animi e dalle considerazioni suggeritegli dai vari sistemi di pittura encaustica che dalla Francia facevano capolino in Italia, per tentare le prove che diffusamente esplicò nei suoi Saggi sul ristabilimento dell antica arte dei greci e dei romani pittori, libro corso per le mani di tutti.

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Bachellière che in parte corrispondono colle prime ricerche dello stesso abate Requeno, è così tipico, in fatto di ricette pittoriche, il caso toccato all’erudito abate, che vale la pena di riferire le sue stesse parole: «Leggonsi più piacevolmente i quattro metodi di dipingere all’encausto di M. Bachellière, due dei quali furono rigettati dall’Accademia; ma il terzo premiato ed encomiato col quarto, il quale è una diversa applicazione del terzo. Io però non posso contenermi in questo luogo senza lagnarmi duramente dell’estensore dell’articolo, perchè o per trascuraggine o per mancanza d’intelligenza dell’argomento, tralasciò qualche circostanza necessaria onde poter rendere praticabile il vantato metodo dello scioglimento delle cere. Contro il suddetto articolo opporrò le mie replicate esperienze, senz’animo però di tacciare nè l’Accademia nè il signor Bachellière, giacchè non è punto credibile l’impostura in un uomo onesto, nè la sorpresa negli accademici più illuminati. Io ho fatto per sei volte la prova in diversi tempi del 30 premiato metodo del signor M. Bachellière, avendo in mano l’ultima volta per non mancare di un jota l’articolo copiato fedelmente dall’Enciclopedia, ove è scritta e lodata l’operazione del suddetto autore. Incominciai prima a scaldare l’acqua naturale in un pignattino di terra verniciata e nuovo, poi la satollai di sal tartaro e facendola sgocciolare per carta grigia, vi gettai pezzetti di cera bianca e vergine, i quali con la spatola d’avorio, come si prescrive, mischiai in maniera tale sulle bragie che fecero all’occhio una calda saponata; l’esperienza procedeva benissimo, ma la mescolanza di cera e sal tartaro raffreddata fu tanto lontana dal diventare facile e solubile nell’acqua fresca, come doveva, che tutt’all’opposto acquistò una tale resistenza e durezza quali da sè non ha mai la sola cera. Tornai una o più volte a fare accuratamente la esperienza provvedendomi in diverse officine del sale di tartaro e fino di cremor tartaro: con ambedue questi sali feci separatamente la prova ma senza profitto: ultimamente chiamando due amici, i quali avrei sommamente a grado di poter nominare, sì per dare più peso alle mie asserzioni colla testimonianza di due persone profondamente instrutte nella lettura di sì fatte esperienze, come per dare la meritata lode ai loro talenti, li chiamai, dissi, acciocchè attentamente osservassero, quanto io era nuovamente per eseguire; dopo avere dunque uno di loro letto meco l’articolo «encaustique» dell’Enciclopedia, e con singoiar attenzione il tratto del terzo premiato metodo, del quale feci io un transunto: avendolo io in mano a fine di notare se mancava in qualche picciola circostanza; tomai sotto i loro occhi e col loro ajuto a replicare tutte le operazioni; ed essi puts trovarono la cera raffreddata tanto lontana dal diventare solubile che l’uno degli assistenti amici disse, maneggiandola certo con la spatola, che gli pareva più consistente di prima. Onde conchiusi che l’estensore dell’articolo non aveva data notizia di tutte le circostanze, da riuscire nello scioglimento della cera ».

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La sua composizione, due parti di cera e cinque di mastice o pece greca, oppure tanta cera quanto mastice e colore sufficiente per poterle impastare, non attecchì più degli altri encausti a base di saponi e di oli essenziali, e l’erudito abate sarebbe stato assai mortificato se avesse saputo che a non tanto tempo da lui si sarebbe impiegato il suo composto pel restauro... degli affreschi!

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Racconti 3

662745
Capuana, Luigi 4 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Oh, d'aspetto, bell'asino alto, robusto, di magnifico pelame, da scambiarsi con uno di quei famosi di Pantelleria, ma cosí testardo, cosí capriccioso, cosí maligno tiratore di calci e morsicature che il povero abate, cavalcandolo, si raccomandava l'anima a Dio. - Voscenza l'ha viziato! - gli diceva la mezzadra. E lui le credeva, in buona fede. Come mai avea potuto viziarlo, se gli avea sempre lasciato fare quel che voleva? Pareva che il triste animale si divertisse a dargli fastidio, e con tale malizia, Signore benedetto! Per un po' di strada trottava tranquillo, con le orecchie ritte, la testa alta quasi orgoglioso di portare addosso un buon servo di Dio. Ma al primo ciuffo di erba che incontrava lungo lo stradone eccolo fermo a brucare, quasi non avesse la pancia già piena di orzo e di paglia! Invano il povero abate lo tirava per la briglia, gli batteva i fianchi coi tacchi degli stivali, giacché non usava sproni; l'asino faceva il comodo suo. E finito quel delizioso pasto, si metteva a ragliare, a ragliare, a far la giravolta, a caracollare, ad andare avanti e indietro prima di avviarsi verso il fondo di cui ben conosceva la strada. Arrivato però al punto dove la viottola biforcava, l'asino prendeva a sinistra invece che a destra, ostinatamente impegnando una lotta con l'abate che tirava invano la briglia. Salti, ragli, giravolte, sgambetti, fino a che qualche contadino che passava, presolo pel morso, non lo metteva su la giusta strada. - Questo, domine, non è animale per voi -. Glielo ripetettero tante volte, che all'ultimo l'abate «Castagna» si decise a disfarsene. Accompagnato dal mezzadro, lo condusse alla fiera di Belverde e là, tra la calca della gente e delle centinaia di bestie, attese che si presentasse un compratore. L'asino attirava gli occhi. Si sarebbe detto che volesse invitar le persone ad acquistarlo, cosí altero teneva il collo, cosí ritte le orecchie, cosí impazientemente agitava la coda. Il mezzadro, tra parecchi fermatisi a osservare l'animale, ne tesseva l'elogio: - Forte come un mulo, vivace come un cavallo. Infaticabile, e poi cosí manso da potersi affidare a un bambino! - Lo tastava, gli passava la mano su la schiena quasi a fargli maggiormente rilucere il pelo, lo faceva spasseggiare su e giú per far risaltare le belle gambe asciutte, gli tirava in su le labbra perché ne osservassero la dentatura e si convincessero dell'età, quattr'anni appena. L'abate, con gli occhiali verdi e l'ombrello rosso aperto per ripararsi il sole, stava là, tenendo abbassati gli occhi e stringendo le labbra. Sembrava mortificato di tutti quegli elogi alla sua bestia e prestava attento orecchio alla discussione impegnata intorno al prezzo con uno che finalmente si era deciso a concludere il negozio. - Dieci once! In parola di onore è regalato! - Facciamo otto, compare! - Né la vostra né la mia parola: - disse il mezzadro - otto once e quindici tarí! Ecco il padrone; potete contargli il danaro -. L'abate «Castagna» alzò gli occhi, aperse le labbra a un dolce sorriso e fece atto di voler parlare - Ah! - esclamò il compratore. - Neppure un grano di piú! - Sta bene, sta bene. Debbo però avvertirvi ... - Niente! - replicò l'altro. - Lasciatemi dire. Per scrupolo di coscienza debbo però avvertirvi ... - Voscenza intaschi il danaro. Oramai il contratto è concluso, come davanti a notaio, con questi testimoni - disse il mezzadro. - Va bene - replicò l'abate. E preso pel petto della giacca il compratore lo tirò in disparte. - Sentite: è vero, l'asino è forte, infaticabile, ma quanto ad esser manso! ... Sentite: per scrupolo di coscienza debbo avvertirvi che, invece, è caparbio, capriccioso, morditore, tiratore di calci, intrattabile ... Se ora vi conviene ... - E quel pezzo d'imbroglione ... ! - Dovettero mettersi in mezzo i testimoni per impedire che colui non si azzuffasse col mezzadro. E l'asino quasi volesse schernire il padrone, si diè a ragliare, tra le risate della gente. Da che il Signore si era portata via in Paradiso suor Celeste, l'abate «Castagna» tra i mezzadri che lo spogliavano a man salva e i finti poveri che trovavano molto comodo il vivere alle sue spalle andando a lamentargli miserie in casa da mattina a sera, spesso spesso digiunava anche senza averne l'intenzione. Il prevosto, che era uomo di mondo e gli voleva un po' bene, alla sua maniera, lo ammoniva tutti i giorni, in sacrestia: - Santo, sí, diventate pure santo; ma sciocco, neppure un santo dev'essere sciocco! I poveri, la carità, non dico di no; i poveri sono fratelli di Gesú Cristo ... Ma bisogna distinguere. Io, prima di dare un grano di elemosina, ci penso su due volte, se chi la chiede se la merita, o no, davvero. Ci sono poveri che se la scialano meglio di voi e di me. E dico voi, cosí, per dire. Vi siete ridotto uno scheletro. E i vostri mezzadri sono grassi che scoppiano, e comprano buoi e fondi ... Voi tenete gli occhi fissi al cielo ... Abbassateli un po' e guardate attorno ... Santo sí; sciocco, no! Picchia oggi, picchia domani, l'anima ingenua dell'abate «Castagna» cominciò ad entrare in diffidenza di sé e degli altri. - Consigliatemi voi, signor prevosto! - Il prevosto lo squadrò da capo a piedi quasi volesse pesarlo e scrutarlo dentro; poi rimase un momento pensoso. Non era uomo di mondo per niente; correva voce che facesse anche lo strozzino; ma allora pensava di trar d'impiccio quel povero sciocco pur proponendogli un affare. - Dovreste fare un vitalizio. - Con chi, Dio mio? - Con me, se non vi dispiace. Stima di beni, calcoli giusti; la casa, da abitarvi fino alla morte. Venite a trovarmi, piú tardi, dal notaio Stella; ne riparleremo con comodo. Il paradiso ve lo siete già guadagnato; ve lo sareste guadagnato anche con meno. Dovete mutar vita. Santo, sí; ma sciocco, no! Datemi retta! - Povero abate «Castagna»! non gli erano riusciti i matrimoni, non gli era riuscito bene neppure il darsi a Dio facendosi prete! Forse non gli sarebbe riuscito neppure il vitalizio, ora che intendeva mutar tenore di vita. Santo non osava credersi; gran peccatore anzi, egli si umiliava innanzi a Dio! Sciocco però era stato ed era! Se ne accorgeva forse troppo tardi! E durante molte nottate, non potendo pigliar sonno, avea fantasticato di servirsi del vitalizio per quel po' che occorreva ai suoi ristretti bisogni, e accumulare il resto per fondare una buon'opera di carità, se il Signore gli dava la vita. Lo ripeté al prevosto, firmato l'atto: - Se il Signore mi darà vita! - Il Prevosto, dentro di sé, aveva detto: - Speriamo di no! - Ma il Signore, per punirlo, allungò gli anni all'abate «Castagna», che rimase un bravo sacerdote, se non fu un santo, e non si macerò piú con digiuni e penitenze per divenirlo a ogni costo. Ingrassò anzi, diventò proprio una castagna, quasi per onorare il suo nomignolo, non ostante che il prevosto lo guardasse ogni giorno con certi occhiacci da buttargli un maleficio addosso! E ogni sei mesi, quando l'abate gli si presentava per esigere la mezza rata del vitalizio, il prevosto lo guardava sbalordito, quasi non potesse credere ai suoi occhi e stentasse a riconoscere in quella vescica piena di sugna - com'egli diceva - il misero corpicciolo che lo aveva tratto in inganno. - Sempre piú grasso! - e pareva ringhiasse. - Per grazia di Dio! - rispondeva umilmente l'abate «Castagna». - Mangiate troppo! Vi prenderà qualche accidente, Badate! Vi si è fin raccorcito il collo! Cattivo segno! Badate! - Voleva impaurirlo, mettergli questa pulce nell'orecchio. - Siamo qua! Quando il Signore ci chiama ... - E l'abate intascava cheto cheto i quattrini. Parve che Domeneddio si divertisse a fare un dispetto a quello strozzino di prevosto! Chiamò prima lui, non si sa se in paradiso o all'inferno, e, otto giorni dopo, l'abate «Castagna» certamente in paradiso.

. - No, caro abate, - rispose il dottor Maggioli. - Lo scimmione morí ... di amore, sentimentalmente; e, forse, compose dei versi come un trovatore o un poetino qualunque; ma li compose nel suo linguaggio e nessuno li capí! - Dottore! Vuol darcela a ingoiare troppo grossa! - Niente affatto, baronessa! Era avvenuto quel che il professore Schitz avea divinato. Poiché la scatola cranica non opponeva piú resistenza, la massa cerebrale avea potuto facilmente aumentare di volume, di circonvoluzioni, e le sensazioni da esse tramandate ai nervi, vi si trasformavano in sentimenti, in maniera primitiva, s'intende. E cosí il povero scimmione, dopo quattro o cinque mesi, libero dalla cuffia e dall'impiastro, si trovava trasformato (prego lor signori di non ridere quantunque la cosa sembri ridicola) in innamorato sentimentale ... E di chi? Della vecchia serva! La guardava con occhiate cosí languide, le indirizzava certi gridi d'intonazione cosí raddolcita quando la vedeva andare per la terrazza ed innaffiar i fiori, a sciorinare la biancheria su le cordicelle tese da un capo all'altro; l'accarezzava cosí delicatamente ora ch'ella aveva ripreso a spulciarlo, da non potersi dubitare di quel che avveniva dentro il cervello del povero animale. I maschi delle scimmie - è notissimo - non sono molto riserbati nelle dimostrazioni dei loro istinti amorosi. E lo sapeva pure la vecchia serva del professore che spesso era scappata via facendosi il segno della santa croce, come davanti all'apparizione d'un demonio ... Ma ora lo scimmione del professore Schitz era mutato. Appariva proprio un innamorato sentimentale; prendeva pose da rêveur , col dito d'una delle sue mani appoggiato alla guancia, con la testa inclinata tristamente da un lato. La vecchia, appunto perché bruttissima, era il suo ideale di bellezza: né poteva averne altro naturalmente, da quello scimmione che era. «E ha avuto un nuovo grido, un nuovo suono, una nuova parola! - esclamava trionfalmente il professore. - È la sua dichiarazione di amore». Dichiarazione che rimaneva inascoltata perché, dopo che il professore aveva detto alla vecchia: «Lo scimmione è innamorato di te!» la vecchia non voleva piú saperne di dargli le solite cure. E il poveretto languiva, languiva come un innamorato sentimentale qualunque. E un giorno ... «Mi pento di aver sperimentato su questo povero animale - ripeteva il professore Schitz, vedendolo morire di consunzione. - Pur troppo, aumento d'intelligenza apporta aumento di dolori! Se avessi potuto prevedere!» E non seppe prevedere neppure quel che seguí. Un giorno - è certo - lo scimmione, disperato di non veder corrisposto il suo amore, fece come tutti gli innamorati violenti: si suicidò strozzandosi con la catena che lo teneva legato. Il professore Schitz ne fu inconsolabile -.

- E fuori di ogni miracolo, caro abate, se per miracolo lei intende la sovversione delle leggi della natura. Grandissimo miracolo certamente, maggiore di tutti quelli operati dalla scienza finora, se può e dee chiamarsi tale il costringere il nostro organismo a una funzione che la natura, non sappiamo perché (forse perché glien'ha regalate altre piú nobili e piú eccelse) ha conservato e riserbato per organismi inferiori nella scala degli esseri. - Ma, insomma ... Non ci tenga piú su la corda! - disse la baronessa. - Avevamo studiato medicina insieme nell'università di Bologna; io per campar la vita; egli, ricchissimo, pel solo gusto di studiare. E studiava seriamente, assai piú di noi che chiedevamo alla professione il nostro futuro sostentamento. Dopo la laurea, io ero stato nominato medico condotto in un paesetto dell'Umbria; egli aveva continuato ad approfondirsi nella fisiologia con intensa passione. Da vent'anni non sapevo piú notizie del mio collega, quando, al mio ritorno dall'America, c'incontrammo in ferrovia. Mi riconobbe lui. Io non avrei indovinato l'antico condiscepolo, bel giovane biondo, in quell'uomo maturo, precocemente incanutito e invecchiato, che mi sedeva in faccia in uno scompartimento di seconda classe. Fu una festa per tutti e due. E allora, tra tante altre cose, egli mi disse: «Vent'anni addietro ho fatto un sogno che non ho potuto piú levarmi di mente. Mi è sembrato che c'era da cavarne qualche cosa di grande, se fossi stato un Newton, un Galileo, un Volta. Ma sono un povero dilettante di fisiologia. Pure, ho avuto l'orgoglio di tentare ... Non si sa mai!» Aveva sognato di star a sedere nel suo studio. Tutt'a un tratto gli era venuto l'impulso di alzar le gambe, di accostarle, orizzontali ... e si era sentito portar via per la stanza in quella posizione, con le gambe ben tese, e aveva potuto fare il giro della stanza, sollevarsi fino al soffitto, ridiscendere, risalire, leggero come una piuma, sbalordito del fatto che non gli pareva sogno ma realtà. E nel sogno aveva pensato: «Ecco una maravigliosa scoperta che non è passata per la mente a nessun scienziato!» Giacché aveva pure capito in che modo lo stupefacente fatto fosse avvenuto. «Ho avuto l'orgoglio di tentare, e sono quasi riuscito» concluse. Lo guardai negli occhi, dubitando, ve lo confesso, dello stato normale della sua intelligenza. Egli capí, sorrise, e m'invitò ad andare a trovarlo nella sua villa, presso Cento. «Vivo solo colà, da anni, come un eremita. Questa è la prima volta che comunico a qualcuno il gran problema che mi occupa e che credo già vicino ad essere risoluto vittoriosamente. Mi prometti di venire?» «Se credi - risposi - posso venire anche ora». La sua serietà mi aveva scosso, e la mia vivissima curiosità e il mio dubbio non volevano frapporre tempo in mezzo per convincersi se quella che nel mio interno qualificavo fissazione di allucinato, fosse o no proprio tale. Il tentativo di Piero Baruzzi, ripensandoci, non mi sembrava assurdo. Egli partiva dal fatto notissimo che il feto umano, nei primi stadi di formazione, somiglia a quello del pesce, poi del cane ... Dunque ha organi che, nella compiuta trasformazione in feto umano, si arrestano nel loro sviluppo, si atrofizzano, o si mutano in organi con funzione diversa. Che cosa diviene nel nostro corpo la vescica natatoria del pesce? Polmoni, organi di respirazione, dicono i fisiologi. Ma la trasformazione cancella ogni vestigio della primitiva funzione? Piero Baruzzi ha concluso di no; e il fatto ha confermato, riguardo alla vescica natatoria, la divinazione di lui. I polmoni sono poi davvero la trasformazione di quella vescica, o essa sussiste ancora, atrofizzata, resa inutile dal mezzo in cui l'uomo è destinato a vivere? Piero Baruzzi ha speso, coraggiosamente, ostinatamente, i migliori anni della sua vita in questa ricerca. Non posso entrare a discorrere, con particolari minuti, dei suoi difficilissimi studi. Io passavo di stupore in stupore, nel suo laboratorio, in quella villa solitaria posta in cima alla collina e circondata da macchinosi alberi di ulivi e di querce, stando ad ascoltare la chiara ed efficace esposizione dei suoi lunghi studi, dei suoi scoraggiamenti, delle sue gioie di scopritore fortunato. Ma il quasi sovrumano non furono in lui la pazienza, la precisione delle ricerche, il silenzio di tanti anni. Occorreva provare e per ciò trovare un soggetto su cui tentare il miracolo - la parola mi viene spontaneamente alle labbra - di sviluppare nel corpo umano quell'organo atrofizzato e in guisa da permettergli di manovrare nell'aria, come i pesci nel mare; di ridurre l'aria veicolo da eguagliare l'acque marine. Provò sopra di sé, in che modo non saprei dire, ma certamente martirizzando il suo povero corpo con operazioni dolorosissime, con tagli chirurgici, con mezzi che misero piú volte a repentaglio la sua nobile vita. Ed io lo vidi, con questi occhi, sollevarsi per aria, con le gambe riunite orizzontalmente, quasi servissero da timone; non ancora capace di attingere grandi altezze, capacissimo però di muoversi agevolmente in tutte le direzioni, quasi il suo corpo avesse perduto il peso ordinario ... E la prima volta credevo di essere in preda a un'allucinazione, suggestionato dalla sua eloquente parola, dalla strana evidenza del suo paradosso. Volle che giurassi di mantenergli il segreto, e di attendere che quella scoperta avesse raggiunto la perfezione. Ormai era sicuro del fatto suo. Quando lasciai la villa, Piero Baruzzi non mi sembrava piú un uomo, ma un Dio! Passarono altri cinque anni. Un giorno, finalmente, ricevei un suo laconico biglietto: «Vieni; faremo una gran prova all'aria aperta. Ti attendo per giovedí prossimo». Disgraziatamente quel giorno non potei andare e non fui in tempo di avvisarlo che sarei arrivato da lui il giorno dopo. Egli non attese. E la mattina di quel giovedí, alcuni contadini che lavoravano un campo là vicino videro librato in aria, a grande altezza, un animale mostruoso che andava, veniva, facendo ghirigori nello spazio, scotendo certe strane ali ... Egli, per ripararsi dal freddo, aveva indossato un mantello, e il vento e l'aria smossa ne agitavano le ampie falde ... Uno di quei contadini, spinto dall'idea di guadagnarsi un bel premio, vendendo lo sconosciuto uccello a un museo, spianò il fucile da militare che aveva là a portata di mano ... E il povero Baruzzi, colpito al ventre, precipitò giú, sfracellandosi il capo sur un masso. La sua mirabile scoperta era morta con lui! -

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 9 occorrenze

Don Clemente celebrò messa verso le sette, parlò coll' Abate e poi si recò all' Ospizio dei pellegrini. Trovò Benedetto addormentato con le braccia in croce sul petto, le labbra socchiuse, il viso composto a una visione interna di beatitudine. Gli accarezzò i capelli, lo chiamò sottovoce. Il giovine si scosse, alzò, smarrito, il capo, balzò dal letto, afferrò e baciò la mano a don Clemente che la ritrasse con un impeto di umiltà frenato subito dal suo pudore d'anima, dalla coscienza dignitosa del suo ministero. "Dunque?" diss'egli. "Il Signore ti ha parlato?" "Sono nella Sua volontà" rispose Benedetto "come una foglia nel vento. Come una foglia che non sa niente." Il monaco gli prese il capo a due mani, lo attirò a sé, gli posò le labbra sui capelli, ve le tenne a lungo in una silenziosa comunicazione di spirito. "Devi andare dall' Abate" diss'egli. "Dopo verrai da me." Benedetto lo fissò, lo interrogò senza parole: perché questa visita? Gli occhi di don Clemente si velarono di silenzio e il discepolo si umiliò in uno slancio muto ma visibile di obbedienza. "Subito?" diss'egli. "Subito." "Posso lavarmi al torrente?" Il Maestro sorrise: "Va, lavati al torrente." Lavarsi all'acqua che talvolta, per abbondanza di pioggie, suona nella valle Pucceia a levante del monastero e taglia di rigagnoli la via del Sacro Speco sotto Santa Crocella, era il solo piacere fisico che Benedetto si concedesse. Piovigginava; nebbie fumavano lente nel vallone alto, le tremole acque tenui si dolevano a Benedetto fuggendo attraverso la via, gli tacevano contente nel cavo delle mani, gl'infondevano per la fronte, gli occhi, le guance, il collo, fino al cuore, un senso della loro anima casta, dolce, un senso di bontà Divina. Benedetto si versò l'acqua sul capo largamente, e lo spirito dell'acqua gli alitò nel pensiero. Sentì che il Padre lo avviava per novo cammino, che ve lo avrebbe portato nella Sua mano potente. Benedisse riverente la creatura per la quale gli si era infuso tanto lume di grazia, l'acqua purissima; e ritornò all' Ospizio. Don Clemente, che lo attendeva nel cortile, trasalì al vederlo; tanto gli parve trasfigurato. Sotto la Selva umida dei capelli in disordine gli occhi avevano una quieta gioia celestiale, e lo scarno viso di avorio una spiritualità occulta quale fluiva dai pennelli del Quattrocento. Come poteva quel volto accordarsi con gli abiti contadineschi? Don Clemente si applaudì in cuor suo di un pensiero concepito nella notte e già espresso all' Abate: dare a Benedetto un vecchio abito di converso. Prima di concedere o rifiutare il proprio consenso, l' Abate voleva vedere Benedetto, parlargli. L' Abate aspettava Benedetto suonando un pezzo di sua composizione con le nocche delle dita, e accompagnando il suono con diabolici storcimenti delle labbra, delle narici, delle sopracciglia. Udito bussar discretamente all'uscio, non rispose né tralasciò di suonare. Terminato il pezzo, lo ricominciò, lo suonò una seconda volta da capo a fondo. Poi stette in ascolto. Fu bussato ancora, più lievemente di prima. L' Abate esclamò: "Seccatore!" E, strappati alcuni accordi, si pose a fare delle scale cromatiche. Dalle scale cromatiche passò agli arpeggi. Poi stette ancora in ascolto, per tre o quattro minuti. Non udendo più nulla, andò ad aprire, vide Benedetto che s'inginocchiò. "Chi è costui?" diss'egli, ruvido. "Il mio nome è Piero Maironi" rispose Benedetto "ma qui al monastero mi chiamano Benedetto." E fece l'atto di prender la mano dell' Abate per baciarla. "Un momento!" disse l' Abate, accigliato, ritraendo e alzando la mano. "Cosa fate qui?" "Lavoro nell'orto del monastero" rispose Benedetto. "Sciocco!" esclamò l' Abate. "Domando cosa state facendo qui davanti alla mia porta!" "Ero per venire da Vostra Paternità." "Chi vi ha detto di venire da me?" "Don Clemente." L' Abate tacque, considerò lungamente l'uomo inginocchiato, poi brontolò qualche cosa d'incomprensibile e finalmente gli porse la mano a baciare. "Alzatevi!" diss'egli ancora brusco. "Entrate! Chiudete l'uscio!" L' Abate, entrato che fu Benedetto, parve dimenticarlo. Inforcò gli occhiali, si pose a sfogliare libri e a leggere carte, voltandogli le spalle. Benedetto aspettava diritto in piedi, con ossequio militare, ch'egli parlasse. "Maironi di Brescia?" disse l' Abate, con la voce ostile di prima e senza voltarsi. Avuta la risposta, continuò a sfogliare e a leggere. Finalmente si levò gli occhiali e si voltò. "Cosa siete venuto a fare" diss'egli "qui a Santa Scolastica?" "Sono stato un gran peccatore" rispose Benedetto. "Iddio mi ha chiamato fuori del mondo e fuori ne son venuto." L' Abate tacque un momento, guardò fisso il giovine, disse con dolcezza ironica: "No, caro." Trasse la tabacchiera, la scosse ripetendo dei piccoli "no - no - no" quasi sotto voce, guardò nel tabacco, vi piantò le dita e levati gli occhi da capo su Benedetto, gli disse articolando lentamente le parole: "Questo non è vero." Ghermita la presa con il pollice, l'indice e il medio, alzò la mano rapidamente come per gettar il tabacco in aria e proseguì con il braccio alzato: "Sarà vero che siete stato un gran peccatore, ma non è vero che siate venuto fuori del mondo. Non siete né fuori né dentro." Fiutò rumorosamente la sua presa e ripeté: "Né fuori né dentro." Benedetto lo guardava senza rispondere. Vi era in quegli occhi qualche cosa di tanto grave e di tanto dolce che l' Abate riabbassò i suoi alla tabacchiera aperta, tornò a frugarvi, a giocherellare col tabacco. "Non vi capisco" diss'egli. "Siete nel mondo e non siete nel mondo. Siete nel monastero e non siete nel monastero. Ho paura che la testa vi serva come a vostro bisnonno, a vostro nonno e a vostro Padre. Belle teste!" Il viso di avorio di Benedetto si colorò lievemente. "Sono anime in Dio" diss'egli "Superiori a noi; e le parole Sue vanno contro un comandamento di Dio." "Fate silenzio!" esclamò l' Abate. "Dite di avere lasciato il mondo e siete pieno del suo orgoglio. Se volevate lasciare il mondo sul serio, dovevate cercare di farvi novizio! Perché non l'avete cercato? Avete voluto venir qua in villeggiatura, ecco la storia. O forse avevate degl'impegni a casa vostra, dei pasticci, mi capite! Nec nominentur in nobis. E avete voluto liberarvi per farne poi degli altri. E contate delle frottole a quel buon don Clemente, prendete il posto a un povero pellegrino, eh dite su, magari cercando di darla a intendere ai frati, che è facile, e a Domeneddio, che è difficile, con orazioni e sacramenti. Non dite di no!" Il lieve rossore si era dileguato dal viso di avorio, le labbra apertesi un momento a parole pacatamente severe non si muovevano più, gli occhi penetranti fissavano l' Abate con la dolce gravità di prima. E l' Abate parve inasprito da quel silenzio tranquillo. "Parlate, dunque!" diss'egli "Confessate! Non vi siete anche vantato di doni speciali, di visioni, che so io, di miracoli forse anche? Siete stato un gran peccatore? Mostrate che non lo siete ancora! Scolpatevi, se potete. Dite come avete vissuto, spiegate la vostra pretensione che Iddio vi abbia chiamato, giustificatevi di essere venuto a mangiare il pane dei frati a ufo, perché frate non avete voluto essere e quanto a lavorare avete lavorato ben poco!" "Padre" rispose Benedetto e il tôno severo della voce, la severa dignità del volto mal si accordavano con la mansuetudine umile delle parole, "questo è buono per me peccatore che da tre anni vivo, per lo spirito, nella mollezza e nelle delizie, vivo nella pace, vivo nell'affetto di persone sante, vivo in un'aria piena di Dio. Le Sue parole sono buone e dolcissime all'anima mia, sono una grazia del Signore, mi hanno fatto sentire con le loro punte quanto orgoglio vi è ancora in me che non lo sapevo, perché nel disprezzarmi da me sentivo piacere. Come servo, poi, della santa Verità, le dico che la durezza non è buona neppure con uno che inganna, perché forse la soavità lo farebbe pentire del suo inganno; e che nelle parole della Paternità Vostra non è lo spirito del nostro Padre solo e vero, al quale sia gloria." Nel dire "al quale sia gloria" Benedetto cadde ginocchioni, acceso in viso da un fervore augusto. "Sei tu, peccatore tristo, che vuoi fare il Maestro?" esclamò l' Abate. "Ha ragione, ha ragione" rispose Benedetto di slancio, affannosamente e giungendo le mani. "Ora Le dico il mio peccato. Desiderai l'amore illecito, mi compiacqui della passione di una donna ch'era d'altri come d'altri ero io e l'accettai. Lasciai ogni pratica di religione, non curai di dare scandalo. Questa donna non credeva in Dio e io disonorai Dio presso di lei colla mia fede morta, mostrandomi sensuale, egoista, debole, falso. Iddio mi richiamò colla voce dei miei morti, di mio Padre e di mia madre. Mi allontanai allora dalla donna che mi amava, ma senza vigore di volontà, ondeggiando nel mio cuore fra il bene e il male. In breve ritornai a lei, tutto ardente di peccato, conoscendo di perdermi e risoluto a perdermi. Non vi era più un atomo di volontà buona nell'anima mia quando una mano morente, cara, santa, mi afferrò e mi salvò." "Guardatemi bene" disse allora l' Abate senza farlo alzare. "Avete mai fatto sapere a nessuno ch'eravate qui?" "A nessuno. Mai." L' Abate rispose secco: "Non vi credo." Benedetto non batté ciglio. "Voi sapete" ripigliò l' Abate "perché non vi credo." "Lo suppongo" rispose Benedetto piegando il viso. "Peccatum meum contra me est semper." "Alzatevi!" comandò l'inflessibile Abate. "Io vi caccio dal monastero. Ora vi recherete a salutare don Clemente nella sua cella e poi partirete per non ritornare mai più. Avete inteso?" Benedetto assentì del capo, ed era per piegare il ginocchio all'omaggio di rito quando l' Abate lo trattenne con un gesto. "Aspettate" diss'egli. Rinforcò gli occhiali, prese un foglio di carta e vi scrisse, stando in piedi, alcune parole. "Cosa farete" disse scrivendo "quando sarete fuori?" Benedetto rispose piano: "Il bambino preso in braccia dal Padre mentre dormiva, sa egli cosa il Padre farà di lui?" L' Abate non replicò niente, finì di scrivere, pose il foglio in una busta, la chiuse, la tese, senza voltare il capo, a Benedetto che gli stava dietro le spalle. "Prendete" disse "portate a don Clemente." Benedetto gli chiese il permesso di baciargli la mano. "No, no, andate via, andate via!" La voce dell' Abate tremava di collera. Benedetto ubbidì. Appena fu nel corridoio udì l'uomo incollerito strepitare sul piano. Prima di entrare nella celletta di don Clemente, Benedetto si fermò davanti alla grande finestra che termina il corridoio. Ivi si era trattenuto, poche ore prima, il Maestro a contemplare i lumi di Subiaco pensando la nemica, la creatura di bellezza, d'ingegno, di naturale bontà, venuta forse a contendergli il suo figliuolo spirituale, a contenderlo a Dio. Ora il figliuolo spirituale era misteriosamente certo che la donna male amata da lui nel tempo del suo gravitare cieco e ardente sulle cose inferiori, aveva scoperto la sua presenza nel monastero e sarebbe venuta a cercarlo. Disceso dentro lo Spirito interno al proprio cuore, egli vi attingeva un pio sentimento del Divino ch'era pure in lei, ascoso a lei stessa, una mistica speranza che per qualche oscura via ella pure arriverebbe un giorno al mare di Verità eterna e di amore, che attende tante povere anime erranti. Don Clemente lo aveva udito venire e aperse a mezzo l'uscio della cella. Benedetto entrò, gli porse la lettera dell' Abate. "Debbo lasciare il monastero" diss'egli, sereno. "Subito e per sempre." Don Clemente non rispose, aperse la lettera. Letta che l'ebbe, osservò a Benedetto, sorridendo, che la sua partenza per Jenne era stata decisa fin dalla sera precedente. Vero, ma l' Abate aveva detto: per non ritornare mai più. Don Clemente aveva le lagrime agli occhi e sorrideva ancora. "Lei è contento?" disse Benedetto, quasi dolente. Oh, contento! Come avrebbe potuto dire il suo Maestro, quel che sentiva? Partiva il discepolo diletto, partiva per sempre, dopo tre anni di dolce unione spirituale; ma ecco, l'ascosa Volontà si era manifestata, Iddio lo toglieva dal monastero, lo chiamava per altre vie. Contento! Sì, afflitto e contento, ma della sua contentezza non poteva dire il perché a Benedetto. La parola Divina non avrebbe avuto valore per Benedetto s'egli non la intendeva da sé. "Contento, no" diss'egli. "In pace, sì. Noi c'intendiamo, vero? E adesso raccogliti per le mie parole ultime, che spero ti saranno care." Don Clemente, nel dir così a voce bassa, si colorò tutto di rossore. Benedetto piegò il capo a lui che gl'impose ambo le mani con dignità soave. "Desideri" disse la virile voce piana "dare tutto te stesso alla Verità Suprema, alla sua Chiesa visibile e invisibile?" Come se si fosse atteso a quell'atto e a quella domanda, Benedetto rispose pronto con voce ferma: "Sì." La voce piana: "Prometti tu, da uomo a uomo, vivere senza nozze e povero fino a che io ti sciolga della tua promessa?" La voce ferma: "Sì." La voce piana: "Prometti tu essere sempre obbediente all'autorità della Santa Chiesa esercitata secondo le sue leggi?" La voce ferma: "Sì." Don Clemente attirò a sé il capo del discepolo e gli parlò sulla fronte: "Ho chiesto all' Abate di poterti dare un abito di converso, perché uscendo di qua tu porti sopra di te almeno il segno di un umile ministero religioso. L' Abate, prima di decidere, ha voluto parlarti." Qui don Clemente baciò il discepolo in fronte, significando così il giudizio dell' Abate dopo il colloquio, chiudendo in quel bacio silenzioso parole di lode, non credute convenienti al suo carattere paterno né alla umiltà del discepolo. E non si avvide che il discepolo tremava da capo a piedi. "Ecco" diss'egli "quel che l' Abate scrive dopo averti parlato." Mostrò a Benedetto il foglio dove l' Abate aveva scritto: "Concedo. Fatelo partire subito perché io non sia tentato di trattenerlo." Benedetto abbracciò di slancio il suo Maestro e gli appoggiò la fronte a una spalla, senza parlare. Don Clemente mormorò: "Sei contento? Adesso te lo domando io." Ripeté due volte la domanda senza ottenere risposta. Venne finalmente un sussurro: "Posso non rispondere? Posso pregare un momento?" "Sì, caro, sì." Accanto al lettuccio del monaco, alta sopra l'inginocchiatoio, una grande croce nuda diceva: Cristo è risorto, configgi ora tu a me l'anima tua. Infatti qualcuno, forse don Clemente, forse un suo predecessore, vi aveva scritto sotto: "omnes superbiae motus ligno crucis affigat. " Benedetto si stese bocconi a terra, posò la fronte ov'eran da posare le ginocchia. Per la finestra aperta della cella uno scialbo lume del cielo piovoso batteva, di sghembo, sul dorso dell'uomo prosteso e dell'uomo ritto in piedi con la faccia levata verso la croce grande. Il mormorio della pioggia, il rombo dell' Aniene profondo avrebbero detto a Jeanne uno sconsolato compianto di tutto che vive sulla terra e ama. A don Clemente dicevano un consenso pio della creatura inferiore con la creatura supplice al Padre comune. Benedetto non li udiva. Egli si alzò, pacato in viso, vestì, a un cenno del Maestro, la tonaca di converso stesa sul letto, cinse la cintura di cuoio. Vestito che fu, si mostrò, aprendo le braccia e sorridendo, al Maestro, che si compiacque di vederlo così dignitoso, così spiritualmente bello in quell'abito. "Lei non ha inteso?" disse Benedetto. "Non ha pensato una cosa?" No, don Clemente aveva pensato che quella gran commozione di Benedetto fosse stata effetto di umiltà. Adesso capiva che altro gli sarebbe dovuto venire in mente; ma cosa? "Ah!" esclamò a un tratto. "Forse la tua Visione?" Certo. Benedetto si era visto morire sulla nuda terra, all'ombra di un grande albero, nell'abito benedettino; e argomento di non credere nella Visione giusta i consigli di don Giuseppe Flores e di don Clemente gli era stata la contraddizione di ciò con la sua ripugnanza strana per i voti monastici, venutagli sempre crescendo da quando aveva lasciato il mondo. Ora questa contraddizione pareva dileguarsi; pareva quindi risorgere la credibilità di un carattere profetico della Visione. Don Clemente ne conosceva questa parte e avrebbe potuto leggere nel cuore di Benedetto il suo sbigottimento al riaffacciarsi di un misterioso disegno Divino sopra di lui, il suo terrore di cadere in peccato di superbia. Non ci aveva pensato. "Non pensarci neppure tu" diss'egli. E si affrettò a mutar discorso. Gli diede una lettera e dei libri per l'arciprete di Jenne. Intanto l'arciprete lo avrebbe ospitato. Se dovesse restare a Jenne o no, ritornare, in questo caso, a Subiaco o recarsi altrove, glielo farebbe sapere la Divina Provvidenza. "Padre mio" disse Benedetto "proprio non penso cosa sarà di me domani. Penso unicamente questo: "magister adest et vocat me" ma non come una voce sovrannaturale. Ho avuto torto di non capire che il Maestro è presente sempre e chiama sempre: me, Lei, tutti. Basta farsi un po' di silenzio nell'anima, la sua voce si sente." Un raggio fioco di sole entrò nella cella. Don Clemente pensò subito che, se cessasse di piovere, la signora Dessalle verrebbe probabilmente a visitare il monastero. Non disse niente ma la sua inquietudine interna si tradì con un trasalire della persona, con un'occhiata al cielo, che significarono a Benedetto come fosse tempo di partire. Egli domandò in grazia di poter pregare, prima nella Chiesa di Santa Scolastica e poi al Sacro Speco. Il sole si nascose, ricominciò a piovere, Maestro e discepolo scesero insieme nella Chiesa, vi si trattennero in preghiera l'uno accanto all'altro e fu quello il loro solo addio. Benedetto prese la via del Sacro Speco alle nove. Uscì di Santa Scolastica inosservato, mentre fra Antonio stava confabulando col messo di Giovanni Selva. In quel momento, il lume del sole redivivo riaccese rapidamente i vecchi muri, la via, il monte; acuto gioire, ali veloci di uccelletti ruppero in ogni parte il verde, e alle sue labbra salì spontanea la parola: "Vengo."

Don Clemente ne aveva ottenuto il permesso dal Padre Abate, stando lui, Giovanni, al monastero; e gliel'aveva detto subito. Verrebbe e condurrebbe seco quel garzone ortolano di cui gli aveva parlato, per farglielo conoscere. Così un'altra volta l'ortolano verrebbe solo e gl'insegnerebbe a rincalzar le patate nel campicello dietro la villa che Giovanni aveva pure preso in affitto per lavorarlo con le proprie mani. Questa del lavoro manuale era una piccola mania di Giovanni, venutagli tardi, che dispiaceva un poco a Maria, parendole cosa non più conveniente alle sue abitudini, alla sua età. La rispettava, però, e tacque. In quel momento la ragazza di Affile che li serviva entrò ad avvertire che quei signori stavano salendo la scala, e che la cena sarebbe pronta subito. Tre persone salivano infatti per la scaletta a chiocciola del villino. Giovanni scese loro incontro. Il primo era il suo giovane amico di Leynì, che si scusò, salutandolo, di precedere i compagni, due ecclesiastici. "Sono il cerimoniere" diss'egli. E li presentò lì sulla scala: "Il signor Abate Marinier, di Ginevra. Don Paolo Farè, di Varese, che Lei conosce già di nome." Selva rimase un po' perplesso ma poi si affrettò a far salire i suoi visitatori, li avviò alla terrazza dov'erano già disposte delle sedie. "E Dane?" diss'egli, inquieto a di Leynì, pigliando a braccetto."E il professor Minucci? E il Padre Salvati?" "Sono qui" rispose il giovine sorridendo. "Sono all'Aniene. Le racconterò, è tutta una storia, verranno subito" Intanto l' Abate Marinier esclamava uscendo sulla terrazza: "Oh, c'est admirable!" E don Paolo Farè, da buon comasco, mormorava:"sì, bello, bello," col tôno discreto di chi pensa:"Ma se vedeste il mio paese!". Sopraggiunse Maria, si rinnovarono le presentazioni e di Leynì raccontò la sua storia, mentre Marinier girava i piccoli occhi scintillanti per il paesaggio, dalla piramide di Subiaco, quinta fosca del chiaro sfondo di ponente, ai prossimi carpineti selvaggi del Francolano che serra, scuro e grande, il levante. Don Farè divorava con gli occhi Selva, l'autore di scritti critici sul Vecchio e Nuovo Testamento, e particolarmente di un libro sulle basi della futura teologia cattolica, che avevano innalzata e trasfigurata la sua fede. La storia del barone di Leynì era che alla stazione di Mandela tirava un gran vento, che il professore Dane temeva forte di esservisi buscata un'infreddatura, che sospettando di non trovare cognac in casa di un odiatore dell'alcool come il signor Selva, ed essendo anche l'ora in cui soleva pigliare ogni giorno due uova, s'era fermato all'Albergo dell' Aniene per avere le uova e il cognac ; che sulla terrazza della trattoria, verso il fiume, c'era troppa aria e negli stanzini attigui troppa poca; che si era fatto servire il suo pasto in una camera dell'albergo e aveva rimandato le uova due volte; che loro erano partiti a piedi lasciando il professore Minucci e il Padre Salvati a tenergli compagnia. Poiché il delicato, freddoloso professore Dane non c'era, Giovanni propose il cenare sulla terrazza. Ne smise però subito l'idea vedendo che garbava poco all' Abate di Ginevra. L'elegante, mondano Marinier, amico di Dane, aveva la stessa cura del proprio individuo, con maggiore dissimulazione e senza scuse di salute. Non aveva cenato all'Aniene con l'amico suo perché la cucina dell'Aniene gli era parsa, in una sua prima visita a Subiaco, troppo semplice, e sperava dalla signora Selva una cena francese. Di Leynì sapeva bene quanto la speranza fosse fallace; maliziosamente, non lo aveva istruito. Nel salottino da pranzo appena ci capivano i cinque commensali. Guai se fossero venuti anche gli altri due! Per Verità né l' Abate Marinier, né don Farè erano attesi. Altri, invece, mancava. Mancavano un frate e un prete, uomini conosciuti, che avrebbero dovuto venire dall'alta Italia. Si erano scusati l'uno e l'altro, per lettera, con vivo rincrescimento di Selva e di Farè pure, e del di Leynì. Marinier si scusò, invece, di essere venuto. Era stato Dane, il colpevole. E per don Paolo Farè il colpevole era stato di Leynì. Selva protestò. Amici di amici, come non sarebbero graditi? E tanto di Leynì quanto Dane sapevano di potere accompagnare persone di loro fiducia, persone che dividessero le loro idee. Maria non parlava; Marinier le piaceva poco. Anche le pareva che Dane e di Leynì avrebbero fatto bene a non portare altri senza avvertire. Parlò Marinier, dopo aver esplorato con gli occhi, aggrottando lievemente le sopracciglia, una zuppa di fave. "Io non so" diss'egli "se recheremo noia alla signora Selva discorrendo un poco adesso di quello che sarà poi il discorso della riunione." Maria lo rassicurò. Ella non avrebbe partecipato alla riunione ma pigliava moltissimo interesse allo scopo. "bene" proseguì Marinier "allora sarà molto utile per me che io conosca esattamente questo scopo, perché Dane me ne ha parlato non con tanta precisione, e io non posso esser sicuro di dividere le vostre idee in tutto." Don Paolo non seppe trattenere un gesto d'impazienza. Anche Selva parve un po' seccato, perché davvero un consenso in certe idee fondamentali era necessario. Senza di esso la riunione poteva riescire peggio che inutile, pericolosa. "Ecco" diss'egli "siamo parecchi cattolici, in Italia e fuori d'Italia, ecclesiastici e laici, che desideriamo una riforma della Chiesa. La desideriamo senza ribellioni, operata dall'autorità legittima. Desideriamo riforme dell'insegnamento religioso, riforme del culto, riforme della disciplina del clero, riforme anche nel supremo governo della Chiesa. Per questo abbiamo bisogno di creare un'opinione che induca l'autorità legittima ad agire di conformità sia pure fra venti, trenta, cinquant'anni. Ora noi che pensiamo così siamo affatto disgregati. Non sappiamo l'uno dell'altro, eccetto i pochi che pubblicano articoli o libri. Molto probabilmente vi è nel mondo cattolico una grandissima quantità di persone religiose e colte che pensano come noi. Io ho pensato che sarebbe utilissimo, per la propaganda dalle nostre idee, almeno di conoscerci. Stasera ci si riunisce in pochi per una prima intesa." Mentre Giovanni parlava, gli altri tenevano gli occhi sull' Abate ginevrino. L' Abate guardava nel suo piatto. Seguì un breve silenzio. Giovanni lo ruppe il primo. "Il professore Dane" diss'egli "non Le aveva detto questo?" "Sì sì" rispose l' Abate, levando finalmente gli occhi dal piatto "qualche cosa di simile." Il tono fu d'uno che approvasse poco. Ma perché, allora, era venuto? Don Paolo faceva smorfie di malcontento, gli altri tacevano. Vi fu un momento d'imbarazzo. Marinier disse: "Ne parleremo stasera." "Sì" ripeté Selva, tranquillo. "Ne riparleremo stasera." Pensava che avrebbe trovato nell' Abate un avversario e che Dane aveva commesso un errore di giudizio e di tatto invitandolo alla riunione. Si confortò in pari tempo con la tacita riflessione che l'udirsi rappresentare tutte le obbiezioni possibili sarebbe utile; e che un amico del professore Dane sarebbe almeno onesto, non propalerebbe nomi e discorsi ancora da tacersi. Invece il giovine di Leynì si crucciava di questo pericolo, sapendo quante e quanto diverse amicizie tenesse l' Abate Marinier in Roma, dove dimorava da cinque anni per certi suoi studi storici; e si crucciava di non avere saputo della sua venuta in tempo di scriverne ai Selva, per suggerir loro che intraprendessero la sua conquista incominciando dal palato. La mensa di casa Selva, sempre nitidissima e fiorita, era, quanto ai cibi, molto parsimoniosa, molto semplice. I Selva non bevevano vino mai. Il vino chiaretto, acerbetto di Subiaco non poteva che inasprire un uomo avvezzo ai vini di Francia. La ragazza di Affile aveva già servito il caffè quando arrivarono, a un punto, don Clemente a piedi da Santa Scolastica, Dane, il Padre Salvati, e il professore Minucci in un legno a due cavalli da Subiaco. Ma don Clemente, ch'era seguito dal suo ortolano, vista la carrozza movere verso il cancello del villino e non dubitando che portasse gente a casa Selva, affrettò il passo perché Giovanni e l'ortolano potessero vedersi, parlarsi un minuto, prima della riunione. I Selva e i loro tre commensali si erano levati da cena e Maria, uscendo, a braccio del cavalleresco Abate Marinier, sulla terrazza, vide, benché annotasse già, il benedettino sul ripido sentiero che sale dal cancello aperto sulla via pubblica. Lo salutò dall'alto e lo pregò di aspettare, a piè della scala, che gli facessero lume. Scese ella stessa col lume la scala a chiocciola, accennò a don Clemente di volergli parlare e diede un'occhiata significativa all'uomo che gli stava dietro le spalle. Don Clemente si voltò a costui, gli disse di stare ad attenderlo lì fuori sotto le rubinie; e saliti, al muto invito della signora, alcuni scalini, sostò ad ascoltarla. Ella gli parlò, frettolosa, dei suoi tre ospiti e particolarmente dell' Abate Marinier. Disse che stava in pena per suo marito il quale aveva posto tanto amore e tanta fede nell'idea di questa associazione cattolica e ora si troverebbe a fronte di una inattesa opposizione. Desiderava che don Clemente lo sapesse, che fosse preparato. Glielo diceva lei perché suo marito non poteva in quel momento lasciare i suoi ospiti. E si congedava, nel tempo stesso, da don Clemente, non avendo intenzione, lei donna e tanto ignorante, di assistere alla seduta. Forse lo avrebbe riveduto fra pochi giorni, al monastero. Non era il Padre foresterario, egli? Ella verrebbe forse fra tre o quattro giorni a Santa scolastica con una sua sorella ... A questo punto la signora Selva alzò involontariamente il lume per vedere meglio il suo interlocutore in viso, e subito se ne pentì come di un mancato rispetto a quell'anima certamente santa, certamente pari di virile e verginale bellezza all'alta, snella persona, al viso eretto abitualmente in atto quasi di franca modestia militare, tanto nobile nella fronte spaziosa, negli occhi cerulei chiari, spiranti a un punto dolcezza femminea e maschio fuoco. "Ci sarà pure" disse a bassa voce, vergognando di sé "un'amica intima di mia sorella, certa signora Dessalle." Don Clemente voltò la testa di scatto, e Maria n'ebbe il contraccolpo, tremò. Era dunque lui! Egli le rivolse subito il viso da capo. Era un po' acceso ma composto. "Scusi" diss'egli "questa signora, come si chiama?" "Chi? La Dessalle?" "Sì." "Si chiama Jeanne." "Che età può avere?" "Non lo so. Tra i trenta e i trentacinque anni direi." Adesso Maria non comprendeva più. Il Padre faceva queste domande con tanta indifferente calma! Ne arrischiò una essa pure. "Lei la conosce, Padre?" Don Clemente non rispose. Sopraggiungeva in quel momento il povero gottoso Dane, che con grande stento si era trascinato su dal cancello a braccio del professore Minucci. Erano amici di casa l'uno e l'altro; la signora Selva fece loro un'accoglienza gentile ma lievemente distratta. La seduta si tenne nello studiolo di Giovanni. Era così piccolo che il bollente don Farè, non potendosi tenere aperte le finestre per un dovuto riguardo ai reumi di Dane, vi si sentiva soffocare e lo disse con la sua rudezza lombarda. Gli altri finsero di non udire, meno di Leynì, che gli accennò silenziosamente di non insistere, e Giovanni che aperse l'uscio del corridoio e l'altro vicino che dal corridoio mette sulla terrazza. Dane sentì subito un odore di bosco umido e bisognò chiudere. Sullo scrittoio ardeva una vecchia lampada a petrolio. Il professore Minucci soffriva di occhi e chiese timidamente un paralume, che fu cercato, trovato e posto. Don Paolo si fremette dentro: "questa è un'infermeria!" e anche il suo amico di Leynì, a cui pareva che tante piccole cure si dovessero in quel momento dimenticare, ebbe uno spiacevole senso di freddo. Lo ebbe lo stesso Giovanni ma riflesso; sentì l'impressione che del Dane e forse anche del Minucci doveano riportare coloro, fra i presenti, che non li conoscevano. Egli li conosceva. Il Dane, con tutti i suoi reumi e i nervi e i sessantadue anni, possedeva, oltre al sapere grande, una indomita vigoria di spirito, un coraggio morale a tutta prova. Andrea Minucci, malgrado il biondo pelo rabbuffato, gli occhiali, certa rigidezza di movimenti, che gli davano un aspetto di erudito tedesco, era una giovane anima delle più ardenti, provata dalla Vita, non effervescente alla superficie come l'anima del prete lombardo, ma chiusa nel proprio fuoco, severa, probabilmente più forte. Giovanni prese la parola con animo franco. Ringraziò i presenti e scusò gli assenti, il frate e il prete, dolendosi però molto che mancassero. Disse che a ogni modo la loro adesione era sicura e insistette sul valore di quest'adesione. Soggiunse parlando più alto e più lento, tenendo gli occhi sull' Abate Marinier, che per ora stimava prudente non divulgare niente né della riunione, né delle deliberazioni che vi si prendessero; e pregò tutti a considerarsi legati al silenzio da un impegno di onore. Quindi espose l'idea che aveva concepita, lo scopo della riunione, un po' più diffusamente che non avesse fatto a cena. "E adesso" conchiuse "ciascuno dica quel che pensa." Seguì un silenzio profondo. L' Abate Marinier stava per parlare quando si alzò in piedi, stentatamente, Dane. Il suo pallido viso scarno, fine, pregno d'intelletto, era atteggiato a gravità solenne. "Io credo" diss'egli in un italiano esotico, rigido e tuttavia caldo di Vita "che trovandoci noi sul cominciamento di una comune azione religiosa, dobbiamo fare due cose; subito! Prima cosa! Dobbiamo raccogliere l'anima nostra in Dio, silenziosamente, ciascuno la sua, fino a sentire la presenza, in noi, di Dio stesso, il desiderio Suo stesso, nel nostro cuore, della Sua propria gloria. È questo che io faccio e prego fare con me." Ciò detto, il professore Dane s'incrociò le braccia sul petto, piegò il capo, chiuse gli occhi. Tutti si alzarono e, meno l' Abate Marinier, giunsero le mani. L' Abate se le raccolse al petto con un ampio gesto, abbracciando l'aria. Si poté udire un gemer dolce della lucerna, un passo al piano terreno. Marinier fu il primo a guardar sottecchi se gli altri pregavano ancora. Dane rialzò il capo e disse: "Amen." "Seconda cosa!" soggiunse. "Noi ci proponiamo di obbedire sempre l'autorità ecclesiastica legittima ..." Don Paolo Farè scattò. "Secondo!" Un vibrare di subiti pensamenti, un fremere sordo di parole non nate scosse ogni persona. Dane disse lentamente: "esercitata con le debite norme." Quel moto discese a un mormorio di consenso, posò. Dane riprese: "Ancora questo! Mai non sarà odio né su nostro labbro, né in nostro petto verso nessuno!" Don Paolo scattò da capo. "Odio no ma sdegno sì! Circumspiciens eos cum ira!" "Sì" disse don Clemente con la sua dolce voce velata "quando avremo edificato Cristo in noi, quando sentiremo una collera di puro amore." Don Paolo, che gli stava vicino, non rispose niente, lo guardò con le lagrime agli occhi, gli afferrò una mano per baciargliela. Il benedettino la ritrasse spaventato, tutto una fiamma in viso. "E non edificheremo Cristo in noi" disse Giovanni, commosso anche lui, felice di quel mistico soffio che gli pareva spirare nell'adunanza "se non purificheremo nell'amore le nostre idee di riforma; se, quando venisse il momento di operare, non ci purificheremo prima le mani e gli strumenti. Questo sdegno, questa ira che Lei, don Paolo, dice, è una grande potenza del Maligno sopra di noi, appunto perché ha un'apparenza e qualche volta, come nei Santi, una sostanza di bontà. In noi è quasi sempre vera inimicizia perché non sappiamo amare. La preghiera a me più cara dopo il Pater noster è la preghiera dell' Unità, la preghiera che ci unisce allo spirito di Cristo quando prega il Padre così: "ut et ipsi in nobis unum sint." Abbiamo sempre il desiderio e la speranza dell'unità in Dio con i fratelli che sono divisi da noi nelle idee. E adesso, dunque, dite se accettate la proposta di fondare l'associazione che io vi propongo. Prima discutete questo e poi, se la proposta è accettata, si vedrà in qual modo sia da porla in atto." Don Paolo esclamò impetuosamente che il principio nemmanco era da discutere e Minucci osservò in tono sommesso che lo scopo della riunione era stato conosciuto da tutti i presenti prima d'intervenire, che perciò, intervenendo, essi lo avevano implicitamente approvato, avevano implicitamente consentito di legarsi per un'azione comune, salvo appunto a decidere sui modi e le forme. L' Abate Marinier chiese di parlare. "Me ne rincresce veramente" diss'egli sorridendo, "ma per legarmi io non ho portato con me il menomo filo. Io sono pure di coloro che vedono molte cose andar male nella Chiesa e tuttavia, quando il signor Selva mi ha bene spiegato, prima a cena e ora qui, la sua idea che non avevo bene compresa dal mio amico professore Dane, mi si sono affacciate obbiezioni che credo serie." "Già" pensò Minucci che aveva udito parlare di certe ambizioni del Marinier "se vuoi far carriera non ti devi mettere con noi." E soggiunse forte: "Dica!" "In primo luogo, signori" cominciò il fine Abate "mi pare che abbiate principiato dalla seconda riunione. Dirò con un rispetto grande che voi mi parete bravissime persone, le quali si mettano festosamente a sedere per giuocare insieme alle carte, e non possono andare avanti perché uno ha le carte italiane, un altro le francesi, un altro le tedesche e non s'intendono. Io ho udito parlare di idee comuni, ma forse vi ha fra noi piuttosto una comunanza di idee negative. Noi siamo d'accordo, probabilmente, in questo, che la Chiesa Cattolica è venuta somigliando a un tempio antichissimo di grande semplicità originaria, di grande spiritualità, che il seicento, il settecento e l'ottocento hanno infarcito di pasticci. Forse i più maligni di voi diranno pure che vi si parla forte solamente una lingua morta, che le lingue vive appena vi si possono parlare piano e che il sole vi prende alle finestre un colore falso. Ma io non posso credere che siamo poi tutti d'accordo nella qualità e nella quantità dei rimedii. Prima dunque di iniziare questa frammassoneria cattolica, io credo che vi converrebbe intendervi circa le riforme. Dirò di più; io credo che anche quando fosse fra voi un pienissimo accordo nelle idee, io non vi consiglierei di legarvi con un vincolo sensibile come propone il signor Selva. La mia obbiezione è di una natura molto delicata. Voi pensate certo di poter navigare sicuri sott'acqua come pesci cauti, e non pensate che un occhio acuto di Sommo Pescatore o vice-Pescatore vi può scoprire benissimo e un buon colpo di fiocina cogliere. Ora io non consiglierei mai ai pesci più fini, più saporiti, più ricercati, di legarsi insieme. Voi capite cosa può succedere quando uno è colto e tirato su. E, voi lo sapete bene, il grande Pescatore di Galilea metteva i pesciolini nel suo vivaio, ma il grande Pescatore di Roma li frigge." "Questa è buona!" fece don Paolo con un sussulto di riso. Gli altri tacevano, gelidi. L' Abate continuò: "Non credo poi che con questa lega possiate far niente di buono. Le associazioni fanno progredire forse i salari, forse le industrie, forse i commerci; la scienza e la Verità, no. Le riforme si faranno un giorno, perché le idee sono più forti degli uomini e camminano; ma voi, armandole in guerra e facendole marciare per compagnie, le esporrete a un fuoco terribile che le arresterà per un pezzo. Sono gl'individui, i Messia, che fanno progredire la scienza e la religione. Vi è un Santo fra voi? Oppure sapete dove prenderlo? Prendetelo e mandatelo avanti. Parola ardente, grande carità, due o tre piccoli miracoli, suggeritegli quello che deve dire e il vostro Messia farà più che tutti voi insieme." L' Abate tacque e Giovanni prese la parola. "Forse il signor Abate" diss'egli "non ha potuto formarsi ancora un giusto concetto della unione che noi desideriamo. Noi ci siamo associati testé in una preghiera silenziosa e intensa, cercando di tenerci uniti nella Presenza Divina. Questo indica il carattere della nostra unione. Considerando i mali che affliggono la Chiesa, i quali, in sostanza, sono disaccordi del suo elemento mutabile umano con il suo elemento immutabile di Verità Divina, noi ci vogliamo unire in Dio Verità col desiderio ch' Egli tolga questi disaccordi; e vogliamo sentirci uniti. Una tale unione non ha bisogno di intelligenze circa idee particolari, benché alcuni di noi ne abbiamo alquante di comuni. Noi non pensiamo di promuovere un'azione collettiva né pubblica né privata per attuare una riforma o l'altra. Io sono abbastanza vecchio per ricordare i tempi del dominio austriaco. Se i patrioti lombardi e veneti si raccoglievano allora a parlare di politica, non era mica sempre per congiure, per atti di rivoluzione; era per comunicarsi notizie, per conoscersi, per tener viva la fiamma dell'idea. È questo che noi vogliamo fare nel campo religioso. Lo creda il signor Abate Marinier, quell'accordo negativo ch'egli diceva può bastare benissimo. Facciamo che si allarghi, che abbracci la maggioranza dei fedeli intelligenti, che salga nella gerarchia; vedrà che gli accordi positivi vi matureranno dentro occultamente come semi vitali dentro la spoglia caduca del frutto. Sì, basta un accordo negativo. Basta di sentire che la Chiesa di Cristo soffre, per unirci nell'amore di nostra Madre e almeno pregare per essa, noi e i nostri fratelli che, come noi, la sentono soffrire! Che ne dice, signor Abate?" L' Abate mormorò con un lievissimo sorriso: "C'est beau mais ce n'est pas la logique." Don Paolo scattò: "Ma che logica!" "Ah!" rispose il Marinier con una maligna faccia compunta. "Se rinunciate alla logica ...!" Don Paolo, tutto acceso, era per protestare ma il professore Dane gli accennò di chetarsi. "Noi non vogliamo rinunciare alla logica" diss'egli. "Solamente non è facile misurare il valore logico di una conclusione in materia di sentimento, di amore, di fede, come è facile misurare il valore logico di una conclusione in materia di geometria. Nella materia nostra il procedimento logico è occulto. Certo il mio caro amico Marinier, una delle menti acutissime che io conosco, non ha voluto dire questa cosa in risposta al mio caro amico Selva, che quando una persona molto amata da noi cade inferma, è necessario a noi di accordarci sulla cura che le faremo, prima di correre insieme al suo letto!" "Queste sono bellissime figure" disse l' Abate Marinier alquanto vivacemente. "Ma sapete bene che le similitudini non sono argomenti!" Don Clemente, che stava in piedi nell'angolo tra l'uscio del corridoio e la finestra, e il professore Minucci seduto presso a lui, fecero atto di parlare. Subito si arrestarono, volendo ciascuno dei due cedere la parola all'altro. Selva propose che prima parlasse il monaco. Tutti guardarono a quel nobile viso di arcangelo, arrossente ma eretto. Don Clemente esitò un poco, e quindi parlò con la sua voce soffice, velata di modestia: "Il signor Abate Marinier ha detto una cosa che io credo molto vera. Ha detto: ci vuole un Santo. Io pure lo credo. Chi sa? Io non dispero che possa già esistere." "Lui" mormorò don Paolo. "Ora" proseguì don Clemente "io vorrei dire al signor Abate Marinier: siamo in qualche maniera i profeti di questo Santo, di questo Messia, prepariamo le sue vie, che poi significa solo far sentire universalmente il bisogno di un rinnovamento di tutto che nella religione nostra è veste, non corpo della Verità, anche se questo rinnovamento sarà doloroso per certe coscienze. Ingemiscit et parturit! E far sentire tutto ciò stando sopra un terreno assolutamente cattolico, aspettando le nuove leggi dalle autorità vecchie, dimostrando però che se non si cambiano le vesti portate da tanto tempo, fra tante intemperie, nessuna persona civile si avvicinerà più a noi, e Dio non voglia che molti di noi le svestano senza permesso, per un disgusto insopportabile. Vorrei anche dire al signor Abate Marinier, se me lo permette: non abbiamo troppi timori umani!" Un mormorio caldo di assenso gli rispose e Minucci scattò tutto vibrante. Mentre parlava l' Abate Marinier, di Leynì e Selva lo avevano visto bollire accigliato; e appunto Giovanni, che conosceva il carattere fiero di quel mistico asceta, si era proposto, facendo parlare prima don Clemente, di dargli tempo a chetarsi. Egli scattò. La parola non gli veniva fluida, gli si rompeva per soverchio impeto, e rotta gli sgorgava dal labbro a ondate, precisa, però, e potente nel vigoroso accento romano: "Ecco! Non abbiamo timori umani! Noi vogliamo cose troppo grandi e le vogliamo troppo fortemente per avere timori umani! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivo, quanti sentiamo che il concetto della Via, della Verità e della Vita si ... si ... si ...- si dilata, ecco, si dilata nel nostro cuore, nella nostra mente! E rompe tante - come dirò? - vecchie fasce di formole che ci stringono, che ci soffocano, che soffocherebbero la Chiesa, se la Chiesa fosse mortale! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente, quanti abbiamo sete - sete, signor Abate Marinier! Sete! Sete! - che la nostra fede, se perde di estensione, cresca di intensità - a cento doppi, cresca, viva Dio! - e possa radiare fuori di noi, e possa, dico, purificare come il fuoco, prima il pensiero e poi l'azione cattolica - ecco. Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente quanti sentiamo ch'Egli prepara una lenta ma immensa trasformazione religiosa per opera di profeti e di Santi, la quale si opererà con sacrificio, con dolore, con divisione di cuori; quanti sentiamo che i profeti sono sacri al soffrire e che queste cose non ci vengono rivelate dalla carne o dal sangue ma dall' Iddio vivo nelle anime nostre! Comunicare, vogliamo, tutti, di ogni paese, ordinare la nostra azione. Massoneria Cattolica? Sì, Massoneria delle Catacombe. Lei teme, signor Abate? Teme che si taglino tante teste con un colpo solo? Io dirò: dov'è la scure per un tal colpo? Uno alla volta tutti si possono colpire: oggi il professore Dane, ad esempio, domani don Farè, posdomani qui il Padre; ma il giorno in cui quella fantastica fiocina del signor Abate Marinier pescasse, attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali fors'anche, quale sarà, ditemi, il pescatore, piccolo o grande, che non lascerà cadere nell'acqua, spaventato, la fiocina e ogni cosa? - Ma poi mi perdoni, signor Abate, se io dico a Lei e ai prudenti come Lei: dov'è la vostra fede? Esiterete voi, per paura di Pietro, a servire Cristo? Uniamoci contro il fanatismo che lo ha crocifisso e che avvelena ora la Sua Chiesa e se ne avremo a soffrire, ringraziamone il Padre: "beati estis cum persecuti vos fuerint et dixerint omne malum adversum vos, mentientes, propter me." Don Paolo Farè saltò in piedi e abbracciò l'oratore. Di Leynì si affisava in lui con occhi accesi di entusiasmo. Dane, Selva, don Clemente, l'altro frate tacevano, imbarazzati, sentendo, specie i tre ecclesiastici, che Minucci era trascorso troppo, che le sue frasi sulla estensione e la intensità della fede, sul timore di Pietro, non erano misurate, che tutta l'intonazione del suo discorso era stata troppo bellicosa e non si accordava né col mistico esordio di Dane né con le parole usate da Selva a delineare il carattere dell'unione proposta. L' Abate di Ginevra non aveva levato un momento dal viso di Minucci, mentr'egli parlava, i suoi piccoli occhi brillanti. Guardò l'amplesso di don Paolo con un misto d'ironia e di pietà, poi si alzò in piedi: "Sta bene" diss'egli. "Io non so se il mio amico Dane in particolare divida le opinioni del Signore. Veramente ne dubito un poco. Il Signore ha nominato Pietro. Ecco, mi pare che qui ci si dispone a uscire dalla barca di Pietro sperando forse di camminare sopra le onde. Io dico umilmente che non ho fede abbastanza e andrei subito al fondo. Io intendo di restare nella barca e forse tutt'al più adoperarvi qualche piccolo remo secondo la mia intenzione, perché, come ha detto il Signore, sono molto pauroso. È dunque necessario che ci separiamo e non mi resta che a domandarvi perdono di essere venuto. Ho anche bisogno di una piccola passeggiata per la mia vile digestione.- "Caro amico" soggiunse rivolgendosi a Dane "ci ritroveremo all'Aniene." E mosse verso Selva con la mano stesa, per accomiatarsi. Subito gli furono tutti attorno, meno don Paolo e Minucci, per non lasciarlo partire. Egli insisteva tranquillo, arrestava ora con un gelido sorrisetto, ora con una parolina graziosamente sarcastica, ora con un gesto elegante gli assalitori troppo veementi. Di Leynì si voltò a Farè, gli accennò di unirsi agli altri; ma il focoso don Paolo gli rispose con una violenta spallata, con una smorfia di fastidio. Intanto dal gruppo che attorniava il Marinier una voce toscana si alzò sopra le altre: "Stia bono! Non si è ancora deciso niente! Aspetti! Io non ho ancora detto la mia!" Era il Padre Salvati, scolopio, che aveva parlato; un vecchio dai capelli candidi, dal volto rubizzo, dagli occhi vivaci. "Non si è ancora deciso niente!" ripeté. "Io, per esempio, per l'unione ci sto ma io vorrei una cosa e i discorsi che si son fatti me ne arieggiano un'altra. Progresso intellettuale, sta bene; rinnovamento delle formole della fede secondo vogliono i tempi, sta bene; riforma cattolica, benissimo! Io sto con Raffaello Lambruschini, che era un grand'omo; io sto con i Pensieri di un solitario ma per il signor professore Minucci il carattere della riforma mi pare che avrebbe a essere sopra tutto intellettuale e questo, scusate ..." Qui Dane alzò la sua bianca, piccola mano di dama. "Permetta, Padre" diss'egli. "Il mio caro amico Marinier vede che si ritorna a discutere. Io lo prego di rimettersi a sedere." L' Abate levò un poco le ciglia in su, mise un sospiro scettico e obbedì. Gli altri sedettero pure, soddisfatti. Non si fidavano della discrezione dell' Abate, sarebbe stato un grosso guaio ch'egli fosse partito ab irato . Il Padre Salvati riprese a parlare. Egli era contrario a che s'imprimesse al movimento riformista un carattere sopra tutto intellettuale, non tanto per il pericolo di Roma quanto per il pericolo di turbare nella loro fede semplice una quantità immensa di anime tranquille. Voleva che l' Unione si proponesse anzi tutto una grande opera morale, il richiamo dei credenti alla pratica della parola evangelica. Illuminare i cuori era secondo lui il primo dovere di uomini, che aspiravano a illuminare gl'intelletti. Evidentemente non importava tanto di trasformare secondo un ossequio razionale la fede cattolica nella Bibbia, quanto di rendere effettiva la fede cattolica nella parola di Cristo. Bisognava dimostrare che generalmente dai fedeli si onora Cristo con le labbra ma che il cuore del popolo è lontano da lui; dimostrare quanto posto sia lasciato agli egoismi da certe pietà fervorose che credono santificarsi ... Qui don Paolo e Minucci brontolarono: "Questo non c'entra." Il Salvati esclamò che c'entrava benissimo e che avessero la bontà di aspettare. Continuò a dire di un pervertimento generale nel concetto del dovere cristiano intorno alla ricerca e all'uso della ricchezza, pervertimento difficilissimo a raddrizzare perché indurato da secoli e secoli nelle coscienze cristiane con la piena complicità del clero. "Il tempo, signori" esclamò il vecchio frate "domanda un'azione francescana. Ora io non ne vedo segno. Vedo antichi Ordini religiosi che non hanno più forza di agire sulla Società. Vedo una Democrazia Cristiana amministrativa e politica che non ha lo spirito di S. Francesco, che non ama la santa Povertà. Vedo una società di studi francescani; trastulli intellettuali! Io intenderei che noi si provvedesse all'azione francescana. Dico se si vuole una riforma cattolica!" "Ma come?" domandò Farè. Minucci brontolò seccato: "Non è questo." Selva sentiva disgregarsi le anime che si erano unite in un primo slancio. Sentiva che Dane, Minucci, probabilmente anche Farè, intendevano, com'egli stesso intendeva, iniziare un movimento intellettuale e che quella divampata francescana era venuta fuor di tempo e fuor di luogo. Era tanto più inopportuna quanto più calda di Verità viva. Perché molta Verità c'era senza dubbio nelle parole del Padre Salvati, egli lo riconosceva, egli che si era più volte dibattuto nel pensiero il dubbio se non convenisse promovere, per il bene della Chiesa un'azione piuttosto morale che intellettuale. Ma egli non sentiva in sé le attitudini all'apostolato francescano e non le vedeva negli amici suoi, neppure nel più ardente, Luigi Minucci, un solitario, un asceta schivo della folla come lui, Selva. Le ragioni del Salvati valevano a guastare e non a edificare. Giovanni sentiva segrete ironie andare al Marinier e anche al Dane, di cui si conoscevano i gusti poco francescani, il palato difficile, i nervi delicati, gli affetti dati a cagnolini e a pappagalli. Se si voleva riescire a qualche cosa, conveniva correre al riparo. "Mi perdoni" diss'egli "il carissimo Padre Salvati se io gli osservo che il suo discorso, tanto caldo di spirito cristiano, è intempestivo. Mi pare ch'egli consenta con noi nel desiderio di una riforma cattolica. Stasera non è davanti a noi che una proposta; quella di promuovere una specie di Lega fra quanti hanno lo stesso desiderio. Ora decidiamo questo!" Lo scolopio non si arrese. Non poteva comprendere una Lega inattiva, e un'azione secondo le idee degli intellettuali non gli piaceva. L' Abate ginevrino esclamò: "Je l'avais bien dit!" E si alzò per andarsene davvero, stavolta. Selva non lo permise, propose di sciogliere la seduta, pensando di richiamare l'indomani o più tardi il professore Dane, Minucci, di Leynì, Farè. Con Salvati non c'era niente a fare, ed era meglio lasciar partire Marinier dandogli a credere che tutto fosse andato a monte. Minucci indovinò il suo pensiero e tacque, l'inconsiderato don Paolo non capì nulla e strepitò che si doveva deliberare, votare subito. Selva, e per ossequio a Selva, di Leynì, lo fecero aspettare. Fremeva, però; fremeva contro lo svizzero, sopra tutto. Dane e don Clemente erano poco soddisfatti, quale per una ragione, quale per un'altra. Dane era molto irritato in cuor suo contro Marinier e si doleva di averlo portato con sé; don Clemente avrebbe voluto dire che le parole del Padre Salvati erano state molto belle e sante e non intempestive perché anzi era bene che ciascuno lavorasse giusta la vocazione propria, gl'intellettuali per una via, i francescani per un'altra. Colui che chiama provvederebbe a coordinare l'azione dei chiamati; le diverse vocazioni potevano benissimo stare insieme nella Lega. Avrebbe voluto dire così ma non fu pronto, lasciò passare il momento, anche per verecondia intellettuale, per paura di non dir bene, per un riguardo verso Selva, che desiderava evidentemente di troncare. E fu troncato, tutti si alzarono, uscirono sulla terrazzina, meno Dane e Giovanni. L' Abate Marinier intendeva recarsi l'indomani a Santa Scolastica e al Sacro Speco; poi, forse, ritornare a Roma per Olevano e Palestrina, una via nuova per lui. Chi gliela poteva indicare di lì? Gliela indicò don Clemente. Era la stessa che aveva percorso venendo da Subiaco. Passava lì sotto, valicava l' Aniene poco più a sinistra, sul ponte di S. Mauro, volgeva a destra, saliva verso i monti Affilani, là di fronte. L'aria veniva, odorata di boschi, dalla gola stretta ond'esce il fiume sonoro sotto i Conventi. Il cielo era coperto, salvo sul Francolano. Là sopra il gran monte nero tremolavano due stelle. Minucci le mostrò a di Leynì. "Guardi" diss'egli "quelle due stelline come sfavillano! Dante le direbbe le fiammelle di San Benedetto e di Santa Scolastica che sfavillano vedendo nell'ombra un'anima simile ad esse." "Voi parlate di Santi?" fece Marinier, accostandosi. "Io ho domandato poco fa se avete un Santo e vi ho augurato di possederne uno. Queste sono figure oratorie, perché so bene che non lo avete. Se lo aveste, il vostro Santo sarebbe subito ammonito dalla questura o spedito in China dalla Chiesa." "Ebbene?" rispose di Leynì "E se fosse ammonito?" "Se fosse ammonito oggi, sarebbe imprigionato domani." "Ebbene?" replicò il giovane. "E S. Paolo, signor Abate?" "Eh, mio caro, S. Paolo, S. Paolo ...!" Con questa reticenza l' Abate Marinier intendeva probabilmente dire che S. Paolo era S. Paolo. L'altro pensò invece che Marinier era Marinier. Don Clemente osservò che neppure tutti i Santi si potevano mandare in China. Perché non sarebbe laico il futuro Santo? "Questo lo credo" esclamò il Padre Salvati. Invece l'entusiasta don Faré si teneva certo che sarebbe Sommo Pontefice. L' Abate rise. "Idea semplice ed eccellente" diss'egli. "Ma io sento la carrozza che viene a pigliarci, Dane, me e chi vuol venire con noi a Subiaco; per cui vado a congedarmi dal signor Selva." Si chinò dal parapetto a cogliere una frondetta dell'olivo piantato nel terrazzo del piano inferiore. "Dovrò presentargli questo" disse. "E anche a Loro signori" soggiunse con un gesto grazioso, sorridendo. E uscì della terrazza. Si udì infatti, giù nella strada, il rumore di un legno a due cavalli che, venendo da Subiaco, girò lo scoglio sul quale la villetta è assisa e si fermò davanti al cancello. Pochi momenti dopo vennero nella terrazza Maria Selva e Dane col suo gran pastrano e il grandissimo cappello nero a cencio. Seguivano Giovanni e l' Abate. "Chi viene con noi?" disse Dane. Nessuno parlò. S'intesero, sul rumore fondo dell' Aniene, voci e passi che salivano dal cancello verso la villa. Minucci che stava sull'angolo di levante della terrazza, guardò e disse: "Signore. Due Signore." Maria trasalì. "Due Signore?" diss'ella. Balzò al parapetto, vide due figure chiare che salivano lentamente, facevano allora la prima svolta del ripido viottolo. Non era possibile distinguerne le forme, erano ancora troppo giù e faceva troppo scuro. Giovanni osservò che probabilmente si trattava di persone dirette al primo piano, a visitare i padroni di casa. Il professore Dane sorrise misteriosamente. "Potrebbero venire anche al secondo" diss'egli. Maria esclamò: "Lei sa qualche cosa!" e gridò abbasso: "Noemi! est-ce vous?" La voce limpida di Noemi rispose: "Oui, c'est nous!" Si udì un'altra voce femminile dirle forte: "Che bambina! Dovevi tacere!" Maria mise un piccolo grido di gioia e disparve, corse giù per la scala a chiocciola. "Lei sapeva, professore Dane?" fece Selva. Sì, Dane sapeva, aveva veduto a Roma la signora Dessalle, conosciuta da lui nella sua villa del Veneto, nella villa degli affreschi del Tiepolo. Suo fratello, il signor Carlino Dessalle, era rimasto a Firenze. Lei e la signorina d' Arxel volevano fare una sorpresa, gli avevano proibito di parlare. Il nome Dessalle richiamò alla mente di Selva, in un baleno, quello cui subito non aveva pensato, la presenza di don Clemente, il dubbio che fosse lui l'amante scomparso di quella signora, la necessità di evitare un incontro che poteva essere terribile per l'una e per l'altro. Del colloquio fra sua moglie e il Padre egli non sapeva, naturalmente. Intanto si udì Maria scender di corsa il sentiero, poi suonare le esclamazioni e i saluti festosi. Dane, inquieto per la troppo lunga fermata sulla terrazza, propose di scendere. Quelle Signore si erano certo servite della carrozza che veniva a prender lui! Anche don Clemente pareva molto inquieto. Selva si affrettò, dissimulando la commozione propria, di prenderlo a braccetto. "Se Lei non vuole imbarazzarsi con Signore" diss'egli "venga subito con me che La faccio passare dal Casino, per il sentiero alto." Il Padre parve contentissimo, i due partirono in gran fretta, il benedettino senza nemmeno salutare. "È anche tardi" diss'egli "Ho detto all' Abate, chiedendogli il permesso, che sarei ritornato alle nove e mezzo." Scesero a precipizio la scala a chiocciola; ma quando uscirono sul piazzaletto delle robinie, Jeanne Dessalle vi metteva il piede dall'altro capo con Maria e Noemi. Non era tanto buio, sotto le robinie, che Maria non potesse riconoscere suo marito e don Clemente nelle due ombre che uscivano di casa sua. Ella, che a fianco di Jeanne precedeva sua sorella, prontamente piegò e fece piegare a destra la sua vicina, verso il piccolo casino ch'è un'appendice della villa, voltando le spalle a questa. Dal canto suo, Selva, vedendo l'atto di sua moglie, prontamente sussurrò al Padre: "Scenda diritto, subito!" Ma non valse. Non valse perché Noemi, meravigliata di veder sua sorella svoltare a destra, si fermò esclamando: "Dove andate?" e don Clemente, forse per aver veduta questa signora ferma sulla sua via, invece di passare e scendere, andò a raccogliere l'ortolano che lo attendeva nell'angolo più oscuro del piazzaletto, dove il fianco della casa s'incontra col monte. Chiamò "Benedetto!" e si volse a Selva. "Se Lei volesse mostrargli il campicello?" Giovanni rispose: "A quest'ora?" mentre sua moglie diceva piano a Noemi: "C'è forestieri che partono, lasciamoli passare, restiamo qui al casino." Ella le accennò in pari tempo del capo così risolutamente che la Dessalle se ne avvide, pensò tosto a qualche mistero. "Perché?" disse. "Sono terribili?" E rallentò il passo. Invece Noemi che aveva afferrato l'intenzione della sorella, non però le ragioni occulte, mise troppo zelo a secondarla, abbracciò alla Vita le due compagne, le spinse verso il casino. Jeanne Dessalle ebbe un moto istintivo di ribellione, si voltò di botto dicendo: "che fai?" vide Selva che veniva alla loro volta e che subito salutò allargando le braccia, come per nascondere don Clemente, il quale, seguito dall'ortolano, passò frettolosamente a cinque passi da Jeanne, prese la discesa. Noemi, che al saluto di suo cognato si era pure voltata, corse ad abbracciarlo. Intanto Selva si compiacque di vedere che don Clemente era sfuggito all'incontro. Selva, scioltosi dall'abbraccio di Noemi, stese la mano a Jeanne, che non se ne avvide, mormorò, trasognata, qualche incomprensibile parola di saluto. In quel momento uscirono dalla villa Dane, Marinier, Faré, di Leynì, il Padre Salvati. I due Selva mossero loro incontro, lasciando Noemi e la Dessalle ad aspettare in disparte. I saluti di commiato furono abbastanza lunghi. Dane desiderava salutare anche la Dessalle. Maria non la scorse più dove l'aveva lasciata, suppose che lei e Noemi fossero entrate in casa girando alle loro spalle, s'incaricò dei saluti del professore. Finalmente quando i cinque discesero, accompagnati da Giovanni, si udì chiamare da Noemi: "Maria!" Un accento particolare nella voce di sua sorella le disse che era accaduto qualche cosa. Accorse; la signora Dessalle, seduta sopra un fascio di legna, nell'angolo lasciato cinque minuti prima dall'ortolano di Santa Scolastica, ripeteva con voce debole: "niente, niente, niente, adesso entriamo, adesso entriamo."Noemi, tutta palpitante, raccontò che l'amica si era sentita mancare a un tratto mentre quei signori discorrevano e che a lei era appena riuscito di trarla fino a quel fascio di legna. "Andiamo, andiamo" ripeté Jeanne e si sforzò di alzarsi, si trascinò, sorretta dalle altre due, fino all'uscio della villa, sedette sullo scalino, aspettando un po' d'acqua che poi assaggiò appena. Altro non volle e presto si rimise tanto da poter salire, adagio adagio, le scale. Si scusava ad ogni sosta e sorrideva; ma la fantesca che saliva innanzi col lume, a ritroso, venne quasi meno ella stessa vedendo quegli occhi smarriti, quelle labbra bianche, quel terribile pallore. La condussero al canapè del salottino; e là, dopo un momento di silenzioso abbandono a occhi chiusi, poté dire alla signora Selva, sorridendo ancora, ch'erano affetti di anemia e che c'era avvezza. Noemi e Maria si parlarono piano fra loro. Jeanne intese le parole "a letto" e assentì del capo con uno sguardo di gratitudine. Maria aveva disposto per lei e per Noemi la migliore camera del piccolo alloggio, la camera d'angolo opposta allo studio di Giovanni, dall'altra parte del corridoio. Mentre Jeanne vi si avviava stentatamente a braccio di Noemi, ritornò Selva che aveva accompagnato gli amici sino al cancello. Sua moglie ne udì il passo sulla scala, gli scese incontro, lo trattenne. Si parlarono al buio, sotto voce. Era dunque lui, ma come lo aveva riconosciuto? Eh, Giovanni aveva ben cercato di frapporsi, nel momento pericoloso, fra la signora e don Clemente, il Padre era anche passato quasi di corsa, ma egli aveva sospettato subito, perché la Dessalle non aveva quasi risposto al suo saluto, non gli aveva stesa la mano, era rimasta come una statua. Anche il Padre, quando aveva udito sulla terrazza ch'era arrivata la signora Dessalle, si era mostrato inquieto; poi aveva mostrato un vivo desiderio di evitarla; si era però serbato molto padrone di sé. Oh sì, molto padrone di sé! Questo era pure il giudizio di Maria che raccontò il suo colloquio con lui, lì in fondo alla scala. Marito e moglie salirono lentamente, compresi di quello straordinario dramma, di quel dolor mortale della povera donna, dell'impressione terribile che doveva aver riportato anche lui, dopo tutto, della notte che passerebbero l'uno e l'altra; pensosi di quel che accadrebbe l'indomani, di quel che farebbe lui, di quel che farebbe lei. "Per queste cose è bene di pregare, non è vero?" disse Maria. "Sì, cara, è bene. Preghiamo ch'ella sappia donare il suo amore e il suo dolore a Dio" rispose suo marito. Entrarono, tenendosi per mano, nella camera nuziale, divisa in due da un cortinaggio pesante. Si affacciarono alla finestra guardando il cielo, pregarono silenziosamente. Un alito di tramontana passò come un lamento per la quercia che pende sulla piccola Santa Maria della Febbre. "Povera creatura!" disse Maria. Parve a lei e a suo marito di amarsi anche più teneramente del solito e tuttavia sentirono ambedue, senza dirselo, che qualche cosa li tratteneva dal bacio dell'amore. Jeanne, appena Noemi ebbe chiuso dietro a sé l'uscio della loro camera, le si avvinghiò al collo, ruppe in singhiozzi irrefrenabili. La povera Noemi, avendo compreso, per l'effetto vedutone, che quell'ecclesiastico passato in fretta davanti all'amica sua era Maironi, si struggeva di pietà. Disse parole della più ardente, della più soave tenerezza con la voce di chi blandisce un bambino che soffre. Jeanne non rispondeva, singhiozzava sempre. "È quasi meglio, cara" si arrischiò a dire Noemi "è quasi meglio che tu sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con quell'abito!" Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati "no, no" così strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese quindi i suoi conforti ma più timidamente. "Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio ..." Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso. "Non capisci che non è lui?" diss'ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle sue braccia. "Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?" Ancora Jeanne le si lanciò al collo. "Non è quel frate che mi è passato davanti" disse fra i singhiozzi "è l'altro!" "Chi, l'altro?" "Quell'uomo che lo seguiva, che è partito con lui!" Noemi neppure se n'era accorta, di quest'uomo. Jeanne le strinse il collo da soffocarla, con un riso convulso.

C'era da aspettare alquanto perché alle nove o poco dopo tutte le chiavi del monastero si portano all' Abate. "Dunque mi permette" chiese Benedetto "di restare fuori?" Le altre volte che il Maestro glielo aveva permesso, egli era salito a passar la notte in preghiera sui greppi nudi del Colle Lungo, imminenti al monastero, o su quelli del Taleo o sulla costa petrosa che si taglia movendo dall'oratorio di Santa Crocella al bosco del Sacro Speco. Il Maestro esitò un poco, non ci aveva più pensato. E il discepolo gli era parso quel giorno più smunto, più esangue del consueto; temeva per la sua salute alquanto logora dalle fatiche del lavoro campestre, dalle penitenze, dal vivere disagiato. Glielo disse. "Non pensi al mio corpo" supplicò il giovane, umile e ardente. "Il mio corpo è infinitamente lontano da me! Abbia solo paura che io non faccia il possibile per conoscere la Volontà Divina!" Soggiunse che avrebbe pregato anche per aver lume circa questo incontro e che mai aveva sentito Iddio come pregando la notte sui monti. Il Maestro gli prese il capo a due mani, lo baciò in fronte. "Va" diss'egli. "E Lei pregherà per me?" "Sì, nunc et semper. " Passi nel corridoio. Una chiave gira nella toppa. Benedetto si dilegua come un'ombra. Il buon vecchio fra Antonio, portinaio del monastero, aperse, non mostrò di essersi atteso a vedere anche Benedetto, e con quel rispetto dignitoso in cui si confondevano la sua umiltà d'inferiore e la sua coscienza di onesto famigliare antico, disse a don Clemente che il Padre Abate lo attendeva nel suo alloggio. Don Clemente salì con un lanternino al corridoio grande dove mettevano l'alloggio dell' Abate e, poco discosto, la sua cella stessa. L' Abate, Padre Omobono Ravasio da Bergamo, lo stava aspettando in un salottino male rischiarato da una povera lucernina a petrolio. Il salottino, nella sua severa modestia ecclesiastica, non aveva di singolare che una tela del Morone, bel ritratto d'uomo, due piccole tavole con teste d'angeli di maniera luinesca, un piano a coda, carico di musica. L' Abate, appassionato per i quadri, la musica e il tabacco da fiuto, dedicava a Mozart e a Haydn gran parte del tempo non largo che gli concedevano i suoi doveri religiosi e le cure del governo. Era intelligente, alquanto bizzarro, ricco di una cultura letteraria, filosofica e religiosa ferma sdegnosamente sul 1850. Piccolo, canuto, aveva una fisonomia arguta. Certi suoi modi orobii, certe familiarità ruvide avevano meravigliato i monaci, avvezzi alle maniere squisitamente signorili del suo predecessore, nobile romano. Veniva da Parma ed era entrato in carica da soli tre giorni. Don Clemente gli s'inginocchiò davanti, gli baciò la mano. "Che mode avete voialtri a Subiaco?" disse l' Abate. "Fate venire le dieci alle undici?" Don Clemente si scusò. Aveva tardato per un dovere di carità. L' Abate lo fece sedere. "Figlio mio" diss'egli. "Voi soffrite il sonno?" Don Clemente sorrise, non rispose. "Ebbene" riprese l' Abate "voi ne avete buttato via un'ora e adesso io ho le mie ragioni di prendervene un altro poco. Vi devo parlare di due cose. Mi avete chiesto il permesso di recarvi a visitare certi signori Selva. Ci siete andato? Sì? Potete dirmi di essere tranquillo nella vostra coscienza?" Don Clemente fu pronto a rispondere con un lieve gesto di sorpresa: "Eh, sì!" "bene bene bene" fece l' Abate; e fiutò, contento, una grossa presa di tabacco. "Io non conosco questi signori Selva, ma c'è a Roma chi li conosce o crede di conoscerli. Non è uno scrittore, il signor Selva? Non ha scritto di religione? Mi figuro che sarà un rosminiano, a giudicare dalla gente che ce l'ha su con lui; gente indegna di allacciar le scarpe a Rosmini, ma intendiamoci! Rosminiani sicuri sono quelli di Domodossola e non quelli che hanno moglie, eh? Dunque stasera, dopo cena, ho ricevuto una lettera da Roma. Mi scrivono - un pezzo grosso, capite, - che appunto stasera si doveva tenere in casa di questo falso cattolico signor Selva un conciliabolo di altri insetti malefici come lui, e che probabilmente vi ci sareste recato anche voi, e che io dovevo impedirlo. Non so cosa avrei fatto, perché se parla il Santo Padre obbedisco, se non parla il Santo Padre rifletto; ma per vostra fortuna voi eravate già fuori. Del resto c'è della brava gente che scoverà qualche eretico anche in Paradiso. Adesso voi mi dite che la vostra coscienza è tranquilla. Dunque non devo credere alla lettera?" Don Clemente rispose che certamente a casa Selva non ci erano venuti né eretici, né scismatici. Vi si era parlato della Chiesa, dei suoi mali, di possibili rimedî, ma come lo stesso Padre Abate avrebbe potuto parlarne. "No, figlio mio" rispose l' Abate. "Ai mali della Chiesa e ai possibili rimedî non ci ho a pensar io. Ossia, ci posso pensare ma non ho a parlarne che a Dio perché ne parli poi Lui a chi tocca. E così fate anche voi. Tenete a mente, figlio mio! I mali ci sono e i rimedî ci saranno, ma questi rimedî, chi sa? possono essere veleni e bisogna lasciarli adoperare al Grande Medico. Noi, preghiamo. Se non si credesse alla comunione dei Santi, cosa si starebbe a fare nei monasteri? E in quella casa, figlio mio, per la nostra pace, non ci ritornare! Non me lo chiedere più!" Passando paternamente così dal voi al tu, l' Abate posò una mano affettuosa sulla spalla del suo monaco afflitto di non poter rivedere quei buoni amici e anche particolarmente di non poter l'indomani mattina conferire col signor Giovanni, avvertirlo del pericolo che correva Benedetto, avvisare insieme al riparo. "Sono cristiani aurei" diss'egli con voce sommessa, dolente. "Lo credo" rispose l' Abate "Credo che saranno migliori assai di questi zelanti che scrivono di queste lettere. Vedi che non faccio complimenti. Tu sei di Brescia, eh? bene, io sono di Bergamo. Noi si direbbe che sono piaghe. Sono infatti piaghe della Chiesa. Io risponderò a tôno. I miei monaci non prendono parte a congreghe di eretici. Ma tu a, casa Selva, non ci ritornerai." Don Clemente baciò rassegnato la mano del paterno vecchio. "Adesso all'altro argomento!" disse costui. "Apprendo che qui nell' Ospizio dei pellegrini, dove di regola non ci dovrebbe abitare stabilmente che il vaccaro, ci sta da tre anni un giovine che ci avete collocato voi; oh, col permesso del mio predecessore, s'intende! Un giovine che vi è molto legato, che voi dirigete spiritualmente, che fate anche studiare in biblioteca. Vero che lavora nell'orto, vero che mostra una pietà grande, ch'è di edificazione a tutti, ma però, siccome non pare che abbia intenzione di farsi religioso, questo suo soggiorno nell' Ospizio nostro dove occupa un posto da tre anni, è poco regolare. Cosa me ne potete dire? Sentiamo." Don Clemente sapeva che alcuni suoi confratelli, e non i più vecchi ma proprio i più giovani, non approvavano l'ospitalità concessa dall' Abate defunto a Benedetto. Neppure andava loro troppo a sangue che don Clemente e lui fossero tanto legati. Qualche dispiacere per questo, don Clemente l'aveva già avuto. Comprese che quei tali non avevano perduto tempo, che stavano già lavorando il nuovo Abate. Il suo bel viso si colorò di rossore. Egli non rispose subito, volendo prima spegnersi dentro il suo corruccio con un atto di perdono mentale; poi disse ch'era suo dovere e suo desiderio d'informarlo. "Questo giovine" diss'egli "è un tale Piero Maironi, di Brescia. Ell'avrà udito nominare la famiglia. Suo Padre, don Franco Maironi, sposò una donna senza nobiltà né ricchezza. Egli allora non aveva più i genitori, viveva colla nonna paterna, la marchesa Maironi, donna imperiosa, orgogliosa." "Oh!" esclamò l' Abate. "L'ho conosciuta! Uno spavento! Mi ricordo! A Brescia la chiamavano la marchesa Haynau! Aveva dodici gatti! Una gran parrucca nera! Mi ricordo! "Io non l'ho conosciuta che per fama" ripigliò don Clemente, sorridendo, mentre l' Abate si faceva passare con una buona presa di tabacco e un mugolio gutturale il cattivo sapore di quell'antipatica memoria. "La nonna, dunque, non volle assolutamente saperne di questo matrimonio disuguale. Gli sposi furono ospitati da uno zio della sposa, ella pure orfana. Lui, don Franco, si fece soldato nel 1859 e morì di ferite. Sua moglie morì poco dopo. Il figliuolo venne raccolto dalla nonna Maironi e, morta lei, da certi Scremin, suoi parenti veneti. La nonna lo lasciò ricchissimo. Sposò una figlia di questi Scremin, che disgraziatamente perdette la ragione poco dopo le nozze, credo. Lui ne fu afflittissimo, condusse Vita ritirata fino a che s'incontrò, per sua sventura, in una signora divisa dal marito. Allora venne un periodo di traviamento; traviamento di costume e traviamento di fede. Quando, pare un miracolo del Signore!, ecco che sua moglie viene a morire e nel morire ricupera la ragione, fa venire il marito, gli parla, muore come una Santa. Questa morte gli volta il cuore verso Dio, egli lascia la signora, lascia le ricchezze, lascia tutto, fugge di notte da casa sua senza dire a nessuno dove va. Siccome aveva conosciuto me a Brescia una volta che ci andai per una malattia di mio Padre, e sapeva ch'ero a Subiaco, siccome anche aveva caro il nostro Ordine e certe memorie della nostra povera Praglia, è capitato qua. Mi ha raccontato la sua storia, mi ha supplicato di aiutarlo a condurre una Vita di penitenza. Credetti che aspirasse a entrare nell' Ordine. Egli mi disse invece di non sentirsene degno, di non aver potuto ancora conoscere, circa questo punto, la Divina Volontà, di volere intanto far penitenza, lavorare colle proprie mani, guadagnarsi il pane, un poverissimo pane. Mi disse altre cose, mi parlò di certi fatti sovrannaturali che gli sarebbero intervenuti. Io ne parlai subito al Padre Abate di allora e si combinò così: alloggiarlo nell' Ospizio, farlo lavorare nella chiusura come aiuto all'ortolano e fornirgli il vitto magrissimo ch'egli desiderava. In tre anni non ha preso né vino, né caffè, né latte, né un uovo. Pane, polenta, frutta, erbaggi, olio, acqua pura: non ha preso altro. La sua Vita è stata una Vita di Santo, ciascuno glielo può dire. E si crede il più gran peccatore del mondo!" "Hm!" fece l' Abate, pensoso. "Hm! Capisco! Ma perché non entra nell' Ordine? Altra cosa: so che ha passato qualche notte fuori." Don Clemente sentì ancora corrersi un fuoco al viso. "In preghiera" diss'egli. "Sarà così ma forse non tutti crederanno. Sapete cosa dice Dante: "Sempre a quel ch'ha faccia di menzogna Dee l'uom chiuder la bocca quant'ei puote, Però che senza colpa fa vergogna." "Oh!" esclamò don Clemente arrossendo, nella sua dignità vereconda, per coloro che potessero aver concepito un vile sospetto. "Scusate, figlio mio" disse l' Abate. "Non si accusa. Si biasimano le apparenze. Non riscaldatevi. È meglio pregare in casa. E questi fatti soprannaturali, dite su, cosa sono?" Don Clemente rispose che erano state visioni, voci udite nell'aria. "Hm! Hm!" fece ancora l' Abate con un complicato gioco di rughe, di labbra e di sopracciglia, come se avesse inghiottito un sorso di aceto. "Avete detto che si chiama? ... Il nome proprio?" "Piero, ma quando è venuto ha desiderato separarsi da questo nome, mi ha pregato d'imporgliene un altro. Ho scelto Benedetto; mi parve il più appropriato." L' Abate, a questo punto, espresse la volontà di vedere il signor Benedetto e ordinò a don Clemente di mandarglielo l'indomani mattina, dopo il coro. Allora don Clemente si turbò un poco, dovette confessare che non poteva prometterlo assolutamente perché appunto anche in quella notte il giovine era uscito a pregare ed egli non sapeva con certezza a quale ora sarebbe rientrato. L' Abate s'inquietò molto, borbottò una sequela di rimbrotti e di riflessioni acide. Don Clemente si decise perciò a raccontare l'incontro colla signora Dessalle, l'antica amante, quel ch'era poi seguito per via, la sua idea di mandare Benedetto a Jenne e di farvelo rimanere fino a che la signora non fosse partita. Il superiore lo ascoltò a ciglia aggrottate, con un continuo brontolîo sordo. "Qui" esclamò finalmente "si torna a san Benedetto! Si torna alle insidie delle peccatrici! Vada vada vada, il nostro Benedetto! A questo Jenne e anche più in là! E non mi dicevate questo? Vi pareva poco? Vi pareva niente che si ordissero intorno al monastero delle trame di questa fatta? Andate, adesso; andate pure!" Don Clemente fu per rispondere che non sapeva se si ordissero trame, se la signora avesse riconosciuto o no il suo discepolo, che a ogni modo egli aveva già espresso a Benedetto il proposito di allontanarlo; ma impose silenzio a questo inutile sfogo di amor proprio, e prese, ginocchioni, congedo. Ritolto il lanternino che aveva lasciato nel corridoio, non entrò nella sua cella. Percorse lento lento il corridoio sino al fondo, scese lento lento, non senza qualche sosta, per una scaletta a chiocciola, nell'altro corridoio strettissimo che mette al Capitolo. Il pensiero del diletto discepolo orante nella notte sul monte, l'aspettazione delle risoluzioni che prenderebbe dopo avere comunicato con Dio, le coperte ostilità dei fratelli, i cipigli e i dubbî dell' Abate, il timore ch'egli ponesse Benedetto nella necessità di scegliere fra i voti monastici e il bando dal convento, gli accumulavano sul cuore un peso spossante. Il fervore mistico di Benedetto, quella sua grande inconscia umiltà, i suoi progressi nella intelligenza della Fede giusta le idee che originavano dal signor Giovanni, certi lumi nuovi che gli scaturivano, conversando, dal pensiero, la forza crescente del mutuo affetto, gli avevano fatto concepire speranze di una prossima rivelazione, in quel naufrago del mondo, della Divina Grazia, della Divina Verità, della Divina Potenza, per il bene delle anime. Lo avevano detto, alla riunione di casa Selva: ci vorrebbe un Santo. Lo aveva detto per il primo quell' Abate svizzero. Secondo altri era desiderabile un Santo laico. E questo era pure il suo pensiero, e gli pareva provvidenziale che a Benedetto ripugnasse la Vita monastica. Quasi quasi gli parve provvidenziale anche la venuta della signora, che lo costringeva a lasciare il convento. Ma che gli succedeva ora sul monte? Che gli diceva Iddio nel cuore? E se ... Questo balenare di un se nuovo, inatteso, formidabile, arrestò il meditabondo nel suo lento cammino. "Magister adest et vocat te." Forse lo stesso Maestro Divino chiamava Benedetto a servirgli sotto le vesti del monaco. Egli cessò, sbigottito, di pensare, e dal Capitolo, posato il lanternino, entrò nella Chiesa, mosse diritto alla cappella del Sacramento. Con quella dignità che nessuna tempesta interna poteva togliere alle movenze signorili della persona, alla pura bellezza del viso, si compose sull'inginocchiatoio nel mezzo della cappella, fra le quattro colonne, sotto la lampada; e alzò gli occhi al Tabernacolo. Il Maestro della Via, della Verità e della Vita, il Diletto dell'anima, era là e dormiva come la procellosa notte sul mare di Genezareth, fra Gadara e la Galilea, nella barca che altre barche travagliate dai flutti seguivano per le tenebre sonore. Era là e pregava come un'altra notte, solo, sul monte. Era là e diceva con la sua dolce voce eterna: - venite a me, voi dolenti; voi cui la Vita è grave, tutti venite a me. - Era là e parlava, il Vivente: credete in me che sono con Voi, ristoro vostro e pace, io l' Umile, figlio del Potente, io il Mite, figlio del Terribile, io lavoratore dei cuori per il regno della giustizia, per la futura unità di voi tutti meco nel Padre mio. Era là, il Pietoso, nel Tabernacolo e spirava l'invito ineffabile: vieni, apriti, abbandonati a me. E Clemente si abbandonò, gli disse quello che non aveva mai confessato neppure a sé stesso. Sentiva nell'antico monastero, tutto, tranne Cristo nel Tabernacolo, morire. Come cellula dell'organismo ecclesiastico, elaboratrice di calore cristiano radiante al mondo, il monastero si ossificava nella vecchiaia inesorabile. Onorandi fochi di fede e di pietà chiuse nelle forme tradizionali, simili alle fiamme dei ceri accesi sugli altari, vi consumavano i loro involucri umani inviandone al cielo il vapore invisibile, senza che una sola onda calorifica o luminosa ne vibrasse al di là delle muraglie antiche. Le correnti dell'aria viva non vi entravano più e i monaci non uscivano più a cercarle come nei primi secoli, lavorando nei boschi e sui prati, cooperando alle vitali energie della natura, nell'atto stesso che magnificavano Iddio col canto. I colloquii con Giovanni Selva lo avevano indirettamente condotto, poco a poco, a sentire così della Vita claustrale nelle sue forme presenti, pure essendo convinto che ha indestruttibili radici nell'anima umana. Ma forse ora per la prima volta gli avveniva di guardare il suo sentimento in faccia. Era da un pezzo suo voto, era sua speranza che Benedetto diventasse un grande operaio del Vangelo; non un operaio comune, un predicatore, un confessore, bensì un operaio straordinario; non un soldato dell'esercito regolare, impedito dall'uniforme e dalla disciplina, bensì un libero cavaliere dello Spirito Santo; ma la Regola monastica non gli si era mai ripresentata in tale antagonismo con il suo ideale di un Santo moderno. E se ora la Volontà Divina si manifestasse a Benedetto proprio diversa dal desiderio suo? Ah non era egli già quasi sull'orlo di un peccato mortale? Non presumeva già egli quasi, polvere tracotante, di giudicare le vie di Dio? Prosternato sull'inginocchiatoio, s'immerse nell' Onnipotente, anelando senza parole al perdono, alla rivelazione, in Benedetto, della Volontà Divina, adorandola da quel momento qualunque fosse. Nell'alzarsi con un naturale defluire dell'onda mistica dal cuore, con gli occhi vôlti ancora all'altare ma non più fissi nel Tabernacolo, non poté a meno di pensare alla Dessalle e al discorso di Benedetto. La mediocre pala di quell'altare rappresenta la martire Anatolia che offre dal paradiso la palma simbolica ad Audax, il giovine pagano che tentò sedurla e ne fu invece condotto a Cristo. La Dessalle aveva sedotto Benedetto; per quanto Benedetto si fosse studiato di scolpare lei e d'incolpare sé, don Clemente non dubitava che le cose fossero andate così. Se ora egli operasse la conversione di lei? Se fosse giusto che la tentasse? Se il sentimento di Benedetto fosse realmente più cristiano che il timore suo e gli spasimi del Padre Abate? Don Clemente si dibatteva in testa questi problemi attraversando a capo basso la Chiesa. Anatolia e Audax! Gli sovvenne che un forestiere scettico, udita da lui la spiegazione del quadro, aveva detto: sì, ma se non li avessero ammazzati, né l'uno né l'altra? E se Audax avesse avuto moglie? E queste beffarde parole gli erano parse una indegna profanazione. Le ripensò e, sospirando, raccattò da terra il lanternino posato nel Capitolo. Invece di avviarsi alla sua cella si recò nel secondo chiostro a guardare il dorso del Colle Lungo, dove forse Benedetto stava in orazione. Alcune stelle brillavano sul roccioso dorso grigio macchiato di nero e il loro lume oscuro mostrava nel chiostro il piazzale, gli arboscelli sparsi, la torre possente dell' Abate Umberto, le arcate, le mura vecchie di nove secoli e, sulla ogiva del portale grande dove don Clemente stava contemplando, la doppia riga dei fraticelli di sasso che vi salgono in processione. Il chiostro e la torre si affermavano nella notte con maestà di potenza. Era proprio vero che stessero morendo? Nel lume delle stelle il monastero pareva più vivo che nel sole, grandeggiava in una mistica comunione di senso religioso con gli astri. Era vivo, era pregno di effluvi spirituali diversi, confusi in una persona unica, come le diverse pietre tagliate e scolpite a comporre la unità del suo corpo, come diversi pensamenti e sentimenti in una coscienza umana. Le vetuste pietre, sature di anime commiste ad esse in amore, sature di desiderii santi e di Santo dolore, di gemiti e di preci, radiavano un che oscuro, penetrante nel subcosciente. A quei lavoratori di Dio che nelle ore aride vi si ritraessero dal mondo a breve riposo, potevano rinfondere forza come d'estate al falciatore in deserti montani una fonte. Ma perché le pietre durassero vive, un continuo fiume di Vita doveva pure trapassar per esse, un fiume di spiriti adoranti, contemplanti. Don Clemente sentì quasi rimorso dei pensieri volontariamente accolti in Chiesa circa la decrepitezza del monastero, pensieri radicati nel suo giudizio personale, piacenti al suo amor proprio, quindi viziati di quella concupiscenza dello spirito che i suoi diletti Mistici gl'insegnavano a discernere e ad aborrire. Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile abbandono delle proprie idee circa l'avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua volontà e se non la scopriva. "Si vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum benedictus." E si avviò alla sua cella. Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando davanti all'uscio dell' Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole "fiat voluntas tua" che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le nostre forze per il prevalere della legge Divina nel campo della libertà umana. Il signor Giovanni gli aveva fatto battere il cuore più forte e l' Abate glielo aveva fatto battere più fiacco. Quale dei due aveva detto la parola di Vita e di Verità? La sua cella era l'ultima a destra, presso il balcone che guarda la conca rigata dall' Aniene, Subiaco e i monti Sabini. Prima di entrar nella sua cella don Clemente si fermò a guardar i lumi lontani di Subiaco, pensò alla villetta rossa, più vicina ma invisibile, pensò a quella donna. Trame, aveva detto l' Abate. Amava ella ancora Piero Maironi? Aveva scoperto, sapeva ch'egli si era rifugiato a Santa Scolastica? Lo aveva riconosciuto? Se sì, che meditava di fare? Probabilmente non aveva preso stanza nel minuscolo quartiere dei signori Selva; probabilmente alloggiava in un albergo di Subiaco. Quei lumi lontani erano fuochi di un campo nemico? Si fece il segno della croce ed entrò nella sua celletta per un breve sonno fino alle due, ora di coro. Benedetto prese la via del Sacro Speco. Oltrepassato, all'altro angolo del monastero, il letto asciutto di un torrentello, raggiunto a destra l'oratorio antichissimo di Santa Crocella, salì per la petraia che ruina giù verso il rombo dell' Aniene di fronte ai carpineti del Francolano, erto e nero fino alla croce del vertice, incoronata di stelle. Prima di toccare l' Arco che mette al bosco del Sacro Speco, uscì di via, si arrampicò a sinistra, cercando il posto dell'ultima sua veglia, alto sui tetti quadrati e sulla torre tozza di Santa Scolastica. La ricerca del sasso dove aveva pregato ginocchioni un'altra dolorosa notte, sviandogli il pensiero dal mistico foco in cui era chiuso, glielo raffreddò. Se ne avvide tosto, ne sentì un rammarico affannoso, una impazienza di ricuperar calore acuita dal timore di non riuscirvi, dal senso di esserne in colpa, dal ricordo di altre aridità tristi. Gelava, gelava sempre più. Cadde ginocchioni, chiamò Iddio con uno spasimo di preghiera. Come piccola fiamma inutilmente apposta ad un fascio di legna verde, lo slancio della volontà gli venne meno senza movere il cuore inerte e mancò in uno stupido ascoltare del rombo eguale dell' Aniene. La mente gli ritornò in un assalto di terrore. Forse la notte passerebbe intera così; forse al gelo arido seguirebbe la tentazione calda! Impose silenzio al fervere delle immaginazioni, si raccolse nel proposito di non smarrirsi d'animo. Allora sorse in lui l'idea chiara che spiriti nemici gli erano sopra. Se avesse veduto intorno a sé fiammeggiare occhi diabolici nei fessi delle pietre, ne sarebbe stato meno certo. Sentiva in sé il vaporare di un veleno, sentiva un'assenza di amore, un'assenza di dolore, un tedio, un peso, l'aggravarsi di un assopimento mortale. Ricadde nello stupido ascoltare il rumore del fiume, fissi gli occhi senza sguardo al bosco nero del Francolano. Gli passò nella visione interna, lento automa, la immagine del prete malvagio vissuto là colla sua corte di peccatrici. Sentì stanchezza di star ginocchioni, si accasciò su sé stesso. Ecco ancora l'automa lento. Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le mani sui ciuffi dell'erba soffice, fra sasso e sasso, odorante. Chiuse gli occhi nella dolcezza di quel tocco morbido, dell'odor selvaggio, del riposo; e vide Jeanne pallida sotto l'ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli sorrideva con gli occhi umidi di lagrime. Il cuore gli batté forte, forte, forte; un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla china dell'abbandono all'invito di quel volto. Spalancò gli occhi, mise, a braccia distese, a mani aperte, un lungo gemito. E subito pensò che qualche viandante notturno potesse averlo udito, trattenne il respiro, stette in ascolto. Silenzio; silenzio di tutte le cose fuorché del fiume. Il cuore gli si venne chetando. "Dio mio, Dio mio" mormorò, inorridito del pericolo corso, dell'abisso intravvisto. Si afferrò con gli occhi, con l'anima, al gran dado sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che amava. Trapassò con lo spirito l'ombre e i tetti, attrasse in sé la visione della Chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato. Durò nello sforzo quanto poté, reprimendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell'obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell'anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell'Imitazione: "Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit." Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell'ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d'erba che le mani giunte odoravano ancora. L'aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull'erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch'egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell'anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores. Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l'obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell' Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl'indici verso Castel Sant'Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un'ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull' Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: "Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!" E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la Vita, la pace ardente dell'anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l'erbe intorno. "Sei Tu" egli gemette "sei Tu, sei Tu?" Il vento tacque. Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio non gli parlerà. L'anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento. L'anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l'ultima parte della Visione, il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perché rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà. Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perché non scendo a dormire? Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea. Il cielo si era tutto coperto di nuvole pesanti fino ai monti di Jenne, dove la valle dell'alto Aniene gira. Appena Benedetto poteva discernere la tenebra nera del Francolano, in faccia, e i lividori, a' suoi piedi, della petraia. Mosse per discendere e al secondo passo si arrestò. Le gambe non lo reggevano, un soffio di sangue gli accese il viso. Era quasi digiuno da trent'ore. Non aveva preso che un tozzo di pane a mezzodì. Si sentì punger la persona da miriadi di spilli, batter forte il cuore, annebbiar la mente. Quali viluppi di serpi gli si attorcigliavano ai piedi simulando la innocenza dell'erba? E qual demonio sinistro lo attendeva lì sotto, carponi sulla pietra, simulando un cespuglio per avventarglisi? Non lo aspettavano i demonii anche nel monastero? Non si annidavano negli occhi del torrione? Non avevano quegli occhi una fiamma nera? No, no, adesso non più; adesso lo fissavano semichiusi e beffardi. Il rombo dell' Aniene, questo? No, il ruggito dell' Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a quello che udiva, ma tremava tremava come una festuca nel vento e le miriadi di spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: "devo potere!" esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono. Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la leonina voce del tuono lo minacciò. "Cosa faccio?" si diss'egli, cercando raccapezzarsi. "Perché voglio scendere?" Non lo sapeva più, ebbe bisogno di uno sforzo mentale per ricordare. Ecco, aveva pensato di scendere a dormire perché la preghiera era inutile a un uomo sicuro di salire al cielo. E un lampo arse anche dentro di lui: "Io tento Iddio!" Le serpi lo stringevano, il demonio strisciava carponi alla sua volta per la petraia tutta infernalmente viva di spiriti feroci, le fiamme nere ardevano negli occhi del torrione, ruggendo sempre l' Abisso a trionfo. Ma il rugghio sovrano del tuono romoreggiò per le nubi: "Non tentare il Signore Iddio tuo." Benedetto levò al cielo il viso e le mani congiunte, adorando, come poté, con l'ultimo lume della offuscata coscienza, vacillò, allargò le braccia, afferrò l'aria, piegò lentamente all'indietro, stramazzò riverso sulla china, giacque senza moto. Il suo corpo giaceva immobile nel vento del temporale, come un tronco schiantato, fra il dibattersi delle ginestre e il mareggiare dell'erba. L'anima dovette chiudersi nel contatto centrale con l' Essere senza tempo e senza spazio, perché Benedetto, al primo ritorno della coscienza, non ebbe senso né del luogo né dell'ora. Sentiva una levità strana delle membra, una spossatezza fisica piacevole, una infinita dolcezza interna; prima sul viso, poi sulle mani tanti minuti titillamenti come di animati atomi amorosi dell'aria: teneri sussurri di voci timide intorno a quello che gli pareva il suo letto. Si rizzò a sedere, guardò smarrito ma in pace; dimentico del dove e del quando, ma tanto in pace, tanto contento della quieta fonte interna di un indistinto amore che gli fluiva in tutti i vasi della Vita e se ne spandeva per le cose intorno, per le dolci piccole vite fatte amorose a lui. Sorridendo fra sé del suo proprio smarrimento, riconobbe il dove e il come. Il quando, no. Neppure ne sentì desiderio, neppure si domandò se dalla caduta fossero trascorse ore o minuti, tanto lo appagava il beato presente. Il temporale era disceso verso Roma. Nel mormorio della pioggia senza vento, piana piana, nella voce grande dell' Aniene, nella riposata maestà dei monti, nell'odore selvaggio della petraia umida, nello stesso proprio cuore, Benedetto sentiva un Divino confuso alla creatura, un'ascosa essenza di paradiso. Sentiva di fondersi con le anime delle cose come piccola voce in un coro immenso, di essere uno con la montagna odorante, con l'aria beata. E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento gli ritornarono a mente i perché della presenza sua sul monte deserto nelle tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l'esilio dal monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all'anima sua ferma in Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie. Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall'alto di una inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l'ufficio suo, egli si accorse di esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana, continuava. Che fare? Rientrare all' Ospizio dei pellegrini no perché il vaccaro dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto né sarebbe stato facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all' Arco d'ingresso nel bosco. Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al bosco, cadde a sedere, sfinito. Desiderava un po' di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L'aria era tepida, il suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all'ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l'impero, benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l' Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall'uno e dall'altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l'Arco. Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell'ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all'udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte. "Oh, Benedè!" esclamò riconoscendo Benedetto. "Qui, siete?" Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio. "Lo racconterete ai padri" diss'egli. "Direte ch'ero sfinito e che vi ho chiesto un po' di latte per amor di Dio." "Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!" fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. "Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!" Benedetto bevve. "Benedico Iddio" diss'egli "per la bontà vostra e per la bontà del latte." Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s'inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: "ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro." Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s'incamminò egli stesso verso Santa Scolastica. La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell' Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.

Egli amava e riveriva Giovanni Selva come un grande cristiano, aveva talvolta a difendersi contro la tentazione di giudicar il suo superiore, l' Abate, che gli aveva interdetto di visitarlo, contro la tentazione di appellarsi dall' Abate a Qualcuno maggiore degli Abati e anche dei Pontefici, interno all'anima sua. Ora Questi gli disse nell'anima: "l'incontro è mio dono" e il monaco si unì lieto agli amici. Maria lo presentò a Noemi ed egli arrossì ancora nel riconoscere la persona che aveva scambiato per la persecutrice di Benedetto. "E la sua amica?" diss'egli, tremando di apprendere che fosse lì presso. Rassicurato, lampeggiò di sollievo nel viso. Noemi ne sorrise ed egli, avvedutosene, rimase confuso. Sorrisero anche gli altri ma nessuno parlò. Il primo a rompere il silenzio fu Giovanni. Certo don Clemente andava a Jenne come loro? E forse ci andava per lo stesso scopo, per vedere la stessa persona, l'ortolano, eh, l'ortolano di quella sera? Ah don Clemente, don Clemente! Sì, don Clemente andava pure a Jenne, ci andava per vedere Benedetto. E quanto all'ortolano, si scusò. Inganno non c'era stato, c'era stato il desiderio che le due anime si avvicinassero senza violenza, nel modo più spontaneo, senza raccomandazioni e informazioni preventive. Preso a salire insieme la costa, parlarono di Benedetto. Noemi, dimentica della stanchezza, pendeva dalle labbra del Padre, e il Padre, appunto per questo, parlava così poco e così circospetto ch'ella ne fremeva d'impazienza, e in breve si sentì stanca da capo. Prese il braccio di Maria, lasciò che don Clemente si dilungasse con suo cognato. Allora don Clemente confidò a Giovanni che aveva una missione penosa. Pareva che qualcuno avesse scritto a Roma da Jenne in modo ostile a Benedetto, accusandolo di tenere discorsi non perfettamente ortodossi, di spacciarsi per taumaturgo e di vestire senza diritto un abito religioso che rendeva gravissimo lo scandalo. Certo da Roma era stato scritto all' Abate e l' Abate aveva dato l'incarico a lui, don Clemente, di recarsi a Jenne e di chiedere a Benedetto la restituzione dell'abito. Don Clemente aveva cercato invano dissuadere il vecchio Abate che se l'era cavata con una barzelletta: "leggete il Vangelo, la Passione secondo S. Marco: chi segue Cristo quando tutti lo abbandonano bisogna che ci rimetta l'abito. È un segno di santità." E poiché qualcuno doveva portare questo messaggio a Jenne, don Clemente preferì di portarlo egli. Aveva poi anche ricevuto una strana lettera dell'arciprete di Jenne. L'arciprete, brav'uomo ma timido, gli aveva scritto che Benedetto, a suo avviso, era veramente un pio cristiano ma che discorreva troppo di religione alla gente e che i suoi discorsi avevano qualche volta un certo sapore di quietismo e di razionalismo; che lo si accusava di esercitare a profitto delle sue idee non tanto ortodosse un potere diabolico; che l'accusa era sicuramente falsa ma ch'egli non aveva potuto, per prudenza, tenerlo ancora presso di sé, che forse il miglior partito sarebbe per lui di andarsene in qualche paese dove non fosse conosciuto e viverci quieto. Il dialogo fu interrotto da una chiamata di Maria. Noemi, spossata dal sole ardente, presa da palpitazione, aveva bisogno di un'altra sosta. Le Signore si erano sedute all'ombra di un sasso. Don Clemente si congedò. Si sarebbero riveduti a Jenne! Maria era molto angustiata per sua sorella, si rimproverava in cuor suo di non essersi opposta a che venisse a piedi. Lei e Giovanni tacevano guardando Noemi che sorrideva loro, pallida. In quel deserto di montagne senza bellezza, su quei sassi bruciati dal sole, il silenzio pesava di un peso mortale. Fu per tutti e tre un sollievo di udire voci di viandanti che salivano. Erano sei o sette persone, avevano seco due muli e salivano cantando il rosario. Quando furono vicini si videro sui muli una giovinetta e un uomo, sparuti ambedue, quasi cadaverici. La giovinetta, visti i Selva, spalancò gli occhi; l'uomo li teneva chiusi. Gli altri guardarono con certe facce compunte, continuando le preghiere. La nenia monotona si dilungò insieme al calpestio dei muli, si perdette nell'alto. Poco dopo la triste processione sopraggiunse dal basso una brigata allegra di giovinotti borghesi che ridevano parlando di Quiriti a caccia piuttosto di Sabine che di Santi. Al vedere Giovanni e le due Signore ammutolirono. Passati, ripresero a ridere e a scherzare; scherzarono su Giovanni che forse era il Santo fra le tentatrici. Una grande nube dagli orli di argento, la prima di una flotta che veleggiava verso ponente, oscurò il sole; e Noemi, alquanto rinfrancata, propose di approfittare dell'ombra per rimettersi in via. Pochi passi sotto la croce sognata, secondo quel Torquato, dall'arciprete, incontrarono un borghese vestito di nero che scendeva sul mulo. "Scusino" diss'egli alle Signore, trattenendo il mulo, "una di Loro è Sua Eccellenza la duchessa di Civitella?" Udita la risposta, si scusò dicendo che un senatore suo amico gli aveva raccomandata questa duchessa, da lui non conosciuta, che doveva capitare a Jenne per vedere il Santo. "Già" diss'egli sorridendo. "Forse anche Loro. Tutti adesso. Una volta ci venivano a vedere un Papa. Sicuro. A Jenne c'era un Papa. Alessandro IV. Vedranno l'iscrizione. "Calores aestivos vitandi caussa." Adesso ci vengono per un Santo. Dovrebb'essere più che un Papa. Ho paura che sia meno! Hanno visto i due malati? Hanno visto gli studenti di Roma? Eh, vedranno altro, vedranno altro! Ma ho paura che sia meno. Buon viaggio a Loro signori!" Oltrepassata la croce, montarono in faccia al cielo aperto, fra i dorsi verdi pendenti alla conca romita di Jenne, incoronata là di fronte dalla povera greggia di casupole che il campanile governa. Giovanni era stato a Jenne altre volte e non gli parve diversa perché ora vi dimorasse un Santo e vi si operassero miracoli. Sua moglie, che ci veniva per la prima volta, ebbe l'impressione di un luogo spirante raccoglimento religioso per quel senso di altezza non suggerito da vedute lontane, per quel cielo profondo dietro il villaggio, per la solitudine, per il silenzio. Noemi pensò con pietà profonda alla povera lontana Jeanne.

Erano Dane, a cavallo, Marinier e l' Abate a piedi, che scendevano insieme dal Sacro Speco. Dane mostrò molto piacere dell'incontro, trattenne la sua cavalcatura, presentò le Signore all' Abate, parlò con entusiasmo del Sacro Speco. Jeanne, scambiata qualche parola coll' Abate, gli domandò se qualcuno avesse pronunciato i voti solenni, o almeno vestito l'abito, di recente. L' Abate rispose ch'era venuto a Santa Scolastica da pochi giorni e non era in grado di risponderle lì per lì; ma non credeva che da un anno, a dir poco, nessuno a Santa Scolastica avesse fatto la professione solenne né vestito l'abito di novizio. Jeanne s'illuminò di gioia. Adesso lo capiva, era stata una stupida di dubitare possibile, anche per un solo momento, che Piero fosse diventato frate, da contadino, in dodici ore. Avrebbe voluto ritornare subito all'orto di Santa Scolastica; ma come fare? Quale pretesto prendere? Proseguì, ansiosa di sbrigarsi presto del Sacro Speco. Noemi propose di sostare un poco all'ombra dei lecci che là sulla via delle anime agitate dall'amor divino paiono torti anch'essi da un interno furore ascetico, da un frenetico sforzo di svellersi dalla terra per avventar le braccia nel cielo. Jeanne rifiutò, impaziente. Aveva ripreso colore nel volto e luce negli occhi. Si mise spedita per la scaletta che termina il breve cammino e malgrado le proteste di Noemi, che non capiva il perché di tanto mutamento, non volle neppure riprender fiato in capo alla scala, ove improvvisamente si scopre la scena cupa, profonda della vallea, e alto, a sinistra, l'orrido sasso caro ai falchi e ai corvi, rigonfio sopra le murature squallide, bucate di fori disadorni, che vi s'incrostano per traverso sugli anfratti nudi e sono il monastero del Sacro Speco. Sotto il monastero, nel profondo, pende il roseto di san Benedetto e sotto il roseto pendono gli orti, pendono gli uliveti al ruggente Aniene scoperto. Il cumulo assiso sui monti di Jenne saliva invadendo il cielo. Una ondata d'ombra passò sul sasso enorme, sul monastero, sul parapetto cui Noemi aveva appoggiato i gomiti, contemplando. "Questo è magnifico" diss'ella. "Lasciami fermare un po' qui almeno, ora che c'è ombra!" Ma in quel momento, a due passi da loro, si apriva la porticina del monastero e ne usciva una compagnia di stranieri, signori e Signore. Il monaco che li aveva guidati, vedendo Jeanne e Noemi, tenne aperto l'uscio in atto di aspettazione. Jeanne si affrettò a entrare e Noemi, mal suo grado, la seguì. "Affreschi del Trecento" disse il benedettino nell'oscuro corridoio di entrata, con voce indifferente e passando. Noemi si fermò, curiosa delle pitture antiche. Jeanne tenne dietro al benedettino, senza guardare né a destra né a sinistra, distratta, tentata da un dubbio. Se l' Abate non avesse detto il vero? Se lo avesse detto l'accattone? La fantasia le rappresentò l'incontro felice nel cortile di Praglia, il viso pallidissimo di lui, il "grazie" che l'aveva fatta tremar di gioia. Le correvano brividi nel sangue e, come per una strappata di redini all'immaginazione, si voltò a Noemi: "Vieni" diss'ella. Seguì il monaco nulla udendo di quello ch'egli diceva, nulla guardando di quello che indicava. Noemi dissimulava a fatica le proprie inquietudini. Presentiva un pericolo nel ritorno. Il punto pericoloso era l'orto di Santa Scolastica dove Jeanne intendeva rientrare, secondo aveva detto al vecchio ortolano. Adesso le era passato il desiderio di vedere questo famoso Maironi. Non desiderava che di ritornare con Jeanne a casa Selva senz'aver fatto incontri e avrebbe voluto indugiarsi al Sacro Speco il più possibile perché poi mancasse loro il tempo di sostare a Santa Scolastica. Perciò fingeva prendere alle viscere preziose del monastero dalla squallida pelle un interesse continuo, mentre invece sentiva solamente desiderio di ritornarvi un'altra volta, con sua sorella o con suo cognato, in pace. Nel discendere in quella miniera della santità, né l'una né l'altra sapevano qual via facessero per l'aria morta e fredda, per le ombre mistiche, per i chiarori giallognoli pioventi dall'alto, per gli odori di sasso umido, di lucignoli fumosi, di arredi vecchioni, per le visioni di cappelle, di grotte, di croci negli sfondi bui di scale perdentisi in fuga, a paro con le loro volte acute, giù verso caverne inferiori, di marmi color di sangue, color di notte, color di neve, di rigide folle pie dalle facce bizantine ingombranti le pareti, i timpani delle arcate, di monacelle e di fraticelli ritti nelle strombature delle finestre, nei pennacchi delle vôlte, lungo il giro degli archivolti, ciascuno con la sua venerabile aureola. Non sapevano quale cammino vi facessero e Jeanne appena ne sentiva la realtà. Nello scendere la Scala Santa, precedendo il monaco seguito immediatamente da Jeanne e Noemi venendo ultima a cinque o sei gradini di distanza, Jeanne, improvvisamente, gittò le mani alle spalle della guida e subito, vergognando dell'atto involontario, le ritolse mentre il monaco, fermatosi, le volgeva il capo, attonito. "Scusi" diss'ella. "Chi è quel Padre?" Fra due ripiani della Scala, dietro un risalto della parete di sinistra, una figura tutta nera nella tonaca benedettina si teneva ritta nell'angolo oscuro, appoggiando la fronte al marmo. Jeanne l'aveva oltrepassata di quattro o cinque gradini senza vederla. S'era voltata a guardare per caso, l'aveva veduta, un istintivo sospetto le era lampeggiato nel cuor tremante. Il monaco rispose: "Non è un Padre, signora." Si chinò ad aprire con la chiave la cancellata di una cappella. "Cosa c'è?" chiese Noemi, sopraggiungendo. "Non è un Padre?" ripeté Jeanne. Nell'udire la voce strana dell'amica, Noemi trasalì. Neppure lei aveva notato la figura ritta nell'ombra della parete. "Chi?" diss'ella. Il monaco, che intanto aveva aperto, intese "qui?" e riferì la parola a un discorso di prima. "No" disse "il ritratto autentico di san Francesco non è qui. Più abbasso c'è un san Francesco dipinto dal cavalier Manente. Lo vedranno dopo. Se vogliono passare ..." Noemi disse piano a Jeanne "cos'hai?" e avendo l'altra risposto con voce più tranquilla "niente" le passò avanti, entrò nella cappella, ascoltando le spiegazioni del monaco. Allora la figura nera si staccò dalla parete. Jeanne la vide salire lenta nell'ombra sotto le arcate ogivali. Toccato il ripiano superiore, la figura sparve a destra e subito ricomparve in un braccio di scala attraversato dall'obliquo sfondo della scena, luminoso nel raggio di una finestra invisibile. La figura saliva lenta, quasi faticosamente. Prima di sparire dietro il fianco enorme di un'arcata, piegò il capo a guardare in basso. Jeanne la riconobbe. Sull'attimo, quasi obbedendo a una fulminea volontà impostasi a lei, quasi portata dal turbine del suo destino, pallida, risoluta, senza sapere cos'avrebbe detto, cos'avrebbe fatto, ella prese l'ascesa. Attraversato il ripiano superiore, nel metter piede sulla scala chiara, traboccò a terra, vi giacque un momento; sì che Noemi, uscita della cappella, non la vide, la credette discesa in cerca del ritratto di san Francesco. Si rialzò, riprese la via, povera creatura di passione, richiamata invano dalle immagini di celeste pace, irrigidite sulle mura sacre. Tutto era davanti a lei silenzio e vuoto. Ell'andava per vie ignote a lei, veloce, sicura, come nella chiaroveggenza dell'ipnosi. Passava per buie stretture, per chiarori larghi, senza esitar mai, senza guardare né a destra né a sinistra, chiusi e acuiti tutti i sensi nell'udito, seguendo attimi di sussurri lontani, il dolersi lieve di un uscio, il vento di un altro, lo sfiorar di un abito a uno stipite. Così dai due spinti battenti dell'ultima porta ella emerse rapida in faccia a lui. Anch'egli l'aveva riconosciuta sulla Scala Santa, all'ultimo momento. Si tenne quasi certo di non essere stato riconosciuto alla sua volta; cercò tuttavia di togliersi dal solito cammino dei visitatori. Quando udì giungere a quella recondita sala un fruscìo rapido di vesti femminili, comprese, aspettò, a fronte della porta. Ella lo vide e impietrò sull'atto fra i battenti aperti, fissi gli occhi negli occhi di lui, che non avevano più lo sguardo di Piero Maironi. Era trasfigurato. La persona, forse per le vesti nere, pareva più sottile. Il viso pallido, scarno, spirava dalla fronte, fatta più alta, una dignità, una gravità, una dolcezza triste, che Jeanne non gli aveva conosciute mai. E gli occhi erano del tutto altri occhi, avevano un inesprimibile divino, tanta umiltà e tanto impero, l'impero di un amore trascendente, originario non del suo cuore ma di una mistica fonte ad esso interna, di un amore oltrepassante il cuore di lei, ricercantele più addentro una recondita regione dell'anima, ignota a lei stessa. Ella giunse lenta lenta le mani e piegò i ginocchi a terra. Benedetto si recò alle labbra l'indice della sinistra e tese l'altro alla parete fronteggiante il balcone aperto sui carpineti del Francolano e sul fragore del fiume profondo. Nel mezzo della parete nereggiava, grande, la parola SILENTIUM. Per secoli, da quando la parola era stata scritta, mai voce umana si era udita là dentro. Jeanne non guardò, non vide. A lei bastò quell'indice alle labbra di Piero per serrar le sue. Ma non bastò per costringerle il pianto in gola. Guardava guardava lui con le labbra strette e le sdrucciolavano grosse sul viso lagrime silenziose. Immobile, pendenti le braccia lungo la persona, Benedetto chinò un poco il capo e chiuse gli occhi, assorto nello spirito. La grande, nera parola imperatoria, grave di ombre e di morte, trionfava sulle due anime umane, ruggendo contro a lei dal balcone lucente le anime belluine dell' Aniene e del vento. A un tratto, pochi secondi dopo che gli occhi di Benedetto si erano chiusi allo sguardo di lei, ella balenò e si spezzò, dalle spalle alle ginocchia, in un singhiozzo amaro di tutta l'amara sua sorte. Egli aperse allora gli occhi, la guardò dolcemente, ed ella ribevve avida il suo sguardo, ebbe ancora due singhiozzi, quasi di dolorosa gratitudine. E perché l'amato si recò nuovamente l'indice alla bocca, gli accennò del capo di sì, di sì, che avrebbe taciuto, che si sarebbe chetata. Obbedendo sempre al suo gesto, al suo sguardo, si alzò in piedi, si fece da banda, lo lasciò passare per i battenti aperti, lo seguì umile, con la sua speranza morta nel petto, con tanti dolci fantasmi morti nella mente, con il suo amore fatto tremore e venerazione. Lo seguì fino alla cappella che chiamano la Chiesa superiore. Colà, di fronte alle tre piccole ogive che chiudono interne ombre dove si disegna un altare e una croce di argento brilla su parvenze fosche di pitture antiche, Jeanne s'inginocchiò, com'egli accennolle, sull'inginocchiatoio appoggiato al fianco destro della grande arcata che gira sulla volta acuta, mentr'egli s'inginocchiava su quello appoggiato al fianco sinistro. Sul timpano dell'arcata un pittore del secolo XIV ha dipinto il poema del massimo Dolore. Da un'alta finestra di sinistra scendeva la luce alla Dolorosa; Benedetto era nell'ombra. La voce di lui mormorò appena udibilmente: "Senza fede ancora?" Sommesso come aveva parlato egli e senza volgere il capo, ella rispose: "Sì." Egli tacque un momento e poi riprese con la stessa voce: "La desidera? Potrebbe operare come se credesse in Dio?" "Se non è necessario di mentire, sì." "Promette di vivere per i miseri e per gli afflitti, come se ciascuno di essi fosse una parte dell'anima da Lei amata?" Jeanne non rispose. Era troppo veggente e troppo leale per affermare che lo poteva. "Promette di farlo" riprese Benedetto "se io prometto di chiamarla presso di me in un'ora fissa dell'avvenire?" Ella non sapeva quale ora solenne, non lontana, egli pensasse, parlando così. Rispose palpitante: "Sì sì." "In quell'ora La chiamerò" disse la voce nell'ombra. "Però non cerchi mai rivedermi prima." Jeanne si strinse le mani sugli occhi, rispose un "no" soffocato. Le pareva di turbinare negli angosciosi sogni di una febbre mortale. Piero non parlava più. Passarono due, tre minuti. Ella si levò le mani dagli occhi lagrimosi, li fissò sulla croce che brillava là in faccia, oltre gli archetti ogivali, sulle fosche parvenze di pitture antiche. Mormorò: "Sa che don Giuseppe Flores è morto?" Silenzio. Jeanne volse il capo. Nessuno era più nella Chiesa.

Dubito di sentire troppo sdegno contro coloro che non le dividono, contro dei persecutori che dobbiamo amare, contro quell' Abate svizzero che venne qua con Dane e poi ha probabilmente parlato di ciò che si è detto allora tra noi, dove e come non doveva. Dubito di condurre una Vita troppo inoperosa, troppo facile, troppo piacevole, perché a me lo studio è piacevole. Dubito del mio stesso amore di Dio perché sento troppo poco l'amore del prossimo. Mi viene in mente che le dolcezze mistiche mi possono addormentare circa questo punto. Tu, Maria, tu vivi la tua fede! Tu visiti gl'infermi, tu lavori per i poveri, tu conforti, tu istruisci. Io non faccio niente." "Io sono tu" mormorò Maria. "Sei tu che mi hai fatta così. E poi tu eserciti la carità intellettuale." "No no, questa è per me una parola presuntuosa!" Egli ricadde a contemplare in silenzio l'ombra sonora. Maria sapeva che veramente il sentimento affettuoso della fraternità umana non era vivace in lui. Sentiva, non volendolo quasi confessare a sé stessa, che questa deficienza toglieva a suo marito di esercitare con successo il grande apostolato religioso che avrebbe dovuto rispondere alle sue disposizioni intellettuali, a quella fede profonda e luminosa ch'era in lui frutto d'ingegno, di studio, di amor divino più che di tradizione e di abitudine. Si rimproverava di essersi qualche volta compiaciuta della freddezza di Giovanni verso gli uomini, per il prezioso sapore che ne prendevano i tesori di affetto dati a lei. Egli aveva però la coscienza del dovere fraterno e mai ella non lo aveva conosciuto sordo alla preghiera, duro al dolore altrui. Non sentiva e quindi non amava Dio negli uomini, ch'è il più sublime fuoco della carità; sentiva e amava gli uomini in Dio, ch'è freddo amore, come di un fratello buono al fratello soltanto per compiacere al Padre. Ma quest'ultima è la tempra comune anche dei cuori umani migliori. Quello di Giovanni era temprato così, non poteva dare la carità sublime di cui umilmente, tristemente si conosceva vôto. Maria, accarezzandogli i capelli con infinita tenerezza pia, sognava che fluisse per il proprio cuore, per le proprie mani a quel capo la soave indulgenza Divina. "Sai" diss'ella "ti offro subito io un'opera di carità che avrà molto merito. C'è Noemi che ha ricevuto una lettera della sua amica Dessalle e dice di aver bisogno del tuo aiuto." "Chiamala" diss'egli. Noemi venne. Una leggera nube era passata quel giorno fra lei e Giovanni. Caso raro, avevano conversato insieme di religione. Noemi si teneva ciecamente aggrappata alla propria e non amava discuterne. Malgrado la sua tenerezza per Maria, il suo affettuoso rispetto per Giovanni, temeva di piegare, se esaminasse le ragioni e la natura del proprio credere, piuttosto verso lo scetticismo di Jeanne che verso il cattolicismo liberale e progressista dei Selva. Questo cattolicismo le pareva una cosa ibrida e forse aveva appreso da Jeanne a giudicarlo così, perché Jeanne, in qualche momento di cattiveria nervosa, difendeva con acrimonia il proprio scetticismo da quella fede che per essere luminosa di spirito e Verità poteva riuscirgli formidabile. Ell'era poi anche sempre in sospetto, non di sua sorella, ma di Giovanni che meditasse di convertirla; e il sospetto era trapelato, quel giorno, discorrendo i due della confessione, nella vivacità di qualche risposta. Allora Giovanni le aveva dolcemente e gravemente ricordato che l'errore accolto senz'averne coscienza, col desiderio sincero e puro della Verità, era incolpevole davanti a Dio; ma che se un sentimento estraneo a quel desiderio avesse parte nella ripulsa della Verità, ne sorgeva il peccato. Questo argomento ferì Noemi ancora più addentro. Ella fu per domandare al cognato i suoi titoli di vice-giudice divino. Si contenne e lasciò cadere il discorso. Più tardi, ripensandoci, ebbe rimorso del suo silenzio imbronciato; non tanto perché le ultime parole di Giovanni avessero fatto cammino nella sua mente, quanto perché sapeva dei dispiaceri che le opinioni religiose da lui professate gli fruttavano, perché lo vedeva abbattuto di spirito. Anche per questo, richiamata da lui, pregata da sua sorella d'essergli molto affettuosa, ella si risolse a una infedeltà verso Jeanne. Di quanto Jeanne le aveva scritto sotto il suggello del segreto, si era aperta con Maria solo fino al confine dello stretto necessario. Jeanne, sempre malata di corpo e di spirito, aveva udito parlare del Santo di Jenne che guariva i corpi e le anime, la pregava di recarsi a Jenne, di vedere questo Santo, di scrivergliene qualche cosa. Ora Noemi non poteva andare a Jenne tutta sola, doveva pur chiedere a Giovanni di accompagnarla. La sua prima confidenza si era fermata qui. Adesso ruppe tutti i suggelli dell'amicizia e parlò. La povera Dessalle era più infelice che mai. Nel breve soggiorno a Subiaco aveva incontrato l'antico amante. Esclamazione di Giovanni: era dunque proprio don Clemente? No, era l'uomo venuto alla villa col Padre la sera dell'arrivo di Jeanne, il garzone ortolano di Santa Scolastica, colui che non era più al monastero, colui del quale si parlava già in tutta la valle dell' Aniene, e anche a Roma, come del Santo di Jenne. Noemi si scusò di non averlo detto subito, allora. Guai se Jeanne fosse venuta a saperlo, dopo le sue proibizioni di parlare! E poi non serviva. Giovanni prese quasi furtivamente una mano di sua moglie e se la recò alle labbra. Maria intese e sorrise. Ambedue assalirono Noemi di domande. Sì, lo aveva riconosciuto la sera dell'arrivo e adesso Giovanni e Maria potevano intendere il perché di quel tramortimento che si era visto. L'incontro era poi avvenuto l'indomani al Sacro Speco. Noemi ne sapeva soltanto che le speranze di lei n'erano state distrutte, ch'egli vestiva da monaco e aveva parlato come un uomo datosi a Dio per sempre, ch'ella gli aveva promesso di dedicarsi ad opere di carità e che nessuna relazione diretta era più possibile fra loro. Adesso la Dessalle scriveva da villa Diedo, il soggiorno veneto dove si era ricondotta col fratello da Roma, due giorni dopo aver lasciato Subiaco. Scriveva in un'ora di amarissimo sconforto. Il fratello, sorpreso ch'ella si occupasse tanto de' poveri, s'irritava di questa novità nei suoi pensieri e nella sua Vita. Largheggiasse di denaro, se le piaceva, quanto le piaceva! Farsi venire una fila di pezzenti in casa, visitarli nei loro tugurii, no! Questo era sciocco, era inutile, era noioso, era ridicolo, era pazzesco, era clericale. C'erano altre difficoltà. Ell'avrebbe desiderato entrare nelle associazioni femminili caritatevoli della città. Al contatto della signora che aveva tanto fatto parlare di sé per Maironi, che se pure andava qualche volta in Chiesa la domenica però non adempiva il precetto pasquale, esse indietreggiavano chiudendosi in sé stesse come sensitive. E finalmente anche le sue abitudini di dama oziosa si ricomponevano via via dopo il primo strappo a impedirle il nuovo cammino, tanto più pronte quanto più il cammino si faceva difficile. Sentiva di dover soccombere se non le venisse una parola di consiglio, di aiuto da lui. Vederlo non poteva, scrivere non osava perché certamente egli aveva inteso vietare anche questo ed ella sarebbe morta piuttosto che fargli cosa sgradita, potendo evitarlo. Aveva letto una corrispondenza romana del Corriere sul "Santo di Jenne" dove si diceva che il Santo era giovine e aveva lavorato da bracciante nell'orto di Santa Scolastica. Era lui, dunque! Supplicava Noemi di andare a Jenne, di chiedergli per lei l'elemosina di un conforto. Noemi era risoluta di andare. Vorrebbe Giovanni accompagnarla? Nel tôno umile col quale lo chiese Giovanni sentì una tacita offerta di scuse e di pace, le stese la mano. "Di tutto cuore" diss'egli. Maria si offerse per terza compagna. Fu stabilito di andare l'indomani, a piedi, e di partire alle cinque del mattino per non avere il sole ardente sulla costa di Jenne, nuda e scoscesa. Poi si parlò del Santo. Tutta la valle ne era piena. La corrispondenza letta dalla Dessalle diceva che una quantità di gente affluiva a Jenne per vedere e udire il Santo, che si proclamavano guarigioni miracolose operate da lui, che i benedettini raccontavano con ammirazione la Vita di penitenza e di preghiera ch'egli aveva condotto per tre anni lavorando nell'orto di Santa Scolastica. A Subiaco si raccontava ben altro. Un tale Torquato, guardaboschi, brav'uomo, parente della domestica dei Selva, aveva detto a costei di essere andato a Jenne con un forestiere, una specie di poeta, venuto da Roma per parlare al Santo. Nell'andata e nel ritorno aveva veduto, tutt'assieme, forse una cinquantina di persone che si recavano a Jenne per lo stesso scopo. Fior di signori, anche; sulla costa di Jenne una processione di donne che cantavano le litanie. A Jenne aveva saputo tutta la storia. Una notte l'arciprete di Jenne aveva sognato un globo di fuoco sulla grande croce piantata a sommo della costa e questo globo di fuoco aveva acceso la croce che ardeva e splendeva senza consumarsi, illuminava tutte le montagne e le valli. Il giorno di poi egli si era visto capitare un giovine vestito da converso benedettino, che aveva l'incarico di recargli una lettera. Questa lettera era dell' Abate di Santa Scolastica e diceva: "Vi mando un angelo di fuoco ardente che farà parlare di Jenne in tutto l'universo mondo." Anche vi era scritto che questo giovine era nato principe grande di sangue di re, e che per servire Dio in umiltà si era fatto ortolano per tre anni a Santa Scolastica. E l'arciprete si era come impazzito per la commozione di questo fuoco sognato e di questo fuoco arrivato, e gli era venuta una grandissima febbre. L'indomani era giorno di festa. Degli altri due preti che stanno a Jenne uno era infermo e l'altro se n'era andato a Filettino due giorni prima per vedere sua madre inferma. La fantesca del parroco aveva raccontato nel paese di questo benedettino e del sogno e ogni cosa. La gente del paese era andata in Chiesa per udir la messa del benedettino che avean veduto entrarvi, e non voleva credere che il benedettino non dicesse messa. Volevano che almeno predicasse, malgrado le sue proteste di non averne il diritto in Chiesa; e, presolo in mezzo, gli facevano tanta ressa intorno ch'egli aveva accennato con la mano di uscire della Chiesa promettendo ai vicini di parlare fuori. E fuori aveva parlato. Che avesse propriamente detto, la fantesca non l'aveva saputo dire a Maria, né Maria l'aveva poi potuto cavar bene a Torquato. Un po' interrogando, un po' immaginando, ella si ricostituì il suo discorso così: Potete voi entrare in Chiesa? Siete voi riconciliati con i vostri fratelli? Sapete cosa Vi dice il Signore Gesù con questa parola che non si può avvicinarsi all'altare senza essersi riconciliati con i fratelli? Sapete che non potete entrare in Chiesa se avete mancato contro la carità e la giustizia e non ne avete fatto ammenda, o non ne siete pentiti quando nessuna ammenda è possibile? Sapete che non Vi è lecito di entrare in Chiesa se nutrite qualche rancore verso i fratelli vostri non solo, ma pure se avete fatto torto loro in qualunque modo, negl'interessi o nel'onore, se avete detto loro ingiuria, se portate nel cuore desiderii disonesti contro i loro corpi e le loro anime? Sapete che tutte le messe, le benedizioni, i rosarii, le litanie contano meno che niente se voi prima non vi purificate il cuore secondo la parola di Gesù? Siete voi immondi di odio, d'impurità? Andate, Gesù non vi vuole in Chiesa! Ma che! diceva Torquato. Il discorso era niente, era la voce, era il viso, erano gli occhi! Il buon uomo ne parlava come se vi ci fosse trovato. Allora la gente, giù, in ginocchio, e pianti; e certe donne, nemiche fra loro, ad abbracciarsi. Già non c'erano che donne e vecchi perché gli uomini di Jenne son tutti pecorai a Nettuno e ad Anzio, e prima della fine di giugno non ritornano alla montagna. Il Santo, vedutili così contriti, aveva detto: entrate, inginocchiatevi, Iddio è dentro di voi, adoratelo in silenzio. La gente era entrata, una moltitudine. Eran caduti in ginocchio, tutti, e per un quarto d'ora, Torquato raccontava così, si sarebbe udita, in quella grande Chiesa, una mosca volare. Poi il Santo aveva intonato il "Padre nostro" a voce alta e, seguito dal popolo, lo aveva recitato lentamente sostando a ogni versetto. E Torquato raccontava che l'arciprete, udito tutto questo, aveva baciato il suo ospite e nel baciarlo era guarito della febbre. Ecco portare infermi al Santo, in canonica, perché li benedica e li sani. Egli non voleva ma quanti riuscivano a toccargli, magari di furto, la tonaca, guarivano. E tanti andavano a lui per consiglio. C'era stato un miracolo grande di una mula imbizzarrita sulla discesa della costa, ch'era per gittare il suo cavaliere sulle pietre in vista del Santo, il quale saliva dall' Infernillo portando acqua. Il Santo aveva stesa la mano e la mula si era chetata sull'atto. Il racconto del guardaboschi fu riferito da Maria. "Che tutto sia vero come il principe di sangue reale?" disse Noemi. "Domani si saprà" rispose Giovanni, alzandosi.

Queste cose l' Albacina le sapeva dall' Abate Marinier che veniva a sorriderne argutamente nel suo salotto. Bisognava sentire quanto veleno di accuse, con quali arti, si seminava dagl'intransigenti, tutti d'accordo in questo, contro quel povero diavolo di razionalista mistico del quale l' Abate sorrideva non meno che de' suoi nemici! C'erano novità anche al ministero dell'Interno. Quali novità? Donna Rosetta stava per rispondere quando la carrozza si fermò davanti a un grande convento. Il cardinale alloggiava lì. Donna Rosetta discese sola. Dal cardinale la presenza di Jeanne non occorreva, sarebbe anzi stata inopportuna. Occorreva in altro luogo. Jeanne attese in carrozza, crucciata di non sapere ancora, dopo tante chiacchiere, il perché di quella visita. Passarono cinque, dieci minuti. Jeanne si rizzò sulla persona, dall'angolo dove si era raccolta nei suoi pensieri, a guardar l'entrata del convento, se donna Rosetta ricomparisse. Radi viandanti passavano lenti per la via silenziosa, guardavano nella carrozza. A Jeanne pareva offensivo che vi fosse della gente tanto tranquilla. Ah Dio, e lui, e lui? Il medico le aveva promesso un bollettino al Grand Hôtel per le sette. Non erano ancora le tre. Più di quattr'ore di attesa. E cosa direbbe il bollettino? Tante corse, tante pratiche, tanti maneggi, tante cose, e poi? Dio Dio, e poi? Si morse le labbra, si soffocò un singhiozzo in gola. Ah, ecco donna Rosetta, finalmente. Il cameriere apre lo sportello, ella gli ordina: "Palazzo Braschi!" E sale in carrozza, si getta un libriccino ai piedi, si strofina a furia le labbra, invece di parlare, col fazzoletto profumato, dice fremendo che ha dovuto baciar la mano al cardinale e ch'era tanto poco pulita. Però la visita è andata bene. Ah se suo marito sapesse! Ell'aveva fatto una parte veramente orribile. Il cardinale era quello famoso che si era incontrato una volta con Giovanni Selva nella biblioteca del monastero di Santa Scolastica a Subiaco, e lo aveva assalito chiamandolo profanatore delle mure sacre, promettendogli che sarebbe andato all'inferno e più giù Donna Rosetta aveva soffiato nel suo fuoco per mandare a monte l'accordo segreto fra Vaticano e palazzo Braschi, era andata a raccontargli che la haute religiosa di Torino voleva l'uomo scelto dal Vaticano e sgradito al Quirinale. Quel diavolo di cardinale, conosciuto da lei nel salotto di un prelato francese, aveva sulle prime risposto solamente, col suo accento né francese né italiano: "C'est vous qui me dites ça? C'est vous qui me dites ça?" Infatti donna Rosetta aveva risposto ridendo: "Oh c'est énorme, je le sais!" Era un discorso che poteva costare l' Eccellenza a suo marito. Ma poi l' Eminentissimo le aveva quasi promesso che i voti della haute di Torino parrebbero stati soddisfatti: "Ce sera lui, ce sera lui!" Finalmente le aveva detto: "Comment donc, madame, avez-vous épousé un franc-maçon? Un des pires, aussi! Un des pires! Faites lui lire cela!" E le aveva dato un libretto sulle dottrine infernali e la dannazione inevitabile dei framassoni. Era il libretto che l' Albacina si era gettato ai piedi salendo in carrozza. "Figuriamoci" diss'ella "se mio marito legge questa roba!" Ma che ne importava a Jeanne? Jeanne era impaziente di conoscere le novità del ministero dell' Interno. E ora da chi si andava, al ministero dell' Interno? Dal ministro o dal sottosegretario di Stato? Si andava dal sottosegretario di Stato, dal marito di donna Rosetta. Donna Rosetta aveva taciuto fino a quel momento il proposito e l'oggetto di questa visita per non lasciare a Jeanne il tempo di schermirsi né di prepararsi troppo. L'on. Albacina sapeva dell'amicizia di sua moglie per la signora Dessalle e dell'amicizia della signora Dessalle per i Selva, tanto legati, alla loro volta, a Maironi. Egli aveva detto a sua moglie di voler parlare direttamente a questa signora, per fini suoi che intendeva tacere. L'avrebbe aspettata al ministero dopo le tre. Ce la poteva portare lei, sua moglie; ma senz'assistere al colloquio. Il movimento primo di Jeanne fu un'esclamazione di rifiuto. Donna Rosetta la persuase facilmente a mutar consiglio. Ella non poteva dire che progetti avesse in testa suo marito, non lo sapeva; ma secondo lei sarebbe stata follia di non andare, di non udire, poiché non ci poteva essere pericolo, da parte di Jeanne, d'impegnarsi a niente. Jeanne si arrese, benché il silenzio serbato dall' Albacina fino all'ultimo in cosa di tanto momento, la facesse trepidare come un infermo cui si annunci, dopo molti discorsi scherzosi, la visita di un chirurgo celebre che verrà per dargli un'occhiata e non più. "Non Le direi di andar sola" conchiuse sorridendo l' Albacina. "Gli uscieri ne hanno viste tante, al tempo di certi ministri e vice-ministri! Ma ci vengo io che al ministero sono conosciuta; e poi adesso quello che accadeva una volta non accade più." L'on. Albacina stava presso il ministro. Un deputato, chiamato allora allora per entrare, riconobbe donna Rosetta e le offerse di annunciarla a suo marito. Egli non aveva che due parole a dire, sarebbe uscito subito. Infatti dopo cinque minuti l'on. deputato uscì insieme ad Albacina che pregò Jeanne di passare dal ministro con lui. Le due Signore non si attendevano a ciò, donna Rosetta domandò a suo marito se non fosse lui che voleva parlare a Jeanne. Sua Eccellenza non si smarrì per così poco, congedò sua moglie con modi molto sommarî e portò, di sorpresa, la Dessalle dal ministro. La presentò al superiore, imbarazzata, quasi offesa. Il ministro l'accolse colla più rispettosa cortesia, da uomo austero solito a onorare la donna tenendosene a distanza. Egli aveva conosciuto il banchiere Dessalle, Padre di Jeanne, e le ne parlò subito: "Un uomo" disse "che aveva molto oro nei suoi forzieri ma il più puro nella sua coscienza!" Soggiunse che questa memoria lo aveva incoraggiato ad abboccarsi con lei per una faccenda delicatissima. Proferite ch'egli ebbe queste parole, anzi mentre le diceva, Jeanne sentì con certezza che quell'uomo sapeva il passato. Ella non poté a meno, di guardare alla sfuggita il sottosegretario. Gli lesse negli occhi la stessa scienza; ma lo sguardo del sottosegretario la turbava e la irritava; quello del ministro, invece, le apriva un'anima paterna. Il ministro entrò in argomento parlando di Giovanni Selva del quale fece ampie lodi. Si dolse di non avere con lui relazioni personali. Disse di sapere che Jeanne era amica della famiglia Selva. Egli si rivolgeva a lei per affidare a questi suoi amici una missione importante presso un'altra persona. E parlò di Maironi, sempre avendo cura d'interporre i Selva fra lo stesso Maironi e Jeanne, di evitare ogni accenno a possibili comunicazioni dirette fra l'uno e l'altra. Jeanne lo ascoltava, divisa fra l'attenzione alle sue parole, intensa, lo studio, pure intenso, di preparare una risposta prudente, misurata, e il fastidio sdegnoso che le dava la presenza del piccolo, mefistofelico Albacina. Il discorso del ministro fu diverso da quello che, in principio, ella si attendeva; migliore ma più imbarazzante. Egli le disse che non parlava come ministro ma come amico; che con lei non voleva fare misteri; che certe ombre non avevano avuto assolutamente corpo; che né ministri, né magistrati, né agenti di P. S. avevano a occuparsi affatto del signor Maironi il quale era perfettamente libero di sé e niente aveva a temere dalla giustizia del suo paese, fattasi persuasa della inanità di certe accuse mossegli per odio religioso; ch'egli aveva molta simpatia per le idee religiose del signor Maironi e anche molta stima per i suoi propositi di apostolato, ma che il signor Selva doveva persuaderlo della opportunità di allontanarsi, almeno per qualche tempo, nell'interesse del suo stesso apostolato, da Roma dove gli si faceva dai suoi nemici religiosi una guerra tale, a colpi di calunnie, ch'egli era per rimanere ben presto, inevitabilmente, senza discepoli. Qui il ministro, anche credendo fare cosa gradita a Jeanne, affermò la propria religiosità; abbaglio tragico, pensò lei amaramente. Egli sperava che in un prossimo avvenire il signor Maironi potesse esercitare liberamente la propria influenza in luogo altissimo; vi erano molti segni di una prossima trasformazione di quel tale ambiente, di una prossima disgrazia degl'intransigenti; ma per ora gli era opportuno di eclissarsi. Questo era il consiglio amichevole ma pressante che si desiderava di fargli pervenire per mezzo del suo illustre amico. Accettava la signora Dessalle di parlare all'illustre amico? Jeanne trepidava. Era da fidarsi? Era da dir cose che forse coloro non sapevano e cercavano sapere da lei? Guardò involontariamente il sottosegretario e gli occhi suoi parlarono così chiaro ch'egli non poté a meno di pigliare una risoluzione. "Signora" disse col suo abituale sorriso sarcastico, "vedo che Lei non mi desidera. La mia presenza non è necessaria e me ne vado per ossequio al Suo desiderio: desiderio giusto e che si capisce." Jeanne arrossì ed egli se ne accorse, si compiacque di averla ferita con la coperta allusione che si conteneva nelle sue ultime parole e più ancora nel sorriso maligno. "Però" soggiunse collo stesso sorriso "non me ne andrò senz'affermarle, sulla mia parola, che mia moglie Le è un'amica fedelissima, che non mi ha mai tenuto sul Suo conto un solo discorso indiscreto; come, sullo stesso argomento, non ne ho mai tenuto io a mia moglie." Vendicatosi così, l'omino se ne andò, lasciando Jeanne agitatissima. Dio, intendevano proprio che avesse a parlare lei, a Piero? Supponevano che lo vedesse, pensavano essi pure che la santità di Piero fosse mentita? Si ricompose con uno sforzo supremo, cercò aiuto nello sguardo grave, mesto, rispettoso del ministro. "Parlerò al signor Giovanni" diss'ella. "Credo però" soggiunse esitando "che il signor Maironi sia ammalato, che non possa viaggiare." Nel nominare Maironi le salirono le vampe al viso. Ella le sentì assai più che non si vedessero. Però il ministro se ne avvide e venne in suo soccorso. "Forse, signora" diss'egli "Ella dubita di compromettere i Suoi amici Selva. Non abbia questo dubbio. Prima Le ripeto che il signor Maironi non ha niente a temere da nessuno e poi aggiungo che noi sappiamo tutto. Sappiamo ch'è in Roma, che sta, per poche ore ancora, presso un senatore del Regno, in via della Polveriera. Sappiamo pure ch'è ammalato ma ch'è in grado di viaggiare; anzi Lei può dire al signor Selva che io gli farò avere, se vuole, dal mio collega dei Lavori Pubblici un coupé riservato." Jeanne, tremante, fu per interromperlo, per esclamare: poche ore ancora? Si contenne appena e prese congedo per correre al Senato, sapere. "Forse il signor Selva lo ignora" disse il ministro, accompagnandola verso l'uscio "ma il senatore aspetta non so quali parenti e non potrà più alloggiare il signor Maironi. Gli rincresce. Gran brav'uomo! Siamo vecchi amici." Jeanne tremava di avere intravveduta la Verità. A palazzo Braschi che il senatore congedasse Piero; un'altra spinta per allontanarlo da Roma! Ma possibile che il senatore si fosse lasciato persuadere? Congedare un infermo in quello stato? Salì nel suo coupé , si fece portare a palazzo Madama, chiese del senatore. Non c'era. L'usciere che le rispose così le parve un po' imbarazzato. Aveva una consegna? Non osò insistere, lasciò una carta colla preghiera di passare dal Grand Hôtel prima di pranzo. Ella stessa partì per il Grand Hôtel fremendo, e gemendo insieme nel suo cuore, battendo colla punta del piede il libretto contro la Massoneria, dimenticato da donna Rosetta. Avrebbe voluto che i due sauri volassero. Erano le quattro e tre quarti e il suo dovere quotidiano era di preparare la medicina per Carlino alle quattro e mezza.

"Forse una volta" diss'egli "per un momento, a Santa Scolastica, quando il mio Maestro, a nome dell' Abate, mi offerse una veste di converso, la veste che poi mi fu tolta a Jenne. Allora pensai per un momento che questa offerta inattesa confermasse l'ultima parte della Visione e n'ebbi un moto di compiacenza, mi stimai oggetto di una predilezione Divina. Ne domandai subito perdono a Dio e adesso ne domando perdono a Vostra Santità." Il Pontefice non parlò, ma la sua mano si alzò spiegata e ridiscese in un atto di indulgenza. Egli si diede poi a maneggiare le carte diverse che aveva sul tavolino, parve consultarne attentamente più d'una. Quindi le posò, le raccolse, le fece da banda, riprese a parlare. "Figlio mio" diss'egli "ti devo domandare altre cose. Hai nominato Jenne. Io neppure non sapevo che esistesse, questo Jenne. Me lo hanno descritto. Diciamo il vero, non si capisce perché tu ti sia andato a cacciare a Jenne." Benedetto sorrise lievemente ma non volle discolparsi, interrompere il Papa, il quale continuò: "È stata un'idea disgraziata, perché chi può dir bene cosa succede a Jenne? Sai di aver avuto lassù della gente che ti vedeva di mal occhio?" Benedetto pregò semplicemente Sua Santità che lo dispensasse dal rispondere. "Ti capisco" rispose il Papa "e debbo dire che la tua preghiera è cristiana. Tu non dirai niente ma io non posso tacere che sei stato accusato di molte cose. Lo sai?" Benedetto sapeva di un'accusa sola o almeno ne dubitava. Il Papa aveva l'aria più imbarazzata di lui. Egli era sereno. "Ti accusano" ripigliò il Papa "di esserti spacciato, a Jenne, per un taumaturgo e di essere stato causa, per questi tuoi vanti, che un disgraziato morisse in casa tua. Si arriva persino a dire ch'egli è morto per certi beveraggi che gli hai dati. Ti accusano di aver predicato al popolo piuttosto da protestante che da cattolico e anche ..." Il Santo Padre esitò. Al suo pudore verginale ripugnava persino accennare a certe cose. "Di relazioni non lecite" disse "con la maestra del paese. Cosa rispondi, figlio mio?" "Santo Padre" rispose Benedetto, tranquillo, "lo Spirito risponde per me nel Suo cuore." Il Pontefice lo guardò, attonito, ma non solamente attonito; anche un poco turbato, come se Benedetto gli avesse letto nell'anima. Il viso gli si dipinse di un lieve rossore. "Spiegati" diss'egli. "Iddio mi dona di leggere nel Suo cuore che Lei non crede ad alcuna di quelle accuse." A queste parole di Benedetto il Papa contrasse lievemente le sopracciglia. "Adesso" riprese Benedetto "Vostra Santità pensa che io mi attribuisca una chiaroveggenza miracolosa. No, è una cosa che vedo nel Suo viso, che sento nella Sua voce, da povero uomo comune quale sono." "Forse tu sai" esclamò il Papa"chi è stato in questi giorni da me!" Egli aveva fatto chiamare a Roma l'arciprete di Jenne, lo aveva interrogato su Benedetto. L'arciprete, trovato un Papa di suo genio, un Papa ben diverso dai due zelanti che lo avevano intimorito a Jenne, non aveva perduta l'occasione di mettersi facilmente in pace colla propria coscienza, aveva dato sfogo ai rimorsi lodando e rilodando. Benedetto non ne sapeva niente. "No" rispose "non lo so." Il Pontefice tacque, ma il suo viso, le mani, la intera persona, tradivano una viva inquietudine. Egli si abbandonò finalmente sulla spalliera della seggiola, chinò il capo sul petto, stese le braccia al tavolino e appoggiatevi le mani, una presso all'altra, pensò. Mentre pensava, immobile, fissi gli occhi nel vuoto, la fiamma della lucernina a petrolio salì fumigando, rossa, nel tubo. Egli non se n'avvide subito. Quando se n'avvide la regolò e poi ruppe il silenzio. "Credi tu" diss'egli "avere veramente una missione?" Benedetto rispose, con una espressione di fervore umile: "Sì, lo credo." "E perché lo credi?" "Santità, perché ciascuno viene al mondo con una missione scritta nella sua natura. Quand'anche non avessi avuto visioni né altri segni straordinari, la mia natura ch'è religiosa mi imporrebbe il dovere di un'azione religiosa. Come posso dirlo? Ecco, lo dirò ..." Qui la voce di Benedetto tremò di emozione " ...come non l'ho detto a nessuno. Io credo, io so che Dio è il nostro Padre di tutti, ma io sento nella mia natura la Sua paternità. Quasi non è un dovere il mio, è un sentimento di figlio." "E credi avere il cómpito di esercitarla qui, adesso, un'azione religiosa?" Benedetto giunse le mani come se implorasse già di venire ascoltato. "Sì" diss'egli "anche qui, anche adesso." Ciò detto, pose un ginocchio a terra tenendo sempre giunte le mani. "Alzati" disse il Santo Padre. "Di' liberamente quello che lo Spirito ti consiglia." Benedetto non si alzò. "Mi perdoni" diss'egli "io devo parlare al solo Pontefice e qui non mi ascolta il solo Pontefice!" Il Papa trasalì, lo interrogò con gli occhi, severo. Benedetto porse un poco il mento, inarcando le sopracciglia, verso una porta grande alle spalle del Papa. Questi prese un campanello di argento che stava sul tavolino, accennò imperiosamente a Benedetto di alzarsi e suonò. Ricomparve dalla porta della Galleria il prete di prima. Il Papa gli ordinò di far venire in Galleria don Teofilo, il cameriere fedele che aveva portato con sé dalla sua sede arcivescovile del Mezzogiorno. Venuto don Teofilo, egli andrebbe ad attendere Sua Santità nelle sale della Biblioteca. "Ripasserai di qua" diss'egli. Parecchi minuti trascorsero nell'attesa silenziosa che colui rientrasse. Il Pontefice, pensoso, non alzò mai gli occhi dal tavolino. Benedetto, in piedi, teneva chiusi i suoi. Li aperse quando rientrò il prete. Uscito che fu costui per la porta sospetta, il Papa accennò con la mano e Benedetto parlò, a voce bassa. Il Pontefice lo ascoltava stringendo i bracciuoli della sedia, pôrta in avanti la persona e chino il viso. "Santo Padre" disse Benedetto "la Chiesa è inferma. Quattro spiriti maligni sono entrati nel suo corpo per farvi guerra allo Spirito Santo. Uno è lo spirito di menzogna. Anche lo spirito di menzogna si trasfigura in angelo di luce e molti pastori, molti maestri della Chiesa, molti fedeli buoni e pii ascoltano devotamente lo spirito di menzogna credendo ascoltare un angelo. Cristo ha detto: "io sono la Verità" e molti nella Chiesa, anche buoni, anche pii, scindono la Verità nel loro cuore, non hanno riverenza per la Verità che non chiamano religiosa, temono che la Verità distrugga la Verità, pongono Dio contro Dio, preferiscono le tenebre alla luce e così ammaestrano gli uomini. Si dicono fedeli e non comprendono quanto scarsa e codarda è la loro fede, quanto è loro straniero lo spirito dell'apostolo che tutto scruta. Adoratori della lettera, vogliono costringere gli adulti a un cibo d'infanti che gli adulti respingono, non comprendono che se Dio è infinito e immutabile, l'uomo però se ne fa un'idea sempre più grande di secolo in secolo e che di tutta la Verità Divina si può dire così. Essi sono causa di una funesta perversione della Fede, che corrompe tutta la Vita religiosa; perché il cristiano che con uno sforzo si è piegato ad accettare quello ch'essi accettano e a respingere quello che respingono, crede aver già fatto il più per servire Iddio, mentre ha fatto meno che niente e gli resta di vivere la fede nella parola di Cristo, nella dottrina di Cristo, gli resta di vivere il fiat voluntas tua , che è tutto. Santo Padre, oggi pochi cristiani sanno che la religione non è principalmente adesione dell'intelletto a formole di Verità ma che è principalmente azione e Vita secondo questa Verità, e che alla fede vera non rispondono solamente doveri religiosi negativi e obblighi verso l'autorità ecclesiastica. E quelli che lo sanno, quelli che non scindono la Verità nel loro cuore, quelli che hanno il culto supremo di Dio Verità, che ardono di una fede impavida in Cristo, nella Chiesa e nella Verità, ne conosco, Santo Padre!, quelli sono combattuti acremente, sono diffamati come eretici, sono costretti al silenzio, tutto per opera dello Spirito di menzogna, che lavora da secoli nella Chiesa una tradizione d'inganno per la quale coloro che oggi lo servono si credono di servire Iddio, come lo credettero i primi persecutori dei cristiani. Santità ..." Qui Benedetto pose un ginocchio a terra. Il Papa non si mosse. Pareva aver abbassato il capo ancora di più. Il zucchetto bianco era quasi tutto nel lume della lucernina. " ...io ho letto proprio oggi grandi parole di Lei ai Suoi diocesani antichi, sulla molteplice rivelazione di Dio Verità nella Fede e nella Scienza, e anche direttamente, misteriosamente, nell'anima umana. Santo Padre, molti, moltissimi cuori di sacerdoti e di laici appartengono allo Spirito Santo; la Spirito di menzogna non ha potuto entrarvi neppure sotto una veste angelica. Dica una parola, Santo Padre, faccia un atto che rialzi questi cuori devoti alla Santa Sede del Pontefice romano! Onori davanti a tutta la Chiesa qualcuno di questi uomini, di questi sacerdoti che sono combattuti dallo Spirito di menzogna, ne sollevi qualcuno all'episcopato, ne sollevi qualcuno al Sacro Collegio! Anche questo, Santo Padre! Consigli esegeti e teologi, se è necessario, a camminare prudenti poiché la scienza non progredisce che a patto di essere prudente; ma non lasci colpire dall' Indice né dal Sant' Uffizio per qualche soverchio ardimento uomini che sono l'onore della Chiesa, che hanno la mente piena di Verità e il cuore pieno di Cristo, che combattono per difesa della fede cattolica! E poiché Vostra Santità ha detto che Iddio rivela le sue Verità anche nel segreto delle anime, non lasci moltiplicare le divozioni esterne, che bastano, raccomandi ai Pastori la pratica e l'insegnamento della preghiera interiore!" Benedetto tacque un momento, spossato. Il Papa alzò il viso, guardò l'uomo inginocchiato che lo fissava con occhi dolorosi, luminosi sotto le sopracciglie contratte, vibrando nelle mani giunte dove si appuntava lo sforzo dello spirito. Il viso del Papa tradiva una commozione intensa. Egli voleva dire a Benedetto che si alzasse, che sedesse; e non parlò per timore di tradire la commozione anche nella voce. Insistette a cenni, tanto che Benedetto si alzò e presa la sua seggiola, appoggiatevi alla spalliera le mani ancora giunte, ricominciò a parlare. "Se il clero insegna poco al popolo la preghiera interiore che risana l'anima quanto certe superstizioni la corrompono, è per causa del secondo spirito maligno che infesta la Chiesa trasfigurato in angelo di luce. Questo è lo spirito di dominazione del clero. A quei sacerdoti che hanno lo spirito di dominazione non piace che le anime comunichino direttamente e normalmente con Dio per domandarne consiglio e direzione. A buon fine! Il Maligno inganna, così la loro coscienza; a buon fine! Ma le vogliono dirigere essi in qualità di mediatori e queste anime diventano fiacche, timide, servili. Non saranno molte, forse; i peggiori maleficî dello spirito di dominazione sono diversi. Egli ha soppressa l'antica santa libertà cattolica. Egli cerca fare all'obbedienza, anche quando non è dovuta per legge, la prima delle virtù. Egli vorrebbe imporre sottomissioni non obbligatorie, ritrattazioni contro coscienza, dovunque un gruppo d'uomini si associa per un'opera buona prenderne il comando, e, se declinano il comando, rifiutar loro l'aiuto. Egli tende a portare l'autorità religiosa anche fuori del campo religioso. Lo sa l' Italia, Santo Padre. Ma cosa è l' Italia? Non è per essa che io parlo, è per tutto il mondo cattolico. Santo Padre, Ella forse non lo avrà provato ancora, ma lo spirito di dominazione vorrà esercitarsi anche sopra di Lei. Non ceda, Santo Padre! Ella è il Governatore della Chiesa, non permetta che altri governi Lei, non sia il Suo potere un guanto per invisibili mani altrui. Abbia consiglieri pubblici e siano i vescovi raccolti spesso nei Concilii nazionali e faccia partecipare il popolo alla elezione dei vescovi scegliendo uomini amati e riveriti dal popolo, e i vescovi si mescolino al popolo non solamente per passare sotto archi di trionfo e farsi salutare dal suono delle campane ma per conoscere le turbe e per edificarle a imitazione di Cristo, invece di starsene chiusi da principi orientali negli episcopii, come tanti fanno. E lasci loro tutta l'autorità che è compatibile con quella di Pietro! Santità, posso parlare ancora?" Il Papa, che da quando Benedetto aveva ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve abbassar del capo. "Il terzo spirito maligno" riprese Benedetto "che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perché saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell'avere. Quale di essi piega la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perché ha molto, quale lusinga con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della ricchezza, l'aderire con l'anima alle comodità della ricchezza pare lecito a troppi predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo Padre, richiami il clero a meglio usare verso i cupidi dell'avere, sieno ricchi, sieno poveri, la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!" Benedetto tacque, fissando il Papa con una espressione intensa di appello. "Ebbene?" mormorò il Papa. Benedetto allargò le braccia e riprese: "Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo cómpito ai nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo dieno l'esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi? Qualcuno lo è; i più non sono né luce né tenebre." Qui, per la prima volta, il Pontefice assentì del capo mestamente. "Il quarto spirito maligno" proseguì Benedetto "è lo spirito d'immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d'immobilità credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d'immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl'increduli; colpa grave davanti a Dio!" Il petrolio veniva mancando nella lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la breve sfera di luce in cui si disegnavano, l'una in faccia all'altra, la bianca figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi. "Contro lo spirito d'immobilità" disse questi "io la supplico di non permettere che sieno posti all' Indice i libri di Giovanni Selva." Quindi, posta la seggiola da banda, s'inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più acceso: "Vicario di Cristo, io La scongiuro di un'altra cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un'opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà forse: "no" ma si va. Dal Vaticano si risponde "sì" a Cristo, ma non si va. Che dirà Cristo, Santo Padre, nell'ora terribile? Queste parole mie, se fossero conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello." La fiammella della lucerna mancava, mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che la destra posata sul campanello d'argento. Appena Benedetto tacque, il Santo Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due volte. La porta della Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di don Teofilo. "Teofilo" disse il Papa, "in Galleria, è riaccesa la luce?" "Sì, Santità." "Allora passa in Biblioteca dove troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli un'altra lucerna." Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo di statura e tuttavia un po' curvo. Mosse verso la porta della Galleria accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta. Triste presagio, nella buia sala dov'eran corse tante fiammelle di parole accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente. La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l'iscrizione commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine. Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che guardavano l'oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si avanzava lento, silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò, attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne, tagliato in fondo alla loggia dall'obliquo profilo dell'ombra piena, dentro la quale mal si discerneva il busto di Giovanni. Il Papa percorse la loggia fino a quell'ombra, vi entrò, vi si trattenne. Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l'aria di premere irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l'astro veleggiante fra nuvole grandi su Roma. Mirando l'astro, domandò a sé, a qualche Invisibile che gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse parlato egli? Oh no, le parole gli erano venute alle labbra senza meditazione, aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale ancora levando la faccia verso l'astro, come un cieco che porgesse il viso avido al divinato splendore di argento. Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad ascoltarlo. "Figlio mio" disse Sua Santità "alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero Maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio tributo di omaggio là in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri dall' Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un'epidemia, andassi, ex abrupto , a visitare gli ospedali di Roma." "Oh Santità!" esclamò Benedetto "mi perdoni ma non è sicuro che queste anime disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali non si acquistano!" "E poi" continuò il Papa come se non avesse udito "sono vecchio, sono stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice. Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch'io, con il Suo aiuto, potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene aiutare a farle. Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure questo Giovanni? Non dico però di non fare niente." Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di più, non gliene lasciò né il modo né il tempo, gli fece una domanda gradita. "Tu conosci Selva" diss'egli. "Privatamente, che uomo è?" "È un giusto" si affrettò a rispondere Benedetto. "Un gran giusto. I suoi libri sono stati denunciati alla Congregazione dell' Indice. Forse vi si troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che rimpiccioliscono indegnamente l'idea di Dio nello spirito umano; non condanni questi che la ingrandiscono!" Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l'accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata: "Prega per me, prega che il Signore m'illumini." Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare. "Vieni ancora" disse il Papa. "Dobbiamo discorrere ancora." "Quando, Santità?" "Presto. Ti farò avvertire." Intanto l'ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò sommessamente, quasi esitante: "Ricordi la fine della tua visione?" Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.

Il suo primo torto era stato di portare il messaggio dell' Abate. Noemi non sapeva di questo messaggio. Udito che si voleva spogliare Benedetto della sua tonaca, scattò: Benedetto non doveva obbedire! Intanto Benedetto e il Padre mossero verso la porta. Benedetto si tenne in disparte; il Padre venne a dire ai Selva e a Noemi che, parecchia gente volendo parlare a Benedetto, egli aveva combinato un ritrovo comune presso un Signore del paese. Doveva ora precederli, con Benedetto, colà. Sarebbe venuto a riprenderli in Chiesa fra pochi minuti. Il Signore era quel tale che i Selva avevano incontrato sulla costa di Jenne dove stava in attesa della duchessa di Civitella. La duchessa era poi arrivata con altre due dame e con alcuni cavalieri fra i quali un giornalista, il giovinotto elegantissimo dalla caramella. Il Signore di Jenne non capiva più nella pelle, si sentiva per quel giorno in corpo uno spirito ducale di bontà e di magnificenza. Perciò don Clemente, consigliato dall'arciprete di rivolgersi a lui, ne aveva facilmente ottenuto la promessa, per Benedetto, di un vecchio abito nero da mattina, di una cravatta nera, di un cappello nero a cencio. Quando, nella camera dov'erano preparate le vesti laicali, il discepolo, svestita la tonaca, prese, tacendo sempre, a indossarle, il Maestro, che stava alla finestra, non poté trattenere un singhiozzo. Pochi momenti dopo Benedetto lo chiamò dolcemente. - Padre mio diss'egli. "Mi guardi." Vestito dei nuovi panni, troppo lunghi e larghi, egli sorrideva, mostrando pace. Il Padre gli afferrò una mano per baciargliela; ma Benedetto, ritratta con impeto la mano, allargò le braccia, si strinse al petto lui che parve allora il minore, il figliuolo, il penitente ministro di tristi prepotenze umane che sul palpito divino di quel petto si sciogliessero in polvere, cenere e niente. Stettero così abbracciati lungamente senza dir parola. "L'ho fatto per te" mormorò alfine don Clemente. "Ti ho portato io il messaggio ignominioso per vedere la grazia del Signore risplendere in questo tuo abito vile più che nella tonaca." Benedetto lo interruppe. "No no" diss'egli "non mi tenti, non mi tenti! Ringraziamo Iddio, invece, che appunto mi castiga per quel compiacimento presuntuoso che ho avuto a Santa Scolastica quando Lei mi ha offerto l'abito benedettino e io ho pensato che nella mia visione mi ero visto morire con quell'abito. Il mio cuore si alzò allora come dicendosi: "sono veramente prediletto da Dio!" E adesso ... "Oh ma ...!" esclamò il Padre e subito tacque, tutto una fiamma nel viso. Benedetto credette intendere che avesse pensato: "non è detto che tu non lo riprenda, l'abito che hai spogliato! non è detto che la visione non si avveri!" e che poi non avesse voluto dire il suo pensiero, sia per prudenza, sia per non alludere alla sua morte. Sorrise, lo abbracciò. Il Padre si affrettò a parlare d'altro, scusò l'arciprete ch'era dolente di quanto accadeva, che non avrebbe voluto allontanare Benedetto ma temeva i Superiori. Non era un don Abbondio, non temeva per sé, temeva per lo scandalo di un conflitto con l' Autorità. "Io gli perdono" disse Benedetto "e prego Dio che gli perdoni, ma questo difetto di coraggio morale è una piaga della Chiesa. Piuttosto che mettersi in conflitto con i Superiori ci si mette in conflitto con Dio. E si crede di sfuggire a questo sostituendo alla propria coscienza, dove Dio parla, la coscienza dei Superiori. E non s'intende che operando contro il bene o astenendosi da operare contro il male per obbedire ai Superiori si è di scandalo al mondo, si macchia davanti al mondo il carattere cristiano. Non s'intende che il debito verso Dio e il debito verso i Superiori si possono compiere insieme non operando mai contro il bene, non astenendosi mai da operare contro il male, ma senza giudicare i Superiori, ma obbedendo loro con perfetta obbedienza in tutto che non è contro il bene o a favore del male, deponendo ai loro piedi la propria Vita stessa, solo non la coscienza; la coscienza, mai! Allora questo inferiore spogliato di tutto fuorché della sua coscienza e della sua obbedienza giusta, questo inferiore è un puro grano del sale della terra e dove molti di questi grani si trovino uniti, ciò cui essi aderiscono resterà incorrotto e ciò cui non aderiscono cadrà imputridito!" A misura che parlava, Benedetto si veniva trasfigurando. Nel pronunciare le ultime parole sorse in piedi. Gli occhi avevano lampi, la fronte un chiarore augusto dello spirito di Verità. Posò le mani sulle spalle di don Clemente. "Maestro mio" diss'egli raddolcendosi nel viso "io lascio il tetto, il pane e l'abito che mi furono offerti, ma non lascerò di parlare di Cristo Verità fino a che avrò Vita. Me ne vado ma non per tacere. Si ricorda di avermi fatto leggere la lettera di S. Pier Damiano a quel laico che predicava? E quello là predicava in Chiesa! Io non predicherò in Chiesa ma se Cristo vuole che io parli nei tugurii, nei tugurii parlerò; se vuole che io parli nei palazzi, nei palazzi parlerò; se vuole che io parli nei cubicoli, parlerò nei cubicoli; se vuole che io parli sui tetti, parlerò sui tetti. Pensi all'uomo che operava nel nome di Cristo e ne fu proibito dai discepoli. Cristo ha detto: lasciatelo fare. È da obbedire ai discepoli o è da obbedire a Cristo?" "Per l'uomo del Vangelo sta bene, caro" rispose don Clemente "ma ora sulla volontà di Cristo ci si può anche ingannare, bada." Il cuore di don Clemente non parlava propriamente così; ma le parole imprudenti, indisciplinate del cuore non furon lasciate passare alle labbra. "Del resto, Padre mio" riprese Benedetto "lo creda, io non sono bandito per avere evangelizzato il popolo. Vi sono due cose ch'Ella deve sapere. La prima è questa: mi è stato proposto, qui a Jenne, da qualcuno che mi parlò quella volta e poi non vidi più, di abbracciare la carriera ecclesiastica per diventare missionario. Risposi che non mi sentivo chiamato. La seconda è questa. Nei primi giorni dopo la mia venuta a Jenne, discorrendo di religione con l'arciprete, gli parlai della vitalità eterna della dottrina cattolica, del potere che ha l'anima della dottrina cattolica di trasformare continuamente il proprio corpo, accrescendone senza limiti la forza e la bellezza. Lei sa, Padre mio, da chi mi sono venute queste idee per mezzo di Lei. L'arciprete deve avere riferito il mio discorso, che gli era piaciuto. Il giorno dopo mi domandò se a Subiaco avessi conosciuto Selva, se avessi letto i suoi libri. Mi disse ch'egli non li aveva letti ma sapeva ch'erano da fuggire. Padre mio, Ella comprende. È per causa del signor Selva e dell'amicizia di Lei col signor Selva che io parto da Jenne così. Non La ho mai tanto amata quanto adesso, non so dove andrò ma dovunque il Signore mi mandi, vicino o lontano, non mi abbandoni nell'anima Sua!" Così dicendo con un tumulto, nella voce, di dolore e di amore, Benedetto si gettò un'altra volta nelle braccia del Maestro che, straziato egli pure da una tempesta di sentimenti diversi, non sapeva se domandargli perdono o promettergli gloria, la vera; e solamente poté dirgli, ansando: "Anch'io, tu non sai! ho bisogno di non essere abbandonato dall'anima tua." Don Clemente raccolse in un fardello, maneggiandolo con mani guardinghe, riverenti, l'abito deposto dal discepolo. Raccolto che l'ebbe, disse a Benedetto che non poteva offrirgli l'ospitalità di Santa Scolastica, che aveva avuto in animo di pregare i signori Selva, ma che ora gli sorgeva il dubbio se a Benedetto fosse opportuno, nell'interesse del suo stesso apostolato, mettersi così pubblicamente sotto la protezione del signor Giovanni. Benedetto sorrise. "Oh, questo no!" diss'egli. "Temeremo noi le tenebre più che non ameremo la luce? Ma ho bisogno di pregare il Signore che mi faccia conoscere, se possibile, la Sua volontà. Forse vorrà questo, forse altro. E adesso vorrebbe farmi portare un po' di cibo e di vino? Poi mi mandi chi mi vuole parlare." Don Clemente si meravigliò, nel suo interno, che Benedetto gli domandasse del vino ma non ne fece mostra. Disse che gli avrebbe mandata pure quella signorina che stava con i Selva. Benedetto lo interrogò cogli occhi, ricordando che quando la signorina, poi riveduta in Chiesa, gli aveva chiesto un colloquio, don Clemente gli aveva stretto il braccio come per ammonirlo tacitamente di stare in guardia. Don Clemente, arrossendo molto, si spiegò. Aveva veduta la signorina a Santa Scolastica insieme a un'altra persona. Quel moto era stato involontario. L'altra persona era lontana. "Non ci rivedremo" diss'egli "perché appena ti avrò mandato il cibo e avrò avvertite queste persone, dovrò partire per Santa Scolastica." Benedetto, parlando di andare a Subiaco o altrove, aveva detto "forse questo, forse altro" con un accento così pregno di sottintesi, che don Clemente, nel congedarsi, gli sussurrò: "Pensi a Roma?" Invece di rispondere, Benedetto gli prese dolcemente di mano il fardello dov'era la povera tonaca concessa e ritolta, se l'accostò, non senza un tremito delle mani, alle labbra, ve le impresse, ve le tenne lungamente. Era il rimpianto dei giorni di pace, di lavoro, di preghiera, di parola evangelica? Era l'attesa di un'ora lucente nell'avvenire? Rese il fardello al Maestro. "Addio" diss'egli. Don Clemente uscì a precipizio. La stanza offerta dal padrone di casa per le udienze di Benedetto aveva un grande canapè, un tavolino quadrato coperto di un panno giallo a fiorami azzurri, delle sedie sgangherate, delle poltrone che mostravano la stoppa per gli squarci del vecchio cuoio stinto, due ritratti di avoli parrucconi dalle cornici annerite, due finestre, una quasi accecata da una muraglia greggia, l'altra aperta sui prati, sulla faccia di un bel monte pensoso, sul cielo. Benedetto, prima di ricevere visitatori, vi si affacciò per un addio ai prati, al monte, al povero paese. Preso da spossatezza, si appoggiò al davanzale. Era una spossatezza dolce dolce. Non si sentiva quasi più il peso del corpo e il cuore gli si ammolliva di beatitudine mistica. Poco a poco, perdendo i suoi pensieri oggetto e forma, il senso della quieta innocente Vita esterna, delle stille che gocciavano dai tetti, dell'aria odorata di montagna, lievemente, occultamente mossa ora in questa ora in quella parte, lo intenerì. Gli rinacquero nella memoria ore lontane della sua giovinezza prima, quando non aveva moglie né pensava al matrimonio, la fine di un temporale nell'alta Valsolda, sui dorsi del Pian Biscagno. Quanto diversa la sua sorte se i suoi genitori avessero vissuto trenta, vent'anni di più! Almeno uno di essi! Si vide nel pensiero la lapide del camposanto di Oria: a Franco in Dio la sua Luisa e gli occhi gli si gonfiarono di pianto. Venne allora una reazione violenta della volontà contro questi languori molli del sentimento, questa tentazione di debolezza. "No no no" mormorò egli, udibilmente. Una voce, alle sue spalle, rispose: "Non ci vuole ascoltare?" Benedetto si voltò, sorpreso. Tre giovani stavano davanti a lui. Egli non li aveva uditi entrare. Quello di essi che pareva il maggiore, un bel ragazzo, basso di statura, bruno, dagli occhi esperti di molte cose, gli chiese arditamente perché avesse spogliato l'abito clericale. Benedetto non rispose. "Non lo vuol dire?" fece colui. "Non importa, senta. Noi siamo studenti dell' Università di Roma, gente di poca fede, glielo dico schietto e subito. E ci godiamo la nostra giovinezza, più o meno; glielo dico subito anche questo." Uno dei compagni tirò l'oratore per la falda dell'abito. "Sta zitto!" disse il primo. "Sì, uno di noi crede poco ai Santi ma è un purissimo. Quello però non è qui davanti a Lei, come non vi sono altri che stanno giuocando all'osteria. Il Purissimo non ha voluto venire con noi. Dice che troverà modo di parlarle da solo a solo. Noi siamo quello che Le ho detto. Siamo venuti da Roma per fare una gita e per vedere un miracolo, s'era possibile; insomma per stare allegri." I compagni lo interruppero, protestando. "Ma sì!" ribatté lui. "Per stare allegri! Scusi, io sono più sincero. Infatti mancò poco che la nostra allegria ci costasse cara. Si scherzò e ci volevano accoppare, capisce; a Suo onore e gloria. Ma poi s'è udito il discorsino ch' Ella fece a quella turba fanatica. Per il demonio, si disse, questo è un linguaggio che ha del novo in una bocca pretina o semipretina, questo è un Santo che ci va meglio degli altri, scusi la confidenza. E ci si accordò subito di chiederle un colloquio. Perché poi, se siamo un poco scettici e gaudenti, siamo anche un poco intellettuali e certe Verità religiose c'interessano. Io, per esempio, sono forse per diventare un neo buddista." I suoi compagni risero ed egli si voltò ad essi adirato. "Sì, non sarò buddista nella pratica ma il Buddismo m'interessa più del Cristianesimo!" Qui successe un battibecco fra i tre per quest'uscita poco opportuna; e un secondo oratore, lungo, sottile, in occhiali, prese il posto del primo. Costui parlava nervoso, con frequenti scatti del capo e degli avambracci rigidi. Il suo discorso fu questo. I suoi compagni e lui avevano discusso più volte intorno alla vitalità del Cattolicismo. Tutti ammettevano che fosse esausta e che la morte seguirebbe presto se non intervenisse una riforma radicale. Alla possibilità di questa riforma chi credeva e chi non credeva. Desideravano conoscere l'opinione di un cattolico intelligente e moderno nello spirito come si era rivelato Benedetto. Avevano molte domande a fargli. Qui il terzo ambasciatore della compagnia studentesca giudicò venuto il suo momento e scaraventò addosso a Benedetto una tempesta disordinata di quesiti. Sarebb'egli stato disposto a farsi propugnatore di una riforma della Chiesa? Credeva nell'infallibilità del Papa e del Concilio? Approvava il culto di Maria e dei Santi nella sua forma presente? Era democratico cristiano? Quale concetto aveva di una riforma desiderabile? Avevano veduto a Jenne Giovanni Selva. Benedetto, conosceva i suoi libri? Approvava le sue idee? Gli piaceva che fosse proi­bito ai cardinali di uscire a piedi e ai preti di andare in bicicletta? Cosa pensava della Bibbia e dell'ispirazione? Prima di rispondere, Benedetto guardò a lungo, severo in viso, il suo giovine interlocutore. "Un medico" diss'egli finalmente "aveva fama di saper guarire tutte le malattie. Qualcuno che non credeva nella medicina andò da lui per curiosità, per interrogarlo sull'arte sua, sugli studî, sulle opinioni. Il medico lo lasciò parlare lungamente e poi gli prese il polso, così." Benedetto prese il polso del primo che gli aveva parlato e proseguì: "Glielo prese, glielo tenne un momento in silenzio, poi gli disse: - Amico, voi soffrite di cuore. Io ve l'ho letto in viso e ora sento battere il martello del falegname che vi lavora la bara." Il giovine dal polso prigioniero non poté a meno di batter le ciglia. "Non parlo per Lei" disse Benedetto. "Parla quel medico a quel tale che non crede nella medicina. E continua: - Venite voi a me per avere Vita e salute? Io vi darò l'una e l'altra. Non ve­nite per questo? Io non ho tempo per voi. - Allora colui, che si era sempre creduto sano, allibbì e disse: - Maestro, eccomi nelle vostre mani, fate che io viva." I tre rimasero per un momento sbalorditi. Quando accennarono a riaversi e a replicare, Benedetto riprese: "Se tre ciechi mi domandano la mia lampada di Verità, cosa risponderò io? Risponderò: andate prima e preparate gli occhi vostri ad essa perché se io ve la dessi nelle mani ora, voi non ne avreste alcun lume, voi non potreste che guastarla." "Non vorrei" disse lo studente lungo, smilzo e occhialuto "che per vedere questa Sua lampada di Verità si dovessero chiudere le finestre alla luce del sole. Ma insomma capisco ch' Ella non voglia spiegarsi con noi, che ci prenda per dei reporters. Oggi noi non abbiamo o almeno io non ho le disposizioni che Lei desidera. Sarò un cieco ma non mi sento di domandar la luce al Papa e nemmeno a un Lutero. Però, se Lei viene a Roma, troverà dei giovani disposti meglio di me, meglio di noi. Venga, parli, permetta anche a noi di udirla. Oggi abbiamo la curiosità, domani, chi sa? potremo avere il desiderio buono. Venga a Roma." "Mi dia il Suo nome" disse Benedetto. Colui gli porse una carta da visita. Si chiamava Elia Viterbo. Benedetto lo guardò, curioso. "Sì Signore" diss'egli "sono israelita, ma questi due battezzati non sono più cristiani di me. Del resto io non ho nessun pregiudizio religioso." Il colloquio era finito. Nell'uscire, il più giovane dei tre, quello dalla gragnuola di domande, tentò un ultimo assalto. "Ci dica almeno se i cattolici, secondo Lei, dovrebbero andare alle urne politiche?" Benedetto tacque. L'altro insistette: "Non vuoi rispondere neppure a questo?" Benedetto sorrise. "Non expedit" diss'egli. Passi nell'anticamera; due colpettini leggeri all'uscio; entrano i Selva con Noemi. Maria Selva entra prima e vedendo Benedetto così vestito, non può trattenere un movimento di sdegno, di compianto e di riso; arrossisce, vorrebbe dire una parola di protesta, non la trova. A Noemi vengono le lagrime agli occhi. Tutti e quattro tacciono per un momento e si comprendono. Poi Giovanni mormora: Non fu dal vel del cuor giammai disciolto e stringe la mano all'uomo che nei suoi goffi abiti gli pare augusto. "Sì ma Lei non deve portare questa roba!" esclamò Maria, meno mistica di suo marito. Benedetto fece un gesto come per dire "non parliamo di ciò!" e guardava il Maestro del suo Maestro con occhi desiderosi e riverenti. "Sa" diss'egli "quanto Vero e quanto bene mi sono venuti da Lei?" Giovanni non sapeva di avere tanto influito su quell'uomo attraverso don Clemente. Suppose che avesse letto i suoi libri. Ne fu commosso e ringraziò nel suo cuore Iddio che gli faceva sentire con dolcezza un po' di effettivo bene operato in un'anima. "Quanto sarei stato felice" ripigliò Benedetto "di lavorare nel Suo orto per vederla qualche volta, per udirla parlare!" Noemi, all'udir ricordare quella sera, si lasciò sfuggire una esclamazione sommessa piena di memorie che non si potevano dire. Giovanni ne prese occasione per offrire a Benedetto l'ospitalità, poiché don Clemente gli aveva detto che intendeva lasciare Jenne la sera stessa. Potremmo partire insieme, quando piacesse a lui, dopo il colloquio ch'egli avrebbe concesso a sua cognata. Noemi, pallida, fissò Benedetto per la prima volta, aspettando la sua risposta. "La ringrazio" diss'egli, dopo avere pensato un poco. "Se busserò alla Sua porta Ella mi aprirà. Ora non Le posso dire altro." Giovanni fece atto di ritirarsi con sua moglie. Benedetto li pregò di restare. Certo la signorina non aveva segreti per loro; almeno per sua sorella se non per il cognato. Anche questo coperto invito a Maria cadde perché Noemi osservò, imbarazzata, che non si trattava di segreti suoi. I Selva si ritirarono. Benedetto rimase in piedi e non disse a Noemi di sedere. Egli sapeva di avere a fronte l'amica di Jeanne, presentiva il discorso che verrebbe, un messaggio di Jeanne. "Signorina" diss'egli. Il modo non fu scortese ma significò chiaramente: "quanto più presto, tanto meglio." Noemi intese. Qualunque altro l'avrebbe offesa. Benedetto, no. Con lui si sentiva umile. "Ho l'incarico" diss'egli "di domandarle se sa niente di una persona ch'Ella deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non so se lo pronuncio bene perché non sono italiana, è don Giuseppe Flores." Benedetto trasalì. Non si aspettava questo. "No" esclamò ansioso. "Non so niente!" Noemi lo guardò un momento in silenzio. Avrebbe voluto, prima di parlare, domandargli perdono del dolore che gli avrebbe recato. Disse a bassa voce, mestamente: "Mi è stato scritto di apprenderle che non è più di questa Vita." Benedetto piegò il viso, se lo nascose fra le mani. Don Giuseppe, caro don Giuseppe, cara grande anima pura, cara fronte luminosa, cari occhi pieni di Dio, cara voce buona! Pianse dolcemente due lagrime, due sole lagrime che Noemi non vide, si udì dentro la voce di don Giuseppe che gli diceva: non senti che sono qui, che sono con te, che sono nel tuo cuore? Noemi, dopo un lungo silenzio, mormorò: "Mi perdoni. Vorrei non averle dovuto recare un dolore così grande." Benedetto si scoperse il viso. "Dolore e non dolore" diss'egli. Noemi tacque, riverente. Benedetto le domandò se sapesse quando quella persona fosse morta. Verso la fine di aprile, credeva Noemi. Ella era allora fuori d' Italia. Era nel Belgio, a Bruges, con un'amica sua alla quale era stata scritta la notizia. Per quanto ne aveva udito dall'amica, quella persona, Noemi non ne ripeté il nome per un delicato riguardo, aveva fatto una morte santa. Le sue carte, ella era incaricata di riferire anche questo, erano state affidate al Vescovo della città. Benedetto fece un gesto di approvazione che poteva servire anche per chiusa del colloquio. Noemi non si mosse. "Non ho ancora finito" diss'ella. E soggiunse subito: "Ho un'amica cattolica ... io non sono cattolica, sono protestante ... che ha perduta la fede in Dio. Le hanno consigliato di dedicarsi a opere di carità. Vive con un fratello contrarissimo a qualunque religione. Questa novità che sua sorella si occupi di beneficenza, che si metta in relazione con gente dedita alle opere buone per principio religioso, gli è spiacente. Adesso è ammalato, s'irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare poveri, né di proteggere ragazze, né di raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch' Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne, spera che non rifiuterà." "Poiché suo fratello" rispose Benedetto "è ammalato di corpo e anche di spirito, non le si offre il bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con tutto l'amore che ..." Stava per dire "che gli porta" si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, " ... con tutto l'amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d'incarnare in sé la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest'abitudine del bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio." "Grazie" disse Noemi. "Grazie per l'amica mia e anche per me, perché mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?" La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell'amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne. "Chi son io?" diss'egli. "Che autorità posso avere? Le dica che pregherò." Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d'ora a quello che direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente. "Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le approva tutte, le idee religiose di mio cognato?" Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più sciocca e dicendola irresistibilmente: "Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi." "Signorina" rispose Benedetto "verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre in ispirito e Verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la Verità; molti non possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l'aiuto di suo cognato, perché non vi è un solo protestante convinto che lo conosca bene." "Lei non verrà a Subiaco?" chiese Noemi timidamente. Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo. "No" diss'egli "non credo." Noemi volle e non volle dire che n'era dolente, pronunciò alcune parole confuse. Si udì gente nell'anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il colloquio si sciolse senz'altro saluto. Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de' suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po' per divertimento, un po' per curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo. Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in quell'arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il dogma dell'inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo; che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito - ella non era spiritista ma un'amica sua lo era -anzi proprio lo spirito della contessa Blawatzky aveva rivelato questo; ch'era perciò necessaria la sua venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così: "Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!" Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce sardoniche o stolide, dall'occhialetto della duchessa alla caramella del giornalista, rispose: "A l'instant, madame!" E uscì della camera. Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo, pensando passar la notte sotto qualche albero e l'indomani portarsi a Subiaco e di là, con l'aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All'ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l'accento mesto col quale aveva detto: "Lei non verrà a Subiaco?" gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato perché gli balenasse in mente questo pensiero: "se Jeanne fosse stata così non mi sarei sciolto." Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l'umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All'uscita del villaggio Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L'abito laico le fece allibire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio. Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi. "Lei va a Roma, Signore Maironi?" diss'egli. "La prego di non chiamarmi così" rispose Benedetto, spiacente di apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. "Non so se vado a Roma." "Io La seguo" disse il giovine, impetuoso. "Mi segue? Perché mi segue?" Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto. "Perché?" diss'egli. "Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La segua!" "Caro" rispose Benedetto, commosso, "non so neppur io dove andrò." Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo, e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò: "Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!" Benedetto sorrise. "A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?" Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti saprebbero dove trovarlo. "Se Dio vorrà!" disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto. Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano. "Sono lombardo anch'io" diss'egli. "Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di me!" E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della mulattiera, disparve. Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull'orlo della discesa, Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si lasciò cadere sull'erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch'era qualche cosa di più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l'udito, il tatto, la memoria, la nozione del tempo. Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso, diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non tormentosa, quasi divertente, circa l'identità propria. Si andò tastando il petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo giaceva morto sull'erba, presso la croce. Benedetto pensò con quell'ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì esclamare: "Dio, è Lei!" riconobbe la voce della donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per udire. L'uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo quest'ultimo, con due muli per le Signore, credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all' Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne notizia. Noemi che doveva prendere l'ultimo treno per Tivoli, era partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino dimenticato all'osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie dell'Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da Jenne un po' d'acqua. I due si parlarono ancora ma lei non attese altro, scomparve. Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l'acqua e con l'ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e l'erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose innocenti. Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po' discosto. Una bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d'acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice: "È la bambina dell'oste." Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto prender con sé la bambina. "Grazie" diss'egli. Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò: "Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna accusa Lei di averlo fatto morire?" Benedetto rispose con qualche severità nella voce: "Perché mi dice questo?" Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata: "Oh mi perdoni!" E riprese: "Posso farle una domanda?" "Dica." "Ritornerà mai a Jenne?" "No." La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo. Ella disse, a voce più bassa: "Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l'altra Vita? Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?" Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine. "Credo" rispose gravemente "che fino alla morte del nostro pianeta l'altra Vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla Verità e all' Unità vi si ritroveranno insieme all'opera." Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice: "Addio." Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde: "A Dio." Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell'anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell' Aniene gli rugge in profondo, più e più forte: "Roma, Roma, Roma."

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Non so quando nè come, ma rammento bene che Franco un giorno andò via di casa per non tornarvi più e che ogni tanto io andava a visitarlo al palazzo Astura e lo trovavo sempre in compagnia di un abate francese; che lo trattava con una deferenza da servo a padrone. Appena mio fratello non fu più insieme con noi, mio padre, forse per un accordo preso con mia madre, si diede a dirigere la mia educazione e mi fece studiare seriamente il greco e il latino e volle che ogni ora della mia giornata fosse dedicata allo studio. Mia madre mi abbandonava interamente e io non ero infelice per questo, anzi ero lieto sentendo che nuovi legami si stabilivano fra mio padre e me quanto più io rimaneva nella sua biblioteca e imparava da quell' uomo, che m'incuteva tanto rispetto, mille cose che un professore non avrebbe saputo insegnarmi. Egli era versatissimo non solo nel diritto, ma anche in letteratura, in istoria e in archeologia, e tutto ciò che sapeva voleva che io pure lo apprendessi, ripetendomi: " Queste cognizioni saranno un giorno la tua ricchezza " e sospirava forse pensando alla mia povertà relativa e al cospicuo patrimonio che avrebbe ereditato mio fratello, il quale montava a cavallo, guidava una pariglia di bellissimi sauri, aveva la sua servitù ed era educato con quel fasto proprio delle famiglie principesche romane, mentre io crescevo senza lusso, senza idee di grandezza, sgobbando sui libri e assuefacendomi a considerare il lavoro come una necessità della vita. Mia madre si ammalò gravemente mentre io avevo quindici anni, e dopo una lunga malattia, morì. Mi duole il confessarlo, ma io non provai un dolore profondo vedendola mancare, prima di tutto perché non ero assuefatto a lei, e la sua perdita non lasciava un vuoto nella mia vita, in secondo luogo perché ella mi feriva sempre vantando la disinvoltura, l'eleganza, l'intelligenza di Franco, per stabilire fra noi un paragone, nel quale io scapitavo molto; Franco era il suo figlio d'elezione. Ella mi tacciava di essere calcolatore, gretto d'animo, sornione e se osavo farle osservare che speravo crearmi una posizione col lavoro e occorreva che studiassi, ella faceva una risata assicurandomi che non sarei mai stato nulla, e che quelle fisime andavano lasciate ai plebei, ai borghesucci. " Del resto, - concludeva, - tuo fratello ti aiuterà; egli sarà tanto ricco! " Anche al suo letto di morte, negli ultimi momenti della vita, ella riuscì a ferirmi. Se mio fratello era assente, era rosa dall'impazienza che tornasse; appena entravo io in camera, con un cenno impaziente della mano, con una parola che tradiva la noia che io le procuravo, mi indicava l'uscio, e io chinavo il capo e obbedivo. E queste scene si ripeterono molte volte, perché l'agonia fu lunga e straziante. Durante quella agonia io avevo sperato che ella mi chiedesse un bacio; ma non lo fece. Ella spirò guardando Franco, accarezzandogli il volto, e io non ho mai potuto ripensare a quell' estremo disprezzo senza soffrire. Dopo la morte di mia madre, il babbo lasciò Roma e mio fratello rimase in casa del duca; noi ci stabilimmo a Castelvetrano. Mio padre continuò a farmi studiare i classici, a istruirmi nell' archeologia, ma volle pure che a queste cognizioni io unissi quelle dell'agricoltura e della chimica. Prese dunque presso di noi una specie d'intendente molto abile e nell'inverno mi faceva passare alcuni mesi a Palermo per seguire il corso di chimica. Mio fratello scriveva raramente e sempre più io mi avvicinava a mio padre e mi staccavo da Franco. Non avevamo nulla di comune e le nostre lettere erano fredde e insulse. Quando avevo appena ventidue anni, mio padre morì, ed io che sentivo in me tanto bisogno di attività, fondai lo stabilimento vinicolo di Selinunte, costruendo la villina che ella abita, per portarvi la giovane e bellissima Maria, che fu la mia compagna per un anno solo. Vi è un periodo nella vita in cui l'ammirazione per il bello, rappresentato dalla donna, vince ogni altro sentimento, ogni altra considerazione. Maria era una mezza popolana, incolta, senza educazione, ma era divinamente bella, bella come la piccola Maria, ed io la sposai, nonostante i sarcasmi di mio fratello, nonostante l'opposizione di mio zio, che giurò di non volermi più vedere. Queste ostilità servirono d'impulso alla mia voglia di lavorare. Volevo crearmi una posizione indipendente. I beni di mia madre, indivisi con mio fratello, non erano una base di ricchezza e bastavano appena a una modesta esistenza. Io volevo esser ricco, non per procurarmi le soddisfazioni che la ricchezza offre, ma soltanto per lasciare un patrimonio ai miei figli, per vedere la mia Maria nella cornice elegante che richiedeva la sua bellezza. Ella mi amava con una dolcezza da schiava, e la sua adorazione per me, la sua sottomissione, non mi facevano accorgere quanto le mancava per esser davvero la mia compagna. Ed io che ero soltanto innamorato della sua bellezza, non le chiedevo quelle soddisfazioni dello spirito che ella non poteva darmi. Quell'anno fu un sogno di felicità completa, troncato dalla morte, ma io mi domando se ora che gli anni mi hanno reso più esigente, io l'avrei amata egualmente, se sarei stato abbastanza generoso per non farle sentire la mia superiorità. Il dolore mi straziò, ma non mi vinse. Da quel giorno ho esteso il mio commercio, sono diventato possessore di molti terreni, ho lavorato con maggior lena pensando all'avvenire del fiore delicato, che avevo visto crescere sulla tomba della mia cara morta, alla quale rivolgo la mente come si ripensa a una bella e lieta primavera. Ella mi conosce bene, poiché è un anno che si è offerta per vegliare sulla mia Maria e che mi vede al lavoro e nella vita di famiglia, dunque è inutile che le parli di me. Ma è necessario che le parli di Franco, che sarà nostro ospite e che giungerà costà il giorno successivo a questa mia. La prego di fargli preparare il quartiere dei forestieri, che è nel centro dello stabilimento. Quelle quattro stanze basteranno a mio fratello. Vi faccia portare i tappeti che sono in camera mia e alcuni libri. Mi affido al suo gusto per dare a quelle stanze un aspetto allegro ed elegante. Al servizio di Franco destinerà il mio cameriere, che dormirà nella retrostanza, accanto al bagno. Mio fratello giungerà col treno delle cinque a Castelvetrano. Gli mandi la carrozza e faccia preparare un buon pranzo e una tavola elegante. Franco è assuefatto a tutte le raffinatezze del lusso e siccome voglio affezionarlo a Selinunte, egli non deve provare impressioni penose al suo arrivo. Prepari anche Maria a riceverlo affettuosamente, ma non permetta che egli passi tutto il giorno alla villa. Il suo tatto le sarà di guida per tenerlo distante di costì fin dal primo momento. Ponga a sua disposizione l' yacht i miei cavalli, lo spinga a far gite in terra e in mare, lo occupi, ma non gli faccia prendere la consuetudine di vivere fra noi e non gli affidi mai Maria. Mi dispiacerebbe che la bambina interrompesse per lui la sua vita metodica e che noi fossimo privati di quella libertà di leggere e di studiare che è il conforto delle nostre serate. Faccia conoscere Franco al sotto direttore degli scavi, al buon Lo Carmine, e lo conduca dai Moltedo a Castelvetrano, dove troverà sempre gente. Però la prego di non presentarlo come duca d'Astura, nè dargli in casa il titolo cui mi pare non abbia più diritto dal momento che ha sprecato il patrimonio che a quello andava unito. Non mi dilungo su questo tasto doloroso; ella si accorgerà che Franco manca assolutamente di educazione morale, come d'istruzione. Il mondo si compone di edificatori e di distruttori; a quest'ultima categoria appartiene mio fratello; ma io spero con l'esempio, con la dolcezza di piegarlo al lavoro, di fare di lui, che è passato fin qui nella vita come un flagello, un uomo utile. E forse in quest'opera di rigenerazione, ella mi aiuterà. Dovrò stare a Roma forse per settimane, forse per mesi; è un sacrifizio immenso che compio, ma non sarei degno della stima degli onesti, se non lo facessi. Si tratta di salvare dal disonore il nome di mio fratello. Se non riuscirò a salvare altro, avrò già compiuto un'opera buona. Mi accompagni col pensiero in questa difficile e dolorosa missione che m'impongo e vegli sulla mia Maria, cui mando mille teneri baci. Il suo affezionatissimo "ROBERTO FRANGIPANI. "

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