Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Antropologia soprannaturale Vol.I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

La denominazione adunque di filosofia o scienza teoretica è poco esatta, riuscendo a un dire teoria teoretica , e la denominazione di filosofia o scienza pratica non è pure senza inesattezza e ambiguità, convenendo anzi dirla filosofia o scienza o teoria della pratica (1). Pratica vuol dire azione, e perciò la pratica si può dividere in tanti modi in quanti si possono dividere le azioni. Se le azioni non si fanno a caso nè divise, ma molte insieme varie e congiunte, con regole a cui obbediscano, per conseguire qualche effetto, queste azioni diventano un' arte (2). Le arti adunque appartengono alla pratica , e le scienze appartengono alla teoria ; nè si devono mai confondere queste due cose. L' uso però ha ristretto il significato del vocabolo arte a segnare solamente un complesso di azioni ed abito di porle, dalle quali si ha qualche produzione o formazione esterna: e tali sono le arti meccaniche e le liberali. Ma delle azioni legate insieme a uno scopo, si dànno anche senza che producano e formino nulla di esterno; e tali sono le operazioni intellettive e morali: anche queste, perciò che sono azioni, appartengono alla pratica e talora si denominano arti . Così la logica si suol dire che è un' arte, e arte della perfezione fu intitolato un libro che tratta della morale bontà; sebbene, accuratamente parlando, la logica che s' insegna non è l' arte stessa, ma la scienza dell' arte del pensare, e il libro del Pallavicini è la scienza dell' arte, e non l' arte della perfezione. Altra cosa è dunque essere artista, e altra essere scienziato: chi sa la teoria dell' arti meccaniche non ne prese con questo l' abito, non sa l' arte; e il giudicare di pittura o di poesia o di altra arte liberale fu sempre tenuto per cosa interamente diversa dal saper dipingere o poetare. E può avervi un fortissimo e dirittissimo pensatore senza che abbia mai apprese le regole logiche; e l' uomo probo e virtuoso può ignorare la definizione della virtù: come per l' opposto non è forse vero che chi sa la dottrina morale per filo e per segno sia poi talora lontano assai dal renderla in pratica, e che un filosofo sia spesso costretto di dire: video meliora proboque, deteriora sequor ? Queste poche osservazioni soprabastano a fare notare la differenza dell' azione dalla cognizione , della pratica dalla teoria . La Teologia è scienza, e la Religione è azione: l' una è cognizione , l' altra è culto : l' una appartiene alla teoria, l' altra alla pratica (1). Il teologo è quello che conosce le dottrine intorno a Dio: ma l' uomo religioso è quello che conforma la vita a tali dottrine, ed è assiduo in dar opera al culto della divinità. Nè il teologo è sempre uomo religioso; nè l' uomo religioso è sempre teologo. La Teologia è quella scienza che tratta di Dio. Essa si divide in naturale e soprannaturale . La Teologia naturale è quella che tratta di Dio in quanto può essere conosciuto dalle forze naturali della ragione umana e questa è una parte della filosofia: la soprannaturale è quella che tratta di Dio in quanto è conosciuto soprannaturalmente, e questa si chiama strettamente Teologia. Noi dobbiamo render chiara questa distinzione, il che faremo nel capitolo seguente, stabilendo in esso i confini della filosofia o dottrina naturale, e mostrando per che via si stenda oltre que' confini la Teologia rivelata. L' uomo, nel conseguire le varie maniere di cognizioni di cui è capace, ha bisogno di alcuni mezzi, ed è limitato a certe condizioni. In ragione poi che questi mezzi più gli abbondano e che quelle condizioni meglio si adempiono, più l' uomo s' arricchisce di cognizioni. Noi supponiamo dati all' uomo i mezzi necessari al suo naturale sviluppo ed adempite quelle condizioni a cui è legato, quando cerchiamo i confini a cui può giungere il suo senno naturale, o, che è il medesimo, quando cerchiamo i confini della filosofia. Una di queste condizioni, per le quali l' uomo può svilupparsi, sono gli oggetti esterni che irritano i suoi sensi e vi cagionano le sensazioni: un' altra è de' segni (una lingua), coll' aiuto de' quali possa dirigere e fermare il suo pensiero negli astratti (1): una terza è una società dalla quale prende almeno degli eccitamenti al pensare, e nella quale si conservano e tramandano le cose una volta pensate. Ma dati all' uomo, o anzi alla umanità, tutti questi mezzi, quanto può ella procedere innanzi nel cammino della cognizione? Dove è il punto, al quale si deve fermare? Quali sono, in una parola, i confini della filosofia? Ciò che abbiamo detto nel primo capitolo, intorno alla natura della umana cognizione, ci spiana la via a trovare la risposta conveniente a questa domanda. L' uomo non percepisce se non delle cose sensibili. La percezione è la condizione richiesta a poter formarsi delle idee positive delle cose. Dunque l' uomo non può avere naturalmente idee positive se non di quelle cose che naturalmente fanno una impressione sostanziale ne' suoi sentimenti, ossia che egli percepisce . L' uomo non percepisce se non il mondo sensibile e l' anima propria; il primo, oggetto dell' esperienza esterna; il secondo, oggetto dell' esperienza interna. Dunque la cognizione dell' uomo non comprende altre idee positive se non quelle delle cose materiali e dello spirito suo proprio. Vi sono alcune operazioni della mente che l' uomo può esercitare sopra quelle idee positive primitive e da esse cavarne alcune altre: queste medesime operazioni possono essere ripetute sopra il prodotto delle prime; e di nuovo possono ripetersi sopra il secondo prodotto; e così via indefinitivamente. Le operazioni della mente di cui parlo, sono: 1 l' analisi, 2 la sintesi, 3 l' integrazione. Coll' analisi si scompongono le idee, e così di una se ne fanno molte. L' astrazione , che propriamente consiste nello scomporre formalmente le idee, cioè nel dividere essenza da essenza, non è che un ramo dell' analisi stessa. La sintesi compone e lega più idee insieme, e così fa nascere le idee complesse; e anch' essa può legarle formalmente , cioè di più essenze farne una sola, ovvero solo materialmente , quasi per una justaposizione. La sintesi e l' analisi non portano la mente nostra fuori del materiale delle idee positive che sono la base di tutto il loro lavoro: ma fuori al tutto delle idee che la mente possiede, quasi per salto, la mente viene tratta dalla facoltà della integrazione. L' integrazione è come una facoltà indovina: essa slancia la mente a nuovi oggetti non mai percepiti e, non potendone conoscere la natura, ne mostra però la necessità: cioè dalla cognizione dell' effetto ella conchiude alla causa, di cui non ebbero ancora nissun indizio i sensi; ella va sino alla causa prima, dal relativo va all' assoluto, e scuopre Dio (1). Ma questa facoltà divinatrice non può produrre però, come abbiamo veduto, se non idee negative : essa è fonte della Teologia naturale. I confini della Teologia naturale sono segnati nell' idea che naturalmente aver possiamo di Dio, già dichiarata più sopra (1). La facoltà integratrice dell' intendimento , cioè quella facoltà che ascende dall' effetto alla causa, è il fonte della teologia naturale, come ho detto, e il limite di questa potenza segna pure il limite della scienza a cui essa dà l' esistenza. Il principio della Teologia naturale è l' idea dell' essere in universale , idea che non fa noto l' essere reale se non inizialmente, e che si può dire vuota , perchè non contiene nessuna determinazione positiva del medesimo, senza materia, perfettamente formale. Questa idea, applicata all' universo che cade sotto i nostri sensi esterni ed interni, mostra in sè la necessità di una causa di questo universo, per siffatto modo che noi acquistiamo la persuasione della sussistenza di questa Causa. Il concetto di questa causa (non mai sentita sostanzialmente e però incognita al tutto nel suo modo di essere); l' analisi di questo concetto; i ragionamenti che sulla medesima s' istituiscono; le proposizioni singolari che se ne derivano; ecco tutta la Teologia naturale. Ella è una scienza ideale7negativa, com' è il concetto naturale di Dio sua base. Ora veniamo a quella che si dice Teologia rivelata . Io esporrò, con quella chiarezza che mi saprò meglio, le dottrine della tradizione cristiana intorno alla divina rivelazione, quanto sarà uopo all' intendimento di questo libro. Fra le cose da Dio rivelate dicono i teologi cristiani avercene di quelle che non eccedono i confini della ragion naturale, le quali però fu utilissimo l' essere rivelate per la troppa difficoltà che avevano di essere trovate dal senno naturale e con certezza e pure da errore. Il che anche se gli uomini avessero fatto, e l' avessero da sè stessi ragionando trovate, non l' avrebbero fatto però che dopo lungo spazio di tempo; quando, per la necessità che di quelle verità avevano, bisognava loro conoscerle fin da principio e sempre averle alla mano, se salvar si volessero. La rivelazione poi di questi veri alcuni teologi l' hanno chiamata formale , volendo essi esprimer con ciò che la forma o il modo onde queste verità si fecer palesi è soprannaturale, ma che le cose stesse, la materia di questo sapere non trapassa i limiti del naturale ragionamento. Per un' altra cagione furono rivelate altresì cose, a cui forse il senno naturale poteva giunger da sè, vale a dire perchè queste sono indivisibili da quelle altre di un ordine superiore che eccedono al tutto le forze dello spirito umano, stretto nel circolo delle cose naturali. Giacchè i soprannaturali misteri sono veramente un compimento delle cognizioni naturali, le quali ne sono come i lineamenti e gli sbozzi vuoti di quelli; e quelli come i colori che si mettono sopra le linee dei contorni, o come la carne con cui si rimpolpa e si adegua l' ossatura ignuda di uno scheletro. I veri soprannaturali insomma suppongono e si richiamano ai veri naturali: e a quel modo onde non si può percepire intellettivamente l' elemento reale delle cose se non si abbia insieme l' elemento ideale, così similmente non potrebbe l' uomo essere atto a percepire le cose misteriose della divinità se non fosse ragionevole, ossia se non avesse in sè l' essere ideale, mezzo d' ogni cognizione e percezione intellettiva. Ma dopo di tutto questo, noi vogliamo riflettere che ciò che divide e parte la teologia rivelata dalla naturale non è propriamente la rivelazione puramente formale , ma bensì la materiale . Perchè se non ci fossero state comunicate se non verità, le quali non eccedessero le forze naturali del nostro intendimento, queste non avrebbero per avventura avuto virtù di sollevare l' uomo a uno stato sopra natura; nè altro sarebbe stato se non un aiutarlo a formare più presto, più facilmente e con più sicurezza una teologia e una religione naturale, e nulla più. Iddio in questo caso non avrebbe fatto coll' uomo se non l' ufficio di un sovrano paziente; giacchè di sè non avrebbe mostrato o comunicato nulla più di quello che un savio umano potesse conoscere. Ora la persona che comunica delle notizie, è indifferente se resta ignota, e per chi riceve le notizie non c' è altro interesse che quello che nasce dalla qualità delle notizie stesse. Le cognizioni naturali adunque intorno a Dio, o comunicate agli uomini da qualche savio sorto nel mezzo di loro, o da un angelo, o da Dio stesso (restando questi nascosto), si restano le medesime e non fanno per questo che un ordine soprannaturale di cose sia in mezzo dell' umano genere costituito. E` adunque necessaria una rivelazione materiale , perchè s' abbia una Teologia rivelata che per la sua materia sia distinta dalla Teologia naturale . E qui conviene dichiarare meglio questa materia propria della Teologia rivelata: perocchè insorge facilmente una difficoltà sulla possibilità stessa di una tale teologia, che è questa. Noi non possiamo avere nuove cognizioni senza che abbiamo nuove percezioni , perchè, come abbiamo detto, la percezione è il fondamento di tutte le cognizioni positive che aver possiamo delle cose reali. Ora di Dio noi non abbiamo la percezione in questa vita, il quale, secondo l' insegnamento della cristiana teologia, non si vede che nella vita futura. Non avendo adunque nuova percezione, in virtù della rivelazione, come possiamo aver cognizioni veramente nuove e di un genere essenzialmente diverso da quelle della teologia naturale? Questo argomento dimostrerebbe la impossibilità di una teologia rivelata senza la percezione di Dio, quando non ci fossero altre cognizioni che le positive . Ma ciò che pochi osservano, e che pure è degno della più attenta osservazione, si è che vi hanno, oltre le positive, delle cognizioni che abbiamo chiamate negative o ideali7negative , e che pure sono vere e preziosissime. Ora è appunto questa maniera di cognizioni che viene accresciuta dalla divina rivelazione, anche in questa vita, e di questo accrescimento nasce la Teologia rivelata. Conviene che mostriamo come ciò possa essere: ciò che avviene al cieco nato che acquista il vedere, ci darà la via di farci intendere. Se un cieco nato ricuperasse la vista, egli acquisterebbe, con questo nuovo senso, delle percezioni interamente nuove, di cui prima non si poteva formare imagine alcuna. Egli in queste nuove percezioni della luce e de' colori avrebbe acquistato il fondamento di una serie di cognizioni veramente positive che prima non aveva. Egli allora, con queste nuove sensazioni della vista che venne acquistando, si spiegherebbe tutti i molti discorsi che aveva sentito prima intorno agli oggetti colorati e lucenti. Ma prima di acquistare la facoltà di vedere, quali dovevano a lui sembrare que' discorsi? Intendevali egli? o erano a lui del tutto oscuri e nulli? Que' discorsi, che udiva fare intorno la luce e i colori, non erano prima nè intieramente chiari per lui, nè intieramente oscuri, sicchè fossero composti di suoni al tutto vani e nulla significanti. Egli è certo che delle parole luce , e colore nulla ne intende: nulla ne intende, dico, di positivo ; ma tuttavia intende che esser devono qualche cosa, intende che debbono esser cose che agiscano sullo spirito e vi producano delle sensazioni: non intende la specie di sensazioni che sono, ma intende il genere delle sensazioni, a cui appartengono. Intende ancora che quella specie di sensazioni che formano, non ha nulla di simile colle sensazioni de' suoni od altre da lui sofferite; poichè per intendere questo gli basta osservare che anche le varie specie di sensazioni, che egli patisce, sono tali che non hanno fra loro nessuna similitudine, cioè che i suoni sono interamente diversi dagli odori o da' sapori, non convenendo che in un elemento ideale e non reale, cioè nel genere ideale (1). Tutte le cognizioni insomma che egli acquista della luce, con sentire a parlare di lei, non sono tolte dalla sensazione reale della luce stessa, della qual sensazione egli è privo; ma sono tolte dalla relazione di una cosa che si chiama luce colle sue idee generiche e universali: il che è ciò che mi fa dar loro l' appellazione di cognizioni ideali7negative . La luce dunque e i colori nella loro specie rimangono per lui perfettamente incogniti, perchè non ne riceve l' azione reale nel suo senso, che sola può produrre le idee specifiche. Questo non aver l' idea specifica della cosa è la parte oscura, misteriosa, inintelligibile dei discorsi che vengono fatti dagli uomini intorno alla luce e ai colori. Ma dopo di ciò, egli acquista tuttavia, come dicevo, della luce delle idee generiche e universali. Se non sapesse altro se non che questa luce è qualche cosa, materia di sensazioni che egli non possiede, egli ne saprebbe oggimai qualche cosa e tanto da poter pensarvi. Ma egli oltracciò può conoscere molte altre proprietà della luce e dei colori, risultanti dalle relazioni di essa luce e colori colle cose, di cui ha la percezione, o colle sensazioni di cui è in possesso. Egli può sapere che luce e calore si trovano spesso insieme, e che col calore del sole che egli prova gli altri che hanno sana la vista provano quell' altra sensazione che si chiama della luce (1). Può sapere che la luce è un corpo leggiero e celere (secondo la credenza comune); giacchè di corpo, di leggerezza e di celerità anche egli ha idea: e può eziandio calcolare le leggi di questa celerità e leggerezza, se egli fosse matematico, come il celebre cieco Nicolò Sanderson che spiegò nell' Università di Cambridge l' ottica di Newton. Può sapere che un fascicolo di luce si spezza in sette fascicoli, passando per un prisma di vetro o per altro mezzo prismatico, perchè il prisma di vetro o di acqua e le idee di passaggio e di divisione sono a lui note per gli altri sensi. Insomma può conoscere intorno alla luce un infinito numero di verità, quante possono essere per avventura le relazioni ch' ella si abbia coll' altre cose che cadono sotto i sensi da lui posseduti e colle sensazioni dei medesimi. Questa è la parte chiara per lui della idea negativa della luce e dei colori. Ora dall' esservi in un' idea negativa , quale è quella che può avere un cieco de' colori, della oscurità e della luce, dell' inintelligibilità e insieme una generale e ideale concezione, nascono i misteri : cioè delle proposizioni che, sebbene chiare nei loro termini , tuttavia nel loro nesso riescono inesplicabili e misteriosi per quelli che hanno puramente idee negative delle cose, delle quali si ragiona. Così, per esempio, è un vero mistero per un cieco nato questa proposizione che gli dice un veggente, e gliela dà per vera:« Io percepisco una torre prima di avvicinarmi ad essa, ma essendo ancora lontano da lei più di trecento passi, e mi accorgo che sulla torre stanno delle campane appese, e sulla sua sommità una palla e una croce«. - Il cieco intende benissimo il significato di questa proposizione, egli intende ancora il senso di tutte le parole di cui ella è composta, perchè sa che cosa voglia dire percepire , che cosa è torre, distanza, campane, sommità, palla, croce. Ma che per ciò? Intende egli per questo come una simile affermazione sia possibile? Non gli sembra anzi un assurdo il percepire una cosa che nè si palpa, nè si odora, nè si assapora, nè si ode? Questo per lui è al tutto impossibile: non può imaginarsi in nessun modo la spiegazione di questo enimma: egli può solo crederlo a chi l' afferma, intenderlo non mai. Per questa ragione l' astronomia pel cieco nato è un puro mistero e non può impararla se non per via di fede a quelli che veggono le stelle e gli parlano de' loro apparimenti e movimenti. Ora lo stesso avviene circa la teologia rivelata, relativamente alla parte sua materiale . La rivelazione ci narra cose nuove di Dio, cioè di un Essere che noi non percepiamo in questa vita, di che la oscurità e la chiarezza insieme di cui si mescolano le verità rivelate, e l' esser la fede alla rivelazione la base di tutta la rivelata teologia. Questa dottrina è nelle divine Scritture perpetuamente insegnata. Esse non dànno all' uomo, finchè si trova in questa vita, il potere di percepire pienamente Iddio stesso, che è chiamato un Dio nascosto nell' antico Testamento; e nel nuovo è rappresentato in un padrone che, dopo aver distribuiti diversi capitali da trafficare a' suoi servi, se ne è partito per un viaggio in lontane regioni. Era questo un vero della tradizione più remota, come ce ne fa fede quella sentenza che si sta nell' Esodo: « Nessuno vedrà Iddio e vivrà« (1). » E S. Giovanni dice espressamente: « Nessuno ha mai veduto Iddio: l' Unigenito Figlio che è nel seno del Padre egli l' enarrò« (2). » Questo ultimo passo di S. Giovanni non può essere più acconcio all' uopo nostro, e alla similitudine del cieco, di cui abbiamo fatto uso. Egli ci dice manifestamente che, non avendo nessun uomo veduto mai Iddio, quello che ci narrò tante cose intorno alla divinità da lui veduta e a noi nascosta, è quegli che sta nel seno di Dio, che è Dio stesso, che è l' Unigenito Figliuolo di Dio Padre, e a cui perciò sono aperti e palesi tutti i tesori della divinità, in cui comunica. Tale è la rivelazione che venne fatta di una cosa a noi non percettibile, cioè di Dio, da tale che l' ha percepita: rivelazione che necessariamente deve riuscirci parte chiara e parte oscura e inesplicabile, che deve contenere per noi de' meravigliosi misteri, ai quali non possiamo altro che credere, come il cieco è astretto di credere a quelli che veggono, intorno alle proprietà e alla natura de' colori e della luce. Che cosa dunque più ragionevole, che più necessario della fede? Che più ragionevole che il cieco presti fede al veggente circa gli oggetti della vista? Egli deve certamente per l' udito raccogliere la narrazione che gli è fatta intorno alle cose colorate e visibili, perchè questa è l' unica via di venire in qualche cognizione, sebbene oscura e misteriosa, di esse. Ora rispetto alla divina natura i ciechi siamo noi, il veggente, che ci parla è Dio stesso, è Gesù Cristo suo Unigenito. Tale è il sistema della fede cristiana, della fede cieca: nulla di più ragionevole, nulla di più evidentemente necessario della fede cieca. Dal non percepire noi Iddio in questa vita, ma solo sentire ciò che ne vien parlato da chi lo vide, deve succedere necessariamente, che in ciò che ci vien narrato di Dio a noi appariscano delle oscurità e dei misteri. Ma questi lungi dal togliere o diminuire la ragionevolezza dell' assenso che noi diamo alle divine cose, sono anzi nuove prove della verità delle cose rivelateci: perocchè è la ragione quella che ci mostra la necessità, che a quelli che sono privi di un senso debbano riuscir misteriosi e inesplicabili que' discorsi che odono intorno agli oggetti di quel senso di cui mancano (1). D' altra parte questa fede ingrandisce infinitamente l' uomo, perchè lo avvisa che egli è limitato nelle sue percezioni e che vi hanno delle nature, degli esseri, vi ha un essere infinito, che si toglie intieramente al suo sentimento. Questo lo allarga nelle immense regioni che egli non conosce, ma che però con questo viene a sapere che esistono, e lo impedisce di restringere miseramente il tutto a sè stesso, chiudendosi nella sua piccola sfera, quando ha una natura creata per non avere limiti di sorte alcuna. L' Infinito poi volle in quest' atto di fede prestato alla sua parola, a questa sua parola misteriosa e inesplicabile, ricevere dall' uomo il più accettevole sacrificio: perocchè con quel medesimo atto l' uomo e nega sè stesso, confessando la propria limitazione, e confessa Iddio, riconoscendolo, anche non visto, per quell' infinito Essere che pur è. La materia della Teologia rivelata adunque primieramente è formata di alcune proposizioni intorno a Dio che, relativamente a noi, fino che siamo in questa vita, non riescono che in cognizioni ideali negative; e le quali comprendono necessariamente de' misteri, cioè delle affermazioni, nelle quali, sebbene s' intendano i termini, presi in separato, e anco si concepisca il nesso de' medesimi, tuttavia non si sa spiegare nè intendere come questo nesso sia realmente tale, perchè l' intendere come esigerebbe la percezione dell' oggetto, di cui si afferma, la quale a noi manca. Oltre queste verità poi, la Teologia rivelata comprende un' altra specie di verità, cioè le verità non razionali, ma positive ossia storiche, come la creazione, l' incarnazione, e altre storie sacre, cioè quei fatti che Iddio ha operato cogli uomini, i quali fatti non sono in sè stessi necessarii, ma dipendenti dalla divina volontà e arbitrio. Le idee o concezioni di questi fatti sono, almeno in gran parte, positive e non eccedono la cognizione che si fonda sulle percezioni che naturalmente abbiamo delle cose. Ma ciò che è soprannaturale in essi si è l' essere realmente avvenuti questi fatti, poichè l' avvenir loro, piuttosto che il non avvenire, dipese non da una legge della natura, ma da un decreto della divina volontà. E oltre ciò il miracoloso che in essi si racchiude, come pure il sistema dei medesimi, i fini o l' intendimento, a cui furono ordinati e operati. Si può adunque dire che la Teologia rivelata, in quanto si divide dalla naturale, compongasi di due maniere di verità, cioè: 1 di verità necessarie , le quali sono nella concezione dell' uomo ideali7negative ; e 2 di verità contingenti , la concezione delle quali è positiva , cioè tale di cui hassi la percezione. Ciò che abbiamo detto fin qui della fede, base della Teologia rivelata, rende chiara quella verità che si contiene nel sistema della cristiana teologia, cioè: « che la fede può aversi anche in un uomo che non si trovi attualmente in istato di grazia« (1). » E veramente le idee o concezioni che porge la rivelazione, posto che sieno communicate agli uomini, non hanno niente che ecceda la facoltà apprensiva della ragion naturale, appunto perchè tutto ciò che hanno in sè di soprannaturale è negativo, cioè non è che indicato con segni o idee naturali e note, come in ragion d' esempio in un problema determinato d' algebra le incognite sono espresse con quantità perfettamente cognite in un certo modo legate insieme fra loro. Sicchè per questa parte ciò che la rivelazione propone a credere può essere ricevuto nelle menti di tutti gli uomini che non hanno ancora la grazia, come in vero a tutti gli uomini fu ordinato da Cristo che fossero predicate. E certamente tanto quelli che assentono alla dottrina esternamente rivelata che vien loro annunziata, quanto quelli che la rifiutano, la concepiscono, la ricevono egualmente nelle menti, e intendono egualmente quelle proposizioni di verità che vengono loro poste innanzi: e appunto perchè egualmente concepiscono quelle verità le giudicano altresì, e gli uni hanno merito portando d' esse un giudizio favorevole, gli altri hanno demerito portandolo contrario. La semplice concezione adunque di queste verità non eccede i confini della ragion naturale, perchè non si dànno con esse nuove percezioni, nè per avventura nuove idee specifiche, ma solo si scuopre ed insegna nuove relazioni delle idee già note, un nuovo nesso onde risultano delle verità recondite, le quali pur non si veggono, come diceva, in sè stesse, ma ne' loro elementi, o termini co' quali sono quasi come in cifra e in enimma disegnate (1). Oltre la concezione delle verità rivelate per avervi fede in un uomo egli deve formare il giudizio col quale assente e dà credenza alle medesime. Or anche questo può esser fatto dalla naturale sua facoltà di giudicare e potenza di volere: giacchè la rivelazione esterna a cui presta l' assenso può essere concepita, come diceva, colle forze naturali: e a concezioni che non eccedono la virtù naturale di conoscere il dar l' assenso non è atto soprannaturale e non eccede la natural virtù del volere: non è atto molto diverso da quello che fa il cieco nato, per continuarci colla nostra similitudine, quando crede alle parole di quelli che gli parlano de' colori. Egli è bensì vero che il termine ultimo a cui finisce quest' atto è oggetto soprannaturale, ma, come diceva, l' esser concepito colle potenze che s' usano per le cose naturali gli toglie il dare, che farebbe se fosse altramente, all' atto del credere una soprannaturale energia. Perocchè l' atto di questa fede non prende l' elemento soprannaturale che implicitamente, all' istesso modo come chi dicesse« io credo a tutto ciò che afferma Tizio«; col quale atto se Tizio afferma cosa sopra natura, viene a darsi fede anche a questo per un cotal conseguente, senza però bisogno che queste cose soprannaturalmente sieno da colui concepite come tali (2). Indi è che le Divine scritture dicono: « anche i demoni credono« (3) »: mostrando con ciò non averci bisogno della grazia semplicemente per credere. E Gesù Cristo dice: [...OMISSIS...] . Le verità proposte dalla rivelazione esterna da credersi agli uomini sono, come abbiamo veduto, parte ideali7negative (verità necessarie, il dogma della Trinità, ecc.), parte positive (verità contingenti, la venuta di Cristo, ecc.), cioè tali di cui si ha o si ebbe la percezione, come della Chiesa, dell' umanità di Cristo, ecc.. La concezione di queste verità, abbiamo detto, non eccede le forze della ragione naturale, e l' assentire alle medesime non eccede le forze della naturale volontà. Ma tutto ciò non basta però ancora a caratterizzare e distinguere compiutamente la fede naturale dalla fede soprannaturale. Non è ancora indicata quella nota che tocca la sua essenza, cioè che indica che cosa sia questo essere di soprannaturale, che ha la fede di che parliamo. Perocchè se v' ha una fede naturale, può darsi anche un amore naturale, forse in grado minore ma pure un amore, possono darsi anche delle opere naturali e buone fatte in conseguenza di quell' amore. Egli è adunque da ricercarsi in che essenzialmente differisca la fede soprannaturale dalla naturale; ed essendovi due fedi, così due giudizi pratici, due amori, due maniere di operazioni naturali e soprannaturali, è da vedere qual sia quella essenza del giudizio pratico, dell' amore e dell' opera soprannaturale, della quale è privo il giudizio pratico, l' amore e l' opera naturale. Per veder questo, che cosa è, io domando, l' ordine naturale? che cosa è un' operazione dell' uomo naturale? - Quella operazione che l' uomo fa colle forze della sua natura, o spontaneamente, o stimolato e mosso da degli agenti naturali, come sono tutte le cose che compongono quest' universo e che per la via de' sensi influiscono sull' uomo, e un' operazione naturale. Tutte le cose dunque dell' universo sensibile che ci circonda, e noi stessi in esso, con tutte le mutue azioni che derivano da questo complesso di enti e i loro effetti, è ciò che forma quello che si chiama l' ordine naturale . Se dunque una cosa estranea a quest' ordine, una cosa superiore al medesimo, se Dio in una parola entra colla sua azione in quest' ordine, con una azione dico di tal fatta che non è l' azione di nessuna delle forze degli esseri creati; quest' azione di Dio introdotta nell' universo è un elemento soprannaturale, cioè d' un genere suo proprio, un elemento inconfusibile colla natura, e infinitamente superiore alla medesima. Ora applichiamo adunque questa nozione all' operare morale dell' uomo, secondo il cristiano sistema. Quando l' uomo concepisce delle verità, assente praticamente alle medesime, ama le azioni a quelle rispondenti, le produce e fa tutto ciò colle sue forze, o mosso dai naturali stimoli della bellezza naturale di quelle verità e di quelle azioni, dai beni che n' aspetta, o da altri eccitamenti esteriori quali si sieno; allora egli opera naturalmente perchè nessun agente estraneo alla natura delle cose create, nessuno stimolo divino, che eccede (la natura) ha influito in lui e lo ha mosso. E converso, se noi, la nostra volontà subisce l' azione di uno stimolo diverso da tutti quelli degli oggetti naturali, soprannaturale in una parola, verso il quale ella è passiva, dal quale è sollecitata e mossa, in tal caso comincia in noi uno stato nuovo, noi siamo entrati nell' ordine soprannaturale, in quell' ordine che nella lingua della cristiana teologia si appella l' ordine della grazia : allora la nostra azione, sebben nostra, ma per lo stimolo che l' ha mossa si suol pur chiamare, e a ragione, soprannaturale. Di questo stimolo parlano le sacre carte, quando narrano la conversione di S. Paolo: « Ti è duro, dice Cristo, calcitrare contro lo stimolo« (1); » e nel discorso di Santo Stefano al Concilio degli Ebrei, questi sono chiamati duri, che resistono al pungolo dello Spirito Santo: « Duri di cervice e incirconcisi di cuori e di orecchi, voi sempre resistete allo Spirito Santo, come i padri vostri, così anche voi« (2). » E conviene osservare, che se non si trattasse qui di un' azione interna di Dio nell' anima dell' uomo, di un' azione reale ; mai dentro l' uomo esser ci potrebbe niente di veramente soprannaturale, e lo spirito dell' uomo non sarebbe mai veramente sollevato a Dio e con lui congiunto, per quali si fossero gli emblemi esterni, i segni, le parole, le cerimonie, i riti. Tutte queste operazioni esteriori, dove nulla fosse operato nell' animo umano di nuovo e di diverso da ogni cosa naturale, sarebbero segni di religione e apparenze, non mai formerebbero una religione interiore nell' uomo, diversa veramente dalla naturale. Quindi l' operazione di Dio nell' interiore dell' uomo, questa operazione di grazia è un dogma del Cristianesimo, è propriamente quel dogma fondamentale su cui il Cristianesimo stesso si erige come sopra sua base, è quel dogma col quale la religione soprannaturale comincia, è l' essenza di essa religione soprannaturale, quella essenza che ricercavamo, di cui non v' è nulla di simile nella natura, nulla di simile in una fede, in un assenso, amore ed operazione naturale. Tutte le divine Scritture sono piene di questa grande verità, e lo stabilirla è lo stesso scopo delle Scritture, perchè è il medesimo che lo stabilire una religione soprannaturale. [...OMISSIS...] E Gesù Cristo mostrò che non si potea essere Maestro in Israello senza conoscere questa operazione interiore di Dio, quando parlando con Nicodemo dello spiritual nascimento che avviene per essa, gli disse: « Tu sei maestro in Israello ed ignori tai cose?« (2). » Pelagio poi, che il primo insorse nella Chiesa contro l' operazione interiore della grazia, sebbene ammetteva tutti gli esterni doni di Dio e la rivelazione stessa, a malgrado di questo fu stimato distruggere l' essenza del Cristianesimo e non ne lasciare che il nome vuoto di significato, perocchè toglieva via l' azione interna di Dio nelle anime. « Hanc debet Pelagius , » dice S. Agostino parlando di questa reale interna azione, « gratiam confiteri, si vult non solum vocari, verum esse Christianus (3) ». L' essenza del Cristianesimo è d' essere una religione soprannaturale, e l' essenza d' una religione soprannaturale dell' uomo è la reale azione della grazia nell' anima umana (4). Che diremo dunque del protestantesimo che nei nostri tempi s' è risoluto a negare i misteri cristiani, e a negare qualunque azione soprannaturale nell' interiore dell' uomo, riducendo tutto così alle forze della natura? Che egli non è più cristianesimo, ch' egli non ha più diritto di tenerne il nome, che i suoi seguaci sono usciti dalla grande comunione della cristiana società. Ma gli stessi cattolici non insuperbiscano per questo, non sieno soddisfatti del solo aver questo nome: io veggo fra noi stessi una quantità di persone irrigidite nella carità, dissipate, estenuate nella fede, a cui mancan quasi le forze da sollevarsi oltre il confine della natura, e che pare non sappiano oggimai più spingere i lor pensieri a concepir pure una potenza invisibile sì ma tuttavia infinita, posseditrice dell' uomo, la qual signora di sua natura v' insinui luce e calore, e non sappiano più credere a questa potenza: delle persone insomma che parlano e pensano alla religione, ma i lor pensieri e le parole non si ravvolgono mai che al di fuori da quel sacrosanto segreto dove ha la religione stessa sua sede e regio abitacolo: e parlano e pensano i riti del culto o la morale umana, o gli effetti salutari che dalla religione ridondano nella società: ma tuttavia la religione stessa, che in una divina real virtù ed efficacia consiste, che Agostino appella interna, occulta, mirabile ed ineffabile (1), non veggono mai, non la prendono mai veramente ad oggetto de' loro pensieri e de' loro religiosi ragionamenti. Il perchè oggimai, chi non vuole ingannarsi a sapere, non se alcuno si chiama cristiano, ma se è veramente, conviene far uso di questa tessera:« Chi dà fede ad una non ideale ma reale azione di Dio nell' anima per la quale questa sia mossa alla fede, carità e buone opere, questi tiene la cristiana dottrina; ma colui, il quale ammettendo anche l' esterna rivelazione, non presta però vera credenza a quella interna divina operazione, non professa punto il cristianesimo« (2). La fede che abbiamo fin qui descritta è bensì una vera fede come la chiama il Concilio di Trento, ma non è necessario che sia sempre anche una fede viva . Della fede viva parlò il Concilio Arausicano quando definì contro i Semipelagiani la necessità della grazia anche per il principio della fede (3): della fede viva parlò pure il Concilio di Trento, quando fece questo canone: [...OMISSIS...] V' ha dunque una fede che è opera di Dio nell' uomo, colla quale, se l' uomo non resiste colla sua mala volontà, viene conferita la grazia della giustificazione, e onde germoglia la nostra eterna salute. Di tal fede è che fu detto: [...OMISSIS...] . L' esito adunque di questa fede è la salute eterna (7). Cristo poi enumera e dichiara gli effetti di questa fede viva , e anche in generale della fede, nel capo XIV di S. Giovanni. Il primo di questi effetti è una specie di onnipotenza che vien data al vero credente: [...OMISSIS...] . Il secondo effetto è l' efficacia che da una tal fede acquista l' orazione, mezzo universalissimo di ogni grazia: [...OMISSIS...] . Questi due primi effetti della fede vengono dalla fede stessa (2), ma il terzo effetto non viene dalla fede come fede, ma dall' esser fede viva , cioè dall' aver congiunta la carità. Perciò Gesù Cristo continua a dire, così esponendo il terzo effetto che sono le buone opere: [...OMISSIS...] . Il quarto effetto è l' unione con Dio per mezzo dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole sono dichiarate le proprietà di questo ultimo effetto, cioè una consolazione , una perseveranza , un amore incessante della verità , un lume o cognizione tutta soprannaturale, una vicinanza , un possesso . Che cosa è dunque che fa sì, che l' assenso nostro a quelle verità sia soprannaturale? qual' è quella nota, quel carattere pel quale un assenso naturale si distingue da un assenso soprannaturale? Se noi consideriamo la differenza fra la fede morta e viva (l' assenso che si dice dato naturalmente alla verità rivelate, e l' assenso che si dice dato alle medesime soprannaturalmente) nei suoi effetti, essa consiste nell' essere questo assenso pratico ed operativo ; e nell' esser quello puramente speculativo e sterile : il primo perciò scompagnato da opere buone, e il secondo di opere buone fornito. [...OMISSIS...] E ecco in che modo descrive questo Apostolo i due assensi, l' uno solo speculativo e l' altro pratico, che si dà alle verità rivelate colla nostra fede: [...OMISSIS...] . Nel quale passo si vede come l' addentrarsi col pensiero nella legge divina, il meditarla, è il mezzo pel quale l' uomo rende pratico il suo assenso; mentre il solo crederne, quasi di volo, la verità, e così leggermente vedutala passar oltre, non può metterla nel cuore profonda, e farle di là portare i buoni effetti delle opere. Ma perchè questa meditazione della legge? questo riguardare in essa con attenzione e con assiduità? Certamente a percepirne la bellezza, a suscitarne in noi l' amore: questo amore, che come è effetto del meditarla, così è anco dello stesso meditarla insaziabilmente cagione: perchè noi non possiamo torci dal vagheggiare ciò che amiamo; ed è per alcune faville d' amore che spande nell' animo che la divina grazia ci rende meditativi della santa legge e delle cose divine, nè mai sazi di contemplarle. San Paolo, descrivendo la fede viva, la chiama « una fede che opera per la carità (2). » Ed è questa quella fede di cui dice che «« vive il suo giusto« (3). » Le opere buone adunque, la carità che le produce, e quel giudizio pratico che è il principio della carità (4) son tre caratteri che accompagnano la fede viva o soprannaturale. Io credo però che la fede che rimane in un uomo battezzato abbia qualche cosa di particolare, e in un senso più proprio ancora si possa chiamare morta . Il Battesimo ha impresso in lui il carattere indelebile , che rende tanto più colpevole e riprovata la sua incredulità. Oltracciò, s' egli è stato messo alla grazia, se ha ricevuto lo Spirito Santo, io credo probabilmente che nel suo spirito rimangano delle traccie profonde di questi doni soprannaturali, le quali aggravano la sua condanna: traccie che si possono in qualche maniera chiamare soprannaturali, perocchè trassero l' origine da un soprannaturale principio, e che forse in qualche maniera autorizzano a nominare in lato senso soprannaturale ancora quella fede morta che gli rimane. Riassumendo ciò che abbiamo detto, la Teologia dunque appartiene alla teoria, la Religione alla pratica: il principio della teologia è l' essere ideale, il principio della religione è l' essere reale: la Teologia appartiene all' ordine delle cognizioni, la Religione all' ordine delle azioni. La Teologia naturale è composta di cognizioni negative e a cui giunger può il naturale ragionamento degli uomini: la Teologia rivelata è composta di cognizioni negative anch' esse, ma tali a cui, quanto alla parte materiale della rivelazione, il naturale ragionamento non giunge, ma sono positivamente comunicate agli uomini. La Teologia rivelata si oppone adunque alla naturale, come si oppone il naturale (razionale) al positivo . La religione naturale all' incontro si oppone alla religione soprannaturale, come si oppone il naturale (l' azione naturale) al soprannaturale (all' azione soprannaturale). Stabilendo noi questo concetto della religione soprannaturale, egli è evidente che non facciamo consistere la sua base in nulla di esteriore all' uomo: ma che poniamo il fondamento nell' uomo interiore come lo chiama S. Paolo (1). Così Gesù Cristo avvertiva che questa religione (e la chiamava regno di Dio per la possanza che esercita Iddio nelle anime) non si poteva additare in nessun luogo esterno, nè dire: ecco qui, ecco là il regno di Dio; perchè stava al di dentro dell' uomo. [...OMISSIS...] Nè solamente la Religione soprannaturale è al di dentro dell' uomo, ma anche in generale il concetto stesso di religione sparisce e si annulla, ove si tolgano via gli atti di un culto interiore che presti l' uomo alla divinità. Quindi i riti esterni del culto per sè soli non formano, in modo alcuno, una religione, se non vi si accompagnano i sentimenti dell' uomo. Questi sentimenti poi non possono non essere appoggiati a una credenza, a delle cognizioni e opinioni intorno le cose divine, in somma ad una qualunque teologia. Questa dottrina poi che sottostà alla Religione, questa teologia, vera o falsa, che è sempre dalla religione supposta, può risultare o di pure idee negative, o essere anco vestita di simboli, rappresentazioni, miti. Ma questo addobbamento e talora questo ingombro di figure e immagini non costituisce che la parte accessoria e accidentale della teologia medesima, una parte che ha bisogno della prima, come il ricamo suppone il drappo, sopra cui si rileva, o il colore suppone il corpo, dal quale viene rimbalzato agli occhi di chi lo mira. Le quali cose ho voluto toccare per rimuovere quei falsi concetti di religione che furono proposti ne' nostri tempi. La quale religione è poi assai agevol cosa combatterla, quando si descrive per quella che non è, e, creato un ente odioso o frivolo o assurdo, si denomina poi esso medesimo Religione: come vediamo nei nostri tempi avvenire senza posa ne' libri di quelli che o la religione non istudiano o non l' amano. Ecco pertanto i due falsi concetti che furono dati della religione negli ultimi tempi, concetti a cui la distruzione di ogni Religione assai facilmente seguirebbe, se potesser valere. Beniamino Constant la ridusse al solo sentimento religioso, e la divise così dalla dottrina, da una teologia che deve servire di sostegno e giustificazione di quel sentimento, giacchè questo sentimento deve essere ragionevole: altramente l' esser cieco, sarebbe il medesimo, che renderlo dispregievole e arbitrario. Vittore Cousin (1) la ridusse alla parte simbolica della teologia, separando da questa le pure concezioni e denominando queste filosofia : non riflettendo che un simbolo cessa anco di essere simbolo, se nulla segna o rappresenta; e che quindi i simboli non possono mai stare dalle pure concezioni divisi, sebbene queste possano (fino a certo segno) star divise da quelli. Oltrachè egli dà il nome di religione a quello che non è veramente che una teologia . La Religione non è dunque una pura speculazione, una pura teologia: molto meno è ammasso di simboli. La Religione non è nè pure un puro sentimento , scompagnato da concezioni e credenze . Ma la Religione è un culto interiore; essa è« degli atti interni di adorazione e preghiera che si porgono alla divinità, e che nascono in conseguenza d' idee e credenze (talora involte in imagini e simboli ), dalle quali idee , quasi da luce calore, escono i sentimenti che sono poi cagione prossima di quelle interiori azioni di culto: le quali azioni (pel natural nesso dell' interno dell' uomo coll' esterno) si producono anche all' esterno e prendono la forma di preghiere vocali, riti e cerimonie religiose, che, quando sono abbracciate da tutto un popolo, diventano popolari e pubbliche«. Non si possono scompagnare e dividere gli elementi che formano la Religione, senza distruggere la Religione medesima. Essa non esiste se non allorquando esistano le azioni interiori di culto, e perciò queste sono la sua base e, se si vuole così, la sua essenza: ma esse azioni sono legate necessariamente : 1. ai sentimenti; 2. alle idee; e accidentalmente (se mi si permette di così dire, che meglio si direbbe per una loro conseguenza ) ai riti esteriori. La Religione adunque aggiunge alla Teologia , è qualche cosa più di lei, è cosa che la perfeziona e compisce, riducendola alla pratica, come l' azione reale compisce il disegno mentale, e l' idea di una casa che hassi a fabbricare colla erezione stessa della casa viene adempita. Non convien dunque straziare il concetto della Religione, separandolo da quelle parti che gli sono essenziali o concomitanti o accessorie. Se tutti per tanto gli elementi indicati entrano nel concetto generale della Religione, ove poi si discenda al più speciale della religione soprannaturale , scuopresi un nuovo elemento che conviene aggiungere ai precedenti, e che forma la differenza, per la quale la soprannaturale religione dalle altre naturali si divide e distingue: e questa è quella azione reale che Dio stesso opera nello spirito dell' uomo. Il perchè questa religione abbraccia di più della naturale; è quell' elemento divino che si suole appellare col nome di grazia , è quello che corona e compisce tutta la serie degli altri elementi, e reca questo tutto , per così dire, che religione si nomina, all' ultimo suo perfezionamento. Il perchè gli elementi che entrano a formare il concetto della religione soprannaturale, riassumendoli qui tutti, sono i seguenti: 1. Una Teologia , ossieno delle idee intorno alla divinità (1). Non è poi essenziale che queste idee sieno vestite di simboli e imagini. 2. De' sentimenti religiosi, nati in virtù di quelle idee. 3. Delle azioni religiose e interiori, cioè di culto. Queste azioni vengono naturalmente a prodursi anche al di fuori in riti e cerimonie, per le quali nasce il culto esterno (2). 4. Un' azione divina , che congiunge lo spirito umano ad intima e reale unione colla divinità. Recherò in prova di questa tesi quello che io credo il più autorevole raccoglitore della cristiana tradizione, S. Tommaso d' Aquino. Eccone la dottrina. Le potenze dell' anima, dice S. Tommaso, sono molte; ma l' essenza dell' anima è unica: quelle dunque sono diverse da questa, ma da questa derivano come tralci da un unico ceppo. Come poi l' essenza dell' anima è il principio comune delle potenze, così le potenze sono altrettanti principii delle varie maniere di operazioni che alle singolari potenze convengono. Ora le operazioni o azioni son buone o cattive, morali o immorali; e questa bontà o malizia delle azioni si deve riferire e riportare ai principii delle azioni stesse: quindi le potenze sono la sede delle virtù e dei vizii. Ma nell' ordine soprannaturale la grazia per sè considerata non è già una virtù od un vizio particolare, ma bensì il principio e la radice di tutte le soprannaturali virtù (1). Il perchè la grazia deve informare e perfezionare lo stesso principio delle potenze, cioè l' essenza dell' anima, giacchè le singolari potenze sono solamente la sede delle virtù singolari, e non di ciò che è il comune fonte di tutte. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Fermiamoci a sola quest' ultima parola di creazione che si applica dalle divine Scritture all' effetto che fa nell' uomo la grazia. S. Giacopo dice: « Volontariamente ci ha generati colla parola di verità, acciocchè siamo un cotal principio di una creatura sua« (3). » Nelle quali parole è mirabile quanto chiaramente sia espressa la nuova esistenza che riceve l' uomo dalla grazia. Non si contenta di dire che diventiamo per la grazia una creazione di Dio, ma si bene dice il principio di una creatura, per esprimere che è tutto nuovo ciò che pone la grazia, fino il principio dell' uomo dalla grazia rinnovato: e non dice diventiamo , ma siamo , cioè cominciamo ad essere , come le creature che ricevono l' essere dalle mani del Creatore, le quali pur allora sono , non trapassano da uno stato all' altro, non diventano diverse da quello che erano prima. E questo è parlare costante degli scrittori del nuovo Testamento, massime di S. Paolo. Egli afferma che noi siamo creati in Cristo Gesù (1): parla dell' uomo nuovo creato nella giustizia e nella santità della verità (2): e ripete frequente che siamo creature nuove (3). Non si poteva trovare una parola più vera di questa, più acconcia a esprimere l' operazione mirabile della grazia nella essenza dell' anima umana (4). Nella essenza dell' anima adunque, nell' IO è la operazione della grazia: in questo IO che è l' identico soggetto di tutte le potenze, perchè io medesimo che penso, sono quello altresì che vuole, che ama, che patisce, che opera: diverso è l' atto del mio pensare da quello del mio volere, diverso è il mio patire dal mio fare; ma non diverso, ma sempre identico e unico sono IO, a cui tutti questi atti appartengono, come a loro soggetto e principio. Conviene pertanto ascendere alla concezione di questo sentimento sostanziale, radicale e comune alle potenze tutte, che col nome di IO si segna; e allora solo si ha concepita quella essenza dell' anima, di cui parliamo, e dove in prima si eseguisce la mirabile operazione della divina grazia. Dottrina cristiana è che l' anima sia il soggetto della grazia in quanto essa appartiene alla specie delle nature intellettuali o razionali (5). Indi è che la grazia non è propria che dell' uomo, e non degli esseri inferiori: essa è qualche cosa di più eccellente a tutto ciò che ha l' uomo per natura; e perciò perfeziona l' uomo nella parte sua più elevata, sollevandolo via più su. Ma or da questa dottrina, che la grazia influisca immediatamente nell' uomo in quanto egli è intellettivo, riceve nuova luce una verità filosofica di molto valore, cioè che« l' intelletto, propriamente parlando, meglio che una potenza si deve chiamare un elemento della essenza dell' anima umana«. Ciò che non meno è conforme alle dottrine dell' Angelico, che alle ricerche ideologiche da me tentate e rese pubbliche. Il che gioverà che veggiamo in un distinto paragrafo. Che questo sia pensiero dell' Aquinate, si può rivelare dal seguente ragionamento: L' anima umana è di una specie diversa da quella de' bruti pel solo intelletto . Ora, secondo l' Angelico, il fondamento della specie delle cose è la loro essenza . Dunque l' intelletto appartiene all' essenza dell' anima umana. La proposizione minore di questo sillogismo è dottrina espressa dell' Angelico dottore. [...OMISSIS...] e non per qualche potenza solamente e per qualche accidente, appunto perchè è intelligente. Questa dottrina poi consuona al tutto con quella che io ho esposta nella Ideologia . Tra le essenze delle cose io ho messo in primo luogo quelle appunto che chiamo specifiche , perchè costituiscono le specie delle cose (2): ed è di queste che parla S. Tommaso. E facendoci in particolare alla intelligenza umana, io ho dimostrato che questa intelligenza non è che la visione costante dell' essere ideale ; che l' essere ideale, collo starsi presente e quasi affisso perpetuamente allo spirito nostro, crea in lui la ragione la quale non è altro che la potenza di usare dell' essere mentale, giacchè ogni ragionamento non è altro, ridotto all' espressione sua semplicissima, se non un' applicazione, un uso che fa il nostro spirito dell' essere ideale, di questa idea maravigliosa che è l' idea di tutte le idee, o secondo la frase aristotelica, la specie di tutte le specie ; poichè ciò, per cui ogni altra idea è idea, è per esservi mescolata la concezione dell' essere, tolta la quale, è tolta ogni idea, ogni pensiero (1). Ora se l' intelletto è formato da una visione permanente, non si dà in lui discorso da una cosa a un' altra; ma la sua indole è quella di avere il guardo fisso e immobile sempre a quel medesimo oggetto: il che non è proprio delle potenze. Perocchè la potenza , come indica il suo nome, esige una certa sfera, nella quale si muova, passando da uno stato all' altro, da quello di mera potenza a quello di atto, e cessando da questo, senza punto cessar essa nè distruggersi: il che è proprio, fra le potenze intellettive, della ragione . L' intelletto all' opposto è perfettamente immobile, e, se non gli viene mutato l' oggetto, egli per sè nè si rimuove da quel guardare equabilmente in esso, nè può in alcun modo rimuoversi o veder altra cosa, consistendo esso stesso in questa immobilità, per legge di sua natura (2). L' azione adunque della grazia nell' anima è un' azione nella parte sua intellettiva, è l' intelletto che nell' uomo viene accresciuto con quell' azione; e per questo alcune espressioni delle divine Scritture sembra quasi che parlino di un intelletto nuovo che l' uomo acquista mediante la grazia. Quando il reale Salmista diceva, a ragione di esempio: « Dammi intelletto e imparerò i tuoi comandamenti« (3); » non era che gli mancasse l' intelletto comune agli uomini tutti, ma dimandava quell' intelletto che aggiunge la grazia. Neppur dimandava egli un aumento della potenza della ragione , perchè questa gli veniva rinforzata e rinnovata per sè stessa, quando l' intelletto, da cui ella nasce, fosse invigorito e accresciuto: e perciò dice:« imparerò i tuoi comandamenti«; parole che esprimono appunto l' ufficio della ragione che è quello di ragionare e discorrere sulle cose e rilevarne i loro rapporti. Più ancora è chiara questa domanda del principio intellettivo, essenza della umanità, in queste altre parole del medesimo salmo: « dammi intelletto » (questa è l' essenza dell' anima intellettiva) «e io scruterò la tua legge » (questa è la ragione rinforzata che ne consegue), «e la custodirò in tutto il mio cuore« » (questa è la efficacia dell' amore che si aggiunge sempre a quella cognizione, non fredda, ma tutta calda, che si ha per grazia) (4). L' analisi delle idee dimostra, che il primo elemento intellettivo che concepir si possa in una natura, è la visione dell' ente. Per ciò, ove questa visione mancasse, non rimarrebbe più in quella natura niente d' intellettivo e di razionale (1). Un' anima, ove non fosse nulla d' intellettivo e di razionale, sarebbe un' anima irragionevole, qual' è quella dei bruti. Ciò posto, in Ideologia non vi hanno che due sistemi, l' uno che fa nascer l' uomo animale bruto e che gli dà la potenza di diventar ragionevole, di diventar uomo; questo fu il sistema de' sensisti: l' altro che fa nascer l' uomo uomo, cioè ragionevole; questo è il sistema che ammette congenita nello spirito umano l' idea dell' essere perchè non v' ha nulla d' intellettivo prima di questa idea; sicchè per lo meno conviene ammettere d' innato questa idea, acciocchè nell' uomo ci abbia l' elemento intellettivo. L' assurdità del primo di questi due sistemi si pare da sè stessa. Il secondo solo poi è compatibile insieme col sistema del cristianesimo, il quale suppone sempre che l' uomo sia uomo, cioè dotato del principio intellettivo fino dai primi istanti della sua esistenza. La Religione cristiana suppone che fino da quei primi istanti egli sia altresì suscettibile di accogliere la grazia in sè medesimo, il che è quanto dire, di partecipare della congiunzione colla divinità. Ora abbiamo veduto nell' articolo precedente che la grazia opera immediatamente nel principio intellettivo dell' uomo e esalta questo principio, l' illustra, lo reca all' intima unione coll' Essere Primo, che, nobilissima natura come è, non può comunicare immediatamente se non con ciò che vi ha di più nobile nell' uomo, con quell' elemento razionale, del quale S. Agostino non trovava nulla di più elevato, fuori che lo stesso Dio, e che riconosceva come un raggio della stessa divinità (2). Sebbene l' azione della grazia si operi nella parte intellettiva dell' anima, tuttavia essa è un' azione non ideale , ma reale . La distinzione dell' azione ideale dalla reale è quella stessa che passa tra l' idea e la cosa : l' azione ideale è quella che accompagna le idee nella mente, la reale è l' azione delle cose sussistenti. L' idea è fredda e non è un agente , ma un oggetto : la cosa è un agente, ha forze sue proprie. L' idea non è che una cosa possibile, una possibilità, un primo iniziamento della cosa: ma la cosa è una realità, una sussistenza, una cosa non solo iniziata, ma compita per modo che ha ricevuto l' essere in sè stessa. Non ci inganni il parerci che in molti casi grande sia la potenza delle idee. Convien riflettere che, quando si tratta di idee positive cioè di idee di cose, di cui abbiamo avuto la percezione, di cose che hanno agito sui nostri sensi, allora all' elemento intellettuale e ideale si mescolano degli altri elementi reali. Una cosa che ha realmente agito sopra i nostri sentimenti, lascia nei medesimi le reliquie della sua reale azione; e da questo residuo di azione reale si deriva la potenza che sembrano avere su di noi le idee positive delle cose. Si consideri quanto questo vestigio o effetto, che lasciano in noi le cose reali che hanno operato nei nostri sentimenti, valga a muoverci e a eccitarci. Primieramente quando la cosa reale, che supponiamola cosa buona (delle cose male si può dire il medesimo, rivolgendo il discorso in opposito), eccitava i nostri sentimenti ad appetirla, allora la nostra volontà fu mossa fortemente, ella se ne è dilettata, ha fortemente voluto. Questa volontà che fu così una volta mossa, si conserva piegata e inclinata di amore verso quella cosa; ella si ricorda di avere amato, di avere goduto; vorrebbe amare, vorrebbe godere ancora: la volontà in tale stato è già deliberata, non ha bisogno di forte spinta a ciò; l' idea della cosa non le serve già per darle movimento, ma ricordarle di eccitare in sè stessa quella grata percezione, per dirigere e mantenere quel suo movimento. Questa piega, questa mozione abituale della volontà è bensì mantenuta e pressata invece che dalla idea (possibilità della cosa) dalla memoria della percezione (1), e degli affetti dilettevoli, de' godimenti di cui questa fu alle volte accompagnata: ma la memoria ossia il ritenimento della percezione non è l' idea, è qualche cosa di più reale, di una impressione lasciata in noi dalla cosa reale, la quale impressione colorisce, per così dire, e incarna la pura idea. Si aggiunge alla piega della volontà e al vestigio che rimane in noi della percezione avuta, il giocare della fantasia o imaginativa, la quale ha virtù di risuscitare quel vestigio e rinnovare la percezione sensitiva . Poichè la fantasia, come ho mostrato, non è che un senso interiore, pel quale l' anima, come stimolo interno, eccita nell' organo sensorio dei movimenti simili a quelli che furono in lui eccitati dagli stimoli esterni dietro ai quali seguitano le sensazioni: sicchè le imagini o fantasmi sono vere sensazioni e simili di natura alle percezioni sensitive. Or anche questa della fantasia è azione reale e non ideale, e si aggiunge alle idee, nascendo contemporaneamente con esse. Quindi è che si spiega quella potenza, che pare sì smisurata, delle idee nell' uomo. La idea della ricchezza, a ragione di esempio, quante reminiscenze, quante imagini non richiama! E in quelli che ne hanno la passione, quanto decisa e fortemente piegata non è la volontà! Che se si spogliasse l' idea della ricchezza di ogni imagine, di ogni reminiscenza, di ogni affetto per lei contratto; se non se ne avesse che una pura idea astratta, come dicono, e come diciamo noi, negativa; se non si conoscesse se non per un segno, per una parola, come la si amerebbe? Che attrattive avrebbe mai una tale ricchezza per noi? Quanto non sarebbe fredda e nulla al muoverci una tale idea di ricchezza? Le idee dunque, per sè sole, sono fredde, e tanto più fredde e inefficaci a muovere la nostra volontà, quanto più sono astratte e negative, cioè tali che non ci dànno la rappresentazione positiva della cosa, ma ce la segnano solo e contraddistinguono (2). Le idee ci fanno semplicemente conoscere le cose, e il semplicemente conoscerle non è ancora l' esser noi congiunti con loro, nè il soffrire da loro un' azione sostanziale, cioè che venga dalla loro sostanza in noi prodotta. L' idea non è propriamente un' azione, ma il termine di un' azione: nell' idea quindi l' azione è finita, il moto non si propaga di più. Tutt' all' opposto è di un agente a noi applicato: in questa congiunzione di noi con un ente sussistente che in noi agisce, c' è l' atto in atto, per così dire, non l' atto già finito; e qui noi lo troviamo in quel momento, nel quale l' atto è vivo per produrre il suo termine. Or dunque distinta così l' azione ideale dall' azione reale, e veduta la inefficacia di quella e la viva efficacia di questa, diciamo che la operazione divina della grazia, sebbene si compia nell' intelletto, tuttavia è un' azione reale . Questa differenza fra l' azione ideale e l' azione reale, è quella stessa che pone la divina Scrittura tra la legge di Mosè e la grazia di Gesù Cristo. Di nessuna cosa è così sollecita la divina Scrittura quanto di farci notare questa distinzione, e dimostrarci quanto la legge di Mosè fosse inefficace per muovere la volontà dell' uomo, e quanto efficace fosse la grazia di Cristo. La ragione di questa inefficacia è appunto questa, cioè che la legge non faceva che presentare alla mente delle idee , la fredda cognizione dei doveri: ma la grazia di Gesù Cristo aggiunge a queste idee una forza che elle per sè non hanno, le infiamma, le rende veramente possenti nell' uomo. Egli è con ciò che S. Giovanni mostra quanto Gesù, il Legislatore nuovo, vincesse Mosè, il legislatore antico, in eccellenza e quanto sia più sublime la legge nuova sopra la legge vecchia. [...OMISSIS...] Tutta la lettera di S. Paolo ai Romani non è che un mirabile commentario di questa verità fondamentale dell' Evangelio. Il non aver distinta l' azione ideale dall' azione reale travolse i Pelagiani nel loro errore, che loro impedì il distinguere la legge dalla grazia : e quindi negarono la grazia perchè, non potendo concepirla, non sapevano risolversi ad ammettere altro che la sola legge , una cognizione del bene, ma non un aiuto interiore e possente che rendesse attiva e vivace questa cognizione. E veramente S. Agostino non negò loro che la grazia si potesse chiamare anche col nome di dottrina ; perocchè, operando essa nell' intelletto, ricever può anche questo nome. Ma ciò che negò loro fu, che questa dottrina fosse pura dottrina, puro e freddo conoscimento: era dottrina che teneva della percezione, che toccava, che produceva un sentimento, un' anima nuova piena di virtù e di forza da operare. [...OMISSIS...] La giustizia consiste nel dare a tutti il suo: la virtù consiste nell' adesione della volontà [all'] ordine dell' essere. Chi non vive secondo quest' ordine, chi non dà a tutti il suo, è vizioso e ingiusto. Ora quest' ordine richiede che noi stimiamo e amiamo Iddio per quello che [egli è], principio e fine di tutte le cose, l' essere stesso, il necessario, l' assoluto. Questo è il capo di tutto il sistema morale, come l' Essere divino è il capo dell' universo, il perno su cui tutto si mantiene e muove. Ma questo Essere, che deve esser l' oggetto d' un infinito amore, e verso cui dobbiamo esaurire tutti gli affetti del nostro cuore che non può amare nessun' altra cosa se non per lui, come per lui ella esiste, nessuno l' ha mai veduto, mai percepito. Egli è rimosso da questo mondo, egli si tiene occulto e invisibile agli occhi nostri: noi non ne abbiamo che una idea, e una idea negativa; ella è composta questa idea della relazione di Dio colle creature, ma appunto per questo le creature stesse ricorrono alla mente, si mescolano nel concetto di Dio, e ci mettono a pericolo di dare ad esse quell' adorazione e quell' amore, che noi dovremmo riserbare al solo Creatore. Una idea pura, negativa, senza percezione della cosa, senza rappresentazione nè imagine, è languida e fredda per sè stessa, non ha virtù di mettere in noi un efficace e vivo sentimento. Intanto sotto ai nostri sensi è continuamente l' universo creato: egli gl' inebria con tutte le sue delizie, li rapisce con tutta la sua vaghezza, li incanta, li distrae, li assorbe con tutta la sua infinita varietà e fecondità. Tanti beni, tutti sensibili, tanti mali, pure sensibili (perocchè anche questi cooperano colla loro vivissima molestia a renderci più avidi e più perduti dietro ai beni), esercitano in noi un' azione tutta reale , tutta efficace, contro la quale non ha schermo il nostro cuore che sembra simile a galeotto di leggera barchetta nuotante in mezzo alle onde immense di un oceano tempestoso. Come mai adunque quella forza che può venire all' uomo da quella tenue e sottilissima idea della invisibile e incomprensibile divinità, varrà a vincere gli impulsi delle passioni sommosse e gli eccitamenti di tanti beni umani presenti, visibili, irruenti continuamente sopra i suoi sensi, e, in una parola, esercitanti nel sentimento dell' uomo un' azione realissima? Come l' amore di questi beni, così vicini e attivi, sarà minore, più debole e cedente all' amore di quel Dio rimoto, che l' uomo nè pur positivamente conosce, perocchè la idea negativa non che dia il sentimento della cosa, ma non dà nè pure una vera cognizione della sua natura? Come insomma questi due amori, delle creature e del Creatore, potranno essere subordinati, quando vengano in collisione fra loro, per forma che quello a questo ubbidisca? (1). E questa collisione, nello stato presente della umanità, è continua. Si vede nei sensi dell' uomo una inordinazione manifesta: le sensazioni gli promettono più che non possano attenere. Non c' è uomo, neppure fra i mondani e alieni dalla religione, il quale non riconosca che le sensazioni illudono; che questa illusione viene dissipata dalla realtà; che questa « realtà delle cose », come confessava un uomo che se n' era voluto scapricciare, è « trista e fredda (2) »; e che è piuttosto il gioco della fantasia che abbellisce il futuro quello che seduce e imbaldanzisce l' uomo di speranze, che non la realtà del godimento presente, circoscritto, breve, avvelenato di segreto angore. E quindi la perpetua confessione che si ha dalle labbra di quelli che pure nella illusione e della illusione stessa vivono; cioè la confessione di Salomone: [...OMISSIS...] . Che dunque nelle sensazioni vi sia un principio illusorio, una inordinazione (perocchè questo è una inordinazione, l' infondere una vana speranza), è una verità di fatto, testimoniata dagli uomini di tutti i partiti e di tutte le opinioni. Ella è quella verità che agli uomini, i quali estinsero la morale nel piacere e fecero della sapienza un' arte di vivere con maggior copia di dilettazioni, suggerì lo strano sistema di pascere l' uomo di una continua illusione e di raffrenare i suoi appetiti appunto per questo di poter così maggiormente godere, tementi che, col procacciarsi solo tutti i diletti reali, l' uomo si disingannasse delle cose sensibili e svanisse per lui quell' errore, giudicato da lor fortunato, col quale il senso solleticato moderatamente promette, ove gli si dia più e più, di pervenire a un paradiso d' interminabili voluttà, e ripete l' antichissima menzogna: « Eritis sicut Dii ». E in quest' opera della seduzione e dell' inganno che viene da' suoi sensi all' uomo, ha gran parte la volontà dell' uomo, così piegata, aggirata e determinata a voler conseguire una felicità assoluta e piena, chè senza questa non gli pare di poter reggere: e quindi, ove non n' abbia una reale, essa precipita a crearsene una colla immaginazione e la trova appunto nelle cose sensibili, soli beni reali che a lei presenti la natura. Che se la volontà non avesse già quest' abito e questa irresistibile piega che la porta a volere un bene assoluto e infinito; e il senso non avesse in sè quella inordinazione, ma la sensazione non imbaldanzisse l' uomo a sperare e promettersi da lei più di quanto può mantenere; in tal caso l' uomo sarebbe sì inclinato alle creature, ma non istrabocchevolmente e inordinatamente, nè farebbe di ciò onta al Creatore, col mettere le creature nel posto suo e amarle come bene finale. E l' amore, apprezziativamente sommo, del Creatore potrebbe sussistere, sebbene più languido, senza venire in collisione con quello delle creature. In tal caso, fino che l' uomo fosse privo della vista di Dio, sarebbe imperfetto e limitato, non però reo per questo necessariamente, nè disordinato, come non può non essere nella condizione, in cui egli si trova presentemente. Egli è adunque impossibile alle forze naturali dell' uomo l' amare Iddio, di cui ha solo una fredda idea , a preferenza delle creature, di cui ha la percezione , e il raffrenare, il metter ordine, con quest' alto amore, all' amore seducente delle creature. E questa ragione del percepirsi, del vedersi gli uomini, e non Dio, apporta S. Giovanni a dimostrare, esser più facile l' amore del prossimo che quello di Dio: [...OMISSIS...] . La morale adunque alle forze naturali dell' uomo è impossibile, almeno per quella parte che riguarda Iddio: e come l' universo, privato di Dio, è senza principio, senza sostegno che il regga, non si può concepire; così la virtù morale, mozza di quel rispetto che riguarda Iddio, è troncata della sua parte capitale, è morta, è nulla per se stessa. Perocchè finalmente tutti gli amori verso le creature debbono terminare in Dio attualmente per essere perfetti, e debbono terminare in Dio virtualmente, debbono almeno non contraddire all' amor di Dio, per non essere delitti. Confessano questa impossibilità della morale religiosa i figliuoli stessi degli uomini. Non parlo di quelli che non hanno pudore di scoprirsi manifestamente inimici dell' Essere Supremo, i quali mostrano col fatto loro che non sanno levarsi ai doveri morali che hanno Dio per oggetto. Parlo di quelli che riconoscono e confessano la esistenza di un Creatore e conservatore del tutto, e che ne parlano con riverenza; parlo di quelli che sono i più dotti, che più s' affaticano nella ricerca della verità, che si mostrano più avidi di cognizioni e che fanno dei sistemi di morale. Tutto questo sapere, tutte queste notizie del loro intelletto valgono forse a sollevarli a Dio? Questo Dio si fa loro anzi così alto, che disperano di arrivarlo giammai. E veramente manifestano una segreta disperazione di conseguire la parte religiosa della morale quei tanti scrittori moderni che, con pensieri pieni di umana benevolenza, sicchè in leggere i loro scritti si prova una grata sensazione, e una cotal nobiltà di concetti vi si gusta per entro, pure sono tutti solleciti di schivare, siccome scoglio, le idee religiose, di restringere tutta la morale alle relazioni degli uomini fra di loro e, lasciato da parte non solo Dio, ma ben anco in gran parte l' uomo individuo, non parlano che di una morale sociale, come essi la chiamano, quasi che la morale non fosse più che una certa decenza del vivere esteriore, un certo pudore, o a dirlo più francamente, una certa finissima finzione. Molti di questi scrittori riducono la morale agli interessi umani, non difficili per vero ad amarsi: molti la ripongono nei sentimenti naturali; e nè pur questi prescrivono cosa impossibile. La religione però la descrivono sempre come una cosa tutta di diversa natura dalla morale, una cosa indipendente da questa, come questa la vogliono indipendente da quella. Insomma la relazione che l' uomo ha con Dio e i doveri essenziali che ne conseguono è una pagina che interamente cancellano e radono dal codice de' doveri: segno certissimo di una cotale disperazione che entra loro nell' animo di adempiere sì sollevati doveri, e pur chiarissima confessione del sentirsi mancar le forze a vincere quella potenza che esercita su di essi la continua percezione e azione delle cose reali esteriori e che li strappa e travolge da quella altezza, a cui la tenue e solo abbozzata idea di Dio, qual l' abbiamo pure, impone con autorevolissimo e severo comando. Quello che dissi dell' idea di Dio, impotente nelle nostre menti a muoverci in quell' amore che a un tanto Essere si conviene, può dirsi delle idee astratte della giustizia. Ogni qualvolta tutto ciò che vi ha di bello in un' azione non è altro che la giustizia, e l' azione contiene tutte le altre parti contrarie e ripugnanti ai nostri sentimenti, quell' azione per l' uomo naturale ha un' arduità insuperabile. Non è già che non sia autorevole quella idea del giusto, non è ch' ella non intimi chiaramente all' uomo ciò che è giusto e onesto; egli glielo intima con ogni chiarezza, e questa intimazione è sì severa, sì assoluta, che l' uomo ben capisce come nè pure la distruzione dell' universo sarebbe ragione atta a scusare l' infrazione della legge; niente insomma potrebbe mutare o la deformità o l' eterno bello di quella azione. Ma tutto questo addita una pura idea, sicchè è attissima a insegnargli ciò che deve fare, ma dopo ciò non è però che una pura idea, ella non ha alcuna forza reale, ella non può di più che pronunziare una sentenza: l' uomo in cospetto di questa idea si sente fiacco, impossente, reo e nulla trova che il rialzi dalla sua fiacchezza e dalla sua reità. Questa autorità e questa impotenza delle idee della giustizia, divise che sieno da ogni altro elemento reale, è stata sempre intesa, sempre sperimentata, sempre confessata da tutti gli uomini. Fra le stesse frivolezze delle scene comiche si manifesta questo gran vero, questo vero fatale, un doppio sentimento, di approvazione che riscuote la giustizia veduta (idea della giustizia), e di assoluta impotenza quando si viene al fatto. Il comprovano questi eleganti versi di Plauto: [...OMISSIS...] . Il « video meliora proboque, deteriora sequor » di Ovidio è un detto reso comune per la sua notoria verità; e esprime benissimo [la differenza] fra il veder le norme coll' intelletto, al qual fine basta l' azione ideale (l' idea in noi), e il seguirle colla volontà, al quale fine la volontà ha bisogno di essere mossa da un' azione reale , da uno stimolo che realmente la solletichi e impella. E qui è anche la spiegazione di quella terribile sentenza che ha pronunciato S. Agostino sulle virtù del gentilesimo, quando ha detto: « che quelle virtù si riducevano a essere de' vizii, vinti con altri vizii maggiori«; » per esempio, la intemperanza frenata dall' avarizia, la incontinenza doma dall' ambizione o dalla vanità, la crudeltà repressa dalla vana gloria. Aveva veduto il grande uomo che gli antichi moralisti, disperati d' indur gli uomini ad amare la virtù puramente per sè stessa, vi avevano opposti degli emolumenti umani, dei fini secondarii; che l' onesto e il retto si operava nel mondo allora che fosse accompagnato con delle reali utilità, e dove di esterne utilità venisse a sprovvedersi la virtù, erano forse tutti presti gli uomini a cantar i notissimi versi di Bruto: [...OMISSIS...] La grazia non fa solamente l' effetto di impellere nuovamente l' umana volontà al bene morale, come uno stimolo esterno che, dato il suo colpo, si ritira, senza incorporarsi stabilmente in noi. Iddio, con quell' azione che si chiama grazia, si unisce realmente con noi e permane con noi unito, sicchè in noi è per la grazia qualche cosa di divino che prima non esisteva, congiunto e quasi concorporato colla essenza dell' anima nostra. [...OMISSIS...] Questa azione divina, continua e immanente della grazia nell' anima, dà all' anima una stabile energia, la solleva a un potere che prima non aveva; il che è quanto dire gli aggiunge una nuova potenza, in virtù della quale può quello che non può per sè sola, senza la grazia. E S. Tommaso trova questo procedere di Dio coll' uomo sapiente e soave e tutto conforme a quella savissima dispensazione con cui tutto governa, e muove le sue creature al loro ultimo bene. Infatti sembrerebbe che Iddio avesse potuto spingere l' uomo alla operazione del bene con degli attuali eccitamenti, o anche con una continua azione sopra di lui, ma tale che in lui non fosse creata per questo una nuova attività, ma agisse Iddio come causa efficiente , e l' uomo come un oggetto tutto passivo verso di quella causa. Non volle: ma preferì di unire all' uomo la sua virtù, come una causa formale ; cioè dispose dare alla essenza dell' anima una nuova forma, una nuova attività; il che è quanto dire di creare in lei una nuova potenza di operare, rilevando così la natura stessa umana a uno stato e condizione di eccellenza intima e soprannaturale. [...OMISSIS...] Vi sono nello spirito delle potenze che hanno bisogno di esser mosse da altre potenze, che in ragione di attività sono ad esse superiori: per cagione di esempio, l' intelletto ha bisogno di essere mosso dalla volontà o dall' istinto. Vi sono delle altre potenze le quali non sono mosse da una potenza superiore, ma in esse è il principio del moto. Queste le ho chiamate principii attivi . Non tutte le potenze sono principii attivi, sebbene tutti i principii attivi o no, come ha detto San Tommaso, PRINCIPIA ACTUUM, si possano dire, per quanto mi pare, potenze. I principii attivi sono tanti quanti sono i sentimenti; perocchè la osservazione mostra che a ogni potenza passiva ne corrisponde una attiva, a ogni sentimento un istinto, ossia un' attività conseguente. Ora nell' uomo, fino che resta nello stato naturale, vi sono due sentimenti essenzialmente diversi, cioè soffre, è passivo da due nature che agiscono in lui e di diversa natura, i corpi e l' idea dell' essere . Indi due attività, cioè l' istinto animale e la volontà (1). Ora, operando Iddio con un' azione reale nella essenza dell' anima, vi produce un sentimento nuovo, e quindi un principio nuovo di agire che è quello che viene chiamato l' istinto dello Spirito Santo . Questo sentimento è essenzialmente diverso dai due primi, perocchè l' agente o stimolo, che lo produce, è essenzialmente da' due primi diverso; egli non può nascere da que' due primi; non v' è facoltà nell' uomo che il possa muovere o suscitare, ma si suscita e nasce da sè stesso improvviso, o più tosto da quell' Agente divino che ne è l' autore. Egli è dunque veramente non una mera potenza, ma un vero principio nuovo di azione, che vien creato nell' uomo da Dio, con quella influenza che egli esercita nell' anima. L' anima, l' IO, di quanto maggior forza si sente tocco, quanto più prova in sè un sentimento maggiore, tanto più trovasi pieno di vita e di valore: il sentimento che lo invade, lo diffonde, lo ingrandisce, lo afforza; pari alla grandezza, alla profondità, alla forza del sentire sorge altresì in lui la potenza e l' audacia. Il che si vede ne' sentimenti di ogni genere: indi le millanterie dell' ubbriaco, indi l' ardimento dell' innamorato, indi le imprese più temerarie dell' ambizioso e del mercatante, indi il coraggio, l' eroismo di chi si sacrifica per la patria e di chi muore per la giustizia, indi tutto ciò che v' ha e v' ebbe di grande, di nobile, di stravagante e di furente sopra la terra: tutto provenne dalla viva forza di qualche sentimento straordinario che invase l' uomo e, invadendolo, lo avvalorò, gli aggiunse quelle forze che non aveva, il trasse di sè, il rese di sè stesso maggiore. Anche uomini i più inerti, i più dappoco, si videro talvolta tramutati improvvisamente in altri esseri, se una forte passione si potè metter dentro in essi e signoreggiarli. Insomma sebbene il sentimento sia una passione , tuttavia egli produce sempre nell' uomo una corrispondente azione : il sentimento è il generatore dell' istinto , e questa attività, che s' ingenera in noi dal sentimento (giacchè noi stessi finalmente non siamo che un sentimento, e quindi il NOI è ingrandito, ingrandendosi il sentimento), è della stessa natura e forza del sentimento che l' ha prodotto, e come quello è debile o forte, nobile o vile, d' un ordine superiore o d' un ordine inferiore. Or ciò posto, ed essendo il sentimento naturalmente pari allo stimolo che il genera, egli è manifesto che quell' unione reale che fa Dio nella essenza dell' anima, deve ingrandire il suo sentimento fondamentale, che è quanto dire deve ingrandire lei medesima, e questa vena di sentire che a lei s' aggiunge, deve esser di un' indole al tutto superiore a ogni sentimento, infinitamente più nobile, infinitamente più possente. Indi il principio di azione , che aggiunge la grazia nell' uomo, forza è che sia supremo, nobilissimo, potentissimo. E con ciò si spiegano le maraviglie che nel loro vivere mostrano i servi di Dio. Ho detto che il NOI è un sentimento, che colla parola NOI esprimiamo l' essenza nostra, e quindi che l' essenza nostra è un sentimento (3). Questo sentimento essenziale l' ho chiamato fondamentale . Ho detto pure che l' azione della grazia è reale; e ho definita l' azione reale che viene esercitata in noi, quella che viene operata nella nostra facoltà del senso , a differenza dell' azione ideale che non è che il presentarsi dell' idea all' intelletto. Quindi l' azione divina opera nel sentimento . Ho detto che solo il senso intellettivo è atto a ricevere l' azione divina in noi: quindi ho detto che la grazia opera immediatamente nell' intelletto. Ho detto pure che l' intelletto è un elemento della essenza dell' anima nostra: quindi la grazia opera nella essenza dell' anima, e essendo questa un sentimento fondamentale, la grazia opera nel nostro sentimento fondamentale. La grazia accresce il NOI, questo fondamental sentimento, lo estende, lo eleva, lo approfonda: a cui alludendo S. Paolo, dice: [...OMISSIS...] . A malgrado di tutto ciò, della prima operazione della grazia in noi, noi non abbiamo coscienza alcuna. Per intendere la ragione del non essere noi consapevoli della prima operazione della grazia, conviene riflettere alle cose seguenti, le quali chi bene le avrà intese, sarà facile il persuadersi che tanto è lungi che ciò possa recar meraviglia, che anzi non potrebbe essere altramente, e si accorda colle leggi generali dello spirito umano. Primieramente, noi non abbiamo un' attuale coscienza di nessuna cosa di quelle che avvengono in noi, di nessuna mutazione, di nessun sentimento, se non a condizione che noi ci raccogliamo in noi stessi e ci badiamo a quel sentimento. Non badandoci noi, non ponendovi noi attenzione, sarebbe in noi tuttavia quel sentimento, ma noi non ne avremmo coscienza, sarebbe come se non fosse, nascerebbe, s' ingrandirebbe, cesserebbe, e noi non l' avremmo saputo e non ne conserveremmo alcuna memoria. Ora questo raccoglierci che noi facciamo sopra i sentimenti da cui siamo affetti, questo darvi la nostra attenzione, è un atto diverso da quello del sentimento stesso, e a quello posteriore; è un atto che suppone il sentimento, che rende questo sentimento oggetto della riflessione. Indi quelle leggi dello spirito umano che ho esposte altrove, sebbene in altre parole e che si possono anche proporre così:« Tutti gli atti primi dello spirito umano per sè sono privi di coscienza: nessuno de' primi sentimenti ha in sè la coscienza«. - E perchè ogni atto dello spirito è primo relativamente a quelli di una più alta riflessione, consegue ancor più universalmente, che« ogni atto dello spirito nostro è incognito a sè stesso«. Sicchè ogni atto viene illustrato da un altro atto da lui diverso, che lo mostra allo spirito e glielo fa conoscere; e quell' atto stesso che lo illustra e lo rende noto allo spirito nostro ha pur bisogno di un altro atto dello spirito che illustri e chiarisca lui stesso; altramente egli si rimarrebbe inatteso e dimentico. Ciò posto, è reso manifesto come anche il sentimento primo che in noi suscita l' azione divina, deve essere per sè stesso privo di consapevolezza in quel primo istante, nel quale egli nasce. Ma rimane un' altra questione a farsi. Se per sè stesso è privo di consapevolezza, non potrà egli essere percepito da noi, essere illustrato con un atto secondo del nostro spirito, con una riflessione sopra di lui? Non potremo in tal modo rendere presente la nostra attenzione e quasi spettatrice al farsi di quella operazione divina, e così procacciarcene la coscienza? Rispondo osservando primieramente che ciò non può avvenire quando la operazione della grazia si fa ne' bambini; perocchè questi non hanno ancora acquistato l' arbitrio delle loro potenze e non sanno rivolgere l' attenzione sopra ciò che avviene in sè stessi (2). Quando poi si fa negli adulti, è da distinguersi l' atto stesso della mutazione che nasce nell' uomo al primo cominciare ad avere la potenza soprannaturale creata in lui dalla grazia, da questa potenza già ottenuta. Il passare che fa l' uomo dal non aver la grazia all' averla, dal non aver all' aver in sè quella potenza soprannaturale che, col primo operare della grazia nell' uomo, nasce e si crea; questo passaggio maraviglioso non è osservabile in noi, perchè non è nè pur sensibile. Per quanto sembri maravigliosa questa proposizione, ella non riuscirà incredibile a chi osserva che ella dipende da una legge generale, a cui è soggetto il sentimento: la quale è questa, che« non si può sentire l' atto onde noi cominciamo a esistere«, con quell' atto onde noi veniamo naturati, cioè pigliamo la natura o la essenza: come medesimamente non si può sentir quello onde si disfà la nostra natura, o poniamo giù la stessa nostra [vita] o, se avvenir potesse, ci annulliamo. Perciò il bambino non può sentir l' atto onde vien concepito e comincia a essere, perchè in quell' atto ancora non è, e egli ha bisogno di essere già per sentire. Allo stesso modo non può esser sensibile l' atto del morire, perchè esso non è che un disfarsi, un annullarsi della nostra potenza di sentire animale: il che non è un adoperare questa potenza, ma un porla giù. (1). E veramente in un istante, nel quale sentissimo, non saremmo ancor morti, non avremmo ancor fatto l' atto del morire (2): quest' atto del morire non è fatto prima che noi siamo morti, e, prima di essere fatto, non può esser sentito; e, quand' egli è fatto, noi oggimai non siamo più esseri sensitivi e però nol possiamo sentire. Il che è confermato anco dall' esperienza in ciò che avviene negli accidenti, nei quali cessa subitamente in una parte del corpo la potenza di sentire, chè ciò avviene senza dolore, e l' apopletico si trova morto della metà, senza che egli medesimo sappia come gli sia ciò accaduto. Ma egli d' altra parte pare manifesto che il cessare di sentire non è sentire; anzi sarebbe contraddizione, se fosse. E questa osservazione dell' accidentato è notabile in questo che prova essere insensibile a noi non solo la cessazione di tutta intera la potenza di sentire, ma ben anco di una sua parte: e certo quella parte che cessa, in cessando, non si sente, sebbene l' altra parte che rimane può risentirsene a quel cessamento. Il medesimo è dell' accrescersi la potenza sensitiva: questo crescere non è materia di senso alcuno, e quindi il nostro corpo cresce, si rinforza o risana senza che noi sappiamo come; sebbene dopo cresciuto, rinforzato, risanato, godiamo dell' accrescimento, delle forze e della sanità. Applichiamo ora questa legge del sentire alla potenza soprannaturale, creata in noi dall' azione divina. Coll' azione divina viene creata in noi una nuova potenza: questa potenza comincia a esistere in noi quando prima non esisteva, ed ella è un elemento, una parte della nostra essenza. Per la legge esposta adunque deve essere necessariamente insensibile questo primo effetto della grazia in noi, perchè la grazia agisce, come dicemmo, in modo di creatrice, non fa altro che creare, che mettere in noi una potenza nuova, che ingrandire la nostra essenza. Dell' atto dunque di questa mutazione non possiamo avere alcuna coscienza, perchè non abbiamo di lui alcun sentimento (1). Lo stesso si può provare considerando la natura di ogni potenza. Io ho dimostrato che ogni potenza è un atto7primo : per esempio, la potenza di sentire è un primo sentimento che modificato si cangia negli atti secondi che si dicono atti verso al primo, il quale si dice potenza (2). Ora l' effetto della grazia è di produrre in noi una nuova potenza di sentire, un primo sentimento. Ora se questo sentimento è primo, se avanti di lui non vi ha nessun altro senso in quel suo genere e tutte le sensazioni partono da lui, come da principio; egli è evidente che, prima che quell' atto primo sia prodotto, non vi può essere senso alcuno di quella specie. Quell' azione adunque della grazia, colla quale si genera in noi la potenza soprannaturale o il primo soprannaturale sentimento, non è sensibile, nè può essere oggetto della nostra consapevolezza. Quando però la potenza, di cui parliamo, primo effetto della grazia, è già in noi formata, allora ella è sensibile a noi, perchè anzi è ella stessa un primo sentimento, un sentimento essenziale e fondamentale. Tuttavia non è così facile l' avvertirsi in noi immediatamente e l' averne coscienza. Perocchè avviene appunto di esso quanto abbiamo osservato avvenire di ogni altro sentimento primo e fondamentale in noi, che egli, essendo immanente e costituendo la nostra immutabile essenza, è oltremodo difficile a rendersi oggetto della nostra osservazione; mentre sono assai facili a osservarsi gli atti suoi, cioè le particolari sensazioni che da quel sentimento primo nascono, non essendo che sue modificazioni, verso alle quali egli è soggetto, e atti suoi, verso i quali egli prende nome di potenza. Nell' uomo naturale due sono i sentimenti fondamentali, l' animale e l' intellettivo; i quali piuttosto sono due parti di uno stesso sentimento fondamentale che si esprime col monosillabo IO. Ho già dimostrato altrove quanto l' uno e l' altro di que' sentimenti sieno difficili ad avvertirsi chiaramente e distintamente in noi: e sebbene il senso comune assai bene li ammetta e riconosca, tuttavia nei libri de' filosofi si trovano pressochè continuamente obliati. Ho dato ragioni, per le quali è tanto difficile osservarsi in noi il sentimento fondamentale corporeo, nel Nuovo Saggio , Sez. V: ho dato pure le ragioni, per le quali è difficile osservarsi in noi l' idea dell' essere che è lo stimolo del sentimento fondamentale intellettivo pure nel Nuovo Saggio , Sez. V: all' incontro quanto sia facile osservare in noi le sensazioni e le idee acquisite. Queste dottrine, che sarebbe troppo lungo qui ripetere, e per le quali mi riporto ai luoghi dove le ho trattate, vanno applicate al sentimento fondamentale soprannaturale. Per esse si parrà ragion manifesta dell' essere tanto difficile a osservare quel sentimento, e quindi a averne coscienza: mentre all' opposto non è punto difficile l' avvertire in noi e l' aver coscienza de' suoi effetti, quali sono i frutti dello spirito che l' Apostolo enumera ai Galati, dicendo: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo veduto che, sebbene la divina rivelazione ci narri della natura divina delle cose assai più eccellenti di quelle che noi possiamo trovare col lume naturale, tuttavia non avendo noi mai avuta la percezione di Dio, noi non possiamo intendere di lui se non tanto quanto si comprende in un concetto negativo (2). Tuttavia questo concetto negativo ci contraddistingue Dio. Avendo in noi la operazione divina, la grazia, il primo suo effetto o atto si compie col mettere in noi, da parte sua, una viva fede alle cose rivelate, col muovere l' animo nostro a una piena e soave adesione a tutte le cose che intorno a Dio si contengono in quel concetto negativo di Dio. In quel concetto negativo di Dio poi si contengono virtualmente anche le notizie di Dio positive: e la grazia inclina e rende vaghissimo l' uomo di penetrare in quelle misteriose e occulte verità, delle quali tanto gli tarda lo scoprimento. Quest' uomo, tocco dall' azione della grazia, è divenuto il diletto « che sta dietro la parete e che riguarda cupidamente per le fenestre e rimira per le aperture de' cancelli« (1). » La grazia gli mostra qualche tenue lume, qualche particella delle infinite bellezze che gli stanno velate e nascose. Così la fede rende: I. da una parte efficace nell' uomo il concetto di Dio ideale7negativo che per sè è freddo e impotente (2); II. dall' altra fa travedere e quasi indovinare in esso alcuna cosa di ciò che tien questo concetto nel suo seno profondamente nascosto. In tal modo la idea di Dio, che nell' uomo privo della grazia è nulla verso all' idea delle cose sensibili, diventa per la grazia potentissima, a tale che può l' uomo nell' animo suo erigere veramente un tempio a quella divinità, la cui azione sente in sè stesso, e preferire il sommo Essere, anche nell' affetto e nelle azioni della sua vita, a tutti gli esseri lusinghevoli della terra. Sebbene adunque l' azione divina sia reale, tuttavia ella non è tale che comunichi Dio sè stesso all' uomo del tutto svelatamente ; ma è un' azione esercitata mediante le idee negative , somministrate all' uomo dalla rivelazione e mediante una cupidità che nasce nell' uomo di vedere il positivo altresì che quelle idee negative suppongono e annunziano, senza che il manifestino. Con quest' azione vengono rinforzate quelle idee negative e vien ringagliardita la forza del desiderio di percepire il positivo occulto, intorno al quale viene infuso però un sentimento, una profonda persuasione, una sicurezza maggiore di qualunque sicurezza, che in quell' occulto stassi l' OGNI BENE. Questa parte occulta di Dio, questa misteriosa essenza è propriamente l' oggetto della fede, ed il veicolo della grazia, lo stimolo divino, la punta, quasi direi, della divina sostanza, con cui Dio tocca l' uomo. Perocchè in questa parte occulta l' uomo percepisce però il concetto del TUTTO; e sebbene l' uomo non distingua niente o poco di ciò che è in questo tutto, egli sa però che ivi è il TUTTO. Il TUTTO, cioè tutto l' essere , tutto il bene sono sinonimi. Questo concetto che, sebbene indistinto, il tutto contiene, può rendersi nell' uomo vivo e possente, e ciò senza limite alcuno, appunto perchè nel concetto del TUTTO non v' è alcun limite: ed è di questo concetto di cui si serve propriamente la grazia divina per signoreggiare l' uomo, per sollevarlo, per renderlo potentissimo sopra tutte le sue passioni. L' uomo dunque colla fede soprannaturale non percepisce Iddio distintamente , ma lo percepisce indistintamente come il TUTTO, l' ogni bene. Questa percezione, sebbene oscura, abbraccia però quanto può l' uomo desiderare, perchè abbraccia tutto; e perciò l' uomo con questa percezione non ha a desiderare altra cosa fuori di essa, e solo ha da desiderare che ella stessa si renda distinta, più chiara e più compiuta. Quando questa percezione si fa viva e più sensibile, accade quella contentezza, di cui molto parla Santa Teresa, la quale all' uopo nostro dice acconciamente così: [...OMISSIS...] E ancora parlando d' un certo stato dell' anima, dice: [...OMISSIS...] Nella fede adunque soprannaturale c' è anche una percezione di Dio , se così è lecito chiamarla, sebbene iniziale e solamente indistinta ; e questa è la base che sostiene tutta la vita spirituale, cioè soprannaturale. L' Apostolo mette per base di tutto l' ordine soprannaturale la Fede in quelle parole: « Senza la fede è impossibile di piacere a Dio (3) »: e in quelle altre: «« Il mio giusto vive di fede« (4); » per modo che senza la fede il giusto, quegli che è tale non agli occhi degli uomini, ma a quelli di Dio, secondo l' ordine soprannaturale, non può esistere, gli manca onde essere e onde vivere. Questa è quella fede viva dalla quale l' Apostolo fa nascere la soprannaturale giustizia e che descrive come quel mezzo o istrumento generale, col quale operando la grazia divina conduce gli uomini all' adempimento della eterna loro predestinazione: ed è a questa fede viva che attribuisce come a principio e origine tutte le virtù. [...OMISSIS...] A queste dottrine dell' Apostolo consuona tutto il Vangelo; particolarmente S. Giovanni che in questa sentenza riassume quanto abbiamo fin qui esposto: « A quanti l' hanno ricevuto (Gesù Cristo) egli diede loro LA POTESTA` di diventar figliuoli di Dio (ecco la grazia che dà la potenza); a quelli che CREDONO (ecco il primo atto di questa potenza, la fede) nel NOME SUO« (2): » (ecco la natura della fede che è quella di ravvivare e rinforzare la idea negativa di Dio, la quale, come altrove dicemmo, chiamasi acconciamente nelle divine Scritture il « nome di Dio ») (3). Con ragione adunque S. Tommaso afferma la fede essere « il primo atto, nel quale la grazia si manifesta« (4). » Ed essendo questo primo atto necessario a tutti gli altri atti della grazia in noi abitante, si può dire che sia l' atto universale della grazia, un atto presupposto da tutti gli altri susseguenti, i quali a quel primo atto si appoggiano e partono da lui, come da radice: sicchè ottimamente si enumerano gli atti cristiani in quell' ordine in che li pose S. Paolo: Fede, Speranza e Carità; nel quale la fede rimane la prima e condizione delle due seconde. Per questa cagione è che si suole chiamare tutto il complesso della religione cristiana col nome di Fede , dicendosi la fede cristiana, la propagazione della fede, ecc.. Ma tutto ciò apparirà più manifesto, se noi faremo un' analisi accurata dell' atto della fede e troveremo gli elementi onde la fede risulta. La fede risulta da due elementi, la percezione divina incipiente , e l' assenso della nostra volontà, col quale solo si compie l' atto della fede. Consideriamo separatamente, l' uno dopo l' altro, questi elementi, riassumendo le cose dette sin qui. Iddio opera, con un' azione reale ed occulta, nella essenza dell' anima: fin qui tutto nasce senza di noi. Questa azione produce, crea nella nostra essenza, senza che noi n' abbiamo coscienza, un elemento nuovo, un sentimento fondamentale nuovo. Ricercando più profondamente che cosa sia questo sentimento, troviamo che è un sentimento, pel quale cominciamo a percepire Iddio come il TUTTO, l' Essere sussistente per sè stesso: percezione che ha necessariamente in sè dell' infinito e una specie di onnipotenza. Questo sentimento creato in noi è la creazione dell' uomo soprannaturale (1); come il sentimento fondamentale animale7ideale, è la creazione dell' uomo naturale; perchè questi sentimenti sono sostanziali , cioè costituenti l' IO, la essenza specifica, la sostanza dell' anima. E` singolare e degno di ogni attenzione il riscontro che vi ha fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale dell' uomo, fra il sentimento che costituisce l' uomo un essere ragionevole, e il sentimento che costituisce l' uomo un essere congiunto a Dio. Tutti due questi sentimenti sono formati dall' unione dell' ESSERE allo spirito umano: il primo è la unione dell' essere ideale , il secondo dell' essere reale . La idea dell' essere data all' uomo il rende intellettivo; l' Essere stesso (Iddio), agente nell' uomo, solleva quest' essere intellettivo a una specie nuova d' intelligenza, quale è la soprannaturale: la prima è una concezione , la seconda una percezione (sebbene solo incipiente in questa vita): la prima è come una delineazione dell' essere, la seconda è il compimento, il realizzamento dell' essere nell' uomo (2). Procediamo innanzi. Posto nell' uomo un nuovo sentimento fondamentale, dovea esser data all' uomo una nuova potenza , perchè a ogni sentimento corrisponde un istinto, a ogni potenza passiva ne corrisponde una attiva: questa è la potenza soprannaturale, una nuova volontà. Il primo atto di questa volontà è la fede, come abbiamo detto. Questa consiste propriamente nell' assenso che si dà a ciò che quel sentimento soprannaturale ha percepito di Dio (3) e forma un tale assenso il secondo elemento , col quale si compie l' atto del credere. La cristiana dottrina insegna che nei bambini è sufficiente alla salute quel primo elemento della fede, che viene dato da Dio gratuitamente col battesimo, quella operazione della grazia, quella potenza di volere, sebbene non condotta all' atto; ed è ciò che si chiama virtù infusa della fede, fede abituale . Negli adulti, i quali possono muovere le loro potenze ai loro atti, si richiede altresì una fede attuale . Quindi Cristo disse: [...OMISSIS...] E ancora disse che pregava per solo quelli che credeano (2); esigendo così questo primo atto della fede per riconoscerli per suoi e metterli a parte delle ulteriori sue grazie. Ecco come Sant' Agostino ragiona di questa potenza di credere : [...OMISSIS...] . Ecco come Sant' Agostino descrive la formazione in noi dell' atto della fede, parte per la operazione di Dio, e parte per la cooperazione nostra. [...OMISSIS...] Succede adunque questo fatto del credere così. Iddio dà la percezione incipiente di sè stesso: qui non c' è ancor riflessione, appartiene all' ordine della cognizione diretta, ma è più che semplice cognizione ideale, perchè è percezione , sebbene solo incipiente. Questa percezione (nel ricevere la quale noi siamo interamente passivi, come in ricevere tutte le cognizioni dirette) è lucida, bella, dolce, tutta conveniente e adattata alla nostra natura: indi il sentimento di affetto verso a queste cose conosciute e percepite, che sorge in noi fornito di [quelle] soavi persuasive di cui parla S. Agostino, le quali inclinano (1) l' animo nostro a prestare adesione e fede piena anche a ciò che nelle cose percepite non è se non virtualmente e oscuramente compreso. E qui si leva in noi la riflessione, la quale rimira in quelle cose, e si pone nell' animo nostro la questione, se sono credibili, o no. Noi dobbiamo concludere questo giudizio in un modo affermativo; e non solo speculativamente ma praticamente altresì, perchè si formi in noi e si compia l' atto di fede. Ora questo è atto proprio della volontà nostra ed è soggetto alle leggi, a cui sono soggetti gli atti della volontà, esposte da noi più innanzi: fino a certo termine ella opera liberamente e può sospendere o negare l' assenso; ma ove la dilettazione, eccitata dalle cose divine conosciute e percepite, si acuisse oltre a certo grado, l' assenso sarebbe inevitabile, non più libero, sebbene volontario. Questo assentimento non è solamente dato per motivi di credibilità, prodotti da cognizione ideale, ma principalmente per un motivo di credibilità veniente da percezione immediata: è una certezza pratica, una sicurezza sperimentale che toglie ogni dubbio, e che è più ferma ben sovente di ogni ragionamento, perchè giunge a t“r via fino il poter di dubitare (3). La fede adunque è un giudizio pratico, non un puro giudizio speculativo: è un giudizio, con cui non solo affermiamo Dio e le cose divine, ma con cui gli diamo la nostra stima: è un atto di giustizia verso Dio da noi conosciuto e sperimentato, e non un conoscimento, ma un RICONOSCIMENTO volontario di ciò che conosciamo, quel riconoscimento, nel quale abbiamo veduto che s' inizia nell' uomo ogni moralità (4): la fede dunque è il principio della morale cristiana, cioè il primo suo atto. Questa questione si spiana, a mio parere, ove si schierino qui nel loro giusto ordine tutti i passi dello spirito che precedono, che costituiscono e che susseguono altresì l' atto della fede. Ecco qual è l' ordine loro: 1. Cognizione rivelata di Dio ex auditu (operazione esterna naturale). 2. Percezione di Dio (1), o lume efficace, uscente da quella cognizione rivelata, massime dalla parte che in essa è misteriosa (operazione che si fa nell' essenza dell' anima). 3. Sentimento conseguente o dilettazione soave e sublime, uscente da quella percezione, che ci persuade la verità delle cose percepite (2). 4. Potenza di credere e di operare santamente, effetto di quel sentimento (3). 5. Atto volontario del credere, giudizio pratico sulla verità ed eccellenza delle cose conosciute e percepite: atto di stima, il riconoscimento di Dio come luce, verità e autorità infinita, col quale atto se l' uomo non ricalcitra colla sua mala volontà (1), conseguitano l' amore, e le operazioni sante e meritorie con cui la fede diviene viva. 6. Amore che conseguita a quell' atto di stima pratica. 7. Operazione santa che seguita all' amore. L' uomo non comincia a operare colla sua volontà se non al quinto passo, col dare l' assentimento suo alle verità rivelate e interiormente sentite: per questo si dice che la fede è il primo atto della grazia. Dicendo ciò, per grazia s' intende la potenza del credere, prodotta in noi soprannaturalmente dall' azione della grazia. Essendo nostra questa potenza, uscendo dall' essenza dell' anima nostra, nostri devono essere gli atti di questa potenza, e per essere nostri devono procedere dalla nostra volontà: quindi la fede è il primo atto della potenza in noi creata dalla grazia, perchè è il primo atto della nuova nostra volontà. Tuttavia alla fede precedettero quei quattro passi che ho descritti, e fra questi il terzo, cioè una dilettazione o inclinazione (involontaria) della volontà; e questa fu chiamata da molti carità . Quelli che così l' hanno chiamata fecero precedere alla fede la carità: ma questa carità non è che un' inclinazione, come dicevo (involontaria, o certamente) non libera, e l' atto non è completo ancora, ma incoato, giacchè non si completa se non coll' assenso, nel quale sta la fede. Questa opinione pertanto che cominci la giustificazione dalla carità e non dalla fede, non parmi esatta e nè pure sana, avendo espressamente dichiarato il Sacrosanto Concilio di Trento, che la fede è il principio della umana salute, il fondamento e la radice di ogni giustificazione (2). I principii della morale naturale dimostrano, che la morale s' incomincia col giudizio pratico : che questo giudizio pratico è libero : ma che, dato il giudizio pratico o stima dell' oggetto, conseguita necessariamente il grado dell' amore verso il medesimo oggetto. Che, dato il grado dell' amore , è determinata conseguentemente anche l' azione esterna, tutta consenziente alla efficacia di quell' amore. Questo è quanto somministra la ragione naturale, quando si fa a investigare la natura della moralità umana. Applichiamo ora questa dottrina alla morale teologica e soprannaturale, e veggiamo se batton d' accordo con essa i documenti della cristiana tradizione. Nella morale teologica e soprannaturale abbiamo veduto che il primo atto morale, il giudizio pratico o stima dell' oggetto dell' azione morale (che qui è Dio) è la fede. Or se è che la rivelazione va d' accordo con que' supremi principii della morale naturale, dee conseguitare, che a quel giudizio pratico della fede conseguiti necessariamente l' amore, e le opere: e questo è appunto nè più nè meno la cristiana dottrina. Udiamo il Concilio di Trento ragionare su questo indissolubile nodo tra la fede viva , la carità e le buone opere , e vediamolo distinguere questa fede, che in un giudizio pratico consiste, da quella fede, che non consiste se non in un giudizio speculativo, il quale non è punto per sè morale. [...OMISSIS...] Questo nodo indissolubile tra la fede, la carità e le opere, sicchè data l' una di queste tre cose, non è in balìa dell' uomo il dividerne le altre due, spiega la ragione, per la quale nelle divine Scritture la salute eterna ora è attribuita assolutamente alla fede, ora assolutamente alla carità, e ora assolutamente alle opere buone. Della fede si dice: [...OMISSIS...] . Della carità poi si dice: [...OMISSIS...] Delle opere poi si dice: [...OMISSIS...] S. Giovanni, in un luogo della sua prima lettera, riassume questi tre generi di atti, cioè la fede, la carità, e le opere esteriori, e li dà per segni dello Spirito Santo in noi, cioè della grazia che sta nella essenza dell' anima e da questa per conseguente li distingue: [...OMISSIS...] . Ho già mostrato come nelle verità rivelate intorno a Dio si trovi una profonda oscurità e de' necessarii misteri (1). Iddio vi è celato e la grazia stessa non ne dà che una percezione incoata e indistinta: indi il gran desiderio dei santi che si squarci il velo e apparisca la bella faccia del Signore, il cupio dissolvi , e l' assiduità delle orazioni e delle contemplazioni per ire innanzi in quella notte oscura, dalla quale par loro di essere circondati. La fede però ha pure il suo lume, ed essa risponde a ciò che è la ragione pratica nell' ordine naturale. Il lume della ragione è l' essere ideale (3), il lume della fede l' essere reale: il lume della ragione è l' essere iniziale, il lume della fede l' essere compito, assoluto, Dio (4). Fra queste tenebre e questa luce cammina il cristiano nella vita presente per un alto ordine della divina Provvidenza, acciocchè cioè colle tenebre meriti di più, credendo, e colla luce più gli si acuisca il suo desiderio della eterna luce e sia da questo saggio di visione e da questo desiderio sostenuto e avvalorato nelle sue operazioni e nella sua aspettazione. Talora questo lume interiore della grazia si chiama cognizione , come allorchè Gesù Cristo disse: [...OMISSIS...] Talora poi questo lume è chiamato visione , che equivale a quello che io dico percezione , ed è una comunicazione dell' essere reale fatta al senso, e non solo idealmente all' intelletto. Gesù Cristo disse: [...OMISSIS...] . E S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Consistendo la cognizione, propriamente parlando, nella concezione dell' essere ideale, farà maraviglia che si chiami cognizione nella divina Scrittura anche il lume della grazia che ci fa percepire l' essere reale; mentre sembrerebbe che solo gli convenisse il nome di percezione o di sentimento . Ma due ragioni si possono rendere del chiamarsi propriamente anche cognizione il lume che ci viene dato dalla grazia. La prima di queste due ragioni è, che la grazia opera mediante la cognizione ideale negativa di Dio , ella non fa che rendere viva ed efficace questa idea di Dio che non eccede la natura del puro conoscere , nel che sta appunto la natura della fede. Quindi è che l' operazione della grazia vien detta nelle divine Scritture anche un insegnare che fa Dio all' uomo, come in Isaia: [...OMISSIS...] . E Geremia non dice che Iddio darà una legge nuova, ma che la stessa legge, invece di scriverla sulle pietre, la scriverà ne' cuori, e così ognuno saprà da sè, per interiore ammaestramento di Dio, non per dottrina comunicata al di fuori dell' uomo. [...OMISSIS...] Egli è dunque acconcissimamente detta un insegnamento la operazione della grazia; giacchè non aggiunge idee nuove alla mente, ma solo rinforza e colorisce, per così dire, le idee che già abbiamo per la ragione e per la esterna rivelazione. Che se talora nella divina Scrittura si parla di una legge nuova data da Cristo, la novità di questa legge non istà tanto in aver date specie nuove, quanto in aver rinnovate, ravvivate, svolte le vecchie e compite, secondo quello che disse Gesù Cristo: [...OMISSIS...] La seconda ragione, per la quale si può dire cognizione il dono della grazia, si è che l' essere reale che si percepisce per la grazia, non è che il compimento dell' essere ideale ; e quindi non distrugge, ma compisce nella nostra mente l' essere ideale, senza il quale l' essere reale non si potrebbe all' intelletto nostro comunicare. Quindi sebbene nelle cose create la percezione sensitiva differisca essenzialmente, e non di solo grado, dalla cognizione , tuttavia ciò non si avvera trattandosi di Dio che è l' Essere stesso , del quale la cognizione e percezione non differiscono, se non di grado. Nelle cose create colla cognizione concepiamo l' essere stesso, quando colla percezione sensitiva non percepiamo punto l' essere , ma una sua appartenza, una sua accidentalità, una certa sua azione. Il contrario avviene rispetto a Dio, perchè è sempre l' essere che conosciamo o percepiamo; e quindi la percezione non differisce dalla cognizione essenzialmente, ma per gradi: sicchè, come noi abbiamo detto più sopra, la cognizione non è che un principio di percezione, e che la percezione è un grado di più, un finimento e perfezionamento della cognizione. L' essere insomma è essenzialmente conoscibile , e per ciò con ragione la percezione dell' essere stesso può dirsi cognizione . Per questo Cristo in S. Giovanni, volendo dire che gli Apostoli avevano il lume della grazia, la percezione del Verbo, disse che conobbero veramente (1); rinforzando con quel veramente il conobbero , quasi ad additare un grado di più intera cognizione. Il qual grado nuovo di cognizione che si aggiunge per grazia, viene espresso anco da Cristo in quelle parole: [...OMISSIS...] . Una interiore rivelazione adunque è l' operazione della grazia, per cui nelle idee che hanno tutti gli uomini, l' uomo illuminato da Dio vede ciò che gli altri punto non veggono. Da questo che abbiamo ora detto s' intende quale sia il carattere distintivo delle due cognizioni naturale e soprannaturale, in questa vita. Hanno tutte e due lo stesso fondamento, cioè i lineamenti fondamentali sono i medesimi: questi lineamenti sono le idee pure e negative di Dio. Nella cognizione naturale queste idee restano così nude, come traccie sottili di un disegno a contorni. Nella cognizione soprannaturale quelle idee non restano svestite e fredde, ma esce da esse un sentimento (percezione) che le avviva e mette in esse qualche cosa del positivo: il che è ciò che nelle divine Scritture si chiama intendere col cuore (3). Per questo sentimento l' uomo della grazia percepisce e vede in quelle idee ciò che in quelle medesime idee non vi percepisce nè vede l' uomo della natura. Quindi questi conosce e non conosce la stessa cosa che conosce quello, cioè ha lo stesso oggetto nella mente, ma non gli è rivelato allo stesso modo . Con questa osservazione si spiegano quelle parole di Dio in Isaia: [...OMISSIS...] . E quelle di Cristo, che alludono appunto al passo d' Isaia: [...OMISSIS...] . Già ho mostrato in che consiste questa imperfezione, cioè nell' esser essa indistinta , sebbene tale che noi ci accorgiamo di percepire con essa TUTTO L' ESSERE, TUTTO IL BENE. L' oscurità di questa percezione indistinta è insegnata nelle divine Scritture con una figura assai acconcia. Si distingue la faccia di Dio dalla schiena di Dio. Chi vede un uomo in ischiena, il percepisce, ma indistintamente, perchè è dalla faccia principalmente che si distingue un uomo dall' altro e che si acquista dell' uomo una ben chiara notizia. Ora parimente in questa vita si percepisce veramente Iddio pel lume della grazia, ma quasi in ischiena ; nell' altra vita poi si percepisce la stessa sua faccia , il che forma il lume della gloria. Questa figura è nell' Esodo. Mosè, desideroso di vedere Iddio, avevagli detto: Mostrami la tua gloria. Iddio gli rispose: [...OMISSIS...] Questo favore che veniva fatto a Mosè, esprimeva la operazione della grazia del Redentore, la quale, sebbene non dia la visione della faccia divina (la percezione completa ), tuttavia dà la visione della schiena di Dio ( la percezione incoata e indistinta ) (7). Conviene che dichiari il significato che io aggiungo a questa parola deiforme . Iddio fa più operazioni nell' universo: conserva le cose, ciò che è un continuo crearle, dà loro il moto, la vita, il senso, l' intelletto. Tuttavia nessuna di queste operazioni può dirsi deiforme , ma solo la operazione della grazia . Non è già che Iddio non faccia tutte quelle opere; chè anzi nessuno le potrebbe fare fuori di lui; e non è neppure che Iddio, anche colla sua essenza, non si trovi realmente in tutte le creature e tutte le creature in lui: egli vi si trova, ed è vero a capello quanto disse il poeta Arato, citato da S. Paolo: « In lui viviamo e ci moviamo e siamo« (1). » Ma tutto questo non fa sì ancora che tale intima azione di Dio nelle creature si possa chiamare deiforme (2). Per operazione deiforme io intendo una operazione che non solo ha per principio Iddio, ma che essa stessa e il suo termine è Dio. Della operazione della grazia Iddio è il principio e anche il fine, è la causa e anche l' effetto, per così dire: e perciò questa operazione è deiforme . La operazione sopra tutte le altre deiforme è la incarnazione del Verbo, la causa o principio della quale incarnazione fu la Triade augustissima, e il termine suo fu il Verbo incarnato. La operazione deiforme, avendo per iscopo la comunicazione della divina sostanza, non può operarsi che in esseri dotati di senso e di intelligenza, perchè la sostanza di Dio è vita e luce. Per ciò tutte le operazioni che Dio facesse relativamente alle creature non dotate di sentimento e di intelletto, per quantunque divine fossero e tali che solo alla potenza di Dio convenissero, come la creazione, non sarebbero però deiformi ; perchè in esse non vi sarebbe una comunicazione della divina sostanza, della vita, e della luce di Dio stesso. La maniera adunque diretta di conoscere la operazione deiforme, è il percepirla, l' esperimentarla. Conviene sentire Iddio, conviene sentirlo operante in noi: conviene sentire in noi qualche cosa che non si possa confondere con nessuna delle creature e che sia evidentemente qualche cosa di più di qualunque essere parziale; che non possa essere assolutamente altro che Dio stesso. Chi sente in sè stesso una operazione tanto grande, che non è comparabile a cosa alcuna, al saggio della cui immensità l' uomo è vinto e come annichilato, una operazione che è tutto e può tutto (e niente può contro lei o fuori di lei); questi ha in sè stesso una cotal percezione del sommo Essere , una comunicazione e, per così dire, un suo toccamento. Quanto insomma l' anima sente, deve essere tal cosa che sia evidentemente Dio (1); allora la operazione è deiforme. I Santi Padri provano, che l' operazione della grazia nell' uomo è deiforme , appunto dal sentimento che l' uomo soffre in essa. Essi fanno questa argomentazione. L' uomo non può essere pienamente accontentato se non da un bene compiuto, da un bene infinito, da Dio. Ma l' uomo giusto che ha la divina grazia, sente d' aver qualche cosa in sè stesso, che pienamente il sazia e accontenta. Dunque egli ha Dio, egli possiede Dio. Prima farò qualche osservazione su questo argomento de' Padri, rivolta a far osservare quanto una siffatta dottrina convenga a capello con tutto ciò che insegna un' accurata filosofia dello spirito umano, come pure con quanto io ho di sopra espresso intorno alla grazia: di poi recherò i luoghi de' Padri stessi. Di sopra io dissi che l' uomo per la grazia percepiva realmente Iddio; ma che però questa percezione nella vita presente non era che incoata e imperfetta. Ho esaminato in che consisteva questa imperfezione, e ho rilevato consistere nell' essere principalmente indistinta . Restava a cercare quale fosse questa essenza (1) che noi percepivamo, che costituiva la percezione indistinta . Ed entrato in questa ricerca, trovai che essa consisteva nel percepire noi una tal cosa, nella quale sentivamo solamente questo, che in essa era TUTTO L' ESSERE, TUTTO IL BENE, senza poter però determinare nessun bene particolare, nessun bene che avesse similitudine cogli altri beni da noi realmente percepiti. Ora è per una ricerca filosofica sullo spirito umano che si trova non poter l' uomo giammai pienamente soddisfare e quietare, come in suo termine, il suo appetito, se non perviene al possesso di TUTTO L' ESSERE, di TUTTO IL BENE. Nessuna cosa, nessun bene particolare, qualunque sia, può fermare e saziare veramente il desiderio della umana natura, perchè questa può sempre, dopo un bene già posseduto, immaginarsene, ossia proporsene un altro che ancor non possiede; e così portare d' una in altra cosa all' infinito il suo appetito, senza che possa mai trovare posa. La ragione di ciò fu esposta da me nei Principii della Scienza Morale , e nasce dalla natura della idea dell' essere che è la forma dell' uomo come essere intelligente, e quindi è il mezzo o istrumento ond' egli conosce. L' appetito, di natura sua, tende a ogni bene che gli venga proposto. Ora il bene vien proposto all' uomo dalla sua cognizione; un bene che conosce, già lo appetisce per natura. Ora la cognizione dell' uomo è tale che non ha limiti, perchè, dopo aver conosciuta una cosa, niente osta che non si proceda alla cognizione di un' altra: e ciò per la idea dell' essere che essendo perfettamente indeterminata , non è limitata a nessun essere particolare, ma a ognun de' possibili, qualsivoglia, si estende. Come dunque la facoltà razionale non finisce di conoscere, se non fino che l' essere (l' oggetto conoscibile) è esaurito, così parimente l' appetito della natura umana non finisce, se non quando tutto l' essere gli è dato per suo oggetto e pascolo. L' uomo dunque, per insegnamento della stessa filosofia, non si può acquetare se non percepisce L' ESSERE stesso dove è tutta la essenza e quindi tutta la pienezza dell' essere. Ma ciò appunto è che si trova per esperienza nella vita spirituale, nella quale si sente di percepire una pienezza di essere, ove nulla manca e tutto si comprende, e medesimamente una cosa che perfettamente appaga e sazia. Or la pienezza dell' essere non è che in Dio, perchè è appunto l' essere stesso, l' essere per essenza. Indi è che con ragione si può conchiudere, percepirsi Dio stesso nella operazione della grazia; e ciò per due vie, egualmente certe e che fortemente conchiudono, le quali son queste. L' esperienza, il sentimento nella vita spirituale depone che si sente in sè cosa ov' è il TUTTO, ove nulla manca dell' essere. Dunque si sente in sè Dio: l' operazione è deiforme . L' esperienza, il sentimento depone nella vita spirituale che si prova una perfetta soddisfazione e pienissimo appagamento dell' umano desiderio. Ma la filosofia dimostra che il desiderio della umana natura non si acquieta perfettamente mai, se non gli si dà per oggetto cosa, ove nulla manchi e ove sia tutto l' essere. Dunque si sente nella operazione della grazia tutto l' essere, dunque si sente Dio stesso, dunque l' operazione è deiforme . Udiamo ora i Padri della Chiesa. Didimo osserva che è frase della Scrittura il dire alcuni pieni di Spirito Santo. Or egli così argomenta. L' uomo non si empisce da nessuna creatura: dunque quello Spirito, che per la grazia inabita nell' uomo, è Dio stesso. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . E poco appresso: [...OMISSIS...] . Fu detto che si può conoscere l' operazione della grazia esser deiforme, dall' imprimere essa nelle anime nostre de' segni al tutto divini, dal darci il senso di tal cosa che non può essere se non Dio stesso. Ora, se ciò bastasse a costituire la operazione deiforme, anche nella mente umana, sebben posta nell' ordine naturale, una tale operazione si rinverrebbe. Perocchè nella mente umana vi è per lume e forma la idea dell' essere, la quale ha dei caratteri che non possono convenire se non alla divinità, come l' immutabilità, l' eternità, l' autorità di suprema legislatrice, ecc. (1). Rispondo esser vero che quella idea ha de' caratteri divini e da ciò essere stati indotti i Platonici e alcuni Padri della Chiesa, che ne hanno seguita la dottrina, a divinizzarla, a dichiararla anch' essa Dio. Io però sostengo essere ciò avvenuto per non avere bastevolmente conosciuta e osservata la distinzione fra l' essere ideale e l' essere reale . Che se si fosse conosciuta una tale distinzione, sarebbe stato facile a conoscere chiaramente che il lume della ragione, ossia l' idea dell' essere, non è Dio, e noi in esso non percepiamo Dio, ma solo una cosa divina, una cotale appartenenza che si può chiamare anche similitudine della divinità: laddove nel lume della fede noi percepiamo e sentiamo Dio stesso, e non la sua similitudine. Ragione di ciò si è che il vocabolo Dio è sostantivo ed esprime quindi una sostanza; onde noi non percepiamo Dio, se non percepiamo una sostanza, che è quanto dire un essere reale e sussistente, non una idea, una possibilità. Dio deve essere un BENE reale , anzi tutto il bene, come diceva, tutto l' essere, e non punto una idea. L' idea dell' essere adunque, come sta naturalmente nelle menti nostre, non si può dire Dio, perchè manca della sussistenza. Questa ragione è recata in mezzo anche da' più santi Padri: non sarà inutile che io la illustri e confermi colle loro testimonianze. S. Cirillo nel dialogo VII della Trinità, dalle frasi che vengono usate dalle divine Scritture in commendazione degli uomini che posseggono la grazia divina, i quali sono detti talora templi di Dio , talora essi stessi Dei ; argomenta e conchiude che Dio deve agire realmente e colla stessa sua sostanza nelle anime loro, e non puramente mediante idee o similitudini. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . S. Basilio nota espressamente la differenza fra l' idea e l' essere reale che opera in noi, e che ci imprime quello che egli chiama il carattere divino : ecco il passo. [...OMISSIS...] E perchè questo divino carattere non si tolga per una pura idea, soggiunge: [...OMISSIS...] . E prima ancora di S. Basilio e di S. Cirillo, il celebre cieco di Alessandria Didimo aveva egregiamente distinto l' ordine ideale, a cui appartengono le scienze, dall' ordine reale, a cui appartiene lo Spirito Santo; e mostrato quanto gran differenza ci corra fra il partecipare di quelle e di questo. Il luogo, di cui parlo, è bellissimo e lo recherò tradotto in nostra lingua. Dopo aver detto che si usa dire di un uomo, tanto esser lui pieno di scienza , quanto esser pieno di Spirito Santo ; prosegue a mostrar la differenza che passa fra il partecipare queste due cose così:« Essendo lo Spirito Santo partecipabile, come è partecipabile la sapienza e la disciplina, convien però avvertire, che egli possiede una sostanza che non istà già ne' vuoti nomi della scienza, ma che SUSSISTE egli medesimo buono, con tale natura che santifica e che empie di beni tutte le cose: secondo la quale natura diconsi anche alcuni esseri pieni di Spirito Santo, come è scritto negli Atti degli Apostoli (II): [...OMISSIS...] . Finalmente io non posso omettere l' autorità di Origene notabilissima appunto in questo, perchè un de' Platonici, i quali solevano, come dissi, confondere l' essere ideale col reale, le idee colle cose; fonte, chi ben guarda, di forse tutti o dei più errori del Platonismo. Ora all' uopo nostro Origene, cadendogli di parlare della inabitazione che fa Dio nelle anime sante, scorto dal lume rivelato, lascia la solita confusione delle idee colle realtà, e entra benissimo a distinguere ciò che sussiste realmente, e ciò che non è che una idea o scienza; e dice che Dio è partecipato dagli uomini, come per essi si partecipa di una scienza, a ragion di esempio, della medicina (e quindi formalmente , perocchè le notizie informano oggettivamente lo spirito): ma con questo divario tuttavia, che Dio è anche una sostanza , quando la medicina non è nulla più di un essere ideale . Udiamo lui medesimo: [...OMISSIS...] . Or, dopo aver detto questo, così acconciamente soggiunge, distinguendo la natura ideale della scienza medica dalla reale sostanza dello Spirito Santo. [...OMISSIS...] Dalle cose dette sin qui si può conchiudere, a quale sistema si deva attenersi circa la relazione dello spirito intelligente colla divinità: perocchè tre ve ne possono essere in questo; e sono i seguenti. Il primo sistema è platonico; e in esso si fa DIO anche il lume dalla ragion naturale. Con un tale sistema si riduce tutto all' esser reale e si perde di vista l' essere ideale . Il secondo sistema, opposto al primo, è di quelli che negano, che sia Dio anche ciò che si sente per la operazione della grazia; ma vogliono che noi partecipiamo per essa solamente di una similitudine di Dio, e non più: e questo sistema è di una celebre scuola di Teologi (1). Con un tale sistema si riduce tutto all' essere ideale e si perde di vista l' essere reale . Il terzo sistema è quello che noi seguiamo, e che stimo più conforme alla verità e alla ecclesiastica tradizione: è quello che stabilisce il lume della ragione non esser più che una appartenenza, o se si vuole anco una incoata similitudine di Dio, ma non Dio stesso; il lume poi della fede essere la stessa divina sostanza. Quindi l' ordine naturale esser costituito dall' essere ideale ; l' ordine poi soprannaturale esser costituito dalla partecipazione dell' essere reale : e quest' ordine essere un compimento e perfezionamento di quello, come l' essere reale non è che un compimento e perfezionamento dell' essere ideale . Che Iddio operi nell' anima, nell' ordine della grazia, come causa efficiente , è fuori di controversia: i teologi però sono divisi, se Iddio operi anche come causa formale . Io credo essere necessario di chiarir bene il significato di questa parola, causa formale . Per causa formale, o forma di una cosa, si suole intendere universalmente quell' elemento che entra in una cosa, per la quale la cosa è posta in atto. Ma questa definizione è generale, e si possono distinguere più specie di cause formali, dalla quale accurata distinzione verrà piena luce alla materia che abbiamo alle mani. Causa formale o forma di una cosa si chiama, in primo luogo, quell' elemento costitutivo della cosa stessa, per modo che esso, con le altre parti aggiunte, è la cosa stessa, il quale origina nella cosa la sua propria naturale attività: come sarebbe in un corpo, la sua forma sostanziale è quella energia onde esso sussiste; come forme accidentali sono quelle particolari attività a lui inerenti ond' egli si attua a degli atti accidentali. In questo senso parimente l' anima è la forma del corpo. Ora Dio non può essere, in tal modo, forma di nessuna creatura, perchè non può trasformarsi in alcuna creatura, nè in nessuna parte di una creatura. Questo è ciò che insegnano i maestri della Chiesa, quando, ragionando sul dogma della Incarnazione, avvisano che non si deve già credere che il Verbo siasi tramutato in sostanza umana, ma sì congiuntosi alla umana natura senza sofferire in sè nessuna passione: e il medesimo dicono dello Spirito Santo che si unisce ai redenti per la grazia. Il contrario de' Manichei che sostenevano una porzione della divinità collo spiracolo della vita, narrato dal Genesi, essersi trasformata nella umana natura: contro il quale errore scrive S. Agostino (1). Nella incarnazione però avvenne questo, che il Verbo assunse la natura umana in una sola persona; e questa è la massima unione fra le possibili della divinità coll' uomo, perchè fu tale che Cristo dicendo ego , quest' ego suonava il Verbo stesso così parlante. In tale congiunzione il Verbo si poteva dire bensì forma del Cristo, ma non era forma perciò di una creatura, perchè Cristo, nome personale, non significa una creatura. Una seconda maniera di causa formale , volgarmente, si reputa essere una cosa estranea che agisce in un' altra e la modifica e conforma a sè: in ragion d' esempio, il fuoco che entra nel ferro, lo infiamma, e quel fuoco nel ferro si piglia per una forma che il ferro ha ricevuto. Ma qui, sottilmente parlando, hassi a distinguere il corpo estraneo entrato, dal corpo da lui modificato, e la modificazione che questo riceve dalla causa che gliela produce: il che il volgo però non suol fare. Ora la modificazione stessa è una forma (un atto nuovo), di cui la cosa viene informata: ma il corpo eterogeneo a lei aderente, e non con lei contemperato e immedesimato, non è più che una causa efficiente, a vero dire, che ha però con quella forma uno strettissimo nesso, e che per ciò vien detto anche forma o causa formale , in quanto che imprime la forma (1). Ora non è dubbio, che Iddio opera in modo nell' anima, che egli sia causa efficiente, di somigliante natura, cioè tale che imprima la forma; e a questo si riferiscono le similitudini che usano le Scritture e i Padri, paragonando lo Spirito Santo ora al fuoco che riscalda la materia, in cui entra, ora agli aromi che si attaccano ed aderiscono alle vestimenta, onde sembra che queste stesse tramandino il grato olezzo da sè. Ecco due passi di S. Basilio e di S. Cirillo. [...OMISSIS...] Un' altra similitudine usata da' Padri e dalla Chiesa stessa ne' suoi riti per adombrare l' unione di Dio con noi, è quella del vino mescolato coll' acqua; la quale però non deve così strettamente intendersi, da credere che lo Spirito, significato nel vino, abbia sofferto qualche mutazione, ma bensì l' acqua. Il santo Massimo martire dice che Cristo [...OMISSIS...] Di una terza maniera di causa formale ci viene data notizia dalle sensazioni. Noi colle sensazioni percepiamo i corpi, cioè sentiamo la loro attività operante sullo spirito nostro, ove restano alcuni effetti sensibili di quell' attività operante, cioè restano le sensazioni che dànno la percezione dei corpi. Conviene riflettere che, nell' atto della sensazione, il corpo attivo operante sopra il nostro spirito termina realmente colla sua azione nel nostro spirito; sicchè il termine della nostra passione e della sua azione è uno e il medesimo. Indi quella unione , fra il paziente sensitivo, e l' agente sensibile, osservata dagli antichi, per la quale, con ogni ragione, può dirsi che l' agente , in quanto è attualmente sensibile e operante, come tale, sullo spirito, si renda forma del senso . Ma qui è da osservare con attenzione quanto sono per dire. Il corpo sensibile non è punto sensitivo, non sente punto sè stesso: quindi le sensazioni che produce non appartengono a lui, non sono il termine della sua attività, come tali. Il termine comune adunque, fra il corpo sensibile e l' essere sensitivo, è l' attività , cioè il moto delle parti, moto ove è numero e estensione; ed è per questo che io ho chiamata questa parte reale della nostra percezione de' corpi, chiamando le sensazioni stesse, la parte fenomenale (2). Ora la parte reale della percezione de' corpi non si divide dalla fenomenale, se non per una operazione dell' intelletto, al qual solo per ciò appartiene una conoscenza veritiera, sebbene limitata, di questi agenti che si dicono corpi . Ciò posto, nelle sensazioni il corpo, in quanto è sensibile , non è vera forma dell' anima, ma solo forma fenomenale, o apparente, come tale, all' anima stessa: in quanto poi esso è attivo , anzichè causa formale, è piuttosto causa efficiente: e, in tal causa, è a dir di lui quello che si è detto, parlando della seconda maniera di cause formali . Ora Iddio non può essere causa formale7fenomenale dello spirito umano perchè essendo egli semplicissimo, non gli si può attribuire cosa alcuna che non gli appartenga, senza che egli cessi dall' essere Dio: come, a ragion di esempio, se noi volessimo attribuirgli qualche umano sentimento, il concetto in noi suscitato e prodotto, che ne uscirebbe da questa aggiunta, non si potrebbe più chiamare Dio, secondo il valor comune della parola: a differenza di ciò che avviene ne' corpi, ai quali attribuiamo i colori, i sapori e le altre sensazioni e così formiamo ciò che si dice il corpo fenomenale. Ma nulla di ciò potrebbe avvenire in quanto alla idea di Dio, che se apparisse diverso da quello che è, nulla più vi sarebbe di divino, ma tutto si distruggerebbe il suo concetto. Per intendere la natura di questa quarta maniera di causa formale, è necessario ricorrere alla teoria dell' intendimento. L' intendimento, ove pensi un qualche oggetto reale, cioè da lui percepito, ha per termine della sua operazione l' oggetto stesso e non una qualche sua similitudine o idea. Quando io dico: - date anche a me di quelle frutta che voi mangiate - ; io non dimando già l' idea delle frutta, ma dimando le frutta stesse, di che altri mangia. Questo fatto, per quanto difficile sia da spiegarsi, è innegabile e ovvio. Conseguentemente a questo fatto si può stabilire questa verità, che, in virtù della funzione del giudizio o come io la ho anche appellata, del verbo, l' uomo intelligente col suo atto termina negli oggetti stessi reali. Questo è quanto dire, che gli esseri stessi reali sono oggetto dell' atto dell' uomo intelligente. Or come è possibile ciò? Io ho dichiarata questa grande verità nella Ideologia (1) dimostrando ivi che l' essere è l' oggetto essenziale dell' intelletto, cioè che l' essere ha questa singolare virtù, ossia attitudine, di poter venir ricevuto da un ente sensitivo, e che venendovi ricevuto, cioè percepito, egli fa nascere in quell' essere sensitivo l' intendimento, la cui funzione essenziale non è altro che la percezione appunto dell' essere . Ho dimostrato ancora che l' essere, ove sia percepito solo inizialmente , prende il nome di idea dell' essere o di specie (2), o di essere ideale o potenziale, ed è il lume della ragione e produce l' intelletto umano . Con questo essere iniziale , o lume, l' intendimento conosce tutte le altre cose anche reali, ossia sensibili. Che se l' essere stesso viene percepito non solo inizialmente , ma finitamente , questa percezione è la percezione di Dio; e in tal caso Dio stesso è la forma dell' intendimento. Questa percezione dell' essere così finito, cioè terminato, o è indistinta , ed è quella della grazia, come si percepisce Iddio in questa vita; o è distinta , ed è quella della gloria, come si percepisce Iddio nell' altra vita. Per ben conoscere la natura della causa formale, di cui parliamo, conviene fare le osservazioni seguenti: 1. Che quando lo spirito pensa un oggetto reale, questo oggetto nulla soffre dal pensiero; e che se questo oggetto è contingente, nè pure nulla opera nella mente: e tuttavia è indubitabile che quell' oggetto è il termine dell' attenzione del soggetto pensante e sensitivo insieme. 2. Che se questo oggetto è necessario, cioè l' essere stesso , allora questo opera nella mente, ed è per sè termine e oggetto della mente: il che si rileva osservando che la natura dell' intendimento è tale, che ella riceve passivamente la forma sua, cioè l' essere , e che quindi l' essere deve indubitamente esser attivo in lei. 3. Che quindi conviene separare l' essere, che opera nella mente, dall' essere reale sensibile e contingente: e che questa separazione si può fare osservando che, quando noi pensiamo un essere contingente, noi contrassegniamo quell' essere con ciò che di lui abbiamo percepito co' sensi nostri. Prima cioè della operazione nostra intellettiva, noi non abbiamo percepito dell' essere se non ciò che fu da lui operato nei nostri sentimenti: questa è operazione reale dell' essere stesso. Ma con questa sola operazione noi non conosciamo ancora quell' ente; noi non lo conosciamo in sè, come uno degli esseri. Tutto ciò adunque che abbiamo percepito non è l' essere, come tale, ma delle appartenenze, delle affezioni dell' essere. La mente poi è quella che supplisce l' essere da sè nella percezione intellettiva; per aver questa adunque non è maraviglia se non si esiga una nuova operazione di quell' ente nella mente nostra, ma bensì è necessario che si supponga l' operazione che soffre la mente dall' essere stesso, che le imprime appunto l' idea dell' essere. 4. Che questa recettività dell' essere nella mente è proprietà dell' essere stesso. 5. Conviene avvertire diligentemente che è proprio solo di questa forma una rilevantissima particolarità: ed è che ella, sebbene si unisca con uno spirito sensitivo, siccome sua forma , tuttavia ella non si mescola punto nè si confonde collo spirito stesso, ma si rimane perfettamente immune dalle qualità di lui, e colle sue proprie inconfusibili e inalterabili. 6. Finalmente questa forma, col pure unirsi collo spirito, agisce in lui, giacchè dallo spirito è sentita ; ed è perciò anche un agente, una causa efficiente. Ora come forma di questa natura, nulla ripugna che Iddio si unisca allo spirito umano. S. Tommaso dice espressamente che nell' altra vita la forma , colla quale i beati intendono, è Dio stesso (1). E poichè lo stesso Santo dice, che la vita eterna comincia col battesimo (2), pare che questo santo Dottore non fosse del tutto contrario che anco in questa vita per la grazia Iddio stesso divenisse forma dell' anima: e pare, cercando il fondo del suo pensiero, quando egli diceva che Dio nella operazione della grazia era causa efficiente e non formale, non avesse altro in vista, se non di ben distinguere la percezione che s' hanno i beati nell' altra vita, acciocchè non fosse confuso il lume della gloria con quello della grazia (3). Ed è degno di attenzione, questo, che nelle divine Scritture si applicano le stesse maniere di dire tanto al lume della gloria, come al lume della grazia: anzi lo stesso vocabolo di gloria viene adoperato talora a significare quella manifestazione che fa di sè Iddio in questa vita a' Santi suoi; come, a cagione di esempio, ne' passi seguenti: « Tutti peccarono, e abbisognano della gloria di Dio« (4). - « E non ti ho io detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?« (5). » E l' Apostolo dice la « gloria futura , » per distinguere quella del cielo dalla grazia che si ha in questa terra (6). E quando egli vuol parlare del presente, dice la « gloria della grazia (7). » Nelle quali maniere è solo da osservarsi questo, che la gloria della grazia in questa vita è tutta di Dio; laddove in cielo la gloria di Dio ridonda in noi: ossia, secondo il sentimento dello stesso Apostolo, l' uomo in questa vita ha bensì la gloria di Dio in sè, ma nascosta e velata, la quale poi nell' altra vita non fa che scuoprirsegli e rivelarglisi (1). Ma ciò, che merita ancor più osservazione, si è la frase di vedere Iddio , che si applica egualmente alla visione beatifica e alla visione o percezione di Dio che si ha per la grazia, come il mostrano apertamente i luoghi delle Scritture, più sopra da me riferiti (2), e altri che potrei recare. E questa frase di vedere Iddio è ancora più propria dell' altra di percepire Iddio; poichè la percezione sensitiva si fa tanto col tatto, quanto coll' occhio; ma la percezione del tatto, non è tanto manifestazione oggettiva, come quella che si fa coll' occhio. Poichè l' oggetto non tocca l' occhio e non si mesce con lui, ma rimane dall' occhio lontano e diviso: laddove lo stimolo del tatto colle sue qualità tattili s' immedesima coll' organo senziente. Ora meglio sta il dire che Iddio si vede, appunto perchè, sebbene si unisce, tuttavia non si confonde coll' anima, ma rimane da lei distinto, come è l' oggetto dal soggetto. Il perchè questa frase di vedere Iddio esprime assai acconciamente quell' essere Iddio, rispetto all' anima dotata di grazia, non una causa puramente formale, ma una causa oggettiva formale. Egli è in questo senso pertanto di causa formale oggettiva , che i Padri hanno detto, Dio essere formalmente congiunto colle anime dalla grazia rigenerante. Non sarà inutile sentire alcuna loro testimonianza di questa verità. S. Basilio osserva, nelle Scritture usarsi comunemente la frase che lo Spirito Santo sia in noi . Egli dunque dimanda, in che modo sia in noi, e risponde così: [...OMISSIS...] S. Atanasio parimenti fa forza su quelle parole di S. Pietro, colle quali afferma il santo Apostolo che noi veniamo fatti « partecipi della divina natura«. » Queste parole infatti, intese semplicemente e letteralmente, importano che la divinità diventi forma del nostro spirito. Ma sentiamo il grande Atanasio: [...OMISSIS...] Di che egli argomenta che lo Spirito Santo sia Dio (2). Il medesimo concetto viene pure espresso da S. Cirillo con altre parole: [...OMISSIS...] . Nè sembrami che inettamente lo stesso Padre dichiari quella qualità della divina natura cui l' uomo riceve dalla grazia, col paragonare Iddio a dell' oro e l' uomo a una statua dorata (1); poichè nella indoratura ci ha lo stesso oro, e non già qualche altra cosa, solamente prodotta dall' azione dell' oro. E veramente se Iddio non fosse formalmente congiunto coll' uomo in virtù della grazia, non potrebbero avere un senso vero queste espressioni della Scrittura: « l' uomo esser fatto consorte della divina natura, essere deificato »; come indicano quelle efficacissime parole approvate da Cristo stesso: « voi siete Dii ». Là dove, se la congiunzione fra l' uomo e Dio è formale, queste maniere di dire ricevono un senso tutto proprio e verissimo. La quale è comune osservazione dei Padri, massime Greci, dei quali ho recate già non poche acconcie testimonianze (2). Nè solo i Padri della Chiesa attestano che, nel senso sovra esposto, Iddio diventa forma dell' anima; ma esprimono inoltre quelle qualità di questa forma e quelle condizioni che furono da noi toccate, le quali in queste due si possono ricapitolare: 1 Che, sebbene Iddio operi in noi a tale da essere forma del nostro spirito, tuttavia questa azione di Dio non ha nessuna reazione sopra Dio: sicchè il nostro spirito punto non reagisce in Dio stesso. La quale condizione si verifica massimamente, perchè Iddio opera come Creatore, e il Creatore fa la cosa prima che sia, e quindi non patisce niente dalla cosa stessa. Il celebre cieco di Alessandria, Didimo, nella sua grande opera sullo Spirito Santo, esprime questa condizione assai acconciamente, dando alla divina natura la proprietà di essere capibile , e non quella di esser capace , cioè la proprietà di essere ricevuto, ma non quella di ricevere essa in sè cosa alcuna dall' anima ove inabita. [...OMISSIS...] (Ecco la ragione del non patir egli nulla dalle creature, in cui opera; ciò nasce pel suo modo di operare in attività di Creatore). 2 Che, sebbene Iddio si renda forma dell' uomo, tuttavia Iddio non si confonde coll' uomo: il che avviene, perchè è forma oggettiva , nel qual genere di forme non vi ha alcuna mistione o confusione, perchè l' oggetto ha per sua propria natura una cotale opposizione al soggetto , che non si può giammai con lui mischiare, fino che si rimane oggetto , sebbene esso agisca nel soggetto e di sè lo informi. Questa maniera di operare di Dio nell' uomo viene dalle Scritture e da' Padri dichiarata colla similitudine di un suggello, che opera improntando la imagine nella cera o in altra materia molle e si unisce con quella materia fino al contatto; e tuttavia riman sempre distinto, per sua natura, dalla materia che suggella. S. Paolo usa di questa similitudine in quel luogo agli Efesi: [...OMISSIS...] . E commentando queste parole S. Girolamo, dice così: [...OMISSIS...] . S. Basilio che usa spesso la medesima similitudine del sigillo chiama Dio « imagine effettrice d' imagine (5) »: il che conviene principalmente al Verbo che è imagine del Padre, e che, unendosi con noi, viene sentito dall' anima nostra e così l' anima nostra riceve la impressione e la imagine di lui. Egli è questa la distinzione che si deve fare fra l' oggetto e il soggetto. Allorquando noi soggetto contempliamo un oggetto (il verbo), avvi quest' oggetto, in cui termina la nostra azione, ma anche il soggetto ha sofferto una passione da quell' oggetto; e questa modificazione, questa passione sofferta dalla percezione dell' oggetto, è la imagine che viene in noi prodotta e che si può chiamar soggettiva. Sicchè il santo Dottore con quella espressione «eikon eikonopoios», ottimamente espresse la distinzione che sempre sussiste tra l' oggetto operante (Dio) e noi soggetto che riceviamo la sua operazione. E perchè si veda essere mente dei Padri, che quest' oggetto dello Spirito intelligente, che imprime l' imagine quasi a guisa di suggello, nella operazione della grazia, è Dio stesso immediatamente operante; odasi ancora S. Cirillo in uno de' suoi dialoghi con Ermia, che non lascia luogo a dubbiezza. Egli dice adunque così: [...OMISSIS...] . Nel qual passo si toglie ogni cosa di mezzo fra lo Spirito Santo, e lo spirito dell' uomo santificato. Da ciò che abbiamo fin qui ragionato risulta che negli uomini santi la stessa sostanza divina (2) opera immediatamente, e con essi formalmente si congiunge. Egli non sarà però inutile che io ancora un po' mi trattenga a provare colle testimonianze dell' antichità cristiana quello che in questa materia è il vero principale e di tutti il più degno da notarsi ben colla mente, cioè che Dio non è alcun' altra forma della mente, ma quella che abbiamo chiamata oggettiva . Si può intendere che è necessario che sia così, e non altramente, da tutto ciò che abbiam detto. Poichè, in primo luogo, abbiam detto che Dio nella operazione della grazia non agisce in altra parte dell' uomo, ma nella essenza sua e propriamente nell' intelletto che è l' elemento più nobile dell' essenza umana. Ora ciò posto, basta sapere la natura dell' intelletto per intendere che Iddio non può altro che farsi suo oggetto: conciossiachè la natura dell' intelletto è tale, che non riceve altra operazione se non quella de' suoi oggetti; giacchè cogli oggetti appunto si forma l' intelletto; e ogni altra operazione nello spirito dell' uomo sarebbe fuori dell' intelletto per la stessa definizione dell' intelletto. Ora coerente a questa dottrina, che appartiene tutta alla tradizione cristiana, è quello che fanno i Padri e Maestri della Chiesa, descrivendo la partecipazione che del Verbo di Dio fa l' uomo della grazia, colla similitudine della partecipazione delle scienze e delle idee: della quale similitudine non si può trovar nulla di più accomodato e di più vero. Poichè se l' intelletto è la sede delle scienze e delle idee, e il Verbo di Dio opera nell' intelletto, forza è che questa operazione avvenga appunto per le idee e nelle idee, o più generalmente avvenga in virtù di percezioni intellettive: con questa sola differenza che l' intelletto, fino che ha semplici idee, non vede più che un iniziamento dell' essere (essere ideale), laddove avendo il Verbo, ha tale idea, che non è solo idea, ma insieme sostanza e completamento dell' essere (essere reale). Udiamo adunque quanto acconciamente parlino i Padri della inabitazione del Verbo di Dio nell' uomo, togliendo la similitudine dalle scienze e cognizioni. Già innanzi (1) ho recati i passi dell' Alessandrino Didimo, di Origene e di S. Basilio, dove questi Padri parlano della inabitazione del Verbo nell' uomo, somigliandola a quella delle idee nella mente nostra e mostrandone la differenza. A quelli aggiungerò un altro bel passo di Didimo (2), riferito anche da S. Girolamo, dove toglie a dichiarare il modo onde lo Spirito divino ammaestra gli uomini: [...OMISSIS...] . - Se è dunque come la scienza, che Iddio viene partecipato da noi, egli si unisce a noi a modo di forma oggettiva dello spirito nostro. Lo stesso prova la similitudine del suggello adoperata a spiegare l' azione di Dio nell' anima giusta: solamente che nel suggello si mostra altresì non essere Iddio che si presenta al nostro spirito una pura e tenue idea, ma una specie operante e sostanziale nel nostro spirito, come uno stimolo che vi lascia un' impressione e vi suscita un real sentimento. Didimo mostra appunto che nel simbolo del suggello e della imagine da quello impressa si contiene un' analogia coll' altro modo di spiegare l' azione della grazia in noi tolto dalla partecipazione delle cognizioni, perocchè dice così: [...OMISSIS...] . Ricapitolando la prova dedotta dalla natura dell' intelletto, noi abbiam detto col sentimento dei Padri della Chiesa: L' intelletto non viene formato e non riceve altra azione che da' suoi oggetti: Iddio opera immediatamente nell' intelletto: Dunque Iddio si presenta allo spirito dell' uomo come oggetto, o sia si unisce all' uomo come causa formale oggettiva. Alla medesima conclusione possiamo venire, sempre camminando sulle vestigie dei Padri, ove pigliamo a considerare la cosa da parte della natura divina. Ecco l' argomentazione: Dio è l' essere: Ma l' essere non è partecipato che dall' intelletto, perocchè il farsi quest' essere visibile a uno spirito, è il medesimo che crearvi un intelletto: Dunque Iddio non può essere partecipato dall' uomo immediatamente che coll' atto del suo intelletto, che dall' essere appunto è formato. Questo ragionamento è evidente e irrepugnabile. Da esso si ricava questa bella verità:« Che se l' intelletto umano è formato dalla vista iniziale dell' essere (idea dell' essere in universale), questo intelletto, e l' uomo per esso, vien elevato alla dignità di uno stato soprannaturale con nulla più che essergli accresciuto il grado di quella vista dell' essere che ha per sua natura, cioè col venirgli mostrato l' essere non più solo inizialmente (idealmente), ma terminatamente , col termine della sua reale sussistenza (realmente): il che è Dio. Di qui è che essendo la forma dello spirito umano la idea dell' essere in universale, i Padri acconciamente dicono che lo Spirito Santo perfeziona in noi la forma , o che tiene luogo della forma. Si oda S. Basilio: [...OMISSIS...] . S. Agostino parla dell' intelletto o mente dell' uomo naturale colle medesime espressioni di quelle che usa parlando della mente dell' uomo soprannaturale. Egli dice nel libro delle LXXXIII questioni, che la mente dell' uomo considerata nel suo stato naturale, « nulla substantia interposita ab ipsa veritate FORMATUR (2) ». Io ho già dimostrato che questa verità , di cui parla S. Agostino, e che informa la mente umana, è l' idea dell' essere universale (3). Ora come si esprime il Santo Dottore parlando dell' uomo elevato allo stato soprannaturale? Egli nel libro III della Trinità (4) dice appunto così: « Iustificando FORMATUR a Deo iusti mens « ». Nello stato naturale la forma dell' uomo è la verità , l' essere ideale, la idea dell' essere: nello stato soprannaturale la forma dell' uomo è Dio stesso, l' essere reale terminato, sussistente (5). La forma dunque che si sopraggiunge all' uomo, che entra a partecipare della grazia divina, non è che quella che formava la sua natura, ma completata, elevata, mutata nella sostanza divina. Conviene riflettere di nuovo, a maggiore confermazione di ciò, che le cose create non possono informare la mente umana nel loro modo di essere reale , ma che la informano mediante il loro modo di essere ideale (mediante le idee); il quale è concepito dalla mente indipendentemente dalla realtà delle cose. All' incontro in Dio il modo reale è congiunto siffattamente al modo ideale , che è impossibile immaginarlo scongiunto, senza distruggere Dio stesso: sicchè non vi può aver idea di Dio (modo ideale) senza avere la percezione della sostanza di Dio (modo reale). Sicchè Iddio non può informare la nostra mente colla sua idea, senza che la informi con sè stesso: a differenza appunto di tutte le altre cose che non possono informare la nostra mente di sè stesse, ma di sole le loro idee. Di Dio dunque non si dà idea pura (positiva), ma si dà solo la percezione della sua sostanza. O convien dunque negare all' uomo della grazia ogni partecipazione di Dio, il che è contro all' autorità delle divine Scritture e di tutta la cristiana tradizione; o conviene accordare queste due proposizioni: 1. che Iddio è forma oggettiva dello spirito elevato allo stato di grazia; 2. e che Dio è forma oggettiva non già col suo modo ideale, come sono le altre cose, ma si bene con sè stesso immediatamente, colla sua propria sostanza. S' intenderà chiaramente la ragione di questa dottrina, considerando che Dio è l' essere stesso sussistente ; che perciò è per necessità, è per essenza, è per la stessa definizione. Per potere adunque conoscere Iddio, conviene conoscer[n]e la sussistenza. Ma io ho dimostrato che colle idee pure non si conosce che la possibilità sola delle cose Quindi è impossibile colle pure idee conoscere Dio, e non si può altro conoscerlo che avendone la stessa percezione. Quanto ho detto ha una riprova in quella dottrina comune de' Teologi, i quali insegnano che in Dio non vi ha distinzione fra l' essere e la essenza : mentre in tutte le altre cose si distingue l' essere dalla essenza , potendosi pensare la essenza di una cosa, senza che la cosa necessariamente sia. Conciossiachè che cosa è l' essenza? Pigliamo la nostra definizione:« ciò che da noi si pensa nella idea di una cosa.« - La essenza adunque è il modo ideale dell' essere. Che cosa è poi l' essere [reale] di una cosa? L' essere è l' atto della cosa, cioè l' atto onde la essenza è, sussiste. Or, ciò che dicono i Teologi sulla indivisibilità della essenza dall' essere nella natura divina, non è dunque ciò appunto che noi dicevamo sulla indivisibilità [in Dio] del modo ideale e del modo reale? Risulta adunque dalla teologia che di Dio non si può dare una idea pura positiva, ma che si può dar solo la« immediata sua percezione intellettiva«; e che senza di questa l' uomo non può avere nessuna reale e positiva comunicazione con la divinità. O convien dunque negare all' uomo della grazia qualunque reale cognizione e comunicazione della divinità: o conviene concedere che questa comunicazione delle anime giuste con Dio è immediata , che hanno la percezione di Dio , che Dio stesso colla sua propria sostanza si rende forma oggettiva di esse. Ai Padri della Chiesa non sono sfuggiti questi ragionamenti; e credo che la dottrina esposta sia ne' visceri stessi della cristiana religione. S. Cirillo pone questo inconcusso principio: « non si può partecipare per mezzo della creatura ciò che supera la creatura« (2) ». Il medesimo afferma in un altro luogo: quando noi siamo fatti partecipi, come dicono le Scritture, dello Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Or dunque secondo questo principio, non per mezzo della idea pura si conosce Dio, ma per Dio stesso sussistente; perocchè l' idea pura che noi aver possiamo di Dio, non è Dio, ma è una creatura anch' essa, perchè limitata, è un lume creato. Qui batte quello che tante volte ripetono i Padri, massime Greci, che la comunicazione di Dio alle anime giuste si fa senza mezzo , «amesos», e che non si può col mezzo di nessuna cosa creata, e però nè pure di nessuna idea, dare alle anime la santificazione: come tante volte ripete S. Cirillo di Alessandria (4). Questo vero è tanto da loro ribadito e chiarito, che non rimane il più piccolo [luogo] a dubitare della loro mente: almeno a me, dopo aver considerati i loro detti, è stata tolta via ogni dubitazione su di ciò. I Padri riconoscono in Dio una cotale relazione essenziale colle creature, di diverso modo in ciascuna delle tre divine Persone. A quel modo che, essi dicono, che il Verbo divino è un cotal pensiero del Padre, col quale non solo ha pensato sè, ma tutte le creature altresì, e così pensandole, con quell' atto stesso della eterna generazione le ha create (5); così dicono parimente che, collo stesso atto della eterna spirazione, non solo il Padre e il Figliuolo ha amato sè, ma ha amato, infuso l' amore, santificate le anime sante; sicchè la stessa sostanziale persona dello Spirito Santo sia una cosa identica colla stessa virtù santificatrice dei giusti. [...OMISSIS...] - Così S. Cirillo (6). Quindi, come al Figliuolo conviene sostanzialmente il nome d' imagine , così allo Spirito Santo conviene sostanzialmente quello di dono (1). Una operazione più immediata di questa non si può concepire, ed è questa sola che può comunicare la cognizione di Dio all' uomo. Questa singolare proprietà di Dio solo, di essere conoscibile per sè stesso e non per nessun altro mezzo, sparge una luce viva, a mio parere, sopra un brano del grande Basilio, che, senza aver prima ben concepita nella mente questa dottrina, parrebbe oltremodo oscuro. Nel brano, di cui parlo, S. Basilio dice che, per conoscere Iddio, noi dobbiamo riceverne in noi medesimi la impressione, il carattere, ma che questo carattere, parlando di Dio, non è come le idee che si ricevono dalle altre cose, ma è un carattere vivo e efficace: col qual passo si distingue manifestamente il conoscere delle altre cose colla idea , che è un segno freddo e imperfetto, e il non potersi aver di Dio questa imperfetta impressione, il non potersi aver di Dio l' idea; ma sì bene solo il potersi aver di lui la immediata percezione viva ed efficace, come sono sempre le percezioni, giacchè con esse noi soffriamo dalle cose un' azione reale. Ecco il luogo assai notabile del santo Dottore: [...OMISSIS...] . Essendo questo un vero comune e famigliare de' teologi cristiani, non addotto in controversia da nessuno, mi basterà l' averlo indicato. [...OMISSIS...] . Quindi si può dire che l' operazione di Dio è una ; ma il modo della medesima è trino . Egli è principio costante de' maestri della cristiana dottrina, che l' operazione di Dio non si distingue da Dio stesso. Quindi, come Iddio è uno e trino, così la divina operazione deve essere una e trina: come Iddio è uno nella sostanza, trino nel modo in che sussiste questa sostanza, così l' operazione stessa di lui deve essere una, ma trino il modo della medesima. Confermiamo l' una e l' altra verità coi testimonii della tradizione. Dell' unità della operazione divina, dogma fermissimo, così dice l' undecimo Sinodo Toletano: [...OMISSIS...] . E S. Basilio: [...OMISSIS...] . Che poi il modo dell' operazione sia trino, si autentica dalle diverse preposizioni che la divina Scrittura adopera nell' indicare l' operazione del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Perchè parlando del Padre, il più si dice che« il Padre opera«, in caso retto: ma per indicare l' operazione stessa appartenente al Figlio, si usa della preposizione per , dicendosi che« il Padre opera per lo figliuolo«: e medesimamente la stessa operazione si attribuisce allo Spirito Santo mediante la parola in , dicendo che« il Padre opera per lo Figliuolo nello Spirito Santo«. Le quali particelle sono acconcissime a indicare non già una operazione diversa, ma un diverso modo , onde le tre divine persone entrano a produrre la medesima e semplicissima operazione. Sono costanti i Padri in questa maniera di esprimersi circa la divina operazione. A ragion d' esempio, in questo luogo di S. Atanasio, dove egli afferma l' unità della divina operazione, mostra ancora in che diverso modo concorra ciascuna delle divine persone in essa, mediante le accennate preposizioni: [...OMISSIS...] . E S. Ilario: [...OMISSIS...] . Nè questo trino modo dell' operazione divina può togliere l' unità della medesima, perchè come riflette S. Cirillo Alessandrino, « colà dove è identità di natura, sotto nessun rispetto divisa, ivi pure l' azione non può esser divisa, eziandio che s' intenda farsi quell' azione da alcuno in modi varii e diversi« (3) ». Se l' universo è l' opera delle tre divine persone, e se l' operazione di queste, sebbene una in sè stessa, è tuttavia trina nel modo; apparisce manifestamente ragionevole e consentanea a sè stessa la dottrina dei Maestri della Chiesa, i quali insegnano che nell' universo risplende il vestigio della Santissima Trinità: perocchè conviene che l' effetto sia simile alla sua cagione. E questa è appunto la ragione, che dà S. Tommaso d' Aquino, del trovarsi sparse nell' universo le traccie di una causa una e trina (4). Per trovare quale sia il vestigio più completo della Trinità nell' universo, o, a dir meglio, per trovare una formola che esprima completamente il più che esser possa la traccia che la Santissima Trinità impresse di sè nelle cose, in creandole, a me parve di tenere il metodo seguente. In primo luogo osservai l' essere creato sotto tutte le sue forme e modi possibili. Poi cominciai a classificare queste forme e questi modi; e riducendoli di classe in classe, li venni [riducendo] ne' generi reali (1), primi irriducibili l' uno all' altro, nè aventi sopra di sè altra essenza generica, ma solo la essenza universale, l' essere . Ora questa operazione mi condusse a rinvenire tre forme primitive e originali, inconfusibili fra di loro, che riconobbi esser le tre forme, di cui era informato l' universo, ossia i tre modi dell' essere creato . Queste tre forme o modi dell' essere sono: 1. l' essere reale ; 2. l' essere ideale ; 3. l' essere morale . L' essere reale vidi che costituiva il sentimento , e che i corpi non erano che la sua materia (2): vidi che l' essere ideale (le idee) costituiva la cognizione : e che l' essere morale costituiva la ricognizione pratica o riflessione (3). M' accorsi che l' essere reale è l' essere in quanto è sussistente ; che l' essere ideale è l' essere stesso in quanto è conoscibile ; che l' essere morale è il medesimo essere cognito in quanto è amabile . Mi si manifestò parimente che l' essere reale era quello che conosceva e che amava; e che l' essere ideale era il mezzo, pel quale l' essere reale amava ciò che aveva conosciuto (l' amabile); e che l' essere reale, in quanto conosceva e amava, si diceva aver le facoltà d' intendere e di volere. Ancora osservai che gli uomini riserbavano all' essere reale propriamente il nome di essere o di ente ; che all' incontro all' essere [ideale] davano più di frequente il nome di verità ; e all' essere [morale] quello di bene : e che l' essere, il vero, e il bene erano appunto stati i tre elementi, a cui l' antica filosofia aveva ridotte tutte le supreme nature dell' universo. Ora questa io credo essere appunto la formola che più completamente di tutte esprima il vestigio della Trinità, del quale è segnato il mondo. S. Agostino nel libro VI della Trinità (1) parla dei vestigi di lei nelle cose create, e trova questo vestigio in ogni creatura per questo, che qualsiasi cosa non esiste se non a tre condizioni, cioè: 1. che sia un qualche cosa ; 2. che sia informata di qualche specie ; 3. e che tenga in sè qualche ordine , cioè che sia ordinata a qualche fine (2). Di che conchiude « esser necessario che, contemplando il Creatore coll' intelletto per quelle cose che sono state fatte, veniamo all' intelligenza della Trinità, di cui nella creatura apparisce, come è degno, [un] vestigio« (3) ». E queste tre condizioni e modi d' ogni essere creato, come osserva S. Tommaso sono indicate in quelle parole del libro della Sapienza (4): « Tu hai disposte le cose tutte in misura, numero e peso« ». « - « Perocchè, dice il santo Dottore, la misura si riferisce alla sostanza della cosa limitata da' suoi principii, il numero alla specie, e il peso all' ordine« (5). » Le quali tre condizioni di ogni esistenza S. Agostino le nomina altresì con questi tre nomi di modo, specie e ordine : e dall' entrare necessariamente somiglianti elementi in ogni essere, induce la conseguenza che ogni essere, di sua natura, è buono. « Questi tre [elementi], dice egli, ove son grandi, ivi sono beni grandi: ove piccoli, ivi sono beni piccoli: ove nulli, non v' è nessun bene. E per egual modo, ove que' tre elementi sono grandi, ivi sono delle nature grandi; ove piccoli, ivi sono delle nature piccole: ove nulli, non v' è nessuna natura. Dunque, conchiude, ogni natura è buona. » Il primo elemento indicato da S. Agostino, che ogni cosa « unum aliquid est », è manifestamente ciò che noi chiamiamo l' essere reale . Il secondo elemento che ogni cosa « aliqua specie formatur », merita più attenta investigazione e analisi. Nell' Ideologia , a cui mi devo riferire e rimettere spesso in questo trattato, io ho dimostrato che la specie non è che il rapporto che ha la cosa colla idea (7); non è quindi che la cognoscibilità della cosa, non è che la cosa stessa in quanto è conoscibile, l' oggetto del pensiero. Ho dimostrato che la qualità comune di più cose (fondamento della specie) non è che la proprietà che hanno quelle cose, sebbene più, di essere conosciute con una sola e medesima idea della mente (1). Questa dottrina, che si rileva esser verissima da una perscrutazione profonda della natura della specie, è anco consentita e indicata manifestamente dal senso comune degli uomini, i quali per nominare una classe di cose dicono una specie , usando questa parola, che nella sua forza etimologica non altro significa se non una vista delle cose ( species, aspectus ); mostrando con ciò di credere che, appunto perchè la mente con una sola vista o sguardo o con una sola idea insomma tutte quelle cose conosce, per questo quelle cose formano una classe da sè, distinta dalle altre cose. Di che si rende manifesto che se noi rimovessimo dall' universo l' intelletto che contempla le cose, se noi ne togliessimo via le idee; i generi e le specie delle cose perirebbero. Ma, innoltrandoci di più, troviamo ancora che le cose, senza i generi e le specie, non si possono nè pur pensare; a tale che ci sembra che, anco rimosse le idee, le cose riterrebbero le loro specie. Ma questo è un sembrarci ingannevole: e ciò avviene per ragione che non si possono rimuovere le idee delle cose, come dicevo, senza annientare le cose stesse; poichè fino che noi concepiamo una cosa, concepiamo insieme la sua pensabilità, o cognoscibilità (2). Il che dimostra che la cognoscibilità della cosa è un elemento intrinseco alla cosa stessa, sicchè ella può aver sempre la idea, e quindi medesimo l' ha, se può averla; parlandosi qui d' idee possibili. Havvi dunque un rapporto essenziale e inalterabile fra la cosa reale e la cosa ideale, o l' idea sua; e quella non può star senza questa che intimamente considerata si trova essere il suo principio, ciò che la rende possibile, senza di che, cioè senza esser possibile, non è pensabile, e molto meno esistente. Da tutte queste cose apparisce che la specie di S. Agostino, propriamente parlando, è l' essere ideale della cosa, e che non si può attribuirla alla cosa stessa, senza inchiudervi un rapporto essenziale e primitivo col suo essere ideale . Veniamo al terzo elemento di S. Agostino, l' ordine che hanno le cose a un fine. L' ordine delle cose non ha prezzo alcuno se non a una condizione, che egli sia percepito da una intelligenza, dalla quale possa essere apprezzato. Io ho trattato a lungo questo vero nel libro de' Principii della Scienza Morale , a cui mi richiamo. Ivi mi sono fatta la obiezione:« che se la intelligenza apprezza l' ordine o la perfezione delle cose, conviene che quest' ordine abbia un prezzo antecedentemente all' atto della intelligenza che lo apprezza«. - Ma ho dimostrato che, sebbene l' ordine e la perfezione della cosa si concepisca da sè, anche antecedentemente all' atto particolare di una intelligenza che lo apprezza, anche a tutte le intelligenze create fosse nascosto; tuttavia vi ritiene, in quell' ordine, la proprietà intrinseca di essere apprezzabile, e quindi esso inchiude un rapporto fondamentale ed essenziale con una intelligenza possibile. E veramente l' ordine di cui parliamo, suppone un rapporto di fine e di mezzo, e un rapporto non è che un essere ideale , e non esiste punto per sè solo fuori della mente (1). Di più l' ordine, di cui parliamo, suppone de' fini e de' mezzi: ma io ho dimostrato che il concetto di fine non si trova se non negli esseri intelligenti e, completamente, in Dio solo (2). L' ordine completo adunque non si dà se non nelle intelligenze, nelle persone. Ma la personalità non si forma che dalla volontà , che è la parte attiva della intelligenza. Dunque il compimento dell' ordine esige delle volontà ordinate, cioè consenzienti alla verità. L' ordine morale adunque è ciò a cui tende ogni ordine, e senza il quale nessun ordine ha merito, ma riuscirebbe una sconciatura, un disordine. L' ordine adunque di S. Agostino completamente si esprime nella nostra formola colla espressione di essere morale . S. Agostino stesso, in un bel passo del libro che scrisse contro i Manichei sulla natura del bene, si accostò a questi nostri pensamenti. Perocchè, enumerando egli que' tre elementi di tutti gli esseri, invece di dire la specie , dice « ciò per cui si discernono le cose « », che è appunto quello che noi abbiamo più sopra detto: e invece di dire l' ordine , sostituisce la perifrasi, « ciò che è degno di approvazione o di riprovazione « », espressione che è sommamente propria dell' ordine morale. Non sarà inutile che io rechi tutto insieme il luogo importante del santo Dottore, anco perchè in esso deduce la Trinità della causa appunto dalla Trinità, per così dire, dell' effetto. Ecco le sue parole fatte italiane: « Ogni cosa che è, altro è per ciò onde consta, altro per ciò ONDE SI DISCERNE, altro per ciò onde ha convenienza. Se adunque qualsivoglia creatura ed è in qualche modo, e da ciò che al tutto non è grandemente si allontana, e conviene con sè stessa nelle sue parti; forza è dire che anche la causa di lei sia trina per siffatto modo che sia , che sia questa cosa , e che sia AMICA DI SE` STESSA ». (Si noti qui che egli ha bisogno di ricorrere ad una espressione tolta dall' ordine morale, cioè all' amore, per esprimere il suo pensiero). «Or la causa, cioè l' autore della creatura diciamo esser Dio. Fa d' uopo adunque che vi abbia la Trinità, della quale una perfetta ragione non può trovare nulla di PIU` PRESTANTE (ciò corrisponde alla sostanza, all' essere reale), nulla di PIU` INTELLIGENTE » (ciò corrisponde all' essere ideale), «nulla di PIU` BEATO » (ciò corrisponde all' essere morale)«. E di qui conchiude il santo Dottore che « nella investigazione della verità non vi possono essere più di tre generi di questioni, cioè se una cosa sia; se ella sia questo o altro; e se ella sia da APPROVARSI O DA RIPRENDERSI (1) ». Il perchè è manifesto che, compiutamente, non si trovano le traccie della Santa Trinità nelle creature, se non pigliandole tutte insieme, e non rimovendo dall' universo o l' intelligenza o la volontà, il modo ideale o il modo [morale] dell' essere; e che se nelle nature materiali appare qualche segno di Trinità, anche considerate da sè sole, ciò non è se non perchè non si giunge giammai ad astrarre da loro la conoscibilità e la ordinazione all' essere morale: qualità che non si possono veramente t“r via interamente, senza che siano tolte con esse insieme e rese al tutto impossibili le stesse nature (2). Sebbene d' una trina forma sia impresso l' universo, e risplenda ovunque luminosamente il carattere di una causa trina e di una trina operazione che lo produsse; tuttavia l' uomo, come dice l' Aquinate, senza la divina rivelazione non avrebbe avuto nelle creature sufficiente argomento da indurne la cognizione del mistero della santissima Trinità. La ragione di ciò si è che ben diverso è il poter inferire dalla trina forma delle cose una causa pure trina e una trina operazione di questa causa (la possibilità di che viene conceduta da S. Agostino e dallo stesso Aquinate); e il poterne dedurre il mistero delle tre divine persone sussistenti in una sola sostanza. Perocchè inducendo dalla trinità dell' effetto la trinità della causa, non si perverrebbe che a imaginare una causa, la quale fosse fornita di quella specie di trinità, di cui fornito si scorge l' effetto, e nulla più. Ora la Trinità divina è cosa interamente diversa da quel trino modo in che sussiste l' essere creato, ossia l' essere senza più. E veramente l' essere reale , l' essere ideale , e l' essere morale non formano già tre persone, nè sono unite in una sola sostanza: che anzi l' essere ideale nelle creature non è mai una persona, ma solo l' oggetto di una persona (soggetto), e quindi medesimo una forma che non sussiste da sè, ma che sussiste come aderente all' essere reale. L' essere morale parimente non è che una forma accidentale dell' essere reale intelligente, e quindi tale che in sè non ha veruna sussistenza propria e personale. Quindi nell' uomo, che è l' unico essere personale, di cui abbiamo esperienza, non vi è che una persona, la quale si regge dalla sostanza, sebbene abbia la sua base e la sua qualità dalla forma intellettuale7morale, di cui è informata quella sostanza (1). All' incontro il mistero della santa Trinità, che propone da credere la cattolica fede, consta di una sostanza, nella quale sono tre personali sussistenze, cioè tre distinte persone. Era dunque impossibile dall' effetto, cioè dall' universo, conoscere il mistero della santissima Trinità di Dio, sua causa. Prevedo ciò che [si] risponderà: - Se dall' effetto, cioè dall' essere creato, come da quello che ha tre modi, si può salire tant' alto fino a indurne la necessità di una causa che abbia pure tre modi, non deve essere impossibile, ragionando, il trovare altresì la Trinità divina. Perocchè venuti a questo punto che la causa prima abbia tre modi, già non è più possibile fermarsi qui col ragionamento, ma qui appuntandosi, si può spingersi più in alto, così argomentando: - La causa prima deve avere tre modi di esistenza. Ma essa non può avere niente di accidentale in sè, ed è assurdo l' ammettere che alcuno di questi tre modi fosse una forma accidentale. Non vi è dunque altro sistema che eviti l' assurdo, non vi è altra supposizione a farsi possibile, la quale nel medesimo tempo sia atta a spiegare l' esistenza dell' universo, se non il mistero della santissima Trinità, quale viene proposto dalla cristiana dottrina la quale insegna i tre modi in Dio essere altrettanti reali sussistenze, essere tre persone in una natura. Benissimo, io dico. Accordo che, ove non si ammetta il mistero della Trinità cristiana, nulla si spiega, e tutto l' universo è un enigma impenetrabile. Che per ciò? Avrebbe per questo la ragione sola trovata la soluzione di questo enimma? No certamente; perchè per ricorrere al mistero della santissima Trinità, se si vuol anco come a una ipotesi per ispiegare sufficientemente l' esistenza del mondo, bisognava poter concepire questo mistero, perchè non si ricorre mai a una ipotesi, se questa ipotesi non si concepisce. Ora la ragione non poteva e non può concepire il mistero della santa Trinità, e la sola fede lo ha proposto a credere. Era dunque impossibile che la ragion naturale ricorresse da sè a questo mistero per ispiegare il mondo, perchè non avrebbe giammai potuto pensare che una sostanza in tre persone fosse possibile. A quello stesso modo come il cieco nato non può pensare la possibilità dei colori, senza che gli vengano in qualche modo notificati da coloro che li vedono: e per ciò da sè solo, se dei colori non avesse giammai udito parlare, non potrebbe mai il cieco nato aver ricorso a colori per ispiegare qualsiasi fatto della natura giunto a sua notizia, sebbene la sola esistenza de' colori fosse la supposizione adatta a rendere di quel fatto ragione e convenevole spiegazione (1). E vedo che qui si può fare un' altra istanza. Le divine Persone hanno la causalità delle cose create secondo il modo del loro procedere (2): sicchè l' atto, onde il Padre ha generato il Verbo, è quello stesso, onde ha create le cose; e medesimamente l' atto, onde il Padre e il Figliuolo hanno spirato lo Spirito, è quello onde hanno amato le cose: sicchè nel Verbo divino il Padre pronunciò anche le creature, e nello Spirito le amò, e pronunciandole e amandole le creò. Posto questo principio, così si può ragionare: - L' atto, onde il Padre generò il Figliuolo, è un atto diverso da quello, onde il Padre e il Figliuolo spirarono lo Spirito Santo. Non è dunque vero il principio che una unica operazione sia quella colla quale Dio opera, creando le cose. Di poi, se l' effetto di queste operazioni interiori sono due persone distinte, cioè il Figliuolo e lo Spirito Santo; perchè parimente nell' effetto esteriore, cioè nel mondo, non si vedranno le traccie delle distinte persone? Per rispondere acconciamente all' istanza che mi si fa, dividerò le questioni: e prima parlerò della pluralità delle operazioni; poi dell' indurre che si fa da queste, doversi avere nell' universo sparse delle traccie adeguate della santissima Trinità. Cominciamo adunque dal chiarire le idee sul modo del divino operare. Primieramente è da osservarsi che gli atti , coi quali procedono le divine persone e che i Teologi chiamano nozionali , non sono già atti che abbiano movimento e progresso, come sono tutte le operazioni e gli atti, dei quali noi abbiamo esperienza nelle cose create. Direi quasi che essi si chiamano atti impropriamente, ove si osservi il valore che noi sogliamo attribuire a questa parola atto , che inchiude l' idea di passaggio da uno stato all' altro, inchiude principio dell' atto, mezzo e fine. Nulla di questo nella santissima Trinità; perocchè essa ab aeterno immutabilmente sussiste, nè si può assegnare in essa un prima e un poi. Quegli adunque che si chiamano atti nozionali nella santissima Trinità, non sono che le nozioni stesse, le stesse relazioni sussistenti, le stesse persone, da noi riguardate e considerate imperfettamente secondo l' imperfetto modo nostro di vedere le cose divine: perocchè, come dice S. Agostino, « tutto ciò che si può dir di Dio, non può mai riguardar altro se non una di queste due cose, la sostanza o la relazione « (1) »: perocchè non v' ha altro in Dio se non queste due cose (2). V' ha dunque in Dio, propriamente parlando, un purissimo atto che forma la sostanza, e quest' atto unico sussiste in tre persone, cioè ha in sè tre relazioni sussistenti, tre termini, ciascuno de' quali s' identifica colla sostanza, cioè è la sostanza medesima: ma in quanto que' termini della sostanza si oppongono e escludono fra sè scambievolmente, intanto distintamente nella sostanza stessa sussistono. [...OMISSIS...] Insomma il Padre è l' essenza sotto questa relazione che genera; il Figliuolo é l' essenza sotto questa relazione che è generata; lo Spirito Santo è l' essenza medesima sotto questa relazione che è spirata. Il considerare poi l' essenza sotto queste tre relazioni non è puramente opera della mente che le concepisce, ma è necessità della cosa, perchè quelle sono relazioni inerenti e intrinseche all' essenza stessa divina e costituenti tre divine persone. L' atto dunque, onde sussiste il Padre, non è diverso dall' atto, onde sussiste l' essenza divina; e così pure l' atto onde sussiste il Figliuolo e lo Spirito Santo. Vi ha dunque un solo atto, ma v' hanno in quest' atto tre relazioni sussistenti, in virtù del medesimo atto: per modo che i Teologi dicono, che la essenza nelle cose divine si piglia per la forma «( quo aliquid est et operatur ) (2) »; e che la divina natura è la potenza generatrice, cioè il principio onde il generante genera; « quo generans generat (3) ». Quinci si vede la differenza che passa fra la processione delle persone, e la creazione delle cose. Le operazioni, onde procedono le persone, non sono già una terza cosa media fra la natura divina e le divine persone: ma o si vogliono considerare anteriormente alla processione delle persone, e, in tal caso, non è che la potenza di produrre le persone, e questa potenza è la stessa natura divina, come è detto (4); ovvero si considerano questi atti nelle persone stesse, e, in tal caso, non differiscono dalle relazioni, cioè a dire dalle persone (5), perchè le persone non sono che relazioni. Gli effetti dunque degli atti nozionali, non diversi dagli atti nozionali stessi, cioè le persone, non escono dalla divina sostanza, ma nella divina sostanza si contengono e in essa sussistono. All' incontro le creature non si identificano già coll' operazione divina che le ha prodotte, nè colla divina sostanza; ma sono qualche cosa di separato e di esteriore alla stessa divina sostanza. La divina sostanza non esiste senza le persone, perchè sussiste nelle persone, come le persone nella sostanza; ma essa si pensa bensì sussistente nelle persone antecedentemente e indipendentemente dalle creature. Le creature adunque presuppongono le divine persone già procedute e sussistenti come loro causa. Quindi nella processione delle persone non viene prodotta nessuna natura nuova, ma non si fa che una comunicazione della natura divina che già è increata. Non essendo dunque una sostanza nuova che si produce, ma una sola relazione che procede, non è necessario che operi la sostanza vestita, per così dire, di tutte le sue relazioni, ma sol di quella relazione che consiste in quel modo di comunicazione di sè, a cui tende. E per ciò se questo modo è quello di generazione, non è necessario e nè pur possibile che operi la sostanza se non vestita di quella relazione che la costituisce generante (della quale relazione vestita è Padre): e se questo modo è quello di spirazione, non è necessario e neppur possibile che operi la sostanza divina se non vestita di quella relazione che la costituisce spirante (della quale vestita è principio dello Spirito, Padre e Figliuolo). Ma dovendo procedere da Dio non una relazione, ma una sostanza, è necessario che operi come sostanza, non in quanto ha una relazione, ma in quanto è sostanza, cioè in quanto le ha tutte in sè le sue relazioni. E quindi nella produzione delle creature non entra una sola persona, ma tutte e tre, sebbene ciascuna di esse in diverso modo, cioè nell' ordine in cui procede: onde avviene che la operazione creante si possa dire, come diceva, una e trina. Questa dottrina è enunciata da S. Tommaso con queste parole: [...OMISSIS...] . Ma soggiunge però dopo di ciò, che le tre persone concorrono a questa unica loro azione del creare in modo diverso , pari al modo del loro procedere; sicchè Iddio Padre operò la creatura pel suo intelletto e pel suo amore, cioè pel suo Verbo e per lo Spirito Santo. La ragione adunque data da S. Tommaso, per la quale la produzione delle cose create esige la cooperazione di tutta la santissima Trinità, è degna di ogni osservazione, ed è, per ripeterlo, perchè in una tale operazione non si tratta di produrre una forma o una perfezione, ma si tratta di cavare dal nulla tutto, la sostanza stessa della cosa, la sua specie, il suo ordine. Quindi si vede manifesto che se l' essere generante o spirante è proprio di singolari persone, il produrre le cose create non è proprio delle singolari persone, ma è comune a tutte tre, in quanto è atto della sostanza divina a tutte tre comune; e quindi non c' è cagione da inferire che nell' effetto, cioè nell' essere creato, le traccie delle divine persone si devano vedere adeguate e realmente distinte. Ciò che si è provato dalla natura della operazione creante, si potrebbe egualmente provare dalla natura dell' essere creato. Perocchè la natura di questo essere è limitata in modo, che per la sua limitazione non può ricevere delle relazioni personali a lei intrinseche e in lei sussistenti; non è atta a comunicarsi in tal forma e a riflettersi sopra sè medesima. Ma mi asterrò dall' aggiungere a questo cenno una dimostrazione che in un ragionamento difficile m' involgerebbe e menerei troppo a lungo il paziente mio leggitore (1). Nome proprio di Dio è quello di vita , la sua essenza è vita. Non è vera vita ove non è sentimento. Il sentimento adunque in Dio è essenza divina. Il Padre è l' essenza divina, un sentimento, un IO che conosce sè stesso. Questa essenza, in quanto è conoscente è sapiente , e perciò la sapienza conviene all' essenza divina, e non alle persone, perchè è comune a tutte e tre. Ma l' essenza, in quanto è cognita, in quanto è affermata, essa è l' oggetto di sè, conoscente sè stessa. Ora questo oggetto che non è la sapienza, ma l' oggetto della sapienza, è in un modo diverso interamente da quello che sono gli oggetti della mente nostra. Gli oggetti della mente nostra sono forme accidentali di essa mente, i quali, come oggetti, a noi non appartengono, fossimo anche noi stessi, perocchè noi come oggetti della nostra mente non abbiamo alcuna sussistenza propria, non alcun sentimento, non alcuna coscienza: noi non esistiamo che come soggetto che ha, ossia che vede degli oggetti. Tutt' altro è in Dio. L' essenza divina, come oggetto di sè, ha un sentimento che la fa sussistere senza cessare di essere oggetto, ella è un IO7OGGETTO. Questa sussistenza, questa essenza nella relazione di oggetto è il VERBO, e in opposizione a questo oggetto, l' essenza, in quanto è conoscente, è il PADRE. Così non è l' essenza sola, che ha generato il Figliolo per modum intellectus , come dicono le Scuole, ma è il Padre che ha generato, cioè l' essenza nella relazione di conoscente un oggetto, non qualunque, ma un oggetto sussistente. Se l' essenza conoscesse sè solamente, non esisterebbe ancora come Padre, perchè non sussisterebbe il Figliuolo: ma conoscendo sè come oggetto sussistente, avente la vita (1), il sentimento come oggetto, il Padre ha generato, e il Figliuolo per questa generazione esiste. L' essenza divina conoscente, sapiente, ama sè stessa, e in questo sta la santità. L' amore adunque e la santità è comune alle tre divine persone, in quanto appartiene all' essenza divina. Ma l' essenza divina generante (conoscente e pronunciante sè stessa come sussistente, come oggetto) è una e la medesima coll' essenza divina generata (oggetto della conoscenza, vitalmente sussistente). Ora questa essenza divina, una, generante e generata, ama sè stessa e, in quanto ama sè stessa, è carità e santità. Ma ella stessa come amabile, come amata, come termine dell' amore, sussiste. Nel che ci ha questa differenza fra l' amore che abbiamo noi di noi stessi, e l' amore che ha di sè il Padre e il Figliuolo. Noi sussistiamo come amanti; ma, come amabili e amati, non siamo più che una forma intellettiva accidentale, non siamo che un termine dell' amore, non esistente in sè stesso, ma solo nell' amore dell' amante. All' opposto in Dio l' essenza divina, come amabile e amata, sussiste (2), ella ha un sentimento, è un IO come amato. Questa essenza intesa e sussistente come amata, è lo SPIRITO SANTO. L' essenza amata è la stessa essenza intesa e pronunciata, come pure è la stessa essenza conoscente. Ma questa unica essenza sussiste come conoscente, conosciuta, e amata. E sussistendo in queste tre relazioni, in questi tre diretti sentimenti, essa acquista le proprietà di generante, generata, e spirante e spirata: essa è Dio insomma, Padre, Figliuolo e Spirito Santo (3). Il Padre adunque non è solamente la Potenza , ma la potenza viva, sussistente, generante, per via d' intelletto, il Figliuolo. Il Figliuolo non è adunque, semplicemente la Sapienza ma è l' oggetto vivo sussistente: il termine della sapienza del Padre (1). Lo Spirito Santo non è semplicemente la Carità , ma bensì il termine, vivo, sussistente della carità del Padre e del Figliuolo. Queste tre relazioni vive, sussistenti, sono tre persone, perchè ciascuna è « una sostanza intelligente IN QUANTO (questa espressione esprime la relazione costituitiva della persona) contiene un principio attivo, indipendente (cioè supremo) e incomunicabile« (2). » Ciascuna è suprema e indipendente, perchè tutte e tre sono perfettamente eguali, perchè sono non una sostanza diversa, ma la sostanza medesima numericamente una, e quindi non v' è maggiore o minore in esse, signore e servo, fine e mezzo; ma ciascuna è egualmente massima, egualmente dominante e operante, egualmente fine unico di tutte le cose. E con ciò si chiarisce la dottrina di quelle qualità che i teologi chiamano appropriate , e non proprie , delle divine persone. Perocchè si attribuisce, in ragion di esempio, al Padre la potenza e tuttavia egli solo non è potenza; si attribuisce al Figliuolo la sapienza , e tuttavia egli solo non è sapienza; s' attribuisce allo Spirito Santo la bontà , e tuttavia egli solo non è bontà: ma tanto il Padre, quanto il Figliuolo, quanto lo Spirito Santo è potenza, è sapienza, è bontà. La ragione dell' appropriarsi alle singole persone ciò che non è proprio, è perchè questi appropriati, sebbene non sieno le persone, ma anzi appartengano all' essenza, tuttavia si concepiscono da noi come fossero la via, per la quale le persone si costituiscono, e, nel nostro modo di veder le cose, troviamo una somiglianza fra la potenza e l' essere il Padre principio fontale della Triade, fra la sapienza e l' essere il Figliuolo una parola interiore del Padre, fra la bontà e l' essere lo Spirito Santo l' amore del Padre e del Figlio: e non ci avviene di riflettere molto che ciò che formano le persone, non sono la potenza, la sapienza, e la bontà, ma le relazioni sussistenti in queste tre cose come nella essenza divina. Di che si può conchiudere che la traccia della Santissima Trinità, che risplende nell' essere creato, non consiste già nel vedere nell' universo cosa appartenente a ciò che è proprio delle singole persone, ma bensì negli appropriati , i quali generi di cose si riducono come in loro fonte nelle proprietà della Trinità augustissima, dopo che la rivelazione ce le ha proposte a credere. Dalla definizione che abbiamo data dell' operazione deiforme apparisce la differenza che passa fra un' operazione semplicemente divina e un' operazione, oltre divina, anche deiforme . Abbiamo detto che operazione divina è ogni operazione, che abbia per principio e causa Dio; ma che un' operazione è deiforme, quando non solo Dio è il principio e la causa di quella operazione, ma è anche il termine, e, per così dire, l' effetto (1). Quindi la creazione è bensì una operazione divina, ma non è punto una operazione deiforme (2): perchè l' effetto, cioè le creature, non sono Dio, nè Dio è formalmente unito alle creature nell' ordine naturale. L' operazione della grazia all' incontro abbiamo detto essere non pur divina, ma ben anche deiforme , perchè con essa Dio si congiunge formalmente all' uomo (3): e quindi l' operazione deiforme appartiene all' ordine soprannaturale. La sostanza divina si unisce formalmente coll' uomo giusto. Ma la sostanza divina sussiste non in altro che in tre persone indivisibili, ciascuna delle quali è la sostanza stessa divina con una relazione, che la costituisce in persona. Dunque anche le tre persone dell' augustissima Trinità si uniscono formalmente all' uomo giusto. Ora se questa operazione della Trinità nell' uomo è tale, che l' uomo ne abbia un trino sentimento deiforme, rispondente alla Trinità delle persone; questa operazione si può acconciamente chiamare triniforme . Dall' essere dunque la santa Trinità termine della operazione della grazia e forma dell' anima santa, ci parve poter acconciamente chiamare questa operazione non solo deiforme, ma anco triniforme. Già ho detto che l' operazione deiforme si conosce essere nell' uomo dal sentimento ineffabile che produce (1), sentimento ove si sente Dio: dottrina questa della tradizione cristiana. I Padri della chiesa, dietro le divine Scritture, ci dicono lo stesso della operazione triniforme. E` una manifestazione interiore, un sentimento della santissima Trinità in noi quella che ci fa sperimentare e percepire appunto, sebbene imperfettamente in questa vita, la Triade augustissima. Mi restringerò al testimonio di S. Agostino, in tanta abbondanza di documenti. Egli parla così: [...OMISSIS...] . Ma perchè si veda meglio, come si conosca che Dio nell' uomo santo esercita una trina7deiforme operazione, conviene por mente alle cose seguenti. Se un divino sentimento, un sentimento onde sentiamo operare in noi qualche cosa d' ineffabile, di supremo, d' infinito, è quello che comincia a farci percepire Iddio; converrà che anche questo sentimento sia uno nella sua essenza, ma trino ne' suoi modi. Tentiamo adunque l' analisi di quel sentimento al tutto ineffabile e che è ignoto all' uomo animale, il quale ci rivela Iddio. Abbiamo detto che la natura, l' essenza di questo sentimento, che sorte da Dio in quanto è oggetto del nostro spirito, è di farci sentire una cotale forza, indistinta però, ma che tutte le forze e che tutte le cose racchiude, a cui non manca niente, che ci riempie perfettamente, ci sazia e perfettamente accontenta, che insomma con esso noi sentiamo e talora siamo consapevoli di percepire non una o altra parte dell' essere o del bene, ma sì TUTTO l' ESSERE, TUTTO IL BENE. Ora questo sentimento del TUTTO ha tre forme o modi. Il primo modo è di sentire una potenza o forza che opera in noi, invisibile, ma irrepugnabile, somma, intima nella nostra personalità; sentesi la presenza in noi di tal cosa che ci invade e domina sostanzialmente; e si sente in questa affezione tanto gran cosa che non è possibile neppure concepire niente che a lei sia opposto, perchè ella è come creatrice, cioè ha un vigore precedente alle altre cose, che di quel precedente vigore solo in qualche modo partecipano. Nella grandezza di questa forza si sente il tutto : e questo modo di sentire è il fonte del timore di Dio. Il secondo modo del sentimento del TUTTO è mediante una notizia di Dio, un' idea, una concezione, sebben negativa, nel che sta la fede. In questa notizia e pensiero di Dio noi veggiamo tanta bellezza, che l' intelletto nostro n' è rapito e vinto: sentiamo che è superiore a tutto quell' idea, che è insieme sostanza, cibo dell' anima che la sazia, la compisce a segno, che non le resta che desiderare se non il più e più profondarsi in quel pensiero, il più e più vagheggiare quella notizia, il venirne pienamente in possesso, alla qual solo l' uomo si chiama trabocchevolmente felice. Il terzo modo del sentimento del TUTTO è quando da quella notizia si diffonde e spande largamente in noi una luce che trae a sè irresistibilmente colla sua bellezza ineffabile la volontà e l' amor nostro, e ci prende allora tale un amore che è qualche cosa di pieno, di sostanziale, una manna che ci pasce, un vino che ci letifica: nutrimento e delizia incomparabile dell' anima ebbra e affogata come in pelago di amore, ove siffattamente riposa e quieta ogni suo desiderio, che sente non restargli altro a bramar e tutto possedere nel solo amore. Sentimento adunque di una forza e di una forza onnipossente che opera in noi: sentimento di una verità , ma di una verità sussistente che brilla vivamente nel nostro intendimento: sentimento finalmente di un amore che si diffonde e cattiva colla dolcezza di un gaudio ineffabile la nostra volontà: queste sono le tre forme o modi, in cui si appalesa in noi il sentimento soprannaturale e deifico, di cui parliamo. E si osservi bene la natura di questo triplice sentimento. Non vi è, si può dire, sentimento umano (1) che non sia trino , perciocchè in ogni umano sentimento si può distinguer sempre e la forza che l' uomo sperimenta ricevendo la notizia dell' oggetto del sentimento, e la notizia stessa, e l' affetto che esce da questa notizia. Ma questa trinità di ogni sentimento non è nulla più che quel carattere di trina forma, di cui abbiamo già detto essere suggellato e stampato l' universo e ogni cosa in esso; il qual carattere non è punto un vestigio adeguato della divina Trinità, ma solo un cotale adombramento e sparuta traccia di lei. Perocchè la percezione o idea dell' oggetto di questi sentimenti umani è finalmente la sola cosa che realmente tocchi l' anima, e l' amore, che ne proviene non è che una conseguenza di quell' oggetto e non ha nulla di sè, e se voi rimovete un solo di questi tre elementi, il sentimento stesso svanisce. All' incontro nel sentimento soprannaturale l' anima percepisce tre volte la stessa cosa, cioè tanto nel sentimento della forza, come nel sentimento della notizia, come nel sentimento dell' amore, acquista sempre una cotale persuasione che in ciò che percepisce ci abbia il TUTTO, e che ivi nulla manchi dove ha il suo sentimento: perocchè non le è possibile immaginare nè cosa maggiore, nè cosa che non sia nulla verso a ciò cui ella sperimenta. Indi avviene che tanto le divine Scritture, come i Santi uomini che hanno descritti questi fatti soprannaturali, di cui fu consapevole il loro spirito, parlando separatamente ora di uno e ora di un altro di questi tre modi del sentimento, usassero di ciascuno le stesse espressioni, dicessero di tutto possedere e tutto comprendersi in quel sentimento e nulla mancarci. E pure interamente diverso sembra il sentimento di una potenza e quello di una verità, e [quello] di un amore: ma quando queste cose vanno all' infinito, si compenetrano, per così dire, fra loro e in ciascuna di esse è ogni cosa. In ragione d' esempio, quando toglie la divina Scrittura a far l' elogio della sapienza , tutto dà a lei, nè rifinisce di enumerare i beni che in sè contiene, perchè tutti li contiene; ed è detta ella sola atta a far l' uomo beato: [...OMISSIS...] . Medesimamente nel nuovo Testamento Gesù Cristo nella cognizione pose la vita eterna, il che è dire ogni bene: tanto è il prezzo dato alla cognizione da Cristo! Egli disse: [...OMISSIS...] . Dunque le Scritture, quando parlano di sapienza , di cognizione di Dio , mettono in quest' unica cosa tutti i beni; nè sembra che sia punto nè poco necessario altro all' uomo. Ma quale maraviglia di ciò, se è detto altresì nelle Scritture che Dio è VERITA`; se ha detto lo stesso Verbo divino: [...OMISSIS...] . La sapienza e la cognizione appartengono all' intendimento: l' amore appartiene al cuore dell' uomo: sono certamente cose differenti, per quanto l' una possa nascere dall' altra. E pure le divine Scritture parlano in certi luoghi dell' amore, dell' unico amor di Dio, ed è in questo che affermano contenersi tutte le cose, avere un prezzo infinito, e in questo solo l' uomo bearsi, nè di altro avere uopo. Si legge che se l' uomo dovesse dare tutta la sostanza di casa sua per l' amore, dispregerebbe quella sostanza per l' amore: [...OMISSIS...] . Ed è a considerarsi che si parla dell' amore, senza aggiungervi nulla di più, perchè l' anima posseduta dall' amore ed ebbra in lui già perde quasi fino la specie dell' oggetto amato, o non l' avverte più, ma nuota in una affezione amorosa, semplicissima, e non sente altra cosa ormai che amore: l' intelletto le è come per niente, e l' amore le è tutto, perchè tutto le si trasforma in amore, quasi in una sostanza nuova che è amore; di che il chiamare che fa il Diletto non più con altro titolo che con quello di amor suo , mentre non ama oggimai più altra cosa, ma l' amore stesso. Ma questo amore essenziale, questa trasformazione in amore dell' oggetto amato, si può anche mentire: e indi fu l' idolatria dell' amore, indi le personificazioni dell' amore ne' poeti e negli amanti terreni; personificazioni che hanno l' esagerazione solita che fa sempre l' uomo degli affetti suoi, ma che addita un principio profondo rivelato dalla coscienza, un principio che ha una verità in Dio, nell' amore divino. Parlando adunque del solo amor divino, dove solo veramente avviene il fatto che accenno, di sentire tutto [unificato], per così dire, tutto sussistente nel solo amore, non è maraviglia se alcuni rispettabili autori, come Giovanni Gersone, giungessero fino a dire che si dava amore senza cognizione (1): al che nondimeno il più de' Teologi si opposero, come contrario all' amore razionale e umano. Ma si può fare una conciliazione di queste opinioni, acconciamente spiegate che sieno. Perocchè è da considerarsi che, rimanendo il solo amore nell' anima e smarrendosi la notizia precedente di Dio (il quale smarrimento non è altro che un non rifletterci più, un non porvi più attenzione), non è per questo che l' uomo ami senza cognizione, perchè l' amore stesso gli è cognizione, anzi cognizione vivissima e sperimentale (2); perchè in quell' amore è tutto, e quindi anche luce, fulgentissima luce, perchè è, a dirlo nuovamente, la percezione stessa di Dio, fatta sotto la forma di amore (3). E qual meraviglia di ciò, se la Scrittura dice espressamente che Dio è CARITA`? [...OMISSIS...] Non è tutto in questa carità senza bisogno di altro? Indi è che nelle Scritture si parla talora dell' amore, senza aggiungere alcuna determinazione di oggetto, quasi l' essenza stessa dell' amore a tutto sopperisse. Cristo disse della Maddalena « Le si rimettono molti peccati, perchè ha amato molto« (5) »: non disse perchè ha amato molto Iddio, o me, ma semplicemente, perchè ha amato giacchè vi ha un amore che è essenzialmente amore di Dio, nel quale amore si avverano appunto quelle parole di S. Fulgenzio: « Che si ama Iddio con Dio, perchè coll' amore si ama l' amore, che è Dio« (6) ». E in questo senso è vero che un tale amore basta a sè stesso, senza bisogno della precedente notizia dell' oggetto amato, che viene da lui come abbandonata per ritirarsi in sè solo; giacchè trova una nuova notizia e migliore in sè stesso, dove niente hassi a desiderare e tutto è luce. A ciò forse si riferiscono quelle parole di Cristo: « Lo Spirito spira ove vuole: e tu odi la sua voce, e non sai onde venga o dove vada« (1) »: il che parmi esprimere appunto quel non attendersi più quella notizia che prima cagionò l' amore, e il tutto concentrarsi e saziarsi di sè medesimo. Or, se talora nella cognizione dell' intelletto si sente il tutto, e lo si sente pure nell' affezione della volontà; gli è evidente che si sente la stessa cosa in due modi, in due forme; vi si sente lo stesso Dio, ma per guisa che il primo affacciarsi di questo sentimento è cosa interamente diversa, ma l' interiore di lui è il medesimo, perchè è il ricettacolo di ogni bene. Nè può mancare la sussistenza , ove il tutto si sente. Il perchè è a dirsi che, in que' due modi sentendosi Iddio, sentesi veramente nell' un modo la persona del Verbo, e nell' altro quella dello Spirito Santo. Quindi Gesù Cristo disse così di sè e del Padre: [...OMISSIS...] . Dello Spirito Santo parimente dice nello stesso capo di S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Egli è anzi osservazione costante che nelle divine Scritture le Persone divine attribuiscono a sè stesse l' inabitare nella mente dell' uomo, e che non è accomunata questa prerogativa mai a nessun altro essere: di che è venuto l' adagio teologico che « sola Trinitas menti illabitur ». Dello stesso sentimento è tutta la cristiana tradizione. Recherò solo uno o l' altro passo de' Padri per non esser infinito, dove parlano della inabitazione delle tre divine persone nell' uomo. S. Cirillo d' Alessandria dice così: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure dice: [...OMISSIS...] . S. Anastasio: [...OMISSIS...] . Finalmente S. Basilio dice delle divine persone l' una tirar seco l' altra, [...OMISSIS...] . Iddio può essere partecipato dall' uomo in diversi gradi, non mai pienamente, perchè egli è incomprensibile. Neppure i Santi che più prendono della divina sostanza, giungono a tutta in sè riceverla e concepirla, travalicando essa la capacità di ogni creatura. Sebbene l' uomo in cielo per la gloria e in terra per la grazia si faccia partecipe della divina sostanza in diversi gradi, tuttavia non è per questo Iddio divisibile: tutta la diversità della misura, in che l' uomo prende di Dio e ne fruisce, ha origine dalla parte dell' uomo, dall' essere questo più o meno capace di partecipare della divinità. Nondimeno l' uomo che partecipa di Dio deve partecipare di tutto Iddio, perchè altrimenti non si potrebbe dire che fosse Dio quello di che partecipa; ma di tutto Dio può partecipare in un modo più e men pieno. Non è mio intendimento di stendermi qui a dichiarare questa verità, già insegnata comunemente dai teologi. Tuttavia ne dirò una parola, perchè non sembri una cotale contraddizione questa di percepire tutto Dio, ma non percepirlo in modo pieno. Non è difficile intendere che nulla contraddizione v' ha in ciò, allorchè si consideri semplicemente che Iddio non è che l' essere, l' essere necessario, tutto l' essere. Ora è facile di vedere che il concetto del TUTTO può essere concepito superficialmente, o anche più o meno intensamente nella nostra mente. Il concetto del tutto è semplicissimo e ognuno lo intende a prima giunta. A malgrado però che s' intenda questo concetto con tanta facilità, io posso mettere più attenzione in questo concetto e colla mia forza pensante posso meglio internarmi in esso e attingere una vista più chiara di lui. E nondimeno è sempre il tutto che io ho contemplato, tanto contemplandolo io superficialmente, come contemplandolo intensamente. Ciò che ho detto dei gradi della mia cognizione e della mia forza pensante, dicasi di quella potenza onde l' uomo percepisce Iddio: e si vedrà che secondo la virtù di questa potenza, o secondo che Iddio farà di essere da questa potenza più o men penetrato, l' uomo ne parteciperà altresì più o meno. Di qui è manifesto che: 1 Iddio non si può dire parteciparsi dall' uomo, se l' uomo non sente tutto l' essere sussistente (1); 2 che questa partecipazione del tutto può aver diversi gradi. Nessuna maraviglia adunque che la natura divina si percepisca dall' uomo, ma non così intensamente, che si distinguano in essa le tre divine persone. A poter percepire le tre divine persone si richiede di percepire la divina natura in un certo grado eccellente e più intenso. Mi spiego tosto. Quando è che noi possiamo dire di percepire Iddio? di sofferire quella operazione deiforme di cui parliamo? Allora quando noi sentiamo in noi un sentimento tutto di suo genere, diverso da ogni sentimento che venir possa in noi eccitato dalle nature finite, un cotal sentimento sublime, infinito, ove sentiamo tal cosa che il tutto essenzialmente comprende: il sentimento, come dicevo, del TUTTO. Quando all' incontro è che noi possiamo dire di percepire le persone divine? Di sofferire quella operazione che chiamiamo triniforme ? Allora quando questo sentimento del tutto si fa triplice in noi: allora quando in noi sentiamo tre cose, tre sussistenze, e in ciascuna sentiamo egualmente che c' è il tutto. Ora che cosa vi ha di ripugnante nel concepire che noi abbiamo bensì il sentimento di una tal cosa, dove essere il tutto indubitatamente sentiamo, e tuttavia non abbiamo questo sentimento medesimo in tre modi o forme diverse? Nulla vi ha in ciò di ripugnante; e non osta il sapere che Dio ha tre sussistenze, perchè coll' averne un sentimento solo, la limitazione della partecipazione divina è tutta da parte nostra, ella si fa in noi e non in Dio: cioè è una limitazione nostra il non partecipare della distinzione delle persone e solo avere di tutte un sentimento confuso della divina sostanza. La possibilità, la nessuna assurdità che in questa supposizione si trova, si farà più manifesta allorquando si considererà che, sebbene in sè stesse le persone non sono realmente distinte dalla divina sostanza, tuttavia noi colla nostra mente, pel limitato nostro modo di concepire, possiamo pensare la natura di Dio, e non le persone. Di che possiamo prendere facile esperimento in noi stessi: e prova convincentissima son tutti quelli che ammettono il monoteismo , e tuttavia rifiutano la Trinità , come i Maomettani e gli Ebrei. E perchè ciò? Non per altro se non per una troppo limitata e tenue cognizione che abbiamo della divina natura: perciocchè se noi perfettamente conoscessimo questa natura, non potrebbe stare che non conoscessimo parimente le tre persone in che essa natura sussiste. Ed ora, che ripugnanza può averci mai che questa divisione delle persone dalla natura, che avviene nella nostra mente per la sua limitazione e perchè imperfettamente conosce quella natura, avvenga altresì nel sentimento nostro appunto per la ragione stessa della limitazione del nostro sentimento, pel modo incompleto e non abbastanza pieno, pel quale noi sentiamo la natura divina comunicarsi a noi nell' ordine della grazia? E anzi nè pur si può dire che l' operazione sia triniforme per sentirsi in essa non pure la natura divina, ma quegli attributi di lei che alle singole persone si sogliono appropriare. E veramente una cotale trinità ha essenzialmente ogni puro sentimento intellettivo: perchè in ogni sentimento intellettivo e sentesi una forza che ci fa passivi, ed una specie ed una bellezza ed amabilità che nella specie rifulge. Il che tutto si avvera in ogni sentimento soprannaturale dell' essere assoluto . Noi siamo consci in esso di essere passivi d' una potenza infinita, di godere di una sapienza che è degna di ogni amore . Ma il sentir questo non è ancora il sentire le persone divine in noi: perchè la potenza, la sapienza, e l' amore sono attributi comuni a tutte e tre egualmente le persone, e non si appropriano alle singole persone che per una cotale somiglianza che hanno col modo del loro procedere, siccome detto è innanzi, e non sono quelle loro proprietà, dalle quali vengono costituite. Conviene adunque perchè sentiamo in noi una operazione soprannaturale che dir veramente si possa triniforme , che percepiamo le proprietà delle persone, che percepiamo un essere infinito agente in noi con una forza infinita e sussistente, una specie prima o conoscibilità sussistente, e un amore o amabilità di quella specie prima pure sussistente: nel qual caso solo percepiremo tre sussistenze e in ciascuna il medesimo tutto, il tutto in tre modi, quasi per tre vie, ci inabisseremo nel medesimo infinito e assoluto essere. La dispensazione della divina provvidenza nell' opera dell' innalzare l' uomo di grado in grado alla sua perfezione e congiungerlo con Dio, tiene un modo tutto acconcio all' indole dell' umana natura. E però come la natura umana è composta di corpo e di spirito, e lo spirito riceve la materia delle sue cognizioni e l' occasione delle sue operazioni dai sensi; così anche nell' ordine sopra natura la divina Sapienza ha così provveduto, e di mano in mano che gli uomini riceverono l' esterna rivelazione, ebbero anche nell' interiore anima un lume corrispondente di grazia, mediante il quale percepirono spiritualmente quelle invisibili cose che loro venivano dalla rivelazione narrate. Questo si accorda e torna a un medesimo con quello che abbiamo per innanzi dimostrato, cioè che la fede è il fondamento del lume interiore (1), e la fede si appoggia e insiste su quelle idee negative della divinità, che la divina rivelazione ci somministra: il che è ciò che insegnava l' Apostolo, dicendo, che la fede viene dall' udito, cioè dalla esterna rivelazione che per l' udito si riceve (2). Ora la rivelazione delle divine verità fu data agli uomini per una serie successiva di secoli: non tutta svolta nelle sue parti a principio, ma a principio solo quasi ravviluppata come germe, e di mano in mano disviluppata. E` così che ci descrive l' Apostolo la mirabile dispensazione delle divine verità comunicate agli uomini, non tutte in un tratto, ma di tempo in tempo, secondo il bisogno e la capacità del genere umano a riceverle; fino che venne la pienezza de' tempi, la comparsa del Messia, di quell' Unigenito di Dio Padre che doveva rivelare ogni verità, completare ogni rivelazione, e con essa insieme rendere pieno e perfetto altresì quel lume interiore dell' anima, col quale solo la divina sostanza si attinge e percepisce. Ecco com' egli descrive a' suoi nazionali quest' ordine della divina sapienza: [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si vede che tutte le antiche profezie e rivelazioni non erano che preparazioni alla venuta del Figliuolo, pel quale i secoli furono fatti e al suo servizio adattati (aptavit); e quindi quelle antiche rivelazioni, date pel ministerio degli Angeli, non erano che un crepuscolo del sole di giustizia che doveva apparire. E veramente la comunicazione della luce spirituale che a Dio piacque di fare all' umanità di mano in mano, nelle divine Scritture è rassomigliata al nascere e crescere di un giorno, che prima è l' alba, e poi s' arrosa e indora il cielo, e per gradi tutto si illumina fino che il sole stesso sorge e giunge rapidamente al meriggio: similitudine acconcissima a rappresentare non meno l' incremento successivo delle verità esteriormente rivelate, che quel della luce corrispondente, colla quale le anime partecipano delle cose divine (2). Osservando i gradi che distinguer si possono nella cognizione di Dio, si vede che essa comincia colla unità di Dio e cogli attributi che appartengono alla divina natura; e che fino che la cognizione della divinità è imperfetta, non eccede questi confini, nè si estende oltre al conoscere un Dio uno. Ma perfezionandosi la cognizione della divinità, è necessario che entri in essa altresì la cognizione delle persone, che diviene il compimento di quella cognizione; giacchè quella natura altissima non sussiste, se non appunto in tre distinte persone. Questo progresso della cognizione intorno a Dio viene eccellentemente descritto da S. Ilario, nel suo primo libro della Trinità, raccontando per quali passi egli pervenne alla fede cattolica. Dagli errori de' filosofi e del volgo pagano, col lume della ragione, passò all' unità di Dio: indi s' imbattè nei libri di Mosè, e da quelli attinse la cognizione dell' essenza divina consistente nell' essere, della sua eternità, infinità, incomprensibilità e inenarrabil bellezza: conosciuti i quali attributi, gli nacque in cuore un vivo desiderio di conoscere più innanzi Iddio, e una speranza della immortalità, e di poter godere per sempre della contemplazione di un tanto Essere: e allora fu che la divina Provvidenza gli mise fra le mani il Vangelo di S. Giovanni, dove lesse la generazione del Verbo, e per questa tutto il misterio della Santa Trinità gli fu disvelato. [...OMISSIS...] Quindi essendo il cristianesimo il compimento e perfezionamento della divina rivelazione, fu dato in esso tutto quel più che si può conoscere di Dio, cioè il mistero della Trinità delle Persone: dottrina propria e fondamentale dell' Evangelio. [...OMISSIS...] Perciò i Cristiani sono battezzati nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Tanto alto non ascese la dottrina mosaica, la quale non dava di Dio una cognizione ancora così compiuta, come l' Evangelio. Il mondo tutto cadeva nella idolatria. Iddio scelse il popolo ebraico, acciocchè si conservasse sulla terra la cognizione dell' unico vero Dio. Quindi l' intendimento della legge mosaica è primieramente quello di conservare intatto il popolo ebreo dalle idolatriche abbominazioni e di mantenere una sana dottrina intorno alla divinità (2). La base adunque del Giudaismo è propriamente l' unità di Dio, la dottrina della sua natura e de' suoi attributi (3). Nè per questo egli è men vero che in tutto l' antico Testamento vi abbiano delle traccie manifestissime della Trinità delle divine persone. Ma del più di queste traccie si può dire quello che detto abbiamo di quei vestigi della Trinità che si ravvisano sparsi nell' universo: i quali vestigi, sebbene sieno per sè manifesti a chi conosce già l' alto mistero, sono chiusi a chi nol conosce, poichè non insegnano il mistero direttamente, ma solo lo suppongono come una spiegazione di fatti che, senza lui, rimarrebbero inesplicabili. Così, a ragione di esempio, esaminando l' essere , si trova, che egli non puossi concepire se non trino, cioè fornito di tre modi, il reale , l' ideale , e il morale . Or questa è tal notizia dell' essere, che chi avesse una forza bastevole di ragionare, facilmente vedrebbe que' tre modi potersi ridurre se non in tre principii originari sussistenti in una sola sostanza divina. Ma chi ha tanta forza di mente che basti a fare questo ragionamento? Nessun uomo, il quale non sappia prima per fede il mistero della Trinità, come viene proposto dal cattolico insegnamento. Medesimamente quando Mosè, narrando la creazione, si esprime così: « Disse Iddio: sia fatta la luce, e la luce fu fatta« »; egli viene con ciò a dire che Iddio fece la luce e le cose tutte colla sua parola : ma chi può salire tant' alto fino a pensare che questa parola sia una persona divina? (2) Solo colui che ha ricevuto già la rivelazione e la fede, che la parola di Dio sussiste, che essa è una persona. Nè per questo è men vero, che non vi è altra via da intendere in un modo ragionevole quelle parole di Mosè, dove comparisce una parola di Dio creante, fuor di quello di supporre che questa parola sia una cosa, una sussistenza . Ma qual degli uomini non si sarebbe piuttosto appagato di dichiararsi inetto a spiegare la verità letterale della mosaica narrazione, ovvero non avrebbe tentato di dare a Mosè una spiegazione qualunque, deviando dalla forza della parola, anzichè poter giungere a immaginare la possibilità di una parola sussistente, di cui non ha mai avuto esempio alcuno sott' occhio nè trovasi un sì singolar fatto nell' universo? Nei libri mosaici adunque, e negli altri dell' antico Testamento, la Trinità vi è supposta per tutto (3), ad essa continuamente si allude, si menzionano gli appropriati delle persone; ma in nessun luogo si dànno chiaramente le proprietà personali, in nessun luogo vi è direttamente insegnata e [posta] come in base di tutto quel sistema religioso che all' Ebraico popolo fu assegnato. Il perchè giudiziosamente Dionigio Petavio, dopo aver recati tutti i migliori argomenti che dall' antico Patto si possono trarre in prova della Trinità, conchiude che quei passi hanno più forza di persuadere la Trinità ai Cristiani, che di convincerne gli Ebrei; perocchè i primi hanno il lume della fede che li scorge a intendere la forza di quei luoghi, il qual lume manca a questi secondi (1). Essendo adunque il fondamento dell' ebraica rivelazione l' unità della natura divina, e il fondamento della rivelazione evangelica la Trinità delle divine persone, nella quale la cognizione che Dio diede agli uomini fu completa e procedendo in bell' accordo l' interna operazione della grazia coll' esterna rivelazione ne' suoi progressi, essendo questa che opera e si avviva nell' uomo per quella; apparisce manifesto che la grazia, la quale santificò gli uomini avanti Cristo, si può acconciamente chiamare deiforme , e riserbare alla grazia del Redentore il titolo di una grazia deitriniforme . In quell' antico tempo, per quella grazia sua propria, si manifestava nell' uomo una potenza divina che rendeva superiore alle cose tutte la legge di Dio nel suo cuore e un sentimento di aspettazione, una speranza che prometteva il possesso del TUTTO, e ne dava qualche caparra. Conciossiachè non tutti gli Ebrei servirono per un basso timore; ma ebbe luogo in alcuni anche un timore ragionevole e un amore, i quali furono resi liberi per la grazia, come dice S. Agostino (2): grazia che ottennero per aver bene usato del primo aiuto dato loro insieme colla legge, umiliandosi, confessandosi incapaci di adempirla e dimandando a Dio ciò che essi non potevano. E che questa grazia dovesse esser deiforme, cioè dovesse dare all' animo di que' santi un sentimento di Dio, da questi due capi si può rilevare, che quei santi operavano tutto in virtù della fede, come mostra S. Paolo (3), la quale è pure un sentimento di Dio; e che questo sentimento dava loro una fortezza superiore a tutte le cose della natura e a quello stesso della vita, e pienamente li soddisfaceva. Il quale effetto non può prodursi che mediante un cotal saggio che l' uomo piglia di quell' ESSERE che avendo tutto in sè è a tutto superiore, e non v' ha cosa che messa al suo confronto non invilisca. Or chi non dirà che un sentimento superiore a tutte le cose e veramente divino non movesse Abramo che sacrifica il proprio figliuolo, e non parlasse in cuore a Giobbe, allorchè egli diceva di Dio: «Anche se mi ucciderà, io spererò in lui? (1) ». Tuttavia questa fortezza degli antichi giusti che mostra in essi un elemento soprannaturale e infinito, non è tal cosa che esiga una comunicazione delle divine persone; ma, per quanto a me pare, un' operazione che lascia bensì nell' uomo un effetto che sentesi manifestamente non poter essere prodotto da nessuna cosa creata, ma che sorte solo dalla fede di Dio, non dalla fede delle tre distinte persone sussistenti nella divinità. La fede all' incontro delle tre persone è il foco onde raggia, per così dire, la grazia del nuovo Testamento, la quale porta quel triplice effetto e si manifesta in quel triplice modo che più sopra ho descritto (2). Quando il Verbo si manifestò agli uomini fatto carne e costituito dal suo eterno Padre Capo e Redentore dell' uman genere, egli dapprima mostrò sè medesimo; di poi fece conoscere il Padre; e lo Spirito fu, per così dire, l' ultimo a essere chiaramente, distintamente e universalmente conosciuto per Dio dagli uomini (3). Gesù Cristo attribuisce a sè l' aver manifestato il nome del Padre suo agli uomini: « Ho manifestato, dice egli, il nome tuo agli uomini che hai dato a me dal mondo« (1) ». E questa era la missione che aveva ricevuto Cristo d' istruire e salvare gli uomini: la quale missione egli prosegue a descriver così, seguitando a parlare coll' eterno Genitore: [...OMISSIS...] Cristo adunque era mandato dal Padre per istruire gli uomini e rivelare loro la dottrina della salute, e senza lui « quanti vennero, dice egli stesso, furono rubatori e ladroni, e le pecore non li hanno uditi« (3) ». Quindi partendo da Cristo la cognizione della salute, egli è come la luce, la quale mostra le altre cose, ma ella si presenta da sè, è visibile per sè stessa: [...OMISSIS...] . Finalmente egli si annunzia come il principio della divina rivelazione, chiamando sè stesso appunto: il principio parlante ; quasi direbbesi il principio della parola: « Principium, qui et loquor vobis (io. VIII) ». Essendo Cristo chiamato l' Angelo del gran consiglio, cioè il ministro, o il mezzo onde gli uomini sono illuminati e salvati; i Padri della Chiesa insegnano che era il Verbo quello, che, anche nell' antico Testamento, comunicava all' uomo le verità sante, la legge, le profezie (6). Ma il Verbo non faceva questo immediatamente da sè, si bene pel mezzo degli Angeli suoi: dal che S. Paolo, nella Lettera agli Ebrei, trae buon argomento di mostrare l' eccellenza della nuova legge sopra l' antica, vantaggiandosi quella da questa di tanto, di quanto Gesù Cristo è maggiore degli Angeli (1). Le figure poi e imagini, che gli Angeli componevano, e nelle quali rappresentavano sè stessi o il Verbo, non erano punto la sostanza divina, come dice S. Agostino, e ben lungi dal poterne dare una positiva idea (2). Nulladimeno assai acconciamente si attribuisce al Verbo ogni rivelazione, ed anche l' antica, e ciò per quella appropriazione che abbiamo spiegata più sopra (3), cioè perchè essendo egli la parola del Padre, il modo del suo procedere per via di parola intellettiva ha similitudine col rivelare , che è appunto un parlare di Dio agli uomini. E d' altro lato questo parlare di Dio agli uomini è una cotal traccia del Verbo che riesce inesplicabile fino che non si ha la cognizione del Verbo divino sussistente; a quel modo come inesplicabile rimane il lume della nostra ragione, e quel dire di Dio, col quale Mosè afferma essersi create le cose. Il perchè sebbene prima di aver ricevuta la cognizione della seconda persona della santissima Trinità, questa persona in quegli antichi modi di rivelazione non poteva pienamente conoscersi; tuttavia nel tempo dell' Evangelio, in cui abbiamo quella notizia e quella fede, noi conosciamo manifestamente, essere stato il Verbo quel principio che in ogni tempo, quasi però occultato dietro una parete, fece sentire agli uomini la sua voce e comunicò loro le verità della salute. Ciò che dico del principio della rivelazione antica, può dirsi anche delle cose stesse rivelate. Certo in questa rivelazione si conteneva tutto ciò che spettava al Messia e fino la sua divinità era patentemente stata indicata (4). Tuttavia questa era cosa così grande, così incredibile, era tanto fuori del pensare umano, che vi avesse in Dio una seconda persona e che questa s' incarnasse, che egli è da credere, il comune degli Ebrei avere avuta la fede della divinità del Messia e dell' esser egli la seconda persona della santissima Trinità, piuttosto implicitamente che esplicitamente. Essi credevano cioè implicitamente che il Cristo sarebbe stato Dio e il Verbo di Dio, in quanto che credevano che egli sarebbe stato il Redentore del mondo, che sarebbe stato tutto ciò che era necessario perchè fosse tale, tutto ciò che avrebbe voluto Dio che fosse: sebbene poteva voler Dio che fosse ciò che essi non potevano giungere da sè stessi a pensare, molto meno ad imaginare, come fu veramente, avendo così ordinato che il figliuolo di Abramo e di Davidde fosse ad un tempo il Figliuolo di Dio e Dio come Dio Padre. In tal modo erano salvati, come dice S. Agostino, anche gli antichi per la fede in Gesù Cristo (1), ma per una fede implicita, per la fede nel Verbo incarnato, non ancora manifesto, ma occulto: di che avveniva che il Verbo occulto si può dire fosse nell' antico tempo il principio della rivelazione, non meno che della salute degli uomini. In tal modo ancora ricevono un senso chiaro non pochi passi de' Padri che affermano, la cognizione del Verbo appartenere solo al tempo del Vangelo. In ragione d' esempio S. Cirillo Alessandrino dice così: [...OMISSIS...] . E in questo passo vedesi ad un tempo come la cognizione di Dio trino appartiene al Vangelo, e come di questa cognizione il principio è la cognizione del Verbo (4). Conosciuta la diversità della rivelazione antica e della rivelazione evangelica, si può anche conoscere la differenza fra la grazia evangelica e la grazia dell' antico tempo. Giacchè abbiamo stabilito che la grazia non è che una cotale energia che si aggiunge alle verità divine da noi credute: le quali verità in noi dall' essere solo speculative si fanno pratiche e ingenerano nell' uomo un sentimento potente, il quale è di natura deiforme, cioè fa sentire Iddio. Or abbiamo già veduto che la fede, primo atto della grazia, nell' antico Testamento era radicata nell' Unità di Dio, nel nuovo nella Trinità; e che quindi se in quel tempo l' operazione della grazia era un sentimento di Dio uno (deiforme), in questo è un sentimento di Dio uno e trino (deitriniforme). Ora la fede nella Trinità, base dell' Evangelio, comincia dalla cognizione e fede del Verbo divino; il perchè l' operazione della grazia nel nuovo Testamento consiste, in primo luogo, nella comunicazione del Verbo. Nelle divine Scritture ci è descritta questa comunicazione del Verbo colle anime, come una vera inabitazione della seconda divina Persona in noi (2). S. Paolo dice appunto, che Cristo abita per la fede in noi (3). E qual maggiore e più intima comunicazione di Cristo con noi di quella che descrive Cristo stesso, quando prima della sua passione pregò pe' suoi Apostoli e per quelli che avrebbero ricevuta la fede del Redentore mediante la parola di quelli? Egli disse così: [...OMISSIS...] . Non vi possono esser parole che più di queste valgano ad esprimere la comunicazione intima di Cristo co' suoi eletti, e quanto sia stretta, quanto immediata e veracemente formale. Paragona in queste parole Cristo, l' inabitazione sua negli eletti all' inabitazione sua nel celeste suo Padre: del che non si può dar maniera più efficace a esprimere l' unione massima delle possibili, giacchè Cristo come Dio è una cosa sostanzialmente col Padre, e come uomo è unito personalmente col Verbo che è una sostanza stessa col Padre, di cui ha perciò la visione beatifica, cioè la massima intuizione comprensiva del Padre. Egli da questa stessa unione di lui col Padre toglie il tipo, al quale debbono conformarsi gli eletti, nell' unione fra loro, unione che nel Verbo viene a compirsi sicchè sieno consumati nella unità più perfetta: vuole che dove è egli, sieno essi pure, nè solo ama esser egli in essi, ma essi altresì in lui, l' uno e gli altri internatisi scambievolmente: e vuol dare loro quella chiarezza che il Padre ha dato a lui avanti della costituzione del mondo, la qual non è diversa dalla stessa divina sostanza che è pur la sola cosa, che ha ricevuto dal Padre, e nella quale ogni cosa è racchiusa. Ora chi può intendere, senza sforzo e violenza fatta alle parole, quelle ineffabili parole di Cristo, e non riconoscere, che egli abita formalmente nelle anime de' suoi Santi, i quali perciò appunto sono chiamati altrettanti Cristi nelle Scritture? Io sarei infinito se volessi riferire i luoghi innumerevoli del Vangelo e le similitudini acconcissime della veste e delle membra, del capo e del corpo, e altre tali che si usano per esprimere quella ineffabile unione che fa Cristo co' giusti suoi, massime ove si parla del quasi mescolamento dei discepoli col Maestro che si fa nel pane eucaristico e nel vino, e misterioso e pur verissimo contemperamento. Ma non lascierò di rammentare quella del tralcio e della vite; e mi si dica se può trovarsi modo di esprimere con più efficacia l' unione al tutto sostanziale e formale di Cristo co' seguitatori suoi: [...OMISSIS...] . Qui si parla di un' unione di sostanza, per la quale due parti formano un tutto solo. Tale è il congiungimento della persona del Verbo incarnato cogli uomini eletti che il seguono: il compimento di quella grazia, di cui scrisse S. Giovanni, « che la legge è stata data per Mosè, e che la grazia e la verità è stata fatta per Gesù Cristo« (1). » E veramente anche nell' antico Testamento i Santi che ci vissero, parteciparono della grazia del Redentore, nel quale avevano la fede. Ma la loro grazia non conteneva la comunicazione in essi della persona stessa divina del Verbo, ma solo dei doni spirituali che venivano loro compartiti. Questo conseguita da ciò che abbiamo detto, che la loro fede nell' uomo Dio venturo era implicita, e perciò non avevano nel loro spirito quella cognizione del Verbo, nella quale nasce la comunicazione appunto del Verbo stesso agli uomini. Non vedevano il sole di giustizia, perchè non era ancor nato sull' orizzonte, ma ne vedevano i raggi che facevano il cielo albeggiante e lucente, più o meno, secondo i vari tempi, ne' quali vivevano. Non poteva quindi comunicarsi ad essi la stessa divina persona, perchè non nota, non manifesta; ma bensì far loro sentire la sua possente e salutifera operazione in essi. Cristo creava in essi un sentimento che era deiforme, perchè niente era a lui comparabile: e in questo sentimento era quell' alta idea della divinità che gli empiva di un santo timore, gli eccitava all' adorazione e nessuna cosa anteponevano a Dio, nessuna posponevano alla sua offesa. Ma se tutto questo era Dio che sentivano in esso, non era però il Verbo, la seconda Persona sussistente nel seno del Padre: perocchè per sentir questa, conviene sentire la luce della verità come una cosa piena e sussistente. I doni si dividono secondo le idee che servono loro di base. L' idea della grandezza divina, per esempio, e della perfezione della sua giustizia, diviene madre di un sentimento, perchè afforzata dalla grazia: e così ogni attributo della divinità è fonte di un qualche dono. Il rispetto che intendevano doversi a Dio, moveva nei Profeti quell' altissimo sdegno, quel zelo divoratore che li spingeva talora a far scendere il fuoco dal cielo che incenerisse i bestemmiatori, e a chiamare le belve feroci dalle foreste che li divorassero. Un tale spirito usciva da un sentimento altissimo, acceso nell' animo non immediatamente dal possesso della Sapienza incarnata, che ogni idea e ogni cognizione comprende, ma da un' idea parziale, da un attributo particolare di Dio, altamente conosciuto, la quale conoscenza era però un dono della stessa occulta sapienza. A quanto fu detto sin qui si moverà contro il sembrare che alcuni grandissimi Santi, che furono nell' antico tempo, dovessero aver ricevuta l' unione col Verbo divino. E veramente S. Giovanni ci dice, che Isaia vide la gloria di Cristo, e che parlò di lui quando disse: « Accieca il cuore di questo popolo, e aggrava i suoi orecchi e chiudi i suoi occhi« (1) »: la quale gloria di Cristo non pare dover poter essere se non la sua stessa divinità (2). Così pure Cristo del Patriarca Abramo: « Abramo, padre vostro, esultò per vedere il mio giorno : lo vide e ne giubilò« (3) »: nelle quali parole il vocabolo giorno equivale appunto a chiarezza e gloria, e viene parimente a significare quella divinità, della quale Cristo era chiaro, prima che fosse stato fatto il mondo, appresso il Padre suo (4). Ora ciò io punto non nego (5): solo affermo che questo fu favore straordinario conceduto a' quei pochi personaggi dell' antico tempo, per singolarissimo privilegio: come accadde nel nuovo Testamento, che taluno sia stato innalzato fino a vedere Cristo glorioso e le magnificenze dell' altra vita; il che veggiamo nelle Scritture essere stato conceduto solo per grazia grandissima a S. Stefano, all' Apostolo Paolo e notabilmente a S. Giovanni. Per altro se l' uno o l' altro degli antichi ebbero la percezione del Verbo, la differenza fra il congiungimento del Verbo co' cristiani e con quei Santi antichi è però questa: che quel congiungimento fu dato per via di eccezione e solo di passaggio; ma il congiungimento che si fa dei redenti col Verbo divino, mediante il battesimo e la fede e i sacramenti, è costituito stabilmente per una cotal legge, è permanente, non [solo] attuale, ma altresì abituale. Quindi è che Gesù Cristo a nulla è più inteso, quanto a far ben notare e osservare questa permanenza di lui ne' Santi suoi e de' Santi suoi in lui. Egli raccomanda di averla sommamente a cuore e di non dar cagione col peccato che s' interrompa giammai una così stabile unione, che viene rappresentata appunto in un connubio indissolubile dell' anima con Cristo, della chiesa con lui suo sposo. « PERMANETE in me, dice Cristo, e io in voi. Siccome un tralcio non può portar frutto da sè stesso, se non PERMANE nella vite; così nol potete nè pur voi, se non PERMANETE in me« (1) ». Dove il permanere , tante volte ripetuto, dimostra esser esso la parola caratteristica, colla quale Cristo vuol far notare la stabilità , da parte sua, di quella unione già, per così dire, connaturata fra lui e i suoi eletti, e saldata per legge ferma. E prosegue ancora ripetendo lo stesso vocabolo più e più volte: [...OMISSIS...] . E` dunque solenne questa parola di PERMANERE Cristo in noi e noi in Cristo, nel nuovo Testamento; ed è inaudita nell' antico: perchè questa permanente unione dell' uomo col Verbo di Dio è la ricchezza del nuovo tempo di grazia. Questa unione stabile o abituale, dice Cristo, non si ottiene che colla fede al Vangelo: « E voi non avete, diceva egli agli Ebrei, la parola del Padre in voi PERMANENTE, perchè voi non credete a questo che egli ha mandato« (3) ». E via più si conferma e salda questa unione col Sacramento del pane e del vino di Cristo: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, ed io lo risusciterò nell' ultimo giorno. - Chi mangia la mia carne e beve il sangue PERMANE in me e io in lui« (4) ». E finalmente Cristo dà appunto questa PERMANENZA in lui per nota da contraddistinguere i discepoli suoi: « Se PERMARRETE nel mio sermone, dice, sarete VERAMENTE miei discepoli« (5) ». Questa verità è inchiusa nelle stesse denominazioni date dalla Scrittura e tradizione cristiana alle persone del Figliuolo e dello Spirito: il primo de' quali si nomina parola, ragione, verbo ; e la parola appunto e la ragione è il mezzo onde si manifestano e rivelano le verità, e onde si apprendono: il secondo è appellato spirito della santità , o Spirito Santo , quasi aura che spira nelle anime i santi sentimenti e vi infonde la santità stessa. Del Verbo, principio della rivelazione, fu parlato (2): ora qualche cosa dello Spirito, a mostrare che esso è riguardato nella cristiana teologia come il principio della religione e propriamente della religione interiore, della santità. I Padri Greci dànno allo Spirito Santo, non già come un' appropriazione, ma come sua proprietà, la forza santificatrice (vis santificatrix, «e agiastike dynamis»). S. Basilio lo dice espressamente l' origine della santificazione ( «agiasmu genesin»); e ancora: viva sostanza, arbitra della santificazione (1). Nè vi ha dubbio che il santo Dottore parli di proprietà , e non di qualità appropriata , perchè espressamente si spiega e, fatta la distinzione delle cose proprie e delle appropriate, in quelle mette l' essere il divino Spirito una sostanza santificante. Ecco come egli ragiona nella lettera che scrisse al conte Terenzio, dopo distinta la sostanza dalla persona: [...OMISSIS...] . Cinque secoli dopo, S. Giovanni Damasceno chiamava pure lo Spirito Santo: « virtù santificante per sè sussistente (3). ». Or questo viene a battere con ciò che dice S. Agostino là dove mostra che è proprietà dello Spirito l' esser dono , cioè che è quanto dire l' essere amore santificante : di che ne trae la ragione del non potersi dire generato, ma solo spirato, perchè dice: [...OMISSIS...] . Or hassi a portar oltre questa dottrina: al che ci fa il ponte questa denominazione di dono , che ab aeterno può darsi al divino Spirito. L' esser donabile agli uomini, diciamo noi, l' essere diffonditore di santità non può esser se non con quell' atto stesso, col quale egli è, con quell' atto, con cui procede dal Padre e dal Figliuolo, perocchè aver non vi può in lui distinzione di atti. Ma l' atto onde egli è, il fa essere l' amore nozionale del Padre e del Figlio, la santità loro. Di quel medesimo amore dunque onde si amano il Padre e il Figliuolo, di quella medesima santità onde il Padre e il Figliuolo sono santi, partecipano anco i Cristiani; sicchè è uno il principio di santità in Dio e in noi. Ora udiamo parlare i Padri della Chiesa di ciò; udiamo che cosa dicano dell' esser lo Spirito appunto in Dio santità. [...OMISSIS...] E S. Fulgenzio tenendo la traccia del Vescovo d' Ippona, dopo recati i passi di Agostino, così conchiude: [...OMISSIS...] . E` adunque proprietà intrinseca e costitutiva dello Spirito Santo, secondo le dottrine tradizionali della Cattolica Chiesa, tanto l' essere lui la santità o carità nozionale del Padre e del Figlio, come l' essere il principio della santità o carità nostra. Sicchè la nostra carità è una partecipazione della carità che ha Dio a sè stesso, e, come abbiam detto più sopra coi SS. Agostino e Fulgenzio, amiamo Dio con Dio, nè con altro si può amare, poichè con altro non si può nè pur concepire, se non con sè stesso. Indi esprimendo Cristo il suo desiderio al Padre che i suoi discepoli ricevessero lo Spirito Santo, dice così: [...OMISSIS...] . Questa verità consegue dalla precedente. La santità, la carità, tutto ciò che vi ha di morale insomma, ha la sua sede nella volontà (4). Ora lo Spirito Santo è la santità stessa, la carità originaria (5) che informa l' anima nostra. Dunque esso opera nella volontà . Nè meno opera per questo nell' essenza dell' anima, come il Verbo, perocchè anche la volontà si radica nell' essenza dell' anima. L' essenza dell' anima intellettiva è a un tempo passiva e attiva: in quanto è passiva, riceve le specie delle cose, il che costituisce l' intelletto; in quanto è attiva, riconosce le cose, le vuole, le ama, il che costituisce la volontà. All' incontro il Verbo, che è la intelligibilità dell' essere, risiede nell' intelletto, e ivi opera, ivi si manifesta. Egli è per questo che la terza persona della Santissima Trinità fu chiamata Spirito , come osserva S. Tommaso, poiche « il nome di Spirito nelle cose corporee sembra importare una cotale impulsione e mozione: or poi è proprio dell' amore muovere e impellere la volontà dell' amante nell' amato« (1) ». Abbiamo veduto che l' operazione della grazia non è già una pura operazione ideale , ma è una operazione reale . Noi veggiamo per natura l' essere ideale , e questo costituisce il lume della nostra ragione: ma solo per grazia abbiamo la percezione dell' essere reale . L' essere ideale, e il reale, è egualmente oggetto del nostro intelletto, ma in quanto percepisce quello, chiamasi propriamente intelletto: e in quanto percepisce questo più acconciamente direbbesi senso intellettivo. L' essere ideale, l' idea dell' essere, è una produzione in noi che si attribuisce al Verbo, ed è quello di cui s' intendono pur dette quelle parole di S. Giovanni, che il Verbo è « la luce, la quale illumina ogni uomo veniente in questo mondo« (2) ». Tuttavia l' essere ideale, sebbene sia effetto del Verbo, tuttavia non è il Verbo stesso, perchè privo, come l' abbiamo noi ingenito, di sua propria sussistenza. L' Essere reale all' incontro sussiste, ed è il Verbo. Ma come può egli entrare in noi? Forse colla comunicazione delle verità rivelate? No certamente con queste sole, perchè queste non appartengono che all' ordine ideale, e le verità teologiche possono essere sapute e intese anche da quelli che non sono punto nè poco in grazia. Veggiamo adunque in qual altro modo. Si osservi prima di tutto che anche rispetto alle verità e percezioni naturali, noi conosciamo e percepiamo in due modi, cioè con una cognizione diretta e necessaria, e con una cognizione riflessa e volontaria: con quella siamo passivi, con questa siamo attivi; con quella riceviamo l' essere ideale delle cose, ma con questa giungiamo alla loro sussistenza; quella poco ci affetta e muove, verso di questa che vede i pregi o i difetti delle cose e li rende volontariamente nell' animo efficaci. Si consideri la differenza che passa fra la semplice conoscenza di una persona, e quella conoscenza particolare che ha di lei il suo amatore. Quanti pregi vi trova questi, che tutti gli altri non trovano, fino a crearne di quelli che non esistono! E qual prezzo dà alla bellezza e alle grazie di quella persona, quanto maggiore di quello che i non innamorati punto non danno loro! Che è ciò? Certamente è l' amore in questo che assottiglia e affina l' occhio dell' anima e la contemplazione; la volontà insomma, che muove la riflessione e la tiene occupata nell' oggetto desiderato, e la sforza, col continuo vagheggiare, di attingere, gustare e applicare a sè il più che possa di quella amabilità, alla cui esca è stato preso il suo cuore. Ciò che degli innamorati, dicasi di [ogni] amore e di ogni odio. La volontà amante è quella che penetra molto addentro nell' oggetto amato, e ne conosce i pregi, sa per cognizione sperimentale i piaceri che indi si possono derivare: e se questo amore è retto, egli conduce ad assaporare un diletto vero e salutare. Tal accade a chi è vago della sapienza e della virtù, a chi s' innamora del ben fare, di una scienza o di un' utile impresa: più che vi pensa, più l' ama, più conosce meglio il prezzo della bell' opera; e questa è conoscenza tutta comunicata dalla forza della volontà che si pose nella cosa amata e a lei per così dire si diede benevolmente in braccio, come a suo bene. Ora s' applichi questo modo del procedere dello spirito umano nell' ordine naturale all' ordine sopra natura, s' applichi questa legge alla cognizione del Verbo divino. Il Verbo comincia egli ad operare nel nostro intelletto: a lui si presenta. Con questo mostrasi che egli fa in noi, è ancora entrato in noi? No certamente, perchè il NOI esprime la nostra persona , e la personalità nostra risiede nel nostro principio attivo, cioè nella nostra volontà intellettiva. Conviene adunque che il Verbo sia ricevuto dalla nostra volontà: allora egli è entrato in NOI, allora mette la sua sede nella nostra personalità . Questo è quello che vogliono dire quelle parole di Cristo: « Ecco, io sto all' uscio e batto: se alcuno udirà la mia voce e mi aprirà la porta, io entrerò a lui e cenerò con lui, ed egli con me« (2) ». E` il medesimo che dire:« Io mi presento all' intelletto: ora sta alla volontà che aderisca a me e a me si congiunga: senza questo, non sono entrato nell' uomo, sono fuori della porta«: l' uomo è la sua volontà, l' uomo è la persona dell' uomo. - Cristo adunque non entra se non in chi gli apre la porta colla volontà consenziente alla verità, come dice S. Paolo; il che comincia col prestare orecchio, coll' udire volontariamente la sua voce. Quell' udire è già un principio del giudizio pratico, una disposizione al medesimo: e quella parola è usata altre volte da Cristo, come quando rimprovera gli Ebrei di non aver udita la voce del Padre (2); o quando dice che le pecore odono la voce del loro pastore (3). Medesimamente è mostrato assai di frequente, che il Verbo non viene già nelle anime nostre per forza, ma per volontà egli s' invita per così dire, come ha fatto con Zaccheo, ma non ci viene se non venendo di buon animo ricevuto. E questa parola di ricevere è consacrata nelle Scritture per indicare appunto il buono accoglimento che fa l' uomo colla sua volontà al Verbo, quando il Verbo vuole entrare in lui. « Egli venne, dice S. Giovanni, alle sue proprie cose, e i suoi non lo hanno RICEVUTO« (4) ». E tosto per dimostrare che non s' incorporano col Verbo se non quelli che il vogliono, che il ricevono, soggiunge: « Ma quanti IL RICEVETTERO, a tanti diede podestà di rendersi figliuoli di Dio (5) ». E in altro luogo Cristo dice: «« Chi RICEVE me, RICEVE Colui che mi ha mandato« (6) » cioè il Padre. Ricevere adunque, secondo il parlare delle Scritture, è aderire a Cristo, è riconoscerlo volontariamente pel Redentore, è fare quell' atto di fede , col quale abbiamo detto cominciare la grazia in noi e che è azione della nostra volontà. Quelli che non hanno questa cognizione riflessa, volontaria e pratica del Verbo, nella Scrittura sacra sono detti tenebre (7). « La luce, dice S. Giovanni, luce nelle tenebre, e le tenebre non l' hanno compresa« (.). » Il che è quanto disse Cristo: « Il mio sermone non cape in voi (9) ». S. Paolo pure dice: «« Eravate un tempo tenebre, ma ora siete luce nel Signore ». A cui soggiunge: «« Camminate adunque siccome figliuoli della luce: e il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità« (10) »: perocchè dietro a quell' atto primo, a quel giudizio pratico che [segue] alla volontà, [vengono] (11), come abbiamo tante volte detto, immancabilmente i buoni affetti e le buone operazioni. E questo parlare nelle Scritture è comune, d' intendere per tenebre la volontà che ricusa di riconoscere ed aderire alla verità, e s' accieca da sè stessa (1), e per luce la volontà che si mette dentro nella verità e si compiace di lei. Nè può essere maniera di parlare più propria e verace di questa; perocchè l' uomo non si può dire già illuminato per le cognizioni ideali del suo intelletto, ma solo per la cognizione volontaria, colla quale cognizione la luce della verità entra veramente in lui, perciocchè l' uomo non è già l' intelletto, ma l' uomo, per ripeterlo ancora, è la volontà, quando dicendo« uomo«, s' intende dire la persona dell' uomo; perocchè, a dirlo di nuovo, la persona sta in un principio attivo e nel più alto principio attivo che trovisi in una natura. Egli è questo che insegna appunto il Redentore, quando fa dipendere l' essere l' uomo tutto o illuminato o tenebroso, dall' essere o luminoso o ottenebrato l' occhio dell' uomo: [...OMISSIS...] . L' occhio è appunto la volontà dell' uomo in quanto figge lo sguardo intellettivo nella verità e così s' alluma; o lo toglie dalla verità e rifiuta di accoglierne il lume, e quindi stesso di amarlo e seguirlo nelle opere della vita. Or dunque se la luce del Verbo si riceve in noi con un atto della volontà, e se è nella volontà appunto che il divino Spirito esercita la sua azione (3), movendola al riconoscimento del Verbo; egli è manifesto che il Verbo non entra nell' uomo nè vi fa sua sede se non per un' azione che convenevolmente allo Spirito Santo si attribuisce. Questa è dottrina che compare luminosamente nelle divine Scritture e che viene continuamente insegnata dalla Chiesa. S. Atanasio appunto da' testimonii delle Sacre Scritture prova che lo Spirito Santo può assomigliarsi a un suggello il quale imprime nelle anime nostre l' effige del Verbo; similitudine, pare a me, acconcissima a mostrare come il Verbo sia in noi non già solo idealmente, ma per un' operazione reale, per una vera percezione della sua sostanza. Usa anco della similitudine dell' unguento che unge l' anime nostre appunto col divin Verbo quasi con ottimo unguento: [...OMISSIS...] . Ora esser gli uomini fatti« dei«, non è altro, secondo il parlare delle Scritture e de' Padri, che un essere la natura umana sollevata sopra l' ordine della natura e messa nell' ordine soprannaturale per una reale congiunzione con Dio che è il principio dell' ordine soprannaturale, come la natura umana è il principio dell' ordine naturale. Ma basti fin qui, dovendo noi farci ancora su questa materia più sotto dove ci cadrà di parlare dell' ordine nel quale le divine persone operano e si manifestano nelle anime nostre. Solo conchiuderò con un passo di S. Tommaso acconcio all' uopo nostro, cioè a mostrare che dee concorrere insieme il nostro intelletto e la nostra volontà, al ricevimento del Verbo in noi, venendo in noi questo per l' ammettere che fa la nostra volontà la mozione dello Spirito Santo, e dietro questa mozione volere, ricevere, amare il Verbo. Dimanda l' Aquinate se il dono della sapienza sia nell' intelletto o nella volontà; ed ecco come risponde: « La sapienza, che è dono, ha la sua causa, cioè la carità, nella volontà, ma l' essenza l' ha nell' intelletto« (1) ». E veramente la sapienza è il Verbo, la cui sede è nell' intelletto: ma l' uomo non l' ha, no 'l partecipa veramente fino che colla volontà non ha voluto averlo e parteciparlo, cioè con una riflessione, che è bensì intellettiva, ma che dalla volontà sua bene inclinata è cagionata e mossa. Abbiamo detto che la santificazione dell' uomo è opera dello Spirito Santo, il quale ci fa percepire il Verbo. Ma questo ha bisogno di spiegazione, perocchè non sempre la santificazione dell' anima si opera in egual modo (2). Un effetto talvolta è prodotto da una causa in modo, che nell' effetto stesso può vedersi l' impressione, l' imagine della causa: sicchè la causa si fa, o in tutto, o in parte, forma dell' oggetto, in cui esercita l' operazione. Talora all' opposto la causa produce bensì l' effetto, ma senza lasciarvi la propria imagine, per così dire, scolpita e senza informare di sè l' oggetto. Il calore del sole in gran parte è certamente cagione della vegetazione delle piante, ma in nessuna maniera dalla sola vegetazione delle piante noi potremmo farci la minima idea del sole, se noi nol vedessimo, nol conoscessimo per altro mezzo. Ora io dico, che anche nella santificazione dell' anima non sempre la persona dello Spirito Santo opera in modo da congiungersi come forma con l' anima, ma solo lascia talora in essa degli effetti suoi, dei doni, i quali però non sono la sua stessa persona. Dico ancora che, in tal caso, la santificazione si attribuisce bensì allo Spirito Santo, ma solo per appropriazione , e non come una proprietà . All' opposto, quando la persona dello Spirito informa l' anima umana, allora è proprietà dello Spirito la santificazione: ed ecco perchè passi questa differenza. Se la persona dello Spirito non informa l' anima, ma solo nell' anima vi hanno i suoi doni, in tal caso l' effetto di questa operazione non è lo Spirito stesso, perchè non è lo Spirito stesso che personalmente e immediatamente sia congiunto coll' anima: quindi l' operazione non è deiforme , ma solo divina , secondo la definizione data da noi a queste parole. Si attribuisce adunque questa operazione allo Spirito non come a forma, ma come a causa o principio di questo effetto. Ora è cosa ferma nella teologia cristiana che la causa o il principio delle operazioni ad extra , come le chiamano, cioè che portano effetti fuori della Santa Trinità, non si possono attribuire all' una più che all' altra persona, se non per quella che si dice appropriazione e che abbiamo più sopra spiegata, e che sono comuni veramente alla Santissima Trinità. Ove dunque lo Spirito stesso non si faccia forma dell' anima, la santità dell' anima non si potrebbe dire Spiriti7forme , ma solo deiforme; e non si reputerebbe allo Spirito se non come una appropriazione . - Un ragionamento di egual maniera si convien fare circa la comunicazione del Verbo. Abbiamo detto, che nell' antico Testamento il Verbo non si comunicava personalmente : egli era occulto , se non forse a pochi Santi, ai quali si comunicò talora, ma non in modo permanente e per legge, ma in modo passeggiero e per una eccezione e privilegio. Tuttavia anche nell' antico Testamento il Verbo oltre la rivelazione esterna comunicò dei lumi interiori alle anime, di quei doni, di cui parla Davidde, ove dice di Cristo, che ricevette dei doni per gli uomini (2). Questi doni non erano la personale presenza di Dio, ma erano certe idee, dalle quali raggiava luce e vita, che divenivano il fondamento e come il fuoco di quegli spiriti parziali (3), che animavano i profeti ed i patriarchi e li facevano operare santamente e sublimemente. Or però come queste idee , che mercè lo Spirito che le avvivava, divenivano tante parole interiori, [tanti] tocchi dell' anima; così essi non erano però il Verbo di Dio che tutte le contiene e produce, il quale si rimaneva come in occulto. Quindi queste illustrazioni e lumi distribuiti a quegli antichi Santi non formavano propriamente un' operazione che si potesse dire verbi7forme , ma solo dei7forme ; nè si possono riputare al Verbo come a sua propria causa, ma solo a lui attribuire per appropriazione , in quel senso che abbiamo dichiarato (1). Quindi è ancora che, non essendo nell' antico Testamento nè il Verbo nè lo Spirito personalmente forma delle anime sante, ma provenendo quei doni parziali d' intelletto e di volontà di cui erano fornite quelle anime sante, dalla essenza divina che in esse operava, qualche Padre ne parla come se al Padre eterno appartenessero, giacchè il Padre, come principio della Triade, è quello che comunica la divina sostanza alle altre due persone, e a lui si suole applicare in modo particolare quanto dalla divina sostanza, senza vestigio di distinte persone, proviene (2). Ora io debbo dimostrare che la distinzione che io fo' fra i doni della persona e la persona stessa, non è nuova, ma è cosa che appartiene al deposito della cattolica tradizione. Quanto al Verbo divino, il modo stesso di parlare di S. Paolo convalida questa distinzione. Egli dice che Cristo diede dei doni agli uomini (3): ed enumerando questi doni, soggiunge che diede alcuni Apostoli, alcuni Profeti, altri Evangelisti, altri Pastori e Dottori. Dice ancora che a ognuno è stata data la grazia secondo la misura della donazione di Cristo (4). Altro è il dono dunque, e altro è il donatore: il donatore è un solo, sempre Cristo; i doni sono molti e varii. Ma che è di questo donatore? Egli stesso è stato a noi donato, ed è per lui che abbiamo le altre cose, secondo la dottrina dell' Apostolo: [...OMISSIS...] . Agli uomini dunque è stato dato il Figliuolo, la sapienza personale: e agli uomini sono stati dati altresì de' varii doni, delle varie rivelazioni, o illustrazioni o grazie. Queste non si debbono certo, secondo l' Apostolo, confondere con quello, come ciò che è parziale non si deve confondere col tutto, e un solo raggio non si può prendere per il sole. La stessa distinzione, fra la persona dello Spirito e i suoi doni , è stabilita dalle Scritture e dai Padri. Ecco come S. Epifanio la nota nelle parole dell' Apostolo. Dice così:« Il solo Spirito Santo, procedente dal Padre e dal Figlio, è nominato e spirito di verità, e spirito di Dio, e spirito di Cristo, e spirito di grazia. Poichè egli impartisce il bene a ciascuno in modi vari: ad altri lo spirito di sapienza, ad altri lo spirito di profezia, ad altri lo spirito di discrezione, ad altri lo spirito dell' interpretazione, e gli altri doni: e, come parla l' Apostolo, « uno e il medesimo spirito [è] che divide ai singoli, siccome vuole« (2) ». Altro è dunque lo spirito che dà i doni, e altro i doni suoi. Ora i Padri insegnano che non solo i doni dello spirito, ma lo spirito stesso viene dato alle anime: [...OMISSIS...] dice S. Basilio parlando dello Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Nel qual passo chiaramente sono distinte le efficenze , o beni, o doni dello spirito, dallo spirito stesso, e si dice che non solo quelle, ma ben anco questo è dato alle anime. Tutti i doni dello Spirito Santo, che costituiscono la santità e che S. Paolo chiamò « charismata meliora » (dei quali soli noi favelliamo), si riducono dall' Apostolo nella carità . E in vero, non sarebbe difficile mostrare, con una diligente analisi di tutti i doni e grazie, delle quali parliamo, [come] essi non sono che carità sotto diverse forme, in diverse attitudini, in diverse relazioni. Ridotti così i doni tutti che santificano l' uomo alla carità, sarà più facile veder la ragione e il fondamento di quella distinzione che or ora abbiamo posta fra il comunicare che fa Iddio alle anime solo dei doni , e il comunicare che fa loro altresì la stessa persona del Santo Spirito, l' amore sussistente del Padre e del Figliuolo. Perocchè i Teologi cristiani distinguono in Dio un amore essenziale , il quale entra nell' essenza divina, e quindi è comune a tutte e tre le persone, e un amore personale , che costituisce la persona dello Spirito Santo. Ora il primo non forma una sussistenza da sè, il secondo è un amore sussistente, una persona; il primo è amore, ma il secondo è, come lo chiama il Petavio (1), il termine del mutuo amore del Padre e del Figliuolo; il primo è come la via, il secondo è il fine, a cui la via mette. Or l' uno e l' altro di questi amori vengono comunicati all' anima: il primo forma i doni, il secondo è la stessa persona dello Spirito, di cui l' anima si fa partecipe. Or quando è che si può dire, riceversi dall' anima i doni , e quando riceversi lo stesso Spirito ? L' anima, come abbiamo veduto, è essenzialmente viva, è sentimento. Non può dirsi che l' anima abbia ricevuto la persona stessa dello Spirito Santo se non allora che lo Spirito Santo sostanzialmente abbia operato in essa, abbia prodotto in essa un sentimento, del quale egli stesso sia la forma , un sentimento, per cui l' anima senta l' amabilità di Dio per modo che quest' amabilità sola, rimossa ogni altra considerazione, sia il TUTTO, sia per ciò qualche cosa di sussistente per sè colla pienezza dei doni. Nè per questo consegue la necessità che l' uomo ne abbia coscienza: giacchè altro è l' averne sentimento ed operare altresì dietro a quello; altro l' averne coscienza, il saperlo dire a sè stesso, il poter rendersi conto delle proprie operazioni. Quanti semplici e virtuosi cristiani non operano costantemente dietro un sentimento profondo che è in loro, al quale non hanno mai riflettuto, e del quale interrogati non saprebbero render ragione nè conto alcuno, molto meno farne l' analisi? Anzi qual uomo rozzo è mai che conosca, quali sieno i principii, dietro i quali egli opera e si dirige nel corso della sua vita? E anche l' uomo educato alle scienze e dato al meditare conosce egli mai perfettamente sè stesso? Conosce tutte le molle segrete che pur operano nel suo cuore? Tutti i movimenti e gli affetti e gli istinti che continuamente sono in azione nel fondo e talor, può dirsi, nell' abisso dell' anima sua? E quelli che più acutamente ritorcono lo sguardo in sè stessi, e che sono avvezzi a far abitualmente la disanima più scrupolosa delle proprie azioni e de' proprii affetti, con quanta fatica e assidua osservazione non pervengono a conoscere quel poco che di sè conoscono: conoscenza che si accresce bensì in essi ogni giorno, ma che l' acquisto di maggior lume, ottenuto in un giorno successivo accusa l' ignoranza del precedente? Nè pure è necessario che chi ha il fonte dei doni, abbia tutti i doni in sè spiegati e manifesti. Poichè lo Spirito Santo abitante nelle anime emette di sè quei doni che vuole, e quei che vuole li tiene nascosti; « spira ove vuole« », come dice Cristo. Nè meno avviene ciò per l' inabitazione del Verbo nelle anime: il quale sebbene sia tutta la sapienza del Padre, pure non comunica alle anime ove inabita, se non quei lumi e cognizioni particolari che a lui piace, e gli altri gli occulta alla riflessione dell' anima. Il che insegna appunto l' Apostolo là dove dice, che « in Cristo sono tutti i tesori della sapienza e della scienza NASCOSTI« (1) »: non nascosti certamente a sè stesso, ma nascosti alle riflessioni delle anime, nelle quali abita Cristo, le quali anime, dice, per consolarsene il cuore, devono essere istrutte nella carità e in tutte le dovizie della pienezza dell' intelletto (2). Or dunque, ove il sentimento di soprannaturale carità, di cui parliamo, non sia un sentimento TOTALE e che accusi nell' anima qualche cosa di sussistente, non si può dire che sia sentimento spiriti7forme ; non si sente in esso la persona dello Spirito Santo: si sente bensì un amor divino; ma quando non si sente la persona, quell' amore non è l' amore nozionale , è solo l' amore essenziale di Dio, è la divina sostanza che si fa sentire, ma in modo imperfetto, sicchè rimane insensibile, OCCULTA, la persona dello Spirito Santo: egli allora non si può nominare che dei7forme . Tuttavolta per l' appropriazione si attribuisce quel sentimento allo Spirito Santo e a lui si riduce come via a suo termine, a sua perfezione: sicchè quel sentimento non ha che a rendersi più perfetto, più integro per essere quello del divino Spirito. In tal caso, il divino Spirito è il principio della santità per appropriazione: all' opposto, ove lo Spirito Santo si comunichi all' anima personalmente, egli è il santificatore di lei con quella santità che gli è proprietà personale. Che la persona del Verbo non fosse comunicata spiritualmente agli uomini innanzi la sua venuta in carne, pare reso manifesto dalle cose dette fin qui (3), e particolarmente da quel principio più sopra stabilito: che la rivelazione interiore va di un accordo perfetto colla rivelazione esteriore (1). Quanto alla persona dello Spirito Santo, quello che abbiamo detto dimostra che essa non può essere percepita prima e indipendentemente dal Verbo, perocchè ella è l' energia del Verbo, quasi un calore, un affetto, che esce spirato da quella luce, resa oggetto divino del nostro sentimento (2). Non sarà però inutile che confermiamo questa dottrina, secondo il metodo seguito fin qui, co' passi dei Padri della chiesa e de' teologi. Ecco come favella un teologo de' più chiari, che ha illustrato assai questa materia, e che mostrasi sempre profondo nel ricercare ben addentro i più sinceri sentimenti de' Padri: [...OMISSIS...] . E di qui S. Cirillo toglie la spiegazione di quelle parole di Gesù Cristo: che quello che è il più piccolo nel Regno dei cieli era però maggiore di Giovanni (3). Egli trovava la ragione di tali singolari parole di Cristo in questo, che i cristiani, che sono nel regno di Cristo, cioè della chiesa, hanno in sè lo Spirito Santo personalmente; il contrario di que' santi che appartenevano all' antico Testamento, de' quali era ancora il Precursore, dotato bensì dei doni dello Spirito in tale abbondanza da vincere tutti gli antichi santi, ma non ancora in possesso della stessa persona dello Spirito Santo, perchè non erano ancora aperte le porte del cielo (1). Il che sebbene basterebbe a provare il mio assunto, tuttavia la chiarezza ond' è posta questa dottrina nel passo seguente dello stesso grande Vescovo di Alessandria, mi trae a riferirlo, e spero che mi sarà volentieri conceduto di farlo dal lettore. Dopo aver egli recate quelle parole di S. Giovanni: « che lo Spirito non era ancor dato, perchè Cristo non era ancora glorificato« (2) »; le quali contengono precisamente quanto noi qui sosteniamo si fa la questione: Se dunque non avevano lo Spirito i Profeti o, se l' avevano, per che altro modo l' avevano? E scioglie la questione colla distinzione appunto fra i doni e lo Spirito stesso. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Il Verbo apparito in carne umana agli uomini, si annunziò loro per quella divina persona che è, Figliuolo Unigenito di Dio Padre. A questo annunzio, a questa esterna rivelazione, compimento e spiegazione di tutte le rivelazioni fatte precedentemente per lo spazio di quattro mila anni agli uomini, corrispose la rivelazione interna, colla quale si manifestò il Verbo alle anime, diede alle anime credenti la percezione di sè stesso. E` questa la grazia della nuova legge, quella di cui dice S. Giovanni: « la legge fu data per Mosè; la grazia e la verità fu fatta per Gesù Cristo« (2) ». In tal modo il Verbo divenne forma delle anime, e quell' operazione della grazia che prima non era che deiforme , cominciò a essere verbiforme . Questa comunicazione del Verbo alle anime de' suoi, fatta ancor prima della sua morte, veniva comunicata dalla virtù delle sue divine parole e dello stesso suo umano sembiante, a quell' anime che prestavano fede a quelle e si lasciavano muovere dalla dolce vista di lui. Della grazia che usciva dalle sue parole, dice Cristo: « Già voi siete mondi pel sermone che ho parlato con voi (4) »; e tosto soggiunge: «« Rimanetevi in me e io in voi« (5) »; attribuendo appunto all' effetto delle sue parole la cognizione sua soprannaturale co' discepoli suoi. Dice ancora che la permanenza nel suo sermone era la nota caratteristica de' suoi discepoli: « Se voi rimarrete nel mio sermone, sarete veramente miei discepoli« (6) ». Nelle quali parole quell' avverbio veramente è atto a dare gran forza alla denominazione di discepoli , ed esprime propriamente l' immediato imparare che fa da Cristo l' anima per una comunicazione tale, che dà fino l' immortalità, che non viene se non dall' unione e percezione di Cristo stesso: [...OMISSIS...] . Della grazia poi che usciva dal suo sembiante, e per la quale veniva pur data, a chi n' erano fatti degni, la visione o percezione del Verbo; ecco come ne parla Cristo in quel colloquio con Filippo, che ho più sopra riferito e che qui di nuovo giova rammemorare. Aveva dimandato l' Apostolo Filippo a Cristo che mostrar gli volesse il Padre. Gesù Cristo si fa maraviglia, perchè non s' accorgeva che, vedendo lui, si vedeva il Padre stesso: il qual vedere non si può riferire alla semplice vista della umanità di Cristo, ma sì bene alla vista interiore della sua divinità, perchè non è nel corpo di Cristo visibile immediatamente il Padre, ma si bene nel Verbo, la cui visione o percezione veniva spirata e impressa pure dalla visione della divina umanità del Redentore, da cui usciva una virtù soprannaturale e misteriosa. Risponde adunque Cristo così alla dimanda di Filippo: [...OMISSIS...] . E dice: non credete; per indicare che quella visione di cui si parlava, fondavasi nella fede; che era una visione imperfetta, incipiente; che era quel conoscere insomma, di cui parla S. Paolo, ove dice che « conosciamo in parte e in parte profetiamo« (2) », cioè vediamo a segni e a enimmi (3). Ma per vieppiù provare che la persona del Verbo, quando egli apparì e si manifestò in carne umana, si unì formalmente a quelli che credevano alle sue parole, consideriamo quali sieno i caratteri da noi assegnati a quel sentimento che produce in noi l' operazione della grazia, nel qual sentimento percepiamo una divina persona. Questi caratteri, come risulta da ciò che fu detto, sono due, il primo che con quel sentimento noi dobbiamo sentire tale cosa, nella quale noi troviamo il TUTTO. Il secondo, che non è se non conseguenza del primo, si è che quel sentimento dee essere cotale che ci faccia sentire una cosa sussistente , e non puramente ideale. Ora Cristo ci fa notare questi due caratteri nella comunicazione che fece di sè a' suoi discepoli. La divina rivelazione aveva date agli antichi delle cognizioni e notizie separate della divinità: ma Cristo dichiara espressamente che egli comunicò tutto a' suoi discepoli, quanto aveva udito dal Padre: « TUTTE le cose che io udii dal Padre mio, le feci a voi note« (4) ». I Padri spiegano acconciamente questo passo, dicendo che voleva dire che Cristo fece nota ossia comunicò la propria persona agli Apostoli. Perocchè qual è il valore di questa misteriosa parola, udire dal Padre? Vuol dire sapere , e sapere vuol dire essere dal Padre, procedere da lui, come dice S. Agostino (1); perocchè il sapere del Figlio non è diverso dal suo essere. Ora se Cristo avesse detto: Io vi feci note molte cose che ho udite dal Padre, poteva intendersi che non avesse comunicata la sua stessa persona, ma solo alcuni lumi e cognizioni. Ma dicendo che ha fatte note agli Apostoli tutte le cose , non si può intendere altramente se non che gli abbia loro comunicata la propria persona ; perocchè essa sola è tutte le cose procedute [dal] Padre, avendo il Figlio nella sostanza divina ricevuta dal Padre le cose tutte. Nè quella frase di render note le cose , si può spiegare altrimenti che di una comunicazione sostanziale, giacchè la natura divina non ci si fa nota per altra via, come ho mostrato più sopra (2), se non per la percezione, e non si può conoscere per via di idee pure. Il passo citato di nostro Signore: [...OMISSIS...] ; si vedrà più chiaramente significare: [...OMISSIS...] , ove con lui si confronti un altro passo, pure di Cristo, cioè quello nel quale egli favella al suo divin Padre così: [...OMISSIS...] . Che cosa sono le parole di Cristo date a lui dal Padre? Certo quelle cose che egli ha udite dal Padre. E che sono le cose udite dal Padre? L' essere suo di Figliuolo dal Padre generato. Non dice« alcune parole ricevute dal Padre«; ma dice« le parole«, che è quanto« tutte le parole, « omnia quae audivi »«. Ora che cos' è« tutte le parole ricevute dal Padre«, se non tutto il suo essere, tutta la sua persona? Or tutte queste parole le ha comunicate a' suoi discepoli: ha comunicato loro la sua persona. Ma a qual fine ha comunicato a' suoi discepoli le parole date a lui dal Padre? Perchè intendessero, tutte le cose date a lui dal Padre essere dal Padre. Che è,« tutte le cose date a lui dal Padre essere dal Padre?«. La sua generazione, l' essere generato. Che cosa è« l' essere generato?«. L' essere Figliuolo del Padre, avere ricevuta la natura del Padre. Ha adunque date a' discepoli suoi le parole ricevute dal Padre, perchè conoscessero che egli era la persona del Figlio. Che cosa dunque è che volle far conoscere a' suoi discepoli? La propria persona, la generazione eterna. Qual è il mezzo onde la fa conoscere? Non altro che la propria persona: questa immediatamente lucente nelle anime sono quelle parole ricevute dal Padre, che fanno conoscere che tutta quella persona viene generata dal Padre. Ecco il grande scopo di tutta la predicazione di Cristo, far conoscere sè agli uomini, e in sè il Padre: ecco il peculiare ufficio della sua grande missione. Viene confermata simigliante interpretazione del passo di Cristo: « Tutte le cose che io ho udito dal Padre mio, le feci io note a voi«, dalla seguente osservazione. In che modo Cristo poteva aver comunicato agli Apostoli la notizia di tutte le cose udite dal Padre? In che modo si può spiegare con semplicità questo detto, che gli Apostoli sapessero le cose tutte, giacchè Cristo le sapeva tutte? So bene che ove vogliasi far violenza alle parole e sostenere che il tutte non voglia dir tutte, può trarsi agevolmente dalla difficoltà: ma questo non è uno spiegare le parole di Cristo, ma un sostituirne a quelle delle altre. In che maniera dunque di nuovo io chiedo, poteva dirsi con verità, che agli Apostoli tutte le cose fossero rese note? Certo ciò non poteva essere, ove s' intendano le verità prese singolarmente, staccate e distinte le une dalle altre: in questo modo anzi ci assicurò Cristo che gli Apostoli non le sapevano, perchè, dopo aver detto che tutte le cose udite dal Padre aveva rese note, disse ancora: « Ho molte altre cose a dirvi, ma non le potete portare di presente« (1) ». Qui dice che ha molte cose ancora da dir loro; e prima aveva pur detto che TUTTE le aveva loro fatte note. Si badi a quel TUTTE, che significa il complesso delle stesse verità. Il Verbo era quello che le aveva tutte in sè: comunicato il Verbo, era vero che avea loro comunicate tutte le verità, perchè esso stesso il Verbo era tutte insieme le verità. Perciò in altro luogo, in luogo di dire che aveva comunicate agli Apostoli tutte le verità, dice in singolare, che aveva loro dato il sermone del Padre, il quale tutte le conteneva. « Io ho dato loro il tuo sermone« - « Il tuo sermone« è LA VERITA` (2) », la quale abbraccia eminentemente tutte le notizie. E per dimostrare che questo dar il sermone del Padre a' suoi discepoli voleva dire dar loro sè stesso, segue mostrando gli effetti che ne vennero dall' aver dato il sermone del Padre ai discepoli; cioè che il mondo trattasse loro come lui, appunto perchè egli era in essi: [...OMISSIS...] . Eccoli dunque di un' altra origine, dopo che ebbero in sè il sermone del Padre: non sono più del mondo, sono originati da Dio, come il Figliuolo è nato dal Padre. Con quale efficacia maggiore si può spiegare che il Verbo si congiunse colla stessa persona dell' uomo? L' uomo col Verbo in sè, è già nato da Dio, non [può] più esser del mondo. Nascere indica il principio della personalità: l' uomo adunque, la persona dell' uomo ha un principio che viene da Dio, e questo principio è la base della personalità dell' uomo (1). Conviene adunque dire che il Verbo unito formalmente nell' uomo abbia eccitato nell' uomo un' attività suprema, la quale appunto perchè mossa dal Verbo, non è dal mondo, ma da Dio stesso. Nè paia strano ciò che affermiamo, che chi vede il Verbo, dove sono tutte le notizie, non abbia però tutte queste notizie in sè distinte, perchè varii sono i gradi della percezione del Verbo, non solo in terra, ma perfino in cielo (2) e, come dicono i Teologi, la visione del Verbo importa bensì che si percepisca ciò che è formalmente nel Verbo, ma non ciò che ci sta eminentemente , come le notizie di tutti i possibili e contingenti. Il secondo carattere, a cui si conosce il sentimento Verbi7forme, abbiamo detto essere, che in esso l' uomo sente la sussistenza della verità o del Verbo divino. E veramente S. Giovanni dice, che egli « era vita e la vita era luce degli uomini« (3) ». Ora la vita è sentimento, e chi nulla sente, non ha vera vita: il sentimento è la potenza di percepire l' essere reale e sussistente (4). La luce del Verbo adunque non è una luce ideale, ma l' essere sussistente da noi percepito. In nessun luogo poi più chiaramente risplende questa verità, come in quelli dove Cristo paragona sè stesso al cibo, o anche parla del cibo eucaristico. Un cibo che sazia veramente l' anima, non può essere una cosa ideale: il sentirsi paghi e sazi non è altro che il sentire in sè stessi una sussistenza, un bene che ci riempie: [...OMISSIS...] . E spiega in che maniera si chiami pane di vita, cioè perchè dà la vera vita, la pienezza della vita, che è quanto dire la pienezza del sentimento; e il sentimento, la vita, per essere piena, deve essere immortale. Onde soggiunge: [...OMISSIS...] . E qual è questa vita? Una vita fondata nell' azione stessa di Cristo, una vita che noi riceviamo da Cristo, come Cristo riceve la sua vita dal Padre. Quest' alta e ineffabile comparazione non si oserebbe pur a pensare, se Gesù Cristo stesso non avesse detto: [...OMISSIS...] . L' esser mandato dal Padre è ricevere l' essere del Padre. Dice adunque: come un' operazione del Padre è quella che dà a me l' essere e la vita, così un' operazione mia ne' miei diletti è quella che dà loro la vita. - Questa vita è ciò che vi ha di più sollevato ne' discepoli di Cristo e costituisce per ciò il loro essere personale (3) soprannaturale: e indi è che la similitudine di Cristo è sommamente vera ed espressiva, quasi dicesse: come il Padre dà a me l' essere personale, così io do a' miei diletti l' essere loro personale. - E questa personalità, che noi riceviamo dall' unione con Cristo, è significata assai acconciamente in assaissimi luoghi delle Scritture e, fra gli altri, in quello di S. Paolo che dice: « Vivo io? non più io, ma vive in me Cristo« (4) ». Non già che noi ci cangiamo nella persona di Cristo, o la persona di Cristo in noi, ma sì bene Cristo vive in noi, nella nostra personalità, e però la nostra vita personale non è più prodotta dalle nostre forze naturali, ma dalla forza di Cristo che colla sua sostanziale presenza opera ineffabilmente in noi e vi suscita un sentimento tutto nuovo, un' attività più nobile di gran lunga di tutte le altre nostre attività naturali. Già abbiamo detto che il Verbo non si percepisce, se non per una operazione dello Spirito Santo, che muove soavemente la nostra volontà e questa il nostro occhio intellettivo a contemplare e percepire la bellezza appunto della sostanzial verità. Ma abbiamo detto ancora, che questa operazione dello Spirito Santo non è sempre la persona stessa dello Spirito Santo, ma che a quella persona divina si attribuiscono gli effetti spirituali che riguardano i movimenti della volontà nostra e gli affetti santi, per appropriazione (5). Se dunque la percezione del Verbo si fa per la fede, anche prima della morte di Cristo dovevano di natural conseguenza esserci anche questi doni od effetti spirituali, di cui parliamo. E certo l' aver gli Apostoli lasciato tutto e seguito Cristo era amore e fede che a lui prestavano. Pietro dice a Cristo in ragione d' esempio: « Tu hai le parole di vita eterna; e noi crediamo e conosciamo che tu sei Cristo Figliuolo di Dio« (1) ». Certo, era l' amore che gli faceva parlare così, era lo Spirito Santo, del quale dice S. Giovanni: « Lo Spirito è quello che testifica che Dio è verità« (2) ». Ma sebbene lo Spirito Santo, con quell' amore spirato a Pietro, illustrasse la persona del Verbo e mostrasse in esso avervi le parole vitali; tuttavia non era ancor venuta la persona stessa dello Spirito Santo, perchè Cristo non era ancora reso glorioso, dicendo S. Giovanni espressamente così: [...OMISSIS...] . Quella energia dello Spirito Santo, che illustrava il Verbo nelle menti, si attribuiva al Figliuolo stesso, prima che la persona dello Spirito si comunicasse formalmente agli uomini, perchè emanava da lui e non costituiva da sè sola nel sentimento degli uomini una persona sussistente: e ciò a quello stesso modo, come abbiamo detto, che i doni del Verbo si attribuivano al Padre prima che la persona del Verbo fosse comunicata agli uomini, cioè prima che venisse in carne umana (4). Quindi anche il Verbo viene chiamato Consolatore, in quel passo: « Io pregherò il Padre, e darà a voi un altro Paracleto cioè Consolatore, acciocchè PERMANGA con voi in eterno« (5) ». Dove Cristo usa quella parola permanga , per indicare che egli stesso era il loro consolatore, fino che stava con essi visibile nella carne mortale; ma che poi sarebbe con essi in altro modo, cioè invisibile o colla sua divinità: ma che per questo non sarebbe loro mancata ogni piena di consolazione, perchè la persona dello Spirito Santo nelle anime loro sarebbe stato un fonte di gaudio perenne e inesausto che sarebbe ridondato in essi per la visione non più esterna, ma bensì interiore, del Verbo. Onde dice: « Non vi lascierò orfani: io verrò a voi«. E tosto appresso:« Ancora un poco e il mondo già più non mi vede; ma voi mi vedete, perchè io vivo e voi pure vivete« (6) ». Nelle quali parole viene a dire, che la vista interiore del Verbo rimarrà in essi anche sottratta ai loro occhi corporei la divina sua umanità; perchè egli è vivente ed essi pure vivono, cioè partecipano della stessa vita, sentono in sè la vita di Cristo e così veggon Cristo. Quindi il Padre celeste era chiarificato anche prima che discendesse lo Spirito Santo sopra gli Apostoli, perchè la persona del Verbo bastava a chiarificarlo, cioè a renderne nota la maestà nelle anime degli uomini: « In questo, dice, il Padre mio è stato chiarificato, che apportiate abbondantissimo frutto, e vi facciate miei discepoli« (1) ». E spiega tosto dopo, che ciò avviene per l' amore dicendo: « Siccome il Padre ha amato me, così ed io pure ho amati voi. PERMANETE nella mia dilezione« ». - La quale dilezione si attribuisce appunto allo Spirito: ma egli fa vedere che qui non parla ancora della dilezione sola come sussistenza, ma di una dilezione, che si appoggia e inerisce alle sue parole, giacchè continua così: « Se osserverete i miei precetti, PERMARRETE nella dilezione mia, siccome anch' io ho osservato i precetti del Padre mio e PERMANGO nella dilezione di lui« ». E perchè la dilezione di Cristo era certo personale, alla quale si raffronta quella de' discepoli che non è ancor personale; manifestamente apparisce, che quella dilezione che non è ancor personale, si considera da Cristo come una via a quella che è personale, un iniziamento di questa in che quella termina e si completa. La quale distinzione fra la dilezione de' discepoli, divina sì, ma non personale, e la personale, ancor più chiaramente è marcata nelle parole di Cristo che susseguono: « Ho parlato a voi queste cose, acciocchè il gaudio mio sia in voi, e il gaudio vostro si compia« (2) ». Ho parlato queste cose, cioè vi ho comunicate queste verità, ve le ho date a sentire, vi ho dato a sentire me stesso che sono verità. E perchè? Per comunicarvi il mio gaudio. Che è il gaudio suo in noi? Il gaudio suo in noi è la grazia sua, dice S. Agostino, che diede a noi pur quando ci elesse innanzi alla costituzione del mondo (3). Il gaudio suo e il gaudio nostro è dunque il medesimo: il gaudio nostro è una comunicazione del gaudio suo, come la dilezione nostra è una comunicazione della medesima dilezione sua. Ma in altro modo quel gaudio è in lui, in altro modo è in noi: il gaudio di Cristo è eterno, perfetto, sussistente; il gaudio nostro da lui comunicatoci non è sempre, nè necessariamente sussistente. Quindi, dopo aver detto che aveva parlate quelle cose, acciocchè il suo gaudio fosse in noi, soggiunge: « e acciocchè il vostro gaudio si compia« ». Prima adunque è in noi il gaudio, poi il compimento del gaudio. Non dice:« acciocchè si compia il suo gaudio perchè è sempre completo (4); ma dice: «« acciocchè si compia il gaudio vostro« ». Il gaudio nostro adunque è il gaudio di Cristo, il gaudio che viene dalle parole di Cristo: ma egli è o incipiente, o già pieno. Che cosa è il gaudio pieno? Il gaudio sussistente, altrimente non sarebbe pieno; la percezione adunque della sussistenza dello Spirito Santo in noi. Che cosa è il gaudio incipiente? Il gaudio che viene dalle parole di Cristo prima che discenda in noi lo Spirito Santo personalmente. Questo si spetta a Cristo, dalla percezione stessa di Cristo ancor non differisce, non è un altro modo nuovo di percepire: quello è lo Spirito Santo, è una percezione nuova, o, per dir meglio, un nuovo modo di percepire che noi facciamo il tutto. Come v' ha adunque una gradazione nel gaudio che esce dal Verbo, e solo il termine di questo gaudio, la pienezza sua è ciò che costituisce il sentimento dello Spirito nelle anime; così vi ha anco una gradazione di luce che esce dal Verbo, e solo la pienezza di questa luce è ciò che forma il sentimento dello Spirito nelle anime. La luce del Verbo fino che non è arrivata alla sua pienezza, non costituisce un modo di percepire nuovo nelle anime: è indivisa una tal luce dal Verbo stesso percepito. Quanto il Verbo è più sentito dalle anime nostre, o, che è il medesimo, quanto è più luminoso in esse, tanto più è chiarificato il Padre. Quando adunque Cristo diceva al Padre: « Io ti ho chiarificato sopra la terra« (1) »; mostrava con questo che anche il Figliuolo era chiarificato, giacchè è la sua chiarezza [che] fa vedere il Padre. Tuttavia il Figliuolo [prega] di essere chiarificato ancora, dimanda che sia completata la sua chiarezza appunto perchè sia più e più chiarificato il Padre: « Padre, dice, viene l' ora, chiarifica il Figliuol tuo, acciocchè il Figliuol tuo chiarifichi te« (2) ». Che cosa dimanda qui dunque il Figliuolo se non un aumento di luce? E quanta luce? Quanta di più non si può, una luce piena, una luce infinita: « E ora chiarificami, o Padre, appresso te stesso di quella chiarezza, che io ebbi prima che fosse il mondo, appresso te« ». Non dimanda certo questa chiarezza per ragion sua o del Padre, dove non ebbe mai adombramento veruno; ma la domanda per cagion degli uomini, domanda che una tal luce sia resa visibile agli uomini. Or questa luce infinita, che dimanda, è una luce eterna e divina; dimanda pe' suoi diletti la persona dello Spirito Santo. Egli rannoda questo discorso alla pienezza del gaudio che, come abbiam detto, indica appunto lo Spirito Santo personalmente comunicato, dicendo: [...OMISSIS...] . Questa gradazione di luce, che ammette la percezione personale del Verbo, è anche espressa in quelle misteriose parole che Cristo pronunciò nel cenacolo, uscito Giuda: [...OMISSIS...] . Le quali parole si possono interpretare di una maggiore luce di carità diffusasi nelle anime de' suoi Apostoli, dopo l' eucaristia, e la partita del demonio che trovavasi nel traditore. E` però notabile quel modo di chiarificazione che Cristo annunzia dover egli avere dal Padre suo. Dice che Dio lo chiarificherà in sè stesso: questa maniera esprime una chiarificazione non già esterna, ma tutta interiore, la chiarificazione che nasce a Cristo quando gli uomini conoscono e sanno che egli è Dio nel seno del Padre. Il sapere questo, l' aver questo lume nell' anima, dal penetrare in qualche modo nella generazione del Verbo, è tutto ciò che ci può essere di più grande nella cognizione, nella percezione di Dio stesso; e il solo Spirito Santo dà alle anime una tale intima cognizione. La frase è ripetuta nell' orazione di Cristo surriferita, dove parla non di gloria esteriore, ma di quella chiarezza ch' egli ha appo il Padre da tutta la eternità. Nella percezione adunque del Figlio è indivisibile una luce e un amore, ma questa luce e questo amore non costituiscono una percezione da sè diversa da quella del Figlio, fino che non diviene una luce e un amore tale, che lo si senta pieno e sussistente: allora quella luce e quell' amore forma da solo una cotale percezione, ed è quella che diciamo la percezione dello Spirito Santo. Tuttavia anche prima che quella luce e carità tocchi in tal modo il suo termine, essa allo Spirito Santo si appropria, perchè è un avviamento nell' anima al medesimo Spirito Santo; ed è anche in questo senso, che il Verbo divino dice: « Io sono la via« (2) ». S. Paolo distingue parimente i due gradi della santificazione dell' uomo, che noi fin qui abbiamo cercato distinguere: il primo consistente nella percezione del Figliuolo, per la quale diveniamo figliuoli di Dio; il secondo consistente nella percezione dello Spirito che illustra e attua vieppiù la percezione del [Verbo], e innalziamo con confidente amore a Dio le nostre voci di figliuoli. Così l' Apostolo tocca questi due gradi, scrivendo ai Galati: [...OMISSIS...] . Con questo solo la salute dell' uomo è assicurata, l' uomo è figliuolo di Dio. Ma lo Spirito Santo viene appresso e perfeziona quest' opera; prosegue l' Apostolo: « Ma poichè siete figliuoli » (ecco che precede l' essere fatti figliuoli), «Iddio mandò lo Spirito del Figliuol suo » (prima mandò il Figlio, or qui manda lo Spirito del Figlio) «nei cuori vostri » (la sede degli affetti, la volontà) « che grida: Abba, Padre« (1) ». Conchiuderò questo articolo con un' osservazione volta a levare una difficoltà che potrebbe sorgere nell' animo de' lettori. Nell' antico Testamento, abbiamo detto, i doni del Figliuolo, cioè le illustrazioni mentali non sono più che operazioni deiformi nelle anime sante, appropriate al Verbo; ch' esse però, come in loro causa, si riferivano al Padre, principio della Trinità. Abbiamo detto il medesimo dei doni dello Spirito Santo. Or poi resosi cognito il Figliuolo dopo incarnatosi, i doni dello Spirito Santo si riferiscono allo stesso Verbo, o anche al Padre. Or qui è da osservare la differenza che passava tra il riferirsi al Padre, o al Verbo, nell' antico tempo, quei doni, e il riferirsi ora. Ora il Figliuolo, e per esso il Padre, è conosciuto; e si ricevono in una percezione indistinta dal Figliuolo medesimo que' doni allo Spirito appropriati (2). Quindi la percezione del nuovo Testamento appartiene, propriamente parlando, alle persone divine, quando la percezione nell' antico apparteneva solo con proprietà alla divina natura. E` però degno di osservazione come nel nuovo Testamento medesimo si distinguano alcune grazie o doni dello Spirito come venienti dal Padre; e alcune grazie o doni come uscenti dal Figlio. Ciò è a dire, tutte le buone disposizioni della volontà umana precedenti alla fede in Cristo, alla cognizione del Figliuolo, le quali buone disposizioni inclinavano gli animi a udire docilmente e a dar fede alle parole di Gesù Cristo, Gesù le attribuisce al Padre suo: là dove i doni che susseguono la cognizione e la fede in Gesù Cristo, si fanno scaturire dal Figliuolo, cioè dalla cognizione e fede di lui. Le prime appartengono all' antico Testamento e sono grazie deiformi: le seconde appartengono al nuovo, e si possono dire grazie verbiformi. Cristo parla appunto di quelle grazie dispositive del Vangelo in questa maniera: « Ognuno che udì dal Padre mio e imparò, viene a me« (1) ». E acconciamente dice, udì ; perchè chi ode la voce di uno, non è necessario che vegga la persona che parla: la qual forza della parola, udì , si rileva da queste altre parole dette da Cristo: « Voi nè avete mai udita la sua voce, nè veduta la sua specie« (2) »; quasi dica: non avete udita la sua voce manifestatavi da Mosè e da' Profeti, e molto meno avete veduto il suo volto, come l' ho veduto io. Indi mette fra le male disposizioni a ricevere la sua parola il non prestar fede a Mosè, non potendo capire il significato spirituale e interno delle sue parole: « Se prestaste fede a Mosè, forse credereste a me pure, poichè Mosè scrisse di me« (3) ». Fra le buone disposizioni poi a udire la sua legge, si è la prima la volontà del bene in generale, l' amore della giustizia stessa naturale: [...OMISSIS...] . Dalla buona disposizione della volontà dice che procede quella della luce volontaria, colla quale si sa conoscere se è bene o male ciò che viene annunziato. [...OMISSIS...] . E` forse difficile il conoscere e accertarsi che la sua dottrina sia da Dio? No certamente: basta avere una buona volontà, basta desiderare il bene sinceramente, basta avere la fede implicita, e quindi volere implicitamente fare tutto quello che Dio fosse per manifestare. [...OMISSIS...] Nulla più ci vuole: la disposizione buona della volontà, l' implicito desiderio di fare la volontà del Padre. A questi doni e grazie dispositive a ricevere il Vangelo, che al Padre si attribuiscono, appartiene quel passo: [...OMISSIS...] . Sebbene le parole di Gesù Cristo, colle quali ebbe promesso lo Spirito Santo, [dovessero adempirsi] solo dopo ch' egli fosse salito al cielo sedente alla destra del Padre; tuttavia una grave difficoltà nasce a spiegare quell' atto e quelle altre parole di Cristo, onde dopo risorto, apparito in mezzo al cenacolo, soffiò la prima volta verso gli Apostoli e disse: « Ricevete lo Spirito Santo: i peccati di quelli a cui voi li rimetterete, sono rimessi, e a cui li riterrete, sono ritenuti« (1) ». E certo fu quello un dar loro lo Spirito Santo; ma il fine di quella comunicazione del Santo Spirito fu il darlo come fonte dell' autorità di legare e di sciogliere, non come forma della loro santità. Il dono della potestà di legare e di sciogliere che rimane nei sacerdoti, anche dopo perduta la grazia coi peccati, appartiene a un ordine di cose ben diverso da quello della santità. Ove non si voglia dire che perpetua è questa potestà nella Chiesa, appunto perchè perpetua è la santità di lei, pigliando la Chiesa tutta come esercitante pei suoi ministri il ministero penitenziale. Certo è insieme che molti doni incomparabilmente maggiori furono conferiti agli Apostoli da Cristo risorto, come il gaudio, la pace e l' intelligenza delle divine Scritture. Ma la promessa dello Spirito Santo non fu ancora compita prima d' ascendere al cielo; non disse già Cristo ai suoi: Ricevete lo spirito in maggiore abbondanza, ma disse semplicemente: « Ed io mando il promesso del Padre mio in voi« (2) »; facendo così manifestamente intendere che questo promesso del Padre suo non era ancora in essi venuto. Sebbene adunque nella percezione del Verbo sieno sempre uniti dei doni o grazie che allo Spirito si appropriano, perchè alla volontà appartengono, come la dilezione (1); tuttavia lo Spirito stesso fu promesso da Cristo e mandato, come dicevamo, solo il giorno della Pentecoste. Pigliamo i due caratteri, dai quali abbiamo detto conoscersi, se un sentimento in noi sia sentimento di una persona divina, i quali sono: 1. la totalità; 2. e la sussistenza. Gesù Cristo caratterizza sempre quello Spirito che promise di mandare colla totalità , e lo distingue da quegli spiriti o doni parziali che ha compartito egli a' suoi Apostoli mentre viveva, o dopo la sua risurrezione. Egli dice: [...OMISSIS...] . - Questa è la comunicazione di sè che fece il Verbo. Soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole di Cristo due cose si devono notare: 1. Che quello Spirito è uno Spirito universale, che ha in sè tutte le cose, ed è atto a infondere le notizie tutte. 2. Che lo Spirito non insegna cose diverse da quelle che ha insegnate il Figliuolo; ma quelle stesse le suggerisce alle anime: « omnia quaecumque dixero vobis », come dice il sacro testo. Poichè anche Cristo aveva insegnate tutte le cose, come detto abbiamo (3). [...OMISSIS...] Perocchè anche nella percezione del Figliuolo tutte le notizie si comprendono; è anche con questa percezione che si percepisce il TUTTO, e il medesimo TUTTO, perchè il TUTTO è un solo, e non può essere due. Tanto dunque il Verbo, come lo Spirito insegnano alle anime in cui risiedono tutte le cose , ma le insegnano in diverso modo . E qual è questo diverso modo? Risulta dalle parole di Cristo: il Verbo le insegna in un modo diretto , le dà all' intelletto la prima volta; lo Spirito le insegna in un modo riflesso , fa sì che la nostra attenzione volontaria si porti di nuovo, aderendo, a quelle verità che sono già in noi: il Verbo insegna quindi la verità che nella cognizione diretta e percezione consiste (4); lo Spirito illustra quelle verità, il che è l' operazione della riflessione e massime di una riflessione innamorata della verità, su cui si porta e ripiega (5). Tutto questo dice Cristo con quelle parole, « che lo Spirito insegnerà tutte le cose« ». Ma in che modo? Suggerendo tutte quelle cose che io stesso vi avrò dette: « Suggeret vobis omnia quaecumque dixero vobis ». Questo suggerire alla mente le verità, per la mente non già nuove, ma in lei esistenti, è un eccitare la mente a piegarsi sopra di sè, eccitarla alla riflessione, a porre una nuova attenzione a ciò che ha già in sè prima ricevuto. Questo operare dello Spirito, mediante la riflessione sul Verbo percepito dall' uomo santo direttamente, viene espresso ancora dalle seguenti parole di Gesù Cristo: « Io ho ancora molte cose da dirvi; ma non le potete sostenere ora« ». Fin qui dice Cristo che ha molte cose da dire agli Apostoli in separato, perchè in complesso prese, gliele aveva dette tutte, contenendosi tutte nella luce loro data, nel Verbo: « tutte le cose, che ho udito dal Padre mio, le feci note a voi« ». E ora è la riflessione quella che trae le conseguenze implicitamente contenute in un principio, quella che analizza le idee e ne osserva, a parte a parte, gli elementi, di che esse si compongono, che sono le cognizioni distinte, le cognizioni particolari (1). Ora chi insegna all' anima nostra a penetrare colla riflessione nel Verbo percepito? a vedere in esso le verità distinte? La potenza di far questo ce la dà lo Spirito Santo, che, come dice S. Paolo, scruta tutte le cose, anche le profondità di Dio (2). E questo parimente viene a dir Cristo, soggiungendo, dopo aver detto: « Ho ancora molte cose a dirvi« », queste altre parole: «« Ma quando verrà quello Spirito di verità egli vi insegnerà ogni verità« »: ve la insegnerà in un modo riflesso. Perocchè insegnerà forse qualche cosa che non sia in me? Darà qualche notizia che non sia contenuta come in suo principio in quello che vi ho detto? Non già: « conciossiachè non parlerà da sè stesso (cioè cose nuove), ma parlerà tutto quello che udirà » (cioè quello che udirà da me, essendo io che dò la verità, la verità stessa sussistente), «e le cose avvenire annunzierà a voi« ». E sèguita ancora nello stesso sentimento: « Egli illustrerà me, perchè riceverà del mio, e lo annunzierà a voi« (3) ». Lo Spirito Santo adunque non fa che illustrare in noi la percezione del Figliuolo, renderla questa percezione possente, luminosa, feconda di tutte le verità che nel suo seno contiene e porta. Sapere non è il medesimo che conoscere di sapere: si sanno molte cose, e non si sa di saperle. Questo è un fatto che io credo di avere stabilito indubitatamente nella Ideologia. Or che è sapere di sapere? non è altro appunto che riflettere sopra quello che si sa. Ora la percezione del Verbo fa sapere il Verbo; ma la percezione dello Spirito Santo fa sapere che si sa il Verbo, fa che noi ci accorgiamo di saperlo, e ne tiriamo di quella nostra cognizione appunto molte conseguenze. Questo è quello che insegna S. Giovanni dove afferma: [...OMISSIS...] . Altro adunque è il tenerci noi in Cristo e Cristo in noi, ed altro è il conoscerlo : il tenerci in Cristo è aver Cristo, ma il conoscerlo si fa coll' aver lo Spirito Santo: per aver Cristo basta una percezione , per conoscere che lo percepiamo è necessaria una riflessione . Lo stesso sentimento espresse Cristo quando, parlando del giorno in cui i suoi discepoli dovevano ricevere lo Spirito Santo, dice così: « In quel giorno CONOSCERETE che io sono nel Padre mio, e voi in me, e io in voi« (2) ». Non dice già che in quel giorno essi saranno in lui ed egli in essi, no, perchè già sono: ma dice, che il conosceranno . E che è l' essere in Cristo e Cristo in essi? L' avere la percezione di Cristo, il sentimento, la visione di Cristo. Che l' avessero già questa percezione e visione, si raccoglie ancora più chiaramente dalle parole di Cristo che precedono le surriferite, perchè aveva detto: « Ancora un poco, e il mondo già non mi vede: voi poi mi vedete, perchè io vivo e voi vivete« ». Lo vedevano adunque, lo percepivano anche sottratto dai loro occhi corporei, lo vedevano con degli occhi che il mondo non aveva. E a mal grado di ciò, soggiunge, che però solamente in quel giorno, nel quale riceverebbero lo Spirito Santo, conoscerebbero di vederlo, conoscerebbero l' intima unione fra lui ed essi, e come egli era in essi, ed essi in lui. Qual più manifesto luogo per mostrare che l' illustrazione dello Spirito Santo si fa per via di riflessione? E innumerevoli sono i passi del Vangelo di S. Giovanni che confermano la stessa dottrina, appunto quel di San Filippo. Egli dimanda che gli mostri il Padre, perchè non sa di vederlo nel Figliuolo. E Cristo risponde appunto chiedendogli come possa fare questa interrogazione, se vede da tanto tempo il Figliuolo? Poco prima [aveva detto] a' suoi discepoli, ch' egli andava a preparare loro il luogo; e quindi disse ancora positivamente che essi sapevano dove egli andava e sapevano la via d' andarvi (3). E questa via che sapevano i suoi discepoli, era egli stesso, come spiega tosto appresso: il Padre che era in lui, era il luogo dove andava, perchè egli aveva in sè il Padre e tutto il Paradiso, la felicità che risulta dalla verità e dalla vita: « Io, disse, sono la via, la verità, e la vita« ». E sebbene Cristo così positivamente dica, che i discepoli suoi sapevano la via e il luogo ove andava, tuttavia esce uno di loro, cioè Tommaso, che facendosi tutto nuovo di ciò come se nulla ne sapesse, gli dimanda: « Signore non sappiamo dove tu vai: e come possiamo sapere la strada?« » come tu dì. Interrogazione che mostra chiaro, come Tommaso ignorasse di sapere tuttavia quella strada e quel luogo, ignorava di conoscere Cristo Via, e il Padre a cui andava; ciò che pur Cristo avea detto esser da essi conosciuto. Ma sebbene lo conoscessero, tuttavia Cristo risponde: [...OMISSIS...] . Dice che l' hanno già veduto e tuttavia promette che lo conosceranno : che è ciò se non un dir loro, che vi ha dunque un modo nuovo di conoscerlo, cioè per cognizione riflessa, per la quale sapranno anche di conoscere ciò che sanno? (1). Dichiarato così in che modo lo Spirito insegni ogni verità, coll' illuminare cioè in noi, mediante il movimento della volontaria riflessione, l' ogni verità che è in noi precedentemente; passiamo all' altro carattere della percezione dello Spirito, ch' ella cioè sia un sentimento pel quale noi sentiamo non già una tenue idea, ma una verace sussistenza . Che, col sentimento dello Spirito Santo, noi non sentiamo puramente l' essere ideale, ma qualche cosa di reale, di sussistente, si rileva per conseguenza dalla totalità di quel sentimento. Poichè se quel sentimento è totale, cioè si sente in esso il tutto, se ci sazia perfettamente, non può essere che sostanziale la sua forma. E ora, che ci sazii interamente, è insegnato nel discorso tenuto da Cristo colla donna di Samaria, nel quale paragona lo Spirito Santo a dell' acqua viva che estingue a pieno la sete dell' uman cuore: [...OMISSIS...] . Quella parola, dono , è caratteristica nella Scrittura e propria dello Spirito Santo, come già osservarono i Padri. Or ecco come descrive quell' acqua, ch' egli voleva dare alla donna, desiderandola essa e chiedendola: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole si noti quella del FONTE: altro è l' acqua, altro è il fonte: Cristo dà l' acqua, e questa diverrà poi nell' anima un fonte. L' acqua che dà Cristo, sono quelli che abbiamo nominati più sopra doni o grazie dello Spirito, ma il fonte è lo Spirito Santo; quelli sono un avviamento, un arra di questo; questo è il compimento di quelli. Il fonte è perenne e stabile, può attingersi acqua quanta sen vuole: il che esprime quella potenziale totalità di notizie e di grazie che nella persona dello Spirito Santo si comprendono e che si attingono colla buona volontà dell' uomo successivamente senza fine, cioè senza che mai si dissecchi il fonte. E dice: « Un fonte saliente alla vita eterna« ». Viene quell' acqua dall' alto e in alto ritorna: quell' alto è il Padre stesso onde quella fiumana di acqua derivasi; quell' alto è il luogo, di cui disse: « Vado a prepararvi il luogo« »; appunto allora quando andava al cielo per mandare di lassù lo Spirito. E questa abbondanza e quasi direi ridondanza di acqua viva, cioè di acqua che dà la vita e spegne la sete, propria della persona del Santo Spirito, è indicata più volte da Cristo, come là dove dice: [...OMISSIS...] . Dopo le quali parole, l' Evangelista soggiunge: [...OMISSIS...] . E medesimamente in più luoghi si dà allo Spirito questa proprietà di saziare pienamente, come là dove si distingue il « gaudio« » dal «« gaudio pieno« (2) », si distingue la « vita« » dalla «« vita più abbondante« (3) », si distingue la « chiarezza« » ricevuta dal Figlio, dalla «« chiarezza infinita e piena« (4) »; e finalmente, dopo aver Cristo consumata l' opera datagli dal Padre e santificati i suoi, ancor prega per essi, ancor dimanda al Padre che li santifichi nella verità, e desidera che siano essi pure là ove è egli insieme con lui (5). Questo compimento sovrabbondante dell' opera è il carattere appunto, a cui si distingue l' opera dello Spirito Santo. Un' altra prova che la percezione dello Spirito è di cosa reale sussistente, si trae da quel vero posto da noi già innanzi, che l' azione ideale non ha virtù di muovere gran fatto la volontà nostra, ma sì bene solo l' azione in noi di cosa reale (6). Ora quali sono gli effetti della percezione dello Spirito? Efficacissimi: il fatto l' ha mostrato, e la promessa di Cristo si è avverata. Egli aveva detto, prima di salire al cielo, in accomiatandosi dagli Apostoli: [...OMISSIS...] . Ecco il proprio effetto dello Spirito personalmente ricevuto, la virtù, cioè la fortezza, il coraggio, il zelo di testificare il nome di Cristo anco a fronte di mille pericoli, e della morte e de' supplizi: [...OMISSIS...] . A chi darà testimonianza di Cristo lo Spirito Santo? Agli Apostoli stessi che l' avranno ricevuto. Ora il dare testimonianza è proprio della persona , nè alle cose con proprietà di parlare conviene. Il terzo argomento adunque a provare, che nella percezione dello Spirito noi sentiamo una cosa reale e sussistente, è l' attribuirsi [a lui] dalle divine Scritture degli atti personali , che non alle idee , ma alle sussistenze sole possono convenire: come a ragion d' esempio, quando S. Paolo dice che lo Spirito domanda per noi con gemiti inenarrabili (3); che egli grida nel nostro cuore: Abba, Padre (4); che egli scruta le cose profonde di Dio (5); che egli diffonde in noi la carità e fa altre simili operazioni. Noi sentiamo in tutti questi passi supporsi sempre lo Spirito in noi come una persona sussistente: e anzi di più un principio operante nella nostra stessa personalità, sicchè gli effetti che in noi cagiona, a lui stesso si attribuiscono, appunto per essere fatti noi con lui una cosa sola, essendo egli la forma nostra e noi da lui informati. Ciò che viene espresso in questo mirabile modo di esprimersi che usa Cristo: « Chi è nato dalla carne, è carne; e chi è nato dallo spirito, è spirito« (6) ». Ciò che viene a dire, che chi ha la volontà attaccata alla carne, riceve da essa un istinto carnale, il principio attivo che costituisce la personalità viene ingenerato appunto in lui dalla carne: là dove la volontà, ove opera lo Spirito Santo e a cui essa consente, ha un altro principio attivo più elevato, eccitato in lei dall' azione del Santo Spirito e che s' identifica col principio operante dello Spirito stesso; ed è questa la nuova personalità acquistata dall' uomo santo per la santificazione dallo Spirito comunicatagli. Finalmente ai passi della sacra Scrittura aggiungerò qualche luogo de' Padri, ove si vegga esser pur questo loro sentimento che la venuta personale dello Spirito Santo fosse stata riserbata da Cristo a farsi il giorno della Pentecoste e non prima. S. Agostino così parlò in un sermone da lui tenuto al popolo nella seconda festa di Pentecoste: [...OMISSIS...] . Nulla di più chiaro di questo passo che non ha bisogno di commenti a provare la nostra proposizione. Osserverò bensì come S. Agostino nota con grande cura la PERMANENZA dello Spirito Santo, il che conferma e ribadisce quello che noi abbiamo più sopra tolto a provare, cioè esser carattere distintivo della grazia del nuovo Testamento la PERMANENZA della percezione divina, sia del Verbo, sia dello Spirito (2). Or qui S. Agostino assai acutamente aggiunge l' osservazione, che questa PERMANENZA non è propria dei doni e grazie particolari che anche attuali si posson chiamare; ma si è propria della congiunzione nostra colla persona divina, la quale è grazia universale e abituale . I doni poi e le grazie particolari e attuali stanno bensì insieme colla persona (3); ma l' unione della persona rimane costante, le grazie e doni passano e vengono in maggiore o minore abbondanza. Indi si spiega perchè, sebbene Cristo non cessasse mai dall' essere unito co' suoi discepoli, neppure nel tempo in cui si operava la sua passione e la sua morte; tuttavia descriva quel tempo, come tempo di grave pericolo e tentazione pe' suoi. Il che era per la diminuzione de' doni e grazie che, togliendosi la sua presenza divina, sebbene solo esteriormente, ne proveniva agli Apostoli; e per la permissione data all' inimico in quell' ora di operare più potentemente e liberamente. Quindi la predizione di Cristo sulla caduta di Pietro e fuga de' discepoli; quindi le parole: « Questa è l' ora vostra, e la podestà delle tenebre« (1) ». Le quali tenebre indicano anco la sottrazione de' lumi, che in quel tempo facevasi all' anime buone; e quindi finalmente l' orazione, onde raccomandò al Padre i discepoli per quel tempo che egli li abbandonava andando alla passione e morte: [...OMISSIS...] . Le divine Scritture dicono manifestamente che il Figliuolo è quegli che fa conoscere agli uomini il Padre: [...OMISSIS...] . E in altro luogo Cristo, rispondendo a Tommaso che gli domandò dove egli andasse, avendo prima Cristo favellato d' un andar suo in certo luogo misterioso, così gli dice: [...OMISSIS...] . L' operazione del Figliuolo nelle anime è di far loro conoscere Iddio Padre; sicchè sul fine della sua vita Cristo disse all' eterno Genitore: [...OMISSIS...] . Ma chi trae al Figliuolo? Chi fa sì che noi percepiamo quella verità sussistente nella quale si vede il Padre? Chi ci dà, chi porge alle nostre menti questa verità divina? Questa è l' operazione che fa nelle anime il Padre stesso. Nel Vangelo è di frequente data questa dottrina. Eccone i luoghi principali. [...OMISSIS...] E poco appresso, togliendo a spiegare quel detto de' Profeti, che saranno tutti capaci di venir ammaestrati da Dio medesimo, così nel commenta: [...OMISSIS...] . E nello stesso capitolo dice l' Evangelista che, sapendo Cristo che alcuni non credevano alle sue parole e conoscendoli disse: [...OMISSIS...] . Cristo diceva parimenti, che i suoi discepoli era stato il Padre, che glieli aveva dati: [...OMISSIS...] . Dice ancora che è opera del Padre la fede (6): ch' egli non faceva niente da sè stesso (7); che egli parlava le cose che udiva dal Padre (.); che la sua dottrina non era sua ma di chi l' aveva mandato (9); che il vero pane celeste, cioè egli stesso, è dato agli uomini dal Padre (10); in assaissimi luoghi finalmente dice di essere stato mandato dal Padre. Tuttavia il Padre a questo mondo non è visibile dall' anima per sè stesso, ma solo pel Figliuolo: e in questo non vedersi del Padre propriamente consiste la fede. A questo mondo non si vede il Padre, il Principio della Trinità immediatamente, ma si prova però il suo agire in noi e si crede ciò che del Padre ha rivelato il Figliuolo: la gloria futura consisterà nel vedere immediatamente e svelatamente il Padre. Perciò al Padre si attribuisce da Cristo la proprietà dell' essere nei cieli : e volendo descrivere la gloria celeste degli angeli, egli dice appunto così: « I loro Angeli veggono sempre la faccia del Padre mio che è ne' cieli« (11) »: additando questo come la nota caratteristica della visione beatifica; siccome pure allorquando vuole indicare che egli è comprensore e gode della visione beatifica, usa dire, che vede il Padre (1). Qui ancora è la ragione perchè Cristo, dopo aver detto che chi manterrà il suo sermone, sarà amato dal Padre, non soggiunge che il Padre verrà a lui, ma che verranno insieme: « ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus »; appunto perchè non il Padre in sè, ma il Padre viene in noi nel suo Figliuolo. Quindi poco innanzi aveva manifestato lo stesso sentimento in altre parole, dicendo: « Chi ama me, è amato dal Padre mio: e io l' amerò e gli manifesterò me stesso« ». Invece di dire, che gli si manifesterà il Padre, o che verrà col Padre, dice, che gli manifesterà sè stesso: il che era quanto dire che gli manifesterà anche il Padre che si vede in lui. Per la stessa ragione ancora non dice, che egli esaudirà le preghiere de' suoi discepoli semplicemente acciocchè il Padre suo sia glorificato, ma ci aggiunge il modo di questa glorificazione, cioè nel Figliuolo: [...OMISSIS...] . Da tutte queste parole del Vangelo risulta, 1 che il Padre è quello che manda il Verbo nelle anime, le quali nel Verbo conoscono il Padre; 2 che il Padre tira le anime al Verbo. Queste due cose rientrano nello stesso: il Verbo è la specie, la conoscibilità di Dio, per così dire, la [sua] luce. Nel ricevere noi questa specie, questa luce divina che illumina il nostro spirito, noi siamo passivi, noi la riceviamo, perchè una potenza occulta, irresistibile, infinita, ce la presenta, egli ce l' attacca, per così dire, allo spirito. Questa passività nostra e in conseguenza questa potenza infinita che mette nelle anime nostre la luce, il Verbo, noi la sentiamo; e il sentimento di questa potenza occulta è il sentimento del Padre. Dopo però che noi abbiamo questa luce, e dopo che per la rivelazione esterna noi sappiamo che questa luce procede dal Principio che la manda, e prestiam fede a questo; allora noi veggiamo nel Verbo il Padre, cel veggiamo perchè la rivelazione esterna ci ha detto esservi, e perchè il sentimento interiore ci dice altro essere la luce, e altro la forza onde cominciò a esserci presente la luce. E veramente, nell' analisi di qualunque sensazione si distingue la sensazione dalla forza o causa che l' ha in noi prodotta; e per la sensazione è che si conosce questa forza, sebbene questa forza sia stata quella che ha prodotto la sensazione. La forza dunque, causa delle sensazioni, è anteriore alle sensazioni, nell' ordine delle realtà; ma nell' ordine delle idee, o percezioni nostre, la sensazione precede la cognizione della forza che l' ha prodotta, andando noi col pensiero dall' effetto alla causa. Ciò che dico delle sensazioni, deve applicarsi a tutte le specie intellettive, idee e percezioni: solamente con questa differenza, che le sensazioni non sono che modificazioni di noi stessi, e quindi non hanno nulla in sè di reale e oggettivo, mentre la specie, o percezione intellettiva, è oggettiva essenzialmente, e oltre il rendere noi passivi, è anche in sè qualche cosa di indipendente al tutto da noi, sui quali ella opera. Egli è dunque evidente che, se è vero che il Verbo entra nelle anime nostre, vi opera, vi produce un deiforme sentimento; conviene che per lui veniamo anche in cognizione di quel principio che affigge in noi il Verbo e che [deve] esser realmente diverso dal Verbo stesso: si vede in questo che la specie, come specie, è diversa dalla potenza di agire, sebbene in quella si trovi poi anche la forza, e in questa anche la specie. Il Verbo dunque è il principio della conoscibilità del Padre: ed è questo che dicono quelle parole con le quali Cristo, interrogato chi egli era disse: « Il Principio che a voi parlo« ». Non disse solamente il Principio ma il Principio parlante ; per indicare appunto, che egli è il Principio di ogni cognizione e che qualsiasi cosa sappia l' uomo dal Padre, non può saperla che per lui (1). Le cose dette eccitano desiderio di sapere più avanti in una materia sì recondita e alta: nella quale però nulla è più da raccomandarsi che la sobrietà del sapere, la quale consiste nel non presumere di investigare ciò che non si può. Checchè però ci sia dato da Dio di poter conoscere in tale argomento, è cosa da averla come un tesoro; giacchè la minima parte di cognizione, come dice l' Angelico, che aver si possa intorno a cose sì degne e alte, come le divine, è più desiderabile di ogni altra certissima cognizione che si abbia delle cose inferiori (2). Mettiamoci adunque più addentro nella materia, rivolgendo però il discorso, più che ad altro, a dare tale chiarezza alle cose dette, per la quale apparisca assai manifesto quanto ciò che abbiamo detto sia conforme alla cattolica verità (3). In prima dunque è da considerarsi che non parliamo di una manifestazione del Padre per segni e figure esterne, nel qual modo non è dubbio essersi lui manifestato più volte agli uomini: ma parliamo di quella rivelazione interiore che l' augusta Trinità fa di sè nelle anime sante per la grazia, benchè ad altre più e ad altre meno: manifestazione che abbiamo chiamata deitriniforme , perchè porta in noi un sentimento triplice e di tal modo che in ciascuno qualsivoglia dei tre modi di questo sentimento noi abbiamo un sentimento tale, in cui non manca nulla, un sentimento onde siamo consci di sentire tale sussistenza, ove nulla manca e che è tutto l' essere , è Dio. Ciò posto, egli è manifesto che si vuol distinguere il modo di questo sentimento, che chiameremo il sentimento del TUTTO, dallo stesso TUTTO che in ciascun modo egualmente si sente. Questi modi di sentire corrispondono ai modi diversi onde il TUTTO sussiste; e sussistendo il tutto in tre modi, cioè come principio conoscente e amante (Padre, generante), come conoscibile (Figlio generato), e come amabile (Spirito, spirato), in tre modi pure si sente. Ora ciò che si dice si è, che noi non possiamo ricevere il tutto cognosibile , che è il medesimo che dire l' essere essenzialmente conoscibile, il Verbo, se non nella sua relazione col principio , da cui procede; perocchè la conoscibilità di una cosa suppone e chiama la mente che la conosce. Laonde col solo vedere la conoscibilità dell' essere, questa relazione, noi intendiamo che aver ci dee il principio da cui provenga: e questo è il Padre. Se fosse possibile che noi percepissimo l' essere in quanto è conoscibile , senza la sua relazione necessaria coll' essere quale conoscente , noi allora non vedremmo il Figliuolo, perchè il Figliuolo è questa relazione appunto che ha l' essere conoscibile, la relazione cioè intrinseca di avere chi conoscendolo, il rende conoscibile, ossia lo genera. Se all' incontro noi percepiamo questa relazione, egli è manifesto che in essa veggiamo anche la relazione della Paternità che è quella del generare , cioè del conoscere in modo che l' oggetto cognito sussista come cognito; siccome abbiam detto più sopra. Questo è ciò che dicono i Padri. [...OMISSIS...] E quando i singoli il conoscono e percepiscono? Non prima, secondo il santo Dottore, che essi abbiano conosciuto e percepito che egli è da un altro. Checchè abbiano conosciuto prima di ciò non si può dire che abbiano ancora conosciuto il Verbo, eziandio chè abbiano conosciuto cosa che si approprii al Verbo: poichè il Verbo è una relazione, la relazione di essere generato dal Padre. Ecco le parole del santo Vescovo: [...OMISSIS...] . Quindi quando il Verbo è nelle anime, egli vi è, nè vi può essere altramente, che come esistente dal Padre: onde è necessario che il Padre lo mandi nelle menti; e se si dice che egli viene, egli viene, ma come mandato, e però non si può conoscerlo senza che in lui si conosca la necessità del principio da cui è, cioè il Padre. Quindi i Padri della Chiesa dicono del Verbo, che è mandato nelle anime sante, mentre del Padre non si legge mai che sia mandato, perchè egli anzi non può essere ricevuto nelle nostre menti che tale come è, cioè come principio mandante. [...OMISSIS...] E` dunque necessario che il Verbo venga nelle anime nostre come mandato , perchè possiamo dire d' averlo in noi, e altresì fu necessario che come mandato s' incarnasse. E quindi è che Cristo ha potuto applicare alla sua incarnazione quelle parole: « Io sono uscito dal Padre e venni nel mondo« (3): e quelle altre:« Io venni in nome del Padre mio« (4) »; cioè egli ha potuto esprimere colle stesse espressioni l' eterna sua generazione e la sua generazione nel tempo , perchè egli apparì nel tempo come mandato dal Padre: onde l' incarnazione non fu che un comunicarsi alla umanità come generato dal Padre (5); fu, quasi direbbesi, un generarsi o, per dir meglio, un apparir generato nella umanità. Si dice dunque mandato Cristo, perchè viene nell' umanità, opera e si dà a conoscere nella sua qualità di eternamente mandato , che equivale al dirsi Figlio di Dio (6). E conoscendosi come mandato e come tale ricevendosi nelle anime nostre, in lui necessariamente si sente il mandante che opera nelle anime pel suo Verbo. Vero che in questa vita non ci viene svelato il modo di questa missione o generazione; e quindi il Padre nol veggiamo propriamente come generante , e come tale solo il crediamo , perchè ci è rivelato dalle parole del Figlio, e perchè nel generato il sentiamo. E di qui è che la santissima Triade rimane il gran mistero della fede, perchè il principio di lei è occulto in questa vita, e quindi non si può intendere il modo della generazione e della spirazione, che solo spiegherebbe il nodo del mistero. Gesù Cristo disse costantemente che le sue parole avrebbero ricevuto lume e splendore dalla venuta dello Spirito Santo; che questo divino Spirito avrebbe reso nelle anime testimonianza di lui, e avrebbe fatto via più conoscere lui stesso; venendo, la divina sua persona sarebbe stata dallo Spirito chiarificata: cioè le anime, nelle quali abita Cristo, come dice S. Paolo (1), ricevendo lo Spirito, avrebbero potuto percepire il Verbo in una luce più viva, fornito di una gloria più manifesta; visione che avrebbe eccitati e mossi i suoi discepoli a far conoscere Cristo ancora agli altri e dare di lui al mondo tutto testimonianza. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Ed egli è per questo che il divino Spirito si chiama Spirito della verità, che è il medesimo come dire,« Spirito del Verbo divino«, perchè emana dal Verbo come calore da luce. E` dunque l' impressione dello Spirito Santo nelle anime un cotale affetto di amore, una cotale gioia della verità che si diffonde nell' anima, pel quale affetto l' anima contempla e imbeve e s' innebria della luce della verità; e questo amoroso sentimento egli stesso è pieno di verità, e solo esso sazia e empisce il bisogno dell' anima intelligente. Per questo è che lo Spirito divino dà chiarezza nelle anime al Verbo divino. Indi in quella sublime orazione che fece Cristo nel cenacolo prima della sua passione, con quelle parole: « Padre, viene l' ora, chiarifica il tuo Figliuolo, acciocchè il tuo Figliuolo chiarifichi te« (1) »: egli domandava al Padre la venuta dello Spirito Santo e adempiva la promessa fatta prima agli Apostoli, quando aveva loro detto: [...OMISSIS...] . Di che si vede quale ruota, a così dire, di perpetuo movimento luminoso e gaudioso si giri nelle anime beate di quei santi che hanno in sè stessi la Trinità. Poichè l' amore è sempre in attività dentro essi a contemplare la sapienza, nella quale si vede il principio di lei come infinito e necessario. Alla vista del quale l' anima si congiunge più ed è tratta alla sapienza sussistente che emana di sè un amore infinito; il quale torna a riflettersi in quella sapienza che è lume che mostra l' eterno primordiale principio altissimo, il quale operando perpetua questa dilettosa vicenda e quasi ondulazione di recondito e secretissimo godimento. Conciossiachè la fede negativa della Trinità che si ha per la rivelazione esterna, non è ancora l' immensa azione interiore e il positivo sentimento delle persone divine. Ma allora quando lo Spirito da principio operando dà l' efficacia a quelle idee negative che già in essa erano [per la rivelazione esterna], un tutto veramente positivo si percepisce, e tosto già comincia quella perpetua azione e circolare rivolgimento dei[trini]forme che è una cotale partecipazione ineffabile della vita di Dio (3). Laonde, come dice S. Cirillo di Alessandria, quella pienezza che emana dal Padre e dal Figliuolo pel solo Spirito Santo sta in noi: non già quasi che egli imprimesse, a maniera di ministro, cose che altrui e non a sè appartengono, e facendo in noi di ministro le veci; ma perchè egli porta nella sua propria natura la natura propria degli altri due (1). Abbiamo fin qui distinto la rivelazione esteriore e la rivelazione interiore ; quella comune a tutti gli uomini perchè non richiede ad essere percepita se non le potenze naturali dello spirito umano, questa propria di quelli a cui Iddio comunica la grazia che trasporta l' uomo in uno stato soprannaturale e l' accresce di nuove potenze; quella tutta ideale, tutta composta di idee negative , questa effetto di una reale azione sull' uomo, composta di sentimenti, di percezioni; quella perciò tale che fa conoscere Iddio per certe relazioni colle cose naturalmente cognite, questa che fa conoscere Iddio per esperienza, immediatamente, per una comunicazione della sua propria sostanza fatta a noi. Or questa rivelazione interiore è tutta composta di sentimenti e percezioni: ma siccome noi abbiamo la facoltà di riflettere su tutti i sentimenti che noi proviamo, così possiamo anco riflettere sopra di lei ed osservare, almeno fino a un certo segno, ciò che avviene in noi in quella soprannaturale comunicazione, massime nel tempo delle grazie speciali e attuali, e finalmente mettere in parole queste osservazioni e ordinarle in corpo di scienza. Or questa è la Teologia mistica che dicono dottrinale : mentre la stessa comunicazione con Dio la dicono sperimentale , e anch' essa veramente si può dire scienza, perchè Iddio è un oggetto per sè conoscibile, e quindi, a differenza dell' altre cose, il sentir lui, come abbiam detto, è conoscerlo, e anzi non si dà di lui altro vero conoscerlo che pure il sentirlo (2). Di qui si vede sufficientemente la differenza fra la Teologia rivelata (3) o comune, e la teologia mistica o segreta; che sono come le due parti di quella cognizione che possono avere gli uomini di Dio in questa vita (4). Le parole non si intendono se non si sa che cosa significhino. Per intendere le parole che udiamo proferire, conviene dunque: 1 aver l' idea della cosa significata dalla parola; e 2 sapere altresì che questa parola fu istituita a significare quella idea. Or come abbiamo noi le idee delle cose? Noi non conosciamo propriamente le cose, cioè non ne abbiamo le idee positive, se non mediante le percezioni delle medesime, cioè mediante quei sentimenti che esse hanno cagionato in noi (1). Ora il sentimento della grazia, il sentimento deiforme è tal sentimento che è al tutto distinto da ogni altro, e tanto distinto, quanto è distinto Iddio da tutte le cose create. Dunque chi non ha questo sentimento, questa percezione, non può avere l' idea corrispondente: dunque quand' anco fossero trovate e istituite delle parole a significare quei sentimenti e percezioni, queste parole non avrebbero alcun valore positivo per tutti quelli che non avessero ricevuto in sè stessi e provati quei sentimenti. Con questo si spiega quello che dice S. Paolo d' aver udito (nel suo celebre ratto) delle arcane parole che non lice all' uomo di proferire (2): il che vuol dire delle parole che l' uomo non può usare, perchè sarebbero inintelligibili, giacchè gli uomini non hanno le idee corrispondenti alle medesime, perchè non provarono quei sentimenti a cui quelle idee si riferiscono; giacchè come il medesimo Apostolo dice, [...OMISSIS...] . Con questo medesimo parimente è chiaro, perchè delle stesse cose divine in tanto altro modo giudica il mondo e il cristiano, a segno tale che il mondo e il cristiano usano a giudicare due criteri diversi e opposti, e ognuno ha la sua propria sapienza, e l' una non intende l' altra; e per così dire si sono presenti, e non si veggono: quindi la sapienza del mondo giudica insania la sapienza del cristiano, la sapienza del cristiano stima manifestamente pazzia la sapienza del mondo. Ciò nasce perchè il mondo e l' uomo cristiano delle stesse cose non han già gli stessi sentimenti, le stesse percezioni: giacchè le cose divine si comunicano ineffabilmente e segretamente all' anima dell' uomo sollevato all' ordine soprannaturale e vi diffonde un sentimento nuovo, maraviglioso, del quale l' uomo del mondo è al tutto privo, non eccedendo il sentimento suo i confini della natura, e però non avendo di Dio e delle cose divine se non un' idea negativa: di che è quella sentenza dell' Apostolo, che « l' uomo animale non percepisce quelle cose che sono dello Spirito« (2) ». Colla dottrina medesima parimene s' intendono certi luoghi misteriosi delle divine scritture; come quello dove si legge: « Al vincitore darò la manna nascosta, e gli darò una bianca pietruzza e sovr' essa scritto un nome nuovo, che nessuno sa se non quegli che riceve la pietruzza« (1) ». Ora quella manna nascosta è appunto il dolce sentimento della grazia, nascosto a tutti quelli che nol provano: e il nome nuovo indica quella nuova natura che ha ricevuto l' uomo passando dall' ordine naturale al soprannaturale (2): e il non saper leggere questo nome altri ch' egli solo, è appunto quell' essere egli solo conscio di ciò che passa nel più riposto segreto del suo spirito, dove nessun occhio creato può mettersi a spiare ciò che ivi succeda, ma è perfettamente impenetrabile fuorchè a Dio solo, perchè è l' essenza intellettiva dell' uomo (3), sulla quale non può agire nessuna creata sostanza (4). Indi è che i Santi, come non s' intendono se non fra loro e hanno una lor propria lingua, così formano fra loro altresì una particolare società secondo la dottrina della Scrittura. L' Apostolo Paolo di questa società, che talora chiama una Società di spirito (5), dice così: [...OMISSIS...] . E S. Giovanni la descrive con quelle parole: [...OMISSIS...] . Ecco qua, lo stesso vincolo onde gli uomini si associano col Padre e col Verbo suo, è quello onde gli uomini si associano anco fra loro, una stessa carità li lega a Dio e fra loro, perchè appunto l' associarsi e l' essere fra loro legati non è altro che il trovarsi tutti simili in questo appunto, cioè nell' essere con Dio consociati, Dio essendo la forma e quindi medesimo il semplicissimo nodo a tutti comune, in che si semplificano ed unificano. Del quale effetto il principio è la fede; lo insinua S. Giovanni nelle riferite parole, con le quali promette di predicar Cristo, appunto perchè indi ricevendo la fede, possano avere insieme con lui quella segreta e tutta spirituale società e comunicazione che hanno insieme i soli credenti (1). Quindi s' intende ragione, per la quale i Padri insegnano che perfetto teologo non può esser mai di quelli che non congiungono allo studio la santità della vita e l' esperienza de' veri eterni: perocchè, privo di questa, l' uomo non potrebbe intendere tutta quella parte di cui parliamo, di segreta e sublimissima teologia. Un' altra scienza si potrà sapere senza la bontà della vita; quella delle cose soprannaturali e divine, no: perocchè di questa una grande e la miglior parte nasce dallo sperimento che l' uomo ha di Dio, il quale non comunica sè stesso a cui non fa degno (2). La Teologia è dunque dottrina comune e dottrina segreta. Indi è che le stesse parole delle due Teologie hanno una significazione infinitamente diversa, non opposta però, ma nell' una più profonda che nell' altra; cioè meno profonda significazione hanno intese da quelli che non ne ricevono che il suono esteriore e il significato negativo, e più immensamente, intese da quelli che ne sentono in sè e ne sperimentano l' interior virtù e valore. I primi hanno una cognizione naturale, il cui principio è l' idea : i secondi hanno una cognizione soprannaturale, il cui principio è il Verbo di Dio, che si dà loro a percepire mediante una sua reale azione che fa in essi. Una parola esprime una sola idea , ma se unitamente a questa parola havvi la percezione della cosa, significata, questa percezione è tale che non l' avrebbero potuta dare nè pure un milione di parole. Imperocchè che avvicinamento è fra le parole e le cose? Che possono far le parole se non risvegliare le percezioni avute delle cose? Ma chi è privo di queste percezioni, tutte le parole son vane, o certo non dànno che un assai freddo e tenue significato. Chi non avesse mai avuta la senzazione della luce, per aver gli occhi velati, potrebbe assai più facilmente conoscere ciò che fosse la luce in un istante col trargli da sopra gli occhi il velo, che non facesse in molti anni, parlandogli continuamente della luce, e tenendogli tuttavia bendati gli occhi. Così un atto istantaneo di esperienza vale più di un secolo di parole, di segni, e di imagini che non abbiano nessuna vera similitudine colla cosa che vogliono esprimere. La parola« Dio«, per esempio, racchiude ella sola e vale assai di più per un uomo, a cui Dio siasi degnato di palesarsi interiormente, che non delle biblioteche intere di volumi, cui a leggere non bastino le vite di molti uomini, per chi non ha mai avuto interna comunicazione e percezione delle divine cose. Questi nella lettura di tanti volumi raccorrà sì un gran numero di idee, ma nessuna di esse è Dio, in nessuna ha percepito la divina natura, tutte queste idee non gli dànno che semplici relazioni, insufficienti affatto a prestare un vero conoscimento dell' Ente Supremo: egli crederà di sapere grandi cose intorno a Dio, perchè ha pure pronto alla mano un subisso di distinzioni sottili, un profluvio di parole, un fonte inesausto insomma di pompose e dotte disputazioni. Ma che fa tutto ciò? L' uomo idiota, a cui ha parlato Dio stesso, ne sa più di lui (2). In questo consiste la sublime semplicità del Vangelo: ella è fatta per tutti gli uomini, perchè non ha bisogno di troppe parole, nè di troppe distinzioni e studiate sottigliezze, in pochissimi detti si può raccogliere. Sì bene ha bisogno dell' esperienza che dia il vero e immediato valore a quei pochi detti; giacchè poche ed anche una sola parola intesa in questa maniera racchiude in sè più scienza e più sapienza di quella che possano raccorre tutti gli uomini che sono vivuti e che vivranno unque mai sopra la terra, insieme presi. Non è evidente che dovrebbe usare più parole e più sottigliezze, più ingegno, il cieco che volesse parlare della luce, anzi che quelli che la vede cogli occhi suoi? E tuttavia quello dopo tanto parlare nulla direbbe a proposito, o certo nulla che egli stesso intendesse del proprio discorso. Con ragione adunque dice il pio autore del libro dell' Imitazione: [...OMISSIS...] . Indi è che la filosofia puramente naturale, ove voglia mettersi a parlare come maestra delle materie soprannaturali della cristiana Teologia, suole snaturare questa dottrina coll' introdurre in essa delle sottigliezze perniciose e false, delle interminabili dispute, dei raggiri implicatissimi di parole; perocchè ella crede di conoscere, per una cotal sua presunzione, ma veramente non ha mai conosciuto, non ha mai veduto la materia, in che temerariamente pon mano, ed è veramente il cieco che giudica dei colori. Indi le eresie tante nate dal Platonismo ne' primi tre secoli della Chiesa: quelle nate dall' Aristotelismo, cominciando da Ario (2) fino a...; e l' incredulità ne' più recenti secoli, germinata dalla confusione delle idee filosofiche, prodotta dalle scuole moderne. Indi i lamenti incessanti dei Padri, fino dai primi secoli, contro la filosofia cui chiamano infettrice e interpolatrice della verità (1); perchè colla filosofia insieme entravano nelle sacre cose le questioni interminabili, la moltitudine delle insulse parole e l' affettazione di una umana e veramente puerile dottrina: e così periva la semplicità, la maestà, la pace, l' evidenza della dottrina evangelica. Perciò S. Gregorio taumaturgo diceva: [...OMISSIS...] . Il Nazianzeno parimente deplora il vedere esser sottentrate nella chiesa le fallacie sofistiche e un male augurato artificio di arte aristotelica, e altre tali cose, siccome cotali piaghe d' Egitto (3). E nel carme della sua vita egli dipinge i filosofi e le loro disputazioni, nella chiesa introdotte a gran danno della Teologia (4). Da tutto ciò finalmente apparisce la ragione del modo grave, placido e sicuro, col quale s' insegna la dottrina evangelica: l' opposto dell' insegnamento filosofico, il quale è querulo, ansioso, incerto e burrascoso. Non avviene ciò solamente perchè la dottrina di Cristo procede da una autorità infallibile: ciò basta bensì a renderla certa in sè stessa, ma non a farla credere con fermo assenso e molto meno a farla intendere. Se il Verbo stesso colla sua azione reale non operasse nelle anime, le sole parole esteriori aventi un significato negativo sarebbero sempre soggette a una intelligenza continuamente variabile, a delle interpretazioni indefinitamente diverse e di continuo rimutabili (1): per creder loro si torcerebbero a significare un senso umano e naturale: altramente non si presterebbe punto loro fede. Questo è ciò che è appresso i protestanti. Il magistero adunque della chiesa non è già formato solo dal deposito della rivelazione, ma sopra tutto è sostenuto e reso possibile dalla grazia. Questo è ciò che significano le parole di Cristo: « Io sarò con voi sino alla consumazione de' secoli« ». E quelle altre dello Spirito Santo: « E io pregherò il Padre, ed egli darà a voi un altro Paracleto, acciocchè permanga con voi in eterno« (2) ». Perocchè lo Spirito e il Verbo sono che fanno l' azione reale nell' anima e la collustrano. Al filosofo, cioè all' uomo nell' ordine naturale, non [è data] la percezione interiore di Dio: non ne ha che l' idea negativa. Supponendolo in questo stato, egli è privo di fede, egli nega dunque tutto ciò che eccede i sensi crassi o le facoltà del suo spirito: il che è quanto dire che egli cade quasi direi naturalmente nella incredulità e nella empietà. Egli è certo che se il nostro spirito non fosse mai stato collocato in questo mondo, o non avesse ricevuto le impressioni delle cose sensibili, e tuttavia ne sentisse parlare, nulla ne intenderebbe o, se ne intendesse, negherebbe fede al narratore. Non è adunque che la filosofia sia per sè stessa mala cosa. [...OMISSIS...] E` bensì da incolparsi la inclinazione dell' uomo a negar fede a ciò che non conosce; su di che dovrebbe almeno sospendere il giudizio, e non partire nelle sue sentenze da quel pregiudizio pieno di presunzione, che niente sia, o sia possibile, se non ciò che non eccede i confini del suo sapere. Questa presunzione di giudicare, ed esser pronti a rifiutare ciò che non sanno, è l' errore de' filosofi; e di questo incolpa gli uomini del secolo San Paolo, ove dice che bestemmiano quelle cose che non conoscono (1). Nè v' ha un' assoluta necessità che così avvenga, ma pure così avviene il più per l' innata malignità che è nel cuore dell' uomo a quelli i quali dànnosi tanto alle scienze naturali, che tutta la loro confidenza in quelle ripongono e credono che tutto lo scibile si acquisti pei loro studi; quando la speculazione naturale ha corte le ali nelle regioni divine, se non soccorre la soprannaturale rivelazione e manifestazione che Dio fa agli uomini di sè stesso. Quindi è che fin gli Apostoli parlarono della filosofia presso a poco come fosse un equivalente di empietà: [...OMISSIS...] . E nulladimeno S. Paolo non rinunzia già alla sapienza, ma vuole il vero sapere, quel sapere reale che nelle cose divine sta appunto, non in vane idee , ma in vere percezioni soprannaturali. Ecco qual genere di sapienza propone l' Apostolo a quei di Colosse: [...OMISSIS...] . Vuole adunque l' Apostolo non solo la sapienza, ma ogni sapienza; e tuttavia esclude la filosofia come una fallacia: vuole la pienezza, e non la vanità: vuole le cose, e non le parole. Egli viene appunto a essere quello stesso che dice il libro Dell' Imitazione le cui parole abbiamo surriferite: [...OMISSIS...] E il medesimo Apostolo aveva descritta questa cognizione e percezione reale, non dell' orecchio al di fuori, ma dell' anima al di dentro, poco innanzi al luogo citato, dicendo a quei fedeli di Colosse che li voleva istrutti [...OMISSIS...] . Ecco dov' è la pienezza dell' intendimento, ecco tutte le ricchezze, i tesori tutti della sapienza e della scienza: stanno non nelle idee semplicemente, ma nella comunicazione che fa Cristo e lo Spirito di sè alle anime, nelle quali prende ad abitare. Da tutto questo si può conchiudere che la filosofia è buona nelle cose umane, perchè di queste ha le percezioni, ossia la materia del ragionare. Ma se ella si applica alle cose sovrannaturali prima della fede, non può che rovesciare negli errori: ella diventa quella « scrutatrice della maestà » che, come dicono le Sacre Carte, «« resta oppressa dalla gloria« (1) ». Gli uomini del secolo adunque, ristretti dentro il circolo delle cognizioni naturali, non sanno che esista altra cognizione delle cose divine se non quella che consiste nelle idee . Tutta la loro sapienza nelle idee è contenuta, cioè in idee negative e vuote, atte bensì a dare occasione a grande apparato di scienze, perchè atte a ingenerare innumerevoli parole e dispute e a riempire biblioteche intere di scientifiche ricerche. All' opposto l' uomo di Dio sa per esperienza che vi ha un altro genere di cognizione e di sapienza, consistente non già in pure idee, ma in sentimenti e perciò in reali percezioni, di cui egli ha sperimento. Questa sperienza gli dice, che vale più una sola percezione della cosa, di tutte le parole, le dispute, le scuole e le biblioteche della terra. La sua scienza pertanto di Dio consiste nel fatto , è una cognizione positiva , piena, soddisfacente, operante. Questa non è un fonte di tante parole, perchè le parole finiscono ove si è conseguita la cosa che si cercava colle parole. Indi nell' uomo di Dio, che ha in sè stesso una tale misura a cui confrontarla, nasce una cotal freddezza e indifferenza per quell' apparato di scienza esteriore fucata, verbosa, ambiziosa, conghietturale ed incerta, di cui solo fa pompa l' uomo del secolo perchè crede che sola essa esista e che fuori d' essa non siavi altro sapere. Indi è che la letteratura e la pietà non sono cose che vadano sempre insieme, ma bene spesso stanno dissociate e disgiunte. Ecco come S. Paolo parla della scienza, cui egli professava di sapere: [...OMISSIS...] Ecco le due sapienze a confronto: quella degli uomini, consistente in suono di parole, in gonfiezza di discorso, in lusinghe di persuasione: quella di S. Paolo, in fatti, nella virtù di Dio operatrice dentro l' anime, nello spirito e nella potenza soprannaturale. Ma negli uomini non capendo la sapienza di Dio, essi accusano appunto per questo quelli che alle divine cose sono applicati, di voler sperdere le scienze dalla terra e rimettere in fitte tenebre il genere umano (2). Per altro consente l' Apostolo che lo si stimi privo di ogni sapienza? No certo: anzi per fermo crede di essere savio e di parlare pur anch' egli una sua sapienza; e soggiunge alle surriferite parole: [...OMISSIS...] . Ecco come agli uomini del secolo tutta resta occulta questa sapienza, e per ciò la dice ad essi tutta in ombra e in misterio, poichè la sola comunicazione interiore, che fa Cristo ai suoi, è quella che segretamente e senza romore di parole la comunica: come seguita a mostrare il medesimo Apostolo, insegnando quivi medesimo che l' uomo non può conoscere se non le cose umane, e il solo spirito di Dio le divine; il quale per ciò deve essere dato all' uomo, perchè quelle divine cose l' uomo conosca: il perchè la sua dottrina chiamala altresì« dottrina di spirito«. Dall' essere questa dottrina interiore di spirito totalmente diversa dalla scienza umana, viene appunto l' umiliazione dell' uomo e la glorificazione di Dio, come insegnano le divine Scritture: giacchè queste mostrano che tutto il sapere puramente umano non è atto a rendere l' uomo a Dio accetto, e che Iddio ha una occulta virtù, per la quale rende immantinente i semplici e gli idioti più savi agli occhi suoi di quei savi del mondo che con immense fatiche e studii hanno tutta la loro vita nelle speculazioni delle umane lettere consumata; e dichiara questi savi uomini veramente idioti, e gli idioti suoi veramente savi, ed egli il solo maestro e il solo verace datore di sapienza. E veramente non consistendo l' acquisto di questa sapienza nelle doti e nell' opera dell' uomo, ma bensì in un' operazione occulta che fa Dio nell' anima (1), alla quale dà il sentimento di sè; egli è manifesto che anche quelli che sono di piccolo spirito o che non hanno tempo da applicarsi agli studii, possono acquistare senza fatica: e di questo si compiace appunto Cristo, dicendo di essere stato mandato dal Padre suo a predicare a' poverelli (2). E` manifesto parimenti che questa sapienza può averla chi è ancora fanciullo e alla vista degli uomini inesperto e imperito: e in questo pure splende la gloria di Dio, la quale viene celebrata in quel Salmo citato da Cristo medesimo, che « dalla bocca de' fanciulli e lattanti hai cavato la lode perfetta« (3) ». E finalmente vedesi in generale ragione, onde Cristo ringrazia il Padre celeste di aver dato questo modo onde la operazione divina risplenda sopra tutta la possa dell' uomo, dicendo: [...OMISSIS...] . Non fa dunque meraviglia, dopo di ciò, se i savii della terra, rivendicandosi di queste verità, accusino gli uomini pii e cristiani teologi di voler annottare il secolo; giacchè il principio della scienza e il principio della pietà sono diversi: quello è idea , questo sentimento sostanziale e soprannaturale; e il sentimento soprannaturale è tal luce che il mondo non la comprende: « et tenebrae eam non comprehenderunt (5) ». E qui possiamo anco stabilire, dopo tutto ciò che detto è, con accuratezza la differenza tra il principio della religione, e quello della morale naturale. Il principio della religione è la grazia (1): il principio della morale naturale è la legge . La legge è nell' ordine delle idee, la grazia nell' ordine de' sentimenti; quella mostra teoreticamente alla mente ciò che si deve fare, questa è pratica, fa fare ciò che si deve. Gli uomini possono, fino a un certo segno, praticare la morale naturale riguardante i loro simili, perchè di questi hanno la percezione: ma quella parte della morale che riguarda Iddio resta per essi, almeno nella massima e spezial parte, vuota e ineseguibile. Faceva uopo che Iddio stesso si comunicasse agli uomini, acciocchè infondesse in essi il suo amore prevalente su tutti gli altri amori (1). Quindi è che gli uomini del secolo, trattando la morale, non parlano quasi altro che delle relazioni degli uomini che hanno scambievolmente tra loro; e molti a queste solo restringono la morale. D' altro lato gli uomini religiosi, per la propria imperfezione e limitazione e non già per difetto della religione, sembrano talora occuparsi talmente di Dio che rimangono meno pronti a curare le relazioni che li legano cogli altri uomini e meno solleciti di eseguire gli ufficii umani. Ma ove ciò nasca semplicemente dalla limitazione delle forze umane (2), e non da qualche malvagità (nel qual caso non sarebbero nè pure veri religiosi), ben presto a un tale difetto viene posto riparo. Perocchè appena l' uomo religioso riflette alle relazioni che lo legano co' suoi simili, egli si dà tutta la premura di eseguirle, e se prima per una cotale astrazione di mente le obbliava, poi tutto vi si dedica, e non solo le eseguisce appieno, ma fa ancora prodigi di carità che si sono veduti sempre farsi da' santi, e mai da altri fuorchè da' santi. Onde non si richiede se non di lasciare al principio religioso un pò di tempo ad essere appplicato, sviluppato, [perchè] possa influire su tutto l' uomo e [trarre] le sue conseguenze per mezzo degli atti successivi della riflessione; ed egli produce indubitatamente anche ogni migliore effetto morale rispettivamente agli uomini singoli e alla società. Del resto che gli uomini religiosi sieno privi di un affetto ingiusto sia verso i loro simili, sia verso le cose umane, non hassi a riputar male, se è cosa giusta e conforme alla verità; ma oltracciò si può dimostrare una tesi singolare, ma certissima,« che le stesse cose umane vantaggiano e prosperano di più ove sieno amate di un amore ragionevole e moderato, anzichè di una passione ingiusta e smodata«. Non è però maraviglia che popoli staccati dall' ordine religioso, di cui hanno sentito lungamente l' influenza, non precipitino tostamente all' ultima depravazione e empietà: poichè essi ritengono ancora del lume ricevuto, col quale assai bene conoscono la nobiltà e utilità della scienza morale. Anzi non è nè pur maraviglia che si sia veduto presso i protestanti in questi ultimi secoli uno studio di promuovere la morale, almeno come scienza, e in quella parte però che riguarda gli uomini; giacchè non più occupati dal principio religioso, ebbero tutta la loro attenzione libera per collocarlo nelle umane conseguenze e negli interessi di questa vita. Ma se pur mancano del principio religioso, che è il capo della morale, e se la loro morale però non si può considerare giustamente se non come acefala ; tuttavia le loro diligenze e studi sono commendevoli sotto un punto di vista, e sono utili a quelli che hanno il principio religioso, i quali fanno a gran senno a servirsene, come dee esser loro proprio e naturale l' abbracciare e distendere ogni sorta di bene. Vero è che havvi anco l' errore opposto a quello della morale naturale; ma egli non cade se non in quelli che, in luogo del principio religioso, non hanno in sè stessi che una simulazione di esso. Questi sono quelli che hanno una falsa pietà, vani, ipocriti e superstiziosi: questi col pretesto del principio religioso che pur non hanno, si dispensano dall' eseguire i doveri morali verso i loro simili. E contro costoro si sdegnò e tuonò sì alto lo stesso Uomo7Dio. Questi sono i veri distruggitori della morale; e la divina Provvidenza per provvedere incontro al male che fanno questi, si vale altresì dell' errore opposto, e permette che degli uomini, che hanno abbandonato il principio religioso, promuovano quella morale che loro ancor rimane e nella quale, da una cotale loro naturale onestà mossi, tutti si convertono (1). Di vero questa questione fu sempre fra gli increduli e i credenti: ma nei nostri tempi si è messa al nudo, non la si può più dissimulare, ciascuno la si propone direttamente e senza involture. I Riformisti del secolo XVI sono deviati dal principio religioso, ma la loro deviazione pareva piccola nei suoi cominciamenti; non dicevano di distruggere la fede, distruggevano la fede di soli alcuni articoli che stavano nel deposito del cattolicesimo; ma pretendevano ancora di credere alla Scrittura e alla [divina] ispirazione di questa: infatto però la fede soprannaturale era perduta per essi, perchè n' era perduto il principio (1). Scossa d' adosso l' autorità della chiesa, erano veri naturalisti ossia razionalisti di principio, perchè, abbandonata la tradizione, non restava modo d' interpretare la Scrittura, che colla pura ragione naturale; e la pura ragione materiale fatta giudice ultima delle verità religiose, che cosa potevasi farsi dei misteri? Quello stesso che abbiam detto avvenire alla filosofia naturale. Il protestantismo non era che il principio della filosofia naturale, applicato alla religione soprannaturale: questa non poteva reggere in faccia a tal principio, e il protestantismo divenne appunto come la filosofia un sinonimo di razionalismo, di empietà. Infatti oggidì i protestanti, che si sono più avanzati nello sviluppo progressivo del loro sistema, prendono a sostenere scopertamente, « che ogni soprannaturalismo è assurdo e che oggimai conviene ridurre ed emendare la Bibbia stessa, interpretandola in modo da restringere tutto ciò che ella insegna dentro i confini della semplice ragion naturale«. Quelli che videro questa conseguenza irrepugnabile e non ebbero coraggio di abbracciarla, come quella che parve loro un assurdo e un abisso, sono dati addietro, son venuti al cattolicesimo. Indi le ultime conversioni di non pochi valentuomini che dal protestantesimo rientrarono nella chiesa. Or non ci ha più mezzo fra questi due estremi: due soli sistemi sono concepibili, il naturalismo e il soprannaturalismo: il primo è l' empietà, il secondo è la fede [cattolica]: chi sta per quello, sta per l' abolizione di ogni religione soprannaturale, chi per questo, entra nella cattolica chiesa. Invano fuori della chiesa cattolica si cercherebbe ciò che veramente sia e per poco ciò che si dica soprannaturale; e quelli che ancora esitano tra questi due partiti non ne hanno alcuno, e la società gli ha lasciati lungamente dietro di sè solitari e negletti. Uno di questi protestanti che apertamente si pose dalla parte del razionalismo ed escluse ogni principio soprannaturale, è il signor Giulio Augusto Wegscheider. Nè sarebbe da farne parola, se si dichiarasse per un seguace della filosofia, senza più: ma egli insegna pubblicamente Teologia dogmatica nella università Federiciana di Hala, e stampò il suo testo in un libro da lui intitolato, « Institutiones Theologiae christianae dogmaticae »; della quale ben sei edizioni furono fatte nell' anno 1.29 (1). Ora in questo fa un continuo citare, o anzi accennare co' numeri, luoghi della divina Scrittura: ma non per altro se non per correggerla ed emendarla dove ella esce dai limiti della sana ragione (2), la quale sana ragione sta di casa nel cervello del teologo nostro, e per istiracchiarla e torcerla dove può e crede potere, a dire nulla più di quello che a lui par bene che ella dica: giacchè questo appunto mette per principio d' interpretazione, d' intenderla in modo conforme alla sana ragione e di far sì che ella dica solamente quello che può essere utile alla morale, quale nella mente egli l' ha concepita. Insomma nella mente sua egli ha posto una norma precedente, colla quale ha stabilito determinare ciò, che la Scrittura deve dire: la Scrittura non è letta per imparare la verità che ella annunzia agli uomini da parte di Dio, ma viene citata al tribunale dell' uomo per essere giudicata dalla legge che l' uomo si è formata da sè stesso nella mente sua e al rigore di quella emendata. La qual norma è questa:« che ogni detto, il quale parli di cosa che ecceda le forze della natura creata, si deve emendare o interpretare sanamente, cioè in modo che non parli più se non di cosa naturale; e ciò perchè questo solo è utile alla vita umana e ai progressi della morale naturale«. - Il giudizio dunque è fatto prima di aprire i libri delle Scritture: non si cerca sapere se nelle Scritture s' insegna qualche fatto o verità che ecceda le forze della natura, ma cercasi di far sì che elle al tutto non la insegnino, e di riprenderle e castigarle se mai la insegnano. Questo è il metodo notato da S. Atanasio ne' suoi avversarii, [...OMISSIS...] . Ma non sarà inutile che udiamo i fondamenti di quel suo razionalismo (2) che ci presenta come il frutto dei lumi e delle scoperte dei nostri tempi civilissimi. Ecco gli argomenti co' quali si sostiene (3): nessuno di essi è nuovo e non risoluto: ma gli errori rimettono, e conviene che sia nella chiesa chi abbia la pazienza di richiamare alla memoria le loro soluzioni. « Come tutti gli altri animali sono forniti di tali forze, colle quali possono ottenere i fini della loro natura; così senza dubbio , mediante la ragione, per la quale gli uomini superano gli animali, è stato a questi dato il potere d' intendere e di eseguire quelle cose che valgono a ottenere i supremi fini del genere umano, cioè a osservare i doveri e a coltivare la religione«. Tutte le facoltà degli animali si riducono al senso, pel quale non si esigono che degli oggetti materiali. L' uomo fornito d' intelligenza può estendersi oltre tutto l' universo materiale, può avere degli oggetti nobilissimi. Sarà dunque buono argomento di escludere la comunicazione dell' uomo con Dio questo, che perchè l' animale bruto non può godere dell' essere infinito, limitato come è ai sensi materiali, per questo non possa goderne nè pure l' uomo fornito di una intelligenza che non ammette confini? Non è forse quest' essere infinito un oggetto così reale come qualunque altro? O piuttosto non è egli l' oggetto più reale di tutti? E perchè Dio si tiene nascosto, non potrà mai rivelarsi alle sue creature? Sarà necessariamente fra queste e il loro Creatore un tal muro filosofico di separazione? Se la filosofia è quella che erige un tal muro, è migliore, a dir vero, la semplicità dell' uomo incolto, d' una tale sapienza. Ma la ragione, se avesse bisogno di Dio per illustrarsi, sarebbe una potenza imperfetta: l' uomo sarebbe un essere imperfettamente congegnato, perchè non basterebbe a sè stesso. - Che dunque? v' ha qualche essere in tutto quanto è ampio l' universo, che basti a sè stesso? Può trovarsene un solo che, isolandolo dagli altri, possa sussistere? Ed è per questo male ideato e congegnato dal Creatore, perchè ogni essere ha questa sua estrinseca limitazione di aver bisogno per esistere e per vivere di qualche cosa fuori di lui? E in quanto alla ragione, èvvi una sola facoltà che possa far senza de' suoi oggetti? E` imperfetto l' occhio, perchè ha bisogno del sole per vedere? E` imperfetto l' orecchio, perchè senza il fluido aereo, che ondula e trema intorno a lui, non può menomamente ottenere il fine, pel quale è stato dall' eterno artefice fabbricato? E qual ripugnanza vi ha che ci sia nell' uomo una potenza sublime che abbia per oggetto Dio, immediatamente Dio, per soddisfarsi e trovarsi veramente giunta al suo fine? Che è, che ci descrive tanto lontano questo Dio da noi? Che si teme tanto di avvicinarcelo? Che si vuol ostinatamente escluso dalle sue opere, sicchè non possa conversare con esse, sotto pena di commettere un assurdo filosofico? E` questa la scoperta de' nuovi savi? Di un tal regalo fanno essi presente alla nostra povera umanità, a cui si presentano con tante promesse, con tanta baldanza? Consentirà loro l' umanità di lasciarsi così privare del sommo suo bene, di Dio? Il possesso del quale, se fosse un' illusione, è della stessa verità migliore; il che essendo un assurdo [per] conseguente hassi a conchiudere: non è dunque illusione, è verità. « Come l' uomo perviene a essere consapevole della ragione e del dovere, egli è in necessità di considerare la ragione come la suprema forza di conoscere, i decreti della quale egli deve serbare in tutti i pensieri e le azioni. E quegli che, spregiato questo principato dell' umana ragione, pone essere tanta l' autorità della rivelazione, che dicesi comunicata a certi uomini in un modo soprannaturale, che debbasi ad essa consentire, senza muover dubbio, per un cotal cieco istinto o sentimento; questi toglie e rovescia la vera natura dell' uomo e la sua dignità«. Vedesi qui il perpetuo vezzo de' protestanti, il far dire cioè a' cattolici quello che mai non dissero. Se amore di verità li guidasse nelle loro ricerche, la prima cosa si darebbero tutta la cura di ben conoscere con ogni accuratezza le opinioni de' cattolici e di sporle con tutta fedeltà: ma, in luogo di ciò, pigliano a combattere quelle opinioni che nella loro immaginazione credono essere sentenza cattolica, e pur non sono. Così qui posso osservare che giammai i cattolici non tennero, nè dissero che si debba credere alla rivelazione divina per« un istinto e sentimento CIECO«: anzi dissero con Cristo che si doveva sempre camminare nella luce (1); che si doveva dare alla rivelazione un ossequio ragionevole (2); e che Cristo era la luce cui le tenebre non hanno compresa (3). Spieghiamo queste sentenze veramente cattoliche. Parliamo prima della rivelazione esterna , e poi della rivelazione interna . S' insegnò sempre appresso i cattolici che, prima di credere alla rivelazione esterna, erano necessari dei segni o delle prove certe che ella venisse da Dio. Questo non è un credere ciecamente, questo non è un rinunziare alla ragione: poichè è sicuramente la ragione quella che esamina e giudica del valore di que' segni o prove certe, alle quali si conosca che è Dio quegli che ha parlato. Ma dopo di essersi convinti di ciò, di nuovo è la ragione stessa quella che ha suggerito di fare questo semplice ragionamento: Iddio è stato quegli che ha parlato. Iddio non può ingannare nè ingannarsi. Dunque si può credere sicuramente a lui senza pericolo di prendere errore. - Non è questo, dettato di ragione naturale? Il credere dunque a Dio, dopo conosciuto prima, per mezzo della ragione, che egli ha parlato, non è un ubbidire alla ragione stessa? E si dirà questo un rinunziarvi, un credere ciecamente? Quante volte l' uomo non tiene per guida un simile principio che non è altro veramente che uno dei principii della ragione? Non dico solo ogni qualvolta l' uomo appoggia il suo ragionare su qualche grave autorità; ma dico che l' uomo segue un somigliante principio in tutte le scienze, nessuna esclusa, nelle quali, verificata una proposizione, va avanti e ne tira le conseguenze, supponendo oggimai per vera la prima, e non torna indietro ogni passo a riprovarla, ma le conseguenze le dà per certe e per dimostrate con questo solo supposto, che sia certo e dimostrato il principio onde provengono. Sarà egli necessario trovare una nuova dimostrazione diretta per ogni nuova conseguenza che si cava da un principio? O non basterà anzi il sapere che ella è conseguenza discendente da un principio certo per mettere anch' essa fra le cose dimostrate e certe senza più, dandole una pienissima fede? E il dar fede alle parole di Dio, che è se non un ammetter per certa la conseguenza d' un principio pur certo? Questo modo di ragionare, sebben comune alle scienze tutte, vedesi più manifestatamente nelle matematiche, scienze che giova recare in esempio come quelle che hanno forma di un rigoroso procedere e in ispecial modo. Or che si fa perpetuamente nell' algebra, se non assicurarsi prima di alcuni assiomi, principii, e del metodo, e poi, abbandonate al tutto le idee, seguitare con un meccanismo di segni e di operazioni e finalmente trovare un risultamento, il quale si ha senza più per certo? Si vede forse una ragione diretta e immediata di questo risultamento? Nessuna. Come lo si tien dunque per certo? Unicamente perchè si giudica che quel metodo, col quale si sono mutati di mano in mano e trattati que' segni, non possa fallire, si crede alla infallibilità di quel metodo: e su questa fede si ha per indubitato quel risultato. Nella rivelazione invece si crede alla infallibilità di Dio. Se si approva di abbandonarsi alle veracità di quel metodo di trovare la verità, perchè si disapproverà il credere alla veracità di Dio? La ragione adunque è quella che si prende per guida nel credere a Dio: ma si badi, diciamo la ragione , e non gli sviamenti della ragione . Conviene ben distinguere tra il lume della ragione e l' uomo che abusa di questo lume. Non vi ha sicuramente niente che sia superiore al lume della ragione e che possa giudicare di questo lume, il quale giudica di tutto. Ma stia avvertito l' uomo di non attribuire a sè stesso questa infallibilità, questa supremazia che è solo propria di quel lume che in lui risplende, e del quale se fa buon uso, perviene alla verità; ma se fa un mal uso, precipita nell' errore. Si attenda dunque: non trattasi di sottomettere alla rivelazione il lume della ragione, trattasi di sottomettervi l' uomo stesso; è questi che ha bisogno di essere istruito, corretto, scòrto, acciocchè non faccia mal uso del lume della sua ragione. I cattolici non vogliono dir altro, quando insegnano che è uopo sottomettere la ragione alla rivelazione, credere a Dio: è il medesimo che se dicessero: quando che voi avete verificato che Dio ha parlato, e poi nelle cose udite da lui trovate qualche difficoltà che non potete sciogliere, voi dovete credere tuttavia. Perchè il trovare questa difficoltà niente altro dimostra se non che voi, o uomo, nel far uso della vostra ragione siete limitato e circoscritto. Certamente la ragione per sè è infallibile; ma voi, o uomo, non siete già la ragione, voi non ne fate che uso. Ora chi è probabile che sappia meglio far uso del lume della ragione, voi, o Dio che parla? - Questo ragionamento persuade all' uomo quella stessa modestia e ritenutezza verso Dio, che ogni discepolo è obbligato di usare verso un suo maestro, ogni giovinetto verso un vecchio savio e sperimentato che lo ammaestri. In quanto alla rivelazione interiore poi deve considerarsi quanto segue. Le funzioni della ragione sono due (1), la percezione e la riflessione . La riflessione è quella onde nascono i ragionamenti e quindi le scienze dimostrative. Ma ad ogni riflessione sopra le cose percepite necessariamente deve precedere la percezione. La percezione è una funzione semplice, immediata, colla quale il nostro spirito percepisce, a primo tratto, gli oggetti che a lui vengono presentati. La percezione adunque non ammette ragionamento e dimostrazione : ella però non è meno certa della riflessione, perchè gode della evidenza , la quale evidenza è anzi il principio della dimostrazione stessa (2). Se la percezione adunque manca di dimostrazione, non devesi per questo dir cieca, nè escludere dalle funzioni ragionevoli, giacchè essa ne è anzi la prima e quella che somministra la materia a tutte le operazioni della riflessione. Ciò premesso, la rivelazione interna si fa, secondo il sistema cattolico, come noi abbiamo lungamente esposto, mediante una percezione interiore di Dio. Non è vero adunque che si presti fede a lei ciecamente, ma anzi con una evidente luce e irrefragabile. Questo spiega quel darsi fede dagli uomini al Vangelo pure la prima volta che l' hanno udito annunziare, senza dubbi, senza lunghe disamine e prove esteriori, e tuttavia il dar quella fede (3) in tal modo è a Dio gradevole e conducente alla salute eterna, secondo le divine Scritture: il che certo non sarebbe, se quel credere subitaneo fosse un operare con cieca temerità, perocchè a Dio niente piace di tutto quello che è cieco, temerario, irragionevole. Ma [è] vero che chi non ebbe questa percezione, non la può intendere; e questa è la ragione perchè i filosofi del secolo sono pronti in negarla, e a dichiararla stolta e veniente da un cieco e superstizioso entusiasmo (4). « L' umana mente, soggetta alle leggi innate del pensare, è necessitata di riferire tutto ciò che percepisce coll' aiuto de' sensi ovvero che trova col pensiero e colla meditazione, o prossimamente a qualche causa del mondo sensibile, ovvero a delle origini nascoste nella mente stessa. E per ciò è colpa di stolta arroganza il voler negare queste origini, e fingere un evento soprannaturale e miracoloso, di cui non si può assegnare in alcun modo un certo carattere, per questo che di un qualche avvenimento osservato nella natura egli non seppe veder subito la causa, o non iscoperse le origini recondite, nella facoltà dell' anima, della vera religione tra gli uomini rinvenuta«. Qui si dà colpa altrui di stolta arroganza. Ora egli starebbe a vedere se nel ragionamento surriferito ci fosse per avventura dell' arroganza aggiunta a della stoltezza di che si dà colpa altrui. In quanto alla stoltezza, l' affermare che nel sistema di quelli che seguono un vero soprannaturalismo, si finga la causa soprannaturale, e che si finga e inventi questa causa solo per questo motivo che non se ne vede subito una causa naturale o le origini recondite nelle facoltà dell' anima; parmi che non sia gran fatto indizio di buon senno. Poichè se udiamo tutti quelli che rettamente seguono la religione soprannaturale del cattolicismo, non credono già essi di fingere arbitrariamente una causa superiore alla natura, ma credono di essere necessitati ad ammettere una tal causa da prove certe, riconosciute tali o piuttosto suggerite loro dalla ragione: e perciò non stimano punto di essere mossi a questo unicamente dal non conoscere la causa naturale del fatto che trattasi di spiegare, perocchè sanno bene anch' essi (e ci vuol poco a saperlo) che delle cause, che restano occulte nella natura troppe ci sono, e quanto poco sia quello che noi conosciamo dei misteri naturali verso a quello che ignoriamo. Ora il signor professore di Hala ignora questo sistema de' cattolici (e in tal caso parla di ciò che ignora, il che è stoltezza), oppure conosce il sistema cattolico, e vuol dir loro quelle sue parole: Voi credete e affermate di porre una cagione soprannaturale, mossi da motivi e argomenti di ragione; ma non è vero, voi non fate che fingerla e inventarla ciecamente questa ragione. - Non parmi che si possa fare un maggiore oltraggio a' cattolici quanto parlando loro così, nè che si possa mostrare animo più villano e più arrogante. Perocchè o i cattolici affermano di fare ciò che non credono, e in tal caso mentiscono a tutto il mondo perpetuamente (e il signor professore di Hala si arroga di poter entrare ne' loro petti, spiarvi le loro intenzioni e credenze nascoste, accusarle altresì al mondo come contrarie alle loro parole, trovandosi queste conformi a ragione; e quelle, sulla fede del signor professore che solo ha un acume che penetra i segreti del cuore, cieche o stolte); ovvero i cattolici non solo affermano, ma anche credono di essere mossi da gravi e ragionevoli motivi per ammettere una causa veramente soprannaturale; e in tal caso la questione è interamente sul territorio della ragione e consiste in definire e sapere, se questi motivi ragionevoli ci sono, come opinano i cattolici, o non ci sono, come opinano i razionalisti. V' hanno adunque due parti, e nessuna di esse intende punto rinunziare alla ragione, che sarebbe il medesimo che darsi vinta; ma anzi ciascuna di esse pretende di seguitare essa sola la ragione e la verità, e accusa l' altra parte di non seguitarla, ma di abbandonarla, travolgendosi nell' errore per un cotale sragionare che fa o sia per fare un mal uso di essa ragione. Ecco la questione: ragionatori da una parte e ragionatori dall' altra. L' arma è pari, quest' arma è sempre la ragione per tutti e due gli osti. Or che fa il nostro professore? Chi vincerà in questa lotta secondo la sua sentenza? Se egli seduto pro tribunali pronunziasse questa sentenza che la parte de' cattolici usa male quest' arma della ragione, e chi la usa bene sono i così detti razionalisti loro avversari, sarebbe pur non poca arroganza; perocchè non è un nudo sentenziare che stia bene a privata persona eziandio che professore in università, ma anzi il disputare recando in mezzo quelle ragioni che provino il torto della parte contraria. Ma non è questo che fa il professore razionalista: ma egli in cambio di dirci che i cattolici usano male della ragione, vi dice che essi non ne usano punto, ma seguono un istinto cieco e non fanno [che] fingere ad arbitrio in luogo di ragionare. Ora il dir questo non veggo quanto modesto possa essere nè quanto secondo l' equità; perocchè è un dire: Non è vero che vi abbia nè pur lizza fra i cattolici e i razionalisti, i cattolici non trattano punto nè poco l' arma della ragione, vi hanno rinunziato; sono i soli razionalisti che della ragione fanno uso, essi soli sono i padroni del campo, non hanno in presenza avversarii di sorta, anzi non esistono altri uomini se non essi soli, perocchè i cattolici, in quanto tali, seguono un cieco istinto, il che è l' operar della bestia: sicchè i razionalisti non solo hanno la palma, ma la posseggono pacificamente, e in tutto il mondo non vi ha nè può essere chi loro la contrasti, nessuno più fiata contro essi, nessuno osa opporre loro la minima ragione, perocchè chi opponesse anche solo una minima ragione al sistema razionalistico, già non sarebbe più vero che avesse condannato sè stesso ad ammettere per un istinto cieco e senza visione una causa soprannaturale, ciò che il signor professore di Hala gentilmente afferma degli avversari suoi e de' razionalisti. Or grave e recisa sentenza è ben questa del signor professore! Ma è ella forse accompagnata dai motivi del giudicato? Nessun motivo s' adduce di essa perchè quella sentenza è tutta compresa in questo poco:« I soprannaturalisti rinunziano alla ragione, dunque han torto«. La ragione dell' aver torto è tutta nell' affermazione precedente, « che rinunziano alla ragione«: la quale viene supposta dal nostro autore, come quella che costituisce il sistema soprannaturalistico esposto da lui appunto così, che consista« nel rinunziare alla ragione«. E supposto per bell' e conceduto che il sistema degli avversari consista in un rinunziamento da lor fatto alla ragione, la conseguenza che ne trae il signor professore scorre dirittissima ed evidente: chi ha rinunziato alla ragione, ha torto, o anzi egli non ha nè torto nè ragione, perchè non è più uomo, ma bestia; non è possibile alcuna disputa con costui. Se l' esporre in questo modo il sistema degli avversari sia sapienza e modestia, o piuttosto matta arroganza, io non dico, ma il dica qualsivoglia protestante o cattolico, greco od arabo, ch' io lascio al comune senso deciderlo. Solo di far questa osservazione non mi posso tenere: il contentarsi di pronunziare col tuono il più deciso delle sentenze non sorrette da alcuna prova è ragionare questo? Intende che tale sia il metodo de' razionalisti, i quali dichiarano il ragionamento l' unica scorta sicura dell' uomo? Ovvero basta aver fatta questa dichiarazione per avere poi il diritto pienissimo di sragionare, o anzi si riserbano i razionalisti di sostituire al ragionamento un franco asserire? Distruggono adunque il ragionamento stesso? Che fa il nostro professore di filosofia razionale? Vuole che il mondo creda alla sua parola? Sostituisce adunque l' autorità sua a quella della chiesa? In tale alternativa io mi attengo alla chiesa. Ma oltre all' essere affatto gratuita e ignuda di ogni prova la sua asserzione, che il sistema de' soprannaturalisti consista in un rinunziamento che fanno alla ragione, è ella vera, è ella probabile, è ella possibile? Come abbiamo detto, se è vero [che] i soprannaturalisti rinunziano alla ragione, essi non disputano più con nessun avversario, perchè il disputare è, questo solo, un usare, bene o male, della ragione. Perciò i razionalisti dovrebbero essere pacifici possessori del campo, nessuno al mondo potrebbe loro contraddire; e gli uomini tutti o dovrebbero essere razionalisti, o rinunziare alla natura umana, al che ben pochi possono esser disposti, se non piuttosto pochi credono di esser disposti, perocchè ripugna che tali veramente siano. Ora è egli vero? Non vi ha nessuno che disputi con cotesti che si dicono razionalisti, perchè con assai modestia pretendono di far essi soli uso della ragione? Il fatto per avventura li smentisce, perocchè tutti i cattolici sostengono di credere ragionevolmente a un principio soprannaturale e che il razionalista sragioni; i cattolici disputano, i cattolici pubblicano continuamente delle scritture, stampano de' libri contro il razionalismo: il che, ragione o torto che si abbiano, non potrebbero far certamente, se non fosse vero, ciò che offerma il professore della università Fridericiana, che avessero rinunziato all' uso della ragione, e, in luogo di questa, avessero tolto a unica guida un cieco istinto. Era dunque facile il vedere che il supporre tanti milioni di avversarii, quanti sono i cattolici, aver rinunziato alla ragione, è qualche cosa di così improbabile, che l' affermarlo senza prove, in un libro a stampa dimostra una troppo grande presunzione e opinione di sè. Perocchè a conoscere, come diceva, l' improbabilità o piuttosto l' assurdità di somigliante proposizione, pur bastava l' osservare che i cattolici non istanno già muti come i pesci, ma fanno sentire la voce e pretendono di rifutare i sofismi dei naturalisti. Il che è almeno un pretendere alla ragione; e chi pretende d' aver ragione, non può incolparsi di non far nessuna stima della ragione e d' averla ceduta tutta ai loro avversari. Finalmente se vero fosse il sistema dei soprannaturalisti, come egli il presenta, a che lo sbracciarsi tanto in ribatterlo, come fa il nostro teologo razionale? A che l' addurre tanti argomenti? E` forse per mostrare di avere ragione? Ma se gli avversarii, come egli sostiene, hanno già rinunziato da sè medesimi alla ragione, lasciandola tutta come merce spregiata e di nessun pregio agli avversarii, e per sè ritenendo solo il cieco istinto? Si è forse il nostro acuto professore condannato da sè medesimo a rivolgersi in una perpetua contraddizione nella quale più seco combatte che cogli avversarii? Ma lasciamo ciò e passiamo a vedere un altro esempio inarrivabile di modestia che dànno i razionalisti nella maniera di maneggiare le loro disputazioni. In primo luogo, chi sono gli avversari del signor professore di Hala? Abbiamo detto i cattolici, cioè circa duecento milioni di uomini, anzi tutti quelli che, almeno in teoria, credono a un principio veramente soprannaturale: il che è quanto dire quasi tutto il genere umano, eccettuato il signor professore di Hala con alcuni rari come portenti, usciti in questo estremo periodo dallo spirante protestantismo. Ora parrà verisimile che il genere umano in corpo abbia rinunziato alla ragione, che è quanto dire all' umanità? Ma via, poichè questo non è; poichè il genere umano protesta contro al signor professore; poichè il signor professore medesimo, rinunziando necessariamente alla matta pretenzione che l' avversario gli cada ai piedi prima di combattere, si trae in campo e piglia il tuono della disputa e mette in mezzo argomenti, gioverà vedere il modo onde una tale disputazione si può convenevolmente avviare. Poichè se ambedue le parti pretendono d' usare della ragione e ciascuna vuol essere quella che ne usa meglio, quale mai viene a essere l' apparato di una somigliante tenzone? Due schiere d' uomini egualmente formate, e l' arma eguale. Da una parte io veggo uomini gridanti che, dopo aver fatto un sano uso della ragione, hanno avuto per risultamento che una causa soprannaturale non può essere: dall' altra parte veggo parimenti uomini gridanti alla lor volta che, dopo aver fatto anch' essi un sano uso di ragione, hanno avuto per risultato che una causa soprannaturale ed è possibile e v' hanno certi argomenti di doverla amettere di fatto. Ora la sana ragione da qual parte starà? Se io bado alle loro parole, i primi si chiamano razionalisti e vogliono possedere la ragione in esclusiva loro proprietà; simili a quel pazzo che diceva tutti gli uomini dover ben presto perire, perchè voleva respirare lui solo l' aria tutta dell' atmosfera. Ma se bado alle parole dei secondi, questi pretendono che i primi sieni pregiudicati e che restringano gratuitamente lo spirito umano entro sè stessi e il circolo delle materiali sostanze. Che cosa decidere fra tali contendenti? Non sembrerebbe dover essere secondo l' equità che, avendo io uomini da una parte e uomini dall' altra, i quali pretendono del pari di far uso della ragione e aver diritto di seguitare ciò che ella lor detta, io calcolassi imparzialmente la probabilità che può esservi, o che ambe le parti s' ingannino, o che l' una delle due dica il vero? Ora certo è che, non potendo io discernere uomo da uomo, e però dovendo riconoscere in ciascuno un diritto eguale di far uso della sua ragione, procederò equamente, ove io stabilirò questo principio: Nel fare un ragionamento, se molti insieme riescono ad avere un medesimo risultato, cresce la probabilità che il risultato sia vero in ragione che cresce il numero di questi uomini ragionatori che nel medesimo convengono: e, viceversa, la probabilità del risultato contrario sarà al più in ragione del numero di quelli che in quel risultamento medesimo non convengono (1). Il qual principio applicato a giudicare del naturalismo o razionalismo e del soprannaturalismo, quale risultamento mi dà? In favore del soprannaturalismo, immenso numero di uomini ragionatori: contro di esso, sì piccolo numero che svanisce e si può trascurare verso a quel primo; sicchè non rimane solo una probabilità, ma una vera certezza morale pel soprannaturalismo. Una frazione del piccolo corpo di questi votanti contro il soprannaturalismo è per avventura anche il nostro signor professore dell' Università Fridericiana; giacchè egli non è che un ragionatore solo, è uno dei tanti che tutti egualmente s' appellano alla ragione e stimano di fare di essa un uso sano e verace. Or che doveva consigliargli la virtù della modestia e della giustizia, volendo ragionare di un argomento, nel quale tutto il genere umano è interessato e tutto in corpo veramente pronunzia? Di prendere il suo posto, di presentarsi come una minima frazione di un minimo corpo, di portare il suo granello di arena, cioè di deporre modestamente il suo voto, aspettando per avventura che si faccia lo scrutinio e che esca la sentenza. Tiene quest' ordine ragionevole e savio il nostro professore razionale? E` questo il tuono, col quale si presenta nella discussione e trattazione di una tanta causa? Propone un voto? Eh! ben altro: egli non parla come uno dei mortali che non può se non far uso della ragione, sempre in pericolo di farlo bene o male; egli vi parla in nome della sana ragione, parla come fosse la ragione personificata, e come tale non esita, non teme di pronunziare sentenza assoluta, dicendovi non solo che non si dà alcun elemento soprannaturale, ma che non si può dare. E a tutti quelli, i quali non si contentano del suo giudicato, che è quanto dire tutti gli uomini, fuor solo dei filosofi razionali, e che stimano non aver egli seguito la sana ragione, egli per sanzione del suo giudizio imprime in fronte la nota di arroganza e di stoltezza! Ma sebbene in questo raffrontamento della società umana da una parte, co' razionalisti dall' altra, noi non abbiamo fatto altro che mettere a testa ragionatori con ragionatori, uomini a cui la ragione dice una cosa, con uomini a cui la ragione medesima dice tutto il contrario, e che s' onorano scambievolmente del titolo di stolti e di traviati dal sentiero della verità e della ragione; tuttavia il nostro professore si querelerà probabilmente con noi quasi l' avessimo citato piuttosto al tribunale dell' autorità che [a quello] della ragione, e quindi ci dirà al suo solito non volerne sapere di autorità alcuna, perocchè quello dell' autorità è un cieco procedere quello dell' autorità, ed egli colla sola ragione combattere. Ma che è l' autorità che voi odiate tanto, se non la ragione di un altro essere ragionevole? La mia ragione è per gli altri un' autorità: la ragione degli altri è per me un' autorità: ciò che a ciascun uomo è ragione a tutti gli altri è autorità. Che contrarietà può aversi dunque all' autorità il nostro professore, egli che mostrasi così tenero della ragione? Egli dice di combattere colla ragione sola. Ma questo è un non capire il senso della parola ragione , e quello della parola autorità ; perocchè chi dice lui combattere colla ragione? Lo dice egli medesimo. Or ciò non prova altro, se non che la sua opinione è per lui ragione: ma agli altri uomini può esser ella più che opinione, può esser più che autorità? Vi ha dunque nel nostro professore razionalista non poca oscurità e confusione d' idee che gli impedisce un retto e sicuro uso della ragione. Ma il professore razionalista dirà di tenere così, perchè la sua ragione gli dà per validi certi particolari suoi argomenti. - Debbono essere ben forti e risplendere di una evidentissima luce questi argomenti se possono dare a lui il diritto di credersi più ragionevole dell' intero genere umano, e del senso comune che gli dà torto (1). Non voglio però contendergliene la possibilità, prima che vediamo quali sieno questi argomenti, e se per avventura fossero atti a persuadere anche noi stessi colla loro evidenza. Nelle parole del professore di Hala, che noi abbiamo di sopra recate fedelmente tradotte dal latino e che stiamo ora ora qui esaminando (2), niun argomento si trova, se non questo che egli afferma e mostrasi persuasissimo della verità di questa proposizione: che la umana mente è necessitata di riferire tutto quello che percepisce coll' aiuto de' sensi, ovvero che trova col pensiero, e colla meditazione, a qualche causa naturale, cioè a qualche causa nel mondo esterno o nell' interno dell' anima. Il professore mette questo principio per inconcusso, e indi trae la condanna del soprannaturalismo e la prova del razionalismo. Ecco tutto l' argomento. Ma che è quella proposizione? Ella non prova già il razionalismo, è a dirittura il razionalismo stesso; poichè il razionalismo non è se non il sistema che afferma non potere l' umana mente trasportarsi a oggetti fuori della natura materiale e delle leggi stesse della mente. Il signor professore adunque suppone dimostrato ciò appunto che vuol dimostrare; e dopo aver messo per certissimo tale principio, che non è altro se non l' assunto stesso che aveasi a provare, facil cosa gli riesce il tirarne quella conseguenza, che dunque il suo assunto è certo, ciò che è quanto un dire che il ragionamento puòsignor professore, se ragionamento può chiamarsi, zoppica viziato di quel peccato logico che si chiama petizione di principio . Ma tant' è, l' umana mente, dice il signor professore, è necessitata di riferire tutto ciò che percepisce coll' aiuto de' sensi o che trova col pensiero e colla meditazione a qualche causa del mondo sensibile, ovvero a delle origini nascoste nella mente stessa: è arrogante e stolto chi contraddice. Poichè il signor professore razionalista non dà ragione del suo affermare, bisognando forse che la sana ragione gli suggerisca il canone di quel primo emendatore del Vangelo, alla cui santa anima ha dedicato il suo libro (1): che fu quel celebre: « stat pro ratione voluntas ». Non sarà inutile tuttavia che veggiamo noi quanto credito possa godere quella risoluta asserzione. Ella è tolta di peso dal celebre autore della filosofia critica in Germania. Veramente la filosofia critica , legata insieme colla teologia dogmatica , è il più bel nodo del mondo; questa di necessità deve venir criticata fino a che non ne rimanga più cica, e il nome« dogmatica « sul frontespizio di un tal libro mostra, che il razionalismo non può dire la prima parola, senza cozzare con sè stesso. Ma la filosofia critica, nemica essenzialmente di ogni dogma, essenzialmente protestante, anzi l' ultimo parto, il beniamino della religione riformata, spirata, come Rachele, in partorendolo, perchè la critica filosofia non conosce altra religione che sè stessa; questa filosofia, dico, seguita con tanta servil devozione dal nostro professore, è ella un' autorità, od una ragione? Se si considera come autorità , ella è già decaduta: in Germania stesso ha dato luogo ad altri e altri sistemi di filosofia; e in nessun luogo della terra, che io sappia, viene più insegnata, senza almeno averla sottomessa a notabili modificazioni. Vuol dunque che noi rinunziamo all' autorità di una dottrina, che conta diciotto secoli, nei quali ha convertito e mutato il mondo, per curvare il collo [a una filosofia] che, data dal torbido 1719, e che è oggimai decrepita? Se poi vuole che consideriamo la filosofia critica come ragione , se vuole che noi entriamo nell' esame di lei, noi rimandiamo il nostro professore a quei luoghi dove abbiamo trattato a lungo questo argomento e dimostrato: 1. Che l' uomo ha innata la visione dell' essere, colla quale egli è in contatto con qualche cosa di diverso da sè, e diverso dalla natura materiale. 2. Che per mezzo di quest' essere, col quale la mente umana è in comunicazione, l' uomo si vede fatto per un essere veramente e realmente infinito, fuori di tutta la natura finita e capace di conoscerlo e di goderlo. 3. Che quindi è falso ciò [che] pretende Kant, finire tutta l' attività dello spirito umano entro la sfera de' sensi e delle leggi soggettive del suo intendimento, mentre l' intendimento stesso è essenzialmente oggettivo , cioè è tale facoltà che ci spinge fuori di noi e ci fa tendere in un oggetto infinito. 4. Quindi che è un puro errore baldanzoso ad un tempo e sommamente tristo per gli uomini quello che toglie ad annunziar Kant, quando pretende facendo da correttore a bacchetta della ragione e dello spirito umano, d' imporre a lui confini oltre a' quali non possa stendersi e di serrarlo entro a leggi coniate arbitrariamente da una fantasia diretta nelle sue invenzioni dalle analogie tolte dalle materiali sensazioni (1). « Essendovi più religioni volgarmente dette positive che si attribuiscono l' onore d' una rivelazione divina soprannaturale e miracolosa, non v' ha modo e via da esaminarle (quando non si voglia preferire l' una all' altra con cieco arbitrio), se non di paragonare quelle dottrine con quelle altre che, per la natural via della retta ragione, si sono conosciute intorno a Dio e alla sua volontà, e di conformarle a una tal norma, senza alcuna superstizione. Perocchè chi ricusasse di adoperare questa norma di verità a esaminare la religione che si spaccia per soprannaturale, dovrebbe forte temere, non forse qualche demone o uomo che piglia la persona di legato di Dio e toglie a vendergli false e male sentenze, dandogliele per vere ed oneste, gli imponga da credere per rivelati dei dogmi indegnissimi dell' essere supremo«. Questo argomento in gran parte ruota e gira sul falso, sulla supposizione cioè che i soprannaturalisti ricusino di usare la ragione in discernere la vera dalla falsa rivelazione. Ma se vi abbia qualche setta di fanatici al dì d' oggi, i quali si appiglino a creder vera una religione pel criterio d' un interno furore di fantasia, e a un tale loro matto furore nelle cose loro religiose si lascino governare, io non vo' dire. Dico bensì che se una tal setta vi ha, questa è separata e condannata dalla Chiesa cattolica: dico che nessun uomo che vive la confonderà mai colla cattolica Chiesa, nè si sbraccierà a rifiutarla, come mostra di fare il nostro professore di Hala. I soprannaturalisti cattolici adunque si richiamano a lui come d' ingiustizia e di oltraggio che loro fa, mettendoli così nel mazzo di tali fanatici o veramente furiosi, e credono di poter dire del signor professore che sì villanamente li tratta, non dover esser per avventura la sua religione razionale molto amica della buona morale nel fatto, giacchè il calunniare e vilipendere è cosa dalla buona morale ripresa e proibita. Di poi havvi inesattezza nell' argomento del signor professore, dove dice che non c' è altra via di riconoscere se una dottrina religiosa è buona, fuor solo quella di confrontarla colla dottrina suggerita dalla retta ragione. Non è necessario punto che la dottrina rivelata si confronti colla dottrina della retta ragione punto per punto: basta solo che si confronti e convalidi colla retta ragione il principio supremo e generale onde la rivelazione si deduce, cioè l' essere veramente rivelata da Dio agli uomini; e poi egli è manifesto che tutta la religione si può prenderla a chiusi occhi, perchè non può essere che vera e conforme alla retta ragione, anche ovecchè a noi, come quelli che siam fallibili e limitati nel far uso della ragione, sembrasse il contrario. Convien dunque aver ben fermate colla ragione queste due cose: 1. la rivelazione divina è un fatto certo; 2. queste dottrine son quelle contenute in quella rivelazione. Ciò in un modo inconcusso dimostrato, è la ragione quella che mi spingerà a pigliare come certe e ammettere senz' altro esame, ma con interissima fede, tutte quelle dottrine, eziandio che dei misteri contenessero, cioè delle verità al mio debol vedere superiori di lunga mano. Ella è la retta ragione che mi insinua questa modestia, dicendomi: chi ti ha parlato è l' Essere Supremo, è la ragione stessa; questo ti basti, sottomettiti; perocchè la ragione tua non è che un raggio di quella cui tu partecipi; e se tu, ragionando, ti trovi discordare da quella ragione suprema, quale dubbio che ciò non avvenga dal tuo corto vedere, anzichè da falsità dell' Ente divino? Non sei tu fallibile? Non trovi da per tutto misteri, da per tutto difficoltà gravissime nella stessa natura? Non ti accade di prendere ogni giorno qualche sperienza della limitazione del tuo ingegno? E quante volte, anche in convivendo cogli uomini, non deferisci al maggiore di te sulla sua autorità, senza che possa tu ben vederne ragione? E non credi tu ciecamente a tutti gli artisti e periti nelle arti loro? - Questa è la modestia sapiente dei soprannaturalisti: i razionalisti all' incontro si contentano di tacciarli di arroganza e di stoltezza: ma io non veggo dove stia arroganza maggiore, quanto in contendere con Dio e disputare se egli ha ragione o se ha torto. Dipoi è egli nè anco possibile quel mezzo che chiama« unico« il nostro professore, di confrontare le dottrine rivelate su quelle della retta ragione? Ciò supporrebbe che la ragione di chi deve fare questo confronto fosse già fornita d' una religiosa dottrina, in tutte le sue parti compita e perfetta e lontanissima dall' andar soggetta al minimo dubbio. Ma che? qual ragione, qual uomo ha mai potuto dire di possedere una tale dottrina? Di essersi formato colle sole forze del suo ingegno il tipo, l' ideale della religione? Vi fu mai un tal genio sulla terra? Vi può essere? Forse che qualche filosofo se n' è vantato: ma dove è rimasta la religione mirabile di questo filosofo? Quale è, che n' è divenuto? Si può dare arroganza maggiore di quella di colui che si vantasse di ciò? E il professore nostro pretende di più, che ogni uomo deva far così, giacchè ogni uomo deve pure avere una religione e una religione sicura. Mirabile opinione che egli ha della ragione degli uomini! Ma se questo ideale della religione è in ogni mente, come può esistere più alcuna discordia in materia di religione? Il fatto veramente conferma la teoria del nostro professore: sono essi d' accordo gli uomini nelle idee religiose? non c' è che una religione al mondo? Nè io nego già che l' uomo non possa sentire la bontà intrinseca di una religione divina: purchè il voglia, purchè sia retto il suo cuore, può sicuramente sentire quanto ella sia a lui conveniente, quanto ella risponda ai nobili voti della sua intelligente natura; e se si vuole, questo è un giudicare della religione. Ma dico che lo spirito umano a fare questo giudizio della religione non ha già uopo di avere un tipo di religione perfetta in sè medesimo: non ha uopo di posseder prima la perfettissima dottrina religiosa: basta solo ch' egli abbia un principio, una regola, una norma innata, nella quale virtualmente si contiene ciò che è retto, onesto e degno di Dio; ma in modo tale che egli non avrebbe mai potuto fecondare questo germe e trarre da questo principio innato quella perfetta religione che gli bisognasse. Così per giudicare della bellezza, non è necessario avere ogni bellezza effigiata nella mente, nel qual caso non riuscirebbero punto più nuove e dilettevoli le tavole dipinte, a ragione di esempio da egregi artisti, nè queste apprenderebbero più all' uomo cosa alcuna in genere di pittura, perocchè egli saprebbe tutto precedentemente. Ma il fatto è questo, che l' uomo al vedere i quadri di Raffaello o i marmi di Canova la prima volta, ne rimane ammirato e ne trae una viva dilettazione: e questa dilettazione e approvazione che egli ne fa, col quale giudizio approva e riconosce quelle bellezze dipinte e scolpite e quindi è la sua intelligenza che gli fa nascere quel diletto. Ma per far ciò non è già necessario che nello spirito dell' uomo sieno state precedentemente quelle bellezze, e le maggiori ancora (l' ideale loro); ma solo che lo spirito portasse in sè un principio, una regola, su cui giudicarle. Così è nella religione medesimamente: non è necessario che nello spirito, dell' uomo, perchè possa vedere la dignità e santità di una religione, vi abbia quella religione stessa bella e formata, o anzi il suo ideale; basta che vi abbia la regola da giudicarla. La qual regola finalmente non è poi altro che il lume stesso della ragione, e come ho dimostrato, l' idea dell' essere , la quale informa la nostra intelligenza. Nè manco dal sentire, approvare e giudicare noi le bellezze delle eccellenti pitture, statue, poesie, musiche e ogni altro genere di bellezza, può trarsi la conseguenza, che dunque noi possediamo il principio onde noi potremmo formarci noi stessi quegli egregi dipinti, quei marmi parlanti, quelle poesie e musiche che tanto ci incantano e ci trasportano. Perocchè altro è il poterle riconoscere, quando ci sono date, e altro è il produrle in atto nella nostra mente: il perchè l' esserci presentati quegli eccellenti lavori è a noi utilissimo dono, e dalla contemplazione di quelli noi impariamo cose nuove e perfezioniamo le regole inferiori dell' arte, le quali altro non sono che applicazioni della regola suprema, la quale nuda e sola esiste da sè nel nostro spirito, e non ha bisogno di educazione: ma la quale non ci presenta alcuna bellezza, ma aspetta che glie ne vengano offerte per aver materia a cui applicarsi. Quindi medesimamente sebbene noi abbiamo la regola suprema onde giudicare della bontà d' una religiosa dottrina, tuttavia non ne viene che noi potremmo mai da noi stessi dedurre da quella regola essa dottrina religiosa: ma quella regola, come pura forma, se ne rimarrebbe del tutto inutile e infeconda, fino che non fosse data all' uomo quell' alta e divina religione, alla quale applicandosi quella regola, come a sua materia, quella trova in essa il proprio soddisfacimento, sviluppo e compimento. Ed è vero dunque che la nostra retta ragione è atta a giudicare di una buona o mala religione e deve farlo: ed è vero insieme che la nostra ragione non potrebbe per questo tuttavia comporci e somministrarci una religione perfetta e agli umani bisogni interamente corrispondente. « Nessuna rivelazione, appoggiandosi sull' istoria e testimonianze altrui, può produrre a noi una persuasione tanto certa, come quella che nasce dalla ragione, i cui decreti si appalesano all' uomo nella sua propria coscienza. E quanto più la religione sarà piantata e impressa nella coscienza dell' umana mente, tanto più sperimenterà l' uomo la sua benefica virtù nelle varie vicissitudini della vita.« Il nostro professore vi accerta che la storia e le testimonianze altrui non possono produrre una persuasione così certa, come quella della ragione. Che prove reca di ciò? La sua parola? Basterebbe a noi di negare gratuitamente ciò che gratuitamente afferma. Certo che la sua proposizione non è consentita universalmente dagli uomini: e l' affermarla con sì grande sicurezza non pare modestia, nè pare un aver tolto a seguir ragione, sebbene si pretenda che questa sia la sola buona guida. Noi tuttavia non ricuseremo di citare, seguitando, come abbiam fatto fin qui, il nostro razionalista alla ragione. E diciamo così: Il verificare se la storia e la testimonianza altrui possa produrre negli uomini una persuasione tanto certa come quella della ragione, non si può fare che interrogando il fatto stesso. Ora vi ha alcuno di quelli, i quali non furono mai a Roma e che non conoscono questa città se non sull' altrui testimonianze, che dubitino dell' esistenza di Roma? O si può dare persuasione più ferma e certa di quella di costoro? O v' ha alcuno il quale dubiti non forse sia una favola che Cesare o Cicerone abbia esistito? E il quale se ci fosse, non s' inviasse all' ospizio de' pazzi? Sebben che a noi è troppo questa persuasione universale; perchè dov' ella fosse anche solo in pochi, basterebbe a provar falsa la proposizione che l' istoria e la testimonianza altrui non possa produrre una persuasione altrettanto certa quanto quella della ragione. Ma se noi volgiamo il discorso a parlare di persuasione religiosa, ci cresce in mano assai d' argomento. Perocchè potè mai la ragione sola persuadere agli uomini qualche verità di persuasione così immobile e sicura come potè fare la religione? Peneremo noi a trovar prove o indizi della fermezza di persuasione che induce nelle anime la fede religiosa, massime la cristiana cattolica? Non si è sempre veduto in que' milioni di fedeli che conta questa religione, una tale persuasione che esclude qualsivoglia esitazione? E che perciò sta salda contro la morte e in presenza de' patiboli? Che supplizii e tormenti non si sono adoperati a provare se si poteva svellere o smuovere dal cuore de' fedeli questa persuasione? E che risultamento se n' ebbe, non in uno o due, ma in numero innumerevole d' uomini, in secoli diversi, ne' savi e dotti egualmente che negli idioti? S' ebbe un risultamento medesimo, di ridersi de' supplizii e de' carnefici, e di autenticare e suggellare col sangue quella loro invincibile persuasione della verità. Diede mai la ragione sola tale mostra di sè, diede tali segni e sì palmare dimostrazione della sua possanza sulla persuasione dell' uomo? O non anzi si è veduto la persuasione venuta dalla sola ragione umana esser sempre languida e inefficace a far il bene, sia a resistere fortemente, messa alla prova? E il professore di Hala poteva ignorare che di tutte le cagioni atte a produrre nell' uomo persuasione, quella della fede religiosa si trovò, nell' esperienza, essere di tutte la più efficace sugli uomini in ogni tempo e in ogni luogo della terra? E se non ignora questo fatto universale, che non si può ignorare da chicchessia, che affermava dunque in tuono sì dogmatico una proposizione che ripugna all' evidenza di tali fatti? E si credeva dispensato da sorreggerla e munirla d' alcuna prova? Ma pare che qui ci sia nè sana ragione, nè senso comune, nè pudore. Dirà per avventura che sebbene il fatto gli sia contrario, egli non ama i fatti, ma vuol teorie: giacchè i razionalisti deducono dalle leggi della mente le loro dottrine a priori e non dall' osservazione e dall' esperienza di ciò che avviene realmente nella natura e nell' umana vita: e quindi egli dirà che la sua sana ragione condanna a priori tutti i secoli e tutte le nazioni, perchè gli uomini si sono indotti ad ammettere la persuasione religiosa, cioè una persuasione storica, anzichè prestar fede alla ragione sola, e che questa ha diritto, e non quella, di signoreggiare la persuasione umana. Bene sta. Io avevo già preveduto meco medesimo che batteva qui il professore. La ragione adunque ha sola il diritto di produrre una persuasione al tutto certa negli uomini? Ma quale ragione, secondo il professore? Una ragione che si oppone alla storia, che è quanto dire una mezza ragione, o meno ancora; poichè se alla ragione togliamo via i fatti e la storia, ella si rimane per avventura come quel gigante Polifemo, a cui s' è cavato un occhio, e non ne aveva di più. Tale è la ragione dei razionalisti: un gigante, a dir vero, ma senz' occhi. Nemmeno può esser la ragione che commenda il signor professore di Hala, quella che hanno seguita i filosofi, o dell' antichità, o de' tempi nostri. Perocchè se ne' filosofi la ragione ha prodotto quella fermissima persuasione che il professore le attribuisce come suo esclusivo diritto, io mi credo di dover dubitare che se tal persuasione fu ferma veramente, non fosse ella però troppo certa e conforme alla verità: conciossiachè v' ebbe mai generazione d' uomini, i quali più sformatamente discordassero e combattessero fra loro, de' filosofi? Ora quale certezza può avere ove non vi sono due capi che convengono in pensare allo stesso modo e in affermare certe le istesse medesime [cose]? Tolgasi pur l' esperimento dai tempi moderni; cerchisi pure quanta certezza potè indurre la ragione de' protestanti e de' razionalisti. La variazione perpetua del protestantismo, venuta a tale che mise i protestanti stessi in disperazione di poter mai convenire fra loro, dimostra assai bene la confidenza che si può avere nella sana ragione. Dove andò a finire presso a' protestanti tanto variare e rimutare continuo di opinioni? A che condusse quella disperazione che nacque in loro, dopo aver tentato tante volte di accordarsi, di non potersi oggimai più insieme intendere e trovarsi nella medesima sentenza? Una tale disperazione produsse una conseguenza singolare che è da considerarsi con la più grande attenzione. Essi vennero dicendo a sè stessi in questa maniera:« Noi non possiamo in nessuna cosa essere insieme d' accordo: l' uno è persuaso che sia vero ciò che l' altro si persuade essere falso: noi non possiamo tenere una regola di fede nè comune nè che ci duri un anno: noi vogliamo variar sempre e non possiamo a meno di così fare. Ebbene, non potendo esser concordi in nissuna cosa, siamo almeno concordi e costanti in questo, nel mutar sempre, cioè nel non essere mai concordi, mai costanti, nell' avere ciascuno di noi il diritto di poter continuamente innovare e pensare diversamente da quello che gli altri pensano e che egli medesimo aveva pensato«. - Non si creda uno scherzo questo; questo è un fatto; una somigliante transazione è quell' unica che unisce i protestanti, l' unico loro modo di unione, e questo, singolare, a dir vero, e nuovissimo. E questo trattato di unione è appunto, a dir vero, nè più nè meno, il razionalismo, del quale il nostro professore di Hala si fa maestro. Strano viaggio dello spirito umano! La discordia irreparabile, continua, perpetua, disperata delle opinioni, che doveva pure mostrare qual confidenza meritasse, per la scoperta del vero, la ragione individuale e parziale, produsse in quella vece un sistema tutto opposto, nel quale si mette per solo e unico canone questo:« la sola ragione può indurre una certa persuasione della verità«. Tale e tanta è la cecità e tale l' orgoglio degli uomini! Se la verità non può essere discorde da sè medesima; e se il vedersi cento uomini divisi in cento sentenze contrarie dimostra evidentemente che novantanove di essi almeno sono nell' errore, e quindi non vi è se non la centesima parte di probabilità che la ragione di questi cento uomini abbia trovato il vero, e meno ancora di questa centesima parte, perchè potrebbero essersi ingannati anche tutti cento; egli è pure singolare che si osi dare alla sola ragione individuale la forza di persuadere con piena certezza, e che più fieramente vantino una tal forza coloro, i quali sono più degli altri ravvolti nelle perpetue dissensioni: e ciascun di essi parli con tuono sì alto e sicuro d' infallibil maestro, immemore delle migliaia di sistemi contrarii al suo, che pure il dovrebbe fare un po' dubitare di sè medesimo. Che se alcuni aprono gli occhi, in tanta cecità, e s' avveggono della natural conseguenza che procede dalla disparità di tanti sentimenti; necessariamente ad un irreparabile scetticismo si abbandonano, ad un feroce rinnegamento di quella stessa ragione che prima essi stessi avevano idolatrato, e alla vita materiale, nella quale preferiscono spensierati oggimai di rinchiudersi e riposarsi. A dir vero quella spaventevole discordia che ritrae ciascuno dal fidarsi, come a sicura guida, alla sola ragione individuale, non si rinviene nelle testimonianze istoriche, come si rinviene nelle opinioni filosofiche. Il perchè se il carattere della verità è concordia, convien dire che nella storia assai più riluce questo carattere di verità, che nei placiti dell' umana ragione, e per ciò che le storiche verità, munite di quel sentimento, abbiano eziandio più diritto d' indurre entro l' uomo persuasione certa, che le deboli forze della ragione individuale. Il che è quanto dire che la ragione stessa, pigliata nel suo ampio significato, ci conduce alla storia e concilia a lei la nostra fede: mentre questa ragione medesima ci fa sommamente diffidare e ci mette in iscredito la ragione de' razionalisti, una ragione mozza e sfiancata, una ragione altera e ambiziosa, una ragione che si isola da sè stessa e si sfornisce degli istromenti, coi quali soli potrebbe pervenire alla verità; cioè finalmente una ragione che non è ragione, ma che è l' uomo che fa la ragione, che mente a sè stesso e ad altrui e s' imbriaca del proprio mentire. Non è bisogno d' altre parole a mostrare l' inefficacità di una tale ragione, o piuttosto la sua funesta efficacia nelle cose dell' umana vita. Una sola ragione intiera e perfetta può ad un tempo essere efficace al bene, sostenitrice e consolatrice dell' uomo nelle necessitudini della vita: ma questa ragione è quella che fa un continuo e solo uso delle storiche e pratiche verità, e che addita la religione rivelata come il solo asilo ove l' uomo trovi la pace, la sicurezza e la stabilità fuori delle irrequiete e sempre mai tempestose fluttuazioni del proprio cuore abbandonato a sè stesso, e della propria mente girovaga, senza guida nè stella che la conduca. « Che vi abbia una rivelazione soprannaturale, s' intende dimostrare da quelle cose che si leggono in qualche libro che si dà per scritto in modo soprannaturale: e pretendesi di conciliar fede a questo libro da questo appunto ch' egli contenga una soprannaturale rivelazione. Qui havvi un circolo: si pone per dimostrato ciò che si vuole dimostrare«. L' argomento è irrepugnabile nel sistema dei protestanti; ma non ha valore alcuno nel sistema dei cattolici. I protestanti cominciano e finiscono col libro della Bibbia: questo è certamente un circolo vizioso. Essi dicono: l' unica regola di fede è la Bibbia. Si domanda loro: come provate che la Bibbia sia ispirata e l' unica regola di fede? Essi non avendo altra autorità che la Bibbia stessa, debbono ricorrere ai fatti contenuti nella Bibbia per dimostrare che la Bibbia è ispirata ed è la regola della fede. Questo è ciò che faceva conoscere a S. Agostino la necessità di una Chiesa infallibile che conservasse la Bibbia stessa, e che ne attestasse l' ispirazione della medesima, e che faceva dire a questo gran Padre: « Io non crederei alla Scrittura, se non mi movesse a ciò l' autorità della Chiesa« ». Era un po' più logico dei dottori riformati. Nel sistema cattolico adunque il circolo rimane evitato. Poichè i cattolici dicono:« Noi crediamo alla Bibbia, non sull' autorità della Bibbia, ma sull' autorità della Chiesa che ci dà la Bibbia. Noi abbiamo un' autorità infallibile, vivente, che si conserva sulla terra perpetuamente, avendo detto Cristo: « Io sarò con voi fino alla fine dei secoli « ». Ma come so io, si dimanda, che quest' autorità della Chiesa cattolica è verace, che esiste questo divino magistero vivente nei maestri della chiesa? Lo so io forse per altro se non per parole e i fatti di Cristo che sono tutti contenuti nella Bibbia? - Sì, certamente: io ne ho delle altre prove. I primi fedeli hanno creduto agli Apostoli sulla loro parola, per verbum eorum anche prima che il nuovo Testamento fosse scritto. Dunque v' ebbero degli argomenti e validi, ove non si vogliano condannare tutti i primi cristiani e con essi il cristianesimo. Gli argomenti che si hanno in favore della parola evangelica , non sono solamente validi singolarmente presi, ma è nel loro complesso, nel loro accordo mirabile e stupendo che sfolgoreggiano di una luce quasi concentrata da mille punti in un solo foco, e sforzano l' assenso umano. Il sistema del cristianesimo tutto insieme preso, sistema che non può essere finto da mente umana, perchè abbraccia il principio del mondo e si continua e consuma con tutta la serie degli avvenimenti, è quel solo che spiega la storia dell' umanità, che dà ragione di tutti i fatti più importanti avvenuti al mondo, che è conforme alla natura di Dio, che interpreta i bisogni dell' uomo e li soddisfa pienamente. Le profezie, i miracoli, la diffusione per tutta la terra della religione della Croce, la sua conservazione, i suoi mirabili effetti, tutte le circostanze insieme prese, e conosciute anche pei soli monumenti della storia accertati colla critica, e finalmente l' autorità del genere umano; tutto questo insieme ha un peso tanto grave, tanto importante, tanto solenne, sopra chi non ha lo spirito malamente preoccupato, che non può a meno di strappare da lui un pienissimo assentimento. Ma a tanti argomenti poi, illustrati dagli apologisti del cristianesimo, nel sistema cattolico, si sopraggiunge la grazia , la quale finisce di vincere e trionfa ragionevolmente dell' uomo. Dico ragionevolmente , perchè la grazia è luce interiore e compimento della stessa ragione: di che il sistema cattolico non può essere più uno, più coerente e logico, più serrato e inattaccabile, perchè perfettamente più consentaneo con sè medesimo. « La persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione di Dio non si può conciliare coll' idea di Dio eterno, sempre costante a sè stesso, onnipotente, onniscio e sapientissimo, dalla virtù del quale eternamente attiva e fornita di ottimi consigli noi poniamo giustamente dipendere l' esistenza e la conservazione e la perpetuità di tutte le cose della natura. Perocchè in primo luogo quella differenza che volgarmente si pone fra le operazioni di Dio immediate e le mediate , si deve intendere non in sè, ma secondo l' umana maniera di giudicare; non potendo essere che l' uomo conosca menomamente la vera via e il modo della divina attività col contemplare i singoli effetti di lei apparenti nella natura delle cose. Le operazioni di Dio si possono dire immediate per sè, per questa ragione che non sono circoscritte da limite di tempo e di luogo, di tal modo che le cose che Dio fa, le fa tutte in un solo e primo suo atto, nè ripetonsi quasi nelle varietà de' tempi e di luogo: sebbene l' umana mente, astretta ai confini del tempo e dello spazio dal proprio suo modo di conoscere, non sappia comprendere in un solo sguardo quell' universale e quasi simultaneo operare di Dio, ma vegga solo le singole parti di lui, secondo che si palesano nel succeder del tempo e nel variar degli spazii, giusta la legge di causalità innata alla mente. Di che avviene che tutte le cose che Dio opera per sè immediatamente, l' uomo rettamente giudichi operarle mediatamente, cioè in un modo conveniente al tutto, alle leggi del suo proprio pensare. In secondo luogo se havvi nella natura qualche effetto che le forze di essa natura sebben limitate non possano produrre, per piccolo che sia quest' effetto, mostra però abbastanza una imperfezione non necessaria nella natura, e per ciò anche in quello che ha fatto la natura. In terzo luogo chi volesse affermare che un qualche avvenimento, per essere oltremodo mirabile, non si possa spiegare colle forze naturali, questi dovrebbe conoscere perfettissimamente tutte le leggi della natura. Il che non può cadere in uomo, e però non può conciliarsi nè pure in questo modo colla sapienza divina una rivelazione miracolosa: poichè se nessuno può a certi segni conoscere una tale rivelazione, ella non è neppure atta a fare il divino essere palese, perchè lascia l' uomo in dubbio e non si può ingerirgli una ben certa persuasione«. Quando la ragione d' innumerevoli e, fra questi, dottissimi uomini, sentenzia in un modo contrario a ciò che pare alla ragione mia, allora è cosa ben rara che, senza offendere la modestia, io possa parlare in tuono assoluto e pronunciare la mia sentenza come una indubitabile verità, senza nè pur fare menzione di sentenze opposte alla mia, dispettosamente trasandandole, quasi con quello: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa ». Ora il fatto è, che una moltitudine innumerevole di uomini di tutti i secoli, e fra questi tali che furono giudicati da tutto il mondo cima d' ingegni e di dottrina, non ebbero mai dubitato che la persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione ripugni all' idea che si deve avere di Dio. Egli sarà perciò assai, se all' udir pronunciare dal nostro professore la sentenza assoluta e perentoria che« ripugna«, altri vi tenga dal dare a lui traccia di non piccola presunzione. Ma noi mettiamoci nei suoi argomenti giacchè qui tre ne reca in mezzo; e cominciamoci dal riassumerli in brevi e chiare parole. Il nostro professore sostiene ripugnante coll' idea di Dio la persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione, perchè: 1 Il pensare che Dio operi mediatamente ripugna all' idea di Dio, giacchè Iddio fa tutto immediatamente , cioè con un atto semplicissimo, eterno, fuori dello spazio e del tempo: ed è l' uomo quello che, essendo soggetto per la legge del suo pensare allo spazio e al tempo, giudica che Dio operi successivamente e con varie azioni, e quindi mediatamente . Il perchè se si prende la parola secondo le leggi del pensare umano, Iddio opera sempre mediatamente ; se si prende in sè stessa, opera sempre immediatamente . Quindi non si dà questa distinzione di operazioni mediate e immediate, ma tutte le operazioni divine sono egualmente mediate e immediate. 2 Una rivelazione miracolosa ripugna ancora all' idea di Dio, perchè suppone che egli non abbia fatto la natura con sapienza, in modo che essa non abbia bisogno di tali aiuti miracolosi. 3 Ripugna in terzo luogo, perchè Iddio avrebbe fatto una cosa inutile, non potendo l' uomo discernerla con certezza dagli effetti naturali. Ora in quanto al primo di questi argomenti, io comincio a far osservare che tutti quei dotti teologi di ogni secolo, i quali hanno ammessa la distinzione fra le operazioni immediate e mediate di Dio, hanno tutti saputo, nessuno eccettuato, che Dio tutto ciò che fa lo fa in un atto solo, semplicissimo ed eterno: e questa è una verità ovvia in tutte le teologie, e non punto una scoperta, per avventura, del signor professore di Hala, o di quei filosofi, da' quali egli ha copiati i suoi argomenti (1). E pure questi nuovi sapienti ci dicono le sentenze più comuni con tanta gravità e con tuono sì solenne, che sembrano annunziare alla terra le verità più inaudite. Sebbene adunque tutti i mentovati teologi sapessero che Dio opera tutto con un atto solo e eterno, tuttavia non si sono tenuti per questo dal partire le divine azioni in mediate e immediate ; sicuramente perchè non vedevano nessuna opposizione e contrarietà fra queste due proposizioni, e che Dio opera con un atto semplice fin da tutta la eternità, e che quell' atto per la diversità de' suoi effetti si divida in azioni mediate e immediate . Or questo fa creder che il signor professore di Hala combatta per avventura una dottrina che non si è punto dato cura d' intendere: solito vizio, come abbiamo detto, del più de' protestanti, presso cui il disprezzo de' cattolici tiene solitamente quel luogo che tener dovrebbe lo studio accurato e fedele delle loro dottrine. Non è dunque vero, diremo al signor professore, che quando noi parliamo di azioni di Dio immediate e mediate, ci opponiamo punto alla verità, la quale per noi è un dogma, che l' operare divino è semplice e coeterno con lui. Noi non facciamo che considerare quest' unico atto nei suoi diversi effetti; ed essendo molte le relazioni di quest' unico atto con questi effetti, perchè i suoi effetti son molti, noi chiamiamo quest' atto medesimo nelle varie sue relazioni azioni di Dio ; le quali azioni non indicano moltiplicità di atti, ma solo moltiplicità di relazioni e di effetti di un atto medesimo. Ora queste sono quelle che noi denominiamo poi mediate e immediate , senza che ciò punto ripugni per nulla all' idea dell' operar divino unico e semplicissimo. Un altro sbaglio mostra di prendere parimente il signor professor di Hala nell' assegnare il fondamento di questa distinzione di azioni mediate e immediate. Pare che egli supponga che i soprannaturalisti cattolici chiamino mediate le azioni di Dio in quanto sono vestite dallo spazio e dal tempo; e che la parola d' immediate si riservi a significar quelle che sono immuni dallo spazio e dal tempo. Ma sebbene i cattolici ammettano una successione nelle cause, e però, oltre la causa prima, ammettano delle cause subordinate; tuttavia l' ordine di queste cause, per la concorrenza di Dio, nol fanno dipendere dal tempo, ma dicono che tutta la serie delle cause è da Dio percepita, creata e conservata con quell' atto eterno, col quale egli fa tutte le cose: giacchè, come dice S. Agostino, Iddio percepisce il tempo senza tempo; e non vi è dubbio alcuno che questo modo onde Iddio percepisce, non distrugge punto nè poco la vera subordinazione delle cause in fra loro e la loro temporale successione, poichè questa successione di tempo non si trasporta già con ciò in Dio, ma si lascia nell' effetto dell' operazione divina, nelle creature, in una parola, nelle cause subordinate. Ma queste dottrine cattoliche non possono essere intese da un uomo che si è intestato nel razionalismo critico, bevuto però come si beve un dogma filosofico, cioè per la via della materiale memoria, non della ragione: un critico che fa del tempo e della causalità nulla più che altrettante leggi dello spirito, altrettante forme soggettive, senza che si possa provare alcuna loro oggettiva realità (1), deve naturalmente negare la subordinazione delle cause, e quindi le cause mediate e immediate; perocchè questi nega altresì a dirittura che si possa provare l' oggettiva realità di ogni causa (2). Ciò però che è strano ed antilogico, si è la ragione che si adduce di questo negarsi la causa mediata (tolta via la quale il panteismo è irreparabile, conseguenza tirata già dal criticismo ), cioè a dire il non potersi comporre questa coll' eterno e semplice operare di Dio. La qual ragione non avendo sicuramente alcun peso, forza è dire che cada tutto il sistema. E che non abbia peso quella ragione, si mostra da ciò che ho detto esser dottrina della cattolica teologia, cioè poter essere l' effetto (la creatura) soggetto al tempo, senza che però sia soggetto al tempo l' operare della causa (Dio) che l' ha prodotto; come pure poter darsi degli agenti intermedii, senza che cessi di operare in tutti essi, creandoli a ogni istante, la causa prima e sempiterna. Di che si concluda che ciò che mosse il nostro professore razionale a produrre quell' argomento, si fu solo il non aver avuto ragione che bastasse a pur intendere chiaramente quale fosse la sentenza cattolica delle cause mediate e immediate. La stessa mancanza di cognizione sufficiente per parlare con qualche senno in tale argomento, dimostra egli nel far consistere la rivelazione miracolosa in un' azione immediata di Dio. Sarà difficile che egli possa provare essere sentimento comune della Chiesa cattolica che la rivelazione sia opera immediata di Dio. Può darsi che trovi di ciò qualche parziale autorità, la quale fors' anco, bene interpretata, gli cesserebbe dall' esser favorevole. Ma il sentimento comune, e, per mio avviso, il legittimo sentimento della Chiesa si è, che Iddio non diede la rivelazione esterna immediatamente, ma sì bene mediante degli Angeli, come dice S. Paolo, i quali sono anch' essi creature di Dio e entrano a formar parte della natura, se s' intenda per natura non la materiale solo, ma tutta la natura creata, il sistema intero dell' universo. E Cristo stesso, che pure è Dio, se si considera solo come ministro della rivelazione esterna e non della grazia, può dirsi che tanto ufficio esercitasse come uomo, o almeno col mezzo dell' umana facoltà della loquela, e quindi intervenendo la sua natura umana, quasi direi, fra gli uomini e il Verbo. Giacchè adunque in nessuna maniera la ragion sana del signor professore potè recarlo tanto innanzi da poter formarsi un giusto concetto di ciò che si debba intendere per azione immediata di Dio; io mi farò brevemente a esporglielo secondo il fondo de' cattolici insegnamenti. Ogni qualvolta l' uomo non prova quello che abbiamo [detto] sentimento deiforme (1), la percezione dell' infinito, percepisce solo qualche cosa di creato e di finito. Questo elemento creato e finito che percepisce, questo termine limitato, qualunque sia, della sua percezione, non è Dio che sente, perocchè Dio è illimitato e infinito. Questo elemento o termine adunque che non è Dio e che viene sentito e percepito dall' uomo, questo è ciò che sta fra lui e Dio; e sebbene Dio operasse, tuttavia dicesi che la sua operazione è mediata, perchè la cosa prossimamente sentita dall' uomo, anzi la cosa unica da lui sentita, non è Dio. Che se all' incontro la stessa percezione dell' uomo è deiforme, cioè tale che contiene una cotal pienezza illimitata, insomma il tutto , allora solo si dice acconciamente operar Dio senza mezzo, perchè egli stesso è divenuto forma dello spirito umano. E le divine Scritture e i Padri ravvisano questa maniera di operare di Dio nella grazia , come ho più sopra dimostrato. Certo duro è un siffatto discorso a un filosofo razionale, anzi inintelligibile: ma egli potrà intenderlo, se vorrà. E che gli bisogna per intenderlo? Che creda. « Non intenderete, se non crederete« »: dice Dio nella Scrittura (2). Ma crederà contro ragione? No: egli crederà a quegli uomini fedeli e illuminati, i quali gli testimoniano di provare in sè tale sentimento; e la loro testimonianza ha tutti i caratteri che può desiderare l' arte critica più rigorosa, veracità, scienza, moltitudine e consentaneità di testimoni, spassionatezza, eccetera. La ragione in tal modo lo condurrebbe alla fede, la fede all' esperienza, e l' esperienza lo farebbe pervenire all' intelligenza. Perciò i giusti (che hanno testimoniato indarno la verità) giudicheranno le nazioni (1). Ma veniamo al secondo argomento. Nel secondo argomento ci si presenta pur nell' esposizione stessa qualche cosa più tosto di ridicolo che d' assurdo. Dice: se havvi nella natura qualche effetto che le forze della natura nol possan produrre, esso mostra un' imperfezione non necessaria nella natura. Che cosa vuol dire il signor professore con tali parole: se havvi nella natura qualche effetto? Intende dire se havvi un effetto per sè naturale? Se intende così, certo che vi avrebbe difetto nella natura, se un effetto naturale non potesse essere prodotto dalla natura. Se poi intende« se havvi un effetto soprannaturale apparente nella natura«; che difetto può essere questo che la natura non possa produrre ciò a cui non si estendono le sue forze? Che difetto sarà per un sasso il non vegetare? Che difetto a una pianta il non sentire? Che difetto a un bruto il non intendere? Che difetto in una parola sarà alla natura intera il non poter far ciò, a cui ella non è ordinata, che è contrario alle sue leggi, e per cui fare non ha punto di natural virtù? Or s' ella è così, chi dunque disse mai al signor professore che i cattolici per avventura ammettono di tali assurdi? Chi lo ha persuaso, non dico di attribuire altrui, ma pur solo di pensare così vane sciocchezze, perocchè io credo che penerà assai di trovare in tutto il mondo un uomo così semplice, o più tosto così stupido, che abbia mai detto« Iddio aver formata la natura in modo da non esser sola capace di produrre i suoi effetti naturali«, e perciò aver egli bisogno di venirla soccorrendo a quando a quando, siccome una inferma, con frequenti miracoli? - La sua sana ragione par che assai poco l' aiuti non solo a conoscere e riferire fedelmente le opinioni altrui; ma nè a fingerle tali che siano tampoco verisimili, anzi pur solo intelligibili!!! Il terzo argomento del nostro autore è fondato sopra una difficoltà tante volte proposta e tante risoluta, che per accertarsi che un evento superi le forze della natura, sia necessario conoscere perfettamente queste forze, ciò che nessun uomo può. A lui era ben facile, degnandosi di aprire alcuno de' tanti cattolici scrittori che trattarono questa materia, trovare al suo dubbio una sufficiente risposta. Noi ci conterremo in poche osservazioni. In primo luogo non è necessario conoscere tutte le forze e leggi naturali, singolarmente prese, per accertarsi, che l' avvenimento sia miracoloso: sovente egli basta conoscere che la natura è limitata; e ciò basta ogniqualvolta trattasi di un tale effetto che porta in sè i vestigi di una forza infinita e però certamente sopra le forze possibili di una creatura. Tale sono: la creazione, le profezie; tali le operazioni interiori della grazia, tali le illustrazioni dell' intelletto a conoscere le cose lontane o quelle che altri ha chiuse nel segreto dell' animo. Parimenti soventi volte basta conoscere parzialmente una legge della natura e non tutte; e ciò ogniqualvolta l' avvenimento è direttamente contro quella legge, come apparisce nel miracolo del quatriduano, dell' apparire o scomparire di un uomo, e generalmente del rendere il proprio corpo fornito delle qualità de' corpi gloriosi, ecc.. Finalmente è da avvertire che di tali circostanze sono forniti i miracoli, generalmente parlando, come quelle delle subitanee guarigioni, che per lo meno inducono un sommo grado di probabilità e una morale certezza, la quale deve bastare a ogni uomo ragionevole; giacchè [è] dietro a una somma probabilità e morale certezza che ciascuno dirige le più gravi azioni della vita, e crede tuttavia di operare prudentemente. E l' esperienza ha mostrato che il sommo grado della probabilità, per dir poco, che mostravano in sè certi fatti miracolosi ha bene spesso ingerito la più alta persuasione dell' intervento di una forza soprannaturale, anche in quelli degli spettatori che si trovavano coll' animo interamente alieni dal prestar fede a dei fatti soprannaturali. Ma ciò che è sommamente necessario finalmente a poter discernere in fra tutte la dottrina che viene da Dio si è la buona disposizione della volontà. [...OMISSIS...] E la Chiesa cattolica per ciò può dire a quelli che non intendono la verità divina e salutare delle sue voci, quello stesso che diceva il suo Fondatore a quegli increduli che non rifinivano di domandargli argomenti e prodigi in confermazione della sua parola: [...OMISSIS...] . Riassumendo in breve e raccogliendo sotto un solo punto di vista tutto ciò che di più importante al nostro uopo abbiamo detto distesamente in varii luoghi intorno all' uomo, noi abbiamo veduto che il soggetto uomo nomina sè stesso col monosillabo IO. E come i vocaboli son quelli che dimostrano quali sieno le comuni opinioni, quelle cioè che vengono dagli uomini tutti generalmente assentite, per ciò basterà analizzare il significato che sta annesso a questo monosillabo IO per rivelare quello che per comune sentenza (2) si contiene nel concetto del soggetto appellato uomo . IO« uomo« veggo l' essere, Io veggo la verità (3), ma io non sono l' essere, io non sono la verità che pur veggo. Privo dell' essere, privo della vista della verità, l' IO ancora potrebbe sussistere, sebbene non potrebbe pensare se stesso perchè il pensiero non è altro che la vista dell' essere (4). L' IO che vede l' essere è intelligente, e senza l' essere, come si diceva, è privo d' intelligenza. Precedentemente adunque all' intelligenza è il concetto dell' Io, e un tal concetto quindi non può racchiudere che la nozione di un sentimento cieco, non essendo ancora illuminato dal lume della verità. Quest' Io sentimento, concepito privo d' intelligenza, la riceverebbe tosto che gli fosse dato di veder l' essere , che diventa in tal modo sua forma , ciò che lo adduce al suo più nobile atto. Un Io sentimento come l' abbiamo dedotto, privo d' intelligenza, è un Io animale; fornito d' intelligenza, si chiama uomo . Nel concetto dell' uomo adunque precede il concetto di animale a quello della facoltà intellettiva, e quindi acconciamente l' uomo viene definito un animale intelligente (1). L' essere che gli è dato a vedere è dunque nell' uomo, ma non è l' uomo; e l' uomo commette una usurpazione ogniqualvolta egli attribuisce a sè quelle prerogative che solamente all' essere sono dovute. L' usare di quest' essere che l' uomo vede, l' applicarlo ai sentimenti, cioè il considerare i sentimenti in relazione coll' essere, questo è ragionare . L' essere nell' uomo naturalmente si trova in uno stato molto imperfetto, cioè a dire l' uomo fino che non oltrepassa l' ordine della natura, non vede l' essere che imperfettamente, inizialmente, in un modo universale, indeterminato, senza una sussistenza in sè e per ciò come possibile. Quest' essere possibile e indeterminato che l' uomo vede per natura e che applica poi ai sentimenti, l' abbiamo chiamato essere ideale , ovvero modo ideale dell' essere . L' essere nell' uomo prende un nuovo stato allorchè l' uomo vien sollevato dall' ordine naturale all' ordine soprannaturale: quest' essere opera nell' uomo non più in un modo puramente ideale , ma in un modo sostanziale e reale; l' uomo prova allora un vero sentimento, non più una tenue idea; prova l' azione dell' essere reale che si manifesta in tal modo a lui presente; non è più solo la possibilità indeterminata dell' essere che ha in sè, ma la sussistenza medesima: insomma allora l' idea si cangia in percezione . L' essere reale che percepisce l' uomo in un tale stato, non è però limitato, ma bensì è determinato dalla propria sussistenza; non è possibile, ma tuttavia è universale in quanto il tutto [in] lui si trova; non è iniziale, ma anzi è completo. Quest' essere completo e reale è Dio stesso, il quale a questo mondo non si mostra se non in un cotal modo velato, e solo nell' altro si vede svelatamente e con pienezza. Ora chi considera bene la natura dell' essere naturalmente impresso nelle anime nostre, che anche si chiama« verità«, vedrà che non disconvenientemente si può dire esser egli una similitudine di Dio, sebbene non Dio stesso. Questo consegue dalle dottrine da noi esposte. Noi abbiamo spiegato in che consista il concetto di similitudine: abbiamo detto che due cose sono simili quando hanno una qualità comune: che non esistendo niente di comune fuori della mente, questa qualità comune non è che una eguale relazione che hanno le due cose colla mente, cioè con un' idea, onde si conoscono egualmente le due cose e si paragonano insieme: che perciò stesso l' idea si può dire la similitudine della cosa conosciuta, come acconciamente la chiamarono gli antichi (2). Ciò premesso è da considerarsi che noi conosciamo non solo le creature, ma Dio stesso colla vista dell' essere: per ciò questo essere di cui ci serviamo a conoscere Iddio convien che sia una similitudine di Dio. [...OMISSIS...] . Anzi dico di più che se noi conosciamo tutte cose coll' essere, quest' essere però che forma il lume della nostra mente, ha più similitudine con Dio che colle creature. Poichè che cosa è Dio? Dio è appunto l' essere: con questo è detto tutto, non conviene aggiungergli cosa alcuna, chè sarebbe un guastarne il concetto: nulla si può dire più di quello che insegnano i teologi cattolici, cioè che l' essenza di Dio consiste nell' essere . Questa grande verità Dio stesso l' ebbe comunicata a Mosè nell' antico Testamento, ingiungendogli di dire: « QUEGLI CHE E` mi ha mandato a voi« (4) ». Questa stessa verità insegnò pure il Verbo incarnato, dicendo: « Se non credete che IO SONO, morrete ne' vostri peccati« (5) ». Tutti i Padri commentano con delle sublimi riflessioni questi luoghi profondi delle Scritture dove si legge che l' essere è appunto Dio stesso. L' autore del celebre libro Dei nomi divini fa appunto osservare, dietro tali traccie di dottrina che dànno le Scritture, « come a Dio non conviene già la denominazione di ente sotto qualche aspetto particolare, ma semplicemente, e che egli abbraccia e occupa non già l' essere in un modo determinato, ma tutto l' essere« (1). » E ora l' essere è anche ciò che cade nella nostra mente prima di tutte le altre cose, poichè esso solo è intelligibile per sè medesimo, sicchè esso forma la nostra intelligenza. Di che Massimo, commentatore di quel libro sublime dei Divini nomi , trova la ragione del dare a Dio l' essere prima di ogni altra qualità, come la vita, la sostanza, ecc., in questo che « la mente, pur col suo primo posarsi, intende l' essere e pensa innanzi a tutto lo stesso essere e di poi considera essere in un cotal modo queste altre cose« (2) ». Conciossiachè era ragionevole che prima si desse a Dio ciò che prima cade nella nostra mente e per sè stesso s' intende; conciossiachè la natura divina deve certamente avere questa proprietà dell' essere la prima a doversi intendere, l' intelligibile per sè stessa, e però deve convenire con quell' essere che luce incommutabilmente nelle nostre menti. S. Bonaventura parla a lungo e profondamente in più luoghi delle sue opere della relazione che passa fra l' essere che forma il lume della nostra ragione e l' essere divino, e vi trova il più stretto nesso, trova [che] l' essere, col quale conosciamo le cose, non ci potrebbe prestare questo mirabile servigio di renderci note le cose tutte, gli esseri tutti, se egli non fosse una similitudine e una cotale partecipazione del sommo e perfetto essere. Perocchè assai acconciamente riflette l' acutissimo e santo Vescovo che non potremmo conoscere che i varii esseri, cui noi percepiamo, sono più o meno imperfetti, se in qualche modo non avessimo in noi il tipo della perfezione, se non potessimo consultare nel segreto delle nostre menti, in un modo maraviglioso e recondito, l' essere perfettissimo, poichè solo l' idea di ciò che è perfetto in qualsivoglia genere ci può aiutare a scorgere e conoscere e giudicare i varii gradi di perfezione delle cose che a quel genere appartengono. Egualmente si dica del giudicarsi che si fa dei pregi e difetti degli esseri, il qual nome di esseri abbraccia tutti i generi delle cose. Dice adunque il santo Cardinale così: [...OMISSIS...] . E perciò il santo Dottore dice questo essere, luce delle menti, una similitudine di Dio che in noi sta di continuo. « Essa ha, » (dice egli parlando della memoria, come quella che ritiene le verità sempiterne che tutte si trovano nell' unica idea dell' essere, come io ho mostrato nella Ideologia), «essa ha presente a sè stessa una luce incommutabile, nella quale si ricorda delle immutabili verità. E così apparisce nelle operazioni della memoria ch' essa... [che l' anima è imagine e somiglianza di Dio; per tal modo presente a sè stessa e avente Dio presente che e attualmente lo intende e potenzialmente è capace di parteciparlo«] (3) ». Nel qual passo sembra che il santo Dottore prenda la parola imagine per indicare il medesimo presso a poco che significa la parola similitudine. Nel lume della mente adunque, che è l' idea dell' essere in universale, si contiene una cotale similitudine di Dio: e la ragione intrinseca colla quale ciò si prova si è quella che abbiamo indicata, cioè che nell' essere da noi concepito non si trova che puro essere senza alcuna limitazione o aggiunta di sorta alcuna, il che medesimamente si può dire di Dio che è essere sincerissimo e purissimo, nè ha meschianza di alcun' altra cosa in sè: di che è, come dice S. Giovanni Damasceno, che [...OMISSIS...] . In questa sincerità e semplicità dell' essere che sta di continuo al nostro spirito presente, noi poniamo la similitudine di lui con Dio. E questa sincerità e purità dell' essere mentale e dell' essere divino merita che sia da noi attentamente contemplata. E` appunto perchè Iddio non è altro che essere , che Dio è tutto: in questo vocabolo si esprime tutto per modo che qualunque cosa si volesse aggiungergli che diversasse da lui, già non sarebbe un accrescerlo, ma un limitarlo, un diminuirlo. Il grande Abate di Chiaravalle nell' opera che scrisse al suo discepolo Eugenio III e che intitolò Della Considerazione , fa una riflessione simile a questa. Egli parla di Dio nella seguente maniera: [...OMISSIS...] . Or dunque nel solo e puro essere si trovano tutte le cose, e ove si volesse mescolare con lui altra cosa, non sarebbe che un mescolargli il nulla, poichè fuor dell' essere non è veramente che il non7essere, il nulla. Ora in questo noi dicevamo consistere la similitudine che passa fra quell' essere che è innato nelle nostre menti e Dio, in questa sincerità e purità: poichè tanto Dio quanto l' essere ideale innato in noi niente hanno in sè di diverso e, per così dire, di eterogeneo, ma sono impermisti e semplicissimi. Di questo è che anche nell' essere ideale si trova tutto, e dalla sola sua nozione potrebbe dedurre la cognizione di tutte le cose chi tanto valesse per forza dialettica, perocchè qualunque anche minima notizia dell' essere basta per sè a dedurne ogni notizia maggiore e a determinare, per così dire, il problema di trovare l' ordine intrinseco dell' essere, nel qual ordine tutte le divine verità e tutte le cose, come parti di esso ordine, si comprendono. Il che è l' effetto della somma semplicità e individualità dell' essere stesso, il quale non può essere mai partito dal suo tutto. E però chi ne riceve un raggio solo anche tenuissimo, riceve però tal cosa, la quale suppone e chiama per necessaria illazione, cioè per intrinseca sua esigenza e necessità, l' intero a cui ella si appartiene, e dal quale ella è, relativamente al soggetto che la percepisce, in certo modo, staccata. E questa è la ragione appunto, per la quale l' essere innato nella mente ha l' attitudine in sè di farci conoscere tutte le cose, o anzi piuttosto riconoscerle e quasi richiamarcele alla memoria: dal qual fatto è nata la reminiscenza de' Platonici. Perocchè veramente il fatto della cognizione, chi attentamente lo osservi siccome avviene e l' analizzi, mostra avvenire per siffatto modo che sembra piuttosto un ricordarci che noi facciamo di cosa già prima conosciuta e appresso dimentica, che non sia un ricevere una interamente nuova notizia. [...OMISSIS...] . E questa osservazione si può portar oltre, e estenderla alla sola cognizione de' primi principii, che non sono altro finalmente se non l' essere innato nelle varie sue applicazioni; ma sì anco alle cognizioni tutte in universale ed alla stessa percezione, almeno considerate in quanto sono cognizioni . Perocchè che è il conoscere e percepire una cosa, poniamo che essa sia anche contingente? Non altro se non vedere il rapporto di quella cosa (cioè dell' azione fatta da essa ne' miei sensi) coll' essere a me innato. E che è vedere questo rapporto? Non è altro se non accorgersi che vi ha convenienza fra l' azione da me sofferita nel senso e l' essere a me innato; cioè accorgersi che l' azione da me sofferita suppone un essere che la faccia, e quindi è un' appartenenza dell' essere, traendone così per illazione che l' essere suo corrispondente deve sussistere. Col conoscere adunque quella cosa contingente io non faccio che ravvisare nella sua azione sopra di me un atto dell' essere che io già conosco; non è che un riconoscere adunque in atto, e in un atto particolare, ciò stesso che io prima conoscevo in potenza e in un modo universale, perchè era nel mio spirito (1). Ma dunque se nell' essere ideale si trovano e sono già contenute tutte le cose in quanto sono possibili (2), in quel modo che la condizione è contenuta nel condizionale, la conseguenza nel principio; onde è che io non posso da lui solo svolgere la cognizione di tutte le cose? E ho bisogno che le cose stesse mi feriscano e portino in me un cotal sentimento di sè stesse, acciocchè io quasi mi svegli da un mio letargo e apra gli occhi a riconoscere che quelle cose erano anche prima in quella nozione, che in me luceva dell' essere, contenute e comprese? Ciò nasce appunto dalla mia tardità, da un cotal letargo della mia potenza di ragionare e prima di tutto dalla debolezza del mio occhio intellettivo che prende sì poco dell' essere e in cui non può quindi attingere ciò che pure vi sta, se non dopo di aver ricevuto l' impressione delle cose reali nei sensi e aver confrontate queste impressioni con quell' essere e vedutane la loro convenienza e uniformità con esso. Il che avviene in quella guisa appunto che negli enimmi, de' quali quando ci è comunicata la soluzione tutto ci riesce chiarissimo e vediamo come le circostanze indicate indicavano quella soluzione e altra non ne potevano ricevere; e tuttavia noi non l' abbiamo saputa trovare prima di udirla, per mancarci quel grado di perspicacia, che non è altro che una maggiore e più intima visione della cosa, la quale ci sarebbe stata necessaria per trovare il conveniente scioglimento dell' enimma proposto. Ora il grado di perspicacia dato alla natura umana dal Creatore non è tale, che nell' essere possa penetrar tanto da vedervi le cose determinate e compite, ma di aver bisogno per veder queste che le cose stesse agiscano nel nostro sentimento e ci lascino delle modificazioni, che sono altrettante traccie e segni di sè stesse, coll' aiuto delle quali noi interpretiamo l' ordine e la natura dell' essere in noi rispondente (1). Fissata così la similitudine che passa fra l' essere innato, che abbiamo detto anche iniziale perchè da noi si vede solo inizialmente, e l' essere divino che è l' essere completo, consistente nell' essere l' uno e l' altro puro e semplice essere; sarà facile di vedere la verità di quella proposizione da noi più sopra proferita, cioè che l' essere innato non solo è una cotale similitudine di Dio, ma altresì che egli ha più similitudine con Dio che non sia con tutte l' altre cose limitate che con esso essere noi conosciamo. Perocchè è manifesto che nessuna delle cose limitate è puro e sincero essere, ma ha in sè una limitazione, e quindi una cotale imperfezione, una potenzialità e una contingenza; condizioni che appartengono al non essere, le quali rendono quelle cose dissimili dal purissimo essere che è la luce delle menti. Anzi se noi attentamente consideriamo la maniera, colla quale noi veniamo a conoscere le cose contingenti, ci apparirà che si può dire in un senso verissimo, e l' hanno detta tutti i filosofi e i teologi, cioè che Dio solo E`, e le altre cose non sono veramente. Ecco come si spiega assai facilmente questa strana sentenza coi principii della nostra filosofia. Acciocchè noi percepiamo una cosa qualsiasi, egli è necessario che noi riceviamo la sua azione e impressione nel nostro sentimento, ed è questa impressione e sensazione che in noi produce ciò che ci fa indurre esistere la cosa che ci ha modificati: tale è la nostra percezione delle cose, e la cognizione loro è pure determinata dal fantasma o sensibile impressione rimasta nel nostro sentimento dalla loro azione su di noi. Questo discorso è così generale che vale per Dio stesso. Se non che il toccarci di Dio è un toccare proprio e distinto da ogni altra modificazione che noi riceviamo dalle altre cose. Questo è il toccamento dell' essere stesso, e ciò appunto che modifica quello che io chiamo senso intellettivo o spirituale, e non è diverso dall' intelletto se non perchè s' aggiunge un toccamento reale di un essere sussistente. Sicchè questo oggetto determina, specifica o piuttosto informa e costituisce di sè una potenza, quella dell' intelletto o del sentimento intellettivo, in una parola, la potenza dell' essere. Ora si consideri che in questa potenza niente altro opera nè può operare: essa è per tal modo esclusivamente la potenza dell' essere, e a ricevere questo solo destinata, che se un' altra cosa agisse in lei, sarebbe già per questo solo un' altra potenza, nascendo da questo la sua definizione, che essa è la potenza che presiede alla percezione dell' essere. Tutte le altre cose adunque, agendo in noi, non agiscono se non in sentimenti loro proprii, i quali sentimenti parimenti sono informati e costituiti dai loro oggetti o più veramente da quelle cose che colle loro azioni servono ai medesimi di materia. Or dunque, se col solo intelletto si percepisce l' essere, se nessun' altra cosa agisce nell' intelletto e se non percepiamo cosa alcuna se non in quanto opera su di noi, ne viene conseguentemente che delle cose tutte noi non sentiamo già l' essere, ma puramente la loro azione e che solamente per lo percepire che facciamo questa loro azione noi attribuiamo poi loro l' essere di nostro proprio moto: e così quelle che sono azioni in noi, ci diventano altrettanti esseri, non perchè, come dicevamo, noi le percepiamo come esseri, ma perchè noi le supponiamo tali, prestando e somministrando, quasi direi, noi stessi colla nostra intelligenza l' essere a tutte le cose e così costituendo in cotal modo le cose e facendole esistere. Quindi è che se non esistessero esseri intelligenti di nessuna specie, nessun ente sarebbe: il che spiega in qualche maniera quello che la teologia insegna, la creazione degli esseri nascere per un atto della intelligenza divina, cioè pel Verbo, luce di tutte le intelligenze (1); perocchè veramente la conoscibilità delle cose è ciò che le costituisce cose, e per la quale si possono chiamare enti (2). Senza la conoscibilità loro non sarebbero che come azioni o termini del solo essere, termini che non si potrebbero in alcun modo confondere coll' essere stesso, il quale, come dicemmo, è purissimo e impermisto, e rimarrebbero quindi da lui infinitamente distinti, sebbene per lui e in lui solo esisterebbero. Quindi è che la conservazione delle cose è veramente una continua creazione, e che noi, come dice la Scrittura, siamo, ci moviamo e viviamo in Dio (1); e che Dio porta tutte le cose colla sua parola (2); e che le cose tutte fuori di Dio sono vanità, sono tratte dal niente e sono niente (3). Platone, a cui piace di vestire le sue dottrine con imagini prese dalle cose sensibili, paragona le cose tutte alle ombre e Dio al corpo che produce l' ombra, e accusa di stoltezza gli uomini, i quali pigliano quelle ombre vane per cose reali e a quelle in luogo che a queste volgono i loro affetti (4). E una tale similitudine delle ombre dopo averla trovata Platone, fu ripetuta da tutta l' antichità; il quale consentimento prova la verità che in lei si riconosceva. Videro o certo travidero gli antichi savii questo vero, cui l' ideologia da noi esposta mette nella luce più patente, che altro è l' essere, e altro le azioni dell' essere e i termini di queste azioni: e videro che in tutte le cose contingenti ciò che noi percepiamo propriamente non è mai l' essere, ma unicamente sono azioni e passioni (5); e che queste azioni varie non sono l' atto primo (il quale è unico ed è l' essere stesso); e che perciò esigono un essere primo e supremo onde procedessero (6). Da questo conchiudevano che alle cose, appunto perchè mostrano in sè d' aver bisogno di essere prodotte, in una parola perchè mostrano la loro contingenza , non propriamente, ma quasi per opinione (1) si applica la parola di esseri, che solo propriamente conviene all' essere primo, per sè, non prodotto da altri, cioè a Dio. Perciò S. Girolamo: [...OMISSIS...] . Il perchè l' autore dell' Ipognostico (3) dice che anche dell' altre cose si può dire che abbiano la esistenza, ma non come si dice di Dio, il quale non ha PRINCIPIO del suo essere: laddove quelle, coll' aver preso da lui il principio di ciò che sono, cominciarono a essere. Il quale principio preso da Dio è appunto quel primo atto che, come dicevamo, le creature non hanno in sè stesse, ma loro viene in qualche modo attribuito. Il che pure esprime medesimamente il magno Gregorio, là dove, parlando delle create cose, dice: [...OMISSIS...] . E ciò rende luce su quella appellazione che Cristo dà a sè stesso di essere lui il principio, EGO PRINCIPIUM, che è quanto dire il primo atto e però l' atto universale (5). Questa è dottrina comune dei savii (1), la quale esige però non piccola fatica a così ben penetrarne chiaro il senso da non punto equivocare e prendere errore. Perocchè se Dio è quel primo atto onde tutte le cose sussistono, pare che egli si mescoli e confonda colle cose stesse: il che sarebbe non pure un dannoso errore, ma ben anco un manifesto assurdo l' affermarlo, perocchè si distruggerebbe con ciò quel Dio, che è appunto Dio per questo, che egli è tutto essere sincerissimo e da ogni mistura mondissimo. Di che è necessario tenere la dottrina del santo martire Massimo, che congiunge due veri, i quali sembrano fra loro opposti, e pure nol sono. Perocchè comincia egli dal dire che Dio si fa l' essere di tutte le cose. [...OMISSIS...] Il che S. Massimo segue poi a dichiarare più lungamente. Perocchè dopo aver detto che, rispetto alle cose che sono e si formano, Iddio è di tutte la sussistenza ed è tutte le cose, soggiunge: [...OMISSIS...] . Chi scruta adunque la natura delle cose create, chi bene attende a quello che realmente noi percepiamo quando di esse riceviamo la percezione, manifestamente conosce, che esse non sono l' essere, che esse non sono, e non ci si fanno conoscere se non come azioni e termini dell' essere (3): e che questa loro cotale vacuità, questa loro contingenza, questa deficienza di essere, ci conduce a vedere la necessità dell' essere, cioè di un primo atto immobile e universale il quale e le abbia create e le venga creando di continuo, cioè sostenendo, perchè non ricadano nel nulla. La quale mi pare una dimostrazione della divina esistenza così ferma e invincibile che nulla più: perocchè l' Essere supremo apparisce la condizione e l' origine di tutto l' universo, e ogni mente è costretta a pensare Dio prima di ogni altra cosa, come quello che è il mezzo della cognizione. Perocchè l' ente supremo è assai più certo, evidente e necessariamente esistente dello stesso universo o spirituale o materiale, che pur nessuno revoca in dubbio, perchè nessuno finalmente può nè vuole rinnegar sè medesimo. Tutto ciò prova che l' idea dell' essere, il quale luce nelle nostre menti, ha una vera similitudine [più] con Dio che colle creature, perchè le creature non sono l' essere, e Dio è l' essere, e l' essere è quello che nelle nostre menti risplende. Ma proseguiamo a rilevare i diversi tratti di questa maggiore similitudine che ha l' idea dell' essere con Dio, di quello che l' abbia colle creature. Fino che noi consideriamo la pura e sincera nozione dell' essere senza aggiungervi cosa alcuna, noi troviamo che quest' essere semplice non può non essere, perocchè [è] assurdo e contradditorio il dare all' essere il predicato di non essere. Quindi egli è necessariamente immutabile e eterno. Ora questa immutabilità e eternità si ravvisa egualmente nell' ordine delle idee e nell' ordine delle cose appartenenti alla divinità: il che costituisce una nuova similitudine fra l' idea dell' essere innata nella nostra mente e Dio. All' incontro tutte le altre cose non sono l' essere: non ripugna adunque per esse il non sussistere, quando anzi sussister non possono senza che l' essere a ciò [le] aiuti e spinga. Quindi la contingenza delle cose porta in esse la possibilità di mutazione e di una vicenda di nascimenti e di distruzione: il che le rende dissimili come dall' essere sussistente, così dall' essere ideale. E da questa mutabilità appunto delle cose e difformità loro dalla natura e proprie condizioni dell' essere i savii antichi conchiudevano, che ad esse non appartiene propriamente l' essere e il denominarsi enti. Eraclito, secondo la testimonianza di Plutarco, diceva non poter noi entrar due volte nello stesso fiume; e simigliantemente nessuno poter toccare due volte la mortale sostanza soffermata quasi in un medesimo stato, perchè essa per un continuo e repentino impeto di mutazione di subito si dissipa e di bel nuovo si raccoglie: o anzi non di nuovo e non di poi, ma nell' istante medesimo esiste e finisce, se ne viene e se ne va. E che è dunque, soggiunge, ciò che veramente è? Per fermo quel solo che è sempiterno, che non ha nascimento nè morte e a cui nessuna vice di tempo reca mutazione (3). Nel dichiarare il qual vero è in più luoghi delle sue opere Sant' Agostino, e particolarmente nel trattato XXXVIII sopra di S. Giovanni, in occasione di spiegare quelle parole di Cristo: « Se voi non crederete che io sono« ». Ivi fra le altre cose dice: [...OMISSIS...] . Per tutte queste considerazioni si rende quindi manifesto, che se le cose assolutamente parlando non sono l' essere, e se all' incontro la luce della mente è l' essere stesso semplicissimo, quelle non possono avere con questa luce quella vera e propria similitudine che ha colla medesima l' essere divino, cioè l' essere semplicissimo, assoluto, sussistente. E qui si chiederà in che modo il nostro spirito possa conoscere le cose, se non vi ha similitudine vera e propria fra le cose e l' idea colla quale il nostro spirito conosce le cose. E qui rispondo che perciò appunto noi per conoscere le cose contingenti abbiamo bisogno del senso e di un senso diverso al tutto dalla potenza intellettiva, perchè questa è troppo alta, e le cose contingenti non hanno alcuna proporzione con lei, sicchè esse non possono esservi ricevute. Sicchè è un' altra potenza, un altro senso quello che le percepisce, e per restringerci alle cose corporee, è il senso animale. Ricevute poi nel nostro senso animale, cioè a dire ricevuta la passione che esse vi cagionano con una reale azione, NOI che siamo pur quelli stessi, che come animali sentiamo e come intelligenti vediamo l' essere, diventiamo come i mediatori fra le cose contingenti e l' essere, diventiamo l' anello col quale si congiungono quelle a questo, veggiamo quelle e veggiamo questo, e veggiamo il rapporto fra quelle e questo. Allora annunziamo a noi stessi questo rapporto, il che è pronunciare la parola interiore ossia il verbo, e diciamo: questa passione è l' effetto di un essere; ossia qui dove c' è questa passione, c' è un essere operante: in tal modo diamo l' atto dell' essere, il primo atto a quelle passioni che per sè non sono se non atti secondi i quali perciò presuppongono il primo: e in dicendo così noi veggiamo tanti varii esseri quanta è la varietà delle passioni; ma conosciamo che tutti questi esseri non hanno se non la forza di un solo essere che li sostenti, cioè l' essere puro, fonte e creatore di tutti. Così è che al sentimento delle cose noi aggiungiamo un' operazione dello spirito che noi diciamo percezione intellettiva e che gli antichi chiamavano anche opinione . Perocchè è con questa dichiarazione che abbiam data, che rendesi facile a intendere quell' antica dottrina che abbiamo più sopra toccato sol di passaggio, cioè, che« le cose divine e sempiterne, dicevamo, e tutte, come io ho mostrato, si riducono all' essere ideale e reale, si conoscono mediante la mente; ma le cose contingenti o soggette a nascere e morire, si conoscono pel senso e per la opinione«. Togliamo dall' antichità un altro luogo dove sia espressa questa dottrina. Eusebio nell' opera della Preparazione evangelica (1) toglie a esporre la dottrina di Platone intorno a Dio, e comincia dicendo essere stata sentenza di quel filosofo ateniese, che « a Dio è proprio di essere, e delle altre cose è proprio di non essere« ». E poi seguita a narrare la platonica dottrina in questo modo: [...OMISSIS...] (cioè quello che si genera e muore e veramente non è) (1). Un' altra riflessione non posso ommettere qui. Le cose tutte, dicevano questi antichi savii del gentilesimo non meno che quei del cristianesimo, non sono veracemente, perchè di Dio solo è ogni essere, essendo egli solo tutto l' essere, e in breve e semplice parola, più della quale non si può andare, essendo l' ESSERE (2). E tuttavia le cose si fanno credere all' uomo come esistenti, cioè a dire l' uomo, dimenticandosi del primo essere, si ferma negli esseri secondi e in essi talora finisce colla sua mente: il che è un dar loro quello che solo a Dio è proprio, è un divinizzare le creature. Quindi ebbe sicuramente la profonda sua origine l' idolatria della natura e di tutte le cose create. Ora a ciò viene l' uomo tirato e lusingato da quella apparenza di esistenza che mostrano le creature stesse; e indi è che tutte le cose stesse per questa faccia di esistenza che mostrano, la quale è come una maschera e bellezza vana che seduce e trae a crederle qualche cosa per sè stesse, sono chiamate ora« vanità«, e ora« menzogna«, e che Dio solo è detto dai Padri essere verità. Questa dottrina s' incontra di frequente in S. Agostino; ma io mi restringerò qui a recare in mezzo solo un passo tolto dal libro intitolato Della cognizione della vera vita , per non essere infinito. Vi si dice adunque di Dio così: [...OMISSIS...] . Dalle quali cose apparisce, che l' essere impresso nella mente è una similitudine di Dio: che quell' essere ideale è più simile a Dio che non sia alle creature: che per ciò Dio si conosce immediatamente in virtù di quell' essere, ove che a noi si manifesti; ma che le cose contingenti non si percepiscono in questa pura nozione dell' essere, ma in un loro proprio sentimento; il qual sentimento sarebbe cieco e incognito se il nostro spirito non lo richiamasse all' essere stesso e non lo considerasse come un' azione sua, come un suo termine (2), e così lo illustrasse. Egli è mediante questa operazione che fa la mente che si predica l' essere di Dio e delle creature univocamente, come ho altrove affermato. Questa univocazione del nome di essere applicato a Dio e applicato alle creature, deve intendersi per modo che l' essere, che affermiamo comune, non sia tale se non nel concetto che noi possiamo avere delle creature e di Dio: perocchè noi non possiamo avere concetto di nessuna cosa se non a questa condizione che vi uniamo la nozione dell' essere, la quale in tal modo diventa comune. Laddove se noi vogliamo considerare Dio e le cose in sè, nella loro propria sussistenza, noi dobbiamo ben chiaramente accorgerci, che l' essere non si può applicare alle creature se non come loro sostegno e causa, ma non come elemento, il quale entri a comporle. Perciocchè l' essere non è proprio se non di Dio solo (4). E` dunque per l' imperfezione, nella quale sussiste l' essere nella nostra mente, che noi l' applichiamo indifferentemente a Dio e alle creature: il quale essere se fosse da noi in perfetto modo veduto, nol potremmo applicare più alle creature, quasi che esse lo avesser da sè, ma vedremmo piuttosto in lui, incommunicabile come egli è e indivisibile, le creature stesse come in loro causa e radice sussistere. Perocchè l' essere che è nella nostra mente, per sì tenue modo il veggiamo che è piuttosto un iniziamento di essere che l' essere stesso, e per ciò sotto questo aspetto, quasi diversando dall' essere, non disconviene applicarlo alle creature; e anzi applicandolo al Creatore non ci dà la piena notizia di lui (5). La quale non si può avere, come abbiamo mostrato, se non in percependo la stessa sussistenza sua, nella quale l' essere ideale viene compiendosi e unificandosi coll' essere reale. La volontà dell' uomo tende al bene conosciuto. Tanto adunque si stende l' affetto della volontà, quanto si stende il bene conosciuto. Perocchè fatta la volontà, come si diceva, pel bene, non può mettere un limite alle sue proprie forze, ma ove che un bene le apparisca, ivi necessariamente deve tendere coll' affetto del desiderio, e non può non volere qualsivoglia bene, se non a condizione di considerarlo sotto aspetto di male, cioè come impeditivo di bene maggiore: sicchè il movimento dell' umana volontà non è mai appieno e necessariamente quietato, se non ha t“cco e ottenuto il bene conosciuto. Chi vuol dunque vedere quanto si allarghi il pelago dell' umano desiderio, basterà che misuri quali e quanti sieno i beni che può conoscere: la sfera della volontà è quella medesima dell' intendimento. Ora l' intendimento è formato dall' idea dell' essere in universale e però non ha limite alcuno se non l' infinito. Perocchè, dopo aver conosciuto quali e quanti si vogliano degli esseri finiti, l' uomo può pensare e foggiarsene sempre degli altri, perchè nessuna eccellenza o quantità di beni finiti può mai adeguare l' essere universale, col quale l' uomo pensa, e però ha sempre mai in sè onde pensarne degli altri, e finchè non è pervenuto a pensare un essere al tutto senza limiti e da ogni parte infinito, resta sempre all' uomo un progresso d' intendimenti senza misura nè fine (1). Quindi come il moto dell' intelletto non trova posa e termine se non giunto nell' infinito essere, così parimente la volontà non può interamente cessare dal suo moto e desiderio se all' infinito bene non sia pervenuta. Tale è costituita la natura umana: e tale è pure la natura di qualsivoglia essere intelligente e volitivo. Or poi la volontà non si unisce pienamente al bene se non per una cognizione reale; non potendola soddisfare pienamente una congiunzione solo incoata, quale è quella dell' essere ideale (2). Premesse queste notizie sull' intrinseca natura dell' uomo e delle sue potenze, apparisce manifestamente che l' uomo costituito nell' ordine puramente naturale sarebbe stato imperfetto, perchè non avrebbe avuta giammai la congiunzione reale di quel sommo bene a cui la sua volontà è indeclinabilmente volta e nel quale solo può appieno saziare il suo desiderio: come pure il suo intendimento per trascorrere di una in altra cognizione di tutti gli esseri finiti, non avrebbe ottenuto giammai riposo alcuno, ma infaticabilmente si sarebbe aggirato in continua mutazione di oggetti da lui contemplati e non trovato cibo a sè proporzionato veramente in nessuno (1). Nè io voglio affermare per questo che l' uomo, anche lasciato da Dio nello stato naturale, sarebbe stato al tutto misero, o che sarebbe necessariamente scaduto a cercare nelle creature una felicità a lui impossibile di ritrovare rendendosi in qualche modo colpevole. Ma dico solo, e ciò appar manifesto dalla natura dell' essere e del bene in universale a cui tende in lui l' intendimento e la volontà, che gli sarebbe mancato il più e il meglio di quella felicità e tutta quella dignità morale, di cui la sua natura è capace, e che però sarebbe stato imperfetto. Indi appare sì conveniente all' uomo, come conveniente parimenti a Dio, le cui opere son tutte perfette, come dicono le Scritture, che l' uomo fosse non pure fornito d' intelligenza, ma ben anco costituito in grazia, solo mezzo onde possano essere compiutamente soddisfatte le supreme sue esigenze e riempita l' immensa capacità della stessa sua intelligenza. La grazia perfeziona nell' uomo e compisce l' essere a lui presente. L' essere che in quanto è veduto naturalmente dall' uomo, è una similitudine di Dio, quando è compiuto dalla grazia riceve una nuova nobiltà, un nuovo carattere, che può ricevere acconciamente e propriamente la denominazione d' imagine di Dio. Conviene ben determinare il valore di questa parola imagine per conoscere la verità di ciò che io dico: nel che seguiremo S. Tommaso che pone sempre grande accuratezza nel precisare il significato delle parole le quali egli usa. Dice adunque il santo Dottore, che ogni imagine è una similitudine ; ma tuttavia non qualsivoglia similitudine basta ad avere concetto d' imagine (1). L' imagine è una similitudine delle più perfette: e in che poi mette egli questa perfezione maggiore della similitudine per la quale essa prende convenientemente il nome d' imagine? In due note, sottilmente assegnate da S. Tommaso, dietro le ecclesiastiche tradizioni. La prima è che la similitudine riguardi la specie, cioè l' essenza specifica della cosa (2), perchè se le cose fossero simili solamente in qualche parte non riguardante la specie, l' una non potrebbe essere imagine dell' altra. La seconda, che l' imagine sia espressa, cioè cavata dalla cosa di cui essa è imagine; sicchè un fratello non direbbesi imagine del fratello, ma bensì direbbesi il figliuolo essere imagine del padre: e così parimente una testa idealmente dipinta non direbbesi acconciamente ritratto di chichessia, eziandio che si abbattesse a essere simile al volto reale di un uomo; perchè noi congiungiamo sempre col concetto d' imagine questa relazione di lei colla cosa imaginata, la quale fece da originale o modello onde l' imagine si ritrasse. Chiarito così il significato della parola imagine , parmi essere facile il vedere la verità della nostra proposizione: che la grazia nell' uomo è una vera imagine di Dio. E veramente l' essere che costituisce la naturale intelligenza dell' uomo, sebbene similitudine di Dio, non si può però chiamare propriamente imagine, se non potenzialmente, nel qual senso lo chiamano talora imagine i Padri (1). Egli non è se non un lume che precede la imagine, che la rende possibile, che le prepara la via e quasi direi ne fa nell' uomo il disegno a nudi contorni, il quale aspetta poi di essere dal sommo e eterno Artista realmente eseguito (2). E veramente l' essere in universale innato nella mente non è Dio, non è nè pure propriamente parlando una nozione di Dio: egli per ciò non può essere un' imagine di Dio, perchè nè è simile a Dio nella specie, nè è un segno della specie divina. Un segno della specie o natura divina è la concezione dell' essere divino che col lume naturale si può fare in un modo negativo, ma ella non importa una vera imagine, appunto perchè è negativa e nulla viene espresso in essa della divina natura. Oltracciò questa concezione, se si vuol anche chiamarla imagine, non è connaturata nell' uomo, ma acquisita e aderente come una pura idea. E noi favelliamo di quella imagine che sta impressa o può essere impressa nella stessa natura dell' uomo. Dicemmo che l' essere universale non è simile a Dio nella specie, nè ad un segno della specie divina. E veramente l' essere innato non può essere simile a un segno della natura divina, perchè la natura divina non ha segni naturali che sieno atti a rappresentarla, come la figura rappresenta l' uomo o un altro animale (4). Non può poi essere simile a Dio stesso in quanto alla specie, perchè la specie di Dio non è che la sostanza di Dio, ossia la divina sussistenza; e nell' essere noi non vediamo nè percepiamo alcuna realità, alcuna sussistenza, ma puramente una idealità che è quanto dire una possibilità di essere: dal che è intieramente aliena e dissimile la divina sostanza, che ha il sussistere per sè e in sè medesima. Or dunque qual cosa potrà essere imagine di Dio? Qual cosa potrà somigliar a Dio in quanto alla sua stessa specie o sostanza? Chi potrà avere qualche cosa di simile col sussistere stesso di Dio? Certamente perchè una cosa sia vera imagine dell' altra, questa imagine deve avere qualche cosa di comune coll' altra appartenente alla natura dell' altra. Questa è dottrina ferma della filosofia, non meno che della cristiana tradizione. [...OMISSIS...] E S. Giovanni Crisostomo parimente osserva: che nessuno a cui fosse ignoto l' oro potrebbe vedere la natura di questo metallo rimirando l' argento, appunto perchè una natura non si fa già vedere mediante un' altra natura diversa (2). Ora che cosa può Iddio aver di comune con qualche altro essere? Può forse avvenire che una parte della sostanza appartenga, sia posseduto da altri in proprio, come elemento o parte comune? Impartibile è la divina sostanza, e per ciò essa o deve trovarsi tutta, o non può trovarsene una sola parte, siccome può avvenire negli esseri creati che hanno delle qualità comuni e delle qualità proprie, appunto perchè non sono perfettamente semplici. Indi è a dire, che non può esistere una vera imagine di Dio se questa imagine non sia Dio stesso avendo in sè tutta intera la divinità: perchè rispetto a Dio non vale l' esempio delle creature delle quali si danno imagini che partecipano della sostanza o natura delle cose ritratte, ma non di tutto, e solo di una parte, e talora anche accidentale e tenue, ma bastevole però a sentire il segno della sostanza, come avviene de' corpi mediante le loro figure. Indi è che i maestri delle teologiche dottrine insegnano concordemente, non darsi di Dio se non una vera, propria e piena imagine, e questa essere il Verbo eterno che possiede in comune col Padre e collo Spirito Santo tutta intera la divinità dal Padre, ab aeterno ricevuta. Perciò dice S. Ilario: [...OMISSIS...] . Il perchè gli Ariani e altri eretici che detraevano alla divinità del Figliuolo, furono convinti di errore dai Padri pur con questa sola parola di imagine, attribuita dalla divina Scrittura al Figliuolo, che dimostravano non potersi punto nè poco dire imagine di Dio se non avesse tutta la natura sostanziale di Dio. E da questa sola dottrina, che vi ha una sola imagine di Dio e questa stessa è Dio, si rendono chiare quelle parole di Cristo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (2) ». Imperocchè, se il Figlio è diverso di sostanza dal Padre, in che maniera si può vedere il Padre nel Figlio? Che se una statua di legno non può conoscersi in una statua di pietra, perchè non è della stessa sostanza; e se non una pietra nel legno e non il legno in una pietra si vede per la diversità delle sostanze, conseguente cosa è che Dio Re dell' universo si conosca nel suo Figliuolo consostanziale. Conciossiachè in quelle cose che sono della medesima specie, appena vedute, si ha notizie anche di quelle non vedute, per ciò appunto che sono consostanziali (3). Dalle quali tutte cose manifestamente apparisce, che Dio solo può essere vera imagine di sè stesso e che a nessuna creatura compete un titolo tanto eccellente. Or di qui tuttavia apparirà che per la grazia invece viene nell' uomo impressa l' imagine divina. Ciò risulta dalle cose esposte nel libro precedente, dove abbiamo mostrato, tenersi, secondo l' ecclesiastica tradizione, che la grazia si faccia mediante un' operazione reale di Dio nell' anima umana (4): per la grazia essere Iddio formalmente congiunto coll' uomo (5) e quindi diventar lui un vero tempio di Dio. Lo stesso vero apparirà fornito di maggior luce ove si consideri insegnare l' ecclesiastica tradizione, che il principio della rivelazione soprannaturale è il Verbo divino, l' imagine del Padre, sia in un modo occulto, come nell' antico Testamento, sia ancor più nel nuovo, nel quale parla il Verbo manifesto (7). Di più ancora, [ciò apparirà, se si considera] che il Verbo divino si fa ancora per opera dello Spirito Santo il principio della santificazione e della grazia (1). Perocchè lo Spirito Santo non fa, come insegnano i Padri, se non chiarificare e quasi accendere il Verbo nelle anime nostre. La relazione esterna è quasi simile ad esca preparata nel f“co di volta elittica, la quale s' accende agevolmente se nell' altro f“co della volta si mettano dei carboni accesi: oppure è simile a face che collocata innanzi a terso specchio pur col suo accendersi accende altresì nello specchio la stessa [face] e fa brillare una luce eguale a sè. Tale lo Spirito Santo pur coll' entrare nell' anima vi accende in essa il Verbo, che è quanto dire la vera imagine di Dio Padre. Egli è per questo, come abbiam veduto, che lo Spirito si paragona a un suggello che, impronta, per mezzo della fede che vi accende, nell' anime il Verbo, nel quale, cioè in Cristo, credendo, dice l' Apostolo Paolo, siete improntati collo Spirito di promissione santo (3). E ancora: E non vogliate contristare lo Spirito Santo « di Dio, nel quale siete suggellati pel giorno della redenzione« (4) ». Il perchè Didimo scriveva: [...OMISSIS...] . Quindi è che non pochi Santi insegnano che l' imagine di Dio nell' uomo non si dà se non per lo Spirito Santo, perocchè appunto allo Spirito Santo si attribuisce la grazia e il segnare le anime colla comunicazione del Verbo, de' quali recherò solo S. Cirillo di Alessandria: [...OMISSIS...] . Da tutte le quali cose apparisce che l' imagine di Dio non è l' uomo, se non perchè essa imagine è nell' uomo, a quella guisa che l' imagine di Cesare sulla moneta è sulla moneta, e non è la moneta materialmente considerata: la quale imagine di Cesare sulla moneta è tratta appunto da S. Agostino a significare l' imagine di Dio impressa nelle anime nostre (1). Apparisce per conseguenza esser la grazia quella che nell' uomo mette questa imagine, ad esser quest' imagine, di cui l' uomo si adorna, una partecipazione dell' unica e vera imagine della sostanza divina, il Verbo eterno. A queste verità si riferiscono le parole di S. Paolo: « Quelli che egli ha presciti, ebbe anche predestinati, acciocchè si facessero conformi all' IMAGINE del Figliuol suo« (2) »: a cui soggiunge l' Apostolo: « Acciocchè egli sia primogenito fra molti fratelli« ». Nelle quali parole si vede espresso il modo onde noi diveniamo imagini di Dio, cioè per diventar fratelli che facciamo del solo vero natural Figlio di Dio, di quello perciò che è solo naturale imagine del Padre, a cui noi ci rendiamo conformi appunto con affrattellarglici. Questa è dottrina comune de' Padri, ed è espressa da Prudenzio in que' versicoli: [...OMISSIS...] Conveniente cosa era sì al bisogno dell' umana natura e sì alla divina bontà che l' uomo fosse da Dio costituito in un ordine soprannaturale (3). E che in tal modo fosse costituito da Dio Adamo, è dottrina tradizionale della Chiesa. Nè vi era ragione perchè s' interponesse tempo in mezzo fra lo stato naturale e il soprannaturale dell' uomo, nè nulla vi ha di repugnante che Iddio nel medesimo istante desse all' uomo la natura e la grazia. Anzi non si dubiterà di ciò ove si facciano le seguenti considerazioni. In primo luogo, il lume della grazia congiunto a quello della natura non forma già due lumi o due vite, ma un lume solo e una vita sola: conciossiachè il lume soprannaturale può dirsi che è l' essere medesimo più manifestamente veduto, veduto di più forte luce a segno di percepirne, in qualche modo, la sostanza. Ed egli è pur verosimile che, volendo Iddio dare all' uomo luce e vita, gliel' abbia data in quella misura che gli bisognava e non già partita, cioè glien' abbia data prima una porzione insufficiente, per dover poi dargliene un' altra e così soddisfare al bisogno rimasto non adempito colla prima: quasi come chi non ha a pagare la somma intera di un tratto, che soddissfa al suo creditore pagandolo in tre rate. Il che non si può pensare di Dio. In secondo luogo a ciò consuona la narrazione, chi ben la consideri, che si fa nella divina Scrittura della istituzione dell' uomo. Perocchè dottrina fermissima della Chiesa è, come si disse, che Adamo ebbe da Dio non meno la grazia che l' intelligenza. Ora, dove si narrano queste due cose nel Genesi? Si descrivono forse due operazioni distinte di Dio, coll' una delle quali egli desse all' uomo il lume dell' intelligenza e coll' altra quel della grazia? Nessun vestigio di distinzione di questi due atti si ritrova. Vi si dice bensì che, dopo l' uomo di terra, Iddio soffiò in lui lo spiracolo della vita (1). Queste sole ed uniche parole si usano a narrar tutto ciò che l' uomo ricevette da Dio oltre il corpo (2). Ora o convien ammettere che in quello spiracolo di vita, che Dio soffiò in faccia di Adamo, si contenesse unitamente l' intelligenza e la grazia, oppure convien dire che il racconto del sacro storico sia manchevole e non narri pienamente l' istituzione divina dell' uomo primitivo, che è pure il massimo oggetto di cui tratta quel sacro libro. Perocchè se quelle parole: Iddio spirò nella faccia di lui lo spiracolo della vita; si devono intendere della sola intelligenza naturale, ove è la grazia datagli pur da Dio? o se si intende solo della grazia, ove è la narrazione dell' intelligenza, di cui l' ha fornito? Sicchè quello spiracolo di vita (3) si deve intendere non meno del lume naturale che del soprannaturale, che, ove sono insieme , non formano che uno e medesimo lume, perchè sono pur uno e medesimo essere. E quelle parole che seguono: « E l' uomo fu fatto in anima vivente« »; si devono intendere non meno della vita del corpo che di quella dell' anima: anzi ogni vita comprendono quelle parole e l' animale e l' intellettiva e, almeno in genere, la divina o di grazia. Perocchè tutte queste sono quasi altrettanti gradi di partecipazione d' una medesima vita: di che risulta che Dio fece vivo Adamo in quella maniera che gli bisognava essere vivo; diede a lui una vita non difettosa, ma piena, compita in tutte le sue parti; gli diede insomma quella pienezza di vita che alla capacità dell' umana natura si conveniva e alla sapienza dell' ottimo Creatore, le cui opere sono sempre perfette, come dice la Scrittura. Finalmente si può comprovare lo stesso vero da quel principio che pone l' angelico Dottore, fedele seguace anche in questo del gran Vescovo d' Ippona, cioè: [...OMISSIS...] . E veramente questo è secondo l' ordine di un sapiente operare, e tale costantemente apparisce in tutte le altre cose il modo dell' operare divino, cioè di porre a principio i germi di tutte le cose e quindi commetterne al tempo il loro sviluppamento, senza bisogno di rimettere quasi di bel nuovo la mano all' opera sua per t“rne via l' imperfezione. Quindi nel seme è racchiusa la pianta intera, quindi nell' embrione è già contenuto tutto l' animale. L' esser piccole le nature e nei loro esordii, non toglie loro l' esser in cotal modo perfette. E tale certamente fu da Dio fin dal momento costituito questo universo, sì nelle parti sue che Dio vide esser buone dopo averle create, sì nel suo tutto che vide essere buono assai. Le quali denominazioni di buone e di assai buone indicano manifestamente quella perfezione compiuta di che parliamo: perocchè Iddio non avrebbe semplicemente data l' appellazione di bontà alle cose, se fossero state manchevoli e disgiunte da quel Dio, a cui son fatte e il quale solo è buono. Di qui è che S. Tommaso conchiude che l' Angelo doveva essere stato creato in grazia; e che egualmente si può conchiuder dell' uomo, e dice che l' uomo ad un tempo coll' intelligenza deve aver ricevuto la grazia, quale seme e principio di tutto ciò, in che si doveva poscia sviluppare l' umana natura nell' ordine soprannaturale (2). E tutte queste cose dànno aiuto, perchè si dia un senso preciso e luminoso a quelle parole del Genesi, colle quali si narra appunto l' istituzione prima dell' uman genere: « Facciamo, dice Iddio, l' uomo a imagine e similitudine nostra« (1) ». Dove pare che per similitudine venga espressa l' intelligenza e per imagine la grazia: usa due parole a significare i due semi, per così dire, posti nell' uomo a principio dai quali germinassero poi i due ordini, il naturale, dico, e il soprannaturale (2). La quale dichiarazione sembra potersi confermare anche da ciò che il sacro storico, dopo aver detto che Dio si propose di formar l' uomo a imagine e similitudine sua e narrato come lo formasse, soggiunse: « E Iddio creò l' uomo a imagine sua, a imagine di Dio lo creò« (3) ». Dove non replica più la parola similitudine come quella che era già contenuta nella parola imagine: e questo che il fece a sua imagine il replica due volte, quasi per mostrare che in essa è tutto il nerbo e la perfezione della dignità umana. Ma io non dò tuttavia questa interpretazione per sicura: e se più si vuole, al mio intento giova egualmente e forse meglio, che quelle due parole d' imagine e di similitudine non si cerchi distinguerle e separarle, ma si prendano tutte due insieme per un cotal superlativo, che venga a dire un' imagine assai simile (4). Poichè con questo aumento di forza nel significato della parola si viene a dire, che non una semplice similitudine era messa nell' uomo da Dio, ma un' imagine assai somigliante, cioè non la sola intelligenza ove sta la similitudine, ma anco la grazia che rende questa similitudine una vera e viva imagine per la partecipazione appunto del Verbo, prima e sola imagine della divina sostanza. Nella quale interpretazione verrebbe ottimamente espressa quell' unità del lume naturale e soprannaturale, e si porrebbe questo come un cotal grado maggiore, un cotal perfezionamento di quello, che è ciò appunto che noi diciamo; il perchè questa interpretazione di buona voglia alla precedente noi preferiamo. E fatta una cosa sola di quella imagine e similitudine che accenna la Genesi, torna vero che quest' impronta non si scancella dall' anime interamente per lo peccato, dopo il quale rimane la natura umana e in essa il lume dell' intelligenza, come osserva S. Agostino. Ma questa cotale impronta non è veramente detta imagine con intera proprietà della parola (1). All' opposto se si voglia separare l' una cosa dall' altra e pigliare il primo grado di lume cioè il lume naturale per una similitudine, e al secondo grado di lume cioè al soprannaturale riserbare il nome d' imagine; in tal significato imagine di Dio è solo il Verbo, e l' uomo è per la partecipazione del Verbo, come dicevamo. In questo senso della parola imagine, che è il più vero, dice S. Ambrogio: « Nisi per imaginem Dei (per il Verbo) ad imaginem Dei esse non potes (2) ». S. Cirillo d' Alessandria nel medesimo sentimento così si esprime: [...OMISSIS...] . S. Atanasio parimente: [...OMISSIS...] . Indi è che S. Basilio chiama il Figliuolo imagine effettrice d' imagine (2), perchè egli, imagine di Dio vera, produce in noi la stessa imagine sè a noi comunicando: di che egli è come un suggello rispetto all' anima nostra e lo Spirito Santo è quello che lo usa sigillando in noi quella che viene chiamata anco faccia o volto di Dio (3). E di qui si sente il valore di quelle parole che disse Cristo parlando di sè stesso: « Hunc enim Pater signavit Deus (4) »; volendo dire: questo è il suggello improntato di Dio Padre che suggella l' anime mettendovi l' effige divina. E pare che il peccato di quel Cherubino di cui dice Ezechiele per ischerno: Tu sei il suggello della similitudine (5); fosse appunto questo, di aver usurpata quella prerogativa che al solo Verbo divino si addice, d' essere vera imagine di Dio e suggello che impronta la stessa imagine nelle intelligenze. E per conciliare questi Padri e molt' altri, i più della Chiesa Orientale, che potrei addurre (6); i quali sostengono che « l' imagine di Dio nell' uomo è solo il Verbo coll' anima dell' uomo congiunto« », con S. Agostino al quale non piace udire che l' imagine di Dio si spenga col peccato, ponendola perciò appunto quest' imagine non solo nella Grazia, ma ben anco nella natura dell' uomo; per fare, dico, questa conciliazione, senza mutare il significato vero e proprio della parola« imagine«, ecco qual mi sembra la via sicura e coerente colle teologiche dottrine. Il Verbo solo è l' imagine di Dio. Nell' uomo adunque preso naturalmente havvi l' imagine di Dio a quel modo che nella natura delle cose v' hanno i vestigi della Trinità. Questa è sicuramente la mente di S. Agostino e di S. Tommaso, i quali sostengono essere nell' uomo naturale l' imagine di Dio, non meno in quanto alla divina natura che alle persone (1). Ora i vestigi delle Persone divine sparsi nella natura eziandio ragionevole non sono tali se non per una cotale appropriazione che noi facciamo di quelle qualità all' origine delle divine Persone, e non perchè siano veramente atte a rappresentarle (2). Medesimamente l' imagine di Dio uno e trino è nella mente umana per una cotale appropriazione che noi facciamo. Ma là dove si parla di un' imagine non per appropriazione, ma secondo la proprietà della parola, l' imagine di Dio è nell' uomo per la Grazia, allora quando si fa nell' uomo l' operazione deiforme, e si compie quest' imagine mediante l' operazione triniforme, nella quale il Verbo a noi si comunica. Iddio creò l' uomo in tutte le sue potenze perfetto: lo rese immantinente attivo e parlante (3). Ma l' uomo con tutte le sue potenze non aveva in sè la propria felicità, appunto perchè le potenze non sono che mezzi di ottenere questa felicità, non sono che un vaso che dimanda di essere riempito. L' uomo non trovava dunque in sè stesso se non un vuoto: ma poteva egli forse meglio trovare il bene che lo satollasse nella natura? No, la natura, l' intero universo materiale era minore di lui, dotato d' intelligenza: e egli stesso, tanto eccellente, era pur solo una capacità, come dicevamo, una capacità infinita. Questa creatura adunque aveva un essenziale bisogno di Dio perchè fossero pienamente appagate le sue brame (1). I filosofi trovano strano che la creatura abbia bisogno del suo Creatore, e vogliono che essa pur basti a sè stessa. Ma quanto sono lontani dal conoscere la natura umana! Che questi sieno esseri così insociabili fra di loro, i quali non possano avvicinarsi, agli occhi della filosofia? Anzi qual ferocia d' animo muove i filosofi a decretare sì crudele separazione? Proibire alla creatura di accostarsi, rifugiarsi nel seno del suo Creatore? Proibire al Creatore di accogliere la creatura che a lui rifugge, o vietargli di trastullarsi a suo senno con essa, di non addomesticarsi amorevolmente all' opere delle sue mani? Che enti sono questi, che dicono all' Eterno che li ha formati: « ritirati da noi, noi non vogliamo la scienza delle tue vie?« (2) ». Ma e dove si ritirerà il Creatore, se deve uscire dalle creature? Vi ha cosa o luogo che non sia da lui creato? E uscendo da tutta la creatura, questa potrà sussistere da sè sola? Non si trova contro natura o inconveniente che il padre conversi coi figliuoli suoi e i figliuoli col padre, che conversino gli amici fra loro: e la filosofia razionale avrà finalmente scoperta questa sì grande verità, che a Dio solo sia proibito di manifestarsi palesamente agli uomini da lui tratti dal nulla, sotto pena di essere dichiarato stolto, perchè non ha formato gli uomini in modo da non dover avere bisogno di lui? Che dissennatezza, o piuttosto che furore è codesto? Imperocchè i selvaggi non hanno giammai pensato cose nè tanto goffe nè tanto ripugnanti nè tanto stomachevoli come queste dei filosofi naturali. Niente adunque di più confacevole alla natura dell' ordine soprannaturale alla natura congiunto; il quale non è poi altro se non un cotale compimento di perfezione che esige necessariamente la limitazione di essa natura, la qual solo coll' unirsi col suo Creatore ottiene la sua ultima cima e perfezione, e coronata, quasi da Dio, acquista consistenza, dignità, partecipa di quegli attributi divini nei quali solo risiede la nobiltà e l' eccellenza (3). E perocchè le opere di Dio sono tutte perfette, come dice la Scrittura, ed egli è senza modo sapiente ed ottimo, perciò non poteva tener l' opera sua dentro i termini di un finito e limitato bene; ma doveva naturalmente volgerla a un bene infinito, a sè ordinandola e congiungendola. Di che la Scrittura dice « aver Egli operate tutte le cose per sè stesso« »; chè veramente il dare un altro fine alle cose men grande che un infinito, sarebbe stata causa dissonante dall' infinita sua potenza, sapienza e bontà; e con questo fine, ogni universo che gli fosse piaciuto creare, grande o piccolo, conteneva tuttavia la dote di una somma perfezione e di un valore impregiabile (2). Ed ora questa comunicazione loro quasi per una cotal legge naturale riusciva come l' apice alle creature sue, per la quale Egli medesimo congiunto e direi quasi il comignolo dell' universo doveva finire nella« grazia«, cioè in una comunicazione interna e reale. La quale grazia attribuendosi allo Spirito Santo, avviene che il Santo Spirito riceva dai Padri la denominazione di « forza perfezionatrice« (3) », come quello che tutte le opere di Dio ultima e perfeziona (4). Non solo adunque non è indegno della sapienza divina l' aver creato il mondo con un bisogno essenziale del suo Creatore, ma Dio stesso non poteva anzi far altro, se pur voleva che nel mondo fossero degli esseri intelligenti, per la necessità che hanno questi di ricercare incessantemente un infinito; ma se anche avesse potuto fare altramente, non sarebbe stato il farlo condecente alla sua somma bontà, e perciò immensamente diffusiva. Se però era uopo che Dio si comunicasse ad Adamo, il modo però del farlo conveniva che fosse soave, come è tutto l' operare divino e accomodato in tutto e per tutto all' umana natura. Per ciò come l' uomo ha una parte di sè interiore consistente nell' anima intellettiva, e una parte esteriore, cioè il corpo sensitivo; e come questo corpo sensitivo col quale l' uomo è in comunicazione coll' universo materiale, è ordinato a dover essere ministro all' anima delle notizie delle cose e eccitamento alle sue nobili operazioni: così conveniva che anche il Creatore influisse nella creatura per questa via esteriore e per essa, quasi direi, si introducesse nell' anima, quasi pei meati proprii di questa natura, mista di materia e di spirito. E però il Genesi ci dipinge Iddio che va diportandosi per lo giardino della delizia, quasi a pigliarvi l' aria che spira dopo il meriggio, probabilmente con aver prese forme simili alle umane e fors' anco le forme stesse che furono poi della umanità assunta dal Verbo. Tutta quella descrizione che fa il Genesi del Creatore che conversa colla sua creatura, mostra cosa somigliante a un padre che vive dimesticamente in mezzo della sua famiglia e tratta con soavità e dignità insieme co' suoi figliuoli. Questo Dio non era il Dio inacessibile nè qualche cosa di straniero e di remoto in lontanissima regione, ma era unito col mondo e consociato coll' uomo e temperata la maestà sua da corporali sembianze, velato l' abisso della sua gloria dentro umili forme; si dava a contemplare dall' uomo a quel modo che si contempla il sole d' infra un vetro appannato od infra i vapori nell' aria diffusi. In tal maniera Dio si era adattato al bisogno dell' uomo, restringendosi e circoscrivendosi per essere accessibile ed acconcio all' umana bassezza: ma questo cotale esterno adattamento che faceva il Creatore di sè per avvicinarsi alla sua creatura e che il rendeva, quasi direbbesi, una parte della natura stessa, un essere connesso con tutti gli altri esseri, quasi il supremo anello della catena, non toglieva però a lui di potersi manifestare altresì nella propria grandezza della divinità, giacchè da quelle limitate apparenze egli diffondeva e le parole della vita e le opere della maestà, e indi il pieno dominio esercitava su tutto l' universo, e quanto egli voleva od occultamente od in manifesto modo operava. Questa sua sensibile e quasi direi corporal presenza nella natura doveva secretamente e in palese influire sopra di essa natura conscia della prossimità del suo Creatore (1): era un glutine quella divina presenza, per così dire, che attaccava e infra sè commetteva le parti dell' universo, era un aroma, una virtù corroborante, conservatrice di tutte le cose, onde queste ritraevano un vigore e una speciale vitalità che impediva loro la corruzione; e ivi finalmente risiedeva la mente provvida, a cui ogni cosa obbedendo rendeva un' armonia, più soave d' ogni più squisito concento alle spettatrici celestiali intelligenze (2). Il Creatore adunque in quest' abito, per così dire benignissimo e affabilissimo si interteneva coll' uomo, col mostrarsi a lui e favellargli, lo ammaestrava lo sollevava e ingrandiva. L' uomo non riceveva già solo ne' suoi orecchi i nudi suoni delle parole del Creatore, atti a eccitargli alcune idee, nè solo aveva la sensibile apprensione del Dio, che gli si manifestava, ma quelle parole erano vitali, e vitale era pur la vista e ogni sensibile percezione di Lui: cioè a dire quelle parole e quelle percezioni erano ministre di grazia interiore, la quale, purchè l' uomo avesse aperto l' adito del suo cuore, entrava abbondante, e tenendo però una cotal proporzione coi segni sensibili ai quali ella era per una cotal legge annessa. E questi erano i sacramenti del tempo dell' innocenza, dove pure veggiamo la grazia venire inserita per la via de' sensibili segni, siccome ad uomini, cioè ad esseri intelligenti, a cui è dato un corpo qual mezzo del loro sviluppamento e della loro perfezione, si conveniva. In tal modo uno è il disegno dell' Altissimo, una e sempre del medesimo tenore la sua sapienza e provvidenza pel bene del genere umano, una provvidenza, dico, sempre egualmente adattata all' umana natura. Sicchè Colui che ci ha dato i sacramenti nella legge evangelica dimostra d' essere il medesimo con quello che ha istituito da principio l' uomo dell' Eden: e come ora, così in quel primo tempo, ebbe la divina grazia co' segni esteriori accompagnato. Dal medesimo stile si riconosce la stessa mano. La grazia non entra propriamente nell' uomo, se l' uomo, con un assenso della sua volontà, non la riceve in sè medesima. Quindi per quantunque doni avesse Adamo da Dio ricevuti, doveva però accrescere in sè la santità e la grazia con degli atti successivi di buon volere. Vi aveva dunque una scala di meriti per la quale Adamo doveva ascendere, fino a essere confermato in grazia e nella immortalità. Sembrerebbe potersi dire che fra i segni sensibili a cui è fissa la grazia, gli atti della volontà onde l' uomo vi corrispondeva e gli aumenti successivi della grazia medesima, esistesse quasi un' armonia prestabilita. La volontà dell' uomo segue di pari passo lo sviluppamento dell' intelligenza. Sebbene Iddio avesse comunicato all' uomo, favellandogli, tutte quelle notizie di cui egli abbisognava, tuttavia restava all' uomo ancora di fare un grande uso di sue potenze intellettive colle quali acquistare molte cognizioni sperimentali e di riflessione. Dalla percezione de' suoi sensi e da quanto aveva udito da Dio, ebbe Adamo la scienza diretta: restava a lui a scomporre, ad analizzare questa scienza, e in una parola a cavarne tutto ciò che possono dare di distinzione, di lume e di ampiezza tutti quegli ordini delle varie riflessioni, il cui numero è indefinito. Tutto ciò modificava e perfezionava in lui le notizie dei beni sotto i varii aspetti ne' quali il bene all' uomo si presenta; e quindi venivano perfezionandosi continuamente gli atti della sua volontà. Allo sviluppo dell' ordine naturale dell' intelligenza e dell' amore corrispondevano, come abbiamo detto, i doni della grazia. Non è dunque a credere che la mente di Adamo fosse arrivata già nel primo istante alla percezione del sommo bene per tal modo, che questa non potesse ricevere nella sua mente maggior lume e evidenza, e farsi continuamente più attuale, più immediata: anzi doveva venir componendosi lo stesso concetto del bene in modo via più concreto, per un' induzione che movea dai beni sensibili, e conduceva al soprasensibile. Così il bene, in ragione di bellezza, si doveva comporre nella mente di Adamo prima dalle bellezze sensibili, e quindi dalle spirituali; e in queste stesse quasi per gradini di una scala ascendere al bello perfetto e ideale che pur trovava realizzato e in istato di sostanza nel suo sommo Fattore. Il quale progresso dalla bellezza terrena a una celeste e divina è quello che vide già Platone essere sommamente conforme all' umana intelligenza, e che mi ricorda di avere io espresso in alcuni versi sullo stato di Adamo, i quali, se la memoria non erra, furono questi: [...OMISSIS...] Or dove giungeva la mente col concetto, indi traeva la volontà il suo amore; e all' intelleto e amor naturale si accompagnava forse sempre un intelletto e un amore infuso per grazia, la quale grazia mostrava nell' idea la sussistenza del sommo bene e ne dava l' intima e beante comunicazione. E per questa via l' uomo doveva pervenire al sommo della perfezione morale e dell' unione con Dio: la quale unione, ove divenuta fosse per tal modo piena e compita, io penso che allora l' uomo quasi deificato avrebbe acquistate le doti della immobilità nell' unione con Dio, nell' immortalità e nella suprema beatitudine. Ma che questo corso di cognizioni, di affetti, di grazie si avesse per Adamo a trascorrersi, il provano altresì quelle parole colle quali il Genesi assegna il fine prossimo e più basso pel quale l' uomo fu creato e messo dentro il paradiso: [...OMISSIS...] . In queste parole viene descritto l' uomo come il padrone dell' Eden, come il Re dell' universo, come quello che colla sua maestà rappresentava Iddio, del quale portava l' imagine in fronte, alle altre creature sulle quali esercitava appunto per questo una pienissima signoria (1). Acciocchè poi questo piccolo dio della terra riconoscesse che egli era sottomesso al Dio del cielo, al Creatore del tutto, gli fu dato il fatale precetto. Ora in tutta questa descrizione apparisce che l' uomo fu posto, per così dire, in basso luogo rispetto a Dio, fu rivolto a lavorare e governare gli esseri privi di intelligenza; quindi doveva cominciare, e da questo primo fine della sua creazione, assai angusto, a dir vero, verso all' immensa capacità della sua anima, doveva poi per suo merito sollevarsi di mano in mano e sempre più congiungersi al suo creatore, togliendo la faccia dal ben finito e levandola più e più all' infinito e divino. A lui era dunque conceduta da prima quella felicità, se così vuol chiamarsi, che può dare la pienezza dei beni naturali a un' anima pura e innocente: ma in quest' anima dovevano poi risvegliarsi da sè altri desideri, altri bisogni, altri voti maggiori, tosto che la meditazione avesse rivelata a se stessa l' immensa sua capacità e l' infinito oggetto pel quale solo veramente era stata creata. La differenza fra l' ordine della santità e della grazia corrispondente nell' uomo innocente, e l' ordine della santità e della grazia nell' uomo redento, è il seguente. La grazia nell' uomo primitivo doveva perfezionare la natura e la natura di grado in grado perfezionata doveva passare a uno stato sempre più eccellente, doveva ognor più spiritualizzarsi, senza giammai, per così dire, tornare indietro. Doveva quindi per aumento di sapienza, di santità e di grazia accrescersi continuamente la vita, anche quella che consisteva nell' unione dell' anima col corpo, fino che questa vita doveva rendersi inamissibile: il che sarebbe avvenuto in quel tempo che si fosse resa inamissibile e piena anche la grazia e la fruizione di Dio. Noi ripugniamo alla morte, e ripugniamo eziandio che sappiamo per fede che dopo la morte ci sta preparata una nuova vita per Cristo: ma, come dice l' Apostolo, noi non vorremmo essere spogliati ma sopravvestiti, acciocchè dalla vita venga assorbito quanto vi ha in noi di mortale (2). Questo desiderio dell' umana natura veniva soddisfatto nello stato d' innocenza. Non avevamo bisogno di morire per essere ammessi alla visione di Dio, ma passavamo a tanta visione d' un passaggio soavissimo, la quale veniva a noi come una veste di gloria che ci sopravvestiva senza bisogno di spogliarci delle membra del corpo e deporre la vita della natura. Anzi ciò che vi aveva di difettoso nella vita naturale, ciò che vi aveva di mortale, veniva, secondo la calzante espressione dell' Apostolo, assorbito dalla vita, cioè da quella vita piena di Dio la quale nulla ha in sè di mortale e della quale venivamo fatti partecipi come di un cotale indumento di gloria e di incorruzione. Il contrario avviene nella condizione dell' uomo peccatore: perciocchè l' uomo peccatore fu condannato alla morte e non può andar vana la parola divina. Quindi il Redentore non tolse direttamente a camparlo dalla morte, ma a mettergli un seme di salute nell' anima, il quale, anche dopo morte, lo avvivasse e facesse risorgere con un corpo nuovo, cioè non più col corpo del peccato, alla morte soggetto. Qui veniva a battere quello che disse Cristo a Nicodemo: « Se alcuno non sarà rinato nuovamente, non può vedere il regno di Dio« (2) ». E` necessaria un' altra generazione: non è più ristorabile l' uomo vecchio, questo si deve abbandonare alla sua distruzione: tutta la speranza sta in un nuovo nascimento, in una nuova orditura e ricomposizione dell' umana natura. E il nascimento nuovo, cioè il principio della nuova vita che l' uomo deve ricevere, non è più dalla carne e dal sangue, non comincia dall' imperfetto per andare al perfetto, ma discende da Dio e viene dal perfetto a vivificare l' imperfetto. Non è il corpo, come nel tempo primo dell' uomo innocente, che manoduce lo spirito, e gli è ministro aiuto e compagno nell' acquisto della perfezione della vita: è lo spirito quello che domina e salva il corpo stesso. Nell' età dunque dell' innocenza tutto era in armonia nell' uomo, tutto si perfezionava, nulla si distruggeva, tutto l' uomo con tutte le sue parti procedeva all' acquisto dell' incorruzione e della vita beata. Di presente l' uomo non può sopravvivere, l' uomo deve perire, perchè è l' uomo del peccato. Solo in una delle due parti però dell' uomo, cioè nell' anima, Iddio che vuole pur salvo quell' uomo stesso che deve perire, con ammirando consiglio nasconde un germe vitale, cioè la grazia del Redentore; asconde anzi sè stesso, e in questo germe si accolgono tutte le speranze dell' uomo, tutti i suoi beni. In che adunque consiste, nello stato in cui ora è l' uomo, la santità? Nella fede, per mezzo della quale egli eseguisce quanto diceva a Dio Giobbe: « Eziandio se tu mi ucciderai, io spererò in te« (3) ». L' uomo spera nel suo Dio, sebbene sappia che lo darà in preda alla morte. Adamo si tolse da Dio quando gli prometteva l' immortalità: e Cristo e il suo discepolo confida in Dio quando sa pure che lo uccide. Anzi tanto confida, che egli si unisce colla giustizia di Dio medesimo contro di sè e contro tutto ciò che è macchiato di peccato, e tripudia che sia devoto alla morte tutto ciò che si è rivoltato al suo Creatore, e segue magnanimamente Colui che invitandolo a sè, gli dice: [...OMISSIS...] . Tanto è più sublime la virtù e la grazia dell' uomo peccatore, in Cristo, che non fosse quella dell' uomo innocente in Adamo! (2). Il perchè dice S. Paolo: che la conversazione dell' uomo cristiano è nei cieli. Non è come quella di Adamo sopra la terra. L' uomo cristiano sa che la terra è maledetta e non è più sua abitazione permanente, e deve andar cercandone una futura (4). Coll' intenzione pertanto del suo spirito il cristiano è già morto alle cose terrene le quali a lui tornano di peso e noia infinita, non foss' altro, perchè gli si sono fatte muro di separazione dal suo Dio, il quale si è allontanato da una natura prevaricata: sospira perciò il termine della sua peregrinazione, il rompimento de' suoi ceppi per essere con Cristo risorto per non più morire giammai, col quale il cristiano già vive fin di qua giù per una santa e inconfusibile speranza. Di che allontanato e staccato co' suoi affetti da ogni cosa sensibile, egli non cerca nè chiede che le celesti e spirituali, come quelle nelle quali ritrova anche la salute stessa della sua porzione corporea, la salvazione di tutto l' uomo. Di questi sentimenti è tessuto il Nuovo Testamento, e S. Paolo li esprime ben sovente con una forza maravigliosa: [...OMISSIS...] . Questa vita del cristiano nascosta, la quale non è altro che Cristo stesso, è appunto quel seme della grazia gittato nelle anime, la qual grazia è il Verbo stesso cui noi portiamo nell' essenza dell' anima, ma ancora velato, e che si rivelerà in noi alla morte nostra, apparendoci visibile Iddio siccome egli è. Il perchè sebbene nella prima istituzione dell' umanità in Adamo fosse fornito di grazia e nell' essenza della sua anima Iddio realmente esercitasse una segreta azione, tuttavia questo Dio che abitava nell' essenza dell' anima dell' uomo, non diffondeva però a prima giunta tanto la sua virtù per le potenze, in modo da investirne anche il corpo, fino a partecipargli l' incorruzione e quella spiritualità che lo rendesse definitivamente immortale: ciò che avviene nella seconda istituzione della umanità fatta in Cristo risorto, dopo che l' umanità prima progenerata da Adamo fu distrutta colla morte. L' umanità dunque riassunta e ricostruita dalla sua distruzione è simile all' umanità prima rispetto all' anima, in quanto che nelle due umanità non havvi peccato alcuno: ma non è simile rispetto al corpo, perocchè la grazia di cui è fornita l' umanità rifabbricata da Dio, si vantaggia tanto sopra l' antica, che di grazia è ricolma e trabocca sicchè il corpo stesso n' acquista e partecipa le doti degli spiriti, le quali sono principalmente l' incorruzione e la vita immortale. Indi è che l' Apostolo paragona l' uomo rigenerato in Cristo al primo creato in quanto allo spirito, dicendo: [...OMISSIS...] . Ma in quanto al corpo, il qual corpo non esiste rinnovellato se non dopo la risurrezione, mostra il vantaggio del secondo uomo sopra quel primo in queste parole: [...OMISSIS...] . Cioè a dire, nel primo uomo il corso della vita moveva dal corpo animale e andava allo spirito rendendosi ognor più spirituale, dall' imperfetto al perfetto: nel nuovo Adamo la vita procede dallo spirito, e va dal perfetto a vivificare l' imperfetto. E continua: [...OMISSIS...] . Così la grazia trionfa senza fine nell' uomo nuovo, spiegando tutta la sua forza rinnovellatrice: nell' uomo antico Iddio colla grazia non aveva che da aiutare la natura, ma qui egli ha da creare una nuova natura, qui fa tutto la grazia, e rigenera, e perfeziona; in quell' antico uomo la grazia non faceva che una parte e la natura era supposta e data precedentemente alla grazia per soggetto. Vero è che anche quella natura dell' uomo primo era operazione di Dio e Dio ne veniva glorificato; ma quell' operazione non era che divina . L' operazione di Dio all' incontro onde l' uomo viene rifatto, ricreato (giacchè è chiamato dall' Apostolo, una nuova creatura) è tutta operazione deiforme ; e qui sta ciò che il medesimo Apostolo chiama la gloria della grazia di Cristo. Questa seconda operazione è infinitamente più gloriosa a Dio della prima, cioè della creazione, perchè essenzialmente santa, sicchè tutte le cose si rendono obbedienti in tal modo alla santità: in una parola l' operazione divina della prima creazione aveva per termine la natura limitata, l' uomo; ma l' operazione deiforme della seconda ha per termine Dio nell' uomo: sicchè questa operazione è tanto più grande e a Dio più gloriosa da parte dell' oggetto, quanto è dell' uomo più grande Iddio. Nella prima istituzione adunque dell' uomo due erano i principii, sebbene contemporanei, la natura che veniva dalla potenza creante di Dio, e la grazia che veniva dalla potenza santificante e rendeva perfetta quella natura. Nella seconda istituzione uno solo è il principio, la grazia, e questa è creatrice insieme e perfezionatrice dell' uomo nuovo. Tutto qui fa la grazia, tutto qui è Dio, il principio, il mezzo e il fine: benchè l' uomo poi, venuto il tempo della libertà, possa corrispondere o no all' opera della grazia. Quella grazia antica insomma assorbiva bensì colla sua vitale virtù ciò che vi aveva di mortale nell' uomo, secondo l' espressione di S. Paolo: ma questa grazia nuova assorbe la stessa morte , come aveva predetto Osea: [...OMISSIS...] . Sebbene non era condecente all' infinita bontà del Creatore che avesse creato l' uomo abbandonandolo alla propria natura senza aggiungergli la grazia; tuttavia non è assurdo di supporre l' uomo in tale stato: ed è una di quelle supposizioni che aiutano ad analizzare ciò che si compone di più principii e a vedere che cosa a' singoli principii si debba attribuire. Così fanno i matematici quando spogliano i corpi di certe loro qualità anche essenziali per calcolare l' una dopo l' altra tutte le semplici forze di cui sono forniti. Supponiamo adunque l' uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però degli stimoli esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi raggomitolate in sè non avrebbero potuto avere nissuno sviluppamento: e fra questi stimoli esteriori uopo è che gli supponiamo data altresì la favella, colla qual solo vien tratta all' azione la sua potenza di riflettere e di astrarre, e quindi esce in atto la sua libertà, ligata senza di ciò e nulla operante; la qual favella, tale che gli bastasse, non potrebbe mai trovare egli medesimo. L' uomo può concepirsi in questo stato: e tuttavia privo di ciò che spetta a un ordine di cose divino o soprannaturale. Quale adunque sarebbe stato il grado di libertà che avrebbe avuto l' uomo in questo stato? Avrebbe egli avuto in sè tanto di vigore da mantenere fedelmente la legge morale? O anzi per un cotal mancamento di forze sarebbe egli stato necessitato a peccare? Rispondendo a sì fatta questione, in primo luogo osservo, che certamente non avrebbe peccato l' uomo posto nel detto stato di natura pura, se non ne avesse avuta nessuna cagione impellente (1), cioè se non gli fossero insorte tentazioni che il lusingassero di volgersi dal retto e giusto operare al torto e ingiusto. Ciò posto, veniamo a vedere quali tentazioni di peccare potevano darsi all' uomo in quello stato. Dalla teoria morale da noi esposta (2) risulta manifestamente che tutte le tentazioni di peccare, a cui può soggiacere una creatura intellettiva, si possono ridurre ad una sola formola e semplicissima, cioè« la tentazione si dà allora quando il bene soggettivo si trova in collisione del bene oggettivo«. Il bene oggettivo è il bene in quanto è bene, in quanto è mostrato dalla ragione: e il riconoscerlo praticamente per tale è l' essenza dell' obbligazione morale. Il bene soggettivo è il bene non considerato in sè stesso, ma considerato relativamente al soggetto che lo percepisce. Il bene oggettivo adunque è il fondamento della Morale : come il bene soggettivo è il fondamento della Eudemonologia , ossia scienza della felicità. Fino a tanto che quello che è bene oggettivo fosse egualmente anche bene soggettivo, egli è evidente che il soggetto non avrebbe alcuna tentazione che il togliesse dall' ammetterlo e amarlo per quel bene che è. Parimente se il bene oggettivo fosse indifferente, quanto al rimanente, al soggetto, e non gli fosse nè di noia nè di particolare piacere, egli è indubitato che il soggetto uomo sarebbe fedele al bene oggettivo e lo ammetterebbe e riconoscerebbe per quello che vale; perciocchè tale è l' indole della natura ragionevole che il bene oggettivo è già per questo solo suo bene e le è naturalmente dilettoso il fare un atto di giustizia e dare al bene conosciuto quel prezzo che egli pur merita. In questi due casi adunque non ci sarebbe cagione alcuna dalla quale la natura ragionevole fosse incitata a t“rsi dalla giustizia rendendosi ingiusta. Tutto adunque il cimento di violare le leggi della giustizia, a cui può esser messa una natura intellettiva e volitiva sì come è l' uomo, sta qui, quando da una parte la ragione gli presentasse il bene oggettivo, e dall' altra il sentimento fosse affetto da un bene soggettivo, e questo bene soggettivo avere o seguire non si potesse senza disconoscere e ripudiare il bene oggettivamente considerato, il bene in sè, il bene estimato col giusto suo prezzo e valore. In tal caso quindi la legge morale intima che non si deve stimare e seguire praticamente il bene se non per quello appunto che vale in sè: dall' altra il sentimento cieco suggerisce e persuade di seguire il bene non per quello che è, ma per quello che attualmente e momentaneamente diletta senza più. Queste due voci, della verità dall' un canto, della inclinazione sensitiva dall' altro, sono quelle che generano nell' uomo il combattimento morale e che formano l' essenza della tentazione. E ora dunque si domanda: L' uomo della natura non guasta sarebbesi mai scontrato a tal bivio nella sua vita dove, se avesse voluto seguitare la regola del bene oggettivo, gli convenisse privarsi in tutto o in parte del bene soggettivo (1) e quindi avesse provato una tentazione? E se questa tentazione si fosse trovata, di che natura e di che forza essa era? Poteva mai crescere in tal modo da dover vincere il valore della libertà di cui era l' uomo fornito? In quanto alla prima di queste dimande, io rispondo che essendo i beni soggettivi creati limitati, poteva, anzi doveva, avvenire che si desse collisione fra loro, cioè che l' uomo non li potesse avere e godere tutti insieme. E quindi che gli bisognava farne scelta, sì per sè, che per gli altri uomini: la qual scelta non poteva farla con altro che colla ragione di cui era fornito, e doveva essere ragionevole, cioè gli conveniva per obbligazione morale di scegliere il bene che nel complesso suo e finale risultamento fosse il migliore, e il maggiore, e il più perfettivo della sua natura, così in ordine allo sviluppamento di sue potenze, e sì in ordine al grado del suo godimento. Ciò è quanto dire che doveva stimare i beni soggettivi in un modo oggettivo, secondo quel valore appunto che avevano fra loro estimati e pesati sulle bilancie della ragione: per la quale stima solamente quei beni soggettivi si rendevano onesti, ossia di dignità morale forniti. Ora fino a che si fosse trattato di dover fare scelta tra beni soggettivi presenti, nessuna collisione cader poteva tra essi di tal natura che mettesse l' uomo in cimento di moralmente fallire: imperocchè era egualmente in tal caso interessato l' appetito dell' uomo a scegliere il complesso maggiore di beni e la morale sua coscienza; perocchè questa gli precetteva di scegliere il più che potesse del bene, e l' appetito nulla di meglio poteva volere. Ma ove si fosse trattato di paragonare insieme dei beni presenti con dei beni futuri, allora si poteva trovare in una cotale discordia l' appetito sensitivo e la ragione. Perocchè l' appetito di sua natura è cieco, e senza previdenza; e la ragione sola mette a calcolo il futuro. Quindi l' appetito con subitaneo moto persuade l' uomo al godimento istantaneo: la ragione tempera e regge questa persuasione inconsiderata che l' appetito vorrebbe ingerire, e impera la virtù della temperanza, ovecchè il presente bene impeditivo sia di un futuro e maggiore. In questa collisione pertanto non poteva l' uomo vincere, sempre, colla sua volontà ragionevole il torto suggerimento dell' appetito? facoltà che presiede alla soggettività del bene, senza più, e quindi essenzialmente priva di moralità? Rispondo che, trattandosi di beni naturali e sensibili (1), ciò poteva fare certamente il libero arbitrio dell' uomo fornito di una perfetta natura. Perocchè sebbene i beni presenti esercitassero una reale azione sull' appetito dell' uomo, e i beni futuri solo un' azione ideale , e sebbene questa fosse minore di quella (2); tuttavia la volontà ragionevole poteva sempre dominare e frenare la reale azione che esercitavano i beni presenti sul movimento dell' appetito. E ragione di ciò si è che la provvida natura fornì alla ragione uno strumento o un' arme da contrapporre al senso esteriore che presiede ai beni presenti e reggerne la veemenza; e questo è un senso interiore, cioè l' imaginazione, la quale nello stato di una natura perfetta stava in balia della volontà, la quale imaginazione presiede ai beni futuri. Ora trattandosi di beni naturali, l' uomo poteva sempre imaginarli, che è come un renderglisi presenti e l' eccitare in sè quella stessa azione reale, che, se presenti fossero, per la via degli organi esterni, ecciterebbero. Il perchè così mirabilmente fu costituita l' umana natura che essa due come sensorii avesse, l' uno riguardante le cose presenti, e l' altro le assenti; e l' uno de' quali, cioè quello delle cose assenti, potesse colla sua virtù equilibrare di continuo la violenza dell' altro, cioè di quello delle cose presenti; e che il primo fosse dato in pieno dominio della ragione, sicchè a questa facoltà che doveva essere la regina e signora di tutte le altre non mancasse tanto di polso da poter far eseguire coll' opera i suoi decreti. Fino a tanto adunque che si considera l' uomo entro la sfera delle cose naturali, e in cui egli non ha che a scegliere fra beni de' quali egli ha positiva cognizione ed esperienza, non poteva la sua virtù essere cimentata per modo da tentazione alcuna che egli col suo libero arbitrio resister non potesse: anzi piuttosto è da credere che assai difficilmente potesse peccare in tale stato, nel quale, per la lucidezza e prontezza della sua mente, non poteva mai errare il calcolo di ciò che più gli giovasse in questi suoi temporali interessi. E così si deve intendere, per mio avviso, la sentenza dell' Aquinate che dice: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole espressamente parla il Santo Dottore di un ordine di cose secondo la natura , ciò che corrisponde al caso, nel quale noi abbiamo considerato fin qui l' uomo naturalmente perfetto. In un tale stato l' uomo (al quale Dio non si fosse comunicato con una manifestazione positiva) dotato come era di nobilissima intelligenza e di un profondo sentimento, avrebbe senza dubbio, quasi per un cotal peso di tutta la sua natura, cercato di Dio nascosto; egli avrebbe tentato, per così dire, di trovare nell' intimo dell' universo e di sè stesso un sostegno e fondamento delle cose tutte, e non trovandolo, sarebbe andato al di là della natura stessa, al di là di sè stesso; avrebbe pensato la possibilità, la necessità di un Essere occulto che facesse tutto esistere, che rendesse tutto possibile: avrebbe anzi veduto che a tutte le cose mancava l' essere per sè e che pure l' essere gli risplendeva alla mente e gli faceva risplendere le cose tutte, e che pur dell' essere che lo illuminava e in cui le cose sussistevano, gli era maravigliosamente occulta la sussistenza, non partecipando egli che di un' aurora, che gli additava, senza mostrargli, la piena luce del sole. Egli avrebbe pertanto creduto al grande Essere a lui occulto dietro una misteriosa cortina, lo avrebbe adorato senza conoscerlo positivamente, e sarebbesi forse anco messo addentro di mano in mano e perduto in un sentimento abituale di profonda adorazione. Ma tutto ciò non esigeva da lui alcuna privazione, alcun sacrificio, se non anco era quanto di più dilettoso e di più solenne poteva desiderare e agognare la sua eccellente natura. Nè pur qui adunque, cioè nella sua relazione col Dio, naturalmente a lui noto, avrebbe l' uomo della natura incontrata difficoltà alcuna in essere giusto e in rettamente operare. Ma facciamo ora entrar l' uomo della natura in una positiva comunicazione con Dio: Iddio in qualche modo gli favelli e gli dia un precetto positivo, col quale venga imposto all' uomo una privazione, gli si ingiunga un sacrifizio di cosa appetita dalla sua natura: e non gli sia tuttavia comunicata alcuna grazia soprannaturale. Varrà il suo libero arbitrio a mantenere questo precetto? Certo varrebbe la sua ragione a conoscerne l' obbligazione, varrebbe la sua volontà a volerlo speculativamente: ma avrà eziandio tanta forza da imperare alla propria natura e a volerlo praticamente? Qui parmi di dover ricorrere al principio toccato di sopra:« la volontà razionale può vincere il senso e appetito di una cosa allorquando ella può contrapporre un altro senso e un altro appetito di forza almeno equivalente a quel primo«. Ora il senso e appetito che l' uomo può contrapporre ai beni presenti desiderati dalla natura è il senso imaginario col quale appetisce attualmente i beni futuri. Ciò stabilito, sono da vedere le condizioni del precetto positivo che si pone dato da Dio all' uomo. Se con quel precetto vien comandata all' uomo una privazione e sacrifizio cotale che l' uomo possa vincere colla libera volontà assistita dalla sua imaginativa virtù, egli potrà farlo: ma se l' imaginazione non gli bastasse a ciò, agevolmente rimarrà vinto. Il sacrifizio comandato è un male reale, presente: conviene dunque che colla imaginazione egli possa proporsi e rendersi efficacemente presente o un male maggiore nel quale inevitabilmente incorrerebbe non accettando quel sacrifizio, ovvero un tal bene che gli piaccia ottenere più che non gli dispiaccia il male che gli è offerto a sostenere. Così le Scritture dicono che Cristo stesso per sostenere la croce si propose innanzi a contemplare il gaudio che da quei patimenti gli sarebbe derivato (1). Ora all' uomo felice per l' affluenza di tutti i beni naturali e per la mancanza di ogni male non poteva essere desiderio di un bene che vincesse la ripugnanza di una privazione? Se si parla di un bene soprannaturale, in uomo privo di grazia , questo era puramente ideale e senza alcuno esperimento e quindi inetto a essere rappresentato nella sua imaginativa. Un tal bene perfettamente incognito, da lui sperato, pare che per sè stesso non sarebbe stato sufficiente da contrappesare l' avversione del male presente e tutto di sensibile sperienza. Pure poteva da lui essere imaginato un cotal cumolo di beni a lui noti, a cui quel bene incognito paragonato, gli paresse maggiore; e così vincere con questa imaginaria apprensione il male debito d' incontrare: purchè però due cose si fossero avverate, cioè per primo che fosse pervenuto a dar fede alla promessa di un tal bene; e secondo che un uomo già naturalmente felice ne avesse potuto concepire un vero desiderio (2). Ma se la speranza di un bene maggiore poteva dar forze alla volontà di sottomettersi a qualche sofferenza, ha poi in sè questa forza anche il timore di abbattersi in un male minacciato? L' uomo naturalmente felice non ha pigliato ancora sperienza di male veruno. Quindi sebbene egli abbia una cotal concezione tutta ideale del male, come di una cotal privazione o cessazione del bene che sperimenta; tuttavia la sua volontà non può punto nè poco far giocare in favore della giustizia l' imaginazione. Perocchè l' imaginazione, è un senso interiore e però non ha per suo stimolo il male ideale, ma il male reale e quel male reale che fu sperimentato nei sensi. Perocchè questa facoltà dell' imaginativa non ha altro ufficio nè potere se non di rinnovare internamente le sensazioni o più generalmente i sentimenti già sofferiti: e per ciò la libera volontà dell' uomo innocente e beato non poteva da questa parte far uso, come di forza ausiliare, della imaginaria potenza, e poco quindi avrebbe potuto ire innanzi per questa via del timore di un male minacciato. Quindi nella storia di Adamo, fra Dio che minaccia la morte e il demonio che promette scienza, immortalità e deificazione, il demonio aveva il partito migliore, perocchè prometteva un bene , men buono l' aveva Iddio minacciando un male : perchè del bene l' uomo avendo sperienza, poteva venire eccitato da esso imaginariamente, quando il male non poteva essere da lui se non idealmente concepito, il che lascia la libertà slenata a segno che non trova onde attingere forza e prender l' armi alla difesa. Il che non toglie però punto la sua autorità e augusta dignità alla legge divina: nel mentre che scuopre una limitazione e conseguente debolezza dell' umana natura. Se non che in Adamo questa debolezza era confortata dalla grazia, per la quale poteva, se avesse voluto, mantenere egualmente il divino comandamento: perchè, come abbiamo veduto, la grazia appartiene all' ordine dei sentimenti reali , dai quali la libera volontà trae le sue forze (1). E or qui un' osservazione si dee fare intorno all' intrinseca e necessaria limitazione di ogni natura finita, e per conseguente intorno altresì ai limiti che sono posti ad ogni libertà naturale di qualsivoglia creatura ragionevole. Ogni creatura ragionevole, per quanto eccellente ella sia, angelica, e sovrangelica, è limitata tuttavia in questo che ella non può volere nè l' assoluta infelicità propria, nè l' assoluta propria annichilazione. Ora ogni natura contingente, non essendo necessaria nè avendo in sè un prezzo infinito e incondizionato, egli è evidente che il prezzo della sua esistenza o quello della sua felicità è sempre inferiore al prezzo della legge morale il quale è infinito, incondizionato, eterno, ed è Dio stesso. Per ciò la legge morale esige e senza alcuna eccezione dimanda di essere preferita a tutto, fosse anche colla perdita totale della propria esistenza e della propria felicità: e questa esigenza è assolutamente obbligatoria, e di un' assoluta e intrinseca necessità morale, perocchè mai in nessun caso e per qualsivoglia danno, può essere la legge morale posposta e lasciata indietro a cosa alcuna. Egli è vero che l' ottimo Autore delle creature intelligenti non può permettere giammai una sì fiera collisione: ma tuttavia ella si lascia concepire; e la semplice concezione sua è sufficiente a poter trarre di ciò la seguente conclusione: [...OMISSIS...] : al qual termine non giunge veramente nessuna creata volontà. Indi è che nel fondo di ogni creatura esiste sempre una fallacità, esiste un difetto di pienezza di bontà morale: esiste una cotal limitazione non pur fisica, ma (quello che deve esser fonte inesausto di umiliazione alla creatura nel cospetto del Creatore) esiste una limitazione morale, benchè in nessun modo imputabile (2). E forse di questa limitazione morale altresì può intendersi quel passo di Giobbe ove dice che Iddio « trova la pravità negli Angeli suoi« (3) ». Di che conchiude che se vi ha questa deficienza di bontà morale nella natura angelica, molto più ella vi ha nell' uomo, il quale, oltre all' esser mosso dal principio razionale, è tirato e mosso altresì da un principio animale, attività cieca e inetta a percepire la luce della legge morale. Nel qual passo di Giobbe egli pare non parlarsi già di uomini particolari, ma della stessa natura umana e angelica, giacchè toccansi le condizioni comuni di queste nature, e in queste condizioni della stessa natura si fonda il ragionamento: [...OMISSIS...] . E qui pure giace sicuramente il senso più profondo e più vero di quell' alta parola di Cristo: « Uno solo è buono, Iddio« (2) ». Perocchè egli solo ha una volontà così ferma e immutabile nel bene, come è ferma e immutabile la legge stessa, mentre la stessa natura divina incommutabile è egualmente e la legge e la volontà della legge, onde questa volontà pareggia la legge perfettamente, le dà tutto ciò che le conviene e quindi sola adempie veracemente tutta la giustizia. Ciò che poi è mirabile, ciò che fa sentire la dignità sublime della grazia, si è il considerare che l' operazione deiforme della grazia rompe, per così dire, le angustie in cui sono le creature, toglie via, quasi direbbesi, i loro limiti, sana e giustifica questa cotale pravità, intesa nel senso sovraesposto, che rimane in fondo di tutte le creature, ove si considerino per sè sole. Conciossiachè la grazia opera nell' essenza dell' anima, ed è Dio stesso che all' anima formalmente si congiunge. Ora per una cotale unione l' esistenza dell' uomo partecipa dall' esistenza divina un cotal prezzo infinito, perocchè come dice S. Paolo, « chi aderisce al Signore è un solo spirito (5); e la Scrittura dice dei Santi: «« Voi siete dei« (6) ». Questa divinità partecipata fa sì che, desiderando la propria conversione, oggimai desiderino qualche cosa d' infinito, che sia Dio in essi il termine del loro desiderio, come è Dio in essi il termine della deiforme operazione. Lo stesso dicasi del desiderio della felicità. Non è più un desiderio vago, non è più un desiderio di una felicità universale: l' unica loro felicità è la giustizia stessa, è Dio stesso. Quindi la volontà della giustizia s' immedesima colla volontà di essere felici, perocchè questa felicità è oggimai determinata e tutta prefinita dalla sola giustizia trovata nella divina essenza. Quindi Adamo come quegli che era creato in grazia, poteva attingere forze alla sua libera volontà per essere compiutamente giusto. In Cristo dove non havvi altro che una persona e questa è il Verbo di Dio, egli è evidente che l' appetito, se così può chiamarsi, della conservazione e felicità di questa persona ha per oggetto Iddio. Ma questa stessa dirittura di affetti, che nasce per l' unione ipostatica in Cristo, nasce per l' unione sostanziale nei cristiani: tutto l' amor dei quali terminando in sè stessi, viene a terminare in Dio, per questo che sono fatti una cosa con Dio: « Io in essi dice Cristo parlando al Padre, e tu in me, acciocchè sieno CONSUMATI in una cosa sola« (2) ». Di gran valore e proprietà è quella parola, consumati ; poichè esprime una cotale consumazione di tutto ciò che vi è di naturale nella creatura, ridotto e quasi stemperato in Dio il quale è l' ultimo fine della creazione, acciocchè come dice S. Paolo, « Iddio sia tutto in tutte le cose« (3) ». Considerata dunque la creatura sola senza aiuto di grazia, egli è evidente potersi sempre concepire soggetta a cotal tentazione, alla qual vincer non basti il grado di sua libertà naturale: tentazione che, come detto è, procederebbe non da alcun precetto naturale, ma da un qualche precetto positivo che Iddio le imponesse e col quale le ingiungesse qualche sacrifizio; massime se il premio promesso non fosse che soprannaturale. In questo caso, l' appetito assai facilmente si renderebbe insensibile al freno della ragione: ed è sotto questo punto di vista che San Tommaso, con altri maestri in divinità, mostrano la necessità della grazia, perchè sia conservato nell' uomo l' ordine delle potenze, cioè la ragione dominante e il senso ubbidiente; ubbidienza che fanno derivare da quel rinforzo che riceve la ragione da Dio coll' essere a lui unita e sottomessa per grazia. Ecco le parole dell' Angelico Dottore: [...OMISSIS...] Il che sicuramente si deve intendere nel caso della tentazione da noi sopradescritta, che si potrebbe chiamare extranaturale ; perocchè, fuori di questo caso, abbiam già udito poco sopra S. Tommaso mesimo insegnarci, che l' uomo, colla sola natura integra, poteva però evitare ogni peccato sì mortale che veniale. E in tal modo parmi che debbansi conciliare e concordare fra sè questi due luoghi dell' Angelico, che a prima fronte sembrano fra di loro pugnare (2). Dalla quale dottrina dell' Angelico conviene qui tirare intanto questa conseguenza che ci gioverà poscia in futuro, cioè: che la grazia di Adamo innocente era perfettiva di tutta intera la natura umana. Perocchè per natura umana s' intende il complesso de' principii che entrano a comporre l' umanità. Se dunque la grazia saldava e rinforzava, anzi pur completava l' ordine , in cui debbono tenersi questi principii, sia di soggezione all' essere divino, sia di subordinazione fra loro; egli è manifesto che giovava mirabilmente a tutto il complesso di questi principii, mantenendo in loro e completando il giusto ordine: il che è quanto dire, giovava e nobilitava la natura umana. Adunque l' umana natura per la grazia acquistava un tal prezzo, pel quale si faceva possibile un' assoluta giustizia come partecipazione della giustizia divina, della quale dicono le Scritture: « La tua giustizia è giustizia in eterno« (1) ». E tal prezzo aveva Adamo innocente. Ma quale fu poi questa grazia di Adamo, considerata relativamente alla sua efficacità? S. Agostino dice che questa grazia fu un cotal dono, una cotal potenza, l' uso della quale fu lasciato al libero arbitrio dell' uomo (2). La ragione, dice il santo Dottore, per la quale il primo uomo non ricevette questo dono di Dio (cioè la perseveranza nel bene), ma fu lasciato in suo arbitrio il perseverare o non perseverare, si fu che la volontà sua, istituita senza alcun peccato e senza aver nulla in sè stessa che per mala concupiscenza resistesse, aveva tali forze che cosa degna parea che si dovesse commettere a tanta bontà e a tanta facilità di vivere bene l' arbitrio del perseverare (3). Questa grazia adunque era come una potenza nuova data all' uomo (4), il qual uomo poi poteva o adoperarla o no, a suo piacimento: era un cotal sentimento, pel quale poteva resistere, se avesse voluto, all' appetito, e frenare i suoi movimenti in sacrifizio e in obbedienza del Signore; suppliva questo sentimento soprannaturale posto nell' uomo alla debolezza del bene puramente ideale, quale era la giustizia che imponeva di ubbidire a Dio eziandio con qualche sacrifizio; e questo bene ideale in un cotal modo lo realizzava e avvalorava: come appunto l' imaginazione può rendere efficace su di noi un bene futuro, di cui si abbia avuto sensibile esperienza. Or dunque quest' arma, questa virtù messa nelle mani dell' uomo, era indubitatamente atta a farlo vincere la tentazione, purchè avesse voluto adoperarla. La stessa specie di grazia, secondo S. Agostino, era stata data agli Angeli e colla medesima grazia alcuni hanno perseverato nel bene, e altri sono scaduti: non già per diversità della grazia, ma sì dell' uso che il loro libero arbitrio ne fece. Ecco come Agostino dichiara la cosa: [...OMISSIS...] . Con quella stessa grazia adunque colla quale alcuni Angeli perseverarono, colla stessa altri decaddero: e con quella stessa grazia, avendo la quale, Adamo, decadde, con quella stessa poteva perseverare. E` una medesima grazia, sempre appieno sufficiente, ma talora adoperata dall' uomo e talora lasciata inoperosa: come una spada bene affilata che sempre vale per sè a tagliare eziandio che si lasci nel fodero dimenticata. All' uomo insomma costava tanto l' usare della grazia e l' attingere forze da lei, quanto gli costava alzare il braccio, muovere i piedi a camminare o attinger acqua alla fonte per dissetarsi: la forza di muoversi non gli manca e ha pure il fonte innanzi che gorgoglia: in lui sta l' usare o non usare di tali beni. Egli è per ciò, cioè per la natura di questa grazia lasciata nel libero arbitrio dell' angelo e dell' uomo da potersi usare o non usare, che S. Agostino dice, che Iddio in quella prima costituzione dell' uomo volle fare sperimento dello stesso arbitrio dell' uomo e vedere che cosa l' uomo gli avrebbe dato col suo proprio arbitrio di soggezione e di ubbidienza: [...OMISSIS...] . E come togliea a fare sperimento di ciò che far potesse il libero arbitrio dell' uomo? Forse perchè questo arbitrio fosse abbandonato a sè solo? No, giacchè aveva in sua compagnia la grazia: ma sì bene, secondo la mente del santo Dottore Agostino, perchè questa grazia era una forza, una potenza che non operava se lo stesso arbitrio, facendone uso, non la faceva operare in sè e fruttare. [...OMISSIS...] Quella grazia adunque di Adamo e degli Angeli era una grazia potenziale , affidata alle mani della creatura, nella quale stava il ridurla all' atto e cavarne i buoni effetti (2). Ma qui uscirà taluno dicendo: per questo uscire della grazia da quello stato di potenza alla sua attuale operazione, non era forse mestieri di un nuovo aiuto soprannaturale dato all' uomo? Di una di quelle grazie che chiamano attuali ? - Rispondo, e parmi secondo la mente del Dottore della grazia, se io nulla intendo, che perchè quella grazia potenziale operasse, si richiedeva che operasse il libero arbitrio, il quale in questo era lasciato a sè stesso. Or però quando dico che il libero arbitrio era lasciato a sè stesso, non escludo l' aiuto che Dio come Creatore e conservatore delle creature presta loro, non meno, acciocchè possano sussistere che operare: sicchè Iddio, come prima causa, cooperare e muovere doveva sicuramente il libero arbitrio dell' uomo che facesse buon uso della grazia. Oltre questo aiuto presente e continuo di Dio, il quale sta nell' ordine naturale, la grazia stessa pur col passare dalla potenza al suo atto non è che Dio operante in un ordine soprannaturale; perocchè la grazia non si può muovere, nè dare aiuto e forza al libero arbitrio, se non per virtù di Dio: essendo la grazia un' operazione deiforme . Ma tuttavia egli non è assurdo il pensare che il primo movimento nascesse dal libero arbitrio rinforzato dalla grazia abituale e mosso da Dio solo come Creatore, e dietro quel primo e tenue moto che il libero arbitrio cominciava, e mediante una volontà tendente alle cose soprannaturali in quella maniera che per natura e per grazia fossero conosciute, la grazia stessa si attuasse via più speculando e traendo innanzi a fine di sostenere via più l' arbitrio che in tal modo prendeva le sue forze da lei. Sicchè il consenso alla grazia nasceva dal libero arbitrio, rinforzato però dalla grazia abituale e con questo consenso stesso si attuava la grazia e rendevasi operatrice. Insomma il libero arbitrio dell' uomo in quel tempo era sano e naturalmente inclinato alla onestà naturale e di più soprannaturalmente per grazia, cioè inclinato anco al bene soprannaturale. Ora dall' uso di un tale libero arbitrio dipendeva la sorte dell' uomo, come quella degli Angeli. E questo soprannaturale abito di grazia veniva mantenuto e alimentato, per così dire, dalla presenza sensibile della divinità in mezzo alla natura, siccome dicevamo, quasi per l' uso d' un cotale sacramento. Dopo il peccato la volontà umana rimase, perocchè appartiene alla natura dell' uomo: ma le sue forze vennero meno; perocchè il senso animale prese baldanza e si falsificò; e tutte le altre potenze si addebolirono e alterarono; e nella parte stessa superiore del soggetto umano entrò una certa superbia e lusinga di ritrovare una cotal pienezza di felicità e quasi una divinità in sè medesimo. Sicchè come bisognò ricreare l' uomo animale già preda della morte, così bisognò pure che Dio ricreasse una volontà nuova nell' uomo: e questa è l' opera della grazia di Gesù Cristo. Perciò la volontà del bene, nell' ordine della grazia del Redentore, S. Agostino l' attribuisce interamente a Dio sì per riguardo alla potenza che all' atto conseguente alla potenza. [...OMISSIS...] L' atto adunque dell' operare bene, secondo il santo Dottore, nello stato di Adamo innocente viene attribuito al libero arbitrio: nello stato all' incontro dell' uomo riparato viene più attribuito alla grazia. La ragione di ciò consegue da tutto ciò che fu detto. L' atto si attribuisce sempre alla potenza onde esce. Ora nello stato d' innocenza questa potenza era il libero arbitrio dell' uomo, perocchè questo libero arbitrio era retto, cioè tendente naturalmente al bene morale, cioè inclinato secondo l' ordine del bene oggettivo. E questa inclinazione era il principio dell' atto buono: dunque l' atto buono aveva il suo principio nella buona inclinazione originaria naturale (sebbene avvigorita altresì dall' abito della grazia) dell' umano arbitrio. All' opposto l' arbitrio dell' uomo peccatore è essenzialmente disordinato, cioè ha perduto quella naturale rettitudine, non è più volto al bene secondo la considerazione oggettiva, ma anzi ha un' originaria tendenza infetta da disordine, perchè non interamente secondo l' ordine oggettivo (1). Nell' arbitrio adunque dell' uomo infetto ancora dal peccato originale e non rinato nel battesimo, vi ha bensì il principio dell' atto cattivo, e non il principio dell' atto veramente e compiutamente buono. Quindi è necessario che la grazia del Riparatore sia tale che non solamente avvalori il libero arbitrio, ma vi inserisca a dirittura il principio degli atti buoni, raddrizzandolo e piegandolo debitamente all' ordine oggettivo del bene: e quindi è che dal Santo Dottore Agostino si attribuisce alla grazia non solo la potenza del bene, ma gli atti stessi, e che la grazia opera nell' uomo tutto, cioè tanto il volere, quanto anche il perfezionare. Nascendo adunque nell' uomo riparato il principio del bene non già dalla propria natura, ma immediatamente da Dio autore della grazia, avviene che le forze morali dell' uomo riparato, secondo il medesimo S. Agostino, sieno tanto maggiori di quelle dell' uomo innocente, quanto la grazia è più forte della natura: il che è un dire, quanto Dio è più forte dell' uomo. L' abbattimento adunque e il mancamento della natura umana diede a Dio occasione di far risplendere tutta la gloria della sua possanza e della sua misericordia, facendo sì che nell' uomo infermo e nullo, si trovasse maggior fortezza e costanza di virtù che nell' uomo intero e per ogni sua parte perfetto. [...OMISSIS...] E non è già che l' impulso della grazia di Cristo ascenda tanto e prenda questo grado di vigore subitamente e in tutti i cristiani egualmente o gli eletti, pel quale vigore questi già sieno sempre così sollecitati e propriamente necessitati a dover il bene operare. Il dir questo non è sicuramente la mente del santo Padre che ora ci serve di guida. Ma che il fondo dei suoi pensieri io reputo che sia questo: che venendo il principio del bene operare nell' uomo riparato non dall' arbitrio, ma dalla grazia, il che è quanto dire da Dio; questo principio di bene operare, a cui convenevolmente tutte le buone azioni e l' attual volere si attribuisce, è di sua natura onnipotente , e non di forze limitate, come la libertà naturale dell' uomo integro; e per ciò è cotale quel principio onnipotente del bene che può sempre produr nell' uomo una invitta e felicissima necessità dell' operare il bene e talora la produce eziandio nella vita presente. La necessità adunque del bene operare, colla quale, come con carattere proprio, segna il santo Dottore e contraddistingue la grazia di Cristo da quella di Adamo innocente, riguarda la natura e condizione propria della grazia di Cristo, e non il suo costante effetto nell' uomo, perocchè questo effetto della necessità dell' operare essa non è necessitata a produrlo, ma ha bensì sempre virtù di produrlo: e il produrlo realmente è una speciale predilezione che usa Dio con certe anime predilette sue amiche (2). La volontà dunque dell' uomo, come Dio la fece a principio, era retta sì nell' ordine naturale, di tutta quella rettitudine che può avere la natura umana, e sì nell' ordine soprannaturale, di quel rinforzo che riceve la volontà umana dalla grazia. Ora una volontà pienamente retta è un supremo principio di operare nell' uomo: perocchè se vi avesse un altro principio che sorvolasse la volontà e si mettesse a imperare sopra lei, già la volontà con questo non sarebbe più retta, perocchè è proprietà necessaria alla sua rettitudine che ella non si lasci volgere da alcun altro principio soggettivo, ma sì che ubbidisca solo al principio oggettivo della legge di Dio. Ora la persona dell' uomo non viene costituita che nel principio supremo che opera nell' uomo, secondo la definizione che ne abbiamo data. Adunque quel pregio che aveva la volontà di essere retta era un pregio personale del primo uomo, cioè che nobilitava la sua persona. E perchè quando alla persona come a causa si può attribuire il bene e il male, allora si dice che l' uomo merita o demerita; perciò il bene morale, di cui il primo uomo si abbelliva e fregiava, era a lui giusta cagione di merito. Ma la dignità morale di che si fregiava il primo uomo non era solamente un bene della sua persona, ella era anche un bene della sua natura. E veramente si consideri ciò che forma la persona e ciò che forma la natura; e si troverà che queste due cose in Adamo erano in perfetto accordo e l' una, per così dire, rientrava nell' altra, sicchè i beni dell' una non potevano essere altro che i beni dell' altra. Mi spiegherò più chiaramente. La persona è una relazione che sussiste nella natura intelligente, cioè è quel principio supremo di operare che è mai sempre in una natura intelligente, e che di natura sua deve dominare gli altri principii tutti della natura stessa. Per natura all' incontro non s' intende quel solo principio attivo che ha la relazione di supremazia verso gli altri, ma s' intendono tutti i principii attivi individuamente connessi fra loro, senza riguardo alcuno al loro ordine, ossia alla relazione che ha l' uno coll' altro. Ciò posto, se un principio attivo qualsiasi che entra a costituire una natura acquista qualche grado di perfezione, si può dire a ragione che quella natura si è perfezionata. Ma acciocchè si possa dire essersi perfezionata altresì quella persona, conviene che il detto perfezionamento sia avvenuto o ridondato nel principio supremo che è il principio di attività personale. E perciò si deve distinguere il perfezionamento della natura dal perfezionamento della persona: e per la stessa ragione si deve distinguere il bene della natura dal bene della persona. A cagione di esempio, se l' uomo ha o acquista una perfetta sanità di corpo, egli ha o acquista un bene di natura: ma la sua personalità è ella per questo, necessariamente per questo, più perfetta? Se insieme colla sanità del corpo egli si fosse reso vizioso nello spirito, la sua persona avrebbe anzi perduto che guadagnato di perfezione, di bene. E viceversa se un uomo si rendesse più virtuoso nel tempo stesso che incontrasse una malattia, egli avrebbe, assolutamente parlando, perfezionata la sua persona nel tempo stesso che la sua natura avrebbe sofferto. Sebbene adunque non ogni bene della natura intelligente sia anche di necessità bene della persona, e viceversa non ogni bene della persona sia anche bene di tutta intera la natura; tuttavia si dà il caso che il bene della persona ridondi in bene di tutta intera la natura. Ecco quando si può dar luogo a questo caso, e quale sia il bene personale che gode di questo vantaggio. I principii attivi che entrano a costituire un individuo intelligente, per es. l' uomo, possono essere più o meno legati fra di loro, sebbene ciascuno si distingua dagli altri. E se si considera la natura umana nel suo ideale, cioè nel suo stato perfetto senza alcun guasto, si vede chiaramente che il principio attivo supremo deve possedere in sè una forza, colla quale domini e governi gli altri principii ordinati ad essere a lui soggetti. Questa prevalenza di forza nel principio attivo supremo, ossia personale, e questa relativa debolezza e sudditanza dei principii inferiori, costituisce appunto un legame che stringe questi a quello ed è il vero ordine intrinseco alla natura umana. Or questa prevalenza del principio personale è sicuramente un pregio e perfezione della persona stessa; ma egli non è meno un pregio e una perfezione della natura intera: perocchè tutti i principii che la costituiscono sono nel loro posto e senza alcuna discordia fra essi formano quella giusta e conveniente armonia, da cui la natura tanto riceve di nativa bellezza e nobiltà. Ora quest' ordine, quest' armonia di natura era nel primo uomo costituita da Dio perfettamente e decorava non meno la sua persona che la sua natura. Di che si vedrà ragione per la quale la morale dignità di Adamo, quella cioè in cui fu costituito, dovesse passare a' figliuoli suoi. E di vero, ciò che passa per generazione nei figliuoli è la natura. Perciò i figliuoli di Adamo innocente conveniva che portassero in nascendo quello stesso bene morale che era connaturale in Adamo, cioè che era in lui non pur bene della persona, ma bene della stessa umana natura. La grazia data da Dio al primo uomo era perfettiva, come abbiamo veduto, non pure della sua persona, ma ben anco della sua natura (1). Perocchè quella dignità morale che risiedeva nella personalità del primo uomo non decorava meno la natura sua, e ad un tempo colla natura, quasi divenuta con essa una sola cosa individua, gli era stata data. Essendo tale pertanto la legge della costituzione umana, che la natura umana non dovesse esistere se non completata dalla grazia di cui abbisognava, accadeva che questa natura, neppur comunicandosi per la propagazione, scadesse dalla sua perfezione in cui il Creatore tenerla voleva, ma che tutta intera e completa in diversi individui si venisse moltiplicando (2). Abbiamo veduto come l' anima intelligente si crea nell' uomo in venendo questo generato, cioè in virtù della visione dell' essere ideale che riceve il principio senziente nell' animale, il quale, ammesso a questa congiunzione dell' essere, partecipa tantosto l' intelligenza, e l' immortalità e la spiritualità (3). Ora la grazia non è che l' essere stesso mostrato all' uomo nella sua reale sussistenza , cioè con un grado di luce nuova e veramente divina. Perocchè quest' essere che così si realizza si muta in Dio. L' essere adunque che risplendeva innanzi all' anime di Adamo e de' suoi figliuoli non era l' essere puramente ideale, ma quest' essere con un cotal modo di realtà che il rendeva potente e di tutta la natura maggiore, che il rendeva insomma soprannaturale e divino. S. Tommaso insegna che, l' uomo ove fosse stato confermato in grazia e messo al premio della visione beatifica di Dio, non avrebbe da quell' ora più generati figliuoli (1). Però tutto quel tempo, nel quale sarebbe avvenuta la moltiplicazione del genere umano, l' uomo avrebbe meritato con degli atti virtuosi senza venire però ancora confermato in grazia. Il contrario insegnano le Divine Lettere essere avvenuto degli Angioli, i quali col primo atto meritorio furono al loro termine di perfetta beatitudine. E una tale dottrina scaturisce anche dalle nozioni della natura dell' Angelo e dell' uomo. Perocchè abbiamo veduto che la natura umana è intelligente e animale ad un tempo; e che la sua intelligenza è la inferiore di tutte nella gerarchia delle intelligenze, perocchè la natura di lei sta nel veder l' essere nel modo il più imperfetto, cioè al tutto indeterminato. Or poi per ispingersi innanzi da una cognizione così tenue dell' essere a una cognizione più intera e perfetta, essa naturalmente è fornita dei soli sensi animali i quali le fanno percepire solo degli esseri materiali: ed ella è costretta di usare di queste così limitate sue percezioni a sollevarsi all' intendimento degli esseri più nobili e di Dio stesso. Intendimento che non può mai pienamente conseguire per la tenuità e imperfezione del mezzo ch' ella adopera a pervenirvi; perocchè nè nella creatura materiale, nè in sè stessa e negli atti suoi trova mai cosa che tenga vera e propria similitudine cogli esseri più nobili, cioè cogli Angeli e con Dio. Di questo passo lento e improporzionato al gran viaggio è costretto di andare l' uomo considerato entro i limiti dell' ordine naturale. Ben è vero che la grazia il fornisce di un mezzo troppo più sublime e che troppo più innanzi il reca nella cognizione dell' essere assoluto. Ma la grazia stessa è data in modo che tiene proporzione al grado della natura: perocchè la grazia non fa che aggiungere splendore ed efficacia alle concezioni naturali, fino a tanto che nella vita presente l' uomo dimora; splendore ed efficacia che rende l' uomo senza dubbio più sapiente di prima in quanto alla profondità, dirò così, delle sue cognizioni e all' acutezza della sua vista spirituale per discernere dentro a esse il divino che gli si rivela; ma splendore però che non aggiunge alla sua mente percezioni interamente nuove di nature nuove. In somma come l' essere indeterminato che costituisce la specie umana è la vista più imperfetta dell' essere stesso, e però non fa che produrre tale specie di esseri intelligenti che è inferiore fra tutte le specie di esseri dotati d' intelletto; così la grazia congiunta a principio colla natura dell' uomo doveva essere la più tenue di tutte le grazie di cui fossero fornite le altre specie intellettive più eccellenti dell' umana. All' incontro la natura angelica, secondo la notizia che ce ne danno le divine lettere, non aveva un mezzo così limitato di perfezionare la sua cognizione dell' essere come sono i sensi animali di cui l' uomo è fornito. Ma in luogo di questi vedeva l' essere già per natura assai più perfettamente dell' uomo, cioè vedeva l' essere e nell' essere poteva scorgere immediatamente molte sue determinazioni, le quali sono ciò che i teologi chiamano specie infuse . Potevano adunque vedere dell' essere non pure il principio, come il vede l' uomo per natura, ma anche molti termini dell' essere stesso. Non già che gli Angeli vedessero da principio, per natura, o per grazia, il termine essenziale e assoluto dell' essere, cioè Dio: ma come essi cercavano nell' essere ideale, quasi in uno specchio che loro rifletteva l' essere reale, tutto ciò che a loro piacesse di trovarvi aguzzandovi la loro vista intellettiva; così vi potevano cercare dentro e le altre cose create e sè stessi e il Creatore. E l' amor loro che volgeva la loro volontà in questo ricercamento dell' oggetto della loro contemplazione, poteva essere giusto, recando la loro intellettiva attenzione di preferenza in Dio, od essere ingiusto preferendo di contemplare i pregi di altra cosa che Dio non fosse. E così avvenne che quelli, i quali dentro all' essere ideale che chiarissimamente risplendeva innanzi le loro menti, cercarono la divina essenza, ve la trovarono, e con quell' atto medesimo col quale perfezionavano la loro cognizione, conseguivano altresì il merito della virtù e in un cotal merito della virtù il premio della beatitudine. Laddove quelli che con ingiusto affetto cercarono nella chiara vista che avevano dell' essere ideale innanzi sè stessi che Dio, a questo preferendosi, commisero peccato nel tempo medesimo che abbuiarono il loro intelletto, col trattenerlo dalla contemplazione della luce divina; e non poterono poi più isguardare nella faccia divina a loro amica e ridente, ma solo nella faccia divina turbata e irata in essi: vista sommamente spaventevole, e onde ogni creatura per necessità di natura atterrita rifugge. Sicchè l' angelica natura pure col primo passo pervenir doveva o alla somma felicità o alla somma miseria. Non così è, siccome dicevamo, della natura umana, l' intendimento della quale non vede già nell' essere che gli sta innanzi tutto ciò che vuole, ma anzi non ci vede nulla se l' esperienza del senso animale non lo aiuta a vedervi alcune cose, il qual senso non lo può aiutare che assai debolmente e limitatamente, come detto è. Sicchè gli rimane sempre da fare un lungo viaggio innanzi che pervenga alla cognizione intuitiva di Dio, sebbene aiutato dalla grazia, perocchè anche questa procede con quella gradazione che la natura (1). Per la stessa ragione è che l' uomo anche peccando non perviene d' un tratto all' ultimo termine della malizia. Perocchè essendo graduata la sua cognizione e rimanendosi ella sempre imperfetta, rimansi graduato ancora il suo merito e il suo demerito che tien dietro alla cognizione. Poniamo che il suo peccato consista in disubbidire immediatamente a Dio. Ora egli è evidente che la gravezza di questo peccato non è tanta quanta è la grandezza e maestà del supremo Essere in sè stesso considerato; ma sì quanta è la grandezza e maestà di quest' Essere nella concezione dell' uomo che lo concepisce. Sicchè quanto l' uomo ha più di cognizione di Dio, tanto egli ha più di reità; e n' ha meno quanto la concezione del sommo essere è in lui più imperfetta. Fermata questa norma di giudicare della gravezza dei falli dell' uomo, egli è manifesto che la limitazione della cognizione nell' uomo ne limita il suo demerito, e che il graduato conoscere dell' uomo rende altresì graduato questo demerito stesso, il quale non è mai sommo se non allora che somma sia la sua cognizione. Di che avviene che l' uomo stesso, il quale potè offendere Iddio quando lo conosceva con un dato grado di cognizione, conoscendol poi con più gradi, si penta di averlo offeso. Sicchè Iddio per convertir l' uomo non ha talora che a donargli grazie di conoscerlo più sperimentalmente: di modo che coll' accrescergli la cognizione soprannaturale e sperimentale della divina natura, può talora salvarlo. Non così poteva avvenire degli Angeli, nei quali la cognizione naturale era massima nel primo atto e, corrispondente a questa cognizione naturale, era pur massima in essi la cognizione che loro derivava dalla grazia; secondo il principio che noi abbiam posto, che la grazia è proporzionata e come pedissequa della natura. Se dunque l' Angelo, col primo uso della sua volontà, poteva dare intero compimento alla sua cognizione di Dio, movendo l' intelletto a riguardarne la stessa essenza; l' uomo all' incontro non può mai giungere a questo, ma solo ad acquistare di mano in mano qualche grado maggiore della divina cognizione. E però l' Angelo col primo atto abusando della massima cognizione e della massima grazia (1), non gli rimase più onde riceverne alcun' altra maggiore che il potesse salvare (2). Ma nell' uomo fino che vive in terra può esser sempre messa una cognizione e una grazia maggiore, e con essa convertirsi: salvo che se abusasse dell' ultima delle grazie ch' egli può ricevere, perocchè allora nascerebbe quel peccato contro allo Spirito Santo di cui disse Cristo: « Che non sarà rimesso nè nel presente secolo nè nel futuro« (3) »; peccato in tutto simile a quello degli Angeli. Queste ragioni, nascenti dalla natura degli uomini e da quella degli Angeli, rendono ragione del mistero espresso dall' Apostolo con quelle parole: « Non sollevò gli Angeli, ma sollevò (apprehendit) il seme di Abramo« (4) ». Questa proposizione è naturale conseguenza della dottrina esposta nei due articoli precedenti. Perocchè non potendo l' uomo trasfondere ne' figli ciò che non ha egli medesimo per costituzione di natura, non può comunicarlo. Ora quando l' uomo innocente dava l' esistenza a dei suoi simili, non doveva ancora essere confermato in grazia, come vedemmo, e però nè pure i nati da lui potevano ricevere per nascimento quest' ultimo grado di perfezione. Ma se i nati dell' uomo innocente non ricevevano per generazione dal padre la confermazione della grazia divina, ricevevano però la grazia originale, come detto è. Ora la cristiana dottrina insegna che il contrario avviene della grazia del Redentore, la quale non passa nei figliuoli per la naturale generazione. Ora di che deriva adunque questa differenza? Ond' è che la grazia primitiva aveva questa singolar natura di essere ingenerata, per così dire, nei figliuoli, e non così la grazia riparatrice? La ragione di tale differenza sta pur sempre in quella gran distinzione fra la persona e la natura: la prima incomunicabile, comunicabile la seconda; cioè la grazia originale non era solamente affissa alla persona, ma era affissa anche a tutta la natura umana, come abbiamo veduto; sicchè per lei avveniva che tutte le potenze dell' uomo fossero indirizzate a un ordine soprannaturale, standone queste soggette senz' alcuna contraddizione nè repugnanza. All' incontro la grazia riparatrice è personale, cioè è affissa alla persona, ossia al principio supremo della natura umana, l' intellettiva volontà; e le altre potenze inferiori rimangono tuttavia ricalcitranti e ribellanti alla signoria di quella grazia, che però non sono da lei nella vita presente intieramente dominate e ristorate, ma tengono sempre la nativa corruzione che le mantiene ree di morte. Or ciò che è della persona non passa nel figliuolo, ma sol quello che è della natura. Il che vieppiù manifestamente apparisce ove si consideri il modo onde la umana natura mediante la generazione si comunica. Perocchè l' uomo genera non in quanto è persona umana, ma in quanto è individuo animale: sicchè il progresso della formazione dell' uomo nella generazione è dall' imperfetto al perfetto. Ed essendo l' uomo, considerato come animale, ancora disordinato e guasto, sebbene egli stesso come umana persona abbia ricevuta la grazia e la santificazione del Redentore, non può naturalmente produrre che un animale pure guasto e disordinato. Ed ora niente ripugna che un tale animale riceva il lume dell' intelligenza, perocchè questo lume non lo innalza già a stato di dignità morale e soprannaturale, potendo stare l' intelligenza anche insieme colla colpa. Ma sarebbe stato ripugnante e contradditorio che un essere moralmente disordinato fosse stato dotato contemporaneamente della grazia divina; perocchè questa non può stare col disordine morale e col peccato, giacchè la grazia è una comunicazione di quella natura divina abborrente essenzialmente da ogni peccato. E che l' uomo tosto che generato avesse in sè naturalmente un disordine morale, apparisce da questo, che l' appetito animale per suo disordine non ubbidisce da principio perfettamente alla ragione. Sicchè se l' uomo nascesse puramente coll' animalità senza ragione, dir non si potrebbe che in lui ci avesse deformità o guasto morale, ma solo alcun disordine fisico. Ma appunto col ricevere a un tempo stesso l' animalità e l' intelligenza, sorge in lui un disordine veramente morale per lo squilibrio di quelle due potenze, cioè a dire per la insubordinazione della prima alla seconda. Sicchè quella che genera è una natura guasta, e però genera una natura guasta: e questo guasto nella natura generata di natura sua è morale; e si richiede che Dio per un' azione esterna e sua propria vi porti riparo, non potendosi più comunicare la grazia pel veicolo della naturale generazione, ma convenendo che Iddio per nuovo straordinario dono l' affigga all' elemento intellettivo dell' uomo, nel quale vi è la verità ossia l' essere risplendente: essere che non è dato all' uomo per virtù propria della generazione, ma solo per una legge annessa da Dio alla generazione medesima, e il qual essere perciò non può mai venir macchiato nè alterato, perocchè è un' appartenenza a Dio medesimo (1). Sicchè risultando l' umana natura da un soggetto e da un oggetto, e venendo il primo formato dalla generazione, e il secondo venendo dato da Dio stesso, quantunque secondo una legge permanente; il punto di salute, e dove si poteva rappiccare la grazia era ciò che dava Dio all' uomo e non ciò che dava l' uomo all' uomo in generandolo. Di che apparisce che l' uomo doveva prima essere generato e poi redento, e che non poteva in uno colla generazione ricevere la grazia riparatrice. Un' altra dimanda si fa presente al pensiero: se i meriti e le grazie acquisite di Adamo innocente fossero dovuti passare nei figliuoli; e se no, per qual ragione passar non dovessero, quando pur passava la grazia originale? La cristiana dottrina risolve negativamente la questione: e il perchè anche qui giace nella intrinseca natura della cosa. La legge della generazione porta che passi nel figliuolo la natura del padre e della madre, ma non lo stato accidentale in che questa natura si trova nel padre e nella madre. La generazione è un' operazione animale, come abbiam detto, subordinata a certe leggi fissate dall' Autore dell' essere animale. Tutte le circostanze particolari e accidentali che entrano, o nella materia di cui si compone il generato, o negli organi generanti, o nel meccanismo dell' operazione medesima, tutto ciò insomma che realmente influisce in questa grande e arcana operazione, entra a determinare le accidentali qualità che ricever deve la natura nell' individuo generato: ciò che in esso resta sempre immutabile sono i principii costitutivi di questa stessa natura, che non è altro ella stessa che il complesso appunto di principii attivi individualmente congiunti. Ora tutti i meriti e le grazie acquisite del primo uomo innocente non avrebbero in lui accresciuto il numero de' principii attivi costituenti la sua natura; ma solo avrebbero sviluppati e perfezionati questi principii medesimi originariamente in esso esistenti. Come non è necessario che nascano i figliuoli coi detti difetti accidentali del padre; per esempio, non è necessario che da un uomo zoppo o senza braccia nascano altrettanti zoppi o monchi; così parimenti non è necessaria legge di natura che nascano i figliuoli coi pregi accidentali dei loro padri. Per questo gli adulti non generano già adulti, nè da uomini di grandi cognizioni nascono dotti i fanciulli: nè per la stessa ragione le virtù de' padri passano necessariamente ne' figli. Ma quello che è necessario per legge di generazione si è: che i principii attivi, che entrano a formare la natura de' padri e tutto ciò che traggono seco necessariamente, passino ne' figliuoli (1). Di che nasce che da uomini nascono uomini (nei quali vi sono per natura i due principii della volontà e dell' istinto); e che da bruti nascono bruti (nei quali non v' è che un principio solo, l' istinto). Se poi dei lunghi abiti di virtù acquistati dai genitori e delle abbondanti grazie possano giungere a migliorare intrinsecamente i principii attivi dell' umana natura e quindi influire sulla stessa generazione; se le lunghe virtù e i meriti dei padri insomma possano migliorare le schiatte, come pure se i vizii de' maggiori possano degradarle (il che io molto sospetto); questa è questione sottile e degna di essere chiarita colle più perseveranti e diligenti osservazioni sull' andamento delle famiglie e alterazioni che in un lungo corso di secoli ricevono le progenie. Ma per vantaggiosa che possa essere una tanta ricerca all' umanità, non è del mio ufficio nè delle mie forze il qui trattarla, giovandomi solo l' averla accennata (1). Si deve dunque distinguere i principii attivi, che entrano nella umana natura, dal loro sviluppamento. In quanto ai principii attivi si può distinguere 1. il loro numero, 2. la potenza di ciascuno, e 3. il loro ordine o scambievole armonia. In quanto al numero abbiamo già detto che la natura umana costituita nell' ordine naturale ne ha due, l' istinto e la volontà: e che costituita nell' ordine soprannaturale ne riceve un terzo, che è la volontà stessa operante dietro una percezione soprannaturale. In quanto alla potenza intrinseca di ciascheduno, questo è data per le leggi a cui soggiace la natura e la generazione, e ho manifestato di sospettare che possa essere accresciuta o diminuita per l' influenza degli abiti virtuosi o viziosi, e in generale pel bene e pel male a cui può soggiacere l' umanità nelle tante e sì varie sue vicende. In quanto al loro ordine, l' essere questo perfetto, mediante una perfetta subordinazione dei principii attivi, costituisce la perfezione dello stato morale dell' uomo. Questi tre elementi si debbono calcolare da chi vuol conoscere la perfezione maggiore o minore della costituzione umana. Ma oltre la perfezione annessa alla costituzione dell' uomo, havvi la perfezione del suo sviluppamento: la costituzione umana è formata dai principii attivi; il suo sviluppamento dall' uso ed esercizio dei medesimi. La perfezione che può conseguire l' uomo col suo sviluppamento, cioè col suo usare de' propri principii attivi, o appartiene alla persona o appartiene alla natura. Nell' uno e nell' altro caso è una perfezione accidentale: perfezione accidentale della persona, perfezione accidentale della natura. Io chiamo perfezione della persona quella che consiste e risiede nel principio personale, cioè nel principio supremo dell' uomo, nel principio morale. All' incontro perfezione della natura io dico quella che riguarda qualsivoglia principio attivo che forma parte dell' umana natura. Conviene afferrare bene questa distinzione fra perfezionamento della persona e perfezionamento della natura. Egli è manifesto che tutte le potenze dell' uomo possono svilupparsi e perfezionarsi e che la perfezione dell' una non è già sempre condizionata alla perfezione dell' altra; ma che l' una si avvantaggia e perfeziona talora senza dell' altra, se non anche a spese dell' altra. Però ogni sviluppamento e perfezione dell' uomo, come animale, non tiene già la proporzione e la norma onde l' uomo si sviluppa e si perfeziona come essere intellettivo. Anzi non di rado avviene che chi diede opera a conservare più studiosamente la sanità e le forze corporali si trovi aver negletto la coltura delle forze dello spirito, e che gli uomini più dotti e perspicaci non sieno già sempre i più sani e i più robusti. Medesimamente lo sviluppo e perfezionamento delle forze intellettive non va già sempre innanzi d' un passo collo sviluppo e perfezionamento morale dell' uomo: e non è infrequente che chi ha fatto tesoro di più cognizioni e ha rese le sue facoltà intellettuali più perspicaci e più pronte, si trovi aver trascurato la propria moralità e non data la sufficiente coltura al principio morale che in lui risiede. Or la coltura e il perfezionamento del principio morale forma la perfezione della persona: laddove il coltivamento e sviluppo della parte intellettiva o animale dell' uomo non forma che una perfezione della natura; perocchè il principio morale è il supremo principio attivo che sia dell' uomo, in che abbiamo detto consistere la personalità. Dissi che la perfezione della persona non solo differisce dalla perfezione della natura, ma talora si trovano queste due perfezioni in vera opposizione fra di loro. Questa verità che può parere assai singolare a chi non vi ha mai riflettuto, si rende manifesta mediante un' osservazione che fa colla solita sua acutezza S. Tomaso, cioè: che fra le virtù ve ne hanno di quelle che non esigono alcuna imperfezione nella natura; ma che ve ne hanno altresì di quelle che suppongono e richiedono per esistere una qualche imperfezione della natura. Delle prime il santo Dottore reca in esempio la carità e la giustizia: e in esempio delle seconde adduce la fede e la speranza, le quali suppongono che manchi il conoscimento o il possesso di ciò che si crede e spera; come pure la penitenza e la compassione, la prima delle quali suppone essere preceduto il peccato e si forma dal dolore, la seconda nasce dalla partecipazione dei mali altrui (1). E veramente non c' è dubbio che il rammaricarsi de' propri falli, il compatire alla miseria altrui, il credere e lo sperare le cose da Dio rivelateci sulla sua parola, sono altrettanti atti morali e meritorii, i quali per ciò ci accrescono la perfezione della persona. E tuttavia come si potrebbero fare questi atti perfettivi della nostra personalità, se non ci fosse data occasione a farli da quei difetti di natura che ne formano come la materia o l' oggetto? Per quanto possa parere altrui strana questa opposizione che talora s' incontra tra il perfezionamento della persona dell' uomo e quello della sua natura, egli è però un fatto innegabile e nessun filosofo di buona fede potrà sicuramente dissimularlo. La ragione di ciò si è che la natura umana, come la natura di qualsivoglia altra cosa creata, contiene in sè medesima una necessaria ed essenziale limitazione, la quale per ciò nè pur Dio stesso avrebbe potuto fare che non ci fosse. E una tale intrinseca e naturale limitazione impedisce che la natura umana sia suscettibile di ogni ingrandimento e perfezionamento, e l' assoggetta alla surriferita ed altrettali linee di confine: dimodochè, perfezionandosi da una parte, conviene che si renda imperfetta dall' altra, e fra queste due quantità, l' una delle quali cresce mentre l' altra scema secondo una certa legge, fissa e determina un maximum di bene totale, oltre il quale non si può andare. Della quale limitazione noi abbiamo trattato più lungamente altrove (2). Ora qual è l' ordine che devono avere fra loro la perfezione della persona e quella che è semplicemente perfezione della natura? Ove si abbia a mente in che noi abbiamo fatto consistere la persona umana, non sarà difficile avvedersi che la natura deve servire alla persona e non viceversa, e che la perfezione della persona vale infinitamente di più di quella che è semplicemente perfezione di natura, anzi è la sola che costituisca il vero pregio di tutto l' uomo. Perocchè la personalità risiede nel più nobile e più alto principio che nella natura umana si trovi, cioè in quel principio volitivo che è ordinato a seguire la verità e che perciò ha un prezzo assoluto e un potere di fatto e di diritto sopra tutte le altre potenze che compongono l' uomo e che da quel supremo principio devono essere mosse e guidate. Sicchè ove ci avesse difetto nel principio supremo, tutto l' uomo sarebbe con questo disordinato e guasto: quando avendovi difetto solamente nelle potenze inferiori, niuna delle quali per sè è morale, l' uomo però non si potrebbe dire assolutamente corrotto e disordinato perocchè la sua personalità sarebbe sana, e l' IO (1) non ubbidirebbe già, ma riterrebbe la sua dignità di comandare o almeno di non servire ad altre potenze. E qui di passaggio mi si permetta osservare l' illusione e l' inganno che si fanno gli uomini per ragione di queste due distinte perfezioni della persona e della natura. Si vedono sopra la terra gli uomini divisi in due parti. Una parte è intesa a cercare la perfezione della persona; un' altra parte intesa a cercare quella perfezione che è semplicemente della natura. E gli uni e gli altri vanno in cerca di un bene di cui godere: gli uni e gli altri tentano di acquistare una grandezza, della quale possano compiacersi in sè medesimi: perocchè ogni uomo, qualunque sia, vuol sempre esser felice, grande, perfetto; vuole almeno poter esser creduto e potersi creder tale. Intanto quelli, che non si affaccendano se non a conseguire una perfezione e una grandezza che appartiene alla natura ma non alla persona, sono manifestamente ingannati: perocchè la perfezione a cui volgono l' animo e le fatiche, migliora sì alcune parti dell' uomo, ma non l' uomo stesso. Tutti quelli che si mostrano infaticabilmente industriosi e zelanti per crescere sè stessi o anche gli altri uomini di beni materiali e che non altro mirano che a poter aumentare l' agiatezza, la prosperità, le delizie della vita, o se si vuole anche tutti i progressi delle scienze e la coltura dell' intelletto, a esclusione della cultura morale pratica, e che si fermano qui nè voglion conoscere alcun altro bene dell' uomo di ordine a questi superiore; tutti costoro, dico, procacciano una perfezione all' umanità, ma che non si può dire mai giungere al miglioramento dell' uomo come persona, ma solo ad un cotal miglioramento dell' uomo come natura. Senza far dunque questa distinzione, essi si vengono lusingando di meritare giustamente il nome di filantropi, e si arrogano di essere essi soli che promuovono gli avanzamenti progressivi e l' ingrandimento della specie umana. Ma chi bene e imparzialmente considera i loro intendimenti, trova che nasce bensì un vantaggio dai loro sforzi anche alla umana personalità per un effetto indiretto della maggior perfezione della natura: effetto dal genere di uomini dei quali parliamo non inteso nè apprezzato nè preveduto. Ma che però questi uomini allora quando essi astraggono dal perfezionamento veramente morale, per non avere in vista che il solo perfezionamento materiale dell' umanità, non innalzano bastevolmente le loro intenzioni e non si propongono un fine abbastanza nobile dei loro utili travagli; cioè non tendono a rendere grande e perfetta veramente la persona umana che è quanto dire tutto l' uomo, ma sola una parte della sua natura. E che s' illudono quindi se si persuadono di lavorare alla vera grandezza e alla vera perfezione dell' uman genere. E se intesi alla perfezione della natura, questi uomini che fin qui abbiamo descritto, si facessero coscienza di non nuocere mai alla perfezione della persona umana, un preclaro beneficio farebbero colle loro oneste fatiche e studi all' umanità. Ma ove si consideri che noi parliamo di quei soli, i quali non altra perfezione conoscono possibile nell' uomo se non quella che abbiamo nominata perfezione della natura, e che quindi disconoscono o non badan punto o certo niente apprezzano la perfezione veramente morale e personale; non sarà difficile avvedersi che nei loro tentativi e nelle loro imprese la perfezione della persona dovrà venir ben sovente posta a pericolo e sacrificata alla perfezione parziale della natura, che sola si vuole e s' intende. Conciossiachè, come di sopra abbiamo detto, queste due maniere di perfezione non sempre vanno di un perfetto accordo fra loro: ma l' una può cadere in collisione coll' altra per l' intrinseca limitazione della natura umana. In tutti questi casi di collisione, colui che non ha mai afferrato il pregio della perfezione morale e che tutto ripone nella perfezione della natura, non dubiterà [di lasciare] che quella prima venga soprafatta e distrutta da una cieca avidità che lo porta verso la seconda. Nè questo è un avvenimento peregrino e raro: perocchè egli è tanto universale che costituisce anzi egli solo quella grande classificazione di tutti gli uomini in buoni e cattivi. Non esagero punto: si consideri la cosa con diligenza. Non sono pur i soli filantropi quelli che vogliono il bene della natura umana: anche gli egoisti il vogliono almeno per sè stessi. Tutti dunque gli uomini, nessuno escluso, appunto perchè sono uomini, hanno voglia del bene, tutti cercano una perfezione ed altresì un ingrandimento. Qual è dunque la differenza per la quale alcuni sono detti buoni, ed alcuni altri sono detti cattivi? Non è altra che questa, che alcuni i quali sono detti buoni, ogni qualvolta si accorgono trovarsi in collisione la perfezione della natura e la perfezione della persona, antepongono questa a quella. Dimodochè ciò che vogliono per assoluto, a qualunque costo e senza condizione alcuna, è la perfezione della persona: ciò poi che vogliono con un volere relativo e a condizione che niente soffra la dignità personale, è la perfezione della natura. Ed al contrario che alcuni, i quali sono detti cattivi, preferiscono questa a quella: sicchè ciò che vogliono per assoluto e a qualunque condizione è una qualche perfezione o bene di natura; il qual loro volere assoluto, così determinato, impedisce che possano veramente volere il bene consistente nella dignità della persona, perocchè questo bene non si può volere se non assolutamente, e chi il volesse relativamente e sotto condizioni, non lo vorrebbe punto. Quelli adunque che vogliono in primo luogo il bene della persona e subordinatamente a questo il bene della natura, sono i buoni: quelli che non vogliono il bene della persona, sebben vogliano il bene della natura, sono i cattivi. Trasportiamo questa teoria nell' ordine soprannaturale, vestiamola col linguaggio della religione: noi avremo nelle due classi sovraccennate i figliuoli di Dio e i figliuoli degli uomini, i cittadini delle due città, i figli della luce e delle tenebre. La divina scrittura, parlando dei figliuoli degli uomini, fa nascer d' essi i giganti cui descrive come uomini potenti, uomini avidi di gloria, intraprendenti, fondatori di città, conquistatori, re (1). Or poi di essi, che pure avevano tante doti di natura, tuttavia dice che non ha eletti questi il Signore, ma li ha riprovati (2). Qui veggiamo da una parte uomini, i quali tendevano certamente ad una cotal loro perfezione, che risplendevano sopra gli altri per coraggio, intraprendenza, forza corporale, avvedimento e molti altri pregi; e dall' altra che tuttavia sono riprovati dall' Eterno. Ciò nasceva perchè la perfezione cui questi tendevano di conseguire e di promuovere non era la perfezione della persona, ma solo la perfezione di alcune parti della natura, la quale non si può dire semplicemente e assolutamente perfezione dell' uomo. Ora questa divisione grande del genere umano, queste due stirpi originali, dette di Dio e degli uomini, non cessarono mai, ma si perpetuarono e si perpetuano, sviluppandosi l' una accanto all' altra, senza venir meno sino alla fine dei secoli. E i due sistemi, tanto in teoria come in pratica, seguiti da queste due gran fazioni dell' umanità sono così opposti fra loro, così irreconciliabili, così esclusivi, che i loro seguaci non possono mai aver pace insieme: ed indi la perpetua lotta, che sempre si sc“rse e che non può mai cessare, de' malvagi e de' buoni (3). Veduto quale sia l' ordine della perfezione della persona e della perfezione della natura, resta a vedere in che modo e con che legge di relazione fra lor si sarebbero queste due perfezioni sviluppate e conseguite dagli uomini innocenti. Certo è che fino che gli uomini fossero rimasti innocenti, nessuno di essi, di spontaneo moto, avrebbe cercato la perfezione della natura a scapito della perfezione della persona; e che per ciò queste due perfezioni non si sarebbero trovate, quanto a sè, in lotta fra loro, ma con bella armonia sarebbero procedute. Nè meno si vede cagione (senza che fosse intervenuta una legge positiva), per la quale l' uomo fosse addotto in necessità di coltivare la perfezione della persona a spese e scapito della perfezione della natura, e può fors' anco [dirsi] che questa cagione per sè non sarebbe nata giammai (1). Tuttavia non è ripugnante allo stato di uomini innocenti che questi in grado diverso avessero dato opera all' una e all' altra perfezione e che alcuni si fossero dati più a sviluppare e perfezionare le parti della natura e altri si fossero applicati più di proposito a conseguire il pregio risiedente nella persona: senza però che i primi in perfezionando la natura guastassero il pregio della dignità personale; nè che i secondi coll' amore e collo studio tutto messo in aumento di questo pregio guastassero e corrompessero le altre parti della natura. In tanto però quelli che si fossero dati più di proposito al perfezionamento della persona, avrebbero fatto più degli altri tesoro di perfezione morale, di meriti e di virtù, e quindi avrebbero fatto più celere il loro viaggio verso alla somma perfezione umana a cui tutti pure eran volti. Di che s' intende come gli uomini, ancorchè innocenti tutti, pure si sarebbero distinti infra loro anche per li diversi gradi del merito morale, come pure per li diversi gradi dello sviluppamento delle altre parti della natura. E non è già che quelli, i quali avessero atteso più a lungo degli altri alla perfezione della natura, non avessero anche in ciò facendo raccolto del merito morale e con esso arrecato un poco di perfezione alla propria persona. Perocchè non poteva loro mancare la temperanza, la rettitudine e la giustizia, come nè pure una retta intenzione di obbedienza alla maestà del Creatore. Ma questo merito sarebbe lor venuto per indiretto e avrebbe illustrata la loro persona quasi come lume riflesso; quando quei primi che si fossero dati a contemplare le cose della sapienza, della virtù e la divina natura per collocare in essa direttamente tutto il loro amore, si dovevano guadagnare un merito diretto e molto più sublime e di un passo più celere giungere sicuramente all' altezza di tutta la personale perfezione. Or qui il pensiero naturalmente ci porta a dimandare a noi stessi: in che ordine gli oggetti si sarebbero offerti all' attenzione umana e le potenze dell' uomo si sarebbero sviluppate e perfezionate? E se, considerando come l' uomo è costituito, a lui fosse stato proprio e connaturale di dar tosto mano a perfezionare direttamente la propria personalità, o anzi se dovea prima prendere a sviluppare e perfezionare le altre parti di sua natura; e solo in fine, accorgendosi e quasi scoprendo in sè medesimo più chiaramente la personale dignità, si fosse volto a lavorare intorno a questa e occupatosi a perfezionarla? La divina Scittura, non meno che l' esame della costituzione dell' uomo, dà per risposta che sarebbe succeduto lo sviluppo diretto della persona in ultimo, e dopo essersi l' uomo alquanto occupato nello sviluppamento e perfezionamento delle altre parti della sua natura. Imperciocchè in quanto a quello che ci dice circa una tale questione l' esame della umana costituzione, vedesi manifestamente che le potenze più pronte a muoversi nell' uomo e le prime a svilupparsi sono quelle della sensibilità animale. Le quali si trovano pur in contatto, per così dire, coi loro oggetti, che è tutta la natura materiale la quale circonda l' uomo appena che esiste, e lo stimola con infinite sensazioni a porre in esercizio tutti i suoi sensi. Sicchè l' attenzione sua è tratta primieramente fuori di sè e volta all' universo materiale che le sta presente; e non può sicuramente pensare a se stesso, ai suoi atti interni, all' anima sua che non cade punto sotto i suoi sensi, se non in un secondo tempo e con un atto di riflessione, quando di ciò gli venga data alcuna occasione, dopo aver già fatto uso de' sensi suoi e sviluppate le sue facoltà anche intellettive sulla materia che gli fu posta e messa innanzi dall' universo materiale. E questo è quello che risulta ancora, come dicevo, dalla divina Scrittura. Perocchè Iddio, dopo creati gli uomini, non disse già loro direttamente: coltivate la vostra personalità, linguaggio che non avrebbero potuto intendere; ma disse: « Crescete e moltiplicatevi e riempite di voi la terra e sottomettetevela e dominate sui pesci del mare e sui volatili del cielo e su tutti gli animali che si muovono sopra la terra« (1) ». Nelle quali parole è descritto lo sviluppamento e perfezionamento non ancora della persona, ma della natura umana. E dice ancora la Scrittura medesima che il Signore Iddio, dopo aver fatto l' uomo, il prese e il pose nel giardino di piacere, perchè lo lavorasse e lo custodisse (2). Dove pure si vede che l' opera che viene immediatamente assegnata all' attività umana in quei primi momenti non fu direttamente lo studio della sapienza e la contemplazione dell' essenza divina, ma fu il lavoro materiale dell' agricoltura, la formazione e incremento della umana società e gli usi tutti che la società umana cavar potesse dall' universo materiale, dai bruti, dalle piante e dai minerali, in aumento della perfezione naturale dell' uomo, il quale veniva con ciò costituito signore e imperante su tutta la natura. All' opposto l' opera molto più grande e più sublime del perfezionamento personale prendeva il suo principio nell' essere servo obbediente di Dio. E col progresso del tempo Iddio aveva lasciato all' uomo stesso, nel quale aveva rinserrato la sua imagine e similitudine e fornitolo di tutte le facoltà più nobili, a scoprire in sè e quasi dissotterrare un universo più grande del materiale e un giardino da coltivare più vago dell' Eden; aveva lasciato a lui di rinvenire quasi direbbesi a caso, la via della celeste contemplazione, scoperta la quale, sarebbe allora cominciato in lui quell' arbitrio, di cui parlammo, di dedicare sè stesso o più direttamente al lavoro del perfezionamento della persona, o di continuarsi come prima nella occupazione rivolta al perfezionamento solo della natura. Dissi però che a questo perfezionamento della persona fin da principio Iddio non aveva lasciato di dargli una indiretta spinta. Poichè dopo di avergli donati in cibo tutti i vegetabili che produceva la terra, soggiunse però dandogli un precetto di obbedienza: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il chiama all' obbedienza, la quale perfezionare doveva appunto la sua persona con un merito morale. Ed è degno di osservazione che questa perfezione o merito personale che Iddio intendeva di promuovere nell' uomo con quel precetto, doveva promuoversi a scapito o certo a mortificazione della natura, perocchè la natura veniva impedita dal dilettarsi e nutricarsi di quel frutto bello a vedersi e soave a mangiarsi, il quale eccitava in essa natura un appetito di sè che domandava di essere soddisfatto. Ma per la limitazione, che abbiamo accennata, dell' essere creato, quella perfezione personale che procedeva dall' obbedienza di un precetto positivo, non poteva in alcun modo acquistarsi se non a condizione che la natura ne rimanesse rattristata e cassa nelle sue voglie. Egli è dunque manifesto che l' umanità prima avrebbe atteso alla perfezione della natura direttamente e solo indirettamente alla perfezione della persona: ma che col progresso del tempo l' umanità sarebbe volta e applicata direttamente alla perfezione della persona; dal qual punto avrebbe fatti rapidissimi progredimenti verso l' altissimo suo fine. E poichè la ragione per la quale non avrebbe atteso a principio direttamente a coltivare la perfezione della persona, sarebbe stata perchè l' attenzione sua e con questa la sua volontà e le sue forze rimanevansi occupate degli oggetti esterni sottoposti per natura alla sua sensibilità e alla sua contemplazione, a cui la cognizione di sè stesso sarebbe succeduta poscia quasi come una scoperta; per ciò è da credere che i figliuoli dei primi uomini, dopo fatta già questa scoperta, sarebbero stati più direttamente educati e volti al perfezionamento personale, approfittando essi in tal modo del progresso fatto dai loro padri. Il che però non avrebbe tolto in nessun d' essi l' arbitrio di attendere a uno o ad altro ramo, ad una o ad altra maniera di perfezione, secondo che fosse più loro piaciuto; rimanendo in tal modo le differenze fra gli uomini de' meriti e delle specie di perfezione o pregi acquistati. Distinta adunque la perfezione della persona da quella che non è se non perfezione della natura, e trovato che nello stato innocente lo sviluppo e ingrandimento dell' una si verrebbe facendo a lato dell' altra, più o meno, secondo l' arbitrio della umana volontà, nasce la dimanda: se queste due perfezioni sieno di tale indole da poter crescere di lor natura sempre più indefinitamente. In quanto alla perfezione della natura io credo che si possa rispondere affermativamente. E del credere io alla indefinita perfettibilità della natura, la ragione è questa. Tale perfettibilità si estende a sottomettere tutto il mondo materiale all' uomo, cioè a trar da lui e dalle cose tutte in lui comprese gli usi tutti che possono prestare ai bisogni, ai piaceri, e ad ogni maniera di servigi che l' uomo possa da esse bramare. Di più consiste questa perfettibilità a riempire tutta la terra di uomini quanti ne può capire, e di questi uomini come di una sola famiglia concordissimi fra di sè, formare la più pacifica e virtuosa società che possa essere, dalla quale nascano agli individui tutti gli agi e i piaceri sociali. Consiste ancora nell' acquistare una perfetta cognizione di tutte le cose create di modo che ciascun degli uomini abbia ricca la mente di una scienza perfetta e appagata quella curiosità che li porta a bramare di conoscere l' indole delle cose quant' ella si stenda. Or se dei due primi punti non può sicuramente affermarsi che essi presentino all' umanità un campo tutto indefinibile a percorrere, benchè non vi ha dubbio che il presentino sì fattamente vasto che l' occhio umano non può fissarli confini; il terzo punto però, cioè quello che riguarda il sapere, pare che offerisca all' umanità un viaggio al tutto indefinitamente lungo. Perocchè la natura creata non solo è vastissima e profondissima materia al sapere dell' uomo, ma può dirsi a ragione che ella non ha fondo, conciossiachè si avvolge tutta di infiniti, e il vestigio della divinità che l' ha creata ove che sia risplende per modo che ogni pensamento umano vi si perde e smarrisce senza trovarne l' uscita: nè appieno si può giammai conoscere la creatura, se appieno non si conosce quel Creatore che non solo l' ha creata una volta, ma che di continuo la sostiene e la crea, e, per così dire, la nutrica di sè medesimo. Basta domandarne ai matematici che pure hanno alle mani la sola materia più esteriore e superficiale della natura, quale è la quantità , e pure a ogni passo si offre loro incontro quella terribile idea dell' infinito che li sgomenta e li fa trovar fuori di tutti i limiti delle cose reali. Che dirò della fisica, della fisiologia e della patologia? Nelle quali scienze, ove non si considerino alla superfice, ma con occhio profondo e metafisico, mirasi il volto della natura tanto maestoso, tanto pauroso e i suoi intendimenti così segreti, e le sue leggi così auguste e il suo principio un mistero così inesplicabile che pare assai più proporzionato all' intelligenza di una deità che a quella dell' uomo. Quanto poi al perfezionamento personale, si può egli considerare o nell' ordine della sola natura, o anco nell' ordine della grazia. Nell' ordine della natura questo perfezionamento personale io lo tengo di un progresso, al tutto indefinito, sotto ogni aspetto in cui si considera l' atto morale. L' atto morale, come ho mostrato nel libro dei Principii della Scienza Morale (1), risulta da due elementi, la legge e la volontà; e migliore è l' atto morale quanto la legge è più grave, e quanto è più ferma l' adesione della volontà. Or sia da parte della legge, sia da parte dell' adesione della volontà, la perfettibilità morale è indefinita. E veramente la legge non nasce che dalla cognizione dell' oggetto verso il quale si pratica l' atto morale. Or gli oggetti verso i quali si praticano gli atti morali sono Iddio e l' uomo: onde le due leggi supreme della morale imperanti l' amor di Dio e degli uomini. Ma la cognizione di Dio nell' ordine naturale può sempre mai crescere indefinitamente, non solo perchè Iddio, infinito di natura, è per sè inesausto fonte all' uomo di cognizione; ma perchè l' uomo colle forze naturali, sebbene possa crescere sempre nel conoscimento di Dio, tuttavia non può attinger mai tanto di questo conoscimento che appieno lo soddisfaccia e lo bˆi: vi ha dunque una gradazione indefinita nella cognizione che l' uomo può naturalmente acquistare della divina natura: ciò trae seco che la legge di onorare Iddio si renda per l' uomo sempre indefinitamente più grave e tale che egli possa esercitare verso Dio un maggior grado di amore e di riverenza, il che aggiunge all' atto suo di continuo un maggior grado di merito. Dalla parte poi dell' adesione della volontà non si vede modo parimenti di assegnare alcun termine al crescimento d' amore della medesima. Perocchè non essendo ella mai appieno soddisfatta e sazia del possesso di Dio che naturalmente potesse avere, non c' è ragione che ella mai si fermasse nel suo sforzo di vie più con vivo amore possederlo. Senza chè l' umana natura e l' umana volontà ha ella stessa in sè qualche cosa d' immenso e d' indefinito; nè mai accade che noi possiamo assegnare un grado di affetto tanto grande, che un altro maggiore non si possa pensare possibile di cader nell' uomo. Il perchè pare a non dubitarsi che la perfettibilità personale dell' umana natura sia pur essa suscettibile di un progresso al tutto indefinito, il quale non potrebbe interrompersi se non per morte. E il medesimo avviene tuttavia all' umanità; sebbene vestita della grazia del Riparatore. Perocchè fino a tanto che l' uomo vive, l' uomo può sempre accumulare un numero maggiore di meriti e crescere in perfezione di virtù. In quanto all' ordine soprannaturale noi ragioneremo nell' articolo seguente. La differenza fra gli aumenti successivi della grazia nello stato presente dell' umanità e nello stato primitivo, consiste in questo che il crescere della grazia nell' umanità presente non può giammai essere tale che ci rechi senza morte alla visione beatifica di Dio: laddove nello stato primitivo non v' aveva morte, e convenia passare allo stato di gloria per successivi incrementi della grazia. La ragione per la quale l' uomo non può ora congiungersi pienamente al Sommo Bene se non intervenendo la morte, è fondata nella natura della grazia del Redentore: la quale, come abbiamo detto, non è affissa alla natura, ma alla persona; e non tutte le parti della natura vengono perciò da essa medicate e redente, ma la parte animale rimansi sempre disordinata e sempre perciò degna di essere data preda alla morte. E la visione piena di Dio non istà nell' uomo con tale disordine; sicchè l' uomo non è atto a veder Dio fino che veste la carne del peccato. Perocchè quando dico uomo, dico prima un animale, e poscia gli aggiungo l' intelligenza e la grazia quasi su quel primo fondamento: onde sarebbe assurdo il dire che un animale corrotto potesse esser levato alla piena partecipazione e visione della divinità. Ma così non era degli uomini innocenti: la loro natura perfetta, la grazia affissa alla natura, la parte animale dell' uomo non ritrosa a seguire a suo modo l' altezza dell' intelletto e della volontà, la quale teneva dietro alla grazia fedelissima. Allora tutto l' uomo congiungevasi a Dio per grazia, nè egli aveva nulla a distruggere in sè medesimo, ma tutto era degno di vedere svelatamente la faccia di Dio. Egli è dunque a vedere come sarebbe probabilmente seguito questo discuoprimento graduato del volto di Dio all' uomo, col quale questo sarebbe stato pienamente inebbriato di beatitudine. Gli aumenti della grazia avrebbero tenuto una cotal proporzione cogli aumenti dei meriti morali. Ora il corso della crescente perfezione morale abbiam veduto esser doppio, cioè l' uomo avrebbe cresciuto di perfezione morale e di meriti tanto per la via di una più chiara notizia che avrebbe acquistato di Dio, oggetto principale de' suoi atti morali, come per la maggior forza dell' adesione della volontà nell' atto buono e morale. A questo doppio progresso di moralità e di merito corrisponder dovea una doppia successione o serie dei gradi della grazia. Si rifletta bene che il merito morale può aversi grande assai anche con una tenue o almeno indistinta cognizione dell' oggetto dell' atto morale: anzi egli avviene ben sovente che con meno cognizioni vada congiunta una maggiore bontà morale. Avviene ancora sovente nello stato presente dell' umanità che il buon volere e quindi il merito morale si congiunga con un errore della mente e coll' ignoranza: e quante volte non avviene che una coscienza erronea dia occasione di acquistare un merito? Certo colui, il quale fa un penoso sacrifizio, credendolo a Dio gradito e in sè stesso virtuoso, non perde il suo merito, eziandio che quell' opera riguardata per sè stessa non avesse alcun pregio, o fosse inopportuna e fuori di luogo. Nella fede pure v' ha sempre un' ignoranza ed oscurità: e di questa ignoranza appunto nasce in gran parte il merito di essa fede; sicchè colui, il quale non ha bisogno d' altro argomento a credere che l' autorità della divina rivelazione, va innanzi, per merito di fede, a quell' altro che viene sostenendo la sua credenza con degli argomenti tratti dalla ragione umana, ed ha bisogno di ricorrere a questi per rimuovere da sè ogni dubitazione. Nello stesso tempo però che si dà questa specie di merito da desumersi e misurarsi dal grado di energia della volontà buona, indipendentemente dal grado della cognizione o anche in proporzione opposta a questa; si dà anche un' altra specie di merito che tiene proporzione col grado di luce e di cognizione di cui gode la mente contemplante, dietro al quale grado di lume tende direttamente la buona volontà che insieme colla chiarezza di quell' oggetto s' innalza e si sublima. Or all' una e all' altra di queste due specie di merito, come dicevamo, corrisponde una grazia, e nelle due specie al grado del merito il grado d' aumento della grazia. La differente natura di queste due grazie apparisce ove si consideri che quella, la quale ha relazione al merito della volontà senza che abbia rispetto alla perfezione del conoscimento, è più positiva, per così dire e ha più ragione di premio: quando l' altra che s' aumenta proporzionalmente a quel merito che cresce di pari passo colla cognizione, procede per una legge, quasi direbbesi, più naturale e men dipende da un positivo atto di Dio che rimunera o certo che si compiace dell' opera buona della sua creatura. In ragione d' esempio: a colui che contempla la natura divina di una contemplazione amorosa per volontà di via più onorarla e servirla, viene crescendo di mano in mano non meno il lume che l' affetto con essa la grazia. Ma questo accrescimento pare che sia un cotal effetto naturale della sua contemplazione medesima; pare che il conoscere gli cresca unicamente per la virtù del contemplare, e l' affezionarsi gli cresca unicamente per la virtù del conoscere: benchè infatti la grazia si associ all' atto del contemplare e dell' amare, ed ella stessa il sollevi in un ordine soprannaturale e il faccia crescere di più e più lume e calore. All' opposto la virtù di quello che merita piuttosto anzi coll' efficacia della volontà che coll' aiuto del conoscimento, la virtù del semplice fedele il quale pochissimo conoscendo delle cose divine, pure mantiene la giustizia e cerca ovecchessia di fare ogni cosa ch' egli creda dover piacere a Dio; questa virtù non pare che produca di sè stessa aumento di grazia, per modo che quell' uomo virtuoso ne rimanga più e più abbellito e perfezionato: ma l' aumento della grazia che quest' uomo riceve par che sia più un dono spontaneo di Dio il quale vuol premiare con essa la fedeltà che gli piace di quell' uomo semplice cui distingue perciò e decora coi doni suoi. Tuttavia, chi ben considera, anche gli aumenti di questa grazia si legano colla natura degli atti virtuosi di quell' uomo. E come questi atti traggono più il loro merito dalla volontà che dall' intelletto, così anche la grazia che si accresce a quest' uomo è diretta più a crescere la perfezione della sua volontà che le notizie del suo intelletto. Di che si può fermare il carattere che segna e distingue non meno quei due meriti che queste due grazie; cioè il primo merito trae dall' aumentata luce dell' intelletto, e la grazia che a questo consegue è perfettiva del lume intellettivo; il secondo merito trae più dall' energia della volontà, e la grazia che a questo consegue è più perfettiva della volontà. E così dicendo, non intendo già che manchi nella prima intieramente la volontà, e nella seconda intieramente l' intelletto; i quali due elementi dell' azione umana e morale non possono mai mancare: ma intendo dire che nel primo caso domina più l' intelletto e i gradi di merito si computano secondo i gradi di luce ch' egli acquista; nel secondo caso domina più la volontà e i gradi di merito si computano secondo i gradi dell' energia che questa acquista. Il che nulla vieta che la grazia, che illumina l' intelletto, non si rifletta altresì a corroborare la volontà; nè che la grazia, che da prima corrobora la volontà, non abbia virtù di schiarire poscia l' intelletto medesimo. Ora nello stato degli uomini innocenti, io mi penso che per queste vie dell' intelletto e della volontà gli uomini pervenissero al pieno possesso di Dio; e alcuni di essi per l' una via, altri per l' altra prima vi pervenissero. Ciò è consentaneo con quello che abbiamo detto dei due modi nei quali l' uomo può vedere Iddio, cioè in forma di cognizione e di amore. Perocchè così io penso meco medesimo che crescendo nell' uomo quella grazia, che mostra Iddio all' intelletto, questa per successivi aumenti potea pervenire fino a mostrare sì chiaramente Iddio fino a che l' uomo vedesse di Dio lo stesso Verbo, che è quanto dire la stessa sussistente divina conoscibilità: e che crescendo nell' uomo quella grazia che raccende l' amore della sua volontà, ella potesse pervenire a segno sì che l' uomo vedesse in questo amore lo stesso Spirito Santo, ossia la sussistente divina amabilità. E di vero ho già dimostrato che quel conoscimento di Dio che l' uomo ha per grazia, è un principio della visione di Dio (2), il cui termine è il Verbo: e quell' amore onde l' uomo per grazia ama Iddio è un principio di quel possesso il cui termine è lo Spirito Santo. E ora egli è manifesto che giunto l' uomo o alla visione del Verbo o al possedimento dello Spirito, egli è pervenuto con questo solo alla visione beatifica della divina essenza; conciossiachè nulla si pare che distingua le persone dall' essenza nella deità. Di che doveano poscia conseguirne a una tal visione tutti quelli effetti che di lei son proprii, cioè a dire la beatificazione dell' intera umanità, la quiete del desiderio nel suo termine, e dalla pienezza riboccante di gloria onde ebbrio è lo spirito, un travasamento anche nelle inferiori potenze, e quella cotale spiritualizzazione, di cui parla l' Apostolo, del corpo stesso (3). Il che tutto però doveva avvenire, secondo che a me pare, di una maniera oltremodo soave e appieno conveniente alla costituzione della umana natura. Noi abbiamo descritto il modo del conversar d' Iddio colle sue creature innocenti, cioè vestito di alcune forme sensibili e forse non diverse dalle umane. Dal Creatore così circoscritto e reso accessibile agli uomini di recente usciti dalle sue mani, i quali non avrebbero altramente potuto sostenerne la maestà, ricevevan essi gli ammaestramenti e i precetti e i consigli che loro abbisognavano. Ma non solo le vocali parole del Creatore risonavano ai loro orecchi, e per essi nelle menti e nei cuori; ma egli cadeva ancora sotto gli altri loro sensi, conversando con esso lui come con un Signore simile a loro. Da tutte queste sensazioni che ricevevano immediatamente dal Creatore velato e atteggiato alla loro capacità, usciva la grazia, che per la via dei sensi entrava nelle loro anime e le condecorava, in un modo non dissimile a quello onde la grazia esce da quei segni sensibili che nella legge di Cristo si chiamano Sacramenti. E per questa grazia poi cresceva in essi la percezione di Dio medesimo, e quel loro Creatore conversante in forma da cadere sotto i loro sensi, sempre più rendevasi sensibile e visibile al loro intendimento: sicchè quei veli sensibili onde il Signore si avvolgeva, si rendevano, per così dire, sempre men densi e lasciavano ognor più penetrare la vista spirituale dell' uomo a percepire la faccia di Dio, cioè la divina essenza. Certo è che anche la umanità del nostro Signore Gesù Cristo tramandava di sè certi cotali raggi divini, sicchè per essa si potea travedere la sua divina natura. Per questo egli diceva a Filippo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (1) ». E si faceva maraviglia di non essere ancora conosciuto: « Io sono con voi da tanto tempo, e ancora non mi avete conosciuto?« (2) ». Perocchè le parole di Cristo, l' aspetto e i modi suoi avrebbero dovuto tutti insieme mostrare agli uomini, se ben disposti fossero stati, la sua divinità. Il Creatore adunque conversante in forme sensibili colle sue creature innocenti, avrebbe, in un somigliante modo, cioè per via di parole e di sensazioni, secondate dagli interiori doni di grazia, più e più manifestato e rivelato sè stesso agli uomini, fino a tale che questi avrebbero percepito coll' intendimento la stessa divina essenza; nè, mentre l' intendimento si levava e afforzava a ciò, sarebbero periti i loro sensi, i quali pure dall' oggetto divino sarebbero stati pasciuti, fortificati, perfezionati. E perchè l' uomo fosse preservato da ogni maniera di separamento mentre succedeva nel suo intelletto questo successivo aumento di divino lume e nei sensi esterni questo avvaloramento e perfezionamento, doveva anche nell' interno del corpo umano ricevere aiuto e nutrizione vitale; il che gli avveniva col mangiare il frutto dell' albero della vita, che era anch' esso un sacramento di quella età, dando all' uomo non pure un cibo di corporea sostanza, ma insieme con essa un dono soprannaturale d' incorruzione, una grazia e una virtù speciale (3). Il perchè gli uomini innocenti dovevano essere forniti di quella perfezione, della quale la mente di Platone trovò convenire a delle divinità minori. Perocchè avendo voluto quel filosofo ideare degli esseri forniti di corpo e di anima, i quali fossero altrettanti dei, cioè a dire esseri perfetti, attribuì loro l' immortalità e introdusse il sommo Dio a parlare agli dei da lui formati, in questo modo: Voi che siete nati allo stato di deità, or vedete di che grandi opere io sia padre o facitore. Queste opere sono indissolubili per cenno mio; sebbene tutto ciò che è colligato, di sua natura possa disciogliersi. Ma egli non è punto buon consiglio disciogliere checchè è colligato con ragione e con sapienza. Pure voi, sebbene nati immortali, tuttavia non potete essere anche indissolubili. Ma nulladimeno non verrete disciolti nè i fati della morte vi uccideranno: chè i fati non saranno più vigorosi del mio consiglio, il quale è un vincolo più forte a mantenervi perpetuamente che non siano que' fati, coi quali foste colligati allorquando venivate generati (1). Sicchè il vigore che lo faceva immortale era dato al corpo dall' albero della vita; e le parole e sensazioni che riceveva da Dio erano segni che a lui servivano come d' altrettanti mezzi ed aiuti co' quali pervenire alla visione beatifica di Dio medesimo. Ciò che abbiamo detto mostra quale era e doveva essere lo stato morale degli uomini innocenti secondo le cristiane tradizioni e le tradizioni de' popoli. Di più quello stato in cui abbiamo contemplata l' umanità, non è solamente dato dalle tradizioni, ma egli è altresì un ideale di perfezione che dalla natura dell' uomo viene suggerito e proposto alla mente contemplante. La quale mente, tosto che ha un concetto, non può a meno di discernere in esso le parti imperfette e le perfette e imaginare e aggiungere tutto ciò che gli manca: e quel concetto recato così all' ultima perfezione ideale di lui propria è dilettevole spettacolo alla stessa mente contemplatrice. Solamente v' ha questa differenza fra l' ideale stato dell' uomo a cui la mente cerca di sollevarsi, e quello che ci narra la cristiana verità, che la prima colla sua contemplazione non eccede i confini dell' essere ideale , quando la seconda ci parla di uno stato che appartiene all' essere reale : cioè la seconda è una storia che racconta realizzato quello che il pensiero non poteva venir ideando che come possibile. Veduta pertanto l' ideale perfezione dell' umanità e il suo realizzamento nella storia de' primi uomini creati da Dio innocenti in mezzo a questo universo sensibile di cui erano costituiti regi, rimane di abbassare ora lo sguardo a considerare lo stato della umanità presente, a rilevare se con quello che dovrebbe essere consente quello che è. Dico quello che dovrebbe essere , perocchè, supponendo accordato che l' uomo e il mondo sieno l' opera di Dio, egli è manifesto che non si dovrebbe trovarvi difetto alcuno, ma che in essa opera tutto dovrebbe essere perfettamente ordinato, e l' uomo e le altre nature di tale guisa fatte e disposte che nulla si potesse pensare di meglio; giacchè egli è evidente che un Essere sapientissimo ed ottimo che possa fare tutto quello che concepisce, non deve produrre se non cosa la più perfetta che cada in pensiero di chicchessia. Altramente se l' operazione di Dio non producesse un' opera conforme all' ideale della perfezione, egli è manifesto che un altro artefice potrebbe concepire più nobilmente ed eseguire l' opera dietro una più eccellente idea di quello che facesse Iddio: ciò che ripugna, e il tipo della perfezione non poteva sicuramente mancare alla mente divina, nè la divina volontà aver altra norma di operare che quel tipo, a realizzare il quale non trovava ostacolo alcuno, attesa la somma potenza dell' operante. Ora se l' opera di Dio non può essere altro che un realizzamento dell' ideale perfezione, e se l' uomo e le altre cose tutte sono veramente opere di Dio, come ammettono tutti quelli a' quali noi rivolgiamo il discorso; noi dovremmo, isguardando l' umanità e l' universo che la circonda, trovarla fornita al tutto della perfezione che abbiamo accennata descritta come a lei propria. Ma è ella dunque in uno stato così desiderabile l' umana specie? Vediamolo brevemente. Che la umanità sotto il peso di gravi mali e di molteplici sofferenze, non è cosa che esiga troppe parole per essere provata. L' esperienza della vita che ciascun mortale ha preso in sè medesimo e quella che ha potuto cavare dallo spettacolo de' suoi simili, è una prova troppo dura e troppo convincente a riconoscere che dalle lagrime della culla al sospiro della morte quaggiù l' uomo non varca che un mare di guai, di minore angoscia se breve è il viaggio; benchè neppure è dato all' uomo il sollievo della brevità della vita, che per legge di natura ama la vita e con essa la prolungazione delle sue fluttuazioni e de' suoi patimenti. Quando si considera gli ampi voti del cuore umano e quella felicità indefinita e immortale a cui aspira continuamente l' anima dell' uomo, e si paragona coll' immensità di questi desideri nati e contemperati coll' uomo l' estrema limitazione di quest' essere medesimo che non può mai realizzare de' suoi voti nè anco la minima parte, ma li trova tutti contrariati, illusi, scherniti, e non ha in sua mano nè il fuggire i mali, nè il procacciarsi nè anco i beni più frivoli, che pur dipendono dagli accidenti; egli par sovente giuoco maligno, un trastullo crudele della natura stessa, acconciamente chiamata da un savio del paganesimo matrigna e non madre, la quale con una mano gli sparga in cuore immensi desiderii e speranze, coll' altra percuotendolo delle più inattese sciagure, produca lo spettacolo di un essere fatto per una somma felicità che lotta indarno con una somma sciagura. Nè notizie più confortanti noi raccogliamo circa lo stato della umanità se la consideriamo sotto l' aspetto morale. Noi abbiamo parlato della corruzione morale congenita con noi nella prima parte di quest' opera, e abbiamo descritto lo stato dell' umanità sotto questo lato considerata seguendo la scorta dell' osservazione (1). Aggiungeremo sole poche parole a conferma di ciò che ivi abbiamo detto. In ogni città, dice Bayle, vi è patibolo e spedale: ecco in breve tutta la umanità. Gli uomini riflessivi di qualunque secolo sono stati altamente colpiti al vedere quell' inclinazione al male che nasce coll' uomo, che opera in lui prima ancora dell' uso della ragione, che infaticabilmente lo aggrava e precipita a tutti i disordini della immoralità. Cicerone non finisce di stupirne e ne fa in più luoghi la descrizione tutta al vero: [...OMISSIS...] . Tale è il fatto dello stato dell' uomo: l' uomo ha in sè stesso e nelle cose che lo circondano una fonte inesausta di mali fisici e morali. Or questo fatto innegabile, veduto sempre, confessato sempre e che ha parlato sempre altamente nella coscienza dell' uman genere, di tutti i popoli e di tutte le sètte, ha pur sempre anco prodotto la più grande maraviglia nei filosofi di buona fede, privi della rivelazione, i quali hanno confessato di trovare in esso qualche cosa di solenne, di portentoso, di inesplicabile. La ragione di questa maraviglia, e di questa somma difficoltà in assegnare una conveniente e verosimile spiegazione di quel fatto, sta in quelle dimande o questioni singolari che un tal fatto offre alla mente di chi lo considera e che sono principalmente le seguenti: La natura in tutte le opere sue si mostra sempre consentanea con sè medesima, e piena di sapienza e di bontà. Or come nel solo uomo, che pur sembra il suo capo d' opera, può esser mancata a sè stessa? Forse nella produzione dell' uomo fece ella uno sforzo che vinse le sue proprie forze? Perocchè altramente come si spiega la contraddizione che racchiude la natura umana? Da una parte quest' uomo appena entra nel mondo delle cose reali, ignora sè stesso, è impotente, pieno di bisogni, sempre in cimento di morire senza conoscere d' esser vissuto: egli campa per accidente, e ogni passo che fa, ogni respiro con cui assorbe l' aure della vita, è anco un passo che lo avvicina alla morte, e un respiro di meno che gli rimane: con grandi fatiche e fra patimenti allevato e suoi ed altrui, egli non esiste quasi per far altro che per cercare i mezzi di vivere, giacchè alla massima parte del genere umano non sopravanza tempo se non per spenderlo nel sudore della sua fronte; senonchè questo tempo stesso viene sovente rapito da tante specie d' infermità che in varie e crudeli guise straziano i corpi già destinati al supplizio della morte. E son pochi i morbi che distemprano e dilacerano i corpi, che gli uomini non vi aggiungano la propria crudeltà contro sè stessi: le divisioni e discordie, innalzandosi e gonfiandosi gli uni sopra gli altri, e rincrudelendo di più maniere, di che le guerre, le schiavitù, le tirannidi. E di fianco a questo stato delle cose sta pure nell' uomo, inseritovi da natura, un focosissimo ardore della libertà, l' anelito dell' amore, il bisogno indeclinabile della felicità, un sospiro alla vita, una vita incorrotta e immortale. Quella natura che ha messo in noi questi indettamenti, or come ci ha poi fatti così infelici? Che maligno diletto potea rallegrarla a donarci sì alti e sì implacabili desiderii, i quali dovesser poi esser tutti frustrati? O è ella una stessa autrice colei che parla nel fondo dell' uomo di grandezza, di pace e di beatitudine; e colei che ha poi formato l' uomo stesso pieno di abbiezione, di inquietezza e di miseria? O pure che l' uomo tragga l' origine non da un solo principio, ma da due opposti, il principio del bene e quello del male? Egli è vero che anche gli animali sono soggetti al dolore: ma privi come sono d' intelligenza essi nè conoscono, nè posson bramare una felicità che si stenda nella eternità e che si sollevi alla dignità morale. Il loro dolore come il loro piacere sono de' fenomeni inerenti alla loro natura e che passan con essa. Nel solo uomo tutto mostra dovervi essere uno spirito immortale ordinato a una spirituale e immortale felicità: nel solo uomo può aver luogo la deformità morale: e solo in esso la morte è una contraddizione col voto e coll' indole della sua natura. Chi adunque può giustificare la natura? E se la natura non si giustifica, se si ammette in essa stoltezza e malignità, non vi ha dunque più una intelligenza divina che presiede all' universo? Ed ella stessa che è questa natura tanto sapiente in ogni fil d' erba e ogni vile insetto, e tanto stolta nell' uomo? O chi la limita nel suo sapere, e nel suo volere, e nella sua possa? - Queste interrogazioni resero pensosa tutta l' antichità e fecero la disperazione di tutte le scuole de' filosofi. Nè meno i mali dell' uomo, ove si considerino senza il lume della rivelazione, sono difficili a conciliarsi colla giustizia di Dio: perocchè sotto un Dio giusto, come dice un Padre della Chiesa, nessuno innocente può essere misero. Or dunque come è misero il bambino prima ancora che conosca le cose che lo circondano, e che acquisti l' arbitrio della sua volontà? Come può esser misero colui che nacque ebete di mente e non potè mai usare a sua voglia le proprie potenze? Come può essere misero anche quell' uomo che condusse una vita benefica e virtuosa e che tuttavia perì oppresso dalle sventure? Se l' uomo per natura è innocente, come poi per natura è misero? E che l' uomo nasca colpevole, può egli cadere in mente ad uomo alcuno? Chi può concepire che l' uomo prima di essere abbia peccato? O chi può spiegare in che modo nel fanciullo di pochi giorni sia entrata la colpa? Le due questioni proposte sin qui si offeriscono alla mente considerando il fatto rispetto allo stato eudemonologico dell' uomo. Ma il suo stato morale non reca meno d' imbarazzo e difficoltà a spiegarsi. Perocchè, chi può assegnar l' origine, esclusa sempre la rivelazione, d' una tanta inclinazione al male, da cui l' uomo viene senza posa impulso? Una legge che porta nel suo cuore gli intima di essere giusto: e una propensione della sua natura lo sospinge incessantemente nella ingiustizia. Questa propensione intorbida i suoi pensieri, mette in tumulto i suoi affetti e la sua volontà: o non vede più la luce, e va barcolloni per le vie della iniquità; o la vede, e tuttavia non può seguitarla, ma ubbidisce alla violenza d' una forza che lo soverchia e lo padroneggia. Chi ha messo nell' uomo questa reità così potente? Se egli è il figlio della natura, o d' Iddio, si può credere che la natura o Dio gusti inserendo in una creatura, fatta per la virtù, un seme che frutta la immoralità e che egli stesso è immorale? Queste dimande l' uomo le ha sempre fatte a sè stesso; s' assottigliò per rispondersi, stupì della difficoltà che trovava a soddisfarsi, si indegnò seco medesimo, disperò di riuscirvi. E pure l' uomo non può vivere senza farsi qualche risposta a queste dimande, e in mancanza di una verità, inventa un sistema che con ogni sforzo d' ingegno vuole imporre per vero non solo agli altri ma anche a sè medesimo. I sistemi però inventati a spiegare il disordine dello stato presente dell' uomo, sono degni di ogni attenzione; poichè da una parte attestano il fatto di questo disordine e provano quanto abbia colpito la riflessione de' più grandi filosofi; dall' altra mostrano l' impotenza della filosofia a spiegare la condizione dell' uomo reale a lui medesimo. Uno dei sistemi di cui parliamo, fu quello che trovando nell' uomo due principii contradditorii, cioè l' aspirazione a una immensa felicità e con essa una somma impotenza di ottenerla ed una somma miseria, dissero che la cagione di quest' essere non poteva esser unica e che si erano avvenuti a formare l' uomo due principii interamente contrarii, il principio del bene e quello del male, indipendenti, supremi, eterni, essenzialmente nemici. Tale è il sistema de' Manichei e di un gran numero di sètte e di nazioni. Un altro sistema è quello abbracciato da Platone. Come il sistema de' Manichei pare che avesse più risguardo al male fisico e alle questioni che da lui nascono, così quel di Platone pare che più togliesse di mira le questioni che nascono dal male morale inviscerato nell' umanità. Egli veniva imaginando che le anime umane, prima d' essere inserite nei corpi, fossero state abitatrici degli astri e che avendo colà peccato fossero poi per giusta punizione di Dio legate nelle carceri dei corpi. Cicerone, che espone questo sistema e che non lo attribuisce tanto a Platone quanto alla più remota antichità, dice così: [...OMISSIS...] . Un terzo sistema che ha grande affinità col Platonico, è quello della trasmigrazione delle anime, tolto a seguire e reso celebre da Pitagora, per la quale trasmigrazione gli spiriti, passando per varii corpi e secondo varie leggi, venivano appurandosi. Tutti questi tre sistemi si perdono colla loro origine nelle tenebre della più remota antichità. Nel passo seguente di un dotto autore che tratta della religione dell' Indo, si trovano tutti questi tre sistemi avviluppati insieme in quelle religiose tradizioni. [...OMISSIS...] . Altre tradizioni, tolte egualmente secondo ogni apparenza dal Bramaismo, ci parlano di una ribellione di spiriti o di angeli acciecati come Brama dall' orgoglio e come lui precipitati nell' abisso. Aggiungono che Iddio creò il mondo visibile perchè nella sua misericordia egli volle dare un mezzo agli spiriti caduti di ritornare a lui. Cominciò allora il tempo, e con esso le trasmigrazioni delle anime che già prima erano puri spiriti (3). Qui si vede a un tempo la dottrina de' due principii di Manete, quella di Platone sul peccato commesso dagli spiriti prima di essere inseriti nei corpi, e la trasmigrazione delle anime di Pitagora: o certo almeno tutte quelle dottrine vi hanno grande analogia con quelle indiane. Le tre opinioni sopra esposte si trovano nei libri dei filosofi vestite di forme filosofiche e acconciate a modo di sistema. Ed esse hanno bensì subita l' azione della meditazione filosofica, ma nel loro fondo sono più antiche del nascimento della filosofia; sono opinioni popolari tradizionali, e dal popolo i filosofi le presero e le si appropriarono, lavorandole e riducendole per quanto seppero ad espressioni scientifiche (1). I filosofi stessi però giammai non si contentarono del proprio lavoro e si trovarono sempre impacciati con quelle opinioni tradizionali alle quali essi non trovavano nulla da sostituire di meglio; e tuttavia vedevano toccar esse tali punti, sui quali gli uomini volevano assolutamente o sapere o almeno credere qualche cosa. Lasciando adunque i filosofi per ora e ricorrendo al fonte ond' essi stessi attinsero, cioè alle tradizioni de' popoli, veggiamo se in queste nulla si trova di uniforme e di consentaneo nella faraggine delle favole, ove si abbia qualche raggio di luce che renda una verisimile ragione del grande fatto di cui parliamo, cioè dello stato misero e triste della specie umana. Tutte le tradizioni e tutte le mitologie si accordano in questo che narrano nel principio delle cose l' esistenza di una età d' oro, tempo di felicità e di virtù, dalla quale poi gli uomini sono scaduti per qualche loro mancamento. Per ciò con ragione dice Voltaire: La caduta dell' uomo degenerato è il fondamento della teologia di quasi tutti i popoli (2). Conviene adunque distinguere e separare tutte le frasche, per così dire, di che è stato imboschito questo fatto semplice e fondamentale dalla stemperata e strampalata imaginazione dei popoli e considerare lui solo che per tutto uguale si trova; come pure convien separarlo da tutte quelle invenzioni e ingegnose giunte, colle quali si pretese di spiegare il modo onde quel primo fallo che degradò gli uomini sia avvenuto, e come egli potè infettare e nuocere il genere umano sì fattamente fino a tanto in giù degradarlo. Il che ove si faccia, ritenendo quella sola parte della tradizione che intorno a questa materia si trova uniforme e costante fra tutti i popoli, si cava questo risultamento, che nelle tradizioni e credenze di tutti i popoli della terra per cagione del gran fatto della condizione misera e trista dell' umanità si assegna un peccato primitivo e originale. Non è mio intendimento di recare qui tutti i documenti storici che provano questa verità, i quali d' altra parte oggi son resi comuni: ma mi restringerò a un cenno sulla credenza indiana, la quale colla illustrazione che ha ricevuto dalle recenti scoperte ha viameglio dimostrato, che il fondo di tutte le tradizionali dottrine è il medesimo e che si trova sempre in questo fondo il peccato originale. La più antica religione (dice uno scrittore che toglie a esporre le diverse religioni o credenze dell' Indo) la quale si confonde coll' origine stessa delle cose, è quella che fu rivelata da Brahmƒ, il creatore del mondo, e da esso prende il nome di Brahamaismo. Brahmƒ (1) è la prima persona della Trinità indiana, Dio padre che s' incarnò il primo per venire ad annunziare la sua dottrina avanti ben molti secoli. Gli uomini allora vestiti d' innocenza e di pietà offerivano a lui de' sacrificii puri come i loro cuori, le primizie dei frutti, il latte dei loro greggi e non mai vittime di sangue. Ma questo culto sì semplice e sì commovente non potè durare sopra la terra. Gli uomini divenuti peccatori ne scancellarono fin l' ultima traccia; ed ecco perchè oggidì non si trova nè pur vestigio di qualche tempio dedicato a Brahmƒ. Ma nè le tradizioni popolari, nè i sistemi filosofici soddisfacevano pienamente al terribile problema dell' origine del male. I filosofi avevano fatto la critica alle dottrine popolari e sebbene avessero preso da esse il meglio di loro filosofie, tuttavia le sdegnavano, pretendevano di essere usciti dal volgo e sollevati a più alte regioni: avevano appunto contrapposti i loro sistemi filosofici alle opinioni popolari e preteso di supplire con essi a ciò che ad esse mancava. Ma dopo aversi dato questo vanto, veniva il momento, in cui sentivano la voce della propria coscienza, che diceva loro i sistemi da loro inventati non esser meglio soddisfacenti delle comuni credenze ch' essi avevano rigettate e benanco dileggiate; e confessavano talora ingenuamente mancar loro il modo di rispondere a quelle questioni che pure la natura umana faceva incessantemente a sè medesima. Così Platone, dopo avere insegnato con tanta sicurezza i peccati commessi dall' anime abitatrici delle stelle, s' accorgeva poi di non aver fatto con ciò che un cotal sogno filosofico, e scrivendo a Dionisio di Siracusa che l' aveva interrogato su questo argomento, confessava seriamente di non sapere che rispondere, e di non aver mai trovato alcuno che lo illuminasse in una materia così oscura e misteriosa (1). Per due ragioni i popoli e i filosofi non potevano uscire dal labirinto della strana questione sull' origine del male. Primo perchè lo scioglimento di una tale questione dipendeva dalla notizia di un fatto , di cui i racconti tradizionali avevano col procedere de' secoli alterate e confuse in mille maniere le circostanze; il che rendeva incredibile e inverosimile il fondo stesso del fatto, reso antichissimo e narrato in modi sì varii e sì contraddicenti fra loro e sovente anche del tutto assurdi. Ciò che dava buon appicco ai filosofi di rigettarlo, a' quali parea d' ingrandirsi e nobilitarsi col negar fede a ciò che aveva vista di essere una favola di donnicciuole. Secondo perchè quel fatto, quando pur si fosse conservato nelle tradizioni de' popoli senza alterazione alcuna, tuttavia egli riuscir doveva cosa oltremodo misteriosa e oscura. Sicchè il voler spiegare con quel fatto l' origine del male era cosa superiore alle forze della ragione naturale o certo della filosofia; nè vi aveva un' autorità infallibile che potesse comandare alla ragione stessa una cieca credenza al medesimo e alla spiegazione che per suo mezzo si dava all' esistenza del male fisico e morale sopra la terra. Egli è vero che il peccato originale (che come ognuno si accorge è il fatto di cui parliamo) fu nel suo fondo creduto da tutti i popoli, come abbiamo osservato, quasi per istinto, per un bisogno di credere pure qualche cosa che desse ragione dello stato miserabile della umanità. Ma questo peccato originale che colla spontaneità de' popoli veniva creduto, reggeva poi alla riflessione? Quante difficoltà non presentava a chi si ponea a ragionarvi sopra? Quanti misteri non involgeva che ributtava la filosofica ragione, voglio dire quella ragione che non soffre mai di trovare un mistero superiore alle sue forze e che negherebbe il sole di mezzogiorno anzichè confessare la propria limitazione. Primieramente il peccato originale è congiunto colla storia di uno stato della umanità infinitamente diverso dal presente, nel quale Dio e l' uomo conversavano insieme, per così dire, a tu per tu, stato di cui non si può avere esempio e già esso solo difficile a credersi. Di poi in che modo il peccato del padre poteva passare nei figliuoli? O come questi esser rei prima ancora che venissero in possesso dell' uso della ragione? E come castigati d' un peccato che non fu in loro arbitrio il non ricevere e che essi stessi non commisero? Egli è evidente che, acciocchè gli uomini potessero credere a questo fatto e alla spiegazione del male che da questo fatto dipende, non ci voleva meno che la testimonianza di un' autorità infallibile, incontro alla quale la ragione umana dovesse ammutolire e ragionevolmente dovesse dire seco medesima: io non veggo l' uscita di questo intrico: il peccato originale che mi si propone è per me un mistero, ma finalmente l' autorità che me lo annunzia è infallibile. Le mie forze sono limitate: se io non veggo come il peccato si possa propaginare e derivare nei figliuoli, non è per questo che non possa essere e che io medesimo non potessi vedere se crescessero le mie forze. Or come io veggo per certo che l' autorità che me l' annunzia non può fallire, così m' è forza di ammettere questo fatto del peccato originale, eziandio che egli involga in sè un altro misterio. Era adunque necessaria un' infallibile autorità che annunziasse agli uomini quel gran fatto che contiene la spiegazione dell' origine del male, perchè la facesse lor credere, perchè la facesse creder loro ragionevolmente, la facesse credere a tutti, la facesse credere non colla sola spontaneità, colla quale credono gli uomini che ancor sono nello stato d' infanzia, ma con una credenza che potesse tenersi ferma contro la riflessione degli uomini già avanzati e inciviliti. Perocchè un' autorità infallibile ben provata è forte contro all' esame di qualsivoglia riflessione, nè questa potenza critica, che tutto tende a distruggere ciò che non partecipa dell' infinito e dell' eterno, può addentrarla sventarla ed offenderla. Posto dunque che nel peccato originale sia la soluzione del gran nodo che presenta la questione dell' origine del male, egli è manifesto che nissuna filosofia, quando anche avesse conosciuto l' esistenza di questo peccato, era in grado di ammaestrare gli uomini di una tanta verità e di farla lor credere, perchè sarebbe sempre stata sprovveduta di autorità sufficiente cioè di un' autorità infallibile, chè meno non si richiedeva per infondere negli uomini la ferma credenza a una cagione sì misteriosa contenente in sè tanti elementi che ripugnavano all' assenso di una piena persuasione. Per questo dice acconciamente Lattanzio, che [...OMISSIS...] . Ora essendo all' uomo cosa di prima necessità il conoscere un tanto vero senza il quale rimane un enigma a sè stesso, un enigma insostenibile alla propria natura, che pur vuol sapere di sè qualche cosa e col quale solo egli può tranquillare l' animo suo, tentato altramente di negar fede alla sapienza della natura, alla giustizia e all' esistenza stessa di Dio, i quali sono i fondamenti della morale; egli è manifesto il bisogno che v' ebbe di una divina rivelazione coll' autorità della quale il mondo intero potesse essere certificato di questo dogma del peccato originale; il quale assicurato nella credenza degli uomini servisse come di base ben ferma a fabbricarvi su la morale conveniente all' uman genere nello stato in cui ora si trova caduto. E questa certa notizia dell' origine del male fermata nella credenza degli uomini è uno di quei sommi beni che diede loro il cristianesimo, che è quanto dire l' unica religione vera che fu sempre al mondo. Poichè questa si presentò al mondo con un' autorità divina e dopo avere persuaso l' umanità che era in nome di Dio che parlava, annunziò il dogma del peccato originale, che venne ricevuto senza più avervi difficoltà sulla parola di Dio. Così fu la Fede quella che soccorse al bisogno degli uomini a cui non poteva soccorrere la ragione umana. La qual fede vinse, per così dire, la stessa ragione dell' uomo, convincendola della sua limitazione e della sua impotenza a satisfare alle questioni essenziali che l' uomo le rivolgeva, al bisogno supremo di conoscere sè stessa, di sapere che ha l' umanità, e di operare in conformità e coerenza della cognizione di sè stessa. Se non che egregiamente dice S. Agostino che « la fede prepara l' uomo alla ragione e la ragione conduce alla intelligenza e alla cognizione« (1) ». Poichè quelle verità stesse che da prima son credute dagli uomini come altrettanti misteri sull' autorità di Dio che le rivela, venendo poi meditate dalla ragione medesima si vengono alquanto chiarendo, e la ragione che prima non vi rinveniva che fitte tenebre e apparenti assurdi, finisce collo scoprire in esse un abisso di luce e cava dal loro seno delle stupende cognizioni e trova che in esse si nasconde il più profondo della stessa scienza, e che quello scuro che da prima mostravano al di fuori non veniva tanto dall' essere quelle verità al tutto inaccessibili alla ragione, quanto dall' essere difficili e non asseguibili dalla ragione senza lunghe meditazioni e fatiche, e ciò che è più difficile a conoscersi è bene spesso la parte più sublime e vitale del sapere. Laonde se la fede non avesse fermata l' attenzione dell' uomo in verità così alte e preclare, queste sarebbero state perdute per la umanità: conciossiacchè l' uomo non si sarebbe giammai fermato a pensare lungamente e faticosamente in cosa a cui non prestava fede e nella quale nulla cagione il persuadeva di trovarvi nascosto profondamente un tesoro; ma sarebbe ricorso a vie più facili invenzioni e ipotesi e avrebbe queste continuamente rimutate; come quelle nessuna delle quali il poteva lungamente accontentare, senza pervenire giammai al fermo della salutare verità. Ma la fede mise l' uomo a dirittura in possesso dei veri più necessarii e degni, e così l' uomo ebbe la materia sulla quale esercitare poi la sua meditazione, materia raccomandata troppo bene all' attenzione di sua ragione dalla fede medesima che aveva persuaso l' uomo ivi dentro contenersi il più pregiato e il più recondito della sapienza. E il dogma del peccato originale può servire appunto di esempio di questo servigio che presta la fede alla ragione. Perocchè questo peccato che ricevono i bambini pur nell' atto di esser generati e che consiste in una vera macchia dell' anima, come dicono i teologi, non già solo in una esteriore e legale imputazione (2), in una macchia che rende l' anima giustamente degna di eterna dannazione, è tal cosa di che sembra nel primo annunciarsi che non possa darsi nulla di più strano e assurdo. E tuttavia ove si mediti lungamente, egli viene perdendo sempre più di quello strano e incredibile che nella prima faccia dimostra, e finalmente si perviene a trovare che egli non ripugna punto nè poco alla natura umana nè alla natura del male morale; e che tutta quella apparente assurdità che parea contenere non aveva altra cagione se non il non conoscere noi a fondo la natura intima dell' uomo e quella della sua moralità: e in nostra ignoranza a giudicare della possibilità del peccato originale con dei pregiudizii e con dei principii falsi intorno alla volontà dell' uomo e alla malizia o bontà della medesima. Il che io spero di dover dimostrare nel seguente capitolo, nel quale non farò altro che esporre il dogma del peccato originale; non ignudo, ma vestito e corredato di tutte quelle cognizioni intorno all' uomo e alla sua dignità o pregio morale che somministra la ragione filosofica. Le quali cognizioni gli t“rranno d' attorno per avventura tutto quel duro e aspro che ripugna alla ragione di coloro che non l' hanno se non per poco e superficialmente considerato. Gli espositori della verità cristiana dicono che il peccato originale è una « macula« » dell' anima. Egli è evidente che non si deve intendere la parola « macula« » materialmente, perocchè nell' anima non si dànno macchie nel senso proprio e materiale: dicendosi macchia in questo senso a quell' imbratto di colore che rompe e deforma la candidezza o comechesia il colore naturale di un corpo. E` dunque in senso traslato che si piglia la parola macchia quando si applica all' anima, e viene a dire una macchia morale, una deformità morale che deturpa e disgrega quell' ordine e bellezza di giustizia, di cui l' anima doveva altramente essere decorata. Egli è evidente che nella sola concupiscenza animale non può consistere peccato alcuno, perocchè il peccato è una macchia morale (1) e ogni moralità esige una natura intellettiva e volitiva. Ora nella sola concupiscenza animale non vi è possibilità di cognizione e di volizioni, ma solo sensazione e istinto cieco. Dunque nella sola concupiscenza animale non possono trovarsi le condizioni del peccato. Chi dicesse il contrario, dovrebbe attribuire moralità e immoralità anche alle bestie, nelle quali v' è l' animalità, contro il senso comune e la cristiana dottrina. Che nella nozione di peccato debbano avere luogo i due elementi della legge e della volontà , è cosa universalmente consentita da' savii (1). Ma nel fatto del peccato originale alcuni trovano questi due elementi essere stati in Adamo, e di questo sono soddisfatti senza più. Ma il venire imputato al bambino uno sregolamento della sola volontà del suo antenato Adamo, non sarebbe che la imputazione estrinseca del Caterino e del Pighio o di chichessia; sistema escluso da ogni cattolica teologia. E come, in tal caso, si avverrebbe quello che ha deciso il Concilio di Trento, che il peccato originale non è solo comune, ma proprio dei singoli bambini che nascono? (2). Il disordine adunque della volontà di Adamo potè essere cagione della propagazione del peccato nei bambini (3): ma perchè il peccato sia proprio di questi e non a questi solo imputato; perchè sia una macchia morale che contamina l' anima loro; conviene che il disordine del peccato sia altresì nella loro propria volontà. E perciò acconciamente dice Gaetano de Fulgure, che il peccato originale [...OMISSIS...] . Ciò che ha in sè di difficile questa sentenza tutto si dissipa colla chiara distinzione del volontario e del libero . Fino che non si conosceva che la volontà si può trovare in uno stato di necessità e in uno stato di libertà (5), questa materia rimase involta nelle maggiori tenebre. Ma le questioni intorno alla grazia, eccitate nella Chiesa in occasione delle dottrine di Baio e di Giansenio, condussero a fissare l' attenzione sopra la volontà istintiva, cioè in uno stato non ancora libero, e a conoscere che non si può confondere con una tale volontà il libero arbitrio propriamente detto. Dopo di ciò fu facile di concepire che la volontà poteva esistere nell' uomo fino dai primi momenti di sua esistenza e anteriormente al suo libero arbitrio; e che questo l' uomo lo acquista di poi a un tempo che acquista le cognizioni e che viene sviluppando il suo intendimento, poichè solo dopo che è in possesso della cognizione di più cose, egli può scegliere fra esse ciò che meglio gli aggrada: e veramente sarebbe un errore manifesto a supporre che vi avesse un tempo in cui l' uomo fosse, e tuttavia non avesse la potenza della volontà, ma l' acquistasse poi in isviluppandosi: il che sarebbe un mutare di natura, e da non uomo cominciare ad essere uomo. Come sarebbe pure un errore a pensare che nei primi momenti di sua esistenza l' uomo si trovasse privo dell' intelletto. Ora se vi ha la potenza della volontà in un bambino, ella è però evidentemente priva di libertà, in uno stato legato e necessitato. Ammessa poi una potenza di volere nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza, forza è di ammetter pure un primo atto volitivo, o piuttosto questo è ammesso tostochè è ammessa quella. Conciossiacchè una potenza è essa stessa un atto primo, e ove ciò non fosse, non s' intenderebbe più che fosse, sarebbe un nulla, una parola priva di significato, o al più la possibilità di una potenza, e non una vera potenza. Così io posso concepire in un soggetto qualsivoglia, poniamo in un bruto, la possibilità che egli venga a conoscere e volere, per opera di Dio: ma questa possibilità meramente passiva non costituisce in lui nessuna potenza di conoscere e di volere: non è che un affermare che la onnipotenza di Dio potrebbe per avventura dargli la potenza conoscitiva e volitiva. A chi avrà ben inteso quanto abbiamo esposto altrove sulla natura della volontà e delle potenze in generale, non rimarrà dubbio intorno alla verità di ciò che qui affermiamo intorno alla volontà (1). Questa dottrina intorno al primo atto della volontà è connessa colla teoria dell' intendimento; perocchè ogni volizione suppone una cognizione, e una volizione primitiva dimanda dinnanzi di sè e come suo termine una primitiva e originale cognizione. Questa primitiva cognizione o concezione, se si vuol meglio, è l' atto che costituisce la natura dell' intelletto; perocchè essendo l' intelletto una potenza, anch' essa deve esser un atto primitivo, secondo il principio accennato, ingeneratore di tutti gli atti successivi. Ogni atto poi dell' intelletto esige un oggetto; di che la necessità medesimamente di un oggetto primitivo dell' intendimento che sia il primo cognito e pel quale si conoscano le altre cose. E fatta poi diligente inquisizione intorno a questo oggetto primordiale per conoscere che possa essere, abbiamo trovato che egli è l' ESSERE INDETERMINATO: indi la notizia chiara della potenza, che l' uomo ha fino dal primo suo esistere, di conoscere e di volere e degli atti primitivi che racchiudono queste potenze e le costituiscono. Perocchè avviene che la potenza di conoscere sia la potenza di veder l' essere e la potenza di volere sia la potenza di appetire l' essere. Avviene ancora che l' atto primitivo ed essenziale della potenza di conoscere sia determinato dallo stato imperfetto nel quale l' essere originalmente è presentato all' uomo da vedere, cioè nello stato d' INDETERMINAZIONE; e da questo oggetto stesso sia determinato l' atto della potenza di volere. L' elemento conoscitivo adunque e volitivo che costituisce la natura umana e che entra nella sua definizione (2), sotto un aspetto si può dire un atto e sotto un altro una potenza . Egli è atto relativamente a quella parte di essere che fin da principio è scoperta e presente allo spirito umano: ed è potenza relativamente a quella parte di essere che non è ancora scoperta e presentata da vedere e appetire allo spirito, che viene presentata poi da sentimenti e che forma l' oggetto delle sue cognizioni acquisite e corrispondenti volizioni. Ora conosciuta in tal maniera la natura della volontà, consistente in una costante appetizione dell' ente conosciuto (sicchè da prima non essendo conosciuto l' ente che in universale, non è che un atto o tendenza universale ad appetire, poscia conoscendosi degli esseri particolari si sviluppa in altrettante volizioni di questi); non è più impossibile il concepire la possibilità di un disordine nella volontà fino dalla prima esistenza di questa. E veramente la volontà (volizione rispetto all' essere conosciuto per natura , e potenza di volere rispetto agli esseri non conosciuti per natura, ma coll' aiuto dei sensi) si può considerare o dalla parte del suo oggetto , o dalla parte del soggetto uomo, di cui essa è atto. Egli è evidente che la volontà può venire alterata e mutata intrinsecamente tanto per mutazione che nascesse nel suo oggetto naturale e primo, come per alterazione del soggetto volente, l' IO, l' uomo stesso. Lasciando qui di parlare di quella alterazione che potrebbe sofferire la natura della volontà da una mutazione dell' oggetto suo naturale, possiamo ancor concepire la possibilità che la volontà soffra nella sua natura una cotale alterazione e disordine dalla parte del soggetto a cui appartiene. Perocchè se l' uomo, l' IO, soggetto della volontà, è difettoso e guasto, e se è soggetto a delle perverse suggestioni, egli par naturale che dovrà fare anche della sua volontà un uso torto e sregolato. Come ciò avvenga, io dirò più sotto, parendomi qui aver detto abbastanza perchè si possa concepire la possibilità di un disordine nella potenza di volere, considerata anche nel suo stato primitivo anteriore a qualunque suo sviluppamento. Fatto così luogo a concepire la possibilità di un guasto della volontà anche in un bambino, egli perde tutto ciò che aver possa di più duro, come dicevamo, la sentenza che esige come elemento essenziale alla nozione giusta del peccato originale una prava affezione nella volontà dell' uomo, sebbene appena generato e non ancor venuto al libero uso delle proprie potenze. E non può essere altramente dall' istante che il peccato originale non si dice già con questo nome di peccato per una cotal metafora o traslato, ma s' intende cosa che, come ha definito il Concilio di Trento, ha in sè la vera e propria ragione di peccato (1): il che è quanto dire di cosa immorale e per ciò di cosa essenzialmente volontaria. Quindi è che S. Tommaso insegna che il peccato originale non è una mera privazione, ma un abito corrotto (2), e l' abito è sempre una cotale disposizione delle potenze; e poi cercando a qual potenza principalmente appartenga quest' abito corrotto, trova che alla potenza della volontà, come quella appunto che presiede alle cose morali. Ecco alcuni passi del Santo Dottore, tutti consentanei alla sentenza che abbiamo proposta. [...OMISSIS...] Ma sebbene il peccato originale tocchi la volontà e deve consistere sicuramente in una stortura della volontà, tuttavia non può consistere in qualunque stortura della volontà, non può essere semplicemente la inclinazione al male della volontà umana. E veramente nei rigenerati dal battesimo rimane la inclinazione al male della volontà, e tuttavia è definito dal Concilio di Trento che il battesimo ha efficacia di t“rre dall' anima pienamente la macchia del peccato. [...OMISSIS...] Dunque la mala inclinazione della volontà, secondo il dogma cattolico, non costituisce da sè solo l' essenza del peccato originale. Abbiamo veduto che il peccato originale non può consistere nella concupiscenza animale considerata per sè sola (2), e che non può consistere nella sola mala inclinazione della volontà. Ma esso non può consistere nè anco nella lotta che hanno insieme la concupiscenza animale e la volontà. E veramente questa lotta, per la quale lo spirito concupisce contro la carne e la carne contro lo spirito, come dice la Scrittura (3); rimane nell' uomo anche dopo il battesimo, il quale pure è di fede che toglie dall' uomo tutto ciò che ha vera e propria ragion di peccato, come definisce il Tridentino. Il quale così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dunque questa battaglia non è punto, secondo la cattolica fede, ciò che costituisce il peccato originale. Fin qui le nostre ricerche ci condussero a vedere che cosa non è il peccato originale, cioè come egli non sia nè una macchia nel senso materiale della parola, nè il puro istinto animale, nè la sola inclinazione al male della volontà, nè la lotta fra la concupiscenza e la volontà. Abbiamo trovato nulladimeno anche qualche cosa di positivo intorno alla natura del peccato originale, cioè che egli deve essere una macchia morale dell' anima e che per conseguente deve affettare anche la volontà dell' individuo che nasce e non la sola volontà del primo padre dell' uman genere che attualmente lo commise. Dobbiamo adunque ora seguitare la ricerca per comporci, se ci riesce, la notizia positiva di questo misterioso peccato originale. Se il peccato originale non consiste nella sola mala inclinazione della volontà, ma pure questa inclinazione mala è qualche cosa di essenziale nel peccato originale, converrà cercare da qual principio proceda questa mala piega della volontà, che cosa è che urge questa potenza e la inclina verso il male. Trovandosi questa inclinazione mala nell' uomo fino da' primi istanti della sua esistenza, questa inclinazione non nasce da un atto sopraveniente della sua libertà, ma questa piega è nata in lui anteriormente all' uso della sua libertà, e all' acquisto delle cognizioni che attinge da' sensi. Ora se la volontà non si piega da sè stessa liberamente nè da un essere esteriore che agisca nell' uomo, conviene che nella stessa natura umana vi sia un principio cattivo che seduca la volontà e la inclini al male. Poichè la volontà è una potenza che come tale non è inclinata nè da una parte nè dall' altra, e conviene perciò che qualche principio naturale la inclini, se questa inclinazione, come dicevo, è necessaria e non libera. Per questo un peccato che sia nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza deve procedere da un disordine della stessa umana natura. E questo rende ragione del perchè S. Paolo dica che noi siamo figliuoli d' ira PER NATURA (1): e del perchè comunemente il peccato originale sia chiamato dai Padri anco naturale . Per questo S. Giovan Grisostomo il chiama radicale (2), toccando la radice dell' uomo, cioè il principio soggettivo: e S. Agostino dichiara che esso trasfondersi « occulta tabificatione naturae ». Veduto che il peccato originale ha per primo seggio l' intima natura umana, conviene che noi veggiamo come il peccato si abbatta nella natura e che dichiariamo l' ordine della umana corruzione. Per natura umana intendiamo il complesso delle potenze che si trovano nell' uomo, non meno che il nesso che tutte le unisce in un solo soggetto. Ora perchè il peccato appartiene all' ordine razionale, conviene che esaminiamo l' uomo principalmente come soggetto intellettivo e nello stato in che Dio l' ebbe posto sulla terra: indi quale sconcerto abbia prodotto nell' uomo la colpa. E richiamando quello che abbiamo detto intorno a ciò, l' uomo è soggetto intellettivo per la visione dell' essere indeterminato. La volontà è l' inclinazione verso il bene conosciuto; e perchè ogni essere è bene, è la tendenza verso ogni essere conosciuto. Indi nell' uomo vi ha un atto primo d' intelletto e un atto primo di volontà. Quello è l' idea dell' essere indeterminato: questo è la tendenza appunto indeterminata verso quest' essere. La natura umana adunque ha nel suo seno fin dall' origine un intelletto e una volontà in atto, e da questi risulta e si crea come da' suoi proprii costitutivi elementi. Ma Iddio, oltre aver dato all' uomo in sul principio la contemplazione costante dell' essere ideale indeterminato, gli ha dato altresì la percezione di sè stesso, essere sussistente e assoluto. Indi una nuova tendenza della volontà, la quale naturalmente doveva quasi direi, precipitarsi verso la pienezza dell' essere offertasi da concepire all' intendimento. Questo primo e veemente moto della volontà rispondente alla grazia divina (2), fu l' originale inclinazione al bene dell' uomo innocente, e quello stato di originale giustizia, nel quale era costituito e col quale dovevasi propaginare. L' uomo fu costituito da Dio perfettamente fino dal primo istante, nè fu un tempo anteriore, nel quale egli fosse posto nel solo ordine di natura e non anco in quel della grazia. Quindi nel primo uomo per la sua stessa costituzione la volontà trovavasi edotta, non solo in quell' atto primo che termina nell' essere ideale e indeterminato, ma si bene anche in quello che termina nell' essere assoluto e completo. La volontà in tal modo si era volta fin dal principio con un atto pieno e, come diceva, precipitata in quell' oggetto che è il TUTTO, del quale cercava di pienamente sfamarsi, per così dire, e bearsi. Se la volontà dell' uomo primo si fosse terminata solo all' essere ideale indeterminato, non ci sarebbe stata cagione di volere di più, almeno per molto tempo. Ma coll' aver conosciuto e gustato l' assoluto, doveva nascere in essa un bisogno tutto nuovo, una necessità di esso e senz' esso uno sforzo di cercarlo per tutto, una incontentabilità, una affogata brama e tendenza di completarsi con un suo atto che il tutto abbracciasse. Così noi veggiamo che l' uomo educato in piccolo e ristretto cerchio di cose, è pago nè sa bramar oltre perchè oltre non conosce: ma tratto fuori del suo paesuzzo o fatto discendere dalla sua montagna e dai tugurii passato nei palazzi e dalla scarsezza di tutte le cose nell' abbondanza, non avviene poi che restituito nell' umile e povera vita che faceva prima trovi la pace e il suo cuore gli sembri oppresso e per poco soffocato dall' angustia del casolare e dal ristretto numero di oggetti che lo circondano e che cagionano in lui poche, e sempre uguali e perciò noiose sensazioni. Conciossiachè la volontà sua ritiene ancora le brame che in lei sviluppatesi in essa nello stato di vivere dovizioso e ampio in cui era passato e nel quale aveva tratti da sè de' nuovi voleri e soddisfattili. E ora egli avvenne appunto così che la volontà del primo uomo mossa originariamente dall' oggetto assoluto, fu poi privata dopo il peccato di questo oggetto. Perocchè essendosi Iddio ritirato dall' uomo, non fece più nella sua mente quell' azione deiforme che abbiamo di sopra descritta; gli tolse la sua grazia, gli sottrasse il senso dell' essere sussistente: non lasciandogli che l' oggetto del solo intendimento naturale, cioè la tenue idea dell' essere e questo indeterminato. Ma nel tempo medesimo che alla volontà attuata e piegata verso l' infinito fu sottratto il suo oggetto, ella però rimase così piegata e così attuata: e non trovando più l' oggetto reale infinito perchè sottrattole, il suo atto, col quale il cercava, diede nel vƒno e tentò di trovarlo da per tutto, quando non era più in alcuna parte in ch' ella potesse colpire e giungere. Sicchè la volontà di Adamo doveva rimanere con una brama infinita che non poteva essere appagata e che pure voleva ad ogni costo essere; e però con un bisogno di fingere a sè stessa quell' oggetto che non aveva, e nutricarsi, per così dire, di vento, cioè di sue vuote finzioni: e questo ancorchè null' altro fosse avvenuto se non se sottrarsi l' oggetto infinito, posto a lei nella sua prima costituzione, da dover per inclinazione spontanea volare. Ma a ciò si sopraggiunse un atto di libero arbitrio, col quale l' uomo stesso stolse la volontà dall' oggetto infinito resosi a lei naturale e la piegò verso la finzione del bene, cioè verso il frutto vietato, il mangiare del quale per la menzogna del demonio fu creduto atto a render l' uomo sapiente e trarlo in istato via migliore ancora che non sia quello stesso della grazia di Dio. Sicchè liberamente l' uomo volse la volontà che dava nel bene reale, a dover dare col suo atto nel vƒno del bene finto, cioè falsamente imaginato, col quale atto anco la facoltà di eleggere , non solo quella di volere, fu storta, e datale mala piega, datole un abito vizioso; e quindi procedette principalmente e direttamente il guasto del soggetto stesso a cui la facoltà di eleggere appartiene (1). Per sopraggiunta accade che nel mangiamento del frutto l' istinto animale medesimo si rinforzò e alterò, venendone alterata e pervertita la materia del sentimento animale. Sicchè nacque in lei un' aspettazione (2) esagerata e ingannatrice, la quale doveva a sè rapire naturalmente la volontà che voleva un tutto e non aveva più ove rinvenirlo, (toltolesi dinnanzi il tutto reale ); e l' istinto alterato o la concupiscenza si presentava ella, quasi direi, ogni bene promettendole a ribocco sopra quello che potesse desiderare e portare. E si consideri che, parlando noi di senso, di volontà e d' intendimento, consideriamo queste potenze nel loro primo atto in quanto determinano la costituzione del soggetto, l' ordine intrinseco del medesimo e di quelle abitudini di cui questo primo atto è vestito; e non già nelle loro operazioni. Quindi pertanto si potrà formarsi il concetto del disordine avvenuto nel soggetto uomo mediante il primo peccato: ed ecco in che guisa. Egli è manifesto che l' atto onde Adamo peccò fu atto di libera volontà. Ora atto di libera volontà non è già un atto puramente della potenza, ma è atto immediatamente del soggetto (3). Perocchè l' uomo, collo scegliere liberamente, ha da una parte quello che l' intendimento retto gli rappresenta di vero, e dall' altra quello che la concupiscenza gli rappresenta di falso bene: e come in mezzo egli a ciò che gli offrono innanzi queste sue potenze, sceglie quella parte che più egli vuole. L' energia dunque della sua libertà viene dal soggetto immediatamente, e sceglie fra i risultamenti delle potenze e quindi è superiore alle potenze stesse e per così dire le signoreggia. Questa forza intima del soggetto è per sè stessa cieca, per così dire, perchè non ha altra ragione che pur sè sola: ma ella può sottomettersi all' intendimento retto e illuminarsi, ovvero può sottomettersi all' intendimento fallace e al senso e può illudersi da sè medesima. Or dunque quell' atto tutto libero, tutto procedente dal soggetto di Adamo fu quello che ingegnerò nel soggetto medesimo, in questa forza intima e primitiva che è il fonte della libera energia o piuttosto è ella stessa la libera energia, una mala disposizione e propriamente un ISTINTO di piegarsi al male, convalidato dalla remozione nell' intendimento dell' essere sussistente, e dall' accrescimento e alterazione d' impulso nel senso animale (1). Il perchè convien dire che come l' atto della libera energia, che è atto immediato del soggetto, fu cagione della rovina delle potenze dell' intendimento e della sensibilità, così viceversa il guasto di queste potenze reagì sul soggetto stesso e rese la sua forza volitiva debole e tarda e comecchessia oltremodo difettosa nel suo operare. Riassumendo adunque, l' ordine del guasto originale nella natura umana è il seguente. Il peccato cagione di questo guasto nacque con un atto libero, col quale l' uomo mangiò il frutto e così disubbidì a Dio. L' energia prima e elettiva propria del soggetto, togliendosi dal bene percepito anche soprannaturalmente e violentandosi alla finzione del bene, esorbitò, pigliò un nuovo peso verso il male e propriamente un ISTINTO del male (inclinazione al male morale) (2). La volontà già edotta in quell' atto che ha per iscopo l' essere completo (tutto l' essere, Iddio) e quindi bisognosa di un bene infinito; poi privata di questo, fu volta a cercare di fingersi una infinità di bene nelle creature (inclinazione al falso) (3). L' istinto animale finalmente fu reso violento e senza il freno delle potenze superiori, distratte, traviate e congiurate con lui. Il difetto della volontà e del senso reagisce sul guasto del soggetto, come il guasto di questo perverte la volontà e lascia il senso senza freno. Perocchè la volontà vuota di beni reali e bisognosa di essi non può aiutare al bene la energia radicale del soggetto, ma lasciarla pesare verso il male; la violenza del senso animale, quella aspettazione istintiva , menzognera, di un immenso e perpetuo piacere, deve trarre a sè la forza del soggetto e snervarne la facoltà di eleggere, come abbiamo detto avvenire per alterazione che nasca nella materia del sentire (4). Quindi vi ha una mutua perniciosa influenza fra questi tre principii dell' uomo: 1 il principio soggettivo elettivo; 2 la volontà; 3 l' istinto animale: per modo che ciascuno esercita un' azione corruttrice sull' altro, che aggrava il male della umana natura. Abbiamo detto che il peccato originale infetta e guasta la natura umana; or diciamo ch' egli corrompe lo stesso soggetto umano che lo riceve: ella è una conseguenza delle cose dette fin qui. Abbiam veduto che la volontà è piegata al male fino dal primo istante della esistenza dell' uomo; e ciò per un principio seduttore giacente nella natura stessa dell' uomo. Ora in quel primo momento non ancora è sviluppata la libertà umana, nè vi ha alcun atto riflesso della volontà con la quale l' uomo possa correggere l' inclinazione al male dell' atto primo e diretto. La volontà in quel primo tempo non ha che un atto solo, anzi nè pure propriamente un atto ma un abito: e questo è l' abito per conseguente dell' uomo. Conciossiachè la potenza attiva, in cui il soggetto principalmente risiede, è l' atto prevalente, e molto più se egli è unico, della volontà. Egli riman dunque il soggetto stesso infetto e peccante. Si consideri la conseguenza che deve nascere dal guasto della parte animale. Esso basta a spiegare l' infettamento del principio costituente il soggetto uomo: perocchè, come abbiamo detto, la concupiscenza animale tira e rapisce a sè la forza intrinseca e radicale del soggetto, e così la indebolisce e la perverte: e la volontà cercatrice e al tutto bisognosa del bene di cui è privata, lungi dal poter aiutare il soggetto, dal non darsi giù e farsi suddito al senso, anzi fattasi al medesimo infida consigliatrice, lo persuade a ciò e lo impelle. Perocchè è in quel bene vago e illusorio che con tanta baldanza le promette il senso materiale, che ella si persuade di poter riparare la sua perdita e felicitarsi, nè ha verun' altra cosa in che menomamente sperare, massime innanzi che l' uomo conosca i beni ideali e astratti. E un tal guasto, che per tal modo ridonda dalla natura, cioè dalle potenze nel soggetto, non si dee far già per intervallo di tempo; di modo che vi abbia un tempo nel quale le potenze sieno corrotte e non il soggetto, e vi abbia un altro tempo [in cui] la corruzione del soggetto veniente dalle potenze sia già compita: ma forza è che in un tempo medesimo e comincino a essere le potenze e in esse il lor guasto, e la comunicazione di questo guasto fatta al soggetto. Di che la ragione è che il soggetto non ha un' esistenza da sè, divisa dalle potenze; ma egli comincia a esistere con queste e in modo a queste consentaneo. Ciò che non sarà difficile d' intendere a chi si rammenta il modo onde abbiamo descritta la produzione del soggetto: il quale abbiamo detto per sè subitamente esistere tosto che sia dato un sentimento, una materia o un oggetto di sentire. E finalmente, in terzo luogo, anche lo stesso guasto delle potenze si attribuisce al soggetto, ove egli pure è infetto, per quella unità e armonica comunicazione che le potenze hanno col soggetto nel quale risiedono. E` adunque il peccato originale una infezione della natura per la disarmonia (1) e l' intimo guasto delle potenze, dalle quali la natura risulta: è una infezione del soggetto perchè essa va a infettare e depravare quel principio supremo di tutte le potenze, quel punto più eminente della natura umana che costituisce propriamente il soggetto, l' IO dell' uomo. Da tutto ciò che è stato detto si fa palese una via di conciliare la sentenza de' Tomisti, i quali insegnano che il peccato originale risiede primieramente nell' anima stessa e dall' essenza dell' anima trapassi a contaminare le potenze; colla sentenza di San Anselmo (2), di Giovanni lo Scoto (3), e altri (4), i quali sostengono il peccato originale aver sua sede primieramente e propriamente nella potenza della volontà. Questi secondi facevano risiedere il peccato originale nella potenza della volontà per la ragione che abbiamo toccata di sopra, che la sola volontà è la potenza morale, e che tutto ciò che nell' anima vi è di morale esser vi dee per cagione della volontà; e che perciò anche il peccato, essendo morale, e non è altro, come si definisce anche da S. Tommaso, che una stortura della volontà, egli deve nella volontà come in sua propria e primitiva sede ritrovarsi: ragione irrefragabile ed evidente. E tuttavia non è men vera la sentenza di quelli che abbiamo nominati, i quali vogliono che nell' essenza dell' anima, anzichè nelle sue potenze, il peccato originale s' incominci: e il contrastare di questi a quelli parmi una di quelle battaglie delle scuole, le quali collo schiarire de' vocaboli o coll' approfondire la materia vanno intieramente a pacificarsi. Conviene dunque sapere che dall' essenza dell' anima, secondo la dottrina di S. Tommaso, fluiscono le potenze. Se dunque per essenza dell' anima s' intende il principio delle potenze, egli è manifesto che, parlando dell' uomo, ciò che costituisce una tale essenza è quel principio stesso che noi abbiamo chiamato il soggetto, l' Io. Ora il soggetto l' abbiamo fatto risultare da due elementi, cioè da un principio sensitivo e da un principio operativo (giacchè il passivo e l' attivo non si possono mai dividere insieme) (1). E questo principio operativo del soggetto abbiamo detto che è una volontà primitiva e propriamente una facoltà di eleggere , che abbiamo distinto dalla potenza comunemente detta volontà; che questo principio operativo e volitivo costituisce l' essenza dell' anima, il soggetto, e non v' ha niente di attivo a lei anteriore nell' uomo. Or ecco la sede del peccato originale: ella non è nella volontà comune (potenza), ma nella volontà primitiva, la quale costituisce il soggetto uomo e con esso l' essenza dell' anima. Egli è dunque anche vero che il peccato originale risiede nell' essenza dell' anima. Io spiegherò qui sotto in che senso dica il Dottore angelico che il peccato originale macchi prima l' essenza dell' anima che la volontà; e qui mi basterà solo di notare che il Santo Dottore riconosce così necessaria la perversione della volontà a costituire il peccato che, tolta questa, è tolta l' essenza del peccato e che per ciò il peccato non comincia se non dove questa comincia, sicchè tutto ciò che di dispositivo vi può essere nell' uomo antecedentemente al guasto della volontà non è ancora peccato. E veramente cercando egli ciò che vi ha di formale nel peccato originale, comincia dallo stabilire questo principio: [...OMISSIS...] . E poi immediatamente soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la mente del santo Dottore manifestatamente si appalesa. Perocchè ci riconosce in esse che non può avervi formal peccato prima che non sia storta la volontà: e per ciò qualunque infezione e guastamento fosse nell' anima anteriore allo storcimento della volontà, ciò non sarebbe peccato ancora se non materiale, cioè a dire materia del peccato sopraveniente e non essa stessa peccato. E mi gioverà aver fatta questa osservazione a schiarimento di ciò che mi converrà dire parlando più sotto della trasfusione del peccato di origine. Abbiamo veduto che il peccato originale è peccato della natura umana. E abbiamo veduto che egli è peccato altresì del soggetto umano. Or egli è manifesto da sè stesso che il peccato originale si fa peccato anche della persona, poichè il soggetto uomo, in tutti quelli che per naturale generazione discendono da Adamo, è una persona. Egli è per ciò che il Concilio di Trento definì essere il peccato originale non solo comune della specie, ma proprio di ciascuno che nasce (6). E S. Agostino nel medesimo senso dice: [...OMISSIS...] . Ed è per questo che il peccato originale tocca la persona, che ha tutta la sua proprietà la espressione del Grisostomo che chiama questo peccato radicale : conciossiachè la persona si può veramente considerare, sotto un aspetto, come il principio, la virtù, la radice della natura umana. Dalle cose dette noi potremo racc“rre finalmente una conveniente definizione del peccato originale. Perchè noi abbiamo veduto: che il peccato originale non è già una mera negazione o una mera privazione della grazia. Che esso non è già puramente un disordine nella natura animale, conciossiachè l' animalità non ha per sè stesso niente che sia bene o male morale. Che tuttavia il disordine dell' istinto animale, in quanto è congiunto individualmente al soggetto umano, si fa materia alla reità di questo soggetto. Che il peccato originale risiede nella natura intellettiva e volitiva dell' uomo: e principalmente in una stortura abituale della volontà (6), ma di quella volontà primitiva che entra come un elemento essenziale della natura umana e che costituisce il principio attivo del soggetto uomo e ancor più della persona (7). Di che abbiamo conchiuso che il peccato originale infetta la stessa personalità dell' uomo e che perciò, oltre al chiamarsi naturale, deve poter ricevere anche l' appellazione di peccato personale. Ora col nome di concupiscenza noi denomineremo in generale qualunque conversione dell' uomo al bene commutabile in onta di Dio (2): e dopo di ciò ecco la definizione che noi proponiamo del peccato originale: Il peccato originale è una cotal concupiscenza e inclinazione al male della volontà (non già solo dell' istinto animale) in quanto questa volontà è la suprema parte attiva dell' uomo, e però quell' elemento nel quale risiede la personalità umana. Noi abbiamo definita la imputazione delle azioni quello attribuirsi che si fa alla persona le azioni morali come a loro causa (3). Per ciò non vi è imputabilità dove il principio da cui muove l' azione non sia la persona. Ma il peccato originale abbiamo veduto essere anche personale, cioè infettare la stessa persona e ricevere da questa la sua qualità di vero e formal peccato come da suo primo principio formale. Per ciò è manifesto il perchè per cui il peccato originale venga imputato all' uomo che per generazione lo contrae. Ma di qual genere è ella l' imputabilità del peccato originale? Noi abbiamo distinto due specie di imputabilità, la imputabilità del peccato e la imputabilità della colpa (4). Noi abbiamo detto, quando la persona umana colla sua volontà è opposta alla legge, allora vi è peccato . Se questa opposizione della volontà è libera allora vi è colpa , cioè allora il peccato è imputabile a colpa (5). Or egli è manifesto, che il peccato di origine non si contrae già per un atto di libera volontà, ma si contrae solo per un atto di volontà personale sì, ma non libera, del qual atto non è in potere dell' uomo far senza, ma anzi egli vien generato e naturato in quell' atto; sicchè non è già un atto posteriore alla sua esistenza, ma è contemporaneo e congiunto con quell' atto medesimo, col quale da principio esiste. Dunque il peccato originale non può essere imputabile di quell' ultimo genere d' imputabilità che abbiamo accennato, ma sol di quel genere d' imputabilità che spetta al peccato che non è colpa personale: ad Adamo poi che lo commise liberamente fu imputabile eziandio a colpa. Egli è così che conviene intendere l' angelico Dottore quando, parlando dell' imputabilità del peccato originale, la riferisce sempre in Adamo: a quel modo che l' errore di una mano o di un piede s' imputa all' uomo o all' anima che mosse quella mano o quel piede. Si deve intendere che il santo Dottore parli del primo e del perfetto genere d' imputabilità, cioè della imputabilità a colpa: perocchè anche il peccato s' imputa alla persona, ma in altro modo, e talora non si diede a questo secondo modo il nome d' imputabilità. Ecco i passi dell' Aquinate: [...OMISSIS...] . E applicando questo principio al peccato di origine, così dice: [...OMISSIS...] . Sicuramente non voleva S. Tommaso con queste parole t“rre quella imputabilità del peccato originale che viene alla persona generata in esso dall' esserle peccato proprio: conciossiacchè è intrinseco alla natura del peccato che la persona che lo possiede abbia da lui vituperio e macchia di reità: il che è appunto quel genere d' imputazione che noi troviamo essere nel peccato originale e che è essenzial cosa in ogni peccato. Lo stesso si dica delle due specie di demeriti che corrispondono alle due specie d' imputabilità (2). Ognuno ben vede quale de' due appartenga al peccato di origine. Dopo fatta la sposizione della dottrina del peccato originale, egli è facile intendere come la rivelazione risponda alle tre grandi questioni che l' infelice stato dell' umanità offre al pensiero, che la filosofia non ha mai potuto sci“rre e che pur sono di tanta necessità all' uomo di saperne il risolvimento (3). Alla seconda questione che dimanda: come convenga alla giustizia dalle mani della natura, risponde la rivelazione che non la natura il fece tale, ma si corruppe da sè medesimo. Alla prima questione: come l' uomo possa essere uscito così misero divina che sia soggetto ai dolori e alla morte anche il bambino che non ha ancor commesso alcun peccato attuale, la rivelazione risponde che anche in quel bambino, pur colla sua medesima generazione, entrò una infezione segreta e intima che pervertì la sua morale natura e storse la sua volontà, rendendolo per tal modo di un volere perverso, e che è la pena di questa morale corruzione in tutti quei mali a cui va soggetto (1). Alla terza questione finalmente che cerca l' origine di quella perpetua lotta e contraddizione che l' uomo prova in sè medesimo, sempre sbattuto fra una legge augusta che gli intima il bene e un incalzante e perpetuo movimento che lo caccia al male, la rivelazione risponde esser quella legge impressa da Dio e non possibile a cancellarsi, ed essere quel funesto stimolo opposto alla legge la stessa ribellione dell' uomo al suo Creatore, ribellione mutata in una infelice servitù e in un istinto lagrimevole che il precipita al male. E così è sciolto il gran nodo e spiegato il grande enigma della natura umana. Questa proposizione è della fede cattolica. [...OMISSIS...] . Come abbiamo distinte due imputazioni, due meriti e due demeriti, così abbiamo distinte altresì due maniere di retribuzioni, di premii e di pene: l' una che consegue al peccato e che abbiamo nominata retribuzione e pena di fatto, l' altra che consegue alla colpa e che abbiamo nominata retribuzione e pena di diritto (1). La prima di queste due pene che si può dire anche pena naturale, perchè viene da sè come natural conseguenza del fallo commesso, è quella che appartiene al peccato originale. E veramente noi abbiamo detto che questo peccato è della natura e che essendo annesso alla natura come un cotal morbo, viene colla natura trasmesso, e per ciò una tal pena viene naturalmente comunicata. Abbiamo veduto che il principio supremo dell' uomo, la personalità, è quella che vien lesa dalla corruzione originale. Egli è appunto per questo che la corruzione originale ha la propria e vera ragion di peccato, sicchè l' infezione della persona è ciò che vi ha di formale nel peccato originale. Abbiamo veduto che anche tutte le potenze dell' anima sono state vulnerate dal peccato originale. Ora questa lesione e questo deterioramento delle potenze, quando si considera da sè solo, cioè prescindendo dal principio supremo costituente la personalità dell' uomo, allora non costituisce propriamente alcun peccato, ma solo ciò che si chiama la materia del peccato. Ove però questo guasto sia unito alla deformità della persona, allora forma una cosa sola col guasto personale per l' unità individua che formano le potenze col loro principio supremo: allora anche il guasto delle potenze partecipa la ragione di peccato: allora nell' uomo si considera una sola grande e universale corruzione, la qual tutta è morale e tutta insieme dicesi peccato originale: e solamente per astrazione della mente si può considerare il guasto delle potenze a parte dal guasto della persona, chiamando quello la parte materiale del peccato. Nè solo il guasto delle varie potenze si considera come formante un solo peccato di origine col guasto della persona; ma le stesse operazioni che fa l' uomo impulso e mosso dall' originale colpa si possono considerare come comprese nel peccato di origine. Di che si vede ragione onde nelle divine Scritture si dica che l' uomo è concepito non solo nel peccato, ma nei peccati: [...OMISSIS...] . Or da quello che fu esposto apparisce come le potenze, non solo prese in relazione con loro e col soggetto principio di esse, ma ben anche considerate singolarmente, soffrono dalla infezione originale una intrinseca alterazione e deterioramento. Considerate poi in relazione col soggetto che è il loro principio, le potenze ricevettero dalla infezione originale la disarmonia , per la quale non si trovarono più egualmente sottomesse al soggetto medesimo: e ciò era degno, dopo che l' uomo si era sottratto dalla soggezione a Dio (2). Una evidente prova di fatto di questo cotale indebolimento che ricevette la signoria del soggetto sulle potenze, e della prevalenza presa da queste su di quello, si ha in ciò che il soggetto trovasi impacciato e legato nell' operare delle potenze: di maniera che a ogni potenza, per così dire, riesce di tirare a sè il soggetto e interessarlo tutto, per così dire, dell' affare suo; quasi come un debole principe che vien guadagnato facilmente dai partiti e prende impegno degli interessi parziali, prodigando in servigio di essi la sua autorità e potenza che dovrebbe essere riservata solo all' interesse generale. Così, a ragione di esempio, l' istinto animale suol talora esercitare una tal forza sul soggetto che il soggetto o è impedito dall' usare della ragione, o vien tratto a usarne in servigio dello stesso appetito e, per affetto dato a questo, anche a traviare il ragionamento in errori e fallacie. Se il soggetto avesse un proprio sentimento sì forte e dignitoso, in cui trovasse più nobil diletto che in quello che a lui dà o promette l' istinto animale, non abbasserebbe mai sè stesso mendicando la sua felicità da questo istinto e nell' interesse di questo riponendo tutto l' interesse proprio. Or solo in tal caso egli potrebbe essere signore dell' istinto animale, facendone quel conto, nè più nè meno, ch' egli si merita: in tal caso egli avrebbe una indipendenza dall' istinto animale e potrebbe lasciar operare l' istinto animale, senza prendere egli parte nella operazione, senza mettere in azione la forza propria a vantaggio di quell' istinto e senza muovere a favore dell' istinto la potenza razionale. In tal caso avverrebbe ancora che le operazioni di istinto animale nell' uomo non potrebbero turbare, nè alterare o impedire la intelligenza ne' suoi esercizii; e che anche nelle massime commozioni del senso animale una tranquillissima calma e un' attività imperturbata regnerebbe nella mente. E infatti l' istinto animale non ha veruna diretta comunicazione colla intelligenza, e queste due parti sono due essenze separate, l' una delle quali, per così dire, non sa niente dell' altra e per ciò non può agire l' una sull' altra nè sturbarsi a vicenda. Ma mediatore fra esse è il soggetto, ed è questo che comunica con l' una e coll' altra e che muove l' una e l' altra (1): ed è perciò che quando l' istinto animale ha tirato a sè e guadagnato il soggetto, allora per mezzo del soggetto muove a sua voglia e turba l' intelligenza (1). Egli è per questo che nell' uomo perfettamente costituito dalla natura le massime dilettazioni animali non potevano menomamente turbare l' uso della intelligenza. Egli è per questo medesimo che nel divino Redentore i movimenti della natura animale non impedivano quelli della razionale, ma che gli uni e gli altri erano tenuti indipendenti come a lui piaceva. [...OMISSIS...] . E per contraddistinguere questa passione ammodata di Cristo che non trascorre fuori dei limiti della sensibilità animale nè va appunto a dominare la ragione, separandola da quella passione smodata a cui va soggetto l' uomo corrotto, i teologi inventarono il nome di propassione e dissero che quella di Cristo era una propassione, e una passione quella degli altri uomini (3). Un' altra prova della debolezza della forza del soggetto si è che ove le potenze inferiori non riescano a tirare a sè e disporre del soggetto stesso, stando questo saldo in opporsi a ogni smoderato lor desiderio, allora si partono da lui e operano senza sua dipendenza, rifiutandosi a ogni soggezione. Sicchè o tirino esse il soggetto nei proprii interessi, o nol tirino, mostrano egualmente che egli è troppo debole ed esse troppo forti, perocchè o lo hanno legato, o esse almeno vanno sciolte da lui. E perchè il soggetto umano è persona, le potenze, se operano d' accordo colla persona, hanno un atto personale, ed essendo riprovevole questo atto, il male che fanno è personale: o dove il loro operare dall' intenzione della persona discorda, ivi cessa dall' essere personale e rimane solo un disordine materiale. S. Agostino, parlando delle conseguenze del peccato originale, le distingue secondo le potenze passive e attive dell' umana intelligenza; e nelle potenze passive trova essere la piaga dell' ignoranza , e nelle potenze attive la difficoltà di fare il bene (1). Vi fu altri che, analizzando la difficoltà di fare il bene, trovò che ella nasce da tre infelici principii, cioè dalla malizia che impiaga la volontà , dalla debolezza che impiaga quella interna forza per cui l' uomo è atto alle cose difficili, e che fu detta irascibile ; e finalmente dalla concupiscenza che offende l' inclinazione al diletto, detta concupiscibile (2). Ora perchè tutti questi danni, in quanto riguardano la parte morale dell' uomo, ricadono tutti in detrimento e perversione della sua volontà , per ciò noi ci tratterremo solo a raccogliere qui in poche parole ciò che ebbe a soffrire la libertà umana dal peccato originale (3). Il potere della libera volontà nello stato dell' uomo innocente si stendeva non solo alla virtù naturale, ma ben anche alla soprannaturale. Ma il potere di operare soprannaturalmente venendo all' uomo conferito dalla grazia, egli è manifesto che, sottratta la grazia, l' uomo non ebbe più questo potere. E in ordine appunto alla virtù soprannaturale si devono intendere molti luoghi di S. Agostino, ove sembra dire che sia perito il libero arbitrio dell' uomo. L' uomo non potè più operare cosa alcuna di buono in quell' ordine dal quale era decaduto e nel quale non era in conseguenza di sua natura, ma solo in conseguenza di un dono sopraggiunto alla sua natura gratuitamente da Dio (4). Nello stesso ordine di cose soprannaturali si devono principalmente intendere quelle parole di Cristo: « Senza di me non potete far nulla« (5) »; e quegli innumerevoli luoghi delle divine Scritture ne' quali si afferma la necessità della grazia divina per qualsivoglia opera salutare, eziandio per le parole e pei pensieri (6). E ciò perchè sebbene l' uomo nell' ordine naturale possa fare qualche cosa colle forze della natura, purchè Dio lo aiuti come autore della natura, mantenendogli l' esistenza e le forze coi loro atti; pure questo qualche cosa è detto nulla nelle Scritture, perchè è un vero nulla per l' uomo, conciossiachè è nulla al fine di esso uomo, cioè all' eterna salute che è come il frutto, a portare il quale l' uomo fu creato. Perciò Cristo illustra il suo detto: « voi senza di me non potete far nulla« »; colla similitudine del tralcio che non può far nulla senza essere inserito nella vite. Questo far nulla del tralcio reciso dalla vite equivale a non portare il suo frutto: ed il tralcio della vite veramente non fa nulla se non vegeta e non produce il suo frutto, sebbene gli rimangono tuttavia le proprietà del legno secco e sia idoneo per avventura a certi usi e ad ardere. Cristo dichiarò ancora il suo pensiero in quei luoghi, nei quali, invece di dire che non potevano far nulla, disse in ragione di esempio: « Nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre mio« (1) »; o usò altre simili espressioni che evidentemente trattano dell' eterna salute degli uomini, del bene completo spettante all' ordine soprannaturale. Che cosa poi sia quest' ordine di cose superiore alla umana natura, appare manifestamente da ciò che abbiamo detto nel libro I di questa opera, dove lungamente abbiamo dei due ordini naturale e soprannaturale tenuto ragionamento: e le cose quivi ragionate or più che mai ci bisogna rammemorare. Conciossiachè risulta da quanto colà fu detto che la operazione soprannaturale fa due cose nell' uomo: 1 o dà delle notizie nuove; 2 o dà nuova luce e forza alle notizie naturali. E applicando questa distinzione alle cose morali, ne verrà che il lume della grazia produrrà nell' uomo che lo partecipa 1 delle obbligazioni nuove , le quali corrispondono alle nuove notizie da lui per tal lume acquistate; 2 e certe modificazioni circa le obbligazioni vecchie, cioè circa le obbligazioni che aveva l' uomo di eseguire i precetti naturali, di modo che egli debba, avuta la grazia, eseguire i precetti naturali in un modo nuovo (soprannaturale): le quali modificazioni corrispondono alla nuova luce aggiunta alle notizie precedenti e naturali. Or, ciò posto egli è evidente che, essendo perito nell' uomo col peccato tutto che aveva di soprannaturale, esso uomo perdette il potere non meno di eseguire i precetti naturali in modo soprannaturale. Ed è questa dottrina come evidente in sè stessa, così conforme alla mente dell' angelico Dottore, il quale, dimandandosi se l' uomo possa adempiere i precetti della legge colle sue forze, risponde: [...OMISSIS...] . I precetti adunque naturali si possono eseguire in qualche parte, ma non già in un modo soprannaturale, e solo in un modo naturale: altramente il libero arbitrio dell' uomo sarebbe interamente perito, contro la definizione del sacrosanto Concilio di Trento. E qui conviene avvertire che l' uomo, il quale si trova nell' ordine della natura, e a cui perciò è impossibile l' operare nulla nell' ordine soprannaturale, poichè in ciò fare non ha nè meno la facoltà, non è obbligato di eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, conciossiachè, come dice il Concilio di Trento, Iddio non comanda le cose impossibili. Chè se l' uomo, che si trova nell' ordine della natura, fosse obbligato ad eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, in tal caso egli peccherebbe ogniqualvolta operasse il bene naturale: il che è contrario a quanto è stato definito dalla Chiesa nella condanna di quella proposizione: Che tutte le opere degli infedeli sono peccati (2). Egli è bensì vero che la virtù naturale non porta alcun effetto soprannaturale e perciò non dà all' uomo in alcun modo l' eterna vita, la quale consiste nella visione di Dio; ma se l' uomo che fedelmente eseguisce la legge della natura viene escluso dal celeste regno, il quale aver non si può che per la grazia di Gesù Cristo, non ne siegue da questo che egli debba venire anche positivamente punito con giudizio proprio e speciali supplizii destinati a farvi scontare le sue buone opere naturali. La quale dottrina, sebbene noi sappiamo spiacere a certi Teologi di stretta sentenza, tuttavia noi la teniamo, intimamente persuasi di aderire con essa ai sentimenti della Chiesa cattolica e alle decisioni dell' Apostolica sede. E forse la divergenza delle opinioni fra i teologi che trattano di queste materie nasce dal non essersi ancora dopo tante dispute sufficientemente chiarite le idee elementari della controversia: il che vogliamo provarci a far qui noi brevemente. Ma prima, o simultaneamente, rendiamo ragione della nostra sentenza. La difficoltà che trovano gli avversarii è nel precetto dell' amore di Dio. Perocchè, dicono essi, egli è necessario che i precetti stessi naturali, acciocchè sieno bene eseguiti, si facciano pel motivo dell' amore di Dio. Ma l' amore di Dio è certo non potersi avere se non per dono di Dio stesso. E perciò l' uomo senza la grazia non può eseguire i precetti naturali pel giusto motivo; e in questa mancanza di motivo è il peccato che lo condanna anche allora quando egli adempie la materialità del precetto naturale. Ora noi crediamo che in questa materia si deva primieramente esaminare la vera natura del precetto di amare Iddio. Egli è espresso in queste parole: « Amerai il Signore Dio tuo di tutto il cuore tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua« (1) ». Egli è il medesimo che dire che l' uomo deve amare Iddio con tutte le sue forze, cioè con tutta la facoltà di amare che ha l' uomo, o, come è in S. Marco, con tutta la sua virtù, la quale risulta dalle forze del cuore, della mente e della stessa vita animale. Perciò in questo precetto non si comanda già all' uomo che ami Iddio con quelle forze che egli non ha: nè gli si comanda che egli impieghi all' amore divino quelle facoltà o potenze che non sono ordinate a questa operazione. Perocchè se tutte le potenze, anche di altra natura non ordinate all' operazione dell' amore, soggiacessero al precetto di amare Iddio, converrebbe che questo precetto obbligasse anche le pietre e gli animali, i quali hanno pure delle forze e delle potenze, ma il cui oggetto non è Dio conoscibile e amabile. Sarebbe ciò contro la natura delle cose: e questa oppugnazione della natura non può essere nella legge che viene da Dio, il quale è l' autore di essa natura. Laonde ciò che è comandato all' uomo si è di amare Iddio con tutto il potere che egli ha, sia questo potere naturale, sia soprannaturale. E perchè la grazia aggiunge una cotal forza alla essenza dell' anima congiungendola con Dio, della quale partecipano tutte le potenze; per questo in virtù della grazia viene ordinato all' amore divino il cuore, la mente, e l' anima, e a tutte e tre queste parti dell' uomo viene aggiunto un potere dalla operazione della grazia di tendere soprannaturalmente in Dio. Se ciò non fosse, ne verrebbe anche un altro assurdo, che la quantità del divino amore non potrebbe crescere, nè diminuire negli uomini: ovvero che in quell' uomo nel quale il divino amore non fosse pervenuto al sommo, cioè a tale che non potesse più crescere, per quantunque grande fosse il suo amore, non valesse nulla, ma sempre in lui esistesse il peccato e la violazione di quel massimo precetto di amar Dio con tutto il cuore, con tutta l' anima, e con tutta la mente. Il che è sommamente assurdo e sommamente contrario alla cattolica verità, la quale ci ammaestra anzi a credere che anche il giusto, fin che trovasi in questa vita, può crescere sempre in amore, e cresce e crescerebbe tuttavia ove anco la vita sua fosse lunga come quella de' Patriarchi e più. Or che è ciò? Ciò nasce da questo che l' uomo non è obbligato di amare Iddio con quel potere che egli non ha, ma sì solo con tutto quello che egli ha; e che l' amore può crescere perchè può continuamente crescergli questo potere con un grado maggiore di grazia che Dio gli conferisca. E perciò nessuna maraviglia che vi abbiano molti giusti i quali, amando disugualmente Iddio, sieno nondimeno tutti giusti, perocchè tutti amano Dio col potere che hanno e tutti adempiscono il precetto che loro comanda di amare Iddio con quel cuore, con quell' anima e con quella mente che hanno. Perocchè quel precetto non dice amerai Iddio col cuore, coll' anima e colla mente; ma dice col cuore tuo, coll' anima tua, colla mente tua: che è quanto dire con quelle parti e facoltà che tu hai. E una dottrina contraria a questa addurrebbe, per mio avviso, ogni uomo in disperazione: perocchè qual uomo mai potrebbe vivere con buona fiducia di adempire il gran precetto dell' amore se fosse altramente? Or posto che abbiamo questo fondamento, egli mi par certo altresì e consentaneo agli insegnamenti dell, Apostolica sede, avervi un duplice amor divino, l' uno naturale, e l' altro soprannaturale. Egli è notabile la proposizione condannata da Pio V: [...OMISSIS...] . Dunque è vera la contraria, che la distinzione di un doppio amore, naturale e gratuito o soprannaturale, ha suo ragionevole fondamento. Vero è che l' amor naturale e l' amore soprannaturale non è ben descritto ed espresso in quella proposizione: conciossiachè la natura dell' amor naturale non consiste già in questo che si ami Iddio come autore della natura, ma che lo si ami con forze e facoltà naturali, insomma con amore naturale. Conciossiacchè può Iddio amarsi come autore della natura, e tuttavia amarsi soprannaturalmente, se ciò si fa per istinto dello Spirito Santo. E questa è una di quelle distinzioni per mancanza delle quali io dicevo non essersi ancora intieramente chiarite le idee elementari di questa controversia. Il perchè non pochi teologi ritennero che fosse uopo la grazia per amare Iddio anche come autore della natura: e bene e ottimamente così ritennero secondo il loro intendimento, perocchè intesero di un amor di Dio, il quale si riferisse bensì all' autore della natura, ma fosse insieme un amore supremo, un amore sufficiente alla salute; ciò che è quanto dire un amore soprannaturale (1). L' amore dunque naturale di Dio consiste in amare Dio colle forze naturali, in amarlo come naturalmente il conosciamo. E certo è che esiste nella umana natura un potere di amar tutto ciò che l' uomo conosce come buono. Ma l' uomo può conoscere naturalmente Dio e conoscerlo come bene; perciò sarebbe affatto gratuito e contrario a ciò che insegna l' osservazione intorno alla umana natura il dire che questo bene che naturalmente conosce, nol possa altresì amare a quel modo che l' uomo ama qualunque altro bene tosto che da lui è conosciuto. Egli è vero bensì che la cognizione che l' uomo può avere di Dio per natura è sommamente tenue, perocchè essa non si appoggia a nessuna percezione, ma finisce tutta in una cognizione che abbiamo chiamata ideale7negativa, e che abbiam di sopra diligentemente descritta. Egli è vero ancora che un oggetto, che non si conosce se non mediante una cognizione così tenue e imperfetta, non si può amar vivamente; perocchè sebbene si conosca per bene sommo e infinito, tuttavia il modo di questa cognizione fa sì che questo bene sommo e infinito sia presente al nostro spirito debolissimamente e non vi eserciti se non una minima azione: un' azione che noi abbiamo chiamata ideale per distinguerla dall' azione che fanno su di noi le cose reali, cioè le cose di cui abbiamo la reale percezione. E tutto ciò prova la poca efficacia che deve avere questo amor naturale di Dio: ma non prova già che questo amore naturale non esista: prova la necessità della grazia perchè l' amore di Dio domini stabilmente nelle anime nostre: prova finalmente che questo amore non può reggersi a lungo contro a delle forti tentazioni, delle quali tentazioni è piena la vita umana, che le percezioni delle sensibili cose colla loro violenza tirano e governano a loro talento. Ma non prova già che alla forza che ha la natura umana di amare e che fa suo oggetto tutte le cose anche solo idealmente concepute, non possa punto fare suo oggetto anche Dio medesimo. S. Agostino dice che la natura invita ad amare Iddio e invita non solo quelli che hanno l' abito della grazia, ma tutti indistintamente gli uomini. « Il cielo e la terra, egli dice, e tutte le cose che in essi si contengono, ecco da ogni parte mi dicono che riami, nè cessano di dirlo a tutti acciocchè sieno inescusabili« (1) ». E il medesimo ripete di continuo la divina Scrittura intesa a far delle cose create scala al Creatore, come specialmente in quel sublime passo di Giobbe che comincia: « interroga i giumenti e ti ammaestreranno; e i volatili del cielo e ti daranno cenno« (2) ». Dove l' uomo è sollevato a considerare la grandezza del Creatore dalle cose dell' universo. Or se l' uomo ha questa cognizione di Dio, se da questa cognizione esce il debito di amarlo e ne sente la convenienza e suprema necessità; onde poi si dirà che per solo questo oggetto, il maggiore di tutti, gli sia impossibile fare un atto di amore, quando pure ha per natura il poter amare ogni altro oggetto che conosca sotto specie di bene? Egli è vero che il grado e la qualità dell' amore non è in proporzione dell' oggetto conosciuto, ma del modo di conoscerlo , come dicevamo: ma ciò non prova se non che l' amor naturale è tenue e inefficace, sebbene è amore. Egli è di questa inefficacia che deve parlare S. Agostino; è dell' amore soprannaturale che ei vuole alludere quando, dopo aver detto che il cielo e la terra il chiamavano ad amar Dio, soggiunge: « Ah! da più alto tu fai misericordia a cui fai misericordia, e misericordia farai a cui la farai: chè altramente il cielo e la terra parlano ai sordi le lodi tue« (3) ». Perocchè quelli che non hanno la grazia non possono intendere appieno le voci della natura, le quali certamente chiamano ad amar Dio non solo naturalmente, ma soprannaturalmente ancora: e così le intendevano i Santi, i quali da ogni oggetto naturale venivano innalzati ad atti di amor di Dio soprannaturale. Dopo di tutto ciò ancor resta a vedere se sia cosa del tutto sicura che i precetti naturali non si possano onestamente compire se non pel motivo dell' amore di Dio, e che adempiti senza questo motivo contengano una reità, una colpa. E intanto mi par di poter affermare come cosa certa che quell' uomo, il quale non abbia se non le sole forze della natura, tutto al più non possa essere obbligato se non ad adempire i precetti naturali pel motivo di un naturale amore di Dio, il quale abbiamo veduto esser possibile. Perocchè in tal modo egli dà al Creatore tutto quell' onore e quell' ossequio supremo del quale egli è capace, nè più esige dalle sue creature l' ottimo degli enti. Ma dopo di ciò io sostengo che nè pur tutto questo sia necessario, acciocchè l' esecuzione del precetto naturale sia interamente buona; ma che basti che il precetto naturale si eseguisca per amore della giustizia. Egli è vero che l' amore della giustizia si può, in un cotal senso, prendere per un amore di Dio, perchè Iddio è la verità e la giustizia stessa: e dove si prenda in tal senso, accordo anch' io che ogni precetto naturale, perchè sia onestamente eseguito e non abbia in sè alcun morale mancamento, debba essere adempito pel motivo dell' amor di Dio. Ma più propriamente parlando, mi sembra doversi distinguere l' amore di Dio e l' amore della giustizia: perocchè la giustizia, come noi naturalmente la veggiamo, non è che un ente ideale, una regola della mente nostra, una idea, e propriamente la grande, la prima idea, l' idea dell' essere in universale. Ora un' idea non è ancora Dio, perocchè Dio è anche una sussistenza. Egli è vero che quell' ente medesimo che da noi idealmente si concepisce, ha una sussistenza in sè che noi non veggiamo e che veggendola noi ci si rivelerebbe in forma divina e lo percepiremmo allora come Dio. Ma fino a tanto che lo percepiamo idealmente, non lo percepiamo come Dio, e ciò che facciamo per la riverenza e l' amore che riscuote da noi questo ente ideale, non si può, a tutto rigore, dire che noi il facciamo ancora per riverenza e amore di Dio; sebbene divina sia quella forza che riscuote da noi tanta riverenza e tanto amore. Ove non contendo di parole, come dicevo, e se si voglia mi accompagnerò a quelli che dicono operarsi da noi per amore di Dio tutto ciò che si opera da noi per amore della giustizia: purchè però mi si conceda di denominare l' amore della giustizia un amore di Dio mediato , e l' amore di Dio come essere sussistente, un amore di Dio immediato . Ciò adunque che io accorderò sarà questo solo, che perchè nel modo di eseguire i precetti naturali non ci abbia peccato, è necessario che essi si eseguiscano per un amore di Dio mediato . Che se poi si eseguiscono per un amore di Dio immediato , allora l' operazione nostra non solo non ha in sè stessa alcuna immoralità, ma ella ha un grado di perfezione: e questa è la perfezione della giustizia naturale. Che se poi essi si eseguiscono pel motivo dell' amor di Dio immediato e soprannaturale, l' operazione nostra ha conseguita la perfezione anche nell' ordine soprannaturale. Ciò che mi persuade questa dottrina è non solo la ragione dell' assurdo che ne seguirebbe se vera fosse la contraria, cioè che Dio giustissimo punisce le operazioni fatte per l' amore della giustizia; ma ben ancora il parermi solo fra tutte consentanea alle decisioni della Chiesa. Consideriamo le proposizioni condannate da Alessandro VIII intorno al peccato filosofico. Esse sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Se queste proposizioni sono condannate, dunque convien dire che sieno vere le contrarie: dunque un atto umano contrario alla retta ragione è un' offesa di Dio per sè, senza bisogno che colui che lo commette conosca Dio o a lui pensi. Ora un atto umano contrario alla retta ragione è lo stesso che un atto contro alla giustizia: dunque chi pecca contro la giustizia, offende Iddio senza più; la deformità dell' atto va a offendere Dio stesso appunto perchè Dio è la giustizia. Se dunque ciò è vero, sarà vero, altresì al contrario che quegli che opera in ossequio della giustizia, opera in ossequio di Dio (2); che il suo atto terminando nella giustizia, termina in Dio stesso e che perciò non può essere disaggradevole a Dio. Egli è che Dio non è conosciuto nel suo essere sostanziale e reale, ma dal momento che si conosce la verità e la giustizia, egli è con questo solo conosciuto almeno nel suo essere ideale: e questa cognizione della verità è comune a tutti gli uomini. Il perchè egli è certo che tutti gli uomini in questo senso conoscono Iddio per natura, sebbene molti il possano ignorare nella sua sostanziale e personale sussistenza (3). Egli pare dunque certo che nell' ordine della natura l' uomo, il quale opera pel motivo della giustizia naturale, non pecca nè in quanto alla sostanza del precetto, nè in quanto al modo. Si dirà probabilmente che consistendo la giustizia nell' amare le cose secondo quello che meritano e il lor merito essendo determinato dal modo della loro esistenza, non si può amare nessuna cosa legittimamente se non in Dio, perchè dipende da Dio l' esistenza di ogni cosa. - Ma rispondo che la obbligazione che abbiamo di amare le cose non è proporzionata all' esistenza delle cose come ella è in esse, ma come questa loro esistenza è nella nostra cognizione. Or in quelli che non conoscono Dio come essere sussistente o che attualmente non ci pensano, basta come dicevamo che le operazioni loro sieno riferite in Dio mediante quello che abbiamo chiamato l' amore mediato , cioè l' amore della giustizia, la quale luce sempre presentissima nelle anime intelligenti; perocchè in questa disposizione di operare è compreso virtualmente anche l' amore di Dio immediato. Si ripiglierà dicendo: che l' uomo essendo a principio costituito in uno stato di grazia, si trovò obbligato con ciò stesso a praticare la virtù anche nell' ordine soprannaturale. Or l' uomo si rese impotente a ciò col peccato. Ora egli è dunque sua colpa se gli mancano le forze a praticare la virtù soprannaturale. - Ragionevole è la istanza; e io non nego che l' uomo sia riprovevole in causa del mancargli le forze soprannaturali. Ma tutto ciò che ho detto non riguarda la causa dell' operazione, ma riguarda l' operazione stessa, e l' operazione non è punto difettosa se vien fatta per la giustizia. Vero è che gli manca un pregio, cioè la grazia: ma questo mancamento rifondesi nel peccato originale, è un elemento, una parte del peccato originale stesso. L' uomo cioè che nasce col peccato originale, operando giustamente secondo la legge naturale, non si aggrava già di un nuovo peccato; ma non resta nè meno di essere peccatore nella sua origine. E questa risposta credo poter soddisfare a qualsivoglia ragionevole avversario. Da tutte le quali cose consegue che all' uomo, sebbene infetto dal peccato originale, rimane qualche parte di libero arbitrio con cui può fare degli atti di virtù naturale (1). Sarebbe poi un entrare in altra ricerca chi si facesse a stabilire qual grado di forza s' abbia una cosifatta libertà, e per farne un cenno, dico che questo grado di libertà non si può con una universal misura definire, poichè varia nei varii uomini. Solo due cose si può dire in universale, la prima che in qualche modo definisce questo grado negativamente; e la seconda positivamente. Negativamente si viene in qualche modo a definire il quanto di questa libertà dicendo, che ella è poca e non tale che valga a vincere gravi tentazioni: ciò che consegue dalle dottrine già da noi esposte (2). Ove dunque la causa della virtù sia congiunta con quella della felicità ossia de' beni temporali, l' amore della virtù non riceve alcuna scossa e può operare. In ragione di esempio, la santità del giuramento nel caso di Regolo e il dovere di difendere la patria erano sostenuti e congiunti coll' amor della patria e della gloria e mediante questa alleanza di beni temporali e reali potè vincere la grave tentazione de' supplizi che gli vennero minacciati (1). Ma questa grave tentazione non l' avrebbe probabilmente vinta col solo motivo dell' onesto e del giusto, quando nessun altro motivo di amor temporale non fosse concorso ad aiutarlo in ciò. Dove adunque l' amore della giustizia non è combattuto da veruna tentazione, egli è uno stimolo sufficiente all' uomo per operare: ma dove abbia incontro delle tentazioni forti, l' uomo con lui solo non regge, vincendo l' amore della cosa reale sopra l' amore della cosa ideale, sebbene tanto più nobile e autorevole; ed è necessario in questo caso che il forte urto che produce contro il proposito della giustizia l' amore della cosa reale sia eliso da qualche altro amore pure di cosa reale acciocchè la giustizia prevalga. Positivamente poi si può in qualche modo determinare il grado di forza della naturale libertà dell' uomo, dicendo che egli è pari a quel grado di forza che può avere od acquistare nei diversi uomini l' amore della giustizia. Or quest' amore della giustizia varia di forza secondo le indoli naturali degli uomini, le educazioni e le abitudini contratte. E a tutte queste cose si deve aver riguardo ove vogliasi determinare in qualche modo quanto l' uomo colle forze naturali possa essere giusto (2). Certo che si ha per dimostrato da una funesta e universale esperienza che l' uomo non vale a reggersi giusto colle forze naturali per tutta la vita, nè per molto tempo, nè relativamente a tutti i precetti naturali; conciossiacchè troppe sono le tentazioni e troppo violente. E ciò basta a poter affermare che ogni uomo anche nell' ordine della virtù naturale è infermo e aggravato d' ingiustizia. Abbiamo veduto che pel peccato originale rimase infiacchita la forza della libertà con la quale l' uomo esercita la virtù naturale. Ora ci rimane a dichiarare meglio la natura di questo infiacchimento. Ogni atto onesto si pone in virtù di un giudizio di special natura che noi abbiamo chiamato giudizio pratico (1). La forza dunque della libertà non è altro che la forza di formare questo giudizio pratico a favore della virtù. Egli rimarrà dunque spiegato come la libertà sia stata vulnerata e indebolita, allorquando avremo dichiarata la ragione perchè in noi sia scemata la forza di formare il giudizio pratico in favore della legge della giustizia. Il giudizio pratico è quello pel quale noi in sull' atto dell' operare nostro, diciamo, considerate tutte le circostanze del momento, che qui e ora sia più bene per noi l' azione onesta, che la sua contraria: conciossiacchè, come abbiamo veduto, ciò che noi giudichiamo essere più bene per noi, tutto ponderato, nell' istante in cui operiamo, quello indubitatamente operiamo. Pratico adunque è quel giudizio che è il più particolare di tutti, e che precede prossimamente l' azione; cioè quel giudizio che determina del bene particolare, del bene risultante da tutte le circostanze in cui ci troviamo. E questo è ciò che il distingue dal giudizio speculativo, il quale è universale e non calcola le circostanze tutte dell' istante in cui cade l' operazione: ma solo ha riguardo all' oggetto e alle circostanze idealmente e specificamente considerate. Quindi è ancora che il giudizio speculativo non suole riguardare che una classe di bene, per esempio il bene onesto: come sarebbe che uno dicesse: si deve fare la tal cosa, la legge comanda la tal' altra; ovvero il bene eudemonologico, come chi dicesse: è utile questa operazione, è velenosa questa specie di frutti. Ma all' incontro il giudizio pratico abbraccia tutte le specie di beni, e, consideratele tutte, conchiude dicendo: qui e ora è meglio che faccia questo. E da questa differenza fra il giudizio speculativo e il giudizio pratico si vede la ragione per la quale il giudizio pratico si trova molte volte in opposizione collo speculativo; e quindi qui è altresì la spiegazione di quel verso che è tanto ripetuto, perchè descrive un fatto solenne della natura umana: « Video meliora proboque, deteriora sequor ». Il giudizio speculativo dice, a ragione d' esempio: la legge comanda di non fare la tale azione. L' uomo che trascinato dalla passione la fa, non ignora questo giudizio speculativo e parziale, cioè riguardante il bene onesto. Ma egli nell' atto dell' operare contrappone a quel giudizio speculativo un giudizio pratico il quale dice così: è vero che io perdo facendo questa azione il bene onesto, ma dall' altra parte il diletto che ha congiunto è tanto grande che io lo preferisco al bene onesto, e per ciò giudico che, nel momento presente, per me sia meglio il farla. Questo è un giudizio ingiusto ed in ciò sta la reità dell' azione: ma egli appare però da tutto questo come la facoltà che ha l' uomo di peccare, sia preceduta dalla facoltà di errare volontariamente: poichè tale doveva essere il nesso fra il conoscere e l' operare in un ente ragionevole; per modo che ogni colpa è figlia di un errore (1). A conoscere dunque onde procede l' infiacchimento della libertà relativamente alla naturale virtù, conviene investigare quali sieno le cagioni che sebbene l' uomo conosca speculativamente il diritto e l' onesto, e sebbene egli sappia altresì che il bene onesto non ha comparazione con altro bene alcuno, ma possegga una somma e infinita dignità; tuttavia nell' atto di operare preferisca a esso il bene eudemonologico quale di presente gli apparisce. Or ciò nasce dall' apparirgli questo bene sommamente vivace, quando l' onesto nol percepisce che assai languidamente, e ciò per quelle ragioni che abbiamo accennato altrove lungamente. Il primo male conseguente al peccato di origine dalla parte di Dio è la perdita della grazia. A cui consegue la morte dell' anima. Perocchè abbiamo definita la vita una incessante produzione del sentimento. E abbiamo anche veduto che la grazia è una percezione incipiente di Dio, il quale collo starci aderente all' anima e operante in essa colla sua propria sostanza, vi suscita continuamente un sentimento deiforme, il quale è propriamente la vita soprannaturale dell' anima intelligente. Perocchè l' anima in quanto ha il sentimento animale, intanto non vive come intellettiva, ma unicamente come sensitiva, ovvero soggetto animale: ed egli non sarebbe assurdo il dire piuttosto che di questa vita vive il corpo e non l' anima, sicchè, distrutto il corpo, anche l' anima sensitiva non è più (1). Or vero è che l' anima intellettiva naturalmente concepisce l' essere ideale, ma questa sola tenuissima e uniforme concezione non gli dà un sentimento di cosa reale e tutto al più è un cotal principio di sentimento, e non un sentimento intero. Perciò l' anima intelligente senza la grazia non ha più per natura che un principio di vivere, ma le manca la vita intera, e per ciò dicesi morta. A intender meglio questo vero si consideri primieramente che l' anima col solo essere indeterminato non vede ossia non sente nessun essere finito; e l' essere e perciò il sentimento che le può venire dall' unione con l' essere indeterminato, è egli stesso al sommo confuso e indefinito. In secondo luogo, l' anima colla vista di questo solo essere, non discerne sè stessa, ma tutta esiste, per così dire, nel suo oggetto. In terzo luogo, ella non ha alcun movimento, ma solo quell' atto immanente pel quale esiste, e quel qualsivoglia principio di sentimento è pure immanente, nè racchiude un' azione, ma un cotal principio di azione che non va più là, che non si compisce. Or a un tal principio di sentimento non si può dare il nome di vita, la quale abbiamo fatta consistere non in un principio di sentimento, ma in un sentimento compito e anzi in una incessante produzione di questo sentimento; nelle quali parole viene descritta una azione incessante e che, per così dire, continuamente si rinnova e si finisce. Or perchè l' azione che produce o della quale è il sentimento sia compita, perchè nell' anima vi abbia, per così dire, un moto continuo, non è sufficiente che essa anima possegga il solo essere indeterminato e ideale, ma è necessario che soffra l' azione di un essere reale, dalla quale azione l' anima riceve un sentimento compito e comincia da questo il suo moto che consiste principalmente in un continuo passaggio della sua attenzione, ossia della sua attività dall' essere reale all' ideale e dall' ideale al reale, e dall' idea al sentimento e dal sentimento all' idea. Ora cessando nell' anima l' azione degli esseri finiti e materiali colla morte del corpo, ove Dio non le sia presente, cader si deve necessariamente in quel cotale immobile sopimento che ragionevolmente cessazione della vita, ossia morte si può denominare. E perchè la vita animale è precaria e non propria dell' anima, quindi è che l' anima priva della grazia non ha anche unita al corpo se non una vita effimera e porta in sè stessa la morte (1). Tutto questo ha luogo anche considerando l' anima umana come semplicemente priva della grazia, sebbene difformata non fosse da nessun proprio peccato. Che se ella, oltre esser priva della grazia, sia anche peccatrice, come avviene nell' uomo infetto dalla original colpa, allora vi ha nell' anima anche un' avversione, come abbiam detto più sopra, dalla verità e da Dio, che pur è sua vita: e in questo doppio senso giustamente il peccato originale è dichiarato dal Concilio di Trento morte dell' anima (2). Un' altra conseguenza del peccato di origine, considerato dalla parte di Dio, si è che l' uomo viene rimesso a una provvidenza generale e di mezzo, in luogo di esser governato da una provvidenza speciale e di fine. L' uomo innocente era il fine dell' universo: Iddio faceva di lui le sue delizie, stava congiunto intimamente con lui e quindi aveva di lui una provvidenza immediata e veramente di fine, sicchè tutte le cose dell' universo erano ordinate e volte a servire quest' uomo, delizia di Dio e in cui era Dio. Ma dall' uomo peccatore Iddio si separò: la causa dell' uomo da quell' ora non fu più la causa stessa di Dio. L' uomo peccatore non poteva essere vero fine dell' universo, poichè Dio solo è fine, e intanto l' uomo era fine dell' universo, in quanto partecipava di Dio e era fatto una sola cosa col Creatore. Rimase adunque l' uomo una semplice creatura: fu abbandonato alle proprie forze: la natura stessa e tutti gli esseri che la compongono furono abbandonati alle sue forze e l' uomo si trovò esposto a tutti quegli accidenti che potevano naturalmente intervenire dall' azione simultanea di tutte le innumerabili forze degli innumerabili esseri creati che esistono. Se la cosa fosse rimasta così, l' universo avrebbe perduto il suo fine; ogni straordinaria provvidenza sarebbe cessata dal mondo, e del mondo e dell' uomo sarebbe avvenuto tutto ciò che avessero prodotto il complesso delle forze naturali con tutti i loro ordini e collisioni. Ma essendo fra la umanità predestinato un Individuo che non doveva essere macchiato di peccato, e congiunto della massima congiunzione con Dio e di congiunzione indistruttibile; avvenne che questo Uomo rimase il vero Capo e il vero fine dell' universo: e questo fu l' Uomo Redentore anche degli altri uomini. Perocchè Iddio conservò per quest' uomo la sua provvidenza speciale, o piuttosto specialissima, e così tutti gli altri uomini decaduti, come tutte le altre cose dell' universo divennero mezzo alla grandezza, alla felicità e alla gloria di quest' Uomo7fine. Di che accadde che molti uomini furono sanati dal peccato e ricongiunti con Dio, appunto perchè anche questo era necessario, acciocchè l' Uomo7fine riuscisse il più grande, il più felice, il più glorioso che esser potesse. Conciossiacchè egli desiderò che fossero associati a lui i suoi simili; e non potevano essergli associati se prima non venivano giustificati: e giustificati che furono, ripresero anch' essi lo stato e la condizione di fine insieme con quegli che era fine per sè stesso e che chiamava altri in parte di questa sua dignità. Ma considerandoli però come peccatori, essi, come dicevamo, maggior grado non tengono che di mezzo : e per ciò fino che sono peccatori, di tanto la divina provvidenza a loro soccorre e provvede, di quanto è uopo perchè servano acconcissimamente al fine , a cui sono subordinati. Per la massima gloria adunque di Cristo sono stabiliti tanto quelli che si salvano come quelli che periscono. Se non che i primi passano a esser fine insieme con Cristo coll' uscire dallo stato di peccato; ed i secondi rimangono eternamente puri mezzi. Ai primi per ciò è destinata una piena beatitudine e soprannaturale che non può loro fallire, e nello scorgerli a questa consiste la speciale provvidenza che guarda sopra di loro e veglia a questo scopo tutti gli avvenimenti (1): ai secondi poi viene amministrata nella vita presente quella misura di beni e di mali che più conviene, acciocchè servano nel miglior modo alla gloria de' buoni: e nella futura parimenti vien fatto di loro ciò che valga a rendere più magnifico e glorioso il regno del prediletto di Dio Padre e degli amici suoi. Di che apparisce che la provvidenza universale e di mezzo, che sola presiede al governo di quelli che hanno in sè il peccato, contiene questi tre scapiti: a ) Che essi considerati nello stato di peccato rimangono in preda ai mali naturali e alla morte, perchè nessuna provvidenza soprannaturale li difende da quelli. Laddove i giusti non vengono sottomessi ai mali se non con certa misura e con un certo modo di amorosa predilezione; assicurandoci le divine Scritture che Iddio si serve a questo fine del ministero degli Angeli (2). I peccatori all' incontro di loro natura non hanno alcuna virtù soprannaturale che temperi e guidi in lor favore le forze della natura e delle creature tutte, se non per accidente, cioè in quanto ciò potesse tornare bene ai giusti (1). b ) Ed essendovi fra le creature anche degli esseri malefici, cioè i demonii, i quali sono forniti di forze atte a nuocere alla umanità, viene in conseguenza che l' uomo pel peccato originale rimane altresì in balìa dei demonii e, come dicono le Scritture e i Padri, sotto la servitù e potestà del diavolo (2). Tanto più che l' uomo del peccato originale è fatto speciale conquista del demonio, come di quello che fu il tentatore e la cagione della lamentevole caduta che tolse il genere umano di Dio. c ) Dai quali principii procedono alcune conseguenze che ci dànno lume a far probabile conghiettura dello stato dell' anima la qual passi all' altra vita macchiata del peccato originale senza più. Perocchè le conghietture che si possono fare dal detto sono le seguenti: PRIMO. - L' anima che macchiata dal peccato originale passa all' altra vita, è priva di ogni visione di Dio, perchè priva di ogni grazia o comunicazione colla divina sostanza. SECONDO. - Essa è morta, cioè a dire esclusa dalla vita eterna; il che è quanto dire priva di quella vita che nasce dalla reale percezione di Dio, la quale è eterna, perchè Iddio che la produce colla sua azione nell' anima è eterno; ed essendo vita eterna, è sola vera vita. TERZO. - Essa è esclusa dal consorzio di Gesù Cristo e dei Santi, perchè priva di Dio non può aver comune l' oggetto della loro felicità e quindi non può formare una società, una unità con essi, giacchè questa sociale unione viene dall' unità dell' oggetto comune del loro godimento, ciò è quanto dire che è esclusa dal regno de' cieli. QUARTO. - L' anima divisa dal corpo col solo peccato originale, quell' anima deve essere in un cotale stato che possiam dire di assopimento, nel quale trovasi priva di sentimento e di vita, e non ha che un principio di vita e un principio di sentimento, portando di più un' inclinazione a rifuggire dalla verità e dalla vita. QUINTO. - L' anima in tale stato è esposta all' azione delle creature, come dicevamo, anche le più malefiche, ma essendo essa priva di corpo e non avendo che la sola vista dell' essere universale, non pare dover essere suscettiva dell' azione delle forze a lei nemiche. Perocchè il sentimento materiale non lo ha più, e l' intellettuale è tale che nessun essere creato può alterarlo, conciossiacchè nell' intelletto non ha virtù di operare che Dio stesso. Sicchè converrebbe supporre che all' anima per essere tormentata dai demonii, fosse aggiunto un cotal corpo. E ciò crediamo avvenire coll' anime ree di peccati attuali, dicendoci le divine Scritture che esse ardono nel fuoco, ma rispetto a quelle anime che sono aggravate dalla sola colpa originale, riteniamo assai probabile che non sia. SESTO. - Senonchè colla risurrezione dei corpi esse racquistano i corpi. Il riacquistare poi che fanno dei corpi è un aggiungersi loro un sentimento di cosa reale. Io non so in che stato questi corpi verranno raggiunti a quelle anime: non certo in istato glorioso, perchè la gloria viene dalla unione con Dio. Anche lo stato dunque di cotesti corpi risorti par verisimile dover essere un effetto dell' universal Provvidenza, cioè a dire essi saranno tali quali li vogliono le leggi universali che presiedono al gran patto del risuscitamento dei corpi. Io inclino a credere che essi corpi verranno ripristinati in buono stato, d' una bontà però loro naturale. E ciò che mi fa creder questo verisimile si è il general principio che mi guida in tutto questo discorso delle pene de' fanciulli morti senza battesimo o più generalmente di quelli cui non altra colpa danneggia che originale, il quale è: « la pena essere meglio negativa che positiva, cioè dipendere dall' abbandono che fece Dio di essi a sè medesimi e alle forze e leggi naturali« (1) ». Conosciuta ora l' indole e la natura del peccato di origine, conviene che esponiamo la dottrina della sua propagazione. E a tal fine ci è bisogno cominciare dal riassumere ciò che abbiamo detto circa il modo onde l' animale si propaga, e onde si propaga l' uomo, considerato secondo la natura. Abbiamo dunque veduto che negli animali generanti vi ha una cotal massa carnosa, la quale unita con essi forma parte de' loro corpi e vive in questo stato di parte. Ma staccata da essi per la generazione, non muore, anzi quella vita, che aveva prima, acquista una virtù e attività maggiore, per la quale sussiste da sè, ossia forma un animale nuovo, indipendente dai primi, da' quali provenne (1). Così si costituisce il soggetto sensitivo. Ma se questo soggetto sensitivo, per legge da Dio fissata, è ordinato a dover avere anche la visione dell' ente, egli si fa con ciò un soggetto ragionevole. E tale avviene il nascimento dell' uomo, al quale, tosto chè è naturato come soggetto sensitivo, è presente l' ente; conciossiacchè l' ente per legge costitutiva, come dissi, è fatto presente alla natura umana: e perciò moltiplicandosi i soggetti sensitivi nella natura umana, è dato loro di veder sempre l' ente, ossia, che è il medesimo, di essere incontanente intellettivi. Ma abbiamo ancora veduto che l' ente a principio si congiunse alla natura umana in un modo perfetto, cioè che si diede a vedere ad essa natura non solo nella sua forma ideale, ma ben ancora nella sua forma reale e sussistente (3). Ciò è quanto dire che l' uomo venne a principio costituito non solo in un ordine naturale, ma ben anco in un ordine soprannaturale. Perocchè tutte le nature, in quanto sono create, costituiscono ciò che si chiama l' ordine della natura. Ma la sostanza del Creatore è essenzialmente distinta dalla natura ed è superiore ad essa. Per ciò la percezione della sostanza del Creatore è ciò che costituisce l' ordine soprannaturale. Or l' ente universale in quanto non è puramente ideale, ma si dà a vedere ben anco come reale e sussistente, non è altro che il Creatore istesso, Dio. Perciò si dice che quegli esseri creati, i quali non solo concepiscono l' essere nella sua forma ideale e massime in uno stato indeterminato, ma percepiscono altresì la stessa sussistenza e realità di quest' essere sono costituiti in un ordine soprannaturale. E tale fu Adamo, come abbiamo provato. All' opposto, privo lo spirito umano della percezione dell' essere nella sua sussistenza e realità e solo fornito della concezione dell' essere ideale e in uno stato d' indeterminazione, egli trovasi esser posto dentro i confini della natura: perocchè l' essere ideale si può dire creato nel modo in cui è veduto dall' uomo, cioè in quanto egli è separato dalla real sussistenza e in quanto è privo de' suoi termini o determinazioni. Fino a che pertanto la natura umana si trovò congiunta coll' ente completo, ella fu fornita di tutto ciò che appartener potesse alla sua natura, e altresì della grazia. E perchè questa grazia nel modo detto era congiunta per legge costitutiva alla natura umana, ella doveva essere annessa di conseguente a tutti gli individui ne' quali si fosse moltiplicata questa natura: ed è per ciò che i figliuoli di Adamo innocente avrebbero ereditata dal padre la grazia santificante. Perocchè Iddio e l' uomo erano congiunti in modo da formare, per così dire, una cosa sola: cioè Iddio si comunicava all' uomo ove che si trovasse o cominciasse a esistere il soggetto animale umano (1). Or avendo Adamo peccato cioè ribellatosi a Dio, egli perdette la vista della divina sussistenza, cioè la grazia; e, morto all' ordine soprannaturale, non gli rimase che la natura. Egli fu da quel momento che l' essere universale non fu congiunto alla natura umana che idealmente, non più in una forma divina, ma creata e naturale. Si può qui domandare se questa perdita che fece la natura umana della grazia e di Dio, sia avvenuta dalla parte di Dio, cioè per essersi Dio tolto da lei, o dalla parte dell' uomo, cioè per essersi la volontà rivolta da Dio e non trovato più il modo di vederlo, a quel modo che l' uomo che volta le spalle in faccia al sole nol vede più. Egli è certo essere ripugnante alla divina natura che essa faccia copia di sè ad esseri suoi nemici. Lo Spirito Santo, dice la divina Scrittura, non abita in corpo soggetto a peccato (2). Però giustamente può dirsi che Iddio fece colla natura umana prevaricata quello di che minacciò gli ebrei: « Io asconderò la faccia mia ad essi e starò a vedere a che mali termini da loro soli si condurranno« (3) ». Ma con non minore verità si può dire che la privazione di Dio nacque perchè si stolse l' uomo da Dio, perchè l' uomo si mise in uno stato, nel quale egli sarebbe ripugnante e intrinsecamente assurdo che vedesse Iddio, come sarebbe ripugnante che vedesse il sole chi si cavasse gli occhi. Conciossiacchè Iddio si vede coll' occhio della buona e retta volontà: e però il pervertire la propria volontà, cioè il darsi ad amar la creatura in luogo del Creatore, e cercare in quella anzichè in questo la propria felicità, è un rendersi impossibile la vista del Creatore, un accecarsi. E perduta una volta tal vista del Creatore, ristretto lo spirito dell' uomo nelle sole creature, non gli è più possibile di rilevarsi e trovare con gli occhi suoi dell' animo quell' oggetto d' infinito bene che ha perduto, il quale è tale che, cessando un solo istante di vederlo, non si può veder più. Perocchè la volontà non può esser tratta da cosa incognita, e perduto una volta il sentimento di Dio, la divina sostanza le rimane come un bene incognito che non può essere più appetito o desiderato: sicchè non le restano all' appetire e desiderare se non i beni materiali; perocchè il sentimento di questi non cessa, e non cessando, essi beni rinnovellano continuamente le loro impressioni sull' uomo e le producono di nuovo. E nella stessa maniera perchè l' uomo tornasse a gustare di Dio, converrebbe che Dio medesimo riagisse nell' uomo e eccitasse in lui nuovamente il sentimento della divina sostanza (1). Egli è per questo che i santi Padri riconoscono una cecità volontaria e anche peccaminosa, ove questa cecità appartenga a una volontà personale. [...OMISSIS...] . Questa cecità si chiama nelle divine Scritture cecità del cuore, per distinguerla dalla cecità dell' intelletto; conciossiacchè il cuore vien preso per la sede della volontà. Il perchè dove la cecità consiste in un traviamento della volontà, e ove questa volontà sia personale, come dicevamo, acconciamente quella cecità si può chiamare peccato. E con quest' avvertenza si devono intendere alcuni passi di S. Agostino, nei quali chiama peccato la cecità originale, come pure la concupiscenza; siccome a cagion d' esempio nel passo seguente: [...OMISSIS...] . La natura umana adunque dopo la commissione del peccato rimase: 1 privata di Dio: 2 con una irreparabile gravitazione della volontà verso il bene creato e avversione dall' increato che più non percepiva. Or essendo questo stato proprio, come abbiam veduto, della umana natura, egli doveva necessariamente ripetersi in altrettanti individui, in quanti essa natura si moltiplicava. E perciocchè questa cecità e questa mala piega della volontà personale ha in sè ragion di peccato, per ciò qui s' intende la necessità che v' avea della trasfusione nei posteri del peccato adamitico. La ricerca come passasse da un uomo nell' altro il peccato originale diede cagione alla celebre questione dell' origine dell' anima. Per ciò non vorrà essere inutile che qui frammettiamo alcune considerazioni sopra un tal punto, valendoci ciò a render più chiara e più piena la trattazione nostra della trasfusione del peccato, che dopo questo quasi episodio riprenderemo. Tre furono le principali opinioni, nelle quali si partirono gli scrittori ecclesiastici circa il sapere come cominci l' anima intellettiva in un uomo che vien generato. Altri sostennero che le anime tutte furono create da Dio a principio e mandate o venute poscia ne' corpi nuovamente ingenerati: e di questa sentenza fra gli altri fu pure Origene. Altri pretesero che come il corpo ingenerava il corpo, così simultaneamente l' anima ingenerasse di sè un' altra anima, e per tal modo che l' uomo intero, anima e corpo, fosse naturalmente ingenerato: e questa sentenza tenne Tertulliano, Apollinare e, per testimonianza di S. Girolamo, quasi tutta la Chiesa occidentale (1). Altri finalmente opinarono che le anime fossero create immediatamente e per singola da Dio e da Dio infuse ne' corpi, mano mano generati: e di questa sentenza fu pure Innocenzo III, che così esprime la origine dell' anima intellettiva: « infundendo creatur, creando infunditur ». Così pensò anche Pietro Lombardo. La prima di queste tre opinioni fu al tutto di qualche autore particolare e non seguìta. Circa lo scegliere fra le altre due stettero in forse i più bei genii della Chiesa. S. Agostino, che chiama una tale questione caliginosissima , per quanto bilanciasse col suo raro ingegno, non potè mai venire a capo, sia per l' una, sia per l' altra parte (2); e invitava chi più di lui avesse potuto conoscere in questa parte a dargli in ciò aiuto di ammaestramento (3). La maggior parte degli antichi non vollero parimente decidersi, ma lasciarono in dubbio tal controversia (4). S. Fulgenzio pure dice la cosa dubbiosa (5): dubbiosa la trova Cassiodoro (6): dubbiosa il grande S. Gregorio. Ecco il luogo in che quest' ultimo ne parla in una lettera che scrive a Secondino: [...OMISSIS...] . Tal parve forte e non così facile a risolversi una questione siffatta a quei sommi uomini. Nè è da credere che loro sfuggissero quelle ragioni ovvie che si presentano in siffatta materia alla mente di ciascheduno. Ma essi vedevano molto addentro nella cosa, e però non si decidevano leggermente. E questa incertezza e dubbiezza in siffatta questione passò, quasi direi, per ecclesiastica tradizione, a tale che fu tenuta da taluno qual parte della cattolica verità. Così S. Isidoro Ispalense non dubitò di porre fra le cose da doversi tenere per fede, che l' origine dell' anima fosse incerta (1). Nel IX secolo la questione era nel medesimo stato, come si può vedere da un luogo di S. Prudenzio Vescovo di Troyes, che citeremo più abbasso. Solo due secoli dopo Ugone di S. Vittore tolse a provare: « probabilius animas ex traduce non esse (2) ». Colle quali parole mostravasi non darsi da lui la cosa per al tutto assicurata. Nel secolo susseguente però S. Tommaso d' Aquino insegnò: « haereticum esse dicere, quod anima intellectiva traducatur cum semine (3) ». E dopo di lui si ritenne per cosa certa e fu universalmente ammesso da' Teologi, che non venisse propaginata col corpo, ma creata da Dio. Egli è però da considerarsi che la sentenza ricevuta universalmente da' Teologi, sull' autorità principalmente dell' Angelo delle scuole, non è precisamente quella di cui trattavasi e questionavasi dai Padri, e che però non può dirsi che essi abbiano al tutto recisa o sciolta quell' antica questione. Perocchè due cose diverse sono a dimandarsi:« se l' anima sebbene spirituale si propagini in un modo spirituale simultaneamente al propaginarsi che fa il corpo dal corpo«; e domandarsi:« se l' anima si propagini mediante la generazione corporea, di maniera che il corpo ingeneri l' anima«. La prima era la questione dei Padri: ed ecco come ella viene accuratamente espressa dal luogo indicato da S. Prudenzio che viveva nel secolo IX sotto Carlo il Calvo: [...OMISSIS...] . All' incontro la seconda di quelle due questioni si può dire che non fosse nè pure mai messa in controversia. Nel IV secolo Prudenzio riprende la sentenza che l' anima venga generata dal corpo, non come dubbio, ma come certo errore. E non avrebbe parlato con tale sicurezza, se avesse inteso di toccare la questione che S. Agostino dichiarava superiore alle forze del suo intendimento. Ecco i versi del poeta cristiano: [...OMISSIS...] . Medesimamente il luogo del libro degli Ecclesiastici Dommi (6) attribuito a Gennadio, scrittore del secolo V, che si trova citato nella Somma di S. Tommaso, si riferisce all' opinione del venire le anime dai corpi, dichiarando erroneo l' affermarsi che le anime ragionevoli si seminino per l' unione de' corpi. Lo stesso e nulla più è riprovato dall' Angelico Dottore in quell' articolo cui egli intitola come questa dimanda: Se l' anima intellettiva sia cagionata dal seme? Nel quale articolo è da osservarsi come egli non trae punto le obbiezioni che fa alla sua sentenza dall' autorità di S. Agostino e degli altri Padri, quasi avessero lasciata la questione dubbiosa, ma anzi da ragioni naturali. Il che dimostra, che egli non intendeva di dichiarare già eretica quella sentenza che da S. Agostino e da' Padri antichi non era stata provata riprensibile: perocchè se voleva questo, il santo Dottore, che è sempre sommamente studioso di conciliare la sua dottrina con quella di S. Agostino e dell' antichità cristiana, ne avrebbe fatto indubitatamente parola. Se non che dalle ragioni stesse che apporta si fa manifesto, che egli altro non condanna in quell' articolo se non il farsi produr l' anima dalla materia; giacchè ecco come egli dice. Riferirò le sue stesse parole, perchè si renda evidente la verità che asserisco. [...OMISSIS...] Egli è manifesto da questa prima ragione, che l' assurdo che vuol dinotare qui S. Tommaso si è quello che noi dicevamo fuori di controversia, cioè che la materia non ha virtù a produrre lo spirito. Udiamo la seconda ragione del santo Dottore: [...OMISSIS...] Anche in queste parole si par chiaro, che tutto l' assurdo che si fa rilevare consiste nella incommunicabilità dell' intelligenza colla materia corporea anche sensitiva: perciocchè il principio intellettivo non fa uso di alcun organo corporeo alla sua operazione; e perciò il corpo non può agir nulla nell' intellettivo principio. Udiamo l' ultima ragione che reca l' Aquinate: [...OMISSIS...] . Il quale argomento viene a dire così: Se il corpo producesse l' anima, o l' anima dovrebbe essere una sostanza corporea, oppure una modificazione, un atto del corpo stesso. Sostanza corporea l' anima non è: e non è nè pure una semplice modificazione o atto di un corpo, poichè un tal atto non è sostanza per sè. Dunque l' anima non può esser fatta dal corpo. Ma per condurre la cosa all' evidenza e rimuovere ogni dubbio sulla partizione che abbiamo fatta della questione, volgarmente una, in due diverse, basterà recitare qualche passo di S. Agostino e mostrare che quando si tratta di dedurre l' anima dall' anima, niente risolve (2), e piuttosto il tengo favorevole, che contrario (3). Laddove quando trattasi di dedurre l' anima da corporea materia, è risoluto in negarlo come un errore manifesto e pernicioso. Pigliamo sott' occhio la lettera che il santo Dottore scrive a Ottato, il quale aveva proposta a S. Agostino la questione dell' origine dell' anima e ricercato il suo parere. Si veda adunque in qual parole tale questione era proposta. Dimandavasi: se le anime nascano per propagazione come i corpi e vengano da quell' una che nel primo uomo fu creata? (4). Parlasi dunque di trar l' anima dall' anima; e non altro. Or su questa ecco come si tiene in bilico S. Agostino. Egli dice: [...OMISSIS...] . Egli è dunque questo il costante modo di pensare di S. Agostino, quando si tratta di propaginare l' anima dall' anima. Ma vuolsi vedere all' incontro, come egli la senta quando trattasi di una propaginazione dell' anima materiale? Il santo Dottore avvertì benissimo che alcuni materializzavano l' anima col farla venire dai corpi, e fa colpevoli di questa sentenza i seguaci di Tertulliano, de' quali ecco come ragiona: [...OMISSIS...] . Or che cosa qui soggiunge il santo Dottore? Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Or dunque non era dubbioso S. Agostino se l' anima nascesse dal seme corporeo, che è la proposizione chiamata eretica da Tommaso. Ma ciò che non trovava assurdo, sebbene oscurissimo e inintelligibile, era che l' anima potesse propaginarsi dall' anima. Il primo diceva un errore sopra ogni altro pernicioso, un sogno e sino una pazzia; nel secondo vedeva un mistero. Il perchè, tosto dopo ripreso l' errore di Tertulliano, soggiunge: [...OMISSIS...] . Intorno alle quali cose conchiude che [...OMISSIS...] . Dalla storia della questione dell' origine dell' anima fin qui esposta apparisce, aver essa avuto tre periodi. Il primo anteriore al pelagianismo, nel quale essa non fu mai trattata di proposito, nè sottoposta a un rigor teologico. Il secondo, che comincia da Sant' Agostino, indottovi a trattarne per cercare un modo di spiegare la propagazione del peccato originale, e che non venne a capo d' altro se non di dichiarare la questione insolubile; e questa sua sentenza fermò ogni altra investigazione e fu tenuta per indubitabile almeno sette secoli. E il terzo, a cui diedero luogo gli scolastici, i quali, si può dire, diedero nuovo movimento agli intelletti che da tanto tempo riposavano; periodo che toccò il suo colmo in S. Tommaso, il quale, omessa ogni altra ricerca, tolse a dichiarare essere sentenza condannata dalla Chiesa di dire che le anime si propagano come i corpi (1). E dopo tanta autorità ognuno tenne la cosa per definita: senza però badare che S. Tommaso non condannò la sentenza se non a quel modo che veniva attribuita a Tertulliano e Apollinare (2) e che induceva irreparabilmente nel materialismo, il quale è certamente riprovato dal giudizio ecclesiastico. Ed egli è appunto perchè rimane, anche dopo la trattazione dell' angelico Dottore, una via alla disputa non chiusa dal giudizio perentorio della Santa Chiesa, che degli eccellenti teologi dichiararono la dottrina della quotidiana creazione delle anime non essere punto cosa di fede; fra i quali è l' Estio (3), il Berti (4), il De Rubeis (5), il Noris (6), e il Bellarmino (7). E così sarebbero rimaste le cose, se lo spirito umano non avesse ricevuto nei tempi moderni una nuova scossa e movimento dalle scuole de' filosofi: il che diede luogo a un quarto periodo nella storia della questione che noi trattiamo. A questo diedero origine le ricerche dei naturalisti (ai quali la filosofia moderna deve il suo primo movimento inquisitivo, come già nella Grecia) intorno alla generazione e allo sviluppo dei germi. Perocchè par loro di ritrovare i germi sì delle piante, che degli animali, non crearsi mai, ma non altro fare che svilupparsi, come quelli che sono ravviluppati gli uni negli altri continuamente: sicchè nelle ovaie delle prime femmine fosser già posti da Dio tutti i germi delle piante e degli animali che dovevan poi nascere. Cosa a cui la impercettibile lor piccolezza non fa punto di ostacolo, dopo che si è conosciuta la divisibilità per poco indefinita della materia e la sottigliezza a cui ella può pervenire, come vedesi nella luce e suoi colori e nella diffusione degli odori e negli animaletti microscopici (1). Or questo sistema de' germi involti diede cagione a Leibnizio di immaginare che a questi germi fossero già annesse le anime fino da principio e così gli animali tutti esistettero creati da Dio a principio, a tale che altro non facesse la generazione se non edurli alla luce e dar loro il successivo e convenevole crescimento. Quasi nello stesso pensiero caddero molti altri filosofi contemporanei di Leibnizio, tra quali lo Swammerdam, il Malebranche, il Baile, il Picarne, l' Hartst”ocker, e altri. Vero è però che Leibnizio affermava, riguardo all' uomo, che non preesistessero nella prima madre se non delle anime sensitive e animali, dotate bensì di percezione e di senso, ma prive di ragione, cui acquistassero poi mediante la generazione (2). Ma confesso di non sapere come egli intendesse che quelle facessero un tale acquisto: in che sta appunto tutto il forte della questione (3). Leibnizio fu seguitato dal Canzio (4) ma principalmente da Cristiano Wolfio, il quale però suppone inchiuse nell' ovario di Eva le anime spirituali e però intellettive, e non già puramente animali e sensitive (5). Si andò finalmente ancora più in là e si arrivò sino a dire che le anime inchiuse nel corpo di Adamo o di Eva ricevettero da Dio, insieme coi primi parenti, il precetto, e lo hanno insieme con lui, sebben men gravemente, violato (6). Non si può confondere in alcuna maniera col sistema Leibniziano e Wolfiano l' opinione da noi proposta sopra l' origine dell' anima. Perocchè sebbene noi supponiamo vera la preesistenza dei germi, tuttavia questi non sono già per noi dei piccoli animaletti, nè molto meno degli omicciuoli, ma de' puri germi, i quali diventano poi animali da sè per la generazione. Se non che noi abbiamo dato di questa una spiegazione tratta dalla natura dell' animale cui abbiam definito: un sentimento che sussiste da sè, in quanto esso si considera come principio senziente (1). Or noi abbiamo veduto che questo sentimento in ogni animale ha per materia il continuo, il quale non ha parti, e però tanti sono i sentimenti semplici quanti i continui. Il continuo però è divisibile, formandosi di un continuo solo due o più continui minori: e però se questi minori continui sien tali che possano sussistere come materia di sentimento (il che dipende da certe leggi fisiche, chimiche e animali), in tal caso la divisione del continuo ha fatto nascere due sentimenti per sè sussistenti, i quali, considerati come senzienti, sono altrettanti animali. Così ho spiegato la generazione negli animali più imperfetti come i polipi, i quali per diventare di un animale solo due o più, basta segarli con certa avvertenza in due o tre parti, senza bisogno di far altro. Perocchè le parti che ne nascono sono tali che corrispondono alle leggi fisiche, chimiche e animali che presiedono alla conservazione della materia animale; cioè a dire, le parti che si fanno di un animale solo ciascuna ha in sè un cotale equilibrio di forze per le quali si può conservare nello stato suo e non perdere quel tessuto e quella organizzazione che è necessaria a conservare l' animalità. Secondo gli stessi principii: 1. di una divisione che succede nella materia del sentimento; e 2. di un equilibrio o sistema di forze che conservasi nella materia divisa; spiegasi anche ogni altra maniera di generazione che avviene nelle diverse specie di animali più perfetti. Dove si vede che il seme del maschio non è, assolutamente parlando, necessario alla generazione; e forse anche negli animali perfetti esso non fa se non dare al germe quell' attività e forza vitale, per la quale, anche staccato nel debito modo dalla madre, possa avverarsi quell' equilibrio di forze, di cui abbiamo ragionato, il qual valga a conservare quella massa carnea staccata dalla madre in istato normale, cioè atto a conservare la vita e il sentimento e avere un dato particolare sviluppamento. Chè ove anche alcune particelle del seme virile si apprendano al germe e con esso lui s' impastino (forse delle parti sottilissime e quasi un' aura vitale che da esso spiri), la cosa però sarebbe la medesima: poichè queste particelle non sarebbero mai morte, ma vive e col vivo germe contemperate, sicchè dal maschio e dalla femmina, come da una sola carne, si staccherebbe quella vivente materia che, appena staccata e unita, sarebbe un animale. Generato così l' animale, che non è se non il costituirsi un sentimento da sè, a cui è inerente di sua natura il principio senziente; non è più difficile il concepire come il principio che è senziente diventi anche intellettivo, dopo che è stato ritrovato, essere l' intelletto null' altro che il sentimento dell' ente. Perocchè solo che si renda l' ente percettibile, egli è già con questo prodotto anche il percipiente: ciò che è conseguenza di quel principio, che ove si dà in natura la percezione, nella percezione si comprende il percipiente; come nel sentimento si comprende il senziente. Ora nella generazione umana noi diciamo succedere contemporaneamente, che l' animale si costituisca col precidersi e confondersi delle parti che costituiscono l' embrione; e che si costituisca l' intelligente principio coll' essere data al medesimo la veduta dell' essere. La quale veduta è già da principio conceduta all' umana natura a sola condizione che questa si costituisca nella sua parte organica: ed è data perciò a tutti i discendenti del primo uomo con quell' atto stesso con cui fu data al primo uomo. In tal modo non è che l' animale e molto meno l' anima intelligente preesista nei padri, ma bensì in essi esistono i germi o rudimenti, i quali in virtù della generazione stessa dell' umana natura, tal quale la fece Iddio da principio, si costituiscono poi naturalmente quasi sarei per dire in uomini. Egli è difficile conciliare molti passi delle divine Scritture colle opinioni da questa diverse; e confesso che la maniera nella quale i seguaci di quelle opinioni hanno tentato di conciliare con le medesime i luoghi delle Divine Scritture, non mi pare scevra di un cotale sforzo, e quasi direi che li traesse dal senso loro più ovvio e naturale. Tuttavia non essendo paruto a S. Agostino di trovare passo nelle Scritture che assolutamente recidesse la questione e che non potesse essere altramente inteso, io non vorrò dire il contrario. Ma sottoporrò a qualunque uomo equo e ai teologi di buona fede qualche testo, perchè veggano se non forse egli dalla nostra sentenza dell' origne dell' anima venga a ricevere l' interpretazione più piana e naturale. Iddio dopo aver creato l' universo, come dice la Genesi che riposò da ogni opera che aveva fatto (1): e in memoria di questo suo riposo stabilì il settimo giorno, dedicato al Signore, nel quale era interdetto agli Ebrei qualsiasi opera materiale e servile, a ricordo appunto di quella cessazione dal creare che Iddio aveva fatto, compita ch' ebbe l' opera dell' universo. Ora non è vero, che se si fanno a Dio creare continuamente dell' anime intieramente nuove, conviene fare una eccezione a quel gran riposo del sabbato e a quei passi tutti dove si legge che il cielo e la terra e ogni parte dell' universo era stata compita, sicchè non restava più altro a Dio che il conservare? O conviene almeno dare a quel luogo solenne una interpretazione sottile e tirata dalla lungi? In un altro luogo dice la Scrittura che Iddio fece a un tratto tutte le cose: « Fecit omnia simul (1) ». Le quali parole pure nella sentenza nostra vengono ad avere il più naturale significato. Perocchè in essa con quell' atto di Dio, che Mosè esprime con questa frase: « Inspirò nel suo volto lo spiracolo della vita« (2) »; verrebbe ad avere dato il principio intelligente alla umana natura e perciò a tutti i suoi individui; conciossiacchè quell' atto significherebbe propriamente aver dato l' ente a percepire ad essa natura. E questa interpretazione appunto dell' « inspiravit in faciem eius spiraculum vitae », è la sola, per quanto io ne capisco, che possa render chiara e giustificativa ragione di una maniera di dire così sublime. Perocchè se per quello spiracolo della vita (3), s' intende l' ente percepibile, allora nulla ha in sè che tiri al panteistico quell' espressione o che favoreggi l' assurdo sistema delle emanazioni. Conciossiacchè l' ente è veramente una appartenenza della divinità, un cotal raggio del Verbo divino; e però egregiamente si dice che questo ente è spirato da Dio medesimo e corrisponde a quell' altro passo di Giobbe: « Negli uomini vi è lo spirito, e la ispirazione dell' Onnipotente dà l' intelligenza« (4) ». All' incontro quelli che intendono per lo spiracolo della vita l' anima umana in quanto è soggetto, e non l' oggetto di quest' anima, l' ente, questi e devono sfuggire d' intendere quelle parole alla lettera e deviarle dal loro ovvio significato, o far l' anima una particella emanata dalla divina sostanza. E qui di passaggio siami lecito l' osservare che conviene intendere colla stessa avvertenza certe espressioni dei Padri della Chiesa, nelle quali fanno l' anima umana quasi una particella di Dio. Nell' anima vi è l' ente, e questo è il divino dell' anima, questo un riflesso, uno spiro di Dio: l' anima non è l' ente ma il vede, e per questo ella è così sublime, per questa sua congiunzione con un elemento divino, e attribuita a lei, quasi direi contenente ciò che spetta al contenuto, son date a lei delle divine attribuzioni. Per questa S. Giustino nel dialogo con Trifone chiama l' anima « Reginae mentis particula (1) ». Taziano allo stesso modo dice dell' uomo che è una porzione di Dio (2). Delle espressioni uguali si trovano in Clemente Alessandrino (3) e in S. Ireneo (4). Tertulliano dice che l' uomo è animato dalla divina sostanza (5): espressione con cui egli commenta il soffio divino della Genesi. L' autore delle false Clementine dice pure che l' anima ha una stessa sostanza con Dio (6). E Sinesio nelle sue poesie non dubita di chiamarla: Semente di Dio, scintilla del suo spirito, figlia, parte di Dio stesso. Nella sentenza da noi proposta ricevono parimenti un ragionevole significato alcune singolari espressioni de' Padri: come quella di S. Metodio che dice « il seme umano contenere, per così dire, una parte divina di potenza creatrice« (7) ». Perocchè ciò viene a dire pel seme essere il germe condotto a farsi animale intelligente, cioè a ricevere tale stato, nel quale possa vedere quell' ente che Dio ha fatto visibile fin dal principio agli individui della umana natura. E maggior verità e evidenza pure riceve quel dire del Genesi: « Tutte le anime che sono uscite dal femore di Giacobbe« (.) ». E quelle di S. Paolo ove dice che Levi fu decimato nei lombi di Abramo (9). E chi volesse sostenere che Dio crea di tutto punto l' anima e la mette nel corpo viziato, parmi che, di buona fede parlando e senza prevenzione alcuna, incorrerà una difficoltà grandissima nel conciliare in modo persuadente la giustizia e bontà divina con questo fatto. Perocchè questa sostanza spirituale non potendo uscire dalle mani del Creatore se non pura, senza alcuna colpa precedente, innocente e perfetta, difficil cosa è il pensare che ella, senza alcuna sua colpa precedente, sia condannata nel carcere di un corpo corrotto e astretta per necessità e violenza di esso corpo a rendersi fino dal primo momento della sua esistenza peccatrice. Io so bene che si suole assottigliarsi per dare una plausibile risposta a tanta difficoltà: ma so ancora non potersi dissimulare che in quelle risposte, se io punto nulla intendo, manifestasi più che altro uno sforzo di salvare la teoria preconceputa. Il perchè il dottissimo Gazzaniga, dopo aver recate queste soluzioni (1), ingenuamente soggiunge così: [...OMISSIS...] . All' opposto nella nostra sentenza Iddio diede l' intelligenza alla natura umana con quel soffio, col quale animò Adamo, e poscia non fece se non lasciare che essa natura si moltiplicasse per se stessa. Perocchè supponendo che in quel primo atto Iddio avesse posto, per così dire, visibilmente innanzi alla umana natura l' ente, dalla parte di Dio era fatto tutto, e solo restava a fare da parte della natura umana, cioè a generare; perocchè ciò che venia generato da questa natura avea sempre dinnanzi da sè l' ente, onde attinge l' intelligenza e nasce per tal modo l' anima intellettiva. Si consideri ancora che solo supponendo vera la nostra sentenza, prende sua forza quella ragione per la quale S. Tommaso risponde alla difficoltà, come l' anima venendo non dall' uomo, ma da Dio, ricever possa per eredità il peccato originale. Perocchè la sua risposta è questa: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è l' umana natura? Non certo il solo corpo, ma il corpo e l' anima insieme, e principalissimamente l' anima intellettiva che costituisce la specifica differenza di questa natura. Or dunque sarebbe egli vero che per virtù del seme si traduca l' umana natura, non traducendosi se non il corpo, sebben disposto in modo idoneo a ricever l' anima? Non veggo in che modo. All' incontro se il principio senziente, che si traduce pel seme, è già di natura sua, tosto che è costituito, ammesso alla visione dell' ente e così costituito intellettivo, prende un senso verissimo il dire che la natura umana si traduce per virtù dell' umana semente. Si consideri ancora come solo nella nostra sentenza si senta tutta la verità di quel celebre passo di San Paolo: « Eravamo PER NATURA figliuoli d' ira« (1) ». Perocchè la nostra natura, per dirlo di nuovo, è composta di corpo e di anima, e questa ne è la parte principale e formale, mentre il corpo non è che la parte materiale. Il solo corpo non siamo noi , ma l' anima anche sola può pronunciare questo monosillabo NOI: al corpo non appartiene l' ordine morale, e però solo nell' anima si trova giustizia o peccato. Or come, in senso proprio e stretto, potrebbesi dire che per la nostra stessa natura (2) fossimo figliuoli d' ira, se l' anima è di sua natura creata pura e monda e solo rimane viziata non per la sua origine divina, ma pel corpo nel quale s' introduce o dove si crea? All' incontro se l' anima si produce insieme coll' uomo in virtù di quell' ente che è legato coll' umana natura, egli è nel più stretto senso della parola che noi siamo figliuoli d' ira per natura, cioè per lo stesso nostro nascimento (3), per le leggi che presiedono al contemporaneo nascimento del corpo insieme e dell' anima, in una parola dell' uomo. Chiamo ancora ad osservare quelle altre parole dell' Apostolo, dove toccando in che modo tutti gli uomini nascano infetti da peccato dice: « Che il peccato entrò in questo mondo per un solo uomo - NEL QUALE tutti hanno peccato (4) ». E il sacro Santo Concilio di Trento dice: «« Che NELLA PREVARICAZIONE DI ADAMO tutti hanno perduto l' innocenza« (5) ». Quel testo dell' apostolo che i Concilii ecumenici hanno ripetuto o parafrasato merita tutta l' attenzione. Egli è evidente che si esprime in esso una congiunzione fra il padre dell' uman genere e i suoi discendenti siffatta, per la quale possa passare il peccato dall' uno negli altri. Tutti i Padri, su questa autorità di S. Paolo e altre somiglianti delle divine Scritture, parlano di una unione e comunanza fra il genere umano e Adamo loro capo. Ora tutti questi luoghi dei Santi Padri e quelli delle Scritture sui quali insistono non possono essere intesi nel loro vero significato, in tutta la loro forza, se non allora quando sia ben chiarita la natura di questa comunione e unione di tutti noi con Adamo. Udiamo a ragione di esempio S. Ambrogio. Egli dice: [...OMISSIS...] . Or resta a vedere in che modo appunto io fossi in Adamo, in lui peccassi, in lui fossi scacciato dal paradiso; in che modo tutti gli uomini non fossero che quell' uno e solo Adamo. Alcuni proposero una unione morale o sociale. [...OMISSIS...] . Usa anche S. Tommaso la similitudine delle membra che sono colpevoli e punite del peccato commesso dal capo. Ma egli è evidente che questi esempi, sebbene giovino a far concepire una cotal congiunzione fra i posteri e il primo padre, tuttavia non giungono a dimostrare l' intrinseca ragione della trasfusione del peccato originale e la inerenza interna di questo peccato al fanciullo che nasce di nuovo: come confessa anche il valente Domenicano Pietro Maria Gazzaniga (4). Perocchè non si può dir seriamente che una mano sia colpevole o che una mano si punisca; ma solo per un cotal modo traslato: e la imputazione che si fa ai membri di una società pel peccato del capo, in cui essi non abbiano avuta alcuna parte, nè l' abbiano potuto impedire, non può essere vera imputazione morale, ma solo una cotal imputazione legale per la quale sono involti in una pena che, considerata intrinsecamente, o non è pena, ma disgrazia, come una famiglia incendiata per negligenza di un membro che appiccò il fuoco alla casa; o se ella si dà per pena, è pena ingiusta. Vi ha dunque bensì fra i discendenti di Adamo e il padre una unione morale e sociale: ma questa, eziandio che bastasse a spiegare in qualche modo la trasfusione della pena, non basterebbe però a rendere una ragione plausibile della trasfusione del peccato (1). Altri proposero una unione intellettiva fra il genere umano e Adamo, cioè consistente nell' unità della natura o specie. Giacchè il comunicare più individui nella natura, come abbiamo altrove notato, non è altro che l' avere una stessa relazione coll' intelletto che tutti li percepisce con una sola idea o specie, la quale è appunto il fondamento della natura comune (2). Quest' unione di specie è toccata universalmente dai Padri. S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Ma ne è pur questa unione intellettuale, o di una medesimità di specie, sebbene vera, e atta anch' essa a facilitarci il modo d' intendere l' unione nostra fisica con Adamo, non è però bastevole a rendere ragione della trasfusione del peccato. Perocchè una tale unione è vera nell' ordine delle idee e non nell' ordine delle realità: e il peccato all' incontro appartiene a questo secondo ordine, non al primo. Nè fa bisogno in ciò insistere molto, quando si può dire essere cosa di fede o prossima a [esser] di fede, che il comunicare nella specie non basta a comunicare nel peccato: perocchè se bastasse, Cristo stesso che comunica nella specie, doveva esser soggetto al peccato. Ma la cattolica dottrina anzi insegna che Cristo ne fu immune: e ciò non per alcun privilegio, ma sì bene perchè egli non fu concepito per opera umana, ma dello Spirito Santo. Sicchè è intrinseco nella dottrina cattolica il principio che solo per la generazione si trasfonda il peccato e che in questa vi abbia un' unione non pur morale o sociale, non pur intellettiva o di specie, ma fisica fra il padre ed il figlio. Ora hassi a considerare che quest' unione, perchè sia vera, deve succedere fra la natura del generante e la natura del generato. E parlandosi di uomini, questa natura è un composto sostanziale di anima e di corpo, e non è il solo corpo: e perciò perchè vi abbia fra l' uomo generante e l' uomo generato l' unione di che parliamo, conviene che tutto l' uomo che genera sia legato e comunicante con tutto l' uomo che vien generato, altramente le due nature non hanno legame fisico insieme ma pur solo lo ha una parte della natura generata, la quale nè costituisce la detta natura, nè riceve il nome con cui la medesima natura si appella. Vi ha dunque una terza unione fra i posteri e il primo parente, e questa è fisica, unione e comunicazione di natura con natura: e questa sola rende un' acconcia ragione della trasfusione del peccato originale. Questa è intrinseca al sistema cattolico, per quanto a noi pare: questa è indicata nei passi delle divine Scritture e massime in quelli di S. Paolo: e per misteriosa che ella sia, non si può in alcun modo rifiutare. Or ella non può, se io nulla intendo, aver luogo se non nella sentenza dell' origine dell' anima che noi abbiamo proposta. Perocchè venendo l' anima creata di tutto punto da Dio, essa non comunicherebbe fisicamente con Adamo, col quale non rimarrebbe in comunicazione se non la bruta materia. E dico la bruta materia , perocchè quel Dio che creasse l' anima intelligente, creerebbe anche l' anima animale conciossiacchè non vi sono nell' uomo due anime, ma un' anima sola. Egli è vero che la sentenza da noi proposta non occorse fosse alla mente con tutta chiarezza degli uomini grandi dell' antichità: ma S. Agostino però diceva, che egli non proferiva giudizio sull' origine dell' anima, poichè non riputava impossibile che altri dopo lui trovasse il modo di ben accertare questa origine (1); e d' altro lato non deve recar molta meraviglia che dopo trascorsi tanti secoli, dopo fatte tante investigazioni e tentativi, dopo accresciute le scienze di tante osservazioni positive, venga acquistando luce qualche verità metafisica che prima solo si travedeva. E certo si travedeva, sebbene non si potesse chiarire interamente e liberare dalle difficoltà che si affacciavano: si travedeva, dico, scorti dalle autorità delle Scritture e dai dogmi cattolici che nel loro seno racchiudono le più profonde notizie della natura umana, ma che non è necessario sempre il penetrarle, ma solo il credere i dogmi stessi. In tanto colla fede de' dogmi si conservano nel mondo quelle notizie, fino a tanto che quasi direi uscendo dal profondo dell' oscurità in cui sicuramente si custodivano e venendo a galla secondo l' ordine della divina Provvidenza, sono donate agli uomini da quel Dio che rende sempre più splendida la parola del suo Verbo e ai bisogni degli uomini nei varii tempi diversamente la apparecchia. E che almeno oscuramente la verità di cui parlo si trovi deposta negli scritti di quelli che dànno testimonianza nella successione de' tempi alla cattolica verità, mi varrà a provarlo tutti quei passi dove i Padri della Chiesa parlano della comunicazione reale e fisica di Adamo co' suoi figliuoli, e in questa ripongono la vera ragione della trasfusione del peccato, dentro ai quali passi e quasi direi come sostrato potrà vedersi giacere la nostra dottrina. Si ponga attenzione primieramente a questo passo del gran Vescovo d' Ippona, dove accenna quella congiunzione fisica di cui parliamo: [...OMISSIS...] . Si noti in che modo S. Agostino dica qui che tutti nella natura di Adamo erano un solo uomo; ecco il modo: «ILLA INSITA VI QUA EOS GIGNERE POTERAT ». Il medesimo Santo Dottore parla di questa congiunzione fisica nel libro I dell' Opera imperfetta in questo modo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il Santo Vescovo confessa che in quella esistenza de' figli nei lombi de' Padri, toccata dall' Apostolo, si nasconde un vero profondo e misterioso; che ci confessa di avere bensì il desiderio di vedere e penetrare, ma che pure non ispiega: ed esorta tuttavia Giuliano, contro cui scrive, a tenerlo per fede, quantunque per argomento d' intelletto nol vegga (1). La stessa parola solenne di originale che si dà al peccato adamitico mostra la congiunzione fisica e propria di cui parliamo, secondo la quale origine , dice S. Agostino, tutti erano in quell' uno e questi tutti erano quell' uno, quando in se stessi ancora non erano (2). E questa origine, per mostrare che è la origine generativa del figlio al padre, è chiamata dallo stesso santo Dottore seminale . [...OMISSIS...] E chi considererà tutto il parlare delle Scritture, troverà che nelle stesse frasi, nelle parole, nella lingua scritturale insomma vi è inserita e supposta la sentenza dell' origine dell' uomo da noi indicata: così che questa sentenza, per misteriosa e difficile che possa parere, forma per così dire il fondo dell' eloquio biblico. Si consideri, a ragion di esempio, come i figliuoli sono, secondo quelle maniere di parlare, il padre stesso. Che cosa è il popolo ebreo? E` Abramo ovvero Giacobbe. Che cosa sono i discendenti di Davide? E` Davidde stesso. Giacobbe ossia Israello è quello che entra nella terra promessa; e tutto ciò che gode o soffre la discendenza di questo patriarca, è Giacobbe che il soffre, e che il gode (5). « A te darò questa terra« » dice Iddio ad Abramo (1). « Ti farò regnare in sempiterno« » dice Dio a Davvidde (2). Nei figli è il padre stesso il quale si moltiplica. « Io farò crescere te oltre modo, dice Iddio ad Abramo, e porrò te nelle genti« (3) ». I figliuoli son chiamati ancora il seme del padre e talora la scintilla (4). Si dice che tutte le generazioni saranno benedette in Abramo, volendo dire nel suo gran figliuolo Cristo (5). Egli è per questa maniera di vedere il padre propaginato nel figlio, che le divine Scritture parlano di Cristo sotto i nomi di Adamo, di Abramo, di Davidde e di Salomone, e questa è la chiave per la quale somiglianti profezie si possono letteralmente interpretare, e senza bisogno di alcuna stiratura. Or solamente nella sentenza sull' origine dell' anima da noi esposta tutti questi passi delle divine Scritture si fanno chiarissimi: altramente l' interpretazione loro ha bisogno di una certa condiscendenza, che tutti non sono presti egualmente di concedere. Finalmente si consideri ancora un passo dell' Apostolo, de' molti che potrei addurre, e sarà questo: « Siccome tutti muoiono in Adamo, così e in Cristo tutti saranno vivificati« (6) ». Ora in che modo nasce la vivificazione di Cristo? Per la rigenerazione. E in che modo la morte? Per la generazione. Or la rigenerazione si fa, come abbiamo altrove veduto, perchè Cristo ci comunica un principio nuovo vitale. Simigliamente la generazione ci deve comunicare un principio di morte spirituale. Questi due principii sono indicati dall' Apostolo in quel passo: « Il primo uomo fu fatto in anima vivente; e il secondo in spirito vivificante« (.) ». Per la generazione adunque si ha l' anima che dà la vita naturale: per la rigenerazione si ha lo Spirito Santo che dà la vita soprannaturale. La prima, infetta di peccato e morta: il secondo, incorruttibile giustizia e immortalità. Nella prima al soggetto è dato una imperfetta visione dell' ente: col secondo una incipiente visione di Dio (9). Nella medesima sentenza della origine dell' anima cadono a terra tutte quelle obbiezioni che i Pelagiani e i filosofi fanno contro il peccato originale e che troppo a lungo ci menerebbe il riferirle. Ma non credo però inutile anzi necessario il mostrare quanto si avvantaggi quest' opinione sopra quella degli scolastici: il che farò toccando le difficoltà che implica quest' ultima sentenza e di cui va immune la nostra. Al che fare destineremo un apposito paragrafo. Una sentenza di Aristotele, che non posso mai a meno di ammirare ove che la consideri, si è quella ove trattando della generazione degli animali e facendo venir tutto dal principio generatore, continuamente applicando all' uomo la sua dottrina, conchiude con queste parole: « Rimane adunque che il solo intelletto venga dal di fuori« (1) ». Questa sentenza direbbe tutto, se invece di dire l' intelletto, dicesse il lume dell' intelletto (2). Poichè la parola intelletto può racchiudere anche il principio soggettivo; laddove ciò che viene dal di fuori è il solo oggetto , dal quale, nella nostra sentenza, viene edotto all' atto anche il soggetto percipiente. Gli scolastici adducono in loro favore questo luogo di Aristotele; ma egli non può valere, preso nel senso in cui lo dice Aristotele, se non nel sistema delle tre anime separate, le quali sono giustamente rifiutate dalla Scuola (3). Insegnando dunque questa, che l' anima intellettiva è creata di tutto punto da Dio, quest' anima stessa, come essi dicono, racchiude anche dell' anima sensitiva e della vegetabile. Però in questo sistema non è più il solo intelletto che venga dal di fuori, come dice Aristotele, ma è ben anco il principio del sentire e del vegetare, in una parola l' anima tutta con tutte le sue parti e potenze. Ma esponiamo brevemente il sistema della Scuola intorno all' origine dell' anima umana; e poi additiamo le difficoltà che esso involge. Dicono adunque gli scolastici, che in primo luogo l' embrione è animato da un' anima nutritiva o vegetabile; ma che questa nello sviluppo dell' embrione si corrompe e a lei succede un' anima sensitiva; e finalmente si corrompe anche questa, e Dio allora vi crea un' anima intellettiva, la quale ha in sè le proprietà anche delle due precedenti. Ora su questa dottrina primieramente osservo, che l' anima vegetabile par cosa del tutto abbandonata: e però in questa parte non credo che nessuno t“rrà a difendere oggidì la sentenza scolastica. In secondo luogo il progresso delle osservazioni sullo sviluppo del feto umano, fa credere inverisimile che esso venga animato con anima umana solo dopo tanti giorni dalla concezione, come pone Aristotele, ma che piuttosto abbia l' anima sin dal principio del concepimento. Opinione che viene anche ricevendosi dalla Chiesa, giacchè ora certo in molti luoghi non si tralascia di battezzare, ove ciò sia possibile, anche l' aborto, almeno sotto condizione. Finalmente si consideri come torni forte a dover credere che prima s' abbia un' anima sensitiva nel feto, la quale si corrompe e perda; e poi v' abbia quella che Dio vi crea in suo luogo. Perocchè a qual fine un' anima sensitiva, se ella non è fatta se non per corrompersi? Forse per apparecchiare il corpo a ricevere l' intellettiva? Ma egli può essere apparecchiato senza lei, nel punto che l' anima intellettiva non entra se non dopo che ha sgombrato la sensitiva: perocchè altramente si troverebbe un istante, nel quale si troverebbero due anime in un corpo, l' una sensitiva e intellettiva l' altra. Dunque quando l' anima intellettiva entra nel corpo, essa non trova già un corpo animato da un' anima, ma il trova privo di anima; e un corpo privo di anima non ha bisogno di un' anima per apparecchiarsi a essere tale. Conciossiacchè corpo privo di anima non può avere altra disposizione che quella che consiste in un cotal ordine delle sue particelle materiali, ed ogni altro atto che appartenga alla vita anche animale, il deve ricevere dall' azione dell' anima intellettiva, che ha in sè anco la virtù sensitiva. Oltre ciò, se l' anima sensitiva si corrompe e si perde, in che modo avviene essa questa corruzione? Si fa in un istante o per successione di tempo? Se per successione di tempo, vi sarà dunque nel feto un' anima mezzo corrotta e mezzo non corrotta prima che entri l' anima intellettiva. E questo stato di mezza morte, questa vicissitudine a cui andrebbe soggetto il feto, non la mostrerebbe alla osservazione? E che nessun osservatore n' abbia mai trovato indizio? Ancora, l' anima intellettiva entrerà quando l' anima sensitiva è corrotta tutta, o quando è corrotta una parte? Se quando è corrotta tutta, dunque entrerà nel feto già morto. Se quando è corrotta una parte, dunque vi sarà un momento, nel quale il feto avrà in sè un' anima intellettiva e un' anima sensitiva mezzo corrotta. Se poi l' anima sensitiva si corrompe in un istante e in quel medesimo istante entra l' anima intellettiva, come mai il feto non darà nessuno indizio di questa gran metamorfosi? L' anima sensitiva è pur anima vera e propria del feto: or come si potrà ella staccare da lui, come si potrà corrompere e perir l' anima che è sua propria, senza che egli punto nol senta? Mutar l' anima a un corpo è egli poco? Sopravvenendo poi in un istante l' anima intellettiva, quale immenso passaggio! qual salto! un essere tramutato in un punto da bestia in uomo! Ma vi ha di più. Vi ha egli un modo possibile a concepirsi nel quale un' anima sensitiva perisca, se non corrompendosi il corpo a cui è aderente? Noi appronfondendo la natura dell' anima sensitiva, abbiamo trovato che essa è indivisile dal corpo, che forma la sua materia: che la materia del sentire e il principio senziente non formano che una sola individua natura, e che l' una ripugna a immaginarsi senza l' altra. Ora dato adunque un corpo animato, una materia del sentire, è dato pure un principio sensitivo, un' anima. Ma questo principio sensitivo non è mica cosa che si possa staccare da quella materia, perchè staccata non ha da sè sussistenza. Essa è passiva e il corpo a cui aderisce è attivo: ella nulla può adunque soffrire se non dal corpo, giacchè l' azione del corpo è appunto quella che le dà la sussistenza. Sarebbe adunque non solo superiore alle forze create, ma al tutto assurdo e contradditorio l' ammettere che un' anima perisca, restando intatto e senza alcun detrimento il suo corpo; perocchè questo corpo animato continua nella sua azione medesima, se egli non si disorganizza e guasta. Egli è qui che batte anche la dottrina di Aristotele, che definisce l' anima sensitiva un atto del corpo. Se ella è un atto del corpo (definizione ricevuta dalla Scuola), è il corpo che deve soffrire immutazione e stogliersi dal suo atto, perchè l' anima sensitiva cessi di essere. Nè vale il dire che gliene vien data un' altra; perocchè prima si cerca come si corrompa la prima. Tanto più che il corpo animato non riceve nè più nè meno dall' anima intellettiva, perocchè questa non comunica col corpo in quanto è intellettiva, ma solo in quanto è sensitiva. Il corpo dunque non fa che cangiar forma, non punto diversa di natura, ma solo di numero. Ed è egli ciò possibile? E` egli ciò concepibile? Sarebbe come se si dicesse che una pera, a ragion di esempio, viene spogliata di quella forma e qualità di pera bergamotta, poniamo, per darle una forma in tutto eguale alla prima nè più nè meno! Non è un tal cangiamento di forme assurdo anche secondo i principii medesimi della Scuola? Conciossiacchè la forma è unica, e non viene individualizzata se non dalla materia: sicchè tai cangiamenti di forme non si possono intendere, quando non si immaginassero queste forme come tante camicie uguali, e il cangiar di forme che le sostanze fanno, si prendesse per un cangiare di camicie. Io non intendo se non un solo cangiamento di forme possibile, ed è quello appunto che descrive Aristotele medesimo, per successive corruzioni e generazioni. Ma il cangiamento dell' anima sensitiva e la sostituzione dell' anima intellettiva non serberebbe nè pure la legge imposta dal duce degli scolastici alla generazione di nuove forme. Perocchè nella corruzione e successiva generazione di Aristotele gli elementi sostanziali della cosa rimangono ed è la loro forma che solamente cangia. Laddove l' anima che viene creata da Dio nulla ritiene, nella sentenza scolastica, della precedente, e nasce non per generazione, ma per creazione: oltre che non è possibile che a lei si attribuisca un successivo formarsi come nella generazione. E pure la Scuola è sollecita di applicare all' origine dell' anima i principii della generazione aristotelica (1). E finalmente noi dunque non abbiamo l' anima che abbiamo ricevuto dai nostri padri per generazione: non abbiamo nè pure ricevuto da essi l' animalità nostra, mentre quella che avevamo ricevuta da essi, è perita: non abbiamo tratto dall' origine se non la pura materia bruta e inanimata di cui è composto il nostro corpo; ed in tal caso, nè pur questa, perocchè la materia bruta e inanimata si cangia continuamente nei corpi umani mediante le sempre nuove particelle che questi ricevono e da sè emettono. In tal caso sarebbe convenuto meglio, che Iddio avesse comandato ai primi padri, che prendessero a comporre e effigiare delle statue di creta e di loto, come aveva fatto egli stesso con Adamo, e che poi infondesse Iddio le anime in queste statue; perocchè questo modo di moltiplicazione sarebbe stato, in un tal caso assai più semplice e nessuna anima sarebbe con esso andata a male. Ma l' assurdo maggiore che voglio far notare nell' ipotesi scolastica si è, che per la infusione dell' anima intellettiva che succede alla sensitiva, è perduta l' identità dell' uomo. Perocchè in un animale o in un uomo, quando gli si cangi l' anima, non è più quel desso, ma è un altro: il perchè i genitori non avrebbero per figlio se non il feto fino che ha l' anima sensitiva; ma quando egli riceve l' anima intellettiva il loro figlio è perito, e non rimane più che un figlio di Dio. Conciossiacchè l' identità dell' animale e dell' uomo non consiste se non nell' identità del sentimento e della coscienza; e l' identità del sentimento e della coscienza dipende dall' identità dell' anima. Cangiate dunque l' anima, un altro sentimento, un' altra coscienza, un altro animale, un altro essere ne è divenuto, e non più quello che fu conceputo dal padre. Che se questo nuovo essere è venuto da Dio, se è venuto da Dio immediatamente non solo l' intelletto, ma ben anco la sua facoltà di sentire, insomma il principio intelligente e senziente, che è tutto ciò che vi ha di formale non solo nell' uomo ma anche nell' animale, come questa nuova creatura di Dio potrà trovarsi viziata dal peccato dell' origine, quando l' origine sua è purissima? E se vi avesse alcuno a cui piacesse di negare questa verità evidente, che l' identità dell' animale e dell' uomo consiste nell' identità del sentimento, e volesse farla consistere piuttosto nella identità delle particelle materiali, per soprabbondanza e non per necessità, io chiamerò costui a considerare, che come di sopra ho detto, in nessuna maniera si può provare l' identità materiale delle particelle che compongono un corpo umano, le quali sono in un continuo movimento e partono dal medesimo per dar luogo a delle nuove. Se non che io giungo fino a dubitare, che una tale sentenza rinserri delle conseguenze, le quali non si possano sostenere, salva la verità della cattolica fede: anzi tali io tengo che siano anche quelle che ne ho finora dedotte, chi ben addentro e senza prevenzione le considera. Ma tale poi soprattutto parmi che deve essere riputata la seguente. Io tengo intrinseco alla fede cattolica essere, che il peccato originale passi per generazione e perciò nell' atto della generazione. Io potrei addur qui una nube di definizioni e di testimonianze che autenticano questa sentenza: ma mi limiterò ad addurre, ciò che ha dichiarato il Concilio di Trento, il quale afferma che il peccato passa nel figlio nell' atto del concepimento. Io recherò le sue stesse parole, nè pur traducendole, perchè non si trovi cagione forse di cavillare sul volgarizzamento. Eccole quali sono: [...OMISSIS...] . Ecco adunque, che mentre sono concepiti gli uomini, dice il Concilio, ricevono l' ingiustizia. Dopo la conceziione il seme paterno non ha più da fare cosa alcuna; e cresce il feto da sè nel seno materno. Ora supponendo che il feto appena concepito non abbia che un' anima sensitiva, egli non potrebbe essere soggetto capevole di peccato e di ingiustizia, meglio che una bestia qualunque; argomento insuperabile, dove non si voglia eludere con delle sottili e vane distinzioni. Di più, quell' anima sensitiva non è quella che resta all' uomo, ma ella va perduta e ne entra un' altra creata di tutto punto da Dio. Dunque, quando ancora quell' anima sensitiva fosse soggetto capevole di peccato, andando essa a perire, perirebbe con essa il peccato ricevuto dai padri. E sebbene l' anima nuova che viene infusa da Dio, dopo quei tanti giorni assegnati dalla sentenza aristotelica (2), venisse viziandosi e corrompendosi pel contatto del corpo in cui viene infusa, come liquore da un vaso infetto; tuttavia l' ingiustizia in essa anima non comincerebbe se non allora allora, e non nell' atto del concepimento: e quindi in questo solo punto, cioè quaranta o venti giorni dopo il concepimento, comincerebbe ciò che avesse propria e vera ragione di peccato. Conciossiacchè tutto ciò che precedentemente vi fosse nel corpo non potrebbe essere che sensitivo e qualsivoglia altra qualità vogliasi imaginare, ma non mai cosa che abbia propria e vera ragione di peccato. Nè basta il dire, che tale istinto e morbosa affezione della carne animale diventa poi cagione di peccato nell' anima intellettiva che sopraviene perocchè inclina questa al peccato; giacchè ciò sarebbe al tutto contro la mente del Concilio Trentino, il quale definì che sebbene la concupiscenza e il fomite che rimane dopo il battesimo inclini al peccato e per questa cagione si chiami dall' Apostolo peccato (1), tuttavia non è questa il peccato originale, perocchè ella non è peccato in senso vero e proprio, come è il peccato originale. Sicchè nella sentenza scolastica il vero peccato originale non si trarrebbe dai parenti, ma dai parenti si trarrebbe solo una cotal mala affezione della carne, che produce poi il peccato nell' anima, quando Iddio la vi crea. E il dir questo non saprei come non fosse un affermar cosa contraria alla cattolica fede circa il peccato originale, ed alla mente dell' Ecumenico Concilio di Trento. Io ho parlato fin qui della sentenza scolastica a quel modo che la espone l' Angelico Dottore (2). Il più dei teologi moderni si contentano di dire, che Dio crea e infonde l' anima nel corpo, senza parlare del tempo e del modo in che succede questa creazione e infusione. Ma egli è manifesto che dove anche si supponga, che venga creata e infusa nell' atto del concepimento, molte delle difficoltà sopra indicate sussistono egualmente in tutta la loro forza, e principalmente l' ultima. Perocchè se egli è vero, come è verissimo, che nell' uomo non vi ha se non un' anima, la quale è sensitiva insieme e intellettiva, sarà pur vero che nell' atto del concepimento Iddio crea tutto ciò che vi ha nell' uomo d' intellettivo e di sensitivo; e che per ciò i parenti non somministrano che la pura materia bruta e inanimata. Or dunque ciò che viene da' parenti non è nè l' uomo nè l' animale, non siamo NOI che siamo figliuoli dei padri nostri, perchè questa parola NOI indica la nostra coscienza, il nostro sentire, e tutto il nostro intelletto e la nostra animalità. NOI dunque non abbiamo l' origine da Adamo, ma da Dio, e non possiamo per ciò trarre da Adamo alcun peccato, ma tutto al più possiamo venir viziati in virtù dell' azione che sopra di noi esercita una materia bruta, che essa, e non noi, è venuta da Adamo. Ne verrebbe parimente l' assurdo, che essendo l' uomo un animale come tutti gli altri, ed anzi il più perfetto di tutti, tuttavia egli solo nel generare farebbe meno di quello che fanno tutti gli altri animali. Perocchè tutti gli altri animali in generando producono ne' lor figliuoli delle anime sensitive e animali, mentre l' uomo sebbene abbia una maniera di generare simile alla loro, tuttavia non potrebbe produrre neppure un' anima sensitiva e animale, giacchè Iddio crea l' anima umana da sè intellettiva e sensitiva a un tempo: e all' uomo sarebbe solo riservato come diceva, quel tanto che farebbe un vasaio, il quale mentre fabbrica colle sue dita una statua di molle terra, Iddio suo compagno di operazione le fabbricasse interiormente l' anima. Il che, se così pure avvenisse, non potrebbe succedere che per un miracolo; terzo assurdo che contiene la sentenza che confutiamo. Conciossiacchè, giacchè l' uomo è pure un animale come gli altri ed ha pur come gli altri la facoltà generativa, solamente per un miracolo potrebbe essere la virtù di questa sospesa e impedita dal produrre almeno un' anima sensitiva. Sicchè quelli che ammettono che le anime umane sieno create e infuse nell' atto del concepimento, sono costretti di non ammettere già un miracolo solo, facendo intervenire Iddio Creatore nella natura e accusandolo così di non aver fatta questa natura a sufficienza perfetta, ma due, l' uno del crear l' anima, l' altro d' impedire la potenza generativa dell' uomo dal produrne una ella, come fanno tutti gli altri animali. Se non che dovendo esser questa potenza generativa nell' uomo continuamente sospesa, e non potendo giunger essa mai a produrre un animale, cioè un corpo animato, ma solo a somministrare della materia bruta, da essere animata da un' anima che Dio stesso crea e v' infonde; perchè Iddio dar pure all' uomo una tale potenza? Ad effigiare e comporre una massa senz' anima non è necessario deputare una potenza e un apparato generativo; ma una forza meccanica ed esterna è sola bastevole a ciò. Avrebbe dunque Iddio operato in questo solo e unico fatto della natura stoltamente; poichè avrebbe posta una potenza inutile, anzi una potenza che serve d' impaccio, impedimento, e la cui azione gli conviene contrariare e sospendere con dei continui prodigi. Una difficoltà si affaccia alla mente contro la nostra sentenza dell' origine dell' anima, quando questa non s' abbia perfettamente compresa. E io intendo qui di risolverla, appunto perchè ciò mi dà luogo ad agevolare la conveniente intelligenza della medesima. Si dirà adunque: l' anima sensitiva non sussiste per sè, ma solamente unita al corpo, di maniera che, distrutto il corpo, anche quella è dissipata e distrutta. Or come passa questa a sussistere da sè? E se diventando intellettiva, non si fa sussistente, ella rimarrà materiale o mortale? Ma io rispondo: L' anima sensitiva, ove il corpo a cui aderisce distruggasi, ella pure si strugge e si dissipa: ciò è verissimo. Ma perchè nasce questo suo dissipamento? Perchè le vien tolta la materia del suo sentire, e senza materia di sentire non vi ha sentimento, senza sentimento non vi ha principio senziente, e senza principio senziente non vi ha anima, perocchè esso principio è l' anima stessa. Cioè a dire, nel sentimento fondamentale che costituisce l' essenza dell' animale, io ho distinto due elementi, cioè il principio e il fine, il senziente, e il sentito. L' animale si distrugge perchè è distruttibile il termine del sentimento, il sentito; ma non v' è altra maniera in cui concepir si possa dissolvibile l' animale, come dissi di sopra; sicchè se il termine o la materia del sentire non sofferisse alcuna alterazione, il principio senziente per sè non cesserebbe mai, e sarebbe immortale. Io non dubito adunque di chiamare spirituale l' anima delle bestie, considerata nel suo principio, e solo dalla parte del suo termine è materiale. Io non dubito di chiamare l' anima, considerata come principio senziente, spirito, e questa mia maniera di parlare è conforme a quella delle divine Scritture che dicono: « lo spirito di ogni carne« (1) ». Or dunque se il principio senziente per sè non perisce, ma solo per il termine suo, ossia per la cosa sentita; che sarà ciò che il possa rendere al tutto immortale? Basterà cioè che gli si dia un termine, il quale sia di natura sua indistruttibile e eterno. Perocchè avendo egli questo termine, allora il connubio fra il senziente e il sentito è fatto per guisa che non può più venir dissipato; e quel principio senziente che solo non può sussistere, congiunto con questo termine, non può perire, non venendogli mai meno qualche cosa cui senta. Or questo appunto succede in darsi che si fa la intelligenza al principio senziente, perocchè non è altro che un dargli a sentire l' ENTE, il quale è di natura sua eterno, immutabile, necessario, universale e fornito di altri caratteri divini. Un principio che senta l' ENTE, sussiste eternamente, perchè ha sempre un oggetto da sentire, che non gli può venire mai meno. E se questo principio, oltre avere per cosa sentita l' ente, abbia per cosa sentita anche la materia corporea, in tal caso esso è un' anima intellettiva e animale a un tempo, la quale ha due termini, uno eterno e industruttibile, e l' altro distruttibile. Venendo dunque a perire la materia corporea, quest' anima non si dissipa nè distrugge, ma rimane sussistente per sè, cioè per l' oggetto a cui è aderente e cui sentendo ha sua vita (2). Ed egli, chi ben considera, fu da un consimile ragionamento che fu provata la immortalità e la semplicità dell' anima dai maggiori filosofi dell' antichità e dai Padri della Chiesa. Perocchè essi indussero queste sue preclare doti da qualche cosa di sublime, d' immortale, di eterno, a cui la trovarono essere aderente. Fu perchè la videro dotata della cognizione della verità e della giustizia, dell' ordine e del bene, che la dichiararono di stirpe divina e partecipante dei pregi di questi oggetti a cui ella aderisce; e per ciò della loro immateriale e eterna consistenza. E ora che abbiamo fatto noi, se non meditare appunto la natura della verità, della giustizia, del bene, dell' ordine, e trovare che tutte queste cose si accolgono in una sola, cioè nell' ENTE universale, luce semplicissima, di cui è partecipe e dove sussiste l' anima intelligente? Sicchè quando noi abbiamo detto, che l' anima umana è intelligente, immateriale, sussistente per sè, appunto perchè è congiunta coll' ente, noi abbiamo con una sola parola indicato quello che tutta l' antichità ha predicato con molte; e abbiamo ridotto alla formola più precisa e più filosofica i vaghi e alquanto indeterminati ragionamenti della filosofia ancora immatura e la sapienza comune del genere umano. A confermare queste affermazioni non sarà inutile che io rechi qualche passo fra i moltissimi che potrei addurre degli antichi savi, nei quali si parla appunto di questa cognazione dell' anima colle cose eterne, che essi nominavano anche Dei, appunto perchè vedevano come quell' elemento che rende l' anima immortale sia divino, e non trovavano nè come unificarlo, nè come preciderlo dalla divinità. Iamblico, raccoglitore di dottrine antichissime, dice così: [...OMISSIS...] . Si sostituisca in questo passo alla parola Dio e alla parola cose divine l' ENTE IN UNIVERSALE, e si avrà appunto espressa la nostra teoria. Altrove il medesimo autore dice: [...OMISSIS...] . Finalmente aggiungerò ancora un passo di Iamblico, degno di considerazione all' uopo nostro: [...OMISSIS...] . Il che è un esprimere quanto più si possa al vivo la natura dell' anima, formata da un principio senziente, soggetto, e da una cosa divina, oggetto: le quali due parti sono così coerenti tra sè che nulla più; sicchè di due, senza mescolarsi, o confondersi punto, fanno risultare una sola natura. Ora i platonici di tutti i tempi e con essi molti altri filosofi, e con essi il comun dire medesimo parlò sempre nella stessa sentenza (2). Da ciò che abbiamo detto risulta, che Adamo peccando commise un peccato personale, come sono tutti i peccati attuali liberi. Che questo guasto della persona in Adamo guastò e corruppe la natura. Che la natura guasta fu comunicata ai posteri per generazione. Che nei posteri la natura guasta, aggravando e torcendo la volontà personale, guastò la persona (6). Ora la natura è una cui egualmente partecipano molte persone. Or questa natura o che è moralmente sana, o moralmente infetta. Essendo dunque stata infetta già col primo peccato, gli altri peccati non possono più infettarla e rimangono solo peccati personali senza più. La quale ragione viene esposta egregiamente dal Dottore angelico in queste parole: [...OMISSIS...] . Tuttavia chi sostenesse avervi nei padri talora delle disposizioni morali perverse, le quali vengono comunicate ai figliuoli per generazione, sicchè anche i figli rimangono maggiormente inclinati a certi vizii (2), siccome pure avervi delle buone abitudini morali che sembrano conservarsi in certe schiatte e tramandarsi per eredità; questi non terrebbe forse cosa contraria alla esperienza (3), nè sottosterebbe punto contro a quella decisione apostolica con la quale fu condannata questa proposizione di Baio: [...OMISSIS...] . Nel fanciullo la natura è quella che infetta la persona . Per natura abbiamo detto intendere il complesso dei costitutivi dell' uomo. In modo più proprio però la natura, che trae l' origine da nascere , significa le prime [qualità] costitutive dell' uomo con una relazione alla loro origine; quasi si definisce la parola« natura« con dire: ciò che si porta nascendo. Or per vedere adunque quel principio contenuto nella natura umana che va a pervertire colla sua azione la volontà, converrà cercare appunto nel nascimento dell' uomo, in ciò che per primo egli ha e riceve dall' origine, la causa prossima del peccato originale; perocchè questa sarà quella stessa causa prossima e istrumentale per la quale egli vien concepito. Ora la causa istrumentale e prossima, che muove il germe al suo sviluppo, è il seme paterno. E la tradizione cristiana di pieno consenso attribuisce appunto a una mala qualità del seme il ricevere che fa la natura generata in sè una cotal corruzione e disordine che ridonda nella volontà, ove così in uno colla generazione si forma il peccato. Le divine Scritture parlano senza ambiguità di questa rea qualità, che viene anco chiamata immondezza del seme umano. Giobbe deplorando la malizia della umanità, dimandava: « E chi può far mondo ciò che è stato concepito da un seme immondo?« (3) ». E di cui perciò tanta è la miseria che la corruzione abita ne' primi stami e rudimenti stessi di sua natura? E Davidde deplorava di esser stato concepito dalla madre sua « nelle iniquità e nei peccati« (4) ». A spiegazione e commento delle quali parole, Innocenzo III dice: « il corpo si concepisce corrotto e fedato nato da semi corrotti e fedati« (5) ». Un segno che infetto era il mezzo della generazione, e col quale Iddio volle mantenere la cognizione e la fede del peccato originale, fu la circoncisione; e quelli si avevano per soggetti alla morte presso gli Ebrei che non subivano questa ceremonia, indicandosi per tal modo e il principio del male e la necessità di una originale riformazione della natura umana. Questa infezione del seme è fisica , e perciò non è che in essa stia la propria e vera ragione di peccato, ma bensì la ragione istrumentale del peccato. Perocchè questa infezione fa sì che l' uomo nasca guasto nella sua parte animale, e ricevendo così un istinto animale alterato, questo istinto animale tira a sè le forze della volontà soggettiva, e in questo piegamento della volontà la ragione del peccato si assolve. Vi ha dunque, 1. la infezione del seme paterno: 2. l' istinto animale alterato, ossia la concupiscenza animale che viene prodotta nel generato: 3. la volontà stessa inclinata e condiscendente tutta alla concupiscenza: e in quest' ultima parte trovasi, come dicevamo, un vero e proprio peccato abituale. Niente adunque ripugna, anzi sembra consentaneo alla cattolica verità l' ammettere una morbosa qualità nel seme; purchè non si faccia consistere in essa l' essenza del peccato originale: niente ripugna che si ammetta una morbosa qualità della carne, ossia un' alterazione dell' istinto animale, purchè non si confonda con essa la piega della volontà, che sola può esser sede di moralità. E parmi che certi teologi parte si sieno male spiegati, parte sieno stati troppo severamente intesi in questa parte. Così Enrico di Gand, a cui si appone di far consistere l' essenza del peccato originale in una morbosa qualità della carne, si esprime pur chiaramente quando dice: [...OMISSIS...] . Delle quali parole si può egli dar nulla di più chiaro e di più preciso? Ed egli pare che questa morbosa qualità della carne tanto meno doveva essere occasione di censura, quanto che tutte le Scritture son piene di questo stesso sentimento, fino a chiamare carne lo stesso peccato originale, sicchè essere nella carne, nello stile di S. Paolo, vale essere ancora nel peccato originale (2). E S. Agostino secondo lo spirito di esse Scritture dice, che il peccato originale « è una cotal affezione di mala qualità e come una malattia« (3) ». E altrove parimente disse, che il corpo trasse pel peccato originale una qualità morbosa e pestilente (4). Alcuni per questa mala qualità intendono la concupiscenza stessa. Ma se per concupiscenza s' intende quell' insulto che fa la carne allo spirito quando, occupandolo di sè tenta di trarlo giù dalla sua padronanza e assudditarlosi, egli è manifesto che la concupiscenza deve essere piuttosto un effetto di quella morbosa qualità della carne. Perocchè se la carne è fatta così superba e stimolante, ella deve avere indubitatamente sofferita un' alterazione pari appunto a quella che ha sofferita la cute dello scabbioso o di colui che soffra delle insolite pruriginose sensazioni (1). Nè si potrebbe immaginare nella carne questo effetto senza pensar in essa esser succeduta appunto una morbosa alterazione: ed è questa che assai agevolmente s' intende potersi contrarre per via di generazione; come succede di tutti i mali gentilizii, i quali vanno comechessia a portare la loro corruzione contagiosa nelle prime radici della vita. Per ciò S. Agostino dice che Adamo peccando viziò in sè come in radice la propria stirpe (2). Nè però mai s' intenda, come qui sopra ho avvertito, che in questa alterazione morbosa della carne stia l' essenza del peccato originale, ma solo lo stimolo che dalla natura è applicato alla volontà, del quale stimolo questa viene sedotta e tolta dai beni intellettivi per bearsi degli animaleschi. Confermano questa dottrina tutte quelle maniere efficacissime di dire che usa la divina Scrittura; nelle quali l' uomo peccatore si dice nato di carne. In S. Giovanni è scritto: « Ciò che è nato di carne è carne; e ciò che è nato di spirito è spirito« (3) ». Che cosa vuol dire qui essere carne, se non essere peccatore, cioè schiavo della carne? E che cosa esprime quell' essere nato di carne, se non venire la nostra schiavitù dalla carne appunto male condizionata e violenta; il che è quanto dire avere in sè un' alterazione fisica indebita? E si noti quella frase esser carne , la quale indica che il soggetto, in luogo di applicare la sua forza più lungamente alle cose intellettive, si abbandona tutto a percepire la materia sensibile e da essa trae la sua esistenza: secondo ciò che detto abbiamo più sopra, che il principio senziente trae il suo essere dal termine sentito. Il medesimo sentimento esprime S. Paolo in tanti luoghi, nei quali alla carne attribuisce tutta l' origine del male. [...OMISSIS...] . Ora una tal carne, di cui anche più sopra aveva detto: « Io so che non abita in me, cioè nella carne mia bene alcuno« (2) », sarà ella la carne di Adamo innocente? O non si dirà anzi una carne alterata, impestata dal peccato? Anteriore dunque alla concupiscenza è una morbosa e pestifera qualità della carne, che si trasmette per generazione e che è la cagione prossima della concupiscenza, come la concupiscenza è la cagione prossima della stortura della volontà ossia del formal peccato. Or ciò posto, io non vedrei altresì che si potesse riprendere come contraria alla fede l' opinione di quelli ai quali par verisimile che nel frutto vietato da Dio ad Adamo potesse ascondersi un cotal veleno, il quale contaminasse l' uomo e principalmente ammorbasse la potenza generativa (3). Tale opinione, sostenuta da un' antica tradizione presso gli Ebrei (4), a me sembra verisimile e conforme a quelle leggi, secondo le quali Iddio suole governare le sue creature. Dirò di più, quando si dovesse fare in tal materia delle conghietture, più volte essermi passato per la mente che Iddio potesse aver permesso al demonio di prendere sua sede in quel frutto vietato appunto, e che insieme colle particelle di quel frutto, le quali si devono essere convertite nella carne e secondo la loro propria natura andate per avventura a unirsi colla seminale sostanza, il demonio avesse potuto trovare l' adito nel corpo dell' uomo peccatore e tenerlo come sua conquista e passare egli stesso per il mezzo della generazione in tutti i figliuoli di Adamo, travagliandoli appunto principalmente e insultandoli per via di carne. Or non sarebbe questo conforme a quel dire che fanno le divine Scritture, che tutta l' umanità fu pel mangiamento di quel primo frutto in potestà del demonio e che ogni carne fu da lui posseduta? Non mostra la santa Chiesa negli esorcismi che fa al bambino prima di battezzarlo, tener essa che dentro lui stia il demonio? Non gli dice, soffiandoli in volto: Escitine, o maledetto diavolo? E quanto naturale intendimento non riceverebbero pure quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Da questa morbosa qualità del seme adunque, dalla quale rimane infetto l' embrione, prima conseguenza è, come dicevamo, la concupiscenza, ossia un sentimento animale che agisce con forza sulla volontà soggettiva e tutta a sè ne tira l' attività, per modo che ella rimane distolta e avulsa dai beni intellettivi. Perciò i Padri parlano della concupiscenza come di cosa costitutiva del peccato stesso originale. Ma ella si deve intendere esser tale solo considerata come vittoriosa sulla volontà, sicchè la volontà le sia serva: cessando poi dall' essere peccato tosto che la volontà soggettiva e personale riprenda le redini e torni a signoreggiare sopra di lei colla forza della grazia divina; poichè allora lo stimolo della concupiscenza, sebbene rimanga, non serve che ad accrescere il merito della vittoria. Perciò il serafico Dottore esaminando un passo del Maestro delle Sentenze, dove afferma che il peccato originale sia la concupiscenza, dice egregiamente che ciò si può sostenere, purchè s' intenda non qualunque concupiscenza, ma quella che in sè racchiude la privazione della debita giustizia (1). La concupiscenza considerata nel fanciullo abbiamo detto esser cagionata da una morbosa qualità di cui è infetta la carne, nella quale egli fu generato. Ora egli sembra, che se la concupiscenza si considera nei generanti, ella possa essere stata, anzi che effetto, cagione in buona parte della morbosa qualità propagata nei figliuoli. Questo è ciò che S. Agostino dice tanto di frequente: in ragione di esempio, in un luogo così parla: [...OMISSIS...] . E S. Tommaso sulle vestigia del suo Maestro: [...OMISSIS...] . Nè mi farebbe maraviglia che la voluttà annessa alla generazione fosse partecipata dal generato, in quanto prima la massa carnea di cui egli è composto formava parte di essi, e poi diviso ed acquistato un essere da sè, non morì però mai, ma restò con quel vigore di vita e con quel sentimento che in lui fu suscitato e acceso pure in generandolo. Sicchè la causa istrumentale e prossima della trasmissione nei figliuoli del peccato originale è la morbosa qualità del seme paterno e la concupiscenza che accompagna l' atto della generazione, ove questa si faccia per via di esso seme paterno. Le quali due cose mancarono nella generazione di Cristo: perocchè, non essendo intervenuto in essa opera di uomo, non ebbe luogo l' effetto che suol produrre il seme guasto nella madre a un tempo e nel figlio, cioè la carnale concupiscenza. Il che apparisce assai più chiaro nel sistema de' germi inviluppati gli uni negli altri; perocchè in questo sistema, sebbene il germe da cui dovea poscia svilupparsi Cristo, passasse di parente in parente per tutta la serie de' suoi ascendenti, tuttavia rimanendosi egli sempre inviluppato fino al momento, in cui fu depositato nel corpo purissimo di Maria Vergine Immacolata, fu protetto per modo, che non venne mai tocco nelle generazioni antecedenti da seme umano, e così non potè contrarre mai, nè pure se ne fosse stato capace, alcuna macchia o infezione. Così si trovano conciliate e insieme contemperate le sentenze apparentemente diverse intorno alla ragione per la quale Cristo naturalmente fu immune da peccato. Perocchè innumerevoli sono i luoghi de' Padri co' quali affermano che ciò fu perchè non vi intervenne uman seme; e molti pure e evidenti sono quelli nei quali si legge che fu perchè non vi intervenne alcuna concupiscenza. Questo secondo sentimento ripete assai di sovente S. Agostino, come a ragion di esempio là dove dice: [...OMISSIS...] . Considerando adunque l' alterazione e il guasto del seme umano come cagione di questa concupiscenza, è vero l' uno e l' altro, che Cristo fu immune dal peccato perchè non ci intervenne l' uso del seme, e non quella concupiscenza che accompagna quest' uso. Quella concupiscenza adunque è propriamente la cagion prossima della trasfusione del peccato, che accompagna il concepire in virtù dell' uman seme; non altra, se ella essere vi potesse. E con ciò io credo di cogliere la mente del Dottor della grazia, il quale non si potrà provare che in nessun luogo parli di altra concupiscenza se non di quella che accompagna appunto la umana seminagione: il che dimostra nel passo sopracitato, chiamandola non puramente concupiscenza, ma concupiscenza di uomo che con femmina si accoppia, « concumbentis concupiscentia ». E ancor più precisamente altrove dichiara il suo pensiero determinando di quale concupiscenza egli parli, dandole l' epiteto di concupiscenza seminatrice . E per ciò dice di Cristo che quantunque anche egli sia secondo la carne seme di Abramo, perocchè la Vergine Maria ond' egli tolse la carne fu di quel seme propagata, tuttavia egli non fu sottoposto all' azione di quel seme, non venendo da viril seme concetto, e libero rimanendosi dal legacciolo della seminatrice concupiscenza (1). Ricapitolando ora e paragonando ciò che abbiam detto sulla natura e sulla trasfusione del peccato originale, noi abbiam parlato sì in quella trattazione, che in questa del principio di esso peccato e ne abbiamo parlato in modo diverso. Perocchè parlando della natura, noi abbiamo posto il principio del peccato originale nella personalità dell' uomo: e parlando della trasfusione, abbiamo posto questo principio nella rea qualità e concupiscenziale del seme virile. Colà abbiamo detto che il peccato prima è nella persona ossia nella volontà soggettiva: e qui abbiamo mostrato il disordine originale cominciare dalla carne ossia dall' animalità. Colà abbiamo fatto discendere il peccato dal punto superiore della umana natura e condottolo a contaminare le potenze subordinate: e qui abbiam fatto nascere il disordine nel punto inferiore di tutti, cioè nella carne dell' uomo, e l' abbiamo fatto ascendere e comunicare la sua infezione alle altre potenze più nobili, deturpando ultimamente l' altissima di tutte, cioè la volontà soggettiva. Insomma colà abbiamo assegnato al peccato un principio diverso e opposto da quello che gli abbiamo assegnato in quest' ultima trattazione. Come si conciliano e stanno insieme queste dottrine? La natura umana ha veramente due estremi, che sono, quasi direi, i due poli della medesima: il più nobile è ciò che forma la personalità, e il men nobile è ciò che forma l' animalità. Ora la generazione della umana natura procede dalla parte men nobile alla più nobile, dall' imperfetto al perfetto, dall' animale alla persona. Questo processo risulta da tutto ciò che abbiamo detto intorno all' umana generazione, la quale è una operazione animale sicchè ha virtù di formar l' animale. Ma essendo da Dio congiunto con questo animale per ferma legge l' ente percettibile, egli non può essere formato questo animale se non a condizione che veda l' ente: e per ciò all' operazione generativa, che di natura sua non avrebbe virtù se non di produrre un animale, tiene dietro, immediatamente la percezione dell' ente, mediante la quale il principio senziente in quell' animale si eleva a stato di soggetto intellettivo e di persona; il che succede senza progressione alcuna di tempo , ma è contemporaneo l' animale e l' uomo. Nasce adunque la formazione dell' uomo mediante una mozione animale dall' imperfetto al perfetto. Ora comunicandosi il disordine adamatico per generazione, di che è che si chiama originale , egli deve in producendosi nell' infante tenere lo stesso ordine e processo che tiene l' infante stesso in generandosi e formandosi. Quindi è che egli deve cominciare a infettare e corrompere le parti basse e da queste passare il suo disordine alle più sublimi. Il che è ciò che esprimono le Scritture collocando nella carne tutto il fonte del male morale dell' uomo e usando di questa parola carne a significare il nido, quasi direi, di tutte le tentazioni e il complesso di tutti gl' inimici contro lo spirito della virtù e della giustizia. « Perocchè la carne, dice S. Paolo, concupe contro lo spirito e lo spirito contro la carne: conciossiacchè queste due cose si contrariano insieme, pericolandone la vostra libertà« (1) »; della quale la baldanza della carne vorrebbe pure spogliarvi. In questo senso adunque, parlando della trasfusione del peccato, noi abbiamo messo il suo principio nella parte più bassa della umana natura, per la quale entrato il disordine si comunicò alle altre. Ma convien riflettere, che questo disordine fino che si resta nelle parti basse dell' uomo, non ha vera e propria ragion di peccato, nè però peccato si può denominare. Ma bensì può dirsi principio di peccato , in quanto che egli produce nell' uomo uno stimolo che tenta la sua volontà, e come priva di aiuto e di forze, qual' è la volontà di quello cui manca la grazia, la trae agevolmente dalla sua e la fa quietarsi nella vita animale e nella carnale dilettazione. Egli è però certo, che il formal peccato non è prodotto nell' uomo se non da quel punto che questa volontà soggettiva non ha piegato e ceduto al dilettico animale. E però noi abbiam detto, che il peccato non comincia se non nella volontà soggettiva, nella più alta parte dell' uomo, che è quanto dire nella personalità: perciocchè tutto il male che precede al guasto della personalità non è cosa per sè morale, ma fisica e animale, essendo sola la persona la vera e propria sede di ogni bene e di ogni male morale. Sebbene adunque il disordine cominci nell' uomo prima della sua personalità, tuttavia solo in questa e con questa comincia propriamente il peccato . Quando poi la personalità stessa ha allettato in sè il disordine, rendendo con ciò morale quello che prima era fisico e animale, allora la persona comunica per così dire l' immoralità propria alle potenze subordinate e tutto diventa immoralità, tutto peccato nell' uomo. La concupiscenza è peccato, l' ignoranza e la cecità di cuore è peccato, come dicono a una voce i Padri. Relativamente dunque al peccato di che vengono infette le potenze dalla volontà personale, prima e propria sede del peccato, noi abbiam detto che il principio del peccato originale risiede nella persona, nella più alta parte dell' uomo, e che da quest' apice discende e macchia le parti inferiori. Se si considera dunque il disordine in generale, il suo principio è nella parte più bassa dell' umana natura. Se si considera poi l' immoralità di questo disordine, il suo principio è nella parte più alta di essa natura. E questo ci valga a conciliare, a legare insieme e a ricapitolare quanto abbiamo detto sul principio del peccato originale in questo e nel capitolo precedente. Trovata la cagione prossima del peccato originale, egli è facile render ragione perchè anche i figli di coloro che sono rigenerati nel santo battesimo, ricevano il peccato originale. La grazia del santo battesimo non è che personale , cioè non riforma che la persona, come abbiamo accennato e come più a lungo dimostreremo nel libro seguente. Il disordine originale all' incontro contamina non meno la persona che la natura. Riformata adunque la persona col battesimo, rimangono le altre parti della natura umana ancora disordinate. A queste parti disordinate dell' umana natura appartiene principalmente la facoltà generatrice, e quindi la causa prossima e istrumentale per la quale s' insinua nel neonato e vi si eccita il peccato originale rimane viziata anche nei fedeli battezzati. Il perchè una natura corrotta produce una natura corrotta e che ha pur bisogno di essere rigenerata. Questa ragione adduce S. Agostino contro i Pelagiani che dimandavano perchè se il peccatore genera il peccatore, anche il giusto non generi il giusto. [...OMISSIS...] . La quale medesima ragione adduce in altre parole S. Tommaso, il quale afferma rimanere il peccato originale, materialmente preso, negli stessi battezzati; [...OMISSIS...] . Dalla natura del peccato originale, dottrina fondamentale della Chiesa Cattolica (4), si spiega lo spirito di questa, e per l' opposto lo spirito da cui è animato il mondo. La Chiesa professa che l' uomo nasce corrotto per natura: e quindi il figliuolo della Chiesa riceve da questa dottrina un sentimento di umiltà che lo accompagna in tutti i suoi passi. Il mondo niente ode più mal volentieri quanto la dottrina del peccato originale: egli fa di tutto per ritorcere gli occhi da questa profonda piaga dell' umanità, e dice volentieri: l' uomo nascere uomo, ovvero le indoli formarsi per la educazione senza più. Dell' ignoranza pertanto, in cui il mondo si tiene volontariamente del peccato originale, è effetto a un tempo e cagione lo spirito di superbia di cui sempre è gonfio il figliuolo di questo secolo. Quanto più lo spirito del mondo prevale anche nel mezzo delle nazioni cristiane, tanto più si vede allontanarsi e rimuoversi la memoria del peccato originale, massime dai libri di educazione; e dipingersi in essi in quel cambio l' uomo sempre con dei lieti e ridenti colori, ma, ohimè! purtroppo menzogneri, e simili per avventura a quelli che facevano si bello e desiderabile il pomo di Eva. La Chiesa col peccato originale insegna, che ciò che portiamo di corrotto fino dalla prima origine è la carne; e deduce da essa il fomento d' ogni peccato. [...OMISSIS...] . Per questa dottrina che possiede la Chiesa, avviene che il suo spirito sia di mortificazione della carne e di penitenza: e ciò a tal segno da desiderare fino la distruzione totale della carne, riguardando tale distruzione come l' abolizione del peccato e la liberazione dell' anima dai ceppi di una tediosissima schiavitù. Fino poi che questa felice distruzione non sia avvenuta, il figliuolo della Chiesa si propone di non prendere giammai a principio del suo operare il desiderio della carne, di non riconoscere nè pure la carne quasi come parte di sè, ma di riguardarla già come fosse al tutto morta. Questo è il proposito che si fa nel battesimo, questo è il sentimento che esprime S. Paolo là dove dice: [...OMISSIS...] . Or questa è nuova cagione per la quale il mondo non riceve o rifiuta di considerare la dottrina del peccato originale, la quale gli è troppo triste e malinconiosa, eziandiochè vera. Indi lo spirito del mondo si fa uno spirito di solazzo, di gaiezza e di accontentamento appunto della carne, così dalla Chiesa ripresa e vituperata. Il peccato originale adunque è quella gran dottrina la quale mette quella grande separazione che pure è tra l' operare della Chiesa e del mondo. Egli è manifesto che il peccato originale è il fatto solenne della umanità, il quale determina il vero e proprio suo stato. Or la morale deve esser acconcia al soggetto per il quale ella è fatta: e però un fatto che modifichi l' uomo, soggetto della morale, egli è evidente che deve recare una modificazione corrispondente in tutta la morale dottrina. Ma la filosofia non è stata solita di considerare i fatti solenni che hanno modificata la natura umana e hanno condotto l' uomo a essere quello che è: ma ha preso in veduta la natura umana astrattamente presa senza più. E il fatto del peccato originale tanto più lo ha negletto che esso è un fatto soprannaturale per così dire, cioè a dire un fatto che si lega con un ordine di cose soprannaturali e con una primitiva e immediata comunicazione col Creatore; e per la stessa ragione questo fatto fu di sua natura proprietà della cristiana teologia. Quindi principalmente nacque il carattere che divide la morale de' filosofi dalla morale cristiana. Perocchè quelli non poterono considerare l' uomo se non imperfettamente nelle sue qualità universali e comuni date dalla sua natura: laddove la rivelazione e religione cristiana lo considera fornito di tutti i suoi accidenti e alterazioni da lui sofferte e nei varii stati nei quali egli si trovò di fatto. Egli è perciò che la predicazione del Cristianesimo tende direttamente a sorreggere e riformare la umana natura in quelle parti, nelle quali fu più vulnerata dal peccato originale: onde è suo proprio carattere di inveire contro la superbia e la carnalità, e di soprammodo promuovere la virtù dell' umiltà e della castità, nomi peregrini e al tutto insoliti in bocca alla filosofia. Di più la morale teologica mettendo tutta la forza, per la quale divien possibile all' uomo di resistere contro all' ingiustizia cui gli vien suggerendo la concupiscenza originale, nella grazia del Redentore che solo vinse e riparò il peccato originale; avviene che rivolga la sua morale predicazione principalmente a indurre e consigliare l' uomo di provvedersi di questa grazia nell' orazione e nei sacramenti della Chiesa. Ed egli è per queste vie, di domare la carne colla penitenza e colla grazia, che la morale cristiana trae l' uomo alla reale virtù, mettendo la scure alla radice del male e insegnando quello che diceva di pur fare l' Apostolo: [...OMISSIS...] . Questo scopo determinato e che batte il sodo e nel vero dell' uomo, è appunto ciò che manca alla morale filosofica. Essa vi propone dei bellissimi precetti, ma tutti vaghi e universali, i quali non discendono ad applicarsi allo stato dell' uomo infermo e caduto sì come egli è, e non insegnano onde attinger egli possa le forze da rilevarsi; non gli fanno nè conoscere il suo male, nè il rimedio del medesimo; e finalmente da una parte non ha coraggio di proporgli tutta intera la virtù, temendo di sgomentarlo; dall' altra non la conosce: perchè una tale morale è essa stessa l' opera di quel medesimo uomo infermo e scaduto cui solo può guarire e rilevare un medico maggiore di lui, un altro essere sopraumano che tenda a lui soccorrevoli delle braccia piene di pietà e di misericordia. Le dottrine cattoliche da noi esposte sul peccato originale mi chiamano a lumeggiare meglio con esse una osservazione altrove per me fatta, cioè che la divina rivelazione, ossia quel complesso di dogmi che forma la sostanza della fede cattolica, suppone sotto di sè e accenna una filosofia, il ricercamento della quale Iddio commise alla umana ragione da lui stesso sovvenuta e aiutata, acciocchè col trovare i principii e le ragioni delle verità, dia essa ragione un tributo alla fede, la quale acquista di continuo una vie maggior luce e bellezza. Così noi veggiamo nelle divine Scritture e nei libri de' Padri della Chiesa che contengono il deposito della fede, parlarsi di verità le più sublimi e recondite colla massima precisione e sicurezza: e tuttavia confessare assai di sovente di non avere ragione naturale con la quale provarle, ma solo l' autorità di Dio che le ha fatte conoscere agli uomini. Tuttavia mettendosi poi l' ingegno umano a partito, procedendo innanzi le investigazioni filosofiche della umana natura e della divina, e a questo fare venendo stimolati principalmente i maestri stessi della Chiesa dalla disposizione della divina Provvidenza, la quale permette che gli eretici o gli infedeli o tutti quelli che si fanno nemici a Cristo, insorgano contro alle verità rivelate e accampino contro di esse delle obiezioni cavate dalla ragione naturale; allora, dico, si vanno trovando e scoprendo altresì tali verità naturali, le quali e valgono a ribattere le opposizioni avversarie e sorreggono o fiancheggiano mirabilmente gli stessi dogmi rivelati, mostrandoli di un perfetto consentimento ed accordo coll' intima natura delle cose e resi fin necessarii da questa natura delle cose ben conosciuta, di modo che l' ordine stesso delle cose naturali diverrebbe un assurdo, non che un enigma inesplicabile, quando quell' ordine di verità soprannaturali non fosse. Insomma, come ho detto ancora, la verità rivelata è un cotal compimento della verità naturale e presuppone questa sotto di sè, a quel modo che una dipintura suppone sotto di sè la tela sopra di cui è lavorata; e molte dottrine rivelate, o non sono misteriose se non perchè rimangono ancora a trovarsi quelle naturali verità che formano come l' addentellato a cui esse si continuano, o certo, trovate queste, cessano dall' essere difficili a credersi, e come che sia sublimi si fanno però tali che riesce sommamente difficile a non credersi. Il che forma una manifestissima prova della verità della divina rivelazione. Perocchè non può esser l' opera degli uomini una dottrina che gli uomini, i quali per molti secoli l' hanno insegnata, confessano inesplicabile e di cui non dànno altra prova che la divina rivelazione: una dottrina che tuttavia nel correre dei secoli acquista sempre più luce: una dottrina che per quantunque nuove verità naturali si scoprano, ella non si trova mai in contraddizione con alcuna: una dottrina che anzi si mostra in mirabile accordo colla filosofia più che questa si approfondisce e che perciò mostra supporre sotto di sè la più profonda filosofia, quasi un suo preliminare: quindi una dottrina che non potè essere annunziata se non da un Essere che fosse già in possesso precedentemente di una tale filosofia, che ad essa dottrina forma quasi direi un sotterraneo e tutto occulto fondamento. Queste generali osservazioni ricevono appunto lume dal dogma del peccato originale. Esso è annunziato nelle divine Scritture come un fatto, nè si pone cura ad accompagnarlo di alcuna ragione. Egli anzi alla ragione umana di prima giunta si presenta siccome il più mostruoso assurdo o certo come un impenetrabile mistero. Tuttavia la Chiesa lo insegna costantemente, non adducendone altra prova che l' autorità di Dio rivelante; e sicura di questa sola fede, sebbene alla ragione apparentemente contraria, lo proclama in modo che il toglie anzi ad uno de' principali cardini di tutto il suo insegnamento. I Padri della Chiesa, quelli stessi che sono riputati come ingegni naturali i più straordinarii, confessano di non poter penetrare la oscurità di questo mistero. S. Agostino stesso, la cui mente era considerata da un filosofo dei nostri tempi inimicissimo della religione (1), dichiara che « come non vi era nulla che fosse più noto del peccato originale per la predicazione della Chiesa, così non vi aveva nulla che fosse più secreto e nascosto all' intelligenza« (2) ». Questo gran Padre, dopo le più profonde meditazioni sopra questo argomento, non trovava che sempre nuovi imbarazzi. La natura del peccato originale lo sconfidava di penetrarla e piegava la fronte dicendo che vi si inchiude una occulta giustizia di Dio (3). La propagazione di esso peccato non gli era men forte nodo, e traendolo nella questione dell' origine dell' anima, il faceva perdersi in quest' altro labirinto, giacchè da una parte non poteva concepire alcun modo onde le anime potessero propaginarsi; e dall' altra « confessava di non poter spiegare a sè medesimo, come mai l' anima possa trarre il peccato da Adamo, se essa stessa non viene pure da Adamo« (4) ». Or dunque se la ragione umana nel suo massimo vigore non poteva dare alcun suffragio al dogma del peccato originale, non è egli evidente che questo dogma, conservato pur dalla Chiesa senza dubitazione alcuna, non poteva venire dagli uomini, ma da una sapienza più sublime? Dico da una sapienza più sublime, perocchè quantunque questo dogma non presentasse alla ragione se non un inesplicabile mistero, tuttavia da una parte la ragione stessa non potè mai trovare in nessun tempo un principio evidente che fosse in evidente contraddizione con esso, e dall' altra oggimai io credo non essere difficile d' accorgersi che si possa dare e che veramente si dia una filosofia, la quale rechi molta luce sulla stessa dottrina dell' original peccato e faccia in essa dileguarsi molte di quelle nubi che l' ignoranza umana vi vedeva, o piuttosto vi produceva. E se questa filosofia si dà veramente, parmi che a lei dovesser far buon viso tutti i cattolici. Perocchè l' accordo perfetto in cui ella verrebbe a trovarsi col Cristianesimo, e segnatamente con questo terribile dogma del peccato originale che essi credono per fede, dovrebbe fare a lei appo loro buona raccomandazione e prova efficace di sua verità. All' opposto persuasa colla virtù delle sue prove intrinseche una tale filosofia a coloro i quali discredono la cristiana religione e per troppo forte nodo hanno il peccato originale, essa dovrebbe avvicinare costoro, quanto può ragione naturale, al cristiano insegnamento. Sicchè la filosofia e la teologia si darebbero così insieme mano e l' una aiuterebbe l' altra in vantaggio degli uomini. Ora, egli è appunto questa filosofia la quale giace occulta nelle viscere della cristiana teologia, che noi ci siamo proposto di aiutare perchè venga alla luce: facendo ancor noi, (se ci è permesso di usare in altro senso la frase di Socrate) l' ufficio, quasi direi, di levatrice. E veramente tutta la dottrina del peccato originale riceve chiarissima luce da due verità filosofiche, le quali noi abbiamo provato con ragioni naturali e che costituiscono per così dire la teoria filosofica dell' uomo, cioè: 1. Che si ha una distinzione reale tra l' esservi nell' anima un sentimento ed un' idea qualunque, e l' avvertenza di quel sentimento e di quell' idea. Di modo che vi possono essere e vi sono nell' anima dei sentimenti e delle idee di cui l' uomo non ha nessuna avvertenza per molto tempo, acquistandola poi mediante l' uso della sua riffessione. 2. Che l' uomo fino dal primo istante del suo esistere ha un sentimento fondamentale e l' idea dell' essere universale, dei quali però egli non ha ancora avvertenza. Dai quali due elementi succede poi tutto lo sviluppo umano, perocchè tutte le sensazioni che riceve appresso non sono che modificazioni di quel primo sentimento; e tutte le idee che egli acquista e i ragionamenti che fa, non sono che i sentimenti veduti in rapporto coll' idea dell' essere, o rapporti di rapporti. Ben provate queste due verità, tutto ciò che ha di più oscuro la natura del peccato originale si chiarifica. Perocchè non è più un assurdo apparente, ma anzi una verità chiarissima di dire, che nel fanciullo appena nato vi abbia una volontà verso l' essere in universale, la quale sia piegata e tirata dalla violenza del sentimento animale; sebbene questa volontà non sia libera. Ed or, ciò posto, una immoralità si trova nell' uomo fino dalla prima sua esistenza, la quale ha ragione di peccato , sebbene non abbia ragione di colpa , perocchè a formare il peccato abbiamo detto bastare la volontà , a formare poi la colpa esigersi altresì la libertà . Ora ciò che è peccato nell' infante, considerato in lui solo, niente vieta che si chiami colpa, considerato in relazione colla prima libera volontà che il cagionò, cioè colla volontà di Adamo (1). Egli è per ciò che con molta assennattezza, per nostro avviso, Vincenzo Palmieri in un suo libro scrisse così: [...OMISSIS...] . Da questo passo apparisce che il citato professore di Teologia dogmatica sentì lo stretto nesso che aveva la questione filosofica dell' origine delle idee col dogma teologico del peccato originale, e che questo portava la risoluzione di quella nel suo seno. Egli è vero che l' acuto teologo che ciò vide, non potè però indicare un sistema delle idee innate che potesse al tutto reggersi e sostenersi contro gli avversarii; perchè non ne aveva altri che quello di Cartesio e quello di Malebranche: ma ciò non toglie che egli intravedesse la verità che noi tocchiamo. Il peccato non accennava se non la necessità di un sistema filosofico che ammettesse qualche cosa d' innato, ma non diceva che solo una diligente e fedele investigazione della natura della mente umana doveva poi trovare che cosa fosse questo che d' innato; e questa ricerca da noi affrontata ci condusse alla teoria della naturale intuizione dell' essere in universale. Si dica il medesimo circa la questione dell' origine dell' anima, che ha pure un così stretto rapporto, sebben filosofica, col dogma puramente teologico della trasfusione del peccato originale. Il dogma della trasfusione poteva egli essere inventato da chi non conosceva la soluzione di quella prima questione? Ma si consideri la soluzione che noi ne abbiamo dato; e poi quanta luce, ci si dica, non manda fuori di sè un insegnamento sì strano a prima giunta come quello che dichiara originario un peccato? Quel maestro che lo insegnò il primo, non doveva essere qualche gran cosa, se confidò agli uomini un risultamento che non poteva dare se non una dottrina, che non sarebbe stata nota se non quando il mondo fosse ben vecchio? Delle riflessioni simili a queste mi potrebbe somministrare la dottrina della Chiesa intorno alla maniera nella quale ella insegna che i fanciulli vengono mondati dal peccato originale nel santo battesimo. Perocchè la Chiesa chiaramente e costantemente insegna ed ha sempre insegnato, che nel battesimo non solo vien rimesso il debito contratto dalla natura umana con Dio, ma che viene purificata l' anima stessa del fanciullo dalla macchia originale e che in quest' anima viene infusa la grazia dello Spirito Santo e gli abiti delle virtù teologiche della fede, della speranza e della carità. Ma cerca ella la Chiesa di spiegarci come avvenga tutto ciò nell' anima del fanciullo che non dà ancora nessun segno esterno di uso di ragione? Non cerca: solo ci dice che questo è la verità e ci ingiunge di crederlo. - Ma non è egli una tale dottrina opposta al pensare comune degli uomini e apparentemente assurda anche agli occhi della filosofia che non iscopre in quel bambino appena nato nè idee, nè volontà, nè perciò discernimento e amore del bene e del male? - Di tutto questo non si dà veruna pena la Chiesa: non risponde a tali obbiezioni se non solo con queste parole: Chichessia ciò non crede, sia anatema. I maestri poi anche più insigni della religione cristiana parlando di ciò confessano assai spesso la loro ignoranza ed è loro frequente in bocca: così è, ma in che modo ciò sia la ragione lo ignora, perocchè vi giace un mistero. Non si è parlato così solamente nei primordii del cristianesimo, ma dai più gran genii dei secoli moderni: e quando è venuto a questo punto lo stesso Bossuet, ha dovuto conchiudere con queste parole: « Egli è questo il mistero dello Spirito Santo« ». A me pare di veder ben chiaro l' impronta di un magisterio divino in questa maniera di enunziare le più sublimi verità e apparentemente contrarie alla ragione come altrettanti fatti indubitabili senza fornirli di loro ragioni e spiegazioni: il ciò farsi per molti secoli e il venir solo in ultimo col progresso delle scienze trovate quelle ragioni che rendano quei misteri chiari, o certo che li dimostrino, anzi che contrarii alla ragione, ad essa medesima necessarii e d' essa nobile finimento. E veramente quando si conosce lo stato del fanciullo a quel modo che egli risulta dai principi filosofici per noi dimostrati, non ci rende egli manifesto come la infusione delle virtù teologiche e il raddrizzamento e sollevamento a Dio della volontà possa aver luogo? E poichè ho toccato di sopra una parola di Bossuet da lui proferita nella celebre disputa che tenne col ministro Claudio, non sarà inutile che io arrechi ancora un passo dello stesso insigne prelato, tolto dalla relazione di quella medesima disputa. Questo passo mi varrà a dimostrare due cose: 1 Come il gran Vescovo di Meaux colla sua solida mente giunse a vedere il rapporto strettissimo della dottrina della Chiesa colla questione filosofica intorno alla natura dell' anima intelligente, e come quella dottrina della Chiesa richiedeva assolutamente che questa questione si risolvesse in modo che l' anima dovesse avere una comunicazione primitiva e naturale colla verità: 2 Mi varrà a mostrare quanto cautamente la sana mente di quel prelato toccasse questa risoluzione, non buttandosi perciò nel sistema delle idee innate di Cartesio (come poco avvedutamente vedemmo fare più sopra un teologo italiano), ma anzi si contenesse dentro a' giusti limiti, non avanzando più di quello che la necessità richiedesse ed esigesse di quelle cattoliche dottrine delle virtù infuse. Perocchè avendo ridotto il ministro protestante e strettolo a confessare che sviluppandosi nel fanciullo battezzato la ragione, questo non può premettere alla fede delle verità che gli sono proposte da Santa Chiesa alcun esame e alcuna dubitazione, ma deve crederle subitamente; e che il mezzo onde può far ciò non è altro che la fede infusa nel battesimo; restava a levare la difficoltà che faceva il protestante, come questa fede infusa potesse essere ragionevole nel fanciullo, senza esame e non facendo uso della ragione. Or ecco come l' egregio prelato si fa a rispondere: [...OMISSIS...] .

Antropologia soprannaturale Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Quest' ordine col quale la divina Provvidenza guida innanzi la perfezione dell' umanità, è l' opposto di quello della filosofia. Questa fa gran caso di qualche errore materiale e perde di mira la perfezione morale. Non solo è ciò ingiusto, anteponendosi il bene minore al maggiore, ma è anche contro natura. Perocchè l' ordine della natura umana esige e chiede di tendere prima a ciò che è immediatamente morale, e allora questa ha prese forze e agio di rettificare con pace e frutto gli errori puramente intellettivi. Conosciuto questo essere l' ordine proprio e legittimo del progresso della perfezione umana, non sarà maraviglia di vedere la divina Provvidenza che, non contrariando punto l' uomo nel credere che fa i bruti simili a sè nell' operare, tolga anzi questi per emblemi co' quali ammaestrarlo: appunto in un modo simile a quello che faceva quel filosofo greco che inventò più tardi le favole (Esopo). Ecco pertanto alcune prescrizioni emblematiche che Dio fece agli uomini de' primi tempi intorno agli animali bruti, acciocchè fossero segno e specchio di ciò che dovevano fare gli uomini fra di loro. Agli uomini usciti dall' arca proibisce di mangiare la carne col sangue: e ciò per rimuoverli dalla ferocia e dal metter le mani nel sangue umano: [...OMISSIS...] . Un altro ammaestramento voleva Iddio dare agli uomini con questo precetto, ed era di inculcargli il rispetto all' anima dell' uomo, e così chiamarli a riflettere alla dignità di quest' anima intelligente e fatta a similitudine di Dio, alla quale l' uomo animalesco non sapeva anco p“r mente. E per far ciò metteva innanzi agli uomini quest' anima come principio della vita animale, giacchè in quest' atto era più facile a quegli antichi poter fissare colla mente quest' anima e riconoscerla per qualche cosa. E conciossiachè la vita animale comincia nel sangue, per ciò s' inculca il rispetto al sangue, appunto come alla sede dell' anima (3). Laonde prosegue a dire Iddio in conferma del precetto di non mangiare carne col sangue: [...OMISSIS...] . Egli vi ha qui un' altra cosa a riflettere. Iddio a Noè uscito dall' arca dà la potestà di ammazzare e di mangiare gli animali: [...OMISSIS...] . Or non esclude dal potersi mangiare se non la carne col sangue. Si manifesta dunque chiaramente che questo rispetto al sangue delle bestie è puramente emblematico, non per sè, ma per ragione del sangue dell' uomo, che solo dicesi fatto a imagine di Dio. Ove si consideri questo vero, che le bestie in questa antica e primitiva scuola che dà Dio agli uomini, sono prese per emblema a significare uomini, verso cui sono i doveri morali, si vedrà come falsamente il Calmet ed altri assai vogliano indurre da siffatti luoghi dei divini libri la conseguenza: che la Scrittura supponga nelle bestie qualche parte d' intelligenza (2). Per altro lo stesso permesso, che Dio dà alla famiglia di Noè dopo il diluvio di ammazzare gli animali, è emblematico. E in quegli animali (di cui si fa pure rispettare emblematicamente il sangue), si ravvisano gli empi condannati da Dio a morte, e però indegni di vivere: tipo rinnovellato nello sterminio, che da Dio fu comandato agli Ebrei, dei Cananei e di que' varii popoli idolatri coi quali ebbe guerra il popol di Dio. E dove si rifletta che la famiglia di Noè rappresentava l' umanità rinnovellata da Cristo, perseguitata e martoriata che dimanda a Dio vendetta del suo sangue, verrà agevolmente alla memoria il Salmo che dice: [...OMISSIS...] . Insomma si viene a significare per quel permesso, che l' uomo non ha diritto alla vita se non per Iddio e per l' imagine che di Dio ne porta in sè stesso; e che l' uomo empio è abbandonato alla morte. Per ciò egli sembra, che a Noè e alla sua famiglia sia stato dato altresì il diritto della pena di morte da infliggersi pel delitto di omicidio, secondo quelle parole: « Chiunque effonderà il sangue umano, il sangue di lui sarà sparso« (4). » Dove si vede che l' imagine di Dio su cui è fatta l' anima umana varrebbe a riparare i buoni dall' essere uccisi, ma non gli uccisori perchè cattivi e da Dio alla propria ventura lasciati. Questo tipo viene illuminato da diverse osservazioni. Alla umanità antidiluviana, tipo dei peccatori, fu diniegato di far vendetta di Caino, di Lamec e degli altri micidiali. Voleva insegnarsi con questo, che Dio solo è il padrone della vita degli uomini; e che per far vendetta dei malvagi, siccome gli uccisori sono, egli non cede il suo diritto di morte agli stessi malvagi: ma incarica di fare questa sua giustizia i buoni, che vengono così a rappresentare la persona di Dio stesso. Conciossiacchè Iddio ha dominio della vita non solo perchè Creatore, ma, rispetto ai peccatori, anche perchè giudice e vindice della giustizia; e se conserva loro la vita, ne è anche per ciò sempre padrone. Or la divina giustizia non si può placare se non colla distruzione del peccatore, e però colla effusione del sangue, sede e simbolo della vita di lui: indi il Signore aveva riserbato a sè il sangue nei sacrifizii, per additare questo suo diritto sovrano di vendetta e di conquista. Il dir poi che egli fa che col sangue effuso nei sacrifizii si sarebbe placato, era un tipo del sangue di Cristo, solo atto a placarlo: [...OMISSIS...] . Che gli uomini attribuissero alle bestie intelligenza, ciò è facile di spiegare coll' ignoranza loro. Ma parlando Iddio, non si può assegnar questa causa al dare che egli fa ragione alle bestie, e convien prendersi ciò per un emblema volto a significare ben altro. Con quest' avvertenza medesima si deve intendere quello stringere che fa Iddio alleanza dopo il diluvio non solo cogli uomini ma colle bestie ancora: [...OMISSIS...] . Che questo parlare sia simbolico e venga a dire: io risparmierò d' ora innanzi tanto quelli che vivono da uomini come quelli che han costume di bestia, pare manifesto (3): massime raffrontando insieme tutti i diversi luoghi della Scrittura che dànno luce a queste maniere di parlare. La Scrittura si spiega da sè stessa. L' Apostolo S. Paolo, a ragion d' esempio, ci dichiara nascondersi una legge simbolica in quella nella quale si proibisce di mettersi la musoliera al bue che tritura, e dice il Santo: « Forse che Iddio si dà cura de' buoi?« (1) » trovando chiarissimo che con quella legge si voleva provvedere di cibo l' operaio evangelico che ha cura delle anime, e che nel bue triturante veniva rappresentato (2). Sarei infinito ove io volessi discendere a divisare il simbolo che si traeva da tutte le specie di animali, e mi rimetto all' opera de' Principii discussi dalla società Ebrea7Clementina, dove si traggono fuori i diversi enimmi che la divina Scrittura toglie dagli animali bruti (3). 5. I giganti, emblema dell' umana superbia e impotenza (4). 6. La famiglia di Noè nell' arca, tipo della Chiesa di Gesù Cristo salvata pel legno della croce (5). 7. Cogli usciti dall' arca uomini e bruti, Dio fa un' alleanza sempiterna. Ella era il tipo di quella alleanza che doveva farsi fra Dio e il popolo nuovo redento da Cristo (1). L' eternità e immobilità del patto con Noè e suoi discendenti non poteva avere altra ragione che questa tipica. Indi è l' efficacia delle parole che usa Dio ad annunziare quest' alleanza. Egli odora la fragranza del nuovo sacrificio che gli offerisce Noè: egli ripete più volte la formola dell' alleanza: [...OMISSIS...] . Pone per segno di questa alleanza l' arco celeste che avrà tale ufficio per tutte le generazioni avvenire (2): [...OMISSIS...] . Certo non vi ha patto sempiterno, secondo i dogmi cristiani, fra Dio e l' umanità se non quello del mediatore Gesù Cristo (4). E quando così si descrive il Figliuol dell' uomo che verrà sulle nubi, le quali sono l' emblema degli Angeli (5), apparisce assai chiaro, che l' arco celeste è un' acconcissima figura del Verbo incarnato che congiunge la terra al cielo. Ora il tipo del nuovo patto, del patto sempiterno venne più volte rinnovellato di poi presso il popolo Ebreo (6). Il Deuteronomio, che significa seconda o nuova legge, il patto rinnovato da Giosuè con Dio dopo entrati gli Ebrei nel possesso della terra promessa, e principalmente l' alleanza rinnovata da Neemia dopo il ritorno dalla schiavitù di Babilonia, come detto è innanzi, sono altrettante figure di una verità così importante, che non era mai abbastanza rammemorata e impressa negli uomini, perchè la fondamentale a cui tutte le altre si riferivano. .. La torre di Babele tipo delle opere dei malvagi che cominciano con grandi e superbe speranze, ma che restano imperfette e confuse. Questa maniera d' istruire gli uomini da Dio tenuta non è semplicemente una nostra opinione: ella è una verità positiva insegnataci dalla stessa Scrittura, la quale a un tempo registra i simboli e li spiega, mette innanzi gli enimmi e ci dice che sono tali, chiamandoci a penetrarne il senso nascosto. Tutta la storia ebraica, secondo l' Apostolo, è una serie di segni e di figure colle quali Iddio venivasi formando e ammaestrando quel popolo (1): e i Padri della Chiesa sono così uniformi in questa sentenza, sicchè ella si può dire a tutta ragione essere dottrina cattolica. Iddio scelse dal genere umano l' individuo Abramo: a questo suo eletto fece una famiglia in Isacco: questa famiglia la cangiò in nazione al monte Sinai, quando le diede la legge e strinse il patto solenne con essa col quale si faceva suo Re (2): questa nazione fu cangiata nella umanità tutta mediante il Messia. Il titolo di Dio di Abramo, d' Isacco e di Giacobbe che prese, è un titolo che esprime un Dio adorato da degli individui (3). Quando egli è per trarne i discendenti dall' Egitto, assume il titolo di Dio degli Ebrei, denominazione di un Dio nazionale, cioè coltivato da una nazione (4). Il Messia all' incontro si chiama Dio di tutta la terra (1). Quel tempo che passò dalla morte di Giacobbe in Egitto (2) fino al tempo della liberazione, è un anello di mezzo fra lo stato di società domestica e quello di società nazionale; e propriamente si può dire una continuazione della società familiare che si prepara a divenir nazione. Iddio si acconciò alla limitazione umana, e i segni istruttivi emblematici che diede al suo popolo furono corrispondenti a questi diversi stati nei quali la riflessione di lui e particolarmente la facoltà di astrarre si andava in lui sviluppando e perfezionando (3). 1. L' abbandono della propria casa . - L' abbandono comandato ad Abramo della propria casa e della patria era un simbolo del distacco spirituale dalle cose terrene, condizione necessaria della virtù soprannaturale. Egli spicca questo simbolo nella efficacia delle parole che usa Iddio per separarlo dagli altri uomini: [...OMISSIS...] . Questa separazione influiva anco allo sviluppo delle naturali facoltà di Abramo: conduceva la mente di questo Patriarca a formare una grande astrazione, a metter da una parte Iddio, la fede alla sua parola, la virtù; dall' altra tutto ciò che più piace al cuore umano, il luogo natale, le abitudini, i parenti, i familiari; e a scegliere fra queste due cose, infra loro partite e contrapposte (5). 2. Il seme promesso . - Il seme promesso ad Abramo era un simbolo del Messia che doveva appagare pienamente la umana natura, nutrendola di virtù e di felicità. 3. La terra promessa . - Venuto Abramo nella Cananea dove l' aveva chiamato Iddio apparendogli (6), promette di dare al seme di lui quella terra, simbolo della Chiesa di Gesù Cristo e del cielo (7). 4. Melchisedecco - e il suo sacrificio di pane e di vino è quel simbolo del Messia che viene spiegato da San Paolo nella lettera agli Ebrei. 5. Il primo patto stretto da Dio con Abramo . - Passò non poco tempo dopo le promesse fatte da Dio ad Abramo, e questo indugio era un' occasione di esercizio alla fede del santo Patriarca e giocava mirabilmente a condurre la sua mente a pensare più spiritualmente, più in grande, venendo ad apprezzare non solo il presente, ma più ancora il futuro. Avvicinandosi però il tempo in cui le promesse dovevano cominciare ad avverarsi, Iddio conforta Abramo nella sua aspettazione, dicendogli: [...OMISSIS...] . Ma il santo Patriarca non sapeva ancora colla sua mente fare astrazione da tutte le cose sensibili e terrene e massime dalla felicità familiare: non poteva concepire una felicità al tutto spirituale, come gli veniva proposta, da trovarsi in Dio solo, anche soprabbondantemente. Perciò come Iddio non gli avesse ancor promesso nulla con avergli promesso sè stesso, soggiunge Abramo: [...OMISSIS...] . Il Signore lo condusse fuori a cielo scoperto e facendogli guardar le stelle, gli disse: « Così sarà il seme tuo«. » E dice la Scrittura, che qui Abramo credette e il creder suo gli fu riputato a giustizia: [...OMISSIS...] . La cerimonia che sacrò questo patto di alleanza si fu da parte di Abramo un sacrificio solenne; e da parte di Dio una fornace fumante e una lampa di fuoco che apparì nella caligine della notte passando fra le vittime divise in due parti, e una orrenda visione che ebbe Abramo caduto in profondo sopore, nella quale gli fu mostrato che egli sarebbe morto in buona vecchiezza e il suo seme peregrino per quattrocento anni, solo dopo i quali doveva divenir possessore di quella terra. Con questi segni Iddio istruiva Abramo, che pur non era tutto la felicità di questa vita e lo sollevava a pensieri più ampii che si stendessero fin oltre il sepolcro, degni di un' anima che sopravvive alla distruzione del corpo. 6. Il patto sempiterno e la circoncisione . - Passarono quindici anni e ad Abramo nasceva la figliuolanza promessa: indugio che sforzava Abramo a sostenersi e a operare vie più con virtù spirituale, staccandosi dalle cose della terra. Quando fu giunto il sant' uomo all' età di novantanove anni, il Signore rinnovò il patto col suo seme, e ciò con parole più alte e magnifiche che non aveva fatto; perocchè allora gli promise che quel patto sarebbe sempiterno (1) tanto con lui che col suo seme; il che supponeva l' immortalità dell' anima, e dimostrava che il patto era nell' ordine delle cose non transitorie, ma che non passano, nell' ordine che riguarda l' uomo nella sua parte immortale. E acciocchè meglio apparisca la diversità delle promesse temporali dalle eterne, dice Iddio ad Abramo di averlo esaudito anche nei suoi prieghi in favore di Ismaele e che gli benedirà anche questo figlio, ma il suo patto sempiterno sarà con solo Isacco (2), chè da questo doveva nascere il Messia. A questa alleanza e protezione dalla parte di Dio doveva rispondere da parte di Abramo la perfezione morale, che Iddio gli intima fino a principio: « Io sono Dio onnipotente: cammina dinanzi a me e sii perfetto« (3). » E segno di questa giustizia morale, che colla fede nella parola di Dio doveva rinunziare e quasi toglier da sè il male della carne venuto per origine, si fu la circoncisione allora appunto data al santo Patriarca. 7. Simboli della Santissima Trinità . - I tre Angeli, fra i quali parla un solo e un solo è adorato da Abramo a cui dànno l' annunzio del prossimo nascimento d' Isacco, sono riconosciuti da' Padri per simbolo della Trinità. Il numero tre è con frequenza ripetuto negli avvenimenti e nei riti (4), appunto perchè gli uomini si assuefacessero a congiungere a questo numero qualche cosa di misterioso e divino, e così si apparecchiassero a ricevere poi il dogma della Santissima Trinità che il Messia doveva chiaramente annunziare al mondo. Gli stessi tre Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe sono emblemi delle tre divine persone. 1. Agar e Sara . - Agar e Sara, l' una serva e l' altra libera, sono tipi della Sinagoga e della Chiesa. E` l' apostolo che ne dà l' interpretazione (1) e accusa d' ignoranza gli Ebrei che non intendessero questo tipo. [...OMISSIS...] Anche in Rebecca si può ravvisare un tipo della Chiesa dei Gentili (3). Lo stesso tipo trovano i Padri nelle due mogli di Giacobbe Lia e Rachele (4). Lo stesso di nuovo nel nascimento di Fares e di Zara, figliuoli gemelli di Tamar; quegli che prima aveva sporto il braccio e che pur nacque dopo, simbolo della Sinagoga; questi che nacque innanzi, della Chiesa che prevalse alla Sinagoga (5). 2. Sacrificio d' Isacco . - Il tipo del sacrificio di Isacco, sì efficace a significare il sacrificio di Cristo, non è solo spiegato nelle divine Scritture, ma è uno di quelli altresì di cui par che dica l' Apostolo che allora stesso furono intesi e conosciuti per tipi quando furono dati. Conciossiacchè dice che per la fede Abramo l' offerse e lo ebbe per una parabola (6). 3. Giuramento colla mano sotto il femore . - Non vi è traccia di questa cerimonia presso altri popoli: e nella Scrittura non si narra usata se non due volte dai due santi Patriarchi Abramo e Giacobbe (7). Egli è manifesto che vi si nasconde un mistero, spiegato da S. Agostino e altri Padri, cioè che con quel segno si voleva additare il Cristo che doveva uscire dai lombi di quei Patriarchi, pel qual Cristo si faceva il giuramento (.). 4. Giacobbe e Esaù . - Questi due figliuoli furono un tipo dei predestinati e dei presciti, spiegatoci dall' Apostolo (1). Giacobbe uomo semplice rappresenta il giusto del Vangelo che coll' umiltà e colla mansuetudine giunge a soverchiare gli uomini feroci: e però è tipo principale di Gesù Cristo. Le pelli caprine di cui egli si copre per ottenere la benedizione paterna, sono un tipo, secondo S. Agostino, dei peccati degli uomini di cui apparve Gesù caricato (2). 5. La scala di Giacobbe . - Questa era un bellissimo emblema del mediatore che congiunger doveva il cielo colla terra e che doveva discendere da Giacobbe. Gli angeli che ascendevano e discendevano possono significare le anime sante che per Cristo ascendono in cielo, e le grazie che di colassù i ministri di Dio ci riportano. 6. Lotta coll' angelo . - Giacobbe, che lotta coll' angelo e rimane vincitore e solo ratratto il nervo del femore, è un tipo di Cristo che pugna col suo Padre sdegnato contro l' uman genere peccatore, e disarma la sua giustizia sol col sofferire la morte nella sua umanità, che è rappresentata nel femore di Giacobbe: di che acquista il nome di gran principe, che è il significato della parola Israele. 7. Giuseppe venduto . - Questo tipo di Gesù Cristo è mirabilmente dichiarato da tutti i Padri ed interpreti. .. Schiavitù di Egitto e liberazione . - La schiavitù del popolo Ebreo sotto i Re Egiziani è il tipo della schiavitù del demonio da cui ci libera Gesù Cristo figurato in Mosè. Già ho accennato come il Mar Rosso indica, per testimonio di S. Paolo, le acque battesimali tinte della virtù del sangue di Cristo. 9. Pasqua . 1. Peregrinazione pel deserto . - L' uomo, dopo liberato dal peccato per Cristo colle acque del battesimo, si mette per questa vita piena di tentazioni e di pericoli viaggiando alla patria del cielo. Il viaggio del popolo di Dio che fa pel deserto dopo passato il Mar Rosso, era il tipo di tutto ciò. Non c' è avvenimento in questo mirabile peregrinaggio che non sia un emblema o segno istruttivo, come insegna S. Paolo. 2. Legge morale . - Iddio fu Re di questo popolo, la cui forma di governo da Giuseppe Ebreo fu chiamata acconciamente Teocrazia (1). Il Signore pubblicò una triplice legge, cioè morale, giudiciale e cerimoniale (2): e in tutte queste tre parti della legge ebraica si trovano moltissimi precetti emblematici, anche fra le stesse leggi morali. Eccone alcuni (3): a ) Il Sabbato in cui ogni uomo si doveva astenere dalle opere servili, rappresentava la libertà e la pace dei figliuoli di Dio, cui pienamente goderebbero nella requie eterna. Questo è uno dei primissimi emblemi, giacchè si trova nella narrazione della creazione fatta da Dio, il quale, riposatosi dopo creato il mondo, è modello ai giusti che, dopo le fatiche sostenute a conseguir la virtù, vi riposano, fatti simili a Dio (4). b ) La legge, comandata di portarsi scritta sul braccio e innanzi la fronte, indicava come essa doveva dirigere le azioni e i pensieri nostri. Lo scriversi poi sopra la soglia delle porte delle case mostrava, il non doversi vergognar punto l' Israelita di lei; ma pregiarla come il più caro ornamento (5). c ) Molte cose, come fu accennato innanzi, furono prescritte verso gli animali, a emblema di ciò che doveva farsi verso gli uomini. Si proibisce di cuocere il capretto nel latte della sua madre (6); di non pigliare i pulcini mentre sono ancora nel nido (7); di non uccidere la pecora cogli agnellini; di non legare la bocca al bue che tritura (.); di non mutilare gli animali (9): coi quali precetti si comanda di rispettare le affezioni naturali; di coltivare l' umanità, la dolcezza, la gratitudine, e la consideratezza in tutto ciò che si fa. d ) E` legge di non vestir vestimento contessuto di lana insieme e di lino; di non seminare la vigna di due specie di sementi (1). Il decreto è emblematico, e dimostra la schiettezza e semplicità che deve usare l' Israelita nelle sue parole e nell' operare. e ) Non arerai col bue accoppiato insieme coll' asino (2). S. Paolo medesimo ci spiega l' emblema di questa legge dicendo ai Corinti: [...OMISSIS...] . Torna a un medesimo lo spiegarla coi santi Basilio e Agostino (4) degli operai evangelici, de' quali non si deve congiungere nella vigna del Signore un sapiente con un insipiente. Dell' una e dell' altra interpretazione la sostanza è, che non si deve mescolare il sacro e il profano e evitare la compagnia dei malvagi. f ) La donna non vestirà veste di uomo, nè l' uomo userà veste di donna (5). Che qui si nasconda un simbolo si scuopre dal dirsi, che è abbominevole innanzi al Signore chi fa tali cose. Le quali forti parole appalesano, che si intende coprirsi sotto quella legge un più grave delitto che non il vestire vestimento di altro sesso, a rendere odioso ed abbominato il quale delitto mira quella terribile dichiarazione. g ) Colla proibizione di far sì che animali di diverso genere non fossero accoppiati insieme per la generazione, emblematicamente si condannano i vizii contro natura (6). Finalmente i Padri della Chiesa dicono in generale che tutti i precetti della legge mosaica significavano la giustizia di Cristo, a cui disponevano altresì gli uomini (7). 3. Legge cerimoniale . - E` dottrina dell' Apostolo che la legge cerimoniale fosse emblematica. Basti recar qui un solo luogo delle sue Epistole. Ai Colossesi egli scriveva: [...OMISSIS...] . Egli non sarebbe bisogno recare tante prove di questa verità di cui tratta tutto il presente libro, se degli eruditi, o più veramente grammatici de' nostri tempi, non mostrassero un' avversione incredibile a trovare emblemi e figure negli avvenimenti registrati nelle Scritture e nelle ebraiche leggi. Io credo che costoro si mostrano assai lontani dal conoscere lo stato intellettuale e il genio degli antichi popoli che nell' Oriente tuttora si conserva; e dall' aver fede in quella divina Provvidenza che, regolando le cose tutte con materno affetto, alla condizione degli uomini cui voleva istruire e abbonire si accomodava. Ma non è mio intendimento di entrare con cotestoro in una lotta erudita (la quale però non temerei, attesa la bontà della causa e gl' immensi monumenti a mio favore che gli studii critici, fatti modernamente intorno alle antichità e il genio di tutti i popoli, mi somministerebbero). Mia intenzione e fine di queste carte è solo di esporre la dottrina della Chiesa cattolica: e credo un fatto innegabile questo, che in tutti i secoli, massime i più antichi, i Padri e scrittori della Chiesa con grande unanimità riconoscono le antiche Scritture essere tutte piene de' segni istruttivi emblematici , di cui parliamo. A suggellare un tal fatto sostenga il lettore che io aggiunga un testimonio di somma autorità nella Chiesa quale è l' Aquinate, che come è noto raccolse il succo di tutta la tradizione e la midolla per così dire della dottrina cattolica sparsa negli innumerabili monumenti dell' antichità. Così adunque epiloga il grand' uomo la dottrina tradizionale della Chiesa intorno alle figure contenute nella legge cerimoniale di Mosè e alla natura di queste figure paragonate con quelle che si trovano nella legge nuova. [...OMISSIS...] Da queste ultime parole si vede il filosofo che parla. Egli è lo stato intellettivo dell' umanità nei diversi tempi che si deve meditare e dal quale solo si può conoscere quale maniera di insegnamento fosse acconcia nei diversi periodi della vita del genere umano; e massime dal diverso grado di sviluppo che venne conseguendo negli uomini la facoltà di astrarre. Il santo Dottore prosegue dunque a determinare due stati della cognizione umana così: [...OMISSIS...] . Fin qui l' Aquinate. Venendo poi a divisare le varie parti della legge cerimoniale, ella si compone di due parti cioè di segni istruttivi emblematici (3), e di Sacramenti . Di questi secondi ragioneremo in appresso: ora il nostro discorso non si volge che intorno ai primi. I segni istruttivi emblematici contenuti nella legge sono di tre specie, vale a dire: 1. i sacrificii ; 2. le cose sacre , come sarebbero il tempio, i vasi sacri, le vesti sacerdotali; e 3. le osservanze . I primi formano il culto dovuto a Dio, le ultime determinano la conversazione e la vita dell' uomo, e le seconde sono strumenti e mezzi che servono tanto al culto come alla vita. Diremo qualche cosa di tutte tre queste maniere di segni istruttivi emblematici. Giusta la dottrina del Cristianesimo due sono le vite dell' uomo, la presente e l' eterna: nella presente l' uomo è imperfetto e si perfeziona nell' eterna. Ma l' una è simile all' altra, perciocchè quelle stesse cose che quaggiù credute per fede formano la santità, colassù vedute nel proprio loro essere formano la gloria. Sicchè ciò che è emblema della vita santa deve essere per sua natura anco emblema della gloriosa. Dell' una poi e dell' altra vita il modello è Cristo, nel quale è espressa la perfezione delle due vite. Non deve adunque far maraviglia se gli antichi emblemi esprimessero, secondo i Padri, tutte due queste cose a un tempo, conciossiacchè non poteva essere diversamente, giacchè se aver dovevano similitudine con una di quelle cose, per la ragione stessa dovevano averla colle correlative (1). Laonde anche i sacrifici ebraici sono a un tempo figure della santità della vita e figure della celeste gloria e figure di Cristo che quelle due vite in un modo perfetto ebbe in sè medesimo. Gli animali immolati a Dio sono emblema degli uomini che devono essere tanto in questa vita che nella futura a Dio dedicati con intero e perenne sacrificio: particolarmente poi rappresentano tutti il sacrificio dell' eterno Sacerdote Gesù Cristo. Di tre specie di sacrificii erano nell' antica legge, l' olocausto, il sacrificio per lo peccato, e il sacrificio pacifico. Nell' olocausto, dice l' Angelico, si bruciava tutto per significare che come tutto l' animale risoluto in vapore si alzava in alto, così tutto l' uomo e le cose sue erano soggette al dominio di Dio ed a lui da offerirsi. Nel sacrificio per lo peccato una parte della vittima si bruciava, e un' altra cadeva in uso dei Sacerdoti; e ciò a significare che l' espiazione dei peccati si faceva da Dio pel ministero dei Sacerdoti. Nell' ostia pacifica che si offeriva, o in rendimento di grazie, pei beneficii ricevuti, o per ottenerne di nuovi, una parte si bruciava in onore di Dio, un' altra cadeva in uso de' Sacerdoti, e una terza in uso degli offerenti: e ciò a significare che la salute dell' uomo procede da Dio secondo la direzione de' suoi ministri e colla cooperazione degli stessi uomini che si salvano. I primogeniti dovevano essere tutti offerti al Signore in segno della sua signoria tanto come Creatore, sì come per la qualità di vendicatore dei peccati. Ma gli animali immondi dovevano essere riscattati con certo prezzo e i mondi dovevano essere immolati senza riscatto. E ciò a significare che a Dio non è grato se non il sacrificio di cose monde. Or poi il primogenito dell' uomo riscattavasi collo stesso prezzo onde si riscattava l' asino, animale immondo, che era di cinque sicli: efficace modo di significare la immondezza dall' uomo contratta col peccato originale, e la necessità del nascere un giusto il quale potesse essere sacrificato in odore di accettevole sacrificio; il quale non poteva essere che Cristo. Tutto era figurativo negli istrumenti e utensili delle sacre funzioni del popolo Ebreo. Ecco alcune di queste figure. a ) Il tabernacolo è in piccolo il tempio: e l' uno e l' altro rappresentavano la Chiesa, o certo il corpo dell' umanità nelle sue relazioni con Dio. E` l' Apostolo S. Paolo che chiama Cristo « il ministro della santità e del vero tabernacolo cui ha formato il Signore e non l' uomo« (1). » L' antico tabernacolo adunque non era il vero, ma una figura del vero. Questo vero tabernacolo non è terreno ma celeste, cioè tutto spirituale (2): non si tratta di un luogo santo materiale ma della santità stessa, dell' essenza della santità. Perciò continua a dire: [...OMISSIS...] . Cristo adunque era quel Sacerdote che offeriva un dono celeste, un sacrificio spirituale: laddove i discendenti di Aronne non offerivano che doni terreni ed erano simboli, secondo l' Apostolo, dello spiritual sacrificio (3). L' entrare che faceva una sola volta all' anno il solo sommo Sacerdote nel santuario, secondo l' Apostolo, era il tipo dello entrare che doveva far Cristo in cielo una sola volta per sempre, pel sacrificio della sua morte: un solo sacrificio, la sua morte; un solo gran Sacerdote in cielo vivente in perpetuo. E si osservi che lo stesso sacrificio eucaristico è più veramente celeste che terreno, poichè la vittima è ivi nascosta agli occhi terreni e non si parte dal cielo; sicchè tanto la vittima quanto il Sacerdote anche nella Eucaristica è veramente in ciel; e in questo gran rito può dirsi veramente che è il cielo che comunica colla terra. Aperto poi il cielo per Cristo, è tolto quel divieto che non entrasse che il solo Sacerdote in quel verace Santuario: e perciò l' antico rito è abolito perchè oggimai a tutti è aperto l' adito nel Santuario (1): [...OMISSIS...] . b ) I monti santi erano due, il Sion ed il Moria. Il monte di Sion, sopra il quale era edificato il palagio di Davidde, figura del Cristo, rappresentava la giustizia nella quale è fondata la Chiesa. Basta confrontare fra loro i varii luoghi della Scrittura per accertarsene. Giacchè in essi or si dice che Gerusalemme ha i suoi fondamenti sopra Sionne, come nel Salmo LXXXVI, 1: [...OMISSIS...] . E or che è fondata nella giustizia, come nel profeta Isaia che della nuova Gerusalemme dice con parole proprie e non enigmatiche: « Tu sarai fondata nella giustizia« (3). » Dai quali due luoghi confrontati insieme si vede che i monti santi e la giustizia sono sinonimi significando la stessa cosa, quelli in enigma e questa fuor di ogni velo (4). I Salmi esprimono la stessa cosa non in forma di enigma solamente, ma anche di espressa similitudine, là dove dicono: « La tua giustizia è come i monti di Dio« (5). » Egli è a questo fondamento solidissimo che attribuiscono le Scritture Sante l' immobile fermezza della casa del Signore. Cristo dice colla stessa maniera di parlare, che la sua Chiesa non può essere scossa dall' inferno, perchè fondata sopra la pietra (1) e i Salmi dicono che egli « prepara i monti della sua potenza (2). » Per questo ancora Davidde e in lui Gesù Cristo disse [...OMISSIS...] . c ) In generale il Re del popolo di Dio era l' emblema del vero Re del popolo eletto, Gesù Cristo. Per ciò era stato ordinato nel Deuteronomio, che questo Re dopo che sarà assiso nel solio del suo regno si trascriverà il Deuteronomio di questa legge in un volume, ricevendone l' esemplare dai Sacerdoti della tribù di Levi (4). I Re di Giuda seduti sopra una cattedra di legno nell' atrio principale del tempio (5) leggevano nell' anno sabbatico a tutto il popolo la legge nuova, ossia il Deuteronomio: e così leggiamo che faceva il santo Re Giosia (6). d ) Anche il monte Moria su cui era edificato il tempio, era uno de' monti santi. I quali erano due, [come due] sono i principii della giustizia (7) e della legge, cioè la ragione e la rivelazione, la natura e la grazia, la giustizia ideale e la giustizia reale: e due sono parimente gli oggetti della giustizia, cioè Iddio e la creatura ragionevole; inde i due precetti della carità. e ) La giustizia ideale non eccede l' ordine delle idee, ma la giustizia reale appartiene all' ordine delle cose: questa tocca il sentimento, quella la sola norma dell' operare: questa seconda è il lume, e quella è la forza di operare secondo questo lume. Appartengono queste due cose ai due modi dell' essere, l' uno ideale e l' altro reale. Queste due giustizie, se così mi lice chiamarle, sono egualmente necessarie all' uomo, perchè l' uomo ha bisogno di un lume per conoscere i suoi doveri e di una attività che il faccia capace di eseguirli. Que' due santi monti, su l' uno de' quali era la casa del Re che comunica al popolo la scienza della legge, sull' altro la casa di Dio che comunica la grazia la quale muove la volontà, sono gli emblemi delle due parti della giustizia di cui parliamo. Poichè questi sono i due perni di tutto l' universo morale, non è maraviglia che l' emblema di essi sia ripetuto sì di frequente nelle divine Scritture. Già l' abbiamo trovato al principio delle cose in quelle due piante della vita e della scienza del bene e del male (1) locate nel mezzo del paradiso. Entro il tabernacolo e il tempio avevaci lo stesso emblema, e questo era ripetuto nel sancta e nel sancta sanctorum . Perocchè nel sancta vi aveva il candelabro, simbolo della luce che illumina l' intendimento, e appartiene alla scienza, e i pani della proposizione, simbolo della vita e della forza che avvalora la volontà, ciò che appartiene alla grazia. Medesimamente nel sancta sanctorum v' avevano le tavole della legge o la scienza, ordine ideale: e la manna o cibo vitale, ordine reale. Questi due elementi sono della natura delle cose; e quindi la spiegazione che io do di tali [simboli] non può sembrare in conto alcuno ricercata e speculativa al lettore sensato. E perchè si vegga che questa dottrina appartiene anzi al deposito delle più comuni tradizioni cristiane, io citerò un brano di un pio libro, dove si contiene quanto ho detto. Il celebre autore dell' Imitazione dice appunto così: [...OMISSIS...] . (Ecco le due cose di cui parliamo, l' una appartenente all' essere reale e all' ideale l' altra. Seguita in questo modo toccando come queste due cose si abbiano nella legge nuova). [...OMISSIS...] (Or ecco come accenna dopo di ciò il tipo di queste due cose nella legge antica). [...OMISSIS...] f ) Gerusalemme, o città santa (4), era l' emblema della Chiesa di Cristo per l' unione degli eletti nel mezzo de' quali abita il loro Re. g ) La terra promessa significa il medesimo dal lato dell' abbondanza di tutti i beni di cui godono i Santi che compongono la Chiesa, massime nella consumazione della loro predestinazione in cielo. E però quella è detta la terra che scorre latte e miele, con una espressione che sarebbe soverchia a pigliarsi alla lettera e non trasportandosi al significato traslato che viene sempre indicato da quelle espressioni che nella divina Scrittura mostrano di eccedere prese materialmente. h ) La lunghezza della vita promessa ai mantenitori della legge era simbolo dell' immortalità, e tutti gli altri beni terreni simboleggiavano i celesti (1). i ) Le feste degli Ebrei erano sette temporanee e una continua: perocchè, dice S. Tommaso, era come una continua festa pel popolo di Dio, perocchè ogni giorno la mattina e la sera s' immolava l' agnello. E per quella continua festività del perenne sacrificio si rappresentava la perpetuità della divina beatitudine: come anche più prossimamente il perpetuo sacrificio di Cristo che sempre è vivo a interpellare per noi. Le sette feste erano le seguenti: 1. Il Sabbato, in memoria della creazione, simbolo della vita spacciata dalle cose terrene. 2. La festa della nuova luna, in memoria della conservazione e del governo divino dell' universo: e rappresenta la Chiesa di Gesù Cristo e Maria che a questa presiede. 3. La Pasqua era in memoria della liberazione degli Ebrei dall' Egitto, e rappresentava l' agnello che toglie i peccati del mondo, immolato appunto nell' anniversario dell' agnello mangiato dagli Ebrei in Egitto. 4. La Pentecoste che celebravasi, cinquanta giorni dopo Pasqua, in memoria della legge data al Sinai, e rappresentava lo Spirito Santo che doveva discendere in quel giorno appunto sopra gli Apostoli. 5. La festa delle trombe nel primo giorno del settimo mese, in memoria della liberazione d' Isacco quando Abramo trovò l' ariete intricato colle corna nella siepe: e questa significava la predicazione degli Apostoli. 6. La festa dell' espiazione il decimo dì del settimo mese, alla quale la festa delle trombe era come l' invito, in memoria dell' essersi Iddio placato alle preghiere di Mosè, quando il popolo Ebreo ebbe adorato il vitello d' oro: e rappresenta l' emendazione del popolo Cristiano dai peccati. 7. La scenopegia o festa de' tabernacoli, in memoria della protezione da Dio accordata al popolo nel deserto, l' ottavo dì della quale era la festa della Colletta, in cui mettevasi a parte ciò che il popolo voleva offerire per mantenimento del pubblico culto, e ciò in memoria dell' unione, pace e abbondanza del popolo di Dio nella terra promessa dove erano dopo la peregrinazione: le quali feste figuravano la peregrinazione dei fedeli pel deserto di questo mondo e la loro unione in cielo. a ) Gli animali figuravano i Gentili e nella varietà di questi animali erano significati i varii vizii di cui i Gentili erano macchiati. Il mangiare nelle sacre Scritture è l' emblema del congiungersi intimamente, acquistare la stessa natura e ripor[vi] la propria felicità. Era dunque vietato con quell' osservanza agli Ebrei di addomesticarsi coi Gentili, pigliare la natura ossia i costumi di questi, e riporre la propria felicità non in Dio ma nei beni sensibili nei quali gli incirconcisi (i viziosi) ponevan la loro. L' immondezza legale era figura della immondezza spirituale: pena di tale immondezza era la scomunica, cioè la separazione dal popolo puro e mondo, acciocchè questo non contraesse pure la stessa macchia. b ) Le frutta dei tre primi anni erano immonde; e ciò a significare il peccato originale per il quale le cose tutte di questa terra sono infette sino a tanto che Cristo non le purifichi. Per ciò quel lasciarsi dei primi frutti è detto circoncisione nelle Scritture, poichè come questa richiamava alla mente l' original peccato, così quei frutti de' primi tre anni; dopo il quale venivan quelli del quarto anno che si offerivano al Signore, e così si purificava la pianta che produceva negli anni seguenti frutti puri, di cui potevano raccogliere e mangiare i figliuoli d' Israello. Ecco come è espressa questa legge nel sacro Testo: [...OMISSIS...] . c ) Le fimbrie poste nei quattro angoli del pallio, e le bende color celeste che indi pendevano, erano simboli della purità degli occhi, che dovevano allontanare lo sguardo dalle cose seducenti e impure, e dar opera alla contemplazione delle celesti. Anche questa spiegazione risulta manifesta dalla lettera del sacro Testo: [...OMISSIS...] . d ) Nel Deuteronomio (3) è comandato: [...OMISSIS...] . I Farisei secondo la lettera scrivevano in membrane la legge e le si tenevano legate alle mani e alla fronte le appendevano, acciocchè si muovessero innanzi agli occhi loro. Ma il precetto era simbolico, e per le mani significavasi l' operazione e per gli occhi la contemplazione, volendo dire che la legge si doveva meditare colla mente ed eseguire coll' opera e così averla del continuo presente allo spirito. e ) Molte poi osservanze erano volte a conservare la politezza esteriore de' corpi, la quale significava la mondezza interiore dello spirito. 4. Legge giudiziale o politica . - Anche le leggi politiche degli Ebrei non erano senza figure. S. Tommaso non fa altra distinzione da queste leggi alle cerimoniali, quanto al contenere figure, se non che le cerimoniali osserva essere state istituite direttamente e principalmente a dover essere figure, e « i precetti giudiziali sono figurativi, non in primo luogo e per sè, ma per un cotal conseguente. » [...OMISSIS...] . 5. Sangue delle vittime, nell' alleanza contratta ai piedi del Sinai . - Mosè, che disceso dal Sinai per ratificare l' alleanza innalza i dodici altari e fa sacrificio, usa fra gli altri riti quello di aspergere col sangue delle vittime non solo il popolo ma ancora il libro dell' alleanza. Ciò rappresenta il doppio effetto dell' applicazione del sangue di Cristo che salva i fedeli e rende possente la parola di Dio, ossia la lettera della legge collo Spirito Santo. 6. Tavole della legge spezzate . - Le prime tavole della legge spezzate da Mosè rappresentano l' antica legge che doveva essere abolita e rinnovellata. 7. Serpente di bronzo e altri simboli nel deserto . - Notissima immagine di Gesù Cristo è quella del serpente di bronzo. E così pure il legno che indolcisce le acque amare, la pietra percossa colla verga di Mosè, la manna e altri tali sono troppo noti simboli del Messia o dei fatti della sua vita. .. Uomini grandi del popolo Ebreo . - Tutti gli uomini grandi del popolo Ebreo, come Mosè, Giosuè, Sansone, Davide, Salomone e i Profeti furono parimenti tutte figure di Gesù Cristo. I simboli enumerati fin qui vogliono essere altrettanti esempi che mi valgano a provare la verità generale, che Iddio usò ad ammaestramento degli uomini questo mezzo delle sensibili rappresentazioni. Or raccogliendoci a contemplare quei simboli in massa, non ci sarà difficile il conoscere quali maniere di cognizioni essi miravano a far entrare nelle menti degli uomini. Due specie di cognizioni sono insensibili, cioè le astratte e le negative . Queste ultime hanno bensì per oggetto qualche cosa di sussistente e di reale, ma questo ci è piuttosto indicato al vedere della mente che offerto da percepire (1). Per ciò non potendo questi due oggetti cadere sotto i sensi corporei, ai quali l' uomo è condizionato, hanno bisogno di simboli per essere dall' uomo ricevuti nello spirito e impressivi con qualche efficacia, cioè di rappresentazioni sensibili che abbiano con essi una cotale similitudine, analogia, relazione, come già fu detto. Lumeggiamo via meglio la cosa con qualche esempio: pigliamo l' idea della giustizia, la quale è un' idea astratta che non cade punto sotto i sensi. Gli uomini avevano bisogno di ben fissare un' idea sì importante, di fissarla in modo che l' avessero nel loro spirito netta, spiccata dalle altre cose che a lei non pertengono e possente in modo che prevalesse in forza alle stesse idee delle cose sensibili. Ora gli uomini primitivi erano tutto senso, non percepivano che pel senso, non credevano che al senso, perciocchè non essendo ancora formate in loro le grandi astrazioni, queste nulla operavano sullo spirito. Come adunque poteva il divino istruttore condurre tali uomini a formarsi l' astrazione della giustizia e renderla questa nelle menti lucente, cioè rendere atte le menti a vedere e quindi gustare l' ineffabile bellezza della giustizia, che di sua natura sfugge ai sensi corporei? (2). Questo era il primo problema che si era proposto di sciorre il gran Maestro degli uomini; ed ecco in che modo lo sciolse ed operò dietro ad un tale scioglimento. Egli cominciò dal far andare unite insieme la felicità temporale e la virtù, il vizio e la temporale infelicità, promettendo dei premi temporali a quelli che avessero operato secondo le norme della sua legge, e delle pene temporali a quelli che avesser violati i suoi comandamenti. Or posciachè i beni e i mali sensibili e terreni erano i soli ben conosciuti dagli uomini primitivi, e però i soli che fossero sopra loro efficaci e possenti, col fare Iddio questa congiunzione aveva resa importante la virtù e il vizio anche agli occhi di quegli uomini non atti che a percepire le cose sensibili. Se la virtù e il vizio fossero stati al tutto sciolti dai beni e dai mali temporali, non era possibile agli uomini primitivi di mettere in tali oggetti una grande importanza: tali oggetti non potevano chiamare la loro attenzione, col solo lungo affissare della quale solamente le idee astratte acquistano vita ed efficacia nell' animo degli uomini e prendono per così dire un corpo. Ma con quella congiunzione avvenne, che tutto l' amor degli uomini posto ai beni sensibili e tutto il timore dei mali serviva alla virtù e alla giustizia come al solo mezzo unico di ottenere quei beni desiderati e di schivare quei mali temuti. Furono dunque gli uomini per tal modo condotti a dire seco medesimi: « Or ella deve essere pure la bella cosa questa giustizia se essa sola trae con sè tutta l' abbondanza dei beni desiderabili; egli deve essere pure brutto e deforme il vizio, s' egli arreca tutti i mali temibili, se in odio di lui l' essere supremo castiga così severamente i viziosi«. Qui si vede eccitata l' attenzione umana a riflettere seriamente sulla natura della virtù e del vizio, del giusto e dell' ingiusto: qui si vede gli uomini stimolati di continuo a vigilare e spiare se nelle proprie azioni si intromettesse furtivo quel peccato che li renderebbe subitamente sventurati, e fatti anzi tutti solleciti e industriosi a dover conoscere e introdurre nella maniera del loro vivere quella virtù che aveva possa di far stillare il cielo in ubertose rugiade, e dare la pinguezza alle biade della loro terra e la fertilità ai loro armenti. Con ciò si era fatto il primo passo, ed era un gran passo quello di far conoscere agli uomini tre cose. 1. che la giustizia valeva almeno altrettanto di tutti i beni terreni di cui era madre; 2. che questa giustizia sebbene insensibile meritava pure una grande attenzione e doveva nascondere in sè stessa qualche cosa di misterioso e di sublime; 3. che la natura divina era sommamente amante di questa giustizia, dal momento che distribuiva i beni in ragione di lei. Ma pervenuta la mente umana a questa istruzione, ella già doveva salire più alto, e aveva acquistato il punto di appoggio, per così dire, dal quale spingersi al di là di tutte le cose terrene e pervenire al concetto puro della giustizia. E veramente Iddio con quella congiunzione del bene e del male morale al bene e al male temporale aveva per così dire resa sensibile la giustizia, le aveva aggiunto un corpo, era, se mi lice usare questa similitudine, l' anima tutta spirituale che si vede mediante un corpo da lei animato. Trovato così il modo di far vedere all' uomo sensibile la virtù e la giustizia, questa era già entrata nel pensiero dell' uomo. Or non restava altro se non spogliarla di ciò che non le apparteneva, e così ridurre a perfetta purezza quell' idea che era bensì formata, ma che si trovava ancora grossolana e materiale, quasi come l' oro non appurato nella miniera. La materia dunque su cui esercitare l' estrazione non mancava più: era posto da Dio un gran fatto esterno, sensibile, dal quale era contrassegnata e marcata la giustizia, come da un segno luminoso, che non permetteva che ella non fuggisse più dall' occhio spirituale dell' uomo. Ma Iddio doveva ancora aiutare l' uomo a fare una tale separazione del concetto della giustizia da ogni altro concetto. Questo era il secondo problema dell' educazione umana; ed ecco anche di questo problema, la divina soluzione. Prima Iddio aveva congiunta la giustizia coi beni terreni, e con questo artificio trasse gli uomini a porre la loro attenzione sulla giustizia come cosa di molta importanza. Poscia divise questi beni terreni dalla giustizia e lasciò questa sola, e con tale artificio ridusse nella mente dell' uomo la giustizia isolata, la pura astrazione di giustizia; ciò fu la soluzione del secondo problema. Per tal modo fece Iddio nascere nelle menti umane un' operazione simile a quelle che fanno i chimici quando vogliono isolare qualche sostanza, che prima la congiungono a un' altra che poi separano per la maggiore affinità che ha questa seconda con una terza. Col congiungere la giustizia coi beni temporali Iddio indusse gli uomini a fissare col pensiero questa giustizia. Fissata bene che l' avessero, ella non aveva più bisogno dell' accompagnatura dei beni temporali; e però questi furono staccati da lei ed ella rimastasi sola reggentesi da se stessa come una volta a cui si tolgano di sotto le armature e le centine. Ora tutto il tempo che precedette la venuta di Cristo fu speso principalmente nella prima operazione (1): al nuovo Testamento appartiene la perfezione della seconda. Per questo nell' antico patto sono sempre promessi ai giusti dei beni temporali e nel nuovo è detto che la mercede loro copiosa è nei cieli. Nulladimeno anche nell' antico si cominciò la seconda opera che dal Messia si doveva al tutto perfezionare (2). Per ciò si vede quanti patimenti fossero dati anche in quel tempo a Giobbe e a Tobia, uomini giusti: ma furono però patimenti che ebbero fine con un esito buono anche temporalmente. Vi aveva un amore del luogo natale; e Iddio per ammaestrare Abramo che qui non istà il vero bene, chiama quel Patriarca fuori della Caldea. Vi aveva un istinto alla figliuolanza; e Iddio nol contraria in tutto, ma rende sterili le donne più sante (1), e fa che i genitori debbano spesso aspettare i figliuoli fino all' ultima vecchiaia e ad averli come suo dono, acciocchè lo servano lungamente anche senza mercede temporale, e così imparino a pregiare la giustizia per sè stessa e a riconoscere Iddio come datore de' beni: il che mirava a fissare nelle menti questa idea per sè negativa di Dio (2). Abramo è tentato fino ad esigere da lui il sacrificio di quel figliuolo, natogli in vecchiezza, sul quale era appoggiata tutta la speranza della sua gran discendenza. Il santo uomo messo in quella prova, aveva da una parte l' amore del figlio, dall' altra la giustizia: doveva scegliere, e per scegliere doveva riflettere al valore delle due cose fra cui cadeva la scelta. Preferendo la giustizia al figlio, egli aveva pronunciato seco medesimo questo giudizio:« la giustizia è una cosa tanto preziosa che va anteposta agli stessi figliuoli«. Di più aveva giudicato:« Iddio che mi comanda tal cosa è un essere così grande e buono che mi può riccamente compensare della mia perdita«: ed essendo costretto di dover formare colla sua mente questo giudizio, egli veniva a fissare la potenza, la fedeltà e la bontà di Dio. Così queste idee negative s' imprimevano e scolpivano nella sua mente, condotta dalle circostanze, guidate dal supremo maestro a dover fare somiglianti riflessioni. Non c' è forse un solo bene temporale che Iddio già nell' antico tempo non l' abbia fatto venire in collisione colla giustizia e di cui non abbia richiesto il sacrificio (3). Grande era l' amor naturale della ricchezza temporale e del dominio. Iddio promette tutto ciò ai Patriarchi, promette loro la Cananea, vasto e reale possedimento, se a lui saranno fedeli e ubbidienti. Ecco la prima operazione colla quale Iddio impegnava quegli uomini a porre tutta la loro attenzione nella giustizia. Dopo di ciò egli fa che vivano tutta la loro vita pellegrinando in paese straniero, senza possedere pure un palmo di terra e che si contentino di una parola, di una promessa da eseguirsi solo molto tempo dopo la loro morte, quattrocento anni dalla chiamata di Abramo (1). Quest' era la seconda operazione colla quale li teneva staccati dai beni temporali e faceva loro riflettere che vera ricchezza è solo il timore di Dio, la vita giusta e il fidarsi della sua parola: tutte idee astratte e negative. Ora convien qui porre una osservazione. Le idee astratte possono formarsi nella mente umana coll' aiuto de' simboli naturali. Ma per condurre la mente bambina dell' uomo a fissare e bene imprimersi le idee negative appartenenti alla natura divina e ai suoi attributi, ciò non era egualmente acconcio: e la ragione ne è manifesta a chi considera la differenza fra le idee astratte e le idee negative di Dio. Il principio di ogni astrazione si trova naturalmente nella mente umana, che ha in proprio l' idea dell' essere, l' astrattissima di tutte le idee; e le altre idee astratte non sono che la stessa idea dell' essere limitata, circoscritta, applicata. A ragion d' esempio, l' idea della giustizia è l' essere applicato a giudicare del prezzo delle cose poste in relazione colla volontà che sente di doversi accomodare a tali giudizii. Questi giudizii si fanno in tutte le azioni: e l' astrarli dalle azioni e il ridurli ad una formula generale è il medesimo che formarsi gli astratti del giusto e dell' ingiusto. La materia adunque da cui si toglie l' idea della giustizia è data nell' ordine della natura, come è pur dato il principio dell' astrazione (l' idea dell' essere). Non si richiede adunque altro acciocchè la mente si formi tali idee, se non di rendergliele importanti, sicchè ella dal bisogno che n' ha sia stimolata e mossa a fissarle e formarsele, contemplandole anche con diligente attenzione. Al che la provvidenza usò della industria sopra descritta, di congiungere la giustizia colle prosperità temporali, e poi da queste spartirla. Ma le idee negative di Dio non hanno alcuna materia nell' ordine naturale; hanno solo delle analogie. Non si poteva dunque con dei simboli puramente naturali condurre il pensiero umano a formarsi accurate idee della divinità; chè anzi tali simboli, se fossero stati puramente naturali, l' avrebbero agevolmente ingannato, facendogli credere che Dio fosse simile alle cose naturali. Per condurre adunque il pensiero degli uomini a Dio, dovevasi sollevarlo sopra tutta la natura e fargli intendere, che Dio era un Essere principio di tutte le cose, il quale da queste interamente differiva e la cui natura era tanto grande e levata che da mente umana concepire non si poteva perchè non vi avevano cose dall' uomo percette che rendessero di lui similitudine. Ora a far questo Iddio tolse a divietare agli Ebrei tutte le imagini delle divinità (1), per pericolo appunto di confondere la natura con Dio, attribuendo o le divine proprietà alla natura o a Dio le proprietà naturali; il che era stato larghissima fonte d' idolatria, massime presso gli Egiziani, fra i quali gli Ebrei avevano lungamente abitato e non lasciatili senza andarne tinti di loro costumanze. [...OMISSIS...] Veramente di nessuna cosa sono più sollecite le divine Scritture quanto di far conoscere Dio incomprensibile: di che è ragione contenersi nella incomprensibilità quel più e quel tutto che può conoscere l' uomo di un tal essere; e a significar questo para anche il nome ineffabile, conciossiacchè quel non potersi pronunziare un tal nome doveva significare non potersi comprendere un sì grande Ente. Chiamasi anche Dio nascosto e che abita una luce inaccessibile (3). Per sì grande concetto non usavansi dunque più i simboli, ma solo il linguaggio proprio, e l' esclusione di ogni simbolo, la quale esclusione essa stessa significava, e potrebbesi chiamare un efficacissimo simbolo. Questo esser però di natura incomprensibile doveva esser conosciuto dagli uomini colla indicazione de' suoi effetti. Tutto l' universo era effetto che indicava questa causa prima: ma la mente umana doveva essere eccitata a fissarla principalmente col nuovo e collo straordinario; e quindi la necessità de' portenti. Non che questi disvelassero la natura divina o a pieno ne esprimessero gli attributi, ma determinavano però meglio l' Ente supremo, il quale per essi acquistava un nome. A ragione di esempio, egli si chiama il Dio di Bethel (1) per la visione che ebbe in questo luogo Giacobbe. Egli si dice il Dio che ha tratto gli Ebrei dall' Egitto con mano forte (2): il Dio che ha parlato dal Sinai (3): e così di tutti gli altri grandi e straordinarii avvenimenti. Quando anche la lingua che esprimeva Iddio non avesse guadagnato con questi fatti un nome o una espressione di più, doveva però imprimersi nelle menti e contrassegnarsi con quel fatto Iddio, ciò che era un aiutare l' umano intendimento ne' suoi primi sviluppi a fissarsi e aderire a Dio e alle cose divine e insensibili. E l' uomo pur coll' essere condotto a vedere Iddio negli avvenimenti straordinarii e mirabili come invisibile cagione, veniva a imparare in che modo il doveva vedere anche negli ordinarii e comuni, sebbene questi non lo scuotessero e quasi dire svegliassero come quelli. Sebbene nelle età prime quando l' uomo era nuovo e nuova era la natura, questa aveva una cotal forza maggiore di farsi considerare come opera stupenda e di levare a Dio le menti collo stupore (1). Perchè adunque l' uman genere ancor fanciullo e vuoto di cognizioni si conducesse a formarsi e ben imprimersi le idee negative di Dio , si richiedeva un magistero maggiore della provvidenza che non sia per condurlo a formarsi le astrazioni. A condurlo a queste bastava il linguaggio e i simboli naturali: ma per le idee negative di Dio voleva anzi la cassazione di ogni simbolo od imagine, ed in una la considerazione degli effetti divini, in tra' quali vi dovevano apparire di quelli che si togliessero al tutto dal corso regolare e ordinario della natura. Ma un altro spediente messo in opera dalla sapienza di Dio per maggiormente scolpire nella mente all' uomo quelle idee negative che gli bisognavano e che nella natura non avevano ritratto alcuno, furono i simboli moltiplici e mostruosi . Non servivano già questi a esprimere la natura divina. Come abbiamo veduto, erano divietate tutte le rappresentazioni, o naturali o anche artificiali di essa divina natura in sè stessa considerata. E che il divieto delle imagini non fosse universale ma si restringesse a quelle che si ordinavano a significare la divina essenza, mi par provarsi anche con quel luogo della Scrittura dove si parla di Dio disceso sul Sinai a dar la legge. [...OMISSIS...] . Per tal modo col non mostrarsi Dio sotto figura alcuna volle insegnare, che la sua essenza è cosa al tutto diversa da quanto si trova nella natura; e quindi proibì che non l' effiggiassero. Qui è manifesto che la proibizione delle imagini e sculture si restringe a quelle che si facevano per rappresentare la natura divina; l' uso delle quali avrebbe rovesciati gli Ebrei nella idolatria, come era avvenuto sotto il velo delle imagini. Ragione che dà lo stesso sacro Testo, del non essersi Iddio mostrato figurato sul Sinai: [...OMISSIS...] . Ma altro è a considerarsi Iddio nella sua recondita maestà e pura essenza, e altro nelle comunicazioni che di sè fa alle sue creature. La maggiore di queste, la più solenne, quella che regola tutte le altre è la divina Incarnazione. Or la natura divina circoscritta per così dire e velata dall' umanità è il principale soggetto dei simboli mostruosi che si scontrano nelle sacre pagine. La ragione di questi accozzamenti di varie figure che non sono in natura è questa. Iddio anche circondato dalla carne è però cosa così augusta e così lontana dal trovare in tutte le altre cose acconcie similitudini, che non si può altramente avvicinarsi a simboleggiare i suoi molti e singolari pregi, che col pigliare a simbolo di lei, non già alcun essere naturale, ma un qualche ente imaginario e artificiale che congiunga in sè le membra e le proprietà di molti. Con un tal simbolo mostruoso si viene a significare, che la cosa che si rappresenta eccede i confini degli esseri che sono nella natura, e unisce in sè medesima le qualità e virtù separate in molte e varie nature. Per chiarir meglio questa sapientissima economia che tenne Iddio nell' ammaestramento degli uomini, scegliamo fra i simboli moltiplici e mostruosi usati nelle Scritture il più solenne di tutti, che abbiamo già accennato, ma che gioverà un po' più distesamente descrivere, voglio dire il carro di Dio . Questo carro è un simbolo costante nelle divine Scritture. Egli rappresenta la Provvidenza, colla quale Iddio conduce le creature tutte, ma una Provvidenza trionfatrice; rappresenta la Provvidenza nell' atto che trionfa de' suoi nemici e li disperde; egli è perciò principalmente un carro terribile di battaglia. Per ciò si dice ch' egli porta « la gloria del Signore« (2), » ossia il Signore glorioso. Essendo poi Gesù Cristo quegli dalle cui mani è condotta la Provvidenza del mondo, secondo il detto d' Isaia, che « la volontà del Signore sarà diretta nella sua mano« (3); » per ciò Gesù Cristo è altresì l' auriga di questo carro maraviglioso. Chè la Scrittura fa espressamente menzione di questo auriga, come si può vedere nelle parole dette da Eliseo quando Elia fu rapito, il quale sclamò: [...OMISSIS...] . Questo carro dicono le divine Scritture va circondato da dieci milioni di spiriti esultanti e beati (1), ed è carro di fuoco (2). Con questo fuoco Iddio incarnato accende, vivifica e immortala i suoi santi e incenerisce altresì gli empi: egli è un carro di guerra e ne sono l' armi le fiamme; i Cherubini l' attirano, o anzi il portano (3). La prima visione di questo misterioso carro, terribile e trionfale sembra quella che ebbe Adamo (4), quando s' avvide dei Cherubini stanti alla custodia della porta orientale dell' Eden (5) minaccevoli di morte contro chi si attentasse di inoltrare il passo oltre a quella soglia (6). Dice la Scrittura che essi custodivano « il legno della vita« (7), » al quale non va l' uomo se non passando per le fiamme, e non può passarvi illeso, quando prima non abbia ricevuto da Dio quella tempera al tutto divina che resiste a tali fiamme, anzi che innatura l' uomo con esse e il fa in esse vivere la vita immortale. Perocchè queste fiamme sono quella potenza misteriosa e irresistibile, colla quale Dio brucia e distrugge nell' uomo tutti i godimenti de' beni creati e naturali; di che avviene che essa distruzione sia intollerabile a quelle anime che non hanno null' altro per bene se non le creature, anime che diventano miserissime pur coll' essere spogliate a forza di tutti i beni lor cari, ed è in cotal modo un annientarle, un crucciarle d' indicibili affanni: e non altro fa il fuoco dell' inferno e del purgatorio (1). La tradizione di questa terribile forza di cui va Dio circondato passò a tutte le genti; ed è per questo che si reputava anche dalle nazioni idolatre che la visione di Dio fosse insostenibile all' uomo, e che l' uomo il quale vedesse Iddio, morrebbe di tratto: sentiva il genere umano l' alienazione che egli aveva dalla divinità; era la profonda coscienza della colpa originale che in lui parlava (2). Un' altra insigne visione di questo carro divino fu quella che ebbe il solo Mosè e non il popolo sul Sinai medesimo. [...OMISSIS...] Nei Salmi si dice espressamente che si mostrò a Mosè il carro di Dio (4). Questo carro di vittoria fu l' esemplare veduto dal Santo Legislatore in quel monte a cui similitudine fece poi l' arca (5), perpetuo trofeo della sconfitta degli Egiziani: e perchè quest' arca era appunto rappresentativa di quel carro di vittoria e trono di gloria ove Iddio siede e vola sui Cherubini; perciò il Salmo LXVII dice che il carro di Dio è nel Sinai e nel Santuario, cioè nel Tabernacolo dove fu riposta poi l' arca (6). L' incarnazione e l' ascensione al cielo viene simboleggiata da questo carro. Il Verbo di Dio discende e si mostra sopra la terra terribile a' suoi nemici per l' infallibile effetto della sua volontà: egli riascende in cielo trionfatore sul carro medesimo e si trae dietro i vinti captivi (7). Egli viene in soccorso dei suoi eletti sbattuti e perseguitati dagli empi e seco traendoli li campa da tutti i pericoli (1). Sta alla testa come capitano del popol suo e lo conduce siccome un pastore (2). Ma la visione di questo mobile trono ossia carro di Dio provisore e del Verbo incarnato più manifesta e più compiuta, fu quella che ebbe Ezechiello nel quinto anno della trasmigrazione del Re Joachino sei anni innanzi la distruzione di Gerusalemme. Iddio mostrava di dovere uscire del tempio profanato e della città santa, non più santa, in cui abitava, abbandonandola in preda a nemici ministri dell' ira sua. Veniva il bellico carro dell' Onnipotente da Babilonia quasi alla testa non più delle armate del suo popolo, ma bensì degli eserciti dei Caldei che sotto la sua guida dovevano fare scempio e rovina della infedele Gerusalemme (3). Or quest' azione del giustissimo sdegno dell' Eterno era pure un tratto di sua provvidenza e faceva parte del grande ordine secondo il quale Iddio con un solo pensiero governa tutte le cose sia nei momenti della sua misericordia, sia in quelli del suo furore. Questa unità di pensiero è manifestamente espressa nella visione di Ezechiello. In quella non si figura già Iddio occupato di un atto solo e passeggiero, ma sì bene quell' Ente sapientissimo che quando si occupa di un fatto non perde la memoria degli altri; che non si lascia assorbire come fa l' uomo da una passione di iracondia o di benevolenza per modo che nol guidi sempre la considerazione di tutta la serie degli avvenimenti che formano una indisgiungibile catena; insomma quel Dio che da Babilonia viene guerriero a oppugnare Gerusalemme è il Dio provisore, è quel Dio che governa insieme le cose tutte dell' universo. Ciò è quanto si rileva dall' analisi della visione. La visione del figliuolo di Buzi (1) ha tre parti. Nella parte superiore è il firmamento, simbolo della immobilità di Colui che muove tutte le cose. « E sul firmamento era come un trono di pietra zaffiro (altro simbolo d' immobilità e durevolezza) e su quella figura di trono era la figura come dell' aspetto di un uomo« (2). » Quest' uomo era l' auriga, cioè, Gesù Cristo, il Verbo, vero Dio che doveva rendersi vero uomo. La parte di mezzo erano i Cherubini, simbolo degli spiriti celestiali e beati della Chiesa trionfante (3). Essi portano gli stemmi del Figliuolo di Dio, che è il loro Signore e l' auriga loro, cioè hanno forma di uomo nel tutto insieme, perchè fu l' umanità che Dio volle innalzare al di sopra degli Angeli coll' unirla alla persona del Verbo. L' auriga, il guidatore della Provvidenza è finalmente un uomo divinizzato, un uomo Dio, così piacendo all' Eterno di sollevare sopra tutte le nobilissime creature quella che per sè fra le intelligenti occupa il più basso luogo, cioè la creatura umana. Ma quest' uomo è tanto innalzato perchè è anche Dio (4): e però quei Cherubini sono anche aquile, avendone la testa e le ali. Ed essi hanno ancora il capo di leone e il capo e i piedi di vitello, stemmi delle due qualità del Signor loro, che sono l' esser egli Re di tutte le cose e unico sempiterno Sacerdote. Conviene dire, che i celesti spiriti sieno santi e beati appunto pel profondo conoscere di tanto mistero e pel continuo ammirar che fanno un sì profondo senno di Dio nell' incarnazione; sicchè portano di tutte queste cose l' impronta nelle loro anime, indi deducendo la loro vita e il loro movimento, devotissimi sì come sono a servire a effettuazione e consumazione di un tale disegno, superiore a quanto può stendersi il pensiero della finita intelligenza. Ma la parte inferiore di quella grande visione erano le ruote le quali toccavano terra (1), e simboleggiavano il mondo delle cose mobili e esteriori nel quale ciò che è formale è propriamente quella parte che costituisce la Chiesa che milita nella presente vita, e colla quale Iddio e Cristo in cima ai beati comunica per mezzo di essi spiriti angelici e delle anime già pervenute a stato di angelo (2), che sono le cagioni medie per le quali opera Iddio e Cristo in sulla terra. Nè questo ministerio dei celesti, anello di mezzo fra Dio e gli uomini in istato di via, toglie punto, nè impedisce che lo stesso Dio operi anche immediatamente nella Chiesa militante collo spirito suo che tutto penetra, e tutto accende, ed avviva: di che il Profeta: [...OMISSIS...] . Ma questo spirito spira da Cristo, e non fa che imprimere Cristo nelle anime (4): e però anche le ruote portano gli stessi stemmi de' Cherubini e hanno quattro faccie (5), di uomo, di leone, di bue, e di aquila, impresse nei dossi de' due cerchi di cui ciascuna è composta, incrocicchiati l' un nell' altro e formante come una sfera rivolubile da ogni parte: conciossiacchè anche la Chiesa militante non ha altre insegne che quelle di Cristo, alla cui similitudine si deve volgere tutta e conformare e per lo spirito parteciparne le sublimissime qualità. Fin qui noi abbiamo parlato dei tre primi generi di segni istruttivi, gli avvenimenti, le cerimonie, le visioni. Ci rimane a dire del quarto genere, ossia della « lingua simbolica (1). » La lingua per sè stessa non è rappresentativa se non in una piccola parte, cioè nelle parole e costrutti onomatopeici. Ed essendo ella un aggregato di suoni, manifesto è che non può imitare se non cose sonore e che però questa sua imitazione si restringe a una minima parte degli innumerevoli oggetti segnati dalle parole. Ora il nostro discorso non si volge a questa minima parte, ma ha in mira l' uso della lingua in generale. La lingua richiama le idee e le idee richiamano le imagini; le imagini sono somministrate da quei tre fonti che ho toccato, gli avvenimenti, le cerimonie, le visioni. Sotto la parola di avvenimenti abbiamo voluto raccogliere tanto 1. le cose esistenti nella natura come 2. i fatti che vi succedono. Sotto quella di cerimonie tutti i fatti che sono stati posti dall' uomo in pruova all' uomo di significare e perciò 1. tanto le cerimonie stabili, quali son quelle stabilite da Mosè pel culto divino, 2. come quelle azioni che venivano fatte dai Profeti a intendimento di significare le cose avvenire, verbigrazia il maritaggio del Profeta Osea colla donna peccatrice e i nomi imposti ai figliuoli che ne nascono (2). Sotto la parola di visioni finalmente intendiamo tutte le [visioni] imaginarie che dipingono alcuna cosa sensibile alla fantasia del veggente, gli si presentino esse in sogno o in veglia, palesi a tutti, o visibili a lui solo. Ora le parole possono richiamare e risuscitare nella fantasia le imagini ricevute in queste varie maniere, cioè: 1. esse possono significare un oggetto sensibile nella natura esistente; 2. un fatto avvenuto; 3. una cerimonia sacra; 4. un' azione cerimoniale o significativa; 5. una visione avutasi. In tutti questi casi le parole significano una cosa significativa. Non sono esse stesse le imagini sensibili, ma bensì le cose da loro significate sono queste imagini e simboli di idee astratte o negative. Ma le parole prestano di più un altro servigio. Quando anco non sia avvenuta una visione (la quale consiste sempre in accozzamenti di oggetti sensibili già da noi percepiti in separato), le parole possono tracciare e comporre una specie di visione nella nostra fantasia. E ciò esse fanno col risuscitare nel nostro spirito degli oggetti sensibili componendoli variamente in modo che essi rappresentino al nostro pensiero alcun che appunto per la loro composizione o per l' accordo che hanno colle circostanze presenti. Così fa il linguaggio nelle allegorie e nelle parabole. Ora questi sono i due fonti di tutta la lingua simbolica: ella o annunzia una cosa reale sensibile e rappresentativa, o eccita nello spirito delle imagini variamente accozzate dalla efficacia della lingua stessa in modo che pel loro accozzamento quelle vengano a rappresentare o indicare l' oggetto insensibile che è lo scopo del ragionamento. Discendiamo più al particolare. La parola terra non è già per sè stessa simbolica se non significa altro che la terra: ma se questa terra stessa si considera come un simbolo o segno di altra cosa, allora la parola terra è simbolica. Sicchè non è già che una lingua possa essere mai simbolica per sè stessa, ma bensì, tale si appella perchè ella segna ed esprime degli oggetti che sono dei simboli (1). E ciò che si dice di un oggetto particolare simbolico si può dire di un complesso di oggetti i quali uniti insieme formano una storia, una cerimonia, una serie di azioni, una visione o un prospetto d' imaginazione, secondo la classificazione che noi abbiamo data de' simboli (2). Quando la lingua esprime un oggetto che egli stesso è preso per segno di qualche altro oggetto, ella si chiama simbolica (3). Ma questo oggetto7segno non può essere sempre così atto a segnarne un altro che al tutto ed esclusivamente lo determini; anzi quasi mai avviene, e le più volte, per non dir sempre, un oggetto stesso può usarsi a segnare più e più oggetti, cioè tutti quelli che hanno con lui qualche somiglianza, o qualche rapporto qualunque si voglia. A ragion di esempio se io prendo per simbolo un fiume che si rigonfia e minaccia di rovesciare le città co' suoi flutti, quale sarebbe l' Eufrate, il mio simbolo potrà significare l' impeto e la superbia di un conquistatore: e in tal caso il dire l' Eufrate minacciò colle sue onde sterminio, in lingua simbolica significherà, il Re o l' esercito nemico che si accosta con empito. Ma questa parola Eufrate potrebbe esser simbolo egualmente atto a esprimere i popoli abitatori delle sue sponde pel rapporto di vicinanza che ha con questi; e quindi dicendo l' Eufrate esultò di gioia, in lingua simbolica può significare il tripudio degli abitatori di Babilonia. Ora questa indeterminazione, che ha il simbolo, si deve rimuovere in qualche maniera, perchè la lingua simbolica si possa interpretare con sicurezza; altrimenti ella non presenterebbe se non dei discorsi equivoci e sempre incerti. Ora questa via d' interpretare la lingua simbolica ora è più, ora meno difficile. Indi avviene alla lingua simbolica primitiva ben sovente una certa oscurità , non assoluta ma relativa, ed è allora quando vi si trova questa oscurità, che ella viene nominata enimmatica . In che modo si può dunque giungere alla determinazione sicura del significato del simbolo? Or dissi che la oscurità della lingua enimmatica primitiva non è assoluta, cioè non nasce della perplessità della stessa lingua, ma relativa alle cognizioni e all' abilità dell' interprete, poichè vi ha sempre una via che conduce alla sua piena e certa intelligenza. Ma qual' è questa via? Questo si fa in sette maniere, ed ecco quali sono: 1. Coll' aggiungere al simbolo la spiegazione in parole proprie. Così Ezechiello nel capo XVII narra quello che due aquile operavano. Ora esse non erano che simboli di due Re. Ma come saperlo? E come indovinare quali Re fossero? Il profeta stesso spiega il suo simbolo dicendo, che per quelle due aquile intendeva figurare il Re di Babilonia e il Re di Egitto. 2. Coll' intrameschiare alle parole simboliche tali parole proprie che mostrino le prime esser simboliche e a che significare ordinate. A ragione di esempio Osea (II) parla di una vigna di cui spianterà le viti e le ficaie. Ma egli è facile d' intendere che questa vigna è simbolica e segna il suo popolo, se si considerano le parole proprie che seguono alquanto dopo, ove il Profeta dice, che una tal vigna rientrata a Dio in amore « canterà come a' giorni della sua gioventù e come a' giorni della sua uscita dalla terra di Egitto« (1). » 3. Talora il discorso simbolico si rende chiaro e determinato in virtù delle circostanze di chi parla e di quelli a cui parla. Sapendosi che chi parla è un inviato dal cielo a minacciare di castighi sopravenienti le scelleratezze del suo popolo, questo solo già mette sulla strada a intendere i simbolici detti del Profeta: per lo meno il sapere ciò, esclude una quantità d' interpretazioni che potrebbero forse avere luogo non sapendosi al tutto la qualità dell' uomo che parla e de' suoi uditori. Ridotto così il numero de' sensi possibili assai minore, viene fra questi stessi determinato l' unico ammissibile dal considerare tutte le altre circostanze. Quando Isaia minaccia che il Signore chiamerà con un fischio la mosca che è nelle estremità dei fiumi di Egitto, e l' ape che è nel paese di Assur (1), è facile l' intendere che la mosca e l' ape qui sono due simboli e che voglia segnare il Re di Egitto e quello di Babilonia: e ciò dal sapersi la circostanza che la Giudea era collocata fra questi due Re potenti, e che erano essi i nemici più formidabili da cui aveva essa a temere. 4. Può togliersi l' incertezza del simbolo da una circostanza storica straniera a quelle di chi parla e di chi ascolta. Poniamo esser noto che la colomba era lo stemma di Babilonia: si farà chiaro con ciò che la colomba nominata nel Salmo LXVI è un simbolo di quel potente impero. 5. Può il simbolo rendersi chiaro e certo per convenzione. Se la convenzione è privata, la lingua diventa un gergo , e questo non ha mai luogo nella Scrittura. Una metafora venuta in tant' uso che si è fatta proprietà di una lingua, sicchè appena ritiene più qualità di metafora, ma corre come parola che fosse propria, giacchè non si bada quasi più al suo primo senso, egli si può dire un simbolo chiaro e palese per convenzione comune e pubblica (2). Non però è questa una convenzione al tutto arbitraria, ma è sempre fondata nella similitudine o in qualche altra relazione che passa fra il significato primitivo e proprio della parola, e quello che le fu dato traslatamente. Così nella lingua ebraica un legame materiale è simbolo di una legge, e però stringere vale il medesimo che comandare , per un traslato comunemente usato presso gli Ebrei. Nel primo libro de' Paralipomeni, ciò che la volgata traduce « praecepit Dominus Moysi » dovendosi tradurre il testo ebraico alla lettera, riuscirebbe: Iddio strinse Mosè (3). 6. Il simbolo si rende ancor chiaro per la notizia storica della sua istituzione. Dovendosi tenere il nostro discorso entro i limiti della lingua simbolica, ed essendo ordinato solo a porgere un chiaro concetto di quella lingua primitiva colla quale Iddio doveva venire istruendo il genere umano bambino, non faremo parola che della istituzione di parole simboliche. Già ne abbiamo veduta la necessità per l' uman genere bambino: ne abbiamo veduto anche il modo onde queste parole dovevano stabilirsi. Non faremo dunque qui che riassumerci, ma secondo il nostro solito non colle stesse parole colle quali abbiamo esposte tali dottrine altrove, ma dando loro un aspetto nuovo e una nuova luce. A venire a capo di ciò noi dobbiamo in primo luogo schierare sott' occhio del nostro lettore gli aiuti che prestò il linguaggio allo sviluppo della umana intelligenza. In secondo luogo sarà nostro carico il dimostrare che tali aiuti non poteva il linguaggio prestargli allo spirito se non avesse ammesso in sè stesso i simboli, e così non si fosse reso simbolico. Ecco adunque il riassunto dei diversi vantaggi che dà la parola allo spirito nel suo intellettivo sviluppamento. I. La parola: 1. completa , 2. fissa la percezione. Dico che la completa. Quando l' uomo privo d' altre idee percepisce un oggetto sussistente, egli se ne forma una cotale idea ma imperfetta. Solo quando gli pone il nome a questo oggetto percepito, la sua idea di lui è completa. La ragione di ciò si è, che la percezione è un atto molteplice dello spirito, cioè composto di più parti, è un prodotto di più facoltà, come il prova l' analisi di essa percezione. Ora ciò che dà unità a queste molteplici operazioni dello spirito, ciò che unisce quelle varie parti è un segno a cui se le attacca. Questo segno, cioè la parola, acquista virtù per una cotale associazione di risvegliare a un tempo 1. l' imagine sensibile (materia dell' idea), 2. l' essere (sua forma) e 3. la veduta dello spirito che nell' imagine vede l' essere. Per questa parola l' essere per sè indeterminato viene meglio determinato, precisato; e lo spirito con tale guida è volto a cogliere per così dire l' oggetto reale scopo di tale operazione, e quello che viene propriamente nominato nella intenzione dello spirito col nome proprio . Dico ancora che la parola fissa la percezione. Una percezione innominata è tenue, e svanisce tosto dalla mente. Ma quando il suo oggetto ha acquistato un nome, questo nome gli lega, per così dire, le ali, e nol lascia sfuggire, il tien fermo nella presenza della mente, il richiama presente quando se ne è partito e il rende atto a poter venir colto quando si voglia dall' attenzione, che col mezzo del nome suo si rivolge a lui e il contempla e il lavora con quante riflessioni meglio gli piace. II. La parola relativamente alle idee positive , che sono il fondamento della classificazione specifica delle cose, ritiene innanzi allo spirito la specie e la richiama: il che fanno i nomi comuni . III. Relativamente alle idee negative la parola 1. fissa un sussistente nel comune , mediante la facoltà del verbo: 2. rapporta a questo sussistente esse idee, che diventano altrettante indicazioni di quel sussistente fissato nel comune, con una operazione che si può acconciamente nominare una cotale creazione intellettuale; e 3. ciò che è il più, fissa un sussistente nell' universale , il che è quanto dire sostantivizza l' ente, la verità, la giustizia e la bontà, e così ascende alla più grande e perfetta idea di Dio che a lui sia possibile di avere nel presente, congiungendosi in questa mirabile operazione il comunissimo (l' ente possibile) e il particolarissimo (il sussistente). IV Finalmente rispetto alle astrazioni generiche è la parola quella 1. che eccita la veduta dello spirito, 2. che la dirige questa veduta, e 3. che la limita e determina; senza le quali tre condizioni non potrebbe lo spirito nè muoversi, nè procedere, nè quietarsi nella visione di que' rapporti o caratteri, che costituiscono appunto la natura delle idee generiche. Veduti e classificati i vantaggi che la parola presta allo spirito nella formazione e nel perfezionamento delle idee, non ci sarà difficile d' intendere come la parola, a poter prestare sì nobili servigi, non poteva non essere stata nella prima sua istituzione simbolica. E veramente riprendiamo in mano questi vantaggi nell' ordine in cui gli abbiamo registrati; cominciamo dalla percezione, a cui corrisponde l' istituzione de' nomi proprii . Ho detto che il nome proprio che esprime l' oggetto della percezione unisce insieme diversi elementi e ne fa risultare un solo oggetto d' intelletto, e che questi elementi sono: 1. l' essere universale, 2. l' imagine o percezione sensitiva, 3. la veduta dello spirito. Ma in tutto ciò non c' è ancora la sussistenza , ed è solamente quando il nome si riferisce a un oggetto reale, individuo, sussistente, che si dice nome proprio. Pigliamo un esempio: il nome del primo uomo era un nome proprio: analizziamolo insieme, cerchiamo di scoprirne l' intima natura. Quale è dunque la natura di questo nome ADAM? Guardiamo che cosa significa: egli per sè non significa che terra , ossia soggetto composto di terra. Questo nome, dice la divina Scrittura, fu imposto da Dio ad Adamo per esprimere con esso che Adamo era stato formato dalla terra. Ma un nome che significa un oggetto composto di terra, per sè considerato, è egli un nome proprio o un nome comune ? Non più che un nome comune, poichè egli non restringe il suo significato a solo il primo uomo, ma significa egualmente qualunque oggetto composto di terra. Tanto è vero che lo stesso nome, che fu preso a dover significare il primo uomo che fu al mondo, si usa anche a significare UOMO in genere, pigliandosi nell' ebraica favella questa voce ADAM tanto come nome proprio di Adamo, quanto come nome comune della specie umana. La natura adunque degli antichissimi nomi propri è tale, che essi siano per sè veramente nomi comuni , ma che vengano appropriati a un individuo sussistente, non per la loro intrinseca natura, ma per qualche mezzo a loro estrinseco. Noi esamineremo fra poco quale possa essere questo mezzo o circostanza estrinseca che riduce un nome comune e lo coarta nella significazione di nome proprio. Intanto tornando alla nostra analisi del nome Adam diciamo, che l' oggetto da lui espresso, un composto di terra, dovendo essere un oggetto percepito dalla mente ed espresso con quel nome in quel modo appunto che la mente il concepisce, egli si compone e risulta, questo oggetto intellettivo, dei tre elementi indicati, cioè 1. dell' essere, 2. della percezione sensibile della terra, la quale si presenta al nostro senso coi suoi caratteri fisici, e 3. della veduta dello spirito, colla quale veduta questo fissa un aggregato di terra (materia) possibile a sussistere. Ma questo aggregato di terra non è indicato ancora come hic et nunc attualmente sussistente, e in tutto determinato e ristretto a una sussistenza individuale e propria. La sussistenza adunque, la quale sola dà al nome il carattere di proprio, non è compresa negli antichissimi nomi proprii, ma questi sono nomi comuni applicati a un essere sussistente e resi così suoi proprii da qualche mezzo o industria estrinseca e straniera ai nomi stessi. Qual è dunque questo mezzo, industria o circostanza, che fa capire un individuo reale e sussistente, al sentirsi pronunciare un nome comune? Questo mezzo non è sempre il medesimo: talora è un' altra voce che viene aggiunta al nome comune e che lo fa proprio attaccandolo a un individuo sussistente: talora è una tacita disposizione dello spirito di coloro che usano di quel nome. A. Dico che una voce talora ferma il nome comune a significare un individuo sussistente. Questa voce è comunemente un pronome: 1. Alcuna volta è il pronome dimostrativo questo ; ma rimanendo un tal pronome separato da esso nome comune cui determina, non ne cangia la natura. Così se io dico: quest' uomo; sebbene una tale locuzione determini il nome comune uomo a significare l' uomo che è presente e forse anco da me indicato coi cenni, o l' uomo nominato più sopra nel discorso, tuttavia il vocabolo uomo resta nome comune che fa, solo per quel caso, l' ufficio che farebbe il proprio; 2. Più spesso fan proprii i nomi comuni nelle lingue antichissime i pronomi personali che si affiggono al nome comune e fanno con esso lui un solo vocabolo. Per non prendere gli esempi se non dalla lingua ebraica, molti sono i nomi a cui è affisso dal loro istitutore il pronome possessivo mio : così Rachele impose a Beniamino, il cui parto difficile la fece morire, il nome di BEN7ON7I, che vuol dire figlio del mio dolore (1). Il nome che aveva Sara prima che Iddio glielo mutasse, era SARA7I, cioè signora mia (2). Il nome ISA7I, vuol dire mio uomo (3). A Dio stesso per dargli un nome proprio e contraddistinguerlo dagli dei degli idolatri, talora da chi lo invocava si aggiungeva il pronome possessivo mio , come in Adona7i Signor mio (1); e in quella appellazione che gli diede Agar, quando ebbe la visione nella solitudine, che li nominò il Dio che vede me (2). Egli è manifesto che per quel primo che impone un tal nome, esso nome ha forza di proprio, perchè determina una relazione unica e stabile dell' oggetto nominato colla persona che il nomina, e però quell' oggetto non può esser più vago nè accomunarsi ad altro, che a quella cosa sussistente che ha la relazione indicata coll' imponitore del nome. Ma per gli altri uomini in che maniera quel nome conserverà la vece e l' ufficio di nome proprio? (3). Non [in] altra certamente che in virtù della memoria che dura dalla prima sua istituzione: sicchè anche un nome così determinato dal pronome possessivo mio , per conservarsi nel suo vigore di nome proprio, ha bisogno che per tale passi a esser ricevuto dal comune degli uomini. 3 Talora il nome comune prende la forza di proprio dall' aggiungervi che vi si fa un nome per proprio antecedentemente ricevuto. Così dicendo il Dio di Abramo, è il nome proprio di Abramo che determina a far l' ufficio di proprio il nome comune di Dio. B. La seconda maniera, onde un nome per sè stesso comune si fa correre per proprio, è una tacita disposizione e operazione dello spirito di chi parla e di chi ascolta (la quale operazione appartiene alla facoltà del verbo) per la quale operazione chi pronunzia od ode quel nome comune subito vi attacca l' oggetto individuale e sussistente. La sussistenza dunque non è espressa, ma viene supplita dallo spirito. Per esempio, tornando a un esempio recato avanti, nella parola Adam non è punto nè poco espressa la sussistenza individua del primo uomo che fu; e pure al suono di questo nome tosto si presenta allo spirito non già solo le qualità comuni di ciò che è terra, suo vero significato, non già solo l' uomo in genere, nella quale prima restrizione di significato lo spirito aggiunge qualche cosa da sè; ma sì bene il primo padre di tutta l' umana specie, che è la restrizione somma del senso che può ricevere quel vocabolo, restrizione che da comune il rende al tutto proprio. Questa operazione che fa lo spirito colla quale all' udire un suono intende più di quello che il suono esprime, si opera non per la virtù che quel suono ha come segno, la quale virtù non si potrebbe estendere oltre la cosa significata, ma per una associazione fra la cosa significata da quel suono e la cosa supplita dallo spirito (4). La cosa non è nuova nella lingua. Non si deve credere che la lingua esprima tutto ciò che noi intendiamo per essa: vi ha un' infinità di cose che sono supplite dallo spirito di quelli che parlano e che ascoltano, e che non sono punto segnate coi suoni. Sarebbe lungo l' entrare in questa materia per altro molto importante a essere trattata in una filosofia delle lingue. Noi osserveremo solo che questi sottointendimenti sono specialmente innumerevoli nelle lingue antichissime, e si può in generale stabilire questo principio che i primi uomini esprimevano il menomo possibile di quanto bisognava perchè i loro sensi fossero intesi. Mi rimetto intorno a ciò al trattato delle elissi e delle reticenze che si trova nei grammatici. E dico, ora che cosa è che induce lo spirito nostro a supplire nel nome comune la sussistenza individuale , sicchè noi veggiamo il particolare nel comune? Ciò nasce da molte cagioni: ma la principale è certamente l' uso positivo della lingua da noi appresa fin dall' infanzia, il che è quanto dire la primitiva istituzione del nome passata di padre in figlio, di bocca in bocca fino a noi. Fin qui ancora non apparisce la necessità de' simboli, ma quello che abbiamo detto ci lastrica la via di giungere a conoscere questa necessità. Intanto si può conchiudere da ciò che abbiamo detto che in questa specie di nomi il comune si congiunge e lega col proprio e si fa servire come di segno a dover segnare questo proprio sussistente. Andiamo innanzi. Questa idea comune che risveglia in noi la persuasione della sussistenza di un oggetto, quanto si estende ella? E` una idea specifica o generica? Ella è una idea specifica . Questo ha bisogno di spiegazione. Quando noi percepiamo coi sensi un oggetto sensibile, non percipiamo mica tutta la natura e proprietà di quell' oggetto: no, è vero che noi crediamo di averlo percepito tutto e fedelmente; questo è un errore comune (1). In quella vece noi non abbiamo percepito dell' oggetto se non quel tanto che la capacità del nostro senso fu atta a ricevere, e in un modo al tutto conformato, per non dire sformato, alla qualità del senso medesimo. Di più fra le varie sensazioni che noi riceviamo da un oggetto medesimo all' atto della sua percezione e delle quali l' intero della percezione stessa si compone e risulta, ve ne ha solitamente una che primeggia sull' altre, che più ci colpisce e tira tutta a sè la nostra attenzione: e suol essere quella a cui rivolgiamo il nome che imponiamo all' oggetto. Così a ragione di esempio, nella percezione del sole non sarà la sua grandezza, la sua forma o altra qualità quella che più ci muove, ma l' acutezza della sua luce. Indi denominandolo, il sole non sarà già chiamato cosa rotonda o con altro nome, ma sì bene cosa ossia oggetto luminoso. Nella percezione del firmamento l' uomo non sarà già ferito tanto dal suo colore quanto dalla sua estensione; il firmamento sarà quindi nominato oggetto esteso, o anche semplicemente l' esteso (1). Qui pertanto si vede che il fondamento de' primi nomi proprii doveva essere una qualità sensibile, quella che nei diversi oggetti spiccava fuori dell' altre (2). Ora che idea è quella di una qualità sensibile? ella è una idea specifica accidentale. Ma non come accidente si poteva prendere dall' uomo questa qualità: l' uomo era costretto dall' indole della sua mente di sostantivare la sua percezione: quella qualità dunque veniva sostantivata, presa come una sostanza. Tale concetto appunto è ciò che dà queste denominazioni, il luminoso, l' esteso. Questi nomi che in latino riescono neutri, equivalgono a dire una sostanza luminosa, una sostanza estesa. Tali erano i nomi comuni che in origine servivano per nomi proprii in virtù dell' istituzione e dell' uso. Or si consideri la differenza che passa fra le idee significate da questi vocaboli l' esteso e l' estensione, il luminoso e la luce o luminosità (3). Si vedrà assai agevolmente che l' estensione e la luminosità sono pure astrazioni: all' incontro l' esteso e il luminoso sono astratti sostantivati. Ora questi astratti sostantivati sono il primo passo che fa lo spirito umano onde pervenire alle astrazioni. Sebbene gli astratti sostantivati sieno più complessi e le pure astrazioni più semplici, tuttavia lo spirito umano si forma prima quelli che queste. E la ragione di ciò si è che lo stesso spirito umano è un complesso di facoltà, non una sola facoltà; per ciò i primi passi dello spirito sono complessi, operando più facoltà insieme; e i semplici sono gli ultimi. Ciò che dico non è una pura conghiettura, ma un fatto. Mi appello a coloro che conoscono le lingue antiche nelle quali si vede un' abbondanza straordinaria di astratti sostantivati posti in luogo di astratti puri. A ragion di esempio nella ebrea, in quel luogo del Genesi, in cui la Volgata dice che la terra era inane e vuota (4); altri tradussero che era inanità e nullità (5). Ma l' Ebreo dice all' incontro coll' astratto sostantivato, che era « l' inane e il vuoto« (6). » Isaia dice secondo la Volgata che « il Signor Iddio verrà nella fortezza« (7); » ma l' Ebreo dice all' incontro « veniet in forti «. » Nel salmo CXVIII (137), si dicono retti i giudizii del Signore, ma l' Ebreo lo esprime coll' astratto, che noi tradurremmo « i giudizii del Signore sono rettitudine«: » ma la lettera dell' Ebreo sostantiva l' astratto di rettitudine come il latino direbbe neutralmente rectum , cosa retta. E ad ogni piè sospinto si trovano di tali esempi nelle lingue tutte più vetuste. I due ultimi esempi che ho recati non sono astrazioni specifiche sostantivate, ma sì bene generiche; e li ho addotti perchè si veda che lo spirito umano sostantiva non solo la specie ma anco il genere, quando a questo è pervenuto. Ma questa osservazione sia toccata di passaggio. Ritorniamo al filo del nostro ragionamento. Gli uomini primitivi nominavan dunque gli oggetti sensibili e sussistenti con de' veri nomi comuni, i quali diventavano in tal modo proprii nello spaccio che avevano; sicchè« l' esteso« era il nome proprio del cielo,« il luminoso« era il nome proprio del sole, e così via. Ma lo spirito umano non potea fermarsi in ciò, egli avea bisogno altresì di astrazioni pure, di nomi che fossero puramente comuni e non proprii. Ora che avvenne? quel che dovea avvenire, cioè che essendo avvezzi gli uomini a dare il nome di« esteso« al firmamento, di« luminoso« al sole, non si poteano poi applicar questi nomi comuni ad altri oggetti senza che venisse in mente, a chi li usava, il sole, il firmamento, ecc., il che è quanto dire, stante l' accettazione universale di questi nomi per proprii, che tutte le cose solennemente luminose si chiamavano soli, tutte le cose estese e grandi si chiamavano firmamento, ecc.: o sia, che è il medesimo, che il firmamento divenne« il simbolo« dell' estensione, il sole della luminosità, e così via. In tal modo gli astratti puri che sono idee insensibili furono concepiti nelle menti degli uomini mediante altrettanti loro« simboli« che mirabilmente aiutavano la mente a dar corpo per così dire e sostanza a tali idee. Così l' istituzione de' simboli ebbe origine dalla natura stessa e dalla prima istituzione della lingua primitiva. Ed egli è evidente che se« i simboli« aiutarono in tal modo lo spirito umano alla formazione degli astratti puri, molto più il dovettero aiutare alla formazione delle idee negative di Dio e degli spiriti trascendenti. Concludiamo da tutto questo discorso che la lingua primitiva doveva esser simbolica, e che questi simboli aveano la chiara loro intelligenza dalla notizia tradizionale della loro istituzione, che trapassava di generazione in generazione coll' uso della lingua stessa (1). 7 Finalmente v' ha un' altra via onde il simbolo si rende determinato e chiaro, e questa è il complesso armonico di più simboli insieme presi. Quella ambiguità e incertezza che avrebbe un simbolo solo preso isolatamente viene levata da degli altri simboli che insieme con lui si presentano nel discorso. Conviene però qui osservare che se si tratta di effigiare in questo complesso di simboli un avvenimento futuro, esso può rimanersi nell' oscurità fino a tanto che non riceve luce dall' avvenimento medesimo, e ciò non già perchè egli non valga ad esprimere quell' avvenimento nel modo il più fedele e preciso; ma perchè non può necessariamente che rappresentarlo in alcuni suoi termini ed estremi senza potere metterne sott' occhio il nesso. Il medesimo avviene in quelle profezie nelle quali si predicono gli avvenimenti descrivendoli dalle loro circostanze, le quali insieme prese non possono convenire che a quegli eventi predetti, ma che prima di vederle avverate sembrano fino inconciliabili fra di loro. E chi poteva a ragion d' esempio trovare prima dell' avvenimento il nesso fra quelle due profezie sopra Sedecia (1): delle quali l' una diceva che non avrebbe veduto Babilonia, e l' altra che Nabucodonosor non l' avrebbe ucciso ma l' avrebbe condotto in Babilonia? Il fatto mostrò come tali predizioni si conciliavano quando Sedecia non fu ucciso ma accecato, ed entrò in Babilonia senza vederla. Così parimente come conciliare queste tre predizioni sopra il Messia: l' una diceva che sarebbe stato chiamato Nazareno, l' altra che sarebbe nato in Betlemme, la terza che Iddio l' avrebbe fatto venir dall' Egitto? Il fatto è che nato in Betlemme per puro accidente fu ritenuto esser di Nazaret patria dei suoi abitatori (sic) e dov' egli pure condusse con essi molta parte della sua vita, e che fuggito ancor tenerello in Egitto di là fu chiamato da Dio nella Giudea. Da tutto quello che abbiamo detto si può intendere facilmente che la lingua simbolica istituita a principio non può essere stata al tutto stazionaria; ella dee avere avuto un progresso, dee avere sofferto delle vicissitudini. E` ciò una conseguenza della natura dell' uomo inclinata a trovar nuovi simboli di paro che a trovar nuove idee; come pure a ciò si presta la natura di un simbolo stesso che può passare dal significare uno al significare un altro oggetto, e l' oggetto significato dal simbolo può essere un altro simbolo egli stesso. La storia pertanto de' simboli è un argomento di ricerche erudite immense, e che sola potrebbe deciferare la storia della umanità: ma come ella non può esser a pieno trattata nell' opera presente, così pure ella non può essere proporzionata alle nostre piccole forze, nè manco al picciol tempo che ci rimane da dedicare agli studii. Noi non porremo qui pertanto se non una sola osservazione, che tocca la base che dar si dovrebbe a questa storia de' simboli. Diciamo che la base di una tale storia dovrebbe essere la simbolica primitiva, quella che veramente ebbe in parte una origine divina come abbiamo innanzi dichiarato. Questa pertanto dovrà essere la prima ricerca di chi si accinge ad una tale storia« quale fu la simbolica primitiva?« ricerca nella quale i documenti storici di tutto l' Oriente, l' antichità di tutte le nazioni, e di tutte le lingue raffrontate insieme potranno dare, come io spero, una piena luce. Trovato questo fondamento, e come regola suprema della storia indicata rimarrà a dimandare« quali furono le alterazioni che sofferì la simbolica primitiva?« che cosa fu dimenticato di lei, che cosa aggiunto, che cosa permutato? Nel qual buio reca chiarezza, siccome face luminosa che dee precedere, quella parte della filosofia delle lingue che insegna come di mano in mano l' uomo inventò i nomi e qual parte del linguaggio fu prima e qual dopo. Ne darò qui un solo esempio preso da due sole parole, cielo e terra. Io mi persuado che nella lingua primitiva il cielo e la terra fossero nominati con de' nomi comuni sostantivi, il quale è, come abbiamo veduto, il primo modo, onde gli uomini dovettero denominare le cose (2). Fu dunque il cielo denominato dall' altezza sua, la terra dalla sua bassezza in rispetto al cielo, cioè il nome proprio del cielo si fu l' alto , il nome proprio della terra si fu« il basso « (3). Fin qui de' segni istruttivi dati da Dio all' uomo dopo il peccato perchè gli fossero mezzi di perfezione. Ora ci bisogna parlare de' segni effettivi o sia de' Sacramenti; e di questi pure dobbiamo tracciare la storia, e render palese il progresso in che vennero crescendodo nelle varie età, fino a Cristo dal quale ricevettero loro intera perfezione. A tal uopo si dee prima conoscere la differenza che divide i Sacramenti che ebbero gli uomini prima della venuta e passione del Redentore, da quelli che ebbero dopo; e questa è la ricerca a cui noi ora poniam mano. La differenza de' Sacramenti si dee dedurre primieramente dal differente stato soprannaturale degli uomini pe' quali essi sono istituiti: il quale stato viene determinato dalla natura della grazia da cui sono illustrati. Conviene adunque rammentare ciò che noi abbiamo detto circa la differenza della grazia dell' antico Testamento, e quella del nuovo (1), la qual differenza noi l' abbiamo ridotta a questa parola, che l' antica grazia era deiforme , e la nuova triniforme (2). Abbiamo ancora detto che il principio della rivelazione, dietro la quale conseguitava la grazia nell' antico Testamento era il Verbo occulto, nel nuovo il Verbo manifesto (3). Al fine poi di spiegare in che maniera nell' antico Testamento il Verbo potesse essere principio della rivelazione, abbiamo fatto osservare, che ogni rivelazione si attribuisce al Verbo, come dicono i teologi, per appropriazione di parlare; il che non importa già un dire che sola la persona del Verbo operasse nelle antiche rivelazioni, le quali come opere esterne competono alla divina natura, e però a tutte e tre indistintamente le persone; ma quella maniera di parlare non viene a dire altro se non passare una cotale simiglianza o analogia fra le cose rivelate e il Verbo generato dal Padre, quasi con un pronunziare che fa l' intelletto una parola interiore. Nel che vedesi ancora come si dica rimanersi il Verbo occulto in quell' antica rivelazione, poichè ciò che si rivelava non era tanto, che bastasse a dare alle anime una, tuttochè imperfetta, percezione del Verbo. Il Verbo divino adunque era principio dell' antica rivelazione a quel modo che la parola di un precettore è principio della scienza del discepolo; similitudine che non quadra però al tutto; perocchè la parola del maestro umano è materiale e distinta dalle verità spirituali, che vede il discepolo colla sua mente. Si pensi dunque un maestro la cui parola sieno le verità stesse senz' altro segno; sicchè egli abbia virtù di presentarle immediatamente alla mente di quelli che insegna: queste verità si direbbero il principio della scienza del discepolo. Ora ciò non toglie che sotto altro aspetto si possa dire principio della scienza del discepolo anche il maestro stesso che ha virtù di comunicare quelle verità. E però nell' antico Testamento le verità comunicate interiormente allo spirito degli uomini erano il Verbo (per appropriazione); e tuttavia il maestro che comunicava queste verità era il Padre. Perciò l' essere stato nell' antico Testamento principio della rivelazione e della grazia il Verbo, non toglie punto il potersi dire anche il Padre principio di quelle antiche rivelazioni. E consideriamo un po' attentamente come il Padre fosse principio dell' antica rivelazione. Ciò che si voleva con questa era d' infondere nelle menti delle traccie, e quasi un abbozzo del Verbo: il quale abbozzo preparasse la tavola per così dire a riceverne poi a suo tempo la perfetta imagine. Or dunque il termine di questa interna operazione era il Verbo, ma il principio era il Padre. Conciossiacchè essendo il Padre quegli che genera e manda di sè il Verbo, a lui compete altresì il disegnare nelle menti le prime linee per così dire o vestigi del Verbo medesimo. Questo è ciò che viene a dir Cristo dove afferma che il Padre è quegli, che tira gli uomini a lui. « Nessuno può venire a me, se il Padre che mi ha mandato non l' avrà tirato« (1). » Non si contenta di dire semplicemente« il Padre«, ma dice« il Padre che mi ha mandato« cioè che mi ha generato e mandato altresì nelle menti coll' atto stesso che mi ha generato; esprimendo in tali parole acconciamente il modo onde il Padre tira gli uomini al Verbo, che è quello di mandare il Verbo stesso, o le traccie di lui, nelle loro intelligenze. Distinguasi adunque negli uomini due stati, in rispetto alla relazione soprannaturale con Dio; l' uno è di quelli uomini i quali conoscono già il Verbo; l' altro stato di quelli che non lo conoscono ancora, ma a ricever la cognizione e percezione di lui si dispongono. Questa disposizione vien loro a gradi pei quali l' uomo si avvicina sempre più al Verbo, di cui riceve un cotal riflesso di luce che cresce fino a che è degno di denominarsi percezione del Verbo stesso. Or dunque innanzi che questa percezione sia formata, il Verbo come tale propriamente parlando non opera in essi: il qual Verbo in essi opera tosto che in essi è formato (1). Da qual principio viene loro quel lume o più tosto quel barlume che è come l' aurora del sole che gli tien dietro? questo è appunto quel tirare che il Padre fa gli uomini al Verbo. Al Padre si attribuiscono adunque tutte le disposizioni che precedettero o che precedono la venuta del Verbo nell' uomo, e rimote e prossime. Così il Padre fu quello che mandò il Verbo al mondo nella incarnazione, e tutto il disegno di questa grande opera al Padre si attribuisce (2). Venuto poi il Verbo, il Padre cede a lui il lavoro di compir l' opera della salute umana; e questa è quella grande opera di cui sì spesso parla Cristo aver ricevuta dal Padre, [...OMISSIS...] . Dice d' essere stato mandato dal Padre: questo è quello che fece il Padre; e l' esser mandato dal Padre negli uomini è una espressione che equivale a quest' altra« il Padre trae gli uomini a me«. Dice che fu mandato perchè faccia« l' opera sua«, cioè l' opera del Padre, quell' opera che il Padre ha cominciato col mandare il Verbo negli uomini, e che perciò rettamente opera del Padre si dee nominare. Ora quest' opera che il Padre ha imposto al Figliuolo è che egli facesse conoscere agli uomini il Padre suo, perchè il Padre operando non si è reso visibile agli uomini, ai quali non ha comunicato se non le vestigia del Figlio, e il Figlio. Questa opera ricevuta a farsi dal Padre, Cristo l' annunzia in quelle parole [...OMISSIS...] . Perciò il Padre fu come uno che favella senza esser veduto. « Ciascuno che udì dal Padre e imparò, viene a me« (6). » E non dice che udì il Padre, ma che udì dal Padre; perciocchè l' uomo percepì i vestigi del Verbo nel suo spirito, ma senza conoscere il principio che glieli comunicava. Il perchè le profezie dicevano che « nessuno saprebbe onde il Cristo venisse« (1), » e Gesù dopo aver detto che chi udì e imparò dal Padre viene a lui, soggiunge: [...OMISSIS...] . L' opera adunque dell' umana santificazione nascer doveva per la comunicazione del Verbo divino, il quale dovea far conoscere agli uomini il Padre celeste pel suo sermone e pel suo spirito. Or l' uomo essendo un essere fornito di corpo, datogli per istrumento da percepire ed attingere le cognizioni di cui è privo in nascendo; conveniva che il Verbo a rendersi palese all' uomo s' incarnasse e per la via de' sensi comunicasse la sua virtù e sapienza allo spirito umano. Il Verbo incarnato fu Cristo che predicò, operò e patì per compire la grande opera commessagli dal Padre. Così la rivelazione esterna fu compita, a cui rispose il compimento dell' interna, cioè la grazia data sempre in misura di quella (3). Però l' umanità di Cristo fu il mezzo pel quale venne alle anime umane rivelato il Verbo divino, e la pienezza della grazia in lui contenuta. Laonde se l' umanità di Gesù Cristo fosse stata sempre presente agli uomini, non sarebbe bisognato l' istituire de' Sacramenti. La vista di quella santissima umanità, le sue parole, il contatto delle divine carni erano altrettanti mezzi sensibili pe' quali da Cristo poteva passare negli uomini ogni maggiore abbondanza di grazia. Al tatto delle sacratissime mani di Cristo era annessa virtù non solo di sanare tutti i morbi del corpo, ma anco quelli dell' anima, e così di « sanar tutto l' uomo intero« (4) » in corpo e in anima: le parole sue erano « spirito e vita« (5) » e il suo sermone « mondava« » l' uomo da ogni macchia di peccato (6); la vista dell' umanità sacratissima di Cristo aveva efficacia di innalzare l' anima di chi la vedeva alla cognizione e contemplazione del Verbo e per esso del Padre (1). Perciò l' umanità di G. Cristo era quel mezzo sensibile, che agendo sui sensi dell' uomo valeva soprabbondantemente a ristorarlo e santificarlo. Ma questa umanità non dovea restar sempre palese e sensibile fra gli uomini, ma da essi occultarsi; doveva ascendere alla destra del Padre (2). Era dunque necessario di lasciare al mondo qualche altro mezzo o segno sensibile, acciocchè per l' azione di cose sensibili l' uomo racquistasse la salute, e questo mezzo furono i Sacramenti. Egli è a questo che allude Gesù Cristo quando in sul partire dal mondo diceva quelle parole: « Padre Santo - fino a tanto che io era con essi, io li conservava nel nome tuo (3), » e ancora «« conservali tu nel nome tuo - santificali nella verità« (4), » attribuendo al Padre la virtù santificatrice de' Sacramenti, come fontale origine dello Spirito Santo, il quale però procedendo per via del Figlio dice che « li santifichi nella verità, » che viene a dire nel Figlio che disse «« io sono la verità« (5). » Il più augusto di questi Sacramenti è quello della Eucaristia. Per esso Gesù trovò il modo di far rimanere sopra la terra in occulto la sua sacratissima umanità nello stesso tempo che è palese in cielo in istato glorioso: e questa umanità, mediante un tal Sacramento, si trova contemporaneamente in qualsivoglia luogo del mondo e vicina a tutti gli uomini. Mentre fu visibile in terra comunicò della propria autorità e virtù a' suoi Apostoli, acciocchè potessero consecrare ed amministrare gli altri Sacramenti (6). Egli prescrisse loro l' uso di alcune parole, in virtù delle quali in suo nome e come suoi istrumenti amministrassero i Sacramenti. Determinò loro altresì l' uso di alcune materie cioè dell' acqua e dell' olio, di alcuni riti come dell' imposizione delle mani, alle quali cose debitamente adoperate aggiunse la virtù santificatrice uscente dal suo corpo (1). La sua umana presenza consacrò parimente il matrimonio in Sacramento. Perciò egregiamente S. Tommaso scrive che [...OMISSIS...] . Si chiederà, in qual maniera l' umanità di Cristo possa comunicare della virtù alla materia de' Sacramenti? Di quell' acqua o di quell' olio ch' egli toccò nel Giordano o in altra occasione mentre era su questa terra, può in qualche modo concepirsi, ma della materia che si usa nella Chiesa dopo la sua salita al cielo come si può dire altrettanto? Rispondo direttamente alla questione, che in più modi, a noi del tutto incogniti, l' umanità sacratissima di Cristo può comunicare di sua virtù all' acqua del battesimo, e all' olio della Cresima e dell' Estrema unzione; e fra questi modi non è punto assurdo, anzi egli è cosa probabile e pia, il concepire che l' umanità santissima in un modo invisibile ed ineffabile si metta al contatto con quelle materie al pronunciarsi delle parole mistiche da chi amministra il Sacramento. E qual maraviglia di ciò, se nella consecrazione del pane e del vino, avviene invisibilmente non solo il contatto dell' umanità di Cristo con quelle sostanze, ma ben anco quel fatto degno d' ogni stupore che l' umanità dell' Uomo7Dio assuma la sostanza del pane e del vino in sè e la tramuti in sè stesso? Se in questo che è il massimo de' Sacramenti l' umanità di Cristo unisce a sè sì fattamente quel cibo e quella bevanda fino a transustanziarla, quanto più è facile a credersi che l' umanità medesima di Cristo possa venire, in proferendosi delle parole, a un invisibil contatto con quelle altre sostanze, il che sarebbe pur tanto meno di quel che crediamo fermissimamente avvenire nel Sacramento eucaristico! (3). E non viene rinforzata questa opinione dall' insegnarsi comunemente nella cristiana teologia, che la facoltà del benedire e consecrare il pane eucaristico contiene in sè anche quella di amministrare i tre Sacramenti sopra toccati, e in universale la facoltà di benedire tutte le cose? Egli è poi manifesto che ne' Sacramenti dell' ordine, della penitenza e del matrimonio la virtù santificatrice della divina umanità si dee comunicare in altro modo. In questi Sacramenti non è la carne ma l' anima dell' Uomo7Dio che immediatamente opera: conciossiachè si effettuano que' Sacramenti mediante atti di potestà giudiziaria o sacerdotale, o finalmente mediante un atto di amore; e gli atti di potestà e di amore vengono dall' anima a dirittura. Egli è Cristo giudice che opera nel Sacramento della penitenza, Cristo sacerdote in quello dell' ordine, Cristo sposo nel matrimonio. Ma ci tornerà ancora il bisogno di ritoccare quanto qui vogliamo solo avere accennato. Veramente i Sacramenti della nuova legge non sono già puri elementi sensibili e materiali, ma ciò che è sensibile in essi non è che l' esterno e questo esterno in un senso assai vero potrebbesi chiamare tutto insieme la materia del Sacramento (1). Ad esso va congiunto una parte invisibile che è lo Spirito Santo, il quale veramente è la forma di tutto il Sacramento. Queste due parti l' una esterna e l' altra interna son espresse in quelle parole che Cristo disse del Battesimo: « Se alcuno non sarà rinato dall' ACQUA, e dallo SPIRITO SANTO non può entrare nel regno di Dio« (2). » Nè si contentò Cristo d' indicare con tutta distinzione queste due parti, di cui è formato il Sacramento; ma volle anche fare intendere che la parte principale ed attiva, il che è quanto dire la parte formale, in esso è propriamente lo Spirito invisibile, al che fare soggiunge: « ciò che è nato di carne è carne, e ciò che è nato di spirito è spirito« (1). » Non dice più ciò che è nato dall' acqua e dallo spirito; ma a dirittura ciò che è nato di spirito. E` dunque uopo di considerare la parte esterna e la parte interna del Sacramento, il sensibile e lo Spirito Santo, come due cose congiunte insieme in un modo ineffabile e formanti un solo Sacramento, appunto a quel modo, come innanzi dissi, dovea essere allo stato innocente del mondo congiunto Iddio colla natura e come una cosa con questa operare (2). A quella similitudine, per giovarmi di un pensiero di S. Tommaso (3), che nella favella umana opera congiuntamente qualche cosa di materiale, cioè la voce, e qualche cosa di spirituale, cioè un' intelligenza, che dirige e cagiona quella serie di suoni; sicchè la favella è una sola produzione di due cagioni, che opera congiuntamente; così anco il Sacramento risulta e dall' esterna operazione dell' uomo, e da quella interna del Santo Spirito che s' accompagna all' operazione esteriore. E questa non è, secondo la mente dell' Angelico, un solo accompagnamento (4). Ma Iddio con quel congiungersi che fa alla parte sensibile ed esteriore del Sacramento è come l' anima per così dire che avviva e avvalora essa parte materiale del Sacramento. Vero è che nella similitudine della lingua, ciò che fa intendere il significato delle parole non è solamente l' esser esse disposte e regolate dall' intelligenza che le pronunzia, ma bensì l' esser ricevute da una intelligenza che ha in sè stessa il lume della verità e la facoltà di ragionare cioè di applicare quel lume alle sensazioni (5). Sicchè nel mirabil fatto della intelligenza delle lingue, tutto il formale dell' intendere procede dal lume interno di chi intende, e le parole non sono che suoni materiali che diventano segni appunto in virtù di quel lume. Il perchè ritenendoci a questa similitudine di S. Tommaso e volendo usare il parlare teologico, la parte esterna del Sacramento non sarebbe più che una causa istrumentale e fisica, ma di quelle che operano indirettamente alla consecuzione dell' effetto (6). E questo conviene con ciò che abbiamo più sopra esposto circa il modo di operare de' Sacramenti (1). Ma se noi non usiamo la parola Sacramento a solo significare la parte esteriore di lui, ma tutto insieme essa e lo spirito che è come l' anima sua; senza alcuna esitazione noi affermeremo allora, che il Sacramento è non solo causa fisica, ma ben anco causa fisica7diretta (2). E con queste distinzioni crediamo agevole il comporre insieme i diversi pareri de' teologi cattolici, e i vari luoghi delle Scritture e de' Padri che sembrano fra loro contrari e ripugnanti. E tuttavia aggiungerò una parola su quel mirabile modo di agire della materia de' Sacramenti santificata dalla forma. Io non parlo che del pane e del vino consecrato, dell' acqua del battesimo e dell' olio della cresima e della estrema unzione. E di queste corporali sostanze o qualità domando io: in che modo esercitano esse sull' uomo quell' azione, che le rendono, come detto abbiamo, cagioni istrumentali indirette della grazia? (1) operano esse per la via delle sensazioni? Rispondo che non per la sola via delle sensazioni, ma sì bene per un principio anteriore a quello della sensazione, voglio dire pel principio della vita. Noi abbiamo veduto che la vita è qualche cosa che precede il sentire, il quale è una funzione della vita (2): abbiamo veduto ancora come il principio vitale presiede sì fattamente a tutta l' animalità, che qualsivoglia modificazione nasca in esso, l' animalità tutta si risente e modifica secondo certe leggi, il che si appalesa ne' nuovi fenomeni che, secondo certe leggi, compaiono nelle diverse facoltà e funzioni ed atti dell' essere animato. Che se la modificazione che risente il principio vitale è buona, tutto nell' animale si ristora e si rallegra: se per opposto è mala, nascono in lui variatissimi sintomi morbosi. Ora io avviso che la virtù della materia santificata ne' Sacramenti operi ineffabilmente sul principio animale; e per questa via modifichi salutarmente l' animalità, in quelle sue parti più sottili e delicate, che inservono agli istinti migliori; e indi avvenga che l' uomo cominci in questa parte ad essere acconciato e disposto all' ultima e tutta spirituale azione che contemporaneamente e congiuntamente viene operata dalla grazia. Per tal modo è bensì necessario il contatto alla valida collazione de' Sacramenti indicati, ma non è punto uopo che questo contatto generi un' avvertita sensazione. Questa maniera di operare si renderà ancora meno difficile a spiegarsi in qualche modo, quando si pensi che la comunicazione di Dio coll' uomo non avviene già mediante qualche modificazione che sostenga la natura divina, ma sì mediante una modificazione della natura umana. Perocchè Iddio è immutabile; è presente in ogni luogo, in ogni cosa. Acciocchè dunque l' uomo il percepisca, non si richiede se non che l' uomo riceva la facoltà di percepirlo; come a vedersi una luce diffusa ovunque non si addimanda se non una virtù visiva: conciassiochè ai ciechi quella luce splendente in ogni luogo parrebbe che non fosse. Si tratta dunque nella rigenerazione soprannaturale dell' uomo di dare a questo un principio di vita nuova contenente virtù di vedere Iddio presentissimo a tutte cose (1). Ora egli è meno difficile a intendere come all' uomo possa essere aggiunto questo nuovo principio vitale senza alcuna mutazione da parte di Dio, che non sia l' intendere come Dio stesso potesse essere comunicato pel veicolo dei sensi. Questa virtù o vita nuova, onde l' uomo si fa potente di vedere Iddio, verrebbe in tal modo a sussister nell' uomo in una maniera molto analoga a quella onde comincia in esso l' intelligenza. Questa, che è la facoltà di veder l' essere iniziale, viene prodotta nell' uomo all' atto della generazione in quella maniera che abbiamo altrove descritta. Ora a quella foggia che organizzandosi l' animalità dell' uomo mediante la generazione carnale vien dato a questo contemporaneo il lume dell' intelligenza, perchè la carne viva ch' egli riceve è porzione e propaggine della carne del primo uomo, a cui il lume d' intelligenza è stato affisso, così essendo stato affisso all' umanità di Gesù Cristo il lume divino o anzi Dio stesso, non è meraviglia che [a] quel contatto delle carni divine colle carni degli altri uomini questo divino lume pure si comunichi, cioè ricevano gli uomini la virtù soprannaturale di vedere Iddio, quasi, voleva dire, come un corpo riscaldato ne scalda un altro al suo contatto, o quasi come un ferro magnetizzato ne magnetizza un altro che a lui si strofina, o più veramente a quel modo che le particelle inanimate del cibo intromesse per le vie dello stomaco nei meati sottilissimi del corpo umano, ricevono per quella elaborazione e vicinanza di parti vive anch' esse la vita. La ragione poi per la quale questo discorso non si può applicare a' tre Sacramenti della penitenza, dell' ordine e del matrimonio è la seguente: Il fine essenziale al Sacramento della Penitenza è l' assoluzione da' peccati, e il sacerdote amministrandolo fa un atto di giudice. Ora un tal atto non si fa coll' applicare all' uomo alcuna medicina, ma col pronunciare la sentenza: il perchè non è bisogno d' altro in questo Sacramento che delle disposizioni del penitente, e del proferimento dell' assoluzione. Il fine essenziale al Sacramento dell' Ordine è di conferire una potestà sul corpo reale e mistico di Cristo, non di guarire o migliorare direttamente l' uomo che lo riceve. Ora la potestà viene conferita semplicemente dalla volontà di chi la possiede e ne può disporre, e può conferirla in quel modo che a lui ne pare. Ella passa dunque dal Vescovo negli ordinandi come passò da Cristo ne' Vescovi, senza bisogno che venga applicata al corpo umano alcuna sostanza medicinale per così esprimermi, se non come segno stabilito a manifestare la volontà di Cristo; dalla qual sola quella potestà si trasferisce. Finalmente il Sacramento del Matrimonio ha per fine di santificare l' amore che unisce gli uomini, e ciò si ottiene per l' imitazione dell' amore ch' ebbe Cristo verso gli uomini. Ora l' unione dell' uomo e della donna è attissima a rappresentare appunto l' indissolubile unione di Cristo colla sua Chiesa. Ora Cristo comunica appunto dell' amor suo agli sposi battezzati, che osservano nelle loro nozze quanto stabilisce la Chiesa a fine di riconoscerle per Sacramento. Conciossiachè se la Chiesa vede in quelle nozze l' imagine dell' unione sua con Cristo, anche Cristo ivi parimente la ravvisa e se ne piace, e così comunica loro della grazia del suo amore. Riepilogando tutto ciò che abbiamo detto, la perfezione della grazia non si potea comunicare agli uomini che colla comunicazione del Verbo pel quale solo potevano conoscere il Padre, e dal quale ricevere lo Spirito Santo, e quindi edificarsi nelle loro anime la rivelazione e la grazia triniforme. Ma il Verbo si dovea comunicare mediante l' umanità da lui assunta. Questa umanità assunta dal Verbo, cioè l' umanità di Cristo era piena di grazia e aveva potenza di trasfonderla negli altri, non pure perchè inabitata e retta da Dio, ma perchè coi patimenti soddisfaceva alla giustizia e pagava il debito della redenzione, e a Dio rendeva un ossequio infinito, e da lui di poter tutto in vantaggio degli uomini si meritava (1). Era ella adunque strumento acconcissimo a comunicare agli uomini la cognizione del Verbo da cui era informata, e la pienezza della grazia. Ma ciò potea fare non solo immediatamente per sè stessa quella umanità, ma comunicando altresì la stessa virtù ad ogni altra cosa sensibile (2). Ora queste comunicazioni di virtù e di santità che si riversa per così dire e travasa dal Verbo nell' umanità assunta da questa, nelle cose sensibili, materia de' Sacramenti, al proferirsi delle parole, e dalle cose nelle persone che ricevono i Sacramenti, sono altrettante azioni reali che non potevano aver luogo in modo alcuno prima della reale incarnazione di Gesù Cristo. Però degli antichi Sacramenti non si potea dire ciò, che tanto acconciamente si dice de' nuovi, cioè che per essi l' uomo S' INCORPORA a Cristo (1): la qual maniera prende luce di evidentissima verità dalla dottrina da noi esposta sul modo onde l' umanità di Cristo opera ne' Sacramenti. E perciò quelli che si chiamano Sacramenti dell' antico Testamento non potevano in alcun modo avere la virtù di quelli del nuovo, e convenevolmente sono detti da S. Paolo « elementi infermi e poveri« (2). » I Sacramenti di Cristo adunque operano nell' uomo con un' azione reale e necessaria. Conviene rammentarsi de' due principii che abbiamo stabiliti nel sistema della perfezione umana, l' uno il principio della morale naturale, e l' altro il principio della religione soprannaturale (1), quello consiste in un' idea dietro la quale opera la volontà, questo consiste in una percezione che muove istintivamente l' uomo anteriormente ad una deliberazione volontaria. La grazia de' Sacramenti è un principio antecedente alla volontà, opera nella essenza dell' anima prima che nelle potenze (2) ed è perciò che la sua azione è da parte di sè necessaria (3). Egli è per questo che S. Paolo avvisa l' uomo di non gloriarsi del suo operare, perocchè con solo questo egli non ha la salute, ma egli l' ha per l' operazione che fa in lui Cristo; il che è quanto dire che non è il principio morale che lo salva, ma il principio religioso . La potenza e la necessità con cui opera questo principio è tale, che l' atto e l' effetto suo viene paragonato alla creazione, e l' uomo che riceve una tanta azione è una nuova creatura, nel qual senso disse l' Apostolo: « Niente vale la circoncisione nè il prepuzio, ma la nuova creatura« (4), » la qual nuova creatura non si fa per alcuna morale naturale, ma per la mistica e ineffabile operazione de' Sacramenti di Cristo nell' anima di quelli che li ricevono. E nella lettera a' Romani, è l' Apostolo quasi solo inteso a dimostrare pur questo, che la morale dell' uomo è un principio insufficiente alla salute dell' uomo, che la volontà è così debole che è incapace di mantenere la legge; ma che all' uomo fa bisogno l' altro principio religioso, che opera in lui, prevenendo la sua volontà, per la potenza di Cristo, e così il fa rinascere, e l' avvalora a mantener poi anche la legge morale, sicchè tutto ciò che l' uomo può avere di salute in sè il trae dall' abbandonarsi a Cristo, o dalla fede in lui, nella sua potenza e virtù salutifera « per le opere della legge nessuna carne si giustificherà in faccia sua« (5) » perchè tutti hanno peccato e sono impotenti a mantenere la giustizia, avendo l' ingiustizia aderente a sè stessi per natura: [...OMISSIS...] . Che resta dunque a salvamento? Non la umana, ma la giustizia di Dio, cioè quella che infonde Iddio pe' Sacramenti e che ha per base la fede: [...OMISSIS...] . E sono i Sacramenti quelli che infondono la fede, di cui tante cose dice S. Paolo, massime il Battesimo, il quale è ordinato appunto a rigenerar l' uomo colla infusione dell' abito della fede (3). Or dunque, se questo è l' operare de' Sacramenti della nuova legge, se la loro è un' azione reale, se il poter fare quest' azione reale viene loro comunicato dalla reale umanità di Cristo, che restava adunque di virtù a que' riti che si chiamano Sacramenti dell' antica legge, quando Cristo non era ancora realmente venuto al mondo e non aveva patito, e perciò non potea da lui derivarsi una tanta virtù? Nessuna azione reale poteva ad essi derivarsi, come più sopra abbiam detto. Nulla di meno anche allora non mancava il mezzo della salute, ed essi stessi que' riti a ciò non poco giovavano. Se Cristo allora non era nell' ordine delle cose , poteva però essere nell' ordine delle idee ; e come dopo Cristo gli uomini sono salvati dalla sua reale azione, così avanti Cristo erano salvati, se mi è lecito così esprimermi, dalla sua azione ideale . Che cosa è l' idea di una cosa? egli è il principio della cosa (4). Cristo dunque coll' essere nelle menti degli antichi cominciava per essi ad esistere e ad operare. Il principio adunque da cui dedurre la differente virtù degli antichi e de' nuovi Sacramenti è la distinzione fra l' ordine ideale e l' ordine reale (5): gli antichi Sacramenti appartenevano al primo di questi due ordini, e i nuovi appartengono al secondo. Perciò egli basta considerare la natura del primo di questi due ordini e paragonarla colla natura del secondo a dover poter conoscere qual fosse l' indole e la virtù de' Sacramenti antichi messi a paragone de' nuovi. Come l' ordine ideale non è che un primo elemento dell' ordine reale; così gli antichi non potevano essere che primi elementi de' nuovi Sacramenti; ed è perciò che con questo nome di elementi li chiama S. Paolo (1). Per la ragione contraria, come l' ordine reale è il compimento e la perfezione dell' ordine ideale, così i nuovi Sacramenti sono il compimento e la perfezione degli antichi. E però disse S. Paolo che « la legge non avea condotto nulla a perfezione« (2). » L' idea ancora è il tipo esemplare della cosa, e perciò gli antichi Sacramenti stavano a' nuovi come la rappresentazione sta al rappresentato. Ed è questo che S. Paolo dice chiamandoli ombra delle cose future, della qual ombra il corpo è Cristo (3). L' idea non ha alcuna azione reale sull' uomo, e la grazia consiste in una azione reale (4). Gli antichi Sacramenti adunque non potevano contenere la grazia, e però S. Giovanni dice: « la legge è stata data per Mosè, ma la grazia e la verità è stata fatta per Gesù Cristo« (5). » Nelle quali parole è da osservare la proprietà di quello« è stata fatta« e non data, come la legge, indicando così l' energia e l' efficienza della grazia, a differenza della legge che si comunica in parole senza cangiar nulla nell' uomo. L' idee e la cognizione rappresentativa delle cose può aver congiunta la promessa e la predizione di esse, e quest' ufficio prestavano appunto gli antichi Sacramenti. Per ciò distinguendo gli antichi Sacramenti da quelli del nuovo S. Agostino dice: [...OMISSIS...] . A cui consuona quanto il Sommo Pontefice Eugenio IV scriveva agli Armeni: [...OMISSIS...] . Un altro ufficio, ed il più nobile, a cui furono destinati i Sacramenti dell' antica legge era di eccitare la fede nelle promesse del venturo Messia, e la certa speranza del Redentore. Al quale ufficio è acconcissimo l' ordine ideale, che rappresenta la cosa futura all' intelletto, massime s' egli sia aiutato e sorretto da imagini le quali colorano e incarnano, per così dire, le idee traducendo sotto i sensi le cose ideate. E questo appunto facevano i Sacramenti antichi, i quali nel mentre che pubblicavano continuamente le promesse rivelate dal Redentore, le fermavano e le scolpivano nelle menti. Indi nasceva o certo si manteneva, e s' avvigoriva la fede nel Cristo futuro, la brama della sua venuta, e la grande aspettazione di lui; e questo era atto della volontà meritorio; perocchè per questa fede l' uomo si riconosceva misero e bisognoso di chi il giustificasse, e si fidava di Dio e di Cristo, che avrebbe egli operata quella giustificazione, che l' uomo non potea dare a sè stesso. E l' uomo che a Dio così s' abbandonava non poteva non essere da lui sostenuto e soccorso. Ora Cristo in tal modo nelle menti degli antichi esistente in idea operava, la quale operazione è una cotale emissione del suo spirito, di cui dice S. Pietro [...OMISSIS...] . E S. Giovanni osa ancor più, e dice che « l' agnello è stato ucciso fino dall' origine del mondo« (2) » per indicare che è stata rivelata la sua morte, conosciuta, creduta, e così resa operativa a salute degli uomini. S. Paolo poi si stende nella lettera agli Ebrei (3) a lungo a mostrare come tutti gli antichi Padri ebbero ogni loro salute e virtù dalla fede, e dice che di questa fede era « autore« » Gesù, quegli stesso che ne fu anche il « consumatore« (4) »: autore della fede antica, consumatore della nuova: non che Gesù, come figliuolo dell' uomo, esistesse realmente nell' antico tempo, ma egli esistea nelle menti e nella fede, e così operava, e dirigeva le loro operazioni (5). Finalmente i Sacramenti antichi non pure giovavano a mantenere o fomentare la fede di generazione in generazione; ma in quelli che li ricevevano erano« segni protestativi« della fede già ne' loro animi concepita. Perciò dice S. Tommaso che « i Sacramenti della vecchia legge erano certe protestazioni di quella fede, in quanto significavano la passione di Cristo e i suoi effetti« (1). » Tanto più che que' Sacramenti sotto la legge di Mosè vennero da Dio comandati, sicchè inchiudevano ad un tempo un atto di fede e un atto di ubbidienza: con che divenivano condizioni a dover piacere a Dio, al quale non può piacere il disubbidiente. La salute avanti Cristo non veniva che dalla fede in Cristo. Perciò egregiamente dice l' Angelico: [...OMISSIS...] . Or se la fede nell' antico tempo era il principio della giustificazione vedesi come questa giustificazione potea seguire talora senza i Sacramenti, come presso le nazioni, talora co' Sacramenti, come presso gli Ebrei, essendo questi Sacramenti da loro richiesti da Dio per segni della loro fede (3). Di qui si vede ragione perchè in Abramo la giustificazione precedette la circoncisione; fu perchè alla circoncisione precedette la fede. V' ebbe nel santo Patriarca prima la fede, poi la giustificazione, finalmente la circoncisione suggello di quella giustificazione che aveva ottenuta per la fede. Perciò il Genesi attribuisce alla fede la giustificazione di Abramo, dicendo « Abramo credette a Dio, e gli fu riputato a giustizia« (1). » Commentando il qual passo l' Apostolo soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma questa fede che giustificava dovea essere effettiva ed operativa; chè non sarebbe stata vera fede alla parola di Dio quella che fosse disubbidiente. Perciò, dopo istituiti i Sacramenti come atti protestativi della fede, si doveano questi praticare per ubbidire a Dio che gli avea comandati e non vi potea essere vero fedele che li trascurasse. I Sacramenti adunque mettevano il suggello alla fede, e la completavano, la rendevano meritoria col renderla ubbidiente e perciò effettiva (3). Indi è che S. Giacopo attribuisce la giustificazione di Abramo alla ubbidienza, cioè alla fede ubbidiente, dicendo: [...OMISSIS...] : le quali parole fanno la dichiarazione di quelle sovra recate di S. Paolo, anzi che loro contraddire. Per tal modo i Sacramenti antichi giustificavano l' uomo non in virtù loro propria, come quelli del nuovo patto, ma della fede di quelli che li ricevevano in quanto erano atti consumativi di questa fede (5). Da tutto ciò che abbiamo detto fin qui si può raccogliere quale è la legge, secondo la quale crescer dovea la perfezione umana soprannaturale, e in che stato si trovava questa perfezione innanzi alla venuta di Cristo, in che dopo questa venuta. Ritorniamo un po' sui nostri passi, giacchè un argomento sì rilevante richiede che sia illuminato con ogni più diligente dichiarazione. Abbiamo già toccato altre volte questo vero, che« la dottrina della perfettibilità umana« come la presentano i filosofi, è in contraddizione alla dottrina cattolica. I filosofi e propriamente parlando i sofisti vogliono che« l' uman genere considerato nelle sole sue forze naturali abbia una tendenza e un movimento reale verso una sempre crescente perfezione«. La dottrina del cristianesimo all' incontro intorno alla perfettibilità della specie umana consiste ne' capi seguenti: 1. L' uomo fu creato da Dio innocente. In questo primitivo stato all' umanità presiedeva la felicissima legge della perfettibilità e l' uomo avea tanto la tendenza quanto il reale movimento incessante verso una maggior perfezione. 2. L' uomo si corruppe mediante la colpa. In questo stato di scadimento l' uomo non perdette una cotale tendenza alla perfezione, poichè questa è a lui naturale, giacchè la sua natura è come un germe destinato a svilupparsi; ma perdette il reale movimento verso la perfezione, perchè a cagione del peccato sono entrate in lui delle altre tendenze verso il male più forti di quelle verso il bene, che però isterilirono e al tutto oppressero la tendenza alla perfezione. Di più. Inserito nell' uomo un germe di corruzione più forte del germe nativo di perfezionamento, quello dovette crescere e vegetare più rigoglioso e soffocar questo, e per ciò nel genere umano corrotto, ove si considera abbandonato alle sue sole forze, secondo lo spirito della cristiana dottrina« vi ha una sterile tendenza al bene e un reale continuo movimento verso il male«, ciò che è quanto dire, che non è la legge di perfettibilità che domini, ma la legge di degradamento . S. Tommaso, questo autorevolissimo compendiatore dell' ecclesiastica tradizione, insegna in più luoghi avervi una degradazione continua dell' umana specie abbandonata a sè stessa, a cui riparare dovette Iddio, venir crescendo successivamente i lumi della sua rivelazione. Ecco uno di questi luoghi assai chiari del santo Dottore: [...OMISSIS...] . 3 L' uomo che aggravato dal peso della propria corruzione precipitava nel male fu soccorso da Dio, colla rivelazione e colla grazia. Questo elemento divino è un nuovo principio, un nuovo germe che pur egli deve svilupparsi e crescere, ed è più vigoroso dello stesso germe del male. Esso per ciò dà origine ad una« nuova legge di perfettibilità« a cui è avventuratamente soggetta non l' umanità abbandonata a sè stessa, ma solo l' umanità aiutata da Dio. Da tali verità S. Paolo deduce per corollario, che la salute e la perfezione umana è superiore alle sole forze naturali dell' uomo. Conciossiachè l' uomo avendo un principio prevalente di degradazione conosce il bene e non ha le forze di seguirlo. Per riferire compendiate le sue parole egli dice che [...OMISSIS...] . Di che avveniva che eran perduti, per giudizio lor proprio, perocchè il conoscere il vero era la condannazione del male che operavano (2). Nè più valse a salute degli uomini la legge mosaica. Poichè anche questa non faceva che dar la notizia delle cose a farsi, non la virtù di farle. Ed ora « non sono giusti appresso Dio gli uditori della legge, ma sono giustificati solo quelli che la eseguiscono« (3). » In quanto alla cognizione della presente legge, dice S. Paolo, « i Gentili avevano il lume naturale, e però erano legge a sè stessi« (4) » e mostravano talora di conoscere il bene anche ponendo alcune opere buone, o disputandone (5). Ma come non valse loro il conoscere il bene, se non a condanna maggiore, così non valse a' Giudei l' aver la legge se non ad aumento di condannazione non praticandola (6). Nè nella natura adunque, nè nella legge esterna, la quale nel suo stato di legge esterna nulla conteneva di soprannaturale, poteva l' uomo trovare virtù e forza che riparasse alla corruzione originale: egli era infermo, egli era impotente sì a seguire la ragione che ad osservare la legge, ed era fatta la sentenza « tutti quelli che senza legge peccarono, senza legge periranno, e tutti quelli che peccarono nella legge, secondo la legge saranno giudicati« (1). » Iddio adunque diceva all' uomo, che « renderà a ciascuno secondo le sue opere« (2). » Ma l' uomo per questa via di giustizia non poteva salvarsi perchè le sue opere non potevano esser buone. Il principio morale (il volontario) era guasto nell' uomo, e quinci non era da sperare salute: tutti secondo un tal principio erano rei: rei li dichiararono le divine Scritture senza eccezione da Giudei a Gentili (3). Ci voleva adunque un altro principio, argomenta S. Paolo, da cui venisse la salute umana. E questo principio qual poteva essere se non era il morale? Risponde l' Apostolo: questo principio è « la virtù di Dio che dà salute ad ognuno che crede; al Giudeo prima ed al Greco« (4). » Non la giustizia può salvar l' uomo, ma la gratuita misericordia di Dio, che salva i suoi stessi nemici. E però dice, che la « giustizia di Dio (cioè la sua santa misericordia) si è manifestata senza la legge - che questa giustizia di Dio (e non dell' uomo) si è manifestata per la fede di Gesù Cristo (la qual sola può salvare) poichè tutti peccarono e però tutti abbisognan della gloria di Dio« » che risplende in una misericordia così preveniente. E conchiude che dunque siamo « giustificati gratis per la grazia di lui per la redenzione che è in Cristo Gesù - che però l' uomo non si può gloriare menomamente« (5). » Egli reca l' esempio di Abramo, la cui giustificazione provenne anch' essa da una gratuita misericordia in conseguenza della sua fede, non per una giustizia dovuta alle sue opere. [...OMISSIS...] . Da questa frase S. Paolo argomenta che per la fede fu giustificato Abramo non perchè ciò meritasse secondo una stretta giustizia, ma per un dono della grazia di Dio. Perchè la Scrittura dice: « gli fu riputato il suo credere a giustizia«. » Quel « gli fu riputato« » viene a dire che non gli era dovuta strettamente da Dio una tale giustificazione: [...OMISSIS...] . E questa è quella beatitudine che Davidde commenda in coloro a cui furono rimesse le colpe (2): erano colpevoli, ma sono tuttavia beati perchè Iddio ha loro perdonato, e gli ha resi salvi senza loro merito di propria virtù. Se la giustificazione di Abramo fosse stata dovuta per giustizia, la Scrittura l' ascriverebbe alle sue buone opere; ma nulla di ciò; l' ascrive tutta alla sua fede, senza le opere. Ella dunque fu e non poteva essere che gratuita (3). Ma per un' altra ragione, secondo l' Apostolo, era necessario il principio extra7morale, oltre per quella della impotenza dell' uomo ad operare il bene. Quando anco le forze morali dell' uomo fossero intere, egli non avrebbe potuto eseguire una perfetta giustizia, che al tutto il salvasse. Rimaneva certo intatto il principio della giustizia; perocchè Iddio è giusto [...OMISSIS...] . Ma che? qual è il codice, secondo il quale si dee giudicare e distinguere quelli che operano il bene? quelli che operano il male? forse la legge naturale? forse la sola legge mosaica? No, dice S. Paolo; ma l' Evangelio: [...OMISSIS...] . Alla somma giustizia e perfezione di Dio partiene di giudicare secondo una legge perfetta; ma la legge naturale non è che incipiente, la legge mosaica non è che legale. La legge perfetta è una legge interiore e soprannaturale a cui non giungono le forze della volontà naturale, se non sorrette dalla grazia. Egli è dunque questo principio extra7volontario in ogni caso necessario alla salute dell' uomo. Forse, dice S. Paolo, che Iddio non renda giustizia ai Gentili se fanno il bene? se mostrano l' opera della legge scritta nei loro cuori? (1). No; ma questo preteso bene che fanno dee subire la prova del giudizio divino, che sarà fatto secondo la legge perfetta. Forse che Iddio non rende giustizia agli Ebrei che operano le loro cerimonie? No; ma la circoncisione anzi giova, purchè « vi sia la condizione aggiunta che osservi la legge« (2). » E che questa legge sia non la lettera, ma veramente « le giustizie della legge« (3)« la consumazione o perfezione della legge« (4),« la legge spirituale«, » che è il carattere della legge evangelica. Perocchè non è vero Giudeo quegli che è tale al di fuori, nè vera circoncisione quella« che è al di fuori nella carne; [...OMISSIS...] . Tutte le opere dell' uomo non arrivano a tanto, se Iddio stesso non solleva l' uomo a quest' ordine di perfezione. Perciò quando anco « Abramo fosse giustificato in virtù delle opere sue, che potrebbe esser ciò? avrebbe gloria, ma non presso Dio« (6). » Avrebbe potuto soddisfare gli uomini, che giudicano con una norma imperfetta, quale è il lume della ragion naturale; ma non avrebbe mai soddisfatto Dio, il qual giudica con una norma perfetta, col lume del suo Verbo, nel Vangelo fatto a noi manifesto. Ogni operazione umana adunque qualunque ella possa essere, rimansi imperfetta, e incapace di giustificare pienamente l' uomo nel divino cospetto; e non havvi altro fonte perciò di salvamento se non l' operazione di Dio stesso; sì fattamente che il solo Dio sia in ultimo glorificato. Ora se questo è l' ordine dell' umano salvamento e perfezionamento; se questo non si può ottenere se non per quella via che umilii l' uomo, e Dio solo esalti; qual sarà quella strada legittima che a tanto lieto fine ci scorga? forse quella de' fatti nostri? non già, ma quella della fede nella sua misericordia: [...OMISSIS...] . A questa dunque dee l' uomo ripararsi come a solo asilo di suo salvamento. Ma forse che facendo dipendere la salute umana da un principio estraneo all' umana volontà (1), si viene con ciò ad escludere l' uso di quella potenza e però l' esercizio delle buone opere? Non già, dice l' Apostolo, perchè il principio extra7morale, che è la virtù di Dio ed aiuta l' uomo credente, opera anzi sulla volontà e la fortifica, la rende capace di adempire la legge, che prima non era. [...OMISSIS...] . Ella è questa efficacia operativa della fede che S. Paolo chiama ora « giustizia della fede (4) » ora «« obbedienza della fede« (5). » Ed egli pare che l' ordine della giustificazione e santificazione dell' uomo secondo S. Paolo fosse il seguente: Cominciò l' uomo negli antichi tempi dopo il peccato a prestare a Dio una fede che almeno in quanto alla sua materia era naturale, cioè aveva per oggetti cose di questo mondo, e non invisibili e soprannaturali. Ora questa fede è al tutto sproporzionata al prezzo della santità giacchè quella è di cosa naturale, questa è soprannaturale. Iddio non di meno concedette all' uomo la giustificazione in vista di quella sua fede; ma non gliela potea concedere per giustizia, sì bene per pura grazia senza verun merito precedente (1). E veramente la fede di Abramo a bel principio fu di cosa naturale, cioè egli credette alla paternità promessagli contro tutte le apparenze umane quando il suo corpo era spento per poco e mezzo morta la vulva di Sara« per estrema vecchiezza«: e tenne tuttavia per fermissimo che quello che Iddio prometteva egli poteva ancora mantenere. Non ebbe adunque per oggetto di sua fede la divina santità, ma la divina potenza: [...OMISSIS...] e questa in cosa della presente vita « quale è un' amplissima discendenza, e perciò, dice l' Apostolo, gli fu riputato a giustizia« (3) » non secondo il debito ma secondo la grazia. Così avvenne la giustificazione gratuita di Abramo e degli antichi Santi. Ma come una grazia ne trae seco un' altra, così dopo avere Iddio giustificato Abramo, strinse con lui un' alleanza, la quale era una ripruova della giustificazione ottenuta da Abramo. Conciossiachè Iddio non fa alleanza se non co' giusti, come dicono le Scritture. Inoltre gli dà la circoncisione per segnacolo non meno di questa alleanza (4), che della giustificazione donatagli (5). Per conseguente di ciò avvenne in quinto luogo che Iddio consegnasse alla famiglia del Patriarca le sue rivelazioni: dicendo S. Paolo [...OMISSIS...] . Ora questi eloquii divini costituivano una materia soprannaturale alla fede, e così questa fede diveniva soprannaturale per cagione della sua stessa materia; ed ella si disviluppava, e rendeva sempre più esplicita, più che veniva crescendo il lume della rivelazione, cioè più che si veniva rivelando e svolgendo la gran tela dell' economia della umana salute e deificazione. Conviene adunque nel progresso della perfezione religiosa dell' uomo distinguere due fedi, l' una che precede la giustificazione, l' altra che la sussegue; l' una che ha per sua materia oggetti di questa vita, l' altra che ha per sua materia« gli eloquii divini « cioè le rivelazioni intorno alla comunicazione spirituale della divinità coll' uomo. Colla giustificazione comincia propriamente la grazia, anzi la giustificazione stessa è la prima grazia abituale e stabile; e questa grazia vien crescendo di mano in mano col crescere delle rivelazioni, e fa crescer la fede alle medesime. Ma giova ancora un po' più addentro ricercare la natura di questa fede, donata agli uomini da Dio medesimo colla sua grazia, e vedere in quale stato ella trovar si dovesse ne' giusti dell' antico Testamento. Già abbiamo distinta la reale comunicazione che fa Iddio di sè stesso all' uomo, dagli effetti o doni ch' egli produce nell' uomo senza tuttavia comunicare sè medesimo (3). E veramente altra cosa è che un agente produca un effetto restando egli stesso nascosto, e altro è che l' agente stesso si mostri operante. Colui che, stando dietro ad una tela o ad un muro, in virtù di certe sue macchinette fa comparire su questa tela o su quella scena qualsivogliano diverse rappresentazioni di figure che variamente si muovono; questi produce e dà vedere al di fuori i suoi effetti, ma sè stesso ancora non appalesa. Vero è che da questi effetti si può conghietturare e in alcun modo conoscere il giocoliere nascosto, il qual pure non si percepisce. Così parimente è a dirsi delle operazioni divine negli animi degli uomini. In alcune di esse Iddio produce mirabili effetti, senza però comunicare realmente e pienamente sè medesimo, in alcune altre dà sè medesimo a percepire. Nelle prime operazioni si può però ascendere coll' argomento della mente ad una causa al tutto divina, apparendo l' effetto così eccellente o difficile a prodursi, che nessuna causa finita il potrebbe. Ora la reale e piena manifestazione e comunicazione che Dio fece di sè agli uomini fu solo nella incarnazione (1). Prima di Cristo adunque vi aveano bensì delle operazioni divine nelle anime degli uomini, degli effetti e doni di Dio, ma Dio stesso non era ancora sostanzialmente e pienamente comunicato all' umanità. Nulla di meno Iddio7incarnato veniva rivelato. E questa ideale comunicazione di Dio era quella, che veniva dalla grazia illustrata e vivificata. Ma questa era una comunicazione tenuissima e al tutto iniziale; senza il lume della grazia poi era impossibile cosa che fosse intesa perocchè Iddio non si può intendere per via di sole idee (2), ma per atto di percezione. Nulla di meno l' ideale concetto unito alla grazia, che è una virtù reale, diede agli uomini una idea7percezione; o sia una tenue iniziale percezione della divinità, sì che non abbiamo dubitato di chiamare anche quella grazia dell' Antico Testamento deiforme . Questa idea7percezione di Dio e di Dio7Uomo era la materia della fede soprannaturale dell' antico Testamento (3). Conviene considerare attentamente la diversa maniera onde Iddio operava nell' uomo in antico, e quella onde Iddio opera dopo la unione ipostatica di Dio coll' umana natura in Cristo. Nell' antico Testamento tutta l' operazione di Dio nell' uomo era mentale , ma nel nuovo non opera per la sola via della mente, ma sì bene anche per la via della natura sensibile, perchè essendosi il Verbo fatto carne, la sua sacratissima umanità è divenuta istrumento atto ad operare anche sulla corporea natura degli uomini e purificar questa e santificarla a quella guisa che abbiamo dichiarato poc' anzi, sottraendola massimamente dalla potestà de' demoni (4). Ora la natura umana è cotalmente ordinata che riceve per gli organi vitali e sensitivi la materia delle cognizioni. Non essendoci adunque prima della venuta di Cristo una operazione per la quale Iddio si facesse sentire all' anima dell' uomo per la via dell' animalità, conveniva che tutta quell' idea di Dio, che formava come abbiam detto la materia della fede nell' antico Testamento, fosse negativa, e che la percezione che vi aggiungeva la grazia, non in altro consistesse se non in una cotale energia divina data a quella idea sebbene di forma puramente negativa. Di che apparisce via meglio come si potesse chiamare deiforme quella percezione; cioè non punto per ciò che rappresentava (essendo al tutto negativa l' idea), ma per la forza o energia da cui era accompagnata, il che spiega medesimamente come ciò che si comunicava nella rappresentazione non tanto dir si potesse Iddio medesimo immediatamente, ma un suo effetto, un suo dono (1). Si distingua adunque nella materia della fede dell' antico Testamento la parte rappresentativa dall' energia annessa. Quella prima parte era veramente nulla, perchè le idee negative non hanno rappresentazione alcuna , e per questo appunto si chiamano negative. Esse però hanno un' indicazione della cosa non rappresentata, la quale indicazione serve a determinare la cosa, unica maniera di conoscerla. Iddio e Iddio7incarnato non era rappresentato propriamente nelle anime degli antichi, ma indicato ; e questa indicazione per la virtù della grazia annessavi bastava però a dominar l' uomo; cioè l' idea negativa del Creatore potea aver tanta forza da prevalere a tutte le altre idee e percezioni (2). All' incontro nel nuovo Testamento Iddio7incarnato si è comunicato realmente e pienamente all' umana natura, e si comunica continuamente; e quindi l' anima dell' uomo ne sente e percepisce la real forma e natura, e quindi ne ha un' interna positiva rappresentazione , o intuizione. Ora il non conoscersi una cosa per sè medesima e l' aversi di lei una semplice indicazione viene a dire che quella cosa la si conosce per mezzo di altre cose da noi percepite le quali significano, simboleggiano o indicano essa cosa per una qualsivoglia relazione a noi cognita che con essa si hanno. Il perchè se di Dio7incarnato nell' antico tempo non s' aveva che quella idea negativa di cui toccammo, egli è manifesto che questa idea non poteva reggere nella mente senza quelle altre cose che fossero appunto gl' indizii di Dio, e però non senza simboli, figure e segni di ogni maniera. All' incontro nel nuovo Testamento si ha una percezione dell' uomo7Dio, e però ella è un' idea che ha corpo, è un' idea positiva; la quale può reggersi da sè, senza bisogno di quegli indizii che facevano uopo nell' antico Testamento. Questi indizii , vestigi umani, o traccie indicative di Dio e delle cose divine non fanno bisogno nel nuovo Testamento, se non per quel tanto della divina notizia, che non s' acquista per grazia ma solo per gloria. Laonde nella condizione della gloria, quando Iddio si vede e contempla al tutto svelatamente, cessa ogni simbolo ed ogni figura. [...OMISSIS...] Tre stati adunque si distinguano relativamente al bisogno de' simboli instruttivi e d' indizii: 1 quello in cui si percepisce interamente la cosa reale, nel quale cessa ogni bisogno di segni, e parlando della divina cognizione è lo stato de' comprensori; 2 quello in cui si percepisce in parte la cosa reale e in parte non si percepisce, e in questo non v' è bisogno di segni per quella parte che si percepisce, ma per l' altra che ci rimane impercetta. Tale è lo stato del' uomo in grazia nel nuovo Testamento indicato da S. Paolo in quelle parole « in parte conosciamo, e in parte profetiamo« (2) » cioè conosciamo come i Profeti dell' antico Testamento per via di figure. E poichè quella parte che noi quaggiù ignoriamo risguarda la vita futura del cielo, perciò i simboli misteriosi non si trovano nel nuovo Testamento se non nel libro dell' Apocalisse, che tratta della intera rivelazione che farà di sè Gesù Cristo, o in quegli altri luoghi nei quali a questa compiuta rivelazione di Dio, e di Cristo glorioso si accenna; 3 finalmente quello in cui la cosa reale punto nè poco si percepisce, nel quale stato i segni o indizii sono indispensabili, e senz' essi non si potrebbe avere pensiero alcuno della cosa. E questo è lo stato degli uomini dell' antico tempo, che S. Pietro chiama « luogo caliginoso« » dove non il sole ma solo splendeva la lucerna de' Profeti (3). L' antico tempo adunque era quello de' simboli o indizii della divinità, il nuovo è tempo misto, parte di percezione e parte d' indizii ; il futuro è tempo solo di percezione . Questa è la ragione per la quale venendo Cristo cadde e fu tolto quell' ammasso di riti, cerimonie e legalità che trovasi nell' antica Chiesa [...OMISSIS...] L' uomo nell' antico Testamento necessariamente dovea dunque essere legato e per così dire oppresso da un gran numero di pratiche e di simboli esterni e materiali, perchè senza di queste non potea sostenersi, e lumeggiarsi nella sua mente il concetto di Dio. Quello era un giogo, come dicono le Scritture stesse, insopportabile (2) e tuttavia necessario. Bastò poi un solo lume accresciuto nella mente dell' uomo, perchè tutto quel fascio di osservanze si rendesse inutile (3), nè più necessaria quella servile condizione; bastò che Iddio si comunicasse realmente agli uomini, il che fece il Verbo incarnandosi: indi la libertà de' cristiani; e perchè il Verbo è la stessa verità sostanziale, perciò egli disse [...OMISSIS...] Ma nel nuovo Testamento i segni prendono un altro ufficio che aver non potevano nell' antico. In questo non facevano che istruire, che sorreggere la mente a Dio; ma nel nuovo Testamento essi diventano i veicoli dell' azione reale, che il Verbo esercita su di noi e colla quale si comunicano; perocchè, come detto è, partecipano dalla reale umanità di Cristo una reale virtù di comunicarci ineffabilmente Dio medesimo. Ora poichè la fede è delle cose che non si veggono, apparisce da ciò che è detto, che il regno della fede era propriamente l' antico Testamento. Questa è la ragione perchè quel personaggio che rappresenta il Padre de' credenti (1) si trovi non nel nuovo, ma nell' antico Testamento, quando la cognizione della persona del Verbo era tutta negativa, e perciò tutta fede. Nel nuovo all' incontro regge la fede bensì, ma mista con una cotal luce « in parte veggiamo, e in parte profetiamo« (2) » come gli antichi. E tuttavia, sebbene la cognizione del Dio incarnato che venne data nell' antico Testamento fosse puramente negativa, ella però aveva un progresso ed uno sviluppamento. Questo progresso consisteva nell' aumento successivo delle indicazioni , colle quali Iddio determinava nella mente degli uomini le verità riguardanti il Dio Redentore. La prima rivelazione fu fatta subito dopo il peccato. Il demonio fu conosciuto come un essere malefico sotto l' indicazione di un serpente; Gesù Cristo sotto l' indicazione del seme della donna . La rivelazione è concepita in queste parole: Iddio dice al serpente: [...OMISSIS...] . Egli è manifesto, che con delle indicazioni al tutto naturali qui si determina degli oggetti soprannaturali. Però una tal maniera di parlare non potea mettere nelle menti degli uomini altro concetto che solo negativo di questi oggetti, quando le menti stesse non fossero interiormente illustrate colla comunicazione reale delle cose divine così indicate; il che fu fatto solo nel nuovo Testamento. Tali indicazioni di Dio Redentore crebbero di mano in mano: in Melchisedecco fu conosciuto come sacerdote, in Mosè come legislatore, in Giosuè come conquistatore, in Davidde come re; ma tutti questi personaggi erano uomini, puri uomini, ed esprimevano delle dignità appartenenti alla società umana; le quali non potevano per ciò realmente far conoscere Cristo, ma solo indicarlo ; con delle attribuzioni non uguali, o simili alle sue, ma in qualche modo analoghe. Così si sviluppava, crescendo le figure, la cognizione di Cristo; ma ella rimanevasi sempre però essenzialmente negativa. Ora in tutta l' antica legge si dee distinguere adunque: 1. le indicazioni e 2. la cosa indicata. Le prime erano materiali, esterne, naturali: ma la seconda cioè la cosa indicata, la quale era il fine di tutta la legge, era cosa spirituale, interiore principalmente, soprannaturale. Indi nasce la distinzione che fa S. Paolo fra la lettera e lo spirito della legge: la lettera conteneva le indicazioni ; ma la cosa indicata dovea cogliersi collo spirito , con un lume interno che la lettera nè conteneva in sè medesima, nè somministrava. La cosa spirituale , oggetto ultimo della legge, non essendo rappresentata ma solamente indicata , rimanevasi nell' ombra e nell' oscurità. Il percepirla era dunque impossibile nell' antico Testamento. Questa è la ragione per la quale gli Ebrei medesimi non intesero la legge nella sua profonda e spirituale verità, ma solo nella sua scorza, e per la quale dicono le Scritture ed i Padri, che l' intelligenza vera delle Scritture non si ebbe se non quando il Verbo prese carne umana [...OMISSIS...] . Cristo mostrò d' esser egli la luce che illuminava le antiche Scritture quando dopo la sua risurrezione « aprì il senso agli Apostoli a poter intendere le Scritture« (2). » S. Pietro non dubita di affermare, che gli antichi Profeti non a sè stessi, ma a' Cristiani porsero le divine rivelazioni, come a quelli che soli potevano a pieno intendere, dopo essere venuto di cielo lo Spirito Santo (3). S. Paolo attribuisce all' ignoranza dello spirito della legge l' aver gli Ebrei rifiutato il Vangelo « i quali, dice, ignorano la giustizia di Dio » (cioè la giustizia spirituale e soprannaturale che si fonda nella fede) «e la lor propria giustizia cercano di stabilire - e però alla giustizia di Dio » (che è tutto spirito) « non sono soggetti. Perocchè il fine della legge è Cristo a giustificazione di ogni credente« (4) » e però ignorando Cristo ignorano il fine e lo spirito della legge « hanno zelo ma non secondo la scienza« (5). » E perchè gli Ebrei del riputarli così ignoranti e non intelligenti della legge non si tenessero per oltraggiati, prova la loro ignoranza collo stesso Mosè. [...OMISSIS...] , cioè anteporrò i Gentili a Israello, a quelli darò più intelligenza che a questo. Ma di ciò è forse in colpa la legge, no, dice l' Apostolo, non dipendette dalla legge la materialità colla quale fu intesa; ella nel suo intimo fondo era spirituale; ma mancava il lume che scorgesse a cogliere quello scopo così alto della legge, perchè l' uomo non era ancora rinato per Cristo e resosi spirituale, ma era rozzo e materiale. [...OMISSIS...] Per questo conchiude che gli Ebrei, « andando dietro ad una legge di giustizia, non entrarono nella legge della giustizia« (3) » cioè nel Vangelo, ma rimasero al di fuori a differenza de' Gentili, i quali « non seguivano la giustizia (della legge), eppure appresero la giustizia (del Vangelo)« (4). » S. Paolo osa ancor più. Non solo la legge antica mancava della luce dello Spirito Santo (della percezione di Dio) e però lasciava l' uomo nella oscurità, non presentandogli che un corpo di precetti nudi di osservanze esterne, e di esterne temporali promesse; ma per questo suo difetto essa si rendeva anche occasione di peccati e di errori. Ella non poteva munire di esterna sanzione i peccati interiori dello spirito, come sono i mali pensieri, che Iddio solo vede e punisce. Ora questo Dio non era percepito vivamente nella sua santità, e come giudice spirituale, ma solo negativamente come un legislatore e re temporale. Sebbene adunque proibisse la legge i mali desiderii, tuttavia non valeva quella legge [a far] conoscere agli uomini la malizia e reità di questi e molto meno a far che li evitassero (5). Tanto la notizia di Dio influisce nella moralità! Gli uomini che non percepiscono vivamente quest' essere in sè stesso come invisibile e santo; non possono in alcun modo intendere a pieno l' iniquità de' peccati che si commettono col solo spirito (1). La legge mosaica adunque era incapace di dare agli uomini una tale nozione, come pure era incapace di somministrar loro nulla di perfetto nella morale; e quando ella precettava o di sfuggire le male intenzioni, o di amare i nemici, od altro tale precetto, che non si regge nell' uomo se non in virtù della percezione di Dio; ella non faceva che mettere un inciampo, una occasione di maggiormente peccare. Questo è quello che vuol dire l' Apostolo quando insegna che « non ha conosciuto il peccato se non per la legge. Perocchè io ignorava la concupiscenza se la legge non mi diceva: non volere malamente desiderare« (2); » la legge mi ha illuminato a conoscere la reità dello spirito, ma non dava forza di evitarla, e però « presane l' occasione, il peccato (cioè il fomite del peccato originale) per cagione del comandamento (che mi ha maliziato) ha operato in me ogni mal desiderio - esso toltane l' occasione dal precetto mi ha sedotto ed ucciso per mezzo della legge« (3). » Questo è il significato nel quale dice l' Apostolo che « la lettera (della legge) uccide, e lo spirito solo vivifica« (4). » In questo senso non dubita l' Apostolo di chiamare l' antica legge « legge di morte« (5) » e di esortare i Cristiani a seguirne il solo spirito colle seguenti parole: [...OMISSIS...] . I Farisei si attenevano alla lettera della legge ed è noto per ciò come da Cristo sono chiamati « ciechi e condottieri di ciechi« (1); » è noto quanti errori avevano in morale (2) e quanto a ragione Cristo ebbe a dire al popolo a cui predicava: [...OMISSIS...] . E per mostrare che quella perfezione di virtù che Cristo predicava era conseguente al lume interiore, col quale potevano conoscere Iddio per la sua grazia, dopo aver Cristo enumerati i precetti più spirituali e più perfetti conchiude richiamandoli all' imitazione appunto di suo Padre « siate voi dunque perfetti, come anche il Padre vostro celeste è perfetto« (4). » Riassumendo, la legge antica, e intendiamo con questo nome il complesso delle antiche rivelazioni, risguardava la dottrina intorno a Dio e la morale. La dottrina intorno a Dio era un complesso d' indicazioni di Dio, e nulla più. Gli uomini non avevano a quel tempo il lume ch' ebbero poscia per Cristo, col quale percepivano Dio7incarnato positivamente. Questo Dio7incarnato, in una tenebra allora, fu rivelato solo nella pienezza de' tempi quando si eseguì veramente l' incarnazione. La dottrina morale rispondeva all' imperfezione in cui era la cognizione di Dio presso gli uomini. Non avendo ricevuto lo spirito di questi la percezione di Dio, esso spirito poco era veggente, dominava il senso esteriore e non poteva l' uomo in alcun modo elevarsi a quella morale che si vede in Dio, come in un esemplare da imitare, appunto perchè questo Dio non si vedeva. Restringevasi pertanto la legge nei confini delle esteriorità, e col gran numero di queste occupava gli uomini, a intendimento d' una parte di riscuotere degli ossequii morali almeno nelle cose più gravi e più sensibili, e d' altra di tenere ben segnato nello spirito il fine occulto, e a questo diretto lo spirito, come verso un essere nascosto dietro una parete. Non mancava insieme la legge di accennare anche le cose spirituali, ma queste non avevano efficacia, come le prime, sugli uomini così rozzi come erano quelli della natura. Queste perciò restavano inadempite; e le leggi materiali erano anch' esse tante, che non giungeva mai l' uomo a pienamente osservarle. Imperfetto adunque nell' osservanza delle materialità della legge; molto più imperfetto era lo stato dell' umanità nel mantenere lo spirito di essa legge appunto proposta oscuramente e ravvolta in enimmi; ma nel nuovo è data la stessa verità: però convenne che si aggiungessero le parole che chiarissero ogni oscuro; e che da esse venisse la forza della santificazione, per significare che ogni santità nel nuovo patto procede dalla rivelazione e fede nel Verbo manifesto. E se ancora si tiene in una colle parole l' enimma del rito, egli è perchè, come dice l' Angelico seguendo le vestigia dei Padri, [...OMISSIS...] . Mediante queste considerazioni s' intendono quelle parole di Cristo, il quale dice generalmente di tutti gli antichi maestri: « Tutti, quanti vennero, sono ladri e assassini, e le pecore non li hanno uditi« (1). » Perocchè essi non davano lo spirito, e per ciò non davano la facoltà di udirli; « l' udito è per la parola di Cristo« » come dice l' Apostolo (2). All' incontro Cristo aprì gli orecchi e gli occhi spirituali degli uomini, del qual fatto erano simboli i miracoli pe' quali risanava i sordi ed i ciechi. Egli mostrò Dio in sè stesso e così dice che egli solo è la porta che conduce a Dio. [...OMISSIS...] A questa dottrina risponde quella che S. Paolo espone nella lettera a' Romani. Egli attribuisce al Battesimo e alla grazia di Cristo la reale giustificazione, e prima di questo dichiara tanto i Gentili come gli Ebrei colpevoli. [...OMISSIS...] L' Apostolo dice che gli Ebrei prima di convertirsi al Vangelo erano non solo « infermi ma empi« (1), » che Cristo è morto per essi « mentre erano ancora peccatori« (2) » e quindi non giustificati nella legge; che « essendo inimici sono stati riconciliati con Dio per la morte del suo figliuolo« (3) » e che per questa morte Cristo riparò anche a quelle colpe, a cui la legge avea data occasione (4), che solo dopo la morte reale di Cristo in una parola furono tratti di sotto la schiavitù del peccato (5) e fu compita in noi « la giustificazione della legge« (6). » Ma se nell' antico Testamento, secondo queste dottrine e sotto la legge e fuori della legge tutti gli uomini erano peccatori, i quali furono riconciliati con Dio solo allora che Cristo realmente morì, come poi in altri luoghi delle divine Scritture si afferma di Abramo e di altri personaggi che possedettero la giustificazione? In primo luogo rispondo, che nelle divine Scritture si parla di due maniere di giustificazione, l' una propria dell' antico Testamento, e l' altra propria del nuovo, e che questa del nuovo è tanto eccellente e perfetta che quando quella dell' antico Testamento si mette a petto di questa, quella perde quasi il nome di giustificazione. Quando S. Giacopo dice « Abramo nostro padre non fu egli giustificato mercè le opere?« (7), » egli parla della giustificazione dell' antico Testamento. Quando all' incontro S. Paolo, ebreo e osservatore della legge, dice di sè e de' suoi correligionari che « Cristo risorse per la loro giustificazione (.) » e che per Cristo furono «« giustificati« (9), » allora parla della giustificazione del nuovo Testamento, parla come se non fossero stati prima giustificati; per ciò come se l' antica giustificazione verso la nuova fosse nulla (1). E la ragione di questa nullità della giustificazione antica quando si mette a paragone della novella si mostrerà evidente dalle verità già per noi esposte. Gli uomini tutti erano peccatori per natura; e non potevano essere giustificati se non a patto che Iddio si riconciliasse e si unisse realmente con essi. Ora qual mezzo vi potea essere di ciò prima di Cristo? La legge mosaica non era in sè stessa che un ammasso di precetti che avevano per oggetto cose esterne, materiali, o finalmente nulla più che naturali. Questo ammasso però di cose naturali aveva un fine soprannaturale, a cui cercava di rivolgere la mente e lo spirito degli uomini, ma non mostrandolo visibile nella propria sussistenza, ma indicandolo futuro , e promettendo solo che si sarebbe conosciuto a suo tempo questo fine sublime. Questo fine adunque nella sua essenza divina rimaneva del tutto nascosto agli antichi, e pure egli solo era la loro giustificazione (2). Considerata adunque quella legge in sè stessa, nulla aveva che potesse rendere l' uomo veramente giusto; e per la sua difficoltà ad eseguirla il rendeva anzi più peccatore. Questa è la giustizia che nasce dalla legge, della quale S. Paolo mette fuor di speranza gli Ebrei, sì perchè non la poteano mai conseguire, incapaci com' erano di osservar la legge; sì perchè, anche conseguita, essa non valeva veramente a giustificarli agli occhi di Dio; ma solo tutto al più a quelli degli uomini (3). Che restava dunque ad essi? ove porre la loro speranza? essi doveano volger gli occhi al fine della legge (che era Cristo), e da questo aspettare la giustificazione e la salute. Questa è quella giustificazione che S. Paolo dice nascere non dalle opere della legge, ma dalla fede (4). Or qual sentimento involgeva la fede in Cristo degli antichi Padri? Il sentimento di credersi e di confessarsi peccatori, senza potere colle proprie forze conseguire mai la giustificazione; e tuttavia nutrire in sè la certa fiducia di venir salvati, non per proprio merito, ma gratuitamente da Gesù Cristo venturo. Dovevano adunque, dice S. Paolo, credere in Cristo come in quello che giustifica il peccatore (5). Or questo atto profondo di umiltà, questo abbandono a Dio, questa fiducia nella bontà e potenza di Cristo, era tal cosa agli occhi di Dio, che non gli permetteva di abbandonare uomini, peccatori sì ma che a lui ricorrevano, in lui pienamente si confidavano. E questo non abbandonarli di Dio era la giustificazione degli antichi (1). Ora poi, giacchè una tale giustificazione è piuttosto un' aspettazione ferma di quel Cristo che giustifica comunicando sè stesso agli uomini; egli è manifesto che ella era piuttosto una giustificazione promessa e sperata che una giustificazione attuale e presente; e quindi che ove si paragona alla giustificazione de' Cristiani , i quali hanno aderente a sè « la vita « cioè Cristo, chiamato vita nelle Scritture (2), ella non è giustificazione come la cosa promessa, non è ancora essa medesima cosa; e però rettamente le divine Scritture dicono che Cristo colla sua morte salvò e giustificò realmente anche tutti gli antichi Patriarchi (3). Conosciuta la natura della giustificazione propria dell' antico Testamento, non riesce più difficile intendere la ragione degli effetti, che alla medesima attribuisce la divina Scrittura. Parte di questi effetti risguardavano la vita presente, parte la futura. I tre principali sono poi i seguenti: Il primo si era che a que' giusti aderiva ancora lo spirito di timore e di servitù; mentre a' giusti del nuovo Testamento aderisce lo spirito di figliuolanza e di amore. Sicchè l' Apostolo a' convertiti al Vangelo dicea: [...OMISSIS...] . E la ragione di ciò si è perchè Cristo (principalmente dopo essere asceso al cielo) mandò il suo Spirito e congiunse per esso realmente gli uomini a Dio, dicendo l' Apostolo che « figliuoli di Dio sono tutti quelli che sono mossi dallo spirito di Dio« (2). » Tutto ciò s' intenderà facilmente, ove si tenga ben presente il gran principio da cui muovono tutte le nostre parole. Nell' antico Testamento Dio non era realmente comunicato agli uomini, non era percepito; ma solo indicato con delle indicazioni e segni naturali. Queste indicazioni non il luminavano l' uomo, non lo afforzavano, nol rendevano partecipe della natura divina, e però nol facevano figliuolo di Dio, nel senso del nuovo Testamento . Egli adunque non poteva essere incoraggiato dentro e rinforzato; ma veggendosi peccatore nelle tenebre, escluso dal sancta sanctorum , non potea che temere, e questo era il sentimento che dovea dominare negli antichi santi. Nel nuovo Testamento surse il sole della giustizia, illuminò, incoraggiò le menti: l' uomo si sentì pieno di Dio, e partecipe della divinità allettò in sè un amore e una confidenza di figliuolo. E` Gesù Cristo stesso che distingue la condizione servile degli Ebrei, e la condizione di amici in che erano i discepoli suoi, appunto dalla percezione data a questi di Dio ed a quelli non data. [...OMISSIS...] Ecco la condizione de' servi caratterizzata dall' ignoranza e dalle tenebre in cui i servi sono lasciati dal padrone, come avveniva appunto nell' antico Testamento. E dicendo che « il servo non sa quello che faccia il suo padrone« » accenna una cognizione dell' operare del padrone, che trasportata a Dio viene a significare la sua santità, giacchè lo spirito di Cristo fa conoscere Dio appunto come Santo, che è il suo nome solenne. Prosiegue: « voi poi ho chiamati amici; perocchè tutte quelle cose che ho udite dal Padre mio le feci note a voi« (4). » Si sa che l' udire che fa Cristo dal Padre è il proceder suo dal Padre. Il dire adunque di aver comunicato loro quanto udì dal Padre è un dire che comunicò loro la propria processione dal Padre; e questa non può venire comunicata se non per la percezione interiore. Altramente, sarebbe egli possibile che Cristo avesse comunicate a' suoi Apostoli le cose tutte per singolo udite dal Padre? e chi non sa che queste sono infinite? Ma come il Padre gliele comunicò tutte senza successione, con quell' atto solo col quale lo generò; così Cristo le comunicò pure a' suoi discepoli con quell' atto appunto col quale li generò col suo spirito; perchè nella percezione, che diede loro di sè, tutte le cose veramente si comprendono, giacchè nel Verbo divino sono le cose tutte. Il secondo effetto, o carattere dell' antica giustificazione, si fu che il regno del peccato non era però ancora interamente distrutto, e i giusti stessi soggiacevano ad una cotal servitù di esso peccato. Perciò S. Paolo agli Ebrei convertiti dice: « Il peccato non vi dominerà, perocchè non siete sotto la legge ma sotto la grazia« (1) » facendo intendere così che sotto la legge dominava il peccato. E ancora facendo il paragone dell' antico Testamento e del nuovo, ed attribuendo all' antico la legge, e al nuovo la grazia, dice: [...OMISSIS...] E tosto dopo toglie a mostrare che l' uomo del peccato visse fino alla morte di Cristo, che da Cristo fu crocifisso sulla croce, e viene crocifisso in noi nel Battesimo che ci applica il merito della passione di Cristo: [...OMISSIS...] Questa dominazione poi del peccato non importa mica che quei santi personaggi non fossero veramenti giustificati nel modo detto più sopra, cioè che non avessero una dirittura di volontà e di fede: ma importa ben altro. Quegli antichi nel loro spirito non avevano ancora la percezione di Dio, non avevano la Divinità in se stessi; questa Divinità era l' oggetto della loro fede, come cosa che doveva comunicarsi loro in futuro. Ora dalla percezione della Divinità scaturisce la nuova vita, l' uomo nuovo: da quella percezione esce la grazia onnipotente contro tutti gli assalti dell' inimico. Tutta la grazia degli antichi si riduceva ad una fermezza di volontà contro il peccato, in virtù di quella fede che non dava loro la vita ma la prometteva: questo bastava per non cadere più giù, ma non per ascendere fino a Dio; come quegli che rovinato nel profondo di una valle ombrosa e fermato sulla pendice non ha forza da ritornare alla cima del colle ove vede il sole; ma pur solo di abbrancarsi a' cespugli tenendosi sospeso fin tanto che gli viene recato conforto e tirato da quel profondo. Non essendo adunque nell' uomo Iddio dominatore colla sua propria ed essenzial luce, il peccato si poteva dire ancora regnante; perocchè non era scacciato dall' uomo realmente, ma solo in isperanza. Che poi sia il solo Verbo quegli che libera l' uomo dal dominio del peccato col comunicarsi internamente, si ha espresso in quelle parole: « Se voi vi terrete nel mio discorso, sarete miei discepoli. E conoscerete la verità (cioè il Verbo), e la verità vi libererà« (1) » dal peccato, come spiega tosto appresso (2). Laonde la giustificazione dell' antico tempo non liberava interamente dal peccato, ma avea bisogno di essere completata e perfezionata colla reale incarnazione e morte di Cristo (3). Per ciò l' Apostolo afferma che « la giustificazione della legge si completava in noi , i quali non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito« (4) » per Gesù Cristo; di che fare la legge era incapace (5); sicchè quella antica era una giustificazione quasi direbbesi in potenza ed in germe, la quale dalla reale venuta di Cristo doveva essere attuata e addotta a perfezione. E questo ci prepara la strada a dichiarare il terzo carattere ed effetto di quell' antica giustificazione. Ella nasceva tutta dalla fede. Si formava con questo sentimento che l' uomo formava dentro di sè: [...OMISSIS...] . Iddio non poteva abbandonare un tal uomo, il quale prometteva di « soddisfare non da sè, ma mediante il Redentore promesso«. » Che dunque faceva Iddio? quello che fa un creditore, a cui venga dimandato dilazione al pagamento dal suo debitore. Iddio diceva: [...OMISSIS...] . Non poteva essere più equa e benigna la sentenza: perciò gli antichi giusti non erano condannati, morendo, alla dannazione; ma sospesi nel limbo, fino a tanto che venisse colui che pagasse per essi, e comunicasse loro quel lume, quella vista di sè, che li congiungeva realmente con Dio, e gli ammetteva ad un tempo stesso alla grazia del Redentore e alla gloria. Tale era l' effetto dell' antica giustizia nascente dalla fede in Cristo venturo. Perciò S. Paolo dopo aver mostrato che la giustificazione non viene dalla legge ma dalla fede, dice che « la legge è stata posta per trasgredirla fino a tanto che venisse quel SEME a cui era stato promesso« (6). » Questa fede poi che pienamente giustifica è la fede cristiana secondo S. Paolo [...OMISSIS...] - E la Scrittura ci mostra esser serrate tutte le cose sotto « il peccato, acciocchè ciò che fu promesso si desse a quelli che credono in virtù della fede di Gesù Cristo« (1). » E ancora più manifestamente apparisce, come l' Apostolo per quella fede che salva intende quella in Cristo venuto, non essendo l' antica fede che una fiducia nella fede che doveva venire e salvare, dalle parole che sieguono: [...OMISSIS...] . La fede che dovea rivelarsi era quella di Gesù Cristo venuto. [...OMISSIS...] Perciò acconciamente dice S. Paolo, che quelle parole scritte di Abramo « che la sua fede gli fu riputata a giustizia« » non sono solamente scritte per lui, ma per noi altresì, come in quei suoi figliuoli ne' quali s' è pienamente avverata quella parola (4). Laonde come ne' Sacramenti della nuova legge (cose, azioni, parole) si possono chiamare la parte materiale del Sacramento, e l' invisibile grazia si può chiamare la parte formale (5); così nell' antica legge v' avevano pure queste due parti: ma in luogo della grazia costituiva la forma di que' Sacramenti la fede di quelli che li ricevevano e li amministravano. Dalla fede poi annessa al Sacramento nasceva la giustificazione, la quale era proporzionata alla natura di quella fede, che abbiamo descritta (6). Si può dunque dire che nel popolo peculiare sceltosi da Dio, la fede avea bisogno de' Sacramenti perchè da Dio positivamente voluti (7), e che i Sacramenti avvivati dalla fede erano concausa della giustificazione. Questa giustificazione poi abbracciava due elementi, cioè la sospensione del pagamento del debito del peccato, e l' addirizzamento della volontà. Il Sacramento avvivato dalla fede otteneva innanzi a Dio la sospensione del pagamento; ma la fede era quella che dirizzava la volontà, spingendo questa al di là di tutte le cose naturali, fino all' esser divino, sebbene in un modo implicito, sicchè era sola la punta dell' anima che a Dio volgevasi per quella fede (1). Duplice era dunque la causa operante, duplice l' effetto. La causa operante era la fede col Sacramento; l' effetto era l' addirizzamento della volontà colla sospensione dell' esigenza del debito (2). Ma poichè questo dirizzamento di volontà non avea un oggetto esplicito e positivo, ma era come l' occhio guardante bensì in dirittura del segno, ma non veggente chiaramente ancora il segno, troppo lontano, per ciò dovea la volontà umana acquistare più alti gradi di perfezione, innanzi di poter passare alla visione beatifica; e i fedeli che allora morivano non vedevano per ciò immediatamente Iddio. E questo dà ragione perchè l' effetto de' Sacramenti dell' antica legge non si possa chiamare un cotal cominciamento della futura gloria, come S. Tommaso co' Padri chiama la legge nuova (3): conciossiachè quell' effetto degli antichi Sacramenti non congiunge l' uomo immediatamente con Dio, ma lo dispone all' immediata e positiva congiunzione. Perchè Eucherio di Leone dica che i Sacramenti della nuova legge dànno la vita , che sta nella percezione di Dio, e gli antichi mostravano solo la vita (4); perchè Innocenzo III scriva la circoncisione non dare l' ingresso al regno di Dio (5); verissimo detto ove pel regno di Dio s' intenda il regno de' Santi che già percepiscono Dio; e Giovanni lo Scoto riprovi l' espressione, che la circoncisione aprisse la porta del cielo (6). L' uomo è creatura di Dio: dunque è fatto all' onore di Dio (1). Iddio è creatore dell' uomo, e non poteva avere altro fine che sè stesso nella creazione: « tutte cose, dice la Scrittura, il Signore le ha operate per sè« (2). » L' uomo dunque è ordinato al divino servizio. La legge evangelica, che è la morale nella sua più alta perfezione, riduce tutti i doveri alla carità di Dio, nel qual nome di carità ella comprende ogni servigio e ogni amore. E lo stesso amore del prossimo il fa venire come un ramo dal pedale del divino amore: imponendo all' uomo che di tutte sue potenze ami il Signore, ella non lascia in libertà dell' uomo cosa alcuna dell' uomo, ma ogni suo elemento, per così dire, il consacra al divino culto. Di più, il divino culto nella perfezione della morale evangelica va preferito alla stessa vita; e quando la distruzione di questa possa accrescere a Dio onore e culto, anch' essa dee essere sacrificata. Indi l' origine de' sacrificii: indi il sacrificio accettevole, onde Cristo immolò sè stesso all' eterno Padre. Ogni cristiano è chiamato dietro a Cristo: e però ogni cristiano, colla disposizione almeno di sua volontà, dee aver sacrificato sè stesso: [...OMISSIS...] . Ora se chi sacrifica è sacerdote; la perfezione della morale evangelica importa che ogni cristiano sia sacerdote come fu Cristo, e tal sacerdote che abbia la vittima in sè medesimo (5). Nello stato d' innocenza l' uomo aveva questo spirito sacerdotale. La chiarezza di sua ragione gli mostrava che tutto doveva a Dio, e che in servire e glorificare il suo Creatore si conteneva tutta la sua morale perfezione. La rettitudine di sua volontà, la grazia che la confortava aggiungendole forze divine, avrebbe disposto l' uomo a sacrificare effettivamente sè stesso per la causa dell' onore e del culto di Dio, ove ne fosse stato bisogno. E sebbene questo bisogno non si sarebbe forse avverato, tuttavia non sarebbe mancato quella perfetta disposizione di animo per la quale il santo uomo ama più Dio di sè stesso. In tale stato non era uopo che fra Dio e l' uomo seguisse un cotal contratto positivo ed esterno, pel quale questi promettesse a Dio di servirlo fedele, e Dio gli promettesse proteggerlo. La cosa andava da sè: i rapporti della creatura e del Creatore eran chiari, manifestissimi: nè poteva dar materia ad alcuna convenzione, conciossiachè questa è inutile, ove la natura delle cose parla chiaro e di forza. Ma la mente oscurata dell' uomo peccatore, e il cuore corrotto non sapea legger più distintamente il dettato della ragione, nè udire quanto la natura e la grazia favellavano: disconobbe l' uomo il suo dovere, smarrì di vista il bene morale, cercando sua perfezione e sua grandezza nel fisico e nell' intellettuale; allora ignorò quanto doveva a Dio: e per riannodare la sua corrispondenza col Creatore, fu bisogno che intervenisse un contratto positivo mediante il quale gli si ricordasse ciò che avea tanto obbrobriosamente dimenticato, cioè che egli esisteva pel culto e per l' onore di Dio. In tal modo venìa riseminata nell' uomo la morale e la stessa perfezione della morale, che nasce da Dio comunicante coll' uomo. Per un' altra ragione poi rendevasi necessario un contratto positivo fra Dio e l' uomo dopo il peccato. La coscienza dell' uomo mostravagli dover essere Iddio irato a lui peccatore, e Dio stesso gliel fece conoscere da principio con positive rivelazioni. L' adito adunque a Dio per l' uomo era chiuso. Come poteva questi riavvicinarsi al Creatore, se Dio stesso non gli faceva conoscere di voler deporre lo sdegno, entrando così in qualche trattativa coll' uomo? E rinnovandosi l' alleanza fra il Creatore irato e la creatura colpevole, questa non potea essere che positiva, dipendendo da un atto non necessario ma gratuito della divina Misericorda di tornar l' uomo nel divino favore. Però la prima alleanza espressa che nelle divine Scritture si rammenta è quella fatta in occasione del diluvio colla quale Iddio, vendicatosi dell' umanità pervertita, rassicura la famiglia di Noè e con essa stringe alleanza: [...OMISSIS...] . Ecco il patto positivo di Dio coll' uomo, occasionato dall' infrazione del patto naturale. Ora un contratto positivo in cui entri l' uomo, conviene che abbia delle forme esterne che lo manifestino. Vi dee essere altresì un segno durevole di questo patto, acciocchè gli uomini se ne possano ricordare col venir loro, o tener sott' occhio, quel segno. E però del patto che Iddio strinse con Noè, pose Iddio questo segno: [...OMISSIS...] . Cotal segno dovea ricordare continuamente all' uomo i suoi doveri verso Dio e la stretta alleanza. E perchè efficacemente parlasse e giovasse al disegno della Provvidenza di venir crescendo fra gli uomini la apprensione della verità e la perfezione morale, dovea quel segno essere acconcio allo stato intellettuale dell' uman genere, e però col variare di questo stato doveva variare altresì quel segno e le forme onde il patto fra Dio e l' uomo si rivestiva. Diamo un cenno dello sviluppamento della umanità, al quale Iddio temperava quella sua amorevole provvidenza, onde conduceva l' uomo alla santità. Lo sviluppamento dell' uomo può considerarsi secondo le mutazioni che subiscono le facoltà dell' uomo in ciascun individuo, e secondo i rapporti sociali. Lo stato di ciascun individuo si sviluppa di mano in mano in tutte le parti seguenti: 1. Le facoltà dell' uomo a principio operano tutte simultaneamente, purchè abbiano materia ed oggetto in cui occuparsi, e ciò per istinto. L' uomo acquista più tardi, e un po' alla volta il potere sulle proprie facoltà, pel quale comanda ad alcune di operare, e ad altre di tenersi quiete, e giunge a metterne in movimento una sola alla volta. Fino a tanto che non acquista questa libera direzione delle sue facoltà, l' operare dell' uomo è complessivo, è tutto l' uomo intero che agisce; e questo carattere si ravvisa nelle opere de' primi uomini. Tale osservazione spiega come gli antichi Patriarchi nominati nella Scrittura, mescolavano colle idee religiose quelle della terra. Se le loro facoltà intellettuali avessero potuto operar sole, essi si avrebbero formato delle idee pure della divinità, cioè scevre dagl' integumenti per così dire de' sensi. 2. La materia o gli oggetti sensibili delle facoltà umane vanno sempre crescendo, il che dee variare necessariamente lo stato intellettivo dell' uomo. Convien riflettere che la materia, ossia gli oggetti sensibili, si presenta da prima complessivamente, di poi partitamente, con infinite variazioni. Il presentarsi gli oggetti sensibili partitamente fa sì che operino nell' uomo le parziali facoltà, standosi quiete le altre; e questo è il primo aiuto che presta la natura all' uomo, a poter acquistar egli il dominio sulle sue facoltà, accennato al numero primo. Perocchè egli s' accorge con tale sperienza involontaria di poter operare in due modi, cioè complessivamente con tutte le facoltà, o partitamente con poche alla volta, o con una sola: e accorto di questo, egli studia poi il modo di poter muoverle ad arbitrio o tutte, o parte, o l' una alla volta. Fra gli oggetti sensibili che si presentano alle facoltà dell' individuo, entrano altresì i suoi simili co' quali egli conversa, e onde gli nascono i rapporti sociali. 3. Si aumentano, variano, si spezzano, si adunano anche gli oggetti puramente intellettivi. Indi nasce il progresso delle varie riflessioni, le quali dividono la scienza umana in altrettanti ordini secondochè le riflessioni sono più o meno elevate (1). In ciascun ordine poi la riflessione è più o meno generale, ond' ha le tre seguenti funzioni: 1. mera contemplazione, 2. analisi, 3. sintesi. 4. Finalmente ad ogni stato intellettivo risponde uno stato dell' animo, divenendo ogni oggetto dell' intelletto segno alle affezioni del cuore. 5. Come poi l' uomo acquistò il libero dominio delle sue potenze, l' arbitrio suo è un principio novello che influisce nell' umano sviluppamento, e che se non ne muta le leggi certo ne accresce o diminuisce la celerità. Rispetto poi ai rapporti sociali questi sono successivamente causa ed effetto dello sviluppo individuale, e lo sviluppo che ne nasce dell' umanità procede in quest' ordine: che vi sia 1. la società domestica, 2. la relazione de' servi e de' padroni, 3. la società civile, 4. [la] società fra più nazioni che finisce nella società universale. La divina Provvidenza che ha per termine fisso il condur l' uomo alla perfezione morale, diresse nella sua sapienza le operazioni di lei a seconda degli sviluppamenti naturali dell' umanità; i quali però venivano influiti e aiutati da quelle stesse divine operazioni. Di che è ragione questa, che l' ordine soprannaturale s' innesta su quello della natura, di cui è compimento. E poichè l' ordine della natura era guasto, però insieme colle facoltà umane doveva svilupparsi altresì il seme di peccato giacente nella natura, e coll' aumentare le operazioni umane crescere altresì l' umana perversità. Due adunque sono gli sviluppi simultanei dell' uman genere: 1. quello delle facoltà naturali, e 2. quello del germe vizioso che nell' uomo caduto si chiude. E secondo questi due sviluppamenti la misericordia di Dio ordinava altresì lo sviluppo dell' ordine soprannaturale, acciocchè le facoltà sviluppate potessero di mano in mano tendere a Dio, e crescesse altresì la virtù del rimedio contro il peccato. Per ciò di pari passo con ambo gl' indicati sviluppamenti delle facoltà naturali e della perversione dell' umanità procede: 1. L' incremento della rivelazione, 2. La fede de' Santi si rende sempre più esplicita, 3. Ad una fede più esplicita corrisponde nuova specie di grazia, 4. La rettitudine della volontà corrispondente alla grazia, viene negli uomini Santi sempre più dimostrandosi mediante una intenzione più pura e spoglia di vedute terrene. Or la rivelazione facevasi in parte mediante i segni istruttivi, e però abbiam veduto di questi un continuo progresso, e particolarmente abbiam distinto i segni familiari dai segni istruttivi nazionali. Ora in aiuto della volontà umana e in eccitamento dell' attenzione che dovea p“r l' uomo a' suoi doveri verso Dio, furono altresì stabiliti i segni durevoli che ricordassero i patti positivi fra Dio e lui intervenuti. E però anche questi segni variarono appunto a tenore dello stato dell' umanità (6), del grado di suo sviluppo (7) e del bisogno che avea l' uomo di rimedii contro l' inondazione della crescente corruttela (.). Alcuni di questi segni durevoli volti a rammemorare il patto positivo strettosi fra Dio e l' uomo, furono delle cerimonie religiose. Tali sono i Sacramenti. Per ciò S. Tommaso togliendo a classificare tutte quelle cose che si riferiscono al culto di Dio le divide in quattro parti, mettendo in primo luogo i sacrificii ne' quali il culto di Dio consiste; in secondo luogo gli strumenti del culto o cose sacre ( sacra ), siccom' era il tabernacolo, i vasi e gli altri utensili che si adoperavano nel tempio; in terzo luogo la dedicazione delle persone al culto divino, e qui mette i Sacramenti; e in quarto luogo le osservanze che regolano la conversazione di quelli che sono al culto di Dio dedicati distinguendoli da quei che non sono (1). Nel qual luogo e in altri l' angelico Dottore fa consistere la nozione de' Sacramenti in atto che dedicano la persona al culto di Dio (2): il che è quanto dire, in altrettanti segni esteriori, pe' quali consta del patto onde l' uomo a Dio si consacra, e Dio promette all' uomo protezione. E poichè le ragioni di un patto positivo fra Dio e l' uomo sono due, l' ignoranza dell' uomo, per la quale non conosce che languidamente la sua relazione col Creatore, e lo stato di peccato pel quale ha bisogno che Iddio positivamente gli si avvicini (3); però S. Tommaso dà due fini ai Sacramenti, l' uno di perfezionar l' uomo in quelle cose che riguardano il culto divino, l' altro di rimediare al peccato (4). Adunque perchè l' uomo fosse aiutato contro il peccato crescente, e sempre più a Dio si consacrasse, i Sacramenti avanti Cristo ebbero un progresso. Conciossiachè da principio l' uomo peccatore faceva de' sacrifizii al Signore, e il Signore in varie maniere gli mostrava il suo gradimento. Questi sacrifizii però non erano Sacramenti, perchè non segnavano alcun patto fra Dio e l' uomo; ma erano solamente un atto religioso dell' uomo, col quale cercava di ottenere il divino favore, nè disponevano l' uomo al culto, ma erano atti di culto. Non pare improbabile tuttavia, che fino ab antico quelli che facevano sacrifizii, o quelli per cui si facevano, partecipassero delle cose offerte al Signore; rito che significa assai bene l' unione dell' uomo con Dio, mostrando di aver quegli una mensa ed un cibo comune con questo. E però tal rito poteva essere un Sacramento del tempo così detto della legge di natura (1). Così parimente egli è verosimile che assai per tempo s' introducesse qualche rito onde si consecrassero i sacerdoti, i quali erano in primo luogo i padri di famiglia, fino a tanto che non v' ebbero se non società familiari divise l' una dall' altra; ma quando più famiglie si unirono in un corpo e cominciò la tribù e la nazione, allora fra i padri di famiglia si designarono alcuni de' più cospicui i quali offerissero de' pubblici sacrifizii: nello stato monarchico è poi certo che i re congiungevano questa dignità: tale era Melchisedecco re e sacerdote di Salem (2). Anche questo rito della consacrazione sacerdotale può forse annoverarsi fra i Sacramenti della legge di natura. Finalmente antichissime sono le esterne purificazioni ed espiazioni, le quali potrebbero anch' esse essere appartenenti a quegli antichi Sacramenti (3). Ma non si trova nella sacra Scrittura l' instituzione positiva divina di queste sacre cerimonie, la quale è necessaria a costituire propriamente de' Sacramenti (4). Nè basterebbe per potersi chiamar Sacramenti che fossero stati istituiti dall' uomo mosso da quel sentimento religioso che è proprio della natura umana (1): bensì la loro origine divina si riputerebbe a ragione ove l' istinto dello Spirito Santo gli avesse agli antichi santi suggeriti. E questo tiene essere avvenuto l' Angelico Dottore: [...OMISSIS...] . Nella quale sentenza, che questi antichi riti fosser venuti da Dio, mi conferma il vedere come Dio stesso riconosce i sacerdoti precedenti all' instituzione del sacerdozio levitico (3), e le purificazioni precedenti a quelle per Mosè instituite (4). Ma si sviluppa ognor più il germe del peccato disseminato nell' umanità; e crescendo l' intelligenza ne' figliuoli di Noè, l' affetto alle cose terrene, e i vincoli che li stringeva fra loro e con esse, Iddio nella sua provvidenza separò Abramo dal rimanente del mondo, e in lui cominciò un nuovo contratto; una peculiare educazione dispose dare a quella famiglia, e alla nazione in che si sarebbe sviluppata, acciocchè abbandonati gli uomini a sè e non soccorsi di special provvidenza non ispegnessero il regno di Dio sopra la terra. Allora col nuovo patto cominciarono de' nuovi Sacramenti che fossero segni di lui; e il primo di questi segni, co' quali attestavano gli uomini di essere dedicati al divino culto fu la circoncisione (1). La Scrittura ci rappresenta espressamente la circoncisione come segno del patto strettosi fra Dio ed Abramo. Ecco come narra la sua istituzione: [...OMISSIS...] . Questo Sacramento appartiene nella sua origine alla società familiare; e la parte circoncisa contrassegnava l' unità della stirpe eletta da tutte le altre. Tuttavia egli era destinato a diventare un Sacramento nazionale, e tale divenne quando gli Ebrei uscirono d' Egitto o certo quando entrarono al possesso della terra promessa, tempo in cui si costituirono in nazione (1): di che all' entrare in quella terra la circoncisione, intralasciata durante il viaggio del deserto, fu ripresa (2). Il tempo che passarono nell' Egitto fu per gli Ebrei stato di tribù, che è lo stato di mezzo fra il familiare e il nazionale. Che poi la circoncisione fosse destinata a dover essere Sacramento nazionale, vedesi dalle parole del contratto seguito fra Dio ed Abramo, nelle quali il patto è fermato non solo con quel Patriarca, ma ben anco col suo seme dopo di lui nelle generazioni future in sempiterna alleanza (3); e si vuole che tutti i bambini maschi sieno circoncisi da una generazione all' altra, e anco il servo o nato in casa, o comperato (4). Questo sapersi che la circoncisione è Sacramento famigliare e nazionale, e non puramente individuale, vale a farci conoscere perchè la circoncisione non si desse alle femmine. Bastava che l' avessero gli uomini, perchè questi erano sufficienti a rappresentare la famiglia e la nazione; e le femmine partecipavano dell' alleanza perchè parti di quel corpo o di quella società che insolidariamente era legata con Dio, e perchè si consideravano formanti una sola cosa coll' uomo, per cagione dell' unione maritale, nodo della società domestica, dove la donna e l' uomo sono una carne (5). Per la stessa ragione il bambino che moriva prima dell' ottavo giorno, in cui solo era prescritto la circoncisione non è a riputarsi diviso dal popolo santo, ma sì partecipante dell' alleanza stretta da Dio col corpo di sua nazione. E però dal Sacramento de' Padri riceveva anch' egli la sospensione del pagamento che a' Padri suoi era concessa (6). Ora vediamo le condizioni di questa alleanza. In primo luogo ella fu promessa ad Abramo, e promessa gli fu, perchè uomo fedele e perfetto. [...OMISSIS...] Precedette dunque al patto, ed alla circoncisione che n' è il segno, la fede e la giustizia di Abramo. Abramo assentì a voler esser perfetto: « si gettò Abramo boccone per terra« (1): » così diede il suo assenso. Allora fu conchiuso il patto con queste condizioni: che Iddio fosse onorato e riconosciuto per Dio da Abramo e da tutta la sua discendenza (2). E Iddio all' incontro prometteva ad Abramo, per dargli prova di suo potere e di sua bontà e così dar nuova materia a sua fede, 1 di farlo padre di molte genti e di far da lui uscire dei re; 2 di dare in possesso ai suoi discendenti tutta la terra di Canaan nella quale allora peregrinava (3). Dove si osservi come ciò che promette Dio ad Abramo sieno cose temporali, esigendo però da Abramo un culto veramente spirituale; il che era un proporzionare l' educazione religiosa allo stato dell' umanità: conciossiachè era ben facile conoscere come fosse giusto il dar culto a Dio; e questo il conobbero gli uomini fino da principio; ma il riconoscere nello stesso culto ed onore di Dio la propria felicità, questo era difficilissimo, e non pervennero gli uomini a intenderlo innanzi a Cristo (4). Si esigeva uno stato intellettuale molto elevato a poter fare astrazione da tutte le cose terrene e fissare la mente nella sola giustizia come nel solo vero bene. Tanto non potea l' uomo per natura: bisognava la grazia del Redentore, come appar chiaro da quanto abbiamo detto della natura di questa grazia. Perocchè questa sola grazia dà una percezione viva delle cose spirituali e divine per l' infusione dello Spirito Santo; e in questa viva percezione di Dio, verità e giustizia sussistente, l' uomo si sazia e vede il suo vero ed unico bene. Alla quale altezza di lume non potevano arrivare quegli antichi Patriarchi: e Iddio, parlando ad essi in modo proporzionato allo stato di loro intendimento non pervenuto a riflessione d' alto grado e allo stato di loro grazia corrispondente, provò ad essi i suoi attributi di potenza, di giustizia e di bontà col proteggerli possentemente e regalarli abbondantemente di cose temporali. Frammezzo però a queste cose temporali proporzionate all' intelligenza degli uomini, Iddio prometteva qualche cosa di più: un non so che di misterioso e di recondito: dal seme di Abramo non dovevano uscire solamente dei re terreni, ma un re al tutto singolare e di una grandezza degna di Dio, per ciò spirituale e divina. E attentamente sguardando all' istituzione della circoncisione, apparisce come un doppio patto o una doppia promessa fatta da Dio ad Abramo: la prima generale e risguardante tutti i discendenti di quel Patriarca: per ciò Iddio comandò che fosse circonciso Ismaele, e senza eccezione alcuna tutti i bambini maschi di otto giorni (1). [...OMISSIS...] E Isacco non era ancor nato. Or il patto era generale, e riguardava tutti i discendenti di Abramo. Ma una condizione di questo patto generale era questa che Iddio avrebbe poi fatto un patto speciale con Isacco che dovea nascere: [...OMISSIS...] . Questo è un patto futuro e sempiterno che promette Iddio di far poi col figliuolo nascituro Isacco (5). Non solo adunque Isacco non era circonciso, ma nè pur nato quando il patto spirituale ed eterno fu promesso, e però non in virtù della circoncisione, ma della predestinazione di Dio fu scelto; e quella scelta si dovette alla fede di Abramo, che occasionò il primo patto. Conciossiachè veggendo Iddio Abramo esser fedele, propose a lui di stringere un patto, col quale Abramo e i suoi discendenti promettevano la continuazione di quella piena fede che aveva quel patto occasionato. E in segno di questa fede stabile e continua si commisero alla circoncisione, che però è chiamata da S. Paolo « segnacolo di quella giustizia che viene dalla fede« (1). » E col rito del circoncidersi, tutti gli Ebrei protestavano di volere aver quella fede stessa del loro padre Abramo (2). Or in tal modo l' atto della fede era reso facile a tutti egualmente anche a quelli che non potevano sollevarsi a intendere le cose più alte e spirituali del Redentore. Ad Abramo era stata data luce di percepirla: in quel recondito patto che Iddio avea promesso di stringere con Isacco, il santo Patriarca per lume soprannaturale avea veduto la promessa del Cristo futuro: ciò si ha espressamente nel Vangelo: « Abramo vostro padre vide il mio giorno (cioè vide me nella gloria); lo vide e ne giubilò« (3). » Ma non tutti gli Ebrei potevano avere una grazia sì straordinaria: tutti però potevano avere una fede implicita nel Redentore in quanto che essi si riferivano e protestavano di credere a tutto ciò che aveva creduto il loro padre Abramo. Egli è per questo che fu chiamato Abramo il padre dei credenti. E S. Paolo spiega in un modo sublime e spirituale la promessa fatta da Dio ad Abramo di esser padre di molte genti, intendendo per queste genti non pure quelle che sono nate da lui secondo la carne, ma quelle che partecipano della sua fede, credendo in ciò che ha creduto Abramo, e a tutte queste dice che si riferisce la promessa fatta da Dio (4). Per la medesima ragione il luogo dove andavano le anime degli Ebrei che santamente morivano prima di Cristo si chiamava il seno di Abramo (5). Era la fede di Abramo, a cui si riferivano, che le salvava. Secondo la maniera di dire scritturale il figlio esce dal seno del padre: tornar nel seno del padre significava adunque ricongiungersi al padre, e vivere della sua vita. Le anime de' giusti adunque nell' altra vita vivevano della fede di Abramo, ed è credibile che loro fosse nel limbo esplicitamente rivelato ciò che Abramo credette, e che esse nella vita presente non intesero e non credettero se non implicitamente, cioè nella fede di Abramo (1). La fede adunque significata dalla circoncisione era la fede in Cristo, e l' esser fatta in quella parte del corpo significava il dovere Cristo discender da Abramo per generazione. E Cristo veniva a redimere il mondo e p“r rimedio al peccato originale. Or questo peccato corruppe principalmente il fonte della vita. Il che significava la circoncisione pel doloroso taglio in quella parte dell' uomo, e il recidersi di quella pelle era rito idoneo a significare come doveva essere tolta e da noi rigettata la vetustà del peccato e rinunziato alla concupiscenza. Significava adunque la circoncisione una purificazione dell' uomo: l' uomo vecchio mortificato (2). E perchè l' uomo vecchio fu mortificato nella passione di Cristo, perciò quelle gocciole di sangue che in tal rito si spargevano, ottimamente segnavano la morte di Cristo, e il darsi nell' ottavo giorno al bambino accennava alla risurrezione dell' uomo nuovo in Cristo che avvenne l' ottavo giorno (3). Tanta materia di fede contenevasi nel rito della circoncisione simile nel significato al Battesimo nel quale pure la morte dell' uomo vecchio e la resurrezione del nuovo si rappresenta (1). E questa fede promettevano a Dio e protestavano gli Ebrei con tal rito, non tutti sapendo queste cose, ma riferendo la loro fede ai lumi ricevuti dal loro santo padre Abramo. Nè in questa fede finiva il culto che a Dio promettevano col circoncidersi. Essi protestavano al Signore che riguardandolo per loro padre e re si sarebbero sommessi a tutte le leggi anche politiche e cerimoniali che avesse lor promulgato, e a tutti i suoi voleri. Perciò S. Paolo dice « Io dichiaro ad ogni uomo che si circoncide che con tal rito egli si obbliga ad osservare la legge« (2) » e quindi dissuade i primi fedeli dal circoncidersi, mostrando loro che vanno con ciò a sottomettersi a un peso servile, importevole e inutile dopo Cristo (3). E in corrispondenza di una tal fede e promessa degli Ebrei, Iddio prometteva da parte sua che ad essi soli avrebbe consegnate le sue divine rivelazioni, e fu così che quel popolo il depositario de' sacri libri (4). Tali erano le condizioni spirituali del patto; di cui le condizioni temporali non erano che figure e sostegni dati alla limitazione umana (5). Or le promesse divine contenute in quel patto doveano esser condotte a compimento col succeder de' tempi. L' ultimo scopo di queste promesse era il recar l' uomo alla morale perfezione, la quale dovea effettuarsi di mano in mano per una serie di avvenimenti. L' uomo era peccatore per natura; laonde la prima cosa che convenia farsi a dargli perfezione morale era il redimerlo dal peccato e dalla pena di morte che di conseguente meritava. Ma perchè l' uomo traesse profitto dalla redenzione dovea credere nel Redentore, umiliando sè stesso incapace di venire a salute e sperando la salute sua da colui che l' avrebbe redento. Il primo patto era adunque generale e Iddio prometteva con esso di prender l' uomo in protezione, l' uomo di dar culto a Dio. Questo patto generale ne conteneva un altro particolare riguardante il mezzo di eseguire quel primo, col quale Iddio prometteva all' uomo il Redentore necessario a salvarlo, e l' uomo a Dio di credere fiduciosamente in questo Redentore, e sperar da lui solo la sua salute. Acciocchè all' uomo ancora poco sviluppato nelle sue facoltà intellettive, si scolpisse in mente la necessità che egli aveva di esser liberato dal peccato mediante un Redentore, Iddio figurò innanzi agli occhi degli Ebrei questa grande verità con un avvenimento solenne e nazionale, cioè colla schiavitù di Egitto e colla liberazione da questa schiavitù che rappresentava quella spirituale del peccato; e acciocchè apparisse la necessità del Redentore perchè fossero salvi nell' anima e nel corpo, ordinò in quell' occasione la cerimonia dell' agnello pasquale, secondo Sacramento dell' Ebraico popolo (1). Conviene osservare, come passando l' Angiolo del Signore a dar morte a' primogeniti Egiziani, salvò dalla strage le case degli Ebrei tinte col sangue dell' agnello. Quel sangue era sommamente acconcio a rappresentare quello di Cristo, che venendo immolato placava Iddio nell' ora della sua giustizia, che è l' ora del passaggio dell' Angelo. Ora in quel passaggio l' Angelo del Signore non recava agli Ebrei alcun bene, ma solo li esentava dalla morte; il che acconciamente dimostrava qual fosse l' effetto della fede nella morte futura e non ancora seguita di Cristo, cioè di apportare a' fedeli la sospensione del pagamento o castigo, non però ancora il bene positivo della gloria eterna data dagli uomini solo in virtù del prezzo già sborsato del sangue di Cristo. Ma perciocchè Cristo sacrificato sulla croce dovea esser dato anche in cibo a' suoi discepoli, per ciò l' agnello svenato dagli Ebrei dovette esser da lor mangiato, e ciò in fretta per sommo desiderio di uscir dall' Egitto e fuggire la celeste vendetta di Dio (1), cotto nel fuoco della carità col pane azimo della pura conversazione, e coll' amaro delle lattughe agresti simbolo di penitenza, cinte le reni di castità, ed i piedi calzati di opere buone (2). E per indicare l' unione de' fedeli partenenti ad una sola famiglia della quale il Padre è Dio, dovea mangiarsi in ogni casa, e niuna parte della vittima poteasi portare al di fuori (3). Ora questo secondo Sacramento consacrava di nuovo il popolo Ebreo al culto di Dio più esplicitamente e specificamente: prometteva questo popolo di credere che da Dio dovea venire la sua salute mediante il Redentore e la passione di questo, in virtù della quale liberati dalla morte del peccato dovevano pervenire al cielo significato dalla terra promessa verso cui uscendo dall' Egitto si rivolgevano. Or questo Sacramento dell' agnello pasquale è detto SEGNO nella Scrittura: [...OMISSIS...] . Ecco la promessa e il patto di Dio, ed ecco il segno del patto. [...OMISSIS...] Ecco il culto che da parte loro doveano prestare gli Ebrei. Or il segno di questo patto era una cerimonia permanente: [...OMISSIS...] . E acciocchè più vivamente si scolpisse negli Ebrei l' obbligo di questo culto che doveano dare al Signore, ritenne il Signore in ispecial suo dominio i primogeniti salvati dall' Angelo: [...OMISSIS...] . E questo pure dovea essere in segno perpetuo agli Ebrei: [...OMISSIS...] . Or poscia Iddio continuò a dare effetto al patto da lui stretto con Abramo ed Isacco, del quale l' uscita dall' Egitto era un cominciamento. Come Dio in virtù di quel patto dovea salvare Israello, essergli buon re e scorgerlo alla perfezione morale, però tolse nel deserto a dargli sue leggi. Gli pubblicò da prima la legge morale; poi la legge civile o giudiziale; e finalmente le cerimonie religiose; e in tale occasione volle rinnovato solennemente l' antico patto (4). E disse al popolo d' Israele: [...OMISSIS...] . Or in questa occasione fu istituito un nuovo Sacramento, cioè l' ordinazione de' sacerdoti (6). Come tutto il popolo era stato consacrato al culto divino e n' era segno la circoncisione, così fu peculiarmente stretto da Dio un patto colla famiglia di Aronne, mediante il quale questa famiglia si obbligava di servire in un modo speciale al divino culto, e Dio da parte sua prometteva a questa famiglia una special protezione, e di essere egli stesso la sua porzione e la sua eredità (1). Della quale eredità il mantenimento temporale de' sacerdoti che ricevevano dall' altare, avendo parte delle vittime che si offerivano per lo peccato o per impetrare e render grazia, era niente più che un simbolo. Or la consecrazione era il segno di questo patto peculiare fra Dio e gli Aronnici sacerdoti. Ed è di questo patto colla tribù di Levi che si parla in Malachia, ove Iddio dice a' sacerdoti [...OMISSIS...] . Qui parla del comando che Iddio fece a' sacerdoti di occuparsi nel culto di Dio e nelle sacre funzioni. Nè questo patto risguardava solamente le cerimonie esteriori, ma si riferiva al primo patto generale e morale: doveano i sacerdoti cercare veramente la divina gloria (4), esser santi e ministri di santità (5). E però dice: [...OMISSIS...] . Una delle cerimonie della consecrazione sacerdotale consisteva in vestire il sommo sacerdote di abiti che indicavano le virtù che il dovevano ornare. Quattro vesti vestiva; la prima di bianco lino (7), sopra questa la tunica azzurra, atte a significare la perfezione rispetto a sè, cioè la purità della vita significata nella bianchezza, e la grazia divina significata nel color celeste che sopraggiunta all' anima perfezionava la naturale onestà. Le due altre erano l' Efod, e sopra questo il Razionale atte a significare le virtù rispetto al popolo: simboleggiandosi la carità nell' Efod, e la giustizia che il sacerdote dovea amministrare nel Razionale. Per ciò sì nell' Efod come nel Razionale erano scritti i nomi delle dodici tribù che dovea abbracciare colla carità e con una imparziale giustizia. E le due pietre dell' Efod o sopraumerale chiamansi per questo memoriale de' figliuoli d' Israello; poichè la carità non si scorda degli amati (1); e il Razionale dicesi Razionale del giudizio, perchè rammentava quel ragionevole e giusto giudizio che il Sacerdote come primo giudice dovea pronunciare nelle occorrenze del popolo (2). E il Razionale e l' Efod erano congiunti insieme con uncini e catene d' oro perchè dimostrassero che le due virtù della carità e della giustizia non si dovevano mai dividere (3). Sul Razionale poi del giudicio stavano scritte le due parole Dottrina e Verità, significatrici della cognizione della legge necessaria a ben giudicare e della rettitudine del giudice che applica con verità la legge (4). La lamina d' oro poi pendente dalla mitra sacerdotale con su la scritta:« Santità del Signore« dimostra come tutte le virtù discendono dalla contemplazione continua della divina santità (5). E il cingolo cingeva il sacerdote in emblema di quella discrezione onde le virtù si debbono esercitare (1). I sacerdoti avevano parte delle cose sacrificate al Signore, e vivevan con esse. Questo è considerato da S. Tommaso come un altro Sacramento dell' antica legge (2). Egli era una condizione, come abbiamo veduto ed un segno del patto stretto dal Signore con Levi (3). I Leviti erano mantenuti dal Signore cioè colle offerte a lui fatte; e questi cibi ceduti da Dio a' sacerdoti rappresentavano il cibo spirituale e divino onde Iddio nutrisce quelli che sono peculiarmente dedicati al suo culto: il quale cibo è Dio stesso che però si chiama porzione de' sacerdoti. Come adunque l' agnello pasquale e parte delle vittime pacifiche si mangiavano dal popolo ed erano segno del patto onde questo voleva a Dio essere dedicato ed unito; così i cibi sacerdotali erano parimente segno della consumazione o realizzazione del patto speciale onde i sacerdoti a Dio si univano al culto suo dedicati (4). S. Tommaso annovera fra i Sacramenti dell' antica legge anche le purificazioni ed espiazioni legali. Poichè erano cerimonie, le quali appurando l' uomo, lo disponevano al culto di Dio (5). E come erano due i gradi della consecrazione al culto divino, l' uno comune a tutto il popolo che si otteneva nella circoncisione, l' altro speciale de' sacerdoti che si poneva in atto nella ordinazione sacerdotale; come eran due altresì i cibi sacri l' uno comune a tutto il popolo, l' agnello pasquale, l' altro proprio de' sacerdoti, la parte loro spettante delle vittime immolate e degli altri commestibili offerti al Signore; così parimenti corrispondevano a questi due gradi di sacerdozio (1) due maniere di mondarsi e purificarsi, quanto al popolo cioè le purificazioni propriamente dette da certe impurità esteriori, e le espiazioni da' peccati, e quanto a' sacerdoti e Leviti le lavande delle mani e de' piedi e la rasura di tutti i peli del corpo. Laonde volendo or noi riassumere dando uno sguardo generale su questi antichi Sacramenti diciamo: Che due erano i gradi di sacerdozio o di consecrazione a Dio dell' ebraico popolo: il primo de' quali si faceva per la circoncisione, e con esso il popolo prometteva di osservare tutte le leggi morali, giudiciali e cerimoniali da Dio intimate, dando in tal modo a Dio ossequio e culto; il secondo consisteva nella consecrazione de' sacerdoti, e per esso promettevano che oltre di osservare per sè le leggi avrebbero altresì promosso il divino culto in altrui, adoperandosi a porre in atto le esteriori religiose cerimonie, e aiutando il popolo anche al culto interiore coll' ammaestramento nella legge ed eccitarlo ad osservarla. Che a questi due gradi di sacerdozio rispondevano due cibi consecrati, l' uno pel popolo l' altro pei Leviti; i quali cibi erano come una conseguenza di que' due gradi di sacerdozio, una consumazione di quella prima consecrazione e una caparra che voleva Iddio data a quelli che a lui si dedicavano del mantenimento di sue promesse, e del comunicarsi all' umanità che avrebbe lor fatto. Queste comestioni di cibi sacri non erano dunque nuove consecrazioni propriamente, ma una continuazione delle prime; il perchè queste si replicavano; ma le prime fatte una volta, non più era uopo ripeterle. Che finalmente v' avevano le purificazioni ed espiazioni, colle quali pure il popolo, e i sacerdoti a Dio consecrati confessavano la loro indegnità e come erano male acconci al patto di Dio; come anco a questo patto eran venuti meno coll' infedeltà del peccato. Questi perciò convenivano rinnovarsi ogni qualvolta cadevano in peccato o nella immondezza legale; co' quali riti non forma[va]no già una nuova consecrazione di sè a Dio; ma si rendevano degni della consecrazione di sè al Signore, o dal popolo circonciso o da' sacerdoti consecrati. Abbiamo fin qui veduto come cominciò e progredì il patto positivo dell' uomo con Dio. Cominciò colla famiglia di Adamo peccatore e fu violato dagli uomini. Fu rinnovellato colla famiglia di Noè, e i suoi discendenti il violarono di nuovo. Allora fu scelta la famiglia di Abramo, e per segni di questo patto Abramitico furono stabiliti de' Sacramenti più determinati. Il patto con Abramo racchiudeva da parte di Dio delle promesse temporali e spirituali: queste seconde erano le principali e le prime erano figure delle seconde, atte a far intendere agli uomini il prezzo di esse. Iddio pose mano ad effettuare le sue promesse ed ogni passo che diede in ridurle ad effetto fu a lui occasione di rinnovare il patto antico e di stabilire un nuovo segno di questo patto, già in parte da Dio effettuato, affine di restringere vieppiù e consacrare a sè gli uomini colla memoria di ciò che egli fedele al promesso faceva per loro. Così istituì il Sacramento dell' agnello pasquale quando li liberò dall' Egitto per istabilirli nella Cananea promessa nel patto Abramitico; così indusse la consacrazione de' sacerdoti quando al Sinai organizzò il popolo Ebreo in nazione; diede a lui come re un Codice di leggi, stabilì tribunali, e con esso popolo, qual già vera e perfetta nazione, rinnovò l' alleanza e costituì l' aronnico sacerdozio. Nella quale occasione il Sacramento della consecrazione sacerdotale fu istituito a segno e memoria perenne di quel benefizio di Dio e a stimolo dato al popolo di via più promuovere il culto del suo divino dominatore (1). E tutti questi segni del patto che consecrava l' uomo al culto divino procedevano di pari passo, come abbiamo veduto, collo sviluppamento della divina rivelazione e della fede sempre più esplicita degli uomini. Questa fede però mancava sempre della comunicazione all' anima del Verbo, poichè il Verbo non erasi ancor vestito dell' umanità, che è il mezzo ond' egli si comunica agli altri uomini. Perciò la fede si rendeva sempre più esplicita solamente in quanto alla cognizione di Dio ideale ed in quanto a quelle circostanze dell' Incarnazione che a percepirle si chiede altro più che le facoltà naturali. Per ciò poi chè spetta allo spirituale e soprannaturale della fede, questo non l' avevano gli Ebrei comunemente se non implicito nella fede di Abramo; eccetto quei Santi privilegiati a cui dava Iddio delle particolari illustrazioni, attuali il più, e non mai tali che si potesse dire aver essi veramente e abitualmente il Verbo percepito. La natura per ciò di una tal fede implicita nella sua parte soprannaturale o divina esigeva che il patto con Dio stesso fosse esterno e che vi avessero molti esterni segni che di frequente il richiamassero alla memoria degli uomini. Ma posciachè il Verbo s' incarnò, esso Verbo fu comunicato all' umanità tutta. In questo consisteva la consumazione del patto di Abramo; le promesse spirituali di Dio che conteneva quel patto con ciò erano pienamente adempite: le promesse temporali che servivano di sostegno alle spirituali e di caparra cessavano dall' avere uno scopo, come l' armatura e le centine di una fabbrica quando questa è condotta a fine; e anch' esse s' erano già compite. Or come Iddio ogniqualvolta avea eseguito l' una o l' altra delle sue promesse contenute nel patto Abramitico avea rinnovato il patto medesimo cogli uomini, così fece pure quando vestì il suo Verbo di carne umana, adempiendo così l' ultima sua promessa, la massima delle promesse, quella promessa a cui le altre tutte erano ordinate come mezzi e apparecchiamenti e che sola per ciò formava propriamente la sostanza del patto medesimo. Per ciò dice Isaia del futuro Redentore: [...OMISSIS...] . In questo gran fatto pertanto, in cui Iddio da parte sua liberava la sua fede agli uomini, conveniva che quasi chiamando gli uomini loro dicesse così: [...OMISSIS...] . Questo è il patto nuovo che consuma l' antico, la nuova alleanza, il nuovo Testamento. Or hassi a considerare la natura di questo nuovo patto nel quale sta il compimento delle promesse fatte ad Abramo. Col Redentore donato in esecuzione di quella promessa il debito dell' uman genere venne realmente pagato, non fu già dilazionato il pagamento, il che solo otteneva l' antica fede dei giusti che speravano nel Salvatore. Di più il Verbo stesso comunicavasi allo spirito umano, e non era più sola aspettazione di una futura comunicazione. Per ciò l' uomo non parlava già più a Dio per mezzi naturali ed esterni, ma senza alcuno intermediario l' uomo e Dio si abboccavano insieme, per così dire, nella grazia del Redentore. L' essenza adunque del nuovo patto a differenza dell' Abramitico è tutta interiore, egli non si stringe con apparizioni esteriori ed esteriori dimostrazioni di potenza e maestà come sul Sinai; ma sì bene nel segreto dello spirito fu stretto col reale e personale congiungimento del Verbo e della umana natura da prima, poscia colla comunicazione del Verbo agli altri uomini per grazia (1). Tutto l' esteriore adunque nella nuova alleanza è un effetto ed effusione di questa alleanza già stretta e pienamente verificata, e per ciò è cosa questa posteriore, quando l' antiche esteriorità erano anteriori e conduttive all' alleanza medesima. Quindi consegue, che col nuovo patto l' individuo si ricongiunge veramente a Dio. In tal modo l' uomo è ricondotto allo stato primitivo della perfezione morale, nel quale egli era dedicato al culto divino per sua costituzione e lo conosceva senza bisogno di alcun patto positivo ed esterno (1) che glielo ricordasse; egli era per così dire nel culto stesso costituito, perchè il culto era in lui già in atto, perchè in atto era in lui l' unione sostanziale ed intrinseca con Dio: egli la sentiva questa unione, nella quale egli attingeva la similitudine col Creatore (2). Per la ragione medesima il nuovo patto è universale, perchè è nell' interiore dell' individuo che si consuma. Il patto con Abramo potea essere famigliare e nazionale, perchè era esteriore e positivo: potea cioè stingersi col corpo della famiglia o della nazione rappresentata da alcuni: ma nel nuovo, trattandosi che il commercio di Dio coll' uomo avviene nell' interiore dell' individuo, egli è manifesto che a tal fatto l' individuo non può delegare un altro nè essere in modo alcuno rappresentato; ma è solo al tutto opera personale. Ora quello che è personale è anche universale, perchè a ciò è chiamata ogni persona, e non una singola casa od un singolo popolo. Un' altra conseguenza dello stringersi questo patto con Dio nell' interiore dell' anima di ciascun uomo è questa, che un tal patto non ha quel bisogno di un segno esteriore che aveva l' antico; dico di un segno che fosse come solennità essenziale al contratto; sebbene anche il nuovo patto ha bisogno di quei mezzi esterni che il formano, e che sono i Sacramenti di Cristo. Il perchè ai nuovi Sacramenti è più essenziale l' essere mezzi efficaci produttori del patto che di essere segni di lui come gli antichi, i quali niente nell' anima producevano. E se anche significano i nuovi Sacramenti, ciò fanno per la volontà di Cristo, che li ha istituiti, e che ha giudicato ciò conveniente, non già per una loro intrinseca necessità, cioè perchè il patto sia di tal natura che negli esterni segni si assolva. Tuttavia havvi anche un segno necessario del nuovo patto; ma questo è tutto interiore: e come il patto si opera nell' intimo dell' animo così anche il segno suo necessario s' imprime nell' anima stessa (1) ed è ciò che le divine Scritture chiamano or segno, or sigillo, or signacolo, e che S. Agostino chiamò carattere indelebile, e dopo di lui la Chiesa tutta (2). Questo segno interiore che dovea imprimere nell' anima Cristo era adombrato nell' antico tempo e dai Profeti promesso. [...OMISSIS...] Or venendo a ricercare che sia questo segno che Cristo co' suoi Sacramenti imprime nell' anima è uopo a noi rammemorare ciò che abbiam detto intorno alla grazia del Redentore. Questa grazia l' abbiamo deffinita una comunicazione intellettiva del Verbo siffattamente che il Verbo si rivela all' anima, e questa vista del Verbo che l' anima ne riceve è il lume soprannaturale onde cominciano tutte le soprannaturali operazioni. Or la comunicazione intellettiva del Verbo altra è passeggiera, ed altra è stabile per fissa legge e se si vuol così chiamarla abituale. Di più, volendo noi analizzare questa comunicazione, ella si può considerare rispetto all' impressione che lascia nell' anima la qual viene dal Verbo stabilmente informata; o rispetto alla potenza ch' ella suscita o produce nell' uomo; o finalmente rispetto al perfezionamento della volontà a cui la santità si riferisce. Conciossiachè certa cosa è che il Verbo risplendente nell' anima vi imprime la sua forma o similitudine, e questa è quella luce secondo la quale l' uomo che opera soprannaturalmente si guida. E questa impronta del Verbo può dirsi acconciamente sigillo o segno. Ella però non è ancora santità, poichè all' esser tale conviene che la volontà umana a quella luce ubbidisca, o sia almeno pronta ad ubbidire. Or dunque essendo la grazia quella che produce e forma la santità, alla nozione della grazia non basta ogni impressione del Verbo posta unicamente nella parte intellettiva dell' anima; ma conviene che la volontà non ripugni a quella luminosa impressione. Sicchè quella luce del Verbo impressa nell' anima acquista nome di grazia solamente quando influisce nella volontà, ma non allora che in essa non influisce spingendola o movendola alla carità. Or tuttavia l' impressione del Verbo può rimanersi nell' anima ristretta nella sola parte intellettiva di lei eziandio che la volontà ricalcitri e respinga da sè ogni sua benigna e santa influenza. E questa stabile e ferma impressione del Verbo nella sola parte intellettiva dell' anima, a dispetto della volontà perversa che si rifiuta assecondarla, viene appunto operata ne' tre Sacramenti cristiani del Battesimo, della Confermazione e dell' Ordine, i quali con una tale impressione che si opera da Dio per ferma legge senza rispetto alla cooperazione dell' uomo pongono il divino fondamento dell' universo soprannaturale. Or egli è però ad avvertire che congiungendosi il Verbo in tal modo coll' uomo egli ne prende il possesso come di cosa sua, e che la prava umana volontà non impedisce punto che dall' esser nell' anima la luce e l' impressione del Verbo non iscaturiscano nuovi doveri all' uomo e altresì nuovo potere. Egli a cagione di quella unione col Verbo che lo possiede è consecrato al Verbo stesso: nuovo suo dovere è quello di riconoscere il Verbo siccome degno di ogni culto e di darglielo. Epperò quella impressione che ha in sè del Verbo importa il venir egli per essa ordinato e chiamato al culto soprannaturale di Dio. E perciocchè se non avesse quella luce non conoscerebbe quel suo dovere, nè avrebbe virtù in sè di elevarsi sopra all' ordine soprannaturale; laddove riconoscendo egli il Verbo in sè e amandolo come è degno di buona volontà trae da esso Verbo ogni aiuto e grazia maggiore; però convenientemente si può dire che quella impressione, quel segno, quel carattere indelebile di Cristo sia la potenza di culto soprannaturale che all' uomo viene aggiunta coi toccati Sacramenti. E tutto ciò vogliamo ora provar noi coi documenti che ci somministra l' ecclesiastica tradizione. I. Il carattere viene impresso nell' anima dallo Spirito Santo. S. Paolo parlando del carattere dice: « che in Gesù Cristo dopo aver creduto (1) siete stati segnati nel Santo Spirito di promissione« (2). » E altrove dice parlando di questo segnacolo o carattere: « Non vogliate contristare lo spirito di Dio, nel quale siete stati segnati nel giorno della redenzione« (3) » cioè del vostro Battesimo. E` dunque una operazione dello Spirito Santo, secondo l' Apostolo l' impronta che in noi si fa del carattere indelebile. E all' azione dello Spirito Santo nell' anima l' attribuiscono pure costantemente i Padri della Chiesa. Udiamo S. Cirillo: [...OMISSIS...] . Giovanni Grisostomo parimente dice: [...OMISSIS...] . Ove si vede chiaramente espressa la differenza fra il segno esterno del patto stretto da Dio cogli Ebrei, e il segno interno e spirituale de' cristiani. Perocchè non essendo ancor dato innanzi a Cristo lo Spirito Santo non potevano gli antichi Sacramenti imprimere il carattere indelebile de' nostri. Dal che si conchiude che la grazia e il carattere indelebile sebbene cose distinte, come abbiam detto, tuttavia procedono dallo stesso principio, dallo Spirito Santo (.). II. Il carattere è l' impressione del Verbo fatta nell' anima. Ho già dimostrato che è proprio dello Spirito Santo l' imprimere il Verbo nell' anima, il qual Verbo è sempre il termine dell' operazione del Santo Spirito (9). Perciò dice S. Paolo, parlando del carattere battesimale ricevuto da' primi fedeli, che essi erano stati segnati dallo Spirito Santo nel Verbo della verità (10). Perciò il carattere si chiama dai Padri segnacolo di Cristo (11), e gli si attribuisce come suo effetto speciale il configurarci a Cristo. E poichè Cristo, o sia il Verbo è l' imagine del Padre (12) perciò afferma l' ecclesiastica tradizione che nel carattere indelebile riceviamo noi l' immagine di Dio. [...OMISSIS...] Per la medesima ragione avviene che i Teologi dànno allo stesso carattere il nome di Sacramento, appunto perchè è segno di cosa sacra, come quello che è segno e impressione del Verbo (3). III. Il carattere è luce o splendore. Se il carattere è un' impressione del Verbo, come abbiamo dimostrato, forz' è ch' egli sia luce e splendore, perocchè il Verbo all' anima a cui si comunica non è che luce. E questo dice S. Ambrogio nel passo ultimamente recato. Il medesimo insegna l' antico autore dell' ecclesiastica gerarchia: [...OMISSIS...] . Nè questa luce di cui si parla è altro che intellettiva, la qual dà all' anima conoscimento. Per questa osservazione si spiegano chiaramente que' passi de' Padri ne' quali si dice che col Battesimo viene impresso nell' anima il nome di Dio, volendo dire che viene impresso il carattere (2); conciossiachè come abbiamo altrove osservato, il nome di una cosa equivale, secondo la frase scritturale, alla cognizione di quella. IV. Il carattere è nella sostanza dell' anima. E` proprio del Verbo il congiungersi coll' essenza dell' anima intellettiva. E però se il carattere è una impressione del Verbo, come abbiam provato, egli deve aver sua sede nell' essenza o sostanza dell' anima nostra. Questa sentenza si può conciliare con quella di S. Tommaso che ripone il carattere nella potenza intellettiva dell' anima (3); poichè esso carattere si può risguardare da due lati, cioè in quanto segna , e in quanto opera . In quanto opera egli è potenza (e certo che la luce del Verbo impresso nell' animo, non è inattiva); ma in quanto segna (4), egli non è potenza, ma è impressione, una modificazione dell' anima, la qual riceve un lume nuovo, e in tanto giace nella sua essenza (5). Vero è, che la parola carattere nomina propriamente il segno e non la potenza; come pure egli è vero che antecedentemente alla potenza v' ha l' impressione della luce, fondamento e principio della potenza stessa: e però ragionevolmente, dice il Cardinal Bellarmino, toccando le diverse opinioni de' Teologi intorno alla sede del carattere, queste parole: [...OMISSIS...] . Di qui è, che i Concilii di Firenze e di Trento, parlando del carattere, non dissero già che questo sia in alcuna potenza, ma sì bene puramente e semplicemente nell' anima. V. Il carattere distingue il cristiano dai non cristiani. S. Anselmo dice: [...OMISSIS...] . S. Giovanni Grisostomo osserva come i chiamati alla gloria fino a tanto che erano solamente nella prescienza di Dio non potevano conoscersi e distinguersi se non da Dio: come Iddio volle poi anche contraddistinguerli con un segno che li rendesse manifesti alle creature; e presso gli Ebrei questo segno fu esterno e carnale, la circoncisione, ma presso noi fu posto nell' anima stessa, e suggellatovi dallo Spirito Santo (3). Or essendo questo segno invisibile agli occhi della carne, a' quali non luce se non il segno esterno dell' acqua battesimale, manifesta cosa è che l' anima nostra non è distinta da quelle degli infedeli mediante un tal segno spirituale, se non alla vista di quegli esseri che hanno virtù di percepire le anime, i quali sono, oltre Dio, gli Angeli beati e i demonii. E questo è quello che insegnano i Padri, come si vedrà più sotto, ove saranno addotti i luoghi de' Padri che affermano quel segnacolo indelebile dare alle pure intelligenze notizia di quali anime sieno a Cristo consecrate. L' impressione del Verbo nell' anima intellettiva non può essere mai oziosa, e, come dicono i santi Padri, è anzi attivissima in tutte le potenze dell' uomo. Però l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia , parlando del carattere che imprime il Battesimo dice: [...OMISSIS...] . Ma l' azione che esercita in noi il carattere che riceviamo in alcuni Sacramenti, non ha per oggetto solamente gli abiti animali de' quali parla il citato Padre. Egli ha un' attività e produce degli effetti nella parte più nobile dell' uomo; ed è relativamente a questi effetti che pel carattere si aggiunge all' uomo una nuova potenza soprannaturale. Cerchiamo di chiarire la natura di questi effetti, di questa potenza. Due sono principalmente questi effetti; l' uno è l' attitudine che acquista l' anima e il diritto di ricevere o di amministrare gli altri Sacramenti: l' altro è la potenza di partecipare della grazia di Gesù Cristo. Parliamo del primo di questi due effetti. Col carattere indelebile che imprime il Battesimo, l' anima vien posta in tal condizione, che ricevendo gli altri Sacramenti, ella ne possa ricevere tutti i loro effetti. La Confermazione non fa che avvalorare e confermare, come mostra il suo nome, lo stesso carattere nel Battesimo ricevuto (2). Col carattere del Sacramento dell' Ordine poi l' uomo acquista una nuova potenza per la quale egli consacra l' Eucaristia, rimette i peccati ne' Sacramenti della Penitenza e dell' estrema Unzione, e amministra validamente i Sacramenti altresì della Cresima e dell' Ordine stesso. La potenza per ciò che acquista l' uomo relativamente agli altri Sacramenti è passiva od attiva . Passiva è quella del carattere del Battesimo e della Confermazione; attiva poi quella dell' Ordine, onde può l' uomo dare all' altr' uomo con certi riti il carattere e la grazia, o sia [di] amministrare con validi effetti i Sacramenti. Egli è difficile poi il diffinire se questa potenza spirituale che vien data all' uomo in conseguenza dell' impressione del Verbo nell' anima sua sia un effetto spontaneo e necessario di detta impressione come io credo almeno probabile, ovvero sia egli solamente susseguente, senza nesso di causa e d' effetto fra l' impressione del Verbo o carattere e detta potenza, come crede il Bellarmino, che vede in questo come un vero patto positivo fra l' anima e Dio; e però la chiama potenza morale e non fisica. [...OMISSIS...] Noi non veggiamo perchè il carattere non possa toccare il suo effetto, come dice qui il Bellarmino. Che se il carattere è luce del Verbo, fulgente nell' anima (3), chi può limitare la forza di un tale splendore? A quali effetti non può giungere la virtù del Verbo stesso? Però noi non veggiamo improbabile, a ragion d' esempio, che il carattere del Battesimo per un suo spontaneo e fisico effetto renda l' anima capace di ricevere il carattere della Confermazione. A quel modo appunto come nell' ordine naturale, il lume della ragione che sta nell' anima quando nasciamo, ci fa capaci di ricevere qualsivoglia altra cognizione che ci venga da un maestro insegnata; o a quel modo onde il lume primo della ragione, ci fa capaci di riflettere poi sopra lo stesso lume e per essa riflessione renderlo a noi più luminoso. Così nell' ordine soprannaturale, il carattere battesimale è un primo lume, e il carattere della Confermazione è un altro lume che ci sopraggiunge. Come dunque non intenderebbe un discorso pieno di luminose verità colui che non avesse intelligenza, ma quel discorso sarebbe a lui inutile e nulla significante; così invano si opererebbe il rito della Confermazione in chi non avesse ricevuto il Battesimo, poichè questi non sarebbe capace di percepire quel lume maggiore che nel carattere della Confermazione s' imprime. Ugualmente a niuna verità ripugna il credere che, coll' ordine sacerdotale, l' uomo che già pel Battesimo ha il Verbo in sè stesso acquisti una nuova potenza; cioè che il Verbo già impresso nell' uomo operi di guisa che mediante i riti necessarii usati da quest' uomo s' imprima in altrui il carattere della Confermazione, o si dia la rimession de' peccati, o il pane e il vino si consacri. A quella guisa appunto che chi ha la ragione ha altresì una nuova forza volontaria di operare, e di ammaestrare altri che hanno la ragione; così colui nel quale il Verbo diventa operante per la consecrazione sacerdotale, può trasfondere e comunicare in altrui della propria virtù e della propria luce secondo certe leggi e riti dalla volontà di Cristo costituiti. Or dovremmo parlare come il carattere sia anche la potenza della grazia, cioè in qual modo la grazia conseguiti al carattere per natural conseguenza, ove l' uomo colla volontà sua non vi ponga ostacolo. Ma di questo dobbiamo parlare più sotto distesamente; e qui fermiamoci un poco a trarre qualche conseguenza dal vero esposto, che il carattere sia potenza aggiunta all' anima, la quale per esso diviene atta a ricevere in sè gli effetti de' Sacramenti o a produrre questi effetti in altrui. Come nell' ordine della natura l' intelligenza è data all' uomo pel dono della luce dell' essere, così è data all' uomo una intelligenza soprannaturale pel dono della luce del Verbo che costituisce il carattere sacramentale. Come l' aggiungersi a noi la luce dell' essere è un crearci nell' ordine della natura, così l' aggiungere a noi pe' Sacramenti la luce del Verbo è un crearci nell' ordine della grazia. E come tutto ciò che fa Dio per via di creazione non lo distrugge più mai, poichè è egli solo che lo fa, senza il concorso della creatura, secondo ciò che sta scritto: « Non hai odiato nulla di tutto ciò che tu hai fatto« (1), » così nè l' uomo può più perder giammai l' intelligenza (2); nè può perder più mai il carattere, il quale per questa ragione si chiama indelebile. I Teologi della perpetua durata del carattere adducono appunto questa ragione, che egli è impresso in un soggetto incorruttibile, cioè nell' anima (1), la quale ragione ha tutta sua forza ove si tenga la sentenza nostra che egli giaccia nella stessa sostanza dell' anima, la quale viene modificata o piuttosto accresciuta con esso carattere. Di qui ancora s' intende che la generazione spirituale dell' uomo nuovo si fa pel carattere. Rechiamone alcune prove teologiche. Gesù Cristo diceva a Nicodemo: [...OMISSIS...] . Or qui Cristo al nascimento spirituale dell' uomo non richiede altro se non il Battesimo. Non è dunque la grazia che dà questa prima rigenerazione all' uomo, poichè il Battesimo può stare senza l' effetto della grazia, ma è desso il carattere, perocchè questo è un effetto necessario del Battesimo e ne forma la propria natura (3), conciossiachè quando il rito battesimale non imprimesse il carattere ei non sarebbe più il Battesimo di Cristo, ma un altro. Si noti ancora che il nascere non è mai opera della volontà di chi nasce, ma della natura (4). Ora la grazia non si può dare senza che la volontà ne venga piegata al bene dalla sua presenza, e questo è essenziale alla grazia, sicchè la rigenerazione della grazia non si fa mai se non per qualche cooperazione di volontà. S. Agostino da quelle parole di Gesù Cristo prova assai acconciamente che il Battesimo non si può iterare. Perocchè, dice: [...OMISSIS...] . Or su questa maniera di argomentare, che usa il gran Dottore, così ragioniamo:« Non può ripetersi il Battesimo, secondo S. Agostino, perchè è la nascita spirituale, perchè ripugna al concetto della nascita di una cosa o di una persona che ella si ripeta. Or qual è la vera e intrinseca ragione sola adotta dai Concilii di Firenze e di Trento, per la quale il Battesimo non può ripetersi? Non altra che il carattere indelebile (2). Dunque, conchiudo io, il carattere indelebile è quello che forma la nascita spirituale dell' uomo«. In tal modo (vogliam dirlo con sommo rispetto al gravissimo teologo che egli è) noi ci discostiamo dall' opinione del venerabile Bellarmino, il quale nega che sia al tutto solida e concludente l' argomentazione di S. Agostino da noi recata; la quale all' acutissimo Aquinate par anzi degna di collocarsi in primo luogo fra tutte quelle che provano il Battesimo non potersi ripetere (3). E questo scostarsi alquanto che fa qui l' Eminentissimo Bellarmino da due sì gran lumi procede, pare a noi, manifestamente dal non aver chiaro osservato o tenuto presente, come il nascer dell' uomo [cristiano] non sia altro che ricever il carattere del Verbo, trovando anch' egli solidissima la ragione del non potersi iterare il Battesimo nell' indelebilità del carattere (4). Si consideri che sino a tanto che non viene affetta la volontà il lume del Verbo non può chiamarsi grazia. Ora quando questo lume influisce a santificare la volontà prima di fare quest' atto egli irraggia necessariamente l' intelletto, poichè l' intelletto è anteriore alla volontà e la volontà non si piega se non dietro a ciò che è conosciuto. Dunque il lume del Verbo prima di tutto luce nell' uomo in uno stato nel quale non è ancor grazia e questa viene appresso. Ma la generazione è il primo passo onde comincia una persona. Onde la generazione propriamente parlando non si può attribuire alla grazia che appartiene all' uomo generato, ma sì bene alla primissima impressione del Verbo che si chiama carattere. Nè noi neghiamo per questo che possa dirsi generazione spirituale dell' uomo anche il primo ricevere ch' egli fa della grazia per una cotal similitudine. Perocchè come il figlio somiglia al padre, così l' uomo che ha la grazia somiglia a Iddio, e in questo senso Gesù Cristo diceva che gli Ebrei sono figli del demonio. Altra da questa è la figliuolanza di Dio che nasce dall' impressione del carattere. Chiamasi questa figliuolanza, perchè come mediante la generazione l' uomo comincia ad essere acquistando la sostanza di uomo, e però PUO` fare poscia gli atti da uomo; così colla luce del Verbo l' anima riceve la potenza degli atti soprannaturali, e colla sua sostanza è veramente nell' ordine soprannaturale, cioè congiunta al Verbo che l' ordine soprannaturale constituisce. Si può dire che col carattere sia data all' uomo una nuova natura; non so però se una nuova persona; poichè a questa si esige la volontà. Però parmi che col carattere la persona nuova sia già in potenza; ma che colla grazia si tragga quella potenza all' atto; quasi maritandosi la volontà al carattere : due generanti dell' uomo nuovo. Di questa generazione che si opera pel carattere si oda per tanto S. Giovanni Grisostomo. [...OMISSIS...] Or a conferma del detto recherò un bel passo di Ugone da Prato, nel quale questo scrittore ecclesiastico chiaramente attribuisce al carattere la generazione spirituale che nel Battesimo avviene. Enumerando egli le varie differenze che separano il Battesimo dalla circoncisione, venuto alla quarta differenza dice così: [...OMISSIS...] . Farò anche osservare finalmente, come in molti luoghi del Vangelo si rassomiglia Iddio a un padre, il quale ha de' figliuoli scapestrati e perduti, che egli poi anche ricupera. Or di questi figliuoli disubbidienti e ribelli al padre, non si dice però che cessino con questo da essere figliuoli. Ciò si vede principalmente nella parabola del figliuol prodigo, che propriamente è simbolo del cristiano dissipato e partito dalla casa paterna; il quale però è riconosciuto dal padre per suo, appena che a lui ritorna; perchè ha in sè la fisionomia e i segni a' quali il riconosce per figliuolo sebbene in cenci e coperto di lurida sordidezza, pallido e scarno di fame. Anche il battezzato in egual modo, per iniquo che e' sia al Padre celeste, non perde la figura di figliuolo, datagli nella prima generazione coll' impronta dello spirituale carattere e per suo suddito e figliuolo la Chiesa sempre li riconosce (2). Adunque come la circoncisione distingueva e segnava la famiglia di Abramo, così il carattere contrassegna e distingue la famiglia di Dio. Cristo è solo figliuolo di Dio per natura: i battezzati per questo si chiamano figliuoli di Dio, perchè hanno Cristo seco congiunto, perchè alle loro anime è immobilmente annesso il Verbo che costituisce appunto il« carattere« o segno pel quale Iddio gli riconosce essere della sua famiglia, perchè il Verbo innaturato in essi, per così dire, è suo vero figliuolo. In tal modo il Verbo nelle Scritture si chiama anche« SEGNO«. [...OMISSIS...] Nel capo LXVI d' Isaia Iddio parla manifestamente della generazione spirituale degli uomini, e dice alludendo a' tempi della venuta del Messia: [...OMISSIS...] e dopo vien subito a descrivere le glorie e la felicità della Chiesa, e dopo aver detto che le genti verranno e vedranno la sua gloria soggiunge: [...OMISSIS...] . Or questo segno è quel vessillo nominato tante volte in Isaia, cioè il venturo Messia (3). Cristo adunque è quello che« segna« gli uomini colla impressione di sè in essi e in tal modo dà loro l' adozione di figliuoli. Di qui s' intende chiaro perchè si dica da' Teologi, che Cristo non ha il carattere (4). Gli altri uomini hanno bisogno di essere segnati da lui, ma egli che è quello che segna non è segnato da altri, non può aver bisogno di esser segnato: gli altri uomini ricevendo l' impressione di Cristo partecipano la figliuolanza di Dio, ma Cristo è figliuolo di Dio per natura e non ha bisogno di partecipare della detta figliuolanza (5). Laonde quando Cristo è chiamato nelle Scritture« patto« egli si considera in sè come l' oggetto dell' alleanza di Abramo; quando è chiamato « segno« egli si considera ne' Cristiani ne' quali viene congiunto col Battesimo. La circoncisione all' opposto era bensì« segno« del patto; ma non il« patto stesso« come Cristo si appella (6). E quindi ancora apparisce ragione perchè i Teologi chiamino il carattere una consecrazione dell' anima (7). Consecrare una cosa è destinarla al culto divino, deputarla all' onore di Dio, a lui offerirla, acciocchè egli se ne serva a suo piacimento maggiore. Or io dico di più, che questa sola è vera consacrazione: perocchè interiore. Il Verbo stesso prende il possesso dell' anima, e mette in essa la sua fede, e l' anima così è nelle mani del Verbo consegnata. Or tutti i riti esterni non possono che significare la volontà degli uomini di destinare un oggetto qualunque al culto di Dio; ma non valgono a far sì che Iddio veramente ne prenda uno speciale possesso; o certo que' riti non costituiscono questo possesso stesso. All' incontro l' anima, ricevuto il carattere, è così al Verbo unita, che non può più scongiungersi; e però è veramente e perpetuamente al Verbo e dal Verbo consecrata (1). Anche per tal modo ha dato un verace e reale fondamento alla religione: ella non si assolve più in simboli esterni, ma ha per base una vera consecrazione. Di qui ugualmente si vedrà perchè S. Tommaso, seguito da tutti i Teologi, dica, che « i caratteri Sacramentali sono puramente altrettante partecipazioni del sacerdozio di Cristo, da Cristo medesimo derivate« (2). » Il sacerdozio di Cristo non terminava in offerire solamente degli esterni sacrifizii, senza propria virtù; offeriva un sacrificio interno, infinito, che era il massimo atto di culto e l' esaurimento di ogni morale perfezione. Egli avea una virtù propria, infinita, e il suo effetto non potea mancare; lucrava le anime degli altri uomini e le santificava. Questa virtù, che avea Cristo come sacerdote, di placare Iddio e tirarlo per così dire ad abitare nell' anime a cui si applicava l' effetto di quel sacerdozio, viene partecipata ai cristiani e forma il carattere indelebile. Dice il Bellarmino, come abbiamo anche di sopra notato, che in virtù del carattere viene stretto fra l' uomo e Dio un patto, pel qual patto Iddio si obbliga di concorrere alle azioni sacramentali, cioè a dire a tutti i mistici effetti de' Sacramenti (3). Noi abbiamo osservato, che non è propriamente un patto positivo la ragione per la quale Dio concorre agli effetti de' Sacramenti amministrati e ricevuti da chi ha il carattere; ma che la ragione di ciò è la virtù sacerdotale del Verbo impresso nell' animo (1). Perocchè Cristo fece ritornare, come accennammo, la condizione del primo stato d' innocenza, in cui non erano d' uopo de' patti positivi fra l' uomo e Dio (2). Di che Cristo ridusse al suo vero effetto ciò che al popolo Ebreo non era stato che promesso, ed esteriormente in varii simboli rappresentato: cioè di rendere il popolo « un regale sacerdozio, una gente santa« (3), » che viene a dire consecrata al divino culto. Cristo adunque potea solo essere un sacerdote verace, potente di chiamare Dio dal cielo e farlo amico dell' uomo; e di questa virtù sacerdotale comunicò all' uomo comunicandogli sè stesso. Tale è la natura del carattere. Noi abbiamo considerato in primo luogo il carattere in sè stesso, cioè nella sua qualità di carattere, e come tale l' abbiamo diffinito una unione permanente del Verbo colla essenza dell' anima intellettiva, per la quale l' anima percepisce il Verbo e se ne informa. Di poi l' abbiamo considerato come potenza, perocchè questa forma nuova dell' anima le aggiunge un potere soprannaturale che non avea prima; e questo potere la fa atta a due altissime e al tutto divine operazioni, cioè ad esercitare il culto del sacerdozio di Cristo e a partecipare della grazia (1). Abbiamo parlato della potenza che si riferisce agli atti sacerdotali o sacramentali; ora dobbiamo parlare della potenza che si riferisce alla grazia e alla santificazione dell' uomo. L' ordine in che stanno fra loro questi tre aspetti, in cui il carattere può considerarsi, è appunto questo accennato, che prima sta il carattere come carattere dell' anima, di poi viene il carattere come potenza del sacerdozio, e in terzo luogo il carattere apparisce come potenza della grazia. Rispetto all' ordine in che stanno questo due potenze che procedono dal carattere, l' angelico Dottore dice così: [...OMISSIS...] . Qui S. Tommaso mostra di considerare la disposizione o potenza dell' anima ad eseguire le cose appartenenti al culto come una conseguenza del carattere, e però non come carattere stesso: la nozione dunque di carattere, come carattere, precede a quella di potenza. Prosegue poi: [...OMISSIS...] . E in queste parole l' Angelico conferma ciò che abbiamo di sopra dimostrato, cioè, che il culto cristiano essendo principalmente interiore s' immedesima, rispetto a questa sua principal parte, colla santità. Vedesi ancora nelle stesse parole, come il potere di ricever la grazia venga dopo il potere di esercitare gli atti di culto, come il potere di esercitare gli atti di culto viene dopo il carattere preso nella sua propria nozione. Per questo medesimo la grazia è chiamata dal Maestro delle scuole « l' ultimo effetto del Sacramento« (1) » ed il carattere è detto il «« segno della grazia« (2). » Indi è che tutte le scuole convengono nell' affermare che il carattere precede alla grazia (3). Io dirò di più: il carattere precede alla grazia come la causa all' effetto. Questo essere intrinseco pensiero delle scuole cristiane vedesi da ciò, che il carattere si appella da esse concordemente« Sacramento«, nè così potrebbe appellarsi propriamente, ove segnando la grazia, non valesse altresì di sua natura a produrla, perocchè i Sacramenti della nuova legge hanno questo di proprio, che sono segni al tutto efficaci, ove non sia posto alcun obice volontario a questo loro effetto di santificazione. S. Paolo favellando del carattere dice: « Non vogliate contristare lo Spirito Santo, nel quale siete stati segnati nel giorno della redenzione« (4), » cioè del vostro Battesimo (5). Che vuol dire contristare lo Spirito Santo? Non altro che perdere la grazia colla commissione del peccato. Dunque lo Spirito Santo, nel quale siamo segnati, segnandoci, cioè imprimendoci il carattere, ci avea donata altresì la grazia. Egli è manifesto che S. Paolo in questo passo unisce il carattere e la grazia di una cosa sola, e considera queste due cose come effetti di una sola operazione dello spirito de' quali il principale e fondamentale è il carattere; e non pone che questa differenza fra l' esservi o non esservi la grazia, che nel primo caso lo Spirito Santo che segna l' anima è lieto ed amico, nell' altro caso egli è contristato. Anche in altri luoghi l' Apostolo unisce il carattere e la grazia come venienti dallo stesso fonte dello Spirito Santo, e come effetti di una sola operazione di lui (6). S. Paolo chiama altresì lo Spirito Santo che ci ha segnati, secondo la Volgata, « pegno della celeste eredità , » e secondo la forza della parola greca, « arra della elezione nostra (7): » il che viene a dire parte della gloria futura: giacchè l' arra è parte della cosa promessa che si anticipa in pegno del tutto, e ciò non si può intendere che nella grazia. I Padri della Chiesa tengono la stessa maniera di parlare, S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Qui dà il santo Vescovo per ragione dell' esser noi segnati questa, che un tal segno ci fa possenti a mantenere la grazia; il che mostra appunto come il carattere si possa chiamare la potenza della grazia, cioè la potenza di partecipare stabilmente della grazia del Redentore. In altro luogo dice il medesimo Dottore della Chiesa: [...OMISSIS...] . Qui congiunge al segnacolo spirituale i doni dello Spirito Santo, e mostra come dipende dalla buona volontà nostra il mantenerne gli effetti. Non poteva però far dipendere dalla volontà nostra il mantenimento del segnacolo stesso, che questo santo Padre in più luoghi dimostra al tutto indelebile. Questo segnacolo è chiamato« santo« (3) comunemente da' Padri, il che non sarebbe propriamente detto quando non aggiungesse all' anima alcuna santità. Però un celebre scrittore ecclesiastico dice, che il peccato di un battezzato, è simile a quello di un vassallo che falsificasse il sigillo del principe, e che al carattere indelebile dee susseguire la santità (4). Finalmente osservò che il Battesimo opera in virtù della passione di Cristo, e anche per questa cagione prova S. Tommaso che non si può rinnovare (5). Ora la ragione assegnata da' Concilii del non potersi rinnovare il Battesimo è quella dell' impressione del carattere indelebile. Ciò posto odasi il ragionamento di S. Tommaso: [...OMISSIS...] il che viene a dire, che tolto l' obice del peccato colla Penitenza, la virtù del Battesimo che rimane riproduce nell' anima la grazia battesimale. Ora perchè lo stesso ragionamento non si può applicare al Sacramento della Penitenza? Non per altro, dico io, se non perchè il Sacramento della Penitenza oltre la grazia non produce altro effetto, e però chi pecca dopo l' assoluzione sacramentale perde tutto l' effetto del Sacramento. Non così nel Battesimo, perocchè questo lascia il carattere anche dopo perduta la grazia, e questo carattere è radice sempre viva dalla quale, levato il peccato che la impediva, pullula e fiorisce l' ultimo effetto del Sacramento, cioè la grazia battesimale (1). Lo stesso si dica della grazia del Sacramento della Confermazione e dell' Ordine, che perduta col peccato, risuscita di bel nuovo tostochè il peccato sia tolto: perocchè rimane il carattere, il quale è quel fonte descritto da Gesù Cristo, che pullula un' acqua saliente in vita eternale (2). Il naturale effetto adunque del carattere è di santificare gli uomini colla emanazione di sè della grazia, e quando questa emanazione è impedita dalla perversa volontà, riman però viva nel carattere la potenza di riprodurla. Per questa natural congiunzione colla grazia santificante, di cui il carattere è come un fonte, viene altresì che i Padri attribuiscono al carattere l' essere segno di distinzione fra quelli di cui Cristo ha preso il possesso e fatti suoi, e gli altri da Cristo non posseduti; al qual segno gli Angeli li riconoscono e li difendono dalle nemiche insidie, o li separano e mettono, al tempo della messe, alla parte de' salvi. Di ciò credere v' è fondamento nelle Scritture. Perocchè di Cristo propriamente sta scritto, che [...OMISSIS...] . Ora se il carattere è appunto Cristo congiunto immobilmente coll' uomo nella sua parte intellettiva, ne viene che gli Angeli debbano esercitar quell' officio anche verso dell' uomo così segnato, che è come a dire Cristo per partecipazione. Però S. Basilio coerentemente al parlare delle Scritture dice, che Iddio dà le tessere a chi milita sotto di sè, soggiungendo: [...OMISSIS...] . Però io non vedo come alcuni teologi nieghino di conoscere a figura del carattere indelebile il sangue onde furono segnate le soglie delle porte de' figliuoli d' Israello in Egitto, quando passò l' Angelo uccidente i primogeniti; perocchè anzi non veggo cosa più acconcia di quel segno a significare il carattere di Cristo. Questo carattere viene impresso in virtù della passione di Cristo, per la quale operano i Sacramenti cristiani, ed è segno che difende i segnati dalla morte (1). Nè nuoce alla verità della similitudine, che il carattere non difenda i cristiani peccatori dalla dannazione; perocchè questo è accidentale impedimento posto al carattere, che per sè conseguirebbe indubitatamente quel salutevole effetto. Quindi anzichè con tali teologi, io me ne sto co' Padri più antichi della Chiesa a' quali non isfuggì la manifesta similitudine fra il segno del sangue nelle superliminari imposte degli Ebrei, e il carattere di Cristo ucciso, sulla cima dell' anima che è la sua parte intellettiva. E a conferma di ciò basti questo luogo di Gregorio Nazianzeno sopranomato il teologo per l' eccellente esattezza di sua dottrina: [...OMISSIS...] . Per la medesima ragione a me pare dover intendere del carattere quel T onde Ezechiele (3) predisse doversi segnare le fronti di que' che gemono e piangono, e onde nell' Apocalisse si affermano segnati gli eletti (4). Non è già che il Tau non significhi acconciamente la croce di Cristo, come oppongono quelli che negano esser egli figura del carattere. Ma appunto perchè egli è il segno della croce, sembrami acconcissimo a indicare il carattere che viene impresso in virtù della passione di Cristo (1). E si vorrà sostenere che le fronti di tutti gli eletti sieno improntate di una croce materiale? Il rito del segno della croce usato nella Chiesa non lascia nissuna impronta nella fronte corporalmente presa; ed Ezechiele parla di un segno che rimane nella fronte, scrittovi con inchiostro mistico, non dalla persona segnata, ma da un uomo biancovestito, che si descrive dal Profeta (2) e che si chiama espressamente un Angelo nell' Apocalisse « il quale ha il segno del Dio vivo« (3). » La fronte poi è acconcissima a indicare la parte suprema dell' anima in cui viene impresso il carattere. Solamente si può aggiungere, che il segno di cui parla l' Apocalisse, non è il carattere solo, ma unito colla grazia, poichè è quello di cui sono segnati gli eletti. E per la medesima ragione, onde al carattere gli Angeli conoscono quelli cui difendono, i demonii conoscono quelli da cui hanno a temere: [...OMISSIS...] . S' intende anche da ciò che è detto, perchè i Padri della Chiesa veggano nel carattere una caparra della celeste gloria: egli è quella luce del Verbo che rivelatasi interamente forma la celeste gloria. Spiegando quelle parole di S. Paolo « quegli che ci unse e segnò« (1) » Teofilatto dice, che [...OMISSIS...] . Il carattere, come abbiamo detto, è una cotal percezione del Verbo. Il Verbo lucente nell' anima produce varii effetti, che a due classi si riferiscono: la prima al potere del culto divino che nelle azioni sacramentali principalmente consiste; la seconda nel potere di partecipare stabilmente alla grazia del Redentore, ove non sia posto obice alcuno dalla volontà. Il Sacramento della Penitenza e quello dell' estrema Unzione ha per iscopo di levare dall' anima il peccato che è appunto l' obice che impedisce la infusione della grazia dal carattere di natura sua promanante; però questi due Sacramenti non imprimono carattere, ma lo suppongono. Il Matrimonio è un sacramento la cui essenza consiste in un contratto consumato e indissolubile. Lo scopo è di rappresentare l' unione di Cristo colla Chiesa, e però di santificare l' unione maritale a quel modo che è santa l' unione di Cristo. Perciò egli suppone bensì che ne' singoli contraenti sia già impresso il carattere, fonte della santificazione; ma egli nol dà questo carattere, non avendo un tal Sacramento di mira tanto la santificazione dei singoli in generale, quanto la santificazione dell' atto della loro unione particolare. E come l' unione maritale non è che una unione particolare delle persone, perciò essa non può che aggiunger loro un grado di santità speciale e grazia, ove le persone stesse si suppongano esser già nella grazia. Finalmente l' Eucaristia è l' unione di Cristo all' uomo per via della sua umanità in forma di cibo. Sono i corpi che si congiungono, di Cristo e del cristiano. Ora il carattere risiede nella parte intellettiva dell' uomo e non ne' corpi. Perciò l' Eucaristia non imprime il carattere. Ella è l' ultima finale santificazione dell' uomo che abbia il carattere e la grazia; perocchè come il carattere risiede nella parte intellettiva, così l' Eucaristia opera nella parte corporea e da questi due fonti procede la grazia nel cristiano acconciamente disposto. E avviene per la grazia che nella volontà risiede principalmente, che tutto l' uomo sia santificato tanto la parte spirituale che la corporale. Rimangono i tre Sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell' Ordine che imprimono il carattere, come detto abbiamo, imprimendo il Verbo nell' anima coi descritti effetti. [...OMISSIS...] Di ciascuno de' Sacramenti della nuova legge noi vogliamo parlare del modo ond' egli opera, e degli effetti che produce. Cinque sono i modi di operare de' Sacramenti della nuova legge. Perocchè operano o in modo simile a quello onde opera una medicina, o simile a quello onde opera il cibo, ovvero a quella maniera onde si comunica una potestà, o a quella onde si pronunzia dal giudice una sentenza, o finalmente a quella onde si stringe ed effettua un contratto. Per modo di medicina operano i tre Sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell' estrema Unzione, i quali hanno una materia propriamente detta che applicano al corpo umano, come s' applica un rimedio alle corporali infermità, e quella materia è l' acqua del Battesimo e l' olio della Cresima e dell' estrema Unzione: per modo di cibo opera la SS. Eucaristia: per modo di comunicazione che altrui si fa di una potestà opera l' Ordine, nel quale la imposizione delle mani affigura la congiunzione dell' ordinante e dell' ordinato: per modo di giudizio opera il Sacramento della Penitenza assolvendo o ritenendo i peccati: per modo di contratto finalmente opera il Matrimonio che è un sacro contratto fra gli sposi. Poniam dunque mano a trattar brevemente di ciascuno de' sette Sacramenti della nuova legge; e prima del Battesimo, che è principio e porta di tutti gli altri. Non mi sta nell' animo di tenere su questo primo Sacramento del Battesimo lungo ragionamento, perocchè bastano al fine nostro le cose dette qua e là in quest' opera, che raccolte insieme, sufficientemente dichiarano la natura e gli effetti di questo lavacro di rigenerazione. Le raccorremo dunque tutte insieme ordinatamente e brevemente: e con questa recapitolazione ci studieremo di aggiungere qualche nuovo lume alle medesime. Osservammo adunque, che l' umanità di Cristo è il veicolo della santificazione degli altri uomini (1). Però prima che comparisse al mondo questa sacratissima umanità non vi poteva avere compiuta e reale santificazione. « La legge fu data per Mosè, la grazia, la verità fu fatta per Gesù Cristo« » disse Giovanni Battista, il quale confessava di avere ricevuto « dalla pienezza di Cristo« (2). » Il modo onde l' umanità di Cristo comunica la santità all' umanità degli altri uomini, non potea essere che pel contatto delle sue sacratissime carni da cui usciva virtù di sanare non meno il corpo che l' anima (3): purchè in quelli che toccavano il sacratissimo corpo, non vi avesse mala disposizione (4). Il contatto però delle carni sacratissime di Gesù Cristo vivente in questo mondo non potea essere che di pochi; e l' amore di Cristo voleva che la santificazione dovesse potersi comunicare agli uomini di tutti i luoghi, di tutti i tempi. A sì grande uopo egli comunicò la virtù che usciva dalle proprie carni a degli elementi materiali, e così istituì i Sacramenti. E questa comunicazione medesima noi crediamo venir fatta mediante un mistico ed ineffabile contatto del corpo glorioso e invisibile di Gesù Cristo cogli elementi costitutivi delle materie sacramentali. Perocchè la virtù santificatrice uscente dal corpo di Cristo è tale, che non pur santifica l' umanità degli altri uomini immediatamente al contatto con essa, ma dà la virtù santificante anche a quegli elementi inanimati che ella a sè congiunge e tocca, i quali elementi dagli uomini toccati producono in essi santificazione. Come ciò avvenga, non vogliamo noi perscrutare troppo curiosamente; basti il cenno fattone innanzi (1). Osserveremo solo, che la virtù santificatrice uscente dal corpo di Cristo unito al Verbo, era però sempre soggetta e dipendente dalla volontà di Cristo; la quale poteva, secondo ciò che sapienza esigeva, variamente temperarla, raffrenarla, sommetterla a certe leggi e ben parse condizioni (2). Però appena che Cristo fu concepito e che nacque, non tutta si fece manifesta questa stupendissima virtù del suo corpo; parte a dir vero per la disposizione manchevole degli uomini (3), ma parte altresì pel consiglio della sua sapientissima e ordinatissima volontà. Or circa trent' anni si rattenne Cristo all' oscurità della vita privata: poi cominciò il divino suo pubblico ministero. Al cominciamento fu battezzato da Giovanni, e i Padri della Chiesa attribuiscono al contatto delle divine carni la virtù che ricevette l' acqua di mondare le anime degli uomini da' peccati (1). Ma perciocchè solo un po' di quell' acqua ebbe toccato veramente il divino corpo di Gesù Cristo (2); convien dire, che quel primo contatto dell' acqua del Giordano, in cui s' immerse il Redentore, fosse fatto, non tanto a comunicare effettivamente a tutte l' acque che non toccarono in quell' occasione il suo corpo la virtù di mondare i peccati, quanto a dimostrare la grande verità, che dall' umanità sua sacratissima usciva la virtù santificante e comunicavasi alle cose inanimate e materiali; e fosse fatto altresì a determinare il momento, in cui alla volontà sua piaceva di lasciare uscir libera di suo corpo quella virtù, il momento cioè dell' istituzione del Battesimo; e finalmente fosse fatto a indicare e significare il mistico e invisibile contatto reale di suo corpo coll' acque della rigenerazione (3). Nè il Battesimo così istituito traeva meno virtù dal sacrificio della croce, sebbene non ancora consumato. Perocchè un tal sacrificio era già consumato nel cuore di Cristo, i cui patimenti d' infinito valore erano già incominciati. Tuttavia il Battesimo in tal momento istituito dal divino Redentore non produceva ancora tutti quegli effetti, che da lui uscir doveano dopo la venuta dello Spirito Santo. In primo luogo egli non era ancora necessario alla salute, primieramente perchè non era ancora abrogata la legge Mosaica, che rimase estinta solo nella morte di Cristo; poscia perchè non era solennemente promulgata la legge Evangelica, che fu solo il dì della Pentecoste (1). Potrebbesi domandare, se il Battesimo da Cristo istituito, se non alla salute, fosse necessario almeno a riceverne i due essenziali effetti del carattere e della grazia abituale. Rispondo, vivente Cristo, il contatto delle sue sacratissime carni aver potuto a ciò supplire pienamente; quelli però che non erano a Cristo vicini e toccar nol potevano, aver avuto bisogno del Battesimo non alla salute, ma sì al conseguimento in questa vita di quei due mirabili doni. E facendoci più vicini a ricercare la differente virtù del Battesimo di Cristo appena istituito nel Giordano, e amministrato dopo la venuta del Spirito Santo, dico da prima non esser mancato nulla di ciò che appartiene all' essenza del Battesimo di Cristo appena ch' egli fu istituito; perocchè produceva i due effetti del carattere e della grazia. In che il carattere consista, l' abbiamo veduto, e così pure la grazia. E col carattere e colla grazia da lui uscente nasce l' uomo novello, l' uomo soprannaturale (2). Il primo concepimento di quest' uomo si fa mediante il carattere; ma il compimento di questa nascita non si ottiene che per la grazia. Conciossiachè essendo la persona un principio d' azione, e anzi il più sublime principio d' azione che sia nell' umana natura (3), apparisce che in alcun modo può dirsi col carattere nascer l' uomo, ma compiutamente non nascer che colla grazia. Cioè non può negarsi, che tosto che l' uomo riceve il carattere non abbia una nuova potenza in sè medesimo soprannaturale; ma essendo contraria la volontà, non v' ha ancor nell' uomo un principio volitivo soprannaturale, e nel principio volitivo è solo il principio d' azione compito. L' uomo che ha solo il carattere si potrebbe adunque dire aver in sua balìa la potenza di nascere soprannaturalmente, anzichè la nascita stessa (1). Perocchè il principio d' azione soprannaturale dell' uomo non è ancora posto in atto. Solo può essere all' atto ridotto, se la volontà si approfitta della luce del carattere ad operazione soprannaturale (2). Tostochè dunque il Battesimo fu da Cristo instituito, esso fu suo Battesimo, potente a rigenerar l' uomo col carattere e colla grazia. Tuttavia questi due effetti poterono sofferire diverse modificazioni ne' diversi tempi che corsero dal Battesimo di Cristo nel Giordano fino alla venuta dello Spirito Santo nel dì della Pentecoste: ed ecco in che modo. Il carattere è Cristo unito coll' anima, come abbiamo veduto. E Cristo non poteva unirsi coll' anima se non a quel modo in cui veramente si trovava essere. Dunque Cristo ancora vivente doveva unirsi coll' anima vivo; Cristo morto doveva unirsi coll' anima morto; Cristo glorioso doveva unirsi coll' anima glorioso. Nella gloria poi Cristo ebbe due stati, conversante in terra co' discepoli dopo la Resurrezione, e salito al cielo alla destra del Padre invisibile a' viatori e mandante di là lo Spirito Santo. In questi diversi periodi di tempo il Battesimo congiungeva all' anima del battezzato Cristo, in quello stato in cui si ritrovava. Or abbiamo detto, che dalla volontà di Cristo dipendevano gli effetti della virtù ineffabile della sua divina umanità; e che egli moderava e temperava questi effetti ordinatissimamente secondo che esigeva la infinita sua sapienza. E questa sapienza richiese, che a' diversi stati della sua umanità egli riserbasse certi effetti; e però che certi determinati doni e grazie provenissero dalla sua umanità ancora vivente in questo mondo, certi altri scaturissero dalla sua morte; certi dal suo corpo risorto, e finalmente certi dall' umanità sua già posta nell' altissimo trono de' cieli alla destra del Padre. Laonde il Battesimo acquistò virtù successivamente dall' umanità di Cristo a produrre tutti que' diversi effetti. S. Paolo parlando del Battesimo, amministrato a' fedeli dopo che gli Apostoli ebbero ricevuto lo Spirito Santo, attribuisce gli effetti di questo Sacramento appunto ai varii misterii o stati di Cristo. [...OMISSIS...] Qui l' effetto della giustificazione viene attribuito alla giustizia di Cristo senza farsi ancor menzione di sua morte. Prosegue l' Apostolo: « Ignorate forse, che tutti voi quanti siete battezzati in Cristo Gesù siete stati battezzati nella morte di lui?« (2). » Di che trae questa conseguenza. « Noi che siamo morti al peccato in che maniera vivremo ancora in esso?« (3); » attribuendo così alla morte di Cristo l' effetto della perseveranza nella grazia di lui e l' esser morti interamente al peccato. Però il Battesimo dopo la morte di Cristo dovea una virtù maggiore manifestare aggiungendo all' uomo forza di vincere la concupiscenza, che S. Paolo dice crocifissa in Cristo, e tal forza, per la quale l' uomo, che ad essa debitamente risponda, può vivere come morto al peccato, vivendo di una vita al tutto spirituale, secondo ciò che dice l' Apostolo: « Voi poi non siete più nella carne, ma nello spirito« (4). » Come poi dalla vita di Cristo veniva la giustificazione, e dalla morte il fermo proposito di non più peccare; così dalla Risurrezione l' Apostolo stesso deduce l' effetto di una luce maggiore data all' anima, la quale intende e comincia a partecipare le gioie della vita gloriosa. Il qual effetto non potea produrre il Battesimo, se non dopo la resurrezione: [...OMISSIS...] . E dice alla similitudine della sua morte e della sua risurrezione. Perocchè tutto l' operare di Cristo tende mai sempre a render simili i suoi redenti a sè stesso causa esemplare; e però non è credibile cosa che partecipasse ad essi quanto in sè non era proprio pienamente compito. E si osservi come la causa esemplare non è altro che una rappresentazione o effettuazione di ciò a cui altri si dee conformare; è una norma, un' immagine e quasi una pittura originale onde debbono ritrarre le copie. Ciò dunque che Cristo esprime in sè stesso quale esemplare, è ciò che produce volontariamente ne' suoi santi tali cose: nello stato suo viene significato ed espresso quello stato che dee esser prodotto e che produce in questi. Di qui la ragione perchè anche i Sacramenti sieno segni ed espressioni di ciò che producono. Ma ciò che esprimono e significano, non è condotto ad effettuazione se non dal corpo di Cristo, come istrumento della divinità; e però si richiede che lo stato di questo corpo sia acconcio a tali effetti: e questa è la perpetua dottrina di S. Paolo. [...OMISSIS...] Parole che assai acconciamente esprimono come dalla morte di Cristo scaturisca qual proprio effetto la piena vittoria dell' uomo sulla sua concupiscenza: per la qual vittoria l' uomo non pregia più il corpo presente e i desiderii di lui, ma il tiene per morto e alla morte volentieri l' abbandona: il che è quanto dire, proprio effetto della morte di Cristo è il distacco da tutte le cose umane. Della risurrezione all' incontro proprio effetto è l' unione e la percezione sensibile delle cose divine: « Se poi siamo morti in Cristo, crediamo che vivremo anche insieme con Cristo« (3). » Dalla costanza poi della vita nuova di Cristo viene la costanza della percezione delle cose divine. [...OMISSIS...] Alla Ascensione poi di Cristo appartiene lo Spirito Santo che dalla destra del Padre Cristo mandò sulla terra: « Dio è che giustifica, chi è che condanna? Cristo Gesù che è morto, anzi che è risorto, che sta alla destra di Dio, che anche interpella per noi« (1): » cioè che prega e ottiene dal Padre lo Spirito Santo e i doni per gli uomini. E dopo la venuta dello Spirito Santo sopra gli Apostoli questo stesso s' infonde nel santo Battesimo. Già abbiamo veduto che cosa voglia dire propriamente l' espressione biblica del « ricevere lo Spirito Santo« (2). » Or a me pare, che con questa dottrina si possa conciliare colla sentenza degli altri Padri quel celebre passo di S. Leone, nel quale questo Sommo Pontefice e accuratissimo Dottore sembra di volere insegnare, che il Battesimo di Gesù Cristo sia stato istituito solamente dopo la sua risurrezione. Secondo noi il sommo uomo volgeva allora nell' animo quell' effetto particolare, che cominciò al Battesimo solo dopo la risurrezione di Cristo, come pure l' istituzione espressa della forma da usarsi nel Battesimo; non precisamente la prima istituzione di questo Sacramento. Si ascolti come parla il santo Dottore e veggasi come le sue parole possano ricevere il significato che noi loro attribuiamo. Egli scrive a' Vescovi di Sicilia, che il dì di Pasqua è il più conveniente ad amministrarsi il Battesimo, e il prova con queste parole: [...OMISSIS...] . Ora perchè mai questa virtù del Battesimo, di cui parla S. Leone, non si può intendere di quella, che anche noi diciamo essersi aggiunta a questo Sacramento colla divina Risurrezione? La specie poi dell' azione nacque al Battesimo dall' aver in quel dì fatta Cristo espressa menzione della forma onde egli voleva che indi in poi il Battesimo suo fosse amministrato, cioè coll' espressa menzione della santissima Trinità. Ma non potea per innanzi amministrarsi ugualmente il Battesimo colla nuncupazione del solo Cristo? il tener ciò non è punto sentenza dalla Chiesa riprovata (4). D' altra parte, egli pare più conveniente, che così passar dovesse la cosa; perocchè il Verbo erasi bensì comunicato agli uomini ma non ancora lo Spirito Santo, come espressamente dice S. Giovanni: « Lo spirito non era ancor dato, perocchè Cristo non era ancora glorificato« (1). » Or non essendo dato ancora lo Spirito Santo, nè per conseguente quella che noi abbiamo chiamata grazia triniforme , pare assai probabile secondo noi, che la Trinità non potesse essere nominata e invocata pel conferimento del Battesimo, ma solo il Verbo; ricevendosi con tale Sacramento allora solo la grazia chiamata da noi verbiforme . Si dirà che lo Spirito Santo non era ancor dato subito dopo la Risurrezione, essendo venuto sugli Apostoli il dì di Pentecoste. Rispondo, che, in questo dì venne [lo Spirito Santo] sugli Apostoli con ogni pienezza, secondo le parole degli Atti apostolici « furono tutti ripieni di Spirito Santo (2) » e ancora «« riempì tutta la casa dove stavano a sedere« (3); » ma che però erasi cominciato dare agli Apostoli subito dopo la Risurrezione, come quando soffiò Cristo verso gli Apostoli, e disse: « Ricevete lo Spirito Santo« (4), » e come allora che disse in presente « ed io mando il promesso del Padre mio in voi« (5), » volendo significare che già glorioso com' era poteva da sè mandarlo, se non che attendeva di salire al Padre, per mandarlo di là pienamente. Ed è degno di osservarsi altresì, che sebbene agli Apostoli fosse, solo dopo la Risurrezione, ordinato di battezzare tutti gli uomini, e da quell' ora ne avessero ogni potestà, fatti veri e ordinarii ministri di questo Sacramento (6); tuttavia era loro ordinato di aspettare la venuta piena e solenne del Santo Spirito prima che ponessero mano a esercitare un tanto ufficio di battezzare il mondo tutto. Il perchè dopo accordatagli una tale facoltà, Cristo soggiunse però ancora: « Voi poi sedete nella città fino a tanto che siate rivestiti dall' alto di fortezza« (7) » venendo così loro a dire: sostenete però a esercitare questo vostro grande ministero fino a che riceviate lo Spirito Santo, e possiate allora comunicare la pienezza degli effetti del Battesimo. Al quale sentimento pare anco alludere il Redentore, quando chiamò la venuta dello Spirito Santo Battesimo , Battesimo suo proprio, e tutt' altro da quel di Giovanni. [...OMISSIS...] E allora battezzati voi pienamente col Battesimo mio, il potrete conferire anco agli altri uomini; essendo già il cielo apertosi e disceso sul mondo il mio Spirito, onde viene al Battesimo dell' acqua ogni sua forza. Sì, dopo la Risurrezione gli Apostoli ricevettero, come dice S. Leone, la forma del Battesimo che poi si usò nella Chiesa; e la potestà di esercitarlo, essendo da quell' ora costituiti ministri ordinarii di questo Sacramento; ma la ricevettero questa potestà e quest' ordine di battezzare il mondo, perchè ne facessero uso solo dopo il dì della Pentecoste (1). Nè questo toglie punto che il Battesimo di Cristo forse instituito già prima, atto a produrre tutti i suoi essenziali effetti; sebbene poscia vi si aggiungessero degli effetti maggiori e nuovi secondo i misteri diversi che si succedevano e adempivano nel Salvatore. Nè in tal caso era bisogno che il battezzato avanti la morte di Cristo, si ribattezzasse dopo di questa, perocchè egli aveva il germe di tutti gli effetti futuri, i quali venivano in lui sviluppandosi più tardi all' occasione che Cristo mutava di stato e rendeva più efficace il carattere e la grazia già ricevuta (2). Or proseguiamo. Fin qui abbiamo parlato dei diversi effetti del Battesimo corrispondenti agli stati diversi del corpo di Cristo quanto all' ordine della grazia nella vita presente: ora tocchiamo la diversità degli effetti del Battesimo quanto alla futura. Il battezzato che fosse morto prima di Cristo, sebbene non potea essere ammesso alla gloria, perchè Cristo era ancora sofferente in terra; tuttavia dovea a differenza de' giusti morti senza Battesimo ritenere l' impressione del carattere e della grazia di Cristo come nobilissima e gloriosa insegna e certa caparra di futura gloria, e per tal marchio dovea avere una mistica comunicazione con Cristo ancora vivente e di essa non poco godere. Dopo la morte di Cristo poi l' anima battezzata e senza peccato era ammessa alla visione di Dio per la visione del Verbo e dell' anima di Cristo già gloriosa. Imperciocchè Cristo avea finito di patire e meritato tutto: sicchè l' anima di Cristo, scevra oggimai di ogni molestia, abbandonavasi volontariamente nelle delizie della unione ipostatica senz' altro affanno, benchè il corpo non fosse ancora surto alla gloria. L' anima del battezzato però sebbene già beata non dimoravasi per questo in cielo, ma là dove era Cristo, a cui stavasi unita; l' essere in cielo è aggiunta di maggior gloria e felicitazione. Nella parola però detta da Cristo al ladrone: « Oggi tu sarai meco in Paradiso« (1), » questa voce di Paradiso pigliasi per la stessa visione beatifica, venendo a significare che Paradiso è ogni luogo per l' anima che vede Dio (2). Dice però meco facendo conoscere che la beata visione quel ladro acquistavala per la unione con Cristo. Dal corpo poi risuscitato del Redentore il Battesimo acquistava virtù di ravvicinare e risuscitare il corpo degli altri uomini; venendo dato all' anima, con esso il Battesimo, quello spirito potente che ha virtù di aggiungere vita alla materia inanimata, e di cui parla S. Paolo, ove dice: [...OMISSIS...] il quale spirito secondo l' Apostolo rivela, cioè mostra con esteriori segni di gloria quali siano i figliuoli di Dio (4). E qui non sarà utile aggiungere parola del Battesimo considerato come segno. Definizione di S. Agostino è questa: « Sacramento è segno di cosa sacra« (5). » Ma che è poi questa cosa sacra significata ne' Sacramenti? Il Catechismo del Concilio di Trento risponde: [...OMISSIS...] . Si potrebbe anco aggiungere che per la cosa sacra significata ne' Sacramenti si comprende non meno la grazia che il carattere, potendosi anche questo contenere sotto il significato generale di grazia, essendo anche il carattere una grazia o dono gratuito di Dio, e il fonte, come detto è, dell' acqua viva della grazia. Or a significare la grazia non era altra via che rappresentare la causa prossima della grazia e i suoi effetti ; perocchè essa grazia propriamente non può essere effigiata, come quella che niente ha che fare colle sensibili cose. Però l' Eucarestia, a ragion d' esempio, significa ad un tempo il corpo ed il sangue di Cristo commestibile, che è la causa prossima e il fonte di quella grazia che nell' augustissimo de' Sacramenti si contiene, e per esso corpo, sotto la specie di pane e di vino, la grazia nel suo effetto della nutrizione e incorporazione spirituale (2). Applicando la stessa dottrina al Battesimo apparrà chiaramente, perchè egli significhi ad un tempo la morte , la sepoltura e la risurrezione di Cristo; essendo Cristo morto, seppellito e risorto la cagione prossima de' diversi gradi di grazia, che nel Battesimo vengono conferiti: e nello stesso tempo rappresentano la grazia medesima per mezzo degli effetti che in noi produce, configurandoci al nostro esemplare Gesù Cristo. Così appariscono connessi insieme e ridotti ad unità tutti i diversi significati da' Padri e Scrittori ecclesiastici al Battesimo attribuiti (3). Diciamo grazia sacramentale a quella che è proprio e peculiare effetto di un Sacramento. Non è più difficile definire qual sia la grazia sacramentale del Battesimo, dopo tutto ciò che abbiamo ragionato intorno a questo Sacramento. La grazia sacramentale del Battesimo consiste nella comunicazione della vita soprannaturale di Gesù Cristo. Gesù Cristo possiede la pienezza della vita soprannaturale in proprio e per primordiale costituzione a cagione dell' unione ipostatica in lui avverata fra la natura umana e divina. Perocchè la vita soprannaturale consiste nell' unione reale fra l' uomo e Dio (1). Cristo ottenne dal Padre di comunicare della propria vita agli altri col merito della sua passione: l' ottenne per giustizia, e non per grazia. In conseguenza di che nacque ciò che disse S. Giovanni: [...OMISSIS...] . La comunicazione della vita di Cristo agli altri uomini si fa in un modo simile a quello della comunicazione della vita naturale alle particelle inanimate del cibo. Queste particelle non hanno la vita prima d' essere accostate strettamente alle parti vive del corpo, come accade nella nutrizione: accostate nel modo debito alle parti vive, ricevono la vita divenendo carne e sangue vivo. Così abbiamo detto che il corpo di Cristo comunica la vita spirituale a questi uomini che unisce a sè, e la comunica non solo per l' immediato contatto, ma ben anco con dei mezzi, il primo dei quali è l' acqua. Convien riflettere a quello che fu già detto altrove, cioè che quando l' uomo acquista la vita soprannaturale, o visione incipiente di Dio, non nasce già alcuna mutazione in Se stesso, che è immutabile, onnipresente e conoscibile per sè stesso; ma nasce solo una mutazione nell' uomo che acquista la virtù visiva a quel modo come se si desse vita ed occhi ad una pianta in sul pieno meriggio; la qual pianta comincerebbe pur allora a vedere il sole senza che fosse nata alcuna mutazione nel sole. E volendo parlare ancora più accuratamente, dovrebbesi dire, che l' uomo rigenerato soprannaturalmente, riceve non tanto la virtù visiva quanto la stessa visione. L' uomo dunque pel Battesimo s' incorpora a Cristo, secondo la frase consacrata dalla Chiesa, e così partecipa , in Cristo, della visione di Dio che ha Cristo. Che questa incorporazione poi dell' uomo colla umanità sacratissima di Cristo, la quale si opera ineffabilmente nel Battesimo, sia un' unione sostanziale comunicante la stessa vita, e non una unione puramente accidentale, apparisce da quelle diverse similitudini usate da Cristo a significare l' unione di sè coi discepoli suoi. Perocchè ora rappresenta sè come una vite, e i discepoli come tralci che escono dalla vite, onde ricevono la nutrizione e tutta la vegetazione (1); talora egli è il capo di un corpo del quale i discepoli suoi formano le membra (2); altra volta egli è il seme marcito sotterra dalla sostanza del quale sbuccia l' albero rappresentante la Chiesa (3): e non di rado Egli è il cibo che si converte nelle carni e nel Sangue dei suoi diletti; tutte similitudini tolte da unioni sostanziali che avvengono nella natura. Dice ancora Cristo di sè stesso, che egli è la vita (4): di che apparisce, che gli uomini non possono avere la vita se non hanno Cristo, cioè se a lui non sono congiunti in una cosa sola, sicchè una stessa vita sia quella che a tutti si comunica, come una sola vita è quella di un solo corpo, una sola vita è quella che ricevono le particelle del cibo cangiato in carne e in sangue in un uomo vivo. Questa sostanziale e vitale unione adunque degli altri uomini con Cristo si opera nel Battesimo; e innanzi al Battesimo, la vita non è immanente nell' uomo. Abbiamo distinto l' effetto della santificazione dell' uomo, dall' unione sostanziale con Cristo, e abbiamo detto che in questa unione consiste il carattere. Acciocchè questa unione produca la vita compiuta dell' uomo è necessario che influisca a bene sulla volontà dell' uomo, inclinandola e convertendola a Dio. Questo avviene ove la volontà stessa non resista e ponga ostacolo col vigore suo proprio che si chiama libertà. In questo caso, nel quale la volontà ricalcitra (ciò che non può avvenire che nell' adulto) havvi nell' uomo la potenza, il principio, il germe della vita (l' unione sostanziale): ma non la vita nel compiuto suo atto, che solo nella volontà del bene si spiega. Dato adunque il carattere o unione con Cristo, primo effetto del Battesimo, potendo questo produr fuori le sue conseguenze, avviene: 1. La remissione del debito dell' uomo con Dio, quello del peccato originale, e quello del peccato attuale commesso avanti il Battesimo. Questo è ciò che si chiama nelle Scritture la morte dell' uomo vecchio (1). 2. La inclinazione buona della volontà proveniente da una luce nell' intelletto, nel che consiste propriamente la grazia positiva santificante. Questo è ciò che nelle Scritture suol dirsi la risurrezione dell' uomo nuovo (2), e che da' Padri è attribuita allo Spirito Santo. Questa prima grazia santificante, abituale, immanente nell' uomo è adunque la grazia sacramentale del Battesimo. Questa grazia del Battesimo differisce dalle grazie attuali e transeunti principalmente per la sua immanenza nell' uomo; perocchè essendo stabilmente dato all' uomo il fonte della grazia (il carattere), anche la grazia che da quello rigurgita è continua, ove ostacoli non vi si frappongano. Questa grazia battesimale è triniforme per le ragioni dette: i vestigi della Trinità che mette nell' anima sono: 1. un sentimento di Dio in Cristo (forza infinita), 2. una luce intellettiva, e 3. un amore al bene: tre elementi contemporanei dello stato di santità in cui l' uomo viene costituito. E qui ci sia permesso aggiungere a conclusione di quanto esponemmo sul Battesimo la dichiarazione di quel celebre passo di S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Quanto ne pare a me, questo passo risguarda il Battesimo. S. Giovanni parla di quelli che sono nati da Dio, e dice: « Tutto ciò che è nato da Dio, vince il mondo« (3). » Ora secondo la dottrina cattolica, l' uomo nasce da Dio pel Battesimo. Il nascimento dell' uomo pel Battesimo poi si fa mediante la fede che viene infusa nel Battesimo (4); cioè mediante quel lume datoci nel Battesimo, per lo quale noi cominciamo a percepire Iddio, e veggiamo che è degno di fede, e a lui crediamo e aderiamo colla nostra volontà. Quindi soggiunge S. Giovanni: « E questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede« (1). » Ma qual è l' oggetto immediato della nostra fede? Abbiamo veduto che nel Battesimo l' uomo viene congiunto immediatamente a Cristo, e per Cristo a Dio. Per ciò S. Giovanni proseguendo a dichiarare la nostra fede che vince il mondo ne fissa l' oggetto appunto in Cristo, dicendo immediatamente: [...OMISSIS...] . Ma resta a cercare: come è poi che Cristo si congiunge con noi, si fa sentire a noi, e così diviene l' oggetto immediato della nostra fede? Egli è qui che S. Giovanni tocca i mezzi adoperati da Cristo per congiungersi a noi, e dice che furono tre; cioè: 1. il suo sangue, pel quale si acquistò dall' eterno Padre il diritto e la piena libertà di poter comunicare agli uomini la percezione di Dio che era in lui piena e compita; 2. l' acqua che egli scelse perchè fosse il veicolo onde passasse negli uomini la vita soprannaturale; e finalmente 3 lo Spirito Santo che al tempo stesso che l' acqua monda il corpo viene infuso nell' anima di chi è battezzato. Descrive adunque S. Giovanni il modo onde Cristo produsse negli uomini la fede in lui: [...OMISSIS...] . Queste ultime parole spiegano la connessione del discorso di S. Giovanni. Lo Spirito testifica che Cristo è verità: è quanto dire, che Cristo è degno a cui si creda. Perocchè se noi veggiamo la verità, noi non possiamo a meno di crederle; sicchè per infondersi in noi la fede verso Cristo Gesù, basta che infonda in noi quel lume pel quale veniamo a conoscere che egli è la verità. Dice poi: Non nell' acqua sola; perocchè l' acqua sola non basta a salvarci; ma dovea ricevere la sua virtù dal sangue di Cristo, altrimenti sarebbe stata come l' acqua di S. Giovanni Battista o de' Battesimi dell' antica legge: conciossiachè Cristo solo coll' aver patito e sparso il suo sangue, come detto è, si acquistò dal Padre la signoria del genere umano. Ma il Battesimo non c' infonde solamente la grazia verbi7forme, cioè quella che ci fa conoscer Cristo; ma sì bene la grazia triniforme, come abbiamo veduto; conciossiachè in Cristo conosciamo il Padre che è principio di lui, e da Cristo riceviamo lo Spirito Santo, che procede dal Padre pel Figlio. Così la nostra mente è irraggiata da un trino raggio, il quale vieppiù ci attacca a Cristo, dal quale a noi venne. S. Giovanni adunque distingue quelli che non sono ancora rigenerati da quelli che già hanno avuto la soprannaturale generazione. Quelli che già sono generati e nati di Dio, avendo in sè la grazia triniforme, sono confermati da essa nella loro fede e unione con Cristo; ma quelli che non sono ancora rigenerati col Battesimo non possono esser condotti alla fede e all' unione di Cristo se non dall' acqua del Battesimo, che per la virtù del sangue del Redentore comunica loro lo Spirito. Per indicare i primi, usa S. Giovanni, secondo lo stile delle Scritture, la parola cielo , e per indicare i secondi usa S. Giovanni la parola terra e dice così: « Poichè tre sono quelli che danno testimonio (a Cristo) in cielo » (cioè nelle anime rigenerate dal Battesimo), «il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo, e questi tre sono una cosa. E tre sono quelli che dànno testimonio (a Cristo) in terra » (cioè agli uomini non ancora rigenerati dal Battesimo), «lo spirito e l' acqua e il sangue, e questi tre sono una cosa«, » o come dice il greco, sono volti a un solo fine (1). E chi ha meditato sulla lingua enigmatica delle Scritture, non troverà difficoltà alcuna sull' interpretazione de' vocaboli cielo e terra , il primo de' quali è spiegato da Cristo, come abbiamo detto altrove, quando disse che è il trono di Dio, e nissun trono ha Dio migliore delle anime sante; e così pure la voce terra , quando disse che è lo sgabello de' suoi piedi, similitudine tolta da' re d' Oriente, che facevano servire di loro sgabello il dorso de' principi captivati in battaglia e fatti schiavi, a cui ben si assomigliano gli uomini non rigenerati che servono colla loro soggezione alla maestà di Dio. Si consideri che sarebbe assurdo, se non erro, interpretare la parola cielo per lo stato de' beati, quasichè nella vita presente la Santissima Trinità non desse nessuna testimonianza a Cristo, quando anzi Cristo stesso adduce, parlando agli Ebrei, la testimonianza che gli rende il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo (1), e adduce contro essi il testo della legge, che « nella bocca di due o tre testimonii sta ogni parola« (2). » Conchiude poi S. Giovanni, che « chi crede nel Figliuolo di Dio » (cioè che è unito a lui nel Battesimo) «ha il testimonio di Dio in sè« » (cioè ha il testimonio in sè della Santissima Trinità) (3). E spiegando vieppiù la natura di questa testimonianza interiore, dice che per tale testimonianza si sente che Iddio ci ha dato la vita eterna (la quale comincia nel Battesimo), e che questa vita è nel suo Figliuolo, il quale disse di esser la vita; sicchè la vita nostra soprannaturale non è che una partecipazione della vita divina di Cristo. [...OMISSIS...] Quanto poi a' Battesimi di sangue e di desiderio essi non sono Sacramenti. E sebbene convengano col Sacramento del Battesimo nell' effetto che apportano all' uomo di salvarlo, tuttavia essi differiscono principalmente nel modo onde lo salvano. Conciossiachè il martirio e il voto del Battesimo non hanno loro effetto fino a tanto che l' uomo vive; giacchè fino che vive egli non è ancora martire, nè ancora è impossibile ch' egli venga battezzato. Perciò questi due mezzi di salute non possono imprimere nella vita presente il carattere indelebile che imprime il Battesimo, e non incorporano l' uomo ancor vivente abitualmente e stabilmente con Cristo; sebbene quest' uomo possa ricevere da Dio delle grazie attuali anche prima d' avere consumato il martirio, o comechessia prima di essere passato all' altra vita. Tutto ciò che abbiamo detto dimostra, il Battesimo produrre due effetti nell' uomo, l' uno negativo, cioè la remissione del debito del peccato, e l' altro positivo, cioè l' incorporazione con Cristo, e la partecipazione della sua grazia. E sebbene questo secondo sia il proprio ed immediato effetto del Battesimo, e sia il primo una conseguenza di questo che incontanente avviene; tuttavia niente ci proibisce di considerare l' effetto negativo e poscia il positivo, giacchè relativamente all' uomo che viene perfezionato e all' ordine di idee, prima viene il toglimento del peccato, e poscia il dono della grazia. Così anche l' Apostolo prima pone per effetto del Battesimo la morte dell' uomo vecchio, e appresso la risurrezione del nuovo. Or però l' efficacia del Sacramento del Battesimo ha quel limite che gli ha voluto p“r Cristo nella sua instituzione: limite che è determinato dallo stesso suo fine. Il fine di lui è l' incorporazione dell' uomo con Cristo, come detto è. Or convien distinguere l' incorporazione, o l' unione dell' uomo con Cristo, e le conseguenze che procedono a bene dell' uomo da tale unione; come si dee distinguere il seme dalla pianta che esce da quello, e la generazione del corpicciuolo d' un bambino, dall' incremento che succede dopo la generazione. V' ha adunque un effetto essenziale nel Battesimo, e v' hanno molti effetti che procedono da quel primo. A spiegar meglio la cosa conviene considerare la costituzione dell' uomo. Questo è un essere semplice, ma delle molte sue parti che formano la sua natura, una sola è quella che costituisce la base della sua personalità (1). L' effetto essenziale del Battesimo risguarda la personalità dell' uomo, come abbiam detto, cioè unisce la parte più nobile dell' uomo con Dio, e crea in tal modo un uomo nuovo: gli altri effetti che sortono da questo primo, sono quelli che santificano le altri parti dell' uomo stesso costituenti la sua natura. Mediante questi effetti successivi, che escono tutti come da loro radice dall' effetto primo ed essenziale del Battesimo, la formazione di questo si completa nell' uomo, e l' uomo acquista diverse virtù ed attitudini. Or in che maniera ciò accade? In due maniere, cioè o per operazione dell' uomo o per operazione di Dio. E veramente quando Iddio è unito coll' uomo mediante il Battesimo, l' uomo possiede in sè stesso un tesoro di cui può più o meno usare e cavar profitto secondo il libero arbitrio che possiede. Imperocchè l' unione stessa con Dio lo fa atto agli atti soprannaturali e a meritar soprannaturalmente. E prima ancora di ricevere il Battesimo, l' uomo può avere la volontà più o meno disposta a cavarne profitto, o sia che s' intenda di grazia attuale che talora Iddio concede straordinariamente anche ai non Battezzati, o sia che s' intenda d' una disposizione negativa, cioè alienazione dal peccato. Però i Teologi insegnano, che i Sacramenti conferiscono ex opere operato una grazia ineguale a quelli che sono inegualmente disposti: della qual tesi Onorato Tournely dà questa ragione: [...OMISSIS...] . Si accresce dunque la santificazione che all' uomo nasce dal Battesimo per la cooperazione dell' uomo stesso. Ma dicemmo ch' ella s' accresce ancora per l' opera di Dio, mediante la quale Iddio s' unisce all' uomo e agisce in lui più intensamente, avvolgendo in tale operazione e avvalorando le altre potenze dell' uomo. E questo avviene negli altri Sacramenti, i quali lavorano sul fondamento postosi nel Battesimo, e compiscono l' edifizio spirituale: di che s' intende, perchè si dica che il Battesimo è la porta degli altri Sacramenti, e perchè gli altri Sacramenti non producono verun effetto in chi non è battezzato: conciossiachè il lor fine è solo di perfezionare ciò che il Battesimo comincia, e di dedurre in più copia acque salutari di grazia da quella prima sorgente che secondo le profezie doveva innondare e mondare tutta la terra (2). Or come due dicemmo essere gli effetti del Battesimo, negativo l' uno, cioè la remissione del debito, e positivo l' altro, cioè la percezione di Dio; così da prima veggiamo essere istituiti due Sacramenti volti a condurre a perfezione questi due effetti. Questi due Sacramenti sono l' estrema Unzione, che rimuove dall' uomo le reliquie de' peccati, e la Confermazione che aumenta la grazia ricevuta nel Battesimo, e rende per così dire adulto l' uomo nuovo uscito bambino dal battesimale lavacro. Tutti e due questi Sacramenti si effettuano con una unzione, quasi medicina all' umana infermità. Tutti e due ne' loro effetti influiscono anche sul corpo, o certo sulle potenze inferiori della natura umana; il primo alleggerisce fin anco il fisico morbo che aggrava l' infermo: il secondo infonde all' uomo coraggio, il quale dipende in gran parte dalla fisica disposizione, conciossiachè il timore è anche passione animale. E veramente il Battesimo non è istituito, come fu per noi detto, se non a fine di santificare la punta dell' anima, la facoltà suprema, producendo nell' uomo una nuova personalità: egli però non rigenera il corpo, nè le potenze inferiori. Queste dunque aveano bisogno di essere confortate e munite colla grazia di altri Sacramenti: e assai acconciamente questi doveano poter conferirsi in forma medicinale, quasi per sanare una infermità. E l' olio era idoneo a rappresentare una medicina. Or parleremo a suo luogo dell' estrema unzione, cominciando qui a dir qualche cosa della Cresima. Della quale dimostreremo in primo luogo com' ella renda adulto l' uomo uscito bambino dal Battesimo, che cosa sia quell' infanzia spirituale, che cosa questa età perfetta; al che tosto poniam mano. Abbiamo mostrato, che in due modi si comunica la grazia del Redentore: l' uno per l' immediata comunicazione del Verbo: l' altra per l' immediata comunicazione dello Spirito Santo. Il Verbo si percepisce quando esso si comunica con un' azione diretta all' anima. Lo Spirito Santo è quello che muove la riflessione ed opera mediante operazione riflessa dell' anima medesima. Questo noi l' abbiamo osservato là dove dichiarammo quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Parlò dunque primo il Verbo; lo Spirito Santo suggerì di nuovo le cose dette dal Verbo; e suggerendo le cose che altri ebbe già udite, questo non è che un muovere vivacemente la riflessione sopra le cose udite. Lo Spirito Santo adunque a cui Cristo attribuisce di suggerire le cose da lui insegnate, opera mediante la riflessione dell' anima, dando però a questa riflessione una vista soprannaturale. Ora il Verbo aveva impresso sè stesso nell' anime de' suoi discepoli col suo aspetto sensibile, che avea virtù, come dicemmo, d' illuminar soprannaturalmente l' anima, e colle sue parole, e così avea dato a' suoi quella grazia che chiamasi Verbiforme, colla quale l' anima percepisce immediatamente il Verbo. Tutti due questi mezzi dell' aspetto di Cristo e delle sue parole sono indicati da Cristo stesso nel colloquio ch' egli tenne con Filippo. Alla chiara intelligenza del qual colloquio non è bisogno che d' una sola avvertenza, e tutto si rende chiaro; e questa è che la persona del Verbo non si conosce se non conoscasi la relazione di generato e di generante che ha col Padre: perocchè questa relazione è quella che costituisce la distinzione di una persona dall' altra. Or si odano le parole di Cristo. Dimandato da Filippo che gli volesse mostrare il Padre, risponde: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre« (2). » Nelle quali parole tocca il primo mezzo, cioè il suo aspetto visibile che avea virtù di far conoscere il Verbo, e però il Padre, giacchè l' una persona senza l' altra non si conosce. Tocca poi il secondo mezzo, che era la virtù delle sue parole, dicendo: « Non credete che io sia nel Padre, e il Padre in me?« » che viene a dire: Non conoscete il Verbo e conseguentemente il Padre? [...OMISSIS...] E alle parole aggiunge un terzo mezzo, che erano le sue opere, dicendo: « Se non altro credete per le stesse opere« (4); » una delle quali opere erano i Sacramenti. In questi modi adunque il Verbo imprime sè stesso nell' anime, dando loro a vedere la propria luce divina rifulgente nel suo aspetto, nelle sue parole e nelle sue opere. Ma tutto ciò ancora prima che lo Spirito Santo fosse dato personalmente. Che cosa rimaneva dunque a fare allo Spirito Santo? La luce del Verbo era la luce prima che riceveva l' anima. Su questa luce doveva riflettersi, e con un occhio al tutto spirituale vagheggiandola, innamorarsene, e sempre più penetrarne l' intima forza e bellezza, e in tal modo ridurla all' uso pratico. Ella è questa l' opera dello Spirito Santo nell' anime (1), di cui parla sì lungamente Gesù Cristo nei capitoli XIV e XV di S. Giovanni. Dopo aver parlato Cristo della cognizione di sè e del Padre egli aggiunge, che questa dee essere operativa, che dee consistere nell' amore e nell' osservanza de' suoi precetti: [...OMISSIS...] . Ma in qual modo chi crede in Cristo potrà far le opere fatte da lui? « Perchè, dice, io vado al Padre«, » a mandar lo Spirito Santo: « E io pregherò il Padre, e darà a voi un altro consolatore che rimanga con voi in eterno« ». Questo consolatore 1 farà conoscere il Verbo più vivamente; 2 renderà operativa questa cognizione. « In quel giorno (nel quale riceverete lo Spirito Santo) voi conoscerete che io sono nel Padre«: » ecco la cognizione del Verbo per l' impressione fattale dallo Spirito Santo: « e voi in me, ed io in voi«: » ecco la riflessione che lo Spirito Santo ci fa fare sopra noi stessi, e ci fa intendere come noi siamo nel Verbo, e il Verbo in noi: « Chi ha i miei comandamenti e gli osserva, quegli è che mi ama«: » ecco la pratica osservanza de' comandamenti procedente dallo Spirito Santo. « E chi mi ama, è amato dal Padre mio, e io lo amerò e manifesterò a lui me stesso«. » Dice manifesterò a lui me stesso, perocchè è egli che manda lo Spirito Santo che lo manifesta, lo manda in maggiore copia quanto è più l' amore. E dice che sarà amato dal Padre suo, perocchè anche il Padre suo manda lo Spirito Santo colla medesima spirazione, sicchè dice anche di poi, che « lo Spirito della verità, che dal Padre procede, darà testimonianza di lui« (2). » Sicchè lo Spirito Santo rende luminosa, esplicita, possente e operativa nell' uomo la vista del Verbo, appunto a quel modo come nell' ordine della natura la meditazione e la riflessione aggiunge luce, distinzione, consapevolezza maggiore, e potenza di muover l' uomo ad operare il pensiero spontaneo e diretto. Di tutte queste cose abbiamo già altrove più a lungo ragionato. Or venendo al proposito nostro sarà facile diffinire in che consista propriamente quell' infanzia spirituale che viene attribuita all' uomo appena uscito dall' acque del Battesimo, e per la quale il progresso della vita spirituale ne' Sacramenti viene paragonato al progresso della vita naturale (3). L' uomo è nell' infanzia spirituale, quando sebbene abbia ricevuto il Verbo nella parte suprema dell' anima; tuttavia gli manca ancora lo Spirito Santo, che quella luce del Verbo maggiormente discopra ed imprima nell' anima stessa, e la faccia operare in tutte l' altre potenze, rendendo l' uomo per essa robusto e valoroso a poter anche resistere agli assalti degl' inimici. Or il Battesimo ha di proprio, come abbiam detto, di congiungere l' uomo a Cristo invisibilmente, e di fargli percepire il Verbo; all' incontro è proprio ed essenziale effetto della Confermazione il dare lo Spirito Santo. Perciò egli è proprio del Battesimo far nascere l' uomo spiritualmente, ma egli è ancora nell' infanzia; è proprio della Confermazione il renderlo adulto « alla misura dell' età della pienezza di Cristo« (1). » E che cosa è la pienezza di Cristo se non la pienezza dello Spirito Santo? Il principio adunque dell' operazione battesimale è Cristo o il Verbo; il principio all' incontro dell' operazione del Sacramento della Cresima è lo Spirito Santo: il termine sì dell' una che nell' altra operazione è sempre il Verbo. Confrontiamo con questa dottrina i passi delle Scritture e della tradizione, e troveremo quanto sieno coerenti tra di sè e consentanei alla medesima. Primieramente la teologia cattolica insegna che nel Battesimo l' uomo spirituale nasce, ma è ancora bambino (2), il quale, cresce e si fa adulto nella Confermazione (3). Spiegando poi la natura di quest' ultimo Sacramento essa dice che è quello che conferisce all' uomo lo Spirito Santo. Si deve dunque conchiudere che il ricevimento dello Spirito Santo, che s' ha mediante il Sacramento della Cresima, è ciò per cui l' uomo spirituale diviene da pargoletto grande e perfetto. Proviamo prima che alla Confermazione si attribuisce l' incremento dell' uomo spirituale. Al che in vece di molti testimonii ci valga colui che si può chiamare il Teologo per eccellenza, e l' abbreviatore della cristiana tradizione. Egli attribuisce l' incremento dell' uomo spirituale alla Confermazione, come il nascimento al Battesimo in questo modo: [...OMISSIS...] . Proviamo di poi che alla Confermazione si attribuisce il conferimento dello Spirito Santo ad esclusione del Battesimo; il che dimostra che nel Battesimo propriamente vengono conferiti de' doni del Santo Spirito, anzichè il Santo Spirito medesimo. S. Paolo chiama i confirmati « quelli che hanno gustato il dono celeste, e che sono stati fatti partecipi dello Spirito Santo« » a differenza de' battezzati che li chiama solo « illuminati« (2). » Negli Atti degli Apostoli si distingue fra l' essere battezzati, e l' aver ricevuto lo Spirito Santo, anzi si dice espressamente, che ne' battezzati lo Spirito non era ancor venuto, e che fu mestieri confermarli acciocchè venisse in essi (3). Quando adunque si parla dello Spirito Santo in questo modo, per esclusione del modo onde viene col Battesimo, convien dire che nella Cresima sola lo Spirito Santo venga personalmente , mentre nel Battesimo viene con alcuni doni ed effetti e non colla persona (1). Altramente non reggerebbe la proposizione che « ne' battezzati lo Spirito Santo non era venuto«. » Ben è vero però, come fu detto, che se lo Spirito Santo vien dato nella Confermazione, ciò nasce in conseguenza del Battesimo, che ha resa questa venuta possibile, e ne ha messo il principio. S. Cornelio parimente (2) in una lettera a Fabio Antiocheno, parlando di Novato che in una infermità avuta avea ricevuto il Battesimo ma non la Confermazione, dice: « In che maniera potè ricevere lo Spirito Santo, se non ebbe questo signacolo (3) della Confermazione?« » colle quali parole viene a negare che lo Spirito Santo (cioè la persona) nel Battesimo si conferisca. Finalmente questo è parlare di tutta la tradizione, che amministrare il Sacramento della Cresima venga detto un darsi lo Spirito Santo (4). Se adunque d' una parte il Sacramento della Confermazione è quello che conferisce lo Spirito Santo ad esclusione del Battesimo, cioè in un modo pieno e personale, e se d' altro lato questo Sacramento è quello che rende adulto l' uomo spirituale, convien dire per giusta illazione, che l' età adulta, nel linguaggio cristiano, significa la partecipazione del Santo Spirito, e l' infanzia significa quello stato dell' uomo in cui è ben nato per l' unione del Verbo, ma non ha ricevuto ancora la grazia spiriti7forme. Ma a provar maggiormente la verità di questa dottrina, rechiamo in terzo luogo quei passi de' venerabili scrittori antichi, ne' quali non si dice già solo l' una di queste due cose staccata dall' altra, cioè o che la Confermazione renda l' uomo adulto e perfetto, o che la conferisca il Santo Spirito; ma ambedue si affermano nel tempo stesso, attribuendosi appunto allo Spirito Santo il perfezionamento dell' uomo rigenerato. Ho già detto che il Santo Spirito da' Padri greci massimamente si chiama « virtù o forza perfezionatrice« (1), » appunto perchè a lui appartiene di perfezionar l' uomo spiritualmente. S. Clemente Papa I dice, che niuno può essere « perfetto cristiano« » se oltre il Battesimo non abbia ricevuto nella Confermazione la settiforme grazia dello Spirito (2), attribuendosi così al ricevimento del Santo Spirito la perfezione del cristiano. S. Cirillo di Gerusalemme deduce dal Crisma il nome del cristiano, e dice, che non si può in certo modo nè pur dire che alcuno sia cristiano se non ha ricevuto lo Spirito Santo coll' unzione della Cresima (3). S. Urbano nella sua lettera decretale dice espressamente, che ciò che ci rende pieni cristiani è lo Spirito Santo che noi riceviamo dopo il Battesimo per l' impostazione delle mani dei Vescovi (4). Nell' antichissimo Concilio Eliberitano dicesi, che è necessaria al battezzato l' imposizione della mano del Vescovo, acciocchè egli si possa perfezionare (5). [...OMISSIS...] Egli è poi questa dottrina medesima, che allo Spirito Santo attribuisce la perfezione dell' uomo cristiano, con istile sublime esposta in più luoghi del celebre e antico libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Vi si legge, a ragion d' esempio, chiamata « perfezionatrice« » quella unzione che si usa nel Sacramento della Cresima (2), la si dice quella che congiunge al divino Spirito le cose che debbono esser perfette (3), e così « compisce la divina rigenerazione (4). » Vi si legge pure che «« il segnacolo di quell' unguento fa partecipe della comunione sacratissima« (5), » la qual comunione sacratissima è quella del Santo Spirito. [...OMISSIS...] ; le quali ultime parole si osservi che non sarebbero state necessarie ove non si parlasse della comunicazione della persona stessa del Santo Spirito; ma trattandosi della comunicazione dello Spirito, era convenevol cosa notarsi, come fa questo acuto scrittore, che lo Spirito Santo comunicandosi a noi, non sofferiva però alcuna mutazione nella sua divina natura. Finalmente addurrò ancora S. Cipriano, il quale alla Cresima ad un tempo attribuisce e il conferimento dello Spirito Santo, e l' essere il cristiano consumato e perfezionato col signacolo del Signore (.). Da tutti i quali luoghi apparisce, come la perfezione, e però l' età adulta, del cristiano consiste nel ricevimento del Santo Spirito, e che il Sacramento della Cresima fa crescer l' uomo spirituale all' età adulta che infonde lo Spirito Santo. E perchè è cosa molto notevole a ben intendere le Scritture e le Tradizioni quella distinzione fra il ricevere lo Spirito Santo in qualche suo dono particolare, ciò che avviene nel Battesimo, e il riceverlo nella stessa persona, io mostrerò ancora con qualche passo degli ecclesiastici scrittori che nella Confermazione si riceve personalmente, e non solo ne' doni suoi. E da prima ho già osservato, che provano questa dottrina tutti que' luoghi de' Padri ne' quali si dice che lo Spirito Santo si riceve nella Cresima ad esclusione del Battesimo. Il dirsi semplicemente di alcuna persona che viene o va in un luogo, non può intendersi che vi va co' suoi doni, ma sì che vi va ella stessa, altrimenti non sarebbe esatta e chiara quella maniera di dire. Tanto più che essendo certo, che nel Battesimo lo Spirito Santo viene co' suoi doni, l' affermar poi ch' egli nel Battesimo non ci viene non può avere altro significato che quello di voler dire che non ci viene colla persona. E pel contrario affermando che viene nella Cresima, pure in quella che si esclude dal Battesimo, si dee intendere che nella Cresima viene appunto in quel modo nel quale dal Battesimo si esclude, cioè personalmente. Di poi non possono indicare se non una unione della persona coll' anima quelle maniere che usa l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, quando dice del Sacramento della Confermazione che ci fa partecipi della sacratissima comunione, la quale è quella dello Spirito Santo, che ci congiunge al divino Spirito, che ci fa percepire nell' anima la santa e deifica società del medesimo Spirito divino e che consuma in noi la venuta del Santo Spirito. Come può esser consumata e perfezionata la venuta del Santo Spirito meglio che comunicandosi egli a noi personalmente? La comunicazione personale ha in sè stessa necessariamente i doni tutti del Santo Spirito implicitamente cioè in causa, perchè ha l' autore stesso dei doni; nè si può dare la pienezza dei doni se non colla persona, perchè questi separatamente presi sono infiniti. Però quando i Padri vogliono significare il conferimento personale dello Spirito all' anima, il chiamano la pienezza dello Spirito, e descrivono i sette doni come rappresentanti di questa pienezza che chiamano anche grazia settiforme (2). S. Ambrogio non si contenta di attribuire al Sacramento della Confermazione i sette doni, ma dice che questi non sono che i principali. [...OMISSIS...] Ma io non ho sott' occhio nissun passo di antichi scrittori i quali parlando del Sacramento della Confermazione, parlino più esplicitamente della comunicazione personale dello Spirito Santo, e la distinguano più chiaramente dalla comunicazione de' suoi doni, di quello che faccia in un luogo il celebre Rabano Mauro nell' opera dell' istituzione del clero. Egli distingue due unzioni che si fanno col santo Crisma, l' una dal sacerdote subito dopo il Battesimo, e l' altra dal Vescovo nella Confermazione; colla prima, dice, non si fa che preparare e consecrare la casa, ma nella seconda si riceve lo stesso ospite divino: il che è quanto dire che nella prima non si ricevono che alcuni doni del Santo Spirito; ma nella seconda lo stesso Spirito Santo colla pienezza de' suoi doni. Gioverà che qui io rechi le proprie parole di questo scrittore: [...OMISSIS...] . Qui chiaramente è distinta la preparazione dell' uomo a ricever lo Spirito, dalla discesa dello Spirito stesso; la venuta parziale dalla venuta intera di esso Spirito; nè può darsi intiera comunicazione senza comunicazion personale, o comunicazion personale senza ch' ella sia intera e piena, di maniera che può stabilirsi questo canone nell' interpretazione delle Scritture e de' Padri, che ogni qual volta si parla di venuta totale o pienezza dello Spirito Santo, il discorso si volge intorno alla venuta personale, e dove non è espressa la pienezza o la totalità del Santo Spirito o de' suoi doni, non si parla della venuta personale. Il perchè solo nella Confermazione si completa la grazia triniforme del cristiano; e però possiamo conchiudere colle parole di uno scrittore ecclesiastico del secolo X: [...OMISSIS...] . E quanto abbiamo detto dà chiarezza a molti altri insegnamenti de' Padri, i quali insegnamenti formano alla lor volta una riprova di quanto fu detto. A ragion d' esempio S. Giovanni Grisostomo in una delle sue omelie viene cercando in che consista l' infanzia spirituale, e in che la perfezione; e conchiude che l' infanzia consiste nella fede, e la perfezione nelle opere della vita santa (2). Ora la fede appartiene all' intelletto, e al cuore la carità. La fede viene a noi impressa colla luce del Verbo, e la carità viene in noi diffusa dallo Spirito Santo. Ancora, viene attribuito al Battesimo il darci la luce e la fede, ed alla Confermazione il diffondere in noi la carità. Per conseguente egli è questo un dire, che il Battesimo ci genera infatti e la Cresima ci fa adulti e perfetti. Quindi è che« illuminazione« (1) si chiamò il Battesimo fino dai tempi apostolici, e« illuminati« nel linguaggio di S. Paolo equivale a battezzati (2). All' incontro della Confermazione l' Apostolo dice: [...OMISSIS...] . Consuona all' Apostolo S. Agostino che attribuisce propriamente la carità alla Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Egli è parimente un detto comune de' Padri quello che attribuisce al Battesimo la purgazione de' peccati, che è il primo grado della vita spirituale, e alla Confermazione all' incontro la grazia, la pienezza dei doni lo Spirito Santo (5) che ne è il compimento. Nè tutto ciò detrae punto al Battesimo, la grazia del quale è piena anch' essa. Ma si dee spiegare in che modo dicasi pienezza di grazia quella del Battesimo, e in che modo dicasi pienezza di grazia quella della Confermazione: come l' infanzia spirituale possa stare con quella prima pienezza e non punto colla seconda. L' ufficio dello Spirito Santo nelle anime nostre di sopra da noi dichiarato, dà piena luce a questa materia. Tale ufficio noi vedemmo significato da Cristo in quelle parole: « Egli insegnerà tutte le cose, e vi suggerirà tutte le cose che io avrò dette a voi« (1). » Nelle quali parole appar chiaro, che tanto il Verbo come lo Spirito insegnano tutte le cose, ma lo Spirito Santo ha ufficio di suggerire all' animo le cose già insegnate dal Verbo e di ricalcarle nella mente e renderle operative: primo dunque è il Verbo a operare, secondo viene lo Spirito Santo: il Verbo dà la cognizione diretta delle cose divine, ma lo Spirito Santo muove ed accende la riflessione. Però s' intende come l' uno e l' altro operi in noi con pienezza, giacchè l' uno e l' altro ci comunica tutte le cose. Il Verbo dice: « Io vi ho fatto note tutte le cose che ho udite dal Padre mio (2). » Dello Spirito pure è detto: «« quando verrà quello Spirito di verità insegnerà a voi ogni verità« (3). » E la ragione di ciò si è « perocchè non parlerà da sè stesso, ma parlerà tutte quelle cose che udirà« (4) » cioè che udirà dal Verbo. Quindi s' intende come la grazia del Battesimo sia piena, e sia piena pure quella della Confermazione (5). Nel Battesimo si riceve il Verbo, e in lui la notizia di tutte cose divine: nella Confermazione si riceve lo Spirito Santo, e in esso la viva riflessione delle cose medesime. Quindi è che S. Giovanni attribuisce all' unzione, cioè alla Cresima, quello che Cristo attribuisce allo Spirito Santo, cioè di far conoscere tutte le cose: « Ma voi, dice, avete l' unzione dal Santo » (cioè dal Verbo pel quale è la spirazione dello Spirito Santo) «e conoscete tutte le cose« (6). » [...OMISSIS...] Quindi acconciamente Clemente Alessandrino, riferendo l' istoria di un giovane affidato da S. Giovanni alla cura di un Vescovo novello, parla de' due Sacramenti del Battesimo e della Confermazione in questo modo: [...OMISSIS...] . Or il sigillo che si mette sopra un tesoro vale a custodire tutto il tesoro intiero; e così la grazia della Confermazione è piena, perchè custodisce tutto ciò che si ha ricevuto nel Battesimo. Simile a questa idea è quella di alcuni Padri che rassomigliano lo Spirito che ricevesi nella Confermazione a un tutore e difensore della grazia battesimale. Tra i luoghi che potremmo addurre preferiremo uno del celebre Abate Ruperto, sebben non sia de' più antichi (2), il quale dice così: [...OMISSIS...] : similitudine acconcissima; perchè il tutore assai acconciamente rappresenta l' occhio della riflessione, che vigila e contempla la grazia prima ricevuta, e sente il pregio di essa, e così s' infiamma a difenderla. Dal medesimo principio, che lo Spirito Santo ricalca nell' anima la notizia del Verbo, ravviva la fede, vi deduce la carità che fassi operativa, scendono quai naturali conseguenze gli effetti speciali che si sogliono attribuisce alla Confermazione, cioè la fortezza dell' animo cristiano, il coraggio di confessar Cristo e di combatter qual valoroso milite per la fede da lui ricevuta. Dalle quali cose apparisce, che la Confermazione non dà già all' uomo qualche cosa del tutto nuova, ma, come dice il Catechismo Romano, conferma ciò che il Battesimo ha cominciato ad operare (1). Ora il Battesimo dà la grazia ed imprime il carattere; e queste due cose perfeziona la Confermazione. Di che si vede che il carattere della Confermazione essenzialmente considerato, non è che un aumento del carattere del Battesimo; ed è da questo principio che S. Tommaso toglie a provare come il carattere della Confermazione presuppone quello del Battesimo. [...OMISSIS...] E veramente, noi abbiamo veduto il carattere consistere in una impressione stabile del Verbo nella parte intellettiva dell' anima; questa è la definizione generica del carattere, nella quale uopo è che convengano i tre caratteri del Battesimo, della Cresima e dell' Ordine, i quali sono radicalmente uno; perocchè sono sempre una comunicazione del Verbo all' intelletto. Ma da questa comunicazione nascono all' uomo diverse potenze ; cioè nel Battesimo la potenza passiva di ricevere gli altri Sacramenti, come pure la grazia prima o potenza di operare soprannaturalmente; nella Confermazione la potenza attiva di resistere alle tentazioni nell' operare il bene, confessando Cristo assai coraggiosamente; e nell' Ordine la potenza di esercitare pienamente il sacerdozio di Cristo. Per questo si è, che i Padri dicono costantemente, tanto parlando del Battesimo, quanto parlando della Confermazione, che il carattere è il segno di Cristo, e che l' ufficio dello Spirito Santo è quello di imprimere nelle anime il Verbo. Così S. Ambrogio parlando di chi fu confermato, dice: [...OMISSIS...] . Per questo l' unguento si chiama Crisma di Cristo (1). E S. Cirillo d' Alessandria dice: [...OMISSIS...] . Lo stesso apparisce da un' altra maniera di parlare de' Padri specialmente de' più antichi, i quali ragionando ad un tempo del Battesimo e della Confermazione come di due Sacramenti che si amministravano nel tempo stesso l' un dopo l' altro, non distinguono però due caratteri, ma sempre favellano di un carattere o di un segnacolo solo; e par che l' attribuiscano più alla Confermazione come quella che il compisce ed integra. A ragione d' esempio Teodoreto dice così: [...OMISSIS...] . Al qual passo risponde a capello ciò che dice un greco scrittore del secolo XVI, che può servire di commentario e schiarimento a quel di Teodoreto; perocchè in questo greco scrittore non riman punto dubbio che si parli della Confermazione, come potrebbe nascere in quello del Vescovo Cirense. [...OMISSIS...] Qui parlasi chiaramente del carattere, che ci segna col segno del Cristo e ci mette nel dominio di Cristo. Più ancora si rende manifesto che si parla del carattere, e di quello della Confermazione, da ciò che segue: « Il sacerdote che unge il battezzato dice: Segnacolo del dono dello Spirito Santo, Amen«. » (Questa è la forma della Confermazione presso i Greci). [...OMISSIS...] L' unione stessa usata antichissimamente, e tuttavia presso i Greci, del Battesimo e della Confermazione, mostra l' unità del carattere che imprime: e l' attribuirsi il carattere al secondo Sacramento, anzi chè al primo, che fanno i Padri antichi, non toglie già la verità cattolica che anche nel Battesimo il carattere s' imprima, ma mostra bensì, che solo colla Cresima venìa consumato e non eran due ma uno. Quindi il sangue dell' agnello, di cui tinsero gli Ebrei le imposte delle loro case, serve ai Padri di figura tanto del carattere del Battesimo come di quello della Confermazione, che considerano come uno, a quel modo che è una la figura. [...OMISSIS...] : parole che il Santo dice in una sua orazione sul Battesimo, dal quale trapassa a parlare della Confermazione come a lui congiunta, e del carattere che questa imprime senza menzionare il carattere del Battesimo, perchè già in quello contenuto. Il Sacramento della Confermazione negli antichi scrittori ecclesiastici viene denominato solitamente in quattro maniere, o egli si chiama orazione, invocazione, o imposizione delle mani, o segnacolo, o unzione. Queste quattro denominazioni nascono dalle quattro parti di cui il Sacramento della Confermazione si compone; e si spiegano l' una coll' altra. Per esempio S. Agostino dice: « Che cosa è l' imposizione delle mani se non l' orazione che si fa sull' uomo?« (2). » Quasi voglia dire l' imposizione delle mani è quel Sacramento che si chiama anche orazione che si fa sull' uomo. Sebbene adunque nella denominazione di « imposizione delle mani« non si contenga espressa alcuna invocazione od orazione, tuttavia con tal denominazione s' intende espressa e significata anche l' orazione che si fa contemporaneamente all' imporsi delle mani, e che è un' altra parte dell' amministrazione del Sacramento. Talora poi le due parti indicate sono espresse distintamente nel parlare de' Padri e non l' una nell' altra sottintesa. Così dice S. Cipriano: [...OMISSIS...] . Medesimamente Innocenzo III spiega la parola« unzione o crismazione« con quell' altra di« imposizione delle mani« scrivendo, che « per la crismazione della fronte vien significata l' imposizione della mano degli Apostoli« (2). » Questo è quanto dire che le due appellazioni di« crismazione o unzione« e di« imposizione delle mani« si usurpano ad indicare lo stesso Sacramento, che si denomina ugualmente dall' una o dall' altra di quelle due parti principali. Talora però negli scrittori ecclesiastici si esprimono tutte e due queste parti. Così Amalario scrive: [...OMISSIS...] . Non di rado anco tacendosi l' unzione si esprimono l' imposizione delle mani e l' orazione, ciò che si fa negli stessi Atti degli Apostoli, dove si legge [...OMISSIS...] . E come l' esprimersi una sola cosa non esclude l' altra, ma è una maniera che si usa per brevità; così non è a credersi che esprimendosi« l' unzione e la imposizione delle mani« s' intendano escluse le parole che accompagnano queste azioni, e che« orazione o invocazione« furon dette. Chè anzi talora tutte e tre queste parti vennero dagli scrittori ecclesiastici espresse, come si esprimono a ragione d' esempio da Aimone ove dice: [...OMISSIS...] . Clemente Alessandrino chiama finalmente la Confermazione « il beato segnacolo (3) » o anco «« il sigillo del Signore« (4), » perchè lo Spirito Santo imprime Cristo nell' anima, come abbiamo veduto. Ciò si rappresenta anche col segno esteriore, giacchè si unge la fronte del fedele che si conferma col segno della croce. Di che Dionigio Areopagita, o chicchessia l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, porge quest' altra buona ragione, che dandosi lo Spirito Santo nel Sacramento della Confermazione, e questo procedendo dal Verbo, e venendoci dato dal Verbo pel merito della sua passione, assai ben convenìa che nell' atto che si riceveva questo Spirito venisse segnata in sulla nostra fronte la croce (5). Ma se il Sacramento di cui parliamo è bene spesso chiamato « il segnacolo« o« il sigillo di Cristo« non dee intendersi questa appellazione così strettamente che si vogliano escludere da essa le altre tre cose, che formano il tutto di questo Sacramento. Ciò si rende manifesto osservando che talora l' espressione di segnacolo si congiunge con alcuna delle altre tre. Con quella di unzione o di crisma è congiunta per sè, conciossiachè il segno di croce non in altro modo s' intende descritto in fronte se non ungendo in qualche modo la fronte stessa (6): di che parmi potersi trarre nuovo argomento da credere che gli Apostoli usavano del sacro crisma, appunto perciò che si parla come di cosa apostolica segnare in fronte i fedeli per esprimere la Confermazione (1). S. Clemente papa discepolo di S. Pietro dice, che [...OMISSIS...] . Nel libro delle Costituzioni apostoliche non si fa menzione solamente del segno, ma anco dell' unguento col quale si fa il segno. « Prima, vi si dice, ungerai coll' olio santo » (questa è l' unzione preparatoria al Battesimo) «poscia battezzerai coll' acqua, finalmente SEGNERAI coll' UNGUENTO del crisma » (questo è il Sacramento della Confermazione)« (1). S. Ambrogio unisce insieme le due parti dell' invocazione del Santo Spirito e del segnacolo in queste parole: [...OMISSIS...] . San Leone in quella vece fa espressa menzione del segnare e dell' imporre le mani, come in quel luogo ove dice: [...OMISSIS...] . Vedesi adunque, che se talora chiamasi la Confermazione semplicemente « segnacolo« ciò non si fa per escludere l' altre parti di cui questo Sacramento si compone, ma per la comodità di avere alle mani una breve e semplice appellazione di questo Sacramento. Conciossiachè in altri luoghi de' Padri si esprimono anche l' altre parti sott' intese, e indifferentemente si congiunge la cerimonia del« segnare« la fronte con quella dell' ungere, o con quella dell' invocare lo Spirito Santo, o con quella dell' imporre le mani. Che se si vorrà più diligentemente cercare le maniere ecclesiastiche di favellare, sarà facile altresì rinvenire de' testi autorevoli, ne' quali il segnare sia espresso non pure con una sola delle altre parti, ma con due qualsivogliano di esse. E veramente si brama un luogo in cui si faccia menzione ad un tempo del segno, dell' unzione, e dell' imposizione delle mani? Odasi Tertulliano: [...OMISSIS...] . Ecco espresse tre parti della Confermazione. Bramasi invece un luogo nel quale oltre il segnacolo sieno esplicitamente accennate le due parti dell' imposizione delle mani e dell' orazione o invocazione del Santo Spirito? Aprasi S. Cipriano, e si legga: [...OMISSIS...] . Vuolsi ancora un altro luogo dove al signacolo siano in quella vece congiunte le due parti dell' unzione e dell' invocazione? Considerisi l' invocazione od orazione che sta nell' Ordine Romano, dove si veggono espresse le tre parti di cui parliamo. Ella è la seguente: [...OMISSIS...] . Ecco l' orazione, l' unzione ed il segnacolo. Che se finalmente si vogliano ancora vedere espresse tutte e quattro le parti da noi toccate potremo trovarle nell' Ordine Romano ora citato o nel sacramentario di Gregorio il grande, o nel rituale che tuttavia è in uso presso di noi. Solo dopo avere io scritto questo articolo mi accorsi essermi sfuggito nel Bellarmino quel lungo tratto, nel quale il venerabile uomo dice altrettanto e più di quanto io dissi. Tuttavia non volli cancellare l' articolo, ma sì bene colla somma autorità del Bellarmino, che qui in nota riferisco, confermarlo. Egli risponde all' eretico Kemnizio, che per escludere l' unzione del crisma reca i luoghi degli Atti degli Apostoli (VIII, 17; XIX, 6), dove è fatta bensì menzione dell' imposizione delle mani ma non del crisma, e dice così: [...OMISSIS...] . Poscia il Bellarmino si propone l' obbiezione delle parole d' Innocenzo III, e di Eugenio IV nel Concilio di Firenze, le quali sembran dire, che il crisma ora tenga il luogo dell' imposizione delle mani usata dagli Apostoli e risponde: [...OMISSIS...] . Fissata così la maniera di parlare della tradizione, cadono tutte le obbiezioni contro il Sacramento della Confermazione, e apparisce assai chiaro che questo rito si compone di quattro parti, 1. le parole, 2. l' imposizione della mano, 3. l' unzione, 4. il segno di croce. Fermata questa verità è sciolta da sè la questione: « Qual sia l' imposizione della mano necessaria in questo Sacramento«; » ella è quella che si fa nell' atto stesso dell' unzione e indivisibilmente da quest' atto: perocchè i Greci non ne hanno altra; e tuttavia la Chiesa riconosce per valido il loro rito della Confermazione. Dunque o la Chiesa erra, o l' imposizione delle mani non è necessaria. Ma l' una e l' altra cosa è falsa. Dunque è il contrario, cioè che l' imposizione delle mani necessaria alla Confermazione è quella che fa il Vescovo elevando la mano sulla fronte per ungerla e non altra. Può riuscire di conferma a ciò l' osservarsi, che questa cerimonia si chiama spessissimo dagli scrittori antichi imposizione della mano e non delle mani, e che si dice farsi a' singoli e non a tutti ( « quod nunc in confirmandis neophytis, manus impositio tribuit singulis », dice la celebre Omilia in die Pentec. attribuita da alcuni ad Eucherio di Lione): come pure l' obbiezione che fa Benedetto XIV (2), contro la prima imposizione delle mani: [...OMISSIS...] . Se dunque il P. Iacopo Sirmondo trova degna di riso una tal dottrina, egli è da attribuirsi un tal riso all' intemperanza della critica, che rende presontuosi ben sovente i dotti, e che insegna loro a sorridere delle opinioni più rispettabili. Io mi accosto poi al P. Merlin (1) in quanto le sue osservazioni provano che l' imposizione delle mani è indivisa dall' unzione del crisma; non convengo però nella sua opinione che gli Apostoli conferissero il Sacramento colla sola imposizione delle mani senza Crisma. Tale mi sembra l' intimo e vero sentimento di tutta la cristiana antichità. Può essere ancora che qualche autore greco, sentendo tanto nominata nella Scrittura l' imposizione delle mani e non osservando che nel segnare la fronte la mano necessariamente s' impone, si persuadesse che il crisma sia stato sostituito all' imposizione delle mani apostoliche, ma ciò dee attribuirsi a mancanza di riflessione di uno o d' altro autore; fra questi parmi di poter citare Simone di Tessalonica, che nel secolo XII scrive: [...OMISSIS...] . Quanto poi all' opinione di coloro che sostengono negli antichi tempi l' imposizion delle mani essere stata distinta dall' unzione, ma poscia forse nel secolo VII essersi unita e fatta una cosa con essa, parmi almeno frivola e inetta. Perocchè se riconoscono che alla validità del Sacramento nei secoli posteriori al VII, e massime presso i Greci, non si richiedesse imposizion delle mani distinta dalla stessa unzione, perchè mai ne' primi secoli sarà stata essenziale al Sacramento un' altra imposizione distinta da quella che il Vescovo fa necessariamente ungendo la fronte? Non è piuttosto assai naturale il dire, che se oltre l' unzione della fronte si faceva allora una distinta imposizione delle mani, questa non era cerimonia essenziale, come non è essenziale quella distinta imposizion delle mani, che si usa ancora nella Chiesa latina e che la greca ommette senza rendere perciò invalido il Sacramento? La parte indicata anticamente colla denominazione di« orazione« o« d' invocazione« è la forma del Sacramento; il Crisma è la materia remota, l' imposizione delle mani e il segno di croce determina il modo onde la materia rimota viene applicata e si fa materia prossima. Delle quali affermazioni potrebbe incontrare qualche difficoltà la prima, che la parte del Sacramento indicato colla parola« invocazione«, od« orazione«, significasse la forma, come quella che dee essere fatta di parole consecratorie e non impetratorie. Ma sebbene ciò sia vero, niente vieta che unitamente alle parole consecratorie si proferissero delle invocazioni e delle orazioni, dalle quali si denominasse il Sacramento più tosto che dalle stesse parole consecratorie, tenute sempre nascoste gelosamente dall' antica disciplina della Chiesa (1). In fatti così fu: avanti e dopo la unzione s' invocava lo Spirito Santo, e nell' antichissimo Ordine Romano la stessa forma della Confermazione comincia con una particella impetratoria la quale è questa: « Signa eos, Domine, signo crucis « » seguitando però in stile consecratorio nell' atto dell' ugnere: « Ego te confirmo in nomine Patris, etc.« » La parola« invocazione« può essere oltracciò dichiarata con altri passi analoghi. In ragione d' esempio il passo di S. Clemente Papa o sia delle Costituzioni Apostoliche da noi citato di sopra « l' invocazione è la VIRTU` (2) dell' imposizione della mano « (3) » viene chiarito quando si riscontra a quest' altro, che si trova in un Commentario degli Atti Apostolici attribuito a S. Ambrogio « la imposizione della mano sono le parole mistiche« (4), » le quali parole mistiche voglion significare indubitatamente quelle della forma. Il P. Merlin nel suo trattato sulle forme de' Sacramenti non dubita punto di ciò che S. Clemente chiama« invocazione« non sieno che « le parole della forma« (5). Finalmente molti Teologi e di gran vaglia sostengono, che la forma adeguata e totale del Sacramento della Confermazione è ad un tempo l' orazione e le parole che seguono a quella, e il provano con assai validi documenti; de' quali Teologi nominerò due, cioè Onorato Tournely, e Natale Alessandro, a' quali valentuomini rimetto il lettore (1). Quanto poi alle altre tre parti del Sacramento della Confermazione, cioè l' unzione, il segno della croce e l' imposizione delle mani, esse simboleggiano, secondo la Scrittura e i Padri, i tre effetti di questo Sacramento. S. Paolo nel primo capitolo della seconda lettera a' Corinti parla manifestamente, a mio avviso, del Sacramento della Confermazione, ed accenna queste tre parti di lui. Egli dice a que' di Corinto, che veniva ad essi affinchè avessero« la seconda grazia« la quale vien data dal Sacramento della Confermazione, essendo il Battesimo quello che conferisce la prima (2). Dice che Dio era quegli che li confermava in Cristo (3). E poi soggiunge che Dio pure li ungeva e li segnava e dava lor il pegno dello Spirito ne' cuori (4). Ecco l' unzione, il segnacolo, e il pegno dello Spirito, che s' attribuisce da' Padri all' imposizione delle mani. Tertulliano commenta questo passo di S. Paolo accennando i tre effetti del Sacramento della Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole è manifesto, che questo Padre del secondo secolo della Chiesa non intese mica quell' unzione che nomina S. Paolo, di un' unzione metaforica e puramente spirituale, ma l' intese dell' unzione esterna della carne; e lo stesso dicasi del segno di croce, che nomina l' Apostolo; il che dee aver gran forza contro quelli che abbandonano il senso letterale di questo e d' altri passi simili, e che non li vogliono intesi se non in un senso spirituale. E alla stessa guisa di Tertulliano spiega il passo dell' Apostolo S. Ambrogio, il quale attribuisce l' effetto dell' unzione al Padre, l' effetto del segno di croce al Figliuolo, e l' effetto dell' imposizione delle mani allo Spirito Santo; di maniera che, secondo questo santo Padre, i tre elementi costituenti la materia del Sacramento della Confermazione si riferiscono alle tre persone della Santissima Trinità che operano in questo Sacramento, il quale conferisce, come abbiamo detto, all' anima la grazia triniforme. [...OMISSIS...] Anche in alcuni luoghi delle Scritture l' unzione è attribuita al Padre. Negli Atti degli Apostoli si legge che Cristo fu unto dal Padre (2), e S. Paolo spiega di Cristo il Salmo che dice: « perciò te unse Iddio, il Dio tuo coll' olio dell' esultanza« (3). » Il segno poi è stato attribuito a Cristo avendo forma di croce, ed essendo effetto suo la fortezza, appartiene a Cristo altresì, perchè la croce è l' arma che vince il diavolo, e perchè Cristo è la virtù e la forza e il braccio del Padre. Però la parola confermare viene propriamente da questo effetto dell' armare e fortificare colla croce di Cristo: sicchè S. Ambrogio in altro luogo invece di dire ti segnò Cristo, dice: « Cristo ti confirmò« (4). » Il pegno poi dello Spirito è la carità e il gaudio spirituale, caparra dell' eterna eredità attribuita allo Spirito Santo, che per ciò si chiama Spirito di promissione, e l' effetto suo« pegno dell' eredità nostra« (5). Questi tre effetti poi sono la santità, la fortezza e il gaudio. Il secondo vien dal primo, e l' ultimo dai due precedenti, sebbene la fortezza per quanto dipende dall' uso delle potenze diverse dalla volontà non sia necessariamente connessa colla santità di sua natura; come pure il gaudio per quanto egli scaturisce dalle potenze minori non va di sua natura congiunto a que' due primi effetti; e però giustamente questi tre effetti si distinguono, giacchè la nozione dell' uno non è quella dell' altro e la lor natura permetterebbe che stessero fra di sè separati. Ma tutti uniti dànno perfezione all' uomo, e di perfezionar l' uomo è appunto ciò che intende il Sacramento della Confermazione. L' angelico Dottore cercando in che maniera sia stato istituito il Sacramento della Confermazione, dice che [...OMISSIS...] ; e rende ragione del non essersi potuto conferire questo Sacramento prima della Risurrezione di Cristo, soggiungendo così: [...OMISSIS...] . Cercando poi lo stesso santo Dottore, se gli Apostoli abbiano ricevuto questo Sacramento risponde di no, e ne dà la ragione seguente: [...OMISSIS...] . La soluzione di questa questione, seguìta da tutto il meglio de' Teologi, trae qui a pensare all' altra del Battesimo degli Apostoli. Comunemente or si tiene da' Teologi, che sieno stati battezzati da Cristo, ma ella è però cosa incerta e controversa (4), e non ispregevoli mi sembrano quelle ragioni, che si possono addurre per l' opinione contraria. Perocchè se poteron essi ricevere lo Spirito Santo senza Sacramento mandandol loro Cristo dal cielo, come non poterono ricevere la grazia del Verbo, che si dà nel Battesimo conversando essi col Verbo in terra? In tal modo ne verrebbe meglio chiarito il passo di S. Paolo, che « ricevettero le primizie dello Spirito«, » e gli Apostoli, immediati discepoli di Cristo e riceventi dalla sua bocca le parole della vita, avrebbero ricevuto immediatamente nell' anima loro il Verbo e lo Spirito; e gli altri fedeli avrebbero ricevute queste grazie mediante i Sacramenti conferiti dagli Apostoli e lor successori. Ho già dimostrato, che Cristo non avea bisogno d' alcun mezzo per comunicare le sue grazie, e che se Cristo fosse potuto essere al contatto di tutti gli uomini non ci avea bisogno alcuno di Sacramenti; i quali sono istituiti come anelli, o canali intermedi fra Cristo e quegli uomini, che non possono con lui immediatamente conversare (1). Egli è vero, che Cristo dice positivamente: « non può entrare nel regno di Dio niuno, che non sia rinato di acqua e di Spirito Santo« (2), » ma certa cosa è, che questa sentenza ammette una ragionevole interpretazione in quanto all' acqua materiale, il bisogno della quale non è assoluto per tutti gli uomini. Tanto è vero che ne sono eccettuati per comune consenso tutti quelli che morirono prima del dì della Pentecoste; e da quel dì tutti quelli che si salvarono col Battesimo di penitenza o di sangue. Or Cristo dava immediatamente quell' acqua viva di cui egli parla alla Samaritana « saliente in vita eterna« (3), » la quale non era già un' acqua materiale, sebbene l' acqua materiale sia stata istituita a simbolo dell' acqua spirituale. S. Giovanni Battista fu ripieno di Spirito Santo col solo avvicinarsegli Gesù nell' utero di Maria; non ebbe questi il Battesimo prima di nascere? Gesù diceva a Filippo: « Io sono tanto tempo con voi e non mi conoscete? Filippo chi vede me, vede me e il Padre mio« (4), » indicando con ciò, che la sola vista di Cristo dava la grazia e la percezione di Dio. La Scrittura dice che l' uomo vive di ogni parola, che esce dalla bocca di Dio (5); e le parole di Cristo avranno forse avuto minor efficacia del Battesimo quando anche al Battesimo non proviene la forza sua se non dalla parola del Verbo? (6) non sono chiamate parole di vita quelle di Cristo? (7) non ha detto Cristo agli Apostoli, ch' erano mondi per cagione del sermone che avevano udito da lui? (1) E al presentarsi che facevano a Cristo gl' infermi non diceva loro tostochè vedeva in essi la fede e la contrizione: « i tuoi peccati ti sono rimessi«, » senza far loro parola di Battesimo? (2) e se i peccati loro eran rimessi avevano già ottenuto l' effetto del Battesimo senza più. Non disse a Zaccheo che « la salute di quella casa era in quel giorno avvenuta« (3) » appunto perchè l' avea santificato coll' aspetto suo e colla sua visita? E se appresso tutti i Teologi si conviene, che la necessità del Battesimo non cominciò se non dopo la Pentecoste, questa necessità non ci fu mai per gli Apostoli, perocchè dopo aver ricevuto lo Spirito Santo non poteano aver bisogno del Battesimo, e prima necessità non ce ne aveva per alcuno. Ora noi dobbiam favellare del più compiuto e del più ineffabile de' Sacramenti, voglio dire dell' Eucaristia. Il verremo prima considerando in sè stesso, trattando della confezione del corpo e del sangue di Cristo; poscia rispetto ai battezzati di cui egli è soprasostanziale nutrimento; e finalmente rispetto all' ordine stesso della santificazione umana. Il divino Autore di tanto mistero illustri a noi la mente e ci conduca la penna, acciocchè collo scrivere nostro fedele possiamo conseguire quello che solo è bene, desiderando noi di non mescolare in queste pagine nulla di nostro a quanto da lui medesimo e dalla sua chiesa noi abbiamo imparato. E prima mi si conceda di sporre il modo del trasmutamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue di nostro Signor Gesù Cristo, a quel modo che io il concepisco contenersi nel deposito delle verità della fede, nelle Scritture e nella Tradizione. Dico in prima, che questa trasmutazione si fa in un modo assai somigliante (1) a quello onde in noi si converte il cibo, mediante la nutrizione, nel corpo nostro e nel nostro sangue. Conviene attentamente osservare ciò che avviene nel fenomeno della nutrizione. Delle particelle inanimate vengono ricevute nel nostro stomaco, e indi distribuite pe' meati del corpo e ravvicinate sì fattamente, assimilate, inserite, contemperate, fuse nella nostra carne viva e nel nostro sangue vivo, che anch' esse in un modo ammirando ricevon la vita e si fanno animate, sensitive; in una parola diventano vera nostra carne e vero nostro sangue. Ora in un modo somigliante, come dicevo, io intendo che Gesù Cristo comunichi la vita propria alle particelle del pane e del vino, e in tal guisa le renda suo vero corpo e suo vero sangue. E ove in tal modo si concepisca la transustanziazione del pane e del vino si rendono assai chiare alcune parole di Cristo che altramente possono parere oscure ed inesplicabili. Così leggiamo in S. Luca, che dopo aver detto il divino Redentore giacente co' suoi discepoli nel cenacolo: [...OMISSIS...] . Dove quella maniera« dico io a voi« dico enim vobis , annunzia che egli vuole comunicar loro qualche gran cosa. Il regno di Dio poi consiste propriamente nella glorificazione di Cristo; perocchè Cristo glorioso a pieno regna « m' è stata data ogni potestà in cielo ed in terra«, » e Dio regna in Cristo. Volea dunque dire, che non mangerà più la pasqua prima della sua Risurrezione, nella quale Risurrezione la pasqua sarà pienamente adempita: perocchè l' agnello pasquale rappresentava il vero agnello ucciso, e fatto salute e cibo vitale de' veri israeliti, cioè Cristo ucciso e fatto glorioso, potente perciò a comunicare vita e pienezza di vita, a cui se ne ciba vivendo. E nello stesso significato soggiunse del calice del suo sangue: « prendete e dividete fra voi: imperocchè vi dico, che non berrò della generazione della vite, fino che non venga il regno di Dio« (3), » cioè la mia Risurrezione. Nè si può muover dubbio per cagione della particella« fino che« donec , la quale nella maniera d' usarla che fa la Scrittura indica sovente ciò che non fu fatto fino a quel momento, non ciò che far si deva in appresso. Benchè ciò sia vero, e valga per intendere altri luoghi delle Scritture; pure qui il testo di S. Matteo e di S. Marco non ci permettono tale interpretazione, leggendosi espressamente, che Cristo non solo non berrà più vino fino alla Risurrezione, ma che « berrà un vino nuovo nel suo regno«, «cioè fatto glorioso. [...OMISSIS...] Le quali parole sono chiarissime, nè ammettono una facile interpretazione altrimenti che coll' intenderle dell' Eucarestia che dovevano i suoi Apostoli celebrare, lui già risorto. Perocchè dicendo Cristo « di questo figliuolo della vite« » esclude ogni spiegazione spirituale, che dar si volesse a quelle parole; giacchè quel vino a cui alludeva era cosa reale e non puramente allegorico e figurato, e dove s' intendesse che un vino figurato sarà quello che berrà dopo la sua Resurrezione dovrebbe necessariamente intendersi che un vino figurato beveva allora, il che sarebbe contrario alla fede; perocchè l' identità di natura fra il vino che allora beveva e quello che dice di dover bere nuovo dopo la Risurrezione è chiaramente espressa in quelle parole: « io non berrò più di questo figliuolo della vite«. » Dice adunque, che nel regno del Padre suo, cioè dopo risorto, berrà del vino, ma non d' ogni vino, ma di quello appunto che tenea allora in mano, ed era il vino consacrato; e di più dice, che lo berrà con essi « lo berrò nuovo con esso voi«. » Aggiunge poi che sarà « un vino nuovo« » per indicare che il vino consecrato dopo la Risurrezione non era più un sangue passibile e che si potesse veramente spargere; ma un sangue impassibile, e immortale, e meglio che un vino nuovo, di recente e inestinguibile vita potente. Tutte queste circostanze mirabilmente si avverano nell' Eucarestia, se a quel modo si spieghi che abbiam toccato. Conciossiachè in tal caso veramente avverrebbe, che Cristo glorioso, banchettasse continuamente, per così dire, avvivando della sua vita divina il pane ed il vino, e convertendolo tutto nelle divine carni e nel divino suo sangue. Che se attentamente si considerano le parole di Cristo non si troveranno capaci di alcun' altra interpretazione. Perocchè Cristo stesso lo espone dell' Eucaristia. « Di gran desiderio ho desiderato, dice, di mangiare con voi questa pasqua innanzi che io patisca«. » Che vuol dire questo « innanzi che io patisca?« » non sembrano parole superflue? non bastava dire:« di gran desiderio ho desiderato di mangiare questa pasqua?« no, perocchè Cristo poteva mangiare quella pasqua avanti patire e dopo aver patito, cioè già risorto. Però egli mostra l' immenso desiderio che avea di mangiare quella pasqua, prima che patisse, quella pasqua nella quale sarebbe morto. Or se quelle parole « innanzi che io patisca«, » alludono assai convenientemente ad una pasqua ch' egli mangiar poteva dopo aver patito, non è egli assai chiaro, che quel pane e quel vino, che dice poi che avrebbe mangiato nuovo nel suo regno, è appunto questa pasqua, di cui così favella fino a principio del suo discorso? e che però per quel pane e per quel vino nuovo non può intendersi convenientemente se non l' Eucarestia che sarebbe stata rinnovata, lui già risorto? Or in tal modo intese seguire la transustanziazione del pane e del vino S. Gregorio Vescovo di Nissa, uno de' Padri del secolo d' oro della Chiesa, e de' più acuti e di tanta fede e venerazione, che in sua vecchiezza chiamavasi il Padre de' Padri (1). Questi nella sua celebre Catechesi si fa a cercare diligentemente, come il corpo di Cristo nella Santissima Eucarestia possa alimentare tanti fedeli, rimanendosi egli intero e in sè perfetto (2). [...OMISSIS...] Così questo grand' uomo trovava opportuno di chiamare la ragione in ossequio e in servigio della fede, non dissociando quello che Iddio ha congiunto. Viene adunque a stabilire 1 che il corpo nostro nello stato presente si mantiene coll' alimento a lui adattato (1), 2 che questo alimento precisamente è il pane ed il vino che si convertono nel corpo (2), 3 che però chi vede del pane e del vino il corpo umano in potenza, cioè tali cose che sono atte a farsi corpo (3). Premessi questi principii egli viene applicandoli all' Eucarestia (4). Ed osserva 1 che il Verbo divino prese un vero corpo umano (5), 2 che anche questo corpo umano preso dal Verbo non si sottrasse mentre era in terra alla legge degli altri corpi, di nutrirsi cioè di pane e di vino (6), 3 che il pane e il vino di cui Cristo si nutriva diventava una cosa stessa col corpo di Cristo, perocchè trapassava alla natura del corpo sebben corpo divino (7), 4 [...OMISSIS...] . Si fa poi l' obbiezione tratta dalla maraviglia che v' ha in una trasmutazione sì maravigliosa per la quale un pezzo di pane ed un calice di vino si trasmuta in un essere divino; e risponde, che se ciò avveniva indubitatamente quando Cristo vivea, niuna maraviglia che avvenga anco di presente; perocchè l' onnipotenza del Verbo, che faceva quella trasmutazione vivendo in terra è la medesima anche ora. [...OMISSIS...] Le quali parole del Nisseno non si possono già considerare, come contenenti una cotal vaga similitudine fra la nutrizione e la consecrazione; ma bensì come una spiegazione ch' egli manifestamente prende a dare di questa mediante di quella. Il secondo testimonio che noi addurremo sarà S. Cirillo Alessandrino, il quale senza nominare la parola nutrizione, dice però il medesimo affermando, che Iddio converte il pane nel proprio corpo, comunicandogli la virtù vitale del proprio corpo; che è appunto quel modo in che noi crediamo avvenire la transustanziazione. Le parole del gran Vescovo sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Può dirsi più propriamente e più espressamente quello che noi diciamo, cioè che la consecrazione consiste in una diffusione e comunicazione della vita divina del corpo di Cristo? E un testimonio maggiore ancora a prova della proposta sentenza possiam forse cavare dal libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Quando anco l' autore di quest' opera si dovesse collocare nel secolo V, fra il Concilio Efesino e il Calcedonese, come vogliono taluni, e però fosse posteriore a Gregorio e a Cirillo, tuttavia l' autorità di quel libro parmi vincer non poco quella de' due grandi Vescovi allegati, non foss' altro perchè vi si descrive la liturgia della Chiesa, che venìa dagli Apostoli. Ora i fedeli che comunicano sono appellati in questo libro« connutrizi « di Cristo: appellazione, come a me sembra, tenerissima ed efficacissima, la qual suppone che nella stessa Eucarestia trovar debbasi un cibo in pari tempo per Cristo e per noi. E veramente se il pane e il vino si converte nelle carni e nel sangue di Cristo per una operazione simigliante, sebben più sublime, di ciò che avviene nella ordinaria nutrizione; veramente i fedeli cibano quel cibo che ha cibato prima Cristo, e sono veri suoi connutrizii. Ella s' avvera in questo caso alla lettera la similitudine usata dagli scrittori ecclesiastici, i quali raffigurano Cristo nell' Eucarestia in una madre che nutrisce i suoi bambolini, del proprio suo cibo convertito in suo latte, convertito in propria sostanza. Dice adunque l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia che « la divinissima partecipazione comune e pacifica di un medesimo pane e di un medesimo calice prescrive a' partecipanti, siccome A CONNUTRIZII (1) una divina conformità di costumi - e che lo stesso autore de' simboli, a meritissimo diritto esclude (dal banchetto) colui che SECO avea frequentata la sacra cena, nè santamente, nè con animo concorde« (2), » cioè Giuda tipo di quelli che indegnamente comunicano. E se l' interpretazione di questo luogo può esser dubbiosa ad alcuni, niuno dubiterà però che con noi non la senta Giovanni di Damasco. Nel IV libro della fede ortodossa (3) egli scrive così: [...OMISSIS...] . Il qual passo è certamente chiarissimo: e conviene osservare, come il Damasceno riconosca come il cibo convertito naturalmente in carne ed in sangue vivo non formi già un corpo diverso, ma l' identico corpo che v' aveva prima: e come la similitudine che usa la crede atta appunto a dimostrare l' unicità e l' identità del corpo di Cristo, sebbene Cristo assuma e transustanzii nelle sue carni e nel suo sangue la sostanza del pane e del vino. Non può adunque dirsi che la similitudine usata dal Damasceno sia in questa parte deficiente: egli almeno la tien per attissima al suo intendimento. Nel secolo seguente Teofilatto, commentando il capo VI di S. Giovanni, così scriveva: [...OMISSIS...] . Le quali parole dice Teofilatto a intendimento di rendere più credibile sì grande mistero a quelli che s' atterivano pensando, che annunziasse cosa impossibile. Ora le sue parole niente varrebbero a tale intendimento quando non v' avesse una vera similitudine fra la nutrizione naturale e la consecrazione, che si può dire una cotale soprannaturale ineffabile e divina nutrizione di Cristo glorioso. E questa conversione in tal modo concepita viene espressa appunto allo stesso modo, ma senza l' uso di alcuna similitudine, da Elia Arcivescovo di Creta scrittore dell' ottavo secolo, a quel modo stesso come vedemmo espressa da Cirillo Alessandrino, dicendo egli, che « Iddio abbassandosi all' infermità nostra immette nelle cose proposte (in su l' altare) una virtù vivificatrice e le trasferisce all' operazione della sua carne« (2) » cioè dà loro l' atto o la natura della propria carne: il che è appunto quello che avviene nelle particelle del cibo, le quali avvolte quasi direi nel vortice della vita vengono anch' esse avvivate e acquistan natura ed atto di verissima carne. Al quale greco scrittore s' accorda un altro che fiorì nello stesso secolo nella Chiesa latina, voglio dire Alcuino, il quale così scrive dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] . Dove si vede manifesto come questo scrittore intendeva che il pane passasse nel corpo di Cristo, e così con lui si mescolasse e immedesimasse. Or sebbene, come dirò appresso, il Durando abusasse del concetto della nutrizione male intendendolo; tuttavia egli si scontra anche ne' teologi cattolici che scrissero dopo di lui, come in Simonate di Gaza, in Giovanni Bromiardo, nel Gersone, nel Sabundio. De' quali non sarà inutile l' addurre i luoghi. Scriveva adunque Simonate Gazeo nel XIII secolo: [...OMISSIS...] , il qual passo veramente non si può storcere a indicare altro che quello che noi vogliamo. Scrive pure il Bromiardo: [...OMISSIS...] : argomentazione che non istringerebbe, quando non si trattasse nella consecrazione di una trasformazione somigliante a quella che avviene veramente nella natural nutrizione. Giovanni Gersone simigliantemente: [...OMISSIS...] . Finalmente udiamo Raimondo Sabundio: [...OMISSIS...] . Il perchè l' errore di Durando non consiste nell' avere paragonato la consecrazione alla nutrizione; ma nell' aver detto che il pane non si converte già tutto nel corpo di Cristo, ma la materia del pane rimanere partendosene la forma sostanziale (3). Sembra che Durando sia caduto in tale errore per non essersi formato un' idea giusta della nutrizione; ed egli pare che credesse rimanere la materia del pane informata dall' anima di Cristo, il che sarebbe una vera impanazione (1). I teologi stessi, e fra questi un sommo, il Bellarmino, se non erro, hanno confuse insieme queste due cose. E veramente basta attentamente considerare con quali decisioni della Chiesa il Bellarmino combatta il Durando, per accorgersi, che l' errore che vien combattuto, non istà propriamente nel considerare la consecrazione come una cotal nutrizione di Cristo glorioso (detratto tutto ciò che nel concetto di nutrizione si trovi d' imperfetto e di difettoso); ma bensì nel supporre che la materia del pane rimanga immutata. Due sono i solenni decreti della Chiesa che il Bellarmino contrappone al Durando: 1. Il capitolo IV e il canone II della Sessione XIII del Concilio di Trento, dove si dichiara mutarsi « tutta la sostanza del pane nel corpo, e tutta la sostanza del vino nella sostanza del sangue«. » Or a questo canone si oppone certamente la dottrina che insegna rimanere la materia del pane, ma non quella che dice tutta la materia del pane si trasmuta nelle carni del Signore; e questo avviene appunto supponendo avvenire nella consecrazione una conversione simile (sebben più sublime) a quella della nutrizione. Imperocchè supponendo la nutrizione perfetta avverrà, che nel pane Eucaristico non vi sia nè pure una particella, nè pure un elemento il più tenue che non sia vera carne di Cristo; nè del vino rimanga un atomo che non sia verissimo sangue; ciò che risponde a capello alla fede cattolica (2). 2. La Sessione VIII del Concilio di Costanza, nella quale si condanna l' errore di Vicleffo, il quale era che « gli accidenti non rimangono senza soggetto«. » Ora se la materia del pane rimane, certo che questa materia è il soggetto proprio degli accidenti, e però gli accidenti non sarebbero senza il loro soggetto, contro a quello che definì il Concilio di Costanza. Ma all' opposto se si afferma, che la materia del pane, soggetto degli accidenti, mediante la soprannaturale nutrizione di cui parliamo siasi cangiata nella vera e viva carne di Cristo, egli è cosa manifesta, che il soggetto degli accidenti non rimane più; e che non restano se non gli accidenti del pane e del vino, senza il pane ed il vino, senza la sostanza loro. Conciossiachè il corpo di Cristo ha ben degli altri accidenti, ma che tiene a noi occulti nell' Eucaristia, celandosi quasi direbbesi sotto gli accidenti altrui, che a noi appariscono. La dottrina nostra adunque è sommamente consentanea alle decisioni del Concilio di Trento e di quello di Basilea. Non v' ha dunque alcuna decisione della Chiesa, che c' impedisca la nostra sentenza, la quale anzi è mirabilmente consentanea ai Concilii di Costanza e di Trento. Non è però, ch' ella non trovi alcune difficoltà non leggiere nell' apparenza, ma che non mi sembrano tali nella sostanza. Oltre di che a portare un retto giudizio conviene raffrontare le difficoltà che porge la sentenza nostra, con quelle che trae seco la sua contraria, le quali a me sembrano oltremodo più gravi. Il perchè io verrò sponendo e ponendo a fronte le une colle altre, e così potrà ciascuno savio con piena cognizione di causa scegliere l' opinione che gli parrà meno involta di nodi e più consentanea alla rivelazione ed alla tradizione. La prima difficoltà dunque, che ci si affaccia, si è quella di non saper comporre la nutrizione collo stato di Cristo glorioso. E certamente, che se noi parlassimo di quella stessa maniera di nutrizione che in noi succede, ella non si potrebbe in modo alcuno avvenire in un corpo glorioso. Ma egli è necessario osservare, che tutto ciò che è conforme alla natura di un uomo (1) può trovare un modo di essere anche nello stato di un uomo comprensore, sebbene noi non sappiamo in qual modo ciò avvenga, perchè non abbiamo esperienza dello stato de' corpi gloriosi, salvo ciò che ce ne dà la rivelazione. E veramente la natura umana col farsi gloriosa non muta l' esser suo, ma ella si nobilita e acquista delle nuove qualità. Il perchè non è da credere, che rimanendo il corpo nostro formato come è al presente e delle stesse membra composto, egli non debba avere altresì un uso delle sue membra, sebbene quest' uso soverchi di presente il nostro pensiero. Quello solo che mi sembra di poter dire si è, che la maniera di nutrizione che può cadere ne' corpi gloriosi deve esser scevra da tutte le imperfezioni che involge la nutrizione nostra. Per esempio, la nutrizione in noi supplisce alle particelle che continuamente si separano dal corpo nostro, e col riparare a queste perdite e co' movimenti annessi all' opera della nutrizione mantiene l' attività, il calore, la vita. Tutto questo appartiene all' imperfezione nostra; la nutrizione considerata come producente tali effetti, necessari al mantenimento del nostro vivere, non può cadere in modo veruno in corpi impassibili immortali. Ma tutto ciò non forma ancora l' essenza della nutrizione, al modo come noi intendiamo questa parola. L' essenza della nutrizione noi la facciamo consistere unicamente, 1. nell' assimilare al corpo vivo della materia non viva, 2. e nel comunicare la vita a questa materia nell' atto stesso che si assimila e inorganizza nel corpo, sicchè con esso diviene un solo e identico corpo. Ora a me sembra, che niente ripugni che questo concetto della nutrizione si applichi anche ad un corpo immortale; io non veggo cosa che a ciò si opponga nella parola di Dio o scritta o tramandata; molte all' incontro che me lo persuadono. E veramente, se il corpo nostro imperfetto com' è ha pur tanto di vita in sè stesso da poterla comunicare a delle particelle di materia inanimata; e come di una tale virtù sarà privo un corpo perfettissimo, che di vita è pienissimo a segno, che non può morire? Convien considerare, che il comunicare la propria vita a materia straniera è cosa che appartiene all' eccellenza di una natura e non a un difetto; che è opera potente, nobilissima. Si richiede solamente svestire quest' alta funzione da quegli accessori, co' quali noi la veggiamo continuamente accompagnata, ma che non le sono necessarii, e che accidentalmente le avvengono per l' imperfezione nostra, cioè per l' imperfezione del soggetto, in ch' ella si forma. Di che avviene, che mutato il soggetto e reso questo al tutto perfetto, anche l' operazione di cui parliamo non delle sue imperfezioni parteciperebbe, ma più tosto de' suoi pregi e delle sue eccelse prerogative. Acciocchè dunque un corpo comunichi ad un altro corpo della propria vita non è necessario 1. ch' egli perda qualche parte della sostanza di cui si compone, come avviene ora in noi, 2. nè che egli abbia bisogno della vita distesa e accomunata ad altri corpi per viver egli, come pure avviene nel corpo mortale, 3. nè ch' egli sofferisca tutte quelle permutazioni successive, colle quali si forma in noi la nutrizione. Tutto questo viene escluso dal corpo glorioso (1). Ma egli rimane però dopo di tutto ciò qualche cosa che al corpo glorioso non ripugna; e questa si è, ch' egli comunichi ad altri corpi la propria vita istantaneamente, e a sè li assuma ed immedesimi; non sè abbassando, ma quelli a sè elevando ed incorporando (2). Ora questo è quello, che anche crediamo avvenire ineffabilmente e soprannaturalmente nella Eucaristia. S. Luca ci descrive Cristo che dopo la Risurrezione mangia co' suoi discepoli, in prova ch' egli non è puro spirito ma anche vero corpo. Egli avea loro mostrate le cicatrici delle sue piaghe, e fattele loro toccare, ma essi tuttavia non credevano: a convincerli ch' egli era anche risorto vero uomo, vuol mangiare con essi. [...OMISSIS...] Ora io so bene, che cosa dicano i Teologi: essi vanno imaginando che quel cibo, che prese Cristo, non siasi convertito nelle sue carni, ma risoluto in aria, come dice il Bellarmino (4). Ma questo non è che una pura imaginazione non fondata punto nelle Scritture, imaginazione proveniente da non sapere come accordare insieme una vera nutrizione collo stato di un corpo glorioso. Per questo lo stesso Aquinate conghiettura, che il cibo preso da Cristo siasi risoluto nella « pregiacente materia«; » ma dice che tuttavia quel prendimento di cibo era una vera comestione « perocchè Cristo aveva un corpo di tal natura, che in esso corpo si poteva il cibo convertire« (1). » Ma questa è puramente teologia non fondata nè nella Scrittura nè nella Tradizione, e proveniente, come diceva, dal non saper essi formarsi della nutrizione un concetto elevato e puro da tutte quelle imperfezioni, ch' ella ha come avviene in noi. Per altro tanto è lontano, che le Scritture ci faccian credere che nella comestione di Cristo risorto il cibo non si convertisse nelle sue carni, che anzi fanno travedere il contrario. Primieramente si descrive quella comestione come ogn' altra. Poi Cristo voleva dar prova a' suoi discepoli che egli aveva un corpo della stessa natura del loro. La visibilità e la solidità di questo corpo l' aveva già loro provata facendosi vedere e toccare. Se il cibo da lui preso non avesse fatto che passare in lui, la prova non era tampoco maggiore del mostramento fatto loro delle cicatrici, e del toccamento di quelle ch' essi avean fatto. Ma volea loro mostrare, che il suo corpo era atto anche alle funzioni della vita, fra le quali è quella di nutrirsi, o sia di comunicare alla materia della propria vita. Per questo fine egli volle mangiare in loro presenza. Se il cibo non si fosse cangiato nelle carni di Cristo, perchè mostrar di mangiare? A che cosa è ordinato il mangiamento del cibo se non alla nutrizione? Conveniva egli che il Redentore facesse una tale azione del prender cibo in bocca, masticarlo, mandarlo nello stomaco, senza ottenere il fine pel quale sono state fatte tutte queste operazioni? tutte queste operazioni sono inutili e vane, quando il cibo non dee cangiarsi in carne e sangue, non dee nutrire; egli veramente non è più cibo. In tal caso in vece di far passare il cibo per la bocca e pe' visceri, bastava che Cristo lo prendesse in mano: perocchè il toccarlo colla mano o con altra parte di corpo è il medesimo quando il cibo non dee trasmutarsi. Oltrecchè non ingeriva egli nelle menti degli Apostoli una cotale erronea opinione, se avesse mangiato senza nutrirsi di ciò che mangiava? perocchè essi, non ricevendo da lui spiegazioni di quell' atto, non doveano pensare se non che il mangiar di Cristo era simile al loro; il che se avvolgeva una gran meraviglia, non rimaneva però men credibile: quando di fatti portentosi e per poco incredibili erano circondati. Certo S. Pietro rimase altamente preso da questo fatto di aver Cristo mangiato dopo la Risurrezione, e nel discorso che fece in occasione del Battesimo di Cornelio lo rammenta dicendo: [...OMISSIS...] . Egli fa notare che Cristo dopo che risorse da morte mangiò e bevette (1), ed essi con lui; nè aggiunge già che questo mangiare e questo bere non era che un trapassare del cibo e della bevanda pel corpo di Cristo; ma non crede che noccia alle doti gloriose di Cristo risorto il lasciar credere che il cibo si tramutasse in Cristo come in noi si trasmuta: anzi questo veramente avvicina maggiormente Cristo a noi, e lo stato glorioso de' nostri corpi al presente, e ci mette in più stretta e famigliare conversazione colle cose eterne. Ma il mangiare di Cristo dopo risorto cogli Apostoli, il mangiare il pane ed il vino Eucaristici, che non dee certo esser mancato in sì sublimi conviti, non solo provava l' umanità di Cristo d' ugual natura alla nostra; ma ben anco la sua divinità per l' avveramento della sua profezia. In vero egli pare che in tali agapi, che Cristo risorto fece co' suoi discepoli, si avverasse quanto disse nell' ultima cena, che non avrebbe mangiato e bevuto con essi se non dopo venuto il regno di Dio, cioè dopo la sua Risurrezione, ma che allora [avrebbe] banchettato in nuova maniera al tutto maravigliosa con essi, e avrebbe con essi bevuto un vino nuovo. E questo vino nuovo, di cui s' era inebriato, rammentava Pietro dicendo, che « aveano mangiato e bevuto con Cristo dopo che era risorto da morte«. » Ed egli era quanto un dire che aveva ricevuto dentro di sè Cristo glorioso, a loro principio e fonte di ogni potestà e d' ogni bene; perocchè Cristo risorto è oltre ogni pensiero vivifico e onnipotente. Sicchè con quelle parole Pietro mostrava qual Cristo erasi loro comunicato, qual potere era il suo, qual dignità, qual tesoro di vita. Può recare qualche maraviglia il riflettere, che se Gesù Cristo glorioso incorpora a sè e comunica la vita sua alla sostanza del pane e del vino; dovrebbe la mole del suo corpo or crescere ed ora scemare. Ma nè pur questo può veramente nuocere all' opinione proposta, ove pure dirittamente s' intenda. E` certo che Gesù Cristo nella Risurrezione ha un corpo, che non perde più alcuna menoma particella, e sarebbe grandissimo errore dire il contrario; così pure certo è che quel corpo non ha bisogno di cosa alcuna. Ma tutto questo fermato, niente poi ripugna che quel corpo possa or ricevere qualche accessione, or deporre l' accessione ricevuta; purchè questo accesso e recesso di materia straniera si faccia senza ch' egli punto nè patisca o soffra, nè per cagione di suo bisogno; anzi forse per suo infinito diletto. Pur troppo egli avviene, che noi ci formiamo de' corpi gloriosi un concetto arbitrario e che gli attribuiamo non quello solo che nelle Scritture e nella tradizione troviamo, ma quello ancora che noi crediamo gli debba convenire per cagione di dignità e di perfezione; quando egli è veramente troppo alta cosa il conoscer dove questa dignità e perfezione consista, e quali cose a lei si convengano, quali sconvengano. Di che accade che il corpo de' comprensori si concepisca per poco senza moto e senza azione. All' opposto io credo, come ho poco sopra toccato, che anzi il corpo glorioso abbia un movimento ed un' azione infinitamente maggiore che non il corruttibile mortale; e che tutte le sue membra giovino a qualche uso, nè sieno inutili: sebben l' uso loro sia d' un modo, di cui non possiam avere esperienza, e scevro da ogni presente difetto. Egli appartiene dunque, a mio parere, alla eccellenza e sublime perfezione del corpo di Gesù Cristo risorto, ch' egli possa assimilare a sè tutto ciò ch' egli vuole, possa a tutto ciò ch' egli vuole accomunar la sua vita (1), e or ricevere crescimento, or il crescimento ricevuto lasciarlo a tutto suo piacimento; senza che menomamente egli con queste azioni e mutazioni o sofferisca, o perda di sua vita, di sua dignità, di sua beatitudine. Credo di più che come tutte le sue azioni, così questa massimamente di cui parliamo conferisca alla pienezza del gaudio che il rende beato. La seconda fra le apparenti difficoltà contro l' esposta dottrina viene cavata da quelle parole di Gesù Cristo: « il pane che io darò è la carne mia per la vita del mondo (2), » e da quell' altre: «« Questo è il mio corpo che per voi sarà dato« (1): » secondo le quali parole il pane Eucaristico è quel corpo di Cristo che ha patito sulla croce. Ora quella carne di Cristo nella quale si converte il pane, posta la precedente teoria, non parrebbe esser quella stessa che sulla croce ha patito. Dunque una tale teoria non si regge in piedi. Ma chi un po' considera anche questa è una difficoltà apparente e non più. Io bramo, che ben si considerino in primo luogo le parole di Cristo: « il pane che io darò è la carne mia che io DARO` per la vita del mondo«:« questo è il mio corpo, che per voi SARA` DATO«. » Queste parole sono del futuro. O si considerano adunque nella bocca di Cristo che aveva ancora da patire, e in tal caso si riferiscono al sacrificio cruento che egli far dovea del suo corpo; e non presentano alcuna difficoltà, perocchè Gesù Cristo nell' ultima cena andò a morire dopo aver celebrato ed essersi nutrito della santissima Eucaristia che distribuì a' suoi discepoli; sicchè potea ben dire, anche in un senso materialmente vero, che il pane Eucaristico che loro dava era quel suo corpo che avrebbe patito. O pure si considerano ripetute dal sacerdote sull' altare, e in tal caso quel tempo futuro SARA` DATO non può riferirsi che al sacrificio incruento; e anche ciò posto, quelle parole si verificano alla lettera e materialmente; imperocchè al sacrificio incruento appartengono appunto quelle particelle, se così mi si lascia dire, del corpo di Cristo, e quelle stille di sangue, in cui si convertì il pane ed il vino. Le parole adunque, che si allegano, un po' considerate, non fanno la minima opposizione a quanto fu proposto. Ma senza di ciò egli è certo che il corpo e il sangue Eucaristico è identico col corpo e col sangue di Gesù Cristo che patì in croce (2). Di più, egli è di fede che il corpo di Cristo che nacque di Maria Vergine, quello col quale Cristo fece tutte le azioni della sua vita privata, quello che fu battezzato da Giovanni, quello che digiunò, predicò, patì, risorse da morte, ascese al cielo e sussiste nell' Eucaristia, è uno stesso e identico corpo, e non più corpi: il dire il contrario sarebbe eresia (1). Per ciò come dicono i Padri, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è il medesimo corpo che ha patito sulla croce, così dicono parimente ch' egli è il medesimo corpo, che è nato da Maria Vergine (2); e le liturgie fanno insieme coll' Eucaristia commemorazione di tutti i misteri (3). Ora in che consiste questa IDENTITA` del corpo di Cristo che il rende quello medesimo nella stalla di Betlemme, sulla croce, nel celeste regno? Può ella forse ritrovarsi in una identità materiale, sicchè nè più nè meno quelle particelle che componevano il corpo di Cristo bambino fossero identiche a quelle che componevano il corpo di Cristo adulto, il corpo di Cristo spirato sulla croce o riposto nel sepolcro, e il corpo di Cristo glorioso? No certamente. E chi non sa, che il corpicciuolo di Cristo appena nato era composto di assai meno materia, che non sia il corpo di Cristo già fatto adulto, il qual pesava forse un sei o un dieci volte di più di quello? chi non sa che il corpo umano durante la vita presente separa continuamente da sè una moltitudine di particelle, che lascian d' essere vive, uscendo in sudore, e in altre naturali secrezioni; e che in compenso di quelle riceve e unisce a sè moltissime altre piccole parti inanimate colla respirazione e colla nutrizione ed altre funzioni vitali, le quali rese vive diventano vere carni? e che però ad ogni certo periodo di anni il corpo nostro o del tutto o certo nella massima sua parte si rifà e si rinnovella? e tuttavia è sempre il medesimo e identico corpo nostro? Però le particelle che componevano il corpo di Cristo nato e morto e risorto non erano tutte identiche; e pure il corpo era identico: l' IDENTITA` adunque di un corpo umano non consiste nell' identità delle particelle che lo compongono (1). Ove adunque consiste l' identità di un corpo umano vivente? Se non consiste nell' aver egli sempre quelle identiche particelle materialmente prese, se il mutare delle particelle onde si compone un corpo non cangia la sua identità e la sua numerica unità; convien dire che il fondamento dell' identità si debba riporre non in altro, ma nella vita, nel sentimento fondamentale (2). Un sentimento identico rimane sempre, il quale si esprime colla particella IO. L' IO è sempre quel medesimo: IO so di essere stato bambino, d' esser cresciuto e d' essere pervenuto, trapassando molte permutazioni, allo stato presente, sono sempre quel medesimo IO. E` celebre il verso che dice: « Tempora mutantur, et nos mutantur in illis » ma tuttavia questo NOS mantiene una identità assoluta, per mezzo a tutte le permutazioni; la quale è tanta, quanta l' incomunicabilità della persona. La persona è incomunicabile per la sua diffinizione (1): ella allo stesso modo è immutabile almeno nella sua radice. E qui si attenda bene, che quando noi facciamo derivare l' identità del corpo dall' identità della vita e del sentimento fondamentale, non parliamo solo del sentimento intellettivo, ma del sentimento animale che informa la materia. Questo sentimento e la vita da cui proviene rimangono sempre gli stessi, cioè egli è sempre uno stesso principio vitale quello che inanima il corpo; ora egli è cosa certa che un principio vitale che inanima alcune particelle di materia organizzate è al tutto indifferente a inanimar più tosto esse che altre particelle materialmente diverse, ma della stessa natura e forma, e componenti in tutto lo stesso organismo: anzi quel principio vitale non potrebbe in alcun modo distinguere la differenza di queste particelle che inanima, quando rispetto a lui sono al tutto uguali sia nella specie, sia nella forma, sia nella posizione, sia nella organizzazione, e non differiscono che nella numerica identità. Questo merita di essere attentamente considerato: l' identità materiale delle particelle inanimate dall' anima nostra è al tutto indipendente e cosa diversissima dall' identità del corpo vivo. Noi abbiamo osservato un fatto che può illustrare questo vero. Il moto nostro assoluto è per noi al tutto impercettibile, cioè il NOI non sofferisce alcuna alterazione dal moto relativo (2). Di qui apparisce manifestamente che l' identità del luogo , e l' identità del corpo vivo sono due identità al tutto indipendenti l' una dall' altra. Or come adunque io sono quell' IO identico tanto in un luogo come in un altro, nè sofferisco col mutar luogo (per moto assoluto) nè pure la più piccola e al tutto accidentale alterazione, così parimente egli è al tutto indifferente all' identità del mio corpo vivente che il mio principio vitale avvivi queste o quelle particelle, bensì differenti quanto all' individualità loro, ma quanto alla specie e nell' altre condizioni perfettamente uguali. Io credo di poter recare a questo proposito le parole di Gesù Cristo il quale disse « lo spirito è quello che vivifica: la carne nulla giova« (3): » quasi volesse dire che lo spirito vivificando la carne è quello che le dà unità, l' essere di uomo; quando senza lo spirito la carne non appartiene più, materialmente presa, all' umana natura, che nello spirito principalmente risiede. Se poi il principio animale è unificato col principio intellettivo e personale in tal caso l' identità del principio intellettivo diviene anch' esso fondamento dell' identità del corpo, di maniera che l' identità della persona costituisce l' identità del corpo da quella persona informato. Or poi in Gesù Cristo conviene ancora più su sollevarsi. Il principio intellettivo umano non costituisce persona in esso, ed è subordinato al Verbo persona divina che tutto il resto governa di ciò che sta nell' uomo7Dio; sicchè finalmente l' ultimo principio dell' identità del corpo di Gesù Cristo conviene cercarla non altrove che nella sua divinità (1) sempre identica, a cui esso corpo appartiene (2). Le particelle adunque che compongono il corpo non sono il corpo; la loro identità non è l' identità del corpo. Ma quando delle particelle sono rapite dallo spirito, per così dire appropriate a sè, accese di vita, incorporate in un corpo vivo, o in somma informate dall' identico spirito; esse non hanno un' esistenza a parte da lui: formano un' unità con quello spirito e con tutto il corpo vivente: non sono due corpi ma un solo: ed è l' identico corpo che esisteva e viveva prima di ricevere in sè quelle nuove molecole. Le quali dottrine ben poste, dico che il corpo di Gesù Cristo nella Santissima Eucaristia è veramente identico con quello spirato sulla croce; perocchè quell' accessione ch' egli riceve coll' Eucaristico ineffabile alimento con esso si perde, confonde, immedesima, diventa una cosa sola fusa con esso; un' anima stessa l' avviva, una medesima vita partecipa, gode d' un medesimo unico impartibile vital sentimento, non venendo nè l' organismo del corpo nè alcun membro rinnovato o mutato. E qui a chiarimento e conferma maggiore delle cose dette osserviamo un' altra espressione che usano i Padri a determinare l' identità del corpo di Cristo nell' Eucaristia. Essi dicono che questo corpo che sta nell' Eucaristia è il corpo proprio del Verbo. [...OMISSIS...] S. Isidoro Pelusiota lo chiama pure corpo « PROPRIO del Verbo incarnato« (3). » Nell' antichissimo rito di amministrare la Santissima Eucaristia riferito da Tertulliano e da altri, diceva il sacro ministro « ricevi il corpo di Cristo » ovvero «« è il VERO E PROPRIO corpo di Cristo« (4). » Ora questa maniera di dire è tale, che per essa si pone nella persona del Verbo il fondamento dell' identità del corpo. Se dunque il Verbo, mediante una soprannaturale operazione, rapisce a sè e s' appropria la sostanza del pane, questa sostanza col corpo permanente di Cristo divien pure corpo vero e proprio del Verbo, non altrimenti che il corpo permanente di lui, perocchè è dallo stesso Verbo assunta, informata e d' una sola vita accesa e una cosa fatta con esso corpo che prima della consecrazione il Verbo si aveva. Questa difficoltà si mostra essere solo apparente e non solida da quello che fu detto di sopra. Le particelle del pane e del vino convertite nelle carni e nel sangue di Cristo non si distinguono già dal rimanente del corpo; ma formano una cosa sola e impartibile col corpo ove s' inseriscono. Nè Cristo già disse:« queste sono quelle particelle di mio corpo che ebbi in nascendo dalla Vergine; ma disse «« questo è il mio corpo« » volendo significare l' identità del corpo, non l' identità delle particelle componenti il corpo. Così non disse già queste sone le particelle che« componevano il mio sangue quando io nacqui«; ma disse bensì « questo è il mio sangue«, » volendo significare l' identità del suo sangue; il quale fu sempre identico anco emettendo o ritenendo quelle particelle divise, perchè fu continuamente informato da una stessa vita o certo da una stessa divina persona (1). Nè si può dire che non si trovi tutto il corpo di Cristo nel Sacramento Eucaristico in virtù delle parole consecratorie, ma per sola concomitanza. Imperciocchè come poteva il corpo di Cristo alimentarsi per così dire delle particelle del pane e del vino se ivi tutto non fosse presente, e non assumesse in sè quelle particelle? Si trova dunque presente nell' Eucaristico pane tutto il corpo di Cristo ex vi Sacramenti, e non per sola concomitanza; perchè non potrebbe succedere l' ineffabile e divina nutrizione, che segue in virtù delle parole, e che le parole, per così dire, comandano, se non fosse ivi tutto il corpo di Cristo, e in sè non assumesse e transustanziasse il pane ed il vino. Laonde acciocchè si avveri, che in virtù e in forza delle parole sacramentali tutto il corpo di Cristo stia nell' Eucaristia, non è mica necessario che il pane ed il vino si cangi in tutto il corpo e il sangue di Cristo, ma solo nel corpo e nel sangue di Cristo, incorporandosi e unificandosi con esso il corpo e con esso il sangue di Cristo; e ciò mediante quella operazione ineffabile, che è fatta da tutto il corpo glorioso del divino trionfatore. Il che conviene a capello colle parole del sacrosanto Concilio di Trento. Perocchè esso assistito dallo Spirito Santo definì bensì che « sotto entrambe le specie e sotto ogni parte di ciascuna specie si contiene tutto ed intero Cristo« (1); » ma parlando della transustanziazione non definì mica che il pane ed il vino, ed ogni particella del pane e del vino si convertisse in TUTTO il corpo e il sangue di Cristo, ma solo che « per la consecrazione del pane e del vino avviene la conversione di TUTTA la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo Signor nostro, e di TUTTA la sostanza del vino nella sostanza del sangue di lui« (2): » di maniera che è bensì di fede, che tutta la sostanza del pane e del vino si converta; ma non è già di fede che si converta in tutto il corpo e in tutto il sangue di Cristo; sebbene a tutto il corpo e a tutto il sangue di Cristo si contemperi e s' immedesimi. Il perchè secondo la fede cristiana cattolica è certo: 1. Che tutto il corpo e tutto il sangue di Cristo si trova nella Santissima Eucaristia. 2. Che egli vi si trova in virtù delle sacramentali parole. 3. Che tutta la sostanza del pane e del vino si converte. 4. Ma non che si converte in tutte le parti del corpo e del sangue di Cristo; sebbene si fonda e si unifichi con tutto il corpo e con tutto il sangue. Le quali quattro cose s' accordano a pienissimo colla sentenza da noi dichiarata. La qual sentenza riceve maggior lume e fermezza da quella dottrina teologica la quale insegna che« sotto le specie eucaristiche sta bensì in forza delle parole tutto Cristo quanto alla sostanza, ma non quanto alla dimensione«. Udiamo come una sì fatta dottrina sia spiegata da S. Tommaso: [...OMISSIS...] . E s' attenda bene alla similitudine che adopera il santo Dottore a render chiaro questo concetto: [...OMISSIS...] . Or dunque secondo il santo Dottore, come sotto ogni parte dell' aria non istà tutta la quantità dell' aria, ma quella parte che ci sta è però aria, n' ha la natura e niente manca a questa natura, e però è tutta la natura; e come sotto ogni parte di pane, non istà mica tutto il pane quant' egli ce n' ha al mondo, ma bensì quello che ci sta ha la natura di pane e tutta la natura di pane; così medesimamente sotto la specie del pane e del vino, cioè sotto quella piccola dimensione che da esse specie viene determinata nello spazio, non istà mica tutta la grandezza del corpo di Cristo; ma quello che ci sta è vero corpo di Cristo, e vi ha tutta la natura, ed è congiunto col rimanente del corpo; il quale vi sta per concomitanza, cioè perchè è dalle sue parti inseparabile. Indi è che S. Tommaso spiega come tutto il corpo di Cristo vi abbia intero tanto in tutta l' ostia, come nelle sue parti, sieno queste unite o divise mediante lo spezzamento dell' ostia. Perocchè in ciascuna parte vi è egualmente la natura del corpo di Cristo, non però la stessa quantità di esso corpo; nè tuttavia ci manca cosa alcuna; perocchè quella quantità la quale non ci sarebbe in virtù del Sacramento, non manca mai in virtù della concomitanza. E qui sottilmente osserva il grand' uomo errar quelli i quali dicono esser Cristo tutto in ciascuna parte dell' ostia, quand' è divisa, e non quand' è unita; usando la similitudine dello specchio, che fatto in pezzi, rende ogni pezzo il volto intero dell' uomo che lo riguarda. [...OMISSIS...] : ma qui non è che una consecrazione sola, per la « quale avviene il corpo di Cristo in questo Sacramento« (1). » Non è dunque che ogni particella contenga il corpo di Cristo quanto è lungo e largo; ma contiene la sostanza del corpo di Cristo, le dimensioni del quale, sebbene per sè eccedenti lo spazietto segnato da quelle particelle, vengono ad esserci insensibilmente per una reale concomitanza (2). Quindi è che tanto nelle liturgie, quanto ne' Padri, si paragona la transustanziazione del pane e del vino, alla trasmutazione dell' acqua in vino operata da Cristo nelle nozze di Cana (1). Or quell' acqua fu bensì della natura del vino, ma non fu mutata in un vino determinato e preesistente, e molto meno in tutto il vino che al mondo vi avesse. Come adunque la natura dell' acqua cessò e sopravvenne quella del vino, ma non tutto il vino quanto era quello ch' era nel mondo, ma un vino nuovo che non ci era; così il pane ed il vino si convertì nella sostanza del corpo di Cristo, senza che ci sia bisogno dire, che si convertisse nelle particelle preesistenti che componevano il corpo di Cristo; giacchè si parla di corpo identico e non di particelle identiche nelle parole della consecrazione « questo è il mio corpo«. » Or tali dottrine se non confermano, certo aiutano mirabilmente ad intendere, e rendere assai probabile, almeno, la sentenza nostra, che la transustanziazione avvenga per una cotal nutrizione ineffabile e soprannaturale. Questa difficoltà ci pare aver noi già dissipato quando notammo l' errore di Durando (2). Questo errore consiste nell' aver voluto che nella consecrazione rimanesse il soggetto, sicchè vi avesse un soggetto nella santissima Eucaristia che fosse pane e vino. Questo errore è lontanissimo del nostro sistema, e dal concetto di una vera soprannaturale nutrizione. E veramente nella nutrizione tutta la sostanza del pane e del vino cessa interamente dall' esser sostanza del pane e del vino e diventa sostanza della carne e del sangue di Cristo: il soggetto stesso adunque si cangia e si trasmuta. La qual dottrina riceve maggior evidenza da una dottrina de' moderni fisiologi, i quali mantengono la vita sia una qualità inerente all' intima materia; sicchè la materia stessa elementare ricevendo la vita si cangia e diventa quello che non era prima, essendo divenuto il soggetto stesso in una materia viva diverso da quello di una materia inanimata. Ma nè pur tanto richiede, come noi richiediamo, acciocchè si possa dire il soggetto mutato, il venerabile Bellarmino; imperciocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Dicevamo che nella conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo vivo o certo informato dalla divinità, noi veggiamo un cangiamento totale del soggetto, maggiore che nella trasmutazione del legno nel fuoco e dell' acqua nell' aere: perocchè in queste permutazioni ciò che s' è cangiato è propriamente la forma sostanziale, quando l' elementare materia rimase la stessa; e tuttavia pare, che il Bellarmino s' accontenti della distruzione del soggetto in quel senso che in tali mutazioni naturali si avvera. Egli pare a noi, che assai più perfetta sia la conversione del soggetto che accade nella consecrazione, intesa a quel modo come noi facevamo. Imperocchè al modo nostro le stesse particelle elementari della materia hanno subito cangiamento, la stessa essenza loro è trasmutata, essendosi resa viva: il quale elevamento all' essere vitale è forse il massimo e il più intimo cangiamento possibile, e tale a cui solo pienissimamente conviene il vocabolo consecrato dall' uso della Chiesa di« transustanziazione«. E così si avvera quello che dice S. Tommaso, cioè che sebbene si cangi la forma e la materia, tuttavia [...OMISSIS...] Ma contro l' esposta dottrina sta una sentenza la quale non si contenta, che nell' Eucaristia vi abbia l' identità del corpo e del sangue di Cristo, ma vuole di più che vi sia l' identità delle particelle materialmente prese che compongono il corpo di Cristo; la quale identità è cosa diversa da quella prima, come vedemmo. Questa sentenza volendosi rendere con chiarezza consta di due proposizioni. 1. Il pane e il vino si converte in quelle particelle del corpo e del sangue di Cristo, che prima della consecrazione stanno nel corpo glorioso di Cristo. 2. Queste particelle sono identiche a quelle, che ebbe il corpo di Cristo in nascendo, in tutti i momenti della sua vita, nella morte, nel sepolcro. Si noti qui che io non attribuisco ora una tale sentenza a nessun teologo particolare; perocchè ne' teologi non viene espressa colle parole colle quali io la riferisco; e perciò mi basta di confutarla come una sentenza diversa dalla mia, senza imputarla a nessuno. Dico però che questa sentenza non si trova ne' Padri antichi; ma che ella comincia a comparire, per quanto a me sembra, negli scolastici; e vien riprodotta ne' libri de' moderni. Se non erro però, ella nasce dal non avere abbastanza distinto l' identità delle particelle componenti il corpo: il che mi si mostra dal vedere come essi insistono sulla identità del corpo, e non nominano le particelle di cui questo è composto, se non in ordine alla identità di lui; di che avviene che non mi assicuro nè manco d' imputar loro risolutamente l' accennata sentenza. La quale, avendo noi ridotte a due proposizioni, sì rispetto all' una come all' altra discuteremo; e prima mostreremo della seconda, che non si può mantenere: poi esporremo le gravi e secondo noi insolubili difficoltà, che stanno contro alla prima. Questo risulta manifesto da ciò che è detto. E` cosa certa che il corpo umano nella vita presente perde continuamente delle particelle di cui è composto, le quali separandosi da lui perdon la vita, di cui a lui unite erano informate; come pure è certo ch' egli riceve continuamente delle altre particelle che prima di unirsi con lui erano morte, e cui la vita sua egli comunica. Or questa è legge della natura umana nella vita presente, è conseguenza delle funzioni animali nel presente stato di cose; nè la natura umana in Gesù Cristo si sottrasse a tali leggi, conseguenza delle quali fu pure l' esser nato Cristo bambino, e poi cresciuto fino a perfetta misura. Dunque anche in Cristo vivente quaggiù ebbe luogo la stessa continua permutazione delle particelle di suo corpo: e però le particelle che componevano il suo corpo divino nella presente vita non erano identiche in tutti i momenti del viver suo. Or come questa emanazione di particelle dal corpo di Cristo dovette continuarsi in lui fino all' ultimo sospiro, massime che nella passione oltre il sangue dovette effondere molto sudore e succedere in lui altre tenui separazioni; così il corpo morto di Cristo non dovette constare di tutte quelle identiche particelle di cui constava il corpo vivo. Ma nel corpo morto di Cristo mancava il sangue, mancava il sudore sparso e l' altre materie da lui separatisi prima di morire o morendo; le piaghe erano aperte. A tutto ciò fu riparato nella Risurrezione: perocchè il corpo risorto non potea mancare del sangue conveniente e di tutti gli altri fluidi che ad un corpo perfetto si convengono: le stesse piaghe furono cicatrizzate, il che si suol fare con quel rimettimento di carne col quale si rammargina la ferita e si copre d' una carne e pelle nuova ivi quasi direi rifiorita. Or tutto questo non è verisimile nè concepibile che si facesse senza aggiungere niuna nuova particella al corpo morto di Cristo. Dunque il corpo di Cristo risorto dovea avere più particelle che non il divino cadavere; come questo dovea averne meno, che il corpo vivo e nutrito nell' Eucaristica cena. Egli è adunque assurdo il credere che le particelle che componevano il corpo di Cristo nato, vivuto, morto, risorto fossero tutte identicamente le stesse. E tuttavia è certa l' identità del corpo di Cristo nel presepio, sulla croce, alla destra del Padre; come è certa l' identità del mio corpo in fasce, col presente e con quello che avrò nel sepolcro. Tutto ciò è consentaneo ai principi della naturale filosofia; ed è anco un articolo di fede che Cristo abbia avuto, ed abbia un solo ed identico corpo. Questo consegue da' precedenti. Se le particelle componenti il corpo di Cristo si mutarono, Se il corpo non si mutò mai dalla sua identità, Dunque l' identità di questo non è legata all' identità delle molecole o particelle che lo compongono. Questa proposizione ha dimostrazione fermissima nelle parole di Cristo, che come ho toccato di sopra, dicono: « questo è il mio corpo« » e non disse:« queste sono le particelle identiche di cui il mio corpo è composto«. Ed ella è consentanea altresì alle precedenti proposizioni. Perocchè, se si vuole, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia sia composto delle identiche particelle onde constava il corpo di Cristo; conviene assegnare un momento più tosto che un altro della vita di Cristo, in cui si consideri il suo corpo; perocchè da un momento all' altro le particelle si trovan mutate: e l' assegnamento di questo istante non potrebbe essere che arbitrario. Si dirà, il corpo di Cristo nell' Eucaristia consta di quelle identiche particelle (materialmente prese) di cui consta ora il corpo suo glorioso in cielo nè più nè meno: e se si fosse fatta la consecrazione in altro tempo (come quella dell' ultima cena) consterebbe di quelle particelle, che aveva allora il corpo di Cristo. Rispondo: che il corpo di Cristo che è presente nell' Eucaristia sia in istato glorioso, come quello che è in cielo, questo è fuori d' ogni dubbio: ma che le particelle che compongono il corpo di Cristo nell' Eucaristia sieno nè più nè meno quelle che ebbe nell' atto della sua Risurrezione, questo abbisogna di prova; e come voi mi provate ciò? Nessun' altra prova dar mi potete, se non che l' Eucaristia dee essere l' identico corpo di Cristo; e che voi vedete in questo solo modo verificarsi la perfetta identità. Perocchè il dogma sta tutto nell' identità di questo corpo, espressa in quelle parole: « questo è il mio corpo«. » Ottimamente, ma avvertite, ch' egli è di fede ugualmente, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo in cielo, e che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo bambino, col corpo di Cristo adulto, e massimamente col corpo di Cristo paziente in croce, col corpo di Cristo riposto nel sepolcro. Fermiamoci a considerare l' identità necessaria, che dee avere il corpo e il sangue di Cristo nell' Eucaristia col corpo di Cristo morto, col sangue di Cristo sparso per noi. Questa identità è principalmente notata in quelle parole: [...OMISSIS...] . E veramente il sacrificio Eucaristico è l' identico sacrificio della croce che incessantemente si rinnovella; e però il corpo, che si sacrifica, il sangue che misticamente si spande dee essere identico al corpo crocefisso, al sangue effuso nel sacrificio cruento. Per questo i Padri (1) e le liturgie (2) così di frequente parlando dell' Eucaristia toccano questo punto dell' identità del corpo di Cristo sotto le specie del pane e del vino, e del corpo di Cristo in croce. Ora certa cosa è che le particelle che compongono il corpo di Cristo glorioso non sono le identiche numericamente prese con quelle onde si componeva il corpo di Cristo o bambino, o adulto, o vivo ancora sulla croce; perocchè quel corpo divino e perdette e ricevette nuove particelle. Se adunque questa sottrazione e questa addizione di particelle materiali non pregiudica punto, che non vi abbia una verissima identità fra il corpo di Cristo nell' Eucarestia e il corpo di Cristo in fasce, in croce, nel sepolcro; egli è manifesto che l' accessione di alcune particelle al corpo glorioso non toglie punto nè poco la sua identità; nè impedisce che il corpo di Cristo nell' Eucarestia sia identico al corpo di Cristo risorto e sedente alla destra del Padre; perocchè queste particelle, come si diceva, niente mutano di essenziale in esso corpo del Redentore. Il che tanto più facilmente si dee concedere, quanto che si ritiene per fermissimo, che il corpo di Cristo glorioso non perde cosa alcuna di ciò che ha per sè; anzi noi riputeremmo empietà l' affermare, che perdesse qualche cosa di quello che ricevette in risorgendo, eccetto ciò che nell' Eucarestia gli viene aggiunto, il che egli anco depone senza alcuna sua pena o lesione, o diminuzione di sua integrità perfettissima. Egli è dunque certo e dimostrato che non si può sostenere la seconda delle due proposizioni, nella quale facemmo consistere quell' opinione contraria alla nostra che noi combattiamo: [...OMISSIS...] . Ora confesso che questa sentenza conta per sè delle autorità ragguardevolissime, le quali molto mi atterrirono e stolsero sul principio dal sostenere la contraria. Considerando però più maturamente mi rassicurai sulle seguenti tre ragioni: 1. Nessuna autorità io potei rinvenire chiaramente favorevole ad una tale sentenza anteriore agli scolastici. 2. Molte autorità contrarie ad essa a me pare di avere riscontrate ne' Padri più antichi e nella stessa Sacra Scrittura. 3. Quella sentenza involge delle difficoltà insuperabili ad ogni ragione teologica, sempre per quanto a me ne parve. Or avendo io già indicati i luoghi della Scrittura e de' Padri che stanno per la sentenza da me abbracciata (1) torrò qui a metter fuori le gravissime difficoltà, che a me si presentano come invincibili; e mi fanno abbandonare quella sentenza, per seguitar l' altra che ho esposta. E la prima difficoltà mi nasce da questo, che nel sistema degli avversarii il pane ed il vino rimarrebbero annichilati, cosa contro la dottrina comune e contro quella ammessa dagli avversarii medesimi. Or a veder ciò conviene rimuovere ogni vana sottigliezza e definire le parole secondo il senso comune degli uomini. Cominciamo adunque dal porre una vera e semplice definizione dell' annichilamento. Definizione del concetto di annichilamento . - « La cessazione intera dell' essere reale di una cosa si chiama annichilamento«. Osservazioni sull' indicata definizione. - Il nulla è opposto all' essere: la cessazione dell' essere è il nulla. Nelle cose si distingue l' essere e il modo dell' essere. La cessazion di un modo di essere non è ancora annichilamento: deve cessare l' essere stesso, e per conseguente tutti i suoi modi, tutta la possibilità de' suoi modi, perchè una cosa sussistente dicasi annichilita. Per ciò quando si dice che viene annichilito un modo di essere, un accidente, per esempio una forma o un colore, non si parla con tutta proprietà, ma si attribuisce al modo di essere una parola che di natura sua va applicata all' essere stesso. In secondo luogo la parola annichilamento esprime l' effetto di un agente senza relazione alla volontà o al modo di operare dell' agente. Poniamo che Iddio volesse annichilare un essere da lui creato; Iddio solo ha veramente questo potere di annichilare, come egli solo ha quel di creare, sebbene egli usi di questo secondo, e non mai di quel primo. In questa supposizione, l' azione di Dio non sarebbe già limitata a quel solo fatto dell' annichilamento; perocchè in Dio non può cadere che un atto solo e purissimo. Con quello stesso atto adunque egli creerebbe il mondo, collo stesso identico atto lo conserverebbe e governerebbe, e coll' atto pure identicamente il medesimo annichilerebbe quell' ente, che vorrebbe annichilare. Ora sebbene Iddio nell' operare abbia un fine solo e semplicissimo e con una sola azione operi ciò che fa; tuttavia l' effetto che questa azione ottiene in quell' ente che verrebbe annichilato, si chiamerebbe in senso vero e proprio annichilamento; perocchè questa parola, come dicevo, non involge alcuna relazione col modo dell' azione dell' agente, ma si restringe a dimostrare l' effetto quale si ottiene nell' ente che cessa di essere. Che se fosse altramente non potrebbe mai essere possibile l' annichilamento; perocchè è certo, 1. che niuno può annichilare le cose eccetto Dio, 2. è ugualmente certo che se Iddio annichilasse un ente la sua azione non si limiterebbe nè finirebbe in questo solo effetto, poichè l' opera di Dio è semplice, e con un atto solo e purissimo fa tutte le cose. Dunque perchè si trovi il concetto dell' annichilamento non è necessario imaginare un' azione limitata, la quale termini e si restringa nel suo operare in quel solo effetto della distruzione dell' essere, e non proceda punto più innanzi. Indi non posso io a meno di dipartirmi dal sentimento del gran Bellarmino circa il concetto dell' annichilamento. Pretende questo grand' uomo che l' annichilamento esiga che l' azione che fa cessare l' essere di una cosa debba cessare in questo effetto; e che se l' azione stessa, dopo avere annichilato un ente, ne crea un altro, non si abbia più il concetto dell' annichilazione. Ma parlando sempre col più profondo rispetto d' un uomo santo e sapiente io non posso vedere in ciò che una pura sottigliezza d' ingegno, a cui ricorse il Bellarmino nella persuasione che di lei avesse bisogno la sentenza cattolica intorno all' Eucarestia. Ma questa non ha alcun bisogno di ciò; ed anzi ella riceverebbe pregiudizio non leggero dall' ammettere, che il « cessamento dell' essere di una cosa non sia annichilamento per questo solo che l' azione che fa cessare l' essere non termini in questa cessazione, ma produca qualche altro effetto«. » Ogni qualvolta adunque cessa l' essere reale di una cosa interamente ella è annichilata, senza bisogno poi di cercare il modo onde fu annichilata, e se avvenne con un' azione terminante in tale distruzione o procedente a qualche altro effetto. Or di qui viene la conseguenza evidente che non può stare la sentenza de' nostri avversarii. Perocchè dicendo essi che il pane ed il vino si cangiano in quelle identiche particelle, che ha il corpo di Cristo prima della consecrazione; ne seguita ineluttabilmente che il pane ed il vino rimarrebbero annichilati . Ma questo pugna al tutto coi principii della teologia cristiana. Perocchè secondo questi principii è ammesso per certo da tutti e da' nostri avversarii stessi: 1. Che Iddio non distrugge alcuna cosa di tutto ciò che ha creato secondo quelle parole della Scrittura: [...OMISSIS...] . 2. Di che parimente si tiene per certissimo non essere annichilato nè pure il pane ed il vino mediante la consecrazione, ma trasmutato nel corpo e nel sangue di Cristo. Conviene adunque muovere il ragionamento intorno all' Eucarestia da questo principio teologico fuori di controversia:« che il pane ed il vino nella consecrazione non viene annichilato«. Ammesso questo principio, si consideri se v' ha una via da sostenere che il pane ed il vino si converta nelle identiche particelle che compongono il corpo di Cristo innanzi la consecrazione, senza che quel pane e quel vino rimanga per questo annichilato. Il Bellarmino vide che queste due cose non si potevano conciliare insieme. Egli dunque si appose a mutare il concetto dell' annichilazione. [...OMISSIS...] Chi non sente avervi qui una sottigliezza, e nulla più? Sia pure che l' azione non termini al niente; ma il pane ed il vino non rimane ugualmente annichilato, sebbene dopo la loro annichilazione continui l' agente nell' operare? che fa mai al pane e al vino quell' azione che continua, dopo che essi non sono più? L' effetto che avviene nel pane e nel vino è il medesimo o sia che l' azione continui, o che ivi termini: questo effetto è la cessazione intera dell' essere del pane e del vino. Dunque è una vera annichilazione nella opinione difesa dal Bellarmino (2). Questi illustra con un esempio naturale il suo concetto dell' annichilazione dicendo: [...OMISSIS...] . Ma qui sono a farsi più osservazioni; eccone alcune: 1. Le parole« annichilazione, annichilare« ecc., non possono aver luogo con piena proprietà parlandosi di una distruzione di forma, perocchè esse valgono, come abbiam detto, a significare la cessazione dell' essere, anzichè del modo dell' essere. 2. Quando si voglia applicare la parola annichilare ad esprimere la distruzione della forma, vorrei io ben sapere perchè non si potrà dire, che la forma dell' acqua, essendosi ella cangiata in vapore, non sia veramente annichilata? che cosa esprime questa parola, secondo la stessa etimologia, se non ridotta al niente? Se dunque la forma dell' acqua è ridotta al niente, non esiste più del tutto: onde mai non si potrà dire ch' ella siasi annichilata? non è ella una vera sottigliezza scolastica il dire, che sebbene quella forma sia ridotta al niente, tuttavia non è annichilata, perchè l' azione che la ridusse al niente continua, terminando in un' altra forma? che distinzione arbitraria e sottile non è questa, colla quale si vorrebbe stabilire che altro è ridursi al niente una cosa, altro è annichilarsi? 3. Non si dà e non si può dare mai il caso, che venga distrutta la forma di una materia, senza che questa materia non prenda un' altra forma, appunto perchè la materia senza forma non istà; e qui si suppone, che la materia non sia ridotta al niente. Il nostro rispettabile autore introdusse dunque un esempio nel quale, secondo le sue dottrine, l' annichilamento quanto alla forma è impossibile; perocchè è impossibile che si annichili ogni forma, rimanendo la materia. L' esempio adunque non era idoneo a far conoscere la distinzione fra l' annichilare e il ridurre al niente; perocchè non può il Bellarmino indicare quando sia una forma annichilata, non cadendo in esse (secondo lui) l' annichilamento. 4. Nell' esempio recato non sarebbe vero che il cangiamento dell' acqua in aria si farebbe per una azione sola, da un solo agente e rimanendo le stesse disposizioni; anzi è da dire che la trasformazione dell' acqua in aere è una serie di azioni che le une alle altre si succedono, sono più gli agenti, più i modi loro di operare e le disposizioni nelle quali operano. Non può adunque convenire l' esempio addotto ad aggiungere o chiarezza o forza all' opinione che confutiamo. 5. Finalmente, nell' esempio indicato la distruzione di una forma, è il medesimo che la formazione di un' altra forma; conciossiachè senza forma non può stare la materia. Allo stesso modo adunque che si dice l' una distruggersi, l' altra può dirsi prodursi nell' esser suo. All' incontro nell' Eucarestia non potrebbe dirsi nella sentenza degli avversarii, che il corpo di Cristo vien prodotto nello stesso modo e nello stesso senso in cui si dice che il pane ed il vino viene distrutto. L' esempio adunque non va di pari. Ma cerchiamo di mostrare ancora l' inutilità della distinzione, che si vorrebbe introdurre fra l' annichilare e il ridurre al niente . A qual fine si pone una tal distinzione? Per potere evitare lo scoglio, che il pane ed il vino nella consecrazione si annichilino. Ma coll' evitare questa parola si evita però l' inconveniente che con quella parola si esprime? No, perocchè quell' inconveniente sta anche senza quella parola, e con altre parole può essere significato. E veramente i Teologi a provare che niente viene annichilato di tutto ciò che Iddio una volta ha cavato dal nulla usano degli argomenti or cavati dall' autorità della Scrittura, ora dalla ragione teologica; e gli uni e gli altri mostrano qual sia l' inconveniente che si vuol evitare, collo stabilire la durazione sempiterna delle cose create, senza alcun bisogno di adoperare questa parola di annichilazione. A ragion d' esempio, una delle testimonianze scritturali, che provano la durazione degli esseri è questo luogo dell' Ecclesiaste « ho imparato che tutte le opere che ha fatto Iddio perseverano in perpetuo« (1). » Qui non si usa la parola annichilamento; ma il concetto è tuttavia chiarissimo. Sia adunque, se così si vuole, che l' essere del pane e del vino non si annichili, ma si confessa però che dopo la consecrazione quell' essere è ridotto al niente: dunque quest' opera di Dio non persevera in eterno, contro ciò che pone quel luogo chiarissimo delle Scritture. Nel nostro sistema all' incontro sebbene la sostanza sia trasmutata e non sia più sostanza di pane e di vino ma sostanza del corpo di Cristo; tuttavia niun essere creato è perito, ma solo immensamente nobilitato. Ci si dica di grazia, supponiamo si facesse l' inventario di tutti gli esseri da Dio creati. Or nel sistema degli avversarii nostri dopo la consecrazione converrebbe scancellare dal novero di detti esseri il pane ed il vino; perocchè non basta dire che il corpo di Cristo è in una maniera nuova: egli non avrebbe ricevuto alcuna accessione, sarebbe adunque mancante nel novero delle cose un essere sostanziale, e non si sarebbe aggiunto tutto al più che un cotal modo di essere, se pur questo stesso modo nuovo di essere si potesse (in detto sistema) sostenere. Veniamo alla ragion teologica. Ecco come S. Tommaso prova, che Dio non riduce al niente cosa alcuna delle già formate. [...OMISSIS...] Ora il pane ed il vino sarebbero esseri creati, che cesserebbero affatto, come detto è, nella consecrazione; e però non sarebbe in essa dimostramento dell' infinita bontà di Dio. All' opposto quanto la bontà non si dimostra nel sistema nostro, nel quale queste creature divine, voglio dire il pane ed il vino, vengono sublimati sino a mescersi e transustanziarsi veramente nelle carni e nel sangue glorioso di Gesù Cristo? Una seconda difficoltà per me nasce gravissima dal concetto di TRANSUSTANZIAZIONE. Conviene aver presente esser cosa pienamente decisa dal sacro santo Concilio di Trento, che la parola transustanziazione conviene all' Eucarestia in un senso proprio, conveniente, attissimo a significare « la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo « (2). » Or dunque non è lecito d' interpretare questa parola di transustanziazione in un senso lato e non proprio; ma si dee intendere per essa rigorosamente una conversione della sostanza del pane e del vino, nella sostanza del corpo e del sangue. Ora nella nostra sentenza il concetto di transustanziazione si ritrova avverato a rigore. Ma questo concetto io nol ritrovo nella sentenza degli avversari. E veramente essi fanno consistere la transustanziazione in un' operazione, in virtù della quale vien ridotta al niente la sostanza del pane e del vino, e sotto le specie del pane e del vino stesso si colloca il corpo di Cristo. Ma in tutto questo io non veggo che due operazioni successive, cioè 1. l' annichilazione del pane e del vino, del quale non rimangono che gli accidenti, 2. l' adducimento del corpo e del sangue di Cristo nel posto della sostanza del pane e del vino annichilato. Ora gli avversari sostengono all' opposto: 1. Che questa non è che una sola operazione, la qual termina coll' adducimento del corpo e del sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino. 2. Che quest' unica operazione si chiama propriamente e idoneamente transustanziazione (3). Ma io non posso accordare loro, come dicevo, nè l' una nè l' altra di queste due proposizioni, parendomi, che le operazioni o per dir meglio gli effetti sieno due e distintissimi, e che ad essi manchi il vero concetto, che noi dobbiamo gelosamente conservare di TRANSUSTANZIAZIONE, nel quale solo sta la cattolica verità. Vediamo adunque prima se nel sistema degli avversari nella consecrazione interverrebbe una azione sola o due: il Bellarmino ne sente tutta la difficoltà, ed ecco come a sè la propone, e come le risponde: [...OMISSIS...] . Questa obbiezione è fortissima; perocchè avea concesso il Bellarmino stesso che « la conversione in quanto distrugge il pane non è tanto un' azione quanto negazione di azione. Perocchè Dio distrugge il pane cessando dal conservarlo« (2). » Ora negazione di azione ed azione sono opposti come il sì e il no: come due contrarii si potranno [chiamare] una sola e semplice azione? Non trova altro rifugio il Bellarmino, che quello di ricorrere alla unità della volontà divina. [...OMISSIS...] Ciascun uomo spassionato e imparziale giudichi se questa risposta possa soddisfare. Non è egli evidente, che se si vuol ricorrere all' unità della volizione divina non si troverebbe giammai moltiplicità di azioni, perocchè in Dio tutte le azioni ch' egli fa è un' azione sola, ed ha un solo semplicissimo fine di suo operare? ma basterà questo a provare che la transustanziazione sia un' azione sola? Supponiamo che il pane sostenesse mille trasmutazioni diverse, per un miracolo della divina onnipotenza, non sarebbero sempre in Dio operate con una sola azione? Il Bellarmino qui prova troppo; perchè il suo argomento non solo proverebbe, che si dà un' azione sola nella consecrazione, ma in tutto l' universo, e che non si può dare di più che un' azione sola. Non è adunque dal fine di Dio, e dal modo dell' operar suo, che noi dobbiamo rilevare se l' azione sia una o più. Dobbiamo considerarla in sè stessa quest' azione, dobbiamo considerarla in ciò che produce; e se l' effetto è un solo diremo una l' azione, ma diremo che molte azioni si ravvisano in molti effetti distinti interamente fra loro, e l' un de' quali non è causa efficiente dell' altro. Conciossiachè, quando si parla dell' unità di azione che si trova nella transustanziazione non si fa questo discorso per sapere come l' azione avvenga in Dio, ma come si faccia nel soggetto stesso in cui viene l' azione. Il Bellarmino costituisce veramente due soggetti nella transustanziazione interamente diversi anco nell' essere; perocchè dice: « il soggetto nel quale si riceve l' azione divina di questa conversione parte è il pane, parte il corpo di Cristo« (1). » Ora qui si dice« il soggetto« e non dice« i soggetti« per far credere che non vi abbia che un soggetto solo; e l' impegno di far credere ciò mostra che il Bellarmino sentiva la necessità che un solo fosse radicalmente il soggetto della conversione almeno quanto all' essere comune, come sentiva la necessità che una sola azione v' intervenisse. Mi dica ciascuno con semplice e retta mente, se nel pane e nel corpo di Cristo nel sistema del Bellarmino possa notarsi un solo soggetto nè pure in quanto all' essere, e non anzi sieno due distintissimi e incommunicabili; giacchè uno di essi, cioè il pane si annichila, e l' altro, cioè il corpo di Cristo, viene addotto nel luogo del pane annichilato, solamente il pane non è più. Ora se due sono i soggetti assolutamente distinti, e interamente distinti anche quanto all' essere che ricevono, due effetti interamente diversi e successivi, cioè uno negativo la distruzione, l' altro positivo cioè l' adducimento; dica ciascuno se l' azione in quanto si fa e si compie ne' soggetti può essere una sola e non anzi due, e separatissime. All' opposto ammettendo con S. Tommaso che vi abbia di comune nel pane e nel corpo di Cristo l' essere (2), sebbene si cangi il soggetto pane, e diventi soggetto la carne di Cristo; tuttavia la identità della radice di questi due soggetti cangiati, cioè l' essere, fa sì che l' azione possa essere unica e semplicissima. Ma udiamo come il Bellarmino rende ragione del suo soggetto. [...OMISSIS...] Ora che forza hanno queste parole « quell' azione come conversione si riceve nel pane?« » Io non trovo in esse un significato. Intendo bensì che quell' azione come annichilamento si riceva nel pane, ma non come conversione. E veramente il pane si annichila, come mostrammo nel sistema de' nostri avversari; e se non vogliamo che pronunci questa dura parola« si annichila«, dirò quella che usano essi stessi « si distrugge, si riduce al niente, perisce« (2). Or bene quando il pane non c' è più, ha finito di convertirsi; esso cessa di essere, e dopo ciò egli non riceve nè fa altra azione; egli dunque non riceve la conversione, ma solo, come dicevamo, l' annichilazione. E` vero che nella mente di Dio si suppone che stia il fine di annichilar quel pane per condurvi in suo luogo il corpo di Cristo: la intenzione non basta, il dirò ancora, a costituire una azione che sia ricevuta nel pane. Da tutte le cose dette è facile di provare la seconda delle nostre tesi, che nel sistema degli avversari manca il vero e proprio concetto di transustanziazione , a cui voglion supplire interpretando questa parola con vana sottigliezza in un significato diverso da quel che suona. E veramente il Bellarmino pone a prima condizione della conversione d' una cosa in altra, che « qualche cosa cessi di essere, cioè quella cosa che si converte« (3). » Or nel suo sistema si converte l' essere stesso che è nel pane, e però cessa interamente l' essere stesso, il che abbiam detto chiamarsi annichilazione. Or dopo che il pane ha cessato d' essere, allora viene addotto nel luogo del pane il corpo di Cristo. Ma questa seconda operazione non risguarda più il pane (se non fosse nell' intenzione dell' operante) perocchè il pane non esiste più ne può più essere convertito in cosa alcuna. Dunque il pane si annichila bensì, ma non veramente si converte, non diventa egli vero corpo di Cristo, non si transustanzia, ma solo a lui succede il corpo di Cristo quando egli già non è più. E qui appunto il Bellarmino crede che al concetto di una vera conversione e transustanziazione basti che « una cosa succeda nel luogo dell' altra distrutta » purchè però ci sia «« una certa connessione fra il cessare di una e il succedere dell' altra, di maniera che l' una cosa finisca acciocchè l' altra succeda e la successione avvenga per quella forza onde la cosa è cessata« (1). » Ma io domando qual connessione vi può essere fra una cosa quand' è annichilata, ed una che viene in suo luogo? niuna connessione reale vi ha più, e se ci avesse una connessione prima di essere annichilata, nel punto in cui ella s' annichila, s' annichila con lei ogni connessione. Dunque questa connessione sarà nella unità della forza, giacchè una forza stessa che annichila è quella che fa succedere la cosa nel luogo della annichilata. Questo pure è assurdo, perocchè la forza che annichila non sarà mai quella che produce: ci vogliono a queste due azioni forze diverse, o più tosto, come osserva lo stesso Bellarmino, una cessazione dell' azione di Dio che conserva il pane per annichilarlo, e un' opera positiva per addurvi il corpo di Cristo. Dunque l' una cosa non vien fatta per l' identica forza onde vien fatta l' altra, non fit successio vi desitionis : tanto più che quella vis desitionis è una improprietà di parlare, quando non è una forza quella che fa cessare, ma un sottraimento di forza. Non ci può dunque essere connessione alcuna fra l' annichilamento e l' adduzione o produzione, se non l' unità d' intenzione e di fine nell' operante; ma questa connessione si termina tutta nella mente e nell' animo dell' operante, e non passa come abbiam veduto nell' esterno dell' azione, nè può costituire la sua unicità o moltiplicità. Per queste ragioni S. Tommaso riconosce, che ponendo che il pane si riduca veramente al niente, il concetto della transustanziazione non può più rimanere. [...OMISSIS...] Nè può già intendersi, che S. Tommaso insista sulla parola annichilazione presa nel senso del Bellarmino, perocchè il suo argomento vale ogni qual volta il pane avesse interamente cessato in tutto l' essere, e non solo nell' esser di pane (1): conciossiachè quando il pane fosse una volta cessato interamente, anche quanto all' essere, non si potrebbe più convertire, eziandio che nella mente di Dio stesse il pensiero di averlo fatto cessare per sostituire in luogo di lui il corpo di Cristo; nè conversione ci potrebbe essere, ma solo successione, sostituizione o altro simile. Il perchè S. Tommaso s' attiene come a fermissimo punto e articolo di fede a questo, che il pane si debba « propriamente e veramente convertire nel corpo di Cristo« » e non solamente dar luogo a questo col cessare di essere interamente: e mantiene questo dogma sì fermo, che nol rimuove da ciò qualsivoglia difficoltà a spiegarlo; perocchè non è necessario spiegarlo, ma crederlo e conservarlo. Or non si dee interpretare la mente di S. Tommaso con troppa sicurezza, la qual più si dee guardare bensì dov' ella è costretta di più manifestarsi, cioè nell' angustia delle obbiezioni. Il grand' uomo a ragione d' esempio sente assai chiaro, che se dopo la consecrazione la materia che prima era pane non si trovasse in luogo alcuno, non potrebbe fuggirsi dal concederla annichilata e però si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . Or si oda qual sia la via, che unica trova S. Tommaso per la quale farsi contro a questa obbiezione. Risponde egli: [...OMISSIS...] . E odasi l' esempio onde spiega una tale risposta al sistema nostro acconcissima: [...OMISSIS...] . Il santo Dottore riconosce adunque, che la sostanza del pane non si annichila, perchè si cangia in quella del corpo di Cristo; come non s' annichila l' aere, che nutre il fuoco. Ora l' aere nella conversione non si converte già in particelle di materia, che preesistevano, il che sarebbe impossibile a concepire senza che egli si annichilasse, ma le particelle sue prendono un' altra natura, diventano veramente fuoco e cessano dall' esser aere. Così avviene nel sistema nostro, nel qual solo si salva, pare a noi, una vera TRANSUSTANZIAZIONE del pane e del vino. E però non è una vana sottigliezza quella del Cardinale Gaetano, il quale commentando S. Tommaso (2) concede che dopo la consecrazione non rimanga nessuna parte del pane, e tuttavia insegna rimaner ciò, che fu pane, di guisa che dir si possa veramente: ciò che fu pane, ora è corpo di Cristo (3). Ma anzi egli è tanto necessario potersi dir questo, che se dir non si potesse, in nessuna maniera sarebbe seguìta vera e propria transustanziazione. Però io non posso nè pur qui sentirla col Bellarmino il quale non trova necessario, che rimanga ciò che fu pane, e a provarlo reca delle similitudini naturali dicendo: [...OMISSIS...] . Qui evidentemente prende sbaglio l' uomo grande; perocchè in tali naturali trasformazioni, la materia non perisce, e però può dirsi che rimanga tutto ciò che fu legno ed acqua: e che la materia che rimane sia stata veramente ed acqua e legno. Non conviene adunque far violenza al significato delle parole per sostenere una opinione particolare, tanto più che qui si tratta di cosa che può toccare la fede stessa. Perocchè avendo definito la Chiesa come articolo di fede, che nella consecrazione segue una vera transustanziazione ; non si dee mica credere che la definizione della Chiesa riguardi semplicemente l' autenticazione dell' uso della parola; ma più tosto hassi a dire che la medesima Chiesa ebbe in animo di fissare per dogma ciò che la parola significa e ciò che significa in senso proprio e vero, come apparisce dal Concilio di Trento (1). Il perchè non credo io che si possa alterare il vero e proprio significato della parola transustanziazione , senza che rimanga tocca con ciò qualche cosa che appartiene alla fede. Or il significato delle parole convien desumersi dall' uso. Però chi mai non fa differenza tra il succedere una cosa nel posto di un' altra che perisce, e il transustanziarsi l' una nell' altra? non sono questi due concetti al tutto distinti? e se sono per sè distinti, basterà l' intenzione che ha chi distrugge una cosa di sostituirgliene un' altra per poter dire che la prima cosa fu nell' altra convertita e transmutata? Niuno mai dirà ciò. Nè pure basta a far ciò la distinzione, che fa il Bellarmino fra la conversione che chiama adduttiva , e quella che chiama conservativa . Il termine, così spiega la cosa il Bellarmino, il termine in cui la cosa si trasmuta esiste tanto nella conversione adduttiva , che nella conservativa : e nell' una e nell' altra cessa di essere ciò che si trasmuta; ma nella conservativa la cosa che si trasmuta cangia di luogo, nell' adduttiva non cangia. A cagion d' esempio: [...OMISSIS...] . Ora più cose sono qui da osservarsi. 1. Non si vede perchè la prima specie di conversione si chiami conservativa più tosto che annichilativa ; giacchè non avviene altro di nuovo che l' annichilazione di uno de' due corpi: questo è l' unico fatto nuovo che veramente è intervenuto. 2. Nè la conversione adduttiva nè la conservativa , come le descrive il Bellarmino, sono vere e proprie conversioni, ma solo sono conversioni apparenti, e però tali a cui il nome di conversione non appartiene in proprio, ma solo in senso accomodatizio. E di vero in quelle due pretese conversioni non è avvenuto se non 1. l' annichilazione vera e reale di uno de' due oggetti; 2. la sostituzione dell' altro nel luogo del primo, o sia che si sostituisca facendogli mutare il luogo, o conservando anche il proprio luogo. Ora niente di ciò forma una vera conversione; altrimenti sarebbe conversione e transustanziazione anche quella del giocoliere, il quale sostituisce con un solo tratto di mano, e per così dire con una sola azione, una palla ad un' altra, un soggetto ad un altro (1); egli è una bella e buona sostituzione: nè essa muta punto la sua natura, o che l' oggetto che si sottrae s' annichili, o pure che si conservi; perocchè il conservarsi o l' annichilirsi dell' oggetto in cui luogo si mette un altro è straniero alla natura dell' atto di sostituzione. Da quello che è detto nasce un' altra difficoltà nel sistema degli avversari. E` cosa certa presso i cattolici, ed ammesso dallo stesso Bellarmino, che la transustanziazione non avviene già successivamente, ma in un solo istante (2). Ora nel sistema del Bellarmino questo non può aver luogo. E veramente se si trattasse di una successione di accidenti, si potrebbe in qualche modo intendere che nell' istante medesimo che cessa un accidente, ne venga un altro sostituito: perchè il cessare e il prodursi l' accidente nuovo è il medesimo atto considerato da noi con due relazioni. Così se in un corpo di molle creta io pongo un dito, l' incavo ch' io ci fo è ad un tempo distruzione della precedente figura, e sostituzione della nuova (1): ma questo nasce perchè le figure nel caso nostro non sono che modi di essere, e non esseri: l' essere stesso, il corpo, non si è trasformato, egli ha mutato il suo modo, e questo s' intende farsi in uno istante. Non così quando dovesse cessare non il modo dell' essere, ma l' essere stesso: perocchè la cessazione di un altro essere non è mica cosa identica colla sostituzione di un altro essere, che è indipendente al tutto per sua natura dal primo: quando all' opposto la cessazione di un modo e la sostituzione dell' altro è una ed identica cosa, come si diceva. Però dovendo nel sistema de' nostri avversari prima cessare interamente l' essere, e poi ivi addursi un essere nuovo, è impossibile il non trovarsi per lo meno tre istanti assai distinti fra loro, cioè: 1. quello in cui cessa l' essere; 2. quello in cui è cessato interamente il pane e non ancora addotto il corpo di Cristo; 3. e finalmente quello in cui il corpo di Cristo viene addotto. E veramente il corpo di Cristo non viene addotto se non quando il pane interamente è già cessato; altramente vi sarebbe un istante in cui si troverebbero insieme il pane ed il corpo di Cristo: ciò che saprebbe di eresia. Tutto al più si potrebbero forse questi istanti ridurre a due, cioè all' atto onde il pane viene distrutto e all' altro onde il corpo di Cristo viene addotto, senza notare l' istante di mezzo; ma ad uno istante solo non si può ridurre giammai una tale conversione, che risulta da due operazioni essenzialmente successive. All' incontro nel sistema nostro la transustanziazione s' intende avvenire in un minimo istante; perocchè si tratta di una vera conversione e transustanziazione, di un vero ed unico atto. Secondo noi perisce bensì tutto l' essere del pane, cessa interamente il soggetto pane; ma non per questo cessa ogni essere, non per questo cessa ciò che S. Tommaso chiama l' essere comune (che però solo non mai sussiste), e però nell' atto medesimo che il pane cessa, è già il corpo di Cristo. Questa istantaneità assoluta è, secondo noi, un carattere essenziale e proprio della transustanziazione. Abbiamo provato che nel sistema degli avversarii interviene l' annichilazione (1). Ma quando anco si volesse evitare questa parola, rimarrebbe il senso della medesima gravitante sopra il loro sistema. Il Bellarmino afferma che il pane perisce intieramente, e che perisce perchè Iddio cessa di conservarlo: [...OMISSIS...] . Ora, io osservo, che nel presente fatto Iddio cesserebbe interamente, secondo lo stesso Bellarmino, dal conservare una sua creatura, e cessando dal conservarla la distruggerebbe in tutto l' esser suo. Intralasciando ciò che abbiam notato di sopra della ripugnanza e sconvenienza intrinseca che in ciò si trova, così pure ragiono. Nessun altro caso si può accennare in cui Iddio distrugga una sua creatura cessando dal conservarne l' essere; egli di cui è scritto: [...OMISSIS...] . Ora ciò di cui non v' ha che un caso solo ed unico, è alquanto ripugnante dall' operare divino, che suol esercitare la sua possenza secondo certe stabili leggi, anche allorquando l' adopera in un ordine superiore alla natura. Ma oltrecciò, dove cadrebbe egli questo caso unico, questo fenomeno così isolato, in cui si vedrebbe Iddio divenuto quasi crudele e inimico alle sue creature? giacchè egli sottrarebbe ad esse l' intimo loro essere, che è quanto dire tutto ciò che sono? Nel Sacramento dell' amore, nel Sacramento nel quale ha voluto sfoggiare i portenti della sua liberalità, l' infinita prodigalità, per così dire, de' suoi tesori; nel Sacramento, dove veramente ha preteso di sfoggiare fino all' eccesso l' onnipotenza della sua virtù creatrice. E tutto ciò senza niun bisogno del mondo. Perocchè quando avesse voluto darci sè stesso in cibo, che uopo ci poteva egli avere di distruggere un essere da lui creato, per cavargli gli accidenti quasi fossero una sua camicia, e vestirsene egli? non potea senza più, darsi a noi in cibo sotto forma di pane creando intorno a sè degli accidenti, più tosto che distruggendo una sostanza perchè a suo uso rimanessergli gli accidenti di quella? io per me credo, che quando non avesse Cristo voluto convertire veramente in sè il pane, ma egli fosse piaciuto di darsi a noi in cibo senza questa conversione, era assai più conveniente a' suoi attributi l' essere in tale atto creatore degli accidenti, che non sia distruttore e propriamente vero annichilatore di sostanze. Ma mi si risponde: [...OMISSIS...] . Appunto gli umani ragionamenti debbon cessare rincontro alla parola di Dio: per questo è che dico io, che dovete cessare voi dall' introdurre una cotale annichilazione di un essere nel fatto della consecrazione; perocchè voi ce l' avete introdotta per un ragionamento umano, che non si trova nella parola del Signore. Questo è quello che osserva egregiamente il Dottore angelico, il quale appunto dice: [...OMISSIS...] . Conviene appunto attenersi a queste parole: « Questo è il mio corpo«: » elle esprimono una sola azione positiva di Dio, e non mai nessuna azione negativa, nessuna cessazione di azione: l' uomo adunque non la v' introduca. Questa proposizione viene a dire, che il pane viene assunto dal corpo di Cristo, non viceversa il corpo di Cristo dal pane. Ma nel sistema degli avversari il pane non può venire assunto perchè egli viene interamente distrutto, non solo come pane, ma ben anco come un essere. Però il Bellarmino è costretto di dare una interpretazione alquanto curiosa a quel detto de' Padri dicendo, che egli accorda che nasca la mutazione nel pane, ma una mutazione« deperditiva«: così egli la chiama. Non è però un parlar chiaro cotesto: nessuna propria mutazione nè conversione può nascer nel pane, secondo il sistema del N. A., ma solo la distruzione o annichilazione del pane. Ecco le parole del Bellarmino: [...OMISSIS...] . Ora dall' istante che per mutazione deperditiva s' intende la totale distruzione del pane quanto allo stesso esser comune, questa mutazione non è più tale, che in essa si comprenda il cominciar Cristo ad esser nel Sacramento; però questo nuovo esser di Cristo non s' acchiude nella mutazione del pane intesa, come fa il Bellarmino, ma a quella [che] sussegue senza un vincolo di naturale e necessaria dipendenza. Non è dunque più vero che Cristo vien ad essere nel Sacramento per la mutazione del pane; questa mutazione deperditiva del pane non dà che il luogo dove deve Cristo collocarsi; ma colà vi si colloca Cristo da Dio con un altro atto, non con quello della mutazione del pane. S' oda se nelle parole stesse del Bellarmino tutto ciò non si trova. A quelle che ho ultimamente recate seguono queste altre: [...OMISSIS...] . Ora in questo sistema: 1. Si tiene il giusto e antico linguaggio dicendo sempre che ogni cosa si fa per conversione del pane, « per conversionem panis idem corpus in sacra hostia ponitur », ma questa conversione del pane si spiega per una mutazione deperditiva, « intelligi debet de mutatione deperditiva », che non è altro che la intera cessazione dell' essere del pane stesso. 2. Si pongono due mutazioni separate una nel pane, la distruzione e annichilazione, e l' altra nel corpo di Cristo, l' adduzione; le quali senza un nesso loro intrinseco e fisico non si congiungono se non per una relazione esteriore che sta nella mente di Dio, il qual prima annienta il pane e poi adduce il corpo di Cristo. 3. Finalmente nè nella mutazione del pane nè in quella del corpo di Cristo si trova il concetto della transustanziazione. - Non si trova nella mutazione che avviene nel pane, come di sopra dicemmo, perocchè egli si distrugge, e distrutto interamente che egli sia non può convertirsi in altro: non succede nella mutazione del corpo di Cristo, perocchè il Bellarmino stesso confessa, che una mutazione sì fatta vien ricevuta nel corpo del Signore « non quidem ut conversio sed ut adductio est »: ella è una adduzione, ma non una conversione. Nè in tutte e due queste mutazioni insieme prese si trova; perocchè nel loro esser fisico sono al tutto separate, come dicevamo, e non possono formare una cosa sola, come sola è l' operazione che indica la parola conversione o transustanziazione. Dalle quali cose tutte apparisce, che il Bellarmino ammette questi due dogmi: 1. che tutta la sostanza del pane e del vino cessi interamente nell' Eucarestia; 2. che v' abbia la presenza vera, reale e sostanziale del corpo di Cristo. Quanto poi al terzo, che cessi il pane e si adduca sotto agli accidenti di lui il corpo di Cristo in virtù della conversione o della transustanziazione, questo è un terzo dogma che riconosce a chiare parole il venerabile autore (1), il che basta per collocare la sua fede fuori d' ogni controversia. Ma quando si tratta poi di spiegare in che modo nasce questa transustanziazione in virtù della quale debbono avvenire que' due fatti contemporanei e unificati della cessazione di tutta la sostanza del pane, e della presenza del corpo di Cristo; allora pare a noi, che l' uom grande entri in un sistema che non può stare col principio che egli stesso accorda e fermamente crede, cioè « l' avvenire di que' fatti per l' efficacia della transustanziazione« (1). » E qui voglio avvertire, che a parer mio questo della« transustanziazione« è anzi il dogma cardinale del mistero Eucaristico: di maniera che gli altri due sopra toccati dogmi s' attengono a questo, sono conseguenze necessarie di questo terzo della transustanziazione: perocchè la transustanziazione contiene in sè e la cessazione della sostanza del pane, e il ponimento della carne di Cristo. Per tutte le quali cose sapientissimamente la Bolla Auctorem Fidei condannò nel Sinodo di Pistoia quella proposizione, colla quale voleva restringere le istruzioni popolari de' Parroci sul Sacramento dell' Eucarestia a que' due primi dogmi della presenza reale e della cessazione del pane, ommettendo il terzo principale di tutti, cioè quello della transustanziazione (2). Riassumendo adunque il sistema degli avversarii essi sostengono: 1. Che Iddio fa cessare interamente non solo il pane come sostanza, il che diciamo anche noi, ma ancora come essere , ristando dal conservarne al tutto l' entità. 2. Che distrutto così il pane e conservati solo gli accidenti, Iddio adduca sotto gli accidenti il corpo di Cristo che è in cielo, senza mutar di luogo. 3. Che la distruzione del pane sia fatta da Dio coll' intenzione e col fine di addurre in suo luogo il corpo di Cristo. 4. Che mediante questa intenzione e fine unico che ha Dio, possa convenire alla distruzione del pane, e alla successione del corpo di Cristo il nome di conversione o transustanziazione del pane nel corpo di Cristo. Noi abbiam negato che a tai successioni di cose convenga veramente o propriamente un tal nome, e abbiam detto per ciò che in tal sistema non si può dire che« il pane si converta e si transustanzii« ma solo che cessi per dar luogo al corpo di Cristo. Abbiam detto altresì che non si può dire che sia nel pane più tosto che in Cristo che avvenga la mutazione, o che il pane si converta in meglio, maniere usate da' più autorevoli scrittori della Chiesa. Ora aggiungiamo che nel sistema degli avversarii non [si] saprebbe spiegare come potessero avere la loro chiara verità tante altre maniere di dire consecrate dalla più antica e più costante tradizione: e perchè più tosto non si trovino adoperate tante altre (1). Rechiamo l' esempio di alcune. 1. S. Gaudenzio di Brescia dice del pane Eucaristico: [...OMISSIS...] . Or come si dice qui che il pane è fatto celeste, se egli non fosse veramente cangiato in meglio, ma al tutto annichilato? non può esser fatto celeste quel pane che dopo distrutto non è più atto a diventare cosa alcuna, ma bensì quello che essendo diventato carne di Cristo fu distrutto in questo, e per questo, che fu cangiato in meglio? E si noti il modo onde S. Gaudenzio dice il pane fu trasmutato: « Cristo passò in lui«. » Che vuol dir ciò? non certo che si trasmuta in esso, ma bene lo rivestì colla sua divina vita ed onnipotente, che lo rapì a sè appropriandolsi e veramente cangiandol tutto in carne e sangue suo. Il luogo adunque di S. Gaudenzio mirabilmente esprime il nostro sistema. 2. S. Ambrogio dice « ove s' appone la consecrazione del pane si fa il corpo di Cristo« (2). De pane FIT corpus Christi : » maniera usata pure dal medesimo S. Gaudenzio « De pane EFFICIT proprium corpus « (3). » Con questa frase non volevano già esprimere gli antichi Padri, che il corpo di Cristo si componesse di pane, assurda cosa; ma bensì il pane si convertisse veramente nel corpo di Cristo, cessando così interamente di esser pane. Se ciò non fosse avrebbero essi parlato in modo così equivoco da dire costantemente che « del pane si fa il corpo di Cristo« » per voler dire che il corpo di Cristo succede al pane il quale cessa del tutto di essere? e che costava loro ad adoperare queste ultime parole almeno qualche volta, che non avrebbero dato cagion di errare, se tale fosse stato il loro avviso? 3. Simiglianti alle indicate sono le maniere di dire seguenti: « il pane ed il vino DIVENTA corpo e sangue di Cristo« (1)« mutare o trasmutare le nature« (2); » le quali non potrebbero mai convenire a nature che cessassero dall' essere conservate, come è nel sistema de' nostri avversarii. 4. S. Cipriano per descrivere la transustanziazione dice, che « la divina essenza S' INFONDE ineffabilmente nel visibile Sacramento« (3). » Or niente è in questa maniera di parlare che possa indicare annichilazione, ma bensì un' operazione colla quale Cristo colla sua divinità tocca e si unisce ed infonde nella sostanza del pane penetrandola di guisa da tramutarla in sè medesimo. 5. S. Ireneo pure usa di questa frase, che « il calice misto e il pane spezzato PERCEPISCE LA PAROLA di Dio« (4), » e così si consacra: la quale maniera di dire ha una mirabile verità nel nostro sistema. Ma fermiamoci specialmente a que' passi de' Padri ne' quali descrivono l' operazione che fa il Verbo di Dio transustanziando il pane ed il vino. Noi non troveremo mai in essi, che descrivano una tale operazione come inchiudente una cessazione di conservazione, un atto di distruzione: ma troviamo che lo descrivono sempre come un atto eminentemente positivo, senza nessun elemento negativo in esso racchiuso. Abbiamo già veduto che: 1. S. Cirillo Alessandrino, ed Elia Arcivescovo di Creta, ed altri descrivono l' operazione della transustanziazione come una comunicazione della propria vita che fa Cristo al pane ed al vino (1). 2. Che S. Gaudenzio esprime la stessa cosa dicendo che Cristo passa in tali materie, volendo dire che ad esse comunica l' esser suo (2). 3. Che S. Gregorio Nisseno, S. Giovanni Damasceno, Teofilatto ed altri dicono ancora più espressamente, che quell' operazione è una cotal nutrizione soprannaturale (3). E a questo medesimo si riferisce quel luogo di Teofilatto, di cui hanno abusato gli eretici, dove dice, che « il pane si muta nella virtù del corpo di Cristo« (4); » luogo che altro non tende a significare se non appunto l' investirsi del pane e del vino in un modo ineffabile dalla virtù del corpo di Cristo che in sè li trasforma. 4. Odone Vescovo di Cambray dice che il pane ed il vino sono investiti da una forza spirituale, che li tramuta (5). 5. Aggiungerò questa espressione di S. Giovanni Grisostomo: « Quegli che SANTIFICA e trasmuta questi doni è egli stesso il Cristo« (6). » Ora io intendo sì bene come questi doni del pane e del vino siano sublimemente santificati quando si pone che vengano investiti della virtù e della vita stessa di Cristo; ma non posso all' opposto formarmi alcuna idea di una loro santificazione quando essi sono distrutti, e sono distrutti prima che sia addotto Cristo in loro luogo, di maniera che essi non toccano Cristo, nè sono toccati, nè hanno comunicazione in nessun modo con Cristo, fonte della santificazione, il quale non sopravviene nel sistema degli avversarii, se non quando essi al tutto più non sono. Ma questa maniera che il pane« si santifica« non è solo pronunciata accidentalmente una o l' altra volta da S. Giovanni Crisostomo; ma ella è universale, ella è una di quelle formole solenni, che si trovano in tutte le liturgie, in tutti i Padri e che per conseguente contengono il deposito delle più sacrosante verità come in vasi d' oro incorruttibili. Quindi si chiama costantemente il corpo di Cristo pane santificato, e si prega perchè il pane posto sull' altare si santifichi : il che non potrebbe, come dicevo, ricevere un senso vero e proprio se Cristo nè pur toccasse il pane, ma solo venisse nel luogo del pane dopo che questo ha cessato di essere. Lo stesso dimostrano certi nomi dati dal pane Eucaristico tolti dalla natura dell' operazione, che sopra di lui si esercita, come quello di «eulogia» in latino benedictio veniente da benedire , perchè il consacrare è riputato un benedire (1), secondo un modo di parlare che risale agli Apostoli (2). Or benedire equivale (fatto da Dio) a moltiplicare, ingrandire, migliorare, perfezionare (3), sublimare, e perciò è un sinonimo di santificare nel caso nostro (4). Or il solo venir Cristo nel luogo del pane rimosso, in nessuna maniera potrebbe dirsi che fosse un moltiplicare, ingrandire, perfezionare, sublimare il pane; come se il servitore cede il posto che tiene al suo principe in nessun modo si può dire che per ciò il servitore sia moltiplicato, ingrandito, e molto meno convertito nel principe (5). Or questo miglioramento, santificamento e innalzamento del pane all' esser carne di Cristo è espresso da' Padri in modi diversi, ma che mantengono sempre il concetto stesso. Udiamo come lo esprima S. Fulberto Vescovo di Chartres in una lettera che scrive ad Adeodato: [...OMISSIS...] . Questo convertire nella dignità d' una più eccelsa natura, questo trasfondere nella sostanza del nostro corpo sono frasi assai calzanti, e che mostrano ciò che dicevamo la consecrazione del pane essere risguardata nella cattolica Tradizione come una cotale operazione, non volta a levar via l' essere del pane per collocarvi in suo luogo il corpo di Cristo, ma anzi a innalzare e sublimare quest' essere fino a rifonderlo e immedesimarlo nelle carni divine di Gesù Cristo (2). Gregorio M. pure dice che Cristo fa la conversione del pane e del vino « mediante la santificazione« (3); » S. Giovanni Damasceno pure « per la invocazione e la venuta dello Spirito Santo« (4); » Teofilatto « per la benedizione e l' accessione dello Spirito Santo« (5); » e sarei infinito se raccoglier volessi tutti i passi de' Padri in cui si descrive in questo modo la consecrazione del pane e del vino, come una spirituale benedizione, una santificazione, una virtù che riceve esso pane ed esso vino, virtù sì grande che ha valore di elevarlo ad esser carne di Cristo, non a diminuirgli un solo grado di essere, ma solo ad innalzare infinitamente e ingrandire l' entità da lui posseduta, ingrandirla tanto che il fa uscire di sua natura e non esser più quel ch' era prima (6): questa è transustanziazione. Nella generazione e nella nutrizione lo spirito è quello che interviene ed opera ad informare di vita la materia: nella prima v' ha una materia, che prima dell' atto della generazione appartiene ai generanti; ma staccata da essi forma il nuovo animale, e ciò che il forma è lo spirito proprio di questo che lo avviva. Nella nutrizione parimente è il nostro spirito quello che involge le particelle del cibo, comunicando loro sè stesso e rendendole suo proprio corpo. Ora essendo Cristo persona divina conveniva che tanto l' incarnazione come la consecrazione del pane e del vino venisse attribuita allo spirito di Dio, come la generazione e la nutrizione naturale si fa per lo spirito dell' uomo. Però la consecrazione è molto spesso concepita e descritta da' Padri come la incarnazione e a questa paragonata. S. Giustino dice: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure: [...OMISSIS...] . Eucherio di Lione: [...OMISSIS...] . Il venerabile Beda: [...OMISSIS...] . Eutimio più tardi (sec. XI) ripeteva lo stesso concetto: [...OMISSIS...] . E qui voglio fare una osservazione volta a dileguare maggiormente il timore di quelli a cui paresse che nel nostro sistema rimanesse qualche cosa della sostanza del pane non mutata nel corpo di Cristo, ai quali dirò così: Il Concilio di Trento definì che tutta la sostanza del pane e del vino si cangia nel corpo e nel sangue di Cristo, e questo a condannazione di quell' errore, che voleva trovarsi nelle sacra ostia oltre il corpo di Cristo qualche altra materia non immutata. Ora non v' ha sistema più lontano da quest' errore del nostro. E a rendere chiaro il concetto appunto ci può valere l' esempio dell' incarnazione del Verbo nel seno di Maria Vergine. Quando l' immacolata Vergine somministrò il suo sangue purissimo a comporre un corpo al Verbo divino; questo sangue che prima era della Vergine non divenne tutto sangue e corpo di Cristo? v' ebbe forse la minima stilla, gocciola o atomo di materia che rimanesse ancora dopo l' incarnazione cosa della Vergine, e non fu più tosto tutto e solo cosa di Cristo, cioè suo proprio corpo? e adorando questo corpo divino s' adorava forse qualche cosa che non fosse divina, o che fosse rimasta semplicemente umana, com' era prima dell' incarnazione quando al corpo della Vergine apparteneva? e pure in quell' operazione nessun essere, nessuna particella di essere cessò, Iddio non si rimase dal conservare ciò che v' avea prima, ma il cangiò solo in cosa infinitamente migliore, il che si può dire bensì un cotal perire della natura (3), ma non un perire inteso a quel modo che l' intendono i nostri avversarii pel quale l' essere si riduce a niente. Simigliantemente adunque nel sistema nostro tutta la sostanza e la stessa materia del pane diventa vero e adorabil corpo di Cristo, nè alcuna particella rimane indietro che non si cangi, sebbene nessuna particella di essere perisca (4). Ma tornando a noi, volevamo provare che l' immutazione che nasce del pane e del vino fu solita la Chiesa di risguardarla come una ineffabile operazione dello Spirito Santo, a quel modo onde si suol dire che Maria concepì per opera dello Spirito Santo. Rechiamo a maggior confermazione ancora alcune venerabili autorità, dove direttamente si esprima che la transustanziazione si fa per opera del Santo Spirito. S. Agostino dice espressamente che la consecrazione è un' opera dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . S. Cirillo Gerosolimitano: [...OMISSIS...] . Nella liturgia di S. Giovanni Grisostomo, alludendo alla conversione del calice, il diacono dice: « Benedici, o Signore«. » Il sacerdote benedicendo con ambo le mani: « IMMUTANDO collo Spirito Santo tuo: IMMUTANS SPIRITU SANCTO TUO« (3). » Nella liturgia allemanica (4) la messa della Domenica V dopo l' Epifania ha un' orazione dove si prega di poter [...OMISSIS...] . Ma udiamo più ampiamente, ma sempre nello stesso concetto, descrivere il gran mistero della consecrazione del pane e del vino S. Giovanni di Damasco. Egli nel quarto de' suoi libri della fede ortodossa (6) dice così: [...OMISSIS...] . Or dopo aver così comparata la consecrazione all' incarnazione viene a spiegare maggiormente quella grand' opera con un' altra similitudine: [...OMISSIS...] . Qui assai chiaro si rilevano due cose che il santo alla virtù dello Spirito Santo attribuisce il cangiamento del pane e del vino, come alla virtù santificatrice, e che questa virtù non distrugge già il pane, ma fa nascere in lui alcuna cosa di somigliante a quello che fa la pioggia che cade sui seminati, la quale bagna e muove i semi onde esce il grano, e così distrugge il seme conducendolo a perfetto stato di maturo sviluppo, ed alla natural sua fruttificazione. Continua ancora a parlare di quest' opera dello Spirito Santo dicendo: [...OMISSIS...] . Niente di più chiaro di questo passo, niente che meglio faccia conoscere come questo grande spositore e difensore della fede ortodossa, concepiva avvenire il mutamento del pane nel corpo del Signore: non intendeva egli che entrasse nel pane una forza distruttrice, ma sì la virtù dello spirito di Cristo, che inviluppandolo e penetrandolo, il convertirà in verissimo corpo di Cristo medesimo; e questo è il modo comune, onde i Padri concepiscono la transustanziazione; di guisa che San Fulberto giunge a dire che lo Spirito Santo in quel pane « compone, ossia compagina il corpo di Cristo« (4). » Sebbene però venga attribuito allo Spirito Santo, cioè allo spirito di Cristo, l' opera della transustanziazione, tuttavia non appartiene meno al Padre, del quale ha detto Cristo: « il Padre mio dà a voi il pane vero dal cielo (5); » od al Figliuolo, che dice: «« Io sono il pane vivo che discesi dal cielo« (1). » Perocchè al Padre appartiene di dare il suo Figliuolo sotto ogni forma, perocchè egli lo genera e il dà generandolo. Al Figliuolo appartiene di dare sè stesso, perocchè nessuno altro che l' amor suo il potrebbe forzare a darcisi in cibo. Finalmente lo Spirito Santo cel dà, perchè esso è l' amabilità del Figliuolo, e ciò che noi partecipiamo e comunichiamo nel Santissimo Sacramento è appunto il Figliuolo nella sua amabilità (2), sicchè esso si chiama il Sacramento dell' amore, e Cristo sotto l' eucaristiche specie, carità incorruttibile (3). Cristo dunque s' asconde sotto il velo delle mistiche specie per un atto d' amore, ed è questo che volle dire l' amoroso Evangelista, quando accingendosi a narrare il pegno dell' infinito affetto che lasciava a' suoi discepoli nell' istituzione della Santissima Eucaristia si fa dicendo che « avendo Cristo amato i suoi ch' eran nel mondo li amò pure sulla fine« (4). » Egli faceva veramente siccome una madre, la qual mangiando delicatamente vuol empire le proprie mammelle di latte per ispremerlo poscia in bocca de' suoi cari bamboli, de' frutti delle sue viscere. E di qui nasce che nell' invocazione dello Spirito Santo, che si rinviene in tutte le sacre liturgie si prega sempre due cose, e che il divino spirito trasmuti il pane ed il vino e che lo trasmuti a noi (5) cioè a nostro profitto; conciossiacchè Cristo viene e sta nell' Eucaristia nell' atto della diffusione e delle unioni amorose, come più largamente diremo appresso. Nè solo l' opera ammiranda della transustanziazione del pane e del vino si fa colla concorrenza di tutta l' augustissima Trinità; ma ben anco colla cooperazione della umanità sacratissima di Cristo. Il perchè fu detto: [...OMISSIS...] . Dunque non pur Cristo come Dio ma come Figliuol dell' uomo altresì dà sè stesso in cibo, e all' uomo sommamente conviene e la preghiera e il rendimento di grazie che il divin Redentore premise all' Eucaristica consecrazione. Il che dà nuovo rincalzo all' opinione nostra; perocchè se non si trattasse che di solo far cessare l' essere del pane, ed ivi render presente Cristo, non si vedrebbe in tutto ciò se non un' opera divina, in cui l' umanità non sarebbe che passiva, e però non sarebbe veramente l' uomo che avrebbe parte attiva nella transustanziazione; ma se si pone che questa grande conversione avvenga per una ineffabile assunzione e incorporazione della sostanza del pane e del vino nel corpo di Cristo, in tal caso anche questo corpo glorioso dee averne parte attiva, e così l' anima, ora che a questo corpo è congiunta, e la divinità medesimamente, che è una natura identica col Padre e collo Spirito Santo: sicchè a pienissimo s' avvera, che quel pane è dato al mondo dal Figliuolo dell' uomo . Da tutte le quali cose apparisce, che se il Padre concorse alla produzione della santissima Eucaristia, generando il Verbo e mandandolo al mondo, se il Verbo vi concorse rendendosi in cibo, e il Padre e il Verbo mandando lo Spirito Santo; il Verbo incarnato però, che mediante l' opera del suo Spirito avea presa carne umana, perchè il prender carne era un rivelarsi amabile agli uomini, ugualmente si rese da sè cibo per l' opera del suo spirito giacchè in questo cibo si compiva la rivelazione dell' amabilità sua massima nell' ordine della fede. Questa amabilità poi del Verbo incarnato adoperava come istrumento la stessa umanità, acciocchè mediante una operazione ineffabile di questa, sempre indivisa dalla divinità, si apparecchiasse e quasi concorresse agli uomini il divino cibo di essa umanità, sicchè Cristo dir potesse « la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda« (2). » Nè l' essere la transustanziazione nel modo descritto opera dell' umanità investita dallo Spirito Santo (3), e congiunta ipostaticamente col Verbo, e mossa dal Verbo con quella onnipotenza che è comune col Padre da cui procede, toglie punto nè poco, che anco negli effetti della divina Eucaristia lo spirito di Gesù Cristo si manifesti e comunichi per varii gradi, e solo dopo salito Cristo al cielo e disceso lo Spirito solennemente sugli Apostoli comunichi sè medesimo nella sua forma massima, e come l' abbiam già detto, personale (1). Intanto l' invocazione dello Spirito Santo in tutte le liturgie massime orientali era così comune e talmente ordinata a impetrare la trasmutazione del pane e del vino (2) che diede origine ad un errore, cioè a credere che la transustanziazione non nascesse in virtù delle parole di Cristo, ma in virtù dell' invocazione dello Spirito Santo: il qual errore i Greci abiurarono l' anno 1493 nel Concilio di Firenze: trovandosi presente il sommo Pontefice Eugenio IV (3). Ma egli è ben facile di conciliare la virtù delle parole consecratorie coll' opera intiera dello Spirito Santo. Queste due cose sono affatto distinte. Perocchè nelle sole parole consecratorie sta il decreto onnipotente, che ordina l' opera: lo Spirito Santo poi entra a dare esecuzione, in certa maniera a tanto decreto: quello Spirito dico che è spirato dal Verbo, e che unge l' umanità di Cristo (4), della quale poi si serve come di strumento e di termine della ineffabile sua operazione. Come adunque Cristo ipostaticamente unito coll' umanità empie questa umanità del suo spirito e così a sè l' adatta e l' appropria (5), in egual modo egli comunica del suo spirito abitante nella sua umanità alla sostanza del pane, e l' assimila al suo corpo, e diventa essa pure corpo, e corpo suo, cioè ipostaticamente unito alla divina sostanza. Che se le mistiche parole non l' avesse Cristo proferite, o non le ripetesse il sacerdote, non si compirebbe una tant' opera che è un cotale estremo d' infinito perfezionamento dell' essere del pane e del vino e che però con somma convenevolezza s' appropria allo Spirito chiamato dagli antichi Padri « forza o virtù perfezionatrice« (1). » Non è dunque necessaria l' invocazione dello Spirito Santo perchè avvenga la consecrazione del pane e del vino: perocchè questa nasce solo in virtù delle parole consecratorie, le quali hanno forza di far venire lo spirito di Cristo che produce il portento. Tuttavia si usò d' invocarlo il divino Spirito in tutte le liturgie; cosa convenientissima, e acconcissima altresì a spiegare il modo, onde invisibilmente si opera la grande e misteriosa opera della transustanziazione. [...OMISSIS...] Che se questa preghiera allo Spirito Santo si fa dopo che già furono proferite le parole della consecrazione, egli è perchè non si potea fare nell' atto stesso; ma debbonsi considerare come formanti una cosa sola, un atto solo coll' atto consecratorio, di cui sono una cotale appendice, non però mai necessaria (1). E a conferma di tutto ciò osserviamo le similitudini e tante e così diverse, che usano i Padri a dichiarare il modo onde avviene la transustanziazione. Non se ne troverà pur una sola la quale s' accomodi col sistema de' nostri avversari; e la quale faccia credere che l' essere della cosa che si converte intieramente si distrugga. Nè vale il dire, che le similitudini recate in questo appunto sono imperfette; perocchè il dir questo è gratuito, e contrario alla mente de' Padri i quali su di ciò tengono il più alto silenzio. E` egli credibile che usando similitudini di tante maniere, niuna n' abbiano arrecato di quelle in cui apparisse un totale annientamento dell' essere della cosa che si converte? è possibile che mancandone nella natura non l' avessero almeno imaginata? o se non ciò, è possibile che non avessero notato, che le similitudini che usavano erano deficienti in un punto sì principale, quando omettendo di notarlo, quelle similitudini dovevano indurre necessariamente ne' fedeli un errore, un falso concetto? Oltre a che se quelle similitudini in questo punto mancavano, a che servivano esse? perfettamente a nulla: perocchè esse non si adoperavano se non per indicare come avveniva o poteva avvenire la transustanziazione; e quando avessero avuto quel difetto non potevano in modo alcuno far concepire o render più facile a concepire questa transustanziazione, di cui non avrebbero più dato alcuno esempio. Sia pur dunque che non v' abbia esempio di una conversione sì mirabile, portentosa, ineffabile come quella del pane e del vino che si consacra; ma altro è che questa sia unica e inconcepibile per le sue circostanze uniche e inconcepibili nelle quali avviene; altro è che la conversione stessa come conversione o transustanziazione debba al tutto essere un fatto solitario, di cui in tutto l' operare divino non apparisca niente di simile. Questo si torrebbe dal solito modo dell' operare divino: Iddio in tutte l' opere sue mantiene certe leggi uguali, immutabili; sebbene i casi nè quali vengono quelle leggi applicate sieno talora novissimi, e tali in cui si perde l' umano intendimento. Certo negli antichi Padri non appare vestigio alcuno, ch' essi riputassero così unico il fatto della transustanziazione, quanto alla sua natura di transustanziazione, che esempio o similitudine alcuna non potesse rinvenirsi nelle altre opere dell' onnipotente: anzi con tutta buona fede ed a fidanza il vengono variamente spiegando, e trovandolo in assai avvenimenti e naturali e soprannaturali ripetuto. Rechiamo alcuna delle similitudini che a tal uopo usavano. 1. Ho già notato, che i Padri rassomigliano la consecrazione del pane e del vino all' incarnazione di Cristo fatta nel seno della Vergine (1). Ora in questa similitudine niente si distrugge, ma solo quella sostanza del corpo della Vergine che era predestinata a dover essere carne di Cristo, si tramuta veramente nel corpo di Cristo: e non ne rimane più minuzzolo che sia della Vergine e non vera carne del Salvatore. E come ciò? per opera dello Spirito Santo, per la quale dicono i Padri avviene pur la consecrazione. Lo Spirito Santo che è spirito del Verbo reca seco il Verbo, col quale ha la natura indivisa, e il Verbo informa l' anima e il corpo nello stesso punto della verginal concezione. Qual similitudine più acconcia ad un tempo al sistema nostro, e ripugnante a quello de' nostri avversari? 2. S. Remigio Antisioderense non pure rassomiglia la consecrazione del pane e del vino a quell' unirsi che fece alla carne umana il Verbo nell' incarnazione, ma ben anco alla trasformazione de' nostri corpi da mortali in immortali dicendo: [...OMISSIS...] . Or chi non vede in questo luogo che le similitudini introdotte non presentano alcuna distruzione, ma solo un perfezionamento, un elevamento delle nature a stato di natura migliore? chi non sente con quanta proprietà sia indicata la consecrazione con dire che la materia del pane e del vino si trasporta nella natura del corpo e del sangue di Cristo? 3. Altri alla similitudine dell' incarnazione aggiungono quella della formazione del primo uomo. Recherò un testimonio non tanto antico, ma nulladimeno opportuno, primieramente perchè non fa egli che ripetere ciò che ha detto l' antichità: in secondo luogo perchè appartenendo alla chiesa orientale dimostra la consentaneità di questa nella maniera di concepire la consecrazione colla latina. E` questo un Vescovo di Amida del secolo XII chiamato Dionigio Bar7salibi perchè figlio di Saliba di rito Jacobita, il quale scrisse un commentario sulla liturgia di S. Giacopo, nel quale dice appunto così del Sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] . Or considerando la similitudine tratta dalla terra di cui Iddio compose il corpo di Adamo, non v' ha qui una materia che si trasforma bensì, ma non che si distrugge? e tuttavia non fu ella al soffio divino convertita tutta quella materia nelle carni e nell' ossa di Adamo? forse che rimase qualche cosa non tramutato? rimase qualche cosa terra? non si cangiò anzi il soggetto medesimo? conciossiachè la carne viva di un uomo è certamente un soggetto diverso dalla polvere sciolta ed inanimata. A simigliante maniera perciò intendevano gli antichi avvenire la transustanziazione del pane e del vino. 4. S. Giovanni Grisostomo, volendo dare in qualche modo meglio ad intendere come Gesù Cristo nell' Eucaristia si propaghi per così dire e si moltiplichi in ogni luogo della terra, usa appunto la comparazione della moltiplicazione del genere umano: [...OMISSIS...] . La qual similitudine è acconcissima, e tutta per noi. Conciossiachè la propagazione dell' uman genere avviene per una cotale comunicazione della vita, e non per alcuna vera distruzione o cessazione di alcun essere. 5. S. Gaudenzio introduce la similitudine della produzione del frumento dalla terra: [...OMISSIS...] . Or chi non vede che quegli elementi della terra o più tosto dell' acqua e dell' aria che si cangiano nel frumento, non s' annientano già; ma solamente cessano di essere quello che erano, per divenire frumento? S. Gaudenzio adunque non pensava a quello strano sistema della cessazione di un essere, che fu introdotto solo da' moderni; per non sapere essi trovar altra via da spiegare il grande fatto della transustanziazione. 6. S. Ireneo molto prima (sec. II) usava di somiglianti similitudini del legno che fruttifica, delle fonti che scaturiscono, del frumento che matura: [...OMISSIS...] . Ora l' albero che frutta e la terra che manda l' erba, la quale spiga e poi grana, non dànno esempio d' altre trasformazioni che solo di quelle dove l' un essere non già si distrugge ma nell' altro si tramuta. 7. Un' altra similitudine usata dagli antichi scrittori a spiegazione dell' opera della conversione del pane e del vino si è quella della legna, che s' infiamma e diventa acceso carbone. Così dice Ildegarde che scriveva nel secolo XII: [...OMISSIS...] . Questo scrittore adunque concepiva la transustanziazione come noi, i quali diciamo, che il Verbo e l' anima e il corpo di Cristo mediante lo Spirito Santo, fuoco divino, avviluppano per così dire le minime particelle del pane, come la fiamma fa d' un fusto di legno, e l' avvilupparle è un appropriarsele, un congiungersele incorporandolesi e facendole divenire parte indivisibile dell' unico corpo di Cristo, cessando quelle interamente per cotale ineffabile operazione da esser sostanza di pane e di vino. .. E` frequente l' incontrare ne' Padri il confronto fra la conversione del pane e del vino, e le altre conversioni, che si narrano avvenute prodigiosamente nelle Divine Scritture; come son quelle del nuovo Testamento, dell' acqua conversa in vino alle nozze di Cana (2), e nell' antico della verga di Mosè cangiata in serpente ed altre tali (3). Or che giammai notassero i Padri una assoluta ed essenzial differenza fra il modo del cangiamento del pane e del vino, ed il modo onde avvenuti sono quegli altri cangiamenti? Ciò che dimostra, ch' egli non concepivano quello come assolutamente e intrinsecamente diverso da questi: perocchè se l' avessero così concepito nè ci aveva ragione di somigliar quello a questi; e tacerne la dissomiglianza non si potea senza indurre i fedeli in error gravissimo toccante cose di fede. S' egli dunque è da credere, che non riputassero la conversione del pane e del vino intrinsecamente e specificamente diversa da quelle altre conversioni avvenute prodigiosamente dell' acqua in vino, della verga in serpente; così si può giustamente ragionare, e ho già di questo ragionamento fatto un cenno di sopra: L' acqua non fu già mutata in un vino particolare preesistente, nè la verga fu mutata in un serpente preesistente: ma solo quella prese natura di vino, questa di serpente: non però l' essere elementare fu essenzialmente annichilato nè dell' acqua nè della verga. Però quando quell' acqua fu convertita in vino, e quella verga in serpente, si trovò al mondo del vino più di prima, e un serpente che prima non era. Qui non ci ha nulla di assurdo e d' inconcepibile. Or è bensì vero che il corpo di Cristo e il sangue preesiste alla consecrazione; e che il pane ed il vino si dee convertire nell' identico sangue. Ma altre sono come abbiam distinto le particelle componenti un corpo ed un sangue; altro sono il corpo ed il sangue. Il pane ed il vino certo è convertirsi nell' identico corpo e nell' identico sangue di Cristo; questo è di fede: ma questo pienissimamente avviene anche ponendo che le particelle sieno diverse; cioè che s' aggiungano al corpo ed al sangue di Cristo delle particelle nuove, le quali non mutano, ma anzi esse pure partecipano l' identità del corpo e del sangue a cui individuamente si congiungono. Per sì fatto modo rimangono chiarissimi, e privi d' ogni oscurità i passi de' Padri, e convenientissime si ritrovano le comparazioni, a cui essi sono ricorsi, per dare in qualche modo convenevole dichiarazione del modo onde avviene il gran fatto della mistica consecrazione. Or a tante autorità dobbiamo continuarci con degli argomenti somministrati dalla ragione teologica. Già abbiamo veduto che gli avversari concedono che nella transustanziazione cessa interamente Iddio dal conservare un essere distruggendo interamente il pane ed il vino. Noi abbiamo detto che il pane ed il vino è quello che si dee trasmutare, e che però, se Iddio lo distrugge non si può trasmutare (1). Ma or non ci basta nè della confessione degli avversari, i quali sostengono che il pane ed il vino quanto all' essere stesso si distrugga, negando però a questa distruzione con una vana sottigliezza il nome di annichilazione; nè ci sta di aver provato, che il concetto di vera transustanziazione non si può avverare tosto che si pone che, in qualsivoglia modo, l' essere che si dee trasmutare cessa interamente diventando nulla. Vogliamo oltreciò considerare la cosa dalla parte del corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire; e provare che anco da questa parte la transustanziazione è impossibile nel sistema degli avversarii. Poniamo adunque innanzi all' animo nostro questi tre punti che sono contenuti nel sistema de' nostri avversari. 1. Il corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire preesiste; 2. Questo corpo di Cristo non può ricevere l' aumento di niuna particella che gli s' aggiunga; 3. Questo corpo di Cristo colla consecrazione si pone nel luogo della sostanza del pane che viene ridotta a nulla. Premessi questi punti de' quali il primo è fuori di controversia così ragiono: Poniamo che un essere qualsivoglia si trasmuti. Qui non consideriamo la forza che lo trasmuta; ma la stessa trasmutazione. Quest' essere dee successivamente passare a tutti quegli stati ne' quali dee trasmutarsi. Ma potrà egli mai entrare nella natura di un altro essere già sussistente? Un individuo sussistente racchiude già nel suo concetto di essere così separato dagli altri individui, di non potersi giammai mescolare, confondere, immedesimare con essi. Nè pure adunque una potenza infinita potrebbe fare che un individuo sussistente ne diventasse un altro pure sussistente: perocchè ciò è ripugnante al concetto d' individuo sussistente, che consiste nella incomunicabilità di suo essere. Se dunque questa parola« individuo sussistente« esprime il medesimo che essere incomunicabile ed essenzialmente uno, ne dee avvenire: 1. Che un individuo sussistente non può divenire un altro individuo sussistente, perocchè per diventare un altro individuo dovrebbe deporre la propria individualità, e questa non può deporla per via di trasmutazione, ma solo per via di annichilazione; 2. Che l' altro individuo pure sussistente, in cui si vuole che il primo si cangi, non può ricevere in sè altra sussistenza che la sua; però non può sofferire nessun cangiamento risguardante il suo essere individuale, se non si voglia che il suo essere individuale e sussistente si annichili egli pure: giacchè l' individuale sussistenza è cosa unica e semplice; chè fra l' essere e il non essere suo niente si trova di mezzo; 3. Che ove vogliamo pure fantasticamente imaginare una conversione di un individuo sussistente in un altro pure sussistente, questo non sarebbe un vero concetto di conversione, ma solo un concetto composto ( a ) di cessazione del primo individuo ( b ) della conservazione del secondo, senza che questo secondo abbia ricevuto niente dal primo. Non potea fuggire tutto ciò alla gran mente del Bellarmino; e però chi lo legge attentamente trova che ei confessa in sostanza tutto ciò che noi abbiam detto, dove viene a parlare della conversione ch' egli chiama conservativa . Perocchè egli descrive la conversione conservativa in questo modo: [...OMISSIS...] . Or noi diciamo che questo fatto sembrerebbe bensì una conversione, ma niuna vera conversione in ciò interverrebbe. Sarebbe un inganno che prenderebbero gli occhi nostri, o la nostra imagine, credendo non che l' un de' due corpi si convertisse nell' altro perchè li vedremmo forse avvicinarsi e l' uno cessare di mano in mano che mostrasse d' immergersi nell' altro, non però si convertirebbe, non però il primo avrebbe subìto altra mutazione che quella dell' annichilamento, e il secondo non avrebbe subito cangiamento di sorte alcuna. Ogni uomo di buon senso, non preoccupato l' animo da una sentenza già imbevuta, può esser giudice in questa parte. Ora fra la conversione meramente conservativa e l' adduttiva (che così chiama il Bellarmino quella che interviene nella consecrazione) non passa alcuna diversità circa la distruzione dell' essere che si converte: non passa sempre diversità quanto al non prodursi nell' una e nell' altra niente di nuovo. V' ha solo diversità in questo che quel corpo in cui l' altro si converte, oltre conservarsi nel suo luogo, vien posto anco in altro luogo. [...OMISSIS...] La conversione adduttiva adunque non differisce dalla conservativa se non in questo, che l' oggetto che si conserva in entrambi, senza che nulla nasca di nuovo, in quella, oltre conservarsi nel suo luogo, viene addotto o condotto, o posto anche in altri luoghi; sicchè ha contemporamente la stessa ed identica esistenza in più luoghi. Ora posto che nulla s' aggiunge alla sostanza di questo corpo, l' essere addotto in più luoghi senza abbandonare il proprio luogo non è ancora ricevere in sè un altro corpo che in lui si converta: però se la conversione conservativa non è conversione: nè pure l' adduttiva può essere conversione: conciossiachè questa aggiunge solo una circostanza, nella quale non si avvera il concetto di conversione alcuna. Il perchè egli sarebbe impossibile nel sistema del Bellarmino evitare quella difficoltà gravissima che si fa egli medesimo, che la conversione terminerebbe in un accidente, anzichè in una sostanza (1). E veramente il corpo di Cristo non avrebbe sofferito nessun cangiamento sostanziale, ma solo accidentale; egli oltre essere in cielo avrebbe un sito di più in cui si troverebbe, cioè sotto le specie del pane e del vino (2): or questo non sarebbe sicuramente nulla di più di un cangiamento accidentale. Nè vale rispondere, come fa il Bellarmino, che [...OMISSIS...] . Nessun uomo di buon senso accorderà questa conclusione. Di poi, si fa che il corpo di Cristo succeda al pane; questo è vero, ma non è mica questo un farsi il corpo di Cristo (4), ma è solamente che al corpo di Cristo succeda la relazione della presenza. Dunque la mutazione che nasce è meramente accidentale e non è vero che nasca un trasmutamento di sostanza in sostanza. Io non veggo in qual maniera possano gli avversarii di buona fede evitare questa gravissima difficoltà. Nè si badi al vocabolo di accidente , che io adopero per indicare la mutazione che avviene nel corpo di Cristo per la consecrazione, perocchè io intendo per accidenti anche le relazioni che acquista un essere; e in una parola tutto ciò che« non tocca, non muta la sostanza dell' essere«. Ora che la mutazione che nasce rispetto al corpo di Cristo, secondo il Bellarmino stesso, sia l' acquisto di una nuova relazione l' abbiamo espressamente da lui confessato. Conciossiachè ricercando egli che mutazione nasca nel corpo di Cristo, risponde: [...OMISSIS...] . Or si congiunga questo luogo con un altro precedente dove nega che il corpo di Cristo che è in cielo muti o la sostanza, o gli accidenti, o il luogo (2). Se dunque non nasce mutazione nè quanto alla sostanza nè quanto agli accidenti, tutta la mutazione si dee ridurre alla relazione nuova che acquista; la quale crediam di poter riporre fra le mutazioni accidentali, appunto perchè non risguardano la sostanza. Laonde dall' avere il Bellarmino avuto ricorso alla sua conversione adduttiva per ispiegare la transustanziazione, due cose si raccolgono: 1. Ch' egli stesso conobbe che l' individualità d' una cosa non può passare nell' individualità di un' altra cosa, il che implica contraddizione, e però ricorse a quella conversione impropria ch' egli denomina adduttiva . 2. Ch' egli non dà una vera spiegazione della transustanziazione, ma più tosto dà il nome di transustanziazione alla successione d' una cosa all' altra che s' annienta; senza però che si converta veramente o si transustanzii. E qui si conviene fare un' osservazione che mette in maggior lume di evidenza l' impossibilità della transustanziazione nel sistema degli avversari; ed è questa: Il Bellarmino descrivendo quella ch' egli chiama conversione conservativa recò in mezzo l' esempio di due corpi che facesser vista di penetrarsi (il che veramente non sarebbe che un distruggersi dell' uno per opera divina, conservandosi l' altro). Ora il venerabile uomo usa di queste parole: [...OMISSIS...] . Quella parola naturalmente vien qui introdotta, perchè il Bellarmino opina non essere cosa ripugnante, e però possibile a Dio la penetrazione de' corpi. Ma ciò ora noi non vogliamo discutere. Ciò che noi vogliamo osservare si è, che supposto che la penetrabilità non implichi contraddizione, quand' anco l' uno de' due corpi non fosse distrutto da Dio, come pone il Bellarmino, ma compenetrato nell' altro; ancora non sarebbe punto seguita la conversione dell' uno nell' altro fin a tanto che i corpi sussistessero nello stesso luogo: ma perchè veramente si potesse dire essere avvenuta la conversione o transustanziazione converrebbe, che l' individualità dell' uno fosse passata nell' individualità dell' altro; cioè che l' uno individuo fosse diventato l' altro individuo. Or questo è manifestamente assurdo; giacchè la propria sussistenza individuale è al tutto incomunicabile, non solo rispetto ai corpi, ma ben anco rispetto a due individui quali si vogliano, anco spirituali: perocchè nel concetto dell' individuo si contiene quello di cosa incomunicabile, però inconvertibile. Non si dee adunque fermarsi solo a considerare le difficoltà che trae seco la penetrazione de' corpi; ma si dee prima sollevarsi alla difficoltà più generale che nasce dall'« incomunicabilità dell' individuo« sussistente: la quale, a mio parere, non può essere dagli avversari nostri in modo alcuno superata. Ma da ciò si deve scendere a considerare altresì se posti i tre principii degli avversari una vera transustanziazione sia consentita dalla natura della sostanza corporea. E qui si dee partire da questo principio che una vera conversione d' una cosa in un' altra non si dà, se non a condizione che la cosa che si converte S' IDENTIFICHI colla cosa in cui si converte (1). Ora questa identificazione non può seguire se non a condizione: 1. Che la cosa che si converte perda la propria identità, quindi cessi di essere quello che era prima, e altresì cessi di essere al tutto, intendendo l' espressione in questo senso, che non può dirsi più dopo la conversione« ella è«: conciossiachè quell' ella esprime la cosa di prima che non è più. 2. Che la cosa in cui si converte non perda la sua identità ma rimanga perfettamente quella di prima. 3. Perciò che le due cose, dopo la conversione dell' una nell' altra, già non siano più due, ma una sola; e non già una mista di tutte e due; ma la sola seconda identica a sè stessa innanzi la conversione; nella quale ha perduto il proprio essere la prima in essa convertitasi. Dopo di ciò dee ancora osservarsi, che acciocchè una cosa entri nella natura dell' altra, fino a lasciare la propria natura e prendere la natura di quella in cui entra, conviene che tutte e due le cose, la trasmutantesi , e la trasmutataria (mi si conceda questa voce) sostengano mutazione: perocchè la prima dee sofferire quell' alterazione che le faccia assumere l' altrui natura, l' altrui essere, lasciando il proprio: e la trasmutataria dee pure sostener mutazione in ricevere l' essere altrui nella propria natura, e nel proprio essere. Or nulla di meno si richiede perchè accada un tale trasmutamento, il quale in senso vero e proprio si possa denominare conversione, transustanziazione, transelementazione ; nomi sacri, e propriissimi nell' uso della Chiesa, che li applica al Sacramento Eucaristico. La conversione adunque vera e propria non è quella che il Bellarmino chiama conservativa , nè quella che chiama adduttiva , e nè pure quella che si chiama produttiva . Perocchè nè conserva semplicemente, nè semplicemente adduce una cosa in altro luogo, come lo spirito che inanima nuova materia, il quale perciò non si trasmuta, nè produce un essere nuovo; perocchè il trasmutatario rimane l' essere identico che era prima che avvenisse la conversione. Nelle tre conversioni adunque distinte dal Bellarmino non si dànno i caratteri proprii della conversione vera, che sono pur quelli che noi abbiamo recati. Ora tutte queste cose ben ritenute, egli è evidente, che un essere ricevendo in sè l' entità di un altro essere che in lui si converte, non mantiene l' identità sua, se non si suppone che tanto prima di divenir trasmutatario, come dopo essere divenuto tale, rimanga uno e semplice come prima. E veramente se coll' accogliere l' entità dell' altro essere egli diventasse due esseri mediante tale aggiunta, già non sarebbe vero che il nuovo essere si fosse in lui convertito, ma solo a lui apposto, avvicinato, appiccicato e nulla più. Or non sarebbe possibile che un essere trasmutatario rimanesse uno e identico, tanto più dopo aver ricevuto in sè l' altro essere, se non supponendo che l' unità sua sia un' unità complessa, cioè risultante di più parti, le quali sono unificate da un principio unico. In tal caso seguitando questo identico principio ad unificare le parti e a costituire la loro unità base dell' identità del loro complesso; egli è evidente che le parti possono crescere e diminuire; senza che nè l' unità, nè l' identità del tutto punto perisca o sofferi alterazione alcuna. All' opposto dove non si trattasse di una unità complessa; dove l' unità non provenisse da principio unificante più parti, le quali vengono da lui compaginate in un tutto unico e semplice; dove non si trattasse dell' identità di questo tutto: sarebbe impossibile concepire una vera e propria conversione. L' impossibilità di questo è manifesta; perocchè ne avremmo questa formola 1 .più . 1 .uguale . 1 E veramente si tratterebbe di rifondere l' entità di un individuo in un altro individuo, che è quanto aggiungere unità ad unità; e di averne per risultato non due individui, nè un individuo maggiore di prima, ma quell' individuo stesso nello stato di prima; cosa assurda come è assurdo che due e due facciano uno. All' opposto se l' individuo in cui l' altro si converte è complesso, egli è facile a sciogliere il nodo. Perocchè sebbene sembra, che venga a dirsi ugualmente che uno ed uno facciano uno; tuttavia è da sapersi che queste unità non sono uguali nei loro elementi ma solo nel loro risultato; sicchè l' unità che ne risulta è uguale nella sostanza, non nella grandezza, sicchè la formula si ridurrebbe a quest' altra 1 .più . 1 .uguale .1 la quale non ha contraddizione alcuna: se non che è da osservare, che questa formola, che varrebbe per la quantità, non varrebbe punto ad esprimere l' identità della sostanza o sia l' unità totale. Or questo è appunto ciò che avviene continuamente in noi. Noi bambini e noi uomini adulti siamo identici; perchè è identico il principio unificante, il principio nostro formale; pure ci sono state aggiunte delle parti, che non avevamo; il nostro corpo è cresciuto. Questo crescimento nelle parti non è crescimento nel tutto unico e identico; questo crescimento nella quantità, non è crescimento nella sostanza o nella individualità. Mediante la nutrizione adunque nasce una vera conversione e transustanziazione del cibo nel corpo nostro vivente. E simile a questa, noi sosteniamo dover essere quella che avviene mediante la consecrazione del pane e del vino. Non hanno alcun modo all' opposto [gli avversari] di mostrare nella conversione da loro descritta i caratteri sopraccennati di una conversione vera. Perocchè posto per principio che al corpo di Cristo non si può aggiungere niuna particella; viene per conseguente che non si consideri l' identità del tutto, ma l' identità delle particelle che compongono il tutto; non il tutto come uno, ma come una collezione di determinate particelle. Quindi se si volesse supporre una vera conversione non si potrebbe in alcun modo evitare quell' assurdo che esprimemmo nella formola, 1 .più . 1 .uguale . 1: il che non può fare nè pure l' onnipotenza divina: perocchè è ripugnante intrinsecamente che uno ed uno faccia uno; come che un' entità fusa nell' altra non accresca o di numero o di grandezza l' altra entità. Ricorreremo per esser brevi a ciò che fu stabilito intorno alla natura del corpo nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee , alla qual opera rimettiamo il lettore che brami più estese prove di ciò che qui affermiamo. Noi abbiam detto che le nostre cognizioni intorno al corpo ci vengono per due modi: 1 pel sentimento fondamentale spontaneo e sue modificazioni, e questo modo l' abbiam chiamato soggettivo ; 2 pel sentimento di resistenza al sentimento fondamentale, e questo l' abbiamo chiamato oggettivo [estrasoggettivo] (1). Or di questi due modi (sebbene ciascun porga un testimonio verace alla intelligenza) quello però che è principale, e fondamentale è il soggettivo; e su questo si fonda l' oggettivo [estrasoggettivo] : però la verità di questo dalla verità di quello interamente dipende (1). Or dunque, o noi non conosciamo cosa alcuna di vero intorno alla sostanza corporea, o pure dobbiamo a quel primo modo far fede. Ciò ha massimamente luogo trattandosi del corpo proprio, che noi percepiamo per un sentimento spontaneo fondamentale. L' unica maniera di conoscere che abbiamo un corpo si è questo sentimento appunto: e questa maniera è infallibile: perocchè l' essenza del corpo sta in questo sentimento, o certo da questo sentimento ci è immediatamente fatta percepire, consistendo questa essenza 1 in un agente; 2 che produce in noi quel sentimento diffuso nella estensione. Or venendo ad applicare questi principii al mistero Eucaristico; io domando se Gesù Cristo sente il proprio corpo nella dimensione di spazio circoscritta dalla specie del pane e del vino. Non si può rispondere, che o sì, o no. Ora se si risponde, che Gesù Cristo in quella dimensione di spazio che dalle specie Eucaristiche è circoscritta non ha il sentimento fondamentale del proprio corpo, in tal caso non si verifica che esista nello spazio disegnato dalle specie consecrate il corpo di Cristo: perchè l' essenza del corpo proprio di ciascuno sta nell' essere materia e confine al sentimento fondamentale. Se poi si risponde di sì; in tal caso convien dire che il sentimento fondamentale di Cristo oltre estendersi a quel luogo, che occupa in cielo, si stenda anche a quegli spazii che vengono dai confini del pane e del vino consecrati determinati. E in tal caso il corpo di Cristo non sarebbe restato quel di prima; ma si sarebbe veramente ingrandito, estendendosi agli spazii che dalle specie sono coperti. Perocchè io ho dimostrato che la vera grandezza del corpo è quella che viene determinata dal sentimento fondamentale, nè può essere altramente (2). Ora nel sistema degli avversarii si pone che il corpo di Cristo colla transustanziazione non acquisti aumento di sorta. Dunque racchiude l' assurdo, perchè d' una parte lo distende il sentimento fondamentale, il che equivale a ingrandire il corpo di Cristo: dall' altra [si] esclude qualunque ingrandimento; il che è contraddizione in terminis . Che se alcuno volesse dire, che v' ha l' estensione del sentimento fondamentale e però l' ingrandimento del corpo; ma che questo ingrandimento non nasce per aggiunta di particelle corporee avvicinate: costui cadrebbe in gravi errori. Perocchè: 1. E` assurdo che v' abbia il sentimento fondamentale corporeo là dove non v' ha materia corporea, che ne è il termine. 2. Questa materia non potrebbe essere creata, perchè non si vuole che niuna materia s' aggiunga al corpo di Cristo. Però si porrebbe la materia col porre il sentimento, ed insieme la si escluderebbe; il che è pure contraddizione. Si negherà forse che l' essenza del corpo di un uomo consista nel sentimento fondamentale del medesimo, o certo che da lui sia determinata? Dove adunque si vuol collocarla? Forse nella potenza non di agire sullo spirito (producendovi il sentimento fondamentale) ma in quella di agire sugli altri corpi esteriori? Io ho dimostrato che ciò implica assurdo, perocchè verrebbe fuori le definizione circolare: il corpo essere una potenza di agire sul corpo « idem per idem «. Ma tralasciando la dimostrazione diretta dalla falsità della dottrina che vorrebbe porre l' essenza del corpo in una potenza di agire sugli altri corpi o di produrre il moto, ecc.; io con argomenti egualmente efficaci, sebbene indiretti, verrò a convincere gli avversarii di rinunziare al loro tentativo. E a far ciò mi basterà osservare. 1. Che il corpo di Cristo nell' Eucarestia non mostra al di fuori nè la propria grandezza o forma, nè i proprii accidenti. 2. Che però l' operar suo è tutto secreto, non operando sul corpo nostro fisicamente colle forze proprie di lui, ma colle forze fisiche del pane e del vino; sebben questi cessino interamente. 3. Che quindi se l' operare all' esterno costituisce l' essenza del corpo; sotto le specie sacramentali non ci sarebbe più il vero e real corpo di Cristo mancandone l' essenza. 4. Chi poi dicesse bastare che abbia la virtù di operare esternamente, sebbene non operi; osserverei che questa virtù di operare non producendo nessun effetto fisico suo proprio non sarebbe però il corpo di Cristo, quando Cristo non n' avesse il sentimento e la consapevolezza; e se questo l' avesse, avrebbe colla consecrazione acquistato ciò che non gli si vuol dare, il sentimento fondamentale: e torneremmo ad osservar quelle cose, che abbiam toccate nell' articolo precedente. Insomma avverrebbe che fosse un corpo che nè avrebbe congiunzione sentita e proprio collo spirito di Cristo, nè con noi, in quanto sta ne' luoghi dalle specie circoscritto: il che distrugge l' idea del corpo. All' incontro bene stabilito il principio che« l' essenza del corpo umano« non consista nella sua azione al di fuori, ma nella sua congiunzione individua collo spirito da cui è informato, e con cui produce insieme il sentimento fondamentale, rimane chiarissima la verità e realtà del corpo di Cristo nella santissima Eucarestia, eziandio che egli non ferisca i nostri sensi, e non sia a noi oggettivamente [estrasoggettivamente] percettibile. Rimane la percezione soggettiva che di lui fa Cristo, e questo è il fondamento della sua verità e realità. Laonde que' filosofi che definirono il corpo un complesso di sensazioni esterne e oggettive, come Berkeley e Condillac, resero impossibile il dogma dell' Eucarestia, dove si crede la verità e realtà del corpo di Cristo, benchè manchino tutte le sensazioni esterne e oggettive [estrasoggettive] sopra di noi. Nè meglio può convenire al dogma Eucaristico il riporre nell' estensione attuale l' essenza de' corpi, come facevano i Cartesiani. Perocchè l' estensione circoscritta dalle specie dell' ostia consacrata, avendo un' altra figura e un' altra grandezza dal corpo umano, non potrebbe esser mai nè contenere il corpo di Cristo (1). Leibnizio vide l' errore di Cartesio, e s' accostò molto al vero ponendo la natura del corpo non già nell' estensione, ma nella « materia e forma sostanziale, cioè nel principio di passione e di azione« (2). » Or il collocare la natura del corpo solo in un principio di passione o di azione è troppo poco; perchè è troppo generale, conciossiachè questo descriverebbe più tosto l' essenza della sostanza in genere, anzichè quella della sostanza corporea. Convien dunque nel descrivere l' essenza del corpo, oltre porre il principio passivo ed attivo comune a tutte le sostanze, determinare altresì che cosa sia ciò che un tal principio sostanziale faccia appartenere più al corpo che ad altro essere, ciò che Leibnizio chiaramente non dice. Prosegue Leibnizio, dopo aver detto che l' essenza del corpo consiste in un principio di azione e di passione, in una facoltà attuale o entelechia primitiva, a dire, che questo sostanzial principo in cui consiste l' identità del corpo esige certe potenze ed atti secondi che sono realmente distinti dall' essenza, e che però dall' onnipotenza di Dio si possono separare interamente dall' essenza senza che questa perisca (1). Queste potenze seconde sono veri accidenti reali, non conseguenti di necessità dall' essenza del corpo, ma più veramente sopraggiunti ad esso, e per sè essenti. Due di queste qualità assolute o accidenti reali egli nota nel corpo, i quali sono la mole o potenza di resistere «pyknotes,» ovvero anche «antitypeia») e il conato o potenza di agire, ed essi son quelli che costituiscono veramente l' estensione de' corpi: il perchè l' estensione, e di conseguenza le dimensioni, e il luogo non sono cose a' corpi essenziali (2). Posta questa distinzione reale fra la sostanza del corpo e l' estensione, egli è manifesto che non solo può cessare l' estensione senza che cessi la sostanza, ma può l' estensione variare, non variando la sostanza: quindi lo stesso corpo può avere contemporaneamente più dimensioni, ovvero la stessa dimensione, lo stesso accidente reale può appartenere a diverse sostanze corporee: finalmente può rimanere la dimensione e la qualità, tolta la sostanza (3). Applicando questa dottrina intorno alla natura del corpo al mistero Eucaristico, ella suppone: 1. Che nel corpo di Cristo non sia avvenuta una mutazione di essenza, ma bensì una mutazione ne' suoi accidenti reali, quali sono la mole, il conato, l' estensione (1). 2. Che nel pane viceversa sia avvenuta una mutazione di essenza o sostanza, essendo questa cessata, rimanendo intatti i suoi accidenti reali, la mole, il conato, l' estensione. 3. Che la mutazione avvenuta nel corpo di Cristo consista in esistere oltre che nell' estensione propria, anche nell' estensione descritta dalle specie del pane: di guisa che l' identica essenza del corpo sia stata fornita di più estensioni. 4. Che la mutazione avvenuta nel pane consista nell' aver perduta la sostanza propria (se pure non si vuol dire che questa sia uscita di luogo, resasi spirituale, ciò che nel sistema Leibniziano potrebbe dirsi) e ricevuta nel luogo stesso della sostanza propria l' estensione del corpo di Cristo. Ora questo sistema difficilmente potrà soddisfare pienamente ed approvarsi da' teologi cattolici. Imperciocchè: 1. Nel mistero Eucaristico si trova sotto le specie del pane consecrato il corpo, l' anima e la divinità di Cristo. Hassi dunque a spiegare non solo come sotto le specie del pane si trovi l' identico corpo di Cristo, ma anche come si trovi lo spirito tutto intero di Gesù Cristo. Ora quel sistema non si occupa che di spiegare la presenza in più luoghi del corpo, e nulla più. 2. Si spiega egli la esistenza del medesimo corpo sotto diverse specie nel Leibniziano sistema? Forte ne dubito. Perocchè avendo distinto l' estensione del corpo dalla essenza del corpo, rimane a dimandare: ciò che voi collocate sotto le specie del pane è la sola estensione, o è anche la sostanza corporea? Se è la sola estensione: dunque sotto le specie del pane non esiste il corpo di Cristo, ma solo un suo accidente reale, che estensione si appella; il che sarebbe contro il dogma. Se poi sotto le specie del pane voi ponete la sola sostanza del corpo di Cristo senza l' estensione, vi rimarrà a spiegare come questa sostanza posta in tanti luoghi diversi non si moltiplichi (1). Di più rimarrà a dimandare, come la stessa identica sostanza di Cristo possa nello stesso tempo essere coll' estensione, e senza l' estensione. Nè vale già il dire, che si pone in due luoghi diversi in cielo, e sotto le specie del pane; perchè si parla della stessa identica sostanza metafisicamente considerata, cioè fuori di ogni luogo; la qual perciò come tale, non può dirsi essere in cielo od in terra; perocchè questo sarebbe già un dire avere determinazione di luogo, il che è contrario al concetto che si vuol formarsi della sostanza. Riman dunque a spiegare che una stessa identica sostanza per sè fuori di luogo debba esser collocata in due luoghi diversi nell' uno de' quali sia estesa, e nell' altro no, senza che perda la sua identità. Che se poi si pone sotto le specie del pane e la sostanza e l' estensione, in tal caso resta di nuovo a spiegarsi: 1. come la sostanza posta in più luoghi non si moltiplichi; 2. come l' estensione, che ha il corpo di Cristo sotto le specie dell' ostia, aggiunta all' estensione che ha il corpo di Cristo in cielo, non produca una sommaria estensione maggiore della prima; nel qual caso il corpo di Cristo si sarebbe ingrandito e disteso; 3 supponendo che sotto le specie sacramentali sussista il corpo di Cristo colla sostanza e colla estensione, che è l' unico sistema che possa convenire alla fede cattolica; rimane nel sistema Leibniziano a dimandare, la sostanza che sta sotto la specie colle sue dimensioni, è ella qualche cosa che fosse aggiunta al corpo di Cristo in cielo, o è nulla? Il Bellarmino dice che il corpo di Cristo in cielo acquistò l' essere sacramentale, il che suppone qualche mutazione essere avvenuta in lui [...OMISSIS...] . Or dunque, se il corpo di Cristo in cielo acquistò qualche cosa, se sotto le specie egli esiste colla sostanza e coll' estensione, se cosa certa è, che queste estensioni sono diverse, e che la somma di estensioni diverse forma un' estensione maggiore di prima, se in tutte queste estensioni opera la forza o sostanza corporea, che ha virtù di effondersi ed operare nell' estensione, altramente non sarebbe; rimangono dunque queste due difficoltà gravissime a superare: 1. Come il corpo di Cristo siasi ampliato. 2. E come siasi ampliato, senza aggiunta di nuova materia, la quantità della quale viene necessariamente determinata dalla estensione. Quest' aggiunta fu creata da Dio? perocchè se non fu prodotta dall' aggiunta di una materia nuova preesistente, nè da materia da Dio creata, ella non fu fatta in modo alcuno: e però cadremmo in contraddizione ponendo una giunta al corpo di Cristo, e negando nello stesso tempo la giunta stessa che noi poniamo. Conviene tutte queste difficoltà, che assai facilmente si superano nel nostro sistema, freddamente considerare e ponderare. Ma passiamo alle particolari difficoltà, che si rinvengono nel sistema del venerando Bellarmino. La sentenza di Leibnizio muove, come vedemmo, dall' aver distinta la sostanza (materia e forma sostanziale) del corpo, dall' estensione di lui prodotta dalla mole o forza di resistere e di impellere. Il Bellarmino all' incontro vide quanto forte cosa era a dire, che il corpo possa starsi privo di ogni estensione; e però immaginò di distinguere due estensioni, l' una essenziale al corpo, della quale egli non può essere spogliato senza che sia distrutto, l' altra a lui non essenziale, della quale può essere spogliato senza che perisca; l' una interna al corpo stesso, e l' altra locale o sia commensurativa al luogo che occupa (1). Ora, sebbene che il Bellarmino arrechi una ragione non solida a provare, che un corpo può trovarsi coll' estensione interna , e tuttavia senza l' estensione esterna che lo adegua al luogo (1); tuttavia la distinzione del Bellarmino trova fermo sostegno nelle dottrine intorno al corpo ed allo spazio, che io ho espresso nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee . E veramente io ho dimostrato avervi due modi di percepire l' estensione, l' uno soggettivo , l' altro oggettivo [estrasoggettivo]; di che si può acconciamente distinguere un' estensione soggettiva da una estensione oggettiva [estrasoggettiva] : e questa appunto mi pare che possa corrispondere alla distinzione recata in mezzo dal Bellarmino, la quale, senza intenderla in questo modo, non so qual potrebbe avere significato. E veramente mi dà motivo d' interpretare in sì fatta maniera la distinzione del Bellarmino fra l' estensione interna e l' estensione esterna , un luogo del Bellarmino stesso, dove rispondendo ad una obbiezione chiarisce maggiormente il suo pensiero dicendo: [...OMISSIS...] . Or da queste parole pare potersi conchiudere, che l' estensione che attribuisce al corpo di Cristo nella Eucarestia è quella che noi chiamiamo estensione soggettiva , cioè relativa al soggetto. E certo se così dee intendersi quella che il Bellarmino attribuirebbe al corpo di Cristo nell' Eucarestia sarebbe un' estensione verissima e non già apparente: quando anzi noi abbiamo dimostrato che l' essenza propriamente dell' estensione noi la percipiamo soggettivamente, mediante il sentimento fondamentale e sue modificazioni; di maniera che la sensazione soggettiva è la misura e il fermo criterio de' giudizi che noi facciamo sull' estensione esterna ed estrasoggettiva (1). Nè s' incontra contraddizione alcuna che v' abbia l' estensione soggettiva, senza che v' abbia la oggettiva [estrasoggettiva] corrispondente. Perocchè è manifestamente un atto diverso quello che fa la sostanza corporea ponendo la estensione soggettiva , da quello che fa ponente la estensione oggettiva [estrasoggettiva] . Conciossiachè la estensione soggettiva l' abbiamo noi definita« un modo del nostro sentimento fondamentale« in quanto questo è un sentimento animale. Or questo sentimento è l' effetto di una forma che agisce nel nostro spirito e col nostro spirito; e che ivi lo produce, e lo produce col suo modo dell' estensione soggettiva; di maniera che questa estensione noi la percipiamo immediatamente col sentimento fondamentale; e la forza che la produce, considerata come cosa congiunta col suo effetto esteso, è il corpo nostro proprio. All' incontro l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] è quella che percipiamo quando un corpo esteriore modifica il corpo nostro, e sentiamo non un sentimento spontaneo (come è il sentimento fondamentale), ma un sentimento violento, come è quello che proviamo nell' atto che un oggetto esterno agisce su di noi modificando il sentimento nostro fondamentale, col produrre qualche moto nella sua materia. Or qui è evidente la distinzione essenziale fra l' atto che produce l' estensione soggettiva, e l' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [estrasoggettiva]. L' atto che produce l' estensione soggettiva opera immediatamente sul nostro spirito. L' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] non opera sul nostro spirito (almeno immediatamente), ma opera sulla materia del nostro sentimento fondamentale; e se noi troviamo l' identità delle due estensioni non è per altro se non perchè l' estensione esterna viene da noi commensurata e immedesimata coll' estensione interna, nel modo che ho spiegato nel Nuovo Saggio , e non per altro. Or l' azione sopra uno spirito e l' azione sopra un corpo sono azioni essenzialmente diverse, e però si possono concepire divise. Di più queste due azioni si ravvisano ne' corpi sì come sono nello stato loro naturale; ma l' azione però del corpo sopra il nostro spirito è anteriore all' azione de' corpi esterni sopra il corpo nostro; e quella basta a farci concepire un corpo esteso. Dunque alla vera essenza del corpo esteso non appartiene che la estensione soggettiva, e non involge punto di contraddizione, che rimanga privo dell' estensione oggettiva [estrasoggettiva] a quella posteriore, e da quella essenzialmente distinta. E in vero se il corpo nostro continuasse ad essere da noi sentito col sentimento fondamentale, ma egli cessasse di agire interamente su corpi esterni di guisa che non cadesse più sotto il senso degli altri uomini: questo corpo avrebbe tutta la sua estensione soggettiva, e tuttavia avrebbe perduta la estensione oggettiva [estrasoggettiva]; egli continuerebbe ad agire sull' anima nostra, e avrebbe cessato di agire sul corpo degli altri uomini, azioni e facoltà assai disparate. E questo parmi che molto probabilmente possa essere lo stato del corpo glorioso in quei momenti, ne' quali cessava dal rendersi sensibile esternamente; ne' quai momenti, sebbene non feriva i sensi organici degli Apostoli e de' discepoli, non continuava meno per questo ad essere congiunto coll' anima di Cristo, nè meno continuava ad essere in quest' anima il sentimento del corpo al quale era unito (1). Or sebbene un corpo perda la sua estensione oggettiva [estrasoggettiva] cioè rattenga l' atto di quella forza che il fa operare sugli altri corpi; non perde per questo, come osserva ottimamente il Bellarmino, la stessa facoltà di operare all' esterno (2): di che viene che questa facoltà, nel caso de' corpi gloriosi, possa or porre l' atto suo, or raffrenarlo, e così or apparire visibile, or invisibile, ora tangibile ed ora intangibile. Ma or applichiamo questa dottrina intorno all' estensione al modo onde il corpo di nostro Signore si trova nell' Eucaristia. Primieramente un corpo umano, il quale conservasse l' estensione soggettiva, sarebbe in uno stato il quale sebbene relativamente al soggetto senziente esisterebbe come prima, avrebbe le stesse dimensioni e ogni parte fuori dell' altra; tuttavia relativamente a' corpi esterni sarebbe intieramente come se non fosse, non avrebbe ad essi alcuna abitudine nè di luogo, nè di azione, cioè di quell' azione che costituisce l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] od esterna . Ora questo farebbe intendere quello che dice S. Tommaso, che il corpo di Cristo si trova nell' Eucaristia illocalmente , cioè non come una quantità dimensiva; ma come una sostanza (1). Perocchè la sostanza del corpo si mantiene, quand' anco ella non si commisuri a un luogo cioè al suo spazio esterno, la qual commensurazione di S. Tommaso viene a corrispondere a quella che noi chiamiamo estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] (2). Sebbene però S. Tommaso insegni che il corpo di Cristo non è in questo Sacramento sì come in luogo, quando anzi non vi potrebbe stare in tal forma, conciossiachè il luogo che presta questo Sacramento al corpo di Cristo è molto più ristretto della dimensione propria di esso corpo di Cristo; sebbene insegni pure, che il corpo di Cristo non sia in questo Sacramento per modo di quantità dimensiva, nè circoscrittivamente; tuttavia il santo Dottore aggiunge, che, se non in forza del Sacramento, tuttavia per ragione della reale concomitanza si trova altresì nell' Eucaristia tutta la quantità dimensiva del corpo di Cristo. Ora egli sembrano queste cose apparentemente contradditorie; giacchè se si adduce per ragione del non essere il corpo di Cristo nel Sacramento come in luogo, quell' essere il luogo del Sacramento assai minore del corpo stesso di Cristo (3), una tal ragione vale per escludere la quantità dimensiva assolutamente, o per virtù del Sacramento, o concomitante. Ma l' angelico Dottore agevolmente si concilierebbe seco medesimo, ammettendo la distinzione suggerita dal Bellarmino, e intendendo che il corpo di Cristo è privo nel Sacramento della quantità dimensiva esterna , ma non della quantità dimensiva interna e a lui essenziale . Or questa, essendo essenziale al corpo, dee esserci in virtù del Sacramento; quella non abbisogna che vi sia se non virtualmente , e però in conseguenza della naturale concomitanza dovrebbe esservi, ma per un modo portentoso soprannaturale vien ritenuta indietro, rimanendo la potenza e non l' atto. O pure può distinguersi nella quantità dimensiva interna, la determinata misura di questa, e intendere che per concomitanza è questa determinata misura che si trova nel Sacramento, non una quantità dimensiva interna qualunque, che pur vi dee essere, come elemento della corporea sostanza. Ma qui comincia tosto a manifestarsi una difficoltà. Se il corpo di Cristo è al tutto privo della estensione oggettiva [ estrasoggettiva ], egli non ha più alcuna relazione cogli altri corpi, o co' luoghi che occupano; come dunque si dirà che il corpo di Cristo sia sotto le specie del pane e del vino? come si dirà ch' egli, se non è circoscritto dalla propria estensione oggettiva [estrasoggettiva] sia però circoscritto dalla estensione esterna e oggettiva [estrasoggettiva] del pane e del vino stesso? (1) non però che quella estensione sia un suo accidente, ma sì il limite del luogo entro il quale egli si trova. Insomma come manca l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del corpo di Cristo, così rimane l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del pane colla quale il corpo di Cristo ha quelle relazioni che aveva il pane prima della transustanziazione, fuor solo che il pane era il soggetto di quella estensione sensibile, quando tale non è il corpo di Cristo. Come dunque si spiega questa relazione, quando la quantità che conserva il corpo di Cristo è al tutto priva di relazione a corpo estraneo o a luogo alcuno? (2). .......... La base del Cristianesimo è il dogma del peccato d' origine. A redimere l' umana famiglia dalla perdizione, in cui l' ebbe rovesciata la disubbidienza del padre suo, disubbidienza da S. Agostino detta « ineffabiliter grande peccatum (1), » il Figliuolo di Dio si fece carne e fu crocifisso. Egli illuminando gli uomini ciechi a conoscere Iddio, e donando loro i mezzi co' quali sollevarsi all' eternal beatitudine, fondò il Cristianesimo. Laonde fu sempre riconosciuto, che l' attentato di distruggere il dogma del peccato originale mira a distruggere tutta intera la cristiana religione; la cui causa, come disse divinamente S. Agostino, si racchiude in due uomini, Adamo e GESU` Cristo. A malgrado tuttavia dell' importanza di questo dogma dell' originale peccato, furon sempre, non solo tra gli infedeli, ma tra i cristiani altresì, alcuni che l' attaccarono, e mossero ogni pietra, ogni ingegno adoprarono affin di distruggerlo. Se cercasi la cagion di una guerra così incessante contro tal verità, la cui tradizione conservossi da tutti i popoli, conviene rinvenirla nella stessa importanza principalissima di quel dogma; contro al quale il demonio fa gli sforzi maggiori; perchè bene intende che smossone il fondamento, l' edifizio, per magnifico e solido ch' egli sia, precipita da sè stesso; onde così lusingasi di crollare agevolmente tutta intera la cristiana religione solo che gli riesca di levarle di sotto il primo fondamento, sul quale ella si erige, quello dell' originale infezione. Tale è l' intendimento costante dell' inimico dell' uman genere, e di tutti i suoi figliuoli. Al quale empio divisamento del primo autore del male apparecchia poi il camino l' umano desiderio di conoscere, e la limitazione ed infermità della mente e la manchevolezza dell' umana virtù; onde l' uomo si appiglia più presto al partito di affermare il falso, che di confessare la propria ignoranza, e piuttosto di dire a sè stesso di non vedere, imagina de' vani fantasmi e dice di vedere. Laonde essendo il peccato di origine uno de' veri i più misteriosi, a tal che ebbe a scrivere S. Agostino: [...OMISSIS...] ; niuna maraviglia è, che gli uomini ripugnino ad aderirvi; come ripugnano sempre a credere quello che non intendono, e che per tante vie eglino tentassero di spacciarsene col proprio ragionare, quanti erano i nodi che vi rinvenivano al loro debol pensiero insolubili. L' uomo in una parola ristretto alle forze della sua mente e dalla grazia non sollevato più su, è agevolmente razionalista; agevolmente ei si persuade di dover ritrovare nella forma della propria ragione ogni scibile. Quest' è il fonte da parte della natura umana degli sforzi fattisi in tutti i tempi affin di distruggere il dogma del peccato originale. Non tutti però quelli, che all' annullamento di questo primo dogma della Religione diedero opera, ebbero egualmente coscienza di tentare con ciò un' impresa criminosa. V' ebbero in prima di quelli, che dichiarandosi di professare il Cristianesimo e d' ammettere tutte le verità rivelate, negarono in pari tempo colle parole e co' concetti loro il peccato d' origine. Furono condannati dalla Chiesa; e dall' istante che la Chiesa definì esplicitamente il vero, e dannò quella loro dottrina, la coscienza del delitto che comettevano, rimanendo pertinaci in tale errore, non potea più loro mancare. Ma il dogma del peccato d' origine non ebbe solo a nemici quegli eretici manifesti. L' astuzia del diavolo primo autor suo, e il razionalismo a cui l' uomo spesso, come dicevamo, si lascia guidare, non cessò mai di dare in lui de' secreti morsi. Ed ecco in che modo si venne a questo dogma pregiudicando, fino a distruggerlo interamente co' concetti, nel tempo stesso che lo si confessava colle parole . Le varie difficoltà, che alla ragione dei singoli uomini presenta il peccato d' origine si vollero ad ogni costo superare. E certamente sarebbesi prestato un servizio grandissimo alla stessa religione coll' appianare quelle apparenti difficoltà. Laonde molti vi lavorarono intorno a buon fine, e con animo reverente e sommesso al sentir della Chiesa; di che nacquero le diverse scuole teologiche, che convenendo tutte in quello che trovavano dalla Chiesa chiaramente ed espressamente definito, e sempre pronte a condannare quel che fosse per condannare la Chiesa, e a difendere quello che la Chiesa fosse per definire; giustamente si meritarono egual protezione dalla Santa Sede, che non di rado con divina sapienza e moderazione difese la libertà di ciascuna, a niuna d' esse permettendo di condannare le altre con quell' autorità che sol si compete al supremo apostolico Magistero. All' opposto ingiustamente gli empi e i profani straziarono le cristiane Scuole, traendone cagione dalle differenti opinioni in cui si dividono. Conciossiacchè la divisione nelle mere opinioni non toglie l' unità concordissima della fede, nè pregiudica necessariamente all' intima carità, la quale semplifica i cuori coll' identità di ciò che cercano tutti, benchè per vie diverse, la verità; e di ciò che tutti amano e per cui tutti egualmente i veri teologi di qualsivoglia Scuola lavorano, Iddio. All' incontro quello sforzo di arrivare allo stesso fine per varie strade, giova non poco alla scienza; che di varie considerazioni, quasi di raggi da diverse parti riffettenti e convergenti, s' illustra. Che se si volessero le ragioni indagare del diverso opinar delle Scuole, forse questa si troverebbe esser una: l' essersi una Scuola allarmata maggiormente di uno degli estremi errori, e un' altra l' essersi maggiormente allarmata d' un altro; onde ciascuna, volendosi provvedere e cautelare principalmente in contro a quell' errore che più prese a temere e a combattere, s' appigliò a quelle sentenze e a quelle espressioni, che dall' odiato errore più le paresser lontane. Di che ben può dirsi, che l' emulazione che mostraron fra loro queste Scuole fosse una cotal gara a chi meglio evitasse gli scogli degli errori e la purezza della dottrina intemerata conservasse. Le quali cose affermando, io non ignoro però, nè dissimulo a quali sconvenevoli modi, a quali imputazioni calunniose si lasciassero talor andare i disputatori, con tanto dolor de' fedeli, e troppo n' ho provato io stesso l' aculeo; ma dico essere questi peccati degli uomini e non delle Scuole, i quali furono già da me nei due libri precedenti sufficientemente ripresi e lagrimati. E però in quest' ultimo reputo tali increscevoli difetti umani lasciar da parte; e della sola dottrina storicamente venir ragionando, senza badare se con modi o decenti o sozzi dagli scienziati ella si maneggiasse. Laonde senza dubitazione ripeto, essere le Scuole tutte della Chiesa cattolica in sè stesse commendabilissime, benchè sieno in opinare diverse; conciossiacchè tutte fanno finalmente una guerra incessante agli errori; benchè non tutte guerreggino gli errori stessi egualmente, ma l' una più questo, e l' altra più il suo opposto. Così, per tornare a noi, nel definire in che consista l' essenza del peccato originale, una Scuola si pose maggiormente in guardia contro all' errore di annientare questo peccato, per non rendersi in quanto a' concetti simile alla setta eretica de' Pelagiani, poco giovando di confessarne nudamente l' esistenza, a chi ne annulli l' essenza; un' altra per lo contrario vegliò contro l' errore opposto, che è quello di collocare il peccato colpevole e demeritorio in qualche cosa indipendente dalla libera volontà, per non accompagnarsi alle sette eretiche de' Calviniani, de' Bajanisti e de' Giansenisti. E chi non dovrà lodare questo studio di evitare e di combattere gli errori opposti dalla Chiesa proscritti? Or non si dee egli dire giustamente, che lo spirito di queste Scuole benchè varie, è finalmente uno solo e il medesimo, se tutte contendono a questo solo, di mantenere intatta la purità della fede? Dividansi adunque, come dicevo, dalla tendenza inerente alle varie Scuole cristiane, la quale è lodevole, i difetti de' singoli uomini, che di esse Scuole si dichiararon campioni; e non s' incarichino le Scuole stesse di questi umani difetti; perocchè non sono essi essenziali alle Scuole, anzi dallo spirito di esse naturalmente son condannati. Colla quale distinzione rimangono le Scuole cattoliche a pieno giustificate; nè ciò, in cui peccarono gli scrittori, benchè non possa a meno di registrarsi nell' istoria delle teologiche discussioni, dee recar ombra alcuna alla gloria delle Scuole medesime, ma solo dar materia di compatimento in verso gli erranti, e servir d' esempio funesto da doversi diligentemente evitare. Che anzi se cotesti difetti trapassano certo segno, quelli che se ne rendon colpevoli, già per ciò solo non appartengono più a campioni delle Scuole cristiane; rifiutandosi queste di riconoscere per loro seguaci coloro che eccedono di sì grave foggia. Perocchè distinguansi tre maniere di peccati, in cui avviene che incappano i difensori dell' una o dell' altra sentenza. La prima sono le maniere ingiuriose che usano contro quelli che opinano da lor diverso; e di questo ho già sopra toccato. La seconda sono le calunnie che gli opinanti reciprocamente s' appongono. Della quale sconcezza, ecco la cagion principale. - Una Scuola, dicemmo, si mette principalmente in sospetto d' uno degli errori estremi proscritti dalla Chiesa: un' altra si mette in sospetto principalmente dell' errore opposto. Indi sorge agevolmente in fra le Scuole una cotale diffidenza; perocchè l' una Scuola non vede che l' altra si allontani tanto da confini dell' errore da essa più aborrito, quant' ella studia di tenersene lontana. Indi una cotal vigilanza de' campioni d' una Scuola, in su' campioni dell' altra tutt' intenti ad osservarsi scambievolmente, se forse chi diversamente opina porga il piede un cenno più là della linea del giusto confine, vicino al quale egli cammina, per sorprenderlo in fallo, ed avvisare il pubblico dello sdrucciolo, se così incontra, sicchè non ne soffra danno la fede. Ma talora l' accusatore, non ne sa abbastanza, od ha l' occhio traballante per umane passioni; ed allora gli avviene, che invece d' accusare, calunnia il suo confratello, che gli pare trascorso, quando pure di quà dal limite ancor si tiene. Onde nel secolo scorso principalmente, non pochi Molinisti furono ingiuriosamente denunziati per Pelagiani ; ed a non pochi Agostiniani o Domenicani s' appose in quella voce, ingiuriosamente del pari, la taccia di Bajanisti e di Giansenisti , con gravissimo scandalo e rumore de' fedeli. Ma la sapienza e giustizia dell' Apostolica Sede venne in soccorso degli ingiustamente vituperati e difese la giusta libertà di opinare, finchè i teologi si contenessero entro la sfera delle scolastiche opinioni, fuor d' essa non punto disorbitando. E questa è la terza maniera appunto di peccati, a cui posson trascorrere; il disorbitar voglio dir da' limiti delle Scuole, talmente impaurendosi d' un errore, di quell' errore che la Scuola maggiormente e più direttamente impugna, da non guardarsi poi abbastanza dall' errore opposto, e inavvedutamente cadervi. Ora io dicevo, che se un campione dell' una o dell' altra delle Scuole, ammesse nella Chiesa cattolica, traboccasse così fattamente nell' errore, questi oggimai cesserebbe dall' esser campione della sua Scuola; perocchè ognuna delle Scuole cattoliche egualmente proscrive gli errori tutti dalla Chiesa proscritti, nè niuna d' esse riconoscerebbe per suo l' errante, quando d' errore, contro una chiara definizione della Chiesa, fosse convinto. Laonde nella mia Risposta ad Eusebio, io dissi, che invano egli sarebbesi lusingato, che una delle Scuole cattoliche gli venisse in aiuto: conciossiachè s' ella è Scuola cattolica non può in alcun modo dar braccio all' errante (1). E però in quello che fin qui io scrissi intorno al peccato d' origine, non ho inteso punto di condannare alcuna opinione tollerata e nelle Scuole difesa; ma solo un' opinione così fattamente esagerata e sformata, che, quanto a me sembra, ella già non può più appartener ad una Scuola cattolica di vero nome, ma solo al novero degli errori. Tale io considerai la sentenza, che« l' essenza del peccato d' origine consiste unicamente nella privazione, in cui nasce l' uomo, della grazia santificante, e che l' uomo ora delle naturali sue forze e facoltà sia provveduto tanto perfettamente quanto sarebbe, se fosse stato creato in questo stato di pura natura, che la Chiesa ha dichiarato, contro Bajo, possibile«. Agli occhi miei questa sentenza contiene il concetto stesso dell' eresia pelagiana; salvochè i difensori moderni di essa si dichiarano sottomessi alla Chiesa; dichiarazione che dovendovi supporre sincera, dimostra che essi la credono dall' eresia pelagiana diversa, il che può escusare davanti a Dio le loro persone, non può migliorare la condizione della loro sentenza. Nel che si osservi, che le menti degli uomini per la naturale loro limitazione ed infermità, mantengono anco nelle cose teologiche quella legge medesima che costantemente si manifesta nella storia dell' altre discipline, massime poi di quelle, in cui le passioni e l' animo umano prende gran parte; legge per la quale l' opinione s' incammina verso uno degli estremi, ma giuntavi nel movimneto suo progressivo e trapassatolo, ritorna indietro, ed all' estremo opposto s' incammina, che pure incautamente trapassa; per oscillar poi di bel nuovo fra i due errori contrarii, rimanendo sul territorio della verità quel tempo che abbisogna a percorrere il cammino intermedio, sia in una, sia nell' altra direzione; ma rompendo interamente e manifestamente all' errore nel fornire del viaggio, quando ella è già tanto andata da trovarsi nell' assurdo così addentro da non poterne più disconvenire e da vergognarsene ella medesima. La qual legge presiede sì fattamente all' incessante moto della mente umana, che nulla vi si sottrae fuor che la divina fede; la quale è immobile come la verità, nè tale ella sarebbe, se fosse sol' opera dell' uomo e non dono di Dio. Laonde havvi questa differenza fra quelli che nella fede teologica dimoran costanti, e quelli che ne van privi o che l' abbandonano; che le menti di quest' ultimi oscillano perpetuamente da uno all' altro estremo errore in ogni cosa; là dove le menti di que' primi si stanno ferme nel vero definito per cosa di fede, e solo oscillano in quelle cose circa le quali l' opinare è permesso. Ma poichè come si dànno de' veri credenti, così si dànno altresì di quelli che cedono alla naturale pendenza dell' inferma e breve loro ragione, anche quando questa li preme e sollecita a distaccarsi dalla fede; così parlandosi dell' università degli uomini, noi possiamo agevolmente additare quella legge come seguita nelle materie sia sol filosofiche, sia anco teologiche. La qual legge è il filo conduttore nel labirinto de' pensamenti umani, troppo necessario a conoscersi da coloro che tolgono a narrare le vicende delle scienze e delle dominanti opinioni; nè tuttavia guari ancor conosciuto da tali istorici. Che se noi ci restringiamo a considerare quai pensieri fece sollevare nelle menti lo spettacolo dell' umana perversità, ci sarà facile rinvenire i due estremi, tra di cui quelli andarono vibrandosi, i quali sono stati, volendo noi designarli con due vocaboli, il fatalismo ed il razionalismo . Definiremo in questo senso il fatalismo quel sistema che toglie a spiegare il male morale ricorrendo a una causa qualsiasi in esclusione della libertà umana: gli uomini fino che trovansi sotto il dominio di questa opinione fanno uno scarso uso del proprio ragionamento; e piuttosto aspettano e vogliono ricevere ogni lume direttamente dalle nature invisibili e superiori, quasi da maestri d' infallibile autorità, e da signori d' insuperabile potenza. L' intelligenza in tale stato è contemplante, la volontà non delibera: segue impetuosamente la propensione. Definiremo all' incontro il razionalismo per quel sistema che a spiegare il bene ed il male morale non ricorre che alla sola ragione e alla libertà. L' uomo cade in tale opinione, quando prima sente con vivezza il proprio sviluppo: lo sorprendono i passi che fa la propria ragione, e lo svolgimento impensato della sua attività è tale che lo inebbria di sè stesso: allora crede d' esser capace di tutto, di poter saper tutto, e di rendersi da sè stesso indipendente da chichessia, o perverso o virtuoso. Il mondo orientale presenta massimamente il dominio del primo sistema; ma la Grecia, la ragione greca, l' attività greca fa comparire in iscena il secondo. Nè questa doppia tendenza dell' umana mente potea distruggersi col sopravvenire del Cristianesimo, perocchè l' uomo non si distrugge; e quella doppia tendenza è una legge costitutiva della umanità. Nella Chiesa adunque videsi lo stesso alterno movimento delle menti: una tendenza al fatalismo (nel senso detto) fino a precipitarvisi; ed una tendenza al razionalismo , fino parimenti a rimanere dal suo vortice assorbiti. Ma di presente, si dimanderà, a quale stadio sono pervenute le menti? verso quale de' due errori camminano? e però qual de' due è oggidì più pericoloso alla fede? Non è difficile il rispondere a queste domande: perchè la cosa è patente; non havvi uomo di buon senso al mondo, che non vegga il male del secol nostro essere il razionalismo , come ho già altrove detto. Ma giova, che noi veggiamo per quali vie poi siamo venuti a questo nostro periodo di tempo; e perciò che tocchiamo della storia degli accennati due errori, a quel modo e in quelle forme, delle quali vestiti essi sursero nel seno stesso della Cattolica Chiesa. All' epoca in cui nacque il Cristianesimo, il fatto umanitario, che riscosse l' attenzione più profonda, fu quello della corruzione dell' uomo. Tutti i secoli e tutte le nazioni concordemente attestavano, che l' uomo soggiace al male non meno morale, che fisico, dal dì che nasce. Questo fatto, da nessuno chiamato in dubbio, volevasi pure spiegare. Il Cristianesimo si presentava appunto al mondo promettendo di sciorre l' enimma. Quelli che si dipartirono dalla spiegazione cristiana produssero le prime eresie (1). I primi di costoro furono de' filosofi Samaritani, Dotiseo, Simone, Menandro; e il fecero in modo che detrassero alla libertà umana: era il sistema orientale del fatalismo. Così il mago Simone non solo considerava l' uomo come soggetto alla tirannide degli Angeli, ma era altresì cotanto alieno dall' imputare la virtù e il vizio all' umana libertà, che egli attribuiva all' opera degli angeli malvagi la persuasione messasi fra gli uomini, che v' abbiano delle buone e delle cattive azioni, degne le prime di ricompensa, le seconde di castigo. Insegnava che niuna azione è buona o rea di sua natura, e che si salvavano gli uomini solamente per la grazia che usciva da lui, non pe' meriti loro (2). L' opinione che attribuiva la creazione del mondo, ed il male a cui l' uomo soggiace, agli angeli, uscita da Samaria, fu propagata nella Siria dall' antiocheno Saturnino, e nell' Egitto da Basilide, entrambi discepoli del Samaritano Menandro. Saturnino aggiunse, creato il mondo da sette angeli, un de' quali essere il Dio degli Ebrei. Basilide e il suo contemporaneo Carpocrate erano d' Alessandria, cioè di quella città dove s' erano unite insieme le tradizioni orientali, le dottrine ebraiche, specialmente mediante la versione in greco de' libri sacri, e le dottrine di Platone; da' quali tre elementi risultava la Scuola di Alessandria. Quindi la dottrina intorno agli angeli come creatori del mondo e autori di tutto il male, vestì in mano di questi due eresiarchi delle forme più filosofiche, e propriamente platoniche : gli angeli ebbero delle genealogie: il mondo fu creato dagli angeli inferiori, il capo de' quali era il Dio degli Ebrei (1). Convien però osservare che in Platone s' eran riunite le due filosofie di Pitagora e di Talete, la tradizionale e la razionale, l' orientale e la greca (2); e che la scuola alessandrina, essenzialmente orientale, avea dal filosofo greco ritolto, per così dire, quello che egli stesso avea tolto all' oriente, assai più che quello ch' egli avea posto di greco e di razionale ne' libri suoi. Laonde la filosofia alessandrina7greca in alcune forme ed espressioni è veramente orientale nel fondo e nella sostanza (1). Cerdone fece fare un passo innanzi all' erronea dottrina de' nominati eretici. [...OMISSIS...] Questi eretici attribuirono agli angeli la creazione del mondo e l' origine del male. Con Cerdone già appariscono i due principii supremi, l' uno del bene e l' altro del male, chiaramente espressi: il principio del male è lo stesso angelo creatore de' precedenti eresiarchi, da lui convertito in un Dio. Il Massuet, dopo avere accennate le dottrine di Cerdone, dice: [...OMISSIS...] . Marcione che gli fu discepolo insegnò la stessa dottrina de' due principii, e via più sviluppolla, via più depravandola. Perocchè se Cerdone avea detto che quel Dio a cui era dovuta l' origine della legge e de' profeti non era buono, confessava però che era giusto; ma Marcione, dice S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Tertulliano di Marcione scrive così: [...OMISSIS...] , donde vedesi, come appoggiava all' autorità delle Scritture inspirate l' empietà dei due principii. E poichè il disordine della carnale concupiscenza è quel sintomo patentissimo dell' umana corrotta natura, che più colpì le menti de' popoli e de' pensatori; perciò quindi appunto venivano a detrarre gli eresiarchi che nominammo, alla bontà del Creatore, perchè il supponevano autore della concupiscenza, la reità della quale rifondevano nella pravità della materia, di cui il corpo umano componesi, e questa concupiscenza disordinata, in cui sentivano il male insito alla natura, traevali ad odiare le nozze, e a molte altre strane e nefande empietà (4). Taziano (5), Bardesane filosofo cristiano d' Edessa (6), Apelle (7), Zarane (.), ed altri abbracciarono gli stessi errori già grandemente diffusi nel secondo secolo della Chiesa. Nello stesso secolo Sciziano (1), il suo discepolo Terebinto (2), divennero i maestri del persiano Manete, la cui nascita sembra doversi collocare nel secolo terzo non molto inoltrato (3). Con Manete la mente umana giunse a toccare quest' ultimo estremo errore che toglie a spiegare il fatto dell' esistenza del mal morale mediante una necessità di natura: il sistema del necessitismo fu compiuto, ebbe forme sistematiche e certe: non gli mancò che di propagarsi e radicarsi: perocchè ogni sistema suol sempre avere due periodi oltre a quelli del decadimento; nel primo de' quali vien formandosi sì quanto al concetto e sì quanto alle forme determinate e alle espressioni tecniche; nel secondo poi vien diffondendosi e stabilendosi nelle menti. Ora il sistema che del male formava una propria natura e sostanza compì, come dicevo, il suo primo periodo in Manete, che perciò appunto divenne il più celebre degli eretici che avevano insegnato un tale errore, e quello che gli lasciò definitivamente il suo nome. Laonde S. Cirillo Gerosolimitano dice acconciamente: [...OMISSIS...] . L' errore di Manete è manifestamente distruttivo della libertà; conciossiacchè per ispiegare l' esistenza del mal morale si dimentica al tutto di questa causa, e ricorre ad un principio eterno che è quell' immaginata sostanza del male, onde riman sottomesso, come osserva S. Agostino, Iddio stesso alla necessità del peccato: [...OMISSIS...] . Dalla qual maniera di fatalismo invano cerca il Beausobre (1) di purgare cotesti eretici; perocchè quantunque accordassero la libertà all' uomo nella stato d' innocenza, tuttavia lo stesso peccato originale, e per esso la perdita della libertà, viene da essi al malo principio e non alla libertà umana come a causa riferito: [...OMISSIS...] . Onde non considerano la concupiscenza come il segno della viziata natura e come un accidente di questa, ma come una cotale sostanza intrinseca rea. [...OMISSIS...] Di che avviene, che la concupiscenza, secondo questi eretici, non è un vizio che si sani, come diciam noi cattolici, ma è una sostanza sola che si separa, e sanno ancora, quegli acuti ingegni, ch' ella prenderà poi alla fine una forma rotonda come in igneo globo racchiusa! [...OMISSIS...] Tale è la teoria manichea portata alla sua perfezione. Questa dottrina fu sempre condannata dalla Chiesa come contraria alla rivelazione: fu anche sempre riprovata dalla ragione, alla quale non fu difficile il dimostrarla generatrice di assurdissime conseguenze. Ma per confutarla non ragionando dall' assurdo, ma dall' erroneità intrinseca del principio dal quale moveva, egli era necessario sci“rre la grande questione dell' origine del male, sulla difficoltà della quale insistevano i Manichei (1). Ora il chiaro ed ineluttabile scioglimento d' una questione sì ardua deesi a S. Agostino. Questo Padre dimostrò chiaramente che il male non è alcuna sostanza, ma solo un' accidentale privazione, e che la sua possibilità giace nella limitazione inerente alle creature tutte (2). Con questa filosofica scoperta l' eresia dei Manichei fu atterrata nel suo principio: fu annullata in teoria per sempre. Ma come accade che l' errore abbia i due periodi accennati della formazione e della propagazione ; così parimente la teoria vera, che contrapposta alla teoria erronea per diretto e per intero l' annulla, ha pur essa i medesimi due periodi dell' invenzione o formazione cioè e della propagazione e convalidazione: e il secondo di questi suol riuscir lungo, allorquando trattasi d' una questione difficile, in cui suol esser più facile intendersi la proposta che la soluzione; come avvien pure di quella del male. Perocchè egli è agevol cosa l' accorgersi che la natura del male difficilmente si scuopre; ma si richiede poi sottile ingegno a ben penetrare com' essa sia una privazione, un accidente della natura che riman priva di ciò che alla sua interezza è richiesto. Di che si spiega come il trovato nobilissimo di S. Agostino che dimostrò il male essere cosa negativa, benchè recidesse la radice della manichea pravità e assicurasse per sempre il trionfo del vero; tuttavia non potè trattenere il Manicheismo dal suo corso, sicchè egli non compiesse il suo secondo periodo, quello della propagazione. Al qual corso venne in aiuto l' ignoranza e barbarie de' tempi di mezzo, ne' quali la società degli uomini ebbe abbandonata quasi del tutto la contemplazione de' veri teoretici, per la vita pratica e bellicosa; sicchè troppo dovea esser difficile in quella notte il sollevarsi fino alla specolazione del dottor d' Ippona intorno alla natura ed origine del male. Io trascriverò qui, acciocchè si vegga di che vita tenace fu l' errore dei Manichei, cominciato co' primi eresiarchi che insorgessero a infestare la Chiesa, voglio dire da Dositeo e Simone, anche dopo che fu teoreticamente distrutto da S. Agostino, quanto si legge nel dizionario delle Eresie stampato dal Contin in Venezia (1) intorno al secondo periodo, che è quello della propagazione, come abbiam detto, di questa eresia. [...OMISSIS...] Tale è la storia del necessitismo apparito sotto questa prima forma de' due principii supremi inventati per dar ragione dell' esistenza del male (1). Veggiamo ora come la ragione umana s' avviò per la via contraria, e giunta all' altro estremo ruppe al razionalismo . Come la prima forma completa che prese nella Chiesa il necessitismo fu l' eresia manichea , così la prima forma completa in cui si manifestò il razionalismo fu l' eresia pelagiana . Se si cercano le traccie di questa eresia nelle antiche opinioni, vedesi d' essa, quello che si vide da noi del manicheismo; cioè ch' essa non si formò già d' improvviso nella mente di un solo individuo, ma cominciata a nascere nelle menti umane fino dalla più remota antichità discese da una mente nell' altra tradizionalmente, s' accrebbe, si sviluppò e finalmente prese il nome da quell' individuo che le diede forma ed espressione determinata e la rese celebre per ostinato conflitto. Richiamisi la riduzione ch' io feci di tutta la storia della filosofia a due grandi Scuole secondo i due metodi tradizionale e razionale: delle quali Scuole furono rappresentanti nell' antichità Pitagora e Talete, l' Italia e la Ionia. Ora la Scuola ed il metodo razionale parve sempre tendere ad escludere le cause soprannaturali influenti sulla volontà umana e però ad esagerare le forze del libero arbitrio (2); onde non senza ragione può rinvenirsi il seme del pelagianesimo nell' elemento razionale dell' antica filosofia. Infatti come l' errore del Manicheismo consiste nell' attribuire il bene ed il male ad una causa al tutto diversa dalla volontà umana e però necessitante; così l' errore opposto, del Pelagianismo, ridotto alla sua ultima espressione, consiste nell' attribuire tutto il bene ed il male morale alla libera volontà dell' individuo in cui esso bene ed esso male si trova; e« in non voler riconoscere che un' anima umana possa venir affetta dal male morale senza che non solo la sua volontà, ma la sua libera volontà vi incorra, sicchè dipende interamente dalla libertà umana l' essere immune da qualsivoglia male morale« e però l' esser giusto. Di che deducevano che non si poteva comunicare il peccato per generazione; non entrando nell' uomo il peccato che per la sua libera volontà; e quindi non potea nascer l' uomo infetto dal peccato d' origine; nè vi potea essere tentazion di peccare così forte, che a vincerla fosse impotente la libertà umana tale quale l' uomo l' ha per natura; alla quale libertà umana riducevano però ogni grazia veniente da Dio. Udiamo S. Agostino ad esporre quest' eresia che sopravenne al necessitismo de' Manichei. [...OMISSIS...] Dal qual luogo chiaramente si vede, che la sostanza dell' eresia pelagiana consisteva nel disconoscere quella specie di moralità buona o malvagia che è nell' uomo non per cagione d' una libera volontà (2), ma per l' influenza che ha sull' umana natura un' altra causa, o rea e introducente nell' uomo il peccato, o buona e introducente nell' uomo la giustizia e la santità; benchè la causa rea non sia il principio cattivo de' Manichei, ma sia il guasto della natura umana, effetto della libera volontà del primo uomo quanto all' origine sua, ma quanto alla comunicazione agli individui che si riproducono nell' umana specie, effetto necessario dell' umana generazione. La causa poi che introduce nell' uomo la moralità buona, la giustizia e la santità, e che non è la libera volontà dell' uomo stesso, altro non è che Iddio stesso che comunica la sua grazia anco a quelli che non sono pervenuti ancora al libero uso delle loro potenze e con essa li santifica, come avviene co' Sacramenti amministrati agli infanti. Il principio adunque e tutta la sostanza della pelagiana eresia consiste in questa proposizione:« Ogni moralità buona o rea d' un individuo umano ha per causa la sua libera volontà, fuor della quale non vi ha altra causa che possa produrre nell' uomo il male od il bene morale« (1). Da questo principio discendevano i due errori capitali de' Pelagiani: 1. Dunque non esiste il peccato originale, cioè un mal morale che si contrae per generazione; 2. Dunque non esiste la grazia con cui Iddio ci santifica, o ci aiuta a' singoli atti della perfetta virtù, cioè un bene morale che viene dall' azione che Iddio fa nell' anima nostra senza la nostra libera volontà, o in aiuto di questa. Due altri errori dovevano del pari provenire da un tal principio eretico ed empio: 1. Che essendo la libertà dell' uomo sola causa del bene e del male morale dell' uomo, dunque non si dànno tentazioni nè sigolarmente prese nè complessivamente irresistibili; ma l' uomo colla sua libera volontà può vincerle tutte e conservare la giustizia; 2. Che il pregare Iddio perchè ci aiuti a vincere le tentazioni e a praticare la giustizia sia superfluo ed assurdo; perocchè non essendo che la nostra libera volontà la causa del bene e del male morale; dataci questa, Iddio non può far altro, giacchè egli è causa estranea al libero nostro volere, e però incompetente alla produzione in noi, sia in tutto sia in parte, della moralità. De' quali due errori così parla S. Agostino, scrivendo al Vescovo Ilario (2): [...OMISSIS...] . Ora se col solo libero arbitrio dalla grazia non aiutato dalla grazia non si può essere perfettamente giusto, nè vincere tutte le tentazioni; dunque il solo libero arbitrio non è l' unica causa che produca nell' uomo l' ingiustizia e la giustizia, il peccato e la santità: conciossiachè vi ha una causa che trascina in peccato senza che il libero arbitrio possa difendersene, se dalla grazia di Cristo non è assistito; e questa stessa grazia colla quale l' uomo acquista la forza di vincere i suoi nemici pienamente e costantemente s' ottiene quando la si domanda; nè solo Gesù Cristo c' insegnò a domandar questa grazia, ma anche a temere santamente e prudentemente con questa, pregando ogni giorno che tuttavia allontani da noi le tentazioni di peccare: [...OMISSIS...] . Laonde di nuovo espone così S. Agostino la pelagiana eresia: [...OMISSIS...] . Laonde se la carità, che è la giustizia soprannaturale, viene immessa nelle anime nostre non dalla libertà nostra, ma dallo Spirito Santo; egli è forza adunque dire che l' unica causa della moralità buona nell' uomo non è la libertà dell' uomo; ma lo Spirito Santo stesso è anch' egli causa, e prima, della giustizia perfetta e soprannaturale. Onde S. Agostino continua: [...OMISSIS...] . I quali argomenti che S. Agostino arreca contro a' Pelagiani, deducendoli da' testi più ovvii delle divine Scritture, sono efficacissimi. Perocchè se la moralità buona o rea dell' uomo non avesse altra causa che la sua libertà, non sarebbe mai soggetto alla necessità del male morale; e però sarebbe superfluo ch' egli pregasse Iddio che non l' adducesse in tentazione, anzi non vi sarebbe tentazione; perocchè il concetto di tentazione suppone una causa esterna che induca al male. Ma se il male non si potesse operare se non col libero arbitrio, niente vi potrebb' essere, non dico che necessitasse, ma nè pure che inducesse e sollecitasse al male. Giacchè chi è sollecitato al male da altra causa che dalla sua libertà, dee riconoscere una forza traente al male; e quindi non può più fare l' arbitrio causa unica del male. E qui si consideri come il principio indicato, cioè« il libero arbitrio (o sia la libertà che i teologi chiamavano d' indifferenza, e che io chiamai bilaterale) è la causa unica di ogni moralità« trae dietro a sè la conseguenza che« il libero arbitrio può da sè solo operare tutte le virtù che la ragione dimostra convenire all' uomo«. Vero è che pare a primo aspetto che quest' ultima proposizione non sia contenuta nella prima; ma la cosa non istà così. Perocchè la prima proposizione suppone che non vi sia moralità possibile se non è prodotta dal libero arbitrio. Dunque quando la ragione dimostra all' uomo qualche opera morale o di dovere o di sopraerogazione; ella altro non fa che mostrargli un effetto del libero arbitrio. Il libero arbitrio adunque dee essere la causa pienamente sufficiente a compiere quell' azione (o complesso di azioni). Altrimenti nell' uomo vi avrebbe lotta: la ragione dichiarerebbe cosa moralmente buona quella che non sarebbe tale, perchè non sarebbe effetto del libero arbitrio. L' onnipotenza adunque del libero arbitrio per esercitare la virtù ed evitare il male è conseguenza irrepugnabile del principio che« la causa della virtù e della innocenza« è il solo libero arbitrio dell' uomo. Laonde chi dicesse, che« il libero arbitrio è la causa di ogni moralità buona o cattiva«, ma ch' egli tuttavia non può fare certe cose imposte dalla ragione come moralmente buone, e che allora queste cose cessano dall' esser morali; sarebbe costretto a riporre fra' caratteri delle cose moralmente buone non solo l' ordine della ragione, ma anco le corrispondenti forze della libertà: il che s' opporrebbe d' una parte al dettame della ragione, che dichiara assolutamente quelle cose moralmente buone; dall' altra al senso comune degli uomini. D' altra parte il dire in generale che« se la nostra volontà fosse piegata al male necessariamente, il male a cui fosse indotta non sarebbe più male morale«, indurrebbe sempre la conseguenza che non ci dovesse esser più bisogno assoluto che tutti gli uomini pregassero Iddio di rimettere loro i debiti, o di non abbandonarli alla tentazione, ma liberarli dall' inimico. Sia dunque che si ammetta l' una o l' altra di queste due opinioni, o che il libero arbitrio possa sempre da sè solo vincere le tentazioni del male morale, o che, non potendo, cessi il male dall' esser morale; ne viene egualmente che quelle preghiere non sieno necessarie a tutti affatto gli uomini. Perocchè nella prima opinione non sarebbe assurdo trovarsi un uomo che essendosi conservato da sè giusto e volendo tuttavia conservarsi tale, non avesse bisogno nè di pregare per la remissione de' suoi debiti, nè d' invocare la protezione divina contro le tentazioni. Egualmente nella seconda opinione, in cui tutto ciò che avviene per necessità e non per arbitrio si suppone non esser morale: conciossiachè potrebbe quell' uomo usare delle forze del suo arbitrio, senza darsi cura che queste fossero molte o poche, giacchè tutto ciò a cui tali forze venisser meno non sarebbe mal morale, nè egli obbligato perciò ad evitarlo: nè si vedrebbe ragione perchè il Signore avesse ordinato di pregare e adoperare altri mezzi; i quali posto anco che fossero utili, non riuscirebbero però mai assolutamente necessarii per mantenersi innocenti e viver giusti (1). Del rimanente, l' opinione che la causa del bene e del male morale sia la sola libertà umana è essenzialmente gentilesca: gli stoici specialmente l' ebbero pronunciata con tutta precisione (2): dall' una parte gli uomini senza esperienza della grazia divina colla sola natura difficilmente potevano sollevarsi a concepire la possibilità d' un aiuto soprannaturale: dall' altra parte considerando l' uomo speculativamente, come suol fare il razionalismo, e non vestito co' suoi accidenti di fatto, riesce spontaneo il pensiero, che la volontà possa tutto ciò che la ragione le dimostra doveroso; tanto più che la volontà operando sempre spontaneamente non può concepire come essa non possa volere in altro tempo praticamente quel bene che di presente vuole speculativamente, sembrandole che il volere sia sempre cosa presta e alla mano. Così come il Manicheismo nacque all' aspetto dell' uomo com' è di fatto per natura servo del mal morale, il pelagianismo nacque alla considerazione dell' uomo com' è in idea, ordinato e costituito pel bene morale. Gli autori del primo errore considerando esclusivamente il fatto del male pretesero ragionarvi sopra (1), e invece di ragionare immaginarono un' ipotesi vana a cui dieder cieca credenza; agli autori del secondo errore considerando esclusivamente l' essenza dell' uomo senza l' accidente del male, pretesero pure di ragionarvi sopra e ne cavarono l' onnipotenza dell' umano arbitrio al bene ed al mal morale. In origine furono razionalisti entrambi, perchè entrambi, scossa la fede alla Chiesa, s' abbandonarono alla sola ragione; ma i primi v' aggiunsero l' osservazione storica, le tradizioni e l' imaginazione: i secondi, esclusi questi dati, alla sola speculazione, o piuttosto all' astrazione della natura umana s' attennero; e però furono costantemente razionalisti. Questo doppio metodo si trovò sempre mescolato nell' antica filosofia; e però niuna meraviglia che non solo del manicheismo, ma ben anco del pelagianismo sieno stati ripetuti i semi fin da Pitagora. Infatti a Pitagora ed a Zenone S. Girolamo riporta l' eresia di Pelagio (1); e più tardi l' opera del filosofo pitagorico Sesto contribuì non poco ad inserirla nelle menti (2). Nella Chiesa però il razionalismo e il conseguente pelagianismo non appare coi primi eretici: è un' eresia che venne introdotta più tardi dalla filosofia Alessandrina. In Origene si è formulata, espressamente manifestata; benchè questo dottore gittò i semi, certamente senz' accorgersene io credo, del razionalismo , non meno che del necessitismo ; che sono i due sommi generi a cui si possono ridurre le eresie tutte, coll' abbracciare, senza troppa considerazione, i dommi della filosofia pagana, che come vedemmo racchiudeva in sè i principii di quelli opposti errori. Onde l' Imperator Giustiniano nelle lettere pubblicate contro Origene in virtù della sentenza del Sinodo, lettere che il Diacono Liberato (3) dice essere state sottoscritte dal Papa Vigilio e dagli altri Patriarchi, chiamò Origene maestro de' pagani, de' manichei e degli ariani (4); e Teofilo Alessandrino l' appella l' idra di tutte ugualmente l' eresie (5). Ma S. Girolamo il fa specialmente precursore e principe (6) de' Pelagiani, di cui il nomina anche l' amoroso (7). E veramente in Origene non solo v' è il principio di Pelagio, che « del male e del bene morale d' un individuo non siavi altra causa che il libero arbitrio dello stesso individuo«; » ma se ne traggono altresì le conseguenze con logica insistenza. In primo luogo osservo, che se il male morale dipende dal solo libero arbitrio, dunque l' uomo col suo libero arbitrio può essere immune da ogni peccato. Da questa conseguenza nacque, che l' eresia pelagiana fu chiamata «anamartesias,» cioè dell' impeccabilità (.), o per dir meglio il poter non peccare si avvera egualmente sia che si consideri il libero arbitrio come capace di tutto il bene, sia che lo si consideri come debole e di molte cose incapace. Perocchè nell' uno e nell' altro caso l' uomo si manterrebbe giusto usando di quelle forze che ha del libero arbitrio; nè potrebbe essere strettamente obbligato ad accrescere queste forze; perocchè non si dà vera obbligazione, se non d' evitare il vero peccato, e il non far quello che eccede le forze del libero arbitrio non è vero peccato (1). Non solo dunque il cristiano, ma ancora l' infedele può essere in un tale sistema giusto da sè medesimo. - Tuttavia Origene, d' alta mente e seco stesso coerente, dava all' umana libertà tutte le forze necessarie al compimento d' ogni virtù e perfezione; perocchè egli vedeva bene che la virtù e la perfezione è tale per sè, e tale perchè tale viene indicata dalla ragione, anche prescindendo dalla considerazione del potere che s' abbia accidentalmente l' umana libertà. Onde quanto la ragione dimostra estendersi la virtù, tanto egli fu costretto d' estendere le forze dell' arbitrio, sola causa di quella; perchè quella non sarebbe stata virtù, se non fossero state queste forze [tali] da produrla. Indi l' error suo fu chiamato non solo dell' impeccabilità «(anamatesias)» ma ben anco dell' impassibilità «(apatheias)» perocchè dava all' arbitrio fin la potenza di rendersi l' uomo immune da ogni commozione e senso del male (2). In secondo luogo, o convien dire che i demonii e l' anime dannate all' inferno non sono in istato di peccato, ovvero che sono in tale stato pel proprio libero arbitrio, pel quale ci vogliono stare. Ma se lo stato di peccato di tali demonii ed anime dannate è prodotto dall' attuale loro libero arbitrio; dunque non sono costretti di stare in un tale stato, ma col medesimo loro libero arbitrio possono abbandonare il peccato. Indi l' errore d' Origene che negava l' eternità delle pene dell' inferno. Certo Origene così scrive: [...OMISSIS...] . In terzo luogo dovea discendere, che il concetto della grazia dovea cangiarsi: non potea più essere un aiuto che accrescesse le forze della volontà e della libertà, ed anzi l' elevasse all' ordine soprannaturale, e così concorresse a produrre il merito soprannaturale; ma una conseguenza, una mercede del merito stesso. Indi l' errore che la grazia non si desse da Dio agli angeli ed agli uomini gratuitamente, ma secondo i meriti colle proprie naturali loro forze ottenuti, che è il primo de' tre principali errori notati da S. Agostino ne' Pelagiani là dove dice: [...OMISSIS...] . Ora Origene toglie a provare che la grazia venne da Dio data agli angeli ed agli uomini secondo i lor meriti nella citata opera de' principii (2). In quarto luogo, se dal solo merito, effetto della libertà sua naturale, procede, che Iddio comunichi la sua grazia all' uomo, come accade poi che nella Scrittura si legga, che certi bambini non ancor giunti all' uso della riflessione ed all' esercizio della loro libertà, si leggano da Dio santificati, poniamo, un S. Giovanni Battista? - Questa riflessione condusse Origene a imaginare co' Platonici, che le anime abbiano esistito prima de' corpi, e in quella vita precedente abbiano meritato o demeritato. Onde del Battista scrive così: [...OMISSIS...] . Ecco qua come questo uomo riputasse cosa ingiusta che Iddio donasse la santità, senza che il libero arbitrio se l' avesse prima meritata; come appunto poi dissero i Pelagiani. Di che veniva che la stessa unione ipostatica di Cristo dovea essere il conseguente effetto de' meriti dell' anima di Cristo precedentemente alla sua Incarnazione; errore che la mente d' Origene conseguente a sè medesima non si stette dal derivare (4). I Pelagiani da prima il ricusarono; ma la logica invitta di S. Agostino stringendoli (5), nè trovandone alcuna uscita; in fine anche quell' errore contenuto nel principio da cui partirono e che non volevano abbandonare dovetter ricevere. In quinto luogo, scorgesi che l' eresia pelagiana contiene nel suo seno la Nestoriana; perchè supponendo che la persona umana di Cristo avesse meritato l' unione colla divina, induce la sussistenza di quella, epperò le due persone; cosa dal dottissimo Cardinal Noris già acutamente osservata: [...OMISSIS...] . Da' quali errori e da tant' altri che dal principio pelagiano derivano ineluttabilmente, si fa manifesto, che come fu detto a ragione del manicheismo che conteneva nel suo seno tutti gli errori, così S. Girolamo potè scrivere la stessa cosa dell' eresia a quella contraria, cioè del pelagianismo, dicendo di questa, [...OMISSIS...] . Dopo Origene vennero i suoi discepoli, in fra i quali fu forse il più celebre Didimo d' Alessandria. Questi aveano già diffusi gli errori in Oriente, quando ancora non si conoscevano nell' Occidente. S. Girolamo fa precursore del Pelagianismo Evagrio da Ibora, Gioviniano Rufino (1): Orosio aggiunge a questi nomi un Priscilliano (2). Evagrio avea pubblicato il libro dell' imperturbabilità «(peri apiaethas)» bevendo sempre al fonte d' Origene; il qual libro fu fatto conoscere alla Chiesa occidentale dalla versione latina lavorata da Rufino (3). Teodoro Vescovo di Mopsuesta avea pur egli nell' Oriente seminato errori alla pelagiana eresia partenenti (4). Insegnò l' errore che Adamo sarebbe morto, eziandiochè non avesse peccato. Mario Mercatore pretende che un tale errore di Teodoro passasse in Rufino, e da Rufino il ricevesse il monaco Pelagio, che diede il suo nome all' eresia. Perocchè dopo accennato quest' ultimo error di Teodoro così soggiunge: [...OMISSIS...] . Scrisse altresì Teodoro cinque libri contro i Pelagiani, e li intitolò Contra asserentes peccare homines natura, non voluntate , libri che esistevano al tempo di Fozio; il quale ne riporta alcuni brani (6). Il brano seguente dimostra chiaro la mente pelagiana di questo celebre Vescovo. Ecco le parole di Teodoro: [...OMISSIS...] Nelle quali parole si nega la trasmissione del peccato d' origine, e ciò pel solito principio di naturalismo di non riconoscer peccato in un individuo nel quale non sia libera la volontà. Scorgesi essere sfuggita a questi eretici la distinzione fra la volontà che opera spontaneamente, e la volontà che opera liberamente; sicchè, disconosciuta quella e osservata sol questa, parve loro assurdo che dar si potesse peccato dove non era libertà, appunto perchè altra volontà non conoscevano, che la libera. Il vero è che senza volontà non si dà peccato; ma senza libertà sì; e però che l' uomo può essere peccatore per natura, giacchè l' esser peccatore per natura non esclude la volontà, ma solo la libertà; conciossiachè l' essere peccatore per natura, non altro vuol dire se non« l' avere per natura una volontà peccatrice«, ed indocile, o sia difficilmente arrendevole all' ordine della legge. All' incontro questi eretici opponevano la natura alla volontà; quasichè tutto che è natura non potesse essere volontario, e niun mezzo ci avesse fra la mera natura irrazionale e la volontà. L' errore dunque della loro mente, che li travolse nell' eresia si fu non aver osservato che fra la natura irrazionale e la libertà vi è la natura razionale, avente cioè ragione e volontà: intralasciato nel loro calcolo questo elemento, dovettero rovesciare necessariamente o nell' assurdo di ammettere un peccato dove non v' ha volontà, o nell' eresia di negare che i bambini nascono col peccato: per evitare quel primo precipitarono in questo secondo (1). .......... 1. A maggiore dilucidazione della dottrina svolta in questa Collezione di Opuscoli che per la terza volta esce in luce aumentata, e nelle altre opere dell' Autore, specialmente per ciò che riguarda il peccato originale e l' umana libertà, e ad evitare che niuno nè per ignoranza nè per malizia possa attribuirle un significato diverso dal suo proprio e naturale, che è quello dell' Autore medesimo, ci par utile di premettere un compendio della dottrina medesima sciolta da quelle questioni incidenti che sono inevitabili nelle lunghe trattazioni polemiche. 2. E per seguire qualche ordine nel riepilogo che ci proponiamo di fare, parleremo in primo luogo dell' origine e dell' esistenza del peccato originale propagato ne' posteri, di poi della sua natura, in terzo luogo delle sue conseguenze, e finalmente del suo rimedio, indicando i principali errori contro alla fede cristiana intorno a ciascuno de' quattro punti indicati. 3. Dobbiamo però avvertire che essendo tali quattro punti intimamente tra loro connessi, non se ne può rigorosamente e al tutto separare la trattazione. Gli errori infatti che furono insegnati intorno alla natura del peccato originale de' posteri per lo più furono una conseguenza degli errori professati intorno alla sua origine e propagazione, o anche viceversa; e così del pari gli errori che furono spacciati intorno alle conseguenze di esso peccato procedettero dagli errori intorno all' origine e alla natura del medesimo, e quindi pure provennero gli errori circa la maniera e la possibilità di rimediare al medesimo, come meglio apparirà nella stessa esposizione. 4. La causa del peccato in universale è, e non può esser altro, che la libera volontà della creatura (1): [...OMISSIS...] . Chi vuole impugnare una verità così chiara, viene di necessità a cadere nell' uno o nell' altro de' due opposti assurdi, o di far che lo stesso Creatore Iddio sia la causa del peccato (3), o di ammettere il sistema de' Manichei, che insegnavano essere esistiti ab aeterno due principii indipendenti, l' uno buono e causa del bene, l' altro malo e causa di ogni male. 5. Discendendo al particolare, il peccato, a cui soggiacque la creatura umana, entrò da principio nel mondo per la libera trasgressione che del divino precetto fece il primo uomo da Dio creato, stipite di tutta l' umana schiatta. 6. Le funeste conseguenze di questa prevaricazione caddero non solamente sopra di lui che la commise, ma ancora sui suoi figliuoli, poichè colla sua disubbidienza Adamo perdette la santità e la giustizia ricevuta da Dio non solo a sè stesso, ma ancora a noi tutti, e come egli, nostro progenitore, rimase macchiato e incorse nell' ira e nell' indignazione del suo Fattore e soggiacque alla morte che gli era stata minacciata ed alla schiavitù del demonio, deteriorato tutto tanto per riguardo al corpo quanto per riguardo all' anima; così pure in noi sua propaggine, insieme colle penalità del corpo, trapassò lo stesso peccato, che è morte dell' anima. Laonde questo peccato, uno nella sua origine, trasfuso nei posteri divenne proprio di ciascun umano individuo, e in esso lui inesistente, e non restò più alcun rimedio che potesse guarire l' uomo e rilevarlo da un tanto male, se non il merito del solo Mediatore Signor nostro GESU` Cristo. Tale è la dottrina cattolica intorno all' origine ed alla propagazione del peccato originale definita dogmaticamente nella sessione V del Sacrosanto Concilio di Trento. 7. Le principali eresie che insorsero contro questo dogma, fondamento di tutto il sistema della cristiana religione, furono due, che, denominate dai più celebri e più noti loro autori e fautori, furono dette Pelagianismo, condannato da più Concilii, tra i quali dal Milevitano (anno 416) e dell' Arausicano II (anno 519) che ottenne autorità di Ecumenico, e dai Santi Pontefici Innocenzo e Zosimo; e il Giansenismo condannato pure colla Costituzione In eminenti , 6 marzo 1642, di Urbano VIII, e colla Bolla Apostolica Cum occasione , 31 maggio 1653, di Innocenzo X, e di nuovo con quella Vineam Domini Sabaoth , 16 luglio 1705, di Clemente XI, che rinnova le precedenti, e da altre bolle e decreti comunemente noti; e lo stesso pravo sistema era stato già anche anteriormente riprovato e dannato in Baio e in altri dottori. .. Ora che Adamo avesse trasgredito il divino comandamento, e così col peccato della sua disubbidienza incorso nell' ira di Dio, su di ciò non v' ebbe questione n`' coi Pelagiani, nè coi Giansenisti che ammisero questo vero della fede cattolica. Ma tutta la controversia versò intorno alla propagazione del peccato adamitico ne' posteri, e intorno alle sue tristi conseguenze in questi prodotte. 9. Quelli che professavano l' eresia pelagiana negarono, ora espressamente, ed ora copertamente e subdolamente, la propagazione e però l' esistenza del peccato originale nei posteri. Il sistema giansenistico per lo contrario, spingendosi all' altro eccesso, non si contentò di asserire colla Chiesa cattolica che il peccato originale si propaga ne' posteri, ma pretende che trapassasse in questi di più di quello che è necessario a costituire il peccato, e principalmente che nell' uomo, quale nasce in istato di natura caduta, rimanesse in conseguenza del peccato, estinto ogni libero arbitrio, ovvero ogni possibilità di farne uso, per operare un bene morale qualunque, necessitato dalla dominante cupidigia a far sempre il male, senza un aiuto di grazia. [...OMISSIS...] 10. Tutto il fondamento delle dispute che queste due schiere opposte di eretici agitarono tra loro e coi dottori della Chiesa cattolica, era la diversa maniera di concepire la natura del peccato. I Pelagiani ragionavano in questo modo:« Tale è la natura del peccato, che al tutto ripugna che un vero peccato trapassi da un uomo in un altro per via di generazione, senza alcun libero consenso da parte di chi lo riceve«. Sono parole di Giuliano di Eclana appresso S. Agostino: [...OMISSIS...] . Quindi riguardavano come un assurdo la trasmissione dell' originale peccato ne' bambini, e con mille cavillazioni cercavano di torcere ed eludere i luoghi della sacra Scrittura, ne' quali s' insegna questo dogma. I Giansenisti per l' opposto sostenevano, che la natura del peccato non è tale che esiga essenzialmente l' esercizio del libero arbitrio nella persona che vi soggiace, bastando a costituire il peccato quel libero arbitrio che esisteva nel capo dell' umana stirpe, e fin qui non dissentivano gran fatto da S. Agostino; ma mentre il santo Dottore applicava un tale principio a quel solo peccato che era nel tempo stesso e peccato e pena d' altro peccato liberamente commesso, cioè dell' originale (2), essi lo estendevano a tutti i peccati che l' adulto commettesse nello stato di natura lapsa, e sostenevano che [...OMISSIS...] : che è la terza proposizione condannata siccome eretica in Giansenio; e che quindi tutti gli atti degli infedeli, o di quelli che non sono in grazia, e i movimenti involontarii della concupiscenza, fossero necessariamente liberi e peccati, perchè fatti senza coazione, benchè per necessità, venendo tutti informati dalla libertà con cui fu commesso da Adamo il primo peccato. Che anzi la dottrina di Baio intorno alla definizione del peccato andava anche al di là di questa di Giansenio: poichè egli asseriva, che all' essenza del peccato non apparteneva nè pure il libero arbitrio che era in Adamo, nè alcun rispetto ad un' altra volontà qualunque, onde tra le proposizioni condannate come sue si annoverano queste: [...OMISSIS...] vero è che Baio soggiungeva, che quando poi si tratta della questione della imputazione del peccato, allora conviene ricorrere alla volontà che ne fu causa: [...OMISSIS...] . Ma nel rispondere appunto a questa nuova dimanda stabilisce il cardine di tutto il suo erroneo sistema; perchè invece di ricorrere a una volontà libera, come fu quella di Adamo, ricorre alla volontà del bambino stesso, privo ancora di libertà, e la dichiara subbietto capace di imputazione: e ciò perchè non fa un atto contrario, che non è in suo potere di fare. [...OMISSIS...] Onde fu giustamente condannata anche quest' altra proposizione: [...OMISSIS...] . Giansenio dunque avendo forse presente la condanna da cui era stato colpito Baio, ricorse alla libera volontà di Adamo per ispiegare come possa aver condizione di peccato quel de' bambini, così scrivendo: [...OMISSIS...] dove si vede che Giansenio rifugge a una volontà, e propriamente alla volontà libera di Adamo, per conservare al peccato originale la ragione ossia la natura di peccato , mentre Baio, ricorre alla volontà del bambino per ispiegare l' imputazione e non la ragione di peccato, per la quale egli accumulando errore sopra errore, non esige l' intervento di alcuna volontà nè libera nè necessitata, nè di quella di Adamo, nè di quella del bambino. 11. Questa breve esposizione intanto basta, acciocchè apparisca, come la questione suscitata da' Pelagiani intorno alla propagazione e all' esistenza del peccato originale nei posteri, si ridusse tutta in quella della natura e della definizione del peccato , e dell' applicazione di questa definizione al peccato che, secondo il dogma cattolico, l' uomo eredita per via di naturale generazione dal primo padre che prevaricò colla disubbidienza al divino precetto, e come questo fu il punto fondamentale, sul quale si accese la controversia sia tra i Pelagiani e i Giansenisti, sia tra queste due eresie opposte, e il cattolico insegnamento. Su di che si possono fare le seguenti considerazioni: a ) Che la controversia prese il carattere di questione filosofica: poichè è proprio del filosofo l' investigare le definizioni e la natura delle cose; e conviene infatti ricorrere all' osservazione e al raziocinio filosofico per iscoprire la natura della volontà umana e i suoi diversi modi di operare, la natura dell' obbligazione morale, del peccato, ecc.. Onde Pelagio ricorre sempre per difesa del suo errore alla filosofia di Aristotile (1). b ) Che qui si trova pure la ragione per la quale S. Agostino dica del peccato originale: [...OMISSIS...] . Per colui che crede alla cattolica Chiesa cessano tutte le difficoltà, e non c' è verità che sia più nota, per la predicazione de' sacerdoti, dell' originale peccato. Ma se taluno desidera di avere di questo peccato, oltre le fede, anche l' intelligenza, allora trova che esso è molto secreto e difficile a penetrarsi, perchè conviene di necessità che la mente di un tal uomo entri nelle più difficili e sottili ricerche filosofiche intorno alla natura intima dell' umana libertà e delle sue relazioni col bene e col male morale, da cui solo si ritrae la natura di ciò che è retto ed onesto, e di ciò che è male e peccato. E i Dottori stessi della cristiana fede furono spinti nel campo di tali ricerche dalla necessità di ribattere e di confutare le eresie, che, malamente filosofando sulla natura del peccato originale, o tentarono di distruggerlo e di dichiararlo impossibile come i Pelagiani, o ne esagerarono e sformarono così fattamente la natura, che il peccato originale che ammettevano non era più quello che la Chiesa proponeva a credere ed annunziava ai popoli per la predicazione, il che fecero i Giansenisti. c ) Che questo pure dà ragione del perchè non vi ebbero forse altre sette che fossero tanto sottili e cavillose e così ricche di scaltrezze e di effugii come queste due de' Pelagiani e de' Giansenisti, perchè nelle materie di raziocinio filosofico, massimamente quando si tratta di una materia difficile come questa, e non accomodata alla intelligenza di tutte le menti, i sofismi e gli equivoci, e le distinzioni, non hanno, per così dire, alcun termine. 12. Come dunque la dottrina cattolica tiene il mezzo fra i due opposti errori del Pelagianismo e del Giansenismo, così il teologo che espone e difende questa dottrina non soddisferà al suo uffizio se non presenta un sistema, nel quale non uno solo di quegli errori, ma entrambi sieno evitati ad un tempo. Non dovrà dunque combattere, a ragion d' esempio, il Pelagianismo in tal modo, che lasci poi nella sua dottrina le radici del Giansenismo: e viceversa dovrà ben guardarsi dal pericolo che per uno zelo troppo esclusivo di abbattere il Giansenismo non iscada egli stesso, come troppe volte è avvenuto, fino a favorire il Pelagianismo. A soddisfare adunque a questo primo uffizio del teologo cattolico è rivolta la dottrina contenuta in questi Opuscoli, di cui qui diamo il compendio. 13. Il secondo uffizio del teologo cattolico (ed è anche un secondo carattere, a cui si può riconoscere la verità e la sufficienza del sistema che si oppone ai detti errori) si è, che il sistema che egli propone sia tale che valga a distruggere entrambi quegli errori sotto tutte le forme di cui possano rivestirsi, cioè che li colpisca nella loro essenza, e non solamente in qualche loro espressione verbale, o forma particolare, a cagione specialmente dell' indole loro sottile e sofistica. Al qual fine si avrà presente la sentenza di S. Ilario, che [...OMISSIS...] . Colle quali parole non solo s' insegna di non sottilizzare sulle parole, quando queste nulla contengano di profana novità, ancorchè nove, ma servano a più chiaramente e precisamente fermare la verità cattolica; ma s' insegna ancora a non perdonare all' errore, ancorchè vestito di parole e frasi cattoliche, ma che nel loro contesto non nascondono meno per questo un senso eretico o certo erroneo. 14. E infatti i detti errori si sono talora accompagnati o coperti con tali espressioni, che alla loro onesta apparenza ingannarono i giudici stessi. Di che per dare qualche esempio tolto dall' eresia pelagiana, a tutti è noto come Pelagio ingannò i Vescovi palestini confessando il peccato originale, mediante subdola restrizione, per la quale intendeva che il peccato di Adamo passasse ai posteri per imitazione e non per la naturale generazione : come impose ancora a Papa Zosimo intendendo sotto il nome di grazia la legge e la dottrina, o una grazia data secondo i meriti: come lo stesso Celestio sorprese del pari il Santo Pontefice Zosimo, con modi e forme che potevano avere un senso ortodosso, ma che, rimanendo indeterminate, ammettevano un altro senso eterodosso, che era quel dell' eretico. E per venire a' sistemi più recenti, si dirà forse che sia un confessare a sufficienza il dogma dell' originale peccato nei bambini, quale lo confessa la Chiesa cattolica, il dire, che esso non è peccato simpliciter , ma secundum quid , e quadantenus solamente, come si esprime un recente teologo? E chi non sa, che ciò che simpliciter non è, si può negare con tutta verità senz' altra restrizione o aggiunta di parole? E non è forse questa l' eresia pelagiana? Del pari, il dire, che il peccato originale ne' bambini non tragga seco alcuna dannazione , non è un negare sostanzialmente il detto peccato? (2). Giacchè come ci può essere un vero peccato senza dannazione, sotto un Dio giusto? E non sembrano parole uscite dalla bocca di Pelagio quell' altre d' un teologo, che ci dimanda: [...OMISSIS...] . Poichè anche Pelagio negava il peccato di origine asserendo essere cosa ingiusta che i bambini fossero puniti senza attuale loro demerito. Ma la Chiesa cattolica insegna tutto il contrario, e chi non può intendere, creda. Ora sarà forse interdetto e non anzi lodevole il difendere la purità della fede anche contro queste forme di pelagianismo? Chi riputerà a colpa il farlo? E d' altri simiglianti sistemi che, sotto il pretesto specialmente di inveire contro il Giansenismo, fomentano l' errore contrario, parleremo in appresso. Passiamo ora adunque a parlare della natura del peccato originale de' bambini, in cui sta, come dicevamo, tutto il nodo della questione. 15. Affine di procedere con lucido ordine e presentare colla maggior chiarezza possibile una dottrina così difficile com' è quella della natura del peccato originale ne' bambini, di cui dice S. Agostino: « quo nihil est ad intelligendum secretius, » conviene che premettiamo alcune nozioni generali, di cui dovremo poi fare nell' applicazione un uso frequente. 16. La moralità buona o cattiva consiste nell' abitudine o relazione in cui sta la volontà dell' uomo inverso alla legge o naturale o positiva (2). 17. Come questa abitudine è varia e di specie e di grado, così lo stato morale dell' uomo ammette altrettante varietà di specie e di grado, quante sono le varietà possibili di essa abitudine. 1.. Una varietà importante dello stato morale dell' uomo nasce dalla doppia attività di cui è fornita la sua volontà, secondo la qual doppia attività ella agisce in due maniere ben distinte. Poichè essa si può considerare come una parte essenziale della natura umana, e, come natura, ella è obbligata a certe leggi naturali, dalle quali non si può mai dipartire nel suo operare, senza distruggere sè stessa. Ma queste leggi non determinano in tutto il modo del suo operare, e però ella è ancora una potenza, alla quale, salve le dette leggi, rimane un' attività di operare liberamente . Tanto poi allorchè la volontà umana opera come natura, quanto allorchè ella opera liberamente, il suo modo di operare è sempre spontaneo , e però è sempre libera dalla coazione: ma non si dice che opera liberamente, se non quando il suo operare non solo è spontaneo, ma indipendente da ogni necessità, appunto per non essere determinata antecedentemente a una cosa piuttosto che ad un' altra dalle leggi di sua natura (1). 19. Di qui nascono due diverse abitudini o relazioni della volontà alla legge, le quali dànno origine a due forme di moralità, l' una delle quali riguarda l' abitudine della volontà all' oggetto della legge come natura, la qual volontà si riferisce ad esso oggetto in un modo spontaneo, ma non libero; l' altro riguarda l' abitudine della volontà come potenza libera al medesimo oggetto. E nell' uno e nell' altro modo c' è un bene od un male morale. Così, a modo d' esempio, la volontà dei celesti comprensori portandosi tutta in Dio spontaneamente, benchè senza alcuna libertà antecedente, possiede il sommo e perfetto bene morale; e i dannati avversando spontaneamente, sebbene non più liberamente, Iddio, soggiacciono a un sommo male morale. I viatori all' opposto, quando liberamente eleggono o il bene o il male, vengono pure in possesso del medesimo e le loro azioni hanno una moralità d' altra forma, poichè dell' acquisto di quel bene e di quel male sono essi medesimi i liberi autori, a cui perciò è congiunto il merito o il demerito, come diremo. Di queste due forme di moralità noi abbiamo parlato con tutta chiarezza ed estensione nella Dottrina del peccato originale (2), nel Trattato della Coscienza (3), nell' Antropologia (4), e ne' Principii della Scienza Morale (5). 20. Dobbiamo ora notare un' altra verità dello stato morale dell' uomo, se vogliamo procedere con chiarezza nel presente argomento. La volontà umana si atteggia e si riferisce verso un oggetto non solo ne' due modi che abbiam detto spontaneo semplice e libero ; ma per ciascuno di essi in due altri, cioè o per un movimento finale , o per un movimento d' inclinazione . Ella si porta in un oggetto o per un abito o per un atto con un movimento finale , quando termina e riposa la sua azione nell' oggetto e subordina al detto oggetto tutti gli altri che non sono fini del suo atto, e vuole questi solo per lui, di modo che in essi non ama altro che la qualità che hanno di mezzi al fine. Si porta in un oggetto con un movimento di semplice inclinazione, quando è bensì propensa e attirata verso un oggetto, ma non si acquieta nè finisce in esso la sua azione; non lo prende a suo fine ultimo e assoluto, nè lo ama come mezzo, perchè esso contrasta con quell' oggetto che ella ha per fine. 21. E` ora da osservarsi, che la volontà che riguarda il fine e che vuole anche le altre cose pel fine, di maniera che ciò che vuole anche nelle altre cose non è altro che il fine (1), dicesi volontà superiore e anche volontà personale, secondo la dottrina della persona da noi data nell' Antropologia (2): la volontà poi di semplice inclinazione, che si trova in contrasto col fine voluto e amato, dicesi volontà inferiore, e non è personale ma naturale, come quando l' uomo sente nelle sue potenze un movimento che egli non vuole, e a cui contrasta colla volontà superiore. 22. Finalmente dobbiamo spiegare in terzo luogo quello che dicevamo, che il movimento finale della volontà (cioè di quella volontà che riposa in un oggetto come in suo fine, e che però dicesi superiore e personale) può essere per un atto ovvero per un abito . Ciò che osta apparentemente a questa sentenza si è la definizione della persona, che dichiara questa« un principio attivo« (3), onde sembra che un abito che non nasca da un suo proprio atto non possa chiamarsi propriamente personale, ma solo naturale. Pure considerandosi attentamente la cosa, si rileva che anche l' attività personale può ammettere modificazioni, le quali non sono e non si dicono certo atti personali, ma bensì sono passioni personali (4), e in questo senso personali si dicono. E questo accade perchè nelle stesse passioni può entrare un' attività di chi le subisce, e però come la persona è il principio supremo di ogni attività nella natura umana, ad esso è uopo attribuirsi anche questa specie di attività che si spiega col cedere all' azione, che qualche causa diversa tende a esercitare sopra la persona, che come tale avrebbe virtù di resistere (5). Poichè se non cedesse ad una tale attività (ceda poi per qualunque ragione o per una legge di spontaneità o per una elezione), se non cedesse dico, ma resistesse alla passione che si vuole esercitare sopra di lei, la detta passione non si potrebbe più dire personale, appunto perchè l' attività della persona non rimarrebbe punto modificata da essa, nè alcun abito contrarrebbe: ma essa passione si conterrebbe in sè e finirebbe nella natura, ritenendo la persona tutta intatta la sua purità e attività e indipendenza. Vero è che ogni passione e ogni debito, se non è l' effetto d' un atto della volontà finale e personale, ma venga imposto altronde all' uomo, comincia nella natura, e però dicesi naturale . E se la volontà ripugna ad esso, rimane puramente naturale, come dicevamo, e non diventa personale. Ma se la volontà, in qualunque condizione ella sia, cede e consente in esso come in suo fine (1), allora essendo sempre personale quella volontà umana che nel fine riposa, come consta dalla definizione, con questo cedere e consentire della persona, la passione e l' abito passa dalla natura ad effettuare anche essa persona, e in questo senso dicesi personale. Il qual abito, se è in sè stesso malvagio, macchia di conseguente la persona: ma qualora il cedere e il consentire che essa fa sia puramente spontaneo e non libero, non è tuttavia colpevole nè demeritorio, come diremo in appresso. 23. Di qui si può dedurre per corollario, che cosa si deva intendere quando si dice che« qualche cosa è propria di una persona«. La proprietà in genere esprime un' unione fisica e morale colla persona, per modo che la cosa propria di una persona dee formare qualche cosa di uno con essa (2). Ma restringendosi il nostro discorso alla proprietà di ciò che è morale, vedemmo che la volontà personale può acquistare una condizione morale per due modi, o per abito impostole, quando cedendo spontaneamente e senza precedente elezione s' acquieta e consente nell' oggetto dell' abito come in suo fine; o quando ella si acquieta in esso come in suo fine per un atto di sua libera volontà (N. precedente). Nell' uno e nell' altro caso, cioè sia che questo suo riposarsi si faccia per un atto di cedevolezza e abbandono spontaneo, il che diremo passione personale, sia che si faccia per un atto libero, o azione personale; la passione o l' azione della persona è sempre con esso lei connessa fisicamente. Una qualità o atto morale dunque non può esser proprio di una persona se non costituisce fisicamente qualche cosa dello stesso suo essere. 24. Pure oltre questo carattere generale di ciò che è proprio d' una persona, è a distinguere le due accennate specie di proprietà: poichè altro è esser proprio d' una persona come una sua azione libera, ed altro esser proprio della persona come una sua passione, nella quale la persona non mette del suo se non l' atto spontaneo del cedere e abbandonare la sua attività propria nell' oggetto della passione o dell' abito. Questi due modi ne' quali un' affezione morale qualunque può esser propria di una persona, vanno ben distinti, affine di evitare gli equivoci. Poichè si potrà dire con verità, che una data affezione morale sia propria di una persona, ritenendo che sia propria di lei come passione o abito personale, e nello stesso tempo si potrà dire che ella non sia propria d' una persona intendendo come azione personale . E con questa distinzione si conciliano delle autorità, che sembrerebbero in contraddizione tra loro, come vedremo in appresso. 25. Premesse queste nozioni sulle diverse abitudini che la volontà umana può aver coll' oggetto della legge, onde nascono i diversi stati morali dell' uomo, nozioni che conviene avere di continuo presenti, possiamo ora passare alla definizione del peccato in genere: e quindi a conoscere in ispecie la natura del peccato originale ne' bambini. Che cosa è dunque il peccato? in che giace la sua essenza? « Il peccato » (parliamo sempre nell' ordine delle cose morali) «è una deviazione della volontà personale dalla legge eterna« » la qual definizione si trova esposta largamente nella Dottrina del Peccato originale (1). 26. Se dunque il peccato è una deviazione della volontà personale, consegue, secondo le cose dette di sopra, che ella sia una deviazione della volontà superiore, di quella volontà che ha per oggetto il fine dell' umana vita. Infatti la legge eterna è quella che stabilisce all' uomo (e lo stesso può dirsi delle altre creature intelligenti), il suo fine e al medesimo lo dirige. Se dunque si trattasse d' una inclinazione della volontà inferiore, che non rimove necessariamente l' uomo dal suo fine, questa inclinazione che sarebbe naturale e non personale, quale è il fomite della concupiscenza ne' renati, potrebbe bensì costituire un male, un' imperfezione nell' ordine morale, ma non avrebbe la natura di peccato. E` per questo che S. Tommaso, sapientemente al suo solito, distingue il male, come concetto più generale, dal peccato, concetto meno generale, scrivendo: [...OMISSIS...] . E segue anche in ciò S. Agostino che contro Giuliano (2) che voleva essere un bene la concupiscenza ne' battezzati scrive: [...OMISSIS...] . 27. E in fatti la data definizione generale del peccato va perfettamente d' accordo colla dottrina costante e universale de' maestri in divinità. Per non eccedere i limiti di un compendio noi la confermeremo solo coll' autorità di S. Tommaso medesimo e di S. Agostino. S. Tommaso dice: [...OMISSIS...] . Ma poichè anche la natura e l' arte hanno un loro fine, non solo la volontà, perciò distingue tre generi di peccati: i peccati della natura, dell' arte e della volontà: viene poi a definire i peccati proprii della volontà di cui noi parliamo, in questo modo: [...OMISSIS...] . E poichè è la legge eterna, come dicevamo, quella che propone all' uomo il suo fine, e subordina a questo l' altre cose, perciò dice ancora così: [...OMISSIS...] . 2.. E in questa l' Angelico segue ancora S. Agostino, della cui autorità si prevale citando la definizione che questo Padre dà del peccato (7) a conferma della sua: [...OMISSIS...] . Dichiarando poi S. Agostino che sia la legge eterna, la definisce così: [...OMISSIS...] . Il qual ordine consiste in anteporre le cose che vanno anteposte pel loro pregio o dignità a quelle che vanno posposte, e però a tutte anteporre Iddio, che è un dire che Iddio dee aversi a solo fine ultimo di tutte. [...OMISSIS...] ; e dimostra che la sola Trinità augustissima è ciò di cui si dee fruire come del solo fine, dell' altre cose poi usare (9) come di altrettanti mezzi. 29. Tale è dunque la vera e propria ragione del peccato, la quale, consistendo in una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, priva l' uomo del suo fine; e però il Sacrosanto Concilio di Trento lo caratterizzò in modo da non poterlo confondere con alcun altro concetto quando disse: « quod mors est animae (1), » poichè l' uomo è morto spiritualmente, quando la sua volontà è così atteggiata che lo priva del suo fine, nel possesso del quale consiste la vita spirituale. Da questa nozione e definizione per tanto del peccato derivano i seguenti corollari: a ) Che ciò che essa contiene è essenziale a costituire il peccato, e ciò che essa non contiene non appartiene all' essenza del peccato. Laonde poichè nella data definizione si contiene bensì una volontà la quale sia il subbietto del peccato, deviando dal suo fine, questa volontà è necessaria a costituire il peccato: ma non contenendosi una volontà che sia ella medesima ad un tempo e subbietto e causa libera del peccato, e bensì sia necessaria una causa libera acciocchè il peccato esista nella sua essenza, già esistendo, non è necessario alla sua essenza, che questa causa libera sia sempre l' identica volontà che n' è il subbietto ; il che negava giustamente S. Agostino ai Pelagiani, che così pretendevano, [...OMISSIS...] . b ) Che contenendosi nella data definizione tutto e solo quello che costituisce l' essenza del peccato, in essa si abbracciano tutte le specie di peccati, e che perciò tutti que' mali morali, ai quali quella definizione conviene, sono semplicemente peccati in senso vero e proprio, e non per un modo traslato o interpretativo, o come sotto un solo rispetto. Perciò quella definizione conviene ugualmente al peccato mortale tanto attuale quanto abituale, poichè se col peccato attuale l' uomo devia dal suo fine, coll' abituale ritiene in sè permanente questa deviazione e perdita del suo fine, in cui consiste la forma del peccato, la morte dell' anima. E così quella definizione è conforme al linguaggio delle divine Scritture, e dell' ecclesiastica tradizione, della quale tradizione vale per ogni altra testimonianza l' autorità del Tridentino, che dà la propria e vera ragione di peccato all' originale ne' bambini, che è puramente abituale, e ne ripone il carattere formale nell' essere« morte dell' anima«, che è quanto dire, deviazione e quindi perdita del fine dell' uomo, in cui sta la sua vita. Per riguardo poi alla maniera di parlare delle Scritture, noi ne abbiamo addotti i testimoni nel Trattato della Coscienza (3), e molti altri se ne potrebbero aggiungere. Così quando GES`u' Cristo parla d' un peccato che rimane [...OMISSIS...] , non può intendere dell' atto della trasgressione che passa, ma di quella detorsione della volontà dal fine che rimane nell' anima. E quando dice: « In peccato vestro moriemini (1) » non vuol dire che morranno nell' atto del peccato, ma nell' abito che resta loro infisso. Laonde vanno sanamente intesi que' luoghi de' Padri, ne' quali sembra che neghino al peccato abituale, o all' originale nei bambini, la ragion propria di peccato, intendendo essi parlare del peccato colpevole e demeritorio, che è quello di cui si suole più di frequente e comunemente tener discorso, il che ad evidenza si vede in questo luogo di S. Agostino: [...OMISSIS...] . Altri luoghi poi, ne' quali i Dottori dicono, che il peccato consiste propriamente nell' atto anzi chè nell' abito, non vanno già intesi per modo che vogliano negare che nel peccato abituale, che rimane dopo l' atto, non si conservi e permanga la forma del peccato che fu messa in essere coll' atto della prevaricazione, ma vogliono dire, che questa forma permanente trasse la sua esistenza dall' atto liberamente peccaminoso, e però a questo conviene la denominazione di peccato per una specie di priorità e all' abituale per una specie di posteriorità, secondo la distinzione che fanno i logici circa la predicazione di un predicato a subbietti diversi (3). c ) Che mediante la definizione data si può discernere il peccato nella sua propria ragione ed essenza dai concetti a lui affini, e dalle diverse denominazioni che gli competono, o gli sono attribuite secondo diversi rispetti ne' quali si considera, alcuni de' quali sempre si trovano al peccato congiunti, altri non sempre. Tali concetti e denominazioni sono a ragion d' esempio quelli di colpa, di demerito, di reato di colpa, di reato di pena, d' iniquità, di macchia, di offesa, di offesa di Dio, di trasgressione, di prevaricazione, disubbidienza, ecc.; che tutti aggiungono qualche concetto di relazione al semplice concetto del peccato. Laonde tutti questi concetti sopravvenienti suppongono prima quello di peccato su cui si fondano. E per modo d' esempio, come dice il Gaetano: [...OMISSIS...] . d ) Che si può del pari colla regola della addotta definizione dimostrare, che il peccato veniale manca della perfetta ragion di peccato, perchè non toglie all' uomo il suo fine, e quindi che come dice S. Tommaso: [...OMISSIS...] . e ) Che finalmente nella stessa definizione si ha una norma sicura per discernere, quando nelle Scritture o nei Dottori si adopera la voce peccato in un senso improprio e traslato. Così il fomite che rimane ne' battezzati si chiama da S. Paolo peccato, perchè viene dal peccato, ed al peccato inclina, ma non ha l' essenza del peccato, perchè non priva l' uomo del suo fine. Lo stesso dicasi dei moti involontarii della concupiscenza, a cui la volontà suprema ripugna. Lo stesso dell' uso della parola peccato che si fa nelle divine Scritture per indicare l' ostia o la vittima espiatrice del peccato, onde S. Paolo (2) dice che Cristo si fece per noi peccato. Onde Giovanni Fischer Vescovo di Rocester che suggellò col suo sangue la cristiana fede, distinguendo questi diversi significati della parola peccato contro Lutero che li confondeva, conchiude dicendo: [...OMISSIS...] , la quale riviene alla definizione da noi posta e a quella del Tridentino « quod mors est animae ». 30. Stabilita dunque la definizione generica del peccato, che ripone la natura di lui« in una deviazione della volontà personale dalla legge eterna«, ossia dal fine dell' umana vita, rimane a farne l' applicazione al peccato originale e vederne la differenza specifica dai peccati attuali, la quale già viene non poco chiarita dalle cose fin qui ragionate. Il peccato originale si può considerare sotto due rispetti, cioè si può ricercare:« che cosa egli sia nel bambino«, e« che cosa egli sia relativamente al primo padre che l' ha commesso, e da cui il bambino per generazione lo ha ricevuto«. Poichè il bambino dee aver ricevuto in sè qualche cosa che abbia ragion di peccato: ma poichè egli n' è divenuto bensì il subbietto, ma non la causa, che sta solo nella libera volontà di Adamo stipite dell' umana schiatta (4), perciò senza riferire il peccato che è nel bambino alla causa, che è in Adamo, non si potrebbe trovare l' imputazione del medesimo, per la quale imputazione il peccato acquista denominazione di colpa . Due sono dunque le cose da spiegarsi, l' una come nel bambino ci sia qualche cosa che abbia ragion di peccato, sebbene questa cosa rea non abbia per causa la libera volontà del bambino stesso, ma di un' altra persona, l' altra come e a chi questo peccato sia imputabile: e ciò per ribattere non meno l' errore pelagiano che l' errore giansenistico. Poichè i Pelagiani, come dicemmo, negavano l' esistenza del peccato nel bambino, perchè non intendevano come potesse darsi in un umano individuo vero peccato senza un atto di sua propria libera volontà; i Giansenisti all' incontro ammettevano non solo il peccato nel bambino, ma anche la imputazione, la colpa, il demerito, riferendo tutte queste cose al bambino stesso, o sostenendo che a essere colpevole e a demeritare bastasse o l' atto libero della volontà di Adamo, come se questa esistesse nel bambino, che è la sentenza di Giansenio (1), o il non farsi dal bambino colla sua volontà alcuna opposizione alla concupiscenza « eo quod non gerit contrarium voluntatis affectum, » quale è la sentenza di Baio, e così venivano a stabilire in generale che l' imputazione, la lode e la colpa, il merito ed il demerito di una persona potesse esistere senza opera della sua libera volontà. 31. Ritenendo dunque noi fermamente colla Chiesa Cattolica, coll' insegnamento della quale s' accorda anche il naturale e filosofico raziocinio, che l' imputazione morale non si può fare se non a chi è causa libera di ciò che le s' imputa, perchè, come abbiamo mostrato nell' Antropologia , la sola causa libera ha natura di vera causa (2), e che però a niuna persona umana si può applicare lode o colpa, merito o demerito di quelle azioni o passioni che non sono da lei liberamente prodotte o acconsentite, il che si oppone all' errore giansenistico, diciamo all' incontro, che senza libera volontà si può dare peccato, cioè si può dare « deviazione della volontà dall' ordine del fine dell' umana vita« nel che, come abbiamo veduto, è riposta la nozione e la definizione del semplice peccato, secondo la dottrina de' Maestri in Divinità: e questo è quello stesso che abbiamo dimostrato più a lungo nell' opuscolo intorno alla distinzione tra le nozioni di peccato e quelle di colpa e altrove; dove tra le altre cose abbiamo notato che Iddio nell' antica legge, per mantenere ben distinte queste due nozioni nelle menti voleva che fossero istituiti due specie di sacrifizii, gli uni per il peccato, gli altri per il delitto (3). Di che cava anche S. Agostino un argomento contro i Pelagiani per dimostrar loro il peccato originale, ove dice: [...OMISSIS...] . Si apre qui dunque il passaggio a rispondere alla prima questione contro i Pelagiani:« Che cosa sia ciò che abbia ragione di peccato ne' bambini?«. Poichè rispondiamo che ciò che ha ragione di peccato ne' bambini è una deviazione della loro volontà dalla legge eterna, ossia dal fine dell' umana vita. E posciachè abbiam detto che questa deviazione può essere o attuale o abituale, ne' bambini, ne' quali non c' è ancora l' atto, altro non è e non può essere che una« declinazione abituale e non attuale«. 32. Ora che la volontà umana possa avere questo mal abito prima di ogni suo atto libero, ciò non involge alcuna ripugnanza, il che solo si può esigere che sia dimostrato. Poichè l' obbiezione che può fare il raziocinio naturale contro le verità della fede è che involgano assurdo, al quale scopo infatti tende il raziocinio che, come vedemmo, fanno i Pelagiani contro il dogma del peccato originale. Contrapposto che abbia dunque l' apologista della fede un altro valido raziocinio che disciolga la apparente contraddizione, rimane intatta la verità da credersi, ancorchè essa continui ad essere o misteriosa, ovvero difficile a intendersi e per molti anche impossibile. Dicevamo dunque che niente ripugna, che la volontà umana si trovi vestita prima d' ogni suo atto accidentale di un mal abito morale, perchè essa volontà indubitatamente prima ancora di emettere alcuno degli atti suoi accidentali e liberi esiste come parte essenziale della natura umana, e l' abito è cosa permanente che dà una certa disposizione alla potenza, non già un atto transeunte; e perchè non ogni abito d' una natura e potenza è necessariamente un effetto lasciato in essa da un atto transuente della medesima, com' anche si vede, volendo prendere un esempio da altre verità cristiane, dagli abiti infusi delle virtù teologiche nel santo battesimo. Sono abiti che si ricevono dalla volontà dell' uomo per generazione anche tutte le buone o cattive disposizioni ereditarie, riconosciute ed ammesse da tutti i filosofi. Che se queste ancorchè sfavorevoli all' acquisto delle virtù non sono peccati, ciò accade perchè non affettano la volontà personale, ma solo la volontà inferiore e naturale; e di ciò si darà ragione tantosto, bastando qui un tale esempio a comprovare questo fatto psicologico, che la volontà è veramente suscettiva di abiti buoni e cattivi, che non sono sempre l' effetto lasciato in essa dalle sue proprie libere operazioni, ma aventi un' altra origine da essa indipendente. 33. Questa dottrina intorno alla natura del peccato, la quale dimostra che tanto i Pelagiani, quanto i Giansenisti erravano ugualmente per non sapere distinguere il peccato dalla colpa, negando i primi il peccato ne' bambini, perchè non sapevano come incolparli di una cosa di cui non era causa il loro libero arbitrio, incolpando gli altri gli stessi bambini perchè non sapevano come potessero senza di ciò confessare in essi il peccato, può dirsi francamente, a nostro avviso, essere sostanzialmente definita dalla stessa Chiesa, o certamente manifesta risultare dalle sue infallibili definizioni. 34. E veramente Alessandro VIII (1) condannò questa proposizione: « Homo debet agere tota vita paenitentiam pro peccato originali », non solo come quella che detrae alla satisfazione di Cristo, e all' efficacia del Sacramento del battesimo, e che contiene l' assurdo, che colui che ha bisogno di essere redento e rinnovato, venendo tolto via da lui il reato del peccato di origine, per poter meritare e soddisfare, possa cooperare co' suoi meriti e colle sue soddisfazioni alla propria redenzione e rinnovazione; ma ancora come quella che suppone che il peccato originale abbia per sua causa la volontà di chi lo riceve, giacchè nessuno si può pentire se non degli atti suoi proprii, di cui egli avesse avuto il libero dominio. In fatti che cosa costituisce la base della penitenza, secondo la stessa etimologia della parola, se non il pentimento di ciò che si è fatto, e che si potea non fare? Laonde nel libro Della vera e della falsa penitenza, che fu attribuito a S. Agostino, si definisce la penitenza così: [...OMISSIS...] . Da questa definizione pertanto della Chiesa noi argomentiamo così:« Il peccato originale esiste: ma egli non ammette penitenza e contrizione, perchè questi affetti non possono cadere se non in colui che fu causa libera del peccato. E appunto perchè il peccato originale è subìto da' posteri senza che la loro libera volontà vi concorra, perciò anche il rimedio al medesimo è dato senza loro libera volontà (3). La Chiesa dunque riconosce colla condanna di quella proposizione bajana e giansenistica che: 1. il peccato originale ha vera ragion di peccato benchè manchi la libera volontà in colui che ne è il subbietto; 2. che esso non è colpa di colui che lo subisce, perchè se fosse sua colpa non potrebbe esser tolto senza che egli se ne contrisca e se ne penta; 3. che esso peccato viene tolto via dalla redenzione e satisfazione di Cristo immediatamente come peccato (tolto il quale non è più la colpa perchè le è tolta ogni sua materia) e non solamente come colpa: cioè esso viene tolto via da noi nella sua ragione di peccato, da Adamo poi, personalmente considerato, venne tolto via immediatamente nella sua ragione di colpa, ossia di peccato colpevole, per la fede in Cristo futuro Redentore. 35. La Chiesa del pari ha definito contro di Bajo e Giansenio, colla condanna di più proposizioni, che non si può dare un peccato imputabile a colpa, e però demeritorio, senza che sia posto dalla libera volontà di quello a cui si imputa, e di novo tra le altre ha condannata questa proposizione: [...OMISSIS...] , che è la prima delle 31 condannate da Alessandro VIII col decreto de' 7 dicembre 1690. Ora se il peccato originale ne' bambini fosse loro colpa, cioè fosse peccato commesso dalla loro libera volontà, le conseguenze di esso (almeno quando avessero potuto e dovuto prevederle) sarebbero pure colpevoli e demeritorie in causa. Dunque l' originale è un vero peccato che sussiste nel bambino, quantunque non entri a costituirlo la volontà libera del bambino. Del pari come puro peccato, senza imputabilità e demerito proprio del bambino, sussiste senza che entri a costituirlo la libertà di Adamo, perchè questa non basta a renderlo libero della libertà del subbietto che lo subisce e non lo commette, onde colla condanna della detta proposizione si dichiara, che non basta a costituire il peccato formale e il demerito nè pure la volontà libera qual' era in Adamo, non essendo essa volontà libera del bambino. 36. Nè faccia difficoltà la parola peccato formale inserita nella proposizione condannata, quasi che il peccato ne' bambini non fosse peccato formale, poichè si usò di dire formale quel peccato che è ad un tempo colpa di chi n' è il subbietto, quando il peccato originale ne' bambini manca rispetto ad essi della forma di colpa, di cui esso è come la materia, ma non manca per questo della forma del peccato , senza la quale non sarebbe vero peccato. Onde il celebre compendio della Teologia che fu attribuito a S. Tommaso e ad altri insigni dottori, dice che il peccato originale: [...OMISSIS...] . 37. Se dunque si considera da una parte che il Sacrosanto Concilio di Trento definì che il peccato originale unicuique inest , differente perciò di numero in ogni uomo, e che l' inesistere non è proprio delle relazioni che non sieno per sè sussistenti, e che esso peccato consiste formalmente nella morte dell' anima , la quale non è una relazione alla causa del detto peccato, ma è una pena che soffre il subbietto di quel peccato che è anche pena, e se si considera dall' altra che è pur definito, per le accennate proposizioni condannate ed altre già conosciute, che il detto peccato morte dell' anima non ha ragione di colpa e di demerito, se non come prodotto dalla libera causa che fu la volontà di Adamo: apparirà chiaro, che si può dire già definita dalla Chiesa, come dicevamo, la dottrina che da una parte riconosce ne' bambini un peccato formale considerato nella sua entità senza uscire dal bambino stesso, e però senza che entri, in questa sua entità che ha nel bambino, alcuna libera volontà, dall' altra parte che un tal peccato, vero peccato, ha bensì ragione di pena, ma non di colpa, la quale sta nella libera causa che l' ha prodotto a principo. 3.. Ora questa dottrina è appunto quella che somministra le armi per combattere i due errori opposti de' Pelagiani e de' Giansenisti; e i principali Dottori della Chiesa la opposero costantemente agli eretici; de' quali Dottori mi restringerò per ragione di brevità a nominare solamente S. Agostino e S. Tommaso. I Pelagiani caduti nell' eresia dall' essersi dati a credere, che il peccato non possa esistere senza un atto di libero arbitrio in colui che ne è il subbietto, abusavano in propria difesa della definizione del peccato che S. Agostino stesso avea dato: « voluntas retinendi vel consequendi quod justitia vetat, et unde liberum est abstinere , » di cui si abusò cotanto anche di poi (1). Che cosa rispose loro Agostino? Che conveniva distinguere due specie di peccato, la prima di quelli che sono peccati e non anche pena di un altro peccato precedente, la seconda specie formata da quel peccato che oltre esser peccato è anche pena di peccato: alla prima sola di queste due specie convenire quella definizione, non alla seconda, a cui appartiene il peccato originale ne' bambini. [...OMISSIS...] . Avendo così dunque il santo Dottore stabilito che il genere del peccato abbia due specie, cioè che ci sono peccati che s' incorrono per una libera trasgressione dei divini precetti, e unde liberum sit abstinere, e che ci sia un' altra specie che si subisce, come pena, per via di generazione senz' atto di libera volontà, non solo abbattea con ciò il pelagianesimo, ma sottraeva anche il peso della sua autorità ai futuri Giansenisti, giacchè mentre egli riconosce nello stato presente dell' uomo, oltre il peccato di origine, anche quello che liberamente e consapevolmente si commette, i Giansenisti che falsamente si dicono suoi discepoli, non riconoscono la specie di peccati che si commettono dalla volontà libera dalla necessità, unde liberum sit abstinere . 39. S. Agostino oltrecciò coll' avere stabilito che il peccato originale ha condizione di pena (il che non gli toglie però la natura di peccato) venne con questo solo a rendere ragione del perchè non possa essere un peccato libero della volontà di chi lo subisce. Poichè la pena è contraria alla libera volontà: [...OMISSIS...] . E come la pena è contraria alla volontà, così è contraria alla colpa. Onde S. Tommaso divide il male nell' ordine delle cose volontarie in queste due specie appunto di: 1 male volontario, cioè liberamente voluto, e questa è la colpa ; 2 male involontario, e questa è la pena (1). Se dunque il peccato originale ne' bambini ha ragione di pena secondo S. Agostino, segue da questo stesso, ch' egli non possa essere per essi il contrario, cioè colpa . Nè vale il dire che talora si vuole anche la pena non come pena, ma come soddisfattoria o come medicinale; perchè il peccato originale non è pena soddisfattoria, ma trae anzi seco, come causa, la necessità di pene soddisfattorie; nè è pena medicinale, che è anzi il morbo che dee essere guarito, ed è ancora più che morbo, perchè è male dell' anima. 40. S. Agostino adunque difende contro i Pelagiani che il peccato originale è vero peccato, benchè sia anche nello stesso tempo pena del peccato precedente commesso da Adamo, distinguendolo così entitativamente da quel di Adamo: [...OMISSIS...] . Con che nello stesso tempo che stabilisce, che la macchia originale ne' bambini è un vero peccato in sè stesso considerato, riconosce però che è l' effetto di una prima causa libera, che fu quella di Adamo, alla quale si riferisce l' imputazione e la colpabilità, rimanendo sempre fermo che l' effetto non sia la causa . Onde non finisce di ripetere, che « origo tamen etiam huius peccati descendit a voluntate peccantis (4), » rimanendo di nuovo distinto l' originale dall' originato. Combatte dunque S. Agostino i Pelagiani da una parte e i Manichei dall' altra coi due aspetti in cui si deve considerare il peccato originale ne' bambini, in sè stesso, nella sua entità propria come puro peccato, cioè come una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, e relativamente alla volontà libera di Adamo che ne fu causa, da cui viene la nozione di colpa. Pe' quali due aspetti, il peccato originale si chiama peccato comune in quanto è un solo nell' origine di cui tutta la massa è stata corrotta e macchiata, è una sola la colpa; e si chiama anche peccato proprio , come lo dichiara il Tridentino, in quanto partecipato ne' singoli è più di numero, benchè uno di specie, avendo ciascuno la sua propria corruzione e macchia, che è non è quella di un altro. S. Agostino in fatti chiama il peccato originale commune , dove dice: [...OMISSIS...] . Ma il santo Dottore lo riconosce anche come proprio de' singoli dove dice: [...OMISSIS...] . 41. Sulle traccie di S. Agostino, e con un linguaggio in alcune cose più scientifico e da scola cammina S. Tommaso. Poichè anche questo santo Dottore, data la definizione del peccato in tutta la sua generalità, si fa a distinguere le due specie di peccato puro e di peccato imputato al libero suo autore. Nel concetto dunque di peccato (nell' ordine morale) altro non si acchiude, secondo l' Aquinate, se non « una deviazione dall' ordine della ragione relativamente al fine comune della vita umana«, » quando nel concetto di colpa si acchiude di più l' imputazione alla causa libera, e però ivi solo propriamente è la colpa, dove è la libertà. Laonde il peccato può essere in un individuo umano secondo la vera nozione di peccato, e la colpa di questo peccato essere, propriamente parlando, non in un modo traslato, in un altro individuo che liberamente ne sia stato causa ed autore. Tali sono le distinte nozioni che ci dà S. Tommaso in queste parole: [...OMISSIS...] . Sulle quali filosofiche definizioni del santo Dottore ragioniamo così:« Solo allora l' atto s' imputa all' agente e diviene colpa, quando è in potestà del medesimo, di modo che questo abbia il dominio del suo atto, cioè possa farlo e non farlo. Ma il bambino ha bensì il peccato originale, ma non ha il dominio del suo atto, e non può colla libera sua volontà evitarlo. Dunque non gli può essere imputato, e però non è sua colpa, ma solo peccato, secondo l' Angelico. Quindi per trovare un modo nel quale si dica che il peccato originale venga imputato al bambino, conviene ricorrere ad un modo non proprio, ma traslato, come fa lo stesso santo Dottore, dicendo che il peccato originale s' imputa al bambino, come s' imputa l' omicidio alla mano di chi l' ha commesso, dicendo che è colpa della mano. Ma è ben chiaro che l' istrumento non è in senso proprio imputabile e colpevole di ciò che fa di bene e di male colui che usa dell' istrumento, perchè l' istrumento non è un agente che abbia il dominio del proprio atto, e non ha neppure la cognizione di ciò che l' agente gli fa fare, o piuttosto di ciò che egli stesso fa per mezzo suo. E` dunque più chiaro del sole, che secondo l' Angelico nel bambino esiste il solo peccato, separato dalla colpa, quel peccato che S. Agostino dichiarava peccato pena di una colpa antecedente; e che la colpa, in senso vero e proprio di un tal peccato, non esistette che in Adamo, che fu il solo agente che avesse il dominio del proprio atto; e che in senso puramente traslato, s' applica poi la colpa di Adamo a tutti i suoi discendenti che ricevono per la generazione il peccato. 42. Ma quantunque la mente dell' Angelico sia così aperta, tuttavia v' hanno di quelli che non arrivano ad intenderla, e gioverà che ci facciamo ad esaminare le loro obbiezioni. Costoro adunque per riconfondere di novo il peccato colla colpa ci oppongono che S. Tommaso al passo da noi citato soggiunge, che [...OMISSIS...] . Ma questo passo appunto lungi dal favorire gli oppositori, conferma apertamente e ribadisce la distinzione che voglio distruggere. Esaminiamone il senso con diligenza. a ) Ammettendo il santo Dottore che il male possa esistere in ogni cosa creata anche inanimata, perchè non è altro che privatio boni , e così pure che possa esistere il peccato in tutti gli agenti, perchè non è altro nella sua definizione generalissima che un atto che tendendo ad un fine devia dal medesimo, « cum non habet debitum ordinem ad finem illum , » perciò distingue tre ordini in cui possa cadere il peccato preso in questa generalità, cioè l' ordine della natura , l' ordine dell' arte , e l' ordine morale . Ora è chiaro che negli agenti naturali, o negli artistici, non ci può essere colpa, e però il male e il peccato non s' identifica in essi colla colpa; ma negli agenti morali cioè nei loro atti volontarii il male, il peccato e la colpa s' identificano, perchè sono agenti suscettivi di lode o di biasimo quando agiscono liberamente. S. Tommaso adunque non intende qui che paragonare gli atti volontarii cogli atti della natura e dell' arte, e in questi soli dice che s' identificano il male, il peccato e la colpa: non paragona una specie di atti della volontà con altri atti, non paragona gli atti necessarii cogli atti liberi, il che fa in altri luoghi. b ) Che poi l' espressione che usa qui S. Tommaso « in actibus voluntariis , » si deva intendere senza dubbio di atti liberi , non solo apparisce dal contesto, attribuendo loro lode e colpa e avendo poche linee avanti già spiegato in che consiste l' imputazione a lode o a colpa, con queste parole: « Tunc enim actus imputatur agenti, quando est in potestate ipsius, ita quod habeat dominium sui actus , » ma si trova di questa maniera di usare la parola« volontario« una ragione intrinseca anche nella stessa dottrina dell' Aquinate. Poichè avendo distinta la volontà come natura, voluntas ut natura , e la volontà come volontà, voluntas ut voluntas, e a questa appartenendo la libertà, a quella la necessità, egli chiama volontarii gli atti che appartengono a questa seconda, riponendo nel numero di atti naturali quelli che appartengono alla volontà operante come natura, benchè riconosca che anche questi appartengono alla stessa volontà, e in questo senso si possono dire« volontarii«. Applicando la qual teoria di S. Tommaso alla questione, così argomentiamo: S. Tommaso dice, che il male, il peccato e la colpa sono il medesimo nei soli atti volontarii, cioè liberi: ma il peccato originale ne' bambini non è un atto volontario libero: dunque, secondo il santo Dottore, in esso peccato non è il medesimo il peccato e la colpa. Il testo che ci si oppone convalida la distinzione. c ) Di più, S. Tommaso nel detto testo parla di atti , dice che ne' soli atti volontarii male, peccato e colpa diventano la stessa cosa. Ma nei bambini non ci sono atti volontari : il peccato da lor contratto non è un atto della loro volontà, ma è un abito della medesima contratto per via di generazione: dunque, secondo S. Tommaso, ne' bambini non è il medesimo il peccato e la colpa , perchè l' identità di queste due cose, secondo lui, cade solamente negli atti volontari, in solis actibus , e però non cade negli abiti : in questi può accadere l' opposto, può accadere che dove c' è l' abito peccaminoso, ivi non ci sia la colpa corrispondente: ed anzi la maggior parte dei teologi sostiene che cogli abiti non si meriti, perchè essi non sono atti liberi, a cui solo il merito è dovuto. Di nuovo dunque il testo citato per distruggere la detta distinzione la conferma mirabilmente. d ) E tutto questo viene espressamente confermato da San Tommaso, che distingue il peccato originale così: [...OMISSIS...] . 43. Con questi stessi principii 1. che volontario comunemente significa libero presso S. Tommaso, per la ragione detta, 2. che egli parla di atti , e non di abiti: (e così per doppia ragione, rimane tagliato fuori il discorso del peccato originale), si disciolgono le difficoltà contro la distinzione sopra mentovata tra peccato e colpa , che altri passi dell' Angelico potrebbero ingerire nell' animo di chi li considera superficialmente, e che noi abbiamo già dissipate nelle varie nostre opere (2), principalmente nella prima e seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa illustrate . Altri luoghi dell' Angelico con facilità pure si spiegano ponendo attenzione al valore delle parole. Così ciò che dice: « ibi incipit genus moris, ubi primum dominium voluntatis invenitur , » è vero tanto se si intende nello stesso senso, in cui S. Agostino aveva detto: « nisi voluntas mala, non est cujusquam ulla ORIGO peccati , » testo da noi citato di sopra, quanto se s' intende di un dominio della volontà potenziale, sebbene non esercitato per accidentali cagioni; quanto finalmente se per genus moris s' intende la moralità che ognuno si procaccia liberamente coi suoi costumi, colle sue proprie operazioni, che è l' uso più consueto che si fa di questa parola. Ma un argomento ugualmente ineluttabile, che non lascia dubitare della mente di S. Tommaso si è, che l' intendere S. Tommaso contro la proprietà del linguaggio da lui usato e fargli dire, a ragion d' esempio, che« il bambino che riceve il peccato originale per generazione con questo sia anche colpevole, e gli si deva imputare a colpa, come s' imputano le male azioni all' uomo che le fa liberamente«, il dir questo, non solo mette S. Tommaso in contraddizione seco stesso e coi principii più inconcussi della sua dottrina, ma lo fa diventare di più Giansenista, giacchè i Giansenisti sono quelli che vogliono appunto, che il peccato originale sia rispetto al bambino imputabile a colpa e a demerito, o perchè egli lo ricevè senza impugnare colla sua volontà, come disse Baio, o perchè basti a costituire la colpa e il demerito d' un individuo, la volontà libera d' un altro individuo, cioè di Adamo, che è la sentenza propria di Giansenio. Se dunque non si vuole calunniare a questo segno il santo Dottore riman fermissimo, che egli distinse nel peccato dei bambini il peccato dalla colpa, confessando quello inesistere in essi come vero peccato, la colpa poi riferirsi in Adamo che ne fu la libera causa: il che ho comprovato in più opere con tanti e sì luminosi testi del santo Dottore, che non mi saprei spiegare, come ancora possa rimanere su di ciò il minimo dubbio. 44. Con questa distinzione adunque, comune nella sostanza a S. Agostino e a S. Tommaso, rimane da una parte atterrato il sofisma de' Pelagiani, dall' altra quello dei Giansenisti. Poichè ai Pelagiani è dimostrata per essi la possibilità, che in un individuo esista realmente un vero peccato che egli non ha commesso con alcun atto di sua libera volontà, il che non si potrebbe loro dimostrare se si trattasse di una colpa: ai Giansenisti del pari è dimostrato, che niun peccato può essere imputato a colpa propria in chi non fu libero a riceverlo o a commetterlo, e che può stare il dogma del peccato originale senza l' imputazione a chi lo subisce, bastando che essa si possa fare alla causa libera che lo commise e commettendolo lo pose in essere, onde risplende manifesta la ragione della condanna che fece Innocenzo X della terza proposizione di Giansenio, e quella d' altre simili proposizioni dalla Santa Sede anatematizzate. Ripeterò qui dunque le parole colle quali ho conchiuso la seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa . « Trattasi di due concetti che sono, quasi voleva dire, i poli su cui si gira l' intiero Cristianesimo: tolta la colpa con Giansenio e Calvino, l' obbligazione, il merito, la pena, il premio è perito: tolto peccato necessario con Pelagio - non è più quello che le Scritture chiamano peccatum mundi : la redenzione, la grazia medicinale, l' efficacia de' Sacramenti ex opere operato , Cristo, le sue promesse, la Chiesa da lui fondata, non hanno più una ragione«. Ammessi quei due concetti e ben distinti, tutto è restituito, le contrarie eresie cadono sotto entrambi, alla luce della dottrina della Chiesa. 45. Ma è necessario, che dimostriamo più specificatamente la necessità di distinguere le due nozioni per poter rispondere con efficacia ai Pelagiani non meno che ai Giansenisti. E alle obbiezioni dei Pelagiani risponderemo in quest' articolo: l' errore de' Giansenisti intorno alla natura del peccato originale, essendo intimamente connesso con altri errori intorno alle conseguenze del peccato stesso, sarà confutato nel paragrafo che segue. Tutti gli argomenti dei Pelagiani a favore della loro eresia come a capo e principio si riducono al seguente:« Il peccato (e così dicasi di tutto ciò che riguarda l' ordine morale) è l' opera della volontà umana propria di ciascun umano individuo, e non l' opera della natura: [...OMISSIS...] . Essendo la volontà di un individuo propria di lui, essa stessa non può passare in un altro individuo, e perciò non può neppure passare in un altro il suo proprio atto buono o reo: quindi il peccato di un individuo non può trasmettersi in un altro. Ma la volontà del bambino non produce con alcun suo atto il peccato originale che dicesi essere in lui: dunque non può darsi esso peccato originale nel bambino. Nè vale il dire, che lo riceve per via di generazione, perchè questa appartiene alla natura e non alla volontà , a cui solo spetta il peccato«. Tanto risulta dai luoghi di S. Agostino, in cui reca la dottrina di Pelagio, e dai propri testi dell' opere di Giuliano Vescovo di Eclana, come si può vedere, oltre ai luoghi citati (2). 46. Ora per rispondere direttamente a quest' argomento è necessario dimostrare che la natura razionale, la natura umana, può soggiacere al peccato senza che concorra nessun atto della libera volontà di quella persona che subisce il peccato medesimo, e poichè questo non si potrebbe mai dimostrare della colpa e del merito , che, come mostrano la ragione e le definizioni della Chiesa, non possono stare in un individuo senza che la sua libera volontà ne sia la causa (e dire il contrario sarebbe l' eresia gianseniana), perciò è necessario separare il peccato dalla colpa e dimostrare che quello, e non però questa, ci può essere in una persona, senz' opera di sua libera volontà, ma per naturale generazione, e che così avviene rispetto al peccato d' origine. 47. Ora alcuni teologi moderni che d' altra parte hanno valorosamente combattuto contro l' eresia gianseniana, avendo abbandonata questa via, non sono sempre stati così cauti da non esporre un fianco indifeso all' eresia pelagiana, di cui credevano non esserci forse gran fatto a temere. Pochi esempi che ne darò, de' molti che me ne somministrerebbe la storia della Teologia, basteranno a dimostrare, per la ragione de' contrari, la solidità del metodo che noi proponemmo, sulla traccia dei più antichi e sicuri maestri, per abbattere non una sola, ma entrambe le eresie opposte ad un tempo. Il dotto e per altro accurato teologo Domenico Viva (e lo stesso professano altri teologi) scrive così dei dannati: [...OMISSIS...] . Ora il Pelagiano non mancherebbe di approfittarsi di questo principio, argomentando in questo modo:« Voi mi accordate che il peccato fisicamente necessario non è peccato formale, ma solo materiale. Ma il peccato, che si dice originale ne' bambini è per essi fisicamente necessario: dunque è per essi puramente un peccato materiale, e non un peccato formale. Ora il peccato materiale non è peccato, mancandogli la forma, che è quella che dà la specie e il nome alle cose. Dunque non esiste alcun peccato originale nei bambini«. La maniera adunque di favellare che usano tali teologi non sembra abbastanza cauta contro la eresia pelagiana. Il dire che il peccato necessario è piuttosto pena che peccato non è conforme alla dottrina di S. Agostino, che trova che i due concetti di pena e di peccato possono stare insieme come accade nell' originale. Che l' odio poi in Dio, in qualunque modo esista in un' anima, sia formalissimo peccato consegue dalla definizione da noi data del peccato sulle vestigia di S. Tommaso e di S. Agostino essere cioè« il peccato una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita«. E qual deviazione maggiore dal fine dell' umana vita dell' odio di Dio? Questo è ciò che vi ha di sommo, di perfettissimo nel suo genere, e male a proposito lo stesso Viva (2) paragona a quest' odio gli atti necessari della concupiscenza, dicendo che il Tridentino nega che sieno peccati, ma sì venienti dal peccato e inclinanti al peccato; poichè tali atti, non voluti dall' uomo rinato, non sono una « deviazione della volontà dal fine«, al quale anzi la volontà del giusto intimamente unita e via più si stringe, lottando contro di essi, e così dando prova di amare Iddio suo fine. Nè pure dunque al peccato originale, sebbene fisicamente necessario per riguardo al bambino, può negarsi la forma di peccato; e il farlo contraddirebbe alle parole del Sacrosanto Concilio di Trento, che dicendo: [...OMISSIS...] , riconosce nell' originale « la vera e propria ragion di peccato« » che equivale a dire la forma vera e propria di peccato. Conviene dunque togliere l' equivoco delle parole, e invece di negare che ci possa essere un peccato formale , necessario, è da negarsi che ci possa essere una colpa formale rispetto alla persona che soggiace alla necessità: con che si chiude la bocca ad un tempo ai Pelagiani e a' Giansenisti. 4.. Nè del pari si cautela abbastanza la dottrina cattolica contro l' eresia pelagiana dicendo col Lugo (2), che il peccato originale ne' bambini è solo « peccatum interpretative proprium ob inclusionem voluntatis propriae in voluntate Adae, tamquam tutoris humani generis ». L' istitutore di un tutore appartiene alla legge positiva civile, e non si può trasportare all' ordine naturale, se non come una vana metafora. Di poi, il tutore non si dà dalla legge civile a quelli che non sono ancora concepiti, e però non esistendo, non hanno diritti da tutelare. In terzo luogo il tutore può bensì rappresentare il pupillo riguardo a' suoi interessi temporali ed esterni, e può produrre degli effetti legali che modificano la condizione del pupillo nel foro esterno, ma non può assorbire in sè la personalità del pupillo, e tutto ciò che appartiene all' interiore moralità del pupillo stesso di maniera che il pupillo sia reo o sia buono in sè stesso solo perchè il suo tutore è reo o è buono: cosa assurda. La personalità d' ogni uomo è incomunicabile, non può essere contenuta in nessun' altra personalità: riguardo alla dignità personale e morale non solo il pupillo è indipendente dal tutore, ma anche il figliuolo dal padre e il servo dal padrone, ed era un enorme abuso di autorità, proprio solo del paganesimo, quello di considerare il figlio o il servo come una cosa , di cui la volontà del padre e del padrone potesse disporre anche per riguardo alla dignità morale, come abbiamo già dimostrato nella Filosofia del Diritto , e specialmente dove abbiam parlato de' diritti connaturali dell' uomo (1). In quarto luogo finalmente nè pure le leggi civili accordano al tutore il potere di abusare della sua autorità a danno del pupillo: e però l' autorità tutoria che si vuole attribuire metaforicamente ad Adamo non si potrebbe mai estendere a rendere tutti i nascituri da lui rei del proprio peccato, nè pure se Adamo avesse voluto, sia per l' intrinseco assurdo che c' è in un tale concetto, sia perchè neppur la legge positiva accorda o può accordare una tale autorità al tutore, sia perchè tutela non ci può essere finochè i pupilli stessi non esistono. In che senso dunque si può mai chiamare un peccato proprio solo interpretativamente quello in cui nascono i bambini? Quale interpretazione arbitraria e crudele volete voi fare a danno dei poveri bambini? Volete voi interpretare che se le volontà di tutti i bambini nascituri da Adamo fossero state presenti quando Adamo trasgredì il divino precetto, avrebbero anch' esse dato il loro consenso? Infatti i teologi chiamano intenzione interpretativa « cum quis nullam habet nec habuit intentionem actualem sed ita est dispositus, ut si adverteret, haberet . » Voi adunque giudicate che tutti i bambini nascituri, prima di essere infetti del peccato originale, sarebbero stati così disposti da consentire nel peccato adamitico. Ora non è questo un giudizio temerario? Che un uomo esista, e che, esistendo, abbia disposizione a consentire in un peccato avendone l' occasione, si potrà forse congetturare da certi segni, che dimostrano quella sua mala disposizione , e quindi si potrà in qualche modo, dire che interpretativamente e per via di mera congettura, è già in peccato. Ma di uomini, che non esistono ancora, e che non hanno nessuna precedente mala disposizione, perchè si suppone che non sieno ancora in peccato (trattandosi di spiegare come vengano a soggiacere al peccato), di uomini dalla libera volontà de' quali in istato ancor buono e perfetto dipende la scelta, si potrà egli dire che siano disposti a consentire nel male stesso, nel quale consentì il loro padre prima di generarli? Delle cose contingenti e molto meno della scelta che farà una volontà perfettamente libera non c' è ancora alcuna determinata certezza (se non davanti agli occhi di Dio che vede anche la scelta, perchè è presente ad ogni tempo): onde è impossibile interpretare , che tutti i milioni di nascituri, non già saranno disposti a scegliere il male (come vuole l' intenzione interpretativa), ma senza essere disposti precedentemente, nè inclinati a scegliere il male, lo sceglieranno liberamente. Attribuire adunque a tutti i bambini non ancora esistenti un peccato interpretativo è un collocare l' interpretazione dove non può esistere, è formare un giudizio temerario e calunnioso, ed è sostituire in fine vane parole al dogma della Chiesa cattolica. Per il che dobbiamo conchiudere, che nè pure in questo sistema la verità del peccato originale rimane sufficientemente difesa contro il Pelagiano che risponderebbe:« Voi difensore del dogma del peccato originale non credete poterlo difendere se non dicendo che è un peccato proprio del bambino solo interpretativamente. Questo ben mostra la debolezza del vostro assunto, perchè un peccato interpretativo, come il fate voi, non è peccato. Convenite adunque con noi che il peccato originale ne' bambini non esiste veramente, e non può esistere«. 49. Agli stessi inconvenienti soggiace il sistema di Vasquez (1) e d' altri teologi che deviarono dalla tradizione scolastica d' accordo con quella de' Padri, affine di rendere più facile l' intelligenza della trasfusione del peccato. Immaginarono essi un patto tra Dio e l' umana natura sussistente in Adamo, in virtù del quale Iddio ripose le volontà de' singoli nascituri in quella di Adamo, di maniera che se Adamo conservasse la giustizia si riputasse che le volontà di tutti l' avessero voluta conservare, se per opposto egli eleggesse l' ingiustizia, anche le volontà di tutti i suoi figliuoli non ancora esistenti si considerassero rei di non averla conservata. E` difficile l' assegnare una differenza veramente sostanziale tra tale pensiero e quello di Giansenio, che diceva bastare la volontà libera di Adamo, acciocchè fossero imputati a' suoi figliuoli i loro atti non liberi: o piuttosto quel patto, se si potesse ammettere, sarebbe un modo di coonestare e giustificare la sentenza gianseniana. Ma in nessuna maniera si può ammettere. Primieramente, perchè la dignità personale, a cui spetta la moralità, non può essere materia di un contratto o di un patto, sia che questo patto lo faccia la stessa persona della cui dignità e moralità si tratta, sia molto meno che lo facciano de' terzi. In secondo luogo, perchè in Adamo c' era bensì la natura umana, ma non la persona de' suoi discendenti, della cui sorte si tratta, giacchè in quella natura non sussisteva che la sola persona di Adamo, e non quella di coloro che non esistevano ancora. In terzo luogo sarebbe un patto inonesto tanto da parte di Dio, quando da parte di Adamo, quanto da parte de' suoi discendenti, il cui consenso si presume. Da parte di Dio, il quale dispone delle sue creature cum magna reverentia , quando con quel patto disporrebbe della giustizia e ingiustizia dei posteri di Adamo, senza loro intervento e senza che nè pure esistessero: e ne disporrebbe preconoscendo con certezza che il patto andrebbe a finire male, cioè che la conseguenza del patto sarebbe stata quella di rendere rei di morte eterna tutti i discendenti del primo padre in virtù di un solo atto di questo, senza alcuna loro partecipazione: quando, se Iddio potesse fare un contratto simile, per la sua infinita bontà, non potrebbe farlo che a loro favore e vantaggio. E dato, per supposizione impossibile, che a Dio fosse stato ignoto l' abuso che Adamo avrebbe fatto della sua libertà; ancora rimarrebbe che lo stato di giustizia o d' ingiustizia de' posteri di Adamo, e quindi la loro eterna sorte, sarebbe stata esposta ad una specie di giuoco di sorte, poichè l' elezione libera di Adamo poteva esser fatta egualmente in senso bono e in senso non bono . Sarebbe stato inonesto dalla parte di Adamo, che non poteva nè avere alcuna autorità di patteggiare della moralità de' suoi futuri discendenti, nè poteva senza presunzione o temerità farla dipendere da un atto suo proprio, sapendo di essere fallibile, sebbene costituito in grazia. Sarebbe stato inonesto dalla parte degli stessi discendenti, volendo attribuir loro non esistenti ancora un assenso interpretativo, giacchè nessun uomo può lecitamente fare che l' esser egli giusto od ingiusto, innocente o peccatore, dipenda da un atto di un altro uomo: non potendo rinunziare alla propria responsabilità in cosa di tanto momento. Al che si aggiunge l' assurdo che si contiene nel pensiero, che la giustizia e l' ingiustizia di una persona umana possa mettersi in essere, non da una loro propria azione o passione, ma dall' azione di un' altra persona; come chi patteggiasse che se un' altro mangierà un cibo avvelenato, sarò avvelenato io che non ne ho mangiato; e chi mangierà un cibo salubre, ne starà bene il mio stomaco al pari del suo. Un sistema pieno di tante difficoltà e assurdi non poteva venire in mente, se non perchè dimenticandosi il concetto di peccato che è quello di disordine inerente alla persona, altro non si cercò di spiegare se non il concetto di colpa senza il substratum del peccato, che è la materia imputabile a colpa, onde si pensò come si potesse applicare la colpa a chi non aveva peccato. Egli è chiaro che anche con questo sistema hanno buon gioco i Pelagiani, i quali possono dire a un teologo che così ragiona:« Voi fate dipendere il peccato originale de' bambini da un patto che altri hanno fatto senza di essi: con questo venite a confessare che essi in sè stessi non hanno peccato alcuno, ma che loro viene imputato l' altrui peccato, pel buon volere di altri, a cui è piaciuto di fare un patto pel quale si obbligarono, in caso che Adamo avesse peccato, di imputar loro questo peccato!«. 50. E non meglio, per quanto io vedo, provvede all' illustrazione e alla difesa del dogma cattolico del peccato originale ne' bambini contro quelli che lo impugnano, il sistema di que' teologi, che fanno consistere questo peccato nella sola privazione dell' ordine soprannaturale, a cui il primo uomo era stato elevato per mezzo della grazia santificante. Essi si persuadono d' essersi con questa invenzione fabbricato un istrumento, dirò così, a due manichi, prendendolo dall' un de' quali possano dimostrare ai Cattolici la loro perfetta ortodossia nell' ammettere il peccato originale, prendendolo dall' altro possano dimostrare agli increduli che spacciano questo dogma contrario alla ragione, che esso non involge nè pur l' ombra o l' apparenza di difficoltà, e che quindi essendo facilissimo a spiegarsi e a dimostrarsi conforme alla ragione, si possa risparmiar loro quello che S. Agostino diceva a Giuliano: « Si potes, intellige; si non potes, crede (1), » e si possano considerare come esagerate quelle altre parole del santo Dottore, che però esprimono il sentimento di tutta la tradizione, prima de' nuovi teologi di cui parliamo: [...OMISSIS...] . 51. Coi Cattolici questi teologi dimostrano il peccato originale così: « La vita dell' anima è la grazia santificante: la privazione di questa grazia è dunque la morte dell' anima, e però in questa consiste il peccato originale ne' bambini. Avvertite però che c' è differenza tra la mancanza ossia carentia della grazia, e la privazione . Il peccato originale consiste nella privazione della grazia e non nella semplice carenzia. La differenza è questa: Iddio poteva crear l' uomo senza la grazia santificante e di conseguenza senza l' ordine soprannaturale: in tal caso gli sarebbe mancata la grazia soprannaturale, ma non sarebbe stato per questo peccatore, nè morto dell' anima, perchè Iddio avrebbe decretato fino a principio di non dargli una cosa che non gli era dovuta. Ma Iddio costituì Adamo nella grazia santificante, e fece a principio il decreto che sarebbe passata a' suoi discendenti s' egli non avesse peccato, benchè ben sapeva che avrebbe peccato. Avendo dunque Adamo perduta colla sua disubbidienza la grazia, i suoi discendenti, benchè non abbiano disubbidito, sono restati privi della grazia, che posto il decreto di Dio era loro dovuta: e però questa mancanza di grazia in essi non è semplice mancanza in essi, ma privazione , e così, atteso quel divino decreto, sono peccatori, morti nell' anima, schiavi del demonio, ecc.«. Così provano l' esistenza del peccato originale ne' bambini. Rivolgendosi poi agli increduli, che dicono essere contrario alla ragione che un bambino che ancora non ha posto alcun atto di sua libera volontà, deva avere in sè un vero peccato che lo renda oggetto dell' ira e dell' indignazione di Dio, parlano loro in questo modo:« Non c' è la menoma repugnanza colla ragione: e voi non siete bene informati che cosa si intenda pel peccato de' bambini. Per questo peccato altro non s' intende se non che viene loro tolto quello che non è per sè stesso dovuto alla loro natura: la natura l' hanno tutta senza lesione o ferita di sorte: ma i doni soprannaturali che non appartengono alla natura, Iddio se li ritiene senza concederli loro: ecco che cosa è il peccato originale. Vedete dunque che non solo qui non c' è assurdo, ma nè pure c' è la minima difficoltà: e il modo della sua propagazione è tanto piano che non può nè manco essere oggetto di una questione, perchè non si vede alcun motivo di dimandare « quomodo propagetur quod non est , » come dice un chiaro teologo« (1). 52. Non so a dir vero che cosa l' incredulo, udendo che il peccato originale non è finalmente altro che questo, non è nulla che pregiudichi veramente all' umana natura che solo rimane per esso spoglia di quello che per sè non le appartiene, sarà per dir poi di tanti lamenti e vituperi, di cui è piena la dottrina e la tradizione cattolica intorno all' originale peccato come a somma calamità e sciagura caduta addosso al genere umano, da volerci la morte di un Uomo7Dio per ripararla: e se egli non riputerà forse di essere ingannato o da nuovi teologi, o dagli antichi, con danno ed onta della cattolica fede. Ma lasciando lo scandalo che possano prendere gli eretici confrontando la nuova espressione del dogma coll' antica e perpetua, noi restringiamoci a confutare il sistema proposto in sè stesso. 53. L' uomo, si dice, poteva essere creato da Dio come nasce al presente non adorno della grazia santificante. L' uomo che fosse stato così creato, e l' uomo qual nasce al presente sono nè più nè meno, per riguardo ad essi, nella stessa condizione della natura umana. Ma in quello la privazione della grazia non sarebbe peccato, e però con quello Iddio non sarebbe irato nè indegnato, in questo la stessa privazione della grazia è peccato e però Iddio con questo è irato e indegnato. Da che nasce questa differenza, per la quale la stessa identica condizione naturale nell' un caso non è peccato, nell' altro è peccato? Rispondono:« Nasce da un decreto di Dio: nel primo caso Iddio non avrebbe fatto il decreto che gli uomini che nascessero da un padre costituito nella grazia santificante, ereditassero anch' essi la grazia: e avrebbe anzi decretato che tanto il padre, quanto i figli rimanessero nello stato naturale. Nell' altro caso Iddio ha decretato che il padre fosse costituito in grazia, e che se la perdesse, la perdesse per tutti i suoi discendenti: perciò questi nascendo senza la grazia hanno il peccato; laddove i primi nascendo senza la grazia non avrebbero il peccato«. In questo sistema dunque il peccato originale de' bambini dipende da un decreto di Dio: secondo che a Dio piacque di fare piuttosto uno che un altro decreto, essi senz' altro, o sarebbero peccatori o nol sarebbero: benchè in quanto ad essi niente è mutato, nell' un caso non hanno in sè nè più nè meno dell' altro: non c' è in essi altro difetto inerente che abbia per sè ragion di peccato: ma quello che non ha per sè ragion di peccato, cioè la mancanza della grazia, diviene tale per un decreto positivo di Dio, che Iddio poteva non fare. Di qui sembrano venirne più assurdi e difficoltà: a ) Che Iddio col suo decreto è il vero autore del peccato ne' bambini, cangiando col detto decreto in peccato ciò che senza il detto decreto non sarebbe peccato. b ) Cresce questo assurdo, quando si consideri che quel decreto di Dio, pel quali stabilì che la giustizia o il peccato del padre Adamo debba passare ai posteri, e così sia loro dovuta l' una o l' altro, non è un decreto condizionato, se non al nostro modo di concepire, nè è un decreto che stabilisca una vera alternativa da parte di Dio: perchè Iddio ben sapeva che Adamo non avrebbe già conservata la giustizia ma avrebbe peccato, e questo stesso peccato era contenuto nel decreto totale di Dio, perchè Iddio non fa già molti decreti, ma con un solo decreto stabilì tutta l' economia del governo dell' umanità e della sua salute. Iddio adunque sapea di certo che Adamo avrebbe peccato, e se egli decretò che il peccato di lui passasse ai posteri, egli non fece un tal decreto sopra una ipotesi, o sopra una vera alternativa come accade degli uomini, ma egli avrebbe con ciò costituiti col suo decreto positivo tutti i discendenti peccatori, privandoli della sua grazia, e attribuendo a questa privazione, secondo tal sistema, ragione di peccato. c ) Un tale sistema contiene ancora questo assurdo, che un decreto positivo cangerebbe la natura delle cose, non dico già un decreto efficace che influisce e cangia colla sua operazione le cose, ma un decreto che lascia la cosa qual' è. Ella non può cangiare certamente di natura solo pel buon volere di chi decreta che sia un' altra, quando la sua natura non diviene un' altra. Così nell' uomo creato nell' ordine naturale, e nel figliuolo generato da Adamo, la mancanza di grazia è e rimane in sè la stessa, ma questa identica senza subire alcuna modificazione, solo perchè nell' un caso Iddio decretò di non voler dare la grazia, non ha natura di peccato, nell' altro caso solo perchè decretò bensì di non volerla dare a' discendenti di Adamo, ma che l' avrebbe loro data se Adamo non avesse peccato, sapendo già egli che avrebbe peccato, questa privazione acquistò la natura di vero peccato, che non aveva prima. d ) In un tale sistema inventato per ovviare le difficoltà nascenti dall' essere il bambino reo di peccato senza aver preso alcuna parte al peccato di Adamo, ritornano in campo, anche con maggior apparenza, rimanendo sempre a spiegare come Iddio potesse, salvi i suoi divini attributi di bontà e di giustizia, rendere il non dare la grazia al bambino (il che dipende unicamente da lui cioè da un suo libero decreto) un peccato del bambino, tale da fare che il bambino per sè innocente diventi un oggetto della sua ira e della sua indegnazione, degno di eterna condanna, morto dell' anima, schiavo del demonio, ecc., cose tutte che sarebbero concertate nel consiglio di Dio, senza intervento alcuno del bambino stesso, della cui sorte nelle mani di Dio si sarebbe così infelicemente disposto. 54. Ma per vedere più chiaramente quanto manchi a un tale sistema a poter vantarsi di rappresentare fedelmente il dogma cattolico e a difenderlo contro l' eresia, gioverà intendere ed esaminare le ragioni de' suoi fautori, o, per meglio dire, quelle vane frasi di parole e distinzioni di cui lo vestono, perchè ora vi dicono che il bambino è peccatore perchè non semplicemente nudo, ma spogliato della grazia santificante; ora che questa mancanza è peccato perchè non è sola mancanza ma privazione; ora perchè la detta grazia non è per lui cosa estranea alla sua natura, ma dovutagli; ora perchè costituisce un' avversione a Dio, ma non positiva, ma solamente negativa ; ora finalmente credono di trovare il saldo fondamento di un tale loro sistema nelle proposizioni condannate in Baio e in Giansenio. E` dunque a esaminare la solidità di queste molteplici e diverse maniere di cui si riconosce aver bisogno il sistema di cui parliamo, affinchè possa essere insinuato nell' altrui persuasione. a ) Se un uomo, dicono, venisse creato da Dio nudo della grazia santificante, questa nudità non costituirebbe per lui alcun peccato: ma se un uomo viene spogliato della grazia e per questo rimane nudo di essa, questa condizione di spogliato lo costituisce in istato di vero peccato, e però il bambino nasce in peccato. Qualunque sia la verità di questa asserzione, essa potrà convenire ad Adamo che fu veramente vestito e poi spogliato della grazia santificante (non però per sempre): ma il bambino che nasce da Adamo non fu mai vestito, e però non fu mai spogliato da Dio. Rispetto poi ad Adamo egli fu spogliato della grazia santificante a cagione del suo peccato. L' aver dunque Iddio tolto ad Adamo la grazia non poteva essere il peccato di Adamo che ne fu la giusta causa, ma solo la pena e la conseguenza del peccato. Che se in Adamo questo spogliamento non costituì il peccato, molto meno può costituirlo ne' bambini, il peccato de' quali è uno solo nella sua origine con quel di Adamo, e della stessa specie del peccato abituale di lui, benchè numericamente diverso. Altramente sarebbe passato ne' posteri solo quello che in Adamo non era peccato, contro il dogma, che, come dice S. Tommaso, « solum primum peccatum primi parentis in posteros traducitur (1), » e non sarebbe più uno di specie. [...OMISSIS...] Ma rispondono, se il bambino non fu spogliato di fatto, fu spogliato di diritto, perchè aveva diritto alla grazia. Ma perchè aveva diritto? pel decreto fatto prima da Dio: senza questo decreto che Iddio, secondo gli avversarii, potea non fare, il bambino non aveva alcun diritto. Il peccato dunque del bambino ha per vera causa quel decreto di Dio: e così tornano in campo le difficoltà precedenti. Che se si dice che il bambino avea diritto non per decreto di Dio, ma per qualche altra ragione, convien dare quest' altra ragione, e torneremo nel ginepraio delle difficoltà. Ma suppongasi che il bambino sia stato spogliato della grazia. L' esser spogliato da altri è egli un peccato? S' intende che lo spogliatore possa essere peccatore se spoglia altrui della veste ingiustamente: ma che colui che viene spogliato, e che non può impedire al più forte di spogliarlo, per questo sia costituito peccatore, chi lo può intendere? O dunque Iddio spogliò il bambino della grazia ingiustamente, e allora il peccato ricade in Dio, o giustamente, e allora bisogna dire qual ragione di giustizia ci aveva di spogliare il bambino innocente di quella veste, e torneranno tutte le difficoltà che si volevano evitare, converrà di nuovo spiegare il detto di S. Paolo in quo omnes peccaverunt , e dopo di ciò ne verrà che il bambino rimarrà spogliato della grazia pel suo proprio peccato, e però lo spogliamento seguirà come pena al peccato, e non sarà il peccato stesso, il quale conterrebbe solo la ragione per cui quello spogliamento sia giusto. b ) Gli argomenti a favore di questo sistema reincidono sempre nel medesimo: i suoi fautori non moltiplicano che le parole e le sottili e puramente logiche distinzioni per darvi credito. Così vi dicono: noi distinguiamo la carenza della grazia santificante dalla privazione della medesima. Se Iddio avesse voluto creare l' uomo nell' ordine della natura, la mancanza della grazia santificante nè sarebbe peccato, nè sarebbe morte dell' anima, benchè prima dicano in universale che la detta grazia sia la vita, e che la mancanza della vita sia la morte dell' anima. Ora non più: non ogni mancanza della grazia è morte dell' anima, ma solo quello che è privazione. Poichè avendo Iddio decretato di dare la grazia a Adamo e a' suoi posteri, non dandogliela, tale mancanza è privazione , e così vogliono che sia morte dell' anima e peccato. Or che Adamo si sia demeritata la grazia, questo è chiaro per la sua prevaricazione, e però che Iddio l' abbia punito col privarlo della sua grazia, questa è necessità e patente giustizia. Ma questa privazione della grazia in Adamo è pena conseguente al suo peccato, e non è il peccato stesso commesso da Adamo. Ma riguardo ai bambini, che non hanno peccato, ci dicano come sia giusto il privarneli. Negano che abbiano in sè alcun peccato? perchè dunque privarli della grazia, perchè pretendere di più che questa stessa privazione sia per essi peccato? Che se dicono avere ereditato il peccato; in tal caso certo è giusto che sieno privati della grazia. Ma allora altro è il peccato da essi ereditato, altro la pena della privazione della grazia. questa pena è giusta perchè dovuta al peccato che è in essi. Rimane dunque sempre a spiegare come in essi sia il peccato; cioè rimane quella difficoltà che si vuole evitare, cangiando quello che è pena del peccato in peccato: e così distruggendo il peccato stesso ne' bambini, ai quali si lascia solo la pena, senza che ne apparisca la giustizia. Di poi la parola privazione in un tale discorso, si prende in un senso largo ed improprio. Poichè privazione in senso proprio è solamente quando manca ad un subbietto ciò che dovrebbe avere per sua propria natura. « Carentia formae in subiecto apto nato . » Ora i nostri teologi sostengono che al bambino che nasce, per sua natura, niente manca, perchè gode della natura umana senza ferita o lesione alcuna. La natura umana adunque in tale stato non ha veramente alcuna privazione , nulla al bambino manca di quello che è nato atto ad avere, poichè esser« nato ad avere«, vuol dire che è atto per sua natura ad avere. Ma i nostri teologi dicono:« Questo è vero se si riguarda la natura umana, ma se si riguarda il disegno che aveva Iddio su di essa, di rivestirla cioè di grazia santificante, questa grazia, in virtù di tal decreto, è divenuta una cosa appartenente alla natura stessa dell' uomo«. Loro si può facilmente rispondere, che Iddio con un suo decreto non può fare che quello che non appartiene a una natura, le appartenga, perchè sarebbe una contraddizione. Rimane dunque, che la natura umana nel bambino abbia tutto quello che essa esige come tale, e più che non abbia alcuna privazione in sè stessa. Replicheranno, che pure il non avere quel più che potrebbe avere, e che avrebbe avuto, se Adamo non avesse peccato, è una specie di privazione, sebbene questo più non sia dimandato dalla natura stessa. Si ricorre dunque al vocabolo di privazione , dando a questa parola un' estensione maggiore di quella che le è propria, per accomodarla al sistema. Ma non si accomoda tuttavia. Poichè questa pretesa privazione consisterebbe in una relazione tra il disegno di Dio e la natura umana oggetto di questo disegno. In tal caso una tal sorta di privazione non sarebbe inerente a ciascun bambino, perchè un estremo della relazione, cioè il decreto di Dio, non è qualche cosa che inesista nel bambino (che anche l' ignora), ma è cosa che esiste solo nella mente e nella volontà di Dio. Mancando dunque nel bambino un estremo della relazione, e le relazioni avendo bisogno per esistere de' due estremi, apparisce che la relazione di cui si tratta, può esistere bensì in una mente che col pensiero abbraccia nello stesso tempo e il bambino, che ha la natura umana senza difetto nè privazione alcuna, e Iddio, che ha in sè concepito il decreto di esaltare questa natura e che mette questi due estremi a confronto; ma non esiste perciò nel bambino stesso, che è un estremo e un estremo che non costituisce neppure nè il fondamento nè il principio della relazione, ma solo il termine. Non è dunque una relazione inesistente nel bambino; e però non si può dire nè pure privazione , poichè i filosofi insegnano, che la privazione deve inesister sempre in un subbietto vero e reale (1). Che se in questa relazione si pone il peccato d' origine, convien dire che questo peccato non esista nel bambino, contro quanto decise il Concilio di Trento, ma che un tal peccato altro non sia che una relazione esterna al bambino medesimo e un ente di ragione. In terzo luogo, dato anche si possa chiamare privazione, in vece di semplice carenzia, la mancanza della grazia santificante nel bambino, è provato con questo che egli sia in peccato? Non ogni privazione è peccato: la pena, a ragion d' esempio, è anch' essa una privazione e non però un peccato. E se volete sostenere che la privazione della grazia nel bambino costituisca il suo peccato, non ricadete con ciò in quelle difficoltà stesse che col vostro sistema credete evitare? Poichè il bambino nulla ha contribuito a una tale privazione che gli si fa subire. Si è forse egli meritata con un atto di suo libero arbitrio questa privazione? Come è egli dunque peccatore, se pur voi intendete ch' egli abbia in sè un vero peccato, come l' intende la Chiesa Cattolica? 55. Di poi S. Tommaso, che questi teologi citano, e a dir vero con poca sincerità, come favorevole alla loro opinione, insegna e dimostra apertamente, che il peccato originale non può consistere in una pura privazione, ma che egli è un abito corrotto: [...OMISSIS...] . E qui si osservi come S. Tommaso distingua nel peccato attuale « ipsam substantiam actus, et rationem culpae (2) » e nel peccato originale in luogo della sostanza dell' atto distingue la sostanza dell' abito della natura, che chiama « quaedam inordinata dispositio ipsius naturae (3), » il che torna alla distinzione tra il peccato entitativamente considerato che è la sostanza dell' abito, e la colpa che è l' imputazione del medesimo « in quantum derivatur ex primo parente . » Ottimamente dunque distingue tra la materia dell' imputabilità, e l' imputabilità stessa. Ma i nostri teologi stabiliscono una imputabilità senza materia, perchè non ammettono nella natura del bambino nessun disordine che si possa imputare, e la privazione della grazia, che è la pena conseguente all' imputabilità stessa, vogliono che sia il peccato ad un tempo imputabile e imputato, il che è antilogico ed assurdo. Laonde se S. Agostino rimprovera giustamente a' Pelagiani di fare ingiusto Iddio perchè puniva i bambini senza che in essi ci avesse alcuna materia d' imputazione: [...OMISSIS...] , che cosa avrebbe poi detto il santo Dottore di un sistema che pretende, che la stessa privazione della grazia con cui sono puniti i bambini, dalla qual privazione provengono tutti gli altri loro mali, costituisca la stessa materia dell' imputazione, lo stesso peccato imputabile? Non vince questo nuovo sistema, almeno in assurdità, lo stesso pelagianismo? Non così certamente S. Tommaso, il quale riconosce che, non volendo fare ingiuria all' infinita bontà e giustizia di Dio, conveniva che la ragione per la quale negava loro la grazia santificante conferita alla natura umana in Adamo, si trovasse ne' bambini stessi, cioè fosse appunto il peccato da essi ricevuto per via di generazione, il quale mettesse ostacolo alla grazia: onde il peccato nel bambino lo chiama contrarium prohibens, dicendo: [...OMISSIS...] . E però dice appresso, che la mancanza della divina visione è pena e del peccato originale che è nei bambini, e dell' attuale di Adamo (2). E però, coerentemente a questa dottrina dice ancora, che la remissione del peccato importa due cose 1. la restituzione della grazia, e 2. la remozione dell' impedimento che impediva la grazia di essere ricevuta nel peccatore: [...OMISSIS...] , laddove i nuovi teologi che fanno consistere il peccato nella sola privazione della grazia, devono ridurre la remissione della colpa alla sola restituzione della grazia, e non all' impedimento che poneva il peccato alla medesima; il che è un nuovo e manifesto errore. 56. c ) L' uomo dunque che fosse creato colla sola natura, e il bambino che ora nasce da Adamo, secondo questo sistema, trovansi nella stessa interezza di natura. Ma nel primo l' assenza della grazia dicesi mancanza o carenza, nel secondo dicesi privazione, perchè al secondo la grazia era dovuta e non al primo. La qual distinzione, quand' anche fosse solida non porterebbe ancora per conseguenza, come vedemmo, che nel secondo ci fosse un peccato, perchè a costituire un peccato non basta una semplice privazione. Ma questo concetto di grazia dovuta merita che non resti nè pur esso un concetto confuso, ma dev' essere chiarito, acciocchè s' intenda bene che cosa vi si contenga. In generale e assolutamente parlando, che la grazia sia dovuta all' uomo non si può dire, « alioquin gratia jam non est gratia (4). » L' averla una volta data al primo uomo, questo solo non costituisce nell' uomo un diritto d' averla anche in appresso: poichè essendo la grazia cosa di Dio, egli può darla e riprendersela senza fare ingiuria a nessuno. Nè pure il proposito che fece Iddio di dare la sua grazia al genere umano, costituisce in questo un diritto di averla, poichè Iddio salva quelli che sono predestinati alla salute « secundum propositum gratiae Dei (1). » E pure questo proposito e disegno misericordioso di Dio, non cangia natura alla sua grazia, rimanendo grazia, e non debito, nè mercede. Ciò dunque che può costituire un titolo di diritto non è che una formale promessa da Dio fatta liberamente all' uomo, come sono le promesse di Cristo ai credenti. Ma ai bambini che nascono non fu fatta alcuna promessa: essi non conoscono quando nascono, che loro sia fatta promessa acuna, nè sono in caso di accettare la promessa che non conoscono, e pure la promessa dee essere in qualche modo accettata acciocchè costituisca un diritto. Per questo anche l' antico Testamento o patto stretto da Dio col suo popolo si fece con solennità tra le due parti contraenti (2); e il nuovo Testamento o patto si fa coi credenti, i quali colla loro fede accettano le promesse di Cristo, e lo stesso conferimento del battesimo, secondo l' ecclesiastica tradizione, prende forma di un patto bilaterale. Se dunque i bambini che nascono non hanno alcuna cognizione del proposito fatto a principio da Dio di conferir loro la grazia, quando il loro stipite avesse conservata la giustizia, qual è il titolo al diritto che si suppone in essi, pel quale la grazia sarebbe stata loro dovuta? Converrà dunque ricorrere a un patto fatto da Dio con Adamo anche in nome loro. Ma primieramente la Scrittura non fa di questo patto espressa menzione, onde rimane un' ipotesi congetturale, su cui non si possono stabilire i dogmi inconcussi della fede cattolica, specialmente a fronte degli eretici: di poi abbiamo già veduto quali e quante difficoltà involga un patto di questa sorte. E` bensì vero, dunque, che i bambini, se Adamo non avesse peccato, sarebbero nati in grazia, per l' eterna e misericordiosa economia del Creatore, ma che la grazia sarebbe loro stata dovuta in modo che essi ne avessero avuto un vero diritto, questo è quello che non si prova, e solo viene asserito da tali teologi, che obbligati in fine a supporre un patto con Adamo, invece di rendere più facile l' intelligenza del peccato di origine de' bambini, ricadono nelle difficoltà che promettevano facilmente evitare e in altre maggiori. 57. d ) A un' altra distinzione futile di parole i fautori di un tale sistema ricorrono, affinchè non offenda troppo le pie orecchie. Tra la conversione e l' avversione c' è l' indifferenza . Riguardo a una persona che io non conosco, non posso essere nè avverso nè converso coll' animo mio, ma solo indifferente. Ora risulterebbe dal detto sistema che il bambino non fosse avverso a Dio, nè converso al bene commutabile; ma il dir questo s' opporrebbe a tutta la tradizione cattolica. I nostri teologi adunque introducono una distinzione dicendo che c' è un' avversione positiva e un' avversione negativa, e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione. Così mutando il nome a quello stato negativo d' indifferenza, e chiamandolo avversione [ negativa ], e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione, coprono il difetto del sistema, introducendo nella sacra Teologia di quelle distinzioni futili e verbali, che tanto la discreditano presso gli eretici. L' avversione indica sempre qualche cosa di positivo, come pure la conversione , avvertendo anzi S. Tommaso che l' avversione e la conversione sono il medesimo, colla sola differenza di termini verso i quali si riguardano (1). Dal che non ne vengono menomamente le conseguenze gianseniane che se ne vogliono derivare, come diremo in appresso. Laonde S. Agostino riunisce l' avversione e la conversione nella stessa definizione del peccato dove dice, che [...OMISSIS...] . 5.. e ) Finalmente i fautori di questo sistema abusano delle proposizioni condannate in Baio, citandole senza darsi cura di osservare in qual senso furono a ragione condannate. Ne darò due soli esempi. La propos. 47 dice: [...OMISSIS...] . Di qui essi deducono francamente, che il nome di peccato applicato a quel de' bambini deesi intendere di un peccato che sia tale non in sè, « sed quia rationem habet ad peccatum Adami (2). » Ma il dire che il peccato in cui nascono i bambini, e che inest unicuique proprium secondo il Concilio di Trento, non è peccato in sè stesso, è egli conforme al dogma cattolico? Non è lo stesso che negare il peccato originale, riducendolo a una sola relazione esterna tra una cosa che non è peccato ed una cosa che è peccato, cioè al peccato personale di Adamo? Non sarebbe stato contento Pelagio, se gli si avesse conceduto dai campioni della fede che lo combatterono, che ne' bambini che nascono nulla si rinviene che sia peccato in sè, ma che quello che non è in sè peccato si chiama o si considera come peccato (così diceva appunto uno degli autori a cui noi rispondiamo) (3), unicamente perchè fu un effetto della libera trasgressione di Adamo? E` dunque a considerarsi che quella proposizione fu condannata in Baio, perchè questo Dottore parlava dell' imputazione e del merito del peccato de' bambini, e voleva che fosse imputabile e demeritorio, senza riferirla alla libera volontà di Adamo, il che è quanto dire avesse ragione di colpa perchè il bambino non fa un atto contrario, cioè un atto che non può fare; onde ammetteva la colpa e il demerito senza la libertà. S' aggiunga, che se quella proposizione condannata in Baio non s' intenda con discernimento teologico si urta nello scoglio del giansenismo per troppa voglia di evitare il baianismo. Poichè come nel sistema di Baio basta al peccato originale la volontà non libera del bambino, così nel sistema di Giansenio basta la volontà di Adamo, che nel bambino non solo non è libera, ma nè pure esiste. E questo si può vedere nell' Augustinus (1) dove al capo 4 si sostiene appunto che [...OMISSIS...] . I fautori poi del sistema che esaminiamo, citano tanto più a sproposito quella proposizione condannata in Baio, che la vera causa, per la quale la privazione della grazia ne' bambini essi vogliono che sia peccato, non è già propriamente l' atto della libera prevaricazione di Adamo, la quale è soltanto una condizione: ma sì bene il decreto di Dio di dare a tutto il genere umano la grazia, se Adamo fosse stato fedele, e di toglierla se fosse stato infedele, il qual decreto Iddio poteva fare e non fare. In virtù di questo decreto dunque, dicono, che la grazia era dovuta alla natura umana, e che medesimamente in virtù di esso gli fu tolta, ed essendogli tolto ciò che gli era dovuto, questo fece sì che tal privazione si dovesse chiamare peccato . Di che viene indeclinabilmente, come abbiam già osservato, che quella disposizione divina sia ciò che dà forma o piuttosto il nome di privazione e di peccato a tale mancanza di grazia, e non la volontà di Adamo: il che è un collocare in Dio stesso, cioè nel suo decreto, la causa del peccato ne' bambini, e non nella libera disubbidienza del primo padre. Con minore efficacia ancora abusano della proposizione 55: « Deus non potuisset ab initio talem creare hominem, qualis nunc nascitur, » deducendone che dunque al presente l' uomo nasce senza alcuna ferita nella sua natura, e talora dando la taccia di eretici a quelli che professano il contrario. Ma basta conoscere i primi elementi della teologia cattolica per non ignorare che questa è una di quelle proposizioni di cui S. Pio V nella sua Bolla dice, che « aliquo pacto sustineri possunt, » benchè in altro senso da quello di Baio, su di che rimettiamo il lettore a quanto ne scrisse il P. Filippo da Carboneano, uno dei tre teologi che Benedetto XIV solea consultare, nel suo solido trattatello De propositionibus ab ecclesia damnatis (2). Quivi riprende, tra gli altri teologi lo Sporer e Felice Potestà per le spiegazioni date alle dette proposizioni Baiane, [...OMISSIS...] . E dimostra come queste ed altre proposizioni sono sostenute in un senso ben differente da quello di Baio dalle più celebri scuole cattoliche in Roma, sotto gli stessi occhi del Papa, e quanto replicatamente i Sommi Pontefici abbiano vietato, sotto precetto di ubbidienza, d' accusar d' eresia i loro sostenitori. Tali proposizioni baiane dunque nulla provano, se chi le adduce non ne spiega prima il senso nel quale furono dannate e non dimostra che l' autore che accusano le prende in quel senso. Concludiamo adunque da tutto ciò che neppure questo sistema, che ricade in quelli che abbiamo esaminati precedentemente, ha in sè alcun valore per abbattere l' eresia di Pelagio, il quale può dire a tali teologi: « Voi mi concedete che il peccato originale, che i cattolici attribuiscono al bambino, non è peccato in sè stesso, ma che solo così si chiama relativamente a un decreto di Dio che aveva stabilito che così si considerasse qualora Adamo suo padre avesse trasgredito il divino precetto: voi dunque convenite meco nel fondo, dissentite solo nelle parole per salvare le apparenze«. 59. Servano adunque questi esempi di un saggio di que' sistemi inventati modernamente intorno alla dottrina del peccato originale, i quali non hanno virtù d' abbattere ad un tempo le due opposte eresie del pelagianismo e del giansenismo: e di attenersi agli insegnamenti più solidi degli antichi. E per rispetto al pelagianismo (giacchè del giansenismo ci riservammo di parlare all' articolo seguente) dicemmo che tutta la forza dell' obbiezione pelagiana si riduce a sostenere che« l' ordine morale, a cui appartiene il peccato è opera così esclusivamente propria della volontà umana, che non può essere un fatto della natura« come sarebbe il peccato dei bambini, se fosse vero che l' ereditassero insieme colla natura per generazione, e che per confutare direttamente una tale obbiezione conviene dimostrare il contrario, esservi cioè una moralità ed un peccato distinto dalla colpa, che non alla sua volontà, ma alla stessa natura può, senza alcun assurdo, appartenere. 60. E veramente i Pelagiani caddero nell' eresia, perchè vollero filosofare invece di credere, non avendo tanto di filosofia che bastasse a sostenerli dall' errore. Essi posero sempre in opposizione la natura e la volontà , senz' avvedersi che tra queste due cose non passa quella separazione che s' immaginavano (1). Infatti la volontà è una natura anch' essa, e come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Laonde si distinguono due movimenti o modi di operare, della volontà, l' uno che ubbidisce necessariamente alla natura, e s' attribuisce alla volontà come natura, voluntas ut natura, l' altro che è libero, e si attribuisce alla volontà come volontà, voluntas ut voluntas, i quali due modi dagli scolastici, seguendo S. Giovanni Damasceno si chiamarono il primo «thelesis» e il secondo «bulesis» (3), denominazioni atte a segnare la volizione diretta, o intenzione, e il consiglio . Secondo questa distinzione di atti, o, se più piace, di funzioni della volontà, procede S. Tommaso, distinguendo la volontà semplice dal libero arbitrio, osservando che quella corrisponde all' intelletto, e questo alla ragione: [...OMISSIS...] . 61. Questa distinzione fu sconosciuta o trascurata non meno dai Pelagiani che dai Giansenisti, ed è quella, come abbiamo accennato, che tronca con un solo colpo la radice de' due opposti errori. Ma vediamone a bell' agio le conseguenze: a ) Primieramente da essa nasce la distinzione del peccato semplice che ha nozione di peccato astraendo dalla libera volontà, dalla colpa che esige il libero arbitrio: quando i Giansenisti disconobbero la natura di questa seconda, confondendola col primo; i Pelagiani, non tenendo conto che di questa seconda, negarono il primo. b ) Con altre parole, essendo la moralità, secondo la definizione che ne abbiam data,« l' abitudine che ha la volontà cogli oggetti della legge eterna« ne viene, che come è doppio il modo di operare e di essere abitualmente della volontà, l' uno naturale, l' altro elettivo, due devono essere le specie di moralità ben distinte che si manifestano in essa, l' una dipendente dalla natura degli oggetti che essa apprende e a cui aderisce come a fine, e questa specie di moralità non dipende attualmente e necessariamente dall' atto del libero arbitrio, in maniera che quell' atto elettivo entri a costituire la sostanza di quella moralità; l' altra dipendente dalla sua propria libera elezione, per la quale essa stessa tra i diversi oggetti che le sono offerti sceglie l' oggetto buono e ordinato a cui aderire, e rigetta l' oggetto non buono e disordinato: e queste due specie di moralità sono riconosciute, come abbiamo dimostrato nella Dottrina del peccato originale (1), nella cattolica dottrina, e su di esse si fondano diversi dogmi della nostra santa fede. c ) L' oggetto voluto che sia dalla volontà, in qualunque maniera lo voglia, costituisce la forma di questa potenza, e in quanto è buono o cattivo, ordinato o disordinato, dà la specie e la condizione morale al suo atto ed al suo stato, e però se l' oggetto è intrinsecamente cattivo, come abbiamo detto dell' odio di Dio, e lo stesso si può dire dell' odio del prossimo e d' un essere intelligente qualunque, la volontà che ha quest' odio, non può mai essere buona, ancorchè non sia più libera di fare il contrario, perchè dal disordine intrinseco dell' oggetto essa riceve il disordine in sè, come ogni ente che riceva una forma corrotta, anch' egli si corrompe (2). Onde giustamente S. Tommaso dice che « bonitas voluntatis proprie ex objecto dependet (3). » E qui si può riferire un luogo difficile di S. Agostino, in cui dice che si può peccare non solo voluntate peccati, ma anche voluntate facti (4), il che si deve intendere del caso, quando il fatto sia un intrinseco male, e però in sè stesso un peccato. - Poichè chi vuole ciò che è un male intrinseco ed essenziale, con ciò vuole il peccato che è indivisibile dall' essenza di quel fatto, ancorchè chi vuole quel fatto non sappia fare l' astrazione per la quale distingua la ragione del peccato dalla ragione del fatto. Onde viene la regola morale, che niuno può esporsi a far cosa che sia intrinsecamente mala, solo che ne dubiti (5), perchè s' espone con ciò al pericolo di dare a sè stesso di fatto la forma dell' immoralità. d ) Infatti l' oggetto voluto dalla volontà e la volontà che vi aderisce formano qualche cosa di uno, sebbene quest' uno consti di due elementi divisibili colla mente, perchè l' oggetto ha natura di termine e la volontà di principio, ed il principio ed il termine formano una sola entità. Laonde se il termine non è, rispetto al principio, cosa accidentale, ma così essenziale che lo costituisca quello che è, il termine stesso è un elemento che costituisce il principio nel suo essere di ente. Questo avviene primieramente e perfettissimamente in Dio, dove l' oggetto della sua volontà non solo gli è essenziale e uguale e immutabile in modo che non ammette accidenti di sorta, ma di più esso è la stessa essenza divina, come anche la volontà è l' identica essenza. Laonde in Dio la volontà è sempre necessariamente nel suo pieno atto, ed ha sempre lo stesso oggetto, e quest' oggetto è l' identica essenza che è la volontà: onde principio e termine non si possono mai dividere, ma sempre uniti costituiscono una sola semplicissima natura. E questa natura è appunto la moralità e la santità sussistente: dove si vede, che la moralità nella sua prima sede, e nel suo primo fonte, e nella sua perfezione essenziale , è una natura sussistente (la quale considerata come nozione personale è la proprietà del Santo Spirito) e non l' effetto di un atto di volontà libera di eleggere tra il bene e il male. e ) Ed essendo l' uomo creato ad imagine di Dio, niuna maraviglia che si trovi anche nell' uomo qualche vestigio di questa morale natura sussistente. Infatti anteriormente all' elezione libera trovasi nell' uomo quell' atto che i filosofi e teologi morali chiamano intenzione , il quale dà all' uomo un certo essere o natura morale, in cui si radica la stessa potenza della volontà, di maniera che non si potrebbe concepire l' esistenza di questa potenza senza presupporre nell' essenza umana quella morale natura, onde il Gaetano, dichiarando S. Tommaso, dice: [...OMISSIS...] . Ma grandemente differisce la natura morale in Dio, dove è natura completa, dalla natura morale dell' uomo, dov' è solamente iniziale, che ha bisogno poi di ultimarsi con altri atti, e massimamente con quelli della libera elezione. Poichè in Dio l' oggetto naturale così dello intelletto come della volontà è la stessa essenza divina attualissima; laddove l' uomo non ha per oggetto naturale la propria essenza, ma un' altra essenza, laonde da questa è dipendente, carattere comune a tutte le intelligenze create e finite. Di poi il suo oggetto naturale non contiene tutti gli enti attualmente, ma solo virtualmente, onde non è che un lume che gli fa conoscere la moltiplicità degli oggetti, che in appresso gli sono aggiunti in modo accidentale, e il quanto della loro entità e bontà, onde può eleggere fra essi. L' oggetto all' incontro in Dio essendo Dio, tutto attualmente contiene, e non bisogna d' altra aggiunta qualunque: ma la volontà stessa distingue e crea i finiti, e dà loro l' entità reale e ciò che hanno di bene: onde il bene degli enti finiti è posteriore all' atto della volontà divina come l' effetto alla causa, e non preesistono in modo che le possano esser dati sussistenti tra cui eleggere. 62. Dimostrato adunque che ci sono nell' uomo due specie di moralità, l' una dipendente dall' atto del suo libero arbitrio, l' altra anteriore a questa e principio di questa, giacente nella sua natura morale, l' obbiezione de' Pelagiani contro il peccato originale rimane del tutto annichilita, come quella che si fondava sul falso supposto, che tutto l' ordine morale si assolvesse negli atti del libero arbitrio. E veramente se ci può essere una moralità inerente e appartenente alla natura, e se la natura viene trasmessa per via di generazione, dunque è tolto ogni assurdo che ci sia qualche cosa di morale che si possa trasmettere insieme colla natura per la naturale generazione. E questo è quello che insegna la Chiesa Cattolica col dogma del peccato originale, il quale si chiama costantemente e peccatum naturale, e languor naturae . E perciò anche i bambini, come dichiara il Sacrosanto Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . 63. Gli eretici e gli increduli accampano due specie di argomenti contro alla cattolica verità, cogli uni pretendono di trovare qualche dogma da essa insegnato in contraddizione con qualche principio indubitato di ragione, cogli altri non pretendono tanto, ma sono obbiezioni tratte dalla difficoltà di spiegare gli stessi dogmi, e da certe verisimiglianze che deducono da tali verità. Ai primi argomenti è necessario che il teologo risponda direttamente sciogliendo l' apparente assurdo, perchè niuno è obbligato a credere a ciò che si oppone ai primi principii della ragione: ai secondi, basta che esponga e provi i motivi di credibilità, poichè dimostrato, che la cosa è rivelata da Dio, può dire con tutta ragione agli avversarii:« se non potete intendere, credete« (2). L' argomento dei Pelagiani contro la moralità indeliberata della natura era della prima specie, e abbiamo veduto come cada disciolto, quando si approfonda il concetto di moralità e di peccato: gli altri appartengono alla seconda specie, e basta che si combattano coll' autorità della rivelazione e colle definizioni della Chiesa. Tuttavia toccheremo e ragionando abbatteremo anche alcuni di quelli, la cui confutazione giova a far via meglio conoscere la condizione del peccato d' origine, di cui ci siamo proposti trattare in questo paragrafo. 64. a ) Se alla natura si attribuisce l' immoralità si rovescierebbe nel manicheismo, ammettendo una natura malvagia. - Si risponde con S. Agostino e gli altri maestri, che la natura umana è stata creata da Dio da ogni lato buona, ma che l' uomo col suo libero arbitrio l' ha guastata, e l' ha guastata solo ne' suoi accidenti, e non in ciò che costituisce la sua essenza. Ora tal è la limitazione di ogni natura creata (non della sola natura umana, o della sola natura morale), che ella sia corruttibile nella sua parte accidentale: i Manichei all' incontro pretendevano, che ci fosse una natura che non fosse già corruttibile nella sua parte accidentale, ma fosse mala per sè nella sua stessa essenza: [...OMISSIS...] . 65. b ) Essendo la natura umana opera di Dio e non dell' uomo, s' ella potesse essere malvagia, verrebbe a rifondersi in Dio, come in causa, il peccato della medesima. - Si risponde allo stesso modo, che Iddio fu l' autore della natura umana, buona e perfetta, e arricchita di più di doni soprannaturali; ma che l' uomo col suo libero arbitrio, peccando, la guastò nella sua parte accidentale e mutabile; che Iddio fu l' autore della natura umana in Adamo innocente; che uscì dalle sue mani colla creazione; ma che Iddio non è la prossima causa della natura umana ne' discendenti di Adamo: perchè la causa prossima della natura umana in essi esistente è il padre che per via di generazione comunica loro la natura umana, e la comunica quale la ha in sè stesso, cioè disordinata dal peccato commesso da lui col suo libero arbitrio. E qui conviene rimuovere l' equivoco che nasce pe' varii significati che s' attribuiscono alla parola natura, che male a proposito in quest' argomento si prende per l' essenza o ideale o realizzata, laddove deve prendersi per la natura tutt' intera, cioè co' suoi accidenti, generabile, che è il primo significato che Aristotele attribuisce a questa parola natura a nascendo [...OMISSIS...] (2). Dato dunque che la natura umana sia corruttibile ne' suoi accidenti, parte de' quali appartiene all' ordine morale, e che in quest' ordine possa scompaginarla e guastarla il libero arbitrio dell' uomo stesso; e posto che l' autore prossimo di questa natura, in quanto è moltiplicabile, non sia Iddio creatore, ma l' uomo stesso che ha per legge naturale di generare il simile a sè: niente più ripugna, che lo stesso guasto e disordine che l' uomo ha prodotto nella propria natura, lo comunichi insieme colla natura a quegli individui, che egli per opera della generazione fa sussistere, mentre prima non sussistevano. 66. c ) Dato anche che la natura umana possa essere disordinata per effetto dell' atto libero di Adamo, questo non può essere un disordine morale, e molto meno un peccato mortale abituale, che è un disordine personale. - Rispondesi colla dottrina di S. Tommaso, che è quella della tradizione, la qual dottrina nel citato Compendio della Teologia così viene espressa: [...OMISSIS...] . E per intendere come ciò sia, non conviene separare la persona dalla natura, quasi che siano due separati sussistenti, ma considerare, che la persona non è altro che un modo d' esistere della natura, quando questa sia intelligente, è quel modo che ne costituisce l' ultima e più elevata sua attualità, che unifica e contiene sotto di sè tutto il resto che nella natura si trova, come abbiamo dichiarato nella Antropologia, onde gli scolastici solevano anche definire la persona: una sussistenza o ipostasi « distincta proprietate ad dignitatem pertinente . » Se dunque la persona non è che il modo nel quale sussiste a pieno determinata e semplificata la natura tosto che questa sia intelligente, qual meraviglia, che il guasto morale della natura s' estenda al suo modo proprio di sussistere? Vero è, che, come abbiamo detto, la persona non può essere mai del tutto passiva, essendo essa un principio attivo (2); ma da questo non procede altro, se non che la persona non ammette coazione, senza però escludere (parlandosi di persone limitate e create) la spontanea consensione alla piega che le dà la natura, di cui è, come dicevamo, il modo di sussistere. Di che consegue pure, che se il guasto rimanesse nella sola natura, e non ascendesse a pervertire il suo principio supremo, ossia il suo modo di esistere intellettuale e morale, esso non potrebbe ricevere il concetto di peccato mortale. Ma tosto che attrae a sè e seduce il suo principio personale, tosto riceve un tale concetto, come insegnarono, seguendo l' ecclesiastica tradizione, gli scolastici: [...OMISSIS...] . Di che ancora si può inferire che nè le nozze, nè la generazione sono peccato, non producendo immediatamente il peccato, perchè la generazione comunica solo la natura guasta, venendo poi la persona a ricevere da essa l' infezione che si fa morale, perchè si fa personale; la persona viene altronde come diremo. A quel modo dunque che non sono peccati morali i difetti che un pittore o uno scultore lascia nelle opere sue per imperizia dell' arte, o per imperfezione di stromenti, così la generazione lascia un difetto nella carne, che in sè solo non è peccato morale, ma è poi causa del peccato alla persona. 67. d ) Voi dite che la persona viene altronde e non immediatamente dalla generazione, e con questo volete dire certamente che essa viene da Dio che crea e infonde l' anima intellettiva. Ora con questo le difficoltà si aumentano. Se aveste sostenuto che l' anima intellettiva, subbietto, come voi dite, del peccato d' origine, venisse ex traduce, s' intenderebbe in qualche modo che il peccato passasse per generazione, ma venendo creata e infusa da Dio, si fa Iddio autore del peccato. - In nessuna maniera noi ammettiamo che l' anima intellettiva si comunichi ex traduce , il che involgerebbe diversi assurdi, e tra gli altri quello che la persona sia moltiplicabile e comunicabile, quando è essenziale alla persona l' essere incomunicabile, appunto perchè è una natura perfettamente determinata e quindi tutta finita in sè stessa. Ma tuttavia in nessun modo procede che Iddio sia l' autore del peccato. Così sebbene Iddio intervenga e concorra come prima causa nella produzione di tutti gli eventi mondiali, non ne viene che egli concorra come causa a' mali che in essi permette, intervenendo egli solamente come causa e fonte del bene, e il male provenendo dalle cause seconde e deficienti, come abbiamo dichiarato nella Teodicea .

Filosofia della politica. Della naturale costituzione della società civile

631048
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

La Filosofia della politica non tratta solo di queste ultime ragioni dedotte dai loro fonti, ma le applica altresì a misurare il valore relativo dei mezzi politici e insegna il modo di adoperarli acciocchè ottengano il fine sociale. 1) Quest' è un' estesissima tela, e l' assunto di svolgerla tutta in un' opera sola è tale da sbigottire l' animo dello scrittore non meno che del lettore. Quando noi eravamo ancor giovanetti 2) ignari della limitazione delle nostre forze, guidati solo dall' immensa voglia di sapere e di quella di contribuire all' altrui sapere, noi ci eravamo accinti animosamente a quella impresa e avevamo delineata tutta l' opera con quella distribuzione di parti che apparirà nella Tavola, colla quale, se a Dio piace, conchiuderemo questa raccolta di scritti politici quasi epilogo delle materie trattate in essa, e traccia di quelle che rimarranno tuttavia a trattarsi. Colorimmo anche in parte il disegno, ma poi sviati da altre cure, e vinti dall' estensione del lavoro, e dalla considerazione della minore utilità che si potea aspettare da un' opera che per la sua mole soverchia avrebbe allontanato da sè un gran numero di lettori, mutando consiglio, venimmo nella deliberazione di spezzare la Filosofia della politica in alcune opere di minor lena e lunghezza, ciascuna delle quali fosse compiuta in sè medesima. Nacquero così i due scritti intitolati l' uno: « La sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le società, » l' altro: « La società ed il suo fine, » i quali uniti svolgono quelle ragioni ultime della politica scienza che scaturiscono dal fine della civile società e si contengono nel primo Volume di questa raccolta. Il secondo fonte delle ultime ragioni o criterŒ politici dicemmo essere: La costituzione naturale della civile comunanza; e queste saranno svolte nell' opera presente. Quando nel 1.36 io disponevo le varie cose, che in diverse circostanze m' era incontrato di scrivere, in una collezione che doveva uscire, e in parte uscì dal Pogliani in Milano, correva tale condizioni di tempi, ne' quali non poteva essere stampato questo scritto. Ma ciò nondimeno tanta fiducia io m' avevo ne' progressi sociali, che non dubitai di designare fin d' allora e promettere al pubblico questo Volume della Collezione a doverlo raccogliere. Ora mi è lieto vedere quella mia fiducia nei destini della società umana e quel fermissimo presentimento dopo questi dodici anni di aspettazione compiutamente avverrato. La qual fiducia non sorgeva in me allora: nove anni prima, cioè nel 1.27, quando componevo in Milano l' opera presente, con una disposizione di mente e di animo risoluto a non ricevere alcuna influenza dallo spirito e dalle consuetudini di quel governo sotto cui mi trovavo non cercando che la verità e quell' assestamento della società civile che riuscisse più conforme alla giustizia e adducesse la prosperità civile. Laonde immaginai che mi fosse dato il problema di erigere una società civile da fondamenti in mezzo ad una moltitudine di uomini che non fosse stata prima giammai adunata in civile reggimento. Io cercavo qual avrebbe dovuto essere la costituzione migliore di una tale società. Dicevo meco stesso che la migliore doveva essere quella che fosse più naturale , quella che dato un gran numero di famiglie o d' individui avvicinati fra loro, indubitatamente riceverebbe, se le cose procedessero naturalmente senza quegli accidenti fortuiti che fanno prevalere un uomo singolare o violento od astuto sulla turba degli altri. Naturale è all' uomo l' essere ragionevole: quindi naturale deve dirsi quella società di uomini che è costituita secondo ragione. Ma non è l' uomo solamente ragionevole, è anche sensitivo: egli non opera secondo la sola guida della ragione, soggiace agli istinti, dietro ai quali si muove spontaneo, e gli istinti sono suscitati dalle cose esteriori, dalle quali l' uomo patisce. Gli istinti ben ordinati conducono l' uomo ad una condizione pacifica e soddisfacente. La società umana è adunque naturale quando è ben ordinata secondo quello che esige la natura degli umani istinti, quand' ella ordina convenientemente le cose esteriori che gli suscitano. Una società civile costituita secondo la esigenza della pura ragione e secondo quella degli umani istinti è fondata nella natura delle cose, e però acconciamente ella dicesi naturale. Il problema adunque riducesi a cercare qual sia la costituzione naturale della società civile. Che cosa dice la ragione? la pura, la suprema, la incondizionata ragione? - Ella dal suo altissimo seggio dètta la giustizia, ella suppone questa base eterna alla civile convivenza. Che cosa vogliono gli umani istinti? Certamente vogliono essere soddisfatti, ma nol potrebbero essere se l' uno usurpasse sull' altro, se uno o più esercitasse la tirannide su tutti gli altri, se venisse turbato il loro ordine naturale, se i minori e men degni prevalessero ai maggiori e più degni, se superiore a tutti, quasi loro capo e ordinatore, non rimanesse il nobilissimo della virtù che solo adduce seco, quasi suo luminoso corteggio, i gaudi della vera felicità. Gli istinti soggiaciono alla volontà umana, la quale come cosa interiore non appartiene direttamente alla società esteriore degli uomini: ella può conservare la sua rettitudine, qualunque sia la disposizione delle cose esterne: tuttavia queste, i beni ed i mali sensibili, tentano la sua costanza, e le forme della civile società possono diminuire queste tentazioni, se sono bene ordinate, possono accrescerle in caso contrario: la costituzione adunque della società civile rispetto all' uomo istintivo deve riuscire così fattamente ordinata e disposta che nel tempo stesso ch' ella aiuta alla soddisfazione degli umani istinti coll' aumento dei beni esterni e colla diminuzione dei mali, tolga via quanto più le è possibile le occasioni che possono aver gli uomini di abusarne a loro propria sciagura ed infelicità. Il che ella otterrà pervenendo a far sì che ciascun cittadino partecipi al potere politico quanto gli è necessario a difendere e migliorare le cose proprie, niuno poi ne abbia quel soperchio, col quale potrebbe impunemente invadere e peggiorare le altrui. Noi chiameremo regolare quella società civile, che abbia distribuito a questa foggia fra cittadini il potere. Di che risulta che la società naturale, che noi andiam ricercando debba avere queste due qualità, essere giusta, ed essere regolare . Queste due qualità della società naturale rientrano in una sola, come abbiamo osservato altrove, cioè si riducono alla giustizia, perocchè ogni moltitudine unita in società civile, o che si vuole unire, ha il diritto di pretendere di essere costituita in modo regolare, perocchè questo è il migliore, ed ella ha il diritto di avere la migliore forma possibile di governo. Questo diritto del popolo è inalienabile, e non offende menomamente i diritti delle persone governanti. Quindi la costituzione della società si può dedurre in tutta la sua estensione da un principio unico cioè dal principio della giustizia sociale. 1) E da questo principio appunto noi ci proponemmo dedurla. La giustizia è eterna, impersonale, impassibile: la società civile eretta su di lei, avrà così una base ferma ed immobile: qualunque altra base le si dia, l' edificio riuscirebbe vacillante, ruinerebbe al primo corrodersi e venir meno di quel suo temporaneo fondamento: questa è la cagione universale delle rivoluzioni e delle agitazioni dei popoli. Ma quando noi diciamo che si dee dedurre la Costituzione naturale della società civile dalla giustizia sociale , allora noi non parliamo di ogni maniera di giustizia, ma della giustizia in quanto ella si applica a determinare le forme e le leggi della società. Con ciò dunque noi supponiamo, che vi sia un' altra parte di giustizia anteriore alla società, ad ogni società. E vi ha in fatto, vi ha un diritto individuale che si concepisce senza alcun bisogno di ricorrere al concetto di società. Questo diritto noi l' abbiamo trattato in un' opera a parte. 1) Ogni società deve rispettare questo diritto, la società civile prima di tutte, come quella che è incaricata di difenderlo e non di manometterlo. Quelli improvidi legisti i quali vogliono derivati tutti i diritti dalla società civile, la rendono essenzialmente dispotica; perocchè il dispotismo non è soltanto nelle persone, può essere nella forma del governo, può essere nel governo stesso, e finalmente può essere nella stessa società civile, quando ella è mal concepita e definita: noi l' abbiamo mostrato. 2) Noi abbiamo parlato delle ingiustizie che può commettere la società civile in quant' ella è una persona giuridica uguale ad ogni altra, e le abbiamo raccolte in undici classi; 3) ed anche di quelle ch' ella può commettere in quanto è persona giuridica differente da tutte le altre. 4) Nè solo il diritto individuale è anteriore alla società civile e deve essere da questa rispettato; ma vi ha anche delle società anteriori ad essa, quali sono la società teocratica e la domestica, come pure tutte quelle che scaturiscono dal diritto d' associazione che è uno dei diritti individuali. Il diritto di tali società, precedente a quello della società civile, dee prevalere sopra di questo: la società civile il dee rispettare; se volesse invaderlo, sarebbe usurpatrice e violenta. La società civile, ogni qualvolta violò i diritti della Chiesa o quelli della famiglia, esercitò la tirannia e una tirannia più funesta di tutte quelle dei tiranni, perchè radicale e coperta sotto lo scudo di una dottrina politica ingannosa e perfidissima. Questa dottrina fondatrice e giustificatrice della tirannia civile cominciò ad essere fabbricata sistematicamente sotto Luigi XI e andò perfezionandosi in Europa sotto tutta la lunga serie dei despoti che a quello successero fino che ricevette una prima sconfitta dalla rivoluzione francese, la quale cangiò forma al dispotismo, non l' estinse perciò; anzi egli ricomparve più che mai orgoglioso e crudele sotto forme novelle. Perocchè quella rivoluzione invece di colpire il dispotismo stesso della società civile, diresse i suoi colpi disavvedutamente sotto la forma governativa ch' egli aveva preso; nè s' accorse della natura proteiforme di esso, onde quando credeva averlo ghermito, gli sfuggì sano e salvo sotto tutt' altre forme di mano. Il dispotismo non si coglie se non si prescinde dalle forme governative e non lo si raggiunge nel suo originale covile, il quale è la stessa società civile qualunque forma ella si abbia. La società civile stessa dee essere purgata dal dispotismo, cioè deve essere sottoposta al suo vero diritto, e non foggiata sopra un diritto preteso che le dà piena balìa di fare tutto ciò che può e che vuole. Noi abbiamo esposto lungamente quale sia questo diritto civile; e nello esporlo abbiamo riconosciuto che il vizio di quelle teorie giuridiche, che rendono dispotica e tirannica la civile società, trae la sua origine da un concetto imperfetto, confuso ed indeterminato della società stessa, e del suo fine. Si suol dire la società senza più per indicare la società civile. Questa maniera di parlare annunzia già l' errore introdottosi nelle menti; ella suppone che la società civile assorba nel suo seno tutte le altre società: ella confonde la società civile colla società del genere umano che appartiene alla società teocratica, di cui ne è l' abbozzo; questa maniera di concepire e di esprimersi dà necessariamente alla società civile ogni potere, non lascia sussistere altra società al suo fianco: la società civile così concepita, così nominata non può che esser dispotica e tirannica di tutte le altre società, di tutti gli altri diritti. Secondo la stessa imperfezione di pensare il fine della società civile non fu mai pienamente definito e precisato nei suoi confini: si concepì un potere vago ed assoluto che dovesse far tutto, a cui nulla fosse illecito, nulla ingiusto, da cui ogni altro potere derivasse, ogni altro potere dovesse mendicar l' esistenza, l' autorità, la legittimità. Noi abbiamo disvelato la falsità e l' inumanità di questa maniera di concepire il reggimento civile: n' abbiamo esposta agli occhi del pubblico la vergognosa nudità, siamo riusciti a farlo in un' opera che ha ricevuto il visto di un governo il più assoluto. Le dottrine esposte in tale opera si riassumono nei seguenti principŒ. Vi ha un diritto sociale universale, che deve essere applicato a tutte le società speciali. La società civile è una società speciale e non più: è una associazione che formano gli uomini fra di loro per un fine speciale: ella deve soggiacere alle stesse leggi che sono comuni a tutte le società. Il fine della società civile non è altro che quello di regolare la modalità di tutti i diritti dei cittadini, acciocchè si collidano fra loro il meno possibile, siano tutelati e sviluppati. Questo è il fine prossimo e preciso, e propriamente l' ufficio sociale. La dottrina di questo fine elimina dalla società civile ogni dispotismo. Infatti assegnandole un tal fine, un tale officio, si viene a riconoscere: 1 Che tutti i diritti di natura e di ragione, originarŒ e conseguenti od acquisiti, sono anteriori e indipendenti dalla società civile. 2 Che la società civile non può nè distruggere, nè diminuire alcuno di questi diritti, e tutto il suo potere si restringe a tutelarli e aiutarli nel loro svolgimento, nel regolarne in una parola la modalità senza punto nè poco diminuirne il valore. Solo contenendosi entro questi limiti la società civile cessa d' essere dispotica e tirannica qualunque sia la sua forma. Ella rispetta in tal modo tutti i diritti individuali, e così il diritto naturale e razionale rimane sussistente anche in presenza della società civile, e a questo diritto in quanto egli tiene una relazione alla società civile fu da noi applicata la denominazione di diritto extrasociale . La società civile ancora rispetta i diritti della società teocratica e quindi della Chiesa e quelli della società domestica come pure quelli di ogni altra associazione che sia conforme al diritto naturale e razionale. Così tutte le maniere dei diritti rimangono intatti: ciascuna si mantiene entro la sua sfera e quindi si ha la pace fra gli uomini. Vi ha dunque un Diritto extrasociale ed un Diritto sociale. L' ufficio della società civile verso il diritto extrasociale è di riconoscerlo, di lasciarlo sussistere a canto a lei e come indipendente da lei, di tutelarlo e di regolarne la modalità senza nuocerne alla sostanza, lasciando a tutti il suo, assicurando e guarentendo a tutti il valore dei proprŒ diritti, salva per lei la facoltà di regolarne quella modalità, che senza alterarne il valore contribuisce anzi a mantenerlo ugualmente per tutti, senza quelle collisioni che altrimenti avrebbero luogo fra i molteplici diritti coesistenti de' cittadini che dalle dette modalità non venissero regolati. Questo ufficio di tutela e di guarentigia affidato alla società civile s' estende anche ai diritti sociali. Il diritto sociale è quello che non precede l' istituzione della società civile, ma viene da questa, e ai diritti sociali si riduce anche la stessa costituzione regolare della società, ed anzi questo prima di tutti gli altri. Perocchè, come già noi vedemmo, il popolo, cioè la moltitudine di quelli che si aggregano in una civile società, ha il diritto imperscrittibile che la società medesima sia costituita nel miglior modo, il che noi esprimiamo con una parola dicendo che ella deve avere una forma regolare. Questo diritto della moltitudine, che si aduna nella civile associazione, dimostrasi col seguente ragionamento: La miglior forma sociale, che è la regolare, contribuisce ad ottenere il fine della società che è il regolamento più vantaggioso della modalità di tutti i diritti dei socŒ. Ma la moltitudine che si ordina civilmente ha diritto al fine dell' associazione nella quale si unisce; dunque ha diritto altresì alla forma regolare di essa associazione che è il mezzo di ottenere quel fine. Dal quale ragionamento se ne deducono agevolmente i seguenti corollarŒ: 1 Che se si tratta d' istituire un governo civile, il che è quanto dire di aggregare in società civile una moltitudine, la forma di questo governo dovrà avere la dote della regolarità. 2 Che essendo un problema complicato e oltremodo difficile il definire in che consista questa regolarità e quindi potendo accadere che nella prima istituzione con tutto il buon volere dei savŒ, che dirigono quella moltitudine a scegliere la miglior forma sociale, non si raggiunga al primo tentativo quella regolarità, e solamente più o meno vi si avvicini, rimane al popolo continuamente il diritto di riforma, cioè il diritto di domandare che la costituzione sociale venga modificata fino a tanto che raggiunga la regolarità. 3 Che i Principi, e più generalmente parlando i governi delle società civili, sono obbligati di riconoscere questo diritto del popolo e quindi di condiscendere all' unanime volere del medesimo, quand' egli domanda di quelle riforme che conducono a modificare il governo in modo da renderlo più regolare e così più perfetto. Infatti i governi ed i governanti non sono istituiti a loro pro, o a pro delle loro famiglie, ma unicamente a pro della moltitudine che governano; sono ministri di Dio per il popolo. Nè questo pregiudica ai loro interessi, perocchè non debbono avere alcuno interesse maggiore di quello d' esercitare alla meglio possibile il loro ufficio; nè lo possono esercitare alla meglio se la società cui presiedono non è costituita regolarmente: il loro unico vero interesse è l' interesse del popolo: il loro unico vero interesse è il loro dovere. Questo non pregiudica ai loro diritti, benchè possa diminuire la loro autorità e i loro proventi. L' autorità ed i proventi non sono diritti de' governanti se non in quanto servono o sono necessarŒ al buon governo: pregiudicando a questo cessano d' essere diritti. Dire il contrario apparterebbe alla morale dell' egoismo e al diritto gretto, adulatorio, sofistico dei Legulei. L' unica opposizione che si potrebbe fare a questa dottrina sarebbe quella che si volesse dedurre dal diritto signorile. Ma io parlo qui d' una società civile e non d' una società signorile. Io riconosco l' esistenza di un diritto signorile, e ne ho svolto i principŒ nella Filosofia del Diritto. Ma nello stesso tempo sono persuaso che il diritto signorile non può aver luogo se non temporaneamente fino a tanto che gli uomini si trovano ancora in uno stato di rozzezza e di fanciullezza; non più fra quelle popolazioni che sono già mature per l' influenza che ha esercitato lungamente sopra di esse il cristianesimo. Tali sono a mio vedere le nazioni cristiane d' Europa, per tali si debbono riconoscere e trattare senza tener conto delle piccole anomalie ed eccezioni che si potessero qua e colà ravvisare. Qualche traccia di diritto signorile rimarrà nelle relazioni della vita privata: non si deve ammetterlo più qual base della pubblica: oggimai alla vita pubblica non ispetta che la civiltà. Riassumendo adunque quanto abbiamo detto, la naturale costituzione della società civile deve avere i due caratteri della giustizia e della regolarità, e la regolarità dee essere dedotta anch' essa dai principii di giustizia. Acciocchè la società sia giusta ha bisogno di due cose, di leggi e di tribunali che applichino e facciano valere le leggi. Acciocchè la società riesca regolare ha bisogno pure di due cose, di un potere legislativo, e di una Magistratura o potere esecutivo, l' uno e l' altro regolarmente organizzato. Queste sono le due parti, bipartite l' una e l' altra, nelle quali spontaneamente si divide un trattato della naturale costituzione della società civile; consideriamole entrambi e fissiamo i limiti entro i quali noi dobbiamo svolgerle nell' opera presente. Dicevamo che la società civile non può avere il carattere della giustizia se non ha buone leggi e buoni tribunali. Le leggi altre antecedono a lei, come vedemmo, e sono le naturali o razionali, quelle della società considerata in universale, quelle della società domestica e della teocratica ecc.. Noi non abbiamo bisogno d' estenderci qui ad enumerarle, avendolo già fatto precedentemente nella Filosofia del Diritto. Altre sono quelle che va poi facendo lo stesso potere legislativo, e neppure di queste noi dobbiamo ragionare, bastandoci dire che tali leggi non possono essere mai altro che conseguenze logiche delle prime cioè di quelle che antecedono l' istituzione della società civile. In queste si contengono virtualmente, e avendo noi data la dottrina di queste indicammo già i principŒ dai quali anche quelle dovranno poi derivarsi per opera della nazionale sapienza rappresentata da chi avrà il potere legislativo. Non ci rimarrà adunque rispetto a questo altro da dire se non quanto riguarda l' organizzazione dei tribunali. L' altro carattere che dee avere la civile società è quello d' una costituzione regolare, la quale noi riducemmo all' ottima organizzazione del potere legislativo e della magistratura: noi non possiamo trapassare nè l' uno, nè l' altro di questi due punti e però si troveranno entrambi svolti nell' opera presente. Finalmente la costituzione naturale della società civile, che avremo rinvenuta con tutte queste investigazioni, converrà che sia ridotta in compendio, ovvero in una Magna Carta, la quale sia adottata dalla moltitudine che s' aggrega in civile consorzio, acciocchè la costituzione sociale affidata allo scritto stia sempre presente qual regola indeclinabile agli occhi dei socŒ e di tutti gli organi della società. Sono adunque quattro i problemi che noi ci proponiamo da sciogliere in quest' opera: 1 Quale debba essere l' organizzazione dei Tribunali. 2 Quale debba essere quella del potere legislativo. 3 Quale l' organizzazione della Magistratura. 4 Quale la Magna Carta. Nei quattro libri seguenti se ne tenta la loro soluzione. Il carattere della giustizia è così essenziale, così necessario all' esistenza della società, anzi alla esistenza di relazioni pacifiche degli uomini fra loro, che tutte le società in ogni tempo ed in ogni luogo lo hanno sempre cercato, ed hanno voluto, anche allora quando si ritrovavano piene delle più atroci usurpazioni ed ingiustizie, ostentarlo: hanno procurato di coprire l' arbitrio ed il violento, e di far passare agli occhi degli uomini per legittimo e per giusto quanto era effetto di passioni insaziabili, della prepotenza e della avidità. L' ingiustizia è troppo brutta e schifosa per avere potenza sugli uomini: essa non ha fatto mai nessuna conquista su di essi, i grandi usurpatori hanno dovuto prima ingannarli sulla natura delle loro imprese: e ricoprendo il mostruoso ceffo d' ingiusti, hanno dovuto prendere faccia di giusti e di probi: essi tanto usurparono, uccisero e divorarono dell' umana specie, quanto seppero rendere questa più paziente alle enormi loro atrocità coll' indurre nella medesima l' opinione che tutto ciò si faceva da una legittima autorità; col contrapporre in somma uno scudo di giustizia alla vendetta che tentava far di continuo contro di loro l' oltraggiata natura. L' opinione di giustizia ha una forza sugli uomini più grande assai di quello che comunemente si crede; e chi vorrà con occhio attento ricercare tutti i suoi effetti nelle diverse relazioni fra gli uomini, troverà che nelle stesse intraprese più empie e più disperate la forza maggiore che muove gli animi umani è l' opinione di giustizia, non di una giustizia intera, ma di una giustizia parziale: una opinione che riconosce in altrui il potere a cui obbedisce, e a cui si porge come cieco stromento dei suoi voleri. Che cosa rendeva terribile Attila se non l' obbedienza dei suoi soldati? Che cosa rende terribili tutti i grandi ladroni, se non il potere morale che hanno sui numerosi strumenti dei loro delitti? provi di comandare ad un esercito chi non è il suo capitano: egli o sarà deriso, o sarà morto come un ribelle. Non è già che la moltitudine ignori i delitti di chi considera per suoi capi, conosce che quelli che la guidano sono pieni di delitti, sono abbominevoli, ed anco, se si vuole, ingiusti usurpatori del potere, ma non rimane che la moltitudine non obbedisca ad essi mossa dall' opinione che quelli sono i suoi capi, e chi non sa indurre in essa questa opinione, non sa neppure esercitare sopra di essa verun potere. - E` inutile il dire che la moltitudine obbedisce talora per forza; e quale è mai questa forza che possa stringere ad obbedire la moltitudine? forse un' armata? ma questa stessa armata, perchè obbedisce ai cenni de' suoi capitani? Un timor panico può produrre una obbedienza per qualche istante, ma come egli è al tutto instabile e momentaneo, così pure è instabile e momentanea l' obbedienza. Ad ottener dunque che una moltitudine di uomini obbedisca ad un solo od a pochi per molto tempo, non v' ha altro mezzo se non di fare che questa moltitudine concepisca l' opinione di avere un dovere d' obbedire, opinione che la rende ad obbedire non solo pronta ma, dirò così, mobilissima, opinione che supplisce fin anco a quella forza che darebbe ai governanti il vero diritto di comandare, opinione cioè che muove la moltitudine per se stessa senza che sia nè pure associata all' esame del diritto che possano avere, o non avere coloro che comandano. Perocchè la moltitudine nella ferma persuasione, nella quale si trova di avere un dovere morale d' obbedire ad alcuno, pel bisogno stesso ch' ella sente d' esser guidata, non si cura molto di esaminare a chi spetti il diritto di comandarle, ed a quel primo in cui crede di vederlo, a quello obbedisce. Nè pure una masnada di ladroni starebbe insieme se nei suoi capi non vedesse un' autorità, perocchè l' obbedire stesso è un riconoscere tale autorità. L' idea dunque di dovere, che è un' idea morale, va ad essere il legame di qualunque associazione, ed anche quando si obbedisce unicamente perchè ciò credesi utile a se stesso, mescolasi in tale disposizione di volontà necessariamente un elemento morale, sebbene disguisato e guasto dal mal fine a cui si assoggetta; perocchè l' obbedire al comando suppone, come dicevamo, in quello istante che si ubbidisce la ricognizione del comando, che, come tale, non è che una volontà superiore manifestata. Che se lasciamo di considerare la giustizia che si mescola e fa sentire il suo bisogno all' uomo anche nella sua massima depravazione, e riguardiamo qual sia l' impressione che ella faccia agli uomini, non in uno stato di corruzione, ma in uno stato naturale, e direi quasi ancora vergine, ritroveremo ch' essa si rende all' uomo così bisognevole, come è bisognevole a lui la pace; perocchè (noi lo vedemmo 1)) è una assoluta necessità della natura intelligente quella di risentirsi qualunque volta ella crede che le sia stata fatta ingiustizia; per cui si può dire che l' ingiustizia sia la ferita dell' ente morale. Tale e tanta necessità della giustizia, perchè potesse esistere qualunque umana società, fece sì, come io dicevo, che la giustizia fosse sempre cercata in tutte le società civili, che le offese contro di lei non si potessero fare alla palese e liberamente, o che ben presto fossero vendicate: ed in tal modo per una forza intrinseca della natura umana, di reazione immediata contro l' ingiuria, dovettero le società ed i loro capi almeno darsi pensiero del modo di ritenere che la società civile avesse quanto più era possibile il carattere di giustizia: e quindi uno de' primi officŒ di quelli che presiedettero alle società civili fu di essere giudici: di che in tutte le società civili si stabilirono successivamente i Tribunali, e si andò migliorando e regolarizzando sempre più l' amministrazione della giustizia. E nondimeno in tutte le società civili rimase fin quì incompiuta l' amministrazione della giustizia: renderla compiuta è il progresso che resta loro a fare, acciocchè diventino appieno civili. L' autorità politica rimase priva di un tribunale di giustizia. Quell' autorità che stabiliva tutti gli altri tribunali rivolti a definire le questioni, che intorno alla giustizia insorger potevano fra i privati, e a punire le infrazioni dei diritti che faceva un membro ad un altro membro della società, o un membro della società al potere, non si credeva dover soggiacere ad alcun tribunale, e così rimaneva, rimase fin quì, un' autorità dispotica, qualunque fosse la sua forma, monarchica o repubblicana. Ella stabiliva i Tribunali pei litigi privati, perchè senza di essi vedeva che non avrebbe potuto esistere, giacchè non avrebbe potuto esistere la società che veniva istituita per godere appunto di una retta amministrazione della giustizia, nè avrebbe avuto il modo da difendersi dalle ingiurie che fossero portate direttamente contro di lei, e che attentassero alla sua esistenza. Ma quelli che avevano in mano l' autorità nel mentre che erano spinti in tal modo dal proprio interesse a provvedere che la giustizia fosse esattamente osservata dai singoli membri della società, e che fossero severamente vendicate le insubordinazioni alla stessa pubblica autorità, non avevano poi un motivo consimile che gli spingesse a stabilire eguali precauzioni e guarentigie contro alle ingiustizie che potessero commettere essi stessi a danno dei singoli cittadini o del corpo dei cittadini, abusando della autorità medesima loro affidata. E ciò nasceva anche perchè gli uomini desiderano sempre assai più di vedere che gli altri esercitino la giustizia verso di sè, che di obbligarsi essi stessi ad esercitarla verso gli altri, e di più perchè gli uomini, anche onesti, non temono di se stessi, ed è l' ultimo atto dello spirito umano quello di riflettere sopra di sè, e quasi dividendosi da sè, e costituendosi in uno stato imparziale, e rendendosi come una terza persona, chiamar sè stessi in giudizio. Il che se l' uomo potesse fare con eguale facilità di quella onde porta giudizio degli altri, non ci sarebbe certo quel bisogno universalmente riconosciuto di far sì che gli uomini non giudichino in propria causa, e che vi sieno dei tribunali, i quali entrino giudici e mediatori fra le parti in discordia, discordia che non nasce sempre da una mera perversità, ma che procede ben anco da un diverso modo di veder le cose e di opinare sulle medesime. Queste cagioni fecero sì che nel mentre si credette che fosse un elemento essenziale in tutte le società civili l' erezione dei tribunali di giustizia; rimanessero però delle azioni nella società che a questi tribunali non venivano sottoposte, e così restasse la società con un lato indifeso; mentre tutte quelle azioni che venivano fatte a nome della civile potestà si opinava doversi rimanere ingiudicate. Si sospettava ancora, non fosse nè pur possibile sottometterle ad un giudizio, e questo è forse la prevenzione che resta più difficile da combattersi e da sradicarsi. Ma parendo a noi questa una prevenzione niente fondata, come in appresso diremo, abbiamo creduto che restasse ancora ai progressi della società civile a fare questo passo importante, nel quale veggiamo un vero ed essenziale avanzamento; che restasse a dividere la suprema autorità in due parti, supreme egualmente nella loro linea, l' una delle quali presiedesse alla giustizia politica, e l' altra all' amministrazione, e quella rendesse giustizia ai membri della società contro le offese attentate a nome della autorità contro di essi, ed alle minorità contro il dispotismo delle maggioranze, parte importantissima che manca presentemente a tutte le società civili, la qual sola renderebbe perfetta nella società l' amministrazione della giustizia ed effettuerebbe quella eguaglianza giuridica che hanno tutte le persone fra loro sì individuali, che collettive. A dimostrare che l' istituzione di questo Tribunale politico è necessaria alla perfezione della società civile, comincierò dal fare osservare, che anche s' egli non esiste, fa sempre d' uopo che innanzi ad ogni disposizione governativa preceda un giudizio sulla giustizia della medesima, un giudizio privato che faranno i governatori stessi, senza sindacabilità, ma pure un giudizio. Il che è vero qualunque sia la forma che abbia il governo. Chi non ha rinunziato totalmente alle idee morali, o vero chi non pretende, inconseguente con sè stesso, che la morale sia bensì qualche cosa, ma debba essere esclusa dalle disposizioni politiche, vedrà incontanente la verità della enunciata proposizione: vedrà che i regolatori della società non possono fare una disposizione, se prima non credono, che ella sia conforme alle leggi della eterna giustizia ed equità; e perchè lo possano credere, debbono aver portato un giudizio sopra la stessa. Questo giudicio rimesso in fine del conto alla coscienza de' governanti, non solo nei governi assoluti ma ben anco ne' governi costituzionali e repubblicani che fin qui si conoscono, se è fatto bene, rende le disposizioni politiche innocue al bene dei particolari membri della società. Solamente mediante questo retto giudicio tutti i diritti, anche i più piccoli ed appartenenti alle persone meno influenti, possono essere riparati dal peso enorme del sociale potere sotto cui altrimenti sono in pericolo di venire schiacciati. Giacchè il giudicio è sempre libero, e un giudicio simile a questo non riposa che sopra un' esatta cognizione dei principŒ della morale e del diritto e di più sopra la disposizione retta della volontà, ne viene che queste due buone qualità, cioè la cognizione e la rettitudine, sieno in ultima analisi le due sole salvaguardie de' diritti del debile contro il forte, e del particolare contro il potere o contro la maggioranza dei cittadini. Ma d' altra parte egli è impossibile che chi ha la forza in mano non sia tentato di abusarne, ed è impossibile che nella società, qualunque sia l' ordine che vi si stabilisca, non vi abbia finalmente un' autorità suprema ed anche una forza suprema: dunque è impossibile di levare dalla società il caso in cui non si ritrovi la detta tentazione. Quando anche le forze fisiche fossero distribuite nella società in perfetta eguaglianza, le dette forze non riuscirebbero eguali nel loro effetto per la diversità delle forze morali: l' opinione della propria forza infonderebbe tuttavia una diversa misura di coraggio ai diversi uomini; ed è l' opinione della forza ed il coraggio, assai più che le forze fisiche, ciò che muove l' uomo ad intraprese che vengono ad aggravare sopra i suoi simili. Giova certo oltremodo persuadere gli uomini di questa grande verità, che la conservazione della giustizia è di un comune vantaggio, ma questa stessa persuasione così utile, e che si vede di secolo in secolo far progressi nell' uman genere in ragione della diffusione dei lumi; questa persuasione che sembra sottomettere la giustizia all' utilità, e rendere quella amabile per amore di questa, è una nuova prova, che l' umanità nella sua generalità si va migliorando, e che diventa più suscettibile dei sentimenti morali. Infatti qual può essere la disposizione di quegli uomini che s' inducono a rispettare la giustizia sul riflesso ch' essa è generalmente utile? Non è certo un tal rispetto della giustizia, a questa ragione appoggiato, bastantemente puro, il concedo: ma nulladimeno la disposizione di tali uomini riesce tale, che essi oggimai temono più i danni che possono venire loro apportati, quando la giustizia venga dagli uomini trascurata, che non isperino dei vantaggi dalle stesse loro ingiuste intraprese sugli altri uomini, il che li muove finalmente ad attenersi ai dettami della giustizia, a stimarla e finalmente a riconoscervi anche un intrinseco pregio. Ora tale non è la disposizione di un uomo estremamente avido di acquistare e rapace; perocchè questi sente d' avere in sè stesso una forza che gli dà la sua stessa immoralità maggiore di quella che hanno gli altri uomini: perciò più spera d' acquistare, che non tema di perdere; anzi spera senza temere: chè l' avidità lo occupa assai più di ciò che può egli contro gli altri, che non di ciò che possano gli altri contro di lui. Egli è dunque necessario di ricorrere sempre in fine del conto, per trovar una tutela ai diritti dei deboli contro ai forti, ad un fondo di moralità, benchè imperfetta, che si ritrovi nei forti; senza del quale non può consistere il genere umano. A torto questo ultimo fondamento della conservazione dei diritti e però dei beni di tutti, la buona fede, la rettitudine, la moralità, su cui riposa la tranquillità e l' esistenza stessa del genere umano, sembra fragile ed accidentale: egli è l' unico, e però bisogna contentarsene: qualunque meccanico ripiego, qualunque organizzazione esterna della società non può renderlo inutile ed ella è una speranza ridicola, non mi stancherò di dirlo, quella dei politici materiali di poter trovare un ordine politico di cose che non abbia il suo ultimo sostegno nella moralità, nel quale perciò non si esiga qualche sorta di virtù in quelli che hanno o credono d' avere in mano la forza, perchè non ne abusino. Sia pur dunque per molti alquanto strano, pure egli non cessa d' essere verissimo, che il modo, onde i diritti dei deboli sono tutelati, non è altro che la buona volontà di quelli che potrebbono offenderli e non vogliono farlo, perchè non giudicano di doverlo fare. Questi che potrebbero offenderli sono in primo luogo indubitatamente quelli che governano la società, i quali hanno il maggior potere nelle mani, e questo vale tanto se il governo è regio quanto se è repubblicano: poichè quando anche noi supponessimo la più assoluta democrazia, quale nè pure è possibile che si concepisca, ancora saremmo nello stesso caso, potrebbe sempre la maggiorità dei cittadini tiranneggiare la minorità. Egli è dunque evidente, che ogni disposizione governativa per esser buona, deve essere preceduta da un giudizio sulla sua rettitudine e giustizia; come pure che la bontà di questo giudizio è l' ultimo appoggio della sicurezza dei diritti de' particolari membri della società. La necessità di tal giudicio rimane ferma, anche a fronte di tutte quelle obbiezioni che fossero rivolte a provarne la sua difficoltà ed incertezza; le quali non provano mai ch' egli non sia necessario, proveranno tutt' al più una verità troppo disorrevole agli uomini, che non si può arrivare a tutelare pienamente i beni e i diritti di tutti e in tutti casi contro l' umana tristizia. E` dunque da ritenersi come cosa dimostrata che a tutte le disposizioni politiche, acciocchè riescano quali debbono essere, deve precedere un giudicio sulla loro giustizia. Questa necessità è intrinseca ed è necessità di morale e di utilità. E` necessità di morale, perchè avanti a tutto una legge che è eterna prescrive che sia fatto il giusto. E` necessità di utilità; perocchè le disposizioni ingiuste del governo impediscono che la società civile ottenga il suo fine, contengono una violazione dei diritti dei cittadini a danno o dei particolari, o delle minorità, o della parte debole o di tutto il corpo sociale. Dunque fra tutte le cose quella della massima importanza per la civile associazione si è che sia fatto un giudizio retto sulla giustizia di tutte le disposizioni governative, e che queste ubbidiscano a quel giudizio. Allorquando questo giudizio è intieramente abbandonato ai governatori della società e non è sindacabile, allora vi ha il governo assoluto. Se i governatori fossero infallibili, il governo assoluto non avrebbe alcuno inconveniente. Ma l' infallibilità è solo propria di Dio, e però a Dio solo spetta senza inconvenienza il governo assoluto. Vi hanno dei casi, nei quali anco nella società umana non si può avere altro governo che l' assoluto. Quando la moltitudine si trova ancora in uno stato di barbarie, di rozzezza, d' ignoranza, a niuno viene in mente che gli atti del governo possano soggiacere a qualche sindacabilità: tutt' al più si ripulsa la violenza colla violenza: le vie di fatto non hanno ancora ceduto il luogo alle vie di diritto. A niuno viene in mente nè manco la possibilità di guarentigie che possano esser date dall' autorità suprema al popolo: a niuno viene in mente di domandarle: tutti sentono il bisogno di ricevere una direzione, un ordine, una unità che non saprebbero dare a sè stessi. In questa condizione di cose tutto ciò che si può fare si è che sieno eletti dei buoni governatori, ai quali il popolo ciecamente si sottometta. E questo è già un gran passo: in una condizione ancora inferiore la moltitudine riceve quel capo o quel governo che s' impone a lei da sè stesso o con violenza, o con astuzia o con bontà e virtù. In entrambi i casi la sorte della moltitudine è rimessa per intero alla coscienza dei governatori: questa coscienza e i lumi di cui è fornita, qualunque sia, è l' unica guarentigia dei diritti del popolo. Di mano in mano che il popolo si istruisce e le facoltà intellettuali e morali si svolgono; di mano in mano che la moltitudine esperimenta dal potere ingiustizie e vessazioni, le quali la risvegliano e con una penosa esperienza la rendono diffidente del potere, la disingannano della credenza che aveva nella illimitata sapienza di chi la governa; si manifesta prima il bisogno di una difesa dei proprŒ diritti e poscia sorge il pensiero della possibilità di averla, e finalmente si tenta di averla, domandando od anzi strappando qualche guarentigia ai dominanti, qualche limitazione del loro assolutismo. Allora è incominciato nella società civile, che vuole migliorare il suo ordinamento, un lavoro importante, ma difficile, un lavoro lungo, graduato che richiede dei secoli a compirsi, e che si riduce alla soluzione di questo problema: « In che maniera si può ottenere che il governo civile dia a tutti i cittadini sufficienti guarentigie, le quali assicurino la giustizia delle sue disposizioni. » Quando il governo resiste a questo lavoro che si opera nel popolo, specialmente quando resiste in un modo artificioso ed astuto, che è una resistenza più durevole, allora viene il momento in cui vi ha rivoluzione. Se il lavoro di cui parliamo, che rende il popolo voglioso di guarentigie si va operando in tutta la massa del popolo stesso, la rivoluzione è democratica. Se si va operando soltanto nella classe più elevata, che è quella che solitamente arriva la prima ad un grado di istruzione sufficiente per conoscere il dispotismo governativo, vi ha rivoluzione aristocratica. Molte rivoluzioni aristocratiche v' ebbero in Europa dopo che ella fu illuminata dal cristianesimo, e le ultime furono quelle che accadero nella Inghilterra: la prima rivoluzione democratica, quella almeno che abbia avuto un grande effetto popolare, fu la francese; le resistenze dei Borboni l' occasionarono. Ma che cosa fa la rivoluzione? Che cosa ottiene? Non più di quello che il popolo sa volere. Per conoscere dunque che cosa ottenga una rivoluzione conviene vedere che cosa sappia il popolo che la fa, che cosa sappia intorno al problema che abbiamo indicato: « In che maniera si possa ottenere che il governo civile dia a tutti i cittadini sufficienti guarentigie, le quali assicurino la giustizia delle sue disposizioni. »Il popolo che ha trionfato nella rivoluzione dimanda al nuovo governo tutte quelle guarentigie che egli conosce utili a tutelare i suoi diritti. Nella scelta o nella istituzione del nuovo governo egli dà o prescrive a lui quelle forme che egli crede più confacenti a quelle guarentigie: non domanda e non pretende di più perchè non sa di più, e non può volere altro che quello che sa. Quindi il nuovo governo figlio della rivoluzione è ben lontano da corrispondere alla vera soluzione del problema sociale, cioè di dare guarentigie sufficienti ad assicurare i diritti di tutti, perchè la soluzione di questo problema difficilissima fu eseguita secondo la misura della scienza popolare e però ancora imperfettamente. Il governo nuovamente rifabbricato contiene ancora in sè l' assolutismo sotto forme diverse, e un assolutismo talora minore ma talora anco maggiore. E se si cerca la ragione di ciò, la ragione dell' imperfetta soluzione del governo sociale, si troverà che ella si riduce sempre a questa: si pensò a limitare la potenza del governo, a impedirgli o a difficultargli quegli atti che furono esperimentati nocevoli nei governi precedenti, ma non si pensò a controllare il giudizio sulla giustizia di tutti i suoi atti: la responsabilità di questo giudizio fu pel maggior numero de' suoi atti abbandonata puramente alla sua coscienza. Essendosi dunque in parole proclamata la libertà, è rimasto l' assolutismo nel governo, questo passa o presto o tardi in dispotismo, e torna a vessare i popoli con ingiustizie più o meno coperte (prodotte da incapacità o da passioni egoistiche egli è il medesimo) torna a ingannarli tessendo dei veli più o meno densi alle proprie ingiustizie, e il popolo di mano in mano che più si istruisce più ancora apre gli occhi, e si irrita fino a tanto che il risentimento giuridico scoppia in una nuova rivoluzione, la quale rovescia di nuovo il governo e ne fabbrica un nuovo da cui tutto si spera: la giustizia e la libertà si proclamano e si credono assicurate per sempre. Ma il fatto è ben diverso, poichè la costituzione del nuovo governo corrisponde ancora alla scienza limitata del popolo e dei capi popolo che lo hanno istituito, alla soluzione che essi hanno saputo dare al problema sociale delle guarentigie, soluzione che forse si è operata alla stessa foggia come nel precedente rovescio, cioè non prendendosi già a sciogliere il problema in se stesso sommettendo al calcolo gl' intrinsici suoi dati e facendosi carico di tutte le sue condizioni; ma cercando unicamente tali forme di governo, tali leggi costituzionali, tali guarentigie in una parola che ovviassero ai disordini particolari del governo precedente senza andare alla radice dei medesimi. Così gli Stati camminano di rivoluzione in rivoluzione, e non possono arrestarsi in questa serie di dolorose vicende fino a tanto che non abbiano espulso dai visceri de' loro governi il dispotismo sotto tutte le forme, e così li abbiano resi veramente civili obbligandoli ad adoperare non più coll' arbitrio, ma secondo la norma della giustizia. Ora a questo si sarà pervenuto solamente allora che nella società vi sia un Tribunale venerabile ed indipendente, il quale sia incaricato alle opportune occorrenze di chiamare a censura la giustizia di tutti gli atti del governo, di tutte le leggi, eccetto la legge costituzionale come si dirà in appresso, la quale deve anzi servire di codice al detto Tribunale, sul quale pronunciare e motivare le sue sentenze. Veduto che non si può espungere dal seno della società civile il dispotismo se non a condizione che si completi l' ordine dei Tribunali che amministrano a tutti la giustizia, coll' aggiungersi ai Tribunali che giudicano delle azioni private de' cittadini altri Tribunali incaricati di portar sentenza della giustizia delle azioni pubbliche del governo, noi dovremmo venir descrivendo e divisando meglio questo officio de' politici Tribunali che proponiamo. Ma gioverà prima che accenniamo l' organismo che pare più convenevole d' attribuirgli, senza la cognizione del quale non si potrebbe definire il modo del suo esercizio. Che egli abbia una prima, una seconda, ed una terza istanza collocate nei Distretti, nelle Provincie e nella Capitale sembra consentaneo alla regolare amministrazione della giustizia: due sentenze uniformi finiscono la causa. Noi crediamo che annessa a questo Tribunale debba esservi altresì un' assemblea di giurati, non già perchè ella giudichi del fatto o del diritto nel merito della questione, ma per un ufficio preliminare e speciale, che descriveremo più sotto. Egli è nondimeno manifesto che ai Tribunali distrettuali o provinciali non si potrebbero affidare quelle cause le quali trattassero della giustizia degli atti emanati dai supremi poteri dello Stato, cause gravissime e talora difficilissime: debbono dunque queste essere riserbate alla suprema corte di giustizia che nelle cause minori costituisce la terza istanza. Ora posciachè nella trattazione di tutte le cause è da ritenere il principio delle tre istanze, converrà che per le cause maggiori il supremo Tribunale politico ammetta le tre istanze in sè stesso, venendo formata la prima con un collegio di un terzo dei suoi membri, la seconda con un altro collegio composto dei rimanenti due terzi, e la piena seduta del Tribunale formando la terza. La gravità e l' importanza di questo consesso, che dee limitare entro i confini della giustizia gli altri supremi poteri dello Stato, esige che il numero dei suoi membri sia ragguardevole e proporzionato alla popolazione dello Stato. Converrà dunque fissare la proporzione che deve osservarsi fra il numero dei membri del Tribunale supremo e il numero di ciascuna delle due camere che formano il parlamento. Questa proporzione sembra poter essere che il Tribunale supremo abbia un numero di membri pari alla metà dei membri di una Camera. Il Tribunale di cui parliamo non deve già essere un' inquisizione; anzi nulla deve fare d' ufficio: è un puro Tribunale, il quale aspetta che vengano a lui quelli che hanno dei richiami a fare, porgendosi all' esame delle ragioni che gli presentano e di quelli che oppone la parte contraria. Sui detti richiami egli pronuncia della giustizia o ingiustizia di tutti gli atti del governo come pure dell' abuso che i cittadini potrebbero fare dei diritti che loro accorda la Costituzione a danno della società quali sarebbero quelli della libertà della stampa, dello insegnamento ecc.. Più brevemente egli giudica dei diritti politici e della loro violazione sia per parte del governo sia per parte dei governati. In questa sfera di materie sottoposte al Tribunale politico non si debbono comprendere i delitti di alto tradimento che vengono rimessi ai Tribunali comuni, e niun altro delitto contro una legge certa e determinata o contro un diritto incontroverso che pure appartengono ai Tribunali civili e criminali, perocchè l' intendimento di questa istituzione del Tribunale politico è unicamente quella che v' abbia nello Stato un' autorità incaricata di giudicare dei principŒ: se esista la legge, cioè se la legge è giusta, (giacchè non essendo giusta non si dee dire che esista), se esista il diritto che si pretende violato, non meramente se si dia il caso della violazione; e quando la legge o il diritto è indeterminato quali sieno i confini che lo determinano. Ora il delitto d' alto tradimento è una semplice violazione di una legge e di un diritto certo e determinato, perocchè il diritto che ha il governo di non essere tradito è fuori di controversia: così si dica di tutti gli altri delitti contro una legge o un dovere giuridico che non ammette dubbio nè ha bisogno di determinazione. All' incontro se la questione si volge sulla legge, se trattasi di sapere se ella sia stata portata giustamente o con infrazione dei diritti di qualche cittadino, la cosa non può essere riferita che al Tribunale politico. Così pure se la legge o il diritto indeterminato, come sono i diritti delle libertà accordate dalla costituzione, e vuol sapersi se di quel diritto fu abusato, tocca al Tribunale politico decidere perchè questa decisione importa una determinazione dei limiti della legge e del diritto che dee premettersi volendo rilevare se vi fu il caso d' abuso. Del pari la censura di tutti gli atti del governo, fatta dietro il richiamo di quelli che se ne tengono offesi, appartiene al Tribunale politico, perocchè anche in tutti questi casi trattasi d' interpretare e di determinare la legge costituzionale per sapere se fu violata dal governo in se stessa o nelle sue conseguenze. Questa separazione delle materie che sono di competenza del Tribunale politico, da quelle che sono di competenza dei Tribunali comuni, mi sembra la più esatta. Ma qualora paresse troppo sottile e atta a produrre nella pratica frequenti questioni di competenza, si potrebbe stabilirne un' altra più positiva nel modo seguente: La legislazione dello Stato è scritta nella costituzione e nei codici e leggi annesse: questi e queste devono essere dettate in perfetta coerenza con quella: tutto ciò che vi avesse in queste di contradditorio a quella è invalido e di niuna autorità. Ogni Tribunale dee appoggiare le sue sentenze alle leggi scritte ed alle loro conseguenze che sono implicitamente contenute in quelle. Ora il Tribunale politico è il custode della Costituzione: gli altri Tribunali sono i custodi delle altre leggi: il Tribunale politico dee appoggiare le sue sentenze sempre a qualche articolo della Costituzione; gli altri Tribunali a qualche articolo delle altre leggi. Ogni imputazione davanti ad un Tribunale dello Stato deve essere anch' essa appoggiata a qualche articolo di legge. Se l' imputazione si fonda o può esser fondata sopra a qualche articolo di quelle leggi che sono state portate fuori della Costituzione, la questione è di competenza dei Tribunali ordinarŒ. Ma se l' imputazione non ha altro fondamento possibile che qualche articolo della stessa Costituzione, allora la causa è di competenza del Tribunale politico. Quindi ogni qualvolta trattasi della giustizia d' una legge inferiore alla Costituzione, la causa appartiene al Tribunale politico. Così pure ogni qualvolta trattasi d' un atto del governo che non offende altra legge se non la Costituzione, spetta portarne sentenza al Tribunale politico. Distinta così la competenza dei due ordini di Tribunali per conoscer meglio l' officio del Tribunale politico, conviene indicare quali persone giuridiche possono essere attrici dinanzi al medesimo. Primieramente al potere legislativo è lasciata la facoltà di consultare il Tribunale politico sulla giustizia di una legge prima di promulgarla. Questa consultazione dee essere riserbata unicamente alla suprema corte di giustizia politica; ma la domanda dee esserne fatta unicamente al Collegio di prima Istanza di questo Tribunale, e ciò senza che possa essere portata alla seconda e terza Istanza ancorchè la prima Istanza la dichiarasse ingiusta; e ciò perchè non sia preoccupato il ricorso che potessero fare i cittadini in qualunque sia tempo contro alle leggi innanzi al Collegio d' Appello e alla piena seduta. Se il Collegio di prima Istanza niente trova nella proposta di legge di contrario alla giustizia, egli vi appone il suo nihil obstat , e la registra. Se vi scorge qualche ingiustizia ne dee dare i motivi al potere legislativo; e questo rimane tuttavia libero di promulgarla o no. Qualora la promulghi, riportandosi così al giudizio del pubblico, ella ha pieno vigore fino che non insorgono reclami contro di essa, nel qual caso il Tribunale supremo giudica della causa, senza riguardo alla consultazione avvenuta. Qualora poi la legge sia stata registrata dal Collegio di prima Istanza, il richiamo non può farsi che in Appello. Ciascuno dei poteri che concorrono alla formazione delle leggi, cioè le due camere ed il re, può anch' egli consultare il primo Collegio del Tribunale supremo intorno alla giustizia della proposta di legge, ma questa consultazione dee farsi contemporaneamente ai dibattimenti delle Camere, i quali non devono essere per tale motivo dilazionati. Il re può consultare il Tribunale supremo anche sulla giustizia d' una guerra o di altra relazione coll' estero: consultazione che secondo quello che esige la natura della cosa dee trattarsi in segreto; nè il re tuttavia rimane obbligato a seguire la sentenza del Tribunale. La consultazione che fa il re per la giustizia delle relazioni esterne può essere ugualmente proposta all' uno dei due Collegi o al Tribunale in piena seduta. Colla sola aggiunta di questo Tribunale politico il primo carattere della società naturale, cioè la giustizia, avrebbe trovato tutto ciò che ad esso è necessario per realizzarsi e per tutelarsi. Ma non già con eguale facilità si può indicare il modo di introdurre nelle presenti società civili il secondo carattere della società naturale, cioè a dire la regolarità . Poichè gli uomini non hanno già pensato a questa, come sono stati costretti di pensare tantosto alla giustizia , come quella che è immediatamente necessaria alla società umana e senza la quale non sussiste. La giustizia è un' idea morale e perciò sempre splendida, sempre luminosa a tutti gli uomini, mentre la regolarità della società non è che un' idea politica, un' idea per ciò complicata di molte idee, o un calcolo della sempre cupa prudenza. La regolarità finalmente a quel modo che noi l' abbiamo concepita non è che un mezzo per sottrarre gli uomini quanto più sia possibile alle tentazioni di infrangere la giustizia, e gli uomini pensano sempre prima al fine che al mezzo. Anzi egli è pur singolare quella spensieratezza che si osserva negli uomini e tardità nel curare i mezzi che possano assicurare il conseguimento di quei fini che pur desiderano conseguire: una certa inerzia da una parte e un divagamento della loro attenzione, una soverchia confidenza dall' altra in se stessi o in quei pochi mezzi che più ovvii si sono lor presentati fa sì che sebbene desiderosi d' arrivare a qualche splendido scopo, pure ignavamente il perdono pel non bastevole acquisto ed uso dei mezzi, o vero, rimanendo questi anzi scarsi che abbondevoli, conseguon lo scopo o tardi o debilmente. Ma egli avviene ancora che v' hanno talora de' mezzi ad ottenere qualche scopo che pur sommamente desiderano, i quali nè pur s' immaginano che possano esistere, e ai quali perciò non pensano deliberatamente fino che il loro pensiero spinto qua e là da una lunga successione di cose, e da un cumolo singolare di circostanze, non venga tratto sopra dei medesimi accidentalmente. Egli è fra questi mezzi obliati generalmente, e per lungo tempo nè pur sospettati, che io credo si debba mettere gli equilibri che abbiamo indicati nel fine della prima parte e che tutti insieme danno alla società il secondo carattere della sua perfezione, cioè la regolarità . Essi furono bensì talora traveduti quando le circostanze s' univano per aprire gli occhi agli uomini, e per mostrar loro ciò che l' istantanea esigenza delle cose addimandava. Ma erano traveduti alla sfuggita, e separatamente l' uno dall' altro, e quando il politico veniva indotto dalla natura delle cose a fare qualche disposizione a quelli consentanea, questi solea riguardarla come un rimedio utile ai mali pubblici, ma un rimedio solo di quel caso particolare, un buon tratto pel malore del momento; ma non si sollevava la sua mente a considerarlo con un po' più di generalità a vedere che in quella disposizione si conteneva uno specifico per tutti i mali dello stesso genere, e che quel malore era prodotto da una stessa causa onde provenivano tanti altri mali, e per ciò ad un genere solo appartenenti: che questi mali sociali in somma nascevano da un germe funesto della umana società, e che il rimedio, che aveva tolto via il malore particolare, rimoveva il germe stesso cagione di tutti gli altri malori. Quindi si può dire che i grandi sconvolgimenti delle società civili ed i mali a cui esse si trovarono continuamente soggette condussero talora i governatori delle medesime ad operare in un modo consentaneo ai principŒ della regolarità, e che perciò essi introdussero qualche parte di essa nella medesima, ma che questo fecero, per dir così, senza sapere essi stessi che si facevano, condotti dalla forza naturale delle cose; che perciò non operando dietro un principio, ma solo a tentone come pratici privi d' una teoria, hanno dovuto lasciare nelle società civili delle irregolarità innumerevoli, nel tempo stesso che vi lasciavano qualche traccia di regolarità; e tale si può dire che sia il presente stato delle medesime. Egli è da aggiungere ancora un' altra osservazione, che rende ragione di un fatto umiliante, a dir vero, per l' umana natura, cioè che si trovino traccie di maggiori regolarità in quelle società civili che sono state più crudelmente agitate da convulsioni intestine, e dove più frequentano i delitti e trionfa la scostumatezza. Di che la ragione è questa che la regolarità non è che i mezzi onde si prevengono le infrazioni morali, e si sottraggono agli uomini le tentazioni a turbare con esse la società: dei quali v' ebbe maggior bisogno nelle società più corrotte, e più agitate dalle fazioni: perciò doveva questo bisogno acuire maggiormente gl' ingegni degli uomini a inventare a mali sì grandi ripari e provvedimenti, e perciò ancora a cercare ciò che scemasse le occasioni di mal fare agli uomini, regolando la società in modo che nell' ordinamento della medesima il meno possibile se ne contenessero. E in fatti la regolarità , secondo carattere della società naturale, non è altro che quella disposizione della medesima, la quale dia il men possibile agli uomini gli impulsi e le tentazioni d' infrangere la giustizia e turbare la società, la quale disposizione viene espressa dai cinque equilibri che formano la teoria della medesima. Questa teoria per tanto non fu mai chiaramente veduta e stabilita, nè mai si cercò di realizzarla nelle società, sebbene il caso o l' unione di molte circostanze abbiano condotto sovente gli uomini politici ad agire senza avvedersene in un modo consentaneo alla medesima. Dovendo adunque noi adesso trattare di questa regolarità, ci è necessario di sostenere due fatiche egualmente rilevanti; cioè: 1 Descrivere una società perfettamente regolare, la quale sia come la regola e l' ideale a cui paragonare le società civili sussistenti, e conoscere i pregi ed i difetti della loro costruzione: 2 Indicare il modo prudente onde gli uomini senza offendere la giustizia, che è il primo e fondamentale carattere della società naturale, possano muovere la società, a cui appartengono, verso la sua perfezione, rivolgendo tutte le sue disposizioni che possono legittimamente fare ad ottenere che essa acquisti la regolarità sopra indicata e che si accosti sempre più all' ideale proposto. Per formarci l' ideale della società regolare si debbe bensì usare del frutto dell' esperienza, poichè si debbono prender da essa le cognizioni intorno alla natura dell' uomo, e allo sviluppo delle sue passioni mediante la società, si debbono prender da essa le leggi a cui il cuore umano è sottoposto, le diverse trasformazioni ch' egli soffre sotto i colpi dei diversi accidenti, e le molte specie de' fenomeni che sortono dal contatto di più uomini e dall' accozzamento di più interessi. Ma dopo di ciò conviene elevarsi portando seco tali cognizioni ad una sfera più pura, a luoghi più spaziosi, e più sgombri da impedimenti accidentali dove potere fabbricare co' materiali seco portati un edificio caro all' intelligenza, nelle proporzioni del quale risplenda l' ordine e la bellezza, e che quand' anche non potesse giammai essere realizzato pienamente sulla terra, tuttavia rimanesse venerabile come un tipo di perfezione a cui avvicinarsi, da cui solo si può prendere tutto ciò che si può far di bene sulla terra, ed a cui si debbe raffrontare ciò che fatto si trova per conoscere se è retto o se è torto, se merita d' essere conservato, o distrutto e rifabbricato. Le utopie sì antiche come moderne furono derise, ed a ragione; ma non già perchè presentassero il tipo della perfetta società civile, ma perchè nol presentavano: non già perchè proponessero cose tutte degne d' imitazione, ma perchè ne proponevano di quelle che non sarebbe punto stato buono che fossero state dagli uomini imitate. Egli è vero che l' infermità degli uomini non permette che essi attingano in veruna cosa alla piena perfezione, ma egli è falso, che la perfezione non sia lo scopo a cui debbono tendere tutti i voti e le azioni degli uomini. Egli è falso che la perfezione non possa essere imitata: qualunque perfezione può essere imitata, sebbene non a pieno asseguita. Ciò che non può essere imitato è solo quanto è assurdo: ciò che non debb' essere imitato, è solo quanto è cattivo. D' altra parte la perfezione debb' essere presentata agli uomini in tutta la sua eccellenza, perchè non si sa qual parte ne imiteranno, o quale no: non si sa in quante maniere diverse i diversi uomini la imitino: e sebbene si possa credere impossibile che un uomo la imiti perfettamente, tuttavia non si può già sapere, se riunendo insieme tutto ciò che da un esemplare di perfezione proposto all' uman genere imitano gli uomini diversi, non riesca forse tale imitazione completa ed intera, sicchè l' esemplare vedasi tutto realizzato ed imitato dagli uomini, sebbene non tutto da un solo uomo, non in un solo luogo, non in un solo tempo. E parmi anzi questa l' intenzione della divina Provvidenza che non già nell' individuo, ma bensì nella specie umana si avverino tutti quei gradi e tutte quelle parti di una estrema perfezione di cui l' uomo è suscettibile. A tenore di queste idee abbiamo cominciato dall' immaginarci una società o per dir meglio una moltitudine di uomini, che vuole diventar società, nella quale non sia ancor successo alcuno di quei casi accidentali per cui viene accelerato il tempo agli uomini che si trovano nello stato di natura del passare a quello di società civile: i quali casi consistono nell' elevarsi che fa un uomo od una famiglia sopra gli altri per qualche sua virtù o prodezza o avvedimento. Ma invece di ciò abbiamo supposto che i padri di famiglia spontaneamente insieme assembrati pensassero di eleggersi di comune accordo un governo secondo le leggi della equità insieme e della prudenza. Questa moltitudine di uomini può ricevere quel governo qualunque che si crede migliore, perocchè ella non ne ha ancora nessuno, e non v' ha nessuna persona in essa che abbia ancora acquistato il diritto di comandare, la quale se già vi fosse sarebbe certamente un ostacolo allo stabilimento della migliore costruzione della società, perchè il suo diritto sarebbe rispettabile, e sarebbe perciò una condizione che impedirebbe la formazione del progetto di una nuova costruzione. Egli è appunto questa rispettabilità dei diritti già acquistati al governo sociale che rende necessario supporre una moltitudine non ancora associata, ma che vuol associarsi, perchè si possa dare a questa liberamente la forma miglior di governo, e sarebbe l' errore della più atroce tirannia filosofica quello, che è pur comune a' dì nostri, di credere che quando si ha immaginato una forma migliore di governo si sia ancora in diritto di realizzarla dove che sia, senza rispetto a' diritti di quelli nelle cui mani sta già per giusti titoli il regolamento della società. Supponiamo adunque che questi padri di famiglia congregati insieme per darsi quel migliore regolamento sociale che corrisponda il più alle leggi della equità e della prudenza, abbiano scelta una Commissione de' più stimati e de' più savŒ fra loro, incaricata di presentare un progetto, secondo il quale instituire un potere civile, che gli unisca in società. Quale sarebbe il progetto più savio ed equo che questa Commissione potrebbe presentare all' assemblea de' padri? Tal progetto è ciò che ora dobbiamo tentare di esporre. E primieramente per le cose già dette veggiamo di già quali siano le prime basi del medesimo. Perocchè tutto il potere civile dovrà certamente proporsi che venga distribuito in tre parti: le quali sono le seguenti: 1 Il Tribunale politico che abbiamo indicato e che per essere indipendente da qualunque altro potere forma il primo ramo del potere supremo. 2 L' Amministrazione incaricata di amministrare la modalità dei diritti di tutti i membri della società, che forma il secondo ramo del potere supremo. Questi due rami del potere supremo hanno tutti e due un potere proprio e non già delegato da verun altro potere. 3 La Magistratura , la quale non è già un ramo del supremo potere e non ha neppure un potere proprio, ma solo ha un potere delegato dall' Amministrazione della società: essa è la parte esecutiva, come l' Amministrazione è principalmente la parte legislativa, ma la seconda non è che una serva della prima. Queste tre branche in cui vien diviso dal progetto della Commissione il civile potere, esigono di essere da noi trattate partitamente. Ritorniamo alla nostra Assemblea dei Padri di famiglia. La Commissione da' Padri trascelta dopo aver formato o piuttosto abbozzato il progetto del Tribunale politico che venimmo di descrivere, non credette bene di presentarlo tantosto all' assemblea dei Padri, prevedendo che avrebbe incontrato delle grandi opposizioni, come quello che esigeva prima la cognizione di molti principŒ di giustizia, che tutti non potevano egualmente avere, e nei quali bisognava prima che ben insieme convenissero. Per ciò pensarono in quella vece di prendere un' altra via, e invece di presentare il progetto del Tribunale politico così staccato procurarono di condurli un passo dopo l' altro da sè stessi a rinvenire insieme e l' ottima forma della Amministrazione, e la necessità del Tribunale. Venuto adunque il giorno della sessione, in cui la Commissione doveva riferire ai Padri lo stato dei suoi lavori, essa si restrinse a farli convenire, che l' associazione che cercavano di fare insieme non era altro, che l' instituzione di una amministrazione della modalità dei diritti di tutti quelli uomini che dovevano convivere in detta società. Spiegata la parola modalità per i modi diversi nei quali può esistere un diritto senza perdere menomamente del suo valore, la Commissione dimostrò, che coll' avervi un Potere, il quale potesse variare questi modi dei diritti, secondo che più giovasse, nessuno perdeva, e invece altri guadagnava: poichè il socio al quale si cangiava il modo di essere del suo diritto, non perdeva nulla; mentre che il suo diritto, per essere piuttosto in un modo che in un altro, non veniva punto a perdere del suo valore, ma tutto era scrupolosamente a lui conservato; e che questo doveva essere il vantaggio principale dell' instituzione, a formar la quale s' erano ragunati. Dimostrò ancora che questo Potere, a cui si sarebbe commesso di stabilire la modalità dei diritti di tutti i socŒ, non che venisse a disporre dei diritti dei medesimi, cioè del loro valore, anzi veniva ad essere incaricato della loro difesa, mentre tutte le lesioni di diritto che i soci si facessero fra di loro appunto perchè alteravano i diritti, alteravano ancora quell' ottima modalità, che era dover del Potere in discorso di stabilire e di rendere anche colla forza rispettata. Questo discorso acquietò l' animo di molti dei Padri, i quali si erano con grandissima difficoltà indotti a venire all' assemblea: poichè sospettavano, non avendo idea chiara di ciò che si voleva fare, che la nuova instituzione non andasse a ferire i loro diritti, e che il nuovo Potere che si voleva erigere fra di loro, al quale fossero tutti subordinati, non venisse a comandare nelle loro famiglie e a disturbarli nel possesso dei loro beni. E questa era l' idea che era entrata nelle famiglie più doviziose e nella mente dei più vecchi, che riguardavano come una pericolosa novità l' associazione proposta: e che formavano insieme una fazione assai forte. Ma quando ebbero chiaramente intesa l' idea della cosa, e quando viddero che non si trattava di altro che di stabilire una amministrazione al solo fine che determinasse sempre l' ottima modalità dei diritti, e che lungi dal toccare i diritti di alcuno non avesse altro potere che di difenderli e di migliorarli, essi viddero subito il vantaggio della cosa, mentre l' esperienza avea loro fatto conoscere, quanti mali nascevano dal non aver una comune volontà che definisce la detta modalità dei diritti, e dal non aver una comune forza da difenderli. Laonde approvarono tutti l' idea dell' instituzione, riservandosi solo di vedere che il modo di eseguirla corrispondesse allo scopo, e che si avesse veramente tale instituzione che regolasse la modalità di tutti i diritti, senza ch' essa trapassasse i suoi confini. In altra sessione la Commissione pensò di tirare una inaspettata conseguenza dai principŒ posti nella sessione precedente, intorno la natura della società che si voleva stabilire, e ricevuti con universale applauso. E la conseguenza si fu, che dal punto che si era stabilito che l' instituzione che andavano a fare doveva avere per suo scopo la modalità di tutti i diritti, conveniva trattare con tutti quelli che avessero dei diritti: e perocchè dei diritti hanno tutti gli uomini senza eccezione, qualunque fosse il loro stato o condizione, tutti dovevano esser fatti entrare nella Assemblea, e con tutti egualmente si doveva trattare. Proponeva per ciò che anche le donne e i figliuoli di famiglia e i servi, e tutti quelli che avessero avuto l' uso di ragione, fossero chiamati ed uditi indistintamente, mentre l' instituzione che si andava a fare riguardava anche essi, perchè anch' essi avevano dei diritti, che si trattava di sottomettere quanto alla loro modalità al potere che si voleva instituire. Trovò tale proposizione la più grande opposizione nei Padri, ai quali pareva che con ciò si attentasse al loro potere sui figliuoli, sulle mogli e sui servi; e che fosse cosa la più contraria alla loro dignità chiamar questi nell' assemblea, e atta a dar loro una baldanza, che avrebbe alterato l' ordine delle loro famiglie. Qualcheduno dei più avveduti credette ancora di vedere nella proposta della Commissione conseguenze più lontane e più funeste, per le quali quella instituzione in luogo di unire le famiglie fra di loro, e di farle fiorire mediante questa unione, scopo della medesima, avrebbe portato lo scioglimento di ciascuna famiglia, e l' instituzione della società civile sarebbe finita anche colla distruzione della società famigliare. Tanto dava da temere il principio di considerare gli uomini come individui, ciascuno dei quali avesse dei diritti da sè, e con essi concorresse a formar come membro la civile società. La Commissione rispose che le obbiezioni che le si facevano, dimostravano ch' ella non era stata ben compresa o che non si era a sufficienza spiegata. Domandando dunque attenzione per ispiegarsi meglio, cominciò dal dimostrare, ch' ella è cosa innegabile, che ogni uomo abbia dei diritti, i quali, appunto perchè sono coll' uomo innati, si possono chiamare i diritti dell' uomo: che per questi però non si possono intendere dei diritti vaghi e generici, ma che debbono essere determinati e precisi: che si può bensì sbagliare nello stabilirli, ma che il negarli è impossibile; che l' opinione di alcun membro della Commissione restringeva i diritti dell' uomo a due soli, cioè: 1 la personalità, 2 la vita; che quando anche questo secondo potesse esser conteso pel diritto del padre anche sopra la vita del figliuolo, tuttavia non potrà mai essere conteso il primo; e che rispetto a questo secondo, se il padre ha diritto sulla vita del figliuolo, ha anche degli obblighi verso la medesima. Possono i padri far ciò che vogliono dei loro figliuoli? dato anche ad essi un diritto sulla lor vita nel caso di colpa, possono torla a loro capriccio? Non è egli il padre un uomo ragionevole che non può perciò far nulla, non solo verso i suoi figli, ma nè verso se stesso di ciò che offenda la dignità umana? L' autorità dei mariti sulle mogli e sui servi non debbe anch' essa esser ragionevole? non ha un limite messo dal suo stesso fine? non dovrà aver un freno contro alle passioni? Se la società che vogliamo stabilire debbe esser rivolta a difendere i diritti, tenderà essa a difendere i diritti dei forti, che non hanno bisogno di difesa, o pure quelli dei deboli che si rimangono indifesi? E se i diritti dei deboli, chi più deboli dei figliuoli rispetto ai padri, delle mogli rispetto ai mariti, dei servi rispetto ai padroni? Rammentiamoci che siamo tutti figliuoli prima d' esser padri, che il bene dei figliuoli non è che il bene dei futuri padri e delle future generazioni, e che la giustizia infranta dai padri verso i loro soggetti gli espone ad una reazione dei medesimi, o ad una punizione divina. Ma supponiamo pure che i figliuoli non abbiano giammai uno stretto diritto di richiamarsi contro i padri, prima d' essere emancipati: supponiamo (e questo al tutto non può sostenersi) che si possa fare lo stesso discorso della moglie e del servo: non ne verrebbe per questo che la società civile, che vogliamo istituire, non debba prendere cura anche di queste persone; perocchè dovendo essa, secondo la massima che abbiamo abbracciato, stabilire l' ottima modalità dei diritti, deve vegliare di conseguente perchè il padre, il marito, il padrone, non passino i loro confini; mentre il passarli è un guastare l' ottima modalità, se pur si dà qualche pregio all' onesto ed al giusto, e non si credono vani nomi. La proposizione adunque che nella instituzione che vogliamo fare della società civile sieno introdotti e sentiti tutti i generi di persone purchè giunti all' uso di ragione, non deve adombrarvi quasi tendesse ad indebolire le vostre legittime potestà, mentre non ha altro scopo che di giungere a riconoscerle con accuratezza, e stabilirne dei precisi confini, acciocchè nessuno si lasci trasportare dalle passioni ed abusare del suo potere, e non produca (ciò che una funesta esperienza dimostra pur troppo spesso avvenire) quei mali che desolano le famiglie, che le riempiono di atroci inimicizie fra figli e padri, mogli e mariti, servi e padroni, inimicizie che poi serpeggiano di casa in casa e passano d' una generazione infelice ad un' altra generazione ancora più infelice. L' introdurre alla vostra presenza gli altri membri delle vostre famiglie non è dar loro alcun diritto; mentre con ciò non s' istituisce ancora la civile società; ma solo si tratta della sua instituzione: e se questa per istituirsi secondo le basi dell' equità ha bisogno di prendere cognizione dei diritti e dei doveri di tutte quelle persone che debbono entrare in essa, d' altra parte essa non potrebbe giammai alterare questi diritti; mentre non ha altro scopo ed altro potere che di difenderli, e ben ammodarli. Egli è poi ancor meno ragionevole il timore di quelli che dubitano che colla proposta che abbiamo fatto si dia troppo risalto e troppa forza ai diritti individuali, per la quale perdano relativamente di forza quei diritti che legano gli uomini insieme, mentre anzi noi protestiamo aver in animo che la società di cui si tratta debba essere rivolta a difendere imparzialmente sì gli uni che gli altri, e perciò anche a rafforzare questi secondi, non dovendo essere veramente la istituzione che si vuol fare se non una maggiore fortificazione di tutti i diritti degli uomini. Per tali dichiarazioni e proteste consentirono i Padri a completare l' assemblea secondo la proposta della Commissione, e a dar luogo in essa a tutte le condizioni di persone come ad un buon espediente a riconoscere tutti i diritti e doveri, la modalità dei quali era lo scopo della instituzione desiderata. La Commissione cominciò in una terza sessione a dire, che si compiaceva di essere in caso di far conoscere a' Padri il vantaggio e la necessità della concessione da essi fatta nella sessione precedente, che l' assemblea fosse completata coll' ammissione in essa di ogni genere di persone. Poichè, disse, essendo lo scopo della società civile che volete stabilire la modalità dei diritti, questa è diversa secondo la diversità dei diritti stessi: per cui adesso che si deve procedere a stabilire un potere incaricato di amministrare questa modalità, si sente il bisogno di aver sott' occhio i diritti di tutti per definire gli offici di questo potere. Passò di poi a dare una nuova prova di ciò, stabilendo la proposizione importante: che nel potere civile dovevano entrare le diverse maniere di persone a quello stesso modo onde partecipavano dei diritti, essendo questa la maniera di deviare il meno possibile dallo stato di natura, e di erigere la società civile in un modo perfetto ad un tempo e colla menoma azione. Rivolta poi a quelli che nella sessione precedente avevano biasimata l' importanza data ai diritti individuali, mostrò loro che la proposizione che era per fare avrebbe fatto vedere la differenza del sistema di un eccessivo individualismo dal loro; poichè nel sistema dell' individualismo si suppone che ciascun uomo dovesse avere un egual diritto nella società civile ed un egual voto, mentre essi riconoscevano erroneo tale sistema, e non parlavano di individui, ma piuttosto di una classe intiera d' individui: non dell' uomo, quasi che bastasse nominarlo per intendere tutte le specie dei suoi diritti, ma dei diritti stessi dell' uomo provati non meno dalla sua natura che dai fatti; perocchè proponevano in quella sessione che di tutti gli uomini che dovevano formar parte della società si facessero quattro classi divise secondo la diversità dei diritti, e che si trattasse con ciascuna classe a parte per vedere come i diritti che formavano quella classe potessero dare alla medesima un titolo d' entrare in parte del civile potere che cercavasi d' instituire. E le quattro classi divise secondo i diritti che potevano dare una influenza diversa nella civile società erano le seguenti: La prima classe sarebbe stata composta di quelli che non possedevano il diritto sulle proprie azioni, quali sono i figliuoli, le mogli e i servi perpetui. 1) La seconda classe si doveva formare di quelli che erano affatto privi di beni di fortuna. Nella terza classe dovevano esser posti quelli che acquistavano beni di fortuna, ma precariamente e senza possedere un fondo; e questi erano i giornalieri e i mercenarŒ. Finalmente la quarta classe era composta di quelli che oltre avere i diritti dell' uomo, erano liberi e benestanti, cioè i capi di casa che possedevano un fondo, che dava loro il mantenimento senza bisogno del lavoro personale: intendendo per capo di casa qualunque uomo che facesse casa da sè, sia maritato o no. Questa divisione in quattro classi non incontrò difficoltà e si elesse una persona proba per ogni classe che dovesse trattare le ragioni della medesima circa l' aver parte al governo civile che volevasi instituire. Nella quarta sessione non potè la Commissione fare alcun passo innanzi coi suoi lavori, perchè molti membri insorsero contro una proposizione ch' essa aveva fatta sentire nella sessione precedente, ma che non era stata messa in deliberazione. La proposizione era « che le persone componenti la Società Civile dovessero entrare nel Potere Civile, che si trattava d' istituire, a quello stesso modo onde partecipavano dei diritti »proposizione identica con quest' altra: - « Che tutte le specie di diritti e tutti i diritti in ciascuna specie dovessero trovare nella Società Civile una rappresentazione loro conveniente e possibile. » Si cominciò col richiedere una spiegazione della parola rappresentazione , la quale sembrava equivoca ad alcuni; e la Commissione disse che per rappresentazione di un diritto non intendeva altro se non una voce, la quale potesse perorare la causa di quel diritto, esporre i lagni nel caso che quel diritto fosse stato violato, e le pretese che egli poteva avere sul modo di essere considerato dalla Amministrazione sociale ed accresciuto. Mostrò qui la necessità di ciò e l' equità della cosa; perocchè in tal modo nissun diritto veniva obliato, ma ciascuno aveva quella forza che gli era necessaria per guarentire la sua esistenza e la sua prosperità. Disse, che non si poteva già aspettare che vi fossero degli amministratori che prendessero da se stessi in vista tutti i diritti, perchè ciò era sopra le forze della umana mente e della umana virtù; che, perchè la Società fosse costituita sulla Giustizia, che era la prima base su cui erano convenuti, si doveva nel fondarla attenersi irremovibilmente a queste due avvertenze: 1 che ciascun diritto avesse modo di lamentarsi, violato che fosse; 2 che ciascun diritto avesse modo di fare innanzi efficacemente le sue ragioni per essere migliorato dalla Amministrazione; e che questo non si poteva ottenere a meno che ciascun diritto avesse una voce o sia avesse alcuno che facesse sentire la sua esistenza nell' Amministrazione della società, influendo nella bilancia amministrativa con quel peso stesso che il diritto aveva rispetto agli altri diritti; ciò che si voleva esprimere con dire che ogni diritto fosse rappresentato nella società . Osservò, che quando anche l' Amministrazione della Società, fatta in un modo diverso, fosse così avveduta e così imparziale che sapesse avere in vista tutti i diritti, era però impossibile che gli avesse in vista tutti allo stesso modo, e con quella chiarezza, con quella estensione e con quell' impegno che ci poteva avere il particolare loro rappresentante e specialmente il suo possessore. All' incontro nell' Amministrazione proposta si chiamavano in tal modo tutti gl' interessi privati in società, e si facevano entrare tutti a formare un solo corpo che doveva riuscire necessariamente il più avveduto insieme ed il più attivo; perchè interessato quanto più esser poteva nella propria Amministrazione. Dimostrò finalmente, come questa massima evitava i gravi danni nei quali erano incorse altre nazioni che avevano abbracciato per mancanza di prudenza il principio vago ed indeterminato che fossero gli uomini e non i loro diritti rappresentati nella società; e conchiuse collo stabilire che gli uomini considerati privi dei loro diritti erano nulli in società; che la società civile non si potea fare per tali uomini astratti; ma ch' ella non si faceva se non per i loro interessi; che gl' interessi adunque e non gli uomini conveniva che avessero in essa una rappresentazione. A mal grado di questa spiegazione la Classe degli uomini liberi temette di venir forse confusa nella società con quella dei servi; e convenne che la Commissione protestasse di bel nuovo ch' essa non voleva già che tutti i diritti fossero rappresentati per essere confusi insieme, ma anzi per essere meglio distinti e tutti egualmente difesi; disse che essere rappresentati non volea dire essere distrutti, diminuiti, accresciuti, o mescolati; ma anzi essere provvedimento perchè non si violassero o mescolassero. I Commissari fecero osservare a tal fine che nella loro proposizione non si parlava già d' una rappresentanza per tutti i diritti uguale; ma d' una rappresentanza conveniente alla natura stessa dei diritti: sicchè sarebbe esclusa qualunque specie di rappresentanza , la quale non potesse convenire coll' indole dei diritti rappresentati senza alterarsi; poichè quest' era la prima condizione di ogni sociale stabilimento che cioè fosse conservato scrupolosamente a tutti il suo, e fosse esclusa qualunque arbitraria disposizione che potesse portar cangiamento nei diritti. Tranquillati con ciò i dubbŒ della Classe degli uomini liberi, sorse la Classe dei benestanti e protestò contro alla Rappresentanza proposta nel caso ch' essa portasse per conseguenza che essi dovessero pagare anche per quelli che non possedessero. Poichè, disse chi faceva le parti dei benestanti, se anche quelli che non possedono hanno parte nella società, cioè sono rappresentati, come potranno poi sostenere i pesi? chè non hanno da pagare le imposizioni. E se non possono mettere nulla insieme come potranno partecipare ai beni dell' Amministrazione, la quale non ha veruna forza, nè può far nulla se non ha un fondo da spendere? La persona delegata per trattar la causa dei non proprietarŒ rispose che la Società Civile è considerata presso molti popoli come una instituzione che si propone il bene universale; che nel bene universale entrano tutti gli uomini indistintamente, sieno benestanti o no, che dunque la Società Civile ha l' obbligo di mantenere i suoi membri poveri, e questi all' incontro hanno il diritto d' esigere dalla Società dei loro simili il proprio mantenimento; perchè il primo diritto di ciascun uomo è di vivere e perciò ai mezzi per conseguire questo fine che è insieme la prima legge del codice della natura. Qui fece una forte declamazione contro quelle nazioni mezzo barbare, presso le quali è aggravata la classe inferiore di eccessive imposizioni, mentre essa è quella che sostiene ancora le più gravi fatiche, e la classe dei ricchi si vive oziosa, immune dai pesi comuni della Società, e fracida nella scostumatezza. Tocca adunque, conchiuse, a pagare i pesi a quelli che hanno facoltà da pagare, ed è assurdo d' esiger nulla da poveri, cioè dai membri più sgraziati della società. La sola cupidigia insaziabile può esser sorda al loro diritto, e può impietrire il cuore a ricusare d' entrare con essi, quasi fossero uomini di una specie inferiore, nella medesima società. Quando sia così, rispose il delegato della classe proprietaria, la società che si propone d' instituire non conviene in nessun modo ai proprietarŒ; ed io non potrei giammai consigliarli di entrare in simile associazione. Essi sentono bensì la voce della natura verso a loro simili indigenti, ed è impossibile che v' abbia alcun uomo a cui questa voce sia totalmente straniera e che parlandogli al cuore non gli faccia intendere ch' egli è obbligato, essendo in uno stato di abbondanza, di satollare il suo simile che si vede languire innanzi dalla fame. I proprietarŒ anche senza essere uniti in società hanno più o meno corrisposto a questo dovere, secondo che ciascuno se ne sentì penetrato, fu più virtuoso, o meno dominato dall' avarizia. Ma nessuno, nè pure i più benefici, credette mai che gl' indigenti che soccorrevano avessero un diritto al loro soccorso, sicchè lo si potessero pigliare per forza: gl' indigenti stessi non hanno mai creduto di averlo, e la natura e la ragione mosse sempre le loro lingue ai ringraziamenti, ed i loro cuori alla riconoscenza dei beneficŒ che ricevevano, poichè sentivano che erano beneficŒ, e non debiti che fossero a lor pagati. 1) Se dunque fin qui i proprietari non ebbero che un dovere d' umanità verso gl' indigenti, e gl' indigenti nessun vero diritto verso i proprietarŒ, non conviene già a questi entrare in una società che muta le naturali relazioni fra gli uomini e che quei poveri che prima beneficavano innalza allo stato di creditori, i beneficanti abbassa a quello dei debitori, che priva questi di quella riconoscenza, venerazione ed amore, che ricevevano da quelli per unico risarcimento dei loro beneficŒ, e che all' incontro indurisce il cuore di questi, ed estinguendo in esso quelle naturali e dolci affezioni che gli avvincolavano coi soccorritori delle loro miserie, li cangia in esattori assidui, e li rende altrettante piante parassite che senza nulla produrre succiano gli umori vitali dal tronco della società. Non è dunque utile tale società che sovverte l' ordine della natura, che sommette i ricchi come debitori ai poveri resi creditori, e che dà a questi un diritto così esteso sopra di quelli quanto è estesa la povertà, la quale non ha confini mentre nessun bene necessariamente la satolla, potendo essere sempre riprodotta dalla volontà stessa degli indigenti. Consiglio adunque, disse, bensì i proprietarŒ a fare una società fra di loro, ma a non entrare in quella che si chiama società civile , e che si propone di fare insieme con tutti gli uomini ed anche perciò coi non proprietarŒ; poichè tale instituzione scioglie i vincoli più dolci che stringe i proprietarŒ ai non proprietarŒ per unirli insieme in quella vece con catene di ferro; scioglie i vincoli della natura per sostituirne di arbitrarŒ, i giusti per sostituirne di ingiusti; e costringe i ricchi a pagare per i poveri, non già col patto che questi li risarciscano mediante delle fatiche che posson prestare, ma col patto che restino poveri; mentre si pianta in principio, che la povertà stessa sia quella che dà loro questo preteso diritto. Se i proprietarŒ fanno un' associazione fra loro, non fanno nessun torto con ciò agli indigenti; poichè a ciascun uomo è lecito di associarsi coi suoi simili, per conseguire colla loro unione qualche fine onesto; e i non proprietarŒ possono parimenti fare se vogliono fra loro una simile associazione; poichè nessuno può loro impedirlo. Nè tampoco è vero che i proprietarŒ con ciò ricusino di riconoscersi simili dei non proprietarŒ. Essi riconoscono benissimo di appartenere ad una stessa società generale qual' è quella in cui sono gli uomini per la comunanza della natura. Ma questa non si dee confondere con altre particolari società. Essi anzi, come dicevo, conservano maggiormente in tal modo coi non proprietarŒ i vincoli delle naturali affezioni, vincoli spirituali che stringono una nobile società fra gli uomini, e che non debbono giammai essere sacrificati a dei vincoli materiali. D' altro lato nella società che io propongo di stringere ai proprietarŒ fra di loro, e che io sono indifferente che si chiami civile o con altro nome, perchè i vocaboli non formano la cosa, è impossibile che entrino i non proprietarŒ: poichè una società non si stringe se non per degli interessi comuni; ed è assurdo che entrino nella stessa società degli uomini, che non hanno dei comuni interessi: così i non proprietarŒ non possono avere interesse comune coi proprietarŒ, e non possono per ciò entrare in una società, il cui scopo è l' amministrazione della proprietà, poichè non avendone non potrebbono metter nulla insieme da amministrare, e l' entrare in essa per acquistarne è un entrarvi solo in apparenza; mentre non sarebbe un entrarvi per lo scopo della società, ma sarebbe un acquistare relazione con detta società per uno scopo a loro soli particolare. La Commissione prese a rispondere alle obbiezioni proposte: che primieramente conveniva con quelli che osservavano essere un errore fondamentale confondere la società generale degli uomini colla società civile; che questo errore tuttavia vigeva in molte menti, e che si era cercato con grave danno d' introdurlo nelle sociali costituzioni; che la società civile non era una società generale ma una società parziale: parziale disse, non pel numero degli uomini che racchiude, quasichè ne escluda dal suo seno qualche classe, ma per gl' interessi che si propone a suo fine immediato. Questi interessi non sono che i diritti nelle singole persone, ed il suo fine è di difendere questi diritti, e di farli fiorire non disponendo di altro che della loro modalità. Il potere civile adunque che si vuole instituire, sebbene debb' essere supremo nel suo genere, tuttavia è limitato nel suo oggetto. Quest' oggetto del potere, diciamolo di nuovo, è il regolamento della modalità dei diritti al doppio fine che sieno conservati ed accresciuti. Egli dunque aggiunge bensì qualche cosa allo stato di natura in cui si trovano presentemente le famiglie, ma non è già che distrugga questo stato di natura, o che lo assorba in sè stesso: si può dire ch' egli non sia altro se non un mezzo per cui si conservi lo stato di natura. I diritti sono nello stato di natura: e questi diritti son quelli che debbono sussistere egualmente nello stato di società. Le relazioni fra gli uomini che nascono da questi diritti, ovvero dalle loro scambievoli spontanee affezioni, appartengono pure allo stato di natura, poichè non hanno già bisogno di una legge civile per essere prodotte o permesse, e queste medesimamente rimangono le stesse nello stato sociale. Nello stato sociale adunque rimane intatto tutto lo stato di natura e non v' è di più che un potere, il quale lo difende e lo aiuta al bene degli uomini. Egli è dunque un grande errore, sebbene frequente, quello di non vedere nella società civile che diritti e relazioni creati dal potere civile, quasichè dipendesse da questo potere civile anche che gli uomini sieno uomini. Dirò di più, poichè il potere civile non è che un mezzo per difendere ed aiutare lo stato naturale, egli avverrà, che sia tanto più perfetto quanto meno apparisca; cioè quanto più insensibile sia la sua azione: poichè il miglior mezzo di ottenere un fine è quello di ottenerlo colla menoma azione. Egli è dunque un' insensatezza degli uomini moderni lo sforzo di distruggere lo stato naturale per non vedere da per tutto che il civile: lo sforzo di distruggere le affezioni ed i vincoli della natura per sostituire ad essi dei patti immaginarŒ: lo sforzo di distruggere il reale per sostituirvi l' ipotetico, e il dettame della giustizia naturale per sostituirvi la sanzione della forza, o sia l' arbitrio che essa dà a quelli che l' ha nelle mani. E` vero che questo errore avvicinò gli uomini necessariamente alla verità; poichè supposto che non vi fossero diritti se non sociali, cioè se non sostenuti dalla forza sociale, vale a dire supposto che i diritti non fossero distribuiti dai titoli naturali, ma dall' arbitrio fornito di forza, era impossibile che non iscorgessero l' assurdità nel sistema, quando quest' arbitrio fosse dato ad una persona particolare: mentre una tale persona sarebbe riuscita il più mostruoso dei tiranni. Quindi necessariamente ricorsero all' arbitrio del popolo, come un arbitrio che veniva tenuto in dovere dall' interesse generale, cioè dall' interesse dei più; ma che non cessava per questo d' essere radicalmente una tirannide, mentre la prima sua conseguenza era il sacrificio dei meno ai più: ed in fatti l' infallibilità del popolo fu proclamata nello stesso tempo che si vide disporre col maggior arbitrio, anzi col più crudele arbitrio, della sostanza e della vita dei più deboli; che si sentì giustificare qualunque eccesso collo specioso titolo del bene generale, e che si vide andare regolarizzandosi questo sistema mostruoso, e, ridotto a termini finanziari, stabilirsi, che le masse dovevano essere tutto, e nulla le individualità, e che un paese produceva in uomini tanta rendita annua da potere spendersi per la gloria dello Stato secondo il capriccio del più forte dei Generali nazionali. Ma la legge naturale è sacra indipendentemente dalla forza che la sanziona e dal potere civile che la promulga: ed essa è quella che fa quello stato di natura, cui il potere civile non può distruggere nè produrre: quello stato di natura umana in cui gli uomini sono legati fra loro per affezioni ad essi naturali, e per diritti e doveri morali. Conviene su questi principŒ definire la questione agitata fra i proprietarŒ ed i non proprietarŒ. Poichè primieramente egli è verissimo, che dalla legittima natura che abbiamo messo in chiaro della società civile risulta, che quand' anche i non proprietarŒ fossero esclusi dall' associazione che insieme facessero i proprietarŒ, non si potrebbono punto chiamare offesi nei loro diritti che hanno comuni con tutti gli altri uomini: perciocchè non sarebbero esclusi per questo dalla società del genere umano, riterrebbero inviolati i diritti dell' uomo, e non sarebbe meno colpevole colui che li violasse in essi dopo l' associazione, di quello che fosse innanzi; conserverebbero le stesse relazioni coi proprietarŒ sociali; parteciperebbero degli stessi beneficŒ, e sarebbero a loro debitori della stessa gratitudine, e senza perder nulla di ciò che avevano come uomini nello stato di natura, non farebbero che non guadagnar nulla dal nuovo stato sociale dei proprietarŒ. Ma sebbene ciò sia vero, come osservò chi ha parlato in favore dei proprietarŒ, non è però da preferirsi la società particolare da lui proposta alla società civile, che per esser tale debbe abbracciare, come siamo convenuti, i diritti di tutti gli uomini. Non è, dico, preferibile rispetto al vantaggio degli stessi proprietarŒ, perocchè primieramente i non proprietarŒ, esclusi che fossero dalla società, non potrebbono essere sottomessi alle leggi della medesima per diritto, nè soggetti a' suoi tribunali se non mediante la forza. Nè potrebbe essere impedita giustamente una loro associazione, la quale verrebbe a formare due poteri egualmente supremi al contatto l' uno dell' altro; nei quali perciò non potrebbe nascere fra l' uno e l' altro che discordia e che l' uno non venisse sottomesso all' altro. Ora in questo caso di chi sarebbe la peggiore? dei proprietarŒ che arrischiano di perdere colle loro sostanze anche la loro libertà, o dei non proprietarŒ che hanno l' avidità e la speranza di diventare ad una girata di ruota ricchi e potenti, e dal più basso luogo che occupavano la sera fra gli uomini svegliarsi la mattina in cima della fortuna? Senzachè, quelli che non sono ancora proprietarŒ possono arricchire, ed essere prosperata anche in tal modo la loro associazione la quale non si potrà più rompere, e si dovrà temere. Egli è dunque meglio per tutti egualmente gli uomini, ma specialmente per li proprietarŒ che si costituisca una vera società civile senza esclusione di persona, nella quale tutti i diritti sieno rappresentati, e la modalità di tutti i diritti sia da un solo potere amministrata. - Ma i proprietarŒ dicono, noi non vogliamo pagare per li non proprietarŒ, ed è in questo che la Commissione dà loro tutta la ragione; mentre se non desse loro ragione in ciò, contraddirebbe a sè stessa, che ha posto come la prima base del potere che si vuole instituire, ch' egli non abbia veruna forza di trasferire i diritti d' una nell' altra persona; ciò che succederebbe se si facesse che i ricchi pagassero per i poveri, mentre con ciò si trasferirebbero i diritti di questi in vantaggio di quelli. Come adunque, voi direte, possono i poveri entrare in simile associazione, mentre non ne possono pagare le spese? Questo è quello che la Commissione si riserva di spiegare quando si tratterà di stabilire il posto che debbono occupare nella società ciascuna delle quattro classi in cui si divisero tutte le persone da associarsi: in tanto si contenta di far osservare che nella proposizione fatta, e sopra cui si rivolge la presente discussione, non fu già detto solo, che ciascuna specie di diritti dovesse ritrovare una rappresentanza conveniente , ma si aggiunse, e possibile; cioè possibile a conciliarsi colla giustizia e colla equità, ossia colla conservazione dei diritti di tutti; ed ancora di assicurare i proprietarŒ che l' associazione dovrà esser tale che essi non ispendano già per i poveri, o secondo la volontà di questi. Queste ragioni tranquillarono i due partiti; ma il delegato dei non proprietarŒ uscì con una nuova obbiezione dicendo che dal momento che si debbe scegliere una amministrazione della modalità dei diritti di tutti gli uomini, non si doveva già tanto cercare che in essa fossero rappresentati i diritti dei socŒ, quanto ch' ella fosse tale che amministrasse bene, e che per tal fine non si doveva aver altra regola nel formarla che quella di scegliere fra tutti le persone superiori alle altre per sapienza e per virtù, o sia di maggior capacità ad ottenere lo scopo proposto; che i ricchi solitamente sono inerti ed incapaci di governare, e che perciò non è utile che abbiano tanto peso nella società; che, se si accresce la loro potenza col dar loro in mano il governo civile, diventeranno più crudi e spietati che non sono colla plebe; che vedendo d' aver in mano tutto il potere lascieranno le cose pubbliche nella maggior dimenticanza, e il bene pubblico sarà immolato a' loro capricci: che il merito solo distingue l' uomo dall' uomo; e che il merito si debbe premiare coi pubblici onori, e colle cariche civili, e che è un indegno spettacolo il veder l' uomo probo e sapiente nella miseria e nell' avvilimento, mentre l' ignoranza fastosa ed il vizio potente si compiace mirarlo avvilito a' suoi piedi. La Commissione rispose che simili osservazioni avevano bensì una speciosa apparenza, ma che disaminate più addentro si trovavano inconcludenti. E di vero se la scienza o anche la stessa probità fosse quella che desse agli uomini il diritto di entrare nelle amministrazioni pubbliche, non ci sarebbe ragione perchè queste eccellenti qualità non dessero ancora a chi le possiede il diritto di entrare nelle amministrazioni private. In tal caso gli uomini savŒ e gli uomini probi, o quelli che tali si tengono, potrebbero giustamente mettersi nelle case dei proprietarŒ e dir loro: A noi spetta l' amministrazione delle vostre ricchezze perchè noi sappiamo meglio amministrarle di voi e con più rettitudine. Ma in tal caso i proprietarŒ li scaccerrebbero o come pazzi o come furfanti, anzichè li credessero probi e sapienti; giacchè non mostrerebbero di sapere che il diritto di proprietà dà il diritto ancora di amministrarla. Che se la sapienza, e la virtù avessero il diritto di amministrare la proprietà, non si potrebbe già negare loro quello sulla proprietà stessa ed allo stesso modo si potrebbe dire: Che indegnità è questa che l' ignorante ed il vizioso si vegga pieno di ricchezza mentre l' uomo dotto e virtuoso pena nella miseria? Le ricchezze appartengono agli uomini di merito, e non agli sciocchi, non ai tristi: si tolgano adunque a questi, ai quali non appartengono, e si distribuiscano meglio che non fece la cieca fortuna, a quelli che hanno il merito di possederle. Non è egli questo il ragionamento medesimo che fa il deputato dei non proprietarŒ a provare che l' amministrazione pubblica debbe essere distribuita anzi secondo il merito che secondo la proprietà? Questo discorso adunque nella sua estensione considerato autorizza la rapina, e distrugge la proprietà, tanto più che se uniti alla sapienza e alla virtù fossero tali privilegŒ nessuno potrebbe formare un giusto giudizio degli uomini, assai meno che ora possa, poichè ciascuno vorrebbe esser più probo e più sapiente degli altri, ed adoprerebbe tutti i suoi mezzi a corrompere quelli che dovessero giudicarlo: se non che il giudice in ultimo appello esser non potrebbe che la forza, e così la sapienza e la virtù dal momento che si sottraggono dalla giustizia distruggono ad un tempo sè medesime, e si mettono alla discrezione della forza materiale. Se si ammette adunque da noi il principio della proprietà; conviene che riconosciamo altresì ch' essa è indipendente dal merito personale, e che essa non è distribuita già secondo questo, ma solo secondo i titoli di giustizia. Supponiamo ancora che vi fosse il modo di rilevare il merito personale con sicurezza, ciò che è impossibile sì perchè molte volte è occulto, sì perchè quelli che debbono giudicarlo sarebbero nello stesso tempo anch' essi parti nella causa che giudicano; il possesso della ricchezza in tal caso dovrebbe variare ad ogni istante, mentre continuamente varia il merito personale, e l' uomo trascorre rapidamente sì le scale del vizio che quelle della virtù; e la ricchezza sempre in mano a nuovi padroni incerti di possederla a lungo rimarrebbe dilapidata anzichè amministrata; sebbene ciascuno che l' avesse una volta in mano, certo non se la lascierebbe più così di leggieri uscire: studierebbe il modo di accordarsi cogli altri proprietarŒ, ond' ottenere sicurezza alle proprie sostanze contro alla rapacità degli uomini di merito, e in tal modo formerebbe quella associazione che testè fu proposta fra i proprietarŒ e che, sebbene meno utile dell' associazione civile, nessuno però convincere la potrebbe d' ingiusta. D' altro lato che cos' è una declamazione generale, e gratuita contro i vizŒ dei proprietarŒ? il sofisma più pazzo del mondo: poichè qual' è il fine di tale declamazione? forse di mostrare che le ricchezze guastano i costumi ed i principŒ degli uomini? egli sembra che ciò sia; ma in tal caso la declamazione va contro le ricchezze: or dunque queste si dovrebbono distruggere ed annientare. E` egli forse questo il vostro parere? non già, anzi voi riponete la prosperità pubblica nel loro aumento. Voi non sostenete adunque se non che le ricchezze debbano mutar padrone: e perchè? perchè i ricchi sono malvagi. Ma togliete voi i ricchi quando avete fatto mutare di luogo alle ricchezze? non già; ma non avete che mutate le persone posseditrici; e fatto che quelle che erano povere divenissero ricche, e così viceversa. E` il merito delle povere, soggiungete voi, che a ciò ne spinge. Avvertite, dall' istante che vi arrogate l' autorità di giudici supremi ed usurpate l' ufficio della divina Provvidenza, avvertite che voi con ciò fate apparire una bene strana compassione verso a queste vostre persone misere ad un tempo e fornite insieme delle più alte virtù: la compassione vostra si occupa adunque tutta per corromperle: si occupa a farle divenire di quelli odiosi ed esecrati proprietarŒ coperti pure agli occhi vostri da capo a fondo di una lebbra la più obbrobriosa e la più insanabile. Allora quando adunque voi avrete rese in questa supposizione proprietarie quelle persone che or giudicate di merito (ed e' resta anco a vedere qual senso aggiungiate a questa parola) egli è ben naturale che sorgeranno immediatamente degli altri avvocati della Classe che rimane povera, i quali come voi col tuono di chi parla in nome della umanità, della virtù e dei lumi prenderanno il discorso stesso che voi fate presentemente e fulmineranno invettive contro gli eccessi obbrobriosi dei vostri nuovi proprietari, cioè contro la classe delle persone di merito da voi innalzata e coperta in tal modo di tutta l' invidia che seco portano le proprietà; la quale classe non è più quella di persone di merito, ma quella dei ricchi. Così distrutto il principio di proprietà, la società civile si rende impossibile. In fatti il suo scopo è appunto la proprietà, ed in primo luogo la difesa della medesima: e se appresso qualche nazione si è introdotto per breve tempo il principio opposto, che il merito dia un diritto sull' altrui proprietà ovvero sull' amministrazione della medesima, questo non s' è introdotto se non perchè le sue conseguenze non furono bastantemente vedute a principio: e solo gli effetti ne resero accorti gli uomini: perciocchè appena che i filosofi pretesero di avere essi il diritto di riformare la loro nazione, questa cadde nell' anarchia; fino a che tali uomini sapienti, il cui merito proclamato da se stessi diede loro la filosofica autorità di rapire l' altrui, si sono resi i proprietarŒ: ed allora, nuovi proprietarŒ, rialzarono la società dissipata in sugli antichi principŒ, lasciando di buon volere ormai il pallio e la barba, di che più non abbisognavano alla riforma dell' umanità. La maggior parte di quelli che formano questa assemblea posseggono qualche cosa del proprio: ora acconsentirete voi che quanto possedete passi in proprietà delle persone di voi più meritevoli? Tale è la assurda condizione che vi si propone: e che pure potè essere un sofisma alle menti di quelli che considerano gli uomini abitatori nelle regioni liberissime della lor fantasia. La logica del principio: l' amministrazione della proprietà debb' essere distribuita secondo il merito: è simile a quella che si ritrova in quest' altro: l' uomo debbe mangiare non in ragione delle forze del suo stomaco, ma di quelle del suo spirito, poichè il suo spirito è preferibile al suo stomaco. Accordo che sia lo spirito preferibile allo stomaco; ma la relazione del cibo è collo stomaco e non è collo spirito, ed è questa relazione che ora si cerca determinare. Così pure: Accordo che il merito personale sia preferibile all' accidentale diritto di proprietà; ma la relazione dell' amministrazione è colla proprietà, e non è col merito: e questa relazione si cerca determinare. Non si confondano adunque insieme due ordini di cose sì diversi fra loro, e volendo cercare le proporzioni dell' uno, non si ricorra alle misure dell' altro. Anche in questo mescolamento degli ordini sociale e morale si ravvisa quella confusione così nocevole della società civile colla società universale del genere umano. La società civile, come diceva, è una società parziale, ed ha uno scopo parziale: la conservazione, cioè, e l' aumento ordinato delle proprietà. La società del genere umano ha uno scopo sommo e generale: la virtù e la perfetta felicità. In questa immensa società dell' umano genere noi veggiamo un ordine di cose ben diverso da quello che è proprio della società civile. L' ordine della società universale abbraccia tutta intera la moralità; l' ordine della società civile è ristretto nel suo scopo immediato a quella parte di moralità che riguarda la giustizia esterna fra gli uomini. Nella società universale lo spirito si eleva a vedere come tutto debbe essere distribuito secondo il vero merito degli uomini; ma questa legge primaria ed inviolabile della società universale non si può già trasportare nella società civile; perchè non è a questa proporzionata e non trova in questa il modo di venire eseguita. Nella società universale essa viene eseguita perchè essa è presieduta da Dio, cioè dal solo giudice capace di giudicare il vero merito degli uomini e alieno necessariamente da ogni interesse in simil giudizio; presieduta ancora dal solo monarca che abbia tutti i mezzi opportuni per render a pieno giustizia a ciascuna delle sue creature. La società civile all' incontro non è che presieduta dall' uomo, cioè non è presieduta da chi giudica ma da chi è giudicato: da chi aspetta il giudizio più favorevole, se questo gli debbe apportare un esterno vantaggio, non da chi è indifferente al risultamento di tal giudizio. Conchiudasi: La società civile è ben altro dalla società universale; essa non è punto altro (bisogna a pieno intenderlo) che l' amministrazione della modalità dei diritti di tutti gli uomini associati nella medesima: non è perciò se non una separazione, che si fa nella amministrazione che ciascuno esercita dei proprŒ beni nello stato naturale, di quella parte d' amministrazione che riguarda i diritti e di quella che riguarda il loro modo di essere; l' amministrazione dei diritti particolari si rimane nell' istituzione della società civile divisa, come prima, nelle mani dei singoli proprietarŒ: la modalità all' incontro dei medesimi viene posta in comune e qui si cerca chi debbe comporre quest' amministrazione in comune. Ora egli è evidente che ognuno dei proprietarŒ ha diritto di concorrere nella medesima per quel tanto che egli pone in mezzo di modalità; e che nessuno può farlo rinunziare a tale diritto nel caso di una associazione spontanea come è la presente. Indarno e fuor di proposito ci si oppone che l' amministrazione anderà male perchè fatta da persone ignoranti e viziose; conciossiacchè, lasciando anche che nissun sapiente in generale vale più nell' amministrazione di quello che valgono i padroni stessi, risponderò: Se un proprietario amministra male il suo, chi potrà dunque rimprocciarlo? Egli fa male, ma solo a sè stesso, e tale sarà di lui, nè altro che un vano nome è il ben pubblico che si piange sacrificato: conciossiacchè il ben pubblico non è che la collezione dei diritti, ed il pubblico non è che la unione di quelli che li posseggono. Quando anco adunque gli amministratori di quella società civile, nella quale tutti i diritti sono rappresentati, l' amministrassero male; non seguirebbe da questo ch' essi facessero torto a persona: perchè amministrerebbono male l' avere loro proprio: la società civile non distruggerebbe già per questo la società universale: e la sua istituzione non impedirebbe che tutti i meriti fossero in questa ricompensati dal suo capo divino; a quel modo medesimo che se il ricco mercatante non si spoglia delle proprie ricchezze per premiare le fatiche del letterato, egli non toglie a lui per questo nè il suo merito nè la sua dottrina nè le sue aspettazioni; egli non impedisce che la sua scienza in altro ordine di cose e in altra società diversa dalla mercantile sia coronata e che rinvenga il mecenate generoso che lo protegga e che lo ricolmi di benefizŒ. Il discorso, onde la Commissione sostenne nella sessione precedente il principio di equità da essa posto come base dell' associazione civile che trattavasi di formare contro ai sofismi di una individuale filosofia, le conciliò l' animo di tutta l' assemblea, la quale conobbe non potersi meglio costituire la società civile che dando in essa a tutti i diritti una rappresentazione conveniente e possibile. Tal principio discendeva immediatamente dall' idea precisa della società civile; ed essendo ben compreso metteva tutte le menti in sicuro contro alle fallacie degli astuti e dei semidotti. Nello stesso tempo era quello che rendeva meno imbarazzante l' esecuzione della società meditata, e che mostrava la via più corta insieme e più naturale per arrivare alla medesima; conciossiacchè formandosi la società in tal modo gli uomini abbandonavano il meno che fosse possibile lo stato di natura; mentre non si spogliavano di nulla, nè pure della direzione della modalità dei loro diritti; ma non venivano a far altro che a variare il modo di dirigerla e regolarla; perocchè mentre prima la regolavano in separato, e ciascuno da sè regolava la propria, mediante la nuova instituzione venivano a regolarla in comune, e a regolare con una comune volontà la somma di tutte le modalità insieme raccolte. Restava dunque di vedere come tal principio si potesse ridurre alla pratica e qual fosse la rappresentazione conveniente e possibile che aver potesse ciascuna delle quattro classi di persone, che comporre dovevano la nuova società. La Commissione prese a trattare con ciascuna a parte; e primieramente colla prima, che fu quella che occupò la quinta sessione dell' assemblea. La prima classe delle persone componenti la società civile era quella delle persone non libere. La Commissione definì le persone non libere per quelle che non avevano diritto sulle proprie operazioni, essendo questo diritto in altrui possesso, e distinse tali persone in tre specie, cioè, 1 i figliuoli, 2 le mogli, 3 i servi perpetui; escludendo da questa classe quelli che avevano alienato il diritto sulle proprie operazioni a tempo, e non illimitatamente, come sono i giornalieri e tutti i mercenarŒ, i quali appartengono alla terza classe di persone componenti la società. Passò in appresso a mostrare le differenze che passano fra le tre specie di persone non libere, stabilendo che il diritto dei padri era il più esteso e più forte, perchè nasceva da un titolo fondato sulla vita stessa dei figliuoli; che poi veniva quello del marito, perchè aveva un titolo fondato sul corpo della moglie; e che finalmente veniva quello del padrone, il cui titolo non riguardava altro che l' operazione del servo a lui obbligato. Dimostrò che il diritto del padre era tale che non rimaneva al figliuolo nessun diritto verso il padre che ammettesse una reazione esterna all' ingiuria ricevuta: che all' incontro alla moglie rimaneva un diritto, ed era quello della vita e della incolumità da poter difendere anche contro il marito; che al servo rimanevano due diritti da poter difendere contro il padrone, cioè a dire quello della vita, e quello del proprio corpo. 1) Dimostrò finalmente che tutti tre questi diritti del padre, del marito, del padrone erano limitati egualmente dalle leggi della onestà universale, le quali leggi obbligavano il padre ad usare il proprio diritto sui figliuoli solo allo scopo della paternità per la quale Dio gliela aveva dato: obbligavano il marito ad usarlo solo allo scopo della coniugale amicizia: ed obbligavano il padrone ad usarlo allo scopo che può rendere onesta ed umana la servitù. Di questa dottrina la Commissione tirò una doppia conseguenza, cioè: 1 Che i figliuoli non avevano alcun diritto a rappresentare nella società civile, fino che il padre non li emancipasse; che le mogli avevano da rappresentare il diritto della vita e della incolumità; e che i servi avevano da rappresentare i due diritti della vita e del corpo. 2 Che dovendo la società civile stabilire l' ottima modalità dei diritti, doveva tuttavia provvedere contro all' abuso che potessero fare i padri della loro autorità sui figliuoli, non già perchè i figliuoli avessero un diritto da rappresentarsi; ma perchè il diritto dei padri doveva bene ammodarsi. Dopo di ciò essa fece osservare, che in tutto questo discorso considerava le tre specie di persone non libere come tali, senza definire però che la mancanza di libertà inabilitasse all' acquisto di altri diritti: mentre anzi la Commissione ammette la capacità dei non liberi all' acquisto di ogni altro diritto compatibile col diritto dei loro superiori, ovvero mediante l' assenso di questi, ovvero ancora di diritti relativi ad altre persone verso delle quali si considerano come liberi. Tutti questi diritti qui però si tralasciano, perciocchè in quanto fossero posseduti dalle persone non libere, queste verrebbero ad entrare in alcuna delle tre classi susseguenti: e di essi si debbe intendere tutto ciò che si dirà più sotto dei membri delle dette tre Classi. Considerando adunque i diritti delle persone non libere come tali non ne troviamo che due: 1 la vita 2 il corpo. Ora l' uomo che fosse solamente fornito di questi due diritti non potrebbe far nulla egli stesso, e dagli altri poi non potrebbe esigere se non se che nissuno violi in lui questi due sacri diritti. La difesa dunque dei medesimi è l' unica modalità che si possa pensare ad essi appartenente; poichè la vita ed il corpo sono due diritti semplici, e che per se stessi hanno un solo modo di esistere, sicchè quando essi fossero pienamente difesi dalle esterne ingiurie, non potrebbono altro desiderare. La rappresentazione adunque conveniente che possono esigere questi due diritti nella civile società non è se non di avere una voce mediante la quale reclamare contro alle ingiurie che vengono loro fatte da chi che sia, e l' aver modo che questa voce sia ascoltata e sia efficace nell' ottenere la giustizia domandata. La stessa voce propose la Commissione che sia conceduta ai figliuoli relativamente ai loro padri come il mezzo di comprimere l' abuso che questi potessero fare di loro autorità. Il Delegato delle persone non libere rispose, esser falso che i diritti della vita e del corpo non possano esigere che di essere guarentiti: la salute corporale si può trovare in uno stato migliore o peggiore secondo le pubbliche disposizioni sanitarie: quelli dunque che hanno diritto che la loro sanità si conservi nel miglior modo, debbono almeno poter pretendere, come tutti gli altri uomini, di avere anche una voce nel Comitato di sanità pubblica. Ma la Commissione rispose che il Comitato di sanità pubblica nulla poteva fare per la medesima se non mediante delle spese; che quindi, perchè si rendesse possibile una rappresentanza in tal Comitato, bisognava dimostrar prima che fossero proprietarŒ, e che in tal caso essi sarebbero entrati in questo Comitato come proprietarŒ, cioè come appartenenti alla quarta Classe; ma non come persone non libere; tanto più che apparendo, come tali, prive di ogni diritto sulle proprie azioni, non potevano neppure contribuire coll' opera a ciò che dar non potessero in denaro. Perciocchè, di nuovo, è un errore credere d' aver diritto d' entrare in una società senz' aver modo di pagarne le spese: e questo discorso vale per qualunque società, nè si debbe immaginarsi qualche cosa di diverso della società civile; non si debbe cioè immaginare, che la società civile abbia dei doveri senz' avere dei diritti, e che sia quasi un essere misterioso che abbia il potere di dare a tutti senza ricevere niente da veruno. D' altro lato il Comitato di sanità pubblica non offende punto le persone non libere, sebbene non le ammetta; anzi non fa che apportar loro gratuita utilità. La sesta sessione si occupò nel ricercare qual posto dovessero avere nella nuova società da istituirsi i poveri, cioè quelle persone che non possedevano alcun bene di fortuna, nè avevano una professione od un' arte che assicurasse il loro mantenimento, secondo il principio stabilito che ogni diritto trovasse nella detta società quella rappresentazione di cui è suscettibile, e che si può accordare colla giustizia. Per trovare questo posto secondo le leggi dell' equità o questa rappresentazione conveniente e possibile dei diritti dei non proprietarŒ erano state già nelle sessioni precedenti gittate le basi necessarie e superate le principali difficoltà. La Commissione proseguì adunque in questa a dimostrare che i non proprietarŒ liberi avevano tre diritti da rappresentare, e questi erano: 1 la vita e l' incolumità; 2 il corpo; 3 la libertà o sia il diritto sulle proprie operazioni. Dimostrò che tutti questi diritti non avevano una modalità che si potesse amministrare in comune tanto quanto l' avevano i beni di fortuna, perchè non si potevano permutare con altri nè si potevano dividere e contribuire parte di essi alla società, spendendoli così ad accrescimento della parte rimanente, e che perciò non era suscettibile la loro modalità di amministrazione propriamente detta, ma solo di difesa: che la società civile non poteva che difenderli da ogni ingiuria; e quindi che la rappresentazione loro conveniente si restringeva ad avere una voce efficace, mediante la quale potessero reclamare ad ogni ingiuria che ricevessero, e reclamare con sicurezza che sarebbe loro fatta giustizia, allo stesso modo come si disse delle persone non libere. Conchiuse che era necessario dare loro questa voce anche perchè essa era l' unico mezzo di tenere in freno i diritti dei proprietarŒ, ciò che era obbligata di fare la società civile, dall' istante ch' essa aveva per iscopo di bene ammodare tutti i diritti dei membri che la componevano. Il delegato per i non proprietarŒ non mancò di ripetere ciò che era stato detto nella sessione precedente dal delegato pei non liberi, cioè che era falso che il diritto della vita e della sanità, come pure gli altri due del corpo e della libertà, ammettessero solo una difesa comune e non una amministrazione comune; che 1 la sanità poteva crescere e diminuire secondo i provvedimenti sanitarŒ della società; 2 la moralità pure poteva ricevere o nocumento o vantaggio dalle disposizioni di pubblica istruzione e di polizia; 3 finalmente che la libertà poteva pure accrescersi, non solo difendersi; poichè quanto un uomo ha una sfera più estesa di agire tanto egli ha più di libertà: il perchè tutto ciò che accresce le abilità e fa andare innanzi l' incivilimento del paese, è sempre un aumento della libertà individuale. Ne può rispondere la Commissione che tutti i diritti dei non proprietarŒ sieno semplici ed indivisibili, sicchè non ne possano contribuire una parte al potere sociale e pagare in tal modo le spese di questo, come rispose al delegato dei non liberi, poichè avendo essi il diritto sulle proprie operazioni, possono pagare le spese necessarie alle suddette disposizioni intorno la sanità, la moralità, e l' incivilimento prestando la loro opera in luogo di denaro, e d' altri beni materiali. Domando adunque, aggiunse, che i non proprietarŒ non solo abbiano una voce onde reclamare efficacemente i torti che loro fossero fatti; ma che abbiano altresì una voce ed una rappresentazione in tutte le disposizioni che il potere civile credesse fare: 1 intorno la sanità; 2 intorno i buoni costumi e 3 intorno tutto ciò che riguarda l' incivilimento. Ma v' ha di più, egli proseguì: Non sono interessati i non proprietarŒ nelle guerre che possono esser mosse contro al paese dai nemici esterni colle loro persone tanto quanto tutti gli altri cittadini? vale forse la loro vita meno che quella degli altri uomini? o non sono forse capaci di portare le armi contro il nemico, e difendere la patria? perchè adunque non avranno anch' essi una voce ossia una rappresentazione in un affare così comune come è l' intimare una guerra od il conchiudere una pace? Anzi son essi, come l' esperienza dimostra, che di solito s' espongono ai maggiori pericoli e sostengono le maggiori fatiche per la salvezza e per la gloria comune nei più stretti frangenti: mentre i pingui ricchi snervati da una educazione ombratile assoldano in propria difesa quelli che hanno meno timore cioè quelli che hanno meno da perdere, e, come sono i non proprietarŒ, che nulla possedendo all' esterno sentono meno di attaccamento alla stessa vita. Finalmente, che ci si propone? di dare solo ai non proprietarŒ una voce, onde reclamino i loro diritti infranti. Ma quai diritti? quelli della vita, della pudicizia, della libertà. Richiameranno adunque la vita, dopo che a loro fu tolta? aspetteranno le figliuole che sia tolto loro l' onore, perchè poscia la società glielo restituisca? e potrà l' uomo libero, a cui è più cara la vita intellettuale della corporea, ritrovare un risarcimento innanzi alla coscienza della sua dignità corrispondente al valore di alcuni giorni di oppressione, o di alcuni atti di viltà? Finalmente, in quanti modi non si lede questa preziosa ricchezza dell' uomo, la libertà? in quanti modi non si diminuisce? in quanti modi non se ne impedisce l' accrescimento? modi talora insensibili, non evidenti e che non si possono perciò provare legalmente, ma che non fanno meno per questo onta e danno all' umana libertà? Egli non è adunque conveniente nè giusto che uomini liberi, sebbene non proprietarŒ, uomini cioè che hanno una vita cui nessun potere può loro restituire dopo tolta e dei costumi più preziosi ancora della vita ed una libertà vitale, avida di aumentarsi e tuttavia così facile ad esser ferita o ad esser compressa, ricevano solo, entrando nella società civile, il singolare diritto di fare delle inutili querimonie sopra la perdita irreparabile delle più care e delle più sacre proprietà dell' uomo; e sia loro assegnato qualche preteso risarcimento che in luogo d' essere veramente tale rassomiglia piuttosto a quei confetti che soglionsi dare ai bambini che piangono onde asciughino le loro lagrimucce fanciullesche, ed attutino le loro voci importune. E` adunque inutile la rappresentazione proposta dalla Commissione, è anche ridicola, perocchè non ottiene neppure lo scopo della difesa dei diritti dei non proprietarŒ, che fa pur vista di proporsi. Si direbbe che è piuttosto un mezzo termine per eliminarli in fatto dalla società, o di ritenerveli in apparenza. Ma senza entrare nelle intenzioni segrete della Commissione, che ciò propose, credo evidente per quanto ho detto che ove la giustizia debba essere la base della nuova nostra Società, i non proprietarŒ per essere tali non si debbano già lasciare spettatori indifferenti di quanto i proprietarŒ dispongono intorno le pubbliche cose, e che solo quando abbiano ricevuto un fiero colpo in sulla testa trovino pieno diritto di essere guariti come i cani percossi; ma bensì che essi sieno chiamati egualmente che gli altri uomini in tutte le pubbliche deliberazioni e possano veder tutto ciò che in esse si tratta, possano ponderarne le conseguenze, e se in esse rinvengono cosa che loro nuoca, possano a tempo impedirla. Laonde concesso ancora, se così si vuole, che non debbano i non proprietarŒ influire positivamente nelle pubbliche deliberazioni, nessuno potrà però negar loro il diritto del veto; quelli stessi che non attribuiscono ad essi se non il diritto politico di difesa. Perciocchè il diritto del veto è, non una troppo tarda voce di richiamo, ma il solo mezzo ad ottenere che i loro diritti sieno di fatto e non solo in apparenza tutelati. Potrei osservare ancora finalmente che non àvvi uomo che possa neppur dirsi veracemente privo al tutto di esterne proprietà. Negherete a quelli che la divina Provvidenza introdusse in questa mirabile abitazione del nostro pianeta l' aria che debbono assorbire per vivere, la luce che più di quello dei ricchi rallegra l' animo dei mendici, e la terra dove ogni corpo che pesa trova suo luogo? Di queste cose e dell' altre che il cielo ha rese comuni a tutte le umane creature, e che la miserabile cupidigia non potè mai rapire alla loro naturale pubblicità, nè sottrarle a tutti onde farle un possesso di pochi, debb' essere altresì comune il governo: e quest' è ch' io chiedo: questo è ciò che vuol la giustizia: che tutti egualmente i membri della civile Società partecipino al potere amministrativo della medesima, perocchè questo potere tratta gli interessi di tutti e a tutti può nuocere s' egli si rende esclusivo, come può a tutti giovare s' egli si conserva comune. La società civile, rispose la Commissione, l' abbiamo già stabilito, non è la società universale; e coll' entrare nella società civile non escono gli uomini dalla universale e non perdono nulla di quei beni che hanno nello stato di natura. Gli uomini debbono entrare nella società civile in quel modo che vi possono entrare, dal punto che abbiamo adottato come principio fondamentale, che nella Società civile ogni diritto debba trovare una rappresentazione conveniente e possibile . Questo principio suppone che non ogni uomo entri a formar parte della società civile in egual modo, ma in modo diverso secondo la indole dei diritti ch' egli possiede: quindi nasce che gli uomini partecipino più o meno allo scopo della società, cioè ai beni che essa si propone di conseguire. Ma se diversi uomini partecipano in diversa misura al bene della società civile, non viene lor fatto torto; poichè questo è conseguenza di quella solida base che abbiamo posta; e perchè finalmente non si tratta con ciò che nissun uomo perda cosa alcuna di quanto già possiede; ma, rimanendogli tutto ciò che possiede, si tratta ch' egli non acquisti in tale instituzione quel soprappiù di vantaggio che acquista un altro perchè non possiede i diritti che possiede un altro. Sebbene adunque la Commissione abbia proposto che i non proprietarŒ non abbiano altra rappresentazione nella società che quella consistente in una voce di difesa, perchè è persuasa che l' indole dei loro diritti non ammette di più; tuttavia non è già vero che per tale associazione i non proprietarŒ vengono a perdere qualche cosa mentre non fanno che un guadagno: cioè acquistano un aumento di sicurezza dei loro diritti che non avevano nello stato di natura, e non perdon nulla di quanto avevano in questo stato. Egli è vero bensì che i loro diritti sono di tal natura, che non si possono, infranti che sieno, a pieno risarcire, ma qualunque sia questo risarcimento, è però sempre un guadagno che loro manca nello stato di natura: è un risarcimento, che, se non restituisce la vita o l' onore, toglie però le funeste conseguenze, che cadrebbero altramente sulla famiglia priva del suo capo e provvede per esempio la zitella oltraggiata d' un collocamento; è un risarcimento in somma che è pur sempre qualche cosa e che è ancor più nel fatto che nella speculazione del nostro obbiettatore. Egli è poi al tutto falso, che una voce efficace di richiamo non giovi se non dopo che è avvenuto il male, e quando non è più riparabile: perocchè egli è solo il timore del castigo, che tien dietro con certezza al commesso delitto, quello che ritrae gli uomini dal commetterlo, e che difende i diritti personali non solo dei non proprietarŒ ma dei proprietarŒ stessi. Può aver forse la Società verun altro mezzo di tener lontani i delitti, e di difendere la vita e la dignità dei cittadini, se non le pene ch' essa stabilisce ai malfattori? Si ripeterà che questa risposta, se vale per le offese che i non proprietarŒ ricever potessero dagli altri membri della Società, non vale egualmente pel Potere supremo della medesima: perocchè questo potere supremo può ben essere costretto ad un risarcimento che, diviso fra i proprietarŒ che lo compongono, è insensibile a ciascheduno, ma non può già essere sottomesso ad un castigo che lo atterisca dall' abusare del suo potere. Ma che? il Potere Civile, o per dir meglio l' Amministrazione della società, si estende forse a disporre della vita o degli altri diritti personali dei membri della medesima? non già: egli non ha in ciò altro diritto di quello, che si abbia una forza fisica e non morale qualunque ella sia; quando ciò facesse egli non sarebbe più potere civile, ma bruta forza. Si pretenderà che la società guarentisca tutti i suoi membri da ogni forza, che, non curato il freno morale, infierisse sopra di essi? è impossibile ad essa di tor via al tutto questo male essenziale dello stato di natura, ma non può che restringerlo: nè pure i membri componenti l' Amministrazione sociale ne sono totalmente al sicuro; perchè il debile non è mai sicuro dal forte; e la minorità dell' Amministrazione sarà sempre a discrezione della maggiorità, se si suppone che questa abusi della sua prevalenza. Ma se di ogni maggiorità o prevalente potestà si potesse esigere d' essere garantiti fisicamente, come ciò si farà se non mediante una forza fisica maggiore? ed in tal caso non si toglie il pericolo che dei diritti vengano violati, ma solo si trasporta a quel modo stesso che si trasporta la forza; sicchè quegli che prima imponeva timore ora lo riceve imposto da quello che prima lo riceveva. Se ragionevole fosse di lagnarsi per ogni nuova forza comparente, per la sola ragione che quella ha la possibilità di nuocerci, noi avremmo occasione di lamento dovunque, la differenza nelle forze corporee, nelle proprietà, nei talenti, tutto sarebbe argomento di invettiva e di querimonia: ogni associazione finalmente sarebbe illegittima, come un atto ostile, perchè ogni associazione è comparizione di nuova forza; ed ogni nuova forza può nuocere 1). Non è dunque lo scopo della società civile, nè può esserlo, difendere i diritti dei membri suoi da tutte le ingiurie ma solo da quante ella può, nè diventa illegittima se non li tutela che dal maggior numero. Chi potrà impedire a ragion d' esempio che i proprietarŒ facciano a parte la loro società? che escludano quindi i non proprietarŒ da quei beneficŒ, che entrando in una società medesima, come la Commissione propone, ottener potrebbono? nessuno: a quel modo stesso che i proprietarŒ non avrebbono diritto, pel semplice pretesto d' una forza temibile che comparisce, d' impedire qualunque altra associazione o fra i non proprietarŒ o fra una parte di proprietarŒ. Ma via: concediamo che la società civile non debba nulla ommettere di suo potere per tutelare i diritti dei non proprietarŒ: concediamo che i diritti personali possano avere di loro natura un' amministrazione comune; concediamo che questa rappresentazione sia conveniente all' indole di tali diritti, ma è ella possibile? Questo è il passo che la Commissione trova al tutto insuperabile. Dico se è possibile, quando si voglia accordare colla stretta giustizia. Bisogna convenire che questa esige che nessun uomo possa sforzare un altro di pagare per lui: che perciò i non proprietarŒ non possono sforzare i proprietarŒ a pagare per essi; perchè non è qui di beneficenza che si tratta, la quale è volontaria, ma di giustizia, la quale può essere anche forzata, perchè non dipende dalla libera volontà ma da un titolo da questa indipendente. Perchè adunque i non proprietarŒ possano partecipare ai beni dell' Amministrazione, debbono corrispondere alle spese della medesima; e non possono esigere che i proprietarŒ contribuiscano per essi; il che, oltre essere ingiusto, sarebbe impossibile ad ottenersi. Poichè, si lascieranno essi i proprietarŒ imporre questo peso? Mai no, nè a questa condizione entreranno in una società così per essi disuguale. Che se mediante qualche sofisma alcuni a ciò si persuadessero, la illusione dura sempre poco ed il falso principio introdotto nella società, essendo contro la natura delle cose perchè trasforma la beneficenza in giustizia, cagionerà gravi mali nella società, la quale non cesserà d' agitarsi fino ch' essa non l' avrà evacuato. Ciò solo che si oppone a questo si è che i non proprietarŒ essendo liberi possono disporre delle loro operazioni e con queste pagare la Società, con queste difenderla dai nemici. Ma come potrà ricevere l' Amministrazione in pagamento l' opera stessa, se il non proprietario abbisogna della stessa per campare la vita? quest' è una derrata sporca, sopra cui nulla si può calcolare fino che non è stata appurata dall' uscita. E chi può fare questo calcolo generale, se il valore dell' opera dei non proprietari varia assaissimo prima in ragione della loro abilità, di poi in ragione della loro salute o delle peculiari circostanze nelle quali si trovano, finalmente in ragione delle ricerche? possono essi assicurarsi di provvedersi costantemente del puro loro mantenimento? non hanno nulla a temere nei tempi di sterilità, nelle calamità a cui può soggiacere l' industria, il commercio, e i mestieri, nello stato di guerra o di altre pubbliche calamità? quale ricchezza, se quella è ricchezza, più incerta e su cui meno debba appoggiarsi il provento di una generale Amministrazione di questa? d' altro lato che farà l' Amministrazione sociale di tanti operai? porrà ella delle fabbriche manufattrici, o pianterà degli stabilimenti di commercio? Non mai: perciocchè devierebbe dal suo scopo; ed entrerebbe nell' ufficio dei privati. Ella non può commettersi a tali incerte speculazioni, dipendenti dallo stato commerciale del mondo: non è già ad arbitrio che si possano instituire nuove fabbriche e nuove case di commercio; perchè non si può arbitrariamente nè mettere limite alla produzione, nè torlo al consumo. La amministrazione sociale adunque non può entrare in simile deviazione dallo scopo suo a particolari imprese. Ella è istituita per diriger la modalità dei diritti; ed ha bisogno di dirigerla con viste generali e calcolate: e per tale scopo ha bisogno altresì d' avere un mezzo generale e sicuro, il quale non può essere altro che la ricchezza materiale , perchè questa si converte con facilità in tutto ciò che le abbisogna. L' operazione stessa che si esibisce dai non proprietarŒ in pagamento (oltre che è una moneta continuamente mutabile di valore, di un valore sporco per cui si debbe detrarre dal medesimo il mantenimento dell' individuo e fors' anco della sua famiglia, a' cui bisogni egli può non bastare nè pure nel tempo del suo maggior prezzo: un valore che può qualche volta annientarsi) è finalmente ancora un valore inesigibile , perchè non garantito od ipotecato sopra nulla: giacchè la persona stessa pel nostro scopo si può contare per nulla. E di fatto, che si può torre all' individuo che ha nulla? Si può punire; ma con ciò invece di coprirsi d' un credito, si fa una spesa di più; giacchè si debbe mantenere il debitore carcerato. Si costringa a lavorare colla forza? ma oltrecchè i lavori forzati poco approdano, le guardie stesse sono nuovo carico alla società, ed il lavoratore rinunzia bene volentieri al diritto di dire la sua opinione nelle pubbliche cose quando ciò gli debba portare la conseguenza di una dura schiavitù. Che se i non proprietarŒ militano per la salute della patria ciò nè fanno nè far possono che ricevendone lo stipendio; giacchè del suo non hanno onde mantenersi; essi non danno dunque alla patria che quanto dà il mercenario al padrone al cui soldo lavora: è un contratto che fa colla sua patria: e se l' affezione vi aggiunge da parte sua, egli n' ha merito alla patria insieme e dovere; ma n' ha ancor la ragione sua propria, che colla patria difende se medesimo, i suoi, le sue speranze. Il diritto ch' egli ha sui beni comuni come l' aria, e la luce nessuno può toglierlo, nessuno può contenderglielo; ma di quanto vien disposto circa il regolamento dei medesimi egli, senza potersene incaricare, può goderne: non può, dico, incaricarsene perchè non ha il mezzo di cui parliamo, ma può goderne perchè l' Amministrazione che se ne incarica non può nè vuole privarlo dei miglioramenti ch' essa procura a tai beni. Finalmente aggiungerò tal ragione alla quale i più difficili dovranno arrendersi, e riconoscere l' equità della proposta che ha creduto fare la Commissione; e la ragione è questa. Su quale supposizione discorrono quelli che ci propongono d' introdurre i non proprietarŒ nell' amministrazione, offerendo in contribuzione l' opera dei medesimi? Sulla supposizione che questi lavorino; che ci sia quindi nella società da lavorare; che perciò questo lavoro abbia un prezzo. Or chi non vede che tale supposizione trasporta i non proprietarŒ strettamente detti, dei quali noi stiamo deliberando, nella classe dei mercenarŒ, della quale avremo a deliberare in appresso? Chi non vede che l' opposizione viene ad ammettere tacitamente con ciò il principio che vuol combattere, cioè che nessuno possa entrare a formare parte dell' amministrazione se non ha onde pagarne le spese? che perciò i non proprietarŒ propriamenti detti rimangono esclusi di loro natura, solo perchè tale rappresentazione è loro impossibile di conciliarla coi principŒ della giustizia, e della equità, cioè impossibile introdurli nell' Amministrazione senza far torto ai proprietarŒ? Rimane adunque che la rappresentazione conveniente e possibile dei non proprietarŒ non possa consistere se non in una voce efficace di reclamare i torti che potessero loro farsi: e questa è la proposta della Commissione; la quale si riserba di stabilire altrove quale altra rappresentazione convenire possa ai medesimi qualora appartengano alla classe dei mercenarŒ. In conseguenza di quanto fu discusso nella sessione precedente l' assemblea addottò un altro principio fondamentale: « Che si riconosceva la ricchezza materiale come l' unico mezzo generale dell' amministrazione della società civile. » La Commissione insistè molto sopra un tale principio, e il rese così evidente che fu generalmente approvato. Una delle ragioni radicali proposte dalla Commissione si fu, che tanto quelle persone che si trovavano prive di libertà, quanto quelle che si ritrovavano al tutto prive di proprietà materiali, non potevano per la loro condizione avere alcun diritto di regolare la modalità degli altrui diritti: poichè non avevano diritto neppure di regolare la modalità dei diritti proprŒ, dall' istante che erano al tutto dipendenti dagli altri uomini. In fatti era stato stabilito che il passaggio dallo stato naturale allo stato civile si facesse in tal modo, che ciascun uomo mettesse in comune la modalità dei proprŒ diritti, e mentre prima la regolava da sè, poscia la regolasse in comune, ritenendo una autorità proporzionale ai suoi diritti, o sia proporzionale a quella modalità che ei porta in comune. Or dunque l' uomo non libero non ha nessuna modalità da mettere in comune; poichè la modalità dei suoi diritti si ritrova interamente nelle mani del suo padrone, il quale non può già toccarlo nei diritti che egli ha, ma bensì far uso di tutte le sue azioni, per cui non resta più al servo alcun modo di provvedere a sè stesso, ma resta solo al padrone il dovere di provvedere al servo. Ed una cosa simile può dirsi di colui che è al tutto privo di proprietà; poichè questi se vuol vivere dipende totalmente da chi ne ha, ed egli è obbligato di dipendere, perchè è obbligato di usare tutti i modi onesti di campar la sua vita. Che cosa adunque porta questi in comune? nulla di certo: e perciò nissuna autorità a lui spetta nell' amministrazione di quel fondo, nel quale nulla egli mette. All' esistenza stessa non appartiene il diritto di usare l' altrui, se non dopo avere esaurito tutti gli onesti mezzi, e rimasto quel solo. Vi fu chi declamò contro la durezza dei proprietarŒ nel solo supporre, che si conservasse in mezzo ad essi una classe di uomini caduta in tanta miseria, e proponeva di votare tantosto di tenernela costantemente sollevata: ma la Commissione dimostrò che quello non era il tempo, che conveniva trattare a parte ciò che apparteneva alla beneficenza, e ciò che apparteneva alla giustizia; poichè, confondendo queste due cose, la stessa beneficenza sarebbe perita; che finalmente simili benefici provvedimenti dovevansi intavolare allorquando la società fosse costituita, e le famiglie della medesima legate insieme componessero un corpo solo. Non mancò chi credette cogliere la Commissione in contraddizione coi suoi principŒ; poichè dal momento che proponeva, che i non liberi ed i non proprietarŒ avessero una rappresentazione consistente in una voce, efficace quanto più esser poteva, di richiamo delle offese ricevute dagli altri membri della società, o dall' amministrazione della medesima; si doveva supporre che avessero il modo di soddisfare alle spese delle loro cause, e se ciò si supponeva, doveva supporsi egualmente, che avessero il modo di contribuire alle spese dell' amministrazione. Ma la Commissione rispose che l' amministrazione aveva l' obbligo di regolare la modalità di tutti i diritti; e che perciò le spese a tal fine necessarie entravano nelle spese amministrative, particolarmente poi in quella parte di offese che potessero provenire dall' amministrazione stessa; mentre essa aveva l' obbligo di non trapassare il confine della sua autorità, e di risarcire quanto poteva il danno, se per isbaglio lo trapassava. D' altro lato non è mai l' offeso che deve pagare le spese ma l' offensore. Che se questi non ne ha il modo, egli diventa uno di quei casi in cui la giustizia non ha il pieno suo effetto, non per mancanza della società, ma per l' impossibilità annessa alla cosa. Il qual caso non può avvenire mai, come dicevamo, riguardo a' richiami contro l' amministrazione; perocchè questa è sempre solvente, ove sia condannata. Appianate così le difficoltà, la Commissione conchiuse facendo osservare qual nuovo incremento di prezzo andava a ricevere la ricchezza materiale nella nuova società, dal momento ch' ella diventava il mezzo generale della sua amministrazione. Per far conoscere l' indole della nuova società civile fece notare la differenza che passava fra essa e la società famigliare, nel quale stato erano ricevute le persone assembrate, dimostrando che il mezzo dell' amministrazione famigliare era il servizio personale: e che il mezzo all' incontro della amministrazione civile era la ricchezza materiale , distinzione caratteristica delle due società. Di poi tirò pure la conseguenza da tutto ciò che era stato fatto, che relativamente alla instituzione della società civile i diritti degli uomini si dividevano in due classi: la 1 dei diritti personali; cioè diritti che l' uomo ha sulla propria persona, o su cose a lui strettamente unite, e questi sono tre: sulla vita, sul corpo, e sull' operazione; la 2 dei diritti reali; cioè sulla ricchezza esterna e materiale. I diritti personali danno a tutti gli uomini egualmente, in quella parte che li posseggono, una rappresentazione consistente in una voce di richiamo principalmente contro tutto ciò che può esser fatto in loro danno dalla amministrazione della società. I diritti reali all' incontro danno a quelli che li possedono una rappresentazione nella società civile consistente in una voce amministrativa , mediante la quale hanno nell' amministrazione della società una parte proporzionale a quella modalità dei diritti che mettono in comune nella medesima. Indi accordando a tutti indistintamente il nome di Cittadini, intendendo con esso di esprimere semplicemente membri della società civile, fece vedere come i cittadini venivano a distinguersi di loro natura in due ordini principali , l' uno dei quali era solamente governato, e l' altro ancora governava, cioè a dire quelli che non avevano se non diritti personali non potevano formare che un ordine governato e non potevano entrare a prender le redini della società: e quelli all' incontro che avevano anche diritti reali, ossia che erano forniti di ricchezza esterna e materiale, potevano e dovevano prendere parte alla stessa amministrazione. Questi due ordini venivano in tal modo costituiti dalle due specie di diritti a cui convenivano due specie di rappresentazione. In ogni specie di diritti si trovavano più diritti, e per ciò i cittadini appartenenti al primo ordine, cioè all' inferiore, avevano voce di richiamo per ciascuno dei tre diritti che possedevano, e i cittadini del secondo ordine cioè del superiore, avevano voce amministrativa proporzionata alla quantità della ricchezza loro esterna o materiale. Tutti egualmente i membri della società civile sono cittadini . A questa parola vien assegnato un nuovo senso dalla Commissione. L' essere cittadino consiste nel diritto di non esser offesi dall' amministrazione della società, e di più nel diritto, venendo offesi, di avere una voce di richiamo , per la quale ottengano risarcimento: voce che forma l' essenziale carattere della cittadinanza, che si adotta dalla società che va ad istituirsi. E prima di passare ad altro la Commissione volle che tutti convenissero nella chiara idea di questa cittadinanza , ossia di questa rappresentazione passiva comune a tutti i membri della società, la quale era ciò che li rendeva cittadini. 2) Fece dunque osservare che la prima base della società era che ogni diritto fosse rappresentato nella medesima, ma quando però potesse essere rappresentato. Or che cosa è ciò che rende rappresentabile un diritto nella società civile? Un diritto vien reso rappresentabile nella società civile da due condizioni. La 1 si è che il diritto che ha una persona sia congiunto alla sua modalità, perchè è la modalità che si porta in comune nella società civile, è questa che dalla società civile propriamente si amministra; nè la società civile viene per altro fine instituita, nè ad altro officio si estende: il perchè quegli che ha bensì un diritto in sua proprietà, ma che ha trasferito in altrui mani la modalità del medesimo, non ha diritto rappresentabile, perocchè non ha veruna cosa che possa consegnare per dir così alla società civile, perchè essa gliela amministri: non pigliando essa ad amministrare che modalità di diritti. La 2 si è che quegli che ha il diritto e insieme la modalità del medesimo, abbia ancora della ricchezza materiale: poichè questa è il mezzo generale dell' amministrazione civile, e però chi non ne ha, rimane privo del modo di pagare la spesa proporzionale che gli toccherebbe in detta amministrazione: senza di che non può ragionevolmente pretendere di essere accettato nella medesima. La mancanza principalmente della prima di queste due condizioni esclude gli uomini non liberi dall' avere una rappresentazione attiva nella società civile, che è quanto dire di aver parte nell' amministrazione della medesima. La mancanza principalmente della seconda condizione esclude dalla rappresentazione attiva i non proprietarŒ. Quelli adunque che possono aver parte nell' amministrazione sociale, o sia che possono avere una rappresentazione attiva nella medesima, sono i proprietarŒ. Or egli è necessario di vedere come la natura di questa rappresentazione attiva , lungi dal segregare i proprietarŒ dagli altri uomini, li congiunga con essi con tal vincolo, pel quale si possono a buon diritto chiamare membri della stessa società. In fatti l' amministrazione sociale si erige per regolare la modalità dei diritti dei suoi membri: e la modalità dei diritti, perchè sia ben regolata, conviene che costantemente si attenga dentro a termini della giustizia. Ora questa giustizia, prima condizione della buona modalità dei diritti, è quella che lega tutti gli uomini insieme, non già per un patto arbitrario, ma per una legge eterna, che gli uomini associati non instituiscono, ma di comune consenso riconoscono, perchè la debbono riconoscere. Or questa legge fa sì, che l' amministrazione sociale non possa giammai trattare esclusivamente i negozi delle persone che entrano in essa, ma debba riconoscere le relazioni, che hanno tali persone con quelle che rimangono fuori della detta amministrazione: debba in queste persone escluse dall' amministrazione, perchè non hanno nulla di proprio che possa essere amministrato, riconoscere e rispettare tutti i diritti che esse hanno: quindi ancora desiderando di realizzare questa debita riverenza pei loro diritti non debbe ricusare che sia messo ad esame tutto il suo operato: che sia ricercato in esso il giusto e l' ingiusto, o che di tutto ciò ch' essa avesse operato d' ingiusto essa renda soddisfazione a quelle persone qualunque sieno sulle quali è caduto il danno dell' ingiustizia. L' amministrazione civile, come persona morale, ha quelli stessi doveri verso le persone individuali che queste hanno fra di loro nello stato di natura. Ora nello stato di natura le persone individuali hanno scambievolmente i seguenti doveri: 1 Quello di non offendersi; 2 quello di esser pronte, nei casi controversi in cui l' una si richiama d' essere stata offesa dall' altra, a sottomettersi al giudicio di arbitri benevisi dalle parti. Quest' è la relazione che nello stato di natura la giustizia mette fra due persone individuali; relazione che avvincola gli uomini, e che li mette fra di loro anche in quello stato in una specie di società. Ora questa stessa relazione rimane nella società civile fra l' amministrazione della medesima e le persone singole comprese in essa o non comprese: ma con questa differenza, che l' amministrazione della società civile riconoscendosi obbligata di adoperar tutti i mezzi per ritener sè stessa nei limiti della giustizia, obbligo comune a qualunque persona, riconosce però insieme un obbligo morale che è proprio suo e non comune alle altre persone. E quest' obbligo nasce dal principio morale « che i mezzi perchè una persona ritenga sè stessa nei limiti della giustizia debbono essere tanto maggiori quanto la persona ha più di forze, cioè quant' essa ha più mezzi di offendere la giustizia. » Non v' ha principio più trascurato dagli uomini di questo, nè più importante per la loro tranquillità, nè di una necessità più fondata nell' esperienza. E` l' esperienza di tutti i secoli e di tutti i tempi che dimostra questa funesta verità « che gli uomini tanto sono più tentati di offendere la giustizia quanto più sentono avere una forza di farlo: »che la forza in mano dell' uomo lo innalza, lo inorgoglia, acuisce quella fierezza omicida, che nel suo cuore giace profonda insieme colla sua originale reità: e dove si crede sicuro nella malvagità, e impunito nella scelleraggine, persuaso che la ragione non gli sia più necessaria, s' abbandona cieco alla sfrenata irritazione che produce in lui il senso d' una potenza che nasconde i suoi limiti. Ma dietro all' esperienza che ognor più rafferma questo lacrimevole fatto, la voce della giustizia ognor più grida agli uomini: « O voi che avete in mano la forza e che amate la giustizia, tremate di voi medesimi: quella forza minaccia la vostra giustizia, e l' atterrerà senza un vostro sforzo di sostenerla: la forza nelle vostre mani tenta di estinguere in voi la ragione; voi siete tanto più obbligati di tenerla viva, e di non rivolgere gli occhi dai lumi suoi; quant' è più grande il pericolo della virtù, tanto maggiore sia il vostro timore, la vigilanza e la cautela per non esserle infedeli. »Secondo questo principio gli uomini, che mediante l' esperienza hanno imparato a conoscer sè stessi, sono in un obbligo morale di agire verso dei loro simili con una delicatezza, con una guardia di sè, e più ancora con una magnanimità che cresce in ragione della potenza che hanno sopra di quelli. Egli è per questo principio morale ed intrinseco insieme all' amministrazione sociale, che questa, come quella che costituisce una grande potenza, debbe riconoscere altresì in sè stessa un dovere morale di agire colla più grande circospezione, col più grande rispetto a ciascuna persona individuale, colla equità più luminosa, con una pubblicità che rimuova fino i sospetti, con una magnanimità che sia capace di abbandonare il proprio giudicio e sottomettersi a quello d' altrui in fatto di giustizia; rinunciando totalmente a quella sognata e crudele infallibilità politica: debbe riconoscere per ciò un dovere di deferire ad un tribunale di giustizia tutti i casi dubbi, che possono intervenire fra lei e ciascuna singola persona più debile di lei, appartenga questa all' amministrazione o no. Sembrerà che conceduta ancora l' esistenza di simile Tribunale, comune all' amministrazione sociale ed a tutti indistintamente i membri della società che hanno onde richiamarsi di lei, non sia bastevole per poter affermare, che tutte le persone individuali entrino veramente in una stessa società civile; ma che quelli della amministrazione formino una società a parte da quelli che rimangono fuori. E in fatti non è la comunanza di questo tribunale il solo vincolo dei membri della società civile; ma v' è un altro vincolo il quale associa gli uomini senza cangiare le loro relazioni anteriori a questo civile associamento: ed ecco qual' è. La società civile consiste nell' instituzione di un potere che regola la modalità di tutti i diritti. Nulla impedisce dall' accordare, che ogni diritto abbia una modalità: ma queste modalità talora sono separate dal diritto come sarebbe nei servi, i quali hanno bensì i due diritti che lor abbiamo accordato, ma non hanno all' incontro in propria mano la modalità dei medesimi, che resta nelle mani dei loro padroni. Ora i servi non avendo in propria mano la modalità dei proprŒ diritti, non possono portarla nella società civile e metterla in comune: all' incontro i padroni nello stato di natura hanno in propria mano tanto la modalità dei proprŒ diritti quanto quella dei diritti dei servi. Quindi sono essi che portano nella società civile da amministrarsi in comune insieme colla modalità dei proprŒ diritti anche la modalità dei diritti dei servi: ed in tal modo la società civile diventa amministratrice della modalità dei diritti di tutti gli uomini, ed anche dei diritti dei servi: ma senza mutare le relazioni che questi hanno coi loro padroni, cioè la società civile amministra la modalità dei diritti dei servi, ma essa facendo ciò non viene già a far le veci dei servi stessi; ma sì bene a far le veci dei padroni dei servi: poichè nello stato di natura non erano già i servi quelli che amministravano la modalità dei proprŒ diritti, ma ciò facevano i loro padroni. Se dunque si facesse che i servi entrassero nell' amministrazione della società, avverrebbe ch' essi facessero ciò che non facevano nello stato di natura: e che all' incontro i padroni venissero privati di fare ciò che facevano nello stato di natura: in tal modo questi entrando nella società verrebbono spogliati di un diritto che avevano nello stato di natura; ed ai servi verrebbe dato gratuitamente un diritto che nello stato di natura non avevano. Il passaggio dunque dallo stato di natura allo stato di società civile non si farebbe più restando intatte le relazioni degli uomini; ma in tal passaggio verrebbero alterate, e mentre ad alcuni uomini si darebbero dei diritti che prima non avevano, ad altri se ne torrebbe di quelli che prima avevano. Conviene adunque perchè la giustizia non venga alterata, come succederebbe se avvenisse trasferimento di diritti, che i servi abbiano coll' amministrazione della società una relazione simile a quella che prima avevano coi loro padroni; che l' amministrazione non sia se non l' unione di quelli che nello stato di natura amministravano, e che le persone escluse dalla medesima non sieno che quelle che nello stato di natura non amministravano. Conviene concepire il piano della società civile non già come una istituzione mediante la quale le persone che non amministravano nello stato di natura passino nel numero di quelle che amministrano; ma bensì come una istituzione mediante la quale le persone, che nello stato di natura amministravano in separato, si uniscano insieme per amministrare in comune. Ora ciò posto non riesce per tutto questo men vero che la società civile si proponga di amministrare la modalità di tutti i diritti, o sia dei diritti di tutti gli uomini. Quindi riesce altresì vero che ella abbraccia nel suo seno gli uomini tutti, sebbene senza alterare le loro relazioni, e che tutti governino: tutti adunque soggetti alla stessa amministrazione con ragione vengono detti membri della società medesima, sebbene non già membri eguali, o, per essere più accurati, non già membri che godano della ugualianza costituente , ma bensì membri che godono della uguaglianza giuridica: membri che convengono tutti nell' essere amministrati da uno stesso potere e che hanno un eguale diritto di non essere dallo stesso offesi, sebbene membri che non hanno eguale diritto di essere da quel potere vantaggiati: membri in somma che si dividono in due ordini, l' uno dei quali non è che amministrato, mentre l' altro è anche amministratore. Quand' anche non si considerasse nei non proprietarŒ l' ostacolo della mancanza della ricchezza materiale, mezzo dell' amministrazione, tuttavia soggiacerebbero allo stesso discorso fatto pei non liberi; poichè non potendo essi sussistere senza trovar il loro nutrimento, dovrebbero o passare alla classe dei mercenari o vivere d' accatto. Nel primo caso toccherà ad essi nella società civile lo stato conveniente ai mercenarŒ, nel secondo caso essi dipendono totalmente dalla volontà degli altri uomini che li beneficano, e che perciò non lasciano loro che quella libertà che loro piace: mentre questi poveri sono obbligati per un diritto naturale di far tutto ciò che è necessario per acquistarsi il vitto, e non può esser loro lecito di torre l' altrui, se non dopo d' avere tutto tentato, e d' esser venuti alle ultime estremità: 1) i poveri adunque sono essenzialmente persone non libere: e quella libertà precaria che godono di fatto non è fondata in alcun loro diritto, ma nella bontà dei loro benefattori, i quali li soccorrono senza esiger da essi servitù. La Commissione si era appianata la via alle cose fino a quest' ora trattate per proporre l' articolo riguardante lo stato che dovevano avere nella società civile i mercenarŒ, e l' articolo che essa propose fu il seguente: « I mercenarŒ che possono provare di esercitare un' arte od un mestiere qualunque, che apporti loro un sufficiente mantenimento senza bisogno di sovvenzioni caritative, non debbono entrare nell' amministrazione della società individualmente come i proprietarŒ che hanno fondi, ma debbono entrarvi mediante una rappresentazione del loro corpo. »Cioè i mercenarŒ non hanno nella società civile una rappresentazione attiva, come persone singole, ma bensì debbe essere rappresentato nell' amministrazione della società il corpo dei mercenarŒ. Quest' articolo incontrò difficoltà dalla parte dei proprietarŒ. Il delegato per questi si sforzò di provare che i mercenarŒ erano di loro natura totalmente dipendenti dai proprietarŒ, perocchè non avendo essi nessun fondo da cui ritrarre con sicurezza il loro mantenimento ed indipendentemente da quelli, essi non potevano vivere, se non lavorando a discrezione dei proprietarŒ. Questi all' incontro come quelli che possedevano un fondo che dava loro onde vivere erano da sè i soli indipendenti e liberi: perciocchè questi avrebbero potuto lavorare da se stessi il fondo e cavare dal medesimo il mantenimento, senza chiamare altri in aiuto. La esistenza dunque dei mercenarŒ è precaria, e dipendente dalla volontà di quelli che li assoldano: da questi dipende totalmente la modalità dei loro diritti; e se questi s' accordassero insieme di non dare a mercenarŒ lavoro, ma di lavorare essi stessi; questo sarebbe forse un atto d' Œnumanità, ma non offenderebbe ancora i diritti dei mercenarŒ; i quali ridotti all' estremo dovrebbero rendersi servi dei proprietarŒ. Ora questa specie di monopolio non fanno nè far debbono i proprietarŒ; ma nol fanno e far nol debbono per altro che per atto d' umanità, e di commiserazione; ciò che nei mercenarŒ non mette diritto alcuno d' aver a forza lavoro, se quelli nol facessero a volontà. Vero è dunque che i mercenarŒ non sono al tutto alla condizione dei servi; ma quella poca libertà ch' essi godono non l' hanno da sè, ma viene loro lasciata dalla generosità dei proprietarŒ: i quali torre gliela potrebbero senza toccarli nei loro diritti: sono adunque i mercenarŒ simili ai poveri o non proprietarŒ, che si contan per liberi fino a che la beneficienza dei ricchi mantiene loro la libertà, ovvero simili a quei servi verso dei quali il padrone non usa il suo diritto di signoria. Non possono adunque aver voce i mercenarŒ nelle pubbliche deliberazioni, ma i loro padroni per essi; quantunque abbiano quelli il diritto di patteggiare nella mercede, che danno loro i padroni, anche la qualità del voto ch' essi debbono portare nella Sociale Amministrazione. La Commissione rispose ch' essa conosceva benissimo, che i mercenarŒ avevano una dipendenza dai benestanti: che aveva esaminata la natura di questa dipendenza: e che avendola trovata tanto lontana dalla servitù , quanto dalla benestanza , aveva stimato che loro convenisse nella società un posto di mezzo fra i servi ed i benestanti; e che perciò nè fossero privati interamente di una rappresentazione attiva come quei primi, nè l' avessero intera come questi secondi: al che avea creduto di soddisfare coll' articolo proposto. Infatti la Commissione riconosce che non v' ha nessun mercenario preso individualmente, la cui esistenza non sia precaria, e la cui libertà non sia dipendente dal corpo dei benestanti, da cui sono pagate le mercedi, sicchè se i benestanti volessero, potrebbero privarlo del lavoro, nel qual caso egli rimarrebbe nello stato dei poveri e successivamente dei non liberi. Egli è per questo che la Commissione ha creduto che nessun mercenario possa individualmente ottenere secondo l' equità una rappresentazione attiva nell' amministrazione sociale; per le stesse ragioni per le quali viene negato ai poveri ed ai servi; cioè perchè il mercenario individuale egualmente che questi non ha una modalità propria e certa da portare in comune nella società, e perchè non ha assicurata ricchezza, mezzo necessario all' amministrazione della medesima. Ma la Commissione all' incontro non giudica allo stesso modo di tutto il corpo dei mercenari, ed anzi sostiene: 1 Che tutto il corpo dei mercenarŒ quale egli esiste nel fatto ha un' esistenza assicurata tanto quanto quella dei benestanti: che detto corpo se ha qualche dipendenza dai proprietarŒ è questa però tale che rimane una semplice dipendenza speculativa, o sia una possibilità di dipendenza che non si esercita nel fatto giammai, e che perciò non può avere un effetto calcolabile. 2 Che i benestanti non hanno punto il diritto di escludere il corpo intero dei mercenarŒ dai lavori che portano loro le mercedi, e che perciò il corpo dei mercenarŒ non può essere senza ingiustizia eliminato per un accordo o per un monopolio che facessero fra di loro i benestanti. A dimostrare la prima di queste due proposizioni basta un fatto, che è uno di quei pochi comunemente ricevuti e sui quali non cade più controversia; cioè che la divisione del lavoro aumenta la ricchezza dei benestanti, appunto perchè perfeziona le arti, cioè migliora la produzione, la rende più celere e meno costosa. Egli fu questo effetto della divisione del lavoro, che venendo vie più sentito ed inteso dagli uomini li persuase a dividere sempre più i lavori, e che così si moltiplicarono le arti. Da ciò nacque, che mentre nell' antichità si esercitavano tutte le arti necessarie nella famiglia stessa, in essa per esempio si mantenevano le greggi, si preparavano le lane, le si filavano, le si tessevano, le si riducevano a vestimenti; si comprese più tardi che era più economico e che rendeva un lavoro più perfetto dividendo tutte queste incombenze fra varie famiglie, alcune delle quali si restringessero per esempio alla cura del gregge, altre alla filatura delle lane, altre alla tessitura, ed altre alla facitura delle vestimenta. Egli fu in tal modo che si moltiplicarono i mercenarŒ: fu in tal modo che una famiglia si rendette dipendente dall' altra di propria volontà. Colla cognizione dell' utile, col gustamento del piacevole si moltiplicarono i desiderŒ ed i bisogni, e questi diedero origine a quel gran numero di arti e mestieri onde presentemente è ricca la società fra le nazioni, che rende la vita umana agiata e soave e fornita di tutti quelli aiuti che sono necessarŒ ad un maggiore sviluppo dello spirito. Egli è vero che il genere umano non sarebbe giammai venuto a tale stato di floridezza nel quale possede tanti mezzi di lieto ed onesto vivere, se in esso la religione non avesse temperato i fieri costumi e la corruzione delle passioni raccendendo nelle menti il lume della verità; ma senza cercare le cagioni di questo stato confortante dell' umanità, basta a conoscere che egli è tale, che l' uomo si trova oggimai sul cammino della propria utilità, e che è divenuta una legge inalterabile dell' umanità, che questa sia sollecita di cercare ciò che le è vantaggioso, e presto o tardi lo ritrovi quasi avesse verso di ciò un' involontaria gravitazione; legge che si è resa così forte ed evidente che è difficile il conoscere che fu introdotta nell' umanità, e di cui non porta in sè medesima la necessaria esecuzione: il conoscere dico, che l' umanità si potesse trovare in tale stato, nel quale incapace fosse di pensare all' acquisto d' un suo bene per poco lontano ch' ei fosse ed impotente di muoversi verso il medesimo, per una inerzia che non riceve movimento se non dai pungoli di un dolore corporeo o di un istinto brutale. Da questo stato di degradazione è già lontanata per sempre l' umanità, e ha ricevuto una spinta che la porta per tutti i veicoli del bene, per così dire, anche più lontano, e non può venire meno il suo movimento. Egli è dunque contro questa legge di perfettibilità che andrebbero gli uomini togliendo via la divisione del lavoro, e per ciò la classe dei mercenarŒ: giacchè, se i padroni si dividessero fra loro le arti, verrebbero ad accumulare in sè due officŒ, o sia due lavori, cioè l' amministrazione della propria sostanza e l' arte prescelta: e si renderebbero in tal modo servi essi stessi senza che a loro restasse il modo nè il tempo di godere i frutti dei beni da loro posseduti, nè quelli dalla loro avidità guadagnati. Il benestante adunque pagando il mercenario redime sè stesso: giacchè egli è libero quando è padrone del suo tempo e della sua opera: quando cioè quest' opera non è occupata dalla necessità di un lavoro determinato. Colla mercede che paga il benestante, cangia un po' della sua ricchezza con altrettanto tempo e fatica, il quale è pur sempre un cambio vantaggioso; mentre fonda in tal modo una forza ed una porzione di vita che egli può occupare alla cultura del suo intelletto e del suo cuore, e al godimento degli onesti piaceri: i quali beni sono di un pregio inestimabile sopra la materiale ricchezza. Il corpo dei mercenarŒ adunque è sommamente utile ai benestanti, e attesi i suoi presenti bisogni necessario: ed essendo gli uomini soggetti alla legge della perfettibilità e da essa inclinati a mantenere ciò che hanno provato per bene e ad accrescerlo, è impossibile che il corpo dei mercenarŒ sia abolito: ed una tale proposizione è così assurda, che il solo enunciarla desta le risa. Nè si può dire che i benestanti con un comune accordo potessero costringere i mercenarŒ a più dure condizioni fino alla servitù; perciocchè questa stessa prostrerebbe le arti, solito effetto della umanità, e le richiamerebbe dentro alle famiglie onde sono uscite, cioè farebbe retrogradare la società: il che, come dicemmo, essa non può fare generalmente parlando, od al meno non può farlo ad occhi aperti; perocchè ad occhi aperti è assurdo che faccia un male a sè stessa. L' esistenza adunque del corpo dei mercenarŒ non è precaria, ma è tanto ben assicurata quant' è assicurata la legge della perfettibilità: e, se non fosse assicurata, noi dovremmo assicurarla con una civile sanzione, mentre la società in costituirsi non debbe far danno a sè medesima, ma mettere tutte quelle basi che da essa il male allontanano. 1) Per la stessa ragione il corpo de' benestanti commetterebbe una ingiustizia cercando di distruggere il corpo dei mercenarŒ: perocchè nessuno ha diritto di restringere l' altrui libertà senza che ciò torni in bene di sè stessa. Ora il corpo dei mercenarŒ è utile, come abbiamo veduto, ai benestanti: dunque oltrechè sarebbe stolto distruggerlo, e di una stoltezza che si è resa impossibile al genere umano, sc“rto sulla via della perfezione, sarebbe anche ingiusto, perciocchè nessuno ha diritto di nuocere altrui senza ragione, nessuno ha diritto al male ed alla stoltezza. La società civile adunque, sì per principio di utilità che per principio di giustizia, debbe riguardare il corpo dei mercenarŒ come fornito di un diritto al mantenimento, e debbe conoscere che il provento del medesimo è assicurato sopra un fondo stabile quanto il provento dei benestanti, mentre è assicurato sul bisogno, sui piaceri, sulla felicità, e sulla moralità degli stessi benestanti. La sola differenza che passa fra il fondo sul quale è assicurato il provento dei benestanti, ed il fondo sul quale è assicurato, per dir così, il provento dei mercenarŒ, si è questa, che ciascun benestante ha in mano il suo fondo, ed è legato colla sua individuale persona: mentre ciascuno dei mercenarŒ non può già dir tanto, poichè il suo travaglio è condizionato alla volontà di chi lo prende al lavoro: e ciascun mercenario non può sempre assicurarsi di trovare questa volontà disposta costantemente ad usare l' opera sua: mentre tutto il corpo dei mercenarŒ può benissimo assicurarsene; giacchè abbiamo fissato per base, che la volontà collettiva dei benestanti non può mai volere lasciare totalmente privo di lavoro il corpo dei mercenarŒ. Alcuno chiese se con ciò s' intendeva che la società civile prendesse l' obbligo di mantenere costantemente un numero fisso di mercenarŒ. A cui la Commissione rispose: che no: che il corpo dei mercenarŒ non poteva mai fissarsi: che questo doveva crescere o scemare, secondo le ricerche dei benestanti; ciascuno dei quali coll' istituzione della nuova società restava libero come prima di prendere o di licenziare i mercenarŒ secondo i suoi interessi ed i suoi bisogni: che se finalmente si potesse suppore il caso di una tale carestia e penuria di tutte le cose più necessarie, che nissun benestante avesse più il modo di mantenere un solo mercenario, supposto questo caso impossibile, ne seguirebbe, che il corpo dei mercenarŒ per qualche tempo disparirebbe; ma senza che questa distruzione dei mercenarŒ fosse punto contraria ai principŒ sopra esposti, perocchè essa non seguiva per un arbitrio stolto dei ricchi, nè per un principio di assurda politica; ciò che solo col discorso precedente si è combattuto. Ma dunque, alcun altro oppose, se il corpo dei mercenarŒ diminuisce ed aumenta, come avrà una rappresentazione stabile? Non fu parlato di una rappresentazione stabile, rispose la Commissione; ma solo di una rappresentazione attiva, la quale certamente debbe cangiare nella stessa proporzione che cambia il corpo dei rappresentati. Il modo poi di questo cangiamento è ciò che la Commissione si riserva di spiegare, quando sarà tempo opportuno; pregando intanto chi avesse da dire contro la medesima, di riservare per allora che se ne farà di proposito trattazione. Ciò che fu detto, e che fu fin qui accordato dalla Assemblea, diede la via alla Commissione di presentare il principio generale, secondo il quale doveva esser formata l' amministrazione della società civile. Il principio fu enunciato così: « Il potere amministrativo debbe esser messo in equilibro colla proprietà materiale di ciascun membro della società civile; »che equivale a quest' altra proposizione: « Ciascun membro della società civile debbe partecipare all' amministrazione della medesima nella proporzione della ricchezza materiale ch' egli possiede. » Tale principio veniva come conseguenza naturale dalle cose dette, o piuttosto era una recapitolazione delle medesime. In fatti egli discendeva da quell' altro più generale già prima adottato, che ogni specie di diritti ed ogni diritto nella stessa specie trovasse nella società civile una rappresentazione conveniente e possibile. Le specie di diritti s' avevano trovate essere due, chiamate de' diritti personali e de' diritti reali. S' era pure trovato ed accordato che a queste due specie di diritti corrispondevano due specie di rappresentazioni; cioè la rappresentazione passiva e la rappresentazione attiva: la prima delle quali, corrispondente ai diritti personali, era formata da una voce efficace di richiamo contro alle offese, e la seconda, corrispondente ai diritti reali, era una voce influente nell' amministrazione della società. Per diritti reali s' era inteso diritti sulla ricchezza materiale, e dopo aver trovato la rappresentazione conveniente a tale specie di diritti, cioè la rappresentazione attiva, conveniva stabilire il principio, che fissasse la rappresentazione conveniente a ciascun diritto della stessa specie, o sia alla quantità proporzionale dei diritti reali: e tal principio era quello enunciato dalla Commissione: « che il potere amministrativo dovesse esser messo in equilibrio colla proprietà materiale di ciascun membro della Società civile. » Non poteva dunque rifiutarsi l' Assemblea dall' ammettere tal principio, se non voleva venire in contraddizione con sè stessa. Ciò ammesso fissò la Commissione l' infimo grado di tale rappresentazione che doveva essere proprio di quelle persone, che avessero tanta ricchezza materiale quanta bastava ad assicurare ai medesimi una vita indipendente dagli altri uomini: in tal modo acquistava una rappresentazione attiva quella persona che aveva dei diritti per se stessi esistenti, giacchè i diritti personali per se stessi non possono esistere nell' uomo se non coll' aiuto di diritti reali: questi due diritti insieme uniti danno alla persona un' esistenza politica garantita in faccia alla società degli altri uomini, i quali ragionevolmente possono entrare con essa in un contratto stabile. I possessori delle terre fecero però sentire che non sembrava loro giusto d' esser messi alla stessa condizione dei possessori di fondi industriali, o commerciali, o bancarŒ, e dissero tutte le ragioni che dir si sogliono dai partigiani dei fondi terrieri: si sforzarono di mostrare principalmente due cose: 1 che tutte le altre ricchezze erano dipendenti dalla terra, e che veramente questa sola, somministrando il nutrimento agli uomini e le materie prime alle arti, era indipendente; 2 che i fondi d' altra specie non erano così assicurati come le terre, le quali non potevano mai esser distrutte nè mancare di prezzo; mentre tutta la ricchezza affidata alla volubile fortuna del commercio poteva da un' ora all' altra perire; e variava mobilissima ad ogni circostanza politica e ad ogni varietà nel costume e nell' opinione degli uomini. La Commissione oppose alla prima difficoltà quello stesso ragionamento, col quale aveva dimostrato che i mercenarŒ dovevano considerarsi come indipendenti dai benestanti: mentre questi non si sarebbero mai indotti ad abbandonarli giacchè ciò non voleva il proprio interesse, il quale interesse non poteva non essere seguito dal corpo dei benestanti perchè l' umanità, di fatto e per una legge a cui irrefragabilmente obbedisce, non può ad occhi aperti nè lasciare un bene nè fare un male a se stessa. Le arti ed il commercio sono di somma utilità ai possessori delle terre: dunque questi quando anco potessero abbandonarli non lo faranno mai; poichè ciò supporrebbe la perdita della ragione, o la perdita dell' amore a' proprŒ vantaggi. Dall' istante adunque che i proprietarŒ delle terre non vogliono nè possono volere rinunziare ai vantaggi che a loro apportano le manifatture ed il commercio, avviene ch' essi si costituiscano di fatto dipendenti da questi rami industriali, come questi rami industriali sono dipendenti da essi. La dipendenza adunque è scambievole, ed è anche pari; poichè, lasciando di considerare se l' agricoltura potesse sussistere priva di qualunque maniera di arti, egli non è più cosa controversa, che l' industria manifattrice ed il commercio aumentano la produzione, e moltiplicano il valore di ciò che rende la terra più volte per se medesimo. Ella è questa moltiplicazione di valore, che produsse le arti ed il commercio. E chi la poteva produrre, se non i possessori delle terre somministrando le materie prime? Le arti dunque ed il commercio vennero ad esistere mediante una loro speculazione: allo stesso modo come il frutto della terra venne a prodursi mediante il lavoro ch' essi fecero della medesima. Come dunque il benestante dipende dalla terra per cavare della ricchezza, allo stesso modo dipende dalle arti e dal commercio per cavare dell' altra ricchezza. Che se potesse darsi il caso, che i benestanti rinunziassero pazzamente a questa seconda ricchezza, forse mossi dall' invidia del guadagno di quelli che si applicano esclusivamente alle arti ed al commercio, e che comperano da essi i prodotti primi, ciò sarebbe un fatto stolto ed ingiusto: sarebbe un abuso del diritto della proprietà, e non dovrebbe essere riguardato come legittimo nella fondazione della civile società: anzi questa dovrebbe proclamare e sancire una dichiarazione in contrario, riguardando i possessori di fondi terrieri, industriali, e commerciali come parti cointeressate nello stesso negozio, come socŒ tendenti allo stesso scopo, dei quali gli uni si aiutano cogli altri scambievolmente dividendosi gli offici dell' azienda comune: perciò tutti egualmente gli uni dagli altri dipendenti, o in un altro senso tutti egualmente indipendenti; indipendenti cioè dato per impossibile che si rompa tal compagnia, e che qualche parte della medesima cessi da' suoi officŒ. Alla seconda obbiezione, colla quale i proprietarŒ delle terre pretendevano che solamente i loro fondi fossero bastevolmente assicurati ed all' incontro i fondi industriali e commerciali fossero abbandonati alla sorte sui quali perciò non si poteva contare, la Commissione fece una risposta convincente presentando i seguenti riflessi. Ella è la legge che regola il prezzo delle cose, quella che può dileguare la difficoltà proposta. Per conoscere la legge che regola il prezzo delle cose bisogna prendere per regola una misura comune del prezzo, una materia che abbia qualche valore a cui paragonare le altre; e il danaro generalmente introdotto nelle società costituite somministra la misura del prezzo più acconcia di tutte. Valutiamo dunque il prezzo delle cose in danaro, o per dir meglio consideriamo la valutazione loro nel fatto. Quali sono dunque gli elementi che costituiscono questo prezzo, o questa valutazione delle cose? Sono due: 1 La ricerca delle medesime corrispondente ai bisogni che si hanno di esse, presa la parola bisogna nel senso più generale, nel quale si comprendono ancora i bisogni fattizŒ, i desiderŒ in somma. 2 L' acconciezza che hanno le cose a soddisfare questi bisogni, calcolando la facilità d' acquistarle, la loro quantità, la loro durata rispettiva ecc. ecc.. Egli bisogna ben intendere che questo prezzo delle cose appunto perch' egli risulta dal rapporto fra la somma de' bisogni delle medesime e la loro acconcezza a soddisfarli, non è già stabilito da qualche persona particolare (escluso il caso di monopolio) ma da tutta la società, nella quale le cose valutate sono in corso. Ciò posto, se i fondi industriali e commerciali sono soggetti al pericolo della sorte, egli è evidente che nella loro valutazione questo viene calcolato: e se non viene calcolato vuol dire ch' egli è realmente compensato dal valore della speranza di guadagno che gli accompagna. Nè i proprietarŒ delle terre possono già dire: che il prezzo che viene loro assegnato, e nel quale resta necessariamente calcolato anche il pericolo della sorte, non abbia che una giustezza approssimativa; poichè ciò ammesso non possono tuttavia cavarne conseguenza in loro favore; giacchè lo stesso si può dire della valutazione dei fondi terrieri e del prezzo di tutte le altre cose mobili e stabili che sono poste in circolazione nella società. Egli è impossibile adunque trovar altra via di valutar la ricchezza se non riportandosi al prezzo relativo delle cose, cioè al prezzo che acquistar possono messe in cambio con altre cose; del quale prezzo per conoscere la proporzione bisogna riportarsi ad una specie sola di cose, fra le quali la più comoda e la più usitata è il denaro. Trovato questo prezzo relativo, non v' ha più luogo a sconto; poichè questo prezzo è il risultato delle qualità stimabili dell' oggetto apprezzato, meno le qualità deterioranti, come sarebbe appunto la sua breve durata, la sua fragilità, la probabilità della sua perdita ecc. ecc.. A tale discorso taluno disse che, dato anche tutto ciò che la Commissione viene ad esporre, non ne seguirebbe punto altra conseguenza pei fondi industriali e commerciali che quella tirata per li mercenarŒ: cioè che dovessero avere una rappresentazione comune e non individuale; conciossiacchè la loro esistenza indipendente si provava collo stesso argomento che s' era usato a provar quella dei mercenarŒ. Ma la Commissione ne dimostrò la differenza; poichè supposto che un mercenario venga abbandonato dai committenti, egli che vive su suoi lavori non ha oggimai più onde vivere; mentre all' incontro, supposto anche lo strano caso che il possessore d' un fondo industriale o commerciale venga abbandonato a tale che debba desistere dalla sua professione, gli rimane ancora il suo fondo, il quale egli può vendere, e tramutare o in un fondo stabile o in un capitale fondato sopra un fondo stabile. Laonde rimane il diritto a ciascuno, che abbia un fondo capace di produrgli un sufficiente mantenimento, di essere rappresentato individualmente nell' amministrazione della civile società. Malgrado che i ragionamenti della Commissione fossero stati riconosciuti per giusti, e le sue proposte fin quì approvate, v' erano nulla ostante molti che si ridevano di ciò che si faceva, e che andavano mettendo in discredito i principŒ stabiliti col dichiararli impossibili di produrre un risultato pratico, i quali perciò sarebbero stati abbandonati ben presto, quando i negoziati si avvicinassero a conchiudere qualche cosa di fatto, e non si trattenessero come finor facevano nelle imaginarie regioni di un' aerea speculazione. Egli fu a costoro, i quali coi loro discorsi indisponevano gli animi dell' Assemblea, che prese a rispondere la Commissione nella sessione presente. Come è possibile, dicevan essi, che ogni menoma ricchezza materiale venga rappresentata nell' amministrazione? In che modo si potrà ottenere una proporzione giusta fra le persone che debbono comporre l' amministrazione? Si vuol forse fare una nuova divisione delle ricchezze materiali in un modo regolare, sicchè una persona abbia precisamente il doppio, il triplo, o il quadruplo dell' altra nè più nè meno? Ovvero (giacchè questo sembra contraddire ai principŒ rigorosi di giustizia stabiliti dalla Commissione) si lascierà da parte le frazioni che sortono nella valutazione della ricchezza? In tal caso la Commissione devierebbe da quello stesso rigore di giustizia che essa vanta fino alla noia. Ma poi, i fondi rimangono sempre gli stessi? Non si pretenderà mica di rendere immobili e stagnanti tutte le ricchezze della società? E se son esse soggette ad un continuo movimento, dovrà soggiacere alle stesse mutazioni anche l' amministrazione della Società? Che governo sarà allora cotesto, che muta tutti i giorni, e che è commesso all' aura della cieca fortuna alla guisa stessa della ricchezza? O vorranno forse quelli, che, essendo in possesso del governo, per qualche sventura impoveriscono, cedere bonariamente il posto a quelli che sulla loro disgrazia si sono arricchiti? Per quanto adunque sieno speciosi i principŒ della Commissione, debbono terminare col partorire del vento. La Commissione contrappose a questi e consimili mormorii un' ampia dottrina del diritto, su cui opinava doversi formare la civile società: disse, che quelle obbiezioni provenivano dall' essere stata l' Assemblea finora informata de' principŒ di naturale giustizia risguardanti il fine propostosi da conseguire, e non de' principŒ di giustizia riguardanti il mezzo onde ottenere quel fine. Riguardo al fine la legge naturale vuole, che gli uomini viventi nello stato di natura si raccolgano in una Società civile, come quella che è utile a tutti, e che perciò ciascuno ha diritto di domandarla agli altri; a quello stesso modo che ciascun uomo ha diritto di domandare agli altri una convenzione ragionevole intorno ai proprŒ interessi ogni qualvolta questi vengano in collisione cogli interessi degli altri e non si possa senza una convenzione cavare giustamente quella utilità che si caverebbe mediante un' equa convenzione. 1) La Società civile dunque è una specie di convenzione generale riguardante tutti gli interessi di tutti gli uomini conviventi; la quale diventa un obbligo della legge naturale ogni qualvolta, sentendone alcuni uomini la utilità, dimandano a' loro compagni che vengano a simile convenzione ed associamento. Ma questo associamento debbe essere posto sopra le basi della equità, e queste basi di equità furono dall' Assemblea riconosciute esser quelle che la Commissione propose. Or dunque si tratta di formare la società sopra queste basi. Ma queste sono impossibili, si risponde. E come, ripete la Commissione, non sono esse necessarie? Rimossa l' equità e la giustizia, che cosa rimane per principio formatore della società, se non l' arbitrio, o la forza, o il caso, quasi formare la società dovesse considerarsi come un gittamento di dadi? Bisogna dunque vedere fino dove si estende l' obbiezione, che il formare la società civile secondo l' equità sia impossibile: mentre finalmente dall' equità non si può recedere, e se l' equità, come si dice, fosse al tutto impossibile da ottenersi, bisognerebbe convenire, che impossibile fosse la società stessa: che questa lungi dall' essere un dovere morale fosse il frutto o del cieco accidente o della prepotenza, o di un inconcepibile accordo nella medesima stoltezza. Ma l' obbiezione stessa non ci si presenta in tal modo. Essa non dice, che le basi dell' equità già proposte sieno al tutto impossibili da praticarsi: dice solamente, che esse non sono possibili a praticarsi con tutto il rigore, e che praticate a rigore assai male conseguenze trarrebbero seco. Or via, qual' è dunque la forza dell' obbiezione? Ella sta in questo; che dovendosi l' equità osservare nella composizione della società civile, debbesi praticare in tutte sue parti: e che se si concede di deviare dalla medesima in qualche parte, non si vede più la ragione perchè medesimamente non possa concedersi di lasciare l' equità anche nelle altre: dall' istante che l' arbitrio è qualche cosa, non si vede la ragione, perchè non possa esser tutto. Se l' equità è la suprema legge, perchè si può in parte abbandonare? Se non è la suprema legge, perchè non si propone a dirittura la legge suprema, e dietro a quella non si forma la società? Ma tutta questa obbiezione non è che apparente; perchè se gli uomini sono obbligati a seguire l' equità, essi non sono però obbligati di seguirla se non in quel tanto, che essi la conoscono, e che hanno il potere di seguirla. Non è già con questo che essi abbandonino una parte della equità; mentre è coll' animo cioè con una vera volontà che essi sono obbligati di seguirla tutta. Se malgrado di questa loro piena volontà, per mancanza di cognizione o di potere, avviene che in qualche sua parte esternamente non la pratichino e non la realizzino; questa non è che una mancanza materiale, e non già morale; non seguono per questo meno tutta intera la equità. Ma v' ha di più. Siccome nissuno uomo è obbligato moralmente all' impossibile, così nissun uomo ha il diritto di chiedere l' impossibile dall' altro uomo. Se due facendo insieme una convenzione non possono trovare il giusto punto dell' equità, non debbono per questo venire a discordia, ma bensì sono obbligati di stringere la convenzione stessa secondo un' equità approssimativa. Questo è ciò che nasce continuamente nella vita umana. Supponete, che più persone debbano dividersi egualmente una grande eredità: egli sarà tante volte impossibile di fare le parti giuste di una esattezza matematica: le stime dei fondi non possono giammai essere che approssimative, perchè sono l' opera degli uomini; il credito dei debitori della massa anche esso non somministra che un dato di approssimazione; e può cagionare dei gravi sbagli. In somma l' eguaglianza matematica non si ha mai, nè si potrebbe conoscerla avendola: il diritto delle parti adunque non si estende ad esigerla; perocchè i diritti debbono essere sempre ragionevoli, e non possono esigere se non ciò che è possibile: e ciò appunto è quello che propriamente si chiama equità, per distinguerla dalla giustizia, colla quale si vede essere da questo esempio intimamente connessa. L' equità dunque si può dire che non sia se non se la giustizia in pratica; giacchè la giustizia speculativa si può rare volte ottenere nella pratica, e non potendo gli uomini d' altra parte chieder giammai l' impossibile, sono obbligati dalla ragionevolezza che debbe accompagnare i loro diritti, e che è pur essa un principio di giustizia, a restringere i medesimi a tutto ciò che è possibile, che è quanto dire, a cangiare ciò che è giusto in ciò che è equo, mentre il sommo diritto cessa d' esser diritto; ma, secondo il proverbio antico, diventa somma ingiuria. Or come nella giustizia propriamente detta consiste ciò che secondo la legge naturale si può prefiggersi per fine , così nella equità viene indicato quel mezzo onde secondo la legge naturale si debbe ottenere quel fine. Giusto è adunque il fine di una giustizia stretta , giusto è il mezzo di una giustizia che propriamente si chiama equità . Gli uomini sono obbligati da una legge morale di prefiggersi nelle loro convenzioni quel fine giusto; e perchè se lo debbono prefiggere efficacemente per ciò sono obbligati altresì di ottenerlo con questo mezzo giusto: la giustizia stretta nel fine: la equità nel mezzo di ottenerlo, ecco ciò che rende possibili fra gli uomini le convenzioni giuste. Applichiamo questi principŒ alla convenzione più estesa di tutte che possano far gli uomini, ossia alla formazione della civile società. Conviene prima di tutto nella formazione della medesima vedere quale sia il diritto che può reclamare in essa qualunque persona che si assembra e tratta insieme per parteciparne. Giacchè nessuna persona può essere costretta senza ragione a rinunziare ai proprŒ vantaggi, quindi è necessario prima di tutto vedere quali sieno i vantaggi che ciascuno può avere in detta società, quale il posto che ciascuno può convenevolmente occupare. Noi abbiamo fatto questa ricerca ed abbiamo riconosciuto che la parte che si può avere in detta società può essere di due specie che abbiamo contrassegnato coi vocaboli di rappresentazione passiva e di rappresentazione attiva: che la rappresentazione passiva conviene indistintamente a tutti gli uomini; mentre ragione vuole che non partecipino della rappresentazione attiva se non quelli che vivono sopra dei fondi di ricchezza materiale e ciò in proporzione di detti fondi. Questo pertanto è il fine giusto della società; fine nel quale debbono ragionevolmente convenire: e dico fine giusto perocchè nessuno dei membri sociali potrebbe esser costretto senza ragione a rinunziare ai vantaggi che a lui apportano le basi soprafissate: conciossiacchè sono ragionevoli e venienti come conseguenze dai diritti di ciascheduno. Questo fine pertanto debbe ciascun membro della società futura prefiggersi di ottenere nella istituzione della medesima, e non perderlo giammai dallo sguardo. Ma debbe tenersi in esso così costante lo sguardo per ottenersi pienamente? Non già: ma per ottenersi quanto più si può: mentre quand' egli si ottiene nel miglior modo che si può, si ottiene pienamente: giacchè la perfezione morale non consiste se non nell' uso di tutte le proprie forze per la consecuzione di ciò che è giusto, non già nell' ottenimento materiale di ciò che è giusto: questo si potrebbe ottenere senza aver fatto la giustizia. E` dunque un dovere della legge naturale la formazione della Convenzione civile nel caso da noi proposto: è un dovere della legge naturale volerla formare secondo le basi della giustizia di sopra da noi stabilite: finalmente è un terzo dovere della Legge naturale recedere dal proprio diritto in quella parte nella quale non si può ragionevolmente esigerlo dagli altri soddisfatto, perchè ciò sarebbe loro impossibile, come è impossibile esigere la esattezza matematica nella divisione di una possessione, di una casa, di uno stato. Ciò solo adunque che possono esigere scambievolmente gli uomini, che vogliono comporre insieme una civile società, si è che sia adoperata la maggiore esattezza possibile nella divisione del potere civile: ma nulla più: e per la maggiore esattezza possibile non altro debbesi intendere che quella che risultar può dai lumi comunicati di tutti i membri, e messi a profitto mediante l' esame dei SavŒ universalmente reputati per forza di mente, per provetto consiglio, e per integrità. Qualunque adunque sieno per essere nella pratica esecuzione degli articoli sopra esposti le deviazioni dai medesimi , queste debbono essere sempre accordate dalla Assemblea dopo che è stato dimostrato: 1 che esse sono necessarie per l' ottima consecuzione del fine sociale, cioè pel comune vantaggio; 2 ch' esse sono le deviazioni menome che far si possano, dati i lumi suggeriti dalle persone, che concorrono nella società civile da istituirsi. La esecuzione del sopraesposto progetto viene pienamente giustificata, quando avendo tutti i sozŒ ampia facoltà di comunicare i loro lumi nessuno di essi ha saputo suggerire di meglio: suggerire cioè degli espedienti che più dappresso s' avvicinassero all' esecuzione delle basi sopra poste di giustizia, e che diminuissero le deviazioni necessarie dalle medesime. Egli è da questo ragionamento che risulta la consolante verità « che l' uomo amatore della giustizia non debbe punto atterirsi dallo stabilire delle regole difficili all' esecuzione, ma che tutto ciò che è giusto per difficile ch' egli sia debbe essere tratto alla luce, ed ampiamente e coraggiosamente esposto: giacchè, perciò che abbiamo detto, tuttociò che è giusto è altresì possibile: purchè l' equità sia quella che s' interponga quasi mediatrice fra esso e gli uomini nell' esecuzione: quell' equità che consiste nel concedere le menome deviazioni da quelle regole: e che coll' accrescimento dei lumi concede sempre meno; perchè ritrova ognora degli espedienti migliori che minorano indefinitivamente quelle deviazioni, e conducono la pratica sempre più vicina indefinitivamente alla teoria. » Riassumendo le cose dette, la Commissione presentò in un nuovo aspetto quella parte di progetto della società civile da istituirsi, che finora aveva presentato all' Assemblea, e che difendendo passo per passo avea fatto adottare dalla medesima. Fece osservare che le due rappresentazioni proposte, cioè la passiva e l' attiva, la prima delle quali corrispondeva alla specie di diritti che è comune a tutti gli uomini, l' altra a quella specie di diritti che è propria dei benestanti, erano d' un' indole totalmente diversa: la prima aveva per iscopo la sicurezza , o difesa dei diritti; la seconda la ricchezza o l' aumento dei diritti, i quali erano quei due scopi a cui finalmente tendeva ogni civile società. Mostrò come la sicurezza o la difesa dei diritti era cosa partenente alla giustizia , e come la ricchezza o l' aumento dei diritti era cosa appartenente all' utilità : giustizia dunque ed utilità erano i due scopi suddetti della società che si trattava di istituire. Un potere adunque che trovasse o difendesse dove che sia la giustizia, ed un potere che cercasse e procacciasse l' utilità, erano i due perni su cui si volgeva tutta la società civile, a quel modo che la Commissione aveva creduto di progettarla. Questi due scopi erano al tutto necessarŒ da conseguirsi, e per l' umana dignità il primo più necessario ancora del secondo: dunque i due poteri che presiedevano a questi scopi erano supremi tutti due, e tutti due dovevano coesistere. Il potere che presiedeva alla giustizia non poteva avere altra forma che quella d' un Tribunale: il potere che presiedeva all' utilità non poteva avere altra forma che quella di un' Amministrazione: un Tribunale politico adunque ed un' Amministrazione erano i due poteri supremi della società; erano le due parti essenziali del governo della medesima. Questi due poteri, queste due parti essenziali del governo, il Tribunale politico e l' Amministrazione, corrispondono ai due modi dell' esistenza umana, cioè al modo di esistere come essere morale e al modo di esistere come essere sensibile: l' uomo esiste in tutti e due questi modi contemporaneamente: la società dunque degli uomini non può che avere anch' essa due modi di esistere, cioè un modo morale, ed un modo materiale e fisico: essa debbe essere mezzo che armonizzi queste due esistenze dell' uomo, e che nel mentre che essa procaccia di fare la felicità di lui come essere sensibile, non lo deteriori come essere morale. L' esistenza morale dell' uomo riguardo alle cose esterne che possono essere oggetto della civile società, viene conservata nella sua integrità mediante la giustizia, e per ciò mediante un Tribunale politico che a questa presiede; l' esistenza sensibile dell' uomo viene conservata e migliorata da una saggia amministrazione dei suoi beni, e perciò anche da una Amministrazione sociale che regola la modalità dei medesimi. L' esistenza risulta da una forza: come adunque v' ha esistenza morale ed esistenza sensibile dell' uomo, così vi ha una forza morale ed una forza sensibile. La forza morale si manifesta nell' uomo dalla reazione ch' essa fa contro tutto ciò che tenta di deteriorare nell' uomo l' esistenza morale: la forza sensibile si manifesta nella reazione che fa a tutto ciò che tenta di nuocere alla sua esistenza sensibile: nella società giocano le stesse forze, e reagiscono in tutte le direzioni: fa dunque bisogno di regolarizzarle perchè non la turbino, e questa regolarizzazione s' ottiene coll' instituire due centri delle medesime, i quali possano agire regolarmente ed ordinatamente: e questi due centri delle due forze elementari dell' uomo e della società sono le due parti elementarŒ del supremo potere: Tribunale politico, centro della forza morale nella società: Amministrazione, centro della forza sensibile o fisica nella medesima: nel primo si esercita ordinatamente, ma colla sua maggior attività la forza morale; nel secondo si esercita colla sua maggior attività la forza sensibile o fisica. Ecco la società civile corrispondente ai bisogni indeclinabili della natura umana. Da ciò la Commissione ne trasse come conseguenza massima: che la maggior cautela dovesse essere conservata, perchè nel Tribunale, centro della forza morale, non si mescolasse di nulla la forza sensibile e fisica: e finalmente credette venuto il punto da presentare all' Assemblea il Progetto del detto Tribunale già precedentemente apparecchiato (Lib. I) il quale progetto diligentemente esaminato da una Giunta apposita e dall' Assemblea stessa, fu finalmente ammesso. L' articolo delle elezioni per la composizione del Tribunale, che si doveva discutere, tornava più difficile a stabilire, che quello sulle elezioni dei membri dell' Amministrazione, poichè per costituire un membro dell' Amministrazione si aveva un dato materiale, qual' era la ricchezza materiale che bastava verificare: all' incontro per eleggere un membro al tribunale politico, nella cui elezione non si doveva riguardare ad altri dati che alla virtù ed alla scienza, non si aveva nulla di esterno, che potesse prestare una certezza fisica, e che escludesse ogni controversia; per cui anzichè ai dati esterni conveniva rimettersi in tali elezioni all' opinione, o sia all' intimo senso degli elettori. Nulla di meno la ricognizione della ricchezza come titolo del diritto di rappresentazione attiva, o sia come titolo al potere amministrativo, ammetteva naturalmente molte frodi, ed eccitava infinite controversie, mentre tutti i benestanti aspiravano ad acquistar la maggior parte possibile del potere civile. Ciò vedendo la Commissione, e dalle dissensioni che nascevano assai chiaramente scorgendo che non era possibile di farli convenire fra di loro, anzi che avanzandosi le discordie minacciava di sciogliersi l' Assemblea senza far nulla, prese il partito di proporre all' Assemblea la seguente proposizione: « Sieno sospesi tutti i negoziati per instituire l' Amministrazione sociale, e si proceda prima all' instituzione del Tribunale politico, innanzi al quale ognuno potrà poscia presentare le ragioni ch' egli ha di partecipare al potere, o sia lo stato della ricchezza ch' egli possiede, e dietro la ricognizione che farà della medesima il Tribunale, ciascuno prenderà il posto che gli spetta nell' Amministrazione sociale. » Essendosi riconosciuta l' equità della proposizione si rivolse l' animo alla composizione del Tribunale politico, che si realizzò secondo il metodo preso dietro alle successive proposte della Commissione. La sola qualificazione che si richiedeva, secondo i principŒ posti, per essere membro del Tribunale politico, consisteva, dopo la libertà, in un grado universalmente riconosciuto come eminente d' integrità e di scienza. In tal modo l' uomo il più misero poteva essere sollevato a quella parte del supremo potere che consisteva in un tal Tribunale. Nè solo tutti i liberi, proprietarŒ e non proprietarŒ, potevano esser chiamati a questo genere di dignità: ma ben ancora questo Tribunale era fatto per tutti egualmente: proteggeva i diritti di tutti, ed in cospetto a lui tutti erano eguali. 1) Ciò premesso, gli elettori dei membri di questo Tribunale doveano dare il loro voto come uomini, e non come ricchi, o come forniti di qualche accidentale differenza dai loro simili; dovevano darlo come esseri morali, e in stretta coscienza, sotto il più grave giuramento. Ma quali dovevano essere questi elettori? Tutti quelli di lor natura che potevano considerarsi come esseri morali, tutti gli uomini giunti all' uso di ragione. Questa fu l' idea generale seguita dalla Commissione, e suggerita dalla natura del detto Tribunale. Ma nel tradurla in una legge fu cauta di non obbliare le relazioni naturali, che legavano insieme gli uomini, e dalle quali, in qualunque circostanza questi si trovassero, non potevano prescindere: che perciò dovevano conservarle anche nello stato di elettori dei membri al politico Tribunale. La legge adunque proposta dalla Commissione sugli elettori del Tribunale politico fu distinta negli articoli o paragrafi seguenti: 1 I voti sono tanti quanti gl' individui nella società: quelli che non sono in possesso dell' uso della ragione lo danno mediante i genitori, od i tutori, o i curatori. 2 Ciascuno che è ammesso a dare da sè il voto elettivo non può delegare alcun altro a questo ufficio, senza stretta necessità. 3 Tutti i capi di famiglia hanno il diritto e il dovere di dare il voto elettivo. 4 Le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei padri: i mariti danno, oltre al proprio, un voto per la moglie; ed i padri e le madri vedove oltre il proprio danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli di qualunque età sieno. 5 Dopo instituito il Tribunale le mogli ed i figliuoli non emancipati possono essere abilitati dal Tribunale medesimo al diritto di voto, quando ciò esigano per giuste cause contro i mariti ed i padri, o le madri vedove. 6 I servi hanno il diritto ma non il dovere del voto. Discutendosi il primo articolo di tal legge taluno disse che sembrava dover essere necessario negli elettori non solo l' uso della ragione, ma l' età maggiore. La Commissione osservò contro tale obbiezione che nell' uomo non si esigeva già egual grado di ragione per qualunque operazione ch' egli facesse: che coll' età maggiore veniva dichiarato abile ad amministrare il suo patrimonio: il che richiedeva maggiore cognizione e capacità che non sia a dare il voto di cui si tratta; poichè lo scopo di questi voti non è solamente quello di ritrovare le persone più scienziate e virtuose, ma oltre di ciò di trovare in particolare le persone più ben amate, le più benevole, le persone cioè che non abbiano particolari avversioni ed inimicizie: quindi il voto si debbe considerare anche come una dichiarazione, che la persona votata si riguarda come benevola e affezionata: su di che può recar giudizio chi che sia in possesso dell' uso della ragione. Fissandosi l' età maggiore per qualificazione dell' elettore si escluderebbero molti arbitrariamente di quelli che pur avrebbero diritto di votare, e la deviazione dalla rigorosa giustizia non sarebbe la menoma: non sarebbe dunque equa tale arbitraria esclusione. In conferma del secondo articolo la Commissione dimostrò il danno che ne avverrebbe, se si rendesse possibile di accumulare arbitrariamente molti voti in una stessa persona: accumulazione contraria all' intima natura della istituzione; poichè essa è basata sul principio che tutti gli uomini sono giuridicamente eguali; cioè che tutti gli uomini sono egualmente esseri morali. Il voto che si dà è fornito di tre caratteri, e fa tre ufficŒ diversi: 1 rappresenta l' essere morale , ossia i diritti essenziali dell' uomo; 2 esprime un giudizio sulla scienza e virtù dei candidati ed esprime insieme il desiderio , o affezione generale dei candidati: affezione che è il segno della mutua loro benevolenza; 3 finalmente è un atto di autorità e di forza morale, che ha le sue conseguenze esterne, nel modo onde segue l' istituzione. Ora egli è da tenersi qual principio fondamentale « che il perdere alcuno di questi tre effetti del voto senza ragione è dannevole alla società, e rende difettosa l' istituzione. » Ciò posto, se non s' impedisce l' accumulazione arbitraria dei voti, si vanno a perdere i due primi ufficŒ del voto e a guastare il terzo. In fatti il primo suo officio, come diceva, è quello di rappresentare l' essere morale , o sieno i diritti essenziali dell' uomo. Ora in quanto a questo officio egli è assurdo che un uomo possa dare due voti; mentre non è che un solo essere morale. Non è dunque possibile che un uomo deleghi un altro a dare il voto per lui; mentre qualunque voto desse questo secondo non sarebbe che l' espressione del proprio giudizio e non quello dell' altrui; egli è dunque necessario che ciascuno che dà il voto lo dia da se stesso; come è necessario che un uomo che pensa, pensi da sè stesso: e sarebbe assurdo affermare che si pensa per la ragione che v' ha un altro che pensa. Medesimamente il voto per delegazione non supplisce al suo secondo ufficio e in quanto a questo ufficio è pure di natura sua inalienabile. Questo voto riguardo al suo secondo effetto è un giudicio che si dà sui candidati. Ora il giudicio di una persona non può essere che uno. Quando io ho ricevuto da una persona il suo consiglio in un affare, è assurdo il pretendere ch' esso me ne dia un altro; mentre sarebbe pur un consiglio solo ripetuto due volte, e non mai due consigli. I voti adunque degli elettori sono tanti consigli o giudicŒ, e perciò niuno di essi può avere il diritto di darne più che un solo; perchè ha una mente sola, una volontà sola, ed è un uomo solo. Finalmente egli è vero che considerati i voti come meri atti di autorità si possono di loro natura accumulare, ciò che la Legge riconosce riguardo ai padri, ai mariti ed ai tutori. Ma questa accumulazione quando fosse arbitraria porterebbe alterazione nella Costituzione sociale; perocchè i ricchi potrebbero comprare in tal modo i voti dei poveri, e gl' ignoranti sacrificare se stessi alla altrui avidità: in tal caso il Tribunale politico non otterrebbe più il sacro suo scopo di opporre una forza morale agli abusi della forza fisica; di difendere cioè tutto ciò che è debole nella società contro tutto ciò che in essa è forte. Il terzo articolo incontrò opposizione in ciò che parve aggravarsi di un peso i capi di famiglia coll' obbligarli a dare il voto. Ognuno, fu detto, debbe poter rinunziare quand' egli voglia al proprio diritto. Rimane forse offeso qualcheduno perchè altri rinunzia al diritto che possiede? Se alcuno rinunzia al proprio diritto, gli altri lungi dal perdere ne guadagnano; perocchè approfittano del diritto abbandonato. Ma quelli che così parlavano non si accorgevano, come fece osservare la Commissione, che non si trattava di una società civile a quel modo ch' ella si trova instituita presso varŒ popoli, in cui vi fossero già delle persone che s' incaricassero di tutte le incombenze che la società civile porta con sè, sicchè il resto dei cittadini ne rimanesse al tutto scarico. Nella società civile all' incontro che volevasi instituire era necessario, che fosse stabilito parimenti fra i membri un corpo di persone che assumessero sopra di sè, come dovere, le incombenze della medesima, perchè queste non fossero lasciate ad arbitrio, o commesse alla ventura. Che riguardo a quest' incombenza particolare di eleggere il Tribunale politico era necessario di stabilire un corpo di elettori stabile: ed era necessario che questi s' obbligassero a ciò: affinchè per una continua titubanza nel numero e nella qualità degli elettori la società stessa non perisse, o almeno il Tribunale politico riuscisse a non essere più l' espressione della volontà di tutti, ma l' espressione della volontà casuale di pochi. In questo secondo caso egli potrebbe fors' anco esistere il diritto, giacchè col non venire all' elezione di molti, questi si rimetterebbero tacitamente al volere dei pochi, quando ciò fosse da principio accordato: ma egli non esisterebbe veracemente di fatto: egli non potrebb' essere nè amato nè venerato; giacchè per esserlo, tutti i cittadini debbono veder in esso l' opera propria. Finalmente che cosa si cerca in tal' elezione? si cerca forse l' instituzione di un Tribunale solamente? non già, ma si cerca di ottenere l' instituzione del Tribunale il più sapiente, il più integro, il più ben voluto, il più autorevole, il più rispettabile. Questo si può egli ottenere, se non mediante il parere della maggior parte al meno della nazione? se adunque vengono a mancare dei voti dei padri di famiglia, vengono a mancare insieme dei lumi per ciò ottenere: vengono a mancare dei pareri e dei voleri; viene a mancare insomma parte dell' opinione pubblica. Ciò nuoce di certo allo scopo dell' instituzione: si rende adunque necessario che la società non sia privata dei voti dei capi di famiglia, e questo è un obbligo che si debbono assumere dal punto che vogliono unirsi in una società civile equamente ordinata, altrimenti sarebbero in contraddizione con se stessi. Si domandò che cosa dovevasi intendere per capo di famiglia; e dopo varie proposte fu convenuto, di estendere la definizione del capo di famiglia a qualunque persona libera che non fosse soggetta all' autorità paterna o materna, maritale, o tutelare o curatoria. 1) Maggiore dibattimento cagionò il quarto articolo, col quale si escludevano dal dare il loro voto a parte le mogli ed i figliuoli, perchè si consideravano i voti di questi compresi in quelli dei mariti e dei padri; e si dava all' incontro al marito il voto della moglie, al padre i voti dei figliuoli. Le ragioni di questo articolo altre riguardano la prima parte, ed altre la seconda del medesimo. Cominciando dalla seconda parte essa dice, che i mariti « oltre il proprio, danno il voto per la moglie, ed i padri, oltre il proprio, danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli. » Il voto, considerato come un atto d' autorità, spiega questa seconda parte, supposto la prima ammessa: poichè non conveniva che una famiglia numerosa avesse un solo grado di potere (giacchè un atto d' autorità è un grado di potere) come una famiglia formata da una sola o da due persone. Poichè nella famiglia numerosa vi sono tanti più diritti da difendere e da rappresentare quanto è maggiore il numero delle persone che la compongono. Perchè adunque gli uomini fossero trattati con quella eguaglianza che richiede la natura della istituzione conviene che i voti stieno in ragione del numero delle persone componenti la famiglia. Si oppose che i padri poveri, i quali non hanno da alimentare i loro figliuoli, non debbano avere il vantaggio di dare i voti pei medesimi. Ma si osservò ancora che ciò che dava al padre simil diritto era l' esser padre, e non l' esser ricco: e che come la società civile non poteva fare che non fosse padre, così non doveva neppure negare al medesimo ciò che nasceva dalla sua paternità; il pieno diritto sopra i suoi figliuoli. La prima parte dell' articolo quarto diceva: « che le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei genitori. » L' opposizione esagerò il pericolo, che i padri e i mariti abusassero di tale autorità, disse che riunendo nei padri e nei mariti i voti dei figliuoli e delle mogli si privava la società di un maggior numero di consigli; e si accumulava in un solo uomo, cioè nel capo di casa, troppa autorità ed inadatta, perchè il Tribunale doveva essere costituito anche contro gli abusi della potestà paterna, e della maritale; che si deviava con ciò dal principio che rispetto a questo Tribunale tutti gli uomini fossero uguali, giacchè con tale accumulazione di voti si considerava il padre fornito di più voti, ed i figliuoli privi di tutti. Ma la Commissione all' incontro: Non si debbe intendere nel modo degli opponenti il principio che il Tribunale considera gli uomini tutti eguali. Questa uguaglianza comincia solo allora che due parti vengono fra di loro in discordia: prima di questo tempo le persone nulla hanno a fare col Tribunale; ed elle sono rispetto al medesimo come se non fossero. Il Tribunale adunque non altera punto le relazioni naturali fra gli uomini: e se li suppone eguali ciò è nel solo punto della discordia, innanzi cioè che si sappia a cui delle due parti appartenga il diritto conteso. Se dunque il Tribunale non altera punto le relazioni naturali degli uomini, che pacificamente si riconoscono e si conservano; ma solo interviene allorquando accade che qualche punto non sia riconosciuto o venga messo in questione, sarà da vedere quale naturale e riconosciuta relazione soglia trovarsi tra i genitori ed i figli, tra le mogli ed i mariti; e secondo il detto d' un savio antico, ciò che è naturale dovrà cercarsi non già nella depravazione, ma anzi nella integrità della natura. 1) Ora considerata l' indole della famiglia non depravata, noi troveremo la volontà dei figliuoli essere al tutto indivisa da quella dei padri, e la volontà delle mogli essere al tutto indivisa da quella dei mariti. E` l' amore che di più volontà ne forma una sola: e questo amore non solo è naturale, ma ben anche è doveroso. La società civile adunque debbe riconoscerlo, la società civile debbe sancirlo: egli è uno stretto dovere del figliuolo di convenire fino agli estremi della onestà col volere dei suoi genitori, come è un dovere della moglie di uniformarsi al volere del marito. D' altro lato i genitori, come fu già osservato, hanno sopra i loro figli un diritto, non già arbitrario, ma tuttavia illimitato, cioè che dalla parte dei figli non ha coazione reattiva. Se dunque viene istituito il Tribunale per tenere nei suoi doveri gli stessi genitori, questo tuttavia non viene ad istituirsi che mediante la ragionevolezza degli stessi genitori: questi sono quelli che da un prudente timore della propria fragilità sono indotti a sottomettersi a un Tribunale: prendendo nel tempo di calma una tale risoluzione, che può raffrenarli nel tempo dell' agitazione, e contenerli dagli eccessi. Egli è dunque conforme alla natura della cosa che i voti dei figliuoli sieno dati dai padri, il qual discorso, sebbene non si possa applicare con tutto rigore alla condizione dei mariti, perchè le mogli hanno almeno il diritto sulla propria vita, tuttavia può applicarsi in parte per la strettezza del nodo maritale. Che se i padri ed i mariti operando contro la loro naturale relazione tiranneggiassero i figliuoli e le mogli, questi dopo l' instituzione del Tribunale potrebbero secondo il quinto articolo far riconoscere dal medesimo la propria causa ed acquistare il diritto di voto separato: poichè in questo caso di disunione comincierebbe l' azione del Tribunale, e dall' istante che comincia quest' azione le persone legate insieme diventano relativamente alla medesima uguali. Egli è vero che ciò non può aver luogo nella prima instituzione del Tribunale, nel qual tempo il Tribunale ancora non esiste a cui richiamare; ma questa piccola irregolarità, di natura sua inevitabile, non è che una di quelle deviazioni che si fanno dalla rigorosa giustizia per mezzo della equità, la quale, come dicevamo, è la sola giustizia pratica. La proposizione all' incontro fatta dagli opponenti, che i padri raccogliessero i voti dei loro figliuoli ed i mariti quel delle mogli, costituirebbe e autorizzerebbe legalmente una falsa posizione dei padri rispetto a' figliuoli, e dei mariti rispetto alle mogli: perocchè i figliuoli che vedono costantemente il padre aver bisogno de' loro voti, si formerebbero e con ragione, un' idea di eguaglianza fra sè ed il padre, e la moglie fra sè ed il marito, mentre l' idea che i figliuoli debbono avere del padre è, come dicevamo, quella di una superiorità, arbitraria no, ma sì illimitata: cioè tale che non vi sia nessun caso in cui essi credano: d' avere all' esterno qualche diritto, qualunque egli sia, indipendentemente dal padre: e così pure l' idea che la moglie debbe formarsi del marito si è di un' autorità amorevole, dalla quale essa non avvenga che mai dissenta in nessuna delle esterne relazioni. Coll' introdurre adunque nella famiglia un tal simbolo di eguaglianza fra il padre ed i figliuoli, la moglie ed il marito, si altererebbe la costituzione naturale della famiglia, si introdurrebbe in essa una eguaglianza costitutiva in luogo dell' eguaglianza giuridica: e l' elemento democratico, che nel Tribunale politico debbe apparire soltanto in quel punto che nascendo una discussione o dissensione fra due parti, queste debbono comparire al suo cospetto per riceverne la sentenza, ciò che è quanto dire, che debbe comparire soltanto nelle accidentali irregolarità, si trasporterebbe e pianterebbe nello stesso corso regolare alterando in tal modo l' ordine legittimo e naturale. A mal grado di tutto questo ragionamento il principio che fosse meglio prevenire i disordini anzichè emendarli dopo avvenuti, faceva impressione sull' Assemblea, e la inclinava dalla parte degli opponenti; giacchè pareva che col dare a' figliuoli ed alle mogli un voto separato, si evitasse l' abuso che potevano fare i mariti ed i padri della loro autorità. Per il che la Commissione, movendo da più alti principŒ il suo discorso: Pretenderete voi, disse, di esser più savŒ o più potenti dell' autore della natura, il quale stabilendo l' autorità paterna e la maritale le ha fatte di una tanta estensione di quanta voi essere la scorgete? si è egli trattenuto dal concedere ai padri ed ai mariti tanta autorità quanta essi hanno pel timore che ne facessero abuso? E se a malgrado del pericolo che v' era di questo abuso, tale e tanta la diede loro, non è ciò segno che doveva più giovare assai questo forte grado di autorità, che non nuocere tutta quanta la possibilità degli abusi? sì, nuocono gli abusi: ma nuoce anche diminuire il grado dell' autorità di cui s' abusa: conviene ricercare quale più nuoca. Dio l' ha deciso: ha permesso gli abusi anzi che togliere l' autorità. Questa l' ha lasciata in tutta la forza del suo diritto: quelli li ha raffrenati con una legge morale, ma non giuridica. Imitate dunque l' autore della natura. Potrete anzi non imitarlo? avrete autorità di derogare a ciò che egli ha stabilito? Non sapete voi che contro alla legge naturale tutta la legislazione umana è nulla e irrita per sè stessa? Orsù accingetevi della vostra autorità, e fate se potete, che il padre non sia padre, e il marito non sia marito. Se voi convenite insieme di dichiararli decaduti dai loro diritti, la vostra dichiarazione arbitraria varrà al più al più fino che voi vivrete: i padri ed i mariti che succederanno dopo di voi, riprenderanno il loro potere, e non si crederanno, con ragione a dir vero, obbligati ad una disposizione arbitraria dei loro precessori. Introducendo adunque una tale disposizione contro natura nella costituzione della società, non fareste che render fragile questa costituzione, e di una esistenza momentanea, come è momentaneo l' arbitrio degli uomini, mentre dovete procacciare di renderla ferma e stabile quanto è stabile la natura. Non gettate adunque nella costituzione sociale quei semi che fruttano la dissensione fra i vostri posteri e le turbazioni dello Stato. Per quello che voi dite, che i mali si debbono anzi prevenire che emendare dopo avvenuti, questo è vero fino che si può: ma havvi un limite oltre al quale non si può. Vorreste voi prevenire i mali col fare voi stessi dei mali, o almeno coll' occasionarne degli altri in futuro? Ecco il limite che aver debbe la vostra proposizione, che sia meglio prevenire colle istituzioni i mali, che emendarli dopo avvenuti. Le istituzioni sociali, che non hanno di lor natura altro scopo che di prevenire i mali, sono eccellenti; perchè lo scopo loro è lodevolissimo, e tali sono le leggi, ed i Tribunali criminali. Ma quando si vuol piegare al fine di prevenire i mali quelle istituzioni che di loro natura hanno anche un altro scopo, allora si va bene spesso a pericolo, che volendo con queste ottener due fini, non se ne ottenga nè pur uno, e che lusingato l' autore di quella instituzione da questo fine accessorio di evitare tutti i mali che l' instituzione può nel suo andamento produrre, perda interamente di vista lo scopo stesso della instituzione. Le instituzioni civili di questo secondo genere sono tutte quelle che si propongono di regolare i diritti scambievoli degli uomini pel massimo vantaggio possibile dei medesimi. Il maggior vantaggio possibile che ciascuno può trarre dai suoi diritti è lo scopo naturale di tale instituzione. Ora se il legislatore troppo minuto o troppo materiale in luogo di tener sempre fisso col pensiero questo scopo si ferma ad ogni istante a considerare tutti i pericoli possibili che l' instituzione trae seco, e se vuole a tutti mettervi un riparo, egli avverrà indubitatamente che un poco alla volta leghi i diritti di tutti gli uomini, ed anzi continuamente li diminuisca e li distrugga; perocchè non v' è nè pure un diritto che non porti seco il pericolo del suo abuso. Le instituzioni di un tale legislatore riescono tutte false: alterano tutta la naturale posizione degli uomini, e la società civile acquista un organizzazione complicata, e tutta angustiata da vincoli inesplicabili; le leggi si moltiplicano immensamente senza necessità; perocchè ciascuna legge ne chiama delle altre all' infinito, giacchè nel mentre ch' essa vuol rimediare ad un disordine, contorce il naturale stato delle cose, e ne produce infiniti altri. Questo disordine nell' organizzazione sociale, questa falsità nelle istituzioni si scorge da per tutto dove la società sia caduta in una grande corruzione. In tal caso la corruzione sociale strascina lo stesso legislatore, per quanto avveduto egli sia, a delle instituzioni totalmente false; perocchè non v' ha uomo d' ingegno, che posto in una posizione falsa, non sia costretto di fare dei passi falsi. Nella società corrotta gli abusi che gli uomini fanno dei loro diritti si rendono assai frequenti, sì che chiamano con gran forza a sè il legislatore; la loro frequenza arriva a segno che se non viene compressa, minaccia di sovvertire la stessa società, ed è allora il caso che richiama a sè la principale sollecitudine del legislatore: allora è il caso in cui il legislatore concentra il suo studio nel prevenire mediante le sue instituzioni gli abusi, e crede di aver toccato l' apice della sapienza politica, quando è arrivato a persuadersi che il suo ingegnoso ritrovato soddisfi a questo fine. Egli è però impossibile che vi soddisfi pienamente; perciocchè quel mezzo ingegnoso con cui egli ha pensato di ovviare ai disordini, quelle sue instituzioni, che ha tutte ad un simile fine ordinate, sebbene partano dal principio che gli uomini per cui sono fatte sieno cattivi, tuttavia non possono mai supporre una perversità illimitata; tutta la loro lode consiste nell' esser formate da un uomo esperimentato che ha saputo ben conoscere fino al fondo gli uomini del suo tempo, e che ha vedute e calcolate tutte le loro malizie. Non poteva però vedere né immaginare quelle malizie che gli uomini non avevano ancora inventate, giacché il germe che produce tali frutti è di una fecondità inesausta. Egli è per questo che non v' ha istituzione o legge che non possa essere ben presto elusa da un maggior grado di corruzione. Ed egli è da attribuirsi a questa crescente corrutela in gran parte il continuo assottigliarsi dei politici dei nostri tempi, ed il continuo mutar di sistema, condotti da una speranza che continuamente gl' inganna, di giungere all' invenzione di un' organizzazione sociale, che antivegga e preoccupi tutta l' umana perversità. I sistemi politici foggiati su tale principio relativi al tempo in cui sono fatti, ed al grado di corruzione di cui sono arrivati i loro autori a formarsi l' idea, durano un breve tempo, cioè fino che subentra una politica ancora più diffidente, la quale o si rende odiosa, se gli uomini prendendo un andamento favorevole alla moralità trovino infine di vivere sotto instituzioni che li superano nella malignità, ovvero diventa inutile se procedendo gli uomini nella malizia lasciano a dietro in questo miserabile corso la legge che li governa. Ma intanto, come diceva, che le leggi e le istituzioni politiche sono unicamente occupate nel prevenire i mali eventuali che può opporre contro di esse la umana perversità, insensibilmente si snaturano e perdono di vista totalmente lo scopo sostanziale della loro esistenza. Vorrete voi rimediare ai mali eventuali dell' unione maritale? Se soverchiamente siete di ciò solleciti, stabilirete il divorzio, ecco snaturata l' unione maritale. Volete voi prevenire tutti i mali dell' abuso dell' autorità paterna? legherete le mani al padre: ed ecco snaturata la relazione fra padre e figlio. Se un Maestro insegna ai suoi discepoli una scienza, v' è il pericolo ch' essi deferendo troppo alla autorità del maestro apprendano più colla memoria che coll' intelletto. Voi eviterete questo male se ordinerete che ciascuno debba imparare da se stesso senza maestro; ma nello stesso tempo renderete ignoranti tutti gli uomini. Vi dà soverchio timore che il Generale abusi del suo potere sull' esercito? Se voi farete un' instituzione che metta disunione o diffidenza delle armate verso i loro generali distruggerete l' effetto delle militari ordinanze. Il ricco può abusare delle sue ricchezze: prescrivetegli l' uso ch' ei ne debbe fare: voi avete violato il diritto di proprietà: si può dire la stessa cosa analizzando tutti i diritti grandi e piccoli, che sono in mano degli uomini, perchè non ve n' ha alcuno di cui essi non possono abusare. E` dunque da osservare diligentemente qual sia la natura delle instituzioni sociali. Sono esse tali che determinano in se stesse la relazione che hanno gli uomini fra di loro, e determinandola la corroborano, ed è egli questo il loro scopo? In tal caso non si debbono esse contorcere e guastare per ovviare agli abusi a cui sono soggette tali relazioni per altro naturali degli uomini: esse si debbono lasciare intatte, sicchè sieno espressioni fedeli di dette relazioni naturali, e non si alterino punto: e quando ci sia il caso per levare gli abusi delle medesime, si debbono attorniare di altre instituzioni rivolte a questo fine particolare senza che guastino quelle e le contraffacciano. Generalmente parlando adunque sono da distinguere le instituzioni sociali, le quali contengono un' espressione fedele dei diritti naturali, ed hanno per iscopo la prosperità dei medesimi, dalle instituzioni sociali, che sono rivolte unicamente a prevenire i disordini: questi due scopi di far fiorire i naturali diritti fra gli uomini e di prevenirne i disordini, non si debbe congiungerli insieme, non si debbe pretendere di conseguirli con un solo genere di instituzioni, mentre è ben raro che un' instituzione sola possa conseguire ambidue questi scopi, e di solito conviene proporsi di conseguire il primo scopo, cioè quello che sostiene e fa fiorire i diritti naturali degli uomini con un genere di instituzioni, le quali si potrebbero nominare stabilitive: e di conseguire il secondo scopo, cioè di evitare gli abusi dei diritti umani, con un altro genere a parte d' instituzioni le quali si potrebbero chiamare preventive e repressive , che sono d' un carattere totalmente diverso dalle prime. Le instituzioni false dunque nascono allorquando si contorcono le instituzioni stabilitive 1) dal naturale scopo di far fiorire e di dar risalto, anzichè di reprimere i diritti degli uomini, ad ottenere lo scopo proprio delle instituzioni preventive o repressive; cioè a prevenire i delitti degli uomini. Egli è vero, come diceva, che quando la società trovasi estremamente corrotta, il legislatore è costretto di fare delle instituzioni false; 1) è costretto di confondere quei due generi d' instituzioni in un solo: quei due scopi delle medesime in un solo; cioè in quello tendente colla repressione degli abusi a salvare la società. Egli è costretto a ciò perciocché le instituzioni stabilitive sono di loro natura non solo inutili per una tale società, ma ben ancora nocevoli: conciossiacchè esse danno risalto ai diritti degli uomini, e dando risalto ai loro diritti non fanno che accrescer loro le occasioni di abusarne. In una tanto deplorabile posizione gli uomini vengono ad essere giovati coll' esser privati dei loro beni: ed è il tempo in cui la tirannia si proclama come la benefattrice del genere umano! Le instituzioni false esprimono o suppongono che gli uomini sieno in relazioni false fra loro: se gli uomini non hanno fra loro queste false posizioni, le instituzioni false a poco a poco ve le introducono; se queste relazioni false già vi sono fra gli uomini, esse producono a vicenda le false instituzioni e le false leggi. La schiavitù antica era una falsa relazione fra gli uomini: essa doveva produrre tutte quelle false leggi e quelle false instituzioni, che si rendevano necessarie per farla fiorire e per invigorirla: quelle che mettevano in salvo il padrone dalla disperazione dei suoi schiavi: quelle ancora che dalla morte degli schiavi autorizzavano di cavare dei giuochi e delle pubbliche ricreazioni. Non v' ha nessun falso diritto, o sia nessuna falsa relazione degli uomini fra di loro che non abbia portato in conseguenza delle false instituzioni e delle false leggi. All' incontro delle false leggi e delle false instituzioni producono sempre delle relazioni false fra gli uomini, se essi vivono per lungo tempo soggetti alle medesime; ma rare volte sono durevoli, mentre quando la instituzione non va d' accordo colle relazioni fra gli uomini, se questi hanno qualche energia nel loro carattere, si ribellano alle medesime e le distruggono: ed è questo che vi diceva quando avvertiva, che portando voi l' eguaglianza costitutiva nelle famiglie colla legge proposta fareste una instituzione che non poteva durare a lungo, e che avrebbe portato il turbamento nella società, giacchè nissuna instituzione fondamentale viene mutata senza scossa: ma la società stessa vien tirata nella rovina della instituzione che si vuol distruggere fino che sulle proprie rovine di bel nuovo si costruisca. Egli è vero, lo ripeto, che i legislatori sono costretti a delle istituzioni false, allorquando la società è estremamente corrotta; in tal caso tutta l' attenzione del legislatore viene tratta a difendere la società dal suo esterminio, e non a costruirla a norma della sua naturale perfezione: a quello stesso modo che la regola di vita migliore per la salute dell' uomo, nel suo stato naturale, non può esser già quella che si usa con un uomo corroso in più parti da fare cancrene. Ma, se tali instituzioni, che si possono dir false ogni qualvolta si applicano a regolare una società di uomini nel suo stato naturale e non nello stato di corruzione, sono in quest' ultimo stato necessarie, esse però non possono giammai essere che temporanee, cioè fin che dura il morbo della società, il quale nelle nazioni cristiane non è incurabile giammai, conciossiacchè il carattere proprio di queste nazioni è quello di essere sanabili. 1) Ora io spero che non si tratti di fare fra di voi una instituzione temporanea, ma costante com' è l' umana natura. Lo stato di questa gente che si vuole insieme associare non è già quello di corruzione sociale; ma è uno stato di natura in cui gli uomini non sono legati insieme per falsi vincoli: in cui la ragione non è ottenebrata da vizŒ, o non è per una somma ignoranza impotente: 2) in cui finalmente l' onestà e la giustizia non sono voci vane che si usino come mezzi ad ingannare od a tradire, ma sono voci che parlano al cuore di tutti, mediante le venerande idee che in quelli risvegliano. Se adunque i mariti ed i padri abusano della loro autorità, questi abusi non possono essere che accidentali e minori di numero dei casi in cui non abusano: questi casi dunque particolari di abuso non danno diritto alla società civile di legare la stessa autorità (ciò che d' altronde far non potrebbe validamente) ma lasciando quella sussistere, danno il solo diritto di ovviare gli abusi con delle instituzioni particolari ed a tal fine appositamente ordinate. Se delle instituzioni costituissero l' autorità dei padri e dei mariti in un modo diverso da quello che tale autorità è costituita dalla natura, queste sarebbero instituzioni false: cioè sarebbero instituzioni, stabilitive , ossia che stabiliscono una relazione fra gli uomini, le quali si rivolgerebbero ad un altro scopo diverso da quello della loro natura, allo scopo vale a dire di ovviare gli abusi della detta relazione fra gli uomini e così si snaturerebbero, mentre per ottenere un tal fine verrebbero a stabilire la detta relazione fra gli uomini in un modo diverso da quello che la stabilisce la natura: si allontanerebbero in tal modo dal fine proprio per conseguire il fine delle instituzioni di un altro genere cioè delle instituzioni preventive e repressive . Ad ovviare dunque gli abusi dell' autorità paterna e maritale debbono rivolgersi delle instituzioni apposite, le quali non apportino un colpo sopra dette autorità, la cui natura in somma consiste appunto nell' essere preventive e repressive, senza essere stabilitive, o almeno senza stabilire nissuna relazione falsa fra gli uomini, e queste nel caso nostro sarebbono il diritto dato ai figliuoli ed alle mogli di richiamarsi dei loro torti al Tribunale ogni qualvolta li soffrono, e più ancora tutte quelle instituzioni morali che rendendo buoni i padri ed i mariti, li mettono in istato di usare bene il loro potere, seguendo con ciò l' indicazione della natura che ha lasciato questo potere in tutta la sua pienezza dalla parte delle persone soggette, ed all' incontro ha dato ai padri ed ai mariti la legge naturale per moderarlo. Egli è dunque inconveniente e contro la natura delle cose stabilire che il padre abbia il dovere di raccogliere i voti dai proprŒ figliuoli, ed il marito di prenderlo dalla moglie: poichè la natura dei figliuoli richiede che la volontà loro sia quella del padre, e la congiunzione maritale rende il marito capo della moglie: tutto ciò che succede contro queste relazioni non può formare l' ordine, ma non sono che eccezioni dell' ordine. Nè per questo debbesi ridurre ad un voto solo tutti i voti della famiglia, perocchè le famiglie verrebbero costituite con una sproporzione fra di loro; sproporzione cioè di forza politica, mentre il voto, come dicevamo, è anche di sua natura un atto di autorità e quindi un mezzo di difesa. Egli è per questo che si è stabilito il principio, che tanti sieno i voti quante sono le persone componenti la società: al quale coll' articolo che discutiamo non si deroga punto; ma anzi questo articolo non fa che stabilire il modo onde convenevolmente si riduca alla pratica il detto principio: modo che fa sì che si consideri ciascun membro della famiglia compreso virtualmente nel padre, e che perciò in tempo che si riconosce nell' unica volontà del padre tutte le volontà dei membri della famiglia, si fa sì che quest' unica volontà si ripeta per dire così in tanti atti autorevoli, o sia in tanti voti, quanti sono i membri nella famiglia. Dileguate le difficoltà intorno all' articolo quarto, l' articolo quinto dovea venire ammesso come una conseguenza od un perfezionamento del medesimo. Ma diede occasione di maggior dibattimento l' articolo sesto, le ragioni del quale erano le seguenti: Non si potea dare ai padroni il voto dei servi, come si era dato ai padri quello dei figliuoli, o ai mariti quello delle mogli; perocchè mentre questi due vincoli, cioè il paterno ed il maritale, avevano per loro base essenzialmente l' amicizia, il vincolo all' incontro di mera servitù non aveva di sua natura altra base che la utilità: quindi non portava per conseguenza della sua natura che la volontà del servo ordinariamente fosse inchiusa in quella del padrone; anzi piuttosto che fossero due volontà opposte. Oltre di ciò la società paterna e maritale è così stretta che di più esseri se n' ha uno solo, mentre la società che ha il padrone col servo non consiste essenzialmente in alcuna comunanza d' interessi, ma piuttosto in una contrarietà dei medesimi: il vincolo paterno e maritale è tanto fondato in natura che dopo fatto la volontà umana nol può più rompere, il padre nè pur volendo può cessar d' essere padre; mentre il vincolo signorile dipende dall' umana volontà, e il padrone può emancipare quand' egli vuole il suo servo che si rimane d' esser servo. Se dunque è assurdo che l' autorità umana intervenga nei diritti fra padre e figlio, non è ugualmente assurdo ch' ella intervenga nei diritti fra padrone e servo, mentre la volontà dell' uomo può mutare questi, ma non quelli. Le ragioni adunque dell' articolo quarto dove si tratta dei padri e dei mariti non possono applicarsi all' articolo sesto dove si tratta di padroni; e la società debbe ammettere i servi stessi a votare, e se sono mariti anche per le mogli, se sono padri anche per li figliuoli. Non è però necessario che i servi sieno obbligati a dare il loro voto, sì perchè può essere che per essi sia più vantaggioso il non darlo, giacchè tale funzione consuma loro un tempo prezioso se l' hanno in libertà, sì perchè se non l' hanno in libertà, ma l' hanno obbligato a loro padroni, essi non possono disporne, ne possono con facilità aver chi li rappresenti. Finalmente essi non sono necessarŒ, giacchè la società ha un numero di elettori costante e determinato nei padri di famiglia liberi. D' altro lato il caso dei servi non può essere che temporaneo in una società civile cristiana; ed una delle prime cure della medesima, quando sarà instituita, debb' essere di pensare ai modi prudenti onde far passare i servi gradatamente dalla condizione servile a quella di mercenari. Prevedendo la Commissione che in quelli, nelle cui mani veniva a riporsi la pubblica autorità, potevano facilmente entrare dei falsi principŒ per non conoscere ben a fondo le basi su cui si veniva erigendo la civile società, si avvisò di fare adottare il principio del diritto politico imperscrittibile , consistente in questa proposizione: « La rappresentazione politica dei diritti è imperscrittibile. » Essa ben conosceva che ciò che poteva turbare l' ordine sociale si era l' alterazione che poteva esser fatta nella rappresentazione politica dei diritti, non già tanto per prepotenza dei più forti, quanto per un sofisma che facilmente illude le menti dei governanti, e che consiste appunto nella troppa sollecitudine di ovviare ai disordini possibili la quale come era stato dimostrato nella sessione antecedente conduce a fare delle false instituzioni. E che cosa è altro questo sofisma che quello studio che tanto riscalda le menti dei politici per trovare un equilibrio fra i poteri dello Stato? Questo problema che così posto è insolubile, e quando anche fosse solubile non sarebbe che per un istante, per l' istante cioè che dura l' artificioso equilibrio; non ha importanza se non supposto che il principio che debbe determinare la costituzione sociale debb' essere unicamente quello di ovviare a tutti i possibili disordini della medesima: ma la costituzione appartiene alle instituzioni stabilitive, ed il fine proprio delle instituzioni stabilite non è già quello di evitare i disordini ch' esse stesse producono, ma bensì di stabilire le vere relazioni fra gli uomini. Ed in vero, se si vuole che una istituzione si cauteli contro la propria azione, la propria azione dunque è diversa dall' azione con cui si cautela, e questa viene dopo di quella: questa perciò non debbe nè mutar nè distrugger quella. Se dunque volendo dare la costituzione ad uno Stato si propone per iscopo principale di evitare i disordini ch' essa stessa genera, si cade in una specie di contraddizione, e in uno strano circolo; e si va ad alterare l' indole naturale della costituzione facendo ch' essa invece di una instituzione stabilitiva qual debb' essere, diventi una costituzione preventiva o repressiva, quello che non debbe essere, ed in tal modo essa riesce la più mostruosa cosa, e non ottiene il suo fine, nè il fine che si è usurpato, appartenente ad altre instituzioni al tutto d' altra natura dalla sua. Il falso principio adunque che quella sia la costituzione migliore della società, la quale prevenga tutti i mali della propria azione, è quello che produce tante assurde costituzioni degli Stati, ed è quello da cui la Commissione temette con ragione che potesse venir alterata quella forma di società ch' essa avea disegnata, come la più equa e la più perfetta. Condotta da questo timore fece osservare all' Assemblea che conveniva fino d' allora determinarsi a seguire, nel ripartimento dell' autorità politica, l' uno o l' altro dei due principŒ, cioè o seguire il principio della rappresentazione de' diritti, il quale d' altro lato era stato abbracciato dall' Assemblea; o vero lasciando al tutto simigliante principio costituire un governo sopra questo altro principio che fosse quello la cui forza per la divisione ingegnosa della medesima in diverse persone ovviasse al maggior segno gli abusi possibili di se stessa. Noi siamo persuasi, disse la Commissione, che lo scopo di questo secondo principio non si può conseguir meglio che conservandosi perpetuamente fedeli al primo; ma non a tutti parrà così. A costoro pertanto sembrerà che talora possa esser più utile se si devia dalla più rigorosa rappresentazione di tutti i diritti, e che senza badar alla medesima, il solo principio dell' equilibrio dei poteri debba servir di regola a fare od a riformare la costituzione dello Stato. Voi dunque dovete esaminare con diligenza l' opinione di questi Signori, che tali due principŒ sieno diversi fra loro, e che convenga meglio tenere per unica regola il secondo anzi che il primo, affinchè dopo costituito lo Stato non siate forse condotti a fare delle riforme che alterino le prime basi su cui è costituito, o per dir meglio non siate costretti a distruggere ciò che avete edificato, e ad edificare di nuovo. Vi faccio pertanto osservare che l' applicazione del principio dell' equilibrio dei poteri o sia quello d' una costruzione della società, che antiveda tutti gli abusi, non può dipendere che da un calcolo conghietturale di quegli uomini politici ai quali fosse commessa la formazione della società dietro tali principŒ. Il loro calcolo poi è conghietturale, tanto più che precede l' esperienza, e solo questa potrebbe dare al medesimo una prova di qualche valore. Già che dunque si tratta d' un calcolo di estrema difficoltà per li molti elementi, che in sè racchiude, e per la mancanza dell' esperimento, questo non può che riuscire vario, secondo le diverse menti calcolatrici. Havvi però di più. La estrema difficoltà di un tal calcolo debbe far conoscere a priori ch' egli non può essere che adattato a pochi ingegni, e non, di certo, argomento in cui si possa esercitare con isperanza di riuscita la maggior parte degli uomini. Ciò posto ne verrà che nella costruzione della Società civile la maggior parte degli uomini non potrà proferire veruna sentenza; ma dovrà sottomettersi ciecamente a ciò che determinano i pochi sapienti, che sono co' loro intelletti al livello dell' argomento. Nel caso adunque che vorreste adottare un tal principio egli è certo che la maggior parte di voi dovrebbe ritirarsi al tutto dalla deliberazione, ed abbandonare al giudizio dei pochi ingegni più eminenti tutti i vostri interessi. Ma siccome io credo che non v' indurreste giammai a farlo, così pure io non vedo in qual modo si potrebbe convenire nel definire quali sieno questi ingegni più eminenti, mentre ognuno vorrebbe forse esserlo od apparire. E tuttavia supponiamo che l' ingegno si potesse misurare colla canna, e fosse fissata una misura per la menoma grandezza degl' ingegni prescelti a tant' opera: questi ingegni, come dicevamo, non converrebbero fra loro od almeno non avrebbero dovere di convenire, perocchè essendo il calcolo puramente congetturale, nissuno potrebbe dimostrare all' altro con evidenza, che il proprio calcolo va bene e il suo è errato. Il perchè rimarrebbe indeciso quale dei diversi progetti di società si dovesse seguire; e volendone pur seguire alcuno, non si potrebbe che chiamare giudice la sorte. Nondimeno quando ancora questi sapienti convenissero nell' abbracciare un progetto solo, non si avrebbe, come diceva, che un tal risultato di cui nessuno saprebbe il vero valore pratico; mentre nè l' esperienza lo ha provato, nè v' ha ragione di credere, come cosa certa, che l' ingegno di quei politici sia d' una forza proporzionata alla difficoltà dell' argomento; mentre che gl' ingegni sono al tutto accidentali, ed i più o meno forti nascono a caso, e non dipendono punto dalla volontà degli uomini. Ma ciò che merita più osservazione in tale ipotesi si è, che quando ancora ottenuto s' avesse che la maggiorità sottomettesse il proprio giudizio nella instituzione della Società civile, che è quanto dire sopra tutti i proprŒ interessi, alla opinione di alcuni pochi uomini di ingegno, il che non sarà mai; allora si potrebbe dire, che essa si sarebbe già di fatto sottomessa a quei legislatori; e nelle loro mani abbandonata. Quegli uomini, a cui è commesso il progetto di società, non sono solamente forniti di un forte ingegno pel quale certo sarebbero più atti degli altri a trovare la verità; ma sono ancora circondati da tutte le passioni umane: non sono pure menti, sono anch' essi uomini forniti degli stessi interessi degli altri, che desiderano le stesse cose e subiscono le stesse tentazioni. Oltre dunque il dubbio che può ragionevolmente cadere sul grado di forza dei loro ingegni, la comunanza degli uomini dovrebbe assicurarsi della loro volontà. E chi la assicura che nel progetto di società che propongono alla medesima, non abbiano provveduto almeno altrettanto al bene di sè stessi, che a quello della società? Dall' istante che la comunanza degli uomini nell' instituire la Società civile prende una strada così difficile, ch' essa stessa non può seguire quei pochi che la percorrono, essa si è interamente abbandonata all' arbitrio dei medesimi. Ma di più, nel caso che voleste organizzare la Società civile secondo questo principio, quale disposizione d' animo non dovreste voi tutti avere? Voi dovreste esser disposti a commettervi interamente all' altrui direzione. Nel caso che seguiate il principio della rappresentazione politica, siete voi stessi quelli che vi governate; perocchè ognuno di voi ritiene, se l' ha, trapassando alla Società civile, la modalità dei proprŒ diritti, e non fa che amministrarla in comune, mentre prima l' amministrava in separato. Nel caso all' incontro che abbandoniate questo principio, molti di voi debbono spropriarsi della modalità dei proprŒ diritti per metterla in mano di quelli che fossero scelti al governo, costruito secondo il progetto della utilità o dell' equilibrio dei poteri. Io vorrei sapere in tal caso chi di voi dovrà essere spogliato della modalità e chi dovrà ritenerla: vorrei sapere come vi accorderete insieme su questo punto: vorrei sapere come potrà essere utile l' introdurre arbitrariamente questa disuguaglianza nella Società civile: vorrei sapere qual garanzia verrebbe data a quelli che venissero spogliati della modalità dei proprŒ diritti da quelli che la ricevessero da amministrare; e perciò vorrei sapere come si possa progettare un governo capace di ovviare agli abusi, dall' istante che questo governo si diparte dalla rappresentazione politica, il quale dipartirsi è per se stesso un aprire il varco agli abusi, mentre si spoglia una porzione degli uomini della modalità dei proprŒ diritti, per accumularla in mano d' un' altra porzione; mentre in somma molti membri della società si rendono debili, e si danno in balìa di altri resi forti col pretesto di renderli utili. In somma dall' istante che nell' instituzione della Società civile si abbandona il principio della rappresentazione politica , la Società civile non si instituisce più sullo stato di natura; ma si dà agli uomini uno stato arbitrario per instituire sopra il medesimo la civile società pure arbitraria: in tal caso il principio delle instituzioni sociali è l' arbitrio. Egli è vero che si dice, che un tale arbitrio è sapiente e rivolto all' utilità; ma quando anche ciò potesse essere, non si potrebbe provare: un' asserzione sarebbe quella che farebbe passare questo arbitrio per sapiente; una negazione egualmente lo renderebbe stolto: poichè non è ingiuria negare gratuitamente ciò che gratuitamente si afferma. Intanto il principio dell' arbitrio è fecondo, come dimostra l' esperienza, di infinite costituzioni, le quali hanno la vita d' un giorno, cioè durano fino che sorga un altro uomo che abbia l' audacia di spacciarsi per saggio, di negare la precedente costituzione, e di asserirne una seconda. Non vale già il dire, che la massima di fare una costituzione immune dagli abusi è un principio evidentemente buono. Certo: e noi non lo neghiamo. Diciamo solo, che questo non è un principio fecondo se non di chimere: diciamo che egli non è un principio determinato; diciamo che l' adottare questo per unico principio determinante la costruzione sociale è lo stesso, che abbandonare la formazione della medesima all' arbitrio degli uomini; mentre tal principio non può dare che dei risultati congetturali o almeno dei risultati, le prove dei quali non sono a portata del comune degli uomini, intorno ai quali perciò questi bisognerebbe che credessero all' asserzione altrui, il che è propriamente commettersi all' altrui arbitrio. Diciamo perciò ch' egli è necessario per formare la società ricorrere ad un principio più determinante, e capace della necessaria pubblicità, capace d' essere inteso e discusso da tutti, mentre tutti hanno degli interessi da difendere in tale società, e mentre nessuno di quelli che ha degli interessi può essere obbligato dalla legge morale ad entrare ad occhi chiusi nella convenzione la più importante di tutte quale è la convenzione sociale civile, la quale diventerebbe impossibile se gli uomini che vi debbono entrare non fossero in caso d' intenderne le condizioni. Finalmente diciamo che è appunto il principio della rappresentazione politica quel principio luminoso suscettibile della maggiore pubblicità, perchè nissun uomo mediante di esso fa una convenzione inintelligibile, ma sa ciò che fa; e perchè esclude l' arbitrio determinando la parte che tocca a ciascuno del civile potere. Infatti il principio dell' utilità pubblica o dell' equilibrio dei poteri è difficile, perchè mette a calcolo tutte le forze sociali tutte insieme prese, senza aver riguardo alle individualità: il principio all' incontro della rappresentazione politica è facile, perchè nella sua applicazione non racchiude già un calcolo del tutto, ma piuttosto risulta da altrettanti calcoli quanti sono gl' individui. Ciascun individuo che entra nella società, secondo tal principio costituita, non ha già da pensare al tutto, ma solo alla convenzione particolare che egli fa cogli altri uomini; egli vede subito se tal convenzione è giusta od ingiusta, se gli è utile o gli è dannosa: sa ciò che mette e sa ciò che riceve. All' incontro nella società costituita secondo il principio dell' utilità l' individuo che vi entra sa ciò che mette, ma non sa ciò che riceve: egli vede che è spropriato della modalità dei proprŒ diritti; ma egli non è in caso di calcolare il vantaggio che gli viene promesso in compenso; perocchè questo vantaggio gli è promesso come un effetto di tutta la macchina ingegnosamente composta; macchina che va senza di lui, e che è così complicata per la moltitudine delle sue parti che gli riesce impossibile di calcolarne l' azione; ma che però vede essere quest' azione di una forza irresistibile quando prendesse una direzione contro di lui. Finalmente la società civile instituita mediante il principio della rappresentazione politica, edifica senza distruggere: la società civile costruita col principio della utilità distrugge prima, come vi diceva, lo stato di natura in cui siete presentemente, per edificare tal cosa di cui nessuno può prevedere con sicurezza le conseguenze. Or via s' ammetta, che sì coll' uno che con l' altro principio s' instituisca la civile società: lo scopo è il medesimo: mediante quale dei due sistemi s' ottiene tale scopo con una azione minore? Certo con quello della rappresentazione politica: poichè le mutazioni che voi andate a subire per questo sistema le vedete tutte entro confini determinati. All' incontro dove sono i confini del sistema dell' utilità? egli non ne ha veruno. La sua azione è infinita come l' arbitrio: egli suppone, che far si possa una riforma dopo l' altra nella società fino all' infinito, senza però mai sapere di certo se si sia andati avanti o indietro. Dovendo dunque voi fare una mutazione di cui l' esito vi fosse incerto per ottenere un fine, qual' è l' instituzione della società, non sceglierete voi quella che contenga il minor pericolo? E quale conterrà il minor pericolo se non quella che esige una mutazione minore, e che ottiene lo scopo con una azione minore? Tutti s' accordarono pertanto a queste ragioni, che non era prudente d' introdurre una grande alterazione nelle cose, mentre l' esito non poteva esser certo. Che d' altro lato nessuno nè voleva nè poteva esser costretto di rinunziare alla modalità dei proprŒ diritti, e alla parte che questa gli dava diritto di avere nella civile autorità: quindi si confirmava, che la rappresentazione politica già precedentemente adottata, era irrevocabilmente il principio secondo cui doveva la società stessa instituirsi. Quando sia così, proseguì la Commissione, egli è necessario altresì di riconoscere come questo principio sia il più sacro di tutti quelli che esistono nella società civile come tale, perocchè è il principio che determina il modo di esistere della medesima. Siccome la società civile non può esistere che in un dato modo, così il suo modo proprio d' esistere è altrettanto rispettabile quanto la sua esistenza: ed è solamente ciò che indica il modo onde la società civile può esistere quello che dà la esistenza alla società. Ora il principio della rappresentazione politica non è altro che un' attribuzione di diritti ai membri della società, cioè consiste in quella massima « che ogni diritto abbia nella società civile una rappresentazione conveniente e possibile. » Dunque un tal diritto che ricevono i membri della società civile mediante la sua istituzione è così necessario, come è la società stessa, e sarebbe al tutto contradditorio, che si volesse la società, e che si riconoscesse nel tempo stesso potervi aver un caso in cui un diritto dei suoi membri venisse privato della rappresentazione che a lui sarebbe conveniente e possibile. E` necessario adunque dichiarare che la rappresentazione politica è un diritto imperscrittibile ed inalienabile: cioè a dire che chi possiede nello stato di natura la modalità dei diritti debba anche possedere il corrispondente potere: e non debba verificarsi verun caso in cui il potere civile sia scompagnato dal possesso naturale della modalità. L' obbiezione che alcuni fecero, che prima di dichiararsi un tal diritto imprescrittibile bisognava fare la dichiarazione dei diritti dell' uomo naturali, diede occasione alla Commissione di stabilire la distinzione fra il diritto politico ed il diritto naturale, e fra l' imprescrittibilità politica e la imprescrittibilità naturale. La Commissione dimostrò che la comunanza degli uomini, o la civile società dopo instituito il governo, poteva bensì dichiarare validamente i diritti politici imprescrittibili: ma non poteva all' incontro dichiarare validamente i diritti naturali imprescrittibili, ma solo riconoscerli. Supponiamo disse, che la comunanza degli uomini facesse una dichiarazione de' diritti naturali imprescrittibili. Che forza avrebbe tale dichiarazione? quella stessa che avrebbe una carta su cui un uomo qualunque, od anche un fanciullo, avessero scritti quelli che fossero secondo la loro opinione diritti naturalmente imprescrittibili. L' essere scritti o non scritti non toglie né aggiunge autorità a tali diritti, poichè essi ne hanno tanta che non ne possono aver di più; è così ferma che non può essere diminuita. Se la carta riferisce i diritti quali sono, sarà una buona memoria per chi l' ha scritta: se non riferisce i diritti quali sono, non vale nulla: e quando venisse a sostenerla la forza, ciò non sarebbe che un atto di tirannia. La dichiarazione dunque dei diritti naturali dell' uomo fatta dall' autorità civile è inutile, ma bensì l' autorità civile debbe riconoscere i detti diritti e dirigere secondo i medesimi la sua condotta. La differenza fra il riconoscerli e il dichiararli si è che nel primo caso ella fa un atto di sommissione e nel secondo di autorità: e per ciò le conseguenze di questi due atti sono diverse: nel primo caso, ciascun uomo che sia in grado di farlo può recare in mezzo dei lumi che rischiarino la natura di tali diritti: nel secondo caso, sarebbe un delitto parlare contro diritti dichiarati già dalla società; giacchè la dichiarazione di diritti suppone i diritti certi, e l' autorità, che li ha dichiarati, infallibile. Il potere civile dunque non debbe già arrogarsi di essere l' autorevole maestro degli uomini: non debbe innalzarsi ad una sfera che a lui non appartiene; ma lasciare il magisterio della verità morale ad una società morale, ad una società di diversa natura dalla sua, cioè alla Chiesa cristiana, che è la maggiore autorità in simil genere di cose. Egli è vero che le disposizioni civili della società s' appoggiano sui principŒ morali e sui diritti naturali; ma è vero altresì che questi sono anteriori a lei, e da lei indipendenti; essa dunque, rispetto a questi debb' essere discepola e soggetta, non maestra e sovrana. Se poi per dichiarazione di diritti s' intende un promemoria mutabile che si fa da sè ciascuno dei suoi membri o un promemoria di ciò in cui tutti convengono, non contendo di parole: questa dichiarazione sarebbe ciò che io intendo per ricognizione, sarebbe ancora la scienza modesta di un discepolo, e non la sentenza di un' autorità. Dove adunque comincia il magisterio, dove l' autorità del civile potere? Comincia con se stesso: egli ha l' intrinseca autorità e necessità di parlare di se stesso, di dichiarare che sia, e quali diritti e doveri provengano da lui agli uomini. Or egli appunto esiste con un diritto che vien dato agli uomini. Dal momento che questi convenuti insieme dicono: I nostri diritti abbiano una rappresentazione conveniente e possibile, la società civile è formata: questo è quel fiat che la crea. Dunque essa è in necessità di dichiarare imprescrittibile questo primo diritto della rappresentazione politica, tanto quanto è in necessità di esistere, ed ecco quale sia la dichiarazione dei diritti che può fare la comunanza, o la società civile degli uomini; ecco qual sia il diritto politico, dal quale comincia il civile potere. Dopo ciò la Commissione, riassumendo quanto fin qui aveva fatto l' Assemblea, propose alla medesima la seguente Dichiarazione dei diritti politici imprescrittibili dei membri della Società civile. «Il diritto imprescrittibile consiste nella rappresentazione politica dei diritti conveniente e possibile. Art. 1 Ogni uomo ha diritto di dare il voto nella elezione del Tribunale politico. Art. 2 Ogni uomo ha diritto di ricorrere al medesimo. Art. 1 I mercenarŒ hanno diritto d' essere rappresentati nell' Amministrazione sociale in corpo. Art. 2 I benestanti hanno diritto d' essere rappresentati individualmente. Art. 3 La rappresentazione è in ragione della ricchezza materiale, fissando il menomo a quel tanto che è necessario pel mantenimento d' un uomo. La proposta dichiarazione fu ammessa ad unanimità. » Gli elettori stabiliti dalla dichiarazione dei diritti politici (Tit. I art. I) formarono il Tribunale politico a maggioranza di voti. La forma di questo Tribunale, per non dilungare qui il leggitore dall' idea generale della società civile regolare, fu da noi anticipata e descritta nel Libro Primo di quest' opera; dalla quale descrizione apparisce maggiormente la reale possibilità del medesimo. Intanto anche le basi qui dettate sono tali, pare a noi, a cui non si può ripugnare, perchè dedotte dalla rettitudine, e non possono aver contro di esse se non se quella ripugnanza, e quasi incredibilità, che gli uomini portano a cosa che loro par nuova: ma ciò che abbiamo detto all' Art. XI debbe provare a qualunque uomo sia ragionevole, che il piano che proponiamo non è una chimera; mentre v' ha un modo di eseguirlo con quell' approssimazione che ivi abbiamo descritto, che è ciò che richiede appunto quella equità che si può dire a giusto titolo la perfezionatrice della giustizia. Proseguiamo dunque lo sviluppo del medesimo piano, torniamo all' ipotesi della nostra Assemblea, ed alla instituzione che supponiamo fatta dalla medesima, secondo gli ordini voluti dall' equità. Il primo lavoro adunque del Tribunale politico si fu di preparare la via alla formazione dell' Amministrazione sociale, coll' instituzione della quale si compiva l' instituzione della società. Giacchè per la dichiarazione dei diritti politici (Tit. II articolo 3) la rappresentazione amministrativa doveva essere in ragione della ricchezza materiale, il Tribunale politico passò a riconoscere successivamente lo stato di tutti gli individui e di tutte le famiglie, e a tal fine fece le seguenti operazioni. 1 Fece un ruolo di tutte le persone, le quali non potevano dimostrare di possedere dei fondi nè esercitare verun' arte mercenaria. 2 Fece un ruolo di tutte le persone che non avendo fondi esercitavano però un' arte mercenaria che dava loro un sufficiente mantenimento, e fornì le medesime di un brevetto, che le collocava nella classe dei mercenarŒ, e dava loro i diritti politici annessi a questa classe. 3 Finalmente rilevò la sostanza in fondi di tutti i benestanti sulle prove da loro offerte, e consegnò loro pure il brevetto della ricognizione di ciò che possedevano. 1) Con queste tre operazioni fatte dal Tribunale politico venivano determinati i diritti politici di tutti i membri della società. Si trovarono distinti quelli che non possedevano altri diritti politici se non la rappresentazione dei diritti dell' uomo; quelli che oltre la rappresentazione dei diritti dell' uomo avevano ancora la rappresentazione dei diritti reali, ma non essendo questi diritti in fondi, ma nell' opera delle loro mani, l' avevano solo in corpo, e non in individuo quali erano i mercenarŒ; e finalmente quelli, che possedendo dei fondi avevano la rappresentazione dei diritti reali completa quali erano i benestanti. Or dovendo venire alla reale formazione dell' amministrazione, s' incontravano necessariamente molti ostacoli, ed i principali erano i seguenti: 1 Se l' amministrazione avesse ricevuto realmente nel suo seno tutti i benestanti, i quali avevano diritto di entrarvi e di più i delegati del corpo dei mercenarŒ, essa sarebbe divenuta così numerosa che non avrebbe potuto senza confusione, o almeno senza una dannosa tardità, spacciare gli affari. 2 Di poi, ciò supposto, non si vedrebbe modo di rendere il peso dei voti di ciascheduno proporzionale alla ricchezza posseduta. La Commissione, per non confondere l' Assemblea, si restrinse a far osservare alla medesima solo la prima delle due difficoltà sopraddette, e in conseguenza di essa a dimostrare la necessità di restringere il numero degli amministratori. Di che venendo riconosciuto il bisogno evidente, propose come unico mezzo di evitare sì grave inconveniente, che i benestanti ed il corpo dei mercenarŒ non amministrassero già da sè stessi, ma mediante dei loro abili ministri o delegati forniti dei loro poteri e delle loro instruzioni, i quali potevano essere ridotti a quel numero discreto che meglio convenisse alla più spedita ed alla più utile amministrazione degli affari. La proposta di un' Amministrazione delegata ricevuta da principio con favore, aveva poscia eccitato le più gran difficoltà nell' Assemblea, la quale s' era disciolta senza ammetterla nella sessione precedente. Tali difficoltà nascevano perchè sembrava generalmente impossibile, che delegandosi un piccolo numero di persone rispetto a tutti quelli che avevano diritto di entrare nella amministrazione, potesse conservarsi la proporzione fra la forza del voto e la ricchezza. In che modo, si diceva, un delegato il quale rappresenta per necessità molti proprietarŒ di diversa fortuna potrà sostenere così la piccola proprietà come la grande? egli è costretto di trattare la causa di tutto il corpo che rappresenta: nella collisione perciò delle grandi colle piccole proprietà egli non abbandonerà mai quelle per sostener queste; mentre se fossero due i rappresentanti l' uno per esempio piccolo proprietario e l' altro grande, le due cause sarebbero trattate in separato; e sebbene il voto del piccolo proprietario sarebbe più debile, tuttavia unito ad altri piccoli proprietarŒ potrebbe sostenersi anche contro i proprietarŒ più forti, laddove se sì l' uno che l' altro vien rappresentato da un solo delegato questi non potrà giammai essere in contrasto con se stesso, e non potranno perciò formarsi quelle alleanze che sono appunto ciò che garantisce il piccolo contro il grande della società. Tali ragioni erano forti ed erano state prevedute dalla Commissione, la quale nel suo progetto si era proposta di evitare tutte le due summenzionate difficoltà, e s' era riservata di rispondere ai timori dell' Assemblea col progetto che avrebbe presentato nella prossima sessione. Venuta adunque la sessione presente, cominciò dallo stabilire un limite ossia una somma menoma di rendita, la quale considerar si potesse come l' unità nella rappresentazione amministrativa; e ciò a tenore della dichiarazione dei diritti politici. (Tit. II art. 3). Dimostrò che bisognava prendere per quest' unità un termine basso più che si poteva; poichè dovendosi trascurare tutte le frazioni, cioè tutto ciò che era minor di quel termine; questa deviazione dalla rigorosa giustizia doveva esser la minima che si potesse, e l' Assemblea convenne di fissare questo termine alla somma di lire cento. 1) Dimostrò in secondo luogo che ciascun mercenario, qualunque fosse il suo guadagno, si doveva supporre che portasse a lui nè più nè meno di lire cento annuali; perocchè essendo questa la somma menoma, onde si stimi che possa un uomo ordinariamente vivere, qualunque cosa il mercenario guadagna, nulla più guadagna del vitto, che viene ad essere appunto rappresentato nella somma di lire cento. Infatti qualunque sia il guadagno d' un mercenario o lo consuma nel proprio mantenimento o lo mette in fondi. Se lo mette in fondi, egli trapassa ben presto alla classe di benestante; giacchè qualunque suo fondo che gli renda più di cento lire, lo rende anche benestante. Se all' incontro ciò che guadagna lo consuma, egli è alla stessa condizione di quello, rispetto alla ricchezza materiale, che vive con cento lire di entrata; mentre alla fine della giornata, del mese, o dell' anno, ciascuno ha consumato tutto, e sì dell' uno che dell' altro si può dire egualmente, che il loro avanzo è nullo: e che il loro fondo produce il puro vitto senza crescere nè calare. Ciò premesso, la Commissione passò ad indicare il modo, ond' ella credeva che si potesse passare alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la prenotata difficoltà. Disse che conveniva che si congregassero in altrettante Assemblee separate secondo i gradi della ricchezza; che questi gradi potevano essere determinati così: Tutti quelli che possedevano dalle cento fino alle lire mille d' entrata formavano un' Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle lire mille di entrata fino alle dieci mila formavano la seconda Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle dieci mila lire fino alle cento mila lire d' entrata formavano una terza Assemblea. I possessori di cento mila lire d' entrata fino ai possessori d' un milione, formavano una quarta Assemblea. I possessori d' un milione fino ai dieci milioni di lire d' entrata formavano la quinta Assemblea; e così via, se vi fossero persone individuali o morali che possedessero maggior somma. Nella prima Assemblea ogni cento lire si aveva un voto; e il più che una persona potesse avere erano nove voti; tali erano quelle che possedevano dalle novecento fino alle mille lire. Nella seconda Assemblea le mille lire davano un voto; e il maggior numero di voti, che una persona aver potesse era quello di nove; tali erano le persone possidenti dalle nove mila fino alle dieci mila lire d' entrata. Similmente nelle tre altre Assemblee un voto corrispondeva sempre a maggior somma; nella terza a diecimila, nella quarta a centomila, nella quinta a un milione di lire d' entrata, e il maggior numero di voti che una persona in tutte queste Assemblee potesse avere, era medesimamente nove: tali erano le persone che nella terza Assemblea avessero un' entrata dalle novanta fino alle cento mila lire; nella quarta quelle che avessero un' entrata dalle novecento mila lire fino a un milione, nella quinta quelle la cui entrata fosse dai nove fino ai dieci milioni. Ora vedete a che poco nell' ordinamento di tali Assemblee si riduca la irregolarità o deviazione dalla teoretica giustizia; cioè quanto poca sia la proprietà che rimanga senza rappresentazione; ed anche quella poca vi rimane, perchè non è veramente capace del diritto di essere rappresentata. Osservate in fatti che in qualunque fortuna anche enorme, la ricchezza che rimane senza rappresentazione è sempre minore delle lire cento. Supponete in fatti un proprietario di mille e cinquecento lire d' entrata: questi apparterebbe alla seconda Assemblea. Egli è bensì vero che non può avervi che un voto; poichè i voti in tale Assemblea equivalgono a mille lire; ma egli colle sue cinquecento lire ha diritto ancora di farsi rappresentare nella prima Assemblea e di farsi rappresentare con cinque voti; perchè in essa il numero dei voti equivale al numero delle centinaia di lire. Laonde questi non resta senza rappresentazione se non per quella frazione che avesse fra le mille cinquecento e le mille seicento lire. Così parimenti colui che avesse un' entrata di 12 .350 lire entrerebbe nella terza Assemblea con un voto, nella seconda con due voti, e nella prima con tre voti, e ciò che resterebbe senza rappresentazione non sarebbero che le cinquanta lire, le quali non sono rappresentabili, perchè non arrivano a formare il mantenimento di un uomo. Nel medesimo modo ancora colui che avesse d' entrata 123 .450 lire, egli entrerebbe con un voto nella quarta Assemblea, con due nella terza, con tre nella seconda, e con quattro nella prima; e ciò che rimarrebbe anche qui non rappresentato sarebbero le sole lire cinquanta. Finalmente supponiamo che una persona traesse annualmente d' entrata dai suoi fondi 1 .234 .550 lire: questa comparirebbe con un voto nella quinta Assemblea, con due nella quarta, con tre nella terza, con quattro nella seconda, con cinque nella prima e di tutta la sua grande fortuna rimarrebbero necessariamente sole cinquanta lire non rappresentate; giacchè formano una frazione dichiarata irrappresentabile. Distribuiti in tal modo tutti i cittadini che hanno diritto all' amministrazione rappresentativa in altrettante decurie secondo i loro beni di fortuna, e secondo questi assegnato loro il numero proporzionato di voti, ecco in qual modo si potrebbe procedere alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la difficoltà che l' Assemblea ha saviamente preveduto. La prima Assemblea ogni dieci voti, ossia ogni decina di centenaio elegge un delegato alla seconda Assemblea. In fatti dieci voti nella prima Assemblea suppongono la corrispondente somma di mille lire: e mille lire equivalgono ad un voto della seconda Assemblea. La seconda Assemblea parimenti ogni dieci voti elegge un delegato della terza Assemblea; perocchè dieci voti della seconda Assemblea rappresentano dieci mila lire; che equivalgono appunto ad un voto della terza Assemblea. Allo stesso modo ogni dieci voti della terza Assemblea essa ha diritto di eleggere un delegato alla quarta Assemblea; poichè dieci voti della terza Assemblea rappresentano cento mila lire, e cento mila lire è appunto un voto nella quarta. Finalmente ogni dieci voti che la quarta Assemblea abbia in sè medesima, essa manda un delegato nella quinta; perocchè dieci voti della quarta Assemblea, supponendo un milione d' entrata, danno appunto il diritto di aver un voto nella quinta. Vediamo adesso un poco quanta sia l' irregolarità dalla giustizia teoretica, che ammette un tal piano in tale esecuzione pratica quale da noi fu descritta. Ciò che nell' ultima Assemblea rimane privo di voto è tutto ciò che rimane al di sotto di un milione; ma egli è da osservarsi che la somma al di sotto di un milione esercitò però la sua forza nella quarta Assemblea; come nella terza influì quanto stava al di sotto di cento mila; nella seconda quanto stava al di sotto di diecimila e nella prima quanto stava al di sotto di mille. Così parimenti se noi imaginiamo una sesta Assemblea, nella quale ciascun voto rappresenti dieci milioni: egli è vero che rimarrebbero nove e più milioni nella nazione senz' essere rappresentati direttamente in essa: ma questi sono stati tuttavia rappresentati quando si trattò dell' elezione di quest' ultima Assemblea, ed hanno esercitata tutta l' azione che potevano esercitare. D' altro lato la non rappresentanza nell' ultima Assemblea di questi nove milioni non porta nissuna disuguaglianza politica fra i cittadini; poichè questi nove milioni non appartengono già a questa o a quella famiglia determinata, ma solo a tutta la nazione, e perciò in questi nove milioni, non rappresentati, ciascun cittadino ha una rata per così esprimermi proporzionata, sicchè, nessuno sconcio ne nasce alla politica proporzione. Stabilite queste basi, noi vedremo subito quanti saranno i componenti dell' ultima Assemblea, cioè della Delegazione dell' Amministrazione sociale , che viene ad essere la suprema magistratura della nazione. Suppongo che la somma di tutta la rendita rilevata dal Tribunale Politico ascenda a quattro miliardi di lire. Or questi darebbero quattrocento delegati nazionali, ciascuno dei quali rappresenterebbe dieci milioni di lire di rendita. Ecco pertanto formata l' Amministrazione delegata, esistendo la quale sarebbe già instituita la civile società, o sia ridotta alla sua attuale esistenza. Ora considerate di grazia come la formazione di una tale Amministrazione delegata eviti lo scoglio da voi temuto, che le piccole fortune sieno dalle grandi oppresse senza che abbiano nella società alcuna voce distinta. Nel piano proposto le fortune sono tutte distinte l' una dall' altra secondo la loro grandezza mediante i voti. I componenti la prima Assemblea, o sia i voti della medesima, rappresentano tanti proprietarŒ tutti eguali di cento lire l' uno. Il delegato che questi mandano alla seconda Assemblea non rappresenta già fortune di diverse specie, ma rappresenta fortune tutte eguali, giacchè rappresenta una decina di voti della prima Assemblea. Così il delegato che la seconda Assemblea manda alla terza non rappresenta allo stesso modo che fortune eguali, cioè dieci stati tutti di mille lire l' uno: parimenti non vi ha delegato nella quarta, nella quinta, e finalmente nella sesta Assemblea ch' egli rappresenti contemporaneamente grandi e piccole fortune, ma tutte d' una stessa misura le rappresenta. Rimane solo da avvertire primamente che se egli v' avesse taluno nell' ultima assemblea il quale possedesse egli solo i fondi necessari per ritrarre l' entrata dei dieci milioni, egli sarebbe membro della medesima, come rappresentante il proprio, e non come delegato delle Assemblee antecedenti. In tal caso l' Assemblea dei quattrocento, cioè quella che amministra realmente la società, verrebbe ad esser mista, cioè composta parte di rappresentanti di beni proprŒ, parte dei delegati delle Assemblee precedenti, i quali non sono che ministri delle Assemblee stesse. La Commissione propose « che ciascuna Assemblea fosse riconosciuta nelle proprie attribuzioni indipendente dall' altra. » Questa era una conseguenza della imprescrittibilità politica già adottata. In fatti l' imprescrittibilità politica consisteva nel riconoscere annesso ad ogni diritto posseduto dall' uomo nello stato di natura un diritto di rappresentazione nella società civile, il quale doveva essere inviolabile come la stessa società e qualunque attentato contro di lui diventava un delitto di lesa sovranità. Perciò ognuno nel modo di farsi rappresentare nell' Amministrazione rimaneva perfettamente libero a differenza della rappresentazione passiva, il primo diritto della quale, cioè il diritto di elettore al Tribunale, era nello stesso tempo un dovere a cui si obbligavano i padri di famiglia. Nella rappresentazione all' incontro attiva, essendo questa un diritto che non aveva nessuna relazione colla giustizia verso gli altri, ma che conteneva solo una utilità propria, ognuno rimaneva libero di esercitarlo o non esercitarlo, sebbene nessuno poteva alienarlo, appunto perchè l' alienazione sarebbe un contratto invalido trattandosi d' un diritto imprescrittibile. Le Assemblee adunque dovevano rimaner libere nella elezione dei deputati da mandarsi alle Assemblee più elevate, sebbene l' Assemblea più elevata potesse citare al Tribunale politico l' Assemblea meno elevata per negligenza nel mandare i deputati, ogni qualvolta potesse provare che ciò fosse nocevole ai suoi membri: non ammettendo il Tribunale petizioni quando non fossero presentate da un accusatore interessato nella causa. Ciascuna Assemblea inferiore dunque aveva essenzialmente ed imprescrittibilmente i seguenti diritti: 1 Di mandare il numero di delegati, che a lei apparteneva secondo la legge, all' Assemblea prossimamente superiore: e questi delegati poteva sceglierli a suo piacimento, a quel modo stesso che un padrone può scegliere i suoi servi. 2 Di fare il contratto con questi delegati secondo le condizioni da convenirsi fra essa e il delegato, e da esprimersi nel mandato del medesimo: condizioni che potevano riguardare: a) Le istruzioni date al medesimo intorno al modo di eseguire il suo ufficio; b) Il tempo della delegazione in quanto può stare in arbitrio dell' Assemblea; c) Lo stipendio da assegnarsi al delegato. Le cause fra il delegato e le Assemblee sono di competenza del Tribunale politico. Così pure ciascuna persona (morale ed individuale) che potesse dimostrare d' essere realmente danneggiata dal delegato, come sarebbe nel caso, in cui si potesse provare o la intenzione di nuocere col suo potere o il tradimento contro l' Assemblea nell' esercizio del potere ricevuto, può richiamarsi al Tribunale politico ed ottenere la mutazione del delegato. Ogni Assemblea inferiore debbe eleggersi un Ministro, le cui attribuzioni sono le seguenti: 1 di convocare l' Assemblea nei casi prescritti dalla legge; 2 di essere l' organo permanente dell' Assemblea medesima. La Commissione propose, che conveniva stabilire i casi in cui le Assemblee inferiori si dovessero convocare, e fu adottata sopra di ciò la legge seguente: 1 L' Assemblea debb' essere convocata ogni qualvolta muore un suo delegato all' Assemblea superiore per rieleggerne un altro. L' Assemblea superiore è obbligata di dar la notizia della morte al Ministro dell' Assemblea inferiore, il quale appena ricevuta debbe proclamarne la convocazione. 2 Il Ministro debbe pure convocare l' Assemblea ogni qualvolta spira il tempo della delegazione assegnato ad un delegato, perchè sia fatta una nuova elezione. 3 Debbe convocarla ancora ogni qualvolta gli sia dimandata da una maggiorità de' voti componenti l' Assemblea. 4 Finalmente è obbligato di convocarla ogni qualvolta un membro della medesima ottiene dal Tribunale politico, per cagione dei proprŒ interessi, un decreto di convocazione. I membri invitati dal Ministro all' Assemblea, che non compariscono, dichiarano con ciò di assentire ai comparenti: e tuttavia possono essere citati al Tribunale politico se la loro assenza sia pregiudicievole. Rimanevano le difficoltà sull' instabilità dei rappresentanti nelle Assemblee, giacchè il diritto di rappresentazione nelle medesime doveva sempre conservarsi in equilibrio colla ricchezza materiale: la quale è soggetta a continui mutamenti. Ma la Commissione aveva indebolita anche questa difficoltà col principio stabilito, che la giustizia teoretica doveva nelle sue applicazioni pratiche dar luogo all' equità; e tutti gli uomini erano obbligati dalla stessa giustizia a declinare alquanto dal proprio diritto rigoroso, quando ciò era necessario, perchè i diritti di tutti potessero avere contemporaneamente luogo. Essa dunque credette, che si potessero ottenere le deviazioni menome mediante una legge sui mutamenti del numero dei voti a ciascuno appartenenti, esposta nel modo seguente: 1 Ognuno al quale scemino le sue fortune può ricorrere quand' egli voglia al Tribunale politico, perchè gli sia scemata la rappresentazione politica corrispondente. 2 Ogni persona morale o individuale può far una causa simile verso un' altra persona, a cui sieno scemati i beni di fortuna. 3 Ciò che è detto nei paragrafi precedenti per lo scemamento delle fortune, vale anche per il loro aumento; e perciò ciascuno, dato quest' aumento, può domandare per sè o per altri l' aumento corrispondente di rappresentazione politica. 4 L' Assemblea ha diritto e dovere di domandare una nuova ricognizione delle fortune di quelli che sono negligenti nel pagare le imposizioni. 5 I lavori del Tribunale e delle Assemblee sono indipendenti, e quelli dell' uno non possono rallentare quelli dell' altro, per modo che, pendente la causa, ognuno rimane a suo luogo; e nella sentenza è fissato il tempo preciso in cui s' intende cominciata la mutazione. Dopo aver data un' idea del Tribunale politico e dell' Amministrazione, che sono le due parti del Potere Supremo della società civile, mi resterebbe a parlare della Magistratura che è il terzo corpo che forma parte della organizzazione sociale, sebbene egli non sia parte del Supremo Potere. Ma prima di passare a descrivere la Magistratura della società civile, che fingo d' erigere da' suoi fondamenti, mi sembra necessario di chiamar l' attenzione del leggitore sulle traccie del Progetto fin quì da me descritto, sia che si ritrovino negli scrittori antecedenti, o sia nelle costituzioni delle nazioni che fin quì sulla terra sono esistite. Questa digressione, ben comprendo, che travia qualche poco il leggitore dal diritto cammino, e gli ritarda di poter concepire tutta intera l' idea di Società che io prendo a descrivere: ma questo interrompimento, che nuoce invero al filo delle idee, sarà forse compensato da un maggior avvicinamento che prenderà la Teoria esposta alla pratica, e quindi ella forse gli diverrà più reale nella sua mente, e l' indurrà a prestare più agevolmente fede alla possibilità della medesima. In fatti la prima difficoltà che si presenta alla mente, di chi sente proporsi un' astratta teoria si è la seguente. Com' è possibile che ciò non abbiano mai veduto gli uomini precedenti? come sfuggì a tutte le nazioni e a tutti i loro savŒ, che pure hanno posto i più profondi pensieri ad escogitare tutto ciò che giovar potea l' uman genere, se egli fosse cosa possibile od utile? Io non risponderò già, che dove tale obbiezione dovesse aver luogo in tutta la sua estensione, ella supporrebbe, che non fosse oggimai possibile verun ulteriore progresso al genere umano; perocchè io non penso che uomo me la possa proporre a tempi nostri con tanta estensione. Risponderò piuttosto che anch' io concedo dover incontrare con ragione una prevenzione sfavorevole quella istituzione così nuova, di cui nessuna traccia si rinvenga esser stata prima dei tempi nostri nelle menti e nei costumi degli uomini; ma non essere all' incontro ragionevole di credere che ogni egregia cosa dagli uomini traveduta e cominciata nell' opera sia stata già altresì perfettamente conosciuta e in tutta la sua perfezione eseguita. Ed or questo io credo che sia avvenuto del Supremo Potere della società civile da me descritto. Parmi ch' egli sia stato sempre più o meno chiaramente dagli uomini avvertito; parmi che sempre l' abbiano desiderato, come cosa di cui la natura umana provava il bisogno; parmi che egli sia stato lo scopo d' infinite ricerche politiche, d' infiniti sforzi ed agitazioni della società tendente di conformarsi a quella forma regolare. Parmi insomma che tanto la natura delle cose, quanto le menti degli uomini ci si sieno aggirate d' intorno: queste per formarsene l' idea compiuta, quella per trovare in essa la propria naturale posizione e quiete: ma che sì le menti che la natura non abbiano perfettamente asseguito il termine dei loro sforzi; perchè è legge fermissima, a cui le umane forze soggiacciono, che non ottengano la perfezione dello scopo se non dopo gran tempo, grandi errori, grandi urti: dopo una molteplice insomma e dolorosa esperienza. Del Tribunale politico sono minori le traccie istoriche che dell' Amministrazione. La ragione di ciò si è, che egli si può dire l' ultima perfezione della società, e suppone gli uomini già pervenuti a un grado assai grande di coltura. Oltracciò l' ultima riflessione che fa l' uomo è quella sopra sè stesso: egli è di prima giunta portato a pensare agli altri; questa è la direzione naturale della sua mente: il ritorcersi sopra di sè è una conversione difficile: egli opera senza dubitare di sè, senza pure pensare a sè operante. Perciò vi dovevano essere prima le Amministrazioni della società che il Tribunale politico. Poichè il Tribunale politico non può venire che allorquando l' Amministrazione è arrivata a riflettere sopra sè stessa, a dubitare dei suoi proprŒ giudizŒ; sia che questo dubbio ella giunga a fare spontanea per propria sapienza, sia che ella sia costretta di farlo per le scosse che ella riceve dalle reazioni che ritruovano le sue ingiustizie. Così in fatto troviamo nella storia. Questa ci presenta da per tutto Amministrazioni che operano con gran franchezza e fidanza del proprio fatto, che non dubitano punto di errare, che procedono come fossero infallibili; e che sostengono per gran tempo di esserlo, quando viene loro contrastata questa infallibilità. E se un tale contrasto singolare dura per molto tempo, non è già da credersi che ciò nasca dall' opera sola delle passioni degli uomini: egli si prolunga anzi per l' imbecillità umana come per l' umana malizia: perocchè quella è che impedisce agli amministratori della società di riflettere sulla propria incapacità, e sulla fallacità dei loro giudizŒ e delle loro operazioni. Se noi veniamo osservando la storia delle nostre moderne monarchie, cominciando dalle loro origini nei secoli di mezzo, e giù venendo dietro i loro passi; noi veggiamo come il loro potere si sia venuto rendendo sempre più assoluto, ed indipendente: e veggiamo ancora che ciò è avvenuto per opera di molti abili uomini di Stato, che affezionati ai loro Principi gli hanno serviti del loro avvedimento e della loro destrezza nel maneggio delle pubbliche cose. Si grida contro alla costoro improbità: ma, per quanto io sono persuaso, al tutto senza ragione. Io credo in quella vece, che a questa concentrazione del regio potere abbiano contribuito degli uomini sommamente probi, e forniti delle più pure intenzioni. - Ma essi, si dice, hanno rinserrate le catene dell' uman genere. - A bell' agio! Tornate su loro passi: esaminate le intenzioni dei loro fatti, e muterete opinione. Il potere supremo non era fissato; egli ondeggiava in varie mani: lo Stato era per cadere ogni istante nell' anarchia: la morte del principe, l' ambizione offesa di un nobile, l' ardire di un condottiero, un accidente impreveduto, bastava per rovesciare col trono la società. Questi mali cadevano sotto gli occhi, come cadono sotto gli occhi tutti i disordini delle amministrazioni di più persone, sieno grandi o sieno piccole: sieno le sette, nascenti all' elezione di un sovrano, sieno i tumulti dell' elezione popolare di un curato, ed i piccoli partiti, le discussioni, e gli stravizi, che la accompagnano. L' Amministrazione della società, che si credeva incaricata di difendere la società da tutte le turbolenze e da tutti i mali, ai quali può soggiacere, era ben naturale che si credesse ancora, non dirò autorizzata, ma in dovere di riparare a tutte quelle inquietudini. Ora quale era la strada più breve che a questo fine si presentasse? Quella di far guerra a tutte le amministrazioni collettive, e stabilire un sistema di centralizzazione dei poteri; perocchè ridotto il potere nelle mani di uno, e ridottovi così forte a cui nessuno possa resistere, tutti quei disordini son tolti via, che nascevano prima dall' ondeggiar egli incerto nelle mani di più. Ecco pertanto un esempio luminoso dello scambiare che fanno gli uomini le istituzioni stabilitive colle istituzioni preventive e repressive . Quand' essi nell' istituzione che ha una natura stabilitiva scuoprono alcun abuso, non pensano già di metter a lato della medesima un' altra istituzione preventiva o repressiva che corregga quel difetto; ma si mettono piuttosto ad alterare e snaturare la istituzione stessa stabilitiva perch' ella non si presti all' abuso osservato; non accorgendosi in ciò che l' abuso non nasce da essa stessa, ma è alla medesima estrinseco, cioè nasce dalla malvagità degli uomini che di essa abusano, il perchè a questa si dee por rimedio, e non guastare l' istituzione per sè buona e retta. Ma or ecco come il potere dell' Amministrazione sociale andò per mancanza di lumi rinforzandosi, e tendendo alla maggior possibile indipendenza, anzichè pensare di sottomettersi ad un Tribunale; e ciò fece, pensando forse fare cosa necessaria e buona, credendo eseguire la sua missione, quella di difendere la società. - Ma si ripete, chi tolse via quei mali dalla società, rendendo più fermo ed indipendente il poter supremo, rese questo più arbitrario e più insopportabile. - Appunto: ma ciò senza accorgersi. - In che modo? - Perchè l' Amministrazione nel tempo ch' ella vedeva i disordini, che si credeva in debito di torre via; non sospettava menomamente di sè stessa: non rifletteva sulla propria fallacità; gli amministratori insomma della umana società non pensavano d' essere uomini, ma solo d' essere amministratori. - Ma non è questa stessa una colpevole ignoranza? - Piuttosto un inganno della stessa natura umana, che ha bisogno d' essere scossa replicatamente e fortemente prima che dubiti di sè stessa. Gli amministratori della società accorrono a porre rimedio ai mali che veggono cagionarsi da' soggetti, all' incontro i soggetti si lamentano con altrattenta prontezza dei falli degli amministratori. E` facile ai soggetti lamentarsi degli amministratori, appunto perchè essi sono collocati in luogo da vederne i vizŒ altrettanto quanto poco sono in istato da vedere i proprŒ. Per quella stessa ragione che dicevo l' uomo non portare lo sguardo sopra di sè per dubitare di ciò che fa, se non tardi e trattovi quasi a forza. Il perchè è al tutto indiscreta la severità con cui si giudica dei superiori; esigendo ch' essi veggano i proprŒ errori altrettanto come li vede chi è da loro diviso: perocchè ciò è contro le leggi della umana natura. Egli è da ciò stesso che si spiega il seguente fatto. Il soggetto si lamenta dell' amministratore sociale. L' amministratore riguarda questo lamento come una colpa, come un' insubordinazione. Ma il lamento non è già portato contro l' autorità dell' amministratore, ma contro il male ch' egli fa colla medesima. Tuttavia l' amministratore non è disposto a considerarlo sotto questo aspetto, per quella stessa ragione, che non è disposto a considerare sè stesso come un uomo fallibile, essendo per accidente amministratore; ma è anzi disposto a considerarsi solo come amministratore. Qualità questa che astrattamente presa non annette già l' idea di imperfezione e di fallibilità, che resta tutta propria dell' uomo che amministra. Egli è inclinato a considerarsi piuttosto nella sua qualità d' amministratore che nella sua natura di uomo, perchè l' amministrazione è cosa esterna, che termina fuori di lui, per vedere la quale non ha bisogno, dirò così, che di uno sguardo del suo occhio in direzione naturale. Mentre a considerare sè stesso come uomo amministrante ha bisogno di ritorcere lo sguardo quasi contro natura, ed a fissarlo in sè stesso. Il perchè nel lamento dei soggetti contro di lui egli vede più facilmente e più naturalmente una opposizione ed una reazione alla sua autorità, che non sia un' avvertenza dell' errore ch' egli prende come uomo soggetto a fallire. Egli è vero, che le passioni umane, l' amor proprio, e l' avidità si mescolano da per tutto; ma non si può negare che le stesse leggi dello spirito umano conducano l' uomo a dubitare anzi di altrui che di sè stesso. Ed è perciò, che un amministratore della società nello stato naturale può essere inclinato di tutta buona fede ad aumentare ed afforzare l' autorità nelle proprie mani, persuaso di tor via in tal modo molti disordini con un' autorità piena ed assoluta, senza accorgersi nè sospettare de' mali ch' egli stesso per ignoranza o per passione, e quelli che a lui subentreranno nell' Amministrazione, possono produrre colla detta autorità. Vedete quello che nasce nel caso di una rivoluzione: prescindendo dai secondi fini che operano nella medesima. Si dice che il Sovrano era colpevole, che la sua Amministrazione era pessima. Se ne instituisce dunque un' altra, ma ben presto, atterrata anche questa, ne sorge una terza per vendicare i delitti della seconda. Nel fermento delle opinioni e nella prontezza e temerità dei giudicŒ si condanna ben presto la terza, come si condannò le due prime, per instituirne una quarta; e si succedono incessantemente i riformatori della nazione agitata. Ora onde viene questo gioco e questa vicenda, se non da un simile corso d' idee che fa lo intendimento umano, per cui l' uomo assai prima di giudicare di sè stesso giudica degli altri, e trovando sempre i difetti in quelli che amministrano la società non sa neppure dubitare ch' egli stesso trovandosi nel loro posto potrebbe cader negli stessi errori; ma anzi si lusinga che tutte le sue idee sull' Amministrazione sociale sieno giuste, che porterebbero la felicità nazionale, e che corrisponderebbero ai doveri dell' Amministrazione? Si sono veduti sempre quelli che prima di arrivare all' Amministrazione sociale gridavano contro il dispotismo e gli sforzi degli amministranti per aumentare il grado di potere nelle loro mani, pervenuti essi stessi all' Amministrazione aver fatto assai di più, non avere il menomo dubbio di far bene a tirare nelle proprie mani la più gran potenza, ed a comprimere colla più gran forza arbitraria che aver potessero tutti quei movimenti che venissero fatti contro all' Amministrazione. Egli non debbe adunque far meraviglia se si è quasi sempre veduto nelle società cercare da quelli che avevano in mano il potere la più piena indipendenza, mentre ciò non solo è conforme alla passione di dominare, tanto propria dell' uomo; ma all' indole stessa dell' umana natura, per cui l' uomo crede non esserci niente da temere da parte sua, ma solo da parte degli altri; e così gli amministratori nulla credono che vi sia da temere se l' Amministrazione è forte. I Principi nulla credono che vi sia da temere se la loro potenza sempre più si rende indipendente; anzi non la riguardano se non come un mezzo di fare un bene maggiore, senza pensare neppure alla possibilità che essa potesse essere istrumento di male. Per venire a quest' ultima riflessione, che può solo dar luogo al Tribunale politico, si esige dunque non solo che i Principi sieno retti e buoni, ma ben ancora che sieno ammaestrati da una lunga esperienza, la quale li faccia pensare sopra sè stessi. E non fa però meraviglia, se fino a qui solo delle incerte traccie si ravvisino essere state di consimile instituzione. Ed anche queste poche ed incerte traccie dalla parte del popolo si osservano. E così doveva essere, perchè il Tribunale politico è per il popolo; egli è necessario unicamente per difendere il debile contro il forte, la minorità contro la maggiorità. Prego il leggitore di considerare come tutto si trovi legato nel sistema da me proposto, e come i principŒ sieno conformi alla natura delle cose. Io ho cercato un sintomo che ci faccia conoscere quando venga leso il diritto in un uomo; e l' ho trovato nel risentimento morale; il quale risentimento quando gli uomini sono nello stato di natura porta la pretesa di risarcimento, cui l' offeso verifica per le vie di fatto se l' offensore non si muove spontaneamente a dargli soddisfazione. Il risentimento adunque, sintomo del diritto violato, è la ragione per cui gli uomini vogliono che sia resa loro giustizia; egli è dunque la causa movente della giustizia privata nello stato di natura, e della giustizia pubblica o sia dell' istituzione dei Tribunali nello stato di società civile. Applichiamo il risentimento al Tribunale politico; e veggiamo se il popolo risentitosi delle offese degli amministratori abbia chiesto e resosi com' ha potuto contro di essi ragione. Egli è evidente che questa è la cagione vera o pure il pretesto di tutte le ribellioni: queste nascono perchè il popolo si risente delle offese che vengono a lui fatte dagli amministratori della società, o che gli si dà ad intendere che gli vengono fatte: egli chiede giustizia; ma non trovando alcun Tribunale che gliela renda fa al modo stesso che fanno gli individui fra loro fino che si trovano nello stato di natura; decide e si rende ragione da sé. Esiste adunque sempre nel fatto e per la natura delle cose un Tribunale per gli affari politici, come esiste sempre per la natura delle cose un Tribunale per gli affari privati. La sola differenza fra il Tribunale politico istituito appositamente, e il Tribunale politico naturale, per dir così, si è quella che passa fra il Tribunale per gli affari privati nello stato di natura, e lo stesso Tribunale nello stato civile: nel primo stato è l' individuo o la famiglia quella che giudica in propria causa e che eseguisce la sentenza, mentre nel secondo stato il giudice è distinto dall' offeso, è comune a tutti, e dell' esecuzione della sentenza s' incarica la forza comune. Così pure fino che il Tribunale politico non è istituito, il popolo è il giudice di fatto, egli è giudice in propria causa ed esecutore della sentenza: quando s' instituisce un Tribunale politico apposito, allora il giudizio è dato ad un terzo a cui di concordia le parti si rimettono. Un tribunale adunque sempre esistette di fatto, come mostrano tutte le storie per gli affari pubblici; come sempre esistette un Tribunale per gli affari privati, mentre sì l' uno che l' altro è fondato nell' umana natura come in essa è fondato il risentimento all' offesa , risentimento che è un effetto immediato dell' idea di giustizia , così necessaria dell' umana natura come necessaria è ad essa la ragione . Ho già osservato che il governo preso nella sua nozione astratta, è un benificio comune, e non un aggravio, che perciò ciascuno può prenderne il possesso se trova il posto vacuo, alla stessa guisa come ciascuno può occupare un disoccupato terreno. Ma riducendo questo principio alla pratica difficilmente si verifica, perchè nella pratica vi si mescolano le ignoranze e le passioni umane. Perciò sono assai rari i casi di popoli sottomessi all' occupante, senza che questi abbia avuto bisogno della forza. Questa difficoltà a lasciarsi governare, in popoli non guasti ancora da idee filosofiche, ma forniti solo della filosofia della natura, è il risentimento , sintomo dell' offesa ricevuta. Ho ancora osservato nella prima parte la cagione per cui l' antichità amava tanto le Repubbliche. Non si era giunto a distinguere la modalità dei diritti dai diritti stessi: non si conosceva adunque il preciso oggetto del governo: governare la società non era per essi regolare la modalità di tutti i diritti, ma era regolare i diritti di tutti: o almeno queste due cose si confondevano nel fatto; e contribuiva a tale confusione l' estensione che prendeva la modalità stessa dei diritti 2) in un tempo, che il fine delle guerre ognor minacciate era l' esistenza, o la distruzione di un popolo. [...OMISSIS...] Anzi perciò appunto era Sovrano e Legislatore perchè estendendosi tanto la sovranità, 2) questa sarebbe stata insopportabile, concentrata nelle mani di un solo, ad un popolo che ritenesse qualche vita morale: il risentimento morale adunque questo naturale giudice delle offese era quello che determinava la stessa forma repubblicana di governo, e colla forza comune realizzava nel fatto la sua sentenza. Quando un uomo solo si fece arbitro dell' imperio romano, si può dire che la virtù era per annientarsi e con essa la luce della verità. La mancanza della prima rendeva gli uomini atti alla schiavitù, e non erano più suscettibili, si può dire, di offese morali, ma solo di offese fisiche poco diversamente da' bruti. Perduta colla morale la intelligenza, in luogo di un Tribunale e di un giudizio politico, si vede un' atroce irritazione di tutti gli elementi della società, che non tendono nè di fare altrui nè di rendersi a sè giustizia, ma di distruggersi scambievolmente. Ricomparisce il Tribunale politico ancora in uno stato naturale, cioè unito al risentimento della società offesa, all' uscire che fanno dal caos del medio evo le moderne società. Ma la religione ha diminuite le passioni dei governanti, e ha dato, sì ad essi come al popolo, idee più esatte di giustizia. In tal modo diventa possibile la Monarchia: il Cristianesimo solo rese questa forma di governo tollerabile non solo, ma carissima alle nazioni. In che consiste questa mutazione della Monarchia, la quale era tanto odiosa all' età pagana nella sua parte più colta, e tanto cara all' età cristiana nella colta Europa? Un grand' uomo n' ha notata la differenza con gran verità: « « I re abdicavano il potere di giudicare da per se stessi. »1) » Fu questa l' opera della Religione divina. Ed il principio che adoperò questa Religione per operare un tanto mutamento di cose fu quella massima: « « Per me regnano i re: »2) » la massima che fa conoscere avervi sopra tutti i re della terra un Tribunale, una giustizia, un Monarca, a cui rendere il conto delle arbitrarie sentenze. Conviene concedere in fatti che questo è un principio fondamentale della Religione cristiana, che questo principio lo fa sentire incessantemente: che l' ha già impresso in tutti gli uomini di Europa. Ma saremmo assai lontani dal vero, credendo che questo fecondo principio abbia ricevuto tutto il suo sviluppamento, che la sua influenza abbia ottenuto tutto ciò che egli può ottenere. Si può ben dire ch' esso sia ridotto quasi interamente nella pratica dei negozŒ civili, ma siamo ben lontani da ciò nei politici; questo è quanto gli rimane di fare. L' autore citato dopo aver indicato il carattere della presente Monarchia europea nell' abdicazione che fecero i re del potere di giudicare per sè stessi, osserva che i popoli in contracambio dichiararono i re infallibili ed inviolabili. Così è in fatto. E sarà pienamente, quando pienamente i Re avranno abdicato un potere che esclude essenzialmente l' arbitrio; e che è tanto venerabile e divino quant' è più sicuro interprete e sacerdote della giustizia un potere che è augusto non pel ministro che lo esercita, ma per sè stesso. I popoli non avendo da temere più nulla dai re, abdicano anch' essi naturalmente il potere di giudicare da sè e di farsi giustizia: in tal modo i re ed i popoli pienamente cristiani eseguiranno il precetto: «Non giudicate e non sarete giudicati. 1) » Ma giova vedere il lento corso pel quale la società cristiana tende a tanta perfezione. Il primo passo fu quello di rendere possibile la Monarchia fondandola sulla giustizia, e restringendola per conseguente a non disporre che della Modalità dei diritti. Ma questa Monarchia ancor bambina doveva essere educata, e fino che nol fosse, doveva ritenere degli antichi costumi. La società parimenti doveva nella stessa ragione tenere presso di sè il Tribunale politico. Vediamo come ne faceva uso nei casi ordinari. Le parti del popolo, dice il Sismondi parlando delle forme di governo dei popoli settentrionali del medio evo « « erano quelle di sanzionare o rigettare le proposizioni del principe colle acclamazioni. »2) » Ecco il passo dall' antica alla nuova forma di governo: nell' antica non poteva essere legislatore che il popolo: nella nuova il popolo non è più legislatore ma il Monarca, egli si riserva solo di approvare le instituzioni se sono tali che non suscitino in lui il risentimento morale; e se all' incontro sono tali che il suscitino, di manifestarlo e di riprovarle. Ed ecco la Monarchia europea nella sua prima età: essa non è propriamente limitata nel suo potere di regolare la modalità dei diritti, che è ciò che forma la sua natura; ma vi intervengono gli abusi; le passioni e le ignoranze operano ancora e spingeranno talora il sovrano a passare il suo confine: il popolo adunque dovea risentirsene. Alcuni teoristi crederebbero che tale costituzione fosse concertata. Niente affatto. Ella nasceva dalla natura della cosa. La società si lascia governare (quand' ella non sia corrotta da false dottrine) ma non si lascia offendere: la sua reazione, adunque, o sia l' esercizio dei giudizŒ politici, è tanto maggiore quanto essa viene più frequentemente offesa; e l' autorità del governante per conseguente è più libera ed indipendente quanto meno offende, e più rigorosamente opera la giustizia. Egli è anche inutile ricercare se la società ha il diritto di reagire contro chi la governa: perchè basta sapere come sta la cosa nel fatto; e si potrà conoscere che così fu sempre, e che sarebbe contro la natura delle cose supporre il contrario. In fatti la natura si risente quando viene offesa: potrebbe egli darsi il caso che un popolo venisse tutto intero distrutto senza ch' egli mostrasse il minimo risentimento? Or non è già questo un caso ipotetico: un popolo naturalmente sta quieto quando può vivere, ma si risente per buttare da sè quelle leggi, e quegli ordini sotto dei quali egli non potrebbe vivere: per quanto possa essere grande il suo eroismo nella tolleranza, quando non possono più andar le cose, debbono cadere. Le modificazioni adunque della Monarchia assoluta cristiana sono tutte da ripetersi dalla sua propria imperfezione; la sua natura rimane sempre la medesima cioè quella di essere un potere supremo ed universale, e per ciò stesso illimitato fino che non esce dal suo oggetto, ed i temperamenti che si trovano posti alla medesima nel medio evo non consistono che nel giudizio popolare ecclesiastico dato in diverse forme; cioè o tumultuosamente o in Assemblee stabilite, o da tutto il popolo, o dalla classe dei Nobili. Sulla bontà della Legge, od istituzione sovrana, si riconobbe con ciò, che l' unico temperamento che poteva ricevere la Monarchia assoluta senza snaturarla non dovea essere già uno smembramento della sua autorità; ma bensì un Tribunale che lasciandola libera di fare quelli atti ch' essa credeva, li giudicasse: giudicasse cioè s' essi si contenevano nell' oggetto del Potere monarchico, o se il trapassava: se si contenevano in quello non era d' aggiungere altro: se feriva all' incontro i diritti, potevasi contro all' atto posto reclamare. 1) Più tardi alcuni s' occuparono del progetto di una pace perpetua che doveva appunto eseguirsi mediante la instituzione di una specie di Tribunale politico: e sono noti i progetti di Enrico IV e dell' abate di Saint7Pierre. Leibnizio che credeva la cosa possibile fece delle eccellenti osservazioni sul progetto di Saint7Pierre. 1) Questi proponeva due modi di fare il Senato cristiano o il Tribunale di cui parliamo; nell' uno l' Imperatore coll' Impero romano allora esistente doveva formare un solo membro ed avervi una voce sola; nell' altro si proponeva di torre via l' Impero romano, e all' Imperatore si dava parte in quel Senato unicamente come Sovrano ereditario, e ciascuno elettore aveva pure la sua voce a parte. Leibnizio ritrova il primo modo più secondo la giustizia, conservandosi per esso i diritti ben fondati dell' Impero. 2) Ognuno però vede che simile progetto è ben altro dal Tribunale politico da me proposto. Egli lo voleva fatto per regolare i negozŒ fra' Principi e togliere le guerre; e non aveva in vista la protezione dei popoli o il miglioramento delle costituzioni degli Stati. Bensì dei due modi proposti, cioè in quello, in cui l' impero veniva conservato, i popoli pure conservavano a cui avere ricorso ne' loro mali, cioè la Camera imperiale; e perciò trovavano qualche specie di Tribunale contro ai loro Sovrani; nuova ragione perchè il buon senso di Leibnizio preferisce questo all' altro piano. 1) E qui è osservabile nuovamente il progresso che aveva effettivamente fatto la società cristiana, coll' istituzione dell' Impero romano7germanico, verso il Tribunale politico di cui parliamo, e che noi grazie alle false teorie politiche dei nuovi tempi abbiamo perduto: voglio dire appunto quel principio di Tribunale politico, che si trovava già presso l' Imperatore in favore dei popoli. Questo era certamente un passo notabile verso l' erezione del politico Tribunale, ed una nuova prova che questo Tribunale lungi d' essere una chimera è anzi quel fermo scopo a cui tende continuamente la cristiana società. Tuttavia nell' Impero, ai nostri giorni estinto, non era ancora il Tribunale voluto. Egli aveva il difetto d' essere un Giudizio posto nelle mani di un uomo che era insieme Amministratore della Società, e fornito di fisica forza; unione contraria, come vedemmo, all' indole del Tribunale proposto. Poichè l' essenza di questo Tribunale è tutta morale; e colla forza morale egli debbe sostenersi; ed i giudizŒ suoi debbono essere puramente regolati dalla religiosa coscienza. Nell' Impero all' opposto gli interessi della famiglia imperiale erano troppo mescolati coll' ufficio di rendere una tanta giustizia. 1) Leibnizio conobbe assai bene quanto era necessario che un simile Tribunale godesse piena libertà, e non dovesse appoggiare i suoi giudizŒ che sulla pura coscienza; e quest' era altra ragione di tenersi fra i due modi difettosi, come al meno imperfetto, piuttosto al Tribunale dell' Impero, che ad una Dieta od Assemblea di Ministri dei Sovrani della cristianità. Anzi questa Dieta non potrebbe essere al tutto un vero Tribunale: non sarebbe che una unione di avvocati, ciascuno dei quali perorerebbe in favore del Principe che lo stipendia; e si converrebbero insieme per accidente, cioè secondo le istruzioni ricevute dai loro mandanti, e secondo il carattere loro personale di difficile o di buona volontà. L' amovibilità pure di tali ministri basterebbe a sconciare ogni buon avviamento; i quali difetti si evitavano col Tribunale della Camera imperiale, almeno in parte; ma essa stessa poi dipendendo dall' Imperatore non si rimaneva dall' essere ragionevolmente sospetta. 1) Fra tutti i concepimenti politici fin qui fatti dagli scrittori o dai Principi, quello che più si avvicina al Tribunale da me proposto, per quanto è a mia notizia, è di Giovammaria Ortes. Non sarà forse discaro ch' io esponga brevemente il pensiero di quest' acuto ingegno, meno forse ch' egli non merita conosciuto. 1) Egli muove il suo ragionamento da una analisi della natura della società civile; ed ecco com' egli ragiona intorno alla medesima. Nell' uomo havvi una ragione comune ed una ragione particolare . La ragione comune risulta dalle verità salutari che tutti gli uomini debbono unanimemente ammettere ed assentire per la comune loro felicità: verità morali, ossia di giustizia, per le quali vengono assicurati i diritti di tutti gli uomini egualmente senza parzialità a veruno: giacchè il vero ed il giusto è cosa comune ed indipendente da' particolari interessi. La ragione particolare all' incontro consiste in quegli ingegni ed argomentŒ che ogni uomo adopra in favore del suo peculiare interesse, giacchè ciascuno per l' innato amor proprio, parte della propria essenza, cerca la propria felicità. 2) Ora la ragione particolare è soggetta a venire in collisione assai volte colla ragione comune: giacchè l' uomo talora per troppo amore di sè stesso cerca il proprio bene senza ricercare quello degli altri uomini, e perciò infrangendo le leggi della giustizia e della ragione comune che i diritti di tutti egualmente protegge. La ragione particolare la quale assaliva in tal modo la ragione comune, faceva ciò con una forza particolare, cioè colla forza dell' individuo che ingiuria i suoi simili, e in essi la comune ragione. Era dunque necessario che si pensasse di riunire insieme le forze particolari e di formare in tal modo una forza comune per venire in sostegno della ragione comune che veniva continuamente assalita e violata dalla forza particolare. Ma dove esiste ella la ragione comune? come si può ella conoscere? non già col giudizio di ciascuno uomo particolare; perocchè non si saprebbe giammai se il suo giudizio provenisse dalla ragione sua particolare o dalla comune: oltre di che i particolari non vanno giammai d' accordo fra loro: e qui trattasi appunto di difendersi contro la ragione particolare. [...OMISSIS...] Ora la difesa della ragione comune è lo scopo della società civile: ella dunque viene formata dalle due parti necessarie per ottenere tale scopo, l' instituzione di un Tribunale che stabilisca la ragione comune, e la instituzione di una forza comune che la difenda. Ma potrebbe darsi un Ministero che simulasse di rappresentare la ragion comune, ed una forza comune, che simulasse difenderla; ma che veramente quel ministero non avesse in vista che di difendere e promuovere la ragione particolare, e abusasse a tal fine della forza comune. In tal caso, dice l' Ortes, non si avrebbe un governo vero ma un governo falso; perocchè simulerebbe di proteggere la ragione comune e non lo farebbe. Che cosa è dunque necessario per assicurarsi quanto è più possibile che il governo sia vero? E` necessario che questi due ministerŒ della ragione e della forza comune sieno divisi l' uno dall' altro, indipendenti l' uno dall' altro, supremi sì l' uno che l' altro. 1) Ma sentiamo come ragiona sopra di ciò l' Ortes medesimo. [...OMISSIS...] Nasce come corollarŒ di questi principŒ, che questi due ministerŒ sieno due parti essenziali del governo civile indipendenti fra loro e supreme egualmente, e che dalla loro concordia solamente possano i popoli giudicare se è vero o falso il governo. E` impossibile tor dal mondo tutte le violenze, tutte le usurpazioni. Quanto mai si può desiderare si è solo di avere un criterio ragionevole e più certo che sia possibile per conoscere quali atti sieno violenze ed usurpazioni: i popoli non possono pretendere di più; e non v' ha mezzo migliore per ottener ciò quanto è possibile, che la dichiarazione di un Tribunale appositamente stabilito per rappresentare e dichiarare la comune ragione. Ammessi tali principŒ passa l' Ortes ad analizzare le varie società civili e conchiude esser questa divisione di potere morale e fisico scopo del vero cristianesimo, e trovarsi ben avviata nelle società cattoliche; retrocessa e distrutta all' incontro nelle protestantiche e nelle altre acattoliche nazioni, dove la Chiesa non è libera o non divisa dal principato, ma ad esso soggetta o con esso incorporata. Perocchè la sua opinione sarebbe, che questo Tribunale politico riconoscer si dovesse nelle mani della Chiesa, la quale sembra fatta a ciò dalla sua stessa natura, mentre la sua natura è certo quella di esser il centro regolatore della forza morale; nè certo v' ha altro corpo a cuì meglio possa convenire tale incombenza che a lei. Egli è per questa natura della Chiesa, assai profondamente da lui intraveduta, che spiega l' occasione di quella calunniosa imputazione che a lei danno i suoi nemici, ch' essa si mostri ambiziosa di dominare e di disporre nelle cose temporali. Egli è vero che la Chiesa per sua natura ha un' influenza nelle cose temporali, ma l' Ortes vuole che accuratamente si distingua in che consista questa tendenza, la quale fu occasione fino dal nascere della Chiesa delle calunnie che a lei diedero i pagani. I cristiani, dice l' Ortes [...OMISSIS...] Egli è mediante quest' osservazione che si può giudicare con equità la condotta tenuta sempre dai Papi verso i Sovrani. Vi sono due partiti divisi nelle opinioni le più contrarie sopra tale condotta. Un partito grida: « l' ambizione e l' avidità dei Papi vorrebbe ingoiare tutti i regni della terra. »Un altro partito grida al contrario: la « magnanimità e il disinteresse dai Papi mostrato costantemente nei negozŒ temporali, che hanno trattato coi principi, è così nobile e sublime che non si può attribuirlo, considerando le occasioni che ebbero d' ingrandirsi, se non alle forze morali di una religione divina. »Onde sì grande differenza di opinioni in giudicare degli stessi fatti? la sola empietà, o il solo fanatismo religioso può acciecar tanto gli uomini? La ragione d' una tanta varietà di giudicŒ sui fatti stessi è la seguente. La sovranità ha riunito in sè medesima o ha voluto ritener uniti i due poteri supremi: 1 di giudicare sulla giustizia nella propria condotta politica; 2 di realizzare quella condotta politica che le sembrava migliore, ossia di amministrare la società. Ora così distinte queste due attribuzioni, o per dir meglio questi due rami del supremo potere, s' instituisca la questione così: « Hanno tentato i Papi di tirare a sè l' Amministrazione delle società civili? »Convien rispondere: « Non mai: egli è in questo che hanno costantemente dimostrato il più grande disinteresse e la più sublime generosità di operare, lasciando ai principi tutta intera la civile loro amministrazione. »Si domandi ancora: « Hanno ì Papi voluto giudicare della giustizia delle azioni politiche, o sia hanno essi voluto entrare in questo ramo del supremo potere politico? »E si risponda: « Sì, lo hanno sempre e costantemente voluto: questo doveva risultare dalla natura della religione cristiana a cui essi presiedono: di una religione cioè che ha fissato un centro della forza morale distinto al tutto dal centro della forza fisica. »Egli è questa distinzione che sparge la più gran luce sulla condotta dei Papi, e che fa giudicare rettamente di essa. [...OMISSIS...] Ecco il carattere naturale in politica del Capo della Chiesa: non è già quello di essere amministratore dei popoli, cosa che i Papi non hanno mai cercata, e spesso rifiutata, o tenuta a studio lontana da sè; ma bensì di essere Giudici dei Principi cristiani. La malignità e la malafede dei nemici della Chiesa può confondere queste due cose l' una coll' altra; ed è mediante questa confusione che diffonde tenebre per coprire agli occhi dei popoli la luminosa condotta dei Papi, e per ingannare i Principi cristiani. Dio voglia che questi ritornino alla sapienza dei loro avi, da cui hanno ricevuto le loro corone gloriose e santificate. Sono poche le verità di pubblico giovamento che non sieno state intravedute dalle nazioni. Ma non basta che sieno intravedute all' occasione di qualche fatto particolare, se non sono ancora generalizzate, e ben distinte per modo che non si possano confondere le une coll' altre. Fino che le utili verità non ottengono questa distinzione, direi quasi questo isolamento dalle altre verità affini, e che non si sollevano dai casi particolari, non possono divenire fondamentali principŒ della Civile Società. Prima di questo stato di distinzione le verità sono percepite dalla mente umana confuse insieme, per modo che di molte si fa una sola percezione oscura e molteplice, la quale però è l' embrione che bel bello si spiega e discioglie in tutte sue parti. Ma fino che più verità sono percepite come fossero una sola, queste si fanno occasion di sofismi e di perniciosi errori attribuendo ad una verità quello che è proprio di un' altra. Di errori prodotti per una simile cagione noi troviamo esempio appunto nel concetto del supremo potere della città, e per una naturale conseguenza ancora nel concetto della cittadinanza . Fino che il supremo potere si percepisce come una potestà sola , si cadrà sempre nei falsi ragionamenti; poichè quando nel caso particolare se lo considererà come giudice nel campo della giustizia politica, allora si attribuirà a questo potere giudiciale ciò che è proprio del potere amministrativo , e viceversa; per cui non s' avrà mai la chiara distinzione fra i due poteri. E da ciò si vedrà come sieno nate le diverse opinioni sulla natura della cittadinanza. Voi sentite alcuni che dicono: « « Le donne, i ragazzi, i servi, gli abitanti a tempo ed i forestieri, non sono cittadini. 1) » » Voi sentite altri all' incontro volere ammesse le femmine alla cittadinanza, ed altri portare tanto innanzi la cosa da volere « che tutto ciò che spira sia rappresentato nella città. »2) La ragione di queste due sentenze non è che questa: quei primi considerano il supremo potere solo come una amministrazione: questi secondi lo considerano solo come un giudizio politico. Ma schiarite un poco l' idee. Dividete i due poteri, giacchè sono essenzialmente distinti; e riconoscete nella società: 1 Un' amministrazione della modalità di tutti i diritti; 2 Un Tribunale politico che giudica fra gli amministratori , e gli amministrati , e che difende la minorità contro la maggiorità . Cessa allora tutto ciò che v' ha di oscuro e di dubbioso in quella questione. Ed in fatti: Per chi è fatto quel Tribunale politico? Per tutti quelli che possono essere offesi. Dunque tutti quelli che possono essere offesi, e che entrano nella convivenza, sieno anche donne o fanciulli, ne hanno interesse, e debbe pender anche da' loro voti, o di chi fa per loro, la formazione del medesimo. All' incontro per chi può esser fatta l' Amministrazione? Non per altro, come abbiamo dimostrato, che per quelli che hanno dei beni amministrabili in comune, e per i quali l' Amministrazione può mantenersi. Dunque nell' Amministrazione non può aver voto che chi possiede di tali beni. Consegue da ciò che come due sono i supremi poteri della Società, così sono parimenti due le specie di cittadinanza, o i modi di entrare nella comunanza civile, alla prima delle quali « tutto ciò che spira, fornito che sia di ragione »appartiene. Noi però lasciando a questa qualità civile, che abbiamo indicata anche col nome di rappresentazione passiva , il titolo di cittadinanza; chiameremo l' altra con quello di Amministrazione; e il membro della medesima potrà dirsi cittadino amministratore . Sembra che Solone abbia traveduta la natura diversa che ha un tribunale di giustizia , ed una Amministrazione; poichè mentre volle che non si potessero eleggere i magistrati che dalle prime tre classi del popolo, nelle quali aveva collocati i cittadini agiati; permise che i giudici si potessero prendere egualmente dalla quarta, nella quale si trovavano i cittadini più poveri. 1) Ma egli non applicò quest' idea a nessun Tribunale politico, perchè egli non era arrivato a concepirlo. I Romani pure non seppero sollevarsi a quest' idea essenzialmente morale, che non poteva essere che suggerita dal Cristianesimo. Dico che l' idea del Tribunale politico è una idea essenzialmente morale; perchè non può essere il frutto che dell' amore della pura giustizia. Perchè gli amministratori e gli amministrati si sottopongano unanimamente ad un Tribunale, bisogna che amino il giusto, e abbiano sinceramente rinunziato a tutto ciò che potrebbe loro approdare la frode, la perfidia la violenza. A tanto non possono pervenire che nazioni rigenerate alla giustizia dell' Evangelio. Tutto ciò a cui si sono potuti elevare i romani si fu di staccare l' elemento intellettuale dall' elemento sensibile e individuale . Ciò fecero collo stabilire un Senato che fosse come la mente della Repubblica: e come tutto ciò che fecero nella Società civile il portarono ancora nella società domestica che era presso di loro secondo Livio una piccola Repubblica 1) così divisero pure le famiglie in patroni , e clienti; perchè quelli aiutassero questi coi loro lumi, e fossero quasi i consiglieri e direttori di questi: ma dopo di ciò non giunsero a staccare l' elemento morale dall' intellettuale; ma il lasciarono confuso coi due primi. 2) Egli è vero che il Senato romano divenne ben presto l' arbitro delle questioni che insorgevano fra i Re; ma quest' era piuttosto un effetto della sua prevalente potenza unita ad una fama ben meritata e sostenuta per gran tempo di naturale giustizia anzi che il Tribunale di cui parliamo: perciocchè il primo scopo del Tribunale di cui parliamo sta tutto nell' interno della Repubblica, essendo il giudizio fra gli amministratori e gli amministrati. Egli è così lungi che i romani pensassero che il governo dovesse essere giudicato, che il riputavano anzi il fonte della giustizia, ed il padrone delle sostanze e di tutti gli altri diritti privati dei quali egli disponeva liberamente, secondo il costume degli antichi governi come fece a ragione d' esempio colla legge Voconia colla quale si privavano le figlie della eredità, eccetto il caso della figlia unica. 1) Ma veniamo all' Amministrazione; cerchiamone le traccie storiche. Spero che queste confermeranno la teoria espressa presso gli spiriti non prevenuti; e la riconosceranno non già come un' aerea fabbrica quale suol uscire da una mente che spazia fra gli immensi campi del possibile senza fermarsi a nulla di reale, ma bensì come un risultato di serie meditazioni portate sulle istorie di tutti i tempi e di tutti i popoli, come un voto, un' intenzione uno scopo della natura, a cui incessantemente tende di condurre gli uomini, e che non si può acquietare fin che ella non vi sia riuscita. La mia teoria è nata dall' osservazione dei fatti; de' fatti completi, fecondi, perchè presi in gran numero ed in una grande estensione e, per quanto può assicurarsi l' uomo di se stesso, da un' osservazione non prevenuta da predilezioni e da pregiudizŒ: da una osservazione finalmente non intesa a rilevare ciò che fu, per adorarlo come l' ottimo, ma a rilevare ciò che fu per conoscere l' umana natura, gli umani bisogni, e quelle tendenze originarie e naturali che senza esser l' ottimo, menano all' ottimo, perchè sono gli avviamenti della natura, contro alla quale niuno può vincer giammai. Potrei dividere in alcuni articoli separati le traccie istoriche che mostrano l' Amministrazione da me esposta essere stata sempre dalle nazioni veduta, e la natura della società e degli uomini che la compongono con una azione incessante avere sospinti verso della medesima i civili governi; la perversità e l' ignoranza umana avere bensì combattuto, rallentato, oppresso a tempo, la forza della natura; ma questa non essere stata giammai distrutta; poichè ciò sarebbe impossibile per quella legge che l' umanità rifugge dalla propria distruzione. Ma dividendo in articoli separati le dette traccie istoriche dovrei interrompere ad ogni istante, minuzzare e soverchiar nei fatti. Preferirò adunque di mettere sott' occhio le dette proposizioni che dalla storia risultano come leggi o fatti costanti, e poscia riferirò le osservazioni che li provano non secondo l' ordine di quelle proposizioni, ma secondo quello che la storia stessa somministra. La storia adunque delle civili società presenta costantemente i fatti generali ossia le leggi seguenti: 1 La Società civile nella sua infanzia rimane alquanto soggetta alla legge della Società domestica 1), ma ben presto si spiega in essa un' altra legge consistente nell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: che diventa la legge prevalente dell' Amministrazione civile. 2 La natura della Società civile mediante la detta legge dell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza ha chiamato a sè l' attenzione dei popoli, i quali per amore della quiete e della sicurezza hanno fatto sempre delle disposizioni favorevoli alla detta legge. 3 Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale, hanno prodotto novità politiche. 4 Quando il potere politico è dato in mano a quelli che non hanno la corrispondente proprietà, allora non è sicura la proprietà, e nasce di frequente, che quella proprietà che realmente non ha l' Amministratore, gliela si attribuisce con una finzione che pure è fonte di disordini. 5 La mancanza del Tribunale politico ha fatto sì che i popoli non potessero avere fin' ora un' Amministrazione dove fosse perfettamente equilibrata la ricchezza ed il potere politico: cioè che la Società civile non sia pervenuta alla sua perfezione. Questi cinque fatti costanti nella storia provano ad evidenza, che lo stato regolare o tranquillo della Società civile consiste nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere, e conferma l' Amministrazione sopra descritta. Il primo fatto segna il tempo che è necessario perchè la ricchezza nella Società civile manifesti la sua prevalenza: il secondo fatto dimostra le nazioni che s' accorgono di tal prevalenza irresistibile, e che o la secondano, e in tal modo perfezionano le costituzioni dello Stato, o vero vogliono cozzare con essa e si gettano in tutti i mali dell' anarchia: il terzo fatto dimostra come ogni grande mutazione nella ricchezza abbia sempre portato una mutazione nel potere, o pure una lotta perpetua col medesimo: il quarto fatto dimostra come se il potere prevale debba portare una mutazione nella distribuzione delle ricchezze; il quinto fatto finalmente dimostrando che non è possibile un perfetto equilibrio fra il potere e la ricchezza fino che il Tribunale politico non è diviso dall' Amministrazione, mette il legislatore in questa alternativa o di dividere il Tribunale politico dall' Amministrazione, o di avere un' Amministrazione in cui ci sia il detto squilibrio, e perciò di conservare nella società un germe necessario d' interna inquietudine ed agitazione che presto o tardi debbe svilupparsi, e sovvertire l' ordine sociale. Mettiamo adunque in luce questi cinque fatti, mentre essi rinserrano le traccie istoriche dell' Amministrazione da noi progettata, ed insieme ne dimostrano la necessità. La società domestica sussiste agiatamente colle ricchezze naturali , ma la società civile è quasi impossibile che sussista agiatamente senza il danaro 1). Le ricchezze naturali apportano delle derrate che non si conservano a lungo, e alle quali perciò non si attacca altro prezzo che il naturale , cioè quello che nasce dal vantaggio che si trae col consumarle: mentre il danaro si conserva, si ammassa facilmente e produce dell' altro danaro che pure si ammassa. Le ricchezze naturali ancora non si trasportano così agevolmente come il danaro, e non possono servire come serve questo al cambio, nè prendere un' eguale acconcezza di rappresentare la misura comune dei valori. Per tutte queste ragioni le ricchezze naturali possono bastare ad una piccola Società come la famigliare, ma per una molto estesa come la civile il danaro è quasi indispensabile. Egli è dunque naturale che nella Società civile si passi ben presto a dare una grande importanza al danaro, come la forza più potente, la forza che ha un' attività più estesa, più celere e più molteplice di tutte le altre. Questa è la modificazione a cui soggiace la Società umana passando dallo stato domestico e ristretto, allo stato civile ed esteso. E quanto più si osserva, tanto più si vedrà, come la forza prevalente nelle Società civili viene ben presto ad essere la ricchezza, mentre nella Società domestica è la forza personale. Non essendo nello stato di Società domestica tanto necessario il danaro, ed essendo la ricchezza, che più vi si conosce, la naturale, non può con tale ricchezza formare la famiglia da sè stessa una forza; ma essa non ha altro prezzo come diceva, che quello che risulta dal mantenimento delle persone. Lo scopo dunque dell' affezione nella Società domestica sono le persone stesse e non v' è già qualche cosa che si possa amar più di esse mentre tutto si ama in quanto serve ad esse. Si attenda a questo progresso importante: Società umana sotto due forme: prima forma; Società domestica: secondo forma; Società civile. Progresso delle forze prevalenti nella Società umana: forza prevalente nella Società domestica, personale, consistente nella robustezza e nel numero degli individui: forza prevalente nella Società civile, reale, consistente nella ricchezza rappresentata dal danaro. Ora si veda lo stesso progresso nello spirito dell' uomo. Quali sono i primi oggetti che vengono sottoposti alla sua attenzione? le persone: il padre, la prima cosa ferma l' attenzione sulla sua famiglia. Qual' è la prima forza che l' uomo trova per difendersi dagli aggressori? la robustezza corporea. La prima forza adunque che trova il padre per difendere la sua famiglia consiste nel numero e nella robustezza dei membri della medesima. Ma questi membri conviene alimentarli: quindi il bisogno della ricchezza naturale, e il desiderio dei molti membri porta il desiderio di molta ricchezza. La forza di questi membri ben presto si conosce che può accrescersi mediante degli instrumenti delle arti; quindi si porta l' attenzione e il desiderio sopra questa nuova specie di ricchezza. Moltiplicando le riflessioni sopra gli usi che presta questa ricchezza, questo mezzo di alimentare molti uomini, di procacciarsi dei comodi e di ben armarsi 1) per difendere il godimento di questi comodi, si viene a mettere un pregio sempre maggiore nella ricchezza, la quale d' altro lato si rende sempre più necessaria quanto più sono cresciuti i bisogni fattizŒ, quanto i membri della Società sono diventati più numerosi, e quanto hanno fatto più di progresso le altre società contro le quali bisogna difendersi. Il prezzo delle ricchezze così va crescendo fino a tale, che la ricchezza che di natura sua non è che un mezzo, acquista la maggiore importanza e viene considerata come la forza prevalente: allora è il caso in cui le contese non hanno più un oggetto personale, ma un oggetto reale, vale a dire in cui non si questiona e non si guerreggia se non per la ricchezza. Tale è lo stato delle Società civili bene avvanzato. 1) Le Società civili all' incontro che non hanno ricevuto tutto questo sviluppo, che non hanno percorso tutta questa gradazione d' idee; che non sono pervenute a conoscere pienamente l' uso della ricchezza, e quindi a conoscere come la ricchezza possa essere realmente la forza prevalente fra tutte le forze fisiche della Società; si possono considerare ancora in uno stato d' infanzia; non ancora escite pienamente dallo stato di Società domestica, e per ciò soggette alla legge della famiglia, che consiste nella forza personale. Perciò le instituzioni delle società civili che non hanno riguardo alla ricchezza, ma bensì alla forza fisica o personale, appartengono alla prima età della Società civile, o sia alla sua infanzia. Le instituzioni all' incontro che hanno riguardo alla ricchezza, e che la considerano come la forza prevalente, appartengono alla seconda età delle Società civili, o sia alla loro virilità. Quasi tutte le Società civili antiche ritengono ancora dello stato di Società domestica, ossia mostrano dei segni della loro infanzia; e ciò tanto più quanto più si considerano nei loro esordŒ. Rousseau stesso ciò travide. Dopo d' aver detto che la sovranità fondata sulle terre è la più ferma, soggiunge: « « vantaggio che non pare fosse ben sentito dagli antichi monarchi, che non appellandosi se non re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni, sembravano riguardarsi come i capi degli uomini anzichè come i signori del paese. Quelli d' oggidì s' appellano più accortamente re di Francia, di Spagna, d' Inghilterra ecc.. In tal modo tenendo il terreno sono ben sicuri di tenerne gli abitanti »1) » La division che fece Romolo del popolo romano fu un' istituzione famigliare; poichè essa ebbe riguardo alle persone, o sia alla forza militare, e non alle ricchezze. Egli divise il popolo romano in tre tribù, chiamate i Ramensi, i Taziensi, e i Luceri, che esprimevano, non già quanto possedevano ma la loro origine, cioè gli Albani, i Sabini, e gli Stranieri. Ciascuna tribù fu divisa pure in dieci curie, e ciascuna curia ebbe la sua cappella per la celebrazione dei sacri riti, ciò che pure s' accorda coll' indole della Società domestica. Ogni tribù dava mille pedoni e cento cavalieri, che era la forza regolare dello Stato. Una tale divisione famigliare era tanto più possibile in quanto che non si conosceva ancora diseguaglianza nella ricchezza, ed il terreno acquistato in corpo potè esser diviso regolarmente: la Religione e lo Stato poteva averne una parte per le spese pubbliche senza bisogno delle contribuzioni private; e l' altra parte potè dividersi in trenta parti, come trenta era il numero delle curie. Ma egli era impossibile che questa instituzione famigliare sussistesse a lungo, come a lungo non può conservarsi la perfetta eguaglianza delle ricchezze: doveva manifestarsi ben presto la legge della Società civile, doveva presso i Romani conoscersi ben presto la loro importanza politica: e la manifestazione di questa legge, tosto che fosse successo lo squilibrio delle fortune, avrebbe potuto dare la più grande scossa alla repubblica, e metterne in pericolo la esistenza, s' essa fosse stata guasta dalle passioni delle Società invecchiate e corrotte, e se non avesse avuto degli uomini prudenti capaci di seguire la natura delle cose, e di modificare le antiche instituzioni a tenore delle nuove forze che si manifestavano e si rendevano prevalenti nella Società. L' uomo prudente che seppe accorgersi della legge delle Società civili appena che si manifestò in Roma e che diede delle instituzioni in armonia colla medesima fu Servio Tullio, institutore della divisione del popolo romano in centurie. Dalla divisione di Romolo erano trascorsi centottanta anni circa fino a Servio Tullio sesto re di Roma: nel qual tempo la divisione delle fortune private aveva soggiaciuto a grande varietà. Quindi se i cittadini poveri avessero continuato ad avere nelle pubbliche deliberazioni un suffragio di egual valore de' cittadini ricchi, il diritto avrebbe pugnato col fatto, poichè la maggioranza nelle ricchezze dava di fatto una prevalenza nelle pubbliche deliberazioni: 1) prevalenza che se non veniva legalizzata dalla costituzione dello Stato, era già essa stessa un attentato contro la medesima costituzione, la quale sarebbe forse crollata contro una tal forza con grave pericolo della repubblica. Servio Tullio adunque distribuì in sei classi tutto il popolo romano, secondo i gradi della ricchezza. Il censo sotto di lui non fu solamente la numerazione del popolo: fu ancora l' estimo delle sostanze di ciaschedun cittadino. La prima classe era composta di quelli, i beni dei quali ascendevano al valore almeno di centomila assi, corrispondenti allora a 774. franchi, o intorno. La seconda classe aveva per censo 75 mila assi: la terza classe conteneva i particolari d' una sostanza almeno di 50 mila assi: la quarta quelli che ne avevano 25 mila: la quinta i cittadini di 12 mila e cinquecento assi, e la sesta finalmente abbracciava tutti i rimanenti i quali non avessero sostanze bastevoli per entrare nella quinta, o ne fossero al tutto sprovveduti. Diviso così il popolo romano in sei classi secondo l' estimo della ricchezza si attribuì a ciascuna classe un numero di voti nelle pubbliche deliberazioni, che fosse approssimativamente in equilibrio colle ricchezze che possedevano, e ciò si fece in questo modo. Ciascuna classe si divise in un dato numero di centurie, ed ogni centuria aveva un voto. Ma la prima classe dei più ricchi si partì in ottanta di queste centurie, con più diciotto centurie di cavalieri, che nella somma portava un numero di novantotto centurie, e perciò di novantotto voti. Ora un simil numero di voti non avevano nè pure tutte le altre cinque classi prese insieme; poichè non formavano più fra tutte che novantacinque centurie, e però novantacinque voti: ventidue centurie era la seconda classe, venti centurie la terza, ventidue centurie la quarta, trenta centurie la quinta ed una sola centuria formava la sesta classe. In tal modo, sebbene il popolo romano fosse il sovrano, tuttavia non partecipava già secondo le teste ma bensì secondo le sostanze: le ricchezze venivano rappresentate nella repubblica romana e non le persone. La sesta classe per esempio conteneva un maggior numero di persone che tutte le cinque classi precedenti, e formava perciò più che la metà del popolo romano: e tuttavia non aveva nell' Amministrazione che un voto solo, vale a dire la centonovantatreesima parte di sovranità, o sia d' influenza nella pubblica Amministrazione. Se la prima classe sola rendeva i voti uniformi, la cosa era finita, poichè il numero di voti di tutte le altre cinque classi restava minore dei soli voti della prima classe, ed essendo questa un centesimo circa dell' intera popolazione 1), mentre l' ultima classe era più della metà, si può calcolare che un votante della prima classe aveva un voto equivalente almeno a cinquemila persone dell' ultima classe. Si può dire che questa fosse la più sapiente instituzione che avessero i Romani, com' essa era la più fondamentale di tutte, e quella che diede a Roma una costituzione tanto ammirata pei suoi effetti e così poco nella sua intima natura. Vediamo come questa idea si presenta nei libri dei politici romani; giacchè si può dire formare il nucleo della romana politica. Cicerone non finisce d' ammirarla: ed attribuisce ad essa la grandezza romana. Egli pone come assioma politico, « Quod semper in republica tenendum est; ne plurimum valeant plurimi . » E ne rende la ragione; « « debbe, » egli dice, «prevaler sempre il suffragio di quelli che hanno il maggior interesse, perchè la città si conservi in ottimo stato »2). » Paolo giurisconsulto espone la stessa ragione della politica romana con altre espressioni: « « L' avere, » dice, «e la ricchezza delle famiglie è una specie di ostaggio e di pegno ch' esse danno alla repubblica »3). » E` comune presso a' politici romani ancora quest' altra ragione che « « se si dà potere nella repubblica ai bisognosi, essi fanno preda la repubblica per soddisfare a' propri bisogni: 1) » »ciò che è quanto dire, che il potere che hanno in mano, quasi per una natural forza attiva, rapisce a sè la ricchezza. Il peso che ha la ricchezza nell' Amministrazione sociale è un fatto indipendente dagli ingegni degli uomini. Se adunque esaminando le costituzioni di certi popoli si truova che esse sono foggiate a tenore di questo fatto e di questa forza naturale non si debbe già maravigliarsi della sapienza dei popoli e dei ligislatori, perchè non sono stati condotti a quelle savie disposizioni già per delle teorie, ma per la forza della natura: il loro merito sta nell' essere stati obbedienti alla natura, come la sventura di altre nazioni venne dall' abbandonare temerariamente la guida della natura, ed abbandonarsi ad una speculazione priva dell' appoggio dei fatti. Noi veggiamo adunque che la natura delle cose ha indicato ai popoli la legge da noi indicata che l' Amministrazione sociale sia distribuita in proporzione della ricchezza: e che i popoli docili alla voce della natura hanno fatto delle instituzioni favorevoli ad una tal legge. Ma come noi dicevamo, questa legge non si poteva manifestare al primo stabilirsi del popolo: perchè allora non possede ricchezze se non comuni: bisognava dar tempo perchè le terre si dividessero, perchè le famiglie parte assai moltiplicate, parte poco o nulla, od estinte, e gli altri accidenti producessero una notabile diseguaglianza fra i proprietarŒ, e finalmente bisognava dar tempo perchè questa diseguaglianza passasse nella bilancia del pubblico potere, o sia manifestasse la sua influenza: per ciò non è negli esordi delle nazioni, ma dopo ch' esse sono bastevolmente costituite, che la detta legge si manifesta, che i popoli se ne accorgono, e che la secondano colle istituzioni. La distinzione di questi due tempi delle nazioni non si può veder meglio che tenendo dietro ai passi delle nazioni conquistatrici; perocchè quando esse si stabiliscono sul terreno conquistato, allora si può dire che cominci la loro organizzazione sociale. Sentiamo in che modo riconosce questa verità nella storia dei primi governi Greci un Autore della nazione che ha il governo conformato più che tutte le altre in forma di una Amministrazione, e che perciò era scorto in sulla via del considerare l' instituzione dei governi sotto questo punto di vista importante. 1) [...OMISSIS...] Ciò che nacque ai tempi eroici della Grecia, in cui cominciò l' organizzazione sociale mediante una militare autorità, cioè mediante una prevalenza personale che è la legge della società domestica, cui susseguì la divisione delle terre, e venne ben presto la ricchezza a far sentire la sua preponderanza fra le forze sociali, che è la legge delle Società civili avviate; si rinnovellò nelle nazioni conquistatrici del medio evo, mentre, come diceva, date le stesse cause debbono aversi gli stessi effetti. Consideriamo questo fatto in Francia: vedremo ciò che presso a poco successe in tutta l' Europa; vedremo due tempi del potere personale e del potere reale . La maggiorità degli interessi deve sempre prevalere in quel modo che questi stanno nell' opinione degli uomini, e quindi si fa sempre sentire il bisogno di omologare la volontà del principe colla volontà della nazione stessa: ma nel primo tempo non vi sono che interessi personali , e quindi vediamo che la assemblea nazionale ai tempi di Clodoveo non è che il campo di Marte: un' assemblea di guerrieri che a cavallo deliberano in mezzo ad una vasta campagna sugli affari della nazione. Ma ben presto i conquistatori si dividono a sorte 1) i terreni, e quella parte di popolazione indigena che è sfuggita alla distruzione si fa schiava dei vincitori, la quale col perdere la libertà perde insieme la proprietà, e con questa perde ancora ogni politica esistenza. D' allora comincia a manifestarsi l' equilibrio della proprietà col civile potere: i piccoli proprietari erano scomparsi ed i vincitori poco numerosi in proporzione delle terre divise, erano divenuti possessori di latifondi. Quindi le assemblee nazionali sotto Carlo Magno non compariscono che dei gran proprietari, cioè i due stati della nobiltà e del clero, che erano soli quelli che avevano la ricchezza di un peso sensibile nella sociale amministrazione. La nobiltà non eccedeva forse la quintamillesima parte della nazione, come una quintamillesima parte della nazione si può dire che fosse la prima classe di Servio Tullio; se non che le altre classi nei romani ComizŒ avevano pure un lor voto; mentre ai parlamenti di Carlo Magno non aveva influenza alcuna l' immenso popolo rimaso privo di proprietà. Ma comincino a nascere i piccoli proprietari, comincino queste piccole proprietà tolte insieme a diventare una somma notabile: noi vedremo che insieme con questo acquisto di proprietà verrà ben anco la rappresentazione politica, questo fatto si sviluppò sotto la terza razza. Ed ecco in che modo. La proprietà dei Nobili è quella che mette talora in pericolo la corona la quale ha bisogno di trovare un terzo potere che la sostenti. A tal fine Luigi il Grosso comincia a francare le città dei suoi possedimenti, le quali città erano a punto composte dei vassalli, che è quanto dire di servi; ed i re suoi successori proseguono a moltiplicare gli uomini liberi in ragione che potevano unire ai regii dominii qualche terra dei signori. Filippo Augusto che riunì alla corona la Normandia, l' Anjou, la Maine, la Touraine, il Poitou, il Vermandois, l' Artois, la contea di Gien, concesse il diritto di comune a tutte le città di tali provincie e così le francò, e sul fine dello stesso secolo XIII Filippo il Bello con ordinanza fatta al parlamento d' Ognissanti abolì interamente nella Linguadocca la corporal servitù cangiandola in una imposizione annuale. Questo era creare molti piccoli proprietarŒ; e dar la esistenza a molti piccoli proprietari era introdurre nello stato un nuovo potere politico che tantosto comparve. Nel 1301 fu ammesso per la prima volta agli stati generali della nazione da Filippo III sopranominato l' Ardito, oltre il clero e la nobiltà, l' ordine altresì dei liberi cittadini. Il terzo stato vi comparve realmente a dare il suo consiglio, ma sotto la forma di supplica (requˆte) , che presentava in ginocchio. La tassa annuale che veniva messa ai nuovi liberati, si può dire l' origine dell' imposta. Ma dopo ch' essi furono liberi, i proprietari divennero i soli che portavano il carico dello stato, mentre il clero e la nobiltà rimaneva esente dalle imposizioni, come era prima; e ancora in parte da quei sacrifici straordinari che precedentemente far doveva nei bisogni dello stato; mentre non c' eran altri, che pagar potessero, nè altri interessati nella pubblica Amministrazione. Ma si riconosceva però conforme all' equità di consultarli sulle nuove imposizioni, e che fossero da loro acconsentite. Negli stati generali del 1345, sotto Filippo di Valois essi diedero il consenso alla prima imposta di soccorsi e gabelle , e in quegli del 1355 furono scelti fra essi dei commissarŒ, per la riscossione della pecunia accordata al re in uno coi commissarŒ degli altri due ordini. In tal modo si formò la costituzione francese: fu la proprietà che determinò il governo per una forza della natura, secondata dalla saviezza dei reggitori. Al dividersi della proprietà si divise con essa il governo, e se non si fosse diviso sarebbe nata la turbolenza della Società, ed il monarca per trovare un sostegno contro i nobili non avea che a creare dei piccoli proprietarŒ, poichè con questi creava una forza tendente continuamente da se stessa a prender posto nel governo, al quale scopo presto o tardi sarebbe riuscita o con una concessione savia di quelli che già governavano, o certo in ultimo per un' aperta violenza. Egli è dunque falso ciò che vien comunemente creduto, che il governo francese rappresentasse di sua natura dei principŒ, e non delle cose, a differenza della costituzione inglese rappresentante delle cose e non dei principŒ. Non vogliamo già dire che l' antica costituzione francese avesse perfettamente soddisfatto alla legge dell' Amministrazione, e conseguito un perfetto equilibrio fra il potere civile, e la proprietà: noi diciamo solo che lo ha conseguito approssimativamente: mentre anzi assegniamo per quinto fatto somministrato dall' istoria: « Che la mancanza del Tribunale politico presso tutti i popoli ha impedito ancora l' esistenza di un' Amministrazione perfetta, in cui la proprietà sia perfettamente equilibrata col potere amministrativo. »Per ciò nè pure in Francia la costituzione ebbe mai toccata questa perfezione amministrativa: e si può anche concedere, che si tenne sempre più lontana da ciò che non sia la costituzione inglese; poichè in Francia spiegò maggior forza l' elemento morale che in Inghilterra, come viceversa in Inghilterra spiegò maggior forza l' elemento amministrativo che in Francia: quantunque sì nell' una che nell' altra nazione, prevalse l' elemento amministrativo all' elemento morale. E in fatti l' elemento amministrativo debbe sempre avere maggior forza, nelle costituzioni in cui questi due elementi rimangon confusi, dell' elemento morale: poichè l' elemento morale non riguarda che la difesa della minorità; mentre la maggiorità rimane difesa coll' organizzazione in forma amministrativa. Perciò egli è assurdo il dire che l' antica costituzione francese rappresentasse solo dei principŒ; mentre i principŒ non potevano aver in essa che la minor influenza, e nella sua massima parte doveva esser formata dalla maggiore somma degli interessi, o sia dalla proprietà: idea quanto vera, tanto ripugnante al presente modo del pensare dei francesi. Ma per convincersene essi non avrebbero, che ad osservare quanto avvenne allorquando si dipartirono dalla legge della natura: quando vollero atterrare la loro costituzione che si appoggiava sulle cose, per sostituirne una che rappresentasse dei principŒ: quando in somma violarono la legge dell' equilibrio fra la proprietà e il potere; legge che non si può violare senza che la natura delle cose non ne punisca l' imprudenza severamente, fino che non sia a pieno vendicata, e la sua legge di bel nuovo ristabilita. In fatti i mali della rivoluzione francese non hanno altra cagione prossima che la violazione di una tale legge. Se lo stato delle cose pubbliche era difettoso, se le imposte pesavano soverchiamente sopra quel genere di persone che era più oppresso dalle fatiche, e le odiose esenzioni, il soverchio lusso, e le dilapidazioni della Corte e delle finanze mal disponevano gli animi: qual era il rimedio efficace e sapiente a tali mali? Bisognava formare un più comodo riparto delle proprietà, e quindi appresso una distribuzione dell' Amministrazione governativa equilibrata colle medesime. Un più comodo riparto delle proprietà non si potea far che in due modi: il primo con violenza e con ingiustizia; e questo era celere, se pur non avesse incontrato una reazione che lo rendesse impossibile: il secondo colle instituzioni; e questo era lento verso all' impazienza dei francesi; ma poteva esser giusto. Egli è appunto quel modo, di cui, come abbiamo detto, si servì Luigi il Grosso: egli vide la corona in pericolo, e lo stato stesso straziato dai disordini dei nobili: e cercò di porvi rimedio col promuovere una nuova distribuzione della proprietà in un modo giusto, qual fu quello della francazione delle città appartenenti ai dominŒ della corona, promovendo e creando in tal modo i piccoli proprietarŒ, e dando l' esistenza così ad un terzo stato, che allargasse la base del potere, e collegato colla corona facesse fronte alle soperchieriere della nobiltà. Ma solo con delle instituzioni che avessero messe in esecuzione con maggior esattezza la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, io credo che la Francia sarebbe stata alleggerita dei mali che la aggravavano dopo la metà del secolo scorso: poichè egli è impossibile, che se avesse potuto parlare e in conseguenza prevalere la maggiorità degli interessi, non sarebbero più potute sconcertarsi le cose pubbliche per la prevalenza delle opinioni, o sia dei principŒ, mentre le parole la perdono sempre quando si mettono a fronte delle cose. Ma invece di ciò, che si fece? I mali di cui era aggravata la Francia erano reali: si disse di volervi porre un rimedio: nulla fino quì di male. La sapienza per ritrovare questo rimedio mancava; e quelli che avevano ottenuta celebrità di sapienti erano i filosofi . Poichè i mali erano da tutti sentiti, la necessità del rimedio era pure da tutti sentita: v' era dunque la disposizione degli animi a ricevere ciò che si presentava come rimedio dei mali. E poichè è naturale di cercar sempre il rimedio da quelli che hanno l' opinione d' essere sapienti, così era naturale che i filosofi che avevano saputo usurpare l' opinione di sapienti, fossero anche i legislatori. Questi stolti che riguardavano come « una idea vana e una fatica ingrata lo studio « delle antiche costumanze, »presso i quali tutto ciò che era passato era barbaro, e tutto ciò che si ritrovava nel fatto era ingiusto; si ritrovavano ben lontani dall' esser disposti dall' applicarsi a consultar l' esperienza; ed alla noia di fissare con un lungo studio dei fatti le leggi della natura, preferivano ben volentieri le istantanee creazioni della loro mente, alle cui decisioni con una inconcepibile presunzione e cecità, sembravano persuasi che avrebbe obbedito docilmente l' universo. Con queste disposizioni si aprirono gli stati generali del 5 Maggio 17.9. L' antica legge dell' equilibrio della proprietà col potere fu disconosciuta: la distinzione dei tre stati, che era l' effetto dell' esperienza dei loro antenati, e l' espressione della detta legge, fu tolta: i principŒ furono sostituiti alle cose; e il terzo stato pretese, che non si dessero più i voti nelle tre assemblee divise, come si era fatto per tanti secoli; ma rovesciando queste rancide costumanze, che i poteri si verificassero in comune senza distinzione d' ordini: che l' assemblea fosse una sola, e i voti fossero dati per testa. Invano si resistette alquanto dai due altri ordini, non immuni dalla vertigine delle teorie, e il giorno 17 di Giugno i Comuni, che così si chiamarono quelli del terzo stato, uniti ad alcuni deficienti degli altri due ordini, abolirono ogni distinzione d' ordini e si costituirono in assemblea nazionale; e il 27 di Giugno il Re stesso intimidito, avendo scritto a quella parte del clero e della nobiltà, che non s' era ancor aggiunta ai Comuni, di farlo, tutti i deputati siedono insieme confusi sulle medesime panche. La rivoluzione con quest' atto era già fatta. Il Clero avea 290 Deputati, la Nobiltà 270, il terzo stato 59.. Il terzo stato adunque, avea 40 voti di più. In tal modo il potere si ritrovava nelle mani di quelli che non avevano la proprietà: gli interessi non erano rappresentati, ma le persone: la Società aveva retrogredito al primo stato sociale, con questa differenza, che le Società che sono nel primo stato hanno una rappresentazione personale, perchè la proprietà non è divisa o è divisa equabilmente, mentre le Società avanzate, dove è introdotta la disuguaglianza della proprietà, ricevendo una rappresentanza personale vengono ad avere un fatale squilibrio fra la proprietà ed il potere, che debbe produrre in esse l' agitazione. In tal modo ricevuto nelle mani dei non proprietarŒ il potere, togliendolo dalle mani dei proprietarŒ, essi avevano con ciò assalita la proprietà stessa. Invano molti rivoluzionari protestarono di non voler assalire le proprietà: la rivoluzione le assalì di fatto, dall' istante che il maggior potere fu dato in mano di quelli, che non erano proporzionati proprietarŒ, dall' istante che fu introdotta la teoria della rappresentazione personale. Il potere tira a sè la proprietà, specialmente un potere nuovo e rapito ai proprietarŒ; poichè egli ha bisogno della proprietà per sostenersi. Per ciò egli è verissimo, che nella rivoluzione francese i principŒ non furono che il pretesto: mentre essa si può a pieno definire, chiamandola una guerra fatta alle proprietà. Basta considerarla in tutti i suoi passi perchè si veda continuamente in essa una forza, che si aggrava continuamente adosso degli antichi proprietarŒ; che prima non agisce apertamente che contro i più deboli, e poscia ancora contro i forti: sono i beni del clero quelli che prima vengono divisi; intanto i nobili sono costretti di fuggire spaventati e di lasciare le loro sostanze preda ai nuovi conquistatori: che che si dica contro agli emigrati, qualunque ingegnoso ragionamento s' instituisca, per ritorcere in loro colpa la loro infelicità, non si potrà giammai oscurare il vero, che risplenderà lucido più che il Sole agli occhi della posterità, quantunque annebbiato ai presenti da tante pestifere esalazioni. I nobili non avevano più la forza in mano da poter difendere la loro proprietà: questa forza era in mano dei minori proprietarŒ, da cui avrebbero dovuto temere, quando anche non si fossero stati per gli principŒ dichiarati loro nemici: non restava dunque ai nobili che di lasciar la preda delle lor proprietà, e di mettere in salvo colla fuga le loro persone, eccitando con ciò stesso la commiserazione ed invocando l' aiuto di potenti stranieri. Invano si fa colpa al debile di essere ricorso al forte per sorreggersi contro i colpi degli oppressori: questo non era che una conseguenza naturale della debolezza a cui s' erano ridotti; non fu difficile spogliare i ricchi indeboliti, spaventati, fuggiti. Successo in tal modo un grande squilibrio tra la proprietà e il potere, lo stato delle cose pubbliche era tale, che il diritto al potere non nasceva già dalla proprietà, ma dall' abilità personale. E come questo potere, portava seco il dispotico dominio delle proprietà, poichè non v' era più nessuno che le potesse difendere; per ciò tutti quelli che si credevano d' avere dell' abilità sufficiente, dovevano disputarsi in nome dei principŒ proclamati un governo, che di sua natura era così ricco quanto era ricca la nazione. Di che dovevano nascere quelli accaniti dibattimenti e quelle atrocità orrende che nacquero. A chi si poteva appellare nel contrasto delle abilità personali? alla forza; secondo la legge del primo stato della Società, nel quale prevale la forza fisica. L' anarchia per ciò durar doveva fino che una forza fisica prevalente soggiogasse tutte le altre; cioè fino all' epoca dell' impero. Il comando militare doveva tener il luogo del governo civile; e non è meraviglia se Napoleone che operò questa ultima rivoluzione considerasse la forza militare come l' unico vero sostegno del suo, come di ogni altro potere 1); egli sapeva di quanto andasse debitore a questa forza. Si considerino dunque i progressi della Società nella Francia; e si vedrà, che tutta la storia conferma questa legge uscente dalla natura delle cose; che la proprietà ed il potere tendono ad equilibrarsi: 1 dei conquistatori ascendendo fino all' epoca di Clodoveo, presso il quale prevale la forza fisica, e la abilità personale, primo stato della Società. 2 noi vediamo, la proprietà influire un poco alla volta nella forma del governo civile fino ch' essa diventa una forza prevalente; vediamo il potere civile tener il luogo del potere militare e distribuirsi a quel modo stesso che si distribuisce la proprietà, prima in due stati, e poi in tre, perchè un terzo stato diventa proprietario: quest' è il secondo stato della Società che dura fino alla rivoluzione francese; ed esso è l' opera delle forze della stessa natura. La rivoluzione sostituisce alla natura la teoria, ed ecco ciò che fa: 1 Produce lo squilibrio fra la proprietà ed il potere; cioè a dire rimette in piedi il principio della rappresentazione personale, ed eseguisce questo principio col far sì che il terzo Stato dei minori proprietari acquisti un potere prevalente e quindi sia spogliato del potere civile il clero e la nobiltà, cioè i maggiori proprietarŒ. 2 Il potere civile messo nelle mani del terzo stato, e quindi resi i minori proprietari arbitri delle fortune della nazione, diventa un oggetto della cupidità di ciascuno che vuol arricchire: e d' altro lato non essendovi che una maggiore abilità personale, che fornisca in tale stato di cose un titolo per aver in mano il potere civile, tutti quelli che possono se lo contendono, presumendo di esser più abili, e d' aver teorie migliori da far valere, per le quali ognuno si vanta chiamato dal proprio genio a salvare la patria. 3 L' abilità individuale non avendo nessun tribunale che la determini si appella alla forza fisica, e la forza fisica distrugge il potere civile insieme con tutte le antiche istituzioni, e getta lo stato nell' anarchia. Qui finisce la storia della Società in Francia: la quale ha due periodi: il primo di una Società che si forma, e che comincia dal VI secolo fino all' anno 17.9; il secondo di una società che si distrugge, e che comincia il 13 giugno 17.9 fino al 1. Maggio 1.04. In quest' anno ricomincia un' altra Società, giacchè il potere militare si è legalizzato e stabilito. Ella è nel primo stato tale Società, o più tosto ritiene del primo stato, mentre è ancora prevalente la forza fisica nella Società. Ma la legge del secondo stato si manifestò immediatamente; poichè la distruzione della Società troppo rapida per distruggere le idee morali degli uomini, non era stato tanto una rapina del potere civile, quanto pel rapito potere civile una rapina delle proprietà. Delle grandi fortune erano sorte sulla distruzione delle antiche; e quelli ch' ebbero in mano prima il potere civile e successivamente il militare, non mancarono d' avere ben presto in mano anche le corrispondenti ricchezze. In tale stato di cose le turbolenze dovevano finire di lor natura, perchè era stato restituito l' equilibrio delle proprietà e del potere, ed in tal modo doveva apparire il potere civile allato del militare in equilibrio colla ricchezza e dovevano formare insieme un governo civile bensì, ma che rammentasse ancora un' origine militare. Così la rapina del potere civile fatta ai proprietarŒ avea cagionato la rivoluzione, e la rapina delle proprietà l' aveva finita; perchè aveva restituito l' ordine della natura, sebbene non l' ordine della giustizia: aveva ritornata la Società regolare, sebbene non giusta. Ciò è tanto vero che i nuovi proprietarŒ, i quali avevano cagionato la rivoluzione, erano appunto quelli che rendevano solida la proprietà nel nuovo stato di cose, perchè non si turbasse, come esperimentò Napoleone quando tornò a usare di quelli di cui avea fatte le fortune: tanto è vero, che i proprietarŒ sono quelli che usano del potere che hanno in mano, perchè le cose restino tranquille; mentre volendo fare una rivoluzione, basta prendere il potere dalle mani dei proprietarŒ ed affidarlo ai non proprietarŒ; poichè questi, un poco di mal umore che sieno, saranno tentati di metter lo stato a turbolenza. In pruova di ciò sieno questi passi del Manoscritto del 1.14 pel Baron Fain, segretario di gabinetto a quell' epoca. [...OMISSIS...] Il terzo fatto è il seguente: « Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale hanno prodotte novità politiche. » Gli economisti avendo per oggetto della loro applicazione la ricchezza potevano essere più in grado di tutti gli altri di conoscere e di fissare la legge dell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile. In fatti considerando essi la ricchezza nella sua relazione politica travidero la detta legge, ma non poterono fissarla con nettezza, perchè non era ancora stato diviso il Tribunale politico dall' Amministrazione, e la detta legge quanto vale per questa seconda parte del potere civile, altrettanto male si applica alla prima. Oltre di ciò una parte di essi non videro la cosa che imperfettamente, perchè imperfetto era il loro sistema: parlo di quelli che riguardando per unico fonte di ricchezza il terreno a questa sola specie di proprietà attribuirono i diritti politici. Egli è vero che la ricchezza industriale e commerciale dipende come da suo primo fonte dalla ricchezza territoriale. Ma non è già per questo vero, che i possessori di quelle due specie di ricchezza mobiliare, sieno in una vera dipendenza di fatto dall' arbitrio dei possessori di terreni, poichè questa dipendenza di fatto viene esclusa dall' interesse stesso dei possessori dei terreni. Come a questi non è utile ribassare l' industria ed il commercio, perchè sono i mezzi onde s' accresce il valore di ciò che produce il terreno: quindi l' esistenza della ricchezza mobiliare vien ad essere altrettanto assicurata, quanto l' esistenza della ricchezza territoriale; conciossiacchè tanto è lungi che l' arbitrio dei possessori delle terre voglia distruggere quella ricchezza, che anzi questo arbitrio stesso è quello che la incoraggia e sostiene, mentre per la stessa ragione che il ricco terriere vuol cavar molta entrata dalle sue terre, per la ragione stessa debbe volere che vi sia molta industria e molto commercio. Per ciò contro questi economisti che vorrebbero restringere la rappresentazione civile solamente alla ricchezza terriera, sta la storia delle Società civili, la quale dimostra il fatto qui sopra indicato; cioè che non solo la ricchezza territoriale tende ad equilibrarsi col potere politico, ma ben anche la ricchezza commerciale e la ricchezza industriale. Ciò che dimostrano l' istorie costantemente nelle Società civili si è, che quando esse passano dalla legge famigliare alla nazionale, e perciò dall' avere una rappresentazione personale all' avere una rappresentazione reale, che sono i due stati sopra distinti delle Società, la prima ricchezza che si manifesta è la territoriale; e solamente dopo qualche tempo, migliorando l' agricoltura e aumentando la popolazione, comincia a conoscersi la ricchezza commerciale e industriale. Prendendo a considerare la storia delle nazioni conquistatrici cioè di forse tutte le nazioni, si ritrova di più che la ricchezza commerciale e industriale tarda un buon pezzo a manifestarsi dopo la ricchezza agricola, anche perchè passa alcun tempo fino che sortano i piccoli proprietarŒ, l' origine dei quali, come abbiamo veduto, nasce dagli schiavi messi in libertà, e questi sono quelli che diventano poscia i mercenarŒ, gli uomini d' industria, i commercianti. Il progresso per ciò nelle nazioni conquistatrici è il seguente: 1 conquista, e rappresentanza personale con beni indivisi; 2 divisione di terreni, e degli schiavi fra i vincitori, possessori di latifondi: quindi ricchezza agricola , e rappresentazione della ricchezza agricola mediante i gran proprietarŒ; 3 liberazione degli schiavi, francazione dei borghi, o comuni; e quindi nascita dei piccoli proprietarŒ, e rappresentazione delle proprietà mediante il terzo stato; 4 Comparsa del commercio e dell' industrìa: e quindi della ricchezza commerciale e industriale, specialmente per opera del terzo stato: quindi rappresentazione politica, non solo della ricchezza agricola, ma ben ancora della ricchezza commerciale e industriale mediante il terzo stato , il quale viene ad acquistare con ciò una gran forza nella Società. Chi leggerà le istorie con attenzione vedrà che tutte d' accordo non danno che questi stessi risultati. Di quì avviene che la teoria degli Economisti di attribuire la rappresentazione politica al solo terreno, ha benissimo luogo; ma solo in quell' epoca nella quale non è comparsa ancora nella nazione la ricchezza commerciale ed industriale: ma la sola ricchezza agricola. Sentiamo uno istorico: [...OMISSIS...] Ma come la sola proprietà territoriale viene rappresentata, dovunque ella sola esiste, così dovunque una forte ricchezza commerciale e industriale apparisce, esercita ben tosto un peso nella bilancia politica, e spinge dirò così per intromettersi nel governo, o per altrui consenso o per forza. La proprietà commerciale e industriale viene in mano, come diceva, del terzo stato, e perciò dove questa si rinforza, la plebe acquista maggior grado d' autorità: di che nasce che le città marittime commerciali e industriali inclinino ben tosto ad un reggimento repubblicano. Le prime repubbliche d' Italia furono quelle delle coste del Regno di Napoli, fra le quali è celebre quella d' Amalfi [...OMISSIS...] Le città marittime dell' Istria e dell' Illirico, governate liberamente, Venezia e Genova, provano il medesimo. La ricchezza commerciale tanto potè in Firenze che vi dispose per buon tempo quasi esclusivamente dello stato. La forma di governo stabilita da' Fiorentini nel 12.2, e che sottosopra durò fino alla caduta della repubblica, era democratica, e composta sulla massima « « che d' una repubblica mercantile dovevano avere l' Amministrazione i soli mercanti: i membri di quella magistratura avevano il titolo di priori delle arti » » per indicare, dice il Sismondi, « « che l' assemblea dei primi cittadini d' ogni mestiere rappresentava tutta la repubblica. » » [...OMISSIS...] Da ciò che abbiamo detto si può vedere, che quella stessa ragione per cui la ricchezza terriera viene ad influire nel governo, vale per la ricchezza mobiliare. Il governo si può considerare come una forza, che regolando la modalità dei diritti li difende e li accresce: questo è l' uso legittimo di una tal forza: ma in mano agli uomini havvi di fatto anche un abuso di questa forza, e in tal caso il governo si può considerare come una forza di tirare a sè un maggior numero di diritti. Giacchè questo secondo effetto che si può ottenere dall' autorità governativa è comune egualmente ai ricchi ed ai poveri; perciò rimane che quelli sieno più interessati di tirare a sè il governo, i quali hanno più diritti da difendere e da promuovere. Per ciò i poveri non possono ambire il governo se non per una malvagità, cioè a dire per la voglia di tirare a sè le proprietà, mentre i ricchi vogliono tirare a sè il governo per difendere col medesimo i proprŒ diritti da chi vorrebbe rapirli e per amministrarli utilmente: il qual desiderio è giusto e secondo natura; mentre il primo è ingiusto e contro natura, e perciò non può essere nè così universale nè così forte; tanto più che i poveri non hanno i mezzi da farlo valere. Questo avviene nel fatto; ma considerata la cosa nella teoria si verifica il medesimo. Supponiamo che il Governo sia in mano di persone non proprietarie: in tal caso egli può essere giusto , purchè le persone non proprietarie lo abbiano ottenuto per alcuno di quei titoli giusti che abbiamo enumerati 1); ma egli non sarà tampoco regolare ; poichè non esisterà in esso l' equilibrio tra la proprietà ed il potere. Or avranno essi diritto i proprietari di voler entrare a parte del governo e spogliarne le persone governanti non proprietarie? Non mai: questo è quello che si debbe rispondere se si parla di diritto. Ma se si chiede che cosa avverrà probabilmente nel fatto, si potrà rispondere con una fondata conghiettura, che un tal governo non durerà lungamente: poichè le persone governanti hanno bensì il diritto di governare, ma il loro diritto rimane indifeso e non garantito per mancanza della proprietà. Che cosa dunque succederà? Se le persone governanti vengono prese in sospetto d' ingiustizia e di malvagità, i proprietarŒ si ribelleranno e chiederanno di governar essi. E sebbene sia difficile che un tal sospetto non nasca sulle persone governanti, supponiamo tuttavia, che la loro riputazione sia tale, che le salvi da ogni sospetto d' iniquità. In tal caso le persone governanti saranno imbarazzate a governar con sapienza; poichè ci vuol una sapienza sovraumana a regolare la modalità di tanti diritti nel miglior modo, senza conoscer da vicino l' Amministrazione dei diritti stessi, o per dir meglio senza amministrarli. Non governando adunque con tutta la sapienza avverrà che i proprietarŒ in danno dei quali cadono i difetti dell' Amministrazione, se ne risentano, e sdegnino di essere in tal modo amministrati: e ciò tanto più, quanto più hanno di lumi, per li quali sieno in caso di conoscere i difetti del governo. Ma facciamo una supposizione ancora più larga, cioè supponiamo, che un governo non proprietario (cosa al tutto impossibile) governi con perfetta sapienza. Cercheranno meno per questo i proprietarŒ di entrare nel governo? non già, poichè non basta che il governo operi con tutta sapienza: bisognerebbe che i proprietarŒ fossero di ciò a pieno persuasi. Ora quando sarà mai possibile, che i proprietarŒ si persuadano, che la modalità dei proprŒ diritti sia meglio amministrata da altri che da se stessi? Ma dato anche ciò rispetto ad un particolare governo, non saranno essi solleciti di assicurarsi anche per il futuro? E qual miglior garanzia di quella di essere essi stessi quelli che dispongono delle cose politiche? Il perchè si può ragionevolmente dire, che i proprietarŒ avranno sempre una tendenza ad intrudersi in quel governo dal quale essi fossero esclusi, e che la Società perchè sia quieta conviene non solo che sia giusta , ma ben ancora che sia regolare , altramente il fatto pugnerà col diritto fino che le leggi naturali non si trovano d' accordo colle leggi morali. Noi abbiamo ricapitolato questo argomento per far osservare, che egli si applica ad ogni sorta di proprietà e che non solo la ricchezza terriera, ma ben anche la ricchezza mobiliare, tende di sua natura ad intromettersi nel governo. Egli è quello, come dicevamo, che le istorie mostrano costantemente. Appena che in una nazione comparisce la ricchezza mobiliare, e cresce ad un certo grado si vedono altresì le contese politiche dei mercatanti possessori della ricchezza mobiliare coi nobili possessori della ricchezza territoriale. I nobili sono gli antichi posseditori del governo: i mercatanti sono i nuovi proprietarŒ, la cui esistenza ha reso irregolare la forma del governo: perchè ha introdotto nella società una proprietà non rappresentata: quindi tendono a conseguire la rappresentazione della medesima, perchè la necessità vuol di nuovo regolarizzarsi. - Ma i proprietarŒ delle terre trovandosi già in possesso del governo, se in vece di essere persuasi o trattati con arte dai mercatanti, vengano assaliti violentemente, allora nasce una lizza per la quale l' impulso naturale, che tende a regolarizzare la proprietà si perde di vista: i proprietarŒ delle terre, ossia i nobili 1) credono d' essere ingiuriati dal partito opposto, e sono veramente, o sempre poi ve n' ha tutta l' apparenza. Quindi non si contratta più fra questi due partiti: non si cerca più concordemente il bene dello stato: ma invece di ciò si tende a screditarsi a vicenda: i mercatanti rinfacciano ai nobili il loro orgoglio, i loro vizŒ, la loro ambizione, l' avidità la voglia di dominare, e di tiranneggiare: i nobili all' incontro rinfacciano ai mercatanti l' insubordinazione, la voglia di disordinare la Società, lo spirito sedizioso, il disprezzo delle potestà costituite da Dio, il democratismo, l' empietà. In tal modo non è più la forza naturale delle cose che opera, ma le sollevate passioni, e l' accanimento delle due parti passa ben presto ogni termine. In tale stato di cose nè l' una nè l' altra parte pensa di dare allo stato un equilibrio fondato sull' equità, ma l' una parte non pensa che a divorar l' altra s' ella può; e ciascuna parte maneggia d' avere in mano il governo, non più perchè lo consideri come una forza di proteggere e di promuovere tutti i diritti; ma perchè lo considera come una forza di proteggere e d' accrescere i diritti proprŒ, distruggendo quelli della parte contraria. Tale è la celebre ed infelice istoria delle repubbliche italiane del medio evo. Ascoltiamo ancora qualche passo dell' istorico delle medesime. Abbiamo veduto che la forma di governo stabilita in Firenze nel 12.2 fu interamente mercantile, giacchè i sei Priori delle Arti eran quelli che componevano la signoria. Ma l' esclusione dei gentiluomini ben presto andò più avanti. [...OMISSIS...] Lo stesso caso veggiamo avvenire in Siena. [...OMISSIS...] Qual fu l' effetto di questa forma di governo nella quale non entravano che mercanti, essendo esclusi assolutamente i nobili? Udiamolo: [...OMISSIS...] In Arezzo era successo il medesimo. Ma non durò per una controrivoluzione, che tornò i gentiluomini insieme col partito ghibellino al reggimento della città. [...OMISSIS...] I nobili esclusi dal reggimento dovevano risentirsi; ma in Firenze non avevano forza di reagire per le loro discordie. Non restava loro che disprezzare il nuovo governo, e sdegnare di sottomettersi ai mercanti. Questo disprezzo il manifestarono con un impotente orgoglio, col ricusare di sottomettersi ai Tribunali, di fare ciò che volessero e di proteggere gli scellerati con che non ottennero se non che fosse raggravata l' oppressione sopra di loro, e che nascessero gli ordini posti da quel severo Giano della Bella, che di gentiluomo s' era fatto popolano. Egli arringò il popolo, ed ottenne una commissione per rendere la signoria più forte mediante il potere militare contro dei nobili. [...OMISSIS...] Il Macchiavelli paragona le dissensioni di Firenze fra il popolo ed i nobili a quelle di Roma, e le distingue dai loro diversi fini così: [...OMISSIS...] E chi vorrà sapere la ragione di queste differenze fra le dissensioni di Roma e quelle di Firenze, anzi di tutte le repubbliche del medio evo, le troverà in questo: che il popolo di Roma fino dal principio ebbe proprietà, e parte corrispondente nel governo; sicchè non si trattava in quelle dissensioni che del modo di fare le parti giuste fra due padroni, o di rendersi scambievolmente giustizia. Presso i Romani non si conobbe si può dire altra ricchezza che la territoriale, e per questo prima che cadesse il governo nel dispotismo militare, le tribù rustiche erano le più stimate, e le arti meccaniche vi erano temute: il commercio non vi era promosso 1); e nessuno forse si è accorto della ragione politica di questa umiliazione, in cui si tenevano l' arti e i commerci. Dagli antichi proprietarŒ e governatori della cosa pubblica si temeva che non comparissero dei proprietarŒ di nuova specie, che aspirassero all' Amministrazione dello stato. All' incontro nel medio evo le dissensioni successero così. Le proprietà come pure il governo era interamente in mano dei nobili, e il popolo non esisteva nè come proprietario, ne' come amministratore delle cose pubbliche: egli era schiavo dei nobili. Dopo il mille nacque la sua liberazione per quelle cagioni che abbiamo dette, in tal modo comparve una popolazione libera: il primo passo che fece questa popolazione fu di diventar proprietaria: il secondo passo fu di presentarsi agli antichi padroni, pretendendo di avere anch' essi parte nel governo. La questione adunque non riguardava come a Roma nel doversi fare le parti eque di un bene posseduto in comune: ma si trattava di torre questo bene a chi per innanzi tranquillamente lo possedeva, e di farselo cedere per amore o per forza. Quelli che si presenta per avere la roba altrui non si presume già che si contenti di una sola parte, ma di ottenerne più che può; giacchè non è la giustizia ciò che lo conduce ad operare, ma è l' avidità. La questione in questi termini prendeva nelle opinioni quel carattere che ha la pugna tra il viandante e l' assassino: l' uno e l' altra non mira a meno che a sgozzarsi. Sembra che la popolazione schiava, a fare il primo passo, cioè ad acquistare la libertà e la proprietà, impiegasse due secoli, e che nel secolo XIII, facesse il secondo, cioè pugnasse per l' acquisto del potere politico. 2) [...OMISSIS...] In un secolo si resero prevalenti anche nei governi, sicchè come vedemmo negli ultimi vent' anni del secolo XIII i mercatanti ebbero la somma delle cose pubbliche, esclusa la nobiltà. La lotta delle parti che sostiene, anche presentemente, il governo d' Inghilterra non è parimenti che una lotta d' interessi, la ricchezza industriale che combatte colla ricchezza territoriale. Dovunque le forze della natura hanno libera azione, questa lotta si debbe manifestare, e non può finire se non allorquando tutti i membri della società sieno convenuti nell' equità dell' Amministrazione da noi proposta, nella quale ciascuno si appaghi di avere un voto corrispondente alla sua ricchezza di qualunque genere questa sia, o territoriale o mobiliare. 2) Per altro l' istoria della società civile in Inghilterra presenta gli stessi fatti che l' istoria della società civile in tutti gli altri paesi d' Europa: anche colà si vede passare la società da una rappresentanza personale ad una rappresentanza reale: e datare da questo secondo stato della società l' epoca di una esistenza civile non più solo militare, ma di una costituzione formata: anche colà la rappresentazione reale che dà la forma al governo subisce le stesse modificazioni della ricchezza: prima non esiste che una ricchezza terriera divisa in grandi masse, e quindi non hanno mano nel governo che grandi signori: anche là vengono poi francati gli schiavi e quindi sorgono i piccoli proprietarŒ; quindi ancora s' introduce nelle assemblee politiche il terzo stato: anche là comparisce in appresso accanto della ricchezza territoriale la ricchezza industriale e commerciale: ed anche là questa ricchezza dimanda ben presto ed ottiene di aver parte nel pubblico reggimento, non senza sdegno e reazione della nobiltà, sicchè queste due ricchezze territoriale e mobiliare seguitano a guardarsi pure come due rivali. I recenti democratici francesi come pure i radicali inglesi hanno fatto di tutto per contraffare la storia d' Inghilterra, e per trovare nelle antiche croniche qualche traccia di rappresentazione personale: ma i loro sforzi non hanno fatto che mettere in maggior evidenza la natura della Costituzione Inglese fondata sulla ricchezza. « « Ogni rappresentazione, » dice Arturo Joung, «che ebbe luogo negli antichi tempi, fu una rappresentazione di proprietà non mai di persone »1) » Riguardo all' Inghilterra, a confirmare ciò, egli cita l' opinione dei più riputati scrittori inglesi. Il dottor Squire nel suo esame della Costituzione Inglese dice [...OMISSIS...] Così l' Inghilterra dunque come gli altri stati d' Europa vide i piccoli proprietarŒ ascendere al governo nel secolo XIII ed avere adoperato i due secoli precedenti per acquistare la libertà e la proprietà; giacchè « « dal libro dei registri Doomsday7Boock apparisce che l' Inghilterra era piena di villani e di schiavi al tempo di Odoardo il Confessore (1066). » » Non si può parlare con più mal senso delle modificazioni che Odoardo I ha dato alla Costituzione inglese di quello che abbia fatto il Sig. Raynal nella sua Storia del Parlamento d' Inghilterra . Il suo modo di parlare manifesta la mancanza dei principŒ di una vera politica, se non forse dei principŒ di qualunque politica. Dopo aver detto che montando Odoardo sul trono aveva dissimulato le usurpazioni fatte dai Comuni nella sua assenza, che poi, quando si credette bastevolmente amato e temuto, tolse a ricuperare i diritti del trono, cominciò a regnare senza parlamento, e senza dar bada ai privilegŒ della Gran Carta, impose egli stesso dei sussidŒ straordinarŒ, chiama questo partito, preso dal re, generoso , e non gli fa altra colpa se non ch' egli non avea esaminato innanzi s' egli aveva un carattere abbastanza fermo contro gli ostacoli, le pretensioni orgogliose, e il genio altiero dei suoi popoli. [...OMISSIS...] Non è così che si debba portar giudizio della condotta di Odoardo, dove la si riscontri coi principii d' una savia politica. I diritti del trono di Odoardo saranno stati incontrastabili; ma non è già per questo che egli li dovesse ostinatamente difendere. La costituzione della società era giusta come nel secolo precedente; ma al tempo di Odoardo, rimanendo giusta, cominciava a rendersi irregolare; mentre erano comparsi recentemente dei corpi di persone libere quali erano i Comuni, che pur nel governo politico non erano rappresentate. Non è dunque da chiamar generoso il partito preso di difendere a tutto rigore i diritti del trono: ma piuttosto si debbe lodare Odoardo per la sua moderazione nell' aver desistito dal conservare a rigore l' antica costituzione, nel cedere qualche cosa per rendere regolare la società: è da lodarsi per la sua saviezza nell' avere assecondato la legge della natura e nell' avere riguardato le usurpazioni dei Comuni piuttosto come uno sforzo della società, che voleva rimettersi in equilibrio, che come un peccato dell' umana perversità. Il suo partito fu generoso, perchè rimise dei diritti proprŒ, perchè la costituzione dello stato riuscisse più solida: il suo partito fu anche avveduto, poichè è regola certissima di prudenza di non volere ostinatamente « opporsi ad una resistenza che nasce da una legge della natura delle cose, e non dagli uomini ». Il dire che ciò nacque più da timidità che da saviezza, non toglie la verità delle cose dette, non toglie che se fosse stato sul trono inglese un principe o troppo tenace del sommo diritto, o troppo presuntuoso delle sue forze, non avesse operato assai peggio, e per lo meno ritardata la perfezione della società in Inghilterra. Invano Odoardo più tardi tornò al pensiero di riprendere i diritti ceduti: la legge della natura la vinse, e la costituzione data, appoggiata sulla medesima, vie più si confermò. Il Sig. Raynal fu spettatore delle conseguenze funeste della rivoluzione francese, vide il frutto dei principii ch' egli stesso avea pubblicati, e ne fu inorridito, manifestando il suo orrore colla Lettera che scrisse il 31 maggio 1791 all' Assemblea costituente e coll' opuscolo degli AssassinŒ e Furti politici . In quest' ultimo libretto si riscalda contro le confische e mostra come il toccare la proprietà è lo stesso che il sovvertire la società intera: vede come un fatto generale, attestato da tutte le istorie, « « che le nuove divisioni di terreno quando non sono liberamente fatte e col consenso del primo proprietario, non produssero che dissensioni orrende e guerre civili, sempre collo stabilimento di qualche tirannia terminate: » » parla contro le leggi agrarie, ed espone i sentimenti di Cicerone sulle medesime, che le riguardò sempre come il mezzo dei sediziosi per conturbare l' ordine pubblico. Quest' era quanto vedere la relazione che la proprietà ha costantemente col potere civile, per la quale relazione non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile: questo era un andar vicino a conoscere la natura della società civile. Qual passo mancava per arrivare a ciò? quello d' invertere l' ordine della proposizione: e dopo d' aver detto: non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile; dire parimenti: non si può toccare il potere civile senz' alterare la proprietà. Come alzar la voce contro le confische ed i furti politici, come gridare contro l' alterazione delle proprietà particolari, mentre prima si ha dato licenza, si ha esortato a metter le mani nel potere civile? Ella è una contraddizione quella di voler che il popolo metta le mani nel governo, e che poscia le raffreni dalle ricchezze dei privati: egli è un pretendere una virtù eccessiva e soprannaturale dagli uomini: voi date loro tutte le occasioni e gli incentivi di fare il male, e poi intimate loro la più severa morale. « « Oggi ricompaio come un' ombra di me stesso, » dice il Sig. Raynal, «non per avvertirvi di alcuni errori in politica, ma per rimproverarvi di molti delitti in morale » ». Non è più il tempo di rimproverare i delitti di morale ad una nazione la quale ha precedentemente guastata la sua politica: gli errori in politica sono appunto quelli che tirano seco i più enormi delitti in morale: chi ha predicato quelli si è reso colpevole anche di questi. Così il Sig. Raynal si è dimostrato una testa riscaldata e superficiale più tosto che un uomo cattivo, come tutti quelli che avendo contribuito pei loro falsi principŒ politici alla rivoluzione francese, quando poi videro che tutto andava a ruba, e a sacco, e che la proprietà era altrettanto mal sicura quanto la vita in mano degli assassini, si scusarono con dire ch' essi non avevano punto intenzione che fossero manomesse le proprietà; ed invece di riconoscere la causa di questi mali in un vizio intrinseco degli stessi principŒ politici, si contentarono di trasformarsi subitamente da politici in moralisti, e di declamare contro l' umana perversità: contro questa perversità che essi stessi avevano suscitata. I principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione da noi altrove esaminati mi chiamano a far osservare in fine di quest' articolo, la relazione che passa fra la Legge della società famigliare e la Legge della società civile; e a sciogliere nello stesso tempo l' obiezione che si suol fare contro di questa coll' esempio degli Stati Uniti d' America. La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società famigliare abbiamo detto consistere nell' equilibrio fra la popolazione e la ricchezza . La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società civile diciamo consistere nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile o propriamente parlando il potere amministrativo. Si vegga ora la stretta relazione fra queste due Leggi. La Legge della Società domestica può essere alterata in due modi, per difetto di popolazione, e per eccesso . Se si trova alterata per difetto ne patisce la famiglia ; perchè essa non ha una forza proporzionata alla sua ricchezza sicchè questa è in pericolo. Non così nello stato di Società civile; perchè la società civile s' incarica essa stessa di difendere la ricchezza della famiglia; giacchè le famiglie coll' entrare nella Società Civile hanno mutato le vie di fatto nelle vie di diritto, e se questo non basta hanno rinunziato alla forza privata, prendendo in difesa dei proprŒ diritti una forza comune e pubblica. In tal modo la disuguaglianza proporzionale colle ricchezze della popolazione nelle famiglie è un pericolo di pubblica inquietudine che vien5 tolto o certo scemato coll' Istituzione della Società civile, nella quale non si considera più la forza famigliare, perchè riesce infinitamente piccola rispetto alla forza nazionale istituita per difesa della ragione comune. Ma non si può fare il medesimo discorso dell' alterazione della Legge famigliare che nasce per eccesso di popolazione. Questa popolazione che eccede la ricchezza delle famiglie, e che forma la classe dei poveri, è quella che ricade sulla società civile, come abbiamo veduto nel primo libro, e che la mette in pericolo. Posciachè la popolazione povera cresciuta a gran numero forma una forza considerabile, perciò in ragione che questa popolazione sarà maggiore essa potrà più facilmente assalire quelli che hanno il potere civile e tirarglielo dalle mani. In tal caso la povertà guidata dai facinorosi è quella che spesso altera la Legge della Società civile cioè l' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile . La relazione adunque fra la legge della società domestica e la Legge della Società Civile consiste in questo che se la prima si altera per eccesso di popolazione tale alterazione prepara e facilita l' alterazione della seconda. Ora i principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione sono al tutto falsi: egli non conosce il male dell' eccesso: d' altro canto il suo diritto di natura incoraggia la popolazione povera a nutrirsi colle altrui sostanze, dando per primo diritto all' uomo quello di vivere, senza ben limitarlo colla legge della proprietà che ho sviluppata, la quale obbliga il povero a non vivere dell' altrui se non nell' estremo bisogno, e quand' egli non abbia nè col suo lavoro, nè con altro mezzo onesto, via di procacciarsi l' alimento. Perciò il vero diritto di natura obbliga i poveri dal temperarsi nella generazione dei figliuoli, mentre il principio del Sig. Raynal incoraggia la popolazione senza limite alcuno, e senza riflessione portata sulle sue conseguenze. Il Sig. Raynal dunque con insegnare l' aumento indiscreto della popolazione prepara nella società una turba di gente, che, stimolata dai bisogni, è disposta ad ogni occasione d' impossessarsi del potere civile per impossessarsi quindi delle proprietà. I principii dunque del Sig. Raynal menavano appunto ai furti politici, contro a cui invano ultimamente declamava. Aveva egli diritto quest' uomo alla vista degli orrori della rivoluzione, frutto dei principii che avea predicato in tutta la sua vita, di sostenere ancora il suo tuono di filosofo e di maestro dei popoli scrivendo: [...OMISSIS...] Era passato il tempo degli avvisi: non era più la stagione di moralizzare sulle conseguenze dei proprŒ principŒ: bisognava riconoscere d' avere sbagliato i principŒ stessi, d' essere stato non già un filosofo, lume delle nazioni, ma un cieco caduto nella fossa coi ciechi da lui condotti. Noi abbiamo veduto che i proprietarŒ non sono mai quelli che amino i turbamenti politici, perchè temono di perdere nei medesimi le loro proprietà: che all' incontro quelli che nulla possedono amano che le cose sieno mutate, perchè sperano d' acquistare nella mutazione: che perciò se il potere civile sarà nelle mani dei proprietarŒ essi lo useranno a tener le cose ferme nel loro stato: mentre se sarà in mano dei non proprietarŒ essi lo useranno a mutarle. Contro di questo argomento si accampa un sofisma pernicioso di Rousseau che fu poi messo in bocca dal Sismondi alla parte dei mercatanti aspiranti al civile reggimento: La ricchezza, dice Rousseau, è la madre della schiavitù; poichè i ricchi per non perdere i loro beni si rendono facilmente servi di chi loro comanda. Il Sismondi restringe quest' argomento alla ricchezza territoriale; poichè non potendosi questa specie di ricchezza nascondere e sottrarre agli eserciti, essa, messa in pericolo, rammollisce alla servitù l' animo del padrone che non vuol perderla. Io accordo a Rousseau che il selvaggio privo di bisogni, perchè privo di desiderŒ, preferisca la sua libertà corporale e la sua vita ferina, a tutte le ricchezze del mondo; giacchè nè sente nè conosce i beni di una vita comune e ordinata. Ma mi sia lecito di protestare, non essere mio intendimento di far una teoria sociale per li selvaggi di cui non hanno bisogno. Scrivendo dunque per gli altri uomini tutti come sono, noi veggiamo per un fatto costante ed universale che il povero ama di acquistare della ricchezza, e che è egli che si sottomette alla servitù e fin anco alla più obbrobriosa schiavitù prima per vivere e poscia per arricchire. Il fatto adunque è precisamente l' opposto di quello che Rousseau ci reca in prova della sua teoria; e la differenza sta quì: che egli l' ha osservato nei selvaggi, e noi l' abbiamo osservato in tutti gli altri uomini: nei selvaggŒ cioè nella porzione del genere umano degradata egli ha osservato, che l' amore della libertà individuale fa loro disprezzare la ricchezza, ossia tutti i beni della vita civile: in tutti gli altri uomini noi abbiamo osservato succedere un fatto contrario, cioè che l' amore della ricchezza o sia dei beni della vita civile fa disprezzare e sacrificare la libertà individuale. Quale di queste due specie di uomini ha ragione nel suo giudicio? la specie degradata allo stato quasi dei bruti, o tutto l' altro uman genere colto? Se non vogliamo ricavare la risposta a questo quesito dal confronto delle due autorità che portano sulle cose giudicii così opposti, ricaviamola da un' altra osservazione. E` certo che il selvaggio non è in istato nè di sentire nè di giudicare dei vantaggi della vita colta e civile. Gli altri uomini all' incontro che per godere i beni di questa vita colta e civile sono contenti che venga limitata la loro libertà individuale, possono fare il confronto di tutti due questi stati; poichè tutti due li provano. I due giudicŒ adunque non sono di egual valore, poichè il selvaggio preferisce la libertà individuale, perchè non conosce nè è in caso di conoscere altro; e gli altri uomini preferiscono i beni della vita colta, perchè sono in caso di gustarli e di conoscerli. Ma che giova tutto questo discorso? Nulla monta chi abbia ragione dei due al nostro proposito: si tratta di sapere se tutto il genere umano debbe esortarsi a fare la vita dei selvaggi: si tratta di sapere, se a ciò sarebbe possibile di persuaderlo: si tratta di sapere se nel genere umano, il quale non si sia ancora reso selvaggio, esista questo fatto costante, che preferisca cioè la ricchezza, o sia i beni della vita colta alla libertà individuale. Se questo è un fatto costante ne verrà in conseguenza, che sia altresì un fatto costante, che la gente povera sia assai più arrendevole alla servitù che la gente ricca; che perciò non sono mai i ricchi quelli da cui si debba temere la servitù, ma bensì i poveri, i cui animi sono domati dal bisogno, e comperati con facilità da promissioni di ricchezze. Egli è vero che se un capitano minaccia di devastare le terre dei ricchi, questi prima di venire ad una guerra, nella quale le loro ricchezze vanno a pericolo, accetteranno delle condizioni gravose. Essi ricevono queste condizioni per quel fatto stesso di tutta la parte colta dell' umano genere che dicevamo, cioè perchè preferiscono la ricchezza ad una libertà illimitata: questo fatto non è possibile di mutare, e su questo fatto, come dicevamo, il politico debbe fondare l' organizzazione della società. Or dunque crederassi di evitare a questo supposto disordine col dar in mano il governo alla gente povera? non già: poichè per quello stesso fatto ne verrà che questa gente povera userà del governo per farsi ricca, e per coprire le sue usurpazioni contratterà se fa bisogno anche coll' inimico della patria: lo desidererà, lo chiamerà. Gli usurpatori nell' interno dello stato hanno sempre avuto bisogno dei nemici esterni per sostenersi. D' altro canto se potranno compire la loro usurpazione senza bisogno di esterno soccorso, questa gente povera che governa sarà divenuta la proprietaria: e saremo tornati in sullo stato di prima. Fino che si parla di una nazione che ha dei grandi terreni, questi o bisognerà che restino incolti; il che è tanto impossibile, quant' è impossibile persuadere all' uman genere colto di farsi selvaggio; o pure bisognerà che sieno di qualcheduno; ed in tal caso giova che chi li possiede abbia nelle cose pubbliche proporzionata influenza. Se si parla poi di nazione al tutto povera, essa avrà vantaggio benissimo d' una certa libertà energica che la compenserà della sua povertà. Ella dovrà giovarsi di questo vantaggio; il legislatore suo particolare dovrà farne conto: ma le massime politiche, che varranno per essa non si dovranno giammai credere i fondamenti di una politica generale. Dopo queste considerazioni sulla povertà e sulla ricchezza in un rispetto politico considerate, si può convenire col Sig. Sismondi, che la ricchezza mobiliare si sottrae più facilmente alle minaccie degli inimici della patria: ma non avviene già per questo che sia alla patria una garanzia maggiore, che non i terreni, amore dei proprietarŒ. Dopo di ciò è facile sciogliere l' esempio che ci recano in favore della rappresentanza personale di un recente governo quale è quello d' America. In una nazione che comincia, in cui le proprietà sono presso a poco eguali, come sarebbe in una nazione conquistatrice che divida in porzioni eguali il suo terreno, la rappresentanza reale si confonde colla personale, e perciò essa non fa danno nella nazione. Sebbene nell' America vi sieno delle grandi e delle piccole fortune, tuttavia non v' è quella sproporzione che, come dicevamo, è la più pericolosa, cioè quella che consiste nell' esservi accanto dei proprietarŒ un gran numero di miserabili, come si trova in tutte le nazioni d' Europa; perchè vi è grand' abbondanza di terreni, e relativa scarsezza di popolazione. Il solido pensatore Arturo Joung dopo aver recato un passo dai CommentarŒ sulla Costituzione americana del Sig. Wilson, nel quale dice che in quel governo il popolo può tutto sopra la costituzione, tanto di fatto che di diritto, in questo modo si esprime: [...OMISSIS...] Finalmente osservo che gl' Inglesi si sono più avvicinati di tutti gli altri a conoscere la vera teoria della società civile. Prova ne sia la bilancia territoriale di Harrington, colla quale stabilisce la proporzione de' terreni colle forze della famiglia. Questo politico sarebbe stato in caso di dare la vera idea della società civile, se non si fosse limitato a considerare la sola ricchezza territoriale, se avesse saputo distinguere il Tribunale politico dall' Amministrazione, e se avesse avuto la nostra esperienza. A conferma di ciò che ho detto contro Rousseau circa la relazione della libertà colla proprietà soggiungerò alcuni aforismi di Harrington, che conferma il fatto da me osservato nell' uman genere colto. [...OMISSIS...] La potestà amministrativa della società non è mai affermata nelle mani di quelli che l' hanno ottenuta, se questi non sono i proprietarŒ. V' è però un caso, in cui lo squilibrio fra la proprietà ed il potere amministrativo si mantiene per lungo tempo, e questo è il caso del principato assoluto, unico caso somministrato dalla storia. Per ciò il principato assoluto è il più saldo fra tutti quei reggimenti nei quali si trova squilibrio fra la proprietà ed il potere, per cui lasciando tutti gli altri stati di squilibrio, i quali anzi che veri reggimenti non sono che fluttuazioni della società, mi fermerò a dimostrare il fatto enunciato nel reggimento del principe assoluto. Sembra che le teorie intorno al principato dei giureconsulti, sebbene ancora incerte, si riducano a due. Alcuni considerano il principe come la persona che ha ottenuto il governo della società civile per modo che è divenuto sua proprietà; sicchè nissuno e neppur la nazione stessa può toccarla senza violazione d' un sacro diritto. Alcuni poi considerano il principe come il supremo magistrato della nazione, nel qual caso il diritto di governare resta una proprietà della nazione, ed essa lo esercita mediante il principe come mediante un suo ministro, o vero impiegato. Per quante prerogative riceva questo ministero, quantunque sia egli dichiarato infallibile, inviolabile ecc. egli non muta di natura, ma resta il primo officio dello stato, la prima magistratura. Solo nel primo caso il principato è un potere assoluto, mentre nel secondo è un potere delegato. La questione che si agita fra i giureconsulti, che seguono queste due teorie, sebbene sia antica, duri tuttavia, e vorrà probabilmente ancor durare, tuttavia è una misera questione, che nasce per l' equivoco che produce un vocabolo. Il vocabolo principato è quello che produce l' equivoco; poichè si applica a due sorta di reggimenti diversi, i quali per parlar chiaro e senza fallacia, debbon esser nominati con due parole. Non si debbe dimandare che cosa è il principato, e quindi questionare se egli sia un potere assoluto o delegato. Col proporsi quella dimanda già l' errore è commesso; poichè essa suppone che colla parola principato si esprima una cosa sola. Non si questioni adunque sulla definizione di quella parola equivoca, ma si cominci a stabilire, che in una nazione può accadere che una persona tenga il primo posto e governi di fatto in due maniere; cioè o autorizzata da un diritto proprio, o come esercente un diritto altrui per delegazione del proprietario. Nel primo caso si dica ch' essa è un principe assoluto , nel secondo che essa è un principe delegato . E` vero che nell' un caso come nell' altro nella società non si trova che una persona che governa: ma i poteri di questa persona nell' un caso e nell' altro sono ben diversi. Perciò invece di far una domanda sola: Che cosa è il principe? se ne facciano due: Che cosa è il principe assoluto? Che cosa è il principe delegato? Rispondendo alla questione così divisa, la questione è svanita. Fissate queste due forme di governo, si debbe passar ad applicarle. A tal fine non è bastevole di sapere, che quello stato a cui si vogliono applicare è governato a principe; ma bisogna di più osservare se sia governato a principe assoluto o a principe delegato: e questo rilievo non si fa, che esaminando storicamente i titoli della persona o della casa reggente. Egli è dopo questa verificazione che si possono definire i diritti scambievoli dello stato e del reggitore. Se si fosse proceduto con quest' ordine logico si avrebbero risparmiate innumerevoli dispute e discussioni. Abbiam dovuto fissare l' idea del principato assoluto per chiarezza del discorso: ora dobbiamo noi verificare questo fatto: che « trovandosi nel principato assoluto, unico amministratore della società, lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile; esiste una tendenza di queste due cose a mettersi in equilibrio o col scemare l' autorità politica al principe o coll' accrescergli le sue ricchezze, o finalmente coll' attribuirgli per finzione quella proprietà, che di fatto non possiede, e che gli è necessaria pel sostenimento della sua autorità. Il principato delegato, specialmente fornito di prerogative che lo avvicinano all' assoluto, come sarebbe dire la inviolabilità, e la ereditarietà ecc. sebbene più remotamente dimostra lo stesso fatto che il principato assoluto. Questa fu la prima cosa di cui Dio ammonì gli Ebrei, quand' essi vollero un re. Egli comandò a Samuele di predir loro ciò che porta con se la dignità reale, cioè la tendenza di equilibrare questo potere personale con altrettanta proprietà. Ecco come Samuele si espresse: [...OMISSIS...] Questo non è altro che predir loro la legge della Società civile, cioè l' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: questo non è che un dire « se voi volete concentrare in un uomo solo il potere civile, sappiate che ne verrà per conseguenza che vengano a concentrarsi in un uomo solo anche le ricchezze; perchè queste due cose tendono a mettersi in equilibrio. » Se però questa legge non si verifica tante volte rapidamente, ciò nasce per la virtù e per la giustizia dei principi; i quali resistono all' impulso naturale, e preferiscono il giusto ai più grandi vantaggi: e di questi esempŒ di magnanimità sono piene l' istorie dei principi cristiani; specialmente nei secoli di mezzo quando la religione aveva su loro gran forza, e non era entrata nelle corti quella politica che tutto corrompe, e che ha finito col confondersi nella incredulità. Ma ogni qualvolta il principe assoluto sarà privo di un grado eminente di virtù e di magnanimità, cederà agli impulsi di usare l' Amministrazione che è in sue mani per tirare a sè la ricchezza, cioè preferirà il vantaggio suo proprio, e anderà male l' Amministrazione della maggiorità degli interessi. Non così però sarebbe se egli possedesse più che la metà delle ricchezze della nazione; poichè in tal caso la maggiorità degli interessi sarebbe bene amministrata. E quest' è che osserva Harrington, il quale non considera lo stato che come un' Amministrazione. Ecco due dei suoi aforismi politici. [...OMISSIS...] Egli è certamente falso il dire che ciò formi la monarchia assoluta; ma si rende vero il pensiero di Harrington, quando invece di monarchia o di governo si dice Amministrazione. In fatti supporre che il governo non sia che un' Amministrazione è un materializzarlo di soverchio. Noi crediamo che ci sia a questo proposito due errori opposti assai perniciosi: l' uno dei quali consiste nel materializzare le cose spirituali; e l' altro consiste nello spiritualizzare le cose materiali. Noi abbiamo creduto di evitarli tutti e due col guardarci bene dall' attribuire al governo l' uno solo di questi elementi con esclusione dell' altro; e quindi col considerare il governo risultante dai due poteri essenzialmente distinti, l' uno amministrativo e l' altro giudiciale, l' uno centro della forza fisica, l' altro della morale: l' uno che provede agl' interessi, e l' altro alla dignità dell' uomo, e che provedono insieme ai diritti sì reali che personali. Questa idea che acquisterà maggior luce, mediante ciò che noi diremo sul quinto fatto, è da ritenersi presente, acciocchè non sembri che noi parlando dell' Amministrazione, cadiamo nell' errore tanto comune a' dì nostri di materializzare il governo. La povertà del principe assoluto, rendendolo inetto a sostenere la potestà amministrativa, diventa la sorgente della politica falsa: la quale mette in opera tutti gli artificŒ, le simulazioni, le frodi, le perfidie, e le viltà più obbrobriose per conservare un potere di sua natura vacillante. Non si nega già che di tutti questi neri raggiri, di tutta questa arte di raffinata perversità non sia cagione l' umana malizia: certo la malizia umana è la cagione generale di tutti i mali che fa l' uomo: ma questa malizia opera più o meno secondo le occasioni che si presentano alla medesima. Non basta dunque per render ragione dei mali che avvengono al mondo ricorrere a quella causa generale: bisogna ancora indicare le occasioni per le quali quella causa ora fa più male ed ora ne fa meno. E medesimamente non basta predicare agli uomini la virtù, ma bisogna ancora aiutarli a praticarla col disporre le cose in modo che abbiano meno occasioni di far male, e più che sia possibile occasione di far bene. Ed è per questa ragione che la politica giova alla morale. Se voi provvederete che gli uomini sieno nutriti, voi diminuirete con ciò i furti: se renderete i tribunali così savi e così forti che possano amministrare pubblicamente la giustizia, voi diminuirete le vendette private: se porrete i cittadini in uno stato di avere i loro diritti difesi con modi onesti, essi non penseranno a difenderli con modi inonesti: finalmente se il principe avrà tanta ricchezza da poter sostenere la propria dignità civile, egli lascierà stare la ricchezza dei sudditi, e non avrà più bisogno di una politica tenebrosa, ma si appoggerà ad una politica leale, nobile, ed anche benevola. Il principe assoluto povero, quando anche sia onesto e rifugga da una politica scellerata, se vorrà sostenersi non potrà tuttavia a meno di prendere una politica cavillosa, o finalmente vacillante. La politica dell' equilibrio dei poteri si può dire che sia nata così. Come ella consiste nell' unirsi o coi comuni o coi nobili o col clero per abbassare le altre due classi, ella è obbligata ad avvilirsi con frequenza per mendicare il favore del suo alleato; essa diventa naturalmente sospettosa e trepidante dal momento che è sempre in dubbio di essere abbandonata dalla forza alleata, ed ha sempre da temere che l' opposizione prevalga: finalmente ella è una politica ostile, perocchè lavora sempre una guerra secreta fra i diversi poteri della nazione, ciascuno de' quali spera di soverchiare; non perchè abbia forze bastevoli in sè stesso, ma perchè maneggia un' alleanza colle forze altrui; e nello stesso tempo teme di essere soverchiato; poichè non avendo forze proprie bastevoli da sostenersi, può sempre avvenire che le forze altrui l' abbandonino. Egli è dunque una cattiva costituzione quella nella quale nessuno ha bastevole forza da difendere i proprŒ diritti. Una tale debilezza porta la strana conseguenza che ciascuno per potersi difendere cerca di mettersi sul piede di assalitore; e tutti gli animi timorosi d' essere ad ogni istante spogliati del proprio, facciano di tutto per poter prevenire ed assalire l' altrui. Ciò nasce, come diceva, quando il governo è povero, e debbe adoperare la ricchezza altrui per difendere la propria autorità. Ma all' incontro nel caso in cui il potere civile sia equilibrato colla ricchezza, allora succederà che la maggiorità nel potere civile sia congiunta colla maggiorità della ricchezza: e come la maggiorità di potere civile e di ricchezza forma una forza a cui non ve n' ha nissun' altra che possa tener fronte: quindi questa maggiorità è difesa per sè stessa, e non ha bisogno di cercare delle alleanze per sostenersi, come pure è priva di timore d' essere soverchiata. Ella dunque è priva di quella tentazione d' assalire l' altrui che nasce dal bisogno di difendere il proprio. Ha dunque una tentazione di meno: una occasione di meno da far male: è dunque questa la costituzione da preferirsi. In tutta l' Europa vi fu un tempo in cui il Monarca si unì per sostenersi col terzo stato. 1) Posteriormente in Inghilterra la nobiltà s' unì coi comuni per limitare il sovrano potere: come in Francia i comuni e la corona fecero per lungo tempo fronte alla nobiltà. In Italia dove il sovrano potere fu ben presto annullato, non cessò la pugna tra la nobiltà e la plebe, ed essendo stata di quest' ultima la vittoria, la forza italiana fu divisa in minute parti, mediante il democratismo, e quasi ridotta in polvere, fu dissipata con essa la nazione. La storia politica delle diverse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; Primo, il sovrano: 2 il clero: 3 la nobiltà: 4 il terzo stato. Osservando le diverse alleanze e aggruppamenti di questi poteri, mediante le quali si riducevano sempre a due partiti le mutue pugne, sconfitte, e vittorie; il potere umiliato, sconfitto, distrutto, ed il potere vincitore, e prevalente; si viene a render ragione delle costituzioni dei diversi stati d' Europa. La povertà del principe o sia del governo è ciò che produce tutti questi giochi di politica; poichè se il principe non arriva a sostenersi in tal modo, o pure se non perviene ad arricchirsi, egli rimane in continuo pericolo di cadere. Le costituzioni del medio evo prodotte dalla natura delle cose, e dalla docilità degli uomini nell' arrendersi a ciò che tale natura additava, senza perdersi in vane teorie, e ostinarsi nel volere che la natura obbedisca a' proprŒ sofismi, erano piantate sopra solide basi. Ma non basta che la costituzione sia buona e solida, se le azioni degli uomini non si accordano colla medesima. Perchè la costituzione si formasse bastava quasi direi una prudenza passiva: la costituzione era l' opera del tempo, veniva formata un poco alla volta dalle naturali circostanze. Ma per operare conforme alla costituzione non basta una prudenza passiva, bisogna avere dei principŒ, questi mancavano ai sovrani del medio evo, e questa mancanza portava, che colla loro irregolare condotta, lungi dal cavare i vantaggi che loro offeriva la bontà delle costituzioni, venivano a distruggere le costituzioni stesse. Erano sapienti nel fare le costituzioni, e mancavano di prudenza per conservarle. Come la costituzione veniva loro strappata un poco alla volta dalla natura delle cose, così essi la formavano pezzo per pezzo senza però conoscere i principŒ sui quali tutta intera la medesima s' appoggiava. In fatti l' errore comune dei governi del medio evo era la mancanza d' economia. Per questo errore che andava a ferire le costituzioni ne' loro visceri, cadevano i governi, ed erano frequenti le rivoluzioni. Abbiamo già sentito l' osservazione del Machiavelli, che le guerre in Italia si perpetuavano, perchè non avevano mai cura i condottieri d' impoverir l' inimico, e d' arricchire se stessi. La mancanza d' economia nei sovrani nasceva anche da un principio morale: essi erano tutt' altro che disposti a considerare il governo come un' amministrazione e l' officio di reggere come un officio di computisteria: elevati colle loro idee riguardavano la sovranità come l' officio di render giustizia e di sparger beneficenza, come un' immagine della divinità sulla terra; e quindi non sapevano conoscere degli stretti limiti alla loro generosità: consideravano come la più bella loro prerogativa quella di donar a tutti largamente. S' ingannavano nell' abbracciare questo principio, senza porvi una giusta moderazione e nell' escludere dal loro officio l' Amministrazione economica; giacchè questa avrebbe dovuto formare realmente la forza della costituzione dello stato. L' ultimo dei Carolingi non possedeva più nulla in proprio; e questa fu la ragione, perchè egli non potè più sostenere la sua dignità. I nobili sempre avidi di acquistare de' feudi, o delle donazioni, li sollecitavano continuamente dalla corona. La corona che non era ricca abbastanza per sostenersi contro de' nobili cercava di cattivarseli col dar loro ciò che chiedevano continuamente. In tal modo s' impoveriva sempre di più, e non le restava che la speranza ingannevole di esser difesa dagli altri, anzi che di aver il potere di difendersi da sè stessa. [...OMISSIS...] Si considerino ancora i passi seguenti dell' autore dello spirito delle Leggi: [...OMISSIS...] I feudi resi ereditarŒ, l' introduzione de' suffeudi, pur essi fatti poscia ereditarŒ, s' aggiunsero cagioni pure possenti d' indebolire i diritti della corona sulle proprietà. La sostituzione della terza stirpe alla seconda, non nacque se non per forza della proprietà. Si ascolti ancora Montesquieu: [...OMISSIS...] Nella mutazione della prima stirpe ebbe dunque influenza l' abilità personale, giacchè il Prefetto del palazzo era anche il capo della Milizia; ma la mutazione della seconda stirpe fu operata dalla prevalenza della proprietà. Ugo Capeto era conte di Parigi e d' Orleans; ciò che formava un possedimento molto considerabile, mentre il figlio di Luigi V non aveva nulla se non il ducato della Bassa Lorena posto fuori della Francia ricevuto dalla liberalità dell' imperatore Ottone, di cui s' era con ciò reso vassallo. Egli è ben naturale che i nobili s' attenessero a chi aveva di più che a quello che non potea più donar niente. I successori di Ugo Capeto sostennero la forza e la dignità della corona col migliorare l' economia dello stato, e col riunire i gran feudi alla corona. La stessa ragione della mancanza d' economia si può assegnare alla caduta dell' impero Germanico, il quale appunto per la mala Amministrazione si era reso ultimamente anzi un vano fantasma, che una realità. Leibnizio vedeva questa causa della sua debilezza: [...OMISSIS...] Anche lo stesso presidente Montesquieu osserva l' analogia che passa fra il regno di Francia al fine della seconda stirpe, e l' imperio germanico degli ultimi tempi. Parlando di quello dice: « « Trovossi il regno senza dominio, sì come è al presente l' Impero. Si conferì la corona ad uno de' vassalli più potenti. » » - E a proposito dei Normanni che devastavano in quel tempo il regno di Francia dice altresì: [...OMISSIS...] E` osservabile come gli Elettori dell' Imperio Germanico, dovendo eleggersi un capo, nol volevano mai troppo ricco, e questa fu la ragione per cui dopo il grande interregno si determinarono di dar la corona imperiale a Rodolfo d' Habsburg. La loro era certo una politica falsa, mentre per i privati vantaggi neglessero il bene generale della società cristiana. La caduta dell' Imperio Germanico è dovuta in gran parte ad una tale politica. D' altra parte v' era un vizio radicale nella costituzione: poichè non sono mai buoni elettori d' un principe quelli che si eleggono con ciò uno che limita il loro potere e che non lo può accrescere: quelli insomma che già potenti possono assai più amare l' indipendenza che non la protezione. Per dimostrare compiutamente il fatto enunciato mi resta a mostrare come s' inventò di supplire alla mancanza di proprietà del principe con una finzione che gliela attribuisce: dirò in appresso quanto sieno dannose tutte le istituzioni appoggiate sulla finzione e non sulla realtà. Per altro la finzione di cui parlo fu universale di tutta Europa: e sembrerebbe a dir vero strano che tanti popoli appoggiassero le loro instituzioni sopra una base così falsa se non esistesse una legge nella natura delle cose che ve li spingesse, la legge che il potere civile debb' essere equilibrato colla proprietà. Già ci si accorge che io parlo del feudalismo. Ecco come parla di questa istituzione il Sismondi: [...OMISSIS...] Per conoscere quant' era illusoria la proprietà che si attribuiva al principe sopra le terre dei feudatarŒ, basta osservare la storia de' feudi di ripresa . Si cercava di mutar gli allodi in feudi: il che si faceva donando al re la propria terra, e dal re poscia ricevendola in feudo. Ciò si faceva per i vantaggi e privilegi di cui godevano i feudi rispettivamente ai beni allodiali. Con questa mutazione di allodi in feudi si accrescevano forse le proprietà della corona? si accrescevano in apparenza: ma non già in realtà. E per provar ciò basta osservare che queste mutazioni in Francia furono più frequenti in ragione che la corona era più povera: e la ragione n' è chiara. Quanto era più povera la corona, tanto era più forte la nobiltà feudale, e tanto più perciò i proprietarŒ liberi desideravano di appartenervi. [...OMISSIS...] Il sistema feudale nacque dalla conquista, cioè dalla distribuzione delle terre conquistate fra i vincitori. In alcune nazioni però non vi fu introdotto in questo modo, ma mediante un' istituzione legale. In tal caso tutta la giurisprudenza riposava sul falso, poichè si supponevano essere state le terre in antico conquistate e divise; laddove non erano. In questo modo sembra che si sia introdotto in Inghilterra nel secolo XI. Prima però che tocchiamo questo fatto, procuriamo di render più facile a concepire il modo come una tale finzione di proprietà principesca, potesse dalle circostanze essere suggerita. Se noi consideriamo noi stessi, o vero uno de' nostri popoli colti d' Europa come si trova nello stato presente, noi non potremo già formarci l' idea del modo onde una persona poteva mettersi alla testa di un popolo semplice ancora e rozzo. Le nazioni presenti sono diventate caute e sospettose dall' esperienza, e non sarebbe già facile che ricevessero un capo che loro si presentasse per occupare un trono, o vero una supremazìa vacante, senza molti trattati e condizioni. Ciò nasce perchè la nazione vede tutte le conseguenze che può fare della sua autorità, e vuol garantirsi contro l' abuso. Ma non procede con eguali sospetti una nazione nuova e semplice; e se un uomo stimato e valoroso si mette alla sua testa, essa lo riceve come un benefattore. Essa non sa considerare ancora il governo che come un beneficio: lo considera in se stesso e non nelle sue conseguenze. Così ascesero al governo i condottieri ed i giudici dei popoli, con quella facilità con cui si prende posto in un luogo vacante, o si occupa una proprietà disoccupata. Essi non avevano che ad ispirar confidenza alla nazione col dimostrarsi forniti di eminenti qualità, e la nazione li seguiva, come chi viaggia, e non sa la strada, segue colui che gliela insegna. I due offici che essi esercitavano erano combattere e giudicare: sì per l' uno che per l' altro la nazione li riguardava come persone sommamente utili: trovando chi sapeva guidarla alla vittoria, considerava il suo capitano come l' autore della gloria e della grandezza nazionale, e trovando chi amministrava la giustizia, consideravano il Giudice come quello che conservava la pace interna e la comune sicurezza. Il buon esito delle armi, od anche la speranza del medesimo giustificava la condotta del capitano; e le ingiustizie che commetteva come giudice o per ignoranza o per arbitrio di passione pochi sapevano conoscerle nè il risentimento delle parti per cui era seguita l' ingiusta sentenza poteva muovere la nazione a sdegnare il proprio capo; poichè si trattava d' ingiustizie particolari, e la nazione considerava la pubblica tranquillità che colla amministrazione della giustizia veniva conservata, e che faceva dimenticare tutti i mali particolari. Consideriamo il capo di una nazione conquistatrice esercitante questi due ufficŒ: noi vedremo che la sua potestà è in tale stato illimitata; poichè fino ch' egli non esercita che questi due uffici, la nazione non ha cagione di limitargliela, purchè gli eserciti discretamente bene. La nazione non ha cagione di limitare la potestà governativa di questo capo fino che egli non fa qualche disposizione, la quale: 1 offenda i suoi governanti: 2 sia generale, e perciò gli offenda in massa, e non singolarmente. I due poteri di combattere e di giudicare, che sono, come dicevamo, di una natura da non offendere la nazione in massa, fino che vengono discretamente sostenuti, terminano in due altri poteri, per li quali con assai facilità si può offendere la nazione ed offenderla in massa. E questi due poteri sono: 1 il potere sulle terre conquistate, e 2 il potere legislativo. Sì l' uno che l' altro vanno a toccare le fortune private e a toccarle in un modo generale. Se il condottiere di una nazione conquistatrice, dopo conquistato un paese, avesse detto alla medesima: « Sappiate che queste terre son mie: voi già non le goderete come vostre, ma voi le lavorerete come miei servi, ed io vi manterrò »; la nazione non si sarebbe mai arresa a questi patti; poichè l' autorità del suo condottiere cessava d' allora d' essere un beneficio: egli non avrebbe fin allora governata la nazione, ma usato d' essa come d' un istrumento per formare la propria grandezza. Non era già con questo intendimento ch' ella lo aveva riconosciuto per suo capo e per suo condottiere. Ma all' incontro dicendo: « Voi avete conquistato sotto la mia condotta questo paese: ora egli è tempo che il vostro valore sia premiato: io dividerò con giustizia i terreni a tenore del merito di ciascheduno; »tutti dovevano assentire ad un simil discorso, il quale era secondo l' equità, secondo lo scopo della loro intrapresa, e secondo l' idea ch' essi eransi formata del loro capo. In tal caso egli esercitava un governo, e faceva loro un beneficio, giacchè amministrava la giustizia, metteva ordine colla sua autorità nel riparto dei terreni, e non venivano defraudati delle aspettate ricchezze. Che cosa nasceva mediante una simile operazione? che tutti i compagni d' armi del capitano supremo, e tutti i soldati ricevessero la loro porzione di terra dalle mani del loro duce; giacchè era egli quello che la divideva e che l' assegnava a ciascuno. Egli era naturale ancora che riconoscendosi per una legge conforme all' equità, che i terreni fossero divisi secondo il merito e la dignità di ciascun soldato, secondo che cioè ciascuno aveva influito a conquistarli, così pure ritenessero il concetto d' un premio o di una mercede; e di più che come gli avevano ricevuti dal loro capo, così restasse al medesimo capo la facoltà di ritirarli se si rendessero infedeli e se perdessero con ciò il titolo primitivo di fedeltà e di bravura. Come non bastava aver conquistate le terre se non si continuava a difenderle contro gl' inimici; quindi le terre dovevano ritenere il loro carattere primitivo di esser premio del valore e della fedeltà. Egli è questo che spiega come in principio i feudi fossero amovibili. A confirmar ciò si aggiungono i costumi che i conquistatori del settentrione ritraevano da' loro padri. [...OMISSIS...] Cesare pure dice: [...OMISSIS...] Infatti una nazione, ossia un' aggregazione di famiglie, ha bensì desiderio di vivere agiata, comoda e ricca; ma del rimanente ella lascia ben volentieri a' suoi capi la cura di far le porzioni, purchè creda ch' essi le facciano con equità, e di dirigerla in tutto. Quindi essa non è difficile a lasciar anche a' medesimi ogni onore, a prestare ogni riverenza; a ricevere dalle loro mani le terre, purchè però le ricevano; a riconoscere in essi il diritto di disporre delle medesime in tutto ciò che riguarda la conservazione dell' ordine, della giustizia, della pubblica quiete e tranquillità. Ma sebbene tutto ciò era facilissimo e naturalissimo a supporsi in teoria, tuttavia era altrettanto facile, che in pratica non si restasse contenti della divisione delle terre; e se in ciò succedeva un malcontento, già cominciavano a manifestarsi i limiti dell' autorità principesca. Il ricevere che si faceva le terre dalla mano del principe, ed il diritto che egli aveva di distribuirle secondo la giustizia, faceva supporre ch' egli ne fosse il proprietario. D' altra parte la condizione a cui era soggetto, cioè di non poterle ritenere per sè, e di doverle distribuire con giustizia, rendeva quella proprietà che gli si attribuiva una proprietà di nome e non di fatto: ed è ciò che faceva nascere quella finzione di proprietà di cui parliamo. Ma ben presto ci si accorse che quella finzione di proprietà, che quel diritto di distribuire in premio tali ricchezze era pericoloso: che l' equità a lungo difficilmente veniva conservata. Anche venendo conservata v' erano sempre cagioni di lamentanza, giacchè l' avidità fa credere a tutti di avere un diritto maggiore alle ricompense. In tutti questi casi la nazione cominciava a considerare l' autorità principesca come quella che portava delle conseguenze dannose sulle proprietà private, non custodiva più semplicemente l' ordine generale, non era più un semplice beneficio. La nazione dunque risentendosi di queste conseguenze doveva cercare di porre un limite alla sovrana autorità; e delle terre il principe doveva perciò disporre di consenso della nazione. [...OMISSIS...] E` però osservabile che il principio delle leggi feudali, il quale attribuisce al principe la proprietà delle terre per la ragione detta, non era che una espressione inesatta: non si parlava con precisione, perchè non si era arrivati a pensare con precisione. La mancanza di precisione in quell' idea consisteva in una mancanza di distinzione: non si era arrivati a distinguere col pensiero, e colle parole, il diritto dalla modalità del diritto: e invece di dire che il principe aveva la modalità della proprietà, si diceva che il principe aveva la proprietà delle terre. La cosa però si sentiva ben distinta nel fatto: ed appena che il principe passava dal disporre della modalità al disporre della proprietà , i proprietari subitamente se ne risentivano. Non restava però che quella falsa espressione non producesse dei gran disordini: il principe che poteva mostrar le leggi, che davano a lui la proprietà delle terre, poteva altresì rinfacciare d' infedeltà e d' insubordinazione i proprietari che si lamentavano de' suoi arbitrŒ. Intanto se la lite fosse stata deferita ad un giudizio, e se i giudici avessero avuto l' obbligo di stare alla lettera della legge, il principe avrebbe avuto sempre ragione. I proprietarŒ non avrebbero potuto che opporre la costumanza, e richiedere che a questa si ricorresse per l' interpretazione della legge: ma la costumanza stessa come era venuta a pugnar colla legge? se non perchè la legge era mal espressa? Che se la legge ebbe sempre la costumanza in contrario, ciò mostra che le parole non mutano le cose, e che la ragione comune o sia il buon senso quantunque non sapesse render ragione di sè stesso, tuttavia non si piegava però alle teorie della gente di legge: il che però non toglie che l' inesattezza d' espressione nella legge non incoraggiasse il cattivo principe ad operare con maggior arbitrio, e con minor ritegno. Per tutto ciò non è meraviglia se l' officio che aveva la corona di dirigere la modalità della proprietà feudale mal usata, eccitasse dei nazionali tumulti. In Francia se n' ha esempio già nel secolo VII. Così di nuovo Montesquieu: [...OMISSIS...] Non era già che non si riconoscesse nella corona il diritto di disporre dei feudi, ma questo diritto non si ammetteva in fatto che fosse simile a quello col quale un padrone dispone della sua proprietà, sebbene la legge malamente, come dicevamo, supponesse i feudi proprietà della corona. In fatto, dico, non erano tenuti tali; poichè se fossero stati considerati veramente tali, non vi sarebbero state tante opposizioni sul modo col quale la corona ne disponeva. Si attribuiva alla corona solo la modalità di un tale diritto, solo la disposizione de' medesimi a vantaggio comune. Per ciò con ragione Montesquieu: « « Può darsi che se il motivo della rivocazione dei doni fosse stato il ben pubblico, non si sarebbe aperta bocca; ma si faceva mostra dell' ordine senza occultare la corruttela: reclamavasi il diritto del fisco a talento, e i doni non furono più la ricompensa o la speranza dei servigi. Brunechilde con uno spirito corrotto corregger volle gli abusi della vecchia corruttela: i suoi capricci non erano quelli di uno spirito debile; i feudi ed i grandi officiali si videro rovinati, ed essi se ne disfecero. »1) » Se Montesquieu avesse a pieno conosciuto questa finzione di proprietà, e non fosse restato ingannato dalle parole della legge feudale, egli non avrebbe presa la proprietà della corona sui feudi per un argomento da convalidare il suo sistema sulla conquista dei Franchi. Ecco com' egli argomenta: [...OMISSIS...] Certamente; se la proprietà sulle terre feudali fosse stata vera e non finta dalla legge, ma come dicevamo il re non aveva che la modalità delle proprietà, e non la proprietà stessa: era governatore e non possessore. Nè ci si opponga che noi confondiamo la proprietà di diritto e di fatto. Egli è vero che basterebbe, che la corona fosse priva della proprietà di fatto, perchè ella fosse già debile a sostenersi. Ma noi diciamo che le mancava anche la proprietà di diritto; poichè per esservi questa conviene provare che v' abbia il titolo. Supposta dunque l' occupazione un buon titolo, il capitano della nazione conquistatrice non era stato egli solo l' occupante, ma insieme co' suoi commilitoni 1): la nazione condotta da lui non si era già resa sua serva, ma si era solamente sottomessa a lui per esser diretta nella conquista; perchè il suo moto fosse regolato, e la sua impresa fosse diretta con unità. La proprietà dunque delle terre conquistate apparteneva alla nazione conquistatrice, e non esclusivamente al suo capo. Ma questa come aveva avuto bisogno d' esser diretta nella guerra, così aveva bisogno di un ordine nella divisione delle terre: e questo era naturale, che lo ricevesse dal suo capo. La incombenza dunque e il diritto di questo capo era di governare, di metter ordine, di dirigere il bene comune della nazione: senza che per questo egli acquistasse una vera proprietà sui beni della medesima. Ma si vuole una prova evidente che la nazione non ha mai creduto che i suoi principi avessero una vera proprietà sui terreni? basta osservare che una porzione di terreni divisi rimaneva al principe: (Roberts. 11 .35) la qual porzione sarebbe stato assurdo attribuirgliela, quando già fossero state sue egualmente tutte le altre. La legge dunque che ora parla di una proprietà del principe sulla porzione a lui assegnata: ora parla della proprietà del principe sui feudi, o sia sulle porzioni distribuite agli altri duchi e signori componenti la nazione, usa il nome di proprietà in due sensi totalmente diversi: e solamente nel primo caso si parla di una vera proprietà; mentre negli altri casi con questo nome di proprietà non si debbe intendere che un diritto di regolare per il ben nazionale le proprietà comuni. Quando anche supponessimo adunque che tutti i terreni della nazione fossero feudi amovibili, non ne verrebbe già per questo, che il potere del re fosse assoluto come quello del sultano di Costantinopoli: anzi egli si rimarrebbe ancora troppo scarso di fatto, perchè troppo grande di diritto, cioè a dire il potere civile potrebbe esser di più della proprietà e però darsi lo squilibrio di cui parliamo fra la proprietà ed il potere. E questa debilezza del potere sovrano fu realmente sentita: ed è appunto ciò che ha fatto ritrovare il ripiego di una finta proprietà, come dicevamo, la quale tenga come il luogo della vera, e coll' impressione che può fare sugli animi una tale supposizione, sostenga in qualche modo il trono. Ma si noti bene che la debilezza del trono può manifestarsi in una doppia maniera, poichè o il trono può essere debile relativamente alla nobiltà e all' interna costituzione; o il trono può essere debile per difendere la nazione dai nimici esterni. Nel secondo caso la nazione stessa sente la debilezza del trono, e s' interessa di fortificarlo; ma nel primo caso la nazione non se ne interessa punto, e gli ordini principali della nazione riguardano con piacere la debilezza del trono; giacchè la loro potenza è appunto in ragione di quella debilezza. Il primo caso succede nelle nazioni che hanno a difendersi continuamente dagli inimici esterni; il secondo nelle nazioni già consolidate e pacifiche. Egli è per questo che gli elettori dell' Imperio germanico preferivano un principe debile ad un principe forte: ed è il vizio delle monarchie elettive. La legge adunque feudale, che mise per base la finta proprietà del sovrano su tutte le terre, nacque in tempi ancora pieni di guerre, e la sua estensione è dovuta al bisogno in cui le nazioni si ritrovarono di dar al loro capo una forza valevole, perchè potesse salvare la nazione sì dagli inimici esterni che dagli interni. Poiché non fu già introdotto il feudalismo in tutte le nazioni d' Europa per la stessa causa della conquista, ma in alcune fu introdotto come una instituzione atta a rendere forte la corona. Ci valga a provar ciò l' esempio dell' Inghilterra, nella quale ecco come la legge feudale s' introdusse, secondo il racconto che ne fa il commentatore delle leggi inglesi Blackstone. Egli è d' opinione, che il sistema feudale si conoscesse assai poco in Inghilterra al tempo dei Sassoni, e che vi fosse universalmente introdotto soltanto dopo la conquista dei Normanni. Ma riguardo al modo onde tal sistema s' introdusse, ascoltiamo lui stesso: [...OMISSIS...] Il vizio adunque del sistema feudale era quello di non convenire se non ad una nazione che fosse costretta ad esser sempre sull' armi per defendersi dagli esterni inimici. In tali casi urgenti il diritto che ha il principe di dirigere la modalità nazionale si estende assai, giacchè egli può fare tutto ciò che è necessario per salvar la nazione. Egli è in tali casi che la nazione è ben disposta a fare i più gran sacrifici per sostenersi; e quindi, come abbiamo veduto coll' esempio dell' Inghilterra, anche ad accettare il sistema feudale. Come la nazione andrebbe a perire se il principe non avesse dei soldati fedeli, e stretti d' intorno a lui, o per dir meglio se tutta la nazione non pugnasse ordinata e unita insieme come una persona sola: così si andò in cerca di un' invenzione che obbligasse i guerrieri della nazione, cioè tutti gli uomini capaci di guerreggiare, a trovarsi intimamente legati col principe. Un simile espediente fu suggerito alle nazioni conquistatrici dalla stessa natura della conquista. Nel primo tempo che il popolo conquistatore entrava nel paese di sua conquista, tutto il terreno si ritrovava ancora indiviso, e appartenente ancora tutto intero a tutta la nazione. Non avendo adunque alcuno proprietà particolari, e perciò non avendo nessuno attaccato l' affetto a dei fondi particolarŒ, come nasce in quelli che sono già proprietarŒ, la nazione poteva in quel tempo provvedere comodamente a due scopi cioè al bene de' suoi membri, e al bene di tutta la nazione; ad arricchir bensì quelli coll' attribuir loro i terreni, ma nello stesso tempo a conservar la nazione forte come quando guerreggiava sotto il suo capo. A conseguir insieme questi due scopi non si poteva trovar nulla di meglio, che quanto: 1 far sì che tutti i membri della nazione ricevessero le terre divise dalla mano del loro capo, perchè con ciò si otteneva il primo fine: 2 che le ricevessero coll' obbligo del servizio militare perchè in tal modo si otteneva il secondo fine. Quegli che riceveva il feudo giurava al Signore e dichiarava « « che egli diveniva da quel giorno suo uomo 1) col pericolo della vita, dei membri, e dell' onor temporale. » » In fatti non v' era un modo più efficace per costringere al servizio militare questi nuovi proprietarŒ, quanto col far dipendere dal comandante le loro proprietà: col far che le riconoscessero da lui, e col dar a lui il diritto di privarli delle medesime se non conservassero la dovuta fedeltà. Questa instituzione era un' ottima precauzione colla quale una nazione guerriera, che riconosceva tutto dalla guerra, e che nella guerra sola riponeva la sua forza e la sua sussistenza, cercava d' impedire, che i suoi membri col rendersi proprietarŒ, e coll' adagiarsi in una vita pacifica e comoda non si ammollissero e snervassero, e non diventasse loro impossibile di staccarsi dalle care loro proprietà, quando la salute comune esigesse che corressero a schierarsi sotto le bandiere del loro duca. Per conoscere tuttavia che tanta potestà data al capo della nazione non era altro che il diritto di dirigere la modalità assai esteso quanto richiedeva l' esigenza delle circostanze, basterà che noi traduciamo l' instituzione feudale in parole proprie: e che evitando tutte le espressioni equivoche, la vestiamo delle espressioni che ci verrebbero suggerite da una legislazione più lucida e più conforme al modo di pensare dei tempi moderni. Supponiamo adunque che in un' assemblea, nella quale la nazione conquistatrice trattasse del modo di ripartire il paese di conquista, il condottiero della medesima sorto a parlare avesse detto così: « Miei compagni! voi siete giunti col vostro valore a rendervi padroni di un paese fertile, dove sarete a pieno compensati dei vostri travagli e premiati della vostra bravura. Ma la fertilità del terreno e la dolcezza del clima può snervare la forza del vostro carattere, e farvi perdere la gloria dei vostri antenati e la vostra. D' altro canto voi siete ancora attorniati d' inimici, e genti robuste e numerose portano invidia alla vostra fortuna. Ciò, che finora vi ha fatto trionfare di tutti gli ostacoli, fu il seguire con unanimità il vostro comandante, e disprezzare al suono della sua voce i travagli e la morte. Ma divisi da lui in un vasto paese, e guasti dall' ozio della vita privata e comoda, voi diverete facile preda di qualche altra gente, che sarà forte come voi siete ora, mentre voi sarete deboli come poco fa erano gl' inimici che avete distrutti. Non trovo dunque alcun mezzo perchè voi conserviate il presente stato glorioso e felice, se non quello che vi obblighiate con giuramento a correr tutti sotto l' insegna del vostro capo, quando la nazione è in pericolo. Ma molti di voi più affezionati alla loro vita tranquilla che memori della giurata promessa, resteranno vilmente a casa; onde le promesse che qui tutti siete disposti a fare saranno inutili, se il vostro capo non ha il modo di punire gli spergiuri, e di provvedere che per la inerzia d' alcuni non periate tutti. Or come ciò che seduce costoro ad abbandonare la causa comune è l' amore troppo grande alle proprietà, perciò io propongo che il capo della nazione abbia autorità di privarli delle medesime: io propongo che tutti voi riconosciate di ricevere le proprietà con questa condizione di prender l' armi alla voce del vostro capo: che la porzione di terra che toccherà a ciascuno di voi non sia considerata che come un premio della fedeltà alla voce del vostro condottiere, giacchè questa fedeltà è stata quella che vi ha resi vittoriosi: io propongo che come dal vostro capo ricevete l' ordine della battaglia, così pure riceviate la proprietà dei terreni, come un premio dell' obbedienza di quest' ordine. Voi tutti dunque che riceverete la vostra porzione di proprietà lasciate alla nazione una garanzia della vostra futura obbedienza e fedeltà col ricevere la proprietà sotto una tale condizione. Se voi siete ora degni di aver un premio, perchè col vostro valore avete conquistata questa terra, riconoscete altresì che vi rendete degni di perderla dall' istante che ricusaste difenderla. »1) E` dunque evidente che l' instituzione feudale non è che un' instituzione politica, un mezzo per render forte la nazione costretta di star sulle armi per difendersi da' suoi nimici. Il diritto che ha il principe sulle terre in tali istituzioni, non è che il diritto di punire quelli che non si prestano alla difesa della nazione, e per la colpa dei quali la nazione verrebbe in pericolo di perire. Ella non può esser dunque la costituzione feudale una costituzione stabile; poichè ella non ha riguardo che allo stato di guerra: ad uno stato in cui la nazione o debbe essere forte o debbe perire. In tali circostanze la nazione è disposta di fare i più grandi sacrificŒ ed i proprietarŒ si accontentano di diminuire la forza de' loro diritti sui loro fondi per non perderli intieramente. Egli è il caso, come diceva, in cui la modalità diretta dal principe prende una grande estensione. Ma appunto perchè la modalità, che è l' oggetto del governo si allarga e si restringe secondo le circostanze, perciò è difettosa quella costituzione che vuol dare a tale modalità una misura stabile: e questa costituzione non può durare se non in quel tempo in cui la modalità oggetto del governo, è nè più nè meno della misura fissata. Poichè venendo quel tempo in cui quel governo non abbia bisogno di usare tutta quella misura di modalità per il ben pubblico, se la vorrà usar tutta, si renderà tirannico; ed all' incontro in altro tempo in cui le esigenze del ben pubblico costringano il governo a disposizioni più larghe, le quali trapassino la misura della modalità fissata dalla costituzione, egli non potendo trapassare quella misura, sarà troppo debile per salvare la nazione. Di che per dirlo di passaggio si può cavare questa regola circa la bontà delle costituzioni: « Che la costituzione debbe bensì assegnare tali mezzi per li quali il governo non osi di passare fuori del circolo della modalità, ma nello stesso tempo non debbe stabilire la misura della modalità perchè questa essendo variabile secondo le circostanze della nazione, la costituzione diverrebbe con ciò inopportuna al sopravvenire nella nazione una nuova circostanza. » Per applicare la regola alla costituzione feudale basta osservare come fissando essa al governo una misura di modalità tanto estesa, che era bensì adattata in tempi di guerra, nei quali l' ordine pubblico era ad ogni momento in pericolo, diventava inopportuna tostochè tale circostanza si mutasse, e si venisse a stabilire di più la nazione e a trovarsi in istato di maggior sicurezza e quiete, nel quale stato la influenza del governo, o sia la modalità, meno si doveva estendere. In simile tempo la nazione, che non vuole mai che il governo faccia se non quel tanto che è necessario per la sua salvezza e prosperità, si sforza di tirare in dietro quanto prima aveva troppo liberalmente conceduto, e con ciò viene a distruggere quella costituzione ch' ella stessa prima aveva imprudentemente fondata od acconsentita. E` una cosa molto istruttiva l' osservare come la costituzione feudale che assegnava una modalità tanto estesa al governo da dargli fino il diritto di proprietà sulle terre, venisse bel bello ristretta e così guastata. La nazione cercò sempre di tirare indietro una tale concessione fatta da lei a' suoi capi in tempo di grande pericolo: cercò dìco di tirarla indietro in ragione che l' esperienza le dimostrò, o pure che l' avidità le fece sperare che il governo non avesse bisogno di tanto, o sia in ragione che giudicò che le circostanze del paese non esigessero che il governo avesse a disporre d' una misura sì grande di modalità. L' esperienza a ragione d' esempio fece conoscere alla nazione ciò che non aveva preveduto in principio, non essere ogni maniera di guerre d' un interesse nazionale; ma avervene di quelle che non riguardavano se non l' interesse del loro capo. S' accorse adunque che l' obbligazione del servizio militare stabilita nella costituzione feudale per la guerra in genere, poichè non si aveva idea d' altra guerra che di quella che riguardava la difesa del paese conquistato, era troppo estesa; ed essa cercò quindi di limitarla alla guerra difensiva e nazionale. A quest' avvertenza dieder occasione le guerre insorte tra' figliuoli di Carlo Magno, di cui ecco la disposizione che ne conseguì, e che narrerò colle parole di Montesquieu. [...OMISSIS...] Si rileva da Nitardo che questo trattato fu fatto dalla nobiltà. Fino dunque che il principe poteva esercitare con libertà il diritto feudale di togliere e di dare le terre, cioè fino che la nazione glielo permetteva costretta dalla necessità di sostenersi, la finzione della proprietà del principe sulle terre aveva qualche cosa di reale; poichè se non le faceva coltivare a suo pro, usava però di frequente il diritto di toglierle e di donarle, il quale essendo solitamente un atto di proprietà, faceva si che sembrasse realmente che il principe avesse la proprietà delle terre. E` vero che il togliere ed il donar le terre nel principe non era che un atto del potere governativo, da non confondersi mai con quell' atto, col quale il padrone del campo lo dà altrui in usufrutto. Ma come quell' atto era il medesimo che questo, e non differiva se non dal titolo col quale si faceva; giacchè il principe lo faceva per titolo di governo, ed il padrone per titolo di proprietà, così era ben facile confondere questi due titoli in un titolo solo, o sia scambiare l' uno coll' altro. Ma se la proprietà dura sempre in una misura eguale; il potere governativo all' incontro varia secondo i bisogni del paese. Laonde venendo il tempo in cui non si rendesse più tanto necessario di esercitare con frequenza quel diritto feudale del principe di togliere e di donare le terre; doveva quella finzione di proprietà che la legge dava al principe sempre più apparire come una cosa vana e chimerica, e rendersi tanto più cagione di mali quant' ella più mancava di fondamento. Una tale costituzione pertanto aveva il doppio difetto che rendeva il principe prodigo, e la nazione vie più avida ed avara. Quindi in ragione duplicata cresceva lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile. Giacchè la forza del re era riposta nel donare, egli era messo sopra una strada opposta all' economia, d' altro lato non era già altrettanto facile il togliere ciò che era stato donato giacchè con ciò si formava dei nemici. I Signori all' incontro i quali erano stati avezzi di dare il loro affetto e la loro fedeltà al re sempre in cambio dei doni che ricevevano, erano messi sopra una strada anche troppo economica, giacchè teneva sempre viva la loro avidità. Quindi mentre la corte prendeva un alto e nobile tuono di cortesia e di generosità, rendendosi in sostanza con ciò stesso sempre più debile, i Signori all' incontro praticavano l' arte dell' avere quanto più potevano dal sovrano con raggiri, con bassezze, con dare ora speranza, ed ora con isparger timori, vivendo sopra una continua speculazione di guadagno che li rendeva sostanzialmente più forti. Abbiamo veduto come venne limitato l' aggravio del servizio militare: veggiamo adesso come la nobiltà si venisse assicurando le sue ricchezze, e un grado alla volta spogliando la corona di tutto quel poco di reale, che poteva avere la finzione legale di proprietà sulle terre. Primieramente l' introduzione dei suffeudi indebolí l' autorità del re: [...OMISSIS...] Ma i progressi della nobiltà nel diminuire la potestà feudale del re sulle terre, non si vedon meglio che tenendo dietro alle mutazioni successe nel tempo in cui furono dati i feudi. Carlo Martello, seguendo la conghiettura dell' Abate Mably, fu il primo che invece di darli a tempo come per innanzi, cominciò a darli a vita; poco dopo divennero ereditarŒ. L' anno ..9 Eude di Parigi re di Francia concedette delle terre a Ricabodo suo vassallo pel tempo di sua vita, e di più con questa condizione favorevole, che morendo con un figliuolo, questi pure le godesse a vita. Ciò fu un primo passo dei feudi ereditarŒ in perpetuo. Il secondo passo fu quello di rendere i feudi ereditarŒ in linea retta maschile; il terzo quello di renderli ereditarŒ anche in linea collaterale: il quarto finalmente fu quello di renderli ereditarŒ anche in linea femminile. Ridotti i feudi a quest' ultimo stato la proprietà, che sopra di essi attribuivasi al principe, non aveva più nulla affatto di reale: ed era una finzione vanissima. E tuttavia « « anche dopo ch' ebbero ricevuta quest' ultima forma » - dice Robertson - «i giureconsulti trattando de' feudi continuarono a definirli conformemente alla loro prima instituzione; ma la proprietà non apparteneva più al Signor superiore ed era passata in effetto nelle mani del vassallo. » » Questa servilità pecoreccia de' giureconsulti nell' applicare le parole e le difinizioni antiche alle cose nuove, a cui non sono applicabili, portò sempre un gran male nella società. Il principe dalle parole della legge s' illudeva, e s' imaginava di ritenere in qualche modo una padronanza di cui non gli rimaneva che il nome. I nobili all' incontro che lasciavano ben volentieri al principe tutte le parole ampollose, mantennero sempre il loro costume, cioè la loro industria per tirare a sè l' effettiva ricchezza; tanto la generosità del principe quanto l' avidità dei Nobili più esercitandosi più s' accrescevano, e diventavano senza confini: e, se non vi fossero state le crociate che hanno alquanto abbassato i nobili impoverendoli, e rilevata l' autorità dei principi rimettendoli alla testa delle loro nazioni, probabilmente tutte le società civili d' Europa sarebbero degenerate in funeste oligarchie. Non furono già contenti i nobili di rendersi così assoluti padroni delle terre, ricevendole dal principe a titolo di feudi; ma col gioco d' un simile titolo il quale lasciava ai principi apparentemente la proprietà delle cose, seppero strappare dalle mani principesche anche le rendite casuali dello stato, come i diritti di assisa e di pedaggio i porti dei fiumi, i salari o gli emolumenti degli offici, e gli offici stessi si mutarono in simiglianti feudi ereditari. L' avidità de' nobili che non aveva limiti si impossessò di tutto ciò a cui poteva, sebbene assurdamente, attaccare il comodo titolo di feudo. Chi crederebbe che l' elemosine stesse delle messe dette ad un tale altare, le ottenessero dei Baroni possenti a titolo di feudo, e le partissero come le altre proprietà fra i loro vassalli? 1) Le grandi cariche della Corona divennero ereditarie quasi per una certa necessità proveniente dallo spirito d' usurpazione della nobiltà, a cui i principi erano troppo debili per resistere, sebbene talora facessero qualche sforzo. In fatti si hanno degli esempŒ di principi che obbligavano quelli a cui conferivano qualche carica o dignità, di riconoscere con un atto formale che nè essi nè i loro eredi potevano pretendere di possederla per un titolo ereditario. 1) [...OMISSIS...] Così gl' istorici riflessivi sono condotti dai fatti a riconoscere l' esistenza continua della legge di cui parliamo, dell' equilibrio cioè tra la proprietà ed il potere. Si poteva indicarla con più chiarezza di quello che faccia in questo passo Robertson? Ma perchè dunque, avendola veduta, negligentare poi di applicarla e di cavarne le feconde conseguenze? Blackstone si scaglia con ragione contro delle sottigliezze dei giurisperiti normanni che avevano guasta l' antica costituzione Sassone; rimprovero che molti fecero anche ai Romani, i quali perfezionando il sistema fondato dalla legge regia legalizzarono il dispotismo. Noi abbiamo fatto vedere che anche la legge regia presso i Romani in sostanza non era che una finzione, giacchè essa opponendosi alla costumanza od al fatto si rimaneva scritta sulla carta, dove è pur facile scrivere ciò che si vuole; ma non era altramente nella reale costituzione. L' essere tuttavia scritta in carta bastava per dare al principe il pretesto di fare quanti arbitrii a lui piacesse, e di usare quella potenza ch' egli avea di fatto per alterare la costituzione antica e rendersi al tutto despota. In fatti anche questo vizio ha la legge feudale; poichè come da una parte invita i nobili a carpire le donazioni del principe, così dall' altra invita il principe ad aspirare ad un pieno dispotismo, conciossiacchè gli dà il pretesto in mano poichè gli fa credere ch' egli sia il proprietario delle terre. Dipende dunque solo dall' indole del principe, e dalle circostanze che gli facciano credere più vantaggiosa una condotta che l' altra, di appigliarsi all' uno dei due partiti a cui egualmente lo invita la legge feudale, l' uno dei quali non è meno pernicioso dell' altro, nè meno capace di esercitare scompigli nello stato. Il primo di questi due partiti è quello di cui abbiamo parlato, cioè ch' egli sia inclinato a donare e a satollare l' avidità dei nobili: il fine del qual partito è d' impoverire a segno la corona da non poterla più sostenere, e gli esempi di ciò gli abbiamo trovati nel regno di Francia e nell' Imperio Germanico. Il secondo partito è quello di farsi realmente conto del preteso diritto che gli attribuisce la formula della legge sulla proprietà della terra: ed in tal modo di aspirare ad un dispotismo, che se non trovasse ostacoli diverrebbe ben presto quello del sultano di Costantinopoli, come notammo avvenire nell' antico imperio romano per l' abuso della legge regia: e come sarebbe avvenuto nell' Inghilterra per l' abuso della feudalità normanna, se invece la condotta del principe trovando de' forti ostacoli non avesse fatto cadere la pura costituzione feudale, e nascer da quella una costituzione più vera e più moderata. Dopo avere Blackstone parlato delle conseguenze di un potere esagerato che tiravano gli interpreti normanni dalla costituzione feudale, soggiunge: Ma non era già questa stata l' intenzione dei nostri antichi nell' aver assentito alla legge feudale: [...OMISSIS...] Ma se questa legislazione era di mere parole, fu ella men dannosa allo stato? non bastò essa per dar il modo a' Principi di attribuirsi più autorità che non avevano? Questa falsità di espressioni si potè essa correggere senza che la nazione sofferisse delle pene e degli scompigli di fatto? con sì gravi pene adunque debbono scontare le nazioni una semplice improprietà di parlare? « « Guglielmo, prosegue Blackstone, e il suo figlio Guglielmo il Rosso mantennero imperiosamente tutto il rigore delle dottrine feudali; ma il loro successore Enrico I giudicò utile per appoggiare le sue pretensioni alla corona di promettere il ristabilimento delle leggi del re Edoardo il confessore, o dell' antico sistema Sassone. Per conseguente nel primo anno del suo regno concesse una carta per la quale rinunziava ai carichi più oppressivi, mantenendo tuttavia la finzione della tenuta feudale sempre sotto quell' aspetto militare, che aveva spinto suo padre ad introdurlo. »2) » Col mantenimento di tale finzione si conservava il germe degli stessi mali, cioè il pretesto pel quale il principe potesse ritornare di fatto a quelle pretensioni e a quell' estremità di potere che non gli conveniva già per il suo grado principesco, ma che gli sarebbe bensì convenuto se invece d' esser principe fosse stato padrone, invece d' aver de' sudditi, avesse avuto de' servi; se in una parola la legge feudale non fosse stata una finzione, e il principe avesse realmente avuto la proprietà sulle terre. E in fatti che avvenne della Carta data da Enrico I? « « Questa Carta fu rotta per gradi, e le precedenti oppressioni furono rinnovellate e raggravate da lui stesso, e da' suoi successori fino al re Giovanni: esse divennero sì intollerande nel regno di quest' ultimo, che i suoi principali baroni e feudatarŒ si sollevarono e pigliarono le armi contro di lui; ciò che produsse finalmente la celebre Gran Carta di Runing7mead , confirmata poscia, eccetto qualche modificazione, da Enrico III suo figlio. »1) » E fu l' essersi i re d' Inghilterra e quei di Francia appigliati ai due opposti partiti che loro somministrava la legge feudale, cioè quei di Francia alle donazioni con cui ingrandivano i nobili, e quei d' Inghilterra al dispotismo con cui gli opprimevano, che ne vennero poscia le conseguenze, che i re di Francia avessero bisogno di confederarsi col terzo stato contro dei Nobili; mentre la Nobiltà d' Inghilterra ebbe bisogno di confederarsi col terzo stato contro del Re: nel che si può dire che consista ciò che formò il carattere politico di quei due regni. [...OMISSIS...] Dopo tutto ciò che s' è detto fin quí per provare colla via dell' esperienza, che la legge caratteristica della civile Società, e d' una saggia costituzione, consiste nell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, resta una difficoltà che ci si può fare: Come mai i popoli più saggi che hanno traveduta questa legge, che hanno anche fatte delle instituzioni ad essa consonanti, non hanno poi recato alla perfezione il sistema e non hanno organizzata la Società unicamente su questa legge? La risposta è in pronto: se ciò avessero fatto, si sarebbero potuti benissimo censurare, come quelli che si avrebbero resi schiavi di un sistema, ed avrebbero con ciò abbandonata quella piena e molteplice sapienza che suggerisce la maggior maestra degli uomini, l' esperienza. Dopo le cose dette, a noi riesce facile anche d' indicare con precisione in che sarebbe consistito il loro errore: in che avrebbe peccato di sistema l' organizzazione della società civile fatta unicamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. L' errore di cui parliamo rende ragione del fatto che ci si oppone, ed in questa maniera fa sì che quel fatto si renda una nuova prova della nostra teoria. L' errore sarebbe consistito nel sottomettere alla detta legge tutta la società civile; mentre egli deve essere diviso in due parti, cioè: nel morale e nell' amministrativo; ed è solamente l' amministrativo quello che va organizzato secondo l' equilibrio della proprietà e del potere, e non già il ramo morale o giudiciale, il quale va organizzato nella forma di tribunale. L' organizzare tutto il potere civile a norma della sola legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, produrrebbe due gravi disordini: 1 una parte della società sarebbe sacrificata; disordine contro la felicità comune: 2 la rettitudine sarebbe fatta servire alla ricchezza, disordine contro la moralità e la giustizia. La parte della società sacrificata sarebbero tutti gli uomini privi di beni di fortuna; poichè i diritti personali non vi avrebbero come tali nessuna rappresentanza, nessuna attività, nessuna voce da far intendere la loro ragione, perchè non sieno oppressati. Ora l' organizzazione fatta puramente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere doveva necessariamente incontrare una reazione. Nè solo doveva incontrare una reazione dagli uomini privi di proprietà, ma in generale dall' elemento personale. Per ischiarire la cosa bisogna considerare tutti i diritti, o beni posseduti dagli uomini tutti, congiunti ad una energia o forza, mediante la quale tendono di difendere sè stessi, cioè di conservarsi e di ampliarsi. Or dunque nella società umana come vi sono due specie di diritti, personali e reali, così vi sono due forze o due energie corrispondenti alle due specie di diritti. Queste energie o instinti che ha l' uomo di difendere il suo diritto, porta ciascun uomo ad aspirare al potere politico come ad un mezzo inserviente alla difesa dei proprŒ diritti. Or dunque il potere politico viene come strappato e tirato da due forze: cioè dalla forza veniente dal diritto personale e dalla forza veniente dal diritto reale. Ora siccome il diritto personale è eguale in tutti, così la forza proveniente da questo diritto tende a dividere il potere civile in porzioni eguali fra tutti gli uomini; mentre all' incontro siccome il diritto reale è disuguale negli uomini, così questa forza tende a dividere il potere fra gli uomini in porzioni diseguali. Se non esistesse altro che la forza proveniente dal diritto reale, egli è certo che il potere civile si troverebbe ben presto diviso fra gli uomini allo stesso modo come si trovassero fra essi divise le proprietà e le ricchezze, che formano il detto diritto; nel quale caso la legge dell' equilibrio fra il potere e la ricchezza verrebbe compiutamente a realizzarsi per le sole forze della natura. Se all' incontro non esistesse nell' umana Società altro che la forza veniente dal diritto personale, egli è certo che in breve tempo il potere civile sarebbe diviso egualmente fra gli uomini e verrebbe a realizzarsi rigorosamente colle sole forze della natura il sistema della rappresentazione personale. Ma poichè nella Società umana non esiste già una sola di queste due forze, ma esistono e operano contemporaneamente tutte due; quindi era impossibile che le Società civili prendessero l' una o l' altra di queste due forme semplici: era impossibile che il potere civile si dividesse rigorosamente in ragione delle ricchezze o pure che il potere civile si dividesse con una perfetta eguaglianza fra gli uomini. Invece di ciò che ne doveva seguire? doveva seguire che le società di loro natura prendessero un' organizzazione che fosse media proporzionale fra quelle due estreme, in cui il potere civile nè fosse diviso in parti eguali fra gli uomini, nè fosse perfettamente diviso in ragione delle ricchezze. Dopo di ciò riuscirà facile a spiegare la ragione di certe parti che s' incontrano nelle migliori costituzioni sociali, le quali a primo aspetto sembrano irregolarità, e il primo pensiero che viene è il desiderio che fossero tolte, perchè si rendesse più semplice, più uniforme, più elegante la costituzione. Bisogna osservar ciò nelle costituzioni più eccellenti e specialmente in quelle nelle quali i legislatori hanno spiegato la maggior forza di spirito in ben calcolare le forze della natura, poichè trovando in queste costituzioni stesse delle irregolarità, bisogna dire che i legislatori non le abbiano potute evitare, e che anche volendole, abbiano incontrato un ostacolo insuperabile che veniva loro opposto dalla stessa natura delle cose. Per esempio noi abbiamo veduto quanto bene Servio Tullio abbia veduto la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere e con quanta sapienza abbia cercato di fondare sopra di essa la costituzione romana, instituendo i comizŒ centuriati. Ma perchè poi dopo questa bella instituzione il capolavoro della romana politica, il popolo romano tuttavia si assembrava ancora talvolta a deliberare per ComizŒ curiati e tributi? Queste specie di ComizŒ non sembrano una irregolarità rimasta nella costituzione romana? Un legislatore sistematico e superficiale avrebbe tentato di abolire questi vecchi costumi adattati alla rozzezza dei tempi di Romolo e inopportuni alla cultura dei tempi moderni; ma egli è assai probabile che senza riuscirvi avrebbe messo in grave pericolo la repubblica, o almeno se stesso. In fatti i Comizi per curie e per tribù era la rappresentazione dei diritti personali, come i ComizŒ per centurie era la rappresentazione di diritti reali: e come non era possibile distruggere la forza personale, giacchè esiste in natura: così sarebbe stato impossibile, sarebbe stato una violenza contro natura l' intera abolizione dei ComizŒ curiati e tributi. Essi hanno preceduti i ComizŒ centuriati, essendo stati instituiti da Romolo, e la ragione di ciò l' abbiamo data quando abbiamo osservato, che nel primo stato di una nazione prevale la forza veniente dai diritti personali, poichè la proprietà ancora non vi è, o se vi è non fu ancora divisa in parti molto diseguali, o finalmente non ha ancora avuto tempo di esercitare la sua influenza. Ma passati quasi due secoli la nazione venuta al secondo stato di proprietà diseguali, vennero secondo la legge da noi esposta, a prevalere i diritti reali ai personali, e fatta l' instituzione dei ComizŒ centuriati, questi subitamente presero la prevalenza, e trattarono di affari maggiori della repubblica. Ma per quanto questi prevalessero non si potè già fare che soli prevalessero, e la rappresentanza reale fatta in questi, dovette essere temperata dalla rappresentanza personale fatta in quelli: così l' equilibrio fra la proprietà ed il potere non si potè già perfettamente conseguire, ma solamente approssimarvisi. Il difetto del sistema consiste nell' esser questo più ristretto che non è la natura: per amore di semplicità e di regolarità si tralascia qualcheduna delle forze della natura; e di ciò viene il detto, che è diversa la teoria dalla pratica. Le maggiori dissensioni esistenti fra i politici si riducono, ridotte agli ultimi termini, a sostenere gli uni la rappresentanza reale, gli altri la rappresentanza personale: gli uni e gli altri non fanno che un sistema: è una teoria che differisce dalla pratica: la teoria che non differisce dalla pratica sarà quella che insegna a far che coesistano queste due rappresentazioni, giacchè esistono in pratica le due forze che le producono. Noi le ritroveremo egualmente, se considereremo le costituzioni inglese e francese; e specialmente la prima, dove sembra che la rappresentazione reale più prevalga. La camera bassa rappresenta i minori proprietarŒ. [...OMISSIS...] Ma non è già questo solo l' officio che presta la Camera bassa. Chi ben considera essa non è solo una rappresentazione di proprietà, ma ben ancora di diritti personali. [...OMISSIS...] Ma per vedere come spetti alla Camera bassa anche la difesa dei diritti personali, basta osservare l' incumbenza che nella costituzione inglese ha di sua natura un deputato alla Camera. [...OMISSIS...] Se la Camera bassa rappresentasse solamente proprietà essa non si sarebbe giammai mostrata in così stretta relazione come è coi fautori della rappresentazione personale: i democratici di tutti i paesi trovano sempre facile l' alleanza colla Camera bassa, e le rivoluzioni democratiche cominciano sempre da lei. Se la Camera bassa rappresentasse mere proprietà, probabilmente dopo la caduta del feudalismo avrebbe trovato il modo di unirsi in una Camera sola colla nobiltà, giacchè non differirebbero essenzialmente riguardo agl' interessi di cui assumono l' avvocazia. A malgrado però che i diritti personali nelle migliori costituzioni abbiano trovato il modo di farsi rappresentare meno o più fortemente, secondochè la società è più o meno avanzata, tuttavia la maggior difesa di questi consiste piuttosto nella rettitudine di quelli che influiscono nel governo, che nella stessa organizzazione del medesimo. Rimossa la rettitudine, non solo i diritti personali sono sempre in pericolo d' essere offesi, ma ben ancora la minorità dei diritti in genere; poichè la minorità è sempre di natura sua inetta a resistere contro la maggiorità. Se gli uomini fossero interamente cattivi, la minorità sarebbe sempre sacrificata: e sacrificando l' una dopo l' altra diverse minorità, gli uomini distruggerebbero in breve se stessi. Ma gli uomini non sono interamente cattivi, ma hanno solamente una parte di cattiveria: la quale ora è più grande ed ora è più piccola: dunque la minorità non viene già interamente distrutta, ma viene bensì attaccata ora con più forza ed ora con minor forza dalla maggiorità. Se la minorità si vede attaccata con molta forza, ma non però tale che perda ogni speranza di fare una valida difesa, allora è il caso in cui lo stato si pone in convulsione, poichè la minorità fa tutto il possibile per acquistare la prevalenza: ed allora le forze che essa naturalmente non avrebbe, le acquista per un' energia sforzata, per un impulso violento che produce in se stessa l' entusiasmo e le passioni sollevate: e questo è appunto il caso in cui il governo italiano nel secolo XIII venne in mano alla minorità, cioè alla plebe od ai commercianti; quella forza non era reale e naturale, ma artatamente prodotta od eccitata: bastevole perciò ad abbattere i principi ed i nobili per il momento, ma non a sostenere se stessa lungamente. Da queste osservazioni nasce che ogni opinione che si abbracci in politica, sia favorevole alla rappresentazione personale o sia alla reale, è cattiva fino che non si è trovato il secreto di eliminare mediante il Tribunale politico la rappresentazione personale; poichè in tal caso non restando nella Società che la rappresentazione reale, questa si può organizzare in un' Amministrazione, seguendo rigorosamente la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. Qualche scrittore meno trasportato da partito, che osservò come la rappresentanza personale perderebbe la società privando di difesa tutti quei diritti che risaltano fuor della linea comune, che sono fondati in natura, e che vengono a formare la somma maggiore dei diritti; e che osservò d' altra parte come la sola influenza delle ricchezze nella rappresentazione reale lascierebbe scoperti e indifesi i diritti personali: non seppe poi giungere ad osservare, come la natura spingeva le nazioni a prendere una costituzione media e quasi spinte da due forze diverse a tenere per così dire la diagonale. In fatti fino che il Tribunale non viene diviso dall' Amministrazione quella costituzione media è la più saggia, come quella che viene suggerita dalla natura. Non essendo però giunto a formarsi questa idea precisa si acquietò in un sistema incerto e determinato, dicendo così: « « Il principio sacro, il principio conservatore di ogni governo libero consiste in ciò, che la sovranità non appartenga nè alle classi, nè agli ordini, nè ai consigli, nè agl' individui, che la sovranità appartenga non ad una parte, ma all' intera nazione, che in nessuna parte trovisi chi potrebbe volere in nome di tutti quanto ogni individuo potrebbe volere individualmente, e imporre a tutti i sacrificŒ che ogni individuo potrebbe acconsentire d' imporsi. »1) » Certo la sovranità giova che appartenga all' intera nazione, ma giacchè questa nazione non è che una persona morale composta di persone individuali; bisogna sapere di più, come questa sovranità debba essere divisa fra dette persone individuali, in che ragione debba essere dalle medesime partecipata: tralasciando di definir questo non si dice ancor nulla coll' affermare che la sovranità debba risiedere nell' intera nazione. D' altro lato in qualunque modo sia divisa fra la nazione, rimane sempre una maggiorità ed una minorità di forze: quindi rimane medesimamente insoluto il gran problema: Come si possa difendere ogni minorità contro ogni maggiorità: problema più interessante che non pare a prima giunta; ma che si vede esser tale dove si supponga fatta astrazione dall' elemento morale, il quale salva in parte la minorità; poichè senza questo scudo una successione di minorità sacrificata come dicevamo condurrebbe l' uman genere intero alla sua distruzione. Vuol forse dire l' illustre autore con quelle parole, che la sovranità debbe risiedere nell' intera nazione, ma che non debb' essere stabilita nessuna stabile regola intorno al modo ond' essa venga divisa fra gl' individui della nazione, acciocchè variando di fatto la ragione onde viene partecipata la sovranità dagli individui, il centro di tutte le forze nazionali sia mobile, ed ora si trovi in un punto ora nell' altro della nazione? Non posso credere che voglia intendere ciò; poichè sarebbe lo stesso che abbandonare le cose pubbliche al caso, o negare che possano essere aiutate dalla saviezza, sarebbe ancora un lasciare la sovranità da rapirsi e straziarsi a vicenda da tutti quelli che hanno più forza. Il secondo disordine, che nascerebbe dalla costituzione civile fatta rigorosamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, sarebbe la rettitudine fatta servire alla ricchezza; poichè tale costituzione organizzata in un modo al tutto amministrativo non curerebbe di sua natura che gl' interessi, e ciò che è morale sarebbe straniero alla medesima, cioè a dire apparterrebbe alle persone singole, ma non alla Amministrazione stessa presa in astratto. Poichè fu sempre impossibile agli uomini lo spogliarsi di ogni idea nobile ed elevata, di ogni principio morale, che trascendesse tutta l' importanza degli interessi sensibili: e poichè mediante la religione cristiana queste idee sublimi e preziose vennero a rilevarsi e rinforzarsi nelle menti degli uomini; perciò egli fu impossibile, che le nazioni specialmente cristiane organizzassero il loro governo unicamente come un' Amministrazione, che è quanto dire realizzassero a tutto rigore la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. « « Si aveva una certa non so quale vergogna » », così uno storico che più volte abbiamo citato parlando della legislazione de' secoli di mezzo « « ad attribuire tanto merito alla ricchezza che sola potesse collocare un uomo nel primo ordine della Società, nè si voleva accordare la nobiltà come prezzo di quella gara che è tra gli uomini grandissima delle ricchezze; nè stabilire il principio, che i beni in qualunque modo acquistati da un plebeo gli dessero un giusto titolo da essere rispettato ed obbedito da' suoi eguali. »1) » Il principato e la magistratura, che si confuse col potere assoluto, ebbe sempre con ragione aggiunte nel pensare degli uomini le più eminenti idee, e ciò nasceva perchè i due loro principali officŒ, erano: 1 il render giustizia, officio tutto morale, e che fa vedere in quello che lo esercita il vicario di Dio in terra: 2 ed il combattere, officio che diventa pur morale, quando si combatte per la giustizia, quando si combatte non per sè, ma per la difesa del popolo, che si ha ricevuto in cura dalla provvidenza. Il feudalismo che aveva rimesso il principe sul tuono di una generosità, che tutto fa per gli altri e nulla ritiene per se stesso, aveva rinforzate queste idee. La religione le aveva autenticate e sacrate, ed il principe divenne una venerabile imagine della divinità e della provvidenza, che nulla aveva per così dire di profano e di terreno. A questi alti offici si associava l' officio economico, o amministrativo; ma questo era ecclissato dallo splendore di quei primi, e quasi non si considerava. Poichè questa maniera di pensare è giusta e conforme alla divinità del cristianesimo, perciò fino che questi diversi officŒ restano insieme mescolati e confusi, non è possibile che l' amministrazione sociale abbia la sua perfetta organizzazione, giacchè tale organizzazione nuoce a que' due primi e più rispettabili officŒ. In fatti la perfetta organizzazione è che le ricchezze sieno quelle sole che in essa influiscano. Or come è possibile che la facoltà di amministrar la giustizia, per esempio si distribuisca in ragione della ricchezza? E` forse distribuita in ragione della ricchezza la probità, che è ciò che è necessario per l' amministrazione della giustizia? Non già. Dunque fino che i membri dell' amministrazione debbono anche esser quelli che rendono giustizia, non potrà mai avvenire che s' abbia un' Amministrazione perfetta ed un giudicio perfetto nella nazione: poichè l' amministrazione perfetta esige che sia divisa fra i membri della nazione in ragione delle ricchezze che possedono: ed il giudicio perfetto esige che sia fatto dagli uomini probissimi indipendentemente al tutto dalla loro ricchezza e povertà. L' amministrazione perfetta dunque non si può ottenere se non si divide da essa tutto ciò che nel governo c' è di morale; cioè se non lo si porta tutto nei tribunali e specialmente nel Tribunale Politico. Queste osservazioni spiegano la ragione per cui nei tempi in cui si avevano più nobili idee del governo, e in cui si faceva più conto del suo vero splendore morale e religioso, in que' tempi l' amministrazione fosse più negligentata. Nei nostri tempi all' incontro in cui l' amministrazione si è tanto migliorata, la dignità del governo è caduta e quasi spenta, e quasi tutte le idee morali sono sparite: il materialismo si è communicato per tutte le fibre del governo, e per usare le espressioni d' un grand' uomo: La legge è atea, e le nazioni stesse si mettono in circolazione come cambiali. Si ha dunque ragione di gridare contro al materialismo che corrompe i governi de' nostri tempi, dando loro la forma di un negozio mercantile; ma si farebbe ancor meglio nell' insegnare come si possa dividere l' amministrativo da ciò che è morale, acciocchè per un giusto timore di non perdere il morale, non si tornasse forse nell' amministrativo ai secoli di mezzo. E non è già che io escluda nell' amministrazione la moralità: questa è necessaria in tutto: ciò che dico si è, che la moralità debbe accompagnare l' amministrazione; ma che il giudicio debb' essere la professione stessa della moralità. Come ho dimostrato, che l' amministrazione nazionale non si può render perfetta se non si divide dall' elemento giudiciale o morale, così avrei potuto parimente dimostrare ch' ella non poteva organizzarsi perfettamente, fino che non era divisa dalla magistratura; nella quale non debbe prevalere la ricchezza, ma l' elemento intellettuale. Ma ho creduto bene di ommettere questa osservazione per riservarla al Libro dove parlo della magistratura. Il che è vero qualunque sia la forma che abbia il governo. Chi non ha rinunziato totalmente alle idee morali, ovvero chi non pretende, inconseguente con se stesso, che la morale sia bensì qualche cosa ma debba essere esclusa dalle disposizioni politiche, vedrà incontanente la verità della enunciata proposizione: vedrà che i regolatori della società non possono fare una disposizione se prima non credono ch' ella sia conforme alle leggi della eterna giustizia ed equità; e perchè lo possano credere debbono aver portato un giudicio sopra la stessa. Questo giudicio rimesso in fine del conto alla coscienza de' governanti, non solo ne' governi assoluti, ma ben anco ne' governi costituzionali e repubblicani che fin qui si conoscono, se è fatto bene rende le disposizioni politiche innocue al bene dei particolari membri della società. - Solamente mediante questo retto giudicio tutti i diritti, anche i più piccoli ed appartenenti alle persone meno influenti, possono esser riparati dal peso enorme del sociale potere sotto cui altrimenti sono in pericolo di venire schiacciati. Giacchè il giudicio è sempre libero, e un giudicio simile a questo non riposa che sopra un' esatta cognizione dei principŒ della morale e della giustizia, e di più sopra la disposizione retta della volontà; ne viene che queste due buone qualità, cioè la cognizione e la rettitudine, sieno in ultima analisi le due sole salvaguardie de' diritti del debile contro il forte, e del particolare contro il potere o contro la maggioranza de' cittadini. Ma d' altra parte egli è impossibile che chi ha la forza in mano non sia tentato di abusarne, ed è impossibile che nella società qualunque sia l' ordine che vi si stabilisca non v' abbia finalmente un' autorità suprema, ed anche una forza suprema: dunque è impossibile di levare dalla società il caso in cui non si ritrovi la detta tentazione. Quando anche le forze fisiche fossero distribuite nella società in perfetta eguaglianza, le dette forze non riuscirebbero eguali nel loro effetto per la diversità delle forze morali: l' opinione della propria forza infonderebbe tuttavia una diversa misura di coraggio ai diversi uomini; ed è l' opinione della forza ed il coraggio assai più che le forze fisiche ciò che muove l' uomo ad intraprese che vengono ad aggravare sopra i suoi simili. Giova certo oltremodo il persuadere gli uomini di questa grande verità, che la conservazione della giustizia è di un comune vantaggio; ma questa stessa persuasione così utile, e che si vede di secolo in secolo far progressi nell' uman genere in ragione della diffusione dei lumi; questa persuasione che sembra sottomettere la giustizia all' utilità, e rendere quella amabile per amore di questa, è una nuova prova che l' umanità si va migliorando, e che diventa più suscettibile dei sentimenti morali. In fatti qual può essere la disposizione di quelli uomini che s' inducono a rispettare la giustizia sul riflesso ch' essa è generalmente utile? Non è certo un tal rispetto della giustizia, a questa ragione appoggiato, bastantemente puro, il concedo, ma nulladimeno la disposizione di tali uomini riesce tale che essi oggimai temono più i danni che possono venir loro apportati, quando la giustizia venga dagli uomini trascurata, che non isperino di vantaggio dalle stesse loro ingiuste intraprese sugli altri uomini. Ora tale non è la disposizione di un uomo estremamente avido di acquistare e rapace; perocchè questi sente d' avere in sè stesso una forza che gli dà la sua stessa immoralità maggiore di quella che hanno gli altri uomini: perciò più spera di acquistare, che non tema di perdere; anzi spera senza temere: poichè l' avidità lo occupa assai più di ciò che può egli contro gli altri, che non di ciò che possan gli altri contro di lui. Egli è dunque necessario di ricorrere sempre in fin del conto per trovar una tutela ai diritti dei deboli contro ai forti ad un fondo di moralità benchè imperfetta che si ritrovi nei forti; senza del quale non può consistere il genere umano. A torto questo ultimo fondamento della conservazione de' diritti e però de' beni di tutti, la buona fede, la rettitudine, la moralità, su cui riposa la tranquillità e l' esistenza stessa del genere umano, sembra fragile ed accidentale: egli è l' unico, e però bisogna contentarsene: qualunque meccanico ripiego, qualunque organizzazione esterna della società non può renderlo inutile, ed ella è una speranza ridicola, non mi stancherò di dirlo, quella dei politici materiali, di poter trovare un ordine politico di cose che non abbia il suo ultimo sostegno nella moralità, nel quale perciò non si esiga qualche sorta di virtù in quelli che hanno o credono d' avere in mano la forza, perchè non ne abusino. Sia pur dunque per molti alquanto strano, pure egli non cessa d' esser verissimo, che il modo onde i diritti dei deboli sono tutelati, non è altro che la buona volontà di quelli che potrebbono offenderli e non vogliono farlo, perchè non giudicano di doverlo fare. Questi che potrebbero offenderli sono in primo luogo indubitatamente quelli che governano la società, i quali hanno il maggior potere nelle mani e questo vale tanto se il governo è regio, quanto se è repubblicano: poichè quando anche noi supponessimo la più assoluta democrazia, quale nè pure è possibile che si concepisca, ancor sarebbe lo stesso caso, potrebbe sempre la maggiorità dei cittadini tiranneggiare la minorità. Egli è dunque evidente, che ogni disposizione governativa per esser buona dev' essere preceduta da un giudicio sulla sua rettitudine e giustizia; come pure che la bontà di questo giudizio è l' ultimo appoggio della sicurezza dei diritti de' particolari membri della società. La necessità di tal giudizio rimane ferma, anche a fronte di tutte quelle obbiezioni che fossero rivolte a provare la sua difficoltà ed incertezza: le quali non provano mai che egli non sia necessario: provano tutt' al più una verità troppo disorrevole agli uomini, che non si può arrivare mai a tutelare pienamente i beni e i diritti di tutti e in tutti i casi contro l' umana tristizia. La cosa è al tutto evidente, giacchè niuno è giudice in causa propria. Oltre di ciò egli è più probabile che il giudicio riesca esatto quando vien fatto da persone, le quali non hanno da occuparsi che in questa sola cosa; ed al giudicio vien dato il tempo in tal modo perchè sia fatto con maturità. Gli amministratori della società quando debbono fare una disposizione politica, non guardano che di passaggio, se pure anche ciò è vero, la relazione morale della medesima, non tanto per malvagità, quanto per inavvertenza; poichè la loro attenzione è tutta occupata nel calcolare i vantaggi della disposizione ideata; e la poca importanza che si è sempre dato al giudicio morale nelle disposizioni politiche apparisce dal non esser giammai venuto in mente di dare a tali giudicii una forma regolare. Il giudicio morale adunque sopra ciò che debbe fare l' amministrazione della società debbe riuscire più esatto e più giusto, quando vien fatto da una Commissione apposita diversa dall' amministrazione della società, sì perchè 1 in tal caso la Commissione non giudica in propria causa, come sarebbe se il giudizio fosse portato dall' amministrazione della società. 2 Sì perchè facendosi a parte il giudizio sulla giustizia e quello sull' utilità della disposizione, ed oltre a ciò facendosi da persone diverse e da persone dotte particolarmente nella scienza della giustizia e con esatta procedura, non può non riuscire più perfetto. Di quì ne viene che tutti quegli uomini onesti, i quali non desiderano nella società di usurpare l' altrui, ma unicamente desiderano che i diritti di tutti sieno quant' è possibile difesi e guarentiti, debbano non già temere, ma desiderare l' erezione di una tal Commissione o Tribunale apposito rivolto a mantenere la giustizia nelle disposizioni politiche. Non si debbe già adombrarsi alla considerazione che il detto Tribunale potrà anch' esso esser soggetto alle umane imperfezioni, e potrà esser soggetto alle passioni; perciocchè noi non pretendiamo già, come abbiamo detto anche di sopra, che si possano rendere gli uomini impeccabili, ma il discorso sta nel vedere se si può diminuire il pericolo che nasce dalla loro debilezza o dalla loro malvagità; e diciamo, che dovendosi la società esporre in ogni modo ad un giudicio consimile, che finora venne fatto da quegli stessi che governano la società giudicando in propria causa, egli sarà sempre più probabile che il giudicio riesca giusto fatto da uomini che giudicano in causa altrui, scelti appositamente e costituiti in un Tribunale, che non siano uomini meramente politici che giudicano in causa propria, e che non si danno a dir vero grande impaccio per ritrovare in tale giudicio tutto ciò che è giusto nel senso più vero e più rigoroso. Gli stessi amministratori della società se sono onesti, e se desiderano bensì di conservare il loro potere, ma non di trapassarne i confini e di farne abuso, dovrebbono riguardare come vantaggiosa una simile instituzione. In fatti essi hanno pur l' obbligo fino che non esiste detto Tribunale di fare essi stessi il giudicio: e perciò se hanno una vera volontà di farlo retto (che altramente sarebbono tiranni) debbono e diffidare di sè stessi e non trascurare nessun mezzo per venire alla cognizione del vero e del giusto. Questo Tribunale adunque li discarica d' un peso, gravissimo agli onesti, e mette in tranquillità la loro coscienza: la voce della quale pur grida: non è già ragionevole il timore che venga loro fatto torto, e ristretta la loro autorità. 1 Primieramente, perchè le decisioni del Tribunale non possono giammai portar seco questa conseguenza, come si mostrerà in appresso descrivendo lo stesso Tribunale. 2 Di poi, perchè se questa ragione valesse ogni Tribunale sarebbe al tutto inutile e ciascuna delle parti potrebbe sottrarsi allo stesso, dico ogni Tribunale civile. Poichè son forse men sacri i diritti de' piccoli che de' grandi? Qual' è questa odiosissima tenacità che mostrano i potenti de' loro diritti, e che non mostrano giammai tale i deboli? E` forse che l' uomo in ragione che s' innalza si deprava? in ragione che acquista si irrita la sua fame? Non dieno questo scandalo i possenti ai deboli; perocchè debbono essere a questi maestri di virtù. 3 Perchè qualunque onesto debbe più che di essere offeso, temere di offendere, e temere tanto più quant' egli si trova d' essere più forte: poichè chi ha la forza, qualunque sia la virtù, è sempre per l' umana debilezza tentato di abusare della medesima: sicchè in ragione della forza che l' uomo onesto e generoso si vede aver nelle mani, debb' essere la sua cautela d' usar della stessa, e la sua cura di ben verificare se l' uso che ne fa sia retto ed onesto. 4 Perchè abbiamo dimostrato nella prima parte che ove fra due parti nasca contesa ciascuna ha diritto di esigere dall' altra tutto ciò che è necessario per definirla più equamente che sia possibile, e tutte e due hanno obbligo di convenirsi in ciò cedendo all' equità e non trascurando alcuno di quei mezzi, pei quali si può pervenire più sicuramente al detto fine; e 5 finalmente perchè egli è un troppo angusto e misero calcolo quello che fanno que' capi della società che vogliono tirarla troppo ed assicurar troppo i proprŒ diritti e ricusar un freno alle loro usurpazioni e a quelli che li imiteranno dopo di loro. In fatti, qual può essere la maniera migliore di assicurare i popoli delle loro rette e pure intenzioni, se non quella di mostrarsi essi stessi sottomessi all' imperio della eterna giustizia, di sottomettervisi con dignità, e senza quelli avvilimenti a cui irreparabilmente soggiace il dispotismo, o tutto ciò che n' ha le sembianze, senza diminuire punto del loro potere ma solo legittimandolo? di sottomettersi, dico, a quella somma ed irrefragabile legge sotto cui l' umiliarsi rende l' uomo degno di regnare? quale è e può esser la maniera di assicurare i popoli e rendersi loro rispettabili se non quella di ispiegare una morale grandezza sollevandosi sopra i pregiudizŒ de' contemporanei ed i vizŒ de' trapassati, con cui hanno combattuto i loro secoli, e che vincenti o vinti furono giudicati dalla posterità? se non finir di ostentare giustizia nelle parole e mostrare di desiderarla nel fatto, e di non negligere la via unica a rinvenirla? se non conoscere che alla diffidenza illuminata de' popoli da una parte, alla loro corruzione profonda dall' altra, non basta nè pure far ciò che si crede giusto se non si mostra d' usare tutte le vie per conoscere ciò che è giusto? Non basta, dirò di più, e conoscere ciò che è giusto e scrupolosamente eseguirlo, se ciò non si fa constare pubblicamente, se non se ne dà un pubblico documento; se insomma il giudizio su quanto è giusto non si presenta sì franco e sicuro di sè medesimo che non tema la pubblicità, e assicurato del giudizio de' saggŒ abbia il diritto di dispregiare i cicalamenti de' sciocchi. Perocchè non può il popolo giudicare da sè stesso e non può insieme deporre il sospetto dell' ingiustizia fino che il giudizio è fatto dagli stessi interessati, quantunque retto egli sia, come non rimane, all' opposto, più escusabile se nutre ancora il sospetto, quando sia costituito un Tribunale che quasi voce e mente del popolo stesso giudica a nome della verità che il fatto governativo non lede i diritti di alcun debole, al quale dinanzi ogni debole può stare a fronte del forte purchè pugni con quel marte comune che è la giustizia e la imparzialissima verità. Sì, quando il popolo sarà assicurato pienamente che i principi vogliono la giustizia, egli cesserà dalle sue inquietudini e dai suoi errori. Non è solo l' ingiustizia, è anche l' incertezza della giustizia, che viene sempre vendicata; è l' opinione che il principe faccia qualche cosa d' ingiusto, è il dubbio che il faccia, che stringe insieme i deboli a far causa comune. Il disseminare questi dubbŒ ne' popoli, lo spargere queste opinioni di ingiustizia e d' usurpamenti, fu l' arma dei facinorosi onde sollevarono i popoli contro i principi; il dileguare queste opinioni, questi dubbŒ è il mezzo unico di riconciliare di nuovo i popoli co' lor principi e di sventare l' artificiose insidie dei nemici d' entrambi. Intanto a me pare che basta bene ai principi un assai piccolo fondo d' onestà per riguardare che l' equità resa in tal modo splendida e solenne sia di comune loro vantaggio. L' uomo che stenta nell' indigenza e che non ha nulla da perdere, può essere ingannato a credere che a lui torni meglio il sovvertimento della giustizia: per poco che questo uomo sia dominato dalla passione d' acquistare, ella il moverà a romper le leggi della giustizia perchè non è infrenata dal timore di perder nulla: ma colui che ha molto da perdere debbe essere agitato da una furia di ambizione o di cupidigia perchè stimi bene per sè che la giustizia sia calpestata nel mondo ed ogni onore le sia perduto: mentre perchè egli possa credere a lui dannoso il rispetto della giustizia conviene che la speranza di rapire l' altrui superi il timore di perdere il proprio: speranza a dir vero stolta pur sempre perchè, tolta la giustizia di mezzo, son esposte di nuovo alla libidine di quelli, che mutano l' istante diventan più forti, le rapine stesse del forte. Sicchè tolta dagli uomini la giustizia nessuno potrebbe a lungo godere de' vantaggi che gli desse l' istantanea sua prevalenza sugli altri uomini: la giustizia adunque è quella che tutela a tutti il suo, quella che ne rende costante il possesso; e che mediante questa costanza di possesso rende più prezioso un piccolo avere che si gode con tranquillità per lungo tempo, che un' immensa ricchezza che ci tenga sempre nell' angoscia di perderla, e di cui godiamo tutti gl' istanti con quell' ansietà onde gode il ladro del furto che attende il padrone o la giustizia che lo sorprenda. La giustizia adunque, ed il mezzo per assicurarla, è di comune vantaggio di tutti gli uomini: ma più di quelli che più posseggono; e la speranza delle rapine non vale mai tanto quanto il ragionevol timore di perdere il proprio, e di sostenere una rappresaglia aggravata dalla vendetta che rallegra l' ira degli oltraggiati, e la cui aspettazione contamina la vita degli oltraggiatori. Nè vale il dire che può avervi altro mezzo perchè i regolatori della società vengano, prima di far cosa alcuna, alla cognizione del giusto; ch' essi possono far giudicare la cosa ove ne dubitino, da probe persone atte a scorgere per la via retta la loro coscienza. Vana lusinga! Non varrebbe egli questo argomento per rendere inutili i Tribunali civili? perchè questi si stabiliscono? perchè l' una parte che si crede offesa vi cita l' altra a comparire? perchè non si fa buona risposta alla parte citata quella ch' essa ha operato con consiglio che ha fatto giudicar la cosa d' altrui? Quando la causa versa fra due parti il giudice non debb' essere all' arbitrio dell' una, ma in mezzo di tutte e due; non debbe essere scelto causa per causa, ma debb' essere quello stesso per tutte le cause; non debbe dare il giudizio solo all' orecchio d' una delle due parti, ma debbono tutte due poter dire le loro ragioni innanzi al medesimo, e poterne ricevere la giustizia. O forse ciò che da tutto il mondo si è reputato sempre necessario per ritrovar la giustizia negli interessi piccoli, si renderà egli inutile e superfluo negli interessi più grandi? non debbe anzi crescere la cautela e la diligenza nel rinvenire e nel mettere in piena luce quanto è giusto in ragione che cresce la grandezza e l' importanza degli interessi? Questa osservazione è sì vera che renderebbe inesplicabile come mai gli uomini, che hanno sempre e da per tutto pensato e riconosciuto necessario d' erigere de' Tribunali per giudicare gl' interessi de' privati; non abbiano giammai fatto altrettanto per gli interessi politici: se non si riflettesse alla difficoltà di erigere un Tribunale politico, il quale esige un gran progresso di lumi, ed una moralità assai avanzata nel genere umano; i quai lumi e la quale moralità non si poteva aspettare dagli uomini se non allora che l' influenza del cristianesimo si fosse spiegata per un lungo corso de' secoli in tutti gli aditi dell' uman cuore, ed indi fosse passata in tutti i costumi, in tutte le attitudini della vita. E quest' epoca sentiamo speranza che da noi molto non si dilunghi. Se non che avrà sembrato che prima ancora di mostrare la necessità di questo Tribunale avessimo noi dovuto ricercare se egli era possibile. Ma non abbiamo creduto di tenere quest' ordine; poichè la piena possibilità di detto Tribunale non può a pieno vedersi se non allora quando ne avremo fatta un' esatta descrizione: poichè dal complesso solo di tutte le sue parti e di tutte le sue circostanze si può formarsene quell' idea di lui così determinata, che a mal grado che non abbiamo quasi nulla di simile nelle instituzioni de' popoli, tuttavia ci somministri la confortante speranza che non solo sia possibile, ma ben anco che sia per essere realizzato un tanto beneficio dell' umanità. E il bisogno stesso, che si rende ogni giorno più sensibile di un tal Tribunale, è ciò appunto, che nel mentre lo rende possibile, ne approssima ancora la di lui esecuzione. Perocchè egli è un fatto innegabile che la rapida diffusione dei lumi in tutte le classi della società, ha mutata la condizione del popolo: è un fatto innegabile che il popolo ha una profonda coscienza del proprio stato, e che questa coscienza di sè è la causa generale ne' diversi tempi de' suoi generali movimenti: è un fatto innegabile che il popolo in altri tempi mosso appunto da questa coscienza della propria impotenza intellettuale riconosceva la necessità di lasciarsi ciecamente guidare e dirigere da' suoi capi; che il popolo in quei tempi era come un pupillo che avea bisogno di tutela, e che non era capace di emancipazione (ripetiamo questa frase perchè nulla di ciò che è vero ci dispiace ripetere onde che ne provenga): è un fatto innegabile che il popolo in questi tempi, (cioè una gran parte di persone della massa del popolo) aumentò di lumi e coll' aumento dei lumi acquistò insieme una coscienza di maggior potenza intellettuale, e questa potenza fece sì che non sentisse più il bisogno di abbandonarsi alla cieca alle sue guide, e che fosse in lui risvegliato un desiderio di vedere anche egli o di calcolar anch' egli i propri interessi, al quale calcolo venendo egli ammesso riceve una specie di emancipazione, ma non già per questo una sottrazione dallo stato a lui essenziale di sudditanza; cessa d' esser pupillo, ma non cessa d' esser suddito: è un fatto innegabile finalmente, che la moralità ad un tempo e la corruzione accelerano entrambi questo stato di popolare emancipazione: poichè la moralità lo suggerisce e lo persuade siccome equo, mentre la corruzione accrescendo l' irritabilità fisica degli uomini, rende loro più grave tutto ciò che credono d' ingiustamente soffrire, o che dubitano che sia ingiusto; o di cui abbiano un pretesto di dubitare. Ed ora il solo Tribunale politico è il solo mezzo di togliere alla tristizia degli uomini questo pretesto e questo dubbio, e di dare all' equità una base costante: egli è dunque questo Tribunale che i popoli colle loro inquietudini cercano senza trovarlo, e dimandano senza saperlo indicare: egli è questo Tribunale il rimedio alle inquietudini popolari; rimedio che i monarchi pur tanto desiderano, e che hanno o la sciagura di non vedere, o la pusillanimità di non abbracciare. La necessità adunque di questo Tribunale, sempre crescente, quando diventerà estrema, è quella che non solo lo dimostrerà possibile, ma che contemporaneamente ne condurrà l' esecuzione. Poichè sebbene questa sia lontana assai dalle consuetudini, e sia contrarissima ai più cari ed inveterati pregiudizŒ; sebbene ella esiga una grande superiorità di spirito in quel monarca che prima ne dia l' esempio e in quel popolo che possa esser degno di tal monarca; tuttavia io non dubito punto che perduta la novità di che ella si mostra fornita, ricevuta da alcune menti robuste, e resa splendente da un sapiente e magnanimo esempio, non debba comparire agli uomini come la più preziosa tutela de' loro diritti e come un dono celeste; e ad essa non si convertano a gara maravigliati d' aver conosciuto sì tardi una così semplice insieme e grande instituzione, e di averla i loro padri fino a' loro tempi prima così a lungo obliata, e poscia così a lungo derisa. Egli sarà in cotesto tempo, che dissipate quelle nebbie che spargono nelle menti le tenaci prevenzioni, il Tribunale politico sarà domandato dalla pubblica voce, ed unanimemente dai grandi e dai piccioli della società riconosciuto come la più solida base di quella felicità che si può godere sopra la terra. Allora, quando ognuno sarà arrivato tanto innanzi coi lumi da vedere che la giustizia deve riputarsi più utile dell' usurpazione, e che il poco e sicuro è preferibile al molto e non sicuro; il Tribunale politico avrà la voce di tutti; egli sarà allora inatterrabile, sotto l' egida dell' universale opinione: ed egli non avrà armate da difendersi, perchè avrà l' umanità intera che farà la scolta d' intorno a lui. Egli è appunto questo che debbesi rispondere a coloro, i quali non conoscendo altra maniera di difendere i pubblici istituti che quella della forza fisica, ci facessero l' obbiezione, che tale Tribunale non potrà sussistere perchè impotente in mezzo ai potenti, e quasi un agnello in mezzo ai lupi. Tanto è lungi che questo Tribunale non possa sussistere perchè privo di forza fisica, che anzi appunto perchè ne è privo potrà sussistere, e fino che ne rimarrà privo: poichè appunto questa debolezza fisica darà la prova della sua forza morale: e la forza morale è quella che lo debbe fortificare di quella opinione non pubblica ma universale, contro cui tutto perde sua forza: di quella opinione dico dalla quale sola nasce la forza fisica e senza la quale qualunque esercito non solo non è forte, ma né pure esiste. Ella è questa opinione che non si lascia toccare né offendere senza farne una inevitabil vendetta, quella che verrebbe tocca ed offesa da chi attentasse al detto Tribunale che diverrà come la pupilla dell' umanità. La libertà di questo Tribunale sarà il segno e la caparra della libertà di tutti gli uomini: la incolumità di questo Tribunale sarà il segno della loro incolumità: la prosperità sua sarà la loro: e tutto ciò che nuoce o mostra di nuocere all' esistenza di simile instituzione, muoverà nell' uman genere quell' ira sapiente e però indomabile, che non si ammanserà che coll' esemplar punizione di quel sacrilego e stoltamente audace che si elevasse contro un' instituzione formante la salute e l' onore degli uomini. Ella è la voce pubblica, ella è la pubblica opinione che dimanda questo Tribunale, che saprà ottenerlo, e che ottenuto saprà difenderlo. E quando dico la pubblica opinione, non intendo quella dei più miserabili della società, ma intendo quella di tutti, e più di quelli che più posseggono, e che perciò hanno più diritti da difendere. L' opinione discorde a questa non sarà più che una irregolarità colpita di riprovazione, e riguardata o con quella compassione onde riguardasi la ignoranza e la stessa pazzia, o con quello sdegno onde mirasi il delitto di lesa umanità. Egli è dunque il caso in cui gli uomini si troveranno tutti uniti, non per un legame esterno, ma per la forza della verità a difendere contro l' aggregazione di ciascuno le proprietà di ciascuno. Ciascuno si riconoscerà debile contro di tutti: tutti dunque saranno interessati non più ad assalire la proprietà di ciascuno, ma a difenderla: egli è in questo modo che l' autorità pubblica, la quale di natura sua è temibile perchè è forte, sarà ella stessa quella che rivolgerà la propria fortezza, per dir così, a contenere sè medesima; poichè nessuno abuserà più di simile autorità dal momento ch' egli è giunto a conoscere che ciò non può che nuocergli, e che più assai di bene egli debbe aspettare dall' universale mantenimento della giustizia che dalle proprie infrazioni della medesima: quantunque nel mantenerla egli rinunzi a un momentaneo vantaggio, ma ad un vantaggio non solo incerto egli stesso, ma che con sè trae nella incertezza anche tutto ciò che prima possedeva. Né egli è già questo il primo esempio di una instituzione che sebbene non sostenuta colla forza fisica, si sia sostenuta a lungo e tuttavia si sostenga. Poichè tale è il Cristianesimo: il fondatore del quale non lo fondò già sulla forza pubblica, ma bensì sulla forza morale: e con questa forza morale egli ha trionfato e trionfa della forza fisica: e ciò è tanto vero, che ogni qualvolta la forza fisica è venuta in aiuto del cristianesimo, egli è paruto che gli abbia anzi nociuto che giovato: per cui questa che è la massima la più universale e la più durevole di tutte le instituzioni, è appunto quella che si è francata, dirò così, di più dal bisogno della forza fisica, e che ha fino sparso sopra di questa il più grande disprezzo innalzando gli animi degli uomini ad una grandezza, nella quale fossero capaci di giudicare la forza fisica indegna dell' uomo e di non temerla. Tutti quelli pertanto che non credono al cristianesimo, ma che sono tuttavia costretti di confessare questo fatto, il quale non ha nè luogo nè tempo che lo racchiuda e che lo nasconda, dovranno confessare che è pure una gran forza quella dell' opinione, e che su di essa si può fabbricare con solidità; e quelli che credono a questa religione divina, e che la conoscono indistruttibile, come la parola del suo fondatore, troveranno in essa il punto d' appoggio del Tribunale di cui parliamo. Si consideri che un carattere che questo Tribunale ha comune con essa o con tutte le instituzioni pacifiche prodotte dall' amore di giustizia, si è di essere rivolto sempre a difendere e mai ad offendere ; poichè essendo appunto privo di forza fisica nessuno può temere che egli assalisca, e la sua forza morale si restringe solamente a raffrenare gli assalimenti altrui; poichè egli è appunto per questo instituito, ed è da questo che ricava la sua forza morale. Non vale il dire che col pretesto di difendere egli può talora offendere; poichè egli sarebbe questo un argomento del genere di quelli che per provare troppo finiscono a nulla provare: un argomento che potrebbesi egualmente fare contro qualunque instituzione e provvedimento per quanto sapiente ed utile fosse; un argomento finalmente che si appoggerebbe sopra un falso supposto cioè che con simile Tribunale s' intendesse di torre tutti i mali del mondo; mentre non si tratta che di diminuirli, ciò appunto che si pretende solo anche da' Tribunali civili i quali sarebbero inutili, se inutile fosse tutto ciò che non rimedia a tutti, ma solo a molti dei mali. Concedo adunque che non possono a lungo sussistere senz' essere fornite di una forza fisica prevalente quelle instituzioni la cui natura porta che sieno armate, e di cui l' intenzione non è palese, sicchè v' ha sempre ragione di temere da esse qualche assalto, concedo che nessuna autorità politica appartenente all' amministrazione della società potrà essere in mezzo a questo mondo, pur sempre sospettoso e che inferocisce alla vista della forza, privata per lungo tempo di un presidio bastevole a sostenerla, mentre ha in se stessa una forza bastevole a farla temibile e ad irritare, e mentre il suo officio è rivolto a cercare ciò che è utile, e non a cercare solo ciò che è giusto. Egli è adunque la pacifica condizione di questo Tribunale privo di ogni aspetto guerriero, ma augusto e venerabile per la sola luce della giustizia e della verità, che il renderà maggiormente amabile agli occhi degli uomini, dopo che l' instruzione diffusa per le nazioni abbia insegnato loro che la conservazione della giustizia è il solo mezzo onde si può aspettare ogni felicità della vita su questa terra e che questa conservazione non s' ha che per un Tribunale che giudichi le pubbliche azioni, e dopo che la religione avrà consacrato questo Tribunale e dato al medesimo una potenza che non può ricevere dagli uomini, ma che viene da Dio. L' esatta determinazione poi dello scopo, a cui debb' essere rivolto questo Tribunale politico nella immediata sua relazione, cioè la determinazione dei suoi speciali uffici, scioglie altre obbiezioni che si possono fare contro di lui. Poichè da alcuno si obbietterà ch' egli vuole riuscire un impaccio all' amministrazione, la quale non può essere ritardata in molte sue urgenti deliberazioni. Da altri si troverà un ostacolo nella spesa ch' egli esige per la trattazione di simili cause, poichè dovendo egli servire per quelli che nella società sono più deboli e perciò per quelli segnatamente che hanno meno beni di fortuna, i diritti dei quali sono quelli che meno si calcolano nelle politiche deliberazioni e che più facilmente si sacrificano; non potrà ottenere lo scopo di difenderli poichè manca ad essi il modo di affrontare la spesa a ciò necessaria: nè torna di alcun vantaggio la difesa di una piccola sostanza quando ad ottenere tal difesa bisogni usarne una grande. Finalmente vi saranno fors' anco di quelli che ci opporranno il segreto di stato; che mediante questo Tribunale si renderebbe impossibile. E riguardo a quest' ultima obbiezione confesso che la sana politica dovendo essere ugualmente innocua (per lo meno) a tutti gli uomini, ed ancora dirò di più verso tutti benevola; non potrà riscuotere giammai l' affetto e l' approvazione universale degli uomini quella che si sforza di tenersi ai più di loro sconosciuta e che pretende di trattare del loro bene nel segreto e nelle tenebre e di celare gl' interessi più cari e più grandi agli occhi di quelli a cui gl' interessi appartengono. Non è ch' io non conosca come talora si sia forzati di occultare momentaneamente agli occhi dei tristi ciò che si prepara in beneficio universale, non è questo che riprovo, ma riprovo una politica che ha il nascondersi per sistema, ed il rendersi misteriosa ed esclusiva per l' unico mezzo di rendersi forte e temibile; mentre questo stesso non può essere lo scopo ed il voto della sana politica. Affermo che la lealtà e l' apertura è anzi solitamente così nell' uomo privato come nel pubblico, così ne' piccoli interessi come assai più ne' grandi, l' effetto di una coscienza pura ed innocente, incapace perciò di temere: che è sempre ingiusto occultare gl' interessi agli occhi di quelli a cui appartengono e a cui vedere perciò n' hanno il diritto: che ciò è sempre tranquillante e sicuro togliendo dagli animi i sospetti: che finalmente quand' anche una politica celata e cupa fosse per un istante diretta dalle più pure e dalle più generose intenzioni, ella mostrerebbe con questo una presunzione soverchia, una troppa confidenza nella propria virtù; una confidenza che l' umana virtù non può giammai aver giustamente di se stessa, ed ella, dirò di più, finirebbe quanto prima a corrompersi insensibilmente, e l' amministrazione generale della società si troverebbe cangiata in una setta pericolosa ed esclusiva che pensa coi propri pregiudizŒ e che opera pei proprŒ interessi. Credo esprimere in queste parole non i miei sentimenti, ma quelli che ha il mondo generalmente: sentimenti d' equità a cui non si può ripugnare senza sedurre prima se stessi: e che sono in armonia cogli avanzamenti dei lumi dell' umanità e col progresso della morale; progresso che sembra essere stato predetto già da principio del cristianesimo dall' autore d' una religione che si dovea predicare nelle piazze e dall' alto dei tetti in quelle parole: « « Non v' ha nulla di coperto che non si debba scoprire, nè va nulla d' occulto che non si debba sapere. »1) » Ma quest' obbiezione, come dicemmo, cade insieme con l' altre due, quando si conosca da vicino l' officio del Tribunale politico. Poichè io considero questo Tribunale solamente in relazione colle deliberazioni interne dello stato. Ora queste deliberazioni interne politiche non portano giammai un effetto che sia istantaneo, e che dopo seguito sia irreparabile; se non nel caso che si tratti di tor la vita ad un cittadino. Ora la vita ad un cittadino non si può torre se non per cagione di delitto, e il delitto debb' essere giudicato dal competente Tribunal criminale. Le conseguenze adunque di quelle deliberazioni che facesse l' amministrazione della società senza l' intervento di un Tribunale, se mai portano qualche ingiusto danno, nol possono portare che di una natura risarcibile: il che dato non è necessario che prima della disposizione stessa pronunzii giudizio il Tribunale politico. I lavori adunque dell' amministrazione non debbono venire menomamente rallentati da quelli del Tribunale politico, come questi non vengono rallentati da quelli dell' amministrazione: e tanto l' Amministrazione quanto il Tribunale operano indipendentemente l' uno dall' altro, e senza che l' una di queste due parti del potere supremo abbia bisogno di sapere ciò che fa l' altra. Ciò si accorda coll' indole di un Tribunale: poichè l' indole di un Tribunale non contiene già un' inquisizione delle cause da giudicare; ma è solo una corte stabile e per così dire passiva, la quale senza darsi cura di ricercare ciò che può alla medesima essere sottomesso, aspetta che vengano ad essa quelli che hanno dei richiami da fare, ed essa si porge pronta all' esame delle ragioni che si presentano e di quelle che contro alle medesime reca la parte contraria. Laonde dovranno essere gli stessi cittadini, o corpi di cittadini, o il governo medesimo quelli che innanzi a questo Tribunale danno moto alle cause. Infatti supponiamo che un cittadino o un corpo di cittadini conosca che l' amministrazione sociale si trova in sul fare tale deliberazione che giudica a sè nocevole e ingiusta; e che recata la causa al Tribunale politico egli riporti favorevole sentenza, cioè una sentenza che riconosce gl' ingiusti danni che apporterebbe tale deliberazione. Potrà egli aver forza una simile deliberazione di ritenere l' amministrazione della società dal prendere quel partito se lo crede utile? Non già, poichè, come noi abbiamo veduto nella prima parte, l' amministrazione della società ha un pieno potere sulla modalità dei diritti di tutte le persone morali e individuali, che formano parte della società; e perciò essa ha ancora un pieno diritto di commutare i diritti delle medesime in altri diritti equivalenti, purchè lo esiga il pubblico bene: e ciascuna di queste persone ha l' obbligo di cedere per tal fine i proprŒ diritti contro un pieno compenso de' medesimi. Laonde la decisione del Tribunale politico non può giammai limitare questo potere dell' amministrazione sociale, e non può perciò impedire che essa faccia tutto ciò che crede utile: ma non ha altro officio od incombenza che di sentenziare se essa sia debitrice di un compenso alle persone componenti la società per qualche danno loro arrecato, e quale debba essere questo compenso perchè sia pieno; mentre l' assicurazione che l' amministrazione sociale non trapassi il confine dei suoi diritti consiste nell' assicurazione che ogni danno da lei cagionato ritrovi un pieno compenso; come all' opposto l' assicurazione che a lei non venga diminuita la pienezza del suo potere consiste appunto nel non avervi alcun' altra autorità che possa ritardare o impedire le sue disposizioni amministrative. La modalità dei diritti è l' oggetto del suo potere, e su questa il suo potere è illimitato: i diritti stessi cioè il loro prezzo reale non è l' oggetto del suo potere, ma ne è il confine: questo è quello che debb' essere assicurato alle persone componenti la società, e quest' è l' unico officio del Tribunale di cui parliamo. Egli è dunque evidente che il secreto di stato, qualunque sia l' opinione che si porti intorno a lui, non può mettere impedimento all' erezione di un Tribunale politico, ed egli è evidente altresì che l' amministrazione non viene dal medesimo ritardata nelle sue più urgenti deliberazioni. Resta a rispondere alla obbiezione della spesa necessaria alla trattazione di tali cause, che sembra dover eccedere le forze di quelli che hanno più frequentemente bisogno di detto Tribunale. L' indole del medesimo scioglie anche questa obbiezione, poichè il Tribunale non è che un ramo del potere supremo, il quale per innanzi fu solito di trovarsi unito in un solo corpo esercitante i due offici: 1 di amministrare la società, 2 di giudicare della giustizia di tale amministrazione: e che ora si suppone diviso in due rami, divisi secondo i detti due offici. L' officio dunque di giudicare commesso ad un apposito Tribunale sarebbe un dovere dell' amministrazione, di cui il Tribunale la scarica. L' amministrazione adunque debbe riguardare il Tribunale come un suo aiuto, come un mezzo necessario perch' essa non esca dai suoi più sacri doveri. Le persone all' incontro componenti la società hanno tutte un diritto di non essere danneggiate dall' amministrazione, nè con certezza, nè con ragionevole dubbio. Ciò considerato vuole la giustizia che le spese per consimile Tribunale entrino nelle spese generali dell' amministrazione, e non sieno menomamente a parte degli attori, se non fosse fatta eccezione a quelli che il Tribunale giudichi evidentemente maliziosi, e senz' apparenza di ragione inquieti. Finalmente non si può neppure dire che le prove in simili materie sieno irreperibili, mentre il rigore delle prove per l' indole d' un tal Tribunale non dovrà essere al tutto pari a quello dei Tribunali civili, ma bensì pari a quello che un' amministrazione delicata nella giustizia debbe prefiggere a sè stessa, mettendo la mano nelle altrui proprietà. Nè la difficultà di giudicare rimarrà sempre la stessa; poichè colle decisioni appunto di questo Tribunale si comincierà appunto a stabilire le basi di giustizia pubblica, che fino a questi tempi mancano interamente e a cui per una inconcepibile spensieratezza degli uomini non si è pensato giammai, ma di cui il mondo sente sempre più il bisogno, e le domanda e le va quasi a tentone cercando: la cui mancanza produce tante dissensioni e tante inimicizie; e gli errori intorno ad esse costano tanto sangue e tanta depravazione: delle basi che non si potranno giammai a pieno ritrovare e fissare senza una lunga esperienza e de' lunghi studŒ; senza che dei giudici integri ed illuminati sottentrino in questo lavoro a de' filosofi corrotti ed insensati; fino a che le decisioni di un gran numero di casi particolari non menino gradatamente a delle sentenze generali, e sgombrino delle teorie imaginarie fondate nell' aria; fino a che insomma il Tribunale politico non porti le sue decisioni, e le decisioni del Tribunale politico non sieno raccolte a norma di altre decisioni; e da queste norme sieno quindi cavate delle leggi e ridotte in un codice: e la giurisprudenza politica non cominci a fare quel corso che la giurisprudenza civile ha quasi compito: unico corso diritto e solido, e tanto più necessario alla politica giurisprudenza in quanto ch' essa ritrova tanti più ostacoli da superare che la civile, tante passioni più vaste e più possenti, tanti interessi più complicati e più rilevanti, e tanti uomini ancora così incapaci di vederne l' importanza e di sentirne il bisogno. Non si esigerà prova per convenire che l' armata nè ha il diritto nè può essere capace di far da giudice nelle vertenze fra l' amministrazione e gli amministrati; mentre la forza fisica non dà alcun diritto ma solo può difenderlo; e l' armata non è che a servigio di quelli che hanno i diritti, e non arbitra de' medesimi, nè le funzioni pacifiche e meditative di giudice possono star bene alla professione avventata e bellicosa del soldato: il quale fornito di una forza fisica insieme e morale a cui niuno potrebbe resistere, si crede facilmente disobbligato dalla fatica paziente della investigazione della verità, ed abbraccia assai più volentieri la strada più corta che gli si presenta del suo arbitrio assoluto: tal' era la condizione del mondo sotto la tirannia de' Cesari la cui dignità non era alla fine, come suona il nome d' Imperatori, che quella di condottieri d' esercito. Il soldato giudice di sua natura è anche principe, e il Tribunale che vogliamo stabilire sarebbe in un istante sparito. Il Parlamento rappresenta la nobiltà ed il popolo; cioè a dire rappresenta gli amministrati: essi non possono dunque esser giudici perchè sono parti, e lo scopo del Tribunale da noi proposto è appunto quello di togliere l' inconveniente che nasce dal trovarsi insieme unito il giudice e la parte; i Parlamenti perciò non possono che trattare la causa de' corpi che rappresentano, ma non mai essere essi medesimi il Tribunale. Se fosse impossibile dividere il giudice dalla parte, e fosse necessario che una delle due parti fosse anche giudice sarebbe sempre preferibile di lasciare il giudicio all' amministrazione della società, alla quale è stato sempre attribuito da tutti i secoli, ed a cui è stato individualmente congiunto; sicchè quando si è voluto a forza strapparlo dalle persone che avevano l' amministrazione, si è strappata dalle loro mani l' amministrazione stessa, o si è gittata la società nell' anarchia. Che l' amministrazione possegga il giudicio sulla giustizia delle sue disposizioni, questo è cosa naturale, perchè è naturale che la potestà somma non abbia nella propria linea verun giudice sopra di sè: e tutto ciò che si può trovare in essa di censurabile non è già una corruzione, ma un' imperfezione, cioè a dire sebbene una tale amministrazione giudice delle proprie disposizioni non sia punto assurda nè contro natura, tuttavia essa è pericolosa, ed ha con sè un' imperfezione, che è appunto quella che noi proponiamo di togliere col detto Tribunale: imperfezione che dà luogo ad un miglioramento e non ad una distruzione, ad un progresso che fanno i secoli cristiani, e non ad una riforma che fanno i filosofi. Il bisogno ognor più sentito di simile miglioramento è una secreta forza che dispose gli uomini alle novità politiche, ma scoraggiati dallo spettacolo dell' umana corruzione, e sentendo una deficienza morale in sè medesimi, perdendo ogni credito alle forze morali della virtù, non seppero sollevarsi nel secolo della incredulità ad immaginar possibile l' instituzione di un Tribunale di giustizia, che solo poteva sciogliere il problema del tempo, e soddisfare il bisogno delle nazioni. In vece di ciò per fuggire un vizio corrono avventatamente al suo opposto: e togliendo il supremo giudicio del giusto ai re non lo affidano ad un Tribunale, ma alla parte opposta, cioè al popolo: delle due parti fra cui verte il giudicio lo rapiscono a quella nelle cui mani i secoli lo hanno consecrato per darlo alla parte peggiore, e fare gli amministrati giudici degli amministratori. Con ciò il supremo potere è atterrato: conciossiacchè non è supremo se non perchè tutti gli amministrati debbono al medesimo assoggettarsi: e se la amministrazione debba seguire col giudicio di questi in tal caso son essi che s' amministrano da per sè. Egli è per ciò, che il potere che si cerca sempre d' accrescere ai Parlamenti, che non sono se non se i rappresentanti dei corpi amministrati, inclina lo Stato ad uno stato repubblicano, cioè strappa di mano dal principe il legittimo potere da lui sempre posseduto e cangia la forma di governo. Infatti non poteva essere altro dall' istante che il giudicio dalle mani di una delle due parti passa nelle mani dell' altra; poichè ciascuna parte non suol già credersi giudice, non pensa già a cercare rettamente e solo ciò che è giusto, ma pensa a difendersi dall' altra, pensa a vantaggiare ne' propri diritti sopra dell' altra, pensa a rivolgere l' amministrazione come più a sè torna conto: egli è dunque una divisione di amministrazione che nasce, e una divisione dell' amministrazione è una mutazione nella forma del governo. S' osservi infatti se nella instituzione de' Parlamenti si sogni mai di deliberare a guisa di un Tribunale di giustizia, e non più tosto di agire a guisa di una parte che tratta la sua causa col mezzo di avvocati: si osservi se fra i Parlamenti ed i re v' abbia altra relazione che di una continua ostilità: nella quale ognuna delle parti si crede aver fatto assai quando gli è riuscito di dar qualche passo sul terreno dell' altra; e deplora la sua sconfitta quando ne è stata respinta. Se il popolo non è atto a formare questo Tribunale politico mediante i suoi rappresentanti, cioè mediante i Parlamenti, perchè è parte, e quella parte che di sua essenza è soggetta, quella che debbe essere giudicata per la stessa ragione che debb' essere amministrata; molto meno egli potrà sostenere le funzioni d' un tal Tribunale per sè medesimo; mentre per sè non può far nulla per la sua mole, e perchè egli è essenzialmente disorganizzato, soggetto alla seduzione, al capriccio, ed all' ignoranza. La ragione di ciò è il semplicissimo e innegabil consiglio, che quando si debbe eleggere persona a qualche ufficio fra molte, senza che veruna s' abbia diritto al medesimo, vuolsi eleggere quella che è all' officio più idonea, che conosce il modo di adempierlo e n' abbia l' abilità e la fermezza da non deviare giammai dal suo dovere. Ora la ricchezza, la nobiltà, la forza fisica, la potenza civile non mettono i lumi nelle menti alle quali mancano, nè la rettitudine e l' integrità ne' cuori depravati. Queste qualità adunque non hanno a far nulla coll' amministrazione della giustizia. Esse potranno forse render l' uomo più acconcio ad un' amministrazione che ha per fine l' utilità, perchè fomentano le passioni dell' acquistare, e queste acuiscono l' ingegno a trovare espedienti a' risparmi ed a' guadagni: nè cosa nuova è che un uomo di piccolissimo spirito in tutto il resto si sia mostrato sottile traficatore e speculatore e s' abbia fatto una fortuna, ed abbia fondato una casa, poichè il vivo ed unico desiderio dello avere ha messo a quel partito le sue piccole forze intellettuali, a cui non sogliono essere messe negli altri uomini men di lui cupidi. Laonde se trattandosi d' utilità la passione aguzza l' ingegno; trattandosi di giustizia ella non fa che ingrossarlo e diffondere tenebre d' intorno al vero cercato. Purissimo è il vero ed immune da ogni altra affezione: nella sua sincerità l' uomo il ritrova quanto ha il cuore più ignudo d' altri affetti, la mente più libera, e l' animo più generoso. Le classi adunque de' ricchi, de' nobili, de' militari, o degli officiali civili non possono esser quelle a cui s' appartenga di comporre il Tribunale politico esclusivamente: poichè questi loro beni lungi da fornirli d' un titolo favorevole per sostenere tale officio, più tosto valgono di loro natura a renderli inetti al medesimo: conciossiachè tolgon loro quella nudità d' animo, quella tranquilla imparzialità, quella mente pura e ferma nè ammollita dalle delizie, nè invanita dalle gravi inezie, nè lasciata rozza dalla mancanza del tempo richiesto dagli austeri e placidi studŒ della giustizia, che debbono formare appunto gli unici sostegni del politico Tribunale. Non convien dunque fare di questo Tribunale la proprietà di alcuna famiglia, o di alcuna di quelle classi della società che vengono formate e distinte le une dalle altre non già per titoli intellettuali e morali, ma per dei beni esterni che non sono nè verità nè virtù. La verità, la virtù: ecco i criterŒ unici che debbe proporsi colui, a cui fosse commesso l' incarico di fare la scelta delle persone componenti il politico Tribunale: qualunque sieno le altre condizioni delle persone qui non vanno per nulla curate: quelli che più sanno fare giustizia; che più il vogliono , che più sanno sostenere il giusto loro decreto; ecco quelli che debbono essere trascelti al politico Tribunale quai veri Sacerdoti della Giustizia. Questo Tribunale adunque non forma un' aristocrazia , ma è, se può dirsi così, democratico a quel modo che è democratica la Giustizia: poichè questa esige, come vedemmo, che tutti gli uomini e tutte le persone morali si considerino eguali quando vengono ad essa innanzi per essere giudicate: è democratico perciò, non in quel senso che tutti gli uomini vi abbiano parte, ma in quel senso, che tutti gli uomini vi possano aver parte: e vi possono aver parte, poichè tutti possono aver parte alla rettitudine ed alla virtù, a questi supremi beni aperti e comuni, pei quali solo debbesi aprir l' adito al Tribunale di cui parliamo: non in quel senso per ciò ancora che ciascuno abbia diritto al detto Tribunale solo per esser uomo, ma bensì in questo senso che ciascuno possa avere un tal diritto per essersi reso uomo virtuoso: e per aver superato negli esempi da lui dati di virtù, d' integrità e di sapienza, tutti gli altri probi e virtuosi. Ciò che noi chiamiamo spirito d' intelligenza non è già solo quello che ci conduce a desiderare delle nuove idee, ma bensì ancora qualunque altro oggetto per lontano al di fuori di noi e molteplice che egli sia, ed esso è il fonte della Previdenza, della Prudenza e della Bontà. Distrutta ogni previdenza non è meraviglia se dovesse essere recisa insieme ogni umana società: 2) non è maraviglia se chi non giudicava necessaria la ragione, non giudicasse « neppure necessario di far entrare nell' uomo il principio della sociabilità: »e perciò, se non solo venisse a torre di mezzo una società estesa ma ben anche la prima e direi quasi elementare; quella della famiglia. Per dare un solo esempio del nostro poco spirito d' intelligenza relativamente alla società domestica, si può osservare la facilità e la leggerezza onde si contraggono i matrimonŒ di che viene l' infelicità della famiglia, i difetti dei figliuoli dati alla società, ed il pentimento. Non si fa che predicare che il generatore di figliuoli è un benefattore della società: questa sentenza pigliata così sola è una di quelle idee astratte ed imperfette di cui vedemmo provenir tutti i mali. Nel mentre adunque che si insegna ad accrescere il numero dei matrimonŒ, veggiamo difendere altresì il divorzio che porta alla società domestica il colpo il più mortale; e che dimostra l' indebolimento di quella facoltà di pensare che consocia gli uomini, e l' aumento di quello spirito di senso che li divide spogliando l' uomo della previsione. Le idee all' incontro su questo oggetto dei secoli trapassati erano presso a poco quelle che ogni saggio trova necessarie massimamente ai tempi presenti. [...OMISSIS...] La previsione e la prudenza suggerisce all' uomo di non impegnarsi in un maritaggio, se egli non ha ragionevole speranza di mantenere i figliuoli; perocchè non lo consiglia punto la ragione a dare esistenza ad esseri infelici. 2) I nostri moralisti politici non pensano tanto innanzi. Da simile mancanza poi di previsione sono cacciati alle più strane conseguenze. Soffermiamoci pure ad osservare i loro traviamenti sopra un argomento che tanto interessa l' umanità. [...OMISSIS...] Ma che? risponde il più volte citato autore del « Saggio sulla Popolazione: » [...OMISSIS...] Bisogna che il Sig. Raynal non consideri già la sua proposizione astratta dalle sue circostanze, ma con un poco di maggiore spirito d' intelligenza consideri i suoi rapporti. Se come dice Rousseau « sarebbe insensato colui che tormentasse sè stesso colla coltura di un campo, quando vedesse che un altro che sopravviene lo spoglia della messe: »quando il campo insomma non è stato dato a lui in proprietà, e garantito dalle forze associate: vuol dire che la società fa luogo a poter sussistere un numero maggiore di uomini sullo stesso terreno, essendo quella che rende possibile la coltivazione dei terreni. Or questa coltivazione è resa possibile secondo Rousseau solo allora che i terreni sono divisi ed assegnati in particolari proprietà. Ognuno dunque ha diritto di vivere solo nel caso che non venga lesa questa legge della proprietà, mentre rompendosi questa legge innumerabili uomini vanno a perire, i quali hanno pure diritto di esistere. Chi dunque infrange la legge della proprietà per principŒ cospira alla vita di infiniti uomini: questi uomini adunque, la cui vita è messa in pericolo da chi vuol tor via dal mondo ogni proprietà, hanno diritto da difendersi contro costui, come contro un paricida, ed un reo del più alto tradimento. Questa massima crudele, che assalendo la legge della proprietà trucida migliaia di uomini nelle sue conseguenze, non ne lascia però nessuno fuor di pericolo, mentre nei più orrendi ed accaniti massacri, nei quali involgerebbe il genere umano quand' ella trionfasse, sarebbe incerto quali sarebbero quei pochi uomini che sparsi sulla faccia della terra tutta orrida ben presto e selvaggia l' uno lontano immensamente dall' altro coll' impressione del più alto spavento ad ogni vista de' proprŒ simili sopravivessero. E pure di questa massima sono ancora pieni i libri de' politici. Di questa massima è un corolario ed una applicazione quell' altra, che i poveri abbiano diritto di essere mantenuti dalla società; massima che pure distrugge la società stessa attentando alla proprietà particolare: massima d' altra banda impossibile; mentre non ha la società modo di sostenere tutti gli uomini che nascono, quando non sieno i maritaggi regolati dalla prudenza di quei che l' incontrano: mentre come abbiamo veduto la popolazione ha una tendenza di aumentare in ragione geometrica, mentre gli alimenti non possono che al più crescere in ragione aritmetica. Payne nel libro de' diritti dell' uomo reca assai male a proposito l' America in esempio della sua opinione. [...OMISSIS...] La società civile essendo composta di famiglie torna in danno di lei la mala previdenza adoperata della società famigliare. La imprevidenza adunque di quei padri che hanno caricata la propria famiglia di una figliuolanza che non hanno il potere di nutrire, è dunque dannosa alla società. E ponendo essi al mondo una popolazione che vuol vivere e che non ne ha il modo, pongono una causa degli sconvolgimenti. Questa cagione di tante inquietudini in Inghilterra, specialmente in tempi di carestia, potrebbe quivi cagionare malori assai più gravi, se quel popolaccio nella più brutale ignoranza potesse avere qualche vista più in là che di satollare al momento la sua fame: a malgrado di ciò gli scrittori di quel paese osservano, come se i tempi di carestia si rendessero frequentemente, sarebbevi ragion di temere, che quelle sommosse gittassero lo stato in quella specie di estremo torpore che l' Hume ha indicato colla parola euthanasia quando non lo traesse di quel sonno qualche terribile scotimento. Del popolo affamato nelle antiche società traevano aperto partito gli ambiziosi. Appo di noi la falsa filosofia delle male usate astrazioni fece credere al popolo che egli abbia diritto d' esser nutrito dalla società dei ricchi; e i movimenti della plebe si rendono con questa illusione più funesti. La filosofia sommovendo il popolo col fare a lui credere che egli abbia il diritto di spogliare i ricchi, e di ugguagliare le proprietà, 1) occasiona il dispotismo. Poichè la società dei ricchi, credendosi in diritto di difendere le sue proprietà contro gli assalitori, impiega tutta la forza che si trova avere e che non sarebbe stato bisogno di adoperare, se nel popolo vi fosse stata una dottrina più sana, o maggior virtù. [...OMISSIS...] La legge adunque della società famigliare, la legge che provvede alla scambievole sicurezza delle famiglie, e però che mette il fondamento della tranquillità anche nella società civile, la quale si forma di molte società famigliari, è la seguente: Primo equilibrio necessario alla perfetta costituzione dell' umanità è, che vi sia equilibrio fra la moltiplicazione della specie umana nelle singole famiglie colla ricchezza delle famiglie, o sia che un padre non generi maggior numero di figliuoli di quello che egli possa mantenere . Abbiamo dato la regola di ricorrere all' origine delle cose per distinguere in esse la sostanza dall' accidente. Abbiamo mostrato coll' esempio di Rousseau l' abuso che si fa di questa regola, ponendo l' idea di una cosa astratta per l' idea di una cosa reale, e insieme con ciò abbiamo insegnato il modo di far uso di quella regola senza pericolo d' errore. Applicandola al caso presente possiamo osservare come la regola da noi posta era in vigore specialmente in quel primo tempo in cui gli uomini erano raccolti in società domestiche, mentre la società civile non era ancora compiutamente formata. In quel tempo la società domestica aveva bisogno d' essere perfetta se voleva esistere; mentre non aveva altra società superiore che la tutelasse. Quindi l' ottima costituzione della società domestica la veggiamo in quelle famiglie patriarcali, nelle quali era considerata come benedizione celeste la moltitudine de' figliuoli: mentre per l' abbondanza de' terreni non poteva d' una parte venir meno il nutrimento, dall' altra c' era il bisogno di forza fisica per difenderlo dalla prevalenza delle altre famiglie. La nostra regola adunque si cangia in quest' altra, consideratone attentamente il suo spirito, che non è altro che quella stessa un poco più generalizzata. Si conservi l' equilibrio fra la forza fisica della famiglia, ovvero il numero de' suoi membri, e la ricchezza che ella possiede . Poichè se eccede il numero dei membri di questa famiglia, queste sono tante persone tentate dalla miseria di spogliare le altre famiglie per vivere; e se all' incontro è minore il numero propozionale dei membri della famiglia, non v' è in questo caso abbastanza di forza per difendere i beni della famiglia. E` tanto naturale questa legge che si ravvisa fra tutti i barbari, ove non sia passata la società più oltre che allo stato di famiglia: specialmente dove sieno circondati da nemici. E questa, se dobbiamo prestar fede alla relazione di Bruce, 1) è una ragione della poligamia in certi luoghi dell' Africa. Egli conta che appresso i negri Changallas sono le femmine che importunano i loro mariti a prender dell' altre mogli per rinforzare con un buon numero di figliuoli le loro famiglie: e lo stesso dice dei Gallas: la donna sposata la prima è quella che fa la corte a qualche altra femmina a nome del marito per indurla a sposarlo, usando ad argomento principale quello che unendo insieme le loro famiglie diverrebbero più forti; mentre all' opposto il troppo stretto numero dei loro figliuoli, non farebbe che lasciarle senza resistenza alcuna cadere nelle mani de' loro nemici. Le famiglie incorporate nella società civile già costituita non sentono tanto il bisogno di questa legge, mentre la loro esistenza viene dalla società civile protetta. Ma come la forza unita di tutte difende l' esistenza di ciascuna, così il disordine, che succede in ciascuna per una moltiplicazione eccedente la ricchezza, si riunisce in massa e ricade a danni di tutte, rivoltandosi contro l' esistenza della civil società. Da questa legge poi si comprenderà con maggior evidenza la ragione del lagno importuno che si fa sempre contro la disuguaglianza delle proprietà. La cagione, forse più stabile di tutte l' altre, di questa disuguaglianza è la moltiplicazione maggiore o minore delle famiglie, rimanendo più povere quelle (fatte l' altre cose uguali) che essendosi maggiormente moltiplicate hanno ancora più divise e suddivise le facoltà. Sicchè venendo anche fatto un riparto uguale, in breve tempo quelle schiatte, i cui successivi padri avessero generato meno figliuoli, rimarrebbero più ricche di quelle che n' avessero generati di più: e in questo modo quei padri che con maggior prudenza avessero moderato la moltiplicazione della loro famiglia, secondo quello che suggeriva loro la saviezza, ed il preveduto ben essere dei loro figliuoli, era ben ragionevole che fossero premiati nella comoda vita procacciata a lor discendenti, e che non venissero spogliati del frutto della loro virtù da quelle famiglie che imprudentemente, e però viziosamente, si sono moltiplicate. Consideriamo adunque l' opulenza delle famiglie come un diritto che hanno alla generazione dei figliuoli. Coloro che hanno già usato questo diritto totalmente, non possono più lamentarsi delle tristi conseguenze che essi stessi cagionano volendo far uso ancora di questo diritto: e queste famiglie miserabili che indi provengono, aspirando ai beni delle famiglie ricche, usurpano a queste il diritto della generazione di cui esse hanno già pienamente fatto uso, mentre le ricche non avendolo esaurito lo hanno conservato. Per questa legge di natura è adunque messo un compenso fra il bene del generare e quello del possedere; onde succede cotale equità che chi usa più dell' uno debba rimaner più privo dell' altro, e chi più si priva dell' uno debba posseder l' altro in maggior copia. Le famiglie povere adunque che dopo aver goduto il bene della moltiplicazione, aspirando alle proprietà dei ricchi, vogliono a loro invadere questo stesso diritto della moltiplicazione, sono quelle veramente che rompono la naturale uguaglianza, e la legge di compenso messo ne' godimenti dei beni dalla natura: esse sono quelle famiglie, le quali dopo aver goduto tutto il proprio, vogliono anche godere l' altrui. E ben vero che i figliuoli, non ne hanno colpa, ma non hanno colpa di questo disordine nè pure le famiglie ricche; solamente l' hanno gl' improvidi padri; i figliuoli se voglion lagnarsi si lagnino adunque de' loro padri; ma non hanno ragione di pretendere come loro diritto, che le famiglie ricche facendo parte dei loro beni, limitino con ciò il numero de' loro figliuoli futuri, o vero abbiano da prevedere altrettanti loro discendenti in quella stessa mendicità dalla quale sottraggono gli stranieri. La legge da noi posta dell' equilibrio fra la moltiplicazione e la ricchezza è quella che conserva la tranquillità e sicurezza nella società famigliare, considerando una famiglia in relazione coll' altra non già considerando l' associazione che più famiglie possono fare a danno di una sola: il qual genere di turbamento è impedito da un' altra legge. La detta legge poi costituisce ancora il primo punto della soluzione al problema propostoci: Trovare nella società il collocamento migliore di quegli oggetti che possono acquistare per l' uomo l' idea di bene e di male; acciocchè influiscano al bene dell' umanità (fac. 12, 13). Essa scioglie il detto problema per riguardo alla distribuzione delle due cose, popolazione e ricchezza; primi elementi di ogni società. Egli è poi ancora da osservare nella detta legge le due sue parti. Primo che non attenda alla moltiplicazione della specie chi non può mantenere i figliuoli; secondo: che vi attenda chi ha ricchezza da mantenerli. Nello stato famigliare della società, cioè quando le famiglie non erano incorporate ancora alla società civile era essenziale questa seconda parte; perchè doveva la famiglia difender sè stessa: nello stato poi di società civile, o nazionale è essenziale la prima parte, e accidentale la seconda; perchè la famiglia è già tutelata dallo stato, quando anche manchi di forza nel numero dei suoi membri; ma all' incontro se eccede nel numero di questi ella immiserisce ed accumula a danno dello stato una popolazione mendica e pericolosa.

Epistolario ascetico Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ella vede, che solamente in questa dottrina dell' umiltà cristiana e della fede si trova la soluzione alla difficoltà fortissima che Ella propone sulla pratica inarrivabile della perfezione; e che tal soluzione non venne mai prodotta in alcuna filosofia: nuova prova della divinità della cristiana dottrina! Questa dottrina sovrumana non ha timore di dire all' uomo: « Numquid homo, Dei comparatione iustificabitur? Septies cadit iustus - cum omnia haec feceritis, dicite: servi inutiles sumus », perocchè tosto dopo atterratolo, lo solleva e conforta dicendogli ancora: « Voluntas Dei sanctificatio vestra: omnia quaecumque petieritis a Patre (meo) in nomine meo, dabit vobis - confidite: ego vici mundum! » Che ci resta dunque a fare? Metter solo il collo sotto il soave giogo di Cristo, umiliare incessantemente la petulanza cieca della nostra natura sensitiva e l' orgoglio ancor più cieco del nostro ingegno. Come nell' ordine morale giace in noi stessi una infinita imperfezione (astraendo dalla grazia di Cristo); così nell' ordine intellettuale giace in noi stessi un' infinita ignoranza. La pienezza della virtù non è meno ardua, alle sole forze dell' uomo, della pienezza della verità. Onde noi riceveremo la salute malgrado delle nostre imperfezioni, indi riceveremo la vital luce della mente, il lumen vitae delle Scritture, malgrado della nostra ignoranza. Oh questa è luce solare e ardente, quando la luce del secolo non ha che dei raggi biancastri e freddi! Sono certo, mio caro marchese, che appigliandosi Ella alla grazia, Dio La porterà innanzi, il quale ha detto e Le dice: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Coll' occasione che vengono a voi alcuni altri fratelli, bramo scrivervi poche parole, per rammentarvi la vocazione vostra nella santità della carità. Io prego e supplico tutti voi nelle viscere di Gesù Crocifisso, che niuno voglia divergere nè a diritta nè a sinistra, ma che direttamente tenda a quello a che è chiamato, cioè a procacciare a sè medesimo la santità che non consiste in veruna opera d' ingegno, nè in alcuna prodezza o gloria umana, nè buon riuscimento delle imprese esteriori; ma bensì nel praticare quelle virtù che Gesù Cristo, Salvatore e forma delle anime nostre, ha mostrato in sè stesso, massime pendente dalla croce: le quali sono l' umiltà, la povertà, l' abnegazione e l' ubbidienza, la mortificazione e la pazienza, e la carità ardente che tutte le contiene e non si perde in sottigliezze, ma cammina con semplicità e non cerca le cose proprie, ma quelle di Dio e del prossimo. In questo sta tutto l' Istituto della Carità che voi avete abbracciato, e che dovete avere continuamente innanzi agli occhi affine di perseverare in esso fino alla morte, non con sola l' unione dei corpi, ma con quella degli spiriti, affine di non ingannare voi stessi, perdendo di vista l' unica vera idea e forma dell' Istituto, nato al Calvario e uscito dal Crocifisso: in quanto che da lui sono uscite le virtù, in cui l' Istituto mira come in suo fine, e perciò lo costituiscono. Voi, o miei dilettissimi fratelli, avete tanto maggior bisogno di tenere fisso il vostro cuore a questo fine, non facendo conto che della pratica delle virtù evangeliche, come del solo bene (giacchè il resto è vanità), in quanto che il servizio di Dio costà ha congiunte difficoltà non poche, distrazioni e pericoli: i quali tutti però voi superare potrete, cooperando fedelmente alla grazia che Iddio non vi nega, e così essi diverranno altrettanti mezzi del vostro perfezionamento e trofei della vostra gloria futura. E questa cooperazione alla grazia non può consistere in altro, che nello aver presente la vostra vocazione per dirigervi secondo quella, uniformandovi allo spirito e alla lettera delle Regole, che vi sono prescritte, con sommessione perfetta. Ognuno in prima si persuada di non fidarsi troppo del proprio sentimento e giudizio, e piuttosto creda fermamente che fra tutti i pericoli della vita religiosa il più insidioso è quello che consiste nell' uso esclusivo del proprio raziocinio; perocchè l' uomo, essendo un essere ragionevole, inclina a ragionare, senza troppo considerare che i suoi ragionamenti sono brevi, limitati e spesso fallaci, a differenza di quelli di Dio che abbracciano in un modo infallibile le cose tutte, le presenti e le future, che rimangono nascoste agli occhi nostri. Perciò ciascuno nella propria condotta, invece di seguire le regole e i risultamenti del suo proprio ragionare, prenda a sua guida la sola altissima e semplicissima regola della volontà divina, a imitazione di Cristo, il quale, dando ragione del suo operare, non diceva già che operava per questo o quel motivo, ma diceva sempre che operava per fare la volontà del suo Padre Celeste, e acciocchè si adempissero le Scritture che contenevano appunto ciò che il Padre aveva ab aeterno prestabilito. Laonde tutto lo studio nostro, o carissimi, consista in pervenire a conoscere la volontà divina, e non in ragionare e disputare fra noi stessi, se questa o quella sia cosa buona o migliore secondo il proprio vedere limitato ed umano. Siamo solleciti unicamente di cercare quali siano i segni della divina volontà per eseguirla fedelmente e semplicemente, con pace interiore e senza contraddizione del proprio intelletto. E se voi attentamente considererete, scorgerete di leggeri, che i segni della divina volontà sono segnatamente tre, ai quali noi la riconosceremo senza fallo, se di puro cuore la cercheremo. Il primo segno è la legge di Dio , da Gesù Cristo apertaci con pienezza e perfezione; la qual legge è chiamata perciò dai teologi volontà di segno ; e perciò è anche scritto: « Voluntas Dei sanctificatio vestra ». Se dunque la volontà di Dio è la nostra santificazione, noi possiamo essere certissimi di operare conformemente a quest' amabilissima e santissima volontà divina, quando incessantemente lavoriamo a purificarci dalle nostre imperfezioni, e ad acquistare tutte le virtù che formano la santità. E ogniqualvolta una turbazione di animo ci pone in uno stato di perplessità e di dubbiezza, ricordiamoci di preferire fra i due quel partito che in sè stesso è più favorevole alla nostra santità, quello che più contiene di virtù evangeliche, appigliandoci senz' altro dubbio nè esitazione a ciò che meglio esercita la nostra abnegazione, povertà, ubbidienza, carità e disprezzo di noi stessi e delle cose nostre; perocchè facendo così, noi siamo certi di non isbagliare e di operare secondo l' altissima ed eccellentissima regola del divino volere che pur vogliamo seguire, e per questo siamo nell' Istituto. Il secondo segno che ci fa conoscere quest' ottimo e desiderabilissimo volere di Dio, si è l' ubbidienza a' nostri Superiori. A tutti voi io dico questo, e in prima al Padre Rettore e al Padre Ministro che debbono precedere coll' esempio nell' ubbidire semplicemente a' propri Superiori, e di poi lo dico a tutti gli altri fratelli soggetti. Conviene riflettere che questa è la dottrina della Chiesa cattolica, la quale insegna ed ha sempre insegnato che l' ubbidienza perfetta a' propri Superiori è la via più sicura a conoscere il divino volere e a perfezionare e salvare sè stessi. Non insorga adunque la temerità e la baldanza del proprio ragionamento, perchè così facendo non insorgerebbe già contro l' uomo che comanda, ma contro Dio che manifesta il suo volere per mezzo di quell' uomo. Egli è vero, che si può trovare nel comando del Superiore sbaglio o difetto, secondo il corto vedere umano; ma vero sbaglio o difetto non può cadere nel volere di Dio, di cui quel comando è segno indubitabile. Di maniera che è da credersi che eseguendo quel comando, sebbene accompagnato da qualche errore secondo le viste umane, tuttavia non si farà che ottimamente secondo le viste divine, e che Dio vorrà servirsi di quello sbaglio od errore del Superiore ai suoi altissimi e sapientissimi fini, che noi per la nostra cortezza ed ignoranza non arriviamo a conoscere. Non si dà nessuna eccezione a questa regola, fuor solo quando nel comando del Superiore vi avesse peccato. Fuori di questo caso, taccia il nostro intelletto davanti a ciò che viene comandato, non giudichi, non censuri, non calcoli cosa (se non forse per rappresentarla sommessamente al Superiore); ma presti con viva fede e con certezza di ubbidire a Dio, una ubbidienza intera, pronta, semplice ed umile. Quando poi non si può conoscere il voler di Dio nè col primo nè col secondo di questi due segni, perchè non v' è un comando del Superiore che prescriva il da farsi, nè la legge di Dio o l' amore della santità lo determina, allora convien ricorrere alla terza regola, molto necessaria ai Superiori, ed anche ai soggetti, ogni qualvolta i Superiori rimettono al loro giudizio il modo di operare. Questo terzo segno del divino volere si è la voce della divina Providenza , che si fa sentire negli avvenimenti esterni e nel complesso delle loro circostanze. Conviene che questa voce sia da noi raccolta col lume tranquillo della propria ragione, soccorsa dal lume della fede, con una maniera di vedere al tutto logica, senza prevenzioni nè fantasie, o niente che abbia del superstizioso e dell' arbitrario. Fare tutto il bene, che la divina Provvidenza ci presenta nelle occasioni esterne da noi non cercate, farlo senza ingiusta predilezione, ma sempre col debito ordine: ecco ciò che in questo caso vuole Iddio certamente da noi. Iddio è l' essenza del bene; dunque egli vuole da noi tutto il bene possibile, ed è quello che, venendoci presentato a fare dalla sua Provvidenza, non è scelto a nostro, ma a suo arbitrio. Questo terzo segno è subordinato al secondo, come il secondo è subordinato al primo, cioè a dire se la legge di Dio ci obbliga ad una cosa, a quella dobbiamo attenerci; ma se non ci obbliga, dobbiamo attenerci all' ubbidienza. Se poi neppur questa determina il da farsi, allora dobbiamo studiarci di conoscere il voler di Dio per mezzo del lume di ragione e della grazia che il deve accompagnare, il quale per non fallire non deve prevenire, ma seguire la Provvidenza nei fatti esterni. Dal primo poi e dal secondo de' tre segni scaturisce la necessità che voi tutti avete, quando pur vi piaccia di attenervi strettamente alla volontà del vostro Dio, di meditare attentamente e amorosamente le regole dell' Istituto da voi abbracciato, come quelle che contengono in compendio e applicano la legge di grazia portataci da Gesù Cristo, e come quelle, a cui debbono prestare egualmente ubbidienza e i Superiori e i soggetti. Ognuno adunque cerchi di vivere confidato grandemente in Dio, unito strettamente col proprio Superiore, in cui ravvisi come in imagine Dio stesso, uniti ancora tutti fra di voi in congiuntissima carità, la quale non sia turbata mai da cosa alcuna, sopportando i difetti altrui nell' abbondanza dell' amore, onde ciascuno dee avere ricolmo il cuore, avendo gran premura non solo del profitto proprio, ma ben anco di quello di tutti gli altri fratelli che formano con lui una famiglia in Gesù Cristo, edificandoli col suo contegno e cooperando alla loro purificazione e perfezione, secondo lo spirito dell' Istituto e la volontà de' Superiori. E così facendo voi, l' umile vostro fratello che ha tanto di fidanza di scrivervi queste cose con ogni libertà nel Signore, spera di dover partecipare della pienezza de' vostri meriti e delle vostre preghiere che con un cuor puro e retto innalzerete senza posa al trono di Dio, nel quale egli assai vi ama e dal quale vi prega ogni benedizione e aumento di grazia, consolazione e fortezza nelle tribolazioni e corona di gloria immarcescibile. [...OMISSIS...] 1.37 Se nelle confessioni non troviamo materia grave, è misericordia del Signore nostro, e nel dobbiamo ringraziare; peraltro ciò non ci dee distorre dalla confessione, la quale è un atto di profonda umiltà e di compunzione di tutti i nostri peccati in generale, i quali si possono sempre detestare e sottomettere di nuovo alla sacramental confessione; tanto più che possiamo sempre temere per cagion d' essi, sebbene sottomessi già al giudizio del sacerdote, non sapendo con assoluta certezza se le disposizioni nostre erano del tutto quelle che si richieggono ad ottenere da Dio un pieno perdono. D' altro lato la confessione, e sopratutto poi la comunione, aumenta la grazia e le forze spirituali. In quanto ai peccati veniali, conviene che li combattiamo con tutta pace e senza pretensione di riuscirvi in breve tempo. Vi ha un mezzo generale e soavissimo di far ciò, ed è quello di accrescere in noi la carità coll' orazione e con atti frequenti di amor di Dio e del prossimo: in ragione che cresce in noi la carità, vanno cadendo i peccati veniali, quasi senza che ce ne accorgiamo, ed ogni attacco a noi stessi ed alle cose proprie. Questo è un mezzo eccellente specialmente per quelli che fossero inclinati ad assottigliare, ai quali il troppo pesare e scrutare le minime cose può cagionare turbazione e inquietezza. Quanto poi alle opere di sopraerogazione, non conviene mai cangiarsele in doveri; perchè sarebbe un rendersi grave da sè stessi il giogo del Signore. Anche qui conviene procedere per la via di quell' amore che dilata il cuore; ma perchè questo stesso potrebbe affannare l' animo, pensando che è troppo scarso il nostro amore verso il bene infinito che dobbiamo amare, perciò ci è uopo d' altro lato riflettere che questo amore soprannaturale è esso stesso un dono di Dio, dono che egli ci fa in certa misura; e però si contenta che l' amiamo con quella misura colla quale possiamo amarlo, e non pretende di più. Perciò Gesù Cristo, comandandoci l' amor di Dio non ci ordinò di amarlo infinitamente , com' ei si merita; ma ci ordinò di amarlo con tutto il cuore ecc., che è quanto dire con tutta la potenza che abbiamo di amare. Di più non chiede; e però convien fare quel che possiamo, e poi starci contenti riposando in Lui e sperando in Lui; ed egli farà di più in noi. E quanto al precetto dell' amor del prossimo, che ci comanda di amare gli altri come noi stessi, non parla di uguaglianza , ma di somiglianza ; e parla dell' amor volontario e non dell' istintivo; e queste considerazioni debbono quietare, se ci sembra di non amar gli altri quanto noi stessi, bastando che li amiamo come noi stessi. Buona cosa è tuttavia e che fa fare all' anima molti progressi, l' occuparsi in opere di carità e specialmente di carità spirituale, che è la più eccellente, e nel promuovere tutte le opere sante. Quanto a ciò che mi dice circa la differenza di specie fra l' anima di un buono e di un malvagio, non si potrebbe sostenere, perocchè la specie umana è costituita dall' aver per lume l' essere iniziale , e questo l' hanno tutti o lo amino o no. Si potrebbe dire bensì che fra un buono e un malvagio vi ha una differenza maggiore che non sia dalle stelle alla terra e più ancora, voglio dire una diversità maravigliosa, incredibile, che nel Vangelo viene espressa con quel chaos magnum che sta interposto fra Lazzaro ed Epulone. Se si tratta di bontà soprannaturale la distanza è infinita, ed è certo che la grazia opera un cangiamento sostanziale e non puramente accidentale, come insegna San Tommaso. Mi è stata carissima la sua lettera e l' altra che mi ha scritta, e la prego di continuarmi la sua cara benevolenza, e comandi a me come ad uno che la stima e l' ama... [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Sebbene risponda tardi alla vostra lettera, non dovete credere che ella mi sia riuscita meno grata, nè prenderete errore se attribuirete la lunga dilazione in farvi risposta alle troppe mie occupazioni... Quanto a ciò che nella vostra lettera mi dite intorno agli studii, non si richiedono molte parole, giacchè essendo questo tempo del vostro noviziato sacro all' esercizio della virtù e della santità più fervente, il resto non è che accessorio; e dal Padre Maestro saprete quello che vi convenga di fare. Sommamente importante all' incontro mi parrebbe lo scrivervi qualche cosa sul conto del dubbio venutovi in cuore circa l' ubbidienza cieca , se già questo vostro Maestro e amorosissimo superiore non mi avesse fatto intendere, esservisi questo dubbio dileguato dall' anima. Tuttavia un nonnulla voglio dirvi su ciò, mio caro Giacosa, e questo si è in prima che il conoscere intimamente l' eccellenza altissima dell' ubbidienza cieca prestata per amor di Gesù Cristo, ella è cosa al tutto divina , e quelli soli ciò intendono, a cui lo Spirito Santo comunica questa sapienza sopraumana. Laonde vorrei esortarvi a domandare questa soprannaturale illustrazione con intensissime preghiere, annientandovi davanti al trono della Maestà di Dio e chiedendogli con gran fervore di poter intendere le lezioni che ci ha dato Gesù Cristo suo Figlio dalla sanguinosa cattedra della Croce. Ci potrebbe anco condurre all' intelligenza e al possesso di questo tesoro dell' ubbidienza cieca, un amore intensissimo che noi avessimo verso il nostro Signor Gesù Cristo; perocchè questo infiammato amore ci porterebbe indubitatamente ad intendere gli ammirandi suoi esempi e le parole con cui ce l' ha insegnata: parole ed esempi non compresi se non da quelli che l' amano svisceratamente, e che all' opposto sono stati e saranno gentibus stultitia . Un' altra via da poter giungere a capire la preziosità di questa virtù dell' ubbidienza, per la quale l' uomo spirituale è sempre pronto anco a morire, è quella della fede fermissima e viva nel magistero della Santa Chiesa, come quella che è colonna e firmamento di verità, e nell' esempio dei Santi che furono dalla Chiesa canonizzati. Perocchè chi ha questa viva fede, ha lo spirito e le parole di sua madre la Chiesa, e senz' altro ragionare si persuaderà pienissimamente che il cieco ubbidire è un atto di virtù squisitissima e di sommo merito presso Dio. Veramente Chiesa Santa l' ha creduto ed insegnato in tutti i secoli ed in tutti i luoghi; ed ha coronati gli eroi di questa virtù. E parimenti quegli che crede che i Santi sieno i veri sapienti, non dubiterà che ciò che hanno fatto tutti essi, nessuno eccettuato, cioè l' ubbidire ciecamente, non sia ragionevole, e giusto, e santissimo; e se insorgeranno a costui dubbii nella mente, chiamerà sè stesso scioccherello e pazzo, e si atterrà immobilmente al lume de' Santi, i quali, atteso lo Spirito Santo che avevano in sè, intesero assai bene la forza di quelle parole dette da Cristo, « qui vos audit, me audit ». Le quali parole del divin Maestro sono per vero un inconcusso fondamento all' ubbidienza cieca, imperciocchè esse furono dette per gli Apostoli alla Chiesa, e la Chiesa parla ed opera pe' suoi ministri, e massime per li superiori delle sante Religioni e Congregazioni. Sicchè vi è tanta ragione di ubbidire ciecamente ai Superiori, quanto ragion vi è di credere ciecamente a Cristo. E come credendo ciecamente a Cristo, si rinunzia bensì a tutte le altre ragioni, ma per attaccarsi ad una ragione altissima, ed unica vera ragione; così ubbidendo ciecamente ai superiori, si rinunzia bensì, in un senso, alla propria ragione individuale e a tutti i suoi speciali ragionamenti, ma nello stesso tempo, in un altro senso, si ubbidisce alla stessa propria ragione; perocchè è la propria ragione di chi ubbidisce, illuminata dalla grazia di Dio, che persuade al vero ubbidiente essere cosa convenientissima che egli ubbidisca, senza cercare altre ragioni che la bellezza stessa dell' ubbidienza. Qui poi osservate, mio caro, l' errore che commettete, dicendo nella vostra lettera che due soli sono quelli che ci possono comandare, la ragione nostra ed il superiore esterno. Voi lasciate fuori il principale, che è Dio che parla per mezzo del superiore e vale molto più della nostra ragione individuale, la quale è soggetta ad ingannarsi, ed anzi inganna sempre ed indubitatamente ogni qualvolta non vuole ubbidire ciecamente alla volontà divina, che Dio manifesta per la bocca del suo ministro e del suo rappresentante sopra la terra che è il superiore religioso. Dico che s' inganna sempre la ragione nostra individuale , quando ci persuade di non ubbidire. Imperocchè quando è, di grazia, che noi veramente c' inganniamo? Quando invece di cercare ciò che è meglio pel nostro fine, cioè a dire per l' acquisto della virtù, della perfezione, dell' umiltà, dell' annegazione, della mortificazione, della penitenza, della imitazione in una parola di Gesù Cristo Crocifisso, noi ci fermiamo a delle considerazioni umane e di altro ordine interamente diverso da quello delle virtù evangeliche. A ragion d' esempio, quando quel celebre solitario, insigne maestro di perfezione, comandava al suo discepolo, che ogni giorno portasse certa quantità d' acqua per inaffiare una pianta disseccata da molto tempo, se quel discepolo avesse disubbidito col pretesto di seguire la propria ragione, egli si sarebbe ingannato e avrebbe operato al tutto contro ragione. Perocchè era bensì vero che l' inaffiare quella pianta, come gli veniva comandato, era inutile e irragionevole, quando si consideri solo il fine di farla rinverdire, ma se all' incontro si considera quell' altro fine molto più sublime, che consiste nell' atto di virtù, di umiltà, di annegazione, di mortificazione, e in una parola d' ubbidienza (perocchè tutte quelle cose sono contenute nella sola ubbidienza); allora si vede manifestissimamente che l' ubbidire a quell' irragionevole comando era cosa ragionevolissima, sapientissima, e santissima. E tanto è grato a Dio questo cieco ubbidire, che si degnò, non di rado, di manifestare la sua approvazione coi miracoli; come accadde nel fatto che vi accenno; perocchè quella pianta disseccata, narrano le storie, che a quell' atto di ubbidienza rinverdì e rifiorì. Ed ora chi non vede, che in ogni atto di ubbidienza, fatto per amor di Dio, al proprio superiore, vi è sempre rinchiuso l' abbassamento di se stesso, l' annegazione, l' umiltà, e l' amor di Dio, e che queste virtù vi sono tanto più belle e grandi, quanto la cosa comandata è più ripugnante e contraria al nostro senso proprio ed al nostro proprio giudizio? E se Gesù Cristo ci ha insegnato che la perfezione nostra sta in quell' annientamento che l' uomo fa di se stesso per amor suo, ed a sua imitazione, chi non vede che vi è sempre una ragione di ubbidire a qualsivoglia comando, e che questa ragione è l' ultima di tutte le ragioni a cui tutte le altre debbono cedere? Perocchè la ragione del rendere noi stessi perfetti, annientandoci per amor di Cristo, è tanto grande che non ve ne può essere un' altra più grande: è il sole della ragione che ecclissa tutte le stelle. Deh! qual ragione di operare vi può essere più grande di quella di ottenere il fine, per cui siamo creati, e di ottenerlo nel più perfetto modo insegnatoci da Cristo? L' ubbidienza che si dice cieca è dunque un' ubbidienza illuminatissima , e con essa si rinuncia a tutte le ragioni frivole e vane per solo attenersi all' unica ragione vera, solidissima e beatissima. Ma tutto questo discorso da chi può venire inteso, se non dall' amatore di Gesù Cristo? Da chi può essere gustato, se non dal semplice ed umile di cuore? A chi risplende tal lume se non al poverello di spirito e al fanciulletto che ha lo sguardo schietto e sincero? [...OMISSIS...] Conviene adunque, mio caro, acciocchè capisca in noi la cognizione di questi tesori della sapienza e della scienza di Dio, che prostrati bocconi per terra innanzi al trono della Maestà, domandiamo, come dicevo, al Padre che ci tragga a Cristo Signor nostro; perocchè indubitatamente è vero quanto pronunciò l' oracolo dell' infallibile verità: « Nemo potest ad me venire, nisi Pater traxerit eum ». Che se il Padre, udendo quel prego che gli innalzeremo dal profondo del cuore in nome del suo diletto Unigenito, ci aprirà gli occhi dell' anima e ci farà cadere le cateratte che le nostre passioni su vi coagularono; allora non solo vedremo l' intrinseco prezzo inapprezzabile dell' evangelica virtù della ubbidienza cieca, ma vedremo di più che, povero il nostro naviglio, se avesse per proprio conduttore noi stessi e la nostra propria ragione e volontà! Vedremo andarsene esso a caso qua e colà trabalzato da flutti in mare immenso, tempestoso e tenebroso, senza discernere mai a che direzione sia volta la miseranda nostra navigazione. Vedremo il lume della ragione nostra, rimastosi solo, non valerci più ad altro che a farci conoscere la condizione disperata in cui siamo gittati. Vedremo che la sola stella che ci possa scorgere a certo segno, non è la povera e inutile nostra ragione umana, ma la sola luminosissima, benignissima, e sicurissima volontà di Dio; e che il nocchiero che possa guidarci dietro a quest' astro di presagio lietissimo, è quel superiore appunto datoci dalla Provvidenza e dalla misericordia di Dio nella religione qualunque ei sia; perocchè qualunque ei sia (purchè non ci comandi il peccato), egli è sempre l' inviato da Dio, è sempre l' interprete dei divini disegni e il ministro delle divine misericordie. Vedremo tutto questo rispetto a noi; ma vedremo molto più se ci viene dato il lume dell' umile sapienza di Cristo, rispetto al bene che potrebbe per noi farsi ai prossimi nostri ed alla santa Chiesa. Perocchè Dio Padre di tutti gli uomini è quegli che pensa a tutti, e Gesù Cristo, Capo della Chiesa ricomperatasi a prezzo di sangue, è quegli che pensa alla sua Chiesa. E Iddio padre e Gesù Cristo suo figlio non elegge alle opere della sua gloria in beneficio del mondo e della sua Chiesa, se non di quelli che, conformati a Cristo, crocifiggono se medesimi, e muoiono a se stessi nella virtù della santa ubbidienza, annegazione, umiltà e amore della croce. Nè altri, ma anzi il solo seguace della santa ubbidienza evangelica è colui che veramente si offerisce a Cristo ed al Padre, e che il Padre e Cristo, secondo il loro beneplacito, elevano, come dicevo, a loro ministro e l' adoperano a tutte quelle cose grandi a cui l' hanno ab eterno predestinato. Stringiamoci adunque all' ubbidienza dei superiori, rinunciando una volta per sempre a noi medesimi, e otteniamoci una grazia sì squisita coll' assiduità di un' umile e non mai interrotta orazione. Questo, o mio caro, io mi aspetto da voi e da tutti cotesti nostri Novizi carissimi; aspetto che tutti usciate infiammati d' amore divino, e atti ad appiccarne l' incendio ai quattro angoli della terra; aspetto che usciate pieni della umile sapienza di Gesù Cristo, che è stoltezza ai vani ragionari del mondo, ubbidienti, docili, mansueti, illuminati, morti alla terra, vivi a Dio, gloriosi di non sapere altro se non Gesù Cristo, e questo crocifisso, da cui vi prego salute e benedizione ne' secoli. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Le dovea pervenire questa mia lettera sul cadere di agosto secondo il promesso, se alcuni accidenti, fra gli altri quelli del corpo sempre malazzato di chi la scrive, non lo avessero trattenuto finora. Essa è incaricata di farle di nuovo molti ringraziamenti del prezioso dono della magnifica « Introduzione » della sua « Storia Universale », letta da me e trovata quale mi aspettavo, e più ancora che io non mi sapessi aspettare ampia e ricca di cose, specchio di una gran mente e di un animo buono e gentile come dee esser quello dello storico. Questa lettura mi ha captivato alla dolce fatica di dover leggere tutta altresì la storia che segue, cosa che ripugnerebbe a queste mie presenti strettezze di tempo e di forze che mi divietano la lezione di tante altre opere egregie e mi prescrivono severamente di non isvolgere altri libri se non i soli necessariissimi alla giornata; pure egli mi è forza ubbidire alla prepotenza che mi usò la sua « Introduzione ». Ma pazienza se questa fosse la sola conseguenza dell' essermi io arreso al suo cortese invito! Ella non vuole da me udire prette lodi, ma mi dimanda un parere, delle osservazioni: come di quelle mi sarebbe facile il mandargliene molte e sincere, così mi pare oltremodo difficile il mandarle di queste, che siano ragionevoli e discrete ed utili; nè sarebbero tali se non fossero anche nuove. E come Le dirò io cosa che non Le sia forse stata detta da altri, se non anco prima pensata e discussa da Lei stessa? Che le cose belle e grandi non mancano di censori numerosissimi, nè saprei dire se la sua stessa grand' opera sia stata più onorata dal pubblico colle lodi o colle censure. Tuttavia forse dirò cosa non detta da altri se parlerò della religione, che come la più importante di tutte, così è quella di cui men parlano i letterati. Tutta da capo a fondo è religiosa la sua « Introduzione », e per entro ad essa lo scrittore non si vergogna mai di far pubblica e dignitosa professione di cristiano. Tanto più posso parlarle liberamente con sicurezza, che il mio parlare non Le torni molesto anzi gradito, paresse quanto si voglia di soverchio sottile e scrupoloso. Ciò dunque che mi cadde in animo di dirle si è, che talora le espressioni e le maniere, che vengono qua e colà usate nell' « Introduzione » parlando del cristianesimo, mi parvero risentirsi e quasi avvicinarsi a quelle che si trovano in molti scrittori moderni, massimamente francesi, i quali parlano umanamente della cristiana religione e, per così dire, la rifanno a lor modo: sogliono evitare tutto il soprannaturale, almen tacendolo, se non negandolo: niente di miracoli, niente di misteri, niente della grazia divina, che è propriamente la vita della fede nostra; confondono la vera rigenerazione dell' uomo, che viene operata da Cristo in un attimo nel battesimo, con ciò che essi chiamano impropriamente rigenerazione , intendendo con questa parola il successivo incivilimento nazionale o sociale che si opera col decorso de' secoli. Le darò un solo esempio di ciò che intendeva. Alla faccia 2. dell' « Introduzione » si dice molto nobilmente: « il cristianesimo elevò la storia e la rese universale, dacchè proclamando l' unità di Dio proclamò quella del genere umano, e insegnandoci ad invocare il Padre nostro , ci fè riconoscere tutti per fratelli ». Niente di più vero nella sostanza: tuttavia osserverei, che il cristianesimo non operò tanta maraviglia col proclamare solamente l' unità di Dio. Questa unità era stata proclamata anche in principio del mondo, e non valse a sostenerlo dalla corruzione: la stessa tradizione antichissima della unità di Dio si conservò fino presso gli Otaiti, adoratori del grande Spirito, e non impedì quelle popolazioni di scadere a stato selvaggio: questa unità fu proclamata dai più insigni savi delle Indie, di Grecia e di Roma: Maometto la proclamò, e quasi direbbesi, più di Cristo, giacchè negò la Trinità delle Persone; e questo dogma della unità tanto proclamato non elevò la storia, non fece nulla di quello che fece il cristianesimo. Il dogma proprio e fecondo della Religione del Salvatore del mondo si è quello della Trinità, e il conseguente della Incarnazione. Pure il proclamare questi dogmi sarebbe stato un profferire delle vane o pazze voci, se la onnipotenza della grazia non avesse acceso il lume della fede nelle anime de' battezzati: ecco lo stromento segreto, che mancò a Maometto, a Confucio, a Platone, a quanti vissero savi in sulla terra dichiarati da Cristo latrones ; ma che non mancò al Verbo incarnato. Questi solo ebbe virtù di mettere in sulle labbra degli uomini il Padre nostro , parola che non poteasi pronunziare senza la dottrina della Trinità, perocchè quella parola tutto racchiude in sè questo mistero, non potendo Dio ricevere nome di Padre se non ha un Dio per figlio. - Siccome in questi ed in altri simili luoghi la grazia avrebbe espressa tutta la verità del pensiero dello scrittore, così dove si legge che « « i poveri, deboli, mal conosciuti, calunniati, coll' autorità, l' istruzione, le ceremonie, l' esempio propagarono il regno di Dio »(facc. 46) » si sente che manca il mezzo principale onde il cristianesimo si propagò, cioè quello de' miracoli ; giacchè, come osservò S. Agostino, se questi fossero mancati, un miracolo massimo sarebbe stata questa sì rapida diffusione della cristiana verità. Mio carissimo signor Cesare, io credo ora di averle dato prova della stima che fo di Lei e dell' affetto sincerissimo che Le porto comunicandole queste poche osservazioni sul suo egregio lavoro. Ella ne faccia quel conto che il suo senno Le suggerirà. Io son certo che le cose da me dette non tolgono all' opera sua l' esser un gran monumento dell' italiana letteratura, ed oso anche dire fin qui l' unico nel suo genere. Ella mi conservi la sua preziosa amicizia, e mi saluti il veneratissimo nostro don Alessandro. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.39 Il mio sentimento è che facciate i voti, essendo io appieno convinto, che, facendoli, voi farete cosa grata a Dio. Con questa persuasione intima ho messo il vostro nome nel decreto che mando al vostro Superiore, il caro D. Luigi, e al quale viene stabilito quali siano quelli, che costì faranno i voti. La sottigliezza del vostro ingegno e sopratutto la vostra fantasia, ecco i vostri principali nemici, che voi stesso conoscete. Cercate di vincerli coll' orazione e con atti generosi di volontà ripetuti molte volte. Gli atti generosi della volontà e le proteste fatte a Dio di frequente e i gemiti cavati dal profondo del cuore hanno grande virtù di ottenerci la grazia e la fortezza di cui abbisogniamo continuamente in questa nostra peregrinazione. Non riprendo che si ragioni ; ma io dico che vi sono delle ragioni primarie e di assoluta verità, e delle ragioni secondarie , e che hanno una verità relativa solamente e parziale. Ora noi dobbiamo dirigerci in tutte le nostre opinioni ed azioni con quelle ragioni primarie che sono poche, semplici, sublimi, universali, madri di costanza e di pace; e non colle ragioni secondarie che appartengono ad una sfera di cose più bassa ed angusta, e non sogliono essere concludenti per la pratica, nè mai si esauriscono, perchè ripullulano infinite, e però mettono l' animo in una perpetua inquietudine e turbazione. Questa non è solamente dottrina logica, è dottrina sacra: Gesù Cristo ha insegnato a' suoi discepoli a far conto solamente delle ragioni grandi o primarie, di cui parlo: elle sono quelle che formano la semplicità, la costanza e la magnanimità della vita dei Santi. Ecco alcuna di queste ragioni che hanno potenza col loro peso di annientare innumerabili ragioni secondarie, minute e querule. Vi ha una Provvidenza amorosissima che tutto regola e dispone: dunque io debbo essere contento di tutto ciò che non dipende da me: debbo tenere per certo, che anche ciò che mi sembra storto è l' istromento migliore per la massima mia santificazione e beatitudine se io me ne approfitto. Essendo Iddio infinitamente buono, debbo confidare e buttarmi in Lui, anche quando io sono cattivo, debole, infermo: debbo sforzarmi, come posso (ma senza ansietà e turbazione), a vincere me stesso e far le cose perfette; e mi riesca o no di farlo debbo considerare che gli stessi miei sforzi, gli stessi miei desiderii sono un dono suo e un pegno che Egli mi vuol soccorrere: i desiderii santi costantemente ripetuti in un cuore non possono andare a male, e perciò nella Scrittura si esprime un uomo santo col dire semplicemente Vir desideriorum . Debbo sommessamente seguire l' autorità della Chiesa, de' Sommi Pontefici, e oltracciò il senso e, per così dire, l' istinto de' Santi. Il senso de' Santi e l' autorità della Chiesa mi dicono che l' ubbidienza ai superiori religiosi è una via sicura di salute e di perfezione. Io mi accorgo, che Iddio mi fa sentire profondamente al cuore questa verità. Che importa dunque che i miei Superiori fallino? Io sono sicuro. D' altra parte se fallano i miei Superiori, come uomini che sono, non falla Iddio che permette il loro fallo, e son certo che lo permette pel mio massimo bene. I Superiori non sono che istromenti nelle mani di Dio: quel comando dunque, che è sbagliato se lo considero con una ragione secondaria e di bassa sfera, non è dunque sbagliato se lo considero con una ragione primaria e sublime: la ragione primaria mette la tranquillità nel mio cuore; m' infonde l' affetto e il compatimento verso i miei Superiori; mi rende dolcissimo e sommamente meritorio l' ubbidire in questi casi appunto, nei quali le ragioni secondarie mi offuscano la mente, mi turbano ed amareggiano il cuore, mi rendono disamorevole verso i miei Superiori, ritroso ad ubbidire, vacillante nella stessa vocazione. Periscano adunque queste ragioni secondarie, si scaccino, come le nubi dinanzi al sole, si faccia sereno il cielo dell' animo nostro. Non conviene ragionare con esse, ma colla forza onnipotente delle ragioni primarie soffocarle appena nate, annientarle, prima che nascano, senza misericordia. Debbo fare grande stima di tutti i miei prossimi e specialmente de' miei confratelli e de' miei Superiori; debbo presumere e interpretar bene ogni cosa, facendo che tutto il mio ingegno sia a piena disposizione della mia carità. Per l' opposto debbo diffidare infinitamente di me stesso, di tutti i miei giudizii, e pospormi a tutti in ordine alla virtù. Se io fo un atto generoso e santo, sono certo che non me ne pentirò mai: sono certo, che gli effetti di quest' atto saranno buoni per me: e se io mi butto in Dio (per quanto miseramente posso) son certo, che Egli non mi lascerà cadere in terra, ma mi raccoglierà nel suo seno. Queste ed altrettali ragioni primarie e sublimi, e che formano la base del nostro Istituto, danno gran pace al cuore e fanno andare innanzi i deboli e gl' infermi e i peccatori. Io sono persuaso che nel fondo del vostro cuore prevalgono queste ragioni primarie; ma mi sembra che, sebben vittoriose, non abbiano ancora distrutte ed annientate le ragioni secondarie, e che vi sia una grande attività nel vostro ingegno e nella vostra immaginazione tendente a fabbricare incessantemente di queste ragioni di bassa sfera, le quali sono veramente inesauribili e rendono l' uomo loquace, involgendolo in disputazioni che non han fine alcuno, e molto meno danno edificazione. Io vi esorto a distruggerle al tutto, facendo che le ragioni primarie e divine sieno le dominatrici pacifiche e sole dell' animo vostro. In questo senso vi esorto a far guerra alla vostra propria ragione, sottomettendovi ciecamente all' autorità ed ubbidienza, fermo in quella parola della Scrittura: « Vir obediens loquetur victorias ». Così si debbono intendere i Santi e i maestri di spirito, quando ci esortano a rinunziare alla nostra ragione e giudizio proprio: sublime ed altissimo documento, sicuro fonte di santità! Qual cosa più bella che il navigare con sicurezza di giungere al porto, sebben s' ignori la strada che dovrem percorrere ed i cimenti che incontreremo per essa? O bella e santa Fede! a te, quantunque abbi le bende agli occhi, io mi attengo con tutto il cuore. [...OMISSIS...] In quanto al modo, col quale fu governato l' Istituto fin qui, credetemi, carissimo mio fratello, che ignorando voi le più minute circostanze, non potete portarne un giudizio sicuro. Io ho riandato molte volte ciò che si è fatto e credo che nel complesso si sia fatta la volontà di Dio: si sia fatto tutto quello che si è potuto e saputo, e che il resto l' abbia fatto mirabilmente Iddio. Quanto alle mortificazioni, voglio rettificare un vostro concetto. Voi dite che quando una cosa è stabilita come appartenente alla vita comune, non si può a meno di conformarsi alla generalità de' fratelli per non dare scandalo. Se si tratta semplicemente di mortificazioni, io non sono del vostro avviso. L' Istituto pregia sopratutto l' umiltà; e se un nostro compagno che non può fare la mortificazione, riceve quella specie di umiliazione, che gliene viene, da Dio e nel suo interno ne cava profitto, umiliandosi e riconoscendosi debole; egli pratica con ciò una virtù molto propria dell' Istituto. Ma gli altri ne prenderanno scandalo? Questo è quello che non deve essere: io bramo, e spero che si otterrà col tempo, che tutti i membri dell' Istituto aborriscano i giudizi sui propri fratelli e sappiano stimarli altamente ed amarli anche se non fanno le mortificazioni comuni, pensando che nelle anime loro possono trovarsi infiniti tesori di grazie anco senza di ciò, e attribuendo il non fare la mortificazione a cause oneste ed anco sante. Il pensare il contrario e il perdere la stima dei fratelli per così piccole cose, è una vera ignoranza: io voglio che tutti i nostri fratelli sieno in ciò istruiti bene, e bene avvezzi a conservare una gran carità in cuore. Stimo e bramo più questa disposizione della stessa uniformità della vita comune: sebbene anche questa uniformità la desideri, per quanto ella è possibile. Desidero tuttavia nel medesimo tempo, che tutti facciano grande stima della penitenza e antepongano all' altre quella della comunità; perchè questo è lo spirito della Chiesa, e di Gesù Cristo, e de' Santi suoi, e il voto dell' Istituto nostro. Quanto ad opinioni, l' Istituto dà piena libertà a' suoi membri, secondo quella regola bellissima di sant' Agostino, « in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas ». Circa all' opinioni politiche, io son certo che voi vi atterrete alle dottrine espresse dal Sommo Pontefice nelle Encicliche pubblicate a condanna delle opinioni dell' abate De La Mennais. Forse voi avrete anco letta la lettera, che io ho diretta a questo sacerdote e che fu tradotta anche in francese. L' attenersi alle dottrine dell' Enciclica è cosa necessaria, « in necessariis unitas ». Del resto voi siete libero: ed ho piacere che mi diciate non professar voi alcuna opinione, perchè la materia essendo difficilissima e delicatissima, sarebbe un esporsi a grave pericolo il prendere un' opinione, senza averne studiata la questione complicatissima, da tutti i lati. Bramerei, che leggeste la mia opera intitolata « La Società ed il suo fine », dove ho cercato di render chiare alcune idee importanti, che hanno uno stretto rapporto con quella questione. Ma questa lettera è già lunga, e il tempo assolutamente mi manca di dir di più. Credo d' aver sostanzialmente toccate le cose principali da voi scritte. Coraggio adunque, libertà di coscienza, risoluzione generosa, irrevocabile. Iddio vi venga incontro e vi abbracci. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 La lettera vostra del 3 mi ha cagionato una dolorosa sorpresa. Voi vi mostrate vacillante sul punto di abitare in Italia. Ma il disegnare da se stessi il luogo in cui si deve abitare, non è ella cosa direttamente contraria al voto dell' ubbidienza religiosa, e specialmente al voto proprio dell' Istituto nostro, che esige l' indifferenza ad ogni luogo , come espressamente dichiarano le regole? Avete ben letto il « Memoriale della prima prova », e tutte l' altre regole nostre, che espressamente dichiarano tali cose? Avvertite che il sacrificio, che noi dobbiamo fare al Signore e che gli abbiamo fatto co' sacri voti, dee essere simile a quello di Gesù Cristo in sulla croce, nostro maestro ed esemplare. Ha forse detto Gesù Cristo al suo celeste Padre: io non voglio stare nella Giudea, perchè provo delle tristezze, o perchè mi espongo al pericolo della morte? Per lo contrario « obedivit usque ad mortem ». E notate che i Ss. Padri, tra i quali S. Basilio e S. Tommaso, dichiarano che l' ubbidienza religiosa obbliga sino alla stessa morte. E non vale mica il dire, io non intendevo di prendermi queste obbligazioni quando feci il voto; perocchè, questa sarebbe una maniera assai facile di sottrarsi da un' obbligazione così sacra; massime dopo essere precedute tutte le istruzioni sulle regole nostre, che dichiarano la forza de' voti. Ah non vogliate, mio caro, essere così illiberale col Signore, e far dei passi che al punto della morte vi potrebbero levare la tranquillità della coscienza! Egli è vero che potrete forse trovare dei consiglieri ed anco de' teologi che favoriscono le vostre imperfezioni e passioni; ma poco giovano certi consigli, fondati sopra sottigliezze, dinanzi al tribunale di Dio. Permettetemi che vi parli con libertà. Voi non sarete mai quieto fino a tanto che il sacrificio che fate di voi stesso a Dio non sia intero e perfetto ; e non sarà mai intero e perfetto se non la rompete generosamente con tutti gli attacchi a voi stesso e alle cose di questo mondo, e non vi stringete a Dio solo. « Deus meus et omnia », dee essere la vostra divisa, e la divisa di tutti noi. Quando voi vi mettete nelle mani di Dio (e nelle sue mani vi siete messo coi sacri voti e colla professione del nostro Istituto), allora dovete stare costante e quieto in quelle mani, vivo e morto . Iddio non abbandona certamente chi si fida intieramente a lui, e da lui riceve per mezzo de' propri Superiori il bene ed il male. Questo abbandono nella divina Provvidenza è essenziale al nostro Istituto, e non si dà vero sacrificio, non si dà vera imitazione di Gesù Cristo, senza di questo. Chi ragiona diversamente, ragiona umanamente, e però s' inganna. Se Iddio vedrà che al maggior bene, non del vostro corpo, ma dell' anima vostra, giovi che meniate una vita mista, egli farà nascere tali circostanze, che condurrete una vita mista. Se Iddio vedrà il contrario, egli permetterà il contrario; permetterà che siate anco attaccato da' nervi, perchè finalmente « virtus in infirmitate perficitur »; e voi, se rimarrete costante nella vostra vocazione e nelle prove che vi darà il Signore (le quali non sono mai superiori alle forze, purchè si preghi), diverrete giusto e caro agli occhi di Dio, giacchè « vir obediens narrabit victorias ». La necessità dunque della vita mista il Signore la vede, e se ella è reale per l' anima, e non per il corpo, vi provvede sicuramente a favore di un servo che gli è fedele; ma non di un servo che gli è infedele. Avvi anche pericolo che in queste cose giochi in gran parte la fantasia, la quale spesso c' inganna, e a cui convien resistere valorosamente, opponendole lo scudo della fede. Ma la fantasia non opererebbe, se in noi non ci fosse l' attacco a noi stessi, ai paesi da cui noi proveniamo, ai conoscenti, al proprio benessere, e alle sostanze temporali. Rompiamo dunque con forza tutti questi attacchi, e la fantasia cesserà di operare. Potremo allora cantare: « Laqueus contritus est et nos liberati sumus ». Il demonio c' inganna coll' attrattiva di una vita apostolica; ma la vita apostolica può ella essere priva delle più solide virtù? Si dà egli vita apostolica senza ubbidienza e senza povertà? Gli apostoli erano mandati : ma come può esercitare l' apostolato un religioso che non riceve la missione de' suoi Superiori, e che dice: io voglio fare l' apostolo per impedire l' attacco de' miei nervi? come può esercitare l' apostolato chi non vuole lasciare le sue reti e la sua barca? S. Paolo tremava, non forse predicando agli altri si facesse reprobo egli stesso; il che dimostra che le fatiche apostoliche non si debbono assumere nè per inclinazione, nè per gusto o consolazioni che vi si trovino; ma perchè Iddio vuole, perchè Iddio manda. Se dunque i vostri Superiori vi mandano, fate bene ad ascoltarli, e ad andare, perchè « qui vos audit, me audit »: ma se volete andare da voi stesso, o cercate che altri vi mandino, dovrete renderne conto a Dio, e il giudizio che vi si farà dei falli che voi commetterete nell' apostolato sarà inesorabile: « ego non mittebam eos, et ipsi currebant ». Ah! temiamo pure nell' accingerci alla grand' opera di ammaestrare gli altri, come temeva e tremava s. Agostino e tutti i Santi; e desideriamo piuttosto di prepararci all' apostolato, che non sia di esercitare l' apostolato stesso; desideriamo piuttosto di convertire noi stessi, e così di prepararci a convertire gli altri, quando e come il Signore lo vorrà. Se avremo vinto noi stessi, debellate le tentazioni, sacrificati i nostri gusti, resi noi stessi perfetti nell' ubbidienza e nell' annegazione; allora saremo divenuti istrumenti idonei nelle mani di Dio, e potremo sperare che egli forse si serva di noi a fare qualche bene. Ma fino che siamo così imperfetti, pieni di volontà propria, di giudizi proprii, così mal mortificati, abbiamo troppa ragione di temere di noi stessi. Quegli solo sarà un vero apostolo, che a imitazione di Gesù Cristo sa aspettare la missione celeste per 30 anni nell' oscurità della vita occulta. Ecco la virtù che non falla, perchè non lusinga l' amor proprio: la virtù che noi sacerdoti dell' Istituto della Carità ci siamo proposto di esercitare. Coraggio adunque, mio caro fratello nel Signore! Vada tutto, vada la vita, vada la roba, vadano i gusti e tutti i nostri giudizi particolari; ma non vada la virtù vera, evangelica e veramente apostolica che forma l' essenza della nostra professione. Abbandoniamo ogni altro nostro pensiero e desiderio fuor di quello di divenire veri membri dell' Istituto della Carità . Quest' unico pensiero vi occupi più che non ha fatto per lo passato. Il membro dell' Istituto della Carità è contento in ogni luogo, in ogni grado, in ogni ufficio, perchè cerca Iddio solo. Egli si stacca da tutto. La nostra povertà deve essere piena, assoluta, simile a quella di Gesù Cristo sulla croce. Io non potrei mai permettere che nessuno dei nostri compagni amministrasse i suoi beni proprii, o che menomamente ne disponesse o che impedisse all' Istituto il disporne, giacchè peccherei io stesso mortalmente contro il voto e farei peccare i miei compagni condiscendendo alla loro imperfezione. E perciò vi prego e vi scongiuro, mio carissimo fratello in Cristo; e non bastando ciò, vi comando altresì in virtù di santa ubbidienza (notate bene) di consegnare fedelmente tutto ciò che avete in beni mobili e stabili a questo mondo nelle mani del vostro Superiore, in maniera che non vi resti più nè bene alcuno, nè disposizione, nè amministrazione di sorta alcuna; acciocchè siate sciolto intieramente da tali imbarazzi, e possiate servire il Signore in una vera e intera povertà, e si compia in voi la volontà divina. Spogliato interamente dei beni temporali, la virtù della grazia di Dio si aumenterà in voi; e così reso più forte, e da Dio illustrata la mente, non finirete di benedire il suo Nome per la grazia grande che vi ha fatto. Intanto vi raccomanderò indegnamente al Signore, e spero che nella prossima vostra lettera mi restituerete quella consolazione che mi ha fatto perdere la precedente, per la giusta sollecitudine che ho dell' anima vostra. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Non dubito che la bontà e misericordia del Signor nostro non voglia da voi una sempre maggior perfezione. Quel tenerissimo nostro amico e Sposo picchia incessantemente alla porta del nostro cuore; vi entra se noi gli apriamo, e vi entra per renderlo più bello e per fugarne tutte le tenebre. Oh! ma quanta è mai la nostra miseria! Impastati di fango vilissimo, e peggio ancora, di vilissima carne, non siamo buoni da altro che da oppilare gli spiragli della luce celeste, che da turare gli occhi dell' anima nostra, fatti pure per ricevere quella luce e vivificarsene, e ostruire gli orecchi acciocchè non sentano le divine parole! Quand' io considero da una parte l' insistenza di Dio per fare del bene a me, sua povera creatura, e dall' altra non dico la mancanza della corrispondenza da parte mia, ma gli ostacoli ch' io oppongo al mio infinito benefattore e la guerra che gli faccio, inorridisco; e se egli stesso non mi aiutasse ancora, chi mi terrebbe dal non avvilirmi e disperarmi? Coll' esperienza mia propria adunque misuro benissimo e comprendo come simiglianti sentimenti ed anche agitazioni e desolazioni possano entrare nell' anime altrui, possano entrare anco nella vostra. Ma che perciò? non ci sarà per noi, mio carissimo, anche una larga vena di consolazione? Ah sì, ed infinita! Io la trovo sempre in quelle parole: « Surgam et ibo ad patrem meum ». Oh dolce nome di Padre! Quanti mercenari « in domo patris mei abundant panibus; ego autem hic fame pereo! » Alla nostra casa adunque, alla casa del nostro Padre! e vi troveremo ogni cosa che ci bisogna: gli amplessi paterni ci aspettano. E` vero che se noi dovessimo sperare in noi stessi, la sarebbe finita; ma noi possiamo contare talmente sulla tenerezza del nostro Padre Iddio, che da lui stesso possiamo aspettare fin anco che ci muti il cuore, fin anco che produca egli in noi la corrispondenza nostra alla grazia sua, fin anco che ci comunichi egli stesso il coraggio e la fortezza che ci manca per fare quelle risoluzioni generose e grandi di cui abbisogniamo. Non n' abbiamo noi il desiderio? E bene, questo desiderio benchè sterile è la caparra che ci dà Iddio di voler fare con noi de' prodigi di misericordia; perocchè lo stesso desiderio del bene è suo dono. Dietro a questo desiderio mandiamo a Dio delle voci, delle suppliche, de' gemiti almeno; se non possiamo pregar molto, preghiamo poco, ma con frequenza ed ardore; preghiamo che ci accresca il dono di pregare: egli ci esaudirà, e dietro la preghiera verranno a noi tutte l' altre grazie che ci bisognano, e più ancora. Non meritando che di essere mercenari nella casa paterna, ci troveremo senza saper come ridivenuti figliuoli, e della bella stola vestiti e dell' anello prezioso fregiati. Oh insomma non può nulla mancare a chi desidera, a chi spera, a chi fa quello che può, ed aspetta dal suo ottimo Creatore e Padre quello che non può! Coraggio adunque, fiducia illimitata, tranquillità nello stesso dolore, nella stessa umiliazione! Mio caro, quanto bramerei di potervi recare qualche sollievo nella vostra afflizione, se io sapessi il modo! Chi sa, che forse non vi gioverebbe l' assentarvi per qualche tempo da Roma, e dalle vostre ordinarie occupazioni! Nel caso che ciò trovaste potervi giovare, venite da me, staremo insieme: o se le mie occupazioni non mi lasceranno molto tempo libero, voi avrete la compagnia di alcuno de' miei compagni. Il riposo, la novità della vita e degli oggetti che vi circonderebbero, potrebbero ristorarvi. Non vi prometto però delizie, ma povera vita. Se non poteste fare il viaggio per la spesa, ciò non vi trattenga; pagherò io per voi. In somma disponete di me, come si fa de' veri amici. Farò pregare, pregherò; voi pure pregate. Il nostro caro Signore e la dolce nostra Madre, stiamone certi, ci esaudiranno: ci faranno suoi , che è quello solo che noi vogliamo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Ho aggradito la vostra lettera colla quale mi date notizia di voi stessa. Il consiglio principale che vi do si è, che vi mettiate sempre avanti gli occhi la vita di Gesù Cristo vostro sposo per imitarla, e i suoi celesti insegnamenti; fra gli altri quei due tanto da lui raccomandati dell' abbandono di sè nella Provvidenza , e della carità del prossimo . Egli ha detto che gli uomini conosceranno quali sieno i suoi discepoli, dalla carità che eserciteranno fra di loro. Questa è la vera perfezione, la più alta perfezione religiosa che si possa concepire: e questa è quella a cui siete chiamata nell' Istituto della Provvidenza. Badate di acquistare idee diritte, e di non credere che la perfezione religiosa consista nella clausura, in certa regolarità di preghiere, e in cose somiglianti. No, mia figlia, non consiste in queste cose la vera perfezione, sebbene tali cose possono esser buone ed aiutare a conseguire la perfezione, se Iddio ce le concede. Eleggete dunque per vostro maestro nella via della perfezione il solo Gesù Cristo: vedete che egli nè i suoi apostoli, esempi della più alta perfezione, non vissero chiusi e addetti a certo fisso regolamento; ma andarono dovunque li chiamava la Provvidenza divina e la carità del prossimo . Iddio vi aiuterà da per tutto dove andrete per amor suo, e per far bene alle anime da lui redente. Ciò che ora dovete fare si è d' impegnarvi grandemente a divenir perfetta nello stato in cui vi trovate e in cui certamente vi ha posta il Signore, cacciando ogni altro pensiero, che non farebbe che nuocere al vostro profitto, e innamorandovi del vostro Istituto, tutto sacrificato alla Provvidenza ed alla carità. Le tentazioni vi saranno, e verranno anche più forti; ma non temete. Iddio sarà con voi, se da parte vostra non vi lasciate distrarre con pensieri alieni, coi quali il demonio suole disturbare le anime coll' apparenza del meglio. Fate per me una santa comunione, e ogni qualvolta abbiate bisogno di consiglio, scrivetemi pure liberamente. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Niente ritrovo in quanto Ella mi espone che mi faccia menomamente dubitare che l' ecclesiastico, che dirige l' anima sua, non sia degno della piena sua confidenza; e però sono intimamente persuaso che la più compita ubbidienza al medesimo sia la strada più sicura per Lei di piacere a Dio, come desidera, e di far progresso nelle virtù. La voce del suo Direttore deve essere per Lei la voce di Dio stesso, e perciò se il Direttore Le concede licenza di accostarsi all' altare per ricevere la SS. Comunione tre o più volte la settimana, e in quei giorni ch' Ella desidera, questo è anco il voler di Dio; ed Ella non ha da far altro che di riempirsi di riconoscenza verso la bontà del suo Creatore, che con tanta generosità d' amore la chiama a sè mediante la voce del suo ministro e La ammette al suo divino banchetto; non ha da far altro che di confondersi nel suo niente, nella sua indegnità, accostandosi in pari tempo alla sacra mensa confidente, lieta, umile, magnificando il Signore coi sensi di Maria Santissima, perchè egli si degnò di riguardare alla bassezza della sua serva. Non si tratta qui della questione se siamo degni o no di un tal favore; trattasi di sapere se Iddio ce lo vuol fare o no un favore sì segnalato, sebbene noi siamo e ce ne riconosciamo pienamente fuor di questione indegnissimi; trattasi di sapere se noi ci possiamo credere di quegli avventurati zoppi e storpi e guerci dell' Evangelio, che pur furono, nonchè invitati, quasi cacciati dentro a forza nella sala delle nozze di quel gran signore. E come possiamo noi saperlo? Ce lo fa sapere la voce di Dio che noi udiamo dalla bocca del suo Ministro che ha cura dell' anima nostra: entriamo dunque con fiducia e col cuore esultante, perchè il Signore che abbiamo offeso si degna di sopraffarci in tal modo e vincerci in bontà: pensiamo che egli è infinito, e non ce ne faremo più meraviglia. Ma io sono stata una gran peccatrice, Ella mi dice, e dov' è la penitenza? Il desiderio di soddisfare alla divina giustizia colle opere penitenziali è cosa giusta e santa, e certo un tal desiderio non si dee reprimere quando Iddio lo fa nascere nell' anima nostra: tuttavia questo desiderio, come tutti gli altri buoni desiderii, dee sottomettersi alla più grande delle virtù, all' ubbidienza, e da questa esser interamente diretto. Se il suo Direttore non crede di permetterle alcune mortificazioni e penitenze esteriori, ch' Ella stimerebbe troppo giuste e desidererebbe grandemente di fare; Ella riconosca anche in ciò l' amabile volontà di Dio, riconosca che Iddio stesso La dispensa per ora da tali penitenze, che si contenta del suo desiderio, e sopra tutto poi della ubbidienza ch' Ella esercita, non facendole. Egli è tanto grande il merito che ha presso Dio l' ubbidienza, che nella Scrittura stessa vien detto che questa piace più a lui delle vittime. Nell' ubbidienza adunque stanno per Lei racchiuse le penitenze, di cui si sente verso Dio debitrice. Ella le fa tutte ubbidendo. Ma questa stessa dichiarazione, che Le fa Dio, dee di nuovo confonderla ed umiliarla, essendo un nuovo tratto della benignità di Dio verso di Lei, non dee diminuir punto nel suo cuore il sentimento di tutto ciò che deve a Dio in conseguenza delle sue colpe; dee considerarsi come doppiamente debitrice e per le soddisfazioni delle quali Iddio La dispensa, e per la grazia della quale Iddio La ricolma. L' essere dispensata in tal modo da certe penitenze dee oltracciò impegnarla ad accendersi di maggior tenerezza verso il nostro Signor Gesù Cristo, riflettendo ch' Egli La dispensa così dal patire per aver patito Egli a sua vece; giacchè se Gesù Cristo non avesse sborsato per noi peccatori il prezzo del suo sangue, noi non potevamo essere dispensati dal dovuto pagamento. Ecco la ragione per la quale il suo Direttore, qual organo di Dio stesso, Le può impedire alcune penitenze senza scapito della soddisfazione dovuta: la penitenza fatta da Cristo per noi n' è la gran ragione: sopra questa ci possiamo riposare. Come Ella vede, io parlo di alcune penitenze, delle arbitrarie ch' Ella stessa s' imporrebbe: non resterà perciò priva di penitenze e ben meritorie. Molte ne farà ricevendo con gran pace e contento tutte quelle che impone Iddio alle anime mediante i varii accidenti della vita, praticando quelle che riguardano la mortificazione interiore, quelle che s' incontrano nello studio stesso di piacere a Dio solo, nella meditazione delle cose eterne, nell' orazione, nel combattimento contro tutti i propri nemici spirituali non meno piccoli che grandi. Ella dice che non fa profitto nella emendazione de' suoi difetti: questa è una nuova penitenza, il sopportare se stessa. Ne vuole ancora di più? Eccogliene. Faccia per quanto può una vita di carità; faccia il maggior bene ch' Ella possa a' suoi prossimi, e quando non può farlo coll' opera, lo faccia loro col desiderio, colla compassione, coll' intercessione verso gli uomini, colla preghiera verso Dio. Oh quanto bene c' è da fare a questo mondo, mia pregiatissima signora, purchè si voglia! E non dubito ch' Ella lo faccia, che lo farà; e la carità sua riuscirà tanto più graziosa agli occhi di Dio, quanto più Ella procurerà di dirigerla non solo al ben dei corpi, ma ciò che più monta, alla salute eterna dell' anime de' suoi prossimi. Serva Ella dunque il Signore, che la favorì e La favorisce, con ampiezza di cuore senz' angustie, nè timori: dei difetti nè rimarranno, ma non se ne sgomenti: questi li permette il Signore per tenerci umili: approfittiamocene per questo appunto, staccandoci sempre più da noi stessi e dal mondo. Io sono stato più lungo in questa mia di quello che avrei voluto: se troppo, me ne scusi. Ma sopra tutto preghi il Signore anch' Ella (come io farò pure indegnamente per Lei) per i molti miei bisogni d' ogni specie. Mi son servito, com' Ella vede, della licenza ch' Ella mi diede di risponderle nella lingua italiana, e ne ho certo una buonissima ragione, il non saperne altra: il che però non vuol dire che io sappia questa in cui scrivo. [...OMISSIS...] 1.41 La sua cara lettera è un pegno di vera cristiana amicizia: uno di quei pegni che non si dimenticano più. Io ne La ringrazio con tutto il cuore. L' opuscolo di cui Ella mi parla, come messo in giro anche costì, ma da Lei non veduto, neppur io potei averlo ancor nelle mani. Ne seppi l' esistenza solo pochi giorni fa: una persona lo portò all' Em.mo Card. Tadini Arcivescovo di Genova, il quale lo mostrò ad un mio amico. Questi n' andò in traccia per Genova a fine di rinvenirlo: tutti i librai lo conoscevano, tutti ne parlavano, niuno seppe dirgli dove fosse, d' onde lo si potesse avere. Ho ragione di credere che una copia ne sia stata recata altresì all' Arciv. di Torino, e ad altri Prelati e Magistrati. Tosto che mi verrà fatto di procacciarmelo potrò dirle qualche cosa del contenuto. Le posso però parlare fin d' ora del più importante. Il più importante è la mia fede, che, come sento si attacca. Io non pretendo già di essere infallibile; ma guai se la fede cristiana dovesse riposare sull' infallibilità dell' uomo! essa riposa tutta sull' autorità di Dio rivelante, il quale ci fa conoscere la verità col mezzo della S. Chiesa. Su quest' autorità la mia fede, come quella di ogni altro semplice fedele, è basata: ella è dunque indipendente tutta dal ragionamento, ed io non ho mai fatto dei miei ragionamenti (Dio me ne guardi!) il sostegno e l' appoggio della mia credenza, gli ho considerati sempre come cosa affatto da questa diversa. Quindi, come ho sempre tenuto per falso quel ragionamento che fosse anco menomamente opposto all' autorità della Chiesa; così, qualora mi fosse avvenuto di fare un ragionamento, che senz' accorgermene riuscisse opposto a quanto avesse deciso quest' infallibile autorità, ciò proverebbe bensì in me dell' ignoranza e della fallacità di giudizio, ma non per questo la mia fede ne soffrirebbe. Ora io non sono già nato per esser dotto o per acquistarmene la gloria presso gli uomini, nè mai a questa fama ho rivolte le povere mie fatiche; ma sono nato bensì per esser credente e fatto degno delle promesse di Cristo, qual figliuolo devoto della sua Chiesa. Da questo Ella conoscerà, che io non posso valutar molto quella qualsiasi riputazione di letterato che Ella mi dice avermi per l' addietro acquistata, e che l' esser io convinto d' ignoranza, non è quel che mi pesa. Il mio tesoro è la santa fede, e qui è anco il mio cuore. Laonde se avvenisse, poniamo il caso, che la S. Sede Apostolica mia maestra, e maestra di tutto il mondo, trovasse di che riprendere nelle cose mie, non sarebbemi certo difficile il fare qualsivoglia pubblica dichiarazione, che rendesse la mia intemerata credenza più luminosa; giacchè tutto ciò che io avessi detto contro questa credenza, l' avrei detto certamente contro il mio proprio sentimento, e ritrattandomi non farei che esprimere quel pensiero immutabile, che m' ebbi sempre permanente nel cuore, e solo correggerne l' espressione esterna, che mancherebbe a rendere con esattezza quell' intimo pensiero, voglio dire, la mia piena fede. Che anzi Le dirò di più; a chi mi ebbe mostrato qualche mio sbaglio io professai sempre gratitudine, come voleva il dovere, nè alcuna difficoltà sentii mai a correggerlo per amore di quella verità che sola voglio ed amo in tutte le cose mie; e se questo feci e fo nelle cose più indifferenti, come nol farei io in un punto sì capitale come è quello della mia religione, dove, oltre l' offendere la verità e nuocere all' anima mia, mi esporrei al pericolo di rendermi maestro di errore al mio prossimo? Che cosa ho io voluto mai altro nei poveri miei scritti, che giovare alle anime? Ed ora le pervertirò io stesso? e ad occhi aperti? Iddio nol permetterà mai; io n' ho tutta e in lui solo la fiducia, in lui che m' infuse la fede bambino, e mi diede una illimitata devozione alle decisioni della S. Sede Apostolica, in lui che spande nel mio cuore la gioia quando posso fare un atto di fede, e che mi farebbe desiderar quasi d' esser caduto in un involontario errore, purchè senz' altrui danno, per potergliene rendere una confessione più alta e solenne. - Ma questo involontario errore ci sarà egli dunque nelle vostre opere? Ella mi domanda. Le risponderò con S. Paolo: « nihil mihi conscius sum, sed non in hoc iustificatus sum ». Mi parla nella sua lettera di errori di Baio, di Quesnello, di Giansenio, di Calvino, di Lutero: il solo sentir questi nomi, mette, a dir vero, raccapriccio. Le detestabili dottrine di questi eresiarchi, eretici, o fautori d' eresia sono state condannate giustissimamente dalla Chiesa: io le ho sempre condannate e detestate insieme con essa; e com' è egli dunque possibile che io segua costoro? e voglia esser anch' io un tralcio reciso dalla vite, buono da gittarsi solo sul fuoco? Dio mio! l' udir questo è certo una grande umiliazione. Le Bolle de' Sommi Pontefici che condannarono il giansenismo in tutte le sue diverse gradazioni, sono certamente sotto i miei occhi; e pure io non veggo che un solo dei sentimenti espressi nelle mie opere, e nominatamente nel « Trattato della Coscienza », che come credo, si prende specialmente di mira, s' approssimi ai sentimenti condannati di que' novatori. Che anzi più volte, io citai le proposizioni condannate in essi, a fin di mostrare qual sia la strada perversa in cui quelli eransi incamminati, e qual sia per ciò la contraria che noi dobbiamo percorrere; più volte mi son dichiarato in modo da non lasciare intorno a ciò il minimo dubbio. Che dunque si pretende con tali accuse? qual progetto si cova nascosto? vuol Ella che Le dica in fine di più ancora? vuol Ella che le apra tutta l' intima mia persuasione? vuol che Le faccia conoscere quanto la mente mia chiaramente prevede dover avvenir da quest' aggressione alle spalle, che or mi si fa? M' ascolti benignamente, e non attribuisca a presunzione alcuna quanto la chiara consapevolezza e il testimonio interiore dell' animo mio depone in me stesso, ed a Lei ingenuamente confido. L' autore dell' opuscolo, che secretamente si sparge, sarà stato mosso da buon zelo per la purità della fede; egli è probabile assai, che siasi grandemente riscaldata la testa, e che mal pratico delle dottrine filosofiche e dello stile rigoroso, che io stimai bene d' adoperare nel « Trattato della Coscienza » come nelle altre mie opere per ridurre le questioni complicate ai loro semplici principŒ, abbia preso, come si suol dire, delle cantonate. Egli è facile, appigliandosi a qualche frase staccata, a qualche periodo mal inteso, farne uscire un senso a rovescio; come è facile comporre un centone di passi che dicano tutt' insieme precisamente l' opposto di ciò che volle dire l' autore; ed ognuno sa che collo stile stesso e colle frasi del Vangelo si può benissimo scriver la vita di Cagliostro. Ma che perciò? Certo che dee nascere necessariamente da una tal frode qualche sussurro per ogni canto, massime che vi sono anche assai di quelli a cui buccinano da sè gli orecchi. Questo dee portare di conseguente una costernazione nei buoni, un gaudio nei tristi, un cotal sospetto nella moltitudine che non può giudicare del merito dei partiti ardenti, uno scatenarsi delle passioni; ciò appunto che voleva « inimicus homo, qui superseminavit zizaniam ». Io ne addoloro pel ben comune: per veder quelli che doveano esser meco uniti, così dividersi. Ma in fine, non vive egli Iddio? non regna egli Cristo? non vede egli i cuori? non conosce egli i suoi servi? non dispone egli forse tutto per la sua gloria e pel bene della sua Chiesa? che c' è a temere? gli darò io cagione di dirmi: « modicae fidei, quare dubitasti? » No certo, colla sua grazia. E in terra non ha egli il suo Vicario? il Papa non è egli ispirato e condotto dallo Spirito Santo? i giudizi della S. Sede hanno forse niente di comune coi giudizi precipitosi e riscaldati di alcuni uomini forse zelanti, ma non sempre secundum scientiam? Ecco dunque ciò che avverrà. La S. Sede tutto esaminerà colla sua solita posatezza, imparzialità, prudenza e sapienza divina: ella andrà al fondo della cosa, e giudicherà con piena cognizion di causa. Il suo giudizio è stato sempre la mia regola, sarà tale ancora. Io amerò egualmente una regola sì cara, sì dolce, sì certa, sì sicura qualunque ella sia, qualunque cosa Ella prescriva. Ma che cosa in fine prescriverà? Eccole la persuasione mia fermissima. Non solo giudicherà pure e sane le mie dottrine, e il suo autorevole giudizio le renderà più utili ai miei prossimi pei quali io le scrissi, credendo di scrivere quello che il lume del Signore mi suggeriva; ma di più la S. Sede riconoscerà in esse degli argomenti validissimi, coi quali sterpare fino le radici degli errori di Giansenio, Baio, Quesnello ed altri sopra nominati, e in questa vista veramente furono da me scritte. Ma Ella ritenga sempre, che questa mia persuasione dettatami dalla coscienza insieme e dalla cognizione non leggera delle materie nei miei scritti trattate, non ha ancora da far niente colla mia fede: la quale è semplice e in altro non fondasi affatto che in Dio e nella santa sua Chiesa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Mi consola assai il sentire che Ella è risoluta di amare a qualunque sia prezzo la verità e di non tradirla giammai. Io sono persuaso che questa sia la più bella disposizione che Ella possa avere per ottenere da Dio i lumi e la fortezza di cui Ella abbisogna nelle circostanze in cui Ella si trova, e che nella sua lettera mi descrive. Non è certamente bisogno, che io osservi che i doveri nostri verso la verità sono molti, giacchè noi dobbiamo non solo amarne quella bellezza che dimostra al nostro intelletto ( « agnoscere veritatem »), ma ben anco realizzarne colla condotta nostra quella bontà che propone alla nostra volontà ( « facere veritatem »). Questo secondo dovere è più difficile assai del primo, ed è quello ad eseguire il quale specialmente noi abbiamo bisogno del divino aiuto, e, per averlo, di domandarlo incessantemente. [...OMISSIS...] come dice S. Giacomo. Perciò io credo che Ella si troverà ben contenta se in tutti i suoi viaggi, tenendo presente Iddio, lo invocherà senza posa, praticando i doveri imposti dalla santa Chiesa Cattolica, e facendo uso, con viva fede e nihil haesitans , de' Sacramenti della medesima. Le sarà altresì di grandissimo aiuto e difesa contro ai pericoli l' abituarsi a non pregiare le cose e le cognizioni stesse, se non in ordine alla verità ed alla giustizia, e perciò a Dio ed alla santa Chiesa Cattolica, a cui ha la grazia di appartenere. Con questa retta intenzione viaggiando, Ella non si contenterà meramente di acquistare cognizioni, ma di mano in mano rifletterà all' uso che potrà fare delle cognizioni che Le verranno acquistate, e stimerà più quelle che più Le possono servire un giorno a far valere la causa della religione, della giustizia e dell' umanità. Questo stesso riflesso gioverà assai a farle considerare come mere vanità molte cose di questo mondo, intorno alle quali gli uomini impazziscono; e La difenderà da molti pregiudizi ed opinioni false, di cui sogliono essere imbevute le società particolari, e i particolari. [...OMISSIS...] 1.41 La vostra cara lettera di ier l' altro mi è un nuovo caro pegno di quella vera cristiana amicizia che mi professate. Vi assicuro per altro, che nella « Risposta al finto Eusebio Cristiano » ho temperate secondo il vostro consiglio alcune espressioni che riescivano un po' pungenti; sebbene sento ora che vi sembra ancor troppo acerba. E tale sarebbe anche agli occhi miei, se io avessi così scritto, perchè il mio avversario fu il primo ad offendermi e ferirmi nella parte più delicata, qual' è l' integrità della fede , come vi credete che io abbia fatto. Ma io protesto che questa è per me una ragione che non val nulla; giacchè, per grazia di Dio, non mi curo nulla delle ingiurie personali, nè me ne sono mai curato. Laonde se non avessi temute le conseguenze funeste per le opere della gloria di Dio e per la dottrina vera del nostro Signore, state pur certo che non avrei risposto nè pure una parola ad Eusebio. No, ve lo ripeto, per ispirito di vendetta, grazie a Dio, non iscrivo, nè ho mai scritto. Perchè scrivo io dunque? Scrivo pel bene pubblico; e dal momento che io stimo che questo sia il mio dovere, reputo di scrivere in quel modo, nel quale si possa ottenere più facilmente, più speditamente e pienamente questo bene che ho in vista. Per ottenere questo bene non si deve mentire, che Iddio me ne guardi! ma della verità si deve dire quella parte che sembra necessaria ad ottenerlo in maggior abbondanza. Talora questa verità è una pillola amara, ma anco i rimedi che danno i medici sono amari; e se v' ha un modo di fare del bene al mio avversario, io credo che sia questo da me adoperato, e di cui nostro Signore e tutti i Santi ci hanno dato l' esempio. Fino che considererete la causa, di cui si tratta, come mia personale, mi condannerete, può essere, come mancante di mansuetudine; ma quando considererete la causa come di Dio, allora vedrete che talora è mansuetudine e vera carità anche il parlar forte, e che il nostro divino Maestro non era meno mansueto nè men umile allorquando diceva volpe ad Erode, o ipocrita e cieco al fariseo, di quel che sia quando pregava pei suoi crocifissori. Il bene che si deve avere per fine è sempre un solo, e questo è la carità anche verso gli avversari, anche verso i nemici; ma i mezzi di esercitare la carità sono molti, talora vi ha anche quello di dire cieco al cieco, e di dir volpe a chi è volpe; come è pur troppo il caso mio, per quanto mi pare. Io non ho avuto in vista altro che di scuotere gli avversari, perchè intendano che sono deliberato di resistere fortemente, e di discoprire tutte le loro trame che vanno ancor tessendo continuamente contro l' Istituto, e che io debbo dalle loro tenebre tirare in manifesta luce. Credo che io sono nelle presenti circostanze obbligato a fare fronte, anche pel loro stesso bene. So che non farò nulla, e che le persecuzioni subdole e artificiose non cesseranno: ma si persuaderanno almeno che troveranno ostacolo a farle riuscire. Siamo d' accordo in dover fare tutto ciò che è più conforme allo spirito del divin nostro Maestro: e chi può dubitarne? Tutto il resto è inganno e pazzia. Ma io non ho inteso di dipartirmene, e vorrei morire più tosto che farlo scientemente. Continuate a pregare il Signore, perchè m' illumini se sono in errore, e non permetta giammai che altro spirito mi diriga fuor che il suo, che solo desidero ed amo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Ier sera prima di notte siamo giunti felicemente in questo seminario, dove questi ottimi sacerdoti ci accolsero colla loro solita cordialità. Non è però solo il darvi notizia del nostro viaggio lo scopo di questa mia, ma ancora il fare qualche risposta alla carissima vostra del 1 corrente: giacchè non ve n' ho potuto parlare nel mio passaggio da Milano con quella comodità che sarebbe stata necessaria, e se nulla affatto vi replicassi, sembrerebbe che io non avessi aggradita l' amorevole vostra ammonizione, o non ne facessi quel conto, che pure ne fo. Vi parlerò dunque con tutta candidezza, come sono solito e come voi volete certamente che io faccia. E in primo luogo vi dirò, che il sentimento vostro esposto con tanta sicurezza, m' incute timore, e comincio a dubitare non forse io abbia ecceduto nell' uso di espressioni biasimanti ed umilianti col mio avversario; spero che il vostro avviso mi sarà utile per l' avvenire, se non mi può più essere utile nella causa presente. Sia pur dunque vero, che io abbia errato, e voi condannatemi pure; ch' è io non intendo difendermi, sapendo troppo bene di essere capace di qualsiasi male, se Iddio non mi sostiene. Ma io crederei di ostentare una falsa umiltà e di mancare alla veracità e insieme all' amicizia, se ingenuamente non aggiungessi, che le ragioni, che voi adducete nella cara vostra, non sono punto solide, come vi sembra; e ne converrete anche voi, se vi farete sopra le seguenti riflessioni. Voi dite che non potete concepire come le ingiurie scagliate contro il prossimo possano servire di gloria a Dio; e dite certamente benissimo. Nè pur io posso concepire una tal cosa; perchè le ingiurie sono peccati, e i peccati si oppongono direttamente alla gloria di Dio. Ma le parole biasimanti e umilianti, sono esse sempre ingiurie? No certamente. Ingiuria vuol dire ingiustizia, e perciò le parole e gli appellativi di biasimo non sono ingiurie, se esprimono il vero; non è ingiuria, per esempio, il dire ladro al ladro , e perciò Gesù Cristo non ha detto un' ingiuria, quando ha chiamati ladri i venditori nel tempio. Voi dite poscia, che il nostro divin Maestro poteva usare degli epiteti umilianti come ne usò, perchè era Dio, a cui solo conviene il mihi vindictam , e nol possiamo mai noi, perchè siamo uomini che non veggiamo l' interno dei cuori. Ma se attentamente considererete la cosa, vi accorgerete che non si può dire che nostro Signore nella sua prima venuta abbia mai operato per vendetta , la quale fu intieramente da lui riserbata per la seconda sua venuta. Egli ha adoperato sempre per carità e per dare a noi esempio di essa, e non ha mai offesa la mansuetudine, nè pure quando disse stolti, tardi di cuore, ciechi, ladri, volpe , e a tutta la generazione degli ebrei nequam , e a Pietro satanasso , e tali altri epiteti: i quali tutti sono stati detti senza ingiuria alcuna, senza vendetta, e senza abbandonare la sua divina mansuetudine, e per insegnarci che talora conviene essere acerbi nelle parole e duri per carità ; il che ha luogo quando si crede che questo sia il mezzo di essere utili al prossimo, pel quale si parla. Ma per esercitare questo atto di carità, bisogna certamente essere spogli di passione umana e d' illusione; perocchè le parole forti, biasimanti ed umilianti stanno benissimo colla carità e colla mansuetudine: ma non così la passione umana e l' illusione che questa produce. Voi poi recate l' esempio di san Paolo che maladetto benediceva. E qual dubbio che questo sia dovere dell' uomo di Dio e del discepolo del Signore? Ma non si può egli benedire chi maledice, e nello stesso tempo parlargli forte e con epiteti umilianti? La civiltà non istà nella materialità esterna delle parole, ma nello spirito con cui sono proferite. Sono certo che voi ben vi ricorderete che san Paolo ebbe più volte l' occasione d' imitare Gesù Cristo anche nel dire parole acerbe contro i suoi avversari, o, per dir meglio, contro gli avversari della gloria di Dio. Al mago Elima sapete che disse niente meno che, « o plene omni dolo et omni fallacia »; e non contento di questo lo chiamò figliuolo del diavolo (imitato poi da san Policarpo, che incontrando a Roma un eresiarca, lo onorò col titolo di « primogenitum diaboli »; e non contento ancora vi aggiunse « inimice omnis iustitiae »). Nè si può dire che san Paolo era peccabile, e che avrà peccato, perchè sarebbe un manifesto giudizio temerario, e smentito da Dio stesso, che confirmò la condotta di san Paolo in tale occasione con un miracolo «(Act. XIII). » Considerate ancor l' altro fatto di san Paolo narrato al cap. XXIII degli « Atti ». Avendo san Paolo detto ingenuamente d' essere proceduto con buona coscienza , Anania, giudicandolo temerariamente, gli fece dare uno schiaffo. Allora san Paolo non dubitò di chiamarlo muraglia imbiancata ; nè con questo si può dire, che si sia vendicato, o che abbia offesa la mansuetudine o peccato contro la carità; ma più tosto imitato il Signore in un atto di zelo e in dire una verità acerba, credendola opportuna all' effetto del bene. Egli è poi vero che sono più i tratti di dolcezza usati dai Santi, che di durezza; ma ciò non vuol dire altro se non che le occasioni in cui giova usare questi secondi sono più scarse, che le occasioni in cui giovi usare quei primi. E certo in tutte le cause personali che riguardano noi o le cose nostre, dee aver luogo la mansuetudine e la dolcezza; ma nella causa della giustizia, della virtù, della verità cattolica e del bene del prossimo, qualche volta può aver luogo la durezza; la quale non è una vera durezza, perchè non viene da un cuor duro, ma anzi da un cuor tenero e mansueto, checchè del resto ne giudichino gli uomini. I tratti adunque di apparente durezza che si scontrano nelle parole e negli scritti dei Santi, cominciando da san Giovambattista che chiamava gli Ebrei razza di vipere , non si possono così facilmente imputare all' essere stati essi peccabili; ma dobbiamo piuttosto attribuirli al loro zelo, e all' adempimento di quel precetto dello Spirito Santo: « responde stulto iuxta stultitiam suam, ne sibi sapiens videatur »; il qual precetto dee potersi qualche volta mettere in pratica, se pur noi non vogliamo dire, che lo Spirito Santo abbia parlato inutilmente. Tuttavia queste cose non mi giustificano, se ho ecceduto nel mio scritto; ed io vi ripeto che non voglio scusarmene; e che, se non provano le vostre ragioni, prova però a me moltissimo il sentimento, che in voi ha prodotto la lettura del mio opuscolo; sebbene potrebbe essere che questo sentimento nascesse in voi dal non conoscere a pieno lo stato delle cose e delle circostanze, e la natura del male, a cui si deve opporsi. Ad ogni modo, nel dubbio in cui mi avete messo, io approfitterò del vostro avviso in altre occasioni; e voi vogliatemi compatire, acciocchè giunga a quello che solo desidero, a conoscere senza inganno alcuno il nostro Signore e ad imitarlo con sincerità e pienezza. Pregate anche, acciocchè Iddio benedica questi santi esercizi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Statevi certo che io non ho rancore con nessuno, ma che credo fermamente che la Verità e la Religione nostra santissima sono una cosa sola; e che le frodi e gli artifizi, se si svelano, non è che un bene che si fa alla Religione. Il nostro Dio è Dio di verità, e il Maestro nostro è la verità in persona. Ma pur troppo al mondo si ama poco la verità, e perciò poco si ama Iddio; e si crede in quella vece di onorarlo, formando dei partiti, e mettendo le apparenze nel luogo della sostanza! No, no; se noi amiamo Dio, amiamolo semplicemente e senza umani partiti: il credere che questi sono utili alla Religione, è un deplorabile inganno che ha fatto molto male alla santa Chiesa. Io credo, che voi converrete meco; perchè son certo che siete di quegli adoratori che adorano Iddio in ispirito e verità. Abbracciovi nella vivissima speranza che riceverete nel loro vero senso anche queste mie schiette parole, e non vorrete interpretarle male. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Voi avete fatto un ragionamento assai storto, quando avete argomentato che il vice7rettore, che presentemente è superiore di cotesta casa, non avesse facoltà di mutare gli ordini del rettore assente. Tenendo egli il luogo di superiore nella casa, egli può cangiare a quel modo che Iddio gli ispira essere migliore; come un superiore può sempre cangiare i proprii ordini, tostochè lo crede necessario. E qualora anco fosse vero (il che non è) che il vice7rettore non potesse cangiare gli ordinamenti del rettore assente, sapevate voi forse se il cangiamento non fosse stato accordato prima col rettore stesso o con un superiore maggiore? E poi tocca forse al suddito di fare il processo a suoi proprii Superiori? Dov' è qui, mio caro Arnoldo, la vera ubbidienza, quell' altissima virtù che contiene la vera soprannaturale sapienza? Avreste forse fatto un somigliante temerario ragionamento, se il nuovo ordine dato dal nuovo superiore vi fosse andato pienamente a genio? Esaminatevi bene: e badate attentamente, se la mancanza di quell' aurea indifferenza e di quell' annegazione che debbono professare i discepoli di GESU` sia stata forse la cagione che vi ha inalberata la mente fino a giudicare della condotta di quello che dovete considerare come vostro giudice e come indicatore dolcissimo della volontà divina. Lo stesso vi debbo dire su tutto ciò che mi venite esponendo nella lettera vostra del risentimento che avete sofferto per non essere stato ascoltato, come voi volevate, e interrotto da cotesto vostro superiore. Non sapete voi adunque ancora, mio caro Arnoldo, a quale altezza di perfezione siate stato chiamato da Dio? Non sapete ancora quale sia la scuola del nostro Signor GESUÙ Cristo, in cui vi trovate? E non intendete voi il senso profondo di quelle parole, « qui vult venire post me, abneget semetipsum »? Ah! pregate, pregate il buon GESU` che vi dia l' interno conoscimento della sua profondissima dottrina, tutta d' annegazione, di umiltà e di preziosissimi patimenti: perocchè questa dottrina non la potrete certo intendere se leggeste migliaia di volumi, non apprendendosi essa che a' piedi del Crocifisso. Quello che mi fece meraviglia, leggendo le espressioni vivaci e i ragionamenti assai umani della vostra lettera, si è che non abbiate conosciuto ancora, che i Superiori sono obbligati di esercitare i soggetti nell' umiltà, nella mortificazione, nella pazienza e nell' annegazione di ogni proprio volere; e non siate giunto a capire qual tesoro infinito di vera sapienza si contenga in queste divine virtù. Qual dubbio, che se lo capiste, ne sareste innamorato, le cerchereste giorno e notte, accogliereste lietissimo le occasioni d' esercitarle, e lungi dal risentirvi, se un superiore carico d' affari non può udirvi così pacatamente come vorreste, anzi gli sareste gratissimo, lo ringraziereste, lo preghereste di non volervi risparmiare l' amor proprio, ma anzi in ogni modo di abbassarvi, e in esso mortificarvi! Oh felici contraddizioni e mortificazioni per un' anima che ama GESU` Cristo e sospira di rendersi a lui simile il più che mai possa! Oh felice voi, mio Arnoldo, se otterrete dal Signore la grazia di tali lumi! Credete voi, che un servo di Dio, un religioso a lui consacrato, il quale non sia capace di ricevere con pace e con allegrezza nè pure di essere interrotto nel suo parlare dal proprio superiore o di non essere ascoltato, potrà mai rendersi degno ministro delle opere divine? Che farete, se or siete tanto delicato, quando si trattasse di esporvi a tutti i sacrifici e gl' insulti presso le nazioni infedeli, se ci foste mandato ad annunziarvi il Vangelo? E forse che sognate di poter resistere ai gravi combattimenti lontani, quando non siete capace di tollerare una parola, un tratto ruvido al presente, e nè pure dai vostri stessi Superiori? Oh qual enorme presunzione, qual deplorabile cecità sarebbe questa! Per carità di voi stesso, riconoscete da questa infausta esperienza, come pur troppo dentro di voi stia ancor molto da riformare, stia ancor molto da deporre dell' uomo vecchio. Umiltà, umiltà: ecco la sapienza veramente sublime! abbassamento di sè: stima e rispetto a tutti: ubbidienza pronta, allegra, indifferente, universale: ecco lo studio principale che io aspetto da voi: ecco la vera scienza dell' Istituto a cui Iddio si è degnato di chiamarvi, Istituto che professa di non saper altro se non JESUM CHRISTUM , et HUNC CRUCIFIXUM . State certo che io non avrò altra allegrezza da voi che questa di vedervi simile a Cristo: ubbidiente « usque ad mortem, mortem autem crucis »: non esaminatore de' comandi de' Superiori, ma fedele esecutore, pronto ed allegro. Ad arrivare a questo, veggo io bene che vi bisogna altresì di mettere lo studio in secondo luogo nell' ordine de' vostri affetti: nel primo luogo dee stare quella virtù che abbraccia tutte le altre, e perciò tutto il bene morale, la perfetta e mortificata ubbidienza: questa dee avere il primo seggio nel vostro cuore, e dovete riputare di aver fatto un gran guadagno quando per essa avrete dovuto lasciar lo studio e ogni altra cosa. Ricordatevi del gran detto dell' illuminatissimo S. Francesco d' Assisi: « Tantum scimus, quantum operamur ». Non vi do penitenza, perchè le vostre lettere mi fanno temere che non siate compunto del fallo. [...OMISSIS...] 1.42 Sì, mio caro in Cristo figlio, accogliete il lume della grazia, il quale non parla al cuore dell' uomo che dell' inenarrabile bene che egli è l' umiliarsi incessantemente: nè l' umiliazione è vera se non si trasfonde nel fatto. In quale fatto? Nel fatto sublime della CIECA UBBIDIENZA. Questo non opera dentro di noi che la sola parola di vita di Cristo. Beati quelli a cui la parola: « qui vult venire post me, abneget semetipsum » ha penetrato le ossa e le midolla! Ecco quali ossa esulteranno: « exultabunt ossa humiliata . Io veggo dalla cara vostra, che mi ha rallegrato, come il Signore sta ad ostium et pulsat »: spero che gli abbiate aperto, che gli aprirete sempre. State certo, che se cercate la verità e la giustizia, come grandemente confido, voi troverete l' una e l' altra nell' umiliazione del vostro cuore; perocchè abitano qui, ed altrove non vi ha di esse che il simulacro. Nè solo per amore della verità e della giustizia usate di lasciar da parte i ragionamenti interni favorevoli alle inclinazioni naturali e opposti all' ubbidienza; ma di più all' ubbidienza di Dio e all' amore della penitenza e della mortificazione sacrificate tutte le ragioni e i diritti che vi paresse d' avere secondo natura, per purissimo amor di Dio e ardore di rassomigliare al vostro dolce Maestro e Salvatore. Gustai molto il sentire che mi promettete indifferenza a tutto, anco a non istudiare, se Iddio pe' Superiori così dispone di voi. La rettitudine e la perfezione vuole assolutamente che siate disposto a fare a Dio anche questo sacrificio. E tutto farete per la grazia che vi darà valore. Ma vi arricorda di rivolgere sempre le vostre orazioni a dimandare la giustizia e la grazia di vincere interamente voi stesso. Or poichè vi credo ben disposto, darovvi anco la penitenza da voi desiderata; e sarà che leggiate e meditiate altamente le prime quattro regole del capitolo X delle Comuni , che procuriate di gustarne la bellezza, di scrivervele nel cuore, di domandare a GESU` Cristo che egli stesso ve le scolpisca. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sento con mio sommo dispiacere che in cotesta Casa non ci sia quella perfettissima unione, che è il segnale dei veri discepoli di Gesù Cristo, e perciò dei veri membri dell' Istituto, che non si propone che il discepolato del Signor nostro. Nella vostra lettera vi accusate è vero di molti difetti in generale, e in ispecie interni , ma non ispecificate nessuno di questi; anzi mi assicurate di amare i vostri fratelli e di esser sollecito della loro e della vostra perfezione. Ma nello stesso tempo mi dite che A. vi fugge da un mese e mezzo, e dite che « se vi dicono i vostri difetti, è allorquando hanno qualche cosa contro di voi, e non altramente », mostrando così di giudicare delle loro intenzioni, quando l' umiltà è il precetto di nostro Signor Gesù Cristo, che dice: « nolite iudicare ». Ah, mio caro, pur troppo è da temere che nel vostro cuore non sia ancora entrata nè l' umiltà, nè l' annegazione, nè la carità del nostro Signor Gesù Cristo! Altro è credere di amare i propri fratelli, altro è amarli veramente. Chi non sa umiliarsi ed annegare sè stesso, non sa amare come vuole Gesù Cristo. Può ben avere un' amicizia, come detta il mondo; ma non avrà mai la carità di Gesù. La prima è capricciosa ed instabile; ma questa seconda è immutabile e sempre uguale, perchè fondata in Cristo che non si muta. « La carità »dice san Paolo « è paziente, benigna, non ha gare e non pensa il male, « omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet » ». Ma voi invece di sofferire e sostenere ogni cosa, vi risentite, vi mostrate offeso; e Dio non voglia che abbiate voi stesso forse dato, se non in tutto, almeno in parte cagione al dissapore nato tra fratelli, che debbono essere in Cristo una cosa sola; perchè, come vi ripeto, nella vostra lettera vi accusate in generale de' difetti, ma nulla dite della causa di un tanto male. Ah! temo pur troppo che non abbiate inteso la gran parola, che è il fondamento dell' Istituto, che « non v' ha altro bene che la giustizia e la perfezione, e che quest' unico bene, questo tesoro si ottiene coll' abbassare, annegare e crocifiggere incessantemente sè stessi. [...OMISSIS...] . Il mio dubbio nasce da questo: se aveste ben inteso una dottrina così profonda e contraria all' inclinazione della natura, insegnata al mondo dal solo Verbo Incarnato nostro unico Maestro di verità, qual mai dubbio che vi mostrereste tutto sollecito di abbassare e impiccolire voi stesso, di darvi sinceramente il torto in ogni cosa, di cercare ne' vostri falli l' origine di tutti i mali, e di pregare e gemere e sospirare a' piedi del crocifisso Gesù, perchè egli vinca in voi e squagli ogni durezza di amor proprio, di superbia, di orgoglio, di confidenza ed opinione di voi stesso: egli che, come dice la Scrittura, fa squagliare col suo fuoco celeste le montagne stesse? qual dubbio che sareste insaziabile di umiliazioni, e fin anco d' obbrobrii, e che vi mettereste in ogni cosa, coi fatti, dico, e non colle parole, l' ultimo de' vostri compagni, considerandovi come il rifiuto e la peste della Casa? [...OMISSIS...] Ecco adunque il rimedio, mio caro: umiliarsi, ma interamente e non per metà, ma con tutta l' anima, e non con uno sterile sentimento e con più sterili parole; e perchè questa piena umiliazione dell' uomo non è che l' opera della divina grazia e misericordia che illumina e vivifica, pregare e pregare incessantemente, e con atti i più grandi di umiltà. Non occupare mai il pensiero de' difetti o torti che gli altri possano avere in verso di noi; ma occuparci unicamente delle nostre colpe, iniquità, ingiustizie, nequizie, impertinenze, sciocchezze, ignoranze, balordaggini, presunzioni, temerità, debolezze e miserie senza limite e misura; e non esser mai contenti di temere e tremare per noi stessi, di compungerci, e di sospettare dei nostri stessi sentimenti, dei nostri pensieri, delle nostre parole ed azioni, anche quando ci sembra che nulla di male sia in esse: tenendo per fermo che noi siamo stolidi e ciechi e che non possiamo mai esser sicuri di nulla, e che Iddio solo è il nostro giudice, che col suo sguardo acutissimo vede tutto, e se il nostro cuore è retto o non è retto, vede le magagne, e Dio non voglia, anche le cancrene più nascoste e più puzzolenti. Mio caro, che dunque sia finito fra voi e per sempre ogni segno di dissidio da parte vostra . Se gli altri non fanno il loro dovere, non vi affannate: affannatevi solo grandemente se non lo fate voi: di questo piangete pure e pregate, e Iddio vi ascolterà. Prefiggetevi che la vostra conversazione sia uguale con tutti , come vuole la carità e le regole nostre, senza affezioni: che il vostro tratto sia amabile, grave, senz' affettazione e sempre uguale. Se gli altri non corrispondono, dissimulate e non pretendete corrispondenza; piuttosto prendete occasione di umiliarvi in voi stesso, come di una giustizia che vi si usa. Non pretendete che i compagni vi correggano, perchè questo è contrario alle Regole (Reg. Com. 24); quantunque se lo fanno, dobbiate essere loro grato; ma vi stia ben a cuore che i compagni comunichino i vostri difetti al Superiore (Reg. Com. 22); e quando di questo vi sentirete allegrezza e verso di loro gratitudine, allora sarà segno che cominciate ad amare la virtù sinceramente . L' anima vostra dee essere aperta a' Superiori, pel canale de' quali Iddio comunica le sue grazie, e la sua volontà; e beati quelli che conoscono il prezzo infinito di quelle due parole lasciateci da Gesù: « qui vos audit, me audit »! Quanto poi alla grazia che mi domandate di essere dispensato dall' ufficio di Prefetto io ne scriverò a cotesto vostro Superiore. Gesù Cristo vi faccia sentire la verità delle cose che vi scrivo, e vi muova il cuore a praticarle, e allora solo condurrete a felice termine la santa vostra vocazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Mi ha grandemente consolato il sentire che siete risoluto di proporvi, colla grazia divina, un' ubbidienza perfetta, cioè a dire un' ubbidienza che inchiuda l' intero sacrificio di sè fino alla morte. Oh qual compendio di tutte le virtù non è questa obbedienza, qual via di renderci simili a Cristo, « qui factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis », a una morte cioè obbrobriosa, come dovuta ad uno scellerato! Ma ho poi trovato anche nella cara vostra delle cose, che sono ben lontane dalla vera sapienza spirituale. Sul detto comune « niuno è buon giudice in causa propria », voi distinguete: chi giudica sè stesso per passione, non è buon giudice; ma giudicando senza passione, ciascuno è ottimo giudice di sè stesso. Questa distinzione pecca di circolo: perchè si dice che niuno è buon giudice in causa propria? Appunto perchè niuno può essere ben sicuro di giudicare senza passione, appunto perchè la passione si nasconde agli occhi di quello che più la ha, appunto perchè Iddio nega i lumi a quelli che vogliono giudicare di sè stessi contro il giudizio dei savi e de' Superiori, punendo così la loro presunzione. Ah mio caro! I Santi diffidavano sempre di sè stessi, e volevano sempre esser diretti dall' altrui autorità e dall' altrui giudizio; e statevi pur certo che l' occuparsi a giudicare ed a giustificare sè stesso è cosa che impedisce il profitto nella vita spirituale, toglie la pace, distrugge l' umiltà vera dell' anima e vi semina la superbia, diminuisce la stima e la carità verso gli altri, e rende impossibile quella cieca obbedienza che è un tesoro inapprezzabile, e che voi stesso desiderate tanto di conseguire. Oh bella diffidenza di sè stesso! questa dee essere tanto grande quanto la confidenza in Dio, cioè infinita: questa non inganna: questa non è la scienza dell' albero vietato, ma è il frutto dell' albero della vita. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Nel tempo stesso che ho inteso con vero piacere che Ella sia pienamente contenta della cura, a cui sottomise costì la figlia maggiore, mi recò gran pena il sentire dal venerato suo foglio, che Ella stessa soffre per la malattia manifestatalesi. Io la farò raccomandare al Signore da delle anime buone, come Ella desidera, ed io stesso indegnamente presenterò le mie povere preghiere al trono dell' Altissimo, acciocchè egli benedica la cura, Le dia fortezza e consolazione in sopportarla, e faccia il tutto ridondare in aumento di meriti per l' anima sua, acciocchè diventi più pura e più bella, con questa occasione di patire, agli occhi di Dio. Infatti quantunque l' umanità se ne risenta, tuttavia lo spirito ammaestrato dagli insegnamenti e dagli esempi di N. S. GESU` Cristo, e sopratutto illuminato dalla sua grazia, sa ben conoscere che nel patimento delle malattie si nasconde una preziosissima occasione di meritare e di renderci simili al Signor nostro, praticando le virtù soprannaturali da lui praticate; e le riceve quindi come grazie speciali e segni dell' amore che Dio ci porta, poichè, come dice la Sacra Scrittura: « Iddio castiga quelli che ama ». Questi so e vedo dalla sua lettera che sono i sentimenti da cui Ella è penetrata, e però non dee sgomentarsi, se sente la ripugnanza che la natura nostra ha al patire, come quella che sarebbe fatta da Dio per godere, non essendo lo stato di patimento che una irregolarità prodotta dal peccato. Basta che nel fondo dell' animo nostro portiamo la rassegnazione e l' uniformità al volere divino, e stimiamo le cose col lume verace della fede; il qual lume ci mostra, che là appunto sta nascosto il maggior bene, dove la carne nostra peccatrice esperimenta il maggior male; e ci fa rallegrare e gioire immensamente di quello, di cui piange la carne e mena alti lamenti. Basta adunque che rivolgiamo i nostri sforzi, non già ad estinguere in noi il rincrescimento naturale dei mali, ma a far sì che unitamente con esso vi sia in noi una gioia soprannaturale, superiore e vincitrice di quello. Perciò io non ho punto dubitato a dirle in sul principio di questa mia, che sento un sincero dolore della sua infermità, perchè questo dolore secondo la natura non è male, ed esige solo di esser sottomesso a quella più alta considerazione dello spirito, che fermamente crede all' amorosissima bontà di Dio, e la ravvisa questa bontà nello stesso dolore e nella stessa tribolazione temporale, che da essa ci viene. Onde posso anche aggiungere con uguale sincerità, che, unitamente al rincrescimento del suo male, lodo il Signore che l' ha permesso per tutto quel gran bene, che egli ha destinato di cavarne. Imperocchè qual dubbio, che l' effetto di questo suo male sarà una maggior purificazione dell' anima sua e un maggior distacco dalle cose di questa terra, un' unione maggiore con Dio e ardente desiderio delle cose del Cielo, un disinganno e accrescimento di luce spirituale, un fervore nuovo e brama vivissima di spendere il tempo che le rimane di vita nelle opere della gloria del Signore, in lodarlo, e amarlo, e servirlo nei suoi prossimi? Ella offerirà quello che dovrà soffrire in isconto dei suoi debiti, e questa oblazione volontaria sarà ricevuta con gradimento: Ella avrà dei momenti in cui sentirà profondamente il proprio nulla, e farà di quegli atti di umiltà che sono la maggior giustizia che la creatura possa rendere al Creatore: Ella nelle sue angustie sentirà intimamente il bisogno di Dio, e gli dirigerà quelle preghiere, che non sanno fare se non le anime strette da ogni parte dalla tribolazione, e che giungono al cuore dell' Eterno; Ella insomma avrà occasione di far mille atti d' amor divino, che son quelli che migliorano le anime ed assicuran loro l' eterna salvezza. Tutti questi beni, che mi rappresento come il fine che ebbe il Padre celeste nel sottometterla a questa prova, sono argomenti di santa speranza e letizia; ed io fin d' ora la divido con Lei. Del resto affine di poter esercitare questi atti più perfettamente, e con maggior facilità ottenere che lo spirito pronto prevalga sopra la carne inferma, la consiglio ad aver presente ora più che mai il ricordo di GESU` Cristo: « Non vogliate pensare al giorno di domani ». Procurar di allontanare il pensiero dell' avvenire ed i timori che l' accompagnano, è già questo un grand' atto di virtù e di abbandono nelle mani amorevoli del Signor nostro: è ciò che forma il camminare semplice davanti al Signore tanto lodato nelle divine Scritture. E perchè dipingerci innanzi alla mente quello che non sappiamo e che Iddio ha voluto celarci? e perchè accrescerci il male che abbiamo coll' immaginazione di mali temuti che non sono, e che forse non saranno giammai? Non è egli meglio lasciare la cura di noi intieramente a Dio, senza volerne saper cosa alcuna, e viverci tranquilli di giorno in giorno, e di ora in ora, persuasissimi che l' amor suo verso di noi vince l' amore di ogni madre più tenera? Questa tranquillità non c' impedisce d' altronde di rivolgerci a lui incessantemente colla più filial confidenza, dicendogli non solo i nostri bisogni, ma ancora i bisogni creati dalle nostre debolezze e dalle nostre ignoranze. Poichè egli non se ne adonta; ma ascolta anche questi e ci compassiona nella sua immensa tenerezza; e o ci fortifica, o a quei bisogni stessi immaginari maternamente sovviene. Nè pure c' inquieti la vista dei propri difetti. GESU` Cristo è morto per noi; ci ha conservata fin qui la vita, perchè abbiamo tempo di lavarci nel suo sangue: la penitenza nostra non importa che sia lunga, ma che sia cordiale: la migliore poi di tutte le penitenze è la pazienza nelle croci che egli ci manda, adattandole amorosamente alle nostre spalle, ed aiutandoci a portarle. Dunque larghezza di cuore, mia veneratissima signora contessa, e dolore sì dei peccati, ma dolor confidente, dolore che si perda e trasmuti in amore: i timori per altro, che talora inevitabilmente si suscitano nell' imaginazione, nè sono peccati, nè distruggono la rassegnazione: talora non sono che nuove pene da sopportarsi come tutte le altre con ispirituale pazienza. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La partenza vostra da Stresa ha lasciato, quasi direi, un vuoto nell' anima mia. L' uomo s' abitua alle cose dolci, ed io m' ero così abituato alla cara e pia vostra conversazione, benchè sì brevemente da me goduta, che ne ho sentito, ve n' assicuro, la mancanza. La consensione pienissima nei religiosi sentimenti è pur cosa soave e confortante, massime dopo che il Signore ha detto: [...OMISSIS...] . Io non cesso d' innalzare al nostro Padre quella stessa preghiera che gl' innalzate voi: « da quod iubes, et iube quod vis ». Oh volontà dolcissima del Signor nostro, nel cui solo compimento sta tutta la nostra beatitudine! Ella poi è tanto alta, di una sapienza e d' una bontà sì sproporzionata al vedere ed al sentir nostro, che non la possiamo nè raggiungere per acume d' intelletto, nè adempire per forza di volontà; sicchè non ci resta che di pregare colla faccia in terra che ella si manifesti a noi colla sua luce, e ci avvivi colla sua vita, e si compia in noi da sè medesima colla sua efficacia in noi trasfusa. Per questo dobbiamo essere in verità fanciulletti, come ci ha insegnato il Maestro nostro, e così entrare nel regno dei cieli, che è il regno degli umili che non hanno volontà propria, ma la cui volontà è quella di Dio. In questa nostra nullità possiamo bene sperare contra speranza; giacchè la grandezza di Dio si manifesta e spiega in quelli che sono nulla; e la volontà sua si rivela e compie in quelli che hanno perduta la volontà propria, perchè non saprebbero più cosa volere, se non lo stesso voler di Dio. Io certo quando mi sento più infermo nel corpo e nell' anima, allora Iddio mi dona maggior fiducia, veggendo io che egli ha qui un' occasione maggiore dove spiegare la magnificenza della sua carità. E parmi che allora appunto quando siamo e ci sentiamo più infermi, dobbiamo dimandar cose più grandi ancora, giacchè è infinito il Signore a cui le dimandiamo, e le nostre miserie non gli possono metter limite, ma anzi dilatano i limiti della sua gloria. Teniamoci adunque pur certi, mio caro signore, che seguitando noi a dire quel FIAT, FIAT VOLUNTAS TUA, col desiderio che egli disponga di noi senza limiti , e facendo che sulla bilancia della nostra stima non pesino che i motivi della maggior perfezione morale nostra propria (il solo bene assoluto per noi), avverrà che la volontà divina sarà fatta in noi in un modo ancor più grande di quello che noi possiamo concepire, o che osiamo espressamente sperare. La santità, il desiderio della santità , tutto verrà dietro a questo: i disegni di Dio si compiranno: la legge di Dio ha una virtù nascosa: nella sua massima semplicità è infinitamente feconda: la Provvidenza è tutta rivolta in servigio di quelli, che nella legge di Dio volunt nimis , e in essa (non nei proprii disegni) ripongono tutta la loro speranza. La Chiesa non ha da sperar altro che dalla santità , a cui serve tutto. La parte dell' uomo consiste nello studio di emendare sè stesso e di ottenere la giustizia e la santità: Iddio dopo di ciò fa il resto, elegge quelli che egli si degna d' impiegare a vantaggio della sua Chiesa, li manda, li dirige, li assiste. Beati allora cotesti che non vanno da sè stessi, ma sono mandati! Sta dunque il tutto nel fare la dovuta stima della propria perfezione, e quivi trovare ogni fiducia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La dolorosa nuova della perdita che abbiam fatto della sì buona, sì amabile, sì edificante contessa d' Auzer mi riuscì tanto più amara, quanto più improvvisa. Avevo bensì udito dal M. Gustavo, quando passò rapidamente di qui, che le era tornata la febbre, ma s' attribuiva a cagione affatto accidentale, e venivo già rassicurato che stava meglio. Ma il Signore aveva disposto altramente. Egli è buono anche quando ci castiga. Per altro parmi veramente di poter dire, che il padrone è venuto nel suo giardino e n' ha colto la frutta che n' ebbe trovata matura: egli ne volea imbandire la celeste sua mensa. Vero è che per noi che l' abbiamo conosciuta e l' abbiam trattata, e specialmente per le sue indivise sorelle, per tutti i suoi congiunti, a cui s' era resa tanto amabile, e da cui era tanto amata, egli è pur questo un acerbo distacco! Mia venerata signora, mi creda che nol capisco solo, ma l' esperimento nel fondo dell' anima. Nel tempo che io mi sono trattenuto in Torino, e fui gentilmente alloggiato in casa Cavour, io m' ebbi tante prove della bontà e purità di quell' anima, ne ricevetti tanto buono esempio, e mi trovai sì fattamente legato di stima ad essa per quella sua religiosa cordialità, per quel suo candore, per quell' avidità insaziabile di sentir parlare delle cose di Dio, per la rettitudine delle sue intenzioni, e in somma per la solida sua virtù; che l' annunzio che ella mi dà del gran passo che ha fatto la buona dama in lasciandoci quaggiù per sempre, mi trapassa il cuore, e mi fa troppo partecipare all' angoscia di lei, ed a quella della duchessa di Tonner e di tutta cotesta famiglia, di cui ella era divenuta per affetto sì cara parte. Se non che dando poi luogo alla riflessione, io ben mi accorgo che quegli stessi aurei pregi della defunta che ce la fanno tanto rincrescere e piangere, debbono esserci in pari tempo un gran lenimento al dolore e un' ampia fonte di spirituale consolazione. A quanti superstiti a cui muoiono i parenti, anche dopo esser giunti al colmo delle umane prosperità, manca poi questa solida ragione di conforto, senza la quale è ben piccola ogni altra! Ecco donde io credo che potremo, mia cara signora, attingere quella consolazione vera che Ella mi domanda nella sua lettera. Quanti motivi non abbiamo, per grazia di Dio, di credere che la sua amata sorella or si trovi in uno stato migliore di prima! Noi non la troviamo ora più in quella sua stanza, in quel suo letticciuolo, accanto al quale passavamo delle ore gradevoli: ma invece abbiamo motivo di contemplarla in Cielo. Sì, quella virtuosa ha già superato il gran passo, ha già compita questa faticosa navigazione piena di pericoli e ancor di naufragi, è pervenuta alla sponda, è entrata in porto. Ella ha portata seco la vera fede, di cui le aveva Iddio fatto dono conducendola alla Chiesa cattolica, caparra della sua predestinazione; ha portato seco una vita immacolata, è stata oltracciò lungamente provata e appurata nel crogiuolo delle tribolazioni. Quando l' oro è reso tutto puro e mondo dal fuoco, allora l' artefice lo riversa nello stampo e fonde una statua preziosa, ornamento al gabinetto del re. Così noi abbiamo troppo a sperare, che il Re celeste abbia già formato della nostra cara Contessa un bell' ornamento del suo Paradiso. Non lasciamoci ingannare dalla carne: il punto della morte è penoso, è vero; ma finalmente non è che un punto, e questo punto per la defunta è passato. Hanno pur troppo ragion di temere per dopo la morte coloro, che durante la vita non hanno amato il loro Creatore. Ma quelli che lo amarono, le anime buone e rette, come la nostra Contessa, quelle che visser di fede e di viva speranza nella divina misericordia, ah! per queste fortunate che è mai la morte? Un istante di merito, un sospiro prezioso; dopo il quale ogni patire è cessato per sempre, la salvezza è assicurata, il gaudio eterno incomincia, un gaudio perfetto, di cui non possiamo formarci un' idea adeguata, ma di cui però sappiamo che l' unire insieme colla nostra imaginazione tutti i piaceri e le soddisfazioni della vita presente, tutti gli onori e le grandezze, tutti i tesori, ogni cosa insomma desiderabile, non è ancora che formarcene in mente un' idea imperfettissima; vincendo la realtà di quello stato di gaudio quanti desiderii e quante brame sappia accendere in sè l' uman cuore. Allorquando adunque l' umanità nostra si sente oppressa nel suo dolore, concediamole pure il suo sfogo, mia veneratissima signora Marchesa; ma poscia ritiriamoci dentro noi stessi, e nell' anime nostre, dov' è stata infusa la fede col santo Battesimo, troveremo insieme con questo lume divino un grande sollievo, un immenso conforto. Oh come le cose cangian di aspetto al lume della fede! oh come questo lume di soprannatural verità tramuta i mali più intollerabili alla natura, in argomenti d' indicibil letizia! E nel vero, facciamo un po' tacere in noi questa cieca nostra natura, per contemplare in quella vece silenziosi al lume di santa fede, quale di presente dobbiamo noi sperare che sia la persona amata che piangiamo perduta. La vedremo noi forse pentita e dolente di aver abbandonata la terra? Anzi ella se ne chiama felicissima, benedice quel prezioso momento, nel quale lasciò questa valle di lacrime e ruppe quei ceppi della carne che le impedivano di goder pienamente il suo Dio, e nel quale uscì per sempre da ogni battaglia di spirito e da ogni sofferenza di corpo: ella ora guarda in giù ed ha compassione di noi, che ci vede ancor nell' esilio, e sorride alla nostra semplicità scorgendo che, compassionando lei felice, spargiamo lagrime amare e meniamo lamenti di tanto suo bene. Non rifiuta ella l' amor nostro, ma vorrebbe comunicarci un po' del suo; vorrebbe comunicarci di quel lume intellettivo, col quale ella apprezza tanto meglio di noi il vero valor delle cose: vorrebbe che noi potessimo uscir colla mente e col cuore dai limiti di questo mondo sensibile, e che sull' ali dello spirito salissimo sino a lei, infino alla sua gloria, infino al suo trionfo, e che colassù, invece di gemere oppressi dal dolore, godessimo insieme con lei del suo gaudio, del suo regno che è quello di Dio medesimo. Ecco quanto brama ora da noi la nostra buona dama, innalzata al grado di regina, e di regina celeste; perocchè tal grado sortono tutti in Paradiso gli eletti. Riprendiamo adunque salutarmente, mia venerata Marchesa, la nostra umana sensitività, dicendo a noi stessi: come sarebbe assai strano che una sorella piangesse l' altra sorella perchè la vede trascelta alle nozze di un re, così egli è assai più strano che noi piangiamo sull' avventurata sorte di un' anima che abbiamo ragione di credere eletta sposa di sua Divina Maestà. Egli è vero, che ci si farà innanzi eziandio il pensiero che, non ammettendosi nella reggia del Cielo niente che porti il minimo segno di terra, che serbi la minima macchia od adombramento, ed essendo pur tanto grande la umana infermità e fragilità, possiam dubitare che anco all' anime che ci paiono le più monde, uscite di questa vita rimanga tuttavia qualche imperfezioncella a rimondare nel purgatorio. La grande stima che noi portiamo ai cari defunti non ci renda adunque meno solleciti a suffragarne le anime con sagrifizi e preghiere, e da parte mia ho celebrato a tal fine questa mattina per la cara estinta, e le feci fare altri suffragi. Ma da una parte questi stessi suffragi che rilevano l' efficacia loro dal sangue di Cristo, il cui merito è infinito, debbono esserci nuovo motivo di consolazione, pensando che il buon Dio ci ha voluto dare anche questo soccorso, prova della tenerezza che egli ha per le sue inferme creature; dall' altra possiam riflettere che le anime sante del Purgatorio, benchè patiscano, patiscono però sì volentieri, che elle non vorrebbero mai accettare il partito di ritornare su questa terra, e sono veramente felici in isperanza, onorate dagli angeli perchè sante, piene di dignità perchè spose di Dio: la gloriosa loro destinazione è assicurata per sempre, non si tratta che d' un po' di ritardo posto al sospirato momento, in cui venga lo Sposo divino, e tutte belle e lucenti le introduca nel suo talamo, a' suoi amplessi. Entriamo adunque nei sentimenti di quella che noi amiamo e che a torto piangiamo; e ci si cangierà la scena; ci cadranno piuttosto lagrime di dolce letizia per la sua felicità che di dolore per la nostra solitudine. Sarà questa una prova che le daremo di vero amore, cioè d' un amore spirituale e sublime, e troppo a lei più caro di quello della natura; chè ella non desidera oggimai da noi, se non il nostro vero bene, e si rallegra solo in veggendoci fare atti di virtù, di rassegnazione, di fortezza, di uniformità perfetta al divino volere, di rendimento di grazie a Dio che in ogni cosa è buono egualmente, e che tutto dispone collo stesso amore infinito per noi. Che se noi oltracciò piglieremo questo avvenimento, sì grave al cuore di carne, come un' occasione dataci dal Signor nostro ed un avviso acciocchè ci disinganniamo vie più delle cose terrene, e ci innamoriamo delle celesti, ed a queste ci prepariamo; oh quanto renderemo contenta quella che ci ha preceduti nel gran viaggio! Ella altro non vuole da noi, altro non aspetta, altro non ci domanda: ed altro non domanda altresì per noi al celeste suo Sposo. Che se noi dopo di ciò, dopo tutti questi riflessi, sentiamo tuttavia quaggiù un vuoto difficile da riempirsi; se di quando in quando quasi senza accorgerci, cerchiamo col cuore e cogli occhi il noto volto, le care parole, la dolce consuetudine di Colei che ci fu tolta; se all' improvviso ella ci si affaccia alla mente come per dirci che non c' è più, che non la rivedremo mai più in questa vita; e se questo pensiero che ci restituisce di nuovo in vita Colei che è morta, per rapircerla subitamente, questa imaginazione che ci mette lì come ancora esistente e parlante quella con cui eravamo soliti di passare tante ore, per dissiparci un momento dopo crudelmente la cara illusione, se tutto questo ci stringe il cuore e ci manda agli occhi delle lagrime involontarie; e che per ciò? Non inquietiamoci punto; chè non sarà per questo meno perfetta la nostra rassegnazione, men piena la nostra conformità al divino volere. Fino che viviamo in terra, noi siamo pur troppo due esseri in uno: e questi due esseri, la carne e lo spirito, combattono insieme: ma la battaglia adduce la vittoria, e la vittoria reca alla corona. E` l' orazione, mia signora Marchesa, che ci conduce alla vittoria dello spirito; come è il tempo che medica le ferite profonde, di cui si risente la carne. Godo che il mio buon abate Molinari sia stato in Torino in questa occasione ed abbia potuto colle sue parole contribuire a consolare tante persone afflitte: egli ha un cuore dolcissimo ed è pieno di quella carità, che val meglio di ogni balsamo in tali occasioni. M' imagino anche il dolore del mio carissimo marchese Gustavo, rientrando massimamente in famiglia. Sono stato sfortunato quest' anno per non averlo potuto aver meco a Stresa qualche giorno, come avrei desiderato e m' avea fatto sperare. Ora dovendo io partire in sui primi di settembre per Bergamo, dove debbo dettare gli spirituali Esercizi a quel Clero; nè posso recarmi a Torino, nè posso sperare di rivederlo a Stresa quest' autunno; ben prevedendo che in ottobre egli farà la sua solita campagna. La prego, mia venerata signora Marchesa, di presentare i miei ossequi al signor Marchese, alla signora Marchesa madre, alla signora Duchessa ed ai suoi figliuoli; e di partecipar loro ad un tempo i sentimenti dell' umana mia condoglianza per la perdita fatta, e più ancora quelli della spirituale consolazione, co' quali ho procurato di attemperare, scrivendole la presente, il mio ad un tempo ed il suo dolore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ho ricevuto le vostre due lettere da Lione e da Londra, e ho ringraziato di cuore il Signore, e l' Angelo suo, che v' abbia sì felicemente condotto. Rispondo alla prima intorno a ciò che dite sulla facilità di ricevere all' Istituto. Vi posso assicurare che il desiderio di accrescere il numero dei nostri non mi muove a ricevere alcuno. Sono contentissimo del piccol numero che ci manda il Signore: vedo anche in questo la sua sapienza e bontà; l' adoro e ne giubilo. Vi spiegherò dunque le massime che io tengo in ciò, e che sono conformi a quelle delle nostre « Costituzioni ». Io distinguo fra il ricevere in Casa e il mandare avanti nei successivi gradi dell' Istituto quelli che abbiamo ricevuti. Quanto al ricevere semplicemente, ricevo tutti quelli che domandano e che mi lasciano qualche speranza di riuscimento. Questa speranza me la danno tutti quelli che nella prima prova dichiarano e promettono di intendere e praticare le cose contenute nelle « Massime » e nel « Memoriale della prima prova », senza ch' io abbia una ragione positiva da dover giudicare assai probabilmente il contrario. Le ragioni che mi muovono ad essere così facile nella prima ammissione sono le seguenti: 1 Temo assai di giudicare temerariamente de' miei fratelli, onde inclino sempre a presumere bene di essi, e, piuttosto di fare il contrario, mi espongo volontieri ad essere ingannato, a sostenere delle spese, a patire degli incomodi. Non mi sono mai pentito di aver operato così: questa condotta mi reca una gran pace e consolazione interiore: e il Signore non ha mai permesso che gl' inganni che mi sono stati fatti, avessero ree conseguenze. 2 Parmi questa una maniera di imitare la bontà di N. S. Gesù Cristo, il quale dice: « et venientem ad me non eiiciam foras »: parole che ci mettono davanti a questo proposito le Costituzioni, e che citano pure allo stesso proposito le più celebri regole de' santi Fondatori. E` vero, che molti vengono a noi coi piedi e non col cuore; ma non posso io giudicare che facciano così, fino che non ho delle prove positive. D' altra parte, io considero la venuta a noi d' un fedele di Cristo sotto due aspetti: come mandato acciocchè forse egli diventi un membro dell' Istituto, e come mandato acciocchè l' Istituto eserciti verso di lui la carità. Essendo tale lo spirito dell' Istituto ch' egli vuol accettare, purchè possa, tutte affatto le occasioni che gli presenta la Provvidenza d' esercitare la carità; anche questa, dico io, n' è una; accettiamo dunque questo fedele di Cristo, ed usiamogli intorno tutta la carità possibile del corpo e dell' anima. Il N. S. Gesù Cristo vedrà di buon occhio che noi facciamo così con colui; e l' Istituto non ne avrà da questo scapito, ma vantaggio di buone opere. Il fratello che venne a noi sentirà intanto la parola di Dio; e quand' anco egli non riesca nostro membro, egli porterà via quel seme che forse frutterà un giorno nel suo cuore. 3 Quanto l' Istituto è alieno dal cercar cosa alcuna di proprio moto, altrettanto egli si propone di esser attento e premuroso di non trascurar niente di quel bene che gli offre la divina bontà, andando incontro premurosamente alla Provvidenza divina, non risparmiandosi in nulla per secondarla. Or se io rimando un aspirante senza esser certo che gli manchi la vocazione, non m' espongo io a rifiutare forse un dono che mi voleva fare la divina bontà? Uno dei segni della Provvidenza è la domanda del prossimo. Dunque, se un mio fratello in Cristo mi domanda, e non ho ragioni positive in contrario, io debbo accoglierlo non solo, ma affaticarmi con pazienza e carità intorno a lui, e durar tanto in questa fatica fino che mi sono persuaso che egli non può riuscire membro dell' Istituto: allora solo io sono giustificato davanti a Dio, se lo licenzio; ed anzi debbo tosto licenziarlo. Ma se l' Istituto non fa tutto quello che può da parte sua con pazienza longanime per formare quell' aspirante, istruendolo, educandolo, provandolo, non deve sempre temere di essersi da sè stesso privato di un membro che Iddio gli volea forse dare, ma gliel volea dare a condizione che sel guadagnasse col merito delle fatiche, coll' orazione per lui fatta al trono della sua Maestà? Perocchè, stiamone certi, Iddio vuole, non che aspettiamo da lui le cose belle e fatte per intero, ma che ce le procacciamo coi nostri sudori, che egli è pronto a benedire, se li spandiamo con viva fiducia in lui solo. Niente, niente trascuriamo mai per indolenza da parte nostra: « particula boni doni non te praetereat », dice la sacra Scrittura. Queste massime vorrei io seguite con semplicità da ogni Superiore dell' Istituto che ha facoltà di accettare gli aspiranti: queste sono le massime delle Costituzioni. Resta a farne l' applicazione; e questa riesce diversa nelle circostanze diverse, restando le massime sempre le stesse. A ragione d' esempio egli è certo che un Superiore può avere maggior lume di Dio da conoscere prontamente chi è chiamato e chi non è; e in tal caso, avendo maggior lume, potrà anche non accettare o licenziare più prontamente gli aspiranti che giudica inetti. Ma i Superiori debbono diffidare in questo di sè stessi, non dando luogo a giudizi suggeriti dalla fantasia, che è la madre dei giudizi temerari; ed è più sicuro il procedere per via di ragioni intellettive e positive, ricorrendo anche al giudizio dei consultori, ai quali, appunto perchè ne sento il bisogno, io sempre, quando posso, ricorro. Un' altra varietà cade nell' applicazione delle dette massime, a cagione delle circostanze esterne. Se queste fanno sì che il ricevere gli aspiranti di riuscita dubbiosa sia di troppo gran peso e danno all' Istituto, come sarebbe in Inghilterra, dove mancano i mezzi di esercitare verso essi la carità temporale e spirituale, si deve certamente restringersi a ricevere i migliori e di vocazione più chiara. Aggiungasi ancora un' altra osservazione, che m' era scappata, su quello che voi dite intorno all' ingegno ed altre doti di cui bramereste forniti i nostri. Il vero scopo dell' Istituto, che non si deve mai perdere di vista, si è la santità. Tutto il resto dobbiamo riputarlo niente affatto; e dobbiamo avere speciale tenerezza per i nostri fratelli poveri, difettosi secondo la carne, e anche idioti. Vi assicuro che a me è tanto caro il più semplice e plebeo dei nostri fratelli, purchè sia buono e santo, quanto il più dotto, di nobil lignaggio ed avente splendide doti in faccia al mondo; ed anzi più quel primo, se ha più virtù, standomi in mente l' amore che portava Gesù Cristo ai poveri ed agli spregiati. Penso dunque che dobbiamo ricevere tutti gli uomini di buona volontà nell' Istituto. E` vero che quanto più i nostri compagni hanno ingegno ed altre doti anche esterne possono fare più del bene al prossimo, se sono buoni, e possano fare andar più avanti l' Istituto. Ma io mi contento che si faccia al prossimo tutto quel bene che si può, e che l' Istituto vada avanti come può. Accogliamo tutti i mezzi, tutte le doti, tutti i talenti che ci dà Iddio; non ne vogliamo di più, ma nello stesso tempo non ne rifiutiamo nessuno; e dopo raccolti questi talenti colla maggior cura perchè niuno ce ne cada di mano, traffichiamoli tutti colla maggior industria e fedeltà possibile. Tutti i talenti vengono buoni all' Istituto, anche i più piccoli e di minor conto, perchè l' Istituto non ricusa nessun' opera di carità. Chi non è buono da fare il predicatore, sarà buono da far l' infermiere; e chi non avrà destrezza di trattare un negozio o dottrina da comporre un libro, verrà utilissimo come maestro di scuola, foss' anco per insegnare l' abbiccì. Vengo ora al secondo punto, cioè alle massime che soglio tenere, quando si tratta di promuovere gli aspiranti a de' gradi ulteriori. Quanto mi sembra di dover facilitare in ricevere gli aspiranti, altrettanto stimo bene di essere rigoroso nel promoverli ai successivi gradi. Come non ricuso nessuno senza avere delle ragioni positive per rifiutarlo, così stimo essere assolutamente necessario di aver delle ragioni e prove positive che l' alunno abbia le qualità richieste al grado, prima di promuoverlo ad esso. Se l' alunno dà delle prove positive di non essere chiamato, non indugio un solo istante a licenziarlo, tosto che abbia potuto su quelle prove formare un giudizio prudente: se non mi dà prove positive nè per l' una parte nè per l' altra, porto pazienza, procurando che gli sia usata ogni carità d' istruzioni, d' eccitamenti, fino che possa aversi un ragionevole scioglimento della cosa. Abbiamo avuto persone in Casa per lungo tempo senza che neppure siano state ammesse al Noviziato. La trafila per cui devono passare i nostri è lunghissima, come sapete, vi ha tempo di conoscerli, e possono essere sempre licenziati. Così operando, parmi che non debbano seguire quelli sconci che voi temete; e quantunque s' abbiano degli incomodi e dei piccoli danni da questo procedere, conviene riflettere, che il volere evitare tutti gl' incomodi e i danni non è un buon principio, secondo la perfezione e semplicità evangelica; ma è un principio che ha dell' umano. Siamo pazienti e longanimi, e il nostro Signore ci proteggerà. Col dirvi questo, non intendo scusare tutto ciò che è stato fatto; ma unicamente esporvi le massime che generalmente parlando ho seguìto, e che potrò seguire più pienamente in progresso. Nei cominciamenti di un Istituto vi sono molte difficoltà che non si preveggono. Raccomandiamo adunque al Signore Iddio l' Istituto, e poi andiamo avanti semplicemente e con coraggio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sentendo i vostri sentimenti, quali me li esprimete nella lettera vostra, e la fiducia che Iddio v' ispira al cuore di dovervi consecrare tutta a lui solo in servigio de' prossimi, io non dubito punto che siate chiamata, come dite, all' Istituto della Provvidenza. Queste Suore fanno appunto quello che vi proponete far voi, una rinunzia totale al mondo e ad ogni sua lusinga, un sacrifizio totale di se stesse, per servire Gesù Cristo, sposo delle anime loro, ne' prossimi, attendendo specialmente all' eterna salute di questi. Un' umiltà profonda, un' annegazione continua, una perfetta ubbidienza, una carità ardente, uno studio d' imitare in tutte le cose il divino loro Maestro: ecco a che si riducono le loro regole. Nessun' opera di carità è aliena dal loro Istituto: quella poi a cui attendono con più cura presentemente, si è l' educazione delle fanciulle povere e ricche, per le città e per le ville, dove la divina Provvidenza le vuole. Esse si compiacciono del titolo di povere serve delle serve dei poveri . Professano la povertà per imitare anche in questo Gesù Cristo, fanno i tre voti, da prima ogni anno (dopo il noviziato) e poscia di tre in tre anni, finalmente anche perpetui, se i Superiori lo permettono. Se questa adunque è la via a cui vi sentite chiamata, fatevi coraggio; chè non manca il Signore di aiutar sempre le anime, che lo scelgono per unico loro bene, signore, maestro, esempio e sposo. A lui alzate le vostre voci, domandategli la grazia di poter consumare il vostro sacrificio a imitazione sua sulla croce santissima della religione, confittavi co' tre chiodi de' sacri voti; e poi lasciate fare a lui: vi esaudirà certamente, vi aprirà la via soavemente, sarete consolata: ma quando? Questo egli solo lo sa: a voi appartiene solo il desiderare, il pregare, il sospirare notte e giorno verso lui con rassegnazione e tranquillità. Egli vi ha dato un buon padre terreno, che può anche farvi da padre spirituale. Qual grazia non è già questa! Aprite tutto il cuore con vostro padre. Appena che gli avrete date prove della vostra solida virtù; appena che si sarà convinto che non è il vostro un fervore passeggiero, ma una vera vocazione divina; son persuaso, che non avrete più bisogno della mia mediazione: egli da se stesso vi condurrà a me, ed io vi riceverò fra le povere serve e felici spose del Signore. Rassegnazione adunque e preparazione al gran passo. Conviene prepararvisi con tutta la maturità, la considerazione, l' orazione, il santo affetto, la pratica d' ogni virtù. Io so che lo farete, e perciò non dubito punto del buon esito: MARIA Santissima, a cui sono tanto devote le Suore della Provvidenza, v' accoglierà nella sua famiglia: la farò pregare anche a questo fine. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Noi dobbiamo guardarci assai di non far torto a quell' infinita bontà e misericordia di Dio, che vince gli ostacoli stessi che noi poniamo coi nostri mancamenti e peccati alle copiose sue grazie; quando noi facciamo due cose, cioè SPERIAMO e PREGHIAMO. Ah dolcissima speranza del mio Signore che niuno confonde! oh preghiera potentissima! Io non vorrei che vi lasciaste dall' inimico rinserrare mai il cuore, quando Iddio anzi vuole che lo dilatiamo, perocchè « viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum ». DILATAZIONE adunque di CUORE: ecco ciò che sopra ogni altra cosa vi raccomando. Noi siam cattivi, ma Iddio è INFINITAMENTE buono. Oh quanto poco si pensa a questa parola INFINITAMENTE! Se ci si pensasse, non cadrebbero a terra tutti i nostri timori? non ci terremmo sicuri della vittoria sopra tutti i nostri nemici? non diremmo: « si exurgat adversum me praelium, in hoc ego sperabo »? Non ci lasciamo adunque ingannare dall' inimico che tende talora a spargere la tristezza nei nostri cuori, angustiandoli col pretesto talora di compungerci dei nostri peccati. No, la compunzione nostra sia sempre congiunta ad una INFINITA SPERANZA; perchè questa è ragionevole, e perchè Dio la gusta dalle sue creature. Guai a confidare in noi stessi! ma quanto al nostro Dio non ci stanchiamo di dire: « In te Domine speravi, non confundar in aeternum », e di ringraziarlo: « Quoniam tu Domine singulariter in spe constituisti me ». Chi spera è forte, chi spera può tutto; quest' è àncora immobile, quest' è arma invincibile. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ella m' onora colle sue domande più ch' io non merito. Non le direi certamente cosa ch' ella non sappia: e tuttavia per ubbidire a quanto m' ingiunge nella cara sua non tralascerò di accennarle, che a mio parere il maggior studio a cui dee applicarsi chi predica a' giovanetti, si è quello di far loro ben intendere la religione, che sol intesa è amabilissima per sè stessa. A tal uopo è più necessario che non si creda, che l' istruttore religioso studi assai prima di tutto per intenderla a fondo egli stesso: il che non è piccol affare trattandosi d' un sistema ampiissimo di dogmi misteriosi e di precetti sublimi. Forse quel volume che io ho stampato col titolo di « Catechetica », le potrà somministrare qualche concetto. Ma dovendo ella, come sento, spiegare il Vangelo, non potrà osservare un ordine di connessione nelle materie. In tal caso ogni ragionamento fa quasi un tutto da sè; e può egli solo esser chiarissimo e semplicissimo. La somma chiarezza e semplicità dello stile fa poi luogo all' affetto; e in niun esemplare si dee più guardare che nello stile del Vangelo. Poche idee alla volta, ma sublimi; pochi sentimenti, ma generosi. Oh quanto bene risponde a questi il cuore del giovanetto! Non ha bisogno che d' intendere la verità per amarla, che di vedere la virtù per eleggerla. Ma di solito la verità si copre di troppe vesti, e volendola troppo spiegare, s' oscura; la virtù poi si falsifica per troppe distinzioni umane, e la s' impiccolisce sperando così di renderla agevole. E pure l' animo innocente anela più tosto d' ergersi a volo, che di serpeggiare per terra. Se nel cuore d' un giovanetto si giunge a inserire un sentimento nobile ed elevato, la riuscita di lui può dirsi assicurata. E` dunque un errore quello di sdolcinare soverchiamente l' austerezza della virtù, e di abbassarne l' altezza: privata della sua eccellenza non più esige un santo entusiasmo; spoglia della sua maestà non riscuote più ammirazione, nè attira a sè l' uomo creato per l' infinito. Io vorrei che si parlasse ai giovanetti sempre in modo come si trattasse di farne degli eroi. Con questo pensiero non ha a far niente lo stile gonfio, ampolloso, concitato: anzi un tale stile produce l' effetto contrario. Il grande e lo squisito dee consistere nelle cose; del resto la dote precipua delle parole e mai studiata abbastanza, nel caso nostro è la chiarezza: chiarezza di elocuzione, chiarezza di pensieri, chiarezza d' ordine. Il conseguimento d' una dote che par sì facile costa sudori, meditazioni, prove e riprove, pertinacia di tentativi: è uopo che s' abbia in testa il tipo della perfezione, e nell' animo la volontà risoluta di conseguirla. Cose scritte per la gioventù ve ne sono tante, e molte di buone; io difficilmente potrei indicargliene di quelle ch' ella non conosca; e conoscerà senza dubbio anche il libricciuolo intitolato « La gioventù dabbene » stampato dal Pogliani in Milano. Vi ha in que' sei discorsetti un cotal principio di ciò che io voglio dire, ma ancor lontano dal perfetto. Del resto, come le dicevo, io non ho a dirle che quelle cose che ella già sa, e che d' altra parte non si possono restringere in breve lettera. Presenti, la prego, i miei cordiali saluti a' Padri Villoresi e Dalla Via, e i miei ossequi al M. R. P. rettore di cotesto collegio; e mi raccomandi al Signore. Godo di sentire, che i due valorosi giovani Dandolo e Gazzola approfittano, e benchè non li conosca, ho già cominciato ad amarli sulle sue parole. [...OMISSIS...]

Epistolario ascetico Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Niente vieta però che in occasione di dare l' istruzione religiosa, si vengano insinuando alcuni de' più necessari e principali principŒ d' una buona logica, quelli appunto che più sembrano opportuni a difesa della Fede, supplendo così alla mancanza della scuola di filosofia. E come questi principŒ di logica religiosa , dirò così, gioverebbero a formare le menti de' giovanetti, così non poco conferirebbe a formare il loro cuore il presentare loro quegli argomenti morali, che dimostrano la Religione nostra a un tempo che vera, bella altresì ed umana, ed utile fin anco alla vita presente. E qui l' insegnamento della storia greca, romana e patria, potrebbe maneggiarsi in modo che consuonasse all' insegnamento religioso e lo confermasse, se il professore di storia non dimenticasse mai di fare il confronto fra i vizi e le miserie delle società pagane, e la virtù e la grandezza delle società cristiane; se moralizzando con opportuni e brevi cenni, s' adoperasse ad imprimere nelle menti giovanili qual sia la vera misura, onde si dee giudicare le azioni degli uomini illustri, quanta vanità si nasconda spesso nelle clamorose loro virtù, e come la grandezza e la celebrità umana non sia che una deploranda illusione, e però non quella a cui il vero virtuoso, il vero grande debba rivolgere i suoi desiderŒ e i suoi sforzi. Anche le belle lettere possono non poco giovare a rendere sana la mente e religioso il cuore, se si fa ben conoscere come elle sono belle e lodevoli solo allora che servono a mettere il vizio in orrore agli uomini, in amore ogni vera virtù. Queste cose spianano la via e dispongono l' anima alla impressione che debbono poi farvi le massime eterne, e specialmente quella, come Ella ben dice, de' giudizi spaventevoli di Dio, e dell' inferno. E a ribadire queste in mente con frutto, gioverà assaissimo l' avere persone atte a dare gli esercizi spirituali con efficacia e degli ottimi confessori. I fatti e gli esempi hanno potere grandissimo sull' animo della gioventù; e poichè Ella brama che Le additi qualche autore che ne contenga, mi sembrano commendevoli le opere dell' abate Carron, che, se non erro, ha anche una raccolta di vite di virtuosi militari. Ella mi dimanda in fine della sua pregiatissima qualche cenno sul modo di educare la numerosa gioventù affidatale dalla Provvidenza, e benchè le angustie di una lettera non permettano di dire delle mille cose l' una, tuttavia per esserle ubbidiente Le dirò parermi ottimo mezzo di educare quello che alla dolcezza congiunge la fermezza e una somma ragionevolezza ; sicchè il giovane debba sempre, almeno nel suo interno, essere persuaso, che l' educatore ha ragione sempre in tutti i punti, ed egli ha sempre il torto: cosa difficile a conseguirsi, poichè richiede somma prudenza in ogni passo, e perfetta coerenza e uguaglianza in tutto ciò che si opera. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Rimanendomi un pocolino di tempo libero fra le occupazioni di questi santi esercizi, voglio scrivere a voi per certa cosa che mi diè noia nell' ultimo fascicolo dell' Amico Cattolico , a voi dico che ben so essere un devoto fervente della Madonna Santissima, che l' avete non solo per madre, come l' abbiamo tutti, ma quasi anche per compatriotta. Or come avete lasciato correre nel detto fascicolo, senza almen farne lamento, che Maria giunta a Betlemme fu sorpresa dai dolori del parto? Non vi offende, non vi strazia orribilmente gli orecchi una tale espressione? Ve ne può essere alcun' altra che sia cotanto, per dir poco, piarum aurium offensiva? La Madonna avere sofferto dolori nel parto del Salvatore? La Vergine che si fa madre di Dio, soggetta alle miserie penali delle altre madri? Or dove avete trovata che sia fatta per Maria la legge, che fu solo intimata ad Eva peccatrice, « in dolore paries »? Non vedete che questa legge incomincia: « multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos », e che perciò è legata, quasi direi, a quella cagione impura che fa moltiplicare alle altre donne le concezioni, cagione che non potè cadere in Colei che non fu sposa effettiva d' altri che di Dio, coniugio spirituale che nulla ha di carnale, nè madre d' altri che dell' Unigenito di Dio, maternità che non toglie punto la verginità? E non vedete che la medesima legge prosegue a dire: « et sub viri potestate eris, et ipse dominabitur tui (Gen, III, 16) », parole che esprimono di nuovo la cagione de' molteplici concepimenti delle altre donne? Ora Maria a qual mai uomo fu soggetta? Perocchè Giuseppe, giuridicamente suo sposo, la venerava, a non dubitarne, come la sua Signora, e non vedeva certo in essa la sua soggetta. A chi dunque fu soggetta veramente Maria, se non a Colui, di cui disse ella stessa: « Ecco l' ancella del Signore? »Onde se Giuseppe tenne in terra la dignità, se così si vuole, di capo di casa, egli non sostenea tanto ufficio se non considerandosi come un mero vicario o rappresentante dello Sposo celeste, a cui aveva ben di cuore la sua sposa ceduta e tutta sacrata. Tant' è lungi adunque che Maria Santissima possa aver provato alcun dolore in depor al mondo il Sole della giustizia, che anzi io tengo (e credo che voi pure lo terrete meco, perocchè io lo tengo con autorità venerande e con tutti i devoti della gran Vergine) che, allorquando fu compiuto il tempo in cui dovette nascere il Redentore, ella dovette essere sorpresa da gaudio indicibile, da gioie celesti, da rapimento ed estasi amorosa così sublime, che non può da uomo alcuno concepirsi, e che le diede un cotal saggio della superna felicità. No, mio caro, non è da lasciarsi passare una frase caduta, son certo, dalla penna dell' illustre scrittore per mera inavvertenza, ma che stride tuttavia e lacera gli orecchi cristiani; non è da lasciarsi passare, io dico, senza qualche emendazione, ed io prego voi di procurarla questa emendazione a vantaggio de' comuni lettori, ne prego voi per l' amore che voi portate a Maria. Io per me non solo veggo che la divina Scrittura favella sempre in modo da rimuovere da Maria ogni pensiero d' infermità materna, ma ce la mostra divenire madre senz' aiuto di altra persona, e tosto dopo messo al mondo il suo Portato, ella stessa, non usando già dell' opera di Giuseppe, involgerlo ne' poveri pannicelli e colle proprie mani nel presepio acconciarlo, siccome suol fare non già una persona addolorata e ammalata, ma sana e lesta. « Et peperit Filium suum primogenitum, et pannis eum involvit, et reclinavit eum in praesepio (Luc. II, 7) », volle fare tutto da sè. E pure qual dubbio, se avesse avuto bisogno in sì dolce ufficio di alcun aiuto, che Giuseppe non si sarebbe mosso a soccorrerla? Ma che? Non vedete voi in quella vece il buon Giuseppe, che in un angolo della grotticella si sta in silenzio adorando e contemplando il gran mistero, senza pur osare di fare un passo innanzi ed offerir l' opera sua alla sua dolce regina, la quale da sua parte non cede a nessuno de' mortali, non divide con nessuno le materne sollecitudini a cui ella sola, come sola genitrice in terra, ha tutto il diritto? E per darvi maggior prova di quel parlare vigilantissimo della divina Scrittura, tutto ad onor di MARIA, io vo' che facciate un' altra osservazione, e non è l' unica che potrei farvi. Vedete quel luogo dell' Esodo (Cap. XIII) dove Iddio promulga la legge dei primogeniti serbati al sacrificio, e prescrive che il primogenito dell' uomo si riscatti a prezzo. Or bene che ne dite di quella frase: « sanctifica mihi omne primogenitum quod aperit vulvam »? E perchè non si contenta la legge di dire « omne primogenitum », senz' altro aggiungere? Non era chiaro abbastanza? Voi mi direte forse, che la spiegazione che vi si aggiunge è tutta conforme all' indole delle lingue orientali. Ma posciachè le stesse lingue orientali furono ordinate dalla Provvidenza e scelte ad esprimere gli oracoli della divina rivelazione, io non mi trattengo dal dire, che quella frase orientale ed ebraica fu eletta non a caso da Dio, come acconcissima ad esprimere ciò appunto che Dio voleva, fu eletta cioè a limitare quella legge per modo, che ella avesse sì vigore per tutte le madri, venendone nel tempo stesso eccettuata la Madre di Dio, MARIA. E quale espressione potea essere più acconcia a questo intento del divin Legislatore? Senza bisogno di aggiungere alcuna speciale eccezione, nella stessa lettera della legge è già l' eccezione contenuta, con un laconismo veramente legislatorio. Voi potete riscontrare la stessa circospezione di parlare, dove s' intima la legge della purificazione (Levit. XII), le cui espressioni tutte sono tali, che dichiarano quella legge non essere fatta se non per le femmine ordinarie, non già per colei, che senza aver conosciuto mai uomo divenne Madre e restò vergine intemerata. Non dunque da dolori, ma da gaudii ineffabili fu accompagnato il parto della Vergine, di quella che fu sempre « hortus conclusus, fons signatus »: parole registrate nella sacra Scrittura in onore della pura Sposa del Re della celeste Gerusalemme, a cui le applica la Chiesa, di quella per la quale passò il Verbo incarnato siccome raggio solare per cristallo purissimo, come uscì dal sepolcro senza infrangerne punto i suggelli, come penetrò dove erano raccolti gli Apostoli « ianuis clausis »; di quella finalmente che ad altro dolore forse non fu soggetta mai, se non a quello atrocissimo e tutto spirituale, tutto volontario, che le trafisse l' animo come spada, quando compatì il Figlio in croce, e la passione del Figlio fu riflettuta e rinnovata nell' anima della Madre. Io spero, anzi sono certo, che all' illustre e pio autore dell' articolo, dove è scorsa la frase che a me e a voi pure, son certo, mal suona, non possono dispiacere queste mie osservazioni, nè il desiderio che vi manifesto che quella frase sia emendata. Il suo scritto, tacendo del merito dello stile e della erudizione, è pieno di affetto per MARIA, ed io credo che a lui stesso gradir dovrebbe l' udire cosa, da lui forse non saputa, che tanto torna ad onore di quella Eroina che egli descrive e quasi dipinge con sì bei colori di sua eloquenza e di sua divozione. D' altra parte il non essere egli ecclesiastico lo scusa appieno dell' inavvertenza che può benissimo scorrere dalla penna anche di noi ecclesiastici. Laonde, se a voi non gradisse di mandare qualche vostra noticella ai direttori del giornale, io non ho minima difficoltà di permettervi, che li preghiate d' inserire nel prossimo fascicolo la presente mia lettera. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Per esser breve, e soddisfare alle sue diverse interrogazioni, soggiungerò alle sue dimande la risposta: D. Qual autore reputa migliore per dare gli spirituali esercizi? R. S. Ignazio. Sulle tracce di S. Ignazio io misi insieme il libro intitolato: « Manuale dell' esercitatore », che ella potrà vedere nel volume pubblicato col titolo di « Ascetica ». D. Giovano gli esercizi una sola volta all' anno o più? R. In via ordinaria non più d' una volta all' anno; ma se si tratta d' un semplice ritiro di qualche giorno, può giovare assai replicando questo breve e pio ritiro. D. Qual regola particolare mi proporrebbe per mantenere la gioventù nella santa castità? R. Già le regole che danno i maestri di spirito sono eccellenti, nè di altre particolari ne avrei. Pure stimo che l' infondere un pensare elevato, nobile, spirituale, generoso, e insistere sulla purità d' intenzione in tutte le cose che si fanno, e sul buon uso del tempo, giovi più che non si creda all' intento. D. E` meglio reggere i giovani con mite governo o con severità? R. Il mite ragionevol governo, unito alla fermezza dee essere l' ordinario; il rigore dee usarsi come le medicine ne' casi rari e straordinari. D. Qual governo è preferibile nel reggere le comunità religiose, dove sia taluno poco inclinato alla pietà, all' ubbidienza, all' osservanza delle regole? R. E` preferibile quel governo che: 1 Convinca i sudditi che il superiore non opera che per puro amore del loro vero bene, senza alcun puntiglio, nè fine secondario, e con grande umiltà; 2 Che illumini i sudditi, predicando e inculcando assiduamente le verità evangeliche, e dando loro buon esempio; 3 Che dimostri nel superiore un giudizio sicuro e ben maturo, onde egli non parli che cose vere e ben fondate, non interpreti male i fatti, e molto meno le intenzioni, ecc. giovando più una correzione, quando non lascia luogo a scusa, che frequenti correzioni contro le quali il corretto possa concepire scuse plausibili; 4 Che sia fermo nel mantenere la disciplina, ma senza irritazione; e dove la disciplina è rilasciata, cominci ad essere inflessibile sopra alcuni punti essenziali, e di mano in mano diventi rigoroso sopra un numero maggiore di punti disciplinari; 5 Che sia coerente a sè stesso, sempre uguale, con un fine costante in tutte le disposizioni, non si contraddica mai, nè un giorno si mostri debole, dopo che nel precedente si è dimostrato forte; 6 Che sia vigilantissimo, sappia tutto senza mostrar curiosità, accompagni i suoi sudditi co' suoi sguardi in tutti i loro passi, non gli esponga a tentazioni sopra le loro forze, e rimuova da essi i pericoli di dissipazione; 7 Che sia concorde, cioè che i diversi Superiori maggiori o minori abbiano lo stesso spirito ed unità di governo, e l' uno sostenga l' autorità dell' altro nelle cose giuste; . Che sia penetrante, cioè atto ad intendere gli uomini ed i caratteri diversi, e ad ovviare i disordini nei loro principii, facendosi gran conto delle piccole cose, quando queste possono essere seme di maggiori; 9 Che a queste regole del governo ordinario, aggiunga delle scosse straordinarie quando v' è il bisogno; gli esercizi spirituali fatti con tutto il rigore delle regole di S. Ignazio, e dati da un sant' uomo che abbia la discrezione degli spiriti, possono rinnovare lo spirito in un religioso rilassato. D. A mantenere il buono spirito come si fa? R. Presenza continua di Dio, orazione assidua, purità d' intenzione in tutte le opere, occupazioni continue di carità, ecco dei mezzi sicuri da mantenere e crescere lo spirito. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Il P. Provinciale Pagani mi rimise da Roma la lettera che gli avete scritto in data del 23 settembre p. p., e con molta soddisfazione intesi i sentimenti in essa contenuti. Sopra tutto approvo la riflessione che voi fate sull' universalità della carità. Questa è la divisa di Cristo, de' suoi discepoli, della Chiesa, e perciò è anche quella dell' Istituto della Carità. Le nostre Costituzioni prescrivono di seguire in tutto la nostra santa Madre, la Chiesa Romana, anche negli esterni riti e cerimonie, perchè la santa Chiesa Romana ha missione da Cristo di regolare e fissare la disciplina della Chiesa universale; la quale non potrebbe essere universale se non avesse unità, di cui Roma è centro. Se si trattasse di sapere quali sono le più belle vesti e i più bei parati di Chiesa, si potrebbe sostenere che i gotici vincono tutti gli altri in maestà religiosa. Ella sarebbe una questione di gusto, e come i gusti sono diversi, così a certi uomini piacerebbe una forma, a certi altri un' altra, e la uniformità non si potrebbe giammai ottenere: i vestiti e i riti varierebbero in ogni chiesa di una nazione stessa e dello stesso tempo. Volendo seguire questo sistema, si finirebbe con introdurre i capricci della moda nella Chiesa di Dio. Dunque la scelta de' sacri parati non dee essere una questione di gusto, nè può decidersi da chicchessia. E` questione d' istituzione ecclesiastica: gli abiti sacri non possono essere variati, se non da quell' autorità che gli ha istituiti o approvati. Solo in tal modo si può ottenere l' uniformità degli abiti sacri e delle cerimonie, che è un' espressione visibile dell' universalità e dell' unità della Chiesa di Gesù Cristo. Dicendo a voi queste cose, non intendo già di comandarvi che vi opponiate con forza all' inclinazione che si manifesta in cotesto Distretto medio pe' paramenti sacri di stile gotico; rimetto la cosa alla vostra prudenza. Se tutti i nostri Superiori si terranno passivi ed indifferenti, la cosa non andrà molto avanti. Raccomando bensì di predicare opportunamente a tutti i nostri: 1 che la carità di Cristo è universale, ed esclude qualsivoglia egoismo, specialmente il nazionale; 2 che la Chiesa Cattolica è universale come la carità; 3 che la Chiesa universale è fondata nella unità della S. Sede Romana; 4 che gli uomini all' opposto tendono sempre a restringere l' universalità e a spezzare la unità; 5 che l' Istituto nostro, che trae il nome dalla carità di Cristo, dee opporsi alla tendenza degli uomini, e promuovere la causa dell' universalità e dell' unità della Chiesa, coll' universalità della carità. Questa dottrina dolcemente insinuata nelle menti produrrà i frutti desiderati a opportuna stagione. [...OMISSIS...] 1.44 Se ha qualche cosetta da sofferire per amor di Dio, va bene che se ne rallegri, pensando nello stesso tempo a tanti che sofferiranno più di lei. M' è parso sempre un buon pensiero quel di riflettere a chi patisce in ogni momento nelle diverse parti del mondo. Quanti lottano colle agonie della morte, anche violenta! quanti combattono colle più fiere tentazioni! quanti sono martoriati da pene interiori! Noi non conosciamo distintamente quelli che in tante diverse maniere sono angosciati, ma basta anche solo conoscere un po' in generale quanto passa continuamente in questa valle di lagrime, per poter raccogliere che il Signore tratta noi assai dolcemente al paragone, ed essergli grati anche di questo. Supponendo che ella brami che le dica alcuna cosa sui punti della relazione comunicatami, non dubito di farlo colla presente. Sul punto del chiamarsi vittima , Le ho già scritto; e da quello che le ho scritto Ella avrà già inferito, quanto sarei ora per dirle, cioè che io non consiglierei mai ad una società religiosa di pigliare il titolo di vittime del sacro cuore di Gesù , perchè troppo pomposo; giacchè non v' ha cosa nè più grande, nè più onorifica che di essere vittime dell' amor divino. La vittima dell' amor divino è più che santa, è giunta all' apice della perfezione, alla quale non si giugne propriamente che in cielo, dove quelli destinati da Dio ad essere sue vere vittime avranno compito il loro sacrifizio. Ora come nessuno quaggiù in terra può sapere di essere santo, senza un' espressa rivelazione, così molto meno niuno può sapere d' essere vittima, nè dee riputarsi tale, ma solo desiderare di essere. D' altro lato tutto ciò che appartiene alla santità si dee procurare di nasconderlo agli occhi degli uomini: onde come mai tutte le religiose d' una congregazione potrebbero da sè stesse pubblicare che sono vittime del santo amore, e pretendere che gli uomini le chiamino con un titolo così magnifico? Queste buone religiose, imponendo a se stesse una tale denominazione, si canonizzano da sè stesse, mentre per essere canonizzate converrebbe prima che morissero, e poi facessero di que' miracoli solenni e pubblici, sui quali solo la Chiesa istituisce il processo della canonizzazione. Di più, gli uomini non potrebbero in coscienza dare loro un tal titolo, senza esporsi a mentire; perocchè quantunque le religiose fossero persuase di meritare tanto onore, tuttavia, non consterebbe della verità della loro persuasione agli altri uomini, se pur loro non rivelasse Iddio espressamente che tutte quelle religiose sono destinate da lui vittime da immolarsi sull' altare dell' amor suo. Fino dunque che noi viviamo quaggiù in terra pensiamo pure ad amare Iddio, e a divenire vittime del suo amore, domandandone ed aspettandone da lui la grazia; ma non pensiamo a chiamarci con sì bel nome, e molto meno a volere essere così chiamati da tutto il mondo. Se ella si compiacerà di riflettere tranquillamente su tutto ciò, s' accorgerà facilmente che, quanto al titolo di Vittime del sacro cuore da darsi alla istituzione alla quale le parve essere chiamata, altro non può essere stato che un gioco della sua fantasia. Spero che ella abbraccierà questo mio ingenuo sentimento, e l' abbracciarlo le riuscirà di profitto. Non cesserà già per questo di fare il più gran bene ch' ella possa al prossimo, secondo le occasioni che le verranno offerte dalla divina Provvidenza, perchè non v' ha niente di più caro al nostro Signor Gesù Cristo che l' amare ed il fare del bene al prossimo, e specialmente alle anime: l' amor del prossimo è il più sicuro segno e il più bell' esercizio dell' amor di Dio. Dopo di ciò ella mi domanda consiglio intorno alle letture che mi sembrassero a lei più convenienti, e glielo darò in breve. Nessun autore di mistica, nè pure le opere tanto pregevoli di Santa Teresa. Tutto ciò che dicono gli autori, che trattano degli stati d' orazione e delle divine operazioni nell' interno dell' anima, può essere utilmente studiato dai direttori per altrui direzione; ma è di poco profitto, di grande imbarazzo, di difficile intelligenza, ed anche di pericolo alle anime che quelle dottrine vogliono applicare a sè stesse. Il mio e suo S. Francesco raccomandava oltremodo la semplicità in trattando con Dio e cogli uomini, e v' ha gran pericolo di perderla avvolgendosi nelle sottigliezze della mistica. Egli è assai meglio amare, contemplare, pregare il Signore col menomo possibile ritorno sopra di sè stessi, su ciò che avviene nell' anima nostra, o che fa l' anima nostra. Il nostro bene è fuori di noi, è Dio in sè stesso e nel prossimo. Giova dunque pensare a Dio e non a noi stessi; cercare lui specialmente ne' prossimi, e non assottigliarci per misurare i passi nostri, con cui l' andiamo cercando. Esclusi i mistici, a lei sono già noti i più sicuri ascetici e non dubito che ne sia riccamente fornita. Mi restringerò adunque a darle un sol consiglio, quello di leggere abitualmente il « Nuovo Testamento », specialmente le proprie parole di nostro Signor Gesù Cristo, che hanno una soavità e forza infinita, sono adattate ai dotti ed agli indotti, rendono un sapor celeste, prestano un alimento divino, sono della più esatta verità, senza che nessun pensiero umano vi si intrometta, e d' una inesauribile sapienza. Le proprie parole di Gesù Cristo , ecco il cibo a lei adattato, e adattato a noi tutti. Le altre parti del Nuovo Testamento, oltre i Vangeli, servono a intendere meglio le parole di Cristo. Potrebbe anco ricorrere ad alcuni libri dell' Antico Testamento e specialmente ai Salmi, ai libri Sapienziali, a Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, e al Deuteronomio, procurando di ridurre questi libri a Gesù Cristo ed al suo amore: perchè a Cristo veramente tutti si riferiscono: tutti ben intesi lo annunziano e lo celebrano venturo: e insomma alle parole di Cristo Gesù convien sempre ritornare col pensiero, e abitare e riposare in esse con tutta l' anima. In queste parole s' impara massimamente il precetto tutto proprio di Cristo, e nuovo nella sua bocca divina, quello dell' amor del prossimo. A questo gioverà infinitamente, per dirlo di nuovo, ch' ella diriga le principali sue cure e meditazioni. Spero ch' ella mi scuserà, se mi diffondo più del bisogno, e vorrà riconoscere anche in questo, che altro non mi muove che quella carità del Signor nostro in cui ritrovo contenuto ogni bene. Credo però d' avere ora soddisfatto alle sue domande. Resta ch' ella mi compatisca e mi continui quel soccorso d' orazioni, che considero come abbondantissimo conpenso a questa leggera e dolce fatica. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Presumendo il suo permesso, ho confidato a un mio compagno, il sacerdote Pagani, il progetto inviatomi della pia unione, e meco conviene nel riconoscere che l' atto, con cui un cristiano offerisce sè stesso, la propria vita, il proprio sangue a Dio, insieme col sangue e colla vita di Cristo, e coi patimenti di Maria, è il più bello ed eccellente che si possa fare; e però approva in sostanza, che si promuova questa divozione, eccitando i fedeli a praticarla. Ma perchè è molto ardua a farsi con sincerità (cosa importantissima se deve essere buona ed utile), perciò gli sembra da tenersi piuttosto fra pochi, che da propagarsi fra molti, con pericolo che diventi una comune e languida formalità, com' è accaduto ad altre divozioni per sè stesse ottime. Egli anche suggerisce che il titolo della pia unione sia più breve e più semplice; che l' offerta che si stabilisce venga recitata tre volte al giorno dagli ascritti, o almeno una, e che, lasciate le altre regole, all' offerta sussegua il modo di praticarla o, per dir meglio, i sentimenti e gli affetti da cui essa deve essere accompagnata quando si recita; acciocchè essa sia recitata bene, con sincerità d' affetto e cognizione di ciò che importa l' offerire sè stesso al Signore. Che se si volessero aggiungere delle piccole meditazioni o riflessioni sul sangue sparso da Gesù Cristo, sul Sacro Cuore, e sui patimenti di Maria, dove gli stessi sentimenti contenuti nell' offerta venissero più ampiamente esposti in forma di soliloquio, per chi ha comodità di usarne, anche questo potrebbe riuscir vantaggioso. Gesù la ricolmi dell' amor suo; e penso che ciò Le basti. Non cessi di pregare per me e pei sommi bisogni miei propri e di quelli che meco insieme servono il Signore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Restituisco i manoscritti favoritimi, pieni di fervorosi sentimenti, pei quali ho lodato il Signore da cui provengono. Avendomeli Essa mandati per ubbidire al suo Direttore, il quale pure mi prega di dire il mio parere sulle cose in essi contenute, riconoscendo prima di tutto la mia poca perizia, glielo esporrò con tutta la dovuta sincerità. In generale non dubito punto dire, che Ella si trova, per misericordia del Signore, in sulla buona via, per la quale non è a pensare altro se non che a tirare avanti con prudenza e semplicità. Non disapprovo adunque che continui a scrivere quanto passa nell' anima sua, per sua propria edificazione, e per informazione di quelli che la debbono guidare nel suo cammino. In particolare non feci che poche osservazioni e sono queste: La prima, che per altro calcolo poco o nulla, riguarda certe espressioni colle quali Ella sembra di credere che in certi stati, in cui Le avviene di trovarsi, le potenze del suo spirito sieno oziose: il che non è, mancando solo l' avvertenza delle loro operazioni, ed essendo l' oggetto, in cui sono occupate, generale, onde non ammette discorso e distinzioni. Ma, come dicevo, di questo non faccio caso, perchè ho veduto in altri passi che Ella viene poi a spiegarsi meglio, dicendo presso a poco altrettanto. La seconda è più importante, ed è, che mentre in descrivere certi sentimenti avuti si diffonde notabilmente, pare che mostri della ripugnanza ad esprimersi francamente ed interamente sopra certe altre cose più necessarie a sapersi per chi la deve guidare, e questi sono massimamente tutti quei luoghi, nei quali tocca, sembrarle che Iddio voglia da Lei qualche impresa misteriosa da compirsi fuori del suo Monastero. Fino a tanto che si tratta di opere buone, specialmente riguardanti la carità del prossimo, da farsi restando Ella nel luogo dove Iddio l' ha collocata, converrà esaminare le cose per minuto, ma poi non ci sarà forse difficoltà. Ma non così la penso, se si trattasse di dovere uscire dal luogo, in cui ora felicemente si trova: perocchè, già per questo solo, la cosa dovrebbe tenersi per sospetta, fino a tanto che Iddio non desse delle prove palmari della sua volontà, per esempio, che il Papa gliel' ordinasse; il che non è per ora verosimile. Su di questa materia dunque trovo necessario che Ella ponga ogni cura ad esprimere e manifestare distintamente ciò che passa nell' anima sua, essendo il punto più importante per chi la deve dirigere; a meno che Ella deponesse ogni pensiero di ciò, e la cosa finisse così. La terza osservazione si riferisce alla stessa materia, e mi si presenta forse dal mio non bene intendere il suo pensiero. Quando Ella parla delle vittime che vuole il Signore, parmi che Ella intenda di essere chiamata a fondare un monastero o una società di queste vittime. Ma converrebbe distinguere più cose. Egli è certo, che Iddio ha mandato il suo Verbo a incarnarsi ed immolarsi vittima pei nostri peccati. E` certo ancora, che la missione di Gesù Cristo è appunto questa di fare, che i suoi seguaci diventino simili a lui, vittime immolate sull' altare del divino amore. « « Io sono venuto a portare il fuoco in terra » », Egli disse, e il fuoco è quello che deve incenerire l' olocausto. « « Chi vuol venire dietro di me prenda la sua Croce » », e la croce è il supplicio dove Cristo è morto, e dove i suoi seguaci debbono pure morire. « « Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi » » e anche questo, perchè Gesù Cristo voleva dai suoi discepoli il sacrificio di se stessi. S. Paolo vuole, che i Cristiani sieno morti e sepolti con Cristo; e di sè dice, che era crocifisso al mondo, come il mondo a lui. Insomma le Scritture sono piene di questo sentimento, e Iddio ebbe sempre ed ha le sue vittime. Tali furono prima i Santi Martiri, e poi tutti i Santi Confessori, che morirono col cuore a se stessi, e non vissero e non operarono che per Cristo. Questa immolazione adunque di tutto l' uomo in onore del Creatore è il fine della missione di Gesù Cristo e della stessa creazione dell' universo. Felici quelle anime, che possono essere vere vittime bruciate dal fuoco di Cristo e condite del suo sale! Il predicare questa dottrina è cosa santissima, perchè è la dottrina stessa di tutto il Vangelo. Ma dopo di ciò, sarebbe un' altra ricerca da farsi quella « se si potesse fare una vera società di tali vittime ». Primieramente le vittime di Cristo ben sovente non sanno di essere tali: perchè chi può conoscere i secreti del proprio cuore, e sapere con sicurezza, che ci abbia nel fondo, dove non vede che l' occhio di Dio! Di poi, le vittime di Gesù Cristo non soffrirebbero di essere chiamate con questo nome, come appunto i celebri martiri di Lione non soffrivano d' essere chiamati martiri, benchè avessero sofferto moltissimo per Gesù Cristo, perchè dicevano: « non siamo ancor morti, il nostro martirio non è ancor consumato ». In terzo luogo, per formare una società di vittime, converrebbe conoscerle, ma Iddio solo conosce le sue vere vittime, e se l' uomo volesse giudicarle tali, prima di vederle coronate in cielo, andrebbe a rischio di raccogliere degli armenti, che, venuto il tempo dell' immolazione, gli sfuggirebbero dall' altare. In quarto luogo le società religiose hanno per iscopo di prendere gli uomini imperfetti e di aiutarli acciocchè, colla divina grazia, tendano alla perfezione; ma le vittime sono già perfette, non hanno bisogno di essere associate, e nè pure di conoscersi come tali. In quinto luogo, le vittime non si fanno tali se non con quell' ultimo atto di perfezione, col quale immolano se stesse; e quest' atto è l' opera di Dio; onde nessuno al mondo per quanto predicasse, eccitasse al bene o somministrasse i mezzi, che egli può al bene, potrebbe fare una vittima sola: e perciò una società, che s' incaricasse di formare delle vittime usurperebbe l' opera di Dio. Non è dunque possibile, a mio parere, istituire una società con questo titolo che agli uomini spirituali parrebbe ambizioso, ed al mondo, pur troppo, ridicolo. Che cosa adunque sarebbe possibile di fare? Quello stesso che hanno sempre fatto i santi fondatori delle religioni; unire delle persone che aspirano alla perfezione, e dare loro tutti i mezzi al perfezionarsi coll' orazione, colla mortificazione, colla povertà, colla solitudine ecc., eccitarli quanto è possibile al fervore, a non volere che il piacere di Dio, a cercare il più perfetto in ogni cosa, a caricarsi specialmente di tutte le opere di carità verso il prossimo, e dare il proprio sangue in aiuto dei loro prossimi: e in questi ministeri verso i prossimi è appunto dove possono trovare numerose occasioni di fare il sacrificio di se stessi, come l' ha fatto Gesù Cristo per nostro amore e per nostra salvezza, adempiendo così il precetto di Gesù Cristo di amarci scambievolmente, ed adempiendolo con perfezione, cioè spendendovi la vita stessa. E in questi esercizi della carità del prossimo è dove più sicuramente si esercita e spiega la carità verso Dio, non potendovi essere illusione di sorta nel fare ogni bene possibile ai nostri prossimi con fatica, umiliazione, e patimento nostro proprio: purchè sopra tutto anche in tali esercizi abbiamo la guida dell' ubbidienza, che è l' interprete fedele del divino volere. « « Se ci amiamo scambievolmente, dice S. Giovanni, Iddio si tiene in noi, e la carità di lui in noi è perfetta. Figliuolini miei, non amiamo colla parola o colla lingua: ma coll' opera e colla verità dei fatti » ». Or poi se fra queste persone, che si propongono di fare in tutto la volontà sua, e di spendersi a vantaggio dei prossimi, Iddio si sceglierà delle vittime, egli sia benedetto e lodato in eterno: questo è quello che bramiamo e che da lui dimandiamo. Colle orazioni nostre dimandiamo pure dal Signore, che egli mandi il fuoco celeste anche sopra tutto il mondo, e ne riceva l' olocausto in odore di soavità. Da parte nostra, dopo avere fatto quello che possiamo, in lui speriamo, che avrà pietà dei nostri peccati, e in lui riposiamo. Quanto a noi dunque, offriamo pure noi stessi al suo amore, senza crederci perciò già divenuti sue vittime; offriamocegli nel modo, che le scrivevo in sulla fine dell' anno scorso. Eccitiamo anche i prossimi a sì bella offerta, ma senza ingerire loro nell' animo il pensiero di essere divenuti vere vittime; perocchè è da lasciare tutto ciò al Signore; e più tosto procuriamo che tutti si credano ben lontani da tant' altezza. Facciamo, come S. Ignazio martire che solamente quando udì il ruggito dei leoni che doveano divorarlo, pieno d' allegrezza disse: « « Ora incomincio ad essere discepolo di Cristo » ». Eccole, Molto Reverenda Madre, le mie osservazioni. Ora vengo ad informarla dello stato del libretto progettato, che dee contenere gli esercizi per l' offerta di se stessi . Il tempo destinato a questo piccolo lavoro nel passato autunno, mi fu tutto rubato da minuti affari e convenienze a cui la carità non permetteva che mi sottraessi. Sono però desideroso, se a Dio piace, di applicarmi a così dolce fatica: ma quando il potrò? Dio solo lo sa; ma per qualche mese vedo la cosa impossibile. Ella preghi che il Signore, mi dia i lumi, gli affetti, le parole necessarie, acciocchè possa essere utile alle anime. [...OMISSIS...] 1.45 Partecipe delle gentilezze del Conte e più ancora della Contessa Masino, non posso a meno di venire a solvere un doloroso uffizio con Lei, ottima signora Contessa, un uffizio della più sincera condoglianza in questa nuova tribolazione che il Signore Le ha mandato, privandola della più intima persona di sua famiglia che sola Le rimaneva. Il Signore è certo egualmente buono, egualmente saggio anche in questi momenti che colla prova del dolore purifica le anime a lui care, come in altri momenti in cui le ricolma di prosperità e le incoraggia colle consolazioni al suo più fedele servizio. Io so, che Ella piena di Fede, e nutrita delle profonde verità della nostra Religione santissima, consolatrice di tutti i mali, non ha bisogno de' miei conforti, e che sa vincere il dolore della natura coll' altezza dell' animo rassegnato e costante. Anzi mi imagino che, avendo Ella conosciuto intimamente la bontà del cuore e le beneficenze del Conte Masino, a cui non mancarono, come mi fu scritto da Torino, nè pure nell' ultima malattia gli aiuti spirituali dei SS. Sacramenti, Ella raffrenerà la naturale afflizione colla ferma fiducia nella misericordia del Salvatore, che egli si trovi in un luogo assai migliore di questo misero mondo, che anche in mezzo alle illusioni che produce, pure si sente essere una terra d' esilio, un albergo di viaggiatori, o più tosto una mobile tenda nel deserto. E questi amari casi che ci fanno sentire vie più che questa non è la nostra patria, che non abbiamo quaggiù una città permanente, destano nelle anime buone come Lei, mia Signora Contessa, un indefinibile sentimento di speranza e un sospiro verso cose migliori e non periture, che ben dimostra quello che è stato detto ancora, che come in seno ai piaceri spunta la spina del dolore, così in seno ai dolori nasce pei veri Cristiani la rosa bella e fragrante della spirituale consolazione. E quel che è più, le disgrazie nostre temporali ci migliorano il cuore, ce lo fanno più umile, più dolce, più caritatevole, più distaccato ed anzi disgustato delle vanità. Onde il Signore che ama i suoi d' un amore perfetto, che ha per oggetto il loro miglioramento spirituale, permette che sieno così sbattuti, e si compiace di quel combattimento fra la natura e la grazia, in cui egli li vede valenti e trionfanti: ed anzi li fa tali egli stesso. Chi non ha più in terra le persone in cui riponeva i suoi legittimi affetti, questi ha più diritto di chiamare Iddio suo protettore, suo padre, suo sposo; chi è sciolto dai vincoli umani, benchè carissimi, questi ha acquistato una maggiore libertà di darsi a Dio e di consecrarsi a tutte le opere della carità e della pietà. Onde S. Paolo parlando della donna che non ha marito, dice che « pensa quelle cose che sono del Signore, ad essere santa di corpo e di spirito ». Certo che, essendo noi vestiti di corpo, quando ci viene rapita dai sensi nostri un' amata persona, non vedendola più, nè udendola parlare, nè potendo noi più parlare a Lei; ci sembra d' averla intieramente perduta. Ma quant' è più sublime il senso della Fede! Questa ci dice tutto il contrario, questa ci assicura che ciò che è perduto della cara persona è il meno, è un nulla in paragone di ciò che s' è conservato: la persona desiderata vive ancora, e non ha fatto che deporre la veste, una veste logora, sdruscita, già non più degna d' esser portata, e tuttavia questa veste non l' ha dismessa per sempre, ossia l' ha dismessa per cangiarla poscia in una nuova, magnifica, nuziale, che non prende più macchia, nè si lacera più, nè si corrode dalle tignuole, nè si consuma dal tempo, e che sempre nuova e bella rimane in eterno. Nè periscono gli affetti della persona resa invisibile ai nostri sguardi carnali, nè la memoria; ma ella pensa a noi ancora, e ci ama di più puro amore, ed è grata ai benefizi ricevuti nella pristina vita, ed è potente per rimeritarceli; perocchè ella sta vicina al trono della grazia e della misericordia. Ed è scambievole tuttavia il commercio degli affetti del cuore, perchè anche noi saliamo coll' ali del nostro spirito e della nostra fede fino a lei e, se ha bisogno ancora di noi, possiamo prestarle i più amorevoli e preziosi uffizi colle nostre orazioni ed opere buone; e, se non ne ha più bisogno, possiamo contemplarla colla speranza nostra nella sua altissima felicità e gloria, e compiacercene, ed esultarne nello spirito del Signore, e renderne a Dio misericordioso le grazie più vive. Ed anzi l' una e l' altra di queste due cose possiamo e dobbiamo fare ad un tempo, secondo la disposizione e l' invito del nostro cuore. Poichè anche quando le virtù conosciute delle persone passate di questa vita ci danno piena fiducia della loro salvezza, non possiamo però presumere che questa povera umanità sia comparita dinanzi all' Essere santissimo priva d' ogni legger mancamento da scontare e purgare; e però dobbiamo suffragarla, se mai di suffragi avesse bisogno. E quanto a me ben Le prometto, mia ottima Signora Contessa, che lo farò, e lo farò fare dai miei compagni, e da questi ottimi Novizii, e sopra tutto dalle nostre Suore della Providenza che tanto debbono a Lei, e che La venerano come madre. Che se il buon defunto non avesse bisogno di questi spirituali soccorsi, il Signore ne accetterà l' offerta a vantaggio della Signora Contessa, acciocchè sulla sua afflizione sparga la grazia, e, buona com' è, vie più la santifichi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Mi congratulo che Ella sia fatto Rettore di cotesto venerato Seminario, perchè questa è una buona occasione che la divina Provvidenza Le mette in mano di poter fare un gran bene alla Chiesa di G. C.. Ma non mi fa stupore l' intendere, che Ella si trovi in molte perplessità e dubbiezze circa la maniera di condurre un sì importante Istituto, in cui si formano ai più sacri ministeri i giovani leviti. E` già un bel lume che le dà il Signore quel di sentire le difficoltà dell' impresa e il bisogno urgentissimo ne' nostri tempi di riformare l' ecclesiastica educazione. Il clero oggidì, parlando in generale, è debole, pur troppo, prostrato e avvilito, rincontro a un secolo che tanto esige da lui: da sè stesso si è ridotto così malamente; ed una delle più grandi e delle più prossime cagioni fu il meschino disegno, le anguste proporzioni a cui si ridusse l' istituzione ne' Seminari. Vorrei poter versare nel suo seno tutto ciò che sento nel mio su questo argomento, se potesse capirsi in una lettera; e perciò attutendo quel sentimento ch' io provo di continuo, direi quasi, di sdegno, Le dirò in quella vece qualche parola almeno in generale, che risponda alla sua generale dimanda. La base immobile dell' educazione ecclesiastica è la SANTITA`. Ah quanto poco s' intende questo principio vitale e sostanziale! quanto facilmente ci si contenta ne' chierici d' una bontà mediocre, d' una vocazione ingombra e macchiata di fini umani, a cui l' acquisto d' un benefizio, d' un posto lucroso, d' uno stato onorevole secondo il mondo, agiato secondo il senso, è termine e scopo principale per non dir unico! Quanto poco si va al fondo per scrutinare la coscienza dei chierici; ond' entrano nel sacerdozio assai spesso schiavi di perverse abitudini, ignari del gravissimo incarico che egli è, con una maniera di pensare bassa, ignobile ed egoista, senza alcun amore agli studi, con amor grandissimo all' ozio, leggieri, mondani, senz' alcuna sodezza di vera virtù! Privi della coscienza della propria dignità, senza pur intendere la propria abbiezione, molti giovani sacerdoti, forse appena usciti da' Seminari, sottopongono le spalle a delicati offici di cura d' anime, delle quali non conoscono il prezzo, e perdendone molte perdon sè stessi. Di che io voglio raccogliere che la persona più di tutte importante in un Seminario è il Direttore spirituale, senza il quale è impossibile farne alcun bene; e vuol essere uomo di gran pietà e di molta testa altresì, giacchè le teste piccole guastano con ottimi fini. Soggiungerò a questa un' altra generale osservazione, ed è che il Rettore, per quantunque grand' uomo egli sia, non può cavare gran frutto dal suo governo senza che gli altri sacerdoti che lo coadiuvano sieno bene scelti, ciascuno a suo posto, e formino con essolui buona unione, per la quale il piano che viene abbracciato si possa eseguire con unità di pensiero e consenso di operazioni. Dopo la santità, radice e fonte d' ogni vero pregio ecclesiastico, viene la dottrina, la quale ne' Seminari si dà ai tempi nostri troppo mutilata, anzi pur come squarci di un cadavere. E mentre il sacerdote di questo tempo dovrebbe saper di tutto, neppure s' istituisce solidamente nella sacra teologia, dalla quale si troncano le più vitali questioni, credendole inutili alla pratica, quando esse anzi sono della pratica stessa la vita e la forza; e talora si assolvono i chierici dallo studio della dogmatica, senza dare pur loro altra morale, che quella de' soliti trattatisti, tutti volti a decidere ciò che è o che non è peccato in uso de' confessori, ma poveri di ciò che riguarda l' alta idea della virtù, e della vita virtuosa, e dell' evangelica perfezione. Onde gli studi, debbono essere, mio egregio signor Rettore, troppo più ampi che non si costuma ne' Seminari a' dì nostri; ed io credo che la sua penetrazione volesse forse alludere a questo difetto, quando mi accennava le sue perplessità ed i suoi timori. Ottimo è il pensiero che Le venne d' introdurre una Cattedra di scienza pastorale e di sacra eloquenza; ma queste scienze, e specialmente quella che insegna a praticare il pastoral ministero, dovrebbe formare il riassunto e quasi la corona di tutte l' altre; giacchè al pastore dell' anime viene il bisogno d' avere alla mano ed applicare ai casi tutte le cognizioni raccolte dallo studio delle varie scienze teologiche e delle ausiliarie. Per l' insegnamento di questa scienza gioverebbe trovare un uomo dotto in tutta la teologia, di gran pratica della cura dell' anime, fornito di naturale prudenza e di gran zelo; acciocchè potesse informare i suoi uditori. Ma non più, benchè l' argomento troppo più richiederebbe. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Nel giornale francese « L' ami de la Religion », 6 novembre 1.45, è riportata una lettera sulla conversione al cattolicismo del dottor Newman, e viene attribuita a V. S.. Io pensai che, se questa lettera è veramente sua, a Lei non dispiacerà che io soddisfi al bisogno del mio cuore che brama farle conoscere quanta consolazione in me e in molti de' miei amici ne abbia prodotto la lettura. La confidenza che Ella ripone nella preghiera, l' esclusione dell' eresia, come di un ostacolo dell' unione, il desiderio d' essere guidato dallo spirito di Dio nella verità, l' uniformità al divin volere, la speranza viva nella divina misericordia, e la sete della giustizia e della santità sono altrettanti doni del Signore, di cui la sua lettera contiene una non dubbia espressione. Voglia Ella dunque permettere, che un sacerdote cattolico del continente, che, nella carità del Signore, La considera come fratello, Le apra tutto intero il sentimento, che provò in leggendo quella sua lettera. Soprattutto il consolò l' intendere ch' Ella riconosce la potestà delle chiavi lasciata da GESU` Cristo alla sua Chiesa, e non potè a meno di dire seco stesso: « Sì, il buon Dio, che ha dati tanti lumi a quest' amico sincero della verità, gli farà anche conoscere, che la divisione dell' Inghilterra dalla Chiesa cattolica è avvenuta per un atto di questa potestà ». Quando io lessi nella medesima lettera, che ciò che tiene lontane dalla Chiesa cattolica le persone religiose d' Inghilterra, non sono le dottrine, ma alcune pratiche della Chiesa Romana, io ho concepito la più viva speranza, che Iddio, compiendo le sue misericordie, farà conoscere altresì a tali persone che la Chiesa Romana, che si professa nemica di ogni superstizione, non approva ciò che potrebbe esservi di men retto nelle pratiche di alcuni individui cattolici; e molte pratiche che in se stesse non sono cattive, salvo il dogma, non le impone come obbligatorie ai fedeli. Sì, tutti noi cattolici, da ogni parte del mondo, abbiamo ora rivolti gli occhi a cotesta illustre terra inglese, e facciamo incessanti e concordi preghiere, perchè il Signore voglia compire le sue misericordie sopra di quella, e speriamo, che quando il Signore, venuto il tempo, ci avrà esauditi, rinnestando questo tralcio separato nella vite del Supremo Padrone, la quale non può essere che unica, secondo le parole di Gesù Cristo; allora questo tralcio debba dare « fructum plurimum »: noi siamo persuasi, che Iddio prediliga cotest' Isola, e che il suo santo Spirito, spirito d' unione, operi in molte persone di buona fede, che pregano il Signore nella rettitudine del loro cuore, e che quest' operazione divina non potendo rimanere imperfetta, condurrà tali persone all' unità. Noi bramiamo che tutte queste persone possano prima di morire arrivare a quest' unità, verso cui sono mosse dal divino Spirito, senza però che il loro libero arbitrio rimanga legato. Specialmente noi lo bramiamo e lo speriamo per quelle che, riconoscendo già il potere delle chiavi, possono invocarlo e dimandare che loro sia aperto, se prima fu loro chiuso, e, riconoscendo il potere di legare e di sciogliere, possono dimandare d' essere slegati, se prima furono legati; il che appunto fece colui, nel quale V. R. nella sua lettera riconosce che operò lo spirito di verità. Questo spirito di Dio certamente lo illuminò a vedere che, se nella Chiesa non vi fosse un poter supremo delle chiavi, ma questo potere fosse dato a molti in egual grado o alle stesse condizioni; egli sarebbe esposto al disprezzo, e riuscirebbe incerto ed inutile, perchè mentre l' uno chiuderebbe, l' altro aprirebbe; mentre l' uno legherebbe, l' altro slegherebbe; si legherebbe e si slegherebbe a vicenda. Io confido nella retta intelligenza di V. R. e nel lume che Le dà e Le darà il Signore, che Ella riconoscerà come una verità di fatto, che quelli che rientrano nella Chiesa Romana, non solo riconoscono il potere delle Chiavi, ma il poter supremo delle Chiavi in S. Pietro e ne' suoi successori, avendo GESU` Cristo consegnate le chiavi nominatamente a quest' Apostolo, e impetrano che questo potere supremo delle chiavi apra loro la porta del regno de' cieli, che prima era loro chiusa. Questo è il fatto, tale è la loro credenza. Se questa loro credenza fosse falsa, sarebbe un' eresìa; ed Ella stessa riconosce che nella Chiesa Romana eresìe non ve ne sono. Se fosse un' eresìa, od anche semplicemente un errore professato da tutta la Chiesa Romana, come lo spirito del Signore avrebbe condotto nell' errore colui, di cui Ella parla nella sua lettera, ed altri, in cui Ella stessa riconosce l' operazione e la volontà di Dio? E se in tali persone la grazia del Signore, data probabilmente alle loro ed alle altrui preghiere, com' Ella giustamente osserva, produsse questo frutto; non è egli da credersi, che i bei semi che si sviluppano nel seno della Chiesa anglicana, siano appunto doni di Dio, che non abbandona le anime religiose di questa chiesa, per condurle soavemente allo stesso termine, cioè nell' unico ovile dell' unico Pastore? Che se non si può negare che la separazione dell' Inghilterra si operò per un atto della podestà delle chiavi, non si può nè pur negare che vi avesse una giusta ragione per un tal atto, cioè l' eresia che Ella, col lume datole dal Signore, riconosce esistere, più o meno, nel seno della chiesa anglicana. Non si può negare che l' eresia fu considerata sempre nella Chiesa per un giusto motivo di separarne le parti infette, privandole della comunione ecclesiastica, e che i fedeli, in un tal caso, si riconobbero sempre gravemente obbligati di tenersi uniti colla parte sana della Chiesa, dividendosi dall' altra; come pure è certo che la parte divisa dalla Chiesa non può esservi ricongiunta, se non per un altro atto della potestà delle chiavi che riapra loro la porta. Dio pur volesse che tutti i Vescovi separati che sono in Inghilterra, insieme colle loro diocesi, venissero all' unità! E parmi che il suo cuore, pieno di zelo per la gloria di Dio, miri a questo, ed aspetti questo, e lo solleciti colle sue preghiere. Se il Signore la esaudirà, noi ne benediremo tutti insieme con Lei il Signore in eterno! Ma se qualcheduno fosse chiamato dal Signore alla prima, alla terza, o alla sesta ora della giornata, io non vorrei che egli aspettasse a venire a lavorare nella vigna del Padrone per entrarvi insieme con quelli che fossero chiamati all' ora undecima. Quando il Signore chiama un popolo, suol nascere una specie di giudizio, una separazione fra quelli che egli assume e quelli che egli lascia: difficilmente rispondono tutti alla chiamata, « quidam credebant his, quae dicebantur, quidam vero non credebant »: i primi fanno la strada agli altri. Io credo che quelli che si unirono testè alla Chiesa cattolica, abbiano trovata la via più sicura e più breve di ristorare a nuova vita la chiesa anglicana. Le mie preghiere, o piuttosto quelle di noi tutti cattolici tendono a questo: ma noi preghiamo specialmente per colui, di cui il Signore si servì e si serve per purificare la chiesa anglicana dall' eresìa, per mezzo del quale ha fatto nascere in essa un movimento sì consolante: noi preghiamo caldamente, acciocchè il Signore si degni di fare divenire costui una di quelle pecore che affidò a Pietro, quando gli disse: « « Pasci le mie pecore » ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.46 Il P. Molinari mi avea pur troppo reso consapevole del pericoloso stato dell' ottima Signora Marchesa, sua madre, e preparato a sentire d' un giorno all' altro il doloroso annunzio, ch' ella ci ha abbandonati. Mi figuravo il dolore di tutta l' egregia famiglia, e particolarmente l' afflizione del mio carissimo amico Gustavo, di cui troppo conosco il tenero cuore. Ed ecco la sua lettera, che m' annunzia compiuta la trista aspettazione. Quell' ottima Signora adunque, delizia de' suoi congiunti, ornata di tanta carità, piena di tanta fede e ricca di tanta pietà, non è più visibile agli occhi nostri, non si trattiene più con noi in famigliari e virtuosi colloqui, non più appare qual centro, intorno a cui consorte, figliuoli ed amici si trovavano così volentieri uniti, e con sì virtuoso affetto! Ah diamo pure il suo tributo di lagrime alla natura che si risente della grave sua perdita; e poi diciamo col più famoso esemplare di religiosa fortezza che presentasse il tempo antico: « Dominus dedit, Dominus abstulit; sit nomen Domini benedictum! » Tale è certo l' esclamazione, che avrà già fatto più volte, con tutta la sincerità del religioso suo cuore, il mio carissimo marchese Gustavo, di cui ho prova nella stessa sua lettera: e quanta soavità di conforto non avrà già gustato! Quale salubrità di balsamo non è egli questo versato dalla fede nelle piaghe sanguinanti della natura! La volontà di Dio: che sublime parola! che luce per l' intelletto che conosce ed ama Dio! che bene ineffabile ed infinito che supplisce e compensa ogni altro bene! Oh volontà santissima, volontà sapientissima ed ottima, fuori della quale anzi non è più bene, ma sola illusione di bene, fiat, fiat! Oh adesione fortunatissima del nostro volere col volere sommamente buono, unicamente buono e perfetto dell' Onnipotente, adesione che trasforma in beni tutti i mali, in felici avventure tutte le umane calamità! Tali sono i sentimenti che io veggo in Lei, mio caro Marchese, e di cui io pure traggo come in questa, così in ogni altra sciagura temporale, indicibil sollievo, ineffabile consolazione. Ed ora specialmente mi è oltre misura caro il pensiero di avere questo conforto con Lei indiviso, al cui dolore partecipo. Ma dobbiamo ancora non poco rallegrarci considerando con che pietà la Signora Marchesa compì la sua carriera mortale, avendomi il P. Molinari raccontato con quale fortezza si faceva incontro al suo fine, con quanta sollecitudine dimandò e con quanta divozione ricevette i Sacramenti della Chiesa, e quanto rassegnata e sperante mutò questo albergo transitorio colla patria intrasmutabile. Onde se noi rimaniam privi per brev' ora di Lei, ella non rimane però priva nè di Dio, nè di noi, che in Dio ci rinviene e possiede. Che se qualche leggera macchia tenesse questa carissima anima, che fu viatrice per questo cammino del mondo, tutto fango e belletta, dove è sì difficile andare senza imbrattarsi ed è pure difficile nettarsene interamente, ancora lontana dalla visione della faccia del suo Creatore, a cui non può essere ammesso chi sia della luce men puro: il Signor nostro Gesù Cristo nella sua immensa bontà ci ha lasciati anche i mezzi efficaci per accelerare, coll' applicazione de' suoi meriti, la purificazione delle anime trapassate e renderle degne del suo cospetto. Ed anche questa istituzione divina e questa efficacia, che ci attesta la fede delle orazioni, e dei suffragi, e delle buone opere a vantaggio de' nostri cari defunti, è pur cosa preziosissima pei passati e consolantissima pei superstiti che possono accelerare il momento della beatitudine di quelle anime. Io unirò certamente le mie povere preci alle sue ed a quelle della famiglia, e anzi vengo pur ora (giacchè ho dovuto interrompere ier sera questa lettera) dall' aver celebrata la Santa Messa in suffragio dell' anima della Signora Marchesa, e così farò pur fare de' suffragi a' Sacerdoti miei ed alle nostre buone Suore della Provvidenza. Se si considera con viva fede che cosa sia la visione beatifica, oh quanta voglia viene d' invidiar santamente quelle anime, che già la godono! e quanto sdegno nasce contro la fiacca nostra natura che vorrebbe piangere di ciò che era pur necessario che avvenisse perchè fossero felici! Quanto stimolo altresì possiamo cavare da sì duri avvenimenti per istaccarci e liberarci vieppiù dalla servitù delle cose visibili ed unirci con Dio, considerando il tempo della vita presente come datoci dalla Provvidenza per fare il maggior bene possibile a' nostri prossimi e così ottenerci poi il riposo di un' eterna felicità! Le parole di S. Paolo: « dum tempus habemus operemur bonum », saranno forse corse al suo pensiero in questi momenti, come occorrono al mio. Mi imagino pur troppo quanto sentiranno vivamente la perdita fatta l' egregio Signor Marchese suo Padre, e l' ottima sua ava. La prego di presentar loro, come pure al Conte Camillo, le mie condoglianze più sincere. Potessi essere a Torino e dar loro qualche conforto! Ma sono anch' essi sì religiosi, che troveranno nella mano che flagella la mano altresì che copiosamente consola. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.46 Io spero che vedrò il sig. Newman, che Ella menziona nella venerata sua lettera, al ritorno di lui da Roma. Manzoni mi recò la lettera di Phillipps, che me lo raccomandava, qui a Stresa, e mi duole di non aver avuto occasione di prestargli qualche servizio da queste parti. Del resto ciò che Ella dice della sommissione di noi Fratelli della Carità all' Ordine gerarchico, ella è un punto capitale del nostro Istituto. Ho ben veduto che un Istituto generale non potrebbe esistere, se fosse, assolutamente parlando, soggetto alla giurisdizione dei Vescovi delle singole diocesi, ciascun de' quali pensa naturalmente pel suo gregge, e non allo stesso grado pel bene generale della Chiesa, che più importa, e che dee formar lo scopo di un tale Istituto; ho conosciuto che gli Ordinari delle diocesi non potrebbero reggere un Istituto colle stesse massime, collo stesso spirito, con perfetta concordia d' azione, e quel che è più, che, occupati nella cura esteriore delle anime, non avanza loro tempo (nella presente condizione di cose) per coltivare, quanto importa, la vita religiosa ed interna de' membri d' una tale società, che è pur la radice ed il fondamento delle virtù e delle opere esteriori. Ma d' altra parte, essendo essi i legittimi successori degli Apostoli, avendo la missione da GESU` Cristo, chi mai potrebbe, secondo una retta dottrina, voler operare qualche cosa nella Chiesa, senza la loro direzione, senza esser mandati da essi? Procurai dunque nell' Istituto della Carità di conciliare questa sommissione, obbedienza e religiosa servitù all' ordine gerarchico colla universalità dell' Istituto, colla indipendenza necessaria per poter esistere in un corpo ben unito, e perciò stesso forte, ordinato al di dentro e animato da un solo spirito, senza pericolo che ne venisse a patire la vita e la perfezione interiore. Ad ottenere tale doppio intento l' Istituto fu esentato dalla giurisdizione vescovile, acciocchè i propri Superiori potessero liberamente occuparsi a formare i loro soggetti alla santità; ma ebbe in pari tempo per sua regola e massima fondamentale di considerarsi come professore di vita ritirata e nascosta, aspettando dalla Provvidenza le occasioni di esercitare la carità, senza cercarle, e aspettando dai Prelati della Chiesa la missione necessaria per esercitare la cura delle anime e la predicazione apostolica; esercitando in tutto e per tutto questi ministeri secondo il voler dei Vescovi e prestandosi in ogni cosa di carità alle loro domande preferibilmente a quelle di qualsivoglia altra persona. E poichè, qualora i Parrochi e Vescovi fossero dell' Istituto stesso, cesserebbe ogni difficoltà; perciò fu pure stabilito come regola precipua, che qualora alcuno dell' Istituto fosse chiamato da Dio alla cura d' una parrocchia, egli fosse parroco e ad un tempo Superiore nato di tutto l' Istituto entro i confini della parrocchia, e così se fosse innalzato al vescovato, egli sarebbe Vescovo ad un tempo e Superiore nato di tutto l' Istituto entro i confini della diocesi. Ciò deve sempre aver luogo, verificandosi alcune condizioni stabilite dalle Costituzioni. Così l' Istituto è diviso per parrocchie, diocesi, provincie ecc., divisione rispondente a quella dell' Ordine gerarchico a cui deve servire. Venendo ora al discorso de' riti orientali, che è il principale oggetto della venerata sua lettera, niente affatto dubito di confidare alla sua prudenza ed amicizia la mia maniera di sentire; ed ecco qual' è. L' attaccamento dei varŒ popoli ai loro riti è così grande, e, se mi permette di dire, così cieco, che io credo che sarebbe impossibile di far rientrare nella Chiesa le nazioni scismatiche ed eretiche dell' Oriente, quando si pretendesse di farle nello stesso tempo cangiar di rito, inducendole al rito latino od altro; o almeno io giudico che per tali nazioni sarebbe uno sforzo assai più difficile mutar di rito, che mutar di fede. L' attenta osservazione del fatto lo prova a qualunque uomo che sappia osservare. Quindi la sapienza della Chiesa e della S. Sede raccomandò sempre a' Missionari che i riti orientali fossero rispettati: Ella conosce in particolare i Decreti di Benedetto XIV. Posto dunque questo sommo attaccamento alle antiche e venerabili liturgie de' popoli orientali, posto altresì l' efficacia del pubblico culto sul sentimento religioso, io credo, che una delle principali massime della Chiesa Cattolica nell' opera d' invitare a sè que' Cristiani che sono fuori del suo seno, debba essere e sia di mantenere o restituire a quei riti tutta la dignità che possono aver perduta agli occhi dell' Occidente, com' Ella dice egregiamente. Stimo del pari che sia un felicissimo pensiero quello che mi accenna, l' introdurre i diversi riti fra i membri delle Congregazioni cattoliche destinati a diventar Missionari e Pastori di quelle pecore sbrancate. Per riguardo all' Istituto della Carità basta il nome che porta a far risposta alla sua dimanda, basta il motto che lo caratterizza omnibus omnia . Ma acciocchè non nascesse confusione da tale provvedimento si dovrebbero istituire collegi di missionari, destinati a vantaggio di que' popoli che professano quei riti. E l' Istituto della Carità a ciò sarebbe disposto tanto più, che egli suole dividere i suoi membri in altrettanti collegi, quante sono le opere principali di Carità ch' egli esercita. Onde sarebbe cosa tutta conforme alla sua istituzione e al suo spirito che v' avesse, poniamo, un Collegio di Missionari pei Russi, uno pei Greci, uno per gli Armeni, e così discorrendo per le diverse chiese scismatiche di rito diverso. Vero è che nella regola nostra si dice che i membri dell' Istituto usano il rito romano; ma questo fu detto unicamente per escludere i diversi riti occidentali, che discordano dal romano, essendo troppo desiderabile che l' Occidente abbia un rito solo; ma non fu detto per escludere i riti orientali. Per altro, come Ella osserva, dovrebbe sempre intervenire in ciò la facoltà e l' approvazione della S. Sede Apostolica. Noi non cesseremo di pregare il Signore, che le eccellenti vedute di Lei e l' ardente suo zelo per l' avvenimento del suo regno apportino un frutto abbondantissimo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.47 Voi volete qualche indirizzo che vi scorga a ben giudicare delle cose presenti. Io non dubito che il movimento italiano sia ordinato da Dio a trionfo della sua Chiesa: ma anch' egli è un conflitto de' più opposti elementi, e la luce e le tenebre pugnano mescolati insieme, e pugnano a morte. Fra i campioni dell' inferno e quelli del cielo v' ha un partito mezzano simile a quello « degli Angeli che non furon ribelli, nè fur fedeli a Dio, ma per se foro (Dante) ». E benchè anche i primi sappiano qual sia l' arte dell' ipocrisia raffinata, tuttavia egli è men difficile guardarsi da essi che non sia giudicare rettamente di quelli che occupando il mezzo, partecipano dei due estremi. Per additarvene il carattere mi basta che voi consideriate quelle parole che Cesare Balbo pose in fronte al suo libro delle « Speranze »: «porro unum est necessarium ». A costoro l' un necessario non è più liberare l' anima dalla servitù del peccato, ma liberare l' Italia dalla servitù degli Austriaci. Dal qual principio logicamente procede che gli si può dare tutto, anche l' anima, per ottenere, quell' uno necessario; quindi agli occhi o almeno nella pratica di costoro, tutti i mezzi sono buoni per arrivare a quell' uno. Questo principio spiega maravigliosamente i loro costumi: bugie, calunnie, artifizi, sommovimento di passioni popolari, adulazioni, latrati, seminazioni di odŒ e di astŒ sopratutto nel clero, schiavitù della Chiesa, provocazioni alla violenza e alla guerra ecc.: tutto è buono, tutto è santo, tutto è perfettamente cristiano per ottenere il grand' uno necessario del loro nuovo cristianesimo, del loro nuovo evangelio. Da questo voi potete raccogliere che è una somma grazia che Iddio ci fece traendoci fuori dal caos di questo mondo e mettendoci in un cantuccio al sicuro da tanti inganni che avremmo potuto prendere, e da tante occasioni nelle quali avremmo potuto offenderlo. Per me ne giubilo, e non ho lingua da ringraziarnelo a sufficienza. Del rimanente ancora io vi ripeto essere io persuasissimo che tutto ciò che accade di bene e di male, mosso o permesso dall' altissima Provvidenza, tutto sarà in fine condotto ad uno dei più splendidi trionfi e delle più magnifiche glorie della sua Chiesa. Noi, e come cristiani e come italiani e come sacerdoti e come religiosi, potremo aiutare grandemente il felice esito del terribile dramma combattendo coll' orazione incessante, e con una diligenza, una carità vie maggiore nell' adempimento di tutti i nostri doveri. Per questa via le due parti, in cui non voi solo, mio dolcissimo, ma tutti siamo pur troppo divisi, diverranno un solo tutto; o almeno quella che è degna di vincere, vincerà e dominerà l' altra, che n' è indegna e che perirà come merita, lasciando che la prima s' integri e si compia in Dio suo principio, ove tutto ritrova, onde tutto ricupera. Nella separazione dal mondo, nella dolce pace della solitudine aspirando alla patria celeste, gioveremo alla patria terrena, perocchè i flagelli delle nazioni vengono dai peccati degli uomini; e dalla fede, dalla speranza, dall' amore, dalle sopraumane virtù vengono chiamate tutte le benedizioni sopra di esse. Ecco l' indirizzo che do a me stesso, e che do a voi, mio dolcissimo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.47 Rilevo dalla cara sua lettera che il Signore sapientissimo ed ottimo lavora dentro e fuori di Lei, e tutto dispone acciocchè Ella, distaccato da tutto l' universo, tutto a lui si consacri ed alla carità che è lui stesso. « Deus Charitas est . » A lui solo onore e gloria. Tanta grazia, che Iddio vuol fare a Lei, la desidero e prego a tutti, acciocchè sia fatta in terra la volontà del Creatore nostro com' ella è fatta nel cielo. Non badi alle parole ancorchè buone in se stesse, e di buoni, e fatte per bene, o sub specie boni , che la potessero raffreddare o disviare da quel santo proponimento in cui Ella ha posto la mira, e a cui non conduce, nè invita le anime giammai il nemico dell' anime. E se il movimento non può venire da di giù, dunque viene da di su; ne stia certo. Ella mi domanda alcune ragioni che persuadano come giovi sommettersi al giogo di una ubbidienza pienissima, qual si pratica nell' Istituto della carità, e vorrei scriverne un librettino, se avessi tempo, ma eccone alcune delle principali: 1 Il sentimento costante della Chiesa e specialmente di tutti i Santi schierati in ogni secolo, e per nominarne due soli, di san Basilio che raccolse le tradizioni orientali, e di san Benedetto che raccolse le tradizioni occidentali. 2 Le parole di Gesù Cristo: « qui vos audit, me audit »; le quali furono costantemente intese anche dell' ubbidienza religiosa « usque ad sanguinem », attesochè i Superiori degli Istituti approvati da' Sommi Pontefici ricevono dalla Chiesa l' autorità in quel modo che viene dichiarata nelle regole. 3 L' essere l' ubbidienza descritta la maggiore umiliazione ed annegazione dell' uomo, e però il contenere in sè l' adempimento compiuto delle parole di Gesù Cristo: « Qui vult venire post me, abneget semetipsum »; quindi ella ha un merito intrinseco, indipendente affatto dall' oggetto intorno a cui si esercita, o dall' essere prudente o non prudente il comando del superiore, purchè quanto viene comandato sia onesto; il vero bene sta nel prezzo morale dell' atto, non nella materia intorno a cui s' esercita; e la perfezione consiste nel cercare solo il vero bene, il valore morale. 4 L' umiltà , che è virtù evangelica intrinsecamente buona e perfetta, e che adduce un bassissimo concetto di se stessi e comparativamente un alto concetto di tutti gli altri, persuade il sottomettersi all' altrui parere, anche opposto al proprio, e quindi adduce all' ubbidienza , nella quale ci ha sempre un atto di umiltà, all' ubbidienza verso tutti, come dice san Francesco di Sales, molto più verso i superiori legittimi. 5 L' essere l' ubbidienza perfetta di molti ad un solo l' unico mezzo di esercitare la più estesa carità possibile a vantaggio del prossimo, e di compire le più grandi opere possibili per la gloria del Signore e della Chiesa; e ciò perchè un corpo, una società unita, diretta da una sola mente, è una macchina potentissima che ottiene assai più di quello che possano ottenere le forze sparpagliate dei singoli individui. Così un esercito regolare è immensamente più forte dei combattenti isolati senza direzione comune. Sarebbe un inganno manifesto quello dei soldati che volessero uscire dalle file o perchè non approvano le mosse ordinate dal condottiere, o perchè credessero di operare di più, liberi ed isolati: adoprerebbero forse di più, affaticherebbero forse di più, ma otterrebbero molto meno, ed anzi si farebbero ammazzare con poco frutto. Lo stesso è a dirsi dell' esercito del Signore. E` impossibile che individui divisi, per quantunque siano attivi, possano fare quello che possono fare società intere, rese forti dall' unione dell' ubbidienza. Conviene considerare che la perfezione consiste nel desiderio efficace di fare o di occasionare il maggior bene possibile a bene del prossimo e a gloria di Dio e della Chiesa. « Non si può dunque raggiungere la cima della perfezione se non unendosi in un corpo, associandosi in molti con perfetta ubbidienza, che è il vincolo dell' unità ». Tutto deve cedere a questo riflesso, se il desiderio del bene, di ogni bene, del bene maggiore possibile è veramente quello che vive e domina nelle anime nostre. Chi non adopera quel mezzo, che è l' unico ad ottenere di promuovere tutto il bene possibile, questi non è perfetto. Questa fortissima ed evidentissima ragione, che persuade la più piena ubbidienza, acquista un peso assai maggiore rispetto ad una società, che si prefigge appunto la carità nella sua immensa universalità, il precetto di Cristo senza limite alcuno. Il pensiero che il superiore potrebbe sbagliare nel comandare, non ha più forza alcuna contro quella grande ragione, perchè l' uno o l' altro sbaglio del superiore, d' uno o d' altro superiore, non toglie che, considerando la cosa in universale, la società a malgrado di tali sbagli accidentali, produca immensamente più bene che non gli individui separati, i quali sono pure anch' essi esposti qualche volta a prendere inganno, e tanto più quanto più sono liberi e abbandonati, e quanto sono meno umili. 6 Dimostrato che l' ubbidienza pienissima è intrinsecamente cosa santa e perfetta, e che racchiude in sommo grado le virtù evangeliche dell' umiltà, dell' annegazione, e della carità del prossimo, ne viene di conseguente che l' ubbidiente è preso sotto la protezione di Dio stesso, a cui intende ubbidire ed ubbidisce nel superiore, perocchè colui che fa tutto per Iddio, ha Dio che lo guida. « Justum deduxit Dominus per vias rectas ». Iddio dunque è quello in cui l' ubbidiente confida, e questa confidenza non può essere confusa, perchè Iddio « non confundit sperantes in se ». L' ubbidienza dunque da una parte è un atto di fede perfetta e di speranza in Dio, dall' altra ha seco la certezza che non può produrre all' obbediente se non il massimo bene, perchè tale è sempre lo scopo della direzione che presta Iddio a quelli che in lui s' abbandonano. Iddio conduce dunque l' uomo ubbidiente, ogni dì più, al vero suo bene, e per fare questo si può servire ugualmente d' ogni cosa, fin anco degli sbagli del superiore, i quali non sarebbero permessi se non fossero occasioni di bene all' ubbidiente preso in cura da Dio. Se dunque sbaglia talora il superiore, non isbaglia Iddio che lo permette, e lo permette sol quanto giova all' ubbidiente e non più: del resto Iddio illumina i superiori, dando loro tutta quella sapienza appunto, che è necessaria a conseguire il sommo bene degli ubbidienti, la somma loro santità a cui risponde una somma gloria. Per questo lo Spirito Santo dice in modo assoluto: « vir obediens cantabit victorias ». Eccole, mio carissimo in Cristo fratello già e compagno, alcune delle ragioni da lei dimandate. Nella lettera di S. Ignazio sull' ubbidienza, che la esorto a leggere, troverà altre belle cose. Da questo apparisce che l' ubbidienza, benchè pienissima, non è mai cieca: è cieca di ragioni umane, ma non è cieca di ragioni divine: si rinunzia per essa alle ragioni piccole e minute, ma non si rinunzia alle ragioni grandi, universali, soprannaturali: con essa si può talora fallire ad un fine mediato, ma non mai e poi mai al fine ultimo ed assoluto, all' unico nostro fine, a quello che è vero fine, e da cui tutti gli altri ricevere possono qualche valore. Dunque « exultemus in Domino » di avere trovato il tesoro nascosto nel campo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.4. Nelle più gravi sventure, da cui noi siamo colpiti, vi è la mano dell' amore infinito. « Deus charitas est . » Se a noi fossero palesi i misteri della sua misericordia che si nascondono talora fra i più giusti rigori, se fossero palesi e svelati come agli occhi dei comprensori celesti, l' anima nostra non potrebbe conoscere altri affetti che quelli della riconoscenza e del gaudio nelle prospere e nelle avverse cose egualmente. La santa fede supplisce alla nostra ignoranza dei grandi disegni dell' infinita bontà di Dio, ella basta a conservarci la pace del cuore nelle più gravi avversità, com' Ella esperimenta in questo momento; ma essendo la fede un lume infallibile sì, ma velato, se rassicura e conforta d' ineffabili speranze la parte nostra superiore, non impedisce sempre in noi che la nostra parte inferma senta potentemente la scossa della sciagura che ci priva delle cose più care. Così Iddio permise che fossimo ridotti per effetto del primo peccato, acciocchè il patire diventasse un merito, una purificazione, un sacrificio accetto al Signore unito a quello del suo diletto Unigenito che più di tutti ha patito, crocifisso di amore. Chi sa da quanti pericoli, da quante colpe, fu salvato il suo Augusto? Forse era questa l' unica via di condurre quell' anima al cielo, dove ora adora ed esalta la divina bontà, e reputa per la maggiore di tutte le sue fortune la ricevuta ferita e il breve patire, e prega pel suo tenero padre. Forse in una malattia non avrebbe ricevuto i Sacramenti colla stessa divozione e collo stesso fervore, lusingandosi di campare, e, se avesse avuto da rendere il conto di una vita più lunga, sarebbe forse stato còlto dalla diffidenza, o mancatogli quell' ardore che è proprio dell' età giovanile non ancora pervertita. Deh quanto mai non v' ha a temere e a tremare per la gioventù in questo secolo nequam! Quand' io considero i rischi d' un giovane in mezzo al mondo, reputo che Iddio debba fare un prodigio ogni volta che ne conduce uno sano e salvo all' eterna città dei santi. Tutto ciò che Iddio fa, lo fa per salvare le anime: questo è il fine della creazione: per questo fine è morto Gesù Cristo: i santissimi Sacramenti sono istituiti per questo ed hanno un' efficacia infinita, perchè hanno in sè la potenza di Gesù Cristo; egli ce li ha lasciati quand' è asceso al cielo, in suo luogo. L' opera di Dio non è mai priva del suo effetto: riposi dunque tranquillo nella grazia dei Sacramenti, munito dei quali il suo Augusto partì da noi. Suffraghiamo dunque colla più gran fiducia nella divina bontà il carissimo defunto, che fu sempre raccomandato al Signore anche prima della sua fine: celebrerò la S. Messa per l' anima sua, e raccomanderò a tutti i miei compagni di unire pure le loro preghiere al medesimo fine. Il dogma del Purgatorio è pure anch' esso un dogma consolatore! Quanti peccati che a giudizio degli uomini sembrerebbero mortali, agli occhi di Dio che considera le subbiettive disposizioni, riescono forse pure venialità, o per mancanza di piena cognizione, o per mancanza di deliberazione al male ch' essi contengono! Si conforti adunque, mio carissimo e veneratissimo Marchese: le orazioni non sono mancate in vita, non mancheranno in morte al suo Augusto: e l' orazione fatta per Gesù Cristo ottiene ogni cosa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.4. L' umanità mia soggiacque ad un gravissimo dolore leggendo nella cara vostra del 12, ieri pervenutami, che il nostro carissimo fratello Giov. Battista Boselli sta per abbandonare il consorzio di noi suoi compagni nel terreno pellegrinaggio. Egli ebbe ripieni i suoi giorni di buone opere: fu un di quelli che portò il calore ed il peso della giornata; e la sua dolcissima serenità in sul letto di morte, di cui voi mi parlate, come è pegno e preludio della prossima mercede che sta per isborsargli il Padron della vigna, così deve essere a noi d' ineffabile conforto e stimolo acutissimo per imitare i suoi esempi, la sua instancabile assiduità nel confessionale e in ogni altro penoso ufficio riguardante la salute delle anime, la sua pazienza conosciuta da pochi, ma ben nota a Dio, la rettitudine delle sue intenzioni, il fervore del suo zelo, la sua carità che il faceva tutto a tutti, la sua profonda umiltà e pieno distacco da ogni applauso degli uomini che temeva potergli diminuire la pienezza della mercede. Sì, io lo conobbi intimamente questo caro nostro fratello, che fu uno dei primi, di cui gustassi lo spirito: l' ho venerato profondamente, e molte e molte volte santamente invidiato. Quante volte non m' ebbe egli comunicato dei sentimenti celesti, e dei documenti preziosissimi! Quante volte non mi sono avveduto che nel suo spirito si diffondevano degli sprazzi di lume divino, lume intimo che forma il secreto dei santi! Ah sì, se egli se ne è andato, forse a quest' ora che scrivo, al possesso di quel Bene che ha sempre e solo amato, noi non dimentichiamo per questo di tenerlo vivo e presente agli occhi nostri, come un esempio di molte e rare virtù donatoci da Dio, perchè noi ne caviamo copioso profitto. Io intanto mi sono subito a Dio rivolto, sia per offerirgli il sacrifizio di questo caro compagno, sia per pregarlo che se qualche macchia dell' umana infermità lo rendesse tuttavia men degno del suo cospetto, purgata la macchia nel sangue di Cristo, e reso del tutto immacolato, volesse accoglierlo nel beato suo seno; sia finalmente perchè esaudisse l' orazione che nel suo seno il nostro felice compagno gli rivolgesse per noi che lasciò quaggiù pellegrini. Ma nel mentre che la virtù, la fortezza, la generosità del nostro compagno ci brilla dinanzi agli occhi più bella e più desiderata nel momento che ci vien tolta, dovremo noi forse, mio carissimo, pensare a gettare giù dalle spalle la soma che ci ha imposto il Signore, quasi sfiduciati per la mancanza dell' aiuto che ci prestava quell' operaio, che avendo finita la sua giornata entrò nel riposo e nel gaudio del Signore? Sono questi gli altissimi sentimenti della sublime vocazione a cui Iddio ci ha fatto la grazia di chiamarci? Pensa forse il soldato valoroso ad abbandonare il posto, dove il suo capitano lo ha messo in guardia? o non preferisce anzi di lasciarvi la vita più tosto che mancare al suo dovere? E` questo l' esempio che il divino nostro Capitano Gesù Cristo lasciò a coloro che si arrolarono al suo vessillo? E l' agricoltore, che semina il campo in un fondo, perde forse la speranza della raccolta al vedere che sopravviene il verno, e che si copre la terra di neve e di ghiaccio? o il vignaiuolo che pota la vite vuol forse raccogliere i grappoli maturi da oggi al domani, o anzi non aspetta con pazienza e fiducia che venga il sole a maturarli e colorirli, alla stagione ordinata dall' Autore della natura? Avremo noi meno longanimità, meno fede nella Provvidenza divina di quella che s' abbia il bifolco, o qualunque altro uomo industrioso e prudente del secolo, che ben conosce le cose tutte avere un periodo, ed il principio di un' opera od una intrapresa lucrosa esigere prima grandi spese e fatiche, e solo dopo gran tempo potersi adunare nello scrigno il guadagno? o saremo noi così indiscreti, così presuntuosi e temerari da pretendere da Dio favori e grazie, frutto di anime a lui guadagnate senza alcuna nostra grave fatica, senza sforzi, nè stenti, nè patimenti da parte nostra? Quando mai fece Dio tale cosa coi santi suoi? Non abbiamo noi forse lette le vite degli uomini apostolici, la loro costanza ne' travagli, la fiducia che non venne loro mai meno nella superna pietà, il sudore, il sangue, le ambascie, le malattie, i patimenti d' ogni maniera, coi quali essi ricomperarono insieme con Cristo le tante anime che hanno condotte a salvamento, arrivando S. Paolo a dire, che essi supplirono a ciò che mancava a' patimenti di Cristo? Ai quali non mancava certo niente in ragione di merito, essendo in essi il fondo di ogni merito, ma mancava in ragione di applicazione, volendo Gesù Cristo stesso in via ordinaria, per la sua infinita bontà e sapienza, che i Santi apostolici, unendo i loro patimenti a' suoi, ottengano che i suoi meriti vengano applicati a tante anime, che altramente andrebbero perdute, e che così partecipino anch' essi di ogni maniera di sua gloria, fatti quasi con esso lui corredentori del mondo. Beati quelli che intendono questa dottrina e se l' appropriano! Ingannati quelli che, invitati da Cristo alla vita apostolica o comecchessia chiamati legittimamente alla cura delle anime, cercano in un' altra dottrina la loro beatitudine! Vi debbono dunque, mio dolcissimo fratello, incoraggiare queste riflessioni fondate nella parola di Dio, a non lasciarvi venire meno l' animo, tenendovi fermo al luogo che vi è assortito, acciocchè non « excedas de loco tuo »; nè vi commuova punto il poco frutto, che sembravi fare tra questa popolazione, dovendo anzi per ciò stesso essere più cara al cuore del pastore partecipe di quella carità, di cui ardea colui che è il buon Pastore, e che cercò noi stessi prima di tutto come pecore sbrancate, e ci ridusse, senza badare a ciò che gli costavamo di affanni e di sangue, nel suo sicuro e dolcissimo ovile, nè contento di farci sue pecore, volle parteciparci il suo proprio pastoral ministero. Vi sovvenga di ciò che c' insegna la Scrittura divina, quando ci ammonisce che [...OMISSIS...] . Dalle quali parole s' inferisce che pel contrario riesce alla fine benedetta quella eredità che s' acquista con lunga aspettazione di stenti e fatiche. Vi sovvenga che non si edifica la casa se non colla sapienza, che non si consolida se non colla prudenza, non s' empisce di cose preziose se non colla dottrina, cioè colla pratica della dottrina che è la virtù, e che la stessa Scrittura ci avverte che l' uomo non è sapiente se non è forte, e non è dotto nel bene se non resiste con robustezza ed efficacia alle tentazioni; tutto ciò imparandosi colà dove si legge: [...OMISSIS...] E` dunque mio sentimento e mio volere (e questo equivale per voi altri a una manifesta dichiarazione della volontà divina) che rispetto a cotesta fondazione di Verona si mantenga quella massima delle nostre Costituzioni, che prescrive la costanza nelle opere intraprese, senza lasciarsi turbare dalle difficoltà che s' incontrano più o meno in tutti i principii, e che sono utili e necessarie nell' ordine della Provvidenza, acciocchè colla fiducia in Dio e colla lotta valorosamente sostenuta, meritiamo noi stessi dalla divina bontà la grazia del consolidamento dell' opera intrapresa. Conviene dunque, mio caro, rinforzarsi coll' orazione e con ogni maniera di spirituali esercizi, risuscitando nell' animo nostro abbattuto i sentimenti della fede, la quale se viene meno e vacilla, è indeclinabile il nostro affondare nell' onde. Conviene scuotersi ed operare più virilmente che pel passato, con maggior fervore e zelo, con maggiore efficacia ed energia, badando anche che una soverchia prudenza non leghi le forze, e non c' impedisca d' operare tutto il bene che possiamo, e per operarlo d' aprirci un campo più largo... Conviene dunque, mio carissimo, che voi subiate dolcemente ed alacremente la croce che vi vuole imporre quel Dio, il quale si giova delle cose più inferme all' opere sue, e al bisogno le soccorre d' ogni fortezza. Fatene la deliberazione fermissima, offerite pieno il vostro sacrificio, e non vi date altra cura che di consumarlo. Quello che è da fare con tutta sollecitudine, si è di fare approvare confessori il Mazzotti e l' Aimo. Qualora colla grazia di Dio, con uno zelo ardente, con pastorali esempi e documenti di sacra dottrina vi riesca nel corso di qualche anno di formare l' uno o l' altro di questi giovani sacerdoti, alle virtù, alla esperienza e alla prudenza del pastorale ministero: allora avrete in qualche modo il diritto di domandare, se il peso, che non avete ancora incominciato a portare, e che v' impaurisce all' imaginarlo, vi si rendesse per l' età più grave, d' essere esonerato sopra quello che sarà riuscito nella vostra scuola miglior discepolo. Ma rigettare ora un fardello, di cui vi aggrandite colla imaginazione il peso senz' averne sperimentate le dolcezze, è cosa che non conviene nè alla perfezione del vostro stato, nè all' imitazione di quell' esempio, a cui tutti i cristiani debbono conformarsi. Ed io menzionavo le dolcezze che non avete ancora sperimentate, perocchè la vita del buon pastore, piena certo di spine e di travagli, ha tuttavia le sue secrete dolcezze, le quali sono tali e tante per un' anima amante che vincono le amarezze, ed anzi rendono il pastore felice. Oltre di che, quale non è la gloria riserbata al pastore fedele! quanto diversa da quella dei cristiani comuni! quanto più splendida e più magnifica! altrettanto quanto è più sublime della comune la pastorale carità, che è tutta carità verso il nostro Signore Gesù Cristo. Ascoltate dunque, ed applicatelo a voi stesso, ciò che Cristo disse a Pietro: « Petre, amas me? si amas me, pasce oves meas ». A fine di giovare spiritualmente e corporalmente a cotesta parrocchia, trovo indispensabile che voi specialmente, dopo che sarete parroco, facciate bel bello relazioni colle migliori e più pie famiglie di Verona, le quali non mancano, e non mancherò di mandarvi io stesso delle commendatizie. Quindi potrete avere soccorsi a pro di cotesti poverelli, i quali dovete avere carissimi; e di mano in mano, s' intende col tempo, l' elemosine vi apriranno la strada a guarire le loro miserie e le loro infermità spirituali. Qui certo conviene che la carità del pastore sia ingegnosa ed anche ardita, non arrossendo di domandare. Vi esorto adunque a domandare l' elemosina ai più ricchi e più pii signori della città, sia quando si tratta di levare dal pericolo qualche zitella, sia per ogni altro grave bisogno, come la educazione di qualche fanciullo, o necessità somiglianti: con far questo vi introdurrete, vi farete conoscere, si saprà in Verona che a S. Zeno vi sono uomini zelanti per sovvenire alla poveraglia. Oggi 23, ho ricevuto anche l' altra vostra del 13 corrente, che non abbisogna d' altra risposta: ella bensì appagò il mio desiderio di sapere la malattia di cui è aggravato e che forse a quest' ora ci ha tolto il caro Boselli, benchè sulla natura di tal malattia mi si dia appena qualche cenno. Del resto, di nuovo coraggio nel Signore; non mancate all' espettazione che io e l' Istituto abbiamo posto in voi, e non mancherete, se vivrete di quella fede di cui vive il giusto, e che tanto ingrandisce i nostri cuori, perchè è la sostanza delle cose che abbiamo a sperare. [...OMISSIS...] 1.4. Non Le dirò quanto il tenore della venerata sua mi abbia fatto arrossire di me medesimo, ma ubbidirò senza proemio al suo desiderio, dicendole quale mi sembra dover essere la condotta di un Vescovo nelle presenti gravissime circostanze. L' incarico che un Vescovo ha ricevuto da Gesù Cristo di predicare il Vangelo e di condurre le anime degli uomini all' eterna salute è così sublime, santo e divino, che non v' ha cautela soverchia da adoperarsi, perchè nessun altro affare terreno ne impedisca od intralci e disturbi l' esercizio. Questo esercizio può essere intralciato sopratutto dalle umane opinioni in materia politica, le quali si dividono e contrariano secondo il vario sentire e pensare delle menti, e pur troppo ancora secondo le varie passioni da cui si lasciano agitare gli uomini e le cieche fazioni che ne derivano. Sopra di tutti questi interessi umani, di queste opinioni, passioni e partiti, che agitano e travagliano la società e l' umanità, si leva il Vangelo, e col Vangelo il Vescovo, che n' è il maestro istituito da Dio, e in questa regione celeste dell' Evangelio egli abita col suo spirito la città della pace imperturbata e felice: « Nostra autem conversatio in coelis est ». Parmi adunque che ogni Pastore della Chiesa cattolica adempia il suo ufficio e corrisponda all' altezza della sua missione divina, se, astenendosi dal prender parte in qualsivoglia politica controversia e dal dichiararsi per qualsivoglia fazione, si limiti a predicare a tutti egualmente e in modo generale la giustizia, la carità, l' umiltà, la mansuetudine, la dolcezza, e tutte le altre virtù evangeliche, riprovando i vizi contrari e difendendo acremente i diritti della Chiesa, dove venissero da qualsivoglia parte violati. Reputo che il Vescovo debba, sopratutto in questi tempi, spargere un olio balsamico di dolcezza nelle piaghe dell' umanità, debba guardarsi da ogni giudizio temerario, da ogni parola ingiuriosa a chicchessia, da ogni adulazione strappata dal timore, da ogni connivenza al male che gli fosse persuasa da speranza di giovare, conservando un contegno grave, riservato, fermo, con una conversazione verso tutti soave ed amorevole, ed insieme atta a far distinguere con una santa dottrina, ma senza alcuna veemenza, il bene dal male. Colla preghiera più assidua ed intensa, col promuovere più studiosamente il culto divino tra i fedeli e tutti gli esercizi di pietà, coll' eccitarli sopratutto ad una frequenza maggiore de' Sacramenti, commendandone l' eccellenza, e facendoli loro amministrare con abbondanza, potrà il Pastore attirare le benedizioni divine sopra il suo popolo, e preservarlo da molti mali richiamando molte menti traviate al retto sentire. E` dall' alto che ci dee venire l' aiuto, è il lume celeste che dee sgombrare le tenebre. Dopo averla ubbidita, debbo domandare scusa dell' ardimento d' averla ubbidita scrivendole cose nelle quali Ella a tutto buon diritto è mio maestro. [...OMISSIS...] 1.49 Una delle opere più vantaggiose, che conviene prefiggersi evangelizzando i popoli, si è di introdurre nelle famiglie e nelle popolazioni cristiane consuetudini le quali, quando si giunge a ben praticarle, propagano il bene di generazione in generazione, e diventano altrettante difese o ripari posti alla corruzione del mondo. Una di queste si è la pratica di recitare nelle famiglie giornalmente il santo Rosario; ed io bramerei che tutti i nostri missionari si prefiggessero d' inculcare costantemente questa pratica dappertutto ove vanno, e durante la missione trovassero tempo d' insegnare al popolo la maniera di recitarlo, spiegandogli anche il contenuto dell' orazione domenicale e dell' Avemmaria , non meno che l' ordine col quale il Rosario è disposto, del quale è parlato in quel discorsetto sul Rosario che si trova nella raccolta de' miei discorsi. Un' altra pratica da inculcarsi a tutti i cristiani che sanno leggere si è quella di andar sempre in Chiesa con un libro di divozione, col quale possano accompagnare le sacre funzioni. E` impossibile, in generale parlando, che il popolo stia raccolto nelle Chiese, e vi faccia veramente orazione, se non è provveduto dell' aiuto d' un simil libro. Mi è occorso più volte di vedere nella Chiesa una moltitudine di persone starvi coll' apparenza di statue o peggio, quasi non sapendo che fare o che pensare in quel luogo santo. Questo è troppo increscevole a vedersi fra i cattolici ed assai pernicioso alle anime, e in Inghilterra riesce di scandalo ai protestanti, i quali tutti vanno in Chiesa col loro libretto di preghiere. Io vorrei dunque che tutti i nostri missionari si prefiggessero d' accordo d' indurre i cristiani cattolici, a cui sono mandati a predicare, a provvedersi d' un simil libro, e a portarlo sempre seco e leggerlo in Chiesa. Ma perchè la cosa riesca, gioverà che tutti i missionari suggeriscano lo stesso libro, il quale potrebbe essere l' Eucologio stampato in Torino dai Fratelli delle Suole Cristiane. Converrebbe altresì, che i missionari ne facilitassero l' acquisto nei paesi ove vanno, portandone seco un buon numero di copie, o facendo che un libraio od altri ve ne porti, e che siano smerciati a buon prezzo, ma siano tuttavia legati in modo forte ed elegante. Leggete questa lettera a tutti i nostri missionari, ed esortateli tutti ad adoperarsi che queste due consuetudini s' introducano; e se prenderanno la cosa con calore, e sopratutto con uniformità e con costanza, riusciranno allo scopo. Coll' introduzione di queste consuetudini faranno un bene incalcolabile e duraturo, assai maggiore di quello che ottener potrebbero da molte prediche. Già è noto con quanto calore e zelo S. Domenico fece predicare il Rosario, e quanto bene abbiano fatto i Domenicani con questa divozione. Vorrei che tutti i nostri avvivassero in sè stessi lo spirito di San Domenico: così saranno benedetti dalla Madonna. Ma l' altra pratica, del libro di devozione da portarsi in Chiesa, non arrecherà meno di vantaggio alle anime, ed anzi ancor più. Se s' insegna a' cristiani a fare buona orazione, la causa è vinta. Il mondo va così male, perchè molti non fanno orazione, e molti altri la fanno malamente. Conviene cominciare dal poco per renderla facile, e il mezzo che conduce a ciò è appunto la pratica del libretto divoto che suggerisco. Voi tutti adunque, o fratelli carissimi, che siete sacrati alla grand' opera delle Missioni, accingetevi all' impresa di introdurre dappertutto queste due consuetudini; ma fatelo con perseveranza, senza la quale non può riuscire, e così avrete adempita la volontà del vostro Superiore, e in essa quella di Dio, da cui imploro sopra di voi ogni celeste benedizione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ho ricevuto le due lettere, del dì di Natale e pel primo dell' anno: e prima la ringrazio de' suoi buoni augurii che di tutto cuore Le ricambio; di poi La avverto che non mi appartiene ancora il titolo di Eminenza di cui mi onora, giacchè l' esule Pontefice ha sospeso per intanto la promozione degli stabiliti Cardinali, non pel motivo che addussero i giornali, ma per le dolorose circostanze in cui si trova al presente la Chiesa Romana. Venendo ora all' argomento della prima sua lettera, non parmi che Ella bene interpreti le parole di Nostro Signor Gesù Cristo. Egli disse beati i poveri di spirito, per encomiare e raccomandare il distacco di cuore da tutte le cose mondane; le quali si possono anche possedere e tuttavia esserne pienamente distaccati, usandone pienamente alla gloria di Dio. Così fecero gli Apostoli, ai cui piedi i fedeli della primitiva Chiesa ponevano il prezzo delle possessioni vendute; così fecero tanti Vescovi, che amministrarono le ricchezze della Chiesa a vantaggio de' prossimi senza restar macchiati dal loro contatto, e cavandone anzi grandissimo merito di carità per le sollecitudini spinose che sostenevano nella loro amministrazione; così fecero tanti monarchi che onoriamo sugli altari, un santo Stefano di Ungheria, un san Luigi di Francia ecc., i quali vissero tanto poveri di spirito quanto il minimo fraticello; così fecero tanti sommi Pontefici, che portarono il peso della temporale corona come fosse corona di spine unicamente pel ben della Chiesa, pei popoli loro affidati dalla divina Provvidenza. Il sommo Pontefice non considera mai sè stesso come possessore, ma semplicemente come amministratore e depositario degli Stati della Chiesa: è una sollecitudine di carità che gli è imposta, non un mondano dominio. Nè prova in contrario l' esempio o la parola di Cristo, a cui Ella si appella. Non l' esempio, perchè Cristo, sebbene re degli ebrei e del mondo, non volle assumere la corona temporale del popolo d' Israele; perchè questo non ne era degno, come assai ben mostrò quando invece di accettarlo per re lo confisse al patibolo, e Cristo voleva che il suo regno non gli venisse dalle mani de' perfidi che formavano il mondo, ma lo aspettava da Dio e dai Santi che operano per impulso di Dio: e qual dubbio che, se la nazione ebrea fosse stata fedele e santa, egli avrebbe accettato d' esercitare col mezzo di essa anche il temporale reggimento? Non la parola, la quale altro non significa, secondo la lettera e secondo l' interpretazione de' Padri, se non che il suo regno non era del mondo , cioè non proveniva dalle arti del mondo, dalla violenza, dall' astuzia, nè dagli uomini del mondo; ma bensì traeva l' origine dalla potestà di suo Padre, e dalla santità colla quale egli avrebbe tirato a sè tutte le cose: « omnia traham ad meipsum ». E in vero dalla santità da lui infusa nel mondo provennero poi tutte le largizioni dai fedeli fatte alla Chiesa, e i vari dominii che ella possedette o possiede, dei quali dominii uno è lo Stato ecclesiastico, forse il solo che ancor resta: giacchè come la santità è quella da cui vengono alla Chiesa i beni temporali ch' ella riceve, come dicemmo, unicamente in deposito e in amministrazione a comune vantaggio degli uomini, e massime de' poveri e de' sofferenti, così l' improbità è quella che spoglia la Chiesa di tali beni; e l' improbità se potesse, torrebbe non solo tali beni alla Chiesa, ma ancora l' esistenza e la vita, come già fece del suo Capo divino. D' altra parte non vi hanno regole di governare più giuste, più umane, più liberali, più fratellevoli di quelle che professa la Chiesa, la quale possiede la dottrina della carità. Si possono bensì mescolare nella pratica degli abusi e dei difetti umani, e contro questi è giusto che s' adoperi la censura; ma perchè il Governo ecclesiastico sia perfetto, basta che questi sieno rimossi: non conviene schiantare l' utile pianta, ma coltivarla a regola d' arte. [...OMISSIS...] 1.49 Quanto mi annunziate nella vostra lettera del 6 marzo mi caverebbe dagli occhi del cuore amarissime lagrime, se non assicuraste nella lettera stessa che Iddio vi ha preservato dalle cadute. Ma a buon conto apritevi con una apertissima e sincerissima confessione al P. Provinciale, giacchè questo è un mezzo utilissimo per rinforzarsi coll' aumento della grazia del Signore. Di poi è necessario che produciate in voi stesso una vera compunzione dei falli passati e risoluzioni più forti d' abborrimento al male per l' avvenire. Ma come si può avere la compunzione? Non si può avere se non si dà tutta la colpa a se stesso de' proprii peccati e della propria fragilità. Chi invece di far così, come fanno i veri penitenti, va cercando le proprie colpe nella condotta degli altri, e gli accusa ed incolpa anzichè incolpare e accusare unicamente se stesso, costui non acquisterà mai compunzione nè umiltà, nè distacco da se stesso, nè per conseguenza fortezza spirituale. Molto più se s' incolpano i Superiori a torto, il che è un atto di ingiustizia e di superbia; e finchè dura la superbia, come si può ottenere da Dio la grazia d' esser liberi da gravi tentazioni? I Superiori vi hanno trattato con tutta la carità, e questo lo so perchè il cuore non mente; essi hanno sopportato la vostra inquietudine e indocilità, ed i vostri lamenti, così contrarii alla vostra santa vocazione, in occasione che vi hanno rimosso dalla scuola: ora voi non ricordate più le molestie che voi avete loro arrecato colle vostre censure continue delle loro paterne disposizioni. I Superiori nondimeno hanno presunto bene di voi, giacchè sogliono sempre giudicare nel modo più favorevole de' proprii figliuoli, ed hanno supposto che foste interamente emendato, fondati anche sulle vostre promesse; e dopo aver lasciato trascorrere qualche tempo e datovi agio di esercitarvi in cose spirituali, hanno creduto di poter contentarvi rimettendovi in una scuola di fanciulli d' età maggiore: voi non avete fatto alcuna osservazione in contrario. Ora invece di umiliarvi profondamente davanti al Signore di una condotta così contraria alla perfezione religiosa, che cosa fate? andate col pensiero fuori di voi, e sospettate temerariamente che i Superiori non abbiano cura e sollecitudine della salvezza dell' anima vostra. Come può stare la compunzione, la penitenza, il raccoglimento, l' umile e fervorosa orazione in compagnia di sentimenti che vengono ispirati nel cuore dell' uomo dallo spirito della superbia? No, mio figlio, senza umiltà, senza profonda umiltà non si può conoscere se stesso, non si può avere quegli affetti di perfetta contrizione e di alto disprezzo di sè, che sogliono arrecare una grazia abbondante, colla quale l' uomo umiliato è preservato dai pericoli. A questo dunque tendete con tutto lo studio, ad acquistare un grande amore di Dio. Custodite con somma cautela i sensi: fate orazioni e mortificazioni: e sopratutto esercitate con perfezione l' ubbidienza e l' umile sommissione in tutti i vostri pensieri, parole ed atti. Del resto, certo che vi leverei anche subito dal posto ove siete, se temessi che non poteste tirare innanzi senza pericolo prossimo. Ma non conoscendo ben le cose, nè potendo in tanta distanza esaminare da vicino lo stato vostro, rimetto ogni disposizione a prendere al zelantissimo vostro P. Provinciale, a cui vi raccomando di aprir tutto voi stesso, e di ricorrere come allo stesso Dio, che prego di benedirvi, illuminarvi, santificarvi. [...OMISSIS...] 1.49 Figlio devoto ed ubbidiente alla Chiesa, che è la colonna ed il firmamento della verità, sommesso a tutte le sue decisioni, contro le quali non sorse mai un dubbio nell' animo mio, aderente coll' intime viscere alla dottrina celeste da essa insegnata, dove solo è la pace, il gaudio e la gloria della mente umana e la speranza dell' eterna felicità, io ho sottoposte le molte e molte volte con pubbliche e private dichiarazioni tutte le opere mie e tutte le mie opinioni a quella infallibile maestra e madre, nel grembo della quale per grazia di Dio sono nato e sono rinato alla grazia. Il tenore dell' ossequiatissimo foglio, di cui Vostra Beatitudine mi onorò in data 10 corrente, mi fa provare il bisogno di protestare di nuovo avanti di Lei il pienissimo mio attaccamento alle dottrine della Santa Romana Chiesa di cui sono figlio. Beatissimo Padre, io bramo modificare tutto ciò che ci fosse da modificare nelle mie opere, di correggere tutto ciò che ci fosse da correggere, di ritrattare tutto ciò che ci fosse da ritrattare. Ma il conoscere questo assai più che dalle mie proprie riflessioni, lo aspetto dalla sapienza dell' Eminentissimo Cardinale Mai, a cui ora intendo che Ella ha rimesso da esaminare nuovamente i miei scritti. Egli mi proporrà la dottrina della Chiesa, ed io la sottoscriverò ciecamente. Qualunque cosa nelle mie opere risulterà, dall' esame del Cardinale Mai, di contrario alle decisioni di santa Chiesa, io con giubilo la ritratterò e la condannerò. Io voglio appoggiarmi in tutto sull' autorità della Chiesa, e voglio che tutto il mondo sappia che a questa sola autorità io aderisco, che mi compiaccio delle verità da essa insegnatemi, che mi glorio di ritrattare gli errori in cui potessi essere incorso contro alle infallibili sue decisioni. Nello stesso tempo io desidero ardentemente, e, se oso supplicare Vostra Beatitudine di una grazia, La supplico che una tale definizione si solleciti per mia quiete e per edificazione del prossimo. [...OMISSIS...] 1.49 Ier sera mi fu recata la veneratissima sua scrittami per ordine di N. S. il Santo Padre, colla quale mi dichiarava, che la Santità Sua lascia a me la libertà di scegliere il luogo dove dovessi condurmi in queste circostanze. In conseguenza di che io mi dirigerò domani verso Capua per trattenermi qualche tempo, ed ivi in appresso prenderò consiglio dalle circostanze. Ella mi aggiunge un dolcissimo conforto dicendomi che il Santo Padre mi accompagnerà col suo affetto paterno, e che « pregherà costantemente il Signore, acciocchè mi conceda i lumi da poter conoscere tutto ciò che nelle opere da me scritte potesse dispiacere al divino dispensatore dei doni, la qual cognizione potrò avere volendo assoggettarmi al giudizio della Santa Sede ». Confido grandemente che qualora anche nelle mie opere io avessi inavvertentemente scritto cose erronee e perniciose, la misericordia di Dio Signore mi userà indulgenza, non avendo io mai cercato altro colle mie povere fatiche che la sua gloria, il bene della Chiesa e la salute delle anime; e questo stesso sentimento me l' ha infuso Egli per pura sua bontà. Qualunque decisione poi fosse per emanare dalla Santa Sede, io l' accoglierò con tutto l' animo mio e mi vi conformerò con gioia, non cercando io di sostenere le mie opinioni, ma le dottrine della Santa Chiesa Romana mia maestra, e questo pure lo spero dalla grazia di Gesù Cristo. La comunicazione che V. E. Rev.ma mi fa in iscritto e la benedizione che Sua Santità mi comparte espressa nella sua lettera mi avvisano di trattenermi dal venire in persona prima di partire a baciare il piede al Santo Padre, e fo volentieri questo sacrificio, raccomandandomi anche alle orazioni di Lei, che una volta si compiaceva chiamarmi suo fratello in Gesù Cristo, quale appunto da parte mia io Le sarò sempre e quale ho l' onore di dichiararmi umil.mo servo e fratello in Gesù Cristo. [...OMISSIS...] 1.49 Ricevo pur ora dalla mano del R. P. Boeri il veneratissimo suo foglio dato da Viterbo 12 agosto corrente, nel quale Ella mi significa che, essendosi radunata in Napoli per espresso comando di Sua Santità la Sacra Congregazione dell' Indice, di cui è Prefetto l' Eminentissimo signor Cardinale Brignole, questa fu di unanime consentimento, approvato poi dal Santo Padre, che si dovessero proibire le mie due operette aventi per titolo, l' una: « Delle cinque piaghe della Santa Chiesa », e l' altra: « La Costituzione secondo la giustizia sociale », ecc., e in pari tempo m' interpella sulla mia sommissione al relativo decreto, acciocchè possa esserne fatta menzione nel decreto medesimo. Coi sentimenti pertanto del figliuolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede, quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore, e me ne sono anche pubblicamente professato, io le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente, semplicemente, e in ogni miglior modo possibile, pregandola di assicurare di ciò il Santissimo Nostro Padre e la Sacra Congregazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ho ricevuto qui in Albano una lettera del caro Gilardi in data del 4 agosto, nella quale trovai copia di un' altra lettera che voi mi avete scritto in data del 7 luglio, dirigendola a Santa Lucia di Caserta, la quale debb' essere andata perduta. A questa prima di tutto rispondo pregandovi di non far cosa alcuna di ciò che mi esponete di aver deliberato coi vostri due Consultori in occasione della persecuzione mossa contro di me. Questa persecuzione conviene lasciare che si sfoghi, perchè è Dio che la vuole, cioè che la permette pe' suoi adorabili fini, ed io perciò ne sono contentissimo. Sono ormai certo che verrà proibito tanto il libro delle « Cinque piaghe » quanto quello della « Costituzione », senza che a me venga comunicato il motivo o la ragione della proibizione. Io mi sommetterò pienissimamente al decreto, come è cosa doverosa di farsi, e non ne domanderò la ragione, la quale già non mi sarebbe comunicata. Ho ragione di credere che quasi tutti i Cardinali e specialmente il Prefetto dell' Indice mi sieno contrari: prove di amicizia non ricevo che dal buon Cardinale Castracane e dal Cardinale Tosti, il quale ha la bontà di ospitarmi qui in Albano, ma nè l' uno nè l' altro di questi possono cosa alcuna nei momenti presenti. Sono momenti di turbazione e di passioni. Ottenuta la proibizione di quelle mie due operette, è ben naturale che non si possa parlar più di Cardinalato. Tuttavia, per le ragioni stesse che voi dite, io mi devo trattener qui fino che non mi sia noto espressamente il volere del Santo Padre, e vi sto tranquillissimo e contento. Il Padre Theiner fece stampare a Napoli un opuscolo contro il libro delle « Cinque piaghe », nel quale si dicono molti errori evidenti ed eresie. Io ne sto componendo una risposta, la quale mi sembra dover riuscire concludentissima; ma venendo proibito il mio libro, non conviene più che io la stampi, perchè sembrerebbe che volessi difendere una cosa proibita, e darei nuovo appiglio ai nemici. Le ragioni, per le quali io vi prego di non fare alcun fatto in questa bisogna, sono: 1 perchè essendo voi altri lontani, e non conoscendo le persone che attorniano il Pontefice, potreste fare dei passi assai falsi con pregiudizio dell' Istituto; 2 perchè sembrerebbe la cosa mossa da me, e la persecuzione, lungi dal cessare, si incalorirebbe vie più; 3 perchè non essendo io consapevole di aver fatto, detto o scritto cosa alcuna maliziosamente, conviene avere una viva fede in Dio, il quale dispone ogni cosa pel bene della sua Chiesa, e se sarà di sua volontà e di utilità alla Chiesa, farà indubitatamente tornare il sereno dopo la tempesta, e tanto più presto, quanto meno ci porremo dell' opera nostra e più della fede in lui; 4 perchè una persecuzione che non ha alcun solido fondamento, va a cessare da sè stessa solo tacendo e sopportando. Dirò come diceva San Francesco di Sales quando era messo in pericolo il suo onore: « Iddio sa di qual grado d' onore noi abbisogniamo per poterlo meglio servire; quel tanto d' onore che ci bisogna a un tal fine, Egli saprà mantenercelo, senza che noi ce ne prendiamo sollecitudine ». D' altra parte da tutti questi avvenimenti nascono molti beni; e fra gli altri io ne vedo uno, del quale sono a Dio gratissimo, e questo si è del tenermi più lontano dal mondo e da uno stato di cose così imbrogliate e difficili, in cui al presente si trova lo Stato Romano, dal quale non si vede alcuna uscita. Povero me, se dovessi o come Cardinale o con altro impiego prender parte agli affari di questo Governo! Io sarei intieramente sacrificato senza produrre alcun bene agli altri. Così lontani, come voi siete, non potete conoscere nè immaginare questo orribile caos. Iddio adunque per la sua singolare misericordia mi salva ora dal perdermi in un vortice divoratore. Ben intendo il trionfo che meneranno i nemici, le dicerie dei malevoli, l' alienazione da noi di molti deboli amici; ma noi dobbiamo sapere servire al Signore « per infamiam et per bonam famam ». E se possiamo sperare di avere Iddio con noi, « quis contra nos? Si consistant adversum me castra... in hoc ego sperabo ». Acciocchè poi voi vediate chiaramente tutto ciò che è avvenuto fin qui in questo affare, vi mando copia della relazione che ne ho data al nostro buon amico il Cardinale Castracane, raccomandandovi nello stesso tempo di usare il più gran secreto e una somma prudenza nel favellare. Questo è il tempo di tacere e di pregare. Il Papa non rientrerà nello Stato, a quanto si crede, prima del mese d' ottobre, e perciò non ispero ricever ordini prima di quel tempo. Attenetevi dunque ai miei consigli, e siate superiori a tutto ciò che dicono gli uomini, nei quali non dobbiamo confidare, e i quali non dobbiamo temere. Scrivetemi quanto prima d' aver ricevuto la presente. Dite al caro Gilardi, che per ora non si può più parlare della ristampa del libro delle « Piaghe ». Io vi ho sempre tutti nel cuore, e vi metto ogni dì sulla patena e nel calice di Cristo. Egli vi custodisca e benedica perchè possiate arrecare quel frutto plurimum che esige dalla vite che egli va potando. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ringraziamo il Signore, il quale ora permette che io sia preso assai di mira anche da persone, che moltissimo influiscono sul Pontefice. Si fa ogni sforzo perchè vengano messi all' Indice i due miei scritti delle Cinque piaghe , e la Costituzione ; e vi riusciranno per certo non avendo io alcuna via aperta a difendermi. Io mi sommetterò alla condanna con tutta la sincerità del cuore. So che non mi verranno comunicate le ragioni, e un Cardinale mi disse che errori non ve ne sono: saranno probabilmente proibite per l' inopportunità di quegli scritti e il pericolo d' abuso. Non ci affliggiamo punto di questo, mio caro, ma, come dicevo, ringraziamone il Signore, il quale vuole provarci, o permettere a Satana di cribrarci. Io mi fermerò in Albano, dove convivo coll' Em.mo Tosti in questo suo casino: il Cardinale mi usa ogni atto gentile. Quando rientrerà il Papa nei suoi Stati, e non sarà certo prima di ottobre, allora saprò forse qualche cosa delle sue disposizioni a mio riguardo. Qualora voi poteste senza inconveniente venire in Italia, io ve lo permetto: nè sarebbe da tardare per non incontrare la stagione troppo fredda al ritorno. Potreste forse sbarcare a Napoli, e di là recarvi qui meco, il che mi sarebbe di grande consolazione. Ma tutto si dovrebbe fare in modo che non ne soffrisse cotesta cara e importantissima Missione inglese per la vostra assenza. Voi coi vostri Consultori giudicherete. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Non ho fatto che puramente il mio dovere nel sottomettermi pienamente al decreto della sacra Congregazione che fu poi approvato dal Santo Padre. E perchè non intendo di scrivere la presente al Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, ma alla privata persona del Rev.mo Padre Buttaoni, a cui ho somma devozione e stima, aggiungerò che, per pura grazia di Dio, non ho mai avuta in vita mia alcuna tentazione in materia di fede, e non ho mai esitato un solo istante a condannare qualunque cosa la santa Sede fosse per condannare ne' miei scritti o altrove. Quando nel mese del prossimo passato settembre il Santo Padre si era degnato ordinarmi di scrivergli una lettera, nella quale dichiarassi o correggessi alcuni punti osservati nelle due note operette che mi avrebbe fatto indicare da Mons. Corboli, io per desiderio di uniformarmi colla più saggia esattezza alla mente del Sommo Pontefice, pregai lo stesso Mons. Corboli di estenderne la precisa minuta, e quindi copiata la sottoscrissi e la presentai al Santo Padre. Quando poi lo stesso Santo Padre mi disse che la facessi esprimendo più esplicitamente il punto che riguardava le vescovili elezioni, ubbidii subito come era debito, e mandai da Napoli a Gaeta quanto mi sembrava desiderare il Papa, di che egli non mi fece più alcun cenno. Avendomi in appresso il Santo Padre stesso scritto di aver deputato ad esaminare le mie opere il Cardinal Mai e ordinato di conferire con lui, ne lo ringraziai e mi recai tosto dal detto Cardinale per adempire tutto ciò che mi avesse indicato; ma ebbi per risposta dal Cardinale, che egli non avea voluto accettare un tale incarico, e che il Santo Padre ne lo avea dispensato. Così stavano le cose quando ricevetti qui in Albano il veneratissimo suo foglio del 12 corrente, riuscitomi del tutto improvviso. Ora Iddio è testimonio della mia sincera e costante disposizione di sottomettermi in tutto, e di ubbidire in tutto ai miei superiori. Perdoni, Rev.mo Padre, se La ho trattenuta con questa inutile lettera, a cui non s' incomodi a rispondere. La ho scritta pel dovere di renderle grazie de' benignissimi conforti che mi dà colla gentile sua del 20 pur ora ricevuta. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 « Sit nomen Domini benedictum », al quale è piaciuto che si proibissero i due libri delle « Cinque piaghe » e della « Costituzione ». La cosa mi venne assai improvvisa, perchè mi fu tenuta secretissima: si fece in un' adunanza della sacra Congregazione tenuta a Napoli straordinariamente, non col solito segretario, ma con altro a ciò delegato: con quei cardinali che ivi si trovavano, essendo alla presidenza Brignole, sempre avverso alle cose del nostro Istituto, e per consultore si adoperò Secchi7Murro: niuno che fosse a noi benevolo. Ringraziamone di nuovo Iddio: io mi sono sottomesso alla proibizione ciecamente, benchè mi sia tenuto segreto il motivo, il quale, a dir di taluni, fu più politico che religioso. - Mi ha dato non leggera consolazione spirituale l' intendere che vi siete adoperati nell' assistere i colerosi: faccia Iddio che siate i primi di tutti in tali opere di generoso zelo. Beati, se vi toccasse la grazia di esser vittima della carità! Ma anche il sacrificio che non si consuma materialmente, spiritualmente è perfetto: e Iddio che è spirito ve lo imputa a corona. - Vi raccomando di governare i fratelli nello spirito del Signore, secondo le norme e le regole dell' Istituto, con dolcissima carità e con fortezza costante. Non chi comincia, ma chi persevera sarà salvo. Abbraccio e benedico tutti cotesti miei carissimi in Cristo. Non pensate alla traslocazione del Cesana, ma a sopportarlo e renderlo migliore: fategli fare il cinto ed il tabarro di cui abbisogna, come vedrete dalla annessa lettera. La carità pazientissima usata da lui col caro Don Roberto, la cui anima godrà ora la vista di Dio, merita che noi pure siamo verso di lui in particolar modo caritatevoli, rendendogli il cambio de' suoi servigi. Addio, non vi prendete pena delle cose mie, perchè in qualunque modo vadano a sciogliersi, il Signore mi dona una pace perfetta, e spero nella sua misericordia che me ne continuerà il dono, com' io ne lo prego, e voi altri meco. [...OMISSIS...] 1.49 Gli amici che sempre eguali si dimostrano e non cangiano clima come le rondini, sono quel tesoro inapprezzabile di cui parlano le divine Lettere. Voi, mio soavissimo Paolo, siete uno di questi rarissimi, e la vostra cara lettera, nella quale il minor fregio è l' eleganza della latina favella, mi conferma quello che da lunghi anni conoscevo; perciò vi porto sempre, non dirò in oculis , ma nel cuore riconoscente. Tanto è poi vero quello che voi dite, che non si può rinvenire nulla di più dolce che il sapere con certezza di ragione e di fede, e il tener fermissimo, averci un Nume ottimo, sapientissimo, potentissimo, regolatore di tutte le umane cose, soccorritore di quelli che in lui confidano; che l' improvviso avvenimento testè accadutomi del vedere due mie opericciuole ascritte all' indice de' libri proibiti per nulla alterò la mia pace e la contentezza dell' animo mio, anzi espresse dal medesimo sentimenti sinceri di ringraziamento e di lode a quella Provvidenza divina, che disponendo ogni cosa coll' amore, anche questo per solo amore permise. Ma non crediate tuttavia che questa tranquillità sia cosa mia propria: perchè ben so che io sarei in balìa di ogni perturbazione e passione, se Colui che ascolta le umili nostre preghiere e conosce i bisogni della nostra infermità, non me ne avesse protetto misericordiosamente colla sua grazia, e in me sostituito al mio disordine umano il suo ordine divino. Laonde di questa stessa grazia del Signore nostro ho gran cagione d' umiliarmi e di essergli grato senza misura; di che conviene che i veri amici, come voi siete, mi aiutino a ringraziarlo anche di questo, il che io non so fare nè degnamente, nè bastantemente. E di vero quanto non sarebbe stato facile che io mi turbassi ad un annunzio così impreveduto, se non altro pel danno che ne potrebbe venire a' miei fratelli, che servono il Signore nell' Istituto della Carità, e pel dolore che ne proveranno? Ma in questo stesso mi confortano assai due pensieri: l' uno che so di certo che tutti si uniranno a me nella sottomissione e nella docilità, baciando anche la mano che ci percuote; l' altro che non si raffredderanno punto, nè diverranno perciò più lenti in quelle opere che prestano alla Chiesa ed alla carità de' prossimi con tante loro privazioni e fatiche. Quanto poi a quello che potranno soffrire dagli uomini, Iddio che li raccolse e che disse: « « Ove due o tre di voi si uniranno nel nome mio, io sarò nel mezzo di loro » », distenderà le sue ali, sotto le quali sicuri e fidenti troveranno ricovero. In quanto a me dirò sempre: « Tollite me et mittite in mare, et cessabit mare a vobis: scio enim ego quoniam propter me tempestas haec grandis venit super vos . » Sto anche pensando come possa recarmi quanto prima in mezzo di loro a consolarli: ma l' ingombro delle cose che ho a Roma, e di cui non so ancora come disporre, mi rallenta l' esecuzione di questo mio desiderio. Or basta: quando mi toccherà la buona ventura di riabbracciarvi, di più a voce. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Rispondo alle care vostre del 2 e 7 corrente, che non è d' affliggersi per la proibizione delle mie due operette; e ciò perchè non è da prendersi affanno che del peccato. Fu retta l' intenzione con cui furono scritte, la coscienza mi rende questo testimonio. Noi dobbiamo rimanere sinceramente sottomessi al decreto, e dobbiamo prendere anche questo avvenimento dalle mani dell' amorosissima Provvidenza che lo permise. Se fui obbligato ad accettare la porpora e a fare gravissime spese per provvedermi del corredo cardinalizio, se ne fu differito il conferimento per la fuga del Papa da Roma, se ora, come credo, il Papa non me la conferirà più; questo è affatto nulla, perchè non ci pregiudica, ed anzi ci può aiutare ad ottenere il nostro fine. Se questo è un disonore presso gli uomini, che giudicheranno esserci noi resi colpevoli di qualche grave mancanza, dobbiamo avere presente che noi dobbiamo essere ugualmente disposti a servire Gesù Cristo « sive per infamiam, sive per bonam famam ». Stiamo dunque tranquilli ed allegri, se possiamo essere umiliati e patire qualche cosa ad imitazione di GESU` Cristo. Quando il Papa mi annunziò il cardinalato, il nostro caro e santo fratello Gentili mi scriveva queste belle parole: Padre mio, si ricordi della porpora di cui coprirono le spalle di nostro Signor GESU` Cristo : egli parlava forse in ispirito quasi profetico. Spero che il nostro caro Istituto non soffrirà alcuna scossa da questo avvenimento; e se dovesse sofferirne, sarà per risorgere più bello e più glorioso nel Signore. Quanto a me, non vi prendete alcun pensiero umano. Non so ancora se e quanto mi fermerò qui: vorrei prima conoscere più esplicitamente la mente di Sua Santità. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Consideriamo, com' è dover nostro, le cose dall' alto. Una somma bontà e sapienza il tutto dispone per nostro bene e per la sua gloria. Quindi ho benedetto il Signore nella proibizione delle due mie operette, come in ogni altro evento più felice, e con tutta la sincerità e devozione del cuore mi sono sottomesso al decreto, senza conoscerne o ricercarne i motivi. Furono proibite: dunque c' erano ragioni di proibirle, altro a me non importa sapere. Sono bensì grato all' amicizia ch' Ella mi dimostra in questa occasione, di che mi è testimonio la sua letterina. Ho sentito con molto dispiacere, che cotesto ottimo Mons. Vescovo sia incomodato: prego Iddio che ce lo conservi. Spero che Ella qualche volta visiterà cotesti miei buoni fratelli di S. Zeno: li raccomando alla sua amicizia. Quest' anno non potrò vederli, come oltremodo bramerei; ma sia fatta anche in questo la volontà di Dio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando vi scrivevo che sarebbero state poste all' Indice le due note operette, io sapevo che il decreto era stato fatto il 30 maggio e confermato dal Papa il 6 giugno, perchè il Maestro del sacro Palazzo m' aveva scritto officialmente per domandarmi se io mi sottomettevo. Per quantunque improvviso mi sia riuscito un tal decreto (fattosi in Napoli in adunanza straordinaria, con segretario straordinario, essendo uno dei Consultori il P. Secchi7Murro), tuttavia non mi turbò, perchè raccomandandomi a Dio, non solo ebbi la grazia di sottomettermi senza difficoltà, ma anche con consolazione dell' animo mio, pensando che così ed io e l' Istituto sentiremo meglio di essere nelle mani paterne del Signore, e a quelle dolcemente ci abbandoneremo. Nessun motivo mi fu comunicato della proibizione, e proibendosi certi libri non solo per errori che contengano, ma ben anco per una prudente economia che intende sottrarre agli occhi del pubblico quelle dottrine di cui si potesse temere abuso, è verisimile che per quest' ultima causa si sia venuto alla accennata proibizione. D' altra parte non sarebbe la prima volta che con un nuovo esame si sieno tolti dall' Indice dei libri che vi erano stati inscritti, e fra gli altri, i libri che insegnavano il movimento della terra. Ma l' autorità ha parlato, e basta; noi tutti staremo sempre sottomessi ad ogni decisione. Conviene però che in pari tempo accresciamo la nostra fede, e confidati in Dio, stiamo fermi, come scoglio, nella fiducia della sua infinita bontà e provvidenza: sotto le sue ali poniamo noi e l' Istituto, lavoriamo allegramente, e senza avvilirci od abbatterci, per la sua gloria e pel bene de' nostri fratelli: e questa confidenza e santo coraggio domandiamolo a lui stesso caldamente, perocchè egli ce lo darà. [...OMISSIS...] Io mi sento a segno tale contento, che altrettanto non fui innanzi al decreto: la mia coscienza non mi rimprovera nulla: « Deus autem est qui iudicat ». Quando siamo umiliati, umiliamoci ancor più e saremo esaltati: la parola è di Gesù Cristo. Rinunzio alla consolazione di vedervi se la venuta vostra potrebbe pregiudicare cotest' opera santissima, che Iddio v' ha posto così manifestamente alle mani. Vi avrei detto molte cose, che non posso comunicare ad una lettera. La vostra supplica al Papa, benchè giunga tardi, farà buon effetto. Nei disegni di Dio sta qualche cosa di grande, di grande dico, anche agli occhi nostri, perocchè in sè stessi i suoi disegni sono sempre grandi, anzi infinitamente grandi. Circa il rimanente, vi risponderò dal Piemonte, dove conto ritornare, giacchè va da sè, io credo, che il Cardinalato, che il Papa mi obbligò di accettare (onde spesi da otto a nove mila scudi pel corredo), sia andato a finire nella proibizione dei due opuscoli; benchè questi fossero stampati e noti al Papa prima che mi ordinasse di prepararmi ad essere promosso alla porpora nel prossimo Concistoro, che doveva cadere nel passato dicembre. L' essere alleggerito del peso di questa dignità mi è caro, salvo il disonore che me ne viene presso gli uomini; ma anche questo lo sopporto pensando che uno molto maggiore tollerò Gesù Cristo, e che egli sa qual sia il grado d' onore che ci faccia bisogno per meglio servirlo in quelle cose nelle quali egli vuole essere da noi servito. Il nostro caro fratello D. Luigi fu profeta, quando, udita la promozione intimatami dal Papa, mi ammonì di ricordarmi di quel cencio di porpora di cui furono coperte le spalle di Gesù Cristo. Coraggio adunque! Io partirò pel Piemonte entro i prossimi quindici giorni, ma mi fermerò alcuni giorni a Firenze. Orazione, orazione, orazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando noi con retta coscienza cerchiamo di servire il Signore conviene riposarsi in lui, nè troppo rattristarci di ciò che avviene. Al Signore è piaciuto non solo che venissero poste all' Indice le due note operette, ma che questo affare mi si celasse con tanta secretezza, che allora solo il seppi quando vi scrissi, essendosi bensì fatto il decreto il giorno 30 di maggio e confermato dal Papa il giorno 6 giugno, ma non pubblicato se non sulla fine di luglio. Se avessi saputo prima che questo affare si trattava, non avrei mancato di avvisarvene. Ma come poteva formarne nè pure un prudente sospetto, se dai colloquii avuti col Santo Padre io dovevo anzi indurre tutt' altro? Già molto prima il Santo Padre m' avea detto che i miei avversari avenano la veduta corta d' una spanna. Io l' aveva veduto anche il 9 giugno e i giorni successivi cioè alcuni giorni dopo la conferma del decreto: m' avea trattato come il solito, m' avea parlato delle cose dello Stato, e solo nell' ultima udienza o nella penultima gli uscirono queste parole: « stanno esaminando le sue opere », il che io intesi di qualche esame privato, di cui mi sarebbe comunicato il risultato. In quella vece non si esaminavano, ma il decreto era già fatto, e confermato a voce da alcuni giorni. Lungi da me ogni maniera di cavillazione o di sottigliezza legale; ma ben vi dico, che se un uomo di legge volesse instruire su questo avvenimento un processo, avrebbe molti e validi indizi da far parere verosimile che il Papa non fu libero in tal negozio, che pronunciò contro il suo sentimento a me manifestato più volte, e che la conferma del decreto fu ottenuta orretiziamente e surretiziamente, e per una umana e diplomatica pressione. Ma come dicevo, tutte queste cose, e la mia causa stessa l' abbandono intieramente al Signore, da cui viene ogni cosa e per la causa del quale ho scritto quello che ho scritto: perchè la causa della Chiesa è la causa di Cristo. Le quali considerazioni fecero sì che, pel divino favore, la proibizione non mi abbia recato nè turbamento grave, nè grave dolore; e mi sia sottomesso con semplicità di cuore, senza fatica. Questa finalmente non importa una condanna delle dottrine; ma importa la proibizione fatta a' fedeli di leggere que' libri giudicati inopportuni e dannosi nelle presenti circostanze de' tempi. Così il Pontefice Alessandro II sottrasse agli occhi del pubblico il libro intitolato « Gomorrhianus » di S. Pier Damiani; e non è unico quell' esempio, senza intendere con ciò di paragonare me stesso con uomini così santi e dottissimi; e senza nè pure volere affermare nulla sulla dottrina dei due libri proibiti, sulla quale è certo che non ha parlato ancora la Chiesa. Io credo che se voi conosceste le circostanze in cui si trovava a Gaeta ed ora in Napoli il Santo Padre, vi farebbe assai meno maraviglia l' avvenuto. Persuadete dunque il caro Bertetti, che io nulla vi tenni nascosto di quello che seppi, non vi ho ingannati; ma bensì sono stato ingannato io, e tosto che rilevai la cosa, ve la scrissi con ogni schiettezza. A vostro conforto, voglio altresì aggiungere che l' effetto della proibizione e della mia sommissione, fu più favorevole a noi che contrario; tanto in Roma quanto in Piemonte e a Verona; eccetto nel partito de' nostri avversari. Non temiamo adunque come v' ho scritto nell' ultima mia, ma confidiamo grandemente in Dio, che caverà anche da questo, come da ogni cosa la sua gloria. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Vi sono oltremodo obbligato della cara vostra lettera, che dimostra ad un tempo ardente zelo per la causa di Cristo e della Chiesa, e molta amicizia per me. Ora lasciamo fare a Dio, mio carissimo, e noi non pensiamo che a fare il dover nostro; sforzandoci col divino aiuto di compiere ogni giustizia, secondo l' esempio datoci dal Signor Nostro Gesù Cristo. Questa giustizia voleva che io mi sottoponessi, con sincerità di cuore, al decreto dell' autorità competente, senza badare al modo straordinario col quale venne emanato e alle eccezioni alle quali potesse soggiacere, fra le quali una è il trovarsi in contraddizione colle private parole dettemi dal Sommo Pontefice. Deve essere nel grand' ordine della divina sapienza anche questo un mezzo necessario a fare andare avanti il regno di Dio e la gloria di Cristo: e noi, che altro non vogliamo, esultiamone. Nostro Signore, che non dà mai un peso a portare senza aggiungere forza a chi lo deve portare, ove umilmente gliela dimandi, mi ha conceduto in questa bisogna una pienissima pace ed anche letizia. Che vogliamo noi di più? Intanto uno de' beni che ne verranno, oltre quello della maggior nostra umiliazione e pratica uniformità al suo volere, sarà quello di poterci presto rivedere; perocchè conto di partir da Roma in pochi giorni e per la via di Firenze, Livorno e Genova, affine d' evitare i luoghi infetti di colera, restituirmi al nido di Stresa. Io non so più nulla dell' affare del Cardinalato, dopo esser partito da Gaeta, e dopo la proibizione; ma quello che io credo si è che non avrà luogo alcuna promozione alla porpora prima del ritorno del Santo Padre a Roma, dove è ancora incerto quando si potrà condurre, non prendendo un buon avviamento le cose pubbliche di questi Stati. Godo sentendo che siete stato incaricato dal Vescovo d' insegnare il metodo alle Monache della diocesi, e che lo stesso abbiate fatto colle nostre Suore: l' opera che avete alle mani è opera grande, opera di Dio, cui prego di cuore di volervi rendere un nuovo Calasanzio. Salutatemi in Domino tutti i nostri carissimi maestri, e confortateli ad intendere la dignità e la bellezza della loro santa missione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando noi non vogliamo altro che quello che vuole Iddio, godremo sempre la pace di Cristo che contiene ogni bene. L' improvvisa e inaspettata proibizione delle mie due operette non ha potuto togliermela; nè il modo segreto con cui fu condotta, nè i maneggi d' ogni specie che vi si mescolarono, impedirono che io mi sottomettessi con tutta la sincerità del cuore a ciò che stimò bene di pronunciare la competente autorità. Nondimeno mi conforta l' essere stato assicurato che la proibizione non fu fatta perchè si fosse trovata nelle dette mie operette alcuna proposizione degna di censura teologica, ma perchè si credettero inopportune alla condizione politica dei tempi, dispiacendo sopra tutto a qualche potenza temporale ciò che vi si trova scritto intorno alla maniera d' eleggere i Vescovi, quantunque scrivessi con sincera persuasione di dir cosa non meno utile alla Chiesa che agli Stati, cosa che influirebbe a mio vedere a temperare le esorbitanze de' popoli dando a questi una tendenza religiosa; i quali se non si avviano a pensare ed occuparsi delle cose religiose, rovescieranno la loro esorbitante attività sulla società civile, e ne turberanno tanto più l' ordine, quanto più saranno empi e indifferenti ai negozi religiosi. Comecchè sia, io mi sono ciecamente sottomesso a quel decreto, com' era mio debito. Godo assai de' buoni avanzamenti de' tuoi figliuoli, nei quali il Signore ti benedirà. A me non meno che a te dispiace che la nostra unione sia tolta, o almeno differita. Io credo che non ci saranno promozioni alla porpora prima che il Papa entri in Roma, il che non so davvero quando possa essere, lo stato delle cose pubbliche e delle opinioni rimanendo ancora tutt' altro che sicuro e consolante. Quando poi il Papa sarà tornato alla sua capitale non so quello che sarà di me. Perocchè quantunque a Gaeta stessa m' abbia assicurato che nella prossima promozione avrebbe compreso l' umile mia persona, tuttavia dopo la mia partenza di là venni a sapere ciò che si lavorava in Napoli, di cui fu effetto la congregazione straordinaria che proibì le mie operette: e questo può aver mutata la deliberazione del Papa, benchè nessuno avviso io ne avessi. In questa oscurità e contraddizione di avvenimenti, io penso di tornare per intanto a Stresa ed ivi aspettare l' esito definitivo che mi farà conoscere la volontà divina. Tu già sai che io nulla omisi per declinare l' onore e il peso del cardinalato, e che fui obbligato in coscienza a sottomettermi. Se dunque come tutte le cose sembrano tornare nello statu quo , anche io ritorno nello statu quo ; non è certamente questo che mi rincresca. 1.49 Non ho risposto prima alla dolcissima sua lettera piena de' sensi della più vera cristiana amicizia, ricevuta anche tardi, per diverse occupazioni che mi sottraevano il tempo destinato al carteggio cogli amici. Nel sottomettermi, come ho fatto con pienezza di cuore, al decreto emanato dalla autorità competente e riuscitomi del tutto improvviso ed inaspettato, non ho fatto che un semplice atto doveroso per ogni figliuolo della Chiesa, di cui io sono l' ultimo; nè per grazia di Dio un tale avvenimento mi diminuì punto nè poco la pace. Iddio mi è testimonio che quello che ho scritto, l' ho scritto pel bene della santa Chiesa e del prossimo, ma dichiarando in pari tempo che io non mi reputava il giudice di ciò che potesse convenire ai tempi ed alle circostanze, e quindi che io sottometteva ogni cosa al giudizio supremo della Chiesa stessa, che n' è il vero giudice. Ella ha trovato che fosse meglio sottrarre agli occhi de' fedeli que' miei suggerimenti o consigli; e così sia. Mi conforta che da più persone di merito fui assicurato, che niuna proposizione si riscontrò in quelle scritture degna di particolar censura teologica: onde inferisco che debbano probabilmente essere state proibite per timore dell' abuso, e perchè non rimanessero offesi alcuni Governi tenaci delle nomine vescovili; benchè io credessi in buona fede, che la libertà delle elezioni diventerebbe un vantaggio non meno della Chiesa che degli Stati, ai quali niente più nuoce dell' irreligione dei popoli, nè veggo come questa possa cessare se i popoli non abbiano Pastori di tutta loro confidenza, e i popoli stessi non prendano un vivo interessamento per tutte quelle cose che riguardano la religione e la Chiesa. Rivolta l' attenzione e il pensiero de' popoli alle cose religiose, non rovescierebbero la loro attività aumentata sulle cose politiche con sì gran danno dell' ordine pubblico, come pur troppo veggiamo avvenire e dolorosamente sperimentiamo. Molti già intendono la cosa così, ma non osano zittire, perchè il timore di far peggio comprime i buoni: ed anzi, venendo l' occasione di doversi manifestare, si mettono dalla parte contraria. Io però non veggo tutte le cose presenti della nostra religione santissima di color così fosco come la veggon taluni: ma confido vivamente che la divina Provvidenza vada preparando uno stato novello di cose, alla religione ed alla causa della Chiesa, utile e glorioso. Quanto poi s' attiene alla mia persona, nulla affatto ci penso, come nulla so di quanto sarà per disporre il sommo Pontefice, dopo tutti i precedenti. Intanto conto di restituirmi a Stresa fra i miei carissimi compagni che da tanto tempo non veggo, e m' accompagna la dolce speranza di poter ivi riabbracciare il mio carissimo amico Gustavo. Con sommo dolore debbo dire che qui le cose non procedono come si desidererebbe, nè lo spirito pubblico migliora, nè ancora si sa quando il Santo Padre potrà rientrare con fiducia nella sua capitale. Del pari mi danno gran dolore le cose pubbliche del Piemonte, mia seconda patria, e mi ha pur sommamente attristato vedendo i tentativi sacrileghi che si stanno ordendo per ispogliare la Chiesa delle sostanze temporali, e renderla schiava del Governo che le getti un tozzo di pane perchè viva. Chi avrebbe aspettato in un regno, poco fa così devoto alla Chiesa, macchinazioni così empie e così opposte ai principŒ più elementari del giusto e dell' onesto? E questa dev' essere la strada della libertà? Povera Italia! traditi Governi! Ho ricevuto a suo tempo la lettera scrittami prima in Albano, come pure ho consegnata l' acchiusa per l' Em.mo Tosti, a cui fu aggraditissima. Non è facile a dire quanto La ami e La stimi; egli ha dovuto tornare in Roma per alcuni giorni, dove lo rivedrò domani. Mi usò ogni immaginabile tratto d' amicizia pel lungo soggiorno che feci presso di lui. Mille ossequi a tutta la sua famiglia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Avrete ricevuto risposta alla vostra precedente lettera; ora aggiungo poche linee per rispondere all' ultima che mi avete scritta in data 17 p. p. settembre. L' abisso della divina sapienza e scienza di Dio merita un abisso di adorazione e di amore; e se la tardità e durezza del nostro cuore di carne non può toccare il fondo di questo abisso, dobbiamo almeno esercitare quegli atti di adorazione e di amore che possiamo maggiori, e il più che vi manca e che ci resta quasi in abito deve supplirsi colla conoscenza del difetto nostro e colla umiltà che ne consegue. Così avremo l' inalterabile pace di Cristo, che non il mondo, ma noi soli sentiamo. Questo principio verissimo ci dispensa altresì dal sottilizzare sull' autorità che ci parla e sugli atti suoi, e ci dispensa da una scienza travagliosa e pericolosa. Tanto più che della proibizione d' un libro non è conseguenza necessaria il contenere esso dottrine degne di censura, perocchè colla proibizione non altro fa la Chiesa che giudicarlo inopportuno a' fedeli, agli occhi dei quali il sottrae, come avvenne di un libro di S. Pier Damiani, e più recentemente dell' opera del P. Lacunza, del quale, parlando io una volta col Papa, mi assicurò egli stesso, che in quel libro non ci avevano dottrine condannabili, ma era stato proibito per una cotal prudenza ed economia della Chiesa. Conviene adunque che noi facciamo quello che è tante volte inculcato nelle divine Scritture colle frasi « expectare Dominum, sustinere Dominum », e ciò con viva sicurissima fede. Del rimanemente ringrazio di cuore il Signore che, mediante l' accidente intervenuto, egli siasi degnato di illuminarvi nella cognizione di voi stesso con aumento di umiltà (la più preziosa di tutte le virtù, perchè fondamento di tutte) e di saviezza. Domani parto per Roma, e di là m' incammino verso coteste anime a me carissime, e tutte colla mia nel Signore conglutinate. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Godo che la lettera del Cardinal Franzoni sia venuta a confortarvi in questa prova che v' ha mandato il Signore. Ma assai più ho goduto in vedere che la divina Provvidenza chiaramente si manifesta a favore del progetto, tanto da voi bramato, di erigere costì un Collegio di Missionarii per le Nazioni estere. Ora mi sembra cosa di somma importanza di cominciare dallo stabilire alcune massime fondamentali che servano di norma alla istituzione di detto Collegio. E prima di stabilirle, bramo di sentire tutti i vostri sentimenti e concetti, dandovi intanto su di ciò un cenno de' miei. Per quanto ho potuto osservare, parmi che nel preparare i Missionarii ad opera così sublime, si possano commettere due sbagli egualmente dannosi, i quali potrebbero isterilire le Missioni. Il primo si è di credere che Iddio doni la grazia dell' apostolato assai largamente, quand' ella anzi essendo di tutte sublimissima, non è data a tutti, ed esige la maggiore cooperazione da parte dei vocati, il cui numero potrà essere accresciuto soltanto per virtù d' orazioni, avendo detto Gesù Cristo: « « La messe è molta per certo, ma gli operai sono pochi: pregate dunque il Signore della messe che mandi operai nella messe sua » ». Sì certamente sono scarsi ed anzi scarsissimi gli uomini apostolici, i quali non possono essere tali, se non sono eminenti nell' orazione e nello zelo di annunziare la parola di Dio. « Nos vero orationi instantes erimus . » E questo ci dee fare conchiudere di non eleggere alle Missioni straniere, in cui si tratti di diffondere il Vangelo agli infedeli, se non quei pochi che sono di provata vocazione, e con zelo ardente a questa cooperano. L' altro errore si è di credere che per le Missioni agli infedeli faccia bisogno una grande scienza analitica, su quella forma nella quale s' instituiscono i Sacerdoti in Europa. Io credo che si dovrebbe studiare per trovare un modo d' instituire tali missionari all' apostolica, un modo che congiungesse insieme la pratica e la teoria, e che questa piuttosto venisse da quella, anzichè il contrario. Vorrei che si procurasse di accendere, o piuttosto nutrire in essi un ardentissimo zelo delle anime; e dico piuttosto nutrire, perchè lo zelo deve già prima ardere in essi, come un dono di Dio e segno della vocazione: le anime fredde e comode si dovrebbero escludere. Vorrei che fossero esercitati prima di tutto nel culto e nell' amministrazione de' Sacramenti, ne avessero il gusto, ne cavassero profitto cercando d' intenderne lo spirito e la lettera, e che dalla Liturgia si traesse, come da uno de' fonti, l' istruzione loro teologica. Vorrei che avessero un' altissima stima e devozione allo studio delle Sacre Scritture siccome ispirate da Dio, e sopra tutto del Vangelo, che n' avessero famigliare la lettura e la spirituale meditazione, ed indi come da un altro fonte si deducesse la loro istruzione teologica. Quando ci fosse tutto questo, ove avessero appreso un compendio contenente tutte le verità definite dalla Chiesa, un compendio di Morale, un altro di Diritto ecclesiastico per ciò che riguarda specialmente la gerarchia della Chiesa, potrebbero essere presso che formati, colla sola giunta di quelle notizie o cognizioni che richiedesse la missione particolare a cui si destinano. Io vorrei che, se Iddio ci dà la grazia di vedere istituito e consolidato questo collegio, gli alunni di esso si destinassero fino a principio tutti ad una Missione determinata, perchè conviene restringersi, e non sparpagliarsi, e perchè, se si prende in vista una sola Missione determinata, si può dirigere tutta l' istituzione a preparare missionari idonei alla medesima; laddove formare in un solo Collegio missionari per più Missioni, sembrami cosa impossibile. Mi pare che noi dobbiamo scegliere fra l' America inglese e le Indie pure inglesi. La Missione americana parrebbe più facile perchè s' avrebbe la lingua, e altro non si richiederebbe che imparare poi sopra il luogo, se non si può prima, le lingue dei selvaggi, nè v' ha quasi bisogno di filosofia. All' incontro se si preferisce l' India, io credo che noi dovremmo tentare una strada diversa da quella che s' è fatta finora, prefiggendoci d' andare ad assalire i bramini, al che fare si esige moltissimo studio delle loro filosofie, oltre alla lingua indiana e l' indiana antica, la sanscrita. Io credo che non si è fatto ancor molto in quel popolo, perchè essendo egli sommamente legato ai loro bramini, non si fa niente o poco rivolgendosi al popolo senza attaccare i bramini stessi, se non convertendoli, almeno confutando le loro dottrine, e facendo loro perdere quel credito di sapientissimi che si mantengono, e dimostrando che i missionari sanno anch' essi tutte le dottrine braminiche, e ne sanno di più, perchè le sanno confutare. Credo che senza questo le Indie non saranno conquistate alla fede, e questo è un lavoro duro e lento, al quale si esige anche molto ingegno, perchè quelle loro filosofie sono veramente maravigliose, e quasi l' estremo sforzo dell' errore. L' Inghilterra sarebbe un paese acconcissimo dove formare dei missionari ben addentro in tali dottrine, le quali sono state fatte conoscere all' Europa dagli Inglesi, specialmente dalla loro società di Calcutta; ma converrebbe mettere a suo tempo i nostri missionari, cioè quando sono più formati nello spirito, e in tal caso si dovrebbero anche formare, nella filosofia, e più avanti nella teologia, in relazione coi letterati e dotti in tali studi che debbono essere a Londra e in altre Università. Io bramerei che consideraste tutte queste mie riflessioni, e mi diceste, dopo invocato il lume divino, se vi paresse meglio assumere l' impresa di formare missionari per l' America, o per le Indie. [...OMISSIS...] 1.50 Voi mi proponete due sottilissime questioni, l' una fin dove, preparandosi a favellare al popolo, possa giungere la confidenza nel divino soccorso, senza che traligni in temerità o presunzione, l' altra come si compongano insieme la semplicità e la prudenza evangelica. Queste sono cose, o mio caro, che nessuno degli uomini può insegnare, e che Iddio ha riserbato a se stesso per insegnarle egli solo ai suoi servi. Ed egli le insegna un poco alla volta, perocchè questa scienza, o piuttosto questa sapienza è troppo grande per essere ricevuta tutta in un tratto da noi così poco preparati. Il perchè niuno ha finito d' apprenderla mai, e i santi v' impiegaron tutta la vita, e ne restava ancora. Conviene dunque dimandarla al Maestro, e non cessare mai di dimandarla con intensissime istanze, e con grida e gemiti, presentandogli l' anima aperta a ricevere tutto quello che egli ci mette, e gli orecchi del cuore aperti a non perdere sillaba della sua istruzione. Perocchè la dottrina celeste è così fatta, che quand' anche ci avesse un uomo che la sapesse e potesse ridurla ad una teoria umana ed esprimerla con parole, ancora avverrebbe che i suoi discepoli non la intenderebbero, se Iddio non aprisse loro l' intendimento alla sua luce, o la fraintenderebbero, se Iddio non dirigesse al vero la loro intenzione. Una cosa nondimeno io vi dirò sulle generali, e questa si è, quanto alla prima questione, che giova prepararsi, specialmente nel caso vostro, con tutta diligenza, nelle cose prima, e poi anche nelle parole, ma senza sollecitudine od inquietezza; nell' escludere questa consiste l' abbandono in Dio, e quest' abbandono esclude la sollecitudine sull' esito, non lo studio e la diligenza. Pensare all' oggetto e dimenticare il soggetto, cioè dimenticare affatto noi stessi, ma intendere con tutto l' impegno nell' oggetto, cioè nella dottrina che dobbiamo annunziare. Quanto alla lingua, di cui fa d' uopo vestirla, chi n' ha più bisogno e chi meno, e chi n' ha più bisogno dee più occuparsi: conviene che ognuno prenda regola in questo da quella misura di cognizione e di facilità che sa di avere. Credo che costì in Inghilterra vi abbia qualche copia di quell' eccellente libro che io raccomando ai nostri Predicatori, e che ha per titolo: « Guide de ceux qui annoncent la parole de Dieu (Chambéry, Puthod, 1.29) »: è una raccolta di precetti dei Santi intorno al vero modo di predicare, e vi troverete anche cose che fanno alla vostra domanda. Quegli poi è uomo semplice , il quale dice sempre la verità, e s' attiene ne' suoi pensieri, affetti ed operazioni, alla giustizia; quegli che non usa frodi per comparire più che egli non è, e che non fa uso di cavillose riflessioni per fare che la verità sia quello che a lui piace, ma accetta la verità qual' è, amandola come tale, senza intendimenti stranieri o fini secondarii: quegli è semplice che non si vergogna di confessare il Vangelo, anche in faccia agli uomini che non lo stimano se non come una debolezza o una fanciullaggine, e di confessarlo in tutte le sue parti e in tutte le occasioni, alla presenza di tutti, e senza fasto, ma unicamente perchè è vero: quegli è semplice che, piuttosto che fare un giudizio temerario, si lascia ingannare e pregiudicare dal prossimo, che prende tutto in buona parte, nè perde il sereno dell' animo suo per qualunque contegno gli altri tengano con esso lui. Questi è quello che è veramente semplice, che è un umile sincero, conoscendo schiettamente tutti i propri mali, e non ischivando altresì di riconoscere e confessare i beni che gli ha dati il Signore, con rendimenti di grazie e infinita gratitudine, non riputandoli a' suoi propri meriti, nè tampoco esagerandoli. Ma il prudente è quegli che sa tacere una parte della verità, la quale sarebbe inopportuna a manifestare, e che taciuta non guasta la parte di verità che dice, falsificandola: quegli che sa giungere ai fini buoni che si propone, scegliendo i mezzi più efficaci con solerzia ed energia di volere e di operazione: quegli che in qualunque affare sa prevedere tutti i casi possibili e le difficoltà che potrebbero incontrarsi, e sa per tempo evitarle: quegli che per tempo antivede ancora le difficoltà opposte o contrarie, cioè le difficoltà che nascono dallo stesso studio di evitare le difficoltà, e quindi sceglie la strada di mezzo che è quella che incontra difficoltà minori e minori pericoli: quegli che avendosi proposto qualche fine buono, ed anche nobile e grande, non lo perde più di vista giammai, e colla costanza del suo proposito giunge a superare tutti gli ostacoli, dirigendo a quel fine tutti i suoi atti, nè lasciandosi scappare occasione alcuna che a quello conduca: quegli che in ogni affare distingue nettamente ed afferra la sostanza, nè trattenendosi, nè lasciandosi impacciare dagli accidenti, trascurati i quali, più rapidamente giunge a cogliere il suo fine, e quindi bada che le sue forze non divergano e si sparpaglino in varie direzioni, ma tutte le tiene serrate e converse nel fine che si propone: quegli finalmente che, dopo aver fatto tutto ciò, spera il buon esito da Dio solo, e a lui lo domanda, e lo vuole se lo vuole Iddio, e non si raffredda, nè si cruccia, nè si pente, nè rallenta il suo bene operare, se non gli riesce, contento d' aver fatto tutto ciò che sta in lui, e sicuro che il fine ultimo non gli è mancato, perocchè questo fine ultimo all' uomo prudente del Vangelo non è più altro che la volontà e la maggior gloria di Dio. Voi vedete, mio caro, che questa semplicità non ha nulla che contraddica a questa prudenza, e questa prudenza nulla che contraddica a questa semplicità. La semplicità sta nell' amare e la prudenza nel pensare: l' amore è semplice, l' intelligenza prudente: l' amore prega, l' intelligenza vigila: « vigilate et orate », ecco la conciliazione della prudenza e della semplicità. L' amore è come la colomba che geme, l' intelligenza operativa è come il serpente che non cade mai in terra, nè mai urta, perchè va tastando col suo capo tutte le ineguaglianze del suo cammino. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ancor domani celebrerò la santa Messa in suffragio dell' anima di sua madre e la farò suffragare colle orazioni de' miei compagni. Le quali orazioni non sono utili soltanto ai defunti, ma di conforto anche ai sopravviventi; perocchè, in virtù di quel lume della fede che non inganna, noi sappiamo con una immobile persuasione che quelle care persone, le quali partendosi di questo mondo nella fede di Cristo ci si tolgono dagli occhi, non è vero che sieno morte, ma solo che vivono in un altro modo. E di più dobbiamo sperare, che questo nuovo modo di vita sia troppo migliore e più perfetto di quello che aveano prima: chè per verità il verme o la crisalide non muore quando diventa farfalla, ma riceve l' ultima forma dell' esser suo. E credo veramente che, se noi ci staccassimo col retto giudizio e coll' affetto da questa vita di senso e di carne, la quale è in fine un' incomoda e corruttibile prigione, e giungessimo a dimorare col vigore della nostra volontà in quell' altra forma di esistenza serena e spirituale, nella quale lo spirito entra tostochè è liberato dall' ingombro corporeo; proveremmo una letizia spirituale della morte nostra o de' nostri, la quale tempererebbe ed anzi vincerebbe la naturale tristezza che induce in noi l' animalità che si scioglie. Non che questa letizia possa venire all' uomo dalla condizione della sua natura, ma certo da quel Cristo Signore, nel quale siccome membra al capo siamo incorporati, e il quale vive di vita immortale e beatissima, e comunica alle sue membra della stessa vita quando ancora militano quaggiù, e più pienamente quando passano di quaggiù colà dov' egli si trova, e dove compensa abbondevolmente l' anime ignude di quello che collo spoglio de' sensi corporei hanno perduto. Ma veramente ardua cosa è mantenere lo spirito nostro così sollevato, e anzi ella è opera della grazia e della fede che in noi si aumenta coll' orazione. Onde io dicevo che questa non riesce di minor conforto e consolazione ai sopravviventi che di suffragio ai defunti. Voglia, mio carissimo amico, trovare alleggerimento al suo gravissimo dolore in queste belle e preziose verità, e non abbandonarsi di soverchio alla tristezza. So pur troppo quanto il Signore in questi due anni passati L' abbia voluto provare e purificare colla tribolazione, la quale è un segno indubitato dell' amor suo. E se la compagnia de' mali può attenuare, come si suol credere, il dolore ai compazienti, io bramerei ch' Ella potesse vedere nell' anima mia; poichè in allora chiaramente conoscerebbe che non Le mancano compagni nelle sofferenze e nelle tribolazioni, e forse Le parrebbero scarse le sue. Ma colui che castiga è quegli ancora che consola: riceviamo l' una e l' altra cosa dalle stesse mani amorose: al doppio regalo corrispondiamo con doppio amore, cioè coll' amore della rassegnazione e con quello della riconoscenza. Così perverremo, aiutandoci Iddio, ad una condizione di animo che gode mai sempre, come quello che sa derivare un cotal gaudio dallo stesso dolore: « Ut gaudium vestrum sit plenum . » Ma più lungamente e forse più soavemente ragioneremmo di tali cose se Ella fosse presente, e però Ella mantenga il promesso, venga a passare alcuni giorni nella solitudine di Stresa, dove filosofando insieme procureremo di darci l' un l' altro conforto. [...OMISSIS...] 1.50 Pervenne a' miei orecchi una cosa di voi, mio caro figlio, la quale mi ha molto amaricato, cioè che vi siete non poco rilassato nello spirito, e divenuto negligente nello studio dell' orazione. Se la cosa è così, conviene che abbiate grande timore e sospetto di voi medesimo, acciocchè Iddio non vi castighi. Perocchè Iddio ha usato con esso voi ogni liberalità, e oltre il farvi cristiano, vi ha eletto fra quelli che si debbono dedicare al suo più stretto servizio, e arrivare alla perfezione della vita; e vi ha raccolto dal mondo in una casa a lui consecrata, e quasi direbbesi nel suo stesso palagio, cioè nella religione. Ora se Iddio è liberale, egli è anche geloso, e pretende che quelli, a cui egli è andato incontro il primo, offerendo loro i più alti posti nel suo regno, riconoscano il valore e la preziosità di tale sua grazia, e non la prendano a festa, ma le corrispondano siccome è degno. Il che non fanno sicuramente quelli che sono pigri ed accidiosi, e hanno quasi noia e fastidio di trattare con esso lui nell' orazione, la cui conversazione non ha amarezza nè fastidio, ma ogni letizia ed ogni gaudio; e chi non la prova questa letizia e gaudio ineffabile nello stare in istretta conversazione con Dio nella orazione, è manifesto segno che ha l' animo rozzo e duro, quasi privo di senso spirituale, e senza lume a conoscere l' infinita grandezza e dolcezza e bontà di quel Dio a cui si sta presente, e a cui parla. Onde se costui vuole veramente il bene e il vero, nè ama ingannarsi da se stesso, deve provare grandissimo dolore e timore in conoscersi così freddo, insensato e stupido, e non dee aver quiete nè dì nè notte, fino che non ha trovato la compunzione, e ricuperato il gusto spirituale e il fervore della preghiera e di tutti gli esercizii di pietà. E lo troverà se vince se stesso, se vince la sua carnalità superba, colla mortificazione e colla umiltà prima di tutto, e poi col durarla imperterrito nella fatica del pregare; la quale fatica, se colla buona e forte volontà si sostiene e supera generosamente, cessa dopo qualche tempo d' essere fatica, e diventa soavissimo esercizio, a cui l' anima infervorata trae e anela, siccome l' affamato al cibo più ghiotto. Sollevatevi dunque, carissimo figlio, dalla bassezza della tiepidità in cui pare siate caduto, e staccandovi da voi stesso e da ogni pigrizia, siccome buon soldato, senza temere patimento di corpo, riprendete alacremente i santi esercizii della orazione, specialmente quelli che sono ordinati dalle nostre consuetudini, e più ancora, se potete spronare lo spirito vostro ad una maggiore generosità. Considerate che se noi non vogliamo ridurre veramente in pratica gli insegnamenti di Gesù Cristo, e tenere dietro da vicino a' suoi esempi, egli è vano e falso il chiamarci suoi discepoli, e la vita che abbiamo intrapresa non si sa dove se ne andrà a riuscire, ma non certo a buon punto. Se dunque non vogliamo faticare indarno ed esserci messi per questa via della religione senza pro, conviene che quelle parole: « sine intermissione orate », e quelle altre: « vigilate et orate », e ancora: « petite et accipietis », ci stieno presenti, e siano da noi adempite coll' opera, acciocchè diventino per noi un titolo alla mercede e alla gloria, e non anzi una legge che ci condanni: conviene altresì che portiamo di continuo dipinto innanzi agli occhi nostri Gesù Cristo, che pernotta in orazione o sul monte, o nell' orto con effusione di sangue, o sulla croce con un valido clamore, siccome nostro vivo modello, in cui ci sforziamo continuamente di trasformarci, facendo in lui e con lui quello che egli faceva e che fa tuttavia, « qui sedens ad dexteram Patris interpellat pro nobis ». Non inganniamoci, mio carissimo, chi non prega non può reggersi in piedi, nè stare con Dio: chi prega poco, fa poco bene; chi prega molto, ne fa assai, e noi ci siamo obbligati, mio caro, colla nostra professione di vita tutta ardente di carità, di farne assai; e però dobbiamo pregare molto e, se non lo facciamo da vero, veniamo meno al nostro dovere, falliamo al nostro fine, ci pasciamo di vento, non possiamo avere quella carità a cui ci obbligammo, a cui, in cui, e per cui debbono essere tutte le nostre operazioni. Voi direte che l' ufficio vostro di Maestro di belle lettere ha del profano e distoglie l' animo dalle cose di Dio. - Appunto per questo dovete più fortemente e più assiduamente pregare; il vostro officio è tale, che esige che voi otteniate da Dio, a forza di orazione, di renderlo innocuo all' anima vostra, e utile spiritualmente ai vostri prossimi; egli è necessario che colle più fervide e perseveranti istanze otteniate da Dio una sì gran misura di carità, che santifichi i vostri studii, e, quasi direi, da profani li faccia divenire santi e spirituali; il che avverrà se li professate con una profonda umiltà di cuore e disprezzo di voi medesimo, con una retta e pia intenzione di servire Iddio ne' prossimi, e con un' industria di giovare con essi anche spiritualmente, ed anzi prima di tutto spiritualmente, ai vostri discepoli, guidato da un vero e ardente zelo della salute delle loro anime, alle quali un maestro di scuola può sempre in molte maniere giovare, perocchè l' Istituto della carità non prende propriamente a insegnare se non per questo gran fine, in cui la carità di Gesù Cristo consiste. Onde il fermarsi coll' istruzione o coll' operazione nella letteratura, o nella grammatica, o nella filosofia, o in altra scienza profana, senza pervenire fino al Vangelo, in cui sta la salute, è somigliante a chi si trattenesse in sul viaggio a mezzo del cammino, senza pervenire allo scopo del viaggio stesso. Questo scopo (che finalmente è la patria celeste, a cui noi siamo avviati, e a cui dobbiamo trarre con ogni industria insieme con noi quanti più possiamo, tale essendo la professione della nostra vita e l' intento dell' Istituto della carità) non si può certamente ottenere senza la grazia di Dio, nè questa senza l' orazione, nè l' orazione si fa utilmente senza mortificazione, che dura e resiste alla ripugnanza e alla fatica che oppone la carne, e senza umiltà che abbassa lo spirito internamente ed esternamente altresì, sommettendo il collo in tutto e per tutto al giogo santissimo della religiosa disciplina ed obbedienza. Queste cose io vi metto sott' occhio, o carissimo, e quell' amore che vi porto in Cristo, com' è mio debito, farà che di qui avanti io tenga gli occhi aperti specialmente sopra di voi, per conoscere i vostri andamenti e il vostro profitto nella via dello spirito e nell' osservanza delle nostre sante regole. Che se mi dovessi accorgere che l' ufficio di maestro, che vi ho affidato, potesse menomamente nuocere a quello che più, ed anzi, che solo importa, voglio dire all' anima vostra, non tarderei di richiamarvi al Noviziato. Ma spero che voi compirete tutti i miei desiderŒ, svegliando voi stesso, e dandovi al servizio del Signore con nuova lena e vigore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Vi sono obbligato della parte che prendete alle mie tribolazioni, e dei conforti che con ciò mi porgete. Io posso dire veramente col Salmista: [...OMISSIS...] . E nulladimeno, a malgrado di tanti motivi di afflizione, di tante acque ingrossate che « intraverunt usque ad animam meam », procuro di tender l' udito a quella parola di vita che rianima i morti stessi: [...OMISSIS...] . Ci ascolterà, ci esaudirà, se lo pregheremo: perocchè questo, mio caro, egli è per verità, più che ogni altro, tempo di preghiere e di supplicazioni, e di umili confessioni al Signore dei nostri peccati; e dobbiamo perciò congiurarci insieme, direi, per fare alla lotta con Dio, siccome Giacobbe. Questo io mi aspetto da voi, carissimo D. Michele, che facciate qualche sforzo di bene per me in questi momenti, e suggeriate ai fratelli di farlo anch' essi. Viviamo di fede: [...OMISSIS...] . Sia in noi l' afflizione che salutarmente ci umilii, non l' avvilimento che ci sgagliardi, o l' indifferenza che ci insuperbisca: sia il rispetto e l' affetto filiale e l' obbedienza all' autorità che ci percuote e che castiga, secondo il divino beneplacito, le colpe di cui pur troppo siam gravi. [...OMISSIS...] 1.50 Ho inteso dalla vostra lettera, mio carissimo in Cristo figlio, le vostre tentazioni ed i vostri combattimenti, e sento tuttavia compassione del vostro stato. Ma il valoroso atleta di Cristo non si smarrisce alla moltitudine de' suoi nemici spirituali, perchè sa di poterne riportare compiuta vittoria, quando milita sotto le insegne del suo invincibile capitano Gesù Cristo, che colla sua preziosissima morte ha debellato il diavolo e tutti i suoi angeli, e a lui si stringe, e da lui domanda incessantemente aiuto e soccorso. Io v' insegnerò dunque ad uscire dai pericoli e dalle angustie in cui vi trovate, purchè mi diate ascolto e adoperiate i seguenti mezzi: 1 Ogni giorno fate almeno per tre volte una fervorosa protesta di odiare e aborrire qualunque peccato anche minimo, e di voler piuttosto morire, che accondiscendere ad alcuna tentazione: e procurate di rinforzare il decreto della vostra volontà di voler sempre il bene, il giusto, l' onesto, ciò che in una parola vuole Iddio santo per essenza, e ciò che piace agli occhi suoi. 2 Siate semplice e sincerissimo col vostro Superiore, e dite a lui candidamente tutte le vostre tentazioni, e tutti i pericoli che vi pare d' incontrare, e le debolezze, le cadute di cui vi rimorde la coscienza: e ricevete da lui con grande umiltà e gusto le correzioni, le mortificazioni, le penitenze, cercando sempre ciò che più serve ad umiliarvi ed a mortificarvi. 3 Domandate spesso e fervorosamente a Dio, a Gesù Cristo ed alla vostra amabilissima madre Maria, di cui spero che sarete figlio amoroso e devoto, e sempre più diverrete, la grazia: 1 di esser umile; 2 di esser casto e puro; 3 di amare il prossimo senza limitazione o parzialità di sorta, distruggendo in voi ogni sentimento d' invidia, di malignità, spirito di censura, disprezzo, ira, impazienza, intolleranza, vendetta. Convien che vi facciate forte a pregar molto e fervorosamente, e la vittoria è sicura. 4 Usate gran mortificazione de' vostri sensi, non guardando, o almeno non affisando mai le persone pericolose, non avvicinandovi mai ad esse per pura inclinazione, ma solamente quando lo vuole la necessità, o l' ordine, o il caso. 5 Cercate di far del bene a tutti senza distinzione, e quando sorge nell' animo vostro un pensiero di poca carità, o qualche immaginazione contraria all' angelica virtù, subito fate un atto contrario; e con forza e valore, invocando il nome di Cristo, di Maria, degli Angeli o de' Santi, datele addosso senza lasciarle tempo, acciocchè la vostra volontà si renda superiore ai nemici e non si lasci giammai dominare o indebolire. Mio caro, con questi pochi mezzi potete vincere, se volete; e certo lo vorrete. Adunque coraggio, all' armi! In breve tempo vi sentirete confermato più che mai nella vostra santa vocazione, e imparerete a conoscere qual tesoro preziosissimo vi abbia dato Iddio in essa: e quando avrete ben conosciuto questo, da quell' ora farete progressi grandi nella via dello spirito, verso a quella perfezione, a cui voi dovete con animo generoso, ma umile insieme, corrispondere. 1.50 Parmi di rilevare dalla vostra ultima letterina che non abbiate ben inteso lo spirito di quanto io vi ho scritto. Non trovate voi nella mia lettera suggeritivi de' mezzi opportuni per uscire dallo stato di tentazione in cui vi trovate? E` vero che io non v' ho detto di essere disposto a trasportarvi in un' altra Casa, perchè non l' ho creduto necessario; ma se sarà necessario, farò anche questo, farò tutto per vostro bene. Ma badate di non angustiarvi senza cagione, perchè non dovete già credere che le tentazioni, a cui si resiste, sieno peccati: fatevi coraggio, e da una parte combattete colle armi della fede, dall' altra non v' inducete a credere d' avere acconsentito e d' esser caduto, quando per grazia di Dio, non avete acconsentito e non siete caduto. Il sentire delle molestie venienti dai nemici infernali è una prova che permette il Signore, ma voi opponete la volontà ferma nel Signor vostro amabilissimo. E poi fate di tutto per poter conoscere ed amare questo Signore, e trovar piacere nella sua dolcissima conversazione: perocchè in questa maniera non vi riuscirà grave il pregarlo e il supplicarlo; ma troverete esser cosa allo spirito dolcissima, benchè penosa alla carne. Già sapete che i santi trovavano le loro delizie nell' orazione, la quale non si può sentire quanto sia dolce, se non si pratica. E se non vi sentite inclinato all' orazione, domandate anche questa grazia al Signore, che è la grazia delle grazie; e se vi sforzerete a dimandarla istantemente con tutto il cuore, ve l' accorderà e vi farete santo. Se non vi pare di aver approfittato del Noviziato, cominciate adesso; e se non vi riesce costì, scrivetemi, che, quantunque mi rincresca farvi interrompere gli studi, farò anche questo, vi richiamerò. Ma cacciate i pensieri contro la santa vocazione, in cui Iddio vi ha chiamato, e dove potete assicurare la vostra eterna salute; e per una leggerezza non inclinate mai l' animo a buttar via un così grande tesoro, chè ne lamentereste poi forse la perdita inconsiderata, tutta la vita, ed anche l' eternità. Orsù adunque, cominciate ad operar virilmente: Maria Santissima sia il vostro rifugio, stringetevi al suo patrocinio, ed abbiate viva fede nella sua pietosissima intercessione. Spero che dopo qualche tempo mi darete migliori nuove del vostro spirito, nuove liete e consolanti. Alleluia . [...OMISSIS...] 1.50 La lettura della cara vostra ha destato in me grandissima compassione del mio caro fratello, il quale però confido che dalla presente lotta uscirà vincitore, e ritrarrà grandissimo vantaggio. [...OMISSIS...] Nella prossima settimana, se il tempo me lo permette, io verrò a trovarvi, come tanto desidero e vi condurrò meco lasciando un altro a fare le vostre veci nella scuola per alcuni giorni, e spero che, variando un poco tenore di vita, vi refocillerete, coll' aiuto di Dio, il corpo e lo spirito. Del resto consideriamo che siamo posti in questa breve vita per fabbricarci una casa eterna, dove riposeremo dalle fatiche e dalle noie, nè ci sarà più cosa che ci arrechi tedio o fastidio. Col pensiero a questa grand' opera, a compir la quale Iddio ci ha posti quaggiù, quello che in sè stesso è molesto e alla nostra infermità pesante, ci parrà cosa preziosissima: il tesoro infinito del merito che è nascosto nel travaglio e nel patimento, stando sempre davanti agli occhi nostri, ci conforterà, e ci rallegrerà assai più che non faccia al cuore dell' avaro un monte tutto d' oro e di gemme che gli si offre a guadagno. Se guardiamo in giù o d' intorno, è vero pur troppo, siamo « lutea vasa portantes quae faciunt invicem angustias »; ma se all' incontro guardiamo in su, si dilatano subito immensamente gli spazi della carità. [...OMISSIS...] Se guardiamo a noi stessi, è giusto che ne prendiamo orrore; ma se guardiamo al nostro Creatore e Redentore Iddio, è impossibile (colla sua grazia) che non sentiamo fiducia e allegrezza infinita, e un bene che condisce ogni amarezza, e in cui si perde dolcemente il cuore che non può abbastanza ingrandirsi e vorrebbe rompere la propria limitazione. - Che se sorgono in noi delle antipatie alle cose e alle persone, reprimiamole, mio carissimo, per l' amore del nostro Dio; perchè esse sono un difetto, e ci rubano la dolcezza del cuore, e diminuiscono in noi la carità e le forze spirituali per progredire costanti nel cammino della virtù. Non così facilmente conosce l' uomo il male ed il danno delle antipatie, che si manifestano nell' animo suo; e però, senza accorgersi, egli non le combatte, ma piuttosto le lascia in pace, o pur anche le coltiva e le nutre con ragioni speciose e col pretesto del bene: perocchè sembra che nascano dal volere tutte le cose e le persone perfette su quell' ideale che ci sta nella mente, e questo sembra che sia un volere il bene, onde parendoci d' essere mossi da un nobile sentimento, non badiamo a quel vizio funesto che esse contengono: non badiamo che esse sono opposte alla sapienza, la quale ci dice di non doversi aspettare quaggiù la piena perfezione, sono opposte alla santissima umiltà come quelle che presumono troppo dell' uomo e di noi stessi, e sopra tutto sono opposte alla dolcissima carità, [...OMISSIS...] Conviene adunque queste antipatie, forse troppo neglette fin qui, in noi combatterle e distruggerle, e sostituire ad esse altrettante simpatie d' altissima carità, di quell' altissima carità che ha il punto della leva fuor di questo mondo, nell' astro del cielo eterno che è GESU` Cristo. - E GESU` Cristo stesso volle passare più di trent' anni in queste nostre angustie, ed ebbe anch' egli a desiderare la morte, quella morte però nella quale stava il volere del Padre, e potè dire anch' egli: « Baptismo habeo baptizari: et quomodo COARCTOR usque dum perficiatur »! Quanto le angustie di Cristo sono state maggiori delle nostre! Certo di tanto, di quanto egli era più grande di noi; e tuttavia ristretto e angustiato alla nostra misura, e fra uomini come noi imperfetti, che colle loro imperfezioni lo angustiavano e pressavano d' ogni parte, fu suo cibo il fare la volontà del Padre suo, e per fare questa volontà, li sopportò, visse con loro, e patì e morì per loro, anzi per noi tutti: perchè anche noi, noi stessi, l' abbiamo premuto, e angustiato, ed afflitto e, Dio non voglia, fin anco crocifisso. E` dunque giusto, equo e doveroso che anche noi sopportiamo in pace e in rassegnazione le nostre angustie, e in esse ci consoliamo al pensiero di rassomigliarlo da lontano e di compensarlo in qualche modo colla nostra pazienza; perchè egli si rallegra se ci vede portare con fortezza le nostre afflizioni, e si rallegra per l' amor che ci porta, cioè perchè vede che il nostro patire generoso ci ammigliora e ci perfeziona, giacchè la sola pazienza « opus perfectum habet », e arreca a noi stessi, se ci pensiamo al vero suo lume, l' indicibile contento d' essere così suoi imitatori. « Similes ei erimus » in cielo, quale inebriante speranza! Ma se non abbiamo un cuore di sasso, non ci deve essere men cara la speranza, ed anzi la certezza, di essere a lui simili in terra. Questa certezza ci abbellirà e spargerà di fiori e di viole, e di gigli, tutte le nostre occupazioni, le quali per se stesse ci fossero pure ingrate, ma specialmente quelle che noi facciamo per amor di Dio e per amor del prossimo; e così aggiungerà vita alla nostra vita, e come noi dell' Istituto ci proponiamo di fare tutto per questi amori, tutto altresì ci ritornerà abbellito, e infiorato, e illuminato dal brillantissimo lume della vera vita. Coraggio adunque, mio carissimo, all' opera, all' opera! vincendo noi stessi, vinceremo i nostri nemici che ci vogliono offuscare quel cielo sereno, sotto cui dobbiamo e possiamo vivere, in cui astro fulgidissimo è il sole della giustizia, che « exultavit ut gigas ad currendam viam ». La carità, la pazienza, il compatimento, la fede, ma sopra tutto l' orazione, una tenera e perseverante orazione, ci arrecherà quella luce di cui abbisognamo per intendere praticamente tutto quello che ho scritto in questa lettera, traendola dalle divine carte, e ci confermerà in quei santi propositi, a cui l' uomo non può venire meno se non si abbandona alle tenebre della carne, e del sangue, e del demonio. Perocchè queste sole sono quelle cose che distolgono l' uomo dalla virtù e dalla giustizia, non mai alcuna ragione, alcuna intelligenza, alcuna virtù. Spero nel Signore, che quando verrò costì, vedrò la vostra faccia serena e lieta: così spero nel Signore, così ne lo prego. Ci consoleremo a vicenda, abbiamo entrambi delle afflizioni, abbiamo entrambi delle consolazioni, accomuneremo insieme le une e le altre, e faremo, o piuttosto Iddio farà in modo che prevarranno le seconde alle prime. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ho sempre apprezzato altamente le scritture di V. S. chiarissima, e appena saputo che l' annunziato suo libro era uscito alla luce, avea data commissione che mi fosse provveduto. Ed ecco che ora lo ricevo, doppiamente caro, dalla sua gentilezza, accompagnato da una cortese lettera. E` appunto uno di que' libri, ove si tratta di quegli argomenti nei quali sono consegnati i semi, così scarsi tutt' altrove, delle speranze che ci rimangono. Gli educatori e le educatrici, che io in qualche modo dirigo, e che già si giovarono della « Guida dell' educatore », profitteranno anche del nuovo ordine e della nuova perfezione ch' Ella aggiunse alle dottrine pedagogiche, colla gratitudine dovuta a chi, con tanto senno, lucidezza ed amore, porge così utili documenti e validi conforti alla laboriosa e difficile vocazione. Io ne ringrazio V. S. anche a loro nome. Ma con questo solo non mi parrebbe di averle significata compiutamente la mia gratitudine e la stima grande che ho sempre avuta della sua persona: un segno più certo Le sia dunque il pensiero che oso soggiungerle. Io sono persuaso che l' uomo (e molto più la società) non possa raccogliere nè anco in questa vita tutto il bene che la Provvidenza ha disposto per lui, se non a condizione, che egli, come a termine fisso, volga tutta la sua attività a' suoi eterni destini. Non trovo un altro punto d' appoggio così fermo che mai non ceda, dove puntar la leva per movere, in qualunque circostanza, l' uomo alla virtù, se non quello che è fuori di questa terra, un bene eterno. E` un sentimento intimo al cristianesimo espresso in quelle parole del Salvatore: « « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno aggiunte » ». E mi sembra, che questo sia appunto quel più alto ordine di cose, ch' Ella m' accenna nella sua lettera « aver procurato d' insinuare negli animi senza che paia ». Rendendo piena giustizia alle sue intenzioni, mi si offriva qui all' animo spontanea la domanda; se non sarebbe naturale, non sarebbe almeno conveniente, che apparisse in tutta la luce, quel principio che dee pur reggere tutto l' uomo in ogni suo fatto, e al quale tutti gli altri principii vogliono essere subordinati, dal quale sono corroborati e santificati. Il rifiuto o l' indifferenza che ne mostra il mondo, potrebbe forse essere una ragione di più per insistervi. Ecco quanto affido alla sua saviezza ed alla sua benevolenza. Il grave argomento che Ella tratta sotto il titolo: « Ragionevolezza dell' uso delle punizioni »mi pare che dovrebbe ricevere delle importanti modificazioni, considerato in quell' ordine più sublime. Mi è non poco doluto che il mio celere passaggio da Firenze m' abbia privato del vantaggio di riveder Lei, e di conoscere di persona l' egregio Gino Capponi di cui ho tanta venerazione; e ben mi desidero, ma non ispero così presto, qualche altra fortunata occasione. [...OMISSIS...] 1.50 Duolmi di sentire dalla cara vostra del 26 corrente i difetti di alcuni nostri fratelli. Io voglio darvi alcune regole per arrivare a toglierli, se si può, e quando usati tutti i mezzi che sono in nostro potere, non si riesca, per licenziare dall' Istituto gli inosservanti. Le regole sono queste: 1 Il Superiore deve dimostrare una ferma volontà che tutte le regole sieno osservate. Se i fratelli sieno una volta ben persuasi che il Superiore vuole , state certo che non si prenderanno facilmente certe libertà; 2 Il Superiore deve dimostrare questa ferma volontà in un modo coerente, in maniera che da tutte le sue parole e da tutti i suoi atti chiaramente risulti, senza che sia mai trovato in contraddizione per ragione di parzialità o di fiacchezza; 3 Questa ferma volontà deve essere dimostrata con tutta la dolcezza, e l' amabilità di modi, e le dimostrazioni d' affetto; ma quella dolcezza deve cadere sul modo e non sulla cosa : deve stabilire la fermezza della volontà, non distruggerla; 4 Deve ancora questa fermezza essere dimostrata colle più chiare ed esplicite parole, senz' alcun timore o riserbatezza, cioè non conviene dire le cose a mezzo nè oscuramente, ma precise e bene determinate, e vale anche qui il proverbio: patti chiari e amicizia lunga ; 5 Il Superiore nel dimostrare questa fermezza di volontà in esigere l' osservanza e l' obbedienza, non deve escludere la discrezione , che consiste nel dispensare nei casi particolari da qualche regola, quando o il bisogno della salute, o altra buona ragione lo esiga; 6 Conviene che il Superiore parli aperto e senza riguardi, ma nello stesso tempo con mente fredda , protestando di non voler altro che il bene e l' emendazione; 7 Il Superiore non deve risparmiare le correzioni e le penitenze; ma deve prima ben accertarsi del fatto e prendere notizia delle circostanze. Deve ascoltare a testa fredda le giustificazioni, e se conoscesse d' aver preso uno sbaglio, deve tosto cedere, dando prove che lo moveva il solo zelo del bene e l' amore della giustizia. Deve anche distinguere i falli che traggono seco rilassatezza e conseguenze funeste, da altri falli accidentali e materiali, e rispetto ai primi deve essere inesorabile. Deve graduare la forza della riprensione e della penitenza, e, se non c' è emendazione, deve dichiarare al fratello francamente che va a scrivere al Provinciale e successivamente al Generale; i quali indubbiamente lo sosterranno a qualunque costo, anche a costo di licenziare il fratello dall' Istituto, se sarà necessario; . Se nelle correzioni il Superiore deve conservare al maggior segno la testa fredda, e dichiarare in un modo esplicito la sua volontà senza parole inutili che dicano di più di quello che esige il caso, le quali dimostrano qualche irritazione o riscaldo; in tutto il resto del tempo il Superiore deve dimostrare la più grande amabilità, famigliarità e umiltà, usando spesso qualche attenzione e graziosità a' suoi sudditi, specialmente a quelli che sono stati corretti, e si sono emendati, od hanno promesso emendazione. Già s' intende che questi atti gentili non debbono essere tali da rilasciare per nulla l' osservanza delle Regole, il che sarebbe contro il fine; 9 Finalmente il Superiore deve prestare aiuto e sostegno ai fratelli nell' esecuzione delle loro incombenze ed officii. Facciamoci dunque coraggio, o mio carissimo, e se siamo uomini, pensiamo che abbiamo vicino Iddio che aiuta sempre colla sua onnipotenza quelli che confidano in lui, e che operano per lui. 1.50 Quello che mi dite nella cara vostra è tutto vero. Un giovane che deve fare il Superiore ha pur troppo delle grandi difficoltà da superare, ed è solo con un grande aiuto ottenuto da Dio coll' orazione, con un' assidua vigilanza sopra se stesso, su tutti i suoi atti e su tutte le sue parole, ch' egli riuscirà in un tale e tanto ufficio. Nello stesso tempo questa prova gli riuscirà infinitamente utile per emendare e formare se stesso, se con grande spirito di Dio e con grande impegno la intraprende. I due perni del suo reggimento debbono essere: 1 disciplina ; 2 dolcezza. Disciplina , non lasciandosi per debolezza o per alcuna leggerezza rimuovere dal proposito di mantenere e far mantenere la perfetta osservanza in tutte le cose importanti, usando qualche volta nelle meno importanti la debita discrezione. Dolcezza , non potendo egli per la sua età far uso di molta autorità e rigore, e dovendo pure ottenere il fine assolutamente necessario della religiosa disciplina; la dolcezza, la persuasione, la ragionevolezza, l' affabilità de' modi, ma ferma ed irremovibile, è quell' arma a cui deve di continuo por mano, ed è un' arma così potente che può ottener con essa le più belle vittorie. Ma quando fosse necessario, avrà poi un' altra arma, quella di ricorrere ai Superiori maggiori, dando loro imparziali e chiarissime relazioni de' casi, ne' quali debbono intervenire per sostenerlo. Questo vi scrivo per incoraggiarvi, e perchè tali documenti vi saranno sempre utili. V' abbraccio intanto teneramente, e abbraccio con voi tutti cotesti carissimi, a cui prego dal Signore grazie e virtù da conoscere ed amare quanto sia bella e gradita a Dio l' opera della carità che esercitano. [...OMISSIS...] 1.50 Con una veneratissima sua lettera del 20 maggio p. p. Vostra Eminenza mi manifestava, come l' animo del Santo Padre non era punto cangiato in verso l' umile mia persona: « e come il desiderio di darmene una pubblica testimonianza si manteneva egualmente vivo: in prova di che per ben due volte Le aveva ordinato di scrivermi su questo proposito per manifestarmi questa sua disposizione, ed insieme farmi conoscere che manderebbe con tanto maggior compiacimento ad effetto le intenzioni già manifestate sulla mia persona, facendo io precedere qualche spiegazione declaratoria di quelle proposizioni, di cui hanno abusato gli avversari per sollevarmi contro la censura ». Grato a tali sentimenti dell' augusto Pontefice, nella mia risposta in data 30 maggio p. p. io esprimevo la profonda mia riconoscenza verso Sua Santità, e poi, rammentando i diversi atti co' quali avevo procurato di soddisfare al volere della Sua Santità medesima per quanto aveva potuto conoscerlo, dichiaravo di esser pronto a fare con egual docilità quanto per mezzo di Lei mi si richiedeva di nuovo: al qual fine pregavo Vostra Em.za d' indicarmi le proposizioni bisognose di quelle spiegazioni declaratorie che il Santo Padre desiderava. Non ricevendo pel corso di più mesi alcuna risposta, e dubitando che la mia lettera si fosse smarrita, ne ho replicata un' altra in data del 5 agosto p. p., raccomandandola a persona sicura; e in risposta a questa ieri ho ricevuta la veneratissima sua del 2. agosto, nella quale, senza far più menzione delle spiegazioni declaratorie, di cui già aveva espresso desiderio il Santo Padre, invece Ella mi dice che: « il desiderio esternatole da Sua Santità sarebbe, che io scrivessi un' operetta in opposizione a quella intitolata « Delle Cinque Piaghe » »: e di più mi aggiunge che: « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me ». Eminenza, io non posso che ripetere quello che più volte ho detto, cioè: Che la mia maggior gloria e felicità è sempre stata e sarà sempre, Iddio così aiutandomi, nell' essere figlio divoto e ubbidiente alla Chiesa Romana, madre e Maestra di tutte le Chiese; Che in ubbidienza alla detta Chiesa io sono pronto a fare qualunque dichiarazione, correzione o ritrattazione che mi fosse richiesta dal Santo Padre; Che per fare alcuna delle dette cose, io ho bisogno che mi venga indicato quali siano in particolare le proposizioni, che richiedono spiegazione, correzione o ritrattazione: senza di che mi riesce egualmente impossibile il fare un' operetta in opposizione al noto libro. Onde non mi resta che tornare a supplicare, perchè mi si comunichi quello che in particolare io debba emendare, correggere o ritrattare. In quanto poi a quello che Vostra Eminenza soggiunge che « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me », Eminentissimo Principe, io non ho mai scritto una linea, nè ho mai fatto un passo per appianarmi la via al Cardinalato. Io considero quest' onore come un peso spaventoso, non da desiderarsi ma da fuggirsi. Se l' avessi bramato assai probabilmente sarei già prima d' ora Cardinale: già fino dal 1.23 il Papa voleva nominarmi Uditore di Rota, e la persona che a nome del Papa me ne fece l' invito, mi assicurava che sarei stato ben presto Decano e poi Cardinale. Io non accettai nè questo invito nè altri posteriori. Fu la Santità di Pio IX che (essendo già pubblicate le due note operette) mosso dalla bontà del suo cuore, spontaneamente mi manifestò il suo fermo volere di elevarmi nel prossimo Concistoro ad una tal dignità. Io feci quello che potevo per declinare un tanto onore; ma obbligato ad accettarlo per ingiunzione di chi mi poteva comandare, io abbassai il capo e l' accettai. Non per lusinga della mia ambizione, come ora dicono i miei nemici, ma sulla parola del Papa io mi sottomisi alla gravissima spesa per fornirmi delle cose necessarie. Quelle carrozze ed altri oggetti, che ora sono in Roma, e che già mi rendono la favola del pubblico, non gli ho venduti sinora per rispetto alla parola del Sommo Pontefice. Ora però io mi sottometto con vero gaudio di spirito alla diversa disposizione che di me ha fatto la Provvidenza, e in breve darò gli ordini opportuni perchè sia venduta ogni cosa: non lasciando per questo di rimanere fermo e inalterabile il mio sincero attaccamento e la piena mia sommissione alla santa Sede Apostolica e al Sommo Pastore della Chiesa. Vostra Em.za in fine alla sua lettera mi domanda un esemplare di quello che ho scritto sulla legge Siccardi: mi duole di non poterla servire, perchè non ne ho. Ma sarà facile che costì Ella trovi il giornale di Torino intitolato l' « Armonia », dove furono appunto inseriti i quattro articoli che scrissi su quell' argomento. [...OMISSIS...] 1.50 M' accorgo dalla informazione che mi date del vostro interno, che il vostro adorabile Signore e carissimo sposo GESU` vi ha regalata assai in questi ultimi spirituali Esercizi, specialmente dandovi lume a conoscere voi stessa e quel segreto tarlo di vanità che, quuantunque non distruggesse intieramente il merito delle vostre buone azioni, tuttavia andava purtroppo corrodendole e rubacchiando una parte di quella mercede, che ad esse è promessa. Ora, per grazia di Dio, è scoperto, convien dunque impedirlo di rodere, e, appena si sente il picchiettare de' suoi denti, picchiare e scuotere; come appunto col tarlo materiale, che, se sta foracchiando un vecchio armadio o qualche altro arnese di legno, e se n' ode il tich, tich , col picchiar l' arnese o scuotendolo, la mala bestiola ristà dal suo tristo lavoro. Così devono fare i servi di Dio, perchè il pigliare il cattivello e ammazzarlo interamente pur troppo è cosa tanto difficile che par quasi un miracolo. Tuttavia se esso si fa continuamente tacere, senza lasciarlo in pace giammai, si muore poi da se stesso, quasi di morte naturale, e allora che felicità! Non regna più nell' anima che l' amor di Dio, vi regna libero e potente in ogni parte di essa, in ogni sua facoltà, in ogni sua azione, o patisca, od agisca. Voi felice, mia cara Bonaventura di GESU`, se arrivate a questo, ed anzi felice, perchè ci arriverete sicuramente, avendo con voi il vostro sposo sempre pronto ad aiutarvi, purchè in lui fedelmente ed intieramente confidiate, in lui, in lui solo. L' aver conosciuto dunque il difetto che si nascondeva nel secreto dell' animo è già una grazia grande. Ora poi vi lamentate che vi manchi un' altra conoscenza, cioè dite di non potere ancora abbastanza conoscere quel bene che è degno di tutto l' amore; ed avete ragione, avete ragione di dire che non lo conoscete abbastanza, perchè sapreste voi che cosa ne sarebbe se lo conosceste così, come voi vorreste e come egli è? Ne sarebbe quello che S. Agostino dice di se stesso, che egli sentiva talora un tale affetto, e in questo affetto divino un tal gaudio, che se fosse cresciuto più oltre, egli certo non saprebbe dire che cosa sarebbe stato, ma questo sapea dire che non sarebbe stata certo la vita presente. Capite che vuol dir questo? Se voi conosceste abbastanza quel bene, a cui aspira, ed a cui è consecrato tutto il vostro cuore, non sareste più qui, in una parola, sareste, senz' accorgervi, in paradiso. E` dunque giusto e ragionevole che voi accusiate la vostra ignoranza in questa parte, e che, conoscendo questa vostra ignoranza che si può dir sempre infinita, non lasciate nascervi più mai alcuna vanità dal saper voi molte altre cose, che non vi tolgono quella ignoranza grandissima del vostro bene, ne sapeste anche infinite: è giusto che vi lamentiate altresì di continuo col vostro sposo, che è la sapienza eterna, perchè non vi faccia conoscere un po' più, ed anzi molto più, di sè medesimo; perchè questi affettuosi lamenti sono a lui cari, ed egli non potrà resistervi, se li farete di continuo, ma cederà coll' accordarvi una comunicazione maggiore del suo essere amabilissimo. E poi questi lamenti che altro sono, a che altro tendono, se non a spingervi fuori delle angustie e della povertà di queste cose visibili e corruttibili? Sono in fine i desiderii della morte, famigliari a tutti i Santi, cominciando da S. Paolo che diceva: « desidero di esser disciolto e di trovarmi con Cristo », e venendo a tutti gli altri. Sapevano quel che desideravano. Ma io voglio che desideriate ancora più di meritare, che di godere, perchè anche Cristo, pregando il Padre pe' suoi discepoli, disse che egli non chiedeva, che fossero tolti dal mondo, ma solo preservati dal male; voglio che desideriate di servire a Cristo nei suoi pargoli più ancora che di goder Cristo, dicendo anche voi collo stesso Apostolo: « Io desidero di essere separato (dal godimento di Cristo) per la salvezza de' miei fratelli ». Tanto più che conoscerete maggiormente Cristo, quanto maggiormente vi affaticherete a pro di quelli pe' quali egli è morto in croce, perocchè niuna via più spedita di conoscerlo che quella di esercitare la sua carità: « Dio è carità, e chi rimane nella carità, in Dio rimane e Dio in lui ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Non vogliate attribuire la scarsezza delle mie lettere a poca carità che io abbia verso di voi, perchè il Signore sa che io vi porto nel cuore e vi offerisco a Lui ogni giorno sull' altare, ma sì attribuitelo alla scarsezza che ho di tempo, alla debolezza delle mie forze, ed al sapere che siete provvedute di un Superiore pieno di sollecitudine e di zelo per l' incremento vostro in Gesù Cristo. Non di meno, ora che ritorna a voi dal suo viaggio d' Italia questo vostro Superiore e mio fratello carissimo in Cristo, non posso a meno di accompagnarlo colla presente, sì per ringraziarvi dei doni che mi ha mandato la vostra carità, e che mi sono pegno della vostra filiale devozione, e sì per rispondere brevemente alle tre importanti questioni che mi proponete, e di cui mi domandate la soluzione. Poichè quantunque sappia che in tali argomenti potete sentire la voce di chi vi dirige immediatamente, voce piena di sapienza e di spirito di Dio, tuttavia penso che il sentire le stesse cose da me, come desiderate e chiedete, se non vi torna di maggiore istruzione, vi deve almeno tornare di consolazione e di conforto nel bene, per quell' affetto in Gesù Cristo, e quell' ubbidienza che mi prestate. La prima questione adunque da voi propostami è: Come si può usare lo spirito d' intelligenza senza mancare alla semplice e cieca ubbidienza? La quale questione, come le altre due che le vengono in appresso, dimostrano il vostro discernimento in Cristo, perchè manifestano il desiderio che avete di essere istruite nelle cose più perfette; chè appartiene alla perfezione il saper congiungere ed armonizzare nelle azioni giornaliere quelle virtù che sembrano a primo aspetto opposte, quasi che si escludessero reciprocamente. E in fatti, quantunque niuna virtù possa giammai riuscire veramente opposta ad un' altra virtù, come una verità ad un' altra verità, tuttavia l' arte di unire tra loro in amichevole società quelle virtù che presiedono a facoltà e passioni aventi una tendenza contraria, e che vanno sempre abbinate e possedute solo dall' uomo perfetto, è quella appunto a cui si deve applicare chi allo studio della perfezione si è consacrato. Nel che avviene come nella musica, che quantunque la voce del contralto, poniamo, paia oppostissima a quella del baritono e del basso, tuttavia il perito compositore di musica, trovati i loro accordi, ne fa riuscire un' unica ed aggradevole armonia. Venendo dunque alla questione, dico, che la semplice e cieca ubbidienza si può ben congiungere e compenetrare coll' esercizio dello spirito d' intelligenza, e ciò in diverse maniere. Prima maniera . Conviene considerare che lo spirito di intelligenza si esercita tanto più quanto più è alta ed universale la ragione secondo la quale noi dirigiamo le nostre operazioni; chè, operare con ispirito d' intelligenza non vuol dir altro se non operare con ragione, senza lasciarsi mai muovere o perturbare da passione alcuna. Ora la più alta e la più universale di tutte le ragioni d' operare è quella di far sempre in ogni cosa la volontà di Dio; su di che penso che abbiate veduto un mio ragionamento a stampa, e l' abbiate anche letto. Ma chi fa l' ubbidienza con semplicità e purità, egli è certo di fare la volontà di Dio, il quale ha detto di tutti i Superiori ecclesiastici: « Chi ascolta voi, ascolta me ». Questa è una ragione semplice, ma efficacissima e sublimissima, e contiene tanto bene in sè stessa, che quando ella c' è, rende superflua qualunque altra ragione inferiore; e perciò l' ubbidienza si dice cieca , non perchè sia senza lume, ma perchè ne ha tanto, che non ha più bisogno di prenderne d' altronde, come chi dicesse che sta senza lume colui, che non accende le candele perchè risplende il sole. Seconda maniera . Oltre di ciò colui che obbedisce ciecamente e semplicemente, può esercitare lo spirito d' intelligenza nel modo di eseguire quello che gli viene comandato. Possono essere due persone che eseguiscono il comando del Superiore, ma una di esse lo eseguisca senza giudizio, senz' attenzione, senza spirito, senza rifletter bene a ciò che gli è comandato, e alla vera intenzione di chi comanda, l' eseguisca, ma di mala grazia, senza persuasione, e quasi per dispetto; l' altra poi eseguisca la stessa cosa cercando prima di tutto di ben intendere la mente del Superiore, poi studiando il modo migliore di eseguirla facendo quello che fa con impegno, come se fosse un affar suo proprio, desiderando di riuscire, usando la debita circospezione, mettendovi il buon garbo, trovandovi la sua contentezza, certissima di piacere a Dio. Questa seconda ubbidisce con semplicità e ad un tempo con ispirito d' intelligenza. Non ubbidisce come una macchina che si fa muovere con qualche ingegno, ma come una persona viva e intelligente. E di vero non può il Superiore quando comanda, prescrivere tutte quelle cose che riguardano il modo d' ubbidire, ma dà il comando, poi lascia fare al suddito, e il suddito che ha più spirito d' intelligenza si conosce subito, osservando il modo che egli tiene nell' eseguire quanto gli è comandato. Terza maniera . Accade spesso che il comando stesso sia più o meno generale, e lasci molte cose al buon giudizio di chi lo riceve. In tal caso il suddito deve osservare qual sia la sfera che gli determina il comando del Superiore, e dentro quella sfera egli è obbligato dalla stessa ubbidienza ad operare da sè, non però a capriccio, ma col suo criterio, che è quanto dire con ispirito d' intelligenza. Se voi considerate, mie carissime figliuole, i vari membri di un Istituto religioso, vedrete che tutti operano per ubbidienza, se hanno spirito, foss' anche il Generale dell' Ordine, perchè anch' egli è soggetto almeno al Papa; ma tuttavia l' ubbidienza lascia un campo libero a chi più a chi meno, ai Superiori un campo maggiore, agli inferiori uno minore. Entro questo campo libero ciascuno può e deve mostrare il suo spirito d' intelligenza. Così nella vostra Casa, cominciate dalla Superiora centrale, e venite giù agli altri uffizi della Casa insino all' ultimo, vedrete che tutti questi uffizi essendo subordinati l' uno all' altro, e quindi diretti dall' ubbidienza, possono tuttavia e devono essere esercitati con ispirito di intelligenza, perchè ad ogni ufficiale è prescritto di usare lo spirito d' intelligenza entro la sfera del suo ufficio in quanto è lasciato libero alla sua discrezione. Prendete anco a considerare un ufficio di carità verso gli esterni, come sarebbe quello di maestra o d' infermiera. E` l' ubbidienza che impone quest' ufficio, epperò il merito dell' ubbidienza accompagna tutte le azioni; ma tuttavia quanto spirito di intelligenza non ci vuole ad adempirlo con perfezione? Prendete a considerare anche dei comandi particolari, troverete che la maggior parte di essi lascia qualche larghezza di libertà, dove può aver luogo lo spirito d' intelligenza. Sia comandato ad alcuna di voi di scrivere una lettera e ve ne sia anche tracciato l' argomento; non vi resta ancora molta intelligenza da esercitare nello studiare quella lettera con senno e con intelligenza? L' ubbidienza adunque non suol mai determinare tutti gli atti della persona, il che sarebbe impossibile, ma ne restano sempre molti liberi in cui l' intelligenza può e deve avervi un luogo grandissimo. Quarta maniera . Lo spirito d' intelligenza si può esercitare in altro modo, ed è col fare ai Superiori che comandano, delle rispettose osservazioni, qualora sembri che nel comando che danno vi sia qualche cosa da osservare. Ma per fare queste rispettose osservazioni con vero spirito di intelligenza, ci vogliono tre condizioni: la prima, che non procedano da alcuna passione d' amor proprio, ma dal puro zelo del bene e della gloria di Dio; la seconda, che non sieno fatte con leggerezza, dicendo ogni cosa che venga in capo o in bocca senza avervi riflesso od esaminato bene l' affare; la terza, che sieno fatte con ispirito di sommissione, di modo che se il Superiore persiste nel suo comando, il suddito non se l' abbia a male, ma eseguisca con eguale alacrità e contentezza il comando. Che se si trattasse di un negozio molto importante per la gloria di Dio, e sembrasse proprio che la cosa non andasse bene come la vorrebbe il Superiore, si può ricorrere ad un Superiore maggiore; chè, questo non è contrario alla semplicità dell' ubbidienza, ma si debbe fare anche questo colle dette tre condizioni. I Superiori hanno piacere di sentire tali ingenue osservazioni dei loro sudditi, purchè tutto si faccia con ispirito di carità e di umiltà. Che se poi dopo tutto ciò avviene che quello che si deve fare e si fa per ubbidienza, porti qualche inconveniente (che non sia però mai un peccato), chi ubbidisce non perde nulla, anzi vi guadagna, perchè quell' atto d' ubbidienza contiene una mortificazione delle più grate a Dio. Chi mortifica sè stesso per ubbidire, sia perchè nega la propria volontà, sia perchè sacrifica il suo amor proprio e sottomette la stessa sua ragione ad una ragione superiore, che è quella di Dio onde viene il comando, questi ha dato un gran passo avanti nella via della santità. E su questa quistione basti il detto fin qui. La seconda è: In qual modo si può praticamente unire lo spirito di contemplazione alla vita attiva nelle opere di carità ? L' unione della santa contemplazione coll' esercizio delle opere di carità è l' intento del nostro Istituto; epperò noi non dobbiamo essere appagati fino a che non abbiamo ottenuto da Dio il lume di congiungere in noi queste due cose. E dico che da Dio dobbiamo ottenere la virtù di annodare insieme in tutta la nostra vita la contemplazione e l' azione, perchè non c' è nessun maestro che ci possa insegnare una scienza così sublime, se non quel Gesù Cristo che in sè ne mostrò un perfettissimo esempio. Perocchè questa scienza non consiste in altro se non nell' unione intima con Gesù Cristo, in una unione la più attuata possibile. Ed Egli per sua misericordia ne ha già preparati i mezzi nella sua Chiesa, prima ancora che noi nascessimo o lo sapessimo desiderare. Quali adunque sono i mezzi per ottenere questa unione intima, e continuamente attuata con Gesù Cristo, che non ci distoglie dalle opere di esterna carità, ma che anzi vi ci sprona ed aiuta? Il primo di tutti i mezzi è l' intenzione pura e semplice di cercare Gesù Cristo solo in tutti i nostri pensieri, parole ed azioni. Questa rettitudine d' intenzione si offende di qualsiasi altro affetto che influisca nelle nostre azioni, e resta da esso poco o molto macchiata. Quindi l' intenzione di cercare in tutto il solo Gesù Cristo non è perfetta, se l' uomo non ha rinunciato intieramente all' amor proprio e ad ogni sensualità. Dissi però che quell' intenzione, che cerca in tutto Gesù Cristo solo, rimane offesa da ogni affetto che influisca nelle nostre azioni sieno interne o sieno esterne, perchè un affetto od una sensazione, che non avesse alcuna influenza sui nostri pensieri volontarii, nè sulle nostre parole, nè sulle nostre opere (nel qual caso quell' affetto o quella sensazione sarebbe interamente opposta alla nostra volontà) non diminuisce niente la purità della nostra intenzione, ma piuttosto la eserciterebbe ed acuirebbe secondo il detto di Dio a san Paolo: « che la virtù si perfeziona nella tribolazione ». Il secondo mezzo, che viene in soccorso del primo, consiste nell' eseguire tutti gli esercizii di pietà, e principalmente il ricevimento de' Ss. Sacramenti e l' assistenza al Santo Sacrificio, col maggior fervore, tenerezza, gratitudine, sincerità ed intelligenza possibile; giacchè in questi esercizii avviene la special comunicazione fra Gesù Cristo e l' anima divota. Il terzo mezzo si è quello di sforzarsi continuamente a tener vivo nel cuore l' amore di Gesù Cristo, portando sempre il divino Maestro quasi dipinto davanti agli occhi dell' anima nostra, udendo le sue parole quali sono scritte nel Vangelo, contemplando le azioni da lui fatte nel corso della sua vita mortale e nella sua preziosissima morte (cose tutte che devono essere familiari ad una persona spirituale), facendo delle applicazioni delle sue parole e de' suoi esempii a noi stessi e a tutto quello che abbiamo a operare, considerando altresì come opererebbe egli nel caso nostro, e come egli vorrebbe che noi operassimo, consultando nei casi dubbii con sincero desiderio di conoscere e di fare unicamente ciò che è più perfetto e che più gli piace, ed ascoltando con riverenza ed amore la sua voce, quando egli parla dentro di noi. Il quarto mezzo è di vedere Gesù Cristo nei prossimi coi quali parliamo o trattiamo, proponendoci nel nostro trattare o parlare coi prossimi, di esser loro utili in Gesù Cristo, e di cavare da loro anche edificazione per noi stessi. Se noi abbiamo un vivo zelo per la salute delle anime, noi faremo tutto il possibile per acquistarle ed avvicinarle a Gesù Cristo; epperò saremo nemici di tutte le parole inutili ed oziose, e parimenti delle superflue conversazioni e di ogni vana curiosità. Ma per fare che ogni nostra parola, ogni nostra operazione sia indirizzata a migliorare gli altri e noi stessi, e quindi a portar frutti di vita eterna, ci vogliono due cose: la prima e principale è, che la carità sia sempre quella che ci diriga, e poi che domandiamo a Gesù Cristo il lume della sua prudenza, il quale moltiplica i frutti della carità. Un' anima che si propone in tutto quello che fa o che dice, il bene delle anime, sì delle altrui che della propria, starà sempre raccolta anche in mezzo a molte opere esterne, perchè il suo spirito è sempre inteso alla carità, e chi pensa sempre alla carità di Gesù Cristo, e non ha altro in cuore, è sempre raccolto in Gesù Cristo ed in Dio, perchè la Scrittura dice: « Dio è la Carità ». Ma per acquistare quest' abito ed ottenere che questi quattro mezzi fruttino un raccoglimento costante dello spirito, anche in mezzo alle esterne occupazioni, è necessario di fare degli sforzi a principio e mortificarsi molto e risolutamente in tutto quello che distrae la mente e si oppone al detto stato di raccoglimento e di presenza di Dio, è necessario domandare istantissimamente a Gesù Cristo la grazia; e solo colla perseveranza in una intensa orazione si può stabilire l' animo e fargli acquistare quella condizione permanente di quiete in Dio, la quale, se la volontà da se stessa non si dà al male, non si perde più per nessuna azione esterna. Convien sapere che quella potenza, la quale propriamente comunica con Dio e con Dio si congiunge, è una potenza diversa dalle altre con cui si opera esternamente; e però quando l' uomo è venuto ad un certo stato di contemplazione e di unione, allora egli opera colle sole potenze che risguardano le azioni esterne, senza impedire alla potenza suprema la sua quiete e il suo riposo in Dio. Onde si legge di certe persone sante, che mentre sembravano tutte occupate al di fuori, esse conversavano internamente col loro Dio e Creatore; e questa conversazione non le impediva, anzi le aiutava a far meglio quello che facevano al di fuori, come viceversa, quello che facevano al di fuori non le frastornava da quella interna affettuosa comunicazione. Un così desiderabile stato si suole acquistare da quelle anime fedeli e costanti, che da principio soffrono molto mortificandosi e pregano con intensità ed assiduità. E questo stato le Suore della Provvidenza devono cercare di ottenerlo nel tempo del Noviziato, dove hanno tutto il campo, se vogliono, di stringere questo intimo e indissolubile nodo con Dio, Sposo delle anime loro, nodo che deve poi durare tutta la loro vita. E quelle che non hanno finito d' ottenerlo nel Noviziato, devono procurare di ottenerlo al più presto. Ma oramai passiamo alla 3 quistione. Questa era: Come si può unire perfetto zelo e desiderio ardente di perfezionare la carità col perfetto distacco dalla propria stima e desiderio sincero dei disprezzi ed obbrobrii? E` questa una questione non meno difficile delle due precedenti, non dico difficile a risolversi in parole, ma a risolversi col fatto. Ma che cosa è difficile a Gesù Cristo ed a quelli che in Gesù Cristo sperano e ne lo pregano?... Per rispondere adunque anche a quest' ultima vostra dimanda, dico che è necessario supporre che nella persona ci sia il fondamento di una solida umiltà, la quale consiste nel non attribuire a se stessi quello che appartiene al solo Dio, od agli altri uomini, di modo che umiltà non è altro che giustizia. In fatti è giusto che l' uomo si reputi un nulla, perchè è tale, e che reputi Dio essere tutto: è giusto che l' uomo sappia ancora che la gloria non appartiene al nulla, ma al tutto, epperciò non voglia alcuna gloria per sè, ma voglia bensì procacciare a Dio solo tutta la gloria possibile: è giusto che l' uomo che sa queste cose, senta un certo rammarico quando viene lodato dagli uomini, perchè il nulla non può desiderare di esser lodato senza usurpazione, e che senta un gran diletto per l' opposto quando vede che gli uomini glorificano Dio. Ma l' uomo non essendo solamente un nulla, ma qualche cosa di peggio, cioè un peccatore (non solo per i peccati che ha commessi, ma perchè ne potea e ne può commetter di continuo, se Iddio non ha di lui compassione), perciò è giusto altresì che egli desideri di esser disprezzato, e che egli goda quando viene maltrattato dagli uomini. Questi sentimenti devono essere inconcussi e profondamente scolpiti nell' animo di una persona religiosa. Ma ella dee sapere anche un' altra cosa. Quantunque l' uomo sia un nulla, e di più soggetto ad ogni peccato, tuttavia Gesù Cristo per sua gratuita misericordia lo ha redento, lo salva, e lo riveste di se stesso per siffatto modo che il cristiano ha intorno gli ornamenti di Gesù Cristo; e questi sono più o meno ricchi e preziosi, secondo l' abbondanza delle virtù, dei meriti e della grazia. Sarebbe una gran pazzia che l' uomo trovandosi ricco di siffatti ornamenti, ne insuperbisse; mentre anzi, se pensa che tutti questi tesori gli sono stati dati gratuitamente e contro ogni suo merito, egli dee confondersi e attribuire a Dio solo anche la gloria dei medesimi, senza usurparne per sè la più piccola parte. Ma come Iddio donò all' uomo questi tesori di virtù e di grazia per un suo preveniente e gratuito amore, così egli, gli partecipa ancora una parte della sua gloria. Ora di nuovo l' uomo deve considerare questa gloria che gli viene attribuita, come gloria non sua, ma di Gesù Cristo, che per sua misericordia l' ha voluta diffondere anche ai suoi credenti, e loro partecipare. Ciò posto, le regole da tenere per unire insieme il desiderio di condurre a perfezione le opere di carità e il distacco dalla propria stima, e di più il desiderio sincero del disprezzo (cosa preziosissima), sono le seguenti: Non dare (generalmente parlando) agli uomini alcuna occasione di disprezzarci, almeno con alcun proprio fallo; ma quando, a malgrado di ciò, ci viene il disprezzo, noi dobbiamo riceverlo con allegrezza, come cosa assai cara, e ringraziarne il Signore, senza temere che da ciò proceda danno alle opere di carità, perocchè se anche qualche danno ne procede, questo è voluto dal Signore, per i suoi fini, e allora non dobbiamo averne dispiacere, ma confidare nella Provvidenza che saprà ricavare da quel danno altri beni maggiori. Non far mai nulla per acquistare applauso dagli uomini, che è un fine ignobilissimo; ma quando tuttavia quest' applauso viene da sè, attribuirlo a Gesù Cristo, a cui solo appartiene, e per conto proprio averne paura come di un pericolo, e per cautelarsene fare nel proprio interno atti di umiltà e di disprezzo di se stessi, protestando di non volerlo ricevere come una parte della mercede. Dopo di ciò, se quell' applauso può riuscire di utilità alle opere di carità, si può anche averne piacere, purchè se ne abbia piacere per questo solo fine, e senza alcun riguardo a se stessi, badando bene che non nasca in noi alcun sentimento di vanità o di pretesa, anzi preparandosi ad essere, dopo ricevuto l' applauso, più umiliati di prima e persuasi di non essere per quell' applauso divenuti nulla più di quei miserabili che eravamo prima. Accorgendosi che la lode sia esagerata averne dispiacere, anche perchè è contraria alla verità e giustizia, ed attribuirla al buon cuore di chi la dà, che non bada alla misura. Per conoscere poi se siamo distaccati da noi stessi, dobbiamo esaminare se godiamo delle lodi date altrui, e specialmente voi dovete esaminarvi se godete delle lodi che vengono date alle sorelle; chè sarebbe un gran difetto l' averne anche un minimo dispiacere od invidia. Conviene che cogli altri, e specialmente colle sorelle siate generose, ne consideriate assai più le virtù che i vizii, e procuriate che conservino la stima con mezzi sempre giusti; e ognuna deve declinare le lodi date a sè, facendo in modo che cadano invece nelle sorelle, dovendo ciascuna amar di essere la prima nell' impegno e nella sollecitudine di mettersi l' ultima. E questo non è difficile a farsi quando una persona considera i proprii difetti e le altrui virtù, astenendosi dal considerare o dal giudicare gli altrui difetti, come quelli di cui non appartiene ad essa il giudicare, ma al solo Iddio; il che insegnò Gesù Cristo con quelle parole: « Non vogliate giudicare, e non sarete giudicati ». E in fatti, l' esporsi al pericolo di giudicare a torto sinistramente de' proprii fratelli, è lo stesso che far loro un' ingiuria: onde per non esporci a commettere contro di essi un' ingiustizia, non c' è altra via che astenerci da ogni giudizio definitivo ad altrui danno. Non parlare nè dir cose che cadano in propria lode, il che è riprovato anche dagli uomini. E quantunque non si debba neppure parlare, senza buoni motivi, in biasimo di se stessi, tuttavia si deve cercare di coprire le proprie virtù, per quanto si può, agli occhi altrui, e qualche volta si può anche parlare con disprezzo di se stessi, purchè ciò si faccia con sincerità. E` poi lodevole il farlo, mossi sempre da un sincero sentimento, quando si parla colle sorelle, o con persone famigliari e senza affettazione. [...OMISSIS...] 1.50 Ho ricevuto la gratissima sua del 20 settembre, ed oggi anche la seconda del 23 detto. Da quest' ultima mi accorgo che Ella non deve aver ricevuto una mia, data di Caserta 3 luglio 1.49, colla quale rispondevo alla sua 11 giugno, che mi partecipava la risoluzione da Lei presa nei santi Esercizi d' entrare nel minimo Istituto della Carità. Avendo io conservato copia di quella mia risposta, mi permetta che gliela trascriva. Non m' era mai venuto in pensiero, che questa mia lettera si fosse potuta smarrire, e però mi astenni dal farle parola di questo argomento, essendo mio costume di esortare bensì ad abbracciare lo stato religioso in generale quelli che ve li posso conoscer chiamati, ma non eccitandoli perciò a scegliere l' Istituto della Carità, bramando di accogliervi unicamente quelli che vi sono « missi a Deo , » non mai chiamati da me; che Dio me ne guardi. Tuttavia avendo Ella eletto questo minimo Istituto ne' santi Esercizi colla debita ponderazione, io non credo di doverle tacere (poichè me ne domanda espressamente) esser mia massima, che quando una volta si è presa, dopo consultato Iddio, una deliberazione in cosa per se stessa buona od attenente alla perfezione, convenga perseverare nella medesima, e non lasciarsene debolmente svolgere, se non fosse per ragioni gravissime ed evidenti. E reputo una sottile insidia dell' inimico, il fare che l' uomo vacilli in quella deliberazione, fosse anche sotto pretesto e colore di far meglio. Tale è la mia ferma opinione, non solo per ciò che riguarda la vocazione ad uno o ad un altro Istituto religioso, ma ben anche in altre materie. E credo che questo si potrebbe confermare colla dottrina e coll' esempio de' Santi, ed altresì coll' esperienza, la quale mostra sovente, che gli uomini che mutano leggermente, anche sotto specie di meglio, non raccolgono poi gran frutto. Circa quello che mi domanda, se nel nostro Noviziato ella potrebbe attendere per quattro o cinque mesi ad ultimare il compendio dell' Alasia, le rispondo che in ciò non si farebbe difficoltà. Perchè quantunque siano esclusi dal nostro Noviziato, ordinariamente parlando, gli studi severi, tuttavia per qualche grave cagione e quando si tratta di poco tempo, il Generale può dispensare. Eccole, mio carissimo signore, il mio sincero sentimento circa quanto mi domanda: mi sono raccomandato a Dio prima di darlo, ed ho consultato qualche persona rispettabile. Ma ella ne faccia quel conto che crede. Prego di cuore Iddio che La empisca di lumi e di benedizioni: mi tengo anzi certo che lo farà. 1.50 Aspettavo che mi deste qualche relazione della vostra nuova posizione e del nuovo vostro ufficio, secondo che eravamo stati intesi, quando ci siamo ultimamente veduti. Ora ricevo infatti la cara vostra del 1 dicembre, nella quale mi dite alcune cose dell' essere vostro e dell' andamento della scuola. E per rispetto agli Esercizi spirituali, non dubitavo della vostra diligenza, non essendomi venuta parola in contrario, e nondimeno ho inteso con piacere quello che me ne dite. Continuate, e sopratutto datevi all' esercizio della presenza di Dio e dell' orazione incessante che si fa col cuore, mantenendovi nello spirito d' orazione , che è veramente quello che alimenta il fuoco interiore e dà la vita all' anima. Procuriamo di convincerci sempre più dell' infinito bisogno che abbiamo della grazia divina che ci sostenti e preceda, e accompagni, e sussegua; poichè chi è altamente persuaso di ciò, non cessa di gridare a Dio dal profondo del cuore per ottenerla e averla sempre in ogni atto, in ogni istante della propria vita. Mi pare poi di rilevare da quello che mi dite in appresso, che voi facciate sì con tutto l' impegno e lo zelo la scuola, ma piuttosto per rassegnazione che per amore. E pure io vorrei che la faceste proprio per amore . V' assicuro che in questo sta l' eccellenza della virtù. Sforzatevi di pervenire a quest' alta disposizione d' animo, che l' amore sia proprio quello che faccia tutto in voi, e vi renda tutto soave e grato. A questo fortunatissimo stato giungerete certamente colla grazia divina: 1 Se concepirete colla mente l' eccellenza della carità del prossimo, a cui la divina bontà ci ha chiamati: nella quale carità consiste la sicura e vivente sapienza, « supereminentem scientiae caritatem , » come dice S. Paolo: onde ogni opera di carità ha per questo solo un infinito valore; 2 Se nella carità verso il prossimo avrete per oggetto continuamente presente il divin Redentore GESU`, il quale disse: « « Qualunque cosa avrete fatta a questi miei minimi, l' avrete fatta a me stesso ». » Quali parole per chi ha viva fede! quale incoraggiamento a qualunque sacrifizio! L' amore dunque di GESU` Cristo cresca ne' nostri cuori, e con esso crescerà l' uomo interiore, e si farà adulto e robusto. Mi è rincresciuto assai ciò che mi dite nell' ultima parte della vostra lettera, nella quale pare che crediate di essere trattato con diffidenza dal vostro Superiore. Mio caro Marco, io non so certamente come la cosa sia; ma non vorrei che fosse una vostra illusione o tentazione. Io so di certo che cotesto vostro Superiore vi ama, e potrebbe essere che egli vi tenesse d' occhio con ispecial cura. Ma che per questo? Interpretate bene, riputate all' affetto che ha per voi la sua sollecitudine. Badate che qui non ci sia nascosto dell' amor proprio, il quale noi dobbiamo scoprire e combattere, come nostro infaticabile nemico. Fondiamoci, mio carissimo Marco, nel vero e solido fondamento dell' UMILTA`, diamo addosso a noi stessi: e quante cose allora, che prima ci offendevano, ci sembreranno innocenti, o frivolezze, o fors' anche motivi di giubilo! Sopra questa cosa procurate di esaminarvi e di fortificarvi, e scrivetemene ancora: poichè atteso l' amor che vi porto, vorrei vedere la più perfetta concordia e carità fra voi e il vostro Superiore; la quale è tanto facile e tanto dolce, quando si abbassi ogni amor proprio e si facciano trionfare i bei sentimenti di umiltà e di mansuetudine. [...OMISSIS...] 1.50 Due sistemi sono stati sperimentati circa la relazione degli ordini religiosi coll' Episcopato: quello della dipendenza dagli Ordinarii, e quello di una moderata indipendenza dai medesimi, quale fu stabilito dal sacro Concilio di Trento. Fu provato che un ordine religioso universale è alla Chiesa utilissimo, assai più utile di molti ordini particolari; e in pari tempo, che quello non può fiorire, anzi nemmeno esistere, con un' assoluta dipendenza dai diocesani. All' incontro esso trae seco facilmente l' incomodo di essere dai diocesani veduto con gelosia, insorgendo anche talora collisioni coi medesimi. Questo incomodo manca nelle Congregazioni particolari e diocesane, ma in quella vece l' esperienza dimostra che queste sono deboli, poco utili alla Chiesa, di breve vita anche senza corrompersi, e causa sovente di scissure col resto del clero diocesano; ma quello che più di tutto importa, lontane dall' evangelica perfezione, la quale esige essenzialmente una carità universale, un distacco dalla patria, dalla famiglia, da tutte le cose proprie, e un campo vasto, anzi illimitato di azione quant' è illimitato l' amor di Dio per gli uomini e la sua Provvidenza, e l' indifferenza perfetta a tutto ciò, a cui può esser chiamato un uomo dalla medesima Provvidenza, senza distinzione di luogo o d' uffici, e senza limitazione di pericoli e di travagli per la divina gloria. Egli è adunque da preferirsi senza paragone un ordine universale, benchè involga qualche incomodo, a Congregazioni particolari che con incomodi maggiori arrecano tanto minori beni; e però è da preferirsi la moderata indipendenza dalla giurisdizione vescovile e la stretta unione e sommessione al Capo universale della Chiesa, condizione necessaria ad un ordine universale. E dico moderata indipendenza , perchè il Vescovo è anch' egli in alcuna parte, benchè non in tutto, legittimo superiore dei religiosi che sono nella sua Diocesi e che hanno il privilegio dell' esenzione, assegnandogli sopra di loro il Concilio di Trento, come dicevo, una parte di giurisdizione. Ma voi mi domandate: non si potrebbero vincere le difficoltà e gl' incomodi che trae seco un ordine universale nelle sue relazioni coi reverendissimi Vescovi? Vi rispondo che, avendo noi sommamente desiderato una tal cosa sino dalla prima formazione dell' Istituto, abbiamo studiato di avvicinarci a conseguirla il meglio che noi sapemmo colle norme fissate intorno a ciò nelle Costituzioni. Ma tali disposizioni, acciocchè riescano nella pratica efficaci, richieggono due condizioni che non si sono finora dappertutto verificate. La prima è, che le relazioni tra i Vescovi e l' Istituto avessero per base comune i grandi principii della carità di Cristo: e la seconda, che i Vescovi, informati ben addentro della natura dell' Istituto, fossero solleciti della sua conservazione, come ne sono gli stessi superiori, e non pensassero soltanto ad approfittarne, senza darsi cura di coltivarlo e mantenerlo in florido stato. Infatti se partiamo dai grandi principii della carità cristiana, questa non si restringe nei limiti di una Diocesi, e un seguace di Cristo, che ne sia animato, si compiacerà di un bene maggiore, anche col sacrificio di un minore. E quindi un Vescovo che non deve amare la sua Diocesi particolare più della Chiesa universale, non potrà vedere di mal occhio che qualche religioso abbandoni la sua Diocesi per arrecare un bene maggiore al regno di Dio sopra la terra. E a questo fine intenderà facilmente essere necessario il lasciar libera la disposizione dei loro soggetti ai Superiori generali dell' Istituto, come quelli che meglio vedono dove possono produrre un maggior frutto al padrone della vigna. E così fecero sempre i santi Vescovi, che talora si privarono di eccellenti soggetti a fine di procurare la salute a popoli lontani. E` dunque necessario che, come i Superiori dell' Istituto sono obbligati dalla loro professione di promuovere coll' attività dell' Istituto medesimo il massimo frutto di carità, come lo si propose Gesù Cristo nel governo della sua Chiesa: « ut fructum plurimum afferatis »; così si propongano lo stesso i Vescovi secondo lo spirito dell' episcopato: e in tal modo questi e i Superiori dell' Istituto abbiano un solo ed unico fine, non arbitrario, ma dallo spirito del Vangelo additato e determinato. E questo è già una prima base della concordia desiderata, sulla quale si può facilmente edificare domum pacis . L' altra base è, come dicevo, che i Vescovi investendosi del governo stesso dell' Istituto, come ne fossero Superiori, e bene intendendone la natura, non pretendano da lui di quelle cose che esso non può fare senza guasto della religiosa disciplina, senza dissipazione dello spirito dei suoi membri, senza disorganizzazione del suo ordine interno: nel qual modo soltanto ne possono trarre un grande e permanente profitto. Perocchè se abbiamo una macchina congegnata artificiosamente, vano sarebbe sperare che essa produca a lungo l' effetto pel quale è inventata e fabbricata, qualora non si badasse punto a conservarla in buono stato; ma o adoperandola soverchiamente, o ad altro uso da quello per cui è fatta, si logorasse in breve tempo, disordinasse od infrangesse. E per conservarsi in suo buono stato, senza di che non può giovare, è necessario, che i Prelati abbiano la ragionevolezza di ascoltare intorno a ciò i Superiori, che sono quelli che conoscono davvicino le forze e l' abilità dei loro soggetti, e le forze e l' abilità delle singole Case e Famiglie religiose: come fanno i padroni di un gregge, che per la cura del medesimo ascoltano i pastori e i mandriani, e come fanno i possessori di case e di campi, che ascoltano gli architetti ed i fattori circa il modo di amministrarli, e s' attengono ai loro consigli, riuscendo questa deferenza a loro vantaggio. Questa massima adunque ragionevole di dover adoperare il corpo religioso colla debita discrezione e deferenza al giudizio de' Superiori, acciocchè egli si conservi nello spirito della perfezione e nella sua propria naturale organizzazione, è un' altra base su cui edificasi l' armonia desiderata fra esso corpo ed i reverendissimi Prelati della Diocesi a cui serve. Quando si convenga in questi principii e si verifichino queste due condizioni preliminari, le disposizioni, stabilite dalle regole nostre e dalle nostre Costituzioni, compiranno la detta armonia, ed oso dire altresì, che la renderanno perfetta ed inalterabile. Perocchè appunto col fine di facilitare ed ottenere questo desiderabilissimo intento viene da noi stabilito quanto segue: Che quando si è presa un' opera di carità, piccola o grande, difficile o facile, leggera o faticosa, non si abbandoni più per nessuna ragione umana, e si procuri di adempierla, accrescerla e perfezionarla in tutti i possibili modi. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dell' Istituto nelle loro Diocesi, e della sollecitudine dei Superiori di applicare i soggetti più idonei che si possono avere all' esecuzione delle opere assunte; Che i soggetti applicati ad un' opera di carità non si rimuovano da quella leggermente, cioè senza che lo richieda il bene spirituale degli stessi soggetti o quello delle stesse opere intraprese. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dei soggetti, non già di una stabilità illimitata e incondizionata, la quale sarebbe irragionevole e contraria alle due massime fondamentali di sopra stabilite, ma di una stabilità ragionevole, quale sola si può e si deve da essi desiderare; Che a tutte le opere di carità si preferiscano quelle desiderate dai Vescovi. Questa costituzione mette l' Istituto alla disposizione dei reverendissimi Vescovi, giacchè per essa l' Istituto si obbliga di fare tutto quel bene che essi bramano da lui, dentro i limiti delle sue forze e della sua possibilità; ed anche qui non si potebbe ragionevolmente desiderare di più; Che quando i Vescovi si degnano di affidare all' Istituto delle opere appartenenti alla gloria di Dio ed al bene della Chiesa e dei prossimi, l' Istituto le adempia in quei modi che bramano i Vescovi stessi; ed in questo egli riceve ben volentieri da essi i regolamenti e i metodi che volessero comunicargli; nè si ricusa di entrare anche con esso loro in positive convenzioni. Voglia, a ragion d' esempio, il Vescovo affidare all' Istituto il suo seminario; i membri dell' Istituto che ne assumono la direzione, si obbligano di governare il seminario in tutto e per tutto come piace a lui, e in questo gli sono pienamente soggetti. Lo stesso si dica delle altre opere che il Prelato della Diocesi volesse affidare all' Istituto: questo non userebbe, se non quella parte di libertà che il Vescovo stesso gli accordasse; neppure in questo io vedo come ragionevolmente si possa bramare di più. Considerate bene queste quattro costituzioni, sarà facile di cavare una conseguenza inaspettata ma pure verissima, e questa si è che il Vescovo può esercitare sopra l' Istituto una maggiore autorità, e ricevere maggiori servigi che non da sacerdoti secolari suoi diocesani. Vero è che i sacerdoti secolari della Diocesi hanno promesso ubbidienza al Vescovo; ma conviene vedere la cosa in pratica non in teoria, conviene vederla nel fatto e non in astratto diritto. I reverendissimi Vescovi non possono già in fatto dimandare tutto quel che vogliono ai loro sacerdoti diocesani; ma debbono usare con essi molti riguardi, e gli usano infatti, evitando le resistenze che prevedono di ritrovare. Queste resistenze procedono da una virtù imperfetta; ora dall' interesse temporale; ora dall' attacco alla famiglia, alla patria o al luogo in cui tali sacerdoti si trovano; ora dall' ambizione e da certi diritti di onore, nei quali venendo offesi si irritano, insorgono, resistono; ora da pretensioni acquistate per meriti e per dottrina; ora finalmente da inclinazioni o avversioni naturali a questo o a quell' altro ufficio. I membri dell' Istituto della Carità promettono al Signore nella loro stessa professione di essere indifferenti ad ogni opera buona, che loro venga ingiunta da esercitare; hanno per voto rinunziato ad ogni interesse temporale, ad ogni onore, alla patria, ai parenti; professano di amar l' umiltà senza mercede di onor temporale, e la carità illimitata. Non v' ha dunque cosa alcuna che non si possa loro liberamente comandare, salvo solo quelle limitazioni che trae seco l' infermità umana, la quale rimane sempre in ogni caso. E` dunque molto più ampia e più libera la sfera, in cui può spiegarsi l' autorità e la volontà del Vescovo, trattandosi dei membri dell' Istituto, che non sia dei suoi proprii sacerdoti diocesani. Che se egli è legato a doversela su di ciò intendere coi Superiori dell' Istituto, questo non pregiudica, anzi giova molto al bene da ottenersi; avendo egli, se così gli piace, negli stessi Superiori dell' Istituto altrettanti fedeli che lo aiutano a dirigere con più ordine e sicurezza il corpo dei sacerdoti soggetti, e gli danno una guarentigia maggiore di buon riuscimento. Vi abbia dunque carità e ragionevolezza, e vi avrà perfetta armonia; non vi avrà no, assoluto dominio dalla parte del Vescovo, ma non è questo che fa il bene nella Chiesa, dicendo l' Apostolo: « neque ut dominantes in cleris »; vi avrà da parte dei reverendissimi Vescovi una dominazione di carità, che nel fatto è la più potente per fare il bene, e vi avrà dalla parte dell' Istituto la più umile e perfetta sommissione, e quella servitù di Cristo, che non è disgiunta dalla libertà pure di Cristo. Se i reverendissimi Vescovi entrassero in questo spirito, ed io spero che presto o tardi sarà, dall' Istituto trarrebbero tutto quel maggior servizio che in Cristo possono desiderare. Tanto più che l' Istituto nel suo contegno esteriore non si distingue dal clero secolare, e brama di affratellarsi con questo e giovare e servire a questo, tirandolo, per quanto gli concederà il Signore, a quei sentimenti di perfezione che vengono insegnati dal Vangelo, e che l' Istituto si è proposto di praticare; senza inclinare egli stesso a quei sentimenti che fossero meno perfetti in alcuni sacerdoti secolari. [...OMISSIS...] 1.51 Ho letto io stesso con tenerezza la sua lettera. Ella si conforti pure nella misericordia di Dio, la quale è infinita. Questa parola infinita ci deve aprire il cuore ad ogni speranza. Ella e il suo figlio defunto discendono da santi genitori, e la stirpe de' santi non suol mai essere abbandonata dal Signore: il Signore può aver dato a quel suo figlio un ultimo sentimento, un solo atto della volontà, di quelli che salvano l' uomo. Forse ha disposto che questo tratto di misericordia rimanesse secreto, perchè questo mistero giovasse ad un tempo e a salvare quell' anima e a santificare Lei e tutta la sua famiglia. Le vie del Signore sono ammirabili e superiori al pensar nostro: dobbiamo adorarne la Maestà, e non dimenticarci ad un tempo degl' infiniti tesori della sua bontà. A questo riflesso costante aggiungiamo le preghiere (anch' io ne farò e farò fare): quelle che facciam al presente, stavano davanti alla mente divina prima che morisse suo figlio, e da tutta l' eternità le ascoltava. Ricordiamoci che non c' è nulla di più caro al Signore che una grande confidenza in lui. Questa confidenza è sempre coronata, ed è il miglior modo di onorare il Signore; poichè non gli si può dare più bella gloria, che quella di esaltare la sua bontà. Gusta ancora che noi ci accostiamo a lui coll' intermezzo di Maria santissima, a cui Ella è figlio divoto: che dubitar dunque con tale interceditrice? Rimuova il pensiero, per quanto mai può, dal figlio, abbandonandosi nelle mani di Dio e in quelle della Vergine: e in questo abbandono si conforti e incoraggi. Abbiamo bisogno di coraggio e di confidenza per andar avanti in questo misero mondo, e Iddio volle farne della speranza una virtù divina. Abbiamo bisogno altresì della tranquillità e della pace del cuore; e nella speranza cristiana questa pure si trova, perchè è qualche cosa di più di speranza. Gesù Cristo ci ha portato la sua pace, riposiamo in lui. La ringrazio di tutto ciò che mi scrive nella sua lettera, e prego Gesù Cristo stesso a ricompensarla. Colla sua saviezza, colla rettitudine delle sue intenzioni potrà giovare a queste difficili condizioni di cose pubbliche; ma in ogni caso, ancorchè gli sforzi de' buoni non riescano a bene, essi hanno fatto il loro dovere e n' hanno il merito, e di questo devon esser contenti, perchè è un bene impareggiabile. [...OMISSIS...] 1.51 La lettera che le Reverenze Vostre, tutte unanimi, si degnarono d' indirizzarmi, mi fece gustare, in leggendola, di quella dolcezza e giocondità di cui parla il Profeta Reale in quelle parole del Salmo: [...OMISSIS...] Se i conforti e le caritatevoli espressioni d' un amico in Cristo sono sempre soavissime e salutari, quanto più non riescono tali quelle che non vengono da un amico solo, ma da molti Padri e fratelli, uniti fra loro coi più sacri vincoli, e formanti una sola famiglia di servi del Signore, i quali concordissimi con un solo cuore, con una sola voce che risuona celeste sapienza, c' incoraggiano nelle avversità e ci si dimostrano quasi nostri compagni in essa, e, deplorandola come propria, vi arrecano quei documenti di consolazione celeste di cui fanno uso ancor prima con sè stessi per attenuare il partecipato dolore? Laonde come le Vostre Reverenze, animate da quella carità che arde così bella nel serafico Ordine, quasi trasformate in me, si risentono alle ingiurie, che a me va facendo il soverchio zelo di alcuni; così io mi sento mosso dalla riconoscenza e dalla carità reciproca, quasi trasformato in esse, essere divenuto del loro numero. Questa è quell' unione in Cristo che avvicina i lontani e che li fa abitare insieme collo spirito siccome fratelli. Perocchè non è tanto la convivenza de' corpi che celebrava il Salmista nelle citate parole, quanto quella degli spiriti: per questa è che noi siamo fratelli e che abitiamo insieme, e il luogo dove abitiamo è Cristo. Accettino dunque le Reverenze Vostre i miei sincerissimi e cordialissimi ringraziamenti dei sentimenti ed affetti che mi manifestano, e, quasi osava dire, le mie congratulazioni, perchè non solo esse alimentano, ne' loro animi, ma ben anco appalesano, e appalesandolo comunicano altrui quel fuoco di santa carità, che edifica col suo splendore e che solo è potente di unire in un solo corpo, pieno di onestà e di bellezza, i religiosi, quantunque in varii Ordini distribuiti, di cui è ricca la Chiesa, e tutti i servi di Dio; e non solo in un solo corpo, ma in un solo cuore e in un' anima sola. Perocchè tale deve essere l' esercito del Signore, e così si rende formidabile ai nemici di lui ed invincibile. E le Vostre Reverenze poi dicono nella loro venerata lettera una verità che io riconosco per esperienza, cioè che la presente tribolazione non manca punto del suo compenso. Primieramente il mio dolore si tempera quando penso che coloro che mi vanno assalendo, sebbene con modi poco decenti, sono mossi in qualche guisa dallo zelo per la purità della fede, cosa così preziosa che va a tutte le altre anteposta. Di poi considero che tali cose sono permesse da quell' Eterno nostro Signore e Creatore, senza il cui volere niente si fa, nè in cielo, nè in terra, e ogni cosa permette con altissimo consiglio, e da ogni cosa anche rea, sa cavare con infallibile effetto un bene maggiore; onde anche questo solo pensiero basta a dare all' animo nostro pienissima tranquillità e dirò anche consolazione in ogni avvenimento, benchè nell' apparenza sinistro. Nè manca il Padre comune di dare colla tentazione il provento, e di aggiungere forze a sostenerla, purchè in lui si confidi e lui si preghi. E quanto a me, non mi sarebbe facile l' enumerare quanti furono i vantaggi e i compensi oggimai raccolti, datami l' occasione dagli avversari. Perocchè quanti amici in Cristo mi si sono manifestati in questa occasione che non sapeva pur d' avere! quanti a me sconosciuti, anche persone ragguardevolissime, presero a petto la mia causa! e gli amici che già possedevo quanto più intimamente si strinsero a me e mi diedero prove d' un affetto cristiano maggior dell' usato! Non conto fra questi vantaggi le lodi pur troppo sempre pericolose al nostro amor proprio, colle quali in voce e in stampa molti cercarono di ristorarmi del biasimo degli avversari; ma conto fra i vantaggi più preziosi e più cari le tante orazioni che per me s' inalzarono al Signore da un gran numero di fedeli, studiosi e seguaci della caritatevole verità e della vera carità. E la lettera delle Reverenze vostre è di tutto ciò un nobilissimo documento. Che poi da tutti questi avvenimenti permessi dal Signore e intessuti di qualche amarezza e di molta dolcezza tragga profitto il mio povero spirito per servire il Signore con maggior fedeltà e maggiore alacrità e coraggio, il quale non si nutrisce che nelle lotte; questo è quello che ardentemente desidero; questo è quello che aspetto e spero dalle orazioni dei buoni e delle Reverenze Vostre particolarmente. E quando, ritornando sopra me stesso, mi sento quasi indifferente a questo che avviene intorno di me, e vedo gli amici tanto più amareggiati di me stesso, dubito quasi di cavare poco profitto da queste avversità, parendo che molto non giovi al profitto dello spirito quel dolore che così poco si sente. Ad ogni modo però confido che il Signore nella sua misericordia riguarderà piuttosto al mio desiderio di approfittare della tribolazione, desiderio che a lui solo debbo, piuttosto che al grado del patimento. [...OMISSIS...] 1.51 « Militia est vita hominis , » e chi nol sa? e chi non l' esperimenta? e a quale di noi manca il combattimento, la prova, l' arduo cimento? Quegli che ci ha assegnato il posto nell' esercito è un capitano che contrabbilancia alle forze nostre l' impeto del nemico; che ci somministra le armi; e quali armi? Le armi della fede. E a qual fucina temprate? A quella del divino amore. Non meritiamo dunque il rimprovero: « modicae fidei, quare dubitasti? » Anzi imbracciato lo scudo della fede, contro cui tutte le saette si spuntano, consoliamoci in quelle parole: « qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit », e in quell' altre: « in patientia vestra possidebitis animas vestras ». Acciocchè poi non ci venga meno la fede, preghiamo senza intermissione: preghiamo fino che otteniamo: « Omnis qui petit, accipit; et qui quaerit, invenit; et pulsanti aperietur ». Nell' orazione troviamo la forza, la consolazione, la tranquillità, il rimedio alle malattie dell' anima, il sollievo a quelle del corpo. Certo in quanto a queste ultime gran conforto possiamo avere anche dal pensiero che dobbiamo colla penitenza scontare le offese che abbiamo fatte a Dio; e anche da quell' altro che « levius fit patientia quidquid corrigere est nefas ». Del rimanente a me passò per la mente che vi potesse recare qualche sollievo il fare qualche passeggiata fino a stancarvi un po'; e però vi proporrei di venire a Stresa, ma prendendo il cammino inverso, cioè per la valle Vigezzo, la Canobbina, facendo un devoto pellegrinaggio a Nostra Mamma di Re, dividendo il cammino a marcie discrete: e quando poi foste qui, dove c' è tutta la comodità, vi consiglierei a fare alcuni bagni, e da tutta questa cura mi riprometto buon effetto. Coraggio dunque, concertate ogni cosa con cotesto Superiore, poi all' opera, dandomi avviso del risoluto. 1.51 Il sentire dalla vostra dell' 11 agosto che voi col dilettissimo Furlong occupate tutto il vostro tempo a vantaggio di cotesto popolo sedente nelle tenebre e nell' ombra della morte, mi produce una somma consolazione, considerando specialmente che la fatica che fa colui che è mandato dal Signore nel curare e pascere le anime, è il maggiore segno che possiamo dare a Dio della nostra carità; onde Cristo dopo aver domandato a Pietro se lo amasse, gli soggiunse per tre volte « « pasci il mio gregge » »; donandogli questo quasi in pegno dell' amor suo. Vero è che anche tutti gli altri uffici di carità imposti dall' ubbidienza ai membri dell' Istituto della Carità hanno lo stesso merito, perchè hanno lo stesso fine, e però si può dire che tutti esercitino la cura delle anime, perchè le loro fatiche tendono finalmente alla salvezza delle anime. Questo sublimissimo intento è l' effetto che deve produrre tutto il Corpo nostro, e però a questo effetto concorrono tutte le diverse membra, di cui il Corpo si compone, e i loro diversi uffizi. Onde avviene che tutti quelli che ben intendono questa gran verità, sono facilmente contenti di ogni uffizio, esercitandolo, qualunque sia, coll' intenzione di cooperare al bene morale e spirituale; è sempre la carità quella che vi si nasconde, come preziosa margarita: questa sola è amata da tutti, e da tutti quelli che l' amano, trovata. E ciò non ostante, coloro a cui Iddio ha dato la missione di lavorare immediatamente alla salute dell' anime e di predicare la divina parola, devono avere una speciale gratitudine alla divina bontà che a tanto li elesse; e sono simili a coloro che, lavorando nel fuoco, non possono a meno di riscaldarsi. E non solo bramo che voi e cotesti miei carissimi fratelli vi riscaldiate nell' impegno in cui siete di dover riscaldare gli altri, ma che v' incendiate altresì d' amor di Dio e del prossimo. A questo dunque attendete; e a tal fine mantenete pura l' anima vostra da ogni contagione di questo secolo, vivendo della vita nascosta in Gesù Cristo; la quale ha per intento di spogliarci d' ogni qualunque attacco alle cose sensibili per attaccarci totalmente alle invisibili. Da per tutto la cattolica fede trova contrasti, ma da per tutto ancora trova trionfi: « oportet ut veniant scandala . » Voi ne avete tanti sott' occhio in cotest' Isola, ma noi certo non ne difettiamo. Che anzi reputo in qualche modo migliore la condizione vostra che la nostra, mentre appresso di voi si edifica, sebben combattendo, e presso di noi si distrugge quello che è edificato e si combatte perchè non sia distrutto. Abbracciate tutti nella carità di Cristo i cinque compagni che vi mando, sui quali ho concepito grandi speranze. Diverranno operai zelantissimi per la divina gloria: che Iddio li difenda dal maligno. [...OMISSIS...] 1.51 Anch' io ho conosciuto che, come voi dite nella carta che m' avete scritto, il vostro difetto è la timidezza; e questa, parte v' impedisce il ragionamento rendendovi esitante, e parte v' impedisce l' operazione trattenendovi dal farla subito, intera e colla dovuta franchezza. Conviene che vi prefiggiate di vincere questo difetto e di rendervi per l' opposto santamente coraggioso. I mezzi di vincere o piuttosto di deporre la timidezza soverchia sono i seguenti: Il primo mezzo è non aver paura della timidezza medesima: perchè questa paura accresce assaissimo la timidezza stessa. Convien dunque non pensare alla propria timidezza e non rivolgere soverchiamente la propria riflessione sopra sè stesso quando si delibera o si opera, ma porre la semplice attenzione sul partito da prendersi e le ragioni solide pro o contra, e dopo averlo preso pensare all' operazione che s' ha da fare, e non ad altro. Il secondo mezzo è di raccogliersi qualche volta e considerare che il timore che sopravviene è irragionevole, e poi disprezzarlo; e anche avendone il sentimento, operare come se non ci fosse, nè ragionare più con esso, come si fa colle tentazioni. Il terzo mezzo è ragionare molto cogli uomini e specialmente con uomini grandi sotto ogni rispetto, e imitare i loro modi e la loro buona franchezza: ancora mettersi dentro nei negozii, avendo grand' impegno di ben condurli: e però non esser parco di parole in conversazione (purchè i discorsi sien buoni ed importanti), e sostenere anche delle questioni o scientifiche o d' altro genere, spiegandovi forza e impegno, senza asprezza, già s' intende. Chi ha grand' impegno di condur bene un affare, per la gloria di Dio, questi si dimentica del timore, e fa il fatto suo. Quarto mezzo . Conviene badare di non voler essere troppo perfetto, cioè falsamente perfetto, dandosi un soverchio fastidio di tutte le piccole ragioncelle, che vengono per la mente, e fermando il passo ad ogni lontano pericolo d' inconvenienti minimi; il che non facevano già i santi, nè farà mai cose grandi per la gloria del Signore colui che si obbligasse a questo; ma andrà sempre impacciato e dibattendosi tra le tele di ragno; non acquisterà mai la perfezione, che domanda un cuore largo, delicato solo quando si trattasse d' offesa contro i precetti o i comandamenti del Signore. Quinto mezzo . Una delle più potenti maniere di prendere coraggio è quella di persuadersi che la buona riuscita delle opere nostre non dipende da noi, ma da Dio, e quindi d' acquistare una grande, infinita confidenza in Dio, che opera in noi, quando noi operiamo per ubbidienza o per carità; ed allora egli cava la sua gloria anche dalla nostra debolezza, da' nostri errori, dalle nostre stesse mancanze. Sesto mezzo . Come conviene evitare l' asprezza, e ciò che veramente offende la carità, così conviene evitare la falsa mansuetudine , che è quella che non vuol mai venire a battaglia con nessuno, e vuole evitare tutti gli urti; quando all' incontro senza sostener battaglie e far testa al male, specialmente uno che dovesse essere Superiore, non riuscirà mai a procacciar molto gl' interessi della divina gloria e migliorar sè e gli altri. All' incontro l' uomo che per amor di Dio ha fatte delle battaglie, non può mancare d' acquistar ben presto il coraggio e il polso forte che gli è necessario. Settimo mezzo . Non credere che il sentimento del timore che coglie improvviso, debba subito scomparire, e non avvilirsi se ritorna dopo i più bei proponimenti e la speranza d' averlo vinto del tutto: perchè quel sentimento non si può scacciare se non con lungo tempo, ma si può operare come se non ci fosse, senza lasciarlo influire nelle nostre azioni, nelle quali dobbiamo dirigerci colla ragione e col calcolo, e non con altro. Questo deve cautelarci contro l' avvilimento, che potrebbe sopravvenire, quando si vedesse ritornare quel senso di timore che si credeva vinto; o si pretendesse di far più di quel che si può in un momento. Ottavo mezzo . L' orazione, e specialmente l' uso dei salmi, che ispirano tanti affetti di fiducia e d' aspettazione di cose grandi dalla bontà divina che ci ha in cura. - Con questi mezzi e colla costante volontà di proceder avanti con buon ordine, ci riuscirete. [...OMISSIS...] 1.51 Avreste fatto bene ad avvisarmi prima d' ora delle tentazioni e delle battaglie che vi dà il nemico dell' anima vostra. Iddio ne ha preavvertiti tutti quelli che egli chiama al suo più stretto servizio con queste parole: « Fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia et timore, et praepara animam tuam ad tentationem (Eccli., II, 1), » dove ci comanda di stare nella giustizia e nel timore dell' umiltà, e di apparecchiarci , certo colla buona volontà e coll' orazione. Nello stesso tempo ci ha confortati e assicurati, se noi così facciamo, del suo aiuto, ed anzi si trova scritto: « Beatus vir, qui suffert tentationem: quoniam cum probatus fuerit, accipiet coronam vitae, quam repromisit Deus diligentibus se (Iac. I, 12) ». Indarno taluno vorrebbe darsi alla sequela più intima di GESU` Cristo, pretendendo di non dover essere tentato e provato in varie guise; ma colui che fu chiamato a questa felice sequela è obbligato a respingere tali tentazioni colle dette armi della fede, dell' umiltà e dell' orazione; e quando lo fa, è beato , come Dio stesso ha detto per la bocca di san Giacomo, perchè diventa un servo di Dio provato . All' incontro, chi non lo fa, mette in grave pericolo l' anima propria, tanto se, cedendo alla tentazione, cade in peccato, quanto se, col pretesto di non poter resistere alla tentazione, pretesto ingiurioso a Dio, abbandona lo stato di perfezione; giacchè questo abbandono fatto con tanta viltà è una gravissima ingiuria a Dio vocante, della quale Dio solo è giudice e punitore. Ora voi, mio carissimo figlio, siete stato chiamato e già entrato ne' debiti modi nello stato della perfezione, e vi siete obbligato in esso in perpetuo e irrevocabilmente, da parte vostra , col vincolo sacro dei voti perpetui, dai quali non v' è più lecito di sciogliervi. Nè vi verrebbe a salvezza dell' anima l' esser dimesso dall' Istituto; chè i Superiori non possono dimettere alcuno se non allorquando la sua condotta lo rendesse dannoso al corpo de' suoi fratelli; onde questa stessa dimissione ricade a colpa di colui che viene dimesso, e con essa non si migliora già la sua condizione davanti a Dio, qualunque cosa appaia davanti agli occhi degli uomini. Io giudico dunque che voi non solo siete obbligato gravemente a respingere il pensiero di abbandonare l' Istituto, nel quale Iddio, per sua misericordia, v' ha fatto la grazia d' entrare; ma di più siete obbligato di mantenere la sacra promessa, che avete fatta a Dio medesimo in presenza della corte celeste, e a compiere la beata oblazione di tutto voi stesso, vivendo e morendo santamente in questo Istituto. Dovete dunque riconoscere nei pensieri che vi vengono la voce del maligno serpente, che v' insidia l' eterna salute, e vuol perdere l' anima vostra; e dovete respingere questa voce seduttrice, non essendo già connivente coi detti pensieri, nè coltivandoli, nè fiaccamente contenendovi quando vi assalgono; ma subito dovete discacciarli, e rivolgere il pensiero a cose più degne, e aprirlo ai dettami dello Spirito Santo, spirito di purità e di santità, castigando anche voi stesso, e stringendovi a Dio colle più fervorose orazioni, fino che sia passata e pienamente vinta l' infernal tentazione. Sotto specie di bene questa v' inganna facendovi credere che vi sarebbe più facile salvarvi in un altro stato: quasicchè per chi ha fede in Dio e conosce chi è Dio, l' abbandonare il posto, nel quale egli ci ha messi, non sia un buttarci all' inferno. Anche lo spaventarvi della perfezione che propose Gesù Cristo ai suoi eletti, e che tale quale l' ha egli insegnata, è proposta nell' Istituto, è un diabolico artificio che si fonda nella mancanza di fede; onde avviene che si crede poco all' efficacia degli aiuti che ci dà lo stesso GESU` Cristo che ci ha data la legge di perfezione, e si ha la stoltezza riprovevole di non volerli adoperare, e nello stesso tempo par che si creda che quella perfezione si consegua colle forze umane, delle quali, sentendosi poi deboli, si dispera. Ma chi ha fede e piena confidenza in Dio, ancorchè si senta debole, è fortissimo, ed il suo coraggio va crescendo ogni giorno di mano in mano che Iddio gli si rivela, e gli fa conoscere e sentire la sua potenza e misericordia. Lungi dunque da noi tanta bassezza, miseria e perversità da prender consiglio da quello che ben conosciamo, se pur non vogliamo ingannarci, essere lo spirito delle tenebre e della menzogna, e però essere il nemico più arrabbiato della perfezione evangelica; onde co' suoi mortiferi argomenti vorrebbe condurci al termine da essere scacciati dal paradiso della virtù evangelica, cioè dalla Religione. Al fine di vincerlo e svergognarlo, facendolo dare indietro, ecco le armi: Non ascoltare i suoi seducenti discorsi; e però ribattere subito , al primo sentore, tutti i pensieri i quali tendessero a farci perdere l' amore e la stima della nostra santa vocazione e dello spirito di consacrazione in questo Istituto; rinnovando spesso al Signore di voler vivere e morire in esso, con azioni molte di grazia a lui, che per pura misericordia vi ci ha condotto. Dar opera diligente ad arricchire la mente di santi pensieri, l' anima di santi affetti e la volontà di frequenti propositi di avanzare in ogni maniera di virtù, ma sopra tutto nell' umiltà , nella sofferenza e nella carità . Dedicarsi all' orazione come alla prima e alla più importante nostra occupazione, e fare tutto quello che si può da noi, per riscaldare in essa il nostro cuore e acquistare un gran zelo della maggior gloria di Dio, e di poter farlo conoscere agli uomini; sopratutto è necessario l' abito di frequenti e quasi continue giaculatorie. Amare gli uffici umili , come cosa grata al Signore, e riprendere in noi ogni movimento di superbia, di vanagloria e simile, dandosi alla perfetta ubbidienza , e godendo di questa come di cosa che piace a Dio e che ci ottiene indubitatamente le grazie più preziose per l' anima, facendo di conseguente grande stima di un' osservanza la più esatta che sia possibile. Evitare ogni parola oziosa coi compagni, e in quella vece servirsi della lingua per edificarli e santificarli, giacchè la santità che noi procacciamo in questo modo ad essi ritorna sopra di noi; e cooperare in ogni modo al progresso spirituale de' proprii compagni. Non avvilirsi mai, anche se ci occorresse di cadere, o di non fare quel profitto che speravamo; perchè la nostra emendazione viene a gradi per lo più, qualora Iddio non faccia qualche cosa di straordinario. Ecco dunque quello che dovete fare, mio carissimo fratello: spero che lo farete, e sarete consolato, ed io godrò della vostra consolazione. 1.51 L' incomodo d' un occhio che m' impedisce di leggere e di scrivere, unito alle occupazioni, fu cagione, che io differissi finora a riscontrare la pregiatissima sua lettera, e mi obbliga al presente di usare della mano di una fidata persona per istendere la presente. Del resto quest' incomodo non è gran cosa, ma una piccola croce che mi dà il Signore troppo inferiore a' miei meriti. Comprendo a pieno, mia pregiatissima Signora Baronessa, tutto ciò che deve soffrire il suo spirito allo spettacolo delle cose di questo mondo: nello stesso tempo conosco quanto sia immobile, inalterabile, infinito quel bene che si trova nella nostra Religione santissima, e come questo bene ci compensi di tutti gl' incomodi e le noie e i travagli, che ci vengono dalle cose terrene e corruttibili di cui siamo composti e in mezzo alle quali viviamo, e come noi stessi possiamo e dobbiamo partecipare dell' immutabilità di quel bene. Poichè anche l' anima nostra acquista una certa sostanza ed immutabilità, e quindi una pace stabile, quando si congiunge alle cose immutabili. Iddio sia il luogo della nostra perpetua abitazione; così tutte le cose che cangiano, rimarranno al di sotto del luogo dell' anima nostra. Io so, mia veneratissima Signora, che questi sono i suoi conforti, come sono i miei. Da molto tempo non ho da Roma nuova alcuna, spero nondimeno che lo stato delle cose pubbliche colà si vada migliorando. 1.51 Ecco finalmente la lettera che m' aspettava dal mio caro Setti. La lessi con vera consolazione: specialmente mi consolò il vedere, che la prova che aveste a sostenere, v' abbia persuaso che chi confida nel Signore non perisce in eterno. Conviene abbandonarsi a lui e temere sempre di noi stessi, ma senza alcuna sorte d' avvilimento: non assicurarsi mai di noi, di Dio sempre, in qualunque condizione ci ritroviamo. D' altra parte è necessario, mio caro, di conservare l' interiore tranquillo e non permettere che vi nasca tumulto, nè pur quando un certo tumulto d' affetti sembra buono e a buon fine diretto; perchè un certo confuso tumulto è spesso un' esaltazione dell' immaginativa sommossa dal demonio che si trasforma in angelo di luce e rende l' uomo inquieto, fisso ne' suoi pensieri, indocile, ostinato, angustiato, esclusivo, e di somiglianti cose ripieno, che sono grandissimi difetti ed impedimenti al compimento dell' opera della nostra salute e perfezione secondo la volontà di Dio. Godo dunque che amiate cotesta solitudine, dove avete trovato il riposo dell' anima, ma in modo però d' essere sempre pronto ad abbandonarla, quando l' ubbidienza ve lo imponesse. A questa condizione l' amore che avete ad essa è buono, utile e a Dio gradito. Ma senza questa condizione sarebbe un' illusione e per certo un inganno dell' inimico che è sottilissimo, prendereste il male per bene, e quella che è vostra propria, per cosa di Dio. Quando amaste cotesto luogo e cotesta vita, che ci fate, con attacco impeditivo dell' ubbidienza, benchè apparentemente per un fine e un intento buono e santo, quell' attacco vi pregiudicherebbe alla vera perfezione dello spirito. E sapete che cosa ne potrebbe avvenire? Che quello che ora appare un così forte attacco , dopo qualche tempo potrebbe non essere più nè pure un affetto , e convertirsi in avversione: nè è già la prima volta, che quelli che dicevano di volere per puro amor di Dio un certo genere di vita che credevano indispensabile per salvarsi l' anima, poi si cangiassero, prendendo sentimenti del tutto opposti, e per la stessa ragione del salvarsi l' anima ne volessero un altro tutto diverso e con un' uguale ostinazione. Onde mettiamo per inconcusso fondamento il principio che non falla e che non inganna di sicuro, quello della semplice ubbidienza. E non è già necessario di occupare la nostra mente di pensieri sull' avvenire, e di domandare a sè stessi che sarebbe di noi in questa o quella ipotesi; chè non ci sono pensieri più vani di questi, nè più atti a turbare la pace interiore e scompigliare l' immaginazione. All' incontro la bella semplicità che s' abbandona a Dio senza pensare all' indomani, ma che adempie alacremente tutti i doveri dell' oggi, ecco la maniera d' andare avanti in « pulchritudine pacis . » Pregate dunque, servite la Chiesa e la casa, edificate il prossimo, acquistate collo studio assiduo e ordinato le cognizioni necessarie per rendervi atto a esercitare i ministeri della predicazione e della confessione, abbiate un grande zelo delle anime del prossimo e un grande amore di fargli del bene in ogni modo, conservate un umore ugualmente lieto ed affabile con quelli con cui trattate, e del resto non pensate più avanti: Iddio ci pensa. Scrivetemi poi a quando a quando, se le cose vi continuano bene, come grandemente spero e prego.

Filosofia politica naturale

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

La Filosofia della politica non tratta solo di queste ultime ragioni dedotte dai loro fonti, ma le applica altresì a misurare il valore relativo dei mezzi politici e insegna il modo di adoperarli acciocchè ottengano il fine sociale. 1) Quest' è un' estesissima tela, e l' assunto di svolgerla tutta in un' opera sola è tale da sbigottire l' animo dello scrittore non meno che del lettore. Quando noi eravamo ancor giovanetti 2) ignari della limitazione delle nostre forze, guidati solo dall' immensa voglia di sapere e di quella di contribuire all' altrui sapere, noi ci eravamo accinti animosamente a quella impresa e avevamo delineata tutta l' opera con quella distribuzione di parti che apparirà nella Tavola, colla quale, se a Dio piace, conchiuderemo questa raccolta di scritti politici quasi epilogo delle materie trattate in essa, e traccia di quelle che rimarranno tuttavia a trattarsi. Colorimmo anche in parte il disegno, ma poi sviati da altre cure, e vinti dall' estensione del lavoro, e dalla considerazione della minore utilità che si potea aspettare da un' opera che per la sua molle soverchia avrebbe allontanato da sè un gran numero di lettori, mutando consiglio, venimmo nella deliberazione di spezzare la Filosofia della politica in alcune opere di minor lena e lunghezza, ciascuna delle quali fosse compiuta in sè medesima. Nacquero così i due scritti intitolati l' uno: « La sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le società, » l' altro: « La società ed il suo fine, » i quali uniti svolgono quelle ragioni ultime della politica scienza che scaturiscono dal fine della civile società e si contengono nel primo Volume di questa raccolta. Il secondo fonte delle ultime ragioni o criterŒ politici dicemmo essere: La costituzione naturale della civile comunanza; e queste saranno svolte nell' opera presente. Quando nel 1.36 io disponevo le varie cose, che in diverse circostanze m' era incontrato di scrivere, in una collezione che doveva uscire, e in parte uscì dal Pogliani in Milano, correva tale condizioni di tempi, ne' quali non poteva essere stampato questo scritto. Ma ciò nondimeno tanta fiducia io m' avevo ne' progressi sociali, che non dubitai di designare fin d' allora e promettere al pubblico questo Volume della Collezione a doverlo raccogliere. Ora mi è lieto vedere quella mia fiducia nei destini della società umana e quel fermissimo presentimento dopo questi dodici anni di aspettazione compiutamente avverrato. La qual fiducia non sorgeva in me allora: nove anni prima, cioè nel 1.27, quando componevo in Milano l' opera presente, con una disposizione di mente e di animo risoluto a non ricevere alcuna influenza dallo spirito e dalle consuetudini di quel governo sotto cui mi trovavo non cercando che la verità e quell' assestamento della società civile che riuscisse più conforme alla giustizia e adducesse la prosperità civile. Laonde immaginai che mi fosse dato il problema di erigere una società civile da fondamenti in mezzo ad una moltitudine di uomini che non fosse stata prima giammai adunata in civile reggimento. Io cercavo qual avrebbe dovuto essere la costituzione migliore di una tale società. Dicevo meco stesso che la migliore doveva essere quella che fosse più naturale , quella che dato un gran numero di famiglie o d' individui avvicinati fra loro, indubitatamente riceverebbe, se le cose procedessero naturalmente senza quegli accidenti fortuiti che fanno prevalere un uomo singolare o violento od astuto sulla turba degli altri. Naturale è all' uomo l' essere ragionevole: quindi naturale deve dirsi quella società di uomini che è costituita secondo ragione. Ma non è l' uomo solamente ragionevole, è anche sensitivo: egli non opera secondo la sola guida della ragione, soggiace agli istinti, dietro ai quali si muove spontaneo, e gli istinti sono suscitati dalle cose esteriori, dalle quali l' uomo patisce. Gli istinti ben ordinati conducono l' uomo ad una condizione pacifica e soddisfacente. La società umana è adunque naturale quando è ben ordinata secondo quello che esige la natura degli umani istinti, quand' ella ordina convenientemente le cose esteriori che gli suscitano. Una società civile costituita secondo la esigenza della pura ragione e secondo quella degli umani istinti è fondata nella natura delle cose, e però acconciamente ella dicesi naturale. Il problema adunque riducesi a cercare qual sia la costituzione naturale della società civile. Che cosa dice la ragione? la pura, la suprema, la incondizionata ragione? - Ella dal suo altissimo seggio dètta la giustizia, ella suppone questa base eterna alla civile convivenza. Che cosa vogliono gli umani istinti? Certamente vogliono essere soddisfatti, ma nol potrebbero essere se l' uno usurpasse sull' altro, se uno o più esercitasse la tirannide su tutti gli altri, se venisse turbato il loro ordine naturale, se i minori e men degni prevalessero ai maggiori e più degni, se superiore a tutti, quasi loro capo e ordinatore, non rimanesse il nobilissimo della virtù che solo adduce seco, quasi suo luminoso corteggio, i gaudi della vera felicità. Gli istinti soggiaciono alla volontà umana, la quale come cosa interiore non appartiene direttamente alla società esteriore degli uomini: ella può conservare la sua rettitudine, qualunque sia la disposizione delle cose esterne: tuttavia queste, i beni ed i mali sensibili, tentano la sua costanza, e le forme della civile società possono diminuire queste tentazioni, se sono bene ordinate, possono accrescerle in caso contrario: la costituzione adunque della società civile rispetto all' uomo istintivo deve riuscire così fattamente ordinata e disposta che nel tempo stesso ch' ella aiuta alla soddisfazione degli umani istinti coll' aumento dei beni esterni e colla diminuzione dei mali, tolga via quanto più le è possibile le occasioni che possono aver gli uomini di abusarne a loro propria sciagura ed infelicità. Il che ella otterrà pervenendo a far sì che ciascun cittadino partecipi al potere politico quanto gli è necessario a difendere e migliorare le cose proprie, niuno poi ne abbia quel soperchio, col quale potrebbe impunemente invadere e peggiorare le altrui. Noi chiameremo regolare quella società civile, che abbia distribuito a questa foggia fra cittadini il potere. Di che risulta che la società naturale, che noi andiam ricercando debba avere queste due qualità, essere giusta, ed essere regolare . Queste due qualità della società naturale rientrano in una sola, come abbiamo osservato altrove, cioè si riducono alla giustizia, perocchè ogni moltitudine unita in società civile, o che si vuole unire, ha il diritto di pretendere di essere costituita in modo regolare, perocchè questo è il migliore, ed ella ha il diritto di avere la migliore forma possibile di governo. Questo diritto del popolo è inalienabile, e non offende menomamente i diritti delle persone governanti. Quindi la costituzione della società si può dedurre in tutta la sua estensione da un principio unico cioè dal principio della giustizia sociale. 1) E da questo principio appunto noi ci proponemmo dedurla. La giustizia è eterna, impersonale, impassibile: la società civile eretta su di lei, avrà così una base ferma ed immobile: qualunque altra base le si dia, l' edificio riuscirebbe vacillante, ruinerebbe al primo corrodersi e venir meno di quel suo temporaneo fondamento: questa è la cagione universale delle rivoluzioni e delle agitazioni dei popoli. Ma quando noi diciamo che si dee dedurre la Costituzione naturale della società civile dalla giustizia sociale , allora noi non parliamo di ogni maniera di giustizia, ma della giustizia in quanto ella si applica a determinare le forme e le leggi della società. Con ciò dunque noi supponiamo, che vi sia un' altra parte di giustizia aanteriore alla società, ad ogni società. E vi ha in fatto, vi ha un diritto individuale che si concepisce senza alcun bisogno di ricorrere al concetto di società. Questo diritto noi l' abbiamo trattato in un' opera a parte. 1) Ogni società deve rispettare questo diritto, la società civile prima di tutte, come quella che è incaricata di difenderlo e non di manometterlo. Quelli improvidi legisti i quali vogliono derivati tutti i diritti dalla società civile, la rendono essenzialmente dispotica; perocchè il dispotismo non è soltanto nelle persone, può essere nella forma del governo, può essere nel governo stesso, e finalmente può essere nella stessa società civile, quando ella è mal concepita e definita: noi l' abbiamo mostrato. 2) Noi abbiamo parlato delle ingiustizie che può commettere la società civile in quant' ella è una persona giuridica uguale ad ogni altra, e le abbiamo raccolte in undici classi; 3) ed anche di quelle ch' ella può commettere in quanto è persona giuridica differente da tutte le altre. 4) Nè solo il diritto individuale è anteriore alla società civile e deve essere da questa rispettato; ma vi ha anche delle società anteriori ad essa, quali sono la società teocratica e la domestica, come pure tutte quelle che scaturiscono dal diritto d' associazione che è uno dei diritti individuali. Il diritto di tali società, precedente a quello della società civile, dee prevalere sopra di questo: la società civile il dee rispettare; se volesse invaderlo, sarebbe usurpatrice e violenta. La società civile, ogni qualvolta violò i diritti della Chiesa o quelli della famiglia, esercitò la tirannia e una tirannia più funesta di tutte quelle dei tiranni, perchè radicale e coperta sotto lo scudo di una dottrina politica ingannosa e perfidissima. Questa dottrina fondatrice e giustificatrice della tirannia civile cominciò ad essere fabbricata sistematicamente sotto Luigi XI e andò perfezionandosi in Europa sotto tutta la lunga serie dei despoti che a quello successero fino che ricevette una prima sconfitta dalla rivoluzione francese, la quale cangiò forma al dispotismo, non l' estinse perciò; anzi egli ricomparve più che mai orgoglioso e crudele sotto forme novelle. Perocchè quella rivoluzione invece di colpire il dispotismo stesso della società civile, diresse i suoi colpi disavvedutamente sotto la forma governativa ch' egli aveva preso; nè s' accorse della natura proteiforme di esso, onde quando credeva averlo ghermito, gli sfuggì sano e salvo sotto tutt' altre forme di mano. Il dispotismo non si coglie se non si prescinde dalle forme governative e non lo si raggiunge nel suo originale covile, il quale è la stessa società civile qualunque forma ella si abbia. La società civile stessa dee essere purgata dal dispotismo, cioè deve essere sottoposta al suo vero diritto, e non foggiata sopra un diritto preteso che le dà piena balìa di fare tutto ciò che può e che vuole. Noi abbiamo esposto lungamente quale sia questo diritto civile; e nello esporlo abbiamo riconosciuto che il vizio di quelle teorie giuridiche, che rendono dispotica e tirannica la civile società, trae la sua origine da un concetto imperfetto, confuso ed indeterminato della società stessa, e del suo fine. Si suol dire la società senza più per indicare la società civile. Questa maniera di parlare annunzia già l' errore introdottosi nelle menti; ella suppone che la società civile assorba nel suo seno tutte le altre società: ella confonde la società civile colla società del genere umano che appartiene alla società teocratica, di cui ne è l' abbozzo; questa maniera di concepire e di esprimersi dà necessariamente alla società civile ogni potere, non lascia sussistere altra società al suo fianco: la società civile così concepita, così nominata non può che esser dispotica e tirannica di tutte le altre società, di tutti gli altri diritti. Secondo la stessa imperfezione di pensare il fine della società civile non fu mai pienamente definito e precisato nei suoi confini: si concepì un potere vago ed assoluto che dovesse far tutto, a cui nulla fosse illecito, nulla ingiusto, da cui ogni altro potere derivasse, ogni altro potere dovesse mendicar l' esistenza, l' autorità, la legittimità. Noi abbiamo disvelato la falsità e l' inumanità di questa maniera di concepire il reggimento civile: n' abbiamo esposta agli occhi del pubblico la vergognosa nudità, siamo riusciti a farlo in un' opera che ha ricevuto il visto di un governo il più assoluto. Le dottrine esposte in tale opera si riassumono nei seguenti principŒ. Vi ha un diritto sociale universale, che deve essere applicato a tutte le società speciali. La società civile è una società speciale e non più: è una associazione che formano gli uomini fra di loro per un fine speciale: ella deve soggiacere alle stesse leggi che sono comuni a tutte le società. Il fine della società civile non è altro che quello di regolare la modalità di tutti i diritti dei cittadini, acciocchè si collidano fra loro il meno possibile, siano tutelati e sviluppati. Questo è il fine prossimo e preciso, e propriamente l' ufficio sociale. La dottrina di questo fine elimina dalla società civile ogni dispotismo. Infatti assegnandole un tal fine, un tale officio, si viene a riconoscere: 1 Che tutti i diritti di natura e di ragione, originarŒ e conseguenti od acquisiti, sono anteriori e indipendenti dalla società civile. 2 Che la società civile non può nè distruggere, nè diminuire alcuno di questi diritti, e tutto il suo potere si restringe a tutelarli e aiutarli nel loro svolgimento, nel regolarne in una parola la modalità senza punto nè poco diminuirne il valore. Solo contenendosi entro questi limiti la società civile cessa d' essere dispotica e tirannica qualunque sia la sua forma. Ella rispetta in tal modo tutti i diritti individuali, e così il diritto naturale e razionale rimane sussistente anche in presenza della società civile, e a questo diritto in quanto egli tiene una relazione alla società civile fu da noi applicata la denominazione di diritto extrasociale . La società civile ancora rispetta i diritti della società teocratica e quindi della Chiesa e quelli della società domestica come pure quelli di ogni altra associazione che sia conforme al diritto naturale e razionale. Così tutte le maniere dei diritti rimangono intatti: ciascuna si mantiene entro la sua sfera e quindi si ha la pace fra gli uomini. Vi ha dunque un Diritto extrasociale ed un Diritto sociale. L' ufficio della società civile verso il diritto extrasociale è di riconoscerlo, di lasciarlo sussistere a canto a lei e come indipendente da lei, di tutelarlo e di regolarne la modalità senza nuocerne alla sostanza, lasciando a tutti il suo, assicurando e guarentendo a tutti il valore dei proprŒ diritti, salva per lei la facoltà di regolarne quella modalità, che senza alterarne il valore contribuisce anzi a mantenerlo ugualmente per tutti, senza quelle collisioni che altrimenti avrebbero luogo fra i molteplici diritti coesistenti de' cittadini che dalle dette modalità non venissero regolati. Questo ufficio di tutela e di guarentigia affidato alla società civile s' estende anche ai diritti sociali. Il diritto sociale è quello che non precede l' istituzione della società civile, ma viene da questa, e ai diritti sociali si riduce anche la stessa costituzione regolare della società, ed anzi questo prima di tutti gli altri. Perocchè, come già noi vedemmo, il popolo, cioè la moltitudine di quelli che si aggregano in una civile società, ha il diritto imperscrittibile che la società medesima sia costituita nel miglior modo, il che noi esprimiamo con una parola dicendo che ella deve avere una forma regolare. Questo diritto della moltitudine, che si aduna nella civile associazione, dimostrasi col seguente ragionamento: La miglior forma sociale, che è la regolare, contribuisce ad ottenere il fine della società che è il regolamento più vantaggioso della modalità di tutti i diritti dei socŒ. Ma la moltitudine che si ordina civilmente ha diritto al fine dell' associazione nella quale si unisce; dunque ha diritto altresì alla forma regolare di essa associazione che è il mezzo di ottenere quel fine. Dal quale ragionamento se ne deducono agevolmente i seguenti corollarŒ: 1 Che se si tratta d' istituire un governo civile, il che è quanto dire di aggregare in società civile una moltitudine, la forma di questo governo dovrà avere la dote della regolarità. 2 Che essendo un problema complicato e oltremodo difficile il definire in che consista questa regolarità e quindi potendo accadere che nella prima istituzione con tutto il buon volere dei savŒ, che dirigono quella moltitudine a scegliere la miglior forma sociale, non si raggiunga al primo tentativo quella regolarità, e solamente più o meno vi si avvicini, rimane al popolo continuamente il diritto di riforma, cioè il diritto di domandare che la costituzione sociale venga modificata fino a tanto che raggiunga la regolarità. 3 Che i Principi, e più generalmente parlando i governi delle società civili, sono obbligati di riconoscere questo diritto del popolo e quindi di condiscendere all' unanime volere del medesimo, quand' egli domanda di quelle riforme che conducono a modificare il governo in modo da renderlo più regolare e così più perfetto. Infatti i governi ed i governanti non sono istituiti a loro pro, o a pro delle loro famiglie, ma unicamente a pro della moltitudine che governano; sono ministri di Dio per il popolo. Nè questo pregiudica ai loro interessi, perocchè non debbono avere alcuno interesse maggiore di quello d' esercitare alla meglio possibile il loro ufficio; nè lo possono esercitare alla meglio se la società cui presiedono non è costituita regolarmente: il loro unico vero interesse è l' interesse del popolo: il loro unico vero interesse è il loro dovere. Questo non pregiudica ai loro diritti, benchè possa diminuire la loro autorità e i loro proventi. L' autorità ed i proventi non sono diritti de' governanti se non in quanto servono o sono necessarŒ al buon governo: pregiudicando a questo cessano d' essere diritti. Dire il contrario apparterebbe alla morale dell' egoismo e al diritto gretto, adulatorio, sofistico dei Legulei. L' unica opposizione che si potrebbe fare a questa dottrina sarebbe quella che si volesse dedurre dal diritto signorile. Ma io parlo qui d' una società civile e non d' una società signorile. Io riconosco l' esistenza di un diritto signorile, e ne ho svolto i principŒ nella Filosofia del Diritto. Ma nello stesso tempo sono persuaso che il diritto signorile non può aver luogo se non temporaneamente fino a tanto che gli uomini si trovano ancora in uno stato di rozzezza e di fanciullezza; non più fra quelle popolazioni che sono già mature per l' influenza che ha esercitato lungamente sopra di esse il cristianesimo. Tali sono a mio vedere le nazioni cristiane d' Europa, per tali si debbono riconoscere e trattare senza tener conto delle piccole anomalie ed eccezioni che si potessero qua e colà ravvisare. Qualche traccia di diritto signorile rimarrà nelle relazioni della vita privata: non si deve ammetterlo più qual base della pubblica: oggimai alla vita pubblica non ispetta che la civiltà. Riassumendo adunque quanto abbiamo detto, la naturale costituzione della società civile deve avere i due caratteri della giustizia e della regolarità, e la regolarità dee essere dedotta anch' essa dai principii di giustizia. Acciocchè la società sia giusta ha bisogno di due cose, di leggi e di tribunali che applichino e facciano valere le leggi. Acciocchè la società riesca regolare ha bisogno pure di due cose, di un potere legislativo, e di una Magistratura o potere esecutivo, l' uno e l' altro regolarmente organizzato. Queste sono le due parti, bipartite l' una e l' altra, nelle quali spontaneamente si divide un trattato della naturale costituzione della società civile; consideriamole entrambi e fissiamo i limiti entro i quali noi dobbiamo svolgerle nell' opera presente. Dicevamo che la società civile non può avere il carattere della giustizia se non ha buone leggi e buoni tribunali. Le leggi altre antecedono a lei, come vedemmo, e sono le naturali o razionali, quelle della società considerata in universale, quelle della società domestica e della teocratica ecc.. Noi non abbiamo bisogno d' estenderci qui ad enumerarle, avendolo già fatto precedentemente nella Filosofia del Diritto. Altre sono quelle che va poi facendo lo stesso potere legislativo, e neppure di queste noi dobbiamo ragionare, bastandoci dire che tali leggi non possono essere mai altro che conseguenze logiche delle prime cioè di quelle che antecedono l' istituzione della società civile. In queste si contengono virtualmente, e avendo noi data la dottrina di queste indicammo già i principŒ dai quali anche quelle dovranno poi derivarsi per opera della nazionale sapienza rappresentata da chi avrà il potere legislativo. Non ci rimarrà adunque rispetto a questo altro da dire se non quanto riguarda l' organizzazione dei tribunali. L' altro carattere che dee avere la civile società è quello d' una costituzione regolare, la quale noi riducemmo all' ottima organizzazione del potere legislativo e della magistratura: noi non possiamo trapassare nè l' uno, nè l' altro di questi due punti e però si troveranno entrambi svolti nell' opera presente. Finalmente la costituzione naturale della società civile, che avremo rinvenuta con tutte queste investigazioni, converrà che sia ridotta in compendio, ovvero in una Magna Carta, la quale sia adottata dalla moltitudine che s' aggrega in civile consorzio, acciocchè la costituzione sociale affidata allo scritto stia sempre presente qual regola indeclinabile agli occhi dei socŒ e di tutti gli organi della società. Sono adunque quattro i problemi che noi ci proponiamo da sciogliere in quest' opera: 1 Quale debba essere l' organizzazione dei Tribunali. 2 Quale debba essere quella del potere legislativo. 3 Quale l' organizzazione della Magistratura. 4 Quale la Magna Carta. Nei quattro libri seguenti se ne tenta la loro soluzione. Il carattere della giustizia è così essenziale, così necessario all' esistenza della società, anzi alla esistenza di relazioni pacifiche degli uomini fra loro, che tutte le società in ogni tempo ed in ogni luogo lo hanno sempre cercato, ed hanno voluto, anche allora quando si ritrovavano piene delle più atroci usurpazioni ed ingiustizie, ostentarlo: hanno procurato di coprire l' arbitrio ed il violento, e di far passare agli occhi degli uomini per legittimo e per giusto quanto era effetto di passioni insaziabili, della prepotenza e della avidità. L' ingiustizia è troppo brutta e schifosa per avere potenza sugli uomini: essa non ha fatto mai nessuna conquista su di essi, i grandi usurpatori hanno dovuto prima ingannarli sulla natura delle loro imprese: e ricoprendo il mostruoso ceffo d' ingiusti, hanno dovuto prendere faccia di giusti e di probi: essi tanto usurparono, uccisero e divorarono dell' umana specie, quanto seppero rendere questa più paziente alle enormi loro atrocità coll' indurre nella medesima l' opinione che tutto ciò si faceva da una legittima autorità; col contrapporre in somma uno scudo di giustizia alla vendetta che tentava far di continuo contro di loro l' oltraggiata natura. L' opinione di giustizia ha una forza sugli uomini più grande assai di quello che comunemente si crede; e chi vorrà con occhio attento ricercare tutti i suoi effetti nelle diverse relazioni fra gli uomini, troverà che nelle stesse intraprese più empie e più disperate la forza maggiore che muove gli animi umani è l' opinione di giustizia, non di una giustizia intera, ma di una giustizia parziale: una opinione che riconosce in altrui il potere a cui obbedisce, e a cui si porge come cieco stromento dei suoi voleri. Che cosa rendeva terribile Attila se non l' obbedienza dei suoi soldati? Che cosa rende terribili tutti i grandi ladroni, se non il potere morale che hanno sui numerosi strumenti dei loro delitti? provi di comandare ad un esercito chi non è il suo capitano: egli o sarà deriso, o sarà morto come un ribelle. Non è già che la moltitudine ignori i delitti di chi considera per suoi capi, conosce che quelli che la guidano sono pieni di delitti, sono abbominevoli, ed anco, se si vuole, ingiusti usurpatori del potere, ma non rimane che la moltitudine non obbedisca ad essi mossa dall' opinione che quelli sono i suoi capi, e chi non sa indurre in essa questa opinione, non sa neppure esercitare sopra di essa verun potere. - E` inutile il dire che la moltitudine obbedisce talora per forza; e quale è mai questa forza che possa stringere ad obbedire la moltitudine? forse un' armata? ma questa stessa armata, perchè obbedisce ai cenni de' suoi capitani? Un timor panico può produrre una obbedienza per qualche istante, ma come egli è al tutto instabile e momentaneo, così pure è instabile e momentanea l' obbedienza. Ad ottener dunque che una moltitudine di uomini obbedisca ad un solo od a pochi per molto tempo, non v' ha altro mezzo se non di fare che questa moltitudine concepisca l' opinione di avere un dovere d' obbedire, opinione che la rende ad obbedire non solo pronta ma, dirò così, mobilissima, opinione che supplisce fin anco a quella forza che darebbe ai governanti il vero diritto di comandare, opinione cioè che muove la moltitudine per se stessa senza che sia nè pure associata all' esame del diritto che possano avere, o non avere coloro che comandano. Perocchè la moltitudine nella ferma persuasione, nella quale si trova di avere un dovere morale d' obbedire ad alcuno, pel bisogno stesso ch' ella sente d' esser guidata, non si cura molto di esaminare a chi spetti il diritto di comandarle, ed a quel primo in cui crede di vederlo, a quello obbedisce. Nè pure una masnada di ladroni starebbe insieme se nei suoi capi non vedesse un' autorità, perocchè l' obbedire stesso è un riconoscere tale autorità. L' idea dunque di dovere, che è un' idea morale, va ad essere il legame di qualunque associazione, ed anche quando si obbedisce unicamente perchè ciò credesi utile a se stesso, mescolasi in tale disposizione di volontà necessariamente un elemento morale, sebbene disguisato e guasto dal mal fine a cui si assoggetta; perocchè l' obbedire al comando suppone, come dicevamo, in quello istante che si ubbidisce la ricognizione del comando, che, come tale, non è che una volontà superiore manifestata. Che se lasciamo di considerare la giustizia che si mescola e fa sentire il suo bisogno all' uomo anche nella sua massima depravazione, e riguardiamo qual sia l' impressione che ella faccia agli uomini, non in uno stato di corruzione, ma in uno stato naturale, e direi quasi ancora vergine, ritroveremo ch' essa si rende all' uomo così bisognevole, come è bisognevole a lui la pace; perocchè (noi lo vedemmo 1)) è una assoluta necessità della natura intelligente quella di risentirsi qualunque volta ella crede che le sia stata fatta ingiustizia; per cui si può dire che l' ingiustizia sia la ferita dell' ente morale. Tale e tanta necessità della giustizia, perchè potesse esistere qualunque umana società, fece sì, come io dicevo, che la giustizia fosse sempre cercata in tutte le società civili, che le offese contro di lei non si potessero fare alla palese e liberamente, o che ben presto fossero vendicate: ed in tal modo per una forza intrinseca della natura umana, di reazione immediata contro l' ingiuria, dovettero le società ed i loro capi almeno darsi pensiero del modo di ritenere che la società civile avesse quanto più era possibile il carattere di giustizia: e quindi uno de' primi officŒ di quelli che presiedettero alle società civili fu di essere giudici: di che in tutte le società civili si stabilirono successivamente i Tribunali, e si andò migliorando e regolarizzando sempre più l' amministrazione della giustizia. E nondimeno in tutte le società civili rimase fin quì incompiuta l' amministrazione della giustizia: renderla compiuta è il progresso che resta loro a fare, acciocchè diventino appieno civili. L' autorità politica rimase priva di un tribunale di giustizia. Quell' autorità che stabiliva tutti gli altri tribunali rivolti a definire le questioni, che intorno alla giustizia insorger potevano fra i privati, e a punire le infrazioni dei diritti che faceva un membro ad un altro membro della società, o un membro della società al potere, non si credeva dover soggiacere ad alcun tribunale, e così rimaneva, rimase fin quì, un' autorità dispotica, qualunque fosse la sua forma, monarchica o repubblicana. Ella stabiliva i Tribunali pei litigi privati, perchè senza di essi vedeva che non avrebbe potuto esistere, giacchè non avrebbe potuto esistere la società che veniva istituita per godere appunto di una retta amministrazione della giustizia, nè avrebbe avuto il modo da difendersi dalle ingiurie che fossero portate direttamente contro di lei, e che attentassero alla sua esistenza. Ma quelli che avevano in mano l' autorità nel mentre che erano spinti in tal modo dal proprio interesse a provvedere che la giustizia fosse esattamente osservata dai singoli membri della società, e che fossero severamente vendicate le insubordinazioni alla stessa pubblica autorità, non avevano poi un motivo consimile che gli spingesse a stabilire eguali precauzioni e guarentigie contro alle ingiustizie che potessero commettere essi stessi a danno dei singoli cittadini o del corpo dei cittadini, abusando della autorità medesima loro affidata. E ciò nasceva anche perchè gli uomini desiderano sempre assai più di vedere che gli altri esercitino la giustizia verso di sè, che di obbligarsi essi stessi ad esercitarla verso gli altri, e di più perchè gli uomini, anche onesti, non temono di se stessi, ed è l' ultimo atto dello spirito umano quello di riflettere sopra di sè, e quasi dividendosi da sè, e costituendosi in uno stato imparziale, e rendendosi come una terza persona, chiamar sè stessi in giudizio. Il che se l' uomo potesse fare con eguale facilità di quella onde porta giudizio degli altri, non ci sarebbe certo quel bisogno universalmente riconosciuto di far sì che gli uomini non giudichino in propria causa, e che vi sieno dei tribunali, i quali entrino giudici e mediatori fra le parti in discordia, discordia che non nasce sempre da una mera perversità, ma che procede ben anco da un diverso modo di veder le cose e di opinare sulle medesime. Queste cagioni fecero sì che nel mentre si credette che fosse un elemento essenziale in tutte le società civili l' erezione dei tribunali di giustizia; rimanessero però delle azioni nella società che a questi tribunali non venivano sottoposte, e così restasse la società con un lato indifeso; mentre tutte quelle azioni che venivano fatte a nome della civile potestà si opinava doversi rimanere ingiudicate. Si sospettava ancora, non fosse nè pur possibile sottometterle ad un giudizio, e questo è forse la prevenzione che resta più difficile da combattersi e da sradicarsi. Ma parendo a noi questa una prevenzione niente fondata, come in appresso diremo, abbiamo creduto che restasse ancora ai progressi della società civile a fare questo passo importante, nel quale veggiamo un vero ed essenziale avanzamento; che restasse a dividere la suprema autorità in due parti, supreme egualmente nella loro linea, l' una delle quali presiedesse alla giustizia politica, e l' altra all' amministrazione, e quella rendesse giustizia ai membri della società contro le offese attentate a nome della autorità contro di essi, ed alle minorità contro il dispotismo delle maggioranze, parte importantissima che manca presentemente a tutte le società civili, la qual sola renderebbe perfetta nella società l' amministrazione della giustizia ed effettuerebbe quella eguaglianza giuridica che hanno tutte le persone fra loro sì individuali, che collettive. A dimostrare che l' istituzione di questo Tribunale politico è necessaria alla perfezione della società civile, comincierò dal fare osservare, che anche s' egli non esiste, fa sempre d' uopo che innanzi ad ogni disposizione governativa preceda un giudizio sulla giustizia della medesima, un giudizio privato che faranno i governatori stessi, senza sindacabilità, ma pure un giudizio. Il che è vero qualunque sia la forma che abbia il governo. Chi non ha rinunziato totalmente alle idee morali, o vero chi non pretende, inconseguente con sè stesso, che la morale sia bensì qualche cosa, ma debba essere esclusa dalle disposizioni politiche, vedrà incontanente la verità della enunciata proposizione: vedrà che i regolatori della società non possono fare una disposizione, se prima non credono, che ella sia conforme alle leggi della eterna giustizia ed equità; e perchè lo possano credere, debbono aver portato un giudizio sopra la stessa. Questo giudicio rimesso in fine del conto alla coscienza de' governanti, non solo nei governi assoluti ma ben anco ne' governi costituzionali e repubblicani che fin qui si conoscono, se è fatto bene, rende le disposizioni politiche innocue al bene dei particolari membri della società. Solamente mediante questo retto giudicio tutti i diritti, anche i più piccoli ed appartenenti alle persone meno influenti, possono essere riparati dal peso enorme del sociale potere sotto cui altrimenti sono in pericolo di venire schiacciati. Giacchè il giudicio è sempre libero, e un giudicio simile a questo non riposa che sopra un' esatta cognizione dei principŒ della morale e del diritto e di più sopra la disposizione retta della volontà, ne viene che queste due buone qualità, cioè la cognizione e la rettitudine, sieno in ultima analisi le due sole salvaguardie de' diritti del debile contro il forte, e del particolare contro il potere o contro la maggioranza dei cittadini. Ma d' altra parte egli è impossibile che chi ha la forza in mano non sia tentato di abusarne, ed è impossibile che nella società, qualunque sia l' ordine che vi si stabilisca, non vi abbia finalmente un' autorità suprema ed anche una forza suprema: dunque è impossibile di levare dalla società il caso in cui non si ritrovi la detta tentazione. Quando anche le forze fisiche fossero distribuite nella società in perfetta eguaglianza, le dette forze non riuscirebbero eguali nel loro effetto per la diversità delle forze morali: l' opinione della propria forza infonderebbe tuttavia una diversa misura di coraggio ai diversi uomini; ed è l' opinione della forza ed il coraggio, assai più che le forze fisiche, ciò che muove l' uomo ad intraprese che vengono ad aggravare sopra i suoi simili. Giova certo oltremodo persuadere gli uomini di questa grande verità, che la conservazione della giustizia è di un comune vantaggio, ma questa stessa persuasione così utile, e che si vede di secolo in secolo far progressi nell' uman genere in ragione della diffusione dei lumi; questa persuasione che sembra sottomettere la giustizia all' utilità, e rendere quella amabile per amore di questa, è una nuova prova, che l' umanità nella sua generalità si va migliorando, e che diventa più suscettibile dei sentimenti morali. Infatti qual può essere la disposizione di quegli uomini che s' inducono a rispettare la giustizia sul riflesso ch' essa è generalmente utile? Non è certo un tal rispetto della giustizia, a questa ragione appoggiato, bastantemente puro, il concedo: ma nulladimeno la disposizione di tali uomini riesce tale, che essi oggimai temono più i danni che possono venire loro apportati, quando la giustizia venga dagli uomini trascurata, che non isperino dei vantaggi dalle stesse loro ingiuste intraprese sugli altri uomini, il che li muove finalmente ad attenersi ai dettami della giustizia, a stimarla e finalmente a riconoscervi anche un intrinseco pregio. Ora tale non è la disposizione di un uomo estremamente avido di acquistare e rapace; perocchè questi sente d' avere in sè stesso una forza che gli dà la sua stessa immoralità maggiore di quella che hanno gli altri uomini: perciò più spera d' acquistare, che non tema di perdere; anzi spera senza temere: chè l' avidità lo occupa assai più di ciò che può egli contro gli altri, che non di ciò che possano gli altri contro di lui. Egli è dunque necessario di ricorrere sempre in fine del conto, per trovar una tutela ai diritti dei deboli contro ai forti, ad un fondo di moralità, benchè imperfetta, che si ritrovi nei forti; senza del quale non può consistere il genere umano. A torto questo ultimo fondamento della conservazione dei diritti e però dei beni di tutti, la buona fede, la rettitudine, la moralità, su cui riposa la tranquillità e l' esistenza stessa del genere umano, sembra fragile ed accidentale: egli è l' unico, e però bisogna contentarsene: qualunque meccanico ripiego, qualunque organizzazione esterna della società non può renderlo inutile ed ella è una speranza ridicola, non mi stancherò di dirlo, quella dei politici materiali di poter trovare un ordine politico di cose che non abbia il suo ultimo sostegno nella moralità, nel quale perciò non si esiga qualche sorta di virtù in quelli che hanno o credono d' avere in mano la forza, perchè non ne abusino. Sia pur dunque per molti alquanto strano, pure egli non cessa d' essere verissimo, che il modo, onde i diritti dei deboli sono tutelati, non è altro che la buona volontà di quelli che potrebbono offenderli e non vogliono farlo, perchè non giudicano di doverlo fare. Questi che potrebbero offenderli sono in primo luogo indubitatamente quelli che governano la società, i quali hanno il maggior potere nelle mani, e questo vale tanto se il governo è regio quanto se è repubblicano: poichè quando anche noi supponessimo la più assoluta democrazia, quale nè pure è possibile che si concepisca, ancora saremmo nello stesso caso, potrebbe sempre la maggiorità dei cittadini tiranneggiare la minorità. Egli è dunque evidente, che ogni disposizione governativa per esser buona, deve essere preceduta da un giudizio sulla sua rettitudine e giustizia; come pure che la bontà di questo giudizio è l' ultimo appoggio della sicurezza dei diritti de' particolari membri della società. La necessità di tal giudicio rimane ferma, anche a fronte di tutte quelle obbiezioni che fossero rivolte a provarne la sua difficoltà ed incertezza; le quali non provano mai ch' egli non sia necessario, proveranno tutt' al più una verità troppo disorrevole agli uomini, che non si può arrivare a tutelare pienamente i beni e i diritti di tutti e in tutti casi contro l' umana tristizia. E` dunque da ritenersi come cosa dimostrata che a tutte le disposizioni politiche, acciocchè riescano quali debbono essere, deve precedere un giudicio sulla loro giustizia. Questa necessità è intrinseca ed è necessità di morale e di utilità. E` necessità di morale, perchè avanti a tutto una legge che è eterna prescrive che sia fatto il giusto. E` necessità di utilità; perocchè le disposizioni ingiuste del governo impediscono che la società civile ottenga il suo fine, contengono una violazione dei diritti dei cittadini a danno o dei particolari, o delle minorità, o della parte debole o di tutto il corpo sociale. Dunque fra tutte le cose quella della massima importanza per la civile associazione si è che sia fatto un giudizio retto sulla giustizia di tutte le disposizioni governative, e che queste ubbidiscano a quel giudizio. Allorquando questo giudizio è intieramente abbandonato ai governatori della società e non è sindacabile, allora vi ha il governo assoluto. Se i governatori fossero infallibili, il governo assoluto non avrebbe alcuno inconveniente. Ma l' infallibilità è solo propria di Dio, e però a Dio solo spetta senza inconvenienza il governo assoluto. Vi hanno dei casi, nei quali anco nella società umana non si può avere altro governo che l' assoluto. Quando la moltitudine si trova ancora in uno stato di barbarie, di rozzezza, d' ignoranza, a niuno viene in mente che gli atti del governo possano soggiacere a qualche sindacabilità: tutt' al più si ripulsa la violenza colla violenza: le vie di fatto non hanno ancora ceduto il luogo alle vie di diritto. A niuno viene in mente nè manco la possibilità di guarentigie che possano esser date dall' autorità suprema al popolo: a niuno viene in mente di domandarle: tutti sentono il bisogno di ricevere una direzione, un ordine, una unità che non saprebbero dare a sè stessi. In questa condizione di cose tutto ciò che si può fare si è che sieno eletti dei buoni governatori, ai quali il popolo ciecamente si sottometta. E questo è già un gran passo: in una condizione ancora inferiore la moltitudine riceve quel capo o quel governo che s' impone a lei da sè stesso o con violenza, o con astuzia o con bontà e virtù. In entrambi i casi la sorte della moltitudine è rimessa per intero alla coscienza dei governatori: questa coscienza e i lumi di cui è fornita, qualunque sia, è l' unica guarentigia dei diritti del popolo. Di mano in mano che il popolo si istruisce e le facoltà intellettuali e morali si svolgono; di mano in mano che la moltitudine esperimenta dal potere ingiustizie e vessazioni, le quali la risvegliano e con una penosa esperienza la rendono diffidente del potere, la disingannano della credenza che aveva nella illimitata sapienza di chi la governa; si manifesta prima il bisogno di una difesa dei proprŒ diritti e poscia sorge il pensiero della possibilità di averla, e finalmente si tenta di averla, domandando od anzi strappando qualche guarentigia ai dominanti, qualche limitazione del loro assolutismo. Allora è incominciato nella società civile, che vuole migliorare il suo ordinamento, un lavoro importante, ma difficile, un lavoro lungo, graduato che richiede dei secoli a compirsi, e che si riduce alla soluzione di questo problema: « In che maniera si può ottenere che il governo civile dia a tutti i cittadini sufficienti guarentigie, le quali assicurino la giustizia delle sue disposizioni. » Quando il governo resiste a questo lavoro che si opera nel popolo, specialmente quando resiste in un modo artificioso ed astuto, che è una resistenza più durevole, allora viene il momento in cui vi ha rivoluzione. Se il lavoro di cui parliamo, che rende il popolo voglioso di guarentigie si va operando in tutta la massa del popolo stesso, la rivoluzione è democratica. Se si va operando soltanto nella classe più elevata, che è quella che solitamente arriva la prima ad un grado di istruzione sufficiente per conoscere il dispotismo governativo, vi ha rivoluzione aristocratica. Molte rivoluzioni aristocratiche v' ebbero in Europa dopo che ella fu illuminata dal cristianesimo, e le ultime furono quelle che accadero nella Inghilterra: la prima rivoluzione democratica, quella almeno che abbia avuto un grande effetto popolare, fu la francese; le resistenze dei Borboni l' occasionarono. Ma che cosa fa la rivoluzione? Che cosa ottiene? Non più di quello che il popolo sa volere. Per conoscere dunque che cosa ottenga una rivoluzione conviene vedere che cosa sappia il popolo che la fa, che cosa sappia intorno al problema che abbiamo indicato: « In che maniera si possa ottenere che il governo civile dia a tutti i cittadini sufficienti guarentigie, le quali assicurino la giustizia delle sue disposizioni. »Il popolo che ha trionfato nella rivoluzione dimanda al nuovo governo tutte quelle guarentigie che egli conosce utili a tutelare i suoi diritti. Nella scelta o nella istituzione del nuovo governo egli dà o prescrive a lui quelle forme che egli crede più confacenti a quelle guarentigie: non domanda e non pretende di più perchè non sa di più, e non può volere altro che quello che sa. Quindi il nuovo governo figlio della rivoluzione è ben lontano da corrispondere alla vera soluzione del problema sociale, cioè di dare guarentigie sufficienti ad assicurare i diritti di tutti, perchè la soluzione di questo problema difficilissima fu eseguita secondo la misura della scienza popolare e però ancora imperfettamente. Il governo nuovamente rifabbricato contiene ancora in sè l' assolutismo sotto forme diverse, e un assolutismo talora minore ma talora anco maggiore. E se si cerca la ragione di ciò, la ragione dell' imperfetta soluzione del governo sociale, si troverà che ella si riduce sempre a questa: si pensò a limitare la potenza del governo, a impedirgli o a difficultargli quegli atti che furono esperimentati nocevoli nei governi precedenti, ma non si pensò a controllare il giudizio sulla giustizia di tutti i suoi atti: la responsabilità di questo giudizio fu pel maggior numero de' suoi atti abbandonata puramente alla sua coscienza. Essendosi dunque in parole proclamata la liberta, è rimasto l' assolutismo nel governo, questo passa o presto o tardi in dispotismo, e torna a vessare i popoli con ingiustizie più o meno coperte (prodotte da incapacità o da passioni egoistiche egli è il medesimo) torna a ingannarli tessendo dei veli più o meno densi alle proprie ingiustizie, e il popolo di mano in mano che più si istruisce più ancora apre gli occhi, e si irrita fino a tanto che il risentimento giuridico scoppia in una nuova rivoluzione, la quale rovescia di nuovo il governo e ne fabbrica un nuovo da cui tutto si spera: la giustizia e la libertà si proclamano e si credono assicurate per sempre. Ma il fatto è ben diverso, poichè la costituzione del nuovo governo corrisponde ancora alla scienza limitata del popolo e dei capi popolo che lo hanno istituito, alla soluzione che essi hanno saputo dare al problema sociale delle guarentigie, soluzione che forse si è operata alla stessa foggia come nel precedente rovescio, cioè non prendendosi già a sciogliere il problema in se stesso sommettendo al calcolo gl' intrinsici suoi dati e facendosi carico di tutte le sue condizioni; ma cercando unicamente tali forme di governo, tali leggi costituzionali, tali guarentigie in una parola che ovviassero ai disordini particolari del governo precedente senza andare alla radice dei medesimi. Così gli Stati camminano di rivoluzione in rivoluzione, e non possono arrestarsi in questa serie di dolorose vicende fino a tanto che non abbiano espulso dai visceri de' loro governi il dispotismo sotto tutte le forme, e così li abbiano resi veramente civili obbligandoli ad adoperare non più coll' arbitrio, ma secondo la norma della giustizia. Ora a questo si sarà pervenuto solamente allora che nella società vi sia un Tribunale venerabile ed indipendente, il quale sia incaricato alle opportune occorrenze di chiamare a censura la giustizia di tutti gli atti del governo, di tutte le leggi, eccetto la legge costituzionale come si dirà in appresso, la quale deve anzi servire di codice al detto Tribunale, sul quale pronunciare e motivare le sue sentenze. Veduto che non si può espungere dal seno della società civile il dispotismo se non a condizione che si completi l' ordine dei Tribunali che amministrano a tutti la giustizia, coll' aggiungersi ai Tribunali che giudicano delle azioni private de' cittadini altri Tribunali incaricati di portar sentenza della giustizia delle azioni pubbliche del governo, noi dovremmo venir descrivendo e divisando meglio questo officio de' politici Tribunali che proponiamo. Ma gioverà prima che accenniamo l' organismo che pare più convenevole d' attribuirgli, senza la cognizione del quale non si potrebbe definire il modo del suo esercizio. Che egli abbia una prima, una seconda, ed una terza istanza collocate nei Distretti, nelle Provincie e nella Capitale sembra consentaneo alla regolare amministrazione della giustizia: due sentenze uniformi finiscono la causa. Noi crediamo che annessa a questo Tribunale debba esservi altresì un' assemblea di giurati, non già perchè ella giudichi del fatto o del diritto nel merito della questione, ma per un ufficio preliminare e speciale, che descriveremo più sotto. Egli è nondimeno manifesto che ai Tribunali distrettuali o provinciali non si potrebbero affidare quelle cause le quali trattassero della giustizia degli atti emanati dai supremi poteri dello Stato, cause gravissime e talora difficilissime: debbono dunque queste essere riserbate alla suprema corte di giustizia che nelle cause minori costituisce la terza istanza. Ora posciachè nella trattazione di tutte le cause è da ritenere il principio delle tre istanze, converrà che per le cause maggiori il supremo Tribunale politico ammetta le tre istanze in sè stesso, venendo formata la prima con un collegio di un terzo dei suoi membri, la seconda con un altro collegio composto dei rimanenti due terzi, e la piena seduta del Tribunale formando la terza. La gravità e l' importanza di questo consesso, che dee limitare entro i confini della giustizia gli altri supremi poteri dello Stato, esige che il numero dei suoi membri sia ragguardevole e proporzionato alla popolazione dello Stato. Converrà dunque fissare la proporzione che deve osservarsi fra il numero dei membri del Tribunale supremo e il numero di ciascuna delle due camere che formano il parlamento. Questa proporzione sembra poter essere che il Tribunale supremo abbia un numero di membri pari alla metà dei membri di una Camera. Il Tribunale di cui parliamo non deve già essere un' inquisizione; anzi nulla deve fare d' ufficio: è un puro Tribunale, il quale aspetta che vengano a lui quelli che hanno dei richiami a fare, porgendosi all' esame delle ragioni che gli presentano e di quelli che oppone la parte contraria. Sui detti richiami egli pronuncia della giustizia o ingiustizia di tutti gli atti del governo come pure dell' abuso che i cittadini potrebbero fare dei diritti che loro accorda la Costituzione a danno della società quali sarebbero quelli della libertà della stampa, dello insegnamento ecc.. Più brevemente egli giudica dei diritti politici e della loro violazione sia per parte del governo sia per parte dei governati. In questa sfera di materie sottoposte al Tribunale politico non si debbono comprendere i diritti di alto tradimento che vengono rimessi ai Tribunali comuni, e niun altro delitto contro una legge certa e determinata o contro un diritto incontroverso che pure appartengono ai Tribunali civili e criminali, perocchè l' intendimento di questa istituzione del Tribunale politico è unicamente quella che v' abbia nello Stato un' autorità incaricata di giudicare dei principŒ: se esista la legge, cioè se la legge è giusta, (giacchè non essendo giusta non si dee dire che esista), se esista il diritto che si pretende violato, non meramente se si dia il caso della violazione; e quando la legge o il diritto è indeterminato quali sieno i confini che lo determinano. Ora il delitto d' alto tradimento è una semplice violazione di una legge e di un diritto certo e determinato, perocchè il diritto che ha il governo di non essere tradito è fuori di controversia: così si dica di tutti gli altri delitti contro una legge o un dovere giuridico che non ammette dubbio nè ha bisogno di determinazione. All' incontro se la questione si volge sulla legge, se trattasi di sapere se ella sia stata portata giustamente o con infrazione dei diritti di qualche cittadino, la cosa non può essere riferita che al Tribunale politico. Così pure se la legge o il diritto indeterminato, come sono i diritti delle libertà accordate dalla costituzione, e vuol sapersi se di quel diritto fu abusato, tocca al Tribunale politico decidere perchè questa decisione importa una determinazione dei limiti della legge e del diritto che dee premettersi volendo rilevare se vi fu il caso d' abuso. Del pari la censura di tutti gli atti del governo, fatta dietro il richiamo di quelli che se ne tengono offesi, appartiene al Tribunale politico, perocchè anche in tutti questi casi trattasi d' interpretare e di determinare la legge costituzionale per sapere se fu violata dal governo in se stessa o nelle sue conseguenze. Questa separazione delle materie che sono di competenza del Tribunale politico, da quelle che sono di competenza dei Tribunali comuni, mi sembra la più esatta. Ma qualora paresse troppo sottile e atta a produrre nella pratica frequenti questioni di competenza, si potrebbe stabilirne un' altra più positiva nel modo seguente: La legislazione dello Stato è scritta nella costituzione e nei codici e leggi annesse: questi e queste devono essere dettate in perfetta coerenza con quella: tutto ciò che vi avesse in queste di contradditorio a quella è invalido e di niuna autorità. Ogni Tribunale dee appoggiare le sue sentenze alle leggi scritte ed alle loro conseguenze che sono implicitamente contenute in quelle. Ora il Tribunale politico è il custode della Costituzione: gli altri Tribunali sono i custodi delle altre leggi: il Tribunale politico dee appoggiare le sue sentenze sempre a qualche articolo della Costituzione; gli altri Tribunali a qualche articolo delle altre leggi. Ogni imputazione davanti ad un Tribunale dello Stato deve essere anch' essa appoggiata a qualche articolo di legge. Se l' imputazione si fonda o può esser fondata sopra a qualche articolo di quelle leggi che sono state portate fuori della Costituzione, la questione è di competenza dei Tribunali ordinarŒ. Ma se l' imputazione non ha altro fondamento possibile che qualche articolo della stessa Costituzione, allora la causa è di competenza del Tribunale politico. Quindi ogni qualvolta trattasi della giustizia d' una legge inferiore alla Costituzione, la causa appartiene al Tribunale politico. Così pure ogni qualvolta trattasi d' un atto del governo che non offende altra legge se non la Costituzione, spetta portarne sentenza al Tribunale politico. Distinta cosi la competenza dei due ordini di Tribunali per conoscer meglio l' officio del Tribunale politico, conviene indicare quali persone giuridiche possono essere attrici dinanzi al medesimo. Primieramente al potere legislativo è lasciata la facoltà di consultare il Tribunale politico sulla giustizia di una legge prima di promulgarla. Questa consultazione dee essere riserbata unicamente alla suprema corte di giustizia politica; ma la domanda dee esserne fatta unicamente al Collegio di prima Istanza di questo Tribunale, e ciò senza che possa essere portata alla seconda e terza Istanza ancorchè la prima Istanza la dichiarasse ingiusta; e ciò perchè non sia preoccupato il ricorso che potessero fare i cittadini in qualunque sia tempo contro alle leggi innanzi al Collegio d' Appello e alla piena seduta. Se il Collegio di prima Istanza niente trova nella proposta di legge di contrario alla giustizia, egli vi appone il suo nihil obstat , e la registra. Se vi scorge qualche ingiustizia ne dee dare i motivi al potere legislativo; e questo rimane tuttavia libero di promulgarla o no. Qualora la promulghi, riportandosi così al giudizio del pubblico, ella ha pieno vigore fino che non insorgono reclami contro di essa, nel qual caso il Tribunale supremo giudica della causa, senza riguardo alla consultazione avvenuta. Qualora poi la legge sia stata registrata dal Collegio di prima Istanza, il richiamo non può farsi che in Appello. Ciascuno dei poteri che concorrono alla formazione delle leggi, cioè le due camere ed il re, può anch' egli consultare il primo Collegio del Tribunale supremo intorno alla giustizia della proposta di legge, ma questa consultazione dee farsi contemporaneamente ai dibattimenti delle Camere, i quali non devono essere per tale motivo dilazionati. Il re può consultare il Tribunale supremo anche sulla giustizia d' una guerra o di altra relazione coll' estero: consultazione che secondo quello che esige la natura della cosa dee trattarsi in segreto; nè il re tuttavia rimane obbligato a seguire la sentenza del Tribunale. La consultazione che fa il re per la giustizia delle relazioni esterne può essere ugualmente proposta all' uno dei due Collegi o al Tribunale in piena seduta. Colla sola aggiunta di questo Tribunale politico il primo carattere della società naturale, cioè la giustizia, avrebbe trovato tutto ciò che ad esso è necessario per realizzarsi e per tutelarsi. Ma non già con eguale facilità si può indicare il modo di introdurre nelle presenti società civili il secondo carattere della società naturale, cioè a dire la regolarità . Poichè gli uomini non hanno già pensato a questa, come sono stati costretti di pensare tantosto alla giustizia , come quella che è immediatamente necessaria alla società umana e senza la quale non sussiste. La giustizia è un' idea morale e perciò sempre splendida, sempre luminosa a tutti gli uomini, mentre la regolarità della società non è che un' idea politica, un' idea per ciò complicata di molte idee, o un calcolo della sempre cupa prudenza. La regolarità finalmente a quel modo che noi l' abbiamo concepita non è che un mezzo per sottrarre gli uomini quanto più sia possibile alle tentazioni di infrangere la giustizia, e gli uomini pensano sempre prima al fine che al mezzo. Anzi egli è pur singolare quella spensieratezza che si osserva negli uomini e tardità nel curare i mezzi che possano assicurare il conseguimento di quei fini che pur desiderano conseguire: una certa inerzia da una parte e un divagamento della loro attenzione, una soverchia confidenza dall' altra in se stessi o in quei pochi mezzi che più ovvii si sono lor presentati fa sì che sebbene desiderosi d' arrivare a qualche splendido scopo, pure ignavamente il perdono pel non bastevole acquisto ed uso dei mezzi, o vero, rimanendo questi anzi scarsi che abbondevoli, conseguon lo scopo o tardi o debilmente. Ma egli avviene ancora che v' hanno talora de' mezzi ad ottenere qualche scopo che pur sommamente desiderano, i quali nè pur s' immaginano che possano esistere, e ai quali perciò non pensano deliberatamente fino che il loro pensiero spinto qua e là da una lunga successione di cose, e da un cumolo singolare di circostanze, non venga tratto sopra dei medesimi accidentalmente. Egli è fra questi mezzi obliati generalmente, e per lungo tempo nè pur sospettati, che io credo si debba mettere gli equilibri che abbiamo indicati nel fine della prima parte e che tutti insieme danno alla società il secondo carattere della sua perfezione, cioè la regolarità . Essi furono bensì talora traveduti quando le circostanze s' univano per aprire gli occhi agli uomini, e per mostrar loro ciò che l' istantanea esigenza delle cose addimandava. Ma erano traveduti alla sfuggita, e separatamente l' uno dall' altro, e quando il politico veniva indotto dalla natura delle cose a fare qualche disposizione a quelli consentanea, questi solea riguardarla come un rimedio utile ai mali pubblici, ma un rimedio solo di quel caso particolare, un buon tratto pel malore del momento; ma non si sollevava la sua mente a considerarlo con un po' più di generalità a vedere che in quella disposizione si conteneva uno specifico per tutti i mali dello stesso genere, e che quel malore era prodotto da una stessa causa onde provenivano tanti altri mali, e per ciò ad un genere solo appartenenti: che questi mali sociali in somma nascevano da un germe funesto della umana società, e che il rimedio, che aveva tolto via il malore particolare, rimoveva il germe stesso cagione di tutti gli altri malori. Quindi si può dire che i grandi sconvolgimenti delle società civili ed i mali a cui esse si trovarono continuamente soggette condussero talora i governatori delle medesime ad operare in un modo consentaneo ai principŒ della regolarità, e che perciò essi introdussero qualche parte di essa nella medesima, ma che questo fecero, per dir così, senza sapere essi stessi che si facevano, condotti dalla forza naturale delle cose; che perciò non operando dietro un principio, ma solo a tentone come pratici privi d' una teoria, hanno dovuto lasciare nelle società civili delle irregolarità innumerevoli, nel tempo stesso che vi lasciavano qualche traccia di regolarità; e tale si può dire che sia il presente stato delle medesime. Egli è da aggiungere ancora un' altra osservazione, che rende ragione di un fatto umiliante, a dir vero, per l' umana natura, cioè che si trovino traccie di maggiori regolarità in quelle società civili che sono state più crudelmente agitate da convulsioni intestine, e dove più frequentano i delitti e trionfa la scostumatezza. Di che la ragione è questa che la regolarità non è che i mezzi onde si prevengono le infrazioni morali, e si sottraggono agli uomini le tentazioni a turbare con esse la società: dei quali v' ebbe maggior bisogno nelle società più corrotte, e più agitate dalle fazioni: perciò doveva questo bisogno acuire maggiormente gl' ingegni degli uomini a inventare a mali sì grandi ripari e provvedimenti, e perciò ancora a cercare ciò che scemasse le occasioni di mal fare agli uomini, regolando la società in modo che nell' ordinamento della medesima il meno possibile se ne contenessero. E in fatti la regolarità , secondo carattere della società naturale, non è altro che quella disposizione della medesima, la quale dia il men possibile agli uomini gli impulsi e le tentazioni d' infrangere la giustizia e turbare la società, la quale disposizione viene espressa dai cinque equilibri che formano la teoria della medesima. Questa teoria per tanto non fu mai chiaramente veduta e stabilita, nè mai si cercò di realizzarla nelle società, sebbene il caso o l' unione di molte circostanze abbiano condotto sovente gli uomini politici ad agire senza avvedersene in un modo consentaneo alla medesima. Dovendo adunque noi adesso trattare di questa regolarità, ci è necessario di sostenere due fatiche egualmente rilevanti; cioè: 1 Descrivere una società perfettamente regolare, la quale sia come la regola e l' ideale a cui paragonare le società civili sussistenti, e conoscere i pregi ed i difetti della loro costruzione: 2 Indicare il modo prudente onde gli uomini senza offendere la giustizia, che è il primo e fondamentale carattere della società naturale, possano muovere la società, a cui appartengono, verso la sua perfezione, rivolgendo tutte le sue disposizioni che possono legittimamente fare ad ottenere che essa acquisti la regolarità sopra indiicata e che si accosti sempre più all' ideale proposto. Per formarci l' ideale della società regolare si debbe bensì usare del frutto dell' esperienza, poichè si debbono prender da essa le cognizioni intorno alla natura dell' uomo, e allo sviluppo delle sue passioni mediante la società, si debbono prender da essa le leggi a cui il cuore umano è sottoposto, le diverse trasformazioni ch' egli soffre sotto i colpi dei diversi accidenti, e le molte specie de' fenomeni che sortono dal contatto di più uomini e dall' accozzamento di più interessi. Ma dopo di ciò conviene elevarsi portando seco tali cognizioni ad una sfera più pura, a luoghi più spaziosi, e più sgombri da impedimenti accidentali dove potere fabbricare co' materiali seco portati un edificio caro all' intelligenza, nelle proporzioni del quale risplenda l' ordine e la bellezza, e che quand' anche non potesse giammai essere realizzato pienamente sulla terra, tuttavia rimanesse venerabile come un tipo di perfezione a cui avvicinarsi, da cui solo si può prendere tutto ciò che si può far di bene sulla terra, ed a cui si debbe raffrontare ciò che fatto si trova per conoscere se è retto o se è torto, se merita d' essere conservato, o distrutto e rifabbricato. Le utopie sì antiche come moderne furono derise, ed a ragione; ma non già perchè presentassero il tipo della perfetta società civile, ma perchè nol presentavano: non già perchè proponessero cose tutte degne d' imitazione, ma perchè ne proponevano di quelle che non sarebbe punto stato buono che fossero state dagli uomini imitate. Egli è vero che l' infermità degli uomini non permette che essi attingano in veruna cosa alla piena perfezione, ma egli è falso, che la perfezione non sia lo scopo a cui debbono tendere tutti i voti e le azioni degli uomini. Egli è falso che la perfezione non possa essere imitata: qualunque perfezione può essere imitata, sebbene non a pieno asseguita. Ciò che non può essere imitato è solo quanto è assurdo: ciò che non debb' essere imitato, è solo quanto è cattivo. D' altra parte la perfezione debb' essere presentata agli uomini in tutta la sua eccellenza, perchè non si sa qual parte ne imiteranno, o quale no: non si sa in quante maniere diverse i diversi uomini la imitino: e sebbene si possa credere impossibile che un uomo la imiti perfettamente, tuttavia non si può già sapere, se riunendo insieme tutto ciò che da un esemplare di perfezione proposto all' uman genere imitano gli uomini diversi, non riesca forse tale imitazione completa ed intera, sicchè l' esemplare vedasi tutto realizzato ed imitato dagli uomini, sebbene non tutto da un solo uomo, non in un solo luogo, non in un solo tempo. E parmi anzi questa l' intenzione della divina Provvidenza che non già nell' individuo, ma bensì nella specie umana si avverino tutti quei gradi e tutte quelle parti di una estrema perfezione di cui l' uomo è suscettibile. A tenore di queste idee abbiamo cominciato dall' immaginarci una società o per dir meglio una moltitudine di uomini, che vuole diventar società, nella quale non sia ancor successo alcuno di quei casi accidentali per cui viene accelerato il tempo agli uomini che si trovano nello stato di natura del passare a quello di società civile: i quali casi consistono nell' elevarsi che fa un uomo od una famiglia sopra gli altri per qualche sua virtù o prodezza o avvedimento. Ma invece di ciò abbiamo supposto che i padri di famiglia spontaneamente insieme assembrati pensassero di eleggersi di comune accordo un governo secondo le leggi della equità insieme e della prudenza. Questa moltitudine di uomini può ricevere quel governo qualunque che si crede migliore, perocchè ella non ne ha ancora nessuno, e non v' ha nessuna persona in essa che abbia ancora acquistato il diritto di comandare, la quale se già vi fosse sarebbe certamente un ostacolo allo stabilimento della migliore costruzione della società, perchè il suo diritto sarebbe rispettabile, e sarebbe perciò una condizione che impedirebbe la formazione del progetto di una nuova costruzione. Egli è appunto questa rispettabilità dei diritti già acquistati al governo sociale che rende necessario supporre una moltitudine non ancora associata, ma che vuol associarsi, perchè si possa dare a questa liberamente la forma miglior di governo, e sarebbe l' errore della più atroce tirannia filosofica quello, che è pur comune a' dì nostri, di credere che quando si ha immaginato una forma migliore di governo si sia ancora in diritto di realizzarla dove che sia, senza rispetto a' diritti di quelli nelle cui mani sta già per giusti titoli il regolamento della società. Supponiamo adunque che questi padri di famiglia congregati insieme per darsi quel migliore regolamento sociale che corrisponda il più alle leggi della equità e della prudenza, abbiano scelta una Commissione de' più stimati e de' più savŒ fra loro, incaricata di presentare un progetto, secondo il quale instituire un potere civile, che gli unisca in società. Quale sarebbe il progetto più savio ed equo che questa Commissione potrebbe presentare all' assemblea de' padri? Tal progetto è ciò che ora dobbiamo tentare di esporre. E primieramente per le cose già dette veggiamo di già quali siano le prime basi del medesimo. Perocchè tutto il potere civile dovrà certamente proporsi che venga distribuito in tre parti: le quali sono le seguenti: 1 Il Tribunale politico che abbiamo indicato e che per essere indipendente da qualunque altro potere forma il primo ramo del potere supremo. 2 L' Amministrazione incaricata di amministrare la modalità dei diritti di tutti i membri della società, che forma il secondo ramo del potere supremo. Questi due rami del potere supremo hanno tutti e due un potere proprio e non già delegato da verun altro potere. 3 La Magistratura , la quale non è già un ramo del supremo potere e non ha neppure un potere proprio, ma solo ha un potere delegato dall' Amministrazione della società: essa è la parte esecutiva, come l' Amministrazione è principalmente la parte legislativa, ma la seconda non è che una serva della prima. Queste tre branche in cui vien diviso dal progetto della Commissione il civile potere, esigono di essere da noi trattate partitamente. Ritorniamo alla nostra Assemblea dei Padri di famiglia. La Commissione da' Padri trascelta dopo aver formato o piuttosto abbozzato il progetto del Tribunale politico che venimmo di descrivere, non credette bene di presentarlo tantosto all' assemblea dei Padri, prevedendo che avrebbe incontrato delle grandi opposizioni, come quello che esigeva prima la cognizione di molti principŒ di giustizia, che tutti non potevano egualmente avere, e nei quali bisognava prima che ben insieme convenissero. Per ciò pensarono in quella vece di prendere un' altra via, e invece di presentare il progetto del Tribunale politico così staccato procurarono di condurli un passo dopo l' altro da sè stessi a rinvenire insieme e l' ottima forma della Amministrazione, e la necessità del Tribunale. Venuto adunque il giorno della sessione, in cui la Commissione doveva riferire ai Padri lo stato dei suoi lavori, essa si restrinse a farli convenire, che l' associazione che cercavano di fare insieme non era altro, che l' instituzione di una amministrazione della modalità dei diritti di tutti quelli uomini che dovevano convivere in detta società. Spiegata la parola modalità per i modi diversi nei quali può esistere un diritto senza perdere menomamente del suo valore, la Commissione dimostrò, che coll' avervi un Potere, il quale potesse variare questi modi dei diritti, secondo che più giovasse, nessuno perdeva, e invece altri guadagnava: poichè il socio al quale si cangiava il modo di essere del suo diritto, non perdeva nulla; mentre che il suo diritto, per essere piuttosto in un modo che in un altro, non veniva punto a perdere del suo valore, ma tutto era scrupolosamente a lui conservato; e che questo doveva essere il vantaggio principale dell' instituzione, a formar la quale s' erano ragunati. Dimostrò ancora che questo Potere, a cui si sarebbe commesso di stabilire la modalità dei diritti di tutti i socŒ, non che venisse a disporre dei diritti dei medesimi, cioè del loro valore, anzi veniva ad essere incaricato della loro difesa, mentre tutte le lesioni di diritto che i soci si facessero fra di loro appunto perchè alteravano i diritti, alteravano ancora quell' ottima modalità, che era dover del Potere in discorso di stabilire e di rendere anche colla forza rispettata. Questo discorso acquietò l' animo di molti dei Padri, i quali si erano con grandissima difficoltà indotti a venire all' assemblea: poichè sospettavano, non avendo idea chiara di ciò che si voleva fare, che la nuova instituzione non andasse a ferire i loro diritti, e che il nuovo Potere che si voleva erigere fra di loro, al quale fossero tutti subordinati, non venisse a comandare nelle loro famiglie e a disturbarli nel possesso dei loro beni. E questa era l' idea che era entrata nelle famiglie più doviziose e nella mente dei più vecchi, che riguardavano come una pericolosa novità l' associazione proposta: e che formavano insieme una fazione assai forte. Ma quando ebbero chiaramente intesa l' idea della cosa, e quando viddero che non si trattava di altro che di stabilire una amministrazione al solo fine che determinasse sempre l' ottima modalità dei diritti, e che lungi dal toccare i diritti di alcuno non avesse altro potere che di difenderli e di migliorarli, essi viddero subito il vantaggio della cosa, mentre l' esperienza avea loro fatto conoscere, quanti mali nascevano dal non aver una comune volontà che definisce la detta modalità dei diritti, e dal non aver una comune forza da difenderli. Laonde approvarono tutti l' idea dell' instituzione, riservandosi solo di vedere che il modo di eseguirla corrispondesse allo scopo, e che si avesse veramente tale instituzione che regolasse la modalità di tutti i diritti, senza ch' essa trapassasse i suoi confini. In altra sessione la Commissione pensò di tirare una inaspettata conseguenza dai principŒ posti nella sessione precedente, intorno la natura della società che si voleva stabilire, e ricevuti con universale applauso. E la conseguenza si fu, che dal punto che si era stabilito che l' instituzione che andavano a fare doveva avere per suo scopo la modalità di tutti i diritti, conveniva trattare con tutti quelli che avessero dei diritti: e perocchè dei diritti hanno tutti gli uomini senza eccezione, qualunque fosse il loro stato o condizione, tutti dovevano esser fatti entrare nella Assemblea, e con tutti egualmente si doveva trattare. Proponeva per ciò che anche le donne e i figliuoli di famiglia e i servi, e tutti quelli che avessero avuto l' uso di ragione, fossero chiamati ed uditi indistintamente, mentre l' instituzione che si andava a fare riguardava anche essi, perchè anch' essi avevano dei diritti, che si trattava di sottomettere quanto alla loro modalità al potere che si voleva instituire. Trovò tale proposizione la più grande opposizione nei Padri, ai quali pareva che con ciò si attentasse al loro potere sui figliuoli, sulle mogli e sui servi; e che fosse cosa la più contraria alla loro dignità chiamar questi nell' assemblea, e atta a dar loro una baldanza, che avrebbe alterato l' ordine delle loro famiglie. Qualcheduno dei più avveduti credette ancora di vedere nella proposta della Commissione conseguenze più lontane e più funeste, per le quali quella instituzione in luogo di unire le famiglie fra di loro, e di farle fiorire mediante questa unione, scopo della medesima, avrebbe portato lo scioglimento di ciascuna famiglia, e l' instituzione della società civile sarebbe finita anche colla distruzione della società famigliare. Tanto dava da temere il principio di considerare gli uomini come individui, ciascuno dei quali avesse dei diritti da sè, e con essi concorresse a formar come membro la civile società. La Commissione rispose che le obbiezioni che le si facevano, dimostravano ch' ella non era stata ben compresa o che non si era a sufficienza spiegata. Domandando dunque attenzione per ispiegarsi meglio, cominciò dal dimostrare, ch' ella è cosa innegabile, che ogni uomo abbia dei diritti, i quali, appunto perchè sono coll' uomo innati, si possono chiamare i diritti dell' uomo: che per questi però non si possono intendere dei diritti vaghi e generici, ma che debbono essere determinati e precisi: che si può bensì sbagliare nello stabilirli, ma che il negarli è impossibile; che l' opinione di alcun membro della Commissione restringeva i diritti dell' uomo a due soli, cioè: 1 la personalità, 2 la vita; che quando anche questo secondo potesse esser conteso pel diritto del padre anche sopra la vita del figliuolo, tuttavia non potrà mai essere conteso il primo; e che rispetto a questo secondo, se il padre ha diritto sulla vita del figliuolo, ha anche degli obblighi verso la medesima. Possono i padri far ciò che vogliono dei loro figliuoli? dato anche ad essi un diritto sulla lor vita nel caso di colpa, possono torla a loro capriccio? Non è egli il padre un uomo ragionevole che non può perciò far nulla, non solo verso i suoi figli, ma nè verso se stesso di ciò che offenda la dignità umana? L' autorità dei mariti sulle mogli e sui servi non debbe anch' essa esser ragionevole? non ha un limite messo dal suo stesso fine? non dovrà aver un freno contro alle passioni? Se la società che vogliamo stabilire debbe esser rivolta a difendere i diritti, tenderà essa a difendere i diritti dei forti, che non hanno bisogno di difesa, o pure quelli dei deboli che si rimangono indifesi? E se i diritti dei deboli, chi più deboli dei figliuoli rispetto ai padri, delle mogli rispetto ai mariti, dei servi rispetto ai padroni? Rammentiamoci che siamo tutti figliuoli prima d' esser padri, che il bene dei figliuoli non è che il bene dei futuri padri e delle future generazioni, e che la giustizia infranta dai padri verso i loro soggetti gli espone ad una reazione dei medesimi, o ad una punizione divina. Ma supponiamo pure che i figliuoli non abbiano giammai uno stretto diritto di richiamarsi contro i padri, prima d' essere emancipati: supponiamo (e questo al tutto non può sostenersi) che si possa fare lo stesso discorso della moglie e del servo: non ne verrebbe per questo che la società civile, che vogliamo istituire, non debba prendere cura anche di queste persone; perocchè dovendo essa, secondo la massima che abbiamo abbracciato, stabilire l' ottima modalità dei diritti, deve vegliare di conseguente perchè il padre, il marito, il padrone, non passino i loro confini; mentre il passarli è un guastare l' ottima modalità, se pur si dà qualche pregio all' onesto ed al giusto, e non si credono vani nomi. La proposizione adunque che nella instituzione che vogliamo fare della società civile sieno introdotti e sentiti tutti i generi di persone purchè giunti all' uso di ragione, non deve adombrarvi quasi tendesse ad indebolire le vostre legittime potestà, mentre non ha altro scopo che di giungere a riconoscerle con accuratezza, e stabilirne dei precisi confini, acciocchè nessuno si lasci trasportare dalle passioni ed abusare del suo potere, e non produca (ciò che una funesta esperienza dimostra pur troppo spesso avvenire) quei mali che desolano le famiglie, che le riempiono di atroci inimicizie fra figli e padri, mogli e mariti, servi e padroni, inimicizie che poi serpeggiano di casa in casa e passano d' una generazione infelice ad un' altra generazione ancora più infelice. L' introdurre alla vostra presenza gli altri membri delle vostre famiglie non è dar loro alcun diritto; mentre con ciò non s' istituisce ancora la civile società; ma solo si tratta della sua instituzione: e se questa per istituirsi secondo le basi dell' equità ha bisogno di prendere cognizione dei diritti e dei doveri di tutte quelle persone che debbono entrare in essa, d' altra parte essa non potrebbe giammai alterare questi diritti; mentre non ha altro scopo ed altro potere che di difenderli, e ben ammodarli. Egli è poi ancor meno ragionevole il timore di quelli che dubitano che colla proposta che abbiamo fatto si dia troppo risalto e troppa forza ai diritti individuali, per la quale perdano relativamente di forza quei diritti che legano gli uomini insieme, mentre anzi noi protestiamo aver in animo che la società di cui si tratta debba essere rivolta a difendere imparzialmente sì gli uni che gli altri, e perciò anche a rafforzare questi secondi, non dovendo essere veramente la istituzione che si vuol fare se non una maggiore fortificazione di tutti i diritti degli uomini. Per tali dichiarazioni e proteste consentirono i Padri a completare l' assemblea secondo la proposta della Commissione, e a dar luogo in essa a tutte le condizioni di persone come ad un buon espediente a riconoscere tutti i diritti e doveri, la modalità dei quali era lo scopo della instituzione desiderata. La Commissione cominciò in una terza sessione a dire, che si compiaceva di essere in caso di far conoscere a' Padri il vantaggio e la necessità della concessione da essi fatta nella sessione precedente, che l' assemblea fosse completata coll' ammissione in essa di ogni genere di persone. Poichè, disse, essendo lo scopo della società civile che volete stabilire la modalità dei diritti, questa è diversa secondo la diversità dei diritti stessi: per cui adesso che si deve procedere a stabilire un potere incaricato di amministrare questa modalità, si sente il bisogno di aver sott' occhio i diritti di tutti per definire gli offici di questo potere. Passò di poi a dare una nuova prova di ciò, stabilendo la proposizione importante: che nel potere civile dovevano entrare le diverse maniere di persone a quello stesso modo onde partecipavano dei diritti, essendo questa la maniera di deviare il meno possibile dallo stato di natura, e di erigere la società civile in un modo perfetto ad un tempo e colla menoma azione. Rivolta poi a quelli che nella sessione precedente avevano biasimata l' importanza data ai diritti individuali, mostrò loro che la proposizione che era per fare avrebbe fatto vedere la differenza del sistema di un eccessivo individualismo dal loro; poichè nel sistema dell' individualismo si suppone che ciascun uomo dovesse avere un egual diritto nella società civile ed un egual voto, mentre essi riconoscevano erroneo tale sistema, e non parlavano di individui, ma piuttosto di una classe intiera d' individui: non dell' uomo, quasi che bastasse nominarlo per intendere tutte le specie dei suoi diritti, ma dei diritti stessi dell' uomo provati non meno dalla sua natura che dai fatti; perocchè proponevano in quella sessione che di tutti gli uomini che dovevano formar parte della società si facessero quattro classi divise secondo la diversità dei diritti, e che si trattasse con ciascuna classe a parte per vedere come i diritti che formavano quella classe potessero dare alla medesima un titolo d' entrare in parte del civile potere che cercavasi d' instituire. E le quattro classi divise secondo i diritti che potevano dare una influenza diversa nella civile società erano le seguenti: La prima classe sarebbe stata composta di quelli che non possedevano il diritto sulle proprie azioni, quali sono i figliuoli, le mogli e i servi perpetui. 1) La seconda classe si doveva formare di quelli che erano affatto privi di beni di fortuna. Nella terza classe dovevano esser posti quelli che acquistavano beni di fortuna, ma precariamente e senza possedere un fondo; e questi erano i giornalieri e i mercenarŒ. Finalmente la quarta classe era composta di quelli che oltre avere i diritti dell' uomo, erano liberi e benestanti, cioè i capi di casa che possedevano un fondo, che dava loro il mantenimento senza bisogno del lavoro personale: intendendo per capo di casa qualunque uomo che facesse casa da sè, sia maritato o no. Questa divisione in quattro classi non incontrò difficoltà e si elesse una persona proba per ogni classe che dovesse trattare le ragioni della medesima circa l' aver parte al governo civile che volevasi instituire. Nella quarta sessione non potè la Commissione fare alcun passo innanzi coi suoi lavori, perchè molti membri insorsero contro una proposizione ch' essa aveva fatta sentire nella sessione precedente, ma che non era stata messa in deliberazione. La proposizione era « che le persone componenti la Società Civile dovessero entrare nel Potere Civile, che si trattava d' istituire, a quello stesso modo onde partecipavano dei diritti: »proposizione identica con quest' altra: - « Che tutte le specie di diritti e tutti i diritti in ciascuna specie dovessero trovare nella Società Civile una rappresentazione loro conveniente e possibile. » Si cominciò col richiedere una spiegazione della parola rappresentazione , la quale sembrava equivoca ad alcuni; e la Commissione disse che per rappresentazione di un diritto non intendeva altro se non una voce, la quale potesse perorare la causa di quel diritto, esporre i lagni nel caso che quel diritto fosse stato violato, e le pretese che egli poteva avere sul modo di essere considerato dalla Amministrazione sociale ed accresciuto. Mostrò qui la necessità di ciò e l' equità della cosa; perocchè in tal modo nissun diritto veniva obliato, ma ciascuno aveva quella forza che gli era necessaria per guarentire la sua esistenza e la sua prosperità. Disse, che non si poteva già aspettare che vi fossero degli amministratori che prendessero da se stessi in vista tutti i diritti, perchè ciò era sopra le forze della umana mente e della umana virtù; che, perchè la Società fosse costituita sulla Giustizia, che era la prima base su cui erano convenuti, si doveva nel fondarla attenersi irremovibilmente a queste due avvertenze: 1 che ciascun diritto avesse modo di lamentarsi, violato che fosse; 2 che ciascun diritto avesse modo di fare innanzi efficacemente le sue ragioni per essere migliorato dalla Amministrazione; e che questo non si poteva ottenere a meno che ciascun diritto avesse una voce o sia avesse alcuno che facesse sentire la sua esistenza nell' Amministrazione della società, influendo nella bilancia amministrativa con quel peso stesso che il diritto aveva rispetto agli altri diritti; ciò che si voleva esprimere con dire che ogni diritto fosse rappresentato nella società . Osservò, che quando anche l' Amministrazione della Società, fatta in un modo diverso, fosse così avveduta e così imparziale che sapesse avere in vista tutti i diritti, era però impossibile che gli avesse in vista tutti allo stesso modo, e con quella chiarezza, con quella estensione e con quell' impegno che ci poteva avere il particolare loro rappresentante e specialmente il suo possessore. All' incontro nell' Amministrazione proposta si chiamavano in tal modo tutti gl' interessi privati in società, e si facevano entrare tutti a formare un solo corpo che doveva riuscire necessariamente il più avveduto insieme ed il più attivo; perchè interessato quanto più esser poteva nella propria Amministrazione. Dimostrò finalmente, come questa massima evitava i gravi danni nei quali erano incorse altre nazioni che avevano abbracciato per mancanza di prudenza il principio vago ed indeterminato che fossero gli uomini e non i loro diritti rappresentati nella società; e conchiuse collo stabilire che gli uomini considerati privi dei loro diritti erano nulli in società; che la società civile non si potea fare per tali uomini astratti; ma ch' ella non si faceva se non per i loro interessi; che gl' interessi adunque e non gli uomini conveniva che avessero in essa una rappresentazione. A mal grado di questa spiegazione la Classe degli uomini liberi temette di venir forse confusa nella società con quella dei servi; e convenne che la Commissione protestasse di bel nuovo ch' essa non voleva già che tutti i diritti fossero rappresentati per essere confusi insieme, ma anzi per essere meglio distinti e tutti egualmente difesi; disse che essere rappresentati non volea dire essere distrutti, diminuiti, accresciuti, o mescolati; ma anzi essere provvedimento perchè non si violassero o mescolassero. I Commissari fecero osservare a tal fine che nella loro proposizione non si parlava già d' una rappresentanza per tutti i diritti uguale; ma d' una rappresentanza conveniente alla natura stessa dei diritti: sicchè sarebbe esclusa qualunque specie di rappresentanza , la quale non potesse convenire coll' indole dei diritti rappresentati senza alterarsi; poichè quest' era la prima condizione di ogni sociale stabilimento che cioè fosse conservato scrupolosamente a tutti il suo, e fosse esclusa qualunque arbitraria disposizione che potesse portar cangiamento nei diritti. Tranquillati con ciò i dubbŒ della Classe degli uomini liberi, sorse la Classe dei benestanti e protestò contro alla Rappresentanza proposta nel caso ch' essa portasse per conseguenza che essi dovessero pagare anche per quelli che non possedessero. Poichè, disse chi faceva le parti dei benestanti, se anche quelli che non possedono hanno parte nella società, cioè sono rappresentati, come potranno poi sostenere i pesi? chè non hanno da pagare le imposizioni. E se non possono mettere nulla insieme come potranno partecipare ai beni dell' Amministrazione, la quale non ha veruna forza, nè può far nulla se non ha un fondo da spendere? La persona delegata per trattar la causa dei non proprietarŒ rispose che la Società Civile è considerata presso molti popoli come una instituzione che si propone il bene universale; che nel bene universale entrano tutti gli uomini indistintamente, sieno benestanti o no, che dunque la Società Civile ha l' obbligo di mantenere i suoi membri poveri, e questi all' incontro hanno il diritto d' esigere dalla Società dei loro simili il proprio mantenimento; perchè il primo diritto di ciascun uomo è di vivere e perciò ai mezzi per conseguire questo fine che è insieme la prima legge del codice della natura. Qui fece una forte declamazione contro quelle nazioni mezzo barbare, presso le quali è aggravata la classe inferiore di eccessive imposizioni, mentre essa è quella che sostiene ancora le più gravi fatiche, e la classe dei ricchi si vive oziosa, immune dai pesi comuni della Società, e fracida nella scostumatezza. Tocca adunque, conchiuse, a pagare i pesi a quelli che hanno facoltà da pagare, ed è assurdo d' esiger nulla da poveri, cioè dai membri più sgraziati della società. La sola cupidigia insaziabile può esser sorda al loro diritto, e può impietrire il cuore a ricusare d' entrare con essi, quasi fossero uomini di una specie inferiore, nella medesima società. Quando sia così, rispose il delegato della classe proprietaria, la società che si propone d' instituire non conviene in nessun modo ai proprietarŒ; ed io non potrei giammai consigliarli di entrare in simile associazione. Essi sentono bensì la voce della natura verso a loro simili indigenti, ed è impossibile che v' abbia alcun uomo a cui questa voce sia totalmente straniera e che parlandogli al cuore non gli faccia intendere ch' egli è obbligato, essendo in uno stato di abbondanza, di satollare il suo simile che si vede languire innanzi dalla fame. I proprietarŒ anche senza essere uniti in società hanno più o meno corrisposto a questo dovere, secondo che ciascuno se ne sentì penetrato, fu più virtuoso, o meno dominato dall' avarizia. Ma nessuno, nè pure i più benefici, credette mai che gl' indigenti che soccorrevano avessero un diritto al loro soccorso, sicchè lo si potessero pigliare per forza: gl' indigenti stessi non hanno mai creduto di averlo, e la natura e la ragione mosse sempre le loro lingue ai ringraziamenti, ed i loro cuori alla riconoscenza dei beneficŒ che ricevevano, poichè sentivano che erano beneficŒ, e non debiti che fossero a lor pagati. 1) Se dunque fin qui i proprietari non ebbero che un dovere d' umanità verso gl' indigenti, e gl' indigenti nessun vero diritto verso i proprietarŒ, non conviene già a questi entrare in una società che muta le naturali relazioni fra gli uomini e che quei poveri che prima beneficavano innalza allo stato di creditori, i beneficanti abbassa a quello dei debitori, che priva questi di quella riconoscenza, venerazione ed amore, che ricevevano da quelli per unico risarcimento dei loro beneficŒ, e che all' incontro indurisce il cuore di questi, ed estinguendo in esso quelle naturali e dolci affezioni che gli avvincolavano coi soccorritori delle loro miserie, li cangia in esattori assidui, e li rende altrettante piante parassite che senza nulla produrre succiano gli umori vitali dal tronco della società. Non è dunque utile tale società che sovverte l' ordine della natura, che sommette i ricchi come debitori ai poveri resi creditori, e che dà a questi un diritto così esteso sopra di quelli quanto è estesa la povertà, la quale non ha confini mentre nessun bene necessariamente la satolla, potendo essere sempre riprodotta dalla volontà stessa degli indigenti. Consiglio adunque, disse, bensì i proprietarŒ a fare una società fra di loro, ma a non entrare in quella che si chiama società civile , e che si propone di fare insieme con tutti gli uomini ed anche perciò coi non proprietarŒ; poichè tale instituzione scioglie i vincoli più dolci che stringe i proprietarŒ ai non proprietarŒ per unirli insieme in quella vece con catene di ferro; scioglie i vincoli della natura per sostituirne di arbitrarŒ, i giusti per sostituirne di ingiusti; e costringe i ricchi a pagare per i poveri, non già col patto che questi li risarciscano mediante delle fatiche che posson prestare, ma col patto che restino poveri; mentre si pianta in principio, che la povertà stessa sia quella che dà loro questo preteso diritto. Se i proprietarŒ fanno un' associazione fra loro, non fanno nessun torto con ciò agli indigenti; poichè a ciascun uomo è lecito di associarsi coi suoi simili, per conseguire colla loro unione qualche fine onesto; e i non proprietarŒ possono parimenti fare se vogliono fra loro una simile associazione; poichè nessuno può loro impedirlo. Nè tampoco è vero che i proprietarŒ con ciò ricusino di riconoscersi simili dei non proprietarŒ. Essi riconoscono benissimo di appartenere ad una stessa società generale qual' è quella in cui sono gli uomini per la comunanza della natura. Ma questa non si dee confondere con altre particolari società. Essi anzi, come dicevo, conservano maggiormente in tal modo coi non proprietarŒ i vincoli delle naturali affezioni, vincoli spirituali che stringono una nobile società fra gli uomini, e che non debbono giammai essere sacrificati a dei vincoli materiali. D' altro lato nella società che io propongo di stringere ai proprietarŒ fra di loro, e che io sono indifferente che si chiami civile o con altro nome, perchè i vocaboli non formano la cosa, è impossibile che entrino i non proprietarŒ: poichè una società non si stringe se non per degli interessi comuni; ed è assurdo che entrino nella stessa società degli uomini, che non hanno dei comuni interessi: così i non proprietarŒ non possono avere interesse comune coi proprietarŒ, e non possono per ciò entrare in una società, il cui scopo è l' amministrazione della proprietà, poichè non avendone non potrebbono metter nulla insieme da amministrare, e l' entrare in essa per acquistarne è un entrarvi solo in apparenza; mentre non sarebbe un entrarvi per lo scopo della società, ma sarebbe un acquistare relazione con detta società per uno scopo a loro soli particolare. La Commissione prese a rispondere alle obbiezioni proposte: che primieramente conveniva con quelli che osservavano essere un errore fondamentale confondere la società generale degli uomini colla società civile; che questo errore tuttavia vigeva in molte menti, e che si era cercato con grave danno d' introdurlo nelle sociali costituzioni; che la società civile non era una società generale ma una società parziale: parziale disse, non pel numero degli uomini che racchiude, quasichè ne escluda dal suo seno qualche classe, ma per gl' interessi che si propone a suo fine immediato. Questi interessi non sono che i diritti nelle singole persone, ed il suo fine è di difendere questi diritti, e di farli fiorire non disponendo di altro che della loro modalità. Il potere civile adunque che si vuole instituire, sebbene debb' essere supremo nel suo genere, tuttavia è limitato nel suo oggetto. Quest' oggetto del potere, diciamolo di nuovo, è il regolamento della modalità dei diritti al doppio fine che sieno conservati ed accresciuti. Egli dunque aggiunge bensì qualche cosa allo stato di natura in cui si trovano presentemente le famiglie, ma non è già che distrugga questo stato di natura, o che lo assorba in sè stesso: si può dire ch' egli non sia altro se non un mezzo per cui si conservi lo stato di natura. I diritti sono nello stato di natura: e questi diritti son quelli che debbono sussistere egualmente nello stato di società. Le relazioni fra gli uomini che nascono da questi diritti, ovvero dalle loro scambievoli spontanee affezioni, appartengono pure allo stato di natura, poichè non hanno già bisogno di una legge civile per essere prodotte o permesse, e queste medesimamente rimangono le stesse nello stato sociale. Nello stato sociale adunque rimane intatto tutto lo stato di natura e non v' è di più che un potere, il quale lo difende e lo aiuta al bene degli uomini. Egli è dunque un grande errore, sebbene frequente, quello di non vedere nella società civile che diritti e relazioni creati dal potere civile, quasichè dipendesse da questo potere civile anche che gli uomini sieno uomini. Dirò di più, poichè il potere civile non è che un mezzo per difendere ed aiutare lo stato naturale, egli avverrà, che sia tanto più perfetto quanto meno apparisca; cioè quanto più insensibile sia la sua azione: poichè il miglior mezzo di ottenere un fine è quello di ottenerlo colla menoma azione. Egli è dunque un' insensatezza degli uomini moderni lo sforzo di distruggere lo stato naturale per non vedere da per tutto che il civile: lo sforzo di distruggere le affezioni ed i vincoli della natura per sostituire ad essi dei patti immaginarŒ: lo sforzo di distruggere il reale per sostituirvi l' ipotetico, e il dettame della giustizia naturale per sostituirvi la sanzione della forza, o sia l' arbitrio che essa dà a quelli che l' ha nelle mani. E` vero che questo errore avvicinò gli uomini necessariamente alla verità; poichè supposto che non vi fossero diritti se non sociali, cioè se non sostenuti dalla forza sociale, vale a dire supposto che i diritti non fossero distribuiti dai titoli naturali, ma dall' arbitrio fornito di forza, era impossibile che non iscorgessero l' assurdità nel sistema, quando quest' arbitrio fosse dato ad una persona particolare: mentre una tale persona sarebbe riuscita il più mostruoso dei tiranni. Quindi necessariamente ricorsero all' arbitrio del popolo, come un arbitrio che veniva tenuto in dovere dall' interesse generale, cioè dall' interesse dei più; ma che non cessava per questo d' essere radicalmente una tirannide, mentre la prima sua conseguenza era il sacrificio dei meno ai più: ed in fatti l' infallibilità del popolo fu proclamata nello stesso tempo che si vide disporre col maggior arbitrio, anzi col più crudele arbitrio, della sostanza e della vita dei più deboli; che si sentì giustificare qualunque eccesso collo specioso titolo del bene generale, e che si vide andare regolarizzandosi questo sistema mostruoso, e, ridotto a termini finanziari, stabilirsi, che le masse dovevano essere tutto, e nulla le individualità, e che un paese produceva in uomini tanta rendita annua da potere spendersi per la gloria dello Stato secondo il capriccio del più forte dei Generali nazionali. Ma la legge naturale è sacra indipendentemente dalla forza che la sanziona e dal potere civile che la promulga: ed essa è quella che fa quello stato di natura, cui il potere civile non può distruggere nè produrre: quello stato di natura umana in cui gli uomini sono legati fra loro per affezioni ad essi naturali, e per diritti e doveri morali. Conviene su questi principŒ definire la questione agitata fra i proprietarŒ ed i non proprietarŒ. Poichè primieramente egli è verissimo, che dalla legittima natura che abbiamo messo n chiaro della società civile risulta, che quand' anche il non proprietarŒ fossero escusi dall' associazione che insieme facessero i proprietarŒ, non si potrebbono punto chiamare offesi nei loro diritti che hanno comuni con tutti gli altri uomini: perciocchè non sarebbero esclusi per questo dalla società del genere umano, riterrebbero inviolati i diritti dell' uomo, e non sarebbe meno colpevole colui che li violasse in essi dopo l' associazione, di quello che fosse innanzi; conserverebbero le stesse relazioni coi proprietarŒ sociali; parteciperebbero degli stessi beneficŒ, e sarebbero a loro debitori della stessa gratitudine, e senza perder nulla di ciò che avevano come uomini nello stato di natura, non farebbero che non guadagnar nulla dal nuovo stato sociale dei proprietarŒ. Ma sebbene ciò sia vero, come osservò chi ha parlato in favore dei proprietarŒ, non è però da preferirsi la società particolare da lui proposta alla società civile, che per esser tale debbe abbracciare, come siamo convenuti, i diritti di tutti gli uomini. Non è, dico, preferibile rispetto al vantaggio degli stessi proprietarŒ, perocchè primieramente i non proprietarŒ, esclusi che fossero dalla società, non potrebbono essere sottomessi alle leggi della medesima per diritto, nè soggetti a' suoi tribunali se non mediante la forza. Nè potrebbe essere impedita giustamente una loro associazione, la quale verrebbe a formare due poteri egualmente supremi al contatto l' uno dell' altro; nei quali perciò non potrebbe nascere fra l' uno e l' altro che discordia e che l' uno non venisse sottomesso all' altro. Ora in questo caso di chi sarebbe la peggiore? dei proprietarŒ che arrischiano di perdere colle loro sostanze anche la loro libertà, o dei non proprietarŒ che hanno l' avidità e la speranza di diventare ad una girata di ruota ricchi e potenti, e dal più basso luogo che occupavano la sera fra gli uomini svegliarsi la mattina in cima della fortuna? Senzachè, quelli che non sono ancora proprietarŒ possono arricchire, ed essere prosperata anche in tal modo la loro associazione la quale non si potrà più rompere, e si dovrà temere. Egli è dunque meglio per tutti egualmente gli uomini, ma specialmente per li proprietarŒ che si costituisca una vera società civile senza esclusione di persona, nella quale tutti i diritti sieno rappresentati, e la modalità di tutti i diritti sia da un solo potere amministrata. - Ma i proprietarŒ dicono, noi non vogliamo pagare per li non proprietarŒ, ed è in questo che la Commissione dà loro tutta la ragione; mentre se non desse loro ragione in ciò, contraddirebbe a sè stessa, che ha posto come la prima base del potere che si vuole instituire, ch' egli non abbia veruna forza di trasferire i diritti d' una nell' altra persona; ciò che succederebbe se si facesse che i ricchi pagassero per i poveri, mentre con ciò si trasferirebbero i diritti di questi in vantaggio di quelli. Come adunque, voi direte, possono i poveri entrare in simile associazione, mentre non ne possono pagare le spese? Questo è quello che la Commissione si riserva di spiegare quando si tratterà di stabilire il posto che debbono occupare nella società ciascuna delle quattro classi in cui si divisero tutte le persone da associarsi: in tanto si contenta di far osservare che nella proposizione fatta, e sopra cui si rivolge la presente discussione, non fu già detto solo, che ciascuna specie di diritti dovesse ritrovare una rappresentanza conveniente , ma si aggiunse, e possibile; cioè possibile a conciliarsi colla giustizia e colla equità, ossia colla conservazione dei diritti di tutti; ed ancora di assicurare i proprietarŒ che l' associazione dovrà esser tale che essi non ispendano già per i poveri, o secondo la volontà di questi. Queste ragioni tranquillarono i due partiti; ma il delegato dei non proprietarŒ uscì con una nuova obbiezione dicendo che dal momento che si debbe scegliere una amministrazione della modalità dei diritti di tutti gli uomini, non si doveva già tanto cercare che in essa fossero rappresentati i diritti dei socŒ, quanto ch' ella fosse tale che amministrasse bene, e che per tal fine non si doveva aver altra regola nel formarla che quella di scegliere fra tutti le persone superiori alle altre per sapienza e per virtù, o sia di maggior capacità ad ottenere lo scopo proposto; che i ricchi solitamente sono inerti ed incapaci di governare, e che perciò non è utile che abbiano tanto peso nella società; che, se si accresce la loro potenza col dar loro in mano il governo civile, diventeranno più crudi e spietati che non sono colla plebe; che vedendo d' aver in mano tutto il potere lascieranno le cose pubbliche nella maggior dimenticanza, e il bene pubblico sarà immolato a' loro capricci: che il merito solo distingue l' uomo dall' uomo; e che il merito si debbe premiare coi pubblici onori, e colle cariche civili, e che è un indegno spettacolo il veder l' uomo probo e sapiente nella miseria e nell' avvilimento, mentre l' ignoranza fastosa ed il vizio potente si compiace mirarlo avvilito a' suoi piedi. La Commissione rispose che simili osservazioni avevano bensì una speciosa apparenza, ma che disaminate più addentro si trovavano inconcludenti. E di vero se la scienza o anche la stessa probità fosse quella che desse agli uomini il diritto di entrare nelle amministrazioni pubbliche, non ci sarebbe ragione perchè queste eccellenti qualità non dessero ancora a chi le possiede il diritto di entrare nelle amministrazioni private. In tal caso gli uomini savŒ e gli uomini probi, o quelli che tali si tengono, potrebbero giustamente mettersi nelle case dei proprietarŒ e dir loro: A noi spetta l' amministrazione delle vostre ricchezze perchè noi sappiamo meglio amministrarle di voi e con più rettitudine. Ma in tal caso i proprietarŒ li scaccerrebbero o come pazzi o come furfanti, anzichè li credessero probi e sapienti; giacchè non mostrerebbero di sapere che il diritto di proprietà dà il diritto ancora di amministrarla. Che se la sapienza, e la virtù avessero il diritto di amministrare la proprietà, non si potrebbe già negare loro quello sulla proprietà stessa ed allo stesso modo si potrebbe dire: Che indegnità è questa che l' ignorante ed il vizioso si vegga pieno di ricchezza mentre l' uomo dotto e virtuoso pena nella miseria? Le ricchezze appartengono agli uomini di merito, e non agli sciocchi, non ai tristi: si tolgano adunque a questi, ai quali non appartengono, e si distribuiscano meglio che non fece la cieca fortuna, a quelli che hanno il merito di possederle. Non è egli questo il ragionamento medesimo che fa il deputato dei non proprietarŒ a provare che l' amministrazione pubblica debbe essere distribuita anzi secondo il merito che secondo la proprietà? Questo discorso adunque nella sua estensione considerato autorizza la rapina, e distrugge la proprietà, tanto più che se uniti alla sapienza e alla virtù fossero tali privilegŒ nessuno potrebbe formare un giusto giudizio degli uomini, assai meno che ora possa, poichè ciascuno vorrebbe esser più probo e più sapiente degli altri, ed adoprerebbe tutti i suoi mezzi a corrompere quelli che dovessero giudicarlo: se non che il giudice in ultimo appello esser non potrebbe che la forza, e così la sapienza e la virtù dal momento che si sottraggono dalla giustizia distruggono ad un tempo sè medesime, e si mettono alla discrezione della forza materiale. Se si ammette adunque da noi il principio della proprietà; conviene che riconosciamo altresì ch' essa è indipendente dal merito personale, e che essa non è distribuita già secondo questo, ma solo secondo i titoli di giustizia. Supponiamo ancora che vi fosse il modo di rilevare il merito personale con sicurezza, ciò che è impossibile sì perchè molte volte è occulto, sì perchè quelli che debbono giudicarlo sarebbero nello stesso tempo anch' essi parti nella causa che giudicano; il possesso della ricchezza in tal caso dovrebbe variare ad ogni istante, mentre continuamente varia il merito personale, e l' uomo trascorre rapidamente sì le scale del vizio che quelle della virtù; e la ricchezza sempre in mano a nuovi padroni incerti di possederla a lungo rimarrebbe dilapidata anzichè amministrata; sebbene ciascuno che l' avesse una volta in mano, certo non se la lascierebbe più così di leggieri uscire: studierebbe il modo di accordarsi cogli altri proprietarŒ, ond' ottenere sicurezza alle proprie sostanze contro alla rapacità degli uomini di merito, e in tal modo formerebbe quella associazione che testè fu proposta fra i proprietarŒ e che, sebbene meno utile dell' associazione civile, nessuno però convincere la potrebbe d' ingiusta. D' altro lato che cos' è una declamazione generale, e gratuita contro i vizŒ dei proprietarŒ? il sofisma più pazzo del mondo: poichè qual' è il fine di tale declamazione? forse di mostrare che le ricchezze guastano i costumi ed i principŒ degli uomini? egli sembra che ciò sia; ma in tal caso la declamazione va contro le ricchezze: or dunque queste si dovrebbono distruggere ed annientare. E` egli forse questo il vostro parere? non già, anzi voi riponete la prosperità pubblica nel loro aumento. Voi non sostenete adunque se non che le ricchezze debbano mutar padrone: e perchè? perchè i ricchi sono malvagi. Ma togliete voi i ricchi quando avete fatto mutare di luogo alle ricchezze? non già; ma non avete che mutate le persone posseditrici; e fatto che quelle che erano povere divenissero ricche, e così viceversa. E` il merito delle povere, soggiungete voi, che a ciò ne spinge. Avvertite, dall' istante che vi arrogate l' autorità di giudici supremi ed usurpate l' ufficio della divina Provvidenza, avvertite che voi con ciò fate apparire una bene strana compassione verso a queste vostre persone misere ad un tempo e fornite insieme delle più alte virtù: la compassione vostra si occupa adunque tutta per corromperle: si occupa a farle divenire di quelli odiosi ed esecrati proprietarŒ coperti pure agli occhi vostri da capo a fondo di una lebbra la più obbrobriosa e la più insanabile. Allora quando adunque voi avrete rese in questa supposizione proprietarie quelle persone che or giudicate di merito (ed e' resta anco a vedere qual senso aggiungiate a questa parola) egli è ben naturale che sorgeranno immediatamente degli altri avvocati della Classe che rimane povera, i quali come voi col tuono di chi parla in nome della umanità, della virtù e dei lumi prenderanno il discorso stesso che voi fate presentemente e fulmineranno invettive contro gli eccessi obbrobriosi dei vostri nuovi proprietari, cioè contro la classe delle persone di merito da voi innalzata e coperta in tal modo di tutta l' invidia che seco portano le proprietà; la quale classe non è più quella di persone di merito, ma quella dei ricchi. Così distrutto il principio di proprietà, la società civile si rende impossibile. In fatti il suo scopo è appunto la proprietà, ed in primo luogo la difesa della medesima: e se appresso qualche nazione si è introdotto per breve tempo il principio opposto, che il merito dia un diritto sull' altrui proprietà ovvero sull' amministrazione della medesima, questo non s' è introdotto se non perchè le sue conseguenze non furono bastantemente vedute a principio: e solo gli effetti ne resero accorti gli uomini: perciocchè appena che i filosofi pretesero di avere essi il diritto di riformare la loro nazione, questa cadde nell' anarchia; fino a che tali uomini sapienti, il cui merito proclamato da se stessi diede loro la filosofica autorità di rapire l' altrui, si sono resi i proprietarŒ: ed allora, nuovi proprietarŒ, rialzarono la società dissipata in sugli antichi principŒ, lasciando di buon volere ormai il pallio e la barba, di che più non abbisognavano alla riforma dell' umanità. La maggior parte di quelli che formano questa assemblea posseggono qualche cosa del proprio: ora acconsentirete voi che quanto possedete passi in proprietà delle persone di voi più meritevoli? Tale è la assurda condizione che vi si propone: e che pure potè essere un sofisma alle menti di quelli che considerano gli uomini abitatori nelle regioni liberissime della lor fantasia. La logica del principio: l' amministrazione della proprietà debb' essere distribuita secondo il merito: è simile a quella che si ritrova in quest' altro: l' uomo debbe mangiare non in ragione delle forze del suo stomaco, ma di quelle del suo spirito, poichè il suo spirito è preferibile al suo stomaco. Accordo che sia lo spirito preferibile allo stomaco; ma la relazione del cibo è collo stomaco e non è collo spirito, ed è questa relazione che ora si cerca determinare. Così pure: Accordo che il merito personale sia preferibile all' accidentale diritto di proprietà; ma la relazione dell' amministrazione è colla proprietà, e non è col merito: e questa relazione si cerca determinare. Non si confondano adunque insieme due ordini di cose sì diversi fra loro, e volendo cercare le proporzioni dell' uno, non si ricorra alle misure dell' altro. Anche in questo mescolamento degli ordini sociale e morale si ravvisa quella confusione così nocevole della società civile colla società universale del genere umano. La società civile, come diceva, è una società parziale, ed ha uno scopo parziale: la conservazione, cioè, e l' aumento ordinato delle proprietà. La società del genere umano ha uno scopo sommo e generale: la virtù e la perfetta felicità. In questa immensa società dell' umano genere noi veggiamo un ordine di cose ben diverso da quello che è proprio della società civile. L' ordine della società universale abbraccia tutta intera la moralità; l' ordine della società civile è ristretto nel suo scopo immediato a quella parte di moralità che riguarda la giustizia esterna fra gli uomini. Nella società universale lo spirito si eleva a vedere come tutto debbe essere distribuito secondo il vero merito degli uomini; ma questa legge primaria ed inviolabile della società universale non si può già trasportare nella società civile; perchè non è a questa proporzionata e non trova in questa il modo di venire eseguita. Nella società universale essa viene eseguita perchè essa è presieduta da Dio, cioè dal solo giudice capace di giudicare il vero merito degli uomini e alieno necessariamente da ogni interesse in simil giudizio; presieduta ancora dal solo monarca che abbia tutti i mezzi opportuni per render a pieno giustizia a ciascuna delle sue creature. La società civile all' incontro non è che presieduta dall' uomo, cioè non è presieduta da chi giudica ma da chi è giudicato: da chi aspetta il giudizio più favorevole, se questo gli debbe apportare un esterno vantaggio, non da chi è indifferente al risultamento di tal giudizio. Conchiudasi: La società civile è ben altro dalla società universale; essa non è punto altro (bisogna a pieno intenderlo) che l' amministrazione della modalità dei diritti di tutti gli uomini associati nella medesima: non è perciò se non una separazione, che si fa nella amministrazione che ciascuno esercita dei proprŒ beni nello stato naturale, di quella parte d' amministrazione che riguarda i diritti e di quella che riguarda il loro modo di essere; l' amministrazione dei diritti particolari si rimane nell' istituzione della società civile divisa, come prima, nelle mani dei singoli proprietarŒ: la modalità all' incontro dei medesimi viene posta in comune e qui si cerca chi debbe comporre quest' amministrazione in comune. Ora egli è evidente che ognuno dei proprietarŒ ha diritto di concorrere nella medesima per quel tanto che egli pone in mezzo di modalità; e che nessuno può farlo rinunziare a tale diritto nel caso di una associazione spontanea come è la presente. Indarno e fuor di proposito ci si oppone che l' amministrazione anderà male perchè fatta da persone ignoranti e viziose; conciossiacchè, lasciando anche che nissun sapiente in generale vale più nell' amministrazione di quello che valgono i padroni stessi, risponderò: Se un proprietario amministra male il suo, chi potrà dunque rimprocciarlo? Egli fa male, ma solo a sè stesso, e tale sarà di lui, nè altro che un vano nome è il ben pubblico che si piange sacrificato: conciossiacchè il ben pubblico non è che la collezione dei diritti, ed il pubblico non è che la unione di quelli che li posseggono. Quando anco adunque gli amministratori di quella società civile, nella quale tutti i diritti sono rappresentati, l' amministrassero male; non seguirebbe da questo ch' essi facessero torto a persona: perchè amministrerebbono male l' avere loro proprio: la società civile non distruggerebbe già per questo la società universale: e la sua istituzione non impedirebbe che tutti i meriti fossero in questa ricompensati dal suo capo divino; a quel modo medesimo che se il ricco mercatante non si spoglia delle proprie ricchezze per premiare le fatiche del letterato, egli non toglie a lui per questo nè il suo merito nè la sua dottrina nè le sue aspettazioni; egli non impedisce che la sua scienza in altro ordine di cose e in altra società diversa dalla mercantile sia coronata e che rinvenga il mecenate generoso che lo protegga e che lo ricolmi di benefizŒ. Il discorso, onde la Commissione sostenne nella sessione precedente il principio di equità da essa posto come base dell' associazione civile che trattavasi di formare contro ai sofismi di una individuale filosofia, le conciliò l' animo di tutta l' assemblea, la quale conobbe non potersi meglio costituire la società civile che dando in essa a tutti i diritti una rappresentazione conveniente e possibile. Tal principio discendeva immediatamente dall' idea precisa della società civile; ed essendo ben compreso metteva tutte le menti in sicuro contro alle fallacie degli astuti e dei semidotti. Nello stesso tempo era quello che rendeva meno imbarazzante l' esecuzione della società meditata, e che mostrava la via più corta insieme e più naturale per arrivare alla medesima; conciossiaccè formandosi la società in tal modo gli uomini abbandonavano il meno che fosse possibile lo stato di natura; mentre non si spogliavano di nulla, nè pure della direzione della modalità dei loro diritti; ma non venivano a far altro che a variare il modo di dirigerla e regolarla; perocchè mentre prima la regolavano in separato, e ciascuno da sè regolava la propria, mediante la nuova instituzione venivano a regolarla in comune, e a regolare con una comune volontà la somma di tutte le modalità insieme raccolte. Restava dunque di vedere come tal principio si potesse ridurre alla pratica e qual fosse la rappresentazione conveniente e possibile che aver potesse ciascuna delle quattro classi di persone, che comporre dovevano la nuova società. La Commissione prese a trattare con ciascuna a parte; e primieramente colla prima, che fu quella che occupò la quinta sessione dell' assemblea. La prima classe delle persone componenti la società civile era quella delle persone non libere. La Commissione definì le persone non libere per quelle che non avevano diritto sulle proprie operazioni, essendo questo diritto in altrui possesso, e distinse tali persone in tre specie, cioè, 1 i figliuoli, 2 le mogli, 3 i servi perpetui; escludendo da questa classe quelli che avevano alienato il diritto sulle proprie operazioni a tempo, e non illimitatamente, come sono i giornalieri e tutti i mercenarŒ, i quali appartengono alla terza classe di persone componenti la società. Passò in appresso a mostrare le differenze che passano fra le tre specie di persone non libere, stabilendo che il diritto dei padri era il più esteso e più forte, perchè nasceva da un titolo fondato sulla vita stessa dei figliuoli; che poi veniva quello del marito, perchè aveva un titolo fondato sul corpo della moglie; e che finalmente veniva quello del padrone, il cui titolo non riguardava altro che l' operazione del servo a lui obbligato. Dimostrò che il diritto del padre era tale che non rimaneva al figliuolo nessun diritto verso il padre che ammettesse una reazione esterna all' ingiuria ricevuta: che all' incontro alla moglie rimaneva un diritto, ed era quello della vita e della incolumità da poter difendere anche contro il marito; che al servo rimanevano due diritti da poter difendere contro il padrone, cioè a dire quello della vita, e quello del proprio corpo. 1) Dimostrò finalmente che tutti tre questi diritti del padre, del marito, del padrone erano limitati egualmente dalle leggi della onestà universale, le quali leggi obbligavano il padre ad usare il proprio diritto sui figliuoli solo allo scopo della paternità per la quale Dio gliela aveva dato: obbligavano il marito ad usarlo solo allo scopo della coniugale amicizia: ed obbligavano il padrone ad usarlo allo scopo che può rendere onesta ed umana la servitù. Di questa dottrina la Commissione tirò una doppia conseguenza, cioè: 1 Che i figliuoli non avevano alcun diritto a rappresentare nella società civile, fino che il padre non li emancipasse; che le mogli avevano da rappresentare il diritto della vita e della incolumità; e che i servi avevano da rappresentare i due diritti della vita e del corpo. 2 Che dovendo la società civile stabilire l' ottima modalità dei diritti, doveva tuttavia provvedere contro all' abuso che potessero fare i padri della loro autorità sui figliuoli, non già perchè i figliuoli avessero un diritto da rappresentarsi; ma perchè il diritto dei padri doveva bene ammodarsi. Dopo di ciò essa fece osservare, che in tutto questo discorso considerava le tre specie di persone non libere come tali, senza definire però che la mancanza di libertà inabilitasse all' acquisto di altri diritti: mentre anzi la Commissione ammette la capacità dei non liberi all' acquisto di ogni altro diritto compatibile col diritto dei loro superiori, ovvero mediante l' assenso di questi, ovvero ancora di diritti relativi ad altre persone verso delle quali si considerano come liberi. Tutti questi diritti qui però si tralasciano, perciocchè in quanto fossero posseduti dalle persone non libere, queste verrebbero ad entrare in alcuna delle tre classi susseguenti: e di essi si debbe intendere tutto ciò che si dirà più sotto dei membri delle dette tre Classi. Considerando adunque i diritti delle persone non libere come tali non ne troviamo che due: 1 la vita 2 il corpo. Ora l' uomo che fosse solamente fornito di questi due diritti non potrebbe far nulla egli stesso, e dagli altri poi non potrebbe esigere se non se che nissuno violi in lui questi due sacri diritti. La difesa dunque dei medesimi è l' unica modalità che si possa pensare ad essi appartenente; poichè la vita ed il corpo sono due diritti semplici, e che per se stessi hanno un solo modo di esistere, sicchè quando essi fossero pienamente difesi dalle esterne ingiurie, non potrebbono altro desiderare. La rappresentazione adunque conveniente che possono esigere questi due diritti nella civile società non è se non di avere una voce mediante la quale reclamare contro alle ingiurie che vengono loro fatte da chi che sia, e l' aver modo che questa voce sia ascoltata e sia efficace nell' ottenere la giustizia domandata. La stessa voce propose la Commissione che sia conceduta ai figliuoli relativamente ai loro padri come il mezzo di comprimere l' abuso che questi potessero fare di loro autorità. Il Delegato delle persone non libere rispose, esser falso che i diritti della vita e del corpo non possano esigere che di essere guarentiti: la salute corporale si può trovare in uno stato migliore o peggiore secondo le pubbliche disposizioni sanitarie: quelli dunque che hanno diritto che la loro sanità si conservi nel miglior modo, debbono almeno poter pretendere, come tutti gli altri uomini, di avere anche una voce nel Comitato di sanità pubblica. Ma la Commissione rispose che il Comitato di sanità pubblica nulla poteva fare per la medesima se non mediante delle spese; che quindi, perchè si rendesse possibile una rappresentanza in tal Comitato, bisognava dimostrar prima che fossero proprietarŒ, e che in tal caso essi sarebbero entrati in questo Comitato come proprietarŒ, cioè come appartenenti alla quarta Classe; ma non come persone non libere; tanto più che apparendo, come tali, prive di ogni diritto sulle proprie azioni, non potevano neppure contribuire coll' opera a ciò che dar non potessero in denaro. Perciocchè, di nuovo, è un errore credere d' aver diritto d' entrare in una società senz' aver modo di pagarne le spese: e questo discorso vale per qualunque società, nè si debbe immaginarsi qualche cosa di diverso della società civile; non si debbe cioè immaginare, che la società civile abbia dei doveri senz' avere dei diritti, e che sia quasi un essere misterioso che abbia il potere di dare a tutti senza ricevere niente da veruno. D' altro lato il Comitato di sanità pubblica non offende punto le persone non libere, sebbene non le ammetta; anzi non fa che apportar loro gratuita utilità. La sesta sessione si occupò nel ricercare qual posto dovessero avere nella nuova società da istituirsi i poveri, cioè quelle persone che non possedevano alcun bene di fortuna, nè avevano una professione od un' arte che assicurasse il loro mantenimento, secondo il principio stabilito che ogni diritto trovasse nella detta società quella rappresentazione di cui è suscettibile, e che si può accordare colla giustizia. Per trovare questo posto secondo le leggi dell' equità o questa rappresentazione conveniente e possibile dei diritti dei non proprietarŒ erano state già nelle sessioni precedenti gittate le basi necessarie e superate le principali difficoltà. La Commissione proseguì adunque in questa a dimostrare che i non proprietarŒ liberi avevano tre diritti da rappresentare, e questi erano: 1 la vita e l' incolumità; 2 il corpo; 3 la libertà o sia il diritto sulle proprie operazioni. Dimostrò che tutti questi diritti non avevano una modalità che si potesse amministrare in comune tanto quanto l' avevano i beni di fortuna, perchè non si potevano permutare con altri nè si potevano dividere e contribuire parte di essi alla società, spendendoli così ad accrescimento della parte rimanente, e che perciò non era suscettibile la loro modalità di amministrazione propriamente detta, ma solo di difesa: che la società civile non poteva che difenderli da ogni ingiuria; e quindi che la rappresentazione loro conveniente si restringeva ad avere una voce efficace, mediante la quale potessero reclamare ad ogni ingiuria che ricevessero, e reclamare con sicurezza che sarebbe loro fatta giustizia, allo stesso modo come si disse delle persone non libere. Conchiuse che era necessario dare loro questa voce anche perchè essa era l' unico mezzo di tenere in freno i diritti dei proprietarŒ, ciò che era obbligata di fare la società civile, dall' istante ch' essa aveva per iscopo di bene ammodare tutti i diritti dei membri che la componevano. Il delegato per i non proprietarŒ non mancò di ripetere ciò che era stato detto nella sessione precedente dal delegato pei non liberi, cioè che era falso che il diritto della vita e della sanità, come pure gli altri due del corpo e della libertà, ammettessero solo una difesa comune e non una amministrazione comune; che 1 la sanità poteva crescere e diminuire secondo i provvedimenti sanitarŒ della società; 2 la moralità pure poteva ricevere o nocumento o vantaggio dalle disposizioni di pubblica istruzione e di polizia; 3 finalmente che la libertà poteva pure accrescersi, non solo difendersi; poichè quanto un uomo ha una sfera più estesa di agire tanto egli ha più di libertà: il perchè tutto ciò che accresce le abilità e fa andare innanzi l' incivilimento del paese, è sempre un aumento della libertà individuale. Ne può rispondere la Commissione che tutti i diritti dei non proprietarŒ sieno semplici ed indivisibili, sicchè non ne possano contribuire una parte al potere sociale e pagare in tal modo le spese di questo, come rispose al delegato dei non liberi, poichè avendo essi il diritto sulle proprie operazioni, possono pagare le spese necessarie alle suddette disposizioni intorno la sanità, la moralità, e l' incivilimento prestando la loro opera in luogo di denaro, e d' altri beni materiali. Domando adunque, aggiunse, che i non proprietarŒ non solo abbiano una voce onde reclamare efficacemente i torti che loro fossero fatti; ma che abbiano altresì una voce ed una rappresentazione in tutte le disposizioni che il potere civile credesse fare: 1 intorno la sanità; 2 intorno i buoni costumi e 3 intorno tutto ciò che riguarda l' incivilimento. Ma v' ha di più, egli proseguì: Non sono interessati i non proprietarŒ nelle guerre che possono esser mosse contro al paese dai nemici esterni colle loro persone tanto quanto tutti gli altri cittadini? vale forse la loro vita meno che quella degli altri uomini? o non sono forse capaci di portare le armi contro il nemico, e difendere la patria? perchè adunque non avranno anch' essi una voce ossia una rappresentazione in un affare così comune come è l' intimare una guerra od il conchiudere una pace? Anzi son essi, come l' esperienza dimostra, che di solito s' espongono ai maggiori pericoli e sostengono le maggiori fatiche per la salvezza e per la gloria comune nei più stretti frangenti: mentre i pingui ricchi snervati da una educazione ombratile assoldano in propria difesa quelli che hanno meno timore cioè quelli che hanno meno da perdere, e, come sono i non proprietarŒ, che nulla possedendo all' esterno sentono meno di attaccamento alla stessa vita. Finalmente, che ci si propone? di dare solo ai non proprietarŒ una voce, onde reclamino i loro diritti infranti. Ma quai diritti? quelli della vita, della pudicizia, della libertà. Richiameranno adunque la vita, dopo che a loro fu tolta? aspetteranno le figliuole che sia tolto loro l' onore, perchè poscia la società glielo restituisca? e potrà l' uomo libero, a cui è oiù cara la vita intellettuale della corporea, ritrovare un risarcimento innanzi alla coscienza della sua dignità corrispondente al valore di alcuni giorni di oppressione, o di alcuni atti di viltà? Finalmente, in quanti modi non si lede questa preziosa ricchezza dell' uomo, la libertà? in quanti modi non si diminuisce? in quanti modi non se ne impedisce l' accrescimento? modi talora insensibili, non evidenti e che non si possono perciò provare legalmente, ma che non fanno meno per questo onta e danno all' umana libertà? Egli non è adunque conveniente nè giusto che uomini liberi, sebbene non proprietarŒ, uomini cioè che hanno una vita cui nessun potere può loro restituire dopo tolta e dei costumi più preziosi ancora della vita ed una libertà vitale, avida di aumentarsi e tuttavia così facile ad esser ferita o ad esser compressa, ricevano solo, entrando nella società civile, il singolare diritto di fare delle inutili querimonie sopra la perdita irreparabile delle più care e delle più sacre proprietà dell' uomo; e sia loro assegnato qualche preteso risarcimento che in luogo d' essere veramente tale rassomiglia piuttosto a quei confetti che soglionsi dare ai bambini che piangono onde asciughino le loro lagrimucce fanciullesche, ed attutino le loro voci importune. E` adunque inutile la rappresentazione proposta dalla Commissione, è anche ridicola, perocchè non ottiene neppure lo scopo della difesa dei diritti dei non proprietarŒ, che fa pur vista di proporsi. Si direbbe che è piuttosto un mezzo termine per eliminarli in fatto dalla società, o di ritenerveli in apparenza. Ma senza entrare nelle intenzioni segrete della Commissione, che ciò propose, credo evidente per quanto ho detto che ove la giustizia debba essere la base della nuova nostra Società, i non proprietarŒ per essere tali non si debbano già lasciare spettatori indifferenti di quanto i proprietarŒ dispongono intorno le pubbliche cose, e che solo quando abbiano ricevuto un fiero colpo in sulla testa trovino pieno diritto di essere guariti come i cani percossi; ma bensì che essi sieno chiamati egualmente che gli altri uomini in tutte le pubbliche deliberazioni e possano veder tutto ciò che in esse si tratta, possano ponderarne le conseguenze, e se in esse rinvengono cosa che loro nuoca, possano a tempo impedirla. Laonde concesso ancora, se così si vuole, che non debbano i non proprietarŒ influire positivamente nelle pubbliche deliberazioni, nessuno potrà però negar loro il diritto del veto; quelli stessi che non attribuiscono ad essi se non il diritto politico di difesa. Perciocchè il diritto del veto è, non una troppo tarda voce di richiamo, ma il solo mezzo ad ottenere che i loro diritti sieno di fatto e non solo in apparenza tutelati. Potrei osservare ancora finalmente che non àvvi uomo che possa neppur dirsi veracemente privo al tutto di esterne proprietà. Negherete a quelli che la divina Provvidenza introdusse in questa mirabile abitazione del nostro pianeta l' aria che debbono assorbire per vivere, la luce che più di quello dei ricchi rallegra l' animo dei mendici, e la terra dove ogni corpo che pesa trova suo luogo? Di queste cose e dell' altre che il cielo ha rese comuni a tutte le umane creature, e che la miserabile cupidigia non potè mai rapire alla loro naturale pubblicità, nè sottrarle a tutti onde farle un possesso di pochi, debb' essere altresì comune il governo: e quest' è ch' io chiedo: questo è ciò che vuol la giustizia: che tutti egualmente i membri della civile Società partecipino al potere amministrativo della medesima, perocchè questo potere tratta gli interessi di tutti e a tutti può nuocere s' egli si rende esclusivo, come può a tutti giovare s' egli si conserva comune. La società civile, rispose la Commissione, l' abbiamo già stabilito, non è la società universale; e coll' entrare nella società civile non escono gli uomini dalla universale e non perdono nulla di quei beni che hanno nello stato di natura. Gli uomini debbono entrare nella società civile in quel modo che vi possono entrare, dal punto che abbiamo adottato come principio fondamentale, che nella Società civile ogni diritto debba trovare una rappresentazione conveniente e possibile . Questo principio suppone che non ogni uomo entri a formar parte della società civile in egual modo, ma in modo diverso secondo la indole dei diritti ch' egli possiede: quindi nasce che gli uomini partecipino più o meno allo scopo della società, cioè ai beni che essa si propone di conseguire. Ma se diversi uomini partecipano in diversa misura al bene della società civile, non viene lor fatto torto; poichè questo è conseguenza di quella solida base che abbiamo posta; e perchè finalmente non si tratta con ciò che nissun uomo perda cosa alcuna di quanto già possiede; ma, rimanendogli tutto ciò che possiede, si tratta ch' egli non acquisti in tale instituzione quel soprappiù di vantaggio che acquista un altro perchè non possiede i diritti che possiede un altro. Sebbene adunque la Commissione abbia proposto che i non proprietarŒ non abbiano altra rappresentazione nella società che quella consistente in una voce di difesa, perchè è persuasa che l' indole dei loro diritti non ammette di più; tuttavia non è già vero che per tale associazione i non proprietarŒ vengono a perdere qualche cosa mentre non fanno che un guadagno: cioè acquistano un aumento di sicurezza dei loro diritti che non avevano nello stato di natura, e non perdon nulla di quanto avevano in questo stato. Egli è vero bensì che i loro diritti sono di tal natura, che non si possono, infranti che sieno, a pieno risarcire, ma qualunque sia questo risarcimento, è però sempre un guadagno che loro manca nello stato di natura: è un risarcimento, che, se non restituisce la vita o l' onore, toglie però le funeste conseguenze, che cadrebbero altramente sulla famiglia priva del suo capo e provvede per esempio la zitella oltraggiata d' un collocamento; è un risarcimento in somma che è pur sempre qualche cosa e che è ancor più nel fatto che nella speculazione del nostro obbiettatore. Egli è poi al tutto falso, che una voce efficace di richiamo non giovi se non dopo che è avvenuto il male, e quando non è più riparabile: perocchè egli è solo il timore del castigo, che tien dietro con certezza al commesso delitto, quello che ritrae gli uomini dal commetterlo, e che difende i diritti personali non solo dei non proprietarŒ ma dei proprietarŒ stessi. Può aver forse la Società verun altro mezzo di tener lontani i delitti, e di difendere la vita e la dignità dei cittadini, se non le pene ch' essa stabilisce ai malfattori? Si ripeterà che questa risposta, se vale per le offese che i non proprietarŒ ricever potessero dagli altri membri della Società, non vale egualmente pel Potere supremo della medesima: perocchè questo potere supremo può ben essere costretto ad un risarcimento che, diviso fra i proprietarŒ che lo compongono, è insensibile a ciascheduno, ma non può già essere sottomesso ad un castigo che lo atterisca dall' abusare del suo potere. Ma che? il Potere Civile, o per dir meglio l' Amministrazione della società, si estende forse a disporre della vita o degli altri diritti personali dei membri della medesima? non già: egli non ha in ciò altro diritto di quello, che si abbia una forza fisica e non morale qualunque ella sia; quando ciò facesse egli non sarebbe più potere civile, ma bruta forza. Si pretenderà che la società guarentisca tutti i suoi membri da ogni forza, che, non curato il freno morale, infierisse sopra di essi? è impossibile ad essa di tor via al tutto questo male essenziale dello stato di natura, ma non può che restringerlo: nè pure i membri componenti l' Amministrazione sociale ne sono totalmente al sicuro; perchè il debile non è mai sicuro dal forte; e la minorità dell' Amministrazione sarà sempre a discrezione della maggiorità, se si suppone che questa abusi della sua prevalenza. Ma se di ogni maggiorità o prevalente potestà si potesse esigere d' essere garantiti fisicamente, come ciò si farà se non mediante una forza fisica maggiore? ed in tal caso non si toglie il pericolo che dei diritti vengano violati, ma solo si trasporta a quel modo stesso che si trasporta la forza; sicchè quegli che prima imponeva timore ora lo riceve imposto da quello che prima lo riceveva. Se ragionevole fosse di lagnarsi per ogni nuova forza comparente, per la sola ragione che quella ha la possibilità di nuocerci, noi avremmo occasione di lamento dovunque, la differenza nelle forze corporee, nelle proprietà, nei talenti, tutto sarebbe argomento di invettiva e di querimonia: ogni associazione finalmente sarebbe illegittima, come un atto ostile, perchè ogni associazione è comparizione di nuova forza; ed ogni nuova forza può nuocere 1). Non è dunque lo scopo della società civile, nè può esserlo, difendere i diritti dei membri suoi da tutte le ingiurie ma solo da quante ella può, nè diventa illegittima se non li tutela che dal maggior numero. Chi potrà impedire a ragion d' esempio che i proprietarŒ facciano a parte la loro società? che escludano quindi i non proprietarŒ da quei beneficŒ, che entrando in una società medesima, come la Commissione propone, ottener potrebbono? nessuno: a quel modo stesso che i proprietarŒ non avrebbono diritto, pel semplice pretesto d' una forza temibile che comparisce, d' impedire qualunque altra associazione o fra i non proprietarŒ o fra una parte di proprietarŒ. Ma via: concediamo che la società civile non debba nulla ommettere di suo potere per tutelare i diritti dei non proprietarŒ: concediamo che i diritti personali possano avere di loro natura un' amministrazione comune; concediamo che questa rappresentazione sia conveniente all' indole di tali diritti, ma è ella possibile? Questo è il passo che la Commissione trova al tutto insuperabile. Dico se è possibile, quando si voglia accordare colla stretta giustizia. Bisogna convenire che questa esige che nessun uomo possa sforzare un altro di pagare per lui: che perciò i non proprietarŒ non possono sforzare i proprietarŒ a pagare per essi; perchè non è qui di beneficenza che si tratta, la quale è volontaria, ma di giustizia, la quale può essere anche forzata, perchè non dipende dalla libera volontà ma da un titolo da questa indipendente. Perchè adunque i non proprietarŒ possano partecipare ai beni dell' Amministrazione, debbono corrispondere alle spese della medesima; e non possono esigere che i proprietarŒ contribuiscano per essi; il che, oltre essere ingiusto, sarebbe impossibile ad ottenersi. Poichè, si lascieranno essi i proprietarŒ imporre questo peso? Mai no, nè a questa condizione entreranno in una società così per essi disuguale. Che se mediante qualche sofisma alcuni a ciò si persuadessero, la illusione dura sempre poco ed il falso principio introdotto nella società, essendo contro la natura delle cose perchè trasforma la beneficenza in giustizia, cagionerà gravi mali nella società, la quale non cesserà d' agitarsi fino ch' essa non l' avrà evacuato. Ciò solo che si oppone a questo si è che i non proprietarŒ essendo liberi possono disporre delle loro operazioni e con queste pagare la Società, con queste difenderla dai nemici. Ma come potrà ricevere l' Amministrazione in pagamento l' opera stessa, se il non proprietario abbisogna della stessa per campare la vita? quest' è una derrata sporca, sopra cui nulla si può calcolare fino che non è stata appurata dall' uscita. E chi può fare questo calcolo generale, se il valore dell' opera dei non proprietari varia assaissimo prima in ragione della loro abilità, di poi in ragione della loro salute o delle peculiari circostanze nelle quali si trovano, finalmente in ragione delle ricerche? possono essi assicurarsi di provvedersi costantemente del puro loro mantenimento? non hanno nulla a temere nei tempi di sterilità, nelle calamità a cui può soggiacere l' industria, il commercio, e i mestieri, nello stato di guerra o di altre pubbliche calamità? quale ricchezza, se quella è ricchezza, più incerta e su cui meno debba appoggiarsi il provento di una generale Amministrazione di questa? d' altro lato che farà l' Amministrazione sociale di tanti operai? porrà ella delle fabbriche manufattrici, o pianterà degli stabilimenti di commercio? Non mai: perciocchè devierebbe dal suo scopo; ed entrerebbe nell' ufficio dei privati. Ella non può commettersi a tali incerte speculazioni, dipendenti dallo stato commerciale del mondo: non è già ad arbitrio che si possano instituire nuove fabbriche e nuove case di commercio; perchè non si può arbitrariamente nè mettere limite alla produzione, nè torlo al consumo. La amministrazione sociale adunque non può entrare in simile deviazione dallo scopo suo a particolari imprese. Ella è istituita per diriger la modalità dei diritti; ed ha bisogno di dirigerla con viste generali e calcolate: e per tale scopo ha bisogno altresì d' avere un mezzo generale e sicuro, il quale non può essere altro che la ricchezza materiale , perchè questa si converte con facilità in tutto ciò che le abbisogna. L' operazione stessa che si esibisce dai non proprietarŒ in pagamento (oltre che è una moneta continuamente mutabile di valore, di un valore sporco per cui si debbe detrarre dal medesimo il mantenimento dell' individuo e fors' anco della sua famiglia, a' cui bisogni egli può non bastare nè pure nel tempo del suo maggior prezzo: un valore che può qualche volta annientarsi) è finalmente ancora un valore inesigibile , perchè non garantito od ipotecato sopra nulla: giacchè la persona stessa pel nostro scopo si può contare per nulla. E di fatto, che si può torre all' individuo che ha nulla? Si può punire; ma con ciò invece di coprirsi d' un credito, si fa una spesa di più; giacchè si debbe mantenere il debitore carcerato. Si costringa a lavorare colla forza? ma oltrecchè i lavori forzati poco approdano, le guardie stesse sono nuovo carico alla società, ed il lavoratore rinunzia bene volentieri al diritto di dire la sua opinione nelle pubbliche cose quando ciò gli debba portare la conseguenza di una dura schiavitù. Che se i non proprietarŒ militano per la salute della patria ciò nè fanno nè far possono che ricevendone lo stipendio; giacchè del suo non hanno onde mantenersi; essi non danno dunque alla patria che quanto dà il mercenario al padrone al cui soldo lavora: è un contratto che fa colla sua patria: e se l' affezione vi aggiunge da parte sua, egli n' ha merito alla patria insieme e dovere; ma n' ha ancor la ragione sua propria, che colla patria difende se medesimo, i suoi, le sue speranze. Il diritto ch' egli ha sui beni comuni come l' aria, e la luce nessuno può toglierlo, nessuno può contenderglielo; ma di quanto vien disposto circa il regolamento dei medesimi egli, senza potersene incaricare, può goderne: non può, dico, incaricarsene perchè non ha il mezzo di cui parliamo, ma può goderne perchè l' Amministrazione che se ne incarica non può nè vuole privarlo dei miglioramenti ch' essa procura a tai beni. Finalmente aggiungerò tal ragione alla quale i più difficili dovranno arrendersi, e riconoscere l' equità della proposta che ha creduto fare la Commissione; e la ragione è questa. Su quale supposizione discorrono quelli che ci propongono d' introdurre i non proprietarŒ nell' amministrazione, offerendo in contribuzione l' opera dei medesimi? Sulla supposizione che questi lavorino; che ci sia quindi nella società da lavorare; che perciò questo lavoro abbia un prezzo. Or chi non vede che tale supposizione trasporta i non proprietarŒ strettamente detti, dei quali noi stiamo deliberando, nella classe dei mercenarŒ, della quale avremo a deliberare in appresso? Chi non vede che l' opposizione viene ad ammettere tacitamente con ciò il principio che vuol combattere, cioè che nessuno possa entrare a formare parte dell' amministrazione se non ha onde pagarne le spese? che perciò i non proprietarŒ propriamenti detti rimangono esclusi di loro natura, solo perchè tale rappresentazione è loro impossibile di conciliarla coi principŒ della giustizia, e della equità, cioè impossibile introdurli nell' Amministrazione senza far torto ai proprietarŒ? Rimane adunque che la rappresentazione conveniente e possibile dei non proprietarŒ non possa consistere se non in una voce efficace di reclamare i torti che potessero loro farsi: e questa è la proposta della Commissione; la quale si riserba di stabilire altrove quale altra rappresentazione convenire possa ai medesimi qualora appartengano alla classe dei mercenarŒ. In conseguenza di quanto fu discusso nella sessione precedente l' assemblea addottò un altro principio fondamentale: « Che si riconosceva la ricchezza materiale come l' unico mezzo generale dell' amministrazione della società civile. » La Commissione insistè molto sopra un tale principio, e il rese così evidente che fu generalmente approvato. Una delle ragioni radicali proposte dalla Commissione si fu, che tanto quelle persone che si trovavano prive di libertà, quanto quelle che si ritrovavano al tutto prive di proprietà materiali, non potevano per la loro condizione avere alcun diritto di regolare la modalità degli altrui diritti: poichè non avevano diritto neppure di regolare la modalità dei diritti proprŒ, dall' istante che erano al tutto dipendenti dagli altri uomini. In fatti era stato stabilito che il passaggio dallo stato naturale allo stato civile si facesse in tal modo, che ciascun uomo mettesse in comune la modalità dei proprŒ diritti, e mentre prima la regolava da sè, poscia la regolasse in comune, ritenendo una autorità proporzionale ai suoi diritti, o sia proporzionale a quella modalità che ei porta in comune. Or dunque l' uomo non libero non ha nessuna modalità da mettere in comune; poichè la modalità dei suoi diritti si ritrova interamente nelle mani del suo padrone, il quale non può già toccarlo nei diritti che egli ha, ma bensì far uso di tutte le sue azioni, per cui non resta più al servo alcun modo di provvedere a sè stesso, ma resta solo al padrone il dovere di provvedere al servo. Ed una cosa simile può dirsi di colui che è al tutto privo di proprietà; poichè questi se vuol vivere dipende totalmente da chi ne ha, ed egli è obbligato di dipendere, perchè è obbligato di usare tutti i modi onesti di campar la sua vita. Che cosa adunque porta questi in comune? nulla di certo: e perciò nissuna autorità a lui spetta nell' amministrazione di quel fondo, nel quale nulla egli mette. All' esistenza stessa non appartiene il diritto di usare l' altrui, se non dopo avere esaurito tutti gli onesti mezzi, e rimasto quel solo. Vi fu chi declamò contro la durezza dei proprietarŒ nel solo supporre, che si conservasse in mezzo ad essi una classe di uomini caduta in tanta miseria, e proponeva di votare tantosto di tenernela costantemente sollevata: ma la Commissione dimostrò che quello non era il tempo, che conveniva trattare a parte ciò che apparteneva alla beneficenza, e ciò che apparteneva alla giustizia; poichè, confondendo queste due cose, la stessa beneficenza sarebbe perita; che finalmente simili benefici provvedimenti dovevansi intavolare allorquando la società fosse costituita, e le famiglie della medesima legate insieme componessero un corpo solo. Non mancò chi credette cogliere la Commissione in contraddizione coi suoi principŒ; poichè dal momento che proponeva, che i non liberi ed i non proprietarŒ avessero una rappresentazione consistente in una voce, efficace quanto più esser poteva, di richiamo delle offese ricevute dagli altri membri della società, o dall' amministrazione della medesima; si doveva supporre che avessero il modo di soddisfare alle spese delle loro cause, e se ciò si supponeva, doveva supporsi egualmente, che avessero il modo di contribuire alle spese dell' amministrazione. Ma la Commissione rispose che l' amministrazione aveva l' obbligo di regolare la modalità di tutti i diritti; e che perciò le spese a tal fine necessarie entravano nelle spese amministrative, particolarmente poi in quella parte di offese che potessero provenire dall' amministrazione stessa; mentre essa aveva l' obbligo di non trapassare il confine della sua autorità, e di risarcire quanto poteva il danno, se per isbaglio lo trapassava. D' altro lato non è mai l' offeso che deve pagare le spese ma l' offensore. Che se questi non ne ha il modo, egli diventa uno di quei casi in cui la giustizia non ha il pieno suo effetto, non per mancanza della società, ma per l' impossibilità annessa alla cosa. Il qual caso non può avvenire mai, come dicevamo, riguardo a' richiami contro l' amministrazione; perocchè questa è sempre solvente, ove sia condannata. Appianate così le difficoltà, la Commissione conchiuse facendo osservare qual nuovo incremento di prezzo andava a ricevere la ricchezza materiale nella nuova società, dal momento ch' ella diventava il mezzo generale della sua amministrazione. Per far conoscere l' indole della nuova società civile fece notare la differenza che passava fra essa e la società famigliare, nel quale stato erano ricevute le persone assembrate, dimostrando che il mezzo dell' amministrazione famigliare era il servizio personale: e che il mezzo all' incontro della amministrazione civile era la ricchezza materiale , distinzione caratteristica delle due società. Di poi tirò pure la conseguenza da tutto ciò che era stato fatto, che relativamente alla instituzione della società civile i diritti degli uomini si dividevano in due classi: la 1 dei diritti personali; cioè diritti che l' uomo ha sulla propria persona, o su cose a lui strettamente unite, e questi sono tre: sulla vita, sul corpo, e sull' operazione; la 2 dei diritti reali; cioè sulla ricchezza esterna e materiale. I diritti personali danno a tutti gli uomini egualmente, in quella parte che li posseggono, una rappresentazione consistente in una voce di richiamo principalmente contro tutto ciò che può esser fatto in loro danno dalla amministrazione della società. I diritti reali all' incontro danno a quelli che li possedono una rappresentazione nella società civile consistente in una voce amministrativa , mediante la quale hanno nell' amministrazione della società una parte proporzionale a quella modalità dei diritti che mettono in comune nella medesima. Indi accordando a tutti indistintamente il nome di Cittadini, intendendo con esso di esprimere semplicemente membri della società civile, fece vedere come i cittadini venivano a distinguersi di loro natura in due ordini principali , l' uno dei quali era solamente governato, e l' altro ancora governava, cioè a dire quelli che non avevano se non diritti personali non potevano formare che un ordine governato e non potevano entrare a prender le redini della società: e quelli all' incontro che avevano anche diritti reali, ossia che erano forniti di ricchezza esterna e materiale, potevano e dovevano prendere parte alla stessa amministrazione. Questi due ordini venivano in tal modo costituiti dalle due specie di diritti a cui convenivano due specie di rappresentazione. In ogni specie di diritti si trovavano più diritti, e per ciò i cittadini appartenenti al primo ordine, cioè all' inferiore, avevano voce di richiamo per ciascuno dei tre diritti che possedevano, e i cittadini del secondo ordine cioè del superiore, avevano voce amministrativa proporzionata alla quantità della ricchezza loro esterna o materiale. Tutti egualmente i membri della società civile sono cittadini . A questa parola vien assegnato un nuovo senso dalla Commissione. L' essere cittadino consiste nel diritto di non esser offesi dall' amministrazione della società, e di più nel diritto, venendo offesi, di avere una voce di richiamo , per la quale ottengano risarcimento: voce che forma l' essenziale carattere della cittadinanza, che si adotta dalla società che va ad istituirsi. E prima di passare ad altro la Commissione volle che tutti convenissero nella chiara idea di questa cittadinanza , ossia di questa rappresentazione passiva comune a tutti i membri della società, la quale era ciò che li rendeva cittadini. 2) Fece dunque osservare che la prima base della società era che ogni diritto fosse rappresentato nella medesima, ma quando però potesse essere rappresentato. Or che cosa è ciò che rende rappresentabile un diritto nella società civile? Un diritto vien reso rappresentabile nella società civile da due condizioni. La 1 si è che il diritto che ha una persona sia congiunto alla sua modalità, perchè è la modalità che si porta in comune nella società civile, è questa che dalla società civile propriamente si amministra; nè la società civile viene per altro fine instituita, nè ad altro officio si estende: il perchè quegli che ha bensì un diritto in sua proprietà, ma che ha trasferito in altrui mani la modalità del medesimo, non ha diritto rappresentabile, perocchè non ha veruna cosa che possa consegnare per dir così alla società civile, perchè essa gliela amministri: non pigliando essa ad amministrare che modalità di diritti. La 2 si è che quegli che ha il diritto e insieme la modalità del medesimo, abbia ancora della ricchezza materiale: poichè questa è il mezzo generale dell' amministrazione civile, e però chi non ne ha, rimane privo del modo di pagare la spesa proporzionale che gli toccherebbe in detta amministrazione: senza di che non può ragionevolmente pretendere di essere accettato nella medesima. La mancanza principalmente della prima di queste due condizioni esclude gli uomini non liberi dall' avere una rappresentazione attiva nella società civile, che è quanto dire di aver parte nell' amministrazione della medesima. La mancanza principalmente della seconda condizione esclude dalla rappresentazione attiva i non proprietarŒ. Quelli adunque che possono aver parte nell' amministrazione sociale, o sia che possono avere una rappresentazione attiva nella medesima, sono i proprietarŒ. Or egli è necessario di vedere come la natura di questa rappresentazione attiva , lungi dal segregare i proprietarŒ dagli altri uomini, li congiunga con essi con tal vincolo, pel quale si possono a buon diritto chiamare membri della stessa società. In fatti l' amministrazione sociale si erige per regolare la modalità dei diritti dei suoi membri: e la modalità dei diritti, perchè sia ben regolata, conviene che costantemente si attenga dentro a termini della giustizia. Ora questa giustizia, prima condizione della buona modalità dei diritti, è quella che lega tutti gli uomini insieme, non già per un patto arbitrario, ma per una legge eterna, che gli uomini associati non instituiscono, ma di comune consenso riconoscono, perchè la debbono riconoscere. Or questa legge fa sì, che l' amministrazione sociale non possa giammai trattare esclusivamente i negozi delle persone che entrano in essa, ma debba riconoscere le relazioni, che hanno tali persone con quelle che rimangono fuori della detta amministrazione: debba in queste persone escluse dall' amministrazione, perchè non hanno nulla di proprio che possa essere amministrato, riconoscere e rispettare tutti i diritti che esse hanno: quindi ancora desiderando di realizzare questa debita riverenza pei loro diritti non debbe ricusare che sia messo ad esame tutto il suo operato: che sia ricercato in esso il giusto e l' ingiusto, o che di tutto ciò ch' essa avesse operato d' ingiusto essa renda soddisfazione a quelle persone qualunque sieno sulle quali è caduto il danno dell' ingiustizia. L' amministrazione civile, come persona morale, ha quelli stessi doveri verso le persone individuali che queste hanno fra di loro nello stato di natura. Ora nello stato di natura le persone individuali hanno scambievolmente i seguenti doveri: 1 Quello di non offendersi; 2 quello di esser pronte, nei casi controversi in cui l' una si richiama d' essere stata offesa dall' altra, a sottomettersi al giudicio di arbitri benevisi dalle parti. Quest' è la relazione che nello stato di natura la giustizia mette fra due persone individuali; relazione che avvincola gli uomini, e che li mette fra di loro anche in quello stato in una specie di società. Ora questa stessa relazione rimane nella società civile fra l' amministrazione della medesima e le persone singole comprese in essa o non comprese: ma con questa differenza, che l' amministrazione della società civile riconoscendosi obbligata di adoperar tutti i mezzi per ritener sè stessa nei limiti della giustizia, obbligo comune a qualunque persona, riconosce però insieme un obbligo morale che è proprio suo e non comune alle altre persone. E quest' obbligo nasce dal principio morale « che i mezzi perchè una persona ritenga sè stessa nei limiti della giustizia debbono essere tanto maggiori quanto la persona ha più di forze, cioè quant' essa ha più mezzi di offendere la giustizia. »Non v' ha principio più trascurato dagli uomini di questo, nè più importante per la loro tranquillità, nè di una necessità più fondata nell' esperienza. E` l' esperienza di tutti i secoli e di tutti i tempi che dimostra questa funesta verità « che gli uomini tanto sono più tentati di offendere la giustizia quanto più sentono avere una forza di farlo: »che la forza in mano dell' uomo lo innalza, lo inorgoglia, acuisce quella fierezza omicida, che nel suo cuore giace profonda insieme colla sua originale reità: e dove si crede sicuro nella malvagità, e impunito nella scelleraggine, persuaso che la ragione non gli sia più necessaria, s' abbandona cieco alla sfrenata irritazione che produce in lui il senso d' una potenza che nasconde i suoi limiti. Ma dietro all' esperienza che ognor più rafferma questo lacrimevole fatto, la voce della giustizia ognor più grida agli uomini: « O voi che avete in mano la forza e che amate la giustizia, tremate di voi medesimi: quella forza minaccia la vostra giustizia, e l' atterrerà senza un vostro sforzo di sostenerla: la forza nelle vostre mani tenta di estinguere in voi la ragione; voi siete tanto più obbligati di tenerla viva, e di non rivolgere gli occhi dai lumi suoi; quant' è più grande il pericolo della virtù, tanto maggiore sia il vostro timore, la vigilanza e la cautela per non esserle infedeli. »Secondo questo principio gli uomini, che mediante l' esperienza hanno imparato a conoscer sè stessi, sono in un obbligo morale di agire verso dei loro simili con una delicatezza, con una guardia di sè, e più ancora con una magnanimità che cresce in ragione della potenza che hanno sopra di quelli. Egli è per questo principio morale ed intrinseco insieme all' amministrazione sociale, che questa, come quella che costituisce una grande potenza, debbe riconoscere altresì in sè stessa un dovere morale di agire colla più grande circospezione, col più grande rispetto a ciascuna persona individuale, colla equità più luminosa, con una pubblicità che rimuova fino i sospetti, con una magnanimità che sia capace di abbandonare il proprio giudicio e sottomettersi a quello d' altrui in fatto di giustizia; rinunciando totalmente a quella sognata e crudele infallibilità politica: debbe riconoscere per ciò un dovere di deferire ad un tribunale di giustizia tutti i casi dubbi, che possono intervenire fra lei e ciascuna singola persona più debile di lei, appartenga questa all' amministrazione o no. Sembrerà che conceduta ancora l' esistenza di simile Tribunale, comune all' amministrazione sociale ed a tutti indistintamente i membri della società che hanno onde richiamarsi di lei, non sia bastevole per poter affermare, che tutte le persone individuali entrino veramente in una stessa società civile; ma che quelli della amministrazione formino una società a parte da quelli che rimangono fuori. E in fatti non è la comunanza di questo tribunale il solo vincolo dei membri della società civile; ma v' è un altro vincolo il quale associa gli uomini senza cangiare le loro relazioni anteriori a questo civile associamento: ed ecco qual' è. La società civile consiste nell' instituzione di un potere che regola la modalità di tutti i diritti. Nulla impedisce dall' accordare, che ogni diritto abbia una modalità: ma queste modalità talora sono separate dal diritto come sarebbe nei servi, i quali hanno bensì i due diritti che lor abbiamo accordato, ma non hanno all' incontro in propria mano la modalità dei medesimi, che resta nelle mani dei loro padroni. Ora i servi non avendo in propria mano la modalità dei proprŒ diritti, non possono portarla nella società civile e metterla in comune: all' incontro i padroni nello stato di natura hanno in propria mano tanto la modalità dei proprŒ diritti quanto quella dei diritti dei servi. Quindi sono essi che portano nella società civile da amministrarsi in comune insieme colla modalità dei proprŒ diritti anche la modalità dei diritti dei servi: ed in tal modo la società civile diventa amministratrice della modalità dei diritti di tutti gli uomini, ed anche dei diritti dei servi: ma senza mutare le relazioni che questi hanno coi loro padroni, cioè la società civile amministra la modalità dei diritti dei servi, ma essa facendo ciò non viene già a far le veci dei servi stessi; ma sì bene a far le veci dei padroni dei servi: poichè nello stato di natura non erano già i servi quelli che amministravano la modalità dei proprŒ diritti, ma ciò facevano i loro padroni. Se dunque si facesse che i servi entrassero nell' amministrazione della società, avverrebbe ch' essi facessero ciò che non facevano nello stato di natura: e che all' incontro i padroni venissero privati di fare ciò che facevano nello stato di natura: in tal modo questi entrando nella società verrebbono spogliati di un diritto che avevano nello stato di natura; ed ai servi verrebbe dato gratuitamente un diritto che nello stato di natura non avevano. Il passaggio dunque dallo stato di natura allo stato di società civile non si farebbe più restando intatte le relazioni degli uomini; ma in tal passaggio verrebbero alterate, e mentre ad alcuni uomini si darebbero dei diritti che prima non avevano, ad altri se ne torrebbe di quelli che prima avevano. Conviene adunque perchè la giustizia non venga alterata, come succederebbe se avvenisse trasferimento di diritti, che i servi abbiano coll' amministrazione della società una relazione simile a quella che prima avevano coi loro padroni; che l' amministrazione non sia se non l' unione di quelli che nello stato di natura amministravano, e che le persone escluse dalla medesima non sieno che quelle che nello stato di natura non amministravano. Conviene concepire il piano della società civile non già come una istituzione mediante la quale le persone che non amministravano nello stato di natura passino nel numero di quelle che amministrano; ma bensì come una istituzione mediante la quale le persone, che nello stato di natura amministravano in separato, si uniscano insieme per amministrare in comune. Ora ciò posto non riesce per tutto questo men vero che la società civile si proponga di amministrare la modalità di tutti i diritti, o sia dei diritti di tutti gli uomini. Quindi riesce altresì vero che ella abbraccia nel suo seno gli uomini tutti, sebbene senza alterare le loro relazioni, e che tutti governino: tutti adunque soggetti alla stessa amministrazione con ragione vengono detti membri della società medesima, sebbene non già membri eguali, o, per essere più accurati, non già membri che godano della ugualianza costituente , ma bensì membri che godono della uguaglianza giuridica: membri che convengono tutti nell' essere amministrati da uno stesso potere e che hanno un eguale diritto di non essere dallo stesso offesi, sebbene membri che non hanno eguale diritto di essere da quel potere vantaggiati: membri in somma che si dividono in due ordini, l' uno dei quali non è che amministrato, mentre l' altro è anche amministratore. Quand' anche non si considerasse nei non proprietarŒ l' ostacolo della mancanza della ricchezza materiale, mezzo dell' amministrazione, tuttavia soggiacerebbero allo stesso discorso fatto pei non liberi; poichè non potendo essi sussistere senza trovar il loro nutrimento, dovrebbero o passare alla classe dei mercenari o vivere d' accatto. Nel primo caso toccherà ad essi nella società civile lo stato conveniente ai mercenarŒ, nel secondo caso essi dipendono totalmente dalla volontà degli altri uomini che li beneficano, e che perciò non lasciano loro che quella libertà che loro piace: mentre questi poveri sono obbligati per un diritto naturale di far tutto ciò che è necessario per acquistarsi il vitto, e non può esser loro lecito di torre l' altrui, se non dopo d' avere tutto tentato, e d' esser venuti alle ultime estremità: 1) i poveri adunque sono essenzialmente persone non libere: e quella libertà precaria che godono di fatto non è fondata in alcun loro diritto, ma nella bontà dei loro benefattori, i quali li soccorrono senza esiger da essi servitù. La Commissione si era appianata la via alle cose fino a quest' ora trattate per proporre l' articolo riguardante lo stato che dovevano avere nella società civile i mercenarŒ, e l' articolo che essa propose fu il seguente: « I mercenarŒ che possono provare di esercitare un' arte od un mestiere qualunque, che apporti loro un sufficiente mantenimento senza bisogno di sovvenzioni caritative, non debbono entrare nell' amministrazione della società individualmente come i proprietarŒ che hanno fondi, ma debbono entrarvi mediante una rappresentazione del loro corpo. »Cioè i mercenarŒ non hanno nella società civile una rappresentazione attiva, come persone singole, ma bensì debbe essere rappresentato nell' amministrazione della società il corpo dei mercenarŒ. Quest' articolo incontrò difficoltà dalla parte dei proprietarŒ. Il delegato per questi si sforzò di provare che i mercenarŒ erano di loro natura totalmente dipendenti dai proprietarŒ, perocchè non avendo essi nessun fondo da cui ritrarre con sicurezza il loro mantenimento ed indipendentemente da quelli, essi non potevano vivere, se non lavorando a discrezione dei proprietarŒ. Questi all' incontro come quelli che possedevano un fondo che dava loro onde vivere erano da sè i soli indipendenti e liberi: perciocchè questi avrebbero potuto lavorare da se stessi il fondo e cavare dal medesimo il mantenimento, senza chiamare altri in aiuto. La esistenza dunque dei mercenarŒ è precaria, e dipendente dalla volontà di quelli che li assoldano: da questi dipende totalmente la modalità dei loro diritti; e se questi s' accordassero insieme di non dare a mercenarŒ lavoro, ma di lavorare essi stessi; questo sarebbe forse un atto d' Œnumanità, ma non offenderebbe ancora i diritti dei mercenarŒ; i quali ridotti all' estremo dovrebbero rendersi servi dei proprietarŒ. Ora questa specie di monopolio non fanno nè far debbono i proprietarŒ; ma nol fanno e far nol debbono per altro che per atto d' umanità, e di commiserazione; ciò che nei mercenarŒ non mette diritto alcuno d' aver a forza lavoro, se quelli nol facessero a volontà. Vero è dunque che i mercenarŒ non sono al tutto alla condizione dei servi; ma quella poca libertà ch' essi godono non l' hanno da sè, ma viene loro lasciata dalla generosità dei proprietarŒ: i quali torre gliela potrebbero senza toccarli nei loro diritti: sono adunque i mercenarŒ simili ai poveri o non proprietarŒ, che si contan per liberi fino a che la beneficienza dei ricchi mantiene loro la libertà, ovvero simili a quei servi verso dei quali il padrone non usa il suo diritto di signoria. Non possono adunque aver voce i mercenarŒ nelle pubbliche deliberazioni, ma i loro padroni per essi; quantunque abbiano quelli il diritto di patteggiare nella mercede, che danno loro i padroni, anche la qualità del voto ch' essi debbono portare nella Sociale Amministrazione. La Commissione rispose ch' essa conosceva benissimo, che i mercenarŒ avevano una dipendenza dai benestanti: che aveva esaminata la natura di questa dipendenza: e che avendola trovata tanto lontana dalla servitù , quanto dalla benestanza , aveva stimato che loro convenisse nella società un posto di mezzo fra i servi ed i benestanti; e che perciò nè fossero privati interamente di una rappresentazione attiva come quei primi, nè l' avessero intera come questi secondi: al che avea creduto di soddisfare coll' articolo proposto. Infatti la Commissione riconosce che non v' ha nessun mercenario preso individualmente, la cui esistenza non sia precaria, e la cui libertà non sia dipendente dal corpo dei benestanti, da cui sono pagate le mercedi, sicchè se i benestanti volessero, potrebbero privarlo del lavoro, nel qual caso egli rimarrebbe nello stato dei poveri e successivamente dei non liberi. Egli è per questo che la Commissione ha creduto che nessun mercenario possa individualmente ottenere secondo l' equità una rappresentazione attiva nell' amministrazione sociale; per le stesse ragioni per le quali viene negato ai poveri ed ai servi; cioè perchè il mercenario individuale egualmente che questi non ha una modalità propria e certa da portare in comune nella società, e perchè non ha assicurata ricchezza, mezzo necessario all' amministrazione della medesima. Ma la Commissione all' incontro non giudica allo stesso modo di tutto il corpo dei mercenari, ed anzi sostiene: 1 Che tutto il corpo dei mercenarŒ quale egli esiste nel fatto ha un' esistenza assicurata tanto quanto quella dei benestanti: che detto corpo se ha qualche dipendenza dai proprietarí è questa però tale che rimane una semplice dipendenza speculativa, o sia una possibilità di dipendenza che non si esercita nel fatto giammai, e che perciò non può avere un effetto calcolabile. 2 Che i benestanti non hanno punto il diritto di escludere il corpo intero dei mercenarŒ dai lavori che portano loro le mercedi, e che perciò il corpo dei mercenarŒ non può essere senza ingiustizia eliminato per un accordo o per un monopolio che facessero fra di loro i benestanti. A dimostrare la prima di queste due proposizioni basta un fatto, che è uno di quei pochi comunemente ricevuti e sui quali non cade più controversia; cioè che la divisione del lavoro aumenta la ricchezza dei benestanti, appunto perchè perfeziona le arti, cioè migliora la produzione, la rende più celere e meno costosa. Egli fu questo effetto della divisione del lavoro, che venendo vie più sentito ed inteso dagli uomini li persuase a dividere sempre più i lavori, e che così si moltiplicarono le arti. Da ciò nacque, che mentre nell' antichità si esercitavano tutte le arti necessarie nella famiglia stessa, in essa per esempio si mantenevano le greggi, si preparavano le lane, le si filavano, le si tessevano, le si riducevano a vestimenti; si comprese più tardi che era più economico e che rendeva un lavoro più perfetto dividendo tutte queste incombenze fra varie famiglie, alcune delle quali si restringessero per esempio alla cura del gregge, altre alla filatura delle lane, altre alla tessitura, ed altre alla facitura delle vestimenta. Egli fu in tal modo che si moltiplicarono i mercenarŒ: fu in tal modo che una famiglia si rendette dipendente dall' altra di propria volontà. Colla cognizione dell' utile, col gustamento del piacevole si moltiplicarono i desiderŒ ed i bisogni, e questi diedero origine a quel gran numero di arti e mestieri onde presentemente è ricca la società fra le nazioni, che rende la vita umana agiata e soave e fornita di tutti quelli aiuti che sono necessarŒ ad un maggiore sviluppo dello spirito. Egli è vero che il genere umano non sarebbe giammai venuto a tale stato di floridezza nel quale possede tanti mezzi di lieto ed onesto vivere, se in esso la religione non avesse temperato i fieri costumi e la corruzione delle passioni raccendendo nelle menti il lume della verità; ma senza cercare le cagioni di questo stato confortante dell' umanità, basta a conoscere che egli è tale, che l' uomo si trova oggimai sul cammino della propria utilità, e che è divenuta una legge inalterabile dell' umanità, che questa sia sollecita di cercare ciò che le è vantaggioso, e presto o tardi lo ritrovi quasi avesse verso di ciò un' involontaria gravitazione; legge che si è resa così forte ed evidente che è difficile il conoscere che fu introdotta nell' umanità, e di cui non porta in sè medesima la necessaria esecuzione: il conoscere dico, che l' umanità si potesse trovare in tale stato, nel quale incapace fosse di pensare all' acquisto d' un suo bene per poco lontano ch' ei fosse ed impotente di muoversi verso il medesimo, per una inerzia che non riceve movimento se non dei pungoli di un dolore corporeo o di un istinto brutale. Da questo stato di degradazione è già lontanata per sempre l' umanità, e ha ricevuto una spinta che la porta per tutti i veicoli del bene, per così dire, anche più lontano, e non può venire meno il suo movimento. Egli è dunque contro questa legge di perfettibilità che andrebbero gli uomini togliendo via la divisione del lavoro, e per ciò la classe dei mercenarŒ: giacchè, se i padroni si dividessero fra loro le arti, verrebbero ad accumulare in sè due officŒ, o sia due lavori, cioè l' amministrazione della propria sostanza e l' arte prescelta: e si renderebbero in tal modo servi essi stessi senza che a loro restasse il modo nè il tempo di godere i frutti dei beni da loro posseduti, nè quelli dalla loro avidità guadagnati. Il benestante adunque pagando il mercenario redime sè stesso: giacchè egli è libero quando è padrone del suo tempo e della sua opera: quando cioè quest' opera non è occupata dalla necessità di un lavoro determinato. Colla mercede che paga il benestante, cangia un po' della sua ricchezza con altrettanto tempo e fatica, il quale è pur sempre un cambio vantaggioso; mentre fonda in tal modo una forza ed una porzione di vita che egli può occupare alla cultura del suo intelletto e del suo cuore, e al godimento degli onesti piaceri: i quali beni sono di un pregio inestimabile sopra la materiale ricchezza. Il corpo dei mercenarŒ adunque è sommamente utile ai benestanti, e attesi i suoi presenti bisogni necessario: ed essendo gli uomini soggetti alla legge della perfettibilità e da essa inclinati a mantenere ciò che hanno provato per bene e ad accrescerlo, è impossibile che il corpo dei mercenarŒ sia abolito: ed una tale proposizione è così assurda, che il solo enunciarla desta le risa. Nè si può dire che i benestanti con un comune accordo potessero costringere i mercenarŒ a più dure condizioni fino alla servitù; perciocchè questa stessa prostrerebbe le arti, solito effetto della umanità, e le richiamerebbe dentro alle famiglie onde sono uscite, cioè farebbe retrogradare la società: il che, come dicemmo, essa non può fare generalmente parlando, od al meno non può farlo ad occhi aperti; perocchè ad occhi aperti è assurdo che faccia un male a sè stessa. L' esistenza adunque del corpo dei mercenarŒ non è precaria, ma è tanto ben assicurata quant' è assicurata la legge della perfettibilità: e, se non fosse assicurata, noi dovremmo assicurarla con una civile sanzione, mentre la società in costituirsi non debbe far danno a sè medesima, ma mettere tutte quelle basi che da essa il male allontanano. 1) Per la stessa ragione il corpo de' benestanti commetterebbe una ingiustizia cercando di distruggere il corpo dei mercenarŒ: perocchè nessuno ha diritto di restringere l' altrui libertà senza che ciò torni in bene di sè stessa. Ora il corpo dei mercenarŒ è utile, come abbiamo veduto, ai benestanti: dunque oltrechè sarebbe stolto distruggerlo, e di una stoltezza che si è resa impossibile al genere umano, sc“rto sulla via della perfezione, sarebbe anche ingiusto, perciocchè nessuno ha diritto di nuocere altrui senza ragione, nessuno ha diritto al male ed alla stoltezza. La società civile adunque, sì per principio di utilità che per principio di giustizia, debbe riguardare il corpo dei mercenarŒ come fornito di un diritto al mantenimento, e debbe conoscere che il provento del medesimo è assicurato sopra un fondo stabile quanto il provento dei benestanti, mentre è assicurato sul bisogno, sui piaceri, sulla felicità, e sulla moralità degli stessi benestanti. La sola differenza che passa fra il fondo sul quale è assicurato il provento dei benestanti, ed il fondo sul quale è assicurato, per dir così, il provento dei mercenarŒ, si è questa, che ciascun benestante ha in mano il suo fondo, ed è legato colla sua individuale persona: mentre ciascuno dei mercenarŒ non può già dir tanto, poichè il suo travaglio è condizionato alla volontà di chi lo prende al lavoro: e ciascun mercenario non può sempre assicurarsi di trovare questa volontà disposta costantemente ad usare l' opera sua: mentre tutto il corpo dei mercenarŒ può benissimo assicurarsene; giacchè abbiamo fissato per base, che la volontà collettiva dei benestanti non può mai volere lasciare totalmente privo di lavoro il corpo dei mercenarŒ. Alcuno chiese se con ciò s' intendeva che la società civile prendesse l' obbligo di mantenere costantemente un numero fisso di mercenarŒ. A cui la Commissione rispose: che no: che il corpo dei mercenarŒ non poteva mai fissarsi: che questo doveva crescere o scemare, secondo le ricerche dei benestanti; ciascuno dei quali coll' istituzione della nuova società restava libero come prima di prendere o di licenziare i mercenarŒ secondo i suoi interessi ed i suoi bisogni: che se finalmente si potesse suppore il caso di una tale carestia e penuria di tutte le cose più necessarie, che nissun benestante avesse più il modo di mantenere un solo mercenario, supposto questo caso impossibile, ne seguirebbe, che il corpo dei mercenarŒ per qualche tempo disparirebbe; ma senza che questa distruzione dei mercenarŒ fosse punto contraria ai principŒ sopra esposti, perocchè essa non seguiva per un arbitrio stolto dei ricchi, nè per un principio di assurda politica; ciò che solo col discorso precedente si è combattuto. Ma dunque, alcun altro oppose, se il corpo dei mercenarŒ diminuisce ed aumenta, come avrà una rappresentazione stabile? Non fu parlato di una rappresentazione stabile, rispose la Commissione; ma solo di una rappresentazione attiva, la quale certamente debbe cangiare nella stessa proporzione che cambia il corpo dei rappresentati. Il modo poi di questo cangiamento è ciò che la Commissione si riserva di spiegare, quando sarà tempo opportuno; pregando intanto chi avesse da dire contro la medesima, di riservare per allora che se ne farà di proposito trattazione. Ciò che fu detto, e che fu fin qui accordato dalla Assemblea, diede la via alla Commissione di presentare il principio generale, secondo il quale doveva esser formata l' amministrazione della società civile. Il principio fu enunciato così: « Il potere amministrativo debbe esser messo in equilibro colla proprietà materiale di ciascun membro della società civile; »che equivale a quest' altra proposizione: « Ciascun membro della società civile debbe partecipare all' amministrazione della medesima nella proporzione della ricchezza materiale ch' egli possiede. » Tale principio veniva come conseguenza naturale dalle cose dette, o piuttosto era una recapitolazione delle medesime. In fatti egli discendeva da quell' altro più generale già prima adottato, che ogni specie di diritti ed ogni diritto nella stessa specie trovasse nella società civile una rappresentazione conveniente e possibile. Le specie di diritti s' avevano trovate essere due, chiamate de' diritti personali e de' diritti reali. S' era pure trovato ed accordato che a queste due specie di diritti corrispondevano due specie di rappresentazioni; cioè la rappresentazione passiva e la rappresentazione attiva: la prima delle quali, corrispondente ai diritti personali, era formata da una voce efficace di richiamo contro alle offese, e la seconda, corrispondente ai diritti reali, era una voce influente nell' amministrazione della società. Per diritti reali s' era inteso diritti sulla ricchezza materiale, e dopo aver trovato la rappresentazione conveniente a tale specie di diritti, cioè la rappresentazione attiva, conveniva stabilire il principio, che fissasse la rappresentazione conveniente a ciascun diritto della stessa specie, o sia alla quantità proporzionale dei diritti reali: e tal principio era quello enunciato dalla Commissione: « che il potere amministrativo dovesse esser messo in equilibrio colla proprietà materiale di ciascun membro della Società civile. » Non poteva dunque rifiutarsi l' Assemblea dell' ammettere tal principio, se non voleva venire in contraddizione con sè stessa. Ciò ammesso fissò la Commissione l' infimo grado di tale rappresentazione che doveva essere proprio di quelle persone, che avessero tanta ricchezza materiale quanta bastava ad assicurare ai medesimi una vita indipendente dagli altri uomini: in tal modo acquistava una rappresentazione attiva quella persona che aveva dei diritti per se stessi esistenti, giacchè i diritti personali per se stessi non possono esistere nell' uomo se non coll' aiuto di diritti reali: questi due diritti insieme uniti danno alla persona un' esistenza politica garantita in faccia alla società degli altri uomini, i quali ragionevolmente possono entrare con essa in un contratto stabile. I possessori delle terre fecero però sentire che non sembrava loro giusto d' esser messi alla stessa condizione dei possessori di fondi industriali, o commerciali, o bancarŒ, e dissero tutte le ragioni che dir si sogliono dai partigiani dei fondi terrieri: si sforzarono di mostrare principalmente due cose: 1 che tutte le altre ricchezze erano dipendenti dalla terra, e che veramente questa sola, somministrando il nutrimento agli uomini e le materie prime alle arti, era indipendente; 2 che i fondi d' altra specie non erano così assicurati come le terre, le quali non potevano mai esser distrutte nè mancare di prezzo; mentre tutta la ricchezza affidata alla volubile fortuna del commercio poteva da un' ora all' altra perire; e variava mobilissima ad ogni circostanza politica e ad ogni varietà nel costume e nell' opinione degli uomini. La Commissione oppose alla prima difficoltà quello stesso ragionamento, col quale aveva dimostrato che i mercenarŒ dovevano considerarsi come indipendenti dai benestanti: mentre questi non si sarebbero mai indotti ad abbandonarli giacchè ciò non voleva il proprio interesse, il quale interesse non poteva non essere seguito dal corpo dei benestanti perchè l' umanità, di fatto e per una legge a cui irrefragabilmente obbedisce, non può ad occhi aperti nè lasciare un bene nè fare un male a se stessa. Le arti ed il commercio sono di somma utilità ai possessori delle terre: dunque questi quando anco potessero abbandonarli non lo faranno mai; poichè ciò supporrebbe la perdita della ragione, o la perdita dell' amore a' proprŒ vantaggi Dall' istante adunque che i proprietarŒ delle terre non vogliono nè possono volere rinunziare ai vantaggi che a loro apportano le manifatture ed il commercio, avviene ch' essi si costituiscano di fatto dipendenti da questi rami industriali, come questi rami industriali sono dipendenti da essi. La dipendenza adunque è scambievole, ed è anche pari; poichè, lasciando di considerare se l' agricoltura potesse sussistere priva di qualunque maniera di arti, egli non è più cosa controversa, che l' industria manifattrice ed il commercio aumentano la produzione, e moltiplicano il valore di ciò che rende la terra più volte per se medesimo. Ella è questa moltiplicazione di valore, che produsse le arti ed il commercio. E chi la poteva produrre, se non i possessori delle terre somministrando le materie prime? Le arti dunque ed il commercio vennero ad esistere mediante una loro speculazione: allo stesso modo come il frutto della terra venne a prodursi mediante il lavoro ch' essi fecero della medesima. Come dunque il benestante dipende dalla terra per cavare della ricchezza, allo stesso modo dipende dalle arti e dal commercio per cavare dell' altra ricchezza. Che se potesse darsi il caso, che i benestanti rinunziassero pazzamente a questa seconda ricchezza, forse mossi dall' invidia del guadagno di quelli che si applicano esclusivamente alle arti ed al commercio, e che comperano da essi i prodotti primi, ciò sarebbe un fatto stolto ed ingiusto: sarebbe un abuso del diritto della proprietà, e non dovrebbe essere riguardato come legittimo nella fondazione della civile società: anzi questa dovrebbe proclamare e sancire una dichiarazione in contrario, riguardando i possessori di fondi terrieri, industriali, e commerciali come parti cointeressate nello stesso negozio, come socŒ tendenti allo stesso scopo, dei quali gli uni si aiutano cogli altri scambievolmente dividendosi gli offici dell' azienda comune: perciò tutti egualmente gli uni dagli altri dipendenti, o in un altro senso tutti egualmente indipendenti; indipendenti cioè dato per impossibile che si rompa tal compagnia, e che qualche parte della medesima cessi da' suoi officŒ. Alla seconda obbiezione, colla quale i proprietarŒ delle terre pretendevano che solamente i loro fondi fossero bastevolmente assicurati ed all' incontro i fondi industriali e commerciali fossero abbandonati alla sorte sui quali perciò non si poteva contare, la Commissione fece una risposta convincente presentando i seguenti riflessi. Ella è la legge che regola il prezzo delle cose, quella che può dileguare la difficoltà proposta. Per conoscere la legge che regola il prezzo delle cose bisogna prendere per regola una misura comune del prezzo, una materia che abbia qualche valore a cui paragonare le altre; e il danaro generalmente introdotto nelle società costituite somministra la misura del prezzo più acconcia di tutte. Valutiamo dunque il prezzo delle cose in danaro, o per dir meglio consideriamo la valutazione loro nel fatto. Quali sono dunque gli elementi che costituiscono questo prezzo, o questa valutazione delle cose? Sono due: 1 La ricerca delle medesime corrispondente ai bisogni che si hanno di esse, presa la parola bisogna nel senso più generale, nel quale si comprendono ancora i bisogni fattizŒ, i desiderŒ in somma. 2 L' acconciezza che hanno le cose a soddisfare questi bisogni, calcolando la facilità d' acquistarle, la loro quantità, la loro durata rispettiva ecc. ecc.. Egli bisogna ben intendere che questo prezzo delle cose appunto perch' egli risulta dal rapporto fra la somma de' bisogni delle medesime e la loro acconcezza a soddisfarli, non è già stabilito da qualche persona particolare (escluso il caso di monopolio) ma da tutta la società, nella quale le cose valutate sono in corso. Ciò posto, se i fondi industriali e commerciali sono soggetti al pericolo della sorte, egli è evidente che nella loro valutazione questo viene calcolato: e se non viene calcolato vuol dire ch' egli è realmente compensato dal valore della speranza di guadagno che gli accompagna. Nè i proprietarŒ delle terre possono già dire: che il prezzo che viene loro assegnato, e nel quale resta necessariamente calcolato anche il pericolo della sorte, non abbia che una giustezza approssimativa; poichè ciò ammesso non possono tuttavia cavarne conseguenza in loro favore; giacchè lo stesso si può dire della valutazione dei fondi terrieri e del prezzo di tutte le altre cose mobili e stabili che sono poste in circolazione nella società. Egli è impossibile adunque trovar altra via di valutar la ricchezza se non riportandosi al prezzo relativo delle cose, cioè al prezzo che acquistar possono messe in cambio con altre cose; del quale prezzo per conoscere la proporzione bisogna riportarsi ad una specie sola di cose, fra le quali la più comoda e la più usitata è il denaro. Trovato questo prezzo relativo, non v' ha più luogo a sconto; poichè questo prezzo è il risultato delle qualità stimabili dell' oggetto apprezzato, meno le qualità deterioranti, come sarebbe appunto la sua breve durata, la sua fragilità, la probabilità della sua perdita ecc. ecc.. A tale discorso taluno disse che, dato anche tutto ciò che la Commissione viene ad esporre, non ne seguirebbe punto altra conseguenza pei fondi industriali e commerciali che quella tirata per li mercenarŒ: cioè che dovessero avere una rappresentazione comune e non individuale; conciossiacchè la loro esistenza indipendente si provava collo stesso argomento che s' era usato a provar quella dei mercenarŒ. Ma la Commissione ne dimostrò la differenza; poichè supposto che un mercenario venga abbandonato dai committenti, egli che vive su suoi lavori non ha oggimai più onde vivere; mentre all' incontro, supposto anche lo strano caso che il possessore d' un fondo industriale o commerciale venga abbandonato a tale che debba desistere dalla sua professione, gli rimane ancora il suo fondo, il quale egli può vendere, e tramutare o in un fondo stabile o in un capitale fondato sopra un fondo stabile. Laonde rimane il diritto a ciascuno, che abbia un fondo capace di produrgli un sufficiente mantenimento, di essere rappresentato individualmente nell' amministrazione della civile società. Malgrado che i ragionamenti della Commissione fossero stati riconosciuti per giusti, e le sue proposte fin quì approvate, v' erano nulla ostante molti che si ridevano di ciò che si faceva, e che andavano mettendo in discredito i principŒ stabiliti ccol dichiararli impossibili di produrre un risultato pratico, i quali perciò sarebbero stati abbandonati ben presto, quando i negoziati si avvicinassero a conchiudere qualche cosa di fatto, e non si trattenessero come finor facevano nelle imaginarie regioni di un' aerea speculazione. Egli fu a costoro, i quali coi loro discorsi indisponevano gli animi dell' Assemblea, che prese a rispondere la Commissione nella sessione presente. Come è possibile, dicevan essi, che ogni menoma ricchezza materiale venga rappresentata nell' amministrazione? In che modo si potrà ottenere una proporzione giusta fra le persone che debbono comporre l' amministrazione? Si vuol forse fare una nuova divisione delle ricchezze materiali in un modo regolare, sicchè una persona abbia precisamente il doppio, il triplo, o il quadruplo dell' altra nè più nè meno? Ovvero (giacchè questo sembra contraddire ai principŒ rigorosi di giustizia stabiliti dalla Commissione) si lascierà da parte le frazioni che sortono nella valutazione della ricchezza? In tal caso la Commissione devierebbe da quello stesso rigore di giustizia che essa vanta fino alla noia. Ma poi, i fondi rimangono sempre gli stessi? Non si pretenderà mica di rendere immobili e stagnanti tutte le ricchezze della società? E se son esse soggette ad un continuo movimento, dovrà soggiacere alle stesse mutazioni anche l' amministrazione della Società? Che governo sarà allora cotesto, che muta tutti i giorni, e che è commesso all' aura della cieca fortuna alla guisa stessa della ricchezza? O vorranno forse quelli, che, essendo in possesso del governo, per qualche sventura impoveriscono, cedere bonariamente il posto a quelli che sulla loro disgrazia si sono arricchiti? Per quanto adunque sieno speciosi i principŒ della Commissione, debbono terminare col partorire del vento. La Commissione contrappose a questi e consimili mormorii un' ampia dottrina del diritto, su cui opinava doversi formare la civile società: disse, che quelle obbiezioni provenivano dall' essere stata l' Assemblea finora informata de' principŒ di naturale giustizia risguardanti il fine propostosi da conseguire, e non de' principŒ di giustizia riguardanti il mezzo onde ottenere quel fine. Riguardo al fine la legge naturale vuole, che gli uomini viventi nello stato di natura si raccolgano in una Società civile, come quella che è utile a tutti, e che perciò ciascuno ha diritto di domandarla agli altri; a quello stesso modo che ciascun uomo ha diritto di domandare agli altri una convenzione ragionevole intorno ai proprŒ interessi ogni qualvolta questi vengano in collisione cogli interessi degli altri e non si possa senza una convenzione cavare giustamente quella utilità che si caverebbe mediante un' equa convenzione. 1) La Società civile dunque è una specie di convenzione generale riguardante tutti gli interessi di tutti gli uomini conviventi; la quale diventa un obbligo della legge naturale ogni qualvolta, sentendone alcuni uomini la utilità, dimandano a' loro compagni che vengano a simile convenzione ed associamento. Ma questo associamento debbe essere posto sopra le basi della equità, e queste basi di equità furono dall' Assemblea riconosciute esser quelle che la Commissione propose. Or dunque si tratta di formare la società sopra queste basi. Ma queste sono impossibili, si risponde. E come, ripete la Commissione, non sono esse necessarie? Rimossa l' equità e la giustizia, che cosa rimane per principio formatore della società, se non l' arbitrio, o la forza, o il caso, quasi formare la società dovesse considerarsi come un gittamento di dadi? Bisogna dunque vedere fino dove si estende l' obbiezione, che il formare la società civile secondo l' equità sia impossibile: mentre finalmente dall' equità non si può recedere, e se l' equità, come si dice, fosse al tutto impossibile da ottenersi, bisognerebbe convenire, che impossibile fosse la società stessa: che questa lungi dall' essere un dovere morale fosse il frutto o del cieco accidente o della prepotenza, o di un inconcepibile accordo nella medesima stoltezza. Ma l' obbiezione stessa non ci si presenta in tal modo. Essa non dice, che le basi dell' equità già proposte sieno al tutto impossibili da praticarsi: dice solamente, che esse non sono possibili a praticarsi con tutto il rigore, e che praticate a rigore assai male conseguenze trarrebbero seco. Or via, qual' è dunque la forza dell' obbiezione? Ella sta in questo; che dovendosi l' equità osservare nella composizione della società civile, debbesi praticare in tutte sue parti: e che se si concede di deviare dalla medesima in qualche parte, non si vede più la ragione perchè medesimamente non possa concedersi di lasciare l' equità anche nelle altre: dall' istante che l' arbitrio è qualche cosa, non si vede la ragione, perchè non possa esser tutto. Se l' equità è la suprema legge, perchè si può in parte abbandonare? Se non è la suprema legge, perchè non si propone a dirittura la legge suprema, e dietro a quella non si forma la società? Ma tutta questa obbiezione non è che apparente; perchè se gli uomini sono obbligati a seguire l' equità, essi non sono però obbligati di seguirla se non in quel tanto, che essi la conoscono, e che hanno il potere di seguirla. Non è già con questo che essi abbandonino una parte della equità; mentre è coll' animo cioè con una vera volontà che essi sono obbligati di seguirla tutta. Se malgrado di questa loro piena volontà, per mancanza di cognizione o di potere, avviene che in qualche sua parte esternamente non la pratichino e non la realizzino; questa non è che una mancanza materiale, e non già morale; non seguono per questo meno tutta intera la equità. Ma v' ha di più. Siccome nissuno uomo è obbligato moralmente all' impossibile, così nissun uomo ha il diritto di chiedere l' impossibile dall' altro uomo. Se due facendo insieme una convenzione non possono trovare il giusto punto dell' equità, non debbono per questo venire a discordia, ma bensì sono obbligati di stringere la convenzione stessa secondo un' equità approssimativa. Questo è ciò che nasce continuamente nella vita umana. Supponete, che più persone debbano dividersi egualmente una grande eredità: egli sarà tante volte impossibile di fare le parti giuste di una esattezza matematica: le stime dei fondi non possono giammai essere che approssimative, perchè sono l' opera degli uomini; il credito dei debitori della massa anche esso non somministra che un dato di approssimazione; e può cagionare dei gravi sbagli. In somma l' eguaglianza matematica non si ha mai, nè si potrebbe conoscerla avendola: il diritto delle parti adunque non si estende ad esigerla; perocchè i diritti debbono essere sempre ragionevoli, e non possono esigere se non ciò che è possibile: e ciò appunto è quello che propriamente si chiama equità, per distinguerla dalla giustizia, colla quale si vede essere da questo esempio intimamente connessa. L' equità dunque si può dire che non sia se non se la giustizia in pratica; giacchè la giustizia speculativa si può rare volte ottenere nella pratica, e non potendo gli uomini d' altra parte chieder giammai l' impossibile, sono obbligati dalla ragionevolezza che debbe accompagnare i loro diritti, e che è pur essa un principio di giustizia, a restringere i medesimi a tutto ciò che è possibile, che è quanto dire, a cangiare ciò che è giusto in ciò che è equo, mentre il sommo diritto cessa d' esser diritto; ma, secondo il proverbio antico, diventa somma ingiuria. Or come nella giustizia propriamente detta consiste ciò che secondo la legge naturale si può prefiggersi per fine , così nella equità viene indicato quel mezzo onde secondo la legge naturale si debbe ottenere quel fine. Giusto è adunque il fine di una giustizia stretta , giusto è il mezzo di una giustizia che propriamente si chiama equità . Gli uomini sono obbligati da una legge morale di prefiggersi nelle loro convenzioni quel fine giusto; e perchè se lo debbono prefiggere efficacemente per ciò sono obbligati altresì di ottenerlo con questo mezzo giusto: la giustizia stretta nel fine: la equità nel mezzo di ottenerlo, ecco ciò che rende possibili fra gli uomini le convenzioni giuste. Applichiamo questi principŒ alla convenzione più estesa di tutte che possano far gli uomini, ossia alla formazione della civile società. Conviene prima di tutto nella formazione della medesima vedere quale sia il diritto che può reclamare in essa qualunque persona che si assembra e tratta insieme per parteciparne. Giacchè nessuna persona può essere costretta senza ragione a rinunziare ai proprŒ vantaggi, quindi è necessario prima di tutto vedere quali sieno i vantaggi che ciascuno può avere in detta società, quale il posto che ciascuno può convenevolmente occupare. Noi abbiamo fatto questa ricerca ed abbiamo riconosciuto che la parte che si può avere in detta società può essere di due specie che abbiamo contrassegnato coi vocaboli di rappresentazione passiva e di rappresentazione attiva: che la rappresentazione passiva conviene indistintamente a tutti gli uomini; mentre ragione vuole che non partecipino della rappresentazione attiva se non quelli che vivono sopra dei fondi di ricchezza materiale e ciò in proporzione di detti fondi. Questo pertanto è il fine giusto della società; fine nel quale debbono ragionevolmente convenire: e dico fine giusto perocchè nessuno dei membri sociali potrebbe esser costretto senza ragione a rinunziare ai vantaggi che a lui apportano le basi soprafissate: conciossiacchè sono ragionevoli e venienti come conseguenze dai diritti di ciascheduno. Questo fine pertanto debbe ciascun membro della società futura prefiggersi di ottenere nella istituzione della medesima, e non perderlo giammai dallo sguardo. Ma debbe tenersi in esso così costante lo sguardo per ottenersi pienamente? Non già: ma per ottenersi quanto più si può: mentre quand' egli si ottiene nel miglior modo che si può, si ottiene pienamente: giacchè la perfezione morale non consiste se non nell' uso di tutte le proprie forze per la consecuzione di ciò che è giusto, non già nell' ottenimento materiale di ciò che è giusto: questo si potrebbe ottenere senza aver fatto la giustizia. E` dunque un dovere della legge naturale la formazione della Convenzione civile nel caso da noi proposto: è un dovere della legge naturale volerla formare secondo le basi della giustizia di sopra da noi stabilite: finalmente è un terzo dovere della Legge naturale recedere dal proprio diritto in quella parte nella quale non si può ragionevolmente esigerlo dagli altri soddisfatto, perchè ciò sarebbe loro impossibile, come è impossibile esigere la esattezza matematica nella divisione di una possessione, di una casa, di uno stato. Ciò solo adunque che possono esigere scambievolmente gli uomini, che vogliono comporre insieme una civile società, si è che sia adoperata la maggiore esattezza possibile nella divisione del potere civile: ma nulla più: e per la maggiore esattezza possibile non altro debbesi intendere che quella che risultar può dai lumi comunicati di tutti i membri, e messi a profitto mediante l' esame dei SavŒ universalmente reputati per forza di mente, per provetto consiglio, e per integrità. Qualunque adunque sieno per essere nella pratica esecuzione degli articoli sopra esposti le deviazioni dai medesimi , queste debbono essere sempre accordate dalla Assemblea dopo che è stato dimostrato: 1 che esse sono necessarie per l' ottima consecuzione del fine sociale, cioè pel comune vantaggio; 2 ch' esse sono le deviazioni menome che far si possano, dati i lumi suggeriti dalle persone, che concorrono nella società civile da istituirsi. La esecuzione del sopraesposto progetto viene pienamente giustificata, quando avendo tutti i sozŒ ampia facoltà di comunicare i loro lumi nessuno di essi ha saputo suggerire di meglio: suggerire cioè degli espedienti che più dappresso s' avvicinassero all' esecuzione delle basi sopra poste di giustizia, e che diminuissero le deviazioni necessarie dalle medesime. Egli è da questo ragionamento che risulta la consolante verità « che l' uomo amatore della giustizia non debbe punto atterirsi dallo stabilire delle regole difficili all' esecuzione, ma che tutto ciò che è giusto per difficile ch' egli sia debbe essere tratto alla luce, ed ampiamente e coraggiosamente esposto: giacchè, perciò che abbiamo detto, tuttociò che è giusto è altresì possibile: purchè l' equità sia quella che s' interponga quasi mediatrice fra esso e gli uomini nell' esecuzione: quell' equità che consiste nel concedere le menome deviazioni da quelle regole: e che coll' accrescimento dei lumi concede sempre meno; perchè ritrova ognora degli espedienti migliori che minorano indefinitivamente quelle deviazioni, e conducono la pratica sempre più vicina indefinitivamente alla teoria. » Riassumendo le cose dette, la Commissione presentò in un nuovo aspetto quella parte di progetto della società civile da istituirsi, che finora aveva presentato all' Assemblea, e che difendendo passo per passo avea fatto adottare dalla medesima. Fece osservare che le due rappresentazioni proposte, cioè la passiva e l' attiva, la prima delle quali corrispondeva alla specie di diritti che è comune a tutti gli uomini, l' altra a quella specie di diritti che è propria dei benestanti, erano d' un' indole totalmente diversa: la prima aveva per iscopo la sicurezza , o difesa dei diritti; la seconda la ricchezza o l' aumento dei diritti, i quali erano quei due scopi a cui finalmente tendeva ogni civile società. Mostrò come la sicurezza o la difesa dei diritti era cosa partenente alla giustizia , e come la ricchezza o l' aumento dei diritti era cosa appartenente all' utilità : giustizia dunque ed utilità erano i due scopi suddetti della società che si trattava di istituire. Un potere adunque che trovasse o difendesse dove che sia la giustizia, ed un potere che cercasse e procacciasse l' utilità, erano i due perni su cui si volgeva tutta la società civile, a quel modo che la Commissione aveva creduto di progettarla. Questi due scopi erano al tutto necessarŒ da conseguirsi, e per l' umana dignità il primo più necessario ancora del secondo: dunque i due poteri che presiedevano a questi scopi erano supremi tutti due, e tutti due dovevano coesistere. Il potere che presiedeva alla giustizia non poteva avere altra forma che quella d' un Tribunale: il potere che presiedeva all' utilità non poteva avere altra forma che quella di un' Amministrazione: un Tribunale politico adunque ed un' Amministrazione erano i due poteri supremi della società; erano le due parti essenziali del governo della medesima. Questi due poteri, queste due parti essenziali del governo, il Tribunale politico e l' Amministrazione, corrispondono ai due modi dell' esistenza umana, cioè al modo di esistere come essere morale e al modo di esistere come essere sensibile: l' uomo esiste in tutti e due questi modi contemporaneamente: la società dunque degli uomini non può che avere anch' essa due modi di esistere, cioè un modo morale, ed un modo materiale e fisico: essa debbe essere mezzo che armonizzi queste due esistenze dell' uomo, e che nel mentre che essa procaccia di fare la felicità di lui come essere sensibile, non lo deteriori come essere morale. L' esistenza morale dell' uomo riguardo alle cose esterne che possono essere oggetto della civile società, viene conservata nella sua integrità mediante la giustizia, e per ciò mediante un Tribunale politico che a questa presiede; l' esistenza sensibile dell' uomo viene conservata e migliorata da una saggia amministrazione dei suoi beni, e perciò anche da una Amministrazione sociale che regola la modalità dei medesimi. L' esistenza risulta da una forza: come adunque v' ha esistenza morale ed esistenza sensibile dell' uomo, così vi ha una forza morale ed una forza sensibile. La forza morale si manifesta nell' uomo dalla reazione ch' essa fa contro tutto ciò che tenta di deteriorare nell' uomo l' esistenza morale: la forza sensibile si manifesta nella reazione che fa a tutto ciò che tenta di nuocere alla sua esistenza sensibile: nella società giocano le stesse forze, e reagiscono in tutte le direzioni: fa dunque bisogno di regolarizzarle perchè non la turbino, e questa regolarizzazione s' ottiene coll' instituire due centri delle medesime, i quali possano agire regolarmente ed ordinatamente: e questi due centri delle due forze elementari dell' uomo e della società sono le due parti elementarŒ del supremo potere: Tribunale politico, centro della forza morale nella società: Amministrazione, centro della forza sensibile o fisica nella medesima: nel primo si esercita ordinatamente, ma colla sua maggior attività la forza morale; nel secondo si esercita colla sua maggior attività la forza sensibile o fisica. Ecco la società civile corrispondente ai bisogni indeclinabili della natura umana. Da ciò la Commissione ne trasse come conseguenza massima: che la maggior cautela dovesse essere conservata, perchè nel Tribunale, centro della forza morale, non si mescolasse di nulla la forza sensibile e fisica: e finalmente credette venuto il punto da presentare all' Assemblea il Progetto del detto Tribunale già precedentemente apparecchiato (Lib. I) il quale progetto diligentemente esaminato da una Giunta apposita e dall' Assemblea stessa, fu finalmente ammesso. L' articolo delle elezioni per la composizione del Tribunale, che si doveva discutere, tornava più difficile a stabilire, che quello sulle elezioni dei membri dell' Amministrazione, poichè per costituire un membro dell' Amministrazione si aveva un dato materiale, qual' era la ricchezza materiale che bastava verificare: all' incontro per eleggere un membro al tribunale politico, nella cui elezione non si doveva riguardare ad altri dati che alla virtù ed alla scienza, non si aveva nulla di esterno, che potesse prestare una certezza fisica, e che escludesse ogni controversia; per cui anzichè ai dati esterni conveniva rimettersi in tali elezioni all' opinione, o sia all' intimo senso degli elettori. Nulla di meno la ricognizione della ricchezza come titolo del diritto di rappresentazione attiva, o sia come titolo al potere amministrativo, ammetteva naturalmente molte frodi, ed eccitava infinite controversie, mentre tutti i benestanti aspiravano ad acquistar la maggior parte possibile del potere civile. Ciò vedendo la Commissione, e dalle dissensioni che nascevano assai chiaramente scorgendo che non era possibile di farli convenire fra di loro, anzi che avanzandosi le discordie minacciava di sciogliersi l' Assemblea senza far nulla, prese il partito di proporre all' Assemblea la seguente proposizione: « Sieno sospesi tutti i negoziati per instituire l' Amministrazione sociale, e si proceda prima all' instituzione del Tribunale politico, innanzi al quale ognuno potrà poscia presentare le ragioni ch' egli ha di partecipare al potere, o sia lo stato della ricchezza ch' egli possiede, e dietro la ricognizione che farà della medesima il Tribunale, ciascuno prenderà il posto che gli spetta nell' Amministrazione sociale. » Essendosi riconosciuta l' equità della proposizione si rivolse l' animo alla composizione del Tribunale politico, che si realizzò secondo il metodo preso dietro alle successive proposte della Commissione. La sola qualificazione che si richiedeva, secondo i principŒ posti, per essere membro del Tribunale politico, consisteva, dopo la libertà, in un grado universalmente riconosciuto come eminente d' integrità e di scienza. In tal modo l' uomo il più misero poteva essere sollevato a quella parte del supremo potere che consisteva in un tal Tribunale. Nè solo tutti i liberi, proprietarŒ e non proprietarŒ, potevano esser chiamati a questo genere di dignità: ma ben ancora questo Tribunale era fatto per tutti egualmente: proteggeva i diritti di tutti, ed in cospetto a lui tutti erano eguali. 1) Ciò premesso, gli elettori dei membri di questo Tribunale doveano dare il loro voto come uomini, e non come ricchi, o come forniti di qualche accidentale differenza dai loro simili; dovevano darlo come esseri morali, e in stretta coscienza, sotto il più grave giuramento. Ma quali dovevano essere questi elettori? Tutti quelli di lor natura che potevano considerarsi come esseri morali, tutti gli uomini giunti all' uso di ragione. Questa fu l' idea generale seguita dalla Commissione, e suggerita dalla natura del detto Tribunale. Ma nel tradurla in una legge fu cauta di non obbliare le relazioni naturali, che legavano insieme gli uomini, e dalle quali, in qualunque circostanza questi si trovassero, non potevano prescindere: che perciò dovevano conservarle anche nello stato di elettori dei membri al politico Tribunale. La legge adunque proposta dalla Commissione sugli elettori del Tribunale politico fu distinta negli articoli o paragrafi seguenti: 1 I voti sono tanti quanti gl' individui nella società: quelli che non sono in possesso dell' uso della ragione lo danno mediante i genitori, od i tutori, o i curatori. 2 Ciascuno che è ammesso a dare da sè il voto elettivo non può delegare alcun altro a questo ufficio, senza stretta necessità. 3 Tutti i capi di famiglia hanno il diritto e il dovere di dare il voto elettivo. 4 Le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei padri: i mariti danno, oltre al proprio, un voto per la moglie; ed i padri e le madri vedove oltre il proprio danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli di qualunque età sieno. 5 Dopo instituito il Tribunale le mogli ed i figliuoli non emancipati possono essere abilitati dal Tribunale medesimo al diritto di voto, quando ciò esigano per giuste cause contro i mariti ed i padri, o le madri vedove. del voto. Discutendosi il primo articolo di tal legge taluno disse che sembrava dover essere necessario negli elettori non solo l' uso della ragione, ma l' età maggiore. La Commissione osservò contro tale obbiezione che nell' uomo non si esigeva già egual grado di ragione per qualunque operazione ch' egli facesse: che coll' età maggiore veniva dichiarato abile ad amministrare il suo patrimonio: il che richiedeva maggiore cognizione e capacità che non sia a dare il voto di cui si tratta; poichè lo scopo di questi voti non è solamente quello di ritrovare le persone più scienziate e virtuose, ma oltre di ciò di trovare in particolare le persone più ben amate, le più benevoli, le persone cioè che non abbiano particolari avversioni ed inimicizie: quindi il voto si debbe considerare anche come una dichiarazione, che la persona votata si riguarda come benevola e affezionata: su di che può recar giudizio chi che sia in possesso dell' uso della ragione. Fissandosi l' età maggiore per qualificazione dell' elettore si escluderebbero molti arbitrariamente di quelli che pur avrebbero diritto di votare, e la deviazione dalla rigorosa giustizia non sarebbe la menoma: non sarebbe dunque equa tale arbitraria esclusione. In conferma del secondo articolo la Commissione dimostrò il danno che ne avverrebbe, se si rendesse possibile di accumulare arbitrariamente molti voti in una stessa persona: accumulazione contraria all' intima natura della istituzione; poichè essa è basata sul principio che tutti gli uomini sono giuridicamente eguali; cioè che tutti gli uomini sono egualmente esseri morali. Il voto che si dà è fornito di tre caratteri, e fa tre ufficŒ diversi: 1 rappresenta l' essere morale , ossia i diritti essenziali dell' uomo; 2 esprime un giudizio sulla scienza e virtù dei candidati ed esprime insieme il desiderio , o affezione generale dei candidati: affezione che è il segno della mutua loro benevolenza; 3 finalmente è un atto di autorità e di forza morale, che ha le sue conseguenze esterne, nel modo onde segue l' istituzione. Ora egli è da tenersi qual principio fondamentale « che il perdere alcuno di questi tre effetti del voto senza ragione è dannevole alla società, e rende difettosa l' istituzione. »Ciò posto, se non s' impedisce l' accumulazione arbitraria dei voti, si vanno a perdere i due primi ufficŒ del voto e a guastare il terzo. In fatti il primo suo officio, come diceva, è quello di rappresentare l' essere morale , o sieno i diritti essenziali dell' uomo. Ora in quanto a questo officio egli è assurdo che un uomo possa dare due voti; mentre non è che un solo essere morale. Non è dunque possibile che un uomo deleghi un altro a dare il voto per lui; mentre qualunque voto desse questo secondo non sarebbe che l' espressione del proprio giudizio e non quello dell' altrui; egli è dunque necessario che ciascuno che dà il voto lo dia da se stesso; come è necessario che un uomo che pensa, pensi da sè stesso: e sarebbe assurdo affermare che si pensa per la ragione che v' ha un altro che pensa. Medesimamente il voto per delegazione non supplisce al suo secondo ufficio e in quanto a questo ufficio è pure di natura sua inalienabile. Questo voto riguardo al suo secondo effetto è un giudicio che si dà sui candidati. Ora il giudicio di una persona non può essere che uno. Quando io ho ricevuto da una persona il suo consiglio in un affare, è assurdo il pretendere ch' esso me ne dia un altro; mentre sarebbe pur un consiglio solo ripetuto due volte, e non mai due consigli. I voti adunque degli elettori sono tanti consigli o giudicŒ, e perciò niuno di essi può avere il diritto di darne più che un solo; perchè ha una mente sola, una volontà sola, ed è un uomo solo. Finalmente egli è vero che considerati i voti come meri atti di autorità si possono di loro natura accumulare, ciò che la Legge riconosce riguardo ai padri, ai mariti ed ai tutori. Ma questa accumulazione quando fosse arbitraria porterebbe alterazione nella Costituzione sociale; perocchè i ricchi potrebbero comprare in tal modo i voti dei poveri, e gl' ignoranti sacrificare se stessi alla altrui avidità: in tal caso il Tribunale politico non otterrebbe più il sacro suo scopo di opporre una forza morale agli abusi della forza fisica; di difendere cioè tutto ciò che è debole nella società contro tutto ciò che in essa è forte. Il terzo articolo incontrò opposizione in ciò che parve aggravarsi di un peso i capi di famiglia coll' obbligarli a dare il voto. Ognuno, fu detto, debbe poter rinunziare quand' egli voglia al proprio diritto. Rimane forse offeso qualcheduno perchè altri rinunzia al diritto che possiede? Se alcuno rinunzia al proprio diritto, gli altri lungi dal perdere ne guadagnano; perocchè approfittano del diritto abbandonato. Ma quelli che così parlavano non si accorgevano, come fece osservare la Commissione, che non si trattava di una società civile a quel modo ch' ella si trova instituita presso varŒ popoli, in cui vi fossero già delle persone che s' incaricassero di tutte le incombenze che la società civile porta con sè, sicchè il resto dei cittadini ne rimanesse al tutto scarico. Nella società civile all' incontro che volevasi instituire era necessario, che fosse stabilito parimenti fra i membri un corpo di persone che assumessero sopra di sè, come dovere, le incombenze della medesima, perchè queste non fossero lasciate ad arbitrio, o commesse alla ventura. Che riguardo a quest' incombenza particolare di eleggere il Tribunale politico era necessario di stabilire un corpo di elettori stabile: ed era necessario che questi s' obbligassero a ciò: affinchè per una continua titubanza nel numero e nella qualità degli elettori la società stessa non perisse, o almeno il Tribunale politico riuscisse a non essere più l' espressione della volontà di tutti, ma l' espressione della volontà casuale di pochi. In questo secondo caso egli potrebbe fors' anco esistere il diritto, giacchè col non venire all' elezione di molti, questi si rimetterebbero tacitamente al volere dei pochi, quando ciò fosse da principio accordato: ma egli non esisterebbe veracemente di fatto: egli non potrebb' essere nè amato nè venerato; giacchè per esserlo, tutti i cittadini debbono veder in esso l' opera propria. Finalmente che cosa si cerca in tal' elezione? si cerca forse l' instituzione di un Tribunale solamente? non già, ma si cerca di ottenere l' instituzione del Tribunale il più sapiente, il più integro, il più ben voluto, il più autorevole, il più rispettabile. Questo si può egli ottenere, se non mediante il parere della maggior parte al meno della nazione? se adunque vengono a mancare dei voti dei padri di famiglia, vengono a mancare insieme dei lumi per ciò ottenere: vengono a mancare dei pareri e dei voleri; viene a mancare insomma parte dell' opinione pubblica. Ciò nuoce di certo allo scopo dell' instituzione: si rende adunque necessario che la società non sia privata dei voti dei capi di famiglia, e questo è un obbligo che si debbono assumere dal punto che vogliono unirsi in una società civile equamente ordinata, altrimenti sarebbero in contraddizione con se stessi. Si domandò che cosa dovevasi intendere per capo di famiglia; e dopo varie proposte fu convenuto, di estendere la definizione del capo di famiglia a qualunque persona libera che non fosse soggetta all' autorità paterna o materna, maritale, o tutelare o curatoria. 1) Maggiore dibattimento cagionò il quarto articolo, col quale si escludevano dal dare il loro voto a parte le mogli ed i figliuoli, perchè si consideravano i voti di questi compresi in quelli dei mariti e dei padri; e si dava all' incontro al marito il voto della moglie, al padre i voti dei figliuoli. Le ragioni di questo articolo altre riguardano la prima parte, ed altre la seconda del medesimo. Cominciando dalla seconda parte essa dice, che i mariti « oltre il proprio, danno il voto per la moglie, ed i padri, oltre il proprio, danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli. » Il voto, considerato come un atto d' autorità, spiega questa seconda parte, supposto la prima ammessa: poichè non conveniva che una famiglia numerosa avesse un solo grado di potere (giacchè un atto d' autorità è un grado di potere) come una famiglia formata da una sola o da due persone. Poichè nella famiglia numerosa vi sono tanti più diritti da difendere e da rappresentare quanto è maggiore il numero delle persone che la compongono. Perchè adunque gli uomini fossero trattati con quella eguaglianza che richiede la natura della istituzione conviene che i voti stieno in ragione del numero delle persone componenti la famiglia. Si oppose che i padri poveri, i quali non hanno da alimentare i loro figliuoli, non debbano avere il vantaggio di dare i voti pei medesimi. Ma si osservò ancora che ciò che dava al padre simil diritto era l' esser padre, e non l' esser ricco: e che come la società civile non poteva fare che non fosse padre, così non doveva neppure negare al medesimo ciò che nasceva dalla sua paternità; il pieno diritto sopra i suoi figliuoli. La prima parte dell' articolo quarto diceva: « che le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei genitori. » L' opposizione esagerò il pericolo, che i padri e i mariti abusassero di tale autorità, disse che riunendo nei padri e nei mariti i voti dei figliuoli e delle mogli si privava la società di un maggior numero di consigli; e si accumulava in un solo uomo, cioè nel capo di casa, troppa autorità ed inadatta, perchè il Tribunale doveva essere costituito anche contro gli abusi della potestà paterna, e della maritale; che si deviava con ciò dal principio che rispetto a questo Tribunale tutti gli uomini fossero uguali, giacchè con tale accumulazione di voti si considerava il padre fornito di più voti, ed i figliuoli privi di tutti. Ma la Commissione all' incontro: Non si debbe intendere nel modo degli opponenti il principio che il Tribunale considera gli uomini tutti eguali. Questa uguaglianza comincia solo allora che due parti vengono fra di loro in discordia: prima di questo tempo le persone nulla hanno a fare col Tribunale; ed elle sono rispetto al medesimo come se non fossero. Il Tribunale adunque non altera punto le relazioni naturali fra gli uomini: e se li suppone eguali ciò è nel solo punto della discordia, innanzi cioè che si sappia a cui delle due parti appartenga il diritto conteso. Se dunque il Tribunale non altera punto le relazioni naturali degli uomini, che pacificamente si riconoscono e si conservano; ma solo interviene allorquando accade che qualche punto non sia riconosciuto o venga messo in questione, sarà da vedere quale naturale e riconosciuta relazione soglia trovarsi tra i genitori ed i figli, tra le mogli ed i mariti; e secondo il detto d' un savio antico, ciò che è naturale dovrà cercarsi non già nella depravazione, ma anzi nella integrità della natura. 1) Ora considerata l' indole della famiglia non depravata, noi troveremo la volontà dei figliuoli essere al tutto indivisa da quella dei padri, e la volontà delle mogli essere al tutto indivisa da quella dei mariti. E` l' amore che di più volontà ne forma una sola: e questo amore non solo è naturale, ma ben anche è doveroso. La società civile adunque debbe riconoscerlo, la società civile debbe sancirlo: egli è uno stretto dovere del figliuolo di convenire fino agli estremi della onestà col volere dei suoi genitori, come è un dovere della moglie di uniformarsi al volere del marito. D' altro lato i genitori, come fu già osservato, hanno sopra i loro figli un diritto, non già arbitrario, ma tuttavia illimitato, cioè che dalla parte dei figli non ha coazione reattiva. Se dunque viene istituito il Tribunale per tenere nei suoi doveri gli stessi genitori, questo tuttavia non viene ad istituirsi che mediante la ragionevolezza degli stessi genitori: questi sono quelli che da un prudente timore della propria fragilità sono indotti a sottomettersi a un Tribunale: prendendo nel tempo di calma una tale risoluzione, che può raffrenarli nel tempo dell' agitazione, e contenerli dagli eccessi. Egli è dunque conforme alla natura della cosa che i voti dei figliuoli sieno dati dai padri, il qual discorso, sebbene non si possa applicare con tutto rigore alla condizione dei mariti, perchè le mogli hanno almeno il diritto sulla propria vita, tuttavia può applicarsi in parte per la strettezza del nodo maritale. Che se i padri ed i mariti operando contro la loro naturale relazione tiranneggiassero i figliuoli e le mogli, questi dopo l' instituzione del Tribunale potrebbero secondo il quinto articolo far riconoscere dal medesimo la propria causa ed acquistare il diritto di voto separato: poichè in questo caso di disunione comincierebbe l' azione del Tribunale, e dall' istante che comincia quest' azione le persone legate insieme diventano relativamente alla medesima uguali. Egli è vero che ciò non può aver luogo nella prima instituzione del Tribunale, nel qual tempo il Tribunale ancora non esiste a cui richiamare; ma questa piccola irregolarità, di natura sua inevitabile, non è che una di quelle deviazioni che si fanno dalla rigorosa giustizia per mezzo della equità, la quale, come dicevamo, è la sola giustizia pratica. La proposizione all' incontro fatta dagli opponenti, che i padri raccogliessero i voti dei loro figliuoli ed i mariti quel delle mogli, costituirebbe e autorizzerebbe legalmente una falsa posizione dei padri rispetto a' figliuoli, e dei mariti rispetto alle mogli: perocchè i figliuoli che vedono costantemente il padre aver bisogno de' loro voti, si formerebbero e con ragione, un' idea di eguaglianza fra sè ed il padre, e la moglie fra sè ed il marito, mentre l' idea che i figliuoli debbono avere del padre è, come dicevamo, quella di una superiorità, arbitraria no, ma sì illimitata: cioè tale che non vi sia nessun caso in cui essi credano: d' avere all' esterno qualche diritto, qualunque egli sia, indipendentemente dal padre: e così pure l' idea che la moglie debbe formarsi del marito si è di un' autorità amorevole, dalla quale essa non avvenga che mai dissenta in nessuna delle esterne relazioni. Coll' introdurre adunque nella famiglia un tal simbolo di eguaglianza fra il padre ed i figliuoli, la moglie ed il marito, si altererebbe la costituzione naturale della famiglia, si introdurrebbe in essa una eguaglianza costitutiva in luogo dell' eguaglianza giuridica: e l' elemento democratico, che nel Tribunale politico debbe apparire soltanto in quel punto che nascendo una discussione o dissensione fra due parti, queste debbono comparire al suo cospetto per riceverne la sentenza, ciò che è quanto dire, che debbe comparire soltanto nelle accidentali irregolarità, si trasporterebbe e pianterebbe nello stesso corso regolare alterando in tal modo l' ordine legittimo e naturale. A mal grado di tutto questo ragionamento il principio che fosse meglio prevenire i disordini anzichè emendarli dopo avvenuti, faceva impressione sull' Assemblea, e la inclinava dalla parte degli opponenti; giacchè pareva che col dare a' figliuoli ed alle mogli un voto separato, si evitasse l' abuso che potevano fare i mariti ed i padri della loro autorità. Per il che la Commissione, movendo da più alti principŒ il suo discorso: Pretenderete voi, disse, di esser più savŒ o più potenti dell' autore della natura, il quale stabilendo l' autorità paterna e la maritale le ha fatte di una tanta estensione di quanta voi essere la scorgete? si è egli trattenuto dal concedere ai padri ed ai mariti tanta autorità quanta essi hanno pel timore che ne facessero abuso? E se a malgrado del pericolo che v' era di questo abuso, tale e tanta la diede loro, non è ciò segno che doveva più giovare assai questo forte grado di autorità, che non nuocere tutta quanta la possibilità degli abusi? sì, nuocono gli abusi: ma nuoce anche diminuire il grado dell' autorità di cui s' abusa: conviene ricercare quale più nuoca. Dio l' ha deciso: ha permesso gli abusi anzi che togliere l' autorità. Questa l' ha lasciata in tutta la forza del suo diritto: quelli li ha raffrenati con una legge morale, ma non giuridica. Imitate dunque l' autore della natura. Potrete anzi non imitarlo? avrete autorità di derogare a ciò che egli ha stabilito? Non sapete voi che contro alla legge naturale tutta la legislazione umana è nulla e irrita per sè stessa? Orsù accingetevi della vostra autorità, e fate se potete, che il padre non sia padre, e il marito non sia marito. Se voi convenite insieme di dichiararli decaduti dai loro diritti, la vostra dichiarazione arbitraria varrà al più al più fino che voi vivrete: i padri ed i mariti che succederanno dopo di voi, riprenderanno il loro potere, e non si crederanno, con ragione a dir vero, obbligati ad una disposizione arbitraria dei loro precessori. Introducendo adunque una tale disposizione contro natura nella costituzione della società, non fareste che render fragile questa costituzione, e di una esistenza momentanea, come è momentaneo l' arbitrio degli uomini, mentre dovete procacciare di renderla ferma e stabile quanto è stabile la natura. Non gettate adunque nella costituzione sociale quei semi che fruttano la dissensione fra i vostri posteri e le turbazioni dello Stato. Per quello che voi dite, che i mali si debbono anzi prevenire che emendare dopo avvenuti, questo è vero fino che si può: ma havvi un limite oltre al quale non si può. Vorreste voi prevenire i mali col fare voi stessi dei mali, o almeno coll' occasionarne degli altri in futuro? Ecco il limite che aver debbe la vostra proposizione, che sia meglio prevenire colle istituzioni i mali, che emendarli dopo avvenuti. Le istituzioni sociali, che non hanno di lor natura altro scopo che di prevenire i mali, sono eccellenti; perchè lo scopo loro è lodevolissimo, e tali sono le leggi, ed i Tribunali criminali. Ma quando si vuol piegare al fine di prevenire i mali quelle istituzioni che di loro natura hanno anche un altro scopo, allora si va bene spesso a pericolo, che volendo con queste ottener due fini, non se ne ottenga nè pur uno, e che lusingato l' autore di quella instituzione da questo fine accessorio di evitare tutti i mali che l' instituzione può nel suo andamento produrre, perda interamente di vista lo scopo stesso della instituzione. Le instituzioni civili di questo secondo genere sono tutte quelle che si propongono di regolare i diritti scambievoli degli uomini pel massimo vantaggio possibile dei medesimi. Il maggior vantaggio possibile che ciascuno può trarre dai suoi diritti è lo scopo naturale di tale instituzione. Ora se il legislatore troppo minuto o troppo materiale in luogo di tener sempre fisso col pensiero questo scopo si ferma ad ogni istante a considerare tutti i pericoli possibili che l' instituzione trae seco, e se vuole a tutti mettervi un riparo, egli avverrà indubitatamente che un poco alla volta leghi i diritti di tutti gli uomini, ed anzi continuamente li diminuisca e li distrugga; perocchè non v' è nè pure un diritto che non porti seco il pericolo del suo abuso. Le instituzioni di un tale legislatore riescono tutte false: alterano tutta la naturale posizione degli uomini, e la società civile acquista un organizzazione complicata, e tutta angustiata da vincoli inesplicabili; le leggi si moltiplicano immensamente senza necessità; perocchè ciascuna legge ne chiama delle altre all' infinito, giacchè nel mentre ch' essa vuol rimediare ad un disordine, contorce il naturale stato delle cose, e ne produce infiniti altri. Questo disordine nell' organizzazione sociale, questa falsità nelle istituzioni si scorge da per tutto dove la società sia caduta in una grande corruzione. In tal caso la corruzione sociale strascina lo stesso legislatore, per quanto avveduto egli sia, a delle instituzioni totalmente false; perocchè non v' ha uomo d' ingegno, che posto in una posizione falsa, non sia costretto di fare dei passi falsi. Nella società corrotta gli abusi che gli uomini fanno dei loro diritti si rendono assai frequenti, sì che chiamano con gran forza a sè il legislatore; la loro frequenza arriva a segno che se non viene compressa, minaccia di sovvertire la stessa società, ed è allora il caso che richiama a sè la principale sollecitudine del legislatore: allora è il caso in cui il legislatore concentra il suo studio nel prevenire mediante le sue instituzioni gli abusi, e crede di aver toccato l' apice della sapienza politica, quando è arrivato a persuadersi che il suo ingegnoso ritrovato soddisfi a questo fine. Egli é però impossibile che vi soddisfi pienamente; perciocchè quel mezzo ingegnoso con cui egli ha pensato di ovviare ai disordini, quelle sue instituzioni, che ha tutte ad un simile fine ordinate, sebbene partano dal principio che gli uomini per cui sono fatte sieno cattivi, tuttavia non possono mai supporre una perversità illimitata; tutta la loro lode consiste nell' esser formate da un uomo esperimentato che ha saputo ben conoscere fino al fondo gli uomini del suo tempo, e che ha vedute e calcolate tutte le loro malizie. Non poteva però vedere né immaginare quelle malizie che gli uomini non avevano ancora inventate, giacché il germe che produce tali frutti é di una fecondità inesausta. Egli é per questo che non v' ha istituzione o legge che non possa essere ben presto elusa da un maggior grado di corruzione. Ed egli é da attribuirsi a questa crescente corrutela in gran parte il continuo assottigliarsi dei politici dei nostri tempi, ed il continuo mutar di sistema, condotti da una speranza che continuamente gl' inganna, di giungere all' invenzione di un' organizzazione sociale, che antivegga e preoccupi tutta l' umana perversità. I sistemi politici foggiati su tale principio relativi al tempo in cui sono fatti, ed al grado di corruzione di cui sono arrivati i loro autori a formarsi l' idea, durano un breve tempo, cioè fino che subentra una politica ancora più diffidente, la quale o si rende odiosa, se gli uomini prendendo un andamento favorevole alla moralità trovino infine di vivere sotto instituzioni che li superano nella malignità, ovvero diventa inutile se procedendo gli uomini nella malizia lasciano a dietro in questo miserabile corso la legge che li governa. Ma intanto, come diceva, che le leggi e le istituzioni politiche sono unicamente occupate nel prevenire i mali eventuali che può opporre contro di esse la umana perversità, insensibilmente si snaturano e perdono di vista totalmente lo scopo sostanziale della loro esistenza. Vorrete voi rimediare ai mali eventuali dell' unione maritale? Se soverchiamente siete di ciò solleciti, stabilirete il divorzio, ecco snaturata l' unione maritale. Volete voi prevenire tutti i mali dell' abuso dell' autorità paterna? legherete le mani al padre: ed ecco snaturata la relazione fra padre e figlio. Se un Maestro insegna ai suoi discepoli una scienza, v' é il pericolo ch' essi deferendo troppo alla autorità del maestro apprendano più colla memoria che coll' intelletto. Voi eviterete questo male se ordinerete che ciascuno debba imparare da se stesso senza maestro; ma nello stesso tempo renderete ignoranti tutti gli uomini. Vi dà soverchio timore che il Generale abusi del suo potere sull' esercito? Se voi farete un' instituzione che metta disunione o diffidenza delle armate verso i loro generali distruggerete l' effetto delle militari ordinanze. Il ricco può abusare delle sue ricchezze: prescrivetegli l' uso ch' ei ne debbe fare: voi avete violato il diritto di proprietà: si può dire la stessa cosa analizzando tutti i diritti grandi e piccoli, che sono in mano degli uomini, perchè non ve n' ha alcuno di cui essi non possono abusare. E` dunque da osservare diligentemente qual sia la natura delle instituzioni sociali. Sono esse tali che determinano in se stesse la relazione che hanno gli uomini fra di loro, e determinandola la corroborano, ed è egli questo il loro scopo? In tal caso non si debbono esse contorcere e guastare per ovviare agli abusi a cui sono soggette tali relazioni per altro naturali degli uomini: esse si debbono lasciare intatte, sicchè sieno espressioni fedeli di dette relazioni naturali, e non si alterino punto: e quando ci sia il caso per levare gli abusi delle medesime, si debbono attorniare di altre instituzioni rivolte a questo fine particolare senza che guastino quelle e le contraffacciano. Generalmente parlando adunque sono da distinguere le instituzioni sociali, le quali contengono un' espressione fedele dei diritti naturali, ed hanno per iscopo la prosperità dei medesimi, dalle instituzioni sociali, che sono rivolte unicamente a prevenire i disordini: questi due scopi di far fiorire i naturali diritti fra gli uomini e di prevenirne i disordini, non si debbe congiungerli insieme, non si debbe pretendere di conseguirli con un solo genere di instituzioni, mentre è ben raro che un' instituzione sola possa conseguire ambidue questi scopi, e di solito conviene proporsi di conseguire il primo scopo, cioè quello che sostiene e fa fiorire i diritti naturali degli uomini con un genere di instituzioni, le quali si potrebbero nominare stabilitive: e di conseguire il secondo scopo, cioè di evitare gli abusi dei diritti umani, con un altro genere a parte d' instituzioni le quali si potrebbero chiamare preventive e repressive , che sono d' un carattere totalmente diverso dalle prime. Le instituzioni false dunque nascono allorquando si contorcono le instituzioni stabilitive 1) dal naturale scopo di far fiorire e di dar risalto, anzichè di reprimere i diritti degli uomini, ad ottenere lo scopo proprio delle instituzioni preventive o repressive; cioè a prevenire i delitti degli uomini. Egli è vero, come diceva, che quando la società trovasi estremamente corrotta, il legislatore è costretto di fare delle instituzioni false; 1) è costretto di confondere quei due generi d' instituzioni in un solo: quei due scopi delle medesime in un solo; cioè in quello tendente colla repressione degli abusi a salvare la società. Egli è costretto a ciò perciocché le instituzioni stabilitive sono di loro natura non solo inutili per una tale società, ma ben ancora nocevoli: conciossiacchè esse danno risalto ai diritti degli uomini, e dando risalto ai loro diritti non fanno che accrescer loro le occasioni di abusarne. In una tanto deplorabile posizione gli uomini vengono ad essere giovati coll' esser privati dei loro beni: ed è il tempo in cui la tirannia si proclama come la benefattrice del genere umano! Le instituzioni false esprimono o suppongono che gli uomini sieno in relazioni false fra loro: se gli uomini non hanno fra loro queste false posizioni, le instituzioni false a poco a poco ve le introducono; se queste relazioni false già vi sono fra gli uomini, esse producono a vicenda le false instituzioni e le false leggi. La schiavitù antica era una falsa relazione fra gli uomini: essa doveva produrre tutte quelle false leggi e quelle false instituzioni, che si rendevano necessarie per farla fiorire e per invigorirla: quelle che mettevano in salvo il padrone dalla disperazione dei suoi schiavi: quelle ancora che dalla morte degli schiavi autorizzavano di cavare dei giuochi e delle pubbliche ricreazioni. Non v' ha nessun falso diritto, o sia nessuna falsa relazione degli uomini fra di loro che non abbia portato in conseguenza delle false instituzioni e delle false leggi. All' incontro delle false leggi e delle false instituzioni producono sempre delle relazioni false fra gli uomini, se essi vivono per lungo tempo soggetti alle medesime; ma rare volte sono durevoli, mentre quando la instituzione non va d' accordo colle relazioni fra gli uomini, se questi hanno qualche energia nel loro carattere, si ribellano alle medesime e le distruggono: ed è questo che vi diceva quando avvertiva, che portando voi l' eguaglianza costitutiva nelle famiglie colla legge proposta fareste una instituzione che non poteva durare a lungo, e che avrebbe portato il turbamento nella società, giacchè nissuna instituzione fondamentale viene mutata senza scossa: ma la società stessa vien tirata nella rovina della instituzione che si vuol distruggere fino che sulle proprie rovine di bel nuovo si costruisca. Egli è vero, lo ripeto, che i legislatori sono costretti a delle istituzioni false, allorquando la società è estremamente corrotta; in tal caso tutta l' attenzione del legislatore viene tratta a difendere la società dal suo esterminio, e non a costruirla a norma della sua naturale perfezione: a quello stesso modo che la regola di vita migliore per la salute dell' uomo, nel suo stato naturale, non può esser già quella che si usa con un uomo corroso in più parti da fare cancrene. Ma, se tali instituzioni, che si possono dir false ogni qualvolta si applicano a regolare una società di uomini nel suo stato naturale e non nello stato di corruzione, sono in quest' ultimo stato necessarie, esse però non possono giammai essere che temporanee, cioè fin che dura il morbo della società, il quale nelle nazioni cristiane non è incurabile giammai, conciossiacchè il carattere proprio di queste nazioni è quello di essere sanabili. 1) Ora io spero che non si tratti di fare fra di voi una instituzione temporanea, ma costante com' è l' umana natura. Lo stato di questa gente che si vuole insieme associare non è già quello di corruzione sociale; ma è uno stato di natura in cui gli uomini non sono legati insieme per falsi vincoli: in cui la ragione non è ottenebrata da vizŒ, o non è per una somma ignoranza impotente: 2) in cui finalmente l' onestà e la giustizia non sono voci vane che si usino come mezzi ad ingannare od a tradire, ma sono voci che parlano al cuore di tutti, mediante le venerande idee che in quelli risvegliano. Se adunque i mariti ed i padri abusano della loro autorità, questi abusi non possono essere che accidentali e minori di numero dei casi in cui non abusano: questi casi dunque particolari di abuso non danno diritto alla società civile di legare la stessa autorità (ciò che d' altronde far non potrebbe validamente) ma lasciando quella sussistere, danno il solo diritto di ovviare gli abusi con delle instituzioni particolari ed a tal fine appositamente ordinate. Se delle instituzioni costituissero l' autorità dei padri e dei mariti in un modo diverso da quello che tale autorità è costituita dalla natura, queste sarebbero instituzioni false: cioè sarebbero instituzioni, stabilitive , ossia che stabiliscono una relazione fra gli uomini, le quali si rivolgerebbero ad un altro scopo diverso da quello della loro natura, allo scopo vale a dire di ovviare gli abusi della detta relazione fra gli uomini e così si snaturerebbero, mentre per ottenere un tal fine verrebbero a stabilire la detta relazione fra gli uomini in un modo diverso da quello che la stabilisce la natura: si allontanerebbero in tal modo dal fine proprio per conseguire il fine delle instituzioni di un altro genere cioè delle instituzioni preventive e repressive . Ad ovviare dunque gli abusi dell' autorità paterna e maritale debbono rivolgersi delle instituzioni apposite, le quali non apportino un colpo sopra dette autorità, la cui natura in somma consiste appunto nell' essere preventive e repressive, senza essere stabilitive, o almeno senza stabilire nissuna relazione falsa fra gli uomini, e queste nel caso nostro sarebbono il diritto dato ai figliuoli ed alle mogli di richiamarsi dei loro torti al Tribunale ogni qualvolta li soffrono, e più ancora tutte quelle instituzioni morali che rendendo buoni i padri ed i mariti, li mettono in istato di usare bene il loro potere, seguendo con ciò l' indicazione della natura che ha lasciato questo potere in tutta la sua pienezza dalla parte delle persone soggette, ed all' incontro ha dato ai padri ed ai mariti la legge naturale per moderarlo. Egli è dunque inconveniente e contro la natura delle cose stabilire che il padre abbia il dovere di raccogliere i voti dai proprŒ figliuoli, ed il marito di prenderlo dalla moglie: poichè la natura dei figliuoli richiede ca volontà loro sia quella del padre, e la congiunzione maritale rende il marito capo della moglie: tutto ciò che succede contro queste relazioni non può formare l' ordine, ma non sono che eccezioni dell' ordine. Nè per questo debbesi ridurre ad un voto solo tutti i voti della famiglia, perocchè le famiglie verrebbero costituite con una sproporzione fra di loro; sproporzione cioè di forza politica, mentre il voto, come dicevamo, è anche di sua natura un atto di autorità e quindi un mezzo di difesa. Egli è per questo che si è stabilito il principio, che tanti sieno i voti quante sono le persone componenti la società: al quale coll' articolo che discutiamo non si deroga punto; ma anzi questo articolo non fa che stabilire il modo onde convenevolmente si riduca alla pratica il detto principio: modo che fa sì che si consideri ciascun membro della famiglia compreso virtualmente nel padre, e che perciò in tempo che si riconosce nell' unica volontà del padre tutte le volontà dei membri della famiglia, si fa sì che quest' unica volontà si ripeta per dire così in tanti atti autorevoli, o sia in tanti voti, quanti sono i membri nella famiglia. Dileguate le difficoltà intorno all' articolo quarto, l' articolo quinto dovea venire ammesso come una conseguenza od un perfezionamento del medesimo. Ma diede occasione di maggior dibattimento l' articolo sesto, le ragioni del quale erano le seguenti: Non si potea dare ai padroni il voto dei servi, come si era dato ai padri quello dei figliuoli, o ai mariti quello delle mogli; perocchè mentre questi due vincoli, cioè il paterno ed il maritale, avevano per loro base essenzialmente l' amicizia, il vincolo all' incontro di mera servitù non aveva di sua natura altra base che la utilità: quindi non portava per conseguenza della sua natura che la volontà del servo ordinariamente fosse inchiusa in quella del padrone; anzi piuttosto che fossero due volontà opposte. Oltre di ciò la società paterna e maritale è così stretta che di più esseri se n' ha uno solo, mentre la società che ha il padrone col servo non consiste essenzialmente in alcuna comunanza d' interessi, ma piuttosto in una contrarietà dei medesimi: il vincolo paterno e maritale è tanto fondato in natura che dopo fatto la volontà umana nol può più rompere, il padre nè pur volendo può cessar d' essere padre; mentre il vincolo signorile dipende dall' umana volontà, e il padrone può emancipare quand' egli vuole il suo servo che si rimane d' esser servo. Se dunque è assurdo che l' autorità umana intervenga nei diritti fra padre e figlio, non è ugualmente assurdo ch' ella intervenga nei diritti fra padrone e servo, mentre la volontà dell' uomo può mutare questi, ma non quelli. Le ragioni adunque dell' articolo quarto dove si tratta dei padri e dei mariti non possono applicarsi all' articolo sesto dove si tratta di padroni; e la società debbe ammettere i servi stessi a votare, e se sono mariti anche per le mogli, se sono padri anche per li figliuoli. Non è però necessario che i servi sieno obbligati a dare il loro voto, sì perchè può essere che per essi sia più vantaggioso il non darlo, giacchè tale funzione consuma loro un tempo prezioso se l' hanno in libertà, sì perchè se non l' hanno in libertà, ma l' hanno obbligato a loro padroni, essi non possono disporne, ne possono con facilità aver chi li rappresenti. Finalmente essi non sono necessarŒ, giacchè la società ha un numero di elettori costante e determinato nei padri di famiglia liberi. D' altro lato il caso dei servi non può essere che temporaneo in una società civile cristiana; ed una delle prime cure della medesima, quando sarà instituita, debb' essere di pensare ai modi prudenti onde far passare i servi gradatamente dalla condizione servile a quella di mercenari. Prevedendo la Commissione che in quelli, nelle cui mani veniva a riporsi la pubblica autorità, potevano facilmente entrare dei falsi principŒ per non conoscere ben a fondo le basi su cui si veniva erigendo la civile società, si avvisò di fare adottare il principio del diritto politico imperscrittibile , consistente in questa proposizione: « La rappresentazione politica dei diritti è imperscrittibile. » Essa ben conosceva che ciò che poteva turbare l' ordine sociale si era l' alterazione che poteva esser fatta nella rappresentazione politica dei diritti, non già tanto per prepotenza dei più forti, quanto per un sofisma che facilmente illude le menti dei governanti, e che consiste appunto nella troppa sollecitudine di ovviare ai disordini possibili la quale come era stato dimostrato nella sessione antecedente conduce a fare delle false instituzioni. E che cosa è altro questo sofisma che quello studio che tanto riscalda le menti dei politici per trovare un equilibrio fra i poteri dello Stato? Questo problema che così posto è insolubile, e quando anche fosse solubile non sarebbe che per un istante, per l' istante cioè che dura l' artificioso equilibrio; non ha importanza se non supposto che il principio che debbe determinare la costituzione sociale debb' essere unicamente quello di ovviare a tutti i possibili disordini della medesima: ma la costituzione appartiene alle instituzioni stabilitive, ed il fine proprio delle instituzioni stabilite non è già quello di evitare i disordini ch' esse stesse producono, ma bensì di stabilire le vere relazioni fra gli uomini. Ed in vero, se si vuole che una istituzione si cauteli contro la propria azione, la propria azione dunque è diversa dall' azione con cui si cautela, e questa viene dopo di quella: questa perciò non debbe nè mutar nè distrugger quella. Se dunque volendo dare la costituzione ad uno Stato si si propone per iscopo principale di evitare i disordini ch' essa stessa genera, si cade in una specie di contraddizione, e in uno strano circolo; e si va ad alterare l' indole naturale della costituzione facendo ch' essa invece di una instituzione stabilitiva qual debb' essere, diventi una costituzione preventiva o repressiva, quello che non debbe essere, ed in tal modo essa riesce la più mostruosa cosa, e non ottiene il suo fine, nè il fine che si è usurpato, appartenente ad altre instituzioni al tutto d' altra natura dalla sua. Il falso principio adunque che quella sia la costituzione migliore della società, la quale prevenga tutti i mali della propria azione, è quello che produce tante assurde costituzioni degli Stati, ed è quello da cui la Commissione temette con ragione che potesse venir alterata quella forma di società ch' essa avea disegnata, come la più equa e la più perfetta. Condotta da questo timore fece osservare all' Assemblea che conveniva fino d' allora determinarsi a seguire, nel ripartimento dell' autorità politica, l' uno o l' altro dei due principŒ, cioè o seguire il principio della rappresentazione de' diritti, il quale d' altro lato era stato abbracciato dall' Assemblea; o vero lasciando al tutto simigliante principio costituire un governo sopra questo altro principio che fosse quello la cui forza per la divisione ingegnosa della medesima in diverse persone ovviasse al maggior segno gli abusi possibili di se stessa. Noi siamo persuasi, disse la Commissione, che lo scopo di questo secondo principio non si può conseguir meglio che conservandosi perpetuamente fedeli al primo; ma non a tutti parrà così. A costoro pertanto sembrerà che talora possa esser più utile se si devia dalla più rigorosa rappresentazione di tutti i diritti, e che senza badar alla medesima, il solo principio dell' equilibrio dei poteri debba servir di regola a fare od a riformare la costituzione dello Stato. Voi dunque dovete esaminare con diligenza l' opinione di questi Signori, che tali due principŒ sieno diversi fra loro, e che convenga meglio tenere per unica regola il secondo anzi che il primo, affinchè dopo costituito lo Stato non siate forse condotti a fare delle riforme che alterino le prime basi su cui è costituito, o per dir meglio non siate costretti a distruggere ciò che avete edificato, e ad edificare di nuovo. Vi faccio pertanto osservare che l' applicazione del principio dell' equilibrio dei poteri o sia quello d' una costruzione della società, che antiveda tutti gli abusi, non può dipendere che da un calcolo conghietturale di quegli uomini politici ai quali fosse commessa la formazione della società dietro tali principŒ. Il loro calcolo poi è conghietturale, tanto più che precede l' esperienza, e solo questa potrebbe dare al medesimo una prova di qualche valore. Già che dunque si tratta d' un calcolo di estrema difficoltà per li molti elementi, che in sè racchiude, e per la mancanza dell' esperimento, questo non può che riuscire vario, secondo le diverse menti calcolatrici. Havvi però di più. La estrema difficoltà di un tal calcolo debbe far conoscere a priori ch' egli non può essere che adattato a pochi ingegni, e non, di certo, argomento in cui si possa esercitare con isperanza di riuscita la maggior parte degli uomini. Ciò posto ne verrà che nella costruzione della Società civile la maggior parte degli uomini non potrà proferire veruna sentenza; ma dovrà sottomettersi ciecamente a ciò che determinano i pochi sapienti, che sono co' loro intelletti al livello dell' argomento. Nel caso adunque che vorreste adottare un tal principio egli è certo che la maggior parte di voi dovrebbe ritirarsi al tutto dalla deliberazione, ed abbandonare al giudizio dei pochi ingegni più eminenti tutti i vostri interessi. Ma siccome io credo che non v' indurreste giammai a farlo, così pure io non vedo in qual modo si potrebbe convenire nel definire quali sieno questi ingegni più eminenti, mentre ognuno vorrebbe forse esserlo od apparire. E tuttavia supponiamo che l' ingegno si potesse misurare colla canna, e fosse fissata una misura per la menoma grandezza degl' ingegni prescelti a tant' opera: questi ingegni, come dicevamo, non converrebbero fra loro od almeno non avrebbero dovere di convenire, perocchè essendo il calcolo puramente congetturale, nissuno potrebbe dimostrare all' altro con evidenza, che il proprio calcolo va bene e il suo è errato. Il perchè rimarrebbe indeciso quale dei diversi progetti di società si dovesse seguire; e volendone pur seguire alcuno, non si potrebbe che chiamare giudice la sorte. Nondimeno quando ancora questi sapienti convenissero nell' abbracciare un progetto solo, non si avrebbe, come diceva, che un tal risultato di cui nessuno saprebbe il vero valore pratico; mentre nè l' esperienza lo ha provato, nè v' ha ragione di credere, come cosa certa, che l' ingegno di quei politici sia d' una forza proporzionata alla difficoltà dell' argomento; mentre che gl' ingegni sono al tutto accidentali, ed i più o meno forti nascono a caso, e non dipendono punto dalla volontà degli uomini. Ma ciò che merita più osservazione in tale ipotesi si è, che quando ancora ottenuto s' avesse che la maggiorità sottomettesse il proprio giudizio nella instituzione della Società civile, che è quanto dire sopra tutti i proprŒ interessi, alla opinione di alcuni pochi uomini di ingegno, il che non sarà mai; allora si potrebbe dire, che essa si sarebbe già di fatto sottomessa a quei legislatori; e nelle loro mani abbandonata. Quegli uomini, a cui è commesso il progetto di società, non sono solamente forniti di un forte ingegno pel quale certo sarebbero più atti degli altri a trovare la verità; ma sono ancora circondati da tutte le passioni umane: non sono pure menti, sono anch' essi uomini forniti degli stessi interessi degli altri, che desiderano le stesse cose e subiscono le stesse tentazioni. Oltre dunque il dubbio che può ragionevolmente cadere sul grado di forza dei loro ingegni, la comunanza degli uomini dovrebbe assicurarsi della loro volontà. E chi la assicura che nel progetto di società che propongono alla medesima, non abbiano provveduto almeno altrettanto al bene di sè stessi, che a quello della società? Dall' istante che la comunanza degli uomini nell' instituire la Società civile prende una strada così difficile, ch' essa stessa non può seguire quei pochi che la percorrono, essa si è interamente abbandonata all' arbitrio dei medesimi. Ma di più, nel caso che voleste organizzare la Società civile secondo questo principio, quale disposizione d' animo non dovreste voi tutti avere? Voi dovreste esser disposti a commettervi interamente all' altrui direzione. Nel caso che seguiate il principio della rappresentazione politica, siete voi stessi quelli che vi governate; perocchè ognuno di voi ritiene, se l' ha, trapassando alla Società civile, la modalità dei proprŒ diritti, e non fa che amministrarla in comune, mentre prima l' amministrava in separato. Nel caso all' incontro che abbandoniate questo principio, molti di voi debbono spropriarsi della modalità dei proprŒ diritti per metterla in mano di quelli che fossero scelti al governo, costruito secondo il progetto della utilità o dell' equilibrio dei poteri. Io vorrei sapere in tal caso chi di voi dovrà essere spogliato della modalità e chi dovrà ritenerla: vorrei sapere come vi accorderete insieme su questo punto: vorrei sapere come potrà essere utile l' introdurre arbitrariamente questa disuguaglianza nella Società civile: vorrei sapere qual garanzia verrebbe data a quelli che venissero spogliati della modalità dei proprŒ diritti da quelli che la ricevessero da amministrare; e perciò vorrei sapere come si possa progettare un governo capace di ovviare agli abusi, dall' istante che questo governo si diparte dalla rappresentazione politica, il quale dipartirsi è per se stesso un aprire il varco agli abusi, mentre si spoglia una porzione degli uomini della modalità dei proprŒ diritti, per accumularla in mano d' un' altra porzione; mentre in somma molti membri della società si rendono debili, e si danno in balìa di altri resi forti col pretesto di renderli utili. In somma dall' istante che nell' instituzione della Società civile si abbandona il principio della rappresentazione politica , la Società civile non si instituisce più sullo stato di natura; ma si dà agli uomini uno stato arbitrario per instituire sopra il medesimo la civile società pure arbitraria: in tal caso il principio delle instituzioni sociali è l' arbitrio. Egli è vero che si dice, che un tale arbitrio è sapiente e rivolto all' utilità; ma quando anche ciò potesse essere, non si potrebbe provare: un' asserzione sarebbe quella che farebbe passare questo arbitrio per sapiente; una negazione egualmente lo renderebbe stolto: poichè non è ingiuria negare gratuitamente ciò che gratuitamente si afferma. Intanto il principio dell' arbitrio è fecondo, come dimostra l' esperienza, di infinite costituzioni, le quali hanno la vita d' un giorno, cioè durano fino che sorga un altro uomo che abbia l' audacia di spacciarsi per saggio, di negare la precedente costituzione, e di asserirne una seconda. Non vale già il dire, che la massima di fare una costituzione immune dagli abusi è un principio evidentemente buono. Certo: e noi non lo neghiamo. Diciamo solo, che questo non è un principio fecondo se non di chimere: diciamo che egli non è un principio determinato; diciamo che l' adottare questo per unico principio determinante la costruzione sociale è lo stesso, che abbandonare la formazione della medesima all' arbitrio degli uomini; mentre tal principio non può dare che dei risultati congetturali o almeno dei risultati, le prove dei quali non sono a portata del comune degli uomini, intorno ai quali perciò questi bisognerebbe che credessero all' asserzione altrui, il che è propriamente commettersi all' altrui arbitrio. Diciamo perciò ch' egli è necessario per formare la società ricorrere ad un principio più determinante, e capace della necessaria pubblicità, capace d' essere inteso e discusso da tutti, mentre tutti hanno degli interessi da difendere in tale società, e mentre nessuno di quelli che ha degli interessi può essere obbligato dalla legge morale ad entrare ad occhi chiusi nella convenzione la più importante di tutte quale è la convenzione sociale civile, la quale diventerebbe impossibile se gli uomini che vi debbono entrare non fossero in caso d' intenderne le condizioni. Finalmente diciamo che è appunto il principio della rappresentazione politica quel principio luminoso suscettibile della maggiore pubblicità, perchè nissun uomo mediante di esso fa una convenzione inintelligibile, ma sa ciò che fa; e perchè esclude l' arbitrio determinando la parte che tocca a ciascuno del civile potere. Infatti il principio dell' utilità pubblica o dell' equilibrio dei poteri è difficile, perchè mette a calcolo tutte le forze sociali tutte insieme prese, senza aver riguardo alle individualità: il principio all' incontro della rappresentazione politica è facile, perchè nella sua applicazione non racchiude già un calcolo del tutto, ma piuttosto risulta da altrettanti calcoli quanti sono gl' individui. Ciascun individuo che entra nella società, secondo tal principio costituita, non ha già da pensare al tutto, ma solo alla convenzione particolare che egli fa cogli altri uomini; egli vede subito se tal convenzione è giusta od ingiusta, se gli è utile o gli è dannosa: sa ciò che mette e sa ciò che riceve. All' incontro nella società costituita secondo il principio dell' utilità l' individuo che vi entra sa ciò che mette, ma non sa ciò che riceve: egli vede che è spropriato della modalità dei proprŒ diritti; ma egli non è in caso di calcolare il vantaggio che gli viene promesso in compenso; perocchè questo vantaggio gli è promesso come un effetto di tutta la macchina ingegnosamente composta; macchina che va senza di lui, e che è così complicata per la moltitudine delle sue parti che gli riesce impossibile di calcolarne l' azione; ma che però vede essere quest' azione di una forza irresistibile quando prendesse una direzione contro di lui. Finalmente la società civile instituita mediante il principio della rappresentazione politica, edifica senza distruggere: la società civile costruita col principio della utilità distrugge prima, come vi diceva, lo stato di natura in cui siete presentemente, per edificare tal cosa di cui nessuno può prevedere con sicurezza le conseguenze. Or via s' ammetta, che sì coll' uno che con l' altro principio s' instituisca la civile società: lo scopo è il medesimo: mediante quale dei due sistemi s' ottiene tale scopo con una azione minore? Certo con quello della rappresentazione politica: poichè le mutazioni che voi andate a subire per questo sistema le vedete tutte entro confini determinati. All' incontro dove sono i confini del sistema dell' utilità? egli non ne ha veruno. La sua azione è infinita come l' arbitrio: egli suppone, che far si possa una riforma dopo l' altra nella società fino all' infinito, senza però mai sapere di certo se si sia andati avanti o indietro. Dovendo dunque voi fare una mutazione di cui l' esito vi fosse incerto per ottenere un fine, qual' è l' instituzione della società, non sceglierete voi quella che contenga il minor pericolo? E quale conterrà il minor pericolo se non quella che esige una mutazione minore, e che ottiene lo scopo con una azione minore? Tutti s' accordarono pertanto a queste ragioni, che non era prudente d' introdurre una grande alterazione nelle cose, mentre l' esito non poteva esser certo. Che d' altro lato nessuno nè voleva nè poteva esser costretto di rinunziare alla modalità dei proprŒ diritti, e alla parte che questa gli dava diritto di avere nella civile autorità: quindi si confirmava, che la rappresentazione politica già precedentemente adottata, era irrevocabilmente il principio secondo cui doveva la società stessa instituirsi. Quando sia così, proseguì la Commissione, egli è necessario altresì di riconoscere come questo principio sia il più sacro di tutti quelli che esistono nella società civile come tale, perocchè è il principio che determina il modo di esistere della medesima. Siccome la società civile non può esistere che in un dato modo, così il suo modo proprio d' esistere è altrettanto rispettabile quanto la sua esistenza: ed è solamente ciò che indica il modo onde la società civile può esistere quello che dà la esistenza alla società. Ora il principio della rappresentazione politica non è altro che un' attribuzione di diritti ai membri della società, cioè consiste in quella massima « che ogni diritto abbia nella società civile una rappresentazione conveniente e possibile. » Dunque un tal diritto che ricevono i membri della società civile mediante la sua istituzione è così necessario, come è la società stessa, e sarebbe al tutto contradditorio, che si volesse la società, e che si riconoscesse nel tempo stesso potervi aver un caso in cui un diritto dei suoi membri venisse privato della rappresentazione che a lui sarebbe conveniente e possibile. E` necessario adunque dichiarare che la rappresentazione politica è un diritto imperscrittibile ed inalienabile: cioè a dire che chi possiede nello stato di natura la modalità dei diritti debba anche possedere il corrispondente potere: e non debba verificarsi verun caso in cui il potere civile sia scompagnato dal possesso naturale della modalità. L' obbiezione che alcuni fecero, che prima di dichiararsi un tal diritto imprescrittibile bisognava fare la dichiarazione dei diritti dell' uomo naturali, diede occasione alla Commissione di stabilire la distinzione fra il diritto politico ed il diritto naturale, e fra l' imprescrittibilità politica e la imprescrittibilità naturale. La Commissione dimostrò che la comunanza degli uomini, o la civile società dopo instituito il governo, poteva bensì dichiarare validamente i diritti politici imprescrittibili: ma non poteva all' incontro dichiarare validamente i diritti naturali imprescrittibili, ma solo riconoscerli. Supponiamo disse, che la comunanza degli uomini facesse una dichiarazione de' diritti naturali imprescrittibili. Che forza avrebbe tale dichiarazione? quella stessa che avrebbe una carta su cui un uomo qualunque, od anche un fanciullo, avessero scritti quelli che fossero secondo la loro opinione diritti naturalmente imprescrittibili. L' essere scritti o non scritti non toglie ne aggiunge autorità a tali diritti, poichè essi ne hanno tanta che non ne possono aver di più; è così ferma che non può essere diminuita. Se la carta riferisce i diritti quali sono, sarà una buona memoria per chi l' ha scritta: se non riferisce i diritti quali sono, non vale nulla: e quando venisse a sostenerla la forza, ciò non sarebbe che un atto di tirannia. La dichiarazione dunque dei diritti naturali dell' uomo fatta dall' autorità civile è inutile, ma bensì l' autorità civile debbe riconoscere i detti diritti e dirigere secondo i medesimi la sua condotta. La differenza fra il riconoscerli e il dichiararli si è che nel primo caso ella fa un atto di sommissione e nel secondo di autorità: e per ciò le conseguenze di questi due atti sono diverse: nel primo caso, ciascun uomo che sia in grado di farlo può recare in mezzo dei lumi che rischiarino la natura di tali diritti: nel secondo caso, sarebbe un delitto parlare contro diritti dichiarati già dalla società; giacchè la dichiarazione di diritti suppone i diritti certi, e l' autorità, che li ha dichiarati, infallibile. Il potere civile dunque non debbe già arrogarsi di essere l' autorevole maestro degli uomini: non debbe innalzarsi ad una sfera che a lui non appartiene; ma lasciare il magisterio della verità morale ad una società morale, ad una società di diversa natura dalla sua, cioè alla Chiesa cristiana, che è la maggiore autorità in simil genere di cose. Egli è vero che le disposizioni civili della società s' appoggiano sui principŒ morali e sui diritti naturali; ma è vero altresì che questi sono anteriori a lei, e da lei indipendenti; essa dunque, rispetto a questi debb' essere discepola e soggetta, non maestra e sovrana. Se poi per dichiarazione di diritti s' intende un promemoria mutabile che si fa da sè ciascuno dei suoi membri o un promemoria di ciò in cui tutti convengono, non contendo di parole: questa dichiarazione sarebbe ciò che io intendo per ricognizione, sarebbe ancora la scienza modesta di un discepolo, e non la sentenza di un' autorità. Dove adunque comincia Œl magisterio, dove l' autorità del civile potere? Comincia con se stesso: egli ha l' intrinseca autorità e necessità di parlare di se stesso, di dichiarare che sia, e quali diritti e doveri provengano da lui agli uomini. Or egli appunto esiste con un diritto che vien dato agli uomini. Dal momento che questi convenuti insieme dicono: I nostri diritti abbiano una rappresentazione conveniente e possibile, la società civile è formata: questo è quel fiat che la crea. Dunque essa è in necessità di dichiarare imprescrittibile questo primo diritto della rappresentazione politica, tanto quanto è in necessità di esistere, ed ecco quale sia la dichiarazione dei diritti che può fare la comunanza, o la società civile degli uomini; ecco qual sia il diritto politico, dal quale comincia il civile potere. Dopo ciò la Commissione, riassumendo quanto fin qui aveva fatto l' Assemblea, propose alla medesima la seguente Dichiarazione dei diritti politici imprescrittibili dei membri della Società civile. «Il diritto imprescrittibile consiste nella rappresentazione politica dei diritti conveniente e possibile. Art. 1 Ogni uomo ha diritto di dare il voto nella elezione del Tribunale politico. Art. 2 Ogni uomo ha diritto di ricorrere al medesimo. Art. 1 I mercenarŒ hanno diritto d' essere rappresentati nell' Amministrazione sociale in corpo. Art. 2 I benestanti hanno diritto d' essere rappresentati individualmente. Art. 3 La rappresentazione è in ragione della ricchezza materiale, fissando il menomo a quel tanto che è necessario pel mantenimento d' un uomo. La proposta dichiarazione fu ammessa ad unanimità. » Gli elettori stabiliti dalla dichiarazione dei diritti politici (Tit. I art. I) formarono il Tribunale politico a maggioranza di voti. La forma di questo Tribunale, per non dilungare qui il leggitore dall' idea generale della società civile regolare, fu da noi anticipata e descritta nel Libro Primo di quest' opera; dalla quale descrizione apparisce maggiormente la reale possibilità del medesimo. Intanto anche le basi qui dettate sono tali, pare a noi, a cui non si può ripugnare, perchè dedotte dalla rettitudine, e non possono aver contro di esse se non se quella ripugnanza, e quasi incredibilità, che gli uomini portano a cosa che loro par nuova: ma ciò che abbiamo detto all' Art. XI debbe provare a qualunque uomo sia ragionevole, che il piano che proponiamo non è una chimera; mentre v' ha un modo di eseguirlo con quell' approssimazione che ivi abbiamo descritto, che è ciò che richiede appunto quella equità che si può dire a giusto titolo la perfezionatrice della giustizia. Proseguiamo dunque lo sviluppo del medesimo piano, torniamo all' ipotesi della nostra Assemblea, ed alla instituzione che supponiamo fatta dalla medesima, secondo gli ordini voluti dall' equità. Il primo lavoro adunque del Tribunale politico si fu di preparare la via alla formazione dell' Amministrazione sociale, coll' instituzione della quale si compiva l' instituzione della società. Giacchè per la dichiarazione dei diritti politici (Tit. II articolo 3) la rappresentazione amministrativa doveva essere in ragione della ricchezza materiale, il Tribunale politico passò a riconoscere successivamente lo stato di tutti gli individui e di tutte le famiglie, e a tal fine fece le seguenti operazioni. 1 Fece un ruolo di tutte le persone, le quali non potevano dimostrare di possedere dei fondi nè esercitare verun' arte mercenaria. 2 Fece un ruolo di tutte le persone che non avendo fondi esercitavano però un' arte mercenaria che dava loro un sufficiente mantenimento, e fornì le medesime di un brevetto, che le collocava nella classe dei mercenarŒ, e dava loro i diritti politici annessi a questa classe. 3 Finalmente rilevò la sostanza in fondi di tutti i benestanti sulle prove da loro offerte, e consegnò loro pure il brevetto della ricognizione di ciò che possedevano. 1) Con queste tre operazioni fatte dal Tribunale politico venivano determinati i diritti politici di tutti i membri della società. Si trovarono distinti quelli che non possedevano altri diritti politici se non la rappresentazione dei diritti dell' uomo; quelli che oltre la rappresentazione dei diritti dell' uomo avevano ancora la rappresentazione dei diritti reali, ma non essendo questi diritti in fondi, ma nell' opera delle loro mani, l' avevano solo in corpo, e non in individuo quali erano i mercenarŒ; e finalmente quelli, che possedendo dei fondi avevano la rappresentazione dei diritti reali completa quali erano i benestanti. Or dovendo venire alla reale formazione dell' amministrazione, s' incontravano necessariamente molti ostacoli, ed i principali erano i seguenti: 1 Se l' amministrazione avesse ricevuto realmente nel suo seno tutti i benestanti, i quali avevano diritto di entrarvi e di più i delegati del corpo dei mercenarŒ, essa sarebbe divenuta così numerosa che non avrebbe potuto senza confusione, o almeno senza una dannosa tardità, spacciare gli affari. 2 Di poi, ciò supposto, non si vedrebbe modo di rendere il peso dei voti di ciascheduno proporzionale alla richezza posseduta. La Commissione, per non confondere l' Assemblea, si restrinse a far osservare alla medesima solo la prima delle due difficoltà sopraddette, e in conseguenza di essa a dimostrare la necessità di restringere il numero degli amministratori. Di che venendo riconosciuto il bisogno evidente, propose come unico mezzo di evitare sì grave inconveniente, che i benestanti ed il corpo dei mercenarŒ non amministrassero già da sè stessi, ma mediante dei loro abili ministri o delegati forniti dei loro poteri e delle loro instruzioni, i quali potevano essere ridotti a quel numero discreto che meglio convenisse alla più spedita ed alla più utile amministrazione degli affari. La proposta di un' Amministrazione delegata ricevuta da principio con favore, aveva poscia eccitato le più gran difficoltà nell' Assemblea, la quale s' era disciolta senza ammetterla nella sessione precedente. Tali difficoltà nascevano perchè sembrava generalmente impossibile, che delegandosi un piccolo numero di persone rispetto a tutti quelli che avevano diritto di entrare nella amministrazione, potesse conservarsi la proporzione fra la forza del voto e la ricchezza. In che modo, si diceva, un delegato il quale rappresenta per necessità molti proprietarŒ di diversa fortuna potrà sostenere così la piccola proprietà come la grande? egli è costretto di trattare la causa di tutto il corpo che rappresenta: nella collisione perciò delle grandi colle piccole proprietà egli non abbandonerà mai quelle per sostener queste; mentre se fossero due i rappresentanti l' uno per esempio piccolo proprietario e l' altro grande, le due cause sarebbero trattate in separato; e sebbene il voto del piccolo proprietario sarebbe più debile, tuttavia unito ad altri piccoli proprietarŒ potrebbe sostenersi anche contro i proprietarŒ più forti, laddove se sì l' uno che l' altro vien rappresentato da un solo delegato questi non potrà giammai essere in contrasto con se stesso, e non potranno perciò formarsi quelle alleanze che sono appunto ciò che garantisce il piccolo contro il grande della società. Tali ragioni erano forti ed erano state prevedute dalla Commissione, la quale nel suo progetto si era proposta di evitare tutte le due summenzionate difficoltà, e s' era riservata di rispondere ai timori dell' Assemblea col progetto che avrebbe presentato nella prossima sessione. Venuta adunque la sessione presente, cominciò dallo stabilire un limite ossia una somma menoma di rendita, la quale considerar si potesse come l' unità nella rappresentazione amministrativa; e ciò a tenore della dichiarazione dei diritti politici. (Tit. II art. 3). Dimostrò che bisognava prendere per quest' unità un termine basso più che si poteva; poichè dovendosi trascurare tutte le frazioni, cioè tutto ciò che era minor di quel termine; questa deviazione dalla rigorosa giustizia doveva esser la minima che si potesse, e l' Assemblea convenne di fissare questo termine alla somma di lire cento. 1) Dimostrò in secondo luogo che ciascun mercenario, qualunque fosse il suo guadagno, si doveva supporre che portasse a lui nè più nè meno di lire cento annuali; perocchè essendo questa la somma menoma, onde si stimi che possa un uomo ordinariamente vivere, qualunque cosa il mercenario guadagna, nulla più guadagna del vitto, che viene ad essere appunto rappresentato nella somma di lire cento. Infatti qualunque sia il guadagno d' un mercenario o lo consuma nel proprio mantenimento o lo mette in fondi. Se lo mette in fondi, egli trapassa ben presto alla classe di benestante; giacchè qualunque suo fondo che gli renda più di cento lire, lo rende anche benestante. Se all' incontro ciò che guadagna lo consuma, egli è alla stessa condizione di quello, rispetto alla ricchezza materiale, che vive con cento lire di entrata; mentre alla fine della giornata, del mese, o dell' anno, ciascuno ha consumato tutto, e sì dell' uno che dell' altro si può dire egualmente, che il loro avanzo è nullo: e che il loro fondo produce il puro vitto senza crescere nè calare. Ciò premesso, la Commissione passò ad indicare il modo, ond' ella credeva che si potesse passare alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la prenotata difficoltà. Disse che conveniva che si congregassero in altrettante Assemblee separate secondo i gradi della ricchezza; che questi gradi potevano essere determinati così: Tutti quelli che possedevano dalle cento fino alle lire mille d' entrata formavano un' Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle lire mille di entrata fino alle dieci mila formavano la seconda Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle dieci mila lire fino alle cento mila lire d' entrata formavano una terza Assemblea. I possessori di cento mila lire d' entrata fino ai possessori d' un milione, formavano una quarta Assemblea. I possessori d' un milione fino ai dieci milioni di lire d' entrata formavano la quinta Assemblea; e così via, se vi fossero persone individuali o morali che possedessero maggior somma. Nella prima Assemblea ogni cento lire si aveva un voto; e il più che una persona potesse avere erano nove voti; tali erano quelle che possedevano dalle novecento fino alle mille lire. Nella seconda Assemblea le mille lire davano un voto; e il maggior numero di voti, che una persona aver potesse era quello di nove; tali erano le persone possidenti dalle nove mila fino alle dieci mila lire d' entrata. Similmente nelle tre altre Assemblee un voto corrispondeva sempre a maggior somma; nella terza a diecimila, nella quarta a centomila, nella quinta a un milione di lire d' entrata, e il maggior numero di voti che una persona in tutte queste Assemblee potesse avere, era medesimamente nove: tali erano le persone che nella terza Assemblea avessero un' entrata dalle novanta fino alle cento mila lire; nella quarta quelle che avessero un' entrata dalle novecento mila lire fino a un milione, nella quinta quelle la cui entrata fosse dai nove fino ai dieci milioni. Ora vedete a che poco nell' ordinamento di tali Assemblee si riduca la irregolarità o deviazione dalla teoretica giustizia; cioè quanto poca sia la proprietà che rimanga senza rappresentazione; ed anche quella poca vi rimane, perchè non è veramente capace del diritto di essere rappresentata. Osservate in fatti che in qualunque fortuna anche enorme, la ricchezza che rimane senza rappresentazione è sempre minore delle lire cento. Supponete in fatti un proprietario di mille e cinquecento lire d' entrata: questi apparterebbe alla seconda Assemblea. Egli è bensì vero che non può avervi che un voto; poichè i voti in tale Assemblea equivalgono a mille lire; ma egli colle sue cinquecento lire ha diritto ancora di farsi rappresentare nella prima Assemblea e di farsi rappresentare con cinque voti; perchè in essa il numero dei voti equivale al numero delle centinaia di lire. Laonde questi non resta senza rappresentazione se non per quella frazione che avesse fra le mille cinquecento e le mille seicento lire. Così parimenti colui che avesse un' entrata di 12 .350 lire entrerebbe nella terza Assemblea con un voto, nella seconda con due voti, e nella prima con tre voti, e ciò che resterebbe senza rappresentazione non sarebbero che le cinquanta lire, le quali non sono rappresentabili, perchè non arrivano a formare il mantenimento di un uomo. Nel medesimo modo ancora colui che avesse d' entrata 123 .450 lire, egli entrerebbe con un voto nella quarta Assemblea, con due nella terza, con tre nella seconda, e con quattro nella prima; e ciò che rimarrebbe anche qui non rappresentato sarebbero le sole lire cinquanta. Finalmente supponiamo che una persona traesse annualmente d' entrata dai suoi fondi 1 .234 550 lire: questa comparirebbe con un voto nella quinta Assemblea, con due nella quarta, con tre nella terza, con quattro nella seconda, con cinque nella prima e di tutta la sua grande fortuna rimarrebbero necessariamente sole cinquanta lire non rappresentate; giacchè formano una frazione dichiarata irrappresentabile. Distribuiti in tal modo tutti i cittadini che hanno diritto all' amministrazione rappresentativa in altrettante decurie secondo i loro beni di fortuna, e secondo questi assegnato loro il numero proporzionato di voti, ecco in qual modo si potrebbe procedere alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la difficoltà che l' Assemblea ha saviamente preveduto. La prima Assemblea ogni dieci voti, ossia ogni decina di centenaio elegge un delegato alla seconda Assemblea. In fatti dieci voti nella prima Assemblea suppongono la corrispondente somma di mille lire: e mille lire equivalgono ad un voto della seconda Assemblea. La seconda Assemblea parimenti ogni dieci voti elegge un delegato della terza Assemblea; perocchè dieci voti della seconda Assemblea rappresentano dieci mila lire; che equivalgono appunto ad un voto della terza Assemblea. Allo stesso modo ogni dieci voti della terza Assemblea essa ha diritto di eleggere un delegato alla quarta Assemblea; poichè dieci voti della terza Assemblea rappresentano cento mila lire, e cento mila lire è appunto un voto nella quarta. Finalmente ogni dieci voti che la quarta Assemblea abbia in sè medesima, essa manda un delegato nella quinta; perocchè dieci voti della quarta Assemblea, supponendo un milione d' entrata, danno appunto il diritto di aver un voto nella quinta. Vediamo adesso un poco quanta sia l' irregolarità dalla giustizia teoretica, che ammette un tal piano in tale esecuzione pratica quale da noi fu descritta. Ciò che nell' ultima Assemblea rimane privo di voto è tutto ciò che rimane al di sotto di un milione; ma egli è da osservarsi che la somma al di sotto di un milione esercitò però la sua forza nella quarta Assemblea; come nella terza influì quanto stava al di sotto di cento mila; nella seconda quanto stava al di sotto di diecimila e nella prima quanto stava al di sotto di mille. Così parimenti se noi imaginiamo una sesta Assemblea, nella quale ciascun voto rappresenti dieci milioni: egli è vero che rimarrebbero nove e più milioni nella nazione senz' essere rappresentati direttamente in essa: ma questi sono stati tuttavia rappresentati quando si trattò dell' elezione di quest' ultima Assemblea, ed hanno esercitata tutta l' azione che potevano esercitare. D' altro lato la non rappresentanza nell' ultima Assemblea di questi nove milioni non porta nissuna disuguaglianza politica fra i cittadini; poichè questi nove milioni non appartengono già a questa o a quella famiglia determinata, ma solo a tutta la nazione, e perciò in questi nove milioni, non rappresentati, ciascun cittadino ha una rata per così esprimermi proporzionata, sicchè, nessuno sconcio ne nasce alla politica proporzione. Stabilite queste basi, noi vedremo subito quanti saranno i componenti dell' ultima Assemblea, cioè della Delegazione dell' Amministrazione sociale , che viene ad essere la suprema magistratura della nazione. Suppongo che la somma di tutta la rendita rilevata dal Tribunale Politico ascenda a quattro miliardi di lire. Or questi darebbero quattrocento delegati nazionali, ciascuno dei quali rappresenterebbe dieci milioni di lire di rendita. Ecco pertanto formata l' Amministrazione delegata, esistendo la quale sarebbe già instituita la civile società, o sia ridotta alla sua attuale esistenza. Ora considerate di grazia come la formazione di una tale Amministrazione delegata eviti lo scoglio da voi temuto, che le piccole fortune sieno dalle grandi oppresse senza che abbiano nella società alcuna voce distinta. Nel piano proposto le fortune sono tutte distinte l' una dall' altra secondo la loro grandezza mediante i voti. I componenti la prima Assemblea, o sia i voti della medesima, rappresentano tanti proprietarŒ tutti eguali di cento lire l' uno. Il delegato che questi mandano alla seconda Assemblea non rappresenta già fortune di diverse specie, ma rappresenta fortune tutte eguali, giacchè rappresenta una decina di voti della prima Assemblea. Così il delegato che la seconda Assemblea manda alla terza non rappresenta allo stesso modo che fortune eguali, cioè dieci stati tutti di mille lire l' uno: parimenti non vi ha delegato nella quarta, nella quinta, e finalmente nella sesta Assemblea ch' egli rappresenti contemporaneamente grandi e piccole fortune, ma tutte d' una stessa misura le rappresenta. Rimane solo da avvertire primamente che se egli v' avesse taluno nell' ultima assemblea il quale possedesse egli solo i fondi necessari per ritrarre l' entrata dei dieci milioni, egli sarebbe membro della medesima, come rappresentante il proprio, e non come delegato delle Assemblee antecedenti. In tal caso l' Assemblea dei quattrocento, cioè quella che amministra realmente la società, verrebbe ad esser mista, cioè composta parte di rappresentanti di beni proprŒ, parte dei delegati delle Assamblee precedenti, i quali non sono che ministri delle Assemblee stesse. La Commissione propose « che ciascuna Assemblea fosse riconosciuta nelle proprie attribuzioni indipendente dall' altra. » Questa era una conseguenza della imprescrittibilità politica già adottata. In fatti l' imprescrittibilità politica consisteva nel riconoscere annesso ad ogni diritto posseduto dall' uomo nello stato di natura un diritto di rappresentazione nella società civile, il quale doveva essere inviolabile come la stessa società e qualunque attentato contro di lui diventava un delitto di lesa sovranità. Perciò ognuno nel modo di farsi rappresentare nell' Amministrazione rimaneva perfettamente libero a differenza della rappresentazione passiva, il primo diritto della quale, cioè il diritto di elettore al Tribunale, era nello stesso tempo un dovere a cui si obbligavano i padri di famiglia. Nella rappresentazione all' incontro attiva, essendo questa un diritto che non aveva nessuna relazione colla giustizia verso gli altri, ma che conteneva solo una utilità propria, ognuno rimaneva libero di esercitarlo o non esercitarlo, sebbene nessuno poteva alienarlo, appunto perchè l' alienazione sarebbe un contratto invalido trattandosi d' un diritto imprescrittibile. Le Assemblee adunque dovevano rimaner libere nella elezione dei deputati da mandarsi alle Assemblee più elevate, sebbene l' Assemblea più elevata potesse citare al Tribunale politico l' Assemblea meno elevata per negligenza nel mandare i deputati, ogni qualvolta potesse provare che ciò fosse nocevole ai suoi membri: non ammettendo il Tribunale petizioni quando non fossero presentate da un accusatore interessato nella causa. Ciascuna Assemblea inferiore dunque aveva essenzialmente ed imprescrittibilmente i seguenti diritti: 1 Di mandare il numero di delegati, che a lei apparteneva secondo la legge, all' Assemblea prossimamente superiore: e questi delegati poteva sceglierli a suo piacimento, a quel modo stesso che un padrone può scegliere i suoi servi. 2 Di fare il contratto con questi delegati secondo le condizioni da convenirsi fra essa e il delegato, e da esprimersi nel mandato del medesimo: condizioni che potevano riguardare: a) Le istruzioni date al medesimo intorno al modo di eseguire il suo ufficio; b) Il tempo della delegazione in quanto può stare in arbitrio dell' Assemblea; c) Lo stipendio da assegnarsi al delegato. Le cause fra il delegato e le Assemblee sono di competenza del Tribunale politico. Così pure ciascuna persona (morale ed individuale) che potesse dimostrare d' essere realmente danneggiata dal delegato, come sarebbe nel caso, in cui si potesse provare o la intenzione di nuocere col suo potere o il tradimento contro l' Assemblea nell' esercizio del potere ricevuto, può richiamarsi al Tribunale politico ed ottenere la mutazione del delegato. Ogni Assemblea inferiore debbe eleggersi un Ministro, le cui attribuzioni sono le seguenti: 1 di convocare l' Assemblea nei casi prescritti dalla legge: 2 Di essere l' organo permanente dell' Assemblea medesima. La Commissione propose, che conveniva stabilire i casi in cui le Assemblee inferiori si dovessero convocare, e fu adottata sopra di ciò la legge seguente: 1 L' Assemblea debb' essere convocata ogni qualvolta muore un suo delegato all' Assemblea superiore per rieleggerne un altro. L' Assemblea superiore è obbligata di dar la notizia della morte al Ministro dell' Assemblea inferiore, il quale appena ricevuta debbe proclamarne la convocazione. 2 Il Ministro debbe pure convocare l' Assemblea ogni qualvolta spira il tempo della delegazione assegnato ad un delegato, perchè sia fatta una nuova elezione. 3 Debbe convocarla ancora ogni qualvolta gli sia dimandata da una maggiorità de' voti componenti l' Assemblea. 4 Finalmente è obbligato di convocarla ogni qualvolta un membro della medesima ottiene dal Tribunale politico, per cagione dei proprŒ interessi, un decreto di convocazione. I membri invitati dal Ministro all' Assemblea, che non compariscono, dichiarano con ciò di assentire ai comparenti: e tuttavia possono essere citati al Tribunale politico se la loro assenza sia pregiudicievole. Rimanevano le difficoltà sull' instabilità dei rappresentanti nelle Assemblee, giacchè il diritto di rappresentazione nelle medesime doveva sempre conservarsi in equilibrio colla ricchezza materiale: la quale è soggetta a continui mutamenti. Ma la Commissione aveva indebolita anche questa difficoltà col principio stabilito, che la giustizia teoretica doveva nelle sue applicazioni pratiche dar luogo all' equità; e tutti gli uomini erano obbligati dalla stessa giustizia a declinare alquanto dal proprio diritto rigoroso, quando ciò era necessario, perchè i diritti di tutti potessero avere contemporaneamente luogo. Essa dunque credette, che si potessero ottenere le deviazioni menome mediante una legge sui mutamenti del numero dei voti a ciascuno appartenenti, esposta nel modo seguente: 1 Ognuno al quale scemino le sue fortune può ricorrere quand' egli voglia al Tribunale politico, perchè gli sia scemata la rappresentazione politica corrispondente. 2 Ogni persona morale o individuale può far una causa simile verso un' altra persona, a cui sieno scemati i beni di fortuna. 3 Ciò che è detto nei paragrafi precedenti per lo scemamento delle fortune, vale anche per il loro aumento; e perciò ciascuno, dato quest' aumento, può domandare per sè o per altri l' aumento corrispondente di rappresentazione politica. 4 L' Assemblea ha diritto e dovere di domandare una nuova ricognizione delle fortune di quelli che sono negligenti nel pagare le imposizioni. 5 I lavori del Tribunale e delle Assemblee sono indipendenti, e quelli dell' uno non possono rallentare quelli dell' altro, per modo che, pendente la causa, ognuno rimane a suo luogo; e nella sentenza è fissato il tempo preciso in cui s' intende cominciata la mutazione. Dopo aver data un' idea del Tribunale politico e dell' Amministrazione, che sono le due parti del Potere Supremo della società civile, mi resterebbe a parlare della Magistratura che è il terzo corpo che forma parte della organizzazione sociale, sebbene egli non sia parte del Supremo Potere. Ma prima di passare a descrivere la Magistratura della società civile, che fingo d' erigere da' suoi fondamenti, mi sembra necessario di chiamar l' attenzione del leggitore sulle traccie del Progetto fin quì da me descritto, sia che si ritrovino negli scrittori antecedenti, o sia nelle costituzioni delle nazioni che fin quì sulla terra sono esistite. Questa disgressione, ben comprendo, che travia qualche poco il leggitore dal diritto cammino, e gli ritarda di poter concepire tutta intera l' idea di Società che io prendo a descrivere: ma questo interrompimento, che nuoce invero al filo delle idee, sarà forse compensato da un maggior avvicinamento che prenderà la Teoria esposta alla pratica, e quindi ella forse gli diverrà più reale nella sua mente, e l' indurrà a prestare più agevolmente fede alla possibilità della medesima. In fatti la prima difficoltà che si presenta alla mente, di chi sente proporsi un' astratta teoria si è la seguente. Com' è possibile che ciò non abbiano mai veduto gli uomini precedenti? come sfuggì a tutte le nazioni e a tutti i loro savŒ, che pure hanno posto i più profondi pensieri ad escogitare tutto ciò che giovar potea l' uman genere, se egli fosse cosa possibile od utile? Io non risponderò già, che dove tale obbiezione dovesse aver luogo in tutta la sua estensione, ella supporrebbe, che non fosse oggimai possibile verun ulteriore progresso al genere umano; perocchè io non penso che uomo me la possa proporre a tempi nostri con tanta estensione. Risponderò piuttosto che anch' io concedo dover incontrare con ragione una prevenzione sfavorevole quella istituzione così nuova, di cui nessuna traccia si rinvenga esser stata prima dei tempi nostri nelle menti e nei costumi degli uomini; ma non essere all' incontro ragionevole di credere che ogni egregia cosa dagli uomini traveduta e cominciata nell' opera sia stata già altresì perfettamente conosciuta e in tutta la sua perfezione eseguita. Ed or questo io credo che sia avvenuto del Supremo Potere della società civile da me descritto. Parmi ch' egli sia stato sempre più o meno chiaramente dagli uomini avvertito; parmi che sempre l' abbiano desiderato, come cosa di cui la natura umana provava il bisogno; parmi che egli sia stato lo scopo d' infinite ricerche politiche, d' infiniti sforzi ed agitazioni della società tendente di conformarsi a quella forma regolare. Parmi insomma che tanto la natura delle cose, quanto le menti degli uomini ci si sieno aggirate d' intorno: queste per formarsene l' idea compiuta, quella per trovare in essa la propria naturale posizione e quiete: ma che sì le menti che la natura non abbiano perfettamente asseguito il termine dei loro sforzi; perchè è legge fermissima, a cui le umane forze soggiacciono, che non ottengano la perfezione dello scopo se non dopo gran tempo, grandi errori, grandi urti: dopo una molteplice insomma e dolorosa esperienza. Del Tribunale politico sono minori le traccie istoriche che dell' Amministrazione. La ragione di ciò si è, che egli si può dire l' ultima perfezione della società, e suppone gli uomini già pervenuti a un grado assai grande di coltura. Oltracciò l' ultima riflessione che fa l' uomo è quella sopra sè stesso: egli è di prima giunta portato a pensare agli altri; questa è la direzione naturale della sua mente: il ritorcersi sopra di sè è una conversione difficile: egli opera senza dubitare di sè, senza pure pensare a sè operante. Perciò vi dovevano essere prima le Amministrazioni della società che il Tribunale politico. Poichè il Tribunale politico non può venire che allorquando l' Amministrazione è arrivata a riflettere sopra sè stessa, a dubitare dei suoi proprŒ giudizŒ; sia che questo dubbio ella giunga a fare spontanea per propria sapienza, sia che ella sia costretta di farlo per le scosse che ella riceve dalle reazioni che ritruovano le sue ingiustizie. Così in fatto troviamo nella storia. Questa ci presenta da per tutto Amministrazioni che operano con gran franchezza e fidanza del proprio fatto, che non dubitano punto di errare, che procedono come fossero infallibili; e che sostengono per gran tempo di esserlo, quando viene loro contrastata questa infallibilità. E se un tale contrasto singolare dura per molto tempo, non è già da credersi che ciò nasca dall' opera sola delle passioni degli uomini: egli si prolunga anzi per l' imbecillità umana come per l' umana malizia: perocchè quella è che impedisce agli amministratori della società di riflettere sulla propria incapacità, e sulla fallacità dei loro giudizŒ e delle loro operazioni. Se noi veniamo osservando la storia delle nostre moderne monarchie, cominciando dalle loro origini nei secoli di mezzo, e giù venendo dietro i loro passi; noi veggiamo come il loro potere si sia venuto rendendo sempre più assoluto, ed indipendente: e veggiamo ancora che ciò è avvenuto per opera di molti abili uomini di Stato, che affezionati ai loro Principi gli hanno serviti del loro avvedimento e della loro destrezza nel maneggio delle pubbliche cose. Si grida contro alla costoro improbità: ma, per quanto io sono persuaso, al tutto senza ragione. Io credo in quella vece, che a questa concentrazione del regio potere abbiano contribuito degli uomini sommamente probi, e forniti delle più pure intenzioni. - Ma essi, si dice, hanno rinserrate le catene dell' uman genere. - A bell' agio! Tornate su loro passi: esaminate le intenzioni dei loro fatti, e muterete opinione. Il potere supremo non era fissato; egli ondeggiava in varie mani: lo Stato era per cadere ogni istante nell' anarchia: la morte del principe, l' ambizione offesa di un nobile, l' ardire di un condottiero, un accidente impreveduto, bastava per rovesciare col trono la società. Questi mali cadevano sotto gli occhi, come cadono sotto gli occhi tutti i disordini delle amministrazioni di più persone, sieno grandi o sieno piccole: sieno le sette, nascenti all' elezione di un sovrano, sieno i tumulti dell' elezione popolare di un curato, ed i piccoli partiti, le discussioni, e gli stravizi, che la accompagnano. L' Amministrazione della società, che si credeva incaricata di difendere la società da tutte le turbolenze e da tutti i mali, ai quali può soggiacere, era ben naturale che si credesse ancora, non dirò autorizzata, ma in dovere di riparare a tutte quelle inquietudini. Ora quale era la strada più breve che a questo fine si presentasse? Quella di far guerra a tutte le amministrazioni collettive, e stabilire un sistema di centralizzazione dei poteri; perocchè ridotto il potere nelle mani di uno, e ridottovi così forte a cui nessuno possa resistere, tutti quei disordini son tolti via, che nascevano prima dall' ondeggiar egli incerto nelle mani di più. Ecco pertanto un esempio luminoso dello scambiare che fanno gli uomini le istituzioni stabilitive colle istituzioni preventive e repressive . Quand' essi nell' istituzione che ha una natura stabilitiva scuoprono alcun abuso, non pensano già di metter a lato della medesima un' altra istituzione preventiva o repressiva che corregga quel difetto; ma si mettono piuttosto ad alterare e snaturare la istituzione stessa stabilitiva perch' ella non si presti all' abuso osservato; non accorgendosi in ciò che l' abuso non nasce da essa stessa, ma è alla medesima estrinseco, cioè nasce dalla malvagità degli uomini che di essa abusano, il perchè a questa si dee por rimedio, e non guastare l' istituzione per sè buona e retta. Ma or ecco come il potere dell' Amministrazione sociale andò per mancanza di lumi rinforzandosi, e tendendo alla maggior possibile indipendenza, anzichè pensare di sottomettersi ad un Tribunale; e ciò fece, pensando forse fare cosa necessaria e buona, credendo eseguire la sua missione, quella di difendere la società. - Ma si ripete, chi tolse via quei mali dalla società, rendendo più fermo ed indipendente il poter supremo, rese questo più arbitrario e più insopportabile. - Appunto: ma ciò senza accorgersi. - In che modo? - Perchè l' Amministrazione nel tempo ch' ella vedeva i disordini, che si credeva in debito di torre via; non sospettava menomamente di sè stessa: non rifletteva sulla propria fallacità; gli amministratori insomma della umana società non pensavano d' essere uomini, ma solo d' essere amministratori. - Ma non è questa stessa una colpevole ignoranza? - Piuttosto un inganno della stessa natura umana, che ha bisogno d' essere scossa replicatamente e fortemente prima che dubiti di sè stessa. Gli amministratori della società accorrono a porre rimedio ai mali che veggono cagionarsi da' soggetti, all' incontro i soggetti si lamentano con altrattenta prontezza dei falli degli amministratori. E` facile ai soggetti lamentarsi degli amministratori, appunto perchè essi sono collocati in luogo da vederne i vizŒ altrettanto quanto poco sono in istato da vedere i proprŒ. Per quella stessa ragione che dicevo l' uomo non portare lo sguardo sopra di sè per dubitare di ciò che fa, se non tardi e trattovi quasi a forza. Il perchè è al tutto indiscreta la severità con cui si giudica dei superiori; esigendo ch' essi veggano i proprŒ errori altrettanto come li vede chi è da loro diviso: perocchè ciò è contro le leggi della umana natura. Egli è da ciò stesso che si spiega il seguente fatto. Il soggetto si lamenta dell' amministratore sociale. L' amministratore riguarda questo lamento come una colpa, come un' insubordinazione. Ma il lamento non è già portato contro l' autorità dell' amministratore, ma contro il male ch' egli fa colla medesima. Tuttavia l' amministratore non è disposto a considerarlo sotto questo aspetto, per quella stessa ragione, che non è disposto a considerare sè stesso come un uomo fallibile, essendo per accidente amministratore; ma è anzi disposto a considerarsi solo come amministratore. Qualità questa che astrattamente presa non annette già l' idea di imperfezione e di fallibilità, che resta tutta propria dell' uomo che amministra. Egli è inclinato a considerarsi piuttosto nella sua qualità d' amministratore che nella sua natura di uomo, perchè l' amministrazione è cosa esterna, che termina fuori di lui, per vedere la quale non ha bisogno, dirò così, che di uno sguardo del suo occhio in direzione naturale. Mentre a considerare sè stesso come uomo amministrante ha bisogno di ritorcere lo sguardo quasi contro natura, ed a fissarlo in sè stesso. Il perchè nel lamento dei soggetti contro di lui egli vede più facilmente e più naturalmente una opposizione ed una reazione alla sua autorità, che non sia un' avvertenza dell' errore ch' egli prende come uomo soggetto a fallire. Egli è vero, che le passioni umane, l' amor proprio, e l' avidità si mescolano da per tutto; ma non si può negare che le stesse leggi dello spirito umano conducano l' uomo a dubitare anzi di altrui che di sè stesso. Ed é perciò, che un amministratore della società nello stato naturale può essere inclinato di tutta buona fede ad aumentare ed afforzare l' autorità nelle proprie mani, persuaso di tor via in tal modo molti disordini con un' autorità piena ed assoluta, senza accorgersi nè sospettare de' mali ch' egli stesso per ignoranza o per passione, e quelli che a lui subentreranno nell' Amministrazione, possono produrre colla detta autorità. Vedete quello che nasce nel caso di una rivoluzione: prescindendo dai secondi fini che operano nella medesima. Si dice che il Sovrano era colpevole, che la sua Amministrazione era pessima. Se ne instituisce dunque un' altra, ma ben presto, atterrata anche questa, ne sorge una terza per vendicare i delitti della seconda. Nel fermento delle opinioni e nella prontezza e temerità dei giudicŒ si condanna ben presto la terza, come si condannò le due prime, per instituirne una quarta; e si succedono incessantemente i riformatori della nazione agitata. Ora onde viene questo gioco e questa vicenda, se non da un simile corso d' idee che fa lo intendimento umano, per cui l' uomo assai prima di giudicare di sè stesso giudica degli altri, e trovando sempre i difetti in quelli che amministrano la società non sa neppure dubitare ch' egli stesso trovandosi nel loro posto potrebbe cader negli stessi errori; ma anzi si lusinga che tutte le sue idee sull' Amministrazione sociale sieno giuste, che porterebbero la felicità nazionale, e che corrisponderebbero ai doveri dell' Amministrazione? Si sono veduti sempre quelli che prima di arrivare all' Amministrazione sociale gridavano contro il dispotismo e gli sforzi degli amministranti per aumentare il grado di potere nelle loro mani, pervenuti essi stessi all' Amministrazione aver fatto assai di più, non avere il menomo dubbio di far bene a tirare nelle proprie mani la più gran potenza, ed a comprimere colla più gran forza arbitraria che aver potessero tutti quei movimenti che venissero fatti contro all' Amministrazione. Egli non debbe adunque far meraviglia se si è quasi sempre veduto nelle società cercare da quelli che avevano in mano il potere la più piena indipendenza, mentre ciò non solo è conforme alla passione di dominare, tanto propria dell' uomo; ma all' indole stessa dell' umana natura, per cui l' uomo crede non esserci niente da temere da parte sua, ma solo da parte degli altri; e così gli amministratori nulla credono che vi sia da temere se l' Amministrazione è forte. I Principi nulla credono che vi sia da temere se la loro potenza sempre più si rende indipendente; anzi non la riguardano se non come un mezzo di fare un bene maggiore, senza pensare neppure alla possibilità che essa potesse essere istrumento di male. Per venire a quest' ultima riflessione, che può solo dar luogo al Tribunale politico, si esige dunque non solo che i Principi sieno retti e buoni, ma ben ancora che sieno ammaestrati da una lunga esperienza, la quale li faccia pensare sopra sè stessi. E non fa però meraviglia, se fino a qui solo delle incerte traccie si ravvisino essere state di consimile instituzione. Ed anche queste poche ed incerte traccie dalla parte del popolo si osservano. E così doveva essere, perchè il Tribunale politico è per il popolo; egli è necessario unicamente per difendere il debile contro il forte, la minorità contro la maggiorità. Prego il leggitore di considerare come tutto si trovi legato nel sistema da me proposto, e come i principŒ sieno conformi alla natura delle cose. Io ho cercato un sintomo che ci faccia conoscere quando venga leso il diritto in un uomo; e l' ho trovato nel risentimento morale; il quale risentimento quando gli uomini sono nello stato di natura porta la pretesa di risarcimento, cui l' offeso verifica per le vie di fatto se l' offensore non si muove spontaneamente a dargli soddisfazione. Il risentimento adunque, sintomo del diritto violato, è la ragione per cui gli uomini vogliono che sia resa loro giustizia; egli è dunque la causa movente della giustizia privata nello stato di natura, e della giustizia pubblica o sia dell' istituzione dei Tribunali nello stato di società civile. Applichiamo il risentimento al Tribunale politico; e veggiamo se il popolo risentitosi delle offese degli amministratori abbia chiesto e resosi com' ha potuto contro di essi ragione. Egli è evidente che questa è la cagione vera o pure il pretesto di tutte le ribellioni: queste nascono perchè il popolo si risente delle offese che vengono a lui fatte dagli amministratori della società, o che gli si dà ad intendere che gli vengono fatte: egli chiede giustizia; ma non trovando alcun Tribunale che gliela renda fa al modo stesso che fanno gli individui fra loro fino che si trovano nello stato di natura; decide e si rende ragione da sé. Esiste adunque sempre nel fatto e per la natura delle cose un Tribunale per gli affari politici, come esiste sempre per la natura delle cose un Tribunale per gli affari privati. La sola differenza fra il Tribunale politico istituito appositamente, e il Tribunale politico naturale, per dir così, si è quella che passa fra il Tribunale per gli affari privati nello stato di natura, e lo stesso Tribunale nello stato civile: nel primo stato è l' individuo o la famiglia quella che giudica in propria causa e che eseguisce la sentenza, mentre nel secondo stato il giudice è distinto dall' offeso, è comune a tutti, e dell' esecuzione della sentenza s' incarica la forza comune. Così pure fino che il Tribunale politico non è istituito, il popolo è il giudice di fatto, egli è giudice in propria causa ed esecutore della sentenza: quando s' instituisce un Tribunale politico apposito, allora il giudizio è dato ad un terzo a cui di concordia le parti si rimettono. Un tribunale adunque sempre esistette di fatto, come mostrano tutte le storie per gli affari pubblici; come sempre esistette un Tribunale per gli affari privati, mentre sì l' uno che l' altro è fondato nell' umana natura come in essa è fondato il risentimento all' offesa , risentimento che è un effetto immediato dell' idea di giustizia , così necessaria dell' umana natura come necessaria è ad essa la ragione . Ho già osservato che il governo preso nella sua nozione astratta, è un benificio comune, e non un aggravio, che perciò ciascuno può prenderne il possesso se trova il posto vacuo, alla stessa guisa come ciascuno può occupare un disoccupato terreno. Ma riducendo questo principio alla pratica difficilmente si verifica, perchè nella pratica vi si mescolano le ignoranze e le passioni umane. Perciò sono assai rari i casi di popoli sottomessi all' occupante, senza che questi abbia avuto bisogno della forza. Questa difficoltà a lasciarsi governare, in popoli non guasti ancora da idee filosofiche, ma forniti solo della filosofia della natura, è il risentimento , sintomo dell' offesa ricevuta. Ho ancora osservato nella prima parte la cagione per cui l' antichità amava tanto le Repubbliche. Non si era giunto a distinguere la modalità dei diritti dai diritti stessi: non si conosceva adunque il preciso oggetto del governo: governare la società non era per essi regolare la modalità di tutti i diritti, ma era regolare i diritti di tutti: o almeno queste due cose si confondevano nel fatto; e contribuiva a tale confusione l' estensione che prendeva la modalità stessa dei diritti 2) in un tempo, che il fine delle guerre ognor minacciate era l' esistenza, o la distruzione di un popolo. [...OMISSIS...] Anzi perciò appunto era Sovrano e Legislatore perchè estendendosi tanto la sovranità, 2) questa sarebbe stata insopportabile, concentrata nelle mani di un solo, ad un popolo che ritenesse qualche vita morale: il risentimento morale adunque questo naturale giudice delle offese era quello che determinava la stessa forma repubblicana di governo, e colla forza comune realizzava nel fatto la sua sentenza. Quando un uomo solo si fece arbitro dell' imperio romano, si può dire che la virtù era per annientarsi e con essa la luce della verità. La mancanza della prima rendeva gli uomini atti alla schiavitù, e non erano più suscettibili, si può dire, di offese morali, ma solo di offese fisiche poco diversamente da' bruti. Perduta colla morale la intelligenza, in luogo di un Tribunale e di un giudizio politico, si vede un atroce irritazione di tutti gli elementi della società, che non tendono nè di fare altrui nè di rendersi a sè giustizia, ma di distruggersi scambievolmente. Ricomparisce il Tribunale politico ancora in uno stato naturale, cioè unito al risentimento della società offesa, all' uscire che fanno dal caos del medio evo le moderne società. Ma la religione ha diminuite le passioni dei governanti, e ha dato, sì ad essi come al popolo, idee più esatte di giustizia. In tal modo diventa possibile la Monarchia: il Cristianesimo solo rese questa forma di governo tollerabile non solo, ma carissima alle nazioni. In che consiste questa mutazione della Monarchia, la quale era tanto odiosa all' età pagana nella sua parte più colta, e tanto cara all' età cristiana nella colta Europa? Un grand' uomo n' ha notata la differenza con gran verità: « « I re abdicavano il potere di giudicare da per se stessi. »1) » Fu questa l' opera della Religione divina. Ed il principio che adoperò questa Religione per operare un tanto mutamento di cose fu quella massima: « « Per me regnano i re: »2) » la massima che fa conoscere avervi sopra tutti i re della terra un Tribunale, una giustizia, un Monarca, a cui rendere il conto delle arbitrarie sentenze. Conviene concedere in fatti che questo è un principio fondamentale della Religione cristiana, che questo principio lo fa sentire incessantemente: che l' ha già impresso in tutti gli uomini di Europa. Ma saremmo assai lontani dal vero, credendo che questo fecondo principio abbia ricevuto tutto il suo sviluppamento, che la sua influenza abbia ottenuto tutto ciò che egli può ottenere. Si può ben dire ch' esso sia ridotto quasi interamente nella pratica dei negozŒ civili, ma siamo ben lontani da ciò nei politici; questo è quanto gli rimane di fare. L' autore citato dopo aver indicato il carattere della presente Monarchia europea nell' abdicazione che fecero i re del potere di giudicare per sè stessi, osserva che i popoli in contracambio dichiararono i re infallibili ed inviolabili. Così è in fatto. E sarà pienamente, quando pienamente i Re avranno abdicato un potere che esclude essenzialmente l' arbitrio; e che è tanto venerabile e divino quant' è più sicuro interprete e sacerdote della giustizia un potere che è augusto non pel ministro che lo esercita, ma per sè stesso. I popoli non avendo da temere più nulla dai re, abdicano anch' essi naturalmente il potere di giudicare da sè e di farsi giustizia: in tal modo i re ed i popoli pienamente cristiani eseguiranno il precetto: «Non giudicate e non sarete giudicati. 1) » Ma giova vedere il lento corso pel quale la società cristiana tende a tanta perfezione. Il primo passo fu quello di rendere possibile la Monarchia fondandola sulla giustizia, e restringendola per conseguente a non disporre che della Modalità dei diritti. Ma questa Monarchia ancor bambina doveva essere educata, e fino che nol fosse, doveva ritenere degli antichi costumi. La società parimenti doveva nella stessa ragione tenere presso di sè il Tribunale politico. Vediamo come ne faceva uso nei casi ordinari. Le parti del popolo, dice il Sismondi parlando delle forme di governo dei popoli settentrionali del medio evo « « erano quelle di sanzionare o rigettare le proposizioni del principe colle acclamazioni. »2) » Ecco il passo dall' antica alla nuova forma di governo: nell' antica non poteva essere legislatore che il popolo: nella nuova il popolo non è più legislatore ma il Monarca, egli si riserva solo di approvare le instituzioni se sono tali che non suscitino in lui il risentimento morale; e se all' incontro sono tali che il suscitino, di manifestarlo e di riprovarle. Ed ecco la Monarchia europea nella sua prima età: essa non é propriamente limitata nel suo potere di regolare la modalità dei diritti, che è ciò che forma la sua natura; ma vi intervengono gli abusi; le passioni e le ignoranze operano ancora e spingeranno talora il sovrano a passare il suo confine: il popolo adunque dovea risentirsene. Alcuni teoristi crederebbero che tale costituzione fosse concertata. Niente affatto. Ella nasceva dalla natura della cosa. La società si lascia governare (quand' ella non sia corrotta da false dottrine) ma non si lascia offendere: la sua reazione, adunque, o sia l' esercizio dei giudizŒ politici, è tanto maggiore quanto essa viene più frequentemente offesa; e l' autorità del governante per conseguente è più libera ed indipendente quanto meno offende, e più rigorosamente opera la giustizia. Egli è anche inutile ricercare se la società ha il diritto di reagire contro chi la governa: perchè basta sapere come sta la cosa nel fatto; e si potrà conoscere che così fu sempre, e che sarebbe contro la natura delle cose supporre il contrario. In fatti la natura si risente quando viene offesa: potrebbe egli darsi il caso che un popolo venisse tutto intero distrutto senza ch' egli mostrasse il minimo risentimento? Or non è già questo un caso ipotetico: un popolo naturalmente sta quieto quando può vivere, ma si risente per buttare da sè quelle leggi, e quegli ordini sotto dei quali egli non potrebbe vivere: per quanto possa essere grande il suo eroismo nella tolleranza, quando non possono più andar le cose, debbono cadere. Le modificazioni adunque della Monarchia assoluta cristiana sono tutte da ripetersi dalla sua propria imperfezione; la sua natura rimane sempre la medesima cioè quella di essere un potere supremo ed universale, e per ciò stesso illimitato fino che non esce dal suo oggetto, ed i temperamenti che si trovano posti alla medesima nel medio evo non consistono che nel giudizio popolare ecclesiastico dato in diverse forme; cioè o tumultuosamente o in Assemblee stabilite, o da tutto il popolo, o dalla classe dei Nobili. Sulla bontà della Legge, od istituzione sovrana, si riconobbe con ciò, che l' unico temperamento che poteva ricevere la Monarchia assoluta senza snaturarla non dovea essere già uno smembramento della sua autorità; ma bensì un Tribunale che lasciandola libera di fare quelli atti ch' essa credeva, li giudicasse: giudicasse cioè s' essi si contenevano nell' oggetto del Potere monarchico, o se il trapassava: se si contenevano in quello non era d' aggiungere altro: se feriva all' incontro i diritti, potevasi contro all' atto posto reclamare. 1) Più tardi alcuni s' occuparono del progetto di una pace perpetua che doveva appunto eseguirsi mediante la instituzione di una specie di Tribunale politico: e sono noti i progetti di Enrico IV e dell' abate di Saint7Pierre. Leibnizio che credeva la cosa possibile fece delle eccellenti osservazioni sul progetto di Saint7Pierre. 1) Questi proponeva due modi di fare il Senato cristiano o il Tribunale di cui parliamo; nell' uno l' Imperatore coll' Impero romano allora esistente doveva formare un solo membro ed avervi una voce sola; nell' altro si proponeva di torre via l' Impero romano, e all' Imperatore si dava parte in quel Senato unicamente come Sovrano ereditario, e ciascuno elettore aveva pure la sua voce a parte. Leibnizio ritrova il primo modo più secondo la giustizia, conservandosi per esso i diritti ben fondati dell' Impero. 2) Ognuno però vede che simile progetto è ben altro dal Tribunale politico da me proposto. Egli lo voleva fatto per regolare i negozŒ fra' Principi e togliere le guerre; e non aveva in vista la protezione dei popoli o il miglioramento delle costituzioni degli Stati. Bensì dei due modi proposti, cioè in quello, in cui l' impero veniva conservato, i popoli pure conservavano a cui avere ricorso ne' loro mali, cioè la Camera imperiale; e perciò trovavano qualche specie di Tribunale contro ai loro Sovrani; nuova ragione perchè il buon senso di Leibnizio preferisce questo all' altro piano. 1) E qui è osservabile nuovamente il progresso che aveva effettivamente fatto la società cristiana, coll' istituzione dell' Impero romano7germanico, verso il Tribunale politico di cui parliamo, e che noi grazie alle false teorie politiche dei nuovi tempi abbiamo perduto: voglio dire appunto quel principio di Tribunale politico, che si trovava già presso l' Imperatore in favore dei popoli. Questo era certamente un passo notabile verso l' erezione del politico Tribunale, ed una nuova prova che questo Tribunale lungi d' essere una chimera è anzi quel fermo scopo a cui tende continuamente la cristiana società. Tuttavia nell' Impero, ai nostri giorni estinto, non era ancora il Tribunale voluto. Egli aveva il difetto d' essere un Giudizio posto nelle mani di un uomo che era insieme Amministratore della Società, e fornito di fisica forza; unione contraria, come vedemmo, all' indole del Tribunale proposto. Poichè l' essenza di questo Tribunale è tutta morale; e colla forza morale egli debbe sostenersi; ed i giudizŒ suoi debbono essere puramente regolati dalla religiosa coscienza. Nell' Impero all' opposto gli interessi della famiglia imperiale erano troppo mescolati coll' ufficio di rendere una tanta giustizia. 1) Leibnizio conobbe assai bene quanto era necessario che un simile Tribunale godesse piena libertà, e non dovesse appoggiare i suoi giudizŒ che sulla pura coscienza; e quest' era altra ragione di tenersi fra i due modi difettosi, come al meno imperfetto, piuttosto al Tribunale dell' Impero, che ad una Dieta od Assemblea di Ministri dei Sovrani della cristianità. Anzi questa Dieta non potrebbe essere al tutto un vero Tribunale: non sarebbe che una unione di avvocati, ciascuno dei quali perorerebbe in favore del Principe che lo stipendia; e si converrebbero insieme per accidente, cioè secondo le istruzioni ricevute dai loro mandanti, e secondo il carattere loro personale di difficile o di buona volontà. L' amovibilità pure di tali ministri basterebbe a sconciare ogni buon avviamento; i quali difetti si evitavano col Tribunale della Camera imperiale, almeno in parte; ma essa stessa poi dipendendo dall' Imperatore non si rimaneva dall' essere ragionevolmente sospetta. 1) Fra tutti i concepimenti politici fin qui fatti dagli scrittori o dai Principi, quello che più si avvicina al Tribunale da me proposto, per quanto è a mia notizia, è di Giovammaria Ortes. Non sarà forse discaro ch' io esponga brevemente il pensiero di quest' acuto ingegno, meno forse ch' egli non merita conosciuto. 1) Egli muove il suo ragionamento da una analisi della natura della società civile; ed ecco com' egli ragiona intorno alla medesima. Nell' uomo havvi una ragione comune ed una ragione particolare . La ragione comune risulta dalle verità salutari che tutti gli uomini debbono unanimemente ammettere ed assentire per la comune loro felicità: verità morali, ossia di giustizia, per le quali vengono assicurati i diritti di tutti gli uomini egualmente senza parzialità a veruno: giacchè il vero ed il giusto è cosa comune ed indipendente da' particolari interessi. La ragione particolare all' incontro consiste in quegli ingegni ed argomentŒ che ogni uomo adopra in favore del suo peculiare interesse, giacchè ciascuno per l' innato amor proprio, parte della propria essenza, cerca la propria felicità. 2) Ora la ragione particolare è soggetta a venire in collisione assai volte colla ragione comune: giacchè l' uomo talora per troppo amore di sè stesso cerca il proprio bene senza ricercare quello degli altri uomini, e perciò infrangendo le leggi della giustizia e della ragione comune che i diritti di tutti egualmente protegge. La ragione particolare la quale assaliva in tal modo la ragione comune, faceva ciò con una forza particolare, cioè colla forza dell' individuo che ingiuria i suoi simili, e in essi la comune ragione. Era dunque necessario che si pensasse di riunire insieme le forze particolari e di formare in tal modo una forza comune per venire in sostegno della ragione comune che veniva continuamente assalita e violata dalla forza particolare. Ma dove esiste ella la ragione comune? come si può ella conoscere? non già col giudizio di ciascuno uomo particolare; perocchè non si saprebbe giammai se il suo giudizio provenisse dalla ragione sua particolare o dalla comune: oltre di che i particolari non vanno giammai d' accordo fra loro: e qui trattasi appunto di difendersi contro la ragione particolare. [...OMISSIS...] Ora la difesa della ragione comune è lo scopo della società civile: ella dunque viene formata dalle due parti necessarie per ottenere tale scopo, l' instituzione di un Tribunale che stabilisca la ragione comune, e la instituzione di una forza comune che la difenda. Ma potrebbe darsi un Ministero che simulasse di rappresentare la ragion comune, ed una forza comune, che simulasse difenderla; ma che veramente quel ministero non avesse in vista che di difendere e promuovere la ragione particolare, e abusasse a tal fine della forza comune. In tal caso, dice l' Ortes, non si avrebbe un governo vero ma un governo falso; perocchè simulerebbe di proteggere la ragione comune e non lo farebbe. Che cosa è dunque necessario per assicurarsi quanto è più possibile che il governo sia vero? E` necessario che questi due ministerŒ della ragione e della forza comune sieno divisi l' uno dall' altro, indipendenti l' uno dall' altro, supremi sì l' uno che l' altro. 1) Ma sentiamo come ragiona sopra di ciò l' Ortes medesimo. [...OMISSIS...] Nasce come corollarŒ di questi principŒ, che questi due ministerŒ sieno due parti essenziali del governo civile indipendenti fra loro e supreme egualmente, e che dalla loro concordia solamente possano i popoli giudicare se è vero o falso il governo. E` impossibile tor dal mondo tutte le violenze, tutte le usurpazioni. Quanto mai si può desiderare si è solo di avere un criterio ragionevole e più certo che sia possibile per conoscere quali atti sieno violenze ed usurpazioni: i popoli non possono pretendere di più; e non v' ha mezzo migliore per ottener ciò quanto è possibile, che la dichiarazione di un Tribunale appositamente stabilito per rappresentare e dichiarare la comune ragione. Ammessi tali principŒ passa l' Ortes ad analizzare le varie società civili e conchiude esser questa divisione di potere morale e fisico scopo del vero cristianesimo, e trovarsi ben avviata nelle società cattoliche; retrocessa e distrutta all' incontro nelle protestantiche e nelle altre accatoliche nazioni, dove la Chiesa non è libera o non divisa dal principato, ma ad esso soggetta o con esso incorporata. Perocchè la sua opinione sarebbe, che questo Tribunale politico riconoscer si dovesse nelle mani della Chiesa, la quale sembra fatta a ciò dalla sua stessa natura, mentre la sua natura è certo quella di esser il centro regolatore della forza morale; nè certo v' ha altro corpo a cuì meglio possa convenire tale incombenza che a lei. Egli è per questa natura della Chiesa, assai profondamente da lui intraveduta, che spiega l' occasione di quella calunniosa imputazione che a lei danno i suoi nemici, ch' essa si mostri ambiziosa di dominare e di disporre nelle cose temporali. Egli è vero che la Chiesa per sua natura ha un' influenza nelle cose temporali, ma l' Ortes vuole che accuratamente si distingua in che consista questa tendenza, la quale fu occasione fino dal nascere della Chiesa delle calunnie che a lei diedero i pagani. I cristiani, dice l' Ortes [...OMISSIS...] Egli è mediante quest' osservazione che si può giudicare con equità la condotta tenuta sempre dai Papi verso i Sovrani. Vi sono due partiti divisi nelle opinioni le più contrarie sopra tale condotta. Un partito grida: « l' ambizione e l' avidità dei Papi vorrebbe ingoiare tutti i regni della terra. »Un altro partito grida al contrario: la « magnanimità e il disinteresse dai Papi mostrato costantemente nei negozŒ temporali, che hanno trattato coi principi, è così nobile e sublime che non si può attribuirlo, considerando le occasioni che ebbero d' ingrandirsi, se non alle forze morali di una religione divina. »Onde sì grande differenza di opinioni in giudicare degli stessi fatti? la sola empietà, o il solo fanatismo religioso può acciecar tanto gli uomini? La ragione d' una tanta varietà di giudicŒ sui fatti stessi è la seguente. La sovranità ha riunito in sè medesima o ha voluto ritener uniti i due poteri supremi: 1 di giudicare sulla giustizia nella propria condotta politica; 2 di realizzare quella condotta politica che le sembrava migliore, ossia di amministrare la società. Ora così distinte queste due attribuzioni, o per dir meglio questi due rami del supremo potere, s' instituisca la questione così: « Hanno tentato i Papi di tirare a sè l' Amministrazione delle società civili? »Convien rispondere: « Non mai: egli è in questo che hanno costantemente dimostrato il più grande disinteresse e la più sublime generosità di operare, lasciando ai principi tutta intera la civile loro amministrazione. »Si domandi ancora: « Hanno ì Papi voluto giudicare della giustizia delle azioni politiche, o sia hanno essi voluto entrare in questo ramo del supremo potere politico? »E si risponda: « Sì, lo hanno sempre e costantemente voluto: questo doveva risultare dalla natura della religione cristiana a cui essi presiedono: di una religione cioè che ha fissato un centro della forza morale distinto al tutto dal centro della forza fisica. »Egli è questa distinzione che sparge la più gran luce sulla condotta dei Papi, e che fa giudicare rettamente di essa. [...OMISSIS...] Ecco il carattere naturale in politica del Capo della Chiesa: non è già quello di essere amministratore dei popoli, cosa che i Papi non hanno mai cercata, e spesso rifiutata, o tenuta a studio lontana da sè; ma bensì di essere Giudici dei Principi cristiani. La malignità e la malafede dei nemici della Chiesa può confondere queste due cose l' una coll' altra; ed è mediante questa confusione che diffonde tenebre per coprire agli occhi dei popoli la luminosa condotta dei Papi, e per ingannare i Principi cristiani. Dio voglia che questi ritornino alla sapienza dei loro avi, da cui hanno ricevuto le loro corone gloriose e santificate. Sono poche le verità di pubblico giovamento che non sieno state intravedute dalle nazioni. Ma non basta che sieno intravedute all' occasione di qualche fatto particolare, se non sono ancora generalizzate, e ben distinte per modo che non si possano confondere le une coll' altre. Fino che le utili verità non ottengono questa distinzione, direi quasi questo isolamento dalle altre verità affini, e che non si sollevano dai casi particolari, non possono divenire fondamentali principŒ della Civile Società. Prima di questo stato di distinzione le verità sono percepite dalla mente umana confuse insieme, per modo che di molte si fa una sola percezione oscura e molteplice, la quale però è l' embrione che bel bello si spiega e discioglie in tutte sue parti. Ma fino che più verità sono percepite come fossero una sola, queste si fanno occasion di sofismi e di perniciosi errori attribuendo ad una verità quello che è proprio di un' altra. Di errori prodotti per una simile cagione noi troviamo esempio appunto nel concetto del supremo potere della città, e per una naturale conseguenza ancora nel concetto della cittadinanza . Fino che il supremo potere si percepisce come una potestà sola , si cadrà sempre nei falsi ragionamenti; poichè quando nel caso particolare se lo considererà come giudice nel campo della giustizia politica, allora si attribuirà a questo potere giudiciale ciò che è proprio del potere amministrativo , e viceversa; per cui non s' avrà mai la chiara distinzione fra i due poteri. E da ciò si vedrà come sieno nate le diverse opinioni sulla natura della cittadinanza. Voi sentite alcuni che dicono: « « Le donne, i ragazzi, i servi, gli abitanti a tempo ed i forestieri, non sono cittadini. 1) » Voi sentite altri all' incontro volere ammesse le femmine alla cittadinanza, ed altri portare tanto innanzi la cosa da volere « che tutto ciò che spira sia rappresentato nella città. »2) La ragione di queste due sentenze non è che questa: quei primi considerano il supremo potere solo come una amministrazione: questi secondi lo considerano solo come un giudizio politico. Ma schiarite un poco l' idee. Dividete i due poteri, giacchè sono essenzialmente distinti; e riconoscete nella società: 1 Un' amministrazione della modalità di tutti i diritti; 2 Un Tribunale politico che giudica fra gli amministratori , e gli amministrati , e che difende la minorità contro la maggiorità . Cessa allora tutto ciò che v' ha di oscuro e di dubbioso in quella questione. Ed in fatti: Per chi è fatto quel Tribunale politico? Per tutti quelli che possono essere offesi. Dunque tutti quelli che possono essere offesi, e che entrano nella convivenza, sieno anche donne o fanciulli, ne hanno interesse, e debbe pender anche da' loro voti, o di chi fa per loro, la formazione del medesimo. All' incontro per chi può esser fatta l' Amministrazione? Non per altro, come abbiamo dimostrato, che per quelli che hanno dei beni amministrabili in comune, e per i quali l' Amministrazione può mantenersi. Dunque nell' Amministrazione non può aver voto che chi possiede di tali beni. Consegue da ciò che come due sono i supremi poteri della Società, così sono parimenti due le specie di cittadinanza, o i modi di entrare nella comunanza civile, alla prima delle quali « tutto ciò che spira, fornito che sia di ragione »appartiene. Noi però lasciando a questa qualità civile, che abbiamo indicata anche col nome di rappresentazione passiva , il titolo di cittadinanza; chiameremo l' altra con quello di Amministrazione; e il membro della medesima potrà dirsi cittadino amministratore . Sembra che Solone abbia traveduta la natura diversa che ha un tribunale di giustizia , ed una Amministrazione; poichè mentre volle che non si potessero eleggere i magistrati che dalle prime tre classi del popolo, nelle quali aveva collocati i cittadini agiati; permise che i giudici si potessero prendere egualmente dalla quarta, nella quale si trovavano i cittadini più poveri. 1) Ma egli non applicò quest' idea a nessun Tribunale politico, perchè egli non era arrivato a concepirlo. I Romani pure non seppero sollevarsi a quest' idea essenzialmente morale, che non poteva essere che suggerita dal Cristianesimo. Dico che l' idea del Tribunale politico è una idea essenzialmente morale; perchè non può essere il frutto che dell' amore della pura giustizia. Perchè gli amministratori e gli amministrati si sottopongano unanimamente ad un Tribunale, bisogna che amino il giusto, e abbiano sinceramente rinunziato a tutto ciò che potrebbe loro approdare la frode, la perfidia la violenza. A tanto non possono pervenire che nazioni rigenerate alla giustizia dell' Evangelio. Tutto ciò a cui si sono potuti elevare i romani si fu di staccare l' elemento intellettuale dall' elemento sensibile e individuale . Ciò fecero collo stabilire un Senato che fosse come la mente della Repubblica: e come tutto ciò che fecero nella Società civile il portarono ancora nella società domestica che era presso di loro secondo Livio una piccola Repubblica 1) così divisero pure le famiglie in patroni , e clienti; perchè quelli aiutassero questi coi loro lumi, e fossero quasi i consiglieri e direttori di questi: ma dopo di ciò non giunsero a staccare l' elemento morale dall' intellettuale; ma il lasciarono confuso coi due primi. 2) Egli è vero che il Senato romano divenne ben presto l' arbitro delle questioni che insorgevano fra i Re; ma quest' era piuttosto un effetto della sua prevalente potenza unita ad una fama ben meritata e sostenuta per gran tempo di naturale giustizia anzi che il Tribunale di cui parliamo: perciocchè il primo scopo del Tribunale di cui parliamo sta tutto nell' interno della Repubblica, essendo il giudizio fra gli amministratori e gli amministrati. Egli è così lungi che i romani pensassero che il governo dovesse essere giudicato, che il riputavano anzi il fonte della giustizia, ed il padrone delle sostanze e di tutti gli altri diritti privati dei quali egli disponeva liberamente, secondo il costume degli antichi governi come fece a ragione d' esempio colla legge Voconia colla quale si privavano le figlie della eredità, eccetto il caso della figlia unica. 1) Ma veniamo all' Amministrazione; cerchiamone le traccie storiche. Spero che queste confermeranno la teoria espressa presso gli spiriti non prevenuti; e la riconosceranno non già come un' aerea fabbrica quale suol uscire da una mente che spazia fra gli immensi campi del possibile senza fermarsi a nulla di reale, ma bensì come un risultato di serie meditazioni portate sulle istorie di tutti i tempi e di tutti i popoli, come un voto, un' intenzione uno scopo della natura, a cui incessantemente tende di condurre gli uomini, e che non si può acquietare fin che ella non vi sia riuscita. La mia teoria è nata dall' osservazione dei fatti; de' fatti completi, fecondi, perchè presi in gran numero ed in una grande estensione e, per quanto può assicurarsi l' uomo di se stesso, da un' osservazione non prevenuta da predilezioni e da pregiudizŒ: da una osservazione finalmente non intesa a rilevare ciò che fu, per adorarlo come l' ottimo, ma a rilevare ciò che fu per conoscere l' umana natura, gli umani bisogni, e quelle tendenze originarie e naturali che senza esser l' ottimo, menano all' ottimo, perchè sono gli avviamenti della natura, contro alla quale niuno può vincer giammai. Potrei dividere in alcuni articoli separati le traccie istoriche che mostrano l' Amministrazione da me esposta essere stata sempre dalle nazioni veduta, e la natura della società e degli uomini che la compongono con una azione incessante avere sospinti verso della medesima i civili governi; la perversità e l' ignoranza umana avere bensì combattuto, rallentato, oppresso a tempo, la forza della natura; ma questa non essere stata giammai distrutta; poichè ciò sarebbe impossibile per quella legge che l' umanità rifugge dalla propria distruzione. Ma dividendo in articoli separati le dette traccie istoriche dovrei interrompere ad ogni istante, minuzzare e soverchiarnei fatti. Preferirò adunque di mettere sott' occhio le dette proposizioni che dalla storia risultano come leggi o fatti costanti, e poscia riferirò le osservazioni che li provano non secondo l' ordine di quelle proposizioni, ma secondo quello che la storia stessa somministra. La storia adunque delle civili società presenta costantemente i fatti generali ossia le leggi seguenti: 1 La Società civile nella sua infanzia rimane alquanto soggetta alla legge della Società domestica 1), ma ben presto si spiega in essa un' altra legge consistente nell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: che diventa la legge prevalente dell' Amministrazione civile. 2 La natura della Società civile mediante la detta legge dell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza ha chiamato a sè l' attenzione dei popoli, i quali per amore della quiete e della sicurezza hanno fatto sempre delle disposizioni favorevoli alla detta legge. 3 Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale, hanno prodotto novità politiche. 4 Quando il potere politico è dato in mano a quelli che non hanno la corrispondente proprietà, allora non è sicura la proprietà, e nasce di frequente, che quella proprietà che realmente non ha l' Amministratore, gliela si attribuisce con una finzione che pure è fonte di disordini. 5 La mancanza del Tribunale politico ha fatto sì che i popoli non potessero avere fin' ora un' Amministrazione dove fosse perfettamente equilibrata la ricchezza ed il potere politico: cioè che la Società civile non sia pervenuta alla sua perfezione. Questi cinque fatti costanti nella storia provano ad evidenza, che lo stato regolare o tranquillo della Società civile consiste nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere, e conferma l' Amministrazione sopra descritta. Il primo fatto segna il tempo che è necessario perchè la ricchezza nella Società civile manifesti la sua prevalenza: il secondo fatto dimostra le nazioni che s' accorgono di tal prevalenza irresistibile, e che o la secondano, e in tal modo perfezionano le costituzioni dello Stato, o vero vogliono cozzare con essa e si gettano in tutti i mali dell' anarchia: il terzo fatto dimostra come ogni grande mutazione nella ricchezza abbia sempre portato una mutazione nel potere, o pure una lotta perpetua col medesimo: il quarto fatto dimostra come se il potere prevale debba portare una mutazione nella distribuzione delle ricchezze; il quinto fatto finalmente dimostrando che non è possibile un perfetto equilibrio fra il potere e la ricchezza fino che il Tribunale politico non è diviso dall' Amministrazione, mette il legislatore in questa alternativa o di dividere il Tribunale politico dall' Amministrazione, o di avere un' Amministrazione in cui ci sia il detto squilibrio, e perciò di conservare nella società un germe necessario d' interna inquietudine ed agitazione che presto o tardi debbe svilupparsi, e sovvertire l' ordine sociale. Mettiamo adunque in luce questi cinque fatti, mentre essi rinserrano le traccie istoriche dell' Amministrazione da noi progettata, ed insieme ne dimostrano la necessità. La società domestica sussiste agiatamente colle ricchezze naturali , ma la società civile è quasi impossibile che sussista agiatamente senza il danaro 1). Le ricchezze naturali apportano delle derrate che non si conservano a lungo, e alle quali perciò non si attacca altro prezzo che il naturale , cioè quello che nasce dal vantaggio che si trae col consumarle: mentre il danaro si conserva, si ammassa facilmente e produce dell' altro danaro che pure si ammassa. Le ricchezze naturali ancora non si trasportano così agevolmente come il danaro, e non possono servire come serve questo al cambio, nè prendere un eguale acconcezza di rappresentare la misura comune dei valori. Per tutte queste ragioni le ricchezze naturali possono bastare ad una piccola Società come la famigliare, ma per una molto estesa come la civile il danaro è quasi indispensabile. Egli è dunque naturale che nella Società civile si passi ben presto a dare una grande importanza al danaro, come la forza più potente, la forza che ha un' attività più estesa, più celere e più molteplice di tutte le altre. Questa è la modificazione a cui soggiace la Società umana passando dallo stato domestico e ristretto, allo stato civile ed esteso. E quanto più si osserva, tanto più si vedrà, come la forza prevalente nelle Società civili viene ben presto ad essere la ricchezza, mentre nella Società domestica è la forza personale. Non essendo nello stato di Società domestica tanto necessario il danaro, ed essendo la ricchezza, che più vi si conosce, la naturale, non può con tale ricchezza formare la famiglia da sè stessa una forza; ma essa non ha altro prezzo come diceva, che quello che risulta dal mantenimento delle persone. Lo scopo dunque dell' affezione nella Società domestica sono le persone stesse e non v' è già qualche cosa che si possa amar più di esse mentre tutto si ama in quanto serve ad esse. Si attenda a questo progresso importante: Società umana sotto due forme: prima forma; Società domestica: secondo forma; Società civile. Progresso delle forze prevalenti nella Società umana: forza prevalente nella Società domestica, personale, consistente nella robustezza e nel numero degli individui: forza prevalente nella Società civile, reale, consistente nella ricchezza rappresentata dal danaro. Ora si veda lo stesso progresso nello spirito dell' uomo. Quali sono i primi oggetti che vengono sottoposti alla sua attenzione? le persone: il padre, la prima cosa ferma l' attenzione sulla sua famiglia. Qual' è la prima forza che l' uomo trova per difendersi dagli aggressori? la robustezza corporea. La prima forza adunque che trova il padre per difendere la sua famiglia consiste nel numero e nella robustezza dei membri della medesima. Ma questi membri conviene alimentarli: quindi il bisogno della ricchezza naturale, e il desiderio dei molti membri porta il desiderio di molta ricchezza. La forza di questi membri ben presto si conosce che può accrescersi mediante degli instrumenti delle arti; quindi si porta l' attenzione e il desiderio sopra questa nuova specie di ricchezza. Moltiplicando le riflessioni sopra gli usi che presta questa ricchezza, questo mezzo di alimentare molti uomini, di procacciarsi dei comodi e di ben armarsi 1) per difendere il godimento di questi comodi, si viene a mettere un pregio sempre maggiore nella ricchezza, la quale d' altro lato si rende sempre più necessaria quanto più sono cresciuti i bisogni fattizŒ, quanto i membri della Società sono diventati più numerosi, e quanto hanno fatto più di progresso le altre società contro le quali bisogna difendersi. Il prezzo delle ricchezze così va crescendo fino a tale, che la ricchezza che di natura sua non è che un mezzo, acquista la maggiore importanza e viene considerata come la forza prevalente: allora è il caso in cui le contese non hanno più un oggetto personale, ma un oggetto reale, vale a dire in cui non si questiona e non si guerreggia se non per la ricchezza. Tale è lo stato delle Società civili bene avanzato. 1) Le Società civili all' incontro che non hanno ricevuto tutto questo sviluppo, che non hanno percorso tutta questa gradazione d' idee; che non sono pervenute a conoscere pienamente l' uso della ricchezza, e quindi a conoscere come la ricchezza possa essere realmente la forza prevalente fra tutte le forze fisiche della Società; si possono considerare ancora in uno stato d' infanzia; non ancora escite pienamente dallo stato di Società domestica, e per ciò soggette alla legge della famiglia, che consiste nella forza personale. Perciò le instituzioni delle società civili che non hanno riguardo alla ricchezza, ma bensì alla forza fisica o personale, appartengono alla prima età della Società civile, o sia alla sua infanzia. Le instituzioni all' incontro che hanno riguardo alla ricchezza, e che la considerano come la forza prevalente, appartengono alla seconda età delle Società civili, o sia alla loro virilità. Quasi tutte le Società civili antiche ritengono ancora dello stato di Società domestica, ossia mostrano dei segni della loro infanzia; e ciò tanto più quanto più si considerano nei loro esordŒ. Rousseau stesso ciò travide. Dopo d' aver detto che la sovranità fondata sulle terre è la più ferma, soggiunge: « « vantaggio che non pare fosse ben sentito dagli antichi monarchi, che non appellandosi se non re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni, sembravano riguardarsi come i capi degli uomini anzichè come i signori del paese. Quelli d' oggidì s' appellano più accortamente re di Francia, di Spagna, d' Inghilterra ecc.. In tal modo tenendo il terreno sono ben sicuri di tenerne gli abitanti »1) » La division che fece Romolo del popolo romano fu un' istituzione famigliare; poichè essa ebbe riguardo alle persone, o sia alla forza militare, e non alle ricchezze. Egli divise il popolo romano in tre tribù, chiamate i Ramensi, i Taziensi, e i Luceri, che esprimevano, non già quanto possedevano ma la loro origine, cioè gli Albani, i Sabini, e gli Stranieri. Ciascuna tribù fu divisa pure in dieci curie, e ciascuna curia ebbe la sua cappella per la celebrazione dei sacri riti, ciò che pure s' accorda coll' indole della Società domestica. Ogni tribù dava mille pedoni e cento cavalieri, che era la forza regolare dello Stato. Una tale divisione famigliare era tanto più possibile in quanto che non si conosceva ancora diseguaglianza nella ricchezza, ed il terreno acquistato in corpo potè esser diviso regolarmente: la Religione e lo Stato poteva averne una parte per le spese pubbliche senza bisogno delle contribuzioni private; e l' altra parte potè dividersi in trenta parti, come trenta era il numero delle curie. Ma egli era impossibile che questa instituzione famigliare sussistesse a lungo, come a lungo non può conservarsi la perfetta eguaglianza delle ricchezze: doveva manifestarsi ben presto la legge della Società civile, doveva presso i Romani conoscersi ben presto la loro importanza politica: e la manifestazione di questa legge, tosto che fosse successo lo squilibrio delle fortune, avrebbe potuto dare la più grande scossa alla repubblica, e metterne in pericolo la esistenza, s' essa fosse stata guasta dalle passioni delle Società invecchiate e corrotte, e se non avesse avuto degli uomini prudenti capaci di seguire la natura delle cose, e di modificare le antiche instituzioni a tenore delle nuove forze che si manifestavano e si rendevano prevalenti nella Società. L' uomo prudente che seppe accorgersi della legge delle Società civili appena che si manifestò in Roma e che diede delle instituzioni in armonia colla medesima fu Servio Tullio, institutore della divisione del popolo romano in centurie. Dalla divisione di Romolo erano trascorsi centottanta anni circa fino a Servio Tullio sesto re di Roma: nel qual tempo la divisione delle fortune private aveva soggiaciuto a grande varietà. Quindi se i cittadini poveri avessero continuato ad avere nelle pubbliche deliberazioni un suffragio di egual valore de' cittadini ricchi, il diritto avrebbe pugnato col fatto, poichè la maggioranza nelle ricchezze dava di fatto una prevalenza nelle pubbliche deliberazioni: 1) prevalenza che se non veniva legalizzata dalla costituzione dello Stato, era già essa stessa un attentato contro la medesima costituzione, la quale sarebbe forse crollata contro una tal forza con grave pericolo della repubblica. Servio Tullio adunque distribuì in sei classi tutto il popolo romano, secondo i gradi della ricchezza. Il censo sotto di lui non fu solamente la numerazione del popolo: fu ancora l' estimo delle sostanze di ciaschedun cittadino. La prima classe era composta di quelli, i beni dei quali ascendevano al valore almeno di centomila assi, corrispondenti allora a 774. franchi, o intorno. La seconda classe aveva per censo 75 mila assi: la terza classe conteneva i particolari d' una sostanza almeno di 50 mila assi: la quarta quelli che ne avevano 25 mila: la quinta i cittadini di 12 mila e cinquecento assi, e la sesta finalmente abbracciava tutti i rimanenti i quali non avessero sostanze bastevoli per entrare nella quinta, o ne fossero al tutto sprovveduti. Diviso così il popolo romano in sei classi secondo l' estimo della ricchezza si attribuì a ciascuna classe un numero di voti nelle pubbliche deliberazioni, che fosse approssimativamente in equilibrio colle ricchezze che possedevano, e ciò si fece in questo modo. Ciascuna classe si divise in un dato numero di centurie, ed ogni centuria aveva un voto. Ma la prima classe dei più ricchi si partì in ottanta di queste centurie, con più diciotto centurie di cavalieri, che nella somma portava un numero di novantotto centurie, e perciò di novantotto voti. Ora un simil numero di voti non avevano nè pure tutte le altre cinque classi prese insieme; poichè non formavano più fra tutte che novantacinque centurie, e però novantacinque voti: ventidue centurie era la seconda classe, venti centurie la terza, ventidue centurie la quarta, trenta centurie la quinta ed una sola centuria formava la sesta classe. In tal modo, sebbene il popolo romano fosse il sovrano, tuttavia non partecipava già secondo le teste ma bensì secondo le sostanze: le ricchezze venivano rappresentate nella repubblica romana e non le persone. La sesta classe per esempio conteneva un maggior numero di persone che tutte le cinque classi precedenti, e formava perciò più che la metà del popolo romano: e tuttavia non aveva nell' Amministrazione che un voto solo, vale a dire la centonovantatreesima parte di sovranità, o sia d' influenza nella pubblica Amministrazione. Se la prima classe sola rendeva i voti uniformi, la cosa era finita, poichè il numero di voti di tutte le altre cinque classi restava minore dei soli voti della prima classe, ed essendo questa un centesimo circa dell' intera popolazione 1), mentre l' ultima classe era più della metà, si può calcolare che un votante della prima classe aveva un voto equivalente almeno a cinquemila persone dell' ultima classe. Si può dire che questa fosse la più sapiente instituzione che avessero i Romani, com' essa era la più fondamentale di tutte, e quella che diede a Roma una costituzione tanto ammirata pei suoi effetti e così poco nella sua intima natura. Vediamo come questa idea si presenta nei libri dei politici romani; giacchè si può dire formare il nucleo della romana politica. Cicerone non finisce d' ammirarla: ed attribuisce ad essa la grandezza romana. Egli pone come assioma politico, « Quod semper in republica tenendum est; ne plurimum valeant plurimi . » E ne rende la ragione; « « debbe, » egli dice, «prevaler sempre il suffragio di quelli che hanno il maggior interesse, perchè la città si conservi in ottimo stato »2). » Paolo giurisconsulto espone la stessa ragione della politica romana con altre espressioni: « « L' avere, » dice, «e la ricchezza delle famiglie è una specie di ostaggio e di pegno ch' esse danno alla repubblica »3). » E` comune presso a' politici romani ancora quest' altra ragione che « « se si dà potere nella repubblica ai bisognosi, essi fanno preda la repubblica per soddisfare a' propri bisogni: 1) » »ciò che è quanto dire, che il potere che hanno in mano, quasi per una natural forza attiva, rapisce a sè la ricchezza. Il peso che ha la ricchezza nell' Amministrazione sociale è un fatto indipendente dagli ingegni degli uomini. Se adunque esaminando le costituzioni di certi popoli si truova che esse sono foggiate a tenore di questo fatto e di questa forza naturale non si debbe già maravigliarsi della sapienza dei popoli e dei ligislatori, perchè non sono stati condotti a quelle savie disposizioni già per delle teorie, ma per la forza della natura: il loro merito sta nell' essere stati obbedienti alla natura, come la sventura di altre nazioni venne dall' abbandonare temerariamente la guida della natura, ed abbandonarsi ad una speculazione priva dell' appoggio dei fatti. Noi veggiamo adunque che la natura delle cose ha indicato ai popoli la legge da noi indicata che l' Amministrazione sociale sia distribuita in proporzione della ricchezza: e che i popoli docili alla voce della natura hanno fatto delle instituzioni favorevoli ad una tal legge. Ma come noi dicevamo, questa legge non si poteva manifestare al primo stabilirsi del popolo: perchè allora non possede ricchezze se non comuni: bisognava dar tempo perchè le terre si dividessero, perchè le famiglie parte assai moltiplicate, parte poco o nulla, od estinte, e gli altri accidenti producessero una notabile diseguaglianza fra i proprietarŒ, e finalmente bisognava dar tempo perchè questa diseguaglianza passasse nella bilancia del pubblico potere, o sia manifestasse la sua influenza: per ciò non è negli esordi delle nazioni, ma dopo ch' esse sono bastevolmente costituite, che la detta legge si manifesta, che i popoli se ne accorgono, e che la secondano colle istituzioni. La distinzione di questi due tempi delle nazioni non si può veder meglio che tenendo dietro ai passi delle nazioni conquistatrici; perocchè quando esse si stabiliscono sul terreno conquistato, allora si può dire che cominci la loro organizzazione sociale. Sentiamo in che modo riconosce questa verità nella storia dei primi governi Greci un Autore della nazione che ha il governo conformato più che tutte le altre in forma di una Amministrazione, e che perciò era scorto in sulla via del considerare l' instituzione dei governi sotto questo punto di vista importante. 1) [...OMISSIS...] Ciò che nacque ai tempi eroici della Grecia, in cui cominciò l' organizzazione sociale mediante una militare autorità, cioè mediante una prevalenza personale che è la legge della società domestica, cui susseguì la divisione delle terre, e venne ben presto la ricchezza a far sentire la sua preponderanza fra le forze sociali, che è la legge delle Società civili avviate; si rinnovellò nelle nazioni conquistatrici del medio evo, mentre, come diceva, date le stesse cause debbono aversi gli stessi effetti. Consideriamo questo fatto in Francia: vedremo ciò che presso a poco successe in tutta l' Europa; vedremo due tempi del potere personale e del potere reale . La maggiorità degli interessi deve sempre prevalere in quel modo che questi stanno nell' opinione degli uomini, e quindi si fa sempre sentire il bisogno di omologare la volontà del principe colla volontà della nazione stessa: ma nel primo tempo non vi sono che interessi personali , e quindi vediamo che la assemblea nazionale ai tempi di Clodoveo non è che il campo di Marte: un' assemblea di guerrieri che a cavallo deliberano in mezzo ad una vasta campagna sugli affari della nazione. Ma ben presto i conquistatori si dividono a sorte 1) i terreni, e quella parte di popolazione indigena che è sfuggita alla distruzione si fa schiava dei vincitori, la quale col perdere la libertà perde insieme la proprietà, e con questa perde ancora ogni politica esistenza. D' allora comincia a manifestarsi l' equilibrio della proprietà col civile potere: i piccoli proprietari erano scomparsi ed i vincitori poco numerosi in proporzione delle terre divise, erano divenuti possessori di latifondi. Quindi le assemblee nazionali sotto Carlo Magno non compariscono che dei gran proprietari, cioè i due stati della nobiltà e del clero, che erano soli quelli che avevano la ricchezza di un peso sensibile nella sociale amministrazione. La nobiltà non eccedeva forse la quintamillesima parte della nazione, come una quintamillesima parte della nazione si può dire che fosse la prima classe di Servio Tullio; se non che le altre classi nei romani ComizŒ avevano pure un lor voto; mentre ai parlamenti di Carlo Magno non aveva influenza alcuna l' immenso popolo rimaso privo di proprietà. Ma comincino a nascere i piccoli proprietari, comincino queste piccole proprietà tolte insieme a diventare una somma notabile: noi vedremo che insieme con questo acquisto di proprietà verrà ben anco la rappresentazione politica, questo fatto si sviluppò sotto la terza razza. Ed ecco in che modo. La proprietà dei Nobili è quella che mette talora in pericolo la corona la quale ha bisogno di trovare un terzo potere che la sostenti. A tal fine Luigi il Grosso comincia a francare le città dei suoi possedimenti, le quali città erano a punto composte dei vassalli, che è quanto dire di servi; ed i re suoi successori proseguono a moltiplicare gli uomini liberi in ragione che potevano unire ai regii dominii qualche terra dei signori. Filippo Augusto che riunì alla corona la Normandia, l' Anjou, la Maine, la Touraine, il Poitou, il Vermandois, l' Artois, la contea di Gien, concesse il diritto di comune a tutte le città di tali provincie e così le francò, e sul fine dello stesso secolo XIII Filippo il Bello con ordinanza fatta al parlamento d' Ognissanti abolì interamente nella Linguadocca la corporal servitù cangiandola in una imposizione annuale. Questo era creare molti piccoli proprietarŒ; e dar la esistenza a molti piccoli proprietari era introdurre nello stato un nuovo potere politico che tantosto comparve. Nel 1301 fu ammesso per la prima volta agli stati generali della nazione da Filippo III sopranominato l' Ardito, oltre il clero e la nobiltà, l' ordine altresì dei liberi cittadini. Il terzo stato vi comparve realmente a dare il suo consiglio, ma sotto la forma di supplica (requˆte) , che presentava in ginocchio. La tassa annuale che veniva messa ai nuovi liberati, si può dire l' origine dell' imposta. Ma dopo ch' essi furono liberi, i proprietari divennero i soli che portavano il carico dello stato, mentre il clero e la nobiltà rimaneva esente dalle imposizioni, come era prima; e ancora in parte da quei sacrifici straordinari che precedentemente far doveva nei bisogni dello stato; mentre non c' eran altri, che pagar potessero, nè altri interessati nella pubblica Amministrazione. Ma si riconosceva però conforme all' equità di consultarli sulle nuove imposizioni, e che fossero da loro acconsentite. Negli stati generali del 1345, sotto Filippo di Valois essi diedero il consenso alla prima imposta di soccorsi e gabelle , e in quegli del 1355 furono scelti fra essi dei commissarŒ, per la riscossione della pecunia accordata al re in uno coi commissarŒ degli altri due ordini. In tal modo si formò la costituzione francese: fu la proprietà che determinò il governo per una forza della natura, secondata dalla saviezza dei reggitori. Al dividersi della proprietà si divise con essa il governo, e se non si fosse diviso sarebbe nata la turbolenza della Società, ed il monarca per trovare un sostegno contro i nobili non avea che a creare dei piccoli proprietarŒ, poichè con questi creava una forza tendente continuamente da se stessa a prender posto nel governo, al quale scopo presto o tardi sarebbe riuscita o con una concessione savia di quelli che già governavano, o certo in ultimo per un' aperta violenza. Egli è dunque falso ciò che vien comunemente creduto, che il governo francese rappresentasse di sua natura dei principŒ, e non delle cose, a differenza della costituzione inglese rappresentante delle cose e non dei principŒ. Non vogliamo già dire che l' antica costituzione francese avesse perfettamente soddisfatto alla legge dell' Amministrazione, e conseguito un perfetto equilibrio fra il potere civile, e la proprietà: noi diciamo solo che lo ha conseguito approssimativamente: mentre anzi assegniamo per quinto fatto somministrato dall' istoria: « Che la mancanza del Tribunale politico presso tutti i popoli ha impedito ancora l' esistenza di un' Amministrazione perfetta, in cui la proprietà sia perfettamente equilibrata col potere amministrativo. »Per ciò nè pure in Francia la costituzione ebbe mai toccata questa perfezione amministrativa: e si può anche concedere, che si tenne sempre più lontana da ciò che non sia la costituzione inglese; poichè in Francia spiegò maggior forza l' elemento morale che in Inghilterra, come viceversa in Inghilterra spiegò maggior forza l' elemento amministrativo che in Francia: quantunque sì nell' una che nell' altra nazione, prevalse l' elemento amministrativo all' elemento morale. E in fatti l' elemento amministrativo debbe sempre avere maggior forza, nelle costituzioni in cui questi due elementi rimangon confusi, dell' elemento morale: poichè l' elemento morale non riguarda che la difesa della minorità; mentre la maggiorità rimane difesa coll' organizzazione in forma amministrativa. Perciò egli è assurdo il dire che l' antica costituzione francese rappresentasse solo dei principŒ; mentre i principŒ non potevano aver in essa che la minor influenza, e nella sua massima parte doveva esser formata dalla maggiore somma degli interessi, o sia dalla proprietà: idea quanto vera, tanto ripugnante al presente modo del pensare dei francesi. Ma per convincersene essi non avrebbero, che ad osservare quanto avvenne allorquando si dipartirono dalla legge della natura: quando vollero atterrare la loro costituzione che si appoggiava sulle cose, per sostituirne una che rappresentasse dei principŒ: quando in somma violarono la legge dell' equilibrio fra la proprietà e il potere; legge che non si può violare senza che la natura delle cose non ne punisca l' imprudenza severamente, fino che non sia a pieno vendicata, e la sua legge di bel nuovo ristabilita. In fatti i mali della rivoluzione francese non hanno altra cagione prossima che la violazione di una tale legge. Se lo stato delle cose pubbliche era difettoso, se le imposte pesavano soverchiamente sopra quel genere di persone che era più oppresso dalle fatiche, e le odiose esenzioni, il soverchio lusso, e le dilapidazioni della Corte e delle finanze mal disponevano gli animi: qual era il rimedio efficace e sapiente a tali mali? Bisognava formare un più comodo riparto delle proprietà, e quindi appresso una distribuzione dell' Amministrazione governativa equilibrata colle medesime. Un più comodo riparto delle proprietà non si potea far che in due modi: il primo con violenza e con ingiustizia; e questo era celere, se pur non avesse incontrato una reazione che lo rendesse impossibile: il secondo colle instituzioni; e questo era lento verso all' impazienza dei francesi; ma poteva esser giusto. Egli è appunto quel modo, di cui, come abbiamo detto, si servì Luigi il Grosso: egli vide la corona in pericolo, e lo stato stesso straziato dai disordini dei nobili: e cercò di porvi rimedio col promuovere una nuova distribuzione della proprietà in un modo giusto, qual fu quello della francazione delle città appartenenti ai dominŒ della corona, promovendo e creando in tal modo i piccoli proprietarŒ, e dando l' esistenza così ad un terzo stato, che allargasse la base del potere, e collegato colla corona facesse fronte alle soperchieriere della nobiltà. Ma solo con delle instituzioni che avessero messe in esecuzione con maggior esattezza la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, io credo che la Francia sarebbe stata alleggerita dei mali che la aggravavano dopo la metà del secolo scorso: poichè egli è impossibile, che se avesse potuto parlare e in conseguenza prevalere la maggiorità degli interessi, non sarebbero più potute sconcertarsi le cose pubbliche per la prevalenza delle opinioni, o sia dei principŒ, mentre le parole la perdono sempre quando si mettono a fronte delle cose. Ma invece di ciò, che si fece? I mali di cui era aggravata la Francia erano reali: si disse di volervi porre un rimedio: nulla fino quì di male. La sapienza per ritrovare questo rimedio mancava; e quelli che avevano ottenuta celebrità di sapienti erano i filosofi . Poichè i mali erano da tutti sentiti, la necessità del rimedio era pure da tutti sentita: v' era dunque la disposizione degli animi a ricevere ciò che si presentava come rimedio dei mali. E poichè è naturale di cercar sempre il rimedio da quelli che hanno l' opinione d' essere sapienti, così era naturale che i filosofi che avevano saputo usurpare l' opinione di sapienti, fossero anche i legislatori. Questi stolti che riguardavano come « una idea vana e una fatica ingrata lo studio « delle antiche costumanze, »presso i quali tutto ciò che era passato era barbaro, e tutto ciò che si ritrovava nel fatto era ingiusto; si ritrovavano ben lontani dall' esser disposti dall' applicarsi a consultar l' esperienza; ed alla noia di fissare con un lungo studio dei fatti le leggi della natura, preferivano ben volentieri le istantanee creazioni della loro mente, alle cui decisioni con una inconcepibile presunzione e cecità, sembravano persuasi che avrebbe obbedito docilmente l' universo. Con queste disposizioni si aprirono gli stati generali del 5 Maggio 17.9. L' antica legge dell' equilibrio della proprietà col potere fu disconosciuta: la distinzione dei tre stati, che era l' effetto dell' esperienza dei loro antenati, e l' espressione della detta legge, fu tolta: i principŒ furono sostituiti alle cose; e il terzo stato pretese, che non si dessero più i voti nelle tre assemblee divise, come si era fatto per tanti secoli; ma rovesciando queste rancide costumanze, che i poteri si verificassero in comune senza distinzione d' ordini: che l' assemblea fosse una sola, e i voti fossero dati per testa. Invano si resistette alquanto dai due altri ordini, non immuni dalla vertigine delle teorie, e il giorno 17 di Giugno i Comuni, che così si chiamarono quelli del terzo stato, uniti ad alcuni deficienti degli altri due ordini, abolirono ogni distinzione d' ordini e si costituirono in assemblea nazionale; e il 27 di Giugno il Re stesso intimidito, avendo scritto a quella parte del clero e della nobiltà, che non s' era ancor aggiunta ai Comuni, di farlo, tutti i deputati siedono insieme confusi sulle medesime panche. La rivoluzione con quest' atto era già fatta. Il Clero avea 290 Deputati, la Nobiltà 270, il terzo stato 59.. Il terzo stato adunque, avea 40 voti di più. In tal modo il potere si ritrovava nelle mani di quelli che non avevano la proprietà: gli interessi non erano rappresentati, ma le persone: la Società aveva retrogredito al primo stato sociale, con questa differenza, che le Società che sono nel primo stato hanno una rappresentazione personale, perchè la proprietà non è divisa o è divisa equabilmente, mentre le Società avanzate, dove è introdotta la disuguaglianza della proprietà, ricevendo una rappresentanza personale vengono ad avere un fatale squilibrio fra la proprietà ed il potere, che debbe produrre in esse l' agitazione. In tal modo ricevuto nelle mani dei non poprietarŒ il potere, togliendolo dalle mani dei proprietarŒ, essi avevano con ciò assalita la proprietà stessa. Invano molti rivoluzionari protestarono di non voler assalire le proprietà: la rivoluzione le assalì di fatto, dall' istante che il maggior potere fu dato in mano di quelli, che non erano proporzionati proprietarŒ, dall' istante che fu introdotta la teoria della rappresentazione personale. Il potere tira a sè la proprietà, specialmente un potere nuovo e rapito ai proprietarŒ; poichè egli ha bisogno della proprietà per sostenersi. Per ciò egli è verissimo, che nella rivoluzione francese i principŒ non furono che il pretesto: mentre essa si può a pieno definire, chiamandola una guerra fatta alle proprietà. Basta considerarla in tutti i suoi passi perchè si veda continuamente in essa una forza, che si aggrava continuamente adosso degli antichi proprietarŒ; che prima non agisce apertamente che contro i più deboli, e poscia ancora contro i forti: sono i beni del clero quelli che prima vengono divisi; intanto i nobili sono costretti di fuggire spaventati e di lasciare le loro sostanze preda ai nuovi conquistatori: che che si dica contro agli emigrati, qualunque ingegnoso ragionamento s' instituisca, per ritorcere in loro colpa la loro infelicità, non si potrà giammai oscurare il vero, che risplenderà lucido più che il Sole agli occhi della posterità, quantunque annebbiato ai presenti da tante pestifere esalazioni. I nobili non avevano più la forza in mano da poter difendere la loro proprietà: questa forza era in mano dei minori proprietarŒ, da cui avrebbero dovuto temere, quando anche non si fossero stati per gli principŒ dichiarati loro nemici: non restava dunque ai nobili che di lasciar la preda delle lor proprietà, e di mettere in salvo colla fuga le loro persone, eccitando con ciò stesso la commiserazione ed invocando l' aiuto di potenti stranieri. Invano si fa colpa al debile di essere ricorso al forte per sorreggersi contro i colpi degli oppressori: questo non era che una conseguenza naturale della debolezza a cui s' erano ridotti; non fu difficile spogliare i ricchi indeboliti, spaventati, fuggiti. Successo in tal modo un grande squilibrio tra la proprietà e il potere, lo stato delle cose pubbliche era tale, che il diritto al potere non nasceva già dalla proprietà, ma dall' abilità personale. E come questo potere, portava seco il dispotico dominio delle proprietà, poichè non v' era più nessuno che le potesse difendere; per ciò tutti quelli che si credevano d' avere dell' abilità sufficiente, dovevano disputarsi in nome dei principŒ proclamati un governo, che di sua natura era così ricco quanto era ricca la nazione. Di che dovevano nascere quelli accaniti dibattimenti e quelle atrocità orrende che nacquero. A chi si poteva appellare nel contrasto delle abilità personali? alla forza; secondo la legge del primo stato della Società, nel quale prevale la forza fisica. L' anarchia per ciò durar doveva fino che una forza fisica prevalente soggiogasse tutte le altre; cioè fino all' epoca dell' impero. Il comando militare doveva tener il luogo del governo civile; e non è meraviglia se Napoleone che operò questa ultima rivoluzione considerasse la forza militare come l' unico vero sostegno del suo, come di ogni altro potere 1); egli sapeva di quanto andasse debitore a questa forza. Si considerino dunque i progressi della Società nella Francia; e si vedrà, che tutta la storia conferma questa legge uscente dalla natura delle cose; che la proprietà ed il potere tendono ad equilibrarsi: 1 dei conquistatori ascendendo fino all' epoca di Clodoveo, presso il quale prevale la forza fisica, e la abilità personale, primo stato della Società. 2 noi vediamo, la proprietà influire un poco alla volta nella forma del governo civile fino ch' essa diventa una forza prevalente; vediamo il potere civile tener il luogo del potere militare e distribuirsi a quel modo stesso che si distribuisce la proprietà, prima in due stati, e poi in tre, perchè un terzo stato diventa proprietario: quest' è il secondo stato della Società che dura fino alla rivoluzione francese; ed esso è l' opera delle forze della stessa natura. La rivoluzione sostituisce alla natura la teoria, ed ecco ciò che fa: 1 Produce lo squilibrio fra la proprietà ed il potere; cioè a dire rimette in piedi il principio della rappresentazione personale, ed eseguisce questo principio col far sì che il terzo Stato dei minori proprietari acquisti un potere prevalente e quindi sia spogliato del potere civile il clero e la nobiltà, cioè i maggiori proprietarŒ. 2 Il potere civile messo nelle mani del terzo stato, e quindi resi i minori proprietari arbitri delle fortune della nazione, diventa un oggetto della cupidità di ciascuno che vuol arricchire: e d' altro lato non essendovi che una maggiore abilità personale, che fornisca in tale stato di cose un titolo per aver in mano il potere civile, tutti quelli che possono se lo contendono, presumendo di esser più abili, e d' aver teorie migliori da far valere, per le quali ognuno si vanta chiamato dal proprio genio a salvare la patria. 3 L' abilità individuale non avendo nessun tribunale che la determini si appella alla forza fisica, e la forza fisica distrugge il potere civile insieme con tutte le antiche istituzioni, e getta lo stato nell' anarchia. Qui finisce la storia della Società in Francia: la quale ha due periodi: il primo di una Società che si forma, e che comincia dal VI secolo fino all' anno 17.9; il secondo di una società che si distrugge, e che comincia il 13 giugno 17.9 fino al 1. Maggio 1.04. In quest' anno ricomincia un' altra Società, giacchè il potere militare si è legalizzato e stabilito. Ella è nel primo stato tale Società, o più tosto ritiene del primo stato, mentre è ancora prevalente la forza fisica nella Società. Ma la legge del secondo stato si manifestò immediatamente; poichè la distruzione della Società troppo rapida per distruggere le idee morali degli uomini, non era stato tanto una rapina del potere civile, quanto pel rapito potere civile una rapina delle proprietà. Delle grandi fortune erano sorte sulla distruzione delle antiche; e quelli ch' ebbero in mano prima il potere civile e successivamente il militare, non mancarono d' avere ben presto in mano anche le corrispondenti ricchezze. In tale stato di cose le turbolenze dovevano finire di lor natura, perchè era stato restituito l' equilibrio delle proprietà e del potere, ed in tal modo doveva apparire il potere civile allato del militare in equilibrio colla ricchezza e dovevano formare insieme un governo civile bensì, ma che rammentasse ancora un origine militare. Così la rapina del potere civile fatta ai proprietarŒ avea cagionato la rivoluzione, e la rapina delle proprietà l' aveva finita; perchè aveva restituito l' ordine della natura, sebbene non l' ordine della giustizia: aveva ritornata la Società regolare, sebbene non giusta. Ciò è tanto vero che i nuovi proprietarŒ, i quali avevano cagionato la rivoluzione, erano appunto quelli che rendevano solida la proprietà nel nuovo stato di cose, perchè non si turbasse, come esperimentò Napoleone quando tornò a usare di quelli di cui avea fatte le fortune: tanto è vero, che i proprietarŒ sono quelli che usano del potere che hanno in mano, perchè le cose restino tranquille; mentre volendo fare una rivoluzione, basta prendere il potere dalle mani dei proprietarŒ ed affidarlo ai non proprietarŒ; poichè questi, un poco di mal umore che sieno, saranno tentati di metter lo stato a turbolenza. In pruova di ciò sieno questi passi del Manoscritto del 1.14 pel Baron Fain, segretario di gabinetto a quell' epoca. [...OMISSIS...] Il terzo fatto è il seguente: « Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale hanno prodotte novità politiche. » Gli economisti avendo per oggetto della loro applicazione la ricchezza potevano essere più in grado di tutti gli altri di conoscere e di fissare la legge dell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile. In fatti considerando essi la ricchezza nella sua relazione politica travidero la detta legge, ma non poterono fissarla con nettezza, perchè non era ancora stato diviso il Tribunale politico dall' Amministrazione, e la detta legge quanto vale per questa seconda parte del potere civile, altrettanto male si applica alla prima. Oltre di ciò una parte di essi non videro la cosa che imperfettamente, perchè imperfetto era il loro sistema: parlo di quelli che riguardando per unico fonte di ricchezza il terreno a questa sola specie di proprietà attribuirono i diritti politici. Egli è vero che la ricchezza industriale e commerciale dipende come da suo primo fonte dalla ricchezza territoriale. Ma non è già per questo vero, che i possessori di quelle due specie di ricchezza mobiliare, sieno in una vera dipendenza di fatto dall' arbitrio dei possessori di terreni, poichè questa dipendenza di fatto viene esclusa dall' interesse stesso dei possessori dei terreni. Come a questi non è utile ribassare l' industria ed il commercio, perchè sono i mezzi onde s' accresce il valore di ciò che produce il terreno: quindi l' esistenza della ricchezza mobiliare vien ad essere altrettanto assicurata, quanto l' esistenza della ricchezza territoriale; conciossiacchè tanto è lungi che l' arbitrio dei possessori delle terre voglia distruggere quella ricchezza, che anzi questo arbitrio stesso è quello che la incoraggia e sostiene, mentre per la stessa ragione che il ricco terriere vuol cavar molta entrata dalle sue terre, per la ragione stessa debbe volere che vi sia molta industria e molto commercio. Per ciò contro questi economisti che vorrebbero restringere la rappresentazione civile solamente alla ricchezza terriera, sta la storia delle Società civili, la quale dimostra il fatto qui sopra indicato; cioè che non solo la ricchezza territoriale tende ad equilibrarsi col potere politico, ma ben anche la ricchezza commerciale e la ricchezza industriale. Ciò che dimostrano l' istorie costantemente nelle Società civili si è, che quando esse passano dalla legge famigliare alla nazionale, e perciò dall' avere una rappresentazione personale all' avere una rappresentazione reale, che sono i due stati sopra distinti delle Società, la prima ricchezza che si manifesta è la territoriale; e solamente dopo qualche tempo, migliorando l' agricoltura e aumentando la popolazione, comincia a conoscersi la ricchezza commerciale e industriale. Prendendo a considerare la storia delle nazioni conquistatrici cioè di forse tutte le nazioni, si ritrova di più che la ricchezza commerciale e industriale tarda un buon pezzo a manifestarsi dopo la ricchezza agricola, anche perchè passa alcun tempo fino che sortano i piccoli proprietarŒ, l' origine dei quali, come abbiamo veduto, nasce dagli schiavi messi in libertà, e questi sono quelli che diventano poscia i mercenarŒ, gli uomini d' industria, i commercianti. Il progresso per ciò nelle nazioni conquistatrici è il seguente: 1 conquista, e rappresentanza personale con beni indivisi; 2 divisione di terreni, e degli schiavi fra i vincitori, possessori di latifondi: quindi ricchezza agricola , e rappresentazione della ricchezza agricola mediante i gran proprietarŒ; 3 liberazione degli schiavi, francazione dei borghi, o comuni; e quindi nascita dei piccoli proprietarŒ, e rappresentazione delle proprietà mediante il terzo stato; 4 Comparsa del commercio e dell' industrìa: e quindi della ricchezza commerciale e industriale, specialmente per opera del terzo stato: quindi rappresentazione politica, non solo della ricchezza agricola, ma ben ancora della ricchezza commerciale e industriale mediante il terzo stato , il quale viene ad acquistare con ciò una gran forza nella Società. Chi leggerà le istorie con attenzione vedrà che tutte d' accordo non danno che questi stessi risultati. Di quì avviene. che la teoria degli Economisti di attribuire la rappresentazione politica al solo terreno, ha benissimo luogo; ma solo in quell' epoca nella quale non è comparsa ancora nella nazione la ricchezza commerciale ed industriale: ma la sola ricchezza agricola. Sentiamo uno istorico: [...OMISSIS...] Ma come la sola proprietà territoriale viene rappresentata, dovunque ella sola esiste, così dovunque una forte ricchezza commerciale e industriale apparisce, esercita ben tosto un peso nella bilancia politica, e spinge dirò così per intromettersi nel governo, o per altrui consenso o per forza. La proprietà commerciale e industriale viene in mano, come diceva, del terzo stato, e perciò dove questa si rinforza, la plebe acquista maggior grado d' autorità: di che nasce che le città marittime commerciali e industriali inclinino ben tosto ad un reggimento repubblicano. Le prime repubbliche d' Italia furono quelle delle coste del Regno di Napoli, fra le quali è celebre quella d' Amalfi [...OMISSIS...] Le città marittime dell' Istria e dell' Illirico, governate liberamente, Venezia e Genova, provano il medesimo. La ricchezza commerciale tanto potè in Firenze che vi dispose per buon tempo quasi esclusivamente dello stato. La forma di governo stabilita da' Fiorentini nel 12.2, e che sottosopra durò fino alla caduta della repubblica, era democratica, e composta sulla massima « « che d' una repubblica mercantile dovevano avere l' Amministrazione i soli mercanti: i membri di quella magistratura avevano il titolo di priori delle arti » » per indicare, dice il Sismondi, « « che l' assemblea dei primi cittadini d' ogni mestiere rappresentava tutta la repubblica. » » [...OMISSIS...] Da ciò che abbiamo detto si può vedere, che quella stessa ragione per cui la ricchezza terriera viene ad influire nel governo, vale per la ricchezza mobiliare. Il governo si può considerare come una forza, che regolando la modalità dei diritti li difende e li accresce: questo è l' uso legittimo di una tal forza: ma in mano agli uomini havvi di fatto anche un abuso di questa forza, e in tal caso il governo si può considerare come una forza di tirare a sè un maggior numero di diritti. Giacchè questo secondo effetto che si può ottenere dall' autorità governativa è comune egualmente ai ricchi ed ai poveri; perciò rimane che quelli sieno più interessati di tirare a sè il governo, i quali hanno più diritti da difendere e da promuovere. Per ciò i poveri non possono ambire il governo se non per una malvagità, cioè a dire per la voglia di tirare a sè le proprietà, mentre i ricchi vogliono tirare a sè il governo per difendere col medesimo i proprŒ diritti da chi vorrebbe rapirli e per amministrarli utilmente: il qual desiderio è giusto e secondo natura; mentre il primo è ingiusto e contro natura, e perciò non può essere nè cosí universale nè così forte; tanto più che i poveri non hanno i mezzi da farlo valere. Questo avviene nel fatto; ma considerata la cosa nella teoria si verifica il medesimo. Supponiamo che il Governo sia in mano di persone non proprietarie: in tal caso egli può essere giusto , purchè le persone non proprietarie lo abbiano ottenuto per alcuno di quei titoli giusti che abbiamo enumerati 1); ma egli non sarà tampoco regolare ; poichè non esisterà in esso l' equilibrio tra la proprietà ed il potere. Or avranno essi diritto i proprietari di voler entrare a parte del governo e spogliarne le persone governanti non proprietarie? Non mai: questo è quello che si debbe rispondere se si parla di diritto. Ma se si chiede che cosa avverrà probabilmente nel fatto, si potrà rispondere con una fondata conghiettura, che un tal governo non durerà lungamente: poichè le persone governanti hanno bensì il diritto di governare, ma il loro diritto rimane indifeso e non garantito per mancanza della proprietà. Che cosa dunque succederà? Se le persone governanti vengono prese in sospetto d' ingiustizia e di malvagità, i proprietarŒ si ribelleranno e chiederanno di governar essi. E sebbene sia difficile che un tal sospetto non nasca sulle persone governanti, supponiamo tuttavia, che la loro riputazione sia tale, che le salvi da ogni sospetto d' iniquità. In tal caso le persone governanti saranno imbarazzate a governar con sapienza; poichè ci vuol una sapienza sovraumana a regolare la modalità di tanti diritti nel miglior modo, senza conoscer da vicino l' Amministrazione dei diritti stessi, o per dir meglio senza amministrarli. Non governando adunque con tutta la sapienza avverrà che i proprietarŒ in danno dei quali cadono i difetti dell' Amministrazione, se ne risentano, e sdegnino di essere in tal modo amministrati: e ciò tanto più, quanto più hanno di lumi, per li quali sieno in caso di conoscere i difetti del governo. Ma facciamo una supposizione ancora più larga, cioè supponiamo, che un governo non proprietario (cosa al tutto impossibile) governi con perfetta sapienza. Cercheranno meno per questo i proprietarŒ di entrare nel governo? non già, poichè non basta che il governo operi con tutta sapienza: bisognerebbe che i proprietarŒ fossero di ciò a pieno persuasi. Ora quando sarà mai possibile, che i proprietarŒ si persuadano, che la modalità dei proprŒ diritti sia meglio amministrata da altri che da se stessi? Ma dato anche ciò rispetto ad un particolare governo, non saranno essi solleciti di assicurarsi anche per il futuro? E qual miglior garanzia di quella di essere essi stessi quelli che dispongono delle cose politiche? Il perchè si può ragionevolmente dire, che i proprietarŒ avranno sempre una tendenza ad intrudersi in quel governo dal quale essi fossero esclusi, e che la Società perchè sia quieta conviene non solo che sia giusta , ma ben ancora che sia regolare , altramente il fatto pugnerà col diritto fino che le leggi naturali non si trovano d' accordo colle leggi morali. Noi abbiamo ricapitolato questo argomento per far osservare, che egli si applica ad ogni sorta di proprietà e che non solo la ricchezza terriera, ma ben anche la ricchezza mobiliare, tende di sua natura ad intromettersi nel governo. Egli è quello, come dicevamo, che le istorie mostrano costantemente. Appena che in una nazione comparisce la ricchezza mobiliare, e cresce ad un certo grado si vedono altresì le contese politiche dei mercatanti possessori della ricchezza mobiliare coi nobili possessori della ricchezza territoriale. I nobili sono gli antichi posseditori del governo: i mercatanti sono i nuovi proprietarŒ, la cui esistenza ha reso irregolare la forma del governo: perchè ha introdotto nella società una proprietà non rappresentata: quindi tendono a conseguire la rappresentazione della medesima, perchè la necessità vuol di nuovo regolarizzarsi. - Ma i proprietarŒ delle terre trovandosi già in possesso del governo, se in vece di essere persuasi o trattati con arte dai mercatanti, vengano assaliti violentemente, allora nasce una lizza per la quale l' impulso naturale, che tende a regolarizzare la proprietà si perde di vista: i proprietarŒ delle terre, ossia i nobili 1) credono d' essere ingiuriati dal partito opposto, e sono veramente, o sempre poi ve n' ha tutta l' apparenza. Quindi non si contratta più fra questi due partiti: non si cerca più concordemente il bene dello stato: ma invece di ciò si tende a screditarsi a vicenda: i mercatanti rinfacciano ai nobili il loro orgoglio, i loro vizŒ, la loro ambizione, l' avidità la voglia di dominare, e di tiranneggiare: i nobili all' incontro rinfacciano ai mercatanti l' insubordinazione, la voglia di disordinare la Società, lo spirito sedizioso, il disprezzo delle potestà costituite da Dio, il democratismo, l' empietà. In tal modo non è più la forza naturale delle cose che opera, ma le sollevate passioni, e l' accanimento delle due parti passa ben presto ogni termine. In tale stato di cose nè l' una nè l' altra parte pensa di dare allo stato un equilibrio fondato sull' equità, ma l' una parte non pensa che a divorar l' altra s' ella può; e ciascuna parte maneggia d' avere in mano il governo, non più perchè lo consideri come una forza di proteggere e di promuovere tutti i diritti; ma perchè lo considera come una forza di proteggere e d' accrescere i diritti proprŒ, distruggendo quelli della parte contraria. Tale è la celebre ed infelice istoria delle repubbliche italiane del medio evo. Ascoltiamo ancora qualche passo dell' istorico delle medesime. Abbiamo veduto che la forma di governo stabilita in Firenze nel 12.2 fu interamente mercantile, giacchè i sei Priori delle Arti eran quelli che componevano la signoria. Ma l' esclusione dei gentiluomini ben presto andò più avanti. [...OMISSIS...] Lo stesso caso veggiamo avvenire in Siena. [...OMISSIS...] Qual fu l' effetto di questa forma di governo nella quale non entravano che mercanti, essendo esclusi assolutamente i nobili? Udiamolo: [...OMISSIS...] In Arezzo era successo il medesimo. Ma non durò per una controrivoluzione, che tornò i gentiluomini insieme col partito ghibellino al reggimento della città. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] I nobili esclusi dal reggimento dovevano risentirsi; ma in Firenze non avevano forza di reagire per le loro discordie. Non restava loro che disprezzare il nuovo governo, e sdegnare di sottomettersi ai mercanti. Questo disprezzo il manifestarono con un impotente orgoglio, col ricusare di sottomettersi ai Tribunali, di fare ciò che volessero e di proteggere gli scellerati con che non ottennero se non che fosse raggravata l' oppressione sopra di loro, e che nascessero gli ordini posti da quel severo Giano della Bella, che di gentiluomo s' era fatto popolano. Egli arringò il popolo, ed ottenne una commissione per rendere la signoria più forte mediante il potere militare contro dei nobili. [...OMISSIS...] Il Macchiavelli paragona le dissensioni di Firenze fra il popolo ed i nobili a quelle di Roma, e le distingue dai loro diversi fini così: [...OMISSIS...] E chi vorrà sapere la ragione di queste differenze fra le dissensioni di Roma e quelle di Firenze, anzi di tutte le repubbliche del medio evo, le troverà in questo: che il popolo di Roma fino dal principio ebbe proprietà, e parte corrispondente nel governo; sicchè non si trattava in quelle dissensioni che del modo di fare le parti giuste fra due padroni, o di rendersi scambievolmente giustizia. Presso i Romani non si conobbe si può dire altra ricchezza che la territoriale, e per questo prima che cadesse il governo nel dispotismo militare, le tribù rustiche erano le più stimate, e le arti meccaniche vi erano temute: il commercio non vi era promosso 1); e nessuno forse si è accorto della ragione politica di questa umiliazione, in cui si tenevano l' arti e i commerci. Dagli antichi proprietarŒ e governatori della cosa pubblica si temeva che non comparissero dei proprietarŒ di nuova specie, che aspirassero all' Amministrazione dello stato. All' incontro nel medio evo le dissensioni successero così. Le proprietà come pure il governo era interamente in mano dei nobili, e il popolo non esisteva nè come proprietario, ne' come amministratore delle cose pubbliche: egli era schiavo dei nobili. Dopo il mille nacque la sua liberazione per quelle cagioni che abbiamo dette, in tal modo comparve una popolazione libera: il primo passo che fece questa popolazione fu di diventar proprietaria: il secondo passo fu di presentarsi agli antichi padroni, pretendendo di avere anch' essi parte nel governo. La questione adunque non riguardava come a Roma nel doversi fare le parti eque di un bene posseduto in comune: ma si trattava di torre questo bene a chi per innanzi tranquillamente lo possedeva, e di farselo cedere per amore o per forza. Quelli che si presenta per avere la roba altrui non si presume già che si contenti di una sola parte, ma di ottenerne più che può; giacchè non è la giustizia ciò che lo conduce ad operare, ma è l' avidità. La questione in questi termini prendeva nelle opinioni quel carattere che ha la pugna tra il viandante e l' assassino: l' uno e l' altra non mira a meno che a sgozzarsi. Sembra che la popolazione schiava, a fare il primo passo, cioè ad acquistare la libertà e la proprietà, impiegasse due secoli, e che nel secolo XIII, facesse il secondo, cioè pugnasse per l' acquisto del potere politico. 2) [...OMISSIS...] In un secolo si resero prevalenti anche nei governi, sicchè come vedemmo negli ultimi vent' anni del secolo XIII i mercatanti ebbero la somma delle cose pubbliche, esclusa la nobiltà. La lotta delle parti che sostiene, anche presentemente, il governo d' Inghilterra non è parimenti che una lotta d' interessi, la ricchezza industriale che combatte colla ricchezza territoriale. Dovunque le forze della natura hanno libera azione, questa lotta si debbe manifestare, e non può finire se non allorquando tutti i membri della società sieno convenuti nell' equità dell' Amministrazione da noi proposta, nella quale ciascuno si appaghi di avere un voto corrispondente alla sua ricchezza di qualunque genere questa sia, o territoriale o mobiliare. 2) Per altro l' istoria della società civile in Inghilterra presenta gli stessi fatti che l' istoria della società civile in tutti gli altri paesi d' Europa: anche colà si vede passare la società da una rappresentanza personale ad una rappresentanza reale: e datare da questo secondo stato della società l' epoca di una esistenza civile non più solo militare, ma di una costituzione formata: anche colà la rappresentazione reale che dà la forma al governo subisce le stesse modificazioni della ricchezza: prima non esiste che una ricchezza terriera divisa in grandi masse, e quindi non hanno mano nel governo che grandi signori: anche là vengono poi francati gli schiavi e quindi sorgono i piccoli proprietarŒ; quindi ancora s' introduce nelle assemblee politiche il terzo stato: anche là comparisce in appresso accanto della ricchezza territoriale la ricchezza industriale e commerciale: ed anche là questa ricchezza dimanda ben presto ed ottiene di aver parte nel pubblico reggimento, non senza sdegno e reazione della nobiltà, sicchè queste due ricchezze territoriale e mobiliare seguitano a guardarsi pure come due rivali. I recenti democratici francesi come pure i radicali inglesi hanno fatto di tutto per contraffare la storia d' Inghilterra, e per trovare nelle antiche croniche qualche traccia di rappresentazione personale: ma i loro sforzi non hanno fatto che mettere in maggior evidenza la natura della Costituzione Inglese fondata sulla ricchezza. « « Ogni rappresentazione, » dice Arturo Joung, «che ebbe luogo negli antichi tempi, fu una rappresentazione di proprietà non mai di persone »1) » Riguardo all' Inghilterra, a confirmare ciò, egli cita l' opinione dei più riputati scrittori inglesi. Il dottor Squire nel suo esame della Costituzione Inglese dice [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] Così l' Inghilterra dunque come gli altri stati d' Europa vide i piccoli proprietarŒ ascendere al governo nel secolo XIII ed avere adoperato i due secoli precedenti per acquistare la libertà e la proprietà; giacchè « « dal libro dei registri Doomsday7Boock apparisce che l' Inghilterra era piena di villani e di schiavi al tempo di Odoardo il Confessore (1066). » » Non si può parlare con più mal senso delle modificazioni che Odoardo I ha dato alla Costituzione inglese di quello che abbia fatto il Sig. Raynal nella sua « Storia del Parlamento d' Inghilterra . » Il suo modo di parlare manifesta la mancanza dei principŒ di una vera politica, se non forse dei principŒ di qualunque politica. Dopo aver detto che montando Odoardo sul trono aveva dissimulato le usurpazioni fatte dai Comuni nella sua assenza, che poi, quando si credette bastevolmente amato e temuto, tolse a ricuperare i diritti del trono, cominciò a regnare senza parlamento, e senza dar bada ai privilegŒ della Gran Carta, impose egli stesso dei sussidŒ straordinarŒ, chiama questo partito, preso dal re, generoso , e non gli fa altra colpa se non ch' egli non avea esaminato innanzi s' egli aveva un carattere abbastanza fermo contro gli ostacoli, le pretensioni orgogliose, e il genio altiero dei suoi popoli. [...OMISSIS...] Non è così che si debba portar giudizio della condotta di Odoardo, dove la si riscontri coi principii d' una savia politica. I diritti del trono di Odoardo saranno stati incontrastabili; ma non è già per questo che egli li dovesse ostinatamente difendere. La costituzione della società era giusta come nel secolo precedente; ma al tempo di Odoardo, rimanendo giusta, cominciava a rendersi irregolare; mentre erano comparsi recentemente dei corpi di persone libere quali erano i Comuni, che pur nel governo politico non erano rappresentate. Non è dunque da chiamar generoso il partito preso di difendere a tutto rigore i diritti del trono: ma piuttosto si debbe lodare Odoardo per la sua moderazione nell' aver desistito dal conservare a rigore l' antica costituzione, nel cedere qualche cosa per rendere regolare la società: è da lodarsi per la sua saviezza nell' avere assecondato la legge della natura e nell' avere riguardato le usurpazioni dei Comuni piuttosto come uno sforzo della società, che voleva rimettersi in equilibrio, che come un peccato dell' umana perversità. Il suo partito fu generoso, perchè rimise dei diritti proprŒ, perchè la costituzione dello stato riuscisse più solida: il suo partito fu anche avveduto, poichè è regola certissima di prudenza di non volere ostinatamente « opporsi ad una resistenza che nasce da una legge della natura delle cose, e non dagli uomini ». Il dire che ciò nacque più da timidità che da saviezza, non toglie la verità delle cose dette, non toglie che se fosse stato sul trono inglese un principe o troppo tenace del sommo diritto, o troppo presuntuoso delle sue forze, non avesse operato assai peggio, e per lo meno ritardata la perfezione della società in Inghilterra. Invano Odoardo più tardi tornò al pensiero di riprendere i diritti ceduti: la legge della natura la vinse, e la costituzione data, appoggiata sulla medesima, vie più si confermò. Il Sig. Raynal fu spettatore delle conseguenze funeste della rivoluzione francese, vide il frutto dei principii ch' egli stesso avea pubblicati, e ne fu inorridito, manifestando il suo orrore colla Lettera che scrisse il 31 maggio 1791 all' Assemblea costituente e coll' opuscolo degli « AssassinŒ e Furti politici . » In quest' ultimo libretto si riscalda contro le confische e mostra come il toccare la proprietà è lo stesso che il sovvertire la società intera: vede come un fatto generale, attestato da tutte le istorie, « « che le nuove divisioni di terreno quando non sono liberamente fatte e col consenso del primo proprietario, non produssero che dissensioni orrende e guerre civili, sempre collo stabilimento di qualche tirannia terminate: » » parla contro le leggi agrarie, ed espone i sentimenti di Cicerone sulle medesime, che le riguardò sempre come il mezzo dei sediziosi per conturbare l' ordine pubblico. Quest' era quanto vedere la relazione che la proprietà ha costantemente col potere civile, per la quale relazione non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile: questo era un andar vicino a conoscere la natura della società civile. Qual passo mancava per arrivare a ciò? quello d' invertere l' ordine della proposizione: e dopo d' aver detto: non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile; dire parimenti: non si può toccare il potere civile senz' alterare la proprietà. Come alzar la voce contro le confische ed i furti politici, come gridare contro l' alterazione delle proprietà particolari, mentre prima si ha dato licenza, si ha esortato a metter le mani nel potere civile? Ella è una contraddizione quella di voler che il popolo metta le mani nel governo, e che poscia le raffreni dalle ricchezze dei privati: egli è un pretendere una virtù eccessiva e soprannaturale dagli uomini: voi date loro tutte le occasioni e gli incentivi di fare il male, e poi intimate loro la più severa morale. « « Oggi ricompaio come un' ombra di me stesso, » dice il Sig. Raynal, «non per avvertirvi di alcuni errori in politica, ma per rimproverarvi di molti delitti in morale » ». Non è più il tempo di rimproverare i delitti di morale ad una nazione la quale ha precedentemente guastata la sua politica: gli errori in politica sono appunto quelli che tirano seco i più enormi delitti in morale: chi ha predicato quelli si è reso colpevole anche di questi. Così il Sig. Raynal si è dimostrato una testa riscaldata e superficiale più tosto che un uomo cattivo, come tutti quelli che avendo contribuito pei loro falsi principŒ politici alla rivoluzione francese, quando poi videro che tutto andava a ruba, e a sacco, e che la proprietà era altrettanto mal sicura quanto la vita in mano degli assassini, si scusarono con dire ch' essi non avevano punto intenzione che fossero manomesse le proprietà; ed invece di riconoscere la causa di questi mali in un vizio intrinseco degli stessi principŒ politici, si contentarono di trasformarsi subitamente da politici in moralisti, e di declamare contro l' umana perversità: contro questa perversità che essi stessi avevano suscitata. I principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione da noi altrove esaminati mi chiamano a far osservare in fine di quest' articolo, la relazione che passa fra la Legge della società famigliare e la Legge della società civile; e a sciogliere nello stesso tempo l' obiezione che si suol fare contro di questa coll' esempio degli Stati Uniti d' America. La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società famigliare abbiamo detto consistere nell' equilibrio fra la popolazione e la ricchezza . La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società civile diciamo consistere nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile o propriamente parlando il potere amministrativo. Si vegga ora la stretta relazione fra queste due Leggi. La Legge della Società domestica può essere alterata in due modi, per difetto di popolazione, e per eccesso . Se si trova alterata per difetto ne patisce la famiglia ; perchè essa non ha una forza proporzionata alla sua ricchezza sicchè questa è in pericolo. Non così nello stato di Società civile; perchè la società civile s' incarica essa stessa di difendere la ricchezza della famiglia; giacchè le famiglie coll' entrare nella Società Civile hanno mutato le vie di fatto nelle vie di diritto, e se questo non basta hanno rinunziato alla forza privata, prendendo in difesa dei proprŒ diritti una forza comune e pubblica. In tal modo la disuguaglianza proporzionale colle ricchezze della popolazione nelle famiglie è un pericolo di pubblica inquietudine che vien5 tolto o certo scemato coll' Istituzione della Società civile, nella quale non si considera più la forza famigliare, perchè riesce infinitamente piccola rispetto alla forza nazionale istituita per difesa della ragione comune. Ma non si può fare il medesimo discorso dell' alterazione della Legge famigliare che nasce per eccesso di popolazione. Questa popolazione che eccede la ricchezza delle famiglie, e che forma la classe dei poveri, è quella che ricade sulla società civile, come abbiamo veduto nel primo libro, e che la mette in pericolo. Posciachè la popolazione povera cresciuta a gran numero forma una forza considerabile, perciò in ragione che questa popolazione sarà maggiore essa potrà più facilmente assalire quelli che hanno il potere civile e tirarglielo dalle mani. In tal caso la povertà guidata dai facinorosi è quella che spesso altera la Legge della Società civile cioè l' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile . La relazione adunque fra la legge della società domestica e la Legge della Società Civile consiste in questo che se la prima si altera per eccesso di popolazione tale alterazione prepara e facilita l' alterazione della seconda. Ora i principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione sono al tutto falsi: egli non conosce il male dell' eccesso: d' altro canto il suo diritto di natura incoraggia la popolazione povera a nutrirsi colle altrui sostanze, dando per primo diritto all' uomo quello di vivere, senza ben limitarlo colla legge della proprietà che ho sviluppata, la quale obbliga il povero a non vivere dell' altrui se non nell' estremo bisogno, e quand' egli non abbia nè col suo lavoro, nè con altro mezzo onesto, via di procacciarsi l' alimento. Perciò il vero diritto di natura obbliga i poveri dal temperarsi nella generazione dei figliuoli, mentre il principio del Sig. Raynal incoraggia la popolazione senza limite alcuno, e senza riflessione portata sulle sue conseguenze. Il Sig. Raynal dunque con insegnare l' aumento indiscreto della popolazione prepara nella società una turba di gente, che, stimolata dai bisogni, è disposta ad ogni occasione d' impossessarsi del potere civile per impossessarsi quindi delle proprietà. I principii dunque del Sig. Raynal menavano appunto ai furti politici, contro a cui invano ultimamente declamava. Aveva egli diritto quest' uomo alla vista degli orrori della rivoluzione, frutto dei principii che avea predicato in tutta la sua vita, di sostenere ancora il suo tuono di filosofo e di maestro dei popoli scrivendo: [...OMISSIS...] Era passato il tempo degli avvisi: non era più la stagione di moralizzare sulle conseguenze dei proprŒ principŒ: bisognava riconoscere d' avere sbagliato i principŒ stessi, d' essere stato non già un filosofo, lume delle nazioni, ma un cieco caduto nella fossa coi ciechi da lui condotti. Noi abbiamo veduto che i proprietarŒ non sono mai quelli che amino i turbamenti politici, perchè temono di perdere nei medesimi le loro proprietà: che all' incontro quelli che nulla possedono amano che le cose sieno mutate, perchè sperano d' acquistare nella mutazione: che perciò se il potere civile sarà nelle mani dei proprietarŒ essi lo useranno a tener le cose ferme nel loro stato: mentre se sarà in mano dei non proprietarŒ essi lo useranno a mutarle. Contro di questo argomento si accampa un sofisma pernicioso di Rousseau che fu poi messo in bocca dal Sismondi alla parte dei mercatanti aspiranti al civile reggimento: La ricchezza, dice Rousseau, è la madre della schiavitù; poichè i ricchi per non perdere i loro beni si rendono facilmente servi di chi loro comanda. Il Sismondi restringe quest' argomento alla ricchezza territoriale; poichè non potendosi questa specie di ricchezza nascondere e sottrarre agli eserciti, essa, messa in pericolo, rammollisce alla servitù l' animo del padrone che non vuol perderla. Io accordo a Rousseau che il selvaggio privo di bisogni, perchè privo di desiderŒ, preferisca la sua libertà corporale e la sua vita ferina, a tutte le ricchezze del mondo; giacchè nè sente nè conosce i beni di una vita comune e ordinata. Ma mi sia lecito di protestare, non essere mio intendimento di far una teoria sociale per li selvaggi di cui non hanno bisogno. Scrivendo dunque per gli altri uomini tutti come sono, noi veggiamo per un fatto costante ed universale che il povero ama di acquistare della ricchezza, e che è egli che si sottomette alla servitù e fin anco alla più obbrobriosa schiavitù prima per vivere e poscia per arricchire. Il fatto adunque è precisamente l' opposto di quello che Rousseau ci reca in prova della sua teoria; e la differenza sta quì: che egli l' ha osservato nei selvaggi, e noi l' abbiamo osservato in tutti gli altri uomini: nei selvaggŒ cioè nella porzione del genere umano degradata egli ha osservato, che l' amore della libertà individuale fa loro disprezzare la ricchezza, ossia tutti i beni della vita civile: in tutti gli altri uomini noi abbiamo osservato succedere un fatto contrario, cioè che l' amore della ricchezza o sia dei beni della vita civile fa disprezzare e sacrificare la libertà individuale. Quale di queste due specie di uomini ha ragione nel suo giudicio? la specie degradata allo stato quasi dei brutti, o tutto l' altro uman genere colto? Se non vogliamo ricavare la risposta a questo quesito dal confronto delle due autorità che portono sulle cose giudicii così opposti, ricaviamola da un' altra osservazione. E` certo che il selvaggio non è in istato nè di sentire nè di giudicare dei vantaggi della vita colta e civile. Gli altri uomini all' incontro che per godere i beni di questa vita colta e civile sono contenti che venga limitata la loro libertà individuale, possono fare il confronto di tutti due questi stati; poichè tutti due li provano. I due giudicŒ adunque non sono di egual valore, poichè il selvaggio preferisce la libertà individuale, perchè non conosce nè è in caso di conoscere altro; e gli altri uomini preferiscono i beni della vita colta, perchè sono in caso di gustarli e di conoscerli. Ma che giova tutto questo discorso? Nulla monta chi abbia ragione dei due al nostro proposito: si tratta di sapere se tutto il genere umano debbe esortarsi a fare la vita dei selvaggi: si tratta di sapere, se a ciò sarebbe possibile di persuaderlo: si tratta di sapere se nel genere umano, il quale non si sia ancora reso selvaggio, esista questo fatto costante, che preferisca cioè la ricchezza, o sia i beni della vita colta alla libertà individuale. Se questo è un fatto costante ne verrà in conseguenza, che sia altresì un fatto costante, che la gente povera sia assai più arrendevole alla servitù che la gente ricca; che perciò non sono mai i ricchi quelli da cui si debba temere la servitù, ma bensì i poveri, i cui animi sono domati dal bisogno, e comperati con facilità da promissioni di ricchezze. Egli è vero che se un capitano minaccia di devastare le terre dei ricchi, questi prima di venire ad una guerra, nella quale le loro ricchezze vanno a pericolo, accetteranno delle condizioni gravose. Essi ricevono queste condizioni per quel fatto stesso di tutta la parte colta dell' umano genere che dicevamo, cioè perchè preferiscono la ricchezza ad una libertà illimitata: questo fatto non è possibile di mutare, e su questo fatto, come dicevamo, il politico debbe fondare l' organizzazione della società. Or dunque crederassi di evitare a questo supposto disordine col dar in mano il governo alla gente povera? non già: poichè per quello stesso fatto ne verrà che questa gente povera userà del governo per farsi ricca, e per coprire le sue usurpazioni contratterà se fa bisogno anche coll' inimico della patria: lo desidererà, lo chiamerà. Gli usurpatori nell' interno dello stato hanno sempre avuto bisogno dei nemici esterni per sostenersi. D' altro canto se potranno compire la loro usurpazione senza bisogno di esterno soccorso, questa gente povera che governa sarà divenuta la proprietaria: e saremo tornati in sullo stato di prima. Fino che si parla di una nazione che ha dei grandi terreni, questi o bisognerà che restino incolti; il che è tanto impossibile, quant' è impossibile persuadere all' uman genere colto di farsi selvaggio; o pure bisognerà che sieno di qualcheduno; ed in tal caso giova che chi li possiede abbia nelle cose pubbliche proporzionata influenza. Se si parla poi di nazione al tutto povera, essa avrà vantaggio benissimo d' una certa libertà energica che la compenserà della sua povertà. Ella dovrà giovarsi di questo vantaggio; il legislatore suo particolare dovrà farne conto: ma le massime politiche, che varranno per essa non si dovranno giammai credere i fondamenti di una politica generale. Dopo queste considerazioni sulla povertà e sulla ricchezza in un rispetto politico considerate, si può convenire col Sig. Sismondi, che la ricchezza mobiliare si sottrae più facilmente alle minaccie degli inimici della patria: ma non avviene già per questo che sia alla patria una garanzia maggiore, che non i terreni, amore dei proprietarŒ. Dopo di ciò è facile sciogliere l' esempio che ci recano in favore della rappresentanza personale di un recente governo quale è quello d' America. In una nazione che comincia, in cui le proprietà sono presso a poco eguali, come sarebbe in una nazione conquistatrice che divida in porzioni eguali il suo terreno, la rappresentanza reale si confonde colla personale, e perciò essa non fa danno nella nazione. Sebbene nell' America vi sieno delle grandi e delle piccole fortune, tuttavia non v' è quella sproporzione che, come dicevamo, è la più pericolosa, cioè quella che consiste nell' esservi accanto dei proprietarŒ un gran numero di miserabili, come si trova in tutte le nazioni d' Europa; perchè vi è grand' abbondanza di terreni, e relativa scarsezza di popolazione. Il solido pensatore Arturo Joung dopo aver recato un passo dai CommentarŒ sulla Costituzione americana del Sig. Wilson, nel quale dice che in quel governo il popolo può tutto sopra la costituzione, tanto di fatto che di diritto, in questo modo si esprime: [...OMISSIS...] Finalmente osservo che gl' Inglesi si sono più avvicinati di tutti gli altri a conoscere la vera teoria della società civile. Prova ne sia la bilancia territoriale di Harrington, colla quale stabilisce la proporzione de' terreni colle forze della famiglia. Questo politico sarebbe stato in caso di dare la vera idea della società civile, se non si fosse limitato a considerare la sola ricchezza territoriale, se avesse saputo distinguere il Tribunale politico dall' Amministrazione, e se avesse avuto la nostra esperienza. A conferma di ciò che ho detto contro Rousseau circa la relazione della libertà colla proprietà soggiungerò alcuni aforismi di Harrington, che conferma il fatto da me osservato nell' uman genere colto. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] Il quarto fatto è il seguente: [...OMISSIS...] La potestà amministrativa della società non è mai affermata nelle mani di quelli che l' hanno ottenuta, se questi non sono i proprietarŒ. V' è però un caso, in cui lo squilibrio fra la proprietà ed il potere amministrativo si mantiene per lungo tempo, e questo è il caso del principato assoluto, unico caso somministrato dalla storia. Per ciò il principato assoluto è il più saldo fra tutti quei reggimenti nei quali si trova squilibrio fra la proprietà ed il potere, per cui lasciando tutti gli altri stati di squilibrio, i quali anzi che veri reggimenti non sono che fluttuazioni della società, mi fermerò a dimostrare il fatto enunciato nel reggimento del principe assoluto. Sembra che le teorie intorno al principato dei giureconsulti, sebbene ancora incerte, si riducano a due. Alcuni considerano il principe come la persona che ha ottenuto il governo della società civile per modo che è divenuto sua proprietà; sicchè nissuno e neppur la nazione stessa può toccarla senza violazione d' un sacro diritto. Alcuni poi considerano il principe come il supremo magistrato della nazione, nel qual caso il diritto di governare resta una proprietà della nazione, ed essa lo esercita mediante il principe come mediante un suo ministro, o vero impiegato. Per quante prerogative riceva questo ministero, quantunque sia egli dichiarato infallibile, inviolabile ecc. egli non muta di natura, ma resta il primo officio dello stato, la prima magistratura. Solo nel primo caso il principato è un potere assoluto, mentre nel secondo è un potere delegato. La questione che si agita fra i giureconsulti, che seguono queste due teorie, sebbene sia antica, duri tuttavia, e vorrà probabilmente ancor durare, tuttavia è una misera questione, che nasce per l' equivoco che produce un vocabolo. Il vocabolo principato è quello che produce l' equivoco; poichè si applica a due sorta di reggimenti diversi, i quali per parlar chiaro e senza fallacia, debbon esser nominati con due parole. Non si debbe dimandare che cosa è il principato, e quindi questionare se egli sia un potere assoluto o delegato. Col proporsi quella dimanda già l' errore è commesso; poichè essa suppone che colla parola principato si esprima una cosa sola. Non si questioni adunque sulla definizione di quella parola equivoca, ma si cominci a stabilire, che in una nazione può accadere che una persona tenga il primo posto e governi di fatto in due maniere; cioè o autorizzata da un diritto proprio, o come esercente un diritto altrui per delegazione del proprietario. Nel primo caso si dica ch' essa è un principe assoluto , nel secondo che essa è un principe delegato . E` vero che nell' un caso come nell' altro nella società non si trova che una persona che governa: ma i poteri di questa persona nell' un caso e nell' altro sono ben diversi. Perciò invece di far una domanda sola: Che cosa è il principe? se ne facciano due: Che cosa è il principe assoluto? Che cosa è il principe delegato? Rispondendo alla questione così divisa, la questione è svanita. Fissate queste due forme di governo, si debbe passar ad applicarle. A tal fine non è bastevole di sapere, che quello stato a cui si vogliono applicare è governato a principe; ma bisogna di più osservare se sia governato a principe assoluto o a principe delegato: e questo rilievo non si fa, che esaminando storicamente i titoli della persona o della casa reggente. Egli è dopo questa verificazione che si possono definire i diritti scambievoli dello stato e del reggitore. Se si fosse proceduto con quest' ordine logico si avrebbero risparmiate innumerevoli dispute e discussioni. Abbiam dovuto fissare l' idea del principato assoluto per chiarezza del discorso: ora dobbiamo noi verificare questo fatto: che « trovandosi nel principato assoluto, unico amministratore della società, lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile; esiste una tendenza di queste due cose a mettersi in equilibrio o col scemare l' autorità politica al principe o coll' accrescergli le sue ricchezze, o finalmente coll' attribuirgli per finzione quella proprietà, che di fatto non possiede, e che gli è necessaria pel sostenimento della sua autorità. Il principato delegato, specialmente fornito di prerogative che lo avvicinano all' assoluto, come sarebbe dire la inviolabilità, e la ereditarietà ecc. sebbene più remotamente dimostra lo stesso fatto che il principato assoluto. Questa fu la prima cosa di cui Dio ammonì gli Ebrei, quand' essi vollero un re. Egli comandò a Samuele di predir loro ciò che porta con se la dignità reale, cioè la tendenza di equilibrare questo potere personale con altrettanta proprietà. Ecco come Samuele si espresse: [...OMISSIS...] Questo non è altro che predir loro la legge della Società civile, cioè l' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: questo non è che un dire « se voi volete concentrare in un uomo solo il potere civile, sappiate che ne verrà per conseguenza che vengano a concentrarsi in un uomo solo anche le ricchezze; perchè queste due cose tendono a mettersi in equilibrio. » Se però questa legge non si verifica tante volte rapidamente, ciò nasce per la virtù e per la giustizia dei principi; i quali resistono all' impulso naturale, e preferiscono il giusto ai più grandi vantaggi: e di questi esempŒ di magnanimità sono piene l' istorie dei principi cristiani; specialmente nei secoli di mezzo quando la religione aveva su loro gran forza, e non era entrata nelle corti quella politica che tutto corrompe, e che ha finito col confondersi nella incredulità. Ma ogni qualvolta il principe assoluto sarà privo di un grado eminente di virtù e di magnanimità, cederà agli impulsi di usare l' Amministrazione che è in sue mani per tirare a sè la ricchezza, cioè preferirà il vantaggio suo proprio, e anderà male l' Amministrazione della maggiorità degli interessi. Non così però sarebbe se egli possedesse più che la metà delle ricchezze della nazione; poichè in tal caso la maggiorità degli interessi sarebbe bene amministrata. E quest' è che osserva Harrington, il quale non considera lo stato che come un' Amministrazione. Ecco due dei suoi aforismi politici. [...OMISSIS...] Egli è certamente falso il dire che ciò formi la monarchia assoluta; ma si rende vero il pensiero di Harrington, quando invece di monarchia o di governo si dice Amministrazione. In fatti supporre che il governo non sia che un' Amministrazione è un materializzarlo di soverchio. Noi crediamo che ci sia a questo proposito due errori opposti assai perniciosi: l' uno dei quali consiste nel materializzare le cose spirituali; e l' altro consiste nello spiritualizzare le cose materiali. Noi abbiamo creduto di evitarli tutti e due col guardarci bene dall' attribuire al governo l' uno solo di questi elementi con esclusione dell' altro; e quindi col considerare il governo risultante dai due poteri essenzialmente distinti, l' uno amministrativo e l' altro giudiciale, l' uno centro della forza fisica, l' altro della morale: l' uno che provede agl' interessi, e l' altro alla dignità dell' uomo, e che provedono insieme ai diritti sì reali che personali. Questa idea che acquisterà maggior luce, mediante ciò che noi diremo sul quinto fatto, è da ritenersi presente, acciocchè non sembri che noi parlando dell' Amministrazione, cadiamo nell' errore tanto comune a' dì nostri di materializzare il governo. La povertà del principe assoluto, rendendolo inetto a sostenere la potestà amministrativa, diventa la sorgente della politica falsa: la quale mette in opera tutti gli artificŒ, le simulazioni, le frodi, le perfidie, e le viltà più obbrobriose per conservare un potere di sua natura vacillante. Non si nega già che di tutti questi neri raggiri, di tutta questa arte di raffinata perversità non sia cagione l' umana malizia: certo la malizia umana è la cagione generale di tutti i mali che fa l' uomo: ma questa malizia opera più o meno secondo le occasioni che si presentano alla medesima. Non basta dunque per render ragione dei mali che avvengono al mondo ricorrere a quella causa generale: bisogna ancora indicare le occasioni per le quali quella causa ora fa più male ed ora ne fa meno. E medesimamente non basta predicare agli uomini la virtù, ma bisogna ancora aiutarli a praticarla col disporre le cose in modo che abbiano meno occasioni di far male, e più che sia possibile occasione di far bene. Ed è per questa ragione che la politica giova alla morale. Se voi provvederete che gli uomini sieno nutriti, voi diminuirete con ciò i furti: se renderete i tribunali così savi e così forti che possano amministrare pubblicamente la giustizia, voi diminuirete le vendette private: se porrete i cittadini in uno stato di avere i loro diritti difesi con modi onesti, essi non penseranno a difenderli con modi inonesti: finalmente se il principe avrà tanta ricchezza da poter sostenere la propria dignità civile, egli lascierà stare la ricchezza dei sudditi, e non avrà più bisogno di una politica tenebrosa, ma si appoggerà ad una politica leale, nobile, ed anche benevola. Il principe assoluto povero, quando anche sia onesto e rifugga da una politica scellerata, se vorrà sostenersi non potrà tuttavia a meno di prendere una politica cavillosa, o finalmente vacillante. La politica dell' equilibrio dei poteri si può dire che sia nata così. Come ella consiste nell' unirsi o coi comuni o coi nobili o col clero per abbassare le altre due classi, ella è obbligata ad avvilirsi con frequenza per mendicare il favore del suo alleato; essa diventa naturalmente sospettosa e trepidante dal momento che è sempre in dubbio di essere abbandonata dalla forza alleata, ed ha sempre da temere che l' opposizione prevalga: finalmente ella è una politica ostile, perocchè lavora sempre una guerra secreta fra i diversi poteri della nazione, ciascuno de' quali spera di soverchiare; non perchè abbia forze bastevoli in sè stesso, ma perchè maneggia un' alleanza colle forze altrui; e nello stesso tempo teme di essere soverchiato; poichè non avendo forze proprie bastevoli da sostenersi, può sempre avvenire che le forze altrui l' abbandonino. Egli è dunque una cattiva costituzione quella nella quale nessuno ha bastevole forza da difendere i proprŒ diritti. Una tale debilezza porta la strana conseguenza che ciascuno per potersi difendere cerca di mettersi sul piede di assalitore; e tutti gli animi timorosi d' essere ad ogni istante spogliati del proprio, facciano di tutto per poter prevenire ed assalire l' altrui. Ciò nasce, come diceva, quando il governo è povero, e debbe adoperare la ricchezza altrui per difendere la propria autorità. Ma all' incontro nel caso in cui il potere civile sia equilibrato colla ricchezza, allora succederà che la maggiorità nel potere civile sia congiunta colla maggiorità della ricchezza: e come la maggiorità di potere civile e di ricchezza forma una forza a cui non ve n' ha nissun' altra che possa tener fronte: quindi questa maggiorità è difesa per sè stessa, e non ha bisogno di cercare delle alleanze per sostenersi, come pure è priva di timore d' essere soverchiata. Ella dunque è priva di quella tentazione d' assalire l' altrui che nasce dal bisogno di difendere il proprio. Ha dunque una tentazione di meno: una occasione di meno da far male: è dunque questa la costituzione da preferirsi. In tutta l' Europa vi fu un tempo in cui il Monarca si unì per sostenersi col terzo stato. 1) Posteriormente in Inghilterra la nobiltà s' unì coi comuni per limitare il sovrano potere: come in Francia i comuni e la corona fecero per lungo tempo fronte alla nobiltà. In Italia dove il sovrano potere fu ben presto annullato, non cessò la pugna tra la nobiltà e la plebe, ed essendo stata di quest' ultima la vittoria, la forza italiana fu divisa in minute parti, mediante il democratismo, e quasi ridotta in polvere, fu dissipata con essa la nazione. La storia politica delle diverse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; rse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; Primo, il sovrano: 2 il clero: 3 la nobiltà: 4 il terzo stato. Osservando le diverse alleanze e aggruppamenti di questi poteri, mediante le quali si riducevano sempre a due partiti le mutue pugne, sconfitte, e vittorie; il potere umiliato, sconfitto, distrutto, ed il potere vincitore, e prevalente; si viene a render ragione delle costituzioni dei diversi stati d' Europa. La povertà del principe o sia del governo è ciò che produce tutti questi giochi di politica; poichè se il principe non arriva a sostenersi in tal modo, o pure se non perviene ad arricchirsi, egli rimane in continuo pericolo di cadere. Le costituzioni del medio evo prodotte dalla natura delle cose, e dalla docilità degli uomini nell' arrendersi a ciò che tale natura additava, senza perdersi in vane teorie, e ostinarsi nel volere che la natura obbedisca a' proprŒ sofismi, erano piantate sopra solide basi. Ma non basta che la costituzione sia buona e solida, se le azioni degli uomini non si accordano colla medesima. Perchè la costituzione si formasse bastava quasi direi una prudenza passiva: la costituzione era l' opera del tempo, veniva formata un poco alla volta dalle naturali circostanze. Ma per operare conforme alla costituzione non basta una prudenza passiva, bisogna avere dei principŒ, questi mancavano ai sovrani del medio evo, e questa mancanza portava, che colla loro irregolare condotta, lungi dal cavare i vantaggi che loro offeriva la bontà delle costituzioni, venivano a distruggere le costituzioni stesse. Erano sapienti nel fare le costituzioni, e mancavano di prudenza per conservarle. Come la costituzione veniva loro strappata un poco alla volta dalla natura delle cose, così essi la formavano pezzo per pezzo senza però conoscere i principŒ sui quali tutta intera la medesima s' appoggiava. In fatti l' errore comune dei governi del medio evo era la mancanza d' economia. Per questo errore che andava a ferire le costituzioni ne' loro visceri, cadevano i governi, ed erano frequenti le rivoluzioni. Abbiamo già sentito l' osservazione del Machiavelli, che le guerre in Italia si perpetuavano, perchè non avevano mai cura i condottieri d' impoverir l' inimico, e d' arricchire se stessi. La mancanza d' economia nei sovrani nasceva anche da un principio morale: essi erano tutt' altro che disposti a considerare il governo come un' amministrazione e l' officio di reggere come un officio di computisteria: elevati colle loro idee riguardavano la sovranità come l' officio di render giustizia e di sparger beneficenza, come un' immagine della divinità sulla terra; e quindi non sapevano conoscere degli stretti limiti alla loro generosità: consideravano come la più bella loro prerogativa quella di donar a tutti largamente. S' ingannavano nell' abbracciare questo principio, senza porvi una giusta moderazione e nell' escludere dal loro officio l' Amministrazione economica; giacchè questa avrebbe dovuto formare realmente la forza della costituzione dello stato. L' ultimo dei Carolingi non possedeva più nulla in proprio; e questa fu la ragione, perchè egli non potè più sostenere la sua dignità. I nobili sempre avidi di acquistare de' feudi, o delle donazioni, li sollecitavano continuamente dalla corona. La corona che non era ricca abbastanza per sostenersi contro de' nobili cercava di cattivarseli col dar loro ciò che chiedevano continuamente. In tal modo s' impoveriva sempre di più, e non le restava che la speranza ingannevole di esser difesa dagli altri, anzi che di aver il potere di difendersi da sè stessa. [...OMISSIS...] Si considerino ancora i passi seguenti dell' autore dello spirito delle Leggi: [...OMISSIS...] I feudi resi ereditarŒ, l' introduzione de' suffeudi, pur essi fatti poscia ereditarŒ, s' aggiunsero cagioni pure possenti d' indebolire i diritti della corona sulle proprietà. La sostituzione della terza stirpe alla seconda, non nacque se non per forza della proprietà. Si ascolti ancora Montesquieu: [...OMISSIS...] Nella mutazione della prima stirpe ebbe dunque influenza l' abilità personale, giacchè il Prefetto del palazzo era anche il capo della Milizia; ma la mutazione della seconda stirpe fu operata dalla prevalenza della proprietà. Ugo Capeto era conte di Parigi e d' Orleans; ciò che formava un possedimento molto considerabile, mentre il figlio di Luigi V non aveva nulla se non il ducato della Bassa Lorena posto fuori della Francia ricevuto dalla liberalità dell' imperatore Ottone, di cui s' era con ciò reso vassallo. Egli è ben naturale che i nobili s' attenessero a chi aveva di più che a quello che non potea più donar niente. I successori di Ugo Capeto sostennero la forza e la dignità della corona col migliorare l' economia dello stato, e col riunire i gran feudi alla corona. La stessa ragione della mancanza d' economia si può assegnare alla caduta dell' impero Germanico, il quale appunto per la mala Amministrazione si era reso ultimamente anzi un vano fantasma, che una realità. Leibnizio vedeva questa causa della sua debilezza: [...OMISSIS...] Anche lo stesso presidente Montesquieu osserva l' analogia che passa fra il regno di Francia al fine della seconda stirpe, e l' imperio germanico degli ultimi tempi. Parlando di quello dice: « « Trovossi il regno senza dominio, sì come è al presente l' Impero. Si conferì la corona ad uno de' vassalli più potenti. » » - E a proposito dei Normanni che devastavano in quel tempo il regno di Francia dice altresì: « « Le città d' Orleans e di Parigi troncavano il corso a questi malandrini, sicchè non potevano inoltrarsi nè per la Senna, nè per la Loira. Ugo Capeto, che queste due città possedeva, teneva in mano le due chiavi degli sventurati avanzi del regno: se gli conferì una corona ch' egli solo era in grado di difendere. In questa guisa appunto venne dippoi conferito l' Imperio alla famiglia che è capace di custodire le frontiere dei Turchi. » » E` osservabile come gli Elettori dell' Imperio Germanico, dovendo eleggersi un capo, nol volevano mai troppo ricco, e questa fu la ragione per cui dopo il grande interregno si determinarono di dar la corona imperiale a Rodolfo d' Habsburg. La loro era certo una politica falsa, mentre per i privati vantaggi neglessero il bene generale della società cristiana. La caduta dell' imperio Germanico è dovuta in gran parte ad una tale politica. D' altra parte v' era un vizio radicale nella costituzione: poichè non sono mai buoni elettori d' un principe quelli che si eleggono con ciò uno che limita il loro potere e che non lo può accrescere: quelli insomma che già potenti possono assai più amare l' indipendenza che non la protezione. Per dimostrare compiutamente il fatto enunciato mi resta a mostrare come s' inventò di supplire alla mancanza di proprietà del principe con una finzione che gliela attribuisce: dirò in appresso quanto sieno dannose tutte le istituzioni appoggiate sulla finzione e non sulla realtà. Per altro la finzione di cui parlo fu universale di tutta Europa: e sembrerebbe a dir vero strano che tanti popoli appoggiassero le loro instituzioni sopra una base così falsa se non esistesse una legge nella natura delle cose che ve li spingesse, la legge che il potere civile debb' essere equilibrato colla proprietà. Già si si accorge che io parlo del feudalismo. Ecco come parla di questa istituzione il Sismondi: [...OMISSIS...] Per conoscere quant' era illusoria la proprietà che si attribuiva al principe sopra le terre dei feudatarŒ, basta osservare la storia de' feudi di ripresa . Si cercava di mutar gli allodi in feudi: il che si faceva donando al re la propria terra, e dal re poscia ricevendola in feudo. Ciò si faceva per i vantaggi e privilegi di cui godevano i feudi rispettivamente ai beni allodiali. Con questa mutazione di allodi in feudi si accrescevano forse le proprietà della corona? si accrescevano in apparenza: ma non già in realtà. E per provar ciò basta osservare che queste mutazioni in Francia furono più frequenti in ragione che la corona era più povera: e la ragione n' è chiara. Quanto era più povera la corona, tanto era più forte la nobiltà feudale, e tanto più perciò i proprietarŒ liberi desideravano di appartenervi. [...OMISSIS...] Il sistema feudale nacque dalla conquista, cioè dalla distribuzione delle terre conquistate fra i vincitori. In alcune nazioni però non vi fu introdotto in questo modo, ma mediante un' istituzione legale. In tal caso tutta la giurisprudenza riposava sul falso, poichè si supponevano essere state le terre in antico conquistate e divise; laddove non erano. In questo modo sembra che si sia introdotto in Inghilterra nel secolo XI. Prima però che tocchiamo questo fatto, procuriamo di render più facile a concepire il modo come una tale finzione di proprietà principesca, potesse dalle circostanze essere suggerita. Se noi consideriamo noi stessi, o vero uno de' nostri popoli colti d' Europa come si trova nello stato presente, noi non potremo già formarci l' idea del modo onde una persona poteva mettersi alla testa di un popolo semplice ancora e rozzo. Le nazioni presenti sono diventate caute e sospettose dall' esperienza, e non sarebbe già facile che ricevessero un capo che loro si presentasse per occupare un trono, o vero una supremazìa vacante, senza molti trattati e condizioni. Ciò nasce perchè la nazione vede tutte le conseguenze che può fare della sua autorità, e vuol garantirsi contro l' abuso. Ma non procede con eguali sospetti una nazione nuova e semplice; e se un uomo stimato e valoroso si mette alla sua testa, essa lo riceve come un benefattore. Essa non sa considerare ancora il governo che come un beneficio: lo considera in se stesso e non nelle sue conseguenze. Così ascesero al governo i condottieri ed i giudici dei popoli, con quella facilità con cui si prende posto in un luogo vacante, o si occupa una proprietà disoccupata. Essi non avevano che ad ispirar confidenza alla nazione col dimostrarsi forniti di eminenti qualità, e la nazione li seguiva, come chi viaggia, e non sa la strada, segue colui che gliela insegna. I due offici che essi esercitavano erano combattere e giudicare: sì per l' uno che per l' altro la nazione li riguardava come persone sommamente utili: trovando chi sapeva guidarla alla vittoria, considerava il suo capitano come l' autore della gloria e della grandezza nazionale, e trovando chi amministrava la giustizia, consideravano il Giudice come quello che conservava la pace interna e la comune sicurezza. Il buon esito delle armi, od anche la speranza del medesimo giustificava la condotta del capitano; e le ingiustizie che commetteva come giudice o per ignoranza o per arbitrio di passione pochi sapevano conoscerle nè il risentimento delle parti per cui era seguita l' ingiusta sentenza poteva muovere la nazione a sdegnare il proprio capo; poichè si trattava d' ingiustizie particolari, e la nazione considerava la pubblica tranquillità che colla amministrazione della giustizia veniva conservata, e che faceva dimenticare tutti i mali particolari. Consideriamo il capo di una nazione conquistatrice esercitante questi due ufficŒ: noi vedremo che la sua potestà è in tale stato illimitata; poichè fino ch' egli non esercita che questi due uffici, la nazione non ha cagione di limitargliela, purchè gli eserciti discretamente bene. La nazione non ha cagione di limitare la potestà governativa di questo capo fino che egli non fa qualche disposizione, la quale: 1 offenda i suoi governanti: 2 sia generale, e perciò gli offenda in massa, e non singolarmente. I due poteri di combattere e di giudicare, che sono, come dicevamo, di una natura da non offendere la nazione in massa, fino che vengono discretamente sostenuti, terminano in due altri poteri, per li quali con assai facilità si può offendere la nazione ed offenderla in massa. E questi due poteri sono: 1 il potere sulle terre conquistate, e 2 il potere legislativo. Sì l' uno che l' altro vanno a toccare le fortune private e a toccarle in un modo generale. Se il condottiere di una nazione conquistatrice, dopo conquistato un paese, avesse detto alla medesima: « Sappiate che queste terre son mie: voi già non le goderete come vostre, ma voi le lavorerete come miei servi, ed io vi manterrò »; la nazione non si sarebbe mai arresa a questi patti; poichè l' autorità del suo condottiere cessava d' allora d' essere un beneficio: egli non avrebbe fin allora governata la nazione, ma usato d' essa come d' un istrumento per formare la propria grandezza. Non era già con questo intendimento ch' ella lo aveva riconosciuto per suo capo e per suo condottiere. Ma all' incontro dicendo: « Voi avete conquistato sotto la mia condotta questo paese: ora egli è tempo che il vostro valore sia premiato: io dividerò con giustizia i terreni a tenore del merito di ciascheduno; »tutti dovevano assentire ad un simil discorso, il quale era secondo l' equità, secondo lo scopo della loro intrapresa, e secondo l' idea ch' essi eransi formata del loro capo. In tal caso egli esercitava un governo, e faceva loro un beneficio, giacchè amministrava la giustizia, metteva ordine colla sua autorità nel riparto dei terreni, e non venivano defraudati delle aspettate ricchezze. Che cosa nasceva mediante una simile operazione? che tutti i compagni d' armi del capitano supremo, e tutti i soldati ricevessero la loro porzione di terra dalle mani del loro duce; giacchè era egli quello che la divideva e che l' assegnava a ciascuno. Egli era naturale ancora che riconoscendosi per una legge conforme all' equità, che i terreni fossero divisi secondo il merito e la dignità di ciascun soldato, secondo che cioè ciascuno aveva influito a conquistarli, così pure ritenessero il concetto d' un premio o di una mercede; e di più che come gli avevano ricevuti dal loro capo, così restasse al medesimo capo la facoltà di ritirarli se si rendessero infedeli e se perdessero con ciò il titolo primitivo di fedeltà e di bravura. Come non bastava aver conquistate le terre se non si continuava a difenderle contro gl' inimici; quindi le terre dovevano ritenere il loro carattere primitivo di esser premio del valore e della fedeltà. Egli è questo che spiega come in principio i feudi fossero amovibili. A confirmar ciò si aggiungono i costumi che i conquistatori del settentrione ritraevano da' loro padri. [...OMISSIS...] Cesare pure dice: [...OMISSIS...] Infatti una nazione, ossia un' aggregazione di famiglie, ha bensì desiderio di vivere agiata, comoda e ricca; ma del rimanente ella lascia ben volentieri a' suoi capi la cura di far le porzioni, purchè creda ch' essi le facciano con equità, e di dirigerla in tutto. Quindi essa non è difficile a lasciar anche a' medesimi ogni onore, a prestare ogni riverenza; a ricevere dalle loro mani le terre, purchè però le ricevano; a riconoscere in essi il diritto di disporre delle medesime in tutto ciò che riguarda la conservazione dell' ordine, della giustizia, della pubblica quiete e tranquillità. Ma sebbene tutto ciò era facilissimo e naturalissimo a supporsi in teoria, tuttavia era altrettanto facile, che in pratica non si restasse contenti della divisione delle terre; e se in ciò succedeva un malcontento, già cominciavano a manifestarsi i limiti dell' autorità principesca. Il ricevere che si faceva le terre dalla mano del principe, ed il diritto che egli aveva di distribuirle secondo la giustizia, faceva supporre ch' egli ne fosse il proprietario. D' altra parte la condizione a cui era soggetto, cioè di non poterle ritenere per sè, e di doverle distribuire con giustizia, rendeva quella proprietà che gli si attribuiva una proprietà di nome e non di fatto: ed è ciò che faceva nascere quella finzione di proprietà di cui parliamo. Ma ben presto si si accorse che quella finzione di proprietà, che quel diritto di distribuire in premio tali ricchezze era pericoloso: che l' equità a lungo difficilmente veniva conservata. Anche venendo conservata v' erano sempre cagioni di lamentanza, giacchè l' avidità fa credere a tutti di avere un diritto maggiore alle ricompense. In tutti questi casi la nazione cominciava a considerare l' autorità principesca come quella che portava delle conseguenze dannose sulle proprietà private, non custodiva più semplicemente l' ordine generale, non era più un semplice beneficio. La nazione dunque risentendosi di queste conseguenze doveva cercare di porre un limite alla sovrana autorità; e delle terre il principe doveva perciò disporre di consenso della nazione. [...OMISSIS...] E` però osservabile che il principio delle leggi feudali, il quale attribuisce al principe la proprietà delle terre per la ragione detta, non era che una espressione inesatta: non si parlava con precisione, perchè non si era arrivati a pensare con precisione. La mancanza di precisione in quell' idea consisteva in una mancanza di distinzione: non si era arrivati a distinguere col pensiero, e colle parole, il diritto dalla modalità del diritto: e invece di dire che il principe aveva la modalità della proprietà, si diceva che il principe aveva la proprietà delle terre. La cosa però si sentiva ben distinta nel fatto: ed appena che il principe passava dal disporre della modalità al disporre della proprietà , i proprietari subitamente se ne risentivano. Non restava però che quella falsa espressione non producesse dei gran disordini: il principe che poteva mostrar le leggi, che davano a lui la proprietà delle terre, poteva altresì rinfacciare d' infedeltà e d' insubordinazione i proprietari che si lamentavano de' suoi arbitrŒ. Intanto se la lite fosse stata deferita ad un giudizio, e se i giudici avessero avuto l' obbligo di stare alla lettera della legge, il principe avrebbe avuto sempre ragione. I proprietarŒ non avrebbero potuto che opporre la costumanza, e richiedere che a questa si ricorresse per l' interpretazione della legge: ma la costumanza stessa come era venuta a pugnar colla legge? se non perchè la legge era mal espressa? Che se la legge ebbe sempre la costumanza in contrario, ciò mostra che le parole non mutano le cose, e che la ragione comune o sia il buon senso quantunque non sapesse render ragione di sè stesso, tuttavia non si piegava però alle teorie della gente di legge: il che però non toglie che l' inesattezza d' espressione nella legge non incoraggiasse il cattivo principe ad operare con maggior arbitrio, e con minor ritegno. Per tutto ciò non è meraviglia se l' officio che aveva la corona di dirigere la modalità della proprietà feudale mal usata, eccitasse dei nazionali tumulti. In Francia se n' ha esempio già nel secolo VII. Così di nuovo Montesquieu: [...OMISSIS...] Non era già che non si riconoscesse nella corona il diritto di disporre dei feudi, ma questo diritto non si ammetteva in fatto che fosse simile a quello col quale un padrone dispone della sua proprietà, sebbene la legge malamente, come dicevamo, supponesse i feudi proprietà della corona. In fatto, dico, non erano tenuti tali; poichè se fossero stati considerati veramente tali, non vi sarebbero state tante opposizioni sul modo col quale la corona ne disponeva. Si attribuiva alla corona solo la modalità di un tale diritto, solo la disposizione de' medesimi a vantaggio comune. Per ciò con ragione Montesquieu: « « Può darsi che se il motivo della rivocazione dei doni fosse stato il ben pubblico, non si sarebbe aperta bocca; ma si faceva mostra dell' ordine senza occultare la corruttela: reclamavasi il diritto del fisco a talento, e i doni non furono più la ricompensa o la speranza dei servigi. Brunechilde con uno spirito corrotto corregger volle gli abusi della vecchia corruttela: i suoi capricci non erano quelli di uno spirito debile; i feudi ed i grandi officiali si videro rovinati, ed essi se ne disfecero. »1) » Se Montesquieu avesse a pieno conosciuto questa finzione di proprietà, e non fosse restato ingannato dalle parole della legge feudale, egli non avrebbe presa la proprietà della corona sui feudi per un argomento da convalidare il suo sistema sulla conquista dei Franchi. Ecco co m' egli argomenta: [...OMISSIS...] Certamente; se la proprietà sulle terre feudali fosse stata vera e non finta dalla legge, ma come dicevamo il re non aveva che la modalità delle proprietà, e non la proprietà stessa: era governatore e non possessore. Nè ci si opponga che noi confondiamo la proprietà di diritto e di fatto. Egli è vero che basterebbe, che la corona fosse priva della proprietà di fatto, perchè ella fosse già debile a sostenersi. Ma noi diciamo che le mancava anche la proprietà di diritto; poichè per esservi questa conviene provare che v' abbia il titolo. Supposta dunque l' occupazione un buon titolo, il capitano della nazione conquistatrice non era stato egli solo l' occupante, ma insieme co' suoi commilitoni 1): la nazione condotta da lui non si era già resa sua serva, ma si era solamente sottomessa a lui per esser diretta nella conquista; perchè il suo moto fosse regolato, e la sua impresa fosse diretta con unità. La proprietà dunque delle terre conquistate apparteneva alla nazione conquistatrice, e non esclusivamente al suo capo. Ma questa come aveva avuto bisogno d' esser diretta nella guerra, così aveva bisogno di un ordine nella divisione delle terre: e questo era naturale, che lo ricevesse dal suo capo. La incombenza dunque e il diritto di questo capo era di governare, di metter ordine, di dirigere il bene comune della nazione: senza che per questo egli acquistasse una vera proprietà sui beni della medesima. Ma si vuole una prova evidente che la nazione non ha mai creduto che i suoi principi avessero una vera proprietà sui terreni? basta osservare che una porzione di terreni divisi rimaneva al principe: (Roberts. 11 .35) la qual porzione sarebbe stato assurdo attribuirgliela, quando già fossero state sue egualmente tutte le altre. La legge dunque che ora parla di una proprietà del principe sulla porzione a lui assegnata: ora parla della proprietà del principe sui feudi, o sia sulle porzioni distribuite agli altri duchi e signori componenti la nazione, usa il nome di proprietà in due sensi totalmente diversi: e solamente nel primo caso si parla di una vera proprietà; mentre negli altri casi con questo nome di proprietà non si debbe intendere che un diritto di regolare per il ben nazionale le proprietà comuni. Quando anche supponessimo adunque che tutti i terreni della nazione fossero feudi amovibili, non ne verrebbe già per questo, che il potere del re fosse assoluto come quello del sultano di Costantinopoli: anzi egli si rimarrebbe ancora troppo scarso di fatto, perchè troppo grande di diritto, cioè a dire il potere civile potrebbe esser di più della proprietà e però darsi lo squilibrio di cui parliamo fra la proprietà ed il potere. E questa debilezza del potere sovrano fu realmente sentita: ed è appunto ciò che ha fatto ritrovare il ripiego di una finta proprietà, come dicevamo, la quale tenga come il luogo della vera, e coll' impressione che può fare sugli animi una tale supposizione, sostenga in qualche modo il trono. Ma si noti bene che la debilezza del trono può manifestarsi in una doppia maniera, poichè o il trono può essere debile relativamente alla nobiltà e all' interna costituzione; o il trono può essere debile per difendere la nazione dai nimici esterni. Nel secondo caso la nazione stessa sente la debilezza del trono, e s' interessa di fortificarlo; ma nel primo caso la nazione non se ne interessa punto, e gli ordini principali della nazione riguardano con piacere la debilezza del trono; giacchè la loro potenza è appunto in ragione di quella debilezza. Il primo caso succede nelle nazioni che hanno a difendersi continuamente dagli inimici esterni; il secondo nelle nazioni già consolidate e pacifiche. Egli è per questo che gli elettori dell' Imperio germanico preferivano un principe debile ad un principe forte: ed è il vizio delle monarchie elettive. La legge adunque feudale, che mise per base la finta proprietà del sovrano su tutte le terre, nacque in tempi ancora pieni di guerre, e la sua estensione è dovuta al bisogno in cui le nazioni si ritrovarono di dar al loro capo una forza valevole, perchè potesse salvare la nazione sì dagli inimici esterni che dagli interni. Poiché non fu già introdotto il feudalismo in tutte le nazioni d' Europa per la stessa causa della conquista, ma in alcune fu introdotto come una instituzione atta a rendere forte la corona. Ci valga a provar ciò l' esempio dell' Inghilterra, nella quale ecco come la legge feudale s' introdusse, secondo il racconto che ne fa il commentatore delle leggi inglesi Blackstone. Egli è d' opinione, che il sistema feudale si conoscesse assai poco in Inghilterra al tempo dei Sassoni, e che vi fosse universalmente introdotto soltanto dopo la conquista dei Normanni. Ma riguardo al modo onde tal sistema s' introdusse, ascoltiamo lui stesso: [...OMISSIS...] Il vizio adunque del sistema feudale era quello di non convenire se non ad una nazione che fosse costretta ad esser sempre sull' armi per defendersi dagli esterni inimici. In tali casi urgenti il diritto che ha il principe di dirigere la modalità nazionale si estende assai, giacchè egli può fare tutto ciò che è necessario per salvar la nazione. Egli è in tali casi che la nazione è ben disposta a fare i più gran sacrifici per sostenersi; e quindi, come abbiamo veduto coll' esempio dell' Inghilterra, anche ad accettare il sistema feudale. Come la nazione andrebbe a perire se il principe non avesse dei soldati fedeli, e stretti d' intorno a lui, o per dir meglio se tutta la nazione non pugnasse ordinata e unita insieme come una persona sola: così si andò in cerca di un' invenzione che obbligasse i guerrieri della nazione, cioè tutti gli uomini capaci di guerreggiare, a trovarsi intimamente legati col principe. Un simile espediente fu suggerito alle nazioni conquistatrici dalla stessa natura della conquista. Nel primo tempo che il popolo conquistatore entrava nel paese di sua conquista, tutto il terreno si ritrovava ancora indiviso, e appartenente ancora tutto intero a tutta la nazione. Non avendo adunque alcuno proprietà particolari, e perciò non avendo nessuno attaccato l' affetto a dei fondi particolarŒ, come nasce in quelli che sono già proprietarŒ, la nazione poteva in quel tempo provvedere comodamente a due scopi cioè al bene de' suoi membri, e al bene di tutta la nazione; ad arricchir bensì quelli coll' attribuir loro i terreni, ma nello stesso tempo a conservar la nazione forte come quando guerreggiava sotto il suo capo. A conseguir insieme questi due scopi non si poteva trovar nulla di meglio, che quanto: 1 far sì che tutti i membri della nazione ricevessero le terre divise dalla mano del loro capo, perchè con ciò si otteneva il primo fine: 2 che le ricevessero coll' obbligo del servizio militare perchè in tal modo si otteneva il secondo fine. Quegli che riceveva il feudo giurava al Signore e dichiarava « « che egli diveniva da quel giorno suo uomo 1) col pericolo della vita, dei membri, e dell' onor temporale. » » In fatti non v' era un modo più efficace per costringere al servizio militare questi nuovi proprietarŒ, quanto col far dipendere dal comandante le loro proprietà: col far che le riconoscessero da lui, e col dar a lui il diritto di privarli delle medesime se non conservassero la dovuta fedeltà. Questa instituzione era un' ottima precauzione colla quale una nazione guerriera, che riconosceva tutto dalla guerra, e che nella guerra sola riponeva la sua forza e la sua sussistenza, cercava d' impedire, che i suoi membri col rendersi proprietarŒ, e coll' adagiarsi in una vita pacifica e comoda non si ammollissero e snervassero, e non diventasse loro impossibile di staccarsi dalle care loro proprietà, quando la salute comune esigesse che corressero a schierarsi sotto le bandiere del loro duca. Per conoscere tuttavia che tanta potestà data al capo della nazione non era altro che il diritto di dirigere la modalità assai esteso quanto richiedeva l' esigenza delle circostanze, basterà che noi traduciamo l' instituzione feudale in parole proprie: e che evitando tutte le espressioni equivoche, la vestiamo delle espressioni che ci verrebbero suggerite da una legislazione più lucida e più conforme al modo di pensare dei tempi moderni. Supponiamo adunque che in un' assemblea, nella quale la nazione conquistatrice trattasse del modo di ripartire il paese di conquista, il condottiero della medesima sorto a parlare avesse detto così: « Miei compagni! voi siete giunti col vostro valore a rendervi padroni di un paese fertile, dove sarete a pieno compensati dei vostri travagli e premiati della vostra bravura. Ma la fertilità del terreno e la dolcezza del clima può snervare la forza del vostro carattere, e farvi perdere la gloria dei vostri antenati e la vostra. D' altro canto voi siete ancora attorniati d' inimici, e genti robuste e numerose portano invidia alla vostra fortuna. Ciò, che finora vi ha fatto trionfare di tutti gli ostacoli, fu il seguire con unanimità il vostro comandante, e disprezzare al suono della sua voce i travagli e la morte. Ma divisi da lui in un vasto paese, e guasti dall' ozio della vita privata e comoda, voi diverete facile preda di qualche altra gente, che sarà forte come voi siete ora, mentre voi sarete deboli come poco fa erano gl' inimici che avete distrutti. Non trovo dunque alcun mezzo perchè voi conserviate il presente stato glorioso e felice, se non quello che vi obblighiate con giuramento a correr tutti sotto l' insegna del vostro capo, quando la nazione è in pericolo. Ma molti di voi più affezionati alla loro vita tranquilla che memori della giurata promessa, resteranno vilmente a casa; onde le promesse che qui tutti siete disposti a fare saranno inutili, se il vostro capo non ha il modo di punire gli spergiuri, e di provvedere che per la inerzia d' alcuni non periate tutti. Or come ciò che seduce costoro ad abbandonare la causa comune è l' amore troppo grande alle proprietà, perciò io propongo che il capo della nazione abbia autorità di privarli delle medesime: io propongo che tutti voi riconosciate di ricevere le proprietà con questa condizione di prender l' armi alla voce del vostro capo: che la porzione di terra che toccherà a ciascuno di voi non sia considerata che come un premio della fedeltà alla voce del vostro condottiere, giacchè questa fedeltà è stata quella che vi ha resi vittoriosi: io propongo che come dal vostro capo ricevete l' ordine della battaglia, così pure riceviate la proprietà dei terreni, come un premio dell' obbedienza di quest' ordine. Voi tutti dunque che riceverete la vostra porzione di proprietà lasciate alla nazione una garanzia della vostra futura obbedienza e fedeltà col ricevere la proprietà sotto una tale condizione. Se voi siete ora degni di aver un premio, perchè col vostro valore avete conquistata questa terra, riconoscete altresì che vi rendete degni di perderla dall' istante che ricusaste difenderla. »1) E` dunque evidente che l' instituzione feudale non è che un' instituzione politica, un mezzo per render forte la nazione costretta di star sulle armi per difendersi da' suoi nimici. Il diritto che ha il principe sulle terre in tali istituzioni, non è che il diritto di punire quelli che non si prestano alla difesa della nazione, e per la colpa dei quali la nazione verrebbe in pericolo di perire. Ella non può esser dunque la costituzione feudale una costituzione stabile; poichè ella non ha riguardo che allo stato di guerra: ad uno stato in cui la nazione o debbe essere forte o debbe perire. In tali circostanze la nazione è disposta di fare i più grandi sacrificŒ ed i proprietarŒ si accontentano di diminuire la forza de' loro diritti sui loro fondi per non perderli intieramente. Egli è il caso, come diceva, in cui la modalità diretta dal principe prende una grande estensione. Ma appunto perchè la modalità, che è l' oggetto del governo si allarga e si restringe secondo le circostanze, perciò è difettosa quella costituzione che vuol dare a tale modalità una misura stabile: e questa costituzione non può durare se non in quel tempo in cui la modalità oggetto del governo, è nè più nè meno della misura fissata. Poichè venendo quel tempo in cui quel governo non abbia bisogno di usare tutta quella misura di modalità per il ben pubblico, se la vorrà usar tutta, si renderà tirannico; ed all' incontro in altro tempo in cui le esigenze del ben pubblico costringano il governo a disposizioni più larghe, le quali trapassino la misura della modalità fissata dalla costituzione, egli non potendo trapassare quella misura, sarà troppo debile per salvare la nazione. Di che per dirlo di passaggio si può cavare questa regola circa la bontà delle costituzioni: « Che la costituzione debbe bensì assegnare tali mezzi per li quali il governo non osi di passare fuori del circolo della modalità, ma nello stesso tempo non debbe stabilire la misura della modalità perchè questa essendo variabile secondo le circostanze della nazione, la costituzione diverrebbe con ciò inopportuna al sopravvenire nella nazione una nuova circostanza. » Per applicare la regola alla costituzione feudale basta osservare come fissando essa al governo una misura di modalità tanto estesa, che era bensì adattata in tempi di guerra, nei quali l' ordine pubblico era ad ogni momento in pericolo, diventava inopportuna tostochè tale circostanza si mutasse, e si venisse a stabilire di più la nazione e a trovarsi in istato di maggior sicurezza e quiete, nel quale stato la influenza del governo, o sia la modalità, meno si doveva estendere. In simile tempo la nazione, che non vuole mai che il governo faccia se non quel tanto che è necessario per la sua salvezza e prosperità, si sforza di tirare in dietro quanto prima aveva troppo liberalmente conceduto, e con ciò viene a distruggere quella costituzione ch' ella stessa prima aveva imprudentemente fondata od acconsentita. E` una cosa molto istruttiva l' osservare come la costituzione feudale che assegnava una modalità tanto estesa al governo da dargli fino il diritto di proprietà sulle terre, venisse bel bello ristretta e così guastata. La nazione cercò sempre di tirare indietro una tale concessione fatta da lei a' suoi capi in tempo di grande pericolo: cercò dìco di tirarla indietro in ragione che l' esperienza le dimostrò, o pure che l' avidità le fece sperare che il governo non avesse bisogno di tanto, o sia in ragione che giudicò che le circostanze del paese non esigessero che il governo avesse a disporre d' una misura sì grande di modalità. L' esperienza a ragione d' esempio fece conoscere alla nazione ciò che non aveva preveduto in principio, non essere ogni maniera di guerre d' un interesse nazionale; ma avervene di quelle che non riguardavano se non l' interesse del loro capo. S' accorse adunque che l' obbligazione del servizio militare stabilita nella costituzione feudale per la guerra in genere, poichè non si aveva idea d' altra guerra che di quella che riguardava la difesa del paese conquistato, era troppo estesa; ed essa cercò quindi di limitarla alla guerra difensiva e nazionale. A quest' avvertenza dieder occasione le guerre insorte tra' figliuoli di Carlo Magno, di cui ecco la disposizione che ne conseguì, e che narrerò colle parole di Montesquieu. « « Al tempo di Carlo Magno era altri obbligato sotto gravissime pene di recarsi alla convocazione per qualsivoglia guerra: non si ammettevano scuse, ed il conte stesso che n' avesse esentato alcuno sarebbe stato punito. Ma il trattato dei tre fratelli (anno .47) pose sopra di ciò tal restrizione che tolse per dir così dalle mani del re la nobiltà: altri non fu più tenuto a seguire il re alla guerra se non quanto questa fosse difensiva, nelle altre era libera o seguire il suo signore, o accudire a' suoi affari. Questo trattato si riferisce ad un altro fatto cinque anni prima fra i due fratelli Carlo il Calvo e Luigi re di Germania: in vigor del quale dispensarono questi due fratelli i loro vassalli ove avvenisse che l' uno contro l' altro tentasse alcuna impresa: cosa che giurarono i due principi, e che giurar fecero ai due eserciti. » « La morte di centomila francesi fece pensare a quella nobiltà, che ancora restava, che per le private risse de' suoi re intorno alla lor divisione sarebbesi alla perfine distrutta, e che la loro ambizione e gelosia farebbe versare tutto quel sangue che pur rimaneva. Fu fatta questa legge che la nobiltà non verrebbe astretta a seguire i principi alla guerra se non se quando si trattasse di difendere lo stato da una straniera invasione. »2) » Si rileva da Nitardo che questo trattato fu fatto dalla nobiltà. Fino dunque che il principe poteva esercitare con libertà il diritto feudale di togliere e di dare le terre, cioè fino che la nazione glielo permetteva costretta dalla necessità di sostenersi, la finzione della proprietà del principe sulle terre aveva qualche cosa di reale; poichè se non le faceva coltivare a suo pro, usava però di frequente il diritto di toglierle e di donarle, il quale essendo solitamente un atto di proprietà, faceva si che sembrasse realmente che il principe avesse la proprietà delle terre, E` vero che il togliere ed il donar le terre nel principe non era che un atto del potere governativo, da non confondersi mai con quell' atto, col quale il padrone del campo lo dà altrui in usufrutto. Ma come quell' atto era il medesimo che questo, e non differiva se non dal titolo col quale si faceva; giacchè il principe lo faceva per titolo di governo, ed il padrone per titolo di proprietà, così era ben facile confondere questi due titoli in un titolo solo, o sia scambiare l' uno coll' altro. Ma se la proprietà dura sempre in una misura eguale; il potere governativo all' incontro varia secondo i bisogni del paese. Laonde venendo il tempo in cui non si rendesse più tanto necessario di esercitare con frequenza quel diritto feudale del principe di togliere e di donare le terre; doveva quella finzione di proprietà che la legge dava al principe sempre più apparire come una cosa vana e chimerica, e rendersi tanto più cagione di mali quant' ella più mancava di fondamento. Una tale costituzione pertanto aveva il doppio difetto che rendeva il principe prodigo, e la nazione vie più avida ed avara. Quindi in ragione duplicata cresceva lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile. Giacchè la forza del re era riposta nel donare, egli era messo sopra una strada opposta all' economia, d' altro lato non era già altrettanto facile il togliere ciò che era stato donato giacchè con ciò si formava dei nemici. I Signori all' incontro i quali erano stati avezzi di dare il loro affetto e la loro fedeltà al re sempre in cambio dei doni che ricevevano, erano messi sopra una strada anche troppo economica, giacchè teneva sempre viva la loro avidità. Quindi mentre la corte prendeva un alto e nobile tuono di cortesia e di generosità, rendendosi in sostanza con ciò stesso sempre più debile, i Signori all' incontro praticavano l' arte dell' avere quanto più potevano dal sovrano con raggiri, con bassezze, con dare ora speranza, ed ora con isparger timori, vivendo sopra una continua speculazione di guadagno che li rendeva sostanzialmente più forti. Abbiamo veduto come venne limitato l' aggravio del servizio militare: veggiamo adesso come la nobiltà si venisse assicurando le sue ricchezze, e un grado alla volta spogliando la corona di tutto quel poco di reale, che poteva avere la finzione legale di proprietà sulle terre. Primieramente l' introduzione dei suffeudi indebolí l' autorità del re: [...OMISSIS...] Ma i progressi della nobiltà nel diminuire la potestà feudale del re sulle terre, non si vedon meglio che tenendo dietro alle mutazioni successe nel tempo in cui furono dati i feudi. Carlo Martello, seguendo la conghiettura dell' Abate Mably, fu il primo che invece di darli a tempo come per innanzi, cominciò a darli a vita; poco dopo divennero ereditarŒ. L' anno ..9 Eude di Parigi re di Francia concedette delle terre a Ricabodo suo vassallo pel tempo di sua vita, e di più con questa condizione favorevole, che morendo con un figliuolo, questi pure le godesse a vita. Ciò fu un primo passo dei feudi ereditarŒ in perpetuo. Il secondo passo fu quello di rendere i feudi ereditarŒ in linea retta maschile; il terzo quello di renderli ereditarŒ anche in linea collaterale: il quarto finalmente fu quello di renderli ereditarŒ anche in linea femminile. Ridotti i feudi a quest' ultimo stato la proprietà, che sopra di essi attribuivasi al principe, non aveva più nulla affatto di reale: ed era una finzione vanissima. E tuttavia « « anche dopo ch' ebbero ricevuta quest' ultima forma » - dice Robertson - «i giureconsulti trattando de' feudi continuarono a definirli conformemente alla loro prima instituzione; ma la proprietà non apparteneva più al Signor superiore ed era passata in effetto nelle mani del vassallo. » » Questa servilità pecoreccia de' giureconsulti nell' applicare le parole e le difinizioni antiche alle cose nuove, a cui non sono applicabili, portò sempre un gran male nella società. Il principe dalle parole della legge s' illudeva, e s' imaginava di ritenere in qualche modo una padronanza di cui non gli rimaneva che il nome. I nobili all' incontro che lasciavano ben volentieri al principe tutte le parole ampollose, mantennero sempre il loro costume, cioè la loro industria per tirare a sè l' effettiva ricchezza; tanto la generosità del principe quanto l' avidità dei Nobili più esercitandosi più s' accrescevano, e diventavano senza confini: e, se non vi fossero state le crociate che hanno alquanto abbassato i nobili impoverendoli, e rilevata l' autorità dei principi rimettendoli alla testa delle loro nazioni, probabilmente tutte le società civili d' Europa sarebbero degenerate in funeste oligarchie. Non furono già contenti i nobili di rendersi così assoluti padroni delle terre, ricevendole dal principe a titolo di feudi; ma col gioco d' un simile titolo il quale lasciava ai principi apparentemente la proprietà delle cose, seppero strappare dalle mani principesche anche le rendite casuali dello stato, come i diritti di assisa e di pedaggio i porti dei fiumi, i salari o gli emolumenti degli offici, e gli offici stessi si mutarono in simiglianti feudi ereditari. L' avidità de' nobili che non aveva limiti si impossessò di tutto ciò a cui poteva, sebbene assurdamente, attaccare il comodo titolo di feudo. Chi crederebbe che l' elemosine stesse delle messe dette ad un tale altare, le ottenessero dei Baroni possenti a titolo di feudo, e le partissero come le altre proprietà fra i loro vassalli? 1) Le grandi cariche della Corona divennero ereditarie quasi per una certa necessità proveniente dallo spirito d' usurpazione della nobiltà, a cui i principi erano troppo debili per resistere, sebbene talora facessero qualche sforzo. In fatti si hanno degli esempŒ di principi che obbligavano quelli a cui conferivano qualche carica o dignità, di riconoscere con un atto formale che nè essi nè i loro eredi potevano pretendere di possederla per un titolo ereditario. 1) [...OMISSIS...] Così gl' istorici riflessivi sono condotti dai fatti a riconoscere l' esistenza continua della legge di cui parliamo, dell' equilibrio cioè tra la proprietà ed il potere. Si poteva indicarla con più chiarezza di quello che faccia in questo passo Robertson? Ma perchè dunque, avendola veduta, negligentare poi di applicarla e di cavarne le feconde conseguenze? Blackstone si scaglia con ragione contro delle sottigliezze dei giurisperiti normanni che avevano guasta l' antica costituzione Sassone; rimprovero che molti fecero anche ai Romani, i quali perfezionando il sistema fondato dalla legge regia legalizzarono il dispotismo. Noi abbiamo fatto vedere che anche la legge regia presso i Romani in sostanza non era che una finzione, giacchè essa opponendosi alla costumanza od al fatto si rimaneva scritta sulla carta, dove è pur facile scrivere ciò che si vuole; ma non era altramente nella reale costituzione. L' essere tuttavia scritta in carta bastava per dare al principe il pretesto di fare quanti arbitrii a lui piacesse, e di usare quella potenza ch' egli avea di fatto per alterare la costituzione antica e rendersi al tutto despota. In fatti anche questo vizio ha la legge feudale; poichè come da una parte invita i nobili a carpire le donazioni del principe, così dall' altra invita il principe ad aspirare ad un pieno dispotismo, conciossiacchè gli dà il pretesto in mano poichè gli fa credere ch' egli sia il proprietario delle terre. Dipende dunque solo dall' indole del principe, e dalle circostanze che gli facciano credere più vantaggiosa una condotta che l' altra, di appigliarsi all' uno dei due partiti a cui egualmente lo invita la legge feudale, l' uno dei quali non è meno pernicioso dell' altro, nè meno capace di esercitare scompigli nello stato. Il primo di questi due partiti è quello di cui abbiamo parlato, cioè ch' egli sia inclinato a donare e a satollare l' avidità dei nobili: il fine del qual partito è d' impoverire a segno la corona da non poterla più sostenere, e gli esempi di ciò gli abbiamo trovati nel regno di Francia e nell' Imperio Germanico. Il secondo partito è quello di farsi realmente conto del preteso diritto che gli attribuisce la formula della legge sulla proprietà della terra: ed in tal modo di aspirare ad un dispotismo, che se non trovasse ostacoli diverrebbe ben presto quello del sultano di Costantinopoli, come notammo avvenire nell' antico imperio romano per l' abuso della legge regia: e come sarebbe avvenuto nell' Inghilterra per l' abuso della feudalità normanna, se invece la condotta del principe trovando de' forti ostacoli non avesse fatto cadere la pura costituzione feudale, e nascer da quella una costituzione più vera e più moderata. Dopo avere Blackstone parlato delle conseguenze di un potere esagerato che tiravano gli interpreti normanni dalla costituzione feudale, soggiunge: Ma non era già questa stata l' intenzione dei nostri antichi nell' aver assentito alla legge feudale: [...OMISSIS...] Ma se questa legislazione era di mere parole, fu ella men dannosa allo stato? non bastò essa per dar il modo a' Principi di attribuirsi più autorità che non avevano? Questa falsità di espressioni si potè essa correggere senza che la nazione sofferisse delle pene e degli scompigli di fatto? con sì gravi pene adunque debbono scontare le nazioni una semplice improprietà di parlare? « « Guglielmo, prosegue Blackstone, e il suo figlio Guglielmo il Rosso mantennero imperiosamente tutto il rigore delle dottrine feudali; ma il loro successore Enrico I giudicò utile per appoggiare le sue pretensioni alla corona di promettere il ristabilimento delle leggi del re Edoardo il confessore, o dell' antico sistema Sassone. Per conseguente nel primo anno del suo regno concesse una carta per la quale rinunziava ai carichi più oppressivi, mantenendo tuttavia la finzione della tenuta feudale sempre sotto quell' aspetto militare, che aveva spinto suo padre ad introdurlo. »2) » Col mantenimento di tale finzione si conservava il germe degli stessi mali, cioè il pretesto pel quale il principe potesse ritornare di fatto a quelle pretensioni e a quell' estremità di potere che non gli conveniva già per il suo grado principesco, ma che gli sarebbe bensì convenuto se invece d' esser principe fosse stato padrone, invece d' aver de' sudditi, avesse avuto de' servi; se in una parola la legge feudale non fosse stata una finzione, e il principe avesse realmente avuto la proprietà sulle terre. E in fatti che avvenne della Carta data da Enrico I? « « Questa Carta fu rotta per gradi, e le precedenti oppressioni furono rinnovellate e raggravate da lui stesso, e da' suoi successori fino al re Giovanni: esse divennero sì intollerande nel regno di quest' ultimo, che i suoi principali baroni e feudatarŒ si sollevarono e pigliarono le armi contro di lui; ciò che produsse finalmente la celebre Gran Carta di Runing7mead , confirmata poscia, eccetto qualche modificazione, da Enrico III suo figlio. »1) » E fu l' essersi i re d' Inghilterra e quei di Francia appigliati ai due opposti partiti che loro somministrava la legge feudale, cioè quei di Francia alle donazioni con cui ingrandivano i nobili, e quei d' Inghilterra al dispotismo con cui gli opprimevano, che ne vennero poscia le conseguenze, che i re di Francia avessero bisogno di confederarsi col terzo stato contro dei Nobili; mentre la Nobiltà d' Inghilterra ebbe bisogno di confederarsi col terzo stato contro del Re: nel che si può dire che consista ciò che formò il carattere politico di quei due regni. [...OMISSIS...] Dopo tutto ciò che s' è detto fin quí per provare colla via dell' esperienza, che la legge caratteristica della civile Società, e d' una saggia costituzione, consiste nell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, resta una difficoltà che ci si può fare: Come mai i popoli più saggi che hanno traveduta questa legge, che hanno anche fatte delle instituzioni ad essa consonanti, non hanno poi recato alla perfezione il sistema e non hanno organizzata la Società unicamente su questa legge? La risposta è in pronto: se ciò avessero fatto, si sarebbero potuti benissimo censurare, come quelli che si avrebbero resi schiavi di un sistema, ed avrebbero con ciò abbandonata quella piena e molteplice sapienza che suggerisce la maggior maestra degli uomini, l' esperienza. Dopo le cose dette, a noi riesce facile anche d' indicare con precisione in che sarebbe consistito il loro errore: in che avrebbe peccato di sistema l' organizzazione della società civile fatta unicamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. L' errore di cui parliamo rende ragione del fatto che ci si oppone, ed in questa maniera fa sì che quel fatto si renda una nuova prova della nostra teoria. L' errore sarebbe consistito nel sottomettere alla detta legge tutta la società civile; mentre egli deve essere diviso in due parti, cioè: nel morale e nell' amministrativo; ed è solamente l' amministrativo quello che va organizzato secondo l' equilibrio della proprietà e del potere, e non già il ramo morale o giudiciale, il quale va organizzato nella forma di tribunale. L' organizzare tutto il potere civile a norma della sola legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, produrrebbe due gravi disordini: 1 una parte della società sarebbe sacrificata; disordine contro la felicità comune: 2 la rettitudine sarebbe fatta servire alla ricchezza, disordine contro la moralità e la giustizia. La parte della società sacrificata sarebbero tutti gli uomini privi di beni di fortuna; poichè i diritti personali non vi avrebbero come tali nessuna rappresentanza, nessuna attività, nessuna voce da far intendere la loro ragione, perchè non sieno oppressati. Ora l' organizzazione fatta puramente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere doveva necessariamente incontrare una reazione. Nè solo doveva incontrare una reazione dagli uomini privi di proprietà, ma in generale dall' elemento personale. Per ischiarire la cosa bisogna considerare tutti i diritti, o beni posseduti dagli uomini tutti, congiunti ad una energia o forza, mediante la quale tendono di difendere sè stessi, cioè di conservarsi e di ampliarsi. Or dunque nella società umana come vi sono due specie di diritti, personali e reali, così vi sono due forze o due energie corrispondenti alle due specie di diritti. Queste energie o instinti che ha l' uomo di difendere il suo diritto, porta ciascun uomo ad aspirare al potere politico come ad un mezzo inserviente alla difesa dei proprŒ diritti. Or dunque il potere politico viene come strappato e tirato da due forze: cioè dalla forza veniente dal diritto personale e dalla forza veniente dal diritto reale. Ora siccome il diritto personale è eguale in tutti, così la forza proveniente da questo diritto tende a dividere il potere civile in porzioni eguali fra tutti gli uomini; mentre all' incontro siccome il diritto reale è disuguale negli uomini, così questa forza tende a dividere il potere fra gli uomini in porzioni diseguali. Se non esistesse altro che la forza proveniente dal diritto reale, egli è certo che il potere civile si troverebbe ben presto diviso fra gli uomini allo stesso modo come si trovassero fra essi divise le proprietà e le ricchezze, che formano il detto diritto; nel quale caso la legge dell' equilibrio fra il potere e la ricchezza verrebbe compiutamente a realizzarsi per le sole forze della natura. Se all' incontro non esistesse nell' umana Società altro che la forza veniente dal diritto personale, egli è certo che in breve tempo il potere civile sarebbe diviso egualmente fra gli uomini e verrebbe a realizzarsi rigorosamente colle sole forze della natura il sistema della rappresentazione personale. Ma poichè nella Società umana non esiste già una sola di queste due forze, ma esistono e operano contemporaneamente tutte due; quindi era impossibile che le Società civili prendessero l' una o l' altra di queste due forme semplici: era impossibile che il potere civile si dividesse rigorosamente in ragione delle ricchezze o pure che il potere civile si dividesse con una perfetta eguaglianza fra gli uomini. Invece di ciò che ne doveva seguire? doveva seguire che le società di loro natura prendessero un' organizzazione che fosse media proporzionale fra quelle due estreme, in cui il potere civile nè fosse diviso in parti eguali fra gli uomini, nè fosse perfettamente diviso in ragione delle ricchezze. Dopo di ciò riuscirà facile a spiegare la ragione di certe parti che s' incontrano nelle migliori costituzioni sociali, le quali a primo aspetto sembrano irregolarità, e il primo pensiero che viene è il desiderio che fossero tolte, perchè si rendesse più semplice, più uniforme, più elegante la costituzione. Bisogna osservar ciò nelle costituzioni più eccellenti e specialmente in quelle nelle quali i legislatori hanno spiegato la maggior forza di spirito in ben calcolare le forze della natura, poichè trovando in queste costituzioni stesse delle irregolarità, bisogna dire che i legislatori non le abbiano potute evitare, e che anche volendole, abbiano incontrato un ostacolo insuperabile che veniva loro opposto dalla stessa natura delle cose. Per esempio noi abbiamo veduto quanto bene Servio Tullio abbia veduto la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere e con quanta sapienza abbia cercato di fondare sopra di essa la costituzione romana, instituendo i comizŒ centuriati. Ma perchè poi dopo questa bella instituzione il capolavoro della romana politica, il popolo romano tuttavia si assembrava ancora talvolta a deliberare per ComizŒ curiati e tributi? Queste specie di ComizŒ non sembrano una irregolarità rimasta nella costituzione romana? Un legislatore sistematico e superficiale avrebbe tentato di abolire questi vecchi costumi adattati alla rozzezza dei tempi di Romolo e inopportuni alla cultura dei tempi moderni; ma egli è assai probabile che senza riuscirvi avrebbe messo in grave pericolo la repubblica, o almeno se stesso. In fatti i Comizi per curie e per tribù era la rappresentazione dei diritti personali, come i ComizŒ per centurie era la rappresentazione di diritti reali: e come non era possibile distruggere la forza personale, giacchè esiste in natura: così sarebbe stato impossibile, sarebbe stato una violenza contro natura l' intera abolizione dei ComizŒ curiati e tributi. Essi hanno preceduti i ComizŒ centuriati, essendo stati instituiti da Romolo, e la ragione di ciò l' abbiamo data quando abbiamo osservato, che nel primo stato di una nazione prevale la forza veniente dai diritti personali, poichè la proprietà ancora non vi è, o se vi è non fu ancora divisa in parti molto diseguali, o finalmente non ha ancora avuto tempo di esercitare la sua influenza. Ma passati quasi due secoli la nazione venuta al secondo stato di proprietà diseguali, vennero secondo la legge da noi esposta, a prevalere i diritti reali ai personali, e fatta l' instituzione dei ComizŒ centuriati, questi subitamente presero la prevalenza, e trattarono di affari maggiori della repubblica. Ma per quanto questi prevalessero non si potè già fare che soli prevalessero, e la rappresentanza reale fatta in questi, dovette essere temperata dalla rappresentanza personale fatta in quelli: così l' equilibrio fra la proprietà ed il potere non si potè già perfettamente conseguire, ma solamente approssimarvisi. Il difetto del sistema consiste nell' esser questo più ristretto che non è la natura: per amore di semplicità e di regolarità si tralascia qualcheduna delle forze della natura; e di ciò viene il detto, che è diversa la teoria dalla pratica. Le maggiori dissensioni esistenti fra i politici si riducono, ridotte agli ultimi termini, a sostenere gli uni la rappresentanza reale, gli altri la rappresentanza personale: gli uni e gli altri non fanno che un sistema: è una teoria che differisce dalla pratica: la teoria che non differisce dalla pratica sarà quella che insegna a far che coesistano queste due rappresentazioni, giacchè esistono in pratica le due forze che le producono. Noi le ritroveremo egualmente, se considereremo le costituzioni inglese e francese; e specialmente la prima, dove sembra che la rappresentazione reale più prevalga. La camera bassa rappresenta i minori proprietarŒ. [...OMISSIS...] Ma non è già questo solo l' officio che presta la Camera bassa. Chi ben considera essa non è solo una rappresentazione di proprietà, ma ben ancora di diritti personali. [...OMISSIS...] Ma per vedere come spetti alla Camera bassa anche la difesa dei diritti personali, basta osservare l' incumbenza che nella costituzione inglese ha di sua natura un deputato alla Camera. [...OMISSIS...] Se la Camera bassa rappresentasse solamente proprietà essa non si sarebbe giammai mostrata in così stretta relazione come è coi fautori della rappresentazione personale: i democratici di tutti i paesi trovano sempre facile l' alleanza colla Camera bassa, e le rivoluzioni democratiche cominciano sempre da lei. Se la Camera bassa rappresentasse mere proprietà, probabilmente dopo la caduta del feudalismo avrebbe trovato il modo di unirsi in una Camera sola colla nobiltà, giacchè non differirebbero essenzialmente riguardo agl' interessi di cui assumono l' avvocazia. A malgrado però che i diritti personali nelle migliori costituzioni abbiano trovato il modo di farsi rappresentare meno o più fortemente, secondochè la società è più o meno avanzata, tuttavia la maggior difesa di questi consiste piuttosto nella rettitudine di quelli che influiscono nel governo, che nella stessa organizzazione del medesimo. Rimossa la rettitudine, non solo i diritti personali sono sempre in pericolo d' essere offesi, ma ben ancora la minorità dei diritti in genere; poichè la minorità è sempre di natura sua inetta a resistere contro la maggiorità. Se gli uomini fossero interamente cattivi, la minorità sarebbe sempre sacrificata: e sacrificando l' una dopo l' altra diverse minorità, gli uomini distruggerebbero in breve se stessi. Ma gli uomini non sono interamente cattivi, ma hanno solamente una parte di cattiveria: la quale ora è più grande ed ora è più piccola: dunque la minorità non viene già interamente distrutta, ma viene bensì attaccata ora con più forza ed ora con minor forza dalla maggiorità. Se la minorità si vede attaccata con molta forza, ma non però tale che perda ogni speranza di fare una valida difesa, allora è il caso in cui lo stato si pone in convulsione, poichè la minorità fa tutto il possibile per acquistare la prevalenza: ed allora le forze che essa naturalmente non avrebbe, le acquista per un' energia sforzata, per un impulso violento che produce in se stessa l' entusiasmo e le passioni sollevate: e questo è appunto il caso in cui il governo italiano nel secolo XIII venne in mano alla minorità, cioè alla plebe od ai commercianti; quella forza non era reale e naturale, ma artatamente prodotta od eccitata: bastevole perciò ad abbattere i principi ed i nobili per il momento, ma non a sostenere se stessa lungamente. Da queste osservazioni nasce che ogni opinione che si abbracci in politica, sia favorevole alla rappresentazione personale o sia alla reale, è cattiva fino che non si è trovato il secreto di eliminare mediante il Tribunale politico la rappresentazione personale; poichè in tal caso non restando nella Società che la rappresentazione reale, questa si può organizzare in un' Amministrazione, seguendo rigorosamente la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. Qualche scrittore meno trasportato da partito, che osservò come la rappresentanza personale perderebbe la società privando di difesa tutti quei diritti che risaltano fuor della linea comune, che sono fondati in natura, e che vengono a formare la somma maggiore dei diritti; e che osservò d' altra parte come la sola influenza delle ricchezze nella rappresentazione reale lascierebbe scoperti e indifesi i diritti personali: non seppe poi giungere ad osservare, come la natura spingeva le nazioni a prendere una costituzione media e quasi spinte da due forze diverse a tenere per così dire la diagonale. In fatti fino che il Tribunale non viene diviso dall' Amministrazione quella costituzione media è la più saggia, come quella che viene suggerita dalla natura. Non essendo però giunto a formarsi questa idea precisa si acquietò in un sistema incerto e determinato, dicendo così: « « Il principio sacro, il principio conservatore di ogni governo libero consiste in ciò, che la sovranità non appartenga nè alle classi, nè agli ordini, nè ai consigli, nè agl' individui, che la sovranità appartenga non ad una parte, ma all' intera nazione, che in nessuna parte trovisi chi potrebbe volere in nome di tutti quanto ogni individuo potrebbe volere individualmente, e imporre a tutti i sacrificŒ che ogni individuo potrebbe acconsentire d' imporsi. »1) » Certo la sovranità giova che appartenga all' intera nazione, ma giacchè questa nazione non è che una persona morale composta di persone individuali; bisogna sapere di più, come questa sovranità debba essere divisa fra dette persone individuali, in che ragione debba essere dalle medesime partecipata: tralasciando di definir questo non si dice ancor nulla coll' affermare che la sovranità debba risiedere nell' intera nazione. D' altro lato in qualunque modo sia divisa fra la nazione, rimane sempre una maggiorità ed una minorità di forze: quindi rimane medesimamente insoluto il gran problema: Come si possa difendere ogni minorità contro ogni maggiorità: problema più interessante che non pare a prima giunta; ma che si vede esser tale dove si supponga fatta astrazione dall' elemento morale, il quale salva in parte la minorità; poichè senza questo scudo una successione di minorità sacrificata come dicevamo condurrebbe l' uman genere intero alla sua distruzione. Vuol forse dire l' illustre autore con quelle parole, che la sovranità debbe risiedere nell' intera nazione, ma che non debb' essere stabilita nessuna stabile regola intorno al modo ond' essa venga divisa fra gl' individui della nazione, acciocchè variando di fatto la ragione onde viene partecipata la sovranità dagli individui, il centro di tutte le forze nazionali sia mobile, ed ora si trovi in un punto ora nell' altro della nazione? Non posso credere che voglia intendere ciò; poichè sarebbe lo stesso che abbandonare le cose pubbliche al caso, o negare che possano essere aiutate dalla saviezza, sarebbe ancora un lasciare la sovranità da rapirsi e straziarsi a vicenda da tutti quelli che hanno più forza. Il secondo disordine, che nascerebbe dalla costituzione civile fatta rigorosamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, sarebbe la rettitudine fatta servire alla ricchezza; poichè tale costituzione organizzata in un modo al tutto amministrativo non curerebbe di sua natura che gl' interessi, e ciò che è morale sarebbe straniero alla medesima, cioè a dire apparterrebbe alle persone singole, ma non alla Amministrazione stessa presa in astratto. Poichè fu sempre impossibile agli uomini lo spogliarsi di ogni idea nobile ed elevata, di ogni principio morale, che trascendesse tutta l' importanza degli interessi sensibili: e poichè mediante la religione cristiana queste idee sublimi e preziose vennero a rilevarsi e rinforzarsi nelle menti degli uomini; perciò egli fu impossibile, che le nazioni specialmente cristiane organizzassero il loro governo unicamente come un' Amministrazione, che è quanto dire realizzassero a tutto rigore la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. « « Si aveva una certa non so quale vergogna » », così uno storico che più volte abbiamo citato parlando della legislazione de' secoli di mezzo « « ad attribuire tanto merito alla ricchezza che sola potesse collocare un uomo nel primo ordine della Società, nè si voleva accordare la nobiltà come prezzo di quella gara che è tra gli uomini grandissima delle ricchezze; nè stabilire il principio, che i beni in qualunque modo acquistati da un plebeo gli dessero un giusto titolo da essere rispettato ed obbedito da' suoi eguali. »1) » Il principato e la magistratura, che si confuse col potere assoluto, ebbe sempre con ragione aggiunte nel pensare degli uomini le più eminenti idee, e ciò nasceva perchè i due loro principali officŒ, erano: 1 il render giustizia, officio tutto morale, e che fa vedere in quello che lo esercita il vicario di Dio in terra: 2 ed il combattere, officio che diventa pur morale, quando si combatte per la giustizia, quando si combatte non per sè, ma per la difesa del popolo, che si ha ricevuto in cura dalla provvidenza. Il feudalismo che aveva rimesso il principe sul tuono di una generosità, che tutto fa per gli altri e nulla ritiene per se stesso, aveva rinforzate queste idee. La religione le aveva autenticate e sacrate, ed il principe divenne una venerabile imagine della divinità e della provvidenza, che nulla aveva per così dire di profano e di terreno. A questi alti offici si associava l' officio economico, o amministrativo; ma questo era ecclissato dallo splendore di quei primi, e quasi non si considerava. Poichè questa maniera di pensare è giusta e conforme alla divinità del cristianesimo, perciò fino che questi diversi officŒ restano insieme mescolati e confusi, non è possibile che l' amministrazione sociale abbia la sua perfetta organizzazione, giacchè tale organizzazione nuoce a que' due primi e più rispettabili officŒ. In fatti la perfetta organizzazione è che le ricchezze sieno quelle sole che in essa influiscano. Or come è possibile che la facoltà di amministrar la giustizia, per esempio si distribuisca in ragione della ricchezza? E` forse distribuita in ragione della ricchezza la probità, che è ciò che è necessario per l' amministrazione della giustizia? Non già. Dunque fino che i membri dell' amministrazione debbono anche esser quelli che rendono giustizia, non potrà mai avvenire che s' abbia un' Amministrazione perfetta ed un giudicio perfetto nella nazione: poichè l' amministrazione perfetta esige che sia divisa fra i membri della nazione in ragione delle ricchezze che possedono: ed il giudicio perfetto esige che sia fatto dagli uomini probissimi indipendentemente al tutto dalla loro ricchezza e povertà. L' amministrazione perfetta dunque non si può ottenere se non si divide da essa tutto ciò che nel governo c' è di morale; cioè se non lo si porta tutto nei tribunali e specialmente nel Tribunale Politico. Queste osservazioni spiegano la ragione per cui nei tempi in cui si avevano più nobili idee del governo, e in cui si faceva più conto del suo vero splendore morale e religioso, in que' tempi l' amministrazione fosse più negligentata. Nei nostri tempi all' incontro in cui l' amministrazione si è tanto migliorata, la dignità del governo è caduta e quasi spenta, e quasi tutte le idee morali sono sparite: il materialismo si è communicato per tutte le fibre del governo, e per usare le espressioni d' un grand' uomo: La legge è atea, e le nazioni stesse si mettono in circolazione come cambiali. Si ha dunque ragione di gridare contro al materialismo che corrompe i governi de' nostri tempi, dando loro la forma di un negozio mercantile; ma si farebbe ancor meglio nell' insegnare come si possa dividere l' amministrativo da ciò che è morale, acciocchè per un giusto timore di non perdere il morale, non si tornasse forse nell' amministrativo ai secoli di mezzo. E non è già che io escluda nell' amministrazione la moralità: questa è necessaria in tutto: ciò che dico si è, che la moralità debbe accompagnare l' amministrazione; ma che il giudicio debb' essere la professione stessa della moralità. Come ho dimostrato, che l' amministrazione nazionale non si può render perfetta se non si divide dall' elemento giudiciale o morale, così avrei potuto parimente dimostrare ch' ella non poteva organizzarsi perfettamente, fino che non era divisa dalla magistratura; nella quale non debbe prevalere la ricchezza, ma l' elemento intellettuale. Ma ho creduto bene di ommettere questa osservazione per riservarla al Libro dove parlo della magistratura. Il che è vero qualunque sia la forma che abbia il governo. Chi non ha rinunziato totalmente alle idee morali, ovvero chi non pretende, inconseguente con se stesso, che la morale sia bensì qualche cosa ma debba essere esclusa dalle disposizioni politiche, vedrà incontanente la verità della enunciata proposizione: vedrà che i regolatori della società non possono fare una disposizione se prima non credono ch' ella sia conforme alle leggi della eterna giustizia ed equità; e perchè lo possano credere debbono aver portato un giudicio sopra la stessa. Questo giudicio rimesso in fine del conto alla coscienza de' governanti, non solo ne' governi assoluti, ma ben anco ne' governi costituzionali e repubblicani che fin qui si conoscono, se è fatto bene rende le disposizioni politiche innocue al bene dei particolari membri della società. - Solamente mediante questo retto giudicio tutti i diritti, anche i più piccoli ed appartenenti alle persone meno influenti, possono esser riparati dal peso enorme del sociale potere sotto cui altrimenti sono in pericolo di venire schiacciati. Giacchè il giudicio è sempre libero, e un giudicio simile a questo non riposa che sopra un' esatta cognizione dei principŒ della morale e della giustizia, e di più sopra la disposizione retta della volontà; ne viene che queste due buone qualità, cioè la cognizione e la rettitudine, sieno in ultima analisi le due sole salvaguardie de' diritti del debile contro il forte, e del particolare contro il potere o contro la maggioranza de' cittadini. Ma d' altra parte egli è impossibile che chi ha la forza in mano non sia tentato di abusarne, ed è impossibile che nella società qualunque sia l' ordine che vi si stabilisca non v' abbia finalmente un' autorità suprema, ed anche una forza suprema: dunque è impossibile di levare dalla società il caso in cui non si ritrovi la detta tentazione. Quando anche le forze fisiche fossero distribuite nella società in perfetta eguaglianza, le dette forze non riuscirebbero eguali nel loro effetto per la diversità delle forze morali: l' opinione della propria forza infonderebbe tuttavia una diversa misura di coraggio ai diversi uomini; ed è l' opinione della forza ed il coraggio assai più che le forze fisiche ciò che muove l' uomo ad intraprese che vengono ad aggravare sopra i suoi simili. Giova certo oltremodo il persuadere gli uomini di questa grande verità, che la conservazione della giustizia è di un comune vantaggio; ma questa stessa persuasione così utile, e che si vede di secolo in secolo far progressi nell' uman genere in ragione della diffusione dei lumi; questa persuasione che sembra sottomettere la giustizia all' utilità, e rendere quella amabile per amore di questa, è una nuova prova che l' umanità si va migliorando, e che diventa più suscettibile dei sentimenti morali. In fatti qual può essere la disposizione di quelli uomini che s' inducono a rispettare la giustizia sul riflesso ch' essa è generalmente utile? Non è certo un tal rispetto della giustizia, a questa ragione appoggiato, bastantemente puro, il concedo, ma nulladimeno la disposizione di tali uomini riesce tale che essi oggimai temono più i danni che possono venir loro apportati, quando la giustizia venga dagli uomini trascurata, che non isperino di vantaggio dalle stesse loro ingiuste intraprese sugli altri uomini. Ora tale non è la disposizione di un uomo estremamente avido di acquistare e rapace; perocchè questi sente d' avere in sè stesso una forza che gli dà la sua stessa immoralità maggiore di quella che hanno gli altri uomini: perciò più spera di acquistare, che non tema di perdere; anzi spera senza temere: poichè l' avidità lo occupa assai più di ciò che può egli contro gli altri, che non di ciò che possan gli altri contro di lui. Egli è dunque necessario di ricorrere sempre in fin del conto per trovar una tutela ai diritti dei deboli contro ai forti ad un fondo di moralità benchè imperfetta che si ritrovi nei forti; senza del quale non può consistere il genere umano. A torto questo ultimo fondamento della conservazione de' diritti e però de' beni di tutti, la buona fede, la rettitudine, la moralità, su cui riposa la tranquillità e l' esistenza stessa del genere umano, sembra fragile ed accidentale: egli è l' unico, e però bisogna contentarsene: qualunque meccanico ripiego, qualunque organizzazione esterna della società non può renderlo inutile, ed ella è una speranza ridicola, non mi stancherò di dirlo, quella dei politici materiali, di poter trovare un ordine politico di cose che non abbia il suo ultimo sostegno nella moralità, nel quale perciò non si esiga qualche sorta di virtù in quelli che hanno o credono d' avere in mano la forza, perchè non ne abusino. Sia pur dunque per molti alquanto strano, pure egli non cessa d' esser verissimo, che il modo onde i diritti dei deboli sono tutelati, non è altro che la buona volontà di quelli che potrebbono offenderli e non vogliono farlo, perchè non giudicano di doverlo fare. Questi che potrebbero offenderli sono in primo luogo indubitatamente quelli che governano la società, i quali hanno il maggior potere nelle mani e questo vale tanto se il governo è regio, quanto se è repubblicano: poichè quando anche noi supponessimo la più assoluta democrazia, quale nè pure è possibile che si concepisca, ancor sarebbe lo stesso caso, potrebbe sempre la maggiorità dei cittadini tiranneggiare la minorità. Egli è dunque evidente, che ogni disposizione governativa per esser buona dev' essere preceduta da un giudicio sulla sua rettitudine e giustizia; come pure che la bontà di questo giudizio è l' ultimo appoggio della sicurezza dei diritti de' particolari membri della società. La necessità di tal giudizio rimane ferma, anche a fronte di tutte quelle obbiezioni che fossero rivolte a provare la sua difficoltà ed incertezza: le quali non provano mai che egli non sia necessario: provano tutt' al più una verità troppo disorrevole agli uomini, che non si può arrivare mai a tutelare pienamente i beni e i diritti di tutti e in tutti i casi contro l' umana tristizia. La cosa è al tutto evidente, giacchè niuno è giudice in causa propria. Oltre di ciò egli è più probabile che il giudicio riesca esatto quando vien fatto da persone, le quali non hanno da occuparsi che in questa sola cosa; ed al giudicio vien dato il tempo in tal modo perchè sia fatto con maturità. Gli amministratori della società quando debbono fare una disposizione politica, non guardano che di passaggio, se pure anche ciò è vero, la relazione morale della medesima, non tanto per malvagità, quanto per inavvertenza; poichè la loro attenzione è tutta occupata nel calcolare i vantaggi della disposizione ideata; e la poca importanza che si è sempre dato al giudicio morale nelle disposizioni politiche apparisce dal non esser giammai venuto in mente di dare a tali giudicii una forma regolare. Il giudicio morale adunque sopra ciò che debbe fare l' amministrazione della società debbe riuscire più esatto e più giusto, quando vien fatto da una Commissione apposita diversa dall' amministrazione della società, sì perchè 1 in tal caso la Commissione non giudica in propria causa, come sarebbe se il giudizio fosse portato dall' amministrazione della società. 2 Sì perchè facendosi a parte il giudizio sulla giustizia e quello sull' utilità della disposizione, ed oltre a ciò facendosi da persone diverse e da persone dotte particolarmente nella scienza della giustizia e con esatta procedura, non può non riuscire più perfetto. Di quì ne viene che tutti quegli uomini onesti, i quali non desiderano nella società di usurpare l' altrui, ma unicamente desiderano che i diritti di tutti sieno quant' è possibile difesi e guarentiti, debbano non già temere, ma desiderare l' erezione di una tal Commissione o Tribunale apposito rivolto a mantenere la giustizia nelle disposizioni politiche. Non si debbe già adombrarsi alla considerazione che il detto Tribunale potrà anch' esso esser soggetto alle umane imperfezioni, e potrà esser soggetto alle passioni; perciocchè noi non pretendiamo già, come abbiamo detto anche di sopra, che si possano rendere gli uomini impeccabili, ma il discorso sta nel vedere se si può diminuire il pericolo che nasce dalla loro debilezza o dalla loro malvagità; e diciamo, che dovendosi la società esporre in ogni modo ad un giudicio consimile, che finora venne fatto da quegli stessi che governano la società giudicando in propria causa, egli sarà sempre più probabile che il giudicio riesca giusto fatto da uomini che giudicano in causa altrui, scelti appositamente e costituiti in un Tribunale, che non siano uomini meramente politici che giudicano in causa propria, e che non si danno a dir vero grande impaccio per ritrovare in tale giudicio tutto ciò che è giusto nel senso più vero e più rigoroso. Gli stessi amministratori della società se sono onesti, e se desiderano bensì di conservare il loro potere, ma non di trapassarne i confini e di farne abuso, dovrebbono riguardare come vantaggiosa una simile instituzione. In fatti essi hanno pur l' obbligo fino che non esiste detto Tribunale di fare essi stessi il giudicio: e perciò se hanno una vera volontà di farlo retto (che altramente sarebbono tiranni) debbono e diffidare dì sè stessi e non trascurare nessun mezzo per venire alla cognizione del vero e del giusto. Questo Tribunale adunque li discarica d' un peso, gravissimo agli onesti, e mette in tranquillità la loro coscienza: la voce della quale pur grida: non è già ragionevole il timore che venga loro fatto torto, e ristretta la loroautorità. 1 Primieramente, perchè le decisioni del Tribunale non possono giammai portar seco questa conseguenza, come si mostrerà in appresso descrivendo lo stesso Tribunale. 2 Di poi, perchè se questa ragione valesse ogni Tribunale sarebbe al tutto inutile e ciascuna delle parti potrebbe sottrarsi allo stesso, dico ogni Tribunale civile. Poichè son forse men sacri i diritti de' piccoli che de' grandi? Qual' è questa odiosissima tenacità che mostrano i potenti de' loro diritti, e che non mostrano giammai tale i deboli? E` forse che l' uomo in ragione che s' innalza si deprava? in ragione che acquista si irrita la sua fame? Non dieno questo scandalo i possenti ai deboli; perocchè debbono essere a questi maestri di virtù. 3 Perchè qualunque onesto debbe più che di essere offeso, temere di offendere, e temere tanto più quant' egli si trova d' essere più forte: poichè chi ha la forza, qualunque sia la virtù, è sempre per l' umana debilezza tentato di abusare della medesima: sicchè in ragione della forza che l' uomo onesto e generoso si vede aver nelle mani, debb' essere la sua cautela d' usar della stessa, e la sua cura di ben verificare se l' uso che ne fa sia retto ed onesto. 4 Perchè abbiamo dimostrato nella prima parte che ove fra due parti nasca contesa ciascuna ha diritto di esigere dall' altra tutto ciò che è necessario per definirla più equamente che sia possibile, e tutte e due hanno obbligo di convenirsi in ciò cedendo all' equità e non trascurando alcuno di quei mezzi, pei quali si può pervenire più sicuramente al detto fine; e 5 finalmente perchè egli è un troppo angusto e misero calcolo quello che fanno que' capi della società che vogliono tirarla troppo ed assicurar troppo i proprŒ diritti e ricusar un freno alle loro usurpazioni e a quelli che li imiteranno dopo di loro. In fatti, qual può essere la maniera migliore di assicurare i popoli delle loro rette e pure intenzioni, se non quella di mostrarsi essi stessi sottomessi all' imperio della eterna giustizia, di sottomettervisi con dignità, e senza quelli avvilimenti a cui irreparabilmente soggiace il dispotismo, o tutto ciò che n' ha le sembianze, senza diminuire punto del loro potere ma solo legittimandolo? di sottomettersi, dico, a quella somma ed irrefragabile legge sotto cui l' umiliarsi rende l' uomo degno di regnare? quale è e può esser la maniera di assicurare i popoli e rendersi loro rispettabili se non quella di ispiegare una morale grandezza sollevandosi sopra i pregiudizŒ de' contemporanei ed i vizŒ de' trapassati, con cui hanno combattuto i loro secoli, e che vincenti o vinti furono giudicati dalla posterità? se non finir di ostentare giustizia nelle parole e mostrare di desiderarla nel fatto, e di non negligere la via unica a rinvenirla? se non conoscere che alla diffidenza illuminata de' popoli da una parte, alla loro corruzione profonda dall' altra, non basta nè pure far ciò che si crede giusto se non si mostra d' usare tutte le vie per conoscere ciò che è giusto? Non basta, dirò di più, e conoscere ciò che è giusto e scrupolosamente eseguirlo, se ciò non si fa constare pubblicamente, se non se ne dà un pubblico documento; se insomma il giudizio su quanto è giusto non si presenta sì franco e sicuro di sè medesimo che non tema la pubblicità, e assicurato del giudizio de' saggŒ abbia il diritto di dispregiare i cicalamenti de' sciocchi. Perocchè non può il popolo giudicare da sè stesso e non può insieme deporre il sospetto dell' ingiustizia fino che il giudizio è fatto dagli stessi interessati, quantunque retto egli sia, come non rimane, all' opposto, più escusabile se nutre ancora il sospetto, quando sia costituito un Tribunale che quasi voce e mente del popolo stesso giudica a nome della verità che il fatto governativo non lede i diritti di alcun debole, al quale dinanzi ogni debole può stare a fronte del forte purchè pugni con quel marte comune che è la giustizia e la imparzialissima verità. Sì, quando il popolo sarà assicurato pienamente che i principi vogliono la giustizia, egli cesserà dalle sue inquietudini e dai suoi errori. Non è solo l' ingiustizia, è anche l' incertezza della giustizia, che viene sempre vendicata; è l' opinione che il principe faccia qualche cosa d' ingiusto, è il dubbio che il faccia, che stringe insieme i deboli a far causa comune. Il disseminare questi dubbŒ ne' popoli, lo spargere queste opinioni di ingiustizia e d' usurpamenti, fu l' arma dei facinorosi onde sollevarono i popoli contro i principi; il dileguare queste opinioni, questi dubbŒ è il mezzo unico di riconciliare di nuovo i popoli co' lor principi e di sventare l' artificiose insidie dei nemici d' entrambi. Intanto a me pare che basta bene ai principi un assai piccolo fondo d' onestà per riguardare che l' equità resa in tal modo splendida e solenne sia di comune loro vantaggio. L' uomo che stenta nell' indigenza e che non ha nulla da perdere, può essere ingannato a credere che a lui torni meglio il sovvertimento della giustizia: per poco che questo uomo sia dominato dalla passione d' acquistare, ella il moverà a romper le leggi della giustizia perchè non è infrenata dal timore di perder nulla: ma colui che ha molto da perdere debbe essere agitato da una furia di ambizione o di cupidigia perchè stimi bene per sè che la giustizia sia calpestata nel mondo ed ogni onore le sia perduto: mentre perchè egli possa credere a lui dannoso il rispetto della giustizia conviene che la speranza di rapire l' altrui superi il timore di perdere il proprio: speranza a dir vero stolta pur sempre perchè, tolta la giustizia di mezzo, son esposte di nuovo alla libidine di quelli, che mutano l' istante diventan più forti, le rapine stesse del forte. Sicchè tolta dagli uomini la giustizia nessuno potrebbe a lungo godere de' vantaggi che gli desse l' istantanea sua prevalenza sugli altri uomini: la giustizia adunque è quella che tutela a tutti il suo, quella che ne rende costante il possesso; e che mediante questa costanza di possesso rende più prezioso un piccolo avere che si gode con tranquillità per lungo tempo, che un' immensa ricchezza che ci tenga sempre nell' angoscia di perderla, e di cui godiamo tutti gl' istanti con quell' ansietà onde gode il ladro del furto che attende il padrone o la giustizia che lo sorprenda. La giustizia adunque, ed il mezzo per assicurarla, è di comune vantaggio di tutti gli uomini: ma più di quelli che più posseggono; e la speranza delle rapine non vale mai tanto quanto il ragionevol timore di perdere il proprio, e di sostenere una rappresaglia aggravata dalla vendetta che rallegra l' ira degli oltraggiati, e la cui aspettazione contamina la vita degli oltraggiatori. Nè vale il dire che può avervi altro mezzo perchè i regolatori della società vengano, prima di far cosa alcuna, alla cognizione del giusto; ch' essi possono far giudicare la cosa ove ne dubitino, da probe persone atte a scorgere per la via retta la loro coscienza. Vana lusinga! Non varrebbe egli questo argomento per rendere inutili i Tribunali civili? perchè questi si stabiliscono? perchè l' una parte che si crede offesa vi cita l' altra a comparire? perchè non si fa buona risposta alla parte citata quella ch' essa ha operato con consiglio che ha fatto giudicar la cosa d' altrui? Quando la causa versa fra due parti il giudice non debb' essere all' arbitrio dell' una, ma in mezzo di tutte e due; non debbe essere scelto causa per causa, ma debb' essere quello stesso per tutte le cause; non debbe dare il giudizio solo all' orecchio d' una delle due parti, ma debbono tutte due poter dire le loro ragioni innanzi al medesimo, e poterne ricevere la giustizia. O forse ciò che da tutto il mondo si è reputato sempre necessario per ritrovar la giustizia negli interessi piccoli, si renderà egli inutile e superfluo negli interessi più grandi? non debbe anzi crescere la cautela e la diligenza nel rinvenire e nel mettere in piena luce quanto è giusto in ragione che cresce la grandezza e l' importanza degli interessi? Questa osservazione è sì vera che renderebbe inesplicabile come mai gli uomini, che hanno sempre e da per tutto pensato e riconosciuto necessario d' erigere de' Tribunali per giudicare gl' interessi de' privati; non abbiano giammai fatto altrettanto per gli interessi politici: se non si riflettesse alla difficoltà di erigere un Tribunale politico, il quale esige un gran progresso di lumi, ed una moralità assai avanzata nel genere umano; i quai lumi e la quale moralità non si poteva aspettare dagli uomini se non allora che l' influenza del cristianesimo si fosse spiegata per un lungo corso de' secoli in tutti gli aditi dell' uman cuore, ed indi fosse passata in tutti i costumi, in tutte le attitudini della vita. E quest' epoca sentiamo speranza che da noi molto non si dilunghi. Se non che avrà sembrato che prima ancora di mostrare la necessità di questo Tribunale avessimo noi dovuto ricercare se egli era possibile. Ma non abbiamo creduto di tenere quest' ordine; poichè la piena possibilità di detto Tribunale non può a pieno vedersi se non allora quando ne avremo fatta un' esatta descrizione: poichè dal complesso solo di tutte le sue parti e di tutte le sue circostanze si può formarsene quell' idea di lui così determinata, che a mal grado che non abbiamo quasi nulla di simile nelle instituzioni de' popoli, tuttavia ci somministri la confortante speranza che non solo sia possibile, ma ben anco che sia per essere realizzato un tanto beneficio dell' umanità. E il bisogno stesso, che si rende ogni giorno più sensibile di un tal Tribunale, è ciò appunto, che nel mentre lo rende possibile, ne approssima ancora la di lui esecuzione. Perocchè egli è un fatto innegabile che la rapida diffusione dei lumi in tutte le classi della società, ha mutata la condizione del popolo: è un fatto innegabile che il popolo ha una profonda coscienza del proprio stato, e che questa coscienza di sè è la causa generale ne' diversi tempi de' suoi generali movimenti: è un fatto innegabile che il popolo in altri tempi mosso appunto da questa coscienza della propria impotenza intellettuale riconosceva la necessità di lasciarsi ciecamente guidare e dirigere da' suoi capi; che il popolo in quei tempi era come un pupillo che avea bisogno di tutela, e che non era capace di emancipazione (ripetiamo questa frase perchè nulla di ciò che è vero ci dispiace ripetere onde che ne provenga): è un fatto innegabile che il popolo in questi tempi, (cioè una gran parte di persone della massa del popolo) aumentò di lumi e coll' aumento dei lumi acquistò insieme una coscienza di maggior potenza intellettuale, e questa potenza fece sì che non sentisse più il bisogno di abbandonarsi alla cieca alle sue guide, e che fosse in lui risvegliato un desiderio di vedere anche egli o di calcolar anch' egli i propri interessi, al quale calcolo venendo egli ammesso riceve una specie di emancipazione, ma non già per questo una sottrazione dallo stato a lui essenziale di sudditanza; cessa d' esser pupillo, ma non cessa d' esser suddito: è un fatto innegabile finalmente, che la moralità ad un tempo e la corruzione accelerano entrambi questo stato di popolare emancipazione: poichè la moralità lo suggerisce e lo persuade siccome equo, mentre la corruzione accrescendo l' irritabilità fisica degli uomini, rende loro più grave tutto ciò che credono d' ingiustamente soffrire, o che dubitano che sia ingiusto; o di cui abbiano un pretesto di dubitare. Ed ora il solo Tribunale politico è il solo mezzo di togliere alla tristizia degli uomini questo pretesto e questo dubbio, e di dare all' equità una base costante: egli è dunque questo Tribunale che i popoli colle loro inquietudini cercano senza trovarlo, e dimandano senza saperlo indicare: egli è questo Tribunale il rimedio alle inquietudini popolari; rimedio che i monarchi pur tanto desiderano, e che hanno o la sciagura di non vedere, o la pusillanimità di non abbracciare. La necessità adunque di questo Tribunale, sempre crescente, quando diventerà estrema, è quella che non solo lo dimostrerà possibile, ma che contemporaneamente ne condurrà l' esecuzione. Poichè sebbene questa sia lontana assai dalle consuetudini, e sia contrarissima ai più cari ed inveterati pregiudizŒ; sebbene ella esiga una grande superiorità di spirito in quel monarca che prima ne dia l' esempio e in quel popolo che possa esser degno di tal monarca; tuttavia io non dubito punto che perduta la novità di che ella si mostra fornita, ricevuta da alcune menti robuste, e resa splendente da un sapiente e magnanimo esempio, non debba comparire agli uomini come la più preziosa tutela de' loro diritti e come un dono celeste; e ad essa non si convertano a gara maravigliati d' aver conosciuto sì tardi una così semplice insieme e grande instituzione, e di averla i loro padri fino a' loro tempi prima così a lungo obliata, e poscia così a lungo derisa. Egli sarà in cotesto tempo, che dissipate quelle nebbie che spargono nelle menti le tenaci prevenzioni, il Tribunale politico sarà domandato dalla pubblica voce, ed unanimemente dai grandi e dai piccioli della società riconosciuto come la più solida base di quella felicità che si può godere sopra la terra. Allora, quando ognuno sarà arrivato tanto innanzi coi lumi da vedere che la giustizia deve riputarsi più utile dell' usurpazione, e che il poco e sicuro è preferibile al molto e non sicuro; il Tribunale politico avrà la voce di tutti; egli sarà allora inatterrabile, sotto l' egida dell' universale opinione: ed egli non avrà armate da difendersi, perchè avrà l' umanità intera che farà la scolta d' intorno a lui. Egli è appunto questo che debbesi rispondere a coloro, i quali non conoscendo altra maniera di difendere i pubblici istituti che quella della forza fisica, ci facessero l' obbiezione, che tale Tribunale non potrà sussistere perchè impotente in mezzo ai potenti, e quasi un agnello in mezzo ai lupi. Tanto è lungi che questo Tribunale non possa sussistere perchè privo di forza fisica, che anzi appunto perchè ne è privo potrà sussistere, e fino che ne rimarrà privo: poichè appunto questa debolezza fisica darà la prova della sua forza morale: e la forza morale è quella che lo debbe fortificare di quella opinione non pubblica ma universale, contro cui tutto perde sua forza: di quella opinione dico dalla quale sola nasce la forza fisica e senza la quale qualunque esercito non solo non è forte, ma nè pure esiste. Ella è questa opinione che non si lascia toccare né offendere senza farne una inevitabil vendetta, quella che verrebbe tocca ed offesa da chi attentasse al detto Tribunale che diverrà come la pupilla dell' umanità. La libertà di questo Tribunale sarà il segno e la caparra della libertà di tutti gli uomini: la incolumità di questo Tribunale sarà il segno della loro incolumità: la prosperità sua sarà la loro: e tutto ciò che nuoce o mostra di nuocere all' esistenza di simile instituzione, muoverà nell' uman genere quell' ira sapiente e però indomabile, che non si ammanserà che coll' esemplar punizione di quel sacrilego e stoltamente audace che si elevasse contro un' instituzione formante la salute e l' onore degli uomini. Ella è la voce pubblica, ella è la pubblica opinione che dimanda questo Tribunale, che saprà ottenerlo, e che ottenuto saprà difenderlo. E quando dico la pubblica opinione, non intendo quella dei più miserabili della società, ma intendo quella di tutti, e più di quelli che più posseggono, e che perciò hanno più diritti da difendere. L' opinione discorde a questa non sarà più che una irregolarità colpita di riprovazione, e riguardata o con quella compassione onde riguardasi la ignoranza e la stessa pazzia, o con quello sdegno onde mirasi il delitto di lesa umanità. Egli è dunque il caso in cui gli uomini si troveranno tutti uniti, non per un legame esterno, ma per la forza della verità a difendere contro l' aggregazione di ciascuno le proprietà di ciascuno. Ciascuno si riconoscerà debile contro di tutti: tutti dunque saranno interessati non più ad assalire la proprietà di ciascuno, ma a difenderla: egli è in questo modo che l' autorità pubblica, la quale di natura sua è temibile perchè è forte, sarà ella stessa quella che rivolgerà la propria fortezza, per dir così, a contenere sè medesima; poichè nessuno abuserà più di simile autorità dal momento ch' egli è giunto a conoscere che ciò non può che nuocergli, e che più assai di bene egli debbe aspettare dall' universale mantenimento della giustizia che dalle proprie infrazioni della medesima: quantunque nel mantenerla egli rinunzi a un momentaneo vantaggio, ma ad un vantaggio non solo incerto egli stesso, ma che con sè trae nella incertezza anche tutto ciò che prima possedeva. Né egli è già questo il primo esempio di una instituzione che sebbene non sostenuta colla forza fisica, si sia sostenuta a lungo e tuttavia si sostenga. Poichè tale è il Cristianesimo: il fondatore del quale non lo fondò già sulla forza pubblica, ma bensì sulla forza morale: e con questa forza morale egli ha trionfato e trionfa della forza fisica: e ciò è tanto vero, che ogni qualvolta la forza fisica è venuta in aiuto del cristianesimo, egli è paruto che gli abbia anzi nociuto che giovato: per cui questa che é la massima la più universale e la più durevole di tutte le instituzioni, é appunto quella che si é francata, dirò così, di più dal bisogno della forza fisica, e che ha fino sparso sopra di questa il più grande disprezzo innalzando gli animi degli uomini ad una grandezza, nella quale fossero capaci di giudicare la forza fisica indegna dell' uomo e di non temerla. Tutti quelli pertanto che non credono al cristianesimo, ma che sono tuttavia costretti di confessare questo fatto, il quale non ha nè luogo nè tempo che lo racchiuda e che lo nasconda, dovranno confessare che è pure una gran forza quella dell' opinione, e che su di essa si può fabbricare con solidità; e quelli che credono a questa religione divina, e che la conoscono indistruttibile, come la parola del suo fondatore, troveranno in essa il punto d' appoggio del Tribunale di cui parliamo. Si consideri che un carattere che questo Tribunale ha comune con essa o con tutte le instituzioni pacifiche prodotte dall' amore di giustizia, si è di essere rivolto sempre a difendere e mai ad offendere ; poichè essendo appunto privo di forza fisica nessuno può temere che egli assalisca, e la sua forza morale si restringe solamente a raffrenare gli assalimenti altrui; poichè egli è appunto per questo instituito, ed è da questo che ricava la sua forza morale. Non vale il dire che col pretesto di difendere egli può talora offendere; poichè egli sarebbe questo un argomento del genere di quelli che per provare troppo finiscono a nulla provare: un argomento che potrebbesi egualmente fare contro qualunque instituzione e provvedimento per quanto sapiente ed utile fosse; un argomento finalmente che si appoggerebbe sopra un falso supposto cioè che con simile Tribunale s' intendesse di torre tutti i mali del mondo; mentre non si tratta che di diminuirli, ciò appunto che si pretende solo anche da' Tribunali civili i quali sarebbero inutili, se inutile fosse tutto ciò che non rimedia a tutti, ma solo a molti dei mali. Concedo adunque che non possono a lungo sussistere senz' essere fornite di una forza fisica prevalente quelle instituzioni la cui natura porta che sieno armate, e di cui l' intenzione non è palese, sicchè v' ha sempre ragione di temere da esse qualche assalto, concedo che nessuna autorità politica appartenente all' amministrazione della società potrà essere in mezzo a questo mondo, pur sempre sospettoso e che inferocisce alla vista della forza, privata per lungo tempo di un presidio bastevole a sostenerla, mentre ha in se stessa una forza bastevole a farla temibile e ad irritare, e mentre il suo officio è rivolto a cercare ciò che è utile, e non a cercare solo ciò che è giusto. Egli è adunque la pacifica condizione di questo Tribunale privo di ogni aspetto guerriero, ma augusto e venerabile per la sola luce della giustizia e della verità, che il renderà maggiormente amabile agli occhi degli uomini, dopo che l' instruzione diffusa per le nazioni abbia insegnato loro che la conservazione della giustizia è il solo mezzo onde si può aspettare ogni felicità della vita su questa terra e che questa conservazione non s' ha che per un Tribunale che giudichi le pubbliche azioni, e dopo che la religione avrà consacrato questo Tribunale e dato al medesimo una potenza che non può ricevere dagli uomini, ma che viene da Dio. L' esatta determinazione poi dello scopo, a cui debb' essere rivolto questo Tribunale politico nella immediata sua relazione, cioè la determinazione dei suoi speciali uffici, scioglie altre obbiezioni che si possono fare contro di lui. Poichè da alcuno si obbietterà ch' egli vuole riuscire un impaccio all' amministrazione, la quale non può essere ritardata in molte sue urgenti deliberazioni. Da altri si troverà un ostacolo nella spesa ch' egli esige per la trattazione di simili cause, poichè dovendo egli servire per quelli che nella società sono più deboli e perciò per quelli segnatamente che hanno meno beni di fortuna, i diritti dei quali sono quelli che meno si calcolano nelle politiche deliberazioni e che più facilmente si sacrificano; non potrà ottenere lo scopo di difenderli poichè manca ad essi il modo di affrontare la spesa a ciò necessaria: nè torna di alcun vantaggio la difesa di una piccola sostanza quando ad ottenere tal difesa bisogni usarne una grande. Finalmente vi saranno fors' anco di quelli che ci opporranno il segreto di stato; che mediante questo Tribunale si renderebbe impossibile. E riguardo a quest' ultima obbiezione confesso che la sana politica dovendo essere ugualmente innocua (per lo meno) a tutti gli uomini, ed ancora dirò di più verso tutti benevola; non potrà riscuotere giammai l' affetto e l' approvazione universale degli uomini quella che si sforza di tenersi ai più di loro sconosciuta e che pretende di trattare del loro bene nel segreto e nelle tenebre e di celare gl' interessi più cari e più grandi agli occhi di quelli a cui gl' interessi appartengono. Non è ch' io non conosca come talora si sia forzati di occultare momentaneamente agli occhi dei tristi ciò che si prepara in beneficio universale, non è questo che riprovo, ma riprovo una politica che ha il nascondersi per sistema, ed il rendersi misteriosa ed esclusiva per l' unico mezzo di rendersi forte e temibile; mentre questo stesso non può essere lo scopo ed il voto della sana politica. Affermo che la lealtà e l' apertura è anzi solitamente così nell' uomo privato come nel pubblico, così ne' piccoli interessi come assai più ne' grandi, l' effetto di una coscienza pura ed innocente, incapace perciò di temere: che è sempre ingiusto occultare gl' interessi agli occhi di quelli a cui appartengono e a cui vedere perciò n' hanno il diritto: che ciò è sempre tranquillante e sicuro togliendo dagli animi i sospetti: che finalmente quand' anche una politica celata e cupa fosse per un istante diretta dalle più pure e dalle più generose intenzioni, ella mostrerebbe con questo una presunzione soverchia, una troppa confidenza nella propria virtù; una confidenza che l' umana virtù non può giammai aver giustamente di se stessa, ed ella, dirò di più, finirebbe quanto prima a corrompersi insensibilmente, e l' amministrazione generale della società si troverebbe cangiata in una setta pericolosa ed esclusiva che pensa coi propri pregiudizŒ e che opera pei proprŒ interessi. Credo esprimere in queste parole non i miei sentimenti, ma quelli che ha il mondo generalmente: sentimenti d' equità a cui non si può ripugnare senza sedurre prima se stessi: e che sono in armonia cogli avanzamenti dei lumi dell' umanità e col progresso della morale; progresso che sembra essere stato predetto già da principio del cristianesimo dall' autore d' una religione che si dovea predicare nelle piazze e dall' alto dei tetti in quelle parole: « « Non v' ha nulla di coperto che non si debba scoprire, nè va nulla d' occulto che non si debba sapere. »1) » Ma quest' obbiezione, come dicemmo, cade insieme con l' altre due, quando si conosca da vicino l' officio del Tribunale politico. Poichè io considero questo Tribunale solamente in relazione colle deliberazioni interne dello stato. Ora queste deliberazioni interne politiche non portano giammai un effetto che sia istantaneo, e che dopo seguito sia irreparabile; se non nel caso che si tratti di tor la vita ad un cittadino. Ora la vita ad un cittadino non si può torre se non per cagione di delitto, e il delitto debb' essere giudicato dal competente Tribunal criminale. Le conseguenze adunque di quelle deliberazioni che facesse l' amministrazione della società senza l' intervento di un Tribunale, se mai portano qualche ingiusto danno, nol possono portare che di una natura risarcibile: il che dato non è necessario che prima della disposizione stessa pronunzii giudizio il Tribunale politico. I lavori adunque dell' amministrazione non debbono venire menomamente rallentati da quelli del Tribunale politico, come questi non vengono rallentati da quelli dell' amministrazione: e tanto l' Amministrazione quanto il Tribunale operano indipendentemente l' uno dall' altro, e senza che l' una di queste due parti del potere supremo abbia bisogno di sapere ciò che fa l' altra. Ciò si accorda coll' indole di un Tribunale: poichè l' indole di un Tribunale non contiene già un' inquisizione delle cause da giudicare; ma è solo una corte stabile e per così dire passiva, la quale senza darsi cura di ricercare ciò che può alla medesima essere sottomesso, aspetta che vengano ad essa quelli che hanno dei richiami da fare, ed essa si porge pronta all' esame delle ragioni che si presentano e di quelle che contro alle medesime reca la parte contraria. Laonde dovranno essere gli stessi cittadini, o corpi di cittadini, o il governo medesimo quelli che innanzi a questo Tribunale danno moto alle cause. Infatti supponiamo che un cittadino o un corpo di cittadini conosca che l' amministrazione sociale si trova in sul fare tale deliberazione che giudica a sè nocevole e ingiusta; e che recata la causa al Tribunale politico egli riporti favorevole sentenza, cioè una sentenza che riconosce gl' ingiusti danni che apporterebbe tale deliberazione. Potrà egli aver forza una simile deliberazione di ritenere l' amministrazione della società dal prendere quel partito se lo crede utile? Non già, poichè, come noi abbiamo veduto nella prima parte, l' amministrazione della società ha un pieno potere sulla modalità dei diritti di tutte le persone morali e individuali, che formano parte della società; e perciò essa ha ancora un pieno diritto di commutare i diritti delle medesime in altri diritti equivalenti, purchè lo esiga il pubblico bene: e ciascuna di queste persone ha l' obbligo di cedere per tal fine i proprŒ diritti contro un pieno compenso de' medesimi. Laonde la decisione del Tribunale politico non può giammai limitare questo potere dell' amministrazione sociale, e non può perciò impedire che essa faccia tutto ciò che crede utile: ma non ha altro officio od incombenza che di sentenziare se essa sia debitrice di un compenso alle persone componenti la società per qualche danno loro arrecato, e quale debba essere questo compenso perchè sia pieno; mentre l' assicurazione che l' amministrazione sociale non trapassi il confine dei suoi diritti consiste nell' assicurazione che ogni danno da lei cagionato ritrovi un pieno compenso; come all' opposto l' assicurazione che a lei non venga diminuita la pienezza del suo potere consiste appunto nel non avervi alcun' altra autorità che possa ritardare o impedire le sue disposizioni amministrative. La modalità dei diritti è l' oggetto del suo potere, e su questa il suo potere è illimitato: i diritti stessi cioè il loro prezzo reale non è l' oggetto del suo potere, ma ne è il confine: questo è quello che debb' essere assicurato alle persone componenti la società, e quest' è l' unico officio del Tribunale di cui parliamo. Egli è dunque evidente che il secreto di stato, qualunque sia l' opinione che si porti intorno a lui, non può mettere impedimento all' erezione di un Tribunale politico, ed egli è evidente altresì che l' amministrazione non viene dal medesimo ritardata nelle sue più urgenti deliberazioni. Resta a rispondere alla obbiezione della spesa necessaria alla trattazione di tali cause, che sembra dover eccedere le forze di quelli che hanno più frequentemente bisogno di detto Tribunale. L' indole del medesimo scioglie anche questa obbiezione, poichè il Tribunale non è che un ramo del potere supremo, il quale per innanzi fu solito di trovarsi unito in un solo corpo esercitante i due offici: 1 di amministrare la società, 2 di giudicare della giustizia di tale amministrazione: e che ora si suppone diviso in due rami, divisi secondo i detti due offici. L' officio dunque di giudicare commesso ad un apposito Tribunale sarebbe un dovere dell' amministrazione, di cui il Tribunale la scarica. L' amministrazione adunque debbe riguardare il Tribunale come un suo aiuto, come un mezzo necessario perch' essa non esca dai suoi più sacri doveri. Le persone all' incontro componenti la società hanno tutte un diritto di non essere danneggiate dall' amministrazione, nè con certezza, nè con ragionevole dubbio. Ciò considerato vuole la giustizia che le spese per consimile Tribunale entrino nelle spese generali dell' amministrazione, e non sieno menomamente a parte degli attori, se non fosse fatta eccezione a quelli che il Tribunale giudichi evidentemente maliziosi, e senz' apparenza di ragione inquieti. Finalmente non si può neppure dire che le prove in simili materie sieno irreperibili, mentre il rigore delle prove per l' indole d' un tal Tribunale non dovrà essere al tutto pari a quello dei Tribunali civili, ma bensì pari a quello che un' amministrazione delicata nella giustizia debbe prefiggere a sè stessa, mettendo la mano nelle altrui proprietà. Nè la difficultà di giudicare rimarrà sempre la stessa; poichè colle decisioni appunto di questo Tribunale si comincierà appunto a stabilire le basi di giustizia pubblica, che fino a questi tempi mancano interamente e a cui per una inconcepibile spensieratezza degli uomini non si è pensato giammai, ma di cui il mondo sente sempre più il bisogno, e le domanda e le va quasi a tentone cercando: la cui mancanza produce tante dissensioni e tante inimicizie; e gli errori intorno ad esse costano tanto sangue e tanta depravazione: delle basi che non si potranno giammai a pieno ritrovare e fissare senza una lunga esperienza e de' lunghi studŒ; senza che dei giudici integri ed illuminati sottentrino in questo lavoro a de' filosofi corrotti ed insensati; fino a che le decisioni di un gran numero di casi particolari non menino gradatamente a delle sentenze generali, e sgombrino delle teorie imaginarie fondate nell' aria; fino a che insomma il Tribunale politico non porti le sue decisioni, e le decisioni del Tribunale politico non sieno raccolte a norma di altre decisioni; e da queste norme sieno quindi cavate delle leggi e ridotte in un codice: e la giurisprudenza politica non cominci a fare quel corso che la giurisprudenza civile ha quasi compito: unico corso diritto e solido, e tanto più necessario alla politica giurisprudenza in quanto ch' essa ritrova tanti più ostacoli da superare che la civile, tante passioni più vaste e più possenti, tanti interessi più complicati e più rilevanti, e tanti uomini ancora così incapaci di vederne l' importanza e di sentirne il bisogno. Non si esigerà prova per convenire che l' armata nè ha il diritto nè può essere capace di far da giudice nelle vertenze fra l' amministrazione e gli amministrati; mentre la forza fisica non dà alcun diritto ma solo può difenderlo; e l' armata non è che a servigio di quelli che hanno i diritti, e non arbitra de' medesimi, nè le funzioni pacifiche e meditative di giudice possono star bene alla professione avventata e bellicosa del soldato: il quale fornito di una forza fisica insieme e morale a cui niuno potrebbe resistere, si crede facilmente disobbligato dalla fatica paziente della investigazione della verità, ed abbraccia assai più volentieri la strada più corta che gli si presenta del suo arbitrio assoluto: tal' era la condizione del mondo sotto la tirannia de' Cesari la cui dignità non era alla fine, come suona il nome d' Imperatori, che quella di condottieri d' esercito. Il soldato giudice di sua natura è anche principe, e il Tribunale che vogliamo stabilire sarebbe in un istante sparito. Il Parlamento rappresenta la nobiltà ed il popolo; cioè a dire rappresenta gli amministrati: essi non possono dunque esser giudici perchè sono parti, e lo scopo del Tribunale da noi proposto è appunto quello di togliere l' inconveniente che nasce dal trovarsi insieme unito il giudice e la parte; i Parlamenti perciò non possono che trattare la causa de' corpi che rappresentano, ma non mai essere essi medesimi il Tribunale. Se fosse impossibile dividere il giudice dalla parte, e fosse necessario che una delle due parti fosse anche giudice sarebbe sempre preferibile di lasciare il giudicio all' amministrazione della società, alla quale è stato sempre attribuito da tutti i secoli, ed a cui è stato individualmente congiunto; sicchè quando si è voluto a forza strapparlo dalle persone che avevano l' amministrazione, si è strappata dalle loro mani l' amministrazione stessa, o si è gittata la società nell' anarchia. Che l' amministrazione possegga il giudicio sulla giustizia delle sue disposizioni, questo è cosa naturale, perchè è naturale che la potestà somma non abbia nella propria linea verun giudice sopra di sè: e tutto ciò che si può trovare in essa di censurabile non è già una corruzione, ma un' imperfezione, cioè a dire sebbene una tale amministrazione giudice delle proprie disposizioni non sia punto assurda nè contro natura, tuttavia essa è pericolosa, ed ha con sè un' imperfezione, che è appunto quella che noi proponiamo di togliere col detto Tribunale: imperfezione che dà luogo ad un miglioramento e non ad una distruzione, ad un progresso che fanno i secoli cristiani, e non ad una riforma che fanno i filosofi. Il bisogno ognor più sentito di simile miglioramento è una secreta forza che dispose gli uomini alle novità politiche, ma scoraggiati dallo spettacolo dell' umana corruzione, e sentendo una deficienza morale in sè medesimi, perdendo ogni credito alle forze morali della virtù, non seppero sollevarsi nel secolo della incredulità ad immaginar possibile l' instituzione di un Tribunale di giustizia, che solo poteva sciogliere il problema del tempo, e soddisfare il bisogno delle nazioni. In vece di ciò per fuggire un vizio corrono avventatamente al suo opposto: e togliendo il supremo giudicio del giusto ai re non lo affidano ad un Tribunale, ma alla parte opposta, cioè al popolo: delle due parti fra cui verte il giudicio lo rapiscono a quella nelle cui mani i secoli lo hanno consecrato per darlo alla parte peggiore, e fare gli amministrati giudici degli amministratori. Con ciò il supremo potere è atterrato: conciossiacchè non è supremo se non perchè tutti gli amministrati debbono al medesimo assoggettarsi: e se la amministrazione debba seguire col giudicio di questi in tal caso son essi che s' amministrano da per sè. Egli è per ciò, che il potere che si cerca sempre d' accrescere ai Parlamenti, che non sono se non se i rappresentanti dei corpi amministrati, inclina lo Stato ad uno stato repubblicano, cioè strappa di mano dal principe il legittimo potere da lui sempre posseduto e cangia la forma di governo. Infatti non poteva essere altro dall' istante che il giudicio dalle mani di una delle due parti passa nelle mani dell' altra; poichè ciascuna parte non suol già credersi giudice, non pensa già a cercare rettamente e solo ciò che è giusto, ma pensa a difendersi dall' altra, pensa a vantaggiare ne' propri diritti sopra dell' altra, pensa a rivolgere l' amministrazione come più a sè torna conto: egli è dunque una divisione di amministrazione che nasce, e una divisione dell' amministrazione è una mutazione nella forma del governo. S' osservi infatti se nella instituzione de' Parlamenti si sogni mai di deliberare a guisa di un Tribunale di giustizia, e non più tosto di agire a guisa di una parte che tratta la sua causa col mezzo di avvocati: si osservi se fra i Parlamenti ed i re v' abbia altra relazione che di una continua ostilità: nella quale ognuna delle parti si crede aver fatto assai quando gli è riuscito di dar qualche passo sul terreno dell' altra; e deplora la sua sconfitta quando ne è stata respinta. Se il popolo non è atto a formare questo Tribunale politico mediante i suoi rappresentanti, cioè mediante i Parlamenti, perchè è parte, e quella parte che di sua essenza è soggetta, quella che debbe essere giudicata per la stessa ragione che debb' essere amministrata; molto meno egli potrà sostenere le funzioni d' un tal Tribunale per sè medesimo; mentre per sè non può far nulla per la sua mole, e perchè egli è essenzialmente disorganizzato, soggetto alla seduzione, al capriccio, ed all' ignoranza. La ragione di ciò è il semplicissimo e innegabil consiglio, che quando si debbe eleggere persona a qualche ufficio fra molte, senza che veruna s' abbia diritto al medesimo, vuolsi eleggere quella che è all' officio più idonea, che conosce il modo di adempierlo e n' abbia l' abilità e la fermezza da non deviare giammai dal suo dovere. Ora la ricchezza, la nobiltà, la forza fisica, la potenza civile non mettono i lumi nelle menti alle quali mancano, nè la rettitudine e l' integrità ne' cuori depravati. Queste qualità adunque non hanno a far nulla coll' amministrazione della giustizia. Esse potranno forse render l' uomo più acconcio ad un' amministrazione che ha per fine l' utilità, perchè fomentano le passioni dell' acquistare, e queste acuiscono l' ingegno a trovare espedienti a' risparmi ed a' guadagni: nè cosa nuova è che un uomo di piccolissimo spirito in tutto il resto si sia mostrato sottile traficatore e speculatore e s' abbia fatto una fortuna, ed abbia fondato una casa, poichè il vivo ed unico desiderio dello avere ha messo a quel partito le sue piccole forze intellettuali, a cui non sogliono essere messe negli altri uomini men di lui cupidi. Laonde se trattandosi d' utilità la passione aguzza l' ingegno; trattandosi di giustizia ella non fa che ingrossarlo e diffondere tenebre d' intorno al vero cercato. Purissimo è il vero. ed immune da ogni altra affezione: nella sua sincerità l' uomo il ritrova quanto ha il cuore più ignudo d' altri affetti, la mente più libera, e l' animo più generoso. Le classi adunque de' ricchi, de' nobili, de' militari, o degli officiali civili non possono esser quelle a cui s' appartenga di comporre il Tribunale politico esclusivamente: poichè questi loro beni lungi da fornirli d' un titolo favorevole per sostenere tale officio, più tosto valgono di loro natura a renderli inetti al medesimo: conciossiachè tolgon loro quella nudità d' animo, quella tranquilla imparzialità, quella mente pura e ferma nè ammollita dalle delizie, nè invanita dalle gravi inezie, nè lasciata rozza dalla mancanza del tempo richiesto dagli austeri e placidi studŒ della giustizia, che debbono formare appunto gli unici sostegni del politico Tribunale. Non convien dunque fare di questo Tribunale la proprietà di alcuna famiglia, o di alcuna di quelle classi della società che vengono formate e distinte le une dalle altre non già per titoli intellettuali e morali, ma per dei beni esterni che non sono nè verità nè virtù. La verità, la virtù: ecco i criterŒ unici che debbe proporsi colui, a cui fosse commesso l' incarico di fare la scelta delle persone componenti il politico Tribunale: qualunque sieno le altre condizioni delle persone qui non vanno per nulla curate: quelli che più sanno fare giustizia; che più il vogliono , che più sanno sostenere il giusto loro decreto; ecco quelli che debbono essere trascelti al politico Tribunale quai veri Sacerdoti della Giustizia. Questo Tribunale adunque non forma un' aristocrazia , ma è, se può dirsi così, democratico a quel modo che è democratica la Giustizia: poichè questa esige, come vedemmo, che tutti gli uomini e tutte le persone morali si considerino eguali quando vengono ad essa innanzi per essere giudicate: è democratico perciò, non in quel senso che tutti gli uomini vi abbiano parte, ma in quel senso, che tutti gli uomini vi possano aver parte: e vi possono aver parte, poichè tutti possono aver parte alla rettitudine ed alla virtù, a questi supremi beni aperti e comuni, pei quali solo debbesi aprir l' adito al Tribunale di cui parliamo: non in quel senso per ciò ancora che ciascuno abbia diritto al detto Tribunale solo per esser uomo, ma bensì in questo senso che ciascuno possa avere un tal diritto per essersi reso uomo virtuoso: e per aver superato negli esempi da lui dati di virtù, d' integrità e di sapienza, tutti gli altri probi e virtuosi. Ciò che noi chiamiamo spirito d' intelligenza non è già solo quello che ci conduce a desiderare delle nuove idee, ma bensì ancora qualunque altro oggetto per lontano al difuori di noi e molteplice che egli sia, ed esso è il fonte della Previdenza, della Prudenza e della Bontà. Distrutta ogni previdenza non è meraviglia se dovesse essere recisa insieme ogni umana società: 2) non è maraviglia se chi non giudicava necessaria la ragione, non giudicasse « neppure necessario di far entrare nell' uomo il principio della sociabilità: »e perciò, se non solo venisse a torre di mezzo una società estesa ma ben anche la prima e direi quasi elementare; quella della famiglia. Per dare un solo esempio del nostro poco spirito d' intelligenza relativamente alla società domestica, si può osservare la facilità e la leggerezza onde si contraggono i matrimonŒ di che viene l' infelicità della famiglia, i difetti dei figliuoli dati alla società, ed il pentimento. Non si fa che predicare che il generatore di figliuoli è un benefattore della società: questa sentenza pigliata così sola è una di quelle idee astratte ed imperfette di cui vedemmo provenir tutti i mali. Nel mentre adunque che si insegna ad accrescere il numero dei matrimonŒ, veggiamo difendere altresì il divorzio che porta alla società domestica il colpo il più mortale; e che dimostra l' indebolimento di quella facoltà di pensare che consocia gli uomini, e l' aumento di quello spirito di senso che li divide spogliando l' uomo della previsione. Le idee all' incontro su questo oggetto dei secoli trapassati erano presso a poco quelle che ogni saggio trova necessarie massimamente ai tempi presenti. [...OMISSIS...] La previsione e la prudenza suggerisce all' uomo di non impegnarsi in un maritaggio, se egli non ha ragionevole speranza di mantenere i figliuoli; perocchè non lo consiglia punto la ragione a dare esistenza ad esseri infelici. 2) I nostri moralisti politici non pensano tanto innanzi. Da simile mancanza poi di previsione sono cacciati alle più strane conseguenze. Soffermiamoci pure ad osservare i loro traviamenti sopra un argomento che tanto interessa l' umanità. [...OMISSIS...] Ma che? risponde il più volte citato autore del « Saggio sulla Popolazione: » [...OMISSIS...] Bisogna che il Sig. Raynal non consideri già la sua proposizione astratta dalle sue circostanze, ma con un poco di maggiore spirito d' intelligenza consideri i suoi rapporti. Se come dice Rousseau « sarebbe insensato colui che tormentasse sè stesso colla coltura di un campo, quando vedesse che un altro che sopravviene lo spoglia della messe: »quando il campo insomma non è stato dato a lui in proprietà, e garantito dalle forze associate: vuol dire che la società fa luogo a poter sussistere un numero maggiore di uomini sullo stesso terreno, essendo quella che rende possibile la coltivazione dei terreni. Or questa coltivazione è resa possibile secondo Rousseau solo allora che i terreni sono divisi ed assegnati in particolari proprietà. Ognuno dunque ha diritto di vivere solo nel caso che non venga lesa questa legge della proprietà, mentre rompendosi questa legge innumerabili uomini vanno a perire, i quali hanno pure diritto di esistere. Chi dunque infrange la legge della proprietà per principŒ cospira alla vita di infiniti uomini: questi uomini adunque, la cui vita è messa in pericolo da chi vuol tor via dal mondo ogni proprietà, hanno diritto da difendersi contro costui, come contro un paricida, ed un reo del più alto tradimento. Questa massima crudele, che assalendo la legge della proprietà trucida migliaia di uomini nelle sue conseguenze, non ne lascia però nessuno fuor di pericolo, mentre nei più orrendi ed accaniti massacri, nei quali involgerebbe il genere umano quand' ella trionfasse, sarebbe incerto quali sarebbero quei pochi uomini che sparsi sulla faccia della terra tutta orrida ben presto e selvaggia l' uno lontano immensamente dall' altro coll' impressione del più alto spavento ad ogni vista de' proprŒ simili sopravivessero. E pure di questa massima sono ancora pieni i libri de' politici. Di questa massima è un corolario ed una applicazione quell' altra, che i poveri abbiano diritto di essere mantenuti dalla società; massima che pure distrugge la società stessa attentando alla proprietà particolare: massima d' altra banda impossibile; mentre non ha la società modo di sostenere tutti gli uomini che nascono, quando non sieno i maritaggi regolati dalla prudenza di quei che l' incontrano: mentre come abbiamo veduto la popolazione ha una tendenza di aumentare in ragione geometrica, mentre gli alimenti non possono che al più crescere in ragione aritmetica. Payne nel libro de' diritti dell' uomo reca assai male a proposito l' America in esempio della sua opinione. [...OMISSIS...] La società civile essendo composta di famiglie torna in danno di lei la mala previdenza adoperata della società famigliare. La imprevidenza adunque di quei padri che hanno caricata la propria famiglia di una figliuolanza che non hanno il potere di nutrire, è dunque dannosa alla società. E ponendo essi al mondo una popolazione che vuol vivere e che non ne ha il modo, pongono una causa degli sconvolgimenti. Questa cagione di tante inquietudini in Inghilterra, specialmente in tempi di carestia, potrebbe quivi cagionare malori assai più gravi, se quel popolaccio nella più brutale ignoranza potesse avere qualche vista più in là che di satollare al momento la sua fame: a malgrado di ciò gli scrittori di quel paese osservano, come se i tempi di carestia si rendessero frequentemente, sarebbevi ragion di temere, che quelle sommosse gittassero lo stato in quella specie di estremo torpore che l' Hume ha indicato colla parola euthanasia quando non lo traesse di quel sonno qualche terribile scotimento. Del popolo affamato nelle antiche società traevano aperto partito gli ambiziosi. Appo di noi la falsa filosofia delle male usate astrazioni fece credere al popolo che egli abbia diritto d' esser nutrito dalla società dei ricchi; e i movimenti della plebe si rendono con questa illusione più funesti. La filosofia sommovendo il popolo col fare a lui credere che egli abbia il diritto di spogliare i ricchi, e di ugguagliare le proprietà, 1) occasiona il dispotismo. Poichè la società dei ricchi, credendosi in diritto di difendere le sue proprietà contro gli assalitori, impiega tutta la forza che si trova avere e che non sarebbe stato bisogno di adoperare, se nel popolo vi fosse stata una dottrina più sana, o maggior virtù. [...OMISSIS...] La legge adunque della società famigliare, la legge che provvede alla scambievole sicurezza delle famiglie, e però che mette il fondamento della tranquillità anche nella società civile, la quale si forma di molte società famigliari, è la seguente: Primo equilibrio necessario alla perfetta costituzione dell' umanità è, che vi sia equilibrio fra la moltiplicazione della specie umana nelle singole famiglie colla ricchezza delle famiglie, o sia che un padre non generi maggior numero di figliuoli di quello che egli possa mantenere . Abbiamo dato la regola di ricorrere all' origine delle cose per distinguere in esse la sostanza dall' accidente. Abbiamo mostrato coll' esempio di Rousseau l' abuso che si fa di questa regola, ponendo l' idea di una cosa astratta per l' idea di una cosa reale, e insieme con ciò abbiamo insegnato il modo di far uso di quella regola senza pericolo d' errore. Applicandola al caso presente possiamo osservare come la regola da noi posta era in vigore specialmente in quel primo tempo in cui gli uomini erano raccolti in società domestiche, mentre la società civile non era ancora compiutamente formata. In quel tempo la società domestica aveva bisogno d' essere perfetta se voleva esistere; mentre non aveva altra società superiore che la tutelasse. Quindi l' ottima costituzione della società domestica la veggiamo in quelle famiglie patriarcali, nelle quali era considerata come benedizione celeste la moltitudine de' figliuoli: mentre per l' abbondanza de' terreni non poteva d' una parte venir meno il nutrimento, dall' altra c' era il bisogno di forza fisica per difenderlo dalla prevalenza delle altre famiglie. La nostra regola adunque si cangia in quest' altra, consideratone attentamente il suo spirito, che non è altro che quella stessa un poco più generalizzata. Si conservi l' equilibrio fra la forza fisica della famiglia, ovvero il numero de' suoi membri, e la ricchezza che ella possiede . Poichè se eccede il numero dei membri di questa famiglia, queste sono tante persone tentate dalla miseria di spogliare le altre famiglie per vivere; e se all' incontro è minore il numero propozionale dei membri della famiglia, non v' è in questo caso abbastanza di forza per difendere i beni della famiglia. E` tanto naturale questa legge che si ravvisa fra tutti i barbari, ove non sia passata la società più oltre che allo stato di famiglia: specialmente dove sieno circondati da nemici. E questa, se dobbiamo prestar fede alla relazione di Bruce, 1) è una ragione della poligamia in certi luoghi dell' Africa. Egli conta che appresso i negri Changallas sono le femmine che importunano i loro mariti a prender dell' altre mogli per rinforzare con un buon numero di figliuoli le loro famiglie: e lo stesso dice dei Gallas: la donna sposata la prima è quella che fa la corte a qualche altra femmina a nome del marito per indurla a sposarlo, usando ad argomento principale quello che unendo insieme le loro famiglie diverrebbero più forti; mentre all' opposto il troppo stretto numero dei loro figliuoli, non farebbe che lasciarle senza resistenza alcuna cadere nelle mani de' loro nemici. Le famiglie incorporate nella società civile già costituita non sentono tanto il bisogno di questa legge, mentre la loro esistenza viene dalla società civile protetta. Ma come la forza unita di tutte difende l' esistenza di ciascuna, così il disordine, che succede in ciascuna per una moltiplicazione eccedente la ricchezza, si riunisce in massa e ricade a danni di tutte, rivoltandosi contro l' esistenza della civil società. Da questa legge poi si comprenderà con maggior evidenza la ragione del lagno importuno che si fa sempre contro la disuguaglianza delle proprietà. La cagione, forse più stabile di tutte l' altre, di questa disuguaglianza è la moltiplicazione maggiore o minore delle famiglie, rimanendo più povere quelle (fatte l' altre cose uguali) che essendosi maggiormente moltiplicate hanno ancora più divise e suddivise le facoltà. Sicchè venendo anche fatto un riparto uguale, in breve tempo quelle schiatte, i cui successivi padri avessero generato meno figliuoli, rimarrebbero più ricche di quelle che n' avessero generati di più: e in questo modo quei padri che con maggior prudenza avessero moderato la moltiplicazione della loro famiglia, secondo quello che suggeriva loro la saviezza, ed il preveduto ben essere dei loro figliuoli, era ben ragionevole che fossero premiati nella comoda vita procacciata a lor discendenti, e che non venissero spogliati del frutto della loro virtù da quelle famiglie che imprudentemente, e però viziosamente, si sono moltiplicate. Consideriamo adunque l' opulenza delle famiglie come un diritto che hanno alla generazione dei figliuoli. Coloro che hanno già usato questo diritto totalmente, non possono più lamentarsi delle tristi conseguenze che essi stessi cagionano volendo far uso ancora di questo diritto: e queste famiglie miserabili che indi provengono, aspirando ai beni delle famiglie ricche, usurpano a queste il diritto della generazione di cui esse hanno già pienamente fatto uso, mentre le ricche non avendolo esaurito lo hanno conservato. Per questa legge di natura è adunque messo un compenso fra il bene del generare e quello del possedere; onde succede cotale equità che chi usa più dell' uno debba rimaner più privo dell' altro, e chi più si priva dell' uno debba posseder l' altro in maggior copia. Le famiglie povere adunque che dopo aver goduto il bene della moltiplicazione, aspirando alle proprietà dei ricchi, vogliono a loro invadere questo stesso diritto della moltiplicazione, sono quelle veramente che rompono la naturale uguaglianza, e la legge di compenso messo ne' godimenti dei beni dalla natura: esse sono quelle famiglie, le quali dopo aver goduto tutto il proprio, vogliono anche godere l' altrui. E ben vero che i figliuoli, non ne hanno colpa, ma non hanno colpa di questo disordine nè pure le famiglie ricche; solamente l' hanno gl' improvidi padri; i figliuoli se voglion lagnarsi si lagnino adunque de' loro padri; ma non hanno ragione di pretendere come loro diritto, che le famiglie ricche facendo parte dei loro beni, limitino con ciò il numero de' loro figliuoli futuri, o vero abbiano da prevedere altrettanti loro discendenti in quella stessa mendicità dalla quale sottraggono gli stranieri. La legge da noi posta dell' equilibrio fra la moltiplicazione e la ricchezza è quella che conserva la tranquillità e sicurezza nella società famigliare, considerando una famiglia in relazione coll' altra non già considerando l' associazione che più famiglie possono fare a danno di una sola: il qual genere di turbamento è impedito da un' altra legge. La detta legge poi costituisce ancora il primo punto della soluzione al problema propostoci: Trovare nella società il collocamento migliore di quegli oggetti che possono acquistare per l' uomo l' idea di bene e di male; acciocchè influiscano al bene dell' umanità (fac. 12, 13). Essa scioglie il detto problema per riguardo alla distribuzione delle due cose, popolazione e ricchezza; primi elementi di ogni società. Egli è poi ancora da osservare nella detta legge le due sue parti. Primo che non attenda alla moltiplicazione della specie chi non può mantenere i figliuoli; secondo: che vi attenda chi ha ricchezza da mantenerli. Nello stato famigliare della società, cioè quando le famiglie non erano incorporate ancora alla società civile era essenziale questa seconda parte; perchè doveva la famiglia difender sè stessa: nello stato poi di società civile, o nazionale è essenziale la prima parte, e accidentale la seconda; perchè la famiglia è già tutelata dallo stato, quando anche manchi di forza nel numero dei suoi membri; ma all' incontro se eccede nel numero di questi ella immiserisce ed accumula a danno dello stato una popolazione mendica e pericolosa.

Gioberti e il panteismo

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Abbiamo distinto l' essere ideale dall' essere reale: questa è una distinzione importante, miei signori, una distinzione fondamentale in Filosofia, feconda di innumerevoli conseguenze: dobbiamo tornarci sopra, e il tempo che ci impiegheremo non riuscirà certamente perduto. Si dà dunque vera distinzione tra l' essere ideale e l' essere reale? La natura dell' uno è veramente distinta dalla natura dell' altro? Questa interrogazione, signori, potrebbe parere ad alcuni superflua. Infatti non vi ha nessun uomo sopra la terra, che non faccia questa distinzione più volte al giorno, e che non sia sì persuaso della sua verità che non rispondesse colle risa a chi mostrasse di negarla, o porla in dubbio. Quando il povero affamato va cercando la limosina, e pensa al pane ch' egli non ha, crederebbe d' essere schernito, e veramente sarebbe da chi gli prendesse a provare sul serio che quel pane ch' egli ha nel pensiero ma non ancor nella sporta, è perfettamente uguale di natura al pane reale che può acquetare i latrati del suo ventricolo. Se l' avaro mercadante potesse persuadersi che quelle ricchezze ch' egli volge in mente e che non ha ancora acquistate, fossero della stessa natura e condizione di quelle che riempieno i magazzeni e gli scrigni di altri che sono già ricchi, ei non si piglierebbe tanti fastidj, non farebbe col suo pensier tanti calcoli, non commetterebbe se stesso ben anche e le cose sue alle procelle del mare; ma tranquillissimo nella sua casa o nel suo casolare, o anche a cielo sereno, si riputerebbe ricchissimo in poco d' ora a sua voglia, ripensando tutti i tesori possibili e facendoli venir tutti ubbidienti innanzi al suo pensiero, come il pazzo d' Orazio. Il dire dunque che ciò che è meramente ideale non differisce da ciò che è reale, è un uscir dal senso comune degli uomini, e meritarsi un posto in qualche conservatorio d' uomini speciali. E che dunque? Sarà questa materia d' una grave lezione di Filosofia? Sì signori, e più che non si crede. Voi già qui mi prevenite col pensiero: voi vi sovvenite degli scherni gettati a piene mani da Vincenzo Gioberti sull' essere ideale del Rosmini, e non si può negare, che il seppe fare con eloquenza, o almeno con facondia. Molti ne rimasero incantati. Se il senso comune, miei signori, distingue accuratamente l' essere ideale dal reale, se non ne dubita punto, se giudicherebbe pazzo colui che dubitar ne volesse, non è così necessariamente de' Filosofi; tra questi soli, tra quelli voglio dire che sembrano quasi fare uno studio di pensare a rovescio di quanto pensa l' intera umanità, potè trovarsi chi negasse la distinzione dell' essere ideale dal reale, e che rendesse una verità pianissima come è questa, difficilissima ed oscurissima sino ad aver bisogno di molte parole e lunghe disputazioni a restituirla in quella luce, in cui si trova nelle menti del volgo. Ma onde mai una cosa sì strana? E` egli possibile che lo studio e la meditazione filosofica oscuri quelle cose che son sì chiare nelle menti di chi non istudia nè medita? Questo è un fatto, signori, ma non crediate che torni a scapito della Filosofia. Poichè s' ella da prima oscura le cose chiare, dissipa in appresso la caligine da lei stessa prodotta, e fa apparire assai più bella e più fulgente la luce. Io credo prezzo dell' opera l' osservare come avvenga che la distinzione dell' essere ideale e del reale si vada da prima oscurando sotto la meditazione filosofica e poi risplendendo d' un lume il doppio più vivo. Sapete voi dunque perchè v' ebbero e v' hanno de' Filosofi, i quali non voglion sapere della distinzione tra l' ideale e il reale? La ragione è questa. L' ideale e il reale appajono chiarissimamente distinti al primo pensiero che ad essi si volga, ma poi quando, meditandovi sopra, si vuole investigare altresì che cosa sia l' ideale, che cosa sia il reale, se ne vuol penetrar la natura e le doti, allora il Filosofo rimane sbalordito della difficoltà. Poichè altro è il sapere che l' ideale e il reale sono distinti, ed altro il penetrarne la natura intima e darne una definizione. Il Filosofo, o per dir meglio, colui che si applica all' investigazione filosofica, s' arena troppo sovente in questa seconda questione, e più si prova a definire il reale e l' ideale, più vi si affonda e vi s' inveschia, quasi come se camminasse su un terreno tutto di pania. Non è bisogno che io vi dica che questo nasce a cagione della limitazione della mente umana: ma è questa limitazione che tutti confessano in generale, che colui che filosofa stenta più che mai a confessare in particolare, a confessarla in se stesso, e a dire ingenuamente quel sapientissimo: « io non lo so ». Che cosa dunque fa egli? A dirvelo in termini proprj, s' irrita; non s' irrita contro se stesso, e non sarebbe nè pur questo cosa ragionevole; ma s' irrita contro la povera distinzione dell' ideale e del reale, che non ha la menoma colpa al mondo della sua confusione. Colui dunque che filosofando è pervenuto a tal termine, ragiona seco medesimo in questo modo: « Io non intendo che cosa sia questo ideale e questo reale , io non me li so definire; dunque collocheremo questa distinzione tra i pregiudizj volgari; la negheremo affatto; e poscia che il reale ci cade almeno sotto i sensi, diremo che tutto è reale , e che tutto ciò che non è reale, è un nulla, e ci daremo così il vanto d' appartenere alla scuola de' perfetti realisti ». Che ne dite, o signori, d' un così fatto ragionamento? Certo egli è spiccio a maraviglia, comodissimo a trarre del labirinto colui che vi si è perduto da se medesimo. Ma se vogliamo parlare sul serio, voi tutti direte meco, io credo, che il nostro Filosofo con questa conclusione che danna a morte spietatamente la distinzione dell' ideale e del reale, ha cessato d' esser Filosofo. Ma non vogliamo per questo cessar noi dal filosofare. Epperò sostituiremo un' altra conclusione, che sia veramente conforme al dettame della Filosofia, vengane che sa venire, dovessimo anche confessare la nostra ignoranza. Noi diremo dunque così: al primo sguardo del pensiero si manifesta evidentissima la distinzione dell' ideale e del reale: questa è ammessa ne' discorsi di tutti gli uomini; e se non l' ammettessero, cesserebbe la loro attività, chè gli uomini non s' affaticherebbero più a procacciarsi quel reale che risponde all' ideale delle loro menti, se questo secondo fosse della stessa natura del primo. Dunque riceveremo questa distinzione prima di tutto come un' innegabile verità. Poi senza alcun timore, volgeremo sopra di essa la nostra meditazione, tentando di conoscere il più addentro che mai per noi si possa la natura del reale e dell' ideale; e dopo aver fatte tutte le prove, qualora ci riuscissero indarno, confesseremo bensì ingenuamente la nostra ignoranza, ma non ne indurremo per questo che la distinzione già stabilita sia divenuta un bel nulla, non dandoci l' ignoranza nostra diritto di negarla, ed essendo principio certissimo di buona logica, che quando è dimostrata di una cosa qualsiasi l' esistenza, non può più recarsi in dubbio pel solo motivo, che ella si abbia una natura assai misteriosa e impenetrabile al veder vostro. Molte sono le cose arcane nella natura, nè per questo il Fisico nega o gli enti o i fenomeni, di cui non può discoprire le ragioni e le leggi. E qui osservate, o signori, che l' escludere la distinzione del reale e dell' ideale per le difficoltà che si trovano nello spiegare questi due modi di essere, non è solo un peccato contro la logica, ma è un peccato altresì, se mi lice così parlare, contro la moralità del Filosofo. In fatti, è dover del Filosofo l' esser coraggioso e costante nelle ricerche, il non darsi per vinto così facilmente; e quando gli pare di non potere andare più avanti da se medesimo, ancor non dee disperare, ma dee dire modestamente: « quello che non s' è trovato, forse si troverà; quel che non riesce a me di scoprire, forse lo discopriranno altri più acuti o più fortunati di me, che verranno dopo di me ». L' avvilirsi è dunque peccato, come vi diceva, contro la moralità filosofica; il dire: « quello che io non ho saputo trovare, neppure dagli altri si troverà »è una superbia ed una ingiuria che si fa a tutto il genere umano. Il dire: « quello che io non intendo non esiste »è un peccato contro la verità, un peccato grande che distrugge tutto il sapere, giacchè tutto il sapere è pieno d' arcani; e distrugge la religione, giacchè la religione è piena anche essa di misteri. Lungi da noi, miei signori, un tal procedere: ed è perciò che noi da una parte ammettendo come certissima verità la distinzione dell' ideale e del reale, perchè attestata da tutto il mondo, ed evidente al primo pensiero; vogliamo dall' altra con tutto il coraggio, che c' infonde l' amore della Filosofia, rimetterci nella difficile investigazione: « che cosa sia il reale, che cosa sia l' ideale: in che l' uno differisca dall' altro » e fare l' estremo di nostra possa per discuoprirlo. Nè perciò teniamo la taccia di temerarj, che il nostro coraggio s' accompagna alla rassegnazione filosofica, per la quale quando anche le nostre ricerche non fossero coronate di felice successo, saremmo contenti di noi medesimi, avendole fatte, nè perciò detrarremo punto nè poco al vero già stabilito, che l' ideale è distintissimo dal reale. Ma abbiamo noi poi almeno qualche speranza del buon successo delle nostre ricerche? Il buon successo di ricerche filosofiche può aver più gradi, miei signori. Guai a quel Filosofo che vuol conoscer tutto: che gli pare di non conoscer niente, se non conosce tutto affatto nell' oggetto di sue ricerche! Questi non sarà mai soddisfatto, colpa la sua presunzione. Voi sapete il detto del Montaigne, che « « l' uomo non conosce tutto di niente » ». Non saremo noi dunque di questi presuntuosi, no; non conosceremo tutto, lo sappiamo innanzi, ma questo non torrà punto che noi non abbiamo fatto guadagno di scienza, se solo arriveremo a conoscer qualche cosa di quel che cerchiamo. E qualche cosa io confido che noi ricaveremo nella ricerca che stiam per fare. Accingiamocene adunque con tutta fiducia. E poscia che lo scandalo di que' Filosofi che negano la nostra distinzione, nasce da quell' ideale che par loro sì tenue, sì esile, sì aereo da scappar loro di mano ogni qual volta vorrebbero prenderlo, palparlo, pesarlo sulla bilancia, noi cominciamo ad osservare, com' egli sia una cosa assai più eccellente, più grande, più consistente, più vera dello stesso essere reale. Ed anche qui prendiamo a nostri maestri non le solitarie opinioni de' Filosofi, ma le persuasioni dell' umanità intera. Venga qua Raffaello, venga Canòva: voi vedete che io non chiamo in mezzo a noi dei Filosofi, ma degli artisti. Interroghiamoli: « come fai tu, o Raffaello, a produrre quei quadri divini; come ti conducesti a darci la Trasfigurazione o lo stupendo quadro dello Spasimo? E tu, o Canòva, come potesti fare stupire tutto il mondo coi tuoi lavori! Dove trovasti tu il monumento di Rezzonico, o quel di Cristina? »I due artisti ci dicono in pieno accordo, che essi dipinsero e scolpirono i loro capilavori impiegandovi la testa e le mani. Notate bene non le mani solo, ma prima la testa. Ma che c' entra qui la testa, trattandosi di cose materiali e reali, come sono tele e colori, marmi e forme? Al sentire questa interrogazione da noi Filosofi, davvero che que' due grandi sorriderebbero; giacchè non a' filosofi solamente, ma al mondo tutto è notissimo, che nè Raffaello potea colorire i suoi quadri se non gli avesse prima contemplati colla mente, nè poteva Canòva senza il concetto ideale dar vita a' suoi marmi immortali. Qual fu dunque l' opera che prestò la mente ai grandi artisti, e quale fu quella che prestò loro la mano? L' opera della mente fu l' ideale concepimento, l' opera della mano fu l' esecuzione materiale e reale di quel concepimento; il primo di necessità tutto loro, il secondo tale che potè essere commesso parte a' loro discepoli, parte a materiali lavoratori. Ecco come questi maravigliosi lavori dell' arti belle, e tutte affatto l' opere artistiche, vengono prodotte dal concorso dell' ideale e del reale , nè l' uno solo di questi due basta a produrle. Spogliamo Raffaello e Canòva delle loro menti, lasciamo pur loro le mani; che faran esse? Nulla affatto di quel bello che tendono ad esprimere i lavori dell' arte. Priviamoli in quella vece delle mani, lasciando loro la sola mente: essi ci diverranno de' meri contemplativi, godranno da se soli la bellezza di quell' ideale a cui ascende il loro genio, ma il mondo non possederà più di loro nè una dipintura nè una statua, se pure non prendano a prestito le mani degli altri uomini. Se dunque a formar gli artisti concorre sì l' ideale che il reale e non basta uno di essi, ma vi vogliono entrambi, forz' è conchiudere che l' ideale e il reale sono due cose distinte. Ma non è questo che cercavamo: poichè questo l' avevamo ammesso. Noi cercavamo quale delle due cose fosse la più eccellente. Vediamo dunque che è più eccellente e più nobile nelle opere di Raffaello e di Canòva, l' ideale o il reale? Onde nasce più l' applauso dato alle loro opere? Dalla materia o dalla forma? Sono i colori che Tiziano, come rispondeva a chi gli domandava dove ne trovasse di così belli, comperava a Rialto, sono i marmi che il Canòva prendeva nelle miniere di Carrara, ovvero è il concetto sublime di cui il colore e il marmo si fa espressione ed indizio? Io credo che non faccia bisogno di grande penetrazione per riconoscere che le opere delle arti non si pregiano che pel bello , e che il bello non giace che nella idea che dalla mente si contempla, e che per questo oggetto interior della mente piace la materia esteriore, come quella che se ne rende veste e segno sensibile, e alla mente altrui lo suggerisce e risveglia. Poichè chi dicesse il contrario, dovrebbe anteporre le mani alla testa; giacchè le sole mani hanno per loro oggetto il reale, come la mente ha per oggetto suo l' ideale. Il reale dunque nelle opere delle arti belle non è che il segno sensibile, il veicolo, il mezzo pel quale lo spirito umano piglia il volo verso le regioni dell' ideale, e giunge a goderne l' eccellenza eterna, che l' inebria talora e il fa entrare in un divino furore, come dicea Platone, e che bello si chiama; onde le bestie, perchè prive della mente, e quindi inette a giungere fino all' idea, non traggon diletto nè dall' opere di Raffaello, nè di Canòva, nè d' altro artista, applaudite come maravigliose da tutto il genere umano. Questo rapporto dunque tra l' ideale e il reale, che nei lavori delle arti belle si congiungono e costituiscono propriamente il bello artistico, è ammesso da tutto il mondo: tutto il mondo ammira la mente sublime de' grandi artisti; e non già le mani, riconoscendo così l' eccellenza infinita dell' ideale sopra il reale: tutto il mondo cerca nelle opere delle arti non la materia, non i materiali colori prismatici, o le loro tinte, non il marmo nella sua lucidezza; ma cerca ciò che queste materie reali esprimono; cerca ciò che ha contemplato l' artista prima ancora di trovare la materia reale, e d' atteggiarla in modo da fare, che mediante la stessa così atteggiata, tutti gli altri uomini vedessero quello stesso che egli vide prima ancora di così atteggiarla. Il che è tanto vero, tanto conseguente alla natura essenziale dell' intelligenza, che ogni qual volta ne incontra di rimirare qualche insigne lavoro d' arte, tosto noi dimandiamo chi ne sia stato l' autore, essendo impossibile concepire che sussista qualche essere reale ben ordinato, senza che quell' ordine che in se dimostra non sia preso per vestigio d' intelligenza e quindi ci richiami a una causa intelligente, il che è quanto dire, a una mente, in che l' idea di lui sia preesistita. Onde quanto è maggiore la perfezione e la bellezza che noi contempliamo in un qualche reale, tosto conchiudiamo dover essere esistito un ideale corrispondente, dal quale sia venuta al reale, come da tipo o causa esemplare, la sua perfezione. E ciò non meno dell' opere della natura che dell' arte: onde il gentil Filosofo fiorentino dalla bellezza della sua donna argomentava all' altezza di quella mente divina in cui se ne doveva contener l' idea prima ancora che Laura nascesse, dicendo elegantemente così: [...OMISSIS...] E voi vedete che quest' è, miei signori, il fondamento, per cui nel creato vede la mente vostra i vestigj della divina intelligenza, e così argomenta all' esistenza del Creatore. E` dal reale che ella va all' ideale; poichè il reale dipende dall' ideale come da causa; e giunta all' ideale conchiude all' esistenza di una mente in cui si trovi. Laonde coloro che vogliono distruggere l' ideale e dichiararlo un nulla, o una mera appartenenza dell' umano soggetto, facendo ogni cosa reale, tolgono via l' argomento ammesso da tutte le genti, pel quale dalla natura reale si conchiude all' esistenza di una prima intelligenza, causa del tutto, cioè di Dio. E qui già noi vediamo, e possiam compiacercene, che le nostre indagini non furono infruttuose, poichè da esse noi possiamo raccorre almeno questi due veri indubitabili; 1 che l' ideale è cosa molto più eccellente del reale; 2 che il reale ha una dipendenza dall' ideale, come da una sua causa, cioè dal suo tipo od esemplare, senza del quale il reale, almeno il reale ordinato, non potrebbe pur concepirsi. Prima di procedere più avanti, gioverà qui sciogliere una obbiezione che sarà nata forse nelle vostre menti. Io diceva che il progresso naturale del pensiero che contempla le opere dell' arte e della natura si è di andare dal reale all' ideale, e dall' ideale alla mente dell' artista, che viene lodata come più sapiente in proporzione che questo ideale ha più o men di bellezza. Di qui taluno dirà, che se questo progresso va a terminare in una mente, nella quale l' ideale si trova, termina conseguentemente in un reale, essendo reale la mente dell' artista, e che perciò non si giunge mai al solo ideale; che dunque non esiste l' ideale senza il reale. Ma chi ha mai detto che esista l' ideale senza il reale? Non confondiamo le proposizioni, non iscambiamole: il senso comune degli uomini ci dice bensì, che l' ideale e il reale sono distinti, che sono due modi diversi, ma non ci dice mica, che possano trovarsi assolutamente separati. Altro è due cose esser diverse, altro è non aver nesso alcuno che le congiunga. La causa e l' effetto sono diversi; ma si può egli dare l' effetto senza la causa, o la causa senza l' effetto? La materia viva qual si trova nell' animale è un' entità diversa dalla vita che la informa, ma si può egli dare la materia viva senza la vita, o la vita animale senza che avvivi alcuna parte di materia? Le cose che si trovano in natura congiunte sono innumerevoli; ma non ne vien mica da questo, che l' una si possa confondere coll' altra, che perdano le loro distinte essenze, e che il nome che dal senso comune viene imposto all' una di esse, si possa applicare all' altra. Voler confondere in una sola due cose per la ragione che l' una non può star senza l' altra non è proceder con buona logica. Noi siamo i primi a dire che l' essere ideale non può stare senza il reale; che l' idea è in un soggetto reale che viene da lei illuminato; noi diciamo anche di più, benchè la cosa non paja colla stessa evidenza, diciamo che nè pure l' essere reale può stare senza l' ideale. Ma crederemmo d' essere assai meschini ragionatori, se da questo volessimo indurre, che dunque l' essere reale è ideale, e così cadessimo nell' idealismo. Infatti se la maniera di ragionare dei nostri avversarj fosse buona, cioè se dall' esser congiunto il reale e l' ideale se ne potesse indurre che dunque ogni cosa è reale, sarebbe buona egualmente per farne risultare l' opposto, cioè per indurne che ogni cosa è ideale. Si conceda dunque che l' ideale sia nel seno del reale; ma se ne mantenga la distinzione, che è quella sola che il senso comune proclama, e che d' altra parte si può dimostrare per infiniti argomenti. Poichè davvero, che ciò che abbiam detto delle arti belle si può estendere egualmente a tutte le arti meccaniche, a tutte affatto le invenzioni umane chè se l' ideale non fosse distinto dal reale, sarebbe impossibile far qualche nuova invenzione. Si sarebbero trovati i battelli o i vagoni a vapore, se non ci fosse stato prima qualche uomo che avesse concepite queste cose idealmente, quando ancora non esistevano in realtà? Confondere dunque l' ideale col reale è toglier via il mezzo con cui si sono fatte, si fanno e si faranno tutte le invenzioni umane. Ma, si replica, l' ideale è però nella mente la quale è reale. Sì certamente; ma non è la mente, come il raggio del sole non è l' occhio. E` vero che l' occhio non vede senza il raggio, che ha bisogno di esso per uscire al suo atto; ma non è mica vero perciò, che l' atto dell' occhio sia la sostanza luminosa: qualora almeno non si volesse tornare a quegli antichi che credevano che noi co' nostri occhi balestrassimo le cose, emettendo i raggi quasi altrettante freccie che le colpissero. Nè ci vuol molto a chi si contenta d' osservare la cosa come è, senz' alcuna perturbazione, a distinguere la mente dall' idea che è nella mente, giacchè la mente è una sola, e le idee sono pure moltissime. E poi prendiamo un' idea: sia l' idea d' un uomo. Che cosa è l' idea d' un uomo? E` un uomo ideale, il tipo d' un uomo, un uomo contemplato nella sua possibilità. Or non ripugna egli a dire, che la mente sia un uomo contemplato nella sua possibilità, sia un uomo possibile? Anzi ella è reale, per consenso dei nostri avversarj, che voglion tutto reale; dunque essa non è l' uomo possibile. Quando l' artista forma nella sua mente un disegno, che poi eseguisce al di fuori colla materia, si dirà egli che abbia eseguito al di fuori la sua mente? La mente dell' artista non si può eseguire al di fuori, è già eseguita, è già sussistente: ma l' idea sì: dunque la mente non è l' idea, e l' idea non è la mente. E chi non sa che l' atto è sempre distinto dall' oggetto e scopo dell' atto? Altro è l' atto con cui io scrivo, e altro è lo scritto che resta in sulla carta; altro è lo sforzo che fa il zappatore, ed altro è il movimento che egli dà alle zolle colla sua zappa, e così dicasi di tutti gli atti. Ma vediamo un po' più addentro la differenza che passa tra la mente e l' idea. Quando l' inventore del battello a vapore l' ebbe composto nella sua mente, non solo potè eseguirlo egli stesso, ma potè darne il disegno ad altri, e farlo eseguire da' lavoratori. Ora potea egli dare ad altri la sua stessa mente che ha inventato il battello, e farla loro eseguire di legno e di ferro? Non c' è qui assurdità e non7senso? Di più, non solo potè fare eseguire un battello a vapore da altri, ma potè farne eseguire quanti meglio gli piacque. E infatti, di battelli a vapore si copersero in breve tempo i mari ed i fiumi: e qual fu la regola, qual fu il tipo su cui si eseguirono tanti battelli? Sempre fu quella prima, quella originale idea del battello a vapore. L' idea dunque d' una cosa ha questa speciale sua qualità di poter essere eseguita replicatamente quanto si voglia. L' idea è unica; ma gli esseri reali che a quella idea corrispondono sono senza numero; perciò quell' idea si chiama universale: ogni idea è universale . Trovate voi questa stessa universalità nell' essere reale? No certamente, non potete; l' esser reale è particolare: ogni battello a vapore reale è in tutto diverso da ogni altro battello a vapore reale: un battello reale sussiste in sè così distinto dall' altro, che nulla affatto all' altro comunica; anzi lo esclude intieramente. Vero è che quando noi abbiamo una volta veduto un battello a vapore reale, ne possiamo fabbricare un altro simile a lui. Ma è forse il primo battello reale che abbiamo riprodotto? Niente affatto; egli non è atto a esser riprodotto, non è atto a moltiplicarsi. Si osservi dunque il processo pel quale noi abbiamo potuto formare un secondo battello a vapore. Egli è evidente, che, vedendo il primo battello a vapore, noi abbiamo potuto dal reale salire al suo ideale; ed essendoci in questo modo formato l' ideale nello spirito nostro, l' abbiamo potuto di nuovo eseguire esternamente e realizzare, per la proprietà che ha l' ideale d' esser causa esemplare d' infiniti individui reali. Se dunque ogni reale è particolare, ogni ideale è universale, egli è chiaro che sono non pur distinti fra loro, ma ben anco forniti di caratteri opposti. Ora si applichi questo stesso discorso alla mente che è un reale. Abbiamo veduto che ella non può riprodursi al di fuori di noi. Infatti, se supponessimo ch' ella si potesse realizzare al di fuori di noi, invece che l' inventore del battello a vapore avesse, mediante la sua idea, popolati i mari e i fiumi di battelli a vapore, egli avrebbe popolati i mari e i fiumi di altrettante menti simili alla sua; ed allora lascio pensare a voi che comodità avremmo avuto di viaggiare, come possiamo fare adesso che l' America si è avvicinata al continente antico da potervici trasferire in pochi dì. Di nuovo dunque, miei signori, egli è impossibile confondere la mente coll' idea, come è impossibile confondere qualsivoglia altro essere reale col suo ideale corrispondente. Noi abbiamo trovato dei nuovi caratteri che distinguono l' uno dall' altro, del tutto e per sempre, e queste distinzioni dobbiamo aggiungerle alle prime; e raccogliendo tutto ciò che abbiam detto, possiamo ricapitolarle così: 1 Il reale non è riproducibile nè realizzabile; l' ideale all' incontro ha per suo carattere la fecondità, la realizzabilità: 2 Ad infiniti esseri reali corrisponde un solo ideale; onde agli enti reali compete la denominazione d' individui reali , all' ente ideale all' incontro spetta la denominazion di specie: 3 Il reale è sempre particolare , l' ideale all' opposto un universale . Voi vedete, miei signori, che coll' idea non si può dunque confondere nè la mente reale in cui ella si trova, nè alcun altro ente reale qualsiasi. Ma troppe altre cose ci restano a dire in conferma di questa verità; molti sono ancora i caratteri diversi ed esclusivi, che noi possiamo osservare nell' essere ideale e nell' essere reale, e che ce ne dimostrano sempre più la distintissima natura. In tanto dall' aver noi osservato che il reale è sempre un particolare, e l' ideale è sempre un universale, possiamo dedurre importantissime conseguenze. Imperocchè se il reale è di necessità particolare, convien dire, ch' egli avrà tutte le condizioni del particolare, e che queste mancheranno all' ideale, ed anzi questo s' avrà le contrarie, perchè egli è universale. Ora le condizioni che rendono un ente particolare variano secondo la natura degli enti stessi, e tutte queste varietà mancan del tutto nell' ideale. Mi spiegherò con un esempio. Io vedo che la natura dei corpi è distintissima da quella degli spiriti; il corpo soggiace alle leggi dello spazio, lo spirito è semplice: ma ad ogni reale risponde un ideale; v' ha l' idea del corpo, v' ha l' idea dello spirito. Ma ditemi di grazia, vi par egli che l' idea del corpo differisca dall' idea dello spirito, come il corpo reale differisce dallo spirito reale? E` forse l' idea del corpo corporea, e quella dello spirito spirituale? No certamente, sono due idee della stessa natura; sono due esseri ideali ugualmente; l' una e l' altra è immune affatto dalla corporeità e dallo spazio. L' estensione dunque e la materialità conviene ottimamente ad alcuni enti reali; ma non conviene mai e poi mai alle idee. Eccoci adunque in mano un nuovo carattere che distingue le idee dagli enti reali, e che consiste nel non potere quelle giammai soggiacere alle leggi dello spazio, del moto e della corporeità, laddove l' ente reale può benissimo soggiacervi, perchè sono altrettante condizioni che lo particolarizzano e lo individualizzano, rendendolo sussistente. Lo stesso spirito, almeno lo spirito contingente e finito, benchè semplice come egli è, viene realizzato a certe condizioni che restano escluse affatto dall' idea. Infatti, se voi mi date uno spirito finito e reale qualsiasi, egli passerà dalla potenza all' atto, egli soggiacerà a diverse modificazioni e passioni, parte a cagione degli stimoli d' altri esseri che operano su di lui, parte in virtù della sua propria spontaneità: insomma anche lo spirito reale è mutabile, condizione che ha comune col corpo reale. Ma vi pare egli, rispondetemi dopo considerata bene la cosa, che si possa dire altrettanto delle idee? A primo aspetto può parere di sì; può parere che la nostra mente vada modificando le proprie idee, e trasformandole in altre, e così si suol dire. Ma esaminando accuratamente questa locuzione, è forse esatta? Noi troveremo che no. Quando ci pare di modificare un' idea e di trasformarla in un' altra, altro non fa la mente che trasportare la sua attenzione da un' idea ad un' altra, ma a condizione di tornare se vuole e quando vuole ancora sulla prima. Così, a ragion d' esempio, quando io penso ad un bracco o ad un segugio idealmente considerato, e poi vo cangiando l' idea del bracco o del segugio nell' idea d' un cane mastino, che ho fatto io, a propriamente parlare? Niente altro se non trasportare la mia attenzione da una specie di cane all' altra. Ho forse distrutto per questo l' idea del bracco, o l' idea del segugio? No certamente; elle restano quelle che erano prima nè più nè meno; a quella stessa maniera come quando io entrando in una vasta galleria, dopo aver veduto un quadro, passo a contemplarne un altro, e ne percorro tutta la serie. Ora egli è certo che venuto alla fine di essa, e fermatomi sull' ultimo quadro, benchè io non pensi più ai quadri precedenti, ma a questo ultimo solo, tuttavia non si dirà mai che io ho trasformati i quadri l' uno nell' altro, i quali restano tali quali erano prima appesi alle pareti ciascuno a suo luogo; onde se a me garba, posso tornare da capo a rivederli, o tutti o quelli che più mi piacquero. Così appunto è delle idee: la mente può contemplare queste e quelle, passare da una meno perfetta ad un' altra più perfetta, senza però aver distrutta la prima; tant' è vero che ne posso fare il confronto, e riconoscere che ella è meno perfetta della seconda. Dunque le idee sono immutabili . Ecco un nuovo carattare lucidissimo che le distingue dalle cose reali; l' immutabilità è propria di quelle, e la mutabilità di queste. Ma se le idee sono immutabili , osservate bene qual conseguenza ne viene: eccola: esse dunque sono eterne . E veramente prendete qualsivoglia idea, qualsivoglia ente e contemplatelo nella sua possibilità. Voi vi accorgerete a non dubitare, che questo ente possibile non è soggetto punto nè poco alle leggi del tempo. Infatti, si capisce benissimo, che un uomo particolare e reale che vive al presente, non vivea un secolo fa, e pure un secolo fa egli era possibile; ed era possibile ugualmente tanto avanti un secolo, quanto avanti una ventina o un centinajo di secoli. Dunque il tempo, relativamente all' essere ideale è nulla; esso nol fa invecchiare, nè il ringiovanisce; perchè, qualunque sia il tempo a cui noi ci trasportiamo, vediamo che l' essere ideale si sta lì uguale a se stesso, immutabile ed impassibile. Dunque l' essere ideale è di natura sua eterno , e non può soggiacere alla legge del tempo; che non c' è tempo dove non c' è successione, e non c' è successione dove non c' è mutazione: laddove l' essere reale può soggiacere benissimo alla legge del tempo, alla qual soggiacciono più o meno tutti, per poco, gli esseri reali che compongono l' universo. Finalmente è propria di tutte le idee ugualmente la necessità; poichè che cosa è il necessario? Il necessario logico di cui qui parliamo altro non è che il possibile . Ora il reale contingente può essere e non essere; ciò non involge contraddizione, e appunto per questo dicesi contingente. Ma anche quando egli non sussiste, ancora è possibile. La possibilità dunque del reale è così necessaria, che se tale non fosse, il reale non sarebbe possibile; ma il reale è possibile, come dicevamo, dunque la possibilità è necessaria. Ma il reale possibile non è che l' idea; dunque l' idea è necessaria. Ricapitoliamo, miei signori, e vediamo qual viaggio abbiamo fatto sin qui, qual frutto abbiam cavato dalla nostra investigazione volta a conoscere la diversa natura del reale e dell' ideale. Noi abbiamo prima veduto, che l' ideale non solo è un' entità distinta dal reale, ma che è assai più eccellente di questo; di poi ch' egli tiene natura di causa esemplare o di tipo, laddove il reale ha natura solamente di effetto e di esemplato. Vedemmo di più che l' ideale ha la qualità di essere riproducibile e realizzabile, che manca intieramente al reale; è uno mentre questo è molti: è universale mentre questo è particolare. Vedemmo finalmente, che l' ideale è sempre ed essenzialmente semplice, mentre il reale soggiace talora alle condizioni dello spazio e della materia; che l' ideale è immutabile ed impassibile, mentre il reale spesso soggiace alla mutabilità ed alla passività; che l' ideale è sempre ed essenzialmente eterno, mentre il reale soggiace spesso alla successione del tempo; che l' ideale finalmente è necessario, mentre il reale può esser contingente. Che direm dunque di que' Filosofi, che non sapendo concepir l' ideale, lo negano o lo soggettivizzano dichiarandolo un' opera, o una modificazione dello spirito umano? Non è egli anzi veramente assai più concepibile dello stesso reale? E se dei due si dovesse negare l' uno, non è egli chiaro che sarebbe un peccato filosofico assai minore negare il reale che l' ideale fulgente di tanti pregi? Ha dunque ragione il senso comune che proclama altamente queste due entità, e sì ben le distingue; ha ragione sopra i Filosofi di cui parliamo, perchè l' amor proprio non entra a fargli perdere la ragione e a fargli disconoscere la verità. Noi ci siamo resi assai volentieri a questa ricerca i discepoli del senso comune, procureremo di mantenerci tali nelle susseguenti. Noi abbiamo veduto, o signori, con che trista logica alcuni Filosofi vollero negare l' ideale, perchè non se ne sapevano spiegar la natura, o perchè l' ammetterlo cozzava col loro sistema. Possiamo chiamare questi Filosofi gli eretici della Filosofia, poichè essi si separano dal senso comune come gli eretici dalla Chiesa, e ragionano allo stesso modo. Infatti quando i protestanti si abbattevano in qualche libro delle Scritture ad una autorità manifestamente contraria al loro sistema, invece di abbandonare questo sistema, conchiudevano che il libro è apocrifo. Così Lutèro tolse dal canone delle Scritture la lettera di s. Jacopo, perchè il suo sistema escludeva le buone opere che quell' Apostolo commendava. Allo stesso modo i nostri Filosofi. L' ideale contradice al loro sistema; dunque le idee non esistono, o sono anch' esse realità. Così si spoglia la Filosofia delle verità più evidenti, unicamente perchè queste hanno la colpa di non conciliarsi cogli errori e coi pregiudizj. Noi abbiam detto di volere starci col senso comune, che ci par l' arca di sicurezza, e credemmo che ai nostri Filosofi bastasse opporre quest' autorità del genere umano per tutta confutazione. Assicurata così la verità non ci arretrammo però dall' instituire un' indagine più profonda, dall' affrontare le questioni « che cosa sia l' ideale, che cosa sia il reale »o almeno « quali siano i caratteri dell' uno e dell' altro, in che differiscano, con che rapporto si congiungano »; e nel tempo medesimo che ci proponemmo di condurre la nostra investigazione con quel coraggio che dee essere qualità dei Filosofi, ci facemmo altresì un dovere di escludere da noi quella presunzione che pretende di saper tutto, di trovar tutto, di dar ragione di tutto, disposti ad esser contenti dei soli nostri sforzi per giungere al vero, e molto più di quella porzione di vero che ci frutteranno, se pure a qualche risultamento riuscissero. Nè possiam dire, o signori, d' aver lavorato indarno: se la natura dell' ideale e del reale non ci si svelò intieramente, abbiamo però scoperti e fermati diversi luminosi caratteri che distinguono l' uno dall' altro, e che ci persuasero l' ideale non solo esser distintissimo dal reale; ma cosa più alta, più nobile, più manifesta di questo. Onde noi conchiudemmo, che qualora il Filosofo dovesse negare l' uno de' due, meno assurdo sarebbe negare il reale che l' ideale. Se non che nella conclusione del ragionamento io m' accorgo d' aver parlato inesattamente, e devo or correggere il mio errore. Dicevo che essendo l' ideale tanto maggior cosa del reale, egli è più concepibile di quest' ultimo, giacchè ciò che è più grande è anche più concepibile. Ma no, non è così ch' io dovea dire, miei signori; io doveva dire, che anzi il solo ideale è concepibile, e che il reale non è punto nè poco concepibile per se stesso, e se pur all' ideale non si congiunga. Questo è importante e degno di tutta la nostra meditazione. Considerando bene questa qualità dell' ideale di essere il solo concepibile, il solo intelligibile, se ne scopre la natura, epperciò egli è uopo che noi ce ne occupiamo, con tutta diligenza in questa lezione. Allorquando noi concepiamo un reale, p. e. un corpo o un sentimento, lo produciamo noi forse? Niuno, io credo, dirà che il conoscere sia lo stesso che il produrre, che il creare. Anzi ciascuno che non si tolga dal senso comune dirà che niun ente può essere da noi conosciuto come tale, se non sussiste: la sussistenza del reale precede alla cognizione che noi prendiamo di esso. E` egli possibile, che noi percepiamo ed affermiamo con verità una casa, un monte, un libro, non preesistenti? E quelle case, que' monti, que' libri, i quali ci sono ancora del tutto ignoti, non sussiston forse senza la nostra cognizione di essi? Dunque la sussistenza ossia la realità delle cose che si conoscono è rispetto a noi anteriore e indipendente dalla nostra cognizione. Badate bene, miei signori, che cosa da questo semplice fatto risulta. Risulta evidentemente, che nell' essenza del reale non entra punto nè poco la cognizione; che la cognizione di esso è un' entità da esso distinta. Dunque il reale, secondo la sua propria essenza, esiste senza cognizione, e questa nè lo costituisce nè lo produce, nè lo altera in modo alcuno. Dico che neppur lo altera: perocchè ditemi, o signori, le panche che sono in questa scuola mutano forse natura, o ricevono qualche modificazione quando da noi si conoscono, o non si resterebbero qui le stesse affatto anche quando noi ne ignorassimo l' esistenza? Dunque di nuovo la cognizione è cosa estranea alla natura del reale. Ma se la cognizione è cosa estranea alla natura del reale, dunque che cosa è il reale, qual è il suo carattere? Quello dell' oscurità, cioè d' essere per se stesso incognito. Se esso ha bisogno d' un' entità diversa da lui per essere conosciuto, dunque, separato da questa entità, rimane al tutto inconcepibile: infatti niente si conosce dove non c' è cognizione. Ora osserviamo se dell' idea si possa dire il medesimo. Vi par egli che un' idea abbia bisogno di qualche altra idea per essere concepita? No certamente; poichè un' idea è atta bensì a far conoscere se stessa, ma non mai a far conoscere un' altra idea, che è al tutto da lei diversa, e diversa per usare l' espressione d' Aristotele come un numero è diverso da un altro numero. Prendiamo l' idea del cavallo; or cercatene un' altra, sia pur vicina a questa quanto volete, sia quella dell' asino, sia quella del mulo, sia quella della giraffa: indarno; tutte queste idee non vi faranno mai conoscere l' idea del cavallo se non la conoscete avanti. Dunque ogni idea mostra se stessa senza bisogno d' altro: ella è dunque essenzialmente un lume , ella è essenzialmente concepibile. Mi direte, che anche l' idea, acciocchè si faccia conoscere, ha bisogno d' alcun che diverso da lei, cioè del suo reale corrispondente. Ma questa è un' illusione, miei signori. Primieramente notate bene quello che abbiam già detto, che ogni idea è diversa dall' altra, e che ciascuna è quello che è, immutabilmente uguale a se stessa, senza che possa esser mai modificata. Ora ditemi: quando il Canòva concepì da prima il Teseo, allora n' ebbe l' idea. Esisteva egli per anco il Teseo reale, che poscia il grand' uomo modellò e scolpì? No per certo; dunque quell' idea non ebbe bisogno della sua corrispondente realità per isplendere nella mente al Canòva. Ed osservate, che quand' anco il Canòva fosse stato sturbato dall' opera, e non avesse mai posto mano al colosso del Teseo, quell' idea non avrebbe meno illustrato la mente dell' artista, benchè sola, benchè scompagnata per sempre da quel reale che le rispondeva. Replicherete probabilmente, che il Canòva nondimeno trasse e compose l' idea del Teseo dagli enti reali da lui veduti. Ma fu appunto per prevenire questa obbiezione, che io vi chiamavo a riflettere, che un' idea che differisca anche menomamente da un' altra è già un' idea diversa e non quella. Ora ditemi: il Canòva vide certamente molti corpi umani e statue antiche; ma fra tutti i corpi e le statue vedute vide forse egli mai il suo Teseo? Vide altre forme, altre idee; ma quella del Teseo opera originale di lui, non potè vederla dovecchessia. - Ma egli se la compose mediante le altre idee tratte dai reali da lui percepiti - Sia pure; e poco appresso vedremo se il reale, il mero reale, gli abbia potuto somministrare, non dico l' idea del Teseo, ma un' idea qualsiasi. Ora mi basta per rispondere, che consideriamo attentamente che voglia dire « comporre un' idea coll' accozzare insieme altre idee, o parti d' idee ». Che cosa vuol dire comporre un' idea con altre idee, o parti d' idee? Vuol forse dire creare quell' idea che si compone? No, perchè le parti esistono. Ma io non dimandava questo: dimandava, se il tutto risultante da queste parti, se i nessi con cui queste parti si legano acciocchè divengano un tutto solo, sieno creati dalla mente dell' artista; se la convenienza di questi nessi dipende dal suo volere, se ella è arbitraria. Nel caso che si risponda di sì, egli è facile ravvisar l' assurdo che ne verrebbe: ognuno potrebbe esser grande artista, perchè ognuno ha l' arbitrio, e potrebbe congiungere le parti ovvero le idee elementari che non gli mancano, in qualsivoglia maniera. Infatti non solo il Canòva, ma tutti gli altri uomini possono aver vedute nella natura e ne' musei le stesse cose che vide il Canòva, e averne riportate le stesse idee. Dunque il Canòva non raccozzò le parti ad arbitrio, ma secondo certe leggi di convenienza dalle quali riuscisse la bellezza del tutto. Ma che mai sono queste leggi di convenienza? Di nuovo, sono elle forse create ad arbitrio? Prendiamone una tra tutte, non la principale, ma la prima che ci si offre. Gli artisti dicono essere conveniente a persona di donna l' aver piccole le mani, e che quella piccola mano è sommamente gentile, [...OMISSIS...] come disse l' Ariosto. Che cosa è dunque questa legge, che insegna a modellar bene una mano, tradotta in linguaggio filosofico? Non è altro se non l' idea d' una mano piccola a proporzione del corpo, priva d' inuguaglianze, dove tutte le linee vadano dolcissimamente incurvandosi. Avendo l' artista quest' idea o tipo in mente, egli quando vuol fare la statua sa come regolarsi. Ma come intende egli che la forma di questa mano è più bella di un' altra? Questa convenienza, questa bellezza, domando di nuovo, è ella arbitraria? se non è arbitraria, se non è l' opera della volontà dell' artista, adunque egli non la produce, egli non fa altro che contemplarla. Qual' è dunque la differenza tra lui e gli altri uomini, che non pervengono ad avere nella mente un' idea, un tipo sì bello? Niente altro può essere se non questa, che l' artista osserva i diversi tipi, le diverse idee possibili, più accuratamente e diligentemente degli altri uomini, e paragonandole insieme si ferma alla più bella, e la sceglie come regola del suo lavoro. Questo tipo più bello non esiste nè negli enti reali della natura, nè in quelli dell' arte; ma traendo da tali enti le loro idee niuna delle quali è perfetta, egli si giova di esse quasi di scala per salire alla contemplazione d' un' altra idea migliore, che anch' essa esiste eternamente come esistono tutte le idee; e basta che la mente le rivolga la sua attenzione perchè la vegga. Egli non potrebbe mica distinguere tra le idee rispondenti alle cose reali i pregi loro e i difetti, se non possedesse già prima nella sua mente una regola diversa da tali idee, secondo cui portar di esse giudizio, e scegliere il bello separandol dal brutto: e questa regola più elevata, precedente all' idee dei reali, è anch' essa, come dicevamo, un' idea, un tipo superiore. - Ma in tal caso l' artista non dovrebbe affaticarsi gran fatto a comporre il disegno mentale dell' opera sua, se egli già prima l' avesse nella sua mente e con un solo sguardo il potesse intuire. - Il dir questo è un non aver bene inteso la natura di queste idee superiori di cui si serve l' artista a giudicare della bellezza e deformità delle idee de' reali, e a scegliere ed accozzare le parti belle. Perocchè quelle idee superiori di cui parliamo, che sono altrettante regole che dirigono la mente dell' artista a intuire il disegno ideale dell' opera sua, non sono ancora che idee molto astratte. Così l' idea della mano piccola e senza disuguaglianze è ancora un' idea astratta che per se sola non basta alla mente dell' artista a formare la mano che si propone; ma basta sì a servirle di guida per immaginarla, e con essa convien che concorrano altre idee, altre regole pure astratte; p. es. quelle della proporzione tra la grandezza della mano e la grandezza del corpo, affinchè egli sappia quando la mano si possa dir piccola, quando grande. Ciascuna dunque di queste idee sono tipi astratti, che guidano la mente dell' artista per quella via che le bisogna a giungere finalmente alla contemplazione del disegno compiuto dell' opera sua, che, come dicevo, da niuno de' reali viene somministrato. Dunque la differenza tra la mente dell' artista e quella di un altro uomo non istà in questo, che la prima sia formatrice di belle idee, e la seconda non sia; ma in questo, che la prima è bene esercitata e conosce la via per giungere a contemplare l' idea perfetta, al che non vale la mente del secondo. Poichè niuna idea si può contemplare dalla mente umana, se la mente non giunge a far l' atto necessario dell' intuizione, a trovar quell' unica idea di cui si tratta, tra tutte le idee. E qui di passaggio giova osservare, che la mente che viene ammaestrata ed esercitata a dirigere la sua intuizione più tosto ad un' idea che ad un' altra, non potrebbe ricevere questa guida e questo ammaestramento, se non preesistessero in lei altre idee più generali di quelle che cerca; come egli è mestieri supporre che innanzi a tutte le altre idee men generali preesista quella che è universalissima, colla quale solo può misurare e giudicare le altre; la quale, come noi abbiam già veduto altrove, è quella dell' essere. Ma taluno insisterà tuttavia dicendo, che almeno le idee de' reali si cavano dai reali - No, miei signori, nè pur questo è vero. E come possono dare i reali quello che non hanno? Noi abbiamo veduto, che nell' essenza del reale non si trova punto nè poco la cognizione: se il reale c' è anche quando non si conosce, dunque la cognizione di lui è fuori della sua essenza. Se l' essenza del reale non ha la cognizione, neppure ha l' idea. - Come dunque accade che quando da' reali riceviamo le impressioni sensibili, noi li percepiamo intellettualmente, e solo dopo percepiti, ne abbiamo l' idea? Così l' idea del colore non si ha se non dopo essersi percepito il colore. - Il fatto è verissimo, ma si tratta di spiegarlo. Nella percezione del reale, non è mica il solo reale che opera in noi, operiamo anche noi stessi. Egli è vero che dopo percepito il reale co' sensi, noi ne abbiamo l' idea; ma posciachè in questo fatto gli agenti sono due, il reale e noi stessi, sta a vedere a quale de' due si convenga attribuire la comparsa dell' idea. Ora al reale percepito, no certamente, perchè nemo dat quod non habet: l' attribuiremo dunque a noi stessi? Certo che l' idea della cosa s' acquista mediante un atto proprio nostro, e non un atto del reale esterno; che le idee sono nostre, non sono del reale esterno. Ma questo non ci autorizza ancora a dire che la produciamo noi stessi con un nostro atto: per chiarircene non v' è altra via che osservare attentamente ed esaminare l' atto ond' acquistiamo la nuova idea. E` egli forse un atto di produzione? Non più di quello che sia un atto di produzione quello dell' occhio che vede gli oggetti corporei, anzi assai meno. L' osservazione interna ci dice, che l' idee s' intuiscono bensì, si contemplano, ma non si producono , e che acquistare un' idea non vuol dir altro, se non rivolgere e fissare l' attenzione della mente in essa. Questo risultato dell' osservazione ci è confermato ampiamente dal ragionamento, il quale ci mostra nelle idee tali caratteri, che eccedono ogni finita potenza, e sono quelli che abbiamo trascorsi nella precedente lezione. Se dunque le idee non si producono, nè si posson produrre dalla mente nostra, ma solo si riguardano e si contemplano, qual' è la parte unica che si può attribuire all' oggetto reale nell' acquisto delle nostre idee? Niun' altra se non l' aver egli eccitata e determinata l' attenzione del nostro spirito a intuire e riguardare l' idea che prima non intuivamo nè riguardavamo, e ciò mediante l' immagine che c' imprime nel sentimento. Di niun altro ajuto ha bisogno la mente, se non di un eccitamento e di una determinazione immaginaria a formare quell' atto con cui essa intuisce e riguarda piuttosto un' idea che un' altra. E se la cosa è così, dunque niente ripugna che si concepisca la possibilità d' una altra causa qualunque la quale muova la mente nostra a questo suo atto, senza bisogno del reale corrispondente all' idea; giacchè egli non fa che l' ufficio di stimolo e di guida allo spirito intelligente. E affinchè meglio si veda, come non sia il reale quello, che somministra alla nostra mente l' idea, si consideri dove mai la mente la intuisca. Se l' idea fosse nel reale, o se il reale ne fosse la causa efficiente, noi dovremmo intuirla nel reale, in quel luogo dove è il reale. Ma l' idea s' intuisce forse ne' reali? Prendiamo un corpo, un arancio che pende dalla pianta del giardino. L' idea intuita dalla mente quando quell' arancio cade sotto i miei sensi, pende forse anch' ella dall' albero del mio giardino? In questo caso io non potrei intuirla che andando nel mio giardino, non potrei intuirla se non nell' atto che guardo e tocco l' arancio, e se l' arancio cade dall' albero, cadrebbe con esso in terra anche la mia idea. Ma no; ella non è ristretta a luogo alcuno; tosto che la mia mente acquistò la prima volta l' abilità d' intuirla, la può intuire dovecchesia; l' idea non le manca mai ogni qualvolta le piaccia di darle attenzione: la trova da per tutto, in ogni tempo, anche quando l' arancio è distrutto. Dunque quest' idea non trovasi nel reale, nè dal reale può esser prodotta: ella è in se stessa, e la sensazione non ha fatto altro che render l' uomo atto a contemplarla colla sua mente, eccitandolo, dirigendolo, determinandolo. Ma per ispingere il ragionamento nostro a tutta l' evidenza possibile, supponiamo che il reale avesse virtù di produrre l' idea, e che perciò? La natura dell' idea non si rimarrebbe per questo quella stessa che è, distintissima dalla realtà? Certo che da tale ipotesi si avrebbe la strana conseguenza, che il reale sarebbe essenzialmente conoscibile. Ma la sua conoscibilità, la sua idea, sarebbe forse per questo lo stesso che la sua realità? Non ancora; chè il reale rimarrebbe sempre il conosciuto , ciò che si conosce, l' idea rimarrebbe sempre il mezzo di conoscere , ciò con cui si conosce. Vero è, che queste due cose si troverebbero insieme; ma non si potrebbero confondere, poichè il conosciuto e il mezzo di conoscere presentano alla mente due nozioni distinte, per modo tale che col solo mezzo di conoscere non si potrebbe dire che il reale esistesse, nè col solo reale si potrebbe dire che esistesse il mezzo di conoscere. Sarebbero in un tal caso la realità e l' idealità due attribuzioni che converrebbero ad uno stesso oggetto; non mai un' attribuzione sola; e infatti qualche cosa di simile si avvera in Dio, dottrina il cui sviluppo spetta alla Teologia. Sarebbe ancora l' ideale quello che fa conoscere il reale, sarebbe l' ideale solo il conoscibile e l' intelligibile per se stesso, e il reale avrebbe ancora bisogno di ricever la luce da esso; rimarrebbe ancora, che carattere proprio del reale fosse l' oscurità, e quello proprio dell' ideale l' intelligibilità. Rimarrebbe che la natura dell' ideale sarebbe indipendente dal reale in questo senso, che l' una attualità non sarebbe l' altra, nè l' una si confonderebbe coll' altra; benchè entrambi convenissero in un oggetto medesimo, sarebbero due essenze diverse. Sia pur dunque la sede dell' idea una mente reale, non ne verrà mai che la mente e l' idea sieno una cosa medesima, nè che la mente sia, in quant' è reale, conoscibile per se stessa; ma sempre e poi sempre per l' idea. Infatti, poniamo una mente che avesse le idee di molte cose, ma che pur le mancasse l' idea di se stessa: si conoscerebbe ella questa mente? Non mai. E questo non è un caso ipotetico; è quello che accade nei bambini: questi acquistano assai prima le idee delle cose esteriori che le idee di se stessi, che l' idea della propria mente. Dunque la mente, come essere reale, è anch' essa oscura a se stessa, è inintelligibile, ma poi si conosce mediante la riflessione, perchè si trova nell' idea prima ed universale, nella quale si segna come fa di tutte le altre cose che percepisce; nel che consiste il formarsi l' idea di se stessa. Concludiamo dunque: l' essere ideale è il solo concepibile, il solo intelligibile per se stesso, l' essere reale finito è per se stesso oscuro ed inintelligibile, e viene solamente illuminato dall' idea che ad esso risponde: differenza grande, immensa tra l' ideale e il reale, e che comincia già a rilevarci la natura stessa di questi due modi dell' essere. Infatti la natura dell' essere ideale , chi ben considera, altro non è che la stessa intelligibilità. Non si trova altro in lui. Se vi s' aggiunge qualche altra cosa, è un' aggiunta arbitraria, straniera, eterogenea, che gli toglie la purezza dell' esser suo, mescolandolo e confondendolo con ciò che non è lui. Voi vedete che siamo giunti, o signori, alla scoperta di un vero molto importante; siamo giunti a conoscer la natura dell' essere ideale, onde non ci possiamo pentire della perseveranza nelle nostre indagini. Ma qui dobbiamo stare avvertiti, per non perdere il frutto, che non forse l' immaginazione ci intorbidi il vero che abbiamo scoperto; giacchè noi esseri sensitivi, avvezzi a vestire d' immagini tutti i nostri pensieri, facilissimamente potremmo mescolare qualche immagine all' essere puramente intelligibile, il quale così contraffatto non sarebbe più desso, ci sarebbe già sfuggito di mano. Su questa avvertenza dovremo tornare altra volta; intanto proseguiamo il nostro lavoro. Se noi abbiamo in qualche modo scoperta la natura dell' essere ideale, possiam dire d' aver fatto altrettanto dell' essere reale? Non ancora, di lui non abbiam fin qui trovato che un carattere negativo, la mancanza di luce sua propria e, per così dire, l' opacità. Qui dunque si conviene spingere le ricerche nostre più innanzi: ma poichè tutto ciò che noi possiam conoscere dell' essere reale ci viene mediante l' idea, non ci resta che d' incominciare a vedere come si forma la cognizione di esso nel nostro spirito. Come avvien dunque che noi conosciamo l' essere reale? Egli è chiaro, che non possiamo conoscerlo allo stesso modo come l' essere ideale, appunto perchè questo è intelligibile per sua essenza, e quello all' opposto per il lume di questo. Dunque possiamo già sulle prime cavare a buon conto una utile conseguenza, la quale si è, che la cognizione dell' essere ideale è semplice, quando la cognizione dell' essere reale è necessariamente duplice: la prima non suppone che se stessa, la seconda, cioè la cognizione del reale, suppone la prima, suppone cioè la cognizione dell' idea. Dunque il primo, cioè l' essere ideale, si dee conoscere con un atto solo dello spirito; a conoscere il secondo cioè l' essere reale, ci vorranno necessariamente due atti, l' uno dei quali termini al puro ideale, l' altro pervenga fino al reale. Rimane ad investigare qual sia la natura di questi due atti. Ora quanto all' ideale, egli è chiaro che non si tratta se non d' un semplice sguardo dello spirito, come abbiam detto innanzi, e quest' atto lo chiameremo intuizione . Che cosa è che caratterizza quest' atto? Se ben si considera non è altro, se non che lo spirito vede un oggetto possibile, e in qualche modo lo sente, ma sentendolo non sente punto se stesso; lo sente senza sentire alcun rapporto di lui con se stesso, la qual maniera di sentire dicesi oggettiva , perchè ha un termine al tutto diverso dal sè intuente, e senza che involga alcun rapporto sentito col sè intuente. Nè si dica qui che l' idea intuita dallo spirito produce nello spirito stesso qualche sentimento di sè; poichè sia questo anche vero, resta sempre fermo, che questo sentimento di sè prodotto nello spirito non entra nè punto nè poco a costituire l' oggetto intuito, cioè l' idea di cui questa è appunto la natura, d' escludere, per ripeterlo, il sentimento che può aver di sè l' intuente e ogni rapporto sentito coll' intuente. Ma qual è poi l' altro atto con cui il nostro spirito perviene al reale? Non può esser certamente un atto simile a quello che abbiamo descritto, cioè all' intuizione dell' ideale, poichè se fosse simile, già il reale stesso ci si presenterebbe come l' ente ideale. Se dunque l' intuizione dell' ideale ha per sua propria natura che dall' oggetto intuito s' escluda il sentimento che l' intuente può avere di se medesimo ed ogni rapporto sensibile coll' intuente; al contrario sarà dell' atto con cui lo spirito giunge al reale. Dunque il reale sarà lo stesso sentimento del soggetto che percepisce, le modificazioni di questo sentimento, e tutto ciò che può cadere in questo sentimento. Conviene dunque che noi investighiamo che cosa sia quello che si comprende nella sfera del sentimento; e tutto ciò che si comprende in esso sarà reale. Che cosa si comprende dunque nel nostro proprio sentimento? Se noi consideriamo il sentimento quale l' abbiamo al presente nella nostra condizione di adulti, più cose vi potremo distinguere. Primieramente noi sentiamo in noi un principio unico, o piuttosto questo principio unico è lo stesso noi . Se il noi non fosse sensibile potremmo favellarne? Consideriamo, miei signori, che di ciò che non cade affatto nel nostro sentimento nè nelle nostre idee, è impossibile che noi ci formiamo alcuna cognizione. Questa è una verità d' esperienza, ed è ammessa da tutte le scuole. Ora l' idea, noi già lo vedemmo, non racchiude il sentimento stesso del noi; nè ha alcun rapporto sensibile col noi; e nondimeno noi pensiamo a noi stessi, e di noi stessi parliamo; dunque il noi deve esser sentito, deve esser un sentimento. Ma questo sentimento unico, fondamentale e sostanziale riceve molte modificazioni; queste sono le sensioni e tutti i sentimenti particolari ed acquisiti. Non basta: in noi stessi oltre sentire un' attività, noi sentiamo un' opposizione, una forza che ci modifica, la quale non è noi . Ecco una terza cosa che cade nel sentimento di noi stessi. Noi adunque, modificazioni sensibili di noi, forza estranea che produce queste modificazioni, eccovi tutta la sfera della realità a noi conosciuta. Ma fino a tanto che questa realità si rimane pura realità, puro sentimento, può ella concepirsi? Abbiamo già detto di no; abbiam veduto che l' oscurità è il carattere proprio d' ogni reale. Convien dunque per conoscerlo chiamare in ajuto l' idea. Ma in qual modo l' idea ci presterà questo servigio? Ciò che noi contempliamo nell' idea non è che la pura intelligibilità, come già vedemmo, del reale, non è ancora il reale stesso percepito. D' altra parte questo reale fino che non eccede la sfera del sentimento, è oscuro. In qual maniera adunque congiungendo l' idea che non mostra che il reale possibile, col reale sentito e non ancor concepito, si potrà venire a conoscere quest' ultimo? Convien trovare un nesso che congiunga questi due estremi, convien ricorrere a qualche atto dello spirito, quasi direi, mediatore tra il reale e l' ideale, tra il sentimento e l' idea. E quest' atto è appunto quello che noi cercavamo; è l' atto con cui dopo d' aver noi concepito l' ideale, giungiamo ancora a conoscer il reale. Come adunque quest' atto si fa? A chiarire la natura di quest' atto misterioso, noi dobbiamo prima di tutto porre a confronto l' ideale e il reale, e vedere se sia vero ciò che si suppone, che questi due termini del pensiero sieno del tutto dissimili e divisi tra loro da un abisso, onde non si possa pur concepire la loro congiunzione. Se attentamente noi li raffrontiamo, vedremo che la cosa non istà così come si suppone; anzi li troveremo più affini che a prima giunta non paja, ma in altro modo da quello che si può credere a prima giunta. Infatti noi abbiamo già osservato che ad ogni reale risponde un' idea. Che cosa vuol dir questo? Vuol dire che nell' ideale noi vediamo assai di quelle cose che nel reale possiamo distinguere. Egli è uopo vedere quali e quante sieno queste cose, e se ve n' abbia nel reale qualcuna che nell' ideale non possiamo vedere. Si prenda dunque un oggetto reale qualunque; sia un uomo. Nell' uomo reale io distinguo la testa, le mani e le altre parti del corpo. Ma io posso vedere che tutte queste cose sono anche nell' idea corrispondente: nell' uomo reale io distinguo il colore, le forme, le più piccole particolarità, se si vuole anche il numero de' capelli, la loro lunghezza, il color biondo o bruno o bianco di essi come possibili; il che è quanto dire, posso pensarli nell' idea. Si prenda qualsivoglia altro accidente, si passi all' anima, alle facoltà dell' anima, alle disposizioni speciali, agli atti suoi; e chi m' impedisce di formarmi l' idea di tutte queste cose? di vedere tutte queste cose nella loro idea? Non solo la sostanza dunque dell' uomo io posso contemplar nell' idea che gli risponde, ma ben anco tutti affatto i suoi accidenti; ed io sfido chicchessia a trovarne un solo che non sia idealmente concepibile. Tutto dunque ciò che è nell' uomo reale è anche nell' uomo ideale che vi corrisponde, e per conseguente vien ad esser vero anche il contrario, cioè tutto ciò che si trova nell' uomo ideale, si trova pure nell' uomo reale che vi corrisponde. Ma se la sostanza, le parti integrali, gli accidenti minutissimi di un ente qualsiasi si riscontrano egualmente nell' idea e nella realtà, son dunque tutte queste cose doppie, son elleno ripetute in natura, oppure sono elle identiche nella realtà e nell' idea? Che ci dice intorno a ciò, miei signori, il senso comune? Consultiamo il linguaggio, che è il deposito di sue persuasioni. Allorquando un signore per fabbricare un palazzo chiama l' architetto che ne formi il disegno, questi concepisce il palazzo in idea, e lo può divisare con tutte le possibili particolarità; può dire al padrone: in questo palazzo che a voi piace di edificare saranno queste sale, questi corridoj, queste scale; di questa forma, di questa misura; vi si impiegheranno a questi determinati luoghi questi marmi, questo cemento, questi legnami tagliati e squadrati a questa foggia, questo ferro, e così via enumerando tutte le minime particolarità del futuro palazzo: il palazzo intero con tutte le sue parti, con tutti i suoi minuti accidenti trovasi nella mente dell' architetto che lo disegna o lo esprime in parole. Or bene il palazzo sia fabbricato, sia bello e compito, così appunto come l' architetto lo ha concepito. Come parlava l' architetto al signore prima di metter mano all' opera? Questo e questo sarà il palazzo che voi edificherete. Come parla egli dopo che è edificato? Questo è il palazzo che voi avete edificato. Notate bene: adopera la stessa parola di palazzo tanto prima che fosse edificato e che non era che nell' idea, quanto dopo che è già edificato e che è in realtà, ed afferma che il palazzo edificato è appunto quello ch' egli ha concepito. L' identità del vocabolo usato tanto a significar l' ente nell' idea, quanto a significar l' ente nella realtà, mostra chiaramente che secondo il senso comune si considera identica l' essenza del palazzo che scorgesi nell' idea e l' essenza che si vede cogli occhi nella realtà. Dunque secondo la testimonianza del senso comune è identico l' oggetto della cognizione, sia egli ideale o reale. Ma nella cognizione del reale non vi ha egli qualche cosa di più che nella cognizione dell' ideale? - Sì certamente; altrimenti le due cognizioni non si distinguerebbero. Che cosa è dunque questo elemento che distingue le due cognizioni? E` ella forse la realità, ovvero si trova la realità stessa nell' idee? La risposta a questa questione ha due faccie; poichè si può rispondere tanto di sì quanto di no, sempre con verità, purchè la risposta si spieghi. Si può dire che anche la realità sia nell' idea, in questo senso che io posso pensare una realità possibile: ora se io penso una realità possibile, io vedo la realità nell' idea, conosco nell' idea che cosa sia realità. Ma si può dire medesimamente, che la realità non è nè può essere nell' idea, quando non si parla di realità possibile, che altro non è finalmente che l' idea stessa della realità, ma si parla della realità stessa . Infatti sarebbe una contradizione il dire che la realità stessa fosse nell' idealità; giacchè quando dicesi idealità, dicesi cosa possibile e non sussistente, non reale; onde verrebbesi a dire che in ciò che non è reale vi ha il reale, patente contradizione. Dunque la realità come tale è fuori dell' idea. Ma pure potrebbesi conoscere la realità senza l' idea? Che cosa vuol dire conoscere una cosa? Vuol dire sapere che è, saperne l' essenza. Ora nessuno sa che sia una cosa, se non ne ha l' idea; è nell' idea che si conoscono l' essenze di tutte le cose. Badate un po' come fa il medico quando visita un ammalato: se trova de' sintomi straordinarj e insoliti, egli dice: « io non conosco questa malattia; mi è nuova ». Che cosa vuol dire con ciò? Vuol dire che egli non ne ha ancora l' idea. Eppure trattasi di malattia reale, trattasi di conoscere un reale. All' incontro, se egli ha l' idea di questa malattia, dice tosto: « questo infermo ha il tal male; egli è la tisi, è il mal di pietra, è una cefalitide ». Come dice ciò? Di che mezzo si serve a rilevare la qualità di quel male? Non d' altro che dell' idea di esso che possiede nella sua mente. Dunque il reale si conosce per l' ideale, benchè nell' ideale non si comprenda il reale. Ma come lo si potrà conoscere se non vi si comprende? Come l' ideale mostrerà allo spirito quel reale che non ha in se medesimo? Noi dicevamo già, che anche l' essenza del reale si comprende nell' ideale ed è questa essenza che l' ideale rivela allo spirito. Questo è l' oggetto propriamente conoscibile per se stesso. Ma che differenza vi ha dunque tra il reale di cui si conosce l' essenza nell' idea, e il reale stesso fuori dell' idea? In quanto all' essenza conoscibile non ve n' ha alcuna; poichè essa, come dicevamo, è identica ed una; ma la differenza sta in questo, che il reale nell' idea è il reale in potenza, e il reale fuori dell' idea è il medesimo reale in atto. L' oggetto dunque è il medesimo ma è diverso il modo col quale egli è. Ciò che è in potenza infatti dee essere necessariamente diverso da ciò che è in atto, come dimostra questa stessa locuzione, che è anch' essa una locuzione non meno del senso comune, che di tutte le filosofiche scuole. Poichè quando io dico della stessa cosa: « ella è in potenza, ed ella è in atto »il subjetto del mio discorso non varia, anzi è del tutto il medesimo, io predico dello stesso subjetto ora la potenza ed or l' atto. Se non fosse così, io non potrei mai dire, che una cosa ora è in potenza , ed ora in atto , giacchè l' atto e la potenza sono relativi, e non potrebbero essere relativi se non riferendosi allo stesso subjetto; non si sarebbe potuto giammai distinguere la potenza dall' atto, se non si trattasse del subjetto medesimo in due stati e condizioni diverse. Ora tutto ciò che è in potenza è in atto, e tutto ciò che è in atto è in potenza; e nella potenza vi si comprende lo stesso atto; ma si noti bene lo stesso atto in potenza , l' atto possibile , il che basta affinchè si possa concepire quello che è. L' oggetto adunque della cognizione si conosce tutto nella potenza, se di essa abbiamo cognizione perfetta; e l' essere il medesimo oggetto ridotto all' atto non aggiunge nulla alla sua cognizione. Infatti, se il medico, per tenerci all' esempio addotto, altro non trova nell' infermo che cura, se non que' sintomi ch' egli già pienamente conosce perchè ne ha l' idea, egli non accresce menomamente la scienza medica che già possiede; giacchè il riscontrare realizzati i sintomi conosciuti nulla affatto aggiunge alle sue idee. Presupposte dunque nella mente dell' idee, nelle quali e per le quali lo spirito nostro conosce gli oggetti, il reale che è fuori di esse non aggiunge niente agli oggetti conosciuti dalla mente. Ma pure quando si viene a sapere che uno degli oggetti della mente sussiste realmente, si sa qualche cosa di più, che conoscendolo solo nell' idea. Che cosa è dunque questo più di cui si arricchisce il nostro sapere? Non è un' essenza, poichè l' essenza conoscevasi già nell' idea. Non è un oggetto nuovo, poichè l' oggetto scorgevasi nell' idea. Che cosa è dunque? - E` un' attuazione di quello stesso oggetto che nell' idea s' intuiva; è l' atto di ciò che prima si conosceva appieno in potenza. Ma si noti bene; non è già che si venga a conoscere con ciò l' essenza dell' atto; perchè questa essenza era nota avanti, contenendosi nell' idea. E` dunque quel nuovo atto, che essenzialmente si distingue dalla cognizione, che è fuori di essa e che perciò appunto si chiama reale . - Ma egli non è oggetto della mente, poichè se fosse oggetto già sarebbe contenuto nell' idea, dove l' oggetto è perfetto a tale che nulla vi si può aggiungere. Rimane dunque quest' atto relegato, per così dire, nel sentimento, senza che possa entrare punto nè poco a costituire la parte conoscibile, l' oggetto proprio della cognizione. Ma in tal caso si potrà dire con proprietà ch' ei si conosca? Sì, purchè però ci intendiamo, purchè si spieghi di che cognizione si parli. Egli non può aver natura di oggetto della mente, no, come risulta da quanto abbiam detto; non può dunque essere scopo dell' intuizione . Converrà dunque che la sua cognizione si acquisti per tutt' altro modo; vi dovrà dunque essere un altro atto tutto di diversa natura, pel quale lo spirito umano si persuada di conoscerlo. Ora quest' atto è l' affermazione , questo è un atto certo misterioso ed ha bisogno di schiarimento. Che cosa vuol dire affermare che un dato oggetto della mente sussiste? Vuol forse dire acquistare la notizia di quell' oggetto? No, poichè non si può affermare che un oggetto sussista, se l' oggetto già non si conosce precedentemente, come abbiam veduto che il medico non può affermare che la malattia del suo infermo sia il cholera morbus, se egli non conoscesse al tutto il cholera morbus, e non l' avesse sentito mai nominare. Affermare dunque che un oggetto sussiste, è quanto dire a se medesimo, che quell' oggetto che si conosce pienamente (come qui noi supponiamo), che si sa che potrebbe sussistere, effettivamente ha quest' atto di sussistenza che noi conoscevamo possibile. Ma che è quest' atto di sussistenza? L' abbiamo veduto, che egli si riduce sempre in ultimo ad un sentimento. Ora il sentimento è fuori della cognizione oggettiva, come noi abbiamo osservato; dunque affermare che un oggetto sussista è affermare che v' ha qualche cosa fuori dell' oggetto ideale della mente, qualche cosa che non è l' oggetto ideale della mente, e di cui nell' oggetto si conosce appieno la natura. Ma come posso io sapere, che fuori dell' oggetto ideale vi ha qualche cosa? Certo io nol potrei dire se io fossi un tal ente così affisso all' ideale, che fuori dell' atto dell' intuizione dell' ideale io non fossi nulla, non avessi altra attività. Ora io ho dell' altra attività anche fuori di quell' atto. Se tutte le mie attività si riducessero a contemplar l' ideale, io non esisterei, per così dire, che nell' ideale. Ma io ho indubitatamente qualche cosa che è fuori affatto dell' ideale; anzi io con tutto me stesso sono fuori dell' ideale, perchè io sono un sentimento sostanziale modificabile. Ora se io m' accorgo che sono fuori dell' ideale, e che fuori dell' idea sono le mie modificazioni e tutto ciò che cade nel sentimento; dunque io posso affermare, che fuori dell' ideale c' è qualche cosa. Ma si noti bene; di questo qualche cosa che è fuori dell' ideale, nell' ideale stesso c' è il tipo, che è quanto dire l' essenza visibile e manifestativa: l' atto stesso del mio sentire, che è fuori dell' ideale è manifestato dall' ideale in quanto che l' ideale ne mostra la natura. Se io non avessi l' idea non potrei conoscere certamente il mio sentimento; perchè non me ne sarebbe nota l' essenza, che nell' idea sola si manifesta. Ma posciachè questa essenza mi è data nell' ideale, io posso conoscerla ed affermarla in me stesso. Vero è, che affermarla in me stesso è lo stesso che dire che ella è in modo diverso da quello che è nell' idea; ma questa cognizione stessa mi è data nell' idea, perocchè conoscendo io nell' idea la natura del sentimento, conosco altresì che il sentimento è di tal natura, da poter, anzi da dover esser fuori dell' idea. Che cosa dunque mi fa bisogno, affinchè io possa affermare che io sussisto e che sussistono le cose che operano in me? Nient' altro che l' esperienza, il sentimento medesimo; giacchè conoscendo io nell' idea questo sentimento, ed io stesso esperimentandolo, mi accorgo che quel sentimento, quell' ente che conosco possibile, opera, passa all' atto, il qual atto so che è fuori dell' idea, perchè l' idea stessa lo dice. L' unità dunque e l' identità mia propria, per la quale d' una parte io contemplo la natura del mio sentimento nell' idea, dall' altra provo ed esperimento il sentimento medesimo, fa sì ch' io conosca come quel sentimento che già mi è noto, attualmente sussiste, cioè a dire, lo affermi . Questa maniera di cognizione dunque che acquisto del reale, è necessariamente una cognizione oscura, e quasi direi una negazione di cognizione. Perocchè con essa io vengo a negare implicitamente, che la realità, come tale, entri a formare l' oggetto della mente. Ma questa specie di cognizione, benchè sembri oscura relativamente alla cognizione dell' ideale, è però sufficiente, ed è l' unica che si possa aver del reale. Poichè noi ci chiamiamo paghi del nostro sapere quando conosciamo le cose a quel modo che posson esser conosciute; e il reale, il mero reale, non può esser conosciuto che a questo modo, per via di affermazione; chè anzi gli uomini, e gli stessi filosofi, non osservano questa specie di oscurità relativa che si trova nella maniera onde si conosce il reale; non la osservano dico, perchè di natura sua è sempre congiunta indivisibilmente alla cognizione dell' ideale, e ci vuole gran fatica di mente per estrarnela e separarla. Nè altra cognizione all' uomo abbisogna, o l' uom cerca e desidera, che quella che gli fa vedere il reale nell' ideale, sicchè appartiene solamente alla speculazione filosofica il distinguere in questa cognizione mista, di cui gli uomini continuamente fanno uso, quella parte che riguarda il solo reale preciso da tutto il resto, da quella parte che riguarda il reale nell' ideale. Ma per noi, miei signori, questa speculazione è importante; non è cosa di mero lusso. Le conseguenze che ne derivano sono incalcolabili: per intanto noi raccogliamo dal nostro ragionamento quello che ci eravamo proposto, cioè che il solo essere ideale è concepibile per se stesso, l' essere reale è per se oscuro ed inconcepibile. Ma questo poi viene illuminato da quello, perchè quello contiene l' essenza di questo e quando ne concepiamo l' essenza, allora possiamo affermarlo, allora tosto che il reale cade nel nostro proprio sentimento noi possiam riscontrarlo nella sua essenza, ed intendere che è l' ente stesso di prima che noi idealmente conoscevamo, il quale è passato ad un nuovo suo atto, ad un atto che nella sua stessa essenza si conosce. Poniamo ben l' attenzione all' identità nostra; noi, gli stessi, identici, veniam messi in comunicazione coll' identico essere in un duplice modo, appunto perchè l' essere identico è duplice; l' essere identico è duplice, perchè è manifestativo di sè ed attivo: in quanto è manifestativo intanto dicesi ideale, in quanto è attivo dicesi sensibile e reale: niente c' è nel sensibile e reale che non sia manifestato dal suo corrispondente ideale, che è manifestativo di lui; e quando noi siamo manifestati a noi stessi nell' essere ideale, allora possiamo affermarci, e così conoscere la nostra stessa realità con quella cognizione colla quale solo ella è conoscibile. Qui voi mi direte che io supposi in tutto questo ragionamento che l' uomo quando afferma il reale n' abbia già l' idea determinata e compita; il che non s' avvera nel fatto. Perocchè l' uomo che nasce privo d' idee determinate, non se le forma che coll' età, all' occasione appunto di affermare i reali; ond' egli pare che l' affermazione de' reali preceda le loro idee. Questa osservazione merita di essere esaminata diligentemente, e noi ci proponiamo di farlo nella seguente lezione. Noi abbiamo percorso buon tratto di via, miei signori; abbiamo difesa la distinzione dell' ideale dal reale contro quei che la negano; abbiamo investigati i caratteri dell' uno e dell' altro di questi due modi dell' essere; abbiamo tentato altresì di penetrarne e determinarne la natura, e ci riuscì di conoscere, che la natura dell' ideale consiste nell' intelligibilità , e quella del reale nel sentimento e in tutto ciò che opera in esso e per esso. Dopo aver così separato il reale dall' ideale adoperandovi intorno lungamente l' analisi, siamo tornati alla sintesi; abbiamo meditato come que' due modi si congiungono nell' identità del medesimo essere; il qual diventa unico oggetto dello spirito intelligente. Questo ricongiungimento dei due modi dell' essere si avvera allor quando lo spirito nostro percepisce il reale; giacchè sino a tanto che egli non si applica che all' ideale, ha per termine del suo atto l' essere sotto un solo di que' modi, l' essere nel suo modo ideale. Infatti la percezione del reale ha una sua unità, se ella si considera come procedente dall' unità dello spirito. Considerate ben la cosa, miei signori, com' è identico l' essere che è in due modi, così è identico lo spirito che opera con due potenze. Lo spirito unico si riferisce all' essere unico: la duplice sua potenza si riferisce al duplice modo dell' essere. L' una e l' altra potenza ha una sola radice, l' essenza dello spirito: l' uno e l' altro modo di essere ha pure un solo subietto, l' essenza dell' essere. Niuna maraviglia dunque, se nella percezion del reale, per la quale l' unico essere si comunica all' unico spirito, e si comunica nei suoi due modi alle due potenze dello spirito, si possa scorgere ad un tempo unità e dualità . Quando si percepisce il reale, noi dicevamo, lo si afferma, ma nello stesso tempo che lo si afferma, se ne intuisce l' essenza; giacchè non si potrebbe affermare l' incognito: la percezione dunque ha in sè una dualità, cioè a dire è un' operazione per la quale si partecipa l' essere sotto i due suoi modi, l' ideale e il reale. Ma l' oggetto che si conosce, e l' oggetto che si afferma sussistente, è un unico e medesimo oggetto del pensiero; dunque la percezione è semplice. L' unità dello spirito unisce le due contemporanee operazioni nel solo oggetto, cioè nell' unità dell' ente. Questa è la sintesi tra l' essere ideale e l' essere reale. Ella è possibile, perchè l' idea non essendo soggetta alle leggi dello spazio e del tempo può applicarsi se vogliamo parlar con Dante « - a ogni ubi e a ogni quando . ». Onde l' essenza dell' essere che nell' idea si contempla possiamo vederla là appunto dove è il sentimento, e riconoscer questo come nuovo atto del medesimo essere. Ma dopo di tutto ciò noi ci facemmo un' obbiezione; dicemmo che ciò suppone data innanzi l' idea dell' ente speciale che si percepisce. Ora nel fatto sembra accadere il contrario: prima affermarsi gli enti in occasione delle sensioni; poi dalle affermazioni cavarsi le idee pure. Come affermare prima d' aver l' idee delle cose e di sapere che sia ciò che affermiamo? Questa è la difficoltà che dobbiamo ora affrontare. Già vi ricorda che noi ci movemmo la questione, se le idee si formino dallo spirito nostro: e dall' osservazione accurata dell' atto che fa lo spirito quando si rende partecipe delle idee, conchiudemmo ch' egli non se le forma; che quell' atto ha natura di semplice visione, contemplazione, intuizione, come si vuol meglio denominarlo; e che perciò egli è tale che suppone esistere l' oggetto da intuirsi a quella stessa guisa che l' occhio suppone esistere gli oggetti che non crea; nè certo li potrebbe vedere se essi non fossero. Dunque ciò che volgarmente si dice la formazione delle idee , non può essere altro che un eccitamento ed una direzione data allo spirito, onde questo volgendo lo sguardo là dove conviene che il volga incomincia a vedere quell' idea che pria non vedeva, perchè colà nel modo debito non riguardava, e colà non potea riguardare, perchè questo colà non c' era ancora. Che cos' è questo colà, questo punto dove dovea riguardare? L' immagine. Dunque se gli esseri reali, i sentimenti, sono quelle cagioni onde la mente si muove a riguardare e a vedere l' idee, e il punto in cui lo sguardo si fissa, convien dire, che l' ajuto che prestano i sentimenti allo spirito umano nella formazione delle idee, non consista in altro se non nello stimolarlo e ajutarlo a quella operazione che gli bisogna affinchè possa vederle, non già affinchè le si formi. Ma poichè l' immagine è bensì il punto a cui si volge lo sguardo dell' intendimento, ma non è l' idea che l' intendimento vede con questo sguardo, dove sono dunque queste idee? Stanno esse sempre quasi appese innanzi allo spirito, sicchè eccitato che sia e diretto, le possa trovar collo sguardo interiore e vedere? Pare di no; almeno a prima giunta; poichè, se realmente gli stessero così dinnanzi schierate, gran fatto sarebbe ch' egli non ci potesse dar qualche occhiata, almeno per caso, senza bisogno de' sentimenti e delle immagini, massimamente trattandosi d' uno spirito già reso attivo e curioso indagatore della verità. Eppure un cieco può esser dotto quanto si voglia, poniamo il matematico Saunderson, può desiderare quant' egli voglia, può fare degli sforzi a sua possa; ma l' idea del colore non se la procaccierà, perchè gliene manca il senso. Che è dunque a dirsi? Noi non possiamo rispondere, se non meditiamo più addentro sulla natura delle idee; solo il concepirle meglio ci può dare speranza di sciogliere sì difficile questione. Poi il fatto nol possiamo negare, che quelle idee che rispondono ai reali sensibili, la mente umana non le ha giammai se non a condizione di aver prima sentito questi reali. Che cosa è dunque l' idea corrispondente a un reale sensibile? P. e. l' idea di un albero, di un bruto o di altro corpo qualsiasi? Raccogliamo sul fatto la nostra attenzione. Noi abbiamo veduto che nell' idea d' una cosa reale vi ha tutto ciò che nella cosa, ma in un modo diverso , in un modo ideale, nella sua possibilità. Dunque l' idea dell' albero, del bruto, dell' uomo non è altro che l' albero, il bruto, l' uomo possibile. Poniamo dunque, che un albero, un bruto, un uomo cadesse sotto i nostri sensi; come farà lo spirito ad innalzarsi alle loro idee? Egli è chiaro, che se lo spirito di cui si parla non fosse che meramente sensitivo, finirebbe ogni sua operazione nel senso dell' albero, del bruto, o dell' uomo, nè mai salirebbe fino alle loro idee. Ma dato ch' egli sia intelligente, ei dopo aver sentito l' albero, il bruto, l' uomo, può dire seco stesso: l' albero, il bruto, l' uomo che mi ferisce i sensi esiste; dunque è possibile: se l' albero, il bruto, l' uomo è possibile, dunque si possono avere indefiniti alberi e bruti e uomini. Questo è certo il ragionamento che fa la mente. Ma noi dobbiamo investigare, a quali condizioni possa la mente fare un tale ragionamento. Quando ella dice seco medesima: « quest' albero esiste », che cosa fa? Ella predica l' esistenza di ciò che opera nel suo sentimento e a cui poscia dà il nome di albero. Dunque è mestieri prima di tutto che ella sappia che cosa sia esistenza. Ma che cosa è esistenza? Un' idea, miei signori; sì un' idea, e perciò un universale. Ma come viene egli predicato questo universale di ciò che è particolare, di ciò che cade nel sentimento? Niuna ripugnanza a ciò quando sia ben chiarito che cosa significa un universale. Noi già lo vedemmo; egli significa una entità che può essere predicata di molti, d' innumerevoli particolari. Se può essere predicata di innumerevoli particolari, dunque anche di ciascuno; ed è in questo senso che si può dire che l' idea si particolarizza , che l' idea diventa particolare; diventa particolare perchè si lega ad un particolare, senza mai confondersi con esso. Ma dunque si predica ella un' idea dell' albero da noi sentito? In tal caso dicendo che l' albero esiste, verremmo a dire che egli è un' idea. No, anche qui c' è un errore simile al primo. Non è l' idea che si predica dell' albero, ma l' essenza che si vede nell' idea; si predica la realità , ma quella realità che nell' idea ha il suo tipo, la sua conoscenza, la sua intelligibilità: perocchè certo che non si potrebbe predicare la realità d' una cosa se non si conoscesse, nè si può conoscere la realità se non nell' idea. Ma fino che questa realità sta nell' idea, non si afferma ancora di niuna cosa, epperciò si dice che è meramente possibile. Ma quando lo spirito conoscendo la realità nell' idea vi aggiunge il suo atto dell' affermazione, allora è lo spirito stesso che dichiara, che quell' entità non è più solo possibile, ma sussiste: è questa affermazione che la fa conoscere come sussistente, mentre dapprima lo spirito non la conosceva che come ideale. Ma perchè lo spirito afferma, poniamo, un albero piuttosto che una colonna, una statua o altro ente qualunque? Da che lo spirito è determinato ad una affermazione più che ad un' altra? Dal sentimento, senza dubbio; è il sentimento , a cui egli applica l' idea di esistenza, e pronuncia l' affermazione esiste . Poichè se l' uomo non ricevesse alcun sentimento, egli si rimarrebbe inattivo, il suo spirito non farebbe alcun passo non avendo un termine che lo invitasse e dirigesse. L' affermazione, dico, dell' esistenza prende per subietto il sentimento o ciò che cade nel sentimento. Ora se in quest' atto ciò che viene affermato, è il sentimento nè più nè meno o ciò che è nel sentimento; dunque l' esistenza affermata non è più che l' esistenza del sentimento, non si stende oltre questo; riceve dunque da questo i suoi limiti, la sua determinazione. Ma se l' esistenza che lo spirito afferma del sentimento o di ciò che in lui cade, viene così limitata entro i confini del sentimento medesimo o di ciò che in lui cade, si dovrà egli dire, che quest' esistenza sia limitata anche precedentemente, anche prima che venga applicata dallo spirito al sentimento e che sia affermata di esso? Mai no. E che potrebbe mai limitar l' esistenza? Chi non vede che l' essenza di lei non ha confini, che si stende quanto il possibile, appunto perchè prima dell' affermazione , ella non è che l' essere possibile? Quindi noi possiamo argomentare che cosa l' affermazione presupponga, acciocchè sia possibile, e quindi possiamo conoscere come l' obbiezione che noi facemmo a noi stessi involga qualche cosa di vero, senza però che sia vera ed efficace l' obbiezione. E` vero che per affermare l' esistenza di un reale non c' è bisogno che nella nostra mente preesista l' idea così determinata e limitata come è determinato e limitato il reale: è vero che non ci bisogna l' idea speciale a cui il reale risponde; posciachè la determinazione di questa idea, i suoi confini, il suo modo, è fissato dalla quantità e dal modo del reale medesimo. Ma non è meno vero, che avanti l' affermazione deve esistere nella mente l' idea di esistenza indeterminata, senza modo, senza limite alcuno; perocchè altramente noi non potremmo predicare di lui l' esistenza, non potendosi predicare una cosa ignota di cui non s' abbia l' idea. Ciò posto, vedesi che l' obbiezione che ci facevamo non ha alcuna forza contro i nostri ragionamenti. Poichè questi tendevano a dimostrare, che il solo ideale è concepibile per sè stesso, che solo nell' idea consiste ogni intelligibilità del reale medesimo, il quale rimane oscuro se si separa dall' idea, e se si congiunge viene da essa illuminato; di che conchiudemmo, che noi non potevamo affermare, nè conoscere conseguentemente il reale, se non precedesse nel nostro spirito l' ideale. Solamente, affine di facilitare il discorso e di non involgere due questioni, noi supponevamo data a dirittura l' idea del reale determinata e compiuta. Data questa idea, l' affermazione del reale riusciva facile a intendersi. Dipoi facemmo un passo indietro, ed osservammo che non fa bisogno a dir vero all' affermazione, che in noi preesista l' idea determinata e precisa che al reale corrisponde; ma basta, che preesista l' idea indeterminata ed universalissima d' esistenza, rimanendo così ferma la conclusion nostra, che all' affermazione del reale dee preesistere l' idea nello spirito, e che questa è condizion necessaria all' affermazione, e non viceversa l' affermazione ad essa. Così le nostre ricerche hanno già fatto un passo di più; ci hanno condotti più avanti nella cognizione dell' ente ideale. Poichè da esse noi ora abbiamo questo risultato, che l' ente ideale si dee distinguere in due, cioè che c' è un ente ideale che precede necessariamente l' affermazione, e un ente ideale che s' intuisce in occasione dell' affermazione medesima; il primo è l' idea senza determinazioni, nè limiti, nè modi; il secondo abbraccia le idee limitate e determinate che più forse propriamente si dicono concetti . Ma queste due maniere d' idealità costituiscono propriamente un doppio essere ideale? No, miei signori, noi dobbiamo vederlo, meditandovi sopra attentamente, dobbiamo investigare il rapporto tra l' idea determinata e l' idea indeterminata; chè, senza di ciò, ci rimarrebbe ancora molto di oscuro nella natura dell' essere ideale che investighiamo, potremmo prendere degli equivoci dannosi alle nostre successive investigazioni. Qual' è dunque la differenza fra l' idea determinata dell' ente reale, e l' idea indeterminata? E` ella intrinseca questa differenza in modo che costituisca due idee fondamentalmente diverse, ovvero è accidentale? Ma come potrebbe essere accidentale, quando l' essere ideale è semplicissimo e non ammette accidenti di sorta alcuna? Quando un' idea, come abbiamo detto già, differisce dall' altra specificamente siccome i numeri? Sarà dunque intrinseca? Caderà nell' essenza medesima? Neppur questo è possibile; poichè se così fosse, noi non potremmo affermare l' essere reale se non avendo già nella mente l' idea sua propria determinata; non potremmo affermarlo colla sola idea indeterminata dell' esistenza, come pur noi facciamo, non potendosi predicare di uno stesso reale due essenze diverse. Qual' è dunque la relazione dell' idea determinata all' idea indeterminata? Riprendiamo la definizione che abbiamo data dell' atto dell' affermare. Noi abbiamo detto, che datoci un reale per via di sentimento, noi ci applichiamo l' esistenza quale la conosciamo nell' idea indeterminata, ma che non ve l' applichiamo se non tanto quanto il reale stesso è atto a riceverla; il che viene a dire, predichiamo del reale quella esistenza che egli ha e non più. In questa operazione dunque, sebbene l' esistenza da noi intuita e conosciuta nell' idea sia indeterminata e illimitata, tuttavia non l' applichiamo già al reale in tutta la sua estensione e infinità, non la predichiamo tutta del reale, ma solo quella parte che nel reale medesimo è attuata e sussistente, e così dicemmo che dal reale si limita e si determina. All' incontro quando noi abbiamo già precedentemente nello spirito nostro l' idea determinata che al reale esattamente risponde, e con essa lo affermiamo, allora noi gliela applichiamo tutta, perchè quest' idea determinata è commisurata appunto alla quantità e al modo del reale. Di qui si scorge che tanto se noi nell' affermazione del reale adoperiamo l' idea dell' esistenza indeterminata, quanto se adoperiamo l' idea determinata, predichiamo del reale la stessa quantità di esistenza, gli applichiamo un' idea perfettamente uguale, l' idea che a lui corrisponde. Quindi egli è al tutto indifferente che noi nell' atto dell' affermazione di un reale abbiamo nella mente l' idea determinata, e coll' uso e coll' applicazione di questa lo affermiamo, quanto se abbiamo solo nella mente l' idea indeterminata ed universale, non applicandola noi tutta e restandoci una parte di questa inoperosa e superflua all' operazione che facciamo. Così se noi volessimo comperare una pera che val due soldi, spenderemmo ugualmente se noi traessimo i due soldi da un borsino che altro che i due soldi non contiene, come se traessimo i due soldi da un monte immenso d' oro. Vero è che nel monte d' oro non troviamo i due soldi effettivi, non ne troviamo pure il valore limitato, perchè ci ha troppo più; ma noi possiamo nondimeno pigliarne una particella d' oro piccola quanto basta acciocchè non valga più che due soldi; contenendosi nel valor maggiore il minore. Ora i due soldi del borsino sono l' idea determinata di un reale, e il monte d' oro è l' idea indeterminata e al tutto universale. Laonde se affermare un reale che ci cade nel sentimento non è altro che prendere dall' essenza stessa dell' esistenza da noi intuita quella parte di esistenza che corrisponde al reale, quasi traendo un valor minore da un maggiore, dunque 1) ad affermare i reali non è mestieri che se n' abbiano già prima le idee determinate; 2) non avendole, si formano colla stessa affermazione, togliendo dall' esistenza ideale senza limiti quella porzione limitata che ci bisogna, la quale così diventa idea speciale o concetto; 3) quando questa idea già una volta si è formata, ella si torna ad applicare ai reali che tornano a caderci nel sentimento, senza però che cangi la sua natura, rimanendosi sempre ed ugualmente porzione, se così lice esprimersi, dell' esistenza intuita dalla mente senza modo e confine. Ma qui mi direte: non s' intende come dall' esistenza indeterminata se ne possa dividere, come voi dite, una cotal porzione per applicarla ai reali; giacchè l' idea dell' esistenza indeterminata è cosa al tutto semplicissima e non pare ammettere separazione di sorte. Ottimamente: la difficoltà si presenta alla mente; ma sapete voi perchè, miei signori? Per quella inclinazione che ha il nostro intelletto, e per quella abitudine di applicare al mondo ideale quei principj, quelle leggi che reggono il mondo materiale. Noi non concepiamo la divisione della materia se non mediante la sua composizione e moltiplicità, di modo che qualora prescindiamo dal moltiplice e dal composto non possiamo più concepire divisione alcuna. E certo non vi può essere divisione materiale; perchè la divisione materiale suppone disunione di parti materiali. Ma noi non parlavamo di cosa materiale, epperciò neppure di divisione materiale; parlavamo di divisione mentale, che è tutt' altro; la quale si può fare benissimo anche in ciò che è semplice in sè stesso. Pigliam pure un punto matematico: chi non dirà ch' egli è indivisibile? Certo è indivisibile se si parla di division materiale, perchè non ha parti; eppure la mente può trovarvi moltiplicità; ella può considerarlo a ragion d' esempio, come il centro di una sfera; ed ecco che in esso distingue tanti rapporti quanti sono i punti assegnabili nella sfera medesima. Se si tirano altrettante linee dalla superficie al centro, lo stesso punto è il termine di tutte queste linee, e la mente quando il considera come termine di una linea, nol considera come termine di un' altra linea. Prendiamo ad esempio lo stesso monte d' oro e i due soldi di cui abbiamo fatto menzione. L' oro come vedete è un metallo semplice, e i due soldi sono rame. Sminuzzate l' oro quanto volete, niuna particella dell' oro sarà mai rame, non diverrà mai i due soldi di rame, come potrebbe essere quando l' oro fosse misto di rame e di altra sostanza. Dunque se prendiamo la cosa materialmente, per quanto oro abbiamo, non avremo mai il rame. Ma prendiamola spiritualmente e mentalmente, paragoniamo il valore . Il valore è un essere della mente, non è nè oro nè rame; e perciò dividendo l' oro in minuti pezzetti, noi troviamo il valore di due soldi di rame, non effettivo ma nel suo essere mentale di valore; perchè questo è divisibile anche quando la sostanza materiale è semplice. Ma lasciando anco da parte tutti gli esempj, noi intenderemo la cosa in se stessa considerandola attentamente. Che cosa è l' affermazione di un reale? E` certamente un atto della mente nostra; è la mente nostra, il nostro spirito che accoppia nella sua unità il reale coll' ideale corrispondente. Accoppiare l' ideale corrispondente al reale non è che intuire l' essenza dell' esistenza nel reale. Ora noi abbiamo detto che lo spirito quando intuisce le essenze non le produce. Diciamo ora al contrario, quando non le intuisce non le distrugge: se è vera la prima proposizione, deve essere vera anche questa seconda - . Ma egli può intuirle e non intuirle, e le idee restano le stesse. Se dunque lo spirito limita il suo sguardo che volge al mondo ideale, non ne vien mica che ne distrugga una parte, e nemmeno che ne separi una parte da tutto il resto. Poniamo che rimirando un bel quadro noi restringessimo l' attenzione ad un piede di qualche figura, rimirando attentamente coll' occhio quanto è ben disegnato e condotto: ne verrebbe forse che il nostro occhio separasse il piede da tutto il quadro? Facciamo che si tratti di persona vivente; tosto si vedrà, che per quanto il piede solo si guardi, non si separa dal corpo, poichè altramente impallidirebbe e morrebbe. Ma no, è vivo e continua a partecipare di quella vita che costituisce un' unità semplicissima. Noi consideriamo questa vita nel solo piede, benchè ella sia semplice e come tale operi in tutto il resto del corpo. Tale dunque è la natura degli enti spirituali ed ideali, che quantunque semplicissimi contengono tuttavia innumerevoli cose che si possono dall' attenzione dello spirito mentalmente distinguere e contemplare in separato dal tutto, onde Platone diceva che l' uno è sempre accompagnato da' più, e non può star solo. E chi non sa che in un principio della mente si contengono innumerevoli conseguenze, che possono essere l' una dall' altra dedotte e distinte? Pigliate il principio semplicissimo che « due cose uguali ad una terza sono uguali tra di loro »; e poi date mano ad Euclide ed osservate quante belle verità egli sappia cavar fuori da questo semplicissimo principio. Tutte vi erano contenute; ma non tutte le menti ce le sapevano vedere distintamente; e vi so dire che ce ne sono delle altre, che gli uomini non ci hanno veduto ancora; perocchè la fecondità di un principio di ragione qualsiasi è infinita. Ora mi dite, qual cosa più semplice di un principio? E un principio di ragione non è finalmente altro che un' idea che si applica, come avremo occasione di vedere. Ne' principj dunque sono contenute implicitamente infinite conseguenze prima ancora che altri le derivi da essi esplicitamente. Ma che vuol dir questo implicitamente? Vuol dire che le conseguenze ci sono, ma che la mente ancora non ce le vede; esprime una relazione allo stato più o meno attivo, più o meno eccitato, della mente stessa. Onde quando la mente in occasione di applicare il principio trova la conseguenza, questa si dice essersi resa esplicita . Dunque negli esseri ideali possono vedersi dalla mente moltissime cose e distinguersi moltissime entità ideali, senza che questa moltiplicità tolga punto nè diminuisca la semplicità del primitivo essere ideale in cui si ravvisano. Niuna maraviglia dunque che contemplando il nostro spirito l' essenza dell' essere semplicissimo, egli tuttavia applicandola al reale sensibile la divida per così dire mentalmente e la spezzi, accorgendosi che in ciascun reale non è già realizzata e attuata tutta l' infinita virtù dell' essenza dell' essere, ma che questa essenza è realizzata parzialmente in un certo modo, con certi limiti. Di ciò non ne viene che resti veramente squarciata e divisa quell' essenza medesima. Ciò che resta diviso è l' essere reale finito, poichè questo è moltiplice, cioè sussistono innumerevoli esseri reali tutti finiti; il che è quanto dire che niuno d' essi esaurisce l' essenza dell' essere, ma solo ne attigne in parte. Questo è ciò che riconosce la mente, e riconoscendolo limita, non l' essenza dell' essere, ma l' atto suo proprio, limita quest' atto al reale che vuol giudicare e affermare, commisurandolo all' essenza universale. E qui troviamo aperta la via per conoscere viemmeglio in che consista la determinazione dell' essere universale e la sua limitazione. Infatti da ciò che dicevamo risulta chiaramente, che questa determinazione e limitazione si fa per via di rapporto , rapportandosi cioè dallo spirito il reale sensibile all' essere indeterminato, come un caso particolare di cui si giudica si riporta ad un principio. Se non piace questa maniera quasi che noi potessimo trasportare il sensibile nell' intelligibile, dicasi al contrario, che è più esatto, dicasi che si riporta l' essere universale al sensibile particolare; giacchè se il sensibile particolare è legato al luogo e al tempo per modo da non potersi trasferire altrove, l' essere universale non è legato, nè a modo nè a tempo, epperò si può applicare quando che sia e dove che sia a tutto ciò che ha o non ha tempo e spazio, senza che per questo sia trasportato da luogo a luogo. Ora se tra il reale sensibile e l' essere in universale l' unità dello spirito nostro vi coglie il rapporto, tosto s' intende in che modo dicasi che il reale sensibile limita e determina l' essere universale. Per chiarire ancor più la cosa con una similitudine, immaginiamo un gran triangolo superficiale e poniamo sopra di lui una piccola figura quadrata; combaciandosi queste due figure noi possiamo osservarne il rapporto, e da questo rapporto troviamo, che il piccolo quadrato applicato al gran triangolo determina nel triangolo stesso una piccola figura quadrata. Ora questa determinazione non è che di rapporto, non fa che assegnare nella superficie triangolare i punti che corrispondono alla superficie del piccolo quadrato. Ma che perciò? Viene forse immutato per questo il triangolo? Non si rimane il triangolo di prima? Soffre egli alcuna passione? Non è egli semplice, semplicissimo, giacchè si suppone continuo e meramente superficiale? Sì, rimane semplice e quello di prima, e tuttavia la mente nostra ha disegnato in esso col pensiero un quadratino e se l' ha disegnato mediante il rapporto ch' ella prese a contemplare tra una piccola figura quadrata e lui. La natura di rapporto è estranea alla figura del triangolo, e tuttavia la mente può fare una proposizione e dire: « questo quadratino partecipa della tal porzione del triangolo; e a questo quadratino rispondono i tali e tali punti assegnabili nel triangolo ». E` tutta opera della mente la quale non guasta punto nè il triangolo nè il quadrato, ma lascia l' uno e l' altro quello che è in se stesso. Ora il gran triangolo è l' essere universale intuito senza limitazione dalla mente: quest' essere universale viene nello spirito semplicissimo dell' uomo a sopraporsi, per così dire, al reale sensibile; lo spirito dell' uomo ne osserva il rapporto e nell' essere universale fissa colla sua attenzione que' punti di essere che s' identificano col reale. Ed ecco l' idea speciale bella e trovata - . Ella non differisce dunque nella sua essenza dall' idea dell' essere universale; è quella stessa idea, ma veduta dalla mente con uno sguardo che non l' abbraccia tutta , ma che si contiene e limita a veder quella parte che risponde al reale sensibile; e questa limitazione non è propriamente limitazione dell' essere ideale, ma è limitazione di rapporto e perciò estrinseca, è limitazione che altro non dice, se non che l' idea dell' essere universale a far conoscere l' essere particolare e sensibile non abbisogna di tutta la luce sua proria, ma dirò così di un solo raggio; è limitazione formata dalla mente che limita sè stessa, limita il suo sguardo, perchè con esso vuole ottenere la cognizione di un ente reale particolare e limitato e non più. Quindi distinguasi nelle idee speciali due elementi: 1) l' elemento che fa sì che esse siano idee, e in tanto sono identiche all' idea dell' essere universale; 2) il loro limite o determinazione, e in tanto non sono identiche all' essere universale, perchè ne escludono una parte; ed è questo secondo elemento (che si può dire negativo), che è posto dallo spirito intuente, ed è posto dallo spirito secondo il limite e il modo dell' ente reale e sensibile di cui ha sperienza, ossia dell' immagine. Egli è per questo che si può dire con tutta proprietà, che un' idea sola esista; ma quest' idea sola viene applicata più e più volte dallo spirito, e ad enti diversi, e secondo queste applicazioni diverse sembra che ella si moltiplichi, e acquista diversi nomi, onde volgarmente si crede esservi molte idee, mentre altro non v' ha che molti rapporti, molte limitazioni di rapporto, che è quanto dire relazioni con molti enti limitati. Vi farà forse qualche maraviglia, o signori, che io abbia detto che ogni idea speciale, in quant' è idea , s' identifica coll' idea universale dell' essere: poichè ciò che s' identifica sembra non poter più ammettere distinzione alcuna. Ma questo sarebbe prendere una sola parte della verità che abbiamo esposta, non prenderla tutta intera; chè noi non dicevamo già che l' idea speciale si identifichi sotto tutti i rispetti , ma solo in quanto ella è idea; ed ella non si può dir già idea in quanto ella è limitata, giacchè il limite della cosa non forma la cosa, anzi fa che la cosa ivi finisca di essere. Ora rispetto a queste limitazioni, noi dicevamo che ella non s' identifica punto, anzi si distingue, come il negativo non s' identifica col positivo, di cui è anzi l' opposto. S' identifica dunque in quanto è idea; e questo non ha difficoltà di sorte per chi considera che allo stesso modo le conseguenze si identificano co' principj. Notate bene s' identificano di natura , non di quantità . La virtù del principio resta sempre molto maggiore, e tuttavia si trasfonde in ciascuna conseguenza senza mai esaurirsi: è dunque una identificazione parziale. Avvertite che il nostro discorso versa nella sfera delle idee, e però è acconcissimo l' esempio de' principj e delle conseguenze; piuttosto che un esempio è anzi la cosa stessa detta in altro modo, ma in un modo che dee riescire più chiaro a fare intendere a tutti, che qui trattasi di un fatto innegabile se pure non si vuol negare, che la conseguenza è lo stesso identico principio applicato al caso. Volete rivestito il medesimo vero di sensibile realità? Distinguete nelle cose reali l' essenza loro dalle loro quantità . Due cose, che in quanto alla sostanza sono identiche, differiscono di quantità: così l' acqua di un bicchiero e l' acqua d' un fiume è acqua ugualmente; nell' essenza che costituisce l' acqua non differiscono punto, ma la quantità e la realità loro differiscono. Dicevo che qui abbiamo il vero di sopra enunciato vestito quasi di sensibile realità; perocchè anche in questo esempio l' identità che si scorge tra l' acqua e l' acqua è identità d' idea, è identità di essenza dalla mente intuita, la quale si realizza ugualmente sì nell' acqua del bicchiero e sì nell' acqua del fiume. Riassumiamoci, miei signori; l' affermazione del reale sensibile dimanda dinanzi a sè un ideale; ma questo può essere ugualmente l' idea specifica del reale, o l' idea dell' essere universale. Dimanda un ideale, perchè il solo ideale fa conoscere ciò che si afferma e non si può affermare se non ciò che si conosce. Se avanti l' affermazione esiste nelle menti nostre l' idea speciale, quest' idea dee la sua origine ad un' altra affermazione precedente che applicò altre volte allo stesso essere reale l' idea universalissima, che prima di tutte nella mente risplende. Se l' idea speciale dee la sua origine alla prima affermazione che abbiamo fatto di un dato ente reale, in questo senso ella si può dire prodotta; ma se si considera ciò che ha di positivo l' idea speciale, se si considera ciò ch' ella ha d' identico coll' idea universalissima, ella non si può dire nè prodotta nè formata, ma semplicemente intuita . Ciò che è prodotto in essa dall' atto della mente sono i suoi limiti, il suo modo, la sua determinazione. E tutto ciò conferma vie meglio quello che c' eravam proposto di dimostrare, che il solo essere ideale è intelligibile per se stesso, mentre il reale è intelligibile per la congiunzione coll' ideale. Noi abbiamo dissipate le difficoltà che si opponevano a questa conclusione; l' abbiamo pienamente stabilita; non abbiamo spesa dunque indarno la fatica nelle nostre ricerche. Ma una questione ne trae un' altra. Qui da se stessa ci si presenta la domanda: se coll' affermazione noi ci procacciamo la conoscenza del reale, ond' è poi che anche passata l' affermazione questa conoscenza ci rimane? Se rimane dopo l' affermazione, dunque tale conoscenza non è legata indivisibilmente a quest' atto momentaneo dello spirito. Che cosa è dunque la cognizione del reale che resta in noi dopo l' affermazione? Ecco ciò che formerà l' argomento della seguente lezione. Che cosa è la cognizione del reale, che rimane in noi dopo l' affermazione? Tale fu la questione che noi abbiam proposta in sulla fine della precedente lezione e che abbiam lasciata insoluta. Dobbiamo occuparcene in questa; e per farlo a dovere dobbiamo considerar prima ben a fondo la natura della questione stessa, e misurarne tutta la difficoltà. Avviene spesse volte, miei signori, che si presentino allo spirito nostro questioni filosofiche che sembrano facilissime a risolversi. Ma è da diffidare assai di tale apparente facilità; perchè inganna assai di sovente, inganna anche di quelli che s' applicano agli studj della Filosofia, onde avviene che con tutta prontezza e confidenza rispondendo alla questione, prendono de' gravissimi abbagli. Tali sono per lo più que' filosofi, i quali riscuotono lode di gran chiarezza, e i loro libri hanno una quantità di lettori i quali si persuadono d' imparare assai, perchè apprendono con poca fatica delle pretese soluzioni de' più difficili quesiti, che altro veramente non fanno che coprire ai loro occhi la difficoltà, il vero nodo delle questioni. All' incontro il prudente e savio studioso della Filosofia reputa d' aver fatto un avanzamento grande, quando è pervenuto a ben sentire tutta la difficoltà della questione che si è proposta, e gode di trovarsi oltremodo imbarazzato nel risolverla. Sì, o signori, è meglio assai essere imbarazzato nelle difficoltà, che non vederle, o non sentirne la forza. Noi dunque non ricuseremo d' entrare per dir così nel gineprajo della proposta questione; ed avvertite, che quanto più sapremo imbarazzare noi stessi, tanto più avremo profittato, massime se ci riuscirà poscia di cavarci felicemente dallo stesso imbarazzo. Che cosa è dunque la conoscenza del reale, che rimane in noi dopo l' affermazione? L' affermazione, la prima affermazione d' un reale sembra facile ad intendersi, perchè il reale è presente e ferisce i nostri sensi, e più in generale, cade nel nostro sentimento. Ma quando il reale non ci è più presente, non è più nel nostro sentimento, come ci possiamo noi pensare ancora? Il fatto è certamente innegabile: ritornati dal viaggio che abbiam fatto alla capitale, non possiamo noi pensare ancora alla città visitata e alle cose in essa vedute? Come dunque si spiega questo fatto? Il filosofo superficiale, a dir vero, non se ne affanna molto: è chiaro, vi dice, noi ne conserviamo la memoria, e ci pensiamo mediante questa facoltà del ricordarci. Ottimamente; certo non siam qui noi per negarlo. Questo non è ancora che il fatto stesso, di cui parlavamo: il fatto, dico, che pensiamo al reale già veduto e sentito anche dopo che nol vediam più e nol sentiam più; e che quindi ne abbiamo la facoltà, la quale si chiama, e si può benissimo chiamar memoria . Noi cercavamo la spiegazione di questo fatto; cercavamo come si possa spiegare appunto la memoria de' reali quando essi non ci sono oggimai più presenti - . Il filosofo superficiale ci replica: E che? Non sapete voi, che sebbene il reale non sia più presente ai vostri sensorj, tuttavia la percezione che ne avete avuto, ha lasciato in voi certe reliquie, ve ne sono rimaste le idee? Ora per mezzo di queste reliquie o vestigj, e idee che sono rimaste nella vostra mente, e che rappresentano i reali percepiti, voi potete benissimo pensare e parlare ancor del reale - Ma qui si confondono insieme due cose; si parla d' idee, e di vestigj della percezione. O l' uno o l' altro; o si pensa al reale per le idee che ne sono rimaste, o pei vestigj che ne ha ritenuto il senso o la fantasia, o per gli uni e l' altre. In quanto alle idee, sia pure che ci rimangano; ma le idee, le sole idee, noi l' abbiamo veduto, non bastano a farci pensare al reale; chè il reale nel suo proprio atto è fuori dell' idea, e non si può confondere colla idea; noi ne l' abbiamo già distinto; abbiamo già veduto, che il senso comune lo distingue, e che i filosofi che pretendono che anche ciò che s' intuisce nell' idea sia reale, di maniera che altro non ci abbia che la sola realtà, hanno torto marcio e il senso comune ha ragione. Dunque non bastano certo le idee affinchè noi pensiamo ai reali assenti e lontani dai nostri sensi. Restano i segni, i vestigj che ha lasciato in noi, nel nostro senso, nella nostra immaginazione il reale percepito. Sia dunque che noi ne abbiamo memoria, che li conserviamo in qualche parte dell' anima; sia pure che le immagini del reale percepito restino in noi fedelissime. Basteranno queste sole a farci pensare al reale? I nostri filosofi non ne dubitano: ma in che modo? - E non vedete, essi ci dicono, che le immagini delle cose vedute sono quelle che le rappresentano e le rappresentano fedelmente? Non è egli chiaro che avendo il rappresentante nella mente si può benissimo conoscere il rappresentato? - Confesso che io non vedo tutta questa chiarezza di luce; perocchè io domando alla mia volta: quando io penso e parlo della città di Firenze o di Roma da me veduta, il mio pensiero e il mio discorso ha per suo oggetto i vestigj e le immagini di queste città che sono rimaste nella mia mente, ovvero termina in queste città reali al presente da me distanti quattro o cinquecento miglia? - E che? vorreste voi avere nella vostra testa intiera la città reale di Roma, la città reale di Firenze? Quale assurdo! La vostra testa che non ha che un palmo di diametro, conterrà e palagj e chiese e piazze e monumenti reali quanti ve ne sono nelle due città nominate? - Appunto perchè ciò è un grande assurdo, e perchè nel mio cervello non vi possono essere tutto al più che de' piccolissimi vestigj di queste moli sì grandi, io trovo difficilissimo a spiegare come io possa pensare ad esse e parlare di esse - Ma non è propriamente ad esse che voi pensiate e di cui parliate: l' oggetto immediato del vostro pensiero e del vostro discorso sono le immagini che si conservano nella vostra testa. E che stranezza è mai questa di credere, che ora che non sono a voi nè pur presenti quelle grandi città, pensiate ad esse proprio in se stesse? Voi veramente parlando non pensate e non parlate che delle vostre immagini; ma credete di parlar di esse, perchè queste immagini ve le rappresentano - Rispetto le vostre osservazioni, miei riveriti maestri, ma perdonate se io bramo che mi sciogliate con tutta pazienza le difficoltà che forse pel mio poco sapere mi rinascono continuamente. Prima di tutto è necessario che noi andiamo ben d' accordo sul fatto che si tratta di spiegare. Noi avevamo proposto fin da principio la domanda « come si possano pensare i reali quando essi non cadono più nella nostra percezione ». Voi avevate tolto l' impresa di spiegare questo fatto, ed ora ce lo negate invece di spiegarcelo; poichè ci dite, che non è vero che noi pensiamo o parliamo de' reali, ma che il nostro pensiero ed il nostro discorso non ha per suo oggetto che immagini e rappresentazioni de' reali che sono rimaste nella nostra fantasia - Certo che noi diciamo questo; ma lo diciamo perchè è un assurdo patentissimo dire il contrario; giacchè il reale stesso non avendolo più presente, non potete più vederlo nè sentirlo, e però forza è che conveniate, che altro non vi rimane di lui se non le immagini e i vestigj che vi ha lasciati, e su questi voi pensate e ragionate; ma poichè questi rappresentano il reale voi credete di pensare e ragionare sul reale stesso - Questa mia credenza è dunque un' illusione che m' inganna - Non è un' illusione pel filosofo, che sa ben distinguere le immagini che son rimaste nella mente sua, dal reale che esse rappresentano; ma è un' illusione pel comune degli uomini, i quali confondono il rappresentante col rappresentato, l' immagine della cosa colla cosa: la Filosofia s' innalza sul volgo e si libera da tali illusioni - Veramente mi duole che tutto il mondo s' inganni; ma per me io non saprei separarmi da tutto il mondo per unirmi al vostro sentimento. A me ripugna il dire che tutto il mondo sia in un continuo errore, del quale parteciperebbero senza accorgersi i Filosofi stessi - In che modo? - Badate un poco, quando voi che siete filosofo raccontate che la città di Firenze ha tante miglia di circuito, che ella ha tanti palazzi di pietra, tante Chiese, conta tanta popolazione; se non parlaste che d' immagini, ingannereste la gente; perocchè voi verreste a dire che la città di Firenze è tutta composta d' immagini. Ora vi par egli che le immagini siano pietra, legno, ferro, bronzo, oro, argento di cui pure la città di Firenze si compone? O che parlate dunque narrando le cose vedute della pietra, del ferro, del bronzo, del legno reale, di cui realmente Firenze si compone, o che voi parlate di una vostra fantasmagoria che tutta si contiene nel vostro cervello, e che però non sarà mai la vera Firenze; e se la prenderete per la vera Firenze, e la vorrete far creder tale a quelli con cui parlate, voi avrete prima ingannato voi stesso, e poscia vi affaticherete ad ingannare gli altri - Voi non capite nulla del nostro pensiero; noi diciamo che sono le immagini di Firenze e delle cose vedute in essa l' oggetto della nostra mente; ma diciamo in pari tempo che queste rappresentano Firenze reale, e perciò per mezzo di esse e noi veramente conosciamo e facciamo altrui conoscere veramente le cose reali che abbiamo percepite, quando eravamo in Firenze - Ma ora io non vi domandavo ancora come pensiate al reale; io volevo prima di tutto, che fosse deciso il fatto, se ci pensate o no: dopochè saremo d' accordo sul fatto vedremo se la vostra maniera di spiegarlo per via d' immagine sia sufficiente. Ora voi mi dicevate pur ora che per mezzo delle immagini pensate alla vera Firenze qual' ella è in realtà, non nella mente nostra, ma in Val d' Arno, le 400 o più miglia da qui distante. Qui non c' è una strada di mezzo, o che il vostro pensiero e il vostro discorso si ferma alle sole immagini di Firenze, o che va a terminare alla vera e reale Firenze; scegliete dunque come vi piace - Come capite male le cose! Sicuro, che finalmente io penso e parlo di Firenze reale, ma io ci penso e ne parlo per via d' immagini a quella stessa maniera come quando si vede un bel ritratto e si dice: « è il tale »si parla della persona che il ritratto rappresenta, benchè il ritratto che si ha presente non sia la persona reale - Bene sta: noi siamo dunque d' accordo sul fatto che finalmente il pensiero ed il discorso nostro termina in quella Firenze reale, che noi abbiamo tempo fa percepita - Sì; ma resta sempre vero che per pensare a Firenze io non ho bisogno d' altro che delle immagini che me la rappresentano, e così è spiegato il fatto che voi trovate inesplicabile - Io non dico che sia inesplicabile, ma dico che ci ha delle difficoltà, ed eccovene una. Se per mezzo delle immagini di Firenze voi pensate alla vera Firenze, egli è necessario che si avverino più condizioni: 1) che le immagini di cui fate uso vi rappresentino veramente Firenze, e le cose in essa vedute; 2) che voi sappiate e siate persuaso che quelle immagini rappresentano, e rappresentano fedelmente la Firenze reale - Certamente, e qual difficoltà potete voi trovare in ciò? - Primieramente, affinchè io sappia che una cosa me ne rappresenta un' altra fedelmente, io devo già sapere, che c' è quest' altra cosa rappresentata, e devo confrontare il rappresentante col rappresentato e rilevarne il rapporto di somiglianza. A ragion d' esempio: se noi vedessimo una pittura, o per meglio dire, vedessimo de' colori variamente distribuiti sopra una superficie, e non avessimo mai veduto nè avuto la minima cognizione dell' oggetto che quei colori rappresentano, potremmo noi sapere che quei colori rappresentano qualche cosa? Vedremmo de' colori, egli è vero, cogli occhi nostri; ma non ci potrebbe mai venire in capo, che quei colori siano un' immagine , sieno rappresentanti un oggetto; perocchè di questo oggetto non ne avremmo sentore alcuno. Ma se conoscessimo già l' oggetto, allora paragoneremmo le fattezze dell' oggetto a quei colori; e troveremmo tra le une e gli altri piena somiglianza, ed allora conchiuderemmo che quei colori sono il ritratto o l' immagine di quell' oggetto. Applichiamo dunque lo stesso discorso alle immagini fantastiche. Come possiamo noi sapere che le immagini che sono nella nostra fantasia siano altrettante rappresentazioni , e rappresentino Firenze piuttosto che qualsiasi altro oggetto, e la rappresentino fedelmente? In niun' altra guisa se non supponendo che la Firenze reale, che è il rappresentato, ci sia prima cognito, che quindi noi riscontriamo la somiglianza tra la Firenze reale e l' immagine che è nella mente nostra. Solo così possiamo persuaderci che le dette immagini non sono mere sensioni , ma sono sensioni rappresentative della Firenze reale. Acciocchè dunque le immagini ci possano prestare il servigio di far sì che il nostro spirito pensi in esse alla Firenze reale e di essa favelli, è mestieri che si supponga già conosciuta da noi la Firenze reale, indipendentemente dalle immagini, è mestieri che la Firenze reale si conosca nel momento presente, ed è questa cognizione della Firenze reale che ha virtù di rendere le immagini rappresentative . Onde non sono le immagini quelle che ci fanno pensare alla Firenze reale, ma è il pensiero della Firenze reale, che produce e informa le immagini vive, che ci fa prendere per immagini o rappresentazioni di Firenze quelle che altramente sarebbero mere sensioni interne spoglie al tutto d' ogni virtù rappresentativa. Voi vedete, miei signori, che la difficoltà non è piccola, e che que' filosofi, e son pur molti, che si avvisano di spiegare la cognizione de' reali che rimane in noi dopo la percezione, unicamente per via delle immagini della cosa, rimasta impressa nel nostro cervello, non la spiegano veramente, ma la suppongono come data precedentemente; e davvero che allora la spiegazione non è più difficile, o piuttosto cessa di essere spiegazione; è il sofisma della forma: idem per idem . Come dunque ci trarremo noi dall' imbarazzo? V' ho da dire, o signori, che l' imbarazzo non è ancora compiuto? Abbiate pazienza: noi dobbiamo rendercelo ancor maggiore: noi dobbiamo trasportare la difficoltà delle immagini alla percezione stessa. Facciam conto dunque d' essere in questo istante a Firenze, di vedere cogli occhi nostri le ampie vie e le chiese e i palagi e le gallerie e i musei, e di sperimentare tutto ciò che vi ha di sensibile in quella vaga città coi nostri cinque sensi esteriori. E che perciò? Si pretende forse che tutte le grandi moli di Firenze siano entrate nel nostro cervello colla loro realità? Non siamo noi nello stesso imbroglio quantunque abbiamo i reali presenti? Che altro mai abbiamo noi ricevuto, o riceviamo in noi dalla realità di Firenze, se non sensazioni? Ma le sensazioni nostre non sono per fermo le realità esteriori delle contrade, delle piazze, del fiume e di tutto ciò che colà esiste. Convien dunque ascendere a vedere in che modo noi percepiamo le realità esteriori per mezzo del nostro senso. Veramente non m' è possibile entrare in questa lezione a spiegare come nasca la percezione sensitiva , questa m' è d' uopo supporla o riservarla ad argomento d' un' altra lezione. Ma m' è necessario qui d' accennare, che la realità esterna cade nel nostro sentimento colla sua azione, immutando appunto il nostro abituale sentimento con violenza, cioè con una forza diversa dalla nostra propria; onde l' esser noi consapevoli che non siamo noi stessi quelli che modificano lo stato del nostro sentimento, e tuttavia il sentirlo modificato, ci fa distinguere un diverso da noi, che è appunto la realità esterna. Ma questa modificazione del tenore abituale del nostro sentimento per sè sola presa non contiene la cognizione della realità. Questa cognizione, noi l' abbiamo veduto nelle lezioni precedenti, non incomincia se non a quel momento in cui il nostro spirito intelligente afferma la forza reale che ci modifica. Convien dunque che restringiamo tutta la nostra meditazione a intendere ancor meglio che cosa sia quest' affermazione , e che cosa in noi produca. Noi abbiam detto, che quando affermiamo qualche cosa sensibile, come è appunto la forza che modifica il nostro sentimento, noi predichiamo l' esistenza di questa cosa, e così predichiamo ed affermiamo una cosa conosciuta già nell' idea. S' attenda bene; la realità si conosce prima nell' idea, cioè si conosce la sua essenza, ma non si sa colla sola idea, se questa essenza che si conosce sussista o no. Quando noi la sentiamo, allora è il momento che cessa il nostro dubbio, e mentre prima dicevamo tra noi stessi: può e non può essere, può sussistere e non sussistere (il che è lo stesso che conoscere la possibilità della sussistenza della cosa) ora delle due proposizioni sussiste e non sussiste, affermiamo la prima; il che è quanto dire, che l' affermazione niente altro aggiunge alla nostra cognizione precedente, se non un sì, e un no . Affermare è dire sì; questo monosillabo esprime tutto ciò che facciamo di nuovo nell' affermazione: la cosa che è l' oggetto dell' affermazione s' intuisce e conosce già nell' idea, s' intuisce la possibilità del suo sussistere; non rimane dunque altro, se non che lo spirito sia mosso da un impulso qualsiasi a pronunciare: sì, sussiste; delle due proposizioni possibili è vera l' affermativa e non la negativa. L' affermazione dunque è un assenso dell' animo, è un assenso per cui l' animo pone se stesso in uno stato diverso dal primo; si rende affermante, mentre prima non era. Che cosa è dunque la cognizione del reale? Niente altro, se non un nuovo stato dell' animo nostro, uno stato prodotto da quell' atto suo proprio, che abbiamo espresso col monosillabo: sì . Ora a che si riferisce quest' atto? A quella realità che era prima nell' idea; ma che non ci era affermata, ci era solo possibile. Dove sta dunque la difficoltà? La difficoltà può stare in uno di questi due punti: o nello spiegare come nell' idea stia la realità possibile, o nello spiegare come l' animo dica sì, cioè si persuada che quella realità è . Ma in quanto al primo punto noi abbiamo veduto nelle precedenti lezioni, esser questo un fatto primitivo ed evidente, che nell' idea ci ha tutto ciò che la cosa reale contiene, solamente che l' animo nostro non sa ancora se quella realità sia o non sia, cioè sussista o possa solamente sussistere. Dunque rimane a spiegarsi, onde lo spirito nostro s' induca a giudicare che sussiste. Ma anche questo fu da noi dichiarato, essendo già riconosciuto che la passione che noi soffriamo d' un agente diverso da noi c' induce a questo, e che la semplicità ed unità nostra propria è il luogo, per così dire, dove si raffrontano e s' uniscono l' idea ed il sentimento, onde in questo trova la mente ciò che prima vedeva in quella o esplicitamente o implicitamente. Ed è qui che comincia, miei signori, a risplendere qualche raggio di luce; è qui che s' apre la porta onde uscire dal labirinto, dove ci eravamo volontariamente perduti. Perocchè quelle stesse considerazioni che valgono a farci intendere come accada la percezione dei reali, possono servirci ottimamente, se noi vogliamo esser coerenti con noi medesimi, a farci intendere come la cognizione de' reali possa sussistere in noi, anche cessata la percezione medesima. E veramente l' affermazione de' reali non è già un atto con cui l' anima esca, quasi direbbesi, materialmente da se stessa, come la palla esce dal fucile e va a colpire l' oggetto. Conviene spogliarsi intieramente di queste immagini materiali, è uopo non volere intendere le operazioni dell' anima per alcuna similitudine tratta dalle operazioni de' corpi. L' affermazione è un atto interno dell' anima, col quale ella costituisce se stessa in uno stato di persuasione, che esista quel reale che conosce nell' idea e per l' idea; è in una parola quel sì, che pronuncia al dubbio che si propone se esista o no. Poichè la possibilità del reale presentata dall' idea involge questo dubbio; benchè non vi sia formulato, nè in parole espresso. Che cosa adunque fa la presenza del reale ai nostri sensi? In prima cagiona la percezione sensitiva. E che fa poi la percezion sensitiva? Provoca lo spirito nostro a pronunziare quel sì, col quale egli afferma. Ma quando questo sì fu già pronunciato, non ci ha più bisogno della presenza del reale a provocarlo. Basta che questo sì pronunziato una volta si conservi in noi; basta che si conservi in noi la disposizione che egli vi ha prodotto, la persuasione voglio dire, che esiste il reale, per l' idea conosciuto come possibile. Ora questa persuasione, questo stato dell' animo , di natura sua si conserva come tutte le altre persuasioni, come tutti gli altri stati e abiti dell' animo nostro. La cognizione dunque dell' esistenza del reale, che non è più presente ai nostri sensi, rientra nelle leggi universali, secondo le quali l' anima conserva più o meno i suoi stati. Egli è chiaro, che l' anima stessa essendo durevole, dura in quello stato in cui si mette fino a tanto che qualche nuova cagione, influendo su di lei, non viene a mutarglielo. Perocchè come ci bisogna una causa a produrlo, così ci bisogna una causa a distruggerlo; nulla mai avvenendo di nuovo senza cagione, pel principio di causa. Vero è che la persuasione acquistata dell' esistenza del reale può venire gradatamente svanendo e scancellandosi al tutto, e questo è il caso appunto della dimenticanza, ed avviene per varie cagioni che non è qui il luogo d' annoverare. Vero è ancora, che la persuasione una volta acquistata dell' esistenza d' un reale è inerente all' animo nostro alla foggia degli abiti, che sono quasi nuove potenze che acquista l' anima, mediante i quali ella può ripetere o ripristinare gli atti fatti altra volta. Ma tutto ciò non fa nascere difficoltà alcuna alla nostra conclusione. Solamente rimarrà a trattarsi a tempo opportuno la teoria generale degli abiti, che ora qui dobbiamo supporre. Così rimane presso che sciolta la difficoltà - Ma dunque, voi mi direte, le immagini dei reali veduti non rimangono elleno nel nostro spirito e non suppliscono alle sensioni che avemmo durante la percezione? Non entrano esse per nulla a costituire la cognizione che ci rimane dei reali, dopo rimossi questi dai nostri sensi? - Sì, anche le immagini che rimangono nel nostro spirito entrano in parte a formare la cognizione nostra de' reali assenti. Ma si deve accuratissimamente distinguere quella parte che ha nella detta cognizione il sì da noi pronunciato, che lascia in noi uno stato di persuasione permanente, e quella parte che nella detta cognizione hanno le immagini in noi superstiti. In qual parte dunque la cognizione dei reali che ci rimane dopo la percezione, dipende dalla prima affermazione, e in qual parte dipende ella dalle immagini? Questa è questione importante, e nuova. Attendete. Supponiamo che dopo aver noi percepito un ente reale, e dopo averne ritenuto lungamente le immagini nella fantasia, queste per lunghezza di tempo venissero illanguidendosi, e poco a poco perisser del tutto. Ne viene forse necessariamente da ciò che non ci rimanga più alcuna cognizione del reale percepito? No, questa conseguenza non è necessaria. Potrebbe essere che ci rimanesse la persuasione fermissima d' aver veduto e percepito in un dato tempo, e in un dato luogo una certa cosa di cui non ci rimane più immagine alcuna, e che non sappiamo nè pur nominare; ma sappiamo sol questo, che in quel luogo e in quel tempo abbiamo veduto una cosa, e possiamo andarci ripensando per rammemorare che fosse, senza venirne tuttavia a capo. Dunque la cognizione del reale non è interamente perita; conosciamo ancora d' aver percepito un ente reale, e ne sappiamo assegnare il tempo e il luogo. Può essere ancora, che della cosa allor percepita ci rimanga qualche cognizione puramente intellettuale, ma senza immagine di sorta; a ragion d' esempio possiamo sapere d' aver veduto e parlato con un uomo che si chiama Gio. Stefani senza che ricordiamo menomamente nè la sua fisonomia, nè la sua statura, nè il suo vestito. Qui non solo ci resta la persuasione dell' esistenza d' un ente; ma di più la persuasione dell' esistenza di un uomo, che non possiamo determinare per via d' immagini, ma per semplice idea, o anche pel nome che porta, che è un puro segno arbitrario e non punto rappresentativo. Di più, si possono ricordare i discorsi tenuti con quest' uomo, altre persone che erano presenti a questi discorsi, altre circostanze partenenti al luogo e al tempo, e tuttavia dell' uomo non si può forse raccapezzare immagine alcuna. Tutti questi esempj provano che anche senza le immagini della cosa percepita, io posso conservare la cognizione della sua sussistenza, perchè dura in me l' effetto di quel sì che ho pronunciato quando l' ho percepito, cioè lo stato di persuasione dell' animo mio. Dunque la cognizione dell' ente reale può durare in me senza bisogno delle immagini. Supponiamo il contrario, supponiamo che mi rimanesse nello spirito vivissima l' immagine di qualche uomo, ma che lo stato di persuasione d' averlo veduto cessasse nell' animo mio; supponiamo che io mi dimenticassi intieramente d' aver mai veduto quella fisonomia che pure mi sta presentissima all' anima: ho io in tal caso conservato la cognizione del reale? No certamente; perocchè quell' uomo di cui io immagino la fisonomia, le fattezze, le vestimenta, non so più dire a me stesso, se sussista veramente, oppure se io veda un puro fantasma. Dunque la cognizione del reale non sono le immagini che abbiano virtù di darla; ma ella propriamente consiste nella conservazione di quello stato dell' animo, pel quale l' uomo è persuaso che l' ente sussista, ne abbia io l' immagine o no. Ma qual' è dunque l' ufficio delle immagini? Quello de' sentimenti in generale. Quale è l' ufficio dei sentimenti? Primieramente è quello di eccitare lo spirito mio all' affermazione del reale, e questo accade pure quando l' immagine è così viva che m' inganna, che io la prendo per una sensione esterna, per una percezion sensitiva. Ma se l' immagine produce talor questo effetto in quanto ha qualche cosa di comune colle sensioni esterne, non è però l' effetto suo proprio, quell' effetto a cui è ordinata da natura. Quale è dunque l' uso della immagine proprio e naturale? Si è quello di farmi conoscere come un certo ente reale opera nel mio sentimento; per l' immagine io conservo la memoria dell' attività dell' essere reale, percepito, su di me; io la conservo questa memoria così fresca come se io avessi presente quell' attività e la sentissi operar su me stesso. Ora conoscere l' attività di un ente reale su di me è conoscere in qualche modo la natura di quell' ente, è conoscere quella natura che a me è conoscibile; poichè io non posso conoscere come sia fatto un ente reale sensibile, se non in quanto egli esercita un' azione nel mio sentimento. Questo è tutto ciò che io posso conoscere del reale come reale. Ora questo modo del reale, questa sua attività relativamente al mio sentimento appartiene ella alla cognizione dell' ideale o del reale propriamente? Badate bene: per rispondere conviene isolare quest' attività del reale su di me dalla persuasione della sua sussistenza. E bene, egli è chiaro in tal caso, che ella appartiene alla cognizione ideale; perocchè io posso saper benissimo che un dato ente p. es. un uomo, è atto a produrmi le tali e tali sensioni, è atto a suscitare in me il tale fantasma, ma so io ancora per ciò solo, che l' ente che ha quest' attitudine, sussista? No, non lo so, se prescindo dall' affermazione. Dunque le immagini degli enti che in me rimangono, valgono bensì a perfezionare in me la cognizione della loro natura, che appartiene all' ideale; ma non sono punto quelle che mi fanno conoscere ancora il reale essere sussistente. Ma dunque non influiscono elle niente affatto sulla mia cognizione del reale? Influiscono, ma indirettamente; influiscono in quanto che quando io affermo che sussiste un reale, la mia cognizione riesce più perfetta quanto più conosco nell' idea la natura di questo reale che affermo, e io conosco tanto più questa natura, quanto più conosco gli effetti che egli è atto a produrre nel mio sentimento, e ciò per mezzo dell' immagine che me ne rimane. Quello che dicevamo delle immagini vale universalmente per tutti gli effetti che un reale può produrre nel mio sentimento, foss' egli anche spirituale, e quindi incapace d' immagini; poichè anche un atto spirituale può agire nel mio sentimento, e così è che conosco in gran parte la natura dell' anima pe' fenomeni ch' ella produce nel sentimento corporeo. Or da tutto questo possiamo ritrar, miei signori, una preziosa conseguenza, ed è la classificazione delle nostre cognizioni in negative e in positive . Negative chiamo quelle cognizioni le quali consistono nella persuasione che un ente reale sussista, senza avere esperimentato ancora quale attività caratteristica e propria di lui solo, egli si abbia d' operare nel nostro sentimento, quali effetti egli valga a produrre tali che determinino la sua natura: questa maniera di cognizione riguarda la sussistenza di quell' ente e le sue relazioni con altri enti a noi noti, ma non racchiude il modo della detta sua attività. Sappiamo che è, non sappiamo come è. Positiva chiamo quella cognizione d' un ente, per la quale conosciamo per esperienza la sua attività propria e caratteristica nel sentimento nostro; sappiamo quali mutazioni egli vi può produrre lasciandovi un effetto che non può venir da altri che da lui: di quest' ente sappiamo come è, sia poi che noi sappiamo anche che è, ossia che non lo sappiamo. Ma parrà forse a voi strano, che io riduca la cognizione positiva che aver noi possiamo della natura di un ente, a quella attività che egli può esercitare in quella maniera che dicevo, nel nostro sentimento. - Avete ragione, o signori, e però io mi propongo d' entrare in questo argomento nella prossima lezione. Noi abbiam detto, che tutto ciò che noi conosciamo di positivo nelle cose è quel tanto di loro che cade nel nostro sentimento. A molti tutto ciò sembra poco, sembra loro che noi rendiamo strema e misera la cognizione umana. Ma ad altri forse ne parrà il contrario, e saranno presti a dirci: « come dite voi di conoscere ciò che cade nel sentimento vostro? Che cosa di più oscuro della sensazione? Qual mistero più grande di quello del sentimento? Chi l' ha mai definito? O chi il può definire? Chi può conoscerne le leggi e trovare qualche unico principio, a cui tutte s' annodino? E se non si può trovare un principio a cui ridurre le leggi tutte del sentimento, come possiamo averne piena cognizione, quand' egli ci si presenta come fenomeni distaccati nuotanti nell' infinito mare dell' essere, e che ci scappan di mano quando vogliamo prenderli, come le bolle di sapone? » - Ora perchè, miei signori, tanta divergenza d' opinioni sui limiti del saper umano? Certo che a quelli a cui piacesse giocare d' ingegno anzi che seriamente filosofare, come è pur debito d' ogni amatore del vero, non riuscirebbe guari difficile sciorinare speciose ragioni di eloquenti o piuttosto loquaci periodi vestite, a sostenere l' una e l' altra tesi pro o contra al nostro assunto, dimostrando prima che è un restringere soverchiamente l' umana scienza dandole per limite il sentimento, e poscia dimostrando pure, che questo stesso è un allargarla soverchio. Ma noi non vogliamo nè dobbiamo, o signori, perdere il nostro tempo a sfoggiare ingegno cavilloso e sofistico; ma dee esser nostro ufficio e professione costante cercare modestamente il vero; togliere gli equivoci del favellare, definendo accuratamente il valore delle parole e lo stato delle questioni, e seguire quel metodo rigoroso che tronca l' ali all' immaginazione per tener dietro fedelmente ai passi della natura. Occupiamoci adunque a chiarire la nostra proposizione, a impedire che se ne perverta il senso e se ne muti il valore, trasportando il discorso dalla prima tesi in un' altra; e ciò fatto riuscirà evidente la dottrina che raccogliemmo dalla precedente lezione, cioè l' uomo non conoscere niente di positivo se non quello che cade nel sentimento. Diciamo noi forse con ciò, che l' uomo non conosce altro se non quello che cade nel suo sentimento? No, noi non diciamo questo: s' attenda bene a quella restrizione che poniamo alla proposizione « non conosce altro di positivo ». E` mestieri dunque cercare che cosa voglia dire « il positivo della cognizione ». E la questione non è già di parole. Che se invece del vocabolo positivo, si volesse adoperare qualunque altro vocabolo o frase, noi non faremmo alcun contrasto, purchè si ritenga il concetto che noi vogliamo esprimere. Questo concetto sta in natura, e l' ufficio della filosofia è di vedere come sono le cose nella natura. Concentriamo dunque il discorso. La cosa che noi intendiamo di rilevare è il fatto della cognizione umana: trattasi di distinguere varie specie di questa cognizione, e fissarle mediante un nome: una di queste specie si è quella che noi distinguiamo col nome di cognizione positiva: la questione dunque si riduce a verificare questo fatto: « se tra le specie delle cognizioni umane ci ha quella che noi chiamiamo positiva; e se questa specie si estenda fuori del sentimento ». Cominciamo dall' enumerare le diverse specie di cognizioni. Di noi, è certo che noi abbiamo il sentimento fondamentale di noi stessi e della nostra animalità. Se noi non pensiamo punto a questo sentimento, esso mancando della forma di cognizione non è cognizione: conviene che sia pensato per divenir tale: pensato che sia da noi immediatamente, noi abbiamo quella cognizione del nostro sentimento che si chiama cognizione percettiva . Questa cognizione percettiva ci fa conoscere un ente particolare cioè noi stessi, in quanto siamo esseri intellettivi7senzienti, ossia razionali . Quando pensiamo così noi stessi, l' oggetto del nostro conoscere è un ente del tutto determinato. Noi abbiamo appreso con ciò quanto vi ha di sostanziale e quanto vi ha di accidentale in quest' ente all' atto della percezione, senza però che ancora distinguiamo l' accidente e la sostanza; poichè la percezione apprende l' ente reale qual è tutto intero senza fare in esso distinzione alcuna: le distinzioni sono l' opera della riflessione che viene appresso. Se il nostro sentimento fondamentale si modifica, essendo egli essenzialmente sentimento, sentiamo di consequente queste sue modificazioni. Ma fino che si suppone che noi sentiamo solamente queste modificazioni senza più, non s' è accresciuta la nostra cognizione, chè il sentimento non è cognizione. Acciocchè diventi tale, noi dicevamo, conviene applicarvi il pensiero. Se dunque noi pensiamo le modificazioni del nostro proprio sentimento, abbiamo una nuova cognizione, di natura non diversa dalla precedente: è la percezione stessa del sentimento fondamentale che si è modificata: ma è ancora percezione del soggetto con altri accidenti. Ma bene spesso il sentimento nostro si modifica soffrendo violenza, cioè sperimenta una forza diversa da noi, che s' applica a noi, e che muta la condizione del nostro sentire. Se una forza agisce nel sentimento nostro e lo immuta: dunque, può essere in noi una forza, un' attività diversa da noi; giacchè « ab esse ad posse datur consecutio ». Non conviene immaginar la natura, non conviene qui dire: « non può essere che in un soggetto esista qualche forza diversa da quella del soggetto stesso »non convien dirsi questo per la semplicissima ragione che la cosa è appunto così. Può dunque entrare e per molto o per poco tempo inesistere un principio agente in un altro principio senza che tuttavia s' immedesimi con esso; una sostanza può stare in un' altra sostanza: egli è questo il fatto. Si dà dunque l' azione sostanziale tra le cose; poichè l' agente è sostanza. Se dunque nel nostro sentimento cade una sostanza straniera, il sentimento dee sentirla, sperimentandone l' azione, essendo il sentire l' essenza del sentimento. Così noi percepiamo delle sostanze distinte dal soggetto noi, che perciò chiamiamo estrasoggettive. Ed eccovi qui trovato, miei signori, il celebre ponte di comunicazione tra noi e il mondo esteriore, che si diceva irreperibile, e si osava anche dire impossibile, per quella certa incredulità filosofica, che legata alle cose più comuni, chiude gli occhi alle più evidenti su cui non c' è costume di riflettere. Si dà dunque la percezione del mondo esteriore. Questa noi chiameremo percezione dell' estrasoggettivo . La percezione dell' estrasoggettivo è anch' essa pienamente determinata siccome quella del soggetto. Intuizione dunque dell' essere, percezione del soggettivo e percezione dell' estrasoggettivo sono le tre prime specie di cognizione umana. Il carattere dell' essere intuito è la piena indeterminazione; il carattere dell' essere percepito, sia soggetto o estrasoggetto, è la piena determinazione. A queste sopravviene la riflessione: l' uomo ripiega il suo pensiero tanto su ciò che ha intuito, quanto su ciò che ha percepito, come anche sulle stesse operazioni dell' intuire e del percepire: mediante questo ripiegamento del suo pensiero, egli abbraccia più cose insieme, confronta l' una coll' altra, ne trova le differenze, distingue il proprio dal comune, la sostanza dall' accidente; analizza e sintesizza; applica l' universale al particolare, e così classifica, giudica, vede che cosa manca all' ente percepito, che cosa dee avere per esser perfetto; e in somma produce in mille maniere a se stesso altre cognizioni senza limite, e lo scibile umano non trova più confini. Ma fissiamo bene, o signori, qual sia la materia della riflessione madre di tante notizie. La materia della riflessione sono le cognizioni precedenti, poichè l' uomo non può riflettere se non su ciò che prima conosce. Ora quali sono le cognizioni precedenti alla riflessione, e che diventano sua materia? Saranno forse cognizioni acquistate colla riflessione medesima? In tal caso esse non precederebbero del tutto la riflessione. Convien dunque arrivare a quelle cognizioni prime che non si sono acquistate per riflessione. E queste sono quelle appunto che abbiamo indicate, l' intuizione e la percezione. Badate bene, queste prime specie di cognizioni, queste sole danno in fine la sua materia alla riflessione umana: la riflessione umana non può agire immediatamente che su di esse. Infatti è egli possibile trovare una quarta specie di cognizioni che non venga dalla riflessione, e che non reincida nelle tre annoverate? Io sfido chicchessia a indicarcela. Nissun filosofo l' ha mai indicata, e nessuno la indicherà mai. La riflessione umana dunque ha una materia limitata, fuori della quale non può andare in modo alcuno. Sia pure che la riflessione, colla sua mirabil potenza, cavi infinite cose da quella materia che le è data; sia pure che ella sappia farci sopra infiniti ragionamenti, fabbricandosi sistemi maravigliosi di vario sapere: ma infine la materia prima di lei è sempre quella stessa; si riduce sempre a intuizione dell' essere, a percezione soggettiva, a percezione estrasoggettiva. Per quanto si faccia, questa materia non si può moltiplicare nè estendere. Tali sono i confini prescritti dal Creatore alla umana ragione, « usque huc venies »: niun uomo può valicarli fin che non cessa di esser uomo e non diviene qualche cosa di più. Lo stesso Aristotele, miei signori, che avea data la sua principale attenzione alla cognizione riflessa, siccome quella di cui si fa maggior uso, e su cui cade l' insegnamento dottrinale, ebbe pronunciato; che [...OMISSIS...] cioè « « ogni cognizione viene da una cognizione precedente »(1) », e ritorna più volte su questa sentenza (2). Anche egli dunque riconosce che il dominio della riflessione è limitato ad una cognizione anteriore ad essa, cioè ai dati della esperienza. Se dunque la riflessione non dà a se stessa la materia delle sue cognizioni; s' ella non crea nulla, ma solo deduce; tutto lo scibile che la riflessione feconda e svolge nell' umana mente, deve esistere in germe in quella prima materia che a lei precede e che le viene dalla natura somministrata; la qual materia è intuitiva, come dicevamo e percettiva, l' una senza determinazioni, l' altra appieno determinata: si supponga dunque che alla riflessione non sia dato per materia altro che l' essere indeterminato, oggetto dell' intuizione: qual ente potrebb' ella conoscere? Niuno in particolare. E` dunque necessario, che la riflessione prenda le prime determinazioni degli enti conosciuti per via di percezione. Sia pure che in appresso, dalle prime determinazioni, ella ne deduca altre ed altre; queste dedotte si riducono sempre alle prime, dalle quali partono tutti i suoi ragionamenti. Ora io chiamo appunto cognizione positiva « quella che riguarda le prime determinazioni degli enti ». Non è dunque chiaro, che la cognizione positiva non si può cercare altrove che nelle percezioni? Ma a che mai si riducono le percezioni? Noi l' abbiamo veduto, l' oggetto di esse non è che il nostro sentimento, o ciò che cade nel sentimento. Dunque tutto ciò che noi sappiamo di positivo si riduce finalmente a ciò che si comprende nel nostro medesimo sentimento. La riflessione lo lavora certo a suo modo, gli fa subire varie modificazioni, gli fa prendere forme sì nuove, lo associa sì fattamente e lo mescola coll' essere ideale, che riesce poi difficile a riconoscerlo per quell' umile elemento che ci era stato dato prima nella semplice percezione. Ma il riconoscerlo ancora per quello è l' opera della mente filosofica; alla Filosofia s' appartiene prendere in mano i prodotti più elaborati dalla riflessione e svestendoli successivamente di tutte le forme dalla riflessione ricevute, restituirli alla prima loro nudità, prenderli dove son giunti e far loro fare il camino contrario, rimettendoli al loro luogo nativo, ond' hanno lungamente peregrinato; abolire insomma per virtù d' astrazione, l' una dopo l' altra, tutte le operazioni riflesse e riaverli quali erano nel primo loro stato, nell' originaria loro condizione d' elementi percepiti. La cognizione positiva dunque è quella che si contiene ultimamente nella percezione, e quindi nel sentimento. Ma qui è da por mente. Noi abbiamo detto, che la percezione si fa per mezzo d' una affermazione; giacchè infatti l' affermazione è l' ultimo grado della percezione, il suo compimento. Ma l' affermazione non appartiene alla cognizione oggettiva: non è (noi abbiam veduto anche questo) che uno stato del soggetto relativamente alla cognizione degli enti; è l' atto con cui il soggetto intelligente si rende persuaso della loro realtà; ma quanto alla cognizione delle realità, ella è per l' idea che s' acquista nel modo che abbiamo già dichiarato. Togliamo dunque via dalla percezione l' atto dell' affermare. Ciò che ci rimarrà sarà tutto oggettivo, tutto cognizione, ed ecco la cognizion positiva depurata da ogni altro elemento. Ma ora perchè dunque, miei signori, alcuni di quelli che passano per filosofi non si contentano dell' ampiezza di questa sfera che noi assegnamo alla « cognizione positiva »? L' ho già detto e lo dirò francamente: perchè non intendono che cosa voglia significare « cognizione positiva » perchè non se ne sono formato chiaramente il concetto. Cognizion positiva, secondo l' etimologia, è quanto dire « cognizione di posizione ». Come si dice legge positiva quella che viene posta dal legislatore e non è data dalla natura stessa ragionevole, e però non si può avere a priori; così non senza proprietà, noi diciamo cognizione positiva a quella, che si sopraggiunge alla naturale che è l' intuizione dell' essere. E ciò che veramente si sopraggiunge all' intuizione dell' essere sono i sentimenti che determinano variamente l' essere stesso, e che non sono necessarj, nell' ente finito, perchè lo stesso ente finito non è necessario, ma contingente. Le innumerevoli conseguenze che la riflessione, ripiegandosi sull' essere ideale e sui sentimenti, ne cava sono pur contenute virtualmente ne' due primitivi loro germi: somministrando l' essere ideale alla ragione tutta la cognizione ideale di deduzione e il sentimento somministrandole tutta la cognizione positiva di deduzione: sicchè la cognizione riflessa si può dividere comodamente in tre specie, ideale, positiva e mista , secondo che ella si riduce come al primo suo fonte all' essere intuito, o al sentimento percepito, o all' unione dell' uno e dell' altro. E qui apparisce quale risposta noi facciamo a quelli, a cui sembra, che noi limitiamo la cognizione positiva entro troppo angusti confini. Ma non sono questi i soli nostri avversarj. Ve n' hanno di quelli che ci rimbrottano dell' eccesso contrario: secondo essi il sentimento è un mistero, che ne involge molti altri: non si può dunque dire che sia dall' uomo conosciuto. Che diremo noi a cotestoro? Non altro, miei signori, se non che essi mutano lo stato della questione. Poichè noi non avevamo mica tolto ad investigare in qual grado conosce l' uomo ciò che conosce; ma semplicemente a determinare quali sieno le sue cognizioni. Noi volevamo rilevare un fatto, non penetrare la natura di questo fatto: il fatto che volevamo cogliere e fermare si era, quali sieno le specie delle cognizioni umane. Che queste cognizioni di cui l' uomo viene in possesso con le sue facoltà sieno imperfette, o no; quanta sia la loro imperfezione, qual grado d' oscurità e qual grado di luce in esse si contenga; queste sono questioni affatto diverse, riguardanti l' intiera natura della cognizione umana, e non la semplice esistenza di essa. Or bene, o conviene che si nieghi all' uomo ogni cognizione, o conviene ammettere quelle diverse specie di cognizioni, che noi abbiamo descritte. E che l' uomo ignori molte cose circa la natura del sentimento, niun filosofo sarà lento a negarlo; ma si potrà egli a buon dritto conchiudere, che l' uomo non ha alcuna cognizione affatto del sentimento? Se lo percepisce, se lo afferma, se ne ragiona: dunque, in qualche modo, lo conosce: sia pure che lo conosca poco; ma lo conosce, e questo è il tutto per noi. E anche intorno a questo noi siamo novamente d' accordo col senso comune; il quale come dice del cieco che non conosce i colori, così dice parimenti che chi ha l' uso degli occhi ben li conosce e assai ben crede di sapere che sia bianco, o rosso, o giallo, o un altro colore qualsiasi. Quelli dunque che ci dicono, che noi non conosciamo il sentimento, perchè non possiamo rispondere alle domande che essi ci fanno intorno alla natura del medesimo, non provano con questo che noi nol conosciamo, ma tutt' al più proveranno forse, che noi non ne abbiamo quella cognizione che essi pretendono, non una cognizione qualsiasi. Qual è l' ufficio del linguaggio, miei signori? Certo quello di segnare co' suoni vocali le nostre cognizioni, affine di comunicarle altrui, e anche di fissarle alla nostra propria attenzione. Dunque il linguaggio è il testimonio irrefragabile delle nostre cognizioni, perchè n' è l' espressione. Tutto ciò dunque, a cui noi abbiamo imposto un nome, lo conosciamo in qualche modo, in qualche grado; il che non vuol già dire tuttavia, che in tutti i modi e in tutti i gradi: è questo il modo di conoscere proprio di Dio solo. E sarebbe un darla vinta agli scettici, dire il contrario: sarebbe di più opporsi all' umanità intiera. Non riuscirebbe forse inutile il linguaggio se nulla significasse? A che mai favellare coi nostri simili, se favellando non comunicassimo loro nessuna cognizione? Chi tutto ignora non parla: egli è il caso degli animali senza ragione. Ma quali sono le notizie che noi comunichiamo altrui col linguaggio? Certamente quelle che noi abbiamo. Che cosa dunque significano i vocaboli? Quali cose esprimono? Forse gli enti, in quella parte nella quale restano a noi pienamente incogniti? Sarebbe assurdo il dirlo. Dunque esprimono « gli enti quali da noi si conoscono ». Da questa osservazione possiamo dedurre una nuova maniera di confutare coloro, che estenuano soverchiamente la cognizione umana. V' hanno di quelli, voi lo sapete, che negano all' uomo la cognizione dell' essenze. Intendiamoci: che cosa vuol dire essenza? Troppi prendono questa parola per un sinonimo di sostanza, è un equivoco antico, che la parola greca «usia» significa appunto l' una e l' altra. Conviene finalmente risolversi a separare intieramente e per sempre il significato della parola essenza dal significato della parola sostanza . Consultiamo su di ciò l' uso comune, che è la sola autorità legittima in questa parte. Si dice: l' essenza del colore, sì bene come l' essenza del corpo, l' essenza dell' estensione, del peso, del pensiero, della sensazione, sì bene come l' essenza dell' anima: e pure il colore, l' estensione, il peso, il pensiero, la sensazione, non sono sostanze, ma meri accidenti. Convien dunque ritornare alla distinzione che facevano gli scolastici in essenze sostanziali , e in essenze accidentali . Ogni cosa ha la sua essenza; se consultiamo l' origine della parola essenza viene da essere; e vuol dunque dire l' essere, l' entità della cosa, ciò che fa che la cosa sia quello che è, sia poi la cosa un accidente o una sostanza. Ma oltracciò l' essere della cosa significato dalla parola essenza non può dir altro che l' essere conoscibile, perchè nissun ente in quella parte che è del tutto sconosciuto all' uomo, non è da lui nominato, come dicevamo innanzi, nè pensato, giacchè se fosse pensato, sarebbe da qualche lato almeno conosciuto, l' effetto del pensiero essendo la conoscenza. Ora l' entità conosciuta dov' è che la conosciamo noi, ossia qual è il mezzo che abbiamo di conoscere gli enti? Questo mezzo è l' idea: nell' idea la cosa è conosciuta. Non andremo dunque lungi dal vero, se noi diffiniremo l' essenza in un modo generale dicendola « ciò che s' intuisce nell' idea ». Or bene, non vediamo, signori miei, da questo solo, che è impossibile mettere in dubbio la cognizione dell' essenze? E che se fu messa in dubbio, ciò non prova altro, se non che quelli che ne dubitarono, applicavano alla parola essenza un significato totalmente diverso dal suo proprio? Poichè se si fossero dati prima di tutto la cura di dichiarare a se stessi ben bene il valore della parola essenza , consultandone l' uso comune, avrebbero facilmente veduto, che l' essenza di una cosa non è altro se non « ciò che si pensa nell' idea di una cosa »e che perciò l' essenze sono conosciute per la stessa loro definizione. Invece dunque di dire, che l' essenze non si riconoscono, doveasi anzi dire, che l' uomo oggettivamente non conosce altro che essenze, e che un complesso di mere essenze intuite dallo spirito è tutto ciò che forma lo scibile umano. Nel linguaggio che è il deposito delle cognizioni umane noi troviamo continuamente significate le essenze. Le parole uomo, animale, pianta, pietra, pane ec. che altro significano che l' essenze conosciute di tutte queste cose? Infatti, se quando dico uomo non intendessi nominare l' essenza dell' uomo; o quando dico animale non intendessi dire l' essenza dell' animale, io non direi nulla; poichè tolta via l' essenza dell' uomo non resta più l' uomo, tolta via l' essenza dell' animale non resta più l' animale; dunque non esprimerei più nè l' uno nè l' altro, come nulla vuole e nulla intende esprimere il pappagallo, che proferisce meccanicamente questi due suoni: uomo e animale. E perchè il pappagallo mandando fuori questi due suoni, non vuole nè intende esprimer l' uomo e l' animale? Perchè non può volerlo; e non può volerlo, perchè non conosce l' essenza dell' uomo e dell' animale, e non conoscendola non la può esprimere. Quanti dunque sono i nomi comuni nell' umano linguaggio, altrettante essenze l' uomo con essi significa, e quante ne significa, altrettante egli ne conosce; niuno potendo esprimere ciò che del tutto e in nessun modo conosce. Dunque il negare la cognizione delle essenze è lo stesso che negare il linguaggio, o anzi renderlo impossibile. Sia pur vero dunque, sia pur da noi pienamente conceduto che l' uomo non conosce gli enti perfettamente; che questi racchiudono dei misteri, che intorno ad essi si posson fare molte questioni difficili ed anche insolubili. Ma riman sempre una grande distanza, o signori, tra queste due cose, che un ente si riveli a noi tutto, sicchè niente più racchiuda per noi d' incognito; e che egli non manifesti a noi di se stesso niente affatto; poichè quelli che negano la cognizione dell' essenze, debbono cadere in questo estremo, d' affermare cioè che l' uomo non conosca niente affatto degli enti; chè se egli ne conosce solo un tantino, basta, non gli può mancare qualche idea di essi, e però può intuire qualche loro essenza; essendo questa tutto quel molto o quel poco che si pensa nell' idea dell' ente come abbiam detto. Ma la cognizione delle essenze appartiene ella alla cognizione positiva, o all' ideale, o alla negativa? La risposta è facile dopo le cose dette. L' essenza è ciò che si conosce nell' idea. Ma le idee parte sono positive, e parte negative. Dunque tali sono anche l' essenze. Qualora si tratti d' essenza di cosa da noi sensibilmente percepita, l' essenza è positiva; qualora si tratti di cosa che non cadde nel nostro sentimento, come sarebbe l' angelo, l' essenza conosciuta da noi è negativa. Ma non si fraintenda ciò che diciamo: quando parliamo di essenze negative, non vogliamo mica dire, che l' essenza di qualche ente in se stessa sia negativa: non si parla da noi, se non dell' essenza conosciuta: si vuol dunque dire, che è negativa in tal caso la cognizione nostra. Quali saranno dunque quell' essenze che noi chiamiamo negative? Voi stessi ora me lo sapete dire: tutte quelle, che non somministrano al nostro pensiero niente di ciò che abbiamo sperimentato nel sentimento. Sono dunque negative primieramente le essenze dell' entità prettamente mentali, cioè fabbricate dalla nostra mente, come sarebbe il nulla. Il nulla non è nè può essere un ente reale, poichè anzi è l' esclusione di ogni entità; e tuttavia anche il nulla ha per noi la sua propria essenza. Tant' è vero, che noi distinguiamo il nulla da tutti gli enti, ed i matematici ragionano a lungo del nulla e vi fanno sopra dei calcoli meravigliosi (1). Che cosa è dunque il nulla? E` l' esclusione del qualche cosa: è una relazione dell' ente contingente con se stesso, il quale potendo essere e non essere, quando si concepisce non essente, allora si dice nulla. Se il nulla si diffinisce; dunque ha la sua essenza: se il nulla è il termine di una relazione, e perciò ha certe proprietà; dunque ha la sua essenza: ma non l' ha già fuori della mente, appunto perchè è la negazione di ogni essenza; ma l' ha nella mente che nega l' essenza, e questo negare l' essenza è un atto che si concepisce, di cui ci formiamo un' idea, che esprimiamo in parole: ha dunque un' essenza mentale negativa, esprimendo quel momento dell' animo in cui resta privo dell' ente e s' accorge della sua privazione, e la pronuncia. Tutti gli altri esseri mentali, cioè formati dalla mente, hanno più o meno del negativo: tutti gli astratti hanno parte di negativo, perchè nell' astratto è tolto via o parte o tutto ciò, che ci dà il sentimento. Quegli astratti che sono mere relazioni, presentano idee più negative che non sieno gli astratti che sono generi di sostanza o di qualità o di quantità; e gli astratti che sono generi, presentano più del negativo che gli astratti specie . Diamo un esempio di tutte e tre queste maniere di idee negative. Che cosa penso io nell' idea dell' Autore dell' universo? Nient' altro che la relazione di causa fra un ente che non cade sotto i miei sensi e il mondo. In questo concetto io penso un ente; ma poichè io non l' ho menomamente percepito col sentimento, egli è per me un ente che non so come sia fatto. Or se io non sapessi niente affatto di lui, nol potrei distinguere dagli altri enti, nè determinarlo per conseguente a me stesso in modo veruno; in tal caso non penserei un ente determinato, ma l' essere in genere e indeterminato. Ho dunque bisogno d' una relazione che me lo determini: una relazione, dico, con cosa che mi è conosciuta positivamente. La cosa che così conosco è il mondo, il quale cade nel mio sentimento, e la relazione è quella di causa. Le relazioni dunque con ciò che io conosco positivamente, mi fanno conoscere degli esseri che io non conosco positivamente: ho dunque di essi una cognizione negativa. Le relazioni dunque di esseri che non influiscono nel mio sentimento, colle cose che vi influiscono, sono un fonte d' idee negative. Veniamo ai generi . Se io sapessi, che in un parco di fiere si mostra un animale peregrino; ma ignorassi qual fosse, io avrei di quell' animale una cognizione negativa in gran parte, ma non però in tutto; poichè io saprei almeno che egli è un animale, e l' idea generica dell' animale io l' ho cavata dal mio sentimento, giacchè so che cosa è animale, perchè ho il sentimento di me stesso, e perchè sono caduti sotto i miei sensi altri animali. Nella cognizione generica adunque vi ha del negativo; ma ella non è tutta negativa, perchè ritiene un elemento somministratomi dal sentimento. Le idee generiche dunque sono fonti di cognizione in parte negativa; ma meno però negativa di quell' idee che mi sono somministrate da semplici relazioni. Voi ora intendete, miei signori, che con un somigliante discorso si può dimostrare che l' idee astratte di specie contengono anch' esse del negativo; ma ancor meno dell' idee generiche. Così se io sapessi, trovarsi un uomo in un dato luogo, e nulla di più; io ignorerei a dir vero s' egli è uomo bianco o di colore, e tutte l' altre particolarità; ma pure saprei che quell' essere a cui penso non solo appartiene al genere degli animali, ma altresì alla specie degli animali ragionevoli, e tanto l' animalità quanto la ragione sono due cose che io conosco positivamente pel mio proprio sentimento. Nell' idea astratta di specie giace dunque più di cognizione positiva che non nel genere, e tuttavia ella ritiene ancora non poco di negativo; poichè io non penso con essa molte qualità accidentali dell' ente, che cadono nel sentimento. Quale adunque sarà l' idea interamente positiva? diciamolo di nuovo, quella che si cava immediatamente dalla percezione, universalizzandola, cioè togliendo da essa unicamente la sussistenza, e lasciando l' ente vestito di tutti i suoi accidenti e qualità sensibili. Così se io penso all' immagine d' un fiore, d' un cavallo, d' un uomo, tale appunto quale l' ho veduto altra volta, e lo considero come tipo universale che può essere realizzato in un numero infinito di individui, fiori, cavalli, uomini, perfettamente uguali, allora io penso un ente con un' idea al tutto positiva, che noi per distinguerla da ogni altra denominammo idea piena. Questa è l' idea più comprensiva, che noi possiamo avere della cosa, e tuttavia anche questa maniera di conoscere è limitata; ma questa limitazione nasce dalla limitazione dell' uomo stesso, e non da un qualche modo particolare con cui l' uomo conosce, il quale sia più imperfetto degli altri. Qual' è dunque, miei signori, questa limitazione necessaria della cognizione umana? Questo è quello che ci proponiamo di ricercare nella seguente lezione. Il sentimento e l' idea sono i due elementi delle cognizioni umane. Il sentimento presta alle cognizioni umane tutto ciò ch' elle hanno di positivo; l' idea somministra loro tutto ciò ch' elle hanno d' indeterminato e di negativo. Conviene riconoscere, miei signori, entrambi questi due elementi, e a ciascuno di essi fare la loro giusta parte nello scibile umano. Conviene riconoscerli, dicevo, e a ciascuno di essi non dare nè più nè meno di quello che si abbiano in fatto: ecco ciò che dee fare l' Ideologo; ma lo hanno sempre fatto, miei signori, gl' Ideologi? Noi non vorremmo certo metterli tutti egualmente in un fascio; ma non ci pare poter essere accusati con ragione di temerità, se aprendo i loro libri leggeremo ciò che dentro ci sta scritto. Ebbene, noi troviamo un gran numero d' Ideologi che riconoscono bene o male il sentimento; ma poi vi negano l' idea, ve la negano in fatto, benchè ne ritengano la parola, giacchè con questa parola d' idea non intendono significare che il sentimento. Voi v' accorgete che questi sono i sensisti. Noi troveremo dopo di ciò molti altri Ideologi, i quali riconoscono ed ammetton l' idea; anche questi non è che sbandiscano la parola sentimento, perocchè le parole date loro dal popolo non possono ricusarle e servono appunto a smentire i loro sistemi arbitrarj, accorcianti l' umano sapere: ritengono dunque la parola sentimento, come dicevo; ma poscia ve lo trasportano nell' ordine intellettivo, lo trasmutano in idea: questi sono i veri idealisti. Perchè errano gli uni e gli altri? Perchè limitano arbitrariamente la cognizione umana; perchè usano di una osservazione imperfetta, pongono la loro attenzione esclusivamente ad uno dei due elementi, e non ad entrambi. La perfezione della Filosofia, e in ispecie dell' Ideologia, vuol dunque che si osservi tutto intero il fatto della cognizione, e che si ammetta l' uno e l' altro elemento de' due ond' ella risulta. Ma questa non è che la prima funzione del filosofo: gli resta a compire la seconda, cioè a determinare quanto influisca ciascuno de' due elementi nell' umana cognizione. Noi abbiamo difeso l' uno e l' altro elemento, il positivo e il negativo, il reale e l' ideale; n' abbiamo veduto la connessione, abbiamo confutati quelli che negano all' uomo la cognizione delle essenze: abbiamo in particolare veduto, che la mente concepisce le essenze in un modo positivo quando il sentimento vi depone il suo elemento, e in un modo negativo quando manca l' elemento del sentimento. Abbiamo risposto a quelli che pretendono niente conoscer noi delle cose sentite, perchè veniam meno in rispondere a molte questioni sulla natura di esse: abbiamo sostenuto, che se non conosciamo il sentimento in modo al tutto perfetto, lo conosciamo tuttavia in qualche grado: in qualche grado, dicevo, e perciò accordammo agli avversarj, che le nostre cognizioni positive sono limitate. Conviene dunque ora, che ci spieghiamo maggiormente su questa limitazione della cognizione umana, e sarà ciò che prenderemo a fare in questa lezione. Sì, il sentimento somministra tutto ciò che v' ha di positivo nello scibile umano. Ma nello stesso tempo, e perciò appunto, esso è la causa della limitazione della mente umana. Egli è singolare, miei signori, a vedere come lo scibile che il Creatore largì al genere umano, presenti due aspetti che sembrano contradittorj. Da una parte egli pare infinito: e chi di noi non ha udito le eloquenti amplificazioni della grandezza dello spirito umano, di cui sono pieni i libri dei filosofi e degli oratori? Chi di noi non si è più volte stupito seco medesimo ripensando quante mirabili discipline ed estesissime scienze abbia partorite l' umana mente? Quante nobili invenzioni non ha ella prodotte? Quante arti ed industrie, o inservienti agli agi o alle necessità della vita, non abbiamo noi ricevute in retaggio dai secoli precedenti? E chi può metter un confine all' umano progresso? Chi può essere o sì audace o sì stolto da proibire ai presenti od ai posteri d' aggiungere altre ed altre cognizioni, altre ed altre invenzioni al patrimonio degli avi, o così temerario da predire che a tal tempo, a tal secolo, l' umana mente avrà esaurita la sua prodigiosa fecondità? Chi anzi non dovrà considerare per una assai piccola cosa tutto quello che ha l' uomo imparato fin qui e colle sue speculazioni inventato, a paragone di quello che a sapere e a trovare gli rimane; e di quello che troveranno indubitatamente i nostri posteri, progredienti per la via de' lumi con un corso sempre accelerato, senza confine? Sì, l' umano sapere è inesauribile, e non può trovarsi un termine alla sua attività. Ma, miei signori, rovesciamo la medaglia. Non ci sarà egli ugualmente facile il considerare il sapere dell' uomo sotto l' aspetto opposto? Non potrò interrogarvi di bel nuovo così: chi di voi non ha letto in mille libri, chi non ha udito dalla bocca de' maggiori sapienti deplorare la profonda ignoranza dell' essere umano? Chi tra quanti hanno un poco ripensato seriamente sopra se stessi, non ha dovuto confessare di trovarsi immerso in un mare profondo di tenebre? Qual savio dubitò mai per un solo momento, che la mole delle cose che l' uomo ignora, e che ignorerà mai sempre, non sia infinitamente maggiore delle cose che egli sa, o anche che saprà? In qual pelago d' errori non ha navigato e naufragato sempre, e naviga e naufraga ogni dì lo spirito umano? Come vacilla l' umana mente ne' suoi passi? Quante incertezze e quanti dubbj non la sorprendono anche solo se s' addentra a scrutinare le cose più ovvie e più comuni? Chi ha filosofato, e non è giunto a dubitare qualche volta della propria esistenza o a capire almeno come se ne possa dubitare? Quale spettacolo a vedere, che quando la civiltà ed il sapere delle nazioni è arrivato al suo apice s' invecchia, quasi fosse corruttibile, e viene un' epoca, in cui un gran numero d' uomini, sebben dotati di perspicacissime menti, si perdono nel cimento della ricerca del vero, e avviliti e scorati si gettano nel desolante scetticismo, seppellendo in questo baratro tutta quanta la scienza umana, e sforzandosi di spegnere in sè stessi quel lume della ragione da cui non seppero cavar altro che angosciose esitazioni? E quegli che non si danno già perduti e vinti dalle difficoltà, sentono nondimeno anch' essi il bisogno di compatire e di compiangere l' aberrazione de' precedenti, troppo sperimentando essi stessi quanto è breve e fallace l' umano intelletto, e quanto tutte le cose intorno a cui s' affatica, sieno piene di misteri? E che direm dunque? Forse che è nullo l' umano sapere, e che è un' illusione, un mero inganno? Così è, miei signori; lo scibile umano presenta due faccie, come vi dicevo; da una ci si mostra infinito, dall' altra ci apparisce assai finito. Dove dunque sta il vero? A quale ci atterremo noi di queste due proposizioni: « il sapere dell' uomo è infinito, il sapere dell' uomo è finito »? Ad entrambe, miei signori. Sì, noi non ricusiamo mai di accettare tutto ciò che ci dice il senso comune, e questa volta pare che egli ci dica due proposizioni contradittorie. Ma non manchiamogli di fede, perchè se esamineremo la cosa a fondo troveremo che la contradizione è solo apparente. Noi crediamo, che non possa esser verace e soddisfacente quella Filosofia, che non sa spiegare le contradizioni apparenti del senso comune, che è costretta a ricusarne qualcuna. Noi dunque ammettiamo, che l' umano sapere non abbia confini; ed ammettiamo pure, che l' umano sapere ne abbia di angustissimi. Infatti la contradizione svanisce, se si considera, che è rispetto a due differenti generi di cognizione che sono vere entrambe quelle proposizioni; dico rispetto al genere della cognizione ideale negativa, e rispetto al genere della cognizione positiva. Rammentiamoci quali sono i principj di queste due maniere di cognizioni: l' idea è il principio della cognizione ideale negativa, il sentimento è il principio della cognizione positiva. Or bene, l' idea è infinita, perchè l' essere che nell' idea s' intuisce non ha limite alcuno: il sentimento è finito, perchè il sentimento non è che la nostra propria realità e le sue modificazioni o ciò che si commisura col nostro sentimento; e noi come esseri reali siamo limitati, limitatissimi. V' ha dunque in noi un fonte di cognizione infinita e questa è l' idea, ed un fonte di cognizione finita e questo è il sentimento: idea e sentimento, sono i principj di tutte le cognizioni umane: queste si mescolano in mille maniere e si fecondano ritenendo la natura de' principj da cui derivano: lo scibile umano dunque è un miscuglio d' infinito e di finito, ed egli deve presentare necessariamente le due faccie che dicevamo riconosciute dal senso comune degli uomini. Ed egli è qui, miei signori, che ci tornerà facile a spiegare come v' abbiano dei filosofi i quali sostengano, che noi non conosciamo punto nè poco le essenze delle cose, e v' abbiano degli altri, tra i quali Sigismondo Gerdil, che sostengono il contrario. Osserviamo, miei signori, che la stessa cosa conosciuta da due uomini collo stesso grado di cognizione, produce talora in essi due effetti diversi. L' uno rimarrà pago della sua cognizione, e si crederà d' essere appieno istruito intorno alla natura di quella cosa, l' altro non così e crederà tuttavia d' ignorarla. Domandate ad un uomo del volgo, s' egli conosce che cosa sia una pianta o un animale: egli sorriderà di voi, e non crederà neppure necessario di dirvi, che troppo ben la conosce, perchè non potrà mai credere che voi ne dubitiate. Ma se voi domandate all' incontro la stessa cosa ad un naturalista o ad un filosofo, facil cosa sarà ch' egli vi dica d' ignorarne la natura, e di conoscerne solo alcuni esteriori fatti, o alcune apparenze. E perchè questa differenza di persuasioni? Perchè il primo, cioè l' uomo del volgo, troppo bene intende, che l' idea dell' albero o dell' animale formatasi da lui mediante le percezioni gli danno una cognizione tal della cosa, che basta a poterla distinguere da tutte l' altre, e basta altresì a dirigerlo nel suo operare nè gli fa bisogno di più: qui dunque s' acquieta, non fa ulteriori confronti e ricerche. Ma l' uomo in cui è sviluppata maggiormente la riflessione, dimentica per così dire ciò che sa della pianta e dell' animale; dimentica che l' idea che egli pure se n' è acquistata come il volgare, è cognizione anch' essa, tutto intento a volerne una cognizione maggiore, una cognizione riflessa e scientifica. Ma come è egli possibile in lui questo desiderio? Come può in lui cadere il sospetto, che la cognizione percettiva che n' ha acquistato sia imperfetta e ce ne possa essere una più perfetta? Sapete ond' è ciò? E` da qui, che egli confonde la cognizione acquistatasi dell' albero o dell' animale colla cognizione dell' essere in universale da lui intuito, e poichè questa è cognizione infinita, e quella finita, perciò quella gli sembra nulla, poichè il finito paragonato all' infinito svanisce in nulla. Infatti quando l' investigatore della natura raccoglie più fatti che può intorno alla natura della pianta o dell' animale, e classifica quei fatti, li riduce a classi più generali, lega i fatti variabili ad un fatto stabile e primitivo, considera questo fatto primitivo come ragione e fonte degli altri, e lo prende per carattere fisso della loro sostanza, che cosa fa egli se non ricercare continuamente in qual modo si avverino nella pianta o nell' animale le condizioni dell' essere da lui conosciuto per intuizione; in qual modo si avveri l' ordine dell' essere stesso, giacchè nell' essere intuito lo contempla e quasi lo legge? E il far ciò che cosa è altro, se non un continuo attento confronto tra l' idea positiva datagli dalla percezione e l' essenza dell' essere? Ora, che sia limitata l' umana percezione, che ella non si estenda a comunicare a noi tutta l' entità della cosa, ma solo una entità relativa a noi stessi percipienti, è ben facile a rilevarsi, se si considera quali sono gli strumenti datici dalla natura al percepimento delle cose. Questi, non uscendo mai dall' ordine naturale, sono (almeno i più risaltanti) gli organi corporali; in generale l' istromento della percezione è la nostra propria animalità; ma questo istromento è così imperfetto, o direm meglio, limitato, che non si stende se non alle cose corporee o animali, e queste stesse non ce le comunica già quali sono in se stesse, ma unicamente sotto la relazione di sensilità . E che cosa è ella mai questa relazione di sensilità? Non più, miei signori, che un rapporto di forze; non più che un effetto delle forze corporee sopra di noi; (prescinderò ora dal sentimento sostanziale dell' anima nostra) anzi nè pure è tanto, poichè la sensilità delle cose non è effetto di una causa sola, cioè delle cose; ma ella è effetto di una causa composta di più concause, voglio dire, delle forze delle cose stesse, e delle forze nostre proprie che agiscono simultaneamente. Dunque il sentimento che abbiamo de' corpi non ha nulla in sè di assoluto, ma è tutto a noi relativo. Ebbene, tutt' il contrario dee dirsi dell' intuizione dell' essere. Questa è cognizione assoluta, nulla vi ha in essa di relativo: non concorriamo già noi menomamente a comporre l' essere come concorriamo a comporre il sentimento corporeo, e quindi i corpi in quanto sono sensibili: l' essere è per sua propria essenza così assoluto che non può mai relativizzarsi, nè soggettivarsi senza cessare d' esser lui stesso, senza cessare d' esser l' essere. Quindi noi già lo denominammo, se vi rammentate, o signori, « l' oggetto per essenza ». Or bene che cosa è mai la cognizione relativa se si raffronta alla cognizione assoluta? L' uomo aspira alla cognizione assoluta, poichè la forma del suo intelletto è l' essere assoluto. Egli dunque inclina e tende per sua natura a volere avere delle cose una cognizione assoluta, e si sforza di trovare una cognizione assoluta anche in quella cognizione che è per natura sua relativa. Ma questo è impossibile: può lusingarsi per qualche istante di dovercela rinvenire; ma a lungo andare si stanca co' suoi inutili sforzi e dispera. Or fa meglio ancora, apre gli occhi e conosce che egli vuole l' impossibile. Allora confessa la sua ignoranza, allora arriva fin anco a dire di nulla conoscere, a reputar nulla tuttociò che prima conosceva relativamente, e a negare risolutamente di conoscere le essenze delle cose. Ed ha ragione, se egli intende negare di conoscerle assolutamente; ma ha torto se pretende che il conoscere relativamente non sia conoscere. Infatti il conoscere ancorchè limitato e relativo non può egli servir di norma all' operare dell' uomo? Dunque è conoscere; chè ciò che non si conosce non può servir di norma all' operare. Considerate, miei signori, che la cognizione è data all' uomo dal Creatore per qualche cosa: ella non dee mica essere sterile ed inutile: essa ha per iscopo di guidar l' uomo nelle sue operazioni, acciocchè ed operi rettamente, ed operando rettamente cioè in un modo conforme alla verità ed alla giustizia, acquisti la perfezione morale che è la perfezione propria dell' uomo, a cui tien dietro la felicità. Ebbene, a questo gran fine che è il fine dell' uomo, che è il tutto dell' uomo, dove finiscono tutti gli umani desiderj che non sieno spurj ed ingannevoli, basta una cognizione relativa rispetto all' elemento positivo. Dico rispetto all' elemento positivo e nella vita presente, perchè in quanto all' elemento ideale e al negativo noi l' abbiamo anche in questa vita ed oggettivo ed assoluto, e non può esser altro, perchè è tale per sua essenza. Sebbene dunque questo elemento ideale e oggettivo sia il fondamento e la causa formale anche della cognizione positiva, tuttavia, dicevo, ciò che ci ha di positivo nella cognizione nostra naturale presente è relativo e questo ci basta. E come e perchè, mi domanderete? Perchè anche l' operare è relativo, perchè anche la perfezione che si cerca con esso è relativa, cioè relativa all' uomo; perchè anche la felicità, finalmente, non è nè può essere altro che relativa. Trattasi forse della virtù e della felicità astratta? No davvero; chè la virtù e la felicità astratta non è virtù e felicità di qualcheduno; e qui trattasi della virtù e della felicità di qualcheduno, cioè di quella dell' uomo, che è il soggetto che dee per essa divenire virtuoso e felice. Che cosa vuol dunque dire perfezione relativa? Nient' altro, miei signori, se non perfezione soggettiva, cioè relativa al soggetto: e perciò che vuol dire cognizione relativa? Vuol dire medesimamente cognizione soggettiva, cioè relativa al soggetto uomo. E poichè il soggetto uomo è finalmente un sentimento sostanziale, ella vuol dire « cognizione somministrata dal sentimento ». Tant' è lungi adunque, che la cognizione relativa ossia soggettiva manchi della natura della cognizione, che anzi ella è quella cognizione umana, che deve servire di guida all' umana perfezione. Ma qui si sollevano delle turbe. E come? Ci dicono molte voci: voi sostenete, che ciò che sa l' uomo di positivo è soggettivo? In tal caso la cognizione positiva dell' uomo è tutta falsa: poichè che cosa vuol dire altro cognizione soggettiva , se non cognizione falsa, apparente, fenomenale? No, miei signori, non è così: i nostri oppositori confondono le cose più diverse, perchè mancano d' analisi. La cognizione soggettiva non è cognizione falsa per sè stessa, non è cognizione apparente e nulla più: essa è una cognizione, certo limitata, ma non meno vera per questo. Vogliamo vederlo? Interroghiamo i nostri avversarj in questo modo: la cognizione del soggetto può ella esser altro che cognizione soggettiva? E che cosa vuol dire cognizione soggettiva, se non cognizione delle cose che appartengono al soggetto? O finalmente cognizione di quelle cose nelle quali ha qualche parte il soggetto? Siete voi dunque d' avviso, o sapienti oppositori, che intorno al soggetto e alle cose che gli appartengono, o nelle quali egli ha qualche parte, non si possa aver cognizione vera, perchè non si può averne altra che soggettiva? Se ciò fosse, dovrebbe dirsi che Iddio medesimo non conosce i soggetti, non conosce sè stesso, primo ed assoluto soggetto, ovvero conosce sè stesso e gli altri soggetti con cognizione falsa, che meglio si chiamerebbe una mendace apparenza. Ora essendo questo manifestamente assurdo; dunque si può dare una cognizione che sia nel medesimo tempo e soggettiva e vera. - Ma gli oppositori risponderanno, che anche la cognizione intorno al soggetto e alle cose soggettive, si può oggettivare ed in tal caso rendersi vera. - Ora che è questo, se non appunto ciò che diciamo noi? Solamente che noi diciamo di più che la cognizione soggettiva è già oggettivata per sè stessa, poichè altramente non sarebbe cognizione. Così il soggetto, ed i sentimenti del soggetto, che sono il fondamento della cognizione positiva dell' uomo, tostochè si conoscono sono per ciò stesso oggettivati; poichè se non fossero oggettivati non sarebbero cognizioni. Eppure i sentimenti del soggetto sono tutti relativi al soggetto; e le cose che operano nel sentimento del soggetto, come i corpi che feriscono gli organi sensorj, si conoscono per gli effetti prodotti nello stesso sentimento soggettivo, i quali effetti sono relativi alla natura del sentimento, perchè sono modificazioni dello stesso sentimento; e perchè ogni essere suscettivo di passione, riceve una passione conforme alla propria natura, il che Aristotele espresse con quel detto divenuto celebre presso gli Scolastici, che « quidquid recipitur ad instar recipientis recipitur . » Del soggetto dunque, che non è altro infine che un sentimento sostanziale, e dei sentimenti in lui suscitati, che sono sue modificazioni, come pure degli effetti tutti che producono in lui le cose esterne, pei quali effetti si conoscano, noi possiamo avere una cognizione vera, e pure ella sarà sempre cognizione di cose relative al soggetto, e perciò soggettive, benchè coll' essersi rese cognizioni, coll' esser divenute oggetti conosciuti, si dice giustamente essersi oggettivate. - Dove sta dunque l' equivoco preso dai nostri oppositori? Nell' aver confuso la cognizione in genere delle cose, colla cognizione assoluta. Ciò che è vero si è, che noi delle cose sensibili non abbiamo una cognizione assoluta, e il pretenderlo è lusinga vanissima; nè da ciò, come dicevo, procede che se la cognizione non è assoluta ma relativa al soggetto, per questo essa non sia cognizione, o sia falsa, ma ella è nondimeno vera nel suo genere; e la questione unica che si può fare ragionevolmente non è mica quella di sapere se la cognizione soggettiva, cioè relativa al soggetto, sia in un altro senso oggettiva; poichè se ella è cognizione, non può mancare certamente di quella oggettività che la rende cognizione. A propriamente parlare la frase di « cognizione oggettiva »non racchiude altro che una ripetizione, ed è come se si dicesse cognizione cognizione; essendo chiaro che l' essere oggettiva e l' essere cognizione viene al medesimo. Laonde nel nostro discorso, miei signori, non si possono distinguere due specie di cognizioni, delle quali l' una sia cognizione soggettiva, e l' altra cognizione oggettiva: se questo talora si fa in altre questioni, dove non s' esige tutto il rigore, come si esige nella nostra presente, ella è sempre una divisione inesatta. L' unica distinzione dunque che si può fare si è tra la cognizione soggettiva cioè relativa al soggetto, e la cognizione assoluta . Ripetiamo dunque, che può aversi una cognizione soggettiva, cioè di cose relative al soggetto, verissima, non fallace e ingannevole; ed anzi di più che la cognizione del soggetto e di tutto ciò che a lui si rapporta sarebbe falsa, se non fosse soggettiva; poichè ella ci farebbe conoscere le cose non come sono, ma come non sono. E qui appunto comincia l' errore; qui comincia la falsità, quando l' uomo pretende che la cognizione soggettiva che egli ha delle cose reali, non deva essere soggettiva com' ella è. Con quanta logica, miei signori, nel primo Alcibiade, Platone introduce Socrate a dimostrare, che l' errore non istà nell' ignoranza, ma si riduce sempre a pretendere di sapere ciò che non si sa? Poichè dopo aver Socrate con accortissime interrogazioni condotto Alcibiade a pronunciare delle sentenze erronee intorno alle cose giuste e ingiuste, belle e turpi, utili e dannose, il costringe a confessare ch' egli s' è ingannato per ignoranza, ma tosto il riprende anche di questa confessione così proseguendo: [...OMISSIS...] Gran documento, signori, degno di Platone, degno che tutti i filosofi, tutti gli uomini l' abbiano avanti gli occhi prima di pronunciare checchessia. In tal caso non si sarebbe udita la strana sentenza, e non sarebbe invalsa nelle menti l' opinione, che la natura delle cose sensibili, p. e. dei corpi, si conosca con cognizione assoluta. E di più certi filosofi non sarebbero dati nell' eccesso opposto dello Scetticismo, negando che l' uomo abbia una cognizione qualunque delle essenze delle cose sensibili, tosto che venne loro dimostrato, o da se stessi trovarono, che tutta la cognizione che noi possiamo avere delle cose sensibili, che è quanto dire tutta la cognizione positiva, non è che soggettiva, ossia relativa al soggetto. Se v' ha dunque taluno, che giudichi e pronunci qualche cosa intorno ai sensibili, (sieno questi l' anima, o sieno i corpi) come se egli li conoscesse di cognizione assoluta, questi errerebbe certamente, e perchè errerebbe? Perchè mentre ignora non sa d' ignorare; perchè vuol portare il suo giudizio temerario al di là della sua cognizione. Ma non solo erra chi ignora e pretende di non ignorare, ma erra anche colui che mentre sa, ignora di sapere. Or bene, quegli che dice, che la cognizione soggettiva che abbiamo di noi stessi e de' corpi è nulla, o è cognizione fallace ed apparente, erra appunto in questo secondo modo; erra perchè giudica d' ignorare mentre sa. Come dunque evitare queste due opposte maniere d' errare? Noi l' abbiamo veduto; col non fermarci esclusivamente a considerare una sola maniera di cognizione; coll' abbracciare tutta quanta è la cognizione umana, tanto l' assoluta quanto la relativa, tanto quella che ci fa conoscere l' essere quanto quella che ci fa conoscere il sentimento (giacchè l' essere noi lo conosciamo con cognizione assoluta, benchè incompletamente, dovendosi ancora distinguere l' assoluta cognizione dalla completa); col riconoscere che tanto l' assoluta cognizione quanto la relativa, è fedele e verace fin a tanto che noi stessi non c' introduciamo arbitrariamente l' errore, affermando di conoscere ciò che ignoriamo, o d' ignorare ciò che conosciamo, o di conoscere in diverso modo da quello che conosciamo. E appunto per evitare gli indicati errori opposti tra loro tenemmo il cammino che avete meco percorso nelle nostre ricerche, e qual frutto ne raccoglieremo? Noi abbiamo diligentemente distinte e caratterizzate due nature di cognizioni, la positiva e l' ideale7negativa; e alla prima abbiam trovato doversi dare due qualità 1 d' esser vera, 2 d' esser soggettiva, relativa a noi stessi che siamo il soggetto, per contrapposto dell' assoluta . E che ella sia vera, il provammo perchè ella ci dice le cose tali quali sono; ci presenta cioè le cose soggettive come soggettive, e quando noi le prendiamo per assolute, siamo noi stessi che introduciamo l' errore giudicando male della verace nostra cognizione, e dicendo che ella è quello che non è. Ma finchè la prendiamo per quello che è non si dà errore, ed oltre esser vera quella cognizione nostra, ella ci è anche utile e necessaria, e preziosissimo dono della natura, poichè ella ci è sufficientissima regola ad evitare il male e ad operare il bene; a provvedere alla nostra conservazione, al nostro sviluppo, al nostro perfezionamento, sì fisico che intellettuale e morale, e così a condurci in una parola a conseguire virtù e felicità, che è il fine nostro. Perchè il fine nostro essendo soggettivo, cioè fine di noi soggetti, e le operazioni nostre e i mezzi coi quali ottenere il nostro fine essendo pure tutte cose soggettive, ci ha mestieri di norme soggettive per regolarle e indirizzarle a quello scopo a cui devono tendere. Il che videro gli stessi Scettici dell' antichità, quando riconobbero ed ammisero una certezza pratica ed operativa negando la speculativa. Errarono tuttavia gravissimamente in questo appunto, che non intesero come anche la cognizione e la certezza pratica sia necessariamente speculativa nella sua parte formale ed ideale, e quindi possa ella stessa essere argomento di certa teoria. Ma aggiungiamo ancora un' osservazione e poi concludiamo. La cognizione, dicevamo, è sotto un altro punto di vista sempre oggettiva, perchè ella si fa sempre per un atto dell' intendimento che s' affissa in un oggetto, cioè in un' entità che rimane sempre distinta dall' intellezione medesima; anzi tale che l' intellezione di sua natura la pone come distinta. Ma questo oggetto, noi soggiungemmo, può essere un soggetto o cosa che ad un soggetto si riferisce, ed allora la cognizione dicesi relativa e soggettiva. Quale è dunque la distinzione tra questa cognizione e l' assoluta? Se la cognizione soggettiva è quella, che ha per suo oggetto un soggetto, che cosa avrà per suo oggetto la cognizione assoluta? La risposta quanto è facile dopo quello che abbiam detto, altrettanto è importante, signori, perchè ci scorge a trovare una bellissima verità. Infatti che cosa possiamo noi rispondere a quella domanda, se non che, se la cognizione soggettiva ha per oggetto un soggetto, la cognizione assoluta dovrà avere per oggetto un oggetto? Ma come è questo? Non sembra egli un giuoco di parole? Eppure non è, miei signori; anzi è in questo apparente giuoco di parole che noi dobbiamo affissare bene la nostra attenzione per riuscire ad un nobilissimo ritrovato: perchè quando parliamo d' una cognizione che ha per suo oggetto il soggetto, allora manifestamente intendiamo, che l' oggetto di questa maniera di cognizione non è oggetto per se stesso, poichè egli è anzi soggetto. Dunque se non si dà cognizione senza oggetto, forza è che la mente abbia tale facoltà da cangiare in oggetto suo anche ciò che di sua natura, cioè ristretto a se stesso, è meramente soggetto; il che noi dicemmo oggettivare. Ma, notate, egli è uopo che ella faccia questa operazione senza che il soggetto si rimanga dall' essere soggetto come egli è. E così ella fa appunto; poichè se nol facesse non potrebbe mai conoscere i soggetti come pur li conosce. Che se volessimo anche cercare come i soggetti si possano oggettivare senza che perdano la loro natura di soggetti, noi troveremmo che v' ha un primo oggetto, che è l' ente in universale, il quale abbraccia nel suo seno tutti i soggetti, e che questi si oggettivano appunto quando si vedono in lui. Ma lo svolgere questo concetto ci condurrebbe troppo a lungo, e le cose dette innanzi intorno all' ente in universale pel presente nostro bisogno chiariscono la cosa abbastanza per chi ci medita. Veniamo dunque all' altra maniera di cognizione, cioè alla cognizione assoluta, il cui carattere distintivo è d' avere per oggetto un oggetto. Che cosa viene a dire questa locuzione? Non dice due volte la stessa cosa? Appunto, miei signori. Poichè se l' oggetto della cognizione assoluta è già un oggetto; dunque egli non ha più bisogno di essere oggettivato; dunque è atto ad essere conosciuto per se stesso, senza bisogno di farci sopra alcun' altra operazione intermedia; dunque egli è conoscibile immediatamente per se stesso. Ecco che siamo arrivati a trovare ciò che è conoscibile per se, ciò che è intelligibile per la sua propria essenza; poichè niuna cosa è intelligibile se non è oggetto; quindi ciò che è puro oggetto è l' intelligibile stesso, la luce stessa della mente, o come si suol dire volgarmente il lume della ragione. Il soggetto adunque, e le cose che al soggetto si riferiscono o cadono nel soggetto, non sono conoscibili per sè; esse hanno d' uopo d' essere trasferite coll' atto del pensar nostro in ciò che è oggetto per sè e loro contenente quasi in un immenso specchio, e di essere così rese conoscibili partecipando all' oggettività. E quali sieno le cose soggettive noi l' abbiamo veduto, tutte quelle che cadono nel sentimento o che modificano il sentimento, le cose sensibili in una parola, interne ed esterne; l' anima nostra che è il soggetto stesso, e i sentimenti dell' anima, le sensazioni, le qualità sensibili dei corpi, insomma tutto ciò a cui si stende la percezione, tutto ciò che forma la nostra cognizion positiva, tutta la realità nostra propria e quella qualunque realità che agisce nella realità nostra. Se la cosa è così, che dunque concluderemo? Che la realità a noi conosciuta non è per se stessa oggetto dello spirito, ma ha bisogno d' esser prima oggettivata per esser da noi conosciuta: che dunque dee precedere nel nostro spirito ciò che è oggetto per se stesso, l' ente in universale; che la cognizione della realità è posteriore, è necessariamente acquisita, con quell' atto col quale lo spirito stesso la rende a sè conoscibile. Possiamo ora portare giudizio di quel sistema, che pretende di fare la realità stessa oggetto del primitivo intuito dell' anima. In un tal sistema manca la dottrina dei veri caratteri che distinguono ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo. Noi ne parleremo più a lungo nelle susseguenti lezioni. Noi abbiamo fatto fin qui non piccolo viaggio, o signori: abbiamo difesa la distinzione fra l' ideale e il reale contro coloro che tentano di levarla dalla Filosofia, il che è quanto dire che non arrivano a coglierla colle loro menti; abbiamo dimostrato come quella distinzione sia il principio, secondo il quale si devono classificare le cognizioni umane, e investigare la natura propria di ciascuna classe: quindi vedemmo altresì che da lei solamente si può dedurre la dottrina intorno all' intuito naturale dell' ente ed ai confini dello scibile umano; dottrina necessarissima ad evitare gli errori, che tutti a due forme riduconsi: « l' affermare di sapere quel che s' ignora »e « l' affermare d' ignorare quel che si sa ». Vogliamo ora continuarci a derivare nuovi ed importanti corollarj da quella distinzione preziosa che rivendicammo fra l' ideale ed il reale; i quali ci dimostrano com' ella, maneggiata secondo una buona dialettica, ci diviene in mano un' arma potentissima, con cui combattere gli errori più disparati e più perniciosi. Oserei quasi dirvi, che non c' è errore in metafisica che con quella distinzione non si possa abbattere facilmente. Io vi recherò in esempio quell' erroneo e mostruoso sistema di cui più che mai si parla a' nostri tempi, cioè il Panteismo. E che mai diviene questo sistema cimentato alla nostra distinzione? Vediamolo. Primieramente osservate, che il Panteismo è l' errore di una filosofia sintetica, voglio dire esclusivamente sintetica . Infatti fino a tanto che non si è ancora introdotta l' analisi, niente è più facile che confondere Iddio coll' universo. L' uomo allora apprende e pensa tutte le cose come una sola: ella è proprietà della percezione l' unità dell' oggetto, e le prime percezioni abbracciano, per così dire, tutto l' universo; una simile unità si scorge ancora nelle prime riflessioni. Qual meraviglia dunque che al pensiero dei primi investigatori della natura ogni cosa appaja mescolata col tutto; niente ci abbia al loro vedere di distinto, e la Filosofia così cominci col caos come la creazione? Ciò dee sembrare naturalissimo e necessario, e questo spiega come i sistemi panteistici sieno nati nella più remota antichità, e sieno proprj dell' Oriente, dove l' analisi non fece mai progresso alcuno, nè mai nacque o crebbe a buon punto la dialettica. Spiega ancora come in questa nostra Italia, quando i genj della Magna Grecia cominciarono il ciclo della filosofia occidentale, il primo loro pronunciato fu il panteismo. Ricordatevi, miei signori, di Senofane e di Parmenide, che spinse alla perfezione il sistema dal primo abbozzato dell' « Unità assoluta »e della famosa loro formula «en ta panta» (1). Ma un tale sistema non si tenne in piedi: fu assai breve il trionfo, o, per dir meglio, la tirannia che il sistema dell' unità esercitò sulla pluralità da lei assorbita e distrutta. Tostochè Zenone discepolo a Parmenide ridusse a scienza la dialettica (la maggiore invenzione forse che sia mai stata fatta, e tale che basterebbe sola ad illustrare l' Italia), il panteismo non potè più mantenersi; onde si può dire che quegli che più ingegnosamente il difese, qual fu Zenone, ne preparò altresì l' irreparabil caduta, introducendo nelle menti quest' arte analitica, in faccia alla quale esso non può durare e tenersi, la quale era pure stata trovata in suo servigio. Che dunque diremo, miei signori, osservando così di passaggio quella smania di che si mostra agitato alcuno dei presenti scrittori (il Gioberti) d' innalzare a cielo il metodo sintetico, e di deprimere l' analitico, quasichè la sintesi che non sia preceduta dall' analisi possa essere per avventura altra cosa che quello stato appunto d' ignoranza, di rozzezza, di confusione in cui si trovan le menti negli esordj delle nazioni (2)? Per la ragion de' contrarj dimostriamo tosto quanto l' analisi delle cognizioni umane ci spiani dinnanzi una via regia da condurci a vedere la falsità del panteismo, e tagliarlo dalle radici. E da prima, se il panteismo è quell' errore che confonde tutte le cose con Dio, e Dio con tutte le cose, l' errore della confusione, l' errore eminentemente sintetico, o piuttosto la sintesi di tutti gli errori; già si vede pur considerando questa sola condizione di lui, che qualsivoglia grado d' analisi distrugge il panteismo, poichè qualunque distinzione reale e separazione che noi facciamo nelle cose, il panteismo è tolto via: saremo forse caduti in qualche altro errore, ma nel panteismo non più. Pure non è questa, miei signori, l' applicazione che io vi chiamo a fare della nostra analisi alla confutazione del panteismo; ma ho voluto farvi riflettere in generale, che niun sistema analitico può essere panteistico; e perciò il sistema da noi seguito (quello del Rosmini) che viene riconosciuto per eminentemente analitico dagli stessi avversarj, e per questo gli danno biasimo e mala voce, non può essere che lontanissimo dal panteismo; nè quelli possono accusarlo di questo errore, senza cozzare seco medesimi. Poichè queste due qualità che gli vengono date ad un tempo di essere sommamente analitico, e di essere panteistico (quest' ultima però è accusa datagli dal solo Gioberti) sono, per dirlo di nuovo, contradizione. Veniamo dunque a noi: veniamo agli argomenti che escono dai visceri della nostra filosofia, i quali abbattono il panteismo. Noi abbiamo distinto l' ideale dal reale; abbiamo veduto che l' ideale è il fonte di quel cotale infinito che si scorge nello scibile umano, e il reale è il fonte della limitazione di questo stesso scibile . Di qual reale parliamo noi? Di quello che è l' oggetto della nostra percezione; di quello che costituisce il positivo della nostra cognizione; poichè già dicemmo, che la cognizione, in quant' è negativa, è potenzialmente priva d' ogni confine. Ecco dunque che noi con questa importantissima distinzione del reale e dell' ideale, di ciò che è l' oggetto della nostra intuizione, e di ciò che è l' oggetto della nostra percezione, abbiamo tirato una linea di separazione tra il finito e l' infinito, tra le cose contingenti e le cose eterne. Infatti quali sono i caratteri che noi abbiamo assegnato all' essere in universale , che è il proprio e necessario oggetto dell' intuizione, e che è il medesimo che dire l' essere ideale? Questi caratteri furono i più eminenti, cioè, se vi sovvenite, l' eternità, l' impassibilità, l' immutabilità, la necessità, la semplicità ovvero unità e l' infinità. Quali sono all' incontro i caratteri che noi abbiamo assegnati al reale a noi sensibile e percettibile nell' ordine di natura? I caratteri direttamente opposti a que' primi: e quindi la temporalità, la passibilità, la mutabilità, la contingenza, la pluralità e la limitazione. Ora di due qualità contrarie un subietto solo, una sostanza sola, non può averne che una, pel principio di contradizione, che vieta di affermare due qualità contrarie contemporaneamente e sotto lo stesso aspetto del subietto medesimo. Dunque se l' ideale e il reale da noi percettibile hanno proprietà direttamente tra loro contrarie, esse non possono esser un subietto solo, nè una sola natura, ma devon esser due nature affatto tra loro distinte. Ebbene, con questo già voi vedete, o signori, che il panteismo è impossibile. Intanto il reale a noi percettibile non sarà mai Dio; perchè esso ha i caratteri opposti ai divini. Esso è soggetto al tempo, ma la natura divina non soggiace punto alla legge del tempo. Esso è sottoposto alla passione, cioè un reale agisce sull' altro, un reale riceve l' azione dell' altro, ma niente può agire sopra di Dio, il quale è atto purissimo, come dimostra la Teologia, e però è superiore a tutti gli agenti inferiori, che da lui solo ricevono l' esistenza e l' attualità: l' essere reale da noi percepito è mutabile e modificabile, appunto perchè misto di potenza e di atto; ma questo ripugna all' essere divino che è sempre lo stesso: l' essere reale di cui parliamo, è contingente, cioè egli è tale di cui si può pensare tanto che sia, quanto che non sia; ma se di Dio nel suo intero concetto si potesse pensare che non fosse, già non sarebbe più Dio, e il levarlo via col pensiero, è un rendere impossibile il pensiero medesimo, poichè essendo Iddio la prima causa, tutto si distrugge colla distruzione di esso; perciò anche il pensante e il pensiero. L' essere reale, oggetto della percezion nostra, è moltiplice; i corpi sono fuori l' un dell' altro; le anime sono individue, aventi ciascuna un' esistenza tra loro incomunicabile; ma in Dio, non che darsi pluralità di natura, v' ha semplicità sì perfetta, che l' essenza sua non ammette neppure distinzioni reali di sorta alcuna. E finalmente l' essere reale a noi percettibile è d' ogni parte limitato, onde appunto gli accade di esser moltiplice, mentre Iddio è l' essere infinito da tutti i lati, sicchè nulla si può assegnare che il limiti e circoscriva. La distinzione adunque tra l' essere reale , e come oggetto della nostra esperienza e della nostra percezione, dall' essere ideale , oggetto della primitiva nostra intuizione e lume di nostre menti, il quale si riduce in Dio come una sua appartenenza (1), basta ella sola a distruggere ogni sistema di panteismo. Ma noi non dobbiamo accontentarci, miei signori, di questa confutazione universale, benchè irrepugnabile. E sapete perchè non dobbiamo noi accontentarcene? Perchè l' errore fa bene spesso come il ladro, che scacciato da una porta del palazzo entra di soppiatto da un' altra. Egli è vero che la mente che ha una volta bene afferrato l' assurdità d' un sistema, non dovrebbe più ammetterlo per cosa alcuna; egli è vero questo, ma ad una condizione, sapete quale? A condizione che la mente sia coerente seco stessa; e questa condizione appunto assai spesso non si verifica nella povera mente umana. Vediamo dunque, per quali vie l' errore del panteismo potrebbe mettersi furtivamente in essa, il che è quanto dire vediamo quali e quanti sieno que' ragionamenti che portan seco per logica conseguenza il panteismo. E cominciamo da quelli che muovono da un erroneo concetto dell' essere ideale; sarà questo il primo dei sistemi filosofici panteisti, che noi piglieremo a impugnare. Che cosa è, miei signori, l' essere ideale? Noi abbiamo già veduto che cosa egli è in sè stesso, ma all' uopo nostro dobbiamo darne una definizione che ne esprima l' uso. Diremo dunque che l' essere ideale è il mezzo del conoscere . Questa definizione non si può negare. Infatti l' uomo conosce per mezzo delle idee; senz' idee niente egli conosce. Tuttavia ella è una grande questione quella che si fa sulla natura del mezzo del conoscere. Noi che abbiamo distinto l' essere ideale dall' essere reale, abbiamo altresì sostenuto che il mezzo del conoscere è il puro essere ideale distinto dal reale. Ma questo sembra agli avversarj nostri un solenne sproposito; e vogliono che il mezzo con cui la mente umana conosce non sia solamente ideale, ma sia reale altresì; poichè, a loro avviso, ciò che è meramente ideale è nulla, non potendo essi comprendere niun' altra maniera di essere, distinta dalla realità. Ora vediamo un po' qual sarebbe la conseguenza del sistema che gli avversarj nostri vogliono sostituire a quello dell' essere ideale come mezzo dell' umano conoscere. Prima di tutto se l' essere ideale con cui l' uomo conosce è anche reale, quest' essere indubitatamente è Dio; poichè non solo ha tutti i caratteri divini che abbiamo enumerati della eternità, dell' impassibilità, dell' immutabilità, della necessità, della semplicità e della infinità, ma tutti questi caratteri non si restringono più ad essere mere idee, ma costituiscono oggimai un ente sussistente, il quale di conseguenza non può essere altro che Dio; ed essi, gli avversarj nostri, non rifuggono menomamente da questa evidentissima conseguenza, anzi ci confessano che l' oggetto della intuizione primitiva del nostro intelletto è appunto Iddio; e di ciò menan vanto, e pretendono riscuoter lode di filosofi religiosissimi, non senza morder noi d' empietà come quelli che ci dipartiamo dal celebre principio del greco poeta: « a Iove principium ». Ma non crediamo che questo luogo di Arato sia citato a ragione contro di noi; e di più crediamo che convenga, sopra tutto oggidì, guardarsi non meno per avventura che dall' empietà, da una falsa specie di Religione: perocchè conviene ben poco conoscere lo spirito del secol nostro, per non accorgersi, che non è quello dell' irreligione aperta, ma invece è uno spirito grandemente prolifico di sistemi bugiardamente religiosi ed ipocriti: parlo, signori miei di sistemi, e non di sistematizzanti: ed è per ciò che oso dire, che il sistema che ci si contrapone da Vincenzo Gioberti come religiosissimo, senza voler io punto toccare la religione del suo autore, è più che mai panteistico, benchè questo facondissimo scrittore declami con istraordinario zelo, e diciamolo francamente, con un zelo affettato contro di questo errore. Mettiamo dunque in confronto i due sistemi, e vediamo se l' uno o l' altro di essi sia per avventura affine all' empietà panteistica. Cominciamo dal nostro. Onde prendiamo noi la realtà delle cose? Dal sentimento, dal sentimento che ci costituisce, e poi dall' azione delle cose stesse reali su di noi, la quale da noi si sente, secondo la nostra condizione di esseri senzienti. Notate bene, miei signori, che dai nostri avversarj siamo perciò appunto accagionati di sensismo , poichè essi stimano che sia sensismo il prendere la realità dalle sensazioni, e non cavarla dall' intuito di Dio stesso. Ebbene: donde prendiamo noi la idealità delle cose? Non già dal sentimento; il che per tutti quelli che intendono un poco la natura dei sistemi filosofici, sarebbe veramente sensismo; non già dal sentimento, dicevo, ma dall' idea dell' essere in universale . Ora ditemi un poco: diamo noi forse alle cose reali e sussistenti l' idealità? Facciamo noi che l' idealità sia un elemento intrinseco della realità? Mai no; che anzi tutto il nostro studio consiste in tener separata l' idealità dalla realità della cosa, e noi la teniamo così separata, o se meglio vi piace, distinta, che noi la diciamo anzi incomunicabile. Infatti che cosa è l' idealità? Non altro che la cosa universale, possibile . Che cosa è la realità? Non altro che la cosa sussistente . Ora la cosa possibile non è e non può essere in modo alcuno la cosa sussistente. Ma le cose, in quanto sono cose contingenti e create, son elle possibili o sussistenti? Sussistenti, miei signori; poichè il possibile è eterno, e però increato; nè gli si può dare il titolo di creato, se non per esprimere ch' egli ha cominciato ad esistere in un modo distinto nella mente umana; non che egli abbia cominciato ad esistere nella possibilità universale delle cose (nella mente divina). Che servigio adunque presta a noi l' essere possibile? Non altro che quello di farci conoscere le cose sussistenti; poichè altro è la cognizione delle cose sussistenti, e altro la loro stessa sussistenza; senza l' essere possibile risplendente nelle nostre menti, le cose sussistenti non sarebbero a noi conosciute; ma sarebbero nondimeno sussistenti ed altresì sentite. Un' altra ricerca è poi quella, se possano sussistere senza essere conosciute da mente alcuna. Questa ricerca ontologica non appartiene punto nè poco al ragionamento presente. Ma come l' essere possibile, essendo meramente possibile, ci fa egli conoscere le sussistenze? Noi l' abbiamo veduto, noi l' abbiamo già spiegato precedentemente: non è che egli solo ci faccia conoscere le sussistenze, il che sarebbe assurdo; ma egli ci mette in grado di conoscerle all' occasione dei sentimenti; poichè noi mediante l' essere possibile, vediamo le sussistenze possibili, e vedendo le sussistenze possibili, possiamo anche affermarle allorchè le sentiamo, e tostochè le abbiamo affermate, noi le abbiamo conosciute; poichè questa dell' affermazione interiore è l' unica maniera di conoscere le sussistenze: all' incontro datemi un ente, il quale non potesse intuire le sussistenze come possibili (la possibilità delle sussistenze), in tal caso neppure potrà affermarle, e quindi neppur conoscerle come sussistenti, poichè affermare una sussistenza, non è altro che dire a sè stesso, che ciò che si sente è la realizzazione del possibile che s' intuisce. L' essere ideale dunque è per noi la condizione necessaria dell' affermare le sussistenze; non è egli stesso l' affermazione delle sussistenze, e molto meno le sussistenze medesime. Ora quando si afferma la realizzazione del possibile intuíto, non è mica che si affermi il possibile del reale, ciò che sarebbe un assurdo ed una contradizione, ma si afferma il reale come esemplato relativamente al possibile che è l' esemplare. Dunque nel sistema nostro non si predica del reale finito che cade ne' nostri sensi nessuno dei caratteri divini dell' essere possibile, che rimane sempre dal reale distinto; e quindi il divino e l' umano, il necessario e il contingente, restano immensamente e per sempre divisi, inconfusibilmente distinti. Passiamo ora al sistema de' nostri avversarj, nel qual sistema la realità stessa non si prende dal sentimento, come dicevamo, perchè è data nel primo intuito. Ora secondo essi, l' oggetto dell' intuito primitivo, il mezzo con cui l' uomo conosce tutte le cose reali, è Dio stesso. E bene, esaminiamo un poco come faccia l' uomo a conoscere, qual sia la natura dell' atto con cui l' uomo conosce i reali. Si direbbe egli che l' uomo conosca un dato reale, p. e. una casa, senza saper niente di lei? senza saper che sussiste? certo che no. Niente dunque si sa d' una cosa reale, se ignorasene la sussistenza. L' atto dunque, con cui si conosce una cosa reale, involge, come sua condizione intrinseca, che noi nel nostro interno affermiamo la sussistenza di quella cosa. E appunto qui, dicono i nostri avversarj, che essendo Dio l' Ente per essenza, abbiamo bisogno di Dio per conoscere le cose reali, come l' Ente nel quale sono e onde ricevono continuamente la sussistenza per via di creazione. Ma se la cosa è così, argomentiamo in questo modo: noi conosciamo la sussistenza delle cose reali, coll' affermare che esse sussistono, il che è quanto dire, col predicare di esse la sussistenza. Ma questa sussistenza che noi predichiamo di esse e che noi loro attribuiamo, secondo i nostri avversarj è nel primo intuito, il cui oggetto è Dio stesso; dunque l' essere reale di tutte le cose è Dio; dunque affermando le cose, affermiamo Dio; dunque le cose tutte che conosciamo altro non sono finalmente che Dio; l' oggetto del nostro conoscere è sempre Dio, anche quando conosciamo i corpi e gli enti finiti d' ogni maniera; quindi tutte le scienze non sono che Teologia, e l' enciclopedia delle scienze, come dice appunto Vincenzo Gioberti, altro non è che una Religione. Ora ditemi che ve ne pare? Non altro ve ne può parere, io credo, se non che questa dottrina è panteismo apertissimo e manifestissimo. Permettete, miei signori, che io vi legga qui un luogo di questo caldo avversario del sistema da noi seguito, pronti anche dopo di ciò a discutere quanto egli dice per giustificarsi dall' accusa di panteismo che ben prevede dovergli essere apposta. [...OMISSIS...] Io non so, miei signori, come si possa professare il panteismo più apertamente, e come si possa con sincerità niegare di professarlo. Ma osservate diligentemente tutto ciò che afferma il signor Gioberti in questo periodo e le conseguenze che ne verrebbero, benchè certo dobbiamo ad ogni modo credere, contro la volontà dello scrittore. [...OMISSIS...] A dir vero con queste parole si sublimano molto le umane scienze; giacchè si assicura che il Fisico, il Matematico, il Chimico, l' Anatomico, il Fisiologo, ogni scienziato insomma, sia cristiano, sia gentile, turco o ebreo, il quale investighi qualche parte della natura fisica o spirituale, non è niente affatto inferiore al Teologo e neppure al Mistico più sublime, perchè di tutti i suoi studj egli ha sempre egualmente per termine immediato Iddio stesso, e così deve essere: se Iddio è l' oggetto universale del sapere, necessariamente l' oggetto immediato di ogni scienza, ed ogni cosa di cui tratta una scienza qualsiasi, ha per essere suo Iddio stesso. Le scienze così sono, come dicevo, innalzate oltre misura, e come esse si cangiano tutte insieme in una Religione, così i dotti devono essere i sacerdoti di questa nuova Religione; e non devono essere già chiamati sacerdoti per un modo di favellare traslato, ma nel senso il più proprio della parola, in senso veramente filosofico, giacchè nel senso il più proprio, e, siccome l' ultima espressione del suo sistema, il signor Gioberti ci dice, che « Iddio è l' oggetto universale del sapere , » e che tutte le scienze hanno per « termine immediato Dio stesso », e che sono (il che è conseguente) una religione . Certo la cosa dee essere così, miei signori, poichè se l' essere reale che noi predichiamo di tutte le cose reali è Dio stesso, come si sostiene; essendo Dio l' essere di tutte le cose, non si può dare scienza che non abbia per suo termine immediato Iddio. E notate bene, che non dice già solo termine, ma termine immediato, il che esprime propriamente l' oggetto del conoscere, sicchè quando noi conosciamo un legno, l' oggetto del conoscere è Dio; e quando conosciamo una pietra, un ferro, una serpe, uno scarafaggio, un uomo, il diavolo stesso finalmente (scusate se faccio entrare questo personaggio) l' oggetto del nostro conoscere è sempre Dio; Dio stesso è il termine immediato della nostra conoscenza, nè più nè meno. Che ve ne pare, di nuovo vi domando, signori miei? calunniamo noi forse il signor Gioberti? o piuttosto non sono le sue stesse parole stampate alla pagina VI e VII della citata « Avvertenza », che ci dicono tutto questo, e ce lo dicono come un riassunto del suo sistema, come l' espressione dell' intimo suo pensiero, come la formola più esatta della sapienza, quella famosa formola di cui egli parla con tanta compiacenza, e dall' alto della quale compatisce sì poco la nostra ignoranza? Beate adunque le umane scienze che sono divenute la religione del Dio7Mondo! Beati i dotti, che sono divenuti i veri sacerdoti di questo Dio giobertiano! Beati i gentili Confucio, Zoroastro, Budda, Averroè, Leucippo, Democrito, e quanti empj fur celebrati in mezzo al paganesimo o tra i Musulmani per uomini dotti, investigatori della natura, i quali, eziandiochè professassero l' ateismo, avevano però Dio stesso per termine immediato de' loro studj, quel Dio che è sempre l' oggetto universale del sapere! Beati gli Enciclopedisti e tutti gl' increduli d' ogni nazione, che ne' due secoli passati combatterono il Cristianesimo, e fin l' esistenza di Dio, i quali diventano per la giobertiana dottrina altrettanti pontefici del nuovo culto, della nuova religione, che annunzia e predica questo non so se filosofo, o pur profeta! Ed io ben credo che se potessero rinascere, maravigliati di tanta trasformazione, al vedersi unti sacerdoti e pontefici quelli che finchè vissero, bestemmiarono ogni fede ed ogni culto, si dichiarerebbero troppo riconoscenti al signor Gioberti; nè esiterebbero per avventura un istante ad arruolarsi sotto ad un sì nuovo stendardo, se non che, miei signori, io temerei che questo stendardo che si fa ora sventolare agli occhi dell' Italia, sarebbe forse strappato di mano all' ardito antesignano, che tolse ad inalberarlo: poichè e il Waishaupt e il Saint7Simon, ed altri ancora di cotali gerofanti, rivendicherebbero probabilmente a sè la gloria di averlo innalzato i primi, e dichiarerebbero l' Italiano usurpatore della gloria straniera. Davvero che il Padre Enfantin non serebbe l' ultimo ad assalire il nostro bandierajo, e torgli di mano l' insegna, perchè io suppongo, miei signori, che voi siate già al fatto di tutto ciò che scrissero i San7simoniani per dimostrare che tutte le scienze, le arti, il commercio, l' industria, l' agricoltura non è altro che Religione, l' unica Religione, la sola vera Religione, e che perciò appunto Iddio essendo l' uomo e tutte le cose, non c' è bisogno d' altro culto, di altra sacerdotale gerarchia, che il culto delle scienze e delle arti, i cui sacerdoti sono tutti gli uomini dotti, industriosi, e che sanno godere i beni della vita, beni tutti naturalmente divini; e sacerdotesse sono le donne delle stesse attitudini fornite: di che traevano altresì che la disposizione più eccellente ad un tale loro sacerdozio non era altro che l' avvenenza de' corpi, giacchè dicevano e dicono, che tali sacerdoti e tali sacerdotesse debbono esercitare il nuovo loro culto principalmente colla bellezza. Onde codesti inspirati, che dal Saint7Simon presero il nome, trassero già dalla teoria che il Gioberti ora ripete ristretta ne' suoi principj, e ce la dà come un eccellente sistema di vera filosofia, tutte le conseguenze pratiche che da essa legittimamente derivano, e che egli giustamente ricusa e disdice. Ma noi non siamo qui, miei signori, per trattare quasi innanzi a tribunale il diritto di priorità che possa avere l' abate Gioberti all' invenzione del suo sistema sopra i precedenti; non siamo qui per esaminare a qual titolo egli si vanti d' aver nobilitata la scienza, e fattala divenire una specie di culto nobilissimo verso il suo Autore. Siamo qui solamente per esaminare una verità importante al nostro studio, per riconoscere con mature ed imparziali riflessioni, se si possa confondere l' ente ideale col reale, l' idea con cui l' uomo conosce tutte le cose, colla realità di Dio, senza professare con ciò appunto un sistema di panteismo. Poichè io sono ben certo che voi tutti sarete meco d' accordo in questo, che se rimane provato, che dichiarando esser Iddio stesso il mezzo unico e necessario con cui si possono conoscere tutte le cose reali, è lo stesso che fare Iddio l' essere reale e la sostanza di tutte le cose, se ciò sarà provato una volta, dico, non potrà mai più venire un tempo in cui questa dottrina cessi dall' essere panteistica, poichè ciò che è vero una volta è vero sempre, e però non può riuscire che vana la lusinga del signor Gioberti, il quale spera appunto che verrà un tempo in cui non sarà più panteistico il dire che « Iddio è in tutta la scienza » confessando con ciò che, al presente almeno, la sua è una dottrina riputata panteistica. Ma concedetemi che io vi legga anche questo brano, in cui egli va preconizzando i destini della nuova teoria. [...OMISSIS...] E certo la scienza non può essere religiosa, come egli dice, se non è una religione, quando sia vero che l' oggetto d' ogni scienza e di ogni cognizione è Dio stesso. Ma se per l' opposto, l' oggetto e il termine immediato delle scienze naturali non è Dio stesso, converrà dire il contrario, miei signori; converrà dire che il pretendere che la scienza sia irreligiosa sol perchè non è una religione, è un portare le cose all' eccesso, è un confondere due cose ben diverse, la religione e la scienza, e dichiarando la scienza religione, egli è un sagrificare la religione alla scienza. Giacchè non vi ha più bisogno di un' altra religione in tal caso, qualora gli uomini coltivino la scienza, che è già la religione ella stessa: e perciò il fisico, il botanico, l' astronomo non ha più bisogno d' altro culto, che del culto della natura, delle piante, degli animali e degli astri, perocchè questi sono gli oggetti immediati di tali scienze, o son tutti Dio, perchè l' oggetto e il termine immediato della scienza è Dio. Io non so, miei signori, come si possa professare più apertamente il panteismo; ma poichè il nostro signor Gioberti fa almeno le mostre di voler giostrare contro tutti i panteisti anteriori a lui, e quindi dobbiamo credere lontanissimo dall' animo suo un tale errore; ella è cosa equa e necessaria per illustrare questo argomento e investigarne il fondo, che noi ascoltiamo ed esaminiamo diligentissimamente le sue discolpe, e facciamo ogni nostra possa per liberarlo da tanta vergogna, o almeno da tanto abbaglio, se mai ci riesce possibile; se non che non rimanendoci oggi mai più tempo in questa lezione da svolger le ragioni con cui egli toglie a giustificarsi, ne riserveremo la trattazione alla lezione prossima, contentandoci per questa di solo sfiorare l' ampia materia. E per primo fiore che noi possiamo raccogliere ad introduzione della sottile disamina, piglieremo a nostro pro un avvertimento che ci dà lo stesso Gioberti, ed è [...OMISSIS...] Non applichiamo no, miei signori, il titolo di frasi menzognere alle frasi giobertiane, siccome quello che ha una non so qual relazione ingiuriosa coll' animo; ma non sarà indiscreto nè ingiusto che noi chiamiamo magnifiche le frasi che egli adopera, e sotto una veste magnifica si possono certamente coprire anche cenci o piaghe profonde. Onde non ci vorremo noi lasciare illudere al suono delle parole, ma col pensiero semplice e retto cercare i concetti. L' altra cosa che vi farò osservare prima di chiudere la lezione, si è che due sono le strade più generali per le quali si può rovesciare nel panteismo, delle quali il Gioberti non par che conosca se non una sola. Poichè egli è tuttavia certo che una strada conducente al panteismo, è il partir da Dio, e discendendo alle creature, con queste confonderlo; l' altra si è muover dalle creature, e confonderle col Creatore. La prima è il confondere la natura necessaria ed assoluta colla contingente e limitata, ed è propria di quelli i quali, formandosi un' idea grandissima di Dio, non sanno poscia tener da lui le altre cose distinte, ma le fanno assorbire in lui stesso e così indiarsi; la seconda è propria di coloro che più grossolanamente della grandezza dell' universo stupiti lo vengono deificando. Egli è evidente che entrambi riescono al medesimo risultato, benchè i termini da cui muovono siano diversi; poichè vi ha tanto dalla natura a Dio, quanto vi ha da Dio alla natura, e il dire che Iddio è tutte le cose, riesce al medesimo che a dire che tutte le cose sono Dio. Ora coloro che fanno Dio quell' Essere che si afferma e si predica delle cose reali, e col quale si conoscono, sogliono essere di que' panteisti, che avendo precedentemente un' idea grande di Dio, credono magnificarlo vie più col dichiarare che l' essere suo è quell' essere stesso che l' intendimento conosce in tutte le cose reali, e che perciò il termine immediato della cognizione di ogni cosa è Dio. Ma il Gioberti non vuol punto riconoscere questa seconda via per la quale si viene al panteismo, confondendo la natura necessaria colla contingente; che anzi pretende non avervi che un sistema di panteismo, il quale confonde la realità contingente colla realità necessaria. Egli se ne dichiarò espressamente nell' opera degli « Errori », perchè il professore Tarditi aveva scritto che [...OMISSIS...] Ora il Gioberti gli negò recisamente che il panteismo nascesse dal fare che quell' Ente che è il principio del sapere sia altresì il principio e la base delle realità contingenti, anzi egli scrisse così: [...OMISSIS...] . Ma noi sappiamo assai bene, che la confusione della realtà contingente colla realtà necessaria e assoluta è principio generativo del panteismo; ma sappiamo altresì che è ugualmente principio generativo del panteismo la confusione della idealità necessaria e assoluta colla realità contingente (tanto più nel sistema di Gioberti, che ad imitazione di Hegel, chiama e definisce Iddio l' idea); come pure l' identificazione di quella idealità con tutto ciò che non è la stessa realità necessaria e assoluta, ed è questo che ignora e disconosce il signor Gioberti; e però egli ci dà un giusto sospetto, o per dir meglio, ci spiega per qual via egli pervenne al suo errore, ignorando dove tal via conduce. Poichè escludendo egli uno dei sistemi di panteismo, pretendendo che non ci sia che l' altro dei due grandi sistemi da noi indicati, non riconoscendo che una sola delle due vie che mettono a tale errore, qual meraviglia, miei signori, ch' egli sia, e nieghi ciò nondimeno di essere panteista? Il suo sistema panteistico è appunto quello che egli disconosce, la via per cui egli se ne va a precipitarvi è appunto quella che egli ignora, o dichiara ignorare che meni a tal termine. Ma d' altra parte come può egli ignorar ciò? quali almeno sono le ragioni, alle quali affidato, pretende che non è punto nè poco infetta di panteismo quella dottrina ch' egli professa, e colla quale sostiene a rigor di parola, che il termine immediato di ogni cognizione naturale è Dio, che Dio è l' oggetto universale del sapere? Questo, come vi dicevo, è ciò che nella prossima lezione servirà di tema al nostro ragionamento. Avete veduto, o signori, in qual maniera il signor Gioberti pensi di medicare e rimpastare il sistema rosminiano per allontanarsi più che mai dall' empietà panteistica da lui tanto detestata ed abborrita. Noi per ispiegare la cognizione delle cose reali, e principalmente la percezione intellettiva, ricorrevamo col Rosmini non meno che col senso comune, all' azione che esse esercitano immediatamente sopra di noi producendoci i sentimenti. Ma poichè quest' azione e questi sentimenti non possono esser più che materia di cognizione, cercavamo poi il formale della cognizione in un elemento divino, cioè nell' essere possibile, che è l' intelligibile stesso. Noi abbiamo posta tutta la cura per non confondere l' idea elemento divino con cui si conosce, colla cosa reale che affermando si conosce, la quale, se parlasi di cose create, è contingente: e così ponendo un muro di separazione insuperabile tra la cosa contingente e l' elemento divino con cui ella si conosce, credevamo d' avere estirpato il panteismo fino dalle radici. Ma il signor Gioberti grida all' incontro con altissima voce, che noi siamo appunto per questo panteisti, perchè abbiamo elevato questo gran muro che separa il divino dall' umano, e che egli solo ha trovata la via di annientare quest' errore perniciosissimo coll' atterrare del tutto il muro di divisione da noi eretto. E come procede egli in questo suo trovato? Voi l' avete veduto, col negare fieramente che gli uomini prendano dal sentimento la materia della cognizione dei reali, e coll' affermare che essi prendano tanto la materia, quanto la forma di questa cognizione, tanto l' elemento ideale, quanto l' elemento reale de' contingenti in Dio stesso percepito da noi, com' egli pretende, per un naturale intuito, di maniera che Iddio sia sempre l' oggetto universale del sapere e tutte le scienze abbiano per loro termine immediato Dio stesso, e sieno una religione! Tale è la pretensione del signor Gioberti, ed io credo, come v' ho detto nella precedente lezione, che deva essere tanto difficile ad ogni uomo di buon senso il capire come si possa evitare il panteismo cercando nella natura divina la realità delle cose contingenti, quant' è difficile il capire come si possa accusare di panteismo una filosofia che toglie la realità delle cose contingenti da queste stesse cose, e non ricorre all' elemento divino se non per ispiegare la loro cognizione. Ma poichè il signor Gioberti stesso pur sente d' aver bisogno d' una apologia e d' una difesa contro il sospetto di panteismo; egli si sbraccia a difendersi, ed è questa apologia che noi ci siamo proposti di esaminare nella lezione presente con tutta la possibile equità e discrezione. In primo deve esser cosa bella ed intesa con noi, che il protestare e gridare di non esser panteista, come pure il dare generosamente quest' accusa agli altri, questo solo non iscioglie la questione, perchè in filosofia non vale il cicaleccio, ma la ragione; non vale fare lo spavaldo, ma convien fare il filosofo; onde tutte le declamazioni del signor Gioberti contro gli altri sistemi, e specialmente contro quelli da cui egli ha preso di più, e tutte le magnifiche lodi che dà a sè stesso, non devono, miei signori, entrare in conto: e qui noi dobbiamo, se vogliamo trovare il vero e non bere grosso, cancellarle coll' imaginazione nostra da' suoi volumi senza compassione di renderli, così facendo, piccini piccini, o, per usare una parola sua, assai mingherlini. In secondo luogo egli stesso ci avverte di non lasciarci illudere, come avete udito, « dalle frasi magnifiche e menzognere che talvolta adoperano i panteisti »; il che dee valere anche per lui finattanto che non è purgato intieramente dal sospetto di panteismo ch' egli stesso teme d' incorrere; benchè predica che verrà un tempo in cui non si avrà più per panteistico il dire quel ch' egli dice, cioè che « « Iddio è in tutta la scienza » », frase che contiene il sistema da lui professato e con che egli viene a riconoscere che al presente almeno quella frase nel senso datole è riconosciuta per panteistica. Oltre ciò, dopo aver egli scritto nel 1.40, nell' « Introduzione allo studio della filosofia », che Iddio è « « l' oggetto universale del sapere » », tre anni dopo, cioè nel 1.43, nell' opera « del Buono » confessò che questa frase è equivoca, e che per lo meno uno de' suoi sensi è apertamente panteistico, benchè egli l' abbia pronunciata assolutamente, e senza distinzione, come quella che esprimeva nel modo più proprio tutta la sua dottrina. Udite, o signori, la sua confessione nell' Avvertenza premessa all' opera « del Buono » [...OMISSIS...] . Se dunque questa frase si può prendere anche in senso eterodosso e panteistico, perchè l' ha egli pronunciata assolutamente ed incondizionatamente? perchè ha lasciato che tutto il mondo per ben tre anni la considerasse come l' espressione più fedele del suo sistema? Ma via, posciachè ora egli stima bene di ritrattarsi in parte, cioè di ritrattare l' uno de' due sensi che può avere quella frase, vediamo con quali argomenti dimostri, che nel suo sistema essa debba avere un senso ortodosso. Egli avverte, che i panteisti [...OMISSIS...] . Io non mi fermerò, o signori, ad osservare la poca proprietà filosofica di que' suoi dati scientifici, frase tutta sua; ma piuttosto domanderò se l' oggetto del sapere possa essere la sola forma senza la materia, o la materia senza la forma. P. e. il fisico che parla delle diverse specie di sostanze corporee, prende forse ad oggetto della sua dottrina i corpi spogliati di materia? o volendo esporre la scienza dell' uomo potrà l' antropologista parlare d' un uomo non composto di carne e di ossa? I corpi celesti che sono l' oggetto dell' astronomia si possono concepire privi al tutto d' ogni materia e d' ogni realità? e in generale quando le scienze trattano di esseri reali, e non puramente ideali, si può egli dire che il loro oggetto debba esser privo di materia ossia di realità? Poichè non si parla già qui di materia o di realità individuata, ma della materia de' dati scientifici che è materia e realità comune e specifica. Laonde, se i panteisti sotto il nome d' oggetto del sapere intendano la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente, niuno potrà accagionarli per questo d' errore, finchè si parla di scienze che hanno esseri determinati per loro oggetto, quando non si voglia dire che l' oggetto di un tal sapere sia costituito dalla sola forma senza più contro a ciò che si propone la scienza. Dove sta adunque l' errore dei panteisti? non già nella definizione dell' oggetto del sapere, che loro attribuisce il signor Gioberti, ma bensì nel pretendere che quest' oggetto sia Dio. Ma questo è appunto quello che pretende Vincenzo Gioberti. Egli l' ha detto, l' ha replicato in termini espressi, ha pronunciato solennemente che Iddio stesso è il termine immediato di tutte le scienze di cui si compone l' Enciclopedia, e che questa è una religione, e che Iddio stesso è l' oggetto universale del sapere, e lo provò di qui che non si deve prendere la materia della cognizione nostra dal sentimento, come fa il Rosmini col senso comune degli uomini e delle scuole, ma si deve trovarla in Dio, che è l' oggetto del nostro intuito; imperocchè che cosa è la materia del sapere, se non la realtà delle cose che si conoscono, o al più la cognizione di questa realtà? Onde se il signor Gioberti non credesse, come egli dice che fanno i panteisti, che per l' oggetto delle scienze fisiche si debba intendere la forma de' dati scientifici e la materia egualmente, invano avrebbe riposto fra i pretesi errori del Rosmini questo, che egli toglie la materia della cognizione da' sensi, e non da Dio oggetto dell' intuito. E voi già vi sovvenite quanto il Gioberti lungamente si sbracci per provare che non è mica vero che la cognizione di un essere reale p. e. d' un corpo sia composta di due elementi assolutamente distinti, l' uno de' quali divino ed ideale, l' altro contingente e reale ricevuto nel nostro sentimento; da due elementi, dico, che un giudicio dell' uomo copula insieme in un' affermazione; egli pretende anzi che questi due elementi l' idea e la realità sentita da noi non abbiano alcuna reale distinzione, e quindi non possano essere termini di alcun giudicio, ma si percepiscano come un concetto semplice, di modo che l' idea e la realità contingente (notate bene contingente) formi un oggetto solo al tutto indivisibile, oggetto del nostro intuito, il quale è la sostanza delle cose, ed è Dio stesso. Risovvenitevi del Capo IV della sua « Introduzione allo studio della Filosofia », dove questo suo concetto è ampiamente sviluppato, e per ajutare la vostra memoria ve ne leggerò qualche passo. Al N. 3 del citato capitolo egli prende a confutare questa proposizione del professor Tarditi: [...OMISSIS...] Ora egli sostiene che qui non vi ha giudizio, ma semplice concetto. Ma udiamo lui stesso. Proposta la questione da che nasca, e in che consista il concetto della concretezza e della individualità delle cose, incomincia a dire [...OMISSIS...] Era facile, voi il vedete, rispondere a questa interrogazione, bastando dire che il concetto del concreto e dell' individuo è generico anch' esso, perchè esprime ogni concreto ed ogni individuo; onde la difficoltà da lui proposta non esiste, ma è da lui sognata. Ma invece di trovare una risposta sì facile, al Gioberti piace rispondere così: [...OMISSIS...] . Io credo che voi altri stupirete a queste parole. Stupirete a sentire che vi fu al mondo un uomo che negò, che l' idea della concretezza sia un' idea, il che è quanto dire che il nero sia il nero, e che il bianco sia il bianco. Io non ho mai saputo, che vi sia stato un tal uomo al mondo, e molto meno un filosofo; ma il signor Gioberti ci fa sapere che questo povero goffo è il Rosmini. Peccato che non abbia indicato dove il Rosmini abbia parlato così! Ma via, non perdiam tempo, posciachè in tutte le opere del Rosmini dal principio alla fine si cercherebbe indarno una cosa simile: egli è uopo conchiudere, o che il signor Gioberti abbia traveduto, ovvero che il suo sistema non possa esser sostenuto, se non avanzando sì gravi errori di fatto. Proseguiamo dunque a sentire il ragionamento, col quale il Gioberti pretende che noi conosciamo la realità delle cose, dico delle cose contingenti, notate, per un immediato intuito di Dio, di maniera che Iddio riesca sempre il termine immediato del nostro sapere. Così egli la discorre. [...OMISSIS...] Voi avete udito! Gli esseri contingenti, la realità individuale si conosce per un intuito speciale e diretto, il quale ci rivela non la sola corteccia, ma la sostanza delle cose. Ora l' oggetto di quest' intuito, come oggetto immediato di ogni sapere, secondo il Gioberti, è Dio; nè può esser altro, perocchè se potesse essere qualche cos' altro, già egli non sarebbe più bisogno di spendere tante parole al Gioberti per ispiegare come si conosca la realità individuale. Che cosa dunque ci rivela l' intuito? nient' altro ci può rivelare se non il suo oggetto. Ma da una parte si dice che questo oggetto è Dio, dall' altra si dice, che quest' oggetto che ci si rivela è « « non solo la corteccia, ma ben anco la sostanza delle cose ». » Or pel principio che due cose eguali a una terza sono uguali tra di loro, ne viene irrepugnabilmente che Iddio è « « non solo la corteccia, ma ben anco la sostanza delle cose ». » Non siamo noi nella sostanza universale dello Spinoza? se non anco più in là, giacchè Iddio, secondo le citate parole del Gioberti, è non solo la sostanza, ma anco la corteccia delle cose? Noi siamo pervenuti a questo risultato per una dimostrazione altrettanto esatta, quanto le dimostrazioni matematiche. Il qual risultato noi l' abbiamo colto in sulla via, perchè ci veniva tra' piedi, senza che fosse propriamente l' intento del nostro ragionamento. Noi volevamo far osservare che il Gioberti pretende che si conosca la realità delle cose contingenti per un intuito semplice e indivisibile, e non per un giudicio risultante da due termini, l' idea (o per dir meglio, l' essenza che si vede nell' idea) e il sentimento reale. Infatti tutto il discorso suo tende a provare la tesi che questi due termini non esistono, ma ne esiste un solo, che è l' ente reale indivisibile affatto in sè stesso, in quant' è oggetto del primo intuito, Iddio: egli sostiene, che l' essere possibile si trova dalla mente colla riflessione dopo il reale che è l' oggetto dell' intuito. [...OMISSIS...] Dal quale passo si vede che il Gioberti nega espressamente che il reale oggetto dell' intuito sia composto, o si possa dividere realmente, e sola la riflessione lo divide astraendo da esso il possibile. Ora il reale che è l' oggetto dell' intuito contiene per conseguente non solo la forma o idea, ma anche la materia del conoscere, sicchè la riflessione che sopravviene non può aggiungervi nulla, ma solo analizzarlo mentalmente, su di che mi riserbo, o signori, a farvi in altro luogo delle speciali osservazioni. Dunque se l' oggetto dell' intuito è indivisibile, e contiene ugualmente la materia e la forma del sapere, come potrà il Gioberti condannare i panteisti per questo che essi « « intendono sotto il nome d' oggetto la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente » » senza condannare sè stesso? E se sono i panteisti che « « quando dicono che esso Dio è l' oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome di oggetto la forma o idea dei dati scientifici e la loro materia egualmente » », non dovrà temere il signor Gioberti di essere annoverato appunto fra essi, posciachè sostiene che la materia e la forma del sapere, la realità e l' idealità, non si congiungono dall' uomo con un giudicio come è uopo che avvenga se sono due cose; ma si comprendono in un concetto solo, e si hanno unite nell' oggetto dell' intuito, che è Dio, oggetto universale del sapere? Di poi osservate ancora incostanza di parlare. Questo autore afferma che, [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire che per evitare il panteismo conviene dividere il conoscimento delle cose contingenti in IDEA o forma, e in MATERIA. Ora voi ben sapete che questo è appunto quello che facemmo noi col Rosmini; onde a detta del signor Gioberti, la nostra maniera di filosofare dovrebbe appunto essere la via sicura di evitare il panteismo. Non crediate: il Gioberti vuole tutt' altro: vuole anzi la confusione in uno stesso concetto della materia colla forma del sapere: ed è implacabile contro il Rosmini, perchè divise saviamente que' due elementi. Ma di più, che cosa egli intenda per Idea, l' avete udito poco fa: vi richiamerò le sue parole: [...OMISSIS...] . Nell' idea dunque, secondo il Gioberti, si contiene la REALITA`, anzi ella è la realità stessa; dalla quale colla riflessione si astrae poscia la possibilità. Se dunque l' idea contiene tutto, la realità come anche la possibilità, in che modo poi egli vuole che si distingua l' idea dalla materia del sapere? in che modo dichiara panteismo il non distinguere que' due elementi, ma fare che nell' oggetto del sapere si comprenda tanto l' idea quanto la materia? che cosa è, o può essere la materia del sapere, se non la realità? E se nell' idea vi è già prima di tutto la realità, che cosa può rimanere fuori di lei e che sia atto a costituire una materia del sapere, distinta dall' idea stessa? O si dee dunque distinguere l' idea che contiene la possibilità dell' ente contingente, dalla realità di quest' ente, e allora vi ha distinzione tra la forma e la materia del sapere, ed è evitato il panteismo, il che fa appunto il Rosmini; ovvero si dee dire che l' idea è la realità dell' ente onde poi si astrae la possibilità, ed allora non vi ha distinzione possibile tra la forma e la materia del sapere, e si cade nel panteismo, il che fa il Gioberti. Ma il Gioberti stesso insegna che se non si distingue la materia dalla forma del sapere, e si fa che entrambi sieno oggetto dell' intuito, il panteismo è irreparabile. Dunque il Gioberti stesso si fa la sentenza, e noi siamo costretti a dichiararlo panteista, se vogliamo attenerci alla sua propria confessione. Tornando dunque alla definizione dell' oggetto del sapere, no, l' empietà de' panteisti non istà in pretendere che l' oggetto del sapere umano abbracci la forma e la materia egualmente: qui non vi ha errore di sorta; la forma e la materia del sapere è egualmente necessaria a costituirne l' oggetto, o per dir meglio, certi oggetti, e non si può dividere trattandosi di enti contingenti; imperciocchè, badate bene, miei signori, il Gioberti vi confonde due questioni che sono separatissime: la prima « se l' essere ideale sia Dio o no »: la seconda « se noi conosciamo i reali contingenti coll' idea e col sentimento, ovvero collo stesso Dio7Idea, di modo che quando conosciamo un reale contingente, l' oggetto del nostro conoscere sia Dio stesso ». Ora è questa seconda questione che noi al presente trattiamo, e non la prima, e il Gioberti la risolve affermativamente. Ma posciachè il dire che, quando conosciamo i reali contingenti, allora l' oggetto del nostro conoscere è lo stesso Dio, altro non è che un manifestissimo panteismo; quindi il Gioberti per iscansare in qualche modo tale conseguenza, qui senza paura di contradirsi viene con noi, e ci divide in due parti l' oggetto del conoscere, cioè nella forma o idea e nella materia, e dice che l' errore del panteismo sta nel non fare questa divisione: nè si ricorda più, o mostra almeno di non ricordarsi che prima, nell' « Introduzione allo studio della Filosofia », aveva insegnato, che ogni oggetto del conoscere si riduce all' oggetto dell' intuito, e che l' oggetto dell' intuito è reale, uno e indivisibile, e che il possibile si trova poscia in esso per astrazione. Quindi egli non aveva certamente diritto di scrivere così: [...OMISSIS...] . Perocchè in prima, quando noi conosciamo un corpo, abbiamo per oggetto del nostro conoscere la materia delle forze finite, e se non avessimo questa materia delle forze finite per oggetto del nostro atto conoscitivo, non conosceremmo mai un corpo. In secondo luogo egli dice, che in questa materia delle forze finite riluce l' idea, la quale è Dio stesso: ma in tal caso, quando noi conosciamo un corpo, il nostro conoscere avrebbe due oggetti e non un solo, l' un oggetto sarebbe l' idea che è Dio, che non si può confondere colle forze finite, senza cadere nel panteismo che si vuole evitare, l' altro oggetto sarebbe la materia delle forze finite che costituisce il corpo e che non è Dio. Ed egli sembra che così voglia dire, laddove scrive, che egli move il suo ragionare [...OMISSIS...] ; lasciando da parte la strana improprietà di applicare a Dio la denominazione di concreto, mentre tutta la Teologia insegna che Iddio non è un concreto. Ora se l' atto di conoscere ha un doppio concreto, ognuno che conosce un corpo dovrebbe conoscer due cose, Dio e il corpo, il che si oppone troppo al senso comune per farcelo ingozzare; poichè niuno quando conosce un corpo dice mai di conoscere Dio ed il corpo. Dipoi, se chi conosce un corpo conosce questi due oggetti, certo è che egli non li deve confondere, bensì distinguere tra loro, li deve cioè distinguer tanto quanto sono distinti in sè stessi; e poichè sono distinti immensamente, infinitamente, perciò nel suo supposto chi conosce un corpo dee collo stesso atto conoscere l' infinita differenza che corre tra il corpo che conosce e Iddio che pure conosce. Perocchè sarebbe un assurdo contrario all' esperienza ed al senso comune il dire che ognuno che conosce un corpo, conosce Iddio e il corpo in modo che faccia di questi due oggetti un pasticcio, prendendoli per un solo oggetto. E pure il Gioberti nel luogo citato, in cui prende a separare il suo sistema dal panteismo, parla di un oggetto solo, nel quale distingue la materia dalla forma. Ma o convien dire, che il corpo non sia mai oggetto del conoscimento dell' uomo, ma solo Iddio anche quando l' uomo crede conoscere un corpo, il che è marcio panteismo; o convien dire, che chi conosce un corpo, conosce solamente un corpo e non Dio, conosce la materia delle forze finite sotto una sua propria forma e non più, il che si oppone a quanto insegna il Gioberti; o finalmente convien dire, che conosce bensì Iddio e il corpo, ma di questi due oggetti ne fa un solo oggetto, il che, a detta dello stesso Gioberti, è quello che di nuovo i panteisti fanno, [...OMISSIS...] . Notate, miei signori, che questa nostra argomentazione non ha già bisogno di cercare come si conosca il corpo, limitandosi a cercar solo se il corpo, ossia la materia delle forze finite si conosca sì o no; e se si conosce sola, o con Dio, in modo che Dio sia l' oggetto del conoscere; e conoscendosi insieme con Dio, se si distingua o si confonda con esso Dio. Osservate ancora che il Gioberti dice che l' Idea, cioè Dio, riluce nella materia delle forze finite. Ora come possiamo noi sapere che vi riluca, se non supponendo di conoscer la materia delle forze finite, dove l' Idea, cioè Dio, riluce? Converrebbe dunque supporre che noi vedessimo e conoscessimo Dio vedendo e conoscendo le forze finite dove egli riluce; e in tal caso la materia delle forze finite sarebbe l' oggetto precedente del nostro conoscere e il contenente; e Iddio, ossia l' Idea sarebbe l' oggetto susseguente e il contenuto. La materia dunque delle forze finite si conoscerebbe per sè stessa, e Iddio, ossia l' idea giobertiana, per via della materia! Assurdo che il Gioberti sicuramente rifiuta, benchè implicitamente il pronunci. Ma dopo aver veduto che, secondo la giobertiana dottrina, quando l' uomo conosce un corpo dovrebbe conoscer due oggetti immensamente distinti e inconfondibili tra loro, e quali e quanti assurdi da ciò derivino; vediamo anche il come voglia il Gioberti che si conosca la materia delle forze finite che egli fa sinonimo alla sostanza delle cose create . Udiamolo attentamente. [...OMISSIS...] . Queste ultime parole escludono, miei signori, la volontà di esser panteista: ma la dichiarazione di non esser panteista, (la quale è frequente nel Gioberti, e però noi non attribuiremo mai un tale errore alla sua persona) esclude ella altresì il panteismo che si trova nelle parole precedenti? Certo presso i veri panteisti la dichiarazione di non esser panteista non val nulla, perchè sono di quelle frasi magnifiche e menzognere, che essi talora adoperano, e dalle quali il Gioberti già ci mise in gran guardia. In fatti abbiamo veduto che l' oggetto scientifico, quando si tratta di conoscere oggetti finiti, è composto, secondo lo stesso Gioberti, di materia e di forma; e che la forma è l' idea la quale è Dio stesso. Iddio dunque, secondo quest' autore, viene in composizione colla materia corporea, ed insieme con essa costituisce l' oggetto del sapere; ma s' udì mai che Iddio possa venire in composizione con cos' alcuna, e in composizione sì stretta da formare un solo oggetto scientifico, un composto di materia e di forma, di cui Iddio sia la forma? All' incontro, basta conoscere i primi elementi della Teologia per sapere che Iddio è purissimo e tale che non si può mescolare con cosa alcuna fino a formare con essa un solo oggetto. Nè vale già il dire, qui si tratta d' oggetto scientifico, e non d' oggetto reale, perocchè il Gioberti esclude affatto questa ritirata, sostenendo che l' ordine che hanno le cose nella mente è quello stesso nè più nè meno che esse hanno al di fuori della mente; e al professor Tarditi fa colpa dell' aver distinti col Rosmini questi due ordini, e assegnate le lor proprie leggi a ciascuno. E qui notate, o cari signori, che questo principio che l' ordine delle cose nella mente sia quello stesso dell' ordine delle cose fuori della mente, fu sempre graditissimo ai panteisti tutti, siccome quello che mirabilmente giova al loro sistema. Nè sarà inutile raffrontare a questo proposito la maniera di pensare dello Spinosa con quella di Vincenzo Gioberti, il che farò colle parole di un recente storico della Filosofia che così espone il pensiero dello Spinosa: [...OMISSIS...] Io lascio riflettere a voi stessi sull' eco che di questa dottrina voi trovate nel Gioberti. Il quale anche nel passo ultimamente di lui citato ripete che [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire che quando il pensiero pensa la materia creata (notate bene, la materia e non più la forma), pensa Dio stesso. Ed avvertite la ragione che egli dà di questa sentenza, perchè dice, « « la materia creata non si può disgiungere dall' azione creatrice » ». La qual ragione acciocchè sia efficace a provare l' assunto, dee voler dire che la materia creata è così congiunta coll' azione creatrice che forma con essa una cosa sola pensabile; perocchè se non formasse con essa una cosa sola, non potrebbe giammai formare un solo ed unico oggetto del sapere, come vuol provare il nostro filosofo. Che se la materia creata forma una cosa sola coll' azione creatrice, in modo da costituire un solo ed unico oggetto del sapere, forz' è che la materia creata formi una cosa sola con Dio, perocchè l' azione creatrice è Dio stesso, e d' altra parte Dio appunto, a detta del Gioberti, è l' oggetto immediato ed universale del sapere. Se dunque la materia creata e Dio sono una cosa sola, e tale che non si possono pensare divisi come due oggetti (se non solo forse per quell' astrazione che succede al primo intuito, e che, secondo il Gioberti, divide anche l' indivisibile), varrà egli punto a fare, che un tal sistema non sia manifestissimo panteismo, la dichiarazione aggiunta che anche rispetto alla materia creata « « l' oggetto scientifico è Iddio stesso, non come identico alle sue fatture, ma come causa creante e immanente di esse »? » O non converrà piuttosto conciliare questa dichiarazione con quel che precede? Perocchè una tale dichiarazione è infatti conciliabile, miei signori, colla dottrina precedente, avendo ella un senso che può star bene nella bocca di qualunque compiuto panteista ed emanatista. Poichè l' emanatista è già panteista facendo che Iddio e le creature sieno della stessa sostanza, senza che tuttavia egli dica che Iddio sia identico colla sua fattura, che anzi egli distingue benissimo l' emanante dall' emanato. Ma il sistema giobertiano, stando alle sue frasi, è un panteismo ancora più solenne e più compiuto. Perocchè l' emanatista fa, è vero, che la sostanza di Dio sia quella stessa delle sue fatture, ma alla fine, lungi dal fare che Dio emanante e le sue fatture emanate sieno lo stesso oggetto, ne fa due oggetti distinti; quando all' incontro il signor Gioberti dice che questo è impossibile, e che non possono essere che un oggetto solo, benchè poscia la sopravveniente astrazione li distingua. Onde se per l' emanatista, Iddio e le sue fatture non sono identiche, perchè formano due oggetti realmente distinti, benchè d' una stessa sostanza; pel signor Gioberti Iddio e le sue fatture (quantunque formino un solo e medesimo oggetto del pensiero) non sono identici, unicamente perchè l' astrazione poi distinguendoli toglie loro l' identità, e così ci mette una semplice distinzione di ragione. Di che conchiude il Gioberti con quella frase che adopera spesso anche lo Spinosa, cioè che « « Iddio è causa creante e immanente di esse » », perchè forma con esse un oggetto solo, nel quale poi la nostra astrazione distingue causa ed effetto; ma come il signor gioberti concepisca la causalità e la creazione, senza che punto nè poco rechino offesa al suo panteismo, noi lo vedremo meglio fra poco. Facciamo ora un passo indietro e supponiamo che noi non leggessimo nelle opere del signor Gioberti che [...OMISSIS...] . Supponiamo che egli si ristringesse a dire che Iddio è l' oggetto del sapere solamente in quanto alla sola forma. Che ne avremo, o signori? avremo evitato con ciò il panteismo, o supponendo che sì, avremo evitato ogni altro errore, avremo una filosofia veramente sana? Vediamolo. a) Primieramente quand' anco si trattasse d' idee nel senso in cui solitamente le intendono i filosofi, e non nel senso giobertiano, secondo il quale la stessa realità è in esse e propria di esse, ditemi, o signori, parrebbe egli a voi che si potesse riputare una proposizione del tutto ortodossa questa, che « « le idee delle cose finite sieno Dio stesso » »? Io non so, a dir vero, se si possa asserire ch' essa sia stata precisamente condannata dalla Chiesa in Wicleffo (1), ma certo a me sembra manifestamente erronea, giacchè nè in ciascuna nè in tutte insieme tali idee si può trovare quello che è necessario all' essenza divina, nè per fermo si potrà mai dire, che l' intuire tali idee così moltiplici e limitate siccome sono, sia intuire Dio stesso. b) Di poi, quanto non s' accresce l' errore se si considera, che pel Gioberti l' idee sono reali, e non contengono la sola possibilità delle cose, che anzi questa possibilità, secondo lui, è soggettiva, cioè prodotta dalla riflessione ed astrazione dell' uomo, che la distacca dirò così dall' idea nella sua concretezza? Con questo dogma filosofico il panteismo ideologico di Wicleffo diviene di più un panteismo materiale ed assoluto. c) Finalmente e a conferma appunto di questo, si consideri che se fosse altramente, secondo la dottrina del Gioberti, cioè se quando conosciamo un corpo, l' oggetto del nostro conoscere fosse bensì composto di forma e di materia, ma la sola forma fosse Dio; resterebbe a domandarsi, se il detto oggetto del conoscere sia realmente solubile in due oggetti, ovvero rimanga un oggetto solo. Poichè se rimane un oggetto solo, siamo da capo. E questo conferma veramente il Gioberti quando dice che [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la forma cioè Dio, si conjuga colla materia, cioè col corpo, e quindi costituisce con esso un solo oggetto; e in questa conjugazione, per cui Iddio diventa un oggetto solo col corpo, sta, dice il Gioberti, « la sintesi maravigliosa dell' intuito umano ». Da cui trae questo conseguente, che [...OMISSIS...] . Notate bene: dall' avere egli ammesso a principio che Iddio è l' oggetto del sapere rispetto alla forma, è venuto poi quasi come per una conseguenza indeclinabile a concedere, che quando conosciamo un corpo materiale, lo stesso Iddio sia l' oggetto scientifico anche rispetto alla materia creata; per la ragione appunto, che questa non si può disgiungere dall' azione creatrice, la quale azione è Dio stesso. E in fatti egli dovea precipitare a questo contradittorio risultato, poichè se Iddio non fosse, secondo lui, l' oggetto del conoscer nostro, anche quando il conoscer nostro ha per oggetto la materia creata, egli non avrebbe impugnato il sistema del Rosmini, che fa venire la cognizione della materia dal sentimento, e non avrebbe detto che l' oggetto dell' intuito dovea essere un reale, acciocchè in lui potessimo trovare e conoscere la realità delle cose contingenti, delle quali si parla; senza di che questa realità non sarebbe stata conoscibile. Conchiudiamo dunque questa lezione. Panteisti son quelli che, « quando dicono che Dio è l' oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome d' oggetto la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente ». Ma Vincenzo Gioberti insegna, che « « non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto alla materia l' oggetto scientifico è Iddio stesso » ». La conclusione non è bisogno che la tiriamo noi, miei signori; ma viene da sè. Ripetiamo che non vogliamo attribuire la panteistica empietà all' animo del signor Gioberti, ma noi non sappiamo come purgarne il sistema. Nella precedente lezione noi abbiamo udite le giustificazioni, colle quali il signor Gioberti cerca di purgare il suo sistema dall' empietà panteistica, e, dopo esaminatele il più accuratamente che noi abbiamo saputo e imparzialmente, dovemmo convincerci ch' elle sono insufficienti. Tuttavia non dobbiamo tenercene a pieno contenti, miei signori; dobbiamo continuare nella ricerca, penetrare più addentro, considerare altri brani delle opere d' un autore, che fu letto avidamente in qualche parte di questa nostra penisola. Ciò noi dobbiamo per doppia ragione. La prima, perchè, se mai ci riesce di averne il lietissimo risultato, che il giobertiano sistema vada immune veramente da un tanto errore, noi avremmo non solo provveduto al buon nome del suo autore, ma ben anco al buon nome di tutti coloro che gli furono larghi di prontissimi ed amplissimi encomj. La seconda, che se per opposto noi avessimo il dolore di rinvenire il fatto contrario, in così rincrescevol termine dovrebbe pur confortarci il vantaggio che per avventura potrebbero ritrarre i nostri connazionali dalla nostra discussione. Imperocchè egli è troppo importante, o signori, di ben guardare e premunire questa nostra terra italiana, che per pietà e per buon senso a niuna cede di quante in potenza la vincono, all' invasione che la minaccia dei mostruosi sistemi stranieri, quali sono quelli che straziano sì crudelmente i visceri della Germania, de' quali indubitatamente il Gioberti s' industria di trapiantare almeno le frasi, se non i concetti, nel nostro suolo. Cominciamo adunque subito, se vi piace, a leggere qualche altra pagina del Gioberti, e vedere che cosa vi troviamo a sua discolpa. [...OMISSIS...] . Qui subitamente già troppe cose ci si presentano, troppe cose ci si rivelano. La prima si è, che l' idealità si dichiara separabile nell' ordine delle cose contingenti. Dunque almeno in quest' ordine può essere la idealità senza la realtà, e però non è assurda questa separazione. Si dee dunque conchiudere che almeno in quest' ordine l' ideale, benchè separato dal reale, non è più il nulla, come tante volte ci ripete il Gioberti per provare che ripugni intrinsecamente che l' ideale si separi dal reale. E se questo ideale anche separato dal reale è qualche cosa, dunque non è mica più assurdo, che Iddio nella formazione dell' uomo, gli abbia dato l' intuito dell' essere ideale, e non la percezione dell' essere reale. Non trattasi adunque che della verificazione del fatto, il quale non può argomentarsi a priori, ma accertasi colla osservazione filosofica. Dipoi, egli è assai strano l' immaginare un ordine contingente di cose, in cui l' ideale stia separato dal reale; giacchè in un ordine contingente di cose non si sa come possa avervi l' ideale; poichè in qualunque senso si prenda l' ideale, egli è pur sempre necessario, e non mai contingente. Se si prenda nel senso nostro come distinto da ogni realità, e qual semplice lume comunicato da Dio alle create intelligenze, noi abbiamo veduto che esso gode i caratteri della necessità, dell' eternità ecc.: dunque non appartiene all' ordine contingente, ma all' ordine necessario, a Dio stesso, di cui è un' attinenza. Se si prende nel senso giobertiano, nel qual senso esso è Dio stesso, molto meno può essere contingente, se non fosse nel sistema panteistico, in cui del contingente e del necessario si fa una cosa sola. Il dire dunque che l' ideale nell' ordine contingente di cose è separabile dalla realità, è in ogni modo un manifesto assurdo, sia poi un assurdo panteistico, o d' altro genere. E pure non ci dee fare meraviglia, o signori, se il Gioberti ponga nell' ordine delle cose contingenti qualche specie d' ideale . Poichè dove mai ha egli preso il suo achille contro la nostra dottrina, se non in questo principio appunto che l' idea dell' essere essendo, a detta sua, un' idea astratta, è per conseguenza subiettiva e s' immedesima col subbietto uomo che è pur contingente, di che accusa il Rosmini di psicologismo con tutte le altre brutte taccie, che ne sono la conseguenza? [...OMISSIS...] . Ma forse ad alcuno di voi sovverrà, miei signori, che in altri luoghi il medesimo Gioberti dà del divino anche alle idee astratte siccome sono le idee generiche: sovverrà che nella sua terza lettera al professor Tarditi, dopo aver pronunziato solennemente che [...OMISSIS...] . Onde aperto dichiara che egli ammette bensì un reale dotato di contingenza, ma non un ideale della stessa natura (3). Le quali cose sembrerebbero contradittorie all' aver distinto, come egli fece, l' ideale dal reale nell' ordine contingente, ed all' aver dichiarato che le idee astratte, e nominatamente quella dell' essere in universale, ch' egli fa venire dall' astrazione (al contrario del Rosmini che la mantiene innata alla mente) è un' idea subbiettiva, che s' immedesima coll' uomo soggetto contingente e finito. Ma egli v' ha pure un sistema nel quale tali proposizioni tanto opposte si conciliano ottimamente: dovremo noi, miei signori, credere che un tale sistema sia quello del signor Gioberti per cavarlo di contradizione? Ora qual è mai questo sistema? Il panteismo, o signori; non altro che il panteismo. Poichè solo in questo sistema si può cangiar di linguaggio, e dire, in qualche modo, ora che l' idea sia Dio stesso, ora che la medesima idea sia l' uomo essere contingente e finito; quando il panteista, come sapete, riguarda il contingente ed il necessario come aspetti diversi, sotto cui lo stesso essere si considera; e quello a ragion di esempio che considerato come oggetto dell' intuito chiamasi Dio, quello stesso diviso poi dalla riflessione e dall' astrazione diviene uomo, e chiamasi essere contingente e finito. Ma il Gioberti, che ha tutta la buona volontà di non esser panteista, tenta un' altra via per vedere se gli riesce di conciliarsi seco stesso con più onestà. Egli immagina dunque due enti possibili invece d' un solo, perocchè egli dice: [...OMISSIS...] . Dunque quando l' uomo pensa un ente possibile, per esempio « un cavallo possibile », egli pensa due possibili, due cavalli possibili, immensamente diversi l' uno dall' altro, perocchè l' uno dei due cavalli possibili è Dio stesso, poichè è « « il possibile eterno come pensato da Dio » », è « « l' idea divina numericamente identica » », come dice poco appresso (1); l' altro cavallo possibile è nel soggetto umano, e s' immedesima col soggetto umano, e però è l' uomo o parte dell' uomo, e tuttavia questo possibile subbiettivo, com' anco dice, è « « la pensabilità umana del pensato divino » ». Di che ne viene che l' altro possibile oggettivo debba essere « « la pensabilità divina del pensato divino » ». Non voglio indugiarvi sull' assurdo che di una stessa cosa vi abbia due possibili, distinti quanto è distinto Iddio dall' uomo. Solo voglio farvi avvertire, che queste due pensabilità sono entrambi accessibili all' uomo, secondo il signor Gioberti: onde nell' uomo cade tanto « « la pensabilità divina del pensato divino » », che viene appresa dall' intuito, quanto « « la pensabilità umana del pensato divino » », che è una copia finita di quella, come dice poco appresso, e però non più un' astrazione com' avea detto innanzi. Veramente se l' uomo non è Dio, pare difficile a intendere, come gli possa appartenere « « l' idea divina numericamente identica », « il possibile eterno, come pensato da Dio » », e « « la pensabilità divina del pensato divino » ». Ma se l' uomo è Dio, in tal caso poi è difficile a concepire del pari, come gli possa appartenere « « la pensabilità umana del pensato divino » », e « « una copia finita del cavallo possibile eterno come pensato da Dio » ». Anche di questo intrico ci sembra oltre modo malagevole uscire senza ricorrere ad un sistema, che confonda insieme la natura divina e l' umana. Se il signor Gioberti ci riesce, lui fortunato! Intanto però egli ci protesta che « « il subbiettivo dell' idea non si può separare dall' obbiettivo »(2) »; il che è quanto dire, che l' umano dell' idea, non si può separare dalla medesima idea, la quale avrebbe perciò ad un tempo stesso dell' umano e del divino. Laonde egli sembra che la distinzione che il Gioberti introduce, nel passo più sopra recatovi, fra l' ordine assoluto e l' ordine contingente, nel suo sistema non possa aver luogo; e questo vi si renderà anzi evidente se farete riflessione alla ragione che son per dirvi. Il signor Gioberti insegna, che « « l' idealità non è separabile dalla realità nell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito » »; ma dice ancora e lo replica fino alla sazietà, che nell' oggetto dell' intuito vi è tutto lo scibile, tanto quello che riguarda le cose create, e tutto ciò che resta a fare all' uomo non è che l' opera della riflessione che analizza, e lavora ciò che nell' oggetto dell' intuito si contiene, onde anche l' ordine contingente di cose non può essere escluso dall' oggetto dell' intuito giobertiano, perchè la riflessione ve lo trova, ovvero sia lo produce in separandolo. Se dunque si dà distinzione tra l' ordine assoluto e l' ordine contingente, non può mica essere che il primo ordine sia oggetto dell' intuito e non il secondo, come viene a dire nel passo citato; ma convien dire che questa distinzione si trovi già nell' oggetto dell' intuito stesso. Ora se i due ordini, l' assoluto e il contingente, sono separabili e non confusi insieme, essi vengono necessariamente a costituire due oggetti e non un solo; poichè la loro separazione, se la si vuol riconoscere, si dee riconoscerla per una separazione massima, di maniera che sia più separato il contingente dall' assoluto, di quello che un oggetto contingente qualsiasi, p. e. un topo, da un altro oggetto contingente qualsivoglia, p. e. dal sole. Se dunque il topo ed il sole sono due oggetti distinti del conoscere umano, molto più debbon essere due oggetti distinti del conoscere l' ordine contingente di cose e l' ordine assoluto, e quindi il primo non può essere in modo alcuno forma, ed il secondo materia del medesimo oggetto. Ma se l' intuito giobertiano ha due oggetti e non un oggetto solo, e se l' uno non è forma dell' altro, come poi dice il nostro Filosofo, che quando conosciamo un corpo, l' oggetto scientifico è Dio stesso, non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto alla materia, quando pure Iddio sarebbe non lo stesso oggetto, ma un oggetto diverso? Di più, se « « l' idealità non è separabile dalla realtà nell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito, ma solo nell' ordine contingente » », come si conosce quest' ordine contingente? O si conosce coll' idea, o senza di essa: se coll' idea, in tal caso, posciachè quest' idea per il signor Gioberti è reale ed è Dio stesso, l' ordine contingente non è più diviso dall' ordine assoluto, e supponendolo diviso si suppone ciò che nel suo sistema è contradittorio ed assurdo. Se si conosce senza l' idea, l' ordine contingente è dunque fuori dell' idea, è conoscibile per sè stesso; e quindi non è più vero che tutto si contenga anche il contingente nell' oggetto dell' intuito. Finalmente dicendo che nell' ordine contingente l' idealità è separabile dalla realtà, pare che l' ordine contingente si componga di idealità e di realità. Ma nell' idealità, secondo il signor Gioberti, si contiene già la realità, perocchè altrimenti sarebbe nulla. Dunque l' ordine contingente, secondo lui, si compone d' idealità che è insieme realità, e d' una realità che non è idealità. Dunque si compone di una idealità e di due realità. Ma nell' ordine assoluto non v' ha che una idealità e una realità inseparabili tra loro. Dunque, giusta il ragionare giobertiano, vi ha più nell' ordine contingente che nell' ordine assoluto: perocchè in questo vi è una idealità con una sola realità, e in quello una idealità con due realità, l' una delle quali è separabile! Quali imbarazzi, quali contradizioni non sono queste, miei signori? Ma portiamo pazienza, e riprendiamo le giobertiane parole. [...OMISSIS...] Io non mi fermerò qui, miei signori, ad osservare tutte le cose gratuite e false che suppongono queste parole; giacchè gratuito e falso è che l' intuito umano abbia per oggetto Iddio, il quale in tal caso sarebbe « nobis naturaliter notum », contro la dottrina di s. Tommaso «(S. I, II, 1; e III, IV, 2) »; e di tutti i principali teologi; gratuito e falso è che abbia per oggetto l' atto creativo, che nessun vide, mai quaggiù, appunto perchè « Deum nemo vidit nunquam », come disse san Giovanni «(I, 1.) », non potendosi vedere l' atto creativo senza vedere lo stesso Dio. Non sono questi ed altrettali gli errori che noi abbiamo preso a rifiutare in queste lezioni, miei signori (2); ma dobbiamo solo esaminare se, anche supposto che tutto ciò fosse vero altrettanto quant' egli è falso, una tale dottrina possa conciliarsi coi principj teologici, e specialmente se ella possa andarsene pura dal veleno panteistico. Ora il Gioberti ci accorda espressamente che Iddio non è identico alle sue creature, ma che queste sono effetto, di cui Dio è causa. Per evitare il panteismo questo non basta, miei signori; converrebbe che egli qui ci dicesse di più che la natura di Dio e la natura delle creature sono cose infinitamente distanti l' una dall' altra, che sono dunque due nature realmente diverse: converrebbe che ci dicesse ancora che queste due nature non hanno niente, niente affatto di comune tra loro, dimodochè non possano essere intese con un solo concetto; perocchè tutti i teologi cattolici e fino i Mussulmani insegnano che Iddio non cade nè in alcun genere, nè in alcuna specie. Se dunque Iddio e le creature sono nature così distinte, che non hanno nulla affatto di comune tra esse; egli è manifesto che non si possono intendere e percepire con un solo e medesimo concetto; e non possono formare un oggetto solo dell' intuito. E` dunque necessario per non cadere nel panteismo il supporre che due pensieri, e non un solo pensiero, sia quello che ci fa conoscere cose così al tutto diverse: giacchè due sono indubitatamente gli oggetti che quanto alla natura, non comunicano insieme in cosa alcuna. Laonde, e come mai sfuggirà il panteismo una dottrina, la quale insegna che v' ha un solo intuito nell' uomo, il cui oggetto contiene tutto lo scibile sì del necessario, come degli esseri contingenti, e che la riflessione non fa che trovarlo, e svolgerlo poscia operando su quell' oggetto? come sfuggirà il panteismo un sistema, che sostiene che quando noi conosciamo le creature materiali, p. e. un corpo, allora noi abbiamo per oggetto Dio stesso? e ciò non solo per rispetto alla forma, ma ben anco alla materia? Il Gioberti dice « « perchè Iddio è causa creante e immanente delle cose » »: ma e che per questo? Noi gli rispondiamo, o la causa si identifica coll' effetto, ed allora accordiamo, che percependo l' effetto si percepisce necessariamente la causa, e viceversa; o la causa non s' identifica coll' effetto, come il Gioberti dice espressamente, e come diciam noi, anzi è una natura intieramente diversa da quella dell' effetto e non ha niente di comune con esso, ed in tal caso come può essere che la causa, che nel caso nostro è Dio, formi un oggetto solo del conoscere umano col suo effetto, che sono le creature, e sottostia ad un solo concetto, siccome pure viene a dire il Gioberti, quando pretende che Iddio sia l' oggetto di tutte le nostre cognizioni? non si potrà forse conoscere una natura, che è causa, senza conoscere un' altra natura tutta diversa da lei, che è l' effetto non necessario, ma libero di quella? Ma il nostro autore soggiunge: queste due cose, Iddio e la creatura, sono congiunte mediante l' atto creatore. E che perciò? non restano esse tuttavia così distinte e così separate, che v' ha un infinito di mezzo? non rimangonsi nature così dissimili, che non convengono in cosa alcuna nè speciale, nè generale (1), se non fosse nel nudo concetto dell' esistenza? Ma voi non potete vedere l' atto creatore senza vedere la creatura prodotta. Sebbene l' affermare che l' uomo veda l' atto creatore in questa vita sia piuttosto un sogno o un delirio, che una sentenza filosofica o teologica, tuttavia giacchè abbiamo detto di non volere impugnare per ora questa stranezza, anzi di voler supporla, così rispondiamo a tale istanza: l' atto creatore si distingue egli dall' essenza di Dio? no certamente, ma quell' atto è la stessa essenza divina, perchè Iddio è un atto solo con cui è e con cui opera. Dunque coll' introdurre l' atto creatore non si può spiegare la percezione delle cose create, p. e. dei corpi, meglio che coll' introdurre l' essenza divina. Se questa è un oggetto del conoscere umano diverso al tutto da un corpo che l' uomo percepisce, si ha una natura diversa, una natura e un oggetto che non ha niente di comune col corpo; dunque nè pur nell' atto creatore si possono trovare i corpi stessi reali, e percepirveli . Il Gioberti, egli pure dice in qualche luogo, che le creature sono il termine estrinseco dell' atto creatore, e non il termine intrinseco e consostanziale. Dunque nell' interno dell' atto creatore, cioè in Dio, non vi sono i corpi reali, non v' è il contingente, non v' ha la materia creata, in questo senso che sono appunto quello che sono in quanto da Dio si distinguono. Or come, se la cosa è così, può dire il nostro eloquente scrittore, che quando conosciamo un corpo, Iddio è l' oggetto del nostro conoscimento, e non solo quanto alla forma, ma ben anco quanto alla materia creata? O bisogna abbandonare questo sistema, o non disdire e negare il panteismo, ma anzi ammetterlo: poichè il fare altrimenti è un tagliarsi per mezzo colle proprie mani. Ma pure le cose create sono in Dio, e però in Dio si possono vedere; e le vedono in Dio i celesti comprensori. - Io non so se io debba far parlare il Gioberti con sì poco senno teologico; ma mi permetto di farlo, o signori, a suo vantaggio; cercando cioè di non trapassare niuna delle ragioni apparenti, che potessero scusare i suoi gravissimi errori. E di vero, se così ci replicasse il Gioberti, noi gli diremmo, che consultando i teologi, gli sarà facilissimo impararvi, che le cose create sono bensì in Dio, come nel loro esemplare e nella loro causa, [...OMISSIS...] , per usare l' espressione di s. Tommaso «(S. I, III, VIII) »; ma non sono mica in Dio nè quanto alla loro forma, nè quanto alla loro sostanza materiale, [...OMISSIS...] . Ora di che cosa trattiam noi? forse di avere solamente l' idea del corpo, che è quanto dire di conoscere il corpo nella sua possibilità? Non ci ha dubbio che l' idea di corpo c' è in Dio in qualche modo: in un modo, dico, che resterebbe ancora a spiegare, perchè l' idea de' corpi non è in Dio, come in noi, distinta realmente dalle altre idee, ma compresa in un lume solo; che l' unica cosa che v' ha in Dio di realmente distinto sono le persone, e il porre altra distinzione reale si oppone, come sapete, alla cattolica fede. Onde non essendo l' idea che è in noi di un corpo, quell' idea stessa che è in Dio del corpo, non si può dire senza errore che noi vediamo l' idea in Dio; perocchè quando ciò fosse, vedremmo l' idea del corpo con tutte l' altre idee contenute in una idea sola, o per dir meglio nel Verbo, come le vedono i comprensori celesti, al che ripugna il fatto del nostro modo di conoscere per via d' idee molte e distinte. Ma benchè questo solo argomento, dove fosse svolto secondo i principj della cattolica teologia, basterebbe a rovesciare l' ipotesi giobertiana, ed eziandio la meno ardita di Malebranche; tuttavia, anche accordatogli quello che non è, che vedessimo in Dio l' idea del corpo, niente avrebbe egli ancora guadagnato; chè il nostro discorso non è mica v“lto a spiegare l' idea del corpo, ma è v“lto a spiegare la percezione intellettiva d' un corpo, colla quale noi percepiamo e conosciamo non la possibilità del corpo, ma la sua stessa realità; questo corpo che è qui, ora; la sua materia, la quale in Dio non si trova, che anzi ella ha questo per essenza, d' esser fuori di Dio; nè si potrebbe metterla in Dio senza divinizzarla, e materializzare Iddio, e quindi essere panteista e spinosista. Ancora, trattiamo noi forse di spiegare come conosciamo la causa del corpo, o il corpo in quanto è nella sua causa, cioè in Dio? Neppur questo, poichè, per dirlo di nuovo, trattasi di spiegare unicamente come noi percepiamo la stessa sostanza materiale del corpo, e come noi stessi veniamo in comunicazione con questa sostanza. Ora il corpo, in quanto è sostanza materiale, non si trova in Dio, nè nell' atto creativo che è Dio stesso; ma è tutto fuori di Dio, e fuori dell' atto creativo che il fa esistere. Egli è vero che in Dio vi è la virtù che fa sussistere il corpo, perchè è causa creante ed immanente; ma da ciò non ne viene altra conseguenza se non questa, che qualora fosse vero che noi conoscessimo Dio, sarebbe vero che noi percepiremmo la causa, e conosceremmo l' effetto, cioè il corpo, ma non lo percepiremmo già nell' essere suo proprio materiale, come in fatto lo percepiamo, ed è questo fatto della percezione della corporea e materiale sostanza, per dirlo di nuovo, che noi dobbiamo e vogliamo spiegare in Filosofia. Onde o convien dire che noi non percepiamo la sostanza materiale de' corpi, il che sarebbe un negare il fatto più manifesto, ed il Gioberti stesso nol nega parlando anch' egli di sostanza contingente e di materia; ovvero, volendo sostenere che noi percepiamo il corpo nel suo essere proprio e materiale in Dio, che si suppone oggetto dell' intuito, non vi ha più riparo alcuno alla panteistica assurdità; giacchè è giocoforza che collochiamo in Dio la stessa sostanza e materia corporea; e poichè tutto ciò che è in Dio è Dio; forz' è che concludiamo che Dio è corpo, o che il corpo è Dio; ciò che viene al medesimo. Riassumiamo, o signori, quest' argomento evidentissimo. Noi non possiamo percepire in Dio, o nell' atto creatore, che è pur Dio, ciò che non vi è. Ma il corpo, e niuna delle cose contingenti, in quanto hanno un loro essere proprio reale, contingente e materiale, non sono in Dio. Dunque, quand' anco fosse vero altrettanto quanto è falso, che noi vedessimo Iddio, potremmo conoscere perfettamente, ma non potremmo percepire la materiale sostanza dei corpi, nè alcuna creatura nel suo essere proprio e contingente, se non avessimo il sentimento, e nel sentimento non ne ricevessimo l' azione. Convien dunque confessare, che col ricorrere all' intuito di Dio e dell' atto creatore, non si può spiegar la percezione delle sostanze create, e specialmente delle materiali, e questo è rinunziare al giobertiano sistema; ovvero conviene ammettere tutto quant' è lungo e largo e goffo e grosso il panteismo. A voi, miei signori, la scelta, che non vi è certamente difficile a fare. Ma e i celesti comprensori non percepiscono forse in Dio le cose create? A questa dimanda, che niuno perito nella scienza teologica farebbe mai, rispondo di no: posciachè mi parlate di percepire, e non di conoscere semplicemente. In Dio, nè nel suo atto creatore, che è Dio medesimo, essi non possono percepire ciò che non vi è; e non vi è, come dicemmo, la creatura nell' essere suo proprio formale, sostanziale, materiale. Dunque ivi non possono percepire e non percepiscono punto nè poco le creature. Essi ve le conoscono bensì, ve le conoscono cioè non tutte, ma solo quelle che Iddio vuol loro rivelare; ma non ve le conoscono per via di percezione come le conosciamo noi al presente; benchè è da credersi che neppure ad essi sia tolta la percezione delle creature nel loro essere proprio fuori di Dio; ma questa loro percezione non l' hanno nella visione di Dio, perchè quivi non possono averla, ma per quella comunicazione naturale che ancor conservano colle creature stesse. Essi vedono in Dio le cose contingenti quante Iddio ne vuol loro dimostrare, come nel loro esemplare, cioè nella loro idea, e questa idea fa loro conoscere la possibilità di esse. Ci vedono ancora le cose come nella loro causa creante, e quindi ben intendono che sussistono e come sussistono, e le conoscono meglio che non le conosciamo noi colla percezione; ma in altro modo, perchè non le percepiscono in sè stesse. Nè l' uno nè l' altro di questi due modi di conoscere è percepire le cose; e perciò quello dei celesti comprensori non è il modo del conoscer nostro sperimentale, non è quello che noi trattiamo di spiegare, e per ispiegare il quale noi ricorriamo col Rosmini al sentimento, e all' essere ideale; laddove il Gioberti ricorre all' intuito di Dio e dell' atto creativo. Vero è che noi abbiamo anche un altro modo di conoscere le cose, ed è quello di conoscerle nella loro possibilità. Ma neppur questo modo si può spiegare, come abbiamo accennato, ricorrendo all' intuito di Dio, per l' argomento fatto di sopra, che possiamo riassumere così. In Dio non vi hanno concetti in senso proprio, l' uno realmente distinto dall' altro, ma vi ha un solo ed unico Verbo, che è figura della sostanza; e insieme esemplare delle cose, pel quale tutte le contingenti si creano, e si distinguono e sono da Dio perfettamente conosciute. Ma noi vediamo le cose possibili con altrettanti concetti determinati dalle nostre percezioni, ciascuna delle quali è realmente diversa dall' altra, e non già pronunciandole con un solo e medesimo verbo, come faremmo se le vedessimo nell' unica percezione del Verbo divino. Dunque qualunque via si prenda a spiegare l' origine di questi concetti così distinti, o si ricorra ai sentimenti e alle loro vestigia, come facciamo noi, o si abbracci un altro sistema; non sarà mai vero che i detti concetti sieno un solo pronunciato, come dovrebbe essere se li conoscessimo a quel modo come sono conoscibili in Dio. Dunque noi non vediamo la possibilità delle cose in Dio, e quindi non vediamo Iddio, come pretende il Filosofo nostro. Rimane il terzo modo di cognizione per via di causa. Di questo noi uomini, nel mondo presente, ne siamo privi del tutto: noi non sappiamo come le cose sieno in Dio eminenter: questo lo sanno solo i comprensori celesti. E facilmente si prova in questo modo. Ciò che si conosce per via di causa, o è nella causa o fuori di essa. Se è nella causa, si può percepire insieme nella percezione della causa; altrimenti, non essendo nella causa, si deve argomentare movendo dalla causa, e venendo all' effetto; e questo sarebbe un conoscere le cose indirettamente . Ma le cose create col loro essere sostanziale e materiale, come noi le conosciamo sperimentalmente, non sono in Dio loro causa, ma sono il termine dell' azione di questa causa. Dunque se noi vedessimo Iddio solo, senza avere anche la percezione immediata e diretta di esse, noi non potremmo conoscerle se non per via d' un' argomentazione dalla causa all' effetto, o, per dir meglio, dall' esistenza eminente all' esistenza propria e reale, o per ispeciale interna e positiva rivelazione. Solo se noi vedessimo l' atto di questa causa unitamente al suo termine, conosceremmo certamente questo termine, ma nè pur allora in quel modo sperimentale e diretto, nel quale lo conosciamo adesso. Certo nessuno dirà che noi conosciamo prima l' esistenza eminente delle cose in Dio, e poi l' esistenza loro propria e reale; come pure niuno dirà che noi conosciamo la sussistenza delle creature per via di argomentazione che parte dalla causa e viene all' effetto, e finalmente nessuno di buon senno dirà, io credo, che invece di percepir le cose direttamente e trattandosi de' corpi col senso, conosciamo tali cose col puro intuito dell' intelletto come termini dell' atto creativo, il quale certamente non è sensibile, se non all' intelletto: e il Gioberti stesso, sebbene dica che la conosciamo indirettamente, tuttavia altrove esclude espressissimamente questa via, perocchè egli vuole che il suo intuito sia immediato per forma, che non vi si mescoli alcuna argomentazione, che anzi per lui è l' intuito di un mero concetto . Dunque l' uomo non può conoscere le cose create per via di causa. Ma nulla ostante, si prenda ciò che si vuole, e converrà sempre rinunziare al sistema giobertiano. Se si prende che le cose si conoscano per via di causa, argomentando; si rinunzia al sistema giobertiano, che sostiene, quelle conoscersi per intuito immediato senza sillogismo, e senza giudizio alcuno di mezzo. Se si prende il partito di dire, come dice il Gioberti, che si conoscano nella causa, senza argomentazione nè giudizio, anzi come un semplice concetto che s' intuisce; allora divenendo noi manifesti panteisti, perchè mettiamo l' effetto sostanzialmente e realmente nella divina sua causa, converrà di nuovo rinunziare al giobertianismo, perchè il Gioberti dichiara di non voler essere panteista. Da qualunque via si prenda questo sistema, ne' suoi visceri è dal panteismo corroso a morte; nè le proteste in contrario, o le belle frasi nel possono guarire. Non mi fermo, o signori, a notare cent' altre inesattezze e ripugnanze nei passi citati, come il dire che « « la cosa creata rappresenta imperfettamente l' idea creante » », frase che starebbe bene solo in colui che ammettesse che dalle creature, percepite direttamente, si salisse a conoscere il Creatore, che è il viaggio contrario a quel del Gioberti; o come l' ostinarsi a chiamare Iddio Idea , ed alla frase consacrata e al tutto dogmatica « il Verbo umanato »affettare con profano ardire di sostituire continuamente quella d' « idea umanata »; neologismi temerarj e gravidi di perniciosissime conseguenze, e tant' altre che il tempo mi vieta di riferire. Ma io non posso nulladimeno abbandonare ancora l' argomento troppo fecondo, senza chiamarvi ad altre importanti considerazioni, le quali io mi riserbo ad esporvi in un' altra lezione. Noi raccogliemmo, o signori, nelle lezioni precedenti tutte le giustificazioni, di cui il signor Gioberti riputò bisognevole il suo sistema per nettarlo dalla taccia di panteismo, e non omettemmo industria affine di trovarci dentro qualche valore; ma sgraziatamente ne riuscì il risultamento contrario, poichè le sue scuse e le sue giustificazioni stesse misero in più aperta luce la increscevole verità che quel sistema ch' egli si sforza d' introdurre in Italia, è fiore di panteismo tedesco. E per vero le proposizioni tutte che egli adduce a rimuovere da sè la sentenza che lo condanna, si trovano già ammesse dai panteisti più famosi che lo precedettero. Egli ammette che Iddio sia causa, e si compiace assai di chiamarlo causa immanente del mondo; ma anche molti fra i panteisti ammisero Dio come causa del mondo, e Spinosa in particolare si compiaceva di quella espressione; e pure essi fecero il mondo della stessa sostanza di Dio (1). Egli dichiara che Iddio è l' oggetto del sapere anche quando il sapere ha per oggetto le cose contingenti, poniamo, i corpi: [...OMISSIS...] . Ora sarà ben difficile il trovare dei panteisti, i quali dicano Iddio identico a ciò ch' egli produce colla sua propria sostanza. Egli confessa che Iddio è causa libera; ma chi non sa che questo fu detto anche da' più spacciati panteisti (2)? e che gli stessi teologi più rispettabili dissero che Dio fa liberamente tutto quello che fa, anche le stesse operazioni interiori, come la generazione del Verbo e la processione del Santo Spirito? Perocchè prendono la parola liberamente per indicare un' azione spontanea non legata, non determinata da alcun principio straniero a Dio (3); onde ancora il dire Iddio causa libera senza spiegare di più, non giustifica dal panteismo un autore che in tanti luoghi sembra professarlo col suo sistema, benchè continuamente, e quasi con soverchia solennità, dichiari d' esserne inimicissimo. Ma acciocchè voi abbiate qualche documento storico sotto gli occhi, dove vediate aperto come i panteisti abbiano sempre accozzate insieme, parlando di Dio, le proposizioni più contraddittorie nell' apparenza, alla guisa dell' autore che esaminiamo, permettete ch' io vi accenni il panteismo stoico, e che vi legga un passo dello stoico Seneca, che il professava. Questi, nel libro II, cap. 45, « Delle naturali questioni », così prende a parlare di Dio: [...OMISSIS...] . Voi vedete già in queste parole che Giove, cioè il sommo Dio, qui si riconosce 1 per custode e rettore dell' universo: 2 qual animo e spirito; 3 qual signore e fabbricatore della natura. Dunque Iddio non si fa già identico con ciò che egli produce, regge e governa: lo si fa artefice, e perciò causa del mondo, e lo si fa causa spirituale e intelligente a cui compete lo scegliere, il deliberare, l' esser libero. Con tutto ciò udite in che modo continua lo stoico panteista dopo aver detto che a Giove compete ogni nome: [...OMISSIS...] . Qui già Iddio è convertito nel fato, al quale lo stesso filosofo poco prima aveva attribuito la necessità scrivendo: [...OMISSIS...] . E tuttavia chiama Iddio « causa caussarum », che è veramente un renderlo creatore, come quello che produce non già solo gli atti delle cause seconde, ma le stesse cause seconde. Andiamo avanti: [...OMISSIS...] . Qui non è una necessità cieca, ma una mente guidata dal consiglio e dalla sapienza, ed è ancora distinto dal mondo. Procediamo a quel che viene: [...OMISSIS...] . Eccoci arrivati allo scioglimento: ecco dove finiscono le magnifiche frasi dei panteisti. Sì, Iddio è creatore, libero artefice dell' universo, non identico colle sue fatture, la causa delle cause, il rettore e il signore di tutte le cose; ma insieme egli è anche la necessità di tutte le cose e di tutte le azioni, egli è la natura, egli è l' universo: [...OMISSIS...] . Simili esempj di panteisti i quali uniscono, parlando di Dio, le frasi più vere e le più erronee ad un tempo, sono comuni. Acciò che dunque il signor Gioberti avesse legittimamente purgato il suo sistema dal panteismo, di cui teme egli stesso possa venire accusato, conveniva che oltre quelle magnifiche sue frasi intorno a Dio, non avesse poi aggiunte quell' altre che panteista il potrebbero dimostrare, come, poniamo, quella che « « Iddio è l' oggetto immediato ed universale del sapere, e non solo rispetto alla forma di esso sapere, ma ben anco alla materia » »; e l' altre da noi ripassate nella lezione precedente e moltissime più efficaci ancora che non abbiamo avuto il tempo d' indicare. Or qui, miei signori, ditemi per puro amore del vero, vi par egli che un tale scrittore sia giudice competente, quando, sedendo a scranna, toglie ad imporre accusa e a pronunciar sentenza recisa di panteista a questo e a quel filosofo, che non ebbe mai alcuna simile taccia? O vi credete voi che questo suo zelo possa parere al pubblico del tutto netto e sincero? Il zelo puro e sincero suol avere per sua guida la discrezione e la verità, nè suole eccedere in esagerazioni manifeste. Ora vi par egli che sia savia e discreta quella smania che ha il signor Gioberti di trovare il panteismo per tutto, dicendo che [...OMISSIS...] ? Non si può dunque più errare senza essere panteista? Non ha questo l' aspetto di un zelo eccessivo e del tutto esagerato? Non lascia egli dubitare che, colle migliori intenzioni, il signor Gioberti vada illudendo se stesso? Quando specialmente si considera, che al Panteismo contrappone come unico sistema vero il suo proprio sistema, dandogli l' appellazione di Ontoteismo, che non sembra il miglior vocabolo per designare un sistema affatto immune da ogni parentela con quel brutto errore del panteismo (2)? Perocchè egli pare che la parola Ontoteismo, che viene da Ente e Dio, sarebbe acconciamente adoperata a significare il sistema che fa Dio di ogni ente, ossia che fa ogni ente sia Dio. Onde quella denominazione che cangia il nome e lascia la cosa, potendosi Ontoteismo prendere appunto siccome sinonimo di Panteismo, sembra tanto più inopportuna, che le cose già da noi considerate nelle precedenti lezioni dimostrano pur troppo, che il signor Gioberti rassomiglia in qualche modo a colui che affaticasi a gittar acqua in casa d' altri, dove non è alcun fuoco, mentre arde tutta la propria. Al che dimostrare maggiormente non ci vien meno, o signori, sempre nuova messe ogni qual volta apriamo i suoi libri dovecchessia. Io credo non dovervi rincrescere che noi spendiamo ancora qualche tempo a considerare alcuni brani tra i molti di questo Autore, affine di assicurarci via più che non pronunciamo leggiermente sì grave sentenza sulla natura del suo sistema nel tempo stesso che rispettiamo senza limite le sue intenzioni. Nell' opera degli « Errori » alla terza lettera diretta, come tutte le altre, al prof. Tarditi, fac. .2, egli scrive così: [...OMISSIS...] . Meritano bene la nostra attenzione, o signori, queste parole, poichè, anche prescindendo dalla questione del panteismo, esse ci accordano più cose che prima ci sembrava negare. Esse ci accordano prima di tutto il fatto capitale da cui movono i nostri ragionamenti, cioè che « la mente umana pensa l' ente comunissimo e generalissimo ». Non è dunque assurdo, miei signori, pensare quest' ente, come sembra che voglia fare credere in altri luoghi il signor Gioberti; non è assurdo, e non può essere assurdo, perchè non può essere assurdo un fatto. E veramente altra è la questione dell' origine dell' essere ideale, altra la questione della natura . Altro è il domandare se noi vediamo l' essere ideale per natura, o lo caviamo per astrazione; altro il cercare se, qualunque sia la origine di quel concetto, egli ci stia dinanzi alla mente, e però sia qualche cosa, ovvero sia un mero nulla. Quando il signor Gioberti pretende che non possa essere congenito alla umana natura perchè egli è nulla, e poi ci fa sapere che l' uomo sel forma per astrazione, allora si contraddice; giacchè se è possibile che l' uomo si formi l' essere ideale per astrazione, rimane dunque possibile egualmente che sia a lui congenito, e, se più vi piace di così esprimervi, che Iddio glielo dia già bello ed astratto. Per decidere la questione dell' origine, conviene dunque aver prima ammesso che l' essere di cui si parla non sia nulla; questione che riguarda la sua natura, perchè di ciò che è nulla non si cerca l' origine. Il Gioberti confonde adunque due questioni, pugnando seco medesimo: non vuole riconoscere che l' essere ideale possa essere innato come quello che è nulla (onde accusa di nullismo il Rosmini); e poi riconosce che l' essere ideale si forma per astrazione, ammettendo così che sia qualche cosa. E perchè Iddio non potrebbe infondere ad una mente da lui creata una cognizione generica o speciale senza bisogno d' infondergli insieme quella dei reali e sussistenti individui che ad essa corrispondono? Del pari, anzi a maggior forza, niente dimostra impossibile, che il Creatore conceda all' umana creatura l' intuizione dell' essere universale, il quale si può pensare manifestamente senza bisogno di volgere contemporaneamente il pensiero alle sussistenze reali. Quante volte non si pensa un ente nella sua pura possibilità senza più? Ma quello che maggiormente dovete notare, o signori, si è, che fu già a pieno dimostrato dal Rosmini, che l' essere in universale non si può avere in modo alcuno per via d' astrazione, come vogliono i sensisti, la cui sentenza è ammessa senza esame per assioma indubitato dal Gioberti, perocchè l' astrazione non può cadere che sugli oggetti già percepiti, ed ogni percezione suppone dinanzi a sè la notizia dell' ente in universale; la quale d' altra parte sola ella basta a renderla possibile. In secondo luogo, quell' ente comunissimo ed astratto non è nessun ente particolare, è una mera astrazione pel signor Gioberti; dunque considerato come astratto non ha realità; che è quello appunto che diciam noi, essendo la realtà propria degli enti particolari. Perocchè se il signor Gioberti, dopo aver astratto l' ente comunissimo dall' ente reale, pretendesse di aver formato con questa operazione un altro ente reale, darebbe forse a ridere alla gente, e perciò noi crederemmo di fargli torto, se gli attribuissimo una simile assurdità. Vero è, che egli dice, che « « il possibile è reale come possibile »(1) », frase novissima, udendo la quale sembra, a dir vero, che egli voglia giocar di parole; che egli cioè, dopo aver distinto per via di astrazione il possibile dal reale, voglia poi allo stesso possibile astratto dare la realtà, benchè coll' astrazione gliel' abbia tolta. Il che è come dire: « Vedete il fusto di questa colonna. Astraete da esso la pietra di cui ella è formata: che cosa vi resta? Mi resta l' idea d' un fusto di colonna che contiene tutta la forma, ma che non contiene, non determina alcuna materia di cui sia composta, nè pietra, nè legno, nè metallo, nè altro. Eh! v' ingannate, soggiungesse, la vostra colonna astratta è realmente di pietra ». Si risponderebbe ad un tale dialettico: Voi volete farci travedere: come può essere di pietra quella colonna astratta, dalla quale coll' astrazione abbiam tolta via la pietra? Così appunto il Gioberti: egli ci consente che coll' astrazione si possa levare la realità dell' ente, e con ciò formarci un ente possibile, astratto, comunissimo. Ma dopo tutto ciò, ci soggiunge tuttavia: [...OMISSIS...] . Non è questo un giocar di parole? Non si muta qui il valore della parola realità? E mentre prima si prendeva in senso di ente sussistente in opposizione dell' ente meramente ideale, poscia si prende in senso di entità? Certo che l' astratto, il possibile, l' idea pura ha la sua entità, non è nulla; ma la questione non cade qui; la questione cade a sapere se il possibile, il comune, l' astratto, ha quella entità che hanno gli enti chiamati sussistenti e reali da tutto il mondo. Conviene egli a noi tener dietro a siffatti scambietti di significati dati alle parole, non degni di chi vuol filosofare? No, miei signori, onde lasciamoli pure da parte (1), e concludiamo che il Gioberti ci concede che l' ente comunissimo, ideale e possibile, possa esser diviso dal reale (dal quale per altra parte non si può prendere, perchè non può prendersi alcuna cosa dov' ella non è) senza che questo sia reale, benchè sia verissimo oggetto della mente che lo vede puro e lo contempla, e senza che sia tuttavia il nulla, che non si può vedere nè contemplare, nè dire che sia un elemento comune a tutti gli enti; e posciachè quell' oggetto della mente non è nulla, egli può anche essere ingenito; del che il Rosmini diede molti ed apertissimi argomenti, ai quali avrebbe dovuto certamente rispondere il Gioberti se volea impugnare quel sistema, ma stimò meglio dissimularli trapassandoli in sommo silenzio. Prendiamo dunque a conto queste concessioni che egli ci fa, e che sono pure il tutto nella disputa che egli move contro alla dottrina da noi seguita. Ma egli tuttavia ce ne fa un' altra non meno importante: ci concede ancora che noi diciamo bene quando affermiamo che quest' ente comunissimo non è Dio; poichè, a detta sua, tra l' idea di Dio e l' idea dell' essere comunissimo v' ha quella analogia e somiglianza rimota che corre tra l' infinito e il finito . Ascoltate attentamente, perchè già ci avviciniamo di nuovo alla questione del panteismo, che è il principale argomento, di cui al presente ci dobbiamo occupare. Non è già che con quelle parole il signor Gioberti esprima fedelmente la nostra opinione. Primieramente tra l' idea di Dio e l' idea dell' essere comunissimo non ci può correre quella infinita distanza che pretende il signor Gioberti, perchè finalmente elle sono due idee dello spirito umano. La distanza sta bene tra Dio e l' essere comunissimo, ma non ancora tale quale il Gioberti sembra volerla indicare. Se noi diciamo, che l' ente ideale non è Dio, non diciamo però così assolutamente, com' egli dice, che esso sia finito; anzi diciamo che egli ha un lato infinito ed un lato finito: in quanto è infinito ed universale cioè nella sua parte positiva, egli è un raggio di Dio, un lume del volto divino, come la Scrittura lo chiama, una partecipazione del lume increato, e perciò lo chiamiamo anche noi divino; in quanto poi è finito e limitato, cioè nella sua parte negativa, intanto a lui si appartiene il nome che gli dà s. Tommaso di lume creato . Ma ad ogni modo resta sempre fermo, che il Gioberti ci accorda, che l' ente ideale non è Dio, e questa è quella confessione che noi vogliamo raccogliere dalla sua bocca. Che se noi abbiamo ragionato bene dicendo che quest' ente non è Dio; ond' è poi lo strepito ch' egli mena contro questa nostra sentenza, per la quale vuole che noi urtiamo necessariamente in uno de' due infamissimi scogli del soggettivismo o del panteismo? A vederlo conviene che noi attendiamo al modo onde egli ragiona in quanto al soggettivismo, cioè a quell' errore che il Rosmini denunziò forse il primo al pubblico, e cui egli impose il nome. Egli dice così: [...OMISSIS...] . Così alla facc. .5 della citata lettera. Io non voglio già qui fermarmi, o signori, ad osservare quante cose inesatte o false si contengano in queste parole; non voglio già farvi osservare essere una mera e grossa falsità, l' affermazione sì franca, diciamolo pure, e sì audace al suo solito, che, secondo il Rosmini, « « si distingue l' essere ideale numericamente dall' idea divina » », frase che non adoperò, nè adoprerebbe mai il Rosmini, il quale non parla d' idee divine che riduce tutte al Verbo, ed ancora sostiene che l' essere in universale è essenzialmente uno, e numericamente il medesimo veduto da tutti gli uomini e da Dio stesso, ma da Dio in tutt' altro modo proprio di Dio, senza niente di negativo, perciò senza che in Dio si distingua dal suo stesso Verbo (1), distinguendosi solo rispetto all' uomo a cui è dato in modo sì limitato. Neppure mi fermerò a pregarlo che si compiaccia di darci qualche prova di quell' affermazione egualmente ardita e gratuita, [...OMISSIS...] . Perocchè se per questo soggetto conoscente egli intende l' uomo, ora perchè mai, noi gli domandiamo, dovrà egli immedesimarsi coll' uomo, a cui solo risplende come il lume agli occhi? Forse perchè è nell' uomo come oggetto del suo intuito? Per questo no, poichè, se egli adducesse questa ragione, la ragione stessa varrebbe per l' oggetto reale che egli attribuisce all' intuito, onde si darebbe della zappa in sul piè. Forse perchè, essendo ideale, dee aver per sua sede qualche mente reale? Questo non prova che s' immedesimi coll' uomo. Prova solo quello che dimostra il Rosmini, cioè che l' essere ideale dee risiedere in Dio, e immedesimarsi con Dio; benchè l' uomo non veda il come, perchè col lume naturale non vede Iddio. E questo è anzi l' argomento a priori che il Rosmini addusse dell' esistenza del Supremo Essere (1). Dove io vorrei pure poter dare al signor Gioberti almeno lode di buona fede. Ma quando considero l' abuso che egli ha fatto dell' aver detto il Rosmini che « l' ente ideale non sussiste fuor della mente », colle quali parole il Rosmini intendea d' ogni mente e umana e divina, e il Gioberti se ne prevale per far dire al Rosmini, che l' essere ideale è nulla fuori dell' uomo; mi duole non potergli neppure attribuire quella lode che agli onesti è sì cara. Procede adunque il nostro Filosofo tutto sul gratuito e sul falso. Ma non fermiamoci a ciò: in quella vece così ragioniamo. Il signor Gioberti dice, che « « un tale ideale solo nel soggetto conoscente, s' immedesima sostanzialmente con esso » »; il Rosmini all' incontro dimostra in un lungo dialogo (1) con argomenti evidenti, di cui il Gioberti non fa parola, che, quantunque l' essere ideale sia nel soggetto conoscente nel senso che è da questo soggetto intuíto, tuttavia non si confonde, nè si può giammai confondere con esso lui; che anzi è per la sua stessa essenza inalterabile ed inconfusibile, ed ha natura tanto distinta dal soggetto intuente, quant' è distinto ciò che è necessario da ciò che è contingente, e la natura dell' uno conserva opposizione alla natura dell' altro, come esprime anche l' etimologia della parola soggetto ed oggetto . Dunque il Rosmini a buon conto non cade certamente nel soggettivismo, che gl' imputa l' avversario. Dopo di ciò raccolgo un' altra confessione del signor Gioberti intorno alla maniera con cui egli concepisce « l' essere possibile, ideale, comunissimo »; raccolgo cioè essere la sua sentenza intorno alla natura di quest' essere tutto contraria alla sentenza del Rosmini, il quale sostiene che egli è per essenza oggetto; laddove il Gioberti lo fa soggettivo, e vuole che s' immedesimi col soggetto conoscente. Ritenuta questa confessione del Gioberti intorno alla natura dell' essere ideale, ritenuto che quest' essere astratto, com' egli dice, non è Dio, ma creatura, non conserva rispetto a Dio che « « quella analogia e somiglianza rimota e imperfettissima che corre fra l' infinito e il finito » »; io passo all' accusa di panteismo, ed esamino tosto se questa cade giustamente sul Rosmini, o ricade piuttosto in capo allo stesso Gioberti. In quanto al Rosmini, voi sapete che egli insegna che l' essere ideale è per essenza oggetto, come dicevamo, ed inconfusibile coll' uomo, che è identico, manifesto a tutti gli uomini che vissero ne' varj secoli, e nelle più disparate parti della terra, universale, eterno, immutabile ec., in somma divino da quel lato nel quale egli è infinito. Dunque dicendo il Rosmini che quest' oggetto è nella mente di Dio, ossia è in Dio, egli non confonde già le creature con Dio, e perciò non cade nel panteismo. Dice di poi che quest' essere in Dio non si trova a quel modo come si trova nell' uomo per partecipazione e da qualche parte limitato, ma si trova per essenza e illimitato da tutti i lati, e che è Dio stesso non punto nè poco diviso dalla divina natura. Ma dice di più che non ne viene da questo, che l' uomo veda la natura divina, la coscienza e la ragione dicendoci il contrario; dicendoci cioè che l' uomo vede l' essere in istato puramente ideale, il quale però non è Dio, perchè Iddio non è un' idea, ma è vera sussistenza, viva, intelligente ed intelligibile per se stessa. Laonde la limitazione colla quale è dato all' uomo l' intuito dell' essere, è tale e tanta che per essa gli si nasconde la divina sussistenza e sostanza, in modo che l' essere che rimane visibile non contiene più ciò che col nome sostantivo di Dio viene espresso. E tuttavia, aggiunge il Rosmini, che l' essere ideale qual è veduto dall' uomo suppone un primo reale, cioè una mente sussistente in cui egli si trovi come in proprio luogo, e così per via di raziocinio e non intuitivamente, dall' essere ideale argomenta all' esistenza di Dio, con argomentazione a priori efficacissima. All' incontro il Gioberti vuole che l' essere ideale sia del tutto finito, soggettivo, anzi che si immedesimi col soggetto uomo. Ora indovinate mo' dopo tutto questo, dove, secondo lui, un tal ente si trova? Quest' ente appunto si trova, secondo il Gioberti, in Dio medesimo: Iddio è l' oggetto dell' intuito giobertiano, e l' uomo coll' astrazione vi trova dentro l' ente finito, l' ente che s' immedesima coll' uomo stesso. Or questo che cosa è mai, miei signori? E` panteismo o no? Leggete che cosa egli scrive alla faccia 67 della citata lettera III. [...OMISSIS...] . Questi riverberi e queste postille delle cose impresse in nitido vetro, non farebber pensare, per osservarlo di passaggio, che le cose mandino il loro lume in Dio come nello specchio? sicchè le cose sieno il lume, e Iddio il vetro che lo riceve? Ma lasciando tali improprietà, avete udito che Iddio contiene l' idea dell' essere possibile, che, secondo il Gioberti, è l' ente finito, identico coll' uomo. Si fa dunque dell' ente finito e dell' infinito, dell' uomo e di Dio una cosa sola. Ascoltate di più come egli aveva già prima scritto nella « Introduzione, L. I, c. IV, facc. 35 »: [...OMISSIS...] . Quale eloquenza, miei signori! Egli è impossibile raffrenarne la foga coll' opporgli forse che tali cose non sono state mai dette nè da filosofi, nè da teologi cattolici. E che varrebbe infatti l' opporgli che tutti quanti i più solenni teologi della Chiesa cattolica, incominciando da s. Tommaso (e più su si potrebbe andare), dichiararono e dimostrarono fin qui, che in Dio non vi è nè generale nè particolare (1), se questo fiume d' eloquenza sdegna ed abbatte tutte le teologiche sponde? Lasciando adunque questi accessorj, cerchiamo d' intendere bene la sua mente nel principale. Ed i passi citati sono chiari. Egli dice, che l' Ente reale, cioè Iddio, è la sintesi di queste proprietà, cioè del concreto e dell' astratto, dell' individuale e del generale (già v' accorgete dell' affinità di questo parlare col sistema dell' identità assoluta dello Schelling): dice che Iddio sotto un aspetto è l' astratto, sotto un altro il concreto, sotto un aspetto è il generale, sotto l' altro è il particolare; dice bensì che tutto ciò è in modo diverso dalle creature; ma soggiunge che la concretezza e l' individualità sono il reale senza l' ente, da cui nascono le idee riflesse. E per istare nel discorso che abbiamo cominciato, egli colloca l' ente astratto e possibile, dove si rinviene poi per via d' analisi, in Dio, anzi egli dice che Dio stesso è l' ente astratto, è il possibile considerato sotto un rispetto, dice che l' ente assoluto contiene in sè l' idea del possibile. Ma avvertite, che egli stesso altresì è quegli che dice parimente, che l' ente astratto e possibile non è Dio, non è che un' analogia e somiglianza con Dio rimota ed imperfettissima, come quella che corre tra il finito e l' infinito, e che quell' ente astratto s' immedesima coll' uomo. Dunque la conclusione parmi assai chiara; il finito, il soggettivo, il soggetto stesso umano col quale s' immedesima l' essere astratto è in Dio ed è Dio; perocchè tutto ciò che è in Dio è Dio, e la sola analisi dello spirito è la virtù creatrice che cava il finito dall' infinito, e le esistenze, cioè le creature dal creatore. E qual panteismo v' ebbe mai al mondo che non sia rifuso in questo sistema? Dunque al Gioberti si deve applicare, secondo la giusta logica, quell' argomento che egli fa sì male a proposito contro il Rosmini e contro il Tarditi, il quale è questo: [...OMISSIS...] . A questo ragionamento non si può rispondere. E di vero, risponderà forse, che quando egli disse che l' essere possibile ed astratto è finito, intendeva solo nel caso che non si ponesse in Dio, ma che esistesse solo nell' uomo, come falsamente attribuisce a noi di tenere? Non può dir questo, mentre anzi espressamente dichiara in contrario; dichiara che è proprio finito quell' essere che si vede in Dio, e che perciò è Dio: ripetiamo le sue parole: [...OMISSIS...] . Dice adunque che è finito quell' ente possibile appunto, che si vede in Dio, ed anzi che si crede tale perchè tale si vede in Dio. Or posciachè tutto ciò che è in Dio è Dio, dunque anche il finito, ciò che, secondo il Gioberti, è soggettivo, e che si immedesima con noi è Dio; il che se non è panteismo, per dirlo ancora, che cosa sarà, miei signori? S' accalappia dunque il nostro Filosofo ne' suoi stessi ragionamenti, e precipita nella fossa altrui preparata; il che suole esser sempre la giusta sorte riserbata all' errore. Ma v' ha ancora un barlume di speranza, miei signori, di poter salvare in qualche modo il sistema dell' ab. Gioberti dalla taccia gravissima che egli incorrerebbe, secondo i fatti ragionamenti; e questo si è che egli professa apertamente, ed estolle a cielo il dogma della creazione, anzi lo pone a segno caratteristico da cui distingue i filosofi puri di panteismo da quelli che ne vanno infetti. E veramente in ciò siamo d' accordo con lui, purchè s' intenda come l' intendono i cattolici e non come l' intendeva lo Spinosa o l' Hegel: questo dogma può essere una tessera acconcissima a ciò, perchè in qual maniera sarà panteista colui che professa, come professiamo noi tutti cattolici, miei signori, che l' università delle cose contingenti è cavata dal nulla? Perciò se gli fosse piaciuto di esser coerente a questo criterio che stabilisce per iscoprire dove giacciasi il panteismo, avrebbe dovuto incominciare dimostrando che tutti quei filosofi che egli accusa di tanto errore, negano la creazione, e che egli solo l' ammette. Ma questo è quello appunto ch' egli si dimenticava di fare. Ma or lasciando stare le accuse che egli appone altrui, non avrà almeno il signor Gioberti, magnificando il dogma della creazione, ed anzi cangiandolo in assioma filosofico (il che è andare certamente al di là dello stesso dogma), purgato interamente e pienamente il suo sistema da così brutta colpa? Questo è quello che noi ci proponiamo d' investigare, miei signori, in altra lezione. Sì, miei signori, se Vincenzo Gioberti ammette puramente e semplicemente il dogma della creazione, quale è insegnato dalla fede cristiana, egli non è panteista. A malgrado di tutto ciò che abbiamo veduto di lui, noi siamo presti ad assolverlo da un tanto errore: noi diremo o che non l' abbiamo inteso, ovvero che egli non è troppo felice nello spiegare i suoi concetti, o finalmente che egli si contraddice inavvedutamente. Ma avvertite: noi pretendiamo per rimandarlo giustificato, ch' egli veramente ammetta questo dogma cristiano della creazione, e che non ci illuda con pompose parole; che lo ammetta nella sua filosofia, non nella sua credenza, sulla quale noi non moviamo alcun dubbio, nè importerebbe alla scienza. Quest' avvertenza ce la insinua egli stesso, poichè egli stesso ci ammonisce [...OMISSIS...] . E veramente se gli stoici chiamavano Iddio caussa caussarum, che è quanto farlo in un certo senso, creatore, non erano perciò meno panteisti; se lo Spinosa chiama Iddio CAUSA IMMANENTE di tutte cose, che è la frase di cui tanto si compiace il Gioberti, non era questo immune da panteismo. Convien dunque, che il Gioberti, se vuole andar netto da sì brutta macchia (parliamo sempre del sistema, non dell' uomo,) ammetta la creazione nel vero senso, nel senso cattolico, come l' ammettiamo noi. E` questa la ricerca che ci rimane a fare: a noi riman di vedere qual sia il concetto che il signor Gioberti ci dà della creazione, come ce la spieghi; giacchè egli dichiarando propriamente di vederla nell' intuito primitivo, può essere in caso di spiegarcela assai meglio d' ogni altro che non crede di vederla. Cominciamo dunque a dar mano a questa nuova ed importante ricerca. E prima osserviamo come lo stesso signor Gioberti confessi di non avere altro rifugio che il salvi dal panteismo, se non questo dogma della creazione; e confessi che tutto il resto del suo sistema sarebbe manifestamente panteistico, se non sopraggiungesse opportunamente questo dogma a sanarlo. Nella lettera XI di quelle che dirige al professor Tarditi, ci narra la storia dei suoi pensieri, parlando di se stesso in terza persona così: [...OMISSIS...] . Dal qual passo raccogliamo più cose importanti. E la più importante si è, che costruire la scienza prima coll' ente possibile del Rosmini non è già cadere nel panteismo, come in tanti altri luoghi va declamando il signor Gioberti (che che ne sia dello scetticismo che non appartiene al nostro discorso); e che all' incontro costruire l' edificio della scienza prima colla semplice nozione dell' ente reale, è appunto un cadere nel panteismo; questa confessione rileva assai, miei signori, perchè è ciò appunto che avea scritto il prof. Tarditi, dicendo che [...OMISSIS...] . Ora voi vi risovverrete pur anco, o signori, che il Gioberti, stretto allora dal bisogno di difendersi, negò francamente, che il Tarditi cogliesse nel vero [...OMISSIS...] . Ma ora all' opposto concede al prof. Tarditi senza contrasto, che costruire la scienza coll' ente reale è cadere nel panteismo, il che gli avea prima negato: noi teniamolo a conto. Di poi avete udito che egli parla di molti autori ortodossi ed eterodossi, che pongono a prima base dell' umano sapere l' ente reale , e che il loro sistema riesce al panteismo. Quali sono, secondo il Gioberti, cotesti scrittori ortodossi? Certo, sant' Agostino, s. Bonaventura, Malebranche ed altri tali. Vedete, che interpretati al modo che fa il Gioberti, tutti cotesti autori riescono macchiati di panteismo, perchè a spiegare la cognizione delle cose esistenti non sono ricorsi all' intuito della creazione. Or questo non par probabile di uomini sì illuminati, al men rispetto ai due primi. Laonde noi ci atterremo, miei signori, all' interpretazione che dà il Rosmini di sant' Agostino e di s. Bonaventura, la quale nello stesso tempo che li concilia con s. Tommaso, li salva ancora da ogni taccia di panteismo; e d' altra parte l' interpretazione del Rosmini non è tratta già dall' una o l' altra frase sfuggevole, ma dallo spirito e dal fondo di tutte le loro opere. Ma che diremo poi della pretensione, che mette fuori il signor Gioberti ad ogni piè sospinto, di avere tali autori dalla sua, se tali autori appunto, a detta di lui, sono panteisti? Convien dunque dire, stando alle confessioni dello stesso signor Gioberti, ch' egli si vanti di seguire dei panteisti; o se rinunzia a coprire il suo sistema con sì rispettabili autorità, egli si rimane del tutto solitario ed isolato nel mondo della Filosofia. Ma entriamo direttamente nel nostro argomento. E cominciamo dall' osservare che pel signor Gioberti il dogma della creazione non è solamente un articolo di fede, o un teorema filosofico, ma di più è anche un assioma . E quale assioma! Il primo di tutti gli assiomi, sul quale si fonda lo stesso principio di contraddizione, e da cui procede la forza d' ogni dimostrazione (1). Ora un assioma è una verità necessaria, e il primo di tutti gli assiomi è il più necessario di tutti, da cui deriva la necessità agli altri. Se dunque il principio di contraddizione è necessario, se è necessaria la forza con cui conchiude il sillogismo, ancor più necessario o almeno ancor prima dee esser necessario il principio o l' assioma di creazione. Abbiamo dunque una creazione necessaria, una creazione così necessaria come sono i primi principj della ragione, e d' una necessità anteriore; ma non è questa, o signori, come ben sapete la creazione cattolica, la quale non ha una necessità intrinseca e razionale, come quella che dipende dal libero ed ottimo volere di Dio. Di poi che cosa sono le esistenze o sieno le creature pel signor Gioberti? Non altro che qualche cosa che si separa da Dio per mezzo della riflessione. Vediamolo. L' oggetto dell' intuito umano è l' Ente. L' Ente è Dio. In quest' oggetto l' uomo trova ogni cosa, il contingente e il necessario, la creatura e il Creatore, perocchè l' ente è ogni cosa. Noi abbiamo veduto che tale è la dottrina del Gioberti. Richiamiamo le sue parole: [...OMISSIS...] . L' Ente, cioè Iddio oggetto dell' intuito, possiede dunque tutto ciò che vi ha di positivo nell' astratto, nel concreto, nel generale e nel particolare, nell' individuale e nell' universale. Le creature possiedono le stesse cose, ma in altro modo, perchè il positivo è mescolato in esse col negativo, il quale non è in Dio. Alle esistenze reali, che sono le creature, appartengono, come dice poco appresso, la concretezza e l' individualità , che per altro in un modo diverso, cioè senza l' elemento negativo, si trovano in Dio. Quindi egli soggiunge che « « la concretezza e l' individualità sono il reale senza l' ente »(2) », cioè il reale diviso, separato da Dio, ammettendo che per via di riflessione e di astrazione si possa separare il reale da Dio, e così fare che esistano. Come poi si può separare da Dio il reale, così viceversa si può colle operazioni riflesse della mente separare da Dio l' astrattezza e la generalità, e così fare che esistano nello spirito umano le idee, onde dice: « « L' astrattezza e la generalità sono l' ente senza il reale » », cioè l' ente dal quale è stato separato per via d' analisi il reale. E che cosa allora ne è rimasto dell' Ente, cioè di Dio, su cui si esercitarono tali operazioni? Egli è rimasto l' ente possibile, perchè l' ente senza il reale è ente possibile, e però all' ente possibile, che altre volte ha detto essere il nulla, altre volte ha detto immedesimarsi col soggetto umano, qui dà il titolo di Ente, che è la parola solenne che egli serba a significare Iddio, e altrove dice più espressamente che è Dio. Pone dunque due separazioni che si fanno nell' Ente, cioè in Dio, mediante la riflessione: colla prima si trova la concretezza e la realtà, coll' altra si trova l' astrattezza e la generalità: [...OMISSIS...] . Fermiamoci dunque qui, e vediamo come il nostro Filosofo faccia nascere le cose create, perocchè questo ci fa conoscere qual sia il concetto che egli si è formato della creazione. Onde adunque, nascono secondo Gioberti, le cose create? Dalla concretezza e dalla generalità. E dove sono la concretezza e la generalità? Sono in Dio, il quale è [...OMISSIS...] . Ma il concreto, il particolare, l' individuale appartengono all' esistenze reali (così chiama le creature) per altro in modo diverso da quello in cui appartengono a Dio, perchè in Dio quelle nozioni sono unite coll' astratto, col generale, coll' universale; ed acciocchè nascano le creature si devono separare. Le creature dunque sono nozioni o idee che sono in Dio, ma che si devono separare dalle sue correlative, acciocchè sieno creature. Così nascono le creature. Ma se dopo separate queste, si tornano a unire colle loro nozioni corrispondenti, che sono l' astrattezza, la generalità, l' universalità, in tal caso si ricompone l' Ente, cioè Dio. L' analisi adunque e la sintesi sono quelle che fanno uscire le creature da Dio, e che le fanno poscia rientrare in Dio. Infatti egli soggiunge: [...OMISSIS...] . Tale è il concetto della creazione giobertiana. E questo concetto non ispiega solamente la creazione del mondo, cioè dell' esistenze reali, ma ben anco l' origine delle idee, come vedemmo. Perocchè a quel modo che, analizzando l' Ente, si può separare il concreto e l' individuale dall' astratto e dall' universale, e così averne belle e create le esistenze reali, simigliantemente si può separare l' astratto e l' universale dal concreto e dall' individuale, e così averne le idee riflesse, giacchè, come dice, [...OMISSIS...] . Ora ditemi, miei signori, che vi par egli di questa maniera di far nascere le esistenze reali mediante l' analisi che lo spirito fa dell' Ente, cioè di Dio, coll' uso della riflessione? Vi par egli che questo sia un ammettere il dogma della creazione? Non è molto singolare la spiegazione di questo dogma? Voi sapete che il dogma della creazione suppone un atto di Dio, e qui noi lo troviamo ridotto ad essere un' analisi che fa lo spirito dell' uomo! come viceversa troviamo che l' Ente reale, cioè Iddio, è finalmente una sintesi dello spirito stesso! Vero è che il sig. Gioberti dice, che [...OMISSIS...] . E che diremo, dunque, signori miei? Diremo forse che la creazione sia un lavoro filosofico che fa Iddio e che l' uomo ripete, e così la ragione dell' uomo sia veramente la ragione di Dio? Diremo che la creazione non sia altro che « « una rivelazione di cose » » come espressamente la chiama il nostro Filosofo (2)? E` forse questo il dogma cattolico della creazione? Dal catechismo noi abbiamo apparato che la creazione si definisce convenientemente « una produzione dal nulla ». Non crediate. Il signor Gioberti vi dichiara espressamente che questa non è che una « « metafora volgare » » (3), benchè confessi che essa è « « la produzione assoluta, che dà principio alla sostanza, non meno che alle forme potenziali ed attuali delle cose prodotte » »; ma è da vedere in che modo egli intenda avvenire questo dar principio . Noi abbiamo veduto che nel sistema che esaminiamo il Creatore è lo spirito che analizza l' oggetto dell' intuito, il quale oggetto è Dio, e vi cava il concreto ed il particolare che sono le esistenze reali, le creature: niente dunque produce dal nulla, perchè trova in Dio tutto: la concretezza stessa e l' individualità, dalle quali nascono le cose create, come pure l' astrattezza e la generalità, dalle quali nascono le idee riflesse; perocchè « « l' ente è astratto e concreto, generale e particolare, individuale e universale in un tempo » » le creature dunque sono diverse da Dio, come le proprietà divise per analisi sono diverse dalle proprietà unite per sintesi: non v' ha qui niente di nuovo se non che è nuovo il modo col quale la riflessione umana considera lo stesso oggetto dell' intuito. A questo appartiene la sintesi primitiva che ha per oggetto Iddio, a quella appartiene l' analisi che ha per oggetto le creature, cioè certe proprietà dell' Ente divise dalle altre. Perciò egli ci dice che « « l' atto creativo immanente non è cosa sostanziale, ma modale »(1) » benchè, secondo la Teologia cristiana, la creazione in Dio è la stessa divina sostanza, e neppure nella creatura ella è cosa modale; anzi è il ricevimento del suo essere sostanziale. Ma se la creazione si fa coll' analisi e colla sintesi giobertiana, niente vieta che ella sia non più che cosa modale; conciossiachè il separare il concreto e il particolare dall' astratto e dal generale certo non importa che una mera modalità. Ma è egli forse questo quel concetto di creazione che può purgare un filosofo dalla taccia di panteismo? O piuttosto non vediamo noi che un panteista dee per necessità e coerenza col suo sistema innalzare alle stelle la bellezza e la fecondità del dogma di creazione spiegata in tal modo? E il vantare con tanta affettazione un tal dogma come cosa propria di tal filosofia, e quasi non più comune al mondo cristiano, non somiglia egli al costume di que' panteisti che cercano d' illudere il pubblico con frasi magnifiche e mensognere? Vero è che in un altro luogo dice, che « « l' esistente è sostanzialmente distinto dall' ente »(2) »: questa frase ci fa concepire un raggio di speranza, che il Gioberti riconosca che le creature e Dio non sono una sola sostanza, ma due sostanze veramente distinte; pure perchè mai esprimere un vero tanto importante così brevemente? Sarebbe ella non più che una frase magnifica? Vediamo tutto il contesto: [...OMISSIS...] . Ora se le creature insiedono in Dio, come possono essere una sostanza da lui diversa? Perocchè qui non si tratta dell' insidenza loro come in esemplare ed in causa, ma si tratta d' un' insidenza dell' essere reale e sostanziale delle creature. Certo che in Dio non vi hanno due sostanze, ma una sola. Tutto quello che è in Dio è Dio. Dire che il concreto e il particolare, da cui prima avea detto che nascono le creature, quando tali proprietà si dividono coll' analisi, esistono in Dio in un altro modo, non basta; perchè la differenza non può essere di modo, ma di sostanza, per evitare il panteismo. Ma udiamo come egli continua: [...OMISSIS...] . Che vi pare di questo linguaggio? Egli è certamente coerente a quello che avea detto prima, che togliendo in Dio coll' analisi l' astrattezza e la generalità, nascono le idee, e togliendo in lui la concretezza e la individualità nascono le creature. Ma la sostanza è ella unica, o sono più sostanze? Questo è quello che noi dobbiamo sapere. Ora noi abbiamo da una parte un sistema intero da cui risulta che la sostanza è unica; ed abbiamo dall' altra una frase sfuggevole, isolata e contradittoria che « « l' esistenza si distingue sostanzialmente dall' ente » ». Questa frase potrà esprimere la credenza dell' uomo; ma noi esaminiamo il sistema del Filosofo. D' altra parte, la frase è conciliabile col sistema, giacchè se le creature sono il concreto e il particolare che la riflessione ritrova in Dio oggetto dell' intuito, certo che esse si distinguono da Dio sostanzialmente, perchè le creature in tal supposto, lasciano a Dio tutta la sostanza e esse non sono che sue proprietà. Infatti il Gioberti dà il nome di proprietà al concreto ed all' astratto, all' individuale e al generale che ripone in Dio, là dove dice: [...OMISSIS...] . Ma consideriamo un altro luogo dello stesso Autore, acciocchè, quanto si rende più chiaro il suo pensiero, altrettanto s' allontani il pericolo che le sue frasi ci illudano. L' oggetto dell' intuito giobertiano è l' ente, cioè Dio; all' incontro l' ente possibile che s' immedesima col nostro spirito, come vedemmo, è oggetto della riflessione. Ora fra l' uno e l' altro « « v' ha quella analogia e somiglianza rimota e imperfettissima, che corre tra l' infinito e il finito, fra l' ente e l' esistente » »: sono parole del Gioberti. Questa immensa differenza nasce unicamente dalla diversa maniera colla quale lo spirito nostro vede lo stesso oggetto. Se dunque l' oggetto è lo stesso, benchè le potenze sieno diverse; se lo stesso oggetto rispetto ad una potenza è Dio, rispetto all' altra potenza è l' esistente, cioè la creatura; non avremo noi che Iddio e la creatura sono l' essere stesso, la stessa sostanza? Ora udite le parole di Vincenzo Gioberti: [...OMISSIS...] . Considerato bene tutto questo passo, molte cose, son certo, suggerirà al vostro spirito, miei signori, la penetrazione di cui siete dotati, delle quali alcune saranno forse le seguenti: 1 Il Gioberti dice che l' idea diretta e la riflessa hanno NELLA SOSTANZA un oggetto medesimo: la sostanza dunque è unica. 2 Che quest' oggetto sostanzialmente il medesimo, quest' unica sostanza, rispetto all' intuito è l' Ente, cioè Iddio; rispetto alla riflessione è l' ente finito, l' ente astratto e possibile, quale è nel nostro spirito, e s' immedesima col nostro spirito stesso; onde accagiona il Rosmini di soggettivismo, perchè da esso deduce le idee; benchè non sia vero che ne deduca le idee, ma solo la forma delle idee. Tiratene la conclusione: non solo voi, miei eruditi signori, ma ognuno che abbia fior di logica, sa tirarla. La conclusione indeclinabile, inescusabile, manifesta ed evidente si è, che dunque Iddio, e l' ente astratto, finito, soggettivo, che s' immedesima collo spirito umano, sono nella SOSTANZA il medesimo oggetto, e differiscono nel modo; perchè è la sola riflessione e astrazione dello spirito che li divide; questa è quella che fa uscir fuori le esistenze dall' Ente: ecco per dirlo di nuovo, a che si riduce la CREAZIONE GIOBERTIANA! Onde altrove egli esprime la creazione con questa frase, « « la trasformazione psicologica del reale (cioè di Dio) nel possibile » » (che secondo lui è una creatura) (2). Miei signori, non è ella forse una dolorosa, ma patente verità oggimai il dire, che questo sistema è quello nè più nè meno de' più arditi panteisti? Dopo di ciò non fa meraviglia, che il Gioberti, miei signori, sembri contradirsi, come abbiam veduto che soglion pur fare tutti i panteisti, e di più non è meraviglia, che esca in declamazioni contro i panteisti che lo precedettero (anzi ella è cosa naturale), secondo i quali [...OMISSIS...] . Ma dopo avere dato tali e somiglianti sgarrate, quasi scudo messo avanti a protezione di sua dottrina, egli ritorna a sè medesimo, e vi dice netto, che, come [...OMISSIS...] . Vi dice ancora, siccome udiste, che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo l' Ente, cioè Iddio, è divenuto quell' idea che dà luogo alla psicologia, quell' idea che spiegò già il Gioberti nel luogo sopracitato, dove disse, che è un' idea che s' immedesima collo spirito umano, onde anzi dà nome ed accusa di soggettivisti e psicologisti a quanti muovono da quest' idea separandola dalla sussistenza. Perocchè non è già l' Ente come sussistente che dà luogo alla psicologia, ma l' Ente come intelligibile, che è quanto dire come quello onde fu astratta la sussistenza, il quale, secondo lui, s' immedesima col soggetto, coll' uomo. Ancora, dopo averci detto, che la sola dovizia reale delle scienze è quella che consiste nel concreto, egli ci soggiunge che il concreto della Filosofia [...OMISSIS...] . Il che vi prego di raffrontare con ciò che avea scritto nell' « Introduzione », «L. I, p. I, f. 23 ». [...OMISSIS...] , ed è perciò ch' egli vuole che nell' oggetto del suo intuito vi sia anche il sensibile, il che è perfettamente conseguente a tutto il resto, perchè anche la materia sensibile è una esistenza. Ma posciachè voi avete udito pure testè di che il Gioberti accusa i panteisti, cioè di volere che Iddio sia, a rigor di termini, non già il centro universale, ma lo stesso circolo; giova che noi vediamo d' intendere a fondo quale sia la distinzione che il Gioberti pone fra il centro universale che è Dio, e il circolo che sono le cose create. Parlando dunque egli dell' idea e del reale, li considera meramente come due rispetti, sotto cui si riguarda la cosa stessa, la stessa sostanza; protestando di dividerli appunto come si divide coll' astrazione il centro d' un circolo dalla sua periferia. Ora udite, che divisione sia questa, e se basti a dividere le creature dal Creatore in modo da non cadere nel panteismo. [...OMISSIS...] . Se dunque i panteisti errano col dire che Iddio è tutto il cerchio, mentre non ne è che il centro universale; voi avete inteso, miei signori, rimedio che apporta a tant' errore il nostro Gioberti. Egli ci fa osservare che il centro non istà senza il circolo, nè il circolo senza il centro, che il circolo ha due rispetti, l' uno de' quali è il centro, e l' altro è la periferia, i quali non si possono dividere nè realmente, nè scientificamente; ma solo astrattamente, cioè con quell' astrazione che distingue mentalmente le cose più indivisibili. Ora se Iddio è il centro, secondo il Gioberti, e se secondo i panteisti, Iddio è tutto il circolo, che avremo a dire se non: poveri panteisti, che non hanno saputo dividere Iddio coll' astrazione dal resto delle cose, benchè sia indivisibile, come il centro è indivisibile dalla periferia! Povera gente, a cui non è riuscito di trovare quest' accorta distinzione suggerita da Vincenzo Gioberti, per la quale si fa vista di distinguere Iddio da tutto il resto; ma s' aggiunge la dichiarazione, che ella non è già una distinzione nè reale nè scientifica; ma una distinzione di mera astrazione, la quale fa considerare l' Ente sotto due rispetti diversi, l' uno dei quali è Dio, Idea, e l' altro è la realità in tutta l' estensione del termine tanto necessaria, quanto contingente! Ed ancora, dopo avere insegnato una dottrina così ardita, sembra nondimeno ch' egli intenda di prepararsi aperta una ritirata al suo bisogno, gittando in un altro luogo male a proposito quelle parole che vi ho già recitate altrove, colle quali egli fa vista di rifiutare il panteismo, come se il giudicio del pubblico potesse sorprendersi e ingannarsi con qualche frase. [...OMISSIS...] ; sul qual passo alle osservazioni per noi fatte nella lezione precedente dobbiamo aggiungerne un' altra, miei signori, importante, mostrando forza che egli ha di assolvere dalla colpa di panteismo il giobertiano sistema. Secondo queste parole dunque, l' ordine assoluto è l' oggetto dell' intuito; e in quest' oggetto l' idealità è inseparabile dalla realità; questa è quella sintesi la quale precedentemente ha detto, se vi ricorda, che è Dio, perocchè Iddio pel signor Gioberti è una sintesi, quella sintesi che si trova nell' intuito dell' uomo. Or che cosa contrappone il Gioberti all' ordine assoluto oggetto dell' intuito? Egli contrappone l' ordine contingente di cose, il quale è l' effetto libero del primo. Dunque l' ordine contingente, l' ordine delle cose create ch' egli chiama effetto libero, quest' ordine non è l' oggetto dell' intuito. Ma d' altra parte ella è pur dottrina fermissima del signor Gioberti, che ogni conoscimento umano sostanzialmente è compreso nell' oggetto dell' intuito, e che fuor dell' ordine dell' intuito non v' ha altro ordine di sapere, se non quello della riflessione e dell' astrazione, o, come la chiama altrove, della sintesi raziocinativa e dell' analisi. Dunque alla sintesi raziocinativa ed all' analisi appartiene l' ordine contingente delle cose, le quali cose, per dirlo di nuovo, sono create in virtù delle operazioni della mente umana, che è appunto il sistema de' panteisti della Germania. Per fermo chi mai di voi non conosce il sistema dell' Hegel; che riduce appunto tutte le cose all' idea, e colle trasformazioni di essa fatte dal pensiero toglie a spiegare egualmente Iddio e il mondo, il necessario ed il contingente, l' essere e il pensiero stesso? Il qual sistema, lungi d' esser nuovo, è quello appunto de' primi panteisti italiani, gli Eleatici, pe' quali era un medesimo il pensare e l' essere, [...OMISSIS...] . Udiamo su di ciò nuovamente spiegarsi lo stesso Gioberti: [...OMISSIS...] . Dalle quali parole, unendole alle precedenti, noi possiamo trarre questo dialogo. - Che differenza vi ha, signor Gioberti, tra la cognizione che è oggetto dell' intuito, e la cognizione che è oggetto della riflessione? G. La cognizione che è oggetto dell' intuito, e quella che è oggetto della riflessione, è sostanzialmente la medesima, e non differisce che nella forma . - Se l' oggetto dell' intuito e quello della riflessione è nella sostanza il medesimo, come poi dite che differisce nella forma? in che consiste questa differenza? G. La differenza di forma che passa tra la cognizione oggetto dell' intuito, e la cognizione oggetto della riflessione, consiste in due cose, la prima che la cognizione oggetto dell' intuito è istantanea, e la cognizione oggetto della riflessione è successiva; la seconda che nell' intuito lo spirito vede l' oggetto quale è in sè, e la riflessione gli dà una forma soggettiva, lo scompone e ricompone . - Ma non avete anche detto che all' intuito appartiene l' ordine assoluto nel quale l' idealità è inseparabile dalla realtà? G. Sì, l' ho detto. - Non avete anche detto che il contrapposto dell' ordine assoluto è l' ordine di cose contingenti? G. L' ho detto. - E che l' ordine delle cose contingenti è l' effetto libero dell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito? G. L' ho detto parimente, e ne ho soggiunta la ragione, perchè [...OMISSIS...] . - Voi dunque per Ente intendete l' ordine assoluto? G. Appunto. - E per esistenze, ossia cose contingenti, intendete quelle cose che la riflessione, la sintesi raziocinativa e l' analisi trovano nell' ordine assoluto, che è il vostro Ente, veduto proprio in sè, quando queste facoltà dividono l' una cosa dall' altra, per esempio l' idealità dalla realità, e le dividono con successione di tempo, onde quest' ordine in fatto diviene in tal modo un ordine soggetto al tempo, alla moltiplicità ed alla contingenza? G. Appunto. - Egli diviene altresì ordine soggettivo, perchè in tal modo l' ordine assoluto acquista una forma soggettiva? G. Così nè più nè meno. - L' ordine adunque delle cose contingenti è formato dalla riflessione, che scompone e ricompone l' ordine assoluto, ossia l' Ente oggetto dell' intuito. G. Ottimamente. - Ora veramente capisco chiaro che cosa sia quello che voi chiamate principio di creazione, pel quale l' ordine delle cose contingenti, è un effetto libero dell' ordine assoluto che è l' oggetto dell' intuito. L' ordine delle cose contingenti dove si dà separazione dell' ideale dal reale non differisce sostanzialmente dall' ordine assoluto, ossia dall' Ente, da Dio, oggetto dell' intuito, ma differisce solamente nella forma, e per questo la creazione è cosa modale, come dite, [...OMISSIS...] . G. Dite di più: l' ordine contingente che abbraccia le creature non differisce dall' ordine assoluto, cioè da Dio, nella sostanza; ma differisce nella forma, perchè in quell' ordine delle cose contingenti vi è lo stesso che nel primo, oggetto dell' intuito, lo stesso che in Dio, ma con questo divario che l' oggetto dell' intuito, cioè Dio, acquista una forma soggettiva . Questa forma soggettiva che si dà all' oggetto dell' intuito, cioè a Dio, mediante il raziocinio, la sintesi raziocinativa e l' analisi, è appunto la creazione, perchè venendo posto l' oggetto dell' intuito sotto questa forma, ciò che era assoluto divenne relativo, ciò che era necessario divenne contingente, ciò che era oggettivo si cangiò in soggettivo, ciò che era Dio si cangiò in creatura. - Mirabile spiegazione che voi date, mio caro Gioberti, del mistero della creazione; si vede proprio che n' avete l' intuito immediato! La cosa infatti non mi pare che possa essere più chiara, o signori: l' ordine delle cose contingenti non differisce, secondo il nostro Filosofo, di sostanza dall' ordine assoluto, ossia dall' Ente, che è il Dio del Gioberti. La sostanza dunque di Dio e delle creature è la medesima; la diversità sta unicamente nella forma; il cangiamento di forma a cui l' Ente, cioè Iddio oggetto dell' intuito soggiace, è la creazione. Questo cangiamento è un effetto libero dell' Ente, ma questo effetto libero è poi l' opera della sintesi raziocinativa, e dell' analisi dell' uomo; perchè è questa che dà all' oggetto dell' intuito una forma soggettiva, scomponendolo, maneggiandolo giusta le proprie leggi, senza però alterarne la sostanza, benchè tuttavia sia da aggiungersi, che [...OMISSIS...] . Voi giudicate dunque, o signori; voi paragonate questo sistema a quello dell' unica sostanza di Spinosa, e ditemi che ci trovate di diverso, se non forse una nuova fraseologia, una maggior confusione d' idee, maggiori contraddizioni, ed una declamazione continua che tutti gli altri sistemi, eccetto questo suo, sono panteisti, la qual declamazione (d' altra parte non degna d' un filosofo) voi ben vedrete se appartener possa a quelle frasi magnifiche e menzognere di cui i panteisti appunto, massime del nostro tempo, fanno uso, come c' insegna lo stesso Gioberti. Alle quali frasi magnifiche si potrà dunque senza scrupolo riferire anche quella, dove il signor Gioberti dice, che Iddio non comprende in sè la « « realità contingente »(1) ». E certo la realità contingente non può essere in Dio dall' istante ch' ella è il concreto separato per via d' analisi da Dio; onde ciò che è separato non può essere unito. Ma questa separazione però operata dallo spirito che riflette e che costituisce il principio di creazione, non è più che modale; perchè la riflessione e l' intuito hanno nella sostanza il medesimo oggetto . E la ragione che di ciò dà il Gioberti, come vedemmo, si è perchè il discorso che fa la mente quando dall' Ente possibile passa all' Ente reale [...OMISSIS...] . Nell' oggetto dell' intuito vi è dunque ogni realità che altronde non potrebbe aversi, il qual discorso, s' egli ha alcuna forza, vale anche per la realità contingente nella sostanza, non però quanto al modo della contingenza, che nasce quando si separa colla riflessione. Che anzi non si potrebbero distinguere i corpi reali dai fantasmi e dai sogni, se non vedessimo quelli nell' oggetto stesso dell' intuito (1), secondo il Gioberti; e però conviene che la stessa realità de' corpi si vegga almeno confusamente nell' oggetto intuíto. [...OMISSIS...] . Allo stesso genere di frasi non si può a meno di ascrivere quell' altra che [...OMISSIS...] . Perocchè questa analogia e somiglianza imperfettissima diviene bentosto nel linguaggio del Gioberti una vera similitudine mediante « « la sintesi dell' atto creativo » », perocchè l' atto creativo è una sintesi, come voi già sapete, [...OMISSIS...] , benchè la Teologia cattolica insegni che fra Iddio e le creature non possa passare alcuna vera similitudine, nè avervi alcun genere comune. Questa sua similitudine è fondata, secondo il Gioberti, nell' Ente possibile, che egli afferma comune a Dio ed alle creature. Eppure il Rosmini avea dimostrato, che non si può applicare propriamente la possibilità a Dio, ma solo l' idealità, e ciò per conoscere che egli esiste, non mai per conoscerlo simile alle creature. Dice adunque il nostro filosofo, che l' Ente possibile conviene a Dio ed alle creature: è una impressione e una modificazione del soggetto conoscente fatta nell' uomo dall' oggetto conosciuto (1), quasichè una modificazione del soggetto umano possa essere comune a Dio ed alle creature. Ma se l' Ente possibile è una impressione ed una modificazione del soggetto umano; se è una modificazione ed un' impronta lasciata dall' oggetto dell' intuito, e se l' oggetto dell' intuito è veramente duplice, cioè Iddio e le creature, come talora dice il Gioberti, conseguirebbe, secondo la buona logica, che le impressioni e modificazioni fossero due, e tanto distinte fra loro e disparate, quanto sono distinti gli oggetti che fanno l' impronta. Non ve lo pensate: anzi il Gioberti vuol che sia un' impressione ed una modificazione sola, il che corrisponde alla sua dottrina sull' unicità dell' oggetto del sapere, di che abbiamo parlato nelle precedenti lezioni, e ciò attesa la sintesi dell' atto creativo che risponde nello stesso tempo all' uno ed all' altro oggetto. Poichè [...OMISSIS...] . Ma non crediate, miei signori, che questo Ente possibile che è una modificazione dello spirito umano, comune a Dio ed alle creature, non sia nello stesso tempo l' idea posseduta da Dio stesso. Questa impressione unica che l' Ente e l' esistente, Iddio e le creature lasciano nello spirito umano, attesa la sintesi dell' atto creativo, e che è fedel ritratto dell' unicità sostanziale del suggello, questa impressione e modificazione del soggetto umano che è l' Ente possibile comune a Dio ed alle creature, questa modificazione che rende simili fra di loro Iddio e le cose create, è nello stesso tempo [...OMISSIS...] . Voi vedete dunque, miei signori, che l' idea possibile è una modificazione dello spirito umano; e che nello stesso tempo è l' idea divina, che è quanto dire Dio stesso (2). [...OMISSIS...] . Certo in qual modo la stessa idea possa essere ad un tempo subbiettiva, cioè modificazione dello spirito umano, e obbiettiva, cioè idea di Dio, non si può facilmente intendere se non in un sistema di assoluto panteismo. Così fuori di questo sistema è impossibile intendere come un' idea possa mai essere una modificazione dello spirito umano, un' impronta, una impressione, metafora de' materialisti e soggettivisti; che d' altra parte non danno nessuna chiara notizia di ciò che costituisca un' idea. Dove mi piace, o signori, farvi osservare quanto agevolmente il Gioberti cangia stile e linguaggio, senza alcun sospetto, dove stima bisognarli per la sua causa. Perocchè avendo sempre nel corso de' suoi volumi accagionato il Rosmini di soggettivismo, qui tutto improviso lo accusa d' essere soverchiamente oggettivista, scrivendo che [...OMISSIS...] . Ma qual' è la ragione perchè il Rosmini dice obbiettivo, e insieme nega che sia subbiettivo l' Ente ideale? Voi lo sapete, o signori: è perchè immedesimare l' obbiettivo col subbiettivo da una parte va contro al senso comune ed alla ragione; dalla altra parte è un professare il più compiuto panteismo. Senza cadere nel panteismo, certo non si può dichiarare che l' idea, che è cosa divina, sia modificazione o impressione dello spirito umano, come non si può insegnare che Iddio e le creature lascino una sola e medesima impronta nel soggetto pensante come fossero un solo suggello, e che quest' impronta sia l' Ente possibile comune a Dio ed alle creature, dichiarando nello stesso tempo che questa comunità, questa similitudine di Dio e delle creature, si ravvisa « « nell' idea eterna dell' Ente »(2) ». Che se si ravvisa nell' idea eterna dell' Ente, che bisogno di ricorrere all' impronta che rimane nel soggetto uomo? E poi, se questa idea eterna dell' Ente, cioè di Dio, è « « l' archetipo eterno, senza il quale la creazione sarebbe impossibile » », converrà dire che vi abbia un archetipo comune a Dio e alle creature. Ora quando si udì mai che Iddio abbia un suo archetipo su cui possa esser creato? E se non ha l' archetipo, come l' archetipo potrà mai essere l' idea dell' Ente possibile, comune a Dio e alle creature? Lasciamo pure la sua gran parte alla confusione delle idee che cozzano nell' ardente immaginazione del nostro oratore; ma finalmente non rimarrà sempre il panteismo manifesto in fondo a tutto questo sistema, se così un cotale straparlare può chiamarsi? In altro luogo il signor Gioberti scrive che [...OMISSIS...] , cioè da Dio. Il possibile dunque che è da una parte subbiettivo, cioè una modificazione dell' uomo, dall' altra parte è inseparabile da Dio dove si contiene, e perciò è Dio. Ma da questo così aperto panteismo sembrerebbe discordare quella frase che « « la realtà finita si contiene idealmente nell' infinita » »; perocchè certo il dire che la realtà finita si contiene soltanto idealmente nell' infinita, è benissimo detto, miei signori, è frase immune al tutto da panteismo. Ma noi dobbiamo pur sempre domandare, prima di raccoglierne cosa alcuna, se quella frase sia veritiera, o per avventura ci mentisca come tutte le altre. Per venirne a capo, noi dobbiamo richiedere che cosa intenda il nostro Filosofo per idealmente, che cosa per idea, da cui viene la voce idealmente . Ora tutto il suo sistema para a questo d' identificare l' idea colla realtà; e contro a que' filosofi che vogliono accuratamente distinguere tali cose, egli adopera, se non l' armi della Filosofia, certo quelle della Rettorica, per le quali innalzò tanto grido fra' suoi amici. Il signor Gioberti insegna che tutte le cose sono idee (1); che lo spirito nostro afferra non solo l' Ente (Iddio), ma anche l' esistente (le creature contingenti) « « nella loro concretezza, non già applicando loro l' idea astratta dell' ente » (2) », di maniera che anche la concretezza delle cose contingenti è intelligibile allo spirito senza alcun mediatore (3), e crede che questo sia anche il pensar comune degli uomini, la quale credenza, o signori miei, vi parrà forse un po' strana, come pare a me; perocchè scrive francamente che [...OMISSIS...] . Se dunque le cose s' immedesimano colle idee e le idee colle cose, se ogni cosa è un' idea e ogni idea una cosa, che significherà in questo sistema la frase che la realtà finita si contiene « idealmente nell' infinita »? Qual sarà il valore da attribuirsi, o signori, a quella parola idealmente? La differenza che si pone tra l' idea e la cosa, ci sarà pure tra il valore delle parole idealmente e realmente . Ma quella differenza è nulla, perchè l' idea e la cosa si identificano: dunque la parola idealmente dee avere un valore nel sistema del nostro Autore identico alla parola realmente (1). Non lasciamoci dunque ingannare nè pure da questa frase e dichiariamola senza scrupolo menzognera come tutte le altre, perocchè quando il nostro Autore dice che « « la realtà finita si contiene idealmente nell' infinita » », dice ad un tempo che si contiene realmente, non differendo l' ordine dell' idee da quello delle cose. Ma il dir questo è panteismo svelato, e perciò gli giova coprirlo pudicamente agli occhi de' semplici suoi lettori col velo di una frase così bugiarda. La messe è tanto ricca, o signori, che io vi tratterrei di soverchio, se ne volessi fare l' intera raccolta. Io m' ero proposto di esaminare in questa lezione che cosa intende il nostro Filosofo sotto la parola di creazione, a cui egli ricorre, come ad unico scudo, onde salvare il suo sistema dalla brutta taccia che tanto teme: m' ero proposto di esaminare s' egli, come filosofo, ammetta veramente la creazione, quale l' ammettiamo noi colla Chiesa cattolica, ovvero se adoperi anche questa bella parola insidiosamente per ammansare i timori che i buoni potessero concepire de' suoi filosofici ardiri; e quanto abbiamo detto finqui mostra assai manifesto, che la sua creazione non è per avventura la creazione della cristiana Teologia, ma una creazione al tutto panteistica. Ma ciò che ho detto è pur poco verso a quello che a dire mi rimarrebbe, onde a mio malgrado devo rimettere oggimai molte cose, e per avventura le più importanti, ad un' altra lezione. Mi contenterò dunque in questa di aggiungere ancora poche osservazioni, e poi finirò per non abusare della vostra indulgenza. Noi abbiamo veduto che l' ordine delle cose è identico a quello delle idee, e che ogni cosa è un' idea, e che la prima idea, chiamata dal sig. Gioberti il primo psicologico, è il principal concetto di quelli che entrano a formare il primo ontologico, mentre gli altri non sono che logicamente derivati . E bene, questo ci appiana la strada ad intendere come il nostro Autore attribuisca la creazione all' idea . E posciachè l' idea è quella che giudica, ragiona e in una parola dialettizza, non è maraviglia se quella che crea sia la sintesi, onde parla così spesso della sintesi creatrice (1). Ma in che maniera credete voi che l' Idea operi la creazione? Egli vi dice schiettamente che [...OMISSIS...] . Voi sapete, l' intelligibilità propria di Dio è Dio stesso, come insegna il signor Gioberti, e questa intelligibilità che trapassa è dichiarata da lui numericamente identica in Dio e nelle creature. Dunque, secondo la sua dottrina, Iddio coll' azione creatrice trapassa nelle cose create, ed è per questo che egli insegnava prima che l' oggetto universale ed immediato del sapere in tutte le scienze è Dio stesso, come abbiamo veduto nelle precedenti lezioni. La qual maniera di spiegare la creazione è a dir vero a lui comodissima. L' intelligibilità di Dio trapassa nelle creature, perciò anche queste divengono intelligibili, perchè esse hanno in sè l' intelligibilità stessa di Dio in esse trapassata. Ma perocchè l' ordine degli intelligibili è identico perfettamente all' ordine della realtà, conviene che trapassando l' intelligibilità di Dio nelle creature vi trapassi anche l' essere reale, e così acquistino in virtù della stessa operazione « « l' essere, l' intelligenza e la vita »(1) ». Le creature adunque che sono ad un tempo cose ed idee, acquistano ad un tempo e collo stesso atto creativo l' esser cose e l' essere idee, trapassando in esse Iddio che è cosa ad un tempo ed idea. Egli è piacevole, a dir vero, miei signori, l' udire il Gioberti menare gran vanto di aver trovato un sistema così felice per evitare intieramente il panteismo. In un luogo delle sue opere, mettendosi uno scanno più su di Platone, egli viene narrando, come questo filosofo, benchè nè pure egli netto al tutto di panteismo, non sia pervenuto a tanta altezza. Sofferite che vi rechi ancora le sue parole. Dopo aver professato di seguire il filosofo ateniese, così segue: [...OMISSIS...] . Se dunque l' intelligibile ossia l' idea divina trapassa nelle cose create, dee trapassare pure in esse la realtà divina; e così vengono create: il qual placito è chiamato dal signor Gioberti l' assioma di creazione. Di che egli condanna [...OMISSIS...] . Mediante questa dottrina dell' atto creativo che il Gioberti ripone nel trapassamento dell' idea e della realtà divina nelle cose create, con che le cose sono create e diventano contingenti, reali ad un tempo ed intelligibili nella loro concretezza, o anche intelligenti; intenderete a meraviglia, miei cari signori, molti luoghi dell' opere del nostro Filosofo, che altramente riuscirebbero oscuri e sembrerebbero dissonanti dal panteismo. Intenderete cioè a meraviglia: I Perchè il Gioberti consideri l' idea di creazione [...OMISSIS...] , soggiungendo che [...OMISSIS...] . II Perchè affermi che [...OMISSIS...] , negando che sia mediatore ossia mezzo di conoscere l' essere ideale, come vuole il Rosmini (3), e tuttavia sostiene che la realtà non si può conoscere che nella sua ragione necessaria, la quale è Dio. Ora se questa ragione necessaria che ci fa conoscere la realtà finita e contingente fosse cosa diversa da quella realtà, ella sarebbe mezzo di conoscere, mediatore; ma poichè quella ragione necessaria, che è l' idea divina e Dio stesso è passata nelle cose create coll' atto creativo, e passando in esse le ha create e costituite nella loro concretezza; perciò ella non è diversa dalle cose create che si devono conoscere, e non è quindi mezzo di conoscerle, nè mediatrice tra esse e lo spirito, ma è proprio l' oggetto del conoscere, e così le cose create si conoscono nella loro stessa concretezza, senza bisogno d' altro, perchè nella loro concretezza sta l' intelligibile divino. III S' intende ancora perchè il signor Gioberti distingua il reale finito dal possibile, e distingua in ogni cosa due possibili, l' uno umano e l' altro divino; ma queste distinzioni che gli giovano non poco a mantellare il panteismo, egli dichiara che non sono che distinzioni di semplici rispetti e di puri aspetti, sotto cui si considera sempre la stessa cosa. [...OMISSIS...] . IV L' atto creativo consistendo nel trapassare che fa l' idea divina e con essa la realtà nella cosa creata, s' intende in che senso egli dice che l' Idea divina (e reale) informi la mente umana, e si vanti di spiegare egli pel primo la virtù informatrice dell' Idea ripetendola dalla sua VIRTU` CAUSATRICE, la qual virtù causatrice è quella appunto che dà l' essere materiale e sostanziale alle cose. Di vero egli continuamente dichiara che [...OMISSIS...] . I teologi cattolici insegnano che Iddio non può venire in composizione colle cose create, e però non può essere la loro forma sostanziale. Ma il signor Gioberti non si contenta già di fare che Iddio venga in composizione colle sue creature, dichiarandolo forma delle medesime; ma di più egli passa colla sua propria concretezza a costituirle, e così le crea; perocchè è coll' atto creatore che Iddio come idea informa le cose, e Iddio come cosa (giacchè cosa e idea s' identificano) le crea trapassando in esse il divino intelligibile, che è Dio stesso. V S' intende ancora in che modo il signor Gioberti non si contenti di chiamare Iddio causa prima e le creature cause seconde, il che è benissimo detto e consentaneo al comune sentire, giacchè la causa prima non ha bisogno per essere tale d' immedesimarsi colla causa seconda: ma lo chiami ancora sostanza prima, chiamando le creature sostanze seconde, con che spera egli di ottener due vantaggi, cioè di sbattere da sè la taccia di panteista colla frase magnifica di sostanze seconde riserbata alle create esistenze, e d' intromettere nello stesso tempo il panteismo a man salva nelle menti de' suoi lettori. E veramente egli descrive l' attinenza delle sostanze seconde alla sostanza prima, come si descriverebbe appunto l' attinenza degli accidenti alla sostanza che li regge e sostiene. Così Iddio diviene sostanza delle sostanze, e queste acquistano natura di accidenti di Dio medesimo; il quale oltre comporsi con esse come la forma colla materia, trapassa in esse sostanzialmente e così le crea. Ascoltiamo com' egli si esprime: egli dice in un luogo che il Sole spirituale, cioè Dio, [...OMISSIS...] . Iddio dunque informa l' anima umana sostanzialmente, la informa come prima sostanza, la sostiene, che è la frase che s' applica alle sostanze reggenti e sostenenti gli accidenti. Altrove, parlando dell' intuito umano, s' esprime così: [...OMISSIS...] . Laonde il Gioberti non trova modo più acconcio a descrivere la virtù creatrice, che quel di dire che « « il contingente RAMPOLLA dal necessario » », come appunto il rampollo esce dall' albero, trapassando in esso i succhi dell' albero; e quello che « fa rompollare il contingente dal necessario » è un' idea, cioè com' egli dice, l' idea di creazione (3). VI Finalmente vi si renderà or chiaro perchè voi vi scontrate negli scritti del nostro Filosofo in tante identificazioni. Identico è per lui l' ordine delle cose e l' ordine delle idee, come vedemmo, identico l' ideale ed il reale, identico nella sostanza è ciò che dà l' intuito e ciò che dà la riflessione, identica è la necessità metafisica (1); in somma tutto si riduce a identità, da poichè la creazione si fa col movimento e trapassamento dell' idea di Dio e Dio stesso nella creatura (rimanendo quell' idea e sostanza divina numericamente la stessa), di quel Dio che come sostanza informa, sostiene e regge le cose create, a quel modo che queste sostengono gli accidenti, e più ancora perchè elle propriamente non gli informano. Ma io voglio chiamarvi a considerare più attentamente un' altra identificazione. Voi sapete che il sig. Gioberti dà all' uomo l' intuito di Dio. Ma l' intuito, quest' operazione dell' anima umana, a chi appartiene, all' anima umana o a Dio? Il signor Gioberti vi dice conseguentemente alla sua teoria dell' atto creativo, pel quale l' intelligibile divino trapassa nelle cose create e così le crea; vi dice che appartiene non meno all' uomo che a Dio. [...OMISSIS...] , onde l' intuito dell' uomo è anche medesimamente per un altro rispetto intuito di Dio. E dà di ciò questa ragione, che [...OMISSIS...] . E certo, che vi abbia una connessione intima fra la creatura e il Creatore, niuno il vorrà negare; ma trattasi di sapere se questa sintesi faccia sì che il Creatore e la creatura diventino un solo oggetto, come il signor Gioberti sostiene; o se ella consista nel trapassare che fa l' Intelligibile, cioè il Creatore, nella creatura, come il sig. Gioberti la spiega nel luogo che abbiamo citato (benchè altrove si contradica negandolo); o finalmente se l' atto creativo è così inseparabile dall' atto conoscitivo, che quello sia un elemento essenziale di questo, a talchè il proprio concetto di questo racchiuda come una sua parte l' atto creativo, ciò che pure sostiene il nostro Filosofo. Egli dice in fatti, che [...OMISSIS...] ; il che è coerente con ciò che disse che ogni cosa è un' idea, sistema che si direbbe del panteismo ideale, ma pel sig. Gioberti è medesimamente panteismo reale, poichè per lui ogni idea è una cosa, e viceversa. Or posciachè le cose create sono intelligibili, secondo lui, nella loro propria concretezza, senza bisogno di un altro lume mediatore, perciò l' intelligibilità delle cose s' immedesima colla concretezza delle cose, ed è cosa identica l' esser le cose intelligibili e l' essere concrete. Ma posciachè l' intelligibilità delle cose non differisce numericamente dall' intelligibilità divina, giusta la sua dottrina; dunque l' intelligibilità divina s' immedesima colla concretezza delle cose finite; e il renderle intelligibili s' immedesima colla loro produzione. Di più, l' intelligibilità divina, secondo il signor Gioberti, è lo stesso che la mente divina, onde dice che [...OMISSIS...] . Non è dunque meraviglia se l' atto dell' intuito umano sia pel sig. Gioberti un intuito appartenente alla causa ed alla sostanza prima, cioè alla mente divina, e quest' intuito divino ed umano sia l' atto creatore, cioè l' atto che rende intelligibili le cose, e così le crea. E se il renderle intelligibili ed il crearle suona il medesimo, dunque tutto l' essere delle cose create consiste nella loro intelligibilità, ed elle sono idee (ciò che è lo stesso pel signor Gioberti che dire cose reali); e però sono intelligibili nella loro concretezza, perchè la loro concretezza ed esistenza è appunto la loro intelligibilità: [...OMISSIS...] (quasi che, miei signori, per dirlo di passaggio, applicando l' idea astratta alle cose, quest' idea non cessasse per ciò appunto di essere astratta). Se dunque la concretezza delle cose è la loro esistenza, e quest' esistenza s' identifica colla loro intelligibilità, onde coll' illustrarle sono create, e la loro intelligibilità è numericamente identica con quella di Dio, e con Dio stesso, voi vedete bene qual conseguenza indeclinabile ne proceda, e se per evitare la taccia di panteista basti che l' Autore dichiari sulla sua parola di non essere, e qua e colà sparga a piene mani frasi magnifiche contradicenti al panteistico errore (1). Laonde il signor Gioberti scrive ancora che [...OMISSIS...] . Dove il discendere che fa lo spirito umano da Dio a sè come creatura si dichiara un atto che s' immedesima coll' ascendere che fa lo spirito come pensiero a Dio, mediante l' azione creatrice. Il pensiero dunque dell' uomo che ascende a Dio, s' immedesima col discendere che fa la creatura da Dio, mediante l' atto creativo, e queste operazioni sono simultanee ed immanenti com' è l' atto creativo! Ancora un' ultima osservazione, o signori, e poi finisco, che è ben tempo. Il signor Gioberti ci fa sapere che non v' ha un solo panteista che non si contradica, e che a lato del panteismo non insegni cose contrarie a tale sistema, infiorando ogni cosa di frasi magnifiche e menzognere, perocchè il panteista pudico ha vergogna di mostrar nuda la propria fronte. Ora se il contradirsi è costante carattere de' panteisti, dichiaro non mancare nè pure questo carattere al nostro Filosofo. Noi l' abbiamo veduto, ma suggelliamo la serie delle contradizioni accennate, con un gruppetto di esse alquanto piacevole. I Il signor Gioberti insegna che ogni cosa è un' idea, e che l' idea crea le cose, che l' intelligibile divino passando nelle cose create dà loro esistenza, che crea i sensibili illustrandoli, e crea pure la mente (2). Or ogni cosa è un' idea ed ogni idea è una cosa: creandosi le cose di necessità si creano anche le idee. Ma no che in un altro momento lo stesso signor Gioberti scrive all' opposto: [...OMISSIS...] . II A malgrado però che « « la menoma idea obbiettivamente sia Dio, pel signor Gioberti, e non possa esser creata » », giusta un' altra dichiarazione non meno espressa dello stesso Filosofo, vi ha un gran numero d' idee, ossia d' intelligibili essenzialmente distinti, il che recherebbe direttamente la conseguenza platonica, che vi abbia un gran numero d' Iddii essenzialmente distinti, i quali Iddii potrebbero esser creati dall' Ente, che sarebbe il supremo Iddio. Ciò risulta assai chiaro, se si raffronta col brano ultimamente citato quello ove dice: [...OMISSIS...] . Or se gl' intelligibili assoluti sono le idee obbiettivamente considerate, ciascuna delle quali, benchè essenzialmente distinte, è Dio; gli intelligibili relativi sembra che siano le stesse idee considerate subbiettivamente, le quali lo spirito umano si forma colla sua riflessione, e tuttavia, secondo il Gioberti, l' Ente egualmente le crea e sono essenzialmente distinte (1). Del resto voi non ignorate che noi col Rosmini siamo assai lungi dal dire che « « l' idea dell' essere sia la sola cosa conosciuta dall' uomo » », quando anzi insegniamo che per mezzo di questa idea conosciamo tutte le altre cose, e particolarmente le realità finite. Ma poichè non è la difesa nostra che noi cerchiamo di fare in queste lezioni, ma sì la difesa della verità filosofica e cristiana che esclude e riprova il panteismo, noi qui lasciamo ben volentieri l' argomento, pregandovi di continuarmi la studiosa vostra attenzione per un' altra lezione ancora, la quale conchiuderà la discussione intrapresa sul sistema di panteismo proposto all' Italia da Vincenzo Gioberti: forse acciocchè questa nostra nazione nel genere del panteismo s' abbia il primato. Ripetiamo, o signori, quello che abbiamo detto al cominciamento della precedente lezione, che se Vincenzo Gioberti ammette puramente e semplicemente la creazione, noi lo rimandiamo assai volentieri libero da ogni sospetto di panteismo. Ma dobbiamo però rammentargli quanto egli disse a Vittorio Cousin: « « Non si tratta delle parole, ma dei concetti »(1) ». Perocchè il signor Cousin si difendeva appunto dalla taccia di panteismo, dichiarando d' ammetter la creazione, e nulladimeno il Gioberti non gli fece buona la scusa, anzi il volle convinto di quell' errore, di cui certo una parola non basta a purgarsi. Ora noi abbiamo veduto che maniera di creazione sia per avventura la giobertiana; creazione che non è creazione, anzi è velo trasparente assai e squarciato, con cui egli spera di togliere agli occhi altrui la schifezza del suo panteismo. Ma che direste, signori miei, se io vi dimostrassi che dopo avere egli sbandito nel fatto il concetto di creazione, e tenutane co' denti la parola, questa stessa arma imponente della parola ce la cede assai facilmente? Udite tutto il ragionamento e poi giudicate. Egli dice prima che ogni cosa è un' idea (2). Dice dipoi che ogni menoma idea obbiettivamente è Dio (3). Già voi sentite la conseguenza manifesta che discende da queste due premesse, cioè che ogni cosa obbiettivamente è Dio. Ora, secondo il signor Gioberti, gli altri sistemi fuori di questo suo nel quale ogni cosa è necessariamente Dio, sono tutti fracido panteismo. Andiamo avanti. Se ogni cosa è un' idea, non si posson creare le cose senza creare le idee. E in fatto il signor Gioberti, quantunque sostenga che ogni menoma idea obbiettivamente sia Dio, tuttavia dice ancora che le idee sono essenzialmente diverse l' una dall' altra, e che si creano (4). Ma in altri luoghi, rinsavito alquanto, nega che si creino, e prende calore contro il Tarditi, attribuendo a questo professore, benchè falsamente, l' aver detto che le idee si creino, e che l' idee dell' uomo sieno numericamente distinte da quelle di Dio; perchè dice il Gioberti: [...OMISSIS...] . Se dunque Iddio non può creare la menoma idea, dunque egli non può creare nè tampoco la menoma cosa: ed ecco esclusa la creazione, ecco caduta di mano al nostro Filosofo anche questa parola, quest' arma impotente colla quale credea difendersi dalla vergogna del panteismo. La logica dee avere il suo luogo, miei signori, e la logica è inesorabile, non ha compassione delle parole, quando queste la vogliono impaniare e impastojare. Ma come dunque (si opporrà) il signor Gioberti, che da una parte dice che ogni cosa è un' idea, e che le idee non si posson creare (onde la creazione rimane abolita); come lo stesso signor Gioberti ha poi continuamente in bocca la parola creazione, e non contento che ella sia un dogma, e d' altra parte confessando che non si può dimostrare per via di raziocinio (3), ci assicura sulla sua parola d' onore ch' egli la vede proprio immediatamente e direttamente coll' acuto sguardo del suo spirito contemplante, e la dichiara altamente non già un teorema, ma un assioma filosofico? Signori, e non sapete voi che i panteisti son filosofi, che stimano di aver la facoltà di far travedere come indubitatamente hanno quella di travedere? Non sapete quante scappatoje si tengano sempre aperte? Eccovene qua una nel caso nostro. Distinguete il concetto volgare della creazione dal concetto filosofico; e tutto sarà aggiustato. Il Gioberti la nega solo nel concetto volgare, che la definisce colla Chiesa cattolica, una produzione dal nulla; ma la ammette poi nel concetto filosofico. E qual è questo concetto filosofico? Voi l' avete udito. [...OMISSIS...] . In tal modo esse pure diventano intelligibili, idee, e lo spirito umano le afferra nella loro concretezza, senza bisogno di alcun mezzo di conoscere, di alcun' altra idea che faccia l' ufficio di mediatore tra le cose create e lo spirito, perchè sono esse stesse idee. Così c' insegna il Gioberti. In un luogo il nostro Filosofo, dopo aver detto che [...OMISSIS...] , segue a parlare della luce intellettuale così: [...OMISSIS...] . Conchiudete: la luce stessa intellettuale sussiste adunque identica in Dio e nelle creature, le quali si creano col venire illustrate da questa luce divina, come disse altrove, e così la loro concretezza non ha bisogno d' altro che di se stessa per esser conosciuta. L' idea dunque è quella che crea, ella è altresì quella che intuisce, che giudica (1), che astrae (2), che ragiona (3); ma è altresì quella che è creata; onde la creazione di una cosa, per esempio d' un arbore, è chiamata dal nostro Autore [...OMISSIS...] . Ma questa attuazione estrinseca dell' idea dell' arbore, che è la sussistenza e concretezza dell' arbore, è della stessa sorte e natura dell' idea? Certamente, secondo il Gioberti, perocchè egli argomenta così: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque l' idea, che è la potenza, attuandosi diventi cosa, che è la sua attuazione ed effettuazione, conviene che l' idea e la cosa sieno della stessa sorte, perocchè quella altramente non potrebbe dare la realtà a questa se non fosse reale; il qual argomento non può valere se non trattasi di una realtà della stessa natura e sostanza; benchè soggiunga che [...OMISSIS...] . Onde la cosa contingente essendo « il possibile attuato », consegue che egli sia più del possibile, cioè che sia il possibile dotato di necessità assoluta, più il suo atto contingente; ond' è che il contingente è intelligibile nella sua concretezza senza bisogno d' altra idea o mezzo di conoscere. Ogni cosa dunque è l' idea, più l' atto contingente dell' idea, e l' idea essendo la sostanza stessa di Dio, quindi ogni cosa è la sostanza di Dio, più l' atto contingente di questa sostanza: così Iddio è la sostanza prima, e il suo atto contingente sono le sostanze seconde sostenute da quella, come l' atto è sostenuto dalla potenza che lo produce (2). La stessa conclusione si raccoglie, miei signori, dalla definizione che il nostro Filosofo ci dà poco appresso del possibile, definendolo: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è il reale increato o creante? Egli è certamente Iddio. Ma che cosa è il reale creabile? Il creabile non è ancora il creato: il creabile sono le idee. Ma la menoma idea obbiettivamente è Dio stesso, insegna il Gioberti. Dunque il creabile è Dio stesso; e il possibile non è altro che una relazione che ha Dio verso sè stesso, quasichè in Dio vi avessero altre relazioni che quelle delle persone. L' idea dunque è quella che crea ed è ad un tempo quella che è creata; dove per creata il signor Gioberti intende, come abbiamo veduto, attuata, effettuata . Tale è il concetto della creazione del nostro Filosofo. Da tutti i lati spiccia la stessa conseguenza, lo stesso puro e putido panteismo; sicchè si può dire a ragione che il signor Gioberti sia fra i panteisti uno de' più coerenti. Pigliamo pure la cosa ancora da un altro verso. E` principio del signor Gioberti che nulla vi abbia nell' oggetto della riflessione che non sia prima nell' intuito, e che quella non faccia che ripetere ciò che vi ha in questo. [...OMISSIS...] (1). Vediamo dunque di nuovo che cosa si contenga nell' oggetto dell' intuito. Il signor Gioberti ci insegna che l' uomo nello stato di intuito [...OMISSIS...] . L' intuito dunque non ha che un oggetto ideale. Ora ogni ideale, anzi ogni menoma idea oggettivamente, com' è data nell' intuito, è Dio stesso. Ma nello stesso tempo egli ci dice, che l' oggetto dell' intuito è quello che egli chiama anche la formola ideale, e che [...OMISSIS...] . Ma come da questo Dio, che è tre realità, giusta la formola, come da questa trinità giobertiana escono poi le creature? Voi avete udito la descrizione dell' atto creativo: egli è quello [...OMISSIS...] . Perciocchè infatti il collegarsi d' un ente con un altro è una mera modalità. Onde, spiegando che cosa intenda per sostanza seconda, egli l' aveva definita [...OMISSIS...] . Con che nulla si crea veramente, poichè la stessa sostanza che esisteva prima in un modo, comincia ad esistere in un altro. Ma riteniamo, miei signori, che l' oggetto dell' intuito, benchè contenga anche le esistenze, cioè le creature, egli è sempre ideale, e però è sempre Iddio, pel signor Gioberti, pel quale ogni ideale è Dio. Onde le esistenze, cioè le cose create, essendo Dio, sono intelligibili per sè stesse, nella loro concretezza, senza bisogno di alcuna idea che loro serva di mediatore, poichè sono anch' esse idee, e però Iddii; e l' uomo conosce le cose immediatamente in virtù dell' intelligibilità assoluta (3), che è Dio oggetto unico dello scibile. Ma come poi, essendo Dio le cose create, noi le separiamo da Dio? Non già per mezzo dell' intuito, il cui oggetto è ideale, ma per mezzo della riflessione, la quale così diventa creatrice, come già abbiamo veduto. Ma avvertite che l' intuito e la riflessione convengono insieme « « NELLA SOSTANZA del loro oggetto » », giusta la dottrina del nostro Filosofo (4). Onde, le creature sono apprese come contingenti dalla riflessione, ma nell' intuito sono idee, e perciò hanno la divina natura, e nella sostanza s' identificano perfettamente. La loro intelligibilità tuttavia, ossia la loro idealità (1), rimane la stessa anche nella riflessione, e però rimane divina, anzi Dio stesso; e mediante questa intelligibilità sono create, cioè sono sostanze, perchè è l' idea quella che le crea. Tuttavia il signor Gioberti di buon animo nega la medesimezza del reale e dell' ideale contingenti, spiegando però la parola contingenti così, [...OMISSIS...] , la qual derivazione si fa per via di riflessione, come vedemmo. Tuttavia la riflessione [...OMISSIS...] . Sebbene adunque nell' oggetto dell' intuito giobertiano si comprenda ogni cosa in quanto alla sostanza, e tutto in esso sia ideale, cioè tutto in esso sia Dio; tuttavia nell' intuito l' uomo non trova sè stesso, [...OMISSIS...] . E pure, ciò che si contiene nell' oggetto dell' intuito e nell' oggetto della riflessione non differisce nella sostanza, ma solo nel modo. Se dunque il soggetto uomo è una sostanza seconda che non si trova che nell' oggetto della riflessione, e se l' oggetto della riflessione non differisce di sostanza dall' oggetto ideale dell' intuito, che è la sostanza prima; convien dire che le sostanze seconde non differiscono dalla prima di sostanza, ma solo di modo . Tali sono le sostanze seconde del signor Gioberti. Si può dunque conchiudere, che il vocabolo di sostanze seconde non sia un velo abbastanza denso per coprire la vergogna del panteismo, e che val tanto questo vocabolo di sostanze seconde, quanto vale la dichiarazione che [...OMISSIS...] ; mentre avea pur detto che l' intuito e la riflessione convengono [...OMISSIS...] . Volgiamoci ancora d' altra parte: vediamo se il signor Gioberti spieghi in qualche altra maniera il suo principio di creazione, che più s' avvicini al cattolico insegnamento. Eccovi qua un luogo, signori miei, molto atto a farci conoscere la sua mente. Egli riduce la creazione ad una individuazione delle idee. Iddio è l' idea, anzi ogni menoma idea è Dio: questo Dio7Idea è il generale; questo generale s' individua, ed ecco venute fuori tutte le creature. [...OMISSIS...] . E certo, miei signori, gli scolastici più illustri e di sana dottrina, fra i quali s. Tommaso, dicevano che Iddio nella creazione non individualizza già una cosa che prima era generale, e molto meno individualizza se stesso; ma dicevano che egli cava dal nulla la cosa stessa, la materia o sostanza e la forma, come insegna la Chiesa cristiana cattolica. Ma non tutti gli scolastici s' attennero a questa maestra di verità: anche fra essi v' ebbero dei panteisti, e questi panteisti insegnarono intorno alla creazione quello appunto che adesso ci ripete come una novità, come un sistema da lui trovato, Vincenzo Gioberti. Scoto Erigene, il più celebre tra i panteisti del medio evo, ammetteva le idee creanti come udimmo fare il Gioberti, ed insieme create, perchè il Gioberti insegna, che [...OMISSIS...] . Ma Guglielmo di Champeaux ebbe di più insegnato che gli universali, cioè le idee, s' individuano nei particolari, e così vengon questi creati; e poichè in ogni particolare v' ha lo stesso universale individuato, perciò gl' individui identici nell' essenza non differiscono che per la varietà degli accidenti e delle forme passeggiere. Non vedete voi qui aperto quel fonte a cui il signor Gioberti sembra aver attinto il suo sistema della creazione? e che, se voi volete, dopo averlo attinto, l' ebbe anco perfezionato, press' a poco come Amanzi di Chartes e Davide di Dinant perfezionarono il sistema di Guglielmo, riducendolo in un più espresso panteismo? Perocchè il Gioberti, facendo che l' intelligibile, cioè Iddio, che chiama anche il generale, crei le cose illustrandole, e le illustri passando in esse, nella loro propria concretezza che diventa così intelligibile per sè stessa, sicchè lo spirito l' afferra senza bisogno del mezzo d' alcun' altra idea, riuscì a quella solenne sua conclusione, che Iddio è l' universale ed immediato oggetto pel sapere umano. Laonde quando il Gioberti vi dice, o signori, che lo speculare degli scolastici non potè sciogliere per intero il gran problema della creazione, egli dee intendere degli scolastici sani e cattolici, come un san Tommaso ed altri tali, perocchè d' altra parte voi avrete osservato quante volte nelle sue opere egli riprenda e condanni i semi7realisti, e con qual compiacenza egli si dichiari per uno schietto realista . Or bene a chi non è noto che REALISTI appunto si chiamavano i discepoli di Guglielmo di Champeaux, di questo famoso dottore, il quale dichiarava la creazione essere un' individuazione degli universali, come fa il Gioberti? Ma torniamo un poco ad ascoltare il Gioberti stesso. [...OMISSIS...] . Questa è la definizione che il Gioberti dà del generale in sè stesso, e nella sua radice; la quale giunta « nella sua radice »parrebbe, a dir vero, superflua, dopo aver detto che il generale è tale in sè stesso; poichè, se il generale è l' Ente necessario, l' Ente necessario non ha radice, nè io so che i filosofi od i teologi abbiano mai fin qui parlato della radice dell' Ente necessario, che è Dio. Andiamo dunque avanti. [...OMISSIS...] Se non fosse, miei signori, per non interrompere troppo il corso delle idee, vorrei pur trattenermi un poco anche su questo punto determinato, in cui l' individuale contingente concentra la sua realità; ma continuiamo: [...OMISSIS...] . Così il signor Gioberti si esprime. Riassumiamo adunque. Che cosa è creare? Creare è individualizzare l' idea generale. Che sono le creature? Le creature, ossia le esistenze contingenti, non sono che l' idea generale (l' Ente necessario, Iddio), che passa a stato d' individuo. Vi farete ora maraviglia, miei signori, che le cose contingenti sieno pel Gioberti l' idea, quando Iddio stesso, secondo lui, è l' idea? Ma qual differenza passa dunque fra Dio e le creature? Grande certamente e sostanziale; perchè Iddio, secondo il Gioberti, è l' idea generale nella sua generalità, mentre le creature sono l' idea generale nella sua individuazione; onde l' idea generale si chiama sostanza prima, e l' idea generale nella sua individuazione si chiama sostanze seconde. La creazione è il passaggio che fa Iddio dallo stato d' idea generale allo stato d' individuo, dallo stato di Ente allo stato di esistenza, e questo passaggio è l' atto creativo. Voi vedete di nuovo qui che Iddio oggetto dell' intuito, e le creature oggetto della sintesi raziocinativa e dell' analisi, non differiscono nella sostanza, ma differiscono nella forma (il signor Gioberti nondimeno trova assai utile di chiamare Iddio sostanza prima e le creature sostanze seconde): Iddio è l' oggetto generale, che mediante l' individuazione, cioè l' atto creativo, passa a stato di soggetto, ossia di creatura. Laonde coerentemente dice il Gioberti: [...OMISSIS...] . Per quanto sia strano il dire che la radice divina si veda effettuata nelle creature, pure non è men vero che così la pensi il signor Vincenzo Gioberti, perchè egli stesso ce ne assicura. Con queste spiegazioni che egli medesimo ci somministra de' suoi pensieri, e della maniera con cui toglie a distruggere il panteismo, noi intendiamo, o signori, più altre cose, che senza ciò ne riuscirebbero per avventura troppo difficili a concepire. Intendiamo primieramente l' impegno ch' egli ha preso di combattere la distinzione dell' ideale dal reale, e di pretendere che l' ideale sia qualche cosa di sussistente, e com' egli dice nel modo il più strano, di concreto . Senza di ciò, egli non avrebbe potuto nè convertire Iddio in un' idea, nè convertire quest' idea nelle creature coll' individuamento, che è il suo atto creativo . Egli dunque accorda, che l' idea generale appartenga alla mente, e il particolare al senso; ma solamente nell' ordine della riflessione, che è l' ordine delle cose contingenti: in quest' ordine il generale è già individuato, reso soggettivo, immedesimato col soggetto, meramente ideale, cioè diviso dal reale e dal sensibile. Ma questa è tutta opera della riflessione dell' uomo che viene dopo l' intuito, il quale vede tutte queste cose insieme: e questa congerie, questa sintesi, come la chiama il Gioberti, è l' ordine assoluto, cioè Dio stesso. [...OMISSIS...] (voi ben sapete che noi non reputiamo la mente dell' uomo sorgente del generale, come egli ci imputa colla sua solita infedeltà; diciamo anzi che la mente non crea, ma riceve il lume universale col quale ella poi forma, limitandolo, gli universali minori, ciò i generi e le specie), [...OMISSIS...] . Voi vedete qui la solita metafora della radice obbiettiva sì della generalità , come dell' idee riflesse e del concreto dei sensibili . Non viene egli la voglia di rivolgere al signor Gioberti quella interrogazione, che assai male a proposito egli fa a' suoi avversarj, [...OMISSIS...] , le quali sappiamo aver le loro radici, perchè sono piante? In secondo luogo è pure notabile che il Gioberti riconosca una radice unica, obbiettiva, esterna, indipendente della cognizione, tanto della generalità delle idee riflesse, quanto del concreto de' sensibili, cose, a dir vero, molto disparate. In terzo luogo rimane a vedere, se questa radice della generalità dell' idee riflesse e del concreto dei sensibili, sia sostanzialmente la stessa cosa con questa generalità e con questo concreto, oppure sia cosa separata da essi, e di diversa sostanza; poichè questa ricerca è quella che può decidere la questione (quantunque sembri decisa soprabbondantemente da quanto è detto), se il sistema che esaminiamo sia panteistico o no. Giacchè essendo in fine quest' unica radice della generalità delle idee riflesse e del concetto dei sensibili, per Vincenzo Gioberti, Iddio stesso; la questione del panteismo è sempre quella di sapere se la sostanza di Dio e quella delle creature è una e la stessa, o diversa e infinitamente diversa. Se la radice del Gioberti è di sostanza diversa affatto dalla sostanza delle due piante che si fanno nascer da essa (la generalità delle idee riflesse e il concreto dei sensibili), in tal caso le metafore che egli adopera non saranno più che frasi poco esatte; ma se la sostanza della radice di quelle piante è identica, il panteismo sarà aperto ed indubitabile. Ora, onde mai il Gioberti fa uscire le due piante della generalità delle idee riflesse, e del concreto dei sensibili? Le fa uscire dalla riflessione dell' uomo preceduta però e creata dalla riflessione dell' idea, cioè del Dio7Idea. Ma questa operazione della ragione umana, che è anche insieme la ragione divina, che cosa fa? Scompone e compone l' oggetto precedente, soggettivizza quello che era oggettivo, produce, come abbiamo veduto, l' ordine contingente colla scomposizione dell' ordine assoluto oggetto dell' intuito. L' oggetto dell' intuito è dunque la radice della generalità delle idee riflesse e del concreto dei sensibili, che sono come l' albero diviso in due tronchi, e quell' oggetto è l' oggetto stesso della riflessione nella sostanza, non differendo che nella forma. Ecco come ripete questa sua teoria: [...OMISSIS...] . Quindi conchiude che il generale, in quanto è veduto nell' intuito, è l' essere necessario, cioè Dio stesso, e il concreto sensibile è il contingente, cioè Iddio stesso che concentra la sua realtà in un punto individuandosi. [...OMISSIS...] . Uditene la conseguenza che spiega ancor più le premesse. [...OMISSIS...] . La conseguenza è coerente alle premesse. Poichè, s' egli è vero che l' individuale contingente, o, come anche dice, il concreto de' sensibili altro non sia che l' idea generale individualizzata, egli è certo che per averne la cognizione, conviene aver l' intuito di quest' idea generale, che è l' essere necessario e infinito, cioè Dio, e della sua individualizzazione, che è l' atto creativo, il qual atto creativo che concentra l' esistenza in un punto determinato, è l' opera della riflessione che così reca all' esistenza il concreto dei sensibili. Egli è dunque del tutto logico il dire che per conoscer l' albero conviene conoscer la radice nel sistema del signor Gioberti, perchè in tal sistema non solo la radice è della stessa sostanza dell' albero, ma anzi ella si trasfonde nell' albero stesso, essa è il soggetto sostanziale di cui l' albero è l' atto accidentale retto e sostenuto; laddove se la radice fosse di sostanza totalmente diversa, non vi sarebbe bisogno alcuno di percepire la radice per percepire i rami della pianta, perchè una sostanza è ciò appunto che si concepisce dalla mente senza ricorrere ad altra sostanza, quando l' accidente è ciò che non si può concepire solo senza la sostanza. Quindi la ragione è palese del perchè egli cotanto ci replichi, che le cose contingenti non si posson percepire che nell' atto creativo: essendo quelle una trasformazione di Dio medesimo, conviene vedere e Dio e la sua trasformazione per averne la percezione. Ora io credo che a ciascuno sia facile il decidere sulla ricerca che continuamente facciamo, se il sistema del nostro Filosofo ontologista sia netto e puro di panteismo, com' ei sostiene. Ritenuto il filo del qual discorso, non fa maraviglia l' udire che, come le cose individue sono l' idea, ossia Dio trasformato, così l' idea, cioè Iddio, anch' egli alla sua volta sia le cose trasformate in senso contrario, cioè trasformate nella composizione o sintesi; non fa meraviglia che l' idea, cioè Iddio, sia un' attuazione dell' individuo, piuttosto che l' individuo sia una cotale attuazione dell' idea. E questo è pur quello che insegna ancora espressamente il Gioberti. [...OMISSIS...] . Ritenete, o signori, che individuare è creare, e che individuo è sinonimo di creato, e che l' idea, ossia il generale che s' individua è l' essere necessario e infinito. Che cosa è dunque il creato? L' attuazione di Dio. E che cosa è Dio? E`, ed assai meglio, l' attuazione del creato; [...OMISSIS...] . Come dunque intuire le esistenze create, senza intuire Iddio di cui sono l' attuazione? (perocchè Iddio in questa dottrina non è solo atto, ma egli ha anco attuazione). E come intuire Iddio senza intuire le esistenze che sono il creato, di cui Iddio stesso è assai meglio l' attuazione? « Quindi (soggiunge di nuovo quello che sapevamo, perchè ce l' aveva detto tante volte), [...OMISSIS...] , ossia nella loro radice obbiettiva. Udite ora come il nostro Filosofo applichi la sua teoria della creazione a spiegare il valore della proposizione: « Questo corpo è ». Colui che la volesse interpetrare alla semplice, secondo il senso comune ed i filosofi passati, altro non vedrebbe in quella proposizione che l' affermazione di un corpo. Non lo crediate: il Gioberti è troppo coerente a se stesso; egli vi vede l' insidenza del corpo nell' Ente, cioè in Dio, di cui il corpo è un' attuazione, o assai meglio Iddio è un' attuazione del corpo, e però ci vede anco l' affermazione di Dio stesso. Udite: [...OMISSIS...] . In che dunque consiste, secondo Vincenzo Gioberti, l' esistenza, colla qual parola a lui piace d' esprimere la cosa creata o contingente? Consiste nella [...OMISSIS...] . Il corpo materiale adunque nella sua concretezza insiede in Dio, e partecipa a Dio, ed è questa l' esistenza del corpo. Ora poichè non vi è nulla che insieda in Dio, e che a Dio partecipi, se non Iddio, forz' è dire che anche la materia sia Dio. Ma notate tuttavia, che il corpo è l' idea generale (il Dio di Gioberti) individualizzata, e non l' idea generale nella sua generalità: non è l' idea generale oggetto dell' intuito, ma è l' idea generale divenuta oggetto della riflessione, che l' analizza col raziocinio; ond' è necessario che la voce è nella proposizione « questo corpo è », indichi il suo riferirsi alla realtà necessaria, poichè questo riferirsi della realtà contingente alla realtà necessaria, è l' esister di questa. E in che consiste questo riferirsi? Nell' emergere, dice il Gioberti, dalla sua causa per mezzo dell' individuarsi che fa questa causa, cioè Dio, l' individuarsi del quale è l' atto creativo. Lo stesso egli ci ripete in altro luogo: udite attentamente: [...OMISSIS...] . L' esistenza dunque, sotto il qual nome il Gioberti intende costantemente la creatura, è una partecipazione finita di Dio! Se l' esistenza, per esempio, un corpo reale e individuale è Iddio partecipato in un modo finito, il corpo stesso nella sua realità e individualità ha la natura di Dio, benchè in un modo finito. E non è questo il più materiale panteismo? (2). Ora imparate, o signori (perdonatemi se così parlo), imparate a conoscer l' ignoranza profonda in cui fin qui foste stati immersi, e con voi insieme tutti gli uomini. Non credete voi, che dicendo « è questo corpo »(e ben vedete che dicendo questo non si esprime il corpo in genere, ma in individuo, nella sua concretezza e materialità), non credete, che dicendo « è questo corpo », si affermi una sostanza morta? Certamente. Ma siete ingannati: il corpo che s' afferma esistere è ben tutt' altro. Il Gioberti v' assicura, e con tutta coerenza, che dicendo « questo corpo è », il verbo è « esprime una forza viva », perchè ci mostra [...OMISSIS...] . Di più, fin qui voi eravate in un goffo errore credendo che la creazione fosse una cotal produzione dal nulla: il signor Gioberti, il filosofo della creazione, venne a insegnarvi che questa non consiste già nel prodursi il contingente dal nulla, ma [...OMISSIS...] . Quanto erano ignoranti prima di questo lume tutti i sani filosofi ed i teologi cattolici! Essi credevano tutt' alla buona, che i corpi si conoscessero come cose fatte nel tempo, e invece a rigor di termini si conoscono dall' uomo, non come fatte nel tempo, ma nell' immanenza dell' Eterno . E questo noi lo sappiamo non per divina rivelazione, non per via di raziocinio, ma di semplice intuito, che ha per oggetto l' ordine assoluto: ce ne assicura il signor Gioberti, e guai a domandargliene la menoma ragione, chè il suo intuito è immediato, e non ammette ragione alcuna. In appresso succede la riflessione che analizza quest' oggetto, il quale appare nell' immanenza dell' eterno, ed allora nasce la continuità temporanea, allora il contingente è già emerso dal necessario. Il panteismo dunque è nell' intuito, ma sopravviene la riflessione soggettiva che disfà il panteismo coll' analisi raziocinativa. Ecco l' errore dei panteisti antichi: essi avevano bonariamente insegnato il panteismo col raziocinio, ma il Gioberti li confuta, trasportandolo nell' intuito; perchè ragione prima del raziocinio che nulla crea, dee esser l' intuito che tutto contiene: e questo è l' ordine del vero assoluto, mentre quello della riflessione è un ordine soggettivo. Combatte dunque il panteismo, dimostrando che non ebbe fin qui solide basi, ed egli intende così di sopporgliele; lo combatte col sostituire un panteismo assoluto ed intuitivo ad un panteismo troppo meschino, perchè relativo e raziocinativo; un panteismo più perfetto a quei sistemi che fin qui furon proposti, e che a lui non sembrano perfetti e compiuti. Concludiamo: per distinguere il signor Gioberti da tutti gli altri panteisti, non ci resta che denominarlo il panteista intuitivo. Dovrei copiarvi le opere intere del sig. Gioberti, se volessi arrecarvi tutti i passi, coi quali egli colorisce ed incarna in tutte le guise questo suo filosofico disegno: egli parla, nella stessa pagina che vi citavo testè, del flusso delle creature che si contempla congiuntamente alla immanenza dell' atto creativo, e conchiude: [...OMISSIS...] , confondendo così insieme l' ordine naturale col soprannaturale, come appunto confuse le creature col Creatore. Ma egli è pur tempo che noi poniam modo a questa lunga discussione, in cui abbiamo spese diverse lezioni. L' attenzione che voi mi avete costantemente prestata riesce a me di caro conforto, o signori, a dover credere, che voi avete giudicato importante l' argomento, e che noi non abbiamo perduto il nostro tempo invano. Avrei desiderato che Vincenzo Gioberti fosse stato anch' egli qui ad ascoltarmi: amatore del vero, come dobbiam riputarlo, forse avrebbe modificato le sue sentenze. Se egli avesse voluto difenderle, lo avrei ammonito di mantenere in facendolo la stessa legge ch' egli ricorda sì sovente ai suoi avversarj, di non arrecare per avventura altri suoi detti contradittorj ai primi, ma di sciogliere direttamente le obbiezioni che presentano quei molti che noi abbiamo disaminati. E gli avrei aggiunto, che noi trattiamo del suo intero sistema, e della coerenza intrinseca del medesimo, non di alcuna frase appiccicata e dissonante. Quello dee dimostrare immune da panteismo, non questa, perocchè di quello si tratta. Del resto confidiamo nel retto senso de' nostri connazionali. Invano si vuol presentare a questa nostra religiosissima e svegliata nazione un panteismo deforme, mascherato, siccome nuovo e sano e profondo sistema filosofico: la chiara mente degli Italiani non s' appaga d' ambiguità di favellare, di vanissime ed insolenti dicerie, di stirate cavillazioni; sono sei anni che scrisse Vincenzo Gioberti, e non un solo Italiano, a noi noto, ha per ancora preso a professare il suo panteismo: l' Italia dunque, o signori, diciamolo pure, lo conosce e lo rigetta. Ho letto con mio molto piacere la « « Teorica del Sovrannaturale » » del sig. ab. Vincenzo Gioberti, da Lei favoritami. Prima non la conoscevo che per qualche brano mandatomi dagli amici. Di vero, l' argomento del libro è acconcissimo ai tempi nostri e necessario, perocchè il maggior bisogno che ha oggidì il mondo, e il maggior suo desiderio si è quello di essere accertato che vi ha qualche cosa di soprannaturale, e di poter dire in qualche modo a se stesso che cosa il soprannaturale si sia. Nulladimeno non parmi vero, nè detto con proprietà, ciò che l' autore afferma alla faccia 52 del suo libro, cioè che « « in tutta la Storia della Filosofia - non si è mai atteso a ricercare se in effetto la mente umana comprenda qualche elemento inintelligibile » ». Manca, se io non erro, la proprietà dell' espressione in queste parole; perocchè egli pare una contradizione il pretendere che la mente umana comprenda quello che è inintelligibile; tanto più se si consideri, che la parola comprendere significa, secondo la nota definizione che ne dà s. Tommaso, perfettamente conoscere; di guisa che quella proposizione suonerebbe così: « Non si è atteso a ricercare se la mente umana perfettamente conosca qualche elemento che non è intelligibile »! Voleva egli alludere certamente in quelle parole alla potenza che lo spirito umano possiede, d' accorgersi ch' egli non conosce tutto, e che vi hanno delle cose ch' egli neppure può conoscere nella presente sua condizione, o certo ch' egli non può comprendere, benchè non di meno sappia determinarle e segnarle con certe loro relazioni ad altre cose a lui note, e sappia ancora assicurarsi di loro reale esistenza e di loro necessità. Ma spiegato il suo detto a questo modo, cessando di essere assurdo, incomincia a non esser vero. Imperocchè egli è indubitato, che fu sempre mai conosciuta questa potenza del soprannaturale (chiamiamola pur così), la quale porta l' uomo a persuadersi dell' esistenza di una qualche cosa che sta via oltre a' confini della natura contingente e limitata; ed io, quando mi occorse parlarne, le assegnai il proprio e specifico nome d' integrazione . Tutti i teologi scolastici oltracciò, cominciando dall' antico autore de' libri de' « Nomi Divini e della Celeste Gerarchía », parlarono della maniera negativa, colla quale la mente umana da se stessa si leva a conoscere Iddio. Potrei salire più là, e trasportarmi fino ad un tempo anteriore a quello della filosofia italo7greca, dimostrando co' libri da non molto tempo scoperti degli Indiani, e coll' altre memorie antichissime dell' orientale sapienza, che la facoltà del soprannaturale e dell' incomprensibile fu sempre conosciuta e positivamente annunziata dai savj; come pure che da essa sola ebbero origine le infinite superstizioni di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Che se il signor Gioberti avesse avuto sott' occhio la « Tavola delle potenze dell' anima umana »da me pubblicata in Rovereto, vi avrebbe trovato quella potenza del soprannaturale, distinta nelle sue varie diramazioni. Quantunque poi il suo libro dimostri ch' egli conosce assai bene le teologiche discipline (conoscenza che suol mancare in quasi tutte le moderne scritture, eziandio che trattino di Filosofia o di Religione, come egli stesso giustamente osserva), tuttavia non trovo da lui dichiarata la doppia maniera nella quale lo spirito umano si solleva a ciò che è soprannaturale e divino, distinzione alla lucidezza dell' argomento necessarissima. Perocchè ella è cosa grandemente diversa, che l' uomo s' accorga dover esistere alcun che al di là di tutte quante le cose da lui conosciute, al di là di tutti i confini del contingente; in una parola, dover esistere al di là del relativo, l' assoluto; ovvero che l' uomo possa oltracciò percepire realmente questa assoluta sostanza. A fare la prima di queste due operazioni, a conoscere l' esistenza dell' ente assoluto, ed alcune necessarie analogie fra esso e l' ente relativo, bastano le naturali umane facoltà. Onde può dirsi, che v' abbia una facoltà naturale delle cose soprannaturali. Ma all' incontro a fare la seconda di quelle operazioni, cioè a percepire realmente quello che è soprannaturale, niuna facoltà naturale qualsivoglia è sufficiente; chè ella sarebbe contradizione apertissima il dire che la natura percepisca quello che è al di là della natura. Ella ben intende che cosa a me suoni la parola percepire . Allora solo, secondo la maniera di parlare da me stabilita, una cosa viene da noi percepita, quando noi ne sentiamo in noi stessi l' azione sua propria, cioè un' azione tale che non può venirci altronde, e però atta a caratterizzare e distinguere nell' intendimento nostro quella cosa fuori d' ogni altra. Richiedesi adunque che venga dato all' uomo un principio di conoscimento soprannaturale, acciocchè egli possa percepire il soprannaturale; o, come dicono ottimamente i teologi, si richiede l' infusione del lume di grazia o di gloria. Sarebbe dunque cosa assurdissima il collocare nella natura umana una potenza del soprannaturale presa in questo secondo senso; e si può solamente attribuirle una cotal radice di detta potenza, che è piuttosto una potenza della potenza, cioè a dire ella è la potenza di ricevere in sè la potenza di percepire Iddio, cui Dio stesso, comunicandosi all' anima, crea in essa. Di qui Ella vedrà manifesta ragione per la quale nella citata Tavola delle umane potenze, io abbia collocata l' integrazione (facoltà della Teologia naturale), come anche la fede (facoltà delle idee negative) che le si associa, fra le potenze naturali; e perchè all' opposto abbia fatto una lunga enumerazione di potenze soprannaturali, quando volli indicare quelle facoltà o virtù infuse, colle quali si percepiscono realmente le cose divine, e si pensa e si vuole e si opera in conseguenza di quelle deiformi percezioni. Nell' incertezza se Ella abbia sott' occhio la Tavola di cui le parlo, gliene unisco qui un esemplare. Col volgere poi uno sguardo alla Tavola medesima, Ella potrà vedere altresì, che la facoltà del soprannaturale, quale viene descritta dall' ingegnoso signor teologo Gioberti, dà luogo ad un' altra osservazione importante assai per le conseguenze che si trae dietro. Della facoltà del soprannaturale egli fa una potenza isolata e tutta da sè, contrapponendola a quella della ragione e a quella del sentimento . Ora il concepire a questo modo la facoltà delle cose soprannaturali, dà, egli è vero, ai ragionamenti che n' espongono la teorica, un' aria di non so qual misterio e profondità, gradita al lettore; ma a fondo considerato, quel modo di concepire la detta facoltà non trovasi conforme al vero, nè scevro d' intima contradizione. E di vero, come è egli mai possibile concepire una facoltà senza ch' essa produca all' uomo qualche specie di sentimento? Non si possono dunque dare facoltà nell' uomo, le quali sieno al tutto straniere al sentimento; poichè l' uomo stesso, come io ho dimostrato nell' « Antropologia », è un sentimento. Come, di nuovo si possono dare tali notizie o percezioni, delle quali noi siamo ben certi, quando elle sieno poi prive al tutto dell' autorità della ragione, ed escluse dall' intendimento? Non si possono dunque dare oggetti nè naturali nè soprannaturali, de' quali noi siamo ben certi, se questi si pongano fuori del dominio dell' intelligenza. Convien dire adunque o che la facoltà del soprannaturale sia cieca, e in tal caso di nissun pregio, nè diversa dal fanatismo e dalla superstizione; ovvero ch' ella abbia pure in sè del lume di ragione, nè sia tutta sola, e genericamente distinta tanto dal sentimento quanto dall' intelligenza. Cotal facoltà non può dunque non essere finalmente che una specie di sentimento ed una specie d' intelligenza; e questo è quanto apparisce chiaramente da tutto ciò che io n' ho scritto in più luoghi, e ch' Ella potrà veder di nuovo nella « Tavola delle potenze »dove, senza accennar nulla che si riversi al di fuori dell' ordine de' sentimenti e dell' intelligenza, appariscono le potenze soprannaturali innestate sopra le naturali, e si dimostrano come una sublimazione del sentimento e della intelligenza, a cui azioni ed oggetti divini si comunicano; un perfezionamento insomma e completamento della natura, secondo la dottrina de' teologi cattolici, i quali costantemente insegnano l' elemento soprannaturale essere perfettivo del naturale. Le quali cose mi prendo fidanza di esporre alla Signoria Vostra, per ubbidire al gentile invito che Ella me ne fa nella pregiata sua lettera. E le aggiungerò, quanto a ciò che Ella mi dice, accordarsi meco il sig. Gioberti in più cose, che si scorge veramente da diversi tratti dell' opera sua, ch' egli vide il « N. Saggio ». E l' aver dato in parte al medesimo favorevol suffragio, certo egli è per me un fatto assai onorevole, pregiando io l' altezza dell' ingegno e anco la bontà dell' animo che dimostra nell' autor suo la « Teorica del soprannaturale ». Ma non mi posso tenere dal dire a Lei nello stesso tempo in tutta confidenza, che parmi di ravvisare anco nell' egregio sig. Gioberti quello che pur mi tocca continuamente vedere in tant' altri valent' uomini, che scrissero pro e contro la mia filosofia, cioè che troppo presto si credono d' aver colto il mio pensiero e tutta abbracciata la dottrina da me proposta alla loro meditazione. Forse che la facilità apparente di questa filosofia gl' inganna, onde non si danno il tempo di andar più addentro della corteccia. Certo, non basta l' appigliarsi ad alcune sentenze, nè basta l' aver inteso alcuni brani del sistema: è necessario por mente al tutto, e por mente a ciascuna parte, giungere al fondo delle questioni principali; ed in questo fondo non veggo esser discesi ancora gran fatto molti, e pure molti (io vorrei dir tutti) giungere vi potrebbero, se non si avvisassero d' esservi giunti (1). E qui, a ragione d' esempio, io mi persuado che il teologo torinese non avrebbe posto così in generale nell' essenza l' elemento incomprensibile delle cose, se egli avesse posto attenzione a quanto io dissi in più luoghi circa l' essenza, la sostanza, la sussistenza, la materia, ecc.; nè avrebbe disconosciute quelle dottrine ontologiche che nel mio sistema vanno intimamente collegate all' Ideologia, e che finora veramente furon da me piuttosto qua e là toccate, che trattate alla distesa, non avendo io pubblicato per anco nè l' Ontologia, nè le scienze che l' accompagnano, le quali sono la Dinamiologia, l' Agatologia e la Cosmologia . E qui basti dell' argomento principale del libro, che pur merita di essere ben accolto da noi, siccome ricchezza accresciuta all' italiana filosofia. Solo aggiungerò, prima di chiudere la presente, essemi dispiaciuto non poco l' aver trovate, in leggendo l' opera del sig. Gioberti, qua e colà accennate certe dottrine politiche, le quali non mi sembrano nè vere nè utili al genere umano. Tale si è quella, peraltro speciosissima, che sembra attribuire il diritto di governare ai migliori «(facc. 225, 226, 450) »; principio impossibile a ridursi in pratica, e ingiustissimo oltre a quanto si può credere; il quale divelle fino dalle radici ogni diritto non pur di dominio, ma ben anco di proprietà . Sono certissimo che l' egregio Gioberti non ne vuole le conseguenze, direttamente contrarie a quella rettitudine di mente e di animo, e a quell' amore del bene che il suo libro costantemente manifesta; e però, propriamente parlando egli disdice quel suo principio tutte le volte che toglie (e il fa con ingegno ed eloquenza) a difendere la verità, la giustizia e la religione. In un' opera di recente da me pubblicata, e probabilmente a Lei nota, io dimostrai darsi veramente un diritto di dominio ed un obbligo di sudditanza. Quando adunque questo diritto di dominio sia verificato nella realtà del fatto, egli è uopo rispettarlo, allo stesso modo come è uopo rispettare l' altrui campo, l' altrui casa, la veste, il pane altrui, eziandiochè questi beni siano in mano delle persone peggiori che ci vivono. Sappiam tutti che bella cosa sarebbe, o parer potrebbe, se le proprietà fossero de' soli buoni, i quali non ne userebber che bene; ma per quantunque sia, o paja bellissima questa cosa, ne vien egli di conseguenza che si possano spossessare i malvagi de' loro averi, per trasferir questi nelle mani de' migliori? E pure così si ragiona, o anzi si sragiona dai pretesi riformatori delle politiche società, i quali vorrebbero surrogare, com' essi dicono, la capacità elettiva al diritto ereditario. L' utilità pubblica, ecco il fonte ond' essi tutti i diritti pretendono derivare; ma s' ingannano oltre misura. Anteriore alla pubblica utilità (nome vago e capzioso), e ancor più di essa utilità veneranda, si è l' onestà e la giustizia, il rispetto cioè dei diritti di tutti: e finalmente la stessa utilità pubblica è andata in fumo, allorquando si comincia in suo nome a rapire l' altrui, e a permutare o le proprietà o i dominj. I quali concetti falsi e dannosi tanto più rincrescono a rinvenirsi nella « Teorica del soprannaturale », quanto che l' ingegno, la dottrina, la nobiltà dell' animo e il carattere sacerdotale del suo autore ci danno ampio diritto di pretendere da lui, ch' egli sappia diligentemente discernere l' apparenza del bene dal bene stesso, e cautelarsi contro a' lusinghevoli sofismi della giornata, i quali invescano assai facilmente coloro, che avendo il cuore inclinato all' affetto degli uomini, non hanno pari a quell' affetto la vigilanza della mente e l' ardore della sovrumana verità. [...OMISSIS...] L' amore della verità ci induce a rispondere col presente articolo alle difficultà mosse dal sig. abate Gioberti alla filosofia rosminiana. Ne compendiamo le principali in pochi sillogismi, e soggiungiamo ad esse le soluzioni. Il Rosmini dice, che l' Essere ideale, qual risplende per natura nella mente umana, è un' appartenenza di Dio - Ma ogni appartenenza di Dio, è Dio - Dunque l' essere ideale è Dio. Distinguo la minore - Ogni appartenenza di Dio, è Dio, se la si considera in Dio, e non la si precide da tutto il resto che forma la Divinità, concedo; se la si precide dal resto che forma la Divinità, nego: ed allora le si dà il titolo di appartenenza di Dio, per indicare appunto che unita al resto che forma la Divinità è Dio, ma non così precisa dal resto. Iddio non si può dividere, perchè è un Ente semplicissimo - Ma la recata distinzione divide Iddio - Dunque una tale distinzione fa quello che non si può, è falsa. Distinguo la maggiore, ed anco la minore. Distinguo la maggiore - Iddio non si può dividere realmente , concedo; mentalmente, nego. Infatti colla mente umana si dividono i suoi attributi, la sapienza, la giustizia, la potenza ec.. E così si divide l' idea dell' essere (che gli scolastici chiamano l' essere comunissimo ) da Dio sussistente. Di più distinguo la maggiore ancora così - Se da Dio si divide qualche suo attributo, o qualche cosa che la mente umana concepisca in lui, per modo che si pretenda, che quella cosa così divisa e precisa sia ancora Dio; la divisione non si può fare. Ma se si dice, che quella cosa così precisa non è Dio, ma un essere mentale ed universale, che si chiama un' appartenenza di Dio, per indicare il fonte onde procede; questa divisione si può fare. Distinguo poi la minore così - La recata distinzione divide Dio mentalmente, e in modo che a ciò, che si precide da Dio, non si applica più la denominazione di Dio, il che si può fare senza inconveniente, concedo; la recata distinzione divide Iddio realmente, ovvero mentalmente, ma in modo da applicare la denominazione di Dio a ciò che si considera come preciso da Dio, il che non si può fare, nego. Ogni cosa o è Dio, o una creatura - Ma l' Ente ideale non è una creatura, perchè gli si danno gli attributi dell' eternità, immutabilità ec.. - Dunque l' Ente ideale è Dio. Distinguo la maggiore e la minore. Distinguo la maggiore così - Ogni cosa che realmente sussiste è o Dio, o una creatura, lo concedo, (benchè s. Tommaso osservi che le forme e gli accidenti sono piuttosto concreati che creati, dicendosi le sole sostanze propriamente create [...OMISSIS...] «S. I XLV, IV »); ogni cosa ideale lo nego: perchè le relazioni p. e. tra Dio e la creatura, hanno un termine increato che è Dio, e un termine creato che è la creatura, onde non possono dirsi propriamente create, ma piuttosto conseguenti alla creazione. E così l' idea, ossia l' essere ideale, che è il mezzo del conoscere, è un' entità precisa mentalmente da Dio, e quindi la mente lo considera sotto due relazioni, o in quanto ritiene dell' essere divino da cui fu preciso, e intanto non è creatura, ma ritiene delle qualificazioni divine, benchè niuna qualificazione, come nè pure niun attributo preciso da Dio si possa dire Dio, perchè gli manca ciò che è a Dio essenziale, cioè l' essere completo e d' ogni parte infinito: o in quanto è preciso, e intanto si può chiamare creatura a quel modo che una tal denominazione conviene a tutto ciò che ebbe principio o per la creazione, o in conseguenza della creazione; come s. Tommaso chiama la verità, che risplende nell' intelletto umano, creata «(S. I/XVI, VII) ». Distinguo la minore così - L' Ente ideale non è una creatura in quanto ritiene dell' essere divino da cui fu preciso, lo concedo: benchè non gli possa perciò competere la denominazione di Dio, perchè da Dio niente si può dividere colla mente che si rimanga Dio, giacchè se si potesse far ciò, si porrebbe la divisione in Dio stesso. L' Ente ideale è creatura in quanto è preciso da Dio nel modo detto, lo concedo pure, perchè ciò non significa altro se non che la precisione ha avuto principio, quando ha avuto principio l' uomo. Ciò che non è reale è nulla - Ma l' essere ideale non è reale - Dunque l' essere ideale è nulla. Nego la maggiore, perchè ognun sa che l' idea del pane non è il pane reale, e che tuttavia quella idea non è nulla; e così si dica d' ogni altra cosa. Che se sotto la denominazione di reale si vuole intendere ogni entità, anche l' ideale; in tal caso il vocabolo reale non è più adoperato in opposizione all' ideale, come si adopera nella proposizione, e però si cambia il valore alla parola. Poichè quando si contrappone il reale all' ideale, allora, come indica la proposizione stessa, si contrappongono due concetti l' uno all' altro, e però il reale opposto all' ideale non può essere l' ideale, e la cosa opposta all' idea non può essere l' idea, perchè altrimenti i concetti si confonderebbero. Rimarrà dunque che l' idea presa in opposizione alla cosa non è la cosa, e che l' ideale preso in opposizione al reale non è il reale. Il determinare poi che cosa sia l' ideale è appunto quello che si cerca di fare coll' Ideologia, e quando anche non si riuscisse a farlo, rimarrebbe egualmente vero che l' idea del pane non è la cosa pane, cioè il pane reale che si mangia, e che nutre, giacchè l' idea non si mangia nè nutre. Se gli elementi, di cui si fa risultare la cognizione del reale, non hanno in sè la detta cognizione della cosa reale, non la possono dare, perchè nemo dat quod non habet - Ma il Rosmini fa risultare la cognizione della cosa reale dall' idea dell' essere, e dal sentimento, che non contengono questa cognizione, perchè il sentimento è cieco, e non racchiude cognizione alcuna, e l' idea non racchiude la cognizione del reale, ma solo del possibile - Dunque egli non ispiega bene la cognizione del reale. Nego la maggiore e la minore. Nego la maggiore, perchè talora due elementi coll' unirsi insieme producono un terzo effetto, che non è nè nell' uno, nè nell' altro di essi elementi; il che si avvera continuamente anche nelle cose fisiche; p. e. l' azoto e l' ossigeno producono l' aria atmosferica, che non si trova nè nell' uno, nè nell' altro di essi. Nego la minore, perchè egli è falso che il Rosmini faccia nascere la cognizione del reale dai due soli elementi dell' essere ideale, e del sentimento; ma vi aggiunge anzi un terzo elemento che è l' atto dello spirito semplicissimo, che intuendo da una parte l' ideale, e dall' altra percependo il reale, s' accorge che nell' ideale è il tipo dell' attività reale percepita nel sentimento, e lo afferma a sè stesso, e così produce a sè la cognizione del reale mediante questo giudizio primitivo. Infatti la cognizione del reale consiste nella unione di que' due elementi operata dallo spirito, e dallo spirito semplice e identico. E però, sebbene ciascuno di essi non dia la cognizione del reale, tuttavia uniti la danno, appunto perchè la cognizione del reale non è altro che l' atto dello spirito che li congiunge, e congiungendoli ne afferma il rapporto. Il ragionamento è impossibile, se nel primo intuito l' uomo non vede in confuso tutto ciò che poscia colla riflessione distingue - Ma il Rosmini pretende che il reale non si percepisca dall' uomo nel primo intuito del suo spirito - Dunque è impossibile che l' uomo giunga mai a conoscere il reale. Distinguo la maggiore - Il ragionamento è impossibile, se nel primo intuito l' uomo non vede in confuso tutto ciò che poscia colla riflessione distingue, concedo se si tratta di cognizione formale, cioè di un ragionamento che non esce dall' ordine delle idee, ed è perciò che nell' essere ideale, oggetto del primo intuito, vi hanno indistinti tutti i principj del ragionare, perchè i principj appartengono tutti all' ordine delle idee; nego se si tratta di cognizione materiata, perchè la materia della cognizione viene somministrata dal sentimento. D' altra parte sarebbe contro il buon senso il sostenere che nelle idee ci fosse la realtà della cosa, per es. che nell' idea dell' albero ci fosse l' albero stesso reale; giacchè in tal caso un' idea sarebbe un albero, o un albero sarebbe un' idea, il che è assurdo.

Il razionalismo

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Federigo Del7Rosso, professore di pandette nella regia università di Pisa, e al signor dottore in teologia abate Gio. Fantozzi, i quali poco fa s' aggiunsero difensori alla santa causa del vero e della divina religion nostra (1). E che la causa presa a difendersi contro gli sconosciuti teologi, dopo che da tant' altri (2), da questi due valent' uomini, non sia la mia personale, ma quella della verità e della sana dottrina, provalo anche il non esser io a lor conosciuto di volto, nè di letteraria corrispondenza; e il non aver essi temuto d' affrontare quella sottilissima maldicenza (parlo di cosa pubblica), che non pur si pratica colle stampe, ma ancora, a guisa di lubrico serpe, s' insinua per le rime e per gli pertugi, nelle case de' grandi del secolo che più professan pietà, e in quelle dei religiosi e fin delle religiose, e le contamina di suo veleno. Imperocchè quegli uomini dotti, e di soda religione forniti, non occultarono già al pubblico vilmente i loro nomi; chè il difensore della verità non ha cagion di vergogna; e la verità stessa, massimamente poi la cattolica verità, conforta siffattamente il suo campione, che gli fa piacere l' obbrobrio che dovesse per lei sostenere. Gli stessi ringraziamenti poi e le stesse lodi da me si debbono al chiarissimo sig. canonico e teologo don Lorenzo Gastaldi (3), e all' ottimo mio confratello e missionario apostolico don Gio. Battista Pagani (4), i quali, animati dallo stesso zelo purissimo per la sana dottrina, negli opuscoli coi quali la difesero, impugnando l' error contrario, esposero pure lealmente i loro nomi, e quasi le loro fronti agli insulti di quelli occulti, che di soppiatto coi mezzi più illegittimi le fanno guerra. Se dunque si dovessero allegare i teologi italiani , questi per fermo potrebbero addursi in mezzo per italiani teologi, ed altri che scrissero nella stessa sentenza, di cui si conoscono i nomi onorati e la dottrina; nè parrà mai ragionevole che s' arroghino di essere soli rappresentanti de' teologi italiani alcuni pochi, di cui s' occulta il nome, si sentono i vanti, si ammira l' ignoranza, si abborriscon gli errori tali da far credere, che piuttosto che de' teologi, degli increduli beffardi sotto le loro maschere si nascondano (1). Conciossiachè cotestoro, benchè invitati replicatamente a manifestarsi, continuano a tenersi carissime le loro tenebre, e a mandar fuori i loro scritti senza data di luogo e di tempo (2), e senza nome, ovvero con nome finto e vanaglorioso, o con nome segnato a sole iniziali, le quali, giudicandosi dallo spirito d' errore da cui sono raggirati, si dovrebbe credere che mentiscano anch' esse. Nel qual loro procedere continuano a dimostrare la falsità dello zelo che ostentano per la religione, imitando nuovamente gli eretici nel disprezzo delle leggi della Chiesa e de' sommi Pontefici, giacchè Clemente VIII, e di nuovo ultimamente Leone XII, ebbero decretato che non si stampi alcun libro, il quale non porti in fronte il nome, il cognome e la patria dell' autore, o, se vi è giusta ragion di tacerlo, il nome almeno del censore ecclesiastico che abbia esaminato il libro ed approvatolo (1). Ed or, a malgrado che noi, rispondendo ad Eusebio, l' abbiamo di tale disubbidienza alla Chiesa ammonito (2), i suoi seguaci e discepoli non per tanto vanno innanzi dello stesso tenore, facendo così conoscere se sia la Chiesa che stia loro in sul cuore, le cui leggi conculcano ad occhi aperti; o più tosto quel reo partito in cui si sono ostinatamente collegati, da alcuni sostenuto, il confesso, sol per cieca consuetudine, e, per passion presa, a corpo morto difeso. Ma quello che è più singolare si è, che, quantunque incogniti, menan alti clamori, che io non tratti con esso lor dolcemente. Che significato ha mai questo lamento in bocca di persone occulte? Chè, appunto da ciò stesso che stanno celati, ogni discreto può ben convincersi, che a disvelare quel veleno di razionalismo pratico che fa lor dire tanti errori, non mi muove animosità personale; e che se talora adopero, traendolo in aperto, delle maniere forti di dire (entro i confini però del giusto e del vero), queste non feriscono persone determinate, ma sono v“lte ad eccitare gl' incogniti, qualunque sieno, ed a scuoterli, acciocchè veggano, se non traviarono ancora del tutto, quanto irreligioso, quanto deforme e pernicioso a sè stessi sia il loro procedere, quanto erronea la loro dottrina, e salutarmente se ne vergognino. Certo non potevo io credere al cominciamento di questa lizza, nè l' avrei creduto giammai quand' anco me l' avesser giurato egregie persone, che ci covasse sotto un impegno di molti congiurati alla diffusione d' un irreligioso sistema: alla possibilità di questo fatto non ci avevo pensato mai. Laonde, allorchè a' miei orecchi pervenne il rumore d' un opuscolo che censurava un' opera mia, non avendolo io ancor veduto, diffidai grandemente di me medesimo, conscio d' essere troppo fallibile, e mi consolai insieme colla mia fede; mi consolai pensando che il cuor mio e l' anima mia non avea professato, nè professava altra dottrina da quella in fuori della Sede apostolica, quand' anco mi potesse essere sfuggita dovecchessia qualche espressione od opinione inesatta per ignoranza od inavvertenza (1), ed ero troppo disposto a dir loro con sant' Agostino, [...OMISSIS...] (2). Ma veduto poscia il libello del finto Eusebio, insiem col pubblico che ne portava simil giudizio, nè pur io vi scorsi altro che un meschinello che s' era riscaldato non poco il capo. Nella Risposta adunque e gli additai gli errori contro la sana teologia ch' egli evidentemente prendeva, e gli mostrai che tutti i dottori ch' egli citava, probabilmente sull' altrui fede, dicevano espressamente il contrario di quello ch' egli loro metteva in bocca, e sopra tutto mi lamentai com' egli avesse addotti tanti brani delle mie opere tronchi, alterati, evidentemente male interpretati ed intesi, lasciandogli poscia aperto il campo ad una ritrattazione, qualora fosse di buona fede; la quale, se sempre è onorevole e doverosa a quelli che sbagliansi a pubblico danno, niente poi dovea costare ad uno incognito. E però io speravo ch' egli avrebbe dato al mondo questa prova, che ciò ch' egli avea scritto in un modo cotanto alieno dal vero e dal convenevole, non era stata l' opera dell' impostura, nè ci covava alcun reo disegno. Ma andò fallita la mia speranza. In quella vece ammutolì ben egli, ed una sola scusa non fece o alle dottrine falsamente attribuitemi, o agli altri suoi propri sbagli. Del che, pazienza; chè il suo silenzio potea valere in vece di parole di pentimento. Ma quale fu poi il mio stupore e il mio disinganno al vedere uscire ben presto in pubblico uno sciame di altri anonimi, i quali, dissimulando in tutto o nella maggior parte, e più sostanzial delle cose, le ragioni evidentissime colle quali io avea convinto Eusebio d' innumerevoli falsità di fatto e di dogma, si fecero a ricantare le stesse menzogne, e ad inserire gli stessi semi, alla cattolica fede sì funesti, di pelagianismo e di razionalismo? Questo avvenimento m' aperse gli occhi, e mi spiegò tanti altri fatti della teologica storia degli ultimi secoli, di cui io non avevo mai c“lto bene il segreto. Certo nè io conobbi allora, nè conosco adesso chi sia l' uomo che si ascose sotto il finto nome di Eusebio Cristiano, nè di conoscerlo nutro vaghezza. Quanto poi agli altri anonimi, che gli sottentrarono nel tristo arringo da lui aperto, e dov' egli cadde, niuno d' essi conosco, almeno con certezza, non prestando io intiera fede alle voci che pur ne corsero. Anzi, troppo persuaso a mie spese, che i calunniatori non mancano, quanta non ho io ragion di temere, che anche le persone additate siccome autrici di quegli indegni libercoli, sieno segno di scellerata calunnia? Comecchessia la cosa, che lascio al giudizio di Dio, e vorrei nasconderla, se per me si potesse, a quel degli uomini, egli è troppo chiaro che non trattasi più di un individuo accidentalmente ingannato; trattasi di molti associati nei medesimi sentimenti, collaboranti al medesimo fine; trattasi di una fazione non surta adesso, di un sistema di dottrine tradizionali, il cui effetto, se prevalesse, sarebbe quello (ne abbiano essi coscienza o no), di scavare, come accennammo, il fondamento alla religion rivelata, qual è il dogma del peccato d' origine, di render vana la morte di Cristo, vani i sacramenti da lui istituiti, il che è quanto dire di rovesciare il Cristianesimo, la cattolica Chiesa, e quella stessa pietra, su cui ella è fondata. Non dirò io esser questo lo scopo conosciuto e voluto dagli scrittori anonimi di cui parlo, ma dirò che questo è l' effetto inevitabile di loro dottrine; ed egli è oggimai necessario che sia pienamente conosciuto al pubblico: nell' avvenuto scorgo la Provvidenza che il vuole. Scrivo adunque, ubbidendole; scrivo, rispondendo a degli scrittori inetti che non meriterebbero ch' altri entrasse con essi a tenzone, mentre taccio con altri, benchè dotti, che mi onorano di loro osservazioni in altri argomenti scientifici, perchè coi primi pericola la causa della fede e non co' secondi; scrivo senza aspettazione di lode che in altre materie potrei forse raccogliere; scrivo, interrompendo il corso d' altre mie doverose occupazioni, e privando a tempo il pubblico di quello che da me aspetta e che gli promisi: scrivo, a malgrado dell' indifferenza di questo secolo in opera di religione, che, penetrata ne' buoni stessi alla loro insaputa, son presti a darvi biasimo dell' entrar che facciate in questioni teologiche, per quantunque importanti, importanza che essi non veggono; scrivo a malgrado di que' prudenti, che temon sempre, e consiglianvi o fuggir tali brighe, più solleciti d' una falsa pace, che della madre della pace vera, la verità; scrivo, non ignaro delle persecuzioni che tale scrivere seco adduce, rassegnato a patir quelle che mi s' aggiungeranno, come a Dio piacerà, alle patite sin qui; scrivo, conoscendo quanti sieno per farsi a me giudici colla leggerezza che è il carattere dei tempi, senza precedente dottrina, senza usare di bastevole studio, senza ponderare le mie parole, senza intenderle; scrivo in somma ripugnandomi l' inclinazione, il dover comandandomelo, non per odio d' altrui, non per amor di me stesso, se ben m' intendo; ma solo per la causa di Cristo, della sua croce, della sua Chiesa, de' suoi sacramenti, a cui l' uomo inimico sempre fe' guerra, ed ora la trama più sottil forse e più insidiosa che mai coll' insinuare il più cavilloso razionalismo nel seno stesso della Chiesa. Chi avrà letto la « Dottrina del peccato originale » contro il finto Eusebio, e le « Nozioni di peccato e di colpa », contro il primo articolo dell' « Esame critico7teologico », ed avrà meditato le osservazioni che que' due miei scritti contengono, già si sarà pienamente convinto che pur troppo oggidì si spacciano presso di noi delle dottrine razionalistiche, corrodenti i visceri del Cristianesimo. Laonde intenderà agevolmente la cagione, il bisogno di questo terzo opuscolo, che continuandosi a que' primi apertamente le sveli, e quasi le denunzi a' pastori della Chiesa. Ci danno poi occasione d' innalzare questo terzo grido ai custodi d' Israello, i nuovi articoli usciti, che senza saper replicar cos' alcuna a quello che noi abbiamo risposto, seminano gli stessi errori, tenendosene sempre occulti gli autori. Uno di essi, che si mantella sotto le lettere iniziali C. B. P., ne stampò due a Firenze (non avendoli potuti stampare in Roma) all' insegna di Clio (1.41) contro i teologi piemontesi compilatori del « Propagatore religioso », che avean reso al finto Eusebio quella giustizia che si meritava. Fu risposto al primo vittoriosamente dal signor teologo Gastaldi. Mi giunse or solo alle mani il secondo, benchè stampato da più d' un anno; chè l' autore, o quelli che il fecero per lui stampare, secondo la tattica loro propria di operar sempre per vie segrete, ne ritrassero tutti gli esemplari in Roma; ed ivi solo, per quanto io so, cautamente il diffusero, sperando che, non essendo ivi io presente potessero farvi qualche breccia, prima che ne pervenisse a me la notizia, quasichè nella capitale del mondo cattolico si potessero con tutta facilità vendere i pruni per melaranci. A' quali articoli di C. B. P. uscì compagno l' articolo secondo (1) dell' « Esame critico7teologico », non so se anteriore, posteriore o contemporaneo, perchè l' autor di questo, più pudico ancora del suo confratello, nascose col proprio nome anche il luogo e il tempo fin della stampa. Ed a questi pubblici attacchi non si cessa mai d' accompagnare i privati, secondo il costume anche qui delle sette ereticali: lettere artificiose, maldicenti parole, [...OMISSIS...] , per usare le parole che s. Girolamo rivolse ad Elvidio, [...OMISSIS...] ; non finendo poi di amplificare con aria di religiosa riverenza i grandi uomini, che sono quelli che, sotto coperta di straziar me, strazian la Chiesa; i quali per pura modestia si turano il viso; chè forse non li offenda del sol la luce. Ma deh che mai fanno con tali vanti di grandezza, se non invitare gli occhi del pubblico a misurarne la piccolezza? e in vece di crescer credito alle ree dottrine, discreditarle? Perocchè, di che statura sien quelli che le seminano, fingendosi miei oppositori, ognuno il può ben vedere, anche ignorandone i nomi, giacchè non occultan perciò nè l' intrinseca erroneità delle loro scritture, nè i difetti accessorii, la triviale erudizione, il tuon magistrale con cui pronunciano tante inezie, e quelle stiracchiate argomentazioni, su cui C. B. P. specialmente (che per brevità d' or innanzi citeremo colla sua prima lettera C) sospende quasi sull' eculeo il lettore; che da vero, volendo io celiare, se me ne restasse vaghezza in tanta gravità di cose, direi che quel mio gaio parente di Girolamo Tartarotti, aggiungerebbe, vivendo, qualche ottava per celebrarle, al suo famoso poemetto delle « Conclusioni ». Il signor C. poi va sì d' accordo coll' Anonimo autore dell' « Esame critico7teologico », che lo ricopia, se non è ricopiato, ne' sofismi, negli sbagli, nei bassi costumi, nelle frasi pedantesche del dire; sicchè rifiutato l' uno, è rifiutato anche l' altro; nè gli errori e i costumi d' entrambi differiscono poi da quelli del finto Eusebio, di cui prendono a sostenere la causa perduta, quantunque insieme l' onorino del titolo di linguacciuto (1), e con gravità l' esortino « « ad adoprare più blandamente »(2) ». Esaminando adunque tali opuscoli e le loro accuse, darò un nuovo saggio del rincrescevole fatto, che giova avverare, cioè che anco nelle scuole teologiche, anche in questa nostra Italia, le razionalistiche dottrine, se non s' accorre al riparo, vanno dannosamente introducendosi. Ma prima d' additare al pubblico questi nuovi documenti di fatto, prima di dimostrare come i recenti teologi accusino di bajana e di gianseniana la dottrina stessa cattolica, affine di far prevalere il razionalismo nelle scuole della sacra teologia; io debbo scaltrire il pubblico, di nuovo, contro la lor mala fede, che è il principale, anzi l' unico nostro avversario, alle seguenti cautele richiamando tutti quelli che bramano conoscere il vero. 1 Che ogni qual volta gli occulti teologi espongono le nostre opinioni, essi non sono degni di fede; ed io rigetto tutte in fascio quelle ch' essi ci appongono, perchè non ve n' ha forse una sola che non sia da essi inventata, o alterata, tale quale la producono: 2 Che io chiedo all' equità pubblica di essere giudicato sui miei proprii scritti e non sui laceri brani ch' essi n' adducono e commentano con suprema malizia: 3 Che venga osservata la dissimulazione che essi fanno degli argomenti irrepugnabili da me addotti contro di loro negli scritti precedenti, ai quali essi mai niente risposero. Dopo di ciò merita, che si osservi la cavillosità del loro argomentare, massime quando maneggiano quell' arma che dicevamo così favorita agli eretici, d' apporre altrui falsamente la taccia o il sospetto dell' eresia contraria a quella a cui essi pendono: un esempio schiarirà meglio quanto vo' dire. Alla faccia 361 dell' « Antropologia », io scrivea, che [...OMISSIS...] Nella « Risposta poi ad Eusebio », faccia 253 scrivea pure: [...OMISSIS...] Or il C. sente in questi due brani odore di Giansenismo! Perocchè nota, ecco il cavillo, che con inesattezza di parlare io adopero le parole contrario e contraria , in luogo di contraddittorio e contraddittoria , come appunto pure fecero i Giansenisti, di che conchiude altresì, che io confondo una cosa coll' altra: [...OMISSIS...] . Ma dove riesce questa sì frivola cavillazione? Ad accusare non più me, che i santi dottori della Chiesa, e i Concilii ecumenici, che han fatto sempre lo stesso uso della parola contrario . S. Tommaso in un luogo de' molti dice: [...OMISSIS...] ; e il sacro Concilio di Trento adopera il medesimo modo di favellare ogni qual volta scrive, [...OMISSIS...] . Onde applicando le parole con cui tosto appresso il C. riprende una maniera, a suo parere, sì impropria, dovrebbesi dire: [...OMISSIS...] Siamo adunque nuovamente ridotti a difendere s. Tommaso e il sacro Concilio di Trento contro il C., come li abbiamo dovuti difendere contro il finto Eusebio, e gli altri innominati, senza alcun pro finora per essi, ma con qualche pro, io voglio sperare, pe' fedeli, a cui vantaggio scriviamo. Quanto dunque al « « confondersi l' una cosa coll' altra, » » io dimando, se ne' luoghi citati del sacro Concilio, di s. Tommaso, e del minimo discepolo e figliuolo della Chiesa, il Rosmini, la parola contrario abbia dell' equivoco, ovvero esprima men chiaramente un sentimento cattolico? Non vi può essere nessuno che ne dubiti; giacchè la parola contrario negli addotti luoghi non ammette che un solo senso, e questo cattolicissimo. Dunque il finto Eusebio ed il C. non possono accusare di confondere una cosa coll' altra nè il Concilio di Trento, nè il Dottore angelico, nè quanti usano delle loro maniere di favellare. Ma se non v' ha confusione d' idee nell' uso che della parola contrario fanno il sacro Concilio ed i dottori della Chiesa, tuttavia, insiste il signor C., vi ha [...OMISSIS...] . Prima di rispondere, farò osservare che qualora ciò fosse (e non gliel accordiamo certamente), non tratterebbesi più d' inesattezza che abbia odore di giansenismo, ma di difetto grammaticale; poichè, riuscendo la proposizione chiara e vera, cessa ogni possibile censura sulle cose, e non restan inesatte che le parole. Così il C. confonderebbe la teologia colla grammatica. Ma non si può conoscere a pieno la frivolezza de' cavilli che usano i recenti nostri teologi, se non rivedendo tutto per disteso il processo che il C. fa addosso a quelli che ad imitazione dei Giansenisti, usano la parola contrario nel senso dell' Angelico e del sacrosanto Concilio; i quali tutti, nella povera persona mia, compariscono per rei convenuti. Egli comincia assai bene; perocchè stabilisce, che [...OMISSIS...] . - Che è questo che dite su? Potrebbe egli essere un artificio ereticale quello di seguire una regola sicurissima , ed un canone ricevuto da tutte le scuole? L' imputar questo agli eretici, è egli un confutarli, o non più tosto uno sgagliardire la causa cattolica esponendola alla derisione? Sarebb' egli forse questo il vero vostro scopo, mio signor teologo? Chi vuole abbattere efficacemente i gianseniani e gli altri eretici, non dee riprenderli di seguire una regola sicurissima e da tutte le scuole cattoliche ammessa, anzi dee mostrar loro che se n' allontanano, anche dove fanno le viste di seguitarla. Ma che ha poi da fare questo colle colpe che il C. trova nell' uso della parola contrario fatta da me, non sull' esempio de' Giansenisti, ma su quel della Chiesa? - Non manca la relazione. Acciocchè il peccato, di cui mi vuol reo, d' aver seguita la Chiesa nell' uso della parola contrario , appaia più smisurato, egli osserva, che quand' anco in vece di contrario , io avessi usato contraddittorio , non gli sarei sfuggito di mano. Perocchè avrei sempre usato d' un miserabile artificio de' Gianseniani che in perfidia e in mala fede non hanno pari; i quali, per eludere le bolle pontificie, prendono spesso a far uso di una regola sicurissima , e di un canone ricevuto da tutte le scuole! Per più sicurezza adunque, che non gli sguizziamo, ci fa sapere, che quand' anco noi avessimo parlato, com' egli stesso c' indetta, e la santa Chiesa avesse usato il suo barbaro contradictorium , in vece del latino contrarium che sempre usò; saremmo gianseniani egualmente. Ma veniamo più alle strette. - Che inesattezza di parlare è ella l' adoperare contrario in vece di contraddittorio , in que' luoghi ne' quali l' una e l' altra parola vale il medesimo? - Ve lo dirà il C.. Se è un primo artificio de' Gianseniani l' argomentare che una proposizione è vera, quand' è contraddittoria ad un' altra condannata, regola però sicurissima , e canone ricevuto da tutte le scuole; quegli eretici hanno poi un secondo artificio che il C. così sagacemente disvela: [...OMISSIS...] . - Gli resterebbe adesso a provare che noi abbiamo scambiata qualche proposizion contraria , con qualche proposizione contraddittoria alle condannate; ma questo è quello che egli si dimentica di fare. Se nelle proposizioni del sacro Concilio, di s. Tommaso, e nelle mie, alla parola contrario si sostituisca contraddittorio , diventan forse altre proposizioni di senso diverso? Mai no. Dunque non è il caso, in cui una proposizione venga all' altra sostituita. Egli non dissente dall' accordarcelo; anzi perciò appunto conchiude, dopo sì lunghe premesse, che la colpa nostra non è che una inesattezza di espressione sfuggitaci (2). - Ma se voleva dir questo solo, a che trar fuori i maligni artifizii degli eretici? Se la conclusione del suo discorso dovea essere, che noi abbiamo commessa un' inesattezza grammaticale, con che logica conseguenza deduce, che noi, cioè il sacro Concilio e gli altri miei socii, siamo sospetti d' eresia? - Doh? acutezza d' ingegno! Sillogizza egli così: Voi altri siete inesatti nell' uso delle parole, senza alterazione però della dottrina. Ma quella inesattezza di parole fu adoperata altre volte dagli eretici. Dunque sembra che voi altri vogliate stabilire quella inesattezza, acciocchè poi gli eretici se ne prevalgano contro le verità definite. - Possibile tanta stiracchiatura? - S' ascoltin di nuovo le proprie parole, colle quali conchiude: [...OMISSIS...] . Il sospetto è grave. Ma via, che poche linee appresso, ci fa grazia soggiungendo che è affatto improbabile che noi abbiamo voluto stabilire una regola sì rea (2). Ma non essendo però certo il contrario, rimaniamo tutti sospetti. Ma via, avvi almeno qualche inesattezza grammaticale nell' usare contrario per contraddittorio? - Nessunissima. A parte la giovanile pedanteria, che in qualche testo di scuola va rinvergando le arbitrarie distinzioni del senso delle parole. Ecco qual è la differenza vera e primaria tra la voce contrario e la voce contraddittorio . L' etimologia della voce contraddittorio dimostra che ella s' istituì a significare un detto contrario ad un altro detto . La voce poi contrario , non ha questa limitazione di significar solo la contrarietà dei detti o delle proposizioni; ma stendesi ad esprimere egualmente la contrarietà che hanno fra loro e i detti, o l' altre cose. Quindi dirassi acconciamente, che il caldo è contrario al freddo; ma non così, che il caldo è contraddittorio al freddo. All' incontro di due proposizioni contrarie si dice con egual proprietà che sono contrarie, ovvero contraddittorie, poichè contraddizione non significa altro che la contrarietà appunto di due proposizioni. E` questa la prima ed original differenza che corre tra le due voci contrario e contraddittorio; e da essa si posson dedurre tutte le altre, di cui qui noi non abbisogniamo. La conclusione adunque si è, che qualora si tratta di proposizioni contrario e contraddittorio valgono il medesimo; là dove quando si tratta di cose, impropriamente s' adopera la voce contraddittorio ma si dee adoperare la voce contrario . Ora noi parlavamo di proposizioni. Dunque l' osservazione del C. è vana. Conciossiachè non si possono dare proposizioni che veramente sieno contrarie fra loro (il che significa tutt' altro dall' esser diverse e dall' esser opposte ) (1), come sono quelle che io adducevo, le quali non sieno medesimamente contradditorie: poichè la loro contrarietà consiste appunto nell' avere contraddizione a differenza della contrarietà che aver posson le cose, la quale si chiama semplicemente contrarietà. Finiamola adunque con un verso del Petrarca, [...OMISSIS...] A tali cavilli sono astretti di ricorrere i teologi che hanno preso inclinazione al razionalismo: innumerevoli conferme se n' avranno in quanto diremo in appresso. Ma oltracciò hanno bisogno d' aggiungere a' cavilli un' altr' arma, nel maneggio della quale sperano assai, voglio dire, le falsità. Prendiamone intanto un esempio dal recente articolo del signor C.. Tratta innanzi la proposizione XLVI (2) di Bajo (giacchè a queste sempre ricorrono, siccome a quelle, di cui non essendo definito il senso preciso dalla bolla di condanna, possono facilmente abusare), così egli scrive: [...OMISSIS...] . Ma il vero si è, che nè il Propagatore nè il Rosmini ha mai insegnato nulla di simile. Dunque con questa falsità non fa il C. che accrescere il numero di quelle innumerevoli, che abbiamo notate ne' suoi predecessori e maestri co' due scritti a questo precedenti, invitandoli a giustificarsi, senza che abbiano più osato zittirne. Dando adunque il suo luogo alla verità, il « Propagatore » dimostrò, che tanto se la parola volontario nella citata proposizione di Bajo si prende in senso di volontario semplice , quanto se si prende in senso di volontario libero; quella proposizione non può mai applicarsi a condannare la dottrina della Chiesa da noi seguita. Questo non è certamente un insegnare, che quella parola si debba prendere in senso di volontario semplice, come asserisce il C.. Scoperta la bugia; egli è uopo che si vegga anche com' essa venga manipolata strada facendo moltiplicandosi, e da sè medesima fecondandosi. Da prima il teologo nostro, in vece di esporre la indicata alternativa, FINGE che i due membri di essa sieno due argomenti diversi adoperati successivamente dal Propagatore; e lo riconviene di contraddizione. E certo, che l' uno di quegli argomenti non può stare insieme coll' altro. Poichè se il voluntarium della proposizione di Bajo vuol dire volontario semplice , esso non può voler dire libero , e viceversa. Compiacendosi quindi di questa sua bell' INVENZIONE, scorrazza e trionfa a sua posta per molte faccie del suo articolo! (2) Dopo aver così finto, che il Propagatore rechi due argomenti successivi, nell' un de' quali supponga che il voluntarium significhi volontario semplice , e nell' altro che significhi volontario libero , sopprime quest' ultimo membro dell' alternativa, e dichiara avere il Propagatore INSEGNATO doversi prendere il voluntarium in senso di volontario semplice! (3) Per quello che riguarda a me, sono trattato colla stessa onestà. Dice che anch' io insegno , doversi prendere in senso di volontario semplice la parola voluntarium nella proposizione di Bajo (1). Se non che il suo mentire riesce più sguaiato; poichè 1 lungi dall' aver io insegnato, che il voluntarium di Bajo si debba prendere per volontario semplice , ho dichiarato espressamente il contrario. Mi si permetta di riprodurre le mie parole: [...OMISSIS...] . 2 Perchè il dire che io ho insegnato doversi prendere il voluntarium della proposizione per volontario semplice, cozza con quello ch' egli stesso poche faccie innanzi avea confessato, scrivendo, [...OMISSIS...] . Ecco adunque dimostrata in pratica quale sia la morale del razionalismo , quella morale che fu condannata in teoria da Innocenzo XI e da altri sommi Pontefici: si può mentire e calunniare ogni qual volta sembri necessario a sostenere il proprio partito. Ma ond' avviene poi, che i teologi nostri tanto si sdegnino al solo immaginare (ed è tutta loro immaginazione, come vedemmo), che a talun piaccia intendere la proposizione di Bajo, [...OMISSIS...] d' un volontario semplice? Sarebbe forse un assurdo, l' intenderla così? Sarebb' egli un cadere nel Bajanismo? Direbbe forse un errore colui che dicesse, che alla definizione del peccato appartiene il volontario in genere? quasichè coloro che esigono alla ragion del peccato il libero , possano poi negarle, senza contraddirsi, il volontario semplice già compreso nel libero? No, che il dir questo non è errore, se pur non si vuole tacciar d' errore sant' Agostino, che, prendendo così appunto la parola volontario , tolse nel libro I delle sue « Ritrattazioni », cioè nell' opera che sopra tutte l' altre del santo Dottore dee fare autorità, a dimostrare, che [...OMISSIS...] . Perocchè ivi egli dice, che tanto chi pecca con volontà libera, quanto chi pecca con volontà necessitata, sempre pecca con volontà , soggiacendo questi secondi alla necessità in pena d' altri peccati liberi che precedettero. Dimostra dunque prima, che peccano con volontà quelli che peccano liberamente dicendo: [...OMISSIS...] . Dimostra poscia, che peccano con volontà quelli che peccano necessitati così soggiungendo: [...OMISSIS...] . Di che si raccoglie contro l' assunto del nostro nuovo teologo 1 che la parola volontà , e di conseguente volontario , non ha il solo senso di libero, com' egli pretende; 2 che la proposizione di Bajo merita di essere condannata ugualmente anco se colla parola volontario in essa adoperata s' intenda esprimersi il volontario in genere; 3 che l' intenderla così, e l' averla per condannata anche in questo senso, può essere un errore d' interpretazione, non mai un errore contro la sana dottrina; se pure non si dimostra prima, che sant' Agostino erri in tali materie. E ciò posto, perchè dunque, noi torniamo a chiedere, i nuovi teologi tanto s' allarmano solo immaginando, che il volontario di quella proposizione si voglia intendere per volontario in genere? N' hanno la loro ragione; ed è perchè, così intesa, ella ferisce nel cuore il loro erroneo sistema, tendente ad esaltare indebitamente la natura umana, pretendendola immune da qualsiasi vizio originale (2); sicchè e la libertà non abbia un assoluto bisogno della grazia del Salvatore, almeno per osservare compiutamente la legge naturale, e la ragione non abbia un assoluto bisogno della rivelazione, acciocchè possa l' uomo ottenere il suo fine: alle quali dottrine conduce lo spirito razionalistico, che hanno preso a loro guida. E veramente se colla condanna di quella proposizione è stato solamente deciso, che a costituire un peccato è necessario il libero , essi si credono licenziati ad affermare, che l' atto di libera volontà che pose Adamo peccando è tutto quanto il volontario che entra a formare il peccato originale de' posteri, senza che rimanga un bisogno al mondo di riconoscere un vizio intrinseco nella volontà di questi, ne' quali non può essere certamente il libero. Ma se s' intende in quella vece essersi deciso, che a costituire un peccato è necessario il volontario (libero o no); in tal caso non possono più dire che quella proposizione non riguarda menomamente il vizio naturale inerente alla volontà de' bambini. Conciossiachè ella potrebbe benissimo riferirsi alla volontà viziosa di questi; e tanto più che rimarrebbe facile a chicchessia d' argomentare in questo modo. Egli è di fede, che il peccato originale in Adamo, e il peccato originale ne' suoi discendenti, sono peccati numericamente distinti (1). Se dunque sono distinti numericamente i peccati, devono esser distinti del pari gli elementi che li compongono e li costituiscono. Ma il volontario è un elemento costituente il peccato per la proposizione XLVI di Bajo condannata. Dunque dee esservi un volontario distinto che costituisce il peccato di Adamo, e un altro volontario numericamente distinto dal primo, che costituisce il peccato del bambino da lui discendente. La quale argomentazione irrepugnabile vale, si noti bene, pel solo peccato , non per la colpabilità del peccato , che tutta si dee desumere dalla libertà del primo padre che lo commise. Sebbene noi qui non abbiamo veramente bisogno d' insistere sul senso del voluntarium , che trovasi nella proposizione di Bajo; giacchè ad ogni modo sembra chiaro, che, come in ogni discendente di Adamo, ci ha un peccato proprio , così dee esserci un volontario proprio , cioè uno stato della volontà peccaminoso ed empio; non potendo la volontà di un uomo, per esempio di Adamo, essere nè l' elemento costitutivo, nè il soggetto del peccato originale, in quant' è proprio del suo discendente, e però distinto di numero da quel di esso Adamo. Come adunque Eusebio e i suoi compagni possono confessare sinceramente la fede cattolica che riconosce un proprio peccato ne' posteri, quand' essi escludono ogni infezione ed ogni vizio dalla volontà di questi, e però riducono il peccato (pel quale non intendono che un atto libero ) alla mera imputazione estrinseca dell' atto libero e colpevole di Adamo? A cansare ogni rimprovero, pongono essi mano a due spedienti. Col primo cercano di tranquillare i teologi, facendo lor credere essere intieramente alieno dalla loro dottrina il distruggere il dogma del peccato originale; e consiste in dichiarare, che ammettono per elemento volontario costitutivo del peccato proprio del bambino la stessa volontà libera di Adamo; e però che ben riconoscono essere il volontario un elemento necessario a costituire il peccato, e anzi si lagnano come il Rosmini creda ch' essi gliel voglian negare (1). Ma essendo tuttavia impossibile il non riconoscere un manifesto assurdo nell' ammettere che il peccato proprio d' un individuo, per esempio d' un bambino, abbia per suo elemento costitutivo il volontario proprio di un altro individuo, per esempio di Adamo: ed il Cristianesimo ammettendo sì de' misteri, non mai degli assurdi (2), essi ricorrono al secondo spediente, col quale credono di tranquillare i filosofi, confessando loro, che la voce peccato, quand' essi parlano dell' originale, la pigliano in tutt' altro significato, [...OMISSIS...] (3). Così realmente essi distruggono il peccato originale, confessandolo nelle scuole teologiche , ma rendendolo un assurdo; e poi correggonsi nelle scuole filosofiche , cioè dichiarando che la parola peccato applicata all' originale de' bambini non significa più peccato. Ma badisi bene, che quando un dogma è reso un assurdo, egli è bello ed annullato in tutte le intelligenze umane; e quand' esso è ridotto ad una parola, basta un frego sulla carta ed è cancellato. No; i dogmi della Chiesa non consistono in meri vocaboli; sono ciò che i vocaboli significano, e costituiscono l' oggetto della nostra credenza: la Chiesa colle sue parole non cerca di illudere gli uomini. Laonde, come S. Gregorio Nazianzeno diceva, che [...OMISSIS...] ; così noi possiam dire, che la verità cattolica al tutto manca ne' nostri teologi, perchè manca « in eorum sententiis », quantunque si studino ad ogni possa di far apparire che ella vi sia « in sono verborum ». E dee parere pure, a chi un poco riflette, la strana cosa, che si diano degli uomini i quali vogliano far credere, che un peccato proprio possa esistere senza una volontà propria peccaminosa . Certo, il profondo Estio non solo parlava cattolicamente, ma in modo conforme al senso comune, dicendo che a stabilire il dogma del peccato d' origine ne' bambini non basta nè il solo volontario in Adamo, nè il solo volontario ne' bambini; ma che entrambi questi volontarii s' esigono; quel d' Adamo che è libero esigendosi a spiegarne l' imputazione ossia la colpabilità , quel de' bambini a spiegare la sostanza del peccato che viene imputato (2). Quindi egli è più chiaro del sole, che « Ad rationem et definitionem peccati requiritur voluntarium », non solo inteso il voluntarium per libero , qual fu in Adamo, ma inteso anche per volontario semplice e non libero, qual ora è ne' bambini che nascono, checchè altri si cianci. E s' abbia qui il lettore, se ancor ne dubita, una sopraggiunta d' altri argomenti, acciocchè nessuno più s' ostini a negare una sì preziosa verità del cattolico insegnamento, o se la nega, sia inescusabile. Cominciamo dalla Scrittura. La Scrittura dice non solo che, [...OMISSIS...] ; ma ella usa altresì come formola solenne, quest' altra: [...OMISSIS...] , formola consacrata anche dal Concilio di Trento e da tutta l' ecclesiastica tradizione (3). Ora i teologi nostri, che non riconoscono altro costitutivo del peccato originale de' bambini se non il volontario libero di Adamo, debbono di conseguente negare all' Apostolo ed alla Chiesa che i bambini sieno [...OMISSIS...] , e in quella vece sostenere che sieno [...OMISSIS...] . Ma or che cosa dicevano altro gli antichi Pelagiani? Non era questa appunto nel fondo la loro dottrina? Uno de' loro primi padri, Teodoro vescovo di Mopsuesta, non ebbe scritto appositamente un' opera in cinque libri partita « contra asserentes peccare homines NATURA non VOLUNTATE? (4). » E chi mai erano questi « asserentes peccare homines natura »? Secondo Teodoro, erano certi eretici dell' Occidente, che andavano contaminando la Chiesa, uno de' quali, da lui chiamato Aram ( imprecatio, maledictio , se pure il nome non è storpiato dai copisti) si prende da lui direttamente a impugnare. Nè, a dir vero, la franchezza di Teodoro, d' onorare del titol d' eretici quelli occidentali ch' egli impugnava, andò senza effetto; perocchè ne fu gabbato lo stesso Fozio quattro secoli dopo, che veramente si persuase, scrivesse Teodoro « adversus Occidentales hac labe infectos », com' egli s' esprime dando conto di quell' opera (5). E che perciò? Non ha egli la calunnia, come si suol dire, sempre corte le gambe? E qual altro frutto raccolse Teodoro dalla sua, fuor di quel dell' infamia? qual altro frutto raccolse dall' aver egli, eretico, chiamati eretici i cattolici, e nominato imprecazione o maledizione ( «ara») il dottor massimo della Chiesa, s. Girolamo? Erano adunque i cattolici che sostenevano, come dice Teodoro, [...OMISSIS...] . Così Teodoro duramente alquanto esponeva il sentir de' cattolici, siccome eretici da lui tradotti al giudizio pubblico e combattuti. Nè egli fa maraviglia, se esponesse i loro sentimenti con espressioni un po' dure solendo così fare tutti quelli che tolgono ad impugnarli, sperando di riuscirvi più facilmente, più che infedelmente gli espongono. Per altro egli era vero, che la cattolica Chiesa insegnava [...OMISSIS...] (2). In questo trovava l' assurdità Teodoro, e in questo la trovano i nostri teologi; i quali, per evitarla, vengono a dire che gli uomini non sono improbi per natura (la quale anzi è sana, sanissima), ma solo per la volontà libera del primo padre ben inteso, così essi aggiungono poi, che non trattasi d' un peccato secondo tutto il valore della parola, ma secundum quid , e quadamtenus (1), il che, a parlar chiaro, significa un peccato per cotal maniera di dire usitata, non già un peccato reale ed effettivo; del che rimarrebbe più che contento Zuinglio, che insegnava del pari, il peccato originale ne' bambini dirsi solo peccato per metonimia (2). Per altro, l' obbiezione di Teodoro precursore de' Pelagiani, di cui questi poscia fecero si grand' uso, che il peccato si debba sempre porre in essere dalla VOLONTA`, e non possa dalla NATURA; nasceva, a mio parere, dalla poca meditazione sulla umana natura. Quell' obbiezione in fatti rimane confutata assai facilmente, benchè di tanta apparenza, rispondendo loro in questo modo: « Sì, egli è vero quello che voi altri dite, che il peccato dee sempre essere costituito dalla volontà di colui nel quale si trova, perocchè, essendo il peccato proprio, anche la volontà che lo costituisce dee esser propria. Ma voi errate nel tirare da questo principio la conseguenza, che dunque l' uomo non possa essere peccatore PER NATURA. Vi avviene di cadere in questo errore, perchè non avete osservato con estensione bastevole la condizione della umana volontà: voi vi persuadete, che tutta la volontà si riduca agli atti di essa, ma la cosa non è così. Innanzi agli atti suoi vi ha la potenza stessa della volontà, la quale forma parte della umana NATURA. Se dunque questa potenza riceve una QUALITA` E DISPOSIZIONE IMMORALE, l' uomo è improbo ad un tempo PER VOLONTA` e PER NATURA, poichè, come si diceva, quella è parte di questa. Che poi questa disposizione immorale possa dirsi peccato (abituale); egli è facile a provarsi quando si consideri, che il peccato è un' inordinazione della persona umana , e che la volontà immoralmente disposta è quella che costituisce propriamente la persona dell' uomo. »Tutto questo discorso è coerente; e con esso riman dileguato quell' apparente assurdo, che gli eretici rinfacciano all' insegnamento della Chiesa circa il peccato originale; e giustificato appieno questo insegnamento. All' incontro i moderni teologi razionalisti, per isfuggire da quell' assurdo, fanno una transazione cogli eretici, colla quale, abbandonando loro la sostanza del dogma, si contentano di salvare alcune frasi, come coloro che, dando i denari a' ladroni, salvan la borsa (1). Ora l' accennata risposta, che, ben intesa, chiude la bocca agli eretici, chi ne considera il fondo, non è mia; ma è de' Padri e de' Dottori ond' io la trassi. Per non essere infinito, mi limiterò a mostrare com' ella si trovi, argomentando da' principii di S. Tommaso. S. Tommaso rassomiglia il peccato originale de' posteri al peccato della mano dell' omicida. La mano è mossa al peccato dall' omicida stesso; e così i posteri, motione generationis , sono mossi al peccato dalla natura peccatrice di Adamo generante (2). Il movimento peccaminoso della mano è come una continuazione del movimento peccaminoso dell' anima dell' omicida; e lo stato peccaminoso de' posteri è come una continuazione, mediante l' abito rimasto nell' uomo che ebbe peccato, del movimento peccaminoso di Adamo prevaricatore. Ma qui nasce una grave difficoltà. La mano non è veramente peccatrice; ma si dice tale per sineddoche, o per metonimia come direbbe Zuinglio, o quadamtenus come dicono i nostri anonimi. Nè pure i posteri adunque, secondo tale esempio, saranno in senso proprio e vero peccatori. Tale difficoltà si vince benissimo argomentando dai principii di S. Tommaso. Il principio fondamentale, che egli pone è questo, [...OMISSIS...] Ritengasi bene questo principio, che è il fondo dell' argomentazione dell' Angelico, e non badisi materialmente alle parole. Argomentando da un sì chiaro e fecondo principio, che si deduce? Si deduce, che la similitudine della mano dell' omicida, benchè in sè stessa opportuna a illustrare il concetto, per accidente poi in qualche cosa non calza, come accade sempre colle similitudini. Ma il principio riman generale: « Il peccato è ricevuto secondo che quello a cui si comunica può essere o no soggetto di peccato. » Resta a dimandarsi: la mano può ella esser soggetto di peccato? Rispondesi: propriamente parlando no; ma per un cotal traslato può essere considerata come tale, a preferenza dell' asta e della spada (1). All' incontro poi, la volontà personale de' posteri è indubitatamente soggetto di peccato assai meglio della mano, perchè ella non è tale in linguaggio figurato, ma in senso proprio. L' infezione morale adunque, trovando nelle persone umane a cui si comunica, veri soggetti distinti di bene e di male morale, vi è ricevuta come tale e diviene in essi un vero peccato. Tutta questa dottrina dell' Angelico, intorno all' essenza ed alla comunicazione del peccato dimostra, 1 ch' egli considera i bambini come riceventi dalla mozione del generante l' atteggiamento peccaminoso; 2 che ricevono quell' atteggiamento come la mano riceve il movimento peccaminoso dall' omicida; ma che in essi è peccato più proprio che non possa essere nella mano; perchè essi sono veri soggetti idonei di peccato distinti dal generante; mentre la mano non è soggetto di peccato distinto dall' omicida, ma dicesi tale per un parlar figurato; 3 che i bambini sono soggetti di peccato, perchè hanno una volontà personale, onde a questa è comunicata l' inordinazione in cui il peccato consiste. Dalla qual maniera, che usa l' Angelico a spiegare, in che guisa i posteri sieno peccatori per natura , si può agevolmente dedurre, che se il loro peccato vien messo in essere dalla natura , è ad un tempo la loro natura morale quella che, essendo suscettibile di peccato, propriamente ne rimane affetta, la qual natura morale è la loro propria volontà personale: onde essi sono costituiti peccatori per volontà; e quindi cessa l' assurdo obbiettato dagli eretici. Nel che sta la sostanza della risposta nostra a Teodoro. Ma ora passiamo a vedere come i recenti teologi scavano sotto anche le fondamenta al dogma del peccato originale, e ad altri molti ad un tempo, distruggendo il concetto della volontà semplice , e altra volontà non riconoscendo nell' uomo che la volontà libera: quindi escludendo ogni altra specie di moralità, fuor di quella che dall' uso della libertà si produce. Il C. prende a far tutto ciò in un lunghissimo tratto del suo libro (1), nel quale, senza un bisogno al mondo, travaglia e suda a dimostrare, che nella citata proposizione di Bajo la parola volontario non significa altro che libero . Per riuscire a tale dimostrazione, bastava ch' egli avesse recate a confronto le tre proposizioni condannate 46, 47, 4.; nell' ultima delle quali si afferma, che [...OMISSIS...] ; dove dichiarasi volontario il peccato originale ne' bambini, perchè questi nol disdicono e non l' impugnano col loro libero arbitrio . Bajo ricorreva adunque al (preteso) arbitrio de' fanciulli per ispiegare come il peccato in essi fosse volontario; e però il volontario che Bajo esigeva nel peccato de' bambini era un libero7negativo , cioè era il non fare della loro libertà. All' incontro, egli non vedea necessario a costituire il peccato de' bambini il libero7positivo , che solo nella libertà di Adamo autore del peccato si rinviene, e quindi le proposizioni: [...OMISSIS...] . Così sarebbe rimasto dimostrato, che la parola volontarium ne' detti articoli intesa, ha il valore di libero; avvertendo però, che in generale quella parola, secondo la mente di Bajo, talora significa un libero7positivo , un atto, vera causa dell' azione peccaminosa [...OMISSIS...] ; e talora significa un libero7negativo , un non7atto della volontà, pel quale il peccato domina nell' uomo [...OMISSIS...] . Con tale confronto, egli avrebbe pur conosciuto in che stia precisamente l' errore bajano; cioè nel costituire l' essenza del peccato originale de' bambini nel non7atto del loro libero arbitrio, quasichè fossero obbligati di far quello che è loro impossibile; e perchè nol fanno, incolpar si dovessero; il che è ad un tempo un errore contro la fede, ed un assurdo contro la ragione. Ma il C., in vece di mettersi per la via piana e facile a dimostrare il suo intento, piglia un' ampia girata con iscialacquo di volgarissima erudizione, tutt' a risparmio di logica. S' impegna egli a provare, che il voluntarium negli articoli citati di Bajo significa libero; perchè la parola voluntarium correva nell' uso comune de' teologi in senso di libero . Acciocchè un tale argomento avesse forza da stringere, dovrebb' essere dimostrato pienamente, non già che la parola voluntarium si usasse molte volte per significare libero , ma che così si usasse sempre; di maniera che non vi fossero esempii di scrittori filosofici e teologici, ne' quali ella s' adoperasse in senso di volontario semplicemente o in genere, prescindendo dalla effettiva libertà. Certo non ci vuole una gran testa a capire, che se non si fa ciò, non si stringe che aria. Tuttavia egli s' appaga di trar fuori una cinquantina forse di testi, ne' quali, secondo il suo giudizio, la parola volontario vale altrettanto che libero; conchiudendo poi, che dunque anche negli articoli di Bajo ella dee aver avuto questa medesima significazione! Il fatto però si è, che la parola volontario non significa altro che volontario , cioè cosa voluta, cosa appartenente alla volontà. Tale è il suo primitivo significato, come l' origine e la formazione della parola dimostra. Ora ciò che è volontario , ciò che è voluto, può esser voluto in due modi, perchè la volontà opera in due modi, cioè necessariamente , e liberamente (1). La parola volontario esprime il genere , il necessariamente e il liberamente esprimono due differenze specifiche di questo genere; sicchè vi è un volontario necessario ed un volontario libero; e la parola volontario s' accomoda egualmente bene ad esprimere l' uno e l' altro; perchè il genere giustamente si predica di tutte le specie. In pari tempo si vuol notare, che gli atti che fa la volontà necessitata , sfuggono più facilmente alla osservazione ed alla riflession nostra; ed all' incontro si osservano in noi con assai più di facilità gli atti liberi, ne' quali sentiamo di collocare manifestamente la nostra propria energia personale (1). Di più, gli atti volontarii7liberi diventano la materia ordinaria de' nostri discorsi, perchè, essendo essi in nostra balía, possiamo e dobbiamo governarli secondo le leggi e i precetti morali, e mettiamo in essi somma importanza, dipendendo appunto da essi tutta quella prosperità e felicità che noi ci possiamo procacciar da noi stessi (aiutati da Dio) in questa e nell' altra vita. Dalle quali due cagioni procede, che quando noi parliamo di atti volontarii , intendiamo spessissimo favellare di atti volontarii7liberi; e non ci apponiamo questa parola liberi per brevità, contentandoci di dirli semplicemente volontarii . Conciossiachè il contesto del discorso fa già intendere da sè che noi intendiamo parlare di quelli. Questo che accade nel parlar comune quanto all' uso della parola volontario, accade simigliantemente quant' all' uso della parola peccato , che esprime il genere delle immoralità7personali, e però tanto la specie del peccato necessario7incolpevole , quanto la specie del peccato libero7colpevole; ma nel parlare ordinario tuttavia la si prende a significare il peccato7colpevole , per le stesse ragioni onde si usurpa la parola volontario significante il genere ad indicare la specie del volontario7libero, cioè perchè il peccato colpevole attrae di lunga mano più l' attenzione degli uomini, ed è l' oggetto de' comuni discorsi (1). Ma quando trattasi di scienza, e si vuol tornare alla rigorosa esattezza delle parole, affine di non confondere insieme perniciosamente i concetti affini; allora si dee restituire a quelle il proprio significato, usando le parole che segnano il genere come peccato e volontario , a significare il genere; e le parole che segnano le specie, come colpa e libero , a significare le specie e non altramente. Indi non è maraviglia, se, a malgrado delle citazioni del C., s' incontri bene spesso ne' filosofi e ne' teologi questa proprietà di parlare; e quanto alla parola volontario , che egli pretende usarsi per libero, è pure un fatto innegabile ch' ella si trova spesso adoperata per volontario semplice e generico. Mi si perdoni se discendo a cose assai comuni. Certo niuno che abbia a fior di labbra saggiata la teologica scienza può ignorare, che quando si tratta scientificamente del volontario , esso si suol prima definire in generale, senza farvi entrare esclusivamente la libertà; e poi lo si divide nelle sue due specie di necessario e di libero . Il qual metodo logico di procedere tiene al suo solito S. Tommaso (1); onde a principio definisce il volontario in modo, che si possa applicare tanto al necessario quanto al libero, dicendo così: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole è chiaro, che volontario si chiama tanto l' atto necessario, quanto l' atto libero della volontà, perchè l' uno e l' altro est a propria inclinatione , e tende in un fine conosciuto. Ma di poi passa il santo Dottore a distinguere il volontario necessario , come sarebbe l' atto con cui l' uomo tende al fine e al bene universale (6), dal volontario libero , a cui spettano gli altri atti posti in balia dell' uomo. Non si puó adunque dubitare, che il primo e proprio significato della parola volontario sia quella di volontario in genere, non essendo la necessità e la libertà che due suoi modi accidentali. Tale significato si fa manifesto dalla ragione stessa e dall' etimologia della parola, dalla definizione de' citati Padri della Chiesa, e dall' autorità del Dottore angelico, a cui consentono tutti i teologi. De' quali in cosa così nota recherò due soli, in aiuto degl' imperiti, il Busembaum e il Viva. Il primo scrive: [...OMISSIS...] . Domenico Viva egualmente, lungi dal confondere il volontario col libero , ne dà due definizioni distinte, e ne mostra a lungo la differenza, e la definizione che dà del volontario in opposizione del libero è appunto questa, [...OMISSIS...] , che è quella stessa di S. Tommaso, che il nostro C. pretende doversi applicare non alla semplice volontà, ma alla libertà (5). E tuttavia, digiuno come si mostra delle nozioni elementari della sacra teologia, egli non dubita d' impegnarsi a dimostrare, che voluntarium non significa altro che libero; e si persuade che la sua dimostrazione sia pienissima coll' arrecare qualche dozzina di testi, in cui egli dice senza provarlo, che vi sta dentro la parola volontario usata in senso di libero! Riesce tanto più inconcepibile quella sicurezza di affermare che volontario si usi sempre per libero , se si osserva che più volte gli viene in sulla penna la proposizione 39 di Bajo, [...OMISSIS...] ; nella quale si contiene l' errore, che il voluntarie significhi liberamente sempre, anche congiunto colla necessità: il qual solo esempio rende inutile affatto la sua fatica materiale di razzolare da' teologi e fin dagli eretici tanti passi, ne' quali si trova la parola volontario . Anzi egli avrebbe dovuto ben imparare da quella proposizione, che è insegnamento della Chiesa avervi due volontarii, l' uno necessario e l' altro libero; e che l' errore condannato in Bajo nasceva appunto dal confondere que' due volontarii in un solo, pretendendo egli che si potesse chiamar libero anche quello che era necessario . Laonde la sola differenza fra Bajo e il C. consiste in questo, che Bajo non riconosceva nella volontà dell' uomo caduto, se non il modo dell' operar necessario che falsamente chiamava libero col pretesto che non era violentato; laddove il C. non riconosce (se dee aver senso il suo discorso) che un operar solo volontario mai necessitato e sempre libero; sicchè la parola volontario non possa ammettere che quest' ultimo significato (1). Ma l' inettitudine del ragionare che fa il nostro C., vedesi ancor più se si esaminano i molti testi che egli reca a provare il suo falso assunto. Dal qual esame, che ognun può fare da sè, manifestamente risulta, 1 che a dimostrare che la parola voluntarium ebbe sempre il significato di libero, egli reca più testi, ne' quali si parla di azioni libere ed imputabili, quasi che alcuno avesse mai negato, che le azioni libere si possano chiamare volontarie , dicendosi anzi da noi, che la parola volontario conviene ugualmente ai due modi di operare della volontà, il libero ed il necessario; e per esempio, tanto all' amore che portano a Dio i celesti comprensori, quanto a quello che gli portano i terreni viatori; benchè quelli il facciano attratti necessariamente, e a un tempo spontaneamente, dalla vista del sommo Bene; e questi mossi dalla loro libera elezione: 2 Reca alcuni testi ne' quali, così precisi dal contesto, non si potrebbe definire se il voluntarium si prenda per libero, o solamente per volontario in genere abbracciante i due modi di operare della umana volontà (1): 3 Reca alcuni testi, ne' quali si suppone che i bambini non facciano atti di volontà, e ciò perchè si suppone che non facciano atti di ragione. E qui si noti, non doverci noi far maraviglia, che alcuni autori non sieno giunti ad osservare, che i bambini quasi appena ch' esistono comincino ad usare di loro ragione e di loro volontà, benchè non possano nè riflettere, nè liberamente operare. L' osservazione continuata a farsi sull' umana natura per tanti secoli, ha finalmente fatto conoscere ciò che non si conosceva in altri tempi. Egli è ora certo, secondo ch' io stimo, che il bambino fino da' primi tempi di sua esistenza conosce e vuole la madre, conosce e vuole il cibo; e però non manca in lui il volontario , sebbene non siavi ancora il libero . Se adunque alcuni autori argomentavano che i bambini non facessero nessuna maniera d' atti volontarii, dalla supposizione che non avessero alcun uso di ragione; egli è facile il rispondere, che, trovata falsa quella supposizione, rimane parimente falsa la conseguenza che essi ne deducevano. 4 Reca alcuni passi, ne' quali si dice, o sembra che si dica, che ogni atto umano è un atto libero . Ma se per atto umano s' intenda un atto proprio del solo uomo, e non comune alle bestie, egli è chiaro che atto umano si dee dire ogni atto della volontà (difinita questa per la facoltà che opera dietro la cognizione) (1), sia esso libero o necessario. Così l' atto, onde la volontà tende al bene in comune, necessario , a giudizio d' ogni dottore; l' atto col quale i beati amano Dio, ed i dannati lo odiano; gli atti della volontà che precedono la riflessione e seguono la cognizione diretta , sono certamente atti umani. Che anzi è umano anche ogni atto d' intelligenza, non solo ogni atto di volontà (2). Qualora dunque S. Tommaso restringe l' atto umano all' atto libero, si dee conciliarlo seco stesso, che pur ammette indubitatamente degli atti della volontà umana necessitati, ed egli è facile il farlo, osservando, ch' egli definisce que' soli atti umani, su' quali si fonda il merito ed il demerito, ad essi riferendosi tutta la legge morale obbligatoria, scopo della sua trattazione (3). 5 Reca alcuni passi di Luterani, Calvinisti ecc. senza accorgersi che cotesti eretici negavano l' operar libero dell' umana volontà, e che quindi tant' è lungi, che la parola voluntarium in loro bocca valesse il libero , che anzi la stessa parola libero da loro si abusa a significare il semplice volontario, o spontaneo! 6 Finalmente, se questo C. sa poco il latino e l' italiano, non vuol pretendersi che sappia di greco; nè dee far maraviglia che, sbagliando nell' assegnare alla parola voluntarium il suo vero valore, molto più la sbagli, quando presume di assegnarla alla parola greca «ekusion», sostenendo che altro non significhi che libero! (4) Non credo io dover essere inutile il metter qui sotto gli occhi del lettore un brano del Petavio, nel quale questo teologo, 1 dà il vero valore della parola «ekusion», 2 e espone la dottrina di S. Tommaso sui due valori della parola volontario, valendo ora un volontario libero detto anco volontario perfetto , ed a un volontario non7libero, detto volontario7imperfetto . Il brano di cui parliamo è questo: [...OMISSIS...] . Or vada il C., e veda se gli conviene attribuire il suo volontario libero alle bestie! La conclusione si è, essere un errore tanto il dire con Calvino, Giansenio e Bajo, che la volontà dell' uomo nel presente stato di natura scaduta non opera mai in altro modo che per necessità, quanto il dire, ciò che cercano insinuare i moderni teologi tendenti al razionalismo, che la volontà non opera mai in altro modo che per libertà. La Chiesa, con tutti i teologi suoi, tenendo la verità che sta nel mezzo, se da una parte insegna, che l' uomo al presente opera bene spesso con libertà, dall' altra riconosce altresì ed insegna, che talora egli soggiace alla necessità, dichiarando però che in quest' ultimo caso nè merita nè demerita. Al numero XLV del suo articolo (3) il C., desideroso di far credere che il Pelagianismo abbia il merito di distruggere l' orribile mostro del Bajanismo, ne parla come se quella dottrina fosse la contraddittoria appunto di quest' ultimo errore, quella nè più nè meno a cui Bajo fè guerra. Ma il vero si è, non essere già il Bajanismo quello che abbatte legittimamente il Pelagianismo, ma esser la dottrina cattolica che abbatte e sterpa l' uno e l' altro errore. [...OMISSIS...] . Sul qual passo chiamo il lettore ad osservare, 1 Che, acciocchè il santo Dottor della grazia mescolato a Calvino e a Giansenio vada più uniforme in tal compagnia; piace al C. di chiamarlo Agostino, in vece di seguir l' uso comune, che il chiama sant' Agostino; il che non meriterebbe di essere osservato, se il contesto e lo spirito dell' autore non dimostrasse un' affettata mancanza di rispetto al santo Dottore; 2 Che, opponendo egli i Pelagiani alla dottrina di Bajo, che tanto detesta, non aggiunge nè pure una mezza parola di disapprovazione della dottrina di quegli eretici; 3 Che, essendo verissimo che i Pelagiani non a Bajo, com' egli vuol supporre, ma alla dottrina cattolica, contrapponeano il principio, che « « ogni peccato dee esser libero » »; il nostro C. subdolosamente asserisce [...OMISSIS...] , volendo così far credere, che quella sia un' obbiezione che ponea loro in bocca Bajo, quasi che dei Pelagiani non fosse veramente; sperando così di cessare da sè l' odiosità dell' eresia pelagiana nell' uso continuo che egli fa di quella loro cara obbiezione, siccome fanno altresì i suoi compagni, affine di poter distrugger sotterra il dogma del peccato originale, come facevano quegli eretici; 4 Che, dicendo egli che Bajo [...OMISSIS...] , senz' aggiungere alcuna spiegazione, viene ad insinuare, che la dottrina di Agostino sia appunto quella di Bajo, con ingiuria gravissima a questo santo Dottore. La quale ingiuria viene da lui ripetuta più sotto, dove, volendo dimostrare come Bajo erroneamente risponda alla detta obbiezion pelagiana, egli non fa altro che riportare per risposta di Bajo le stesse precise parole di sant' Agostino, e queste, quasi fossero di Bajo, e contenessero la stessa dottrina di quel condannato dottore, interpolandole anche di sue chiose, e riprendendo il Rosmini perchè anch' egli consenta in quella medesima dottrina che è di sant' Agostino e di Bajo! Ecco questo brano singolare (avvertasi che le parole che cominciano, « Frustra putas, etc. » sono di sant' Agostino (1), e le parole italiane sono del nostro C.): [...OMISSIS...] . Questo brano comincia così: [...OMISSIS...] Ascrive adunque a Bajo quanto vi si contiene. Ma nel brano non si contiene altro che la soluzione che dà sant' Agostino ad una obbiezione di Giuliano pelagiano. Dunque il C. attribuisce a sant' Agostino, che scrive contro i Pelagiani la precisa dottrina di Bajo; dando torto a sant' Agostino e di conseguenza ragione ai Pelagiani! (2). Di poi nelle sue chiose, apposte alle parole di sant' Agostino, come se fosser parole di Bajo stesso, egli attribuisce a Rosmini il Bajanismo, perchè egli fa la stessa distinzione che fece e fa sant' Agostino colla Chiesa cattolica contro gli eretici pelagiani, la distinzione cioè contenuta, a sentenza del nostro C., nelle citate parole di sant' Agostino, fra i peccati liberi, unde liberum est abstinere , e i peccati non liberi, unde liberum non est abstinere; venendo così a dichiarare infetta di Bajanismo quella distinzione con cui il campione più grande della cattolica Chiesa, da tutta la Chiesa seguito in tale materia, combatte il pelagianismo; e con cui solamente quest' eresia può essere trionfalmente combattuta! Ora, che cosa è egli questo, se non un favorire sott' acqua, e difendere l' eresia più di tutte l' altre terribile a' tempi nostri, il pelagianismo cioè, e la sua necessaria prole, il razionalismo? Certo il pretendere o l' insinuare destramente che la dottrina di sant' Agostino sia quella di Bajo, è quanto un pretendere che la Chiesa romana, cioè la cattolica, abbia condannato sè stessa (1). Non poche volte i romani Pontefici dichiararono solennemente che la santa Sede non tiene altra dottrina circa il libero arbitrio e la grazia, che quella dell' aquila fra i dottori. Lo dichiarò il pontefice Ormisda, scrivendo al vescovo Possessore: [...OMISSIS...] ; lo dichiarò il pontefice Giovanni II, scrivendo: [...OMISSIS...] . Lo dichiarò Clemente VIII quando alle celebri Congregazioni de auxiliis non prescrisse altra norma, a cui dovessero riscontrare la sanità della dottrina moliniana, se non quella della dottrina di sant' Agostino, rendendone per ragioni che da tal DUCE capitanata ebbe già combattuto e vinto la Chiesa, e che alla dottrina di lui niente mancava di ciò in cui versavano le suscitate questioni e finalmente [...OMISSIS...] . Lo dichiarò infine più recentemente Innocenzo XII nel celebre suo breve del 6 febbraio 1694 ai dottori di Lovanio, simigliantemente dicendo di sant' Agostino, che [...OMISSIS...] . Lo stesso attesta il venerabile cardinal Baronio circa il professare che fa la Chiesa Romana la dottrina di sant' Agostino intorno la grazia e il libero arbitrio che lodando il decreto con cui Clemente VIII prescrive che non si debba partire dalla dottrina di sant' Agostino: [...OMISSIS...] . Lo stesso della santa Sede attesta il Petavio, [...OMISSIS...] . Lo Suarez finalmente non dubita di confessare: [...OMISSIS...] . Onde a ragione dice il Bossuet, che [...OMISSIS...] . Ora chi è dunque costui, che, rinnovando gli sfregi fatti in altri tempi dagli eretici al santo Dottore (3), osa dargli posto a lato di Calvino e di Giansenio, e affermare mendacemente parole di Bajo, e in Bajo dannate, quelle che sono d' un sì grande splendor della Chiesa? Chi è costui, che ingiuria sfacciato la Sede apostolica nel suo Dottore! Conciossiachè ella, maestra costante di verità, condannando Bajo, continuò sempre, giusta la tradizione antichissima in quella prima cattedra conservata, ad aver Agostino a maestro. Ella se ne dichiarò altamente, noi n' abbiamo portate altrove le ripetute dichiarazioni. Deh, che mai possono fare cotesti cozzi contro la pietra? Che posson fare questi attacchi contro la gloria di colui, che, vinto dalla grazia un dì, ne glorificò la possanza, e ne divenne l' umile banditore e a tutto il mondo il maestro? Del quale ora, dopo quattordici secoli, così Iddio compensando l' umil suo servo, rinverdiscono l' ossa, e dall' Africa ridimandate all' Italia vi approdano portate in solenne trionfo a ribenedire quella terra; e la pastorale sua verga inaridita, rigermogliando, di freschi fiori, con bel prodigio, si copre (4). Ma torniamo allo scopo a cui mirano i Teologi razionalisti in deprimere S. Agostino, e in escludere l' operare necessitato dell' umana volontà, lasciandole solo l' operar libero, che è sempre quello d' esaltare indebitamente l' umana natura; escludendo da lei ogni infezione o vizio originale, vediamo com' essi frammischiano alla dottrina cattolica diversi errori. Al C. dà grandissima noia che si chiami co' Padri e coi teologi della Chiesa, il vizio originale: « una colpa naturale, » un peccato che s' imputa alla natura umana (1). Le traduce egli per bajane, e decreta loro il bando come a quelle che troppo bene esprimono il dogma che si vuole distrutto. Or che a ciò tenda questo sbandeggiamento delle maniere più comuni ed efficaci della cattolica teologia, si fa più aperto da ciò che scrive il nostro C. dal numero XC sino alla fin del suo Articolo. Quivi si può ravvisare uno studio incessante d' intessere a sottil trama insieme cogli errori di Bajo le cattoliche verità intorno all' originale peccato, acciocchè queste sieno ravvolte, se esser potesse nella stessa condanna di quelli. Da prima reca in mezzo un brano di Bajo, che contiene veramente l' errore di riconoscere imputazion ne' bambini, non perchè il peccato originale era libero in causa, ma perchè da essi non è contrariato con un atto di loro propria volontà, [...OMISSIS...] . Ma incontanente soggiunge a questo un altro brano di Bajo; [...OMISSIS...] . Ora qui l' errore trovasi colla cattolica verità mescolato: questa si contiene nelle parole di S. Agostino quello nell' abuso, che Bajo ne fa. Separiamo dunque la cattolica verità annunziata dal S. Dottore, dall' errore di Bajo, provvedendoci così contro il malizioso artificio di chi vuol confondere insieme tali cose, per dannarle entrambi. La cattolica verità da S. Agostino annunziata si è, che il male della concupiscenza tiene il fanciullo non battezzato nella morte dell' anima; e ve lo terrebbe sempre s' egli non ricevesse il battesimo: [...OMISSIS...] . La qual dottrina è insegnata da S. Agostino e ripetuta le mille volte, [...OMISSIS...] . E la dottrina stessa si contiene nelle parole del sacrosanto concilio di Trento. [...OMISSIS...] . Ora se questa è la dottrina cattolica, qual' è poi l' errore di Bajo? quale l' abuso che Bajo fece delle parole del santo dottore? L' errore è indicato in quel QUAPROPTER, col quale comincia il brano arrecato. S. Agostino dice, il bambino dannato pel suo proprio peccato: questa è verità. Ma Bajo dice, il bambino dannato, perchè gli viene imputato a colpa il suo peccato e gli viene imputato a colpa, perchè quel peccato aderente a lui, domina in lui senza ch' egli s' opponga al medesimo con un atto di sua volontà: quest' è l' error condannato. E` sempre l' errore dell' imputazione , sempre il pretendere, che ogni peccato anche necessitato sia colpa, è un volere sostituire la colpa al peccato, un dire che alla COLPA non è necessario il LIBERO: [...OMISSIS...] . Ora teniamo conto di questa distinzione tra la dannazione ammessa da S. Agostino e dalla Chiesa, come aderente al peccato del bambino, e l' imputazione ammessa da Bajo come aderente allo stesso peccato e non proveniente dalla libertà d' Adamo che lo commise, e seguitiamo ad analizzare il ragionamento del nostro C. il quale aggiunge anche un terzo brano di Bajo, in cui è riprodotta la stessa confusione tra la verità cattolica della dannazione de' bambini, e l' errore bajano della imputazione a un principio non libero. Perduta dunque di vista la distinzione tra la parte vera e la parte falsa insieme tramischiata dice, che il Rosmini non sembra veramente appaciarsi con Bajo perchè [...OMISSIS...] . E certo, quando non si voglia dire altro che questo, il Rosmini non s' astiene dall' affermarlo; perchè quelle parole, che [...OMISSIS...] sono parole non di Bajo, ma del dottor della grazia; a cui il Signor C. si mostra tanto nemico da confonderlo sempre cogli eretici. Il dottor della grazia non altro esprime con quelle parole che un dogma infallibile della Chiesa. Sotto il nome di Bajanismo dunque i teologi razionalisti combattono anche il dogma dell' originale peccato, pel quale i cattolici credono, che il peccato d' origine detiene in istato di morte, come dicono le parole di S. Agostino, il fanciullo, e lo terrebbero nella morte eterna, se non venisse a salvarnelo il santo battesimo. E` dunque manifesto il reo effetto di stabilire il Pelagianismo col pretesto di confutare il Bajanismo. Adesso si vede perchè i teologi razionalisti si perdano in tanti andirivieni di parole, ed in tante contraddizioni: la coscienza gli inquieta. Sono arditi perchè non sono soli. Il signor C. è una cosa col finto Eusebio, di cui si fa patrocinatore, uomo tanto addentro ne' segreti dell' eterno, da potere scrivere: [...OMISSIS...] che è appunto l' argomento di Pelagio contro il peccato d' origine tante volte ribattuto da quell' Agostino, che con Bajo si vuol confuso (2). E` una cosa coll' altro anonimo stampato alla macchia di cui dice, che il libro meriterebbe per avventura di essere più divulgato e conosciuto (3), anonimo che osa mettere in bocca a S. Tommaso queste parole: [...OMISSIS...] colle quali parole viene negato anche espressamente il peccato originale. Tutti questi, ed altri ancora vi hanno preceduto, o signor C., a distruggere il peccato d' origine: e perchè la Chiesa non gli ha ancora repressi con ispeciale decreto, voi credete che l' abbiano fatto impunemente, e n' avete assunto, più audace e di lor più maligno, il patrocinio. Certamente che voi troverete delle simpatie nei biblici della Germania, e in tutti i razionalisti de' tempi nostri, di questi tempi orgogliosi che non fanno che esagerare le forze dell' uomo fino a disconoscere il bisogno ch' egli ha della redenzione, e del battesimo; troverete delle simpatie ne' deisti e in tutti gli empi che aspettano, che l' uman genere vada avanti per la via del progresso, senza Dio, senza battesimo, senza bisogno di grazia, ma con tutte queste simpatie, da qualsiasi parte ve le pensiate riscuotere, non giungerete però al fine di contraffare la parola immutabil di Dio, che affidata specialmente a Pietro dee conservarsi intatta sin alla fine dei secoli. Or questa parola è stata quella che ha detto, [...OMISSIS...] , e però il peccato d' origine [...OMISSIS...] , come dice non Bajo, ma la Chiesa. [...OMISSIS...] le parole son dette allo stesso proposito da S. Agostino, [...OMISSIS...] . Prosegue quindi collo stesso argomento ad investire non noi, ma la Chiesa, perchè ammetta, che sieno detenuti nella morte del peccato i bambini non battezzati, in questo modo: [...OMISSIS...] . Che accusa è questa? Il dire « a seguitare Bajo anche nel materiale delle parole »suppone già provato per innanzi, che Bajo sia stato seguito nel formale, cioè ne' suoi sentimenti. E in quella da voi fu provato, che il Rosmini ammette colla Chiesa, che [...OMISSIS...] , che gli attribuì la dannazione, anche eterna se non vengono redenti dal Salvator col battesimo. Dobbiamo dunque dirgli di nuovo, come S. Agostino a' Pelagiani. [...OMISSIS...] (2). Ma se il teologo che esaminiamo come un tipo dei teologi razionalisti, attaccò questo dogma, sotto specie, che contenga il formale della bajana eresia, ora quali argomenti adduce poi a provare, che il Rosmini abbracciandolo, seguita Bajo anche nel materiale delle parole? Primo argomento: che egli cita, è il testo « regnavit mors » di S. Paolo. Anche con S. Paolo se la prendono. Anche S. Paolo pute di bajanismo? Secondo argomento: che [...OMISSIS...] Il che suppone che sia un seguitar Bajo lo spiegare S. Paolo con S. Agostino dalla santa sede seguito. E quello che il Rosmini ha mostrato con S. Agostino, l' ha egli mostrato bene o male? Se male, perchè non lo dite accennando dove stia il difetto? Se bene, perchè togliete a riprenderlo? [...OMISSIS...] quasichè il dire coll' apostolo, che negli uomini tutti che nascono vi ha peccato abituale e originale, vi ha dannazione, se il Salvator non la toglie, sia un errore, a cui sia bisogno soggiungere un correttivo, quand' egli è pure il dogma fondamentale del cristianesimo, quello che voi in tutt' i modi vorreste distruggere. Colla stessa astuzia dice poco appresso, che [...OMISSIS...] . Nessuno, se è cristiano cattolico, dirà mai, come fingono costoro di temere, che le cose da voi riprese come infette di Bajanismo, sieno semplicemente innocue, quasichè indifferentemente si potessero o ammettere o rifiutare; e molto meno nessuno dirà, che sieno punto o poco malvagie; ma ogni cristiano cattolico dirà, che sono di fede; che il dichiararle malvage è un proscrivere ciò che crede la Chiesa; e il far loro grazia di chiamarle innocue, è una maniera degna di chi vuol seminare di coperto la rea dottrina. Pelagio appunto soleva usar questa tattica, di far credere che fossero mere opinioni quelle ch' erano punti di fede. Nel numero, che viene appresso (1), pigliando a ricapitolarsi, il C., riproduce la confusione tra la dannazione annessa al peccato originale ne' posteri, per sentenza della Chiesa, coll' imputazione , riferita al bambino in vece che al libero autor del peccato, nel che sta l' errore di Bajo. E dopo aver detto, come Bajo stabilì, che a costituire l' essenza del peccato non è necessaria la libertà, senza punto aggiungere, che la libertà è solo necessaria a costituire il peccato7colpevole, e che per aver questo negato, Bajo incorse nella condanna; dopo aver detto ancora, come Bajo considerò la macchia d' origine per vero peccato, non riferendolo alla volontà libera del primo padre, anche qui, senza aggiungere, che Bajo errò perchè parlava di colpa, la quale non può stare senza riferirsi alla sua causa, soggiunge: [...OMISSIS...] . Ecco attribuito di nuovo a Bajo, quel che è della Chiesa cattolica. Sono i soli pelagiani quelli, che il negano. [...OMISSIS...] , così scriveva appunto contro i Pelagiani S. Agostino, [...OMISSIS...] . Laonde la Chiesa riconosce la necessità del battesimo de' bambini, acciocchè evitino la condannazione del peccato e la morte eterna, e però nel corpo stesso del D. Canonico trovasi registrato questo luogo di S. Agostino, [...OMISSIS...] e quell' altro ancora: [...OMISSIS...] . Perchè dunque dichiarare bajana la dottrina, che fa i bambini soggetti all' eterna condannazione se non vengono rigenerati? perchè togliere così la necessità del battesimo? perchè adulare in tal modo l' umana natura? perchè ingiuriare alla redenzione, ed alla grazia di GESU` Cristo sotto coperta di difendere la cattolica fede? E veggasi inesausta astuzia! Dopo aver posta la questione [...OMISSIS...] quasichè questa fosse la dottrina di Bajo e non della Chiesa, soggiunge immediatamente: [...OMISSIS...] . Egli vuol dunque far credere, che l' Accademia della Sorbona, abbia involto nella riprovazione la dottrina della Chiesa intorno alla condanna annessa al peccato d' origine ne' bambini! Ma la frode riuscirà troppo palese a ciascuno, che ponga mente alla connessione delle sue parole e alla sconnessione dei sensi: quel perciò , col quale egli passa ad annunziare la censura della Sorbona, non attacca colle parole precedenti; e la conseguenza al tutto discorda dalle premesse. Nelle premesse c' è la dottrina della Chiesa intorno alla condanna, che trae dietro a sè necessariamente l' originale infezione, e quindi la necessità del Battesimo per la salute [...OMISSIS...] : nella conseguenza c' è la condanna della dottrina erronea intorno al poter demeritare nello stato di natura decaduta con atti necessari [...OMISSIS...] dottrina appartenente all' imputazione, e non alla semplice dannazione: e di più riguardante atti di peccato distinti dall' originale, nel quale il bambino non peccat , nè egli è peccante, come dicono i teologi, benchè sia peccatore. Costante è dunque la mira, a cui collimano tutti i sofismi di cotesto occulto scrittore; ed è perfettamente la stessa degli altri occulti dommatizzanti: fingono d' assalire una persona particolare, per assalire la fede di Cristo; la falsità, e le astutezze sono le medesime: si vuol distrutto il dogma che tanto oggidì pesa alla superbia degli uomini e che è la base della Cristiana umiltà, quello dell' originale peccato. Al qual tristo intendimento, affin di pescar sempre nel torbido, confonde di nuovo sformatamente le idee. Poichè egli espone l' errore di Bajo, dicendo che [...OMISSIS...] . A cui la Chiesa risponde: Siete voi stesso in errore, e in error gravissimo Signor C. così ragionando. Nella proposizione XLVI che voi citate [...OMISSIS...] , la chiesa decise che è necessaria la libera volontà a costituire una COLPA; nella proposizione XLVII, che [...OMISSIS...] , la Chiesa decise conseguentemente, che il peccato de' bambini, non può essere considerato come una COLPA, se non si riferisce alla libera volontà d' Adamo che lo commise. E perchè dunque confondete la colpa, il peccato, la pena del peccato? perchè attribuite quel che disse la Chiesa della colpa alla pena del peccato? Con questa vostra fallacia, venite a proscrivere la dottrina della Chiesa coll' autorità della Chiesa. Se dunque debbo ripetere quel che ho già detto, sappiate che nell' uom che nasce vi è la pena del peccato , ed il peccato (che è insieme una pena) distinto numericamente da quel d' Adamo. Il peccato poi essendo necessario e non libero nel bambino appunto come una lepra od altro mal fisico, non è colpa in se stesso, come voleva Bajo; ma la qualità di colpa gli s' applica, considerandolo siccome effetto della libera volontà d' Adamo « in quo omnes peccaverunt »: Questa è la riprovazione della dottrina bajana, la quale riguarda la colpabilità, e non il peccato ne' pargoli. Ma qual è poi la riprovazione della dottrina della Chiesa che fate voi, Signor C.? Si è il pretendere, che il peccato ricevuto da' bambini, benchè in essi necessario e non libero, non tiri dietro a sè la conseguenza penale della dannazione e della morte eterna. Vedete dunque, che tra la dottrina che condannate voi per bajana, e la dottrina che condanna la Chiesa, vi ha tanta distanza quanta ve n' ha appunto tra la dottrina infallibile della Chiesa, e la dottrina erronea di Bajo e di Pelagio. Il che si vedrà ancor più chiaramente distinguendo queste due questioni. 1 Prima questione riguardante la penalità (il male eudemonologico) annessa al peccato: Quale è la cagione prossima della dannazione de' bambini non rinati? - E la Chiesa risponde: « non il peccato d' Adamo, ma il peccato lor proprio ad essi inerente, il qual li perde « tantummodo quod inest », come l' esprime non Bajo, ma S. Agostino. 2 Seconda questione riguardante l' imputazione a colpa del peccato de' bambini: Come si può giustificare la divina giustizia pel peccato ereditario, e per la pena che trae seco ne' fanciulli non rinati? - E la Chiesa risponde: convien ricorrere alla colpa del primo padre, da cui fu liberamente il primo fallo commesso, cagione vera di tutto il resto. Illustriamo l' una e l' altra risposta con delle ecclesiastiche autorità. Dice la prima che la pena a cui i bambini non rinati soggiacciono è conseguenza del peccato loro inerente . Quest' è ammesso da tutti universalmente i teologi della cattolica Chiesa i quali per ispiegare la pena a cui soggiacciono quanti individui dell' umana specie son generati, (eccettuata sempre MARIA Santissima) non ricorre già di colpo al peccato d' Adamo, ma al loro proprio peccato per vizio di generazione da essi contratto (1): ed anzi dalle penalità, che essi soffrono, traggono argomento a conchiudere, che in essi stessi ci dee avere un peccato non certo commesso con libera volontà, ma per necessità di natura ricevuto. Il santo Dottore suscitato da Dio nella Chiesa ad umiliare la pelagiana superbia, così appunto argomentava contro questi eretici razionalisti: [...OMISSIS...] . Trovava dunque giusto il gran Padre che conseguitasse la penalità a quel peccato, che era ne' bambini, numericamente distinto dal peccato di Adamo, a quel peccato che essi non avevano commesso per proprio volere, ma nella propria volontà per natura aveano ricevuto, e ciò perchè mal morale e mal fisico, secondo l' ordine delle idee dell' eterna giustizia, debbono sempre trovarsi insieme. Altra volta diceva, che sono puniti i bambini pel peccato d' origine non in quanto è altrui (e intanto è colpa), ma in quanto è proprio (e intanto è morale infezione): [...OMISSIS...] (dove sta la necessità). E se non fosse così, dic' egli, le penalità a noi applicate non avrebbero la sua ragione, non bastando che Adamo abbia peccato, se non abbiamo peccato anche noi in lui, senza nostra volontà, cioè in quanto eravamo individui che dovevamo germinare da lui per naturale generazione. Onde prosegue: [...OMISSIS...] , ed altrove incalza i Pelagiani nuovamente dicendo, [...OMISSIS...] . La qual dottrina si ripete da S. Tommaso, il quale si fa l' obbiezione, che se i bambini sono puniti pel peccato di Adamo, il sarebbero pel peccato altrui, non per il proprio, e così vi avrebbe ingiustizia. A cui risponde quello stesso, che avea risposto prima il Dottor della grazia, esser essi puniti pel peccato proprio, per quel peccato che in loro trasfuso per generazione sta loro inerente (2). Onde gli autori dell' opera intitolata « « Concordantiae dictorum et conclusionum D. Thomae de Aquino » » vedendo che talora il santo dichiara il peccato d' origine volontario in Adamo, ed è in que' luoghi nei quali il considera come colpa , e talora il dichiara volontario anche ne' posteri, ed è in que' luoghi ne' quali il considera come semplice peccato, a togliere quest' apparente contraddizione, ed a conciliare il Santo dottore seco medesimo, rispondono: [...OMISSIS...] . Il che premesso, tolgono via l' obbiezione dall' ingiustizia della penalità soggiungendo: [...OMISSIS...] . E nel vero, sarebbe inesplicabile, come per la sola colpa d' Adamo potessero soggiacere i posteri al male fisico, qualora essi stessi non ricevessero in sè il mal morale, posto il quale, quello dee venir dietro come appendice. E non è egli un assurdo manifesto il supporre che i bambini che nascono non sieno corrotti, come vogliono gli scrittori, che rifiutiamo, ne' guasti nella volontà (4); e voler che debbano tuttavia scontar la pena, non già pel proprio peccato, ma solamente per la colpa del primo padre a loro resa comune? Che giustizia ci avrebbe qui? [...OMISSIS...] , dirò anch' io con S. Agostino, [...OMISSIS...] . Se dunque viene imputata la colpa prima a' posteri, ella non vien loro imputata, se non perchè in essi passa il peccato, il morale disordine: [...OMISSIS...] , mi continuerò col medesimo santo, [...OMISSIS...] . Non già che l' anime de' posteri fossero in Adamo peccante; ma vi erano i semi carnali, che doveano poi, per la generazione, infettare moralmente l' anime intellettive che avrebbero avvivati i corpi separati da quel d' Adamo. Quelli adunque i quali pretendono che le penalità a cui soggiacciono gli uomini non sien sequele del loro proprio peccato, ma sol della colpa Adamitica, e che, come fa il nostro C., condannano, per erronea quella dottrina; mirano direttamente a distruggere il peccato originale trasfuso nei posteri; perchè lo rendono inutile a spiegare i mali, a cui gli uomini vanno sommessi, riputandoli questi alla sola colpa di Adamo, senza bisogno d' altro intermezzo (3). Egli è dunque il Pelagianismo, che sordamente introducono cotestoro, quel Pelagianismo che tentò di continuo introdurre nella casa di Dio il serpentino suo capo, e che cercò d' entrar per ogni fessura del tempio strisciandosi e contorcendosi; ma tutto indarno fin qui. Ecco a ragion d' esempio siccome Ugone Vittorino descriveva a' suoi tempi la stessa rea opinione, che ora si riproduce nel cuor d' Italia, [...OMISSIS...] . - Anche il nostro C. confondeva poco fa la dannazione che è la pena dovuta, col peccato a cui è dovuta; e ciò che decise la Chiesa del peccato, l' applicava alla dannazione pena di lui. Andiamo avanti, e sentiamoli a parlare anche con un po' più di coerenza del nostro C. [...OMISSIS...] Non possono cioè, disconfessare, che questo è un distruggere il peccato originale. Ne ammettono però l' imputazione posticcia e senza base, come fanno i moderni razionalisti, e dicon con essi: [...OMISSIS...] , cioè distruggono del tutto il peccato colla solita ragion pelagiana. Nondimeno, non hanno essi coraggio d' escludere il nome del peccato simili anche in ciò a' nostri. [...OMISSIS...] Ma ne andrà ella soddisfatta la Cristiana teologia? Il grand' uomo, che noi citiamo, giudica risolutamente di no, e il giudica colla Chiesa: [...OMISSIS...] . Laonde anche S. Paolo dice, che la morte entrò nel mondo, perchè prima v' era entrato il peccato; sicchè quella in ciascun uomo è effetto immediato di questo, non del peccato originante, ma dell' originato; e il sacrosanto Concilio di Trento, dopo altri Concili definì; che ne' posteri d' Adamo non entrarono solo le penalità del peccato; ma il peccato stesso fondamento di quelle (1); perchè quantunque il peccato passato ne' bambini non sia libero; tuttavia è un morale disordine, che trae naturalmente seco anche il fisico. Aggiungerò una prova che ci somministra la ragione teologica. S. Tommaso, e dopo lui un gran numero di teologi, opinano, che i bambini che muoiono senza battesimo sieno privi della pena del senso, soggiacendo solo alla pena del danno. E, onde raccolgono questa lor conclusione? Se si pon mente al modo del lor ragionare, non da altro, che dalla condizione del bambino. Non gli attribuiscono cioè una pena adeguata al peccato colpevole di Adamo, che sarebbe pena di danno e di senso insieme, ma adeguata al peccato suo proprio. E` dunque chiaro, che considerano la pena non come un' immediata sequela della colpa del primo padre, ma del peccato messo in essere nel fanciullo coll' atto della generazione. Lo stesso si argomenta dal chiamarsi minima dai Dottori e non già nulla, la malizia del peccato originale del bambino (2); e dall' indurre che fa quindi S. Agostino, che dee esser minima altresì la sua pena (3). Se al bambino fosse applicata la colpa d' Adamo, nè minima la malizia sarebbe, nè minima pur la pena. Nè si può dire, che glien' è applicata una parte e non tutta; poichè o di tutta dovrebb' egli esser reo o di nulla. Che se non c' è ragione d' applicargliela tutta, dunque nè pure una parte. Il che conferma quanto sia falso il sistema de' nostri Anonimi, che senza riconoscere nel bambino alcuna inordinazione, pensano di ricorrere ad una semplice relazione con Adamo (cosa d' altra parte al tutto mentale), ad una estrinseca imputazione, la quale se valer potesse, o dovrebbe aggravarlo di tutta la colpa Adamitica, o pure di nulla. Ora veniamo all' altra questione - come si possa giustificare la divina giustizia; della condizione dei bambini. In quanto al mal penale, l' abbiamo veduto giustificato pel peccato passato in essi. Rimane dunque la dimanda: come i fanciulli senza atto di libera loro volontà debbano ricevere il peccato? Rispondesi, che questo peccato passa per generazione, e che [...OMISSIS...] , (così scrive Raimondo Sabunde), [...OMISSIS...] . E` dunque una cotal legge della natura, che il corpo del generante corrotto, generi un corpo corrotto, e che il corpo corrotto attragga a se l' inclinazione della volontà essenziale, onde l' uomo da quell' ora non è più atto a tener la bilancia della giustizia in molti de' suoi giudizii, ne' quali il ben sensibile viene a collisione col retto e col giusto; il che è mal morale, e peccato, se trovasi così piegata la stessa punta dell' anima sede dell' umana persona. Ma non poteva Iddio impedire questo effetto necessario e dalle leggi stesse della natura e della generazione, procedente? Potea, ma nol fece per giusto gastigo (oltre la gloria della sua misericordia, che ne volea trarre per la redenzione). Or qui ricorre l' imputazione, e la pena dovuta alla colpa. Era dovuto al colpevole Adamo ch' egli fosse lasciato col guasto di sua natura: questo guasto di sua natura, giustamente lasciatogli, si propagò ne' posteri, non già per miracolo, ma da se stesso, e così si propagò necessariamente, insieme la primitiva giustissima punizione: e i posteri si trovarono ravvolti nella pena del primo lor padre, la quale affettava giustamente quella natura che il primo padre, e poscia i figliuoli di lui di mano in mano per generazion propagavano. Onde si dicono colpevoli [...OMISSIS...] , dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Dove si osservi bene, che la colpa personale d' Adamo è già tolta interamente: non esiste più. Che cosa è dunque la causa efficiente, che mette in essere il peccato ne' posteri? Non la stessa colpa d' Adamo che operi immediatamente in essi, la quale non può operar, non essendoci; ma è la pena d' Adamo, effetto della sua colpa, che in lui generante rimase; cioè, è il guasto fisico di sua natura, che comunicò generando alla stirpe e con esso surse il guasto morale. Laonde non si trasfonde immediatamente la colpa d' Adamo di padre in figlio, quasi che sia la colpa come un liquore che travasar si possa di vaso in vaso; ma sì la pena per dirlo di nuovo, è la natura guasta che si travasa; ond' anco i giusti generano de' peccatori, perchè in sè portano ancor la pena: [...OMISSIS...] , come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] : il che viene a dire: « Perciò il giusto genera de' peccatori perchè la generazione non è già un atto della giustificata persona, ma è un atto della corrotta cioè giustiziata natura. »Ma ereditando la pena del peccato, cioè la natura guasta; questa mette in essere il peccato nel nuovo individuo, l' inordinazione del corpo traendo seco un' inordinazione nell' anima (3), nella stessa volontà personale, dove ogni guasto è morte, e giustamente s' appella dalla Chiesa peccato: colpa poi in quanto quella inordinazione si considera come una cotal continuazione ed estensione dell' atto libero, con cui Adamo prevaricò, del quale è veramente effetto. Ecco dunque come tutti i mali morali e fisici dei posteri hanno veramente la prima loro ragione e giustificazione nella libera colpa di Adamo, ma tenendo tuttavia tra loro quell' ordine, che l' Apostolo nella sua lettera a' Romani accuratamente descrive dicendo: [...OMISSIS...] , è il primo anello, la colpa di Adamo, che introduce nel mondo il peccato, il quale così passato ne' posteri forma il secondo anello: E viene a dire: Non è più la colpa d' Adamo, ma è il peccato già introdotto nel mondo per la colpa d' Adamo quello che introduce le penalità a sè dovute, tra le quali principale è la morte: [...OMISSIS...] , le quali ultime parole ci richiamano all' origine, cioè esprimono la congiunzione de' due estremi anelli la morte e la colpa del primo padre, mediante l' anello di mezzo, il peccato ne' posteri. L' attribuire dunque al peccato inerente ne' bambini la dannazione, non è mica un negare che il loro proprio peccato sia una pena della colpa Adamitica, la quale riman sempre come la suprema ragione di tutti i mali della misera umanità (2). E qui potrei cessarmi dal parlare di ciò che dicono i nuovi teologi contro l' antica e costante dottrina della Chiesa circa il peccato d' origine, se lo scopo di questo scritto, che è di metter riparo, quanto per me si possa, o più tosto d' eccitare altri maggiori di me per autorità e per dottrina a metterlo, al pericolo del razionalismo che assai tempo minaccia d' invadere le nostre scuole di teologia, non mi tirasse a fare un cenno della più vicina origine ch' ebbe in Italia quel sistema che agli occhi nostri distrugge l' originale peccato. L' articolo, intorno al peccato originale inserito da Alessandro Zorzi nel suo « Prodromo della nuova Enciclopedia Italiana », Siena 1779, quando uscì riscosse l' attenzione, e meritò la censura di gravi teologi. Ma sopravvenuta la morte dell' autore, e le guerre, rimase dimenticato ai più. Ora si può dire che i più moderni teologi razionalisti ritraggono da quell' articolo del Zorzi senza però mai citarne il fonte, benchè ne copiino le espressioni e le parole. Dicevo, che de' gravi teologi ripresero quell' articolo giudicandolo distruttivo del dogma, e n' accennerò in prova il Zovetti ed il Cesari (1), il quale nella vita di Clementino Vannetti amicissimo al Zorzi, di cui anche scrisse la vita, narra questo fattarello col Vannetti appunto avvenutogli: [...OMISSIS...] Abbiamo qui dunque il giudizio uniforme di tre dottissimi uomini del Cesari, del Zoretti, e del Vannetti: udiamone un quarto e sarà Alfonso Muzzarelli (2). Quest' uomo distinto scrisse un Opuscolo (3) a posta per confutare il sistema de' nostri teologi intorno al peccato d' origine, e vi s' introduce con queste parole: [...OMISSIS...] Passa poi a provare l' erroneità della sentenza dei nostri Anonimi, che il peccato originale non sia, se non « « una pura privazione dei doni indebiti alla natura umana » » ed ecco alcune delle sue ragioni: 1 Sparirebbe la difficoltà d' intenderne la natura, difficoltà riconosciuta da tutti i padri: [...OMISSIS...] . 2 In quella definizione non si riscontra la nozione di peccato e di colpa. Egli distingue queste due nozioni e prova che il peccato originale ne' bambini dev' esser vero PECCATO; poi passa a provare che dee esser vera COLPA; e che tal non sarebbe con quella definizione. [...OMISSIS...] 5 E` riprovata da' sommi teologi come eretica l' opinione del Cattarino e del Pighio. Dunque anche quella degli anonimi nostri [...OMISSIS...] Con queste ed altre ragioni il Muzzarelli rifiutava l' opinione del Zorzi e de' nostri più moderni, intorno al peccato d' origine. La quale fu immaginata per buon fine a principio, cioè per allontanarsi via più dal Giansenismo, da cui gli autori di essa non vedeano come meglio proteggere se stessi e gli altri, che inventando un nuovo sistema, e difendendol poi con tutta la sottigliezza e lo zelo che ispira l' odio dell' errore in chi crede. Ma a farli eccedere dall' opposto lato contribuì: 1 il non cogliere essi il vero senso, in cui furono proscritte alcune proposizioni di Bajo, e 2 il non saper trovare risposta nell' antico sistema contro a ciò, che era veramente in quelle proposizioni proscritto. Vediamo l' una cosa e l' altra ad un tempo. I Il Zorzi cita la proposizione LXXIX di Bajo, Falsa est doctorum sententia primum hominem potuisse a Deo creari et institui sine justitia naturali intendendola di una giustizia veramente naturale, senza riflettere, che Bajo chiamava naturale la giustizia soprannaturale e che per questo fu condannata (1). Il Zorzi del pari cita la proposizione LV di Bajo [...OMISSIS...] , intendendola materialmente, mentre egli è certo che la Chiesa non altro proscrisse in essa, se non l' errore, che Iddio non avesse potuto creare l' uomo nell' ordine meramente naturale, come ho altrove mostrato. [...OMISSIS...] II Il Zorzi teme, che ponendosi nel bambino, che nasce una positiva avversione da Dio, che noi dichiariamo per togliere ogni equivoco: « « un atteggiamento ritroso al bene ed a Dio e pendente al male ». ( Tratt. della Coscienza f. 37) » il che esprime meno di un' avversione positiva, frase usata da' teologi, ne avverrebbe che giunto all' uso della ragione dovrebbe odiare attualmente Iddio, che è la proposizione di Bajo: [...OMISSIS...] . Ma la conseguenza è falsa se « « l' avversion da Dio » » s' intenda, come la intendono i teologi cattolici. Un « « atteggiamento ritroso al bene » » è meno di un abito vizioso (1). E pure nè anche un abito vizioso toglie il libero arbitrio, come ottimamente prova S. Tommaso (1); quanto meno un semplice atteggiamento della volontà verso il ben sensibile disordinato. Nè ell' era già sfuggita all' angelico quell' obiezione (il che conferma, d' altra parte, che per l' avversione che ponea nel peccato originale egli intendea qualche cosa di positivo), ma se l' era sciolta dicendo, che l' avversione in cui quel peccato consiste non necessita di peccar sempre, ma sol qualche volta (2), se non soccorre la grazia. Il Rosmini poi aggiunge un' altra risposta, poichè, distinta prima la volontà dal libero arbitrio , dimostra che questo può dominare su di quella, anche se quella è naturalmente male atteggiata e disposta «( Antropol. L. III, c. ., e 10) ». Si teme ancora, che col porsi il peccato d' origine in una positiva avversione da Dio, sembri che esso si riponga nella concupiscenza, la quale è di fede non esser peccato dopo il battesimo. Ma perchè schifano tali teologi di definir chiaro ciò che si deva intendere per concupiscenza? Certo se con tal parola s' intende semplicemente « la facoltà d' appetire il bene sensibile »; come talun d' essi la definisce; anzichè peccato, ella è cosa buona e non solo potea essere nello stato di mera, ma sana natura, ma vi fu anche nello stato di grazia, in cui fu Adamo costituito. Se poi s' intende un vizio nella facoltà d' appetire il bene sensibile, non ancora può stare in essa propriamente il peccato, poichè la speciale facoltà d' appetire il bene sensibile, non è la volontà e quindi non è la sede del peccato. Se poi s' intende per concupiscenza un vizio inerente alla facoltà d' appetire il bene in generale, in tal caso si dee distinguere. O questa facoltà si considera nella suprema sua parte; (cui per distinguere da ogni altra attività, il Rosmini chiamò volontà personale ), o si considera nelle sue parti, inferiori alla suprema. In queste non può stare il peccato. Nella suprema poi è ancora a distinguersi. Il vizio che la inclinava ad appetire eccedentemente il bene sensibile, servendo così alle potenze inferiori è ciò che S. Tommaso considera come la parte materiale del peccato d' origine e tien luogo di conversione alla creatura; ma questo stesso vizio in quanto è avversione da Dio, cioè in quanto è alieno dall' ordine morale costituisce il formale del peccato originale; e qui è dove S. Agostino ripone il reato della concupiscenza, la quale avversione da Dio viene tolta e annullata interamente dalla grazia battesimale, che ricongiungendo l' uomo al Creatore, gli dà una nuova volontà o potenza suprema di volere il bene soprannaturale e di dominare sulle potenze inferiori. Ma su questo torneremo più avanti. Passiamo a vedere come il Zorzi si persuade di dimostrare il nuovo sistema, e ciò che dico del maestro si può applicare a' discepoli. Egli ci adopra autorità e ragioni. Quanto alle autorità, egli ne ha tante, che dopo aver detto che « « i buoni teologi dietro la scorta di S. Tommaso » » convengono nell' accordare ai bambini morti senza battesimo una natural beatitudine, e, dopo avere esposta questa natural beatitudine in tre proposizioni, soggiunge: [...OMISSIS...] . Queste sono le solite frasi de' teologi razionalisti, non certo scrupolosi in punto di veracità. Egli è vero, che giocano di sottigliezze affine di tirare i testi del Concilio di Trento, e di S. Agostino principalmente, ad un senso alienissimo dal vero, dall' ovvio, da quello che ad ogni uomo di buona fede corre tosto alla mente. Una di queste sottigliezze si è il pretendere, che quando il sacro Concilio con S. Agostino parla d' un decadimento, e d' un guasto dell' uomo che nasce, debbasi SEMPRE intendere d' un guasto relativo allo stato soprannaturale in cui fu Adamo costituito, non d' un vero guasto della natura umana in se stessa considerata. A dar valore a tal sistema, recano in mezzo qualche parola del Concilio, o qualche lineuzza di S. Agostino, che da sè sola sarebbe suscettibile dell' una e dell' altra interpretazione, usando poi la mala fede di dissimulare i passi più chiari, e di lasciar da parte il contesto di ciò che precede e che sussegue ne' passi dubbi, i quali, considerati nella serie de' concetti, cessan per lo più di esser dubbi. Essi vi arrecheranno quelle parole del Concilio in cui si definisce, che Adamo perdette per sè, e per noi, l' innocenza, la giustizia, la santità; e tosto conchiuderanno: [...OMISSIS...] . Ma in primo luogo, altro è l' innocenza e la giustizia e altro è la grazia santificante: altro è la colpa e l' ingiustizia , ed altro la perdita della grazia : questa è una conseguenza di quella, non più. In secondo luogo, perchè tacere, che il Concilio dopo aver detto d' Adamo [...OMISSIS...] . Si dirà dopo di ciò, che l' uomo col primo peccato sia decaduto solo rispetto all' ordine soprannaturale in cui fu costituito, ma rispetto all' ordine naturale? E` ella dunque cosa conforme alla natura dell' uomo, l' esser esso soggetto all' ira ed all' indegnazione di Dio? Si dovrà considerar l' uomo in stato d' intatta natura, benchè sia schiavo del demonio? O il demonio lascerà intatti quelli che gli sono dati in balía come schiavi? Apparterrà alla pura natura il servire al diavolo? O si potrà dire che sia peggiorato tutto l' uomo (TOTUMQUE ADAM), se la natura dell' uomo nulla ha sofferto, nulla perduto, non avendo perduto nulla del suo, ma solo toltole il vestimento de' doni a lei superiori? Appresso, il Concilio dice che Adamo dopo il peccato (ancorchè si sia convertito) l' uomo rimase macchiato, inquinatum illum; ora, la natura umana per essere nuda e sola, è ella per questo macchiata? Dichiara ancora, che Adamo trasmise a' posteri non solo la pena, ma anche il proprio peccato. E in Adamo, il peccato fu egli la sola perdita della grazia? Cessando l' atto peccaminoso d' Adamo, non restò alcun altro male in lui, se non tale privazione? Ma che è mai la privazione della grazia se non una pena e conseguenza del peccato, e non il peccato? Ora Adamo non trasfuse le pure pene; ma il peccato stesso. M' andrei troppo a lungo, se volessi tutto analizzare ciò che dice intorno a ciò il Concilio di Trento, che quasi ad ogni parola fa intendere, quanto l' uomo sia rimasto degradato sotto l' ordine naturale; non essendo cosa, che più intacchi e guasti LA STESSA NATURA del peccato. Quanto poi a S. Agostino, dice che NON SEMPRE parla del decadimento dell' uomo in rispetto al suo stato soprannaturale; spesso anzi parla di un decadimento e di un guasto assoluto, che intacca la natura, e questo è indubitato. Quando scriveva contro i Pelagiani, che ammettevano le divine scritture, a convincerli dell' esistenza del peccato originale, egli usava dell' uno e dell' altro argomento; cioè provava il peccato, in cui l' uom nasce 1 sì dal confronto tra lo stato presente dell' umanità, e quello in cui la divina scrittura ci dipinge costituito l' uomo da Dio a principio; e 2 sì dal confronto tra lo stato presente, e ciò che la natura stessa dell' uomo addimanda per non esser monca e deforme, qual non potrebbe mai uscire dalle mani di Dio. All' opposto qualora egli pugna co' Manichei, che non ammettevano le scritture, usa solo questa seconda maniera d' argomentare, come sola loro adattata. Quantunque poi già nella « Dottrina del peccato originale » abbiamo recati de' luoghi di S. Agostino attissimi a convincere chicchessia, che il Santo dottore riguarda il presente stato dell' uomo siccome guasto e corrotto anche rispetto all' ordine naturale, tuttavia non sarà inutile che aggiungiamo due altri argomenti, atti a finire ogni question sulla mente di S. Agostino intorno alla qualità del guasto, che di presente trae seco l' umana natura. Il primo si è che S. Agostino non crede che si possa rispondere a' Manichei, i quali dimandano perchè l' uomo nasca soggetto a tanti mali, cioè dimandano: [...OMISSIS...] , non crede, dico, potersi rispondere a queste domande de' Manichei, se non ricorrendo al peccato originale (1). Il che mostra chiaro, ch' egli giudicava che Iddio non avrebbe mai potuto creare con un tal guasto la natura umana, come gl' Anonimi nostri pur vogliono sostenere; e sfida i pelagiani di risponder validamente, senza ricorrere al peccato d' origine, all' istanza de' manichei, [...OMISSIS...] I razionalisti moderni più audaci degli antichi pelagiani, rispondono a questa sfida dicendo, che tali cose non sono propriamente mali, ma conseguenze necessarie della natura umana. Ma S. Agostino non credeva possibile, che gli eretici del suo tempo avesser fronte da rispondere così, esponendosi alle fischiate di tutto il mondo, onde gli invita a produrla se ne hanno l' animo, così loro dicendo: [...OMISSIS...] . Il dire adunque che il guasto con cui nasce al presente l' individuo umano potesse trovarsi in un uomo creato così da Dio, ell' è cosa, secondo S. Agostino, da ghignate di fanciulli e da sardelle; e tuttavia ell' è degna de' teologi nostri, tanto men verecondi di quegli antichi pelagiani. Il secondo argomento, io lo traggo da tutti que' luoghi, e sono moltissimi, di S. Agostino, ne' quali egli prova l' esistenza del peccato d' origine dal sentimento del pudore, costantemente affermando, che ciò di cui l' uom si vergogna, non potrebbe mai essere opera stessa di Dio (3); argomento che non avrebbe forza, qualora fosse vero, come vogliono i nostri moderni teologi, che Iddio avesse potuto creare l' uomo con tutto il guasto ch' egli porta di presente dal suo nascimento. Questi due tra gli altri argomenti moltissimi convincer possono della vera mente di S. Agostino, a cui s' attiene la sede Apostolica, tutti gli uomini di buona fede. Ciò nondimeno i teologi inclinati al Razionalismo giunsero a mettere il pudore fin nel Paradiso terrestre! Così fecero i P. P. Arduino, e Berruyer; e così fanno ora dopo di loro, i razionalisti biblici della Germania, e così fanno e devono fare tutti quelli che interpretano malamente la condanna della proposizione 55 di Bajo; [...OMISSIS...] . Le autorità di S. Tommaso (1), del Gaetano (2), del Soto e del Bellarmino, ch' essi vanno non citando, ma rosicchiando, furono esaminate nella « Dottrina del peccato originale », e trovate espressamente a loro contrarie (1). Fra gli scolastici, si potrebbe trovar taluno nel primo aspetto a lor favorevole, ma non così, se si considerano diligentemente. Mi servirò qui nuovamente delle riflessioni che fa intorno a ciò Alfonso Muzzarelli: [...OMISSIS...] (2). Il Zorzi ci rimanda ancora in fine del suo articolo all' opera di Bernardo Maria De Rubeis, quasi che questo dottissimo domenicano fosse tutto per lui, e n' adduce un breve testo, in cui il De Rubeis nega, che ciò che v' ha d' aderente all' anima del bambino nel peccato originale sia qualche pravo giudizio o qualche prava conversione « in bonum « commutabile » », il che sarebbe un atto, perchè il giudizio è un atto della mente e la conversione nel bene è un atto dell' affetto; nè niuno di noi certo dirà che ci fu ne' bambini un atto compiuto di tal sorte. E pure di quelle due linee tratte da un buon volume in quarto, egli n' ha abbastanza per farlo passare per suo! In queste simulazioni e dissimulazioni vedesi la passione di un partito, e colla scorta della passione non si trova la verità. Fatto sta, che il celebre De Rubeis è affatto alieno dal moderno sistema intorno al peccato d' origine, che ci vogliono vendere per antico, e a provarlo esporrò qui il suo vero sentimento. Prova il De Rubeis a principio, che ne' posteri vi ha un peccato abituale, simile a quello che rimase in Adamo dopo la sua prevaricazione. Affine dunque di conoscere qual sia il peccato de' posteri si fa a ricercare qual sia il peccato abituale d' Adamo, e prima lo riscontra col suo peccato attuale. All' uno e all' altro conviene la definizione general del peccato: « un pravo amore » [...OMISSIS...] . Ma questo genere si divide nelle due specie così: [...OMISSIS...] . Dove si noti, che nel peccato abituale qual è quello d' Adamo e del bambino, il celebre teologo scorge « un affetto permanente del peccato »; il quale, domanderò io a nostri teologi moderni, se possono crederlo un elemento della natura umana, da trovarsi altresì nello stato di quella pura natura, in cui Iddio può crear l' uomo. Andiamo avanti. Questo affetto pravo, che suscitò Adamo in se stesso e che rimase in lui fino alla sua conversione, spogliò l' uomo della santità e della rettitudine, e d' altri beni: [...OMISSIS...] . E seguitando a dichiarare l' effetto che rimane nell' anima dopo il peccato attuale, quell' effetto cioè che peccato abituale si dice poco appresso soggiunge: [...OMISSIS...] . Dopo di che viene a dire con espressive parole in che fa egli consistere il peccato abituale e di conseguente l' originale de' posteri, [...OMISSIS...] ; e ne fa tosto appresso l' applicazione a' bambini, come pure dimostra ampiamente esser questa la dottrina dell' Aquinate (2): all' incontro nè la sottrazione che fa Iddio della grazia santificante, nè la mera privazione di questa è peccato, come contendono i teologi razionalisti, negandolo apertamente quel teologo, che allegano essi medesimi come autorevole. La sentenza dunque d' Alessandro Zorzi seguito dai recenti è una novità nella Chiesa, e in vano si cercherebbero gravi autorità a mantenerla. Nè hanno più polso le ragioni, con cui si studiano sorreggerla: esaminiamole pigliandole dal P. Perrone. I ragione . Il Concilio di Trento definì il peccato originale « morte dell' anima ». Ma la morte è la privazione della vita, e la vita dell' anima è la grazia santificante. Dunque il peccato non è altro, che la privazione della grazia santificante; senza bisogno alcuno di supporre altro vizio nella natura. Risposta . La grazia è la vita soprannaturale dell' anima, allo stesso modo, dice S. Agostino, come l' anima è la vita del corpo. Ora quando si dice, che l' anima è la vita del corpo non si vuol dir altro, se non che l' anima è la cagione formale della vita del corpo. Per altro la vita del corpo non istà meramente nell' anima considerata da sè sola; ma essa vita è un effetto delle mutue azioni dell' anima da una parte sul corpo, e del corpo dall' altra in sull' anima. Di più, trattandosi qui di spiegare come il corpo sia vivo, e come sia morto, trattandosi di definire che cosa voglia dire la vita del corpo, e che cosa voglia dire la morte del corpo, è necessario riporre la vita in un atto dello stesso corpo, onde S. Tommaso sull' orme d' Aristotele definì propriamente la vita, dicendo, che l' anima est ACTUS CORPORIS organici ; (1) [...OMISSIS...] . Ciò posto, che cosa è la morte del corpo? E` la cessazione di quel suo atto, onde mettendosi in comunicazione coll' anima, vive. Ora la cessazione di quest' atto è ella cosa meramente negativa? Mai no; perchè il cessar da quell' atto che fa il corpo, è una intima disorganizzazione, è per lui un vero interior disordine. Applichiamo dunque la dottrina intorno alla morte del corpo a spiegare la morte dell' anima, che è il peccato. Come la morte del corpo è la cessazione dell' atto con cui il corpo vive in comunicazione coll' anima; così la morte dell' anima è la cessazione di quell' atto dell' anima, con cui questa vive in comunicazione con Dio. E come la cessazione di quell' atto del corpo è un disordine ed intima disorganizzazione del corpo stesso; così la morte dell' anima importa un disordine ed una intima disorganizzazione, per così dire, dell' anima, onde non è più atta all' atto della vita, [...OMISSIS...] cioè il peccato. Il peccato adunque, che secondo il Concilio di Trento è « la morte dell' anima »non si può far consistere nella semplice privazione della grazia santificante, qual ella sarebbe quella dell' uomo creato da Dio in istato di pura, ma sana ed intera natura; ma si dee far consistere in un disordine inerente all' anima, che la rende incapace ed indegna di comunicare con Dio e viver di lui. In secondo luogo, la morte importa un male dell' umano individuo, cessandogli quella cosa che più di tutti è necessaria alla sua costituzione. Ma non così può dirsi della mera privazione della grazia santificante; questa non è necessaria alla natura dell' anima; ma è una sopraggiunta, sicchè l' anima anche priva della grazia, può avere tutto ciò che esige la sua natura, ed altresì la vita sua propria e la perfezione naturale, come decise la Chiesa contro Bajo (2). Dunque la semplice privazione della grazia santificante non può ricevere il nome di MORTE dell' anima, se non si suppone nell' anima stessa un disordine che la renda incapace ed indegna di essa, come dice Francesco Suarez, il Bellarmino, e tanti altri. L' ordinazione ed il proposito fatto da Dio di elevare ad una sfera soprannaturale la natura umana, non può già fare, che l' ordine soprannaturale diventi perciò una parte della natura umana; sicchè la natura umana senza la grazia sia mancante di una cosa alla sua costituzione o natural vita e perfezione necessaria; perocchè quell' ordine e quel proposito divino non muta la natura delle cose, non cangia i costitutivi dell' anima e le sue naturali esigenze. Vero è che quando l' anima ha già la grazia, come l' aveva Adamo, l' atto con cui la grazia si perde non è altro che il peccato, e in questo senso il rimaner privo della grazia e l' essere in peccato cioè nella morte spirituale è il medesimo. Ma riman sempre vero, che il peccato consiste nell' atto dell' uomo con cui caccia da sè la grazia, atto che rimane poi come abito, e non nella semplice mancanza della grazia, che in tale condizione è solo l' effetto del peccato, non il peccato medesimo. In terzo luogo la grazia nel modo detto cagiona la vita soprannaturale dell' anima , ma l' anima innocente nell' ordine naturale, come sarebbe quella del bambino che nasce, se fosse vero il sistema de' nostri teologi, non sarebbe mica priva di ogni vita morale. Ell' avrebbe una vita morale nell' innocenza e nella rettitudine naturale. Onde non si avvererebbe, che ora l' anima del bambino avesse quel peccato che è mors animae secondo il Concilio di Trento in senso semplice e incondizionato. In quarto luogo, riponendosi la definizione del peccato che è morte dell' anima nella semplice privazione della grazia santificante ne verrebbe, che colui che ha già perduta la grazia santificante non potrebbe più peccare. E non varrebbe il dire, che costui, peccando, mette un ostacolo maggiore all' ottenimento della grazia; perchè in tal caso il peccato, ostacolo all' ottenimento della grazia, non sarebbe più la semplice privazione della grazia santificante, senza alcun difetto realmente inerente alla natura dell' anima che la renda peccatrice; verrebbero dunque con tale risposta a contraddirsi. 2 ragione . Col nuovo sistema si spiega con tutta facilità come si propaghi il peccato di padre in figlio: [...OMISSIS...] . Risposta , questa ragione non prova altro, se non che il sistema è nuovo nella Chiesa, e perciò al tutto falso ». Perocchè avendo sempre creduto tutti i Padri, i Dottori, i teologi, i sommi Pontefici, i Concili che [...OMISSIS...] ; avendo la stessa gran mente di S. Agostino confessato che, [...OMISSIS...] ; deve pur esser falso un sistema, da cui risulterebbe tutt' il contrario di ciò, che ha tenuto sempre la Chiesa (3). E onde nasce mai il Razionalismo, se non dalla voglia di spiegar tutto colla ragione? Che bisogno c' è che voi spiegate i dogmi della Chiesa, se le vostre forze intellettive non ci arrivano? Non è ella forse questa la ragione, per la quale i sociniani e razionalisti hanno distrutti tutti i misteri? 3 ragione . Rimovendosi col nuovo sistema dal dogma della propagazione del peccato tutto ciò che è opposto alla retta ragione, rimangono sciolte le difficoltà degl' increduli e de' filosofi. Risposta . Le difficoltà che gl' increduli ed i filosofi contrappongono ai dogmi della Chiesa si rendono certamente impossibili colla distruzione de' medesimi dogmi; ma non è questo uno sciogliere le loro difficoltà, ma un fare ch' esse trionfino della rivelazione. Certo, se voi siete da tanto da sciorre le difficoltà de' filosofi contr' a' dogmi della chiesa, senza distrugger questi, farete assai bene a darne la soluzione, facilitando loro il ritorno all' ovile di Cristo col rimovere dalle loro menti gli ostacoli. Ma se la vostra intelligenza non giunge fino a questo, altro non vi resta che di creder voi, e di esortar pur essi a CREDER CIECAMENTE alla parola di Dio che è per sè luce bastevole, senza più. [...OMISSIS...] , dice S. Agostino (1). In terzo luogo col sostituire ai dogmi da credersi dei sistemi razionalistici, che li distruggono; voi non conciliate i filosofi colla Chiesa, ma esponete la Chiesa a' loro dileggi. Poichè essi si persuaderanno, che la Chiesa si contenti di ciance, e che i suoi dogmi non sieno che baie di teologi accozzanti insieme parole, e parole senza significato. E veramente la voce peccato nel vostro sistema, non significa peccato. Vi sfideranno dunque i filosofi a dar loro una definizione del peccato, che sia universalmente ricevuta dagli uomini, e non foggiata da voi stessi al vostro bisogno presente, a cui si possa ridurre il preteso vostro peccato originale. E voi che farete? che risponderete? Non potete applicare a cotesto vostro peccato originale nè l' « actus humanus malus » di S. Tommaso, perchè questa definizione conviene al peccato attuale d' Adamo, non a quel del bambino; nè il « flagitiosus amor voluntatis » del Padre De Rubeis, perchè voi negate al bambino ogni affetto disordinato; nè il « mors animae » del Concilio di Trento, perchè la morte è il maggior difetto positivo che aver possa la natura umana, e voi negate a questa natura qualsiasi positivo difetto; nè altra definizione insomma ricevuta nell' uso; perchè nessuna conviene al vostro preteso peccato. I filosofi da voi istruiti dileggeranno dunque la Chiesa, come poco sincera, poco verace, anzi frivola e che cerca illudere il genere umano, quand' ella fa suonare quelle grandi parole circa il peccato originale chiamandolo [...OMISSIS...] , e quando vuole fino che un Dio sia morto per soddisfare alla divina giustizia, e sanarne gli uomini tutti, quasi che ella intenda d' atterrire gli uomini con istrepitose voci, ma senza concetto. Così diran certamente all' udire, che il peccato che infetta il mondo; pel quale morì l' uomo Dio, non è in fine, che la mera mancanza dell' ordine soprannaturale, essendo l' umana natura senza difetto alcuno, nè vizio di sorta. Que' filosofi mondani che crederanno al vostro detto assai facilmente, non si contenteranno essi della natura senza vizio che voi loro promettete, e della beatitudine, a cui la natura così sana come voi li assicurate ch' ella è, vien destinata? Che diligenza avranno di fare amministrare il santo battesimo a loro bambini? O come si persuaderanno, che vi sia qualche obbligazione di dover cercare di più del ben naturale, avendo già la natura umana tutto il suo, e di questo andando essi contenti? Oltre di che vi faranno essi ancora una piccola dimanda tra le innumerevoli che farsi potrebbero, la quale di nuovo v' impaccerà più che un poco, e sarà: « Il bambino che nasce come voi dite, senza vizio nella natura e sol privo di grazia, è egli si o no in possesso del Diavolo? »Che cosa risponderete loro? Se direte di sì, essi resteranno stupiti, sentendo che il demonio sia padrone di una natura che non ha vizio, e che il bambino in braccio del demonio possa godersi tuttavia, morendo, una sua natural beatitudine. Direte voi dunque di no: non vi resta altro. Ma certamente in tal caso prenderete il partito di dirlo loro in orecchi; acciocchè nessun vi senta, e la Chiesa non conosca le vostre faccie; e S. Agostino aggiungerebbe qui ancora, acciocchè la plebe cristiana non vi sputacchi, e le donnicciuole di piazza scalzate non vi diano per avventura delle loro pianelle in sulla bocca (1). Ed oltre al pericolo che vi minaccia il Santo, di dover fiutare le donnesche pianelle; i filosofi stessi all' ultimo vi daran dietro la baia scorgendovi in tant' impiccio, vi loderanno poscia per gratitudine, come Voltaire l' Abatino suo ammiratore di cui scrivea ad un suo collega che era un bon diable per raccomandarglielo (2). Sarei troppo lungo se io volessi aggiungere un saggio della maniera con cui poi si pensano di rispondere alle difficoltà innumerevoli che contrappongono loro senza numero i sacri teologi (1). Conchiuderò invece questo capitolo, notando in qual maniera essi spogliano la Chiesa d' un bellissimo e palmare argomento, che dimostra il peccato originale. Tutti i più grandi filosofi dell' antichità, hanno riconosciuto un guasto della natura l' hanno ben sovente appellata matrigna (2) ed hanno inventato de' sistemi per ispiegare un fenomeno così straniero a un ente ragionevole, così opposto ai voti dell' umanità. Rispondono i nostri, che tali testimonianze non provano il guasto originale, perchè gli antichi scrittori, se talor deprimono l' uomo, talor anco l' innalzano oltre il dovere (3). Quasichè non esistessero negli uomini veramente le traccie di due estremi, di una piccolezza cioè, e miseria infinita, e di una grandezza e ricchezza di doni maravigliosa. D' altra parte che esagerassero gli antichi filosofi la nobiltà ed eccellenza della natura umana, ella è cosa all' inclinazione umana conforme (1); e non distrugge punto l' altro fatto, che i mali a cui l' umanità soggiace secondo il giudizio naturale degli antichi sono sì gravi e sì strani da doversene almen sospettare un guasto primitivo. Si cita qualche elogio fatto all' umana natura da Platone e (lasciando anche stare che il passo diligentemente esaminato non prova ciò che si vuole) si dimentica, che Platone immaginava le anime preesistenti a' corpi, appunto per dar loro un luogo, dove avesser peccato prima di nascere, e così spiegare in qualche modo l' umana pravità e l' umana miseria che gli saltava vivamente negli occhi. Si cita Galeno che esalta la sapienza e la bontà divina in aver dato all' uom tanti doni, quasichè anche dopo il peccato non ci si trovino nella nostra natura le vestigia di un Creator ottimo e sapientissimo, e si dimentica che insieme colle lodi che dà Galeno al Creatore, sta benissimo senza contraddizione alcuna l' osservazione d' Ipocrate che [...OMISSIS...] . Non trattasi già di sapere se l' uomo abbia ancora de' pregi: trattasi di sapere se insieme co' pregi scorgasi mescolato un guasto così profondo da potersi indurre colla sola ragione, che la natura stessa è vulnerata per qualche antica caduta. E` questo il giudizio, che ha fatto il buon senso di tutta l' antichità; e che sta fermo, qual testimonio manifesto del vero, anche dopo l' osservazione de' nostri teologi. Non ha dunque creduto il buon senso naturale dei savii del paganesimo, che il guasto morale e fisico che ravvisasi nel genere umano si potesse spiegare ricorrendo alla natura dell' uomo, come potrebbe fare un ateo che non crede in Dio; ma prestando essi fede ad un ottima e sapientissima provvidenza, trovavano ripugnante, che Iddio avesse prodotto l' uomo senza sapere o volere mettere in armonia le forze della sua ragione con quelle del suo senso, da dover quelle comandare senza fatica e molestia a queste seconde, come esige il buon ordine dell' umana natura, e S. Tommaso, che ha una testa alquanto più grande di quella de' nostri Teologi dà loro piena ragione. Egli prova che ragionavano bene nell' opera contra i Gentili (1). Quivi dimostra, che dalla debolezza e dalla fallacità della ragione, dalle forze de' bestiali appetiti che l' uomo non vale talora a contenere, può benissimo indursi colla sola ragion naturale, l' esistenza d' un antico peccato, di cui tali mali sieno pene od effetti. Nè egli dimentica punto l' obbiezione de' nostri teologi da lui ben preveduta. [...OMISSIS...] e la va lungamente svolgendo; ma poi la dichiara inetta a provar cos' alcuna, [...OMISSIS...] . Onde conchiude, che colla sola ragion naturale giustamente si può rilevare, almen con probabile argomento, dalla lotta della ragione colla concupiscenza, che così non dovesse un Dio ottimo e sapientissimo averlo creato, [...OMISSIS...] . Bene dunque argomentarono i savii del Paganesimo, e male assai a detta dell' Aquinate, i nostri teologi che si sforzano incessantemente a sostituire un sistema nuovo intorno al peccato d' origine a quel della Chiesa. Ed è per questo che S. Agostino chiama i pelagiani al paragon de' pagani filosofi, che colla sola ragione avean pur veduto nell' umane miserie la prova dell' antico delitto. [...OMISSIS...] . E adduce quel bellissimo luogo di Cicerone, nel quale coll' autorità degli antichi dagli errori e dalle miserie dell' umanità argomenta che in qualche occulto reato sia involta l' umana natura. Nè tuttavia dissimulo, che B. De Rossi giudica questa prova de' filosofi non più che congetturale (2), ma giova fare su di tale sentenza le seguenti riflessioni. Le prove congetturali sono di due maniere, altre sono tali in se stesse, quando si fondano sulla probabilità degli eventi contingenti; altre sono congetturali solo inverso all' uomo che non sa dar loro la piena sua persuasione pel vacillare della riflessione e per debolezza della facoltà della persuasione benchè in se stessa la prova sia concludente, come dee esser se è prova, ed è fondata in un rapporto necessario delle idee. Ora se la prova di cui parliamo, che dal male eudemonologico, da cui è affetta l' umanità, induce un male morale ad essa aderente è congetturale , a quale delle due classi di prove congetturali crediamo noi che appartenga? Certamente alla seconda, essendo fondata a parte sui in un rapporto necessario d' idee; onde in se stessa considerata o non val punto, o conchiude a certezza. E in vero ella fondasi « sulla sconvenienza che l' umanità soffra tanto senza reato. »Ora questa sconvenienza o c' è, o non c' è: mezzo non ci ha. Se una tale sconvenienza c' è, la prova rigorosamente stringe; se non c' è, il suo valore, è nullo. S' ella dunque è congetturale, non è tale che relativamente a quell' uomo, che non ha forza o coraggio di aggiungere ad essa, come a ragione alta e spirituale, l' intera sua persuasione. Ora le prove di tal indole riescono congetturali o certe secondo la disposizione de' soggetti; il che spiega come, mentre S. Tommaso si limita a dire [...OMISSIS...] , S. Agostino assai più francamente dica [...OMISSIS...] . Ma io aggiungerò, che la detta prova in sè stessa considerata non dee dirsi congetturale , ma certa secondo la dottrina stessa di Francesco Bernardo de' Rossi. Eccone la dimostrazione. Essa prova è certa, se lo stato dell' umana natura presente si conceda sì tristo, che tale non potesse uscire dalle mani del Creatore; e perciò dimostri un decadimento morale da quello stato, qualunque esso sia, nel quale un Dio sapiente ed ottimo dee averla creata. Ora il De Rossi prova, che Iddio potea crear l' uomo nello stato di natura pura e di natura integra; ma trova in pari tempo un' immensa diversità tra lo stato di natura pura od integra dallo stato presente. Supposto l' uomo creato da Dio nello stato di natura pura o di natura integra, Iddio l' avrebbe fornito altresì degli aiuti necessarii co' quali potesse amar Iddio d' un amor naturale sopra ogni cosa ed anche questo, io aggiungerò, facilmente. All' incontro l' uomo nello stato presente dell' umanità non ha, senza la grazia, quest' amor naturale di Dio così facile e perfetto; perchè la sua volontà è moralmente piagata, [...OMISSIS...] . Quindi la differenza immensa fra l' uomo caduto e l' uomo che fosse creato da Dio in istato di pura od integra natura, [...OMISSIS...] . E quest' avversione da Dio non è già una relazione mentale o esterna, come pretendono i nostri teologi che mettono in campo l' arguzia dell' uomo vestito e dell' uomo nudo; ma importa una vera e grande differenza di forze morali nella volontà tra l' uomo caduto che ha quell' avversione, e l' uomo supposto creato [...OMISSIS...] . Onde prosegue il De Rossi: [...OMISSIS...] . Così scrive quel teologo, al quale appellano, come ad uno tutto lor favorevole, il Zorzi e il P. Perrone! Dal che intanto si può raccoglier così: L' umanità presente (non ristorata dalla grazia) si trova in uno stato di deficienza di forze morali, e n' è prova manifesta il mare delle iniquità che innonda e innondò sempre la terra. Così non può essere stata da Dio creata, nè pure nell' ipotesi, ch' egli l' avesse lasciata colla sola natura, egli l' avrebbe fornita di maggiori forze morali che non sono quelle ch' essa mostra aver di presente. Non è dunque il presente stato dell' umanità quello di prima istituzione, ma è uno stato di decadimento: giace sotto il fascio di colpe antiche; è disordinata e infelice, dunque è rea. Così i filosofi del Paganesimo (1); l' argomento è ridotto a dimostrazione. Avean dunque ragione, e con essi il senso comune. E con un testimonio del senso comune, a cui rinunziano i nostri teologi, conchiuderò questo capitolo. Poichè qual semplice testimonio del senso comune, chiedo io che mi valga l' autorità dell' illustre autore delle « veglie di Pietroburgo ». Il quale certo non era nè si inerudito da non conoscere, che alcuni filosofi dell' antichità esaltarono indebitamente l' uomo, nè sì piccol di testa da non saper conoscere, se tale esagerazione potesse distruggere l' induzione che altri filosofi, o anche gli stessi in altri luoghi delle loro opere facevano dallo stato in cui si trova l' umanità, ad una colpa originale di questo stato infelice cagione. A lui sembra evidente, che i tanti mali morali e fisici del genere umano non sieno punto limitazioni necessarie della umana natura, o difetti da queste limitazioni di necessità provenienti; ma uno stravolgimento di essa natura. Onde dando ragione a que' pagani filosofi, (ed egli sarebbe pure strano che con un raziocinio falso, come vogliono i nostri teologi, avesser colto sì giusto nel segno del vero) favella in questo modo: [...OMISSIS...] . Chi adunque sostiene, che la natura umana nello stato in che al presente si trova, non ha vizio in sè stessa nè morale nè fisico, ma solo è priva della grazia santificante; non pure s' oppone all' ecclesiastica tradizione, ma alla filosofia e al senso comune del genere umano. Altri argomenti dimostrano il disordine contro natura che è nella volontà dell' uomo che nasce, pertinacemente negato da' moderni razionalisti. Crediamo tanto più necessario comprimere coll' abbondanza degli argomenti la loro baldanza, ch' ella è tanta, che giungono ad attribuire il loro coperto Pelagianismo a tutti i cattolici (1), ad asserirlo ammesso universalmente (2) a dichiararlo dottrina di fede (3). E cominciamo dal paragonare insieme i tre errori de' giansenisti , de' razionalisti biblici della Germania, e dei teologi nostri razionalisti pratici . Benchè l' error de' primi sia opposto a quello degli altri due; tuttavia non sarà difficile scorgere, che tutti e tre, questi errori, hanno una base, un principio comune. Avviene quasi sempre, che si rinvenga un elemento comune ne' contrari errori, come già osservammo. Il principio, o la base comune consiste nel venire a riporre il peccato originale in una LIMITAZIONE della natura umana; anzichè in ciò che è guasto e disordine. Tutti e tre gli accennati erronei sistemi si fondano sopra questo primo sbaglio (1); ma spiegano poi diversamente il modo, onde attribuiscano l' appellazione di peccato alla mera limitazione della natura. Esponiamo la diversità di questa spiegazione. I giansenisti sulle tracce di Bajo dicono che la natura umana lasciata sola, senza la grazia soprannaturale, è imperfetta e monca, formando così della grazia un costitutivo all' interezza e sanità dell' umana natura (2). Questa natura così scema d' una sua parte, si dee chiamar viziata e peccatrice, perchè non si solleva colla volontà a Dio soprannaturalmente conosciuto (al che le mancano le forze), e in questa non elevazione ch' essi dichiarano volontaria, fanno consistere l' original peccato (3). I biblici razionalisti della Germania pure accordano a' giansenisti che il peccato originale consista nella limitazione della natura; ma spiegano la cosa più filosoficamente. Questa limitazione non è già peccato, come vogliono i giansenisti, perchè l' uomo in essa costituito non si leva a Dio colla sua volontà impotente; ma perchè è lontano dalla sua ultima possibile perfezione alla quale non si solleva che a gradi. Onde secondo il signor Baur il peccato è simultaneo colla natura dell' uomo, come è simultanea con quella natura la limitazione (1). Imperocchè l' uomo, in quanto è creato da Dio, [...OMISSIS...] . I nostri teologi moderni (stando alla sostanza delle loro dottrine, benchè colle parole si dichiaravano nemici di tutte l' eresie) sono obbligati a parlare in questo modo, quando vogliano esser sinceri: Avete ragione, o giansenisti e razionalisti biblici, nel cercare nella LIMITAZIONE dell' umana natura il peccato originale: anche noi facciamo lo stesso; ma spieghiamo la cosa in modo diverso dal vostro. Noi diciamo che la natura umana presentemente ha tutto il suo senza difetto alcuno; ed aggiungiamo, che ha il peccato, unicamente perchè le manca l' ordine soprannaturale, che ella dovrebbe avere; quindi definiamo il reato di cui è presentemente l' uomo aggravato [...OMISSIS...] . Anche noi dunque diciamo co' razionalisti biblici che l' uomo non ha alcun difetto, ma aggiungiamo che gli manca la grazia, e in questo sta il peccato. Diciamo anche co' giansenisti, che questa grazia è dovuta all' uomo perchè la natura umana non sarebbe intera senza di essa, ma unicamente perchè Iddio a principio ha fatto liberamente il decreto di concederla all' umanità, e in virtù di questo decreto le è dovuta. Or Adamo colla sua prevaricazione spogliò la natura umana di questa grazia per sè stessa non dovuta, e non fece alcun altro male all' umana natura. Noi dunque, suoi figliuoli, nascendo senza grazia, siamo peccatori, figliuoli dell' ira, inimici di Dio e almeno negativamente avversi a Dio, [...OMISSIS...] . Nell' uomo dunque che nasce non v' ha alcun difetto morale, v' ha sola la limitazione naturale , che importa il non aver la grazia soprannaturale; e questa è peccato formale, perchè non dovrebbe esservi « juxta ordinem a Deo constitutum ». La stessa limitazione, la stessa mancanza di ciò, senza cui la natura può esser perfetta, è peccato, o non è peccato, secondo il decreto di Dio. Se Iddio non avesse decretato di dar al figliuolo di Adamo la grazia, non sarebbe per lui peccato l' andarne privo; ma avendo decretato di dargliela, se il padre la conservava; è un peccato del figliuolo l' andarne privo a cagion del padre, che gliela perdette. Non dipende dunque dalla cosa in sè, ma dal positivo decreto di Dio l' esser peccato la nudità della grazia, che per se non è punto peccato; ma Iddio il rese peccato col suo decreto! Se non che ci sarebbe senso nel dire, che un decreto con cui Dio decretò di dare agli uomini un dono, sia obbligatorio anche per quegli uomini, a cui questo dono non è dato? quel decreto di Dio poteva essere obbligatorio pel bambino che nasce? ovvero, contribuì il bambino a invalidarlo? Nulla di ciò. Tutto si fece all' insaputa del povero bambino. Iddio fece il suo Decreto ab eterno senza consultarlo. Il padre peccò pure senza farglielo sapere, nè il figliuolo che ancora non esisteva acconsentì punto al peccato del padre. Nacque nella sua persona innocente, senza difetto alcuno nella sua natura; ma nacque privo di ciò che la sua natura non esigeva, e che non dipendeva da lui l' avere o il non avere. Non vale. Incontanente che viene al mondo gli si dice; « sappiate che voi siete formalmente peccatore, inimico di Dio, figliuolo d' ira, a Dio avverso! »Che stupore per una simile creatura a tale intimazione! A riceverla cioè da persone, che l' assicurano in pari tempo che la sua natura è in tutte le sue parti perfetta ed immacolata, non punto obliqua la sua volontà, che non ha altro in somma, che quella necessaria limitazione, che esclude l' ordine soprannaturale! Deh, come crederà sinceramente di portare in sè un vero peccato, unicamente perchè Iddio aveva intenzione di dargli de' doni maggiori di quelli che non esiga la sua natura, e non glieli diede a cagione che suo padre impedì un sì liberale divino consiglio? Ora che Iddio privi tutta l' umana stirpe de' suoi gratuiti favori, pel peccato del suo capo, a cui gli avea largheggiati acciocchè a tutta la stirpe si propagassero, niente v' ha, che pugni colla ragione. Ma che questa semplice privazione, acquisti in conseguenza del decreto divino, la ragione di vero peccato formale in chi nasce da Adamo senz' alcun difetto nella sua volontà naturale; questo non s' accorderà mai colla ragione umana; che l' esser una cosa peccato non dipende da un decreto positivo di Dio, come il fanno dipendere i nostri teologi (1); nè tampoco dipende meramente da un fallo altrui; dovendo essere ogni peccato vero e formale, un mal morale personale (2); onde convien ricorrere a mutare la significazione della parola peccato (1), o per dir meglio a distruggerne affatto la nozione. Veniamo ad esporre altre ragioni teologiche, che dimostrando inammissibile il sistema de' nostri moderni razionalisti, confermino la verità difesa, che il peccato originale cioè non pure priva l' uomo della grazia santificante, ma guasta di più la natura dell' uomo nella parte sua più eccellente, la parte morale. S. Tommaso dimanda, perchè passi di padre in figlio il peccato originale, e non gli altri peccati (2), e risponde: perchè il peccato originale offende la natura , non che la persona; quando gli altri peccati non offendono che la persona . Infatti trapassa per generazione solo quello che appartiene alla natura, non quello che è meramente e strettamente personale. [...OMISSIS...] Conviene dunque cercare, che cosa S. Tommaso intenda per giustizia originale . Sotto l' espressione di giustizia originale S. Tommaso comprende più cose: 1 l' elevazione della mente a Dio soprannaturalmente conosciuto: 2 la rettitudine naturale della volontà, o giustizia naturale: 3 l' ubbidienza delle parti inferiori e corporee alla volontà retta secondo la natura, e secondo la grazia. [...OMISSIS...] Di tutte queste cose si componeva ciò che S. Tommaso intende per originale giustizia: tutte erano annesse e legate per libero decreto di Dio, alla natura umana; ma la prima parte di esse perfezionava essenzialmente l' umana persona nella natura umana esistente. Che cosa è l' umana persona? E` il più elevato principio, che sia nell' uomo, la sua volontà suprema. Indi la prima parte della giustizia originale cioè la sommissione della mente a Dio, era per essenza sua personale. Egli è di qui che s' intende ragione, perchè, restituita all' uomo nel battesimo questa parte personale della giustizia; rimanga tuttavia l' uomo difettoso e privo dell' altre parti di essa giustizia originale , cioè della sommissione delle potenze inferiori alla ragione, e del corpo all' anima. Il qual difetto spiega, dice S. Tommaso, perchè anche l' uomo giustificato trasmetta generando il peccato d' origine. [...OMISSIS...] Ammessa questa dottrina, si dee pure ammettere, che la parte inferiore dell' uomo è guasta, ragione unica per la quale genera un individuo guasto. Se nella parte inferiore non vi avesse natural disordine, e il peccato consistesse, come vogliono gli Anonimi nella semplice privazione della grazia santificante che appartiene alla parte superiore dell' uomo; l' uomo giustificato, rimastosi già senza difetto, dovrebbe generare del pari individui immuni da ogni difetto, e da ogni peccato. Lo stesso si può argomentare dall' altra dottrina di S. Tommaso intorno ad un uomo formato altramente, che per generazione: questi non avrebbe il peccato, perchè il principio che lo formerebbe non essendo guasto, come è guasto il principio generativo, non potrebbe mettere in lui il guasto del peccato ancorchè avesse la sola natura perfetta priva di grazia (2). Nel che s' osservi attentamente, come S. Tommaso spieghi in modo diverso la trasfusione del guasto originale in quant' è COLPA, e in quant' è PECCATO. Quando egli toglie a spiegare come si propaghi la colpa sempre ricorre alla volontà peccatrice d' Adamo, perchè al guasto originale de' posteri non può applicarsi il nome di colpa, se non si considera nella causa libera che lo produsse. Laonde dice: [...OMISSIS...] . Da tutti i quali luoghi apparisce, 1 che il santo dottore distingue nell' originale infezione due cose, un difetto morale, che noi chiamiamo peccato, ed una colpa; 2 che a spiegare come trapassi la colpa sempre ricorre alla libera volontà d' Adamo, perchè niun difetto benchè morale riceve la nozion di colpa, se non è prodotto da una libera volontà. Resta a vedere come spieghi la trasfusion del peccato ossia il difetto morale della natura. Prima che ne esponiamo la maniera, vogliamo far notare, che il peccato e la colpa originale passano ad un tempo per generazione, perchè non si dà fra tali due cose DISGIUNZIONE REALE; ma tuttavia diversa è la maniera di spiegarne la trasfusione: cioè una diversa ragione è quella che fa passare il difetto morale della natura , da quella che fa passar la colpabilità di quel difetto. Quando si tratta di spiegare la trasfusione di quello, S. Tommaso non ricorre più alla volontà libera e prevaricatrice d' Adamo, ma alla generazione . La caduta d' Adamo il corruppe nella parte sua superiore che è la volontà, e nella parte sua inferiore che è principalmente la facoltà generativa. La corruzione della volontà libera d' Adamo è quella che spiega la trasfuzione della colpa ne' posteri; la corruzione della facoltà generativa è quella che spiega la trasfusione del peccato . Udiamo adunque il Santo Dottore: [...OMISSIS...] . Ora questa vis activa in generatione , che S. Tommaso nomina tante volte, come quella che trasmette il peccato, non è già la volontà prevaricatrice d' Adamo, ma una facoltà tutto diversa. E pure la COLPA non viene che dalla volontà prevaricatrice d' Adamo; ma il peccato viene da quella forza attiva; benchè essa non sia soggetto di colpa, nè di peccato; e l' uomo possa adoperarla senza peccare (2). Ma pel guasto, che ha la carne generante produce una carne che sconcerta l' ordine morale dell' anima del generato, e così mette in essere il suo proprio peccato, il quale però non riceve appellazione di colpa se non riferito all' atto libero della disubbidienza adamitica (3). E notisi che alla trasfusione del peccato non basta nè la volontà prevaricatrice d' Adamo, nè tampoco l' esser formato della sua carne: no, questo non basta; conviene che c' entri la forza generativa , perchè [...OMISSIS...] . Ora in costui formato dalla carne d' Adamo prevaricatore perchè mai non passerebbe il peccato? Forse perchè non ci sia in Adamo la volontà prevaricatrice? No. Forse che la carne d' Adamo non sarebbe priva de' doni gratuiti? Sarebbe priva certamente. Non basta dunque che la carne sia priva de' doni gratuiti, e che la carne che l' uom veste sia carne d' Adamo; ma si esige di più, acciocchè sia messo in atto il peccato, la forza generativa , che non è un atto di volontà peccatrice, essendovi anco ne' giusti. La ragione di ciò non si rinverrà mai nel sistema de' nostri Anonimi; ma nel nostro si troverà luminosissima. Così pure nel sistema de' nostri teologi moderni conviene rinunziare affatto a quella ragione, che spiega sì bene perchè il Signor GESU` Cristo, figliuolo di Adamo verissimo secondo la carne, non ebbe tuttavia l' OBBLIGAZIONE di contrarre il peccato originale. La tradizione tutta risponde con S. Agostino (1) e con S. Tommaso (2), che non l' ebbe, perchè non fu generato dal seme infetto, perchè ricevette bensì da Adamo la carne, ma non per via di generazione. E alla natura umana, che volle assumere il Verbo, non era dovuta la grazia; anzi fu predestinata all' unione personale col Verbo, e il Cristo fu unto per libero decreto del Padre. Se dunque non era dovuta alla carne che il Verbo poi assunse la grazia, perchè tuttavia l' umanità di Cristo non fu obnoxia al peccato? Se il peccato non è che la mera privazione della grazia in relazione alla volontà prevaricatrice del primo padre, la carne d' Adamo in qualunque modo da lui si tragga sarà obnoxia peccato . Niente di ciò: anzi benchè alla natura umana non sia dovuta la grazia; pure insegna la dottrina cattolica, che il Nato dalla Vergine non solo non contrasse, ma nè pure dovea contrarre il peccato. Dunque il peccato non è la mera privazione della grazia; ma esso è l' obice che impedisce la grazia, il quale obice è posto dalla seminale generazione, la quale non fu quella di Cristo operata per ispirito Santo. Essendo dunque l' originale vizio ne' posteri e peccato e colpa, due cose ci vogliono acciocchè trapassi coll' una e l' altra qualità: 1 la generazione seminale, 2 la relazione alla volontà di Adamo, che viziò la generazione, poichè [...OMISSIS...] . Ma se si trattasse di trasmettere una mera privazione de' doni soprannaturali, sarebbe vero quello che dicono i nostri teologi, [...OMISSIS...] . Ma questo appunto dimostra l' erroneità del loro sistema. S. Tommaso, e tutti i dottori, tutti i teologi, non hanno creduto inutile una tale questione, anzi difficile, difficilissima. S. Tommaso ha creduto di dover ricorrere ad una [...OMISSIS...] ed ha creduto che non ogni forza o virtù fosse atta a trasmettere il peccato, ma solo quella che opera [...OMISSIS...] . Certo che per trasfondere una privazione semplice non fa bisogno d' una forza, o vita attiva, d' una mozione, e d' una mozione determinata. E` dunque manifesto, che S. Tommaso (a cui non si può negare il buon senso, nè attribuire che siasi abbandonato alla fantasia , o che siasi lambiccato inutilmente il cervello (4); non sarebbe ricorso ad una forza, o virtù attiva di operare per ispiegare la produzione del peccato ne' posteri, se avesse stimato che in questo non ci avesse niente di positivo, ma fosse una mera privazione de' soprannaturali favori (1). Finalmente col sistema degli Anonimi pare almen che si cozzi in un altro errore, quel della proposizione LVI di Bajo, [...OMISSIS...] . Imperocchè nel peccato original de' bambini battezzati non v' ha più certamente l' atto del peccato, già trapassato in Adamo, nè pure v' ha il reato tolto coll' acque battesimali. Che cosa dunque resta, ci dicano, i nostri Anonimi? Nel loro sistema non resta più niente, come dice Bajo, niente più che spieghi veramente la trasfusione del peccato; mentre nel sistema della Chiesa in vece d' una carne naturalmente sana che produce una carne sana, rimane una carne inferma e guasta che produce una carne del pari inferma e guasta, la qual trae la volontà dell' anima dall' eguaglianza della giustizia (2). Ma qui gli avversarii ci fanno un mondo di obbiezioni, alle quali tutte noi vogliamo rispondere, registrandole per ordine, e soggiungendo a ciascuna la sua risposta. Obbiezione 1 E` vero che S. Tommaso dice che all' essere del peccato d' origine concorrono due cose, 1 un difetto naturale , e 2 che questo difetto sia stato in potere della natura mercè la libera volontà del suo corpo, nel che consiste la ragione della colpa (1). Ma S. Tommaso chiama quel difetto naturale , non lo chiama già peccato . Risposta . Quel difetto è chiamato da S. Tommaso ugualmente difetto naturale , o peccato naturale . Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] (ecco la colpa), [...OMISSIS...] (non si ferma alla colpa, c' è qualche altra cosa da aggiungere) [...OMISSIS...] (e non solo privata de' doni maggiori). [...OMISSIS...] ; perchè, come disse altrove ne' posteri, il peccato originale « deficit a ratione culpae ». Laonde S. Tommaso al peccato dei posteri, astraendo dall' attual peccato d' Adamo, attribuisce ugualmente le appellazioni or di « defectus naturalis », or di « peccatum naturale ». Obbiezione 2 S. Tommaso chiama l' accennato difetto naturale [...OMISSIS...] . E` dunque in se stesso una semplice limitazione della natura, non un peccato. Risposta . Ci sono de' difetti, cioè delle mancanze che conseguono necessariamente alla natura umana, e questi sono mere limitazioni della natura; ma vi sono de' difetti che conseguono accidentalmente alla natura; e questi non sono mere limitazioni. Che la natura umana sia fallibile , questo è un difetto necessario, e solo per accidente ella può essere difesa e premunita contro l' errore, e il peccato. Ma che la natura erri, o pecchi realmente, questo è un difetto che consegue a' suoi principii accidentalmente. Dato poi che sia venuto in essa questo accidentale difetto, qual fu il peccato, ch' ebbe luogo nel primo padre; esso difetto si rende necessario nella natura: tale è il disordine abituale della volontà ne' posteri, o il peccato originale. Onde il peccato originale originato è un difetto naturale [...OMISSIS...] ; perchè i principii della natura umana, che è quanto dire i suoi essenziali costitutivi non esigono di necessità che la natura umana sia senza peccato. Se dunque il peccato si considera in Adamo che lo commise, egli è un difetto [...OMISSIS...] ; se si considera trasmesso ne' posteri dopo commesso, egli è un difetto [...OMISSIS...] . Laonde S. Tommaso dichiara, che l' inordinazione della volontà che non può domare le potenze inferiori, [...OMISSIS...] per mezzo della colpa (1), non della natura umana semplicemente. Nel che egli è uopo considerare, che S. Tommaso, come abbiamo già notato, nella giustizia originale distingue una doppia rettitudine di volontà , cioè una rettitudine di volontà soprannaturale , che nasce essenzialmente dal dono della grazia santificante: e la mancanza di questa è un difetto che consegue i principii della natura umana necessariamente, è una limitazione; ed una rettitudine di volontà naturale , che potrebbe esser nell' uomo anco senza la grazia santificante, se Iddio l' avesse creato in istato di natura integra, senza la grazia: e la mancanza di questa rettitudine naturale è un difetto che consegue la natura umana per accidente. Onde un suo interprete preclarissimo, a cui appellano gli stessi nostri avversarii, dopo distinto l' amore di Dio soprannaturale, e l' amor di Dio naturale che si conteneva nell' originale giustizia, dice, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che nel peccato originale rimase perduto non che l' amor di Dio soprannaturale, ma anche il naturale: [...OMISSIS...] . Di entrambi questi amori rimasero dunque privi anche i posteri d' Adamo spogli della originale giustizia. Ora il difetto dell' amore naturale di Dio, l' impotenza di amarlo naturalmente , quanto si conviene; è un difetto che consegue i principii della natura umana corrotta; e non mai quelli della natura umana, nell' ipotesi che fosse creata da Dio senza grazia, ma in pari tempo senza vizio. Obbiezione 3. Benchè S. Tommaso dica, che i difetti naturali, che peccato originale si dicono, sieno [...OMISSIS...] ; tuttavia dice anco che questi difetti potrebbero trovarsi in una natura non iscaduta per cagion di peccato, ma formata da Dio medesimo, nel qual caso non avrebbero ragione di colpa . [...OMISSIS...] Risposta . La conclusione che voi tirate dal testo addotto di S. Tommaso non procede in modo alcuno, perchè in quel testo S. Tommaso non parla del formale del peccato originale, ma solo del materiale . A convincervene vi basti quest' altro luogo di S. Tommaso medesimo: [...OMISSIS...] . Ora rileggete il testo addotto, e vedrete se il S. Dottore ivi parli dell' insubordinazione della volontà a Dio, che è il formale del peccato; ovvero se parli solo dell' inordinazione delle forze dell' anima, che è il materiale . Dell' insubordinazione della volontà , voi scorgerete che non vi fa motto alcuno, non dice se non che Iddio potea creare [...OMISSIS...] (2). S. Tommaso dunque non insegna nel testo addotto che Iddio avesse potuto creare un uomo la cui volontà non fosse subordinata a Dio, il che è il formale, l' essenziale del peccato; ma solo che avrebbe potuto crearne uno passibile, mortale, concupiscibile; il che forma nel presente ordine di cose la pena, l' effetto, e il materiale del peccato; ma nell' ordine ipotetico in cui Iddio l' avesse creato tale, sarebbe un difetto, a cui non si potrebbero nè pure applicare tali appellazioni. Laonde si dee conchiudere che dove S. Tommaso parla del peccato intero, racchiudente tanto la parte formale, quanto la materiale, egli nol dice difetto naturale, o conseguente i principii della natura, se non intendendo della natura decaduta, come ho detto nella risposta all' obbezione precedente; dove poi parla della sola parte materiale del peccato, egli concede che possa dirsi un difetto della natura stessa, e che l' uomo potesse esser creato da Dio in tale stato, benchè anche ciò per via di mera congettura, o con qualche limitazione, come vedremo (1). E in fatti egli è troppo assurdo l' attribuire a S. Tommaso l' insegnamento, che Iddio avesse potuto creare un uomo avente un FORMALE PECCATO, quale egli dichiara essere LA MANCANZA DI SUBORDINAZIONE A DIO DELLA VOLONTA` (2). Obbiezione 4. Quel naturale difetto col quale Iddio avrebbe potuto crear l' uomo, S. Tommaso lo chiama peccato originale; onde per esso non intende, come voi dite, la sola parte materiale del peccato. Risposta . Può tirarne questa conclusione solo colui che non conosce la maniera di parlare del Dottore angelico. Esponiamola, e sarà tosto dissipata l' obbiezione. L' espressione giustizia naturale , come l' usa S. Tommaso, comprende 1 la subordinazione della volontà a Dio; 2 la subordinazione delle potenze inferiori alla volontà buona. Il peccato originale poi è la perdita dell' originale giustizia; e però sotto tale espressione egli intende pure 1 l' insubordinazione della volontà a Dio, che perdette per propria colpa la grazia santificante, e così rimase abitualmente insubordinata e spossata, e 2 l' insubordinazione delle potenze inferiori alla ragione. [...OMISSIS...] , dice Francesco de Sylvestris, [...OMISSIS...] . Ora talvolta S. Tommaso dà il nome di peccato originale alla sola parte materiale del peccato, come dà il nome di giustizia originale alla sola seconda parte che si può dir materiale di questa giustizia. Tutto ciò c' insegna l' accennato interprete de Sylvestris, il quale, dopo esposta la dottrina di S. Tommaso che, [...OMISSIS...] ; si fa l' obbiezione: in qual modo S. Tommaso possa dire che resta il peccato originale dopo il battesimo, mentre la concupiscenza che rimane non è peccato, perchè non è [...OMISSIS...] ; e per rispondere a quest' obbiezione e spiegare in che senso S. Tommaso dica che rimanga il peccato dopo il battesimo, ricorre alla maniera di parlare da lui usata, mostrando che secondo questa, la giustizia originale , come pure il peccato originale ha due sensi: [...OMISSIS...] . Onde quando S. Tommaso dice, che il peccato originale è [...OMISSIS...] . Quando poi dice che resta il peccato originale dopo il battesimo perchè resta la concupiscenza, deesi intendere che manca solo la seconda parte dell' originale giustizia, [...OMISSIS...] . Ora si dee osservare, che la seconda parte della giustizia originale non è essenzialmente cosa morale, ma è morale solo in quanto dipende dalla prima parte; e così del pari la privazione della seconda parte della giustizia originale non è essenzialmente peccato, ma è peccato in quanto dipende e sta unito colla privazione della prima parte della giustizia originale, ed anche allora è ciò che forma la parte material del peccato. Quando dunque nell' uomo non manca la prima parte, quando non manca la RETTITUDINE DELLA VOLONTA` SUPREMA, allora la mancanza della sola seconda parte di essa giustizia non è più veramente peccato, e nè pure materia di peccato (cessandole la qualità di materia col cessarle l' unione colla forma); e tuttavia si suol dire ancora peccato per denominazione continuata, cioè perchè fu prima tale, e così pure si dice materia di peccato: dicesi poi reliquia del peccato, perchè inclina al peccato; [...OMISSIS...] . Quando dunque S. Tommaso dice peccato a quel difetto col quale potrebbe Iddio creare l' uomo, lasciandolo alla sua condizione naturale; egli parla al modo stesso come parlò l' Apostolo, quando disse che [...OMISSIS...] . Ma il Concilio di Trento dichiarò che non è quel peccato [...OMISSIS...] . Onde noi dicemmo che tale specie di peccati [...OMISSIS...] . Così l' obbiezione che ci si faceva rimane annullata. A conferma poi della stessa verità si osservi, 1 Che non si troverà mai un passo in S. Tommaso, nel quale egli insegni che Iddio poteva crear l' uomo « con una volontà a lui insubordinata ed avversa »; nel che sta il formale del peccato originale; ma dove parla de' difetti naturali, co' quali Iddio potea crear l' uomo, mostra d' intendere costantemente dell' insubordinazione delle parti inferiori alla ragione, cioè della concupiscenza presa in questo senso, o della mortalità, della passibilità ecc.; 2 Che in quei luoghi, ne' quali si ferma il Santo a mostrare, che que' difetti naturali non sarebbero COLPA se l' uomo fosse stato creato con essi, parla di que' soli difetti che non sono ESSENZIALMENTE morali, com' è l' insubordinazione e l' avversione della volontà a Dio, ma di quelli soli che acquistano la qualità di morali e di colpevoli da questo che hanno proceduto in origine da un peccato colpevole, come nel passo seguente: [...OMISSIS...] . In questo brano si vedono distinti i DIFETTI di cui si parla, 1 dal peccato libero di Adamo, 2 dalla privazione della grazia, e si dicono effetti dell' uno e dell' altra. Non sono adunque per se stessi il peccato, nè la privazione della grazia, la privazione della grazia e il vero peccato prese insieme sono cose che appartengono alla parte superiore dell' anima, e mettono in essa un' inordinazione. Prova dunque S. Tommaso, che meritano il nome di COLPA anche quei naturali difetti, che non sarebbero da sè peccato, unicamente perchè vennero dal libero peccato, e non si trasmettono soli, ma si trasmette per generazione anche il peccato, e venendo essi comunicati in tale compagnia pigliano anch' essi la natura di peccato e di colpa in quanto sono effetti intimamente legati col peccato. Così si debbono intendere tutti que' luoghi, nei quali S. Tommaso si estende a provare che que' difetti non hanno la nozione di peccato in sè stessi, ma la mutuano dal peccato libero che fu loro causa; divenendo anco un male fisico morale, se è prodotto dalla malizia della volontà. Obbiezione 5. Conceduto anche, che i naturali difetti di cui parla S. Tommaso quando dice, che Iddio avrebbe potuto creare un uomo con essi, non sia ciò che v' ha di formale nel peccato originale; ma solo ciò che presentemente forma la parte materiale di esso peccato, cioè la pugna della carne collo spirito, egli è da concedersi che con questa pugna l' uomo privo di giustizia non può amare Iddio sopra tutte le cose, nè naturalmente, nè soprannaturalmente. Dunque l' uomo creato da Dio con questa pugna, benchè non potesse amare Iddio sopra tutte le cose; tuttavia non avrebbe in sè peccato; stantechè Iddio non può creare l' uomo in peccato. Dunque nè pure l' anteporre la creatura al Creatore sarebbe peccato, se non dipendesse dalla libera volontà. Quello dunque che non è colpa, nè pure è peccato. Risposta . I teologi inclinati al Razionalismo cercano di descrivere la concupiscenza inferiore quale presentemente esiste nell' uomo nel modo il più mite: e giungono a dire, ch' ella non impedisce assolutamente l' uomo dall' eseguire tutta la legge naturale, e quindi, dico io, nè pure il dee impedire secondo essi, dall' amare naturalmente Iddio sopra tutte le cose (che è certamente il primo precetto anche della legge naturale), e questa a malgrado di tutte le più forti tentazioni; benchè concedano, che ella renda all' uomo tale virtù ed innocenza naturale assai difficile. Ma questo è il primo errore dei teologi razionalisti apertamente confutato da S. Tommaso in più luoghi. Il S. Dottore dà alle forze della concupiscenza due gradi; l' uno e il maggiore nell' uomo non battezzato, il quale è tale, che l' uomo non può colle proprie forze resistere a tutti i suoi assalti, ma dee cadere dopo qualche tempo di resistenza, almeno nascendogli forti tentazioni, in peccato mortale; l' altro e il minore nell' uomo battezzato; il quale è sempre vincibile colle forze, che l' uomo ha acquistato dalla grazia battesimale, usando i mezzi, che questa grazia gli presta, ma non sì, che non gl' incontri di essere da quel grado di forza leggermente ferito, cadendo ne' peccati veniali; da' quali nessun giusto, senza special privilegio, interamente si libera «( Dottrina del pecc. orig. XCVIII 7 CI) ». Ora s' attribuirà forse a S. Tommaso l' opinione che Iddio potesse crear l' uomo con quel grado di concupiscenza, col quale ora nasce, di maniera che fosse necessitato a peccare contro la legge naturale, e contro il Creatore? Qual torto non si farebbe con ciò al santo Dottore? Si adduca un solo testo dal quale apparisca ch' egli così la pensi, se si può: questo testo non fu mai addotto, nè mai s' addurrà: se ne possono all' incontro addurre molti che spiegano quant' egli sia lontano da un tale assurdo. Se S. Tommaso concede, che l' uomo lasciato alla natural sua condizione sentirebbe la pugna della carne colla mente [...OMISSIS...] , questo non determina ancora il grado della pugna: non è un dire che l' uomo creato da Dio nell' ordine naturale potesse avere quella stessa terribil lotta che ha di presente, perocchè di presente, [...OMISSIS...] . Dove mai dice questo S. Tommaso dell' uomo creato da Dio senza peccato e lasciato da lui all' ordine della natura? Di presente l' uomo che non può resistere alla molteplicità degli assalti della concupiscenza, benchè resister potrebbe a ciascuno, quando cade stretto in tali angustie ACCONSENTE, che senza qualche consenso non si dà certamente peccato, all' incontro nell' uomo creato da Dio senz' ordine soprannaturale non pone mai il santo Dottore alcun NECESSARIO CONSENSO AL MALE, ma solo un SENSO; perocchè dice [...OMISSIS...] . Non intende adunque di dire che Iddio potesse creare un uomo colla stessa lotta, colla quale or nasce l' uomo caduto, l' uom peccatore; ma con un' altra specie di lotta, che nè sarebbe peccato, nè l' indurrebbe mai necessariamente a peccato alcuno. Dunque l' uomo presente, secondo S. Tommaso, è moralmente guasto nella natura, a differenza di quell' uomo, che Iddio potesse creare nell' ordine naturale; il quale sarebbe sì limitato , ma non guasto . E perchè splenda ancora più chiara la dottrina dell' Angelico, si consideri, che l' obbiezione, che ci fa, parla d' una concupiscenza, colla quale l' uomo non potrebbe sempre amare Iddio sopra tutte le cose, nè pure naturalmente. Tale è certamente la concupiscenza, che, secondo S. Tommaso, trae seco uscendo alla luce l' uomo di presente. Ma si osservi, che una tale concupiscenza non è meramente quella che abbiamo designato come la seconda parte del peccato d' origine, e che spesso concupiscenza si dice; ma ell' è una concupiscenza che abbraccia tanto la prima (l' insubordinazione della volontà a Dio) quanto la seconda parte di esso peccato (l' insubordinazione delle potenze inferiori alla ragione). Poichè anche in questo senso si usa spesso la parola concupiscenza da S. Agostino, da S. Tommaso, e da tutta l' ecclesiastica tradizione. Ora, quando sotto il nome di concupiscenza s' intende non solo la semplice parte materiale del peccato d' origine, ma anche la formale, allora si verifica, che la concupiscenza è il peccato stesso originale, allora è una concupiscenza « cum privatione originalis justitiae », presa l' originale giustizia per l' ordinazione e la dirittura della volontà che è uno de' due sensi assegnatile. E questa concupiscenza è quella che ha forze sì potenti da captivare l' uomo sotto il peccato, e da trarlo nel consenso del peccato, se lungamente senza grazia dimora. Che alla concupiscenza vengano sì sformatamente accresciute le forze dalla stortura della volontà superiore, dov' è il formale del peccato d' origine, l' insegna espressamente S. Tommaso, e lo spiega così: [...OMISSIS...] , parole che S. Tommaso dice per dimostrare che presentemente l' uomo privo della grazia santificante non può rimanere a lungo senza mortalmente peccare. La concupiscenza adunque che impedisce l' uomo dall' amare Iddio sopra tutte le cose è quella che è unita colla parte formale del peccato, consistente nell' insubordinazione della volontà a Dio. Ma abbiamo veduto rispondendo alla quarta obbiezione, esser mente di S. Tommaso, che coll' insubordinazione della volontà a Dio, Iddio non potrebbe costituire mai un uomo. Dunque cade l' obbiezione quinta (1): dunque è falso che Iddio potrebbe crear l' uomo con una tale concupiscenza; o che il preferire qualche creatura al Creatore, l' amar più quella che questo, potesse mai non esser peccato; o che la natura umana presentemente sia solo spogliata de' doni gratuiti e non anco ferita nelle parti sue naturali, non certo ne' principii essenziali, ma quanto alle perfezioni accidentali (2). Obbiezione 6. Almeno voi dovete accordare, che « il sentire una qualche lotta della carne collo spirito »consegue dai principii della natura umana, e quindi si troverebbe in un uomo creato da Dio senza la grazia santificante. Risposta . Questa obbiezione eccede i confini della questione. Noi avevamo tolto a provare che l' uomo presentemente non solo è spogliato della grazia, ma è ferito moralmente nella sua stessa natura; e questo è provato coll' autorità di S. Tommaso, disciolte tutte le obbiezioni che si potevano fare per eludere l' autorità sua di tanto peso nella cristiana teologia. Ma per soprappiù rispondo anche a questa sesta obbiezione, osservando, che si possono distinguere tre necessità venienti dalle potenze inferiori: 1 necessità, di meramente sentire, [...OMISSIS...] . 2 necessità, di provare tentazione nella volontà di guisa che la volontà viene incitata ad amare qualche cosa contro l' ordine morale, [...OMISSIS...] . 3 necessità, di consentire alla tentazione o tentazioni moltiplicate, [...OMISSIS...] . Quest' ultima è la trista necessità dell' uomo caduto, che descrive S. Tommaso quando dice, che l' uomo, senza la grazia divina, non può a lungo astenersi dal peccato mortale. Questa necessità non indica solo la nudità della grazia santificante , indica una profonda mortal ferita nella stessa natura morale dell' uomo. Fu provato, che a questa Iddio non potrebbe abbandonare un uomo da lui creato, ciò sconvenendo alla sua infinita bontà e santità. La seconda necessità è quella che si trova nell' uomo caduto, ma rigenerato, è la madre feconda delle venialità. Anche questa è una trista necessità, un vero male morale. Nè pure a questa, diciam noi, potrebbe Iddio abbandonare l' uomo che uscisse senza grazia dalle sue mani (2). Quanto poi alla prima necessità, quella di sentire meramente ciò che è sensibile, senza che la volontà sia eccitata a preferire il bene sensibile al suo dovere, non volendolo il libero arbitrio (1): questo non è certamente un male morale, nè un morale difetto. Dove la volontà non entra affatto con atti disordinati, non ci può essere immoralità: ogni immoralità supponendo qualche attività volontaria. Ora, se questa necessità di sentire sia in qualche parte condizione della natura umana lasciata a sè stessa ed eccellentemente compaginata, questa non è questione teologica; ma meramente filosofica. Si può opinare l' una e l' altra cosa senza pregiudizio della fede. E però si può opinare che Iddio potesse crear l' uomo nell' ordine della natura con questa necessità di sentire, se si tiene ch' ella sia una necessaria limitazione della natura, e si può opinare il contrario, se si tiene che l' uomo anche naturalmente, supposta la natura sua perfetta nell' ordine naturale, dovesse avere un libero arbitrio così signore della volontà da impedire a questa, col suo imperio, anche i primi spontanei movimenti, le prime tendenze attive verso il bene sensibile, opposte all' ordine morale, o a prevenire l' atto stesso del senso. Aggiungerò due osservazioni: 1 Alcuni teologi avvisano, che l' uom primo costituito in grazia non soggiaceva nè pure alla necessità di sentire, [...OMISSIS...] dice il De Rubeis, [...OMISSIS...] . Quello che è certo si è, che la sensazione non avrebbe attratto e nè pur cominciato ad attrarre necessariamente la buona volontà: questa avrebbe potuto impedire ogni lusinga della sensazione sopra di sè con un amore assoluto e non comparativo al proprio dovere. Onde S. Agostino, [...OMISSIS...] . 2 Que' teologi i quali sostengono possibile lo stato di natura pura , intendendo per esso una condizione, nella quale l' uomo sentirebbe la pugna della concupiscenza colla volontà buona, a tale che questa non potrebbe sempre resistere, ed amare Iddio per lungo tempo sopra ogni cosa, questi teologi, dico, nello stesso tempo che dichiarano possibile questo stato dell' uomo, non intendono di lasciar veramente l' uomo ignudo di aiuti gratuiti; ma anzi dicono, che Iddio supplirebbe al bisogno con aiuti ordinarii e speciali, i quali però essendo transeunti e non abituali non impedirebbero che si potesse quello dire « stato di natura pura. »Così Tommaso di Lemos, [...OMISSIS...] . Aggiungiamo alle addotte, altre testimonianze ancora, le quali dimostrino che il parlare di tutta la tradizione ecclesiastica esprime continuamente non già solo uno spogliamento de' doni gratuiti, ma un guasto profondo nella stessa natura. 1 Un gran numero di scrittori ecclesiastici antichi e moderni dicono chiaramente, che la volontà dell' uomo che nasce è curva verso il male, di guisa che convien ritorcerla indietro affine d' addurla alla rettitudine della legge divina, come appunto si farebbe d' un pallone storto. S. Ilario di Poitier commentando quelle parole del salmo [...OMISSIS...] . Si parlerebbe egli d' un vizio opposto alla legge di Dio, da cui conviene togliere il cuore; per dire che il cuore è naturalmente retto? Tanto più che trattasi d' un cuore che già ha la grazia colla quale può staccarsi dal vizio della natura. Che cosa sarebbe questo vizio nel sistema de' nostri Anonimi? La natura spoglia della grazia? no. Che dunque? 2 Se la natura non fosse che spogliata della grazia, basterebbe vestirla di questa, e sarebbe tolto il suo difetto. Ma non così le scritture ed i padri descrivono la giustificazione dell' uomo. S. Paolo parla della deposizione dell' uomo vecchio, e della vestizione del nuovo. Che uomo vecchio ci sarebbe a deporre, se la natura non ha alcun male in se stessa? Dovrebbe bastare di rivestire l' uomo vecchio, senza deporlo, anzi conservandolo tutt' intero. Al tenor dell' Apostolo consuonano i padri. S. Ilario di Poitier così descrive la giustificazione: [...OMISSIS...] . Se la natura umana è di presente senza difetto, che cosa avrebbe ella da deporre? Nulla: avrebbe solo da vestir la grazia. Medesimamente le Scritture, i Concili e i Padri non dicono solo che diventa novo, ma prima dicono che viene seppellito nella morte di Cristo, [...OMISSIS...] , dice S. Leone, [...OMISSIS...] , che è il costante insegnamento di S. Paolo, [...OMISSIS...] (esprime la remozione di ciò che v' ha di male nell' uomo), [...OMISSIS...] (esprime il vestimento della grazia di cui l' uomo viene coperto, deposta la reità del peccato) (3). 3 I Padri non parlano solo de' doni che abbiamo perduto col peccato di Adamo, parlano d' un male positivo, che abbiamo ricevuto dentro di noi. Così S. Gregorio Nazianzeno: [...OMISSIS...] . Questa pravità, questa malvagità non può certo significare un semplice spogliamento della grazia: è qualche cosa che si riceve dentro di se, non qualche cosa che si lascia. Medesimamente il mal dell' uomo si chiama da' Padri un veleno comunicatogli dal serpente, e un veleno non indica una semplice perdita del bene, ma un vero acquisto del male. Così Origene nel commento sulla Cantica, esponendo le parole del Salmo XLII, v. 1, [...OMISSIS...] . La tradizione ebraica parla costantemente d' un veleno nascosto nel frutto vietato, che guastò la costituzione intera dell' uomo (2). 4 Quindi anche il peccato originale si chiama costantemente un morbo , un languore della natura, un contagio , una tabe: parole tutte non significanti un mero spogliamento del vestimento soprannaturale, ma un vero guasto nella naturale costituzione fisico7morale. Così S. Basilio: [...OMISSIS...] . E S. Ambrogio di Cristo, [...OMISSIS...] . S. Anselmo poi, [...OMISSIS...] . 5 I santi Padri di più distinguono espressamente fra lo spogliamento de' doni supremi, e le ferite della natura, e attribuiscono l' uno e l' altro effetto al peccato originale: applicandogli la parabola del Samaritano non solo spogliato dai ladri, ma ancor ferito. Così S. Ambrogio: [...OMISSIS...] ; dove anche chiaro apparisce che S. Ambrogio non mette la morte, l' uccisione dell' uomo nel semplice dispogliamento della grazia, ma nella disorganizzazione morale prodotta dalla ferita del peccato. 6 I padri e i dottori dicono oltracciò, che l' uomo nasce lordo, macchiato (4), immondo, infetto, espressioni tutte che lungi dall' esprimere una semplice privazione della grazia, indica una positiva deformità rimasta nella natura umana. Così il Venerabile Beda: [...OMISSIS...] . E prima di lui S. Ambrogio: [...OMISSIS...] . Da' quai luoghi si vede, come il gran vescovo milanese fissava l' occhio sulla corruzione annessa alla generazione per ispiegare il contagio del peccato astraendo dalla nozione di colpa. Prima però ancora di S. Ambrogio, lo stesso Origene, quando parlò guidato dalle parole della scrittura, descrisse il peccato originale come una verissima sordidezza della natura umana non pur nuda, ma sozza: [...OMISSIS...] . 7 Sono i santi Padri eloquentissimi a descrivere i mali profondi, che il peccato d' origine produsse nella natura. Ecco alcuni de' loro passi. S. Giovanni Grisostomo: [...OMISSIS...] ; passo recato anche da S. Agostino contro i Pelagiani (6). S. Atanasio: [...OMISSIS...] . Ci si dica, quando volessero dire solamente che nell' uomo ora è solo la privazione della grazia, colla qual privazione Iddio potrebbe crearlo, non avrebbe potuto dirlo schiettamente? E che di più facile? O avrebbe detto in quella vece che tutte le cose sono ora contaminate, tutte perturbate? Che il paradiso sia chiuso all' uomo senza grazia, s' intende; ma perchè aperto l' inferno? perchè nemico il cielo? Come si potrebbe significare più vivamente il guasto dell' umana natura, che dicendo l' uomo corrotto, e divenuto simile a' giumenti? potrebbe Iddio creare un uomo corrotto? e a vili giumenti somigliante? o l' uomo che fosse senza la grazia, ma colla natura del resto perfetta, potrebbe mai a' giumenti paragonarsi? E se la natura fosse rimasa senza difetto e sol priva dell' ordine soprannaturale, come potea dire S. Gregorio di Nazianzo: [...OMISSIS...] . Anzi dovea dire: « non son caduto che dall' ordine soprannaturale: del resto ho tutto il mio: sto ancor bene: sono ancor sano: non sono dannato ». E come Cristo avrebbe salvato tutto l' uomo, se tutto non fosse perito? se fosse perito solo quanto all' ordine soprannaturale, v' avea una parte nell' uomo, che non avea bisogno di Cristo, e quest' era tutta intera la natura umana, nella quale, secondo i nostri teologi, non v' ha difetto alcuno. Ma il parlar della Chiesa è ben altro: ella non si stanca di ripetere il concetto, che Tertulliano così espresse: [...OMISSIS...] . Del pari, potea esprimersi con più di chiarezza la corruzione della natura umana ed il bisogno della ristorazione operata da Cristo, di quel che facesse S. Cirillo di Gerusalemme in quelle parole, [...OMISSIS...] . . E non si contentano i Padri e i maestri in divinità di esprimere con parole traslate il guasto intimo, che nell' ordine naturale recò all' uomo il primo peccato: lo dichiarano anche in parole proprie. L' esser privo meramente di grazia non costituisce alcuna malizia; ma la tradizione tutta vede nell' anima dell' uomo espressamente LA MALIZIA, il disordine morale. S. Ilario di Poitier dice: [...OMISSIS...] . La qual malizia è così descritta da S. Bonaventura: [...OMISSIS...] , or non si ferma qui il santo, come gli Anonimi fanno, ma seguita: [...OMISSIS...] . Ora la natura umana senza alcun vizio contratto, ma sol privata dell' ordine soprannaturale, sarà ella d' indole così maligna, da dover esser priva dell' abito di tutte le virtù, prona ad ogni genere di colpa, soggetta alla concupiscenza, schiava e schiava del demonio? Il dirla tale per se stessa, non sarebb' egli un rovesciare, non che altro, nel Manicheismo? Questo appunto dicevano i manichei impugnati da S. Agostino. Ma udiamo anche Gersone, com' egli descriva la malizia, che col peccato d' origine l' uomo ha contratto: [...OMISSIS...] . Tale è la definizione di Gersone. Ora la natura pura avrà ella un' abituale avversione a Dio? quest' abito può egli esser creato da Dio stesso colla natura? o l' abito non è sempre cosa distinta dalla natura che lo riveste? La natura umana, secondo Gersone, non solo ha deposto l' abito della grazia, ma vestito altresì quello dell' avversione a Dio, il quale la rende inchinevole a negare la giustizia a chi è dovuta. Pur seguitiamo ad udire il Gersone. [...OMISSIS...] Di che poi conchiude così: [...OMISSIS...] . Ora avrebbe potuto Iddio creare un uomo nel qual fosse « carentia utriusque partis justitiae », secondo che s' esprime Gersone? quei teologi cattolici che sostengono la possibilità dello stato di pura natura, o come si potrebbe chiamare di natura non intera, aggiungono, come vedemmo, che Iddio supplirebbe al bisogno con degli aiuti speciali, ma in tal caso, cessa la questione (2): questi aiuti speciali sono appunto quelli che dimenticarono nella penna i nostri Anonimi; e così s' allontanarono dalla sana e comune dottrina. 9 S. Giovanni Crisostomo rassomiglia la corruzione dell' anima pel peccato alla corruzione e dissoluzione del corpo, e l' attribuisce al primo peccato [...OMISSIS...] . Questa somiglianza tra la corruzione dell' anima pel primo peccato e la corruzione del corpo torna frequente negli scrittori ecclesiastici; mi valga in esempio un brano di Raimondo Sabunde [...OMISSIS...] . Dalle quali maniere di parlare si scorge 1 che i dottori cattolici non ripongono la morte dell' anima nella mera privazione della grazia, ma in un guasto simile a quello della disorganizzazione del corpo; 2 che l' anima così corrotta e macchiata dal peccato, com' è di presente, non poteva uscire dalle mani del Creatore. 10 Sono del pari gli antichi maestri costantemente intesi ad assegnare la sede dell' original peccato nella volontà, descrivendo il disordine, e l' impotenza di questa al compiuto bene. Così S. Gregorio Nisseno: [...OMISSIS...] . S. Macario d' Egitto (an. 370) distingue espressamente tra la perdita della grazia che dà diritto alla visione beatifica, e il possesso della propria natura che s' ha per la volontà ben ordinata; e dice non solo quella perita pel peccato, ma ben anco questa: [...OMISSIS...] , che è la grazia santificante. Questa perdita della possessione della propria natura fu oggetto d' una definizione di Papa Celestino, il quale in uno de' celebri suoi capitoli dice: [...OMISSIS...] . Il che Teofilatto ascrive agli affetti pravi, che opprimono l' uomo. [...OMISSIS...] . Sarà ella questa la natura pura dell' uomo? Sarà dunque l' uomo, per condizione di sua natura, venduto al peccato, sotto il dominio del peccato oppresso dagli affetti pravi in guisa da non potere rilevare il capo? Se questo fosse natura, non sarebbe la natura per sè mala de' manichei? 11 Quindi è anco, che si rassomiglia il peccato originale ad un vincolo, che lega l' umana natura, il che è troppo più che lasciarla nuda, ma libera. Così S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Così pure S. Gregorio Nazianzeno del Battesimo [...OMISSIS...] . E Clemente Alessandrino usava la stessa maniera di favellare: [...OMISSIS...] . Al che s' accorda il parlare di Teodoreto. [...OMISSIS...] L' esser legata è ella cosa propria della natura umana? il legame rappresenta qualche cosa di sopraggiunto alla natura, non certo una condizione della natura stessa. Essendo dunque di presente legata la natura dell' uomo, essa natura dovette esser liberata e disciolta da Cristo, frase comune presso i Padri, in esempio della quale bastino recare queste parole dello stesso Teodoreto, [...OMISSIS...] ; che ripetono quello che avea insegnato Cristo di propria bocca, allorché disse. [...OMISSIS...] . 12 Un altro argomento validissimo, per conoscere intorno a ciò la mente di S. Agostino, si è l' osservare com' egli rispose ad una obbiezione di Giuliano. Abusando questi d' un luogo di S. Basilio, argomentava così: [...OMISSIS...] . Ora se S. Agostino avesse tenuto il sistema de' nostri Anonimi, quanto gli era facile rispondere a Giuliano, che nè la natura, nè la volontá umana ritiene alcun male dalla prevaricazione d' Adamo, ma solo è priva de' gratuiti favori? Ma non venne e non potea venire nella mente d' Agostino una tale risposta, e in quella vece rispose accordando che [...OMISSIS...] . Ammetteva dunque tutta intera l' antichità, ammetteva con essa S. Agostino, un vero male annesso alla natura umana, che Iddio solo potea da essa separare. Se questo male fosse un constitutivo della stessa umana natura, di maniera che creata da Dio priva dell' ordine soprannaturale, ella dovesse seco portarlo; già s' ammetterebbe una natura subbietto essenzialmente del male: che è appunto l' errore de' manichei. 13 Ora non solo dicesi la natura legata, e serva del peccato, ma di conseguente anco schiava del demonio. S. Ottato Milevitano: [...OMISSIS...] . Nè dicano già i nostri Anonimi, che questa è una maniera traslata di favellare, perchè S. Agostino risponderebbe loro, ció che rispose a Giuliano, che tentava di evadere per simili scappatoi, [...OMISSIS...] . Che anzi tanta si riputò l' influenza del nemico sull' uomo peccatore, che allo stesso peccato che porta in se si diede nome di serpente (3). 14 Finalmente anche dalle pene che trae seco il peccato d' origine può inferirsi lo spogliamento della grazia e il guasto della natura. Perocchè alla grazia compete il diritto della visione divina, ed all' incontro, [...OMISSIS...] . Ma colui, che muore col peccato originale non solo perde la vision beatifica o il regno celeste; ma ancora la vita dell' anima, perchè resta in lui il peccato definito dal sacro Concilio di Trento mors animae . Onde il Papa Siricio: [...OMISSIS...] , scrisse ad Imerio, [...OMISSIS...] . Vero è che noi siamo altamente persuasi, che oltre la redenzione di quegli uomini, a cui s' applicano per mezzo del battesimo i meriti della passione di Cristo, anche gli altri uomini, che muoiono senza colpa mortale partecipano della liberalità del Salvatore, il che noi chiamamo donazione di Cristo. E di questa sentenza molte autorità si potrebbero addurre, non solo de' Padri, ma delle Scritture, tra gli altri il testo del salmo citato dall' apostolo, che dice, non solo aver Gesù Cristo condotta sua schiava la schiavitù, cioè gli schiavi del demonio da lui redenti, ma ancora aver ricevuto dei doni da distribuire agli uomini: [...OMISSIS...] . Il che era figurato in Abramo, che fece Isacco suo erede, e dimise con dei doni i figliuoli delle schiave. Ed è d' altra parte di fede, che il beneficio della risurrezione è un dono fatto da Cristo a tutti gli uomini, anche ai non redenti. Onde noi già mostrammo, in un opuscolo su questo argomento, che i bambini morti senza battesimo possono benissimo, dopo la risurrezione, godere d' una naturale felicità, ma non perchè questa si appartenga loro di diritto, ma perchè è conveniente alla somma generosità di Cristo, ed alla sua gloria. Questa felicità dunque gratuitamente loro largita non può addursi a provare che il peccato originale non importi alcun disordine nell' umana natura, come vogliono i nostri teologi razionalisti, ma vale solo a provare la ricchezza e la bontà e l' amore di Cristo verso gli uomini. Lasciato dunque da parte quel che viene da Cristo come gratuito suo dono, e considerata la natural pena del peccato originale ne' bambini, questa è la morte, non pur del corpo, ma dell' anima, che nell' altra vita consisterebbe in uno stato d' eterna inazione, conservata solo all' anima intellettiva l' immota intuizione dell' essere, per la quale esiste. Il peccato originale dunque, cui l' uomo riceve coll' esser generato, è un male morale , e questo necessario . Dunque si danno de' mali morali necessarii. Questo male morale necessario viene nella sua origine rimota da un atto di libera volontà commesso dal primo padre: dunque il male morale è necessario nella sua prossima cagione, ma ha in pari tempo per cagione rimota anch' esso, la libertà. Che anzi la libertà umana dee essere sempre la cagion rimota de' mali morali necessarii, perchè altrimenti si farebbe autore di essi Iddio, o la natura mala, cadendo nel Manicheismo. Tali sono le dottrine della Chiesa: i teologi razionalisti le accusano di Calvinismo e di Giansenismo: di cui sono un documento gli ultimi opuscoli anonimi. Noi ci faremo ad esaminare di nuovo la questione in tutta la sua generalità. Due sono i principali errori de' calvinisti e de' giansenisti intorno all' umana libertà: Essi sostengono 1 Che l' uomo nello stato di natura caduta abbia perduto interamente ogni libertà, di maniera che egli al presente operi sempre necessariamente; operando il bene quando prevale in lui il peso della grazia, e operando il male quando prevale in lui il peso della concupiscenza, senza poter fare altramente; 2 Che operando con una tale volontà necessitata, l' uomo nello stato presente meriti, o demeriti. Tutti gli errori essendo abbinati, come sono sempre abbinati gli estremi, quali saranno gli errori opposti ai due errori calviniani e gianseniani sopra enunciati? I seguenti: 1 Che ogni atto dell' umana volontà sia essenzialmente libero, e la parola volontario non abbia altro significato che quello di libero , e che non sia nè pure atto umano quello che non è libero; sicchè l' uomo operi sempre con una libertà d' indifferenza; 2 Che perciò nella sfera delle cose morali non v' abbia che il merito e il demerito; non potendosi dare moralità buona o cattiva, che sia necessaria. Questi dunque sono i due estremi. Che cosa sente la Chiesa cattolica? Ella cammina dirittamente nel mezzo, e decide contro i primi: 1 Che la libertà d' indifferenza non è perita nell' uomo; 2 Che non si dà merito o demerito nello stato di natura caduta se non allora che l' uomo opera colla detta libertà di indifferenza. Decide ancora contro i secondi: 1 Che l' uomo non opera sempre con libertà d' indifferenza, ma che talora egli opera con una volontà priva di coazione, ma non priva di necessità; senza però che allora meriti nè demeriti; 2 Che quando la volontà umana soggiace alla necessità, se tale necessità è moralmente buona, viene da Dio; se ella è moralmente cattiva, viene da un abuso precedente della libertà umana, fatto o dall' uomo stesso in cui quella trista necessità si ritrova, ovvero dal primo padre; di maniera che ogni qual volta vi è la necessità nella causa prossima (la volontà istante), vi è o vi fu la libertà nella causa rimota (la volontà che liberamente produsse quel malo stato della volontà). Ora chi imprende a difendere la dottrina della Chiesa cattolica, converrà, per ragion di chiarezza, che incominci a distinguere due questioni. Poichè 1 Altro è il dimandare, se, considerata la sola natura della volontà umana, questa abbia due maniere di esser disposta, e di operare, l' una necessaria, e l' altra libera; e posto che sì, se operando il male morale colla volontà libera in causa, ma all' istante necessitata, o avendo allo stesso una suprema propensione, ella contragga od abbia in sè qualche specie di deformità morale; e 2 Altro è il domandare, se, posto il presente ordine di cose e la caduta adamitica, Iddio permetta di fatto, che la volontà umana soggiaccia talora alla necessità del male. La prima è questione astratta e filosofica; la seconda è questione di fatto e teologica, questa è legata con quella, non è quella. Noi cominceremo dalla prima: considereremo la volontà umana in sè stessa, e cercheremo se per sua natura questa volontà abbia i detti due modi di operare e di esser disposta, il necessario ed il libero; e se aderendo al male morale necessariamente, ella contragga o no qualche deformità morale. La prima parte di questa questione si dee sciogliere affermativamente per consenso di tutti i teologi cattolici e de' filosofi. Che la volontà dunque di sua natura abbia i due detti modi di operare il volontario ed il libero, non è a spenderci altre parole. Resta solo che vediamo se, dato che la volontà aderisca necessariamente al male, ella contragga da questa adesione per ciò solo una deformità. S' avverta che qui si tratta di un male morale che sia tale per essenza, com' è l' odio di Dio o del prossimo, l' amore della menzogna, l' amore disordinato di se stesso, e simili, e non che sia male solamente perchè vietato dalla legge positiva; giacchè in quest' ultimo caso non può aver luogo la questione, cessando ogni legge positiva qualora la volontà non possa adempirla. Sosteniamo dunque, che posta l' adesione al male morale della volontà, questa, anche se come soggetto o causa prossima di quell' adesione (1) soggiace alla necessità, dalla stessa e sola adesione contrae una deformità morale. Ed eccone brevemente le prove. I E` di fede che l' anima volitiva contrae necessariamente il peccato originale, e ne riceve una macchia, una deformità (1). Dunque non si può negare, che il male morale che aderisce all' anima, anche con necessità, perciò solo che le aderisce, la deformi; II Non vi sarebbe possibilità di precetto vetante il male , se il male non fosse tal cosa che deforma la volontà che in qualunque modo le aderisce; poichè male , ossia « oggetto moralmente cattivo (2) »altro non vuol dire, se non ciò che, informando la volontà, la disordina; e senza un male, un oggetto da fuggirsi, non può esservi precetto che ne ordini la fuga. Distinguansi bene le varie maniere di concepire l' oggetto. C' è l' oggetto materiale , che è la cosa considerata in se, per esempio Dio e il prossimo in se stessi; non è questo, a cui si riferisce prossimamente la legge vetante. C' è l' oggetto intellettuale , per esempio Dio e il prossimo presenti meramente all' intelletto; nè pur a questo si riferisce prossimamente la detta legge. C' è finalmente l' oggetto morale , cioè l' oggetto in quanto è amato ovver odiato: questo è l' oggetto prossimo della legge vetante. La legge vieta l' odio di Dio e del prossimo . L' oggetto prossimo della legge vetante è dunque ciò che prossimamente produce la deformità della volontà: la legge vieta quella mala adesione . L' odio di Dio e del prossimo per sè ed assolutamente la deturpa. Il male morale dunque è una deordinazione della volontà, la quale è tale in sè stessa, senza bisogno di sapersi s' ella sia stata prodotta necessariamente o liberamente. Essendo mala in se stessa, la legge la proibisce: quella malvagità è anteriore alla legge o al precetto, è fondata nella natura delle cose. Ella è quella che rende possibile il precetto. Questo viene dopo, e non parla che alla libertà , non obbliga che la libertà; la quale se obbedisce al precetto merita, e se disubbidisce, demerita. Ma se la libertà non esiste; se altro non vi ha nell' uomo che la volontà necessitata; la deordinazione di fatto non può mancare, benchè senza demerito, e quella deordinazione è una immoralità; perchè risiede nella volontà; e se questa è suprema nell' uomo, come accade nel bambino non battezzato, dicesi ed è peccato. Egli è vero, che la volontà potrebbe disordinarsi anco in quella sola parte che è libera. Questo è il caso del precetto positivo che è dato alla sola libertà; ond' anco non ammette che una specie sola d' immoralità, il demerito. E tuttavia, come dicevamo, anch' egli si riferisce ad un male reale esistente nella natura delle cose; qual' è l' inobbedienza , che si può definire la deordinazione della libertà . III Se mancasse il fondamento nella natura della cosa, se mancasse il male oggettivo, la deordinazione della volontà , o necessitata, trattandosi di cose intrinsecamente cattive, o libera, trattandosi anche di precetti positivi; se mancasse in una parola l' oggetto prossimo del precetto, nè pure potrebbe esservi colpa; appunto perchè come abbiamo detto al numero precedente non si dà possibilità di precetto, senza un male morale , oggetto del precetto. E però S. Tommaso dopo aver parlato del peccato semplice e della sua deformità intrinseca dicendo, che ella consiste nel deviare della volontà dal fine ultimo dell' umana vita, [...OMISSIS...] passa alla colpa, aggiungendo, ET IDEO (cioè essendovi precedente il male morale da evitarsi dall' umana libertà, che se non ci fosse, la colpa non sarebbe possibile) [...OMISSIS...] ; mostrando così, che anteriormente alla colpa c' è il male morale; e che perciò s' incolpa l' uomo che opera liberamente [...OMISSIS...] , perchè opera il male, perchè commette il peccato, che è l' oggetto della colpa, e della stessa legge vetante. IV Altra prova validissima io deduco dalle perniciose conseguenze della dottrina opposta. Sia vero, come vogliono i teologi razionalisti, che in quel tempo, nel quale l' uomo è privo di libertà nel suo operare, non vi avesse male morale di sorte alcuna. In tal caso quest' uomo non sarà obbligato a cercare i mezzi di accrescere le sue forze morali, non sarà obbligato neppure a domandare da Dio aiuto coll' orazione. Poichè a qual fine lo dimanderebbe? per evitare un male morale, no; chè egli non fa alcun male morale fin che è necessitato; e quando non è necessitato, egli non ha bisogno d' aiuto; può evitare il peccato colle sue forze: [...OMISSIS...] dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Nè vale il dire che il peccato, che commetterebbe negligentando d' accrescere le sue forze, è libero nella causa rimota; perocchè questa risposta supporrebbe quello che si nega, cioè che ci fosse un male da evitare; mentre si sostiene, che l' uomo costituito in necessità non fa alcun male, non ha per questo peccato, checchè egli faccia. Nè pur questa necessità è cosa cattiva, ch' egli debba cercar di evitarla, nel sistema de' nostri teologi; perchè cattiva non può essere, se non ha un oggetto cattivo, ma il suo oggetto cessa d' esser cattivo in faccia ad essa: negandosi che una volontà necessitata abbia un oggetto veramente cattivo che la deturpi. V Ebbe torto dunque, secondo questi maestri, nostro Signor GESU` Cristo, quando mise in bocca de' suoi fedeli quelle parole, « Et ne nos inducas in tentationem », parole tutt' al più utili, secondo il loro sistema, a renderci la fuga del male più facile, ma non necessaria, perchè o possiamo evitarlo colle nostre forze, o, se non possiamo, non è male; nè male è la necessità di commetterlo; rimanendo anzi per essa distrutto il male. Che anzi questa necessità in un tale sistema meriterebbe di dirsi buona, e dovremmo procurarcela. Ebbe del pari torto S. Paolo, quando consigliò a maritarsi coloro che non si potessero contenere, dicendo che « melius est nubere quam uri », giacchè, secondo i nuovi maestri, o l' uomo si può sempre contenere, o almeno chi non si può contenere, non fa male, se non si contiene; e però è inutile cercare un mezzo d' evitare ciò che non è male. Anche il sacro Concilio di Trento dee aver dato una ragione mal fondata, per non isciogliere i cherici costituiti negli ordini sacri, e tentati contro la castità, dalla legge del celibato, dicendo, che colla preghiera essi poteano bene ottener da Dio la grazia della continenza (1). I nostri maestri avrebbero dato una risposta più facile: Chi non può contenersi, non fa male ponendo l' opere della carne. In somma la dottrina che non vuole riconoscere altro male morale deformante la volontà e l' anima umana che il libero , distrugge la pietà ed apre l' adito ad ogni scostumatezza ed empietà, e questa è appunto una gran causa del lassismo in morale. VI Qui ritorna ancora, chi ben considera la questione circa i peccati d' ignoranza, che hanno una causa prossima non libera. Pelagio e Celestio che negava furono condannati dalla Chiesa (2). E condannati perchè il peccato originale si contrae pure ignorantemente e necessariamente, e pur esso è peccato, sicchè chi non riconosce peccato dove non v' è cognizione attuale , viene a negare l' originale infezione quanto colui, che non riconosce peccato dove non v' è libertà . Furono dannati ancora perchè al peccato originale riduconsi certi atti peccaminosi, in cui l' uomo, se non ha la grazia di Cristo, necessariamente cade, notar dovendosi, che qui intendesi per ignoranza non una mera nescienza , ma un errore del giudizio affascinato nelle cose morali dalla passione. [...OMISSIS...] . I quali atti, qualora del solo peccato d' origine sono effetti, non hanno altra colpa diversa che quella dello stesso originale peccato. In terzo luogo ancora furon dannati perchè venivansi con ciò ad escludere i peccati commessi per ignoranza invincibile , di quelle cose, di cui ha l' uomo dover d' istruirsi: dovere che egli non punto avrebbe, se non si desse un peccato, che non cessi d' esser peccato anche in chi ignora che sia. Conciossiachè e come mai potre' io avere obbligazione di conoscere i miei doveri, se, non conoscendoli, già non pecco? Conciossiachè se non li conosco non posso eseguirli, se non posso eseguirli, non sono più obbligato. Laonde io farò anzi bene a conservare la mia ignoranza, che mi lascia libero di far ciò che voglio senza però peccare! Laonde nella Censura fatta da molti Vescovi dell' « Apologia pe' Casisti (1) », già condannata anche dall' Apostolica sede con suo decreto del 21 Agosto 1659, si proscrissero più proposizioni, perchè [...OMISSIS...] . S. Tommaso dunque ha ragione, e han torto i moderni teologi che negano il male morale in causa prossima necessario, quando dice, che l' ignoranza vincibile non iscusa dal peccato, dando di ciò la ragione seguente: [...OMISSIS...] . VII Queste ultime parole mi conducono a por qui una settima ragione che prova l' esistenza d' un male morale nella sua causa attuale ed instante necessario, benchè libero nella causa rimota. I teologi morali si propongono la questione: se chi si mette nell' impossibilità di adempire alle sue obbligazioni pecca poi col non eseguirle. Alcuni rispondono, che non pecca in actu , ma solo in causa . Il Bolgeni si oppone, sostenendo, che pecca in causa ed anche in actu . [...OMISSIS...] . Se fosse vera la sentenza di questo autore, avremmo qui de' peccati necessarii in causa prossima. Io non di meno non posso acconsentirgli (2), ma trovo di dover distinguere. O l' atto peccaminoso che quest' uomo fa per necessità è un attuale deordinazione della sua volontà; o no. Nel primo caso c' è un nuovo male morale in lui; nel secondo, tutto il male morale sta nell' ommissione o commissione libera, per la quale s' è messo nella necessità di peccare. Poniamo il caso dell' uomo, che vinto dal talento di bere s' ubbriaca a malgrado ch' egli prevegga che nell' ubbriachezza commetterà molti altri peccati. L' ubbriacarsi è un peccato che comprende tutti i peccati da lui preveduti, li faccia o no; e in questo senso (in causa) è reo di tutti. Ma sarà egli vero, che come vuole il Bolgeni, faccia altrettanti peccati attuali, quant' egli ne farà di fatto? Ne verrebbe l' assurdo, che se de' preveduti da lui ne facesse di più, sarebbe più reo, se ne facesse di meno, sarebbe meno reo: ora il farne di più o di meno, non dipende ormai più dal suo libero arbitrio. Dico dunque, che una sola è la colpa che comprende tutti i peccati preveduti, almeno in confuso, non tutti i peccati realmente commessi nello stato di ubbriachezza. Ma poi tra questi peccati che commette ubbriaco e di cui nella causa è colpevole, ve ne posson essere di quelli che sono anche peccati in atto, benchè non colpe; ed altri che in atto non sono nè colpe nè peccati. Perocchè è solo peccato nuovo ciò che pone una nuova inordinazione della volontà. Laonde se ubbriaco facesse degli atti d' odio di Dio, e del prossimo; atti che puó e conoscere e volere anche un ubbriaco; questi disordinerebbero la sua volontà, benchè fosse trascinata a ciò dalla passione, dall' abito, o dalla mala inclinazione. Così se s' immergesse in carnalitá a cui l' eccitamento del vino il trascina, conoscendo e volendo quello che fa, chè anche un ubbriaco può conoscere e volere: la sua volontà riceverebbe un nuovo male morale: e male morale sarebbe l' inclinazione contratta a tali peccati, che in lui si rimarrebbe anche risanato dall' ubbriachezza. Ma se i peccati che fa ubbriaco non sono atti nè affetti disordinanti la volontà; come se dormendo ommettesse d' udir la messa in giorno di festa, e mancasse ad altri precetti positivi, che hanno per oggetto cose per sè indifferenti: niuna nuova inordinazione o mal morale in lui avverrebbe; eccetto quello che gli avvenne dall' atto libero, col quale si pose in quella mala necessità. Ad ogni modo nell' una o nell' altra sentenza, s' accorda ugualmente avervi un male morale, nella sua causa prossima ed attuale necessario. VIII Si dimostra la stessa tesi argomentando da diverse decisioni della Chiesa. Io mi restringo ad accennare la condanna della 2 proposizione condannata in Bajo, dalla quale si puó chiaramente inferire, che vi ha un male morale disordinante per se stesso la volontà, quando vi aderisce necessariamente o no. Essa proposizione dice: [...OMISSIS...] . Chi non intende da questa proposizione, che, secondo la Chiesa cattolica v' ha dunque un opus malum , il quale benchè ex natura sua sia malvagio; tuttavia non è demeritorio, provenendo il demerito dalla libertà e non dalla sola natura dell' opera; e che v' ha medesimamente un opus bonum , il quale benchè ex natura sua sia buono, tuttavia non è meritorio, provenendo di nuovo il merito dalla libertà (supposta la grazia), e non dalla sola natura dell' opera? E tuttavia quest' opera mala , e quest' opera buona , che se non è libera non demerita, ell' è un' opera volontaria; perocchè trattasi qui d' opere umane, d' opere ex sua natura buone e cattive moralmente, non già fisicamente: chè per essere opere buone o cattive moralmente si suppongono volute; non essendo nè buone, nè cattive nella loro entità puramente materiale (1). Adunque per far sì che un' operazione sia moralmente malvagia, basta ch' ella sia tale di sua natura; e perciò volontaria; come a fare ch' ella sia moralmente buona, basta che sia ancora tale di sua natura, e perciò all' uomo volontaria. Ma non basta già questo solo perchè si possa attribuire all' una ed all' altra il suo merito; giacchè questo ha bisogno della condizione d' una libera volontà. La Chiesa dunque condannò Bajo perchè egli distruggeva col suo sistema la distinzione tra il semplice peccato , e la colpa; e si può dire, attenendosi allo spirito ed al fondo d' una tale condanna, che contro quella eresia, ella, al suo solito, rimettesse in vigore una sì importante distinzione. IX Se il male morale coll' esser necessario cessasse per questo solo d' esser male, non sarebbe morto Cristo per salvare il mondo dal peccato. Poichè l' uman genere avrebbe potuto da se stesso esser giusto sol che adoperasse quelle forze, che restavano al suo libero arbitrio, niente nuocendogli poi il non adempire ciò che fosse superiore alle sue forze, nè lo stesso peccato originale gli avrebbe nociuto, il quale già non sarebbe stato più peccato nè male alcuno, perchè inevitabile. Laonde come l' ammettere e il riconoscere un male morale deordinante la volontà e perdente l' uomo, per se stesso, vincendo altresì la volontà soggetto o causa prossima di esso, e tenendola schiava del demonio, esalta immensamente la redenzione di Cristo e la riformazione del mondo da esso operata, e la dimostra opera d' un Dio fatto uomo; così il sistema, che riduce ogni male morale alle libere azioni fa ingiuria gravissima a Cristo, rende superflua o almeno non necessaria la redenzione del mondo, e apre il cammino al socinianismo, e all' empietà che la nega. X Ma anche la ragione naturale basta a dimostrare, che l' inordinazione della volontà è un male morale per se stesso, indipendentemente dalla ricerca se la libertà l' abbia o no come cagion prossima prodotto. Poichè la volontà è una potenza come l' altre, è una natura anch' essa, che ha le sue proprie leggi e condizioni necessarie, non dipendenti da se, o dalla sua libertà. Onde S. Tommaso colla sua solita veduta filosofica, applica al disordine della volontà, la stessa definizione, e gli stessi principii, che valgono parlando del disordine dell' altre potenze. Appunto per questa universalità di vedute, egli attribuisce alla parola peccato un senso così generale, che abbraccia anche i disordini non morali, cioè quelli che accadono nella natura, o nell' esercizio dell' arte, dicendo, che, [...OMISSIS...] . Dalla qual definizione induce, esserci tre generi di peccati, cioè peccati della natura , peccati dell' arte , e peccati della volontà; in ciascuno de' quali si verifica la definizione, perocchè ci ha peccato di natura quando la natura devia dal suo fine, ci ha peccato di arte quando l' arte devia dal suo fine, ci ha peccato di volontà quando la volontà devia dal suo fine. Si può poi conoscere, se la natura, o l' arte, o la volontà devia dal suo fine, osservando se queste potenze procedono o no secondo quella regola , che al suo fine le scorge, [...OMISSIS...] . Ora quale, dimanda egli, è la regola della volontà? Risponde. [...OMISSIS...] . Di che raccoglie quale sia il peccato della volontà dicendo, [...OMISSIS...] . Il peccato adunque della volontà, secondo l' Angelico, c' è sempre, ogni qualvolta ella si torca dalla rettitudine della legge morale, onde in universale, senza che c' entri per nulla la libertà, [...OMISSIS...] . Tutta la malvagità dell' atto volontario è cavata unicamente dall' esser quell' atto conforme alla regola o difforme da essa, ordinato o disordinato; allo stesso modo come l' atto della natura e dell' arte, dove non ci può esser libertà, è malo o buono secondo che è diritto o torto in verso alla regola sua che lo dirige al fine. Non entra per nulla la libertà prossima nel costituire il peccato, ma solo c' entra la dirittura o stortura della volontà. Ma, stabilito così da S. Tommaso in un articolo della sua « Somma », che il peccato della volontà sta nella deordinazione della volontà in verso al suo fine (5), passa nell' articolo che segue a parlare dell' accidente, in cui questa deordinazione sia libera, mostrando con ciò la differenza che passa tra il peccato della volontà di cui parla in un articolo, e la colpa di cui parla in un altro, e di cui non avrebbe parlato a parte, se avesse creduto che l' esser peccato fosse un esatto sinonimo dell' esser colpa. Nell' articolo dunque, dove egli parla di questa (1), pone per principio, che l' uomo può esser signore de' suoi atti, cioè che tutti gli atti volontarii sono in balía dell' uomo stesso, per quella forza che si giace nella sua volontà come volontà, e la libertà; e non della volontà come natura. Chè così e non altramente debbono intendersi le parole dell' angelico, [...OMISSIS...] . L' Angelico parla in generale di quello che compete agli atti volontarii come volontarii, non degli atti volontarii come naturali, essendo certo che tali atti hanno, per essenza loro, questa ordinazione e relazione d' essere sommessi alla signoria dell' uomo: il che non toglie, che per accidente avvenga poi altrimenti, perdendo l' uomo la sua signoria e libertà, o mancandogli le condizioni richieste per esercitarla, o in somma operando la volontà come natura, non puramente come volontà. L' attribuire a S. Tommaso un senso diverso, l' intendere le sue parole così materialmente, da fargli dire, che ogni singolo atto volontario è di fatto libero, è un mettere in un' aperta e indissolvibile contraddizione S. Tommaso con se stesso, che apertamente riconosce il movimento necessario della volontà (1). Attenendoci dunque al genuino senso delle parole di S. Tommaso, egli pone il principio, che [...OMISSIS...] ossia soggetto alla sua libertà. Ciò posto, raccoglie in questo modo: 1 l' atto volontario è un disordine, un peccato, ogni qualvolta devia dal fine comune dell' umana vita: [...OMISSIS...] ; 2 ma l' atto volontario di sua natura è nato ad essere in potere dell' uomo, [...OMISSIS...] . Dunque (ecco la conclusione) col peccato libero ci sono due inordinazioni, l' una quella della volontà , che è disordine dell' uomo, in quanto è uomo, in quanto la sua volontà è una natura avente le sue proprie leggi; l' altro quello della libertà , che è disordine dell' uomo in quanto è morale , intesa questa parola per idonea a dare a se stesso de' buoni o mali costumi . [...OMISSIS...] (poichè all' atto malo libero è deformata la libertà, e s' imputa perchè la sua libertà n' è la causa) (2). Si riconosce adunque e si dimostra col naturale discorso: 1 Che la volontà umana se fa un atto obliquo dal fine suo, per esempio se odia Iddio, od ama la menzogna, contrae un disordine, sia che ella aderisca così al male necessariamente, come i reprobi nell' inferno, o che vi aderisca liberamente; il qual disordine deforma e guasta la volontà umana, allo stesso modo come qualsivoglia altra potenza fisica e non libera rimane disordinata e guasta ogni qual volta ella erra dal suo proprio fine, o come dice l' Angelico [...OMISSIS...] ; 2 Che questo disordine della volontà può dirsi morale ogni qualvolta esso riguarda il fine comune della vita umana, perchè [...OMISSIS...] dice lo stesso S. Dottore, [...OMISSIS...] ; 3 Che se la volontà guasta è la suprema potenza, il supremo principio attivo dell' uomo, come accade nel peccato originale; tutto l' uomo ne riman guasto; dipendendo tutte le altre potenze di lor natura dalla prima e suprema; la personalità stessa è infetta, trovasi in istato di peccato; 4 Che se l' uomo è disordinato e guasto nel suo principio supremo, qual è la sua volontà personale, benchè ciò non sia opera della sua stessa libertà, egli non può a meno di averne qualche pena che lo impedisca dal godere una piena felicità, se questa non gli è da Dio misericordiosamente levata; perchè la piena felicità non si può dare, se non in un uomo ordinato e in tutte le sue potenze perfetto; attesochè, come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] ; 5 Che sarebbe un manifesto assurdo l' immaginare, che una volontà disordinata, aderente per necessità al male morale fosse ricevuta in Cielo; dove tutto è ordine e bene; nulla vi può esser di disordine e di male. Onde basta che la volontà sia disordinata, eziandio che non sia libera, come accade nel peccato originale, acciocchè ella venga naturalmente esclusa dal Cielo. Di che S. Tommaso dice, che pel peccato originale [...OMISSIS...] , cioè l' anima è soggetta ad un male eudemonologico, che rispettivamente ad Adamo, causa rimota e libera di quella inordinazione necessaria della volontà, acquista il nome di poena , come il male morale, o macchia nella stessa relazione, acquista il nome di colpa. XI Di più. Egli è di fede, che [...OMISSIS...] , cioè che non può più risorgere da se stesso, ma è necessitato di starsi in istato di peccato, se Dio nol libera, quia sponte , dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Il qual dogma fu espresso dal Concilio di Trento: [...OMISSIS...] . Questo peccato, sotto cui è servo ogni peccatore, e di cui per natura è servo tutto il mondo, è egli necessario o libero? Fu libero prima di commettersi; ma commesso, è già divenuto necessario, chè niuno più colle sue forze [...OMISSIS...] . E bene; ne vien forse, che per esser soggetto l' uomo cosí necessariamente al peccato, il peccato non sia più peccato, o non faccia più male all' uomo, non gli deformi più l' anima? Il dirlo sarebbe manifesta eresia. Dunque si deve considerare come eresia anche il pretendere, come fanno i teologi razionalisti, che non ci sia un male morale necessario, e che ogni male morale sia libero. XII Gli abiti non meritano nè demeritano, per consenso comune de' Teologi (4). Ma perchè non meritano gli abiti cattivi , non saranno essi perciò un male morale? E non sono forse una morale inordinazione della volontà? Chi mai potrà disconfessarlo? Ci ha dunque un male morale diverso dal demerito; un male necessario, com' è l' abito; che colle sole forze nostre non si può levare, almeno all' istante. Quantunque però non possa io ammettere la dottrina dell' Estio sul demerito degli abiti; tuttavia ci gioverà riportarla. Conciossiacchè ella contiene una serie d' argomenti attissimi a provare queste due cose, 1 che l' abito malvagio è male morale , ed a Dio odioso, 2 che ha seco congiunto come naturale appendice il mal fisico , che dal morale mai si scompagna. Odasi adunque come l' Estio favella, tutto a confutazione della dottrina pelagiana, tendente sempre a ridurre ogni male morale al solo atto libero, affin di distruggere il peccato d' origine, e con esso tutta le fede di Cristo. [...OMISSIS...] Non che meritino lode o vitupero, ma che deformino la volontà umana si può mostrare con gli argomenti che seguono, i quali noi esamineremo ad uno ad uno: [...OMISSIS...] . Dall' abito non vengono di necessità le azioni delle virtù e de' vizi; che se qualche volta necessariamente venissero, non meriterebbero nè demeriterebbero pur queste. Ma come queste azioni adornano o deformano l' anima; così pure gli abiti; o sieno causa di tali azioni, o sieno solo disposizioni a porle più facilmente, con meno libertà, ma con più forza di volontà. [...OMISSIS...] La vita eterna va dietro alla giustizia infusa, e la dannazione al peccato ricevuto come una natural sequela, per l' unione intima fra il ben morale e il ben fisico, il mal morale e il mal fisico. Ma come la giustizia infusa è meritoria riferita a Cristo che per noi la meritò; così la dannazione dell' originale peccato è demeritoria riferita ad Adamo che per noi demeritò. [...OMISSIS...] Il biasimo che si dà a quell' uomo si riferisce alle azioni libere colle quali egli si pose in quello stato, ma niuno negherà perciò che quello stato sia moralmente cattivo, benchè nel dormiente almeno, necessario. [...OMISSIS...] Egli è vero che la dannazione consegue ad un' anima infetta da' vizii anche considerata questa infezione in se stessa, senza riferirla alla causa libera che la produsse; ma solo riferita a questa causa, quella dannazione dicesi meritata, e ne viene così giustificato Iddio, come ottimo autore di una natura che da se stessa liberamente decadde. Quanto poi alla giustizia ed alla santità, egli è certo che trae seco, per se stessa considerata, nell' ordine eterno delle cose, la beatitudine; e Iddio non ha bisogno di giustificazione se vuol donar questa e quella, informando la volontà della sua creatura pienamente di se, senza lasciargli nè pure la possibilità morale di contraddire a sì generosa comunicazione di bene, onde lo Suarez scrive: [...OMISSIS...] , e come fece con MARIA sua madre. Il che tutto dimostra darsi una moralità necessaria informante e attraente la volontà, e la volontà cooperante e consenziente, senza l' esercizio della libertà d' indifferenza. [...OMISSIS...] Sulle quali parole si debbono fare le stesse osservazioni che sulle precedenti; cioè che il PECCATO, ed il BENE MORALE si trova indubitatamente anche nell' abito , che è cosa di natura sua necessaria, e ha la sequela del male e del bene eudemonologico; ma che, in quanto alla COLPA ed alla LODE, quella si rifonde sempre in quegli atti liberi , che quegli abiti cagionarono. Ma gli abiti son difficili ad osservarsi e a perscrutarne la natura: onde sfuggono facilmente al pensiero degli uomini, benchè non a quello di Dio. Questo non dissi io solo (1); ma l' Estio ancora il vuol ben considerato, così concludendo il suo ragionare. [...OMISSIS...] Passiamo ora ad esaminare la seconda questione. Da tutte le cose fin qui ragionate evidentemente si dee conchiudere, che la risposta affermativa a questa questione, in generale, è DI FEDE. Solamente può aver luogo l' opinione teologica in determinare alcuni casi speciali, ne' quali s' avveri o no quella necessità. Che dunque sia di fede in generale, che v' abbia realmente un male morale, nella sua causa prossima e nel suo soggetto (la volontà), necessitato, si prova, 1 Dall' esser di fede, che i demoni ed i dannati sono in istato di peccato, del qual peccato in cui perdurano la causa prossima ed il soggetto è la loro perversa volontà; 2 Dall' esser di fede, che il bambino che nasce, prima di ricevere il battesimo, ha in sè il peccato originale, male morale, consistente in un' avversione a Dio della sua volontà, la qual volontà si mette colla stessa generazione in quell' atteggiamento per l' attraimento della carne; onde anche qui la causa prossima è necessitata; e il soggetto necessitato. Da questo poi avviene, che tutto il genere umano per se stesso considerato, quale è costituito dalla generazione, dicesi dall' Apostolo MASSA CORRUPTA, di corruzione non già fisica solamente, ma anche morale; come pure vien provando l' Apostolo, colle antiche Scritture che accennano gli effetti, che provano la natural corruzione, [...OMISSIS...] . Laonde S. Giovanni parlando della natura umana: [...OMISSIS...] . Tutto il genere umano dunque, di sua natura, e senza la grazia di Cristo, soggiace ad un MALE MORALE NECESSARIO, benchè libero nella causa remota (6); male che di sua natura lo perde eternamente, se Cristo non entra a salvarlo: indi la NECESSITA` ASSOLUTA DELLA REDENZIONE e della grazia per conseguir la salute, secondo la definizione della Chiesa: [...OMISSIS...] . Questo MALE MORALE NECESSARIO, a cui tutto l' uman genere soggiace dall' origine sua, trae seco, di sua natura, cioè prescindendo dalla virtù di Cristo che accorre a impedirlo, delle REE CONSEGUENZE MORALI NECESSARIE. Anche questo è di fede in generale parlando, e solamente entra l' opinione teologica, quando trattasi di determinare i confini di queste ree conseguenze necessarie . Alla fede appartiene. I Che l' uomo per se solo, senza l' aiuto della grazia di Cristo, non può, assalito da gravi tentazioni, star lungamente senza cadere in qualche peccato; ossia non può adempiere a pieno, di continuo, e in ogni possibil cimento, la legge naturale. [...OMISSIS...] Di che S. Paolo, non alludendo solo al peccato d' origine, ma anche a' peccati attuali, dice: [...OMISSIS...] . Poichè quantunque con tali peccati, se fossero necessarie conseguenze dell' originale, l' uomo, non demeritasse, come non demerita coll' originale; tuttavia ne contrarrebbe deformità morale; e questi peccati insieme coll' originale, di cui sarebbero un naturale sviluppo, lo terrebbero nello stato d' ingiustizia e di perdizione. II Che l' uomo colle forze sue naturali, nè colle opere può acquistarsi la giustificazione in cospetto a Dio, o la salute eterna (1), e nè pur muoversi colla sua sola libera volontà verso quella giustizia che è tale agli occhi di Dio (2); III Che l' uomo, anche così giustificato, non può perseverare nella giustizia senza uno speciale aiuto di Dio (3). Tanto impotente è l' uomo senza la grazia. Rimane a parlare della distribuzione, che fa Iddio di questa grazia del Salvatore sì necessaria agli uomini. Anche qui alcune cose sono di fede, altre appartengono alle opinioni delle scuole teologiche. Intanto egli è certo I Che Iddio non è obbligato per titolo di giustizia a dare la sua grazia a nessuno, sicchè qualor anco tutto il genere umano fosse lasciato alla sorte che gli toccherebbe in conseguenza del peccato del primo padre, e de' peccati che i singoli uomini commettessero a imitazione di lui, niuna ingiustizia vi sarebbe da parte di Dio; II Che quindi Iddio è libero padrone di scegliere quelli che vuole, a cui dare i suoi doni, e l' eterna gloria fra i perduti, il che divinamente dimostra l' apostolo colla figura de' due figliuoli d' Isacco dicendo, [...OMISSIS...] . E soggiunge, a mostrare quant' è libera e gratuita la divina chiamata; [...OMISSIS...] . Dice che la salute non viene dal volere e dal correre degli uomini: perchè non vi ha persona che senza l' aiuto di Dio, voglia e corra come bisogna. Laonde giustamente rivolto all' uomo peccatore e impotente l' Apostolo così favella: [...OMISSIS...] . E su questa gratuita elezione egli è uopo aver presente, come S. Agostino la discorre a confusione de' Pelagiani, discorso pe' nuovi teologi opportunissimo. Egli pone per primo fondamento, che qualunque essi sieno i giudizi di Dio, sono giusti, anche se l' altezza di sua giustizia fosse a noi del tutto inintelligibile, [...OMISSIS...] . Pone per secondo fondamento, che qualor anco Iddio non desse ad un uomo la sua grazia, e così costui perisse necessariamente, o pel solo peccato originale, o anche per altri peccati da questo fonte promananti, non avrebbe tuttavia ragione di lagnarsi, anche unicamente [...OMISSIS...] . E non deduce questo vero dai corti giudizii dell' umano ragionamento, ma dalle scritture, dalla fede della Chiesa cattolica, e dalla ragione teologica. Poichè osserva, che dicendo il contrario ne verrebbe l' assurdo, che la grazia fosse da Dio dovuta, e non fosse quindi più grazia. Pongasi dunque l' ipotesi, che Iddio, come potrebbe farlo, negasse ad un uomo discendente d' Adamo e quindi peccator per natura, il dono della sua grazia. Questi ed avrà l' originale infezione sopra di sè, e non potrà adempire perfettamente i divini precetti, onde dovrà necessariamente peccare (3). Ora potrà egli scusarsi al tribunale di Dio dicendo che è condannato per necessità? Non potrebbe scusarsene, per quantunque misterioso possa parer questo dogma all' umana miopia, e ripugnante all' umana superbia, [...OMISSIS...] , e soggiunge con quella immobile persuasione, che sola infonde la fede, e sol la parola dell' eterno crea nell' animo de' fedeli, [...OMISSIS...] (2). Egli è dunque di fede, che Iddio potrebbe con giustizia lasciare anche tutto il genere umano nella sua propria naturale e NECESSARIA perdizione (benchè l' umano ragionamento d' alcuni resti qui quale alocco esposto al raggio solare); ed è pur di fede, ch' ella è sua pura GRATUITA MISERICORDIA, se anco a un sol uomo accordi la grazia, colla quale egli viva bene e pervenga alla salute. E nulla di meno, dopo di ciò, III E` del pari di fede che tanta è la bontà di lui, ch' egli colla volontà sua antecedente e condizionata, ma verissima e sincerissima, [...OMISSIS...] . E l' efficacia di questa bontà s' intende chiaramente, qualora si considerino gl' innumerevoli mezzi ch' egli ha fornito di spontaneo moto al genere umano, pe' quali se l' umanità non n' avesse abusato colla più iniqua sconoscenza, potevano TUTTI I SINGOLI UOMINI pervenire all' eterna salute. E primieramente, avendo egli creati o costituiti i capi dell' umana stirpe in istato d' originale giustizia, questo stato fortunatissimo dovea trapassare in eredità a tutti i posteri, se non l' avessero que' primi, di propria loro libera volontà, perduto. Onde a tutti i singoli loro discendenti era destinato da Dio il mezzo sicuro e facile d' esser sempre santi e felici; e se ora più non sono tali, non a Dio, ma a' proprii padri, che hanno guasta l' umana natura, il debbono imputare; nè Iddio va loro debitore perciò di cos' alcuna, lasciandoli ad ogni modo con tutto il loro: IV E oltracciò egli è certo, in quarto luogo, che essendo Dio sommamente buono, nè pur avrebb' egli permesso il peccato de' primi padri, se non avesse scorto e provveduto, quanto indi dovea ricevere di splendore maggiore la sua misericordia, e quanto dovea crescere nel cuore de' suoi eletti la riconoscenza e la gratitudine di sua carità e la materia quindi alle lodi che gli avrebbero in eterno cantato. Onde S. Paolo, [...OMISSIS...] . V E` certo di più, che dopo il fatto adamitico, Iddio offeso, lungi d' abbandonare l' umana natura a se stessa, gratuitamente promise all' uomo disubbidiente un Riparatore, colla fede alla qual promessa era annessa la grazia di salvarsi: e questa fede nel Riparatore futuro doveva e poteva passare ai posteri, venendo così dato di nuovo a TUTTI I SINGOLI UOMINI un mezzo affatto gratuito di fuggire dal naufragio universale dell' eterna perdizione. Ma essi liberamente rigettarono anche questa seconda misericordia; e Iddio dovette con un castigo esemplare, cioè col diluvio, distruggere le generazioni corrotte, che avrebbero tramandato a' loro posteri non più ciò che avevano da Dio ricevuto di salutare, ma ciò che da sè avean contratto di vizioso e di pernizioso. Ora fino al diluvio non può essere perita quella rivelazione del futuro Messia consegnata a padri così longevi, che Noè era lungamente vissuto con chi avea per lunghi anni conosciuto Adamo. VI Iddio fece Noè, uomo giusto, nuovo capo della stirpe umana, e a lui consegnò il prezioso deposito di quella promessa, che conteneva la FEDE, mezzo di salute destinato di nuovo a TUTTI I SINGOLI DISCENDENTI del nuovo patriarca. Che però tutti i singoli uomini si sarebbero salvati, fino alla venuta del Messia, secondo il gran disegno della divina bontà e longanimità, se di quel dono s' avessero voluto prevalere. Ma molti rigettarono per la terza volta col libero arbitrio la profferta salvezza, facendo onta a quella infinita bontà che pur volea tutti salvi, e alla salvezza di tutti, anche prima della venuta del Messia, avea provveduto; onde, abbandonato Iddio, caddero nell' idolatria, smarrendo il limpido lume della rivelazione e della fede, e la grazia annessa. E come dice S. Paolo, [...OMISSIS...] . Ometto d' enumerare la vocazione d' Abramo, e i peculiari mezzi di salute dati al popolo ebreo, ed altri mezzi non mancati del tutto nè pure all' altre nazioni, benchè sien meno conosciuti; e dico in quella vece, esser certo che VII Iddio, considerata la sua potenza, poteva, senza trovar ostacolo da parte degli uomini, far tutti gli uomini salvi; nè tuttavia egli volle; ma preferì nella sua sapienza e bontà, di salvare alcuni fra rei per gratuita elezione, permettendo che altri perissero. [...OMISSIS...] . Nè agli orecchi di tutti pervenne dopo di ciò la parola di Dio; e nè pure dopo Cristo a tutti fu applicato col battesimo il merito della sua passione, come dichiarò il Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . VIII E` certo quindi ancora, che come non è contro la giustizia e bontà di Dio, che egli permetta la morte de' bambini, non battezzati, nulla togliendo con ciò ad essi, ma non dando loro del suo quanto ad altri; così non si può provare che sia contrario alla sua giustizia e alla sua bontà il lasciar morire altresì degli adulti, a cui non sia stato annunziato il vangelo, dato anche che non avessero aggiunti all' originale, peccati attuali mortali, i quali in tal caso non riceverebbero pena maggiore di quella de' bambini, [...OMISSIS...] . Che se anco degli uomini adulti, a cui non fu annunziato il Vangelo, non potendo colle proprie loro forze eseguire a pieno la legge naturale, cadessero ne' peccati, in quanto ciò avvenisse loro per necessità, non n' avrebbero colpa; ma que' peccati sarebber pena dell' antica colpa, tralci dell' originale infezione. Nè però sarebbe men vero, che le loro volontà fossero inordinate e malvagie, ed essi conseguentemente dannati della dannazione del peccato d' origine. Onde S. Agostino osserva, ch' essi non potrebbero recar per iscusa, [...OMISSIS...] ; perocchè ciò non distrugge il fatto, che vivon male, cioè, per propria volontà, [...OMISSIS...] . In somma coll' esser malvagia la volontà per natura, non per una sua propria elezion precedente, non è men vero ch' ella sia malvagia, e che vivendo male, «DE SUO MALE VIVAT »; ma è vero in pari tempo, che tal morale malvagità è pena, e sciagura, non colpa; e trae dietro a se un male fisico minore di quello che è dovuto alla colpa. Il che riesce difficile a intendere da certuni, i quali pongono il caso di cui si parla in modo alieno dal vero: immaginano cioè quell' impotenza di fare il bene in un uomo, che pur vorrebbe il bene, e che si sforza di farlo, e non può, e perciò cade. Non trattasi, si noti bene, di questo. Colui ha già una volontà incipiente buona: e però s' egli brama, se seco combatte, se prega, sarà aiutato certo da Dio. Chi ne può dubitare, essendo Iddio ottimo? Egli acquisterà certamente tutte le forze che gli bisognano; niuno Iddio abbandona di quelli che a lui ricorrono, e desiderano sinceramente di potere quel che non possono. Ora il caso di cui si parlava è tutt' altro. Trattavasi d' una volontà che non desidera punto il bene, ma al male aderisce; onde di colui che ha tal volontà si può dire col santo dottore: [...OMISSIS...] Ora, se questo è lo stato di un uomo, da qualunque cagione provenga, foss' anco dal solo vizio « quod originaliter traxit », gli è chiusa, fino che così rimane, la porta del cielo; e s' avvera sempre, che [...OMISSIS...] . Di che ognuno che ben intende conoscerà, che il mal morale e la dannazione non vien che dall' uomo, avverandosi il [...OMISSIS...] ; e la misericordia e la salvazione vien solo da Dio; avverandosi il [...OMISSIS...] . E quantunque GESU` Cristo sia morto per tutti affatto gli uomini, non solo per gli eletti, come dissero gli eretici, e dalla sua morte ricevano tutti qualche salutare influenza (3), e a tutti altresì egli profferisca il lume e la grazia, come il sole che a tutti universalmente risplende; tuttavia per proprio difetto, come dicevamo, si perdon non pochi; nè il cieco può lamentarsi del sole se nol rallegra, ma piangere piuttosto l' imperfezione e il vizio della propria natura; quantunque le viziose volontà, di cui favelliamo, nè pure compiangano se stesse per essere moralmente cieche; ma solo si lagnino della fisica pena, che al loro vizio morale s' aggiunge. E tuttavia non è da credere che questo stesso male permetta la divina bontà, se non per cavarne un ben maggiore. Poichè questa crediamo l' unica ragione per la quale Iddio, o ritenga le sue grazie, o ne dia di minori, così esigendo il bene maggiore e l' ordine della sua infinita sapienza (4). IX E` certo del pari, che a tutti quelli che hanno pur conseguita la giustificazione, non possono più mancare gli aiuti senza lor colpa, all' eterna salute, assicurata loro da' meriti e dall' orazione di Cristo (1), bastando la minima porzione di grazia, come dice S. Tommaso, a vincere tutte le tentazioni (2), e dicendo S. Giovanni, [...OMISSIS...] , il che si può spiegare: « non è mai necessitato a peccare. »Laonde non è giammai impossibile ai giustificati l' adempimento de' divini precetti, se pregano, secondo il canone del sacro Concilio, [...OMISSIS...] . X Dee ancora affermarsi, che tutti quelli che dopo giustificati pel battesimo, caddero in colpa mortale, possono di nuovo ricever la grazia, ricorrendo al sacramento della penitenza, fonte di nuova grazia aperto sempre per essi da Cristo. Oltre di che coll' orazione possono impetrare la grazia loro necessaria, quantunque non possano meritarla. La fazione però di Teologi, i cui errori in questo scritto vogliam mostrare, eccedettero anche in questo fino a sostenere cosa probabile, che la sola attrizion naturale basti a giustificar l' uomo, in manifesta opposizione al Concilio di Trento (6), onde anche tale dottrina razionalistica fu dannata dal Papa Innocenzo XI (7). XI Di più, è ancor certo non pugnare nè colla giustizia nè colla bontà divina, che il numero delle grazie, ch' egli conferisce a' peccatori ostinati, sia limitato, e determinato in modo, che scorso quel numero, egli permetta, o che sieno sorpresi dalla morte, o indurati, non [...OMISSIS...] . Dove si noti bene, che tutti quelli che vogliono o sperano, possono sempre salvarsi; non verificandosi l' induramento se non in quelli che più non vogliono e che disperano, sicchè nessuno può dire veramente: io voglio, e non posso. XII E del pari, è certo non opporsi nè alla giustizia nè alla bontà di Dio, che ad alcuni non sia annunziato sufficientemente il vangelo, avvenendo ciò di fatto; come poniamo rispetto agli abitanti d' America e d' altre isole, che vissero in esse prima che fossero scoperte, o in altre ancor da scuoprirsi; giacchè la provvidenza divina, nella sua infinita sapienza e bontà, predispose i tempi e i momenti, ne' quali a ciascuna nazione sia annunziato il vangelo; forse acciocchè abbian prima una cotal preparazione rimota, come pare dal detto di Cristo agli Apostoli: [...OMISSIS...] , prevedendo forse, che non sarebbe ben ricevuta da essi la parola di Dio, e che quindi non servirebbe che ad aggravare le colpe di quelli, a cui fosse annunziata, e da cui fosse ripulsa. XIII Indubitato è pure, che quelli, che non giungono alla giustificazione e alla fede, periscono, perciocchè, [...OMISSIS...] ; non quasichè l' infedeltà loro negativa sia colpa; ma pel peccato originale, e pe' loro peccati attuali. Laonde la fede soprannaturale è di necessità di mezzo, necessaria alla salvazione, [...OMISSIS...] . Ed anche qui la fazione de' nostri teologi detraendo alla grazia divina, soverchiamente attribuirono alla natura, ed alla libertà, volendo che basti a giustificar l' uomo questo solo, ch' egli creda di quella fede che aver si può dal testimonio delle creature, ed alla sola esistenza di Dio, senza la fede esplicita in Dio come rimuneratore del bene e del male (3); dottrina razionalistica, e giustamente anch' essa da Innocenzo XI proscritta. XIV Nè meno si può dubitare, che a tutti quelli, a' quali è proposto sufficientemente il Vangelo, sia data altresì la grazia con cui possano credervi; giacchè le parole di Cristo: [...OMISSIS...] , indicano sufficientemente quella giudiciale condanna, che suppone la colpa, la quale aver non potrebbero, se rimanesser privi della grazia sufficiente per credere. Di più, a tutti quegl' infedeli, a cui Iddio dà delle grazie attuali disponitive alla giustificazione, non può pensarsi che lasci poi mancare i mezzi necessarii di pervenire effettivamente fino alla giustificazione, foss' anco bisogno di mandar loro per miracolo un Apostolo, o un Angelo ad annunziare loro il vangelo, acciocchè [...OMISSIS...] , e così pervengano a ricevere, almeno in voto, quel battesimo che è [...OMISSIS...] . Oltre di che, anche l' orazione d' un infedele, benchè meritar non possa, può però impetrare; ed egli può altresì dimandare nella sua orazione la naturale giustizia, sentendosi rispetto a questa in quella condizione che descrive l' apostolo, dicendo, [...OMISSIS...] . Poichè non supera le forze della natura il volere la naturale giustizia, con una volontà universale, cioè ancor piccola, e priva di forza pratica a perfezionare tutto il bene che l' umana ragione dimostra. Ed una tale volontà, ossia volizione attuale, benchè inefficace ad operare pienamente il ben naturale, può però guidare l' orazione della creatura al suo Creatore naturalmente conosciuto; il quale in tal caso non mancherebbe d' aggiungere per sua pura misericordia i suoi aiuti, implicitamente in quell' orazione dimandati. Se dunque gli atti della volontà (3) d' un infedele fossero naturalmente sì buoni, da desiderare la naturale giustizia, da dimandarla, ed isforzarsi, quanto può, ad adempirla, sarebbe costui, non punto io ne dubito, da Dio soccorso. Perocchè, come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Ma dubito però assai, che, senza la grazia, possa la mente d' un uomo sollevarsi a sì alto pensiero di domandare al Creatore il dono della giustizia, benchè naturale. Se questo è possibile, sarà possibile a ben pochi; poichè naturalmente l' uom si persuade, essere la virtù riposta nel proprio arbitrio: e pare che solo un raggio superno ci abbia insegnato a conoscere il segretissimo e copiosissimo fonte di ogni giustizia e di ogni santità. Che se via più addentro meditar volessimo nelle divine giustificazioni, dandoci Iddio lume a ciò sufficiente, ci convinceremmo di più, che Iddio sempre mosso dalla sua essenziale bontà, ottimo ugualmente si trova e nel dare che fa le sue grazie, e nel negarle altresì; non negandole egli mai, se non per trarne un bene maggiore alle sue stesse creature; il qual bene, per le limitazioni necessariamente inerenti a tutto ciò ch' ebbe principio nel tempo, non si può ottenere senza permettere il male (1), salva almeno la legge di parsimonia, parte essenziale della divina sapienza. Le quali cose tutte rendono in fin manifesto, come alla giustizia contempera Iddio un' ineffabile, pienissima misericordia. [...OMISSIS...] , per usare ancora le parole di S. Agostino, [...OMISSIS...] . Che si dia adunque un male morale nell' uomo, necessario nel suo soggetto (l' uomo), e nella sua causa prossima (la volontà istante), benchè in origine veniente da un pravo esercizio della libera volontà, egli è un vero innegabile, dalla rivelazione insegnato, dall' esperienza e dalla ragion confermato; il qual vero nè offende la divina giustizia, nè ne impedisce la misericordia, a cui apre un campo amplissimo e gloriosissimo. Ma noia tuttavia un vero così luminoso alle pupille di quelli, che più che d' esaltare la bontà divina, si curano di celebrare la umana; onde strillano al vocabolo necessità , come se il solo pronunciarlo, fosse un distruggere quel libero arbitrio, che se in nulla fosse necessitato, certo potrebbe ogni cosa, e non avrebbe più bisogno di Dio. Oltre questo assurdo teologico, in cui s' urterebbe escludendo ogni necessità dai movimenti della volontà, s' incorrerebbe anche nell' errore filosofico (prolifico di gravi ed erronee conseguenze anche in teologia), che la natura non operasse con leggi fisse sue proprie, o che la volontà non fosse anch' essa una natura, come insegna così apertamente S. Tommaso. Una di queste leggi della volontà e dell' intendimento, come natura, fu da me espressa in queste parole, che dispiacquero a' nostri teologi inclinati al Razionalismo: [...OMISSIS...] Nelle quali parole ogni uomo, che un po' si conosca di filosofia, intende chiaramente, che si dichiara la legge della spontaneità della volontà, e che non vi si parla della libertà; ma della volontà , la quale viene ivi definita per la potenza di operare in conseguenza di ciò che s' intende. Le persone poi che non ignorano le dottrine da me premesse sulla semplice libertà, sanno ancora, che la libertà , è una forza dell' anima DOMINATRICE E DETERMINATRICE DELLA VOLONTA`, avendo io definita la libertà per [...OMISSIS...] . Coll' esporre dunque le leggi psicologiche, secondo le quali si move la volontà lasciata a se medesima, non si nega, nè si distrugge quella potenza superiore ad essa che LIBERTA` si chiama, e che è nata a dominare la volontà modificandone ed infrenandone gli spontanei movimenti. Quindi dopo aver noi parlato di questi spontanei movimenti della volontà semplice , passammo a parlare della libertà, definendo quando ella possa impedire que' moti spontanei, e quando non possa. Dicemmo poi, che essa può sempre farlo, qualora abbia tempo d' accorrere, e la rapidezza de' movimenti inferiori spontanei della volontà semplice eccitata non la prevengano, e così esprimendoci: [...OMISSIS...] . Il sig. C. all' intendere che la volontà si muova per una legge fisica dietro i bisogni pronuncia questa sentenza: [...OMISSIS...] . Ma, con sua pace, fa piuttosto meraviglia che egli non sappia, o non abbia imparato dalla lettura dello stesso libro che censura, che le leggi fisiche a cui obbedisce la volontà possono dalla libertà esser dominate, purchè non manchino le condizioni necessarie all' operazione di questa potenza, che tiene in sua balía gli atti stessi della volontà spontanea. E fa meraviglia ancor maggiore, che lo stesso nostro censore confessi poco appresso in altre parole, quel vero, che riprende in noi così acerbamente. Poichè alla facciata .4 del suo opuscolo, nota ( i ) dice così: [...OMISSIS...] . Dove in prima convien notare ch' egli traduce il praecipue di S. Tommaso per, al più . Siamo qui obbligati di mandare il teologo a consultare il Dizionario. S. Tommaso dicendo, che la consuetudine produce necessità PRINCIPALMENTE negli atti repentini, riconosce poter intervenire una necessità di operare anche in qualche altro caso non repentino , e così dice più di quello che diciamo noi, attribuendo noi sempre la necessità alla fretta con cui opera la spontaneità, quando tal fretta non lascia tempo alla ragione od alla libertà di accorrere e sovvenire all' uomo. In secondo luogo con ciò ritratta quello che avea detto prima, quando parlando del passo di S. Agostino che S. Tommaso interpreta della necessità in repentinis praecipue scrivea con una piena generalità di parole così: [...OMISSIS...] . Convien dire che S. Tommaso non sia un Dottore cattolico , secondo il nostro C., giacchè, per sua confessione interpreta quel passo diversamente da quel che fanno i dottori cattolici. Finalmente ognuno può vedere, se la dottrina di S. Tommaso d' accordo con quella di S. Agostino, che [...OMISSIS...] sia o non sia uguale a quella da noi esposta ne' passi surriferiti, ne' quali si riconosce necessità là dove [...OMISSIS...] . Se non che il C. con tuono quanto insultante, altrettanto menzognero continua così: [...OMISSIS...] . Io dimando compatimento al lettore cortese, se in questo e in altri scritti vo dicendo delle cose trite e soverchiamente comuni. Ma egli consideri (di nuovo il protesto) che la carità mi spinge a scrivere a mio mal cuore, ed a ripetermi e a diffondermi; ben sapendo che gli scrittori razionalisti non possono nuocere colle loro perniciose dottrine agli uomini pienamente istruiti; ma a quelli soli (e ne' nostri tempi sono troppi) pe' quali scrivono e di cui allettano, favellando religiosamente gli orecchi. A questi che nè sono teologi, nè sanno il loro giudizio sospendere, oppure lo sospendono a prò dell' errore e a danno del vero, vuole la carità di Cristo che si sovvenga quanto si può per me, e perciò adduco in questo e negli altri scritti copiose prove di quelle primarie verità che s' impugnano da' contrarii. L' una delle quali è questa appunto, che la passione giugne a legare in certi istanti l' umana libertà, e a trascinar seco la spontaneità del volere; benchè a nessuno di quelli che fedeli a Dio, vivono sotto la sua protezione avvenga giammai che sieno quinci condotti a peccati mortali tanto da essi odiati. A provar questo vero adunque, oltre l' autorità di S. Agostino, e di S. Tommaso, che il nostro C. questa volta volle accompagnar della sua, aggiungerò quella d' un solo Teologo pregiato da tutti senza eccezione, voglio dire di Domenico Viva della Compagnia di Gesù. Il quale scrive appunto nella nostra sentenza così: [...OMISSIS...] . Il nostro teologo dunque C. P., dopo molti andirivieni, è obbligato a concederci finalmente che esiste un modo necessario d' operare della volontà umana, e concede che questa sia dottrina de' dottori cattolici. Ma tempera poi questa concessione dicendo: [...OMISSIS...] . Le quali parole richiedono nel caso nostro diverse osservazioni. Primieramente è da ricordare, che già prima lo stesso nostro autore avea riconosciuto darsi un volontario necessario non solo nella perdita totale della ragione nell' ubbriachezza e nella mania; ma ancora ne' moti repentini. Avea confessato che S. Tommaso insegna, che [...OMISSIS...] . Di poi è da considerarsi, che le parole di S. Tommaso da lui addotte per provar le sua tesi, [...OMISSIS...] non riguardano lo stato di pazzia o di ubbriachezza, nel quale la ragione è perturbata per un eccitamento fisico, come falsamente pretende il nostro teologo. S. Tommaso parla di un eccesso momentaneo di passione veemente d' amore, o d' ira, o d' altra simile perturbazione, volendosi dire in fatto che l' uomo nel momento della passione venuta all' estremo, diviene siccome pazzo, secondo il detto che [...OMISSIS...] ; onde Cicerone del furore afferma, che [...OMISSIS...] , e in generale i latini scrittori usano la parola insanire per esprimere l' effetto d' ogni veemente passione (3). In terzo luogo qual è il valore e la forza di quell' espressione dell' angelico [...OMISSIS...] ; espressione ripetuta poi da' teologi? Nel brano stesso del « Trattato della Coscienza » citato dal Signor C. se ne dà la spiegazione e l' analisi; pure, dopo averlo riferito, egli si fa dimandare: [...OMISSIS...] . Rispondiamo che non vi si ravvisa certamente, nel senso, che pretende il Signor C., perchè non vi si dee ravvisare; ma vi si ravvisa nel senso di S. Tommaso, e della comune de' teologi. Poichè nè S. Tommaso, nè i teologi parlano, come egli suppone, di un uomo, che « sia interamente uscito di senno »qual è colui che si manda all' ospizio de' pazzarelli; ma parlano d' un uomo, che nell' istante che opera non può far uso di sua ragione all' intento di vincere l' impetuosa passione. E nè pure è da credere, ch' essi parlino d' un uomo « in cui cessi da ogni suo ufficio la ragione »; poichè anzi essi parlano solamente d' un uomo, in cui la ragione cessa dal suo ufficio di deliberare; parlano di un uomo a cui la passione ha tolto intieramente l' uso morale della ragione, o, in altre parole, in cui è sospeso quest' uso della ragione morale , com' io più spesso mi esprimo, chè così dee spiegarsi sanamente il [...OMISSIS...] di S. Tommaso. Poichè egli è certo che basta che la ragione non possa accorrere, e in tempo utile deliberare, acciocchè l' uso della ragione sia interamente tolto, quanto fa al caso, benchè la ragione non cessi da ogni altra sua funzione. Laonde [...OMISSIS...] , come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] , dal qual passo si vede chiaramente che S. Tommaso parla della ragione Deliberante , non della ragione presa in universale quando dice, [...OMISSIS...] , le quali perciò si debbon tradurre « che impedisce affatto all' uomo di deliberare a favore della giustizia. » E per vero niuno dica mai che pecchi colui (prescindendo dalla reità che può avere in causa) che non può coll' uso di sua ragione venire in soccorso alla volontà soprafatta dalla passione. Ora che quest' uso morale della ragione possa mancare, senza che perciò venga meno necessariamente ogni altro uso di essa, scorgesi osservando quant' accade negli stessi ubbriachi e negli stessi pazzarelli come pure ne' bambini. E` un pregiudizio volgare e crudele (e dovrebbe una volta cessare) il credere, che gli ubbriachi, i pazzi ed i bambini non facciano alcun uso affatto della loro ragione, e lo chiamo un pregiudizio non solo volgare ma anche crudele; perocchè ad esso si devono pur troppo imputare i barbari trattamenti che s' usavano una volta verso i miseri pazzarelli, de' quali non riguardati oggimai più come esseri ragionevoli, si faceva impunemente ogni strazio, ed ogni abuso: e lo stesso press' a poco è a dirsi degli ubbriachi. Non v' era nè pure chi pensasse seriamente all' educazione de' bambinelli, salve le sole madri che contraddicendo col provvido loro istinto alla comune ignoranza e barbarie; credevasi inutile studiarsi a dirigere e sviluppare le loro razionali facoltà che si negavano in essi o senza attività si credevano, e dovea solo forse allo scoccar de' sett' anni incominciare tutto improvviso l' uso della ragione . Il che era vero, presso a poco, se per uso della ragione si fosse inteso l' uso della discrezione del bene e del male , come pur dicevano i savi teologi, il che è quanto dire l' uso della riflessione e della libertà, l' epoca quinci del merito e del demerito. All' incontro l' uso della ragione in universale presa come potenza a cui appartengono le funzioni del percepire, dell' universalizzare, del giudicare, dell' analizzare, del sintesizzare ed altri tali, incomincia, vel crediate o no, nei bambini pure col primo riso, con cui salutan la madre. Negli ubbriachi parimente e ne' pazzarelli, sieno maniaci o monomaniaci, l' uso della ragione non è mai tolto del tutto, anzi v' è egli attivissimo; ma per isventura non regolato nelle cose necessarie al vivere e non preceduto da una sufficientemente ponderata deliberazione: percepiscono dunque, universalizzano, fanno de' giudizii e de' raziocinii e talora anco giusti; ma spesso anco sbagliati: e quando riescono troppo di frequente sbagliati in quelle cose ordinarie, nelle quali non falla il comune degli uomini, allora si hanno per pazzi. Che se si dimanda di più la causa onde avviene che l' uso della ragione proceda in essi così sregolato, l' osservazione di un tal fenomeno e la meditazion vi dirà che i loro giudizi sono traviati dalla loro propria volontà, la quale è la potenza che d' ordinario muove e conduce il ragionamento; vi dirà ancora che quella loro volontà poi che travia in essi il ragionamento è fieramente predominata e tiranneggiata dalla attuosità delle immagini, dalla potenza degl' istinti, dalla forza delle opinioni fisse, e dalle abitudini e dalla urgenza seduttrice delle passioni. Sotto alla qual crudele tirannide dell' animalità esaltata, irritata e prevalente la luce liberatrice della giustizia manda ancora i suoi raggi: e talora consiglia quegli infelici, talor li consola (1). La maniera poi onde la passione del sensitivo istinto domina cotanto e trascina la volontà ce l' insegna S. Tommaso, che insegna che non può la passione muovere la volontà direttamente, ma sì indirettamente (2), ed ella fa ciò sottraendo alla libertà le forze dell' anima; perchè dall' anima, come da loro radice, traggono la loro attività tutte le potenze; e l' anima ha una virtù unica e limitata; ond' avviene che se questa virtù sia distratta parte o tutta da una sola potenza, poniamo da quella del senso e dell' istinto animale, si rimane meno od anche nulla all' altre potenze, poniamo alla libertà, allora questa si dimostra indebolita, sfibrata, inerte, ed oppressa dalla veemenza dell' istinto sensitivo cresciuto a tal grado di vigorìa da rapire a se tutta l' anima. [...OMISSIS...] . Di più la passione sensitiva, dice S. Tommaso, trae la mente a fare de' torti giudizii sul valore delle cose, e quindi s' ha un altro modo, pel quale si sregola la volontà, [...OMISSIS...] . Ma qui si deve osservare, che se, dopo che l' uomo ha fatto un giudizio falso sul bene, dopo che, poniamo, ha giudicato che un oggetto sia più buono ch' egli non è, la volontà l' ama di più che non dovrebbe; la volontà stessa però aveva già prima fatto un altro atto col quale avea determinato quel falso giudizio, e quella falsa stima dell' oggetto. Perocchè sebbene la prima apprensione delle cose (percezione, sintesi primitiva) si faccia istintivamente, il giudizio però del loro valore morale ed eudemonologico, si fa sempre per un giudizio diretto dalla volontà, la quale perciò è la causa di tali giudizii (3); e sono sani e retti quando la volontà è sana e retta, e immune dalla violenza di quella passione che, come dice l' Angelico, talora trae a sè sola tutta la forza dell' anima. La mancanza adunque dell' uso della ragione, di cui parla S. Tommaso, che rende l' azione involontaria e, come noi diciamo, non libera, e quindi inetta a meritare, si è quella, per la quale la ragione legata dalla passione non può piú accorrere a deliberare in favore della legge, il qual fatto psicologico da noi viene descritto nelle parole non intese, ma censurate dal C., le quali furono queste: [...OMISSIS...] . La ragione del qual ultimo fatto è quella appunto data da S. Tommaso là dove con tanta sapienza scrive, [...OMISSIS...] . Nel brano arrecato io enumero i varii aiuti, che rendono l' uomo possente a vincere la seduzione di sue passioni ed istinti; e tra questi pongo la meditazione del proprio dovere, e l' animo ben disposto . Da questo il Sig. C. induce che io dunque insegno tutte le azioni essere necessarie, quando si fanno senza meditazione e senz' animo ben disposto! All' incontro le azioni necessarie sono da me descritte così: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole si pone a prima condizione dell' atto necessario , che [...OMISSIS...] come accade ne' primi moti. Ma posciachè, quando l' uomo già ottenne il dominio della propria volontà col grand' uso e coll' abito della virtù; l' uomo previene anche i primi moti e gl' insulti impetuosi delle passioni e degl' istinti tenendo questi abitualmente infrenati; perciò non mi sono contentato d' esigere universalmente a costituire un' azione necessaria, che la passione sia urgentissima e repentina, ma ho soggiunto di più ch' ella non sarebbe ancor necessaria, ch' ella potrebbe essere tuttavia libera, qualora si trattasse d' un uomo abituato al bene sì fattamente, da aver già conseguito una piena signoria di sè stesso. Coll' aggiunta di questa seconda condizione si rende ancora più difficile ad avverarsi il caso dell' azione necessaria; e mentre il comune de' teologi si limita a riconoscerla tale dove una passione si renda eccessiva, io feci di più osservare, che la violenza della passione inducente necessità non si dee misurare dal grado assoluto della sua forza, ma dal grado relativo alla virtù dell' uomo in cui ella opera; poichè un uom virtuosissimo dominatore di sè, giunge in tempo a domare eziandio la passione urgente ed al sommo pressante. Ora quelle condizioni, che io posi acciocchè una azione si possa credere necessaria , il sig. C. asserisce che furono apposte acciocchè l' azione si possa dir libera, capovolgendo tutto il mio sentimento. Sicchè mentre io dico, che l' azione non è mai necessaria, se la passione non sia urgentissima d' una parte e dall' altra se l' anima dell' uomo non sia sgagliardita (1); egli mi fa dire all' opposto che [...OMISSIS...] . Egli dunque non intese che l' abito buono non fu da me posto qual condizione dell' azione libera, ma quale aiuto, pel quale l' azione diviene libera anche quando ella tale non sarebbe per l' urgenza della passione: nè intese pure che l' avere uno spazio di tempo nel quale poter sospendere il giudizio pratico, in considerazione della legge che la proibisce, sono condizioni che indubitatamente avverare si debbono in tutte le azioni libere, essendo assurdo il dichiarar libera un' azione, se chi la fa non ha tempo da sospendere il subito giudizio pratico che la produce, nè da considerar la forza e l' autorità della legge che la divieta. Scorgesi in fine che il nostro teologo dimenticò nell' enumerare le condizioni da me richieste, acciocchè un' azione possa credersi necessaria, la principale di tutte, senza la quale sono nulle le altre, la condizione espressa in quelle parole: [...OMISSIS...] . Dopo aver dunque il nostro teologo fatto supporre, che le condizioni da me richieste, acciocchè un atto sia necessario, sieno in quella vece da me richieste, acciocchè un atto sia libero, e dopo aver taciuta la principale o la sostanziale di queste condizioni, che cosa fa egli? Come rivenisse allora dal mondo nuovo, continua così: [...OMISSIS...] . Ma non solo non è da omettersi; ma lo si doveva dire prima; perocchè se fosse stato detto era resa impossibile la censura. Ma il lasciar fuori da una sentenza la parte principale e così renderla erronea e inveire contro di essa come erronea; e finita l' invettiva uscir fuori colla parte taciuta fino allora, e trovarvi un nuovo errore cioè trovare che la parte taciuta contraddice al sentimento precedente falsamente supposto; ella non è questa l' opera d' un uomo amico del vero, ma d' un cavilloso sofista, che tende a stabilire una dottrina erronea sullo scredito della vera (2). I teologi razionalisti per far prevalere il loro sistema falsificano dunque continuamente l' altrui. Il sig. C. giunge a scrivere così: [...OMISSIS...] . In questo passo il nostro teologo nasconde nel silenzio il preciso caso di cui si tratta. Non si tratta già in universale dell' uomo che opera dietro la concupiscenza e l' altre passioni, com' egli fa credere; ma unicamente e precisamente dell' uomo stretto dalla necessità che gli toglie la facoltà di deliberare a favor della legge. Cangiando la questione fa comparir Bajo un lassista, mentre finqui fu tenuto per rigorista, e dichiara il Rosmini ancora più lassista di Bajo! Affine di restituire la verità, metterò sotto gli occhi de' lettori un solo degli innumerevoli passi dal nostro teologo taciuti, e sarà quel che trovasi alla faccia 169 del « Trattato della Coscienza », che così dice: [...OMISSIS...] . I teologi razionalisti impegnati a dimostrare, che la dottrina cattolica sia l' eretica di Giansenio, e che l' eretica de' Pelagiani sia la cattolica, usano anche un altro artifizio. Solleciti di occultare le vere differenze che distinguono la dottrina eretica dalla cattolica, qualora s' abbattono ad alcuna di quelle differenze per confondere la mente de' suoi lettori s' accendono di zelo e con una cotal piega di artificiose parole togliono a far credere, che quella differenza che caratterizza la sana dottrina, sia un errore così sformato, a cui nè pure giunsero gli eretici fin qui conosciuti. Diamone un chiaro esempio. Uno degli errori di Bajo si fu che i moti della concupiscenza, intesa come un mero istinto animale, meritino in senso proprio l' appellazion di peccato, e si riducano al peccato d' origine anche nascendo CONTRO IL CONSENSO DELLA VOLONTA`. [...OMISSIS...] . La dottrina all' incontro della Chiesa Cattolica non conosce peccato di nessuna guisa, fin che la volontà dell' uomo ripugna; perocchè il peccato è « una declinazione (attuale, ovvero abituale) della volontà personale dalla legge. »Onde, se la volontà dell' uomo ripugna positivamente, e ripelle i moti carnali, egli è chiaro, che non può averci peccato , nè dopo, nè tampoco avanti il battesimo; perchè la volontà potenza superiore al senso è qui personale; e però quella, onde si dee desumere la condizione morale dell' uomo. Ma il Bajo disconosciuta questa dottrina, cadde nell' errore, che, avanti il battesimo, sieno peccato anche i movimenti disvoluti e disdetti dalla volontà, anche [...OMISSIS...] , errore che si contiene, almeno esplicitamente, nella condanna fatta dalla Chiesa del Bajanismo. La Chiesa, in pari tempo, non disconosce o nega alcuno de' fatti antropologici; e però nè pur quello che la volontà talora, ridotta a certe angustie e non soccorsa dalla ragione deliberante, sia tratta a consentire spontaneamente a' movimenti istintivi del senso, senza che le sia possibile ripugnare. Ma questo fatto non può già accadere in quelli, che trovandosi in istato di grazia, sono da questa sempre ne' lor bisogni fedelmente soccorsi, com' io ho dimostrato (nel « Trattato della Coscienza » facc. 165 e segg.). Laonde nell' uomo giustificato non ha mai luogo un necessario acconsentimento della volontà a un male conosciuto, perchè trattasi d' una volontà, come dice S. Agostino, dalla grazia liberata. All' incontro in quelli, che o non sono ancora rinati nell' acque battesimali, o mediante le volontarie loro colpe contrassero un abito di peccare, rimangono in istato di peccato, può accadere quel caso funesto, pel quale l' impeto delle passioni e di più tentazioni quinci e quindi assalitrici, tolgano il tempo all' arbitrio di venire in soccorso, onde vinti rimangono. I quali atti non essendo liberi sono peccati in causa, o che questa causa sia il peccato d' origine in essi non ancora rimesso, come S. Agostino tante volte ripete, o che sieno altre colpe nelle quali essi liberamente s' immersero, indebolendo così la propria libertà; con questa differenza però, che se la necessità venne dalla originale infezione, questi atti disordinati, al peccato originale si riducono, e sono uno con questo, e quindi non si possono dir colpe se non riferendole alla libera prevaricazione di Adamo, là dove, se la necessità fu figliuola delle loro proprie libere colpe che ingenerarono la consuetudine; le conseguenti cadute partecipano dalle dette colpe precedenti la denominazione pure di colpe, e diconsi colpe in causa. Tale è la sana dottrina, ed ognuno intende quanto differisca da quella di Bajo, il quale attribuisce la nozione di peccato anche a ciò che nasce contro la stessa volontà; quando la sana dottrina non attribuisce tale denominazione, se non a ciò, a cui la volontà consente, quantunque necessariamente, se questa necessità fu libera in causa. Ma i nostri teologi introducendo la maggior confusione d' idee, fanno in quello scambio, credere che la dottrina cattolica da noi professata, sia peggiore della bajana. Dopo avere il C. recato quel passo, dove noi descrivevamo il fatto della volontà affascinata dalla passione, alla qual cede miseramente, dicendo: [...OMISSIS...] . Per restituire la verità così violata è necessario fare le seguenti osservazioni: 1 Bajo disse, che non s' imputavano i moti della concupiscenza a' battezzati che non consentono, ma aggiunse che s' imputano insieme col peccato di origine a' non battezzati benchè non consentano; e la Chiesa Cattolica dice, che quando la volontà è contraria non s' imputano que' moti mai nè a' battezzati, nè a' non battezzati; 2 Bajo trova un' imputazione a colpa anche negli atti necessarii, e noi all' opposto diciamo che non si dà imputazione a colpa, se non là dove si dà libertà, e però, se si avvera il caso, che la volontà sia tratta a consentire necessariamente non si dà colpa, se non nella causa libera di questo disordine. E` ella questa dottrina peggiore della bajana? Il nostro teologo alla facc. 136, dopo citato quel passo di Bajo [...OMISSIS...] , ripete la stessa accusa così: [...OMISSIS...] . Non è il Rosmini, ma è la Chiesa, che senza il consenso non riconosce peccato alcuno, e che quando la volontà è necessitata a consentire a' subitanei movimenti non riconosce tuttavia colpa, se non nella causa libera che l' ebbe addotta a sì trista necessità. Ma qui a proposito del consenso il nostro teologo crede di ravvisare una contraddizione tra ciò che si trova scritto intorno al consenso nella « Risposta ad Eusebio » e ciò che si dice di esso nel « Trattato della Coscienza ». Ma questa pretesa contraddizione non è altro che un suo novo abbaglio. Egli asserisce che nella « Risposta ad Eusebio » si dichiari, che il consenso sia sempre un atto personale, quando all' opposto nel « Trattato della Coscienza » si ammette una volontà, che stretta dagl' impulsi istintivi, consente necessariamente alla passione, onde dice: [...OMISSIS...] . Ma o non ha osservato, o dissimula che nella « Risposta ad Eusebio » non si parla d' ogni maniera di consenso, ma di un consenso libero , leggendovisi: [...OMISSIS...] nel « Trattato della Coscienza » all' incontro si parla di un consentire necessario della volontà, il che toglie ogni contraddizione (2). E per vero tra lo spontaneo consentire della non anco libera volontà, di cui si parla nel « Trattato della Coscienza » e il libero consenso, di cui si parla nella « Risposta ad Eusebio », vi ha un immenso divario. La LIBERTA` è una facoltà superiore alla VOLONTA`, poichè è « la potenza di eleggere fra le volizioni. »Qualora adunque la volontà da se sola opera senza la direzione superiore, che consiste nella libertà che elegge, ella si lascia andare spontaneamente dietro alle sensazioni, e si dice che a queste consente , secondo l' etimologia della parola, che viene a dire sente con esse, si adatta ad esse. Ma il consenso della libertà è tutt' altro; questa facoltà non consente immediatamente ALLE SENSAZIONI, ma consente ALL' UNA DELLE DUE VOLIZIONI buone e cattive, fra cui elegge, e questo è appunto il consenso sempre personale, di cui parla S. Tommaso, e di cui noi, attenendoci alla sua guida, parlammo nella « Risposta al finto Eusebio ». Ma nella stessa « Risposta » fu distinto un cotal consentire necessario della volontà, e non della libertà, mostrando ivi esser questa maniera di dire usata da' teologi colla testimonianza dell' Estio (3): il che tutto dissimula il nostro censore. I teologi razionalisti diminuiscono col loro sistema la virtù e l' efficacia della grazia del santo battesimo. Questo si vede anche nell' opuscolo che abbiamo preso ad esaminare, come un recente esempio della dottrina teologica razionalistica. In un luogo si attribuisce ai dottori cattolici (questo è il perpetuo loro stile d' attribuire ai dottori cattolici in corpo i propri sensi) la sentenza, che non pone alcuna distinzione tra ciò che può la concupiscenza originale nel non battezzato, e ciò che può nel battezzato. Questo è manifestamente un diminuire l' effetto salutare del battesimo, per voglia d' esaltare l' umana natura, incorrotta, com' ei la crede, che, secondo la sostanza del suo discorso, non ha di questa medicina del battesimale lavacro bisogno assoluto e solo gli bisogna il battesimo, come diceva Giuliano d' Eclana, per ricuperare i soprannaturali ornamenti (1). Ecco quali sono le sue parole: [...OMISSIS...] . Il nostro teologo dunque attribuisce ai dottori cattolici la sentenza, che non ci sia differenza alcuna tra gli uomini battezzati e non battezzati circa il potere che hanno gli uni e gli altri contro gli assalti della concupiscenza, di maniera che, rispetto a questi, l' effetto del santo battesimo sia del tutto nullo. Ma è ella veramente questa la dottrina cattolica? Non è anzi un calunniare i dottori cattolici l' affibbiarla loro? Vediamolo diligentemente. Se dunque fosse vero, che i Dottori cattolici, (il che è quanto dire la Chiesa, perchè si prendono tutti i dottori in corpo senza eccezione), non riconoscessero alcuna differenza tra i battezzati e i non battezzati, quanto alla vigoria dell' umana volontà e libertà in vincere le passioni della concupiscenza; a che si ridurrebbero gli effetti del santo battesimo? A che vogliono ridurli i teologi razionalisti? Alla remissione del peccato originale? Ma questo peccato che essi diconlo peccato secundum quid e quadamtenus non è nel loro sistema che un peccato di mero nome, ed erano più conseguenti i pelagiani che schiettamente negavano il nome di peccato alla semplice privazione della grazia. All' infusione della grazia soprannaturale? - Ma che cosa è questa grazia, in bocca de' teologi razionalistici, i quali negano ch' ella abbia virtù di attenuare le forze della concupiscenza, e d' accrescere quelle del libero arbitrio, non facendo riguardo essi a questo distinzione alcuna tra battezzati e non battezzati? Il sacrosanto Concilio di Trento decise quanto segue: [...OMISSIS...] . Ora i cuori di quelli, ne' quali è diffusa la carità dallo Spirito Santo e a' quali questa caritƒ diffusa in essi è aderente ( illis inhaeret ), questi cuori che sentono in se stessi la figliuolanza di Dio, e, come dice l' Apostolo, chiamano, animati dallo Spirito Santo: Abba Pater , saranno essi egualmente deboli e fiacchi contro l' ingenita concupiscenza, come quelli che non hanno punto ricevuto col santo battesimo il dono di Dio? Io me ne appello a tutti i fedeli di Cristo, alle anime che amano Iddio; e sono certo, che s' ottureranno gli orecchi come a bestemmie ingiuriose a Cristo ed al Santo Spirito, udendo tali parole del nostro teologo anonimo, e de' suoi confratelli «(V. la mia Risposta al finto Eusebio n. 106) ». Ne' celebri capitoli intitolati: [...OMISSIS...] leggesi tra le altre cose della grazia santificante così: [...OMISSIS...] . Ed ora da che può esser liberato il libero arbitrio, in virtù della grazia, se non da' suoi nemici, che si riducono in fine sotto il nome di concupiscenza? Con qual verità dunque i teologi razionalisti asseriscono che i dottori cattolici insegnino, che circa il potere di astenersi dalle azioni peccaminose non v' ha differenza tra battezzati e non battezzati? Non è questo un passare da un estremo all' altro, e per evitare l' errore di quelli che distruggono nell' uomo, o prima che sia rigenerato, o prima e dopo, il libero arbitrio, cadere nell' errore di quegli altri, che spogliano dalla sua virtù liberatrice e santificatrice la grazia di GESU` Cristo, la qual viene infusa nel santo battesimo? Facciamo un semplice e spassionato paragone tra la dottrina di tali teologi e quella già condannata dalla Chiesa ne' pelagiani, e apparirà manifesto il loro inganno ed il loro errore. I pelagiani dicevano, che la natura umana nasce presentemente senza vizio alcuno e colla sola privazione de' doni gratuiti (1): e il medesimo dicono i nostri teologi moderni. Ma come si salvano dunque, cioè credon salvarsi, dalla condanna di questi antichi eretici? Ritenendo la stessa loro sentenza, ma vestendola d' altre parole. Gli uni e gli altri convengono, che la natura umana nasce senza vizio, con tutti i suoi pregi naturali, e solo priva dei doni gratuiti. Questa è la sentenza comune, ora viene la differenza nelle parole. Quegli antichi confessavano ingenuamente, che nè la privazione de' doni gratuiti, nè le naturali limitazioni, nè i difetti naturali procedenti da quelle, erano peccato , e in questo dicevano bene. Furono adunque condannati, perchè negavano il peccato originale. Questi moderni, tementi la condanna stessa, dicono che quella privazione de' doni gratuiti è peccato, e in ciò dicono male. Ma col dire in tal modo un errore di più, saranno dunque assolti dalla condanna antica? Non credo io. Similmente s' osservi quanto agli effetti del battesimo. Sì gli antichi pelagiani che i moderni teologi dicono, che l' effetto del battesimo consiste solamente nel restituire alla natura buona l' ordine migliore della grazia [...OMISSIS...] questa è la sentenza comune. Ma gli antichi eretici confessano ingenuamente, che l' innalzare semplicemente la natura umana all' ordine soprannaturale, non è lo stesso che assolverla dal peccato; e dicevano bene. Furono adunque dannati perchè negavano che i bambini si battezzassero « in remissionem peccatorum ». I moderni teologi dicono all' opposto, che innalzare la natura all' ordine soprannaturale, è lo stesso che rimetterle il peccato originale; e dicono male. Ora di nuovo, eviteranno questi la condanna, solo col dire un errore di più di quelli? L' eresia consiste in semplici parole o nel senso e nella dottrina, qualunque sieno le parole che si adoperano per esprimerla, o per coprirla? Non verrebbe esposta la nostra santa fede al dileggio degli increduli qualora ella si facesse consistere in puri giochi di parole? Non sarebbe esposta al ridicolo la sacra teologia, qualora potessero dire con qualche verosimiglianza, che i teologi ritenendo le parole sanno di mano in mano modificare e cangiare con sottigliezze e vocaboli, le più essenziali e fondamentali dottrine del cristianesimo? Se si cerca, qual sia la dottrina sana della Chiesa intorno alla naturale possibilità dell' uomo, ed a quella possibilità di viver bene che egli acquista coll' infusione della grazia, conviene indubitatamente rispondere, che la Chiesa decise: [...OMISSIS...] , cioè aver tutti gli uomini perdute due cose, 1 l' innocenza e giustizia, e 2 la possibilità naturale di viver bene; onde S. Innocenzo papa rispetto a questa seconda perdita, così s' esprime: [...OMISSIS...] . Contro alla qual dottrina della cattolica Chiesa offendono apertamente coloro che al battesimo negano la virtù di ristorare le forze del libero arbitrio infiacchite contro la concupiscenza e dichiarano, esser queste uguali nel battezzato e nel non battezzato, come fanno i recenti teologi. Dopo di ciò la Chiesa ancora decise, che [...OMISSIS...] . Fin qui va la questione della dottrina generale. Dopo questa, viene poi la questione del fatto, la quale dimanda: « quando si verifichi, che l' uomo operi il male senza libertà e però senza demerito. » La possibilità intanto di questo fatto la Chiesa l' ammette e suppone pur colla condanna delle proposizioni di Bajo: [...OMISSIS...] , dalle quali e da altre somiglianti, scorgesi, come abbiam provato innanzi, che la Chiesa riconosce ed ammette un operare volontario, ma necessitato, di modochè la parola voluntarium , giusta tali decisioni della Chiesa, non sempre significa liberum , come contende il nuovo Teologo. Questo dunque appartiene ancor alla dottrina della Chiesa cattolica. Ma per venire alla questione di fatto: « quando si verifichi che l' uomo operi senza libertà e però senza merito nè demerito, » oltre il sapere in generale che qualche volta si verifica, il che, come dicevamo, è già parte del cattolico insegnamento; conviene di più determinarne per quanto si può i casi precisi. Al che ottenere vi hanno due lavori a farsi. Poichè altro è determinare i casi, ne' quali l' uomo opera necessariamente in generale, descrivendo le condizioni e le circostanze, sotto l' influenza delle quali egli procede colla necessità; ed altro è poi nel fatto reale accertarsi che tali condizioni e circostanze abbiano luogo in questa o quell' azione particolare. A ragion d' esempio alcuno dirà, che la passione può in alcun istante pigliar tant' impeto ed una così veemente uscita, ch' ella tolga all' uomo la libertà. Ma il dir questo non è mica un dire che in un dato fatto particolare di Tizio o di Cajo siasi avverata questa condizione, non è un dire, che la passione in Tizio od in Cajo sia stata realmente così urgente e così pressante in una data azione da trascinare la spontaneità ed impedire l' arbitrio della volontà. Anzi ella è cosa difficilissima o piuttosto impossibile il definirsi questo con piena certezza nel caso reale, e a Dio solo suol essere pienamente noto. Laonde l' uomo che opera con passione, grandemente s' illuderebbe s' egli leggermente credesse d' aver operato con necessità, anzi in luogo di scusarsi dee certamente condannare se stesso, non solo per le colpe attuali, che gli cagionarono quella torbida e violenta passione, non solo per le occasioni, a cui probabilmente s' espose, e per gli irritamenti a lei conceduti, non solo per non esser ricorso bastevolmente agli ajuti, co' quali avrebbe dovuto e potuto prevenire la sua caduta, ma ben anco per l' atto posto quando essa passione irruente in lui, videsi traboccata nel precipizio: e ciò perchè se da una parte questo gli mostra che tutto è disordinato in lui fin la stessa sua volontà, che è egli stesso; dall' altra perchè egli ha sempre troppa ragione di temere che la stessa sua libertà non fosse legata del tutto, essendo questo, come dicevamo, oltre modo difficile, se non impossibile a definirsi. Dal che apparisce, che lo stabilire semplicemente colla Chiesa cattolica che la passione aiutata dalla consuetudine delle colpe e lasciata andare innanzi ne' suoi riscaldi senza la debita vigilanza, possa talora addur l' uomo a sì stretto passo, al quale egli sdrucciola necessariamente; non è già un dare ansa e sicurtà agli uomini appassionati od abituati a peccare; ma è piuttosto un ammonirli di non confidare nelle forze proprie, ma di ricorrere a G. Cristo liberatore, di cui hanno un bisogno assoluto, per andar salvi dalla crudele tirannide del demonio e dalla loro propria concupiscenza. A torto dunque i teologi di cui parliamo sostengono, che le forze del battezzato, e del non battezzato sono ugualmente capaci di resistere al male; scagliando acri invettive contro quelli che dicono il contrario, asserendo che coll' ammettere una necessitá di cader ne' peccati, senza la grazia di Cristo, aprano la porta alla dissolutezza, con troppo basse parole dicendo, che questa è [...OMISSIS...] . L' estenuare gli effetti del sacramento del battesimo, col quale gli uomini s' incorporano a Cristo, e sono sollevati dalla condizione della natura guasta, all' ordine delle cose soprannaturali, e al regno di Dio favorisce oltremodo la tendenza di questo secolo d' incredulità e di diserzione dalla fede cattolica. La filosofia divisa dalla religione indefessamente lavora a introdurre nel mondo un sistema di Razionalismo che tenga luogo d' ogni religione positiva. Il protestantismo che non può resistere a' suoi assalti si associa ogni dì più con esso allo stesso intento, e rifondendosi in una pretesa religion naturale va cessando d' esistere come credente ad una positiva rivelazione. Predicatori inspirati dall' umana superbia scuotono la fede delle plebi stesse, e già, nelle nazioni protestanti, si trascura l' amministrazione del battesimo, se ne altera la materia e la forma, non considerandosi oggimai questo principal sacramento che come un semplice rito, onde si trovano già moltissimi adulti non battezzati, e degli altri si dee giustamente temere, non forse sieno stati battezzati invalidamente. I filosofi del protestantismo, ed i razionalisti biblici della Germania, con migliaia di libri e d' opuscoli diffondono per ogni canto d' Europa lo stesso spirito freddo, falso, per essenza miscredente, lusingatore dell' orgoglio umano e lo comunicano di nazione in nazione. Nella Francia cattolica entrò legalmente sotto il titolo di Scuola Normale di Filosofia. E sarà ora una dottrina indifferente, e degna di trascurarsi a' nostri giorni quella de' nostri teologi, che insinuano apertamente che il battesimo non accresce le forze dell' uomo ad evitare il peccato? Alla quale, nello spirito razionalistico, consuona pur quella filosofica, che da' sensi, a' quali s' attribuisce la conoscenza, o che dalla forza subbiettiva dell' anima fa venire all' uomo le idee, onde la verità, che nelle idee si contiene, è fatta con ciò figlia anch' essa dell' uomo, non più eterna, non più divina, quand' anco con una perpetua incoerenza si protesti il contrario. Così accade che il Razionalismo corrompa ogni dì più l' educazione della gioventù cristiana, rendendola vana e superba; insegnandole che dalla sua ragione viene la verità, dal suo libero arbitrio la virtù: la rivelazione non esserle necessaria assolutamente; anche senza il battesimo poter essa volere e vincere le proprie passioni. Questo tentativo benchè ne' nostri Anonimi s' appalesi più manifesto, non è per avventura nuovo ma antico, essendosi insinuato già, lentamente, come dicevamo, da più di due secoli; egli non è accidentale, non è momentaneo; ma è concertato in sistema, replicato, incessante. Si è taciuto finora, o almen parlato sommessamente per non rinfrescare la memoria di scandali quasi obliati. Ma io credo, che Iddio già più non voglia che si nasconda la radice del male che occultamente serpeggia: la provvidenza divina ha permesso che quello spirito infausto di Razionalismo e di Pelagianismo, che segretamente corrode i visceri del cristianesimo, toglie la virtù a' sacramenti, ed anco la passione e la morte di GESU` Cristo, scoppiasse più aperto negli opuscoli di alcuni teologi cattolici, fors' anco in buona fede da parte loro, ma con dottrina non sana. Abbandoniamo ogni causa o disputa personale, e siamo solo solleciti della purità della fede, della causa di G. C. e della sua Chiesa. Nessuno che consideri le cose spassionatamente potrà dubitare che i nostri Anonimi in sostanza rinnovano insieme uniti, e sotto color di pietà un assalto alla dottrina della Chiesa ed alla grazia del Redentore; de' quali negli scorsi secoli s' ebbero tanti esempi e basti accennare solo quello celeberrimo dei PP. Arduino e Berruyer. La « Storia del popolo di Dio » di quest' ultimo, di cui s' era promessa la correzione, uscì alle stampe ancor tale, che dovette condannarsi in Roma stessa nel 1734, e poi due volte di novo da Benedetto XIV (1) ed una terza da Clemente XIII (2) dandosi così una prova di più che lo spirito razionalista e pelagiano non teme i replicati fulmini della Chiesa. Ora si raffrontino i sentimenti de' nostri teologi con quelli del Commentario sopra S. Paolo dell' Arduino e della « Storia del popolo di Dio » del suo confratello, e si riscontrino agli originali proscritti dalla Chiesa, le copie. Lo stesso esaltamento della forza della natura, la stessa depressione della grazia di Cristo; un estenuare gli effetti del battesimo, un disconoscerne la virtù salutifera di mitigare i moti della concupiscenza, un diminuire la necessità della redenzione: niuna grazia veramente medicinale, giacchè non può esservi medicina dove non ci ha malattia; una sufficienza, una integrità, una beatitudine all' uomo dovuta senza il lavacro del Redentore. E sogliono costoro attribuire tutti gli errori che seminano, a' dottori della Chiesa, ed alla stessa Chiesa. Laonde ci dicono francamente, che, quando si tratta passar dai primi moti ad azioni peccaminose, dicono TUTTI (i Dottori cattolici) [...OMISSIS...] Ed IN TUTTO QUESTO NON RICONOSCONO DIFFERENZA TRA BATTEZZATI O NON BATTEZZATI. Tanta ingiuria che si fa al battesimo del Salvatore, mi sprona a insistere in questo argomento, che d' altra parte può esser utile a confortare la fede de' cristiani. Pur troppo questi sono bene spesso male istruiti circa gli effetti del santo battesimo, e, attesa la materialità e l' incredulità de' tempi, ripugnano sovente a credere fedelmente a quello, che v' ha di più prezioso e di più divino in tali effetti qual è la riformazione e il miglioramento dell' anima umana, di cui l' uomo non ha coscienza, benchè poscia ne sperimenti i vantaggi. Sia dunque messo in più chiara luce il medicinale effetto che viene impugnato del santo battesimo. Nella « Dottrina del peccato originale (n. XCIII 7 CI) » fu dimostrato come si conciliano le opinioni apparentemente diverse de' teologi cattolici che ripongono l' essenza del peccato originale nella privazione dell' originale giustizia , di quelli che la ripongono nella stortura della volontà, e di quelli che la fanno consistere nella concupiscenza de' non rinati: riprendiamo la descrizione e le prove dell' esistenza della malattia, a cui egli, il battesimo, è soprannaturale rimedio. Fu dimostrato, che ritorna in fondo sempre la stessa dottrina sotto diverse espressioni; e questa unica e consentanea a se stessa è la dottrina della Chiesa dichiarata così sapientemente dal Tridentino. L' identità sostanziale della dottrina insegnata da quei teologi, con varie maniere di parlare, risulta chiara tosto che si definiscano nel debito modo le tre espressioni usate di giustizia originale , di stortura della volontà , e di concupiscenza de' non rinati . Appigliamoci anche qui alla guida di S. Tommaso. Egli distingue la giustizia originale dalla grazia santificante , benchè quella in Adamo dipendesse da questa, stantechè la giustizia originale d' Adamo non era solamente naturale, ma anche soprannaturale, e perchè perdendo egli la giustizia rendevasi anche indegno della grazia, in cui era stato da Dio costituito. La giustizia originale in generale è riposta da S. Tommaso nell' ordine delle umane potenze, pel quale le inferiori ubbidiscono docili alla volontà e la volontà ubbidisce al lume della ragione ed a Dio (1). Egli è chiaro, che supponendo l' uomo creato senza la grazia santificante l' ordine delle sue potenze non sarebbe mancato in un essere opera di Dio, e la natura umana sarebbe stata intera , come acconciamente la chiamano i teologi. Ma in tal caso Iddio sarebbe stato conosciuto dall' uomo col solo lume naturale; e la sua volontà sarebbe stata sommessa a lui così conosciuto: le inferiori potenze poi avrebbero tuttavia ubbidito alla sua buona libera volontà. La giustizia originale dunque in una tale ipotesi, non potea esser più che una giustizia naturale quanto alla sostanza, risiedente necessariamente nella volontà; perchè la sola volontà è per se stessa la potenza morale, non appartenendo alla moralità le potenze inferiori, se non in quanto contribuiscono o sono da lei mosse (1) a disporre bene o male la volontà. Laonde la giustizia originale in qualsivoglia caso riducesi alla rettitudine della volontà , che non si lascia distorre dall' ordine di ragione, per niuna lusinga di bene sensibile o soggettivo. Conseguentemente S. Tommaso mette l' essenza del peccato originale ora nella privazione dell' originale giustizia, or nella stortura della volontà, rientrando queste due cose l' una nell' altra; poichè, definito in che cosa consiste il disordine della volontà [...OMISSIS...] , applica questa definizione al primo peccato così: [...OMISSIS...] . Il qual medesimo disordine nella volontà è pure ne' discendenti del primo padre, che il ricevono insieme colla natura: [...OMISSIS...] . E nondimeno non si dee già credere che quest' avversione della volontà personale sia un positivo odio di Dio, o un' inclinazione che rechi la volontà ad odiare direttamente il sommo bene come pazzamente vollero i bajani (1). Ella consiste bensì in un lasciarsi andare facilmente e in certe circostanze irresistibilmente al dolce del sentimento della natura, in vece di starsi eretta e fissa in quel lume di ragione, dal quale essa dee prendere l' ordine dell' operare e la misura del godere (2). Laonde la ragione prossima di questa deviazione abituale della volontà dall' ordine di ragione, è attribuita all' animalità che agisce con insolente violenza e trae a sè e quasi lega l' anima intellettiva; e questa efficacia dell' animalità assorbente per così dire la miglior attività dell' anima umana si origina, a quanto sembra, dall' attuosità del seme, chiamato per ciò appunto da Innocenzo III ed altri dottori infetto e corrotto. Laonde benchè solo l' anima intellettiva e volitiva sia il subietto del peccato originale, tuttavia, [...OMISSIS...] . E tuttavia è ancor da notarsi, che questo attraimento soverchio che fa la carne dell' anima intellettiva a sè non è ancor propriamente il peccato originale; ma il peccato originale è l' immediato effetto. Poichè a cagione di quell' attraimento, avviene, che l' anima intellettiva sia alquanto ottenebrata (e quest' appartiene alla piaga dell' ignoranza), e alquanto sgagliardita (e quest' appartiene alla piaga della difficoltà) e così sia st“lta dall' ordine di ragione e però da Dio, non rimanendole più forze sufficienti a mantenere costantemente in tutti gli atti suoi ad un tempo quell' ordine di ragione, come quella la cui attività è perduta in parte nell' animalità, il che GESU` Cristo espresse colle parole, [...OMISSIS...] . Ora la naturale applicazione di tanta attività dell' anima intellettiva al sentimento della vita animale, è ciò che i teologi chiamano, conversione alla creatura ; e il conseguente languore dell' anima rimasta debole all' ordine di ragione, e priva della cognizione soprannaturale di Dio, è ciò che chiamano avversione da Dio . Essi insegnano adunque che la piega o conversione alla creatura che l' uomo riceve nell' essere generato, è la causa prossima dell' avversione da Dio; nella quale sta propriamente la ragion formale del peccato, [...OMISSIS...] , dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] ; di che deduce, che il concetto del peccato attuale e dell' originale non è dissimile, contro i teologi razionalisti, che a quest' ultimo negano l' esser peccato semplicemente (2). [...OMISSIS...] ; la qual privazione della giustizia, come abbiamo veduto, consiste nel non esser più la volontà aderente all' ordine di ragione. Di che conclude l' Angelico: [...OMISSIS...] . Nella volontà de' bambini adunque (ancora immersa nell' essenza dell' anima) ha sua propria sede il peccato originale, perchè [...OMISSIS...] . E noi pure dimostrammo, che il peccato suppone sempre qualche attualità e solo un principio attivo può avere per suo subbietto. Dalle quali cose s' intende, come anche si dica, che il peccato originale consista nella concupiscenza de' non rinati , e in che senso il dir questo ritorni in fine allo stesso, che a riporre il peccato d' origine nella privazione della giustizia, ovvero nella stortura della volontà. La concupiscenza propriamente definita in un modo generale può dirsi l' inclinazione dell' anima intellettiva verso l' animalità e il bene subbiettivo. A torto i nostri Anonimi la restringono alle sole parti inferiori dell' uomo, nelle quali è l' appetito animale, che non ha per sè solo come è nelle bestie alcuna ragione di difetto morale (1). All' incontro S. Paolo attribuisce alla concupiscenza «phronema» e «nun» (2), e il catechismo del sacro Concilio chiama la concupiscenza ANIMI APPETITIO, e non appetitio carnis; acconciamente così definendola, [...OMISSIS...] . L' Angelico poi dice, [...OMISSIS...] . Si prende dunque acconciamente la parola concupiscenza anche a significare tutta la facoltà di appetire dell' animo umano la volontà stessa spontanea inclinata a fermarsi nel sentimento animale e nel bene subbiettivo; ed è in questo senso, che nella concupiscenza de' non rinati si può collocare il peccato di origine. All' incontro se per concupiscenza s' intendesse quell' attuosità della vita e del sentimento animale che tira a sè l' anima intellettiva, ella è più tosto la causa prossima del peccato originale, cioè della mala inclinazione della volontà anzi che peccato ella stessa (1). L' anima razionale dunque ed appetitiva dell' uomo, quando l' uomo è generato « si precipita, quasi direi nella carne; e il dolce della vita animale la diletta, senza il riguardo debito a quell' ordine di ragione, che a lei essenzialmente intelligente sta pur davanti almeno implicito nel lume della ragione. » Ma si devono distinguere tre cose in questa condizione dell' anima: 1 La potenza razionale di appetire ancor immersa nell' essenza dell' anima, non pur distinguibile colla mente nostra dall' altre potenze; 2 La stessa potenza che già esce e realmente si separa colla sua azione quando emette le sue appetizioni, o volizioni; 3 E questi stessi atti speciali, che si dicono volizioni. Queste tre attività vengono l' una dall' altra, come dalla radice d' un albero vien fuori il tronco; e da' tronchi escono i rami. Gli atti particolari, le volizioni dunque sono produzioni della potenza di volere; la potenza di volere è quasi direbbesi produzione dell' essenza dell' anima, si che consegue, che, se si tratta di atti spontanei della volontà, questi sogliono trarre la qualità loro dalla potenza, ed esser buoni se la potenza è ben disposta, non buoni se la potenza è male disposta. Medesimamente la volontà come facoltà spontanea di operare, tiene la sua disposizione buona o cattiva, cioè ben ordinata o no, che prima aveva quando si giaceva quiescente nell' essenza dell' anima. di che si deduce, che l' essenza del peccato originale quant' alla macchia non si può riporre negli atti particolari della volontà; e nè pure nella volontà come potenza; ma nell' essenza dell' anima volitiva e appetitiva; onde incomincia quel male che si propaga poscia alla potenza ed agli spontanei suoi atti e però il male di quella e di questi si riduce in fine alla mala disposizione dell' anima che è lo stesso peccato originale. Ma che l' anima stessa, l' essenza dell' anima abbia questa mala disposizione in sè riesce difficile a intendersi per cagione, che quella disposizione immorale sfugge alla coscienza. Ma la fede, rivelandoci il peccato originale che tutti i cristiani credono sulla parola di Dio rivelante proposta loro dalla santa Chiesa, c' insegna indirettamente una verità così profonda; e prevenendo la scienza umana, presta un argomento della sua divinità. La scienza dell' uomo fatta per pochi, viene in appresso e discopre, dopo ricerche di molti secoli, quei veri che erano già supposti dalla fede con divoto stupore degli stessi scienziati (1). Ell' era un' arma de' Pelagiani, negare il peccato d' origine, perchè l' uomo non ne ha immediata coscienza. E S. Agostino accordava loro che il reato della concupiscenza si toglie alla consapevolezza dell' uomo; anzi volea che si distinguesse diligentissimamente tra il sentimento della carne, di cui si ha coscienza, e quella mala qualità e disposizione dell' anima di cui la coscienza ci manca e in cui il peccato originale risiede; stringendo quegli eretici a credere a quanto dice la fede, eziandio che nol dica la coscienza diretta ed immediata. In fatti delle cose che giaciono in fondo all' anima, dove sta quel peccato, o è soprammodo difficilissimo, o al tutto impossibile, l' essere consapevole. [...OMISSIS...] . Il perchè accorda a Giuliano, che l' argomento di cui egli si serviva a negare il peccato d' origine (il non averne cioè noi coscienza) era tale da illudere gli uomini grossi e carnali, ma tanto più in ciò stesso offensivo della cattolica fede; [...OMISSIS...] . Ed avverte, che il male originale non istà nella volontà del fanciullo, presa questa volontà come potenza della quale, operando noi, siam consapevoli; ma è consopito nel fondo dell' anima, dove la coscienza non giunge, e tuttavia viene il tempo che quel peccato occulto si appalesi anche di fuori, colle sue male tendenze, e colle male sue operazioni; [...OMISSIS...] . Dove si scorge, secondo il parlare di S. Agostino, che il peccato originale prima è nascosto in fondo dell' anima ed ivi quiescente, poi operante al di fuori ed in battaglia colla libera volontà, che o il vince corroborata dalla grazia di GESU` Cristo e allora l' uomo è salvo; o si lascia vincere e allora l' uomo è perduto. Ma non si creda perciò soggiunge il Santo, che quel peccato non nuoccia, anche prima di mandar fuori i suoi tralci delle male operazioni, nuoce sempre, se non è sciolto dal Redentore. [...OMISSIS...] Invano adunque Pelagio sosteneva, come fanno i moderni teologi razionalisti, che la concupiscenza non fosse altro che il sentimento carnale (2). S. Agostino rispondeva, che il sentimento è quello che ci rende consapevoli della concupiscenza; ma non è la concupiscenza di cui si parla, occulta madre di quel sentimento. La concupiscenza, quella concupiscenza cioè in cui l' essenza del peccato originale consiste, è una mala disposizione dell' anima occulta in essa, una mala qualità (3). [...OMISSIS...] Ed illustra questo concetto con un esempio che mostra lo spirito veramente filosofico del grand' uomo, [...OMISSIS...] . Riassumendo dunque in poco ciò che abbiamo detto finqui intorno alla concupiscenza ed a' suoi vari significati, 1 Se la concupiscenza si prende per quell' impeto, per così dire, onde l' anima del bambino che si concepisce s' immerge nella viva carne, che l' attira all' atto della concezione, una tale concupiscenza è la causa prossima del peccato d' origine [...OMISSIS...] e non lo stesso peccato d' origine (3); 2 L' animalità così prevalendo trae seco la parte razionale dell' anima, la volontà, che tende da quell' ora spontanea a secondare i movimenti piacevoli della carne; e soddisfarsi nel bene della natura umana come se altro non ci fosse al di là, e a questa tendenza originaria, a questa volontà, o attività razionale dell' anima prona a riporre il suo finale compiacimento nella natura, si dà pure il nome di concupiscenza; ed è in questa, che ha sede quella mala qualità , quella macola , quel reato , in che consiste il peccato d' origine: mala qualità che cessa in virtù del battesimo, benchè rimanga la tendenza alle passioni del senso, ma minuita e che non s' acquieta in questa, perchè la parte suprema dell' anima è sostenuta dall' infusion della grazia. Quella tendenza dunque che rimane specificamente diversa dalla precedente allora dicesi fomite della concupiscenza (1); 3 Dalla detta concupiscenza, o che abbia congiunta la macchia , come ne' non rinati; o che non l' abbia come nei rinati, vengono i movimenti disordinati della volontà prona al senso, che si riducono al peccato originale, se questo vige, o si riducono al fomite, se il peccato originale è pel battesimo estinto. Acciocchè dunque chiaramente s' intenda questa espressione consacrata dalla tradizione, che il peccato originale è il reato della concupiscenza; non dee prendersi la parola concupiscenza per l' atto dell' animalità che attira a sè l' anima razionale nel primo momento dell' esistenza dell' uomo, atto che poi permane; non per gli atti spontanei della volontà, che alle speciali sensazioni abbandonasi; ma per la mera disposizione viziosa a questi atti, posta in essere nella congiunzione dell' anima col corpo; che in noi è quiescente e a noi stessi ignota fin a tanto che non erompe a' suoi atti. E quella disposizione in cui consiste il peccato non è già la semplice tendenza al bene sensibile (la mera concupiscenza senza determinazione di grado) ma ella è la mala qualità , come dicemmo con S. Agostino, che trovasi in quella concupiscenza, quale è a noi innata e dura avanti il battesimo, e che col battesimo cessa. Che cosa è dunque la mala qualità della concupiscenza innata che forma il peccato? Consiste in questo, per dirlo di nuovo, che quella tendenza al diletto animale e al bene subbiettivo della natura rapendo a sè tutta quasi l' attività dell' uomo, rapisce a sè e lega anche la parte suprema dell' uomo la cima dell' anima, nella quale sta la base dell' umana persona, che pure di natura sua dee conformarsi all' ordine di ragione, e sta pure il subbietto di ogni vero peccato. Il lume adunque della ragione, benchè non cessi di risplendere nell' uomo, non è più la costante guida dell' uomo in tale stato; esso lume ha troppo poca influenza sopra un essere così propenso in verso l' animalesca e subbiettiva dilettazione. Poichè quel lume è fatto di natura sua per dirigere a Dio, e già l' uomo non si lascia più da lui liberamente dirigere; quindi dicesi che v' ha in lui mancanza di giustizia consistente nell' inordinazione della volontà, o sia nell' avversione a Dio. Quindi la definizione che dà S. Tommaso dell' originale peccato. [...OMISSIS...] (e non in Adamo, giacchè altro è il peccato considerato in Adamo, altro è il peccato considerato ne' posteri, checchè ne dicano i nostri Anonimi, che menano piedi e mani per confonderli insieme) [...OMISSIS...] ; non la concupiscenza sola, in astratto presa, ma colla mala qualità della privazione della giustizia originale, la qual mala qualità non è meramente l' assenza della grazia, come vogliono i nostri Anonimi (2) (nè l' assenza della grazia è una qualità ); ma è l' indebolimento morale della volontà dell' uomo, pel quale ella non ha più virtù di viver bene, come dice S. Agostino (1), non ha più virtù di muoversi liberamente verso il bene oggettivo (2), il che pur è un disordine morale; e questa virtù non l' ha più, perchè le è sottratta l' attività dell' anima già soverchiamente attratta e legata nell' animalità. L' attività radicale dell' anima è dunque unica, perchè unica è l' anima, ed ella si comparte a diverse potenze (3). Laonde se qualche potenza attrae a sè un soverchio di quell' attività, l' altre ne provan difetto rimanendosi indebolite e torpide a muoversi. Indi accade che la facoltà di seguire il bene oggettivo, che costituisce la volontà buona , sia fiacca nell' uomo, perchè l' animalità oggimai tira a sè troppo dell' attività dell' anima. Rimane potente all' incontro la volontà della carne , cioè quella che segue il bene soggettivo e sensibile, volontà che ha la qualità cattiva in quanto non dà l' attenzione e l' importanza debita al bene oggettivo. Di che riceve gran luce la definizione che dà del peccato d' origine Ugone di S. Vittore, che il dice [...OMISSIS...] . La mala qualità che costituisce il peccato è quella « mortalis infirmitas » della facoltà di volere il bene oggettivo. Questa facoltà di volere il bene è debole perchè l' animalità trae soverchiamente a sè l' attività dell' anima, la quale attività diviene così potente solo a volere il bene soggettivo e sensibile, onde ne consegue quella che Ugone dice « concupiscendi necessitas ». Questa è la dottrina stessa di S. Agostino: [...OMISSIS...] . - Quest' è la dottrina stessa di S. Bonaventura: [...OMISSIS...] : questa in somma è la dottrina tramandataci da tutta l' ecclesiastica tradizione. Forte è dunque la volontà dell' uomo che nasce per volere il bene subbiettivo e sensibile; debole è la volontà di lui per volere il bene oggettivo e morale. Questa debolezza della volontà pel bene è quel languor naturae (3), in cui S. Agostino cogli altri Padri ripongono l' originale peccato; perchè in conseguenza di essa nasce una infelice concupiscendi necessitas contro l' ordine di ragione (4). Poste le quali dottrine innegabili della costante tradizione della Chiesa si può ben far giustizia delle parole, colle quali il moderno Teologo, detraendo alla virtù del battesimo, mette alla medesima condizione i non battezzati, ed i battezzati, dando a quelli una libera volontà capace di viver bene coll' evitare le azioni peccaminose, quant' a quest' ultimi; benchè S. Agostino con tutta la Chiesa chiami il peccato originale, [...OMISSIS...] . Poichè tutto ciò asserisce il nostro C. e parla, in nome di tutti i dottori cattolici: [...OMISSIS...] . Si pesino bene queste ultime parole principalmente. Se, anche l' uomo non battezzato può sempre come il battezzato SENZA DIFFERENZA ALCUNA astenersi dalle azioni peccaminose, non ha dunque necessità per viver bene del santo battesimo; anzi, secondo il nostro autore, nè pure della grazia di Cristo, perchè egli sostiene che la ragione dell' uomo (non la grazia) può sempre accorrere e vincere la passione abusando delle parole dell' Angelico: [...OMISSIS...] . Non è ella questa la genuina sostanza dell' eresia pelagiana, coperta ora più, ora meno, di artificiose parole, ma costituente il fondo di tutti gli scritti de' nostri teologi razionalisti? Non ho io ragione di rispondere a quelli, che non fanno differenza fra battezzati e non battezzati quanto alla forza del libero arbitrio per bene operare, e che attribuiscono all' uno e all' altro un egual potere di reprimere le passioni, ed evitare le azioni peccaminose, quello stesso che S. Agostino rispondeva a quegli eretici che del pari estollevano il libero arbitrio de' non battezzati (e in ciò Agostino era bocca della cattolica Chiesa) [...OMISSIS...] . Laonde se la cattolica Chiesa condannò quelli che dicono impossibili i divini precetti a' giustificati, i quali hanno l' aiuto della grazia, facendo così differenza fra le forze del giustificato, e quelle del non giustificato. [...OMISSIS...] ; d' altra parte condannò altresì quelli che li dissero possibili a' non giustificati operanti colle naturali loro forze. Onde ne' capitoli di S. Celestino Papa si legge (4), [...OMISSIS...] . Che anzi la Chiesa, lungi d' ammettere che il non battezzato che non opera colla grazia possa egualmente che il battezzato astenersi dalle azioni peccaminose, come insegnano i moderni nostri teologi; Ella dichiara incapace di ciò il battezzato stesso, se non riceve ognora nuovo aiuto di Cristo, il quale lo dà a chi lo domanda. [...OMISSIS...] è il terzo capitolo di Celestino, [...OMISSIS...] . Laonde i nostri recenti teologi razionalisti danno più forze al non battezzato, che non dia la Chiesa cattolica allo stesso battezzato. Certo, se io scrivessi pe' soli teologi tali cose, mi darei una cura superflua, essendo loro troppo noto, appartenere alla fede, che le forze del libero arbitrio in un uomo giustificato e incorporato a Cristo pel battesimo, sono di gran lunga maggiori pel bene, di quelle che dalla mera natura abbia un altro non battezzato; e d' altra parte ho già dimostrato ampiamente nella « Risposta ad Eusebio », che passano tre ragguardevolissime differenze fra il potere d' operare il bene che ha l' uomo battezzato e quello che ha il non battezzato e privo di grazia, nel quale scorgesi 1 incapacità di eseguire a pieno i divini comandamenti; 2 cedevolezza al peccato; 3 incapacità di meritare la vita eterna (1), e le contrarie doti sono nel battezzato; tutte le quali dottrine vengono affatto dissimulate dal C., come se da me non fossero state nè manco accennate, non che provate con irrefragabili autorità, scrivendo io dunque piuttosto pe' fedeli non teologi, che si cerca ingannare sotto specie di zelo per la pura dottrina, seguiterò a dir quello, che il loro vantaggio mi sembra richiedere. E questo sarà dimostrare, deducendolo dall' intima natura del peccato originale e della liberazione da esso che si fa pel battesimo, che un effetto di questo sacramento è altresì la mitigazione delle forze della mala concupiscenza e che perciò erra dannosamente colui che non vuol riconoscere differenza alcuna fra battezzati e non battezzati quanto alle forze della libertà umana in evitare le azioni peccaminose, alle quali incita la mala concupiscenza. Egli è di fede, 1 che nel battesimo si ottiene la giustificazione de' peccati; 2 che questa giustificazione non consiste nella sola remissione de' peccati; 3 che ella consegue ad un' operazione della grazia divina, che si diffonde nei cuori per lo Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Del sentimento diffuso in noi di questa grazia così parla S. Paolo, [...OMISSIS...] . Dal qual sentimento interiore nasce l' istinto dello Spirito Santo, e la facoltà di operare il bene soprannaturale meritorio di vita eterna. L' uomo battezzato è dunque congiunto con Dio, che a sè solleva l' attività dell' anima, come il senso animale dall' altra parte a sè la deprime. L' attività dunque suprema dell' anima, mediante la grazia, viene innalzata dalle cose terrene, ella è ingrandita, rinnovata, una nuova potenza comparisce nell' uomo superiore per dignità e per potere a tutte l' altre, essa diventa la cima dell' uomo, la base della sua personalità. Per questo le divine Scritture esprimono l' operazione che fa il battesimo dicendo che, l' uomo viene rigenerato; [...OMISSIS...] ; e la distruzione del peccato che ne consegue l' esprimono dicendo, che l' uomo nel battesimo muore al peccato (4), [...OMISSIS...] dove risiede la nova personalità dell' uomo; rimanendo l' attività prima, la precedente volontà, ma scaduta di posto (1), a cui perciò compete più l' appellazione di persona, onde la precedente persona infetta dal peccato è morta, cessando così dall' essere persona subbietto capace di peccato. In questa maniera la facoltà di volere e di fare il bene oggettivo è divenuta quella che S. Agostino colla tradizione chiama il libero arbitrio liberato (2). Messa adunque nell' uomo una volontà suprema retta, anche la giustizia è in lui restituita, che nella rettitudine della personale volontà si ripone; quindi è tolta la macchia del peccato, che sta nell' inordinazione, e nel languore della volontà suprema, e che è la deformità propria della volontà; quindi rimesso il reato, perchè il reato o sia il debito della pena segue la macchia del peccato, e questa tolta, è tolto quello altresì (3). Vero è che continua l' animalità ad operare sull' anima e a tirarne a sè quanto può l' attività; ma essa non la trova più così mobile e fiacca come prima; poichè, se essa la tira al basso; dall' altra banda havvi già Iddio nell' uomo che colla sua grazia la tira all' alto, e di tutto peso, per così dire, la sostiene. Quindi l' attività dell' anima è divisa, non più al solo senso lasciata andar col suo peso; anzi la miglior parte di lei, quella in cui l' uomo personalmente esiste è nella mano di Dio che se l' ha presa; e la guarda; se pure il libero arbitrio dell' uomo, che sempre ad peccandum valet , non gliela sottrae nuovamente. Di che si fa manifesto, che quella, che Ugone di S. Vittore e S. Bonaventura e dopo lui tant' altri, chiamano concupiscendi necessitas , dee nel battezzato di gran lunga mano diminuirsi di grado, e cangiar anco di specie; in una parola dee mitigarsi lo stesso fomite della concupiscenza; benchè la coscienza nol dica all' uomo immediatamente; bastando che gliel dica la fede, e l' esperienza. E in quanto al grado non può negarsi, che la tendenza dell' anima al bene soggettivo e sensibile deva riuscir minore dopo il battesimo, se una parte dell' attività dell' anima e la migliore è attratta dalla grazia che avvalora il libero arbitrio, e lo spirito vi diffonde l' affetto della carità, e dalla soavità di questo, tutta opposta alla carnale dilettazione, si trova occupata. Quanto poi alla specie; la concupiscenza dopo il battesimo varia certo specificamente dalla concupiscenza anteriore al battesimo in questo; che dopo il battesimo, non occupa più la parte superiore dell' uomo; e però non è più concupiscenza personale , ma è solo concupiscenza naturale; non è più concupiscenza con macchia e reato; ma toltole via l' una e l' altro; non è più peccato, ma solo fomite; non perde più l' uomo, ma gli dà occasion di combattere col suo libero arbitrio liberato, di vincere e di meritare. Le quali cose tutte mi si permetta di suggellare colle autorità del Maestro delle sentenze, e dell' Aquinate suo commentatore. Pietro Lombardo così scrive al nostro proposito, [...OMISSIS...] . E tosto passa a provare, che gli effetti del battesimo sono due principali, cioè 1 la soluzione del reato della concupiscenza, e 2 la diminuzione del fomite, e che nell' uno e nell' altro modo si suol dire, che il peccato originale nel battesimo si rimette. [...OMISSIS...] . E prova che la remissione del peccato originale nel battesimo suol dirsi, che si fa anche per la diminuzione della concupiscenza colla testimonianza di S. Agostino, di cui adduce questo testimonio: [...OMISSIS...] . Sulle quali parole aggiunge il Maestro delle Sentenze, [...OMISSIS...] . L' Angelico commentatore di Pietro Lombardo ammette pienamente i due effetti del battesimo, la soluzione del reato della concupiscenza e la diminuzione del fomite della stessa, e dopo aver insegnato, che ogni peccato reca due mali effetti nell' anima, l' avversione a Dio (macchia e reato), e l' inclinazione ad un simile atto (1); mostra come la giustificazione toglie l' uno e l' altro effetto (2). La qual dottrina egli applica in questo modo alla grazia del battesimo, [...OMISSIS...] . Questo è il primo effetto della grazia battesimale; il secondo poi è la diminuzione del fomite, e così viene descritto dal Santo Dottore, [...OMISSIS...] . E` dunque ingiurioso alla grazia di Cristo, è ingiurioso ai dottori cattolici, è ingiurioso alla cattolica religione il dire, che [...OMISSIS...] , di maniera che la ragione de' primi e quella de' secondi sia egualmente forte contro le lusinghe de' sensi, e possa sempre ugualmente [...OMISSIS...] : in tal caso la sola naturale ragione e libertà basterebbe da se stessa, senza la grazia, ad evitare tutti i peccati, e però a vivere giustamente, il che la Chiesa riprova (2). Convien dunque riconoscere da chi vuol tenersi nella dottrina della Chiesa cattolica; che la liberazione che Cristo fece della schiavitù del peccato, secondo la sua promessa (3) non ha un effetto solo, come voleva Giuliano d' Eclana; ma sì, ne ha due, come colla Chiesa cattolica volle Agostino d' Ippona: il quale dopo aver recate le parole del figliuol di Dio, [...OMISSIS...] . Dalle quali dottrine si può conoscere differenza immensa, che i dottori cattolici fanno tra i battezzati e i non battezzati relativamente al potere di operare il bene e di vincere il male. Perocchè nell' uomo non rinato 1 vi è una concupiscenza che è peccato (reatus concupiscentiae), perchè tiene captivata la umana persona, quando una concupiscenza con sì mala qualità , che è il peccato, non esiste più nel battezzato; 2 vi è una concupiscenza che è più intensa nel tirare l' uomo al male (fomes concupiscentiae), perchè ella sola tira quasi tutto l' uomo, anche la persona senza che abbia in opposizione a lei sufficientemente altra forza efficace, che attiri l' uomo, eccetto il troppo debole lume della ragione naturale; quando nel battezzato se da una parte vi è l' animalità che continua ad attrarre a' suoi istinti l' anima; dall' altra vi è la grazia, che possiede la parte suprema dell' uomo e avvalora il suo libero arbitrio, e però nol lascia più abbandonato alle forze della concupiscenza. Concludasi adunque, la concupiscenza dell' uomo rinato differisce di specie e di grado dalla concupiscenza dell' uomo non rinato; e quindi in quello è doppiamente accresciuta la potenza di resistere al male e di operare il bene. Consideriamo ancora la doppia serie di effetti, che ne scaturiscono. In quanto all' operare il bene, il battezzato ha ricevuto una potenza affatto nuova, cioè la potenza che riguarda il bene soprannaturale, colla quale fa le azioni de' figliuoli di Dio, che meritano la vita eterna. Questa potenza soprannaturale è ciò che rende la sua concupiscenza di specie diversa da quella dell' uomo non battezzato, e che gli dà forza di resistere al male. In fatti il non battezzato, come insegna l' Angelico (1), non può colle sue sole forze naturali astenersi per lungo tempo dal peccato mortale ove gravi tentazioni gli si presentino (2). E qui sono da distinguersi più questioni. Primieramente dico, che nel caso in cui il fomite della concupiscenza tragga l' uomo a seguire spontaneamente colla volontà sua il bene sensibile e subiettivo, dimenticato l' oggettivo e morale; senza che la libertà possa intervenire a dominare la volontà obbediente alle leggi piscologiche della spontaneità, il che indubitatamente accade ne' bambini, ne' pazzi, negli ubbriachi, e in tutti quelli in cui la forza dell' imaginativa esaltata e della passione antecede la libertà, togliendole il tempo di considerare colla ragione e di provvedersi di forza pratica; in questo caso dico, ne' non battezzati quella volontà che riman così vinta, suol essere quella stessa volontà, che è rea e macchiata; cioè che ha in sè l' originale peccato, e però gli atti d' una tale volontà cedevoli agl' istinti, riduconsi al peccato d' origine tuttora esistente e regnante, come a sua causa immediata e radice. Queste scorse della volontà quasi trascinata dagl' istinti appartengono in tal caso non già alla forma, ma alla materia dell' originale peccato, la qual materia, come egregiamente dice S. Tommaso, tien luogo della conversione al bene sensibile e soggettivo; senza che il formale del peccato d' origine, nè la colpa perciò si accresca. Laonde nè pure la colpa o il reato, riceve aumento ma s' accresce bensì nell' uomo per sì fatte passioni la disposizione al male, la quale nè anche colla morte si distrugge, ma solo colla liberazione e salvazione di Cristo. Ma ne' battezzati non accade così fino che colla loro libera volontà non hanno di novo perduta la grazia di Dio, essi non possono mai esser necessitati ad alcun atto di peccato, per quantunque forti sieno le naturali inclinazioni. Que' movimenti poi che si suscitano verso i beni sensibili nell' uomo, che è in possesso della grazia santificante, nell' età infantile, e in istato d' alienazione mentale non procedono mai da una concupiscenza macchiata e rea e personale; ma possono procedere dal mero fomite che rimane privo della macchia e del peccato personale o sia che non tocca la persona. Laonde questi sono allora figli di un' altra madre, e non si può più dire che in essi operi il peccato in senso vero e proprio, ma solamente che sieno effetti mediati e lontani di quel peccato, che non è più, ma che partendosi lasciò in essi il tristo legato del fomite che tenta, ma non distacca l' uomo da Dio. Onde nel « Trattato della Coscienza » noi spiegavamo il parlare dell' Apostolo seguendo i Padri e gl' Interpreti, dicendo che quelli, che l' Apostolo chiama peccati, sono peccati senza dannazione e senza imputazione (mentre ne' non battezzati hanno la stessa condizione del peccato d' origine), e il dire peccato senza dannazione e senza imputazione, è manifestamente un dire non peccato nel senso proprio del Tridentino, che il definisce acconcissimamente: « morte dell' anima. »Di che consegue che se ne' non battezzati sono propagini immediate di quel peccato che vige e regna e però possono insieme con lui ricevere la denominazion di peccato, ne' battezzati all' incontro sono meri effetti del fomite, che non è peccato; e al fomite si riducono, e però dal padre loro non possono ricevere la denominazione di vero peccato; nè lasciano dopo morte alcuna mala disposizione od altro malo effetto nell' uomo; perchè distrutto colla morte il fomite con tutte le sue conseguenze, l' anima del giusto rimane del tutto pura e viva in Cristo, che è « la risurrezione e la vita », eccettuate sempre le colpe veniali, a cui anche i battezzati soggiaciono. Oltre di ciò se ne' battezzati tali movimenti cangiano di natura, perchè nascono da una concupiscenza, che è diversa di specie da quella de' non battezzati; essi sono poi anche minori di numero, e meno impetuosi, come quelli che procedono da una concupiscenza diminuita ancora di grado . Ma un' altra differenza ancora, a mio parere, s' incontra fra il battezzato e il non battezzato. Talora il mero istinto animale opera da se solo, come suole avvenir nel sonno, o quando l' uomo si trova in uno stato convulsivo, a ragion d' esempio, perchè colto da idrofobia. A queste operazioni della mera animalità possono essere soggetti anche i giusti, non appartenendo esse all' ordine morale. Ma lasciando da parte questi mali della natura e venendo all' ordine morale la volontà allettata dal bene sensibile e soggettivo può lasciarsi muovere spontaneamente e necessariamente, trovandosi l' uomo in due condizioni diverse. E parlo ora dell' uomo in generale, astrazion fatta dal battezzato e dal non battezzato. Ella può esser rapita e mossa semplicemente e istantaneamente da bene sensibile, senza che l' uomo abbia tempo a considerar la legge e a confrontare l' azione oggettivamente malvagia con essa, e questo accade ne' primi moti, nel qual caso, la volontà umana opera disordinatamente, perchè in modo contrario alla sua natura che è di essere un ragionevole e morale appetito; ma questo disordine più tosto negativo che positivo non è che venial peccato. Può l' uomo in secondo luogo (sempre in generale prescindendo ora dalla grazia) vedere il bene oggettivo e morale, ma poi, attesa la forza della tentazione, essere addotto al bene subbiettivo7immorale, sottratta la forza pratica alla sua volontà, dalla seducentissima dilettazione giunta all' estremo suo termine; di che cade non perchè sia rimasta prevenuta la sua ragione e resa inetta a mostrargli il dovere; ma perchè è rimasta prevenuta e legata la sua libertà, la quale non potè aiutarlo contro lo spontaneo volere, ed a ciò che la ragione gli mostrava, attenersi. Nell' uno e nell' altro di questi casi vi può esser colpa in causa, se questa fu libera; ma in tali atti in sè considerati e prescindendo dalla causa libera, non vi è colpa; poichè si suppone in entrambi, operar l' uomo attualmente privo di libertà, benchè siavi peccato, che in relazione alla causa libera dicesi colpa. Ora sì nell' uomo battezzato che nel non battezzato, il primo caso può aver luogo indubitatamente, non però egualmente; ma più in questo e meno in quello. Quanto poi al secondo, reputo, che possa aver luogo solo nel non battezzato; e reputo che di questo caso intenda dir S. Tommaso, quando parla de' peccati mortali, a cui il non battezzato necessariamente soggiace (1). Egli dice, che quantunque l' uomo non giustificato possa evitare i singoli peccati, tuttavia, « quod diu maneat absque peccato mortali esse non potest », e il prova coll' autorità di S. Gregorio Magno (2), dandone questa ragione, [...OMISSIS...] . Dopo di che si fa l' obbiezione, che l' uomo può anche operare contro il fine preconcepito e contro l' abito, purchè ricorra alla meditazione; ma risponde, che [...OMISSIS...] . Di che conchiude che l' uomo non giustificato non può a lungo astenersi da ogni peccato mortale, perchè [...OMISSIS...] . La cosa però non procede egualmente nel battezzato; e se ne può dare questa ragione filosofica. Fino a tanto che la ragione non può accorrere, confrontando il bene soggettivo e istintivo col bene oggettivo e morale; la volontà va dietro al bene sensibile naturalmente; non gli è proposto veramente ancora un oggetto morale; né l' uomo conosce, nè sente l' obbligazione; e perciò l' operazione non viene dalla volontà personale e morale; o quel barlume che n' ha non basta a costituire una grave inordinazione, un peccato mortale. Ma qualora la ragione gli mostri attualmente e chiaramente ciò che dee fare, egli sente l' obbligazione di operare secondo il bene oggettivo e morale, che scorge. Laonde in questo caso se l' uomo non potesse resistere, sarebbe segno manifesto che v' avrebbe un languore nella stessa persona dell' uomo, non solo nella natura . Ma la persona non ha più languore dopo il battesimo, ma solo la natura. Dunque, come dissi nel « Trattato della Coscienza », non possono mai mancare all' uomo battezzato le forze, colle quali adempire alle obbligazioni da lui conosciute, purchè si giovi degli aiuti che sono in sua mano, fra i quali quello dell' orazione, dicendo il Concilio di Trento, colle parole di S. Agostino, de' giustificati, [...OMISSIS...] , alle quali consuona il Canone XXII. [...OMISSIS...] . Che se pur si avverasse che l' uomo giustificato e faciente quel ch' egli può cedesse necessariamente a qualche lusinga, ciò non potrebbe essere, che ne' primi moti, o in uno stato di ragione turbata, e ciò non farà mai con tutta l' attività voluta dal peccato mortale, a costituire il quale non basta che intervenga l' azione personale o la libera, ma si esige che l' oggetto stesso dell' azione sia personale , e però che abbia ragione di fine ultimo. Di che il cedere non sarà mai che parziale nel detto caso, da parte dell' attivitá umana, non totale: e dato che intervenga qualche disordine nell' azione personale non sarà tale da staccar la persona dall' oggetto buono e morale a cui aderisce. Onde non vi sarà che colpa veniale di cui rimane la miniera anche ne' battezzati, per usare una frase del Cardinal Pallavicino che è il fomite della concupiscenza (1). Possono adunque i giustificati, colla divina grazia, adempire tutte le obbligazioni da essi conosciute, se fanno quello che sta in loro, nè mai sono addotti dalla tentazione senza il consenso della loro libera volontà in tale strettezza e deficienza di forze da dovere arrendersi ad essa in modo da peccare gravemente; là dove a' non giustificati non è assicurata un' egual forza; quantunque sia vero, come dicevamo, che quando essi cadano sotto il fardello delle proprie obbligazioni per assoluta impotenza, non demeritano con ciò se manchi in essi al tutto la forza di evitare il peccato (1). Ma nella loro volontà, se questa è soccombuta rimane una maggior piega ed adesione al male commesso. Nè con questo è mio pensiero di negar loro la possibilità di pregare, eccitati dalla grazia. Reputo ancora, che una orazion naturale, che niente certamente può meritare, possa non di meno essere ordinata a domandare nell' ordine della giustizia naturale aiuti morali da Dio naturalmente conosciuto, ed impetrarli ancorchè non dovuti. S' aggiungono le grazie attuali, che dispongono l' uomo non giustificato, alla giustificazione; le quali Iddio certamente dona a chi vuole, secondo l' altissimo suo beneplacito, secondo quello che insegna il sacrosanto Concilio di Trento. E qui sembrami poter giovare a chiarire le idee (giacchè per questo appunto mi allungo in tali ragionamenti), l' esporre l' origine logica del Giansenismo; cioè il dimostrare, per quali passi sbagliati, l' intendimento degli autori di questa eresia traboccasse in essa miseramente. Lo sbaglio primo si fu l' aver confuso la volontà colla libertà; e il non avere avvertito che queste due facoltà operano con leggi diverse; e formano due sfere di operare; delle quali quella della libertà è superiore a quella della semplice volontà. Il moderno teologo precipita nello stesso sbaglio, quando vuol confuso il mero volontario col libero; e quando incontrandosi in alcuni luoghi in cui noi parliamo della volontà e delle leggi che ad essa presiedono; egli ci accusa (1) di negare la libertà , che pure in tanti luoghi dichiariamo essere una forza superiore alla volontà che perturba e modifica le leggi a cui la volontà da sè sola ubbidirebbe. Ora quali sono le leggi della volontà , quando quella facoltà (diversa dalla libertà) che dicesi, un appetito razionale , rimane abbandonata a se stessa? La legge si è che ella inclina a tutti quanti i beni dall' uom conosciuti, e si lascia muovere dalla loro azione; e acconsente di preferenza al maggiore, se non può aderire a tutti. E questo è infatti lo stato dell' uomo, prima ch' egli possa esercitare la sua libertà, lo stato del bambino, non pervenuto ancora all' esercizio della sua libertà bilaterale. In un tale stato la volontà è dolcemente attratta da ogni bene, perchè è la potenza del bene, ella è mossa da ogni stimolo per piccolo che si voglia perchè è mobilissima e soprammodo delicata; e per quella legge che dicesi anche spontaneità , se due agenti allettevoli contemporanei l' attirano, tende verso ad entrambi, ma a quello, che esercita su di lei una maggior forza, si volge più ardente, o con preferenza. Ora se il bambino non è battezzato, egli è attratto debolmente dal lume di sua ragione, che per se solo non esercita un' azione su di lui realmente sensibile (cioè al modo che è sensibile l' azione delle cose reali di cui ha percezione); ed è attratto fortemente dalla dilettazione del senso animale. Laonde quantunque l' intelletto umano aderisca per sua natura all' essere ideale , e quindi la volontà sia volta naturalmente anche al bene oggettivo universale, onde s' origina nell' uomo la facoltà di operare il bene morale, la quale non può in lui cessare giammai, e con essa si origina pure il libero arbitrio; tuttavia l' animalità e il bene soggettivo predomina nell' uomo in tale stato, essendo questo bene il solo agente reale che sull' anima influisca e che può a sè prevalentemente attirarla. Se dunque avvenga in progresso, che fra il bene morale e il bene subbiettivo nasca forte collisione, e la libertà non trovi in quello forze bastevoli contro questo, l' uomo seguita a veder quel primo, e ad approvarlo; ma s' appiglia coll' opera a questo secondo, [...OMISSIS...] . Nell' uomo battezzato incorporato realmente a Cristo la condizione delle cose è ben altra. Se da una parte v' ha l' azione reale del bene animale, che a sè l' attira, dall' altra v' ha un altro bene reale assai maggiore che pur l' attira o per meglio dire lo tiene; e questo è Dio, che si comunica all' anima, comunicandole la grazia e diffondendovi la dilettazione della carità e così avvalorando poi il libero arbitrio che può sempre vincere. Laonde nell' uomo in tale stato costituito accade che quantunque l' animalità da parte sua seguiti ad allettare a sè l' anima volitiva ed attiva dell' uomo anche dopo il Battesimo siccome prima, onde il fomite; tuttavia quest' anima stessa nella sua parte più eccellente è contemporaneamente tenuta e posseduta da Dio; e così il bene infinito risiede nell' anima non solo idealmente ma anche realmente. L' azione del qual bene, che è Dio, di sua natura (se il libero arbitrio non si oppone) prevale a quella della carne: prevale dico per due guise, l' una perchè Iddio occupando la parte superiore dell' uomo, la punta dell' anima, che è nata a comandare all' altre potenze, sana e santifica il principio personale dell' uomo che in quella punta risiede; ed altresì perchè l' operazione divina è più forte di sua natura di quella della carne, ed ella è sì forte che niente può separare Iddio dall' anima volitiva se non sopravviene la libertà dell' uomo stesso, la quale peccando, per sè medesima si stolga e separi da lui, che per usare le parole di S. Agostino consacrate dal sacrosanto Concilio, [...OMISSIS...] . Egli è dunque chiaro, che qualora si parli della sola volontà dell' uomo, considerandola in separato dalla sua libertà , che è la potenza nata a dirigerla, ma che sempre non si trova in esercizio, come accade ne' bambini, od è legata, o prevenuta dagl' impeti focosi dell' immaginazione e dagl' istinti de' nervi eccitati, come ne' pazzi, o in quelli che sono da veemente accesso di passioni sorpresi; in tal caso la volontà dell' uomo ubbidisce spontaneamente alle dilettazioni che la dileticano, e più a quella che la diletica maggiormente; e se un bene l' occupa nella più alta sua parte, le operazioni che da questa parte incominciano sono personali, e buone o cattive, secondo che quel bene che informa la persona dell' uomo è onesto o disonesto, e la dilettazione che da esso viene onde procedono le azioni, secondo la legge della spontaneità, è buona o cattiva ella stessa. Quindi l' aiuto che riceve il bambino col sacramento del salutare lavacro appartiene a quel genere, che S. Agostino chiama « adjutorium quo »; il qual aiuto è da S. Agostino negato ad Adamo, accordatogli il solo « adjutorium sine quo ». E così dovea essere. Poichè la volontà del bambino essendo rea e non avendo in sè il potere di giustificarsi da se stessa e di rettificarsi; nè potendo come rea che era usar bene nè del proprio arbitrio, come dicono i Capitoli di S. Celestino, nè degli aiuti superni, se non fossero tali che prima la giustificassero o alla giustificazione la disponessero; perciò conveniva, che Dio stesso operasse quasi una creazione novella e colla sua onnipotente grazia sanando e avvalorando l' anima, cangiandola cioè di mala in buona, onde di questa grazia acconciamente dice S. Agostino [...OMISSIS...] . All' incontro la volontà d' Adamo era già naturalmente retta, e però non facea mestieri di essere liberata dal male, bastando che fosse aiutata a fare il bene con quella grazia, «SINE QUA », non si può operare il bene perfetto, appartenente all' ordine soprannaturale (2). E quantunque all' « auxilium quo » di S. Agostino si riferiscano anche le grazie attuali, e sono tali per la loro interna efficacia, e per la certezza con cui realizzano l' eterna predestinazione (1): tuttavia egli prima di tutto lo fa consistere nella grazia [...OMISSIS...] ; al che è consentanea la definizione del sacro Concilio di Trento, il quale insegna che della giustificazione dell' uomo [...OMISSIS...] . Ora egli è certo, che con questa potentissima grazia del Salvatore, l' uomo non può da niuna cosa esser vinto, se liberamente non consente al male; e perciò il bambino battezzato o altri santificati nelle acque del battesimo, in cui il libero arbitrio sia impedito o legato, è in istato di certa salute; perchè prevale in lui la grazia e la carità di Cristo alla tentazione della carne e del demonio, in tanto che questa non può più distaccar l' uomo da Dio. Nè si dee credere, che non operando nel bambino la libertà , sia perciò straniera la volontà all' opera della salvazione; perocchè anzi la volontà è quella che viene santificata e informata dalla carità di Cristo, e quella che poi opera coll' aiuto di questa grazia e dell' attuale (2). Restringendoci adunque entro all' ordine della volontà, e prescindendo dall' ordine della libertà per un' astrazione, ovvero perchè si suppone la libertà inattiva come nel bambino, ha luogo il sistema delle due dilettazioni relativamente prevalenti. Nell' uomo non giustificato prevale la dilettazione della carne e lo perde; nell' uomo giustificato prevale di dilettazione della grazia di Cristo e lo salva. La volontà è tirata ed aderisce a chi l' attrae maggiormente e più altamente: tale è la legge della volontà; non quella della libertà che domina sopra la volontà. E alla volontà sgraziatamente si fermarono i giansenisti. Essi racchiusero tutti i loro pensieri entro la sfera della volontà che si definisce: « un appetito razionale; »entro la quale sfera, prescindendo da quella forza superiore che si definisce coll' Apostolo « « potere sulla volontà »(1) » e dicesi libertà; trova luogo il sistema delle due dilettazioni contrarie, che, secondo il grado di forza prevalente, esercitano successivamente, o alternativamente il dominio sull' umano appetito. Ma ella era una veduta ristretta ed esclusiva la loro. Essi errarono dunque per non avere osservato che al di sopra della sfera della volontà sta nell' uomo un' altra sfera, quella della libertà , nata ad essere signora della volontà, che è una facoltà inferiore relativamente a quella; e questo errore nacque nelle menti perchè non erano in allora ben distinte queste due attività dell' anima razionale, cioè quella di volere , e quella di eleggere fra le volizioni , la volontà e la libertà. Per la quale confusione medesima i pelagiani dall' altra parte coi nostri teologi disconoscendo le leggi della volontà , e attribuendo ogni potere alla libertà , fecero onta alla grazia ed alla salvazione di Cristo, insegnando, che anche ne' non giustificati [...OMISSIS...] . Il che è un manifesto abuso di alcune parole di S. Tommaso, le quali si riferiscono alla potenza rimota , e non alla potenza prossima , secondo la distinzione giustissima del Gaetano (2), nessuno negando che di natura sua la libertà possa accorrere, per se sola considerata; ma negandosi che possa sempre accorrere nelle circostanze dell' uomo caduto e non giustificato, [...OMISSIS...] come dichiara S. Tommaso medesimo, qual si richiede ad evitare il peccato (3). Onde vi ha la potenza, ma non la potenza propria e in assetto a produr fuori l' atto: vi ha la potenza , ma non la possibilità di operare . Di che i Padri del Concilio Diospolitano obbligarono i pelagiani a confessare, fra gli altri capi questo: [...OMISSIS...] . Là dove il nostro teologo viene a sostenere in quella vece che la vittoria contro alle illecite concupiscenze può sempre venire ex propria voluntate , che di conseguente alle forze naturali dell' uomo (battezzato o no è il medesimo) se ne deve dare la gloria! Iddio ci preservi da dottrine che cotanto alimentano l' umana superbia, e così rendono irrimediabile l' umana impotenza. Il vangelo in fatti è tutto nell' umiltà: dove non si semina questa, non si sparge il seme di Cristo. Il vangelo è nella virtù di Dio: ma la virtù di Dio non soccorre all' infermità dell' uomo, se l' uomo ricusa di sentire la sua infermità, non vuol riconoscerla nè confessarla. Il dire, che l' uomo può esser giusto da sè secondo la natura senza bisogno della grazia di Dio (1) non è un confessare la propria infermità; ma stabilire una giustizia dell' uomo contro la giustizia di Dio. [...OMISSIS...] Il Razionalismo introdotto nella Teologia trae seco l' umanismo nell' ecclesiastico ministero . Intendo per Umanismo quello spirito, che, senza dimettere le apparenze della pietà, propende sempre a giudicare in favore dell' esaltamento dell' uomo: sempre intende ad attenuarne la malizia e coprirne le piaghe, a dissimularne o negarne l' impotenza, a secondarne le naturali inclinazioni, ad adularne e giustificarne sottilissimamente le passioni ne' trovati dell' umano ingegno, e ne' mezzi dell' umana potenza, anche trattandosi d' imprese spirituali, a perdere di veduta la povertà e la virtù della croce, a dispregiare la semplicità evangelica, a modificare in mille guise le parole di GESU` Cristo, a interpretarle a voler della carne, quasi per giuoco d' ingegno, ad obliare le promesse del Principe dei Pastori, a non vivere oggimai più di fede ma d' artifizi e di maneggi, non più traendo seco forza dalla sola speranza riposta negli aiuti superni, fuori della quale speranza il più industrioso e costante ecclesiastico in vece della pace di Cristo reca da per tutto dove va la discordia, e in vece di stabilire tra popoli il regno di Dio, vi pone senza saper come impedimento; o fors' anco dopo un frutto momentaneo lascia il campo del Signore ingombro di triboli e di spine da lui stesso seminate. Coloro i quali conoscono la storia delle missioni straniere e n' hanno meditato le vicende potranno dire, quale altro spirito, se non uno spirito tutto particolare ed umano, sia stato quello che fece una sì sottile e sì costante opposizione allo stabilimento dell' Episcopato e della gerarchia in molte missioni straniere, onde avvenne, che appena nate perirono tante cristianità nell' Oriente, e specialmente nel Ton7King, nella Cocincina e nel Giappone? GESU` Cristo mandò degli Apostoli Vescovi ad annunziare il Vangelo. Così fece sempre la Chiesa. A' Vescovi prestarono aiuto grandissimo de' sacerdoti e de' laici. Ma successe un tempo, in cui alcuni religiosi, credendosi aver trovato de' mezzi migliori di propagare e di fondare il regno di Dio, esclusero l' episcopato quant' era da loro e la gerarchia, o le fecero quella guerra lunga or diretta ora indiretta che poteron maggiore (1). Qui basti di rammentare i viaggi, gli stenti, le afflizioni, gli anni ch' ebbe a patire e a spendere il P. Rhodes della Compagnia di Gesù per riuscire, avendo pure i Pontefici alla sua impresa favorevoli, ad ottenere, quanto l' esperienza gli aveva dimostrato sì necessario alla stabilità del Cristianesimo, che de' Vescovadi ed un clero indigeno fossero in quelle infelici e pereunti missioni stabiliti. Lo spirito di Razionalismo nella mente, d' Umanismo nel cuore e nella condotta, è quel sottil veleno, pura essenza, etere invisibile dell' amor proprio, che penetra ben anco in uomini molto innanzi nella virtù; i quali da esso insensibilmente condotti s' allontanano dalla verità e s' affezionano e parteggiano e quasi a sè ed altrui mentiscono lusingati di poter così far del bene e giovare alla pietà. E che altro mai se non questo umano e fallibile ragionare fu quello che in occasione de' riti Cinesi gettò fra i missionari quella sempre mai lacrimevol discordia, che tanto danno recò alle missioni della China, e cagionò la perdita di tante anime, impedì l' acquisto alla Chiesa di tante popolazioni? Che altro se non la propensione a giudicare con troppo favore della naturale sapienza ed a scusare poscia, se non anco lodare quelle debolezze che ad essa natural sapienza conseguitano fu la cagion vera di quegli errori che difesi ostinatamente (1) dovettero pur condannarsi con tante bolle de' Sommi Pontefici, e ultimamente con quella del dottissimo Benedetto XIV degli 11 Luglio 1742? Lasciamo parlare un recente scrittore lodevolissimo per lo spirito d' imparzialità, colla quale narra i principii di sì famosa questione. [...OMISSIS...] Quali funeste conseguenze traessero i nemici della religione cristiana contr' essa dalle accennate esagerazioni a favore della sapienza naturale de' Cinesi, e della giustificazione de' superstiziosi loro riti, con somma equità e moderazione si narra nelle belle lettere del Sig. Luquet che abbiamo citato. A noi rincresce troppo di trattenerci più a lungo in un argomento sì tristo, come quel de' riti cinesi; e ci basta avere solo accennato di nuovo quale sia la prole amara e funesta di quello spirito umano e razionalistico, che par talora servire alla pietà, ma in ver la distrugge. E qui egli è già tempo di chiudere il nostro ragionamento. Prima però debbo dichiarare, che tutto ció ch' io dissi in quest' opera, nol dissi coll' animo di definire, che a me non s' aspetta, ma sol per teologico raziocinio, che a ognuno è permesso. Del resto alla Chiesa, di cui mi glorio essere figliuolo e discepolo ogni mio sentimento sommetto. La Chiesa giudichi se i miei timori sono fondati: ella giudichi il mio giudizio. A me parve, e pare, per ritornare a ciò che dissi al principio, che il maggior pericolo, che or le sovrasti, sia in quel pratico Razionalismo che s' insinua per tutto, sotto apparenze di pietà, e che insensibilmente, come ruggine, la stessa sana dottrina rode e consuma. E questo pericolo è grave principalmente per due ragioni; la prima, che i ragionamenti de' razionalisti sono intesi e favoriti facilmente dal comune degli uomini, quando le verità della fede che quelli corrodono sono all' opposto profonde, arcane, talora all' umane menti ripugnanti: l' altra, che il Razionalismo teologico è sempre in sul far credere, che niun' altra via di mezzo si trovi, ma convenga seguitar lui, o cadere nell' odiosissima e rigidissima eresia del Giansenismo. E queste due cagioni, la somma difficoltà d' intendere in modo non ripugnante alla ragione il dogma profondissimo della grazia conciliandolo col libero arbitrio e colla bontà di Dio che vuol tutti salvi; e il gran timore di cadere nell' eresia de' predestinaziani (1) e de' gianseniani, eresia desolante e inducente a disperazione; ebbero tanta possa di spingere talor anche uomini santissimi sulla via apparentemente piana e fiorita che loro addittava il pratico Razionalismo (2). Indi è che vinto appena il Pelagianismo antico, surse nella Chiesa il Semi7Pelagianismo (3) a cui diedero il loro nome anche uomini, che onoriam sugli altari, o quando la chiesa non avea ancor dannata quell' eresia sottilissima o dopo dannatala, ma ritrattandosi essi innanzi morire. E tanti ebbe seguaci quell' errore seducentissimo, che S. Prospero lamentavasi [...OMISSIS...] . Benchè poi i sommi Pontefici con la Chiesa tutta decapitassero appena risorta in nuove fogge l' antica empietà, con tutto ciò qual idra andò rimettendo di tempo in tempo novelle teste. E allo stesso errore vestito di forme novelle, che non pareva il precedente già escluso, e di nuovi lenocinii provveduto, s' accostavano alcuni e dotti e pii, che altra via non vedevano di salvare a tutti gli uomini que' due beni oltremodo preziosissimi e necessarii la libertà e la speranza della salute. Laonde non è a stupirsi, se dopo le ultime eresie del secol XVI, avutane da esse occasione, lo spirito razionalistico e pelagiano ricominciasse l' antico lavoro più industrioso e più costante di quello che avea fatto o tentato ne' secoli precedenti, scaltrito dalle sconfitte avute, di migliori armi fornito d' erudizione, di dottrina, di astuzia, e di potenza ed influenza sociale, le quali a lui fabbricava la condizione de' tempi, il risorgimento delle lettere, l' incivilimento, la filosofia, la politica. Benchè queste due ultime, chi sottilmente e spassionatamente pensi la storia d' Europa de' tre ultimi secoli, s' accorgerà, che sono più tosto che sue madri, o nutrici, sue legittime figliuole, ed allieve. Poichè in questi ultimi secoli, il Razionalismo pratico introdotto prima nella teologia fu applicato all' educazione della gioventù, e recò pur troppo i suoi frutti amari alla civil società, in cui i fanciulli educati rifondonsi. Invano sperossi di neutralizzarne per così dire, il potente veleno coll' associarlo negli animi giovanili alla divozione. Fino che l' uomo è fanciullo stanno ben uniti in lui Razionalismo e divozione; perocchè ne' fanciulli anche il Razionalismo è fanciullo. Ma questo diviene adulto insieme coll' uomo, e con esso crescono la dottrina, sua prole immanchevole, l' orgoglio e l' immoralità; le quali spegnono la divozione; e spenta questa introducono l' incredulità, che perturba poi, a suo tempo, l' ordine pubblico massime fra genti cristiane. Vero è ch' ella non chiamasi da prima incredulità ma filosofia. Ma che è questo? Il falso nome sol giova ad illudere: e le masse ancora credenti onorano ingannate i filosofi, che loro promettono mari e monti di felicità, e si nutrono in seno gli increduli. Conviene persuadersi: l' educazione fu per lungo tempo in Europa e in Francia massimamente un misto di Razionalismo teologico e di devozione. Ma i principii della mente prevalgono alle abitudini della vita; e cresciuti quelli alla lunga ne cacciano queste, se sono loro contrarie, e se ne formano di omogenee. Così avvenne. I devoti giovani si cangiarono ben presto in filosofi; i filosofi in increduli; gl' increduli in rivoluzionari; i rivoluzionari in sanculotti, terroristi, cannibali: non si puó rompere la serie delle cause, perchè è in natura. Dai collegi adunque uscì la rivoluzione. Chi ben ha penetrazione, m' intenderà. Dove fu mai educata quella gioventù francese, che diede al mondo il più sanguinoso spettacolo che fosse mai? Dove i padri di essa? e dove gli avi? Ne' collegi a maximo usque ad minimum . Ma non instillavasi ne' collegi d' allora la pietà, la divozione? Qual dubbio? E nella divozione non si può certo trovar la causa del male atroce. Altrove dunque si vuol cercare il vizio d' un' educazione che si fece tanto conoscere da' suoi effetti. - Si mediti e si scoprirà il vizioso elemento, il seme funesto depositato negli animi de' giovani essere stato lo spirito razionalistico . Con tal compagno violento la divozione di collegio non potè a lungo reggere; egli spense crudelmente la sua compagna d' educazione: ed ingrato spense altresì in odio di lei i collegi stessi di cui molti buoni piansero la rovina; veggendo perire così i focolari della giovanil divozione. Ma veggendo la divozione uscire da' collegi, perchè le pratiche divote si veggon cogli occhi, non vedevano poi essi chi usciva con lei, perchè quel suo compagno feroce del Razionalismo non vedesi che colla mente, essendo un principio, un pensiero che nella mente risiede. Le quali riflessioni potrebbero per avventura riuscire salutari oltremodo ai nostri moderni teologi, se da esse apprendessero, che carezzando il Razionalismo teologico, com' essi fanno, s' accarezzano il più fiero nemico che aver possano essi stessi, non che la Chiesa, sì la fazione de' teologi razionalisti scava la fossa a se medesima, scavandola alla cattolica teologia. Perocchè, questa non può cadere, e però tutto il danno è suo proprio. Dunque parlo io così a suo favore; quanto ho scritto in quest' opuscolo a suo vero vantaggio ridonda. La fazione de' nostri teologi non pecca solo contro la sana dottrina col deplorabile impegno in cui ella è entrata, pecca ancora contro la savia politica. Deh non ne attenda gli effetti! Quanti mali avrebbe evitati, quanti guai risparmiati alla Chiesa, se avesse uditi docilmente i consigli de' due venerabili Cardinali Baronio e Bona, che scorgeano pure colle loro menti, da lontano i danni del Pelagianismo irruente! Non mancavano certo i veggenti in Israello, e se si vuole alle previsioni di que' due santissimi porporati aggiungere la previsione di un terzo splendore del sacro Collegio, nominerò il Contarini. Non avea questi ammonito certi teologi del suo tempo che indiscretamente pugnavano contro le nuove eresie, di procedere cautamente per non isdrucciolar forse nell' errore contrario? Non avea egli anche scritto: [...OMISSIS...] . Non era loro stato dato in tempo un avviso sì autorevole e savio, cioè prima ancora della metà del secolo XVI? Perchè dunque non approfittarsene? Quanto poi agli uomini di buona fede che non penetrano il fondo di questa lotta; io loro dirò così: Abborrite il Giansenismo, ma guardatevi altresì dal Pelagianismo, non credete mai questo necessario a fuggir quello. Abborrite pure da tutte quelle opinioni teologiche, che scoraggiano gli uomini a fare il bene, e ingiuriano la divina bontà; ma non appigliatevi perciò a quelle che fanno presumere gli uomini delle forze della loro natura, e li rendono negligenti a procacciarsi quelle della grazia, che attenuano la causa e il frutto della Redenzione di Cristo e scemano la virtù a' sacramenti, ed il bisogno che n' ha l' uomo figlio del peccatore. Sia pur questo il criterio che guidi la vostra scelta delle opinioni, quelle sien preferite che servon meglio a condurre le anime alla salute. La carità vi conduce pure alla verità. La morale che ne uscirà da tale scelta sarà dolce, come è dolce il giogo del Signore, ma non lassa. Chè una lassa morale non salva; sì, perde le anime. E che mai giovano alla salute dell' anima certi nuovi dogmi, non della divina Rivelazione, ma dell' umana corruzione? Che giova insegnare che l' uomo reca al mondo la natura incorrotta, e senza bisogno alcun di Battesimo, morendo bambino, l' attende al di là una beatitudine naturale, abitatore di un terzo luogo fra il cielo e l' inferno, come dicevano i pelagiani, se non a render gli uomini ingrati verso di Cristo e negligenti in procurarsi i sacramenti della Chiesa? Che giova insegnare che può l' uomo senza la grazia reprimere le sue passioni, resistere a tutte le tentazioni benchè con difficoltà, sicchè la grazia sia solo utile a ciò ma non necessaria, che giova dico se non a render la grazia meno preziosa e gli uomini men curanti di procacciarsela? Che falsa benignità non è ella questa, o piuttosto benignità crudelissima verso l' umana natura? Che giova il dire, che l' uomo, benchè senza la grazia, non è mai necessitato a peccare, e che peccando in tal caso con necessità niun mal gliene viene, niun peccato commette, se non ad aprire un fonte ampissimo d' immorali azioni, soffocata la voce della coscienza, e l' uomo reso piuttosto amante di rimanere nell' ignoranza e nella schiavitù degli abiti peccaminosi, che non di liberarsene? Che giova dichiarare la concupiscenza effetto naturale e non punto vizioso se non a levare dall' anima l' errore de' suoi disordini? « e ad exscusandas exscusationes in peccatis »? Esaltate adunque la bontà di Dio che vuol tutti salvi, e ne dà i mezzi a tutti quelli che li desiderano, e anche a molti di quelli che non li desiderano, facendo che li desiderino; ma nello stesso tempo non dimenticate, che quella bontà è santità essenziale: e che Dio è buono perchè vuol santi gli uomini, prima ancor che felici, e a ciò li aiuta, non perchè loro permetta di andare per una via larga e lubrica in Paradiso. Deh piaccia a Dio, che anche i nostri avversarii vogliano finalmente intendere con noi uniti queste santissime verità, e cessino dall' imbizzarrire sì sconciamente « sufflantes in pulverem », per usare delle parole di S. Agostino, « et excitantes terram in oculos suos! (1) ».

Introduzione alla filosofia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E così nella storia dell' umanità è segnata una via di alterni periodi, negli uni de' quali prevalgono i sofisti, negli altri i filosofi, negli uni l' errore baldanzoso s' arroga il nome di filosofia e il comune degli uomini sorpreso dalla nuova foggia del ragionare non glielo contende; negli altri lo stesso errore rimane spoglio con ignominia di quel nome malamente usurpato, riconoscendo pressochè tutti, che in coloro, i quali prima si chiamavano filosofi, non v' era in fondo che un' ignorantissima petulanza (onde questi bei nomi di filosofia e di filosofi rimangono per qualche tempo infamati). E questo alternare di periodi di un fallace e di un vero sapere è una di quelle molte maniere di vicende, che, regolate a misura di tempo e quasi a battuta, dalla provvidenza, come fisse leggi, regolano il corso dell' umanità sulla terra, e, uscendo dal male il trionfo del bene, rendono quel corso, quasi contemperato di varie note, una cotal musica dilettevole al divino intelletto. Nel secolo XVIII i sofisti (e anche questo è uno di quei nomi che in Grecia prima e poi per tutto e per sempre, perduta la prima loro nobile significazione, se ne acquistarono una obbrobriosa, quando i falsi ingegni che se l' erano ambiziosamente appropriato furon vinti dai migliori) occuparono il regno dell' opinione: il libro di Giovanni Locke (1690) fu il segnale dell' aprimento di questo novello periodo di volgarissime e pur efficacissime fallacie. Da quell' ora gli uomini, sviati dalle più ferme e salubri verità, vennero illusi e uccellati con apparenze d' utilità e con magnifiche promesse d' un facilissimo e non mai prima conosciuto sapere: le menti blandite ricevettero in sè docilmente gratuite opinioni e goffi errori nella sfera delle cose religiose, in quella della morale, in quella della politica, in quella dell' umana socievolezza, in tutte le questioni più gravi e più importanti alla salute ed alla vita dell' uomo nel tempo e nella eternità. A' quali errori certo da valentissimi scrittori fu risposto e tuttavia ancor seducono, perchè non impugnati intieramente nelle loro proprie forme. Laonde a queste che, sebbene alquanto appassite, pure non cessano di parer seducenti, par necessario di trovare e contrapporre le forme correlative della verità, il che si tenta, come che sia, di fare in varie opere contenute in questa raccolta. Dicevamo che secondo il disegno della Provvidenza l' occhio della quale non si chiude giammai sul mondo, dal male dell' errore procede il bene del trionfo del vero. E già S. Agostino osservava, che gli eretici occasionano questo nobilissimo vantaggio alla Chiesa, « « che i veri da essi impugnati si considerano per la necessità della difesa con più diligenza, e s' intendono con più chiarezza e con più istanza si predicano »(1). » E altri vantaggi ancora arrecano al progresso fra gli uomini della verità, senza volerlo e senza pure accorgersene, i maestri dell' errore. Chè non potendo essi insinuare l' errore nelle menti se non ammantandolo col vestito della verità, non distruggono l' amore di questa in universale a cui anzi prestano testimonianza, e di più sono obbligati di mettere attorno al falso alcuni brandelli della stessa verità, onde prenderne l' avviamento de' loro discorsi e il principio de' loro sillogismi. I quali brandelli sogliono essere per lo più alcune parti di verità, che fino allora erano meno osservate e da' legittimi e sinceri maestri forse neglette, onde con quelle, siccome con altrettanti veri trovati e inculcati da essi, si raccomandano nell' opinion degli uomini e ne magnificano la propria scuola. Di che accade, che colla stessa industria colla quale intendono propagar l' errore, traggono alcuni veri, giacenti quasi nell' ombra, in aperto lume, e così ogni particella della verità ha il suo tempo di venire a galla, d' acquistare il suo giusto valore e di mettersi in corso, servendola di ciò gli stessi nemici. E tuttavia gli uomini che abboccano a quest' esca del vero, rimangono pur troppo presi nell' amo del falso. Al quale danno non poco contribuisce una cotale apparenza di merito, che a' fallaci dottori appartiene. Perocchè cotesti non potendo sedurre gli uomini, se non col trasferire, siccome noi dicevamo poco fa, gli errori antiquati, a cui era stato già cavato il pungolo velenoso da lucidissime confutazioni, in una regione di riflessioni più alta, sforzano i savi che li vogliono combattere a seguitarli, e ad innalzare seco stessi la verità, le forme della quale così s' ingrandiscono agli occhi dell' umana intelligenza; chè l' uomo venuto ad una riflessione maggiore fa appunto come colui, che dalla valle recatosi all' altezza delle vette de' monti, di colà scorge un orizzonte smisuratamente più vasto del primo. Veramente ad ogni ordine di riflessione, battano queste nel vero o nel falso, lo sguardo dell' umano intendimento prende un nuovo orizzonte di scienza o vero od illusorio. Di che non fa maraviglia, che i falsi savi attirino a sè gli uomini colla novità delle forme e coll' originalità del linguaggio, chè la novità, quasi fosse luce, occupa e diletta la mente sempre avida di sapere e prontissima alla speranza di francare i limiti antichi, l' originalità la sorprende e ne riscuote l' ammirazione; e però coloro, che con questi modi si presentano maestri degli uomini, non falliscono mai d' acquistarsi nella volgare estimazione il nome e la fama d' antesignani del sapere e del progresso. E perchè noi dobbiamo essere giusti a tutti, fino al primo autore del male, riconosciamo noi pure, che i sofisti in qualche senso sono gli antesignani del progresso scientifico, in quanto che, con sempre nuove assurdità, essi riscuotono quelli che possedono il vero dalla loro quiete, e li sforzano all' opera di sospingere innanzi l' umano intendimento. Così avviene che questo, pel corso de' secoli, va contemplando la bellezza dell' immutabile verità da tutti i suoi molti lati, de' quali sol uno alla volta ella presenta alle umane menti, e sotto tutte le più nobili forme di cui ella possa rivestirsi. Perocchè è troppo vero, che i savi, ove non sieno vivamente scossi al pericolo della verità che li appaga, assalita da apparenti fallacie, o a quello de' loro simili colti facilmente in queste reti, non dimostrano a pezza quella straordinaria attività, che negli ingegni falsi e cavillatori viene suscitata, secondo l' espressione d' Agostino, dalla loro calda inquietudine. Ma quantunque i figliuoli di questo secolo sieno più prudenti de' figliuoli della luce, il progresso che procede indirettamente da' loro errori non può ascriversi a loro merito, benchè sovente gliel' ascriva la moltitudine nella sua semplicità captivata: chè qui ogni merito non è dell' uomo, ma dell' altissima provvidenza che presiede allo sviluppo dell' umanità, e con infallibile effetto l' ottiene, sia permettendo quel male, che lo provoca quasi stimolo, sia producendo ed operando quel bene che lo compie; epperò nell' immenso suo regno, dove ogni essere è limitato e niuno può far da sè solo alcuna cosa compita, ella adopera ciascuna maniera di enti a lavorare una parte della grand' opera da essa ab eterno contemplata, ora licenziando l' arguzia degli ingegni straniati ad irrompere coll' errore in una nuova sfera di mentali riflessioni, ora aiutando le sane e rette intelligenze a recare in quella stessa la verità, pel qual movimento alterno, come dicevamo, progredisce sollecita a' suoi destini l' umana mente e l' uman cuore con essa. Aggiungi, che il Dio della verità, che con tanta sapienza mette a profitto tutte le potenze e le volontà umane, buone o triste, senza violentarle ad accelerare la realizzazione di quell' idea in cui egli mirava creando l' universo, trae di quell' impaziente operosità d' alcune menti che rifuggendo dal vero lo cercano tuttavia continuamente nel falso, un altro nobilissimo vantaggio a pro di coloro che della sincera verità si dilettano. Poichè questi all' esempio di quelli si sentono provocare ad emulazione, ed esperimentano di necessità una cotale erubescenza considerando la propria inerzia intellettuale, che facilmente scade alla lassezza ed alla infingardaggine, col paragone di quella faticosa e sempre mai irrequieta assiduità. E questo pudore de' buoni ingegni al vedersi precorsi e avanzati nelle scientifiche investigazioni da coloro, che le rivolgono ad offuscare le prime e più salutari verità, in cui pende la vita intellettuale e morale dell' uomo, se mai fu lodevole in altri tempi, in questi nostri è divenuto manifestamente doveroso, ed è così vivamente sentito, che io mi credo, niuno degli onesti che s' applicano alle lettere ed hanno cuore, il possa evitare. Perocchè ci stanno davanti tanti secoli, e in essi l' esperienza tante volte replicata del danno improvviso e quasi procelloso sopravvenuto al mondo per la divulgazione di funestissimi errori, i quali non trovando sufficientemente preparati ed armati quelli che avrebbero dovuto combatterli appena nati, e che allora neppur li riconobbero per quel che erano, ebbero tutto il tempo e l' agio di radicarsi nelle menti, e di farsi adulti e gagliardi, rendendosi poi l' opera del vincerli e dello schiantarli oltre misura più ardua e lunghissima. E questo stimolo che la Provvidenza aggiunge naturalmente agli amatori del vero e del bene, coll' esperienza de' fatti che ella permette, è quel medesimo col quale il divino autor del vangelo spronava i suoi discepoli ad emulare nel bene la prudenza de' figliuoli delle tenebre, ed insegnava, addotto l' esempio dell' amministratore infedele (1), a saper trovare negli stessi malvagi qualche cosa degna d' imitare: che anzi nel giudice iniquo, nel tepido amico, nel principe crudele (2) egli accenna un elemento per sè non reo, che ritrae alcuna somiglianza di quelle leggi, colle quali Iddio medesimo suole operare. Riscosse le intelligenze de' migliori a tali eccitamenti ed ammonimenti, e già infervorate non più solo a dissipare i cavilli di quelli che invidiano agli uomini la luce della verità, ma a prevenirli, s' accende in esse un nuovo ed incredibile desiderio di recare la verità stessa alla sua ultima e più nobile forma ed espressione, e, percorrendone tutto il campo, raccorne ogni membro, e decentemente al suo tutto congiungerlo, facendone riuscire un corpo scientifico di tanta bellezza e luce, che l' odio sì possa oltraggiarlo, non più il sofisma, con qualche probabilità di guadagnar le menti offuscarlo. Il qual desiderio nobilissimo che incomincia a farsi sentire soltanto ad una certa età della vita umanitaria, ed è un nuovo sviluppo di quel tesoro di germi che l' umanità nasconde nel profondo della sua essenza, e nol conosce ella medesima prima che al suo atto esteriore si maturi, cresce in appresso ognor più coll' invecchiare del mondo. E chi molto o poco nol sente in questa nostra età? Ora quale spirito gentile può esserci, che vedendosi davanti tanti nobili veri, utilissimi e fertilissimi, quanti sono quelli, che purgati ed accertati dai sapienti, giacciono consegnati alle carte di cui ogni secolo a noi fè dono, non desideri e non chieda qualche grande sintesi, nella quale tutti quasi d' un solo sguardo si possano abbracciare, que' veri, ordinati a bella unità, e nell' evidenza d' un loro supremo principio di nuova vita accresciuti? Perocchè come da tutte le maniere d' errori sembra che oggimai sia stata travagliata successivamente la verità; così di mano in mano tutte le sue parti più sostanziali furono e validamente difese e descritte con diligenza e con singolare amore ed eloquenza illustrate e adornate. Laonde, la mercè di quelli che istantissimamente s' adoperarono ad oscurare il vero e che insensatamente ambirono alla celebrità di vericidi, è venuto per l' uman genere un' età di tanto suo sviluppo, che i buoni e diritti ingegni, i quali prima (comunemente parlando e fatta eccezione ad alcune menti straordinarie) o s' accontentavano di possedere quasi per abito la verità o si levavano a difenderla solo quand' era assalita, vedendosela ora innanzi divenuta così ricca e molteplice, già si sentono accesi di contemplarla raccolta nella sua scientifica integrità, e di coltivarne lo studio meno ancora per rifiutare gli errori, che per possederne la forma più elegante, e pascersi consapevolmente di quella nuova luce, di cui, nel suo compiuto disegno, ella mostrasi sfolgorante. Nè deve rallentare lo sforzo delle nostre intelligenze a soddisfare questo nuovo bisogno che la Provvidenza ha risvegliato in esse coll' opera de' secoli ne' quali fu combattuta parte a parte e parte a parte difesa la verità, il pensiero che anche dopo essere noi riusciti a inserire in un solo corpo di scienza, con perfetta euritmia, le sparse membra del vero, i sofisti non si ristaranno perciò dall' opera loro, e dedurranno da una riflessione ulteriore nuove fallacie, tendendo con esse nuovi agguati alle menti. Poichè è necessario distinguere tra le singole parti, e il sistema intero della verità. Quella serie d' ordini di riflessioni, che noi abbiamo accennata, si prolunga indefinitamente rispetto alle singole parti; non così da quel punto, in cui la riflessione, lasciate le parti, dee occuparsi del tutto: questo non ammette quegli ordini indefiniti; chè quando una riflessione abbraccia veramente il tutto, un' altra non trova più alcuna nuova materia (non restando altro fuori del tutto), e però ella s' identificherebbe colla precedente, nè da questa si potrebbe distinguere. Laonde, supposto che una volta sia trovato e bene costituito l' intero sistema della verità, non si può più continuare quella lotta se non presso coloro che non vogliono prender cognizione di quel sistema, ovvero che, dopo averla presa, vi ricusano l' assenso dell' animo, nel qual ultimo caso rimane la lotta delle volontà, anzichè quella degli intendimenti, una lotta cioè che niuna scienza, niuno umano argomento può ricomporre, giacchè l' uomo è libero, e la libertà può ben esser condannata dalla ragione, ma vinta solo da Dio. Egli è dunque desiderabile che oggidì tutti gli studiosi del vero e del bene, amici fra di loro, pongano la loro industria nell' opera di comporre (giovandosi dei materiali che il tempo ha già così copiosamente accumulati) quel sistema intero della verità che noi dicevamo, e per aiutare comecchessia quest' impresa, anche noi tentammo noi stessi. Noi diremo appresso in che modo credemmo di poter accingerci a questo tentativo: vogliamo per intanto avvertire come questo secondo fine de' nostri studi serbi un' intima relazione col primo. Poichè prendendo un tale intento per mira s' incontra per via una nuova maniera più efficace e più completa d' impugnare gli errori. Altra cosa è dimostrare che una dottrina è falsa, ed altra insegnare di più qual sia la dottrina vera da sostituirsi. Il primo assunto è assai più agevole del secondo, ma non soddisfa ad ogni bisogno delle menti, le quali per natura avide della verità chiedono che la si annunzi loro espressamente, e tanto poco s' appagano di maestri che si limitino ad impugnare gli errori (il che è un ammaestramento negativo che distrugge ma non edifica) che per la molestia che loro arreca il rimanersi, tolti di mezzo gli errori, tuttavia nell' ignoranza e nell' incertezza, s' attengono fortemente a qualunque opinione, per poco che ella goda di una probabile apparenza o di qualche fama, e dagli errori stessi assai più difficilmente si staccano, quando s' accorgono che, depostili, non hanno perciò guadagnato alcun positivo conoscimento. Anzi questo è uno di que' costanti artifizi co' quali i maestri degli errori traggono gli uomini alla propria scuola e ve l' invescano, il prometter loro una scienza positiva, certa, superiore a tutte l' altre, atta a spiegare ogni cosa; chè la loro formola infine è sempre quell' antica; « In qualunque giorno mangerete di questo frutto si apriranno gli occhi vostri, e sarete siccome Iddii, scienti il bene ed il male; »colla quale l' antichissimo de' sofisti invitò i primi parenti a giudicare il divieto divino; e questo era appunto un far ascendere il loro pensiero ad un ordine di riflessioni superiore, formandosi il giudizio con una riflessione più alta di quella, a cui appartiene la notizia della cosa su cui si giudica. Da quell' ora ad una riflessione erronea convenne di necessità contrapporre un' altra verace, e tale fu veramente il giudizio che pronunciò Iddio sul colpevole giudizio di Adamo; e la disputa del vero col falso, dell' argomento col sofisma è divenuta inevitabile. I maestri del vero non corrono così facilmente a promettere come i seduttori, i quali non si curano dell' attenere, ma di sorprendere, e fare al momento seguaci. Ma ora sembra venuto quel tempo, in cui necessiti soddisfare con una positiva esposizione della verità a modo di scienza, la curiosità tanto cresciuta, anzi divenuta in tutti gli animi pungentissima di sapere in questa forma riflettuta. Tanto più che qualora non si possa contrapporre una dottrina sana e luminosa a quella che si vuol combattere, bene spesso accade che questa non si lasci nè intendere nè vincere compiutamente: se ne parano i mali effetti, se ne mostrano le conseguenze assurde; pure la radice non è schiantata, e talor' anco, senza avvedersene, si coltiva la pianta de' frutti mortiferi. Il qual difetto si può osservare ne' bene intenzionati nostri scrittori. A ragion d' esempio per ciò che riguarda la questione del sensismo e del soggettivismo, fonte di tutti i moderni delirŒ, invano il Galuppi disse di confutarlo a Napoli, il Bonelli a Roma, molti nell' alta Italia: questi ed altri filosofi italiani (per non parlar che de' nostri) non potendo sostituire al sensismo e al soggettivismo alcun sistema positivo intorno alla natura ed all' origine della cognizione, mentre pur ne dimostrarono alcuni accidentali difetti, lasciarono saldo nelle loro scritture il ceppo di quegli errori, e, quasi diradandogli intorno il folto de' suoi silvestri virgulti, lo resero più vivace. Che anzi tanto è difficile conoscere tutto il veleno nascosto nell' errore quando lo si combatte soltanto e non si raggiunge il sistema vero da sostituirvi, che noi ancor poco fa udimmo un Collizi, un Mastrofini, un Costa ed altri venirci a dire che il sensismo fu calunniato, e, persuasi d' averlo essi già d' ogni macchia purgato con alcune accessorie modificazioni, tesserne l' apologia! Noi ci siamo dunque consigliati di prendere il cammino contrario, cioè di cercare prima d' ogni altra cosa in qualsiasi questione ed investigazione il vero positivo, e questo, il meglio che per noi si potesse, descrivere e stabilire: su questo poi quasi su fermo appoggio puntar la leva per dare all' errore la rivolta. Ed abbiamo creduto talmente importante ed utile quel primo intento, che non sempre ci siamo poi trattenuti ad assolvere il secondo, parendoci facilissimo a ciascheduno che il brami, conosciuta solidamente la verità, dedurne la rifutazione dell' errore; massimamente che ci parve tanta esser la fecondità e la potenza di quella, che non un solo errore, ma innumerabili cadono bocconi al suo cospetto, e il parlare specificamente di tutti sarebbe cosa infinita. Così alla domanda assai naturale che sogliono far coloro, i quali si convincono in qualche disputazione d' essere ingannati: « diteci dunque qual sia il sistema che in questa materia si deve tenere, »noi credemmo di non ammutolire, e procurammo di dare quella soddisfazione, di cui hanno, in qualche modo, diritto gl' interroganti. Qualora dunque si consideri che gli uomini aspirano a conoscere e contemplare la verità, e conoscerla e a contemplarla, i presenti segnatamente, in un modo riflesso ed attuale, perchè ne vogliono godere consapevolmente (e senza l' uso della facoltà di riflettere l' umana mente è inconscia delle sue proprie notizie): se si considera ancora, che non si rappresenta il vero alla riflessione nella sua nudità, ma bensì colla compagnia, e coll' aiuto di cose sensibili, fra' quali i vocaboli delle lingue sono i soli che conducano i passi della riflessione a lungo cammino, di maniera che la verità riflessa e parlata è quella infine che più manifestamente e consapevolmente cercan gli uomini, non ci sarà, speriamo, per noi bisogno di giustificare quell' intento, a cui dicevamo avere indirizzate, qualunque sieno, le nostre fatiche, cioè a raccogliere colla meditazione della mente e a raccomandare a' segni delle parole, ordinata a scienza, quella dottrina che è, o che credemmo essere, IL SISTEMA DELLA VERITA`. Ma se un tale intendimento, per se stesso considerato, non ha bisogno di giustificazione, pure prevediamo che ci verrà rivolta questa ragionevole domanda: « come quell' intendo sia possibile, come abbiamo noi creduto di poterlo ottenere almeno per approssimazione: » Non sono le cognizioni umane, ci si dirà, senza numero? e perciò senza numero le verità? In quante scienze non è oggimai compartito il sapere? e non racchiude ciascuna di esse tanti veri o già trovati o trovabili da riuscir soverchi a qualsivoglia memoria e a qualsivoglia intelletto? »Alla quale questione noi sentiamo il debito di rispondere, e lo facciamo tanto più volentieri, che, rimanendo sospesa, non solo i nostri amici potrebbero, trovando ottimo in se stesso lo scopo, riputarlo nondimeno impossibile e vano e temerario, ma noi non avremmo chiarito abbastanza il nostro pensiero, il quale non inteso, neppure potrebbe essere equamente giudicato. Il sapere umano, in quanto si dispone ed ordina scientificamente, può essere rappresentato da una piramide a forma di tetraedro: la base sterminatamente grande è formata, quasi d' altrettante pietre, da' veri particolari, i quali sono innumerevoli; sopra di questi corre un' altra serie fatta di un ordine di quei veri universali, che fra gli universali, sono i più prossimi ai particolari, e anche questi moltissimi, ma non quanti i primi: e se così di mano in mano si ascende agli altri strati o scaglioni superiori, ciascheduno di essi si trova contenere un minor numero di veri, ma di una potenzialità od universalità sempre maggiore, fino a che, pervenuti alla sommità, il numero stesso è scomparito nella unità, e la potenza dell' universalità è divenuta massima ed infinita nell' ultimo tetraedro che forma la cima della piramide. Questa immagine mostra ciò che vogliam dire, ma non in tutto; essendo impossibile che una figura materiale abbia le condizioni spirituali delle idee: quello dunque che non può essere rappresentato o significato da questa similitudine si è, che un ordine più elevato di veri contiene virtualmente in seno l' altr' ordine che gli è prossimamente inferiore (perocchè quelli sono veri più universali, questi meno), e coloro che sanno fare l' ufficio del figliuolo di Fenarete, possono estrarlo dalle sue viscere; laddove un' ordinanza di pietre soprapposte non ha virtù generatrice dell' altra ordinanza che le sta sotto, nè questa nel seno di quella si chiude, nè indi può trarsi fuori alla sua propria esistenza. La quale condizione del vero di trovarsi implicato ed involto in una suprema unità, d' onde si spiega e si svolge nel numero, e ciascuna unità di questo numero implica anch' essa e di sè svolge un altro numero di meno estese verità, feconde pure di germi, pure generative di altre feconde verità, (ond' è che cresce e si moltiplica senza fine questa famiglia d' immortali, e classificata poi a specie e a generi, l' intellettuale progenie forma di sè tante scienze, tante arti, tante discipline); questa condizione, dicevo, del vero che si riversa e quasi si rinnova in altri veri, e in questi diviene di continuo più numeroso senza cessare di essere quello di prima unico e semplicissimo, ella è tanto incorporea e divina che non trova, per dirlo di nuovo, negli enti sensibili e materiali, per qualunque parte dell' universo si vada cercando, alcuna adeguata similitudine o sufficiente rappresentazione. Non è qui il luogo di dire o d' investigare come un vero si risolva in più veri, e come quando questi sono venuti alla luce della mente umana, quello, che s' è quasi direi sgravato di tanti portati, non cessi d' esser qual era per nessuna guisa modificato, gravido ancora degli stessi veri, nè più nè meno di quel che era prima. Ma ci conviene bensì osservare che i veri così figliati da altri veri antecedenti, che in sè li portano, ricevono da questi loro generatori la legge e la norma del loro essere, e ne mutuano tutta la luce. Perocchè egli è manifesto, che non può rinvenirsi più di essere e più di luce ne' veri derivati, di quello che se ne ritrovi ne' loro principŒ, da' quali per giuste inferenze furono dedotti, e tutto il di più che si voglia collocare nelle inferenze e non sia contenuto ne' principŒ, è puro errore. Ora da questa ordinatissima costituzione della verità, e da questa sua singolar natura, che una serie di veri più elevati porti in sè tutte le serie de' veri inferiori, e più sono elevati, meno è grande il lor numero, si può raccogliere, che nella piramide scientifica, quanti sono i gradi della medesima, altrettanti sono i modi, ne' quali la stessa verità è concepita ed espressa dall' uomo, di manierachè tutta intera la verità si trova nella detta piramide replicata altrettante volte in diverse forme, quanti sono gli ordini orizzontali de' massi, per dir così, sovrapposti, con questa sola eccezione, che i veri che costituiscono gli ordini inferiori, scompagnati da quelli degli ordini superiori onde derivano, rimangono quasi ombrati, e l' uomo privo della luce de' loro principŒ, non può farne grand' uso, nè cavarne a' suoi bisogni gran pro; laddove congiunti nell' umana mente ai veri più alti che li generano e in questi contemplati, diventano lucidi, maneggevolissimi ed utilissimi. Laonde sebbene i veri che appartengono alle sezioni più basse della piramide siano smisuratamente più di numero, ed anzi innumerevoli; tuttavia l' essere in tanta moltitudine non li rende nè più splendidi nè più preziosi di quelli, sempre men numerosi, che appartengono alle sezioni superiori; anzi l' esser tanti loro pregiudica doppiamente, e perchè non possono esser tutti conosciuti e raccolti dall' umano ingegno, e perchè la verità così divisa in parti, perde di quella dignità e di quello splendore di cui ella rifulge nella sua interezza. Certo che anche i veri degli ordini superiori acquistano un maggior uso e un maggior corso, quando si possedono dall' uomo accompagnati dalla loro prole, cioè da' veri degli ordini inferiori. Ma posciacchè l' apprensiva e la memorativa di ciascun uomo non s' estendono all' infinito, epperciò non possono abbracciare tutti i veri particolari; al conoscimento di molti di questi è da preferirsi di gran lunga il conoscimento di que' pochi che li racchiudono tutti, e da' quali altresì la mente può ricavare e dedurre, ogni qual volta le piaccia, gli altri, in maggiore o minor numero, secondo il tempo e le forze, ch' ella spende nell' opera della loro derivazione e deduzione. Le quali considerazioni già fanno intendere, che cosa volevamo dire nominando il sistema della verità : dimostrano che questo sistema, il più nobile ed alto scopo a cui si possano rivolger gli studŒ, non è impossibile a rinvenirsi, nè vano o temerario deve riputarsi il tentarlo: di più, che il prenderlo di mira è necessario a chi vuol dare un segno fisso alle filosofiche meditazioni, e finalmente che non può biasimarsi nè pure colui, che quantunque nol colga del tutto, pure se l' è proposto, e vi si è in qualche modo avvicinato. Perocchè il sistema della verità altro non è, per dirlo con diverse parole, se non la descrizione di lei, in quella forma nella quale sta contenuta ne' principŒ, non già ne' veri particolari; ossia, per continuarci nella similitudine usata di sopra, qual ella si trova ne' più alti gradi della piramide, di pochi, ma grandi veri composti, che, avendo in sè potenzialmente tutti quelli de' gradi inferiori, riassumono la verità intera. E certo ad alcuni pochi principŒ i veri più minuti si riducono, i quali principŒ, come dicemmo, sono la viva e pura luce di questi, e ad una tal luce, come si possono discernere tutti i veri, così si possono riconoscere altresì e separare tutti gli errori. Ora il determinare i principŒ ossia le prime ragioni di tutto il sapere, e con precisione pronunciare e affidare ai vocaboli quest' altissima parte dell' immensa piramide dello scibile umano, è appunto l' ufficio della FILOSOFIA. A questa dunque noi abbiamo stimato di dover rivolgere l' attenzione della mente, a questa abbiamo indirizzati i nostri varŒ scritti, ciascuno de' quali intorno a qualche porzione di lei si travaglia. Altrove noi abbiamo definita la Filosofia: « la dottrina delle ragioni ultime »(1), secondo la qual definizione non è malagevole determinare con precisione quale porzione della nominata piramide ella costituisca (2). Perocchè in primo luogo è manifesto, che quel tetraedro nel quale la piramide finisce e che rappresenta Iddio, o la scienza di Dio, deve essere il principale argomento, e formare la precipua parte della filosofia, giacchè Iddio è la ragione ultima e piena di tutte le cose che esistono nell' universo o possono cadere nelle menti. A quel divino e finale tetraedro poi si congiunge immediatamente l' ordine primo di quei veri, che riguardano il creato, e nè anche questi possono essere dimenticati dalla Filosofia, quantunque non costituiscano la ragione assolutamente ultima, la quale non è altra che Dio medesimo; ma essi sono gli ultimi veri, le ultime ragioni fra quelle che all' universo appartengono, facendone in qualche modo parte. Perocchè l' universo ha in se stesso le sue ragioni relativamente ultime, e sono le prime cause create o concreate, dalle quali dipendono, secondo natura, tutti gli enti, e tutte le leggi, al cui tenore gli enti si muovono alle loro operazioni, ed operando pervengono alla loro perfezione, o al parziale decadimento, che pur contribuisce poi anch' esso alla perfezione del tutto, la quale non può essere frustrata giammai. Le ragioni ultime dunque al di là del mondo, e le ragioni ultime nello stesso mondo; ecco l' oggetto della filosofica disciplina, che così prende i due ultimi, e più elevati gradini della immensa piramide scientifica, che noi abbiamo descritta. Di che la Filosofia si rimane chiaramente separata dall' altre scienze e sopra esse innalzata, siccome la madre e la guida comune di tutte, formando queste i gradi inferiori della piramide, che da que' due supremi dipendono, e ne ricevono il lume e la vita. Non potea dunque caderci nell' animo di trattare tutte le scienze, ma bensì di occuparci della loro comune sommità, negletta pur troppo, ed anzi in questi tempi superbi di materiali godimenti e pensieri, ravvolta nel fumo e nella caligine. Dalla sovversione anzi dall' annientamento della Filosofia operato nel secolo scorso dagli autori del sensismo, guazzabuglio di negazioni e d' ignoranze, che sotto il nome assunto di filosofia invase tutta l' Europa con più detrimento del vero sapere, che non vi avesse recato giammai alcuna invasione barbarica, derivò quella corruzione profonda della Morale, del Diritto, della Politica, della Pedagogia, della Medicina, della Letteratura, e più o meno di tutte l' altre discipline, della quale noi siamo testimoni e vittime: e questa corruzione, trasfusa nelle azioni e nella vita mentale de' popoli e della stessa società umana, continua a dilacerare, come mortifero veleno, le viscere di quelli e a minacciar questa stessa di morte. Da quell' ora sembra essersi in molti quasi perduto nelle cose morali il senso comune; le passioni e l' ignobile calcolo degli interessi materiali sono divenuti l' unico consigliere, l' unico maestro delle menti: e queste, aperte a tutte le prevenzioni, disposte a dare il loro assenso sull' istante alle sentenze più stravaganti, a toglierlo pure sull' istante alle più dimostrate, secondo l' opportunità casuale; orgogliose di soggiacere alla schiavitù delle opinioni più appassionate, anzi, appunto perciò, schizzinose della soggezione più ragionevole; credule fino all' assurdo (1), incredule all' evidenza, legislatrici del mondo intero, intolleranti di ogni legge, frenetiche de' proprii diritti, immemori de' proprii doveri, entusiaste, in parole, della filantropia, professanti co' fatti la frode e l' egoismo, irreligiose, disonorate nelle lascivie, impudenti, sembrano avere perduto ogni coscienza della virtù e della verità, e l' esistenza stessa dell' una e dell' altra è divenuta per esse un problema od una vana chimera. Se questa condizione di cose fa nascere da se stessa il pensiero e il desiderio di un radicale rimedio, e invita gli studiosi a indagare una migliore filosofia da sostituirsi a quella che si mostrò feconda di tanti mali, altri gravissimi eccitamenti ancora inclinarono i miei studii verso un tale scopo, e a' miei amici e benevoli non sarà discaro, se io li trattenga qui brevemente colla narrazione di qualche fatto personale, che d' altra parte mi sembra necessario a purgarmi presso alcuni altri dalla taccia di soverchia presunzione nelle mie proprie forze. Ecco dunque quello che mi confermò nel proposito di por mano, per quanto lo concedessero le mie facoltà e le opportunità, alla ristorazione della Filosofia. Io mi trovavo l' anno 1.29 in Roma, e Mauro Capellari in allora Cardinale della S. Romana Chiesa, al quale mi legava il vincolo d' un' antica amicizia, m' esortava e consigliava a scrivere e pubblicare in quel centro della Cattolicità il « Nuovo Saggio dell' origine delle idee, » di cui avevo in allora solamente concepito il disegno, e gettatone il seme negli « Opuscoli filosofici, » che ne' due anni precedenti erano usciti alla luce in Milano. Quell' opera, che effettivamente scrissi e pubblicai quell' anno e sul principio del seguente nella capitale del mondo Cattolico, e che fu approvata da' romani censori, tendeva a combattere il sensismo, fonte di tanti altri errori, ed anzi di tutti i nostri mali: e non a combatterlo soltanto nelle sue conseguenze o a dimostrarne erronei i principŒ, ma a combatterlo a quel modo che abbiamo detto, col mettergli a fronte il vero sistema intorno alla natura e all' origine delle cognizioni; chè il falso, quando gli è posto in faccia il vero, rimane come un reo convinto, ed anche confesso davanti al giudice; e da se stesso si dilegua a quel modo che sgombrano le tenebre all' apparire della luce. A cui s' aggiunse un altro autorevolissimo conforto a non farmi più parere temeraria l' impresa, a cui aveva posto mano col « Nuovo Saggio » ed a condurla avanti, rendendomela un dovere. Poichè in sul bel principio dell' anno seguente Pio VIII assunto al trono pontificale dissipava da me tutti i timori, non tanto della difficoltà dell' impresa, quanto dell' incertezza, se quel tempo e quelle forze che avrei dovuto spendervi, non potessero per avventura essere impiegate a maggior vantaggio del prossimo in altre occupazioni. Ricordo ancora le sue amorevoli ed autorevoli parole, le quali presso a poco furono queste: « E` volontà di Dio che voi vi occupiate nello scrivere de' libri: tale è la vostra vocazione. La Chiesa al presente ha gran bisogno di scrittori: dico, di scrittori solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non esercitando qualunque altra opera del sacro ministero ». In tal maniera quel sommo Pontefice di santa memoria mi tracciava la via, e m' esortava a calcarla; e non posso dimenticarmi con quante parole e con quanto calore e bontà seguitasse a dimostrarmi la verità del suo consiglio, e specialmente a persuadermi, che gli uomini si dovevano condurre col ragionamento. A Pio, che rimase sì breve tempo al governo della Chiesa, successe Gregorio XVI, cioè quel Capellari, onde m' erano venuti i primi consigli e conforti, e che durante il lungo suo Pontificato non mancò giammai di raffermarmi nello stesso proposito, d' aiutarmi a compirlo con ogni dimostrazione di paterna benevolenza e di costante protezione. Così fu determinata la direzione de' miei studŒ successivi, e la riforma della filosofia divenne l' intento universale de' lavori fin qui da me pubblicati o promessi; a cui consegue di sua natura quella ristaurazione di tutte l' altre scienze, delle quali la filosofia è madre e nutrice, principalmente delle morali, dove ogni decoro ed ogni onore dell' umanità consiste. Il sensismo e il soggettivismo, che non è, propriamente parlando una filosofia, non può avere una Morale: perocchè noi non dobbiamo prendere i nomi con cui giocano i sofisti, per le stesse cose. Niuna Morale deriva dall' umano soggetto, il quale è bensì colui che viene obbligato dal dovere, ma non è, e non può essere colui che obbliga. Coll' avere i sofisti trasformato l' obbligato nell' obbligante, scambiando il passivo coll' attivo, fecero fare un capitombolo alla Morale. Acciocchè dunque questa disciplina si raddirizzi (chè se non è diritta non è più dessa), egli è uopo dimostrare, che v' ha un oggetto, il quale sia degno di riverenza e d' amore: e lo stabilire questa dignità dell' oggetto, che importi un' esigenza di essere riverito ed amato, di maniera che il non farlo sia un disordine, una turpitudine, è quanto un rimettere la Morale nella sua natural posizione, restituendole il suo primo fondamento. Quest' oggetto è l' ESSERE, in tutta l' estensione che prende questa parola; perocchè l' essere ha di sua natura quella forma appunto, per la quale dicesi oggetto: egli è PER SE` OGGETTO, e quindi medesimo non può mai non essere oggetto. Che se l' essere non può non essere, e se non gli può mancare la forma oggettiva, perchè senza questa non sarebbe pienamente; dunque l' essere oggettivo è necessario, e quindi la Morale pure è necessaria. Non si potea dunque rendere alla Morale il suo immobile fondamento, nè proteggerlo validamente contro gli assalti di coloro, che l' aveano voluto rovesciare nell' opinione umana, senza ascendere col pensiero fino alla teoria dell' essere oggettivo: il che ci obbligò di principiare la serie de' nostri lavori dall' Ideologia, donde ogni sapere umano incomincia. Per la stessa ragione e per una strada ancora più corta il sensismo ed il soggettivismo rovesciò la scienza del Diritto sul quale si reggono non meno le relazioni dell' umana convivenza, che quella delle umane società. Poichè il Diritto nella sua parte materiale è una facoltà soggettiva che ha per fine l' utilità di chi la possiede, e l' esercita: all' opposto della Morale, che tutta si racchiude nel riconoscimento volontario e riverenziale dell' oggetto, senza che le conseguenze eudemonologiche formino, od accrescano l' inflessibilità dell' obbligazione, assoluta come la verità. E quella facoltà soggettiva, che è come la materia del diritto, rimane, anche rimossa la morale; ma colla remozione di questa, che è come la forma del diritto medesimo, essa perde incontanente la dignità e l' essere formale di diritto. La quale dignità morale, che quella soggettiva facoltà d' operare non ha in se medesima, le viene dal di fuori, cioè dalla morale appunto, che la consacra proteggendola, coll' imporre a tutti gli altri uomini l' obbligazione di lasciarla intatta e libera a' suoi atti. Laonde ristabilita la morale, fermatane immobilmente la base, è con questo stesso salvato anche il diritto, e la doppia eccellenza delle azioni umane, cioè l' etica e la giuridica. Se col sensismo e col soggettivismo la mente, coerente a se medesima, non può riconoscere l' esistenza nè di doveri nè di diritti; coll' annullamento poi di questi, ella non può più concepire alcun' altra politica che quella che si consuma in frodi e in violenze, e che, come il principe ideale del Macchiavelli, è biforme, cioè mezza volpe e mezzo leone, quella che ha per suo necessario effetto procacciar l' odio a tutti i governi, quell' odio universale, che li rende tutti impossibili, e che pur troppo vediamo diffuso in Europa a guisa di un diluvio, in cui affogano i governanti, con esso tutte le forme governative. Solo quando sia restituita la morale (e con questo dico la religione, che è la vita della morale) e colla morale il diritto (non una larva ingannevole di diritto), allora è possibile una scienza politica, custode della giustizia, tutrice della libertà di tutti, promotrice d' ogni bene, autrice della concordia de' cittadini, fortissima madre della pace. E quantunque questa scienza che presiede al governo delle società civili, non sia che la prudenza applicata a condurre quelle speciali società al loro fine, e però non possa avere per suo proprio scopo ed effetto altro che l' utilità de' governati, tuttavia se si considera più profondamente, e s' investiga la connessione e la lunga serie di tutte le cause e degli effetti onde la civile società perviene a quella prosperità che le è propria, nella fine di una tale investigazione e di un tal calcolo, la mente riesce ad una conclusione nobilissima; la quale è questa: « Il governo civile instrutto della dottrina della giustizia nelle sue tre parti, la commutativa, la distributiva e la penale, e dotato di una perfetta coerenza di ragionamento, può e deve dedurre tutte le regole della prudenza politica dalla sola giustizia »: conclusione, che può sembrare, nel primo aspetto e superficialmente considerata, un paradosso, perchè veramente è una sentenza fuor d' opinione, non potendo esser di molti la coerenza della mente, che ne' principŒ vede le più lontane inferenze, e pur troppo mancando nei più un alto sentimento morale, quella magnanima fede e sapiente nella giustizia stessa, che n' aspetta ogni migliore effetto, ne fa uno studio continuo, ne prevede con secura speranza gli ultimi felicissimi risultati. Ora quello che prima di tutto insegna la giustizia sociale, quello che i presenti governi sono più che mai lontani d' avere imparato o di voler imparare, si è che il civile governo co' suoi atti e colle sue disposizioni, non dee uscire giammai da' naturali confini della sua autorità, i quali non si possono assegnare, se prima non si definisce che istituzione sia quella del civile governo. Laonde sino a tanto che non si riconosca sinceramente il supremo impero della giustizia, nessun governo può avere un confine, oltre il quale il suo potere non voglia trapassare. Perocchè la sola utilità, questa incertissima e vanissima parola, non può prescrivergli limite fisso, dipendendo essa dal calcolo probabile delle circostanze, e però essendo variabilissima in se stessa e commessa all' arbitrio di chi assume di fare quel calcolo. Onde se a questa sola guida sono rimessi i governanti, come non hanno più alcuna ragione d' anteporre l' altrui utilità alla lor propria, a tutte le occasioni, in cui credano poterlo fare impunemente, stenderanno su tutto quello che loro piace le mani, nè i governati sapranno mai prevedere dove essi voglian fermarsi, nè potranno imporre ragionevolmente un termine al potere o pretendere guarentigie, le quali, accordate che pur fossero, non avrebbero un maggior valore di quello che prima s' avesse la loro propria forza: chè per certo, disconosciuta la morale e la giustizia, sono impossibili le convenzioni; cancellandosi dalle menti il « verba ligant homines », rimanendo solo superstite il « taurorum cornua funes ». Ed egli è così forte il piacere dell' imperare e del governare, anche per le utilità proprie che se ne traggono, talmente seduce, quasi all' impensata dell' uomo stesso, che non solo prima di Cristo, quando tutto era signoria e servitù, ma anche dopo, quando il cristianesimo fece nascere le società civili, non si è mai pensato seriamente (il che pare incredibile e pure è vero) a definire il poter civile, e a circoscriverlo con precisione, ma se n' è mantenuto il concetto nel vago e nell' indeterminato, sebbene la giustizia volesse che la prima questione a risolversi da' governanti, colla massima accuratezza, dovesse essere questa: « che cosa è una società civile; a quale intento è istituito il governo della medesima? »La quale rimanendo insoluta, nè il governo può andar sicuro di non oltrepassare i suoi limiti, nè del pari i governati possono esigere alcuna cosa da chi li governa, senza incorrere nel medesimo pericolo. Ma rimanendo oscura ed incerta la natura e l' intento della civile istituzione, chi governa crede di poter fare alto e basso d' ogni cosa a sua volontà, il che è incredibile quanto a lui piaccia, ma insieme quanto noccia a tutto il popolo. Sarebbe dunque ormai tempo di ben intendere che la società civile non è una società universale nel senso, che comprenda nel suo seno tutte le altre e di conseguenza tutti i diritti delle altre; ma ella è una società particolare che vive a lato delle altre, come pure a lato di tutte le individualità, perchè neppur queste possono essere da lei assorbite colla perdita del loro proprio essere individuale; è una società che lungi di poter appropriarsi, od invadere i diritti degli individui e delle altre società, ha l' intento di tutelarli, senza distruggerli, senza minorarli, senza legarli o recar loro altro pregiudizio, ciò che sarebbe appunto il contrario del tutelarli; è una società che tutta si posa e si fonda sul rispetto de' diritti di qualunque maniera, il qual rispetto è la sua prima, la sua essenziale ed universale obbligazione, onde discendono tutti gli altri suoi speciali doveri, non rimanendole appunto altro diritto, che quello di osservare questi doveri: è una società che per tutelare e proteggere i diritti li modifica altresì nella forma, li coordina, acciocchè non s' impediscano reciprocamente, e possano coesistere pacificamente, e pacificamente svolgersi e prosperare: e in una parola è una società istituita al solo fine di REGOLARE LA MODALITA` DI TUTTI I DIRITTI DE' SUOI MEMBRI, lasciandone intatto il valore. Questa questione fondamentale di giustizia si eleva di gran lunga sopra la questione delle forme di governo, e a tutte impone la stessa legge: « di non disporre menomamente del valore di alcun diritto, limitandosi a regolare, come dicevamo, la modalità di essi tutti per guisa che tutti possano coesistere, svolgersi liberamente, prosperare »: nè dichiara una forma migliore dell' altra, se non in quanto, avuto riguardo ai tempi ed alle circostanze, in una forma possono trovarsi maggiori probabilità, che quella legge fondamentale sia dal governo osservata e seguita. Ora questa determinazione precisa dell' unico ufficio universale della società civile, quando sia abbracciata o resa così evidente nell' opinione di tutti, che non possa più da' governi ricusarsi, è il solo rimedio radicale e specifico del dispotismo, il quale in tutte le forme di governo si è sempre rinvenuto, ma più subdolo e più ributtante che in altre, in certe forme viziate dalle passioni sofistiche all' .9 in poi, nelle quali gli arbitri de' parlamenti compaiono al pubblico con in sul volto l' onesta e mansueta maschera della legge, quasi che la legge dell' uomo non possa anch' ella esser dispotica e tirannica, ma sia una purissima idea astratta, che nulla tiene d' umanità, e non sappia punto odore del volere di quelli che l' hanno fatta. L' onnipotenza attribuita pazzamente al popolo si travasa ne' deputati, i quali (parlo sempre di costituzioni viziate alla francese) si persuadono, che ormai non più colla giustizia, ma con essa onnipotenza si faccian le leggi: contro l' iniquità delle quali il mondo freme e si dibatte, e, poichè rimane confitto nelle menti il vizioso principio, colla ribellione non s' ottiene che di fabbricarsi de' legislatori peggiori, che impongono al popolo ribelle che gli ha scelti, leggi peggiori. E come può essere diversamente, se niuno, nè governanti nè governati, conosce il termine a cui deve andare, nè la strada che vi conduce? Niuno sa precisamente perchè il governo esista? perchè la società civile sia istituita? Niuno vuol saperlo o supporre di saperlo, senza prendersi la cura di ricercarlo? E niuno, massimamente di quegli ambiziosi che s' incaricano di guidare il popolo, accetta i limiti naturali di questa società, ma in persona di difensori del popolo, pubblicano a suon di tromba, che la volontà del popolo può ogni cosa giusta od ingiusta? Cioè creano un' onnipotenza per fondarvi su una società civile pure onnipotente, e questo fanno acciocchè ne riescano onnipotenti gli organi e gli strumenti, cioè il governo che sperano recarsi in mano? Tale è il sofisma dell' egoismo politico, che co' più bei nomi si copre, e specialmente con un bellissimo di liberalismo, e questa specie di liberalismo consiste nell' edificare in sul dorso incurvato degli uomini la mole d' un governo onnipotente, che è quanto dire d' impor loro un dispotismo sofistico così sfrenato, che non fu mai tale sopra la terra da Nembrotte in poi, denominandolo per refrigerio, e consolazion del popolo, libertà! Dal qual laccio le nazioni non possono trarre il collo, se prima nol traggono da quello del sofisma che ha prodotto lo stato, nel quale si logorano e straziano senza volerlo e senza sapere il perchè, cioè se esse non tornano a consacrare il diritto sconsacrato dall' utilitarismo, riponendolo sotto la protezione della morale e della religione che ne è l' effettività, e riconoscendo, che nè il popolo, nè gl' individui che il compongono, nè i parlamenti, nè i monarchi, nè i ministri, nè alcuna autorità sopra la terra può toccarlo; e quindi che i governi non hanno e non possono avere altra incombenza, nè altra autorità, se non quella, che i diritti di tutti (i quali non sono già da' governi creati, come pazzamente fu asserito), i diritti degl' individui, e di tutte le società oneste, sieno conservati nella loro integrità di valore, e, salvo questo valore, regolati nella loro modalità per sì fatta guisa, che senza impedirsi reciprocamente, senza sacrificarsi gli uni agli altri, coesistano, s' esercitino, liberissimamente si svolgano. E` questo il solo principio che può somministrare una politica salutare, che guarisca la malsanìa delle nazioni, e con esse salvi la stessa società umana. Dacchè dunque il senso corporeo, che non apprende la verità, fu proclamato il solo maestro sicuro, la sola guida fedele degli uomini, e questi prestarono fede a quella sentenza che portava la contraddizione in se stessa, la Morale, il Diritto e ogni altra cosa di natura eterna, perì insieme colla Verità nell' opinione degli allucinati, e la politica divenne un' arte aleatoria, nella quale gli uomini giocarono e giocano se stessi, e le loro cose più care co' due dadi dell' astuzia, e della forza brutale. E su questa dottrina furono educate le novelle generazioni alla sensuale sapienza. La voluttà de' sensi divenne, come divenir doveva, il fine della scienza e dell' arte pedagogica, ed acciocchè quella, consumando le sostanze, non consumasse troppo celeramente se stessa, le fu dato a contrapeso la scienza dell' economia politica (anche questa scienza per sè bellissima ed utilissima così corrompendosi), alla quale noi italiani imparammo da Melchiorre Gioja ridursi la morale! Nè vogliamo qui perscrutare quale istinto inducesse i sensisti a conservare con tanta sollecitudine questo nome di Morale, quando parea dover loro bastar quello d' Economia politica, giacchè, non dovendo rimaner più che questa sola scienza, pare che per una scienza sola non ci sia bisogno di due nomi. Certo che la verità si resta colà ritta ed immobile davanti ai deliri degli uomini, e questi, sebbene, chiudendo gli occhi, dicano che quella non è più perchè non la vedono, tuttavia non potendo tenerli sempre chiusi perfettamente, che è uno sforzo contro natura, di quando in quando s' irritano in percependone alcuni raggi, e allora scappano loro quelle incoerenze ed indirette confessioni del vero, che ognuno può avvertire nelle loro parole, se ci bada: ma se quei raggi battono in essi più vivi che non vorrebbero, cagionano loro infiammazione degli occhi, e allora vanno in furore per la doglia: indi l' origine di quella lotta tremenda, incessante, vendicativa che non pochi movono alla verità ed a suoi confessori, nella quale si riassumono tutte l' altre lotte, chè, senza quella prima ed essenziale, l' altre o non sarebbero o cesserebbero facilmente. Al piacere dunque, all' economia politica che lo alimenti, ed all' astio della verità morale e religiosa, nel sistema di cotali educatori, devono sacrarsi le novelle piante umane destinate a formare « la selva selvaggia ed aspra e forte »che ricopre tutta quanta la terra incivilita. Ma se a questo termine dee condurre necessariamente quel sistema ideologico, che nega ogni eterno e immutabile elemento e che abbandona il genere umano e le sue giovanili propaggini al flusso dei sensi; per lo contrario si raccoglie, che la scienza e l' arte dell' umana educazione, qualora non deva essere un' industria dotta e sistematica di corrompere ed imbastardire i teneri rinascenti germogli dell' umana famiglia, converrà che abbia per fondamento anch' essa quell' elemento eterno, che costituisce la nobiltà dell' uomo, e, sollevandolo al di sopra del minerale, del vegetale e dell' essere sensitivo, il fare della terra e scopo della creazione; quell' elemento, a cui il senso corporeo è straniero e soggetto, e che l' Ideologia addita nell' idea, che splende con inestinguibile lume alla mente come prima manifestazione dell' essere necessario; la Morale mostra nella legge, che con autorità assoluta lega la volontà, qual seconda manifestazione dell' essere medesimo; e la Religione fa trovare in Dio stesso, manifestazione ultima e compita, fonte misterioso e della luce ideale ad un tempo e d' ogni legislazione, soddisfacente ogni voto dell' umanità, che nell' essere infinito s' immortala, s' assolve, si bea, si deifica. Al quale sublimissimo fine, a cui l' uomo, col suo intelletto, colla sua volontà, colla sua stessa essenza tende sempre di stendersi al di là del creato, deve dunque indirizzarsi con perseverantissima industria e con perfetta coerenza anche la scienza e l' arte dell' umana educazione, ad un semplice ed evidente principio tutte le altre parti subordinando, le quali, subordinate così, partecipano di quella infinita dignità e contribuiscono alla verace perfezione e alla felicità degli educati. All' opposto, abolita la dignità intellettiva per opera del sensismo, non ci ha più cagione di non abolire la stessa natura sensitiva e discendere al materialismo, come nel fatto è avvenuto. Perocchè chi non ha tanta virtù di mente da vedere l' assurdo, che le idee sieno fenomeni sensitivi, non può neppure ravvisare l' altro assurdo, che le sensazioni sieno fenomeni materiali. Quella mente che non sa conoscere il primo errore è fors' anco meno atta ad accorgersi del secondo; chè dall' idea alla sensazione v' ha un tratto maggiore, che non dalla sensazione alla materia: col primo salto si precipita dall' infinito al finito, col secondo si va dal finito ad un altro finito, benchè di opposta natura. In tutti i rami del sapere, non solo in quelli che riguardano lo spirito razionale e morale, ma ancor più immediatamente in quelli che riguardano il corpo vivente, il materialismo esercitò la sua dannosa influenza intrudendovi il sofisma nel metodo, l' errore nel risultato. La Medicina divenuta materiale (e si parla sempre della scienza, non degli individui, i quali per una felice incoerenza possono credere alla spiritualità dell' anima, coltivando pur la scienza medica quale la trovano, chè non è dato a tutti il cangiarla) ruppe con orgoglio anch' essa il filo della sua tradizione, rinunciò all' eredità de' maggiori: il padre della medicina non fu più un genio, non si vide più nel vecchio di Coo, che un uomo volgare e pregiudicato. E di vero l' antica medicina avea la colpa di riconoscere nella vita e nelle sue funzioni, o in istato di sanità o in quello di malattia, un principio spirituale: Ippocrate riconosceva l' unità perfetta della vita e del vivente, e ne' morbi stessi avea conchiuso nascondersi un principio così straniero alla materia, che egli non seppe in altro modo denominare, che dicendol divino. Non si potea dunque professare il materialismo senza condannare ad un tempo la dottrina di tutti i secoli, e a' sofisti di quest' arte sembrò una magnifica gloria di collocarsi da se stessi al di sopra de' secoli, calcandoli sotto i piedi: gl' Ippocrati infatti (se pur si contentano di questo nome) a' dì nostri formicolano per ogni villa. Così la materia fu termine fisso alle mediche investigazioni portate a cotanta altezza, il pensiero e la sensazione divennero funzioni della fibra altrettanto quanto il meccanico o chimico movimento, e sul cadavere si studiò la vita, e si cercò col microscopio la spiegazione de' fenomeni vitali. Ma quando si muove dalla supposizione che il principio della vita non sia che materia, allora non presentando questa, per qualunque studio l' uomo vi faccia, se non fenomeni passivi, è smarrito quel principio attivo, onde tutte le funzioni, sieno fisiologiche o patologiche, dipendono come da loro causa, e quindi è anche smarrito necessariamente il vero principio dell' arte salutare, nè questo si ritroverà più, se non quando, tornandosi un po' indietro, si riconoscerà di nuovo, che il principio sensitivo, lungi dall' esser materia, è anzi quello che agisce sulla materia e l' avviva e la domina come il principio razionale agisce sul sensitivo, lo modifica e in gran parte lo signoreggia. Di che consegue, che se la medicina vuol influire con utilità sul vivente, è uopo che ella si rimetta in comunicazione con questi due principŒ (il sensitivo e il razionale), dall' azion de' quali il vivente e il suo stato morboso o normale deriva; e in quest' azione benefica confidi assai più che in se stessa, e ad aiutare e riordinare quest' azione tutta la sua industria rivolga. Nell' ordine del senso animale, a cui la sofistica riduce tutte le facoltà dell' uomo, restano le passioni, perchè le passioni sono sentimenti, ma non più rimane la norma intellettiva e morale che le ordina, or temperandole, ora eccitandole, sempre governandole agli alti fini dell' umana destinazione, a cui debbon servire. E quando le passioni ebbero ricevuto dal sensismo, col bando della loro guida e signora, l' intelligenza, il desiderato dono della libertà (e questa è veramente quella libertà, che trae a sè seguaci più numerosi e più clamorosi), allora, tolte al guinzaglio della ragione, esse si svolgono con tutto quell' impeto, in tutti que' capricci, in tutti quegli eccessi, di cui per loro natura sono suscettive. E così esse rimasero sola materia alla letteratura del secolo sensista, da Lord Byron a Vittore Ugo. Lo spettacolo di tutte le passioni uscite agli ultimi loro atti cozzanti fra loro a morte, intrecciantisi in una mischia variata da strani accidenti e quasi in un ballo complicatissimo e capricciosissimo, parve sublime, parve l' ultima rappresentazione estetica degna della letteratura del secolo, e certo ell' era l' unica, perchè il sensismo non ne lasciava altre. Vero è che ritorna a mescolarsi in quella danza la ragione tapinella quasi di furto, sia perchè quand' anco si cacci colla forca la natura, la si presenta poi di nuovo all' impensata, sia perchè senza ragione nè letteratura, nè altra scienza o arte può stare, di che il sensismo condannato a divenire incoerente per esistere, va a finire col suicidio. Ma la meschina è da que' letterati riammessa nella loro letteratura a patto di serbare l' incognito; poniamo, come un personaggio esiliato per legge d' ostracismo, richiamato poi segretamente dalla polizia per averne informazione o altro confidenziale servigio, il quale è in città, donde presto riparte, senza che alcuno sel sappia. Per certo la ragione è necessaria alle passioni stesse, delle quali alcune senz' essa non vivono, altre non possono concitarsi e irritarsi quanto si brama per averne l' effetto della meraviglia, e per cotesti buoni servizi ella s' accoglie nella letteratura, però travestita da figliola o da servetta della sensualità; chè nel suo proprio abito di regina e di regolatrice del senso stesso e delle passioni, non se ne sostiene la vista. E poichè negli storici avvenimenti non si scorge un sublime disegno, se non quando si contemplano in quella ragione e sapienza eterna che gli ordina e li dirige ad un fine, perciò a coloro i quali, eliminata dal calcolo l' intelligenza, non vogliono tener conto che del solo senso, non può parere la storia che cosa gretta, fredda e nuda d' ogni bellezza. Ed è questa la vera ragione del perchè i sensisti furono obbligati ad alterarla e a rifarla a loro gusto (e tutte le storie del secolo scorso sono veramente rifatte non sulle memorie de' tempi, ma sul disegno delle prevenzioni appassionate degli scrittori); e finalmente per avere un maggior campo all' arbitrio, fu inventato il genere ibrido del Romanzo storico, in cui le passioni possono a tutta lena sbizzarrire e disordinarsi, come non si trova mai nella storia; romanzo vestito, qual cornacchia, d' alcune penne della storia medesima, che così si disvuole e si vuole ad un tempo. La qual maniera di contraddizione non fa noia a coloro che altro non ricercano nelle scritture se non sensazioni ed emozioni, quali si sieno, al che il sistema de' sensisti ammaestra gli uomini, anzi d' ogni altro bello o d' ogni altro sublime rende loro impossibile il desiderio: a quelli, a cui è qualche cosa l' intelligenza e l' amore, e d' un delicato sentimento delle cose morali sono dotati, pare che così facendo venga profanata la storica verità, che col filo degli eventi, quasi con caratteri incancellabili, scrive i disegni di Dio, e, per la riverenza a questi ed alla stessa natura umana che li compie, brama che il vero di fatto rimangasi intemerato, siccome un' arca che racchiude de' segreti di bontà e di sapienza, i quali non sono pel sensista che materialmente lo considera. Quindi lo stesso autore del più perfetto e del più maraviglioso de' romanzi storici (e coll' idea dell' alta sua mente, non coll' ignobile senso ne aveva ordite le fila), mal pago di se medesimo, fra l' inaudita celebrità ei solo riprendendo se stesso d' aver saputo trovare un verosimile che dal vero della storia intrecciatavi non si discerne, spuntò la penna onde avea scritto l' opera immortale, e la rattemprò di poi per accusare l' intrinseco vizio di quel genere di componimento. Il sensismo dunque rapendo la parte ideale e divina alla letteratura, e a tutte le arti del bello, o le distrugge col legar l' uomo al positivo della sensazione, o certo le ignobilita lasciando loro il solo ufficio d' imitare, o rappresentare in un aspetto seducente gli eccessi delle passioni, nè altrove si può raccendere la facella del genio, se non al fuoco sacro della verità, della morale e della religione, che il senso ignora, e l' intelligenza consapevole ne' suoi penetrali conserva (1). I tre intenti o almeno i tre desideri, che abbiamo sin qui dichiarati, spiegano in gran parte la ragione de' diversi lavori, che si danno in questa raccolta. Ma un altro bisogno dell' età nostra sollecitava l' animo dell' autore, e il desiderio di soddisfarvi, quant' era da lui, guidavalo nelle sue fatiche. Ei ben vedeva il Vangelo risplendere al di sopra di tutti gli umani sistemi, siccome il sole, a cui le nubi della terrena atmosfera non giungono; e sapeva di più che « «il cielo e la terra trapasseranno e quelle parole non trapasseranno »(1) » Nè ignorava che la divina sapienza non ha bisogno d' alcun filosofico sistema per salvare gli uomini, e che ella è perfetta d' ogni parte in se medesima. Tuttavia sapeva ancora che fra la rivelazione ed una verace filosofia non può sorgere alcun dissidio, non potendo la verità esser contraria alla verità, come quella che, una e semplicissima nella sua origine, è consentanea mai sempre a se medesima: considerava oltracciò che la filosofia, dove non si diparta dalla verità, giova alla mente dandole una naturale disposizione e una cotale preparazione rimota alla fede, di cui fa sentire all' uomo la necessità: che gli errori, le prevenzioni, i dubbi che nascono dall' imperfezione della ragione, e che frappongono altrettanti ostacoli al pieno assenso da prestarsi alle verità rivelate, possono e devono risolversi e dissiparsi colla ragione medesima; che la stessa Chiesa cattolica invita ed eccita i filosofi (specialmente nell' ultimo Concilio di Laterano) a prestar quest' ufficio co' loro studŒ; che la rivelata dottrina non può esporsi compiutamente a modo di scienza senza supporre le verità dimostrate dal filosofico ragionamento, giacchè la religione non distrugge ma perfeziona la natura, la divina rivelazione non abolisce ma completa e sublima la ragione, e però la natura e la ragione sono i due postulati, o sieno le due condizioni e prenozioni del vangelo e le prime basi, su cui s' innalza l' edificio della sacra Teologia (1). Ne' primi secoli della Chiesa i Padri s' erano appigliati, per averne questi aiuti, alla filosofia di Platone da essi emendata; nell' età di mezzo fu preferita la filosofia d' Aristotile, pure emendata da' dottori e maestri della scuola. Nell' uno e nell' altro di questi due periodi di tempo la dottrina filosofica, a cui s' attenevano i Teologi, era universalmente ammessa e consentita; la diversità delle opinioni non ne scoteva l' edificio, perchè rimanevano fra pochi, nè si propagavano a tutto il corpo della scienza, di cui almeno restava sempre comune e incontroversa la forma dialettica, il metodo ed il linguaggio. E questo agevolava oltre misura lo studio della Teologia che s' innalzava a guisa d' un tempio, compito d' ogni sua parte, solidissimo e venerando agli occhi di tutti: ne' primi secoli quella scienza delle cose divine pareva disegnata a foggia d' un tempio greco o romano, ne' posteriori, d' un tempio gotico, ma sempre perfetto e magnifico. Nell' ultima età l' erudizione, la critica, la classica letteratura perfezionarono l' esposizione della scienza Teologica, rendendola più schietta, ed aggiungendo nuove prove positive, ben accertate, ai dogmi; ma caduto e dimentico il sistema filosofico della scuola, che le sopponeva un fondamento naturale, ella perdette la regolarità delle sue forme e la sua maravigliosa unità scientifica, per la quale, congiunta intimamente colla ragione naturale e con tutte le più nobili speculazioni, appariva manifestamente siccome un compimento soprannaturale dell' umana natura e dell' umano sapere, quasi l' ultima mano che il creatore stesso avesse posto all' opera sua. L' uomo allora sentiva altamente che la Teologia non era divisa da lui, e che, sebbene ella travalicasse, per l' origine e la sostanza, i limiti della natura, pure ella parea una continuazione di se stesso, il qual passava dal ragionevole al rivelato, quasi ascendendo da un palco inferiore ad un altro superiore dello stesso palagio della mente, con un solo disegno da Dio fabbricatogli. La Teologia cristiana in quella età era senza contrasto la conduttrice e la custode di tutte l' altre scienze, la signora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato, che sarebbe venuto un altro tempo, in cui alcuni pensassero, doversi la Teologia dividere interamente dalla Filosofia? E pure nacque questo pensiero: nacque, tostochè mancò una filosofia comunemente ricevuta, e si disperò di trovarne un' altra solida e coerente in tutto alla religione. Ma la sfiducia non è mai consiglio, non è ragione. Se il Teologo rinuncia alla filosofia, o egli dovrà intralasciare le più profonde questioni e lasciar imperfetta la scienza (1), o se tuttavia vorrà mettersi dentro ad esse, non gli riuscirà di risolverele, se non forse in una maniera assai imperfetta o falsa, onde n' avrà biasimo da' veri filosofi, dileggio dagli altri, con discredito della sacra disciplina. [...OMISSIS...] La filosofia poi di natura sua amica e fedele ancella della Teologia, se viene da questa ripudiata e dalla sua compagnia cacciata, non cessa perciò di vivere, massimamente ne' tempi nostri, che secondo la sentenza di Pio VIII vogliono gli uomini esser guidati al bene ed alla fede stessa dalla ragione; ma avverrà pur troppo di lei siccome di fanciulla derelitta da' suoi genitori e tutori, che per pane vende a chi ella incontra l' onestà ed il decoro. E qual maraviglia che la Filosofia, come noi pur vediamo dovunque avvenire, degeneri in quel superbo razionalismo, che ambisce oggimai d' esser solo, cacciatane in bando ogni rivelata Teologia? E` dunque desiderabile, che si volga il pensiero a ricomporre e ristabilire un sistema di Filosofia, il quale vero e sano e sufficientemente compiuto, possa essere dalla scienza teologica ricevuto per suo ausiliare, e questi due rami del sapere si ricongiungano in quella unità alla quale son nati, e nella quale reciprocamente si giovano, fiorendo entrambi a vantaggio dell' uman genere (2). Un antico detto consiglia l' uomo a prefiggere alle sue operazioni il più alto scopo concepibile dalla sua mente, acciocchè mirando in un ideale di perfezione e di bellezza possa prenderne sicurissime ed eccellentissime regole d' operare e attignervi quell' amore, quell' inspirazione, quell' aumento di forze, colle quali, eziandiochè non raggiunga la nobilissima meta, pure vi si avvicina abbastanza da far conoscere col suo lavoro, che cosa egli abbia voluto, e da potersi applicare senza vanto e senza vergogna quell' in magnis et voluisse sat est . E dall' esposizione de' fini che mi sono proposto nell' esercizio delle lettere, i miei amici si saranno avveduti, che quel documento mi fu presente all' animo, e o loderanno o scuseranno il mio ardire. Ora io devo loro indicare altresì la via, per la quale mettendomi, mi è sembrato poter più facilmente accostarmi all' intento. Non mi propongo di descrivere i mezzi e i sussidii, onde trassi vantaggio, il che condurrebbe il discorso a lungo senza necessità, nè tampoco di discutere o di giustificare in tutte le sue parti il metodo da me preferito, ma di due sole cose far cenno, cioè della libertà colla quale ho osato filosofare, e della conciliazione che ho procurato di fare, per tutto dove mi fu possibile, delle altrui sentenze. Il vero ed il falso è una qualità de' giudizŒ e degli assensi dell' uomo. Se l' uomo assente a ciò che è, il suo assenso è verace; se assente a ciò che non è, il suo assenso è mendace. Si suol parlare d' idee e di cognizioni vere e false: questa è una di quelle tante improprietà o imperfezioni di dire, che producono questioni inutili (questioni che rimangono escluse solo che si riformi il linguaggio), ovvero che implicano e rendono difficili a risolversi quelle, che sarebbero di loro natura pianissime. E per fermo, se si riserbasse il nome di cognizione a significare quelle che l' uomo acquista o s' appropria per un assenso verace, e le altre si chiamassero noncognizioni, quanti equivoci scomparirebbero incontanente dall' umano discorso? Primieramente si giudicherebbe un uomo saperne tanto, quanto egli possiede di pura verità; e non si metterebbero più in conto di dottrina gli errori, che frequentemente ingombrano le menti di quelli, che passan per dotti, a quella maniera, come chi vuol rilevare l' asse d' una famiglia non somma insieme i crediti e i debiti, siccome fossero quantità d' una stessa natura, ma sottrae questi da quelli, e così ne ricava il netto della sostanza. Ma poichè colui che aderisce a molti errori, crede di saper molto; perciò volgarmente si appella sapere anche quello, che non è altro se non una falsa persuasione che l' errante ha di sapere. Ora con questa sola avvertenza quanti ci avrebbero, che perduto il nome di dotti e di scienziati che malamente portano, benchè abbiano faticato molto sui libri, rimarrebbero in opinione d' ignoranti! E quanto si scemerebbe allora il numero di quelle ingannevoli autorità, che impongono agli uomini, e invece di lasciarli accostare al vero, li trattengono spesso vacillanti fra il vero ed il falso? E per la stessa ragione convien dire che tutti quelli che dubitano, non sanno ancora; chè i dubbŒ non sono cognizioni. Laonde se noi poniamo da una parte gli uomini, che dubitano di molte verità, e dall' altra quelli che a queste verità concedono un pieno assenso: questi secondi hanno indubitatamente maggior copia di cognizioni di que' primi, e così si deve conchiudere, senza tener conto del maggiore studio che possono avere posto i primi per riuscire al dubbio, di quello che abbiano posto i secondi, riusciti alla verità. Perocchè lo studio è il mezzo e non il fine, e anch' egli è vano, se non ci produce altro, che il dubbio del vero; ma soltanto quello studio ha un gran valore, che o ci arricchisce del vero, o ci spoglia del falso, o anche ci fa dubitar di questo, se già ne siamo imbevuti; benchè col farcene dubitare tanto solo ci arricchisca, quanto s' arricchisce colui, che non avendo altro che debiti, acquista quello che gli basta a pagarne una parte. L' assenso dunque che diamo al vero è ciò che ci mette in possesso del vero, fuori del quale non si trova la scienza, ma soltanto l' ignoranza o il dubbio che è un' ignoranza maggiore, o finalmente l' errore che è l' ignoranza massima. L' assenso suppone la notizia di ciò a cui si assente, e che coll' assenso si accetta per vero; e però se la cosa è vera, in ogni assenso, qualunque sia il modo nel quale si dà, c' è sempre cognizione, c' è sapere, e acquisto di verità. Ma l' assenso poi si può dare per più cagioni, le quali si riducono a queste due: o per la sola efficacia che la volontà esercita sulla facoltà dell' assenso, o per una necessità razionale veduta dall' intendimento, che muove al suo atto la facoltà dell' assenso. Nel primo caso l' assenso è arbitrario, cioè voluto non già senza un fine, ma senza una ragione; nel secondo caso l' assenso s' appoggia ad un motivo di ragione, e viene da una facoltà illuminata e qualche volta anche necessitata dall' evidenza, che in certe circostanze dell' animo, determina lo spontaneo moto dell' assenso medesimo. Ora quantunque l' assenso arbitrario non muova da ragioni che dimostrino la verità della cosa, e però sia un atto che non può dirsi strettamente ragionevole, tuttavia anche questa maniera d' assenso può essere dato ad una cosa che è e quindi esser verace, o ad una cosa che non è e quindi esser mendace. E se egli è verace, anche con quest' assenso l' uomo partecipa della verità e vi aderisce, ma nello stesso tempo che sa che quella cosa è vera perchè vi presta fede, egli non conosce il perchè sia vera, e questa è la parte di verità che egli ignora e che gli rimane a cercare. ora questo assenso cieco, che dimostra che l' uomo ha la potestà di assentire e di non assentire, è un fatto degnissimo della meditazione del filosofo, come quello che spiega innumerevoli altri fatti i quali frequentemente avvengono ed esercitano un' amplissima influenza sulla vita umana, voglio dire tutti i giudizŒ temerari, i pregiudizŒ, le prevenzioni, le credenze, le presunzioni, le persuasioni, che talora si manifestano fortissime negli animi, senza sapere onde vengano, senza poter trovare alcuna buona ragione in cui siano fondate, senza che questa ci sia, o almeno senza che ci sia piena e dimostrativa. Il maggior numero degli atti della vita, e stavo per dire pressochè tutti gli atti più necessarŒ, senza i quali l' uomo non potrebbe vivere, vengono diretti da prevenzioni e da credenze, le quali talora sono del tutto in aria, supplendo al loro fondamento di ragione la forza che ha la volontà di determinare l' assenso, la volontà, dico, con tutto ciò che influisce su di lei, colle inclinazioni, cogl' istinti, colle passioni, co' bisogni: talor poi si fondano in ragioni meramente conghietturali, più o meno probabili, in apparenze, in indizŒ o reali o trovati dall' immaginazione ed assunti di nuovo arbitrariamente come segni e generali indicazioni del vero. Se l' uomo, prima d' operare, volesse sempre avere davanti alla mente la dimostrazione delle verità che suppone in operando e che lo determinano a quello o a quell' altro modo d' operazione, egli non s' indurrebbe mai ad agire, e parrebbe divenuto una statua, e cessato d' essere un uomo. La facoltà dunque della persuasione immediata, la qual dipende dalla volontà, gli è oltremodo necessaria e preziosa, e l' aiuta all' azione più dello stesso ragionamento dimostrativo. Ma questa facoltà, se talora coglie nel vero, sovente batte nel falso: si può anzi dire che da essa provenga, universalmente parlando, la funesta potenza che ha l' uom d' errare, da essa altresì il vero ostacolo al libero filosofare. Vediamo qual sia l' ufficio della Filosofia relativamente alle tante prevenzioni, che prendono posto così facilmente nella mente degli uomini. La Filosofia chiama ad esame tutte queste prevenzioni, tutti gli assensi più o meno gratuiti, e distingue quelli che sono prestati al vero da quelli che sono prestati al falso. Riguardo ai primi, la Filosofia aggiunge quello che loro manca, cioè, fa conoscere la ragione che giustifica l' assenso, ricevuta la quale l' uomo non solo possiede la verità, di cui s' era già persuaso non ancora sapendo il perchè, ma ben anco possiede quell' altra verità che gliene rende il perchè, e così la sua cognizione coll' abbracciare queste due verità si completa, e la sua persuasione diventa razionale. Che se l' assenso era stato dato sopra ragioni di probabilità, la Filosofia o tenta di condurre la probabilità a dimostrazione, o, non giungendovi, s' adopera a dimostrare, che in quel caso non si può trovare il certo, e a misurare i gradi della probabilità che gli convengono. Relativamente poi agli assensi che l' uomo ha dato agli errori o senza ragione o per ragioni false, cioè per altri errori precedenti da cui i primi si derivino or come logiche illazioni, or come illazioni credute logiche anch' esse per errore, è propria incumbenza della Filosofia il dimostrare l' erroneità di ciò a cui fu dato l' assenso, ed anche l' erroneità di ciò che fu preso per ragione dell' assenso, e finalmente, se in dedurre il primo errore da questo secondo, non s' inferì bene, anche l' erroneità di questa inferenza: laonde la Filosofia in quest' ultimo caso ha da dimostrare per ogni falso assenso almeno tre errori. Ma gli errori, le prevenzioni erronee, sono di sovente ostinate; anzi convien dire che ogni persuasione, erronea o no, tiene nella sua propria natura una forza di resistenza ad essere annullata, ed è quella stessa forza di conservazione che ha ogni ente, ogni atto di qualunque ente. Laonde quando il filosofo col ragionamento prende a distruggere tali persuasioni (ed è obbligato a farlo per andare avanti), egli non può a meno di entrare in una lotta più o meno forte, più o meno pertinace, cogli uomini, che non vogliono al primo intìmo abbandonare, quasi parendo loro ignavia, il proprio errore. La Filosofia non trova un simile ostacolo se le prevenzioni che ella incontra negli animi, quantunque gratuite, pure sieno vere, perchè allora ella non è obbligata di combatterle anzi con esse si associa, e in vece di rovesciarle, si mette dalla lor parte per fortificarle, illuminarle, difenderle, completarle, con costruirvi il fondamento che loro manca e che è la loro propria ragione. Dal che si deduce che non sono le prevenzioni e i pregiudizŒ per se stessi e nella loro universalità, quelli che ingombrino il passo alla Filosofia (come falsamente si dice), ma sono le sole prevenzioni, e pregiudizŒ erronei, e in una parola sempre e poi sempre l' errore invalso nelle menti. E ne consegue, che colui che avrà ammesse in sè prevenzioni e pregiudizŒ di tal natura, cioè erronei, sarà un uomo del tutto inetto al libero filosofare, e per rendersene atto, egli dovrà prima deporre quelle persuasioni, o certo, entrare in tale disposizione d' animo, che gravemente dubiti di esse, e si renda indifferente a deporle o no, secondochè la Filosofia, lasciata discorrere così libera come se quelle non esistessero, pronunci la definitiva sentenza. Ecco dunque la vera causa del lento e contrastato progresso della Filosofia: le prevenzioni e persuasioni erronee, ecco altresì la causa logica della perdita della sua vera libertà, e quella de' suoi traviamenti. E che le prevenzioni e persuasioni erronee, diffuse specialmente nella moltitudine, sieno causa del lento progresso della Filosofia, si scorge a non dubitarsene ove si consideri, 1 che il sistema filosofico della verità non può arrecare in un popolo que' frutti saluberrimi che in sè contiene siccome in germe, se non a condizione, che riesca a prevalere universalmente nell' opinione. Ma più sono le prevenzioni erronee infisse negli animi, più ancora sono i nemici che egli dee combattere e vincere prima di stabilirvisi, e dove dominano molti errori, gli animi discordi sono più irritabili e superbi, nulla rendendo l' uomo tanto altero, tanto indocile, quanto la tirannia dell' errore, chiamato sapere dallo schiavo che la subisce. 2 Che non solo la Filosofia, supposto che sia già trovata e ordinata, ma colui stesso che meditando la cerca, incontra nelle prevenzioni erronee invalse nella società, in cui vive, un' immensa difficoltà a raggiungere il vero che si propone, sia perchè coll' educazione e colla consuetudine de' suoi contemporanei egli stesso n' ha in sè poco o assai ricevute, sia perchè le opinioni abbracciate dal comune si presentano con una grande autorità, crederebbesi coll' autorità del genere umano, e l' uomo si perita e tituba a prendersela con questo cotal senso comune, e diffida di se stesso, nè si risolve a confessare con franchezza una verità che gli si rivela, dissentendo tutti, avendo tutti per giudici che lo condannano, e per lo più non con una seria e motivata sentenza ma colla derisione. E qui è veramente dove spicca la necessità di quel coraggio ed ardire filosofico, col quale tanto facilmente si confonde la presunzione e la temerità, perchè queste diversissime disposizioni si rassomigliano al primo aspetto, e spesso le ultime fanno come quegli impostori, che alla morte di qualche Imperatore le cui fattezze imitano, si spacciano per lui stesso ancor vivente, e non, come si credeva, già morto. Questo è il buon coraggio che libera la Filosofia da inutili restrizioni ed ingiusti vincoli, ed egli nasce nella mente di chi prende a filosofare mosso dall' amore della verità . Quando quest' amore è puro e vivace: quando colui che si dedica alla filosofica investigazione, sente che c' è un tal bene nella verità (nella verità dico d' un ordine sublime e morale), che a niun altro è comparabile, e la stima di tal valore che per acquistarla è disposto a far getto di tutte l' altre cose, e pur gli pare d' averla in dono gratuito: quando le cose, che non sono verità o ad essa s' oppongono quella reputa vane, anzi, meno della vanità e del nulla, una quantità negativa, perchè ingombrando la luce di quella ne impediscono il pieno e tranquillo possesso, la desiderata fruizione; quand' egli soggiace a quella potentissima debolezza, per la quale non può resistere per così dire alle immortali attrattive di lei e a lei cede senza difesa e senza pentimento; allora quest' uomo captivo di sì giusta imperatrice della mente, trovasi innalzato al di sopra di sè, delle sue proprie prevenzioni e delle altrui, pronto a sacrificar quelle senza dolore, e a combatter queste senza timore, se dopo un imparzialissimo sindacato le une e le altre appariscano erronee; e non può più mancare a costui quel coraggio e quel filosofico ardimento, che la prudenza e la modestia, quasi dandogli mano, accompagnano. E questo è quello che rivendica la Filosofia alla sua natural libertà, onde senza lasciarsi arrestar dagli intoppi, alla scoperta del vero con celerità s' incammina. Io ho sempre riputato in questa generosa disposizione contenersi il primo e il più importante dovere di chi prende a filosofare, la condizione indispensabile del filosofo. E in questa persuasione procurai spingere qualunque investigazione fino agli estremi quesiti, e raccoglierne con esultanza, qualunque fossero, i risultati; procurai di verificare se quei risultati erano veramente gli ultimi e perchè non ce ne potessero essere di ulteriori, di cavarne finalmente le conseguenze; e tutto questo pel primo lavoro. Le conclusioni in tal modo avute non meritano ancora un pieno assenso; devono considerarsi come possibili, o non molto più, fino che non s' è data la riprova all' operazione della mente che le ha somministrate, e questa riprova è il secondo lavoro. Il quale consiste nell' esaminare con attenzione, se i risultati ottenuti, o in se stessi, o nelle loro conseguenze, vengano a cadere in contraddizione con qualche verità, che già si conosce siccome certa, o con qualche opinione probabile, o con qualche prevenzione anche gratuita. Perocchè essendo la verità a pieno coerente seco medesima, se si può accertare che una conclusione qualsiasi, o qualche sua legittima conseguenza, si mostri ripugnante ad una qualunque sia verità, ella è indubitatamente da rigettarsi come fallace, e conviene riandare tutto il calcolo, e rifarlo, fino a scoprirne lo sbaglio. Se poi la lotta è con un' opinione probabile, non si può progredire, se questa non è stata prima esaminata e trovatone l' accerto: chè se ella si convince di falsità, non è a farne più caso; se poi è conosciuta vera, s' ha di nuovo la lotta di quella conclusione colla stessa verità. Il somigliante è a dirsi delle prevenzioni da cui le menti sieno universalmente occupate: non si devono dispregiare eziandiochè gratuite, ma discutere se quelle possano ricevere un fondamento di ragione, o al contrario se v' abbia una ragione che le riprovi per vane ed erronee. Con che il filosofo o le cambia colle sue ricerche in verità accertate, o le discopre errori, e, secondo il risultamento, o se ne giova quali indizŒ sicuri di qualche fallo o trascorso del suo primo ragionare, o, lasciatele indietro, egli continua animosamente ad avanzarsi pel suo cammino. Laonde egli è mal fido consiglio il prestare subitamente l' assenso alle proposizioni singolari che il filosofo crede d' avere discoperte col suo ragionare. Prima di tutto gli conviene diffidare assai di se stesso, altamente persuaso, che gli stessi ragionamenti più speciosi possono ingannare per qualche difetto, o salto che vi s' asconda (chè la fallacità è una delle limitazioni più manifeste dell' umana natura); e per cautelarsene, egli è uopo che faccia l' assaggio d' ogni singolare proposizione, chiamandola al confronto di tutte le altre, e delle verità certe, quasi reo posto al contradditorio co' testimonŒ; perocchè se non regge a questa prova, non può assolversi da grave indizio d' errore, ma se la proposizione regge così bene che si riscontri a pieno consentanea con tutte l' altre verità, allora si potrà fidarsene, e riceverla in lor compagnia. E così non sono tanto le ragioni dirette, che accertano soggettivamente una proposizione, quanto il consenso che ella mantiene con tutte l' altre, e quel sistema apparirà e sarà vero, in cui si trovi tanto perfetta consonanza, che tutte le sue parti, anche minime, quasi ad una voce facciano fede della verità di ciascuna, e in ciascuna, siccome in foco, s' accentrino i raggi di tutte, rendendola con sì gran luce evidente: chè ella è primissima condizion del vero la concordia, l' unità, la perfettissima pace. E qui non posso trapassare un pregiudizio, anzi un errore gravissimo, che si trova ripetuto da molti scrittori de' nostri tempi, rispondendo brevemente a coloro che ce lo opporranno sicuramente come un' obbiezione. Il quale errore si è quello di credere, che il libero filosofare sia interdetto o impedito a coloro che professano la cattolica religione. Opinione assai strana in se stessa, e più strana ancora, in quantochè non si considera, che questo impedimento che s' attribuisce ai cattolici, si dovrebbe, per la stessa ragione, riconoscere in qualunque altro uomo, il quale s' avesse pure una qualche fede religiosa. Di che proverrebbe la singolare conclusione, che il solo ateo si trovasse in istato di liberamente filosofare! Ma da qual principio s' inferisce una tale persuasione? Si pretende forse che l' essere in possesso di alcune verità sia un impedimento alla filosofia? In questo caso converrebbe portare la conseguenza ancora più in là, e sostenere che quegli solo può mettersi sicuro e lesto nell' arringo filosofico, il quale non conosce nè manco una sola verità. Ora quell' uomo di tutto ignaro, non rallegrato da alcun raggio del vero, non si trova, grazie a Dio, sopra la terra, e se ci si trovasse, egli non sarebbe uomo: chè l' uomo riceve da natura il primo lume, quasi concreato con lui, e questo lume è la forma prima che lo rende intelligente, e cresce questa forma con esso lui nell' infanzia, nella puerizia, nell' adolescenza, e continuando a crescere in isviluppo anche quando non crescono più le sue membra, non l' abbandona nè nella virilità, nè nella vecchiaia, nè nella morte. E d' altra parte che cosa vogliamo noi che sia la Filosofia? Tutti quelli che ne intendono alquanto, vi diranno che ella è il prodotto del movimento riflesso del pensiero. Ma come crediamo che possa darsi il movimento riflesso , se il pensiero non trova alcuna materia nel deposito della mente, su cui ripiegarsi? La cognizione riflessa in generale, e molto più la filosofica che è di una riflessione molto elevata, suppone prima di sè la cognizione diretta , e la cognizione popolare e sociale; e in ciascuno di questi generi di cognizione può trovarsi la verità, anzi deve almeno trovarsene una parte, chè altramente non sarebbe cognizione. Noi, definendo la Filosofia, l' abbiamo sollevata su tutte l' altre scienze con dire, che ella è quella che investiga le ultime ragioni di tutto il sapere umano. Ora come potrebbe farsi quest' ultima di tutte le ricerche, se non ci fosse dato precedentemente il sapere, che nelle varie scienze e discipline si comparte? E non è appunto per questo, che nella vita del genere umano i Filosofi e la Filosofia, propriamente detta, comparvero assai tardi, dovendosene prima raccogliere i materiali; e che lo spirito umano, salendo, dopo molte prove e ricco di molte notizie, a quella sublime riflessione, dall' alto della quale egli scorge in che si fondino le già prima conosciute e raccolte verità, giudica di se stesso, del suo proprio cammino, delle leggi che lo guidano ne' suoi passi, e si prescrive un metodo e si rende consapevole della necessità dialettica di quelle cognizioni, di cui fino allora non sapea indicare la ragione necessaria? Ella è dunque la più grande delle assurdità il sostenere, che le verità possedute precedentemente da colui che s' accinge a filosofare sieno un impedimento, un vincolo posto al suo libero pensiero, come chi dicesse che l' ali sono un impedimento, un legame all' uccello, che vola con esse. La verità dunque non impaccia il pensiero giammai: ma quello che lega il pensiero e lo impedisce dal volare liberamente è l' errore, o creato da un fallace ragionamento, o ricevuto gratis nella mente siccome una prevenzione od un pregiudizio: questo è il vero, il solo nemico della libertà filosofica. Laonde è pur maraviglioso e doloroso ad un tempo il vedere, che allorquando un autore produce delle opinioni le più stravaganti e le più erronee, contrarie al senso comune, e mette il suo miglior vanto nel professare delle empietà, benchè non ne adduca prova efficace di sorta, costui trovi chi l' onori (e certo non possono essere che degli ignoranti) del titolo di libero pensatore; quando il suo pensiero è pure allora così vincolato e schiavo all' errore, che non può muovere un passo verso la verità, e di più è trascinato, repugnante invano la natura umana, nel contrario cammino, rivolto il dorso al sole della medesima verità. L' audacia dunque di coloro, che assaliscono le più venerabili e più consentite verità, non è il certo segno, come crede il volgo de' dotti, della libertà del filosofare, ed è anzi del suo contrario. Ma a quante e a quali significazioni diverse non è stata abusata questa parola di libertà! A quanti inganni non s' è prestata strumento, a quante discordie! Quanti odŒ non ha ella commesso, quanti parapigli non ha occasionati, quante lagrime e quanto sangue non hanno sparso uomini che la presero a vessillo per abbaruffarsi con altri uomini che volevano la libertà altrettanto e più di essi, la libertà dico, che la natura umana non può disvolere! Ma o non s' intendevano sul significato del vocabolo e si menavano busse da ciechi, o non volevano intendersi, come non vogliono tuttavia, e in nome della libertà facevano e fanno a chi può meglio opprimere e soverchiare. Chè tutte quelle parole che ricevono diverse significazioni nelle dispute de' filosofi, e così prestansi acconcissime agli artificŒ e alle cavillazioni de' sofisti di tutte le professioni, quelle stesse applicate alle cose della vita reale dividono gli uomini in partiti violenti, ciascuno de' quali rappresenta l' idea diversa che allo stesso vocabolo attribuisce, idee, che poi, quasi incarnate ne' loro fautori, avvolgono in orrenda mischia la società di cui niuno sa predir facilmente la fine. E certo poichè le immortali idee non cadono sotto il ferro, nè trafitte dal piombo, quelle dissensioni, e guerre civili non possono trovare la loro fine, se non là donde presero il principio, cioè nella regione dell' intelligenza, nella quale l' errore tolse dapprima la maschera del vero che si mise in sul volto, deposta la quale, è restituito il regno della pacifica verità, nel cui seno, come in loro proprio domicilio, tutte le idee ritornano (lasciati di fuori gli assensi erronei e gli appetiti che colà entro non sono ammessi), e divinamente ordinate ed unificate dimorano. Libertà dunque è una di queste parole equivoche indeterminate, polisenne, e il mondo che freme e schiuma per essa, come un mare combattuto da contrarii venti, n' è testimonio. E il senso più astratto che s' applica a quella parola è il più assurdo di tutti: perocchè alcuni ripongono il concetto dell' uomo libero in questo, che egli non abbia più alcun legame di soggezione, e però si propongono di liberar l' uomo non meno dal giogo della verità che da quello dell' errore, e di formar così il libero pensatore ; non meno dal vincolo del dovere e della virtù, che da quello del vizio, e di formar così il libero cittadino ! I quali dimostrano, che non solo ignorano la natura umana, ma perdettero ancora totalmente il senso di se medesimi. Che cosa ci rimane dell' uomo, se gli togliamo ad un tempo il vero ed il falso, il vizio e la virtù? Nulla: quello che ci rimane è il bruto, il quale non è suscettivo di libertà, chè in ogni sua operazione è determinato e necessitato dagli istinti. Onde i Comunisti e i Socialisti, che intendono così appunto la libertà, prima di tutto negano affatto all' uomo il libero arbitrio! (1) E per tal modo l' astrazione immoderata trasporta cotesti speculatori fuori del subbietto della questione, cioè fuori dell' uomo che essi distruggono. L' uomo, che non è sottomesso alla verità, necessariamente è sottomesso all' errore; l' uomo, che ha scosso da sè il peso della legge morale e della virtù, necessariamente sostiene il peso del vizio. La verità dice: « « Chi non è meco, è contro di me »(2) » Fra la verità e l' errore, come pure fra la rettitudine e la tortitudine morale, non v' ha mezzo: il punto che le divide è il nulla dell' intelligenza. Convien dunque che l' uomo scelga in questa alternativa: perocchè non istà in suo potere il cessar d' essere uomo. Sia pure che la verità imponga anch' essa all' uomo una cotal soggezione, un cotal giogo. Già la verità in persona l' ha detto di sua bocca: « « il mio giogo è soave, e il mio peso è leggiero »(3): » ha parlato d' un giogo, d' un peso che impone all' uomo. E uno degli Apostoli della Verità ha indicato mirabilmente l' indeclinabile alternativa delle due servitù, scrivendo così ai cristiani di Roma [...OMISSIS...] L' uomo dunque è sempre servo, se così si vuole: a tutte e due quelle opposte servitù non può sottrarsi: egli può solamente scegliere fra quella che il rende servo della verità e della giustizia, e l' altra che il rende servo dell' errore e dell' immoralità. - Quale eleggerà? - Ecco la sola questione possibile; e perchè egli la sciolga, o di nuovo la risciolga, Iddio l' ha fatto libero; ma questa elezione non può esser sospesa: col solo volerla lasciar sospesa, l' uomo ha già scelto, e scelto il male: il momento dunque dell' elezione si può replicare, ma è sempre un momento: non costituisce uno stato, non è una disposizione; è un punto, nel quale l' uomo entra liberamente in uno de' due stati suoi proprŒ, o dall' uno passa all' altro, entra o passa nel regno della verità, o in quello dell' errore. Ma qui io prevedo, che coloro, i quali hanno eletta la verità per loro signora, si lagneranno di me, che chiamo servitù anche la loro felicissima condizione. Io mi scuserò a loro, come Paolo si è scusato a que' di Corinto d' una somigliante maniera di favellare; Paolo, dico, il quale non solo riconobbe due servitù , quella della giustizia e quella del peccato, ma ben anco due libertà , quella che rende l' uomo libero dal peccato, e quella che lo rende libero dalla giustizia. Perocchè dice: [...OMISSIS...] . Come dunque si giustifica di questa maniera di parlare? « « Io parlo alla maniera degli uomini, » dice, «per l' infermità della vostra carne »(2). » Veramente, se l' uomo non fosse limitato, debole, infermo, non gli verrebbe mai nella mente o sul labbro, che l' esser conformato alla verità ed alla conseguente giustizia fosse una condizione di servitù. Perocchè l' ordinario concetto di servitù acchiude in se stesso qualche cosa di ripugnante, d' involontario; giacchè si direbbe mai servo colui che potesse sempre fare, e che sempre facesse tutto ciò che egli vuole? che non trovasse alcun ostacolo al suo volere? non trovasse alcuno, che obbligasse la sua volontà a deviare dalla strada ch' egli s' elesse, riputandola di tutte la migliore ed a sè la più cara? Niuno certamente chiamerebbe cotesta una servitù, anzi una pienissima libertà. Questo sembra evidente: soffermiamoci dunque a considerare come e quanto, secondo questo stesso principio, possa convenire d' appellare servitù la soggezione dell' uomo alla verità ed alla giustizia. La natura umana si può considerare da tre aspetti; in se stessa, astraendo dagli atti posti da essa e dagli abiti acquistati; in quello stato nel quale s' è piegata all' errore ed al male; e in quello, nel quale ella s' è volta alla verità ed al bene. Se consideriamo la nuda natura umana in se medesima, noi la troviamo limitata. Ma fu divino consiglio di chi la compose, ch' ella potesse, quasi per un cotale spiraglio, lasciatole aperto, dell' intelligenza, attignere ed appropriarsi coll' efficacia della sua volontà l' illimitato e l' infinito. Così l' uomo limitato, come soggetto ha proposto dinanzi a sè un oggetto illimitato e illimitabile, l' essere in forma d' idea, che è la verità, verso a cui egli può stendersi senza fine, e, seguendola fedelmente come stella che gli mostra il cammino, ingrandire oltre misura se medesimo. E a questo ingrandimento egli aspira, come a sua propria perfezione. Tuttavia l' abbandonare le primitive sue limitazioni, e il romperle per cercarsi un altro modo più ampio e più nobile d' esistenza, gli è faticoso e difficile; chè gli pare una negazione e quasi un infrangimento di se stesso. Il che accade in questo modo. Egli è dotato di più potenze, e ciascuna ha il suo proprio impulso pel quale ella è portata ad operare indipendentemente dall' altre, e l' indipendenza di tali impulsi e di tali azioni cagiona disordine e disarmonia fra le potenze medesime. A mantenerle in concordia sicchè tutte cospirino armonicamente a migliorare il soggetto, dal quale, come da un' unica virtù, procedono, sta di continuo presente all' uomo la verità, e da alto luogo, siccome divino auriga, colla voce le dirige e le affrena e le inanima. Laonde quest' autorevolissima moderatrice di tutte le umane potenze incontra non di rado opposizione nell' impeto particolare di ciascheduna, che inconscia dell' altre si svolge; ma niuna opposizione trova, nè può trovare nello stesso soggetto che tutte in sè le contiene, a pro di cui ella le governa, almeno se il soggetto stesso volontariamente non si snaturi, lasciando la propria unità, e spezzandosi, trasformandosi quasi in una sua speciale potenza, a' capricci della quale sacrifichi se medesimo. Sotto al governo dunque della verità v' ha una cotale servitù delle singole potenze, non quella dell' uomo; che anzi questi per la verità lungi d' acquistar servitù, diviene il governatore di se medesimo, il signore di tutte le sue proprie facoltà. Ma quando l' umano soggetto invece d' operare coll' istinto suo proprio, che del bene complessivo dell' intero uomo è promotore, si lascia trascinare all' istinto esorbitante d' una sua potenza particolare e a questo ubbidisce; allora noi non abbiamo più davanti la nuda natura umana priva di modificazioni e di alterazioni, ma uno stato di lei acquistato co' suoi atti e cogli abiti; l' abbiamo presente già ripiegata verso l' errore ed il male. Dico anche verso l' errore, perchè l' umano soggetto, se non abbandona la verità, non può dimenticare se stesso, e perdere la sua unità e totalità, per seguir le voglie esclusive d' una sua speciale potenza, in questa sola quasi attuandosi e consumandosi; chè la verità l' ammaestra di fare il contrario, anzi gli dà la forza di reggere e di mantenere nel debito ordine le diverse sue attività, acciocchè tutte cospirino a produrgli quel bene complessivo che è il suo proprio, il bene di tutto l' uomo. E poichè l' uomo considerato nella sua integrità ed unità, naturalmente non può voler altro che il bene di se stesso, non quello d' una sua parte a scapito del suo tutto; perciò l' attenersi alla norma della verità, che gliene insegna la via e gliene dà il potere, è così conforme e consentaneo all' umana natura, che dalla congiunzione di questa colla verità nasce appunto la maggiore delle umane potenze, cioè l' intelletto, e il più eccellente, il più proprio degli umani istinti, quello del bene. E non si potrebbe nè pure intendere in che modo l' uomo che alla verità deve tanta parte di sua esistenza e quell' essenzialissimo istinto che solo, rigorosamente parlando, merita il nome di umano , potesse poi abbandonarne la luce e prendere nelle sue operazioni una direzione contraria, se non lo si sapesse dotato d' una libera volontà, potenza unica nel suo genere, e diversissima da tutte l' altre; chè l' altre tendono solo al bene di se stesse ed altro non possono; per la libera volontà l' uomo può scegliere ugualmente il bene ed il male, può operare così alla propria perfezione come al proprio deterioramento, può rivolgere le sue forze a conservarsi, od anche (quantunque nol possa pienamente conseguire) a distruggersi. Qualora dunque l' uomo coll' abuso di questa singolar potenza (nell' investigazion della cui natura i filosofi si sono di frequente smarriti come in un laberinto) abbia collocato se stesso di contro alla verità per combatterla, diventa necessario che egli consideri quella luce amica, come inimica, e non ravvisi più in lei se non una severissima legislatrice, una regnante crudele, di cui sente pesantissima e molestissima la servitù, e che non gli paia più d' esser libero se non allora, che se la sia tolta d' addosso. Ma il combattere contro la verità è in suo potere, il ritorsene d' addosso la servitù (quella servitù che s' è creata egli stesso) non è in suo potere. Poichè certo il potere dell' umano arbitrio non si stende fin quà: egli può determinare le operazioni dell' uomo e dar loro un avviamento ritroso alla verità, ma non può nulla sulla stessa natura umana, che è guardata dal Creatore; e in questa natura appunto, che sta nella mano dell' Onnipotente, è collocato, come in una rocca munitissima e indistruttibile, anzi inaccessibile a' suoi nemici, la verità; e quivi ella regna, o beneficando, anzi assumendo al proprio talamo i suoi fedeli, o castigando i ribelli. V' ha dunque una servitù della verità, ma sol per quelli che ricusano di partecipare delle sue nozze e del suo regno a cui son tutti invitati. Ma chi può regnare colla verità, il che è più ancora d' esser libero, e in quella vece elegge da se stesso d' esserle servo, anzi di que' servi che furono detti servi di pena, può egli lagnarsi d' una tale servitù volontaria, può dire che la verità e la conseguente giustizia tolgano all' uomo la libertà? Riassumendo dunque, noi vediamo, che, se si considera l' uomo in se stesso, la verità, che lo illumina e gli dà intelletto, impone una cotale servitù alle singole sue potenze, non all' uomo medesimo, a cui anzi mette in mano la libera signoria di queste, onde se ne giovi come gli piace alla propria grandezza. Che se poi si considera quell' uomo, il quale, ricusata questa signoria offertagli in dono dalla verità, preferisce di discendere e d' assudditarsi egli stesso al capriccioso istinto di qualche sua singolare potenza, alla quale, invece di comandare, ubbidisce, allora la giusta servitù della potenza ricade sullo stesso soggetto, cioè sull' uomo, che, servendole, si è reso volontario servo di questa serva. Ma cotesta maniera di bassissima servitù non viene dalla verità, ma dalla rea volontà dell' uomo medesimo, che l' antepose alla libertà. Non è un servire l' operare secondo la propria natura, chè questa forma d' operazione è anzi spontanea e dilettosissima; ma qui sta il concetto della servitù, che altri sia costretto ad operare l' opposto di quello a cui la sua natura propende. E l' unione intima dell' uomo colla verità è naturale, onde l' operare secondo questa unione è consentaneo alla libertà umana. Ma poichè la libera volontà può opporsi all' umana natura , quindi da essa procede la volontaria servitù dell' uomo; e stando la cosa così per colui che ritorce la terribile potenza della propria libertà contro se stesso, egualmente può dirsi, che quella servitù provenga dalla signoria della natura umana, e che provenga dalla signoria della verità; perocchè queste due sono una sola e medesima signoria. E come l' uomo, che si sforza di scuoter da sè la signoria della propria natura, tenta (benchè impotentemente) la propria distruzione, così l' uomo, che si dibatte per iscuoter da sè la signoria della verità, tenta la distruzione medesima. Onde chi non vuole esser servo della natura umana e della verità, diventi libero e signore, che ben lo può; non opponendosi a quelle, da quelle non dividendosi; ma rimanendo con quelle indiviso, regni liberamente e felicissimamente. E questo è il terzo aspetto nel quale noi ci proponevamo di considerar l' uomo: questa è quella condizione, che l' uomo trova quando alla verità ed al bene s' è interamente concorso. Nella quale alla verità non consegue alcuna maniera di servitù, non c' è nulla che costringa l' uomo, che lo leghi. Poichè non è legato colui, che, come dicevamo, fa sempre quello che vuole, il che avviene a chi non vuole altro che la verità e ciò che consegue alla verità; onde la verità ed il bene non è per cotest' uomo alcun giogo o peso, chè non può esser tale l' oggetto stesso de' suoi affetti, de' suoi desiderŒ, de' suoi voleri. Con quest' oggetto egli sente se stesso di sè più grande, da esso deriva e prende una potenza che gli si aumenta in mano di giorno in giorno, in esso trova un' immortale dilettazione, dove acquieta l' ardore dell' anima. La libera volontà di costui è in perfettissimo accordo colla propria natura, o piuttosto ella è la stessa natura nobilitata. Perocchè come la natura dell' uomo, dico la sua natura propria e specifica, consiste in una congiunzione e in un' immanente visione della verità, così la volontà rettissima non fa altro con tutte le sue operazioni che stringere, e perfezionare via più, e quasi consumare questo connubio, nel quale l' uomo più o meno perfetto sussiste. Laonde l' istinto della natura intera dell' uomo e la libera volontà, non avendo più scissura nè opposizione nè lotta di sorte alcuna, si unificano: e l' uomo è uno e perfetto. Il che veniva a significare molto altamente S. Paolo, quando diceva, che « « la legge non è imposta al giusto, ma agli ingiusti »(1). » Perocchè la legge non è qualche cosa d' opposto alla volontà del giusto; che anzi ella dice quello, che questa volontà vuole, onde in altro luogo l' Apostolo afferma ancora, che l' uomo che vuole il bene, è già egli stesso legge a se medesimo (2). Le singolari potenze possono sì nella loro cecità insorgere disgregate e mettere cotanta pace a cimento, tentando d' ingannare e di sedurre la volontà: ma, se questa s' attiene alla verità tanto fortemente che basti, ella le domina, e non riceve offesa da' loro assalti. Se poi la volontà cede per sua fiacchezza, non è questa colpa della verità, onde ogni valore ed ogni forza le deriva. Ma a questa stessa fiacchezza di volontà venne il Creatore in soccorso, e questo comunicando all' uomo di nuovo la verità, ma in misura più copiosa, in un modo più intimo, in una nuova forma più sublime, che non sia quella, in cui egli la consegnò prima universalmente alla natura umana; e così la libertà dell' uomo contro alla cieca violenza de' suoi particolari e parziali istinti fu guardata ed assicurata da Dio medesimo. Il quale diede una tanta promessa agli amatori della verità; quando disse: « « Se voi vi terrete nel mio sermone, sarete miei veri discepoli, e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi »(3) » La verità dunque lungi d' imporre per se stessa una servitù agli uomini, è l' unica causa della loro libertà, della qual libertà essi non rimangono privi se non allora che essi la ricusano, col ricusarne la causa. E nella verità tende tutta la Filosofia. Poichè, che altro vuole questo studio e quest' amore inquieto di sapienza, se non discoprire la verità, e discoperta contemplarla, e contemplata penetrarla più innanzi, quasi visitandola negli ultimi suoi recessi, dove ella più disvelata si manifesta, per ivi refrigerare la sete ardentissima, che n' ha l' umana natura, all' acque d' una più pura e più alta sorgente? Laonde s' egli fosse così, che la verità traesse seco una servitù del pensiero, che altro sarebbe lo stesso filosofare, se non un andare in cerca di servitù e di servitù sempre maggiore? E come si potrebbe allora esigere in coloro, che alle filosofiche investigazioni si danno, un libero pensare? Quanta e quale dunque non è la contraddizione di coloro, che, facendo pur encomio della libertà del pensare, temono poi della verità e della vera religione, che per avventura non la facciano loro perdere, e considerano meno liberi quelli, che più di verità possedono, e che son quindi più prossimi ad ottenere il fine della Filosofia? E quanto questa contraddizion così strana non si aumenta e moltiplica, allorchè s' ascoltano costoro lodare altamente, siccome liberi pensatori, quelli che si presentano al pubblico autori de' più sformati e stravaganti sistemi, accozzamento di delirŒ e di assurdi, pigliando essi per sicuro segno della libertà del pensiero la novità e il coraggio d' allontanarsi, delirando, dai veri i più consentiti dal genere umano, e di sottrarsi a questa luce quasi ad una volgare ed ignobile servitù, nella quale vivano abbietti gli uomini comunali! Così questi appunto, che sono gli schiavi dell' errore, si predicano i pensatori liberi, e le menti, che la verità ha fatte libere dall' errore colla sua luce e colla sua potenza ha rese signore delle passioni che diffondon le tenebre, si dicono schiave! Qui l' ingiustizia mentisce troppo apertamente a se medesima. Ma taluno dirà: « Voi asserite, che l' avere ricevuto nella mente delle verità, ancorchè ciò sia per modo di prevenzione, di pregiudizio, o di fede, non è una disposizione contraria ed anzi è favorevole al libero filosofare, perchè la verità non impone mai servitù, che anzi è quella che forma nell' uomo la stessa libertà, e fin qui niuna opposizione da parte nostra. Ma voi avete aggiunto, che nè anco le credenze cattoliche scemino la libertà al pensiero filosofico, con che avete supposto che tali credenze sieno altrettante verità. Ora tutti quelli, che non ammettono questa supposizione, vi negheranno la conclusione. » - La quale obbiezione, a buon conto, mi concede, che tutto ciò che dicevo, deve essere assentito senza difficoltà da ogni uomo che professa la cattolica religione; e qui già un gran numero di suffragi viene a confermare il mio ragionamento. Poichè la cattolica Chiesa dilata le sue tende fino ai confini della terra, ed accoglie sotto di esse, tutte o gran parte, le civili nazioni. Per verità un' udienza così numerosa, così civile, ed unanime può soddisfare, anche sola, un uomo che ragiona. Agli altri, cioè a quelli che non ebbero il dono della fede, o dubitano ancora della verità delle cattoliche credenze, io, unito con tutti i filosofi cattolici, volgerò la seguente comparazione: « Fatevi in una scuola dove si spieghi Euclide: voi ci giungete nell' atto, che il maestro dimostra agli scolari la proposizione dell' ipotenusa. Non essendo voi stato presente all' esposizione di tutta la serie delle proposizioni che la precedono, non potete raggiungere quella dimostrazione, che suppone conosciute ed ammesse per vere le altre proposizioni sulle quali ella si fonda. Ora voi vi fate a dire così al maestro: Io non posso assentire alla dimostrazione che voi avete data di questa proposizione, perchè voi ne supponete vere tant' altre, di cui non me n' avete dato alcuna prova. Voi dunque ve ne andate avanti siccome colui, che non adopera un pensiero libero, ma bensì legato da molte gratuite supposizioni. » Chiaro è che quel matematico risponderebbe subito al suo nuovo uditore in questa guisa: « Badate che siete voi quello che non procede con un pensiero libero da false supposizioni, voi che a torto supponete che io ammetta gratuitamente per vere le proposizioni che ho adoperate in ordendo la dimostrazione da voi udita: a voi par questo, perchè, non essendo voi intervenuto alle lezioni precedenti, non avete intese le prove, che di ciascuna di esse io diedi a questi miei discepoli. Se dunque a voi piace d' imparare la geometria, io m' offerisco d' insegnarvela per ordine in lezioni private, e di condurvi di proposizione in proposizione fino a raggiungere questi miei discepoli coi quali potrete poscia continuare lo studio. » A quest' uomo, che giudica di matematica per averne sentito a caso una sola lezione di mezzo al corso, e trova esser la mente del matematico schiava di pregiudizŒ, de' quali egli va liberissimo, è somigliante colui che si dà a credere che il filosofo cattolico ammetta gratuitamente le sue credenze, e queste sieno false, e però gli tolgano la libertà del filosofare la quale, come ci fu conceduto, non è impedita che dall' errore. All' incontro il filosofo cattolico, al pari dell' accennato matematico, reputa che non a sè manchi la libertà del pensiero, ma bensì a colui, che ignora la cattolica verità, e che, ignorandola, la tiene per vana: al quale solo insieme coll' ignoranza appartiene l' errore, che è l' opposto della verità e della libertà. E però egli fa appunto come quel matematico, riducendo la disputa ad una importantissima questione di metodo. Perocchè, come il matematico invitò quell' uomo, che volea incominciare lo studio della geometria dal mezzo invece che dal principio (ond' avveniva, che non gli paresse ben dimostrata la proposizione dell' ipotenusa, perchè ne ignorava le precedenti), lo invitò, dico, a riprendere la scienza dal suo principio; così il filosofo cristiano invita colui che nol crede libero pensatore perchè s' attiene alle credenze del cattolicismo, a discutere prima di tutto sulla verità di queste, e poscia ad accompagnarsi con esso lui nel cammino più innoltrato della Filosofia. Poichè questa appunto è la prima di tutte le discordanze e la fonte dell' altre tra i filosofi cattolici e i non cattolici, che reciprocamente s' accusano di non esser liberi pensatori, cioè la discordanza nel metodo. Il filosofo non cattolico vuole creare tutta intera la Filosofia, senza mai cercare se il cattolicismo sia un errore o una verità: e poichè egli la tiene per un errore, o n' ha almeno il dubbio, vuol filosofare con questo pregiudizio in capo senza discuterlo. L' ateo, molto più, vuol filosofare astraendo da Dio, che suppone non esistere, supposizione che egli pure ricusa d' esaminare, e che appunto perciò è un pregiudizio che egli manda avanti a tutti i suoi ragionamenti filosofici, quasi a capitanarli. Il filosofo cattolico vuole, con chi non ha la vera religione o ne dubita, che prima si ragioni sulla religione stessa, e si stabilisca se il cattolicismo è vero o no; perchè trovatolo vero, è con ciò stesso dimostrato ch' egli non arreca alcun nocumento al libero filosofare, ed anzi rende più facile e più sicura la soluzione delle altre filosofiche questioni. E il filosofo cattolico ha tanto diritto a ciò, quanto n' avea il matematico a volere che colui che bramava applicarsi alla geometria incominciasse l' Euclide da capo; perocchè con qual diritto può il filosofo non cattolico accusare il cattolico d' avere il pensiero inceppato e servo di preventive credenze, se non dimostra che queste sien false? e se non esamina nè manco se quelle siano ammesse senza alcun fondamento di ragione? Chè se sono vere e ragionevoli, certo non impediscono il pensiero dell' uomo, ma lo liberano dall' errore, e l' aiutano mirabilmente. Laonde anche il sommo filosofo di Tagaste diceva, che « « in quelli che ardono d' un grande amore per la verità perspicua, non è da riprendersi lo studio, ma da richiamarlo all' ordine » » cioè, al giusto metodo, « « in modo che incominci dalla fede e colla bontà de' costumi si sforzi d' arrivar dove tende » » cioè alla perspicua, o scientifica verità (1). Veramente ella è una manifesta prevenzione e una prevenzione erronea quella de' filosofi non cattolici, che pretendono d' assumere per cosa certa, che la fede cristiana sia del tutto cieca, una credenza prestata a caso, simile a quella, che la plebaglia accorda al loquace cerretano. Pure il loro pensiero è così fattamente schiavo di questo giudizio temerario, che non arrivano mai a sentire la necessità di sottomettere quella loro prevenzione ad un serio esame, onde ad essa non resta altro fondamento che l' ignoranza della religiosa dottrina e della cristiana fede. E` dunque ragionevole chiamarli prima di tutto a questa discussione; nella quale entrati con lealtà, non sarà difficile il convincerli prima di tutto, che l' intelligenza nell' uomo cattolico precede, accompagna, e sussegue la fede, di manierachè la fede cattolica non va giammai scompagnata dalla luce dell' intelligenza, quando, se più addentro è dato di penetrare, la fede stessa è una parte, la parte migliore di questa luce. E nel vero, i motivi della credibilità sono all' aperto, e a ciascuno è lecito, talor anche doveroso, sottometterli all' esame e alla prova del ragionamento. La religione cattolica poi in questa disamina non teme che una sola cosa, cioè che la discussione si faccia troppo leggermente, superficialmente, non bastevolmente accurata, paziente e profonda. Chè quanto quella discussione si porta più avanti, si conduce con maggior rigore, perseveranza, dottrina, tanto più si tiene sicura la cattolica fede d' uscirne vittoriosa, come sempre accade alla verità, che più è messa alla prova, e più viva luce trasmette; e solo allora non è veduta e abbracciata dagli uomini, quando la disprezzano, ed orgogliosi, con un sogghigno, senza guardarla in faccia, le passano avanti. Laonde è passata quasi in proverbio quella sentenza di Bacone, che una scienza superficiale (non mai priva d' allucinazioni e d' errori) ritrae gli uomini dalla religione, ma una profonda ve li riconduce. Che se i motivi di credibilità resistono saldissimi alla prova del filosofico ragionamento, e rimane vinto, che essi addimostrano la verità della rivelazione e del magistero della Chiesa che ne custodisce il deposito e agli uomini il propone e il comunica, sarà egli filosofo, sarà uomo ragionevole colui che rifiuta nondimeno d' ammettere per vera quella scienza, che esce, come da immediato suo fonte, non da una scuola umana, ma dall' intelligenza di Dio medesimo? In che modo il pensiero che cerca la verità, temerà di non esser più libero quando la trova nel suo più alto fonte? Come la Filosofia prenderà sospetto di un tanto acquisto, dopochè ella stessa n' avrà riconosciuto il fonte e la legittima derivazione ed accertate le prove? Chè nel vero, supposto che la Filosofia abbia trovati efficaci e concludenti gli accennati motivi di credibilità, pure con ciò ella ha imposto a se medesima il dovere di riconoscere per veri gli articoli della fede: ricusarli, la metterebbe in contraddizione, e la contraddizione distrugge la Filosofia. E` dunque per la necessità di conservare se stessa, che la Filosofia accetta la fede, di cui ha discussi i motivi. E parimenti, chi dirà che il pensiero tolga a se medesimo la libertà colle sue proprie, libere, e naturali operazioni, e col subirne le conseguenze? La prima di tutte le leggi del pensiero è la coerenza, chè l' incoerenza, in quant' è incoerenza, non è nè pur pensiero. Se dunque il pensiero, liberamente movendosi, è pervenuto a scoprire l' esistenza d' un' autorità divina e d' un magistero infallibile, egli con queste sue operazioni s' è messo nella necessità o di cessare d' essere, ovvero di assentire a tutto ciò che attesta quell' autorità, il che è quanto dire di credere. V' ha dunque una ragione che precede la fede, e il credere è anch' esso un atto del pensiero, che ubbidisce alla ragione, benchè non sia questo solo. Se facesse altrimenti, allora, e allora soltanto, il pensiero avrebbe perduta ogni sua libertà; poichè non ci potrebbe essere che una causa straniera che gl' impedisse il suo proprio atto, cioè di far quello a cui la sua natura lo determina; e questo appunto è servitù, non potere operare come inclina la propria natura, per un ostacolo, che l' agente incontra fuori di sè al suo svolgimento. Ma non tutti, direte, prima di prestare la fede, esaminano filosoficamente i motivi di credibilità - Sia, se così volete; ma che un gran numero di quelli che ricevono l' evangelica predicazione, ne esaminino o no i fondamenti, quest' è una questione affatto aliena dall' argomento: noi parliamo di ciò che può fare il filosofo, se lo vuole: e basta che lo possa, perchè cada in nulla l' accusa di coloro che dicono, il filosofo cattolico non poter conservare la libertà del suo pensiero. Tuttavia su di questo stesso mi sia permesso frapporre alcune parole. Io richiamo anche qui l' obbiettante a una questione preliminare di metodo. Sieno discussi avanti ogn' altra cosa i motivi di credibilità, e suppongasi che da questa discussione risulti la loro validità, rimanendo così provato, che i dommi cattolici sono altrettante verità. Conosciuto questo, un' altra questione si presenta, di natura totalmente filosofica: « Come l' uomo conosce la verità? C' è un solo modo di conoscerla? E quest' unico modo è forse quello della discussione filosofica, dell' esame condotto a regolo e forma di scienza, di maniera che ad ogni uomo che non è filosofo, o che non s' è applicato alle scienze (e in questo caso si trova il più degli uomini) rimanga precluso interamente l' adito alla verità? E (quello che ne consegue), che quasi tutto il genere umano, eccettuati i pochissimi scienziati, sia condannato negli argomenti più importanti e più necessari al fine dell' umana natura, ad una di queste due cose, all' ignoranza, o all' errore? perchè tolta la verità, questi due mali rimangono ». Ed io credo che può rinunziare alla Filosofia colui che risolve questa questione affermativamente; chè al buon senso ha già rinunziato: credo che se la Filosofia, intendo quella che ha vestito forma di scienza, tanto si restringe, tanto si divide dal genere umano, che si persuada in sè sola contenersi tutta la verità e la certezza, nella gran maggioranza degli uomini non rimanerne un minuzzolo, quella non è più Filosofia, ma invece di Filosofia un' ignorante baldanza che n' ha preso il nome e l' acconciatura. Ma se pure si danno di costoro, i quali abbiano cotanto impacciato il pensiero e da una così ingiusta prevenzione legato, sieno filosofi o no; si può ragionare anche con questi, purchè vogliano veramente seguire quel ragionamento tirato a filo di scienza, al qual solo s' affidano, o piuttosto dicono d' affidarsi. Perocchè appunto con esso quel ragionamento scientifico, in cui ripongono tutta la causa della verità, si devon condurre a istruirsi meglio intorno alle proprietà ed alle operazioni della mente umana, colla qual maggiore istruzione dismettano quell' errore. Chè una credenza così erronea, così ingiuriosa all' umanità, non ha la sua origine nella scienza, ma nell' ignoranza della natura dell' intendimento umano, e delle vie più segrete, per le quali egli alla verità si congiunge. E di vero un' investigazione profonda dell' intendimento conduce a riconoscere, che v' ha indubitatamente una prima verità, la quale comunica senza mezzo con tutte le menti, e questa è l' essere stesso nella sua essenza indeterminata, e nella sua forma ideale. La quale notizia prima ha l' uomo per visione, non per ragionamento, come quella appunto che non ha bisogno di mezzo termine. E chi ne dubitasse, e al ragionamento volesse appellarne, la stessa natura del ragionamento, diligentemente perscrutata, lo convincerebbe che la cosa è così; perocchè il ragionamento non può esistere da sè solo, ma da quel primo vero immediatamente intuìto procede, e, tolto via questo, esso è estinto prima di nascere, come in vano supporreste esistenti i colori de' corpi, se prima di fare questa supposizione, aveste negata la luce. E che fa mai il ragionamento, qual è il suo ufficio, a che s' estendono le sue forze? Non ad altro che a dedurre una verità da un' altra anteriore, per mezzo d' una verità media. Ora quella verità anteriore dove si prende? vorremo procacciarcela per via d' un altro ragionamento? E bene, in tal caso noi la dedurremmo da un' altra verità: se ripetiamo lo stesso discorso anche su l' origine di questa, ad un' altra ci troveremo condotti più lontana; ma così risalendo di verità in verità e di sillogismo in sillogismo, o non ci potremo mai fermare, o dovremo posare il piede in una prima verità, non dedotta dal ragionamento, ma nota per se medesima, come luce immediata della mente. Ora ci atterremo noi al primo braccio di questo dilemma? Il solo tentarlo è un cadere in molti assurdi: poichè se così fosse, ogni ragionamento sarebbe impossibile, e non ci somministrerebbe mai alcuna certa verità. Sarebbe impossibile, perchè supporrebbe un infinito numero di sillogismi conchiusi prima di venire all' ultima conclusione; chè la verità, da cui si toglie a dedurne un' altra, sarebbe ella stessa dedotta da un' altra, e questa da un' altra, e questa da un' altra di nuovo all' infinito. Ora l' uomo è consapevole a se stesso, che niuna delle verità che egli conosce gli costa tanto, e che a niuno di que' sillogismi, co' quali egli ha stimato conoscere qualche verità, ne ha premesso altri infiniti, nè riputò mai esservene bisogno. Di poi, dato anche che l' uomo spendesse tutta la sua vita quant' è lunga a comporre una catena intrecciata di sillogismi, questa catena gli si spezzerebbe in mano colla morte, e così non sarebbe più infinita, e perciò egli non sarebbe arrivato in tutta la vita sua a pur conoscere la minima delle verità. Facciamo l' uomo immortale, e apparirà ancor meglio l' assurdo dell' ipotesi che la verità non si possa conoscere, se non per la via del ragionamento. Dato un uomo che non muoia mai, quand' anco egli in altro non s' occupi che in infilare l' un nell' altro sillogismi, mai non giungerebbe nè manco quest' immortale al termine dell' opera, cioè ad averne infilato quel numero, di cui egli abbisogna per conchiudere con efficacia ad una sola verità, poichè quel numero dovea essere infinito. Che se egli venisse a capo di questo lavoro, la serie de' ragionamenti avrebbe trovato il suo termine, e così non sarebbe più infinita. Onde se ogni verità ha bisogno d' esser provata col ragionamento, niuna verità si può provare; non trovandosi mai in questa deduzione la prima verità da servire di fondamento a tutte l' altre susseguenti: e non solo non si trova, ma nè pure esiste; chè a poter esistere avrebbe bisogno che l' eternità fosse tutta scorsa, e l' eternità non si può scorrere tutta, senza che cessi di essere eternità. Mancherebbe dunque sempre il primo anello della catena delle verità, niuna di esse potrebbe conoscersi dall' uomo, niuna dimostrarsi: chi introduce la verità in questo labirinto, l' ha trasformata in un assurdo, e quella che è per natura sua necessaria, l' ha perduta nell' impossibilità. Dicevo dunque che il ragionamento senza qualche verità precedente, la cui cognizione da lui non dipenda, o è impossibile, o almeno non ci può fornire alcuna certa verità. Impossibile, se si vuole spingere all' infinito la serie de' sillogismi, e fu dimostrato pur ora; non ci può fornire alcuna certa verità, se fermando la serie ascendente de' sillogismi in una prima proposizione, poi si neghi che questa risplenda all' intelletto, come un vero per sè evidente, e si sostenga che quella proposizione, più o men rimota in cui è giocoforza fermarsi, non abbia veruna autorità, e si ammetta soltanto per la necessità che a ciò costringe, come un postulato gratuito, o come un pregiudizio di cui non si può rilevare il valore. Con questo colui che avea cominciato a proclamare il ragionamento qual unico mezzo di conoscere la verità, avrebbe finito, non volendolo e non accorgendosene, col trovarsi divenuto uno scettico: colui, che per mantener libero il pensiero, l' avea affidato alla sola scorta dell' argomentazione ricusando d' ammettere qualsivoglia verità non dimostrata per essa, scorgerebbe d' avere legato mano e piedi il suo pensiero medesimo, fino a renderlo impotente a conoscere cos' alcuna, resolo non solo schiavo, ma scimunito. E questo non è tanto ciò che si prova dover conseguitare dialetticamente, quanto quello che si vede avvenuto; è la storia della moderna filosofia, cioè di quella che i moderni s' ostinano a chiamare Filosofia. Non vediamo noi i filosofi della Germania per un lunghissimo e tortuosissimo cammino aver condotto il pensiero umano in trionfo al suo estremo supplizio? Perocchè l' ultima conclusione de' loro infaticabili studii si fu che la ragione teoretica è impotente a conoscere qualunque siasi verità in se medesima, col qual decreto vericida hanno chiusa ad un tempo stesso la loro rivoluzione filosofica, e finita la filosofia. Di poi hanno tentato di farla risuscitare (perocchè in qual maniera può contentarsi l' uomo di esistere senza la verità?), e sono perciò ricorsi alla ragione pratica , cioè ad una ragione, che assume de' postulati senza poterli dimostrare, per aver qualche punto, in che possa insistere, non tanto il pensiero, quanto l' azione degli uomini; parendo loro più facile rinunziare a quello che a questa. Sono dunque ricorsi ad una cosa indimostrata, non più ad una verità; sono ricorsi ad una ragione, che ha bisogno d' un epiteto per esser ragione, ed è quanto dire ad un fantoccio di ragione messo sul trono, acciocchè, per la grazia dei filosofi, regni, ma non governi; sono ricorsi ad una ragione fatta da loro a mano, schiava della più crudele necessità, dopo aver espulsa la ragione libera e veramente regina. Ecco quello che è avvenuto; ecco quello che doveva avvenire dall' aver posto il principio, che il pensiero non è libero, se non s' affida interamente al ragionamento senza una verità primordiale, che guidi come face luminosa ogni ragionamento. Convien dunque riconoscere, che questi nuovi maestri degli uomini hanno incominciato i loro studŒ da una gratuita ed erronea prevenzione, per la quale hanno accordato al ragionamento maggiori forze ch' egli non s' abbia; che essi dunque non furono filosofi liberi, ma legati e veramente pregiudicati. Convien riconoscere che il ragionamento non è l' unico nè il primo mezzo di conoscere la verità; ma che o avanti il ragionamento ce ne devon essere degli altri, oppure la è finita della verità e della certezza, e molto più della filosofia, e l' uomo si dee rassegnare a rinunziarvi in sempiterno. Ma quello che, considerando l' impotenza del ragionamento di dar fondamento da sè solo alla cognizione umana ed alla certezza, noi induciamo dover essere, quello stesso troviamo che è, osservando e perscrutando con diligenza l' essere, e il fare dell' umana intelligenza. Imperocchè con questa diligente perscrutazione, noi prima intendiamo, che, avanti il sillogismo (alla qual forma si riduce ogni ragionamento), l' intendimento umano pronuncia i giudizŒ, e avanti i giudizŒ, egli vede le idee, senza la qual vista i giudizŒ non si possono pronunziare, come senza aver questi pronunciati non si possono ordire i sillogismi. E poichè le idee composte da' giudizŒ stessi ci vengon date; dunque è da conchiudersi, che anteriori ai primi giudizŒ non sono che le idee semplici, e cercando quali queste sieno, se n' ha per risultamento che una sola di esse è tale, e questa è l' idea dell' essere; di cui investigando poi la natura, rilevasi, che ella a tutti i giudizŒ precede, di nessuno abbisogna, ai giudizŒ tutti è ella stessa così necessaria che senz' essa nessuno è possibile, nessuno concepibile. Quest' idea dunque è la prima di tutte, quella in cui affissando l' occhio della mente, l' umano soggetto può giudicare e raziocinare, onde perciò egli attigne l' intelligenza: noi abbiamo dunque trovato in essa il lume della ragione , la forma oggettiva dell' intendimento: l' uomo crede a questo primo vero, non può non credervi, perchè è pura luce, e da quest' atto di razionale credenza ogni ragionamento toglie tutto quel valore che ha, ivi incomincia l' attività razionale, ed ivi pure finisce. Applichiamo questa dottrina a provar quello che ci proponevamo. Quell' Essere, che ha formata l' umana natura concedendole d' intuire, con certa limitazione, la luce della verità, e così rendendola intelligente, voglia comunicarle un' altra parte di verità, un altro grado specifico di quella luce. Non sarebb' egli verosimile, ed anzi indubitato, che quest' Essere che appieno conosce la sua fattura e che vuole in essa aggiungere verità a verità, la illustrerebbe con un ordine simile e del tutto rispondente a quello, secondo il quale l' ha creata, e quindi medesimo non affiderebbe già la nuova porzione di verità di cui la vuole arricchire, al ragionamento, ma sì bene a quella prima facoltà che al ragionamento ed allo stesso giudizio precede, e in cui, come abbiamo veduto, il giudizio ed il ragionamento si fondano? Anzi, a vero dire, egli non potrebbe far altro; chè il ragionamento non crea la verità, ma la deduce, e il giudizio non la crea neppur egli, ma la analizza e la connette. Onde, qualunque perfezione s' aggiungesse al giudizio o al ragionamento, non sarebbe mai un aumento di verità, non sarebbe che la deduzione di un vero dall' altro resa più sicura e più celere, sarebbe il vero stesso veduto da più lati e nelle sue relazioni: nessuna porzione di verità nuova sarebbe per questo aggiunta all' uomo. Il giudizio, e il ragionamento, come risulta da ciò che abbiamo detto, sono facoltà che altro non fanno che congiungere in nuovi modi l' uomo alla verità che già possiede, senza accrescergliela, gliela scompongono, questa verità, in varie parti, gli collegano queste parti a diverse connessioni, sicchè le une si vedano scorrere da altre, ciò che dà all' uomo una cognizione più esplicita, più viva ed efficace della verità, ma ne lascia uguale la sostanza e la misura primitiva all' uomo conceduta. Egli è dunque manifesto che Dio stesso non potrebbe comunicare all' uomo una nuova parte sostanziale di verità, se non l' aggiungesse a quell' altra parte di essa che l' uomo possiede per natura, continuando l' edifizio a quel punto dove l' ha lasciato, se non la confidasse a quell' intuizione intellettiva, che ogni altro atto di ragione precede, precede ogni giudizio, precede il ragionamento. Ora quello che ho supposto che Iddio volesse fare, co' motivi di credibilità di cui abbiam parlato, si prova al filosofo che l' ha fatto veramente. Almeno questo è il metodo, a cui noi abbiamo richiamato, o invitato il nostro filosofo. L' abbiamo invitato prima a discutere sui motivi di credibilità; trovato poi che questi sono efficaci a dimostrare l' esistenza d' una divina rivelazione, contenente una nuova porzione di verità, che non è all' uom visibile per natura, e che perciò dicesi soprannaturale , e con essa l' esistenza d' un visibile e permanente magistero, che ne conserva intemerato il deposito acciocchè non perisca sopra la terra; l' abbiamo condotto a cercare come Iddio poteva fare che gli uomini ricevessero nel loro spirito quella nuova porzione di verità contenuta nella detta rivelazione, e quindi vi assentisser coll' animo; e abbiamo conchiuso, che non potea farlo in altro modo, se non illustrando egli stesso lo spirito umano con una nuova luce, onde prendesse poi origine una nuova serie di giudizŒ, una nuova serie di ragionamenti, diversa da quella serie di giudizŒ e di ragionamenti, che prendono il loro movimento dalla prima porzione di verità, data all' uomo nella formazione della sua natura. Ed ora qui badate bene che non sono più io, ma è la stessa Religione cristiana, che spiega se stessa in questo modo. Ella si presenta appunto all' uomo come un lume primitivo, intimo, nuovo, che illustra in segreto il fondo dell' anima in un modo simile a quello che fa il lume della ragione, onde i cristiani si dissero sempre, fino dal primo tempo in cui fu annunziato il Vangelo, illuminati ; e il Battesimo, rito scelto dall' Onnipotenza divina qual mezzo ordinario a dar questo lume, si disse illuminazione ; e a questo lume che si comunica ugualmente a tutte le età dell' uomo, si attribuì sempre l' origine della potenza di giudicare e di ragionare sanamente nell' ordine delle cose della salute eterna, che eccedono la natura. A qual filosofia è venuto mai in mente una cosa simile? qual religione si è mai presentata agli uomini sotto la forma di un lume così misterioso ad un tempo, e così ragionevole? Anzi qual religione si è rivolta all' umana essenza e ha dichiarato d' esercitare su di lei una potenza che la migliori e che la sublimi? Tutte, dalla prima all' ultima, le religioni, o veramente le superstizioni inventate dagli uomini si sono indirizzate all' adulto e non al bambino, hanno rivolto il loro discorso alle potenze , all' immaginazione, ed al ragionamento, niuno di esse ha mai osato, ha neppur pensato, di poter entrare e collocare la sua radice nella stessa natura intellettiva dell' essere umano e di là, da quel fondo dove non penetra che il Creatore, regnare sull' uomo, rigenerare coll' uomo tutte le sue potenze. Laonde tanto è lungi che possa farsi al Cristianesimo un' accusa del non rivolgersi egli esclusivamente e immediatamente all' umano ragionamento, ma a quel più recondito principio onde ogni ragionamento deriva e mutua la propria luce, che anzi questo, chi bene il considera, è un palmare argomento della sua divinità, come il non aver saputo, nè potuto osare, nè promettere, nè pensar tanto le altre religioni, è un argomento palmare, che sono invenzioni umane (1). Alla qual conclusione pervenuto, il nostro filosofo non ci domanderà più: « perchè molti credano alla cattolica predicazione senza aver prima esaminati i motivi di credibilità »; chè a questo saprà rispondersi da se medesimo. E per rispondersi non avrà neppure bisogno di considerare, che certi miracoli, certe profezie, ed altri tali motivi possono essere riconosciuti come argomenti legittimi, e a sufficienza efficaci anche dal comune degli uomini, senza che vi spendano un lungo esame; chè anzi di tali argomenti appunto perchè più spediti e manifesti, volle Iddio che non mancasse la rivelazione che egli faceva al genere umano: tutto ciò sarà trapassato dal nostro filosofo come un di più, come una conferma della più diretta e più intima risposta, che da se stesso saprà fare a quella sua interrogazione. Perocchè, se l' uomo quando appena apre gli occhi alla luce, già incomincia a giudicare dell' esistenza delle cose esteriori che gli feriscono i sensi, e non s' inganna; ed egli fa questi giudizŒ, dà questi assensi alle percezioni sensibili, perchè, intuendo egli per natura la luce dell' essere, conosce l' essere, e sa di conseguente, che tutto ciò che agisce su di lui, non può esser altro che essere, e i vari modi, e gruppi separati e specifici di nuove sensazioni che esperimenta, non indicar altro che altrettanti esseri; così somigliantemente l' uomo che apre gli occhi dell' intelletto all' evangelica predicazione, vi può e vi dee dare l' assenso, senza passare pel mezzo di alcun ragionamento, avendo già in se stesso il criterio che gli fa discernere immediatamente il vero ed il falso nell' ordine soprannaturale; il qual criterio è quella nuova visione di verità, come dicevamo, che Iddio discuopre per grazia all' intelletto, la quale, eccedendo la verità naturale, è una cotal nuova forma di verità che dicesi soprannaturale, principio e base d' un nuovo ragionamento. Laonde a quest' interna illustrazione della mente cristiana richiamandosi S. Agostino, con frequenza dice di non potere aprire il secreto delle verità rivelate, se Iddio stesso da dentro non lo aiuti (1). Che se si vuole investigare che cosa sia quest' altra porzione e forma di verità sopraggiunta alla naturale, non cadrà lontano dal vero chi la definisca: « un' intima notizia di Dio medesimo »; il quale è la sussistente verità. Laonde, come col sapere già prima per immediata intuizione che cosa è l' essere, l' uomo acquista la potenza di giudicare dove sia un essere, e che cosa all' essere appartenga e convenga, e che cosa all' essere ripugni; alle quali cose si riducono tutti i naturali giudizŒ: così somigliantemente con quell' intima notizia di Dio che è data all' uomo per immediata e graziosa percezione, egli acquista la potenza di giudicare dove sia la parola di Dio, e se le cose annunziate e predicate a Dio appartengano e convengano, o a Dio ripugnino, alle quali cose si riducono i giudizŒ soprannaturali che fa l' uomo, quando accoglie liberamente l' evangelica predicazione, e rigetta ogni altra che sia superstiziosa o profana. Che se il nostro filosofo continuerà i suoi studŒ su questa via, e, non lasciandosi legare e impedire dall' erronea prevenzione di sapere quello che egli non sa, indagherà più a fondo il mistero della cognizione umana (argomento del tutto filosofico), perverrà a convincersi, che l' uomo, anche il più idiota, non solo pronuncia de' retti giudizŒ, ma ben sovente li pronuncia come conseguenze de' suoi segreti e rapidissimi ragionamenti; e che perciò v' ha una maniera di ragionare naturale e propria degl' idioti, d' una forma sintetica, che conchiude con uguale, se non anco talora con maggior sicurezza, di quella dell' uomo dotto, al quale non par di pensare, se non analizza e divide ogni sua argomentazione in varie proposizioni, e se non le pronuncia tutte ad una ad una; quando l' uomo della plebe le trascorre con uno sguardo mentale, e, all' insaputa degli altri e di se stesso, afferra in un baleno la conclusione, che sola pronuncia e sola sa pronunziare. E sapendo questo, il nostro filosofo non affermerà più con tanta sicurezza, com' egli faceva, che la moltitudine suol dare l' assenso all' evangelica predicazione senza motivi di credibilità, o senza avervi adoperato il ragionamento; perchè vedrà esser troppo possibile, anzi certo, che molte volte vel dee avere usato, benchè non a modo degli scienziati, ma al suo proprio, non meno valido: essergli poi del tutto impossibile l' affermare che non ve l' abbia usato. Laonde l' uomo che filosofa di buona fede con questa discussione si potrà facilmente convincere, che le credenze della cattolica religione non iscemano la libertà del filosofare, perchè questa non viene scemata, se non da quell' ingombro, che gli errori fanno alla mente. Ora se egli discute i motivi di credibilità, i quali non ricusano alcun ragionevole esame, e se li trova efficaci, è già obbligato a conchiudere che quelle credenze non sono erronee, ma altrettante verità. Nè queste verità potrebbero impedire il pensiero, nè manco se fossero ricevute dagli altri uomini a modo di gratuite prevenzioni, perchè non cesserebbero per questo dall' esser vere, e il vero, lo diremo ancora, non può nuocere al vero. Ma questo stesso è un pregiudizio erroneo di molti di quelli che si dicono filosofi liberi, il credere cioè che sieno così ricevute; quando in quella vece gli uomini che prestano il loro assenso alla predicazion del Vangelo, hanno a guida, come abbiamo detto, una luce interiore, che dà loro quasi un senso intellettuale a percepire e gustare la verità, che in essa si trova, ed una facoltà di pronunciare veritieri giudizŒ, di ordire altresì sui motivi d' assentirvi efficacissimi, benchè complessivi, ragionamenti. Nè mai la fede, o la Cattolica Chiesa che la propone, ha messo limiti al pensiero, ma solo ne ha proscritto l' abuso, che non è altro che un impedimento del pensiero medesimo. Anzi i Padri della Chiesa hanno trovato nella fede cristiana uno stimolo, dirò di più, un' obbligazione di svolgere più ampiamente, che non sia stato mai fatto prima di essi, l' intelligenza; non già temendo le conclusioni che ne potessero uscire, quasi alla fede potessero esser contrarie, certi anzi di trovarle sempre alla medesima fede consonanti, di scoprire testimonianze nuove a favore di essa, luce aggiunta a luce, da rendere il giorno più chiaro. Arrecherò a conferma di ciò la sola testimonianza dell' Aquila de' Padri latini. Il quale in una sua lettera riprende gravemente Cosenzio, che voleva fare andar la fede da sè, disgiunta dalla ragione; e fra l' altre cose gli scrive così: [...OMISSIS...] La fede dunque non può stare senza la ragione, di cui è la luce completiva, come il perfetto non può stare senza il suo rudimento, quantunque la ragione naturale, appunto perchè rispetto alla fede è un cotal rudimento, può stare senza la fede. E però l' effetto della fede cristiana introdotta nel mondo fu quello di dare uno inaspettato, maraviglioso, infinito sviluppo alla ragione umana, e di mutar faccia alle nazioni che l' abbracciarono, mettendo nelle mani di queste lo scettro di tutta la terra, uno scettro non materiale che facilmente si spezza, ma spirituale, che dominando la materia, non ha da temer nulla da essa. E di che s' insuperbisce cotanto oggidì il genere umano se non di quella civiltà, che nelle sole nazioni cristiane ha il suo seggio, e il suo stabile domicilio? E guai ad esse se s' insuperbiranno troppo di quella luce, che esse debbono all' umiltà della fede! Chè la superbia adduce seco l' ingratitudine; e dove in queste ingiustizie insolentiscano [...OMISSIS...] potrà loro accadere che di quello splendido effetto, che fa lor nascere per vana gloria il capogiro, perdano la causa, cioè la fede; e la perenne sorgente della civiltà stessa e della luce inaridisca nel mezzo di loro. Tant' è lungi dunque che la fede cristiana tolga la libertà alla ragione, e le impedisca di svolgersi, che anzi quella aggiunse agli uomini uno stimolo fortissimo all' onesto e legittimo uso di questa, vi aggiunse un' obbligazione novella di trafficare con più industria e sollecitudine quel talento, pel quale, come dice S. Agostino, Iddio li creò più eccellenti delle bestie e simili a se stesso, e coll' uso del quale devono dalle cose animalesche dividersi, ed avvicinarsi alle divine, dove sta la causa della loro dignità. La ragione da quell' ora potè camminare più sicura, perchè più robusta, e mutò i passi vacillanti di un bambino in quelli di un gigante: la nuova luce divenne il criterio, e quasi il paragone dell' antica, e non solo questa sentesi più coraggiosa in tal compagnia, ma ben anco di più acuta vista, e chiaroveggente. Laonde le stesse verità che appartengono alla ragion naturale entrata la fede nel mondo, divennero più luminose, e talora così evidenti da divenire un problema per noi difficile a sciogliersi, come prima o non sieno state vedute dagli uomini, o abbian potuto sembrar loro dubbiose. Ed è un' osservazione fatta più volte, e facile a farsi, che gli scrittori gentili di morale, che fiorirono dopo Cristo, si vantaggiano immensamente su tutti quelli che fiorirono innanzi. Chè quantunque non ricevessero la fede, e però rimanessero ciechi alle verità soprannaturali, tuttavia parteciparono di quello splendore, che la fede stessa avea diffuso sulle verità naturali. Perocchè nel Cristianesimo si contengono le une, e le altre, le naturali, e le soprannaturali, e la fede che raggia di sè queste ultime, illumina quelle prime. Laonde anche al presente quelle nazioni che rimangono fuori della Chiesa, quanto si trovano collocate più da vicino alle nazioni cristiane, tanto più prendono del riflesso, che manda loro il lume del Cristianesimo, e s' avvera anche in questo modo la profezia d' Isaia, che dopo aver invitato il Salvatore a sorgere come il sole sopra Gerusalemme, aggiunge, che le genti cammineranno al suo lume, e i Regi allo splendor del suo nascere (1). Ma a chi, anche dopo tutto ciò, dubitasse non forse la fede ponga qualche impedimento al libero esercizio della ragione, io favellerei in questo modo: E` chiaro che dalla fede non può venir alcun impedimento alla ragione, se qualche principio, o deduzione di questa non si trovi in contraddizione con qualche articolo di quella. Perocchè qualora niuna contraddizione intervenga, è necessario che o tutte e due, la fede e la ragione, camminino di conserva, e riescano alle stesse verità, o che l' una non s' incontri sulla stessa strada coll' altra, e quindi non s' urtino, nè s' impediscano. Se vanno di conserva alle stesse verità, invece che l' una pregiudichi all' altra, si giovano reciprocamente: se vanno scompagnate, di maniera che l' una investighi un ordine di verità, e l' altra ne proponga un altro, ciascuna allora compie l' opera sua indipendentemente, e liberamente, senza possibilità di conflitto. Perocchè non possono cadere in conflitto, e in contraddizione, a ragion d' esempio, due matematici, che risolvano due problemi diversi, ma bensì due che risolvono lo stesso problema in modo diverso. Ora in questi diciannove secoli da che il Vangelo fu predicato nel mondo, e ne' quali la ragione fu in continuo esercizio, e fruttò tante scienze e tante scoperte, quante non ne diedero i quaranta secoli anteriori a Cristo, in tutto questo tempo dico, dove la fede cristiana ebbe a lottare con ogni maniera di nemici, e con tutte le cavillazioni, che seppe trovare lo spirito dell' empietà, comparve mai una contraddizione certa e dimostrata fra una verità di ragionamento, e una verità di fede? Mai. Furono bensì prodotte delle apparenze di contraddizione, delle conghietture: ma messe ad un serio esame, tutte si trovarono, si dimostrarono vane ed illusorie: non v' ebbe una sola delle credute contraddizioni, che sia stata riconosciuta tale, e che abbia avuto l' assenso concorde degli intelligenti. Che se questa ci fosse, o ci potesse essere, è egli verosimile che in tanti secoli, con tante prove, con tanti sforzi d' ingegni ostili al Cristianesimo, non si sia trovata, non s' abbia potuto rendere evidente ed irrecusabile? Nè pur una sola? E a malgrado che il Cristianesimo insegni senza esitare, e senza investigare, tante cose le più sublimi, cose nuove, che non furon mai dette prima e non le insegni come conghietture, al che solo arrivava l' ardire de' più gran filosofi, quando toccavano di quelle cose, ed anzi non tema di rispondere subito e francamente a qualunque questione riguardante i supremi destini dell' umanità? non s' abbia potuto trovare una contraddizione del cristianesimo nè con se stesso, benchè egli non muti dottrina giammai, e perciò non ritratti, non nasconda mai nulla di sè; nè colla ragione, benchè sotto la sua influenza si sviluppi del continuo, e faccia nuove scoperte, ed abbia anche frequente bisogno di emendare i suoi risultamenti, i quali così si mutano e si accrescono di secolo in secolo? Tant' è! Tutti gli sforzi per cogliere il cristianesimo in una sola contraddizione con se stesso, o co' principŒ della ragione, o colle necessarie lor conseguenze, sforzi mille volte ripetuti, tornarono affatto inutili, rimasero solo argomento palmare dell' ignoranza e della fallacità di que' sapienti del secolo, che li facevano; a tale, che quantunque degli increduli ve n' abbiano sempre, perchè Iddio lasciò l' uomo libero di dare, o negare l' assenso alla fede, volendo dagli uomini un ossequio spontaneo, e lor proprio; tuttavia essi non sogliono più assalire seriamente da questo lato la cristiana, e cattolica religione, non più tentare di mostrarla in conflitto colla ragione, sfiduciati di poter indicare una sola contraddizione fra essa, e i dettami certi della ragione. E pure il cristianesimo si è presentato al mondo in modo assoluto, dicendo implicitamente agli uomini: « Se voi potete trovare una sola contraddizione vera, e apoditticamente provata, rigettatemi. » Questo è il patto sottinteso, dirò così, anzi è la sfida che fanno tutti i Teologi cattolici ai filosofi, e ai sapienti del secolo, e il patto fu sempre mantenuto, e per quantunque que' filosofi si limassero il cervello per trovarli in fallo, non ne sono mai venuti a capo, come dicevamo; i teologi hanno sempre vinto pienamente quella sfida. Odasi che cosa accorda alla ragione S. Tomaso: « « Quelle cose che sono insite naturalmente alla ragione, è noto che son verissime, di maniera che non è nè pur possibile di pensare che sieno false »(1) », e un commentatore osserva qui, che « « ne' primi principŒ è virtualmente contenuta la notizia di tutte l' altre cose conoscibili coll' investigazion naturale »(2): » di che consegue, che il non contraddire alla ragione s' accetta dai cattolici come una condizione indispensabile e necessaria alla fede, e si concede, che se questa contraddicesse a' primi principŒ della ragione, e alle conseguenze da questi logicamente dedotte, non si potrebbe dagli uomini ammetter per vera. Che si vuole di più? E quel grande dottore delle scuole cristiane conferma la stessa condizione con quest' altro principio: « La cognizione de' principŒ noti per natura è in noi inserita da Dio, il quale è l' autore della nostra natura. »Di che consegue, che la fede cristiana non verrebbe da Dio se ella fosse in contraddizione con que' principŒ della naturale ragione, o colle loro conseguenze. Lo stesso egli argomenta dall' assurdo che ci avrebbe, qualora Iddio dopo aver dato all' uomo la ragione, gl' imponesse una fede contraria alla medesima, guastando così l' opera sua, cioè impedendo l' intendimento umano dall' emettere i naturali suoi atti, e quindi dal pervenire alla verità, perocchè « contrariis rationibus , » dice sempre S. Tomaso, « intellectus noster ligatur, ut ad veri cognitionem procedere nequeat . » Laonde, secondo i cattolici, la libertà intera lasciata alla ragione è una condizione necessaria della verità della fede, perocchè quando la fede si dovesse tener per divina, benchè in contraddizione colla ragione, s' imporrebbe all' uomo un' obbligazione impossibile, ed anzi si legherebbe del tutto la sua attività razionale; chè egli non potrebbe determinarsi a prestare l' assenso nè all' una, nè all' altra, così rimanendosi privo del vero; non alla fede, essendo impossibile all' uomo il rinunziare ai principŒ della ragione; non alla ragione, non potendo egli opporsi alla fede, nell' ipotesi, che fosse tuttavia divina; non ad entrambi, perchè in contraddizione; [...OMISSIS...] Ella stessa dunque, la religione cristiana, professa prima di tutto di non essere in contraddizione colla ragione: ella stessa c' insegna, che quando una religione qualunque si potesse convincere di contraddizione co' principŒ della ragione, o colle loro legittime conseguenze, sarebbe falsa, non sarebbe religione, ma superstizione: ella stessa ci dà in mano questo criterio per distinguere le religioni false dalla vera; con questo criterio appunto ella convince l' altre religioni di falsità, e contro i sofisti, che si assottigliarono per mostrare in essa una tale contraddizione, si difende, e si è sempre difesa colle sole armi della ragione, dimostrando efficacemente, che quella pretesa contraddizione che le si opponeva non era tale per modo alcuno, di maniera che la necessità della concordia della ragione colla fede, è insegnata dalla stessa fede, è un punto essenziale della religione, e la Chiesa cattolica diffinì questo punto anche nell' ultimo concilio di Laterano. Laonde quelli che credono alla fede cristiana, credono necessariamente anche alla ragione, e nello stesso tempo che essi, fermi nella loro fede, ritengono e sanno, che qualunque affermazione contraria alla fede è per ciò solo falsa, non dubitano punto di dire a quelli che non credono: « Se voi giungete a dimostrare apoditticamente colla ragione una proposizione qualunque, statevi certi, che la fede cristiana non v' insegnerà mai nulla di contrario, non avrete ad incontrare con essa alcuna lotta, perchè la fede cristiana si professa alla prima di ricevere, e di ammettere, quasi preliminari, tutte, qualunque sieno, le verità della ragione ». Che se questa è la dottrina del cristianesimo, chi potrà più dire colla minima apparenza di verità, che i cattolici non possano esser filosofi liberi, e che la cattolica religione impedisca, o leghi il libero e pieno sviluppo dell' umana intelligenza? Chi dicesse ciò mostrerebbe chiaramente d' avere la mente preoccupata dall' errore, e dall' ignoranza della fede cristiana, e non sarebbe più filosofo libero egli stesso. Sono appunto i filosofi non liberi, i filosofi servi dell' errore, per lo più ignoranti della cristiana dottrina, quelli che invidiano alla nostra libertà, e tramutando i nomi alle cose, vogliono far passare per una servitù quella fede che ha liberato il pensiero. Non credo necessario che qui io mi trattenga a togliere l' obbiezione tratta da' misteri, obbiezione volgare, che non può esser proposta in buona fede da un filosofo, e che fu sciolta le mille volte. Il fonte de' religiosi misteri è l' infinità incomprensibile di Dio. E che Dio sia infinito, e però eccedente l' intelligenza umana, che è finita, è la semplice ragione che lo dice e lo dimostra. Laonde i religiosi misteri non sono esclusivamente della fede cristiana, ma si trovano ugualmente in qualsiasi teologia naturale, che è una scienza puramente filosofica. Se dunque bastasse trovare de' misteri nella fede per rigettarla, sarebbe necessario di rigettare prima la ragione che li propone egualmente, e vi dice perchè vi sieno, e perchè vi devano essere. Confondere poi il mistero colla contraddizione è uno di quegli sbagli grossolani, che fa la sola ignoranza, non la vera filosofia. Si dice avervi un mistero quando in una data proposizione v' ha qualche cosa che non s' intende, che non può intendersi da una ragion limitata. Non è già che in quella proposizione non s' intendano molte cose, ma basta che ne resti una inintelligibile. S' intendono gli argomenti che la dimostrano vera, quella proposizione, procedano essi dalla ragione o dall' autorità. Così la proposizione: « Iddio è infinito »si prova esser vera anche con argomenti somministrati dalla sola ragione, e pure l' infinito non si comprende, è un mistero, è il complesso di tutti i misterii. La proposizione « un solo Dio è in tre persone » si dimostra vera coll' argomento cavato dall' autorità di Dio rivelante, e la rivelazione si prova anche con argomenti somministrati dalla ragion naturale. Ma come un solo Dio sia in tre persone, questo riesce incomprensibile, è un mistero, benchè la natura stessa somministri delle analogie di questo mistero. In tali proposizioni misteriose, oltre gli argomenti che ne provano la verità, molte altre cose s' intendono colla ragione. Per esempio, s' intende, benchè non appieno, che cosa sia Dio, che cosa voglia dire infinito, uno, trino, essere; ma resta qualche cosa di non inteso, poniamo resta non inteso il nesso de' termini, il modo, come la cosa sia così (1): perocchè non avviene già sempre, nè anco nelle cose naturali, che quando la ragione ci dimostra che una cosa è, ci dimostri anche in che modo ella sia. Così accade, che noi vediamo un fenomeno, un avvenimento, e che tuttavia non lo sappiamo spiegare perchè ne ignoriamo la causa, il che è frequentissimo. La ragione umana dunque ignora molte volte, ma non si contraddice mai: quando d' una data cosa, di cui conosce qualche parte, ne ignora qualche altra, e per quanto faccia non può venire a conoscerla, allora si dice che c' è un mistero , ma non una contraddizione. La contraddizione importa sempre un errore, non così l' ignoranza, chè chi ignora, non erra, non nega il vero come fa l' errante. E` dunque manifestamente un' obbiezione puerile l' addurre i misteri come esempio di contraddizione della fede colla ragione. Se ciò fosse non sarebbe la fede quella che contraddirebbe alla ragione, ma sarebbe la ragione quella che contraddirebbe a se stessa; perocchè l' ignoranza è propria della ragione; chè è la ragione quella che ignora: le limitazioni sono attributi del soggetto a cui appartengono, e l' ignoranza è una limitazione della ragione. Se la ragione umana non fosse limitata non incontrerebbe misteri nè nella natura, nè nella fede: questi dunque non si devono attribuire nè alla natura, nè alla fede, ma alla ragione umana che è limitata. Che se la fede aggiunge delle altre verità misteriose a quelle che la ragione trova nella natura, questa è una nuova ricchezza che la fede medesima dona alla ragione, la quale in quelle verità della fede intende sempre qualche cosa, se non tutto; e applicandosi a quelle (ed è materia degnissima e sublimissima) essa può, aiutata dal lume divino, esercitarsi, e penetrare sempre più addentro, e intenderne sempre più, di manierachè gli stessi misterŒ sono fonti d' inesauribile luce, benchè non si possa mai intendervi tutto, e la medesima ragione il sa in precedenza, e nol pretende, perchè essa conosce la limitazione sua propria, e l' assoluta infinità dell' oggetto. Ma v' ha più ancora, chè la ragione medesima è quella che sentendo d' esser fatta per l' infinito, benchè nol possa comprendere, si slancia in esso come può quando non ha la fede, e molto più quando gli viene offerto dalla fede, conscia di non poter trovare la sua quiete, se non tuffandosi in quel pelago luminoso, nè la piena sua vita, se non perdendosi in quell' abisso (1). E che tutte queste cose non sappian coloro, i quali servi di prevenzioni contrarie alla fede cristiana, non si curano di conoscerla e di farne studio profondo (onde la condannano ignorata ed inaudita), questo non può far maraviglia. Ma è a stupire, e più ancora a dolersi, che alcuni cristiani, e cattolici, i quali professano la pietà, disconoscano anch' essi da questo lato la propria fede, e le facciano un gravissimo torto, facendolo insieme alla verità, in cui non confidano bastantemente: parlo di quelli, i quali si stanno sempre in su un cotal sospetto, e quasi in un femminil timore del naturale ragionamento, come se col legittimo uso di questo potesse pericolare mai la loro fede. Cotestoro inceppano pur troppo il proprio pensiero e l' altrui; non sono questi nè i veri filosofi cattolici, nè i veri teologi di cui parlavamo (1): nè egli è giusto nè ragionevole, che sulla meticulosa ignoranza d' alcuni, che autorità non hanno, si faccia giudizio della relazione tra la Fede cattolica, e la Filosofia. Spaventati soverchiamente dall' abuso, questi osteggiano l' uso stesso del ragionare: altri dal medesimo abuso, che di tanti errori, e di tanti deliri fu padre, deducono, che il naturale ragionamento non può fornire all' uomo alcuna certezza, e così risuscitano il sistema sopraccennato di Cosenzio, già confutato da S. Agostino. Ma il rispettabile signor Bautain, che deluso nella speranza di trovare ne' sistemi filosofici della giornata la verità s' era troppo sfiduciato della Filosofia, e avea riproposto quell' antico sistema, che, segregata la ragione, nella sola rivelazione ripone il vero ed il certo, s' avvide ben presto, che con questo egli s' allontanava dalla dottrina della Chiesa cattolica, che credea sostenere, e si ritrattò del suo errore, la stessa fede riconducendolo alla ragione. Come poi questo filosofo, perchè fedele discepolo alla Chiesa, ritornò discepolo altresì alla ragione; così per l' opposto nel secolo XVI gli autori della falsa Riforma in Germania (si ponga ben mente), abbandonato il magistero della Chiesa cattolica, ripudiarono con esso la stessa ragione. Chè in qualsiasi modo s' interpretino le tesi che Lutero difese l' 11 gennaio 1539, certo è che in esse la naturale ragione è depressa, quasi contraria alla rivelazione (2); come pure è certo, che, a quella scuola educato, Daniele Hoffmanno, e i due suoi discepoli Giovannangelo Werdenhagen, e Venceslao Schilling riprovarono apertamente la filosofia, e la coltura della ragion naturale, onde sollevataglisi contro la facoltà filosofica dell' Università di Helmstadt, l' Hoffmanno fu obbligato ad emettere una dichiarazione pubblica, riconoscendo il suo errore, per decreto del Duca Giulio Enrico di Brunswik del 16 febbraio 1601 (1). E la ragione così spregiata s' indebolì a tal segno nelle menti di que' primi settari, che non sapevano più vedere, e però negavano la differenza intrinseca del bene e del male, e alla sola positiva rivelazione l' attribuivano, sottraendo così alla morale il primo suo fondamento (2). Staccarsi dunque dalla Chiesa cattolica, e prendere la ragione a calci fu tutt' uno: il che non avrebbero potuto fare senza riprension della Chiesa, ma poichè non vollero udire la sua voce nè pure vollero udire quella ragione, che all' autorità della cattolica Chiesa gli avrebbe conciliati (1). Ora che ne riuscì? La natura compressa risaltò, e dell' oltraggio si vendicò crudelmente: i protestanti che avevano prima degradata la ragione a pro, come si credevano, della fede, in appresso, con un errore opposto, degradarono la fede a pro della ragione; di maniera che i discepoli condannarono i maestri, come i maestri aveano già in precedenza condannati tali loro discepoli. Così rompendo sempre negli eccessi, con quello spirito esclusivo che hanno tutti gli errori, mentre aveano incominciato la riforma con un cieco misticismo, e positivismo , finirono con un altrettanto cieco razionalismo ; dissero di non voler più altra guida che la ragione, ma la ragione com' essi la intendono, com' essi la fanno, nuda, disarmata, limitata arbitrariamente a quel genere di materia che loro piace lasciarle in dominio, cioè ai veri naturali, escluso l' ordine dei veri soprannaturali. E questi razionalisti credettero con ciò d' avere aperti gli occhi, e d' essere divenuti simili agli Dei. Se non che avvenne loro ben presto un caso spiacevole: che furon banditi dal paradiso terrestre. Perocchè tanto innalzarono l' umana ragione, tanto la restrinsero in se stessa (vollero fin anco che ne' suoi visceri rientrassero tutte le cose dell' universo, e tutte ne uscissero); che ultimamente s' accorsero che ella moriva loro in mano di replezione, o, se par meglio, per oppressione, come la moglie del levita di Efraim. Infatti la filosofia Germanica discendente in linea retta dal protestantismo, dopo di aver promesso di sè al mondo cose miracolose, si spense in un desolantissimo scetticismo, o certo ella s' addormentò in un sogno panteistico, e l' ultima sua parola fu: « Io ragione non posso conoscere cosa alcuna eccetto me stessa »! Che se noi vogliamo esprimere con altre parole, e con altra similitudine lo stesso fatto diremo, che la ragione in mano di quelli che si tolsero alla Chiesa, si consacrò vergine vestale nel tempio che le eressero, ond' ella non può oggimai aver più figliuoli senza violare, sacrilega, i proprŒ voti. Non è per fermo questa la ragione libera; non è la ragione libera e feconda del Cattolicismo; ma è la ragione che dicono libera coloro, che dal Cattolicismo si dividono. La scelta e il giudizio di queste due libertà a quelli che non hanno ancor perduto il senso comune. Certo è cosa naturale anzi doverosa che un uomo, il quale vuol applicarsi allo studio della Filosofia in Europa, in presenza di un' autorità così grande, così solenne, come è quella della Chiesa cattolica, venerata e ubbidita da milioni di discepoli diffusi in tutta la superficie del globo, fra i quali si contano sublimi intelligenze, cultori esimŒ di ogni maniera di dottrina; un' autorità, che con assoluto magistero favella a tutto il mondo già per un corso di diciannove secoli, e per tutto questo corso è ascoltata da sempre nuovi discepoli, la cui voce persuasiva non è mai vecchia non mai affiocchita per qualunque opposizione e contrasto le muova tutto ciò che nel mondo si reputa forte, prudente, sagace; un' autorità, a cui è dovuta per consenso di tutti la civiltà europea, nella luce della quale egli vive, è doveroso, dicevo, che un uomo che vuole applicarsi alla Filosofia in mezzo ad una tal società, e in presenza di una tale autorità che a lei presiede, qualunque sieno le sue opinioni o prevenzioni, incominci dall' esaminare in quali relazioni si trovi la filosofia, e la libertà della ragione umana con essa autorità, cioè colla cattolica Chiesa. E se questo si facesse da quei che filosofano n' avrebbero il risultato, che noi stessi n' abbiam dato più sopra, cioè la libertà del pensiero, e questa libertà protetta, e in molte maniere aiutata. Ma qualora questo esame non si faccia, o non si faccia seriamente; che altro rimane, se non la prevenzione che, per quanto sia antifilosofica, è tuttavia così frequente, diciamolo pure colla franchezza d' una esperta persuasione, e così comune ne' filosofi? Che cosa sogliono mai fare molti di quelli che così si chiamano? Invece di ricercare qual sia la dottrina della Chiesa cattolica intorno all' uso della ragione, che è la sola questione importante, essi s' appigliano alla sentenza di qualche scrittore particolare, che, quantunque cattolico, non rappresenta la Chiesa cattolica, e non ne esprime con accuratezza l' insegnamento; e della sentenza di questo particolare scrittore fanno un sistema, e gli danno un nome che egli stesso non gli ha dato, un nome equivoco ed improprio, e contro questo nome, contro questo nemico della filosofia creato da se stessi, e resosi a bella posta una fantasima spaventosa, menano i loro colpi, i quali appunto perchè la fede cattolica vi è sempre taciuta dove dovrebbe essere nominata, par che s' indirizzino a questa. E un tal lamento mi spiace di doverlo fare altresì a quell' eloquente scrittore di Vittore Cousin, che con tanto amore, con tante fatiche tentò di promuovere in Francia lo studio della Filosofia. Vedete come nella prefazione al manuale del Tennemann, anch' egli dissimula la questione importante della relazione fra il ragionamento filosofico e la fede, e in quella vece vi parla d' una scuola teocratica , dando evidentemente questo nome al Bautainismo, cioè a una sentenza, che non è quella della Chiesa cattolica, e che fu rivocata dallo stesso suo autore, perchè da lui riconosciuta contraria a quella della Chiesa medesima: egli vi parla della secolarizzazione del pensiero, parola di partito, insensata, e indegna di un filosofo: egli vede nel fantasima che s' è creato della scuola teocratica un nemico, che vuole arrestare la civiltà e distruggere la Filosofia: egli vi butta là una sentenza, che può esser vera, e falsa, che in fatti non è nè vera, nè falsa, perchè non ha senso preciso, dove dice: « « La teocrazia è la culla legittima delle società nascenti; ma non le accompagna nel progresso del loro sviluppo, progresso necessario, che deriva dalla natura delle cose »(1). » Che se per teocrazia intende un' autorità divina, la sua proposizione è manifestamente falsa, e contraddittoria, se pur fra le cose non voglia negare il suo posto a Dio, che è la prima di tutte le cose, e di tutte le nature, anche ascoltando solo la filosofia, e, come io credo, anche ascoltando quella che professa il nostro filosofo. A che dunque questo armeggiare all' aria? che voglia è questa di battagliare contro nemici che non esistono? E in ogni caso, se voi temete di quelli che vogliono separare la fede dalla ragione, ripudiando quest' ultima, non sarebbe stato più semplice e più convincente, che vi foste limitato a dire a costoro: « Voi altri siete gente da non temere, perchè non avete per voi nè il suffragio della filosofia che rifiutate, nè quello della fede cattolica, a cui vorreste attenervi, e da cui siete rifiutati; chè questa è l' amica intima della ragione, e della filosofia. » Convien dunque qui ripetere che al filosofo della civiltà è necessario prima di tutto risolvere la questione dell' accordo fra la ragione, e la fede, che sono i due elementi indivisibili de' popoli civili. E senza aver riconosciuto questo accordo sin da principio, non avrà il filosofo autorità sui suoi contemporanei; chè la civiltà cristiana, la sola civiltà che esista, e che sia mai esistita, udirà la sua voce con ragionevol sospetto; o certo egli non potrà dare una dottrina filosofica proporzionata all' altezza del suo secolo. Verrà forse da questo, che la Filosofia si confonda colla fede, o viceversa? No: chè la fede è tutt' altro dalla filosofia. La fede è un volontario assenso prestato all' autorità di Dio rivelante, in qualunque modo poi si conosca quest' autorità. La filosofia è una scienza, la quale investiga le ultime ragioni delle cose, e da queste ultime ragioni deduce le conseguenze, di maniera che alla filosofia è necessario il ragionamento esplicito, il quale non è necessario, come abbiam veduto, alla fede. La fede contiene delle verità che possono esser date altresì dalla filosofia, e provate col naturale ragionamento, ma ne contiene ancora di quelle, che, senza contraddire giammai a questo, superano le sue forze. La fede ha una sola ragione, ma potentissima, in cui si fonda, quella dell' autorità di Dio rivelante, ma questa non condanna, non esclude, anzi apprezza le altre ragioni: la filosofia trae le sue ragioni unicamente dall' intima natura delle cose, e dai nessi che hanno fra loro; ma queste cose su cui argomenta la ragion filosofica, non sono già create dalla stessa filosofia, ma le vengono dal di fuori, le sono date, e se non le fossero date, mancherebbe alla filosofia la sua materia, la filosofia non esisterebbe più. Il Creatore diede questa materia alla filosofia colla formazione dell' universo, ma lo stesso Creatore dando la fede agli uomini, diede una nuova materia al filosofico ragionamento. Questa nuova materia non distrugge la prima, ma la accresce e la completa. Laonde come la natura presta la materia ad una prima filosofia, così la fede presta la materia ad un' altra più sublime filosofia, che non distrugge, ma amplifica e compie la prima. La fede così resta sempre indipendente dalla filosofia, e bastevole a se stessa, bastevole a tutti gli uomini. Ma non è per questo ostile alla filosofia, che è ricchezza di pochi, anzi ella tiene il suo luogo frammezzo a due filosofie, ad una filosofia naturale che la precede, e ad una filosofia soprannaturale che la sussegue, e quasi paciera fra esse, e mediatrice ne congiunge le destre. Chi poteva comunicare una fede, che avendo tanta dignità stesse in tanta armonia colla natura, e colla ragione umana, se non il Creatore dell' una e dell' altra? Ma tornando a quelli tra cattolici, i quali non intendono come la fede supponga la ragione (chè, come dice Agostino, noi non crederemmo se non avessimo anime ragionevoli), e come la fede e la ragione scambievolmente si giovino, per uno stolto amor della fede sono alla ragione molesti, noi n' abbiamo distinte due classi, l' una di coloro, che, temendo le illazioni della ragione quasi potessero essere contrarie alla fede, astiano lo sviluppo di quella, i quali noi possiamo chiamar timidi : l' altra di coloro, che avendo perduto ogni fiducia nella ragione, e non credendola atta ad accertare la verità; e questi, il sistema de' quali è indebitamente chiamato teocrazia dal Cousin, noi possiamo chiamare sfiduciati . A queste due classi principali si può aggiungerne una terza, niente migliore delle precedenti, quella degli indifferenti , i quali professano questo singolar principio: « Non conviene aderire ad alcun sistema di filosofia: chè ogni sistema è buono quando non s' opponga alla fede, e convien servirsi di tutti in servigio della stessa fede ». La qual proposizione a chi, se la esamina, non parrà strana ed assurda? chè certo niuno può ammettere quella proposizione, se non ad una di queste due condizioni: o che egli stimi, che in diversi e contrarii sistemi giaccia ugualmente la verità, e così non ci sieno due sole verità, come dissero assurdamente taluni fra protestanti, ma molte verità fra loro contradditorie, cosa più assurda ancora; ovvero che egli reputi indifferente il vero ed il falso, cosa assurda, e stolta altrettanto ed immorale. E` non meno stravagante il credere, che, avendovi una sola verità, e però non potendo esser vero che un solo sistema filosofico, tuttavia gli altri sistemi, necessariamente falsi, possano ugualmente accordarsi colla fede, e colla teologia cristiana, e a questa prestare aiuto (1). Certo per me ho sempre creduto, o piuttosto il genere umano intero ha creduto, che una sola sia la verità, e che come il vero non può essere opposto al vero nè nuocervi, così il falso sia opposto al vero e gli pregiudichi; e quindi non ho mai compreso quale utilità possa cavare la cattolica verità dai falsi sistemi di filosofia. Ancora io ho riputato un dovere morale per l' uomo amare quella verità una, che non può mai essere amata abbastanza, e quindi medesimo mi sarebbe parso d' operare contro coscienza se non mi fossi appigliato ad un solo sistema, a quello nel quale mi parve di vedere contenuta la verità, lasciando però fare il contrario a coloro che per qualsiasi ragione non possono formarsi una ferma persuasione (e però nè pure un chiaro conoscimento) d' alcun sistema; purchè essi non pretendano di convertire in una legge universale obbligatoria per tutti, l' esitanza del loro proprio intendimento, e quindi non distribuiscano a larga mano la taccia di superbe a tutte quelle menti, che non sanno trattenersi nell' incertezza, dalla quale non trova onde uscire la loro. Quanto a me io confesso, che la luce della verità mi colpì vivacissima e brillantissima, e che sarebbemi stato impossibile di fare altramente da quel che ho fatto. Laonde se mi resta il biasimo di cotestoro, non mi resta però il rimorso d' aver resa duplice la verità. Le quali parole bastano a rispondere ad alcuni, che m' hanno più volte fatto questo rimprovero di seguitare un solo sistema, quasi che il far questo fosse cosa immodesta ed orgogliosa, come veramente ne pareva a que' censori, i quali affermavano, che coll' abbracciar io un unico sistema; venivo a condannare tutti gli altri concepiti da uomini di altissimo merito: il che io nè posso nè voglio negare, ma scusarmene, opponendo loro l' impossibilità di fare altrimenti, per aver io trovata la verità così altera, e così impolitica, che vuol sempre esser sola, e si ricusa d' essere in due: de' quali costumi della verità io non ho colpa. Tale è la limitazione dell' uomo, che quand' egli è occupato d' alcuna cosa di suprema importanza si rende facilmente, senza avvedersene, ingiusto con altre cose d' importanza minore. E però se non sono in questo lodevoli, sono però in qualche modo scusabili que' teologi (e son pochi, e di minor conto), i quali pare che dieno poca importanza alla verità filosofica, e, invece di cercare qual sistema sia vero, credono meglio d' appigliarsi or all' uno, or all' altro, anche de' più contrarŒ, e sembra loro troppo esclusivo colui, che, coerente a se stesso, ne accetta uno solo. Ma se questo facilmente si spiega, è inesplicabile per l' opposto com' essi trovino imitatori tra quelli che s' applicano di proposito agli studi filosofici. Chi potrebbe credere, che fra questi professori della Filosofia si trovasse alcuno, il quale ignorasse, che il sistema della verità filosofica non può esser che uno? e che essendo uno solo, gli altri tutti non possono esser che falsi? Chi potrebbe credere, che un uomo il quale si propone d' innalzare la Filosofia al di sopra di tutto, al di sopra della Religione stessa, dichiarasse poi che nell' unicità d' un sistema vi ha il sepolcro della Filosofia? e che confondesse la storia de' sistemi filosofici, che nella massima sua parte è la storia delle aberrazioni dello spirito umano, colla stessa filosofia? La quale sembra che per quest' uomo non sia altro, che un cotale spettacolo di atleti, uno spettacolo, in cui gli errori sotto infinite forme or fanno alla lotta, or giuocano al pugillato, or colla spada, col pugnale, col coltello, e con ogni sorta di armi combattono corpo a corpo colla verità, la quale può esser vinta, ma non deve vincerli mai, che vincendoli, terminerebbe a gran danno degli spettatori il divertimento che si chiama filosofia. Il filosofo che s' è formato questo concetto della sua scienza, somiglia allo storico, che deplora quelle età, che non gli danno a narrare guerre atroci, e dissidŒ civili, e affronti di calamità, o accidenti, e rovine di regni, e di popoli, ovvero a quel principe bellicoso, che ripone l' infelicità del suo regno nella tranquillità della pace. E mi duole d' incontrare nell' illustre autore dell' ecletismo francese delle sentenze simili alle summentovate. Perocchè quanto non ci va egli, per lo meno, vicino, quando considera la storia della filosofia come una lezione perpetua di quel suo ecletismo appunto che vuole esser l' unica filosofia possibile a' nostri tempi (1)? [...OMISSIS...] Ma dopochè voi avrete trovata e distaccata quella porzione immortale di verità che ciascun sistema contiene, vi resteranno ancora i medesimi sistemi? o pretendete che quella porzione di verità immortale, che avete svincolata dall' intero sistema, sia ella sola quel sistema? anche se questa porzione è piccola, perchè voi non dite se questa porzione di verità sia grande, o piccola, od uguale in tutti i sistemi? Se non volete dir questo (che sarebbe strano, che voleste confondere quella porzione di verità che può trovarsi nel sistema col sistema stesso); perchè dunque date l' epiteto d' immortale alla porzione di verità che vi si contiene? Chiamando voi immortale questa sola porzione, venite a confessare implicitamente, che è mortale tutto il resto del sistema: e se questo resto del sistema è mortale perchè non gode di quell' immortalità che è la prerogativa divina della sola verità, che compassione ve ne prende? lasciatelo subire la sua sorte, lasciatelo morire, che anche morto resterà nella storia dello spirito umano. Ed anzi, se volete confessar il vero, non potete far altro, quando pure non v' arroghiate la facoltà di rendere immortali i mortali, o non vogliate far la figura di que' medici che hanno trovato l' elixir vitae che preservava gli uomini dalla morte. Infatti, non molto dissimile a questi, voi vi proponete di salvar dalla morte gli errori, cioè quei sistemi da cui avete succhiato fuori, siccome ape industriosa, il miele della verità; e non contento d' assumere voi stesso un così difficile incarico, lo volete dare anche a noi, che non sappiamo d' avere tanta virtù, ed anzi a tutti, prescrivendo loro « di perfezionare i sistemi l' uno per via dell' altro senza tentare di distruggerne alcuno. »Ma badate che non accada a voi stesso di fare involontariamente quel che proibite. Perocchè i sistemi filosofici rassomigliano sovente a quegl' insetti di così ammirabile e dilicatissima tessitura, che per quanto gentilmente si tocchino colle dita, s' infrangono, e muoiono con gran rammarico dell' osservatore della natura; e però parmi, che voi stesso, benchè protestiate in contrario, facciate un tentativo di distruggere que' sistemi, non solo arrischiandovi di toccarli, ma di più sottomettendogli ad una operazione pericolosissima, qual' è quella che estrae da' loro visceri quella porzione di verità che è la loro anima. E voi stesso lo confessate quando dite: « « L' autorità di questi differenti sistemi viene di qui, che tutti hanno qualche cosa di vero e di buono (1) ». » Dite ancora che « « ciascun sistema per quella porzione di verità che contiene, è fratello di tutti gli altri, e figliuolo legittimo dello spirito umano »; » di che consegue necessariamente, non me lo potete negare, che quando voi gli avete tratto di corpo quella porzione di verità, che è l' operazione che vi proponete di fargli subire, quello che resta dopo tale operazione non è più un fratello degli altri sistemi, nè un figliuolo legittimo dello spirito umano. E, per trarre da questa vostra dottrina un' altra conseguenza, ciò che rimane di quel sistema si può legittimamente seppellire nella storia, come cosa morta, e siete stato voi stesso che l' avete ammazzato, senza mancar di rispetto alla libertà dello spirito umano, il che voi giustamente raccomandate. E che? Pretendete forse, o avete il diritto di pretendere dopo queste vostre confessioni, che la libertà dello spirito umano consista in lasciar sussistere tutti i sistemi filosofici l' uno accanto all' altro, i sistemi più contraddittorŒ, i sistemi falsi, altrettanto quanto il sistema vero, i sistemi misti di falso e di vero, anche dopo aver loro tratto di corpo il vero che contengono? Voi sperate di conservarli nel vostro ecletismo, e promettete che vi staranno in pace, come le bestie nell' arca di Noè, e così camperanno dal diluvio: ma a dir vero voi con questo cadete nel solito errore de' falsi liberali, scambiando la libertà colla servitù; poichè siete voi quello che sotto il nome di libertà imponete allo spirito umano la più irragionevole e tirannica servitù, dichiarandogli, che non c' è da far altro che d' attenersi al vostro ecletismo (1), il quale impone allo spirito umano l' obbligazione (ecco come s' intende la libertà) di non distruggere alcun sistema, e di perfezionarli tutti! Il che è quanto dire, che allora si rispetta la libertà dello spirito umano, quando gli si proibisce d' esercitare il diritto, e d' adempire il dovere che ha di rigettare i falsi sistemi, e d' attenersi al sistema vero, che non può essere, che uno solo! Questa è la libertà, che i nostri filosofi liberali spaventati dalla fantasima della scuola teocratica, che giganteggia nella loro immaginazione, lasciano alla ragione umana. E v' assicurano, che questo è uno onorare lo spirito umano, e che sia così, ve lo provano; ascoltate il loro argomento: « Tutti i sistemi sono tanto vecchi quanto la filosofia, e inerenti allo spirito umano che li produce il primo giorno, e poi di continuo li riproduce: il tentare dunque di distruggere un solo di questi sistemi, che sono tutti creature dello spirito umano, è un disonorare lo spirito umano: dunque per lo contrario è un onorarlo il conservarli tutti ». Peccato che il filosofo, che ragiona così sottilmente, si sia lasciato scappare di bocca, che i sistemi sono figliuoli legittimi dello spirito umano per quella porzione immortale di verità che contengono. Parlando di figliuoli legittimi si suppone che ve n' abbiano anche d' illegittimi, e se la verità è prole legittima dello spirito umano, consegue che la falsità sia la prole bastarda del medesimo: e se la prima è una gloria, non pare che si possa riputare una gloria del medesimo spirito umano la seconda che è figliuola della fornicazione. Laonde il concetto che s' è formato il nostro filosofo dell' onore dovuto allo spirito umano non è più giusto di quello che abbiamo veduto essersi egli formato della libertà. Se non vogliamo impazzire, dobbiam riconoscere che lo spirito umano è fallibile, e però che non sono tutte vere, nè tutte belle le cose che fa questo spirito, e che però colui veramente l' onora, che lo dirige sulla via della verità, dalla quale sola riceve il suo onore e la sua gloria, e non punto quell' uomo superstizioso, che per onorarlo l' adula, e lo trasforma in una divinità, il quale così facendo si rende simile a que' cortigiani, che raccoglievano religiosamente, ed adoravano gli escrementi del loro imperatore. Lungi da noi tanta viltà, e tanta servilità. Noi vogliamo esser liberi seguaci della verità, e non rinunziamo in grazia di checchessia, foss' anche l' ecletismo o 'l sincretismo che ci si vuole imporre a nome della libertà e dell' onore dovuto allo spirito umano, al diritto che abbiamo di tentare la distruzione di tutti i sistemi erronei, e di tutta la parte erronea che ci è dato di discoprire ne' medesimi. Tale è il concetto che noi ci siamo formati della libertà dello spirito umano, e della maniera di onorarlo, e reputiamo che chi non l' onora in questa maniera, lo disonora, forse senza avvedersene. Che cosa è un sistema? L' accozzamento di alcune proposizioni senza nesso fra loro? o si vogliono distinguere i sistemi co' puri nomi de' loro autori senza por mente al contenuto della dottrina? Per noi un sistema non è nè un nome, nè dei brandelli staccati a caso da diversi corpi di dottrina; ma è un principio elevato con tutte le sue conseguenze. Laonde molti di quelli che nella storia della Filosofia si descrivono come sistemi diversi, perchè esposti da autori diversi, e con un ordine diverso, non sono agli occhi nostri diversi, qualora que' corpi di dottrina si possano ridurre ad uno stesso principio. Laonde quegli autori, i quali convenendo in un dato principio, ne cavano conseguenze diverse, e non opposte, o s' applicano a dedurne conseguenze nuove, o s' occupano esclusivamente a svolgere quel principio per un nuovo genere d' applicazioni trascurate dagli altri; questi non sono autori di sistemi nuovi, ma lavorano intorno allo stesso sistema, perchè lavorano a fecondare lo stesso principio. E così i sistemi veramente diversi sono in minor numero che non si creda, quantunque la storia della filosofia, come fu fatta fin qui, e che l' ecletismo francese prende a suo fondamento, ce li moltiplichi. Or poi se il sistema filosofico si contiene in quel principio elevato, onde il filosofo muove tutto il suo ragionare, n' avremo questa conseguenza, che, come il principio del sistema il quale è una proposizione semplice non può esser che vero o falso, non essendovi niente di mezzo fra la falsità, e la verità, così converrà dire, che anche i sistemi diversi non possono essere che veri o falsi, e però o da ammettersi o da rigettarsi. Nè vale il dire, che in ogni sistema v' ha una porzione di verità: perocchè quand' anco s' ammetta una proposizione così universale, e per ciò stesso così gratuita, che è un dire antifilosofica; quella porzione di verità o riguarderà il principio, se il principio è vero, o riguarderà alcune conseguenze, se alcune conseguenze prese da se sono proposizioni vere. Se riguarda il principio, e però questo sia vero, in tal caso tutto il sistema è vero, e le conseguenze false, che s' incontrano non possono essere che mal dedotte e si devono espungere, come straniere al sistema sostituendovi le vere. Ma de' principŒ veri, e de' sistemi veri non ve ne possono esser che uno. Se riguarda le conseguenze, di maniera chè alcune conseguenze prese per sè sieno proposizioni vere ma dedotte (probabilmente mal dedotte) da un principio falso; tutto il sistema è falso, e non si salva il sistema, salvando quelle proposizioni vere che non gli appartengono, e da esso si devono separare, raggiungendole a quel sistema, a cui veramente appartengono, cioè a quell' unico che ha un principio vero. Ond' ella è cosa vana e impossibile far quello che prescrive troppo dispoticamente l' ecletismo francese, non tentare di distruggere alcuno de' sistemi prodotti dallo spirito umano. I quali sistemi, vi dice l' ecletismo, sono inerenti allo spirito umano che li ha prodotti il primo giorno della filosofia e li riproduce senza posa. Sia: ma sono veri o falsi? Ecco tutta la questione della libera filosofia, d' una filosofia che non ammette il giogo delle aberrazioni dello spirito, e che ricusa dichiararsi mallevatrice e pagatrice de' suoi errori, e de' suoi delirŒ, che anzi giustamente si sdegna contro a chi le fa violenza per costringerla a tanta umiliazione, e le va prodigando i titoli di serva, e di teocratica, perchè ella, giusta signora, si ricusa di pagare i debiti de' prodighi e degli scapestrati. Protesta altamente, dice all' ecletismo: « Se i sistemi dell' errore sono inerenti allo spirito umano, come voi dite, ed egli gli ha prodotti il giorno che io sono nata, tal sia di lui, io non gliene ho fatto procura, e se egli ha speso il mio nome, e adulterate le carte, non mi resta altro che dargliene querela di falso. »E veramente il dire, che lo spirito umano fino dall' ora che prese a filosofare ha prodotto tutti i sistemi anche falsi, come dice Vittore Cousin, questo non prova, che si debbano ammettere, e religiosamente conservare; ma piuttosto disvela il peccato originale dello spirito umano, un vizio inerente al medesimo, che l' indebolisce e sommette la sua ragione alle seduzioni dell' errore; il quale vizio non gli può venir dal Creatore, che l' ha fatto per la verità. E non è maraviglia che tornino sempre in campo gli stessi sistemi, quando si sa, che le inclinazioni e le passioni umane che affascinano la ragione, e la fanno servire, sono sempre le medesime, ed hanno leggi fisse nel loro operare. Il signor Cousin producendo la prescrizione a favore dell' errore che tiene in servitù lo spirito umano, imita fuor di proposito gli avvocati che difendono i debitori che non vogliono pagare i debiti, senza accorgersi, che se quella prescrizione vale in legge per il solo foro esterno, in filosofia non è buona nè per l' uno, nè per l' altro foro. Una ragione libera dunque, una filosofia libera ha diritto di sdegnare tutto ciò che è falso, e di congiurare colla verità a distruzione di tutti i sistemi falsi: niuno può impedirla dall' esercitare questo diritto di guerra: ognuno può richiamarvela, se non gli resta fedele. E tuttavia egli è vero, che coloro i quali trattano la verità come una femmina, si adirano sconciamente quando la trovano scompiacente, e ritrosa a piegarsi alle vane e capricciose loro opinioni, e di rusticità l' accusano, « siccis rustica veritas capillis (1) »: è vero ancora (noi non lo possiamo negare senza mentire) che tutti quelli che cercano lei sola, lei sola abbracciano; vengono facilmente in voce d' orgogliosi, perchè di necessità, e contro loro voglia, si trovano in diretta opposizione a tutti gli altri, che non consentono con esso loro nello stesso amore del vero, o che a questo antepongono degli altri amori: e in tutti i tempi dovettero scusarsene agli uomini irritati con esso loro. Se ne dovette scusare lo stesso Socrate, pochi giorni prima di lasciare la vita, per cagione dell' invidia di coloro, che egli coll' insegnamento della verità dimostrava ignoranti, e con Teeteto ebbe a dire: « « Molti oggimai, o maraviglioso giovanetto, sono così mal disposti inverso di me, che vorrebbero lacerarmi co' denti, se alcuna volta io discacciassi da essi qualche ciancia, non istimando che da me si faccia questo per benevolenza, essendo essi troppo lontani dal sapere, che niuno Iddio è malevolo agli uomini. Nè io fo per malevoglienza alcuna cosa somigliante, ma non pare a me lecito in verun modo di accettare il falso, e ribattere il vero »(1). » E veramente questi appunto a cui si appone taccia di alterezza sono i più benevoli, anzi i soli benevoli a tutti gli altri uomini. E sebbene davanti ad essi non v' abbia accettazione di persone o di opinioni, tuttavia ne' loro studŒ preparatorŒ alla filosofia non ricusano punto la storia, nè schifano di riguardare negli altrui sistemi tutto ciò che v' ha di vero, e di sincero, ma non confondono però la storia colla filosofia, e non fanno nè credono poter fare della storia, o colla storia la filosofia. Chè la Filosofia non si stabilisce sopra alcuna autorità, nè pur divina, non che umana; poichè la Filosofia è ragionamento, e non altro che ragionamento. Laonde un' autorità sia pure infallibile può bensì segnalare la via al ragionamento filosofico, acciocchè non si perda, ma non può mai surrogarlo: può, ancorchè non infallibile, eccitare il pensiero di colui che cerca una Filosofia, ma non può prevenirlo, ed escluderlo, quasi non più necessario. E dee pur fare un' altissima maraviglia l' incoerenza di coloro, i quali mettendosi in gran sospetto dell' autorità divina, che loro apparisce siccome una scuola teocratica, dimostrano poi la riverenza più servile alle sentenze de' filosofi, o di quelli che così si chiamano, registrati nella storia, a tal che si fanno coscienza di distruggere un solo de' loro sistemi, per non recare, dicon essi, onta allo spirito umano, che pure non veglia sempre, anzi di quando in quando dormicchia e sogna. Singolar cosa è il vedere introdotta nella Filosofia la riverenza allo spirito umano (ed è la sola riverenza, che conoscono costoro), come se questo, o alcun altro simile sentimento potesse valere assai nel decidere questioni di verità e di falsità. Del resto qualora la storia dei sistemi ci porga altresì colle sentenze de' ragionamenti, questi non possono esser ricevuti nella Filosofia a titolo d' essere storici, ma al solo titolo d' essere veri, e di procedere con logica dirittura; il che è quanto dire, d' essere non di questo, o di quel filosofo, ma della mente, e però una proprietà comune di tutte le menti, rimanendo affatto esclusa dalla Filosofia la questione erudita: qual' individuo abbia il primo veduti que' veri colla sua mente e convenevolmente pronunciati colla sua lingua. Come diceva dunque Socrate che niun Dio è malevolo agli uomini, così anch' io dicevo, che quelli che amano e cercano la verità, cosa divina, che è l' onore dello spirito umano non perchè egli la formi ma perchè n' è informato, sono i più benevoli, anzi i soli benevoli agli uomini, ed ai sistemi stessi da loro inventati; ch' essi soltanto sono quelli che procacciano il vero bene alla natura umana, che dalla verità deriva, e alla verità si riduce, e dentro a' loro sistemi riconoscono volentieri ed amano e prezzano tutto quello che c' è d' amabile, e d' apprezzabile, cioè appunto la porzione immortale di essi, la verità, nella quale sinceramente s' accordano e s' uniscono. Così non fanno coloro, i quali s' imaginano, che lo spirito umano meriti un onore per se stesso, indipendentemente dalla partecipazione della verità, e sembra che onorino questa come una creatura di quello, alla stessa maniera dell' errore, che certamente è una creatura, una pura creatura del medesimo. Costoro, non avendo più alcun punto fermo a cui dirigere i loro affetti, ripongono tutto il bello, la vita, la gloria della filosofia in quel movimento continuo, pel quale diversi, e contrarŒ sistemi nascono e cadono, e ricompariscono senza posa, e s' abbaruffano fra di loro in una mischia che non deve mai finire, acciocchè continui a mostrarsi vivace e rigogliosa la filosofia. Nell' arringo della quale essi si spingono cavallerescamente, non per la pace, ma per la guerra, e per la palma della vittoria, e tuttavia i più bravi fra essi non astiano il valore de' loro compagnoni, chè anzi ne lo magnificano, acciocchè sia più glorioso il combatterli, e nel vincerli spicchi maggior prodezza. Solo quelli che non hanno una cortesia così raffinata si strapazzano a vicenda prima di venire a' colpi, come gli eroi d' Omero. Tutti cotesti dilettanti dell' armeggiare gustano assai che i sistemi filosofici sieno molti e che rimangano sempre molti, acciocchè i tornei riescano più brillanti e spettacolosi, dando luogo a un maggior numero di campioni. E questo spiega perchè fin qui la storia della Filosofia, invece di narrare le avventure di quella Dama, che tutta soletta vince molti cavalieri, cioè dell' unica verità, che giostra co' moltissimi errori, non sia che una continua narrazione di gare e di puntigli, che hanno preso l' abito e le forme de' sistemi, i quali scaramucciano con gran valentìa senza intendersi, e senza che la vittoria si decida per l' una o per l' altra delle parti, perchè tanto dall' una, che dall' altra, s' adopera per lancia la verità mista coll' errore. A chi mai non è noto tutto ciò che è stato detto contro lo spirito irascibile, e contenzioso de' filosofi? A cui non son venute a noia le lor perpetue discordie ed emulazioni? Chi non ha preso scandalo di quella interminabile mischia di sempre nuove e contradditorie opinioni, nella confusion delle quali è impossibile, anche agli uomini di miglior vista, discernere la verità, o credere che ve ne sia una, quando i densi nuvoli che si sollevano di polvere olimpico, ne offuscan la luce? Perocchè non tutti gli uomini son battaglieri, o si dilettano solo di zuffe: onde volendo divertire troppo il mondo di sè, si finì pur troppo coll' annoiarlo. E si pretende ora di rimettere in istima la filosofia con uno spediente così nuovo (che in pratica è così antico) di divietare che si distrugga alcun sistema, e di raccomandare che si fortifichino tutti, acciocchè tenzonino ancor più alla disperata (1)? Quando pure, questa è la vera ragione del discredito, per non dire del disprezzo, in cui è caduta la filosofia: la cagione, per la quale gli uomini finirono col credere, che la verità filosofica sia irreperibile, e la filosofia stessa un trastullo di certi ingegni astrusi e stravaganti, che, senza curarsi gran fatto della verità, nè poter riuscire alla certezza e a recare alcun frutto all' umanità, amano di far prova e pompa delle loro forze colla vana gloria della cavillazione! Qual meraviglia che quando comparve al mondo improvvisamente un' altra dottrina di contrario carattere, sicura di sè, immutabile come la verità, completa come la sapienza, voglio dire il Vangelo, ne ricevessero una così grande scossa le scuole de' filosofi, e comparissero alla luce di que' trattati che, sottosopra, avean per titolo: Irrisio philosophorum ? E di questi trattati se ne vogliono ora degli altri? Il Vangelo li produsse in allora, e il Vangelo sta lì per riprodurli, se gli uomini ritornati sofisti, gliene dieno nuova occasione (e la scuola che il Cousin chiama teocratica, n' è almen la minaccia); il Vangelo, dico, che solo potè in appresso, siccome fece, rimuovere dalla filosofia la derisione e la beffa, restituendo al mondo la fiducia che avea perduta nella ragione e nella verità, comunicandogliene una grandissima parte, la parte essenziale e necessaria, anzi facendo molto di più, chè egli ne guarentì la perpetua esistenza nel genere umano, in virtù di quello stesso potere che ordina al sole di nascere ogni giorno e risplendere sulla terra; e accrebbe l' obbligazione d' amarla, infondendone ad un tempo negli animi un amore infinito. Così fu il Cristianesimo, che con tutti gli altri beni, dopo aver abbattuta la falsa, salvò anche la vera filosofia, la quale avrebbe sicuramente trovato la sua tomba nell' ecletismo alessandrino, o questo stesso, per dir meglio, senza di lui, non avrebbe avuto il tempo di farne balenare agli occhi degli uomini l' ultimo raggio. E però noi consideriamo come nostro dovere il mantenere alla filosofia quella dignità che le ha dato il Cristianesimo, e che tutta consiste nella nobilissima obbligazione, o se si vuole, nella felicissima necessità, di dover essere d' allora in poi, maestra di verità, e non punto altro; non già perchè l' uomo che filosofa sia divenuto infallibile, ma perchè tutto ciò ch' egli pensa o dice di contrario al vero non può più usurparsi, senza contrasto, il nome di Filosofia. [...OMISSIS...] Di che necessariamente consegue, che i pensatori e gli scrittori si debbano giudicar tanto filosofi, quanto hanno pensato o scritto di filosofica verità; e per aver essi pensato o scritto altre cose erronee, quante se ne vogliano, non si dee attribuir loro il nome di filosofi (chi pur voglia provvedere all' onore, alla conservazione, e al progresso della stessa filosofia); ma conviene che si denominino sofisti, nemici della Filosofia, o, secondo i loro speciali costumi, filosomati, filocremati, filomachi , o in generale, come volea Platone, « filodossi (2). » Poichè colui che si stanca e si lima l' ingegno non per arrivare al conoscimento della verità, ma per riuscire a distruggerne, se gli fosse possibile, o negarne alcuna parte, e con ardue, ma indottissime cavillazioni, annuvolare il sereno degli umani intelletti; questi fa appunto l' officio contrario a quello che è assegnato al filosofo; e quindi è manifestamente improprio e barbaro l' uso d' applicare lo stesso nome a chi professa due uffici non pur diversi, ma così contrari, quasi che il fare e il distruggere fosse una sol' arte. Ed è cosa ben singolare a vedere, che mentre gli uomini non usano così quando danno i nomi ad altre cose (chè nè s' intenderebbero più tra loro, nè canserebbero il morso del ridicolo); in questa sola materia della Filosofia, cadono in tanta confusione e inversione di linguaggio senza che se ne avvedano. Chi vorrebbe chiamare scultore egualmente il Canova, e colui che prendesse diletto nel graffiare e bucherare le finitissime sue statue? Chi accomunerebbe la denominazione di pittore a Raffaello ed a quell' insensato, che per mostrare il valor suo nell' arte, s' occupasse con grande assiduità, e mettendoci tutta la diligenza, a suggellare con qualche bel colore le pupille degli occhi, ed impastare i nasi, imbellettar le gote de' volti divini, che s' ammirano nelle tavole dell' Urbinate? A niuno potrebbe venire in mente, che un parlare così stravolto si giustificasse colla ragione, che tanto il Canova quanto il guastatore delle sue statue v' adoperi gli stessi ferri, gli stessi scalpelli, le scuffine, le raspe; e che tratti pure gli stessi pennelli, e gli tinga alla tavolozza de' colori altrettanto, quanto faceva il Sanzio, quel disennato che ne deforma le inapprezzabili dipinture. Ma che cosa è il sistema della verità, se non un cotale augusto simulacro, o una figura nobilissima di Dio stesso? E quanto questo altissimo lavoro col quale si scolpisce e colora in anime immortali la viva imagine d' un' eterna sapienza, non ha egli più di pregio, non merita più di riverenza, di quello, col quale gli eccellentissimi artefici danno forme eleganti al marmo e le avvivano sulle tele? Or poi quell' artista, che ad una tant' opera si consacra, chiamasi Filosofo; e l' arte che egli professa, chiamasi Filosofia. Laonde se questo è l' intento, questo lo scopo assegnato alla professione del filosofo; come se ne profanerà, e abuserà il nome accomunandolo anche a coloro, che maneggiano bensì lo stesso stromento del pensiero, ma con sì vituperevole imperizia, che ad altro non riescono che a demolire o sformare l' opera del filosofo? ad offuscare cioè co' sofismi quel lume di verità, che l' arte filosofica mette in aperto, a disformare, troncare, imbrattare colle macchie degli errori quelle membra decentissime del corpo della sapienza, che ritrae in carte il filosofo? E pure questa biasimevolissima improprietà passò quasi universalmente in costume, e nel secolo scorso l' ateismo stesso fu detto il segno d' una mente filosofica! E noi non istupiamo punto, che si vedesse qualche cosa di mostruosamente grande in una sì grande negazione, chè certo non ve n' ha un' altra che cancelli una porzione maggiore e più importante di verità, quand' anzi l' ateismo veramente la cancella tutta. Chi mai non sa che si dà anche un' ignoranza grande, un errore grande, una grande demenza? Ma ci maravigliamo, che si confondesse questa grandezza colla grandezza del sapere e della Filosofia. E a confondere grandezze di cose così opposte, s' usava questo argomento: « « Non v' ha gente così barbara e inospitale, che non ammetta qualche divinità, e con qualche culto non la onori: dunque per lo contrario non può essere che opinione di uomini dottissimi l' ateismo (1). » Quasi che la dottrina giunga al suo colmo, allorquando si dimostra potente a rimuovere dalle menti degli uomini quelle stesse verità, che nè anco la più efferata barbarie, e la salvatichezza medesima non vi ha potuto scancellare. Non ignoriamo quanto sia, e sia sempre stata cosa odiosa, lo scacciare dalla compagnia de' filosofi i maestri dell' errore: ma coloro che amano la verità devono esser disposti a subire l' applicazione dell' antico proverbio: « La verità partorisce odio », come Socrate, che negò coraggiosamente il nome di filosofi ai sofisti del suo tempo (2). Noi dunque non ci terremo, ma continueremo a dire, che è un' ignobile adulazione, perchè è una falsità di parlare, quella d' onorare col titolo di sistema filosofico, qualunque viluppo di proposizioni vere o false, che l' aberrazione della ragione umana o il delirio d' una imaginazione inferma, vi presenti siccome un trattato di filosofia. Può essere una debolezza d' animo e di mente il ricever la legge da' titoli de' libri, e da nomi de' loro autori: che se vi piace mantenere questa improprietà di parlare per qualche vantaggio reciproco che n' aspettate, ell' è una colpevole connivenza. Or come l' accogliere nel novero de' sistemi filosofici anche quelli che hanno per principio l' errore, col pretesto che racchiudono tuttavia qualche particella di verità (quasichè quel che hanno di vero non sia un elemento a loro eterogeneo da sceverarsi per raggiungerlo a quel sistema della verità di cui è proprietà inalienabile), pare un largheggiare d' onori, con manifesta ingiustizia, a cosa che non li merita; così è del pari un negare o scemare l' onore dovuto alla verità, con un' altra ingiustizia, il parlar di sistemi senza distinzione, mettendoli tutti in un fascio, partano essi da un principio vero o da un falso: questo umilia la verità fino al grado ignominiosissimo dell' errore; questo umilia ancora lo spirito umano. E poi, come sapete, che tutti i sistemi sono egualmente un miscuglio di vero e di falso? Pretendete, voi filosofo, che vi si creda sulla parola, che basti l' autorità del vostro giudizio? E come dunque avete poi tanta paura della teocrazia? ne sareste forse geloso? E pure non ci avea bisogno d' una grande penetrazione a capire, che se il principio supremo d' un sistema è vero, tutto il sistema dee riceversi siccome vero e rettificarne soltanto le conseguenze se mai non fossero derivate logicamente, cavarne dell' altre e così svolgerlo e completarlo: se poi il principio supremo d' un sistema è falso, tutto il sistema si dee avere per falso, e se vi s' incontrassero per accidente delle cose vere, queste che non son sue, nol rendono vero. Onde l' accoglierli tutti senz' altra distinzione, è un voler esser filosofo alla guisa d' Omero, che avendo, come osserva Seneca, ne' suoi poemi tutte le filosofie, non ne ha veramente nessuna (1). Convien dunque dire, che niun sistema, propriamente parlando, è misto di vero e di falso (benchè il vero ed il falso possa esser misto ne' libri in cui i sistemi si contengono), ma i sistemi sono tutti o semplicemente veri o semplicemente falsi; ed i sistemi veri (1) si allontanano più che il cielo dalla terra da' falsi, e però non si possono confondere nella medesima categoria, nè pronunciar di tutti in monte una sentenza; e di più, i sistemi falsi, son sistemi d' errori, e quindi a rigore non meritano il titolo di filosofici, ma sì d' antifilosofici. Convien dunque onorare lo spirito umano, diciamo anche noi col signor Cousin, ma intendendo l' onore dello spirito umano in altro modo. Chè per noi tale onore non consiste punto nel calore e nella ostinazione con cui esso spirito umano contraddice e discerpe se stesso, nè si procaccia il richiamare indietro il mondo a' costumi gentileschi, cioè a un tempo passato per sempre. Allora framezzo alle scandalose e impotenti mischie de' filosofi s' udì una voce nuova e potente che diceva: « « La Filosofia non si può ottenere da coloro che consumano l' opera loro in pugne e contrasti di parole »(2), » voce ascoltata da' migliori tra gli stessi filosofi (3), ma più ascoltata da tutto il mondo, a cui parve manifesta la vanità di que' dottori, che faceano la filosofia, come i condottieri del medio evo faceano la guerra. L' onore dello spirito umano, ripetiamolo ancora, per noi sta unicamente nella verità di cui egli può esser partecipe, e n' è veramente, la cui conseguenza è la pace e la concordia; siccome il suo disonore sta nell' errore e nella perpetua incertezza della dissensione. Laonde il disonorare quella verità che lo spirito umano non crea, ma vede, e, vedendola, se ne illumina ed incorona, e l' onorare per l' opposto quell' errore, pur troppo sua creatura, che acceca e scorona il suo creatore; sono due modi di fare ugualmente allo spirito umano vitupero e atrocissima ingiuria. E questo si fa appunto nell' uno e nell' altro modo ad un tempo col sommettere alla stessa sentenza del signor Cousin, benchè sentenza più di grazia che di giustizia, i sistemi veri ed i falsi, e in volerli tutti conservati e affortificati egualmente. Ora se di questa sentenza si possono chiamar contenti tutti gli autori e seguaci de' sistemi falsi; per l' opposto il nostro paciere s' avrà sollevati contro con essa tutti gli autori e seguaci de' sistemi veri, i quali appellano e fanno valere davanti ad un tribunale più autorevole, qual è il senso e la coscienza del genere umano, benchè a dir vero tribunale teocratico, i loro gravami. Come dunque l' ecletismo promette la conciliazione di tutti i sistemi tanto filosofici, quanto antifilosofici, senza distinzione? che conciliazione è possibile in questo modo? Quanto a noi, intendiamo di gratificare agli autori de' sistemi veri; e se il signor Cousin riesca a metter pace, almeno tra' suoi, forte ne dubitiamo (1): all' opposto confidiamo di poter noi aver pace co' nostri, noi che consideriamo il sistema della verità come il fondamento dell' unica pace possibile fra le intelligenze, e causa d' ogni altra pace. E come si può ottenere la pace, quando la pace stessa si pone nella guerra, cioè nel conflitto de' sistemi? Come si può parlare di conciliazione, mostrarne l' importanza, declamare contro quelli che la ricusano da uno, che mette per condizione alla medesima il conservare tutti gli opposti sistemi, e anzi di più l' affortificarli tutti? e che nello stesso tempo vi dice, v' assicura sulla sua parola, che in tutti, niuno eccettuato, v' ha qualche cosa di falso? Non è proprio degli errori, che hanno una natura così moltiplice, d' escludersi e di combattersi a vicenda? e di combattere sopra tutto la verità? Onde, se tutti i sistemi racchiudono nel proprio seno errore e verità (2) (che è il postulato su cui si fabbrica l' ecletismo, e non è altro certo che un postulato, e per buona sorte non come quelli de' matematici che non si possono rifiutare), non solo avremo molti sistemi discordi, ma in ciascuno avremo i semi della discordia! E notate, che si confessa, che l' indole di tali sistemi è l' esclusività, per modo che ciascuno vuole esser solo, ed è questa esclusività che li rende sistemi distinti, cessata la quale, non rimarrebbero più molti sistemi, ma si fonderebbero in uno. Il che si riconosce anche per un difetto, ed un difetto, che a ciascun sistema è così essenziale, che senz' esso non si può conservare, molto meno fortificare. Tuttavia ogni sistema si vuol conservare ed affortificare, a condizione che niuno domini in su gli altri, cioè che non sia esclusivo! Mi dispiace che la contraddizione qui spicchi a tal segno, che mi taglia quasi a mezzo il ragionamento che stavo facendo; perocchè non si può più nè pur domandare come una contraddizione sia possibile, chè una tale domanda equivarrebbe a quest' altra: come sia possibile l' impossibilità. Ricopriamo dunque per un poco questa contraddizione col velo di quelle parole vaghe ed indeterminate, colle quali la copre l' autore dell' Ecletismo, e sostituendo la parola di conciliazione a quella di contraddizione, dimandiamo come la conciliazione promessa sia possibile? Ci si risponde: colla tolleranza (1). Bellissima parola, e gratissima agli orecchi degli uomini che ci vivono. Ma si è mai pensato seriamente al significato di questa parola: tolleranza ? Certo se per tolleranza s' intende - diffidare della propria opinione e rispettare l' altrui dentro i confini che la prudenza assegna, compatire gli altrui errori anche evidenti e le altrui debolezze anche viziose, non prenderne pretesto d' invadere gli altrui diritti, astenersi da ogni giudizio temerario, esser benigno e benevolo a tutti, - questa è una virtù preziosa, ma una virtù che s' esercita verso le persone, non verso i sistemi, e, appunto perchè è una virtù, è un abito della volontà umana, non una scienza. Ora noi non eravamo nel campo della volontà, eravamo in quello della mente, parlavamo di filosofia, di sistemi filosofici, di errori e di verità: bisogna che ce lo ricordiamo. Non è egli un grande scambio cotesto, di trasportare all' intelletto le leggi della volontà, e pretendere ch' egli ubbidisca ad altre leggi diverse dalle sue proprie? Chi non sa che la tolleranza è una legge impossibile a praticarsi dalla mente? chè la mente è sempre per sua natura intollerante (se mi si permette di così parlare), e se potesse tollerare la contraddizione e l' errore da lei conosciuto, compirebbe con ciò una tale annegazione di sè stessa che si annullerebbe. Il costringere dunque la mente ad essere tollerante è un costringerla ad annullarsi: e questo per fermo non è filosofico: anzi a buon diritto si può chiamare un' intolleranza, e un' intolleranza così enorme, che l' uomo per essa non tollera più l' esistenza sua propria della sua mente, e di conseguente molto meno quella della Filosofia. E la colpa per certo non è della mente, se non si presta a leggi che non son fatte per lei: la colpa, se qui c' è colpa, è tutta dell' intollerantissima verità, dell' inesorabile logica: le idee non le fa l' uomo, le riceve bell' e fatte, nè si rifanno, ed oltracciò esse non sono persone, in verso a cui si possa usare la virtù della tolleranza, della compiacenza, e somiglianti. La conciliazione dunque de' varŒ sistemi fatta per via di tolleranza, quale ci viene proposta dall' Ecletismo francese, somiglia perfettamente all' unione delle sette protestanti incominciata nel ducato di Nassau nel 1.17, ed estesa poscia in altri Stati, e specialmente in Prussia per opera del defunto Re, unione singolare, nella quale ciascuna setta mantiene la sua credenza, e tuttavia con credenze diverse e contraddittorie, ciascuna delle quali condanna l' altra, vogliono tutte formare una sola Chiesa, che chiamarono evangelica , come se il Vangelo fosse il complesso di mille contraddizioni, il sincretismo mostruoso di tutte le sette protestanti! Questi fedeli, che per formare una sola Chiesa si contentano d' un nome comune e d' alcune esterne forme, indifferenti poi alle cose , ai dogmi dagl' individui professati, v' assicurano di rappresentare colla più fedele somiglianza la Chiesa Cristiana de' primi secoli! A tale esemplare si modella l' ecletismo francese: egli propone a' filosofi una unione, o conciliazione d' egual taglia, in cui un nome comune, alcune frasi indeterminate, qualche botta contro la teocrazia scusano e ricoprono la sostanziale differenza d' opinioni, che divide gli ecletici, i quali protestano di mantenere, d' affortificare, per onore dello spirito umano, tutti gli opposti sistemi. Solo che a questa proposta di conciliazione, n' aggiungono un' altra speciale, ed è, che i sistemi esclusivi si facciano alcune reciproche concessioni (1), quasichè sistemi su principŒ diversi fondati, potessero esser tanto compiacenti, o far concessioni senza distruggersi, anzichè conservarsi ed affortificarsi. Per fermo che unioni e conciliazioni di tal natura non sono filosofiche, nè da filosofi possono esser proposte, nè ricevute: lasciamole dunque fare a' politici, a' ceremonieri, a' protestanti. Noi distinguiamo la legge dell' intelletto da quella della volontà: non imponiamo questa a quello, che sarebbe una confusione troppo madornale: nè con tali scambŒ potremmo mai condurre avanti la filosofia, nè scorgere quali sieno le cose, che, nell' ordine dell' intelletto, ammettano una conciliazione, quali quelle che non l' ammettano. La verità si concilia sempre colla verità, l' errore si concilia rare volte con se stesso, mai colla verità. L' assumersi un' autorità così grande, com' è quella d' imporre a proprio arbitrio un' altra legge all' intendimento, è un vincere in assurdo que' demagogi, che sotto il nome di libertà insinuano la più ributtante tirannia, è un darsi a credere di poter estendere a man salva il proprio dispotismo intellettuale sull' umana natura, e su quella verità che n' è la legislatrice e l' unica regina legittima. La verità dunque, ecco il solo punto possibile della conciliazione, e questa conciliazione (non ne riconosciamo alcun' altra) è quella che noi abbiamo sempre tenuto davanti agli occhi nelle filosofiche discussioni. Ci permettano anche qui gli amici nostri di rammemorare il cominciamento de' nostri studŒ e come nacque in noi il desiderio e il tentativo di una tale conciliazione. Nell' adolescenza la nostra mente ignara di ciò che era stato pensato e scritto, entrò con ardire, non insolito a' giovani, nelle questioni filosofiche: ve l' introdusse un uomo quasi sconosciuto al mondo, indimenticabile a noi, Pietro Orsi. Colla gioia che il primo aspetto scientifico della verità infonde nell' anima, con una sicurezza quasi baldanzosa, con delle speranze indefinite proprie di quella età che per la prima volta si volge con una riflessione elevata e consapevole, all' universo ed al suo autore, e gli par assorbir l' uno e l' altro colla facilità con cui respira, noi ci ravvolgevamo giorno e notte, quasi pei sentieri d' un giardino, nel vasto campo delle filosofiche questioni, non ci arretravamo dinanzi ad alcuna difficultà, anzi la difficultà ci rendeva più animosi, chè in ogni difficultà vedevamo un secreto atto ad eccitare la nostra curiosità, un tesoro a scoprire, e consegnavamo alla carta il frutto giornaliero di quell' ingenua e ancora inesperta libertà di filosofare, conscŒ di affidarvi i semi che ci doveano preparare il lavoro di tutta quella vita, che Iddio ci avesse poi conceduta. E per vero tutti gli scritti che poscia, in età più matura, comunicammo al pubblico, furono lo svolgimento di que' semi. Dopo quella prima fatica, noi confrontammo di mano in mano a quegli spontanei e imperfetti pensamenti, tutte le dottrine de' filosofi; ed ogni qualvolta le riscontrammo ad essi consentanei, ci tornò caro come può esser caro l' incontro d' un amico, e il trionfare in sua compagnia. Eravamo troppo persuasi della fallacità della mente di un solo e della nostra particolarmente, e intendevamo, che, per assicurarsi a pieno del vero, non solo è necessaria un' autorità in quelle cose divine, a cui non giunge il raziocinio della mente, ma di più, che un' autorità, o, se si vuol meglio, l' assenso d' altre menti è mestieri soppravvenga a confermare la dirittura degli stessi naturali raziocinŒ. I quali certo sono quelli che costituiscono la scienza, chè la Filosofia, come abbiam detto più sopra, di raziocinŒ si compone, e non di autorità; ma l' autorità sopraggiunge sempre a tempo ed utilissima a rivedere ed a suggellare colla sua testimonianza, i medesimi raziocinŒ, di cui quella s' intesse. Allora intendemmo via meglio e apprezzammo la maniera di sentire di Seneca, dove dice: [...OMISSIS...] Non apparisce in questo filosofo, che è de' più sensati, alcun timore, che, stabilendosi nelle menti l' unico sistema vero, la Filosofia vi trovasse la sua tomba. Quando il capo dell' ecletismo francese si dimostra sollecito e in gran pensiero di questo che gli pare troppo sinistro avvenimento, mi comparisce del tutto simile ad Alessandro Magno, che piangeva d' una vittoria riportata da suo padre, per timore che non gli restasse più paese da conquistare. Noi crediamo, che in questo vecchio mondo, ricco di così varie e lunghe esperienze e di tanti disinganni, il diritto di conquista sia oggimai screditato, e che come nell' ordine delle cose politiche difficilmente può evitare la taccia di prepotenza, così nell' ordine delle cose filosofiche difficilmente possa evitar quella d' impostura. E ad ogni modo crediamo che alla contenzione degli spiriti che ambiscono con nobile gara di scoprire la verità, sia da preferirsi la verità già scoperta: crediamo che anche dopo essersi questa scoperta, non possa giammai mancar il lavoro a quelle intelligenze che vogliono assumersi la fatica d' accrescerne la luce e di renderla evidente agli occhi degli uomini, persuasi siccome siamo, che la luce della verità possa sempre aumentarsi all' intelligenze umane: crediamo che come ogni sistema riposa in un principio, onde anche emana; così il principio di quello che noi chiamiamo il sistema della verità abbia una natura tanto feconda, che affaticandosi intorno ad esso tutti gli uomini, non possano finir mai di derivarne nuove conseguenze, nuove, inaspettate e importantissime applicazioni, e che l' opera dell' annodare a quel principio tutte le scienze e tutti i fatti della natura e della storia che ci si riferiscono, e di farne riuscire così, congiunto in un corpo bellissimo, tutto lo scibile umano, sia inesauribile e per poco infinita: crediamo che quand' anco questo smisurato lavoro potesse quando che sia compirsi dagli umani ingegni, ne rimarrebbe loro un altro, sempre nuovo, sempre rinascente, non meno pregevole che non concederebbe alcun ozio, quello di conservare tanta copia di ordinata dottrina, di propagarla a tutti gli uomini, di vestirla di tutte le forme, di tramandarla intatta alle generazioni che si rinnovano, di difenderla e di proteggerla contro all' attivissimo, inquietissimo, cavillosissimo principio che mai non muore e sempre s' agita, del male e dell' errore: finalmente crediamo, che gl' intelletti esercitino un' azione grande e compiuta, anche col solo riposarsi nella verità, col fruirne, col comunicarne in se stessi la fruizione alla volontà, che sola l' attua, la realizza, e, rapendola al cielo della mente dove si mostra quasi pendula, la reca veramente in mano dell' uomo. Il perchè niun filosofo si spaventi, come le femmine della versiera, al pensiero della morte della filosofia predetta dall' ecletismo, nè perciò desista o si rallenti nella ricerca di quell' unico sistema, nel quale, come nella sua più alta idea, dee riguardare e fissamente intendere la filosofica investigazione. Chè niuna cosa muore col giungere alla sua perfezione, e non è verosimile che quest' accidente succeda alla sola filosofia giungendo al suo sistema perfetto. Piuttosto l' arduità e la vastità dell' impresa consiglia ad affrettarsi al lavoro; e prima a rimuovere gli ostacoli della discordia, i quali impediscono che le menti s' uniscano veramente nella verità. Laonde egli è un avvicinarsi a sì desiderabile effetto lo svelare i sistemi erronei, e, colla luce del vero, senza alcuna compassione, dileguar quelle ombre, lasciandoli soltanto segnati nella storia, come gli scogli e le arene nelle carte de' navigatori. Fra i sistemi veri, noi dicevamo, la conciliazione è possibile e desiderabilissima. E prima di tutto è mestieri vegliare attentamente per non cadere nell' ingiustizia, per non escluderne alcuno, e rilegarlo a torto nella classe de' falsi. Che se si riscontra qualche particella di falsità nelle conseguenze mal dedotte da un vero principio, questa si vuol correggere, non il sistema stesso rigettare. Di poi è necessario misurare l' altezza di ciascuno di que' principŒ che costituiscono la base de' sistemi, e a quelli che sono più elevati subordinare i principŒ meno elevati, e tutti all' altissimo, dal quale gli altri derivano siccome conseguenze. Con questa prima industria un sistema s' inserisce opportunamente nell' altro al debito luogo, come ramo al suo tronco, onde di molti parziali ne riesce un solo o completo, o certo meno parziale. Di poi, è da distinguersi la verità dalle varie forme di cui ella si veste, dai varŒ modi di concepirla, dagli aspetti o lati differenti, da' quali ella si mostra visibile alle menti. Questi non sono che altrettante parti della stessa verità, niuna delle quali esclude l' altra, niuna contraddice l' altra, ciascuna le aggiunge un nuovo raggio di luce. Quel savio che sarà animato dallo spirito della conciliazione, troverà sotto tante espressioni diverse, entro molteplici pensamenti, l' unità bellissima del vero, moltiplice senza misura nelle sue apparizioni, ma sempre concorde e consentaneo con se medesimo: questa è la seconda industria colla quale si può addurre una giusta conciliazione fra tutti quelli che rettamente filosofeggiano. Una forza che aiuta grandemente la conclusione di questa pace filosofica, vuol essere la benigna interpretazione delle altrui sentenze. Perocchè non è meno difficile il retto favellare del retto pensare. E però non di rado accade che l' uomo non esprima convenientemente tutto il proprio pensiero, ed allora l' equità esige, che chi ascolta o legge, lo interpreti, e quasi l' indovini sotto l' enimma dell' imperfetta espressione, quasi nobile simulacro coperto dà un velo. Conviene in tal caso cogliere lo spirito dello scrittore piuttosto d' attenersi alla lettera: considerare ciò che risulta da tutto il contesto de' vocaboli, delle sentenze e de' ragionamenti, ma soprattutto porre l' attenzione nella coerenza che aver devono le conseguenze dubbiose co' principŒ certi e colle intenzioni chiaramente manifestate dal pensatore. Un lietissimo e oltremisura desiderato risultamento mi trovai in mano dall' applicazione di queste regole, e si fu aver io acquistato la persuasione; che tutti i grandi filosofi, rispetto alle cose principali e più necessarie all' uomo, differiscono fra di loro più in apparenza che in sostanza, e sebbene di varie forme, non sempre convenienti e adeguate, rivestano la verità, pure nella verità stessa, senza talora avvedersi d' esser concordi, s' abbattono. Laonde lasciando da parte coloro che Cicerone chiamava « minuti filosofi (1) » alla qual distinzione del romano oratore tra i filosofi minuti e i grandi risponde quella che noi trovammo necessaria tra gli autori de' falsi, e gli autori de' veri sistemi; mirabil cosa è a vedere, come le sentenze coincidano nelle medesime capitali e supreme verità, e concordino colla fede e colla coscienza del genere umano, dalla quale que' minuti, non filosofi ma sofisti, dipartendosi, pensano, con insensatissima vanità, di parere dottissimi. E tuttavia questi stessi, qualunque abuso facciano del loro ingegno, qualunque sieno le illusioni di cui si circondano, quasi d' uno steccato che tenga da loro lontana la verità, in qualunque abisso d' errori si sprofondino per non esserne raggiunti, non arrivano mai a radere del tutto dall' anime loro quello che v' ha impresso con caratteri indelebili la natura, nè a soffocare del tutto quella inestinguibile fiammella, ond' hanno accesa l' intelligenza, nè ad imporre un intero e perpetuo silenzio in sè al sentimento umano, che cerca pur quella luce, che con sì grand' arte gli si toglie, come fanno le pupille del moribondo. Laonde da costoro medesimi, non perchè filosofi, ma perchè uomini, si possono raccogliere efficacissime testimonianze rese alle medesime verità, sia in quelle confessioni che scappano loro di bocca in alcuni istanti ne' quali vigilano meno la propria natura, sia nelle contraddizioni colle quali da se stessi tradiscono e distruggono i proprŒ errori, sia in que' temperamenti, che nell' esitazione aggiungono alle proprie dottrine, le quali con una aperta e nuda assurdità offenderebbero soverchiamente, e provocherebbero alla difesa il comun senso degli uomini. Chè sentono anch' essi, e non possono non sentire, la felice necessità d' aggiungere all' errore qualche brano di vero. Poichè come l' essere è necessario al nulla acciocchè questo si possa concepire, così la verità è necessaria all' errore, acciocchè questo si possa ricevere nelle menti, dalle quali sarebbe ripulso se non facesse valer come sua l' amabilità ch' egli usurpa al vero con cui astutamente si mescola, e si confonde. E anche in un' altra maniera tutti coloro che trattano le questioni appartenenti alla filosofia, ragionino in buona o in mala fede, rendono indirettamente testimonianza alla verità, e n' aiutan la causa; cioè col dare a vedere, pur cogli sforzi de' loro ingegni, dove abbian trovato il forte della questione, cioè il nodo difficile che tentarono, quantunque invano, di sciogliere, e che non potendo e pur volendolo ad ogni patto, diede a molti di loro occasione d' errare. Perocchè il sapere dove giaccia precisamente la difficultà, è già un passo, e grande, verso la stessa verità; chè, quando questa è recondita e munita d' ostacoli, non si può espugnare, se prima non s' esplori da tutti i lati la fortezza che la difende. Di che possiamo recare in esempio le disputazioni molte e i sistemi de' filosofi intorno alla quistion principale dell' origine delle idee, che tutti coll' aver urtato nella medesima difficultà, presentatasi loro in varie forme, concorsero a renderla più manifesta e da molti aspetti visibile, e così ne facilitarono gli approcci, e n' apparecchiarono l' espugnazione. Laonde a me pare non inutile l' autenticare i raziocinŒ, che son venuto esponendo, quasi di continuo colle altrui autorità, e colle sentenze de' grandi filosofi precipuamente, interpretate con equità, collazionare e confermare le nostre; non già per surrogare nella filosofia l' autorità al ragionamento, ma perchè è una guarentigia della mente, un gran conforto dell' animo, di cui la stessa filosofia nell' arduo suo viaggio tanto abbisogna, l' udire quel quasi concento delle umane intelligenze. Come dunque la conciliazione e la concordia non può trovarsi che nell' unità, così ci parve assurdissimo il cercarla nella moltiplicità de' filosofici sistemi, voluta mantenere ad ogni costo dall' ecletismo colla fiducia di piacere in tal modo a tutti i loro seguaci; il che, siccome abbiamo già prima osservato, è un cercar la pacificazione della filosofia, dove non è punto la filosofia, cioè fuor della mente, lasciando frattanto in questa ardere, anzi attizzandovi, il dissidio delle opinioni e delle idee. E se nell' unità del sistema può solamente trovarsi la conciliazione degl' ingegni e la perfezione e la pace della filosofia: dunque nella verità, perchè la verità sola è una, e l' errore molteplice. Certo per coloro che, avvezzi alla scuola, all' animoso fervor della disputa, al grato spettacolo che dà l' attrito e la percossione delle menti giovanili ond' escono inaspettate scintille di luce, alla gioia della vittoria nelle superate tenzoni, non distendono i loro pensieri fuori delle mura dell' Università, può parere di poca importanza quella conciliazione e quell' unità, a cui, secondo noi, è uopo d' indirizzare seriamente i filosofici studi. Ma se traendo fuori l' animo e con esso l' attenzione della mente dallo steccato filosofico, si riguarderanno le conseguenze della proposta concordia, queste si ravviseranno così importanti all' umanità, che il voler tuttavia conservata, nella moltiplicità de' sistemi, la materia e il fomento alle questioni scolastiche, incomincierà ad apparire più ancora colpevole che puerile. E il timore stesso, che possano mai mancare a quelle questioni argomenti, è vano come vedemmo. Che la conciliazione sia desiderabile, il dimostrano, a troppa evidenza, i dissentimenti, onde noi, cogli occhi nostri, vediamo il mondo diviso, e turbato: scissure, odŒ, guerre, minaccie di guerre, partiti che, a guisa di tori, dirò con un antico, traggettano in v“to le corna. E perchè tanta divisione di animi, tante sette che s' insidiano a morte, tanto incendio di passioni, dove più fiorente è la coltura, più avanzata la scienza, in questa Europa, con iscandalo de' popoli ancora incolti? Forse, che dove più sono le idee, ivi ancora si debbano accendere più numerose le discordie? Ovvero avvien questo, non pel numero maggiore delle idee e delle opinioni, ma per la loro discrepanza? Certo il verace fondamento della concordia nella convivenza umana, come pur quello della discordia, nelle idee e nelle opinioni o concordi o discordi, si dee ricercare. Perocchè ell' è sempre un' idea, quella che presiede, guida e s' imprime, per così dire, in tutte le operazioni degli uomini. E non solo le singole operazioni hanno per base un' idea; ma fra le idee stesse, ve n' ha di sì generali che costituiscono il tipo e danno il carattere a quella lunga serie d' azioni onde s' intesse l' intera vita degl' individui, e medesimamente da una di quelle primarie idee, come da una secreta norma, prende un' unica sua forma tutta quella mole d' operazioni, dal complesso delle quali risulta in ogni tempo la condizione morale e civile e politica delle nazioni. Che anzi nel fondo stesso della storia, come fu già osservato, nel fondo di tutte le varie vicende per le quali procede, svolgendosi e trapassando su questo globo, l' umana specie, si rinvengono alcune idee, divenute altrettante leggi di quella complicatissima successione d' avvenimenti, in apparenza casuale, e la compartono regolarmente in determinati periodi, ciascun de' quali non è già governato dalla dominazione e dall' influsso d' un astro; ma sì bene dal dominio d' una idea prevalente a quel tempo nelle menti umane, la quale poscia dà luogo di mano in mano al dominio d' un' altra. Laonde se le idee e le opinioni sono discordi nelle umane menti, forz' è che gli affetti altresì dell' animo e le operazioni della vita esteriore riescano discordanti; e per lo contrario, se le umane menti si mettan d' accordo nelle idee e nelle opinioni, incontanente questo mentale consenso influisce nel vivere, e comparisce la benevolenza fra tutti, e quell' unione, in cui sta la pace e la forza sociale. E tu il sai troppo bene, povera Italia, che più lungamente e più atrocemente d' ogni altra regione esperimentasti i funesti effetti della discordia, e ne fosti la vittima! Perocchè io mi credo che il genio stesso del male, temendo forse più da te, che da ogni altra nazione, per ogni tuo angolo agitasse più che altrove la face della discordia, e ve l' accendesse, acciocchè discorde, tu fossi altresì divisa, e divisa, tu rimanessi debole, e debole, tu divenissi pusillanime ed infingarda, e prostesa nella tua infingardaggine, tu non sapessi più nè manco conoscere la vera cagione della discordia. Eccoti questa qual è: il non aver tu un' opinione ben ferma, e l' averne molte deboli e discrepanti. Nella tua mollezza, ne' tuoi studŒ superficiali, in recitando, vecchia fanciulla, le lezioni apprese alle scuole altrui, tu non ti potesti formare giammai una filosofia, una dottrina che fosse tua, e però nè pure avesti una nazionale opinione: sorgi, tendi all' unità intellettiva, che, se tu vuoi, non ti può esser contesa, e diverrà allora fortissima la tua sciagurata bellezza. Or poi sieno qui rese grazie a que' generosi, che all' intento d' ordinare una filosofia che conduca a raggiungere quegli scopi, che ho indicati nella prima parte di questo discorso, e le utilità che conseguono alla conciliazione delle opinioni, mi porsero amicamente la mano. Molti n' ho trovati fra' miei concittadini, e sarebbe impossibile il nominarli tutti, benchè a tutti sia v“lta la mia riconoscenza. Non posso però passarmi in silenzio primieramente i professori dell' Università Torinese Giuseppe Andrea Sciolla, Pietro Corte, e Michele Tarditi, che i primi dettarono de' trattati, difesero, portarono in sulle cattedre, con rara concordia d' intendimento, quella dottrina stessa che noi proponevamo. Ed ahi che due di questi egregi, i quali l' amore d' uno stesso vero e la consuetudine delle stesse fatiche filosofiche, avea resi con noi quasi fratelli, ci furono così in breve rapiti dalla morte con non lieve danno della scienza e della patria; l' uno quello specchio di probità, quell' esempio d' amicizia, lo Sciolla, già inclinato a vecchiezza, ma l' altro, il Tarditi, nel pieno vigor dell' età, e nel fiore delle speranze! Ma essi, lasciando dopo di sè una bella accolta di valorosi discepoli, or sono là « « dove vegliano con perpetua vista nel sacro amore (1) » » e questo sia al dolor nostro lenimento e conforto. Gustavo di Cavour, a cui siamo avvinti con tutti que' legami d' antico affetto e di stima che s' intessono di cose eterne, fu forse il primo che, scrivendo in lingua francese, facesse conoscere la stessa dottrina alla Francia. Di poi Alessandro Pestalozza, professore di Filosofia nel Seminario Arcivescovile di Monza, ne pubblicò, il primo nella patria lingua, un intero e più copioso corso, e con più scritti validamente la difese contro alle obbiezioni mosse e svolte con eloquenza, da un celebre ingegno. Finalmente colui che avea rapito tutta l' Italia coi numeri d' una nuova lirica divina, che vi avea iniziati gli studŒ storici coll' esempio d' una diligenza non comune presso di noi, e con un acume di critica raro per tutto, che in una sagacissima pittura dello spirito umano, sotto forma di romanzo, avea date lezioni di severa e delicata morale, che con nuovi principŒ sulla lingua e sulla letteratura avea saputo additar la via da render quella più omogenea e più certa, questa più virile e più sincera, l' una e l' altra stromento più acconcio all' italiana concordia; questi, riposandosi quasi, dopo aver percorso sì varŒ e sì felici studi, nella filosofia, occupazione convenientissima alla sua età ed alla sua erudizione, fece pur ora dono all' Italia di un dialogo intitolato « « Dell' invenzione » », nel quale resta in dubbio se vinca la finezza dell' ingegno perspicacissimo, o l' urbanità dello stile, e non sai a quale delle due egregie doti, tu conceda più la tua maraviglia. Finalmente noi professiamo la nostra riconoscenza anche ai nostri leali avversari. Abbiamo narrato nelle due parti precedenti quello che abbiamo fatto, o che abbiamo avuto intenzione di fare. A compimento del discorso rimane ora da dire quello che non abbiamo fatto, e che non si può fare con letterarie fatiche e studŒ. Di questi studŒ, de' quali rendemmo conto ai nostri amici e a tutti quelli la cui benevolenza c' impose la dolce obbligazione della gratitudine, furono effetto gli opuscoli che abbiamo pubblicato e che or si raccolgono. Ma quello che si contiene ne' libri, ne' quali non si può trovare altro che scienza, non è nè il tutto, nè il meglio dell' uomo, o i libri trattino di quelle cose di cui, non essendo autor l' uomo, solamente da lui si contemplano, o di quelle le quali, essendo nella potestà dell' uomo, da lui non solo si contemplano, ma ancora si fanno. Chè la potestà che ha l' uomo di farle e le stesse azioni con cui egli le fa, come pure tutte l' altre realità da lui percepite, nè sono scienza, nè possono ne' libri racchiudersi: la stessa natura le esclude dalle scritture, e le colloca al di fuori della scienza, alla quale le scritture richiamano e dirigono, siccome altrettanti segni, il pensiero. Il che non è negato da persona, ma pochi tuttavia intendono quanto importi che questo si consideri. Perocchè v' ha qui una di quelle verità d' indole singolare, che sono nel tempo stesso e facilissime a concedersi, e difficilissime a comprendersi. E di ciò non è dispregevole prova il vedere che così sovente gli uomini, anche dotti, ripongono ogni importanza nella scienza e mostran di credere che con essa sola altri diventi sapientissimo uomo e perfetto, onde colla scienza che appartiene all' ordine delle idee, tornano a confondere la bontà della vita che appartiene all' ordine delle azioni e delle cose reali, la quale alla scienza è bensì confinante, ma al di là per gran tratto si stende. E a conferma di questo posson giovare le sentenze di quegl' ingegni che a perscrutare la natura delle cose morali più particolarmente si applicarono, le quali di rado sono consentanee a se medesime, ma per lo più, senza alcuna costanza, asseriscono l' una cosa e l' altra: ora dalla filosofia distinguersi la virtù, ora queste due cose farne una sola, ora finalmente distinguersi, ma andarsene sempre di conserva indivisibili. Vedasi una tale incoerenza nelle lettere di Seneca. In più luoghi questo moralista ripone la Filosofia nell' insegnamento della virtù, e, come più sopra noi abbiamo escluso dalla classe de' filosofi quelli che non professano la verità, così egli ricusa tal nome a coloro che non danno la dottrina della virtù: « Videndum, utrum doceant isti virtutem an non: si docent, philosophi sunt (1) ». Nella quale sentenza, non guari lontana dalla nostra, e che ugualmente mira a ristabilire la proprietà del parlare riserbando i vocaboli alle cose per le quali furono istituiti, si distingue la virtù, e l' insegnamento della virtù , e non in quella, ma in questo si ripone l' ufficio della filosofia. Ma in un' altra lettera, dimentico d' aver detto che la filosofia è una scienza (e la scienza giace nelle mere idee), un insegnamento (e l' insegnamento si compone di parole), benchè l' una e l' altro possa avere la virtù per oggetto, egli colloca la filosofia non più nelle idee, non più nelle parole che le significano, ma nelle cose, cui quelle rendono note all' uomo, e queste insegnano all' altr' uomo, e vi dice che: « Philosophia - non in verbis, sed in rebus est (2). » Così colui, che avea prima chiaramente distinta la scienza dall' azione , la prima delle quali non può uscir mai dall' ordine delle notizie senza perdere il suo carattere di scienza, la seconda entra nell' ordine delle cose reali; di poi, perduta di vista questa massima differenza, vuole che la scienza della filosofia nelle stesse cose si trovi, in quelle cose che ad essa non ispetta altro che insegnare o additare co' vocaboli all' altrui intendimento. Ma in un terzo luogo egli poi torna a riconoscere che quelle cose che qui confonde in una, sono due, e due a segno, che hanno fra loro una cotale opposizione, come il passivo e l' attivo; onde esponendo l' altrui sentenza, alla quale egli non nega l' assenso, le vuol distinte, ma però indivisibili. [...OMISSIS...] Nelle quali parole quantunque si distinguano la filosofia che è lo studio, e la virtù che n' è l' oggetto, tuttavia non si riconoscono per due forme categoricamente diverse, ma piuttosto per due gradi della cosa medesima, perocchè non pare che si possa intendere il concetto espresso nel testo allegato, se non così: che la Filosofia sia una virtù incipiente, la quale accresca e perfezioni se medesima coll' esercizio; ovvero che la filosofia sia una virtù speciale, la quale conduca l' uomo all' acquisto delle altre virtù, alla virtù universale; e nell' uno e nell' altro modo la filosofia ha perduto il carattere di pura scienza. Quello che professavano que' due sofisti di Chio, Eutidemo e Dionisiodoro, che Platone introduce a disputare nel dialogo che egli inscrisse col nome del primo di essi, cioè « di aver trovata l' arte di rendere gli uomini da malvagi buoni », e questo in un modo facile ed ottimo, unicamente con alcune loro argomentazioni, è quello nella sostanza che promisero agli uomini tutti i filosofi gentili prima di Cristo, e che promettono, se non così esplicitamente chè non potrebbero più esser creduti, pure implicitamente, anche molti de' moderni. I quali tutti non possono evitare l' uno di questi due errori, o che la bontà e la virtù morale consistano unicamente nella scienza, confondendo cose disparatissime, o che basti all' uomo di sapere il bene, perchè incontanente egli riceva col sapere anche la volontà e la forza d' operarlo in modo consentaneo a quel che la scienza gli addimostra. Delle quali due cose, l' una e l' altra è ugualmente smentita dall' esperienza, e da un' accurata osservazione dell' umana natura. Così è frequentissimo trovare negli scrittori confusa l' arte , che è un abito, il quale si riduce al genere dell' azione (1), colla scienza che spetta al genere di contemplazione ; e già notai altre volte la poca proprietà della parola pratico applicata a ciò che non è altro che notizia speculativa, come si dice filosofia pratica per dire la filosofia che specula sulle cose pratiche, cioè sulle azioni umane, e come si definisce la coscienza morale: un giudizio pratico , quando pure la coscienza non è che un giudizio speculativo sull' onestà, o inonestà delle proprie azioni particolari, ossia sulla pratica (2). Egli è facilissimo dunque rispondere a chi propone la questione netta ed immediata: « Se sia lo stesso la conoscenza d' una cosa reale o d' un' azione, o altrui, o anche propria, e quella cosa , quell' azione »nè v' ha alcuno (se lasciamo da parte alcuni filosofi che si perdono nella stessa speculazione) che tostamente non ne senta la differenza, e non risponda, esser quelle due cose, anzi non asserisca, distare infinitamente il conoscere dal fare. Ma perchè dunque una differenza così evidente, negata da nessuno, confessata da tutti, quand' è riguardata in faccia scappa poi dalla mente di molti allorquando essa entra nel discorso in un modo indiretto, e voi vi abbattete da per tutto, anche per mezzo alle più eccellenti scritture di uomini grandissimi, in quelle due cose ridotte ad una, o l' una confusa, o convertita nell' altra? Questa contraddizione in cui cadono senza avvedersi, deve avere la sua ragione, e merita d' essere ricercata: all' intento poi del nostro ragionamento, che è di porgere l' idea della sapienza, l' investigarla è necessario. Ed ella si trova in questo, che ci sono due sorti di notizie, nelle une si ferma il solo intelletto, nelle altre si spiega l' attività del soggetto, e in virtù dell' adesione di quest' attività soggettiva, esse stesse diventano operative, di maniera che si può dire ugualmente che esse operano per virtù della volontà, o che la volontà opera per virtù di esse. E nel vero tutti consentono che la volontà è il principio delle azioni umane. Ma cos' è la volontà? Esisterebbe questa potenza senza notizie? No: chè a' principŒ attivi i quali operano senza alcun lume di cognizione non s' addice il nome di volontà , che è un principio razionale onde la sentenza comune, che la volontà non si muove mai verso l' incognito. Una notizia dunque è necessaria ed essenziale alla costituzione della volontà, od è la forma oggettiva della volontà stessa. Poichè come l' attività del soggetto, astraendo da ogni notizia, non è più che, quasi direi, la materia costitutiva della volontà, così quando quell' attività è informata dalla notizia del bene, allora essa è divenuta volontà; non è più un semplice rudimento materiale della volontà, è la volontà a pieno formata; non è la volontà ancora in via ad essere, nel quale stato si vuol chiamare con una maniera antichissima della scuola italica non7ente , ma è la volontà pervenuta al compiuto suo essere. Questo è dunque l' ordine intrinseco, nel quale la volontà si natura: c' è prima la notizia oggettiva nell' intelletto, poi l' attività soggettiva a quella si congiunge, assentendo: l' attività soggettiva così congiunta all' oggetto è divenuta un principio attivo, che si chiama volontà: questo congiunto, questa potenza di volere è il principio delle umane operazioni: ed ha un grado di forza proporzionato al grado della sua adesione all' oggetto intellettivo: laonde si può dire che la notizia dell' intelletto diventi operativa per l' adesione ad essa del soggetto e quindi che ella operi per la volontà di cui è divenuta la parte formale, e si può dire altresì, che la volontà operi per la notizia che è la sua forma. Ci sono dunque, per ricapitolare, due generi di notizie, le une speculative, le altre pratiche ossia operative; quelle costituiscono la scienza , queste costituiscono il principio reale delle azioni umane. E qui si avverta bene (perocchè l' equivoco e la confusione che vogliamo spiegare sta qui), si avverta, che la scienza può speculare su tutto, anche sul principio delle azioni, la volontà, sulle notizie pratiche, come fin anco sopra se stessa; ma lo speculare sopra una cosa non è già un convertir la cosa in ispeculazione, un' assorbirla con essa speculazione: chè tanto è lungi che la speculazione cangi ed assimili le cose reali, e le azioni a se stessa, che anzi ella è quella che ci fa conoscere queste cose e queste azioni avere e mantenere una natura diversa ed opposta a quella della scienza, a cui diventano oggetto. Laonde le notizie pratiche di cui parlavamo non sono scienza, nè si possono scrivere ne' libri, perchè cesserebbero dall' esser pratiche , e quando si pretende di scriverle (ecco l' illusione), quando si crede di averle scritte, allora altro non s' è fatto, altro non s' è scritto, che la dottrina che versa intorno a quelle notizie pratiche , non le stesse notizie, in quanto sono pratiche, cioè in quanto sono le radici delle reali operazioni, non potendo stare immobili dentro un libro le operazioni dell' uomo che passano, benchè dentro ad esso possa stare un trattato scientifico sulle medesime; chè le idee non passano, ancorchè le cose di cui sono idee, passino. Ma onde poi quest' allucinazione, per la quale si confondono insieme due ordini così distinti quali sono l' ordine delle cose ideali , e l' ordine delle cose reali ? due ordini che gli uomini hanno un bisogno frequentissimo di distinguere, e che in fatti frequentissimamente distinguono nel comune linguaggio? La prima ragione che si presenta alla mente è quella de' vocaboli. Chè gli stessi vocaboli si usano veramente così a significare le idee delle cose come le cose, così a significare le cose possibili, come le cose reali. Quando si dice a ragion d' esempio: « l' uomo è un essere ragionevole », la parola uomo non significa alcun uomo reale, ma l' uomo nella sua essenza e possibilità. Quando poi si dice: « l' uomo che tu vedi chiamasi Pietro », la stessa parola uomo è usata a significare non più la sola idea dell' uomo, ma con essa l' uomo reale. Ora vocaboli che s' applicano a significare più entità differenti, fanno sì che alcune volte le entità stesse, confuse nel discorso, si confondano nella mente, e si parli dell' una come se fosse l' altra. La qual ragione tuttavia non è l' ultima: chè ci resta a cercare: perchè poi gli uomini impongano gli stessi vocaboli alle idee ed alle cose, agli esseri meramente ideali, ed agli esseri reali corrispondenti a quelli. E la dottrina intorno all' umana conoscenza, ci discopre questa ragione ulteriore. E` indubitato, che l' uomo non può applicare un segno vocale, un nome, se non a quello che egli conosce. Ora l' uomo non potrebbe conoscere ciò che cade nel suo sentimento, se non riferisse il sensibile all' idea , rendendolo così intelligibile . All' incontro l' idea non ha bisogno per essere intesa della presenza della realità sensibile; di che questa è una prova evidente, che l' idea rimane nella mente senza la realità, per modo che l' idea è intelligibile per se sola, quando il sensibile non è intelligibile se non per mezzo dell' idea, e colla continua presenza dell' idea. L' idea dunque è l' ente in quanto è conoscibile per se stesso ed è la conoscibilità delle altre cose o entità che non sono idee, cioè degli enti in quanto sono reali e sensibili. Come dunque c' è un ordine logico fra le notizie, di manierachè le prime a conoscersi sono le idee, le seconde poi sono quelle cose che si conoscono per mezzo delle idee, così conviene, che anche l' invenzione de' vocaboli proceda con lo stesso ordine, di manierachè anche ne' vocaboli si distinguano due classi, e la prima sia quella de' vocaboli, che significano idee, la seconda sia quella de' vocaboli che conducono la mente alla realità delle cose. Ora alla prima di queste due classi appartengono i nomi comuni (e comuni sono quasi tutti), alla seconda poi appartengono i nomi proprŒ , e tutte quelle particelle, sieno pronomi, o avverbi, od altro, che si adoperano a trasferire la mente dall' idea comune ed universale, al proprio ed al reale. Così quando io voglio far servire il nome comune di uomo a significare non più la sola idea, ma un uomo particolare e reale, io non posso adoperare quel nome tutto solo, nel qual caso altro non additerebbe alla mente altrui che l' uomo universale, cioè l' idea, e però ho bisogno d' aggiugnergli qualche altro vocabolo, che lo determini a significare l' uomo particolare, per esempio il nome proprio Pietro , o « che tu vedi »o delle particelle che ne indichino la presenza ai sensi, come « che è qui », od altri modi che richiamino alla memoria o all' attenzione l' uomo che fu presente ai sensi nostri altre volte, o ai sensi altrui, o un uomo insomma particolare in qualsivoglia modo determinato. Colle quali aggiunte si restringe il significato di quel nome comune, e si dà a intendere a coloro, co' quali si parla, che quell' idea fa conoscere, in quel caso e per quella volta, una data realità sensibile , e non altro: e così la si prende come fosse la conoscibilità di questa sola, sebbene per sè significhi una conoscibilità universale. Laonde i nomi comuni (a cui si riducono pure gl' infinitivi de' verbi, i participŒ, e gli addiettivi d' ogni maniera), non son essi che significhino il reale, ma l' aggiunte che ad essi si fanno nel favellare; ma essi sono necessarŒ, perchè son necessarie le idee a far conoscere il reale, che separato dalle idee è oscuro, ed essenzialmente ignoto. Or se l' ideale, e il reale sono differentissimi, come in quello e per quello si può conoscer questo? (1) La risposta si trova nell' intima osservazione della cognizione, e del modo di conoscere. La quale osservazione ci attesta, che il fatto è così; e tanto dee bastare a qualunque uomo ragionevole: chè non è mai ragionevole il negare un fatto ben accertato. Ma la stessa osservazione, ove sia penetrante, non solo ci attesta il fatto, ma anche ce lo spiega, perchè è uno di que' fatti, che nel suo seno contiene la sua propria ragione. Noi dunque entrando coll' attenzion della mente negl' intimi penetrali di quel fatto, troviamo che quantunque l' ideale e il reale sieno differentissimi, tuttavia hanno un elemento identico, e questo è l' ente: lo stesso ente identico trovasi nell' uno, e nell' altro, ma a diverse condizioni, e sotto una forma diversa: una forma sotto cui si trova l' ente è l' idealità, o la conoscibilità, o l' oggettività (espressioni che vengono tutte a dire, sostanzialmente, il medesimo), un' altra forma sotto cui si trova il medesimo ente è la realità, la sensibilità, l' attività, che anche queste sono espressioni, che dicono in sostanza il medesimo. Così una massima differenza sta nella forma, un' identità sta nel suo contenuto, che è l' ente stesso: questo in quanto è puramente conoscibile, in tanto è ideale, in quanto è sensibile in tanto è reale: il sensibile reso conoscibile, cioè l' accoppiamento di quelle due forme, è ciò che ci dà la percezione intellettiva, e la cognizione del reale. Dopo di ciò non possiamo più maravigliarci, che i filosofi confondano talora quelle due forme; perchè questo accade loro ogni qualvolta, non accorgendosi che il loro ragionamento si volge intorno alle forme , e riputando in quella vece di parlare dell' ente , accade loro di prendere quelle due forme per una sola, o di prender l' una per l' altra, appunto perchè l' ente, di cui credono ragionare, è uno solo sotto le due forme. All' incontro quando s' accorgono apertamente, che il loro ragionamento s' aggira circa le forme, e che non è dell' ente, come quando si propongono direttamente la questione che batte sulle forme, « se l' idea, e la cosa sia il medesimo », allora non avviene mai che le confondano. Rimane nondimeno a dare un passo più oltre, cioè a investigare perchè accada sovente, che quando il ragionamento tratta delle forme, i filosofi, non avvedendosene, lo dirigano a dir quello che dovrebber dire se si trattasse dell' ente: perchè questa difficoltà a distinguere quando l' oggetto di cui si parla è l' ente, e quando l' oggetto di cui si parla sono le forme? Si osservi, che l' uomo comune, alieno dalle scientifiche astrazioni, non fa riposare mai la sua attenzione intellettiva nè sul solo reale scompagnato dall' idea, che senza questa non si può conoscere; nè sulla mera idea, che sa bensì usare a conoscere il reale, ma d' essa sola non sa che farne: di manierachè ciò, in cui si ferma l' attenzione naturale dell' uomo, è sempre il reale unito all' ideale, colla quale unione si forma il termine della percezione. Ma quando l' uomo si solleva alle astrazioni scientifiche, allora s' accorge di questa duplicità che è negli enti da lui percepiti, onde distingue (in qualunque maniera chiami questi due elementi) la materia e la forma della cognizione. E allora l' idea acquista una nuova relazione colla mente umana, non è più solo oggetto dell' intuito, e mezzo di conoscere le realità, ma è divenuta ancora oggetto della riflessione , e quindi mano mano della scienza. Ma il reale scompagnato dall' idea, privo della sua luce, rimane del tutto incognito, e il rimanere incognito equivale a un dire, che, rispetto alla mente, è caduto nel nulla. La mente però che prima lo conosceva, non vuol perderlo; e per non perderlo, ella, senza pure avvedersene, lo riveste di nuovo dell' idea: quell' idea che gli ha tolto consapevolmente, quella stessa gliela restituisce inconsapevolmente. E quindi ella cade in una prima allucinazione, e poi traendo seco quest' allucinazione (quasi una penna con un peluzzo nel taglio che scrivendo imbratta tutte le eleganti lettere che va formando) fonda la filosofia sopra due elementi, cioè sull' idea staccata dal reale, e sul reale unito di nuovo all' idea; prendendo così l' idea due volte, invece di prenderla una volta sola. Con un' altra riflessione spontanea su questo prodotto erroneo della riflession precedente, il filosofante incappa necessariamente in un altro errore; chè egli oggimai trova da per tutto l' idea da cui è inseguito, o accompagnato nella stessa fuga, la trova anche in quell' elemento che egli crede aver sceverato da ogni idea, perchè questa, alla sua insaputa come dicevamo, c' è ritornata, anzi c' è l' ha rimessa egli stesso per un istinto intellettivo, non per alcuna riflessione, e quindi senza coscienza. Trovando dunque l' idea anche là dove pensa che ci sia sola la realità, è natural conseguenza, che confonda l' idea con essa realtà: e questo io stimo essere il vero principio, e il processo dell' errore d' un illustre italiano, che di quest' errore fece un sistema sull' esempio de' Tedeschi. Ma i filosofi tedeschi caduti in quest' errore, in cui ci cadono tanti altri, il raccolsero con quella gioia, con cui si trova un tesoro, e colla loro diligenza, colla maraviglia loro famigliare, vi edificarono sopra un gigantesco, o piuttosto grottesco sistema; all' incontro gli altri, che pure confondono la scienza coll' azione reale, il fanno senza badarci, e senza darvi alcuna importanza. Non è men vero per questo, che anch' essi vengano in tal maniera a riporre tutta l' umana natura che è reale, nella scienza, e a ridurre l' uomo allo scienziato: e quindi oggimai non può fare maraviglia se facilmente si persuadano, che quando un uomo ha la scienza, abbia ancora con essa la virtù, e che essi soli diano questa agli uomini nelle loro scuole, perchè in esse comunicano loro le proprie teorie. L' impossibilità dunque in cui è l' uomo di pensare direttamente, e più ancora d' immaginare il reale scompagnato affatto dall' idea, conduce lo scienziato, che non istà sommamente guardingo, per questa serie d' allucinazioni, onde perviene a ridurre ogni cosa alla scienza (nulla più vedendo fuori di questa) o almeno a pigliare la scienza per la stessa virtù morale, che all' opposto nel reale dell' operazione consiste; tanto più che l' operazione, per esser virtuosa, è necessario che si riferisca e conformi all' idea, ossia a quella Filosofia, che Seneca, quando non confonde le due cose, definisce (ancor troppo parzialmente) « lex vitae (1) ». Al di là dunque della scienza vi ha un mondo reale, che sfugge non di rado agli occhi degli scienziati e de' filosofi; e in questo mondo vive in gran parte l' uomo, il quale non vive di sola scienza. Se si cerca quello che è perfetto nell' uomo, e che acconciamente può esser denominato sapienza , non convien fermarsi al primo elemento cioè alla scienza, o più generalmente alla cognizione , ma a questa è necessario unire il secondo, che è l' azione reale , in cui la bontà morale consiste. In certi lucidi intervalli della mente sentirono questa verità assai bene gli stessi filosofi gentili, e parlarono della sapienza come di qualche cosa di completo, di qualche cosa, che dovea comprendere tutta la perfezione dell' uomo , la quale nella mente s' inizia, ma si continua poi a ordinare gli affetti, e a rendere onestissime e piene d' armonia tutte, anche le menome sue azioni. Onde qui opportunamente scrivea il filosofo morale che abbiamo citato: « Maximum hoc est et officium sapientiae et indicium, ut verbis opera concordent, ut et ipse ubique par sibi idemque sit (2). » E non preterisce a questo luogo la distinzione fra la filosofia come scienza, che può annunziarsi colle parole, o consegnarsi alle scritture, da quella sapienza la quale non concede che per intero o si dica, o si scriva, e che s' ottiene allorquando la scienza trapassa nell' attività umana, e ne riforma le passioni, gli affetti, le operazioni. [...OMISSIS...] Dove si scorge distinta la filosofia dall' uso della filosofia, da quell' uso , dico, pel quale l' uomo non già co' ragionamenti e colle lettere, ma co' fatti e colle operazioni, che son fuori di tutta la scienza e di tutti i libri, realizza quello che la filosofia insegna nelle parole e ne' libri, e converte le massime di lei in sentimenti, che è quasi un farle penetrare dentro i precordŒ, sede dagli antichi assegnata alle passioni. E in una maniera somigliante viene descritta la sapienza da Platone in quel dialogo che nominò dal giovanetto Teeteto, dove cercasi la definizione della scienza, senza mai rinvenirla, o almeno senza che la si profferisca espressamente, al che forse era un ostacolo, che rendea quella disputa anche lunga ed intrigata, il non distinguersi bastevolmente dal concetto della scienza , quello dell' arte e della vita . Ma la sapienza si ripone senza esitare « « nella perfetta congiunzione della giustizia e della santità colla prudenza »(2). » Chè Socrate dopo aver detto essere impossibile che tutti i mali s' estirpino nelle cose umane e soggiunto « « che tuttavia quelli non possono avere alcun luogo presso gli Dei », » continua così: [...OMISSIS...] Laonde, secondo il senno più compiuto e più purgato degli antichi, la sapienza ha due parti, le quali però in essa si trovano individuamente congiunte, la prima che nella mente, e questa se si separa, e col mezzo della riflessione ordinatamente si dispone, acquista il nome di scienza , che s' insegna, e si scrive; l' altra poi è tale, che nè s' insegna dalle cattedre, nè si può scrivere ne' libri, ed ha la sua propria ed unica sede nell' animo e nella volontà, e in tutte le affezioni, e le operazioni; e tuttavia ella è quasi la stessa scienza, discesa dalla mente, trasfusa nella realità del sentimento, penetrata nella vita, dove con pieno e beneficentissimo imperio governa. E veramente si può mai scrivere l' azione? l' azione umana dico in qualunque de' suoi tre o quattro gradi che sono la cognizione pratica, il sentimento, il decreto, l' operazione esteriore? Ponete mente, che non è mai abbastanza avvertita la distinzione: quando voi avete scritta la parola azione , avete scritto altro che un' idea? Non altro: e l' idea di un' azione sarà ella l' azione nella sua realità? Se voi invece di scrivere azione solamente scrivete di più: « quest' azione reale » ovvero « questa cognizione pratica, questo sentimento che proviamo, questo decreto della mia volontà, onde venne il movimento alle mie mani che or maneggian la spada », allora voi avete scritto delle azioni reali, ma cosa vuol dire scrivere delle azioni reali? Forse prendere le azioni medesime, e incarteggiarle, inserirle nello scritto? Nulla affatto, nulla di questo; vuol dire solamente tracciare in sulla carta de' segni che richiamano tali azioni all' intendimento. Quando poi l' intendimento riceve questi segni, che operazione fa egli per trasportare la sua attenzione da essi alle azioni significate? Forse un' operazione di tal natura che con essa intruda in sè, nel suo pensiero, come in un astuccio, le operazioni stesse reali, per forma che la cognizione che n' acquista diventi essa stessa quelle operazioni? Certo no: che, se fosse, come potrebbe pensare, il che pur pensa, che quelle azioni erano prima che fossero da lui conosciute, e saranno dopo che egli avrà cessato di pensarvi, e che hanno una causa, che egli fors' anco ignora, o conosce esser diversa dal suo pensiero, nè mai gli accade di credere fino che è sano di mente, che il solo pensarle sia un produrle? Dunque nè lo scritto, nè il pensiero delle azioni sono le azioni scritte e pensate, si pensino esse nel loro essere ideale per via di semplice intuizione, o nel loro esser reale per via di apprensione, e di affermazione: fuori della cognizione teoretica, della scienza, rimane sempre qualche cosa, rimane l' azione reale; fuori delle idee, rimane tutto il soggetto. Ma pur questa è una legge dell' anima, che quando agisce esclusivamente con uno de' suoi principŒ operativi, allora ella è questo stesso principio, nel quale ha trasfusa tutta la sua attualità, o certo non le pare di esser altro, perchè gli altri suoi principŒ non sono in quell' istante attuati. Ora lo scienziato, o diremo meglio il pensatore, vive di pensiero, e però egli è attualmente il pensiero, e quindi facilmente cade nell' illusione di riputarsi solo pensiero. Ma le cose che attualmente non cadono nel pensiero, come abbiamo detto di sopra, sono nulla al pensiero, perciò il pensiero immediato le dichiara nulla . Ecco qua di nuovo l' origine del nichilismo hegeliano, la quale in fondo è la medesima di quella che abbiamo indicata più sopra, ma qui vestita d' altre parole. Il nulla onde Hegel fa uscire tutte le cose dell' universo, e nel quale le fa poscia rientrare, non è altro, preso alla sua origine, se non quello che non è divenuto ancora oggetto del pensiero, e che però è nulla al pensiero dell' uomo, e ritorna nel suo primitivo nulla, quando il pensiero cessa dall' atto consapevole. Il qual fenomeno che nasce al pensatore ingannò quel filosofo (ed è lo stesso inganno che subirono gli antichi dell' India) che pose per principio delle cose il nulla (chè gli enti sono prima non pensati, e però nulla al pensiero, e poi pensati, e però relativamente al pensiero esistenti). Quello adunque che era un' apparenza relativa al pensiero immediato e percettivo o anche al pensiero consapevole, e che dipendeva da una legge soggettiva del medesimo pensiero, il filosofo di Stuttgarda, chiuso così in quella sfera del suo pensiero, lo diede per cosa assoluta. Per fermo l' anima che trova la scienza non è, e non può essere, in quell' atto, che solo pensiero, essendo soltanto in questo attuata, e quand' anco ella fosse attuata in altro, quest' altro atto che ella avesse in quell' ora, non sarebbe quello che le produrrebbe la scienza, e però la scienza non lo rappresenterebbe. Ora poi se s' aggiunga, che il primo fondamento su cui s' eresse la filosofia tedesca fu un pregiudizio introdottosi universalmente dopo Locke, cioè che « le cognizioni sieno un mero prodotto dell' intendimento », e però del soggetto umano, ell' è ovvia la spiegazione del sistema hegeliano, e, nel suo traviamento, mostra la forte dialettica dell' inventore, chè tutto si deriva per diritto da queste due proposizioni, entrambi erronee: 1 Il pensatore come tale non riconosce per esistente quello che non è ancor oggetto del suo pensiero, e però lo dichiara NULLA; 2 le cognizioni sono mere produzioni dell' intendimento, e però anche gli oggetti del pensiero sono da questo prodotti e quindi creati, chè il pensiero dal NULLA li fa passare all' ESSERE. E dissi che anche la prima di queste due proposizioni è un errore (l' errore contenuto nella seconda fu da noi lungamente esposto nell' Ideologia), perchè ella non è una proposizione che proceda dal pensiero preso nella sua totalità, ma da un atto particolare di esso, dall' atto della percezione , a cui i tedeschi diedero un' estensione maggiore che non abbia (1): giacchè il ragionamento che sussegue alla percezione, e che certamente è pensiero anch' esso anzi pensiero più innoltrato, conduce l' uomo ad ammettere l' esistenza attuale anche di enti che non cadono nel pensiero percettivo, o nel pensiero consapevole, purchè abbiano relazione con cose che cadano in quel pensiero. Per altro questa illusione non è un fatto isolato: è dello stesso genere di quella che accade agli uomini dati sfrenatamente ai piaceri de' sensi, i quali si mostrano sempre inclinati a credere che quel genere di piaceri sia tutto, e che l' anima umana sia unicamente sensitiva, com' è quella delle bestie, appunto perchè l' anima loro è tanto attuata nella sensazione, e quasi in essa assorbita, che non si conosce più se non come anima senziente, o non ha d' altro coscienza. Pure l' illusione della filosofia Prussiana ha un carattere che la distingue dall' illusione dell' uomo sensuale, e la rende più superba, e quel carattere deriva da questo, che la filosofia è effettivamente opera del solo pensiero, non del senso, e però al filosofo, ridotto quasi ad essere un pensiero puro, accade facilissimamente di non conoscere e di non ammettere che il pensiero, e di prendere i fatti del pensiero per fatti ontologici, come è già avvenuto alle scuole Indiane e alla stessa scuola d' Elea; laddove se il sensualista prende a filosofare, egli è necessitato a salire al pensiero, e, non potendolo disconoscere, si contenta d' attribuirlo al senso dove trova pure il sostegno d' una realità. Ridotto poi l' uomo da' nominati filosofi al solo pensiero, e le idee ridotte pure a non esser altro che produzioni, e modi del pensiero, e confuse necessariamente colle cose (che fuori del pensiero nulla più si riconosce), l' uomo dovea acquistare nelle mani di tali filosofi un cotale stato d' oggettività, e d' impassibilità, che lo divideva necessariamente dagli umani sentimenti, e dai doveri morali. Perocchè io lascio qui da parte le altre gravissime conseguenze, che discendono da' principŒ della scuola hegeliana, quali sono il panteismo, con tutte le dottrine inauditamente mostruose dell' empietà germanica, e voglio solamente osservare, come l' uomo divinizzato in quella filosofia si trovi ad un tempo dissecato ed inaridito riguardo a tutti i più nobili umani affetti, i quali non sono nobili se non sono dai doveri morali nobilitati. Chè allorquando l' uomo si ferma ai sentimenti e ai doveri, sieno religiosi, o di padre e figlio, o di sposo e sposa, o altri quali si vogliano, egli non è ancora divenuto Dio secondo tali maestri, perchè egli non è ancor consumato nell' oggettività del suo pensiero, e per usare una frase famigliare a tali sofisti la « sua coscienza è ancora involta nel travaglio della sua propria creazione. »Quando poi ella emerge da questa sua « immediatità creativa, »del tutto sviluppata, a guisa della farfalla dal bozzolo, allora, divenuta pensiero oggettivo, ella contempla tutte l' altre cose che appartengono agli uomini, cioè i sentimenti e i doveri, dall' alto del suo trono dell' astrazione, siccome cose a sè inferiori, che non più a sè appartengono, ma le stanno davanti a modo d' uno spettacolo artistico, nel quale lo spettatore non ha a fare alcuna parte attiva. L' IO allora è libero, dicono, perchè la morale stessa è sotto di lui: egli la contempla con una perfetta indipendenza e separazione, siccome un pittore che fattosi ricco, e divenuto per la virtù dell' oro più che pittore, sdegna oggimai il dipingere, e si contenta di riguardare con signorile alterezza i quadri dagli altri pittori dipinti. Questa mostruosa dottrina dovea riflettere sulla politica, sulla famiglia, sulla letteratura germanica, e per non parlare che di quest' ultima il Goethe ne fu il rappresentante più ammirato. Il carattere della letteratura del Goethe è appunto l' oggettività nel senso della filosofia germanica: non l' oggettività che l' uomo riconosce per qualche cosa di superiore a sè, a cui si sommette con umile riverenza, ma l' oggettività che l' uomo espugna ed invade, mettendo in essa se stesso e di là regna (cioè s' immagina di regnare), senza aver bisogno di riconoscere più nulla sopra di sè, ma tutto sotto di sè: in una parola è la scalata data al cielo. Tutti gli affetti, tutti i doveri stanno sotto i piedi di quest' uomo [...OMISSIS...] Il Faust è il carattere d' un uomo che non può sofferire di sentirsi chiuso dentro i confini dell' umanità, vuol romperli, tenta ogni cosa per uscirne: si profonda nella scienza della natura, in vano: fa ricorso alla magia, in vano: s' immerge in tutta la voluttà de' sensi di cui l' uomo è capace, si sdegna col Creatore che l' ha rinserrato in que' cancelli dell' essere umano, si vende al demonio, tutt' in vano; infine dopo avere tanto sperato inutilmente di trovare il TUTTO nel NULLA di Mifistofele (2), raggiunto dalla morte, in presenza di questa esclama: « « O natura ch' io non sia null' altro che un uomo davanti a te! porterebbe in tal caso la pena d' essere un uomo! » » E` un' imitazione del Prometeo d' Eschilo, se non che la figura del Semideo è d' un disegno grandioso e puro: il Faust è un piccolo titano del secolo XVIII, un vero professore delle università tedesche, senza un solido sapere, d' immensa ma sregolata immaginazione, credulo, voluttuoso, ambizioso, visionario, pazzo: e per fermo che sotto a questo aspetto il Faust di Goethe è la più acre derisione di quella filosofia ond' egli attinge la vita. Tale è il capo d' opera del poeta prodotto dal panteismo germanico. Non sarà inutile soggiungere il giudizio dell' Herder sopra il Goethe; eccolo: [...OMISSIS...] Non ci parve inutile distenderci alquanto dimostrando le conseguenze d' un errore, nel quale, ove la questione si ponga direttamente, l' uomo non cade mai, ed anzi pare allora impossibile che uomo alcuno ci cada; vogliam dire l' errore che confonde l' idea colla realità, e assorbe tutte le cose nella scienza e nel pensiero che la produce. Dall' aver obliato questa distinzione, che forse a molti può sembrare una sottigliezza metafisica senza utilità alcuna, vennero tutte le conseguenze di cui abbiam parlato: quell' oblivione fu la fucina a cui fabbricaronsi l' armi, di cui alcuni professori tedeschi, quasi gelosi della gloria de' giganti che gemono sotto l' acque, s' armarono. L' uomo della vita comune, a cui non manca mai una logica naturale, bastevole dentro la sfera onde non escono le sue azioni, non va soggetto a sì strana allucinazione; chè il termine de' suoi pensieri, su cui posa la riflessione, è sempre il congiunto dell' idea e del reale, che cade nelle sue percezioni: egli non divide i due elementi; non si ferma a considerar l' idea in separato dalla cosa, molto meno la cosa in separato dall' idea. Distingue bensì questa da quella, ma non la separa: vede l' una in faccia all' altra. Laonde non trova nella cosa reale alcun mistero che lo sorprenda; quando la cosa conserva i suoi rapporti coll' idea, ella trovasi illuminata da questa, è conoscibile; laddove se la cosa si separa dall' idea per un' astrazione costante, come fa il filosofo, subitamente ella gli diviene in mano un enimma: un non so che, che d' una parte non può negare perchè gli rimane nella mente la memoria della notizia che n' ebbe quando la considerò congiunta all' idea, e che dall' altra non può ammettere, perchè non sa più affatto che sia, astratta a quel modo, o come sia, priva dell' idea, ed anzi ne vede l' impossibilità: antinomia singolare e trascendente, per isnodare la quale il pensatore s' ingolfa in quelle ipotesi che sono altrettante mostruose aberrazioni. Conviene dunque che lo scienziato così aberrante ritorni uomo, e non può ritornarvi se non per lo stesso cammino della scienza pel quale s' è traviato; chè la scienza, o ciò che si usa di chiamar scienza, è quella maga che ha virtù di convertire gli uomini in bestie, e in vari generi di mostri, ed anche in demoni, e di farli poi ritornare uomini, ma d' una statura maggiore di quella di prima. E queste due contrarie operazioni quell' antica incantatrice le compie l' una per mezzo de' sofisti, e l' altra per mezzo de' filosofi che loro succedono, come abbiam veduto di sopra; chè i sofisti rompono audacemente le sfere del cielo della mente, quasi fossero di cristallo, entrando in ordini superiori di riflessioni, e colassù tiranneggiano per un po' di tempo la scienza; ma i filosofi che ivi sopravvengono, gli spossessano poi del campo con violenza usurpato. Così la filosofia tedesca s' innalzò per vero ad una riflessione più elevata di quella a cui trovavasi la filosofia del tempo quando considerò il reale diviso intieramente dall' idea, e s' accorse che in questa separazione, egli si rimaneva un incognito, e di più diventava un impossibile. Allora ella conchiuse frettolosamente, secondo il costume della sofistica, e coll' entusiasmo proprio delle vane creazioni, che il reale, e quindi il soggettivo, si dovea ad ogni patto ricacciare dentro ne' visceri dell' idea cioè dell' oggettivo, e ne comparve immantinente la teoria dell' identità assoluta , e la logica hegeliana che si divora la metafisica, come Saturno i suoi figliuoli. Indi le rovine della filosofia e di tutto ciò che è vero e santo. Ma come i diversi ordini della riflessione non determinano nè la verità nè l' errore, ma sono indifferenti all' una e all' altra; onde in ciascuno tanto l' errore, quanto la verità trova un amplissimo spazio in cui collocarsi, e tanto più ampio, quanto l' ordine è più elevato; così rimaneva che, entrando i veri filosofi, per la porta aperta, nella medesima sfera, vi combattessero l' errore arrivato il primo, conquistando quella nuova zona celeste alla verità. E la filosofia fa questo, ragionando così: Vero, che il reale diviso totalmente dall' idea è un incognito, e, se volete, in tale stato, anche un impossibile: ma da questa premessa non deriva la conseguenza che dunque egli appartenga all' idea, che questa se l' abbia in sè, di sè lo emetta e in sè di nuovo lo assorba: cose tutte che si possono anche direttamente mostrare contrarie al fatto, ed assurde; ma deriva soltanto quest' altra conseguenza, che il reale non è mai senza l' idea, dalla quale per un' astrazione arbitraria della mente si divide, è coll' idea, non nell' idea come un suo momento, sicchè reale e idea sono indivisibili, ma non identici: il primo non può stare senza la seconda, ma non si confonde mai colla seconda e d' altra parte l' idea può stare, fino a un certo segno, senza il reale. Altro è dunque il dire che il reale abbia una relazione essenziale coll' idea, un sintesismo ontologico; altro è il dire, che da que' due elementi si deva, si possa rimovere la dualità, concentrandoli in uno solo. Come abbiamo già detto innanzi, il reale è indivisibile dall' idea e insieme distintissimo; perchè quell' essere che è nell' uno, è identicamente nell' altra, ma non sotto la stessa forma, nè alle stesse condizioni: tale essendo l' immutabile natura ed eterna dell' essere, che, nella sua perfettissima unità, in due forme distintissime ed affatto inconfusibili si ritrovi. Di qui la dualità dello stesso sapiente, tanto diverso dallo scienziato. Chè il sapiente nasce dalla piena conformazione dell' uomo reale colle idee, e per mezzo delle idee con tutto l' ordine delle cose reali: conformazione che niuno gli può dare se egli non la dà a se medesimo colla propria attività, cioè colla libera potenza di volere, la quale sola rende pratico, cioè operativo, lo stesso pensiero. E tutta quest' azione della volontà, benchè sia comunicata al pensiero, è però distinta dal pensiero teoretico che si ferma nelle idee e nelle notizie; è un' azione unita al pensiero, ma non confusa con lui, un' azione del soggetto sopra il soggetto, a cui il pensiero diventa mezzo e stromento, dalla quale, il diremo di nuovo, il soggetto reale - persona umana - rimane modificato e nobilitato, partecipando della divina eccellenza delle stesse idee, senza poter giammai trasformarsi in esse. Quando l' umanità era ancora, quasi direi, nella sua culla, e non s' era molto inoltrata nella scoperta delle regioni astratte, regioni vastissime e piene di pericoli, come pe' viaggiatori sono gl' immensi deserti, a lei si affacciava quest' imagine della sapienza in tutta la sua nativa semplicità e verità, ed ella tendeva a raggiungerla. Questa tendenza, questi sforzi, in cui s' esperimentava sempre più la difficoltà dello scopo, più lontana apparendo la sapienza, più che progredendosi verso di lei se ne scopriva meglio la divina natura, (come l' areonauta quanto più s' innalza nell' atmosfera, tanto più intende quanto lontane stieno le stelle, o come incontra a colui che ascende un' altissima montagna, che la vetta, che gli parea da principio toccare, gli si dilunga e gli par più inaccessa): questa tendenza, dico, e questi sforzi furono chiamati convenevolmente filosofia , significando appunto la parola « amore e studio di sapienza ». Ma non è ancor quì la filosofia come scienza , nel quale significato, a cui fu più tardi ristretto il vocabolo, noi la prendiamo: quell' antica filosofia è più ed è diversa dalla scienza. E` più della scienza, perchè questa non ha e non può avere a scopo se non d' illuminare l' intendimento, grandissimo aiuto alla buona volontà, a cui spetta di compir l' opera rendendo, l' uomo sapiente; ma aiuto prestato alla volontà senza violentarla o necessitarla lasciandola libera, rinforzando anzi la sua libertà, sia di dirigere e modificare l' umano soggetto e tutte le sue potenze a quel modo che la scienza dimostra, sia nel modo contrario, qualora riponga, con un falso giudizio, la sua grandezza e la sua felicità in altra cosa, e fors' anco in una lotta d' orgoglio contro la vera scienza e la verità in quella racchiusa, e cerchi una gloria più grande, anche non isperando vittoria, quant' è più grande ed augusto il nemico col quale combatte, da cui si lascia uccidere, senza arrendersi. La filosofia dunque, noi dicevamo, nel senso, « d' una tendenza pratica alla sapienza »è più della filosofia come scienza, che al cospetto di quella rimane umiliata. E questa giusta umiliazione, rivelata al mondo dal Vangelo che dell' umiltà fece la più alta e la più ragionevole delle virtù, è causa d' un' irritazione, che talora giunge al furore, nell' uomo dedito alla sola scienza che si crede divenuto puro pensiero, e come tale vuol esser tutto. Le sue potenze inferiori vanno disordinate: egli le lascia andare quasi non appartenessero a lui, ed arrivano a trascinar seco, lui medesimo: disordinano il suo stesso pensiero traviandolo dalla verità, ma egli non cura, chè non pone l' eccellenza nel modo , ma nella forza del pensiero. E allora appunto, il suo proprio pensiero gli par forte, perchè lotta colla verità, e la violenza della lotta mette in gioco anche le poche forze delle costituzioni deboli. Pure il pensiero che in quel furore sembra a sè stesso così potente, in verità è reso schiavo della volontà pervertita: questa gl' impone di giustificare il proprio disordine, dandogli una base scientifica: egli cancella le leggi della morale, ne inventa dell' altre: pronuncia che qui consiste la libertà: finalmente si presenta come l' uomo7oggetto, nuovo Dio Pan, che assorbe in sè la morale, il mondo: e l' antropolatria è il nuovo culto, che comparisce sopra la terra. Or la filosofia nel senso « d' una tendenza pratica alla sapienza » non solo è più, ma è anche cosa diversa dalla scienza: il che, se noi prendiamo a cercar come sia, ne rimarrà non mediocremente illustrato il primo de' due elementi, di cui abbiam detto comporsi la sapienza. Osserva Seneca, che la Filosofia, a differenza della Matematica, della Fisica, e somiglianti, che mutuano i loro principŒ da altre scienze superiori, « « non prende nulla altronde, ma innanlza tutto l' edificio dal suolo »(1). » Della qual sentenza si trova la ragione nella definizione che noi abbiam dato, dicendo la Filosofia essere la scienza delle ragioni ultime, ultime cioè a rinvenirsi dall' uomo, ma prime rispetto all' albero dello scibile, che da esse incomincia e germina come da radici, onde anche furono dette madri da qualche antico. Laonde la Filosofia sola è quella, fra le scienze, che, in un senso a sè appropriato, può dire, « Sed summa sequar fastigia rerum (2). » Ma la Filosofia nel nostro senso, è una scienza, e benchè sia la prima fra le scienze, sicchè non prenda nulla de' suoi principŒ dall' altre, quando l' altre tutte prendono i loro da lei; tuttavia, appunto perchè è scienza, non può esser prima di tempo in tutto l' ordine intellettuale, chè ogni scienza è opera della riflessione, e la riflessione non è il primo modo, che abbia l' uomo di conoscere, ma egli n' ha e n' adopera degli altri prima di cominciare a filosofare. Noi abbiam detto in qualche luogo, che la filosofia non potrebbe esistere se non a condizione di prendere altronde non de' principŒ, ma de' postulati: e questi postulati dati alla filosofia dalla natura umana come condizione del suo nascimento, sono due, la notizia naturale e immediata dell' essere, e il sentimento (1); l' ideale e il reale primitivo , che diventano in appresso oggetti della riflessione, la quale con tali materiali, e non mai col nulla, edifica l' edificio della dottrina filosofica. L' atto che dà la notizia dell' essere si chiama da noi intuizione , e questo è il primo modo di conoscere anteriore di molto alla riflessione filosofica, la facoltà dell' intuizione è l' intelletto in senso proprio. Il sentimento, come tale, non appartiene all' ordine intellettivo (benchè ci sieno de' sentimenti intellettuali, razionali, e morali che l' accompagnano o prossimamente lo seguono), ma egli presta materia all' intelligenza. Il primo sentimento è quello che costituisce il soggetto uomo, perchè l' uomo (intuente l' essere e percipiente il proprio corpo con quell' immanente percezione che il rende ad un tempo animale e razionale (2)), è un sentimento sostanziale e individuale, che riceve modificazioni accidentali, e in varŒ modi attivo. La percezione primitiva , nella quale sta l' unione dell' anima col corpo, è un modo di conoscere contemporaneo alla prima intuizione , e solo logicamente posteriore; ed è quell' atto primo, che costituisce la facoltà della ragione. L' intuizione e la percezione primitiva appartengono alla cognizione diretta , a cui si riducono molti altri atti di conoscere, come, a ragion d' esempio, tutte le percezioni accidentali che susseguono (3); e la cognizion diretta non è la riflessione, e di molto precede la riflessione filosofica. La riflessione che sopravviene è un secondo modo di conoscere; e molte riflessioni precedono quella d' un ordine alquanto elevato, che genera la Filosofia. Il complesso di queste riflessioni, o, a più vero dire, una parte di queste riflessioni costituiscono quella che abbiamo chiamata cognizione popolare (1). Tutti questi modi di cognizione precedono la cognizione filosofica. E per determinare con maggior accuratezza quel punto nella serie delle varie riflessioni, che divide la cognizione umana in due gran parti, o stadŒ, quella che precede la filosofia, e quella colla quale l' uomo ha incominciato a filosofare; basterà che noi ricorriamo alla preaccennata definizione della filosofia come scienza. Se la filosofia tratta delle ragioni ultime, egli è evidente, ch' essa incomincia precisamente a formarsi con quella riflessione, colla quale l' uomo o implicitamente o esplicitamente, rivolge a se medesimo la domanda: « Quali sono le ragioni ultime di tutto lo scibile? »Con questa domanda, non prima, incomincia dunque il lavoro filosofico dello spirito umano. Vero è che con essa non c' è ancora la filosofia, non c' è la scienza delle ragioni ultime; ma c' è la questione, a cui tien dietro la ricerca, e questo è quanto dire la strada che conduce all' invenzione della filosofia, e però si può dire che l' uomo da quell' istante filosofeggi. Ora di certo non è a credere, che prima che sia venuto quest' istante, nel quale il bisogno d' una filosofia si fa sentire all' uomo, lo spirito umano si trovi interamente vuoto di cognizioni: anzi n' ha molte, che non solo dispongono le sue facoltà, esercitandole; ma offrono alla riflessione copiosi materiali pel nuovo edifizio filosofico ch' ella a suo tempo porrà mano a costruire. E in questa costruzione della scienza, che fa la riflessione? A dir vero, non altro se non vestire la verità precedentemente conosciuta di nuove forme, le quali prestano questo nobilissimo vantaggio, che l' uomo per esse la vede da più lati, e da lati più lucenti, e può usarne in nuove utilissime maniere. Poichè conviene distinguere con diligenza la verità, e le forme di lei che la rendono più accessibile, più visibile, e più maneggevole all' uomo: convien distinguere le idee dalle forme che prendono nell' umana mente e poi nell' umano linguaggio s' esprimono. Le idee e le notizie tutte variamente spezzate coll' analisi, raggiunte colla sintesi, ordinate colle loro intrinseche relazioni, diventano acconce a innumerevoli ragionamenti, si lasciano aggruppare e distribuire in formole secondo i bisogni della mente, e danno a questa quelle nette conclusioni, colle quali, avendole a mano, ella opera speditamente, e lo spirito se ne sente confortato, arricchito, di nuova potenza accresciuto. Fino che voi avete dell' oro in verghe, poco uso far ne potete: mandatelo alla zecca che ve lo restituisce coniato in monete, e ammodato in tal forma voi lo cangiate assai facilmente in tutto quello che vi piace. La zecca è la mente filosofica. Questa svolge le idee e ne trae ciò che hanno ne' visceri: sembrano altrettante nuove verità, quantunque alla fin fine, per dirlo ancora, non v' ha dato che nuove forme; chè le idee, su cui avete esercitato il vostro pensiero, c' erano innanzi, e contenevano quello che voi ci avete cavato, c' era implicito e voi l' avete reso esplicito. Così un principio si pronuncia in una breve proposizione: e pure se voi ne deducete le conseguenze, una scienza intera v' è nata in mano: infinito vantaggio: ma dovete confessare che non avete creato nulla, chè tutta quella scienza già si conteneva nel principio, d' onde voi non l' avreste potuta cavare se non ci fosse stata. Un gran numero di notizie che la mente vedeva ad una ad una, il pensiero filosofico le considera tutt' insieme, ne ferma le relazioni, e con queste le integra, e secondo queste le dispone in un ammirabile sistema: bellissimo lavoro; ma le notizie c' erano, avevano le loro relazioni, forse erano complesse ed intere, e fu bisogno d' astrazione e d' analisi, come le pietre hanno bisogno d' essere rotte dal martello, e riquadrate, acciocchè s' aggiustino al luogo dell' edificio, ove devono essere collocate, ma in fine, checchè faccia il pensiero filosofico, lavora sempre su quello che gli è dato innanzi, nol può creare, cioè non può trovar nulla che sia per intero nuovo, poichè la funzione stessa dell' integrazione non fa che passare dal termine dato d' una relazione essenziale all' altro termine trascendente in virtù d' una legge nota (1). La differenza dunque tra l' uomo comune e colui che filosofa, non istà in questo, che al primo manchino le cognizioni, e n' abbia il secondo; ma in questo, che il primo dà l' attenzione della sua mente ora a questa ed or a quella cognizione delle tante che il tesoro dell' anima sua racchiude, non per vero dire a caso, ma secondo il bisogno che gliene viene di farne uso, siccome un padre di famiglia che trae dall' armadio que' soli vasi di cui abbisogna al momento; il secondo, che filosofeggia, prende per assunto di riguardare tutto il complesso delle medesime cognizioni, non perchè egli abbia bisogno d' usar di tutte in una volta, ma per diletto di contemplare quel ricco tesoro, ed altresì per conoscerne meglio il valore e ben ordinarle, alla guisa d' un vigilante ed operoso amministratore, che ripassa e inventaria tutti i vasi preziosi, le ricche masserizie, e gli arnesi della casa, e li classifica, ed altri ne dispone in altrettanti armadŒ, non solo ripulendoli dalla polvere, ma inserendoli ancora in astucci e in guaine eleganti, altri poi d' argento e d' oro, come troppo antiquati e pressochè inutili, li fa rifondere, e cavarne altri collo stesso metallo di miglior gusto, più conformi agli usi ed alla moda del tempo. Ma il valsente con tutto ciò rimane il medesimo, benchè un grandissimo vantaggio riceva la famiglia da queste diligenze. Ora posciachè il primo elemento della sapienza è LA VERITA`, sotto qualunque forma ella sia; perciò noi dicemmo, che la sapienza, e conseguentemente la filosofia definita all' antica siccome uno studio pratico della sapienza, contiene un primo elemento, l' elemento conoscitivo diverso dalla scienza. E la differenza sta qui, che l' elemento della sapienza è la verità, prescindendo dalle forme, e però sotto tutte le forme, sieno queste quelle di cui ella si riveste prima che l' uomo si risolva a filosofare, o sieno le forme filosofiche; laddove la filosofia come scienza riguarda un genere speciale di forme, di cui il pensiero riflesso veste la verità. Di che si trae questa conseguenza, che la Sapienza può ugualmente precedere, ed anche succedere alla Filosofia: e che quantunque questa giovi non poco a quella, rendendo la verità accessibile all' uomo da più punti e da punti più cospicui, tuttavia non è a quella del tutto indispensabile e necessaria. Non vorrei, che l' aver detto questo, m' attirasse l' indegnazione de' filosofi (che per quanto è a' sofisti, mi ci conviene ad ogni modo rassegnare). Ma quella io spero o d' evitarla, o di poterla comechessia calmare. Perocchè niuno dee conoscere qual sia il nobile e vero amore degli uomini meglio de' filosofi; ai quali perciò conviene che riesca lieta una dottrina, che dimostra, esser tutti gli uomini capaci della sapienza, non esser questo bene riserbato ad una sola classe, eziandio che fosse quella de' filosofi. Perocchè se tutti gli uomini hanno ricevuto la stessa verità, sebbene implicita fin da principio della loro esistenza nel lume della ragione, e se tutti quelli che vissero ad una certa età, hanno più o meno svolta la verità ricevuta in germe, secondo lo stimolo de' bisogni e le occasioni; e se oltracciò portano l' animo ben disposto verso a quella verità che conoscono, riconoscendone liberamente l' autorità suprema e l' immutabil bellezza; onde la loro volontà unita e quasi conglutinata alla verità coll' affetto, a questa, come a norma guida l' altre facoltà; tutti cotesti uomini, i quali hanno saputo mettere in sè stessi tant' ordine e fra le proprie potenze tanta concordia, ed ancora con ciò stesso saputo rendere il mortale e finito consonante all' infinito ed all' eterno, cioè alla verità, di cui riscuotono l' approvazione, tutti costoro dico, si meritano il nome di sapienti. Essendo dunque la verità il primo elemento e la base della sapienza, è da conchiudere che come la verità è variamente sviluppata negli uomini, e sebbene una e sempre uguale in se stessa, è oltre ogni misura feconda e moltiplice nelle sue attuazioni, onde molte sono le forme, più o meno magnifiche, più o meno ornate e quasi a mano trapunte, nelle quali agl' intendimenti diversi ella si dona; così pure sieno molte, e propriamente altrettante, e di consimile ricchezza ed eleganza di lavoro, le forme della sapienza . Di che, principiando da un qualche savio sconosciuto agli uomini, e che deva esser chiamato abnormis sapiens crassaque minerva , fino a un Agostino o ad un Tommaso d' Aquino, o ad altro qualsivoglia dottissimo tra' sapienti, noi avremo innanzi una lunghissima serie non solo d' uomini illustri, ma ben anco d' ignoti a' loro simili, anco dispregiati, benchè non dispregevoli, a cui il nome di sapiente si conviene giustissimamente accordare. E questa conclusione è tale, che non solo può confortare l' animo di colui, che allo spettacolo delle umane ignoranze, e alla somma arduità della scienza , accessibile a pochi, (confondendola egli per errore colla sapienza , o credendola l' unica via per la quale a questa s' arrivi), diffida soverchiamente dell' umana natura, e diffidandone, quasi di troppo inetta al bene, la disama; ma devono e desiderar che sia vera, e goderne, quando per vera la riconoscono, tutti quelli, filosofi o no, che dell' onore, della dignità, e della felicità dell' umana specie si curano. Poichè una tale notizia è la buona novella data ai piccoli: e coincide con quella, che nell' ordine perfetto e soprannaturale, la stessa Sapienza di Dio diede di sua bocca alla umana stirpe, dicendo: « « Colui che viene a me, non lo caccerò fuori »(1) ». Il che non riesce di alcun disdoro alla filosofia; chè comunque questa si prenda, ha sempre la verità a suo proprio oggetto e scopo, e però è affine alla sapienza. Se si prende come scienza, ella insegna le più elevate verità, ed abbiam detto non esser filosofo colui che in vece della verità, insegni l' errore; se come studio di sapienza, ella non solo cerca la verità, ma la rende operativa. Laonde Platone, descrivendo il filosofo, in modo che all' uno e all' altro senso di questa parola risponda: « « Trovasi forse qualche cosa, dice, che sia più famigliare alla sapienza della verità? - Nessuna - E` dunque possibile che la medesima natura sia filosofica (amatrice di sapienza) ad un tempo, e mendace? - In niuna maniera - Dunque colui che è cupido d' apparare, forz' è che tosto dalla puerizia sia soprammodo affezionato ad ogni verità »(2). » Tale deve essere la disposizione del filosofo, anche se si prende questa parola solamente per indicare quello che alla scienza è applicato. Dove si disvela la relazione, e l' intimo nesso che passa fra que' due elementi che abbiamo trovati esser parti integrali, ed anzi essenziali, della sapienza, cioè la verità , e la vita alla verità conforme , nel che consiste la virtù. Il primo de' quali è sempre posseduto dal sapiente, sotto qualsivoglia forma; ed è l' oggetto della filosofia non sotto qualsivoglia forma, ma sotto una forma scientifica, universale, complessiva, splendida all' umana consapevolezza. Ora il filosofo perverrà egli al possesso, e alla sublime cognizione della verità, se non l' ami? o se l' ama solo splendiente, ma la teme redarguente (3)? Il che è quanto dimandare: Se la volontà dell' uomo è alla verità contraria, se lotta con essa, se la rifiuta per maestra della vita, se ne riceve continui rimproveri, potrà poi l' intendimento ne' suoi assensi e dissensi, guidato dalla volontà a cui il vero non piace, riconoscere e confessare pienamente, e prontamente il vero stesso, dovunque gli si presenti, qualunque egli sia, con una perfetta imparzialità e giustizia? quando è appunto perchè alla sua volontà manca la giustizia, che il vero gli si rende molesto, ed odioso, e ripugnante all' assenso? « « Ogniqualvolta, diceva un celebre sofista del secolo scorso, la ragione sarà contraria all' uomo, l' uomo sarà contrario alla ragione » (1) » Ma quand' è che la ragione sarà contraria all' uomo? sempre, quando l' uomo colla sua libera volontà, avrà reso se stesso contrario alla ragione; di certo, questa non è mai la prima ad esser contraria all' uomo. Leibnizio diceva, che le stesse verità matematiche, diverrebbero argomento di grandi disputazioni fra i dotti, qualora comandassero agli uomini de' sacrificŒ e ne regolassero i costumi. La virtù dunque o la disposizione alla virtù conduce alla verità non meno gli uomini tutti, che quelli che vogliono filosofare: tanto è intimo il nesso fra i due elementi costitutivi della Sapienza. E nello stesso tempo nasce di quì l' onore e la dignità della filosofia, rendendosi manifesto, che questa scienza, a differenza di tutte l' altre, benchè nè sia da sè sola la sapienza, nè tampoco sia una forma speciale della sapienza; tuttavia è involta nella felicissima necessità di non poter essere a pieno professata, se non da un sapiente. Laonde Socrate appresso Platone in commendazione di questa disciplina domanda a Glaucone: « « Puoi tu dunque, in qualunque modo, condannare questo studio » (della Filosofia), «che niuno può compire con sufficienza, se di natura non sia perspicace, memore, magnifico, grazioso, amico e famigliare della verità, della giustizia e della temperanza? »(2). » E con ragione questa sentenza è temperata da quella parola « con sufficienza ». Poichè anco di quelli, i quali non hanno la volontà, in cui sta tutto l' uomo come persona, nè di conseguente la vita conformata al vero, possono pronunciare una parte della verità, e con questa apparire filosofi, ma tutta la verità non mai. Altramente non avrebbe potuto aver luogo quella comune, e così giustificata querela mossa a' filosofi del paganesimo, ed ad altri che li prendono ad imitare, cioè che « magna loquuntur, sed modica faciunt (1) ». Se non che era cosa avventurosa e degna di qualche lode anche questa, ch' essi non facessero tutto quello che dicevano ed insegnavano, poichè, come osserva uno di loro stessi, molte cose assai strane, erronee, e riprovevoli uscirono di loro bocca, delle quali, dopo rammentate alcune, quello scrittore continua: « « E moltissime altre cose simili a queste dicono i filosofi, le quali essi non oserebbero mai di farle, se non si trovassero nella repubblica dei Ciclopi e de' Lestrigoni »(2). » Non fanno dunque, ma nè pur dicono, nè possono dire il vero nella sua integrità, nella quale solamente egli costituisce quell' elemento della sapienza , e quell' oggetto della filosofica scienza , che noi dicevamo. E a' nostri lettori, che si rammentano dove noi abbiamo collocata questa integrità, non potrà mai sembrare, che noi con un favellare troppo vago ed indeterminato facciamo contumelia a molti che, a loro possa, s' applicano lodevolmente agli studŒ della filosofia. Essi sanno troppo bene quanto sia lungi da noi l' intenzione di pretendere, che il filosofo, per meritar questo nome, deva conoscere tutte le singole verità: il che se fosse, non solo alcuni cultori di questa scienza rimarrebbero esclusi dal novero de' filosofi, ma non si potrebbe trovarne un solo sopra la terra: chè ogni uomo, di qualunque ingegno, qualunque età abbia speso nel meditare, ignora di molte cose, e per fermo molte più di quelle, ch' egli ne sappia. Non è dunque l' integrità materiale della verità, quella di cui parliamo, ma un' integrità formale, di cui noi dicevamo più sopra la filosofia essere il sistema, come anche Aristotele l' avea definita « « la scienza della verità »(3). » Conviene aver presente quel modo, in cui piacque all' autore dell' umana natura, che questa fosse partecipe della luce della verità. Perocchè, l' abbiamo veduto, volendo Iddio che questa natura fosse intelligente, egli ordinò che fin dal primo suo esistere, le si rendesse visibile la verità, non una parte, ma tutta, come quella che è una e semplicissima, e per conseguente, non capace di divisione. Il perchè non può esser veduta col primo intuito una sola parte di lei recisa dall' intero suo corpo, che anzi questa parte non c' è; benchè quando la mente vede il tutto, allora essa nel tutto stesso, possa poi limitare la sua riflessione e quasi concentrarla in una parte, ch' ella stessa si circoscrive. Ma questa verità, che è l' essere per sè intelligibile , e che, senza che le manchi cos' alcuna (giacchè se mancasse qualche cosa all' essere, non sarebbe più l' essere), sta di continuo presente allo spirito, contiene sì in se stessa tutte le cose vere, ma in un modo implicito e virtuale; e però queste a principio non si vedono in lei le une dalle altre nè separate nè distinte, e nell' atto loro proprio, ma tali vi si scoprono, quando lo stesso spirito umano, aiutato da' sentimenti corporali, coll' uso di diverse attività conoscitive, attua quello che vede in potenza, e quello che già possiede implicito, se lo rende esplicito, quello che è indistinto, distinto; quello poi che sommerso e nascosto nella virtù dell' essere come in un mare senza limiti, lo fa venire a galla, e quasi, direbbe Socrate, esercitando l' arte pescatoria, lo prende e lo ripone nella dispensa della sua memoria. Che se l' uomo non avesse alcun bisogno di far tutto ciò, e le notizie particolari gli fossero date belle e formate dalla natura, non ci sarebbe più cagione della sua propria razionale attività, e rimarrebbe un essere maraviglioso per le preziose cose che conterrebbe, come gl' Iddii d' oro inseriti nel petto de' Sileni, ma privo di quell' onorevolissima azione, per la quale egli si fa quasi maestro a se medesimo. L' essere dunque oggetto dell' intuizione conceduto all' umana natura è la verità nella sua integrità formale. E questa integrità è quella che si dee trasportare dall' attività stessa dell' uomo a cui Iddio l' ha consegnata, nell' opera scientifica della Filosofia: il che si fa, come abbiamo detto, coll' uso di una riflessione elevata. Laonde il primo oggetto, e però il principio della filosofia, non può esser altro che quello che è il primo lume nella natura, e che è il primo principio di tutte le indefinite cognizioni, di cui può arricchirsi l' umanità, le quali tutte, da quello, siccome da un cotal fuoco eterno e sacro, custodito nel tempio della natura, s' accendono. Imperocchè se quello è il primo lume, conviene che in quel solo si trovino le prime ed ultime ragioni delle cose di cui va in cerca, o, trovate, professa d' insegnare la Filosofia. E però è indubitato che intorno a questa scienza, da tempi remotissimi sino a noi, si sono fatte molte, ingegnosissime, e sublimi ricerche, ma, a veramente parlare, non si può dire ch' ella sia stata trovata od abbia esistito, se non allora che si rinvenne quel principio, intorno a cui si facevano quelle investigazioni, il qual solo è la base, su cui regolarmente e a modo di vera scienza, si edifica. Che se quell' essere intelligibile , che è come il sigillo della natura umana, onde questa è intelligente, e che quando poi dalla riflessione è colto e trasportato nel campo della scienza, diviene la prima pietra dell' edificio, contiene la verità nella sua integrità formale, quantunque in modo ancora implicito; questa integrità non si perde più co' lavori che si vanno facendo dalla mente di chi filosofeggia sopra di quel fondamento, se ne innalzino poco o molto al di sopra del suolo le muraglie; e, ancorchè non si arrivi colla fabbrica fino al tetto, si può dire oggimai con verità, che la filosofia è fondata, sebbene non condotta al suo colmo. Ma in questa edificazione è in primo luogo necessario, che l' architetto ponga mente alla perfetta commettitura delle pietre, sicchè non resti fra loro vacuo o fessura, ma ciascuna, squadrata e spianata a giusta misura, si continui all' altra: con che vogliam dire, che le verità speciali che si vogliono ordinare e costruire a forma di scienza, procedano, senza alcun salto, quasi una continuazione della stessa idea che l' uomo per natura intuisce, il primo ordine di esse a questa s' appoggi, i successivi l' uno sull' altro, per modo che in su quel solo e primo fondamento si regga e solidi tutta quanta la fabbrica. Dipoi, non tutte le qualità di pietre sono acconcie a tanto edificio; ma solo quelle che, traendosi dalla prima idea, come da' visceri di ricchissima miniera, ritengono della stessa natura e condizione di pietra durissima, non fragile od arenosa. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione, e non vedo di poterne rinvenire altra migliore di quella che ne dà Platone sulla fine del quinto dialogo della Repubblica, là dove Socrate vuole che Gluacone avverta, che non si direbbe con verità che taluno amasse una cosa, se non l' amasse tutta, ma una parte n' amasse, e un' altra parte della cosa medesima odiasse. Di che egli deduce, che quando si dice, che il filosofo è l' amatore della sapienza, allora si asserisce ch' egli è avido d' ogni sapienza, non d' una specie o d' una parte: con che il filosofo ateniese tocca incidentemente quell' integrità formale della verità di cui noi parlavamo, siccome d' una condizione necessaria dell' oggetto della filosofica scienza. Onde in appresso soggiunge, i veri filosofi, cioè gli amatori della sapienza, doversi chiamar quelli, che sono cupidi di vedere la verità; coloro all' incontro che vogliono veder altre cose, non senza il suo solito attico sale, egli dice, che non filosofi, ma si devono chiamare simili a' filosofi , perchè almeno assomigliano a questi nella voglia di vedere. Ma tosto appresso quando cerca che cosa sia quella verità in cui arde di affissare lo sguardo il vero filosofo, allora parla in modo che noi intendiamo quanto vogliano esser salde e durissime quelle pietre, di cui dicemmo, potersi con esse sole costruire l' edificio della scienza filosofica. Perocchè quella verità, di cui parla il grand' uomo, è l' essere : onde risulta che la filosofia dee riputarsi non altro che la scienza dell' essere . Ma Platone qui distingue tre cose, cioè quello che è, quello che non è, e quello che ora e in parte è, ed ora ed in parte non è. Quello che è, è l' essere; quello che non è, è il nulla; e quello che ora e in parte è, ora e in parte non è, e, qualche cosa di mezzo fra l' essere e il nulla, di maniera che non si può dire di lui, semplicemente ed assolutamente, nè che è, nè che non è; ma conviene aggiungere all' assertiva qualche distinzione, o condizione, o limitazione. Ora l' essere è l' oggetto della scienza e della cognizione: col nulla, con quello che in tutt' i sensi è nulla, non prestando alcun oggetto alla mente, rimane l' ignoranza: ma quello che in parte è, e in parte non è, si presta ad una maniera di sapere che cammina medio tra la scienza e l' ignoranza, e non può dirsi nè assolutamente scienza «(episteme)», nè assolutamente ignoranza, onde Platone lo chiama opinione ( «doxa»). la filosofia dunque contempla quello che semplicemente ed assolutamente è, l' essere senza più, e le relazioni di questo col non essere, o con tutto ciò che è solo in parte; e così ella si distingue dall' ignoranza, e dall' opinione. Ora quello che semplicemente è, non accade mai che non sia, e perciò è eterno: è sempre nello stesso modo, e perciò è immutabile: è per essenza, cioè in questo sta la sua essenza, nell' essere, e perciò è necessario: dunque è solidissimo, costantissimo, insuperabile, ugualissimo a se medesimo: tale è la saldezza e la durezza di quelle pietre, di cui, lasciate da banda tutte l' altre meno consistenti, noi dicevamo doversi murare il filosofico palagio. Platone per fare intendere la differenza fra la cognizione di queste cose eterne, e l' opinione che s' aggira intorno le cose contingenti e mutabili, fa uso di un esempio: distingue le cose belle dal bello veduto nella sua idea. Quelle sono molte e varie, e possono divenire, od essere state, brutte, ma il bello stesso, quale l' idea lo fa conoscere alla mente, è perfettamente uno, e non può mai essere stato, o in futuro divenir brutto, perchè è appunto questa la sua essenza, d' essere il bello, e nessuna essenza si può pensare diversa da quello che è, e che appare immutabilmente all' intelligenza. Le cose che possono ora esser belle, e ora esser brutte, non sono assolutamente e semplicemente il bello, ma ora e in parte sono tali, ora e in parte tali non sono: partecipano del bello; e per questa partecipazione Platone le chiama similitudini del bello. Ora, dice, colui che prende le similitudini delle cose, per le cose stesse , fa come chi sogna, che prende le cose sognate per altrettante cose reali. E la massima parte degli uomini sognano a questo modo; poichè si fermano col pensiero alle cose che sono per partecipazione, e si persuadono che al di là di esse nulla ci stia, o non ci pensano: pochissimi giungono a cogliere colla riflessione quell' immutabili essenze, in cui la cosa è veramente in un modo semplice ed assoluto, e questi soli vegliano. Questa facoltà dunque di veder le cose nella veglia della mente, come veramente sono, appartiene a' filosofi. Quello poi che Platone dice della bellezza, vuole che si dica egualmente della giustizia e dell' altre essenze (1); le quali in ultimo sono i soli materiali accomodati a costruire la fabbrica della Filosofia. E veramente noi dicevamo che la Filosofia è la scienza delle ragioni ultime. Ora le ultime ragioni di tutte le cose contingenti e mutabili, le quali sono e non sono, si trovano appunto in quelle loro essenze che nelle idee appariscono, necessarie ed immutabili, che non già sono e non sono, ma semplicemente sono. Tali pietre ci abbisognano, e per trovarle conviene che l' uomo, dice Platone, si stacchi dalle cose corporee e corruttibili, e si rivolga tutto alle eterne e divine, onde chiama questa scienza, «periagogen,» cioè rivolgimento (1), e una specie di morte, solutio atque avulsio animi a corpore, cum ad intelligibilia et ad ea quae vere sunt, convertimur (2): così intimo è il nesso della virtù, che abbiam detto essere il secondo elemento della sapienza, colla scienza filosofica, che nessuno è acconcio a questa, se non è reso generoso e sublime da quella. Ma trovate le pietre, conviene unirle, non a caso, ma secondo il disegno del tempio, che si medita edificare. E come quelle pietre sono eterne e assai più dure del diamante, così eterno ed unico è pure il disegno. Ma questo è sufficientemente indicato alla mente umana dalle stesse pietre, chè ciascuna di esse, tosto che sia estratta dalla miniera, staccata e rinettata da tutto ciò che le aderisce, ma non le appartiene, chi attentamente l' osserva, trova essere numerizzata, e sopra di sè porta scritto il luogo della fabbrica, in cui vuol essere inserita, di maniera che il muratore non ha a far altro, che locarla con ogni fedeltà e con somma esattezza in quello stesso ordine e in quello stesso luogo, che dice la scritta, e con questo il disegno nell' eseguir l' opera si manifesta da sè, e risulta perfettissimo, senza averlo pur veduto su qualche carta delineato. Ora noi stimiamo, che Platone (giacchè non sappiamo facilmente staccarci da un così grand' uomo, poichè l' abbiamo nominato), il quale seppe indicarci le vere pietre colle quali costruire la Filosofia, non abbia poi nè veduto tutto l' edificio, nè conosciutone l' intero disegno; ma certo a lui torna di somma ed immortale onoranza, l' aver conosciuto quale ne dovesse essere il fastigio e, quasi dicevo, il comignolo, benchè ne tocchi con un modesto timore (che parmi il più certo argomento della grandezza di quella mente) di non parlarne in modo degno, quindi anco con una soverchia brevità. Il qual fastigio egli l' addita nell' idea del bene. La quale idea è chiamata da lui disciplina massima , e vuole, che i custodi della città ne sieno, più che di qualunque altra scienza, imbevuti. Perocchè, « come non ci gioverebbe, dice, il possedere qualunque cosa senza il bene, così, se ci è ignota quell' idea, e, senza di essa, pur conosciamo ottimamente l' altre cose, di nessuna utilità ci possono essere tutte queste cognizioni. »Soggiunge poi, che « l' anima intera desidera il bene, e per esso fa tutto quello che fa, augurandosi che il bene sia pur qualche cosa; e tuttavia ella dubita, e non può sufficientemente comprendere che cosa sia, nè sa trovarne una persuasione ferma, qual è quella che usa circa il resto: e quindi anche nell' altre cose s' inganna, quando si continua a giudicare che cosa sia utile. »Dalle quali parole, aguzzata negli uditori la voglia di conoscere una così magnifica e misteriosa verità, che cosa sia il bene, Glaucone ne pressa Socrate di caldissime istanze, che ne voglia ragionare; ma Socrate: « temo, dice, che mi manchin le forze, e che io mi paia più inetto, e muova gli uditori a riso, osando sopra il potere »; onde, scusandosi dall' entrare per allora nella questione dell' essenza del bene, promette di dire in quella vece, quale ne sia il figliuolo a lui somigliantissimo, ma prega gli uditori, anche così restringendo il discorso, di stare bene avvertiti, non forse in un argomento di sì gran rilievo egli inscientemente gli inganni, recando loro di quel figliuolo un vano concetto. E questo, che Socrate chiama il figliuolo del bene è il lume della ragione umana come prole a lui somigliante. Qual mai pensatore in tutta l' antichità gentile vide tant' alto, pronunciò una sentenza più stupenda di questa? Perocchè, egli dice, come nell' ordine delle cose corporee, oltre la forza visiva, e oltre le stesse cose visibili, per aversi la visione, è necessario che ci sia il lume , il quale informi la virtù dell' occhio traendola all' atto, e nelle cose produca i colori, senza i quali non sarebber visibili, così del pari accade nell' ordine delle cose intelligibili. E come il lume del visibile mondo emana dal sole, così quel lume che informa l' intelligenza e rende le cose intelligibili, è immediato figlio del bene essenziale , che Platone chiama spesso l' idea del bene, perchè nell' idea è l' essenza (1). Ora questo lume è la causa della scienza, dice, e della verità, che l' intelletto apprende, e dall' eccellenza di queste cose vuole che la mente ascenda ancora più su, a conoscere cioè l' eccellenza e la prestanza di lunga mano maggiore di quel Sole, da cui, aggiunge egli, non solo è figliato il lume, ma sono altresì causate tutte le cose mutabili, alle quali, causandole, dà il generarsi, l' accrescersi, il nutrirsi, quando pure quel Sole non è niuna di queste cose. Il che noi dichiariamo così, secondo la mente di quel gran filosofo: le cose reali mutabili e contingenti (che Platone chiama con parola tecnica della sua filosofia generabili , ossia soggette alla generazione) non si conoscono da noi, nè sono conoscibili, se non nelle loro essenze, le quali sono eterne e per sè intelligibili, e si chiamano idee, quando sono comunicate alla mente: ora queste essenze si riducono tutte ad un primo lume, che dicesi il lume della ragione, e non è altro che l' essere manifesto alla mente fino dalla prima costituzione di essa: ossia, che è il medesimo, l' essenza dell' essere intuìta da noi senza confine, nè determinazione alcuna, è l' idea prima che produce l' altre, come il lume corporeo, i colori; perchè l' altre idee ed essenze in esse vedute, non sono che la stessa idea dell' essere variamente determinata e limitata, siccome appunto i colori sono la luce, non tutta unita, ma rifratta, separata in fascicoli luminosi, in una parola, anch' essa limitata. Ora il vero, il permanente essere delle cose, quell' essere che è sempre e in uno stesso modo, nè tentenna fra l' essere e il non essere, ma semplicemente è, trovasi nelle loro essenze, di cui le cose contingenti e mutabili non sono propriamente che espressioni imperfette, e, come Platone le chiama, similitudini . Come dunque la similitudine ha per sua cagione l' originale di cui è un' imitazione, così le essenze sono cagioni delle realità, e il lume delle essenze, nelle quali sta il vero essere delle realità, e il Sole che è il bene per essenza, di tutte queste cose insieme. La qual dottrina è per avventura così magnifica e santa, massimamente nella bocca di un gentile, ch' io mi credo non poter dispiacere al lettore, se io qui soggiunga una porzione delle parole stesse, con cui ne parla quell' uomo straordinario: [...OMISSIS...] Nessuna mente prima di cristo fra i gentili salì mai più alto. Il fastigio dell' edificio filosofico qui è chiaramente mostrato in Dio, autore del lume dell' umana ragione, sede delle essenze, autore delle cose. E Dio è indicato, con sommo accorgimento, come l' essenza del bene ; giacchè la sola natura del bene ha in sè la ragion del diffondersi, e, per questo suo istinto diffusivo, Iddio dà sussistenza all' universo. Ma noi dicevamo, che avendo Platone così sagacemente quasi a dito mostrato il colmo della mole filosofica, non potè però disegnarne con accuratezza e distinzion sufficiente l' intera architettura. Chè certo nella sola idea del bene si rinviene il principio intenzionale ed il fine reale del mondo. Ma l' idea della causa finale non è la sola ragione ultima : conviene ad essa aggiungere la causa esemplare , che è per sè idea, o a dir meglio quello di cui l' idea è l' analogo, come pure la causa efficiente . Queste tre cause offeriscono alla meditazione filosofica le tre ragioni ultime di tutte le cose, delle quali l' una non è superiore all' altra, nè l' una si rifonde nell' altra, come sembra supporre Platone, che alla natura del bene subordina l' altre due o con essa le confonde. E anche qui impedì a quella gran mente di conservarle sufficientemente distinte, l' avere ignorata la legge, di cui noi parliamo di continuo, del sintesismo , per la quale accade, che più cose devano essere insieme, e ciascuna si possa annullare col ragionamento, fatta solo la supposizione che manchino le sue compagne, e tuttavia l' una non è l' altra, anzi dall' altra distintissima. Onde essendosi accorto Platone, che l' idea del bene non potea essere senza che si collocasse nello stesso bene l' intelligibilità e la potenza , prese queste come elementi di quella, non come idee da quella distinte. Che se egli avesse considerato altresì, che nè pure l' idea della potenza si regge, se in essa non si collochi l' intelligibilità e il bene; nè l' esemplare, che, come dicevamo, è per sè idea, o verbo di cui l' idea è l' analogo, senza l' esemplato potente e buono; si sarebbe facilmente accorto, che nessuno di questi tre si può ridurre all' altro, benchè ciascuno reciprocamente si chiami e si supponga. Sarebbe stato necessario altresì, a tracciare un disegno perspicuo della filosofica scienza, l' osservare che l' idea della causa efficiente deriva e s' inchiude in quella d' essere reale e soggetto, la causa esemplare poi è l' essere ideale (che si riduce al Verbo divino a cui è analogo), l' essere per sè manifesto , o per sè oggetto; in ultimo l' idea della causa finale scaturisce dall' idea del bene, che è l' essere morale , quasi talamo dell' essere soggetto e dell' essere oggetto. Le quali sono tre forme, ciascuna delle quali in se stessa contiene il medesimo essere e tutto intero, per guisa che quella trinità si consuma nell' unità semplicissima dell' essere stesso. Nè con questo vogliam dire che a torto Platone derivi dal bene essenziale come da causa immediata il lume dell' umana ragione, e l' essenza delle cose mutabili, e queste stesse cose, perocchè veramente quello che è ultimo in Dio, secondo l' ordine logico della mente nostra, è primo rispetto al mondo, è la ragion prima del movimento creativo; ma il grand' uomo, non avendo altro lume che il naturale, corse troppo frettoloso al mondo considerando le cose divine nell' ordine che hanno con questo, senza prima meditare, com' era mestieri, quell' altr' ordine precedente ed assoluto, che quelle hanno tra sè. Onde sebbene ne faccia giustamente stupire l' altezza di quella mente, che chiamò il lume della ragione figliuolo del bene essenziale, similissimo al padre ; tuttavia in un tanto e sì nobilissimo sforzo di sollevarsi alla somma altezza, ci rimane una prova manifesta della limitazione dell' ingegno dell' uomo, il quale per quantunque levasse verso al cielo una mano di gigante, per verità non si potea credere che lo toccasse, ma pure per l' analogia del natural lume, seppe additare dalla lunga un Verbo, ossia un lume eterno, figliuolo del bene essenziale, e anche questo non senza essersi probabilmente aiutato d' antiche tradizioni. La sola parola di Dio stesso vale a guidare per le celesti ragioni l' umana intelligenza, senza smarrirsi, e renderla idonea alla più sublime filosofia. Il punto dunque ove termina la filosofia e onde pure incomincia è l' essere , e il suo ordine intrinseco , cioè le sue tre forme, che si riflettono nel mondo, e costituiscono la base delle categorie a cui tutte le cose si riducono, e diventano le ragioni ultime, intorno alle quali la meditazione filosofica si rivolge. Perocchè nell' essere sotto una prima forma reale è necessario investigare la prima ragione di tutte le realità che costituiscono il mondo reale, nell' essere sotto una prima forma oggettiva è neccessario investigare la prima ragione di tutte le idee e cognizioni che costituiscono il mondo ideale ed intelligibile; nell' essere sotto una prima forma del bene, è necessario investigare la prima ragione di tutte le esigenze e le leggi, di tutte le morali attività co' loro effetti, che costituiscono il mondo morale. Chè l' intrecciamento di questi tre mondi è il creato, e pende dal suo Creatore, a cui somiglia, quasi siccome un frutto dall' albero. E che nella natura delle cose e nella composizione di questo universo si possano facilmente ravvisare calcate queste tre impronte, e quasi solchi di altrettante vie, per le quali il pensatore si conduce a trovare le ultime ragioni delle cose, nel che sta il filosofico esercizio, lo dimostra anche la partizione dell' antica filosofia, da' migliori filosofi distribuita in tre parti, che nominarono « naturale, razionale, e morale (1). » E quantunque lo sviluppo immenso di queste tre membra primitive abbia introdotto in appresso tali e tante suddivisioni, che fecero dimenticare que' tre principali tronchi, aventi la comune radice dell' essere, onde uscirono gli altri rami; tuttavia chi si fa a riandare il cammino percorso, e torna a sintesizzare quello che l' analisi ha moltiplicato e, quasi dicea, sparpagliato, si trova restituito di nuovo a quelle tre parti primitive, a cui noi pure riconducemmo i nostri lavori (1). S. Agostino ci fa riflettere, che quella divisione non fu instituita da' filosofi, ma da essi trovata esistente nella natura delle cose (2), e vi riconosce un cotale vestigio della divina trinità, vi scorge i tre problemi dall' umana scienza non mai sciolti, a dir vero, da' gentili filosofi, ma tuttavia proposti, la cui ultima soluzione s' annoda alla cristiana dottrina delle tre divine persone. Perocchè dice « « avendovi in ciascuna di quelle (tre grandi e generali questioni) una discrepanza moltiplice d' opinioni, tuttavia niuno esita in affermare, che v' ha qualche causa della natura, qualche forma della scienza, qualche somma della vita »(3). » Ecco come la cima più alta della filosofia, quasi vetta d' altissimo monte che si perde nella maestà delle nubi, si continua col lume superno custodito nella cristiana credenza, e questa mette in sul capo a quella un' augusta e celeste corona. Egli è dunque manifesto, che quello che abbiamo detto il secondo elemento della sapienza, LA VIRTU`, e la religione che n' è la perfezione, fa la strada al primo che è LA VERITA`, di cui la Filosofia, come esercizio, è l' investigazione, e la Filosofia, come scienza, è il sistema. Ma la scienza poi dà una nuova forma e più sublime alla stessa sapienza . Perocchè se la sapienza ha per sua base la cognizione della verità, e se questa si può conoscere nella sua integrità formale in due maniere, l' una delle quali è comune a tutti gli uomini, l' altra, riflessa e consapevole, propria sol de' filosofi; convien dire che v' abbiano del pari due maniere di sapienza: una sapienza comune a tutti, che s' edifica sulla cognizione comune, diretta e popolare, quando l' attività libera dell' uomo, senza lasciarsi anneghittire da alcuna tenebra d' affetto, nè sommovere da alcun impulso di cieca passione, cammina nella luce di quella verità che conosce ed ama su tutte le cose, onde il soggetto uomo, che nella volontà dimora, è conformato ed accordato all' oggetto, come due corde d' una stessa cetera; e una sapienza propria del filosofo, che s' edifica, non sulla sola scienza, a dir vero, che rade volte è perfetta ed intera, ma sulla scienza e ad un tempo su quel fondo di cognizioni che in lui rimane, di cui la scienza è come un ricamo a rilievo; quando amando tutto quello che sa di vero, lo sappia in una forma o nell' altra, cerca di realizzarlo tutto, e di rendere quasi sussistente e vivente in se medesimo quella verità che conosce. E quantunque nel viaggio all' alta regione della scienza l' ingegno incontri nuovi pericoli e strane lotte da sostenere con nuove forme d' errori (chè trasportato l' umano ragionamento, spesso ambiguo, ad una riflessione superiore in un campo senza pari più ampio, gode provar le sue forze a scoprire egualmente ed a coprire il vero, e seco stesso combattere, come in vasto mare i venti si sbrigliano con più di libertà e di furore che in un lago angusto); tuttavia e può l' uomo trionfare di tali procelle, se il guida un illimitato amore della verità, e giunto in fine alla scienza, può rendere a quella verità che come scienza possiede e vede perspicua e da molti lati, un più profondo ossequio, e una testimonianza più illustre; e ad essa dare quasi in dono, una porzione più eccellente di se medesimo, qual è la volontà riflessa e consapevole che sorge come nuova potenza in seno alla scienza, e che nel vero, di cui fruisce, rinviene una gioia sua propria, che anch' essa è cognizione, e amore, e nuovo ossequio del vero. E` dunque somministrata dalla Filosofia nuova materia alla Sapienza, che per essa aggrandisce, e nuovo stimolo all' amore della Sapienza. Laonde se la Sapienza che precede, guida l' uomo alla Filosofia, e con questa dimora; la Filosofia da sua parte restituisce l' uomo alla Sapienza che sussegue, e che è maggior della prima. Tali sono le intime e preziose relazioni fra la scienza filosofica e la Sapienza. Invano s' è tentato di sciogliere vincoli così naturali e sì sacri. Ogni qual volta si è voluto separare la scienza dalla virtù morale , e si è preteso che quella dovesse andarsene sola e bastare a se stessa; ella s' è trovata languire e morire nelle mani temerarie che le hanno fatto subire quest' esperimento, come il corpo d' un uomo, a cui si estragga il proprio sangue, per rifondervi forse quello d' un caprone. Chè per verità egli è più facile comporre un essere vivente ed intelligente accozzando insieme elementi materiali per via di chimiche operazioni, che, senza l' amore della verità e della virtù, comporre la Filosofia. Quella è l' illusione del materialista, questo il perpetuo sogno del razionalista. Tanto più che non essendo la Filosofia che una rappresentatrice fedele e quasi una disegnatrice dell' essere (giacchè tutto il resto non è Filosofia, ma sofistica), e l' essere, ordinato nella sua essenza, avendo principio, mezzo e fine, cioè sussistenza, intelligibilità, e amabilità, onde risulta la virtù, e, come sua appendice, la felicità; così essa, la Filosofia, dopo aver ritratto l' ente come principio, e l' ente come mezzo, dee terminare e riposarsi nella scienza della virtù e della felicità, dove pur l' ente, come in termine di sua perfezione, si riposa e si compie; nè la scienza della virtù si rivela a chi le è nemico. Chè, come accade delle sensazioni, le quali niuno potrebbe inventare o immaginare, qualora non ne avesse avuto esperienza, così del pari la sola osservazione ed esperienza è finalmente quella che in un modo positivo ed intimo fa conoscere i fenomeni morali che la natura e l' eccellenza della virtù spiegano e manifestano: il che non può dirsi, almeno in grado eguale, del vizio, il quale ha natura di negativo e di privativo, e però colla notizia del positivo, che è il suo contrario, sufficientemente s' intende. Di che di nuovo si raccoglie, che la disposizione più necessaria allo studio della filosofia consiste in questo, che l' uomo pratichi la virtù, come, nell' ordine d' una scienza e d' una sapienza più elevata, sta scritto: « « Figliuolo che desideri la sapienza, conserva la giustizia, e Iddio te la darà »(1). » E` dunque un distruggere l' uomo il separarne, come vuol fare la scuola tedesca, la parte intellettiva dalla parte attiva e morale, e in quella, cioè nella scienza pura, assorbire anche questa. I primi che fondarono questa scuola, il Kant ed il Fichte, non sapendo spiegare, a cagione del soggettivismo ingozzato a modo di pregiudizio dal loro secolo e non mai digerito, come l' intelligenza potesse conoscere cose diverse dall' uomo; su questa loro ignoranza fondarono il nuovo sistema, e sentenziarono, la ragione esser del tutto incapace di percepire il mondo esterno, e così la dichiararono incapace di fare quello che ella continuamente fa. Ma temendo che gli uomini si spaventassero di soverchio agli assurdi d' una dottrina che, come una Dea irata colla ragione , criticandola, la castigava e riduceva all' impotenza; ricorsero per temperamento all' azione , e in questa riconobbero una cotale comunicazione reale dell' uomo col mondo esterno: di che sotto il nome di ragione pratica restituirono allo spirito umano (però entro una sfera soggettiva) quello che avevano tolto al medesimo sotto il nome di ragione teoretica . Il ripiego non potea durare, chè le incoerenze non durano. Laonde il Schelling, l' Hegel e i loro discepoli abolirono quel dualismo che restava nell' uomo, e più fedeli al principio, che l' uomo non può uscire di sè (del che era prova concludentissima questa che la loro mente ne ignorava il modo, e il decoro d' un professore d' Università voleva ch' egli non ignorasse cosa alcuna, e che piuttosto di confessare la propria ignoranza, negasse imperterrito i fatti più comuni e più evidenti della natura), dissero, che l' azione durava fenomenalmente nell' uomo fino che questi non fosse giunto alla scienza , e propriamente all' idea che sola esiste e diventa uomo, azione, oggetto, soggetto, concetto, natura, Dio, ogni cosa. L' uomo non arriva a conoscere questa gran verità, che l' idea è tutto, fino che la coscienza di lui è ancora immersa e approfondita nel travaglio di pervenirvi, che è successivamente creazione ed annullazione (perocchè non vi ha requie, ma soltanto, come diceva Eraclito, continuo moto); pel qual travaglio l' uomo mai non è, ma sempre diventa , e diventa or pura idea, or nulla, ora dal nulla sorte novellamente uomo, [...OMISSIS...] per rientrare poi tosto nella natura materiale, o indiarsi, o idealizzarsi, o ripiombare di bel nuovo nel gran nulla. Così in questa scienza ogni azione, e con essa ogni moralità, non è più che una passaggera metamorfosi dell' idea, e l' Uomo7idea è a tutte cose superiore, anzi è tutte le cose, nè egli, il tutto, può più ricevere altronde alcuna legge. Sebbene poi disparisca nel nulla anche la coscienza di sè , tuttavia questa sola, appunto perchè non esce di sè, è verace, e la cognizione dell' altre cose, che in Germania si chiama coscienza senza più, deve esser vinta da quella. Perocchè la coscienza di sè , e la coscienza (cognizione dell' altre cose) lottano insieme, secondo la filosofia germanica, al modo degli antropofagi, e colla vittoria che spetta alla prima, questa si mangia saporitamente la seconda. Laonde la coscienza , ossia la cognizione di Dio e de' proprŒ simili, essendo divorata dalla rabbiosa fame della coscienza di sè stesso , che sola rimane soprastante, i doveri morali verso Dio e verso gli uomini sono divorati con essa, e di queste vecchie cose è sparita pur la notizia. Allora l' uomo, coscienza pura di sè stesso, nel che sta l' apice di sua grandezza, è liberato d' ogni obbligazione, salvo che gli resta, non il dovere certamente, ma il piacere di adorare se medesimo; come anche quel nulla , in cui poco stante farà un capitombolo, per riuscirne di nuovo, come dall' ovo primordiale. Le quali non sono conseguenze che noi caviamo: anzi il merito d' averle dedotte appartiene parte allo stesso Hegel, parte poi a' suoi discepoli, che non hanno ancora acquistato alcun merito di essere nominati. E così sotto il nome di scienza e di filosofia, la sofistica in Germania tolse a schernir l' uomo, palleggiandolo fra il nulla e il tutto , senza riposo: coll' uomo poi rimase uno scherno la scienza, la filosofia, la sapienza: tutte cose che di continuo escono dal gran mare del nulla, in cui rifluiscono. Niuna maraviglia, che la voce della filosofia ora in quel paese sembri ammutolita e confusa. Pure la dualità della cognizione e dell' azione che quei sofisti cotanto abborrono, non toglie l' unità dell' essere identico nell' idea e nell' atto, nè impedisce l' unità della sapienza, che dall' intima congiunzione, organata ed armonica, di que' due elementi risulta, vivente non morta, come è inevitabile che si rimanga l' uno, se si spoglia di qualunque pluralità. Nè fra la contemplazione e l' azione v' ha contrarietà di sorte, quasichè questa impedisca la pienezza di quella, come si suppone, chè la mente contempla ugualmente sì nell' uomo che opera, come nell' uomo che non fa nulla: nel primo contempla anche quello che egli stesso fa: niuna cosa rimane esclusa dalla contemplazione, benchè le cose contemplate abbiano poi un' altra forma d' essere che le pone fuori di essa; e questo stesso è la contemplazione che ce lo dice e ce l' accerta. Riassumendo dunque, noi dicevamo, che nella cogniziione della Verità, di cui la scienza è soltanto una forma riflessa, giace il primo elemento della Sapienza; ma questa stessa cognizione non principia ad essere elemento di Sapienza fino che è puramente speculativa, e non ancora assentita ed amata fino che l' uomo, non v' ha aggiunto del suo, fino che la cognizione non è divenuta azione libera; chè la stessa visione del vero è doppia, l' una necessaria, l' altra volontaria e amorosa, alla qual ultima spetta più propriamente il nome ora di contemplazione , ora di cognizione pratica . Laonde c' è una cognizione ed una scienza psicologicamente anteriore a quel punto in cui la Sapienza incomincia. Ora per non lasciare questo discorso imperfetto e l' immagine della sapienza senza capo, conviene che noi facciam passaggio dall' ordine naturale a quell' altro senza pari più sublime, cioè al soprannaturale. Prendiamo il ragionamento del suo principio. L' uomo arriva in due modi all' acquisto delle cognizioni: l' uno, difficile e lento, quand' egli abbandonato a se stesso, senza alcuna educazione ed istruzione, senza poter far uso d' alcun maestro, col proprio ingegno s' avanza, fin dove può, alla scoperta del vero: l' altro facile e spedito, quando sotto la disciplina di maestri apprende dalla loro parola non solo quelle poche verità ch' egli avrebbe potuto scoprire da se medesimo, ma per ordine una copia smisurata di notizie raccolte colle fatiche d' innumerevoli studiosi, e quasi ammassate e trasmesse di secolo in secolo alle successive generazioni, siccome eredità o patrimonio comune dell' umana famiglia. Tutti unanimamente convengono, che l' efficacia di questo secondo modo d' erudirsi sia infinitamente maggiore del primo: e però in tutti i tempi dopo i primissimi v' ebbero maestri e scuole, ne' tempi poi più civili, dove, essendo già maggiore lo sviluppo degl' ingegni individuali, sarebbero parute men necessarie, si riconobbero in quella vece più importanti; e crebbe fuor di misura la sollecitudine d' istituire Università e Licei ed ogni altra maniera di scuole, nelle quali dalla voce di sceltissimi precettori venissero a moltissimi quelle notizie comunicate e propagate. Chè la comunicazione della verità da una mente ad un' altra per mezzo della parola è la via di tutte e più fruttuosa e più spedita, per la quale, con leggera fatica, gli uomini trapassano dall' ignoranza al possesso del sapere. L' autorità dunque è il natural pedagogo, che incammina più direttamente e più pienamente alla scienza: ella inizia, eccita, dirige, arricchisce, rinforza, e quasi moltiplica l' umana intelligenza. Ma egli è evidente, che il maestro non può insegnare quello che non sa: quindi l' importanza che sia dotto. Nè ella è legger cosa al profitto la stima e la fiducia de' discepoli nel proprio istitutore. Che anzi in molti problemi difficili e di sommo momento, gli uomini il vorrebbero avere del tutto infallibile, e lo si augurano onnisciente. Il quale natural desiderio di sapere il vero e saperlo con certezza, che conduce le menti a comporsi l' ideale del maestro a cui appartengano le due doti, dell' infallibilità e dell' onniscienza, suol muovere l' affetto de' discepoli a celebrare con ogni esagerazione la dottrina e l' autorità de' loro precettori; e vediamo non pochi di questi avere in vari tempi conseguita l' appellazione di divini, od altra di pari eccesso: i discepoli poi aver sovente giurato nelle parole de' maestri ed essersi compiaciuti di risolvere le questioni tutte colla solennissima formola dell' ipse dixit . Ma Platone, a cui pure fu dato l' epiteto di divino, ogni qual volta ne' suoi ragionamenti s' abbatte in alcuno di que' rilevantissimi e misteriosi problemi, di cui tutti desiderano sapere la soluzione, perchè da essi dipende l' umana destinazione di que' problemi, pe' quali si coltiva la filosofia non altrimenti che si coltivi l' albero pel suo frutto non s' arrogò mai alcun divino sapere, ed anzi confessò la propria ignoranza, facendo voti che lo stesso Dio s' avvicinasse e rivelasse agli uomini, come quelle cose si stessero, e colla sua autorità infallibile ne desse loro una piena sicurezza (1); chè di queste due cose ad un tempo hanno gli uomini sommo bisogno, e di conoscere la verità di tali questioni, e di conoscerla senza titubanza bastando la sola titubanza a rendergli infelici. Che se Alessandro Magno ringraziava gli Dei dell' averlo fatto nascere in un tempo, in cui viveva Aristotile, quanto non si sarebb' egli tenuto più fortunato, se gli fosse toccato un Dio per maestro? E tutti quelli che conobbero tra i gentili a che caro prezzo di fatiche e di studŒ si prevenga alla verità, tutti quelli che per arrivarvi logorarono la propria vita in lunghi viaggi, in veglie, in privazioni d' ogni maniera, e dopo di tutto non riuscirono che ad opinioni contrastate, a congetture più o meno probabili, e mai alla sicurezza di possederla, tutti questi dico, qual contento, qual giubilo non avrebber provato, se avessero potuto anche un solo istante abboccarsi con Dio medesimo, e dalla sua propria bocca intendere quelle risposte infallibili, e quegli indubitabili ammaestramenti che desideravano! Ed anzi ell' è comune, naturale all' umanità, non declinabile a nessun uomo, ardentissima, inquietissima la brama di pur sapere quali sieno gli esiti finali della virtù e del vizio, e che cosa sarà dell' uomo dopo questa breve vita se sopravviverà l' anima alla dissoluzione del corpo, se sopravvivendo si rimarrà sempre dal corpo divisa; e che farà, che patirà in una eterna esistenza, se sarà felice, o infelice: questioni tutte sulle quali gli uomini nè possono vivere incerti, nè da se stessi con positiva sentenza, e d' alcuna titubanza non indebolita, pronunciare, onde quelle qualunque opinioni, che i filosofi intorno ad esse immaginarono, si rimasero vaghe nella forma, congetturali nella sostanza, molteplici, contraddittorie, prive poi d' autorità, e di stabilità di consenso: e sopra tutto ciò in dominio de' poeti, che favoleggiandole, vie più incredibili le resero, onde i più potenti ingegni per aver pure qualche cosa di positivo e di meno indeterminato s' appigliavano, siccome il naufrago che s' apprende ad ogni fuscello ad ogni foglia che nuota nell' onde, a certe voci antiche, di cui per una popolare tradizione giungea fino ad essi il lontano rumore (1). Qual cosa dunque più conforme al bisogno instante e al voto di tutti gli uomini, che il rinvenire un maestro così eccellente che tutte queste cose sappia egli stesso per iscienza indubitabile, e possa narrare altrui con piena autorità d' esser creduto e facoltà di persuadere? E quale può essere un maestro così fatto, se non Dio stesso? O chi potrebbe avere a dispetto un maestro di tal condizione, o provare rincrescimento, ch' egli discendesse in sulla terra per ammaestrare gli uomini? Chi arrossirebbe di farsene discepolo, chi si chiuderebbe gli orecchi per non udirlo? Certo nessuno, se non fosse venuto a tanta dissennatezza da odiare la luce, e a tanto pervertimento da soffocare in se medesimo il più vivo, l' immortale istinto della natura umana. E` dunque desiderabile a tutti quelli che amano la verità, e cercano la sapienza, che Iddio stesso si renda maestro degli uomini; ed è anco probabile, che, essendo Iddio ottimo e conoscitore de' bisogni e di tutte le tendenze di questa natura umana che è opera sua, l' abbia voluto; nè solo è probabile che l' abbia voluto, ma questo è oggimai il fatto più di tutti i fatti luminosissimo, il quale è risonato in tutti i secoli, ed ha empito della sua virtù tutta la terra. V' ha dunque una scienza soprannaturale e divina, conforme al desiderio dell' umana creatura, e all' esigenza della ragion vacillante, che, dopo aver tentato di scoprire e d' indicare all' uomo la via della felicità, confessava di non rinvenirne alcuna che fosse sicura tra i non prevedibili e fatali avvenimenti della presente vita, d' una vita di cui ella non potea penetrare il mistero, simile ad una catena di sogni, che certamente si dovea rompere, e in breve e in un istante sconosciuto: al quale istante condotta la ragione si vedeva fermata davanti alla ferrea porta della morte senza poterla aprire, e dentro traguardare che v' avesse al di là, quali sedi, quali dimore aspettassero l' anime intellettive, che si sentivano pure immortali. Che se la sapienza fu definita, non a torto, « « la scienza della felicità »(1) » conviene per fermo conchiudere, che quella cognizione soprannaturale, che fu insegnata agli uomini dallo stesso Iddio, fattosi loro maestro, questa cognizione, dico, che sola aperse ai mortali il segreto della morte, e della nuova ed eterna vita, a cui la stessa morte è varco, si meriti ella sola il titolo di sapienza. E via più, che da un tanto maestro l' uomo non impara solamente a conoscere quali beni gli stieno preparati oltre al confine del tempo, ma a quali condizioni egli possa venirne in possessione, e ne apprende l' arte, e ne acquista gli stromenti. E così in questa scuola soprannaturale fu sciolto col fatto un altro altissimo problema, che, nell' ordine naturale, venia proposto e discusso dai più sagaci intelletti, cioè « se la virtù si potesse insegnare. » Del qual problema Platone in più luoghi diede una risoluzione negativa, affermando che la virtù non è cosa che insegnar si possa, come s' insegna la scienza , nè si possano trovare fra gli uomini i maestri di essa, e di conseguente neppure i discepoli, e finalmente che il solo Iddio ne poteva essere e il maestro ad un tempo, e il donatore (1). Nuova potentissima ragione riconosciuta dalla naturale filosofia, per la quale era non pur desiderabile, ma necessario un maestro divino. E a Dio veramente è dato di comunicare ad un tempo e la verità alla mente, e la virtù all' umana volontà. Sapendo ora dunque l' umanità di possedere questo maestro, la scuola del quale non si racchiude in alcun' aula magnifica, o in uno spazioso portico, o in qualche ameno bosco o villa, nè in alcuna città, ma risuona per tutti i luoghi dove risplende il sole, e dove l' aria fa anelare il petto dell' uomo, noi dobbiamo, volendo in qualche modo abbozzare l' immagine della sapienza, accennare più distintamente, che cosa s' insegni, che cosa s' impari in questa scuola, dove entrambi que' due elementi di cui dicevamo risultar la sapienza, si danno gratis a tutti quelli che li desiderano, e così compiuti, come a un Dio che insegna è possibile e condecente. Consideriamo la nuova scienza , a cui in appresso si continuerà spontaneo il discorso della nuova virtù . Noi abbiamo distinto la verità dalle diverse forme , nelle quali ella si presenta alla vista degli uomini. Queste cangiano nelle varie età, e nel vario svolgimento delle facoltà intellettive, di modo che la verità prende delle forme infantili, dell' altre proprie della puerizia, e così dell' adolescenza, della virilità, della vecchiaia, altre nel comune degli uomini, altre ne' soli scienziati. Ma prima di tutte queste forme v' ha la stessa verità, ed ella è quell' essere ideale nel quale tutte le entità sono conoscibili. La verità anteriore alle forme comunica immediatamente coll' uomo, e lo costituisce intelligente. Ora anche qui domanderemo qual è il maestro che insegna all' uomo la verità pura, anteriore alle forme e di tutte poi suscettiva? Qual è il maestro che gli dice questa prima parola, colla quale l' uomo interpreta, ed intende tutte le altre? Nessuno de' mortali insegna a questo modo la verità e se un tale ci fosse, da chi l' avrebbe egli apparata? E come potrebbe comunicarla? colle parole? Ma queste non sono che suoni, che diventano poi segni, non tanto per la virtù e per l' opera di chi le pronuncia, ma assai più per l' opera di chi le ascolta, e le interpreta a se medesimo, e che non potrebbe interpretare ed intendere, se non potesse trasportare la sua mente da' suoni esteriori alla verità significata, che non è ne' suoni, ma che egli si trova dentro nell' anima. Ogni magistero umano dunque suppone prima di sè un magistero divino, il magistero di colui che fu chiamato « « luce vera, che illumina ogni uomo veniente in questo mondo »(1). » Al qual magistero l' uomo crede per natura e non per raziocinio, di manierachè anche nell' ordine naturale, non solo nel soprannaturale, la fede precede la ragione , e s' avvera la sentenza « « se non avrete creduto, non intenderete » ». Ecco il maestro primo, ecco il solo, a cui veramente s' appartenga un tal nome, perchè il solo che comunica la verità, quando gli altri non fanno che ammonire ed eccitare coloro, a cui la verità è già comunicata, a pensarvi, a riflettervi, a considerarla sotto forme speciali. E però a tutta ragione questo maestro represse la boria de' sapienti della terra, dicendo a' suoi discepoli: « « Voi non vogliate chiamarvi maestri, perchè uno solo è il vostro Maestro, e voi tutti siete fratelli »(2). » Il qual precetto fu dato quando Iddio, mostrandosi in forma di maestro visibile, alla prima parola colla quale illuminava l' umana specie nel giorno che la creò col darle ad intuire la verità, aggiunse una seconda parola più sublime assai della prima, ma interna come la prima, verità come la prima, anteriore anch' essa alle forme, come la prima efficace, come la prima ed insieme colla prima luce non bisognevole d' altra luce per vedersi, visibile per se stessa. E a quel modo che la prima parola fu porta che intromise l' uomo nel mondo dell' intelligenza naturale , la seconda è porta che lo introduce in un altro mondo più ampio dell' intelligenza soprannaturale . E quanto si rispondano questi due lumi, e come il metodo col quale viene illuminato l' uomo nell' ordine delle cose soprannaturali proceda identico a quello col quale egli viene illuminato nell' ordine delle cose naturali, ond' apparisce la scuola esser la stessa, lo stesso il maestro, fu da noi prima accennato e sarebbe lungo a pienamente descrivere. Ma osserveremo solamente, che quando Iddio, creando l' uomo, lo ammaestra col lume della ragione, allora in pari tempo egli lo rende atto e ad apprendere da sè più cose che sotto molte forme gli danno a vedere la stessa verità, che senza forme già vede, e a ricevere altresì ammaestramento dalla voce degli altri uomini, e ad ammaestrare altri egli stesso, loro comunicando le cose e le forme da lui conosciute; di che seguita, che la scuola del maestro divino che il primo e il solo comunica la luce del vero, è quella che rende possibili tutte l' altre scuole, o che l' uomo coll' aiuto di quella luce investighi da sè la verità ed ammaestri se stesso, o che sia ammaestrato da altri. Il primo maestro dunque forma tutti gli altri maestri, come pure forma gli stessi discepoli; chè e quelli e questi esistono soltanto in virtù di quel primo tacito, ma potentissimo magistero. Ora il somigliante accade nell' ordine soprannaturale, dove il magistero divino che dà il lume all' anima rende questa idonea ad investigare, apprendere ed insegnare le cose che a quell' ordine appartengono, e così rende possibile anche in quest' ordine un magistero esterno ed umano. E a quegli uomini appunto che furono incaricati d' esercitare quest' umano magistero nell' ordine superiore a quello della natura, a quegli uomini che furono istituiti da Dio stesso maestri delle cose più eccellenti, a tutte le nazioni, e a tutti i secoli, fu detto: « Voi non vogliate chiamarvi maestri, perchè uno solo è il vostro maestro, e voi tutti siete fratelli. »Quest' ammonizione non poteva uscire dalla bocca d' alcuno, che non fosse Dio, e a quelli a cui era data, essa rammentava di continuo, onde derivasse la chiarezza e la potenza della loro parola, che sarebbe pur sempre echeggiata, e sempre intesa di generazione in generazione sino alla dissoluzione del globo: il tuono della quale al di sopra d' ogni vociolina, o ronzio terreno, già per lo spazio di diciannove secoli senz' alcuna interruzione, si propaga. Chè la rivelazione esterna e la predicazione nè sarebbe a sufficienza intesa, nè assentita dagli uomini, nè resa operativa dalla cooperazione della volontà umana, se non fosse a ciascuno di essi interpretata, illustrata ed avvalorata dalla luce interiore del carattere e della grazia . Laonde un dottore che colla mente penetrò più addentro di moltissimi in questo vero, venutegli a mano quelle parole in cui Cristo si chiama « principio che anche parla a voi », così ne scrisse: [...OMISSIS...] Laonde questo stesso uomo sapientissimo dalla cattedra dove sedeva maestro di altissimi veri co' suoi uditori usava un linguaggio nuovo e per umiltà inaudito nelle scuole dei filosofi, dicendo a tutto il suo popolo, ai dotti, e agl' indotti ugualmente: « « Egli è più sicuro, che e noi che parliamo, e voi che ascoltate riconosciamo di essere condiscepoli sotto un solo maestro. Al tutto ella è questa cosa più sicura e giovevole, che voi ascoltiate noi non come maestri, ma come condiscepoli »(2). » Di due parti dunque si compone l' insegnamento soprannaturale del lume interiore e della rivelazione esteriore che la predicazione e il magistero ecclesiastico perpetua nel mondo. E il divino Maestro entrambi le accennò quelle parti, quando interrogato chi fosse, rispose: «PRINCIPIUM, QUI » (ovvero propterea ) «ET LOQUOR VOBIS (1). » Dicendo principium egli espresse il lume interno, che è appunto il principio di ogni verità e cognizione, non potendo la voce corporea esser principio, o comunicare altrui il principio dell' intelligenza, come quella che ha bisogno per essere intesa di trovar già nell' uomo quel primo lume che è chiave ad aprire ed interpretare il significato d' ogni segno sensibile: dicendo poi, qui et loquor vobis , espresse quell' esteriore e sonoro ammaestramento, che all' interno risponde lo svolge, e che egli medesimo, Iddio fatto uomo, volle pure esercitare infra gli uomini, e commettere poi a' suoi Apostoli di tramandare le cose udite da lui, ed intese per lui, agli altri, a cui egli avrebbe continuato il lume, col quale avessero potuto intenderle. Laonde nella parola « principio »è indicata chiaramente la natura divina e il divino magistero: in quel che segue « e perciò parlo a voi », è indicata la natura umana e il magistero umano che dal primo dipende: l' una e l' altra natura nella identica divina persona, l' uno e l' altro magistero dalla stessa persona esercitato, e il secondo veniente come conseguenza dal primo: « « e perciò anche vi parlo; «oti kai lalo umin» (2) »: quasi dicesse: « Io ho la facoltà e il diritto di parlarvi, perchè sono il principio, che v' illumina: non vi potrei parlare esternamente queste cose, se io non fossi quello che ve le fa intendere internamente. » La Filosofia che è l' opera della riflessione , corre il pericolo d' impiccolirsi, come abbiam già osservato, restringendosi dentro la sfera del pensiero riflesso, e negando tutto ciò che è, e vive fuori di esso. Quindi a molti di quelli che la professano, chiusi nell' angustia di quel pensiero speciale col quale filosofeggiano, che essi scambiano col pensiero generale , riesce difficilissimo a riconoscere, che avanti alla stessa riflessione esiste un lume che tocca immediatamente l' anima, un lume comune a tutti gli uomini, non bisognevole di filosofia per risplendere, quando la filosofia ha pur bisogno di lui, siccome la lampada del fuoco, al quale s' accende. Una filosofia, così rannicchiata in se medesima, non può intendere quel magistero soprannaturale di cui parliamo, chè non intende nè manco qual sia la natura del magistero naturale della verità. Ma la scuola germanica impossessatasi, come abbiam detto, di questa cotale ignoranza filosofica, vi fabbricò sopra con tutta la forza e la profondità possibile all' ingegno che lavora sul falso, un compiuto sistema. I discepoli di Hegel intimarono esplicitamente la guerra più accanita a tutto ciò che essi denominarono l' immediato , intendendo sotto questo vocabolo qualche cosa di divino che elevi la mente dell' uomo più su della coscienza scientifica e determinata. Negarono Dio stesso per questa curiosa ragione che « l' idea di Dio non si riflette su di se stessa »; quasichè l' idea di Dio porgesse alla mente un Dio inconsapevole: tanto era loro divenuto invisibile tutto quello che rimanea fuori della riflessione, o che esiste senza di essa! Dicevamo dunque, che l' ordine in cui procede la cognizione delle cose soprannaturali è analogo, e, per così dire, dello stesso stile, all' ordine in cui procede la cognizione delle cose naturali. Nella notizia delle cose naturali c' è un primo lume interiore, e un primo lume interiore c' è pure nella notizia delle cose soprannaturali; quel primo lume è la verità che veste poi varie forme, le quali costituiscono tutte le cognizioni che non eccedono la natura, scientifiche o no, comprese le ultime speculazioni della Filosofia; quest' altro primo lume è ancora la verità che veste varie forme, le quali costituiscono tutte le cognizioni soprannaturali, comprese le più alte contemplazioni della Teologia: quel primo lume è il criterio della naturale certezza, lui si consulta dall' uomo in ogni dubitazione (1); quest' altro primo lume è il criterio prossimo della certezza soprannaturale, lui pure s' interroga da chi vuol conoscere d' una dottrina annunziata in nome di Dio, il vero ed il falso (1); quel primo lume si svolge e per le proprie meditazioni e per la parola altrui; quell' altro primo lume del pari si svolge e si moltiplica o col meditare che l' uomo faccia da sè, o ascoltando l' altrui parola: onde lo spirito di Dio come ancora la sua legge è detta molteplice (2). Nell' uno e nell' altro ordine dunque si riconosce lo stesso disegno, la stessa mano, lo stesso autore, lo stesso maestro, e questo divino. Ma ora in che sta poi la differenza fra le due verità primitive, fra i due ordini di cognizioni? Il primo lume che rende l' anima intelligente è l' essere ideale e indeterminato: l' altro primo lume è ancora l' essere , ma non puramente ideale, ma ben anco sussistente e vivente. L' essere sussistente è Iddio: egli stesso disse « « Io sono l' ESSERE »(3) » Avendo usato il pronome personale IO, egli si manifestò come persona , l' essere come oggetto è il Verbo, e quest' essere oggetto è persona, di cui pure è scritto: « « In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo »(4). » E` quello stesso che altrove chiamò se stesso principio (5): principio d' ogni intelligenza, e d' ogni cognizione: perchè il principio della cognizione è l' oggetto primo, e il primo ed essenziale oggetto che contiene tutti gli oggetti è l' essere: gli altri oggetti del pensiero sono oggetti per l' essere, l' essere è oggetto per se stesso. L' idea dunque è l' essere intuito dall' uomo; ma non è il VERBO; chè non quella, ma questo è sussistenza; quella è l' essere che occulta la sua personalità , e lascia solo trasparire la sua oggettività indeterminata ed impersonale: nella mente, che intuisce l' idea non cade la personalità dell' essere, nè la sussistenza, e perciò ella non vede Iddio: ma chi vede il Verbo, ancorchè per ispecchio e in enimma, vede Iddio. Laonde se la naturale scienza termina, in qualche modo, in quella che Boezio chiama: « sola rerum PRIMAEVA RATIO; » la scienza soprannaturale giunge a quella che è ad un tempo stesso « nullius indigens VIVAX MENS (1). » L' uomo è un soggetto reale : quindi non può fermarsi all' idea, egli aspira a congiungersi col reale. Il reale dato all' uomo nella natura è finito, e l' idea conduce l' uomo a conoscere e ad amare questo reale finito, ma nello stesso tempo glielo mostra finito, ed essendo infinita l' idea gli mostra la possibilità, la necessità d' un altro reale infinito, che non è dato all' uomo. L' uomo a ciò che conosce, estende anche il suo desiderio: questo dunque va all' infinito, a quell' infinito che l' idea gl' indica dover essere, senza il quale nè la potenza dell' idea sarebbe esaurita, nè il conoscimento possibile all' uomo compito, nè il suo desiderio di conoscere, di congiungersi e di godere appagato. Ora questo infinito reale è dato inizialmente all' uomo nel lume soprannaturale, che Iddio gratuitamente gli aggiunge: la percezione di questo lume sostanziale e sussistente è la percezione del divino Verbo; quivi il desiderio riposa, quivi l' uomo, in un cotal modo, anche nella vita presente, si sazia. Il maestro dunque, di cui noi teniamo discorso, ha, fra le altre, questa singolarità che lo distingue da tutti gli altri maestri, che mentre a questi nel trasmettere che fanno a' loro discepoli le varie scienze e discipline ch' essi professano d' insegnare, non cade mai nella mente d' insegnar loro se stessi: e s' alcun d' essi, foss' anco un professore di qualche Università del Settentrione, invasato dal Demonio della vanità, prendesse seriamente ad annunziare dalla cattedra la materia del suo insegnamento in questo modo: « O giovani, io in quest' anno vi darò lezioni sopra me stesso, la scienza che v' insegnerò sarà la scienza della mia propria persona. »Probabilmente quegli uditori, benchè così generosi, così entusiasti de' loro professori, vinti questa volta non dall' ammirazione, ma dalla compassione, andrebbero mestamente ad avvisare il Rettor Magnifico della disgrazia accaduta a quel gran cervello. All' incontro il maestro unico, di cui noi parlavamo, non destò nè compassione, nè riso, dicendo espressamente agli uomini, che la scienza che insegnava, era quella che faceva loro conoscere lui stesso. Invano qualche professore tedesco mostrò dell' invidia di questo parlare divino (1). Gli uomini riconoscono, che quel maestro che loro così s' annunzia è anche il proprio e il massimo oggetto della cognizione e della scienza, un oggetto che nel momento che si comunica, è noto, come quello che per essenza è intelligibile. Quel maestro non ha che a dire: eccomi, vedetemi: e l' uomo è istruito: questa è la vera arte notoria. Chè essendo il maestro di cui parliamo, Iddio, e in Dio contenendosi tutte le cose, anche quelle che non sono Dio, ma create da Dio, poichè anche queste hanno una maniera d' essere in colui che « « porta tutte le cose colla parola della sua virtù »(2), » e tutte le cose essendo in Dio intelligibili, perchè Iddio è intelligibile per essenza, e, in quant' è così intelligibile, si chiama il Verbo; consegue che chi conosce Iddio, il Verbo di Dio, conosce il tutto, perchè il tutto in esso si trova. E niun altro può ascendere ad una scienza compiuta delle cose, se non ascende a colui, nel quale tutte s' accolgono, s' impernano, si collegano, si unificano: nè v' ebbe mai filosofo d' alta mente che non intendesse a sintesizzare le sue cognizioni, riferendo le cose conosciute all' Essere divino, o che credesse di dover aspettar altronde il compimento dello scibile umano, o questo riputasse ultimato e assoluto, finchè, speculando, non fosse siccome rigagnolo ricondotto nel mare dell' essere e della sapienza, ond' era quasi direi evaporato, e poscia condensato in acqua di scienza. L' idea è una forma v“ta, come dicevamo, non contiene l' essere completo , ma una cotal sua delineazione: indica all' uomo, soltanto l' enimma dell' essere completo, non glielo porge perchè non l' ha in se stessa: il Verbo all' opposto, che è il lume soprannaturale, è l' essere completo: ha il compimento di quell' essere, di cui nell' idea vedesi un languido abozzo. Il senso, cioè la facoltà di sentire le cose corporee ed altre incorporee, come l' anima, ma finite, nell' ordine naturale, viene in soccorso dell' intelletto, ossia della facoltà d' intuire l' idea. Ma quanto è povero questo soccorso! Come dice il poeta: [...OMISSIS...] E di vero non v' ha alcun organo o altra facoltà sensoria nella natura dell' uomo che senta Iddio, e perciò rispetto alle cose divine, che sole possono adempire l' idea, questa si riman vota ed impotente. Acciocchè l' opera della creazione acquistasse tutta la sua possibile perfezione, era uopo che nell' essere umano, fornito d' intelligenza per mezzo dell' idea, fosse aggiunto graziosamente un sentimento, il quale s' estendesse altrettanto, quanto l' idea; e come questa si stende al finito ugualmente e all' infinito, ella non poteva essere pienamente soccorsa, e quasi direi, contrabilanciata, se non da un sentimento di pari ampiezza. Ma non poteva Iddio esser contato fra gli enti della natura, di cui egli è il Creatore, e perciò egli rimane sempre distinto da essa, che ha per condizione il limite per la sua qualità di creata. Non potea dunque la natura dell' uomo avere un sentimento di Dio: ma neppure potea rimanere imperfetta l' opera di Dio. Quello dunque che non è racchiuso nella natura, nè alla natura è dovuto, Iddio l' aggiunse all' opera sua mosso unicamente dalla sua propria liberalità e infinita santità. La rivelazione fa conoscere, che Iddio costituì i primi padri del genere umano in istato soprannaturale di grazia. Se non si sapesse che questa rivelazione è vera, quanta sapienza si dovrebbe pure scorgere in essa! quant' armonia e convenienza colle divine perfezioni! Chi avrebbe potuto inventare, una notizia così profondamente ragionevole, così filosofica, che pur fu data agli uomini prima che filosofassero, prima che la scienza fosse trovata! Or poi ancora in questo tardo secolo, che si dice civile e filosofico, v' hanno di quelli, che non sono ancora arrivati ad intendere come sia stato conveniente, e conformissimo ai divini attributi, che il Creatore aggiungesse al natural lume, un altro lume soprannaturale, di quelli che ancora non comprendono come il primo non basti a tutti, perchè non vedono il rapporto tra l' idea e il naturale sentimento, e la sproporzione e insufficienza di questo a quella. E se nè pure adesso, colla natural sapienza, gli uomini giungono a tanto, chi mai in secoli meno colti avrebbe potuto inventare quella rivelazione? Troppo più ci voleva che l' umano ingegno. Ma chi o vede da sè, o gli è fatta vedere quella sproporzione che dicevamo, ben intende, siccome l' uomo, quest' opera sublime dell' essere perfettissimo, se Iddio l' avesse lasciato privo d' un senso soprannaturale, sarebbe riuscito, quasi direi, simile ad un figliuolo nato con una gamba assai lunga, e l' altra corta. La natura umana non aveva di più, non c' era di più nell' essenza di questa natura. Ma questo, che bastava alla natura umana, non bastava a colui, di cui è scritto: « « Tu facesti tutte le cose nella sapienza »(1). » E` dunque la natura dell' uomo quella che, non sapendolo e non pensandoci l' umano individuo, quasi direi, chiede per grazia il soprannaturale, come l' indigente dimanda colla sua sola indigenza: è la ragione, che, avendo un lume, questo le vale a conoscere la mancanza di qualche altro lume che le completi quel primo (benchè non sappia dire a se stessa che cosa quest' altro lume sarà), è il cuore umano che esige di possedere tanto di realità, quanta ne concepisce, e, avendo l' idea, ne concepisce un' infinità confusa, e si slancia nel v“to, con isforzo d' infrangere i termini della natura che gli sembrano angusti. Colui che così fece la natura umana, ne conoscea il voto misterioso, e inesplicabile a lei stessa, già fin da quando l' ebbe formata, e le spiegò egli stesso quel voto, e vi soddisfece: nè permise che l' avversario di questa natura che volea distruggerla, lusingandone l' amor proprio col persuaderla, che potea divenire simile a Dio da se stessa, rendesse inutile l' opera del Creatore. Permise sì che cadesse; ma caduta per la disubbidienza, spogliatasi colle sue mani de' soprannaturali ornamenti, resa di questi incapace ed indegna, vulnerata in tutte le sue potenze, egli la ristorò, e la ripose in una condizione assai più magnifica, e più sublime di prima. E questa fu l' opera non del primo lume della ragion naturale, non dell' idea, ma dell' altro primo lume della ragione soprannaturale, fu l' opera del VERBO di Dio. Quel maestro, che Platone desiderava venisse sopra la terra, per isvelare agli uomini le cose più necessarie e per arrecarne loro la certezza; quel maestro, Iddio, che è ad un tempo lume, oggetto unico ed essenziale dello scibile, persona, Verbo divino, si fece carne ed apparve in mezzo degli uomini, vero uomo anch' egli senza cessare d' esser vero Dio: GESU` Cristo ebbe nome, Salvatore, Unto di Dio. Egli insegnò a conoscere il Padre, avendo detto a chi prestava a lui fede: « « Niuno mai vide Iddio, l' Unigenito che è nel seno del Padre, egli l' enarrò »(1). » E ancora ad uno de' suoi discepoli: « « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre »(2). » Ancora, mandò lo Spirito della verità, secondo quello che avea promesso: « « E quando sarà venuto quello Spirito della verità, egli v' insegnerà ogni verità, poichè non parlerà da se stesso, ma parlerà tutte quelle cose che udirà e vi annunzierà le cose avvenire. Egli mi chiarificherà, perocchè riceverà del mio, e lo annunzierà a voi »(3). » Così l' Iddio Uno e Trino fu disvelato agli uomini: il Maestro svelò se stesso, e compì lo scibile nell' umanità. La natura e la scienza aveano incamminato l' uomo all' essere infinito per una triplice via, ma così lunga, che per viaggiare che egli facesse non potea fornirla: si trovò improvvisamente trasportato a quel punto infinitamente distante, a cui implicitamente voleva andare: si trovò in quell' essere infinito che cercava: si trovò quivi per miracolo, non in virtù d' alcun suo ragionamento, ma in virtù della fede. Ei credette quell' Essere [...OMISSIS...] Credette lui ed in lui, ed a lui: e tutto ciò, senz' ancora avvertire qual relazione s' avesse il punto elevato in cui egli già era, colla triplice via per la quale s' era messo col suo ragionamento; ma di poi, lo stesso ragionamento si ripiegò sulla fede, e riconobbe che quel termine, che andava cercando, a cui le tre vie dell' intelligenza convergevano, quel punto unico per infinita distanza inarrivabile, era quello appunto in cui la fede, quasi di sbalzo, l' avea collocato. Per verità l' essere si fa presente all' uomo in una triplice forma, come reale , come idea , come virtù . Ciascuna di queste forme siccome in suo ultimo termine d' attuazione, si riduce nell' infinito essere. L' uomo quasi in un cotal sogno divino, cerca la realità infinita , che non trova in natura; ma ben intende, che se una realità fosse veramente infinita, con tutte le sue condizioni, ella dovrebbe essere lo stesso essere infinito; cerca uno scibile infinito , che nell' idea non ha se non in potenza, ma ancora intende del pari, che se un oggetto per se intelligibile fosse veramente ed attualmente infinito, con tutte le sue condizioni, di nuovo, non potrebbe esser altro che l' essere infinito; cerca finalmente quell' infinito amore , che in lui non è che una capacità d' amare delusa sempre, sempre tradita dalle lusinghe e dall' infedeltà di tutte le cose naturali; ma finalmente, a mente sana, vede quello non esser possibile, se non v' abbia un reale infinito, infinitamente conosciuto, che ne sia l' oggetto amabilissimo, ed intende, che un tale termine dell' amore qualora ci fosse, non potrebbe essere ancora che l' essere stesso infinito, che tutto l' essere, tutto il bene. Ciascuna delle tre forme conduce il pensiero allo stesso termine, all' identico essere infinito. E queste tre vie erano indicate dalle tre summentovate parti della filosofia. Platone sembra aver veduto, che ciascuna di esse dovea terminare in Dio, nel quale riconosceva la « « causa del sussistere delle cose, la ragion dell' intendere, l' ordine del vivere »(1). » Ma chi gliene dava l' accerto? O chi prestava fede alla parola vacillante d' un uomo, che confessava d' aspettar un maestro divino, il quale gli rivelasse di tai cose la verità? E chi, anche credendo o intendendo l' alto concetto di Platone, poteva appagarsi d' un bene di cui gli si rendeva ad un tempo e nota l' esistenza e sentita la privazione? Poichè quello non era più che un modo negativo e indicativo di conoscere Iddio, non un conoscerlo colla percezione, col sentimento, colla fruizione. E poi, sciolto un nodo, un altro ancora più difficile ne usciva: « Se quelle tre cose sono tanto differenti, come si riducono ad una? e se si riducono ad una, come appaiono tanto differenti? »La dottrina dunque della TRINITA`, la dottrina cioè dell' essere uno e trino profondamente, interamente scioglie quel problema dallo spirito umano sempre proposto come un enimma a se stesso, vinto non mai: comunica all' uomo la dottrina dell' essere in tutte le sue forme. La dottrina dunque dell' augustissimo de' misteri discende dal cielo come una cupola d' oro che si colloca in sull' edificio dello scibile naturale, il quale senz' essa resterebbesi discoperto e patente alle piogge ed ai venti, e l' uomo, anche il filosofo, sarebbe condannato a vivere mal pago di sè, siccome colui che cerca continuo quello che non trova giammai. Ecco il soprannaturale della scienza necessario altrettanto che il soprannaturale della vita . Come l' umana vita non è perpetua e felice, ma divien tale in virtù d' un dono soprannaturale, così la scienza umana non è finita ed assoluta, ma divien tale in grazia anch' essa d' un' illustrazione, d' una credenza soprannaturale. Abbiamo detto, che la sapienza ha per sua base una cognizione della verità. Dunque una cognizione nuova della verità porge la base ad una nuova sapienza, una cognizione maggiore ad una sapienza maggiore. La cognizione naturale, qualunque sia la sua forma, rimane imperfetta, unita colla soprannaturale riceve perfezione. Dunque la sapienza umana non può che riuscire imperfetta, un abozzo, una ricerca di sapienza come gli stessi filosofi confessarono (tra i quali il fondatore della scuola italica rifiutò quasi arrogantissimo il nome di sapiente, chiamandosi studioso della sapienza (1)): solo colla cognizione soprannaturale è stato posto il fondamento d' una sapienza nuova, perfetta, che non cerca la verità, ma la possiede e la gode. Veniamo al secondo e formale elemento della sapienza; il quale risiede nella volontà, quando questa, con tutte le sue forze, si volge, assente, aderisce, si conforma, e conforma tutte le potenze, su cui ha impero, alla verità conosciuta, nel che sta il concetto della virtù. Allora l' uomo è virtuoso e bene ordinato, quando distribuisce il suo volontario affetto e l' attività che ne deriva secondo l' ordine oggettivo degli enti, o, come dice S. Agostino: « Haec est perfecta iustitia quae potius potiora, minus minora diligimus (2). » Ora coll' ordine oggettivo , che è la verità, viene talora in contrasto l' ordine soggettivo e limitato della natura umana: in questa collisione l' uomo non può conservarsi giusto senza sacrificio: deve sacrificare ciò che è, o che pare il suo proprio bene all' ordine assoluto, buono e venerando in se medesimo, senza alcuna relazione precisamente soggettiva. Ma se noi esploriamo l' uomo racchiuso dentro i confini della natura, vediamo che l' ordine oggettivo nella sua integrità gli è presente nell' idea; ma non gli è dato nella realità. Chè della realità l' uomo della natura, non percepisce, come dicemmo di sopra, che una parte, la realità finita del Mondo (e neppur tutta, nè pur la maggior parte di questo), laddove nell' idea egli intuisce tutto l' essere ideale. Questo squilibrio fra l' ideale e il reale che rende incompleta la scienza, è quello altresì, che rende impossibile all' uomo la perfetta virtù. Poichè se d' una parte l' idea gli mostra l' ordine intero, universale, assoluto, come una necessità morale, onde non può dissentire senza rendersi ingiusto e colpevole, dall' altra non gli dà la forza operativa, colla quale effettivamente compirlo. Donde mai viene all' uomo la forza? Questa appartiene all' ordine delle cose reali, non a quello delle ideali: alla realità appartiene il fare, all' idealità solamente il mostrare come si convenga fare. Dunque è uopo, che l' uomo trovi la forza in se stesso, o nelle realità esteriori; in una parola in quella sfera di cose reali, che a lui è conceduta. Ma questa sfera di realità è limitatissima, da essa trovasi esclusa la realità infinita, e la maggior parte delle realità finite. La forza dunque, che può attignere l' uomo dalle entità reali a lui concedute per natura, non è proporzionata alla grandezza dell' ordine ideale, che gli sta davanti come legge inesorabile. Che anzi le cose finite percepite dall' uomo, cospirano talora, come dicevamo, contro quella legge, e invece d' aiutarlo a compirla, il tentano a violarla; appunto perchè l' ordine finito che esse presentano, riesce diverso, e perciò assai spesso contrario all' ordine infinito dell' idea. Per sopperire in qualche modo a questa deplorabile mancanza di forze reali, che rendono l' uomo deficiente a realizzare il grand' ordine morale, a cui esser chiamato forma l' alta sua dignità, che cosa fecero i filosofi più eccellenti? Perocchè non parlo di quelli, i quali disperati di poter mettere un accordo fra l' ordine reale e l' ideale, nè volendo, nè potendo rinunziare al primo, cancellarono il secondo, e decretarono che l' uomo si dovesse contentare d' esser materia o senso, e così contro la sua natura s' abbandonasse tranquillamente al piacere dell' oggi, stimolandovi se stesso col pensiero della morte dell' indomani. Non ragionando dunque di questi, domandavamo, come i filosofi più eccellenti s' ingegnassero d' aiutar l' uomo a trovar quelle forze, che a lui negava la natura reale, e che pur gli bisognavano per adempire alla legge dell' ordine ideale. Veramente questi savŒ amatori del bene fecero tutto ciò che potevano fare: accorti che l' uomo domandava in vano la forza morale, di cui abbisognava, a quella porzione d' essere reale, che gli era conceduta, e che questa in vece di somministrargli forze pel bene entrava spesso in contrasto coll' ordine oggettivo, ed accresceva le forze del limitato e cieco istinto soggettivo; s' industriarono d' allontanar l' uomo dalle stesse cose reali e di concentrarlo nell' idea: e questa essi celebrarono come cosa d' infinita bellezza, ed esortarono con tutta la loro eloquenza gli uomini a restringersi nella contemplazione di sì divino lume, e a contentarsi della maravigliosa sua vista, e chiamarsene felici. Acciocchè poi l' uomo non s' impaurisse dell' alto precetto, e non gli paresse, che in vece d' accrescergli le forze per adempire al dovere gli s' imponesse un dovere ancor maggiore; que' filosofi magnificarono le forze dell' umano arbitrio (di cui, con poca coerenza a dir vero, aveano prima temuta la debolezza, e promesso di rinfrancarla) asserendo, che niuna delle altre cose era in potere dell' uomo, ma quella virtù che essi gli prescrivevano, sì: Gli esseri, e i beni reali dunque, onde solo può venire la forza efficacemente pratica al soggetto umano, furono da' migliori filosofi giudicati insufficienti a dare all' uomo quel vigore morale che gli bisognava, anzi reputati causa della morale sua debolezza e degli ostacoli alla virtù; e non restò loro altro scampo, che di chiedere a quella stessa idea, che imponeva il dovere, anche la forza d' adempirlo. Socrate nel «Fedone » di Platone si dilunga a provare la necessità, che ha l' uomo che ama e cerca la sapienza, di ritirarsi del tutto dal reale sensibile , e ricoverarsi nelle idee , come in porto di salvezza, cioè di dividersi coll' astrazione filosofica dal corpo e dalle cose corporee, aspettando il felice momento d' esserne al tutto diviso colla morte. [...OMISSIS...] Tanto era il timore, che le menti più grandi, prive della luce cristiana, prendevano della sinistra influenza che esercitava sull' uomo quella porzione di ente reale, che alla sua percezione è conceduta dalla natura; chè non solo da essa non aspettavano aiuto alcuno all' esercizio della virtù ed all' acquisto della sapienza; ma fino che una tale porzione di ente reale non fosse sottratta all' uomo interamente colla morte, trovavano impossibile per lui l' acquistare quella sapienza che pur tanto desiderava; e quest' era la sapienza naturale , chè altra non ne conoscevano. Laonde lasciavano all' uomo in questa vita la sola speranza d' avvicinarvisi, e questa speranza, a qual condizione? A quella di rinunziare alla realità, quasi avvelenata, di comunicare il meno possibile, e soltanto per estrema necessità, con essa, cercando nelle sole idee un rifugio, un' abitazione segreta, dove vivere occulto, alienato e quasi già morto. E pure quest' era lo sforzo più ammirabile della ragione umana! Essa non poteva salire più in su nè poteva dir cosa nè più vera, nè più ardua; era l' unica soluzione possibile del gran problema. Certo le idee sono cose divine, il solo elemento divino che si rinvenga nella natura, quand' anco si percorra, cercando palmo a palmo, tutto l' universo: e le cose divine non si lasciano posporre a nulla, anzi nulla è ad esse comparabile, tutto vale per esse, tutto diventa spregevole ciò che è contrario ad esse. Questo legge l' intendimento nelle idee, ammira in esse l' autorità, ne contempla l' incomparabil bellezza. E che non hanno osato, che non hanno sofferto alcuni amatori delle idee? Lo abbiamo di sopra avvertito. Archimede non sente l' entrata de' Romani in Siracusa e dà l' esempio di quella forza della mente, che si toglie momentaneamente a tutte le cose presenti ai sensi: i viaggi e la povertà d' Anacarsi; le veglie e le fatiche di Aristotile (1); la dimenticanza del cibo di Carneade (2); le privazioni, le sofferenze di tant' altri, se provano che l' amore al sapere può acquistare al pari d' ogni altra passione una forza presso che infinita nell' uomo, non provano tuttavia che l' uomo abbia mai trovato una piena soddisfazione nè nell' altre ignobili, nè in questa passione del sapere nobilissima. Non può l' uomo mantenersi del continuo attuato nella contemplazione della mente: anzi quanto breve non è il tempo in cui egli valga a sostenersi così assorto? Quanto pochi poi sono coloro che vogliono o possono, postergate le cose sensibili, vivere innamorati unicamente delle idee impalpabili, e quasi in esse sospesi; od abbiano l' agio di cercare e di coltivare questo faticoso diletto della mente? Ed anche questi pochissimi, che con lodevole sforzo s' innalzano alla regione delle idee pure, e vi si mantengono qualche istante per ricader poscia nella regione naturale e ordinaria della realità (3), consegue forse, che, perchè contemplano le idee, secondo quelle regolino e dispongano tutte le azioni reali di cui ordiscono la loro vita? La realità sensibile finita gli aspetta per dar loro battaglia: ella li lascia viaggiare liberamente al mondo ideale, sicura che non gli scappano per questo, e che, dopo una breve lontananza, fanno ad essa ritorno. Come un pescatore che ha preso all' amo un enorme pesce, gli allenta ed allunga il filo, sì che esso può alquanto allargarsi dentro le acque; ma poi più sicuramente sel tira a sè quando è sfinito dalla ferita e dalla fuga; così accade troppo sovente che adoperi coll' uomo la lusinga della sensibile realità; coll' uomo, dico, il quale già fino dal suo nascimento porta seco il seme e il fomite della concupiscenza. Pare a costui di salvarsi dalla seduzione del mondo quando gli riesce di sollevare da esso la propria mente colle più pure astrazioni, e ne vaneggia e ne insuperbisce: ma gli altri uomini intanto ricevono da lui medesimo autorevoli esempi di molte azioni viziose e riprovevoli, e dalle verità, da lui speculate, pare loro che egli non abbia riportato se non quell' orgoglio che lo fa peccare più arditamente. Aveva dunque ragione Platone di confessare che nella presente vita si concepisce bensì una naturale sapienza, ma non si consegue appieno giammai; onde voleva che gli uomini migliori l' aspettassero dopo la morte. E gli stoici stessi, che cotanto esagerarono le forze del libero arbitrio, dubitarono poi o negarono al tutto, che fra gli uomini in alcun luogo, o in alcun tempo, si rinvenisse quel sapiente, che essi concepivano, e magnificamente descrivevano (1). La naturale filosofia rimane dunque convinta e confessa della sua impotenza a rendere l' uomo sapiente, anche di quella sola sapienza, che nel lume della natura si scorge ideata. Iddio maestro degli uomini fece l' una e l' altra cosa ad un tempo, cioè ampliò senza fine il concetto della sapienza, e diede agli uomini il vigore di attuarlo in se medesimi. Onde a buona ragione un Padre della Chiesa osserva, che quelli che furono aiutati dalla fede, poterono fare coll' opera assai più, che non potessero concepire e desiderare i filosofi, o insegnare colle parole (2). E questo, Iddio lo fece col produrre quell' equilibrio che manca nella natura dell' uomo, fra l' idea, e la realità. Perocchè abbiamo detto, che l' idea spazia all' infinito, dando a vedere l' essere universale, e così ancora indicando qual sia l' ordine compiuto dell' essere, al quale deve congiungersi la volontà potenza, che di natura sua segue quella dell' intelletto; e che all' incontro la realità naturale non porge all' uomo che una cotal briciola dell' essere stesso, dove non si trova più l' ordine compiuto ed assoluto, mostrato dall' idea, ma un ordine angusto, quale può racchiudersi in una così piccola parte dell' essere; abbiamo detto ancora che, essendo l' uomo un ente reale, non può esser mosso ad operare che da un reale, quindi non dall' idea, ma o dalla propria sua intima attività e da' suoi proprŒ istinti, o dall' eccitamento del reale esteriore; e che colla forza che ha in sè dell' arbitrio, può, fino a certo termine, attuare la sua mente nell' idea e invaghirsene, ma per breve tempo può stare così attuato, lasciando inerti l' altre potenze, e per uno sforzo difficile, quasi contro natura e di pochissimi; onde tantosto l' altre potenze inferiori rientrano in azione, e vi rientrano spesso irritate dallo stesso ozio in cui giacquero e quasi vogliose di ricattarsene, e allora il reale sensibile pare divenuto più acre stimolatore al disordine che prima non fosse. Se dunque potesse avvenire, che come l' uomo intuisce tutto l' essere ideale in un modo implicito e semplice, il quale in appresso si può esplicare indefinitamente, così pure gli fosse dato a percepire immediatamente tutto l' essere reale in un modo del pari implicito e semplice, atto poi ad esser pure esplicato e svolto all' indefinito, chiaro è che quella grande, immensa esigenza dell' idea, che impone il dovere morale, troverebbe nell' uomo un suo corrispondente, cioè troverebbe un fonte di potenza ugualmente grande ed immensa, idonea ad eseguire l' imposto dovere. Perocchè se ciò avesse luogo, tutte le realità finite si conoscerebbero, o potrebbero conoscersi e considerarsi come parti, ed anzi minime ed evanescenti particelle di tutto l' essere reale, nel quale, come gocce nel mare, si perdono, e allora nel reale dall' uomo posseduto vi avrebbe quell' identico ordine, che nell' idea; e quest' ordine reale darebbe all' uomo eccitamento e valore sufficiente a compiere quell' ideale coll' efficacia della volontà: fra i due ordini, l' ideale e il reale, non sarebbe più alcuna discrepanza, alcuno invincibile contrasto, ma l' uno chiamerebbe l' altro, l' uno coll' altro, quasi direi, si combacierebbe; e la volontà non più divisa infra due che la si contendono, potrebbe darsi tutta con un solo atto ad entrambi, i quali s' unificano nell' identità dell' essere , e quindi la giustizia perfetta, e la sapienza nella pace. Ora il Vangelo è stato pubblicato per far sapere agli uomini, che questa che noi indichiamo, non è una supposizione, non è quello che sarebbe stato solamente desiderabile che Dio facesse, nè tampoco quello, che, essendo conformissimo a' divini attributi, è presumibile che Dio abbia fatto; ma per far loro sapere, che è quello, che Iddio Creatore ed ottimo provvisore del genere umano ha positivamente fatto, e quello che il Vangelo fa in tutti coloro che liberamente lo ricevono: « « E diede loro la potestà di divenire figliuoli di Dio »(1). » Perocchè il Verbo « « è il carattere della sostanza del Padre »(2); » vale a dire è quello pel quale Iddio si rende percettibile, tale essendo la forza della parola greca carattere . Insegnò dunque il Cristianesimo, che il Verbo carattere o faccia di Dio, come vien anco sovente chiamato nelle scritture, s' imprime nelle anime di quelli, che colla fede ricevono il Battesimo di Cristo, a cui volgendosi la volontà e aderendovi, rimane e santificata e giustificata. Onde all' uomo, nel quale è impresso il Verbo e però n' ha la percezione, è con ciò comunicato l' essere nella sua realità totale ed infinita, quantunque in un modo implicito e semplicissimo; come ancor piccolo, ma fertilissimo seme consegnato all' anima da coltivare e da svolgere colla propria sua attività e cooperazione. E così l' uomo non solo ha la completa cognizione, ma ben anco la virtù necessaria per conformare se stesso alla medesima; e quindi non gli mancano più i due elementi della perfetta sapienza. Laonde coerentemente a questa sublime dottrina si trova scritto ne' libri divini: «FONS SAPIENTIAE, VERBUM DEI IN EXCELSIS (1) ». Vero è che nella vita presente, essendo data all' uomo questa realità totale assoluta ed infinita in un modo così implicito e potenziale, ed all' incontro la realità finita del mondo operando sull' uomo in un modo esplicito ed attuale; questa riceve dal modo d' agire un' efficienza maggiore di quella; onde rimane all' uomo la necessità di lottare contro le angustie e le limitazioni della realità finita, che vorrebbe captivarlo esclusivamente a se stessa, impedendolo di darsi al tutto: ma allora il contrasto e la lotta non è più immediatamente fra la realità e l' idea, ma fra la realità finita e la realità infinita, quella premendo l' uomo con un' urgenza maggiore, e questa avvalorandolo e allettandolo a sè con una maggiore dignità e grandezza. Nè senza ragione colui che provvede dall' alto al maggior vantaggio degli uomini, lasciò loro questa difficoltà da superare, acciocchè la virtù e la sapienza sieno un acquisto de' loro generosi sforzi, e non cosa apposta loro, senza loro consenso e cooperazione; consistendo appunto in questo l' apice dell' eccellenza e della gloria dell' uomo, l' essere egli medesimo, in quel modo che può essere, l' autore della propria sapienza e della propria virtù. Iddio dunque rese questo all' uomo, seco congiunto, possibile: lasciò poi a quest' uomo il dovere di ridurre all' atto quella potenza che gli ebbe conferita. Chè la percezione di quella realità infinita, cioè del Verbo divino, può ridursi per la grazia che ne emana; ad un' attualità sempre maggiore, esplicarsi senza misura, e prestare all' uomo tutta la forza morale che gli bisogna, anzi una forza senza alcun paragone superiore a tutto il dolore, a tutto il piacere, con cui la realità finita, ma vivace dell' universo, tenta sedurlo. E tutto ciò è posto in pienissimo potere dell' uomo unito a Dio e assistito da Dio: onde l' apostolo: « « Io posso tutto in quello che mi conforta »(2). » E di questa stessa assistenza di Dio una nuova e profonda dottrina ci recò il Cristianesimo non mai veduta, nè potuta vedere dai filosofi, e tuttavia così consentanea alla natura di Dio ad un tempo e a quella dell' uomo, così coerente a tutte le verità razionali e rivelate, che la ragione stessa non può a meno di approvarla, maravigliata che le sia dato quasi del suo, e pur tale che in se stessa non l' aveva, nè l' avrebbe mai scorto. Poichè, secondo la dottrina di Cristo, quando il Verbo è congiunto coll' uomo, egli vi emette il suo spirito, che santificando la volontà, qualora l' uomo stesso che rimane libero, non vi si opponga, santifica l' uomo. Questa è la prima santificazione, e chiede e rende possibile dopo di sè la cooperazione umana. E` santità , ma non si può ancora dire sapienza ; chè l' uso di questa parola pare riservato a significare un acquisto fatto dall' uomo col suo positivo e manifesto concorso; ma in quella santità sta la sapienza come nel germe. D' allora Iddio e l' uomo operano sempre insieme, qualora l' uomo non isfugga liberamente da così fortunata società. Iddio ha istituito de' mezzi positivi ed esterni che furono denominati sacramenti , ai quali è unita una grazia determinata. L' uomo anch' egli ha la facoltà di porre molti atti di virtù, e, fra questi, quelli del culto interiore ed esteriore, ai quali tutti risponde il frutto d' un accrescimento di grazia interiore. Nell' esercizio di tutta questa attività, in tutto questo lavoro di operazioni divine ed umane, s' aumenta continuamente nell' uomo la comunicazione dello Spirito del Verbo, che è lo spirito della santità e della perfezione. La parola spirito viene acconcissima ad esprimere non solo l' impellente, ma anche l' impulso e quell' istinto operativo d' una natura dotata d' intelletto, quand' ella prende l' impeto del suo operare dalla vivacità e dalla realità della luce che illustra il fondo della sua intelligenza. Nel caso nostro, questa luce è il Verbo, che nell' essenza intellettiva dell' anima dimora, e investe la volontà col suo Spirito, senza bisogno di passare pel mezzo d' alcuna riflessione. Ora questo Spirito del Verbo, abbiamo detto che è anch' egli l' Essere come il Verbo, ma l' Essere sotto un' altra forma, sotto la forma di essere amabile e per sè amato , quindi per se operativo e perfettivo: ha dunque per sua dimora la volontà e per suo effetto e condizione nell' uomo l' azione santa più o meno esplicata. E di più, è rivelato, che egli ha una sussistenza personale , che non si confonde colle altre due persone, onde questa terza procede. I due elementi dunque della sapienza , che abbiamo detto essere cognizione e virtù , quando dall' ordine naturale si trasportano nell' ordine soprannaturale, s' avverano e realizzano in modo così sublime, che l' uno e l' altro si trovano consistere in un cotal contatto e commercio di Dio medesimo: tien luogo della cognizione, il Verbo percepito; tien luogo della virtù lo Spirito Santo vivente ed operante nell' anima umana (1); onde della sapienza, di cui la virtù , come abbiamo detto, è la parte formale, sta scritto: « « Egli stesso » (il Creatore) «la creò nello Spirito Santo »(2); » ed è questo Spirito che combatte a favore dell' uomo e nell' uomo e coll' uomo contro la carne, cioè contro quella porzione di realità finita, che colla sua esclusività minaccia di perturbar l' ordine della realità intera ed infinita (3). Ora lo Spirito divino si esplica nell' uomo co' suoi effetti e doni, ed accompagna l' esplicazione della cognizione, ossia del lume soprannaturale, che ne' battezzati è il divin Verbo. Secondo le quali esplicazioni, i giusti nella Chiesa si dividono in quattro classi. Poichè v' hanno gli uomini manuali ed illetterati, i quali dalla riverenza e dal timore di Dio di cui, per un' intima cognizione, temono e riveriscono la maestà, sono guidati e conservati lontani dal male, e questa prima maniera di sapienza vale più d' ogni scienza di coloro che non ne traggono il frutto dell' onesta vita: onde leggiamo: « « E` migliore quell' uomo che sa meno, ed è men sensato, nel timore (di Dio), di colui che abbonda di senno, e trasgredisce la legge dell' Altissimo »(4). » In costoro non v' ha una cognizione teoretica consapevole e separata dalla pratica, v' ha una sola cognizione, luce ad un tempo ed istinto morale, e, quasi direi, v' ha solo l' arte di fare il bene. Ma quando alcuno di essi, coll' uso della riflessione, s' applica alle lettere, la teoria allora si separa, e comparisce una scienza ideale, che si distingue dalla pietà : quella è pura speculazione, questa azione: e benchè questa pietà derivi da quella scienza e ne riceva la norma, tuttavia non è la scienza che sia la prossima causa dell' azione, ma questa si appoggia immediatamente ad un pratico riconoscimento della verità nella scienza conosciuta. I quali uomini di scienza e di pietà formano una seconda classe di giusti, con una maniera di sapienza più esplicata che non era quella de' primi. Non basta però essere uomo scienziato e pio ad avere la prudenza nel governare spiritualmente gli uomini, ed a compire a loro vantaggio magnanime imprese. Per arrivare a questo più alto grado si esige una perspicacia di consiglio ed un ardire di fortezza : consiglio che consiste nella celerità e nella sicurezza della mente, colla quale si trovano le regole di giudicare ed ordinare le cose (1), e gli spedienti migliori per arrivare al fine, ne' quali spedienti tutte le innumerevoli circostanze di fatto sfuggenti alla vista comune sono già poste nel calcolo e comprese nella risoluzione: fortezza, che giace in una cotal disposizione, per la quale l' uomo si sente maggiore degli impedimenti, non li teme, confida di dominarli coll' altezza del pensiero santo, colla costanza dell' animo, soprattutto colla fiducia in colui che è l' arbitro di tutti i fatti onde colui è mosso ad operare, e onde ripete e il pensiero e la costanza. A questa terza classe di giusti, ne' quali risplende una maniera di sapienza via più esplicata ancora che nelle due precedenti (2), si continua la quarta, che si compone di que' rarissimi, i quali, sollevati su tutte le cose finite, vivono affissati nell' infinità di Dio: e in questa contemplazione della mente riflessamente comunicano con esso Dio, e in lui rifondono se stessi, e le cose dell' universo, e Iddio in essi e per essi nelle cose dell' universo si rifonde; ed indi derivano altresì per la via dell' astrazione, una scienza ideale altissima e nobilissima delle cose divine, ai quali appartiene la più perfetta maniera di sapienza , e alla scienza che ne estraggono, fu riserbato il nome d' intelletto . V' ha qualche cosa di analogo a queste quattro classi di sapienti anche nell' ordine naturale, e non senza ragione, anzi mostrando grande elevatezza d' intendimento, Platone (1), seguito poi nella sostanza da Aristotile (2), volle che cogitazione si chiamasse la scienza delle verità matematiche e delle altre somiglianti, che si deducono, ragionando, da certe supposizioni, ma intelletto la notizia del principio dell' universo, che non si suppone, ma è assolutamente, nel quale hanno il loro essere oggettivo tutte le cose. Tutte queste diverse maniere di Sapienza sono compartite agli uomini da uno stesso ed unico spirito, lo spirito del Verbo. Il qual verbo, essendo l' archetipo eterno dell' infinita sapienza, anzi la sapienza oggettiva ad un tempo e personale, Iddio volle che gli uomini in esso, come in uno individuo della propria specie, vedessero e toccassero, per così dire, sensibilmente l' ideale realizzato di quella sapienza, di cui è capevole l' umanità. Così soddisfece Iddio alla convenienza di aggiungere all' umana natura quel di più che non le poteva appartenere, perchè increato, e di cui tuttavia abbisognava, se doveva raggiungere compiutamente il fine di quella sapienza e di quella soddisfazione che gl' indicava l' idea. Coll' incarnazione del Verbo dunque fu soverchiato il desiderio dell' umana natura, a cui non si poteva affacciare pure il pensiero di tanto mistero: e se era da presumersi che il Creatore dell' uomo avrebbe riempiuto il v“to che restava nella sua idea, cui non empiva il finito; il fatto non solo avverò quella presunzione; ma alla comparsa dell' Uomo7Dio, l' idea stessa divenne la misura buona e pigiata e scossa e traboccante, di cui parla il Vangelo (1). Su quell' uomo dunque, di cui Dio stesso volle costituire la personalità, dovea « « riposare lo spirito del Signore, lo spirito della sapienza e dell' intelletto; lo spirito del consiglio e della fortezza, lo spirito della scienza e della pietà; e riempirlo, lo spirito del timore del Signore »(1). » Nelle quali parole pronunciate più di sette secoli prima della venuta di GESU` Cristo, l' espressione che lo Spirito del Signore si sarebbe riposato in su quell' uomo, trova la sua naturale ragione e compiuta spiegazione nell' unione ipostatica. Chè se il Verbo è la persona divina del Cristo, come il Verbo è divenuto indivisibile dall' assunta umanità, così lo Spirito del Verbo dovea in questa riposare con pienezza; non potendo esso andare e venire, aumentare i doni o diminuirli, siccome è concepibile che avvenga negli altri uomini, i quali rimangono persone umane, o sieno o no congiunte al Verbo, partecipino o no del suo Spirito. E come negli altri uomini, a cui la comunicazione del Verbo è la diffusione dello Spirito, si trova una scala di doni e di perfezioni; la quale principia col timore di Dio, chiamato nelle scritture l' inizio della Sapienza (2), chiamato anche sapienza, perchè n' è la prima maniera (3), e ascende alla scienza e alla pietà, poi al consiglio ed alla fortezza, e finalmente alla sapienza e all' intelletto; così in Cristo (parola che si riferisce appunto all' unzione dello Spirito Santo (4)), in cui tutti questi doni, divisi fra gli uomini, trovavansi uniti, tenevano un ordine logico inverso; per modo che si concepisce in lui prima la più perfetta ed ultimata sapienza, e da questa poi derivarsi l' intelletto, mediante la facoltà della mente umana di Cristo d' intuire in quella sapienza, a sua volontà, l' ordine delle essenze e delle idee; dalla sapienza poi e dall' intelletto derivarsi il consiglio e la fortezza, mediante la facoltà, che aveva pure l' anima di Cristo, di applicare la sapienza e l' intelletto agli ufficŒ del giudicare, dell' ordinare, del governare e dell' operare magnanimamente: da questi quattro doni poi scaturire la scienza e la pietà mediante la facoltà di conoscere le cose generiche e le speciali, e di rivolgerle all' onore ed al culto di Dio; e finalmente risultare da tutte queste cose insieme quell' immenso timore riverenziale della umana natura di Cristo, che, così limitata così angusta, vedevasi accompagnata, empiuta, posseduta, assunta, in una parola, da un ospite di tanta maestà, che, come sua propria persona, la reggeva, la santificava, assolutamente ne disponeva. Tale è il sapiente di Dio! Di quanto non vince egli colla realità il sapiente ideale dell' uomo? Iddio solo poteva esser quello e fu quello che lo ideò ad un tempo, e lo realizzò, lo pose nel mondo sotto gli occhi degli uomini. Il sapiente di Dio fu la sapienza incarnata. A questo sapiente, ossia a questa sapienza incarnata, nove secoli prima che comparisse sulla terra, furono poste in bocca queste parole: [...OMISSIS...] Così Iddio, qual maestro degli uomini parlava alcuni secoli prima che nascesse Platone in Atene ad esprimere il desiderio d' un tal maestro, e a dimostrarne il bisogno in nome della natura umana. E questo maestro, quest' uomo in pari tempo Dio, questo archetipo vivente e palpabile del Savio « « in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza »(2), » quest' incarnata sapienza; questo giusto e santo sin dalla doppia sua eterna e temporale origine, per la stessa sua natura e condizione, da diciannove secoli occupa manifestamente il primo posto fra gli uomini, acquistatolsi, a un nuovo titolo, col merito del suo compiuto sacrifizio. Egli è di necessità il capo dell' umana natura, il principe dell' uman genere, e quantunque principe, servì all' uman genere, e gli ministrò, e ne vinse di più l' ingratitudine col lasciarsi levar la vita, la quale egli depose e riprese da se stesso, per salire appresso a Dio Padre ed essere colassù l' avvocato de' suoi nemici (1). Così l' umanità divisa e sparpagliata dalla morte, effetto del peccato, che la privò del suo padre secondo natura, fu ricondotta all' unità dal vincitore della morte, che le diede per padre il suo proprio unico Padre Iddio, e fu ricostituita sotto il governo d' uno, « « a cui fu data ogni potestà in cielo ed in terra »(2) »: fu riunita ad un capo di tanta eccellenza, a cui non poteva ascendere il suo pensiero, nè estendersi il suo desiderio. Nè questo pensiero, o questo desiderio poteva tampoco ideare o indovinare il modo d' un tale raggiungimento. Chè questo modo (una delle tante invenzioni di Dio a beneficio degli uomini (3)), non fu soltanto un' amicizia, una società, una soggezione, una beneficenza, qual può essere fra uomo ed uomo, di cui l' uomo si forma il concetto; ma di tutt' altra guisa, inescogitabile, divina: fu un raggiungimento di percezione, suggellandosi il Verbo nell' anima, un raggiungimento d' inabitazione, diffondendosi per entro ad essa lo spirito, un raggiungimento fisico per via dell' umanità di Cristo, che con mistero opera ne' sacramenti, e si copre ella stessa d' un sacramento nel cibo eucaristico. Onde gli uomini possono divenire, ove lo vogliano, vere e vive membra di questo corpo, di cui Cristo è capo: e questo capo potè dire colla più rigorosa verità: « « Io sono la vite, voi i tralci: chi si tiene in me ed io in lui, questi porta molto frutto »(4): » su' quali fondamenti, quasi su monti santi innalzò la sua Chiesa. Ma poichè Iddio rispetta la libertà degli uomini, e vuole da essi il consenso e l' accettazione de' suoi benefizŒ, che divengono quasi oggetto d' un contratto gratuito; perciò rimane a loro stessi la scelta fra il nobilissimo posto di figliuoli che è loro offerto nella sua famiglia divina, e la condizione di stranieri o l' ignobilissima di schiavi. La mente dunque (per ricapitolare in parte quello che abbiamo detto) d' ogni cosa o artistica o morale si compone, più o meno perfettamente, un concetto ideale di perfezione; ma poi niun' opera di arte umana compiutamente lo realizza, e quella è molto lodata, che gli s' avvicina. Onde la realizzazione d' ogni ideale rimane sempre per l' uomo un desiderio penoso perchè non è mai soddisfatto: nuova prova che l' idea stende in lui troppo maggior ala, che non la potenza. Ma l' ideale più di tutti all' uomo desiderabile è quello di se stesso, e l' arte massima , quella che intende a realizzarlo. Se non che l' uomo si trova più insufficiente a quest' arte, che a tutte l' altre. L' autore di lui soccorse alla sua creatura così bisognosa per causa della sua stessa grandezza. Tenendo ad esemplare di tutte l' opere sue un ideale senza pari più perfetto di quello che possa cadere in mente umana, non fallisce mai, che non lo adempia. L' uomo ideale è l' ideale sapiente : questo, concepito dagli stoici e da altri filosofi, da nessuno fu realizzato; e secondo la celebre interpretazione data da Socrate all' oracolo di Delfo, il sapientissimo dovea esser colui, che questa sola cosa sapeva, « di non sapere ». L' ideale del sapiente nella mente di Dio fu dunque sulla terra effettuazione. In un sapiente7tipo apparve il tipo dell' uomo. L' umanità trovò in GESU` Cristo l' ideale di se medesima, ma divinizzato, e quest' ideale sollevato alla divinizzazione, lo trovò reale. Il Verbo e lo Spirito Santo tennero luogo in questo sapiente de' due elementi della sapienza, la cognizione , e la virtù . D' amendue fu fatta comunicazione agli uomini. GESU` Cristo disse: « « Io a questo son nato » (come uomo) «e a questo sono venuto nel mondo » (come Dio nell' incarnazione) «di prestare testimonianza alla verità »(1); » e la verità era lo stesso Verbo divino che così favellava, avendo anche detto: « « Io sono la via, la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per me »(2). » Come uomo egli prestava testimonianza in faccia degli uomini, al Verbo divino: come Verbo incarnato, ancora gli rendeva testimonianza, perchè le parole esteriori, con cui ammaestrava gli uomini, si riferivano al lume interiore, e lo esplicavano, lo rendevano accessibile alla riflessione: era la voce del Verbo che suonava per render testimonianza al Verbo, il quale senza suono interiormente illuminava (1). Questo Verbo interiore, a cui dovevano essere riscontrate le voci e le parole esteriori dello stesso Verbo, era il paragone, la riprova di tali parole, che ciascuno, a cui fosse dato quel lume, portava in se medesimo: onde Cristo dopo aver detto d' esser venuto a rendere testimonianza alla verità, immediatamente avea soggiunto: « chiunque trae il suo essere dalla verità, ascolta la mia voce. » [...OMISSIS...] (2). Perocchè la percezione, sebbene imperfetta, del Verbo dà un essere nuovo e più sublime all' uomo, di cui ella è una seconda nascita, nella quale gli uomini « « non nascono dai sangui o dalla volontà della carne o dalla volontà dell' uomo, ma da Dio »(3) »; onde quelli che sono rinati a questa guisa « « hanno la potestà di rendersi figliuoli di Dio »(4) » ascoltando la voce di Cristo. Le parole esterne dunque di Cristo testimoniano del Verbo interiore, e il Verbo interiore , per sè luce dimostra e conferma la verità di quelle parole. E poichè il Verbo è mandato dal Padre per tutto dove è mandato, anche nell' anime, perciò anche il Padre, la cui sussistenza si percepisce nel Verbo, coll' aver mandato questo nel mondo e nelle anime, gli rende testimonianza; onde Cristo disse: « « Io sono, che » (esternamente predicando) «rendo testimonianza di me stesso » (che internamente dimoro nelle anime); «e rende testimonianza di me quegli che mi ha mandato, il Padre »(5). » Perchè « « non può il Figliuolo far cosa alcuna da sè, se non quello che vede fare al Padre »(6), » e però le opere esterne ed interne che io fo, non le fo solo, ma col Padre; il che esprime la perfetta corrispondenza ed unità di natura fra l' intelligibile divino ed il reale divino , a cui è analoga quella che concepisce e desidera la mente umana fra l' idea ed il reale: in quella perfetta corrispondenza di forme, e identità di essere, colloca Cristo la testimonianza pienamente soddisfacente, ch' egli rende alla verità (1). Ma una somigliante corrispondenza che Cristo ci chiama a considerare fra le due prime divine persone, in un modo assoluto ed universale; egli l' annunzia altresì in se medesimo entro l' ordine delle cose morali con quest' altre parole: « « Io sono la via, la verità, e la vita. » » Perocchè la via è la cognizione, l' idea, a cui si riduce ogni legge e comando: i doveri morali tracciano all' uomo la via, per la quale egli arriva al suo fine. Ora nel Verbo stanno tutte le idee, le leggi, le morali necessità: queste sono l' intelletto , che, come dicemmo di sopra, giace nella sapienza , e per la riflessione e per la limitazione che gli viene aggiunta, da quella si separa. La verità poi qui si prende per la realizzazione dell' idea morale o della legge, nel qual senso pure è detto, che « « per Mosè fu data la legge , - per GESU` Cristo è stata fatta la verità »(2) » cioè il pieno adempimento di quella. Poichè GESU` Cristo non essendo venuto a sciogliere la legge, ma ad adempirla (1), fece quello che non avean saputo far gli uomini, pareggiò e superò, colla santità delle sue operazioni, l' ideale della virtù, quale nella legge mosaica era stato delineato davanti agli occhi degli Ebrei, acciocchè il realizzassero. Così, rispetto all' ordine morale, si vide in Cristo restituito l' equilibrio fra l' idea, non l' idea mosaica, ma la sua propria; onde non disse: « la legge mosaica è la via », ma: « Io sono la via », e sono pure la verità delle operazioni a quell' idea pienamente corrispondenti. E quest' equilibrio videsi del pari restituito in tutti quelli che credettero in lui ed a lui, poichè, avendo questi in sè il VERBO IMMANENTE, secondo l' espressione dello stesso Cristo (2) si trasformano, per così dire, in altrettanti Cristi: chè il Verbo anche in essi è via , manifestando ciò che si deve operare, ed è verità , dando loro valore di operarlo. Ed è poi anche vita: poichè consistendo la vita nella produzione d' un sentimento sostanziale o nell' atto di un tal sentimento il Verbo, coll' emettere il suo Spirito, produce un sentimento efficace nell' anima, che innalza questa ad una vita deiforme, la quale le fa riconoscere lo stesso Verbo e fruirne, e poi, di sua natura eterna, cresce e si perfeziona nel tempo e si rivela in beatitudine nell' eternità. Non v' ebbe certo alcun altro maestro fra gli uomini che esercitasse un magistero di tal fatta: tutto quello che insegna il cristianesimo intorno ad esso, è degno di Dio, e talmente n' è degno, che la mente umana, qualunque ideale del sapiente studiasse di comporsi, non potea nè pur da lontano pensarlo: pure se alcuno l' avesse pensato o proposto, sarebbe parso una stravaganza, e non inteso: l' uomo non conosceva a sufficienza Dio e se stesso per potere immaginare ciò che conveniva all' uno in relazione coll' altro: ma quando GESU` Cristo esercitò quel magistero, gli uomini credettero il fatto prima d' averne veduta, e creduta la possibilità (3); era cosa più facile a credersi esistente che possibile. Quando si cangiano profondamente le cose e di conseguente si cangiano profondamente i pensieri degli uomini, e fin anco la maniera del pensare, allora gli stessi vocaboli ammettono nuovi usi, e nuovi significati: si cangiano le lingue, ed anche a questo alluse forse GESU` Cristo, quando promise, che i credenti avrebbero parlato « « nuove lingue »(1), » espressione che pare dire ancora di più, che le lingue diverse dalla propria. Così mentre noi, parlando fin qui secondo l' uso degli uomini, dicevamo che la verità teoreticamente conosciuta, è un elemento di quella qualunque naturale sapienza che è accessibile all' uomo: secondo la nuova lingua, dobbiam dire che quella verità non è più un elemento della sapienza soprannaturale, ma la via che vi conduce, riserbando la parola Verità ad un nuovo e più sublime significato, al significato dell' idea , se si può dir così, realizzata , pienamente compiuta, vivente, non più impersonale, ma una divina persona, nella quale tuttavia si conserva sempre il suo carattere di oggetto, d' intelligibile, in cui si fonda l' analogia che passa fra l' idea , e il Verbo divino . Quindi nella Sapienza di Dio comunicata agli uomini dallo stesso Dio, fatto maestro dell' umanità, non si può più separare il primo elemento, la verità, dal secondo, cioè dalla virtù, benchè si possa mentalmente distinguere; perchè, separato, cambia natura, non è più quel di prima, non è più elemento di quella sapienza; chè separata la verità dalla sua realizzazione, rimane l' idea, e ciò che appartiene alla sapienza soprannaturale dell' uomo non è l' idea, ma il Verbo divino, nel quale però colla sola mente si distingue la via dalla verità . Pure, quantunque questa nuova sapienza sia così una ed indivisibile, ella presenta un doppio aspetto, essendo nella sua unità perfettissima biforme (e potremmo eziandio dire triniforme, se il dichiarare come ciò s' intenda, non ci menasse a lungo, senza che la necessità del ragionamento lo esiga), perocchè, guardata da un lato, ella s' assolve tutta nel nuovo significato che ha ricevuto la parola verità; guardato poi dall' altro lato pure si assolve e comprende tutta sotto il significato della nuova parola carità . Così sono indivisibili ed une nell' essere e nella natura le due persone distinte del Verbo e del suo Spirito. Laonde se la Verità nel nuovo significato esprime Dio nella persona del Verbo, come disse il Verbo stesso; la nuova parola Carità esprime il medesimo Dio nella persona dello Spirito, come è scritto: « « Dio è carità, e chi rimane nella carità rimane in Dio, e Dio in lui »(1) ». E la Verità e la Carità in questo sublime significato si rendono reciprocamente testimonianza, perchè l' una è nell' altra, e niuna delle due fuori dell' altra si trova. Laonde chi ha questa Verità ha con essa la Carità che l' adempie, e chi ha questa Carità ha la Verità adempita. E come non si dà questa Verità alla persona umana, senza l' adempimento dell' opere, così, senza un tale adempimento, non si dà la carità. [...OMISSIS...] Onde quegli che opera il bene, ha la carità, e questi anche conosce la verità; poichè non può conoscerla appieno colui, che non la opera, e però non la sente, e però non ne ha lo spirito che solo fa conoscere una tale sostanziale e soprasostanziale verità; poichè « « lo Spirito è quegli che testifica che Cristo è la VERITA` »(3). » Nella verità dunque è la carità, che l' adempie; onde Cristo pregò il Padre: « « Santificali nella verità; il tuo sermone è la verità »(4) » nella carità poi è la verità adempita: « « Non amiamo colla parola e colla lingua, ma coll' opera e colla verità: da questo conosciamo, di trarre l' essere nostro dalla VERITA` »(5). » Sono dunque due le parole in cui si compendia la scuola di Dio, reso maestro degli uomini, VERITA` e CARITA`; e queste due parole significano cose diverse, ma ciascuna di esse comprende l' altra: in ciascuna è il tutto; ma nella verità è la carità come un' altra, e nella carità è la verità come un' altra: se ciascuna non avesse seco l' altra, non sarebbe più dessa. Come poi la Verità è lo stesso maestro GESU` Cristo, che si comunica all' essenza intellettiva dell' anima, e in pari tempo s' esplica tanto esternamente quanto internamente, cioè tanto al di fuori, nella rivelazione e nella predicazione evangelica che si continua coll' umanità sulla terra, e nella divisione de' ministerŒ; quanto al di dentro, in tutte quelle cognizioni divine che producon la scienza; così del pari la Carità, che è lo Spirito Santo, s' esplica ne' doni che abbiamo enumerati, ne' soprammodo molteplici affetti dell' amore, ne' frutti, nelle grazie, e nelle sante operazioni: di manierachè non è parte dell' attività del discepolo, non potenza, non atto, che non sia accompagnato dal Verbo e dal suo Spirito, e in cui quello e questo non si trovi. E qui si vede non solo il perchè la sapienza cristiana si riduca all' imitazione di Cristo, ma di più come questa imitazione sia possibile agli uomini, e possibile in un modo del tutto singolare e maraviglioso. Se il Maestro di cui si tratta, è di una natura così diversa dall' umana, che egli ha la potestà di entrare e quasi assidersi nell' anima stessa del discepolo , e quinci, come un auriga dal cocchio, guidarne tutte le potenze, ed anzi di più, del suo proprio spirito animarle, e di conseguente, se la sapienza de' discepoli non è che la stessa sapienza divina partecipata, lo stesso maestro, che, entrato in essi, ivi col loro consenso e colla loro adesione, inabita e li fa vivere di sè; quelle tre cose che noi toccavamo non hanno più alcuna difficultà ad essere intese; cioè diventa chiarissimo, come all' imitazione di Cristo si riduca la sapienza soprannaturale degli altri uomini, e come questa imitazione sia possibile, e possibile in una maravigliosa guisa, riscontrandosi una cotale identità di sapienza. Quale umano intelletto potea mai concepire una maniera così stupenda e così sublime d' effettuare quel precetto, che pur giunse a indicare la stessa filosofia: « « Imita Dio? »(1). » Che se l' eterna sapienza, una, semplicissima, sussistente e vivente, Dio e Verbo di Dio, è quella che, sempre identica, realmente è in tutti gli uomini che vi aderiscono (al che son tutti chiamati), e in essi ella vive e regna, volendolo essi medesimi; due conseguenti soprammodo lieti per l' umanità se ne raccolgono: il primo che con ciò questa umanità veramente s' organizza in un solo corpo, con un solo capo divino, e così rimane soddisfatto il profondo e misterioso desiderio col quale da noi s' aspira ad ottenere, senza sapersi poi come, che la moltitudine degl' individui umani imiti ed emuli, colla loro unificazione, la perfetta unità della specie: l' altro, che ogni individuo, essendo in lui Cristo, riceve la dignità di un cotal fine dell' universo, costituisce quasi un centro suo proprio, a cui tutte l' altre cose si riferiscono, reso simile ad un astro, che esercita su tutti gli altri, disseminati nell' immensità dello spazio celeste, come credono gli astronomi, la sua attrazione. Dal che procede ancora la stabilità e il continuo incremento della scuola di Cristo sopra la terra, il quale disse a' suoi discepoli, prima di dipartirsi da loro colla sua esterna presenza: « « Ecco io sono con voi tutti i giorni - fino alla consumazione del secolo »(1) » La propagazione della scuola, ossia della Chiesa di Cristo, di secolo in secolo, di nazione in nazione è l' opera del suo Spirito, l' opera della carità. Questa carità cominciò da Dio Padre: [...OMISSIS...] Il Verbo mandato nell' umanità che assunse, adempì la carità del Padre: [...OMISSIS...] Gli uomini che si fecero discepoli al Verbo incarnato, ricevendolo in se medesimi, ricevettero con esso il principio della stessa carità, e ciascuno, il Verbo in essi ed essi nel Verbo, la esercitano del continuo sopra la terra: [...OMISSIS...] E il discepolo dell' amore: « « Se ci amiamo reciprocamente, Iddio dimora in noi, e la carità di lui in noi è perfetta. Da questo conosciamo di dimorare in lui, ed egli in noi, che egli ci ha dato del suo spirito »(2). » Dimorando dunque il Verbo divino, sebbene invisibile, in terra, nell' anime de' suoi discepoli, e imprimendosi in esse di generazione in generazione, e diffondendovi il suo Spirito, l' opera della sua Chiesa è in ogni tempo nuova e fresca, non può mai invecchiare, ricominciando essa in ogni uomo reso in un cotal modo Cristo, e perciò giustamente questa dottrina non dismette mai il nome di novella buona , ossia d' Evangelio, datole la prima volta che fu annunziata. E se nella lotta che sostiene contro lo spirito del male e la debolezza degli uomini, sembra in alcuni tempi che ne soffra la Chiesa, ed a periodi di splendore succedono periodi di amarezze e d' umiliazioni, questi non sono che momentanei, e passaggeri; ch' ella è una società di tal natura che porta in se medesima la potenza di ristorarsi e di ringiovanirsi, mediante il governo de' pastori co' quali Cristo promise di essere per tutti i secoli, e mediante quella carità ch' egli esercita nell' anime de' suoi, colla quale la fondò da principio; e quindi ancora la potenza d' un incessante progresso. Onde tutti i discepoli di Cristo sono de' sapienti, che fanno di continuo quello che ha fatto Cristo, e che Cristo fa continuamente in essi, cioè proseguono l' opera della Chiesa, e in essa dell' unificazione del genere umano, e, secondo l' espressione di S. Giovanni, sono « « cooperatori della Verità »(3). » In questa carità esercitata nella verità consiste veramente l' opera della sapienza cristiana . Tutti vi sono chiamati: a quelli che rispondono alla chiamata son divisi i ministeri: a taluno è affidata una parte maggiore, ad altri una parte minore dell' opera comune. Presiedono a tutto il lavoro quelli, a cui Cristo ebbe detto: « « Pace a voi: Come il Padre ha mandato me, così anch' io mando voi »(4). » Questi sono i sapienti de' sapienti, i maestri di coloro che sanno. Perocchè tutti i cristiani interiormente sanno; onde un Apostolo scrivea loro: « « Ma quant' è a voi, l' unzione, che avete ricevuta da lui, dimora in voi, e non avete mestieri ch' alcuno v' insegni. Ma come l' unzione di lui v' ammaestra di tutte le cose, e quel di che v' ammaestra è vero, e non menzogna, rimanete in esso, com' ella v' ha insegnato »(1). » E nulladimeno questo stesso Apostolo insegnava ed ammoniva, perocchè non tutti, eziandio che sappiano internamente, sanno anche esternamente, e il Verbo interiore ha bisogno d' essere esplicato dall' esteriore, ed oltracciò anche quegli che sa, può esser sedotto dall' errore, dal quale è difeso, attenendosi a coloro che Cristo mandò appunto, acciocchè insegnino e ministrino esternamente agli uomini lui medesimo. Quanto poi s' estenda questa carità della cristiana sapienza è maraviglioso a pensare. Perocchè ella s' estende appunto altrettanto, quanto la verità. La verità di questa sapienza non ha limiti, come abbiamo veduto: il Maestro dice a' suoi discepoli: « « Oggimai io non chiamerò voi servi, poichè il servo non sa che cosa faccia il suo padrone; ho chiamato voi amici, perchè io feci note a voi tutte quelle cose che io ho udito dal Padre mio »(2), » e di più promette loro il suo Spirito, che tutte queste cose, dette prima da lui, raccenderà loro in mente, e di nuovo insegnerà loro « « ogni verità »(3). » Come poi l' uomo così limitato possa portare tanta mole di verità, l' abbiamo detto, dove abbiamo avvertito, che tutta la verità gli è data in un modo implicito e potenziale, il che S. Giovanni esprime, dicendo che nel cristiano dimora « « il seme del Verbo »(4), » quel seme onde l' uomo è rinato. L' esplicazione poi di questo seme ne' diversi uomini è più o meno, sempre tuttavia, limitata, e si fa in ordine a tutto ciò che è necessario alla natura umana e da questa voluto, cioè alla perfezione morale ed alla felicità dell' uomo. Ora lo stesso ragionamento conviene applicarsi alla carità . Questa di natura sua è in ciascuno de' discepoli universale ed infinita, benchè limitata nella sua esplicazione ed attuazione. E così deve essere, se deve rispondere perfettamente a quella verità, di cui è il nostro discorso, dalla quale, come dicevamo, la carità è indisgiungibile. Poichè la carità non è altro che l' esecuzione e la sostanziazione della verità, onde nelle Scritture si nomina « « la carità della verità »(1), » e si esorta a « « fare la verità nella carità » (2) »: è una verità che si fa, non si conosce solo, come la verità naturale; e si fa colla carità. Or come abbiamo distinta dalla verità naturale e incompleta la verità soprannaturale e sussistente, così anche la carità che a questa corrisponde si distingue dal naturale amore . E non parlo dell' amore naturale soggettivo , vario di genere, e di forma e di costume, il quale non appartiene per sè solo all' ordine morale; ma dell' amore naturale oggettivo che costituisce la naturale virtù. Questo riceve tutte quelle limitazioni e imperfezioni che nella verità naturale e meramente ideale si trovano, ed è oltracciò combattuto e distrutto spesso dall' amore soggettivo che si fa reo con questo stesso combattimento. In fine, quand' anco l' amore naturale oggettivo potesse reggersi così debole e quasi aereo, com' egli è, di fronte a tale avversario violento e disordinato; nè soddisfarebbe al bisogno d' amare che sente il cuore umano, e che tanto si stende quanto l' idea, cioè all' infinito, perchè non v' ha nella natura alcun oggetto infinitamente amabile, nè un tale amore potrebbe esser principio di quell' infinita beneficenza, a cui di nuovo tende l' animo umano. Chè l' amare è voler bene, e non si può volere un bene infinito all' amato, se chi ama non conosce o non ha alcun bene infinito da comunicare. Non potendosi dunque la mente e il cuore umano fermare se non in ciò che è infinito, e perciò il suo fine compiuto potendosi trovar solo in un infinito reale, che l' amor naturale non trova; in questo come in suo fine compiuto non può essere esaurita compiutamente e tranquillamente quella capacità di affetto che il Creatore ha posta nella natura umana. La carità all' incontro trova e possiede il fine assoluto dell' amore che è Dio Uno e Trino. E come l' ama in sè stesso, positivamente e immediatamente conosciuto, così l' ama negli uomini ne' quali egli dimora, e, in un diverso modo, in quelli altresì, ne' quali egli può dimorare, e sono tutti quanti vivono in terra. Laonde la carità di Cristo prende le due forme, della fraternità e dell' umanità . La prima è quella « carità della fraternità »che venia tanto raccomandata a' primi fedeli dagli Apostoli (1), per la quale tutti quelli ne' quali già vive Cristo, si amano d' un amore indicibile, e quasi beatificante, e si prevengono in ogni onore ed aiuto con ogni sacrificio, perchè Cristo, che in essi abita, cresca ne' fratelli e in tutta la comunità. L' umanità poi è quella forma di carità, colla quale si amano gli uomini, non perchè abbiano in sè Cristo, ma perchè, non avendolo ancora, lo possono avere: e questa è il fonte di quello zelo infaticabile della salute delle anime, onde l' uomo desidera e fa quant' è da lui, che tutti quelli che sono fuori ancora della Chiesa di Cristo, vi si aggreghino, e si convertano i peccatori in modo; che, giustificati, Cristo possa di nuovo in essi diffondere il suo spirito, a cui hanno fatto contumelia. E questa è la filantropia cristiana, che tende a giovare in tutti i modi agli uomini, acciocchè vengano a possedere il bene vero, finale, assoluto, infinito, nel cui possesso solamente la natura umana chiama sè stessa soprammodo contenta, priva del quale, non è mai pienamente contenta per qualunque altro bene. Laonde è questa una filantropia ragionevole, non ingannatrice, chè per essa si vuole agli uomini il bene vero, desiderato confusamente per natura, e gli altri beni solo in ordine a questo, contro al qual ordine sarebber mali, eziandio che ritenessero le apparenze ingannevoli di beni: è appunto la filantropia o umanità di Cristo, di cui parla S. Paolo, ove dice: che « « quando apparve la benignità e l' umanità » [...OMISSIS...] «di Dio Salvator nostro, egli ci fece salvi, non per opere di giustizia fatte da noi, ma secondo la sua misericordia »(2) » e di cui parla S. Giovanni, ove pure dice: « « In questo è la carità, non quasi che noi abbiamo amato Dio, ma perchè egli stesso il primo amò noi, e mandò il Figliuol suo, propiziazione de' nostri peccati »(1) » I discepoli dunque che sanno d' essere stati amati da Cristo prima d' esserne degni e acciocchè degni ne divenissero, anch' essi amano gli uomini che non sono ancor degni d' essere cotanto amati, acciocchè diventino degni del soprannaturale amore com' essi, con acquistare la dignità di membra del corpo di Cristo viventi dello stesso spirito di Cristo. La carità dunque ha in sè necessariamente lo spirito di proselitismo, e, in altre parole, il principio d' associazione. S. Giovanni scriveva ai fedeli: « « Noi vi annunziamo quello che abbiamo veduto ed udito, acciocchè anche voi abbiate società con noi, e la nostra società sia col Padre e col Figliuolo di lui GESU` Cristo »(2) » Ed ancora: « « Che se noi camminiamo nella luce, come anch' esso è nella luce, abbiamo fra noi società, e il sangue di GESU` Cristo figliuolo di lui, ci monda da ogni peccato » (3) » La carità è sempre nella luce , perchè la luce è la verità, e la carità è la verità adempita. Abbiamo detto di sopra che la verità sussistente, cioè il Verbo divino, di natura sua associava gli uomini, essendo un identico principio reale e vitale da tutti quelli, che sono in lui, partecipato, e perciò gli uomini congiunti col Verbo rassomigliano quasi ad un grappolo d' uva, in cui tutti gli acini uniti, allo stesso racemo s' attengono, succhiandone coll' umore la vita. Ora la stessa cosa è a dirsi della carità . La quale per sua natura è unione, e unione la più perfetta e sublime, che può in qualche modo dirsi unificazione. Niuna maraviglia dunque, che tosto introdotta nel mondo la carità, l' umanità sentisse un insolito bisogno d' associarsi e incominciasse in essa un movimento, un lavoro tendente a produrre sempre nuove, ora meno, ora più perfette, associazioni. La società grande era stata costituita dallo stesso Maestro, che n' avea posto i due principŒ, della verità e della carità: quest' è la Chiesa cattolica, cioè universale. Come rispetto alla verità ella si compone di maestri e di discepoli in quel modo che abbiamo detto, così rispetto alla carità ella si compone di ministri che comunicano il Verbo e il suo Spirito, per certi mezzi instituiti dal Salvatore e avvalorati dalla sua onnipotenza, e che governano esteriormente tutto il corpo, e di quelli a cui amministrano , di quelli che tale grazia e tal governo ricevono. E poichè la verità e la carità è l' identico bene divino sotto due forme, così gli stessi che come Maestri viarŒ conservano e tramandano la verità, sono quelli altresì che come Vescovi e sacerdoti sacrificano, amministrano i sacramenti e governano: sono gli stessi con due potestà. Ma, come abbiamo detto, in ogni discepolo dimora il Verbo e vi effonde il suo Spirito, di maniera che ciascuno è un cotal centro e fine del tutto, benchè sia anche membro, maggiore o minore, esercente una funzione più o meno importante, del corpo di cui Cristo è il capo. Ciascuno dunque ha il suo lume di verità, e ciascuno ha il suo fuoco di carità: non v' ha pure il minimo cristiano che si tenga nella grazia, il quale non l' abbia. Quindi ciascuno e s' attiene più che mai stretto all' associazione grande essenziale e fondamentale della Chiesa, e ha in sè il principio e l' inclinazione ad altre associazioni benefiche: e più o meno v' inclina, secondo che più o meno egli coopera alla carità, e più o meno questa, per le cognizioni esteriori e pe' doni, in lui s' esplica. Di qui tutte quelle religiose associazioni , le quali si propongono d' esercitare, con più d' attività e d' estensione e di ordine, la carità e la beneficenza verso il prossimo: le quali non sono, come manifestamente apparisce, che propaggini della verità e della carità, radici sempre feconde, e conseguenti naturali e necessari della Scuola, di Dio fatto maestro, e redentore degli uomini, che è la sua Chiesa. Perocchè la carità può essere esercitata da ogni individuo, ma con più frutto da una collezione d' individui associati, cospiranti tutti d' accordo, come un cotale esercito pacifico ben ordinato, istrutto, e disciplinato, nello stesso esercizio. E veramente chi ama una cosa, la ama tutta e non una parte; e come la verità di cui parliamo non ha confini, così la carità pure è di natura sua infinita, nè può mai dire: basta, senza ripugnare a sè medesima: tende dunque al sommo, a fare tutto il bene che ella può. I confini di lei non sono che soggettivi: poichè s' ella si trova nell' uomo ancora implicata ed involta, non può spandersi nell' opere esteriori, e rimane così implicata quanto nell' uomo stesso rimane implicata la verità. Quell' ignoranza dunque, che può trovarsi anche nel cristiano in ordine a quel sapere che appartiene alla riflessione, e la scarsa cooperazione della libera volontà all' esplicazione della verità stessa, sono i due limiti che riceve ne' diversi uomini l' operosità della carità di Cristo. Ma questi limiti possono essere sempre più in là sospinti ed allontanati: e quindi l' indefinito e sempre nuovo svolgimento della carità nel Cristianesimo. Perocchè la carità giugne a far tutto, e con ogni sacrificio. Or tutti i beni, eziandio che temporali, possono inservire al fine de' beni , che è il fine stesso dell' uomo, sul quale, per conghietture o argomentazioni non autorevoli, fu tanto disputato da' filosofi prima di Cristo, senza che mai ne vedessero il chiaro, o convenisser fra loro; ma dopo Cristo a niuno può essere oscuro o dubbioso quale, quel fine, egli sia. Laonde la carità è uno amore, pel quale l' uomo, dimenticando se stesso pe' suoi simili, altro diletto non cerca a se medesimo che quello di procacciar loro ogni bene, con ogni suo studio, fatica e patimento, sia questo bene corporale, intellettuale, o morale: ordinando i due primi all' ultimo, che è il fine degli altri. I quali tre sommi generi di carità, se si considerano attentamente, ritornano alle tre forme dell' essere, la reale, l' ideale, e la morale: e spettano a quelle tre categorie supreme, in cui si riassumono tutte le cose concepibili dalla mente, le quali nelle tre forme primordiali dell' essere si fondano. Onde si vede, che l' ultimo intento della carità è di fare che gli uomini tutti partecipino dell' essere al maggior grado, e in tutt' e tre le sue forme. E come in quest' essere appunto uno e trino si assolve la verità, così nuovamente si raccoglie in che modo la carità termini nella verità, e come pure questa in quella si trasfonda. Ora la compiuta verità è ordinata, perchè l' essere è ordinato; di maniera chè, secondo l' ordine di generazione, precede l' essere reale all' ideale, ed entrambi al morale, che tutto l' essere seco congiunge e perfeziona. Così, allo stesso modo appunto, è ordinata altresì la carità. Di che, ogn' altro amore, che si diparta da quest' ordine, s' oppone all' ordine della verità , e di conseguente convien dire che è falso, ed anzi che benefico, dannoso. Cristo dunque portò il vero amore in terra, il quale non potè essere del tutto vero se non a condizione d' essere altresì sublimissimo e divino, come vi portò la vera sapienza, pure sublimissima e divina; ed a buon diritto egli potè dire, che questo precetto era il suo (1). Come poi la carità s' esercita dai discepoli o separati, o uniti in società; così ella s' esercita del pari a favore d' individui, e a favore di società, quantunque il termine umano della carità sia sempre l' individuo; che le società stesse hanno condizione di mezzi e non di fini, non potendo esse aver altro fine che o il bene degl' individui associati, o d' altri. Quindi nella carità v' ha il principio immortale della ristorazione e della riforma non solo della Chiesa, come abbiam detto parlando della verità, ma ancora della società domestica, essendo principalmente l' educazione opera gratissima alla carità, e della società civile, procacciando la carità, ove ne sieno animati i membri di lei, che essa si fondi sulla giustizia, di cui tempera il rigore, conciliando le opinioni e gl' interessi colla reciproca stima e colle vicendevoli concessioni e ragionevoli transazioni de' cittadini, e soprattutto spuntando l' orgoglio e il dispotismo tanto famigliare e quasi inseparabile da questa potente società, coll' insegnarle che cosa ella sia, cioè unicamente l' ancella, non punto la signora nè della Chiesa, nè della Famiglia, l' una e l' altra delle quali società pel loro concetto a lei precedenti, ella dee riverire come suo proprio fine, e rispettare e servire. Laonde anche la famiglia, e la nazione partecipano di quella immortalità, che la cristiana sapienza comunica a tutte le cose che ella tocca od affetta, e che prima di null' altro ella assicurò di sua propria bocca alla grande scuola da lei aperta, cioè alla Chiesa universale. Ma la carità non si ferma, come dicevamo, nell' uomo, ma termina in Dio; chè ella ama gli uomini o perchè partecipano della divina natura, o perchè ne possono partecipare. Onde come Iddio, maestro del mondo, è la Verità, e questa, nel suo movimento comunicativo agli uomini, termina alla Verità, di maniera che ella è il principio e ad un tempo il termine del divino insegnamento, che in un circolo non già vizioso, ma potente e vitale incessantemente si volge e dimora; così Iddio, Spirito di verità, è la Carità, la quale comunicandosi agli uomini ritorna continuamente in sè stessa, di maniera che, secondo l' osservazione di S. Agostino, si ama in fine lo stesso amore (1), e tutt' è amore, Dio Amore il principio, e Dio Amore il fine. E così disvelato, ed anzi comunicato all' uomo il fine de' beni , furono all' umanità assicurate quelle due cose supreme, ch' ella da sè va sempre, a tastone e nelle tenebre, ricercando, cioè la compiuta virtù e la beata vita . Perocchè quella maniera di vivere e d' operare che si limita, che si ferma per via, che non intende nel fine assoluto di tutte le cose, Iddio, può bene dimostrare in sè stessa qualche similitudine o piuttosto analogia colla virtù, a cui è avviata, e questa similitudine o analogia o avviamento, può esser preso dagli uomini in fallo per la virtù, ma essere la virtù, egli non può, « « nè, siccome dice S. Agostino, è vera sapienza quella, che nelle stesse cose da lei vedute con prudenza, operate con fortezza, raffrenate con temperanza, distribuite con giustizia, non indirizza la sua intenzione a quel fine, nel quale Iddio sarà tutto in tutti, con eternità certa, e con pace perfetta »(2). » Nella quale virtù completa l' uomo trova già su questa terra, in cui tutto è incipiente, nulla consumato, in cui la verità sussistente è percepita come un enigma, in cui la carità è operosa come un esercizio e uno sforzo, trova, dico, su questa terra la vita beata , ravvolta certo in fra quei veli della verità, e in fra quei patimenti della carità, ma pure verissima; chè l' uomo posto in tale condizione dichiara sè a se medesimo contento, e lo dichiara con ogni sincerità. Egli sa di possedere l' infinito, e nella volontà di lui, di cui sente l' infinita amabilità e maestà, come in luogo sicurissimo riposa, e confida d' una speranza, che non può confonderlo: chè anzi egli, educato da Dio medesimo alla generosità de' sentimenti, non si risolve tampoco di preferire l' eterno godere al temporaneo meritare, e o contrabilancia il valore di questi due egualmente infiniti tesori, come una femminella diceva: « o patire o morire », e lo stesso Apostolo mostra esitar nel dubbio, quale de' due gli deva esser più caro (3); ovvero antepone il merito alla stessa visione, come dicea un' altra femminella: « non morire, ma patire », e come il medesimo Apostolo Paolo in un altro luogo: « « Io desideravo di essere anatema da Cristo » (cioè separato dalla vista di lui) «pel bene de' miei fratelli »(1). » Ma se nel tempo della scuola, della palestra, del merito, basta a rendere felice l' umana vita « « quella speranza, » per usar le parole di S. Agostino, «della contemplazione di Dio, la quale ha pur seco dilettevole e certa intelligenza della verità » (2): » cessato il corso del tempo, la verità sussistente, che or è nell' uomo come principio , manifestandosi anche come termine , apre a lui davanti ed offre tutti i tesori eterni, che nella profondità dell' essere reale si nascondono, e così Cristo, secondo la frase ammirabile della Scrittura, restituisce il Regno al Padre già svelato agli uomini (3); e la Carità che alla Verità, da cui è spirata, s' accompagna e si proporziona, rompendo, per così dire, la fornace che comprimea le sue fiamme, innalza ed espande il corno dell' incendio che non consuma, ed avventandosi a tutto l' Essere discoperto, fa che l' uomo di lui viva, quasi d' una vita di fuoco divino ed immortale. La promessa, come chiaramente apparisce, è degna del Maestro, ella è consentanea alla sublimità della scuola: tutto s' attiene, se il maestro è Dio, dunque egli dovea essere tutt' insieme e l' oggetto della dottrina, la verità, e il fonte e l' oggetto della carità, e finalmente anche l' eterno oggetto della beatitudine: qualunque altra scienza, fuori di questa, sarebbe stata inferiore a un tale maestro e a una tale scuola, come qualunque altro fine del mondo sarebbe stato inferiore alla grandezza del Creatore. S. Agostino osserva che v' ha certe cose, l' aver le quali non è altro che il conoscerle; e queste non possono esser sottratte dagli uomini al nostro amore (1). Ma in pari tempo alcune di esse non possano esser conosciute a pieno, e però nè tampoco avute, da chi non ne fruisce, e la fruizione è un atto d' amore; non possono dunque essere avute se non sono conosciute, nè conosciute se non sono amate e godute. Il bene è appunto in tali condizioni: [...OMISSIS...] Dalla qual dottrina applicata alla beata vita si conferma quello che noi dicevamo, cioè: 1 Che nella cognizione della verità s' acchiude la carità , perchè quella essendo un bene, non può essere a pieno conosciuta, se non s' ami e fruisca, e viceversa nella carità s' acchiude necessariamente la cognizione della verità , perchè avere quell' oggetto amabile è un medesimo che conoscerlo. Il che non involge punto alcun vizio di circolo, ma bensì la necessità che verità e carità inabitino, quasi direi, l' una nell' altra, acciocchè possano reciprocamente comunicarsi e completarsi. 2 Che quelle due parole, a cui si riduce tutta la scuola di Cristo, Verità e Carità , non solo contengono la sapienza dell' uomo nella presente vita, ma altresì la beatitudine della futura: di maniera che questo riceve il discepolo da una tale scuola, d' avere in sè una sapienza, che, dopo averlo appagato in mezzo alle sofferenze presenti, e datogli una somma dignità e una somma pace in mezzo alle lotte che intorno a lui s' agitano o dalla natura in perpetui e fatali attriti, o dall' umanità in incessanti e volontari dissidŒ, si rivela colla morte temporale, e si cangia in eterna beatitudine. Laonde siccome il precetto del divino Maestro: « « Amerai il Signore Dio tuo in tutto il cuor tuo, e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(3) » non è solamente un documento di giustizia, ma ancora un avviso di prudenza dato all' uomo, acciocchè egli conosca dove possa rinvenire quella vita di eterna beatitudine, che è l' ultimo de' suoi voti e la somma de' suoi bisogni, e ciò perchè nella perfetta carità si rinviene la compiuta verità; così, simigliantemente, la stessa vita beata gli è mostrata, e quasi a dito indicata dallo stesso divino Maestro, nella perfetta cognizione della verità, la quale non può esser perfetta, se l' uomo ne ignori quella parte che la sola carità gli rivela, avendo egli favellato così: « « Ora questa è la vita eterna, che conoscano te, solo Dio vero, e colui che tu hai mandato, GESU` Cristo »(1). » Riassumendo dunque quello che per noi fu detto fin qui, noi abbiamo distinto la Filosofia come scienza dalla Sapienza ; abbiamo detto, che quella è puramente cognizione, e cognizione sotto la forma speciale di scienza , la qual forma è l' opera della libera riflessione: questa all' opposto risulta da due elementi, della cognizione e della virtù , che traduce la cognizione in azione reale e morale. Abbiam fatto vedere, che come la Filosofia ha per suo oggetto l' intera cognizione che nell' ultime ragioni delle cose si racchiude, così pure quella cognizione che costituisce il primo elemento della sapienza (qualunque forma ella si abbia) non è l' una o l' altra cognizione particolare, ma la cognizione della verità nella sua interezza ed universalità, benchè ella possa trovarsi nell' uomo più o meno ravvolta e quasi in germe, e più o meno svolta ed esplicata: ma che come all' esercizio della virtù, che è il secondo elemento della sapienza, si richiede l' uso della libertà umana, così alla cognizione a cui essa virtù s' appoggia, si richiede sempre qualche grado di riflessivo sviluppamento. Abbiamo veduto ancora, che la cognizione che serve di base alla sapienza, non essendo legata ad alcuna forma, e avendovi negli uomini una cognizione anteriore alla filosofia, e una cognizione scientifica, che è la filosofia stessa, forz' è che v' abbia una Sapienza anteriore alla Filosofia, che può esser posseduta da tutti gli uomini, quantunque illetterati; ed una Sapienza che accompagna la Filosofia, propria de' filosofi che alla verità conosciuta accordano la maniera del vivere e dell' operare, sapienza della prima più luminosa e più sviluppata. Ma dopo di tutto ciò, abbiamo osservato, quanto la cognizione naturale della verità, specialmente quella parte che riguardando gli ultimi destini dell' uomo ha un' importanza unica e incomparabile, rimangasi limitata, oscura, incerta, fallace, senza autorità di persuadere, e però sempre controversa; e come quindi essa non possa collocare un solido e sufficiente fondamento alla morale virtù: indi la necessaria imperfezione dell' umana sapienza. Abbiamo intese le voci della natura e della filosofia, che prima di Cristo, per bocca di Platone, domandava che venisse Dio stesso a disciogliere gli enimmi, da cui l' uomo, anche il più dotto, vedevasi circondato e confuso, e ad ammaestrare con certezza tutti i mortali sulle più importanti e necessarie questioni, disperati di trovarne mai il vero ed il certo, se non dalla bocca di un tal maestro. E dicemmo che Iddio, il quale avea già troppo innanzi veduto il bisogno, udito il voto della sua creatura, si degnò discendere in forma di maestro nel mezzo degli uomini, uomo anch' egli. Fece assai più di tutto quello che l' uomo avea saputo bramare o concepire: non operò secondo la misura dell' uomo, ma secondo la sublime via a lui tracciata da' suoi infiniti ed ininvestigabili attributi. In tutto quello che fece, vinse l' umana previsione coll' opera, col modo, coll' effetto: non si contentò di comunicare all' uomo la scienza , s' incarnò egli medesimo, eterna sapienza , vinse l' umana perversità e l' umana limitazione, che impediva all' uomo la compiuta sapienza: la vinse con quell' atto appunto di sapienza, col quale si lasciò uccidere, e col quale redense il genere umano, e lo incorporò seco, gli diede per vivere della sua propria vita, e per luce della sua propria luce: invitando gli uomini tutti al gran banchetto da lui loro imbandito di nuova ed inescogitabil sapienza, e pascendo quanti tennero il suo generosissimo invito di se medesimo. Platone, come abbiamo veduto, osservava, che chi ama una data cosa, l' ama tutta e dovunque ella sia, e se n' esclude dal suo amore una parte o l' ama in un luogo e non in un altro, non dice più il vero quando dice d' amarla. Onde anche la sapienza o si ama in ogni sua parte e dovunque si ricerca, o non è vero che s' ami. Che converrà dire di coloro, i quali, senza alcun serio esame, anzi disdegnando d' applicarsi allo studio di quanto insegna il Cristianesimo, in cui milioni d' uomini in tutti i secoli asseriscono contenersi una sapienza perfetta insegnata da Dio, limitano il proprio amore e studio a quella qualsiasi natural scienza o sapienza, la quale tostochè tocca il suo più alto punto e non mentisce, si confessa povera ed impotente? Diranno costoro il vero quando si dicono filosofi nel senso d' amatori e cercatori della sapienza? Chi n' è amatore veramente, l' ama tanto più, quant' ella apre e scuopre una maggiore e più eccellente parte di sè; chi n' è vero cercatore, la cerca per tutto e dove la trova, l' abbraccia; ma chi l' ama solo a condizione d' attignerla ad un torbido rigagnolo, e l' odia poi o non la cura nel limpidissimo e copiosissimo suo fonte, costui nè la cerca veramente, nè l' ama. Che se fu lodata la sentenza di Bione, il quale paragonava coloro che, postergata la Filosofia, s' applicavano all' altre scienze, agl' innamorati di Penelope, i quali repulsi dall' eroina sposavano le sue ancelle (1); dopo che nel mondo s' introdusse la Sapienza insegnata da Dio stesso tanto più eccellente della Filosofia, si dovette mutare la similitudine, e trovarne una nuova, riconoscendosi nella serva egiziana d' Abramo Agar il simbolo della Filosofia, e nella sua padrona Sara quello della cristiana Sapienza (2). Che se la serva insolentisce, Abramo la concede in balìa di Sara, ed anco giustamente la licenzia di casa sua. Ignobile cosa è dunque al contrario, per amor della serva a dimettere la padrona, dalla quale sola può nascere la prole della promessa. Nè dovrà mai dirsi amatore della Sapienza colui, che ama solamente quella disciplina che alla Sapienza è serva, e con questa, che spesso s' erige ed insuperbisce contro la sua padrona, adulterando, questa con gran viltà e bassezza d' animo trascura e dispregia. Questi opuscoli filosoficŒ sono stati scritti in diversi tempi e in diverse circostanze ne' momenti avanzati all' Autore dalle altre sue occupazioni. Non si può dunque esigere fra essi una rigorosa connessione, giacchè non furono lavorati sopra alcun disegno generale. Tuttavia sono essi privi al tutto d' una relazione che dia loro qualche unità? Non già; ella v' è: l' Autore non ve l' ha messa, ma ve l' ha trovata; e crede utile il farla osservare anche a' suoi leggitori. Si può dire che i primi quattro Saggi, i quali formano il primo Volume, riguardano tutti la divina Providenza, sebbene non sia ciò indicato dal loro titolo: questa almeno è l' idea dominante in essi, e quella intorno a cui si raggirano, come intorno a loro centro, tutte le altre. Nel primo Saggio si presenta l' uomo applicato al meditare, che dal vedere afflitti talora i buoni ed i pravi rallegrati, tituba quasi nella fede della divina Providenza circa la distribuzione de' beni e de' mali su questa terra: ma diffidando di se stesso, prima di passare ad una vera dubitazione, si fa ad esaminare le forze della propria intelligenza; a riconoscerne i limiti; e a considerare le strade diritte e sicure che il possono condurre alla verità in una ricerca sì spinosa e sì rilevante: le quali strade egli riconosce esser due; l' una più breve e più certa della Rivelazione; l' altra più lunga ed incerta della Ragione, la qual però rendesi luminosa e certa anch' essa, se dal lume rivelato venga irraggiata. Nel Saggio seguente l' uomo si mette in cammino per queste vie, non meno per quella della Rivelazione, che della Ragione; e discuopre, che la divina Sapienza doveva seguire nella dispensazione de' beni e de' mali terreni certe Leggi sublimi, che sfuggono al corto vedere della maggior parte degli uomini, ma che, dov' elle sono vedute, arrecano la più gran pace alla mente che prima titubava per la propria ignoranza, e temeva non forse mancasse un ordine degno di Dio nell' ampio governo del fisico e del morale universo. La Providenza comparisce nel terzo Saggio come quella che avendo educato l' umanità con un fine costante ed infinitamente sublime, e avendo a quest' unico fine tutti gli avvenimenti del mondo o sieno piccioli o sieno grandi preordinati e diretti, si è fatta esemplare, da cui ricopiar devono i pastori de' popoli, i principi delle nazioni, e tutti quelli che influiscono sull' educazione degli uomini, e che Dio chiama a parte della grande sua impresa di realizzare il sistema da lui disegnato ab eterno, e nella creazione cominciato (1). Dopo aver considerata la Providenza come l' esemplare della educazione umana, trapassa nel quarto Saggio (2) a contemplare l' opera della Providenza, cioè l' università di tutte le cose colle loro leggi e nell' immenso loro corso da quelle regolato, come il subbietto generale delle belle arti , quando queste sieno sollevate da terra mediante genŒ possenti e cristiani, e sieno chiamate a diffondere la virtù e la pace fra gli uomini, e la gloria intorno al trono dell' Altissimo. Queste belle arti riformate e battezzate per così dire anch' esse nelle acque della salute, depongono le ultime loro spoglie idolatre al piè della croce: e mutano la falsità nella verità, le passioni turbolente negli affetti celesti, l' ipocrisia nella virtù, e le favole mitologiche ne' grandi misterŒ della fede, dalla cui profonda oscurità tutte emanano le ragioni delle cose create. Egli è rivolto il quinto Saggio (1), col quale comincia il secondo Volume, e che s' intitola « Della Speranza , » a dimostrare le agitazioni del cuore umano, quando rifuggendo dalla patente luce del Cristianesimo, ritorna solitario indietro sui passi già fatti dall' uman genere, e si costituisce isolato fra nazioni pagane, s' abbandona alle loro illusioni, come alle loro abbominazioni: egli percorre tutta la serie degl' inganni; e finalmente cerca orribilmente la requie non mai trovata nell' inganno stesso, che perpetuamente rinasce e perpetuamente svanisce. Infelice! rinunziando alla verità egli avrebbe distrutto se stesso, se non dovesse sopravvivere per iscontrare un debito infinito che ha contratto colla medesima! Ma le illusioni che cominciano all' uomo quel corso che sempre più accelerando, lo precipita finalmente nel sistema omicida del rinascente inganno della Speranza, si nutrono coll' abuso delle cose esterne, ed il seguente Opuscolo si rivolge appunto ad additare i danni del lusso e della moda (2): di quel lusso nella proscrizione del quale l' Evangelio immutabile, che veniva poco fa contraddetto da una Economia politica poco avanzata, ricevette testimonianza dalla stessa scienza economica tosto che si perfezionò: testimonianza dico che conferma il detto di un uomo non parziale della religione « che il cristianesimo il quale sembra non pensare che alla felicità degli uomini nell' altra vita, fa ancora la loro felicità nella presente ». E giacchè i sofismi sul lusso cercano di sostenersi colla falsa definizione della ricchezza , nell' Opuscolo che succede l' autore parla dell' abuso di questa parola, che può servir d' esempio agli infiniti errori ingenerati dai diversi sensi, che gratuitamente si sogliono alle parole attribuire. Nè meno sono cagione d' errore le false definizioni che le inesatte classificazioni , come appare dall' ultimo Opuscolo rivolto ad additare il modo di distinguere con aggiustatezza i varŒ sistemi filosofici (1), perchè si possa parlare di essi con qualche ragione, e non formare perpetuamente di que' ragionamenti vaghi, che con un gran rombo di parole nulla significano, e riescono solo a partorire vane dispute e interminabili contrasti. E come v' ha qualche relazione naturale fra l' un Saggio e l' altro, così pure non sarà difficile scorgere in tutti uno stesso spirito, e quella formale unità che ricevono gli scritti d' un autore, sebbene d' argomenti varissimi, dall' unità indivisibile della mente, nella quale, quasi in una vasta regione dello spirito, tutte le idee si ritrovano e s' incontrano, e nello incontrarsi o sentono d' amarsi e s' uniscono, o di abborrirsi e si ripellono ed escludono scambievolmente. A me pare che i principŒ che noi abbiamo nello spirito, rassomiglino ad altrettanti centri d' attrazione, intorno a' quali s' aggirano un poco di tempo tutte le idee presentate innanzi alla nostra mente fino che si precipitano in essi e ad essi si rannodano: quelli dunque danno un moto regolare, per così dire, alle idee di qualunque maniera elle sieno, e con ciò queste idee si mettono da se stesse in qualche ordine nella mente fornita di principŒ, talora ben anco senza che l' uomo il voglia o il faccia con deliberazione, se pur esse abbiano il tempo bastevole d' essere attratte da que' centri e di finire il loro moto vorticoso unendosi ne' medesimi. Ma se questo avviene in tutti più o meno gli uomini, senza pure ch' essi se n' accorgano, molto più è necessario che ciò accada in chi non iscrive solo quanto a lui suggerisce l' animo all' istante in cui scrive, ma segue de' principŒ generali precedentemente esaminati, fermati, e resi famigliari. Nè egli sarà difficile che il leggitore scorga per questi Saggi le membra sparse del corpo di una Filosofia dall' autore seguita costantemente. Che se si chiede di che genere ella sia, parmi che si possa descrivere, non già nelle sue parti singole, ma nel suo spirito, con pochi cenni, dicendo ch' essa, in sull' orme di sant' Agostino e di san Tommaso, tutte le sue meditazioni rivolge al gran fine di far tornare indietro lo spirito umano da quella falsa strada, nella quale col peccato si mise, e per la quale, allontanandosi da Dio, centro di tutte le cose ed unità fondamentale onde tutto riceve ordine e perfezione, si divagò nella moltiplicità delle sostanze disordinate, quasi brani di un universo crollato, privi del glutine che tutti univa in un' opera sola maravigliosa. Ma chi volesse avere anche fermato con alcune parole lo stesso spirito e la forma di una simile filosofia, basterà ch' egli ritenga due vocaboli, i quali disegnano i suoi due generali caratteri, atti a farla conoscere e contraddistinguere, e questi sono UNITA`, e TOTALITA`. Nessuna filosofia può giammai pienamente conseguire l' uno di questi due caratteri senza l' altro; chè la piena unità delle cose non si può vedere se non da chi risale al loro gran tutto ; nè si abbraccia giammai il tutto , se non si sono concepiti ancora i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose, che dall' immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola. Ma se pure v' avesse una filosofia a cui convenir paresse uno solo di questi due caratteri, non sarebb' ella ancora tale d' affidarsi al suo lume interamente; giacchè l' unità quando non abbraccia in se stessa le cose tutte, non è che una limitazione arbitraria, un timido ristringimento, una povertà di sapere. Ma dov' anco una filosofia aspiri a comprendere in se stessa tutte le cose, ella non sarà più atta per questo a produrre buon frutto, se le considera staccate dalla unità , ma solo varrà a stancare inutilmente l' umana ragione con un travaglio che la vince senza fortificarla, e che l' annoia senza istruirla. Le cose fisiche si raggiungono alle morali, ed è dall' osservazione di noi stessi , che siamo scorti alla filosofia professata dall' autore. L' uomo non ha che a dare uno sguardo sopra se stesso in un istante di calma dalle passioni, per riconoscere la propria debolezza e la propria naturale dipendenza da un altro essere fuori di lui. Così l' occhio se potesse riflettere sopra di se conoscerebbe d' avere una dipendenza naturale dalla luce, giacchè solo colla luce può fare l' atto pel quale egli fu ottimamente costruito. Come questa dipendenza, che l' uomo può conoscere in sè con tanta facilità, lo conduce a conghietturare almeno l' esistenza di quell' essere da cui essenzialmente dipende; così la propria debolezza ed insufficienza, senza quest' essere, lo conduce a riconoscere, che tutto ciò che di grande e di felice egli può desiderare, si riduce appunto al desiderio che quest' essere esista. Finalmente non saprei meglio accennare la dipendenza dell' uomo da altri esseri, che colle parole d' uno scrittore recente, che così si esprime: [...OMISSIS...] Come tale filosofia è l' interprete della natura, così è pure l' interprete dei voti del cuore umano. Ella medita da una parte di unire gli uomini al Creatore, e da un' altra di unirli fra loro. Se colla prima sua cura si fa ministra di pace e di felicità ad ogni individuo; la seconda sua cura è di spargere l' amore fra gli uomini; un amore pieno e profondo; un amore universale e permanente, perchè ha per guida la verità, e per fine la virtù. L' amore che non nasce dalla verità delle cose non è che parziale, e finisce coll' odio; e quello che non mira di condurre gli uomini alla virtù non è che momentaneo. Solo dunque quella filosofia che abbia per caratteri l' unità e la totalità delle cose è la madre di una vera benevolenza, perchè que' due caratteri sono la virtù e la verità! Parve all' autore che una tale teoria fosse quella dell' Evangelio, e che la pratica della medesima fosse l' opera della divina Providenza tendente a far di tutti gli uomini un cuor solo, ed un' anima sola; e di tutta la terra un solo ovile con un solo pastore. Dopo di ciò non sarà maraviglia se l' autore con quella sincerità e con quella gioia che all' uomo cristiano apporta la coscienza d' appartenere alla Chiesa universale che diverrà sempre più quest' ovile, e d' essere sottomesso al suo capo che diverrà vie più questo pastore, sottoponga quanto ha scritto in quest' opera ed in tutte quelle che ha precedentemente pubblicate, al giudicio supremo della santa romana Chiesa. Egli gode di ripetere ciò che altra volta ha stampato « ch' egli non riconosce altra gloria più bella che di professarsi a questa gran madre figliuolo ubbidiente e devoto; e che non credendo di potersi a pieno assicurare del proprio giudizio individuale, revoca già e condanna precedentemente quanto mai fosse per riprovare nella medesima il Sommo Pontefice, il maestro ed il giudice inappellabile costituito da Gesù Cristo, acciocchè tutti gli uomini sulla terra possano con ogni sicurezza ed in qualunque tempo distinguere nella Fede la verità dall' errore, e nella vita il bene dal male. » Questa egli crede che sia la tessera della grande fratellanza de' battezzati. Guai a coloro che seminando l' odio fra gli uomini, raccolgono la discordia e la distruzione! che ricusano di far parte con quelli, che sentendosi nati all' amore, fabbricano la casa comune in sulla pietra, e vi si riposano nella pace e nella unità! Nel Volume presente si contengono due Opuscoli sopra i promessi. Essi non prendono a trattare direttamente nessun nuovo punto di filosofia, ma sono più tosto indirizzati a sgombrare la via dagli ostacoli che si frappongono agli avanzamenti della vera filosofia. Uno di questi ostacoli, e non certo il meno dannoso, è la disacconcia maniera colla quale gli uomini dedicati allo studio talora comunicano insieme i pensieri e le diverse loro opinioni. Questa maniera vorrebbe pur essere serena e tranquilla, quale è necessario di conservare la mente e l' animo, acciocchè sieno idonei alla verità; ma in quella vece è bene spesso commossa, azzuffata e turbolenta; e in molte scritture che si pubblicano presso di noi di letterarie controversie, egli par di vedere anzi le idee sollevate in tumulto a difesa dello scrittore o a rovina dell' avversario, che lo scrittore stesso sorto alla propugnazione delle idee salutari e della verità. E a tor via un vizio così nocevole ai progressi del vero, a torlo via massimamente dalla italiana letteratura, che dovrebb' essere essenzialmente sincera, e gentile, tende uno dei due Opuscoli aggiunti, intitolato: « Galateo de' Letterati . » L' altro, che ha per titolo: « Breve esposizione della filosofia di Melchiorre Gioja (1), » procaccia di mostrare in tutta la sua nudità ed abbiezione la filosofia di Elvezio riprodotta sgraziatamente in veste italiana da tale, che se avesse, in vece di copiar servilmente il male dagli stranieri, ricercata liberamente col suo ingegno la verità, non avrebbe giammai prescelto d' estinguere, quant' era da lui, nell' uomo l' intelligenza riducendola alla sensazione, e la morale rivocandola tutta al piacere. Come tutto ciò che può render nobile la filosofia teoretica, si è la distinzione dell' idea dalla sensazione; così non v' ha nulla nella filosofia morale di elevato e di sublime, che non discenda dalla distinzione fondamentale fra una legge che obbliga, ed una semplice inclinazione che alletta. Se non v' ha nulla nell' umano intelletto che differisca essenzialmente dalla sensazione, non v' ha nè pur nulla che costituisca una differenza essenziale dell' uomo da' bruti; e se non v' ha altra legge morale che l' inclinazione a ciò che è piacevole, è tolto via con questo ogni diritto , e non esiste che un fatto . Una tale filosofia distrugge dunque l' umanità , e non lascia per oggetto della filosofica investigazione che l' animale: ella è dunque falsa, perchè manca di uno de' due caratteri che distinguono la vera filosofia, cioè di quello della TOTALITA`. Ma il carattere della TOTALITA`, com' abbiamo osservato, è congiunto essenzialmente coll' altro della UNITA`; e non può avervi nè pur questo in una dottrina filosofica che si trovi priva di quello. Perciò una materiale filosofia non può congiungere le sue parti ad unità, appunto perchè ciò che rigetta dello scibile umano, ciò che ella non vede, sono « i più intimi, cioè, gli spirituali legami delle cose, che dall' immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola. » In fatti, riducendo essa alla sensazione corporea tutto ciò che è nello spirito umano, non le resta ad oggetto del suo sapere (benchè, a parlare con coerenza, questo stesso sarebbe impossibile), che la materia, o, per meglio dire, i puri accidenti della materia: e la materia è subbietto di divisione indefinita, e non può somministrare alla mente alcuna nozione di vera unità: gli accidenti perdono anche quella unità che aver potrebbero, ove vengano divisi dal subbietto nel quale esistono, o, per parlare più accuratamente, del quale formano il modo d' esistere (1). Solo lo spirito è il fonte della unità; e solo le essenze che allo spirito risplendono, sono quei legami intimi e spirituali che unizzano, per così dire, le cose, le essenze ond' aver possiamo un subbietto unico, indivisibile, e onde la materia stessa, che di natura sua indefinitamente si moltiplica e sperde, veste una forma semplice e costante, e rendesi idonea a farsi oggetto de' nostri intellettuali concetti e de' nostri ragionamenti. Quindi nella filosofia della sensazione (1) una contraddizione interna ed una pugna continua con se medesima; poichè mentre l' intelletto non può veder nulla se non semplificato nella unità, il filosofo della sensazione all' incontro fa tutti gli sforzi, col suo intelletto medesimo, a persuadervi che non esiste cosa alcuna che sia veramente semplice ed una, s' assottiglia per dimostrarvi di non veder ciò ch' egli vede, e per riuscire a sciogliervi le idee astratte in altrettante collezioni d' individui , e a spezzarvi le idee d' individui in replicate sensazioni . Nè la parte morale della filosofia che tocchiamo, è meno priva de' due caratteri che contraddistinguono una dottrina vera e accomodata a' bisogni della umanità: perocchè essa non può aver quello della TOTALITA` cominciando da una esclusione , cioè escludendo fino la vera idea della obbligazione, e non può aver quello della UNITA` stabilendo una regola della vita variabile, siccom' è il piacere, a seconda de' tempi, de' luoghi, delle abitudini e di accidenti innumerevoli, in una parola de' capricci e degli appetiti umani. E pur sembrerebbe che una filosofia, acciocchè dovesse essere dichiarata falsa e rigettata, bastasse l' averla dimostrata priva di due caratteri essenziali così patenti; e non rimanesse più dubbio in sul danno di lei, dopo aver conosciuto ch' essa da un lato è parziale , cioè tendente ad escludere una parte dell' umano sapere, e conduce all' idiotismo , e fino alla distruzione delle cose , se l' esistenza di queste fosse all' umana ragione abbandonata; e che dall' altro è priva essenzialmente di unità , giacchè non lascia che il senso e distrugge la mente , ed « « è solo colla mente, » come dice S. Agostino, «che si percepisce l' unità »(2). » Similmente pareva, che io non avessi dovuto trovare contraddizione affermando che una vera filosofia doveva essere imparziale , doveva amar tutto e odiar nulla , doveva abbracciare, quanto era da sè, in se medesima tutti gli enti ch' ella potesse conoscere, e tutte le idee che trovasse vere, senza prevenzioni e senza avversioni; e che quando non avesse rifiutato nulla della verità, allora essa sarebbe penetrata fino ne' più intimi e spirituali vincoli delle cose, e mediante questi sarebbe salita ad una sublime unità, per la quale solo le cose sono possibili, giacchè, per citar di nuovo uno de' due lumi che ho segnato per mia guida, « « essere non è altra cosa che essere uno »(1). » Ma non piacque altrui che io predicassi questa dottrina, che è la dottrina dell' amore ; e che altamente, quanto io sapevo, gridassi, che il bisogno presente ed urgente in questo miserabile stato della umanità, era quello di cooperare perchè « « si conducesse l' uomo ad assomigliare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non ostinarsi a tentar di conformar le cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo »(2) » Nel che io non trovo d' avere peccato, se non forse in una cosa, che in vece di dire la filosofia fornita de' due caratteri summentovati esser quella che io avea tolto a seguire, avrei potuto dire assai meglio, esser quella a cui tende ed anela tutto il secolo nostro, che sembra affaticato e contendente a tornare indietro dalla falsa strada, per la quale correva abbandonato il secolo precedente, e fuggiva, quasi direi, dalla eccellenza della umana natura per rannicchiarsi e racchiudersi tutto nel senso del corpo « « che ignora Iddio »(3). » Perocchè a quelle sentenze che io scriveva nel primo Volume degli Opuscoli, e che provenivano dal desiderio, sebben fornito di poco potere, d' una universale ed immobil sapienza, concordavano i sentimenti di tutti i buoni; tocchi intimamente da tanti mali, e pensosi sui grandi bisogni della umanità. Io predicava TOTALITA` ed UNITA` nell' « Educazione: » e mentre io affermava trovarsi un' educazione fornita di tali caratteri risalendo al modello che Iddio ci presentava nella sua Providenza, la quale non era altro finalmente che una educazione data all' intera umanità (4); altrove assumevasi il concetto medesimo per farlo servire di base appunto ad un' opera rivolta alla riforma della educazione, opera che in Francia si coronava, ed in essa scrivevasi: « « L' opera del perfezionamento consiste per l' uomo nell' imitare il piano della Providenza nel complesso della creazione, e nel compirlo in se medesimo »(1). » Io riprovavo la dottrina de' sofisti, che limitava la coltura umana alle relazioni dell' uomo colla società (2), e lo aggravava d' un fardello di cognizioni positive tanto più pesante, quant' erano staccate fra loro; nè queste si pregiavano nell' armonia che dovea risultare dal lor complesso, ma ciascuna a parte, e per se medesima; e non era io solo che così pensavo, ma altrove pure si riconosceva il medesimo vero; chè forza a conoscerlo l' esperienza di un decadimento precipitoso, sofferto dall' umanità sotto l' educazione materiale de' sofisti, cioè sotto un' educazione parziale e priva di scopo; e così si diceva [...OMISSIS...] Io volevo TOTALITA` ed UNITA` nella enciclopedia delle scienze; e in vece d' un immenso campo sparso di scientifiche ruine, dicevo conforme allo spirito del Cristianesimo il pensiero di Bacone, che mirando nell' opera della divina Providenza, scrivea dell' unione delle scienze: « « Noi meditiamo di fondare nell' intelletto umano un sacro Tempio, il quale rappresenti ed esprima il Mondo »(5). » Questo che io dicevo, e il lamento che io facevo contro a' sofisti de' nostri tempi, i quali ostentando una falsa modestia (1), affermavano che l' uomo non può conoscere quegl' « intimi e spirituali vincoli delle cose », da' quali solo viene alla scienza una certa TOTALITA` ed UNITA`, e senza i quali l' uomo non si appaga della verità, ma cerca di diffondersi nella finzione e fino nella distruzione, è il fatto che si riconosce e si deplora; e anche fuori d' Italia si descrivono gli sforzi de' sofisti per impiccolire la verità. [...OMISSIS...] Come questo fatto non è da me solo veduto, così è veduto parimente quell' altro, che, all' opposto de' sofisti che cercano impoverire il sapere umano e introdurre la guerra delle scienze fisiche a distruzione delle morali, la religione cristiana nel tempo che tutte promuove le scienze, infonde altresì in esse il principio della pace e della UNITA` (2). [...OMISSIS...] Io chiedevo oltre a ciò TOTALITA` ed UNITA` nelle belle arti, e massimamente nella poesia: a tal fine io richiamavo questa a' suoi principŒ, perchè non vagasse più a caso a intrecciar fiori che le appassiscono in mano, ma si rendesse maestra insieme e sollievo di una vita intelligente e affaticata; e trovavo, i principŒ di essa essere stati la meditazione nella divina Providenza, della quale questo universo è un gioco sublime; e questo mio voto, questo mio sentimento si ritrovava poco fa vero, e si ripeteva presso di noi, così favellandosi del padre della greca poesia: [...OMISSIS...] Il poeta e l' artista, che s' innalza alla contemplazione della Providenza nelle opere della natura o ne' fatti degli uomini che egli esprime, in pari tempo ch' egli sublima i suoi concetti, perchè raggiunge la parte col TUTTO (3) e non resta nulla di piccolo o di lieve momento a lui che considera anche ciò che è piccolo per se stesso in una necessaria relazione con ciò che è grande; raccoglie ancora ogni moltiplice varietà in un ordine, in UNA cosa sola; conciossiachè egli ravvisa in checchè avvenga ed in checchè esista, l' opera di un solo autore, un solo disegno, una sola mente immensamente benefica, savia e potente. L' unità trovasi nell' uomo della natura: questi non è ancora diviso e sparso in infiniti oggetti e relazioni parziali; e l' ordine delle sue potenze, che conserva in se medesimo, lo rende atto a sentir l' ordine delle cose esteriori, ed a sollevarsi immediatamente e quasi d' un semplice volo alla prima causa: ma quest' uomo, in uno stato quasi individuale, è abbandonato a se stesso, e soggetto alle illusioni sensibili; dietro a quelle poi si spezza, si moltiplica, si disordina: indi il severo senno ne' primi artisti, e il progresso d' una crescente mollezza ne' posteriori (1). Ma intanto che l' individuo si corrompe, e che la poesia e le arti del bello da un grave carattere e da una elevatezza onde abbracciano l' universalità delle cose, discendono ad affezioni più singolari e arbitrarie, a sensi più minuti e più attenuati (2); i progressi più lenti della società umana (3), ma più costanti, riparano incessantemente alla corruzione individuale, e mentre questa ha percorso forse più volte il suo intero periodo, quella d' un passo uguale procede, senza ritorno, senza che niente valga a metterle intoppo, là dove la guida, sarei per dire, dall' alto cielo un infallibile auriga, cioè ad una meta ch' egli le ha fermato seco medesimo, e che non manifesta ai mortali se non coll' evento (1). Si trovano dunque due contrarŒ andamenti nelle belle arti, rappresentatrici dello stato dell' umanità: l' andamento dell' individuo inclinato a scadere dal totale al parziale, e l' andamento della società che continuamente si estende e si ammigliora per opera della Providenza, e mira a rialzar gl' individui nuovamente dal parziale al totale. Quindi ciò che v' ha di integro e di sapiente in Omero, è dovuto all' individuo della natura: e ciò che v' ha di spirituale e di puro in Virgilio, è dovuto ai progressi della società (2). La spiritualità di Virgilio è l' estremo che toccò giammai la società nel Paganesimo, ma è infinitamente lontana da quella a cui tende la società Cristiana: questa è essenzialmente spirituale e perciò essenzialmente universale, mentre quella non potea che manifestare una tendenza a questa, un desiderio dell' umana natura, un inesplicato bisogno. Perciò quando io dicevo, che le arti e la letteratura dovevano anch' esse ne' nostri tempi vestire quella grandezza e quella spiritualità che rende sì magnifica la società de' credenti (3); io non pronunziava una sentenza mia particolare, non facevo che dichiarare ciò che conviene al mio tempo, che essere l' interprete del mio secolo, il quale anche meglio de' precedenti pare che senta intimamente come il governo del Cristianesimo è una cosa stessa col governo che fa dell' Universo la divina Providenza. E se Virgilio, per esser caro alla maggiore società che fosse fino a quel tempo nel mondo stata, e anche ad una migliore, si partiva, quanto poteva il più, ne' suoi versi, da ciò che è basso e corporeo, e « cercava i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose »; noi vediamo che oggidì il sentimento umano via più sublime procede, e dimanda una purezza ed una estensione maggiore: e gli uomini non si appagano più tanto del mondo sensibile, ma esso pare che sia raffreddato al loro senso; e per vagheggiare una felicità, devono uscir co' pensieri dalla terra e dalle sfere degli astri, e cercarla nell' interminabile, nell' eterno, nell' assoluto, in quella UNITA` nella quale la TOTALITA` si contiene. La felicità più spirituale che Virgilio potè descrivere sollevandosi su tutte le ignoranze e le cupidigie umane, fu una quiete sicura, un' abbondanza di sostanze, una fuga dalla vita cittadina per riposare fra i greggi e in mezzo ai campi, ove egli diceva avere Giustizia impresso i suoi estremi vestigi quando abbandonava la terra: [...OMISSIS...] Ma inefficaci a soddisfare l' animo dei presenti uomini sono tali beni, e tali amenità della natura fisica: che dico l' animo? la fantasia medesima di questi non ne è saziata: ella stessa aspira a qualche cosa di morale, che la raggiunga ad un mondo invisibile, il quale contenga la spiegazione e il compimento del visibile. La spiritualità della poesia cristiana, dirò anche della poesia del secolo nostro, può sentirsi in questi versi, paragonandoli a quelli soprarrecati di Virgilio: [...OMISSIS...] Egli è quest' alienazione dalla natura materiale, o almeno questo bisogno di avvivar tutto ciò che è corporeo con legami che lo raggiungano a ciò che è spirituale; è quest' ambizione, direi quasi, di mostrarsi alto da terra, che sembra dover caratterizzare il secolo nel quale già siamo avviati, e che lo diparte dal precedente che ha fatto tutti gli sforzi per rendersi materiale, e non ha potuto. Egli non ha potuto che apparir tale; e perchè ogni apparenza è breve, bastò qualche lustro, acciocchè il mondo materiale ed incredulo, si ritrovasse, maravigliando di se medesimo, e spirituale di nuovo e cristiano. [...OMISSIS...] Quando il poeta o l' artista mira la natura e la storia come opera della Provvidenza, allora gli si dissipano innanzi tutte le irregolarità e le deformità che a primo scontro presenta la realtà delle cose. E` solamente considerando le parti nel tutto , che quelle ricevono un ordine ed una bellezza: indi come io predicavo il bisogno della VERITA` nelle arti cristiane, così additavo la via di trovare in essa una perfetta BELLEZZA: e affermavo, gli uomini non aver bisogno d' inventarne una artificiale e falsa, se non quando non sono ancora atti a vedere la reale e la vera nelle opere del Creatore (2). Ma sono io il solo, il primo a proclamare la verità nelle arti, o non è essa una voce fortissima, universale? non è questo il più manifesto bisogno del tempo così insaziabile di udire fatti, di leggere storie? e nel quale si vuole sommettere fino il Romanzo , opera essenzialmente menzognera, alla verità? e non si finirà forse anche coll' escluderlo dalla letteratura interamente? Non voglio dire che non v' abbia alcuno individuo nel nostro tempo, che a questi veri pur faccia mal viso: tutti quelli che si angustiano nelle cose particolari, senza allargarsi a considerar queste con uno sguardo universale, devono rinvenirle povere, a tale da rendere con esse basso lo stile; non possono che lamentarsi « della trista e fredda realtà delle cose (3), » e correre a racconsolarsi in vane creature della propria fantasia; ed uno di questi, un' anima ardente, che sentiva pure il bisogno di ampiezza, ma non avea trovata la via che il rallargasse nella verità, cercava di associare a questa la finzione, sperando di renderla, con tale giunta, più ampia e più bella; e così, non ha molto, scriveva: [...OMISSIS...] Dico che questa non è voce della presente società, ma voce di un individuo che abbandona i suoi contemporanei per retrogredire fra gli adoratori degl' idoli, senza che abbia però forza di strascinar seco gli uomini del suo tempo. Questi sono v“lti indeclinabilmente all' unità primitiva: l' analisi non parte che da una sintesi precedente; e mentre sembra da questa allontanarsi fino che non è ancora perfetta, a quella si avvicina più che acquista di perfezione, ed in quella ritorna e termina intieramente quando alla sua piena perfezione è pervenuta. Quindi l' arte dell' educazione quanto si farà più adulta, tanto più agognerà di ricondur l' uomo incivilito a que' pochi elementi che pose in esso Iddio con una prima rivelazione, quasi semi di un grande sviluppamento: allora le infinite suddivisioni delle scienze racquisteranno quei vincoli già spezzati con esse, che le ritornino ad una scienza unica, a quella unità di sapere che tanto era cara ai primi sapienti (3): e le arti del bello, queste lingue degli affetti, tenderanno via più ad un amore compiuto, da nessun odio limitato, ad un amore degno dell' uomo perchè figliuolo della verità, e che si sente profondo nei primi poeti (1). Finalmente io dicevo che l' UNITA` delle idee conduce all' UNIONE delle persone, e che la TOTALITA` di quelle può solo congregar queste in una SOCIETA` UNIVERSALE: che se la formazione di tale società travalica le forze degli uomini abbandonati a se stessi, essa non è superiore alle forze di Dio: che onde vien la sapienza, cioè la scienza completa (2), indi viene ancora la CATTOLICA UNITA`: e che quegli potè comandare l' AMORE DEL PROSSIMO, che potè rivelare la VERITA` (3). Ma tutto questo non fui io solo a dirlo; mentre da mille parti si ripetono i veri compresi nelle seguenti non mie parole (1) [...OMISSIS...] La filosofia è la scienza delle ragioni ultime. Le ragioni ultime sono le risposte soddisfacenti che l' uomo dà agli ultimi perchè , coi quali la sua mente interroga se stessa. Vi ha due classi di ragioni ultime: le ragioni di tutto lo scibile, e le ragioni ultime di qualche parte speciale dello scibile. Le ragioni ultime di tutto lo scibile sono le sole veramente ultime, e però costituiscono lo scopo della filosofia generale . Le ragioni ultime di certe determinate parti dello scibile non sono ultime, se non rispetto a tali determinate parti, e costituiscono lo scopo delle filosofie speciali delle singole scienze: la filosofia delle matematiche, la filosofia della fisica, la filosofia della storia, la filosofia della politica, la filosofia dell' arte ecc.. L' uomo che si mette in cammino per investigare le ragioni ultime e soddisfare ai perchè, interrogazioni spontanee della sua mente, non può che cominciare dal riconoscere lo stato delle sue cognizioni e delle sue persuasioni, e quindi muovere all' opera di renderle compiute, a tale che soddisfacciano al bisogno dell' intelligenza, che non si appaga se non rendendosi ragione di tutto ciò che sa; se non rendendosene una ragione così evidente che non abbia bisogno di un' altra, ma ella stessa sia quella, in cui la mente trovi sua quiete. La quiete della mente di cui qui si parla non è che una quiete scientifica , una quiete ottenuta per via di scienza, la quiete che risponde al perchè, col quale interroga se stessa la mente inquisitrice. Ma non è a credersi, che la mente rivolga sempre a se stessa tali interrogazioni: molti uomini non se la fanno; o se ne fanno alcune, ma non tutte quelle che si potrebbero fare. La mente che non interroga se stessa, è quieta, e la mente che interroga se stessa fino a un certo segno e non più in là, è parimenti quieta e tranquilla; tostochè ella ha trovata la risposta a quel limitato numero d' interrogazioni, quantunque non sia pervenuta alle ragioni ultime, delle quali non ha bisogno a conseguire tranquillità. Quindi la scienza delle ragioni ultime, cioè la filosofia, non è necessaria alla quiete delle menti del maggior numero degli uomini, i quali s' appagano mediante una cognizione più limitata. Questa cognizione non ancor filosofica può essere vera e certa e quindi atta a produrre nell' uomo una ragionevolissima persuasione. Ma dato prima un uomo in possesso di persuasioni ferme e certe, senza che egli ancor senta il bisogno d' investigare le ragioni ultime di esse, può in appresso sorgere nella sua mente l' interrogazione degli ultimi perchè. Sarà egli allora inquieto, o in istato d' incertezza, fino che non ha trovate le bramate risposte? Convien qui distinguere fra il riposo della mente e il riposo dell' animo. Alla prima appartiene il ragionamento , alla seconda la persuasione . Queste sono due facoltà diverse grandemente fra loro. Il ragionamento ha qualche cosa di necessario e, per così dire, fatale; la persuasione ha molto del volontario. Laonde possono essere nell' uomo persuasioni fermissime, quantunque l' uomo non sappia darne a se stesso espressa ragione. Di più, fra le persuasioni di cui l' uomo non sa dare a se stesso ragione, ve n' hanno di cieche e di ragionevoli. Le persuasioni cieche sono così arbitrarie, che non s' appoggiano a ragione alcuna, e sono spesso erronee, ma possono anche per accidente esser vere. Le persuasioni ragionevoli, di cui l' uomo non sa dar ragione a se stesso, sono quelle che s' appoggiano ad una ragione solida, dall' uomo direttamente conosciuta e penetrata in modo che gli produce l' assenso, ma di cui egli non ha coscienza, perchè non sa rivolgere la sua riflessione sopra di essa, epperciò non sa esprimerla nè renderla o a se medesimo o agli altri, se ne lo interrogano. Manca dunque qualche cosa alla mente, al ragionamento di quest' uomo; gli manca lo sviluppo della riflessione; ma egli possiede nondimeno la verità e la ferma persuasione della verità, onde l' animo suo è quieto, e può altresì esser quieta la sua mente, se egli non dia alcuna importanza alle interrogazioni interiori di essa, ond' è come se la mente in tal caso non facesse interrogazione alcuna. Ma la mente, come tale, il ragionamento di quest' uomo considerato come ragionamento, e non in ordine alla persuasione e quiete dell' animo nè al possesso della verità e della certezza, non ha tuttavia soddisfatto a pieno a se medesimo, e in questo senso non ha trovato ancora il suo riposo. La filosofia è quella che conduce a ritrovare questo riposo scientifico della mente. Vi ha dunque una cognizione popolare che può essere sufficiente alle esigenze dell' uomo, e vi ha una cognizione filosofica che soddisfa alle esigenze del ragionamento: questa seconda è l' opera della riflessione , sviluppata fino all' invenzione delle ragioni ultime. Per arrivare a questa l' uomo parte dallo stato intellettivo in cui egli si trova. E la prima interrogazione ch' egli fa a se medesimo si è: « Io credo di conoscere molte cose, ma che cosa è questa mia cognizione? non potrei io ingannarmi? perchè mai non potrebb' essere un' illusione tutto ciò che io credo sapere? » Questa domanda lo conduce all' invenzione dell' Ideologia e della Logica , che sono scienze d' intuizione perchè hanno per loro oggetto le idee. IDEOLOGIA. - L' ideologia si propone d' investigare la natura del sapere umano; e la logica si propone di dimostrare che la natura del sapere umano è tale, che non ammette errore: di maniera che ogni errore è da cercarsi fuori della natura del sapere; l' errore non è sapere. Ecco in qual modo procede l' ideologia. Non si può conoscere la natura del sapere umano, se non si osserva tale qual è. L' osservazione adunque interna , quella che affissa l' attenzione nelle cognizioni nostre per rilevare esattamente che cosa sono, è l' istrumento dell' ideologia, è il metodo da tenersi in questa investigazione. A torto direbbesi, che, non essendosi ancor trovata la veracità dell' osservazione, ella non può esserci una scorta fedele; perocchè noi non adoperiamo a principio l' osservazione come mezzo di dimostrare, ma l' adoperiamo provvisoriamente, come mezzo di stabilire ciò che si dovrà poi dimostrare, quando il risultato dell' osservazione, assunto come una mera apparenza, ci si cangerà in vero e certo, perchè in lui stesso troveremo la prova indubitabile della sua verità e certezza, fino a non esser possibile il contrario. Osserviamo adunque attentamente le cognizioni umane. Queste sono innumerevoli. Volendo esaminarle ad una ad una, l' opera sarebbe infinita. D' altra parte noi non cerchiamo quello in cui esse differiscono l' una dall' altra, ma quello in cui esse convengono. Esse convengono nell' esser tutte cognizioni, e ciò che noi vogliamo osservare e meditare si è appunto la natura della cognizione. Egli è dunque uopo, prima di tutto, cercare ciò che abbiano tutte di comune; giacchè questo elemento comune sarà appunto l' essenza della cognizione. Ridotta e concentrata in questo punto la nostra ricerca, io vedo intanto che, per lo meno rispetto ad un numero grandissimo di cognizioni, si avvera che io non le ho se non mediante un atto, col quale io affermo qualche cosa. A ragion d' esempio, io so d' esistere, io so ch' esistono altri esseri simili a me, io so ch' esistono de' corpi estesi, larghi, lunghi e profondi. Non cerco ora se questo mio sapere m' inganni o no; io intanto so tutto questo e cerco di sapere come lo so. Ora io veggo che io non saprei che esiste un solo ente, se io non dicessi, se non avessi mai detto a me stesso, che quell' ente esiste. Sapere dunque che esiste un ente, e dire o pronunciare meco stesso che esiste, è il medesimo. La mia cognizione adunque degli enti reali non è che un' affermazione interna, un giudizio . Conosciuto questo, non mi rimane che ad analizzare un tale giudizio, ad osservarne l' intima sua costituzione: in tal modo avrò forse fatto un passo avanti nella scoperta della natura della stessa cognizione. Quando io dico meco stesso, che esiste un dato ente qualunque particolare e reale, io non intenderei me stesso, non intenderei ciò che dico, se non sapessi già che cosa è ente, che cosa è entità. La notizia dunque dell' entità in universale debb' essere in me, e precedere tutti quei giudizŒ, coi quali dico che qualche ente particolare e reale esiste. Mediante questa prima considerazione, io rilevo che altro è conoscere che cosa sia ente in universale, e altro è conoscere che esiste un ente particolare e reale. Per conoscere che esiste un ente particolare e reale, io ho bisogno di affermarlo a me stesso, come dicevo: ma per sapere semplicemente che cosa è ente, io non ho bisogno di nessuna affermazione , ma d' un altro atto dello spirito che chiamerò intuizione: questa maniera di conoscere per semplice intuizione è al tutto diversa dall' altra maniera di conoscere per affermazione. Sono due maniere di conoscere innegabili, l' una delle quali, cioè quella per intuizione, precede all' altra, cioè a quella per affermazione. Le cognizioni umane adunque si dividono in due grandi classi: cognizioni per affermazione , e cognizioni per intuizione . L' ordine di queste due classi di cognizioni risulta da ciò che è detto; le cognizioni per affermazione non si possono acquistare se non sono precedute da qualche cognizione per intuizione: queste dunque sono anteriori a quelle. Di nuovo dunque, prima di conoscere un ente particolare e reale si deve conoscere l' ente in universale. Esaminiamo la differenza che passa fra l' ente particolare e reale , e l' ente universale . Fin a tanto che io so soltanto che cosa è ente, non so ancora se un ente particolare o reale esista, ma però conosco che cosa è ente. Conoscere che cosa è ente si traduce in questa frase filosofica: conoscere l' essenza dell' ente . Coll' intuizione adunque si conosce l' essenza dell' ente . Ma se io, oltre conoscere l' essenza dell' ente, affermo anche meco stesso, e quindi so che un ente particolare esiste, che cosa so io allora più di prima? Per bene rispondere a questa domanda, debbo meditare sull' atto della mia affermazione, col quale io mi formo questa nuova cognizione, debbo perscrutare la natura e la ragione di essa. Perchè dunque affermo io che un ente esiste? che m' induce a ciò? che cosa è quest' esistere? Egli è certo, che, se non sempre, almeno molte volte, a pronunciare che un ente esiste, io son condotto da un sentimento . Così io son condotto a pronunciare che esistono i corpi esterni mosso dalle sensazioni che mi producono. Son condotto a pronunciare che esiste il mio proprio corpo dai sentimenti speciali che ho di esso. Finalmente son condotto a pronunciare che esisto io stesso pure da un intimo senso. In tutti questi casi adunque, ciò che mi fa dire che esiste un ente particolare e reale, è il sentimento; di maniera che ogni affermazione, ogni giudizio (ne' casi detti), col quale pronunzio e dico a me stesso che esiste un ente particolare e reale, si riduce a questa formola: vi è un sentimento; dunque esiste un ente . Questa formola merita di essere ben meditata ed analizzata. Intanto ella suppone che fra il sentimento e l' esistenza reale v' abbia un nesso necessario, a tal che non si possa dare sentimento senza che vi sia un ente reale: ella suppone dunque che nel sentimento si riscontri in qualche modo realizzata l' essenza dell' ente, che prima si conosceva solo in universale. Dato dunque uno spirito che prima conosca semplicemente l' essenza dell' ente senza sapere se l' ente esiste; e dato poscia che questo spirito riceva, provi, avverta un sentimento, tosto egli afferma che quell' ente di cui prima conosceva l' essenza, anche esiste. Il sentimento dunque è ciò che costituisce la realità degli enti . Ma qui nascono obbiezioni in folla. Primieramente si affaccia al pensiero, che la cognizione dell' ente che precede l' affermazione di un ente reale, riguarda un ente universale, mentre l' ente che si afferma è particolare. A questo si risponde che l' essenza dell' ente che si conosce non è punto universale, ma che la parola universale , che vi si aggiunge, altro non esprime che il modo col quale la si conosce; onde, quando si afferma che quell' essenza è realizzata, non si afferma già che sia realizzato il modo con cui quella essenza si conosce, ma che sia realizzata lei stessa. Insorgono altre difficoltà su ciò che abbiam detto, l' esistenza reale dell' essere trovarsi nel sentimento: primo perchè noi veggiamo che molti sentimenti si cangiano rimanendo identico l' ente subbietto de' medesimi: secondo, perchè i corpi esterni non hanno sentimento, e pure si affermano e si credono esistenti. Ma è da considerarsi quanto alla prima difficoltà, che il subbietto de' sentimenti che si cangiano, è un sentimento egli stesso, altramente non si conoscerebbe; o per evitare ogni discussione su di ciò, è almeno un principio senziente che si riferisce al sentimento, e che perciò da ogni sentimento non si può scompagnare. Quanto poi ai corpi esterni, non per altro si percepiscono, se non perchè agiscono nel nostro sentimento; onde anch' essi si conoscono unicamente per la relazione che hanno col sentimento, in quantochè sono principii attivi modificatori del sentimento, cadono dunque nel sentimento come agenti in esso. Ogni ente reale adunque a noi cognito per esperienza si riduce finalmente al sentimento, o al principio del sentimento, o a certe virtù che agiscono nel sentimento. Per comprendere tutto in una espressione ed evitare ogni lunga discussione, diremo, che ciò che nella percezione degli enti reali si afferma essere un ente, è sempre un' attività sentita . Or proseguiamo l' analisi dell' affermazione degli enti reali. Affermando noi dunque che l' essenza dell' ente è realizzata in un' attività sentita, noi affermiamo che esiste un ente reale. Conoscere adunque l' esistenza di un ente reale, è il medesimo che affermare una specie d' identità fra l' essenza dell' ente e l' attività che nel sentimento si manifesta. Tuttavia quest' identità non è perfetta; conciossiachè in una data attività sentita o senziente non si esaurisce l' essenza dell' ente: quindi innumerabili sentimenti, che ci fanno affermare l' esistenza di altrettanti enti reali, l' uno diverso dall' altro. Di ciascuno affermiamo che esiste, che è un ente: di ciascuno affermiamo la stessa cosa, in ciascuno riconosciamo l' essenza dell' ente. Riconoscere in ciascuno l' essenza dell' ente, è lo stesso che dire che l' essenza di ciascuno di questi enti che affermiamo, è identica coll' essenza dell' ente che conoscevamo prima: eppure sono tutti enti diversi. Dunque convien dire che, sebbene sieno diversi in altro, abbiano però qualche cosa di comune, e questa cosa di comune è l' essenza dell' ente, perocchè sono tutti enti. Si noti che in tutto ciò noi non facciamo che osservare il fatto della cognizione degli enti reali , ed analizzarlo, senza aggiungervi alcun ragionamento. Intanto, dal sapere che in tutta la realità degli enti reali che noi affermiamo, troviamo realizzata l' essenza dell' ente, possiamo meglio intendere in che senso abbiamo detto che l' essenza dell' ente è universale; è universale perchè è atta a realizzarsi in tanti enti particolari; quindi perchè con essa sola noi conosciamo tutti gli enti reali: questa universalità non è in essa, è una sua relazione cogli enti reali. Ma se gli enti che affermiamo, convengono nell' essere enti, ma poi differiscono in altre cose, queste altre cose in cui differiscono, non sono elleno altrettante entità? Certo, se non fossero entità, non sarebbero al tutto. Dunque l' essenza degli enti si realizza anche nelle differenze degli enti. Anche in queste differenze, in quel modo che sono, si scorge l' identica essenza dell' ente. Or come l' identica essenza dell' ente può riscontrarsi realizzata in tanti enti diversi? e non solo in ciò che questi enti hanno di comune, ma anche in ciò che hanno di proprio? Anche a rispondere a ciò altro non ci può aiutare che l' osservazione, la meditazione della cosa: dobbiamo anche qui vedere come la cosa è: non dobbiamo argomentare a priori com' ella possa o debba essere. Ora quest' osservazione filosofica ci dice, che ogni ente reale ed ogni differenza degli enti reali fra loro è sempre una realizzazione dell' essenza a noi conosciuta dell' ente. L' essenza dell' ente è identica, le sue realizzazioni sono molte e varie. Dunque L' essenza dell' ente ha vari gradi e modi di realizzazione; Nessuno di questi gradi e modi finiti di realizzazione esaurisce l' essenza dell' ente, sicchè ella può essere ancora realizzata in altri gradi e modi, non cerco ora se all' infinito. I gradi e modi diversi in cui si realizza l' essenza dell' ente sono limitati, perchè di questi soli parliamo, e queste limitazioni costituiscono la loro differenza. Ora queste limitazioni che cadono negli enti reali non appartengono già all' essenza dell' ente, che anzi sono non7enti. Quindi l' essenza dell' ente si trova realizzata nei vari enti in quanto sono enti, e non in quanto sono non7enti. Questa realizzazione è limitata, e in quanto è limitata cessa l' identità coll' essenza conosciuta dell' ente. L' essenza dunque dell' ente si realizza più o meno, ma in quanto si realizza, vi ha tutta (non totalmente), poichè ella è semplice e indivisibile, allo stesso modo come l' essenza del vino vi è tutta in una goccia di vino, e tutta egualmente in una gran botte. Ciò vuol dire che abbiamo bisogno di tutta l' essenza dell' ente o del vino per conoscere anche una piccola parte dell' ente reale, per esempio del vino. Dalle quali osservazioni si trae la conseguenza, che la quantità è cosa appartenente alla realizzazione dell' ente e non all' essenza dell' ente; ed è da osservarsi, che alla quantità si dee ricorrere per ispiegare le limitazioni, i modi diversi, i gradi, le differenze degli enti, il numero ecc.; cose tutte non appartenenti all' essenza dell' ente, ma alle leggi della sua realizzazione. Si dirà: Se tutte le cose si conoscono mediante l' essenza dell' ente, come poi si conoscono le accennate proprietà negative che non sono nell' essenza dell' ente? e non vi sono forse idee degli enti particolari, delle loro differenze ecc.? Rispondo, che l' essenza dell' ente è quella stessa che fa conoscere tutte le negazioni, perchè la cognizione di esse non consiste in altro, se non nel sapere che sono il contrario, sono negazioni dell' ente, e la negazione di una cosa si sa tostochè si conosce la cosa che si nega. Per altro è da notarsi, che il linguaggio indica con un segno positivo, con una parola tanto l' ente quanto la negazione dell' ente, e l' uomo dice il nulla, il limite, il modo ecc., come dice pure, l' ente. Di che avviene, che quelle cose si rappresentino alla nostra immaginazione come fossero altrettante entità, benchè non siano. Rispondo dunque, che le idee che hanno per oggetto la negazione dell' ente, altro non sono che l' idea dell' ente stesso; più l' atto di negazione che noi facciamo di esso. Quanto poi alle idee di enti particolari composti tutti di positivo e di negativo, cioè di realizzazione e di limitazione, altro esse non sono se non il rapporto fra l' ente reale (o la memoria che abbiamo di esso) e l' essenza dell' ente; di maniera che l' idea di un cavallo, a ragion d' esempio, non è altro se non l' essenza dell' ente in quanto può essere realizzata in un cavallo, l' idea di un uomo non è altro se non l' essenza dell' ente in quanto può essere realizzata in un uomo ecc.. Così il fondamento della cognizione di tutti questi esseri è sempre l' essenza dell' ente; le idee dunque degli enti particolari sono sempre l' idea dell' ente considerata in rapporto con un certo dato grado e modo di realizzazione, onde a propriamente parlare, non si dà che una idea sola, la quale alla mente nostra fa conoscere più enti particolari, e così si cangia in altrettanti concetti , diventa i concetti speciali di tutti questi enti. Ma oltre a tutto ciò, si debbono fare alcune altre considerazioni per coglier bene in che consista quest' identità imperfetta, che noi dicevamo riscontrarsi fra le entità da noi sentite, e l' essenza dell' ente da noi intuita. Dicevamo che le limitazioni non entrano in quest' identità. Or una di queste limitazioni è la contingenza delle cose finite. Quindi la contingenza non si riscontra nell' essenza dell' ente. Di che v' ha anzi sotto questo aspetto opposizione fra l' ente contingente e l' essenza dell' ente, la quale è da noi intuita come immutabile e necessaria. Di più: allorquando noi osserviamo l' identità dell' ente reale contingente coll' essenza dell' ente, noi osserviamo questa identità nella nostra percezione e cognizione, non già nell' ente diviso da essa cognizione, o percezione. Di vero, è nell' ente reale conosciuto che questa identità si trova, si forma; ed è anzi mediante la formazione di questa identità che l' attività sentita si percepisce e conosce. In fatti, fino a tanto che l' attività sentita non è identificata coll' essenza dell' ente, ella non è conosciuta, nè percepita; non è ancora un ente percettibile, un oggetto. Coll' atto dunque della percezione si aggiunge all' attività sentita qualche cosa, e così la si rende un ente percettibile, e quest' è appunto l' ente, di cui il sentimento o l' attività sentita contingente non è che un modo imperfetto, non percettibile in separato dall' ente, ma solo nell' ente oggettivo, come meglio dichiareremo più sotto parlando della percezione [92 7 94]. E sebbene in tal modo concorra la mente a costituire l' ente percepito , l' oggetto; non è men vero ciò che percepisce la mente, perchè la mente stessa sa ciò che vi aggiunge e ciò che le è dato: onde sa la cosa com' è. Da quest' analisi della cognizione nostra degli enti reali si spiega perchè gli uomini sono generalmente persuasi di non conoscere il fondo delle cose, ciò che le fa essere. La ragione di tale ignoranza si è, che nelle attività sentite questo fondo manca, e viene dato loro, per così dire, ad imprestito dalla stessa mente che le percepisce. La mente cioè suppone una radice delle cose contingenti, perchè senza di essa non le potrebbe percepire, ma non determina che cosa sia questa radice, perchè non la percepisce. Il mezzo adunque con cui noi conosciamo le cose reali è l' essenza dell' ente; e perciò l' essenza dell' ente, in quant' è mezzo di conoscere, è detta da noi essere ideale . Ma si noti bene che la parola ideale non significa l' essenza dell' ente, ma significa la dote che ha quest' essenza di farci conoscere le cose reali. Onde, quando noi affermiamo che esiste un ente reale, non affermiamo già l' idealità , non affermiamo ch' egli sia ideale, ma affermiamo che egli ha l' essenza di ente. Ma se noi conosciamo le cose reali coll' essenza, come poi conosciamo l' essenza stessa dell' ente? L' osservazione del fatto ci attesta, che la notizia dell' essenza dell' ente è data al nostro spirito prima di ogni altra cognizione; e se noi ne meditiamo la natura, troviamo di più che non può essere altrimenti, che una tale notizia non si può acquistare e formare per mezzo di alcun' altra, finalmente ch' ella è conoscibile per se stessa. E veramente il fatto ci dice, che l' uomo non comincia ad usare le facoltà del suo spirito, se non in occasione delle sensazioni esterne, e che il pensiero dell' uomo comincia dall' accorgersi che esistono de' corpi, che esiste egli stesso, che esiste qualche cosa di reale. Ora questo primo pensiero non è, come abbiam detto, se non una affermazione, è affermare un ente; il che suppone che si conosca innanzi l' essenza dell' ente [14]. Dunque l' essenza dell' ente è nota all' uomo prima di tutti gli atti del suo pensiero: dunque ella non è acquistata cogli atti del pensiero: ma è data precedentemente dall' autore della natura. Di più, supponiamo che l' uomo non sapesse che cosa è ente; egli non potrebbe mai, per quanti piaceri o dolori sentisse, dire che c' è un ente. Non potrebbe riconoscere che la sensazione suppone un ente, perocchè appunto non saprebbe che cosa sia ente: dunque non conoscerebbe nulla, e non conoscendo nulla, non avrebbe alcuna cosa nota che gli facesse la via a conoscere l' essenza dell' ente. Dunque l' essenza dell' ente non può essere conosciuta per mezzo di altra notizia, ma per se stessa: l' essenza dell' ente adunque è conoscibile per sè ed è il mezzo che fa conoscere tutte le altre cose ; ella è dunque il lume della ragione . In questo senso si dice che l' idea dell' ente è innata , e che è quella forma che dà l' intelligenza. Ma questa parola forma abbisogna di essere chiarita, perchè riceve diversi significati. La parola forma si prende a significare « ciò per cui un ente ha un atto suo proprio primitivo, che lo fa essere quello che è ». Così l' essenza dell' essere conoscibile per se stesso si dice forma dell' anima intelligente , perchè ella è ciò che dà all' anima quell' atto pel quale ella è intelligente. Ma dopo di ciò è da osservarsi che due specie di forme si possono distinguere. Ciò che dà il suo atto primitivo ed essenziale ad un essere, quanto alla nozione della mente, è cosa diversa dall' atto stesso; ma talora ciò che dà l' atto essenziale ad un essere, è parte dell' essere stesso, o si confonde collo stesso atto, rimanendo diviso dall' atto solo mentalmente e per via di astrazione; altre volte è cosa diversa realmente dall' atto, e dall' essere che viene informato. Così la forma di una cosa tagliente, per esempio di un coltello, non è che lo stesso taglio o filo del coltello, e appartiene al coltello, non è cosa da lui diversa. All' incontro la forma di un ferro rovente è il fuoco, cosa diversa dal ferro, e ogni qualvolta due enti si mettono in comunicazione, l' uno diventa la forma dell' altro, in quanto agisce ed entra nella sfera di essere dell' altro. Ora in quale dei due sensi l' essere ideale dicesi forma dell' intelligenza? Convien anche qui osservare e meditare il fatto della cosa. Attentamente osservando troveremo che l' essere ideale è forma dello spirito intelligente solo nel secondo significato e non nel primo. E veramente, sebbene noi arriviamo ad intendere che non siamo esseri intelligenti se non in virtù dell' essenza dell' essere che ci sta presente; tuttavia è impossibile che crediamo, che l' essenza dell' essere sia noi stessi, o che ella formi una parte di noi stessi. Trattasi dunque di una forma diversa da noi. Ciò che mette nell' atto d' intendere il nostro spirito è cosa grandemente da noi distinta, benchè sia in noi (sia a noi presente). Ma non basta. Anche presa la parola forma in questo significato, ella non si applica all' essere ideale, se non in un modo tutto suo proprio, in un modo tutto diverso da quello, in cui due esseri reali che esercitano fra loro reciproche azioni, come il fuoco e il ferro, si possono dire l' un forma o materia dell' altro. E` dunque ben da notarsi che il modo nel quale l' essenza dell' essere diviene forma del nostro spirito, non è punto nè poco simile a quella onde un essere reale diventa forma di un altro essere reale per via di azioni e di reazioni. L' essenza dell' essere diventa forma del nostro spirito unicamente col farsi conoscere, col rivelare la sua naturale conoscibilità; quindi dalla parte del nostro spirito non v' ha niuna reazione. Questo non fa che ricevere: il lume, la notizia che riceve, è ciò che lo rende intelligente: l' essenza dell' essere è semplice, inalterabile, immodificabile, non si può confondere o mescolare con altro: così si rivela, nè si può rivelare altramente. Lo spirito che la intuisce e l' atto dell' intuizione rimane fuori di lei. Lo spirito, intuendo lei, non intuisce se stesso. Quindi è che l' essenza dell' ente prende il nome di oggetto , che è quanto dire cosa contrapposta allo spirito intuente, al quale è riserbato il nome di soggetto . Dal che si vede che quando noi diciamo che l' essere ideale è forma dello spirito, usiamo la parola forma in un significato intieramente diverso ed opposto alle forme kantiane; perocchè le forme di Kant sono tutte soggettive, e la nostra è una forma oggettiva, e anzi oggetto per essenza. L' essenza dunque dell' essere col solo rendersi conoscibile allo spirito lo informa per modo da renderlo intelligente, ossia produce la facoltà d' intendere , perocchè ogni atto d' intendere ha sempre per oggetto l' entità. Tutto l' intendere si riduce ad intuire le essenze degli enti, e a pensare l' ente di cui si conosce l' essenza, realizzato in un dato modo, con certi limiti. L' essenza dell' ente fu da noi chiamata essere ideale : le sue realizzazioni enti reali . Se l' ente ideale si considera in relazione alle possibili sue realizzazioni, chiamasi anche ente possibile . La parola possibile non si applica all' ente come una sua propria qualità, ma unicamente per esprimere ch' egli può essere realizzato. Il che è da osservare attentamente, acciocchè forse non si creda che l' essenza dell' ente sia ella stessa una mera possibilità e nulla più. No: ella è una vera essenza, non è una possibilità di essenza; ma questa essenza può essere realizzata; se non è realizzata, è possibile la sua realizzazione: ecco ciò che significa ente possibile. Essendo poi molti gli esseri reali, e ciascuno di essi avendo un rapporto coll' ente possibile, l' ente possibile, considerato solo in rapporto coi diversi enti reali o realizzabili, diviene l' idea o per dir meglio il concetto di essi: quindi si dice che i concetti , le idee, gli enti ideali, gli enti possibili sono molti, perchè appunto sono tanti quanti sono i modi nei quali l' essenza dell' ente si può realizzare. Cerchiamo ora qual sia la relazione fra gli enti ideali e gli enti reali . Dato che io mi abbia l' ente ideale, io conosco l' essenza dell' ente, ma nulla più: non so ancora se quell' ente di cui conosco l' essenza, sia realizzato. Ciò viene a dire che io non ho ancora verun sentimento o almeno non vi rifletto, perocchè se riflettessi d' aver un sentimento, tosto conoscerei una realità. Ma rimossa da me ogni cognizione di ente reale, e supposto che io sappia solo che cosa è l' ente, senza sapere se è realizzato, l' oggetto della mia mente è forse il nulla? No certo; perocchè in tal caso la mia mente non conoscerebbe nulla, laddove pur conosce l' essenza dell' ente. Se in quel caso l' oggetto della mia mente non è il nulla, sono forse quest' oggetto io stesso? Neppure; perocchè io sono un ente reale, e la mia mente, nel caso posto, ha per oggetto solo l' ente ideale senza alcuna realizzazione; senza che io so troppo bene di non essere l' essenza dell' ente in universale; come pure so che l' essenza dell' ente è l' oggetto che intuisco , mentre io sono il soggetto intuente , e fra intuito e intuente vi ha opposizione: dunque l' uno non è l' altro. Convien dunque dire che non essendo un nulla l' essere ideale intuito dalla mente, e non essendo un ente reale vi abbia un' altra maniera di essere oltre quella della realità, e quindi è forza stabilire che i modi dell' essere sono due, il modo dell' essere ideale , e il modo dell' essere reale . Or posciachè l' uno e l' altro è un vero modo di essere, si possono applicare ad entrambi le parole esistere ed esistenza ; laonde per comodità di parlare giova riserbare al solo modo dell' essere reale le parole sussistere, sussistenza . Egli è chiaro che l' essere ideale, in relazione coll' essere reale, prende la natura di disegno, modello, esemplare, tipo, tutte le quali parole altro finalmente non significano se non mezzi di conoscere, conoscibilità dell' ente idea. Ora se gli enti reali sono limitati e contingenti, egli è chiaro che la loro realità è distinta dall' idea, la quale è immutabile e inalterabile, mentre gli enti reali possono essere e non essere. Quindi altra è la cognizione della loro essenza, altra la cognizione della loro sussistenza. Quella si ha coll' idea , questa coll' affermazione in occasione del sentimento (o di qualche segno che tenga luogo del sentimento). Ma la cognizione della sussistenza di un tal ente suppone che si conosca l' essenza dell' ente almeno in universale. Dato dunque il sentimento in un essere che non conosce che cosa è ente, il sentimento rimane cieco ed inintelligibile perchè non ha ancora ricevuta l' essenza [2.] che lo fa conoscere; l' essere che lo avesse, non affermerebbe un ente reale, perchè non potrebbe riferire il sentimento all' essenza, non direbbe a se stesso che cosa quel sentimento è. Tale è la condizion delle bestie fornite di sentimento, ma prive dell' intuizione dell' essere; perciò incapaci d' interpretare a se stesse i propri sentimenti, di completarli, di affermare, di dire a se stesse che vi sono enti reali. L' uomo all' incontro avendo la notizia dell' ente, tostochè prova i sentimenti, dice subito, che vi sono enti reali. Ma poichè il sentimento è una realità distinta dall' essere che lo fa conoscere, rimane a vedere come l' uomo possa congiungere questi due elementi dell' ente percepito. Affine d' intender ciò, convien ricorrere all' unità dell' uomo , alla semplicità dello spirito umano . Quell' io, quel principio stesso che sa che cosa è ente, è quello che ne prova in se stesso l' azione, giacchè il sentimento è un' azione dell' ente. Fin a tanto che quest' azione o questo sentimento si tiene separato dalla notizia dell' ente, esso è incognito, ma il principio semplicissimo intelligente7senziente non permette, per la sua semplicità, che il sentimento e la notizia dell' ente rimangano separati; l' uomo dunque vede l' ente operare in sè , il che è quanto dire produrre il sentimento. E` l' ente stesso identico che da una parte si manifesta all' uomo come conoscibile , dall' altra come attivo producente il sentimento. Nel che si osservi bene che tutta l' attività dell' ente si riduce alla sua entità; in questa si trova come nel suo fonte; è l' ente stesso attivo, e come tutto l' ente è conoscibile, così tutta l' attività sua in lui è conoscibile; dunque anche il sentimento, che è questa attività, è conoscibile nell' ente. Prima che l' ente operi, tale attività è conoscibile solo in potenza, perchè essa non esiste che in potenza; prima che l' ente operi in un determinato modo (producendo il sentimento), esiste in potenza il modo di tale attività, e non è determinato piuttosto un modo che un altro di essa, quindi l' attività potenziale che si conosce è indeterminata; per questo l' essere ideale si dice essere indeterminato . Taluno potrebbe qui fare la seguente obbiezione. Quando l' uomo afferma un ente, fa un giudizio. Ora per fare un giudizio si debbono conoscere i due termini del giudizio, il predicato ed il soggetto. Ma l' uno dei due termini cioè il sentimento, la realità, nel caso nostro, non si conosce. Dunque non si può fare il giudizio, che si suppone. La qual obbiezione chi ben la consideri, non può aver altra forza se non quella di negare l' appellazion di giudizio all' affermazione, colla quale si affermano, ed affermando si conoscono gli enti reali. Ora quand' anco si togliesse con ragione l' appellazione di giudizio alla detta affermazione, questo non distruggerebbe punto la teoria sopra esposta, cavata dall' osservazione; quand' anco adunque l' obbiezione si ammettesse, riman sempre fermo che sapere che un ente sussiste è un dire, un affermare dentro di sè che quell' ente sussiste, e quindi rimane egualmente ferma l' analisi fatta di questa affermazione, e le conseguenze dedottene. Tuttavia per soddisfare in tutto all' obbiettatore, esaminiamo altresì la nuova questione; se l' affermazione interiore con cui noi conosciamo la sussistenza di un ente, si possa chiamare un giudizio . Egli è certo che fino a tanto che i due elementi della detta affermazione, cioè l' essenza dell' ente e l' attività sentita , si considerano separati l' uno dall' altro, essi non presentano i due elementi necessarŒ alla formazione del giudizio, perocchè l' uno di essi è ancora incognito; di che procede l' obbiezione. Ma se questa obbiezione valesse, non si potrebbe ella fare contro ogni altro giudizio? In fatti in ogni giudizio si avvera, che il giudizio non vi è, e non vi può essere, fino a tanto che i termini del giudizio rimangono separati; e che egli non comincia ad essere, se non allora che i due termini sono già fra loro congiunti. Dunque basta, che i due termini sieno atti a formare un giudizio quando sono già uniti, e non importa se prima di unirsi non sieno termini idonei al giudizio. Convien dunque esaminare nel caso nostro se quei termini che prima del giudizio non sono idonei, coll' unirsi divengano tali; il che non è possibile a concepirsi. E questo è appunto ciò che avviene. Ma prima di dimostrarlo, facciamo alcune altre considerazioni. Perchè si dice, che il predicato ed il soggetto non si possono unire in giudizio, se prima entrambi non sono conosciuti? Perchè si suppone, che il principio che gli unisce, sia l' intelligenza, ossia la volontà intelligente, come avviene nella massima parte de' giudizŒ: ed è indubitato che l' intelligenza non unisce due termini, se non a condizione di prima conoscerli. Ma non potrebbe egli essere, che quello che unisce i due termini non fosse l' intelligenza, ma fosse la stessa natura? Questo è appunto quello che avviene nel caso di cui si tratta, perocchè l' essenza dell' ente , e l' attività sentita non vengono già unite dalla nostra intelligenza, ma dalla nostra natura, come abbiam detto: quella unione dipende dall' unità del soggetto e dall' identità dell' essere conoscibile e dell' essere attivo (sentito). Ora, se la natura unisce questi due elementi, resta a vedere se coll' averli uniti, ella gli abbia resi idonei ad esser termini del giudizio. Per veder ciò, convien prendere la formola di un tal giudizio, e analizzarla nei suoi termini, e considerare se questi termini abbiano la detta idoneità. La formola possiamo enunciarla così: L' ente (di cui io ho notizia) è realizzato in questo sentimento (in quest' attività sentita). Pronunziata dentro me quell' affermazione, io già conosco l' ente reale, conosco che cosa è il sentimento, l' attività sentita, conosco cioè che è un ente: l' elemento dunque che mi era incognito prima di conchiudere l' affermazione, mi è cognito tostochè l' affermazione è chiusa. Dunque, sebbene il sentimento prima dell' unione coll' ente ideale mi fosse incognito e però non atto ancora a divenire uno dei termini del giudizio; tosto che la natura lo mise insieme e lo congiunse coll' ente ideale mediante l' affermazione spontanea, egli è divenuto cognito e quindi idoneo ad essere uno dei termini del giudizio. Se noi vogliamo chiamar soggetto il sentimento o sia la realità, s' intenderà la ragione per la quale abbiamo più volte detto che questa primitiva affermazione, questo primitivo giudizio produce il suo proprio soggetto. Dunque l' affermazione di un ente reale merita l' appellazione di giudizio quand' ella è formata e non prima. Ora la riflessione distingue il predicato ed il soggetto in un giudizio qualunque, analizzando il giudizio già formato, perocchè se non fosse formato, non potrebbe analizzarlo e scomporlo. Mediante questa analisi o scomposizione, colla quale si distingue il predicato dal soggetto, si giugne altresì a formare la definizione del giudizio, dicendo che il giudizio è l' unione logica di un predicato con un soggetto . Ora questa definizione è analitica, è l' opera della riflessione sopra l' affermazione. Perciò la qualificazione di giudizio che si dà ad una affermazione qualunque, è una qualificazione posteriore ad essa, non esprime la sua primitiva origine, ma esprime la sua natura quale apparisce all' analisi ed alla riflessione: queste concepiscono l' affermazione al loro modo, con certa modificazione che viene dalle leggi del loro operare; e questa modificazione è ciò che fa acquistare all' affermazione l' appellazion di giudizio. Ciò che qui diciamo si renderà ancor più chiaro, se si considera, che quando la riflessione, analizzando un giudizio qualunque, distingue in esso il predicato ed il soggetto, ella non separa veramente questi due termini d' infra loro, non li disunisce; perocchè disuniti che fossero, essi perderebbero la qualità di predicato e di soggetto, non sarebbero più termini del giudizio, il giudizio stesso sarebbe distrutto. La riflessione dunque non fa che distinguere i due termini, distinguerli mentalmente; ma sempre lasciandoli congiunti nel giudizio formato e conchiuso appieno; perocchè, solo restando così congiunti, si possono dire predicato e soggetto . E veramente, pigliamo a considerare un giudizio qualunque: per esempio: quest' essere che io veggo è un uomo . Che cosa questo giudizio mi fa conoscere? Che questo essere che io veggo è un uomo. Prima che io avessi pronunciato dentro di me un tal giudizio, io non sapevo che questo essere ch' io veggo, fosse un uomo, poichè il saperlo e il dirlo a me stesso è perfettamente il medesimo. Ebbene, ora analizziamo colla riflessione questo giudizio. Quest' essere è il soggetto, e un uomo è il predicato. Mi si dica: se io considerassi da una parte quest' essere , dall' altra l' uomo in separato, senza punto nè poco badare alla loro relazione, saprei io che quest' essere è il soggetto e che l' uomo è il predicato? No certamente, io nol saprei: quest' essere e l' uomo cesserebbero dall' essere i termini di un giudizio, cesserebbero affatto dall' esser predicato e soggetto. Come diventano dunque predicato e soggetto? Per mezzo del giudizio stesso. Il predicato e il soggetto adunque non esistono prima del giudizio; è il giudizio che li forma, e, dopo che il giudizio gli ha formati, la riflessione li trova nel giudizio. Applichiamo il medesimo ragionamento all' affermazione nostra: l' ente è realizzato in questo sentimento , ossia l' attività di questo sentimento è un ente . Analizzandola, dico che il sentimento è il soggetto, l' esistenza è il predicato: lo dico perchè nel giudizio vi è compresa tale notizia, è il giudizio stesso che me la dà. Ma certamente che se io prendo il sentimento fuori del giudizio, e così distruggo il giudizio, il sentimento non è più soggetto, perchè mi è del tutto incognito. L' obbiezione dunque che si fa, benchè speciosa in apparenza, è priva di valore, partendo dal falso supposto, che il soggetto come soggetto debba esistere prima che si faccia il giudizio, mentre anzi è il giudizio stesso che sempre lo produce. L' unica differenza che passa tra l' affermazione con cui si conoscono gli enti reali e gli altri giudizŒ tutti, si è che negli altri giudizŒ il predicato ed il soggetto, benchè prima del giudizio non siano conosciuti come predicato e come soggetto, pure sono conosciuti dalla mente in altro modo; laddove il soggetto sentimento prima dell' affermazione dell' ente reale non è conosciuto in modo alcuno. Ma questa differenza non fa che il giudizio primitivo sia di diversa natura da tutti gli altri giudizŒ; perocchè la cognizione che negli altri giudizŒ si ha di ciò che poscia diventa soggetto, non è già quella che produce la cognizione che ci apporta il giudizio, anzi su questa cognizione che ci dà il giudizio, niente affatto influisce. Mi spiegherò coll' esempio. Quando io giudico che l' ente che veggo è un uomo, qual è la cognizione che mi apporta questo giudizio? Ella è, che sia un uomo l' ente che veggo. Prima di giudicare mi è dunque affatto incognito che l' ente che veggo, sia un uomo. L' ente che veggo, non lo conosco affatto come uomo; lo conosco come ente veduto. Ora il conoscerlo semplicemente come ente veduto non ha a far niente col conoscerlo siccome uomo: di maniera che io potrei conoscerlo come ente veduto per migliaia d' anni senza mai conoscerlo come uomo: e così avverrebbe, poniamo, se io non avessi alcuna notizia dell' uomo. L' ente dunque da me veduto, benchè cognito sotto un aspetto, è cosa per me affatto incognita prima del giudizio relativamente al predicato uomo ; e però in ogni giudizio avviene che il soggetto come tale, cioè in relazione al predicato, sia incognito prima della formazion del giudizio: l' effetto di ogni giudizio è sempre quello di rendermi cognito ciò che è incognito: il soggetto dunque del giudizio come tale è sempre un incognito che si dee render cognito. Ma nell' affermazione degli enti reali la cognizione che si vuole acquistare, è la primitiva, innanzi alla quale non ve ne può essere un' altra. Quindi in questo giudizio accade che il soggetto considerato prima di formare il giudizio stesso, sia incognito non solo come soggetto e in relazione al predicato, ma ben anco sotto ogni altro rispetto, sia incognito del tutto; perocchè se in qualche modo si conoscesse, già non sarebbe più vero che la cognizione degli enti reali, che s' acquista coll' affermarli, fosse la prima di tutte le cognizioni reali, giacchè precederebbe ad essa quella certa cognizione di ciò che diviene poscia soggetto. Se dunque è vero che ogni giudizio produce una cognizione che prima in noi non era, e se è vero che le cognizioni discendono l' una dall' altra di maniera, che, riascendendo per la scala di esse, se ne dee trovare una prima, la quale non può essere altro che l' affermazione dell' esistenza, necessariamente consegue: 1 che i soggetti di tutti i giudizŒ sono sempre incogniti come soggetti, cioè in relazione al predicato, prima che sia formato il giudizio: 2 che, sebbene prima che sia formato il giudizio, i detti soggetti sieno incogniti come tali, tuttavia si può conoscere di essi qualche altra cosa: 3 che quest' altra cosa che si conosce di essi, è stata conosciuta anch' essa con un giudizio precedente: 4 che risalendo così al primo di tutti i giudizŒ, egli dee avere necessariamente un soggetto, di cui, prima di esso giudizio, non si conosceva nulla affatto, giacchè mancava un giudizio precedente che ce n' avesse potuto dare qualche notizia: 5 che il primo di tutti i giudizŒ è quello con cui conosciamo che esiste qualche ente reale; giacchè tutto ciò che possiamo mai conoscere di un ente reale, suppone sempre che noi prima conosciamo che egli esista: 6 che dunque l' affermazione prima dee formare un soggetto, che prima di essa sia affatto incognito per una legge comune a tutti i giudizŒ. Attesa questa proprietà dell' affermazione degli enti reali, noi abbiamo dato a questo giudizio il nome di sintesi primitiva , e la facoltà dello spirito umano che la forma, l' abbiamo chiamata ragione , la quale è quella forza unica dello spirito che unisce insieme l' essere e il sentimento, e poscia vi usa sopra la riflessione. Noi abbiamo detto che nella sintesi primitiva si può considerare il sentimento come soggetto e l' esistenza come predicato. Non di meno si potrebbe anche dire il contrario considerandosi l' essenza dell' essere come soggetto e la sua realizzazione come predicato. La ragione di questa convertibilità del soggetto e del predicato nella sintesi primitiva si è, perchè ella è un giudizio d' identità [23 7 2.], nel quale si fa un' equazione fra il sentimento e l' essenza dell' essere, mediante l' idea (la conoscibilità di questa). Da tutte le cose dette rimane spiegato che cosa sia la ragione , che cosa sia il lume della ragione , la forma che rende intelligente lo spirito , la facoltà di conoscere . Rimane dunque sciolta altresì la questione dell' origine delle idee. Vi ha un' idea primitiva, quella dell' essere. Con questa si formano i giudizŒ primitivi, si affermano gli esseri reali sentiti, e così si conoscono. I rapporti dell' idea dell' essere cogli enti reali sono i concetti, ossia le idee specifiche degli enti particolari. Su queste idee si esercita l' analisi, la riflessione, l' astrazione ecc., quindi gli astratti e i diversi enti di ragione. Chi vuol seguire la deduzione più divisata delle idee o concetti speciali e generali e di tutte le cognizioni umane, potrà ricorrere al « Nuovo saggio sull' origine delle idee , » e al « Rinnovamento della filosofia in Italia » ecc.. Nelle quali opere si svolge ed applica la teoria ideologica sovra esposta. LOGICA. - La logica è la scienza dell' arte di ragionare. Lo scopo del ragionamento è la certezza: e la certezza è una persuasione ferma, conforme alla verità conosciuta. La logica dunque ha due uffizŒ: dee difendere l' esistenza della verità in generale, e quindi l' efficacia del ragionamento; dee poscia insegnare ad usar il ragionamento in modo, che metta l' uomo in possesso della verità e gliene dia la persuasione, in una parola che gli produca la certezza. Queste sono le due parti della logica, difesa della verità, mezzi di giungere alla verità ed alla certezza. La verità è una qualità della cognizione. La cognizione è vera quando ciò che si conosce, è. Si consideri bene questa definizione della verità. Se la cosa che si conosce, è, ella è vera; dunque la verità si riduce all' essere della cosa che si conosce. L' essere dunque che si conosce, è la verità della cognizione. Ma la forma dell' intelligenza è l' essere , come c' insegna l' ideologia. Dunque la forma dell' intelligenza è la verità. La prima verità dunque è posseduta dallo spirito umano per natura. Questo argomento semplicissimo abbatte quella classe di scettici che negano ogni verità e quell' altra che, o ammettendo o lasciando in dubbio che esista qualche verità, pure negano all' uomo il possesso di ogni verità. Lo stesso argomento si può esporre in altre parole così: Se ciò che conosco, è, io conosco la verità. Ma per natura io intuisco l' essenza dell' essere. Ora l' essenza dell' essere non è altro che l' essere stesso, giacchè il dire essere esclude il non essere. L' essere dunque che io conosco per natura, è: dunque la mia cognizione prima è vera: possiedo una prima verità, poichè ciò che conosco, è. Qui si fa avanti l' idealista trascendentale, e ci dice: La vostra è un' illusione. A voi pare di sapere che cosa sia essere, ma forse nol sapete . Rispondo: L' obbiezione che mi fate, prova chiaramente, che voi non avete inteso la maniera colla quale io testè dimostrai che l' uomo possiede la prima verità; prova che non avete inteso che cosa sia la prima verità di cui si parla, poichè l' obbiezione che voi fate della possibilità di una illusione non cade affatto sulla prima verità. In fatti che cosa significa essere illuso? Significa parere una cosa che non è, o parere una cosa in un modo diverso da quello che è. Ora nè l' una nè l' altra di queste due illusioni può cadere sulla cognizione prima di cui parliamo; ma tutt' al più potranno cadere tali illusioni sulle cognizioni seconde che si vengono formando, per esempio, sulla affermazione degli esseri reali, il che esamineremo a suo tempo. E certo, in generale parlando, quand' io affermo un certo essere reale, non è impossibile la doppia illusione che si obbietta. Io posso cioè affermare un certo essere reale, e questo pure non essere, non sussistere. Posso affermare che un certo essere reale sia in un dato modo, e il medesimo essere in un altro modo. Ma niente di ciò ha luogo rispetto a quella cognizione per la quale io so che cosa sia essere senza più. Dimostriamolo relativamente alla prima illusione. Il sapere semplicemente che cosa è essere, senza aggiungervi alcuna determinazione, e il credere di saperlo, è la medesima cosa: credere di sapere che cosa è essere, è sapere che cosa è essere; e sapere che cosa è essere, è sapere la verità perchè l' essere essenzialmente è. In fatti, riteniamo che sapere che cosa è essere, è sapere la verità. Ciò posto, l' illusione che si oppone, si fa consistere in questo, che si creda forse di sapere, ma che non si sappia che cosa è essere. Ora si consideri bene che sapere che cosa è essere, è la semplice concezione dell' essere, non è affermazione di alcun essere sussistente. E considerato questo, si può egli mover dubbio, che la concezione dell' essere si abbia o non si abbia, senza averla questa concezione? Dubitare che ci sia la concezione dell' essere suppone per data la concezione dell' essere, di cui si dubita. Medesimamente, credere d' aver la concezione dell' essere suppone la concezione dell' essere che è l' oggetto a cui si riferisce quella credenza. L' illusione adunque che si obbietta non è possibile, giacchè non si può favellare della illusorietà della concezione dell' essere senza ammettere già questa concezione di cui si disputa. Tale è la natura delle semplici concezioni, che si hanno o non si hanno; e se non si hanno, non si può credere d' averle, poichè col credere d' averle già si hanno. Veniamo alla seconda illusione, e dimostriamo che neppur essa può cadere nella notizia prima dell' essere. « Voi » si dice « intuite l' essere, ma sapete voi d' intuirlo com' egli è? L' essere non potrebbe essere in un modo diverso da quello in cui vi apparisce? »Questa obbiezione suppone che l' essere abbia modi diversi. Ma per ciò stesso ella non può attaccare la prima intuizione, perocchè in questa prima intuizione l' essere è senza modi. Di nuovo, l' obbiezione adunque non può valere, se non applicata a quelle cognizioni, per le quali l' uomo conosce l' essere vestito di qualche modo particolare. Può allora darsi che l' uomo s' illuda, e che l' essere gli apparisca in un modo, quando in se stesso esiste in un altro modo. Se ciò sia possibile, e fin dove sia possibile, questo si dee esaminare quando si toglie a parlare della verità delle cognizioni speciali, che hanno per loro oggetto esseri determinati. Ma qui nel discorso presente si tratta dell' essere privo al tutto di modi, si tratta della pura e semplice essenza dell' essere stesso; le illusioni adunque che cader possono sui modi dell' essere qui rimangono del tutto escluse, sono impossibili. Per questo dissi in qualche luogo, che la verità evidente ed essenziale dell' essere luce nella sua universalità . Quest' universalità distrugge affatto lo scetticismo trascendentale, il quale suppone gratuitamente che l' intendimento umano abbia delle forme ristrettive e modali, mentre egli ha una sola forma universale, e priva affatto di modi che hanno la loro esistenza solo nel mondo reale. Risulta parimenti da ciò non solo gratuito, ma evidentemente falso e contradittorio, che l' essere nella sua universalità e semplicità sia una produzione soggettiva, cioè una produzione del soggetto uomo; che anzi l' uomo stesso non è che una ristretta, modale e contingente realizzazione dell' essenza dell' essere. Ed ecco che, dopo aver noi stabilito, che lo spirito umano sa che cosa è essere mediante l' osservazione , ignorando tuttavia che questa osservazione fosse un testimonio certo della verità; ora veniamo a giustificare e riconoscere valida l' osservazione, poichè avendo trovato che il risultato dell' osservazione è l' intuizione dell' ente, noi siamo giunti a tale da convincerci della veracità della stessa osservazione, poichè nell' ente intuito abbiamo trovato la luce evidente della verità che esclude ogni possibilità che in tale osservazione entri inganno, errore od illusione di sorte [11]. Le ragioni, colle quali abbiamo disciolte le obbiezioni scettiche degli idealisti trascendentali, e abbiamo provato, che la semplice concezione dell' essere non ci può al tutto ingannare, valgono medesimamente a provare che non può cadere errore di sorta nè meno nei concetti o idee speciali. Perocchè l' errore non potrebbe cadere che o nell' essere ch' esse ci mostrano o nei modi ne' quali ci mostrano l' essere limitato. Ma già vedemmo che nell' essere, se si prescinda dai modi, non ci ha possibilità alcuna d' errore; resta dunque a vedere se potesse avercene nei modi de' medesimi concetti. Or che cosa vuol dire esserci errore ne' modi dell' essere? Vuol dire apparirci un essere vestito di un modo, mentre in se stesso ne ha un altro. La possibilità dunque dell' errore nasce da questo, che un solo essere non può avere nello stesso tempo che un solo modo; onde se noi giudichiamo che ne abbia un altro, il modo che gli attribuiamo, non è; e perciò il nostro è un giudizio falso, un errore. Questa falsità di giudizio accade spesso negli esseri reali, i quali sono limitati ad un solo modo; per esempio, io posso giudicare falsamente che un dato ente sia un uomo mentre egli è una bestia ovvero un ceppo; erro, perchè gli attribuisco un modo non suo. Ma se non si tratta di esseri reali, ma dell' essere semplicemente ideale, la detta condizion dell' errore manca del tutto. Poichè l' essere ideale non è limitato ad un solo modo; ma egli ha potenzialmente tutti i modi, in tutti i modi può esser realizzato: quindi ogni modo che io concepisca dell' essere ideale, è immune da errore, perchè è un modo suo proprio. Questi modi dell' essere ideale sono i concetti, le idee specifiche e generiche: dunque tutte le idee specifiche e generiche sono affatto immuni da errore. Quindi giustamente gli antichi insegnarono che l' errore non può mai stare nell' idee, ma risiede nei giudizi; e che le notizie così dette di semplice intelligenza , sono scevre affatto da ogni errore. Per questo si dice ancora, che le idee sono le verità esemplari, e che le cose (gli enti reali) ricevono la loro verità dalla conformità che hanno colle idee. Se io giudico, a ragion d' esempio, che un dato ente reale è un cavallo, ed è un cavallo, si dice che è un cavallo vero , per dire che corrisponde a quell' idea di cavallo, a quel modo che io gli attribuisco e col quale lo giudico. Ma dicendo noi che nelle semplici idee non può cadere errore, non intendiamo di estender ciò anche alle relazioni delle idee , nelle quali può cadere certamente errore, perchè si affermano con un giudizio che può esser vero o falso. Così, a ragion d' esempio, io erro se giudico che un' idea è inchiusa in un' altra, quand' ella non è; che il due, poniamo, stia tre volte nette nel cinque, quando non vi sta che due e mezzo. Insomma non vi può essere errore, se non v' è giudizio: l' intuizione semplice non ammette errore. E tuttavia non consegue, che in ogni giudizio vi possa essere errore: v' ha anco de' giudizi, ne' quali l' errore è assolutamente impossibile. In fatti, trovato che nell' intuizione dell' essere, universale o speciale, non cade errore, io posso esprimere ciò in forma di giudizio, dicendo appunto non cade errore nelle idee : ho formato con ciò un giudizio immune da errore appunto perchè ciò che esprimo con esso è immune da errore. Allo stesso modo sono immuni da errore tutti que' giudizŒ che altro non esprimono, se non ciò che la mente intuisce; per esempio questi due: l' oggetto del conoscere è l' ente; l' essere e il non essere ad un tempo non è oggetto di cognizione . Queste proposizioni, questi giudizŒ altro non dicono se non ciò che mostra a noi l' intuizione dell' essere. Il primo equivale ad esprimere il fatto che l' essere è l' oggetto essenziale, la forma dell' intelligenza; il secondo altro non significa, se non che se l' essere, oggetto dell' intelligenza, mi è levato via, egli non può ad un tempo esser presente: è ancora la semplice intuizione dell' ente che si dichiara necessaria per conoscere. Quando ciò che si contiene nell' idea si pronunzia in forma di giudizio e s' esprime in una proposizione, allora l' idea, così espressa, prende nome di principio . L' idea è sempre universale in questo senso, che ella può essere realizzata (salve alcune eccezioni che qui si ommettono) più volte. L' idea dell' essere può realizzarsi in tutti i modi; le idee generiche, in molti modi, e così pure le idee specifiche astratte; se l' idea specifica non è astratta, ma piena, di maniera che contenga anche gli accidenti tutti dell' ente, ella può esser realizzata in un modo solo, ma in più individui (salve le dette eccezioni). Perciò le idee si dicono tutte universali . Quindi anche i principii sono giudizi universali, i quali si applicano a molti casi . Per esempio, il principio che dice: l' ente è l' oggetto del conoscere , si applica e si avvera non già in un solo atto del conoscere, ma in tutti affatto gli atti conoscitivi. Il principio di contraddizione: l' essere e il non essere ad un tempo non è oggetto di conoscere , esprime l' assurdo di tutte le proposizioni contradittorie. Assurdo vuol dire inettitudine della proposizione ad essere oggetto di conoscenza. I principii dunque non essendo che le idee intuite, il cui oggetto si pronunzia in forma di giudizio, sono immuni da errore altrettanto quanto le idee stesse. Ma se le idee e i principii dell' umano sapere sono superiori alla sfera dell' errore, che cosa è a dirsi della sintesi primitiva, colla quale si affermano le cose reali che a noi si comunicano nel sentimento? E` ella immune da errore la percezione delle cose reali, per la quale intendiamo appunto un' attività da noi sentita ed affermata come un ente? Nella percezione di un ente reale si debbono distinguere due cose: l' affermazione dell' ente, e l' affermazione del modo dell' ente determinato dal sentimento. Nell' affermazione dell' ente, prescindendo dal suo modo, non può cadere errore, appunto perchè non può cadere errore nell' essenza dell' ente da noi intuita. Affermare l' ente è affermare l' essenza intuita nella sua realizzazione: quest' essenza la conosciamo con evidenza senza possibilità di errore; dunque dobbiamo altresì riconoscerla senza errore, presentandosi ella a noi realizzata. Il modo poi dell' ente è determinato dal sentimento e non dalla nostra intelligenza. Ora è da osservarsi attentamente, che il bambino nelle sue prime percezioni, non afferma già il modo dell' ente, ma si accontenta di affermar l' ente, lasciando che il sentimento lo determini senza occuparsi a misurare questo sentimento, senza dargli un' attenzione intellettiva, senza affermarne i limiti, la forma, le differenze. Non pronunziando dunque nulla sul sentimento che costituisce la realità dell' essere, ma prendendolo solo per una realizzazione modale dell' essere senza più, qualunque ella sia, l' uomo non s' espone a pericolo di alcun errore. Tali percezioni adunque fatte dal bambino o da chicchessia, nelle quali il sentimento non si prende se non come la realizzazione dell' essere senza fermar l' attenzione al suo modo e a' suoi limiti, son tali, che l' errore ne è affatto escluso. Il giudizio adunque che afferma l' esistenza degli esseri reali è immune da errore. Rimane a vedere se sia immune da errore il giudizio che afferma il modo determinato degli esseri reali, cioè che afferma in conseguenza di un dato sentimento che sussista piuttosto un essere che un altro. Si dirà, che l' essenza dell' ente viene da noi aggiunta al sentimento per poterlo affermare e conoscere come ente, e però noi conosciamo nel sentimento ciò che in esso non vi è. Ma si osservi che quest' obbiezione sarebbe assai forte quando fosse vero che noi affermassimo che il sentimento stesso fosse l' essenza dell' ente. Ma noi non facciamo già questo: aggiungiamo bensì l' essenza dell' ente all' attività sentita, per renderla un ente percettibile e conoscibile; ma sappiamo nello stesso tempo, che l' attività sentita da se sola non è l' essenza dell' ente, ma è una sua realizzazione contingente, un suo modo, il termine della sua azione: sicchè l' essenza dell' ente che gli aggiungiamo, non è altro che il mezzo di conoscerla; perocchè l' attività sentita non è conoscibile se non veduta nell' ente. Allo stesso modo, cioè in un modo simile benchè non uguale, noi non possiamo percepire l' accidente senza percepirlo nella sostanza , e tuttavia non c' inganniamo, perchè sappiamo bene che l' accidente non è la sostanza che a lui pure aggiungiamo in percependolo. Dall' istante, che abbiamo detto, che l' attività sentita è l' essere realizzato, egli è chiaro, che in quel modo che è l' attività sentita, in quel modo stesso è realizzato l' essere. Dunque, qualora si verifichi che io, col mio giudizio sul modo dell' essere, altro non fo che pronunciare ed affermare quell' attività che veramente sento nè più nè meno, in tal caso il mio giudizio non può che esser vero. Qui dunque ho trovata la condizione, adempiuta la quale non posso ingannarmi, nè anche nel giudizio che porto circa il modo dell' essere percepito: la condizione si è, che io non affermi altro, se non quello che sento nè più nè meno. Rimane a vedere se questa condizione si avveri sempre necessariamente in tali miei giudizŒ; o per lo contrario non si possa mai avverare; o finalmente se si possa bensì sempre avverare, ma non sempre si avveri. Nel primo caso il mio giudizio sarebbe necessariamente vero: nel secondo sarebbe necessariamente falso: nel terzo potrebbe sempre esser vero se io voglio, se io procedo colle necessarie cautele; ma potrebbe anche esser falso, se io non voglio o procedo incautamente. Ora è manifesto che io non sono necessitato a dir sempre a me stesso precisamente quel che sento. Posso mentire a me stesso; posso dire di sentir più o di sentir meno, di sentire in un modo o di sentire in un altro. Posso prendere un sentimento per un altro, un' immagine, a ragion d' esempio, per una sensione esterna; posso dunque ingannarmi. Ma egli è ancor manifesto che non sono necessitato ad ingannarmi. Chi mi costringe a dire quel che non sento, o a dire di sentir più o di sentir meno o in altro modo da quel che sento? Anzi, se non avessi sperimentato mai che un solo sentimento, mi sarebbe impossibile di fingermene un altro, o di alterarmelo a volontà. Dunque in me vi è la facoltà di affermare il sentimento tale quale lo provo; questa è la facoltà naturale. Se io m' inganno adunque, è perchè non uso della facoltà naturale, ma mi servo anzi di un' altra a turbare e confondere quella. E io posso provare di avere la facoltà naturale di attestare a me stesso nè più nè meno quello che sento, considerando che questa facoltà non è poi ancora che un nuovo uso, un' altra funzione della facoltà che ho detto infallibile, di affermare l' essere senza i suoi modi. Poichè affermare l' essere è riconoscere l' identità fra il sentimento e l' essenza dell' essere: ora, poichè in tutte le attività anche minime del sentimento è realizzato l' essere, dunque posso affermarlo in tutte con infallibil certezza. Ma affermare l' essere in tutte le attività anche minime del sentimento è lo stesso che affermare tutto intero il modo del sentimento nè più nè meno. Dunque non mi manca la facoltà naturale di affermare con sicurezza anche il modo dell' essere, anzi questa facoltà è infallibile, e se m' inganno, il mio errore dee procedere non da questa facoltà, ma da un' altra che ad essa io sostituisco, e che per ora chiamerò semplicemente la facoltà dell' errore . Esclusi dunque i due estremi della verità necessaria e dell' error necessario nel giudizio che io fo intorno al modo dell' essere da me percepito, rimane che qui trattisi di un errore possibile a sfuggirsi, ma possibile anche ad incorrersi. Si può dunque un tale errore evitar sempre? Sì, noi diciamo, purchè vogliamo ed usiamo le cautele a ciò necessarie: ma prima di parlare di queste cautele, facciamo un' osservazione. L' errore di cui qui parliamo, non cade propriamente sulla percezione dell' ente reale. La percezione dell' ente reale è fatta, tostochè noi all' occasione del sentimento l' abbiamo affermato. Sopravviene la riflessione sopra l' ente percepito, che vuol determinare, vuol pronunziare il modo preciso, l' estensione precisa dell' ente percepito: al che fare, oltre portare l' attenzione sul sentimento e su tutte le sue parti, è uopo ricorrere altresì al confronto con altri sentimenti, con altri esseri. La percezione dunque degli enti reali è infallibile; l' errore comincia solo colla riflessione sulla percezione , e s' apre tanto maggior campo all' errore, tanta maggior facilità di errare, quant' è maggiore la riflessione, più elevata, più complicata. Dicevo, che per determinare da noi stessi il modo e la quantità del sentimento, non basta l' osservazione accurata sul medesimo, ma è necessario ricorrere a confronti con altri sentimenti, con esseri altre volte percepiti. La ragione si è, che i giudizŒ che trattano di misura , non cadono mai sulla misura assoluta, ma sempre sulle misure relative. Se l' uomo non percepisse che una data quantità, e non n' avesse un' altra a cui confrontarla, egli non pronuncierebbe su di essa giudizio alcuno, non inventerebbe neppure il vocabolo di quantità per nominarla. Laonde, se si prescinde interamente dalla riflessione che tende a misurare il sentimento mediante confronti, può benissimo concepirsi un' osservazione o attenzione intellettiva portata sul sentimento; ma tale, che non pronunzia niente in separato dalla percezione, e che è tanto infallibile quanto la percezione stessa di cui è parte, onde la percezione può avere due forme che, se vogliamo esprimere con parole, potremo così enunciare: « percezione che pronunzia l' esistenza di un essere reale determinato dal sentimento senza più »; e « percezione che pronunzia la presenza di un essere reale e il sentimento che lo determina senza riferirlo a niun altro sentimento. » L' aver dimostrato, che l' uomo ha una facoltà infallibile della percezione, è bastante contro gli scettici. Quanto poi all' ordine della riflessione, dove l' errore è possibile, posciachè la riflessione è verace o mendace secondo la maniera onde se ne fa uso, perciò appunto fu inventata la Logica, acciocchè ella insegni tal maniera di far uso della riflessione, che ci conduca alla verità, e ci additi come conoscere ed evitare l' errore. Se ben si considera, l' errore è sempre arbitrario, e quindi non è mai il prodotto delle semplici facoltà di conoscere. La riflessione stessa non produce l' errore per sè, ma perchè le si fa dire quello che ella non dice. E veramente la riflessione ha per suo primo oggetto le percezioni, le quali, come vedemmo, non ammettono errore. Questa prima riflessione altro non fa se non dire ciò che si contiene in una o più percezioni; quindi le analizza e le compone: ma se la riflessione dicesse che nella percezione v' è quel che non v' è, in tal caso non sarebbe, propriamente parlando, riflessione, perchè non rifletterebbe sulle percezioni; sarebbe un' altra potenza, che simulerebbe la riflessione; vi avrebbe un mentitore, che direbbe che la riflessione dice quel che non dice. Questo mentitore è certamente l' uomo stesso: egli ha la facoltà di affermare a se stesso ciò che la ragione non gli dice. Questa è la facoltà della persuasione , che si dee distinguere affatto dalla facoltà del ragionamento . Il ragionamento è e debb' essere mezzo di persuasione. Ma la persuasione si forma anche senza ragionamento: si forma una persuasione nel seno dell' uomo che vi sia un ragionamento quando non c' è, che il ragionamento dica una cosa quando non la dice: l' uomo si persuade, dà il suo assenso, giudica non sempre mosso dalla ragione, ma talora dall' istinto, dall' abitudine, dal pregiudizio, dall' affezione, dalla passione. Quindi l' errore s' intromette nell' essere ragionevole, non perchè egli sia ragionevole; chè se fosse solamente ragionevole, non potrebbe mai prendere errore; ma perchè, oltr' essere ragionevole, egli ha altresì la facoltà di giudicare ad arbitrio. Per questo si dice, che la natura dell' errore è di essere volontario. Non avviene tuttavia da questo che l' errore sia sempre peccaminoso o colpevole; ma egli ritiene di quella condizione morale che hanno le cause che lo hanno prodotto. Alla logica appartiene enumerare le cause occasionali ed incentive dell' errore, ed insegnare ad evitarle. Egli è qui chiaro, che per evitare gli errori colpevoli convien ricorrere a rimedŒ morali, convien sanare la volontà disordinata che influisce sulla facoltà della persuasione, traviandola ai suoi colpevoli fini. Le cause fisiche dell' errore, come i morbosi istinti, l' alterazione dell' immaginativa ecc. debbono levarsi con rimedŒ fisici. Se l' errore proviene finalmente da precipitazione ed imprudenza, conviene opporvi de' mezzi prudenziali, delle regole logiche precisamente espresse. La logica non si contenta d' indicare le diverse maniere di rimovere la causa degli errori, ma ella insegna altresì a riconoscerli quando sono già formati e ad emendarli. I sintomi degli errori sono moltissimi. Una specie di questi sintomi si riscontra nella forma verbale dei ragionamenti; e quella parte di logica che addita questa specie di sintomi degli errori, è quella che si chiama sofistica . Ma torniamo alla percezione, che è il solido fondamento di tutto quello scibile che riguarda gli enti reali. Basta qualsivoglia attività sentita acciocchè lo spirito intelligente affermi che sussiste un ente reale. Attività (sentita) e realità è il medesimo: è una forma dell' essere, non è l' essere, il quale vi si aggiunge nella percezione. Le prime attività da noi sentite, dalle quali si suscita la nostra facoltà di giudicare e di affermare la sussistenza di alcuni enti, sono le sensioni corporee. Se noi analizziamo queste sensioni, troviamo in ciascuna di esse tre attività: 1 l' attività che ci modifica senza nostro volere, verso cui noi siamo passivi: 2 la sensione che è l' effetto di quella attività che ci modifica: e 3 noi stessi che siamo modificati. Tuttavia l' attenzione nostra intellettiva non si porta da prima egualmente sopra queste tre attività, ma innanzi tratto su quella che ci modifica, e ad essa si ferma: perciò noi affermiamo prima di tutto i corpi esterni. Quando noi affermiamo i corpi esterni, nella nostra sensione v' ha certamente di più dei corpi esterni, cioè dell' agente che ci modifica; ma noi non ci badiamo. Si deve qui osservare la legge dell' attenzione dello spirito. L' attenzione intellettiva è la forza che dirige ed applica il nostro intendimento, ed ha per suo carattere di poterlo applicare a quell' oggetto che vuole, restringerlo a un solo oggetto, ad una sola parte del sentimento, affermare un oggetto solo alla volta, trascurando tutti gli altri. Non è però a credere, che l' attenzione nell' applicare e concentrare l' intendimento nostro in una sfera più o meno ristretta proceda a caso: ella segue certe leggi costanti, che le vengono imposte in gran parte dalla natura dell' essere; ma non è qui luogo di esporre queste leggi. E` bensì importante ritenere, che per questa proprietà dell' attenzione accade, che la percezione si ristringa ad un solo oggetto, quantunque molti altri possano essere con quello connessi anche necessariamente. Il nesso necessario di due oggetti fra loro non entra nella percezione, e neppure in quel concetto dell' essere che immediatamente si cava dalla percezione. Così quando l' uomo afferma un corpo esterno e quindi lo percepisce, è del tutto falso che colla stessa percezione affermi se stesso, come è falso del pari che la percezione de' corpi esterni debba necessariamente aver seco congiunta la percezione di se stesso. E` dunque un sofisma quello di Fichte che l' uomo percepisca l' io e il non io contemporaneamente e con un solo atto. Onde provenne l' errore di Fichte? Dal non aver egli ben distinto ciò che accade nel sentimento , e ciò che accade nella percezione intellettiva . E` vero verissimo, che nella nostra sensione non vi ha solo l' agente esterno (il mondo esterno), ma ci siamo anche noi stessi che veniamo modificati e limitati: tale è la natura del sentimento corporeo, sempre duplice, risultante dal senziente e dal sentito. Ma altra è la natura del sentimento, ed altra quella della percezione intellettiva. Sebbene nel sentimento concorrano due enti, tuttavia la percezione si restringe ad un solo alla volta, ed è per questo che ella distingue l' uno dall' altro: la percezione termina in ciò che afferma: quando afferma il mondo esterno, termina in esso; se non terminasse in esso, lo confonderebbe con noi stessi, e non lo separerebbe, come lo separa. Dico lo separa , non dico lo distingue : poichè per separarlo basta percepire lui stesso e nulla più; per distinguerlo da noi si dovrebbe negare noi, e quindi aver percepito noi, giacchè non si può negare ciò che non si conosce. E fu appunto l' abuso della parola distinguere che rese specioso il sofisma di Fichte. All' incontro quando si percepisce una cosa sola, ignorando affatto tutte le altre, ella è già separata da tutte le altre senza bisogno che noi positivamente le neghiamo, e da essa le distinguiamo. L' errore di Fichte nacque adunque dall' aver confuso il sentimento colla percezione sensitiva: è ancora un errore dovuto al sensismo. La natura della percezione ben considerata rovescia parimenti il principio di Schelling, che fu rimpastato e riprodotto anche poco fa. Schelling ammise il doppio oggetto della percezione di Fichte, e gliene aggiunse un terzo. L' oggetto della percezione di Fichte, benchè duplice, era finito. Schelling disse che non si potea percepire il finito senza l' infinito , a cui quello si riferiva. Or come Fichte attribuì alla percezione intellettiva ciò che è proprio solo del sentimento ; così Schelling attribuì alla percezione intellettiva ciò che è proprio solo del ragionamento : nè l' uno nè l' altro filosofo conobbe la natura della percezione , la quale si è di limitarsi ad un solo oggetto, senza esser necessitata a distendersi agli oggetti connessi con quello. La percezione termina nell' oggetto finito senza pure considerare che egli sia finito, e che quindi addimandi, per esistere, d' un infinito; termina in esso, senza punto nè poco considerare che sia un effetto, e senza conchiudere ch' egli quindi non può esistere senza una causa: lo considera per un ente, vi aggiunge l' essenza dell' ente senza punto considerare che non sarebbe, diviso dall' essenza dell' ente. Tutte queste sono riflessioni posteriori, sono ragionamenti, che hanno per oggetto la percezione, ma che non sono la stessa percezione. Rimane bensì a vedere, perchè, quantunque nella percezione s' apprenda un oggetto in separato da tutti gli altri, tuttavia poscia il ragionamento conosca che quel dato oggetto, quel reale non può sussistere da se solo, e se è finito, è condizionato necessariamente ad un infinito, se è contingente, ad un necessario che gli sia causa ecc.. Questo avviene perchè la riflessione rivolgendosi sull' oggetto percepito , lo paragona all' essenza dell' essere che è il lume della mente, e a questo paragone tosto conosce, che in quell' ente non è realizzata appieno l' essenza dell' essere; quindi conosce altresì, che il suo sussistere è condizionato ad un altro essere maggiore. Risulta da tutto ciò, che l' ultimo filosofo tedesco di cui abbiam parlato, travide qualche cosa di vero senza poterlo significare con precisione. Si acc“rse, che la mente umana dovea aver presente fin da principio di tutti i suoi ragionari qualche cosa di pieno, di completo, di universale, a cui come a tipo riportasse ciò che è modale, incompleto, relativo; perocchè altrimenti sarebbe stato inesplicabile come l' uomo si fosse accorto che il mondo, a ragion d' esempio, sia contingente, e che domandi una causa, che sia finito, cioè discosto immensamente dall' infinito ecc.. Certo, per conoscere tutto ciò, doveva esistere nella mente umana il tipo perfetto dell' essere che presiedesse a tutti questi giudizŒ. Ma il filosofo tedesco non ha poi saputo distinguere l' intuizione dalla percezione , il modo ideale dell' essere dal modo reale , l' essenza dell' essere dalla sua realizzazione , la ragione della sussistenza dalla sussistenza medesima , ciò che ha l' essere perchè la percezione gliel dà, da ciò che è l' essere . Attribuì dunque alla percezione ciò che appartiene all' intuizione , ossia al confronto del percepito coll' intuìto , confronto che è opera del ragionamento. Conchiuse che lo spirito umano percepiva naturalmente l' assoluto , quando solamente intuiva la ragione assoluta , l' essere ideale. E posciachè nella percezione si hanno gli enti distinti, poichè la distinzione limitante appartiene all' ordine delle realità, perciò volle che nella percezione da lui supposta primitiva e naturale si trovassero già distinti l' io il non io , e l' assoluto essere; laddove nell' essere ideale nulla è distinto, non cade alcuna limitazione, alcun modo: egli è l' essere in una sola forma illimitata. Eppure quest' essere ideale basta alla mente, non solo perchè le si renda possibile la percezione delle cose particolari, ma ben anco per dar le ali al ragionamento, col quale conosca i limiti degli oggetti della percezione e la necessità dell' illimitato e dell' assoluto. Ma noi dobbiamo chiarir meglio le leggi della percezione e del ragionamento, e giustificarle in modo che riescano sufficientemente difese contro alle obbiezioni degli scettici. Cominciamo dalla percezione dei corpi esterni. Quando noi proviamo una sensione che non avevamo prima, la nostra attenzione intellettiva si porta sull' agente, sulla forza che ci modifica. Egli è certo in fatti, che sentiamo in noi stessi una forza la quale non siamo noi: anzi ella è opposta a noi. Noi siamo passivi, ella è attiva. Intanto si osservi qui, che questo fatto basta perchè noi possiamo affermare che esiste un ente, senza che perciò diciamo che quest' ente sia noi. Noi siamo ancora incogniti a noi stessi. E se questo non si vuole ammettere, si prenda pure per una mera supposizione. Dico che, anche supposto che l' attenzione nostra intellettiva non si fermi, non si porti punto sopra noi stessi, ma si concentri nell' agente che opera nel nostro sentimento, noi affermeremo che quell' agente è un ente reale e non lo confonderemo perciò con noi, poichè, quantunque abbiamo il sentimento di noi stessi, tuttavia su questo sentimento, secondo la supposizione fatta, non posiamo la nostra attenzione. Dunque supporre il contrario non è necessario. Or questa natura della percezione limitata sempre ad un solo ente, che perciò appunto non resta mai confuso cogli altri perchè è solo, basta a spiegare come noi conosciamo il mondo corporeo. Le difficoltà che mossero gl' idealisti, nascevano tutte dal considerare i corpi fuori della percezione; nascevano dal non conoscere la natura della percezione, e dall' averne trascurata l' analisi. Certo che se si considera il mondo senza relazione alcuna alla percezione, non potremo saper che esista, perchè è tolto via (mi servirò d' una celebre frase) il ponte di comunicazione fra noi e lui. Questo ponte di comunicazione è la percezione. La percezione ben meditata ed analizzata ci somministra altresì una verità ontologica della più alta importanza, affatto sconosciuta ai sensisti; la quale si è, che un ente entra in un altro colla sua azione, che gli enti in quanto sono agenti, possono benissimo inesistere l' uno nell' altro senza mescolarsi e confondersi insieme, rimanendo essi al tutto distinti, mediante i rapporti contrarŒ d' azione e di passione. Nella percezione dei corpi sentiamo un agente che non siamo noi, e verso il quale noi siamo passivi. Quest' è il fondamento della dimostrazione dell' esistenza d' un essere esteso, il quale non è noi, cioè del corpo. Viene poi un tempo, in cui noi percepiamo anche noi stessi. Io sono persuaso che, sebbene il sentimento ci accompagni sempre, tuttavia noi non abbiamo la percezione intellettiva di noi stessi se non dopo la percezione intellettiva dei corpi. Ma checchessia del tempo in cui ci formiamo la percezione intellettiva di noi stessi, ciò che è importante per la filosofia, si è il ben intendere, che la percezione di noi stessi è una percezione diversa da quella de' corpi; appunto perchè noi stessi siamo diversi dai corpi; una percezione non è l' altra, altrettanto quanto un ente non è l' altro; nè la percezione di un ente ha bisogno per esser tale di negare positivamente gli altri enti, ma solo di affermare l' ente che costituisce il suo oggetto, il quale esclude gli altri per natura, cioè perchè egli non è gli altri, senza bisogno che lo spirito umano si affatichi egli con una negazione ad escluderli. Vero è che noi, dopo che abbiamo percepito il mondo corporeo e noi stessi, possiamo riflettere su queste due percezioni, paragonare fra loro i due enti percepiti, e rilevarne i rapporti. Il paragone non si potrebbe fare se noi non avessimo presente allo spirito l' ente universale, che è la misura di tutti gli enti. Riferendo l' ente reale particolare, limitato, all' essenza dell' ente (sua ragione e principio), noi intendiamo ch' esso non è una realizzazione completa di questa; e riferendo alla medesima altri enti reali particolari, limitati, intendiamo se essi siano una realizzazione d' ugual modo e quantità della precedente, o di modo e di quantità diversa. Se un secondo ente che noi riferiamo all' essenza dell' ente, è una realizzazione uguale di modo e di quantità, lo diciamo ente della medesima specie. Quantunque però fosse uguale in tutto al precedente, tuttavia possiamo accorgerci che egli è un individuo diverso, dall' essere egli oggetto d' un' altra percezione contemporanea alla prima, principio della discernibilità degl' individui . Se fosse oggetto della medesima identica percezione, non sarebbero due individui, ma un solo. Noi conosciamo adunque il numero delle percezioni contemporanee, quando in tutto il resto gli enti individuali sieno affatto uguali (supposizione logicamente possibile): e ciò perchè noi in tal caso possiamo riferire all' ente universale i due o più individui contemporaneamente, al qual lume veggiamo che la realizzazione di due è più che la realizzazione di uno. Così si originano le idee de' numeri , riferendo all' essere ideale più enti contemporaneamente; ben inteso che sopravviene poi l' astrazione (attenzione riflessa limitata a certi elementi osservabili dell' ente), la quale cava i numeri puri . Ma se due enti percepiti si riconoscono differenti non solo perchè si percepiscono con diverse percezioni contemporanee, ma ben anco perchè hanno qualche diversità fra loro o nel modo o nella quantità della loro realizzazione, in tal caso si riconoscono differenti di specie, o, se la specie è la medesima, differenti per qualche diversità accidentale. Il modo diverso della realizzazione costituisce la diversità di specie: la quantità o anche l' attualità diversa è cagione di differenze accidentali. Quando adunque noi riferiamo all' essere universale la percezione dei corpi e di noi stessi, e quindi paragoniamo gli oggetti delle due percezioni, allora troviamo i rapporti di limitazione scambievole fra l' uno e l' altro, e il nostro spirito aggiunge le negazioni e le distinzioni. Allora il mondo corporeo si potrà chiamare un non7io (benchè il concetto dell' io è molto più complicato; ma non vogliamo qui entrare a spiegarne minutamente la formazione); allora si potrà dire, che l' io e il non7io si limitano scambievolmente, e insieme colla percezione dell' io negheremo il corpo, insieme colla percezione del corpo negheremo l' io. Sarà poi necessario, che sopravvenga una riflessione, qualora dal finito intenderemo di argomentare all' infinito. Converrà, che l' attenzione della mente non si fermi più a ciò che hanno di proprio l' io e il non7io; ma piuttosto che consideri ciò che hanno di comune, cioè la limitazione, e dal pensiero del limitato, del contingente ecc. ascenda all' illimitato, al necessario ecc.. Dunque per ascendere al pensiero dell' illimitato, del necessario, dell' assoluto, io non ho bisogno delle due percezioni, ma posso ascendervi ugualmente partendo da ciascuna di esse; perchè ciascuna è limitata, ciascuna contingente, ciascuna relativa. Dunque quell' atto della mente con cui ascendo all' infinito, non è la prima percezione; neppure è quella riflessione con cui paragono la percezione dell' io alla percezione del non7io; ma è una riflessione con cui dai limiti dell' io, o dai limiti del non7io mi slancio ugualmente nell' infinito. Le relazioni adunque degli enti percepiti si conoscono colla riflessione , riferendoli all' ente universale, e avvertendo quanto alla sua pienezza s' accostano, e quanto dalla sua pienezza si discostano. Così è discoperto il fonte di tutti i ragionamenti e il principio supremo sul quale essi si fondano. Se noi vogliamo formolare questo principio, esso si ridurrà al seguente: « Conoscendo lo spirito umano l' essenza dell' ente, egli afferma l' ente nel sentimento; e poscia paragonando e riferendo l' ente affermato all' essenza dell' ente, conosce le sue condizioni, i suoi limiti, le sue relazioni: e quindi mediante nuove riflessioni, riferendo medesimamente all' essenza dell' ente le cognizioni avute, ne cava sempre di nuove. » Fermiamoci a considerare le condizioni degli enti percepiti. Le condizioni alle quali sussistono gli enti reali, sono di due maniere: quelle che cadono nella percezione , e quelle che si rilevano col ragionamento . Per condizioni che cadono nella percezione intendo quelle che rendono l' ente reale atto ad essere percepito. A queste condizioni appartiene il principio di sostanza , che ora noi dobbiamo spiegare. Vedemmo, che in ogni sensione corporea da noi acquistata cadono tre attività: 1 l' attività che ci modifica, 2 la modificazione nostra, e 3 noi stessi modificati. La prima attività è l' oggetto della percezione del corpo: la terza attività è l' oggetto della percezione di noi stessi: riman dunque a considerarsi la seconda attività, la modificazione nostra, che è la sensione medesima. La sensione o modificazion di noi stessi è certo quella che stimola la nostra attenzione intellettiva a percepire i corpi e noi stessi. Ma pure la sensione nostra non è il corpo che la produce. Neppure ella è noi stessi. Che cosa è dunque? La percepiamo noi? Se noi ne consideriamo la natura, ben veggiamo che ella è un atto passivo del nostro sentimento; e che noi stessi siamo un sentimento suscettibile di varie modificazioni. Noi veggiamo ancora, che questa modificazione di noi7sentimento è prodotta dall' azione d' un agente esterno. Ma tutte queste cognizioni intorno alla sensione noi le abbiamo ora per via di riflessione : non cade ella dunque nella percezione? Anche qui è da esaminarsi il fatto per non inventare a capriccio, ossia fingerci la natura delle cose. Ora il fatto ci dice, ch' ella non ci cade e non ci può cader sola . E veramente che cosa è la percezione se non l' affermazione di un ente reale? Ora la sensione sola è ella forse un ente? No certo. Ella non è se non una certa attualità passiva o qualità di un ente. Quindi è, che in occasione delle sensioni noi non percepiamo giammai la sensione sola; percepiamo noi stessi che siamo un ente, e solo unitamente a noi percepiamo la sensione come una modificazione di noi stessi. Quindi si può sciogliere la questione non poco difficile che movono i filosofi; se la percezione degli enti si faccia immediatamente, o per via di ragionamento . La risposta che noi diamo si è, che la percezione degli enti si fa immediatamente, cioè mediante un semplice giudizio , senza ragionamento alcuno. Ma dopo di ciò noi diciamo, che la nostra riflessione che sopravviene, scioglie la percezione in un ragionamento che è creato dalla riflessione stessa, e che non entra a dir vero nella percezione, ma che fa sì, che noi ci persuadiamo, essersi operato un secreto ragionamento nell' atto del percepire, benchè veramente ciò non sia. Il ragionamento nel quale la riflessione traduce la percezione di noi stessi, si è il seguente: Quando lo spirito umano riceve una sensione, tosto s' accorge che v' ha una realità. Ma la realità è sempre un' entità che dee appartenere ad un ente. Ora la mera realità della sensione non è ella stessa un ente. Dunque se v' è questa realità che non può appartenere che ad un ente, ed ella stessa non è un ente, necessariamente dee sussistere un ente a cui essa appartenga, di cui sia un' attualità. Dunque sussiste l' ente. Tale è il ragionamento che sembra formarsi in ogni percezione; ma propriamente parlando esso non è che l' opera della riflessione, che vi pone del suo senza accorgersi. In fatti la percezione è affermazione di un ente. Dunque non v' è percezione se non quando lo spirito ha detto a se stesso che v' ha un ente, ha proferita l' ultima delle proposizioni dell' esposto ragionamento: sussiste l' ente. Le precedenti proposizioni sarebbero adunque precedenti alla percezione. Ma avanti la percezione non si dà ragionamento alcuno; poichè il pensare umano intorno alle realità comincia colla percezione. Dunque l' accennato ragionamento non appartiene propriamente alla percezione, ma è l' opera della riflessione. Come adunque accade la percezione? forse alla cieca? No certamente; anzi in piena luce: tostochè l' uomo sente modificato se stesso, pronunzia l' esistenza di se stesso, perchè altro egli non può pronunziare che l' esistenza di un ente: la prima cosa che vede lo spirito umano, data la sensione, è l' ente in cui sta la sensione, l' ente modificato: prima di percepir l' ente, la sensione non è che sentimento: dato questo sentimento, l' uomo afferma direttamente il suo principio del sentimento, inseparabile dal sentimento, e così inseparabile, che il sentimento non può essere conosciuto come non può esistere senza di lui, che è l' ente nel quale è. Il sentimento adunque move lo spirito umano ad affermare, non il sentimento solo, ma l' essere in cui è il sentimento , e a percepire quindi l' ente e il sentimento nell' ente contemporaneamente. Questa necessità di percepire intellettivamente la sensione nell' ente senziente, e non la sensione sola, formolata in un principio generale, dicesi principio di sostanza , e può esprimersi così: Ogniqualvolta il sentimento è una realità che non costituisce da se sola un ente percettibile, la percezione intellettiva non si limita a quella realità, ma afferma l' ente a cui quella realità appartiene . La realità che non costituisce da se sola un ente percepibile, dicesi accidente; l' ente a cui quella realità appartiene, dicesi rispettivamente sostanza , in quanto è il sostegno prossimo dell' accidente, cioè ciò in cui si conosce e si afferma sussistere l' accidente. Prima di proceder oltre, rispondiamo ad una difficoltà accessoria, che qui può nascere ragionevolmente nella mente del lettore. Questi dirà: voi avete supposto che, date le sensioni, l' uomo percepisca se stesso e le sensioni sue come modificazioni di se stesso. Ma il fatto non va così. Il bambino alle prime sensazioni che riceve, percepisce i corpi piuttosto che se stesso; e le sue stesse sensioni egli attribuisce ai corpi, onde crede che i corpi sieno colorati, saporosi, sonori ecc.. Tale è certamente, rispondo io, il fatto del bambino; e questo stesso è riprova che nel bambino la percezione de' corpi, come ho già detto, precede la percezione di se stesso; ma il principio di sostanza rimane inconcusso. Appunto perchè il bambino non ha ancora la percezion di se stesso, egli è condotto dalla legge del suo intendimento, che ubbidisce al principio di sostanza, ad attribuire a' corpi le sue proprie sensioni; poichè in virtù di questo principio, egli non può percepire le sensioni senza attribuirle ad un ente. Non potendo adunque attribuirle a se stesso, perchè non si è ancor percepito, le attribuisce ai corpi, all' agente straniero, a questo agente che opera in lui e di cui percepisce la forza, l' attività, colà appunto dove sente, nelle stesse sue sensioni, le quali perciò difficilissimamente si posson dividere dall' agente che le produce, richiedendosi a ciò la più attenta riflessione. Si replicherà: dunque il principio di sostanza è fallace, inducendo l' uomo ad attribuire ai corpi come loro accidenti le sue proprie sensioni. Ma la cosa non va così: non è il principio di sostanza che induca l' uomo ad attribuire piuttosto ai corpi che a se stesso le sensioni. Questo principio obbliga solamente l' uomo ad affermare una sostanza, quando egli ha il sentimento degli accidenti, ma non ad affermare una sostanza piuttosto che un' altra. Tocca dunque all' uomo a mettersi in guardia, che la sostanza che afferma, sia quella propria degli accidenti. E se l' uomo commette errore, egli può correggerlo, perchè n' ha la facoltà. Così noi con un' attenta riflessione veniamo a conoscere più tardi, che le sensioni sono accidenti nostri e non accidenti de' corpi, benchè queste sensioni siano da noi sentite insieme e nello stesso luogo dei corpi, in quanto questi corpi sono agenti nel nostro sentimento, che è finalmente il solo concetto che di essi abbiamo. Or basta che noi abbiamo la facoltà di correggere gli errori nei quali incappiamo, perchè restino confutati gli scettici e assicurato a noi stessi il possesso del vero. Che cosa è dunque il principio di sostanza? Non altro che l' applicazione dell' idea dell' ente a quelle realità sentite che da se sole non bastano a formare un ente percettibile: è la legge della percezione. Ma la percezione è infallibile: dunque anche il principio di sostanza è infallibile. Noi diciamo che una data realità sentita, per se stessa non costituisce talora un ente percettibile. Per dir questo egli è necessario che noi sappiamo che cosa costituisca un ente percettibile. Il sapere che cosa costituisce un ente percettibile, è lo stesso che sapere che cosa sia l' essenza dell' ente che si afferma nel sentimento, e ciò noi sappiam per natura. Dunque il principio di sostanza non è altro che l' intuizione che abbiamo dell' essenza dell' ente applicata alle realità: noi possiamo affermarla, date certe realità (sostanze); non possiamo affermarla di altre realità (accidenti), se non unite a quelle prime: siamo guidati a ciò dalla stessa essenza dell' ente che non può essere realizzata in queste seconde senza le prime (il che ci dimostra che l' ente ha un ordine intrinseco). Ma l' intuizione dell' essenza dell' ente non ammette errore, è l' intuizione della verità stessa. Dunque il principio di sostanza non ammette errore, è vero essenzialmente. La condizione adunque della percezione si è che ella non può affermare nel sentimento, se non un ente. La riflessione ha troppe altre condizioni che ella tende ad avverare, ed una di queste condizioni si è il principio di causa , di cui pure dobbiam dimostrare la natura e la veracità. Già abbiam detto in che consiste la riflessione. Ella è un atto, col quale la mente considera gli oggetti della percezione o di riflessioni precedenti, in rispetto all' essenza dell' ente. Parliamo della riflessione di primo ordine, cioè di quella che si rivolge sugli oggetti delle percezioni, e non sugli oggetti di riflessioni precedenti. Quando la riflessione riferisce gli enti percepiti all' essenza dell' ente, allora vede quanto sono limitati, quanto poco prendono dell' essenza dell' ente, quanto loro manca ad avere in sè esaurita l' essenza dell' ente, vede che hanno l' essenza dell' ente, ma non sono questa essenza. Così anche discopre la loro mutua dipendenza; poichè la dipendenza che uno ha da un altro, non è che una specie di limitazione. Altro è dunque ciò che fa sì che gli enti contingenti e limitati sieno enti separati , distinti, altro è ciò che li rende indipendenti . Possono esser enti separati e distinti, quantunque sieno poi dipendenti. Quindi ciascuno di essi, come ente separato, può essere oggetto di una speciale percezione. La sua dipendenza non è l' oggetto della percezione, ma della riflessione. Allora quando si vede cominciare un essere che non esisteva prima, allora quando si vede cominciare una realità, un modo, un accidente nuovo, la riflessione del nostro spirito dice incontanente che dee esservi una causa che ha prodotto quell' ente, quella realità, quel modo, quell' accidente; e chiama effetto tale produzione. Considerando questa operazione dello spirito, si vede che il concetto e il nome di effetto è posteriore al nome di causa. E` solamente dopo che si è conosciuto che un dato ente non potrebbe esistere senza una causa, che egli riceve il nome di effetto. Che cosa vuol dire riconoscere che un ente ebbe una causa? Non vuol dir altro se non riconoscere che quell' ente (la sua essenza) non ha in se stesso la propria sussistenza, e però gli viene di altronde. Venire la sussistenza di un ente non dall' ente stesso ma altronde, è lo stesso che avere una causa. Quando dunque si giudica che un ente dee avere una causa, altro non si fa se non riconoscere che l' ente per sua essenza non ha la sussistenza. Riconoscere che un ente (o una realità spettante ad un ente) non ha la sussistenza per sua propria essenza non è altro che confrontare l' ente reale percepito coll' essenza dell' ente, il che è l' opera, come dicevamo, della riflessione. Una delle condizioni adunque, alle quali opera la riflessione, una delle sue regole impreteribili si è il principio di causa. Dal detto risulta ancora che il principio di causa non è che un' applicazione che fa la riflessione dell' idea dell' essere ad un ente percepito, mediante la quale applicazione rileva, che l' essenza dell' ente percepito non ha in sè la sussistenza, la quale gli viene d' altronde. Dunque il principio di causa è per se stesso infallibile, perchè l' oggetto della percezione è immune da errore, e l' essenza dell' ente a cui lo confronta, è la stessa verità; e altro non trattasi se non di riconoscere, se nell' essenza dell' ente percepito sia compresa o no la realità. Dire che l' essenza di un ente non comprende la sua sussistenza, è quanto dire che l' ente percepito non ha la ragione del proprio esistere in se medesimo, e che è contingente . Col principio di causa l' uomo percorre la serie delle cause seconde; ma poichè le trova tutte contingenti, egli non può fermarsi in esse: la sua riflessione non riposa, se non giunge ad una causa prima, nell' essenza della quale sia compreso il sussistere, e questa è Dio. Il principio di causa che così si svolge e giugne all' ultima sua operazione, fu anche detto da noi principio d' integrazione . L' umanità tutta intiera, per un bisogno della riflessione intelligente, usa del principio d' integrazione con gran celerità, percorre le cause seconde in globo, e per un istinto razionale irresistibile giugne alla cognizione di Dio. Perciò l' esistenza di Dio fu ammessa in tutti i tempi, da tutti i popoli del mondo. La riflessione è guidata ancora da altri principii: ma ogni sua operazione finalmente si riduce al confronto che ella fa di un oggetto conosciuto coll' essere ideale, per vedere quanto e in che modo partecipa dell' essenza dell' essere, e quanto ne ha difetto. Quindi ogni riflessione per se stessa è un istrumento idoneo alla verità, perchè ha per misura delle cose tutte e per tipo la verità. Dimostrata così l' efficacia dell' umano ragionamento, la logica dee insegnarne l' arte. L' arte di ragionare fa sì primieramente che si evitino gli errori; e in secondo luogo, che si giunga con ragionamento a quello scopo che si propone. Si evitano gli errori, quando si procede in modo che la mente nulla affermi gratuitamente, ma la facoltà della persuasione sia sempre guidata dalla ragione , di maniera che ciò che l' uomo dice a se stesso sia sempre per via di puro ragionamento , senza che intervenga l' arbitrio. A questo tendono le quattro regole cartesiane del metodo. Lo scopo che s' intende di ottenere col ragionare è triplice, perchè si può ragionare: 1 per dimostrare la verità e difenderla; 2 per ritrovare nuove verità; 3 per insegnare la verità ad altri. Quindi tre metodi, il metodo dimostrativo , il metodo inquisitivo o inventivo, e il metodo didascalico , ciascuno de' quali ha le sue speciali regole. Il metodo dimostrativo usa di varie forme d' argomentare, ma tutte si riducono a quella del sillogismo. L' artifizio del sillogismo consiste in far vedere che la proposizione che si vuol dimostrare, è già contenuta in un' altra proposizione o evidente, o almeno certa. Il sillogismo si compone di tre proposizioni, l' ultima delle quali si chiama la conclusione o la tesi, e si chiamano premesse le due precedenti. L' una delle due premesse contiene implicitamente la tesi, e l' altra prova che veramente la contiene. La proposizione che si vuol dimostrare esser contenuta nell' altra dee avere identico con questa o il subietto o il predicato. Se il subietto è identico nelle due proposizioni, basta dimostrare che il predicato della tesi è contenuto nel predicato della proposizione assunta. Se è identico il predicato, basta dimostrare che il subietto della tesi è contenuto nel subietto della proposizione assunta. A dimostrare che il predicato o il subietto della tesi è contenuto nel predicato o nel subietto della proposizione assunta, si prende un concetto, che si chiama termine medio, e si mostra che questo s' identifica coll' uno e coll' altro predicato, ovvero coll' uno e coll' altro subietto; con che è dimostrato, che i due subietti pure, ovvero i due predicati s' identificano pel principio: « che due o più cose uguali ad una terza sono uguali fra di loro. » A vedere se un sillogismo sia efficace o abbia qualche vizio, si può applicare questa regola universale: « Il termine medio dee essere d' una comprensione almeno pari a quella del predicato, e d' una estensione almeno pari a quella del subietto della tesi. » Quando non si trova un solo termine medio, che si possa identificare coi due subietti o coi due predicati, se ne può prendere due o più, i quali s' identifichino fra di loro, e il primo d' essi s' identifichi con uno de' due predicati o de' due subietti, e l' ultimo di essi s' identifichi coll' altro de' due predicati o de' due subietti. Allora invece della seconda premessa si ha due o più proposizioni; forma che si chiama sorite . Le premesse devono esser certe acciocchè la conclusione sia necessaria e quindi v' abbia dimostrazione. Se sono soltanto probabili, la conclusione è pure probabile; se sono ipotetiche, tale è pure la conclusione. La dottrina della probabilità è importantissima e moltiplice. Il metodo inquisitivo della verità insegna la maniera di attignerla ai diversi fonti che sono in potere dell' uomo e che si riducono sommariamente a tre: 1 l' autorità e la tradizione; 2 l' osservazione e l' esperienza; 3 il raziocinio; ciascuno dei quali fonti si suddivide in molti. La maniera di applicare le diverse facoltà umane a questi fonti di notizie per attignerle pure ed abbondanti, e la maniera d' adoperare certi mezzi esteriori, che dirigono ed aiutano le facoltà, somministrano una abbondantissima materia a questa parte della logica. Il metodo didascalico è generale o particolare, secondo che contiene i principŒ generali che dirigono quelli che vogliono comunicare altrui la verità, o le regole particolari per insegnare le speciali scienze. Ciascuno de' tre metodi ha un principio supremo che lo dirige. Il principio del metodo dimostrativo è: « data una proposizione certa, è certa anche quella che in essa è implicitamente contenuta. » Il principio del metodo inquisitivo è: « l' idea dell' essere che è il lume della ragione applicato a' nuovi sentimenti, e a notizie già ricevute nel debito modo, produce all' uomo nuove cognizioni. » Il principio del metodo didascalico è: « le verità che si vogliono insegnare, si dispongano in una serie ordinata in guisa, che quelle che precedono, non abbiano bisogno per esser intese di quelle che seguono. » L' Ideologia e la Logica furono da noi dette scienze d' intuizione , perchè trattano del mezzo di conoscere, che è l' essere ideale che s' intuisce. L' uomo, venuto in possesso del mezzo di conoscere, rimane che lo applichi agli enti diversi, e ne cerchi le ultime loro ragioni. Ma la prima di tutte le applicazioni che l' uomo possa fare del mezzo di conoscere agli enti, è mediante la percezione. Conciossiachè se l' intelletto ha per unica sua funzione l' intuire , le funzioni della ragione umana si riducono a queste due percepire e riflettere . Ora l' uomo non può riflettere su cosa alcuna che riguardi gli enti reali, se la percezione non gliene somministra la materia. Tutte le scienze astratte non possono adunque esser legittimamente cavate, se non da ragionamenti , che abbiano per materia gli enti percepiti. Ora, quali sono gli enti che si possono percepire dall' uomo? Tutti quelli e quelli soli, che cadono nel suo sentimento, dove egli trova la realità: se stesso, e il mondo esterno. Le scienze filosofiche adunque di percezione, sono la Psicologia e la Cosmologia . La dottrina cristiana c' insegna, che l' uomo per una comunicazione graziosa riceve anche il sentimento di Dio, col quale egli viene levato all' ordine soprannaturale. La scienza che tratta di questa percezione deiforme, è da noi detta Antropologia soprannaturale: ella eccede i confini della semplice filosofia. PSICOLOGIA. - La Psicologia è la dottrina dell' anima umana. Essa fa tre cose: 1 dichiara qual sia l' essenza dell' anima; 2 descrive il suo sviluppo; 3 ragiona dei destini dell' anima. L' essenza dell' anima si conosce per via di percezione. Se l' anima non si sentisse , non si potrebbe percepire: ma questo è un fatto primitivo, da cui muove il ragionamento dell' anima, che ciascuno sente e percepisce l' anima propria. Lo stesso fatto, enunciato in tutta quella estensione in cui lo porge l' esperienza e la ragione della cosa, è, che senza sentimento nulla si percepisce. In fatti i corpi stessi non si percepirebbero dall' intendimento, se prima non fossero sentiti. Ma fra il sentimento de' corpi e quello che ha ciascuno dell' anima propria, v' ha una gran differenza; chè i corpi si sentono come una cosa straniera, e l' anima come una cosa propria, anzi come noi stessi: i corpi si sentono dall' anima e l' anima si sente da se stessa e per se stessa. Da questa osservazione si ricava tosto una prima definizione dell' anima: perocchè se l' anima si sente per se stessa; dunque ella è per essenza sua sentimento, poichè è il solo sentimento che si sente per se stesso, e se i corpi si sentono dall' anima, e l' anima si sente per se stessa, l' anima è il principio di sentire: « l' anima dunque è un principio di sentire insito nel sentimento. » Ma l' anima umana non sente solamente, ma anche percepisce intellettivamente, percepisce i corpi sentiti, e percepisce se stessa. L' anima umana dunque è un principio ad un tempo sensitivo ed intellettivo. Questo principio sensitivo quando pronuncia se stesso, adopera il vocabolo IO. L' IO dunque è un vocabolo, che esprime l' anima, ma la esprime in quanto pronuncia se stessa, e quindi non l' anima pura, ma l' anima vestita di certe relazioni con se stessa, l' anima in uno stato di sviluppo. Volendo dunque formarci il concetto dell' anima pura, conviene meditare ciò che si contiene nell' IO, e separare nello stesso tempo tutta quella parte che si riconosce come sopraggiunta ed acquisita colle operazioni dell' anima stessa. In questo senso l' IO è il principio e il subietto della Psicologia. Procedendo per questa via il Psicologo, trova coll' aiuto dell' Ideologia una definizione più compiuta dell' anima umana, che si può esprimer così: « L' anima umana è un soggetto o principio intellettivo e sensitivo, che ha per sua natura l' intuizione dell' essere, e un sentimento, il cui termine è esteso; e certe attività conseguenti all' intelligenza ed alla sensitività. » Dalla quale definizione, che ne esprime l' essenza, si deducono le sue proprietà, delle quali sono nobilissime le seguenti: 1) La semplicità , la quale si prova da questo appunto, che l' anima è un principio unico e immune dallo spazio, perchè l' identico principio che sente, è anche quello che intende: perchè l' atto del sentire in opposizione all' esteso sentito, esclude l' estensione per la medesima opposizione: finalmente perchè il principio intelligente riceve la forma dall' idea, cosa immune affatto dallo spazio e dal tempo. 2) L' immortalità , la quale si prova: 1 dall' esser l' anima il principio che dà la vita al corpo; ora l' anima essendo quella che dà la vita, è vita ella stessa; perciò non può cessar d' esser vita se non coll' annullamento, onde da se stessa non può morire, è per sè immortale; e 2 perchè la forma dell' anima intelligente è l' idea eterna ed immutabile. E` vero che, essendo l' anima di natura contingente, potrebb' essere annullata, ma ciò non potrebbe fare che Dio, il quale solo ha virtù di creare e quindi anche d' annullare. Ora Dio niente annulla di quanto ha creato, ripugnando ciò a' suoi attributi, come si dimostra nella Teologia naturale . Abbiamo detto che l' anima è un principio intellettivo e sensitivo, che ha per natura l' intuizione dell' essere e un sentimento il cui termine è esteso. L' essere intuito dall' anima è del tutto indeterminato; quindi, qualora ella non avesse che questo solo, non potrebbe avere alcuna cognizione di cosa determinata, e il suo sviluppo intellettivo sarebbe stato impossibile, non per mancanza di potenza, ma per mancanza di materia. Il creatore vi provvide, dando all' anima quel sentimento il cui termine è l' esteso, dandogli lo spazio ed un corpo. Quel sentimento dell' anima, che ha un termine ossia un sentito esteso, termine che subisce diverse modificazioni, somministra dunque all' anima la materia prima di tutte le sue operazioni intellettive, dalle quali ella poi trae tutte le sue cognizioni: quindi lo svolgersi dello scibile umano. E` dunque un errore quella sentenza di Platone, che considerava il corpo come un impedimento al volo dell' anima: egli è anzi, considerato per sè, lo strumento dello sviluppo e del perfezionamento della medesima. Ma la sentenza di Platone ha la sua verità, se, invece di applicarla alla natura del corpo, s' applica alla corruzione entrata nell' animalità colla prima colpa. Consideriamo ora più attentamente questo termine esteso. Egli è duplice, lo spazio ed il corpo , che è una forza che si diffonde in una parte limitata dello spazio. Lo spazio per sè è immobile, semplice, illimitabile, indivisibile. Ma il corpo è mobile, limitato, divisibile e quindi anche composto. Mediante queste varietà, che subisce di continuo il corpo, accade una continua variazione del termine del sentimento, e quindi la moltiplicità immensa delle sensazioni e delle percezioni, e l' abbondanza della materia prima data all' umano conoscimento. Ma qui nasce da sè la questione, come un sentito esteso possa darsi all' anima, la quale è un principio semplice. E prima di risolvere questa questione, conviene osservare, che i due estremi della proposizione, cioè, che l' anima sia un principio semplice e che essa abbia per termine del suo sentire un esteso, sono un fatto indubitabile; onde, quand' anche l' uomo non potesse giungere a intenderne il come, non per questo se ne potrebbe negare la verità, ma converrebbe confessare anche qui uno di que' molti misterŒ, in cui o niuno degli uomini o pochi sanno penetrare. Venendo dunque alla questione del come, e non parlando che de' corpi, egli è manifesto che quel fatto che si deve spiegare, è duplice anch' esso, perchè l' uomo sente due maniere di corpi ben distinte: sente in primo luogo quel corpo, ch' egli chiama suo proprio, e che l' anima accompagna sempre, in qualunque luogo dello spazio esso si trasporti; e sente i corpi diversi dal suo, ma questi li sente appunto come stranieri; e li sente, perchè modificano con violenza il corpo suo proprio, che solo è continuamente sentito. Qualora dunque fosse spiegato, come l' anima sente continuamente il corpo suo proprio, non sarebbe più tanto difficile a spiegare, come senta i corpi esterni, che modificano lo stesso corpo suo proprio. Infatti è da osservarsi la maniera con cui il principio sensitivo sente il corpo suo proprio. Egli nol sente con una semplice passività, ma con una passività mescolata di molta azione, non solo perchè il sentimento è un atto del principio senziente, e un atto continuo rispetto al corpo suo proprio, ma perchè di più è un atto così potente, che per mezzo di esso il principio senziente, cioè l' anima, modifica ed atteggia continuamente il proprio corpo, e produce in esso molti movimenti e cangiamenti; e il corpo suo proprio come inerte, subisce quest' azione del principio sensitivo, nella quale consiste l' intima unione del detto principio con esso corpo. Ciò posto s' intende come, se in quel corpo, che è in podestà dell' anima, nasca un cangiamento indipendente dall' anima, ed anzi opposto alla sua continua azione, ella senta un contrasto, una violenza, e questo è quanto dire sente un corpo straniero. Dal qual fatto si può raccogliere un principio ontologico, ed è, che un principio senziente oltre il sentire suo proprio e spontaneo, sente anche e riceve in sè una forza straniera, che si oppone all' azione sua istintiva e spontanea, e anche l' aiuta, e ciò senza perdere punto della sua semplicità. Quando poi sia stato spiegato come l' anima senta in sè qualche cosa di straniero a se stessa, il che è quanto dire un' attività, che lotta contro la sua propria, ovvero anche, che stimola la sua propria, allora non sono più difficili a spiegarsi le qualità seconde de' corpi esterni, quali sono i colori, i sapori, gli odori ecc.. Perocchè tutte queste cose appartengono al corpo proprio dell' anima in quanto è termine del suo sentire, e non rimane altra difficoltà, che quella dell' estensione de' corpi; rimane cioè la sola questione che abbiamo prima proposto, come l' anima, essendo un principio semplice, possa aver per termine l' estensione. Ora questa questione, quando si consideri intimamente, non presenta più quella ripugnanza che dimostra nell' apparenza, ed anzi si prova che non può esser altro che così; di maniera che se n' ha infine questo risultato, che « l' esteso continuo non può esistere che in un principio semplice, come termine del suo atto. »Perocchè se così non fosse, non ci sarebbe una ragione della continuità delle parti, che si possono assegnare in tale esteso, giacchè l' esistenza di una parte finisce in lei, e non contiene la ragione dell' altra parte che gli sta aderente. La ragione del continuo non istà dunque nelle singole parti, ma in un principio che abbraccia tutte le parti insieme, e questo semplice. Oltrediciò, le parti stesse, delle quali si supponesse formato il continuo, svanirebbero davanti a chi le cercasse, perchè, essendo l' esteso divisibile all' indefinito, non si possono trovar mai le prime parti, anzi al tutto non esistono. Non è dunque possibile considerare il continuo come un aggregato di parti, eppure ciascuna parte in esso assegnabile col pensiero, è fuori dell' altra, e ha un essere indipendente dall' altra. Convien dunque che tutto insieme il continuo esista con un atto solo nel semplice che lo sente. Proseguendo le ricerche su questa via si riesce ai seguenti risultati: 1 Che il principio senziente, ossia l' anima sensitiva, ha per suo primo termine l' estensione pura, ossia lo spazio immisurato . 2 Che ha per suo secondo termine una forza limitata diffusa nello spazio, la quale perciò è una misura limitata dello spazio, che non rimane tuttavia scisso o discontinuo. Questo è il corpo proprio dell' anima, che viene da lei informato, ed è la sede di tutti i suoi sentimenti corporei. 3 Il corpo proprio dell' anima è sentito da lei con un sentimento fondamentale e sempre identico, benchè sia suscettivo di variazioni ne' suoi accidenti. Il corpo proprio sentito con un tal sentimento fondamentale non ha ancora distinti confini, e perciò non ha figura distinta nel sentimento dell' anima. 4 Questo corpo viene modificato dall' azione di altri corpi esteriori e stranieri all' anima, e queste modificazioni in quanto sono sentite si chiamano sensazioni esterne e sono di diverso genere, secondo i varŒ organi del corpo. Ma tutte queste sensazioni presentano un sentimento esteso solamente in superficie, e mediante queste sensazioni superficiali, il corpo proprio acquista dei limiti ed una figura determinata sentita dall' anima. 5 Il corpo proprio, come pure i corpi esteriori, occupano una sola parte dello spazio, e si possono muovere in esso, cioè cangiar di luogo. Questi movimenti diventano la misura di altrettante parti dello spazio e così si presenta al sentimento, date certe condizioni, uno spazio misurato , che può essere sempre più ingrandito indefinitamente, giacchè v' ha un' indefinita possibilità di movimento. Il principio sensitivo, rispetto al primo de' suoi termini, cioè allo spazio immisurato, non esercita alcuna attività, se non quella di semplicemente averlo per termine senza potergli cagionare alcuna modificazione. Ma rispetto al suo secondo termine, cioè al corpo proprio, egli non è soltanto ricettivo o passivo, ma ben anco attivo; e questa passività e questa attività, reciproca e moltiplice, è diretta da mirabilissime leggi. In quanto il principio, ossia l' anima sensitiva è passiva, si suol dire che è dotata della facoltà di sentire, ossia della sensitività ; in quanto poi è attiva, si suol dire che è dotata dell' istinto . Il primo atto dell' istinto è quello che produce il sentimento, e dicesi istinto vitale ; ma ogni sentimento, suscitato nell' anima, vi produce una nuova attività, e questa seconda attività, che succede ai sentimenti, si chiama istinto sensuale . Mediante questi principŒ, cioè, 1 l' istinto vitale, 2 la sensitività, 3 l' istinto sensuale, si spiegano mirabilmente i fenomeni fisiologici, patologici, e terapeutici dell' animale: onde ha origine la medicina. L' unione del principio animale col suo termine corporeo è così intima, che non si concepisce il principio senza il termine, nè il termine senza il principio; e però quantunque l' uno non sia l' altro, l' uno anzi sia opposto all' altro, tuttavia formano un ente solo, un solo animato, e quando del termine si fa un ente a parte e intieramente separato, non si ha per risultato che un prodotto dell' astrazione. Tuttavia conviene nel termine dell' animale distinguere tre cose, che danno luogo a tre specie di sentimenti: 1 il continuo corporeo , termine del sentimento dell' esteso corporeo ; 2 il movimento intestino degli atomi, o delle molecole, o delle parti dell' esteso corporeo, termine del sentimento d' eccitazione ; 3 la continuazione armonica del detto movimento, termine del sentimento organico . Ora il principio sensitivo può esser privo delle due ultime maniere di sentimento, ma non della prima. Se egli ha soltanto la prima e la seconda maniera di sentire può dirsi animato , ma non animale: il carattere distintivo dell' animale è il sentimento organico, al quale è necessaria una congrua organizzazione. Si può dunque dire che l' animale muore, ma l' animato non muore. Nulladimeno questo subisce delle mutazioni essenziali rispetto alla sua individualità. Le quali si riassumono nelle seguenti leggi: 1 Ogni esteso continuo ha un solo principio sensitivo del continuo. - Dal qual principio procede che qualora più atomi vengano al contatto in modo da formare un solo continuo, i principŒ sensitivi s' unificano, riducendosi in un solo, che ha in sè l' attività di tutti i precedenti non distrutta ma accentrata, e quando il continuo si spezza in più continui, il principio si moltiplica in più principŒ sensitivi. Qui non v' ha divisione o composizione , ma unicamente moltiplicazione e unificazione . 2 Che se il movimento intestino in un dato continuo è parziale, il principio del continuo rimane uno, ma i principŒ del sentimento eccitato si moltiplicano quanti sono i sistemi di movimenti continui. 3 Che se il movimento armonico intestino nelle parti d' un continuo, abbraccia tutto il continuo, v' ha un solo principio senziente di quest' unica armonia, ma se i sistemi de' movimenti armonici nello stesso continuo sono più, v' hanno più principŒ senzienti, cioè tanti quanti sono que' diversi sistemi, benchè tutti abbiano per base, ossia per primo atto, il principio, che abbraccia tutto il continuo. Ma l' anima umana non è soltanto sensitiva, ma ancora intellettiva. Ella è un principio intellettivo e sensitivo ad un tempo. In quanto è un principio sensitivo ha per termine il proprio corpo; ma poichè il principio intellettivo è unificato col sensitivo, di maniera che è un principio solo con due attività, perciò l' anima intellettiva e sensitiva, o in una sola parola l' anima razionale , ha per suo termine il corpo. In quanto è sensitiva, l' ha come termine sentito , in quanto è intellettiva, l' ha come termine inteso: il corpo dunque è un termine dell' anima umana sentito7inteso. V' ha dunque una percezione intellettiva del proprio corpo, primigenia ed immanente, e in questa percezione consiste il nesso fra l' anima umana ed il corpo. Così s' intende il reciproco influsso dell' anima e del corpo; perocchè qualunque realità che abbia natura di principio, è di natura sua attiva, e però agisce secondo certe leggi nel suo termine. Ma poichè per agire in esso, conviene che lo abbia per termine, e non lo può avere se non gli è dato, quindi anche il principio è ricettivo e passivo rispetto al termine, e a quella virtù che gli dà il termine e a quell' altra virtù che gli modifica il termine. Egli è dunque chiaro, che fra l' anima umana e il suo corpo vi ha un commercio o fisico influsso. Come poi il principio intellettivo e il sensitivo sieno un solo principio, non sarà del tutto impossibile il concepirlo, ove, per una semplice supposizione, si considerino prima separati, e poi si supponga che il principio sensitivo, indivisibile dal suo termine, sia dato a percepire al principio intellettivo, e si domandi, che cosa ne dovrà avvenire. Converrà rispondere che il principio intellettivo non potrà percepire il principio sensitivo, se non unendosi strettamente con lui, cioè percependo tutto quello che egli sente, chè la stessa natura del principio sensitivo risulta unicamente da quello che sente. Così i due principŒ diventano un principio solo senza che si distruggano le loro attività. Perocchè due principŒ non possono essere termini l' uno dell' altro, senza che l' uno, cioè il percipiente, acquisti l' attività del percepito; chè la percezione è un nesso fisico, e un' attività non può avere un nesso fisico con un' altra attività che sia principio, senza congiungere a sè la detta attività e il detto principio. Infatti un termine rimane separato dal suo principio unicamente per la loro diversa natura, cioè perchè il termine è esteso, e il principio è semplice; perchè il termine è oggetto, e il principio soggetto; ma se la natura è la stessa, e sono entrambi due principŒ soggettivi, non si può intendere altra congiunzione fisica se non questa, che il percipiente riceva o congiunga a sè l' attività dell' altro principio senziente da lui percepito. Nè viene già per questo, che le due attività si confondano in una terza, ma soltanto, che le due attività, restando distinte, acquistino un solo principio da cui incominciano, benchè l' una subordinata all' altra. Che se dal principio intellettivo, che è il percipiente, si distacca l' attività sensitiva, il che suol avvenire quando il corpo, termine di questo, si disorganizza, e quindi il suo principio sensitivo rimane senza il termine organato che gli è proprio, ond' egli vien meno, allora succede la morte dell' uomo. La Psicologia dopo avere così ragionato dell' essenza dell' anima e della costituzione dell' uomo, passa a ragionare del movimento e dello sviluppo dell' essenza medesima, che dirama la sua attività nelle diverse potenze ed operazioni. E venuta su questo argomento ella fa due lavori, l' uno analitico , col quale deriva dall' essenza dell' anima le facoltà, e distinguendole prima dalla stessa essenza, poscia tra loro e sempre più quasi rami d' un albero, che si moltiplicano quanto più si producono, le enumera e le definisce tutte ordinatamente; l' altro sintetico , col quale raccoglie le leggi , ossia i modi costanti di operare delle dette facoltà. Nel derivare le potenze dall' essenza stessa dell' anima si presentano inevitabilmente delle gravissime questioni ontologiche, a ragion d' esempio: « come si concilii l' unità dell' essenza, e la moltiplicità delle potenze »: - « in che modo v' abbia successione nelle potenze, e permanenza o immutabilità nell' essenza »: - « come l' essenza medesima possa sostenere diversi stati accidentali » - ed altre somiglianti. Mirabili poi sono le leggi colle quali opera l' anima, o immediatamente, o col mezzo delle sue varie potenze. E l' anima essendo una, e questa razionale, dal principio razionale in relazione co' suoi termini devono emanare tutte quelle facoltà che si dicono umane, e le leggi altresì del loro operare. Quindi altre di queste leggi sono psicologiche , e son quelle che procedono dalla natura stessa dell' anima come principio attivo; altre sono ontologiche , e sono quelle che vengono imposte all' anima umana dal suo termine superiore intellettivo, il qual termine è l' ente; altre finalmente sono cosmologiche , e son quelle che vengon imposte all' anima dal suo termine inferiore, cioè dal mondo sensibile. La suprema fra le leggi ontologiche è il principio di cognizione, che si esprime così: « il termine del pensiero è l' ente. » E` incredibile quanto sia feconda e meravigliosa questa legge nelle sue applicazioni. Le leggi cosmologiche altre sono quelle che presiedono al movimento, che dà il termine sensibile allo spirito umano, altre in quelle che determinano la qualità di questo movimento. Le prime si chiamano leggi della mozione , le seconde leggi dell' armonia . Le leggi psicologiche finalmente, cioè quelle che nascono dalla stessa forza dell' animo, si dividono in due classi, perchè altre rispondono alle ontologiche, altre rispondono alle cosmologiche. La Psicologia finalmente tenta di scoprire la destinazione dell' anima umana. Ma ella non può compire questa scoperta coll' uso della sola ragione naturale, ovvero col semplice esame della natura umana. Ella può bensì mediante quest' esame rilevare dove tenda questa natura, ma le rimane ignoto quel di più, che le ha destinato la gratuita liberalità e magnificenza dell' infinito Essere che la creò. Quel solo adunque che risulta dall' esame della natura umana è questo: la prima parte di questa natura è l' intelligenza, e l' intelligenza è fatta per la verità. La seconda parte di questa natura è la volontà, e la volontà è fatta per la virtù: con essa l' uomo aderisce alla verità, la ama in tutte le cose, e così ama tutte le cose secondo la loro verità. Ma questo amore che cerca soddisfarsi negli enti, secondo la verità, vorrebbe pienamente possedere quello che ama, e che gli è bene appunto perchè l' ama. Vi è dunque una terza parte nell' uomo, e questo è il sentimento in tutta l' estensione di questa parola. Il sentimento è una tendenza a godere. La volontà dunque che aderisce alla verità, e però che è virtuosa, la volontà che di conseguente ama tutti gli enti secondo la verità, desidera altresì che tutti questi enti le si dieno a godere, giacchè col godimento si compie il suo conoscimento e il suo amore di essi. Questo è quanto dire che cerca la felicità. Di che si raccoglie, che l' anima tende di sua natura ed è destinata alla sua perfezione, e che questa perfezione consiste nella piena vista della verità, nel pieno esercizio della virtù e nel pieno conseguimento della felicità, triplice fine, triplice destinazione, in cui si trova tuttavia una perfetta unità, poichè non ci può essere un solo di questi tre elementi in modo completo, senza che ci sieno gli altri due: la verità non è veduta ne' suoi intimi visceri, se non da chi l' ama e la gode; nessuno ama pienamente la verità negli enti in cui è attuata, senza che ce la veda e ne goda; nessuno ne gode pienamente ed è felice, se pienamente non l' ama, ed è virtuoso, e pienamente non la vede ed è sapiente. L' uno di questi tre beni implica gli altri due: non sono che tre forme d' un solo ed unico bene. Ma se dall' esame della natura umana risulta che questa è la sua destinazione, come l' uomo ci arriva? Qui ammutolisce l' umana ragione, anzi rimane confusa al vedere, che non trova mai nella vita presente uno stato dell' uomo, che corrisponda pienamente a quel fine, a cui aspira. Da una parte la natura delle umane potenze diligentemente investigata, e i voti incessanti del cuore umano, fanno conoscere alla ragione l' altissimo scopo, a cui è rivolta l' umanità: dall' altra la ragione medesima vede l' umanità in sulla terra ravvolta di continuo nell' ignoranza, ludibrio delle passioni e de' vizŒ, guasta dappertutto e da per tutto infelice; la vita fuggevole siccome un lampo, incerta sempre, sempre una lotta, sempre un sacrificio, la morte di tutti quelli che nascono, chiudere tutto questo dramma. A un tale spettacolo la ragione stessa vacilla, crede d' aver sognato, perde la confidenza in sè medesima. Finalmente quasi facendo uno sforzo si ristora con un' ipotesi consolante, quella della vita futura. Ma l' umana ragione non viene da Dio abbandonata nelle sue esitazioni. Ecco, Iddio rivela all' uomo il secreto della sua bontà creatrice: l' assicura che la teoria ispirata dal sentimento, trovata dalla ragione collo studio e la meditazione dell' umana natura, non mentisce e non l' inganna: sarà adempita, ad essa risponderà fedelmente il fatto in un modo ancor più sublime della stessa teoria: tuttociò, che si manifesta sopra la terra, come un ostacolo e come una smentita data alla ragione, rimane spiegato dalla manifestazione dell' intero disegno del Creatore: diventa in questo disegno un mezzo necessario ed una conferma di quanto insegnò la ragione medesima. L' ipotesi d' un' altra vita è convertita in certezza da una testimonianza infallibile. Quest' altra vita che non ha fine, in cui l' uomo più non muore, ha in se stessa tanta copia di beni e di mali da colmare tutte le disuguaglianze e correggere tutte le irregolarità della vita temporale: in questa stessa Iddio pose i segni di quell' ordine futuro ed eterno: consegnò all' uomo de' mezzi eccellenti e al tutto divini, coll' uso dei quali egli può, volendolo, conseguire quella sublime destinazione, che la ragione soltanto da lontano e imperfettamente indicava. Questa parte dunque della destinazione dell' anima e dell' intero uomo non può essere esaurita nella Psicologia, o nell' Antropologia naturale, ma in un' altra Psicologia o Antropologia, che attigne le sue dottrine dalla bocca di Dio medesimo. COSMOLOGIA. - Questa scienza è la dottrina del mondo. L' abbiamo posta fra le scienze di percezione, perchè sono oggetti di percezione lo spirito umano ed i corpi di cui si compone il mondo. Tuttavia nel gran sistema della creazione v' ha degli altri esseri che non cadono sotto l' esperienza sensibile, e s' inducono per ragionamento; tali sono gli spiriti puri, gli angeli. La cosmologia considera il mondo 1 nel suo tutto, 2 nelle sue parti, in quanto si riferiscono al tutto, 3 nel suo ordine. La cosmologia come dottrina del tutto contingente, tratta 1 della natura dell' essere reale contingente, 2 della sua causa. L' essere contingente non ha in se stesso la ragione della propria esistenza, quindi esige una causa; e poichè niuna parte dell' essere contingente, nè sostanziale nè accidentale, ha in sè la ragione della propria esistenza, quindi esige una causa creatrice: l' essere contingente è dunque tratto ogni istante dal nulla. Altra prova della creazione del mondo si ha dall' analisi della percezione; la quale analisi ci mostra, che tutto ciò che cade nel sentimento (noi stessi e il mondo), non potrebbe esser percepito, il che è quanto dire non sarebbe ente, se la mente stessa non lo vedesse unito all' essenza dell' ente: onde è questa essenza che gli dà l' atto dell' essere quasi a prestito; lo crea. Nella coscienza di noi stessi e di ogni nostra sensione o percezione troviamo una terza prova che l' ente contingente è creato, perchè noi sentiamo di sussistere, ma non sentiamo la forza che ci fa sussistere; perciò sentiamo di non sussistere per noi stessi. La natura dell' essere contingente maggiormente si illustra coll' esposizione delle sue essenziali limitazioni . Dallo studio di queste procedono importantissimi corollarŒ, un de' quali si è la dottrina intorno alla possibilità del male. Dalla dottrina delle limitazioni essenziali dell' universo, la scienza passa a quistioni più elevate. I creabili, ossia i possibili esistono distinti in Dio? e se no, come vengono distinti fuori di Dio? sono essi finiti ovvero infiniti? onde fu mosso Iddio a creare? Egli è impossibile dare una compendiosa esposizione di sì alte questioni colla soluzione delle difficoltà ch' esse ingenerano nella mente. La seconda parte della cosmologia distingue le parti dell' universo, 1 in ispiriti puri, 2 anime, 3 corpi; e tratta di ciascuna di queste parti considerate come parti dell' universo. Finalmente nella terza, in cui si parla dell' ordine dell' universo, si vengono esponendo le leggi cosmiche cioè universali a tutte le cose contingenti; e quindi si compie il discorso, incominciato già nelle parti precedenti, intorno alla bontà del mondo ed a' suoi destini. Ma questi soli cenni bastevolmente dimostrano che la Cosmologia non si può trattare compiutamente, separandola dall' Ontologia e specialmente dalla Teologia. Imperocchè come si può trattare della natura dell' ente in quant' è contingente e limitato, senza trattare ad un tempo o aver trattato dell' ente necessario e illimitato? Come si può trattare della maniera, in cui il mondo cominciò ad esistere, se non si tratta della natura e dell' operare del suo autore? Come si possono intendere le cose in quanto sono temporanee, senza l' intendimento delle cose eterne? Come si può dar ragione degli atti transeunti, senza ricorrere agli atti immanenti? Noi dunque riputiamo impossibile il fare della Cosmologia una scienza compiuta stante da sè; ma crediamo, ch' ella non possa esser altro che una parte d' un' altra scienza superiore, che dà la dottrina dell' ente, sia in astratto ed universale, e sia nel suo atto compiuto ed assoluto. L' intuizione somministra il mezzo del ragionamento; l' intuizione e la percezione somministrano al ragionamento la sua materia . Non si dà ragionamento che non prenda in fine la materia da questi due fonti. Le scienze d' intuizione e di percezione sono scienze di osservazione: osservano ciò che si presenta allo spirito da intuire, ciò che avviene nello stesso spirito, e ciò che avviene nel corpo in quanto egli è un agente nel sentimento. Su queste osservazioni si volge e si rivolge la riflessione, e seguendo la guida di que' principŒ che le somministra il lume dell' essere a cui riferisce ogni cosa, discopre nuove verità, e fin anco argomenta all' esistenza di enti che si sottraggono all' intuizione ed alla percezione. Le scienze filosofiche di ragionamento si dividono in due classi. Le une trattano degli enti come sono, e si dicono ontologiche; le altre trattano degli enti come devono essere, e si dicono deontologiche . SCIENZE ONTOLOGICHE. - Le scienze ontologiche sono due: l' Ontologia propriamente detta, e la Teologia naturale . ONTOLOGIA. - L' ontologia tratta dell' ente considerato in tutta la sua estensione come è all' uomo conosciuto; tratta dell' ente nella sua essenza e nelle tre forme in cui è l' essenza dell' ente, la forma ideale , la forma reale , e la forma morale . L' essenza è identica in tutte e tre queste forme; ma le forme sono distintissime fra loro ed incomunicabili. La forma ideale non può concepirsi senza l' essenza dell' essere, perchè ella è appunto essenza dall' essere, in quant' è conoscibile ; ma la forma reale si concepisce anche priva per sè dell' essenza dell' essere. In tal caso, la forma reale non acquista il nome di ente, nè d' oggetto, e non è concepibile se non perchè vi s' aggiunge l' essenza dell' essere, la quale le dà quell' atto di essere che le mancherebbe. Indi in parte si spiega l' origine dell' essere contingente, la creazione di quest' essere. La forma morale è il rapporto che ha l' essere reale con se stesso mediante l' essere ideale. In quanto l' ente è ideale , in tanto ha la proprietà di esser lume, e di essere oggetto . In quanto l' ente è reale , in tanto ha la proprietà di esser forza e di esser sentimento attivo e individuo, e quindi soggetto . Ma il principio senziente, ossia il soggetto, può avere per suo termine tal cosa che non è lui stesso, come sarebbe l' estensione e il corpo, e questo termine non è oggetto , e non è neppure soggetto , ed è fuori del soggetto, onde si chiama estrasoggetto . Ma questo estrasoggetto, come tale, ha un' esistenza solamente relativa al soggetto, di cui è termine. I modi dunque dell' ente reale sono due, il soggettivo , e l' estrasoggettivo . In quanto l' ente è morale , in tanto ha la proprietà di essere l' atto che mette in armonia il soggetto coll' oggetto, di esser virtù perfezionatrice, compimento del soggetto mediante l' unione e l' adeguamento all' oggetto7beatitudine dell' ente. Qualora gli enti limitati che cadono nella cognizione umana si vogliano classificare nel modo più sommario, tutti si riducono a queste tre ultime classi di enti ideali, enti reali , ed enti morali: di maniera che le tre primordiali forme dell' ente sono anche il fondamento delle categorie . Le categorie sono classi più estese di tutti i generi, e non sono generi e molto meno specie, poichè lo stesso ente che si divide in generi, e in ispecie, appartiene a tutte e tre le categorie. Quando si considera l' ente in tutta la sua estenzione, allora si scorge ch' egli ha un ordine interno , ammirando ed immutabile, di cui l' ontologia copiosamente ragiona. Da quest' ordine si raccoglie, fra le altre, la legge del sintesismo dell' ente ; la quale si manifesta in mille modi; ma principalmente mediante questa verità, che « l' ente non può esistere sotto una sola delle tre forme, se non esiste anche sotto l' altre due, quantunque al pensiero umano l' ente, anche sotto una sola forma, si rappresenti come stante da sè e percettibile in un modo distinto. » L' Ontologia non solo dà la teoria delle tre forme primordiali dell' ente e dell' identità dell' ente in esse, ma distribuisce l' ente medesimo identico sotto le tre forme in generi, specie e individui , e cerca la ragione di questa distribuzione ne' visceri dello stesso ente, colla quale investigazione va trovando in che modo l' ente sia suscettivo di limitazioni, e così spiana la via alla dottrina intorno all' origine dell' ente limitato e contingente, la quale appartiene alla Cosmologia. Ella medesimamente tratta delle proprietà essenziali all' ente, deducendole dal principio di cognizione: « l' ente è l' oggetto del pensiero », applicandolo al ragionamento, mediante quest' altro principio: « quando rimossa una data proprietà, l' ente non si può più pensare, quella proprietà gli è essenziale », che è il principio stesso di cognizione espresso in forma ontologica. Quindi deduce le proprietà ontologiche di cui deve necessariamente partecipare l' ente limitato e contingente, acciocchè sia possibile: dottrina anche questa necessaria alla Cosmologia. TEOLOGIA NATURALE. - Ma il pensiero umano non comprende totalmente l' ente come è in sè: di questo tratta la Teologia. La Teologia dunque è quella scienza che tratta dell' ente come è in sè, in quanto la mente nostra s' accorge che l' ente, oltre quella parte che a noi si manifesta, via più si stende: tratta in somma dell' Essere assoluto, di Dio. L' ente che cade naturalmente sotto l' intuizione dello spirito umano è illimitato, perchè è l' essenza stessa dell' ente, ma non è tuttavia l' ente assoluto, perchè l' intuizione non coglie l' essenza dell' ente, se non sotto una sola delle sue tre forme, sotto la forma ideale. L' ente che cade sotto la percezione dell' uomo non è che la realizzazione parziale dell' ente, realizzazione per sè distinta dall' essenza dell' ente; e il sentimento, materia della percezione, non è che la forma reale dell' ente, di maniera che l' intendimento è costretto, se vuol percepirlo, di comporlo insieme coll' essenza dell' ente, benchè quest' essenza non appartenga propriamente al sentimento contingente, come quella che è eterna. Dunque i materiali che ha l' uomo, su cui appoggiare il suo ragionamento, affine di cavarne una dottrina compiuta dell' ente, sono imperfetti e manchevoli. L' ente dunque nella sua totalità e pienezza non è dato naturalmente all' esperienza dell' uomo, e l' uomo non può sapere come egli sia , benchè egli possa sapere che è in una guisa travalicante l' umana intelligenza. Questa maniera di cognizione dicesi negativa , e tal è la cognizione spettante alla Teologia naturale che tratta dell' ente nella sua assolutezza, dell' ente non come è conosciuto all' uomo, ma come è in se stesso. La Teologia naturale dimostra primieramente l' esistenza di Dio, e ciò per molte vie, fra le quali, le principali si possono ridurre a quattro. La prima dall' essenza dell' ente che si intuisce; dimostrando, ch' ella non è nulla, ma è cosa eterna e necessaria. Ora non potrebbe esser tale s' ella non sussistesse identica anche sotto la forma di realità e di moralità. Ma l' essenza dell' ente è infinita; ed essa esistente sotto le tre forme è l' essere da ogni parte infinito, assoluto, Dio. La seconda dimostrazione dell' esistenza di Dio si trae dalla forma ideale . Questa forma ideale è luce che crea le intelligenze, ed è luce eterna, e oggetto eterno: dunque dev' esserci una mente, un soggetto eterno . Questa luce è illimitata: dunque questo soggetto dee avere una sapienza infinita, e il suo conoscere non dev' essere un atto transeunte, ma in lui tutto deve essere conosciuto per se stesso. Un soggetto che nello stesso tempo esiste come oggetto infinito , ha l' unione massima di lui coll' oggetto, onde è l' atto infinito della bontà o perfezione morale che costituisce la terza forma primordiale dell' essere. Quest' essere è dunque assoluto, è Dio. La terza dimostrazione si trae dall' essere reale percepito dall' uomo, ed è quella che abbiamo accennata, con cui la mente sale dal contingente al necessario, alla prima causa e ragione di tutto [104]. La quarta dimostrazione si deduce dalla forma morale conosciuta all' uomo. Infinita e insuperabile è l' autorità della legge morale, infinito il pregio della virtù e l' ignobilità del vizio. Questa forza obbligante, questa dignità del bene morale, non è nulla, dunque ella è eterna, necessaria, assoluta. Ma nulla sarebbe, se ella non esistesse in un essere assoluto. L' essenza della santità appartiene all' essenza dell' essere, di cui è l' ultimo compimento; come all' essenza dell' essere appartengono l' altre due forme. Vi ha dunque un essere assoluto, Dio. Dimostrata l' esistenza di Dio, la Teologia naturale deve occuparsi a determinare con precisione in che modo l' uomo possa, rimanendo nell' ordine della natura, conoscere Iddio. Ella dimostra che l' uomo non può conoscere Iddio, se non col ragionamento. Non potendo nè intuire nè percepire Iddio naturalmente in questa vita, si rende necessario il ragionamento a discoprirne l' esistenza. Ne discopre l' esistenza, come abbiamo veduto, paragonando l' uomo gli enti che intuisce e che percepisce coll' essenza dell' ente, ed osservando che essi non la esauriscono, e che dall' altra parte ella dev' essere esaurita, realizzata appieno, completata, e ciò per l' esigenza dell' essenza stessa dell' ente che noi intuiamo. Ma di quest' essere assoluto che non intuiamo, che non percepiamo, nulla possiamo sapere di più di quanto ci mostra la stessa esigenza dell' essenza dell' ente, oggetto dell' idea. Questo è il confine della cognizione che possiamo aver di Dio nell' ordine naturale: e perciò la cognizione nostra della divina natura si potrebbe anche chiamare negativa ideale. E una tale esigenza ci dimostra due cose. La prima che non possono appartenere a Dio nè i difetti, nè le limitazioni degli enti che conosciamo. La seconda, che tutti i pregi degli enti che conosciamo devono appartenere a Dio, ma non in quel modo che sono negli enti da noi conosciuti, perchè in tali enti questi pregi sono o contingenti, o limitati, o divisi, e, in una parola, essenzialmente forniti di qualche limitazione o divisione; quando nell' essere supremo devono esistere necessariamente senza divisione e limite, e insomma in tutt' altro modo, o anzi senza modo. Queste due maniere di conoscere la natura dell' ente assoluto si sogliono chiamare via exclusionis , e via eminentiae . Conosciute le maniere per le quali il pensier nostro si forma la dottrina intorno a Dio, convien passare all' esposizione di questa dottrina, la quale considera Iddio in se stesso, e in relazione alle creature come autore del mondo, completando in questa seconda parte ciò che delle operazioni divine ad extra fu detto nella Cosmologia. Iddio considerato in sè è argomento di quella parte della Teologia naturale che tratta dell' essenza divina, della quale prima si espongono gli attributi. Di poi si esamina se l' intelligenza umana, sviluppata e resa potente dalla rivelazione, possa conoscere che l' essenza divina deva essere in tre persone: questione che si risolve affermativamente, come affermativamente fu sciolta da due teologi moderni, il P. Ermenegildo Pini, ed il Mastrofini. Rimane tuttavia ben fermo, che anche la dottrina intorno la Trinità, a cui può giungere la ragione, non è appunto altro che negativa ideale. Trattandosi di Dio come autore delle cose, si ragiona principalmente sulla relazione che ha l' atto creatore coll' atto dell' essenza divina e coll' atto delle stesse creature esistenti. Applicando poi al creatore dell' universo gli attributi dell' infinita potenza, scienza e bontà, di cui s' era parlato, s' entra nell' amplissima dottrina della conservazione e del governo dell' universo, come pure del fine assegnatogli, il cui adempimento non può fallire; e questa parte della Teologia, che contempla nel mondo i vestigi degli attributi di Dio, cioè la Provvidenza che regola gli avvenimenti secondo un eterno disegno, la potenza che li conduce all' adempimento di quel disegno senza vincolare la libertà delle creature intelligenti, e la bontà, la santità e la beatitudine partecipata a queste nature in una misura massima fra le possibili (salvi i divini attributi), che ne è lo scopo finale, forma quello speciale trattato che acconciamente si denomina Teodicea. SCIENZE DEONTOLOGICHE. - Le scienze deontologiche sono tutte quelle che trattano della perfezione dell' ente , e del modo di acquistare o produrre questa perfezione o di perderla. Si può trattare della perfezione degli enti in generale, onde nasce una Deontologia generale , e si può trattare della perfezione propria di ciascuna specie di enti, onde nasce la Deontologia speciale , che in più scienze si divide. DEONTOLOGIA GENERALE. - Gli enti possono considerarsi nella grande unità che formano mediante le loro relazioni scambievoli, di perfezione. Se queste relazioni si classificano secondo le categorie, si avranno tre grandi classi di relazioni: relazioni di perfezione proprie degli enti morali, relazioni di perfezione proprie degli enti intelligenti, relazioni di perfezione proprie degli enti reali, sieno sensitivi, sieno estrasoggettivi . E dissi relazioni proprie degli enti intelligenti, anzichè degli enti ideali, perchè l' ente ideale è propriamente un solo e semplicissimo, onde, quando si prescinde dai soggetti intelligenti e dagli enti reali, egli non ha intrinseche relazioni. Le relazioni di perfezione , disposte nelle accennate tre classi, sono immutabili se si considerano nell' essere supremo, ma, se si considerano nell' essere contingente, possono essere più e meno, e più e meno realizzate. Il loro realizzamento maggiore o minore trae seco altresì la maggiore o minor perfezione degli enti fra cui passano le accennate relazioni. Quindi nell' essere supremo c' è la somma ed immutabile perfezione, perchè le dette relazioni di perfezione sono immutabilmente e compiutamente avverate. L' essere contingente all' opposto è suscettibile d' imperfezione, e di più o men perfezione secondo l' avveramento delle accennate relazioni. Se le relazioni proprie degli enti reali sono appieno avverate, vi ha una perfezione reale: Se sono pienamente avverate le relazioni proprie degli enti intelligenti, vi ha una perfezione intellettuale: Se sono avverate le relazioni proprie degli enti morali, vi ha una perfezione morale. Queste relazioni, nel cui avveramento sta la perfezione dell' essere, hanno dunque un' esigenza sì in se stesse (oggettivamente considerate) che relativamente agli enti che sono i soggetti della perfezione e dell' imperfezione (soggettivamente considerate). Per esigenza oggettiva s' intende quella che concepisce la mente considerando l' essere in se stesso, senza fermarsi alla relazione con un soggetto particolare e reale. L' esigenza soggettiva è quella che concepisce la mente nel soggetto particolare e reale, osservando che la perfezione di questi esige l' avveramento di quella data relazione. La parola esigenza esprime quella necessità che è propria delle condizioni necessarie all' ottenimento di un fine, e che prende natura dal fine stesso. Ora v' ha una necessità reale o fisica, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti reali di essere avverate, acciocchè gli enti reali o fisici ottengano la loro perfezione. V' ha una necessità intellettuale, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti intellettuali di essere avverate, acciocchè essi ottengano la loro perfezione. V' ha una necessità morale, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti morali di essere avverate, acciocchè essi ottengano la propria perfezione. Queste sono le tre necessità deontologiche , diverse dalle necessità ontologiche ; poichè le prime sono necessarie alla perfezione degli enti, le seconde alla loro esistenza. V' ha dunque una necessità fisica ontologica, e una necessità fisica deontologica; una necessità intellettuale ontologica (a cui si riduce anche la necessità logica), ed una necessità intellettuale deontologica; una necessità morale ontologica, ed una necessità morale deontologica. In Dio non cade questa distinzione, perocchè la necessità deontologica è ontologica per l' eccellenza della sua natura. Ma giacchè la perfezione è una forma, e, come abbiam veduto, ci sono forme soggettive e forme oggettive , perciò ci sono pure perfezioni soggettive e perfezioni oggettive . Di più, le forme soggettive, altre hanno una realità distinta dal soggeto informato, altre non sono che un elemento costitutivo dello stesso soggetto informato. Ora la stessa distinzione è da farsi delle perfezioni degli enti. In fatti gli enti reali hanno una perfezione propria, e ne hanno una che ricevono dall' azione scambievole fra loro, conveniente alla loro natura. Da questa scambievole unione ed azione risulta sempre la perfezione degli enti composti. Come la forma che fa esistere le intelligenze è un oggetto, così pure è oggettiva la forma che le perfeziona. Ma la forma che perfeziona gli enti morali, cioè dotati di volontà e di affetto razionale, è soggettiva7oggettiva , poichè la perfezione della volontà sta nel voler bene a tutti gli enti, alla totalità dell' ente, ma distribuendo questo affetto secondo la norma dell' oggetto, ossia, che è il medesimo, secondo il quantitativo di entità misurato negli enti coll' essenza dell' ente, che risplende allo spirito, e che è l' oggetto dello spirito, e la misura universale . L' ente intuito misura i diversi enti; e la volontà sente l' esigenza loro di essere riconosciuti per quel che sono. La volontà non dee opporsi all' intendimento, ma dee compiacersi del vero conosciuto dall' intendimento. Tutti gli enti sono per loro natura beni alla volontà, sono a lei amabili. Ma la volontà, essendo libera, può opporsi a questa legge di natura, e alle entità vere opporre delle entità false, come oggetti del suo amore; può accrescere e diminuire a se stessa le entità, e quindi i beni in opposizione al vero loro essere. Ora così facendo, ella contraddice alla verità, mentisce, fa guerra all' entità, è dunque ingiusta; altera la legge naturale che sta fra lei e gli enti reali, è dunque disordinata, snaturata. La menzogna interna, l' ingiustizia, il disordine volontario è il male morale: il contrario a tutto questo, è il bene. Il male si deve evitare, e il bene seguire. L' obbligazione non è altro che il concetto del male e del bene morale che dimostra all' anima la sua necessità. Fra i beni quello che si presenta più chiaro e più compiuto alla mente è l' ubbidienza all' essere supremo : tra i mali la disubbidienza al medesimo. La verità dunque e l' entità è il primo fonte e il primo nunzio dell' obbligazione; gli enti hanno, rispetto alla volontà, l' esigenza morale. L' esigenza ossia la necessità morale , è dunque diversa grandemente dall' esigenza che traggono seco le relazioni di perfezione degli enti reali e intellettuali; poichè la perfezione degli enti semplicemente reali e degli enti intellettuali non è la perfezione d' una volontà. La perfezione morale all' incontro è la perfezione d' una volontà, e dalla volontà è operata. Ora nella volontà consiste la persona , e la sola persona è vera causa delle azioni, a cui si possono imputare. Sebbene dunque l' ente reale possa essere più o meno perfetto, tuttavia questa perfezione non s' imputa all' ente reale, che n' è il soggetto e non la causa; ma solo si contempla dall' intelletto come una perfezione dell' ente. Lo stesso è a dirsi circa la perfezione dell' essere intellettivo. Sono perfezioni di natura, e non di persona. Quindi, rispetto alla perfezione degli esseri reali ed intellettuali, vi ha una sola esigenza; quella che dice: « acciocchè gli enti reali ed intellettuali siano perfetti, devono essere così e così. » Ma rispetto alla perfezione dell' ente morale concorrono due esigenze, l' una che nasce dall' ente in sè considerato e che dice: « l' entità, la verità dev' essere riconosciuta dalla volontà »: l' altra nasce dalla natura della stessa volontà e dice così: « se la volontà non riconosce l' entità e la verità, essa non ha la perfezione ». La prima è l' obbligazione imposta alla persona dall' esigenza degli enti da lei conosciuti (esigenza oggettiva); la seconda è l' esigenza della volontà stessa considerata come natura suscettibile di perfezione (esigenza soggettiva). La dottrina della perfezione degli enti può dividersi in tre gran parti. La prima descrive l' archetipo di ogni ente, cioè lo stato dell' ente che ha toccato la sua somma perfezione. La seconda descrive le azioni , colle quali si può produrre le perfezioni degli enti. La terza descrive i mezzi , coi quali si può acquistar l' arte delle dette azioni. L' archetipo dell' ente, ossia la perfezione ideale, è l' esemplare e la guida di tutte le arti; le azioni , colle quali si producono le perfezioni degli enti, sono comprese in tutte le arti meccaniche, liberali, intellettuali, morali; i mezzi che conducono a queste arti, costituiscono l' educazione speciale, ossia la scuola delle dette arti. Quindi apparisce l' immensa vastità della Deontologia generale . La Deontologia speciale è più vasta ancora, poichè ce n' è una per ogni specie di enti. E non solo per gli enti naturali , ma ben anco per gli artificiali . E se si parla di quelli di cui è artefice l' uomo, si fanno avanti, tra le arti più nobili, quelle che hanno per iscopo di produrre degli oggetti belli. Ciascuna delle belle arti ha la sua scienza propria; e tutte queste scienze suppongono una scienza del bello in universale, che chiamiamo Callologia, della quale è una parte speciale l' Estetica, che tratta del bello nel sensibile . Ma la Callologia e l' Estetica appartengono prima di tutto alla Deontologia generale, e massimamente a quella parte che descrive gli archetipi degli enti. Noi non ci fermeremo a classificare tutte le scienze deontologiche speciali, ma restringeremo il nostro discorso alla deontologia umana, cioè alla scienza della umana perfezione. L' uomo è un essere reale, intellettuale e morale; quindi partecipa della perfezione propria dei tre modi dell' essere. Ma poichè la perfezione morale è completiva dell' altre, ed ella sola è perfezione personale; perciò la dottrina della perfezione morale è quella che riassume in sè la dottrina dell' umana perfezione. La dottrina dell' umana perfezione presenta alla mente quelle tre stesse parti in cui abbiamo detto dividersi la Deontologia generale, cioè 1 la dottrina dell' archetipo umano , a cui ogni uomo deve procurare di avvicinarsi; 2 la dottrina di quelle azioni, colle quali l' uomo avvicina e conforma se stesso a quell' archetipo; 3 la dottrina de' mezzi ed aiuti, co' quali è stimolato e avvalorato a tali azioni. La prima di queste dottrine dicesi Teletica , la seconda Etica , la terza, cioè la dottrina dei mezzi, si parte in più scienze, perchè l' uomo può acquistare ed applicare questi mezzi a se stesso, e questa scienza dicesi Ascetica; ovvero può applicargli a' suoi simili, eccitandogli e aiutandogli all' acquisto della perfezione umana, e la scienza che insegna ad applicargli all' individuo, dicesi Educazione o Pedagogica; quella che insegna ad applicargli alla società famigliare, acciocchè questa, resa buona, influisca a render buoni gl' individui che la compongono, chiamasi Iconomia; quella che insegna ad applicargli alla società civile, acciocchè anche questa, resa buona, abbonisca i suoi membri, dicesi Politica; quella finalmente che insegna ad applicargli alla società teocratica del genere umano, dicesi Cosmopolitica . TELETICA. - La scienza che descrive l' uomo perfetto come un archetipo, non fu ancora scritta nè tentata, ed ella non potrebbe essere prima che tutte l' altre scienze intorno all' uomo giungano alla loro perfezione; e neppur allora questa scienza sarà mai compiuta. Massimamente che l' uomo al presente è decaduto e la sua natura non fu pura giammai, nè era conveniente che tale fosse lasciata, onde fu sempre mista col divino e col soprannaturale; e ciò che può divenir l' uomo più perfetto in quest' ordine doppio, voglio dire naturale e soprannaturale, è cosa che vince o sfugge il pensiero stesso dell' uomo, e però non può essere compiutamente raggiunto dall' umana filosofia. Ma invece d' avere questo archetipo descritto in parole e consegnato alla morta lettera de' libri, Iddio stesso pose innanzi all' uomo il suo archetipo vivente, e questi è GESU` Cristo, Capo e Signore dell' uman genere. ETICA. - L' uomo dee esser buono e non cattivo: la bontà dell' uomo consiste nella bontà della sua volontà; poichè egli è evidente, che colui che ha una volontà pienamente buona, è uomo buono. Ora la bontà dell' uomo, e non delle cose sue, dicesi bontà morale , e quella qualità della volontà umana, per la quale l' uomo è buono, dicesi bene morale , ovvero bene onesto; e di questo bene tratta l' Etica. L' Etica dunque è la scienza che tratta del bene onesto . Il filosofo morale fa tre cose; 1 analizza il concetto del bene onesto, distinguendone gli elementi, e poi li raccoglie tutti in una definizione scientifica; 2 cerca di conoscere in che modo, cioè con quali atti volontarŒ e liberi e con quali abiti l' uomo il possa conseguire, e per lo contrario in che modo e con quali azioni lo perda, rendendosi malvagio; 3 quanta sia l' eccellenza e la preziosità del bene onesto, senza del quale gli altri non sono veri beni per l' uomo. Quindi l' Etica si divide in tre parti. La prima tratta della natura del bene onesto , e dicesi Etica generale , perchè non discende a nessuno di quegli abiti o atti speciali, ne' quali il bene onesto si trasfonde; ma parla di quella condizione che tutti gli abiti e tutti gli atti devono avere per essere onesti. La seconda tratta de' modi del bene onesto ; e dicesi Etica speciale , perchè lo considera negli abiti ed atti speciali che lo partecipano. La terza tratta dell' eccellenza del bene onesto; e dicesi Eudemonologia dell' Etica , perchè l' eccellenza del bene onesto si scorge singolarmente nel vedere resa da lui perfetta e felice la natura intelligente e volitiva. Etica generale . - Dovendo dunque la prima parte dell' Etica trattare del bene onesto, ella ne investiga gli elementi, i quali sono tre, la volontà e libertà , la legge , e la conformità della volontà e libertà colla legge . Trattando della volontà, l' Etica s' appropria una parte dell' Antropologia o della Psicologia, trattando del potere della volontà sulle altre potenze dell' uomo, de' confini di questo potere e della libertà di cui è fornita, per la quale diventa causa responsabile delle azioni. Parlando della legge (Nomologia), la definisce da principio in un senso larghissimo, come il principio dell' obbligazione . Cerca in appresso quale sia la prima di tutte le leggi, cioè quale il primo principio dell' obbligazione espresso in una formola logicamente anteriore a tutte le altre, di modochè ella esprima l' essenza stessa dell' obbligazione, nel primo atto in cui all' uomo si manifesta, senza che questi abbia bisogno di cercarne una ragione ulteriore. E poichè il lume della ragione e della volontà umana è l' essere ; quindi apparisce, che la prima formola dell' obbligazione evidente per se medesima, si è: « Segui il lume della ragione », ovvero: « Riconosci l' essere »Conoscere è l' atto della ragione, ed appartiene sempre all' ordine teoretico ; riconoscere spesso è l' atto corrispondente della volontà, ed appartiene all' ordine pratico . Ma l' essere ha un ordine in se medesimo, onde avviene che certi esseri sieno maggiori e più eccellenti di altri ed abbiano maggior dignità, e quest' ordine è quello che deve essere riconosciuto dalla volontà, onde la formola dell' obbligazione universale, ossia il principio dell' Etica può anche esprimersi così: « riconosci l' essere qual' è nel suo ordine ». L' atto della ricognizione pratica è quello in cui nasce la stima proporzionata al grado dell' essere, e alla stima tien dietro un' eguale quantità di amore, che si diffonde anch' egli proporzionatamente su tutti gli enti, e all' amore tengon dietro, o per mezzo di decreti della volontà, o senza decreti espressi, le operazioni esteriori ordinate in conformità di quell' amore, le quali rendono decente e armoniosa tutta la vita dell' uomo virtuoso. Ma fra gli esseri, Iddio è assoluto principio e fine di tutti gli altri: egli dunque è il fine ultimo altresì della volontà e de' suoi atti nell' uomo onesto, il fine ultimo in cui tende ogni ricognizione, ogni stima, ogni amore, ogni azione umana: indi la Religione, come morale ultimata e sollevata all' ultimo suo stato di compitezza, nel quale ogni dovere diventa sacro, ogni virtù diventa santità. Come dunque tutti gli esseri procedono da Dio per la creazione e da lui dipendono per la conservazione, così a lui tutti devono riferirsi, e alla volontà divina tutte le volontà conformarsi. E la volontà divina diviene altresì il fonte della legislazione positiva, cioè di quelle leggi che sono positivamente manifestate da Dio agli uomini. L' Etica indica la differenza fra la legge naturale e la positiva , e mostra come il rispetto dovuto a questa procede da quella. Dopo i doveri verso Dio, vengono i doveri verso le create intelligenze, i doveri che ciascun uomo ha verso i suoi simili, quantunque questi sieno subordinati ai doveri verso Dio, come i creati sono subordinati al creante; tuttavia anche gli uomini sono oggetti di doveri morali, come quelli che hanno ragione di fine, ed hanno ragione di fine, perchè sono forniti d' intelligenza e nell' intelligenza c' è l' essere ideale, il quale è un elemento divino. Infatti la volontà che è la facoltà attiva dell' intelligenza, non può avere per suo fine e per suo bene, se non qualche cosa d' infinito e di divino: onde procede quella sentenza che « la morale abbraccia sempre in qualche modo l' essere nel suo tutto. » Svolgendo il secondo elemento del bene morale cioè la legge, l' Etica insegna ancora ad applicarla ai casi speciali, onde la logica speciale sua propria che tratta principalmente della coscienza morale. Quivi si danno le regole per applicare le leggi alle azioni particolari, e specialmente al caso, in cui si dubiti della legge. La regola principale da applicarsi a questo caso è la seguente: « se si dubita dell' esistenza della legge positiva e non si può sciogliere il dubbio, la legge non obbliga, se poi si dubita in una materia appartenente alla legge naturale in modo che il dubbio cada sopra un male intrinseco all' azione, deve evitarsi il pericolo di questo male. » Venendo poi al terzo elemento, cioè alla relazione fra la volontà e la legge, l' Etica espone tutti i modi, in cui questa relazione può variare, e descrive i diversi stati buoni o rei in cui entra la volontà e la libertà umana, e l' uomo stesso mediante tali variazioni. Etica speciale . - Trattando questa seconda parte dell' Etica delle forme speciali del bene e del male morale, comincia dal distinguere l' atto e l' abito , mostrando la varia moralità di cui l' uno e l' altro è suscettivo. Quindi passa ad esporre gli officŒ speciali verso la divinità e verso l' umanità. Riguardo a questi ultimi, l' uomo deve rispettare ed onorare la natura umana in se stesso e ne' suoi simili: deve rispettarla negli individui e nelle diverse società o naturali o artificiali, nelle quali gli uomini si uniscono. Tutte le relazioni sociali prestano occasione all' esistenza di officŒ morali. Tratta in appresso degli abiti , e quindi di tutte le speciali virtù e di tutti i speciali vizŒ . Ragiona ancora de' mezzi co' quali può evitarsi il male e procacciarsi il bene morale, alla qual parte come abbiam veduto, si suol dare il nome d' Ascetica. Eudemonologia dell' Etica . - Questa terza parte finalmente considera l' eccellenza del bene morale e la turpitudine del male morale: mostra che l' una e l' altra è infinita: descrive la dignità e la gioia dell' anima virtuosa, l' ignobilità e la miseria della viziosa: prova che niun uomo veramente virtuoso è infelice, niun malvagio felice: apre quindi la fiducia e l' aspettazione, che giace nel cuor umano, che la virtù abbia premio eterno, il vizio eterno castigo: lo prova co' divini attributi: e dopo aver condotto l' uomo fin qui, quasi pedagogo, il savio filosofo consegna il suo alunno nelle mani d' una maestra più sublime, la Rivelazione. DIRITTO RAZIONALE. - Dall' Etica procede l' amplissima scienza del Diritto razionale: questo nasce dalla protezione, che l' Etica, ossia la legge morale, dà al bene utile , e più generalmente a tutti i beni eudemonologici, di cui possono fruire gli uomini. Infatti uno dei doveri etici è quello che l' uomo non noccia al suo simile: i giureconsulti romani l' espressero colla formola neminem laedere . Nessun uomo dunque può pregiudicare al bene che ha il suo simile. Ora l' uomo che ha questo bene, il quale, in virtù della legge morale non può esser toccato da nissuno, dicesi che ha un diritto . Se l' uomo che ha questo diritto, non avesse la facoltà di cavarne dell' utilità a se stesso, non ci sarebbe più nè il bene, oggetto del diritto, nè il diritto stesso. Il diritto dunque subiettivamente, cioè in rispetto al subietto che lo possiede, è una facoltà eudemonologica, protetta dalla legge morale. E dall' esser questo bene eudemonologico protetto dalla legge morale, egli acquista una certa dignità morale, e colui che lo possiede acquista la potestà di difenderlo contro quelli che glielo volessero rapire, o comechessia deteriorare. La scienza del Diritto quindi si occupa 1 In classificare tutti que' beni che possono esser oggetto o materia di diritto: 2 In determinare qual sia la protezione che la legge morale loro accorda, fin dove s' estenda e a quali condizioni: 3 In decidere i casi dubbŒ, cioè quelli che nascono per la collizione apparente dei diritti: 4 In determinare altresì fin dove sia autorizzata la difesa de' diritti dalla stessa legge morale, e in quali circostanze e condizioni ella sia legittima: 5 Finalmente tratta della soddisfazione e del risarcimento de' diritti violati, e però de' danni e delle ingiurie. Tutti i beni ed i diritti che ha l' uomo in relazione co' suoi simili, ricevono due forme, che diventano la base della suprema classificazione dei diritti medesimi: la libertà , e la proprietà . La libertà è quella potestà che ciascuno ha d' usare di tutte le sue potenze, fino a tanto che non entra nella sfera de' diritti altrui, cioè che non tocca i beni che hanno già i suoi simili. La proprietà è l' unione de' beni coll' uomo: questa unione riposa sopra una legge psicologica, la quale fa sì che l' uomo possa unire a sè delle cose diverse da sè, quasi a somiglianza di quell' unione che ha il suo corpo coll' anima sua. Quest' unione permanente si fa per via di sentimento e per via d' intelligenza; per via di sentimento anche le bestie uniscono a sè delle cose esteriori: così sono uniti i figliuoli alla madre, i cibi che hanno presenti o che raccolgono, i nidi e le abitazioni ed altre cose che talora si contendono tra loro a morte, e così hanno una certa proprietà, ma non morale nè giuridica. L' uomo unisce a sè le cose per vincolo naturale e di sentimento ed anche pel vincolo che vi soprappone l' intelligenza, per mezzo della quale l' uomo fa assegnamento su molte cose esterne e le riserva agli usi futuri. Questa ancora è una certa proprietà, ma non quella proprietà che costituisce il diritto. Ma quando al vincolo del sentimento e a quello dell' intelligenza s' aggiunge il vincolo morale , allora la proprietà è convertita in diritto. Ora questo vincolo consiste, come dicevamo, nella protezione che la legge morale accorda ai due primi vincoli, imponendo agli altri uomini l' obbligazione di rispettarli: la ragion morale poi impone questa obbligazione, quando que' due primi vincoli fra l' uomo e le cose sono stati stretti mediante la libertà giuridica, cioè senza dividere le cose appropriatesi da altri uomini, a cui fossero già unite. E una tale obbligazione nasce da questo: il dividere ciò che l' uomo ha seco unito d' affetto e d' intelligenza, è un cagionarli dolore, un fargli male; ma non si può far male altrui per far bene a se stesso; dunque la ragion morale vieta di offendere l' altrui proprietà. Il subietto dei diritti può essere l' uomo individuo considerato in relazione co' suoi simili, e l' uomo sociale . Quindi la scienza del diritto ha due parti, che sono il diritto individuale e il diritto sociale . Il diritto individuale ragiona di tre cose, cioè: 1 De' diritti connaturali e de' diritti acquisiti, descrivendone la natura e le condizioni, i titoli e i modi d' acquisto: 2 Della trasmissione de' diritti e delle modificazioni che ad essi derivano: 3 Delle alterazioni de' diritti altrui e delle obbligazioni e modificazioni de' diritti scambievoli che ne conseguono. Il diritto sociale nasce dall' individuale , perchè nasce dal fatto dell' associazione, e la facoltà di associarsi onestamente fra loro è un diritto connaturale di tutti gl' individui umani, il quale non viene limitato se non dalla circostanza, che la nuova associazione entri a perturbare un' altra associazione precedente e già in attuale possesso. Il diritto sociale è universale , e particolare . Il diritto sociale universale considera i diritti e i doveri che nascono dal fatto di un' associazione qualunque, e questo è interno fra i membri della società, o esterno tra la società di cui si tratta e le altre società, o anche tra essa e gl' individui che sono fuori della medesima. Il diritto interno si divide naturalmente in tre parti, le quali trattano: 1 Del diritto signorile , in quanto si mescola col diritto governativo. 2 Del diritto politico o governativo, che è quanto dire de' diritti e delle obbligazioni di chi governa e amministra la società. 3 Del diritto comunale , che espone i diritti e le obbligazioni comuni a tutti i membri della società. Questa stessa divisione s' applica al diritto sociale particolare , essendoci in ogni società quelle tre maniere di diritti e di obbligazioni sociali. E ci possono essere innumerevoli società, ciascuna delle quali ha il suo diritto che risulta da un' applicazione de' principŒ esposti nel diritto sociale universale ; ma v' hanno tre società che sono necessarie al genere umano e l' organizzano, la perfezione delle quali dee ricondurre il genere umano alla sua primitiva unità e renderlo come una sola famiglia ordinatissima. Queste tre società sono la Teocratica , che è naturale7divina; la Domestica che è naturale umana, e si biparte nella Coniugale e nella Parentale; e la Civile che è una società artificiale, ma necessaria al bene dell' umana specie. Il diritto particolare di queste tre società dà luogo a tre trattati di altissima rilevanza. La società Teocratica è o iniziale, e avvincola gli uomini per via della morale e della religione naturale; ovvero perfetta, ed è la Chiesa Cattolica che avvincola oltracciò e stringe gli uomini con de' legami positivi d' una religione e d' una morale rivelata e soprannaturale. Anche qui c' è un diritto signorile , un diritto governativo , e un diritto comunale . Il diritto della società domestica è duplice, come dicevamo, quello che riguarda i coniugi , e tratta della natura del matrimonio e delle sue condizioni, della maniera di stringerlo e dei diritti e delle obbligazioni de' coniugi: e quello che riguarda i genitori e i figliuoli , e tratta pure de' diritti reciproci e delle obbligazioni reciproche che vi corrispondono, avuto riguardo altresì alle morali. Il diritto particolare della società civile ne espone la natura e l' origine, e quindi le tre parti della signoria , del governo e della cittadinanza , assegnando i diritti e le obbligazioni di ciascheduna, e, rispetto a questo diritto, potendo la società civile essere costituita a varie forme e provveduta di varŒ organi e funzioni, può darsi una teoria generale di diritto nazionale per tutte le società civili, avuto riguardo solo a ciò che è a queste essenziale e comune, e una teoria di diritto per ogni forma diversa che potesse prendere il corpo civile. Ma a tutto ciò sopravvanza ancora una ricerca più elevata, quando si domanda: « data che fosse una moltitudine, e questa non costituita ancora a società civile, la quale avesse incaricato un filosofo di darle una costituzione, quale sarebbe la costituzione che se le dovesse prescrivere, traendola dai soli principŒ di giustizia e fatta interamente astrazione da ogni riguardo politico ». Perocchè tale e tanta è la virtù e la fecondità dei principŒ della giustizia, che quando si deducono da essi le illazioni che ne procedono (al che si richiede certamente una mente costante), queste sole ci darebbero tutte le leggi anche politiche, colle quali si può organare internamente una nazione, colla massima probabilità di concordia e di prosperità. E sta qui la congiunzione fra le scienze giuridiche e le politiche . Finalmente il diritto esterno , o comune ad ogni società, o particolare di ciascuna di esse, non è che un' applicazione del diritto individuale, considerandosi le società come altrettanti individui. DOTTRINA DE' MEZZI. - Ascetica . - L' Ascetica non può fare una scienza separata dall' Etica, perchè argomento dell' Etica è l' obbligazione morale e la virtù non solo ne' loro concetti universali, ma anche ne' loro atti più speciali; ed è manifesto, che i mezzi e gli aiuti alla virtù sono materia d' obbligazione per l' uomo, e il procacciarsegli e l' usarli convenevolmente sono atti virtuosi, a cui certe virtù si riferiscono. Pedagogica . - Questa scienza tratta dell' arte dell' educazione umana. L' uomo è educato parte da se stesso, parte dalla società domestica, a cui riduciamo ancora l' educazione che riceve da' precettori che suppliscono all' ufficio dei genitori o cooperano con essi, parte dall' influenza che esercita sopra di lui la società civile in cui nasce e cresce, e parte dall' influenza che esercita sopra di lui la società teocratica. Onde questa scienza s' estende a molti trattati, e tali sono quello dell' educazione di se stesso , dell' educazione domestica , della magistrale , dell' educazione civile , e dell' educazione ecclesiastica . E a tutti questi si dee aggiungere un trattato che ha subietto magnifico, vogliam dire il trattato dell' Educazione provvidenziale , cioè di quella con cui Iddio, ordinando e disponendo gli avvenimenti, educò il genere umano e l' educa di continuo e gl' individui stessi. Ciascuno di questi trattati naturalmente si divide in tre parti, potendo l' uomo ricevere educazione rispetto alla sua parte morale, alla sua parte intellettuale e alla sua parte fisica. Ma l' educazione dell' individuo umano dee avere una perfetta unità, ed è un grand' errore il credere che l' educazione fisica, intellettuale e morale sieno tre cose separate e indipendenti. Quindi la prima regola dell' arte pedagogica, che è quella dell' unità . Uno è il bene umano a cui dee tendere l' educazione, e questo è il morale. Tale è il fine. Non conviene dunque che si dia un' educazione intellettuale o fisica disgiunta dalla morale, ma conviene che si dieno queste come mezzi di quella, per modo che niuna cognizione o dote intellettiva e niuna abilità corporale si promova in colui che s' educa, se in pari tempo non si subordina alla sua morale perfezione. E tutto ciò che fa l' educatore, tutti i mezzi che impiega nell' educare devono con una perfetta coerenza e costanza a questo fine ordinarsi. Tale è il principio della pedagogica. Iconomia - L' Iconomia tratta del governo della famiglia, ne indica la costituzione e le leggi reali e quasi direi meccaniche del suo movimento, sia verso la perfezione, sia a ritroso di questa, leggi che nascono dalla sua naturale costituzione. La famiglia ha dei costitutivi essenziali: oltre di questi ne ha di quelli che sono necessarŒ alla sua prosperità e che fluiscono dalle stesse leggi reali che accennavamo. Uno di questi è il principio seguente: « dee esservi equilibrio fra il numero delle persone che la compongono e i mezzi di sostentamento ». Di poi espone i principŒ dell' arte di governarla in modo che prosperi. E questa stessa prosperità vuol essere ordinata ad avvicinare gl' individui che la compongono, alla perfezione e felicità umana. Il governo della famiglia che si descrive, è quello che nasce dall' uso de' mezzi che presta la società domestica, e principalmente del potere proprio del governo famigliare. Il governatore, cioè il padre di famiglia, dee stendere le sue vedute fuori della famiglia stessa formando tali individui che sappiano mantenere la concordia e l' armonia colle altre società domestiche, colla civile e colla teocratica. Una delle malattie proprie di questa società è l' egoismo famigliare : la malattia opposta è l' individualismo . La famiglia, affetta dal primo di questi due morbi, si rende guerriera e s' espone al rischio delle guerre, onde può esser distrutta per violenza o divenire dominante: la famiglia affetta dal secondo si discioglie, o perisce per interna discordia. L' Iconomia addita i caratteri di tali malattie proprie della famiglia, e insegna il modo di preservarnela. Politica - E` la scienza dell' arte del governo civile. Si devono distinguere le scienze politiche particolari dalla Filosofia della politica . Ciascuna di quelle tratta d' un elemento o d' uno de' mezzi , con cui si governa la società civile; ma questa cerca l' ultime ragioni dell' arte. Le ultime ragioni sono primieramente i criterŒ politici , cioè quelle regole supreme che insegnano a valutare il vero valore di tutti i mezzi ed espedienti a cui ricorre l' uomo di stato nel governo della società civile. I criterŒ politici si dividono in quattro classi, che scaturiscono dal considerare la società civile come un corpo che si dee sospingere verso un termine dato. La teoria di questa operazione risulta: Dal considerarsi il termine , a cui si dee sospingere il detto corpo - Così la Filosofia della Politica dee prima di tutto investigare, qual sia il fine verso al quale dee muoversi incessantemente la civil società; e questo è la prosperità pubblica, che risulta come da cause, dalla giustizia e dalla concordia de' cittadini . Quindi i criterŒ tratti dal fine della società civile, i quali si riducono a questi due: a) Rivolgere il governo a mantenere e convalidare quella forza prevalente, a cui è appoggiata l' esistenza della società; e questa forza prevalente, cangia secondo i diversi periodi di vita che la società civile percorre. Quindi la teoria di questi cangiamenti. In altre parole, questo criterio s' esprime brevemente così: « aver cura della sostanza della società civile e trascurare gli accidenti ». b) Rivolgere il governo a fare che i cittadini ottengano la prosperità temporale nella moralità, ossia a fare che la prosperità temporale produca il bene proprio della natura umana, del quale solo l' uomo s' appaga. I cittadini appagati sono tranquilli e concordi. Dal considerarsi la natura dello stesso corpo. - Così la Filosofia della Politica dee investigare la natura della società civile e la sua natural costruzione e dedurne questa regola: « quella politica che avvicina la società civile alla sua costruzione naturale e regolare, è buona, quella che ne l' allontana, è cattiva ». La natural costruzione della società civile risulta da alcuni equilibrŒ che sono i seguenti: a) Equilibrio fra la popolazione e la ricchezza. b) Equilibrio fra la ricchezza e il potere civile. c) Equilibrio fra il potere civile e la forza materiale. d) Equilibrio fra il potere civile e militare, e la scienza. e) Equilibrio fra la scienza e la virtù. I criterŒ politici di questa classe si riassumono in questa formola: « tutti i mezzi politici che avvicinano la società civile ai cinque equilibrŒ sopra indicati, sono buoni, quelli che ne l' allontanano, sono cattivi ». Dal considerarsi le leggi del movimento . - Così la Filosofia della Politica deve considerare nella storia le leggi, secondo le quali si muovono le società civili; pensiero dovuto a Giovambattista Vico, che potè indicarlo, non isvolgerlo a sufficienza, per la profondità delle meditazioni che si richiede a colorirlo e incarnarlo mediante sagaci osservazioni sulle diverse trasformazioni subìte da ciascun popolo della terra. Quindi de' criterŒ politici che si riducono a questa formola: « i mezzi politici che stanno in armonia colle leggi del movimento naturale delle società civili, sono buoni; gli altri come contrari alla natura, sono cattivi. » Dal considerarsi le forze atte a spingere i corpi. - Così la Filosofia della Politica dee valutare le forze, per le quali la società civile è sospinta verso il bene. Questa valutazione esige molta sagacità e una gran potenza d' astrazione, perchè ci sono delle forze dirette e delle indirette , e queste ultime sfuggono alla attenzione, e sono quelle che producono i maggiori effetti. Da questo fonte si deducono de' criterŒ politici che tutti si riassumono in questa formola: « I mezzi politici, che con minor dispendio e con minor azione ottengono un effetto più grande di bene sociale, sono i migliori. » Scoperti così i sommi criterŒ politici, che sono le ultime ragioni di quest' arte e costituiscono la Filosofia civile , rimane a farne l' applicazione, cioè a valutare con essi il vero valore rispettivo di tutti i mezzi politici somministrati dalle particolari scienze politiche, ricerca che conduce a questo risultato: « La Religione e propriamente il Cattolicismo è il mezzo politico di maggior valore, quello che tempera ed armoneggia tutti gli altri. » Cosmopolitica . - Questa scienza è la teoria del governo della società teocratica, come quella da cui sola può venire l' unità del genere umano e la sua organizzazione compiuta. La filosofia spinge avanti tutte queste ricerche fino a tanto che la mente umana trovi il suo pieno soddisfacimento, il suo riposo. La mente trova questo riposo, quando ella è giunta a discoprire le ultime ragioni a cui ella possa giungere, e s' è persuasa ad evidenza, ch' esse sono veramente le ultime, ch' ella non può in alcun modo andare al di là. Ora poi queste ragioni ultime, rinvenute che siano, rispondono altresì ai supremi bisogni dell' animo umano. E tale è il frutto della filosofia. Se il fine della filosofia è di trovar quiete e riposo alla curiosità della mente, il suo frutto più prezioso ancora è di assicurare l' animo umano della possibilità che egli giunga al compimento di tutti i suoi desiderŒ, di togliergli intorno a ciò ogni incertezza, e di additargli quella sicura via, per la quale egli giunga alla cima a cui tende. La qual via lo conduce a Dio, a cui il consumato filosofo si dà ad ammaestrare come discepolo, ed a perfezionare come creatura. Tale è il fine della filosofia, tale il suo frutto. Ma se invece di considerare la scienza , si vuol considerare la scuola della filosofia , ella in tal caso diventa la vera pedagogia dello spirito umano , della mente cui manoduce alla scienza più compiuta, e dell' animo a' cui affetti svela innanzi il più compiuto bene. Sotto il quale aspetto d' una pedagogica dell' umanità la filosofia è concepita da Platone. Mi parrebbe essere troppo scortese, se non ringraziassi V. S. del dono, che non posso dubitare venirmi da lei, del primo dei suoi discorsi sulla necessità di restaurare nelle scuole italiane la clinica Ippocratica , e del suo « Saggio intorno al fondamento, al progresso ed al sistema dell' umana conoscenza »; ma la sola stima, che m' ha ingenerato della sua persona la lettura di queste sue produzioni scientifiche, è quella che mi muove, non dirò a scriverle il mio giudizio di quest' ultima, com' ella mi chiede nella scritta appostavi, ma piuttosto a sottometterle qualche osservazione su di ciò che tanto gentilmente ella dice del mio sistema filosofico. Prima però non posso tacerle il grato sentimento, che in me cagionò la lettura del suo discorso contro la dottrina eccitabilistica, persuasissimo, come sono, che anche in medicina, del pari che nelle altre scienze tutte, la presunzione de' moderni abbia ingiustamente dispregiata l' antica sapienza, o, a dir meglio, la sapienza tradizionale de' secoli. E riconoscendo l' acutezza delle sue vedute e il suo modo complessivo di pensare, più volte nacque in me il desiderio, che ella, come giudice competente, vedesse ed esaminasse quelle cose, che io dissi nell' « Antropologia » sull' animalità, certo che dal suo giudizio se ne potrebbe vantaggiare la scienza. Io ho sempre avuto in sospetto la teoria browniana, qualunque fosse la foggia ch' ella vestisse dopo il primo suo autore, parendomi che quella teoria supponga troppo men complicata la natura ch' essa non è, e troppo facil cosa l' arte medica. Quanto poi alla sua sentenza sulla natura della vita, penso che ella dovesse riscontrare qualche cosa di analogo al suo concetto in quella mia « Antropologia . » Nella quale tuttavia io proposi due maniere di definire la vita che mi sembrano necessarie indispensabilmente a distinguersi, per trovare l' anello di congiunzione fra la Fisiologia e la Metafisica: l' una delle quali tende a definire la vita da' fenomeni soggettivi (di sentimento), e l' altra da' fenomeni estrasoggettivi (d' osservazione esterna); nè so, che questa doppia maniera di concepire e definire la vita sia stata da altri notata o svolta a quel modo che io ho procurato di fare; e molto mi piacerebbe, se ella si compiacesse di considerarla. Ora eccomi ad esporle le osservazioni che le dicevo sulla maniera, ond' ella, nel suo « Saggio » intorno all' umana conoscenza, concepisce il mio sistema filosofico. Mi permetta che affin di procedere con chiarezza maggiore io richiami le sue parole. Dopo aver ella dichiarato di trovarsi meco d' accordo in « riconoscere nella origine dell' umano sapere la concorrenza di elementi sperimentali ed intellettuali insieme », soggiunge così: « Se non che, rispetto alla teorica da lui esposta, dobbiamo dichiarare, non esserci stato possibile di convincerci che tutto il dato, che vien posto dall' intelligenza nella formazione delle conoscenze, si riduca all' idea dell' ente in universale: siccome egli fermamente mantiene in tutti i suoi trattati. » Da queste parole potrebbe credersi, che nella formazione della conoscenza il soggetto uomo, secondo me, non mettesse del suo, se non l' idea dell' ente in universale, il quale dicesi suo solo perchè lo possiede e ne fa uso, benchè non costituisca alcuna parte del soggetto medesimo. Ma qualora si dovessero intendere a questo modo le sue parole, esse non renderebbero la mia mente, anzi se ne dipartirebbero d' assai. Perocchè, io fo risultare la conoscenza (non però ogni conoscenza) da tre, e non da due sole specie ben distinte di elementi, cioè 1 da elementi esterni, estrasoggettivi ; 2 da elementi soggettivi , che sono le leggi venienti dalla natura del soggetto conoscente; 3 da elementi oggettivi , che si riducono poi all' essere , di cui abbiamo, com' io penso, un' immanente intuizione. Vede ella dunque che alle leggi che emanano dalla natura del soggetto , io fo assai volentieri una buona parte nell' opera della formazione della conoscenza umana; e che da queste leggi soggettive io distinguo al tutto l' oggetto , cioè l' essere , il quale non emana punto dall' uomo, soggetto; nè può ricevere da lui alcuna vera passione, ma vien dato all' uomo dal di fuori, cioè da Dio, viene mostrato all' uomo, e il mostrarglielo è il medesimo che dargli il lume d' intendere tutte le cose, in una parola renderlo un essere intelligente. Per me, niuna mente può intendere mai altro che essere, non può ragionare d' altro che di essere, non può affermare altro che essere, sicchè l' essere è essenzialmente l' oggetto intuibile, e perciò il lume dell' intelligenza, tolto il quale essa non può più nè intendere, nè affermare, nè giudicar cosa alcuna, e però ella stessa non esiste oggimai più. L' intuizione dell' essere dunque non forma solo l' intelligenza umana, ma tutte le intelligenze che sono o sono possibili. All' incontro le leggi soggettive , che procedono dalla nostra natura umana e che costituiscono la seconda specie d' elementi che entrano nella formazione del sapere, sono quelle che determinano la conoscenza umana , ossia che danno alla nostra conoscenza quel carattere distintivo, che la separa da quella di tutti gli altri esseri intelligenti che sussistono o possono sussistere d' altra fatta diversa dall' uomo. Sono queste leggi soggettive, che mettono que' limiti alla conoscenza, di cui io ho parlato nel « Saggio sui confini dell' umana ragione » ecc.; e son pur esse quelle, che danno alla conoscenza dell' uomo una conformazione speciale, configurando, per così dire, e insieme concorrendo a produrre la materia del conoscere, e il contenuto stesso della conoscenza, di che ho parlato nel « Nuovo saggio , » nel « Rinnovamento » e nell' « Antropologia . » Mi sono poi occupato in queste stesse opere a dimostrare, che questa parte soggettiva che entra nella conoscenza dell' uomo, non toglie punto a questa la sua veracità; perchè rimane sempre in fondo d' ogni conoscimento un elemento assoluto che è l' essere, il quale è sincerissima luce, che aiuta l' uomo stesso a distinguere la parte oggettiva dalla soggettiva della sua propria cognizione, e dichiara quella assolutamente vera, e questa vera relativamente. Dalle quali cose, ella può in parte rilevare, com' io la senta di quanto dice in appresso, cioè che l' idea dell' essere in universale non costituisca un elemento positivo della intelligenza: « ma invece ci è sembrato, continua, che la suddetta idea (se pure idea nel nostro senso può essere appellata) si risolva nella legge fondamentale dello spirito, per la quale siamo costretti, indipendentemente da ogni principio logico, di congiungere universalmente all' ideale il reale (sussistente o possibile), come termini correlativi intra loro per modo, che il primo non può essere senza il secondo: talchè l' essere è la relazione delle cose, delle loro sostanze, delle loro cause e de' loro fini colle idee delle medesime ». Su queste parole, devo primieramente avvertire, ch' io non potrei dividere il reale, come par ch' ella faccia, in sussistente e possibile ; conciossiachè, alla mia maniera di concepire, il reale in se stesso non è altro che il sussistente, e l' ideale non è altro che il possibile, benchè io accordi che nella mente fra questi due modi di essere passi una relazione, per la quale il reale si può considerare nel possibile e viceversa, relazione che io chiamo inesistenza . La possibilità della cosa non è dunque altro agli occhi miei che la cosa stessa intuita dalla mente nella sua essenza , quando la mente non giudica ancora, che la cosa intuìta realmente sussista. Vero è, che quando la mente contempla l' essenza d' una cosa, nè pur vi aggiunge necessariamente un espresso giudizio sulla sua possibilità; e però accordo, che, chiamando io poi la cosa stessa possibile , aggiungo, con questa denominazione posteriore, una relazione all' essenza della cosa: ma questa però è una relazione, che non ha bisogno d' altro che dell' essenza della cosa intuita, è una di quelle relazioni che sono in se stesse negative e che acquistano una forma positiva soltanto dalle leggi soggettive del pensare. Quanto poi al chiamare l' ideale e il reale « termini correlativi intra loro per modo che il primo non può essere senza il secondo », io l' ammetto nel modo che dirò appresso: ma io aggiungo di più, che la correlazione di que' termini è tanto necessaria, che nè pure il secondo può essere senza il primo, cioè il reale non può essere senza l' ideale. Il che è vero ogni qualvolta per reale s' intenda un oggetto e non un mero soggetto; perchè l' esistenza soggettiva non richiede per immediata necessità l' oggettiva, benchè tuttavia si dimostri con un ragionamento ontologico, che finalmente la richiede. Dicevo dunque, che un reale non può esistere come oggetto, se non a condizione che ci sia una mente, la quale lo riferisca all' idea, e così gli dia l' oggettività. Se ella considera, che l' idea e il possibile sono appunto il medesimo, per usare una frase scolastica re sed non ratione , troverà innegabile questa mia proposizione; conciossiachè egli è innegabile che niente può sussistere, se non a condizione che sia possibile. Vengo a dire in che senso io ammetta, che neppure l' essere ideale possa stare senza un reale. L' essere ideale è l' essere possibile in quant' è intuito, o, se si vuol meglio, è l' essenza dell' essere non necessario. Lo stesso concetto dunque dell' essere ideale involge il termine correlativo d' una mente che lo intuisca. Ora la mente è un soggetto reale; dunque l' ideale non può stare senza il reale. Per questo modo, io ho dimostrato nel « Nuovo saggio » l' esistenza di Dio, cioè d' una Mente Eterna, in cui sia l' essere ideale o, più pienamente, l' essere oggettivo , parimente eterno. Ella vede oggimai in qual senso io faccia strettamente correlativi l' essere ideale e l' essere reale , e d' una relazione al tutto scambievole: di più, avrà osservato che nelle mie opere, io ammetto una terza forma primordiale dell' essere, che chiamo essere morale , e che fo correlativa anch' essa alle due prime. Ciascuno di questi tre termini è correlativo reciprocamente agli altri due, di maniera che, se tutti e tre s' ammettono, ciascuno esiste dagli altri distinto; se uno solo si toglie, nè pur gli altri due sono più, cessano tutti a un tratto. In una parola, l' essere non può essere che uno e trino. In qual maniera poi lungamente diversa questa unità e trinità dell' essere s' applichi al Creatore ed alle creature, ella è cosa che io tratto nell' Ontologia e nella Teologia naturale. Che se poi ella mi chieda, se indi forse non ne venga una legge fondamentale dello spirito, per la quale esso spirito sia necessitato di congiungere que' termini correlativi, rispondo di sì; ma questa legge è imposta allo spirito dal sintesismo di que' termini; e non è già, che il sintesismo di que' termini venga da una legge dello spirito, che ad essi preceda: lo spirito riceve le leggi dalla natura dell' ente che intuisce, e non viceversa la natura dell' ente intuìto è determinata dalle leggi dello spirito. A questa sola condizione, secondo quello che a me pare, ci possiamo salvare dallo scetticismo, e perciò appunto tentai di dimostrare rigorosamente quella proposizione in più scritti, fra' quali nel Dialogo intitolato: «il Moschini , » che mi prendo la libertà d' inviarle insieme con due altri opuscoli. Finalmente ella definisce l' essere così: « l' essere è la relazione delle cose, delle loro sostanze, delle loro cause, e de' loro fini colle idee delle medesime. »Ma tutt' all' incontro, io dico, le cose sono essere, le sostanze sono essere, le cause sono essere, i fini delle cose, qualora si parli de' fini interni cioè della perfezion delle cose, sono parimente essere: dunque l' essere non può dirsi la relazione delle cose ec. colle idee; chè ne uscirebbe questo, che l' essere fosse la relazione dell' essere coll' essere, definizione mostruosa, e tuttavia, in tutt' altro senso, vera. V' ha di più: che cosa sono le idee? Ecco la gran questione: sta qui a mio avviso, il problema della filosofia. L' idea per me è lo stesso essere contemplato dalla mente nella sua idealità: ella è dunque di nuovo, l' essere: per me l' essere in quanto luce alla mente umana, prende il nome d' idea , e in quanto opera nel sentimento, prende il nome di realità , o se si vuole di cosa in senso stretto. La definizione dunque dell' essere, che ella dà con benevolo intendimento d' interpetrare in senso plausibile la mia mente, non potrebbe da me accettarsi secondo la mia maniera di concepire e di parlare, giacchè tradotte quelle sue parole nel mio linguaggio verrebbero a suonare che l' essere è la relazione dell' essere coll' essere. E tuttavia io non ricuso di ricever per buono il detto da lei citato degli scolastici, che il vero e l' ente sono tra lor convertibili, purchè un tal detto convenientemente si spieghi. Per me la verità è lo stesso essere ideale in quanto egli rende conoscibili le cose reali, e però in quant' è lume, tipo od esemplare all' artefice che ha virtù di produrle, ed è regola o norma al critico che vuol giudicare, se sono bene prodotte. Il vero adunque si converte coll' ente , perchè il vero non è altro che l' ente stesso ideale assunto agli indicati ufficŒ. Nè si vuol da questo menomamente inferire, che l' essere intuito dalla mente sia un' astrazione: perocchè l' atto dell' astrazione non si può fare che sopra enti già concepiti: e però la concezione degli enti è manifestamente anteriore all' astrazione che si fa su di essi, e la concezione degli enti suppone che l' uomo sappia già che cosa sia essere . Io stabilisco dunque che l' intuizione dell' essere privo di determinazioni generali e speciali preceda alla concezione degli enti, e questa all' astrazione; benchè da principio quell' intuizione sia in noi senza che n' abbiamo coscienza. Conciossiachè io stimo, che di nessuna cosa che passa in noi, abbiamo coscienza, se non per un atto di riflessione che noi facciamo sopra di quella; il qual atto nol facciamo sempre, e però assai cose ci rimangono nell' animo senza che n' abbiamo coscienza alcuna, e in tale stato ci restano o per sempre, o per molto tempo. Laonde, acciocchè io mi renda consapevole d' intuire l' essere, devo certamente riflettere sopra questa intuizione. E perchè i concetti delle cose a me venuti coll' uso delle sensazioni non contengono puramente l' essere, ma il contengono vestito di certe determinazioni, riflettendo sopra di quelli, io non posso trovare l' essere puro, se non astraggo dalle determinazioni che il limitano; e così avviene, che l' astrazione mi sia necessaria, non acciocchè io mi abbia l' intuizione dell' essere puro che precede a tutto, ma acciocchè io mi renda consapevole d' averla. Di che posi per motto del « Nuovo saggio » quelle parole di S. Agostino: « commonebo, si potero, ut videre te videas . » So per altro benissimo qual sia la difficoltà maggiore, che incontra questa teoria. Ella si è il non potersi da molti concepire, che l' oggetto ideale non sia una produzione della mente, ma qualche cos' altro. Che la cosa ideale sia altro dalla cosa reale, questo s' intende; ma che essendo diversa dalla cosa reale, non sia poi una produzione della mente, questo pare a molti inesplicabile. E pure io sostengo, che la cosa ideale non è certamente la cosa reale , e non è neppure una produzione della mente. - Che cosa è dunque? - E` una cosa eterna, dico io, che illumina la mente, è un modo primitivo dell' essere che in Dio stesso ha la sua sede; questo modo primitivo dell' essere intuibile dalle menti è lume essenziale , è ciò che forma l' essenza del conoscere: tutto ciò mi dà il fatto della cosa bene osservato, ed io non mi posso dipartire dal fatto. L' essere in quanto è ideale, esiste in un modo così diverso dall' essere in quant' è reale, che fra l' un modo e l' altro non v' ha nulla di comune , ma tutto è differenza; il che io esprimo dicendo, che sono categoricamente differenti, e tuttavia l' essere è il medesimo. La difficoltà d' entrare in queste sentenze, nasce dall' estrema malagevolezza che si prova in ammettere, che oltre il reale, v' abbia un altro modo di essere; si vorrebbe ridur tutto al reale e a modificazioni o produzioni del reale; e ciò che non si riduce a questo, credesi doversi chiamar nulla; pregiudizio veniente dal trovarsi la mente umana tanto impacciata colle realità corporee. Per altro, voglia ella considerare, mio chiarissimo signor Dottore, quello che le dicevo, che l' essere ideale, solo ammesso in questo modo, spiega l' essenza del conoscere . E` appunto il conoscere, che si suppone sempre per dato, e si crede che questo gran fatto del conoscere non abbia bisogno di spiegazione. All' incontro devo ripetere che il gran problema della filosofia sta tutto in questa domanda: « Che cosa è il conoscere? »La quale si riduce a quest' altra: « Che cosa è l' idea? »; che è appunto ciò che fa conoscere. E avverta bene, che non trattasi di spiegar questo o quell' altro atto di conoscere, ma semplicemente il conoscere. All' incontro i filosofi nostri si occupano a spiegare gli atti particolari del conoscere, senza che essi s' addieno del bisogno di spiegare il conoscere stesso che essi suppongono come cosa naturalissima ed evidente. Suppongono, così facendo, quello che è in questione, quello che contiene tutta la difficoltà della filosofia, e dopo di ciò hanno un bel fare; perocchè si spacciano certo più o meno agevolmente dall' altre difficoltà che non appartengono alla questione principale. Questo schizzar di mano a' filosofi la vera questione apparisce ugualmente, osservando, ch' essi non muovono discorso che non suppongano fino a principio per belli e dati gli oggetti della conoscenza. A chi mai viene in mente di trattenersi a spiegare, come si dieno oggetti di conoscere? E dati oggetti di conoscere, è data certamente la conoscenza, perocchè sono essi che la fanno; ma resta a vedersi, come una cosa può essere oggetto di conoscere. Ci toglie l' intelligenza di questo problema la stessa natura del linguaggio, che suppone sempre il conoscere, essendo esso stesso una conseguenza e una produzione del conoscere, e però quando si formò il linguaggio, gli oggetti di conoscere già esistevano. Il linguaggio dunque parla di oggetti di conoscere già formati, e però col suo aiuto non si può trovar via da spiegare come si formino; e per giungere a questo, è uopo ricorrere alla tacitissima meditazione della mente. Mi spiegherò con un esempio. Di sopra dicevo: il problema della filosofia consistere in ispiegare, come una cosa possa essere oggetto di conoscere. Ora ecco, che l' imperfezion del linguaggio non m' aiutò tampoco ad esprimere ciò che volevo con precisione, perocchè dicendo cosa , ho già detto oggetto; e se una cosa è un oggetto, non v' ha certo più difficoltà a spiegare come un oggetto possa essere un oggetto . Ma io volevo parlare di una cosa in quel modo di essere, ch' ella si ha, prima che sia fatta oggetto di conoscere, ossia prescindendo al tutto dalla sua oggettività. E per esprimere la cosa secondo tal sua maniera d' esistere non oggettiva, niuna lingua fornisce parola alcuna, perocchè tutte le parole sono state imposte alle cose in quanto queste erano già divenute oggetti di conoscere, nè potea farsi altramente. Laonde solo colla mente che medita e trova, dovere aver le cose un modo diverso dall' oggettivo, si può giungere a vedere quanto sia necessario e difficile lo spiegare, come ciò che non è in se stesso oggetto della mente, divenga poi tale. Ben mi persuado, che ella colla perspicacia della sua mente, pensandovi seriamente, conoscerà quanto tutto questo sia vero; e quindi s' accorgerà come la questione primaria non viene affrontata, ma supposta e trapassata anche nelle parole che ella dice al II (del) suo « Saggio . » « Per questa legge primordiale che governa l' attività della intelligenza, lo spirito umano è costretto di ricercare in qualunque oggetto sperimentale, ed in un modo non accidentale, ma preordinato ed immutabile, la sua causa ed il suo fine ». Cominciando così la teoria della conoscenza col dire, che lo spirito umano è costretto di ricercare queste cose, ella suppone che le possa ricercare e conoscere: quando tutto il nodo della questione sta veramente in definire come ciò sia possibile, a quali condizioni lo spirito possa conoscere, e più brevemente, che cosa sia il conoscere. Perocchè se mi si dà già a principio il conoscere, in tal caso certo non mi resterà più altro carico, che quel solo di definire le leggi, che lo spirito segue ne' suoi varŒ conoscimenti, che è un problema secondario, e non mai il primario. - Ancora, quando ella ammette fin da principio oggetti sperimentali , il gran problema è trapassato via; perocchè questo, come dicevo, riducesi tutto a mostrare come il reale diventi oggetto . Poichè il reale non è oggetto per se stesso, ma è solo soggetto o appartenenza del soggetto ; ma a noi sembra oggetto per sè, perchè sogliamo parlare sempre del reale conosciuto , e pensiamo quello che parliamo. E qui le dirò di più, che senza ascendere alla prima questione, che investiga che cosa sia il lume della mente, e che trova e ravvisa un modo d' esister dell' essere, diverso dal reale, un modo essenzialmente oggettivo e che oggettivizza il reale quando a lui mentalmente si congiunge, non si può, a parer mio, difendersi dallo scetticismo. Non è sufficiente il dire, che la legge preordinata e immutabile colla quale la mente in ogni cosa cerca sostanza, causa e fine, non inganna l' uomo, ma il conduce alla verità e a concepir le cose così come sono, essendo ella posta da Dio. Lo scettico risponde: provatemelo; e con questa sola parola atterra l' argomento; perocchè se per provarlo si ricorre al fatto, questo ci dice bene, che la mente opera così, ma non ci può mica dire, se ella, così operando, non sia avvolta forse in un' illusione trascendentale. Nè pure si può ricorrere alla veracità e bontà di Dio; perocchè lo scettico replica tosto: provatemi prima che si possa conoscere che Dio esiste. Egli è dunque necessario di mostrare agli scettici prima di tutto in che consista l' essenza del conoscere , e dimostrare che questa essenza non può essere impugnata, perocchè coll' atto dell' impugnarsi la si pone. E questa è sola proprietà dell' essere possibile ; perocchè se quest' essere si nega, dunque è possibile, conciossiachè non si nega mai l' impossibile, e se si negasse, resterebbe il possibile, in virtù della doppia negazione. Su questo punto fermo a me è paruto di dover piantare la certezza dello scibile umano. Ogni legge soggettiva, se emana dal soggetto, non può avere le proprietà del vero; e se è preordinata da Dio, non può essere il primo vero, giacchè prima di essa si dee provare questa sua preordinazione, la quale non può esser provata per essa, senza cadere in un circolo: si dee dunque ricorrere ad un altro principio più evidente. Finalmente, le osserverò ancora, che la legge da lei ingegnosamente annunziata, onde lo spirito cerca in tutto sostanza, causa e fine, suppone la cognizione dell' essere . Perocchè quando io dico: « dato l' accidente, vi dee essere la sostanza, »traducendo queste parole in altre vengo a dire: « tale è la natura dell' essere che se fosse semplicemente accidente, non sarebbe essere, e perciò: non v' è essere se non a condizione che vi sia sostanza ». Quando dico: « ciò che comincia ha avuto una causa »; io non fo che affermare di nuovo, essere impossibile un ente cominciante senza causa. Affermo che ciò ripugna alla natura dell' essere; nè potrei dir ciò se non conoscessi la natura dell' essere. Quando poi dico: « ogni ente dee avere un fine »; di nuovo la mia asserzione suppone, che io sappia che cosa deva aver l' ente, ossia suppone, che la natura dell' ente mi sia nota a segno, che io possa dire che cosa egli deva avere. La necessità dunque di causa, di sostanza e di fine emana dalla natura dell' ente a me preconosciuta; nè l' uomo potrebbe sentire quella necessità, se egli non conoscesse questa natura, se non conoscesse quello che io chiamo l' ordine intrinseco dell' essere , il quale ci si rileva nell' essere stesso e coll' essere stesso, quando questo si applica alla realità. Se dunque lo spirito è costretto di cercare in ogni cosa sostanza, causa e fine, io conchiudo: dunque conosce l' essere immediatamente, e, conoscendolo, ne sa le esigenze; dunque anteriormente alla legge che costringe lo spirito a cercar quelle cose nell' essere, è l' intuizione dell' essere stesso; dunque la legge dell' intelligenza sagacemente da lei sviluppata è natural conseguenza di quella notizia dell' essere , senza la quale lo spirito umano niente può vedere, niente pronunciare. Le quali mie osservazioni ella vorrà, spero, chiarissimo sig. Dottore, ricevere cortesemente e come un monumento dell' alta stima che le professo e colla quale sono ec.. Una filosofia la quale non tenda al miglioramento dell' uomo, è vana. Ed oseremo anche dire di più, essa è falsa; poichè la verità migliora sempre l' uomo. Vero è, che l' uomo abusa delle stesse verità: egli fa servire la verità all' errore ed alla propria perversione. Ma ciò nasce da questo, che la verità di cui fa sì deplorabile abuso, non è intera; poichè la verità, quando è intera, esclude necessariamente ogni errore; e però si può odiarla, ma non abusare di essa, non farla servire alla distruzione di alcuna altra verità; conciossiachè essa le comprende tutte e le comprende fornite di una cotal luce di evidenza. Egli è dunque necessario che la filosofia presenti una verità intera; cioè un complesso di verità ben ordinate; dappoichè anche l' ordine è una verità. E non si vuol già dire con questo che un tale adunamento di verità comprenda tutti i veri, tratti fuori, l' un dopo l' altro, per singulo; il che ognun vede essere impossibile: ma bensì che i veri singolari sieno virtualmente compresi nella università de' principŒ che tutti li portano in sè; e di sè all' uopo ingenerano le innumerabili conseguenze, ove sieno alla diversità delle cose applicati. Ma s' abbia pure il filosofo messo nell' animo il nobile proponimento di volere abbracciarsi a tutta intera la verità e di essa far subbietto alla sua filosofia; e d' acconciarla in ogni modo migliore che egli possa, al conoscimento ed al miglioramento dell' uomo. Egli deve ancora conoscere le sue forze, affinchè non gli accada di presumere: egli deve sapere che la filosofia non basta a conseguire che l' uomo veramente si ammigliori. La filosofia non può essere che una parte degli aiuti che si prestano all' uomo, perchè egli si ammigliori e perfezioni. Quand' anche la filosofia sia resa una esposizione della verità nella sua universalità e interezza, ancora, come dicevamo, la verità può essere odiata dall' uomo; e l' uomo può trovare in quest' odio, l' estremo del suo corrompimento. Perocchè la verità appartiene alla intelligenza, ma la virtù appartiene alla volontà; ed è a quest' ultima potenza che spetta il vero miglioramento e perfezionamento umano. Ora della volontà è proprio l' operare e dell' intelletto il conoscere. Egli convien dunque che l' educazione nel tempo stesso che illustra l' intelletto, dandogli il pascolo di una sana filosofia, allevi e pieghi altresì al bene la volontà coll' esercizio delle buone azioni, le quali si cangiano in buone abitudini che pigliano nome di virtù. Di qui è che gli antichi, non sofferendo che queste due cose stessero scompagnate, le congiungevano insieme, applicando all' una e all' altra il solo nome di filosofia che poi definivano « lo studio e l' amore della sapienza ». Ma l' uso ha poscia ristretto il significato della parola filosofia alla sola prima di queste due cose, cioè a significare il complesso delle verità generali e supreme che debbono illustrare e annobilire l' umano intendimento. E non basta sola questa riflessione a conoscere ed a definire l' ufficio della filosofia, e la parte che essa può avere nel miglioramento dell' uomo. Conviene di più considerare la scienza filosofica nel sistema cattolico. E diciamo nel sistema cattolico, poichè supponiamo di parlare a' cattolici. Che se dovessimo parlare ad altri, noi dovremmo condurre il discorso assai più dalla lunga; perocchè ci sarebbe necessario a far intendere il nostro concetto, di provar prima la verità della Cattolica Religione, e solo di poi scendere a vedere che parte si abbia la filosofia nel tutto dell' umano perfezionamento. Conciossiachè nel solo vero Cristianesimo l' uomo viene considerato nel suo intero, e non parzialmente. E dove l' uomo non si consideri nella sua integrità; cioè fornito di tutte le sue reali condizioni e relazioni, non è possibile il determinare la ragione di una sua parte al tutto; perocchè egli è sempre uopo conoscere il tutto, onde conoscere la ragione comparativa della parte. Il perchè, in ragione di metodo, noi così avvisiamo, che non si possa assegnare il suo posto e il suo ufficio alla filosofia, se non si considera l' uomo del Cattolicismo; cioè di quel sistema religioso che determina pienamente i rapporti di esso uomo con Dio, che è l' essere assoluto, da cui l' uomo con tutte insieme le cose ha l' esistere; e da una continua provvidenza del quale viene, senza alcuna posa o rallentamento, condotto e governato. Poniamo dunque vero il Cattolicismo: il che tanto più si conviene a noi, che viviamo in una nazione eminentemente cattolica, e che della fede e della pietà ha fatto il suo più nobile vanto. Or, secondo i principŒ di questo sistema, cerchiamo di definire qual parte aver debba la filosofia nel miglioramento e perfezionamento dell' uomo. Fu innanzi detto che la buona filosofia presenta all' intendimento la Verità nel suo modo intera: ma ciò vuolsi intendere con certa limitazione: perocchè anche la Rivelazione parla all' uomo di verità; e la Grazia stessa, secondo la cattolica dottrina, è lume che vien dato alla mente. Il perfezionamento dell' uomo adunque, anche considerato solo dalla parte dell' intelletto, non viene compiuto, secondo i principŒ del Cristianesimo, se non dalla Religione. La filosofia si limita ad illustrare l' intelletto umano nell' ordine naturale; ma la parola del Cristo è quella che trasporta l' uomo in un ordine soprannaturale, in una regione al tutto divina; e che per tal modo consuma la sua perfezione. Egli è dunque a vedere che cosa sia l' ordine naturale e che cosa sia l' ordine soprannaturale ; e quale relazione si abbia l' uno all' altro; e quindi medesimo, di che fatta miglioramento possa aver l' uomo dal sapere, nell' ordine della natura, e di che fatta perfezionamento possa aver dalla Fede, nell' ordine della Grazia. Ora ecco brevemente questo rapporto: noi lo esponiamo come un risultamento datoci dalla propria indole della filosofia e della Religione. Il principio della filosofia, siccome abbiam detto, è la VERITA`, e il principio della Grazia è pure la VERITA`. Ma la filosofia, parlando della verità, non ce ne parla come di un essere reale e sussistente; ce ne parla solo come di un essere mentale, di un' idea, o, vogliasi ancora, di un' astrazione. Vero è che i filosofi che si levarono più alto nella contemplazione, rimasero sommamente maravigliati e stupiti in considerando la forza delle idee, le quali pure al comune degli uomini, occupati delle sensazioni e delle entità materiali, non sembrano che tenuissime forme e non degne di speciale meditazione: e nella forza delle idee videro contenersi le ragioni e i principŒ eterni di tutte le cose, le basi invariabili, per così dire, dell' universo variabile; sicchè giunsero a dire che le idee sole erano cose realissime, e, trapassando ogni confine, le divinizzarono. Ma lasciando da parte questa sciaurata idolatria delle idee, che fu lo scoglio a cui ruppero tutti i più grandi ingegni che navigarono senza la guida del Cristo, non esclusi quelli de' nostri tempi (1), e fermandosi là dove dissero che le idee sono le cose realissime (2), noi osserviamo che essi però non poterono mai negare la diversità fra le idee e le sostanze sussistenti; e non poterono dare a quelle l' efficacia propria di queste; come, a ragion d' esempio, non poteron mai sostenere che l' idea di un cibo tolga la fame siccome fa un cibo reale e sostanziale. Laonde, checchè dicessero e speculassero nobilmente i filosofi sulla natura delle idee, esse rimasero però idee; e non poterono essere sollevate, con tutti i loro sforzi, a stato di cosa reale. Di che avviene che non potendosi concepire la verità de' filosofi se non come un' idea indeterminata, egli è manifesto che il principio della filosofia non è, e non può esser più di un essere ideale . Ma anche la Religione del Cristo parlò alla terra, come dicevamo, di Verità: ed ella anzi si annunzia come quella che sola comprende la pienezza della verità (3): la Verità è finalmente il fonte, il principio immediato, da cui dice scaturire la sua dottrina. Ma la Religione Cristiana ci parla della verità ben in altro modo da quello in che ci parla di lei la filosofia: essa non ci presenta la Verità come un essere meramente ideale; essa ci dice anzi che la Verità, da cui ella nasce come da suo prossimo principio, è una cosa reale, una sostanza, una persona; la quale persona di più si è congiunta in un modo ineffabile, e per non dividersi quindi giammai, colla natura umana. Questa maniera di parlare è certamente misteriosa e arcana alla ragione nostra, che non è avvezza di considerare la Verità, se non come una astrazione, o certo come una idea, e che non trova modo alcuno da vedere come ciò che è un essere ideale possa anche sussistere in se medesimo, essere una sostanziale e reale persona. Ma questo che è superiore al concepimento naturale dell' uomo, è appunto il mistero della Fede ; ed il solido fondamento, in cui l' edificio tutto intero della Cristiana Religione posa e si eleva. Or ecco dunque ciò che hanno di comune e ciò che hanno di diverso i principŒ della filosofia e della Religione di GESU` Cristo: hanno di comune che l' uno e l' altro principio è la Verità; ma hanno di diverso questo, che la Verità, in quanto è lume naturale dell' uomo e serve di principio alla filosofia, non si presenta a noi che sotto una forma puramente ideale; là dove la Verità, in quanto è lume soprannaturale e principio della Religione Cristiana, si presenta sotto una forma anche reale e compiuta. E volendosi da noi cercare quale sia quella prima ed essenziale Verità che si fa principio alle filosofiche cognizioni, che è quanto dire, a tutto il sapere naturale, egli è evidente che questa non può essere nessun vero particolare; poichè nessun vero particolare è il primo vero, ed ha la ragione sua in un altro vero a lui anteriore e più di lui universale. Di che viene che la prima verità esser debba universalissima; che è quanto dire la verità stessa, e questa indeterminata, ossia l' essere ideale il più universale e indeterminato. L' essere stesso adunque intuìto naturalmente dall' anima, è il principio della filosofia, come con più altri ragionamenti si potrebbe chiaramente dimostrare (1). Ed ora l' essere è anche il nome che esprime l' essenza di Dio nelle divine Scritture: « « Io sono l' ENTE, » dice Dio nell' Esodo: «Ego eimi o on» », secondo la traduzione dei Settanta. Si veda coerenza! il principio della filosofia è il lume della ragione; il principio della Fede è Dio stesso; quello è la Verità, ma solo ideale; questo è la Verità, ma sussistente. La Verità della filosofia è l' Essere , e la Scrittura dice che Iddio è appunto l' Essere . L' essere della filosofia è ideale e indeterminato; l' essere della Fede è anche reale e d' ogni lato completo. Considerando la natura dell' essere ideale , si trova che egli è bensì l' essere , ma veduto imperfettamente; veduto senza i suoi termini, e solo nel suo principio. All' incontro Iddio è l' Essere assoluto e d' ogni lato compiuto. Questo ci scorge a vedere la relazione della filosofia colla Dottrina rivelata, deducendola dalla relazione che hanno infra loro il principio dell' una e il principio dell' altra. Tale relazione consiste in ciò che il lume naturale è un cotal cominciamento di quel lume che si ha completo solo nella Rivelazione. Giacchè quell' essere stesso che, come dicemmo, perfetto è il grande Oggetto della Fede, veduto inizialmente e imperfettamente come il vediamo per natura, è ciò che costituisce il lume della ragione. Egli è perciò che le divine Scritture, parlando del Verbo di Dio, Verità sussistente, Essere completo, dicono che è desso: « « Quegli che illumina ogni uomo veniente in questo mondo » » Il che è quanto dire che il lume naturale è una imperfetta partecipazione dello stesso Verbo divino. Questa dottrina si trova da un capo all' altro de' Sacri Libri; e non sarebbe difficile raccogliere una quantità di testimonianze, cavate dagli scrittori ecclesiastici di tutti i secoli, i quali si tramandarono da uno in altro come un vero tradizionale, che « la verità naturalmente veduta dagli uomini, è una parte, un riflesso, un raggio della Verità, che è Dio medesimo »(1). Una filosofia dunque sana e vera la quale possa adempiere l' ufficio di migliorare gli uomini: primo, non potrà mai venire in collisione colla Religione del divino Maestro; secondo, dovrà riguardare la Fede, come quella che compisce ciò che a lei manca, e riverirla, come sua maggiore; terzo, dovrà preparare la via alla Fede, abbozzando, per così dire, nell' uomo quel disegno di perfezione che alla sola Fede e alla sola Grazia è possibile di condurre a finimento. Ora rimane a vedere come possa la filosofia procedere, volendo por mano a tale opra che a lei è commessa. Noi abbiamo detto che la Verità è sempre di sua natura perfezionatrice dell' uomo; ma che solo la Verità intera chiude al tutto le porte all' errore. Una filosofia adunque salutare deve allargarsi, deve esser mossa da un amore, da una tendenza ad abbracciare la Verità tutta quanta ella è ampia. Egli è solo con questo vastissimo ed onestissimo desiderio che la filosofia si rende giusta verso la Verità: perocchè il rendersi esclusiva e il rifiutare l' una o l' altra parte di verità, è già una ingiustizia che si commette contro l' essenza della Verità: e il cominciare da un' ingiustizia non è migliorarsi. Tutta la Verità è tutto l' Essere, in quanto è concepito dalla mente. Ora l' Essere ha tre forme primordiali: perocchè ci si presenta sotto la forma d' idea ; sotto quella di realtà : e finalmente sotto forma di congiunzione fra la realtà e l' idea . A queste tre forme, noi diamo i nomi di Essere ideale, Essere reale ed Essere morale . Ora, l' Essere contemplato in ciascuna di queste sue forme si fa subbietto alle prime tre scienze filosofiche, le quali si possono nominare Ideologia, Dinamilogia (1) e Agatologia . Queste tre scienze debbono formare un' ampia e solida base di tutto l' edificio filosofico. Ma sia che si consideri l' essere prescindendo dalle sue forme, sia che lo si consideri in ciascuna di esse, egli si presenta alla considerazione della mente sotto due rispetti distintissimi. Poichè la mente, o lo riguarda in universale e ne rinviene una teoria, a cui dà il nome di ONTOLOGIA, ovvero cerca l' archetipo dell' essere stesso, ed allora rinviene un' altra teoria, che è quella dell' essere assoluto, a cui dà il nome di TEOLOGIA (1). Tutte due queste grandi teorie trattano dell' essere, tanto nella sua unità, quanto nella sua trinità, cioè in ciascuna delle sue tre forme; ma l' Ontologia considera l' essere a quel modo che può, cercandone la natura unicamente nell' idea o concetto del medesimo; laddove la Teologia, investiga l' essere, quasi direi, concretato e attuato fino all' ultima sua perfezione, onde tratta di Dio. Queste due teorie abbracciano in se stesse le tre scienze nominate, nelle quali come in altrettante loro parti si dividono; laonde c' è una Ideologia, una Dinamilogia ed una Agatologia Ontologica , ed un' altra Ideologia, un' altra Dinamilogia e un' altra Agatologia Teologica . Convien considerare qui l' ordine di queste tre scienze. E` manifesto che non si può ragionare di quella forma che dà all' Essere l' atto suo perfettissimo, di che tratta l' Agatologia , senza che si conosca prima l' Essere in quanto è reale e in quanto è ideale; conciossiachè la perfezione dell' atto dell' Essere nasce dall' individua e perfetta congiunzione di queste due forme della idealità e della realtà: che perciò di queste si deve aver parlato prima che della loro relazione o unione. Ma egli non è difficile ancora a conoscere che dell' Essere reale , del quale tratta la Dinamilogia , non si può tenere alcun ragionamento, se non dopo aver messa fuori la dottrina intorno all' Essere ideale , che è contenuta nella Ideologia; perocchè nessun Essere ideale da noi si conosce se non coll' aiuto delle idee . E perciò il discorso delle idee è indubitatamente quello, da che dee muovere tutta la filosofia, ed, anzi meglio, tutto il sapere umano. E anche, vi ha egli sapere senza idee? e se ogni sapere dipende dalle idee, qual valore avrà egli, ove restasse il dubbio che le idee c' ingannassero? Conviene dunque sapere prima di tutto: « se le idee che sono il mezzo del saper nostro c' ingannano o ci dicono il vero ». E per sapere se le idee non c' ingannino, ma s' abbiano quella autorità che gli uomini sogliono attribuire loro, a cui dover credere sempre, conviene disaminarne la natura; e la natura delle idee non si mette ad esame e non si conosce se non investigandone l' origine, del che principalmente tratta l' Ideologia . La quale scienza nelle sue ricerche giunge ultimamente a conoscere che non avvi, propriamente parlando, nella mente umana, se non un' idea sola, colla quale e nella quale si vedono tutte le cose; e questa è l' idea dell' Essere in universale ; ed è il proprio lume della mente, e in essa si trova l' evidenza e la necessità della cognizione; sicchè ella costituisce finalmente un tal criterio di certezza , che rende impossibile ogni dubitazione. Con che è posta la pietra fondamentale della Logica che distrugge ogni maniera di scetticismo, e insegna l' arte di ragionare, o sia, di applicar l' idea ad ogni maniera di cose; perocchè il ragionare non è che una continua applicazione dell' idea dell' Essere in universale; e così la Logica nasce figlia primogenita alla Ideologia; e occupar deve il secondo posto nell' albero delle scienze. Conciossiachè è tale l' incatenamento del sapere umano, che una scienza ci rimanda a cercare il suo perchè nella scienza ad essa anteriore. Or la ragione di una cognizione non è che un' altra cognizione, un' idea più generale; di che la prima ragione di tutte le cognizioni non è che l' idea più universale di tutte. Per la qual cosa l' Ideologia e la Logica che trattano dell' idea dell' Essere universale, la prima considerandola come il Fonte delle idee, e la seconda, come il Criterio della certezza, sono di loro natura le prime scienze. E per la medesima cagione definendosi da noi la Filosofia per la scienza delle prime ragioni , egli è manifesto che quelle scienze che trattano della primissima ragione, debbono essere quelle, onde la filosofia stessa incominci. Egli è vero che in ogni disciplina c' è quella idea che ne forma la prima ragione, e che per conseguente c' è la filosofia di ogni genere di sapere. Così c' è una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della giurisprudenza, una filosofia della politica, e via dicendo. Ma le ragioni prime di queste scienze non sono prime che relativamente ai particolari complessi di cognizioni che costituiscono esse scienze; laddove l' idea dell' Essere in universale che si fa subbietto alla Ideologia ed alla Logica , è la ragione prima relativamente a tutto lo scibile. Il perchè questa parte si potrebbe anche acconciamente chiamare la filosofia della filosofia. Ad essa poi continuar si deve la Dinamilogia e l' Agatologia , perchè la dottrina dell' Essere si spieghi sotto tutte le sue forme primigenie. Egli è evidente che se non si premette la teoria dell' Essere universale, non si può parlare con sicurezza di nessun essere particolare; e che perciò non si può neppur conoscere l' uomo; poichè anch' egli non è più di un essere particolare. E in vero, chi sottilmente considera, vedrà che i principali e più perniciosi errori presi da' filosofi intorno all' umana natura, ebbero origine dal non aver essi considerata prima nell' uomo la natura dell' Essere universale. Perocchè di qui avvenne che non conobbero il rapporto che ha l' uomo con tutto l' Essere; di che il collocarono in posto non suo; come segnatamente accade a coloro che fecero dell' uomo il centro dell' universo. Con che introdussero nella filosofia teoretica il Panteismo e l' Ateismo, e nella pratica il Filantropismo e l' Epicureismo (1). Or la scienza della natura umana si può chiamare acconciamente Antropologia , la quale deve considerare l' uomo non meno nella sua parte animale, che relativamente al suo spirito, e finalmente nel soggetto in cui convengono l' animalità e l' intelligenza. E questa dottrina dell' uomo egli è manifesto che deve essere la prima nell' ordine delle scienze particolari; chè, come dicevamo a principio, tutto ciò che noi cerchiamo colla filosofia non è finalmente che il miglioramento di noi stessi . Sicchè non c' è altra cagione per la quale noi differiamo a parlar dell' uomo fin dopo aver compiuto il discorso dell' Essere in universale, se non questa, che ci era impossibile il parlarne prima convenevolmente; poichè a chi vuole investigare la natura d' un essere particolare, conviene che sia prima venuto in possesso de' principŒ che scaturiscono dalla dottrina dell' Essere in universale per siffatto modo, che si possono considerare quelle scienze nelle quali viene ordinata una tale dottrina, quasi come una cotal grande Prefazione al trattato dell' uomo. Ora dunque venuti noi a parlare dell' uomo, e della sua perfezione, scopo della scienza, la prima cosa conviene sicuramente conoscerne la natura , come detto è, ciò che fa l' Antropologia: ma tosto appresso conviene cavare dalla teoria della sua natura la scienza delle sue tendenze , la quale noi chiamiamo Eudemonologia , che viene a dire « discorso della felicità »; poichè tutte le tendenze umane vanno finalmente a parare nel desiderio d' essere felice; sicchè la teoria della felicità comprende naturalmente quella delle tendenze dell' uomo. Incontro alle quali tendenze, quasi freno, o, a dir meglio, regolamento, stanno i doveri morali scritti nel cuore dell' uomo, e raccolti dall' Etica ; dalla quale noi pensiamo util cosa, che si derivasse e cavasse poi a parte un trattato de' diritti naturali che sia fondamento alla civile legislazione (1). Ma non basta aver veduta la natura umana, le sue tendenze , i doveri , i diritti , e aver considerato tutte queste cose ne' brevi ed angusti fatti dell' individuo; è necessario di più vederli, quasi riportati sopra una scala maggiore, ne' fatti del genere umano: il che dà luogo ad una Storia filosofica della Umanità; nella quale apparisca principalmente quali sieno le leggi immutabili venienti dalle proprietà della natura umana, alle quali è soggetto tutto lo sviluppo e il perfezionamento successivo della umanità (2). La qual cognizione ci lastrica ultimamente la via a poter entrare sicuramente nel trattato de' mezzi pe' quali l' umanità si viene sviluppando e perfezionando, i quali mezzi, ridotti ai sommi ed universali, sono tre (diciamo de' principali, che non si possono del tutto omettere in un corso scolastico), cioè a dire la società domestica , la società civile , e l' educazione , che, sebbene sia anche l' ufficio dell' una e dell' altra società, tuttavia si può anche considerare come un magistero che sta da sè; poichè non è nuovo, che uomini amatori de' loro simili abbiano allevati i fanciulli altrui con amore di padri, e senza averne ricevuto commessione o eccitamento o mercede da nessuna umana potestà. I quali tre sommi mezzi si rendono per tal guisa argomento di tre nobilissimi trattati filosofici che si volgono intorno all' ottimo ordinamento della società domestica, e all' ottimo ordinamento della società civile, e finalmente all' ottima educazione; trattati si possono acconciamente denominare, come furono denominati dagli antichi, Iconomia , o con altro simile nome migliore (1), Politica , e Pedagogica . Or così assolvesi il corso delle principali scienze filosofiche, v“lte all' umano miglioramento le quali dovrebbero entrare nell' istituzione filosofica, da darsi alla nostra gioventù nell' Accademia. Le quali, riassumendole qui brevemente, si compongono di due serie, cioè; La serie di quelle scienze filosofiche che trattano dell' ESSERE stesso; e La serie di quelle scienze che trattano in particolare dell' UOMO. La prima serie ne contiene quattro: primo, l' Ideologia; secondo, la Logica; terzo, l' Ontologia; quarto la Teologia naturale. La seconda ne contiene otto: primo, l' Antropologia; secondo, l' Eudemonologia; terzo, l' Etica; quarto, il Diritto razionale; quinto, la Storia dell' umanità; sesto, l' Iconomia; settimo, la Politica; ottavo, la Pedagogica. La quale distribuzione può essere facilmente variata, nè certo comprende tutto il ciclo delle scienze filosofiche (2); ma solo ci parve sufficiente e ad un tempo necessaria, acciocchè la facoltà filosofica acquisti nelle nostre Università quella dignità e quell' ampiezza, che le è dovuta, e da cui siamo cotanto lontani, dignità ed ampiezza, mancando la quale lo spirito della gioventù studiosa non si può elevare, ne' tempi nostri, ad un alto sentire e ad un generoso pensare, nè trovarsi a sufficienza armata contro il sofisma, nè bene intendere quale ha il cammino pel quale la scienza conduce alla virtù. Fra le molte obbligazioni, che mi legano a Monsignor Ostini, non è picciola questa d' avere eccitato Lei a scrivermi, e così dato a me l' occasione d' entrare in corrispondenza colla sua rispettabile e dotta persona. Se non che in questo stesso non mi manca cagione di muovere qualche lagno coll' egregio Ostini. La gentilezza di Monsignore me le debbe aver dipinto troppo altra cosa da quel ch' io sono, e fors' anco per un qualche gran baccalare in filosofia: il vedo dalla sua lettera troppo cortese e vantaggiata pe' pari miei. E però La prego prima di tutto di smettere sì falsa opinione, venutale dall' altrui amicizia, e dalla sua propria bontà, non solo per ben mio, acciocchè io non m' abbia poi a vergognare d' essere conosciuto molto diverso alle prove; ma ancora per ben suo, acciocchè Ella non s' abbia a trovare ingannato in sul meglio; ciò che a ciascuno dispiace. Ed ora sono con Lei. Le questioni filosofiche che mi propone nella sua lettera, come Ella medesima ben vede, potrebbero essere soggetto non che di una lettera famigliare, ma di un libro, anzi di molti. Ella sa quanto le varie parti della filosofia sieno connesse tra loro, come ciascuna riceva lume da tutte l' altre; ed appena che io mi creda potersi rendere al tutto chiara qualche verità, quand' ella non si mostra a suo luogo, non s' espone insieme con tutto il sistema delle verità, a cui quella appartiene: ciascuna di queste verità, è piccolo membro a un gran tutto; nè s' intende a fondo, se non si concepisce non solo la sua natura, dirò così, ma ben anche le sue relazioni, que' veri che la precedono e quelli che la susseguono, e de' quali essa o è la ragione, o la conseguenza. E tuttavia non posso negarmele a esporle con brevità alcune cose che io penserei sulle questioni proposte, pregandola, non già a ricevere queste mie considerazioni, come quelle che a me soddisfacciano compiutamente, e molto meno come quelle che esauriscano le importantissime risposte da Lei desiderate, ma solamente come quelle, che mi concede una lettera famigliare e la brevità del tempo. La sua prima dimanda riguarda la classificazione dei sistemi filosofici. Mi sembra, a questo proposito, che i sistemi filosofici si possano classificare in due maniere: 1 o col nome de' loro inventori, 2 o colla diversità de' principŒ che pongono. Ella mostra nella sua lettera di seguire il primo metodo. Ma sebbene io al tutto non lo rigetti, tuttavia mi pare ch' esso non potrà mai essere recato a quella esattezza, e fornito di quella distinzione precisa che nelle dottrine filosofiche è desiderabile e necessaria. E` bensì semplice, e, come il primo che viene alla mente, fu comunemente adoperato. Ma questa divisione mi pare che riposi, se le debbo dire il vero, in quel soverchio d' autorità, che in altri tempi fu conceduto ad alcuni maestri, i quali per le loro dottrine essendosi partiti dal comune degli uomini, furono dagli uomini, veggendoli sì alti, venerati quasi altrettante deità. E di questo soverchio d' autorità dubito non forse ancora si ritenga l' effetto nel tempo nostro, senza che noi pure ce ne avvediamo, e bene spesso anche maritando questo difetto col suo opposto, cioè con quello di una franchezza soverchia in portare giudizio d' uomini grandissimi certamente, e delle dottrine loro, giacchè nello spirito umano simili contraddizioni non sono rare. E veramente questo modo di partire e contrassegnare le filosofie co' nomi degli inventori, suppone che i diversi maestri ed inventori di esse sieno sempre coerenti con se medesimi per tal maniera, che l' uno s' abbia un corpo di dottrine al tutto compaginato e perfetto, e diviso da tutti gli altri corpi o sistemi di dottrine. E comunemente quelli che hanno voce di fondatori di cotesti sistemi, procedono così alti nelle loro promesse, almeno in tutta quella parte nella quale confutano le dottrine altrui, che mostrano di non volere aver nulla di comune cogli altri, e presumono di avere cavata tutta intera da sè soli, quasi facendola esister dal nulla, la filosofia. Promesse di presunzione umana! Se noi gli esaminiamo imparzialmente, massimamente là dove, dopo aver distrutti gli altrui sistemi, cominciano a edificare i proprŒ, vediamo che, per quanto procurino di dividersi dagli altri con una nuova disposizione di cose, vengono però sempre (negandolo essi) presso a poco negli stessi sentimenti: e talora ponendo alcun principio diverso, non consentanee al principio deducono le conseguenze, ed entrano, senza pure avvedersene, nel sistema altrui. Per quanto io abbia riflettuto, non mi è occorso giammai di vedere un sistema al tutto compaginato e stretto con se medesimo e perfetto: almeno mi riesce impossibile il credermi in caso di affermare, che questo sistema ci sia: per dir ciò dovrei credere, che ci sia qualche libro, il quale contenga tutti i principŒ necessarŒ per isciogliere qualunque problema di filosofia. Come dunque i nomi di due filosofi sono totalmente diversi l' uno dall' altro; così venendo a classificare i sistemi secondo questi nomi, sembra che si supponga, i sistemi stessi essere interamente l' uno dall' altro diversi, ciò che non si avvera o difficilmente si può verificare, essendo tanto vasta la filosofia. Di vero la filosofia, e anche, se vogliamo, la sola metafisica è un aggregato di più scienze (1); e quando anche due filosofi in alcuna di queste scienze realmente e non di sole parole discordassero, potrebbero concordare in qualche altra: laonde co' nomi degli autori potrò bensì distinguere materialmente i libri delle filosofie, ma non mai formalmente le stesse filosofie. Poichè quando si vogliono dividere le specie, non deve entrare nell' una quello che nell' altra; altrimenti non sono ben divise. Però sono venuto più volte in questo pensiero, che non si possa aver giammai una classificazione perfetta ed una storia della filosofia, fino a che non è stata fermata la perfezione stessa della filosofia. Allora raffrontando alla perfetta filosofia le altre non perfette o false, si potrà determinare in quali parti discordino: e di ciascuna discordanza si potrà formare la base d' un sistema falso, e quasi il germe di tutto il sistema (1). Ma perchè queste cose sieno chiarite di alcuno esempio, prendiamo non già tutta la filosofia, poichè non è stata ancora ridotta ad un semplice principio, e non viene significata con questa parola una scienza sola; ma prendiamo una parte della filosofia, che da un solo principio, o da una sola questione dipenda. E sia quella di cui più si occupa oggidì il mondo, e che Ella mi tocca nella sua lettera, dell' origine delle idee. Questa si riduce ad un solo principio, o per dir meglio ad una sola dimanda: In che modo lo spirito nostro venga in possesso delle idee . Le farò una classificazione di alcune delle principali opinioni tenute sulla questione. Queste opinioni diverse o questi principŒ diversi, riducendosi ad un solo oggetto, diventano naturalmente germi di varŒ sistemi, i quali, sieno o non sieno abbracciati dagli autori, sono però fra di loro totalmente diversi, perchè sono figli di un principio solo, totalmente diverso. E primieramente osservo che alcuni filosofi si sono il più occupati ad esaminare la potenza di produrre o d' avere le cognizioni delle cose e le idee: altri hanno fermata maggiormente la loro attenzione sui mezzi o aiuti esterni di cui quella potenza ha bisogno per operare. I sistemi dunque sull' origine delle idee si possono dividere da questi due capi di divergenti opinioni; A. dalla differenza delle opinioni de' filosofi intorno la potenza di conoscere; B. e dalla differenza delle opinioni intorno gli aiuti esterni dalla potenza di conoscere. - Cominciando dal primo capo. Alcuni pensarono che bastasse dare all' anima una potenza o facoltà, e per oggetto di questa potenza le sensazioni ricevute per gli organi corporei. Così prima delle sensazioni, non posero nello spirito umano nessuna traccia di cognizione. Di questi, Ella vede, è il Locke, il Condillac ecc.. Altri dissero che la facoltà di pensare non bastava concepirla nell' uomo prima del suo sviluppo, come una mera potenza, ma bisognava darle qualche traccia di cognizione non ricevuta da' sensi, lasciando poi d' esaminare se questa cognizione innata formasse parte essenziale e s' immedesimasse colla stessa facoltà di pensare, e si dovesse distinguere fra la facoltà di pensare e questa innata cognizione. Ad ogni modo costoro, non si appagavano di considerare la facoltà di pensare come una potenza in genere e quasi diremo di natura incognita, come i Lockiani; ma volevano protrarre più innanzi la loro investigazione (1), e non sembrava loro di essere ancor giunti a spiegare l' origine delle idee coll' ammettere semplicemente una facoltà di conoscere nell' anima umana; a loro pareva necessario a tal uopo di entrare ancora a determinarne la natura e le leggi, ricercando quale ella doveva essere questa facoltà per poter servire all' ufficio, che le si attribuiva, di pensare alle cose e quindi averne le idee. Ora a taluno parve che in nessuna maniera si poteva spiegare come sì fatta potenza fosse atta al suo fine, se non se la immaginava d' una natura particolare, e tale ch' ella portasse in qualche maniera seco gli oggetti suoi fino dall' istante ch' ella cominciava ad esistere. Ed in questo risultato convenivano moltissimi ingegni di gran valore, i quali avevano profondamente pensato al modo onde questa potenza di conoscere potesse fare le operazioni che fa, e l' avevano seguita col pensiero in tutti i suoi passi. Ma sebbene tutti questi convenissero che non si sapeva intendere in nessun modo come la facoltà di pensare potesse fare le operazioni ch' ella fa, se gli oggetti suoi ella non portasse in qualche maniera già seco fino dal suo esistere; tuttavia questi si dividevano di parere quando si trattava di definire quale fosse questa maniera , ond' essa avea seco uniti i suoi oggetti immobilmente ed originariamente. Quindi altri dicevano necessario ch' ella avesse a dirittura unite, o per sè o per una cotal giunta, le idee medesime delle cose: sia poi che ciò pensassero veramente, o piuttosto che così dicessero parlando impropriamente per non trovare la via d' esprimere con più esattezza ciò che concepivano nell' animo. E qui ella ravvisa Cartesio e molti Cartesiani. Ma ad alcun altro, parendo da una parte necessarie queste idee innate a spiegare i fatti del pensiero, dall' altra non sapendo come ammetterle al modo di Cartesio, perchè la coscienza non ne somministra argomento, sembrò più ragionevole di ridurre queste idee innate a piccolissimi sentimenti non avvertiti dall' anima, che riceve però impulso da essi ad operare secondo quelle forme quasi solo delineate in essa con lievissimi vestigi, e credettero costoro, che intravedesse questo vero Platone in quella sua reminiscenza, e che solamente a lui mancasse di aggiungere alla reminiscenza il presentimento . Spiegavano l' esistenza di queste idee non avvertite nell' anima nostra colla similitudine d' una statua, la quale esiste in un pezzo di marmo ancora rozzo, tracciata in esso dalle vene naturali del medesimo (1): e facevano poi che il pensiero tutto si creasse per una forza dell' anima determinata col presentimento o coll' instinto alle idee. E parmi questo il sistema di Leibnizio. Kant può avere avuto da questi instinti, onde Leibnizio faceva l' anima mossa alle idee (1) (quasi queste idee stesse fossero potenze separate che si riducessero all' atto per una forza loro intrinseca), il primo concetto delle sue forme innate, le quali non sono altro che determinazioni dello spirito venute a lui dalla sua propria natura, per le quali egli è costretto a veder le cose in un determinato modo subbiettivo, vestendo tutti gli oggetti sì del senso esterno che del senso interno, come dell' intelletto e della ragione (secondo la divisione ch' egli fa delle facoltà dell' anima), di queste forme, o per dir meglio considerando tutte le cognizioni come fenomeni dello spirito. A questo viene Kant; e finalmente Ella comprende come abbia chiamato filosofia trascendentale la sua dottrina, giacchè parla della forma di cui tutte le nostre possibili cognizioni necessariamente sono vestite, della quale perciò non le possiamo giammai svestire; sicchè il parlare di esse piglia un oggetto che transcende lo stesso conoscere; e vede ancora perchè la sua principale opera egli la denomini: « Critica della ragione pura; » assumendo a fare la critica alla stessa ragione, e a sciorre la questione, prima di tutto, se questa stessa critica sia possibile. Questi quattro sistemi differiscono, come dicevamo, dal diverso modo onde considerano la facoltà di conoscere: il primo restrigendosi a considerarla come una mera potenza di conoscere, senza esiger più oltre; gli altri tre giudicando necessario di considerare altresì questa potenza nella sua peculiar natura: e fra questi il primo pretendendo che in essa sia necessario di supporre ancora delle idee al tutto formate; il secondo insegnando che bastino certe potenze che si attuano quasi per via di certi instinti primitivi; il terzo finalmente trovando necessario concepire la ragione fornita di modi o forme venienti dalla sua stessa natura; e dicendo questi tre d' accordo, che non può spiegarsi come l' uomo si procuri le cognizioni col solo immaginare una potenza conoscitiva, se anche non se ne disamina la natura. B - L' altra classe d' ideologi si divide non tanto per la diversità nella quale considerano la stessa facoltà di pensare, quanto per la diversità, nella quale considerano la necessità d' oggetti primitivi, su cui operando la facoltà di conoscere, ecciti o formi o crei a se medesima le cognizioni. E di questi alcuno vuole che non bastino le sensazioni ricevute per gli organi corporei; ma gli oggetti da cui viene affetta la facoltà di conoscere, e da' quali colla sua attività crea a se medesima la scienza, sieno, oltre le sensazioni, tutti i sentimenti interni: ed Ella riconoscerà in questo, per nominare alcun recente, il Laromiguiere. Altri esigono, oltre gli esterni sensibili influenti sull' animo, un continuo lume della divinità che a lei risplenda: e qui vede l' italiano cappuccino Giovenale della Valle di Non, il Tomassino e il Malebranche ec.. E Platone aveva certo veduto il sistema di Malebranche, e travalicatolo, aggiungendo i molti lumi delle sue idee eterne sussistenti quasi esseri al di fuori della divinità, emendato in questo da S. Agostino, che fece la via a tre nominati filosofi. Alcuni poi (massimamente tra' moderni) non contenti di questi varŒ pensamenti, giunsero a credere che alla facoltà di conoscere, oltre le sensazioni, ci voleva un altro aiuto anch' esso esteriore fra il sensibile , dirò così, e l' intelligibile , cioè una favella , e dissero che l' uomo non poteva accorgersi del suo pensare giammai, senz' avere l' espression del pensare. Di cui nacque al visconte di Bonald il suo sistema. E si avvicinano a lui alcune sentenze di Platone e di Socrate; e molti altri lo avevano già prima intravveduto. Tra' quali il vide, prima del Bonald, un Italiano che ne fece pur troppo abuso [...OMISSIS...] Tutti e due conoscono l' assoluto bisogno del parlare per dar origine al pensiero: se non che il secondo non vede da questo di necessità assoluta, che il parlare sia venuto all' uomo dalla tradizione; mentre il Bonald crede con ciò stesso definito, che come la facoltà di parlare è in noi nativa, così l' arte di parlare sia in noi acquistata: quantunque poi dica: [...OMISSIS...] Questi altri quattro sistemi dunque differiscono dalla varietà degli oggetti ed aiuti, da cui credono che debba essere assistita la facoltà nostra di pensare, perchè ella giunga all' atto del pensare. Ora essendo questa questione dell' origine delle idee unica e semplice, si possono benissimo, com' Ella vede, classificare con tutta esattezza i diversi sistemi sulla medesima anche per mezzo de' nomi degli autori, senza dare loro una soverchia autorità, e presupporli infallibili nel tirare le conseguenze dai diversi principii. E` dunque necessario, prima di classificare i sistemi della filosofia, o di qualunque altra scienza, di ridur quelli ad un principio solo, o se questo non si può, di ridurli a quel minor numero di principii che è possibile, e poi per ogni principio fare una diversa classificazione. In tal caso poichè da un semplice principio nasce un sistema di conseguenze direi quasi infinite, quando io ho classificati i principii, vengo ad avere ancora classificato accuratamente i sistemi che o sono stati giustamente tirati da tali principii, ovvero si possono tirare da quelli. Non m' allungo con altri esempi per non essere infinito: ma dirò solo, che chi volesse classificare i sistemi secondo i sommi criterii della certezza, allora avrebbe un' altra questione pure semplice onde potrebbe cavare una esatta classificazione. Che se poi dimostrasse, che tanto la questione dell' origine delle idee, come la questione del sommo criterio della certezza dipendono da un solo principio antecedente, allora avrebbe trovato il modo di distinguere con una classificazione i sistemi che vengono dalle due proposte questioni, non formando esse in questo caso se non due parti di un altro sistema maggiore. E facilmente Ella da questo intende, come, se tutta la filosofia potesse ridursi ad un solo principio, allora si potrebbe ben classificare tutta la filosofia con una sola classificazione, bastando distinguere accuratamente le diverse opinioni sul principio da cui dipende. Ma è tempo che io passi a dire una parola sulla seconda richiesta che Ella mi fa, colla quale aspetta la mia opinione sopra i vari sistemi della filosofia. Ella vede, che la risposta che io le posso fare, dipende strettamente dalla prima che le ho fatto. Sarebbe forse possibile rispondere bene o male sopra qualche punto della filosofia particolare; ma sopra i vari sistemi di tutta la filosofia, non mi pare che si possa dir nulla di fermo e senza equivoco, mentre trovo, come dissi, tanta difficoltà solo in convenire in che differiscano questi sistemi. D' altra parte, per mio credere, non si può giudicare con sicurezza e senza presunzione degli altrui sistemi, se non per mezzo di un altro sistema già formato, pel quale sia venuta in animo grandissima persuasione di aver conseguito la verità che è sola giudice dell' errore: e quand' anche alcuno fosse venuto a questo, sarebbe cosa assai ardua esporlo chiaramente nelle angustie di una lettera. Mi conceda dunque che in luogo di risposta io attenda piuttosto l' indicazione di qualche questione particolare, sopra la quale Ella desiderasse sentire quello che mai mi riuscisse dirle: e per questa le faccio una sola osservazione generale. Io credo giovevole e modesta cosa considerare i sistemi de' filosofi coll' occhio più favorevole. Mi è paruto di vedere che quasi sempre essi sieno caduti in errore per imperfezione d' idee, non per isbaglio nel ragionamento: e però che tante volte bastasse aggiungere in luogo di mutare, e ricondurre alla naturale interezza i germi che essi hanno posti in luogo di distruggerli e gettarli di nuovo. Molte volte ancora due filosofi trattano di un argomento diverso e credono di trattare lo stesso argomento, e vengono alle mani come inimici; mentre che l' uno batte una strada e l' altro ne batte un' altra, senza incontrarsi: l' uno chiarisce un punto dell' umano sapere, l' altro ne chiarisce un altro a quello contiguo bensì, ma che non è quello: e perchè sono nello stesso territorio, ma sopra un' altra parte di esso, si avvisano di combattere insieme per lo stesso punto di terra. Li conduce a questo, confessiamolo ingenuamente, mio caro signore ed amico, quella presunzione e quella baldanza che tanto insensatamente entra nell' animo dell' uomo che aspira al conquisto della scienza, senza aver ricevuto e portato il soave giogo della verità. Però mi riesce dolorosa cosa e importevole il vedere come tutti quasi i filosofi si assaliscano e mordano scambievolmente, vogliano che tutto sia nuovo ne' loro libri; e basta che rinvengano nuove vesti ad un antico pensiero, per dichiararsi creatori di un nuovo sistema, e scopritori di una verità non isplenduta giammai agli occhi degli uomini che gli hanno in terra preceduti. E queste male disposizioni sì proprie de' mortali non è a dire quanto impediscano i progressi del vero sapere, e colla discordia delle sette, quante verità venute all' aperto non rimettano forse per secoli novellamente sotterra colla derisione e collo spregio del sistema nel quale erano contenute. Cosa lontanissima dal dolce e concorde spirito che mette in noi sola la Religione della verità! E così non facevano il grande Agostino ed il gran Tommaso, nè alcuno de' sommi splendori della Chiesa, che appunto per questo sono dalla piccolezza infinita degli uomini tenuti meno in pregio di filosofi e men seguìti perchè non hanno spacciato se stessi a fondatori di sistemi, paghi di contemplare l' intero e illimitato corpo bellissimo della verità. Ed Ella vede che con questo stesso io ho cominciato a rispondere alla sua terza interrogazione: Come arrivare alla scoperta del vero. La bella forma dell' animo, mi pare senza alcun dubbio, la migliore di tutte le disposizioni: di poi l' elevatezza della mente: la perpetua coerenza e profonda cognizione della Religione cristiana, che quanto più si studia, più fa crescer l' ali all' ingegno e spiegarle ai metafisici voli: nel medesimo tempo la libertà dai ceppi tutti che mette al progresso dell' ingegno la piccolezza degli uomini: avvezzarsi a contemplare le idee stesse prive dell' involucro delle parole, degli schemi, de' metodi: sapere avvisare la verità sotto qualunque forma e colore; amarla sotto tutti: abborrire la setta e il sistema in quanto limita queste forme della verità, e studiare assai nelle parole. Nelle parole (questo vero discende dalle osservazioni di Bonald, e prima sonava alto nel Vico) nelle parole sono contenute le scienze delle nazioni: però guardarsi dall' alterarne il senso fisso loro dai popoli, dirò di più dalla Provvidenza, da Dio: la proprietà delle parole strettamente conservata è l' unico mezzo alla chiarezza delle idee, a fissarle, a concordarle. Di questa proprietà fu sottilissimo investigatore, e fermissimo mantenitore S. Tommaso. Il volere alterare il valore delle parole fu l' arte di molti antichi e moderni sofisti, e di molti filosofi profani: appena s' inganna il mondo se non con questa alterazione: di quasi tutte le parole filosofiche e politiche si abusò, e a mostramento di ciò furon fatti molti scritti. Chi osservasse gli errori venuti dall' abuso della parola NATURA nella scienza del diritto e della morale, delle parole SENSAZIONE, PIACERE, DOLORE nella metafisica, delle parole UGUAGLIANZA e LIBERTA` nella politica, della parola RICCHEZZA nella economia, e di molte altre consimili, alle quali comunemente non si fece che aggiungere un senso più esteso del senso dato loro dal comune uso, avrebbe raccolto le origini d' incredibili inganni alla mente, e d' incredibili guai alla Umanità. Ella poi non sarà pago a queste generali avvertenze, già troppo a Lei note, per lo conseguimento del vero: vorrà di più, che io le additi qualche grave scrittore da mettersi innanzi quasi scorta ai passi nel malagevole ed inviluppato cammino. E lo farei ben volentieri, ma voglio riservarmi questa cosa dopo che Ella mi avrà appagato sopra i concetti di S. Tommaso intorno all' origine delle idee: perocchè non essendo giusto che un solo sia quello che spende, m' aspetto in cambio di questo povero scritto, questa moneta da Lei. Avrò allora di ciò occasione più opportuna. Hegel è il bisnipote di Kant, patriarca della moderna filosofia tedesca. Il filosofo di Koenisberga dalla meditazione di un principio noto avanti di lui, che lo spirito umano pensa in modo conforme alle sue proprie leggi, ne trasse quella filosofia che egli denomina critica , perchè assume di portar giudizio della stessa ragione umana; e il giudizio riuscì a dichiarare questa ragione impotente a conoscere, se gli oggetti del pensiero sieno tali in sè stessi, quali col pensiero appariscono. Egli sostenne che, se la mente umana li concepisce secondo le proprie leggi soggettive, ella dunque non può pronunciare che sieno quali le appariscono, ma nè pur negarlo. All' incontro Fichte, suo discepolo dallo stesso principio che la mente opera secondo le proprie leggi dedusse, che tutto ciò che conosceva la mente doveva essere produzione della mente stessa; e quindi assolutamente negò, che gli oggetti concepiti fossero in sè stessi quali appariscono. Il qual sistema veniva da lui rappresentato come la genuina interpretazione della dottrina del suo maestro. Ma il suo maestro Kant disdisse l' interpretazione; poichè infatti altra cosa è che le conclusioni della mente, dipendendo dalle leggi della mente stessa, non abbiano valor di conchiudere su quell' essere che gli oggetti possono avere in se stessi, ed altro è l' affermare a dirittura, che in se stessi non abbiano essere alcuno, ma sieno mere produzioni e modificazioni soggettive. Così il sistema di Fichte fu diverso da quello di Kant, come figlio che traligna dal padre. Ma venne Schelling, e allevato alla scuola di Fichte argomentò che se l' oggetto era produzion del soggetto, dovea col soggetto stesso identificarsi; giacchè niuna cosa genera altra natura da sè diversa; e poi facil cosa è conoscere, che nè il soggetto può stare senza l' oggetto, nè l' oggetto senza il soggetto, onde d' entrambi fece una cosa sola: di più, a lui parve impossibile immaginare un soggetto, che non fosse a un tempo stesso oggetto, e immaginare un oggetto che non fosse a un tempo stesso soggetto, onde diede al suo sistema il titolo di Teoria della identità assoluta . Così questo filosofo tedesco, che a Kant quasi è nipote, si trovò pervenuto a quella tesi, colla quale aveva esordito la filosofia eleatica in Italia per mezzo di Parmenide. Ma qui non ristette il movimento filosofico impresso da Kant nella Germania; poichè, ridotte le cose tutte, che posson essere oggetto della mente, all' unità ed alla identità, fu facile ad Hegel dedurre che quest' unica ed identica cosa, a cui tutte le cose riduconsi, altro non poteva essere che l' idea. E l' argomento di Hegel, considerato in suo fondo e ristretto in poco, riducesi a questo: L' uomo non può pensare nè parlare di cosa alcuna che non sia oggetto del pensiero. Ma l' oggetto del pensiero è l' idea: dunque tutte le cose si riducono all' idea. Ma posciacchè le cose sono varie ed opposte ed anche contrarie fra loro; quindi l' idea è quella stessa che prende diverse forme anche opposte e contrarie, e che va trasformandosi con leggi a lei intrinseche, in tutte le cose. Ella diventa soggetto ed oggetto, realità ed idealità, ente e nulla, relativo ed assoluto, tempo ed eternità; e in questo diventare appunto, che è il mezzo fra il nulla e l' essere, consiste la propria sua essenza. Ella ha quindi due movimenti, per l' uno dei quali s' accosta continuamente al nulla, per l' altro de' quali s' accosta continuamente all' infinito ed all' assoluto. Lo sviluppo della virtù intrinseca di quest' idea è ciò che forma l' argomento di tutta la dottrina hegeliana. In questo quarto discendente di Kant ora dorme il suo sonno la germanica filosofia. Approfittando della licenza, ch' Ella mi dà di sottoporle alcune osservazioni sulla storia della Filosofia da Lei trattata ne' Supplementi al Manuale del Tennemann, non mi sta nell' animo nè di rilevare le bellezze del suo lavoro, nè i difetti. Solamente è mio intendimento di toccare qua e colà alcune pochissime cose, quasi a modo di questione o di domanda, le quali quando ben si chiarissero, crederei poter giovare a condurre una storia della Filosofia, se non anco essere alla perfezione di essa indispensabili. E a ciò fare muovemi il desiderio di veder uscire dalla sua penna una storia degli sforzi, che fecero gl' Italiani al nobilissimo fine di fondare una costante, vera e salutare filosofia, di che già Ella mostrò al pubblico un tentativo col quarto de' suoi Supplementi. E questo mio patrio desiderio non toglie, che io non sappia esser la filosofia universale come la verità che contempla: e però dover essere universale, e non circoscritta da monti e da mari, da costumi e da idiomi, anche la storia completa delle filosofiche investigazioni. Ma questa è tal' opera, alla quale fin quì le forze di molti dottissimi si mostrarono inferiori; e credo che allora solo e non prima potrà avvicinare il suo perfezionamento, quando sarà resa perfetta la stessa filosofia. D' altra parte la Storia della Filosofia Italiana, che io desidererei vedere scritta con somma imparzialità e diligenza, vien da me concepita per nulla più, che per una cotale esortazione a' nostri concittadini di coltivare la sana filosofia col lume de' patri esempi. Al qual fine certo dovrebbesi vedere in questa istoria e i pericoli de' viaggi filosofici tentati dall' ingegno umano, e gli ardiri e i naufragi e le felici scoperte. Conciossiachè se alla storia manca questo, e se, senza alcuno discernimento, essa accozza gli uomini grandi ed originali col minuto volgo de' filosofi, se non divide la buon' audacia delle investigazioni dalla temerità, se non insegna chi furono quelli che pervennero al vero, e quelli che perirono sul cammino prima di giungervi, quali altresì ordinarono il regno della filosofia, e quali lo scomposero, quali finalmente con nuove e più savie leggi il riordinarono; non solo riesce essa fredda e inutile, ma perniciosa. Di che Ella vede come la storia della filosofia patria, che da Lei o da' suoi pari desidero, non è lavoro meramente erudito, ma sapiente e morale. E ad aiutare questo lavoro sian volte le poche osservazioni, che io intendo proporle, le quali a un tempo tendono a rettificare alcuni concetti filosofici, senza i quali parrebbe senz' occhi una storia della filosofia. E le dirò che prima posi l' occhio sulla maniera, secondo la quale Ella classifica i sistemi filosofici (1). Qui veramente mi nasce dubbio, se volendosi che tutto il compartimento della storia sia guidato e ordinato secondo una classificazione de' sistemi, non sarebbe stato più spediente di esporre quella classificazione e dichiararla a principio, anzichè nella fine della storia. Perocchè intervenendo di continuo il bisogno nella storica narrazione di richiamarsi a quella classificazione, egli par richiesto dal metodo che il lettore n' abbia ricevuta già da prima la notizia. Ma lasciando io ciò, mi cade di proporle un' altra questione. « Se egli si stia bene ad uno storico della filosofia, volendo distribuire in varie classi i filosofi, il dar loro un nome ch' essi non diedero a sè medesimi. » Io accordo pienamente, che v' abbia luogo a far ciò, ma ad una condizione; ed è, che quando pongo un nome ad un filosofo non datosi da sè stesso, io provi altresì con argomenti irrefragabili, e co' luoghi delle sue opere, che gli appartiene quel nome. Conciossiachè se il nome sistematico che s' impone ad un filosofo, non garbasse per avventura al filosofo stesso, questi avrebbe buona ragione di querelarsi allo storico, vedendosi dato gratuitamente un' appellazione, che non crede convenirsegli. E qui, mio stimatissimo Professore, io stesso debbo far querela con lei, essendole piaciuto di collocarmi nella setta o classe de' Razionalisti , e degl' Idealisti , quand' io non so per avventura di essere nè razionalista, nè idealista: e sarebbe un po' strano il caso, che io stesso ignorassi il mio nome, e che altri lo si sapesse. Il che se fosse, parrebbemi esser divenuto simile a colui, a cui degli solazzevoli uomini diedero a intendere, ch' egli non si chiamava Pietro, com' ei sosteneva, ma si chiamava Paolo, come non s' era fino allora udito mai appellar da veruno. E vedo io bene, ch' Ella mi viene poscia scusando e difendendo dalla mala impressione, che potrebbero dare que' nomi appostimi, attribuendo loro un cotal nuovo significato (1); ma ciò appunto mi dà occasione di proporle una terza quistione. E la questione si è « Se uno storico della filosofia possa mutare il significato ai nomi, che contradistinguono i sistemi nell' uso comune. » A ragion d' esempio: che cosa s' intende di significare oggidì nell' uso comune colla voce Razionalismo , se non quel sistema, che non pure esige una ragion chiara prima di dare l' assenso (il che non eccede il voluto dalla buona logica), ma che esige oltracciò una ragione riflessa? Di più, che esige oltre la prova, che una cosa sia, anche di comprendere la cosa stessa, prima di ammettere semplicemente che ella sia? O se si vuole definirlo in modo più elevato, quel sistema, che non riconosce alcun elemento che s' appareggi in altezza alle idee , di maniera che ad esse sieno inferiori e sottomesse tutte le cose? (2) Sicchè dicesi Razionalismo teologico quello di molti moderni protestanti, che rifiutano ogni misterio superiore alla ragione umana: e dicesi Razionalismo filosofico quello di Hegel, a ragion di esempio, che tutto dà all' elemento razionale. Ma da ciò appunto si vede come il mio sistema non solo differisca dal Razionalismo , ma di più come sia fors' anche il solo che l' abbatte fino dalle radici: perocchè il mio sistema pone ad una stessa altezza colle idee due elementi diversi dalle idee, e altrettanto supremi quanto le idee medesime; avendo io stabilito (nè so chi altri il facesse prima di me esplicitamente) l' Essere aver tre forme, o modi primordiali, l' idealità , la realtà e la moralità , nessun de' quali sottostà all' altro, ma ciascuno è primo, ciascuno incomunicabile, sebbene si leghino tuttavia nell' essere sempre il medesimo e identico in tutti e tre que' modi. I quali sono poi le tre mie somme categorie , a cui richiamo tutte le cose. Laonde tanto è lungi che io riduca tutto alla ragione, che anzi sono forse l' unico che abbia trovato qualche cosa che l' altezza della ragione possa emulare, e con essa per così dire aver comune l' impero. Quanto poi alla parola Idealismo , che Ella applica al mio sistema, e chi non sa, ch' essa fu sempre adoperata a indicare quei sistemi che negano la realità esteriore od anche l' esterior valore de' concetti della ragione? In che guisa adunque può darsi un idealista oggettivo7reale , come le piace chiamar me, quando quella denominazione nell' uso comune equivalerebbe a quest' altra d' Idealista7non7Idealista? La quale mia osservazione, parmi, rendesi degna di maggiore attenzione, quando Ella voglia considerare il pericolo, nel quale facilmente incappa colui, che aggiunge alle parole delle arbitrarie definizioni. E il pericolo che io noto, è quello appunto di contradirsi. Gliene darò, se mi permette, un altro esempio. Qual' è la definizione ch' Ella propone dell' Empirismo? La seguente. « « L' Empirismo è il sistema, che fonda la cognizione filosofica sull' esperienza sì esterna che interna, ovvero sul semplice fenomeno, o sulla sola apparenza delle cose »(1). » Or quì chiaramente Ella stabilisce, che l' Empirismo è quel sistema, che fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza delle cose, di maniera che se vi avesse un sistema, il qual fondasse la conoscenza filosofica sopra qualche altra cosa, oltre la sola apparenza delle cose, questo sistema non sarebbe più Empirismo. Bene stà: e che cosa è, secondo Lei, il Razionalismo ? Ella lo definisce. « « Il Razionalismo nel senso più largo od esteso è il sistema, che pretende la ragione umana capace per sè sola di conoscere l' essenza od i principii delle cose »(1). » Di questa definizione si vede, che il Razionalismo, secondo Lei, usa della sola ragione a conoscere l' essenza od i principii delle cose: di maniera che se vi avesse un sistema che usasse di qualche altra cosa a conoscere l' essenza ed i principii delle cose, non si potrebbe più chiamare Razionalismo. Or bene riteniamo queste sue definizioni, e vediamo come si accordino coll' altra definizione ch' Ella dà dell' Eccletismo in senso esteso ed universale. « « L' Eccletismo, Ella dice, nel senso più esteso ed universale è il sistema che fonda la cognizione filosofica sull' Empirismo e sul Razionalismo »(2). » Ma se l' Empirismo fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza delle cose, e se il Razionalismo non adopera che la sola ragione, che cosa sarà l' Eccletismo? L' Eccletismo sarà in questo caso « il sistema che fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza, e nello stesso tempo che non contento dell' apparenza delle cose, cerca d' investigarne l' essenza e i principii colla sola ragione. » Vede Ella a che si riduce questo suo Eccletismo? Quello poi ch' Ella aggiunge al paragrafo 474, dove pare che voglia conciliare il Razionalismo coll' Empirismo, non fa che intricare maggiormente la matassa. Perocchè Ella dice che nell' Empirismo tagliasi fuori di botto ogni razionalismo, cessando a rigore di termini l' Empirismo dal momento che si trapassa il fenomeno, o s' inoltra nelle speculazioni della ragione. Di che consegue esser giusto il seguente ragionamento. « O nel suo Eccletismo si trapassa il fenomeno o no. Se si trapassa il fenomeno, non c' è più Empirismo; se non si trapassa, rimane l' Empirismo solo senza il Razionalismo. »Dunque il suo Eccletismo è un Sincretismo che raccozza dogmi contradicenti, e il Sincretismo è nulla. Non voglio io attribuire a Lei questi assurdi, ma li attribuisco bensì alle sue definizioni. E io penso che il suo buon giudizio, meditandovi un poco, ne converrà meco pienamente. E perchè Ella vi mediti, non aggiungo di più a queste poche cose, che ho voluto esporle pel desiderio grande che ho, che si chiarisca la verità, e che ci avviciniamo, se possibil fosse, all' unanimità del sentire: al che è mezzo efficace la libera discussione, e dirò anche una censura severa e santa, che per amore e non per odio l' uno all' altro ci facciamo. Laonde Ella voglia ricevere con benignità questi cenni, e voglia liberamente ammonirmi se sono in errore. Voi volete saper da me, che cosa mi paia di quell' articolo intorno al « Saggio sull' origine delle idee , » che fu inserito tempo fa nel « Tiroler7Bothe , » e che ora ricomparisce nel « Messaggiere Tirolese , » tradotto in italiano dal professore Stoffella. E` cosa dilicata, mio caro maestro, il parlare d' un articolo di giornale, che fa la critica ad un proprio libro, chè nella materia de' nostri biasimi, e meno ancora in quella delle nostre lodi, non ci concede l' equità, nè la prudenza, nè la modestia, che noi c' intromettiamo, essendo gli altri i giudici nostri e noi le parti. Vero è, che ove la causa non è personale, ma è quella grave e comune della verità, non dobbiamo nè anco ritirarci dal più oltre agitarla per una falsa dilicatezza o soverchio timore, non forse altri attribuisca all' amor proprio nostro quello che pur ci viene suggerito da zelo buono del santissimo vero. E questa considerazione appunto mi move a contentarvi, e dirvi schiettamente ciò che io penso su alcun tratto di quell' articolo; perocchè, lasciate al tutto da parte le lodi di cui mi è largo il suo autore, e le quali vere o false che sieno, danno però mostra di animo inclinato alla benevolenza, come quelle che sono verso uno incognito (chè da un animo maligno nè anco la verità colla sua infinita bellezza sa riscotere una parola di approvazione, e un cenno gentile), io non vi dirò se non ciò, che mi sia paruto di quella parte, che tocca la questione delle idee, e la scienza filosofica, a cui tale questione appartiene. Sebbene io non dirò forse cosa, che voi non possiate aver detto prima a voi stesso, come quegli che siete entrato assai dentro e fattovi domestico nelle dottrine del « Saggio , » al trovamento delle quali voi stesso mi avviaste in que' begli anni, ne' quali mi aveste a discepolo nelle filosofiche scienze. Ben mi duole, che il dotto estensore dell' articolo non siasi potuto mettere in un esame dell' opera, e gli sia convenuto restringersi a darne solo un cenno, e gittare un solo dubbio sulla sostanza di essa; chè un cenno, un dubbio non mi dà buona presa da poterne io parlare con sicurezza, dovendomi rimanere in forse, se io pur intenda il concetto che l' estensore voleva al pubblico manifestare. Vi dirò bensì, che mi produsse un grato sentimento l' equità dello scrittore tedesco, ove, parendogli riuscire chiara l' elocuzione del « Nuovo Saggio » anche a svolgere questioni difficili e astratte, egli non dubitò di proporre quella chiarezza come un esempio imitabile ai filosofi della Germania. E veramente mi è avviso, che questo sia un punto principalissimo, se si vuole venire mai in accordo e consension di pareri, l' esser chiaro: e quel poco studio che io ho fatto nelle filosofie m' ha pienamente convinto, che il battagliare de' filosofi tra loro nasce le gran volte dal non intendersi; e che non ci può essere cura e diligenza tanto ben posta, quanto nell' usare parole e locuzioni chiarissime; nè si perverrà a trovare questa chiarissima sposizione, senza che ad un tempo non si pervenga a chiarire a se medesimo le proprie idee, o laddove non vi si giunga, varrà ciò a far conoscere, dalla fatica insormontabile che s' incontra a riuscir chiari, che le idee nostre sono sì implicate ed oscure, che non le possiamo a noi medesimi decifrare; il che avventurosamente insegnerebbe a molti scrittori di por giù la penna, e questa loro prudenza libererebbe il mondo d' un gran numero di noie e di errori, che si pescano sempre dove ci ha un fondo più scuro. E` però sfuggita una parola all' autore dell' articolo che contraddice senza ch' egli punto se ne avveda, al desiderio di questa bella chiarezza di stile, voglio dire quella colla quale afferma, che ogni astratto pensatore « dee da se stesso crearsi un peculiar linguaggio »: opinione pur troppo comunemente invalsa nella Germania, ma, ove senza pregiudizio si consideri, al tutto erronea. Che anzi il vezzo, che hanno preso que' filosofi di voler ciascuno riformare il linguaggio della filosofia è, a non dubitarsi, la principale cagione di quella tanta oscurità, che da' loro stessi nazionali è riconosciuta e confessata. Dovremo dunque nella nostra propria terra per essere filosofi farci barbari e forestieri? In questo dividerci dal comune modo di favellare, e farci una lingua o anzi un gergo da noi, più errori, o anche segreti suggerimenti delle nostre passioni, ci covano. Primieramente un errore, un suggerimento, per dirlo aperto, del nostro orgoglio è quello, che ci mette in cuore la lusinga vana di doverci sollevar noi tanto colle nostre speculazioni al di sopra della linea comune degli altri uomini, da potere, anzi da essere in necessità di rinunziare alla comune favella e perciò medesimo alle comuni idee, e di crearci una cotal lingua divina da noi medesimi, fatti simili agli Dei d' Omero, che chiamavano le cose con nomi diversi da quelli, con cui le chiamavano i mortali. Eh! non ci ha questa sì grande differenza da uomo a uomo, se la nostra vanità non ce la pone, che l' uno sia una divinità all' altro; ed è proverbio italiano e bello quello che dice, che tanto sa altri quanto altri . Riflettete ancora, che le idee, che ciascuno di noi ha ricevute per tradizione, dalla società umana in cui è nato e fu educato, col mezzo della comune favella e con essa stanno individuamente congiunte, sono quelle, colle quali, come con istrumenti, ciascuno di noi pensa, sono la materia, oltre alla quale i pensieri nostri finalmente non escono, e quindi sono tutto il fondo della filosofia. Sicchè le grandi e fondamentali verità il filosofo non fa che analizzarle, e trarle in maggior lume; ma esse non compariscono già al mondo la prima volta ne' libri de' filosofi, sì bene stanno depositate nelle tradizioni e nelle lingue, e i filosofi le prendono dal tesoro comune; e sfido qualsiasi de' filosofi tanto tedeschi, quanto italiani o d' altra nazione, a indicarmi d' aver egli il primo fatta comparire ne' suoi libri una sola verità fondamentale veramente nuova, e incognita prima di lui: sicchè altro sono le parole, altro i fatti di que' filosofi, che tutto vogliono innovare; altro ciò che promettono, e altro ciò che mantengono. E voi ben sapete, che io non ispingo però questa dottrina in quell' eccesso, nel quale la spinsero alcuni recenti filosofi francesi, ma che solamente io sostengo, che tanto di verità noi dobbiamo ricevere dalla società, o più in generale parlando, da un maestro al di fuori di noi per poter filosofare, quanto di lingua per poter favellare; e quanto sia questo tanto di lingua l' ho mostrato e definito nel « N. Saggio (1) » come ho mostrato nell' opera stessa in che modo io intenda e ristringa la dottrina del senso comune (2). Ma questo tanto di sapere e di lingua ciascuno di noi il riceviamo, come seme che feconda il nostro intelletto, dalla società degli uomini; e la società umana l' ha ricevuto da Dio, che le ha incumbenza di conservare e di travasare d' una in altra generazione questo deposito preziosissimo delle prime ed elementari verità. Ed acciocchè l' umanità, come debole ch' ella è, non manchi a questo suo ufficio, acciocchè le verità supreme sieno immobilmente fisse nel genere umano, e sieno anche sviluppate incessantemente, e rese fruttifere, la Provvidenza ne ha dato una speciale missione al Cristianesimo, che l' adempie da tanti secoli. Dal che si vede, che non furono bene comprese quelle mie parole, colle quali io ho dichiarato, che l' « Opera sulle idee » non intendevo che appartenesse ad una filosofia « inquisitiva di nuove verità, ma più tosto a quel genere che travaglia d' aggiungere chiarezza e sviluppamento a delle verità già universalmente conosciute. »Volevo io mostrare con quelle parole la poca fede, che io ponevo in una filosofia che fosse nuova e tutta invenzione d' un individuo; e come io non riconoscevo altra dottrina vera, autorevole e salutare, se non quella, che ha le sue radici, cioè le sue prime verità, nel senso comune degli uomini, e nel deposito dell' ereditaria sapienza, di cui l' umanità è e fu sempre in possesso, a cui non si può aggiungere se non ciò, che ci dà l' analisi e la riflessione, un più alto grado di luce, delle nuove conseguenze, delle nuove applicazioni. Il perchè io venivo con quelle parole a dire, che il far altro non era possibile nè a me, nè a chicchessia de' mortali, e il commentario e la prova di questa mia sentenza è sparsa in tutta l' opera (1). Oltre di ciò sulla lingua, che è essenzialmente l' espressione della società e non mai dell' individuo, se pure un individuo non vuol parlare con solo se stesso, ha diritto la sola società, e solo essa conserva e modifica il valore de' vocaboli, e perciò il valore d' un vocabolo non sancito dall' uso, quem penes , come fu detto sempre, est arbitrium et ius et norma loquendi , è un valore nullo, come di moneta, che non ha corso. Indi è che anche una menoma deviazione dal valor corrente della parola si reputa a peccato negli scrittori, e che l' usare tutte le parole diligentissimamente in quel significato, che l' uso comune loro stabilisce, forma quell' altissima lode delle scritture, che dicesi della proprietà , colla quale solo si ottiene la chiarezza e si tocca l' eccellenza dello scrivere. Ma quanti mali all' incontro non nascono dall' improprietà nell' uso delle parole? In prima le ambiguità, gli equivoci, un dettato incerto e vago, che non rende l' idea nell' altrui mente, se pure chi scrive in tal modo ebbe egli stesso mai in capo un' idea precisa da potere comunicare altrui. Poichè, come diceva Socrate, e questo il batteva fortemente contro a' Sofisti del suo tempo, chi pensa bene, parla bene, chi ha chiarite a se stesso le cose, sa metterle altresì in parole chiare e proprie: chè il nesso delle parole colle idee è sì stretto, che senza aver le parole, cioè senza averle ricevute dalla società, non si possono a mala pena avere le corrispondenti idee. Di che era divenuto fermissima legge anche appresso gli scolastici il dover conservare la proprietà delle parole, vedendo essi, che da questo dipendeva il potersi ben riuscire a insegnare, e fermare la verità e por termine alle questioni. E quel grande ingegno italiano, cui commenda l' autore dell' articolo, S. Tommaso d' Aquino, in più luoghi insegna e stabilisce come importantissimo principio per venire alla verità, e poterla mantenere e difendere, quello di osservare l' uso corrente delle parole e fedelissimamente seguirlo: « Significatio nominis » dic' egli, « accipienda est ab eo quod intendunt communiter loquentes (1) » Il perchè credo di poter dire, che il vedere uno scrittore che usa delle parole con tutt' altro significato da quello, nel quale le prendono gli uomini (2), e che con queste, come note magiche, vi parla da oracolo, e non consente, che alcuno sia con lui d' accordo, ma tutti hanno avuto torto, nè vi fu alcuno che abbia saputo un acca prima di lui, a cui avvenne il primo di trovar le vere basi della filosofia, e ricostruirla dall' imo al sommo; un tale, dico, ha tutto l' aspetto di essere un prestigiatore, o un cantambanco, o certo un uomo, che scoppia di boria, e che è voto di vero sapere. Veramente a certi volghi, e non però al volgo italiano, fa grande impressione il sentire un ardito pronunziare dal tripode, e spacciarsi per qualchecosa di più che tutti insieme gli altri uomini, per da più dell' intero genere umano, e a cui perciò si convenga anche d' avere lingua nuova, originale, e non imbrattare le sapientissime labbra col parlare comune della mandra umana; ma quest' impressione di stupore che fa in alcuni volghi, come dicevo, e nella parte superficiale de' letterati, la qual si guida non a stima di giudizio, ma di rumore, che si leva appunto per cotali stranezze di filosofi; è però tale, che il tempo la cancella, e la cancella per sempre, e con derisione di chi ne fu il zimbello, e del ventoso filosofante, che da tanto alto mandò fuori i vocaboli misteriosi, e nulla veramente di chiaro significanti a chi ebbe la semplicità di ascoltarlo e stupirsene. Il perchè se un uomo, il quale non si lascia imporre dall' apparenza, e che abbia digerito l' ebbrezza della maraviglia che gli avea cagionato da prima uno stile arcano, e promettitore di secreti inauditi, venga fuor di cerimonia e di contegno a fare metter giù il pallio filosofico e la barba, per così dire, a que' sistemi e snudarli e interrogarli a voler dire in latino chiaro ciò ch' essi si vogliano, ciò che essi s' intendano; riesce questi a cavarne di sotto a quelli enimmi delle verità non già arcane e peregrine, ma anzi volgari e notissime, mescolate pure con dei volgarissimi errori, con infinite inesattezze, e con una buona parte di sentenze senza significato, a tale, che l' autore medesimo non seppe ciò che s' abbia voluto dire con esse. L' affettazione dunque d' usar parole nuove o di nuovo significato il più delle volte è un' arte di coprire la propria ignoranza, e d' eccitare maraviglia in altrui, e trarne nome di originalità con pochissimo di sapere e con una testa oltre modo confusa. E non è quindi difficile a' filosofi di una tal mena inventare sempre de' nuovi e nuovi sistemi, i quali, a sentir essi, ve li danno per cosa, di che non s' ebbe mai al mondo sentore, giacchè basta arzigogolare colle parole per venirne a capo, e dei nuovi arbitrŒ, delle nuove improprietà, in somma un impasto nuovo di linguaggio, e se fa bisogno un nuovo rafel maì amech zabi almi , ed eccovi un sistema. E dopo ciò non vi farà maraviglia, se io oso dirvi, che de' tanti sistemi filosofici, che sono usciti in Germania questi ultimi sessanta o settant' anni, da che questa nazione ha preso un nuovo modo di filosofare, ognun dei quali vuol esser unico; appena che due o tre ve n' abbiano, i quali differiscano realmente fra di sè nelle basi, e non di sole parole (1). Ma v' ha di più ancora: un nuovo linguaggio individuale, arbitrario, non solo è il più sovente l' espressione propria di alcun di coloro, a cui si potrebbe rivolgere quel, o anima confusa , che rivolge Dante a Nembrotte; non solo è lo stromento dell' orgoglio sempre solennissimo ciurmadore degli uomini, il qual coi misterŒ e col prometter d' occultare sotto a' misterŒ de' tesori di peregrina sapienza e non mai trarli all' aperto, tenta di preoccupar gli animi della moltitudine e ingenerare in essi un gran concetto di sè; non solo è l' unico stromento acconcio alla fondazione di sette filosofiche (e di sette a dir vero la stagione dovrebbe esser finita); ma egli è qualche cosa di più pericoloso , e di più sospetto ancora: il debbo io dire? debbo io dire ciò che l' esperienza ci ha insegnato a nostro sì grande costo? il dirò spacciatamente a voi, mio caro amico, ed è questo, che il tramutar senso a' vocaboli e un fraseggiar nuovo fu un' arte di fare smarrire, e rimescolare nelle menti degli uomini le antiche e giuste nozioni delle cose, di alterare i costumi, di turbare le cose pubbliche, di distruggere la religione, quella religione, che antica come il mondo, gode pure di un linguaggio antichissimo, e nella sua sostanza, almeno ne' suoi solenni vocaboli e maniere, inalterabile. E non è egli così? Date uno sguardo alle cose de' nostri tempi, e vedrete, che tutte le sette politiche come tutte le sette religiose adoperarono per farsi largo un linguaggio inaudito, loro proprio, e senza di questo non avrebbero certamente potuto ingannare tanto, e tanto universalmente ed infelicemente gli uomini (1). Chiarezza adunque, chiarezza, da lungi i misteri filosofici, da lungi i detti da oracolo, e quel parlar in calmone, che i fiorentini sogliono anche dire furbesco. E per seguitare della chiarezza necessaria nelle trattazioni filosofiche, una cagione di oscurità e del fraintendersi è ancora l' uso soverchio di maniere metaforiche là dove farebbe bisogno un parlar piano e proprio. E a dirvi il vero, per questo appunto è, che io non posso con sicurezza intendere, che cosa voglia dire l' estensore dell' articolo quando parlando del « Nuovo Saggio » mette dubbio; « se il punto di vista, al quale si leva l' autore trovisi veramente a quell' altezza speculativa, dalla quale soltanto si può aspettare una soluzione del tutto soddisfacente. »Quel punto di vista , quell' altezza speculativa , quel del tutto soddisfacente sono altrettante espressioni, che m' imbarazzano. Se egli mi avesse detto: « questa proposizione è vera, o questa è falsa »: io avrei inteso perfettamente ciò che egli voleva dirmi, ed allora io avrei potuto cavar profitto studiando di verificar meglio quella parte, che mi veniva additata come dubbiosa; ma parlandomi di altezza speculativa , io confesso di non saper più che mi si voglia dire; e perciò non sono in caso di approfittare della censura. Farà maraviglia questa mia osservazione, come quella che va a toccare delle espressioni assai frequentemente usate, ma non è egli da credere, che tanto sieno usate da taluni appunto perchè non contengono nessuno ben certo significato? Esse valgono a far credere ai lettori che si dica molto, perchè presentano un senso ravvolto in una nube, dentro la quale l' amor proprio di ciascuno spera di dovervi trovare qualche cosa di prezioso, e non ha coraggio di confessare a se stesso la propria incapacità di trovarci pur niente di solido. E` però vero, che quel passo sembra ricevere qualche lume dalle parole che seguono, e sono queste: [...OMISSIS...] Ma anche queste parole essendo così sfornite d' ogni prova, e così nudamente dette, non mi lasciano assicurare di bene entrare io nella mente di chi le disse. Tuttavia tenterò d' interpretarle a me stesso, e di farci sopra alcune osservazioni, prese in quel senso, che a me rendono. In primo luogo sembra da queste ultime parole, che l' estensore metta per cosa risoluta, e oggimai così certa da non dubitarsene, che la facoltà di percepire le cose particolari e la facoltà di percepire (com' egli dice) le cose universali non sieno punto due facoltà, ma una facoltà sola. Ma d' altro lato non sembra impossibile, ch' egli voglia torre ogni distinzione e diversità fra la facoltà de' particolari, e quella degli universali? Onde si distinguono le facoltà tra di loro? Fu sempre detto, dai loro oggetti, i quali se sono distinti, conviene che sieno distinte anche le facoltà, che a quegli oggetti si riferiscono. Converrebbe dunque dimostrare, che tra il particolare e l' universale, non v' avesse alcuna distinzione, non passasse alcuna differenza a poter dire, che le loro facoltà non sieno diverse, ma una facoltà sola. E se il particolare e l' universale fossero la medesima cosa, ne verrebbe, che si potrebbe l' uno prendere per l' altro, e dire che il particolare sia l' universale, e che l' universale sia il particolare, cosa mostruosa e contraddittoria ne' termini, perocchè solo a osservar la nozione che rendono alla nostra mente queste due parole, ognun vede, che la voce particolare esprime un concetto che è in opposizione appunto a quello della voce universale, e viceversa; sicchè l' una non è solo diversa, ma ben anche contraria dell' altra. Non posso dunque credere, che l' estensore abbia voluto negarmi ogni qualsiasi distinzione e diversità fra le facoltà dei particolari e degli universali. M' ingegnerò dunque di prendere le sue parole in altro senso, e di temperarle da quella sentenza rigorosa che pure proferiscono, e penserò che egli voglia dire, che il particolare e l' universale, sebbene opposti fra loro, hanno un cotal rapporto, sicchè l' uno viene dall' altro, o tutti due da un terzo elemento. Dove questo sia il suo pensiero, io gli propongo le osservazioni seguenti. Egli in prima non può dedurre l' universale dal particolare; chè così facendo si aggregherebbe alla fazione de' sensisti e de' materialisti; tutto l' errore de' quali consiste nell' imaginarsi di poter dedurre dalle particolari sensazioni gli oggetti essenzialmente universali della mente, giacchè la facoltà prima de' particolari non è che il senso, e la facoltà degli universali non è che l' intelletto: due facoltà che i sensisti confondono in una. Ma di questa fazione mostra già l' estensore di non avere alcuna stima, e però non posso attribuirgli un tal sentimento. Non credo nè pure di potergli attribuire il pensiero, col quale egli voglia dedurre dagli universali i particolari, chè non mi è noto, che nella mente di alcun filosofo sia mai caduta una stranezza simile di affermare, che l' uomo percepisca i particolari, non con un senso che ad essi presieda, ma deducendoli per astratto ragionamento, e quasi indovinandoli dalle idee universali della sua mente. Conciossiachè conviene osservare, che qui parliamo de' particolari e degli universali solo in quanto sono gli oggetti delle percezioni dello spirito umano. Troverò io meglio il suo concetto, se supporrò, che egli voglia dire, che tanto gli universali, quanto i particolari scaturiscano da un terzo elemento, come da una fonte comune? Ma questo terzo elemento, mi si dica, sarà egli un universale, o sarà un particolare? perocchè non so che cosa ci possa avere di mezzo fra il particolare e l' universale, nè posso in alcuna maniera concepire un oggetto, che non sia nè particolare nè universale. S' egli dunque è un particolare che produce l' universale, ricaderemo nel sistema dei sensisti, e s' egli è un universale che produce un particolare, verremo ad abbandonarci ad un sistema così assurdo, che non ha bisogno di confutazione. Ma forse egli voleva dire, che considerando noi in questo ragionamento il particolare e l' universale in quanto sono oggetti, o anzi termini dello spirito umano (1), egli non è però assurdo il supporre, e non è impossibile il pensare, che tutti e due questi termini dello spirito sieno prodotti da un terzo elemento, non oggetto e non termine dello spirito, e perciò non apparente allo spirito. In tal caso noi siamo usciti oggimai dall' ordine logico , e siamo entrati nell' ordine ontologico , cioè a dire, siamo usciti dagli oggetti del pensiere umano, e siamo venuti ad un che incognito, che li produce: ora una cosa incognita, una cosa fuori del nostro spirito, fuori della nostra sensitività e della nostra intelligenza, non può in alcun modo costituire una facoltà dello spirito stesso; e perciò questo terzo elemento, questa entità, quand' anco ci fosse, non potrebbe costituire una facoltà superiore a quelle degli universali e de' particolari, sicchè queste da quella uscissero e in quella si unificassero. Vado bensì meco medesimo indovinando che questo terzo elemento sia per l' estensore dell' Articolo la coscienza (noi diremmo il sentimento), i fatti della quale pare a lui non essersi da me considerati quanto sarebbe bisognato nella loro connessione e nella loro più elevata unità; volendo così dall' ordine logico trasportarci all' ordine psicologico , cioè a cercare la spiegazione delle facoltà nel fondo dell' anima stessa, come molti filosofi, massime della scuola tedesca, vanno dicendo. Ma se a questa schiera egli pensa d' aggiungersi, non mi sarebbe punto difficile il fargli osservare i luoghi del « Nuovo Saggio , » dove si dimostra, che un tale pensamento è insostenibile in se medesimo, e scettico nelle sue conseguenze (1). Ma in luogo di ciò, a me basterà di eccitarlo a fare la seguente riflessione. La coscienza, come si suol prendere da' tedeschi, è un sentimento , appartiene quindi alla facoltà di sentire, o anzi, è ella stessa la grande e universale facoltà di sentire dello spirito umano. Ora, se noi consideriamo il sentire come tale, egli non è nulla più che la facoltà de' particolari, giacchè il soggetto senziente uomo è un particolare, e ogni sensazione è una modificazione di questo soggetto particolare, che a suo tempo si chiama IO, e perciò essa è particolare. Perchè adunque la facoltà di sentire passi agli universali, conviene, che le si sopraggiunga qualche cosa, cioè che gli venga posto un oggetto in contrapposizione di lei, soggetto. In tal caso essa non è oggimai pura e semplice facoltà di sentire , ma è divenuta facoltà intellettiva , ed è questa appunto la maniera, ond' io faccio nascere nell' uomo l' intelligenza, cioè col sopraggiungersi d' un oggetto al soggetto , coll' esser dato alla facoltà di sentire universale dell' uomo un termine diverso dal soggetto stesso e da lui indipendente, e quindi coll' acquistare che fa il principio sensitivo dell' uomo una modificazione essenziale, in virtù della quale estende la sua forza fuori di tutto ciò, che racchiude la nozione d' un sentimento puramente soggettivo. La coscienza dunque, a parlare con proprietà, un sentimento puramente soggettivo, appartiene solo alla facoltà de' particolari, e chi volesse da questo trarne la percezione degli universali ricaderebbe in quel sistema, che trae l' universale dal particolare, che è quanto dire, l' idea dalla sensazione, sistema sensistico e materiale (1). Egli è bensì vero, che alcuni filosofi danno alla forza primitiva dell' anima un atto creatore, col quale il soggetto stesso pone il suo oggetto, lo spinge e, quasi direi, lo slancia fuori di sè senza preciderlo da sè, ma mettendolo in opposizione a sè, come termine della sua contemplazione. Ma, oltre che questo sistema è panteistico , ed io l' ho già confutato a lungo (2), non se ne può dare la minima prova, che abbia pur solo del verisimile, e in qualunque caso, egli non può tener luogo, che di una ipotesi, conciossiachè i fatti appunto della coscienza, sieno esterni, sieno interni, non dicono nulla di questo, ma dicono anzi tutto il contrario, poichè la coscienza ci dice, che nella percezione degli oggetti noi siamo i passivi , e gli oggetti sono gli attivi , noi siamo dipendenti, quelli a cui viene imposta la legge; e gli oggetti sono indipendenti, e quelli che impongono la legge. Nè si dica che il concetto di passività involge una specie sua propria di attività; poichè questa attività non è finalmente che quella, per la quale il soggetto paziente esiste e patisce. Ci perderemmo dunque in una filosofia puramente fantastica, se, abbandonato il filo dell' esperienza interna ed esterna e le deposizioni chiare della coscienza, noi volessimo supporre un' operazione arcana nell' intimo dell' anima senza averne la minima prova, ed il minimo reale indizio. Concludiamo dunque da tutto ciò, che non c' è alcuna via da identificare nell' uomo la facoltà di percepire i particolari e la facoltà di percepire gli universali, e che non si può negare che queste non abbiano una diversità reale fra loro. Ma dopo di ciò, se queste facoltà, cioè il senso e l' intelletto, sono diverse, e non si possono confondere; saranno esse anche prive d' ogni rapporto fra loro? non hanno forse una comune radice? non si rassomigliano in cosa alcuna? A tutte queste domande ho risposto lungamente nell' opera, e voi bene vi ricorderete d' averci trovate le seguenti dottrine. In primo luogo, tutte le facoltà, ove le consideriamo dalla parte del soggetto, si unificano, ed hanno per radice comune, il soggetto, il quale è perfettamente uno e il medesimo (1). Quindi c' è un' attività radicale nel soggetto uomo, la quale è identica in tutte le facoltà, che traggono da lei, come altrettante attuazioni d' una medesima potenza; e quest' attività è l' anima stessa, che, come dice Dante, [...OMISSIS...] In secondo luogo, l' attività d' un soggetto, considerata da sola, è un sentimento , pel quale il soggetto sente se stesso, o a dir più vero, sente il modo del proprio essere, sicchè essendo moltiplici i modi dell' essere d' un soggetto senziente, anche quella facoltà da una si fa più, secondo i diversi termini delle sue operazioni: indi si partono non formalmente, ma per la diversa materia, quelli che si chiamano i cinque sensi del corpo, e queste attuazioni diverse della sensitività radicale si possono considerare bensì come altrettante facoltà, ma non però così distinte, che non abbiano sempre il soggetto per loro termine ne' suoi varŒ modi (3). All' opposto questa attività di sentire riceve una nuova funzione, infinitamente più nobile di tutte queste, quand' ella non termina più, come dicea, nel soggetto ; ma un oggetto le è dato da contemplare. Ella allora è maravigliosamente nobilitata da questo suo termine distinto essenzialmente da lei, e che non si può intuire se non distinto; di che al sentimento accade una preclara trasformazione, cioè quella di rendersi intelligente. Questa intelligenza, che viene aggiunta al soggetto col pur presentarsi e giungersi a lui come termine un oggetto, è tale, che il soggetto non potea mai darla a se stesso, perchè l' intelligenza richiede qualche cosa di essenzialmente diverso dal soggetto: e quindi il soggetto dovea ricevere l' intelligenza da qualche cosa diversa e maggiore di sè, da una cosa, che fosse per la propria essenza intelligibile, la quale perciò non potea esser sentita senza esser ad un tempo intesa, il che facea sì che resa termine dell' attività sensitiva, ella traeva quella attività ad una nuovissima e maravigliosissima operazione. Per tal modo è che io faccio nascere, ed uscire l' intelligenza umana dal senso universale, ma non dal senso solo, bensì da una operazione, che viene fatta dall' esterno del soggetto uomo, da una virtù, a cui l' uomo non può resistere, e che nel rendersi recettivo, nel cedere, nel darsi vinto, forma, e crea in lui ciò che aver ci può di più elevato, e di più sublime (1). Dalla parte dunque del soggetto le facoltà si unificano e radicano tutte nel medesimo, e anzi rimarrebbero una facoltà sola specificamente, se al soggetto null' altro si aggiungesse, e tutto terminasse in lui. Ma se questa universale facoltà di sentire che costituisce il soggetto stesso, esce dal soggetto, e l' abbandona per l' oggetto, qual forza ne la trae fuori? che cosa è questo oggetto, che a lei si presenta? questo termine, che, essendo egli essenzialmente conoscibile, dà l' intelligenza coll' esser sentito, e quindi egli, il primo inteso da questa intelligenza da lui per tal modo creata, rende intelligibile, per partecipazione della sua luce, anche tutte l' altre cose solo sensibili? Questa ricerca ho fatto in tutta l' opera sulle idee, ed il risultato si fu, che questo termine dello spirito umano è l' ENTE; e che prima l' uomo vede quest' ente in universale, e in uno stato puramente ideale. Indi col mezzo suo intende anche le altre cose, perocchè l' intelligibilità di queste non consiste se non nel rapporto che esse hanno appunto coll' ente stesso (1). Il risultato si fu ancora, che quest' azione che soffre dall' esterno lo spirito umano, è irresistibile e superiore a qualunque forza: che l' oggetto, l' ente è la stessa VERITA`, l' unica forma della ragione, il fonte della morale , cioè la legge suprema non solo de' pensieri, ma anche delle azioni umane (2), il criterio della « certezza (3), » il principio della « bellezza (4), » e ciò che il volgo chiama assai propriamente il « lume della ragione (5). » Risultò medesimamente dalle mie ricerche, che quest' ente è la causa esemplare delle cose, è l' universale, il necessario, e quindi il fonte di ogni universalità, e di ogni necessità (6); che egli finalmente è immutabile, eterno, infinito (7); e tutto questo che egli mostra non è apparenza ingannevole, poichè quest' ente non può apparirci diverso da quello che è, ed è essenzialmente ed evidentemente veritiero, appunto perchè è la verità; e per ultimo risultò, che sebbene da noi non si veda l' ente nella sua sussistenza , ma solo nell' idea tuttavia non può non sussistere anche in se medesimo, e in questa sua sussistenza considerato è la causa efficiente del tutto, l' ente degli enti, l' unico assoluto, Iddio (.). Così l' Ideologìa mi condusse a mano fuori della mente, e fece che mi ritrovassi sul limitare dell' Ontologìa, ove il discorso non cade più sulle idee , ma sulle stesse cose . Ed è nell' Ontologìa , non ancora da me pubblicata, che io richiamo alla sua vera ed altissima unità anche il mondo reale, come coll' Ideologìa ho richiamato all' unità sua il mondo ideale, per dover poi nella Teologìa naturale congiungere, cioè, far dipendere i due mondi reale e ideale da un solo e medesimo punto, cioè da quell' ente degli enti, nel quale la verità , ossia l' essere mentale, diventa una persona indivisa dalla divina sostanza. Non so, se forse l' Estensore dell' Articolo alludeva a qualche cosa di simile a questo, quando egli desiderava, che io avessi considerati i fatti della coscienza nella loro più elevata unità ; ma in tal caso, come abbiamo veduto di sopra, questa unità è fuori della coscienza, è fuori dell' ambito della ideologìa , ed appartiene all' ontologìa , e si consuma nella teologìa naturale . Per tornare dunque a quella unità di sentimento, che solo è ragionevole di cercare nel « Saggio sull' origine delle Idee , » voi certamente, che molto addentro siete entrato nello studio di esso, vi sarete avveduto di questa strettissima connessione soggettiva, che io pongo tra la facoltà dell' intelletto , e del senso preso in generale , e non solamente preso per quel ramo del sentire corporeo. Ma oltre di ciò ci avrete ancora trovato di più, che io riduco alla unità medesima anche la terza delle facoltà fondamentali dell' uomo, cioè la ragione , facoltà media fra l' intelletto ed il senso . Non vi sarà sfuggito, che anzi non altrove io fondo la possibilità e la propria natura della ragione , se non nell' identità del sentimento e della coscienza del soggetto sensitivo ad un tempo ed intellettivo , sicchè la funzione della ragione io la riduco ad essere la visione delle relazioni fra le sensazioni e le intellezioni; e l' indole propria di ogni idea, che non sia la suprema, semplicissima di sua natura e tutta forma, in quella d' essere un rapporto veduto fra la sensazione stessa, materia , e l' essere in universale, forma , e lume della mente (1). Tre dunque sono le facoltà specificamente diverse nell' uomo, il senso , l' intelletto , e la ragione ; ma l' uomo non è già una facoltà, ma il soggetto unico di quelle tre facoltà: ecco l' unità , a cui si richiamano tutti i fatti della coscienza. Vi risovverrete, che questa dottrina sparsa per tutta l' opera, viene in fine d' essa riepilogata nel seguente passo: « « Nella coscienza esistono tutte queste potenze avanti le loro operazioni, cioè il sentimento di me col mio corpo (sensitività) e l' intelletto . Questa coscienza, perfettamente una, unisce la sensitività, e l' intelletto. Ella ha altresì un' attività, quasi direi, una vista spirituale, colla quale ne vede il rapporto: quest' attività è ciò che costituisce la sintesi primitiva . Se noi consideriamo più generalmente questa attività nascente dall' unità della coscienza, in quanto cioè ella è atta a vedere i rapporti in generale, ella è la ragione , e la sintesi primitiva diventa la prima operazione della ragione »(1). » Una unità maggiore di coscienza e di sentimento dell' identità non si può dare, e questa è quella semplicità, a cui mi sembra d' aver richiamata con evidenza la scienza del pensiero. Io aggradirò, che voi mi diciate schiettamente il vostro parere su queste mie osservazioni, che vi mando per ubbidirvi. Addio. La ringrazio della pregiata sua piena di sagacità, e di quello spirito conciliatore; che se fosse in tutti gli studianti, tanto gioverebbe ai progressi della filosofia, della sapienza e della stessa virtù. Cercherò di chiarire in breve alcune cose ch' Ella mi propone. Prima di tutto è da porre attenzione al senso, nel quale io uso il vocabolo reale o realità. Io mi accorgo che molti intendono per cosa reale una cosa vera o veramente esistente. Ma non è questo il senso che io aggiungo a quella parola. Il reale per me non è che un modo dell' essere , non è l' essere stesso. Io sostengo che l' essere identico è in tre modi o maniere diverse, che io denomino ideale, reale, morale . Lasciamo da canto il morale a fine di semplificare il discorso; dico che l' essere identico si trova tanto nell' idealità quanto nella realità, ma in altro modo. Sia dunque che l' essere si prenda nella sua forma ideale, o che si prenda nella sua forma reale, egli è verissimamente ed è sempre lo stesso essere. Convien dunque con somma diligenza meditare sulla diversità che ha l' essere in queste due forme, nelle quali si presenta, e nell' una delle quali non è più nè meno che nell' altra. Una delle diversità estrinseche, per così dire, che separa l' essere ideale dal reale , si è che l' essere ideale è sempre necessario , laddove l' essere reale non è sempre necessario, ma ora è contingente, ora è necessario. E` facile il dimostrare che l' essere ideale è sempre necessario, sol che si faccia osservare che anche l' idea del contingente è necessaria ed eterna. Ella vede dunque che, secondo la mia maniera di parlare (dalla quale a dir vero non trovo che si possa prescindere), quantunque l' essere ideale sia verissimamente ed anco necessariamente, non si può inferirne che sia reale; chè sarebbe contraddizione il dire che ciò che è ideale, è reale, o viceversa, essendo queste due forme incomunicabili, o inconfusibili. Ella mi domanderà qual sia il carattere, che distingue queste due forme l' una dall' altra. Rispondo, che queste due forme si distinguono come l' idea si distingue dal sentimento , o sia che il carattere dell' essere ideale è quello di far conoscere semplicemente, senza aver alcun' altra azione di sorte; quando il carattere dell' essere reale è quello di agire , producendo o modificando il sentimento. Ancora: l' essere reale è soggettivo , l' ideale sempre oggettivo: l' oggetto si può unire col soggetto, anzi si deve; ma non si può mai confondere con esso. Avverta che per me un soggetto è sempre un sentimento, e il reale è sempre anch' esso il sentimento, o ciò che agisce nel sentimento: l' idea non è mai un sentimento, e qualora si voglia dire che modifichi il soggetto che la intuisce e produca in essa qualche sentimento, tuttavia questa modificazione, di natura sua propria, distinta da tutte le altre, non è l' idea. Del resto, ripeto, che nell' ideale c' è tutto ciò che nel reale, meno la realtà; e nel reale c' è, o ci può essere tutto ciò che nell' ideale, meno la idealità: le sole forme, i modi soli si escludono: il contenuto di esse è l' essere identico . I filosofi tedeschi, e specialmente Hegel, hanno fatti sforzi maravigliosi per trovare un punto, che congiungesse l' oggettivo col soggettivo, cui chiamarono punto d' indifferenza [...OMISSIS...] di cui quest' ultimo filosofo volle fare il fondamento e l' origine di tutte le cose. Vani sforzi! Non videro que' pensatori, che avanti l' oggettivo e il soggettivo, l' ideale e il reale, non c' è nulla, nulla affatto; che, l' essere è l' essenza identica d' entrambi. Ella avrà forse colto questa teoria nelle mie opere, ed esige, parmi, attentissima meditazione a concepirla sì nettamente da non falsarla con alcun' altra, e da poter trovarvi le conseguenze di cui va gravida. Ora venendo più da vicino alla nostra quistione: se d' innanzi alla mente umana stia sempre Iddio collocato, l' essere assoluto; rispondo facendo primieramente osservare, che stare presente alla mente umana non vuol dir altro se non esser dalla mente intuìto , di maniera che ciò che non fosse dalla mente intuìto si dovrebbe dire che non le è presente. In secondo luogo osservo che la parola Dio nel comune significato non indica solamente un essere necessario, ma indica di più un essere reale, indica l' essere reale infinito; epperò necessario. Ora che stia d' innanzi alla mente nostra di continuo l' essere necessario è quello che io sempre sostengo in tutte le opere mie; ma che stia presente alla mente, cioè che sia intuìto continuamente dalla mente quest' essere necessario nella sua forma di realità, questo è quello che nego non solo per l' assurdo teologico che ne verrebbe, ammettendolo; giacchè in tal guisa noi vedremmo Iddio per natura; ma di più per la semplicissima ragione che l' osservazione interna del fatto del nostro spirito ci dichiara che noi non abbiamo quella percezione della realità divina; la quale d' altra parte non è necessaria a spiegare l' origine delle nostre idee, al che ci bisogna solo l' essere ideale per sè noto, per sè lume: e finalmente per una terza ragione, cioè perchè la realtà divina non appartiene all' ordine delle idee, ma all' ordine de' sentimenti, ne' quali solo comunicandosi a noi, si può da noi percepire e dalla facoltà nostra del giudizio affermare. Nulladimeno dall' essere , che sta innanzi alla mente nostra nella sua forma ideale , possiamo passare per via di argomentazione a conchiudere, che quell' essere identico che a noi si comunica come ideale, dev' essere in se stesso anche reale, e un reale necessario e infinito altrettanto che ideale, benchè questa sua realità a noi sia nascosta nell' ordine della natura; conciossiachè nel semplice ordine naturale noi non possiamo percepire che una realità finita; e la percezione della realità infinita è poi ciò che costituisce l' ordine soprannaturale . Trovando mediante tale argomentazione la necessità d' un reale infinito, noi abbiamo dimostrato l' esistenza di Dio a priori; perocchè gli uomini in tutte le lingue intendono ed hanno sempre inteso di significare colla parola Dio non l' essere ideale, ma l' essere reale infinito. Di che ella vede che il non poter applicarsi il nome di Dio all' essere ideale, che noi naturalmente vediamo, non fa sì ch' egli sia perciò diverso da Dio, in se stesso, ma solo che a noi appaia diverso, attesa la limitazione nostra, e il modo parziale con cui ci viene comunicato. Mi spiegherò con un esempio: io vedo da lungi una piccola macchia nera; questa macchia si muove: mi si avvicina: finalmente scorgo che è uomo. Quando io vedea la macchia nera, ma non distinguevo ancora che fosse un uomo, io non potea dire di vedere un uomo, poichè ciò che a me appariva non era punto un uomo; era una macchia nera; ma in quel punto in cui ho cominciato a distinguere le forme umane in quella macchia, io ho potuto dire: vedo un uomo. L' oggetto in se stesso era sempre il medesimo; ma non così l' oggetto a me apparente; prima era una macchia, poi era un uomo. Applichi la similitudine: l' essere infinito è identico tanto nella sua forma ideale quanto nella sua forma reale; ma fino che io lo vedo nella sua forma ideale solamente, non vedo Iddio: vedo Iddio tosto che lo vedo nella sua forma reale: ma non è tanto l' oggetto che varia, quanto la visione dell' oggetto. Questa similitudine non è adequata da tutti i suoi lati; ma fa intendere bastantemente il mio pensiero....... Ricondottomi a Stresa dopo lunga assenza, vi ho trovato la sua « Introduzione alla Filosofia razionale » da Lei gentilmente speditami, e poco stante ebbi la cortese sua lettera, in cui mi chiede qualche parere sulla medesima. Ho letto con piacere non piccolo quella sua operetta, scorgendovi da per tutto la penetrazione del suo ingegno e i vestigi di una non leggera meditazione. Laonde devo sinceramente congratularmi con essolei d' un lavoro che le dee far grande onore. Non le parlerò delle osservazioni che Ella fa sul sistema ideologico contenuto nel « Nuovo Saggio » e che tutte mostrano la rettitudine dell' animo suo e la persuasione sincera di ciò che dice, ma non posso tacere del tutto del sospetto di Panteismo ch' ella mostra di prenderne e dell' accusa ch' ella gli dà d' impotenza a dimostrare l' esistenza reale de' corpi. L' amor suo sincerissimo alla verità dee liberarla a mio credere da ogni timore, che, nella conseguenza del sistema, possa uscirne un panteismo sol che consideri quanto segue. Niun altro sistema, a me pare, pone più gran divisione fra l' essere ideale e l' essere reale . Ora l' essere ideale è necessario ed eterno, quando all' opposto l' essere reale non è essenzialmente necessario ed eterno, avendovi un mondo contingente e soggetto alla limitazione del tempo. Ora essendo l' essere ideale essenzialmente necessario ed eterno, ne viene ch' egli debba ridursi in Dio, ed essendovi in Dio un' unità perfetta, niuna maraviglia è, che anche nell' essere ideale si trovi un' unità perfettissima, cioè che tutte le idee si riducano ad una sola. Se fra le idee ci fosse una real distinzione, una real distinzione ci sarebbe in Dio, il che pregiudicherebbe alla divina semplicità. All' incontro l' essere reale contingente non potendosi ridurre in Dio, nè pure esige l' unità e la semplicità propria del mondo ideale e divino. E tutto ciò è confermato dall' osservazione interna ed esterna; poichè è l' osservazione interna che ci persuade le molte idee non esser altro, che lo stesso lume applicato a conoscere cose diverse: la moltiplicità delle cose reali moltiplica le idee in questo senso, che moltiplica i rapporti fra essi e l' unica idea; avendo io già dimostrato che tutte l' altre idee, eccetto quella dell' essere, non sono che rapporti delle cose con essa idea unica dell' essere ( « Rinnovam . » L. III c. LII). L' osservazione poi esterna ci dimostra la moltiplicità e la limitazione delle cose esteriori, le quali per ciò stesso non si possono in alcun modo confondere con Dio. Di qui risulta, che dall' unicità, che si trova nelle idee, non si può argomentare all' unicità delle cose esterne contingenti, perocchè l' essere ideale è tanto distinto dall' essere reale e contingente, quanto è distinto Iddio dalle creature. All' incontro il vedersi che quell' unica idea si moltiplica, secondochè fa conoscere ora una cosa ora l' altra, dimostra manifestamente la moltiplicità delle cose reali, moltiplicità e limitazione che si trova così dimostrata nel seno stesso del mio sistema. Venendo ora alla obbiezione, che ella fa alla dimostrazione dell' esistenza reale de' corpi , devo confessare che la riflession sua sarebbe giusta qualora quella dimostrazione si appoggiasse, come Ella suppone, all' erroneo principio che un essere illimitato non possa mai produrre effetti limitati . Ma se ella attentamente considera, vedrà che la dimostrazion mia fondasi anzi interamente sull' analisi del concetto di corpo, per la quale io stabilisco che il corpo è quell' agente sull' anima, che l' anima sente nello spazio : e la sostanza corporea non è nè più nè meno di quest' agente. Ora quest' agente sentito immediatamente dall' anima e nell' anima, e avente il modo della estensione, è una sostanza limitata , e perciò non può essere Dio. Merita nome di sostanza , perocchè si concepisce da sè solo senza che il pensiero nostro per concepirlo debba far ricorso ad altro; e questa sostanza è limitata , perchè in tanto è sostanza, in quanto agisce, e in quanto agisce è limitata ed estesa, onde non è Dio. Conviene formarsi una giusta idea della sostanza, riducendola sempre ad un atto, il quale, qualor si considera sotto l' aspetto di principio , dicesi agente , e qualora si considera come cosa che si lascia concepire da se stessa senza bisogno d' altro, dicesi sostanza . La prego di dare la sua attenzione a tutto ciò, e mi persuado, ch' Ella, cercatore della sola verità, rimarrà soddisfatta. Così pure io credo ch' Ella si persuaderà, che non ci sono nè idee nè cose essenzialmente contrarie fra loro; giacchè tutte le idee convengono nell' essere ideale, e tutte le cose partecipano dell' essere reale, e però in quanto sono, non sono contrarie. Finalmente bramerei ch' ella facesse uso dell' edizione milanese del « Nuovo Saggio , » parendomi dal passo ch' ella cita a faccia 124 7 125, ch' ella adoperi l' edizione romana. Veramente dee essere corso errore di citazione, e però non ho potuto riscontrare il passo citato; ma ritengo che nella edizione milanese sia stampato extrasoggettiva in vece di oggettiva , giacchè sensazione oggettiva , a dir vero, non è una frase propria. Non tardo a ubbidire al suo desiderio d' avere qualche dichiarazione intorno all' opinione da me professata in quel luogo del « Nuovo Saggio , » dove dico, che niuna cosa si predica di Dio univocamente, eccetto l' essere. E prima mi compiaccio che a Lei già non sia sfuggita la ragione di quella sentenza, che privilegia l' essere così fuori di tutti gli altri predicati; poichè, com' Ella dice, qui trattasi dell' essere comunissimo ammesso da tutte le scuole, il quale non sarebbe più comunissimo, se non si applicasse sì bene all' essere necessario, come al contingente. Il che apparisce vieppiù chiaro, se si considera che l' esistenza delle cose non si conosce in alcun altro modo, che con una sola idea, quella dell' esistenza; e quest' idea dell' esistenza è quella nè più nè meno, che chiamiamo anche idea dell' essere, come ci siamo già dichiarati. O sarà egli vero che l' esistenza di Dio non si conosca coll' idea di esistenza, colla quale conosciamo l' esistenza delle cose? Se non conoscessimo l' esistenza di Dio coll' idea d' esistenza, in qual altro modo la potremmo conoscere? O non è egli evidentemente assurdo il dire che senza l' idea di esistenza conosciamo l' esistenza di Dio? Se dunque è per lo contrario manifesto, che conosciamo l' esistenza di Dio coll' idea di esistenza, e coll' idea di esistenza conosciamo pure l' esistenza delle creature; non è egli vero che predichiamo l' esistenza dell' uno e dell' altre, mediante un' identica idea? Dove si noti, che l' idea di esistenza è semplicissima, non acchiudendo alcuno dei modi dell' essere, e però non può avere che un solo e semplicissimo significato la parola che la esprime: ond' è manifestamente assurdo ch' ella possa essere equivocamente predicata di checchessia. Ogni cosa qualsiasi o è o non è, senza mezzo. Rispondere che una cosa può essere in un modo e tal' altra in un altro è non aver intesa la questione; Chè non trattasi del modo dell' essere , ma dell' essere stesso separato da tutti i suoi modi e da tutti i suoi termini; di quell' essere che noi pronunciamo, affermando che una cosa è. Voi dunque siete scotista, mi si dirà - Il dir questo sarebbe un tirare conseguenze a precipizio. Le confesso che entro assai di mala voglia nelle questioni storiche, bramando che queste sieno tenute affatto in disparte dalle filosofiche. Io amo assai più di cercare la verità in filosofia e di studiarmi di attenermi ad essa, di quello che sia d' investigare se il tale o il tal altro autore, la tale o la tal' altra scuola la tiene con me, o contro di me. D' altra parte la quistione filosofica è semplice; e i passi che si fanno in essa, se pur si fanno, possono assicurarsi per via di giusto raziocinio. La questione storica è laboriosissima e può divenire interminabile, se si tratta d' interpretare autori, che hanno scritto un gran numero di volumi nelle diverse età di loro vita, e più ancora se si tratta di sapere che cosa tiene un' intera scuola composta d' un gran numero di scrittori che si esprimono diversamente, e che molte volte fra loro stessi dividonsi. Ed è per questo che io non amo chiamarmi piuttosto scotista che tomista o con altra tale denominazione che agli occhi miei non ha un preciso valore. Tuttavia confesso, che molte ragioni mi traggono talora in quistioni che appartengono alla storia delle opinioni e delle sentenze de' grandi filosofi o teologi. Ma quando sono a ciò fare o condotto o sedotto, allora io procuro d' interpretare la mente de' grandi uomini, che sembrano battagliare fra loro, in modo da conciliarli insieme quant' è mai possibile, standomi soprattutto ferma questa persuasione nell' animo, che difficilmente i sani e sommi intelletti vanno discordi fra loro, in ciò che sicuramente affermano, più che nell' apparenza. E parmi che i tentativi da me fatti in ciò sieno riusciti così, che mi confermarono in quel mio sentire. Adunque io credo che nella questione presente « se l' essere ideale si predichi di Dio e delle creature in un modo univoco od equivoco »ci abbia tra la scuola degli scotisti e de' tomisti una facile concilazione. Io gliela proporrò ed ella ne giudichi. Primieramente è da considerare, che il predicare l' essere di Dio e delle creature è operazione della mente umana, la quale distingue il predicato dal soggetto e quindi gli accoppia insieme. Questo modo di fare viene dalla limitazione della ragione umana: chè certa cosa è, che in Dio non c' è alcuna reale distinzione tra ciò che esprime il nostro predicato e ciò che esprime il nostro soggetto. La questione dunque è tutta racchiusa nella sfera del predicare e del concepire umano. Onde se ne avessimo la soluzione affermativa, cioè se risultasse che l' uomo predica di Dio e della creatura l' essere unicamente, non ne verrebbe mica da questo che l' essere in Dio e nella creatura fosse il medesimo, ma ne verrebbe solo la conseguenza, che l' uomo per la sua limitazione predicherebbe dell' uno e dell' altro il medesimo essere, o per dir meglio, l' essere in un medesimo senso, quantunque lo stesso uomo poi sapesse che una tale predicazione è difettosa, e che la mente umana l' adopera per non averne altra. La questione dunque si riduce tutta a sapere, se quando l' uomo dice: « Esiste Iddio », e quando dice: « Esiste il mondo », egli, l' uomo, intenda di esprimere colla parola esiste la stessa cosa o una cosa diversa. Se dunque egli è certo, come dicevamo, che l' idea di esistenza non determina punto i modi della esistenza stessa, ma è l' esistenza precisa da tutti i suoi modi; è manifesto altresì, che l' uomo in quelle due proposizioni intende di predicare di Dio e delle creature l' istessa cosa, cioè la pura e nuda esistenza. Ora la differenza fra l' essere di Dio e quello delle creature riguarda il modo di essere e non l' essere puramente preso nella sua astratta universalità. L' uomo dunque, legato com' è ad un modo di concepire suo proprio, predica questo essere puro di Dio e delle creature univocamente, appunto perchè, quando dice che Iddio esiste, lascia affatto da parte la questione del modo di sua esistenza. Si opporrà che l' uomo, facendo così, erra, perchè attribuisce a Dio un' esistenza astratta, quando in Dio non c' è distinzione alcuna tra l' essere e la natura. Ma quantunque sia vero, che in Dio non ci sia distinzione alcuna fra l' essere e la natura; tuttavia non è mica vero che l' uomo erri, quando predica di Dio l' esistenza, perchè in tal caso sarebbe falsa la proposizione: « Iddio esiste », o vero « Iddio è », la quale è manifestamente vera. E che l' uomo non erri formando questa proposizione, si vede da questo. Acciocchè l' uomo errasse, egli dovrebbe negare il vero. Ma l' uomo pronunziando che « Iddio è »ovvero « esiste », non nega mica il vero, cioè non nega con questa sua proposizione, che l' essere di Dio sia identico colla sua natura, ma altro non fa, che lasciare al tutto da parte la questione di questa identità, restringendo la sua attenzione all' esistenza senza più. E` dunque quello dell' uomo un modo limitato e imperfetto di concepire le cose divine, ma non erroneo. Poichè se l' uomo stesso, dopo aver detto che « Iddio è », s' inoltra colle sue ricerche e va investigando la maniera nella quale Iddio è, arriva ben presto a trovare quest' altra proposizione: « l' essere di Dio è la stessa sua natura »; e questa proposizione non è punto contraddittoria colla prima; che anzi ne è il compimento ed il perfezionamento: il che dimostra che anche la prima è vera, benchè sia insufficiente ad esprimere la dottrina intorno all' essere divino. Ora Ella ben si accorge, che tutta questa è dottrina bellissima di S. Tommaso, e che perciò è al tutto secondo la mente dell' angelico dottore il dire, che si predica univocamente l' essere di Dio e delle creature, quando per essere s' intenda l' essere comunissimo ossia la pura esistenza, come noi intendiamo. Ella vede che la verità della proposizione « Iddio è »o « Iddio esiste », è da desumersi dal puro fatto del significato che l' uomo aggiunge alla parola è , secondo il principio dello stesso Acquinate che « ad veritatem locutionum non solum oportet considerare res significatas, sed etiam modum significandi (S. I, XXXIX, v.) » Ella vede dunque che la conciliazione fra S. Tommaso e Scoto su questo punto non è difficile. Cerchiamo di metterla ancora più in chiaro. S. Tommaso dà due significati alla parola ente: egli dice che con questa parola talora s' intende l' essenza delle cose , e in tal caso si parte ne' dieci predicamenti d' Aristotele; e talora significa un concetto formato dall' anima stessa (S. I, III, IV, ad 2, XLVIII, II ad 2, in I Sent. D. XIX, q. V a I, ad 1 e in molti altri luoghi). Dice ancora, che l' ente, preso nel primo significato, appartiene alla questione che ricerca; quid est? Ma l' ente preso nel secondo significato appartiene alla questione che ricerca; an est? (in II Sent. D. XXXIV, I, in III D. VI, q. II a II). Dunque l' essere si può predicare di Dio nel primo significato, in quanto l' essere esprime il quid est di Dio, come nella proposizione; Deus est ens; e in questo significato l' essere si predica di Dio e delle creature equivocamente, o, se vuolsi, soltanto analogicamente, onde traducendo la proposizione in italiano riuscirebbe a questa forma: « Iddio è l' ente ». Il che non potrebbe mai dirsi della creatura, della quale potrebbesi dire solamente: « la creatura è un ente ». Ma l' essere si può predicare di Dio anche nel secondo significato, in quanto l' essere esprime; an est , come nella proposizione: Deus est; e in questo significato che esprime un concetto della mente, una maniera umana ma vera di concepire, l' essere si predica di Dio e delle creature univocamente. E che questa sia la vera dottrina dell' Angelico, Ella potrà rilevarlo altresì dal considerare semplicemente, che l' acutissimo nostro Dottore sostiene, che l' uomo possa benissimo conoscere; an Deus sit , ma che non possa mica conoscere positivamente; quid Deus sit , ovvero quomodo sit . Il che dimostra, che quando si predica di Dio l' essere preso nel significato di pura esistenza, che è concetto e lume della mente, allora l' uomo conosce benissimo il predicato che egli dà a Dio: laddove quando si predica di Dio l' essere preso nel significato di essenza, l' uomo non sa positivamente, ma solo negativamente ciò che predica di Dio. E perchè questa differenza? Certo perchè quando diciamo semplicemente che Iddio è od esiste , predichiamo di Dio l' essere che non supera l' ordine della natura, nè eccede il lume della ragione; e però è quell' essere che si pronuncia egualmente di Dio e delle cose naturali; laddove quando, predicando di Dio l' essere intendiamo di affermare la sua essenza, e non meramente la sua esistenza, allora parliamo dell' essere proprio di lui, e non comune alle creature; perciò non predicabile di queste nel senso stesso. Ella vede dunque che quando gli Scotisti sostengono che l' essere si predica di Dio e delle creature univocamente, essi hanno ragione, e sono d' accordo con S. Tommaso, purchè intendano dell' essere nel significato di pura esistenza, come l' intendiamo noi. Ed è perciò che nel « Nuovo Saggio , » quando professai questa sentenza, mi sono dato cura di esprimere, che intendevo dell' essere puro senza i suoi termini, acciocchè non nascesse equivoco, o io sembrassi in ciò contraddire all' Angelico Dottore. E certo sarebbe errore gravissimo il dire, che l' essere, in quanto esprime essenza, e non semplice e pura esistenza, si predicasse univocamente di Dio e delle creature; perciocchè in tal modo l' essenza di Dio e l' essenza delle creature sarebbe la stessa, il che è quanto dire, noi cadremmo nel mostruosissimo panteismo. Affine di combattere questo errore, che corrode le moderne filosofie, io scrissi il « Nuovo Saggio »; dove, prendendo il male dalla radice, dimostrai, che il mezzo, col quale l' uomo conosce tutte le cose, è l' essere purissimo e comunissimo, il quale forma il lume della ragione umana. Quest' essere purissimo e comunissimo è appunto l' ente preso nel secondo dei due significati di S. Tommaso, esprimente, come S. Tommaso dice, un concetto della mente. Con quest' idea o concetto l' uomo afferma la semplice esistenza, e non ancora l' essenza propria delle cose. Ora poniamo che invece di stabilire questo vero datomi anche dall' esperienza interna, io avessi stabilito, che il mezzo, con cui l' uomo conosce ed afferma le cose, fosse Iddio stesso, cioè l' essere inteso nel primo significato di S. Tommaso, che esprime la natura divina: in tal caso il panteismo sarebbe stato inevitabile, poichè ogniqualvolta l' uomo avesse predicato delle cose contingenti l' essere, egli avrebbe dato la natura divina alle cose; avrebbe affermato tutte le cose esser Dio, appunto perchè avrebbe predicato univocamente di Dio e delle cose l' essere preso nel primo significato di S. Tommaso. Il che se avesse considerato attentamente il signor Abate Gioberti, non avrebbe sostituito l' intuito di Dio all' intuito dell' essere ideale ed universale, aprendo così la porta amplissima al panteismo, con tutta la buona volontà di combatterlo. Non è facile il dire con brevi parole, in che differisca la filosofia da me proposta da quella del signor Cousin. Tuttavia, lasciando quanto n' ho già detto, e che voi avrete probabilmente letto (1), noterò alcune delle principali differenze, in che le due filosofie grandemente si dispaiono. E, per avere un confine al mio dire, io mi propongo di non uscire dal libro poco fa pubblicato dal Garnier, che contiene il Corso delle Lezioni date dal signor Cousin nel 1.1., e che fu pubblicato coll' approvazione dello stesso chiarissimo professore (2). In questo libro ci sono de' brani, dove il signor Cousin compendia se stesso; i quali, raccogliendo in breve e fedelmente la sua dottrina, potranno servire di solido fondamento alle nostre osservazioni. E appunto in uno di tali sunti, che il professore fa del proprio sistema, io mi scontro alla Lezione VI; e da esso incomincerò; udiamone, senza perder tempo, le prime parole. « Noi siamo partiti dai presenti dati della coscienza umana, e colle indicazioni forniteci da tali dati, noi ci siam provati a raccapezzare l' origine di que' dati, cioè a dire lo stato primitivo dell' intelligenza. » Questo è il vero, anzi l' unico metodo di filosofare sullo spirito umano: egli è quello, a cui io mi sono sempre attenuto, e dove vi ha unanimità nelle due filosofie. La differenza fra noi non principia se non quando si viene ad applicare il metodo; e i risultamenti che se n' hanno, non poco diversano fra di loro. « Noi abbiamo fermato, continua il professore, che il primo fatto della coscienza si compone di due elementi variabili, e d' un terzo reale come gli altri due, ma invariabile, cioè a dire del ME, della natura esteriore (1), e dell' essere universale e assoluto. Noi abbiamo detto, che la filosofia si pone al punto di veduta riflesso, e comincia per conseguente dalla riflessione; ma che la vita intellettuale dell' umanità è tratta in moto dalla spontaneità, e che la spontaneità e la riflessione non contengono nè più nè meno elementi l' una che l' altra. » Ora noi siamo d' accordo in ammettere che la filosofia comincia dalla riflessione, e che alla riflessione precede una vita intellettiva spontanea. Ma già cominciamo a differire circa la natura della spontaneità , e circa il numero e la qualità degli elementi onde si vuol composto il suo oggetto. A sporre con chiarezza queste differenze è uopo che noi riprendiamo quel primo fatto della coscienza, onde il professore muove il suo ragionare. Che cosa è dunque la coscienza pel professor Cousin? Udiamo lui stesso a definircela: [...OMISSIS...] Secondo il professore dunque non si può dare alcun atto intellettivo, senza che esso abbia la coscienza di sè. La mia opinione si allontana grandemente da questa dottrina: io convengo con lui in affermare che la coscienza non è una facoltà speciale, e che ogni coscienza è un prodotto dell' attività intellettiva; ma io nego al tutto, che ciascun atto dell' intelletto involga una veduta inevitabile di se stesso, e però la coscienza di se stesso. Io dico, che la coscienza si produce in noi a due condizioni; cioè 1 a condizione che noi abbiamo un sentimento (chè per me il sentimento è sempre diverso dalla coscienza), 2 a condizione che noi facciamo un atto intellettivo, il quale abbia per oggetto quel sentimento. Se io ho un dolore, e se io penso a questo dolore, tostochè io ci penso, ho coscienza del dolore; ma se io non ci pensassi punto nè poco, avrei bensì il sentimento, non ancora la coscienza del dolore. Ma poichè è sommamente naturale nell' uomo, massime già sviluppato, che il dolore attragga subitamente a sè il pensiero, perciò si confonde assai facilmente il sentimento del dolore colla coscienza del dolore, e si crede che una cosa sia l' altra. Ne' bruti all' incontro, ne' quali non si dà pensiero , ma solo senso , può concedersi il sentimento doloroso, ma in nessuna maniera la coscienza del dolore. Quello che dissi del dolore, dicasi di ogni altra operazione umana. Qualsivoglia operazione umana, o appartenga ella all' ordine sensitivo, o a quello dell' intelligenza, involge un sentimento nell' umano soggetto che la fa; poichè l' uomo è un soggetto essenzialmente sensitivo, e ogni modificazione di un tal soggetto è sensibile. Perciò anche tutti gli atti dell' intelligenza involgono un sentimento, sebbene talora tenuissimo e non avvertibile di leggieri; ma non avviene per questo, che involgano la coscienza di se stessi. La coscienza di un atto nostro intellettivo non è dunque contemporanea all' atto stesso, ma posteriore ad esso: s' acquista, e s' acquista non col medesimo atto intellettivo che è l' oggetto della coscienza, ma con un altro atto pure intellettivo, che si volge sopra il primo. Quando io penso a' miei pensieri, allora io acquisto la coscienza de' miei pensieri; ma io posso avere de' pensieri in me, senza che io punto nè poco ci rifletta, e però senza che io m' abbia di essi coscienza. Egli parrà bene strano a noi questo fatto; ci ha la sua ragione, perchè a noi paia strano. Per altro la natura, per misteriosa che sia, è fatta così, e bisogna pigliarla come è fatta. Egli è vero che molte volte a me torna facilissimo il riflettere a' miei pensieri, e che, riflettendovi, io n' acquisto immantinente coscienza. Acciocchè io faccia ciò, basta la più lieve cagione che mi richiami sopra me stesso. Ma appunto per ciò, che questa coscienza de' proprŒ pensieri s' acquista in un istante impercettibile, s' acquista quando si voglia, purchè si voglia; appunto perciò avviene che si trascuri la distinzione fra un atto dell' intelligenza e la coscienza del medesimo atto, che tien dietro a lui così celere e a lui legasi così stretta, e che vengasi a credere falsamente, che ogni atto dell' intelligenza per sua propria natura conosca se stesso. All' incontro io ho stabilito in molti luoghi delle mie opere la proposizione direttamente contraria, cioè che « ogni atto dell' intelligenza mi fa conoscere il suo oggetto, ma è incognito a se medesimo. » Dissi, che molte volte è facile ed istantaneo l' acquistare la coscienza de' nostri pensieri e de' nostri sentimenti; ma qui devo limitare anche più questa mia affermazione. E certo, molte e molte volte sono in noi de' pensieri, sono de' sentimenti, e fin anco delle sensazioni corporee, di cui ci è difficilissimo aver coscienza. La prova di ciò si è quella sentenza, « Conosci te stesso »; che fu riputato da tutta l' antichità il più importante e il più difficile precetto della morale filosofia. Se la coscienza di tutto ciò che passa in noi, fosse sempre facile ad acquistarsi, se ogni nostro pensamento racchiudesse la coscienza di se stesso, niuno avrebbe bisogno di studiare gran fatto per discoprire a se stesso le proprie propensioni e tutto ciò che passa nella sua mente: non direbbesi che il cuore umano racchiude dei profondi secreti, che l' uomo è un mistero a se stesso: la filosofia, almeno in quella parte che riguarda l' uomo, non sarebbe più una scienza; nè potrebbe cader mai discrepanza nelle opinioni risguardanti le origini de' nostri pensieri e quelle delle nostre affezioni, la qual discrepanza pure è tanta. Ma il fatto si è, che, per aver coscienza di ciò che passa nell' intendimento nostro e nel nostro cuore, c' è bisogno assai sovente di una lunga riflessione, e non ne veniamo tuttavia a capo perfettamente. Pure quelli che acquistarono l' abito di dirigere la propria riflessione sopra di sè, quelli che più costantemente s' applicano all' esame del loro interno, trovano meglio degli altri, e ogni dì s' accorgono di qualche nuovo fenomeno, di qualche nuovo pensiero, di qualche nuova legge del proprio sentire e del proprio pensare, di cui prima non avean preso sentore. Ora, se fa bisogno tanta attenzione e tanta riflessione sopra di noi, a renderci consapevoli di quanto ci passa nella mente e nel cuore, non è dunque vero, che la ragione per la quale la coscienza nostra è spesso vaga e indeterminata, sia, perchè, come vuole il signor Cousin, l' attività stessa intellettuale è indeterminata e vaga; e che ogni qualvolta l' azione dell' intelligenza è chiara e precisa, n' è pure precisa e chiara la coscienza. Questo è un errore, che viene dal precedente. L' uomo, cominciando a ragionare, muove dallo stato in cui si trova. Egli comincia a riflettere sopra di sè. E queste prime riflessioni gli danno una coscienza ancora indeterminata e vaga dei proprŒ pensieri. Da questo egli tosto conchiude, che i suoi pensieri sono vaghi e indeterminati. Ma questa conclusione è sbagliata. Egli prende la coscienza de' suoi pensieri pe' pensieri stessi: egli prende la coscienza dello stato della sua intelligenza, per lo stato medesimo dell' intelligenza. E un tale sbaglio gli è ben naturale; chè l' uomo non conosce i proprŒ pensieri, se non per la coscienza de' medesimi, ottenuta mediante riflessione. Egli parla dunque de' pensieri, solamente in quanto gli sono noti mediante la coscienza ch' egli ne ha. Ora se la riflessione è imperfetta, la coscienza di que' pensieri rimansi imperfetta, vaga, indeterminata; conchiude dunque, che i suoi pensieri realmente sono vaghi e indeterminati. Ma porti quest' uomo più oltre le sue riflessioni: continui a meditare sopra i proprŒ pensieri: egli ci vede quello che prima non ci vedea: ci trova un ordine: ci trova delle leggi: vede che gli uni nascono dagli altri, alcuni esser derivati, altri primitivi: segna le differenze fra loro, le differenze degli oggetti stessi de' pensieri. Tutti questi studŒ sopra qual libro li fece egli un tal uomo? Sopra se stesso, sopra la pagina scritta, per così dire, della propria mente. Se ci ha osservate tante cose, se ci ha trovato un ordine così distinto, così preciso, così luminoso, potea trovarcelo egli, se non ci fosse stato? Dunque c' era già ne' suoi pensieri primitivi tutto ciò che ci ha poscia trovato colla riflessione; c' era certamente; ma tutto ciò era privo di coscienza, appunto perchè non era sopravvenuta la riflessione a formare la coscienza. E bene, quest' uomo, dopo aver tanto riflettuto sopra se stesso, dopo essere stato sì a lungo spettatore di ciò che passa nell' anima sua, che cosa dice? che conchiude? Ora sì, dice egli a se medesimo, io ho chiariti i miei pensieri: la mia intelligenza si è resa determinata e precisa; ed è perciò, che anche la mia coscienza di essa è piena di lume e di precisione. Quest' ultima conclusione ch' egli ne tira, è lo stesso sbaglio ch' egli commise quando giudicò i suoi pensieri oscuri, perchè oscura ne avea la coscienza. La coscienza non si è resa chiara perchè i suoi pensieri si sieno chiariti e distinti: i pensieri anteriori alla coscienza erano già distinti e chiari altrettanto quanto dopo la formazione di essa; ma la loro distinzione, la loro chiarezza non era passata ancora nella coscienza, e però non era avvertita dall' uomo, il quale, non avvertendola, la negava. Dunque, se quest' uomo voglia considerare che tutta quella chiarezza e quella luce, che dice d' aver guadagnato, non è che l' effetto dell' attenzione e della riflession sua posta sui primi suoi pensieri, egli si accorgerà facilmente, che la luce era precedente alla sua coscienza, sebbene egli non se ne potea accorgere prima che la coscienza stessa se ne fosse formata. Così colui che volge gli occhi alla chiarezza del sole, non giudica temerariamente, se dice che il sole esisteva prima che fosse da lui riguardato: e a chi gli dimandasse: « Come potete sapere che il sole sia prima di quell' istante nel quale voi lo vedeste, quando prima di quell' istante voi non l' avete veduto? »: può rispondere ragionevolmente: « Io so che il sole è precedente all' atto con cui io lo vidi, non perchè io prima il vedessi, ma per la natura di quest' atto stesso, che suppone precedente il sole, giacchè non si può vedere ciò che non è ». Concludiamo circa la dottrina intorno alla coscienza: le differenze fra il signor Cousin e me sono due: 1 Egli suppone, ciò che non prova, che l' attività intellettuale involga seco inevitabilmente la coscienza; quando io dico che l' attività intellettuale, come ogni altra attività umana, involge bensì un sentimento , ma non la coscienza . 2 Egli dice che i gradi d' indeterminato e di vago che ha la coscienza de' nostri pensieri, dipendono unicamente dall' indeterminato e dal vago che hanno i nostri pensieri; là dove io dico, che la chiarezza e la determinazione di quelli e di questa dipendono da cagioni al tutto diverse; dico che i pensieri anteriori alla coscienza possono essere chiari e distintissimi, e questa tuttavia esser vaga, indistinta e fin anche nulla; e che la chiarezza e la distinzione della coscienza si vanno aumentando mediante l' opera della riflessione, quando i pensieri primitivi non dipendono dalla riflessione, ma dalla intelligenza spontanea, o diretta. Il signor Cousin sembra venire con noi, là dove definisce la coscienza così « « La vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, costituisce ciò che si chiama coscienza »(1) » Questo è appunto ciò che diciamo noi: da cui ne induciamo la conseguenza, che dunque la coscienza non c' è, prima che la vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, la costituisca. Ma con una contraddizione egli ne deduce in quella vece tutto l' opposto, continuandosi a dire così: « « Come questa vita è doppia, si può dire che ci abbiano due coscienze, la coscienza spontanea e la coscienza volontaria e riflessa »(2). » Ora noi con sua buona pace replichiamo, che se ciò che costituisce la coscienza è il raddoppiamento della vita intellettuale sopra di sè, com' egli stesso afferma; a costituire due coscienze sarebbe bisogno non già solo una doppia vita, ma un doppio raddoppiamento della vita, e perciò una quadruplice vita. Ma io voglio spingere più avanti questa osservazione; voglio mostrare, come questo primo errore intorno la coscienza ne conduca dietro a sè necessariamente degli altri: e tanta è la forza dell' errore, tanta è la violenza che esercita negl' ingegni più conseguenti, che li trascina ove vuole, che li caccia anche là dov' essi meno bramerebbero di pervenire. Quale spettacolo più strano, che il vedere il signor Cousin ritornato Condillachiano? So bene, che al solo annunziare una cosa simigliante, ciascuno esclama al paradosso; ma per dirlo di nuovo, a quali passi un error solo non sa condurre la mente d' un filosofo? Consideriamo bene l' errore del signor Cousin da noi accennato; consiste nel confondere due elementi in uno solo, cioè il sentimento colla coscienza . Il signor Cousin vide che ogni atto intellettivo involge un sentimento; dunque, conchiuse, non si dà un atto intellettivo senza la coscienza di sè; dunque ci sarà una coscienza spontanea e una coscienza riflessa, come ci sono degli atti intellettivi spontanei e degli atti intellettivi riflessi: questo è l' error primo. Ma se il sentimento si confonde colla coscienza , la conseguenza è irrepugnabile: dappertutto dove c' è sentimento, ci sarà coscienza. Dunque anche nella sensazione animale ci sarà coscienza. Ma la coscienza appartiene alla vita intellettiva, anzi è un raddoppiamento della vita intellettiva; dunque anche nella sensazione animale ci sarà vita intellettiva, ci sarà un raddoppiamento di vita intellettiva. Non siamo noi arrivati sul territorio di Condillac? Che cosa è il Condillachismo nel suo fondo, se non il sistema che confonde il sentire coll' intendere ? o che se non li confonde, non li distingue essenzialmente? Che cos' è, se non il sistema che dà allo stesso senso corporeo il potere di giudicare? Abbiamo dunque detto una cosa troppo lontana dal vero, quando abbiamo paragonato Cousin a Condillac? Il professore di Parigi non si fa indietro da tutte le accennate conseguenze, anzi le confessa, le riceve espressamente: udiamo le sue proprie parole: « « La sensazione è ella l' impressione organica? Non contiene ella un elemento intellettivo? »(1). » Ecco fatto entrare nella stessa essenza del sentire un principio, che appartiene all' intelletto: proseguiamo: « « Se non ci fosse stato movimento organico, senza dubbio non ci avrebbe nè piacere nè dolore; ma se il ME non pigliasse cognizione di questo movimento, il piacere e il dolore non esisterebbe »(2). » Ecco come il professor di Parigi, non diversamente dal Condillac, insegna, che non si dà nè piacere nè dolore senza cognizione. Di che viene il conseguente, che anche alle bestie è uopo dare intelletto, quando non voglia adunarsi co' Cartesiani, facendole macchine. Continua ancora: « « Egli è dunque mestieri che il fenomeno passivo dell' irritazione organica faccia giocare l' attività del ME, in altre parole svegli la coscienza , acciocchè si produca la sensazione »(1). » Ecco come coscienza e sensazione o è il medesimo, o almeno sono indivisamente associate, di guisa che la sensazione non si può produrre senza la coscienza, a malgrado che il professore abbia dichiarato, che la coscienza appartiene alla vita intellettiva. Di più ancora (s' oda bene, non è il Condillac che parla, ma il Cousin): « « Conoscere è giudicare; e come sentire è conoscere che si sente, così sentire può dirsi che sia giudicare »(2). » E se vogliasi udire il Cousin divenuto più condillachiano di Condillac medesimo, continuiamo tuttavia: « « Il giudizio è l' elemento intellettuale della sensazione; e non è un giudizio solo, ma molti che figurano nel fenomeno sensibile; io potrei mostrare che non ci ha sensazione senza un giudizio sul tempo, sulla sostanza, sullo spazio, sulla causa, ecc. »(3). » La confusione, cioè l' assorbimento de' due elementi è completo; tutto ciò che si trova nell' intelletto di più sublime, avvi già precedentemente, secondo il professore, nel fenomeno della sensazione. Il Condillac non è mai stato tanto sensista: poichè sebbene attribuisca tutto alla sensazione, tuttavia non seppe riconoscere così espressamente nella sensazione le più nobili parti della intelligenza: il Cousin fece una più piena indagine di questa sublime facoltà, innalzonne i pregi fino alle stelle, ma tutto ciò per farne poi un omaggio, un sacrifizio al fenomeno della sensazione corporea! Dopo di ciò, non ci sarà più difficile a formarci il concetto di quella facoltà che il signor Cousin appella spontaneità . Essa non può esser per lui, se non quell' attività del ME, che viene tratta in movimento dall' irritazione organica, e che così produce la sensazione , quella sensazione che si confonde colla coscienza, e che chiude nel suo seno i giudizŒ intorno al tempo, alla sostanza, allo spazio, alla causa e a tutte l' altre categorie. Sicchè dopo aver parlato della sensazione, dopo aver detto che sentire è giudicare di tutte queste cose, conchiude: [...OMISSIS...] Che cosa dunque è a dirsi? Che tutta la differenza fra quelli che si chiamavano sensisti ed il signor Cousin consisterà in questo, che per quelli la sensazione è un fatto passivo , quando per il signor Cousin è un fatto attivo (2). Se abbiano ragione i primi o il secondo in questa questione, o se forse agli uni e all' altro manchi qualche cosa, io non vo' qui ricercare; ben dico, che i così detti sensisti, sotto le antiche forme, ed il signor Cousin convengono finalmente in questo, di riconoscere la sensazione corporea come il principio di tutta l' umana cognizione e di tutta l' umana intelligenza. Che se questa parola, sensista , segna un filosofo che riduce tutta l' umana conoscenza alla sensazione, non so come questo stesso nome non appartenga al signor Cousin; chè egli non ha già tolto via a questa maniera il principio del sensismo, ma solo modificatolo, vestitolo di nuove forme più ricche e maestose; non ha stabilito un principio del conoscere diverso da quello del sentire; ma riducendo ogni cosa al principio del sentire, s' è contentato di osservare, che il sentire procede dall' attività del ME, e che non è un fenomeno meramente passivo. Coscienza adunque e sensazione, sensazione e intelligenza si confondono nel sistema del signor Cousin, e la spontaneità per lui non è che il principio della sensazione, e perciò della cognizione, principio attivo, che somministra tutti i dati sopra i quali poi si rivolge e lavora la riflessione. Ma qui, dopo che noi abbiamo raffrontato il signor Cousin al Condillac, possiamo medesimamente avvicinarlo al Cartesio. Il Condillac comincia dal sentire , e il Cousin pure comincia dal sentire. Il Cartesio all' incontro comincia dal pensare: « « Io penso; dunque esisto. » » Ma il Cousin non ricusa; si accompagna tosto con Renato Cartesio: e gli è tanto più facile, quanto che se n' è già preparata la strada, dicendo, che nel sentire c' è il pensare , che chi sente giudica, e giudica del tempo, della sostanza, dello spazio, della causa, ec.. Il Cartesio non dimanda pur tanto; ma a fine di non perdere una sì buona compagnia com' è quella del Cartesio, il signor Cousin riterrà anche un poco i suoi passi, e si comporrà con lui. Udiamolo: [...OMISSIS...] Riceve dunque il signor Cousin per buono il principio di partenza cartesiano, cioè il giudizio , senza aver bisogno per questo di rinunziare al principio di partenza de' sensisti, ciò è la sensazione: poichè nel seno della sensazione egli colloca il giudizio, imitando il Condillac. Solamente che a questo giudizio sensitivo trova di dovere attribuire assai più che non facesse il Condillac medesimo, cominciando il movimento dello spirito umano pel Cousin da un giudizio assai più complicato che non fosse quello del Cartesio. L' editore delle sue lezioni, Garnier, così espone il pensiero di lui: « « Il professore mostra che le idee ci vengono simultaneamente e in correlazione le une colle altre, e che così il giudizio trovasi al cominciamento delle operazioni intellettive »(2). » Questo sistema de' correlativi è quello che in Germania si chiama sintetismo; e il professor Cousin cel fa diventare uno sviluppo del principio del Condillac. Dopo di tutto ciò, voi stesso direte quanto da queste sentenze del signor Cousin si allontani la mia maniera di pensare. Io non riconosco nella sensazione corporea alcun elemento intellettivo; e l' anello che unisce i due ordini della sensazione e della intelligenza per me non è che il soggetto unico, e ad un tempo sensitivo ed intellettivo. L' unità del soggetto , cioè l' unità del ME, è il ponte di comunicazione, se volete che così mi esprima, fra il mondo dell' intelligenza e quello de' sensi. Ma sentire ed intendere rimangono sempre nella mia filosofia due essenze separate, com' è separato l' essere reale e l' essere ideale , quantunque la realità e l' idealità siano forme fra loro incomunicabili d' un medesimo essere. Quanto poi alla spontaneità , questa parola per me non esprime una facoltà, ma un modo di operare delle facoltà. Questo modo spontaneo può appartenere tanto alle facoltà sensitive, quanto alle facoltà intellettive, ed è il contrario del violento. Quando noi operiamo senza un motivo preconcepito e predeterminato, diciamo di operare spontaneamente: la nostra natura è quella che opera; l' attività di questa natura o è attuata da una legge intrinseca costitutiva di lei, come avviene in quello che noi sogliamo chiamare sentimento fondamentale e nell' intuizione primitiva dell' essere ; ovvero è invitata all' atto da qualche esteriore cagione, come avviene nelle sensazioni acquisite, e ne' primi pensieri che costituiscono quella che noi chiamiamo cognizione diretta . Nell' uno e nell' altro caso c' è la spontaneità , cioè l' operare spontaneo della natura umana. Distinguiamo dunque due spontaneità; l' una originaria , e costituisce l' atto immanente del soggetto sensitivo e intellettivo, col qual atto questo soggetto è posto; l' altra avventizia , e sempre parziale, che muove i primi passi dell' umano sviluppamento. Di più, tanto la spontaneità originaria, quanto l' avventizia, è sensitiva e intellettiva; chè così il senso, come l' intendimento, hanno spesso un movimento spontaneo, date le condizioni richieste. Pel professore Cousin all' incontro, non c' è che una spontaneità sola, sensitiva per essenza e insieme necessariamente intellettiva, e questa spontaneità non ha alcun atto originario e immanente, ma opera all' occasione dell' irritazione organica, non senza somiglianza all' operare della statua del Condillac. Era necessario di premettersi tutto questo, a spiegare chiaramente che cosa voglia dire il signor Cousin, quando nomina il primo fatto della coscienza . Noi dobbiamo ora parlar di proposito di questo primo fatto della coscienza: dobbiamo vedere come egli lo trova, questo primo fatto, come lo analizza, e se giustifica bene tutte le cose che afferma contenersi in esso. Già l' ho detto: egli arriva al primo fatto della coscienza spontanea, partendo dal punto di vista riflesso. Ma come dalla riflessione discende egli al fatto della coscienza spontanea? Come giustifica questo passaggio? Lo giustifica appoggiandosi al seguente ragionamento: Avanti la riflessione « « c' è la vita umana, la vita non distinta, oscura, spontanea. La riflessione presuppone l' esistenza d' un oggetto sul quale ella cade, e che per conseguente è anteriore. - Così lo stato primitivo dell' intelligenza non contiene niente di più dello stato attuale, ma nè anche contiene niente di meno »(1). » Ed è verissimo, che la riflessione non potrebbe operare se non avesse un oggetto sul quale rivolgersi, e che quest' oggetto dee essere in noi precedente a quell' atto della riflessione; ma ne viene forse, che la riflessione possa cogliere tutto ciò che c' è in noi di precedente ad essa? non possono rimanere in noi delle cose che spesso sfuggono alla nostra riflessione? Se ciò può essere (ed ognuno può attestarlo, per poco che consideri come avvengano le cose in se medesimo), non è dunque vero che nell' ordine della riflessione debba trovarsi tutto ciò che c' è nello stato primitivo, e niente di meno. In secondo luogo, quando io rifletto sopra di me medesimo, cioè sopra i miei pensieri e sopra le mie affezioni, non è mica necessario che gli oggetti, a cui volgo la riflessione, si trovino tutti nello stato primitivo della mia mente; poichè questi oggetti, a cui io rifletto, possono essere essi stessi prodotti da altre riflessioni. Non conviene dunque parlare d' uno stato di riflessione solo; chè ci hanno diversi stati riflessi della nostra mente, come ci hanno diversi ordini di riflessioni. Egli è dunque solamente vero questo, che nel primo ordine di riflessione, prossimo all' ordine della cognizione diretta e spontanea, non ci può esser niente di nuovo, che precedentemente non si trovi in essa cognizione primitiva o diretta; senza però che si possa dire il medesimo degli altri ordini superiori di riflessione; posciachè gli oggetti di queste riflessioni ulteriori sono in gran parte anch' essi delle cognizioni già riflesse. Questa avvertenza dimostra che per conoscere ciò che appartenga allo stato primitivo, non si può partire dal principio, che tutto ciò che abbiamo nello stato presente della mente nostra sia contenuto nello stato primitivo; perchè lo stato nostro presente è il prodotto d' un gran numero di riflessioni. In terzo luogo, a qual condizione si può egli passare dallo stato presente di riflessione allo stato primitivo? Il signor Cousin dice, che noi possiamo passarvi, a condizione di far uso delle induzioni logiche le più legittime. [...OMISSIS...] Ma qui il professore si avvolge manifestamente in un circolo. Poichè a qual fine cerca egli il fatto spontaneo? Al fine di cominciare da esso la filosofia: e però al fine d' indurre da esso anche le regole logiche. L' abbiamo già innanzi udito accordare a Cartesio, che il principio di contraddizione, il primo di tutti i principŒ logici, è posteriore alla percezione dell' IO; e che: l' IO penso, dunque esisto, non suppone prima la proposizione generale: Tutto ciò che pensa, esiste ». Ora come dunque per trovare e raggiungere il fatto spontaneo, ricorre poi alle regole logiche e ne fa uso come fossero già trovate? Da una parte, egli fa partire la filosofia dal fatto spontaneo, perchè, dice, « « non si tratta più oggidì di porre degli assiomi e delle formole logiche, di cui non si verificò ancora la legittimità e di produrre, componendole insieme, una filosofia nominale; bisogna partire dalle realità stesse »(1) » dall' altra parte, per arrivare alle realità, egli non ha più scrupolo di passare per le regole logiche. Egli è bensì vero, che il signor Cousin immediatamente parte dalla realità del pensiero riflesso; ma ciò fa unicamente per arrivare col mezzo di logiche induzioni alla realità del pensiero spontaneo: ed è in questa realità del pensiero spontaneo, che pone il fondamento delle regole logiche e la legittimità delle logiche induzioni! Non è questo un circolo manifesto? All' incontro, voi potrete, esaminando il sistema da me proposto, convincervi, ch' esso non involge mai somiglianti petizioni di principŒ, da cui non so veramente qual altro sistema vada interamente esente. Finalmente, è vero che il signor Cousin nomina spesso fatto spontaneo, stato primitivo, ecc.; ma egli poi non si cura di darcene una descrizione diligente e determinata. Quindi riman difficile il conoscere che cosa intenda precisamente colla espressione di stato primitivo. Se si considera che stato primitivo è per lui lo stato della spontaneità, e che la sua spontaneità è l' opposto della riflessione, conchiuderebbesi che il suo stato primitivo fosse quello in cui la mente umana si trova prima di ogni riflessione. Ma primieramente lo stato della mente anteriore al movimento della riflessione, non è mica uno stato unico e semplice, ma uno stato vario e molteplice; giacchè l' uomo può fare più e meno degli atti diretti colle sue facoltà, prima ancora che sopravvenga nessuna riflessione. Converrebbe dunque sapere, se l' analisi del signor Cousin cada sopra ciascun atto spontaneo, ovvero se cada sopra il complesso degli atti spontanei, che possono precedere la riflessione. In questo secondo caso, l' oggetto da analizzarsi è vago e molteplice, come dicevo; nè ci si può applicare l' analisi, prima di determinarlo. Se poi intende di parlare di ciascun atto spontaneo, ell' è manifesta l' improprietà di chiamare stato primitivo un atto; conciossiachè un atto non è uno stato . Ma via, lasciando l' improprietà della parola, il contesto dimostra bene, che trattasi di analizzare un atto della spontaneità, e non uno stato . Ora a raggiungere questo atto che si dee analizzare, si pretende di pervenire mediante induzioni logiche. Abbiamo notato, che un filosofo che vuol dedurre dall' analisi del fatto spontaneo le stesse regole logiche, non ha diritto a questo passaggio, non potendo usare di quelle regole che ancora non ha dedotto; ma il professore non si contenta d' usurparsi questo diritto, non è pago di passare dalla riflessione all' atto della spontaneità, pretende di più di passare anco dall' atto spontaneo allo stato dell' uomo anteriore a quest' atto. Io credo che molto più difficile gli sarà il legittimare questo secondo passaggio, che non il primo. E in fatto, io non trovo ch' egli in niun luogo s' adoperi a rigorosamente dimostrare, come dovrebbe, la possibilità e la legittimità di un tal passaggio; ma trovo anzi, che colla più grande confidenza mette avanti alcune affermazioni generali, e, com' elle fossero indubitabili e non bisognose di prove, ci fabbrica sopra quello che più gli piace. Una di queste affermazioni gratuite è la definizione della vita intellettiva , tratta dalla definizione della vita organica; dove si vede, per dirlo di nuovo, la base sensistica del sistema di questo filosofo, che tanto si piace delle frasi platoniche. Si oda attentamente tutto il brano, al quale noi facciamo allusione. [...OMISSIS...] In questo brano dunque il signor Cousin non contento di esser passato dallo stato di riflessione allo stato spontaneo, ci assicura di conoscere anche lo stato dell' uomo che ha preceduto lo stato spontaneo. Ci assicura che l' uomo, nello stato in cui fu per lungo tempo innanzi alla spontaneità, era un essere fisiologico e nulla più; la sua vita era per lungo tempo non diversa dalla vita del mondo; i suoi movimenti erano quelli della natura materiale; il mondo non era per lui se non in quel modo che è per la pianta! Ci sia permesso di fare qui un' osservazione su questo sistema eclettico . Il signor Cousin distingue tre stati nell' uomo: 1 lo stato anteriore alla spontaneità, 2 lo stato spontaneo, 3 lo stato riflesso. Se il signor Cousin parla dello stato anteriore alla spontaneità, egli applica all' uomo le frasi stesse che gli applicano i materialisti . Se egli parla dello stato spontaneo, e del principio della vita intellettiva, egli applica all' uomo le frasi colle quali ne parlano i sensisti . Se poi parla dello stato riflesso , o anche se fa l' analisi del fatto spontaneo, egli adopera la lingua di Cartesio e di Platone. Io stimo che sarebbe troppo difficile al signor Cousin evitare la taccia di quel sincretismo , che è certamente diverso dall' eclettismo , sebbene da questo non sia difficile lo sdrucciolo a quello. Ma lasciando ciò, io torno a dire che tutto il ragionamento del signor Cousin intorno allo stato dell' uomo anteriore alla spontaneità e intorno alla natura della vita intellettiva, è interamente gratuito. Questo solo esser gratuito è motivo sufficiente a doversi logicamente rigettare perchè mancano appunto quelle induzioni logiche a cui si appella. Che se bramate di più, lo potete vedere nel « Nuovo Saggio , » e negli altri miei scritti filosofici direttamente combattuto. L' errore principale consiste nella confusione delle due vite sensitiva e intellettiva . Io lascio da parte la vita della natura materiale e quella della pianta, che supponendosi del tutto insensitiva non merita il nome di vita. Ora quanto alla vita sensitiva, egli è vero che in essa trovasi una specie di lotta e di opposizione. Se dunque si confonde con essa la vita intellettiva, cadesi di necessità nell' errore di trovare una lotta anche intellettiva. Il sensismo dunque di Cousin, cioè la confusione della sensitività coll' intelligenza, è la base erronea su cui fabbrica l' ipotesi d' uno stato puramente fisiologico dell' uomo anteriore alla spontaneità, stato privo non solo d' intelligenza, ma ancora di sensazione, come quel della pianta, nel quale il signor Cousin afferma che passi e si agiti lungo tempo l' UOMO! Voi sapete, che, secondo il mio sistema, l' essenza dell' uomo è riposta nel sentimento che chiamo fondamentale, e che come non ci fu mai tempo in cui l' uomo non sentisse, dopo che fu generato, così non ci fu mai tempo in cui non avesse la vita intellettiva, fatta da me consistere nell' intuizione immanente dell' essere. Nel sistema del signor Cousin supponesi (poichè siamo sempre nel regno delle supposizioni ), che dopo essere stato generato l' uomo, ed esser vissuto lungamente della vita della materia (cioè della vita di ciò che non ha vita); dopo essere stato lungamente privo di senso come la pianta, e per ciò stesso privo del ME (che è quanto dire privo di SE` stesso!), finalmente fosse sonata un' ora, un' ora da vero solenne, in cui quest' uomo tolse a muoversi del proprio movimento, a porre se stesso, ad opporsi alla natura. Se questo fatto fosse vero, sarebbe l' avvenimento il più nuovo e il più straordinario che si potesse concepire; e per dare a credere un avvenimento così nuovo, così straordinario, converrebbe (in mancanza di testimonŒ oculari) addurre almeno una ragione del perchè l' uomo, dopo essersi agitato lungamente nel seno dell' universo senza conoscerlo, si sia risoluto a muoversi del proprio movimento, e a porre se stesso. Che almeno di un fatto così portentoso ci sia mostrata la possibilità; che almeno ci sia espresso con maniere di dire sì chiare da poter noi concepirlo. Da vero che questo non s' è fatto. Dicesi che quest' uomo senza senso si è agitato lungamente nell' universo: ma se il senso non c' è, non può intendersi che d' una agitazione di particelle materiali: e se qui si tratta unicamente di un' agitazione di particelle materiali, non trattasi adunque più dell' agitazione di un uomo, quando non vogliasi dire che delle particelle materiali siano un uomo. In tal caso resta a vedere come queste particelle materiali, dopo essersi agitate senza sentirsi e senza conoscersi, finalmente si sieno risolute di moversi del loro proprio movimento; e come commovendosi del loro proprio movimento, sieno diventate ad un tempo senzienti ed intelligenti . Nè pure è chiara ed atta a concepirsi quella frase, che « l' uomo abbia mosso se stesso », quando se stesso ancora non era, poichè il SE` di quest' uomo è pronome personale altrettanto quanto il ME, il qual ME si dice che non era ancora in quell' uomo, ma che cominciò ad esistere col movimento e col combattimento contro la natura. Moversi, combattere , ed altrettali vocaboli metaforici non s' intendono, se non si suppone un ME che si muove e che combatte; e in questo caso la vita sta nel ME e non nel moto, o nel combattimento di un ME che fosse morto. Tutte queste frasi dunque involgono seco assurdi manifesti, e però non sono concepibili. Ora egli è ben evidente, che una dottrina filosofica prima di tutto dee esser atta a concepirsi, e poscia dee esser provata; due condizioni che mancano alla filosofia del signor Cousin. Ma egli è uopo, che, dopo aver noi parlato dello stato dell' uomo supposto dal signor Cousin anteriore alla spontaneità, ci fermiamo a udire la descrizione che egli ci dà dello stato spontaneo, detto da lui anche stato primitivo . « « Da prima, dice, il ME per la sua natural forza compie un atto ch' egli non ha nè preveduto, nè voluto; e in quest' atto il ME non può non appercepire se stesso, ma egli si trova senza cercarsi »(1). » Da queste parole vedesi, che l' atto spontaneo è un atto del ME: il ME agisce per la forza sua naturale (or non si sa come stia tanto tempo senza agire, se la forza gli è naturale), e agendo trova se stesso senza cercarsi. Il ME dunque esisteva prima di agire, poichè non avrebbe potuto agire se non fosse esistito; non avrebbe potuto trovarsi, se non fosse stato. Come dunque farà il signor Cousin a conciliarsi seco stesso, a conciliare queste sue parole con quelle altre, nelle quali insegnò che l' uomo prima di agire sta per lungo tempo nella condizion della pianta, « « e che il ME non esiste che pel combattimento, cioè per l' atto con cui oppone la natura a se stesso? »(1) » Seguita a descrivere l' atto della spontaneità: « « Il ME, trovando se stesso, trova anche la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguente la natura esteriore, ch' egli reputa NON7ME; ed egli appercepisce il ME e il NON7ME come limitantisi mutuamente: in fine travede un essere nel quale il suo pensiero s' affonda, senza trovarvi limite »(2) » Qui il signor Cousin ha bisogno di nuove conciliazioni con se stesso. Dice che il ME trova la sensazione; dunque la sensazione esisteva prima dell' atto spontaneo: come dunque dice altrove, che l' uomo prima di quest' atto non sente, e che fa bisogno « « che si svegli la coscienza (propria dell' ordine intellettuale) acciocchè la sensazione si produca? »(3) » Dice che il ME trova la sensazione, ch' egli non ha fatta: come dunque s' accorda con ciò che dice altrove, che « « la sensazione stessa è un fatto attivo? »(4) » Come l' attribuisce alla forza attiva del ME, dichiarando fin anco, che è uopo che ci abbia cognizione, acciocchè ci abbia sensazione, piacere, dolore? (5) Di più, il ME agisce; il ME si trova; il ME trova la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguenza trova la natura esteriore. Ma se trova la natura esteriore per conseguenza , dunque la deduce per ragionamento; la trova perchè egli trova la sensazione che non ha fatta; e perchè non l' ha fatta, giudica che la natura esteriore è NON7ME. Ora questo è un ragionamento: qui si dà successione; si danno principŒ, induzioni, conseguenze. Non è dunque vero che quest' atto della spontaneità sia un atto solo, ma egli si compone d' una successione di atti parte sensitivi e parte intellettivi. Questi atti si succederanno rapidamente quanto si voglia; alcuni di essi coesisteranno; ma egli sarà sempre proprio del filosofo il distinguerli accuratamente, il separare i primi dai secondi e dai terzi, e non farne un atto solo, come pretende il signor Cousin. E non è egli medesimo che dice: « « L' idea della causa ME precede l' idea della causa NON7ME; poichè niente precede l' idea del ME: ella è il centro, onde tutte l' altre sono raggi? »(6) » Se dunque le altre idee sono raggi che escono dall' idea del ME come da centro, devono essere a quella posteriori. Di più, io vedo bene, come non vi possano essere i raggi se non vi è il centro; ma io posso concepire, in qualche modo, il centro senza i raggi. Non è dunque vero che l' idea del ME e del NON7ME siano al tutto correlative. Io accordo che una correlazione si trovi, ove si consideri il ME semplicemente come il principio della sensitività animale; ma nego ch' ella si trovi nel ME considerato come un essere intelligente: anche questo errore dunque del signor Cousin nasce a lui dall' aver adunate insieme la sensitività e l' intelligenza , e parlato di questa colle frasi che non convengono che a quella sola. Per altro ripeto, che la mente del signor Cousin non essendo fatta per radere il terreno co' sensisti, se il fa talora, è costretto di espiare il fallo con una felice contraddizione. Tale io stimo esser quella dove, dopo aver analizzato il fatto della spontaneità come fosse un atto solo, avvolgente tre idee correlative, fa poi che queste idee sieno figlie di tre facoltà diverse, quasichè se sono diverse tra loro le facoltà che a quell' atto concorrono, non sia per sè evidente, che non trattasi più d' un atto solo, ma di molti specificamente distinti e aventi un ordine fra essi (1). Egli è appunto quest' ordine che hanno tra loro i fatti primitivi dello sviluppo umano, che gli sarebbe bisognato attentamente considerare, e che l' avrebbe potuto guardare da molti sbagli: ne accennerò uno de' più importanti. Avendo egli confusi questi atti diversi in un atto solo avente un triplice oggetto, cioè il ME, la natura e l' infinito, egli ne trasse per conseguenza, che niuno di questi oggetti potea stare senza gli altri due. Veramente tale conseguenza non sarebbe stata neppure necessaria, quand' anche quei tre oggetti fossero contemporanei, e condizioni all' atto della spontaneità. Ma riprenderemo poscia questo mancamento logico: or ci basti di far osservare l' errore. Consideriamolo nelle sue stesse parole. « « L' appercezione di quest' ultimo termine (cioè dell' infinito) rende sola possibile l' appercezione del finito, come alla sua volta la veduta del finito è la condizione indispensabile della veduta dell' infinito. - Ogni fatto intellettuale riflesso può dunque esporsi sotto questa formola: Non si dà finito senza infinito, e reciprocamente; e nel seno del finito non si dà ME senza il NON7ME, e non si dà il NON7ME senza il ME: tale è il cominciamento e la fine della vita filosofica »(1) » Questi tre elementi trovati nell' atto riflesso, li pone anche nell' atto spontaneo, e dal trovarsi uniti nel pensiero, com' egli crede, passa ad una conclusione ontologica, affermando che sono indivisamente congiunti anche in se stessi. Quindi l' immenso errore che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere, il necessario del contingente, la sostanza dell' accidente, ec.. « « Noi abbiamo veduto, dice, che la causa suppone la sostanza , e che la sostanza non ci è manifestata che per l' accidente. La loro apparizione nella coscienza è dunque simultanea, e la loro simultaneità nella coscienza non è che il riflesso della loro coesistenza reale al di fuori di noi: in effetto, se la causalità suppone l' essere, l' essere alla sua volta non esiste che a condizione d' agire, cioè a dire d' esser causa. Così, tanto in ontologia, quanto in psicologia, l' essere e la causa sono inseparabili, poichè l' accidente o il modo implica l' intervenzion della causa, ed egli è impossibile di concepire o l' accidente senza l' essere, o l' essere senza l' accidente »(2) » Ma qui primieramente ci ha un salto mortale dall' ordine psicologico all' ordine ontologico . Dall' essere due cose nella nostra coscienza simultanee, non si può inferire logicamente, che sieno simultanee anche in fatto. « La loro simultaneità nella coscienza, dice il professore, non è che il riflesso della loro coesistenza reale fuori di noi. »Questa parola riflesso è una metafora e non più: e una metafora non ha valore in filosofia. Perchè l' argomentazione del signor Cousin fosse efficace, essa non dovrebbe essere appoggiata sul semplice fatto della simultaneità di quelle due idee nella nostra coscienza (fatto d' altra parte non provato), ma dovrebbe avere per sostegno la necessità logica, cioè dovrebbe dimostrarsi che il concetto dell' infinito racchiude o più tosto chiama od esige come correlativo il concetto del finito . Ora primieramente il signor Cousin non ha diritto di usare delle regole logiche, pretendendo egli di dedurle da fatti reali. Perciò non può, senza petizione di principio, ammetterle già in principio della sua filosofia. In secondo luogo, egli potrà provare bensì che il finito ha bisogno dell' infinito per essere concepito; ma in niuna maniera potrà logicamente provare che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere. Se mi dirà che l' uomo non si forma l' idea dell' infinito che levando i limiti alle cose finite, egli prima di tutto dovrà abbandonare il suo sistema, facendo che l' idea dell' infinito sia un' idea ben posteriore a quella del finito. In secondo luogo, egli non avrà risposto punto nè poco alla questione. Poichè egli mi avrà ben detto come l' uomo, intelligenza limitata com' è, proceda nel formarsi l' idea dell' infinito; ma non mi avrà mica dimostrato con questo, essere assurdo il pensare, che l' infinito sussista senza aver a fronte il finito, quasichè non sia più tosto assurdo il dire, che l' infinito sia condizionato nella sua esistenza dal finito, o quasichè non cessasse d' essere infinito ciò che dipende necessariamente dal finito. Dice il professore, che « l' essere non esiste se non a condizione di agire, cioè di esser causa. »Ma egli confonde due cose ben diverse, l' agire e l' esser causa . L' esser causa è quanto un produrre qualche cosa diverso da sè; ma l' essere può agire , senza produr nulla da sè diverso: lo stesso esistere è un' azione, lo stesso concetto dell' essere è quello di un atto primo; e i teologi assai acconciamente dicono, che Iddio è atto purissimo appunto perchè è purissimo essere; e tuttavia non l' obbligano per questo a produrre nulla fuori di sè, nulla di contingente e di finito. Se il concetto dell' essere involgesse quello di causa, come vuole il signor Cousin, se l' essere non fosse se non a condizione di produrre qualche cosa da sè diverso, niun ente potrebbe esistere nè anche un istante senza produrre, poichè ciò che è assurdo non può aver luogo nè pure per un istante. Il sostenere che fa il nostro professore, che non si può dar l' essere senza che si dia l' accidente, è un errore che lo conduce alle più strane conseguenze: dopo avere reso coeterno all' essere infinito il finito, cosa che conduce a stabilire l' eternità del mondo, egli arriva fino ad ammettere degli accidenti in Dio, proposizione non meno erronea in teologia che in filosofia (1). Tutte queste stranezze, chè con altro nome non saprei chiamarle, sono inevitabili, dopo aversi posto per base della filosofia quell' atto della spontaneità, concepito alla foggia del signor Cousin. Egli è vero, che nel mio sistema s' annunzia un fatto simile; ma questo fatto non è per me primitivo, non è unico e semplice, non involge in se stesso la necessità che vi suppone il signor Cousin. Il fatto di cui parlo, che corrisponde al fatto spontaneo del signor Cousin, e che forse fu quello che, male osservandolo, l' ha traviato, è la percezione . Noi abbiamo analizzata lungamente la percezione intellettiva , e abbiamo mostrato ch' ella si compone delle seguenti parti: 1 della sensazione animale (lasciando ora da parte l' irritazione organica, che non è che una circostanza concomitante fuori del fatto della sensazione); 2 dell' intuizione dell' essere in universale; 3 dell' affermazione , o giudizio di una realità agente in noi. Abbiamo veduto che queste tre parti sono tre atti distinti dello spirito umano appartenenti a tre distinte potenze. Il loro ordine si è, che ciascuno de' due primi è indipendente dagli altri due; ma il terzo non può compirsi senza i due primi, perchè pone una relazione fra i due primi: cioè vi può essere sensazione animale senza intuizione e senza giudizio; vi può essere intuizione senza sensazione e senza giudizio; ma non vi può essere giudizio senza che v' abbia prima sensazione e intuizione, che costituiscono la materia e la forma del giudizio e della percezione stessa. Io ho poi analizzata ciascuna di queste tre parti della percezione intellettiva. Nella sensazione ho trovato qualche cosa di permanente e qualche cosa di variabile . Ciò che è permanente nella sensazione fu appellato da me sentimento fondamentale: le modificazioni del sentimento fondamentale, che è la parte variabile, furono dette sensazioni acquisite , o semplicemente, sensazioni . Di più, tanto nel sentimento fondamentale, quanto nelle sue modificazioni, ho trovato un principio senziente, il quale viene appellato poscia dall' intelletto, che lo concepisce, col monosillabo IO. Ho trovato una passività di questo IO, un agente diverso dall' IO, un NON7IO. Ho dunque riconosciuto nell' ordine della sensazione una opposizione dell' IO e del NON7IO, e, se si vuole, anco una specie di lotta fra loro. La sensazione dunque per noi è duplice; ma non è niente più che duplice. Ma ora si applichi alla sensazione l' intelligenza. Questa giudica tantosto, data la sensazione acquisita, che ci sia una realità, o un agente, che è quanto dire, percepisce la realità esterna. Ma questo giudizio, o sia percezione, non prende già per oggetto il ME, ma il solo NON7ME, di cui così acquista l' idea . Ora a qual condizione può l' intelligenza acquistare quest' idea, formare questo giudizio? Questo giudizio non è se non l' affermazione che esiste una realità. Esso non può dunque farsi se non a condizione che l' intelligenza abbia l' intuizione dell' essere , ossia dell' esistenza; a condizione cioè ch' ella riconosca un essere in quel principio che agisce nella sensazione. Ora io provai che quest' essere che ella intuisce antecedentemente alle sensazioni acquisite, è universale, e perciò infinito , sebbene non gli appartenga propriamente il titolo di essere assoluto (1). La percezione dunque della realità esterna non si ha se non a condizione dell' IO e del NON7IO, del finito e dell' infinito. Ma l' IO non è in questa percezione un' idea , ma un sentimento: il NON7IO è prima un sentimento, di cui poscia l' uomo si forma l' idea compiendo il giudizio, e con esso la percezione. L' intuizione dell' essere è idea , ma non più; non è idea dell' essere assoluto. Di più, questo fatto complesso della percezione spontanea, oltre non esser semplice, non prova in alcun modo, che il finito e l' infinito siano condizioni uno dell' altro; e se un fatto potesse essere fondamento d' una necessità, proverebbe unicamente, che il finito non si può concepire senza l' infinito, non viceversa. Finalmente io ho mostrato che questo fatto della percezione, sebbene sia quello onde comincia a svolgersi l' umano intendimento, e perciò corrisponda al fatto spontaneo del Cousin, tuttavia non è primitivo assolutamente. Antecedentemente alla percezione , l' uomo non è un essere fisiologico come la pianta, non vive della sola vita della materia: anche allora egli ha una doppia vita, una vita sensitiva e una vita intellettiva. Questa doppia vita è ciò che lo costituisce, ciò che forma la sua propria essenza. L' uomo è sentimento ed intelligenza; egli dunque sempre sente e sempre intende; ma nel suo primo stato il suo sentire è equabile e senza variazione. Un tal sentire non può tirare a sè l' attenzione intellettiva: egli dunque non ha coscienza del suo sentire. Questa maniera di sentire la chiamo sentimento fondamentale . L' uomo anche intende tosto che è; che anzi questo intendere è il suo essere; ma questo intendere non ha oggetti finiti, non ha moltiplicità, non ha differenze: ha solo un oggetto equabile e senza limiti. Un tale oggetto, che non subisce variazione, non può eccitare la curiosità, nè muovere la riflessione. Non può che costituire una contemplazione immobile, uniforme, senza gradi e senza moto. Questo intendere dunque dee essere privo di coscienza , e non può cagionare nell' uomo niuna attività parziale. Il pensiero, equabilmente e immobilmente sparso nell' infinito, non può concentrarsi in cosa alcuna distinta. L' intelligenza insomma essenziale all' uomo è formata dall' intuizione dell' essere in universale . Da tutto ciò voi potete vedere in che differisca il mio sistema filosofico da quello dell' eloquente professore di Parigi, il signor Cousin.

Principio supremo della metodica

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Applaudì a questo pensiero l' abate Lambruschini, il quale parlandone dice così: [...OMISSIS...] . Or dunque, perchè i fanciulli troppo si stancano a porger loro proposizioni da analizzare? - Perchè si pretende con ciò che facciano due operazioni mentali ad un sol tratto, due operazioni che di loro natura sono successive e non possono essere contemporanee. L' una di queste due operazioni comprende quelle intellezioni colle quali il fanciullo viene a conoscere il significato de' singoli vocaboli; l' altra comprende quelle colle quali il fanciullo deve annodare tra loro i vocaboli per farne riuscire il senso della proposizione. Or non è chiaro che il sentimento di tutta la proposizione è un pensiero che non può esser fatto dall' uomo se non prendendo la sua materia da altri pensieri più elementari, cioè da quelli co' quali s' abbraccia il sentimento delle singole parole? Le intellezioni adunque che non hanno per loro scopo se non l' intendere una voce alla volta appartengono ad un ordine anteriore a quelle intellezioni che mirano a far intendere tutta una proposizione; e perciò queste intellezioni non possono esser fatte dal fanciullo se non lasciandogli il tempo necessario a compir prima quelle. L' osservazione dell' abate Rosi è simile a quella fatta prima dall' abate Taverna. Questi aveva osservato che i fanciulli non giungono da prima a conoscere il valore delle congiunzioni che legano tra loro le sentenze; quegli osservò di più che i fanciulli non giungono da prima a conoscere il valore delle congiunzioni che legano tra loro i vocaboli, dal qual legamento riescono le sentenze. L' una e l' altra osservazione non sono che casi particolari del principio nostro generale. Or, quantunque noi non intendiamo di prendere a classificare in questo trattato le intellezioni umane secondo i loro ordini, il che non può essere l' opera nè di un libro nè di un uomo, ma il lavoro de' secoli che verranno; nulladimeno dobbiamo dirne tanto che basti, affine che il concetto nostro s' intenda e n' apparisca l' importanza, e si vegga ancora la via per la quale convenga indirizzarsi a ridurlo ad effetto. A tal fine vediamo quali sieno le intellezioni che appartengono al primo ordine. La forza o virtù generale, colla quale lo spirito attualmente conosce, si chiama attenzione . L' istruzione tende a far sì che la gioventù attualmente conosca, e perciò si può chiamare un' arte di dirigere acconciamente l' attenzione dello spirito de' giovani. Prima ancora che si ecciti l' attenzione nello spirito dell' uomo, vi hanno in lui due principŒ delle future sue cognizioni, il sentimento fondamentale e l' intuizione dell' essere . A provare l' esistenza di questi due principŒ originari nell' uomo sono principalmente volti gli scritti ideologici da me prima d' ora pubblicati (1) e però non vi spendo parole. Ma, quantunque esista nello spirito dell' uomo il sentimento fondamentale e l' intuizione dell' essere , fino a tanto che manca in esso l' attenzione (1), que' principŒ non possono formare delle attuali cognizioni propriamente dette. Nè manco, quando si suscita per la prima volta l' attenzione nell' uomo, essa ha per suo oggetto que' due principŒ congeniti, anzi si porta sugli stimoli nuovi che violentemente, mediante piacere o dolore, mutano lo stato sensibile dello spirito. Questi stimoli sono le sensazioni accidentali. Le sensazioni accidentali sono reali modificazioni del sentimento fondamentale, ma non sono intellezioni; e per ciò colle sole sensazioni non comincia lo sviluppo intellettuale dell' uomo. Quando l' uomo si muove ad applicare la sua virtù intellettiva a ciò che sente, allora è il momento nel quale il suo sviluppo, come essere intelligente, incomincia. Convien dunque esaminare diligentemente l' indole di questa prima applicazione che l' uomo fa della sua virtù intellettiva alle sensazioni, affine di poter bene determinare qual sia il primo ordine delle umane intellezioni. Questo esame presenta tre questioni; la prima: cosa sia lo stimolo che muove da principio l' attenzione intellettiva dell' uomo; l' altra: quale sia l' oggetto delle prime intellezioni; finalmente la terza: qual sia la natura di queste prime intellezioni. Quanto alla prima, sembrami probabile che non tutte le sensazioni accidentali abbiano virtù di tirare a sè l' attenzione dell' uomo; non quelle che gli nascono continuamente in conseguenza delle ben ordinate funzioni della vita, nè pur forse molte sensazioni piacevoli che soddisfano intieramente la natura del bambino che non richiede più in là di esse. Egli pare adunque che le sensazioni, che eccitano da prima l' attività umana, sieno quelle che contengono un sentimento di bisogno e che per conseguenza danno il movimento agl' istinti e alla spontaneità (1). Laonde l' attività intellettiva non si eccita per nulla, ma ella si mette in movimento quando l' uomo ha bisogno di essa; l' uomo la chiama in suo soccorso, come chiama in suo soccorso tutte l' altre potenze, quando tende o a rimovere da sè una molestia o a procacciarsi la soddisfazione di un bisogno. Quanto poi alla seconda questione, gli oggetti dell' attenzione intellettiva devono certamente essere gli oggetti di quei bisogni che la mossero. Ma per non confondere anche qui l' ordine del senso coll' ordine dell' intelligenza, conviene osservare ciò che fa l' istinto animale e poi aggiungervi ciò che fa l' intendimento. L' istinto animale dunque muove sempre da un gruppo di sensazioni: questo gruppo di sensazioni mette in movimento l' animale: l' attività animale così mossa cerca un altro gruppo di sensazioni, che è il termine del bisogno animale: questo secondo gruppo di sensazioni in parte completa il primo gruppo, in parte lo fa cessare e ad ogni modo soddisfa al bisogno. Qui non ci sono ancora oggetti: non ci sono che sensazioni che si associano: è sempre un sentimento che opera a tenore di sue proprie leggi (1). Ma l' attività intellettiva accorre ad aiutare l' uomo che come animale brama quel gruppo di sensazioni. Quest' attività non può spiegarsi in volizioni se non a condizione che prima ella percepisca e conosca; perchè la volontà è un movimento dello spirito che si porta in un oggetto conosciuto. L' intendimento dunque prima di tutto percepisce, poi l' uomo opera, cioè vuole dietro le sue percezioni. Ma cosa è questa operazione della percezione? Con questa operazione lo spirito, il soggetto, oppone a se stesso degli oggetti. Ma questi oggetti cosa sono? Sono anch' essi gruppi di sensazioni? Eccoci entrati nella terza questione, colla quale dimandavamo: quale doveva essere la natura delle prime intellezioni. Dopo ciò che si è detto facilmente viene alla mente, che avendo il bisogno animale, che ci muove a operare, ne' primi istanti per suo termine e scopo un certo gruppo di sensazioni, questo gruppo di sensazioni, e non più, debba essere il termine della percezione. E nel primo aspetto ciò non sembra ripugnare. Ma, ove si consideri che quando noi parliamo di quel gruppo di sensazioni, nello stato in cui ora siamo pervenuti di grande sviluppamento intellettivo, quel gruppo non è più un mero complesso di sensazioni, ma un complesso di sensazioni percepito e inteso coll' intendimento nostro, vediamo allora che c' illudiamo. Perocchè, se noi parliamo di sensazioni senza aggiunger loro nulla d' ideale, esse, così nude e sole nel loro essere meramente reale, non sono peranco oggetto della mente, chè questa ancora non le contempla. Or come dunque potrà la mente passare a contemplarle e intuirle? Col renderle a se stessa oggetto , ciò che prima non erano. Ma cosa vuol dire un oggetto? Qual è la nozione comune di tutti gli oggetti della mente? La nozione comune di tutti gli oggetti della mente si è quella di essere enti ; nè oggetto vuol dire altro che ente . Col percepirsi adunque dalla mente le sensazioni, esse si trasformano in altrettanti enti, perocchè quest' è la propria indole dell' operazione intellettiva; l' oggetto è parola che si riferisce a lei, e l' ente è parola che significa nella maniera più generale l' oggetto; l' ente dunque non può esistere senza una mente, nè una mente può contemplare e percepire altro che enti. Ma se le sensazioni non sono enti, come possono adunque venir concepite? Le sensazioni non sono enti, ma sono certe attualità di enti. Analizzando le sensazioni, noi abbiamo trovato che in esse vi hanno due elementi; un elemento soggettivo e un elemento extra7soggettivo. Considerate nel loro elemento soggettivo, l' ente a cui esse appartengono è il soggetto: esse sono atti7passivi di quell' ente. Considerate nel loro elemento extra7soggettivo, l' ente a cui esse appartengono è un ente diverso dal soggetto (extra7soggettivo), di cui esse sono atti7attivi. L' intendimento adunque, il quale non percepisce che enti, non può percepire le sensazioni se non a condizione di percepirle negli enti a cui appartengono. Ma esse appartengono a due enti: al soggetto e al corpo extra7soggettivo; ora, qual è di questi due enti quello che forma l' oggetto delle prime intellezioni? Io sono stato gran tempo dubbioso in che modo risolvere questa questione; ma finalmente mi sono persuaso che colle prime intellezioni l' uomo percepisce le sue sensazioni avveniticce come appartenenti agli enti extra7soggettivi, cioè a' corpi esteriori. La ragione che m' ha inclinato a questa risoluzione fu la seguente. L' attenzione , come abbiam veduto, è quella forza dello spirito, che dirige l' intendimento a questi piuttosto che a quelli oggetti: l' attenzione stessa poi è diretta da bisogni sensibili. Ora il bisogno dell' uomo ne' primi istanti, ne' quali egli esiste, risguarda interamente verso i corpi esteriori, da' quali solamente egli cerca le grate sensazioni, di cui è vago, e di cui abbisogna. Egli non pone adunque la sua attività intellettuale nella sensazione in quanto ella è una passività sua propria, ma in quanto ella è un' attività degli oggetti esterni, verso i quali egli, per così dire, si protende per averne sempre di nuove e di maggiori. La sensazione come passività è già finita, nè gli bisogna l' intelletto e la volontà per gustarla; ma la sensazione come azione veniente da' corpi esterni al suo è quella, ch' egli presente, e che preimagina, ed a cui va incontro prima d' averla, bastando a tutto ciò che ne prenda sentore e che sia ad essa mosso dalle leggi del suo istinto e della sua spontaneità. Come adunque tutte le altre potenze dell' uomo corrono agli oggetti esterni, che gli apportano grate sensazioni, verbigrazia il bambino alla poppa della madre, così anche l' attività intellettiva deve essere mossa a quella stessa volta, e perciò le prime intellezioni, che fa l' uomo, vogliono essere le percezioni de' corpi esteriori. Nelle stesse percezioni nondimeno de' corpi esteriori vi ha una gradazione: non è un lavoro, che il bambino compisca in un istante. Egli è vero, che la percezione, come percezione, è un atto semplice dello spirito, che si fa in un istante, perocchè ciò che è essenziale alla percezione si riduce a un atto, col quale lo spirito pone un diverso da sè, e propriamente un oggetto, a quell' atto dico, col quale egli s' accorge, che sussiste un qualche cosa . Vi ha dunque percezione tosto che lo spirito ha detta questa parola interiore a sè stesso. Nondimeno questa parola interiore, colla quale l' uomo afferma un ente, ammette diversi modi e varietà non in sè stessa, cioè in quanto ella è un atto soggettivo dello spirito, ma in rispetto al suo oggetto, il quale può variare, potendo lo spirito affermare degli enti diversi, o per dir meglio delle entità diverse. Queste entità , che si fanno oggetti delle affermazioni interne dello spirito, ammettono variazione per due cagioni: 1 Perchè sebbene il senso presenti le entità allo spirito intellettivo, tuttavia questo non dirige pienamente ad esse la sua attenzione per mancanza di stimolo a ciò fare, e perciò non le afferma in tutte le loro particolarità e qualità, ma solo in un modo più o meno perfetto, più o meno determinato; 2 Perchè il senso stesso allo spirito non le presenta (1) d' un tratto con tutte le loro attività, ma parzialmente e successivamente, attesa la limitazione de' sensi e organi particolari. Di qui è che per lo contrario la percezione si va perfezionando più e più in due maniere, cioè: 1 In ragione, che lo spirito intellettivo ha degli stimoli, che l' obbligano a porre la sua attenzione a ciò, che v' ha di più determinato negli oggetti, che il senso gli presenta; 2 In ragione che il senso stesso gli presenta successivamente più facce, o sia più proprietà e attività dell' ente. Diciamo alcune parole sopra tutt' e due queste maniere di graduata perfezione, che ricevono le percezioni , perocchè senza por mente a questa perfettibilità delle percezioni, non si può giungere a conoscere ciò, che succede nella mente del bambino da' primi momenti della sua esistenza fino alla riflessione più libera. Cominciamo dunque dal considerare il primo modo di perfezionamento, che ricevono le percezioni intellettive, e innanzi ogni altra cosa domandiamo: qual è lo stato di massima imperfezione, in cui esse si trovano? Conosciuto questo estremo, potremo salire a considerare i gradi di perfezione, che vengono acquistando successivamente nel fanciullo. La prima parola adunque, che dice interiormente il fanciullo e la più imperfetta, si è quella che formolata da noi in parole, che egli non conosce, risponderebbe a questa « un ente io sento nel mio senso ». Con questa parola egli non determina nulla delle qualità dell' ente da lui sentito, ma fa consistere tutta la determinazione , ch' egli dà a quell' ente, nella relazione di esso coll' attuale sua sensazione, nella quale ella tiene il modo di agente . Ente e agente è dunque il medesimo in questa prima parola, in questa prima percezione; ma il modo dell' azione, che determina quell' azione, rimane nel senso, senza che egli si faccia scopo all' attenzione dell' intendimento, il quale è contento di una cognizione quasi del tutto negativa; perocchè la sua cognizione fin qui appena è nulla più che ideale7negativa; non contenendo essa che unicamente l' affermazione di un agente senza altra determinazione espressa; ma con solo una determinazione di relazione a ciò che il soggetto sente (1). Ed ella è appunto questa mirabile connessione del senso e dell' intendimento, che riesce sommamente difficile a intendersi a molti, ond' avviene, che rifiutino la nostra filosofia, perchè non pervengono a superare questa non piccola difficoltà. Desidereremmo assai, che costoro meditassero molto sull' unità e identità del soggetto sensitivo e intellettivo; compresa la quale, ogni difficoltà disparisce. Perocchè colui, che giunge colla sua mente a vedere questa identità, vede ancora incontanente come il soggetto (lo spirito umano) possa trovare nel senso la determinazione di di quell' ente che vede e afferma coll' intendimento. Ma di queste cose abbiamo parlato altrove e non dobbiamo ripeterci di continuo. Quello adunque, che l' intendimento percepisce nella prima sua e più imperfetta percezione di un oggetto, si è l' azione, che un ente diverso dal soggetto fa nel soggetto, ma nulla più; non pensa al modo di quest' azione, che vien fatta nel senso; e rimanendo questo modo fuori dell' attenzione intellettiva, rimane pur fuori della cognizione dell' oggetto ogni sua qualità o proprietà speciale. Il soggetto sa solamente, che ci è un ente agente, e sente , ma non sa , come agisca. Ben avviene più tardi, che il soggetto stimolato da' suoi bisogni vien ponendo la sua attenzione non pur sull' ente agente, ma sul modo ancora col quale agisce; ed è allora che egli perfeziona la percezione sua dell' ente, la quale diventa gradatamente più positiva. In fatti è dall' osservazione sul modo , onde un ente agisce sopra di noi e dagli effetti, che egli in noi produce, che noi veniamo rilevando le sue proprietà e qualità e tutta la sua condizione. Or questo appunto è il travaglio successivo dello spirito. Qui comincia quell' arte di osservare, che uscendo dalla culla del bambino si fa gigante nello spirito di un Galileo, e rivela ogni dì all' uomo novi segreti della natura. Questa è la prima maniera, onde cresce la percezione; cresce e si perfeziona a misura, che l' attenzione dello spirito si applica a tutte le parti delle sensazioni e tutte l' una dopo l' altra le trasporta, per così dire, dal senso nell' intendimento: voglio dire tutte, l' una dopo l' altra, le percepisce intellettivamente, le afferma distintamente con questa parola interiore. Ma l' attenzione intellettiva dopo di ciò non può osservare, se non ciò che il senso le porge. Ecco un' altra sua limitazione: ecco la seconda maniera di progresso, che è dato alla percezione: questa acquista un campo sempre maggiore, quanto maggiori sono le sensazioni, che le presentano la materia, ossia il termine della sua operazione. E l' oggetto percepito dal bambino la prima volta gli si varia d' innanzi al percepirlo, ch' egli fa altre e altre volte. Cioè, sebbene il bambino percepisca sempre quell' oggetto agente su di sè e producentevi la sensazione, tuttavia nol percepisce agente allo stesso modo nè allo stesso grado, nol percepisce producente la sola prima sensazione, ma altra e altre successivamente. Da principio adunque percepisce una semplice forza, che gli produce, poniamo, una data sensazione, per esempio, al tocco della mano; ma poi egli soffre molte e molte sensazioni, che gli discoprono molte azioni venienti da degli agenti da sè; diversi da sè; e poi anche infine trova (mediante l' identità dello spazio (1)) che tutte quelle sensazioni gli vengono da un agente unico, o che egli prende per unico, cioè da un corpo. Così da principio egli colle sensazioni del tatto, dell' odorato, dell' udito e del gusto percepirà altrettante forze e perciò enti diversi; ma ben presto egli verrà poscia accorgendosi e persuadendosi, che tutti quegli enti non sono, che un corpo solo, da cui tutte quelle azioni diverse su lui promanano, e così perfezionerà la sua percezione di quel corpo. Successivamente egli farà anche un altro lavoro col suo spirito, cioè metterà in armonia la vista col tatto. Da prima colla vista non percepirà se non un oggetto solo, una forza sola; conciossiachè tutti gli oggetti veduti sono insieme nel suo occhio, formanti una sola tavola variopinta. Ma ben presto mediante l' esercizio del tatto e dell' occhio associati imparerà a prendere i diversi colori, che nel suo spirito gli si presentano, siccome segni di soggetti distinti, non superficiali, ma solidi: e così viene a percepire coll' occhio, mediante un giudizio, i corpi esteriori. Le percezioni de' corpi esteriori adunque, che costituiscono il primo ordine d' intellezioni, si compiono mediante le seguenti operazioni dello spirito: 1 Lo spirito a ciascuna sensazione s' avvede dell' esistenza d' un agente, oggetto alla contemplazione dell' anima, nel che sta l' essenza della percezione intellettiva. 2 Lo spirito unisce molte sensazioni de' quattro sensi, il tatto, l' odorato, il gusto e l' udito, delle quali ciascuna separatamente l' avevano fatto accorto dell' esistenza d' un agente, in modo che già le attribuisce a un agente solo, comune fonte di esse: così percepisce il corpo, cioè si forma l' idea comune del corpo. 3 Lo spirito distingue nella sensazione unica della vista i diversi colori, che impara a riconoscere per segni di quei corpi stessi tattili, a cui già imparò a riferire molte sensazioni di diversi sensi. Questi sono lavori distinti dello spirito, ma il loro effetto è sempre la percezione intellettiva e perciò non costituiscono diversi ordini d' intellezioni, ma un ordine solo, il primo: è sempre la percezione stessa che lo spirito in tutti questi lavori ripete e migliora (1). Ma lo spirito rimanendosi dentro la sfera del primo ordine d' intellezioni fa ancora diversi altri lavori. E veramente la memoria imaginaria, che rimane nello spirito o si riproduce, delle sensazioni avute, non si può dire che appartenga a un altro ordine d' intellezioni, perchè non varia l' oggetto, il termine, la materia dell' operazione, ma solamente varia la potenza dello spirito operante intorno alla stessa materia. Poichè la percezione, di cui io mi ricordo o che in me riproduco coll' imaginazione, è sempre la stessa quanto al conoscere: io conosco con queste operazioni l' identico oggetto della mente, e non un altro. Parimenti l' associarsi di più percezioni, o memorie imaginarie di percezioni, è un lavoro, che non eccede il primo ordine d' intellezioni, quando trattasi d' una associazione di semplice coesistenza nello spirito, senza che l' intendimento operi alcuna analisi o sintesi tra esse. In terzo luogo gl' istinti e in generale tutta l' attività spontanea, che già si mette in moto nello spirito in conseguenza delle percezioni e delle loro memorie e imaginarie riproduzioni, sono operazioni, che non eccedono ancora i confini del primo ordine d' intellezioni, del primo stadio, in cui si trova l' umana intelligenza. In quarto luogo appartengono a questo stesso stadio ancora le idee specifiche piene, ma imperfette (1). Intendiamo per idee specifiche7piene7imperfette le cose stesse da noi percepite, considerate meramente come possibili, senza aggiungervi il pensiero della loro reale sussistenza. Se io ho percepito una melagrana, mi resta poi la memoria della mia percezione. La memoria della melagrana da me ieri veduta, toccata, assaporata, percepita intellettivamente è più che una semplice idea di essa; perocchè l' oggetto del mio pensiero non è semplicemente l' imagine di quella melagrana considerata come un tipo, una possibilità di melagrane; ma è quell' imagine riferita alla melagrana di ieri, è l' imagine propria di essa; io con quella memoria non penso solo all' imagine, ma penso alla cosa reale. Ma se io dimenticassi interamente la melagrana di ieri, e tuttavia contemplassi nella mia fantasia un' imagine di melagrana, imagine rimastami dalla percezione avutane, ma che io non riferisco più alla percezione, perocchè suppongo essermene del tutto dimenticato; in tal caso la imagine, che io contemplo col mio intendimento, non fa che rappresentarmi una melagrana possibile, non questa o quella, non alcuna melagrana reale. Or l' oggetto di un tal pensiero, che io fo, è un idea, che io chiamo specifica piena7imperfetta. Io chiamo quest' idea specifica , perchè non è legata ad alcun individuo reale, ma è tipo d' infiniti individui possibili: ella determina dunque una classe o specie d' individui. Chiamo quell' idea specifica7piena , perchè io suppongo, che ella conservi tutte le qualità, anche accidentali, della melagrana da me altre volte percepite, sicchè ella non è un' idea astratta, ma una idea che rappresenta individui forniti di tutte le loro particolarità. Finalmente chiamo quell' idea specifica7piena7imperfetta , perchè quel tipo non mi rappresenta la melagrana perfettissima, ma una melagrana, qual era quella che io ho percepita con tutti i suoi difetti o imperfezioni, che avesse potuto avere. Il passaggio, che fa l' intendimento dalla percezione all' idea specifica7piena7imperfetta, chiamasi universalizzazione . Questo passaggio è facilissimo; perocchè sono le percezioni atti dello spirito passaggeri, e però, tosto che l' oggetto vien sottratto al senso esterno, la percezione cessa. Nondimeno ella anche cessando lascia nello spirito umano due vestigi o effetti di sè: l' imagine della cosa percepita, la quale può essere suscitata nel senso nostro fantastico o da noi stessi o da accidente straniero, e la memoria della percezione avuta. I quali due effetti della percezione sono per se diversi, e quantunque fin a tanto che coesistono nello spirito si possa facilmente prender l' una per l' altra, tuttavia al cessar della memoria rimanendo l' imagine, o al cessar della imagine la memoria, o all' illanguidirsi dell' una più che dell' altra, si trovano nello spirito tra se separate. Molto più si separano e si distinguono, quando il fanciullo riceve delle altre percezioni della cosa stessa; perocchè allora l' imagine è la medesima, quando all' opposto ogni percezione ha la sua memoria distinta. Ancora, se il fanciullo riceve percezioni d' altre cose, ma similissime, come sarebbe d' altri aranci non distinguibili tra di loro se non per molta attenzione sulle piccole differenze, di cui il fanciullo nel primo tempo non cura, le memorie tuttavia si moltiplicano, e l' imagine è sempre una sola, alla quale si riscontrano gli oggetti. Per le quali cose facilissimamente avviene, che l' imagine nello spirito si distingua dalle memorie delle percezioni avute, nel quale stato di distinzione ella si fa tosto fondamento all' idea specifica piena imperfetta di cui parliamo, perocchè lo spirito vede incontanente e naturalmente nell' imagine da lui posseduta il ritratto d' una cosa non sussistente, ma possibile. Riassumendo adunque, alle intellezioni del primo ordine appartengono le percezioni, le memorie delle percezioni (le imagini da sè sole prese non sono intellezioni, ma sensazioni interiori), le idee specifiche imperfette aventi per base l' imagine, le associazioni varie di percezioni e memorie e idee specifiche imperfette, e finalmente gl' istinti e operazioni volontarie, che conseguono quel primo grado di sviluppo intellettivo. Il quale sviluppo intellettivo, quando poi comincia nel bambino? Non vi ha forse un istante di vita, nel quale il bambino non abbia delle sensazioni accidentali almeno interne (1), sensazioni che cominciano fin nell' utero materno? Ora s' accompagna egli l' operazione dell' intendimento a tutte le sensazioni, anche alle prime? Inclino a credere di no. Già dissi che le sensazioni semplici non traggono a sè l' attività dell' intendimento; la sensazione, che finisce in sè, è acquetamento piuttosto che suscitamento di nova attività. Quelle sole eccitano l' attenzione intellettiva, nel seno delle quali sorge il sentimento d' un bisogno , certo d' un bisogno d' altre sensazioni. Vero è che questi bisogni fisici, che eccitano l' attività intellettiva del bambino, devono sorgere assai presto, e con essi l' inquietudine e il tentativo di soddisfarli, il quale durerà anche esso qualche tempo prima di riuscire all' intento di chiamare in aiuto l' intelligenza, e io congetturo, che il momento nel quale l' intelligenza si apre alle sue operazioni sia segnato dal primo riso del fanciullo (1). Con questa ineffabile espressione della sua gioia, egli pare, che il bambino saluti l' alba del giorno, che a lui traluce. L' anima sua ragionevole rallegrasi della verità, che ritrova, e a se stringe quasi di slancio. Ah che il primo atto dell' intendimento deve pur essere all' anima umana un grande istante, un istante solenne, il sentimento d' una nova vita ed immensa, la scoperta della propria immortalità! E` egli possibile, che un avvenimento sì stupendo e sì repente nel bambino (quantunque l' adulto non possa formarsene alcuna idea) non si manifesti al di fuori con segni di esuberante letizia? Avete dunque ragione voi, o madri, che aspettate con sì gran desiderio, che provocate, che accogliete con sì gran tremito dei vostri visceri il primo sorridere dei vostri figliuoli. Ah! voi sole siete le interpreti veritiere di quella prima parola infantile, che in forma di riso si espande sulle labbra, e negli occhi, e in tutto il volto di quel piccolo essere intelligente; voi sole ne intendete il mistero; intendete che egli da quell' ora vi conosce, e vi parla; e voi, il primo oggetto dell' intelligenza umana, sapete voi sole rispondere a quel linguaggio d' amore, e rendervi, quasi direi, imagini e tipo della verità, che è intelligibile, e che luce per sè medesima (2). Laonde ammettendo questa conghiettura ne verrebbe che fino dalla prima infanzia del bambino dovrebbe distinguersi due età ben definite. I L' età dello sviluppo meramente sensitivo, che comincia dal primo esistere, e II L' età del primo grado di sviluppo intellettivo, che comincia dal primo riso del fanciullo. Nella prima età come non vi sono nel fanciullo che sentimenti e bisogni animali, così non vi è che un' attività animale (1). Quest' attività parte è congenita nell' animale, e io gli ho dato nome di istinto vitale nell' Opera che ho pubblicato col titolo d' « Antropologia », a cui mi convien rimettere il lettore, che abbia vaghezza di conoscere più addentro questa materia. Ivi anche vedrà come dall' istinto vitale nasca l' istinto sensuale , altro ramo dell' animale attività, di cui noi qui parliamo. Sarebbe difficile il definire se le prime operazioni dell' istinto sensuale comincino nell' utero materno, o appena che l' animale si trova al contatto dell' atmosfera, o qualche tempo dopo (1). Sembra per altro che forse il primo eccitamento a esercitare l' istinto sensuale nasca dal bisogno di nutrirsi (2). La respirazione, questa interna e lenta combustione, che comincia a farsi in lui appena uscito alla luce, consuma l' ossigeno e il carbonio, di cui ha bisogno il suo sangue; di che nasce in lui il bisogno di ripararne le perdite col cibo. Parimente le continue perdite che fa il suo corpo mediante la traspirazione, e altre separazioni, gli producono il bisogno di nutrizione. Il movimento de' labbri, co' quali egli s' attacca al seno materno, è dunque uno de' primi atti del suo istinto sensuale (3). L' istinto sensuale adunque ne' primi suoi atti è mosso dal dolore , anzichè tirato dal piacere, prendendo la parola dolore per ogni specie di molestia, per ogni penoso bisogno. I bisogni penosi rimangono sempre, anche in appresso, stimoli efficacissimi alle operazioni dell' istinto sensuale; ma ben presto questo istinto non è più nel suo primitivo stato; riceve delle modificazioni dalle esperienze che fa; chè, come ho già osservato (1), l' operare di una qualsiasi facoltà dell' uomo, oltre gli atti passaggeri, produce sempre dopo di essi un effetto stabile nell' uomo, uno stato e condizione nova, specialmente della facoltà usata. L' istinto sensuale adunque, che nel primo suo apparire non è mosso che dal dolore, ben tosto viene attratto anche dal piacere; il piacere diventa per lui un bisogno. Dopo dunque che il bambino si procacciò delle sensazioni coll' occasione di soddisfare ai più penosi suoi bisogni, e che trovò queste piacevoli (giacchè la natura benefica aggiunse per sopra più il piacere al soddisfacimento dei bisogni), cerca delle sensazioni per due motivi, per evitare la pena, e anche unicamente per godere. Da questi fonti nasce quel bisogno di sentire che accompagna poi l' uomo per tutta la sua vita, e che divien sì vario, potente e ben anco capriccioso e sregolato. Io ho già accennato che non poco sospetto, che vi abbia una comunicazione tra le anime stesse mediante le sensazioni. Questo sarebbe un fatto degno da verificarsi meglio colle più accurate osservazioni. In tanto mi sia lecito dir di più, sempre in via di conghiettura, che io inclino anche a credere, che non solo il soggetto insieme colle sensazioni, che riceve da una persona, provi un sentimento, che è effetto immediato dell' anima intelligente, che opera nelle sensazioni cagionate, ma che una simile comunicazione avvenga pure tra l' anime meramente sensitive. Quando il gatto giovanetto gioca colla pallottola di carta, o colla fettuccia appesa, io stento a credere, ch' egli vi cerchi solo il mutare delle sue sensazioni materiali, ma anzi sospetto, che egli istintivamente vi cerchi qualche cosa di animale, di vivo, di cosa che si muova da sè; e che egli invecchiando non gioca più, disingannato, perchè oggimai ha imparato a distinguere meglio ciò che è animato da ciò che è inanimato. Mad. Necker fa a questo proposito un' assai fina osservazione sui bambini: ella rende ragione appunto del perchè i bambini s' annoiino dei loro giocarelli, dicendo, che ciò nasce quando hanno esauriti tutti i nuovi aspetti e abbattimenti; giacchè fino che trovano casi nuovi par loro di vedere un moto spontaneo, un' anima nelle cose materiali; ma quando non possono cavar più niente di nuovo, allora la cosa a' lor occhi è morta, e non ha più niuno interesse (1). A questa stessa tendenza verso le cose animate si deve forse attribuire l' attrazione, che esercitano sopra certi animali le cose brillanti: dell' allodola dicesi, che s' appressa allo specchio, dell' usignuolo a tutto ciò che luce, e le gazze si sa che hanno l' istinto di rubare e di nascondere i gioielli (2). Ma lasciando questi ed altrettali fatti, nei quali gli animali s' ingannano nell' aspettar di trovare un animale in ciò che si muove, o che dà delle cangianti sensazioni, egli è indubitato, che vi ha tra gli animali della stessa specie una tutto speciale domestichezza somiglievole all' amicizia. Quanto piacer non provano a giocolar tra loro i cagnolini, i gatti, ecc.? Molti animali vi sono a mandre, a truppe, quasi famiglie e tribù e popoli. Tutto ciò che riguarda la convivenza per cagione della generazione e l' allevamento de' figliuoli pare, che supponga questo principio della comunicazione delle anime. Intanto si può mettere tra i fatti al tutto certi, che le sensazioni, che gli animali si cagionano tra loro, sono tali sensazioni, quali non possono avere da nessuno degli oggetti inanimati. L' affezione che i genitori di tutte le specie mostrano pei loro nati, è un istinto, che troverebbe facilmente la sua spiegazione nella supposizione, che ho avanzata. Una certa affinità sensuale si trova ben anche tra animali di specie diversa: il cane, il cavallo, l' elefante, ecc., prendono fra di loro una scambievole affezione: all' uomo poi si legano con stretti vincoli di domestichezza e fedele servitù molti animali. Al principio stesso di un' azione secreta, scambievole delle anime convien forse attribuire anche le avversioni, e inimicizie di certi animali verso cert' altri, come del gatto verso il topo, ecc.. Or poi data questa comunicazione delle anime sensitive, ella deve aver luogo anche nel fanciullo; ma non penso che ella giochi prima della comunicazione dell' anima intellettiva: nel primo riso adunque parmi, che l' una e l' altra incominci. Un altro principio d' operare appartenente alla sola animalità (benchè un somigliante principio si trovi poi anche nell' ordine dell' intelligenza) si è quello dell' imitazione. Noi crediamo d' averne data sufficiente spiegazione (1). Solo qui aggiungeremo, che i sentimenti animastici (2) rendono ancora più facile e chiara la data spiegazione: l' un' anima sente la sua compagna in un dato stato, a ragion d' esempio in quello di gioia (3): dalla naturale benevolenza nasce la simpatia, cioè il comporsi ai medesimi sentimenti: dalla simpatia l' istinto d' imitazione . La simpatia in tal caso è la operazione passiva, l' imitazione la sua attiva corrispondente. Fra i piaceri, che prova l' animale, e di cui ben presto diviene avido, ci ha quello dell' agire . L' attività porta molti speciali piaceri fisici, giacchè il solo acceleramento della circolazione sanguigna accresce la vita e il suo sentimento. Ma oltre i parziali piaceri fisici, che tengono dietro all' azione conveniente, vi ha un piacere inerente all' azione stessa; perocchè a chi più opera, par di più vivere. Laonde il piacere d' agire nasce e cresce dall' esperienza fino a un certo grado nell' animale, e diviene alle occasioni uno dei principii de' suoi movimenti. Finalmente anche le potenze animali si vestono dell' abitudine . La natura fisica è piena di ordine, ma quest' ordine stesso subisce alcune modificazioni in conseguenza delle abitudini. L' abitudine oltre di ciò facilita certe operazioni e le rende più piacevoli a chi le fa; rende per conseguenza più molesta l' interruzione o la privazione di esse; quindi nascono de' gusti e degli istinti d' abitudine, che in questa maniera diviene nell' animale e nell' infante un nuovo principio di attività. Riassumendo adunque quelle attività del fanciullo, che appartengono all' ordine dell' animalità, esse sono le seguenti: 1 l' istinto nascente dal bisogno di evitare uno stato doloroso; questo è l' istinto nel suo stato primitivo (1); 2 l' istinto nascente dal bisogno di sentire semplicemente e di godere sensazioni piacevoli; 3 l' istinto verso le cose animate, onde si genera la simpatia ; 4 l' istinto d' imitazione nascente dalla simpatia; 5 l' istinto e bisogno di agire semplicemente pel piacere, che trova nell' esercitare le sue forze; 6 l' abitudine. Nella seconda età l' intelligenza comincia il suo movimento: le percezioni e le idee imaginali si formano: e quindi una nuova attività si deve sviluppare: perocchè da ogni passività, l' abbiam detto tante volte, nasce nell' uomo un' attività: dall' intendere dunque deve scaturire un' attività razionale, il moto della volontà. Il primo moto della volontà consiste in quelle volizioni, che abbiamo dette affettive (2), in cui il soggetto sensitivo e volitivo vuole l' oggetto percepito senz' averlo giudicato bono, ma solamente per averlo sentito piacevole: volizioni misteriose e altrettanto difficili a ben intendersi, quanto è difficile la percezione intellettiva. Ma quantunque sappiamo, che pochi sieno quelli, che si formino un chiaro concetto di questa maniera di volizioni, e molti quelli, che sono presti a negarcene l' esistenza; tuttavia noi siamo costretti ad ammetterle appellando a que' pochi, che meditando penetreranno la natura di quelle volizioni, e della loro verace esistenza non dubiteranno. Ora si osservi, che coll' apparire l' attività intellettuale non cessa l' attività sensuale, ma lo sviluppo del fanciullo si complica, e si rende assai più difficile a descriversi per la mutua influenza delle operazioni sensuali e intellettive e per la moltiplicità de' loro atti. Ciò non ostante dobbiamo tentare una breve descrizione di ciò, che avviene nell' uomo in questa sua seconda età. Nell' età prima le prime sensazioni furono di cose inanimate e solamente più tardi ebbe il bambino i sentimenti animastici, di cui abbiamo parlato. Ma nella seconda età, in cui si mette in movimento l' intelligenza avviene l' opposto: il primo passo della facoltà conoscitiva sembra quello, come abbiamo detto, che reca l' uomo a percepire cose animate: percepisce l' anima della madre sul suo volto, e tosto simigliantemente nell' altre cose tutte cerca la vita e l' anima: di maniera che è da credere, che ben tardi il bambino giunga a persuadersi a pieno di questa gran maraviglia, che esistano degli enti inanimati (1). Ora come le sensazioni animastiche producono di lor natura nel bambino l' affezione fisica , e quindi la simpatia; così le percezioni animastiche eccitano immediatamente la benevolenza , che è già una volizione affettiva abituale ed incipiente. Infatti la benevolenza, questo affetto razionale, non si può concepire se non si suppone un essere animato, verso cui si eserciti: perocchè tutto ciò che è inanimato, se veramente lo concepiamo per tale e non associamo al suo concetto imaginariamente qualche elemento di vita, ci può ben essere caro per l' utilità, ma non possiamo amarlo o avergli quell' affetto, che benevolenza si chiama. Ora il bambino pieno di affetto e di benevolenza la trasfonde per così dire verso tutte le cose, e questo è nuova prova di ciò, che dicevamo parere a lui le cose tutte vive e intelligenti. Quando la fanciullina slanciatasi al collo della madre, dopo averla baciata con mille carezze se ne parte e va a baciare e carezzare la tavola o la scranna, ella non accarezza certo questi esseri come inanimati, ma più tosto versa in essi per così dire quell' affetto che ha verso alle cose animate senza fermarsi a considerare che quelle animate non sono. Sì, l' amore della creatura senziente e ragionevole suppone per la sua essenza un oggetto pure senziente e ragionevole, sia questo vero o creduto tale. Ecco quali sieno le prime volizioni affettive. E come la natura pose prima l' affezione sensitiva qual disposizione e principio dell' affezione intellettiva che sola è vero amore; così a fine di disporre l' affezione sensitiva pose nel tenero fanciullo una fisica giocondità degli organi riboccanti di vita, e colmi, per così dire, di piacere, quale disposizione acconcissima all' affezione sensitiva. Laonde tutto si lega e dà mano al mirabilissimo congegno della creatura umana. L' anima sensitiva già piena di dolcezza è convenevolmente disposta a ben sentire un' altra anima pure sensitiva ed affezionarvisi, nell' uomo quella naturale affezione è tosto ritrovata dalla volontà, la quale se ne compiace, e vi genera quasi in proprio nido l' amore, fonte d' altra gioia razionale, che alla primitiva animale si mesce, e con dolce circolo via meglio dispone l' uomo ad affezionarsi e ad amare (1). Certo a questi primi albori dell' intelligenza umana non v' ha nell' uomo nè merito, nè libertà, nè coscienza. Ma chi, attentamente considerando, potrà disconoscere, che vi ha già una moralità? Che cosa è la moralità se non l' atto o l' atteggiamento di una volontà intelligente verso degli esseri pure intelligenti? Se la volontà dà il suo affetto a questi esseri, cioè li ama quanto essi esigono, ella è certamente buona; ma se piglia verso ad essi un contegno di avversione e di odio, ella è cattiva. Le osservazioni adunque sulla naturale benevolenza de' bambini confermano quanto ho affermato nel « Trattato della Coscienza » sull' esistenza d' una moralità anteriore alla coscienza, come pure le teorie ivi esposte illuminano mirabilmente quanto si ritrae dal diligente osservare ciò che avviene nell' età prime. Ma vi ha di più. All' età propria delle volizioni affettive si può assegnare lo spazio di sei mesi. Dopo questa età sembra che nasca un vero giudizio sulla bontà delle cose, il quale dà luogo incontanente alle volizioni apprezzative (1). Egli è difficile a conoscere quando il fanciullo pronunzi un vero giudizio interno trattandosi di cose piacevoli fisicamente ai suoi sensi, perchè essendogli questo piacere comunicato dai sensi stessi, non vi ha necessità d' una operazione dell' intendimento per metterlo in atto. Ma trattandosi di un diletto che nasce da una cosa intesa, egli è uopo che intervenga un' operazione dello intelletto, acciocchè quel diletto si manifesti. Ora dopo sei o sette mesi si rileva già nel fanciullo l' ammirazione verso le cose belle , e però indubitatamente il suo intelletto apprezza le cose in sè, e la sua volontà dietro a un tale apprezzamento fa delle volizioni che apprezzative nominiamo. In questo caso fa una nuova comparsa la moralità , e propriamente qui comincia la stima pratica degli oggetti distinta dalla percezione verso di essi; mentre nelle volizioni affettive la stima pratica era colla prima percezione immedesimata (2). Qui splende anche il disinteresse, che accompagna sempre una stima pratica, che ha per suo regolo la giustizia. Ma veggiamo tutto ciò ne' fatti, e chi ce li raccoglie e testimonia sia la benemerita autrice dell' « Educazione progressiva » che abbiamo più volte citata, e a cui molte altre volte ricorreremo per attignervi e osservazioni diligenti e riflessioni assennate. [...OMISSIS...] Il Cristianesimo accoglie tra le sue braccia amorose il bambino, che entra in questo mondo, e chiude pietosamente gli occhi suoi, quando ne esce. Consolanti non meno che saluberrimi dogmi della Chiesa Cattolica sono i seguenti: 1 GESU` Cristo salva gli uomini mediante una occulta potenza, che esercita sul loro spirito, e che lo ammigliora, la quale si chiama grazia ; 2 Questa grazia fu annessa a certi riti esteriori, di cui è depositaria la Chiesa Cattolica, i quali si chiamano Sacramenti ; 3 Il primo di questi Sacramenti è il battesimo, nel quale l' uomo viene rigenerato , cioè riceve il principio d' una vita morale d' un ordine superiore o sia soprannaturale; 4 La Chiesa Cattolica, oltre la potestà di amministrare questi Sacramenti, ha quella altresì di benedire cose e persone, aggiungendo Dio alle benedizioni della Chiesa le benedizioni proprie, cioè delle grazie e dei favori; 5 La Chiesa prega ne' suoi membri, quando questi in comunione colla Chiesa pregano secondo lo spirito della Chiesa, e tali orazioni sono efficaci; 6 Dio ascolta sempre le preghiere ed accoglie le offerte fatte dagli uomini di buona volontà. Posti questi preziosi dogmi, ne viene, che, se il bambino nelle due prime età non è ancora atto a fare da sè atti di religione, è però ufficio de' suoi genitori il fare molti atti religiosi per lui, derivando da Dio al loro fanciullo, già rinato col battesimo, grazie sempre maggiori, valendosi de' beneficii ed aiuti lasciati agli uomini in terra dal Salvatore. La Religione adunque previene il fanciullo, fa per lui molto, prima che egli possa far nulla per essa. Felici i genitori ricchi di fede! Felice il bambino che cotali gli ha sortiti! Comunemente si crede, che il fanciullo abbia una volontà debole, come la sua natura fisica, e che coll' età si fortifichi l' uso della sua propria volontà. Questa opinione nasce, perchè si considera l' uso libero della volontà, il quale manca da prima interamente nel fanciullo, e quando ha in lui avuto cominciamento esso va stendendosi a gradi: sicchè la libertà sottomette o può sottomettere al suo impero un circolo ognor maggiore di cose. All' incontro nel bambino la volontà opera spontaneamente ed è di questi atti spontanei della volontà, che noi diciamo essere essi più forti, cioè più decisi ed abbandonati nel fanciullo, che in uomo già sviluppato. [...OMISSIS...] Noi non possiamo misurare il grado d' intensità de' piaceri e de' voleri del bambino, perchè la misura di ciò, che proviamo, è la nostra coscienza, la quale non è formata nel bambino; e ci riesce estremamente difficile l' intendere quel misterioso stato di un essere, nel quale vi sia dolore e piacere e niuno conoscimento, niuna coscienza di essi. Pure tale è il modo di essere delle bestie, e molte volte è anco il modo d' essere del sentimento umano (2). Le ragioni poi ond' è che i sentimenti, le volizioni affettive de' bambini sono caldissimi e impetuosissimi, sono due: la prima si è, che gli oggetti di tali volizioni sono semplici, onde la volontà tutta con quanto ha di forza si butta in essi. Già ho osservato, che di natura sua la volontà è infinitamente suscettiva e mobile: or di più aggiungo, che è di una grandissima violenza fornita ove le sue forze non sieno divise e distratte in più oggetti, e questi la tirino a movimenti contrarŒ in modo, che si collidano. Questo dà ancora ragione del perchè la plebe si muova di più impeto che le persone coltivate: massimamente i sentimenti dei contadini, quando pur insorgono in essi, li ho osservati oltremodo forti, o siano essi dolorosi, ovvero aggradevoli. Lo stesso carattere di volizioni decise e calde si manifesta ne' popoli antichi: è in essi vita, entusiasmo, passione appunto alla similitudine de' fanciulli. La seconda ragione della vivezza degli affetti e volizioni fanciullesche si è, che elle si portano immediatamente nell' oggetto percepito; quando gli adulti concepiscono gli oggetti astrattamente e fanno, per così dire, passare l' atto della volontà per una lunga serie di idee generali prima, che pervenga a coglier l' oggetto. Ma mi riserbo altrove lo sviluppare questa ragione degna di essere meditata. Vero è che i sentimenti e le volizioni prime ed ardenti, che dimostrano i bambini, sono facilmente rimutabili nelle contrarie: ma questo non prova, che non sieno vivaci; prova solo, che son celeri, e che la natura de' loro oggetti, per lo più tenui e leggeri, non permette loro una durata consistente, come quella che è labile e volubile. Se dunque il sentimento e la volizione del fanciullo ha tanto più d' intensità e di pienezza, quant' è minore lo sviluppo del suo intendimento, volendo allora il fanciullo con tutto se stesso, tutto il nerbo del suo volere applicando a pochi e semplicissimi oggetti; egli è manifesto, che le madri debbono cavar profitto di questa condizione dell' animo infantile, occupandosi nelle prime età assai più di educare il sentimento e la volontà che la ragione. Conviene dunque fare in modo che l' animo del bambino si empisca per tempo di quella benevolenza, alla quale è sì felicemente formato da natura. Questa benevolenza, quest' affetto universale nasce, come ho toccato, in seno alla giocondità e alla gioia, che si convien mantenere il più che si può nell' animo del bambolino (1). La qual gioia poi non dee essere procellosa, ma calma, abituale e serena. Il conservare la serenità nel fanciullo non giova solamente a formare il suo animo alla dolcezza ed alla benevolenza; ma ben ancora ai progressi del suo intendimento; il quale non può fare le sue operazioni in modo ben ordinato e perfetto, se non si trovi in uno stato sereno e tranquillo, in cui solo il fanciullo può raccogliere la sua attenzione. Il qual documento è tanto più rilevante, quanto più facilmente il fanciullo è soggetto alla distrazione cioè alla mobilità estrema de' suoi organi, de' suoi sentimenti e de' suoi pensieri. Ottimamente osserva M. Necker, [...OMISSIS...] . Le maraviglie della forza unitiva nell' animale, di questo agente che nascendo dall' unità del soggetto produce degli effetti, che emulano quelli della ragione, furono da noi descritte nell' « Antropologia ». Una delle proprietà di questa forza si è quella di far giocare contemporaneamente più potenze nell' animale, passive ed attive, e averne un risultamento unico: tali sono i prodotti dell' istinto di simpatia, di quello d' imitazione e d' altre animali operazioni, nelle quali il moltiplice vedesi ridotto ad unità, l' esteso ad una mirabile semplicità: quindi tutto ciò che sente ed opera l' animale in ciascun istante è mirabilmente ordinato: egli sente ed opera moltissime cose, che per lui sono una cosa sola. Or egli è vero che anche le operazioni dell' intendimento umano ricevono dall' unità perfetta del soggetto sensitivo7intellettivo una loro unità: egli è vero che la forza unitiva domina non meno nell' ordine del senso che in quello dell' intelligenza; anzi ella di questi due ordini ne fa un solo, appunto perchè è forza di un soggetto, nel quale il sentire e l' intendere ugualmente hanno la loro origine. Ma tra quelle operazioni dell' animale e queste dell' intelligente vi ha una gran differenza: quelle avendo l' unità soggettiva hanno tutto ciò che possono avere: queste all' incontro esigono di più un' unità oggettiva , nè senza questa si possono dire ordinate ed unite. La ragione di questa differenza si è che l' ordine animale non si riferisce ad alcun oggetto, e quando le operazioni sono unificate, tutto è unificato. Ma l' ordine intellettivo non consiste in mere operazioni, ma nel possesso di oggetti non solo estranei al soggetto, ma contrapposti al soggetto. Non basta dunque che le operazioni intellettive sieno unificate: l' unità che si domanda è quella de' loro oggetti; e questi nella seconda età del fanciullo sono del tutto slegati per se stessi; giacchè il fanciullo non pensò ancora i rapporti che hanno fra loro: e da' quali vengono uniti e armonizzati. Questa sembrami una di quelle osservazioni che non si debbono trascurare, perchè possono dare non poco lume a chi dirige l' educazione del bambino. L' importanza sua si vedrà, ove si voglia considerare qual sia l' istruzione che solo si può dare al fanciullo nella sua seconda età, e che corrisponde al primo ordine delle sue intellezioni. Ma prima di trattare di questa così elementare istruzione, giova che osservi qui una volta per sempre, che quand' io cerco la qualità d' istruzione che può darsi al fanciullo rispondente al primo ordine d' intellezioni, non intendo d' affermare, col proporre un tal quesito, che quest' istruzione gli si deva dare solo in quel breve periodo, nel quale le intellezioni di primo ordine da se stesse si sviluppano. Intendo solo di stabilire qual sia quella istruzione che si può dare sicuramente in ogni tempo della vita, perchè non chiede nelle facoltà intellettive che il primo grado di sviluppo. Così si deve pure avvertire degli ordini superiori. L' istruzione di un ordine qualsiasi è sempre opportuna nelle età superiori ed è solo inopportuna nelle età inferiori. Dico dunque che alle intellezioni di primo ordine sconnesse risponde l' osservazione sensibile7esteriore sconnessa anch' essa: osservazione pura senza alcuna giunta di ragionamento. L' istruzione di primo ordine consiste adunque nel fare osservare al fanciullo co' suoi propri sensi gli oggetti esterni, e nel fargliene prendere degli sperimenti . Ecco un grande scopo: seguendo la stessa natura formare del fanciullo un osservatore e uno sperimentatore : dirigere soavemente, costantemente, sagacemente la sua attenzione senza però mai forzarla o contrariarla. E` la natura, che conduce il bambino a osservar tutto, a far prove e sperimenti su tutto; ma tutte queste prove e le percezioni che ne riceve sono tra loro slegate, disordinate. Il primo ufficio dunque dell' arte dell' educare consiste: nel « regolare le osservazioni e gli sperimenti fanciulleschi ». Queste osservazioni e questi sperimenti conducono il fanciullo a percepire e a perfezionare le sue percezioni. La percezione, che dalla natura è stata messa a fondamento di tutta la gran piramide dell' umano sapere, dev' essere anche quella che costituisce il fondamento di tutta l' umana educazione. Ora la percezione, l' abbiamo detto, si perfeziona in ragione del numero delle sensazioni, che l' uomo ha dal medesimo oggetto, della vivezza di queste sensazioni, del loro ordine e della loro associazione, e sopra tutto dell' attenzione, che lo spirito pone alle medesime e nelle più minute parti degli oggetti. Ecco un vasto campo, in cui si dee esercitare il fanciullo, campo che non eccede tuttavia il primo gradino dell' insegnamento. Avendosi già nella sfera dell' animalità qualche cosa di complesso e di legato, la natura, che prepara questa materia così bene ordinata all' intendimento infantile, insegna già all' educatore a far presto quello che dee fare: questi dee imitar la natura. Ma quanta pazienza e quanto senno non esige tutto ciò nell' educatore! Esige, che l' adulto s' inchini a quelle cose che per lui non hanno più interesse, ma che pur ne ripiglieranno un nuovo e grandissimo, s' egli avrà cuore e mente. Questa è la dote, che manca nella maggior parte degli educatori; onde di mal animo s' inducono ad accompagnarsi alle operazioni e sperienze fanciullesche; ed anzi sturbano spesso il fanciullo innocente nel suo lavoro di un placido osservare e sperimentare (perchè a osservare e sperimentare si riducono veramente tutti i giocarelli e movimenti fanciulleschi e il gusto che il fanciullo ne prende): essi non ne intendono la sapienza; e vorrebbero occupare il bambino in altre operazioni proprie di sè adulti, nelle quali essi trovassero pur piacere ed importanza. Al qual proposito molte volte io ho considerato e domandato meco stesso, perchè il divino Maestro non abbia mai nulla ripreso nei bambini, e anzi per così dir tutto lodato, quando alla severità de' savi umani sembra pure quella prima età piena di leggerezza, e vuota di serie occupazioni. Non pare, che tale la giudicasse Gesù Cristo. Anzi egli sembra che questi vedesse nelle esercitazioni fanciullesche tutt' altro che un perditempo, un far nulla; ma più tosto un' attività grandissima del loro intendimento, avido, aspirante a conoscere, ad abbracciarsi col vero, un' avidità, per la quale « « l' anima semplicetta che sa nulla » » e che è pur fatta per sapere, buttasi con impeto sul mondo sensibile, per rapirne ovechessia cognizioni e notizie, incessantemente osservando, e in mille maniere esperimentando questi e quegli oggetti, quanti pe' sensi gli si presentano (1). Convien dunque con una somma pazienza farsi compagno al fanciullo in questo gravissimo e continuo studio dell' innocente sua età; ed aiutarlo in esso regolandolo. Non è mio intendimento di determinar qui quale potrebbe esser l' ordine , nel quale venissero posti sotto i sensi al fanciullo gli oggetti sensibili; mi basta di osservare che è buono studiarsi un ordine, e che da un ordine, e più ancora da un ordine buono posto dalla sapienza dell' educatore nelle percezioni del fanciullo, se n' avrebbe di buone conseguenze, le quali preludessero e accelerassero il suo futuro sviluppo. Toccherò solo d' alcuni avvisi, i quali mi sembrano poter dare buono indirizzo a' savi educatori ed educatrici della prima età del fanciullo. Il primo si è di porre, al possibile, regolarità nella vita del bambino. [...OMISSIS...] Or questa regolarità di vita continua ad essere sommamente vantaggiosa anche nelle seguenti età dell' infanzia. Al fanciulletto convien certamente dare in abbondanza oggetti da vedere, da toccare, da farvi intorno prove, esperimenti, in una parola da percepire, e da percepir sempre meglio. Ora a ciò si scelgano quelli che più attraggono la sua attenzione, cioè gli oggetti che possono soddisfare i suoi bisogni, le sue voglie, dargli piacere: perciocchè son questi gli stimoli della sua attenzione. Ancora gioverà di presentare al fanciullo degli oggetti semplici, regolari e ordinati, facendogli vedere per esempio i sette colori della luce l' uno dopo l' altro, come pure il bianco ed il nero, e ancor meglio i colori armonici, nel succedersi dei quali egli troverà gran piacere (2), facendogli parimente udire i sette suoni, prima da sè l' un dopo l' altro, poi gradatamente ne' loro salti armonici e ne' loro accordi; per trastullarsi poi dandogli de' solidi regolari, alle cui forme e misure proporzionate egli avvezzi l' occhio e la mano, e le si scolpiscano nell' imaginazione, ecc.. Dopo di ciò, ma molto dopo, si potrebbe avvezzare il bambino a più colori, a più suoni, a più figure armonicamente disposte; ma sempre gradatamente, non passando ad un altro gioco, se non quando comincia a mostrar noia del primo. Chi non vede che ricevendo nel suo spirito tante imagini ben ordinate, queste, oltre altri vantaggi, prestar debbano acconcia materia alle sue future riflessioni, e agevolare le operazioni intellettive ch' egli è chiamato a fare in appresso? Senonchè il suo animo stesso ne risentirebbe uno squisito vantaggio morale, conformandosi insensibilmente all' ordine ed educandosi al bello. L' intelligenza del fanciullo si apre col riso che segna il principio della seconda età. Come l' opera della prima età del bambino era quella di svegliarsi alla vita e di trarre in comunicazione i propri sensi cogli stimoli e corpi stranieri al proprio; così l' opera che il bambino dovette compiere nella seconda età, si fu quella, quanto all' ordine sensibile, di mettere in armonia le sensazioni del tatto con quelle della vista, e quanto all' ordine intelligibile di dare il primo movimento all' intendimento, mediante le percezioni e le idee imaginali. Egli non arriva ad apprender interamente l' uso della mano e a regolare i movimenti di essa in conformità delle cose vedute, se non in otto mesi all' incirca; ed ha già quasi un anno, allorquando si fa a ciampicare i primi passi ed a balbutire i primi suoni articolati, che sono segni d' una età nuova che gli spunta insieme col secondo anno di sua esistenza. Gli comincia dunque la terza età col linguaggio: l' apprendimento de' segni delle cose è veramente un nuovo e gran passo dell' umana intelligenza: la prima parola che intende e che pronuncia il fanciullo, è un' epoca importante di tutta la sua vita: di questa età sono proprie le intellezioni di second' ordine. Prima di entrare a parlare di queste, io voglio anche qui avere avvertito che, come l' istruzione che appartiene al primo ordine non dee cessare collo spirare della seconda età, ma continuarsi in progresso; così simigliantemente l' istruzione del second' ordine, benchè propria della terza età, riesce sempre utile, e talora necessaria in tutte le età successive. Quando l' attenzione del fanciullo si volge a contemplare le intellezioni del primo ordine ch' egli s' è già procacciate mediante lo sviluppo della prima età, i pensieri che nascono da questa contemplazione si chiamano intellezioni di second' ordine. Le intellezioni del second' ordine sono i rapporti che passano tra le intellezioni del primo ordine. Ma si noti bene, questi sono i rapporti primi e immediati, non già i rapporti de' rapporti. Per conoscere adunque quali sieno le intellezioni del second' ordine, tutta la difficoltà consiste nel ben distinguere quali sieno i rapporti immediati tra le prime intellezioni, separando questi rapporti da tutti quelli che si trovano da poi tra i rapporti primitivi. Conviene adunque osservare che non tutte le intellezioni, che il fanciullo si procaccia nella terza età, sono intellezioni di second' ordine; perocchè sebbene sia impossibile ch' egli si procacci delle intellezioni proprie delle età avvenire, tuttavia è possibile ch' egli si formi di quelle che appartengono alla età precedente. Ch' egli non possa formarsi delle intellezioni proprie delle età avvenire è tanto chiaro, quanto è chiaro ch' egli non può pensare a que' pensieri ch' egli non ha formati; e quant' è chiaro perciò, che le intellezioni di second' ordine non possano in nessuna maniera aver luogo nel fanciullo, che non ha quelle di prim' ordine; perocchè quelle non sono che il pensiero di queste. Che poi durante la terza età si possa formare delle intellezioni proprie dell' età precedente, ed anzi ch' egli le si formi effettivamente, s' intende, quando si abbia fermato chiaramente questo principio, che « l' attività dell' uomo non si muove se non eccitata da stimoli, e solo in tanto, e non più, in quanto questi hanno la potenza di eccitarla ». Di qui avviene, che di ogni passo dello sviluppo intellettivo si dee cercare una ragion sufficiente non già nella supposta attività interiore del fanciullo, ma in un eccitante esteriore. Io ho dimostrato nell' Ideologia essere un errore quello di alcuni, che imaginano esistere nel bambino una attività atta a fare tutto ciò, a cui si estendono le potenze del bambino. Questi non osservano la natura, ma la inventano. A provare quanto sia gratuita la loro supposizione basta il fatto seguente. Di tutte le potenze che si mettono in movimento nell' infanzia, la più attiva di tutte è quella dell' imaginazione. Se vi potesse esser dunque potenza, a cui dovessimo attribuire un movimento indipendente dagli stimoli, sarebbe fuor di dubbio l' imaginazione. Ora il fatto di cui parlo prova il contrario; cioè dimostra costantemente, che l' imaginazione infantile tanto suscettiva alle impressioni è inetta a inventare da sè stessa. [...OMISSIS...] Ora gli stimoli, che eccitano l' attività intellettiva nella prima età, abbiam detto, che non sono altro che i primi bisogni fisici i quali danno moto a tutta l' attività dell' uomo per averne aiuto a soddisfarsi e però muovere anco a ciò l' attività intellettiva, che fa allora quel primo passo, che solo può fare. Ora poi que' bisogni son pochi e soddisfatti nient' altro esigono; onde quelli non ispingono l' intendimento umano a tutte le percezioni ed idee imaginali ecc., che aver potrebbe, ma solo alle necessarie. A ragion d' esempio il sentimento fondamentale e l' idea dell' essere in universale è una materia all' attenzione intellettiva che non manca mai; e pure l' attenzione intellettiva non si porta su quella materia, quando anzi la meditazione, che l' uomo fa sopra il sentimento fondamentale e sopra l' essere in universale, è delle ultime, e come si suol dire delle più difficili. Onde ciò? Non certo perchè considerate le riflessioni da sè l' una sia più difficile a farsi dell' altra: chè non v' è ragione a dir ciò. Ma l' uom riflette tardissimo a questi oggetti, perchè tardissimo ne ha lo stimolo: niente per lungo tempo a ciò lo muove, niun bisogno ne ha, niun desiderio, e non farà mai operazione alcuna senza ragione sufficiente. Ho già osservato altrove (2) che quando l' uomo riflette sopra le riflessioni precedenti, l' atto del riflettere può cadere sopra due cose diverse, cioè sopra gli oggetti conosciuti colle precedenti riflessioni, o sopra le intellezioni stesse, cioè le operazioni dello spirito. Ogni intellezione adunque presta una doppia materia alle riflessioni susseguenti, gli oggetti conosciuti e gli atti, con cui si sono conosciuti. Ora sebbene questa materia sia data al nostro spirito nello stesso tempo, tuttavia le riflessioni, che fa lo spirito sopra gli oggetti conosciuti, sembrano molto più facili, e si fanno molto prima delle riflessioni dello spirito sopra gli atti, co' quali si sono conosciuti. Insomma lo spirito riflette piuttosto sulle proprie cognizioni, che non sopra se stesso conoscente, e sopra i suoi atti conoscitivi. La ragione di ciò è quella che dicevamo: a lui si presentano più presto e più efficaci gli stimoli, che traggono a riflettere sugli oggetti da lui conosciuti, che non siano gli stimoli che rivolgano la sua attenzione sopra se stesso e i suoi atti. Ora non può toccare la sua perfezione il metodo pedagogico, finattantochè non si avrà diligentemente determinato quali intellezioni competano alle età diverse del fanciullo per cagione, che in quella età sola esse hanno la materia e lo stimolo necessario a produrle; e quali intellezioni parimenti competano alle età diverse, per ragione che in quella sola età esse hanno lo stimolo necessario a produrle, quantunque la materia l' avessero già anche in età precedente. Sono adunque due gli sviluppi delle intellezioni umane. Alcune non si formano prima, perchè prima manca loro la materia . Alcune non si formano prima, perchè manca allo spirito lo stimolo , ond' egli non volge la sua attenzione alla materia, che pur avrebbe, e però non le forma. Quelle, a cui manca la materia , sono del tutto impossibili a formarsi. Quelle, a cui manca lo stimolo , non sono veramente impossibili, ma tuttavia non si formano per l' assenza dello stimolo. Il metodo pedagogico sarà dunque perfetto solo allora che: 1 Non esigerà mai, che il fanciullo faccia delle intellezioni prima d' avergliene dato la materia . 2 Non esigerà mai che il fanciullo faccia delle intellezioni, alle quali gli manca lo stimolo . Le materie vengono date successivamente, e questa successione è quella, che forma gli ordini diversi delle intellezioni. Gli stimoli pure vengono dati successivamente, e sono quelli che rendono possibili in ciascun ordine quelle intellezioni, di cui il fanciullo ha già la materia. Ma già ritorniamo a considerare le intellezioni del second' ordine, e prima dimandiamo quale sia lo stimolo, che muove ad esse l' attenzione umana. Riman dunque ancora ad acquistarsi dall' uomo dopo la prima età un gran numero delle intellezioni del primo ordine, le quali egli acquista nelle età succedenti. Onde molte intellezioni, che nella seconda età si sollevano nella umana mente, sono ancora di quelle di primo ordine. Lo stimolo e l' aiuto, onde l' attività dell' intendimento umano passa a formare le intellezioni del second' ordine, è il linguaggio o vocale o composto d' altri segni quali si vogliano. Conviene attendere alla natura di questo stimolo. Acciocchè l' intendimento umano passasse dalle intellezioni di primo ordine a quelle di second' ordine, non basta mica ch' egli torni a mettere l' attenzione su quelle prime; per quante volte egli pensasse alle intellezioni avute, egli non formerebbe delle intellezioni nuove, ma solo risveglierebbe la memoria delle anteriori; se nuovamente contemplandole non traesse delle altre cognizioni, in una parola, se non venisse a conoscere i rapporti , che hanno tra esse; i quali rapporti non poteva scorgerli nel primo ordine d' intellezioni. Ora il linguaggio, che il fanciullo ode dalla società, fa appunto questo: 1 Muove l' intendimento umano a riflettere sulle prime intellezioni; 2 E riflettendo a cavarne cognizioni nuove, cioè le cognizioni di rapporti, che legano insieme le cose conosciute nel primo ordine, le quali cognizioni de' rapporti sono appunto le intellezioni di second' ordine. Noi dobbiamo vedere brevemente, onde venga al linguaggio tanta efficacia. Convien premettere che vi hanno delle predisposizioni nella natura, che inclina l' uomo a parlare. Tutto ciò, che passa nel sentimento dell' uomo, dà un cotal guizzo agli organi della voce, che porta l' uomo, e l' animale in genere, a mandar fuori istintivamente de' suoni. Ma le cognizioni danno all' uomo de' sentimenti, e le voci, che questi producono, sono quelle, che formano la materia del linguaggio (1). Il produrre adunque dei suoni di seguito alle cognizioni è una necessità naturale, un bisogno per l' uomo, quantunque questi suoni non siano ancora linguaggio, come diceva, ma solo materia al linguaggio. Un' altra predisposizione al linguaggio posta dalla natura nell' uomo si è la simpatia e l' istinto d' imitazione (2), onde egli è inclinato a ripetere i suoni uditi; inclinazione, che in grado minore trovasi pure in molti animali (3). Ripetere però i suoni uditi non è ancora parlare, ma solo eseguire la parte materiale del linguaggio. Una terza predisposizione al linguaggio nasce dallo sviluppo intellettivo, che ebbe il bambino durante il breve tempo della sua seconda età. Sono stati i bisogni fisici, che trassero all' atto, come abbiam veduto, l' intendimento, invocandolo qual ausiliare al soddisfacimento delle loro tendenze. L' intendimento accorse, fece tutto quello, che egli potè, e non potè far di più che percepire, universalizzare (4), e volere le cose percepite. Ora i bisogni continuano, e provocano di continuo l' aiuto dell' intendimento: egli è sempre in atteggiamento di far quanto può in lor soccorso, e può far più di prima. Anco nell' ordine unicamente animale, per la forza sintetica (1), l' uomo cerca d' aiutarsi con tutto ciò, che gli sta da presso, cose e persone, fonti a lui di sensazioni. L' uomo adunque volgendo l' attenzione sua intellettiva a tutte le cose sensibili, che lo circondano, per giovarsene, egli la mette, quest' attenzione, anco al linguaggio che ode, e che non è da principio per lui se non una serie di sensazioni dell' udito. Ma egli ben presto si accorge, che può trarre da questi suoni, uditi e scambiati, dei grandi vantaggi, e farsi ubbidire dalle persone, cioè prestar soccorso: ond' è, ch' egli pone tutta l' attenzione ad apprendere come può usarne per giungere a questo suo fine. In questa maniera il linguaggio diviene nuovo stimolo, occasione ed aiuto all' attenzione intellettiva del bambino. Ma veggiamo quali siano le intellezioni nuove, a cui si solleva il fanciullo mediante il linguaggio che egli sente, e gli vien comunicato dalla società (2). Queste intellezioni sono di due maniere. Alcune sono intellezioni di primo ordine, che il fanciullo prima d' ora aver non poteva, perchè mancava lo stimolo necessario alla sua attenzione, acciocchè questa si volgesse a formarsele. Altre sono intellezioni di second' ordine, che il fanciullo non potea aver prima d' ora, perchè gli mancava non solo lo stimolo, ma ben anco la materia. Il fanciullo da prima per la forza unitiva lega insieme la sensazione, che a lui produce un nome, che vien pronunciato, colla sensazione dell' oggetto che quel nome significa (1), sicchè al risuonar di quel nome si risveglia in lui subito la percezione avuta di quell' oggetto o l' idea imaginale. Questo fatto dimostra che il linguaggio deve dare al fanciullo un' attitudine maggiore a richiamarsi le memorie e le idee che ebbe delle cose (2). Quando egli non avesse quest' aiuto del linguaggio, le dette memorie ed idee non si potrebbero in lui risuscitare se non per due cagioni: 1 per ricadergli sotto i sensi le cose stesse o loro parti; 2 o per qualche accidentale movimento delle fibre del suo cervello. Ma il linguaggio l' aiuta non poco in ciò: perocchè o al sentire d' una parola o al rivenirgli alla mente, gli tornano insieme le memorie e le idee degli oggetti. Divien dunque il linguaggio una specie di memoria artifiziale, e giova ad accrescergli l' uso della facoltà della reminiscenza . Le cose assenti adunque, che non potrebbero tornare alla mente del fanciullo se non per accidente, vengono richiamate facilmente coll' uso del linguaggio, e sembra che solo per l' uso del linguaggio egli si possa formare il pensiero dell' assenza delle cose. Conciossiachè le memorie delle percezioni gli mostrano le cose nel luogo e nel tempo, nel quale le percepì, e quindi come presenti; le idee imaginali gli mostrano la cosa possibile. Ma il linguaggio l' avvisa anche che la cosa da lui altre volte percepita esiste tuttavia, ma non è presente. Si accorge allora, che può esistere la cosa stessa tanto alla presenza de' suoi sensi quanto fuori della sua presenza, in luogo nel quale non cade sotto i suoi sensi: il che è già un gran passo; perocchè con questa operazione egli s' avvede che la sostanza dell' oggetto non è l' attività da lui sentita, è qualche cosa che sussiste, eziandio che non sia da lui sentita (1). Questo passo poi spinge lo spirito alla cognizione delle cose invisibili. Or poi le cose assenti sono in numero infinitamente maggiore delle presenti; e però considerato il linguaggio anche sotto questo solo rispetto, egli apre la via al fanciullo d' accrescersi molto più del doppio le sue prime cognizioni. Ma un passo maggiore egli fa quando per l' aiuto che gli presta il linguaggio passa alle intellezioni di second' ordine. Per vedere come ciò avvenga e per trovare le diverse maniere di queste intellezioni di second' ordine dobbiamo analizzare l' operazione che fa il fanciullo quando perviene a segnare le intellezioni coi vocaboli. Da prima il vocabolo non è che una sensazione, la quale egli unisce con delle imagini mediante la seconda funzione della forza unitiva (1), ond' avviene che al prodursi di quella sensazione del suono si risveglino nel bambino le imagini a quelle congiunte. Di poi nasce viceversa, che avendo il bambino già congiunto imagine e suono, al rinnovarglisi la sensazione che risponde all' imagine sia inchinato a completare il sentimento pronunciando il suono che n' è l' altra parte per la quarta funzione della forza unitiva (2). Nasce in terzo luogo che il bambino che vien soccorso alle sue grida unisca il sentimento attivo del suo gridare colle sensazioni passive del soccorso, e però usi quelle istintivamente, perchè per lui le grida diventano una cosa sola colle piacevoli sensazioni che subito gli si porgono, unione che si effettua in ogni animale per la stessa funzione quarta della forza unitiva. In queste tre operazioni non gioca ancora che la sola animalità. Passiamo a considerare il vocabolo come stimolo d' operazioni intellettuali. Ma ben presto il vocabolo è una sensazione che s' associa colla percezione intellettiva , in presenza della quale si pronuncia, e serve ad eccitare su di questa una maggiore attenzione, a rendere più viva la percezione. In questo stato il vocabolo è una parte della percezione stessa complessa ossia accompagnata da diverse sensazioni. Qui gioca l' intelligenza, ma ancor quella di primo ordine; il vocabolo non è percepito egli stesso se non come un elemento sensibile che entra nella percezione. Il vocabolo s' attacca, in primo luogo, a memorie di percezioni e serve a richiamare il pensiero degli oggetti assenti altra volta percepiti: gioca ancora l' intelligenza di prim' ordine, ma un grado più di prima. Il vocabolo qui è una sensazione che richiama una percezione, nella quale esso non entra, e diventa anco in breve tempo una percezione che richiama un' altra percezione. In secondo luogo, il vocabolo s' associa a idee imaginali , di maniera che serve a richiamar queste. In questo caso il vocabolo è una sensazione o anco una percezione, al ricever della quale il bambino volge la sua attenzione intellettiva a quell' idea, e con tanta celerità e unità di azione, che gli sembra di vedere l' idea nel vocabolo, tosto che l' ode. I vocaboli, che richiamano la mente o alle percezioni passate o alle idee imaginali, non si può dire che facciano fare all' intendimento di quelle riflessioni, le quali costituiscono un ordine nuovo d' intellezioni, ma solo di quelle colle quali l' intendimento rivede le intellezioni di primo ordine. Vero è, che passando un rapporto tra il vocabolo e la idea imaginale o la memoria della percezione avuta, questo rapporto appartiene alle intellezioni del secondo ordine, che fu da noi definito « intellezioni, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine ». Ma si deve osservare che il vocabolo può richiamarci l' idea imaginale, senza che noi concepiamo intellettivamente il rapporto tra esso e l' idea; bastando, che vi abbia un nesso fisico, ond' avviene, che l' attenzione scossa dal suono si volga all' idea. Vi ha ancora una terza operazione, che il vocabolo fa fare alla mente, senza però che con essa la mente si formi delle intellezioni di secondo ordine. L' operazione, di cui parlo, somiglia nei suoi effetti all' astrazione, ma non è l' astrazione, quantunque l' astrazione le venga tosto appresso. Quando adunque il bambino sente a nominare con un vocabolo delle cose simili, per esempio, a dir « cavallo »ogni qual volta passa un tale animale per via, non astrae incontanente le note comuni del cavallo (quali egli è in caso di notare); ma crede che il cavallo che passa sia il medesimo di quello che altra volta egli vide e sentì nominare cavallo, perchè non osserva ancora le differenze del cavallo, che vede, e del cavallo che ha veduto. Quel vocabolo adunque gli richiama la percezione e l' idea imaginale del cavallo altre volte veduto: lo prende pel medesimo cavallo veduto altre volte (1). Ora chi sottilmente non considera questa operazione del bambino, vedendo, che il bambino, ad ogni cavallo che passa per via, pronuncia il vocabolo cavallo, crederà facilmente, ch' egli abbia già astratta la specie cavallina da' cavalli individui; ma egli s' ingannerebbe, fino a tanto che non si assicuri, che il bambino abbia notata colla sua mente qualche differenza tra cavalli successivamente da lui veduti, per la quale egli abbia conosciuto, che l' uno non è l' altro, e che ciò non ostante l' uno e l' altro sono cavalli, cioè hanno un che d' uguale, onde portano un egual nome (2). Esercitano adunque tre uffizj i vocaboli, senza che tuttavia si producano ancora con essi delle intellezioni di second' ordine. La produzione di queste è il quarto dei loro uffizi e principalmente l' astrazione, che noi dobbiamo diligentemente analizzare. I soli nomi propri, nell' accettazione degli uomini, segnano percezioni o memorie di percezioni avute: tutti gli altri vocaboli segnano degli universali. Tuttavia i pronomi dimostrativi questo, quello ecc., uniti al nome comune lo applicano, o restringono a significare percezioni cioè oggetti reali percepiti. Se si esamina il resto dei vocaboli che compongono una lingua, lasciati da parte i nomi propri, non se ne trova nemmeno uno che sia istituito o che si adoperi a significare idee imaginali . Quando adunque abbiamo detto che uno dei primi usi che fa il bambino del vocabolo si è quello di richiamare nella sua mente le idee imaginali, allora parlammo d' un uso proprio del solo bambino diverso dall' uso che fanno del vocabolo gli altri uomini, e ciò perchè il bambino non conosce ancora il preciso valore e l' uso comune del vocabolo. E che la cosa sia così, si conoscerà osservando, che sarebbe inutile del tutto inventare dei vocaboli a significare idee imaginali. Perocchè le idee imaginali sono infinite; e differiscono l' una dall' altra per distinzioni così minute, che niente importa agli uomini il notarle, e sarebbero anzi di grandissimo ingombro alla speditezza del parlare e del pensare. Primieramente le percezioni d' una stessa cosa variano nell' uomo stesso, secondo che l' uomo percepisce più o meno della cosa: come le percezioni variano le imagini, e le idee imaginali, che a quelle s' appoggiano. Egli è dunque impossibile l' avere per ciascuna di queste idee un vocabolo. In secondo luogo variano tali idee nei diversi uomini. Laonde se un uomo significar volesse coi vocaboli le proprie idee imaginali, non potrebbe egli essere acconciamente inteso dagli altri uomini, che non hanno quelle idee appunto. In terzo luogo basta considerare quello che dicea Platone « che ogni cosa reale e finita si muta, si strugge e si rigenera di continuo ». Poniamo un cavallo: egli è diverso da sè stesso ogni po' di tempo che trascorra: egli porge dunque una nuova idea imaginale: basterebbe che a quel cavallo incanutisse un sol fiocco di pelo, o s' allungassero d' una linea gli orecchi, perchè dovesse avere un nome nuovo il suo tipo, la sua idea piena. E` dunque impossibile che i vocaboli significhino tali idee imaginali o piene: sebbene il bambino, che non n' ha altre per avventura nella mente, le rinfreschi al suono del vocabolo, per l' analogia che esse hanno colle idee astratte, a significare le quali adoperano i vocaboli gli altri uomini. Non essendo le idee piene contrassegnate da vocaboli, rimangono inosservate: ed i filosofi stessi saltano di piedi pari dalle percezioni alle idee astratte senza accorgersi delle idee piene , che stanno tra le une e le altre, come noi facemmo osservare (1). Convien dunque considerare che non v' ha nè pur un sol vocabolo nella lingua (eccetto i nomi propri, i pronomi dimostrativi, e alcuni avverbi di luogo e di tempo) che non esprima idee astratte (2). Quegli adunque che parlano al bambino, provocano del continuo la sua attenzione a collocarsi non pure in un universale , ma in un astratto , e questa è quell' operazione per lui nuovissima, che lo porta alle intellezioni di secondo ordine, e che noi dobbiamo con somma accuratezza ora esaminare. Quando il bambino sente le tante volte chiamare cane il cane di casa, e sente chiamarlo cane oggi e domani, quand' era piccino e mangiava latte, e quando divenne grande e mangiava pane, quando aveva la coda e gli orecchi, e or che ha mozza quella e questi, e sente chiamar cani tutta la canatteria della strada, sieno cani grandi o piccioli, o di un pelame o d' un altro, e fermi o correnti, e placidi o rabbuffati; allora viene un tempo nel quale la sua mente in tanta varietà di oggetti fissa quell' unica cosa, per la quale a tutti il medesimo nome di cane si addice. Egli in una parola astrae a forza di udire la parola stessa applicata sì diversamente ciò che forma l' elemento comune dei cani (la canina natura) e adopra questo elemento comune (che è un' astrazione) a distinguere poi gli oggetti, a' quali il nome di cane dar si convenga. Non è già che egli sappia rendersi conto di questa sua operazione, o ch' egli si sia formato un concetto giusto della nota distintiva de' cani. Egli ha fatto quest' operazione senza rendersene conto, e si è formato un concetto qualunque di ciò che distingue la specie de' cani dall' altre specie d' animali, o di ciò almeno che egli crede che formi questa distinzione. Gli errori che può prendere giudicando qual sia la nota distintiva del cane, non tolgono punto la verità di ciò che noi diciamo, non impediscono che egli abbia effettuato veramente l' operazione mentale dell' astrarre, eziandio che l' elemento da lui astratto non esista, e sia finto dalla sua imaginazione, o non sia quello che costituisce la natura de' cani. Anzi da prima il bambino non astrae mai quel preciso elemento, a cui dall' uso comune è affisso il vocabolo, ma suole sempre astrarre un elemento più comune, o sia più generico (1). Questi errori si correggono dal bambino collo scoprire nuove differenze che lo fanno accorto avere egli dato al vocabolo un significato troppo esteso verso quello che gli danno gli altri uomini; egli allora restringe questo significato, e restringe insieme l' astrazione che gli annette, e ciò determinando meglio il carattere o elemento astratto, da generico rendendolo specifico, o da un genere più lato formando un genere meno esteso. Convien dunque assicurarsi che il fanciullo, nell' uso de' vocaboli, sia giunto a conoscere che in più oggetti v' ha un elemento comune, e che prende nella sua mente questo elemento, qualunque esso sia, come segno a distinguere quali sieno le cose, a cui quelle denominazioni convengono. Allora solamente lo si può dir pervenuto all' operazione delle prime astrazioni, che sono intellezioni di second' ordine. Se sono presenti più cavalli e a ciascuno di essi dà il nome di cavallo , egli è certo che ha fatta già l' astrazione; perocchè non può essere che prenda l' uno per l' altro. Se dà lo stesso nome anco a cose successivamente a lui presenti, ma disparatissime, come al cane o a un uccello, è ugualmente certo che la sua mente già pervenne all' astrarre, non essendo possibile ch' egli prenda l' una per l' altra, che creda quelle diverse cose una cosa medesima: conosce adunque pluralità d' individui e identità in qualche cosa di essi, che lo persuade a dar loro lo stesso nome. Medesimamente, i nomi plurali delle cose mostrano che la sua mente giunse all' operazione di astrarre (1). In questa mirabile operazione adunque, a cui la mente viene mossa dal bisogno d' intendere e viene aiutata dalla contemporaneità del suono cane colla presenza de' cani e cogli atti de' parlanti, il bambino fa quanto segue: 1 Nelle moltissime idee imaginali ch' egli si è formato in veggendo e sentendo tanti e sì diversi cani, soggiacenti a tante modificazioni (e ad ogni cane modificato risponde un' idea imaginale), egli trascura del tutto di badare alle differenze, e concentra la sua attenzione nella somiglianza, in ciò che tutte quelle idee hanno di comune; 2 Divenuto oggetto del suo esclusivo pensiero quell' elemento comune, egli se ne serve di segno a cui conoscere quali sieno gli oggetti ch' egli deve richiamarsi alla mente ogni qualvolta ode il suono cane (1). E qui si noti, ch' egli non congiunge già il suono cane unicamente con quell' elemento, ma l' unisce con tutti gli oggetti in cui egli ravvisa quell' elemento. Quell' elemento adunque è già astratto nella mente del fanciullo, ma non è ancora nominato . La parola cane non indica meramente quell' astratto, ma indica tutti gli oggetti dove quell' astratto dimora: la parola cane non si può intendere senza che la mente si sia formato l' astratto che ella suppone e che la determina; e tuttavia non si può dire che cane sia un nome astratto, ma un nome comune . Da questo si scorge che gli astratti hanno due forme nella mente: l' una innominata, fondamento dei nomi comuni; l' altra nominata mediante i nomi astratti. Chi dice bianco sostantivamente dice un nome comune , che suppone nella mente l' astratto, ma non lo nomina, perocchè il sostantivo bianco non dice altro se non « un oggetto bianco »: la bianchezza è unita all' oggetto, ma la mente ha l' idea astratta di bianchezza, e se ne serve per intendere la parola bianco . Chi dice bianchezza , dice un nome astratto, pronuncia non più l' oggetto in cui si trova la bianchezza, ma questa qualità sola precisa dall' oggetto, considerata da sè. Quindi al fanciullo riesce prima intelligibile il vocabolo bianco , che quel di bianchezza, benchè questo secondo lo intenda ben presto dopo aver inteso il primo. Per intendere tuttavia il secondo, cioè il vocabolo bianchezza, la mente del fanciullo deve fare un' operazione di più. Nel vocabolo bianco , l' astratto è nella mente, ma vi è unito all' oggetto (sebbene sempre astratto da questo): nel vocabolo bianchezza, l' astratto è affatto diviso dall' oggetto, è divenuto un oggetto mentale egli stesso direttamente espresso nella parola: quando si dice bianco, si dice un oggetto che, oltre la bianchezza , ha delle altre qualità alle quali non si pone una speciale attenzione, ma si sa però che vi sono in generale e che vi devono essere, acciocchè l' oggetto sussista; quando si dice bianchezza , questa qualità semplice esclude qualsiasi altro pensiero. La bianchezza esprime dunque un modo d' astrazione più perfetto del sostantivo bianco . L' astratto può esser preso da ciò che è accidentale nella cosa: tale è quello di bianchezza; e può esser preso da ciò che è sostanziale nella cosa: tale è quello di corporeità . Talora il nome astratto manca nella lingua, e non vi ha che il nome comune; a ragion d' esempio, nella lingua italiana vi ha il nome cane , e manca quello di canità . La mancanza di questi nomi astratti dimostra che sono posteriori ai nomi comuni. Si può provare anche con altri argomenti che i nomi astratti sono stati inventati dopo i comuni: un argomento è quello che somministra l' etimologia; infatti ogni astratto sembra derivato dal comune; bianchezza, per esempio, viene da bianco . Gli antichissimi scrittori ci offrono un' altra prova di ciò che affermiamo. Le lingue che usano sono un acconcio specchio dello sviluppo delle menti nei loro tempi: e si può dirittamente indurre dallo stato di quelle il grado di sviluppo di queste. Negli scrittori antichi orientali, come pure nei greci filosofi, e specialmente in Platone, si suole usare il nome comune sostantivato per indicare l' astratto: si dice il simile , il dissimile, il giusto , il bello, il santo, ecc., per dire la simiglianza , la dissomiglianza, la giustizia, la bellezza, la santità, ecc. (1). Vedesi da ciò chiaramente che quelle parole furono le prime usate, e che quando la mente che si sviluppava, ebbe bisogno di esprimere l' astratto diviso da ogni concreto, invece d' inventare vocaboli nuovi, trasportò quegli che già aveva a significare queste astrazioni: il che è legge costante nelle nazioni, quando queste vanno innanzi col loro intellettivo sviluppo, di maniera che la lingua primitiva loro più non basta; prima di risolversi a coniare nuovi vocaboli, si appigliano al partito di alterare e distendere le significazioni dei vocaboli antichi (2). Or quando il fanciullo si è formato un astratto, egli ha il fondamento di una classe, in cui ridurre gli oggetti. Quando egli è giunto a formarsi, per es., l' idea di ciò che è comune tra gli oggetti che sono denominati cani, allora egli non vede un solo di questi oggetti che non lo collochi subito nella classe dei cani. Senza quell' astrazione egli non poteva fare questa classificazione. La classificazione adunque delle cose è un' operazione della mente che vien dopo l' astrazione, la quale ne è il fondamento; e che però appartiene alle intellezioni di un ordine più elevato del secondo, al quale appartengono le astrazioni , di cui parliamo. Ma chi bene osserva, tuttavia conoscerà che vi hanno certe prime classificazioni, le quali si fanno contemporaneamente e con un medesimo atto dello spirito. Elle non sono distinte, ma implicite. Quando lo spirito s' accorge, mediante la ripetizione che ode farsi del nome cane, che in molti cani vi ha un elemento comune; allora con questo accorgersi fa ad un tempo due cose: 1 osserva in tutti quegli oggetti l' elemento comune, e 2 lo astrae , togliendolo a segno della classe degli oggetti chiamati cani . Ora il riconoscere in tutti quegli oggetti uno stesso elemento è già un cotale classificarli, il che finisce di fare contrassegnandoli con un nome. Laonde quantunque sia vero che un uomo, che ha già formati gli astratti, quando egli vede un oggetto nuovo e lo classifica, fa un' operazione posteriore, che appartiene ad un ordine di intellezioni più elevato di quello delle astrazioni medesime, che danno la base alla sua classificazione; tuttavia non può negarsi che nell' opera dell' astrarre v' abbia qualche cosa che s' assomiglia al classificare. Al second' ordine d' intellezioni appartiene ancora la cognizione dell' esistenza di Dio. Iddio però, con quest' ordine d' intellezioni, non si conosce che come compimento necessario dell' essere e come causa del tutto per una funzione dello spirito che noi nominammo integrazione . Egli è incredibile con quanta facilità e prontezza il nostro spirito s' accorga che tutto ciò che cade sotto i sensi è contingente, e che questo non può stare senza qualche cosa di necessario che gli dia l' origine. Ben pochi sanno rendersi conto esplicito di questa elevazione subitanea della mente (1); ma ella non è men vera: ogni popolo e in ogni sua età riconobbe la necessaria esistenza di un Dio, cioè di un ente necessario, prima causa del tutto, come cosa del tutto patente: l' uomo più idiota vede un tal vero come un vero evidente, non ne cerca la ragione, la sua persuasione è immediata; e chi gli domandasse conto di una tale sua credenza sarebbe a lui occasione di maraviglia, e fors' anche di scherno o di riso, come scempio o beffardo. Quindi è che anco i fanciulli intendono facilissimamente il vocabolo Dio come significante un ente massimo cagione del tutto, ed assentono assai volentieri a chi ne afferma loro l' esistenza. Il qual assenso dei bambini non reputisi ch' egli abbia natura d' una mera credenza gratuita alla parola di chi loro parla. No; in questo fatto essi non credono ciecamente, ma veggono. Se ciò non fosse, per lo meno si maraviglierebbero grandemente del concetto di Dio che gli si vuole imprimere, e questo concetto non riescirebbe loro tanto naturale e tanto facile a riceversi, che, appena concepitolo, già credono che Dio esista. Tuttavia non potrebbero i fanciulli accorgersi da sè della divina esistenza senza il linguaggio. Essendo Iddio invisibile, senza una parola che fermasse la loro attenzione, non potrebbero fissarne il concetto. Ma che cosa è la cognizione di Dio ne' bambini? - Ella è una concezione ed una credenza . - Dico una credenza per distinguerla dalla percezione . Quando l' uomo giudica che una cosa esiste, perchè ne sente in sè l' azione, egli n' ha la percezione . Quando l' uomo giudica che una cosa esista senza sentirne sopra di sè l' azione, benchè ne abbia certo argomento razionale, egli n' ha la credenza . Alle facoltà passive rispondono altrettante facoltà attive (1): allo sviluppo di quelle un grado proporzionale di sviluppo di queste. Quando adunque si abbia ben definita la natura e l' estensione dello sviluppo, che in una data età del fanciullo prese il senso e l' intelletto, si può indurre qual sia la natura ed estensione dell' istinto e della volontà. Se il conoscere il grado di estensione di queste prime facoltà passive è necessario per attemprarvi e commisurarvi l' istruzione da dare al fanciullo; il conoscere il grado di estensione presa da queste facoltà attive è ancora più importante, perocchè è cognizione necessaria per attemprarvi e commisurarvi l' educazione pratica da dare al fanciullo; la quale non può far uso che di quella parte di attività che in esso è già desta e messa in movimento (1). Ora nella terza età il fanciullo, mediante il linguaggio e i bisogni e gl' istinti nuovamente appariti in conseguenza dello sviluppo delle due età precedenti: 1 Accrebbe immensamente e perfezionò le sue percezioni, memorie di percezioni e idee imaginali. - A ciò risponde una estensione corrispondente dell' istinto e di volizioni affettive e apprezzative . 2 In ogni età l' uomo concepisce anche le cose assenti. - Questo dà luogo alla passione del desiderio . Egli è vero che anco verso le cose presenti può esservi il desiderio di goderle, se sono buone; ma io credo probabile che il desiderio di godere le cose presenti venga nell' uomo ben tardi, supplendovi da principio l' appetito e l' istinto naturale , che inclina l' animale ad esse. La memoria delle percezioni avute non è propriamente una concezione di oggetti assenti, e può cagionar solo nel primo tempo un cotal sentimento spiacevole, che la percezione sia passata, ma desiderio no: perchè per esso solo non si ha il pensiero che la percezione possa rinnovarsi. - Ove all' incontro in noi si susciti il pensiero di un oggetto buono e assente, tosto dietro a questo pensiero tiene la spontaneità della volontà col desiderio di esso. - La terza età dunque è altresì quella, nella quale ha la sua nascita il desiderio. 3 Ma un' attività maggiore si suscita nella volontà in virtù delle prime astrazioni. Come l' intendimento applica esclusivamente la sua attenzione ad un elemento comune a più oggetti, così se questo elemento è buono, la volontà lo vuole: se è cattivo, lo abborrisce. - Ora ella è immensa la differenza tra quelle volizioni che hanno per oggetto un individuo sussistente tutto quant' è, o anco una specie7piena d' individui (2), e quelle volizioni che hanno per oggetto un elemento comune a più individui, un astratto. Nel primo caso, la volontà ama un oggetto buono ( bonum ), nel secondo caso, la volontà ama la ragione degli oggetti buoni ( rationem boni ), la loro bontà. Le volizioni che hanno per termine solamente un oggetto buono determinato, si acquetano in esso, e però l' efficienza loro finisce tosto. All' incontro, le volizioni che hanno per termine un elemento comune, nel quale sta la ragione, per la quale quel genere di oggetti son buoni, non si acqueta nel loro oggetto che è un astratto insufficiente ad appagare, ma si serve di questo astratto, primo termine della volizione, come d' un segno al quale conoscere gli oggetti buoni, e discernerli dai cattivi. Quivi dunque l' attività della volontà trova uno spazio immenso dove spiegarsi, perocchè quell' elemento buono che vuole, si realizza in infiniti oggetti, dei quali l' uomo, qui pervenuto, va in cerca senza posa. Indi è che altrove mostrai, la facoltà di astrarre essere quella che somministra all' uomo le regole, colle quali egli giunge a discernere e rinvenire i beni (1). 4 Fra gli astratti primi v' ha la quantità sia continua , sia intensiva delle cose sensibili. Onde avviene che per mezzo di questo astratto il fanciullo conosce ciò che è più grande da ciò che è più piccolo (2), e ciò che produce, a ragion d' esempio, più piacere da ciò che ne produce di meno. Questa conoscenza del quanto delle cose dà luogo in lui ad una nuova classe di volizioni, cioè alle volizioni appreziative (3) ed alle elezioni; che già in quest' età cominciano (4). Un altro de' primi astratti , che separa il fanciullo dalle cose, sommamente importante al suo sviluppo, si è quello dell' animalità . Se il fanciullo potesse riflettere sopra il proprio sentire, e pensare, egli avrebbe dell' anima propria un' immediata percezione; la quale sarebbe un' intellezione di prim' ordine, perciò più elementare di quella che si ha dell' anima considerata come causa di movimento degli esseri animati. - Ma sebben l' anima7sentimento sia oggetto d' una intellezione di prim' ordine, tuttavia egli è ancor troppo difficile a farsi una tale intellezione pel fanciullo; perocchè alla sua attenzione manca lo stimolo, che la diriga sul proprio sentimento e su questo la fermi. La sua attenzione è come un figliuolo che scappa sempre di casa; gli oggetti de' suoi bisogni, e le esterne sensazioni tra le quali il suono dei vocaboli, lo trae dall' interno dell' uomo al di fuori. Nè giungerebbe tuttavia ad argomentare da' movimenti degli animali l' esistenza d' un principio di moto nell' animale, se la lingua non gl' insegnasse a fermarsi dal tutto ad una parte della cosa, dal complesso al suo elemento; nell' animale adunque pensa, mediante la lingua, il carattere della mobilità, e quindi l' astratto dell' animalità, ossia l' animale . Questo fa sì che egli distingua non solo un grande ed un piccolo nelle cose, ma ben anco una differenza di dignità ; egli può oggimai stimare col suo giudizio pratico che gli oggetti animali sono assai più degli oggetti non animali e preferir quegli a questi per una maggiore entità. 6 Finalmente la cognizione dell' esistenza di Dio, come complemento degli enti, eleva l' attività del suo cuore all' oggetto il più sublime e lo mette già in comunicazione col cielo. Ogni idea nuova nel fanciullo è una gioia: per ogni adito, che gli s' apra davanti, la sua intelligenza irruisce precipitosa. Come il primo atto di conoscimento scioglie le labbra del bambino al riso, così si manifesta in lui con molti atti d' esultanza il piacere d' intendere il linguaggio materno, e appena può pronunciare i vocaboli, egli è difficile il farlo più tacere, perchè sarebbe contrariar la natura privandolo dell' uso della loquela, che equivale per lui al nuovo uso da lui acquistato della intelligenza, che è il meglio di sè. Di questa innata e nobilissima inclinazione deve l' istitutore giovarsi: non deve rintuzzarla, chè sarebbe ingiuria fatta al lume divino che nell' anima umana risplende; egli deve saviamente occuparla e dirigerla. Pur questa è arte difficilissima. Gli errori, che si sogliono commettere in questa parte, si riducono a quattro: 1 Talora l' attività intellettiva del fanciullo riesce noiosa e importuna, e però si vuol comprimerla coll' autorità, negandole un pascolo sufficiente. 2 Talora si aggrava la memoria materiale del bambino obbligando l' intelligenza al digiuno: cosa molestissima e gravissima a quel piccolo essere intelligente, che a null' altro aspira che all' intendere: epperò cosa crudele ed inumana. 3 Talora si dà all' intelligenza un pascolo, che non è ad essa adattato, cioè le si propone da fare delle intellezioni d' un ordine superiore a quello, al quale è pervenuta; nel qual caso le è assolutamente impossibile intender nulla, eccetto che parole. Talora anche le intellezioni, che da essa si richieggono, sarebbero alla sua levatura, ma non può farle, perchè la sua attenzione intellettiva non ha lo stimolo, che ad esse la richiami. 4 Finalmente quand' anco si proponessero alla giovane intelligenza disposte assai bene per gradi tutte le intellezioni che da essa si esigono, nè si lasciassero mancare ad essa gli stimoli, si pecca tuttavia, perchè si trapassa da una all' altra cosa senza essersi prima certificati, se quella prima cosa sia stata capita, se la intelligenza del fanciullo segua veramente i passi dell' istruzione; in una parola senza lasciare al fanciullo il tempo necessario a penetrare la cosa, a imprimersela, a riaversi da quel cotale sbigottimento, che mette in lui ogni idea nuova. Queste osservazioni si debbono rammentare in principio di tutti quei capitoli, ne' quali tratteremo dell' istruzione da darsi ai fanciulli nelle loro singole età, ossia ne' successivi periodi della loro età, segnati dai singoli ordini d' intellezioni. Ma quanto non è egli facile dimenticarle? Dobbiamo ora indicare quale debba essere l' istruzione da darsi al fanciullo rispondente al secondo ordine d' intellezioni. Ma prima osserviamo, che in quest' età la mente del fanciullo non ricava ancora tutto il frutto, che le verrà appresso, dalla regolarità colla quale abbiamo accennato doverglisi presentare le cose da percepire ed intendere. Tuttavia tal ordine produce un effetto buono, quantunque difficile ad osservarsi, sulla mente e sull' animo stesso del fanciullo. Nell' uomo vi ha un' unità soggettiva , cioè vi ha un ultimo sentimento unico. Ora, ogni sensazione, percezione od idea porta un suo cotale effetto buono o cattivo in quell' ultimo sentimento. Indi avviene, che ogni qualvolta le sensazioni, le percezioni e le idee sono bene armoniate, ne risulta un miglioramento al fondo dell' uomo, sul qual fondo operano tutte insieme e vi producono un effetto unico, che tiene dell' ordine della sua causa. Sebbene adunque il fanciullo non conosca ancora l' ordine, che è nelle sue sensazioni e intellezioni, tuttavia egli per una legge della sua costituzione ne ricava vantaggio. Or le materie d' istruzione consentanee a questa terza età del fanciullo si deducono dallo stato della sua intelligenza, che noi abbiamo investigato e descritto. Risulta che la prima materia d' istruzione in quest' età deve essere la lingua. Sarà adunque un grandissimo guadagno, se in questo periodo s' insegnerà al fanciullo a nominare il più gran numero possibile d' oggetti, e a parlar bene dentro al circolo delle sue cognizioni. Questa parte era quasi trascurata interamente, e solo adesso sembra doversi sperare assai dalla bellissima invenzione delle scuole infantili. Anco rallegrami il vedere, che si cominciano a scrivere dei libri con questo intendimento d' insegnare ai fanciulli a nominare con proprietà le cose; dei quali libri bastimi avere accennato il citato « Manuale » di Vitale Rosi (1). E nondimeno dissi che conviene insegnare la lingua al fanciullo entro il circolo delle sue cognizioni, cioè in misura conforme alla portata del suo ingegno. La lingua, che si usa coi fanciulli della nostra età, deve esprimere intellezioni di primo e second' ordine, ma non più. Di sua natura la lingua esprime le intellezioni di tutti gli ordini, epperciò è istrumento attissimo allo sviluppamento dell' intelletto in tutte le età della vita umana; ma v' ha una parte di lingua che si conviene e proporziona alla terza età, e solo di questa lingua si deve far uso col nostro fanciullo; perocchè quel di più che si usa sarebbe a lui inintelligibile, graverebbe la sua memoria lasciando vuoto e sterile il suo ingegno; il che sarebbe il secondo ed il terzo degli errori che noi abbiamo poco innanzi accennati. Impari adunque il fanciullo a nominare le percezioni sue, tutti gli astratti che si possono cavare immediatamente dagli oggetti sensibili, le cose assenti, le invisibili e i concetti venutigli dalla sua facoltà d' integrare. Egli è certo che fino da quest' età il fanciullo può imparare due o tre lingue udendole, e senza soverchio aggravio. Se ciò si fa per modo che la favella materna sia la principale, e che ciò che impara delle altre sia una cotal sopraggiunta, un tale esercizio delle due lingue sarà un guadagno di tempo, un passo innanzi fatto dal fanciullo (1). La lingua si deve insegnare al fanciullo con un doppio esercizio naturale e artifiziale . Quanto all' esercizio naturale, in esso si adopera tutte le parti del discorso, e non ve n' ha pur una che sia per sè superiore al secondo grado dell' umana intelligenza, eccetto alcune congiunzioni, perocchè tutte possono esprimere sentimenti, percezioni e astratti di prima astrazione, e i movimenti dell' animo. I sentimenti vengono espressi colle interiezioni, le quali propriamente non sono segni. Le percezioni coi nomi propri, cogli avverbi di luogo e di tempo, coi pronomi personali io, tu , ecc. e dimostrativi questo, quello , ecc.. Gli astratti con tutti gli altri nomi, cogl' infiniti dei verbi, coi participii e certe congiunzioni. I movimenti dell' animo sono indicati dalle inflessioni dei verbi, dalle preposizioni e da certe congiunzioni. L' esercizio naturale col quale s' insegna al fanciullo la lingua, dovrebbe essere ordinato secondo le seguenti regole: 1 Tutto ciò che si parla al fanciullo, come si disse, non dovrebbe superare la portata del suo sviluppo. 2 Non dovrebbe udire il fanciullo, se non una lingua perfetta, parole proprie ed acconce, ottima pronuncia e soprattutto con esatta ortografia. 3 Chi parla al fanciullo dovrebbe parlargli con forme e atteggiamenti di dignità e virtù. Se così si facesse, il fanciullo guadagnerebbe un tempo immenso: nè solo si accelererebbe il suo sviluppo intellettuale, ma ben anco si porrebbero i fondamenti della sua buona riuscita morale. In Italia, noi dobbiamo perdere un tempo prezioso per disimparare nelle scuole quella lingua, che abbiamo appresa nelle nostre case; dopo ciò ancora non appariamo bene l' italiana favella sì perchè l' imbratto del vernacolo che ci ha lordati fin da bambini, e divenuto a noi naturale, difficilmente si può più tergere dal nostro spirito intieramente, e sì perchè i nostri stessi maestri, ai quali la lingua buona è arte e la cattiva natura, non possono darci quel che non hanno. La sola ortografia ci fa logorare gran tempo ad apprenderla; e pure noi la potremmo aver tutta viva negli orecchi, quando fossimo stati avvezzi fino da bambinelli a udir battere colla lingua da chi ci parlava i raddoppiamenti delle lettere dove van posti. Colla lingua è che noi formiamo le idee, e perfezione di lingua è perfezione di pensiero. Tutto poi quello che è ordinato, decente, quello che giova a pensare con facilità e con rettezza produce nelle anime nostre delle disposizioni preziosissime alle morale virtù. Finalmente qual vantaggio a questa bella parte del mondo, se l' Italia divenisse tutta d' una sola favella! Che divisioni fra suoi popoli con ciò solo non si torrebbero! Che maggior fratellanza non crescerebbe tra noi! Che aumento alla carità della patria comune! Laonde mi fa maraviglia come nelle grandi famiglie, in cui si vuol pure dare a' figliuoli la più fina educazione, non si pensi a far sì che succhino, per così dire, col latte una favella pura e nobile, e che le infantili orecchie non odano se non cose buone dette egregiamente. Tale dovrebbe essere il privilegio dei più ricchi; non quello di sdegnare che i loro figliuoli usino alle pubbliche scuole, ma quello che vengano a queste scuole più ben disposti, più sviluppati degli altri, e già in possesso di quella lingua che gli altri debbono faticare ad apprendere. Quanto giustamente in tal modo la sapienza de' genitori, unita a' loro mezzi, otterrebbe il primato nelle scuole a' loro figliuoli! E a questi sopravanzerebbe poi sempre gran tempo, nel quale apprendere una moltitudine di cognizioni assai utili che conserverebbe loro un posto di giusta superiorità agli altri lor simili. E per dire una parola anco dell' esercizio artificiale della lingua da farsi fare al fanciullo, oltre il doversi egli avvertire d' ogni cosa che non dica rettamente, dovrebbe consistere in questa sua età unicamente a fargli apprendere quanto più estesamente sia possibile la materia della lingua. Quanto alla forma della lingua egli non è ancora da ciò; perocchè la forma della lingua, cioè la grammatica, esige delle intellezioni d' un ordine molto superiore al secondo. Ma quanto alla materia, conviene insegnargli a nominar bene tutte le cose, e prima quelle che s' ha d' attorno, poscia le più lontane; onde acquisterà grande ricchezza di favella e perciò stesso grande facilità e proprietà di parlare, che è quanto dire di pensare, e a suo tempo anche di scrivere. A quest' uso può servire grandemente il « Manuale di scuola preparatoria » ed altri libri fatti sullo stesso pensiero. Quest' è dunque il tempo nel quale si può esercitare il giovane a distinguere coi loro nomi tutte le cose sensibili. Il nome , questa è la parte fondamentale della lingua: gli esercizi non si possono ancora stendere ai verbi se non agl' infiniti ed ai participŒ che sono veri nomi che segnano i primi l' azione e i secondi l' agente (1). E qui cade in acconcio tornare a dire alcuna cosa sull' ordine delle astrazioni, per le quali si dee condurre la mente del fanciullo. Vi sono molte astrazioni innominate. A queste non si deve pensar di condurre la mente del fanciullo, perocchè non si può aiutarla col linguaggio, e non avendo in questo dei nomi, è segno manifesto che i popoli non hanno stimato necessario che fossero nominate; come pure è segno che son di quelle che si sottraggono alla osservazione. Ma tra gli astratti nominati dal linguaggio ve ne sono di varia maniera: alcuni sono astratti d' astratti: questi non sono acconci alla mente del nostro fanciullo, che non è arrivata più su dei primi astratti: il nostro fanciullo non potrebbe mai intendere il significato della parola legge, giustizia ecc.. Gli astratti adunque, a cui il nostro fanciullo arriva, sono quelli somministrati dalle cose sensibili. Ma le cose sensibili stesse sono nominate con varŒ nomi comuni indicanti diverso grado di astrazione. I nomi più comuni nominano le cose per un elemento comune a maggior numero di oggetti, e i nomi meno comuni nominano le cose stesse per un elemento comune a minor numero di oggetti: quelli dunque contengono un' astrazione maggiore di questi. Per esempio, volendo nominare un cavallo io posso nominarlo in tre modi, dicendo « questa cosa; questo animale; questo cavallo ». Io gli applico tre nomi che egualmente ben si affanno a quell' oggetto; ma quando gli applico il nome di cosa , io l' appello con un nome comune a un maggior numero di oggetti, che non sia quando gli applico il nome di animale ; e applicandogli quest' ultimo io l' appello con un nome più comune di quello di cavallo . E ciò non ostante il nome cavallo è ancor comune e non proprio: indica un' astrazione, che ha per fondamento la specie astratta , sotto la quale sarebbe un altro astratto, che non ha nome (la specie piena imperfetta), o più altri (1), prima di venire al nome proprio, per esempio, a quello di Rondello, di Vegliantino o di Brigliadoro. Domandasi adunque, se negli esercizŒ artificiali da farsi fare al fanciullo sia più consentaneo alla natura il fargli nominare le cose prima per li nomi più comuni e poi per li meno comuni o viceversa? Noi abbiamo già dichiarato più sopra il nostro sentimento che qui vogliamo rinforzare e chiarire con alcune osservazioni. Ma prima si noti bene, che qui non parlasi degli esercizŒ naturali del parlare, che in questi non devesi attendere ad altro ordine, che a quello del bisogno, che presentano naturalmente le circostanze. In secondo luogo si rifletta, che il nome quant' è più comune, e perciò l' idea più generale, tanto più facilmente si apprende dal fanciullo. Per convincersene basta osservare, come il fanciullo e il volgo, cioè la parte degli uomini meno sviluppata, soglia chiamare gli oggetti co' vocaboli i più comuni, dicendo questa cosa , quella cosa ecc. per dire: questo balocco, quel carruccio, quel giubbone ecc.. Nelle lingue antiche l' uso dei nomi generici, invece che degli specifici, è più frequente che nelle nostre, appunto perchè il mondo antico era meno sviluppato del moderno. Osservisi solamente nella lingua latina, quant' uso solevasi fare della parola res : ella s' applicava a tutto (2). Un' altra osservazione ci convincerà del medesimo. Perchè è un pregio così difficile e così lodato la proprietà dello stile? Perchè è difficile il nominare le cose col vocabolo significante la specie più stretta, e si suole, il più, nominarle largamente col genere. Si dirà forse, che la maggior facilità, che hanno i bambini d' apprendere e di usare i nomi più comuni nasce, perchè questi s' applicano a un maggior numero di oggetti, e però più frequentemente sono da loro uditi. - Ma riman sempre a domandare, perchè si faccia dagli adulti stessi un uso sì frequente de' nomi generici, quando fosse loro più facile l' usare gli specifici, che certamente sono più propri e più acconci al ben favellare? Egli è adunque certo, che più le idee sono generali, più la mente umana le trova a sè conformi e famigliari, purchè però si tratti degli astratti immediati, cioè di quelli, che segnano un elemento comune delle cose sensibili, che vengono da noi percepite. Non sarebbe il medesimo, quando si parlasse di quegli astratti che si formano con una operazione della mente eseguita sopra precedenti astrazioni, e che noi abbiamo detto astratti di astratti (1). Il discendere adunque nel nominare le cose dal nome più generale al meno è un esercizio utilissimo al fanciullo: percorsa molte volte questa scala in varŒ generi di cose, le idee si trovano nella sua mente ordinate; egli ha ricevuta una materia acconcissima alle susseguenti sue riflessioni: la sua mente riesce giusta e logica. Ma conviene osservare le avvertenze sopraindicate; e oltre quelle alcune altre: eccone un cenno. Converrebbe che l' educatore avesse una tavola delle classi più o meno estese, nelle quali si possono dividere le cose tutte concepite: questa dovrebbe essere il fondamento della sua logica: ne porremo qui uno schema: [...OMISSIS...] All' esercizio di cui parliamo non appartengono i nomi indicanti le idee elementari dell' essere (benchè de' più facili) nè quegli indicanti le categorie, nè quelli esprimenti de' generi mentali o nominali: ma solo i vocaboli significanti l' universale, i generi reali, le specie astratte , e le semi7astratte , come pure i sussistenti (nomi proprii). Ora, poichè le specie semi7astratte possono essere innumerabili, rimane a vedere qual norma si deve stabilire per scegliere le più acconce al fanciullo. Qui non vi ha dubbio, che la norma consiste « nello scegliere quelle, che più interessano il fanciullo », e più l' interessano quelle, che hanno più relazione co' suoi bisogni e istinti, e che prima e più vivamente colpiscono i suoi sensi esterni. Conviene dunque, che l' educatore sottilmente consideri lo sviluppo di questi bisogni e istinti del fanciullo e la priorità e la vivacità delle sensazioni, affin di vedere quali sieno quelle qualità accidentali, che più interessino nelle cose il fanciullo; e che secondo una tale gradazione meni per mano la mente del giovanetto a conoscere in ciascuna cosa le specie semi7astratte. E di più conviene osservare, che queste semi7astrazioni devono essere operate non sulle cose, ma sui concetti delle cose, che stanno nella mente del fanciullo: altramente nulla egli ne intenderà. Ora i concetti, che delle cose si forma il fanciullo sono in se stessi giusti (sbagliando solo nell' applicar loro le parole) ma imperfetti; e però si vanno successivamente rimutando e perfezionando. Per esempio: il fanciullo da principio si forma il concetto del vegetabile dal vederlo piantato in terra, dal color verde, dalla forma più comune delle piante, dalla freschezza e umidità delle foglie, ecc.: tutto ciò non è il concetto d' un filosofo, nè si deve pretendere. Devesi dunque prendere quel concetto infantile o per dir meglio proprio di ciascuna età, e rattaccare ad esso la classificazione de' vegetabili. L' astratto specifico del vegetabile per la mente del nostro infante sarà dunque « ciò che è piantato in terra e che cresce ». L' astratto specifico all' incontro del vegetabile stesso per la mente del filosofo sarà « un corpo organizzato privo di senso e di contrattilità, che si sviluppa da un germe ammettendo e assimilando a se, date le esterne condizioni opportune, delle molecole straniere ». Or la classificazione de' vegetali, per la quale si deve far correre la mente del fanciullo, non deve mica essere concepita su questa definizione, che il fanciullo non può conoscere, ma deve essere foggiata sul concetto proprio della mente del fanciullo. Laonde se si classificassero le piante da' semi e germi, non sarebbe questa maniera opportuna; non vuolsi classificar ciò che germina , ma semplicemente ciò, che è piantato in terra e cresce . Di più le qualità astratte, che fondano le classi diverse, devono essere tali, che non pur non trapassino l' ordine delle intellezioni, al quale trovasi a gioco la mente del fanciullo, ma s' abbiano anche in sè lo stimolo , che possa scuotere e tirare la sua attenzione; che è la seconda condizione richiesta, come dicevamo, acciocchè il fanciullo possa intendere quello che noi gli vogliamo insegnare. Il quale stimolo nel caso nostro sono i caratteri sensibili, e tra questi i più grossi e appariscenti: caratteri stampati nel suo senso, nella sua imaginazione, nella sua memoria. I quali caratteri consistenti in qualità sensibili avvicinano il concetto astratto al concetto pieno (universale, non astratto); e però formano quelli, che noi chiamiamo semi7astratti, che sono acconcissimi alle menti de' fanciulli. Tutta la classificazione delle rose che noi abbiamo già recata in esempio è fondata in questi semi7astratti, cioè non è che una classificazione, che ha per idea massima un' idea specifica7semi7astratta (l' idea specifica della rosa). Che anzi se ben si considera tutte le classificazioni, che si possono fare delle cose insensitive (il che è quanto dire tutte le fisiche discipline) hanno per idea massima un' idea specifica astratta, cioè l' idea della sostanza corporea. Tutta l' infinita scala di suddivisioni della sostanza corporea non è che una scala d' idee specifiche semi7astratte, che discende fino al primo gradino, che è l' idea piena (idea dell' individuo universale, ma non astratto), col quale finisce il mondo ideale. Fuori al tutto di esso rimane la sussistenza delle cose, che costituisce il mondo reale. Di che si può conchiudere, che l' ordine, col quale si deve procedere col fanciullo nominando le cose co' nomi più e meno comuni, risguarda, la maggior parte, quella classificazione che dall' idea specifica astratta discende per le semi7astratte fino al sussistente. Una delle cose difficili, che al senno dell' educatore spetta di determinare si è « che cosa in ciascuna età il fanciullo faccia da se stesso e che cosa deva fare l' educatore intorno a lui ». Egli è certo, che la natura nel bambino ha un' azione benefica, la quale deve rispettare l' educatore e ben guardarsi dall' interrompere o dal turbarla. Ora, ella è cosa veramente ardua il conoscere quest' azione della natura e la sapienza dei suoi fini, e pochi sono quelli, che sentano intimamente con quanta religione quest' azione voglia essere rispettata. Si vuole sempre far troppo; la nostra presunzione ci conduce a formarci delle opinioni con precipitazione; e sicuri di noi stessi crediamo di potere con tutta facilità far meglio, che la natura stessa non faccia, insegnare e emendare a bacchetta questa gran madre. La natura che opera nel fanciullo produce incessantemente colle spontanee sue operazioni calma, seremntà, ordine, sviluppo ordinato di tutte le facoltà . A ottenere questi effetti, di cui essa natura ha il segreto, assai sovente è corto l' intendimento dell' educatore; e colla sua azione positiva ottiene il contrario, cioè agitazione, turbazione, disordine, ravviluppo, confusione negli atti delle facoltà, le quali l' una sull' altra s' impediscono e offendono. Questa considerazione importante somministra delle regole generali d' educazione infantile: eccone alcune che, quantunque già note, pur non sono mai abbastanza ripetute. 1 Non toccare il bambino, quando trovasi tranquillo e contento nel suo stato. 2 Per evitare, che sia sturbato nella sua serenità, farlo conversare più colle cose, che colle persone; giacchè quelle prime non sono indiscrete e non intervengono a mutare e alterare l' azione naturale del bambino, come sogliono far queste. 3 Le persone accorrano ad aiutare il bambino, quando è stanco delle cose. 4 Le persone, che trattano il bambino, sieno sinceramente cordiali e benevole (1). 5 Non agitino troppo il bambino nè fisicamente, nè moralmente con troppe carezze o eccitandolo a soverchia gioia; piuttosto lascino che egli giochi con cose passive anzichè attive. Non so se la regola d' educazione inglese di parlar sempre basso a' bambini sia bona. Vedo, che la voce bassa è meno eccitante; ma parmi, che il principio di non sturbare e urtare il bambino sia di soverchio applicato, parmi che si voglia andar al di là della natura stessa in questa parte. Io credo all' incontro, che sarebbe utilissimo l' osservare quest' altre regole « fare in modo che il fanciullo udisse sempre a parlare con voce dolce, ben intonata e ben modulata, trascorra pure per tutti i tuoni ». La voce del fanciullo è fatta acuta da natura, perchè dovrà nuocergli il tuono alto? E` l' aspro, l' ingrato, il falso, lo scordato, il troppo forte che può turbarlo e distrarlo e inasprirlo: non il tuono naturale e mediocre, qualunque egli sia. Anzi io credo dover essere al fanciullo vantaggioso esercizio, come ho toccato innanzi, fargli udire tutti i suoni per ordine, e ordinatamente le loro consonanze. Egli è però certo, che tutta l' educazione non deve essere negativa: l' educatore o l' educatrice deve intervenire anche positivamente. Primieramente tutti quelli, che non vogliono adulare la natura umana, la riconoscono in parte difettosa: ella manifesta assai per tempo delle disposizioni maligne. Di poi la volontà dell' uomo da prima si piega spontaneamente dietro le disposizioni naturali benigne e maligne, onde mostra anch' ella un misto di bene e di male. Non v' ha dubbio, che l' arte deve accorrere ad emendare i difetti della natura e della volontà: a prevenirli: ad allontanare le tentazioni: ad avvicinare le occasioni della virtù. La divina Providenza col far nascere l' uomo nel seno della società, lo consegna a' suoi simili, acciocchè essi lo aiutino nella sua debolezza, dirigano nella ignoranza, correggano nelle sue difettose tendenze. Non vi ha dunque dubbio, che l' educazione deve avere la sua parte positiva; ma qual è questa parte, quanto ella si estende? Qual è la parte positiva dell' educazione in ciascuna delle età dell' uomo? Ecco de' nuovi problemi d' immensa difficoltà a risolversi: de' problemi, che nella pratica ricevono infinite diverse soluzioni secondo le circostanze dell' allievo, circostanze esse stesse difficili a raccogliersi e certificarsi. Si può dire in generale, che la parte positiva dell' educazione intellettuale e morale deve essere minima nella prima età e venirsi estendendo sempre più nelle età successive: ma quale è la legge, secondo la quale si rende sempre maggiore la parte positiva? In una parola quali sono i suoi confini nelle singole età? Ecco ciò che, moltiplicandosi le esperienze e le osservazioni, le quali grazie al cielo si cominciano già a fare (ed è pur tempo, che si tolga ad applicare alla pedagogia l' arte dell' osservare e dell' esperimentare), si potrà giungere a determinare. Intanto contentandoci noi d' additarne la via (perchè di più confessiamo ingenuamente di non sapere), porremo innanzi un principio evidente da se stesso e su questo poi condurremo il ragionamento. Adunque, evidente cosa è, che non si deve pretendere o esigere dal fanciullo l' impossibile, ma ciò solamente, ch' egli può dare. Convien dunque sapere, che cosa il fanciullo possa dare in ciascuna età: ecco il difficile a determinare. Il signor Naville conobbe che qui stava il nodo della questione, trattandosi di educare le facoltà intellettive del fanciullo (1); ma la stessa questione va ugualmente applicata alle facoltà attive e morali. Devesi sempre sapere che cosa possiamo pretendere, che il fanciullo ci dia colla sua volontà, e non esigere da lui di più, ciò che sarebbe ingiustizia. Ora quanto all' intendimento, tutto lo scopo di quest' opera mira a determinare con precisione i passi che fa l' intendimento del fanciullo, affine di venire a conoscere che cosa in ogni età si possa da lui pretendere. La volontà poi tiene dietro ne' suoi passi all' intendimento. Sarebbe dunque cosa irragionevole il pretendere dal fanciullo, che egli volesse un bene che ancor non conosce; o fuggisse un male che pure non conosce. E pure è questo che si pretende il più delle volte dagli educatori: questi vogliono che il fanciullo pensi come essi, che voglia come essi, operi come essi; o per dir meglio vogliono che il fanciullo pensi, voglia, e operi com' essi veggono che si deve pensare, volere, e operare. L' ingiustizia di codesti educatori nasce dalla loro ignoranza. Essi si sono fatte delle regole di operare, e pretendono, che il bambino abbia le stesse regole. Quando non possono pretendere ciò per l' enormità dell' assurdo, allora tutt' al più si riducono a dire, che il bambino non ha punto regole di operare, perchè non è ancora arrivato all' uso della ragione. Così vanno da un estremo all' altro. E infatti il bambino non ha certo le regole di operare dell' adulto, e il pretenderlo è una grossolana ingiustizia. Ma è parimenti un errore il supporre, che il bambino sia sfornito al tutto di regole . Egli ha le sue; e convien dirigerlo non colle nostre ma colle sue. Vero è ch' egli mostra di nulla intendere quando gli proponiamo le regole nostre; ma s' indurrebbe da questo a torto l' assenza di regole nella sua mente: è nostro il torto che non le conosciamo, che non le sappiamo in lui osservare e rilevare: egli non le ha certo in forma astratta; ma ben presto la sua mente gli porge tali regole, la formazione delle quali è ciò che dovrebbe fare l' oggetto dello studio dei pedagogici; ed è ciò in pari tempo che fu fin qui al tutto dimenticato: non si sospettò neppure che tali regole si formassero nelle prime età dell' infanzia. Già abbiamo veduto, che fino dal primo ordine delle sue intellezioni il bambino percepisce l' essere sensitivo e intelligente; come pure percepisce l' oggetto bello agli occhi suoi. Ecco qua la culla delle due prime norme del suo operare: dietro a queste norme dirige le sue affezioni: l' essere sensitivo7intellettivo è tosto da lui amato, l' oggetto bello è da lui ammirato. Egli distribuisce adunque la sua benevolenza e la sua ammirazione dietro a' primi lumi del suo intendimento: l' atto morale nasce incontanente dietro l' atto intellettivo. Gioverà qui anco osservare che questi due effetti della ammirazione e della benevolenza sono meno distinti nel bambino che non paia. Infatti ciò che egli ama propriamente si è il bello; è quello che egli ammira . L' ammira e perciò l' ama: l' ammirazione è quella prima stima, nella quale ha sua culla l' amore. Accordo bene che egli trova una reale differenza tra il volto di sua madre, e un bottone che luce; ma questa differenza non è reale e specifica, se non nella supposizione da noi fatta, che v' abbia qualche operazione delle anime fra di loro, mediante i corpi animati. Per altro noi già vedemmo, che il bambino dà l' anima anche al bottone che luce e a tutte le cose; e però non solo ammira, ma ama anche il bottone. Tanto è vero, che il fanciullo ama ciò che prima ammira, che nella lingua infantile bello significa lo stesso che amabile; e brutto significa lo stesso che disamabile. Queste due parole hanno un' estesissima significazione presso i fanciullini. Lo stesso rimane provato dall' osservazione già fatta prima d' ora, che la compassione ne' bambini si spiega verso le cose belle agli occhi loro, e il loro cuore indurisce, ove si tratti di cose che loro sembrano deformi (1). Nella seconda età le norme dietro le quali il bambino dirige i suoi affetti prendono per lui un' altra forma. Avendo sonato a' suoi orecchi le voci di bello e di brutto, di bene e di male ecc.; egli non segue più co' suoi affetti i soli oggetti buoni e belli, ma già un qualche tipo di bontà e di bellezza si è formato nella sua mente, egli vagheggia quest' astrazione, egli per essa intende e pone amore anco a degli oggetti buoni e belli assenti, li desidera, impara a cercarli; e il contrario si dica dei cattivi. Vero è, che questa sua regola astratta, questo primo tipo del bene è ancor prossimo all' oggetto: da prima non è che il suono del vocabolo associato a diversi oggetti, della cui percezione ha memoria, e di cui ritien l' imagine, ma un po' alla volta diventa una vera idea semi7astratta; cioè composta dalle idee imaginali degli oggetti veduti. Quest' idea semi7astratta, tipo della bellezza e della bontà, è la più prossima delle idee dopo le imaginali agli oggetti: è con una regola così vicina, che non ha che a fare un passo per giungere all' oggetto. Quindi gli affetti, che sono da essa diretti, ritengono ancor molto del primo foco, dell' originale impetuosità de' primissimi (1). Nè il bambino mette fin qui in gioco molti mezzi per giungere all' oggetto bramato, ma si slancia direttamente verso di quello. Or questo tipo ideale del bene, che il fanciullo si forma già fino dal secondo ordine delle sue intellezioni, questa regola del suo operare è diversa in quanto alla forma dalla regola presentatagli dalla natura stessa durante il primo ordine delle sue intellezioni; ma nel fondo è la medesima. Era il bello e il buono ciò, che il fanciullo ammirava e amava, tanto nell' un tempo che nell' altro; ma prima amava e ammirava gli oggetti belli e buoni; dipoi cominciò ad amare il bello e il buono negli oggetti. Il bello e il buono si presentò in novella forma alla sua cognizione: ma la volontà ebbe sempre a suo scopo l' oggetto stesso. Ora questo stesso oggetto, questo buono e questo bello, che forma l' oggetto de' primi affetti del neonato, continua ad esser pure l' oggetto costante degli affetti umani in tutta la vita dell' uomo, nel tempo del suo maggior vigore e sviluppo intellettuale, e quando invecchiando declinano le sue facoltà; egli è l' oggetto, a cui l' uomo volge l' ultimo sospiro morendo e che spera di rinvenire nella eternità. Ma se nel suo fondo l' oggetto è identico, non è identico però il modo, nel quale l' uomo lo concepisce; e quindi gli atti della volontà si modificano anche essi a tenore della forma, nella quale l' intendimento le presenta il bello ed il buono. Questa forma emigra in ogni ordine d' intellezioni. Ma come, oltre quel progresso, che consiste nel passaggio da una intellezione all' altra, avvi un progresso, che si fa entro ciascun ordine d' intellezioni, il qual secondo progresso esige pure non poco tempo; così anco il tipo del bene regolatore della volontà conserva la forza propria d' un dato ordine d' intellezioni, si amplifica e si perfeziona. Il seguire queste mutazioni di forma d' un ordine all' altro, come pure i gradi di perfezione entro l' ordine stesso, è l' arduo lavoro proposto alla meditazione degli istitutori della gioventù. Perocchè questi devono in ogni età del fanciullo servirsi di quel tipo che egli ha in mente, per guidarlo sulla strada della virtù: ed è questo, che essi possono e devono esigere da lui nè più nè meno, ch' egli sia virtuoso secondo quella regola di virtù, che in lui si trova formata dalla natura e non secondo un' altra. Il non esigere dal tenero fanciullo nessuna pratica di virtù è lassismo pedagogico, che nasce da ignoranza; l' esigere che il fanciullo sia virtuoso secondo una regola, che egli ancor non vede, è un rigorismo, un assurdo, una tirannia pedagogica: questa trae dietro di sè la violenza, il mal umore, l' ira cieca del precettore, la sola cosa che impari da lui lo sgraziato discepolo. Il fanciullo devesi dunque sempre considerare come un essere morale, perchè è sempre tale, ma devesi investigare in pari tempo qual sia in ciascuna sua età la forma e la natura della sua moralità: e questo è quel segreto, che non si rapisce alla natura fanciullesca, se non con immensi studi, lunghe osservazioni e profonde meditazioni. Giunti noi al second' ordine d' intellezioni del bambino, abbiamo anco indicato qual possa essere la forma della sua moralità. Egli ha un' idea del bene già divisa dagli oggetti sussistenti, benchè questi or l' uno or l' altro s' associno continuamente ad essa. Quest' idea non solo è divisa dagli oggetti sussistenti, come sono tutte le idee imaginali, ma essa differisce anche da queste. Perocchè le idee imaginali fanno conoscere l' oggetto fedelmente tal quale egli apparì ai sensi; ma l' idea del bene non esprime le parti indifferenti e male dell' oggetto, ma solamente l' elemento buono; come l' idea del male, lasciate pure le parti indifferenti o buone dell' oggetto, non ritiene che l' elemento malo. Quest' idea del bene o del male non è adunque solamente universale, come sono tutte le idee imaginali; ma ell' ha anco dell' astratto in quanto che non richiama l' attenzione se non ad una determinazione, ad una qualità sola dell' oggetto, lasciate le altre. Ma che cosa è il bene e che cosa è il male per un bambino, il quale non eccede nel suo sviluppo il second' ordine d' intellezioni? L' astrazione, che ha esercitata questo fanciullo per giungere a formarsi quelle sue idee di bene e di male, non la potè esercitare se non sulle percezioni delle cose sensibili e sulle loro idee imaginali: perocchè non vi era altro nel suo spirito, che fosse idoneo a trarre a sè l' attenzione. Il linguaggio pure, che gli fu strumento ad eseguire questa grand' opera d' estrarre dagli oggetti percepiti, imaginati, ideati l' elemento buono e il cattivo, guidò sempre la sua attenzione agli oggetti sensibili, perocchè fu di questi, che sentì dirsi dalla madre o dalla nutrice « questo è buono, questo non è buono, questo è malo ». Il bene ed il male adunque, di cui ha l' idea il nostro bambino, è un bene ed un male presentatogli dai sensi. Questo bene e questo male ha in sè un elemento soggettivo ed un elemento oggettivo . L' elemento oggettivo appartiene all' intelletto, ed è quel bello e quell' ammirato, che ammira ed ama tanto il fanciullo. Come ho detto, pare, che l' osservazione più accurata dimostri, che il fanciullo da principio giudichi tutto animato. Ma questo giudizio, col quale il fanciullo giudica animata ogni cosa, non si deve confondere colla congettura che ho fatto di sopra, cioè, che ciò che è veramente animato eserciti sul fanciullo un' azione veniente dall' anima, benchè per mezzo del corpo e fondentesi sull' altr' anima, benchè pure per mezzo del corpo. Se quest' azione, a cui finora i filosofi non hanno fatto attenzione, è un fatto che si verifichi ed accerti, l' effetto di quest' azione nel bambino è un sentimento , e non dee confondersi col giudizio , che fa il fanciullo stesso. Questo può essere erroneo; il sentimento è sempre reale; il fanciullo può operare dietro il sentimento e dietro il giudizio . Il sentimento , fin che non viene percepito dall' intelletto, non ha che una esistenza soggettiva. Vi avrebbe dunque nel bene percepito dal fanciullo un elemento soggettivo doppio, cioè la sensazione corporea e il sentimento animastico . Trovata così l' analisi del bene del fanciullo nasce la domanda, se nell' idea che il fanciullo si fa del bene entri non meno l' elemento oggettivo che il doppio elemento soggettivo. Questa domanda è importante per lo scopo di determinare qual sia lo stato della mente e dell' anima del nostro bambino rispetto al bene. A rispondervi conviene richiamarci alla mente due principii da noi posti: 1 Che i primi stimoli che tirano a sè l' attenzione del bambino sono gli esterni; verso gli esterni oggetti ella va sempre spontanea e non si ripiega sul soggetto se non tardi, costrettavi da cause speciali. 2 Che nelle prime percezioni il soggetto intellettivo non fa che affermare un' entità, ma non le qualità o determinazioni di quelle entità, le quali determinazioni s' appaga d' averle nel sentimento; e sol dopo, un po' alla volta, secondo i bisogni che il movono, egli posa la sua attenzione anche sulle determinazioni sensibili dell' ente. Ora egli è certo che trattandosi di formarsi un' idea di bene, è necessario che quest' idea sia preceduta da delle percezioni del bene; perocchè ogni idea di bene è idea7concetto (1). Le percezioni adunque su cui vien lavorata l' idea del bene (per quantunque questa sia imperfetta) non debbono essere delle pure percezioni, nelle quali si afferma solo l' essere, ma delle percezioni già alquanto perfezionate, in cui si afferma ancora il bene. Ma l' affermare il bene, l' affermare un ente buono è affermare un oggetto; e l' affermare un oggetto senza più è operazione infinitamente più facile e più spontanea allo spirito che non sia l' affermare sè soggetto, cangiando così il soggetto in oggetto dell' intelletto. Fino a questa terza età niente può spingere l' uomo a far prendere alla propria attività un giro così opposto al naturale, niente ricaccia quell' attività intellettiva che ha preso a moversi in linea retta, la ricaccia, dico, indietro sui suoi passi, la fa ricadere sopra se stessa, nel seno di quel soggetto da cui emana. Noi parleremo più innanzi della cognizion di noi stessi e mostreremo quanto tardi ella si manifesti nel bambino. Non avendo adunque il bambino ancora di se stesso notizia, egli non può attribuire a sè l' elemento soggettivo. Ma posto ciò, non potrà egli tuttavia percepirlo? Egli lo percepisce certamente, altramente non potrebbe estrarre l' idea del bene dalla percezione; ma egli non lo riconosce come soggettivo ; lo percepisce come un semplice oggetto . Di qui avviene che gli stessi suoi piaceri, i suoi stessi dolori, che in quanto sono sentimenti esistono nel soggetto in quanto sono osservati e percepiti dall' intendimento del bambino sono oggetti, sono qualità e proprietà degli enti reali che l' intelletto suo percepisce. Onde tutti gli affetti di ammirazione e di benevolenza, di abborrimento e di odio che si manifestano nel bambino non risguardano già i propri piaceri e i propri dolori; ma risguardano gli oggetti piacevoli e i dolorosi: egli vede in questi la sede di quel piacere e di quel dolore che esperimenta. Sebbene adunque ciò che sente il bambino sia in lui pel senso; tuttavia ciò che sente è fuori di lui per l' intelletto; e vi vuole un lungo tempo prima che l' intelletto restituisca al soggetto i suoi piaceri. Quello poi che nasce de' piaceri e de' dolori nasce ugualmente di tutte le sensazioni che l' uomo ha mediante gli organi esterni. L' intelletto che ha per legge di concepire ogni cosa oggettivamente, vede le prime sensazioni, cioè il colore, il sapore, l' odore ecc. negli oggetti da lui affermati colla prima sua percezione, affermati con questa percezione in conseguenza della azione esercitata da essi nel suo senso. Tale è la ragione onde il comune degli uomini risguarda come qualità de' corpi le accennate modificazioni del proprio sentimento, e convien che intervenga una profonda ed assidua meditazione filosofica per disingannarli a pieno, e spogliare le forze esterne delle vesti usurpate, di cui si coprirono fino dalla nostra infanzia, si abbellirono, e per così dire rimpolparono e rinsanguinarono. E veramente quelle forze denudate in tal modo dall' inesorabile pensiero del filosofo si rimangono aridi scheletri, e quasi volevo dire tenui, impercettibili spiriti e nulla più. Da queste osservazioni nasce la singolare conseguenza, che il bambino, che nel suo essere di animale opera al tutto soggettivamente, nel suo essere di uomo cominci ad operare dietro a de' motivi oggettivi, assai prima che il suo intelletto e la sua volontà conosca ed ami ciò che è soggettivo, ciò che si riferisce a sè stesso. Perchè le cose stesse sensibili, che al soggetto propriamente appartengono, quella piccola intelligenza non le vede come tali, ma come altrettanti oggetti li contempla e li ama o li abborrisce. Quindi fu giustamente osservato ne' bambini un mirabile disinteresse anche in quelle cose che fanno tratti dal piacere e dal dolore; ed a torto si pretende da alcuni incapaci di osservare la natura umana, che l' amor proprio sia il primo degli affetti che si manifesta (1). Un' autrice, che noi abbiamo citata sovente, con gran finezza dice che il bambino [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo raccogliere da tutto ciò qual sia la virtù morale del bambino, diciamo che questa consiste tutta nella sua benevolenza, perchè questa benevolenza è oggettiva e però imparziale, fornita di disinteresse, preceduta dalla stima dell' oggetto da lui amato: insomma è quella benevolenza stessa, a cui si riduce finalmente la virtù dell' uomo in qualsiasi altra età, perocchè esser buono è lo stesso che amare (1). Di qui si scorge che la differenza della virtù del bambino e di quella dell' adulto (prescidendo dal merito) non istà nell' essere l' una benevolenza e l' altra no: chè l' una e l' altra è ugualmente benevolenza; ma consiste nell' oggetto diverso di questa benevolenza: perocchè l' oggetto della benevolenza si amplifica in ragione dell' età e del progresso della cognizione. Ora, oggetto della benevolenza, lo dicemmo già, non è che il bene. Qual è dunque il bene che può esser noto al bambino non arrivato più in là del second' ordine delle sue intellezioni? Se queste intellezioni non han per oggetto che le cose sensibili, egli è chiaro che egli amerà ciò che i suoi sensi gli rappresentano come bello e come amabile, il cibo, la luce, il volto ridente d' un altro essere umano: questi e somiglianti sono gli elementi da cui trae quel concetto di bene, che dirige poscia tutti i suoi affetti. Egli dunque ritrova e riconosce il bene in tutto ciò, da cui gli vengono delle sensazioni aggradevoli, e tutto ciò l' ama con effusione di cuore imparzialmente. Ecco la sua regola morale: non è certamente la nostra, ma ella è vera per lui, è l' unica che egli possa avere: se noi non lo disturbiamo ne' suoi interni movimenti, egli la segue con semplicità e con ogni fedeltà: egli è giusto ne' suoi atti benchè non lo sappia: la sua moralità già esiste, quantunque non se ne sia formato ancora alcuna coscienza. Il bambino che giunge col suo intendimento alle intellezioni di second' ordine potrebbe guastare la sua moralità in due modi: 1 Formandosi delle regole false del bene e del male; 2 Non dirigendo i suoi affetti e le sue operazioni fedelmente a seconda delle regole del bene e del male ch' egli si è rettamente fatte. Supponendo che il fanciullo operasse da se stesso senza l' influenza d' altre persone, egli non potrebbe formarsi delle regole false, se non a condizione che nelle sue prime percezioni apprendesse gli oggetti buoni per cattivi, e gli oggetti cattivi per buoni: conciossiachè è da queste sue percezioni, ch' egli trae poscia i concetti del bene e del male, che gli servon di regola. Ora questo è impossibile: conciossiachè le percezioni seguono le sensazioni, e queste non ricevono in sè errore (1). Ma il bambino non fa tutto questo da se stesso: i concetti sono astrazioni e però egli se li forma coll' uso del linguaggio che riceve dalla società. Egli è vero che chi gli parla da principio non può ingannarlo del tutto; perocchè se gli si dicesse sempre che è bene quello che i suoi sensi gli presentano per male, egli finirebbe col persuadersi che il vocabolo bene significasse male, e che il vocabolo male significasse bene; il che non sarebbe errore di cosa, ma sol mutazione di vocaboli. Ma se nel primo imparar della lingua il bambino non può essere ingannato, perchè non potrà egli sottostare all' inganno tosto che ha già conosciuto alcuni vocaboli? Poniamo che al vocabolo bene aggiunga pure il significato d' un giusto concetto (benchè sempre ristretto agli elementi del bene de' quali egli ha sperienza): e lo stesso dicasi del vocabolo male . Ora non può egli cominciare qui tosto a soggiacere alle altrui delusioni? (1) Se altri gli dice che è male quello che è bene, quando egli già intende il vocabolo male, non finirà egli a persuadersi che l' oggetto di cui gli si parla è male? Il suo senso gli dice il contrario: sia pure: ma in questa età è egli vero che creda solo al proprio senso, alla esperienza propria? Egli è certo che oltre le facoltà del senso e dell' intelligenza si risveglia assai per tempo nel bambino la facoltà della persuasione (2) di cui una funzione è la credenza volontaria, la volontaria adesione a ciò che altri ci afferma. Non solo noi possiamo credere arbitrariamente a ciò che altri ci dice, ma noi n' abbiamo altresì l' inclinazione, ed è principalmente per questa inclinazione che riescono tanto dannosi a' fanciulli i mali discorsi: fossero questi anco di cose prave, a cui il fanciullo non sente ancora alcun malo eccitamento, egli tuttavia con facilità vi aderisce pel solo bisogno di credere, di uniformarsi all' altrui sentimento. Ora una tale tendenza già si manifesta assai visibilmente nel bambino il più tenero, ed ella anzi lo aiuta mirabilmente ad apprendere con facilità il linguaggio materno. Di qui ne viene la conseguenza, che la veracità nelle educatrici o negli educatori è una dote necessaria fin dalle prime parole, ch' essi rivolgono ai fanciulli tenerissimi. E veramente se questi educatori non dicono costantemente bene a ciò che è bene pel fanciullo, questi troverà una discrepanza tra ciò che sente col suo senso, e ciò che gli viene affermato dalle persone. Indi le sue due facoltà del sentire e del credere sono poste in contradizione fra di loro, e non vi ha nulla che più ritardi e imbarazzi lo sviluppo del fanciullo di quello che il porre le sue facoltà in lotta tra di loro, sicchè l' una distrugga quello che l' altra tenta di edificare. Il povero infante non sa più a cui attenersi; non sa se sia la facoltà del senso che lo inganni, o la facoltà della credenza ; confuso la mente, egli non ha più l' agio di formarsi delle opinioni ben ferme sul merito delle cose, e fino che non si delibera per l' una facoltà o per l' altra, egli è in uno stato d' inutile incertezza, e violenza: lungi dal fare de' passi innanzi, perde anzi per molto tempo la disposizione della tranquillità, della chiarezza, dell' ordine che gli è indispensabile per avanzarsi nella sua via. Quando poi si deliberi verso l' una delle due opposte facoltà, egli non crederà mai alla prescelta fermamente, ma in modo vacillante; di che formerà un carattere debole, senza profonde impressioni, grandi e semplici sentimenti, decisa attività che nasce da quelle e da questi. Che se prestasse fede all' altrui voce rinnegando il proprio sentimento, egli perde in questo una guida sicura e potrebbesi quindi prevedere che il bambino riuscirà almen uomo leggiero. Se poi s' attiene al sentimento proprio rinunziando all' altrui autorità, egli semina con ciò solo in sè medesimo la diffidenza verso de' suoi simili, e dopo una gioventù indocile egli raccoglierà nell' età più adulta i frutti della disunione, dell' egoismo, d' una inesplicabile malignità. Parlare adunque al bambino col linguaggio il più preciso, il il più verace, il più conforme a' migliori suoi sentimenti dee essere un' avvertenza importante per l' educazione di questa età. Il fanciullo che ingannato dalle altrui parole si forma de' concetti imperfetti o falsi del bene, egli certamente si forma con ciò delle regole false od imperfette della sua morale. Tuttavia non si potrebbe riconoscere immoralità nel fanciullo che cede in tal modo all' inganno: egli non dispregia con ciò, nè fa torto volontariamente, nè odia: si attiene ad una delle due potenze nell' impossibilità di attenersi ad entrambe: la scelta non è dovuta al suo arbitrio, ma alla prevalenza dell' inclinazione verso una delle due potenze. Tuttavia hassi a distinguere l' immoralità dalla disposizione alla immoralità: i falsi concetti e le false regole del fanciullo non costituiscono immoralità, sono bensì una disposizione alla immoralità pel tempo avvenire. Noi ci proponevamo oltracciò un' altra questione, se il bambino pervenuto al second' ordine d' intellezioni seguita sempre le regole del bene e del male, o talora volontariamente se ne allontani. Ora a questo rispondiamo ch' egli le seguita fedelmente, e che non potrebbe allontanarsene senza pervenire al terzo grado d' intellezioni. Perocchè dopo essersi formata la regola del bene e del male per allontanarsene egli dovrebbe giudicare praticamente, che è male ciò che quella regola gli mostra esser bene, il che suppone una nuova riflessione, della quale parleremo nella Sezione seguente. Non conviene perder di vista che ogni bontà morale si riduce alla benevolenza, e che ogni male morale non è che odio, ovvero limite imposto alla benevolenza. Ora due sono gli uffizi dell' educatore relativamente alla benevolenza del fanciullo: 1 il farla nascere, 2 l' ordinarla convenientemente (1). Non è meno importante il primo del secondo di questi due uffizi: perocchè la mole di benevolenza che sorge nell' animo umano è la materia, onde si compone la virtù (2): colui che ha un gran sentimento di benevolenza diverrà assai facilmente un uomo virtuoso. Noi faremo dunque qualche riflessione primieramente sulla maniera di far crescere la benevolenza nel fanciullo, e poi sulla maniera di ordinarla. Nella prima e nella seconda età il fanciullo che non possedeva ancora nè linguaggio nè concetti astratti, non potea ricevere il sentimento della benevolenza se non dalle aggradevoli sensazioni che gli oggetti esterni gli procuravano; perciò abbiamo già detto che il mantenere il bambino in uno stato di tranquillità, di serenità e di gioia abituale apre il suo cuore a sentimenti benevoli. Ma ora nella terza età conviene che l' educatore si giovi anco del linguaggio ad ottener questo fine, ed egli può assai agevolmente giovarsene attesa la facoltà della persuasione, che nel bambino assai per tempo si manifesta non solamente colla funzione della percezione, ma ancora con quella della fede . Le persone dunque che educano o che semplicemente parlano al bambino potranno usare a tal fine la regola di lodare generalmente le cose buone e ben di rado biasimare le cose cattive, ma di queste piuttosto tacersi; il che è quanto dire far un grand' uso delle parole bello, buono, bene , ecc. e fare un uso assai scarso delle parole contrarie brutto, cattivo, male, ecc.. Sarebbe poi errore gravissimo l' applicare quest' ultime parole a persone (1). Così udendo il bambino a lodare come buone e belle tutte le cose e niente a biasimare, farà sì, che i suoi affetti di benevolenza che seguono indubitatamente i suoi pensieri, si svolgano più prontamente e più ampiamente che non gli affetti contrarŒ di malevolenza: egli verso tutto ciò che lo circonda profonderà il suo amore e la sua gratitudine. Ed è poi difficile per non dire impossibile che v' abbia tal cosa, la quale non si possa da qualche lato presentare come buona e bella al fanciullo e fargliela amare. Quando il fanciullo comincia intendere i segni convenzionali delle parole, egli comincia ad intendere ancora i segni naturali de' gesti e degli atteggiamenti. La lingua naturale aiuta il fanciullo ad apprendere la convenzionale e viceversa: le due lingue sono apprese insieme come una cosa sola (1). Quando i gesti e gli atteggiamenti esprimono degli affetti, egli al veder quelli sente questi, sia per un' operazione animastica, sia perchè l' istinto d' imitazione il conduca a riprodurre in sè quegli atteggiamenti stessi che sono dalla natura associati a quegli stessi affetti, sia che l' una e l' altra di queste due cagioni entrino a formare quella mirabile simpatia , che si osserva ne' fanciulli. Ma nella terza età non fa solamente tutto ciò, ma per lui i gesti e gli atteggiamenti gli sono de' veri segni che gli appalesano l' interno delle persone colle quali egli usa. Mi si permetta di riferire ancora le altrui osservazioni. [...OMISSIS...] . Questi fatti si debbono mettere a profitto. Conviene che anche colle lingue naturali si comunichi al bambino pensieri di bontà e di rispetto: egli apprenderà la maniera di concepirli, se tutto ciò che vede d' intorno di sè glieli mostra e glieli comunica. Quindi medesimo apparisce il danno che alla tenera anima del bambino risulta dai segni esterni dell' ira, del livore, dell' odio, della malignità, della derisione ecc.. Sono altrettante parole seduttrici, dove egli attinge una ineffabile malizia. Dannosi sono parimenti al bambino i terrori e le paure incussegli o con parole o con atti: ma di questo fu già parlato da tanti che è inutile il fermarvisi. Solo farò un' osservazione. Ho già detto che nell' educazione conviene aver per maestra la natura. Or se noi osserviamo la natura, noi troveremo ch' essa inclina sempre il bambino alla speranza ed ai pensieri gai; e che all' incontro l' allontana da' timori e da' pensieri mesti. Non avviene mai che il bambino si componga da se stesso delle imaginazioni cupe, tristi, dolorose: ma sì egli va fantasticando cose belle, liete, ridenti. Non appartiene solamente questo fare al bambino: ella è una legge costante di tutta la natura umana: e ci torneremo sopra. Ora ci basta di chiedere: Perchè non aiutiam dunque gli avviamenti di questa natura? Perchè non ci facciam dunque discepoli alla providenza che ha costituita la natura? Perchè vorremo impaurire o rattristare quell' animo che questa spinge al coraggio ed alla allegrezza? Ma non è egli anche il timore un affetto posto dalla natura nel seno dell' anima umana? Perchè dunque ve l' ha posto? Per contenere, anche mediante il timore d' una forza superiore, l' uomo ne' suoi doveri, e perchè l' uomo mediante il timore abbia il sentimento della propria debolezza comparata a ciò che vi ha di possente fuor di lui, che è il Creatore, ovvero degli enti che fanno la volontà del Creatore. Ora, il nostro bambino non ha bisogno d' un timore procuratogli, giacchè nè potrebbe ancora riconoscere il timore come ministro della giustizia divina, nè quel timore fantastico che pazzamente gli si cagionasse avrebbe il carattere d' un timor morale, ma unicamente d' un timor cieco atto a conturbare e non a raddrizzare la sua riflessione. Quanto poi al sentimento della propria debolezza, egli lo ha troppo; nè il timor riverenziale verso l' essere supremo può suscitarsi in lui altramente che dall' idea di quest' essere ottimo massimo; e non da altro. Escluso dunque ogni timore fantastico e procurato al nostro tenero fanciullo, rimane tuttavia a cercare se giovi l' adoperar con lui alcuna resistenza a' suoi voleri, e caso che sì, in qual misura ella debba essere. Or per rispondere alcuna cosa a questa questione, in primo luogo non v' ha dubbio, che ove qualche cosa possa nuocere alla sua salute corporale, questo non gli si dee concedere: glielo si dee però diniegare in modo da cagionargli la minor pena possibile; e però il miglior precetto consiste a predisporre le cose in modo che tali voglie in lui non insorgano. Queste voglie non sono morali ma fisiche, ed è perciò appunto che sarebbe cosa ingiusta che noi non procurassimo tutte le vie per eluderle senza sua pena. Ma oltre di questo disordine fisico possono benissimo manifestarsi delle disposizioni contrarie alla morale. Prendendo noi a parlare della resistenza che dobbiam fare a queste, verremo a rispondere alla seconda questione propostaci « in qual modo si possa ordinar la benevolenza del nostro bambino ». Ora, una delle prime disposizioni anti7morali che si manifestano nel bambino è l' impazienza; benchè questa stessa trae più forza dall' abitudine che da altro. L' esercizio di pazienza che può convenire anco al bambino non si dee trascurare, ma dee farsi con somma delicatezza; ed ecco una madre che ne suggerisce il modo. [...OMISSIS...] Qui la pazienza non è un sofferir fisico (ciò che si dee sempre allontanar dal fanciullo), ma è un sofferir morale, se pure è sofferire; è di più una scuola in cui guadagna l' intendimento e l' animo del fanciullo. Egli aspetta di buona voglia, e questo è già un gran bene: egli comincia con ciò ad ordinare la sua benevolenza. Il senso di natura sua è impaziente (1): l' aspettare pazientemente è sempre un esercizio d' intelligenza. L' impazienza che proviene dal senso all' uomo non è ella stessa un male morale, ma è una mala disposizione alla moralità, che di buon tempo conviene addestrarsi a superare. L' ira si trova pure nel senso, e in quanto si trova nel senso è anch' essa nulla più che una mala disposizione. Questa si dee prevenire nel bambino acciocchè non nasca, e ne abbiam parlato. Queste passioni e delle altre, di cui parleremo in appresso, si appalesano fino dalla prima infanzia, nella quale età l' operar sensuale può assaissimo: e però esigono una resistenza sapiente assai più morale che fisica. Le passioni poi influiscono immensamente sulla volontà, e questa sull' intendimento; onde avviene che l' intendimento giudichi per bene quello che è favorevole alle passioni, e per male quello che è ad esse contrario. Se dunque sono insorte le passioni nel bambino ed egli perciò non si trova più in uno stato di tranquillità, avviene ch' egli falsifichi i suoi concetti. Perocchè egli non prende più a misura del bene il natural suo sentimento e il sano istinto; ma un sentimento passionato e un istinto guasto. La falsità di questi concetti sul bene e sul male delle cose passa per vero inosservata; ma que' concetti intanto sono le regole dell' operar del bambino, e per conseguente egli ama falsamente, ed odia ciò che dovrebbe amare. Tali semi di falsità nell' intendimento e di traviamento nel cuore sono minuti come quello della senapa, ma crescono occultamente in un grande arbusto: n' escono di que' giovani il cui freddo e cattivo carattere è inesplicabile: n' escono degli uomini pessimi e incorreggibili. In somma la sorte degli uomini dipende sovente da quegl' ignorati cominciamenti. Come dunque convien talor prevenire, talor far resistenza alla passione; così giova correggere i falsi concetti del bambino. Grand' errore è l' adularlo, come pur si fa per voglia di dargli piacere; grand' errore è confermare i suoi concetti se falsi; noi dobbiamo anzi sostituirgliene di migliori: e sopratutto guerreggiare in lui que' concetti che lo portano all' odio, quelli co' quali egli giudica sfavorevolmente delle cose. Noi dobbiamo mostrargli il lato buono delle cose; e sebbene egli non intenda a quest' età se non il bene e il male sensibile oggettivizzato, tuttavia noi possiamo anco dirgli buone quelle cose che hanno un effetto buono in futuro; il che è un facilitargli l' atto intellettivo, col quale un tempo giungerà a conoscere la verità del nostro giudizio. Noi possiamo far ciò giovandoci della sua facoltà di credere, come abbiam detto. L' impazienza e l' ira, che hanno la loro culla nell' animalità e fino che rimangono in questa non sono più che disposizioni anti7morali, ben facilmente tirano a sè l' assenso della volontà, e allor tosto si cangiano in atti ed abiti immorali. Una passione che pur s' origina nel senso animale, ma che passa prontamente nell' ordine dell' intendimento, si è l' avversione che in odio si trasmuta. Io non credo che a quest' età possa aver luogo nell' animo umano l' invidia che è dolore del bene altrui. Il fatto che narra S. Agostino del bambino suggente il latte e risguardante con biechi occhi il suo collattaneo (fatto che si rinnova non di rado) mostra un' apparenza d' invidia; ma io tuttavia lo dichiarerei una semplice avversione. Suole anche nelle bestie avvenire il simile: due cani che mangiano ad una scodella ringhiano e si mordono. Non può dirsi che il movimento nasca dal dispiacere che l' un cane ha del bene dell' altro, ma piuttosto nasce, io crederei, dall' apprendere il compagno come impedimento e diminuzione del suo ben proprio. L' animale non per intelligenza ch' egli abbia, ma per la forza unitiva del suo sentimento può benissimo apprendere il cibo che scema alla presenza dell' altro cane, e odiare questa diminuzione di cibo, e con essa insieme l' altro cane che ad essa congiunge nella sua fantasia. La quale operazione animale somigliantemente avviene nel bambino, ma sopraggiungendosi poi il giudizio dell' intelletto, o anche solo l' atto della volontà, in vero odio si cangia. Ora questi accidenti sono da prevenire con diligenza nei bambini, perocchè eglino difficilmente possono sostenere la gravezza della tentazione, nè hanno armi a difendersene. Nata poi qualche avversione, conviene impiegare tutte le vie acciocchè se ne purghino le loro anime, e si potrà, quando si usi il bambino, o la persona qualsiasi, oggetto della malevolenza, a procurare all' odiatore i piaceri ch' egli brama; nel qual caso essa perderà l' odievolezza e il bambino l' odio. Uno de' fenomeni difficili a spiegarsi nel bambino (ed è un fatto proprio dell' umanità) si è come essendo egli di sua natura benevolo, tuttavia un po' alla volta venga limitando i suoi affetti ad un circolo determinato di persone e di cose. Egli par certo che il neonato sia indifferente all' una od all' altra persona; almeno egli è certo che s' affeziona a qualsiasi lo aiuti ne' suoi bisogni e lo accarezzi. Indi è ch' egli prende talora affetto alla nutrice più che alla madre ove con quella abbia più di consuetudine che con questa, e da quella, non da questa, riceva i materni servigi. Nè il neonato sceglie da se stesso la nutrice, ma egli l' ama quale gli venga data: e in capo a sei settimane sorride imparzialmente a quel volto femmineo che prima a lui ride. Ella è dunque universale la disposizione che ha il bambino alla benevolenza prima che questa si attui, ma attuata in lui la benevolenza, ella prende tosto una forma limitata ed esclusiva. Al bambino d' un anno le persone nuove già fanno sinistra impressione, e questo adombramento, che egli prende dagli sconosciuti, va aumentandosi fino a un certo tempo coll' età: egli divien rispettoso, ritroso, ruspo, ispido agli stranieri, e gli bisogna buon tempo a dimesticarvisi. Come si può egli spiegare un tal fenomeno? Io credo che più cause concorrano a produrlo, ed è forse difficile il conoscerle tutte. Primieramente gli affetti razionali prendono legge dall' intendimento che propone loro gli oggetti. Ora nella sfera della intelligenza si dee por mente al fenomeno dell' attenzione. L' attenzione è un concentramento delle forze sparse, e da prima allentate dello spirito, le quali così tutte unite si applicano ad un punto solo, ad un oggetto solo. E quando lo spirito raccoglie così la sua attenzione in un solo oggetto, egli non è più per gli altri, le sue forze sottratte loro o non gli danno più di essi contezza, o glie la danno ben languida. Or l' accentramento delle forze, che avviene nell' intendimento, avviene somigliantemente nella volontà. Le virtù di questa potenza fino a tanto che rimangono lente e dissolute sono indifferenti all' uno ed all' altro oggetto e disposte ad applicarsi a qualsiasi; ma tosto che sono richiamate ed applicate ad uno o ad una data periferia d' oggetti, a tutti gli altri fuori di quella rimangono nulle; perocchè la quantità disponibile per così dire della benevolenza della volontà è già in determinati oggetti esaurita. E questa spiegazione basterebbe se si trattasse di dar ragione solamente del perchè l' animo del bambino affezionato ad un dato circolo di persone e di cose si mostrasse a tutte le cose nuove freddo ed indifferente. Ma nel fenomeno che noi vogliamo spiegare si mostra un altro accidente. Il bambino nella terza età e in alcune delle susseguenti non è solo senza affezione per le persone non più vedute, ma egli riman sorpreso e intimorito al loro comparire, si arretra da esse se l' avvicinano, si mostra loro turbato, corrucciato, ostile. E perchè mai tutto ciò? Tentiamo d' indicare alcune delle principali cagioni che noi crediamo influire a produrlo, senza assicurarci tuttavia di rilevarle tutte. Mi sembra probabile che quando l' animo umano non ha più della benevolenza da distribuire, gli rimangono gli affetti contrari del timore, della malevolenza, dell' odio estremamente suscettibili (1). Quando il bambino vede de' suoi simili e non ha amore da donare ad essi, questi suoi simili rimangono per lui degli esseri misteriosi, da cui non aspetta bene, e de' quali teme la forza: non essendo agl' occhi suoi abbelliti del suo amore, conciossiachè l' amore è quello che a noi abbellisce e indolcia gli oggetti, quegli esseri tornan molesti al suo pensiero che rimane nell' incertezza sulla loro favorevole o avversa natura. Fu già osservato da altri, che al comparir nella mente del fanciullo un' idea nuova, nasce in lui un cotale sbigottimento. Se un' idea nuova fa quest' effetto, una percezione nuova deve farlo anche più, quando un tale effetto non venga eliso o coperto da un altro affetto maggiore di benevolenza. S' aggiunga un' altra legge psicologica, quella per la quale « è sempre molesto all' uomo il tornare indietro sia co' suoi pensieri, sia co' suoi affetti, il disfare cioè gli atti delle sue potenze intellettive ed affettive per doverli rifare in altro modo ». Se si vuole averne la prova in qualche sperimento fatto sui fanciulli basta raccontar loro qualche storiella: essi la gustano sommamente: ma guai se voi mutate qualche menoma circostanza, o anco semplicemente vi aggiungete nel contarla loro la seconda volta! essi tosto vi correggeranno: vogliono assolutamente la stessa scena. E perchè? perchè avendo quella scena viva nelle loro menti, essi ripugnano a guastare o a cancellare quel bel quadretto imaginario per ridipingerlo. Or quel che avviene ne' fanciulli rispetto alla fantasia ed all' intendimento avviene somigliantemente in essi rispetto alla volontà. Non sono i fanciulli come gli adulti: questi riserbano sempre indietro qualche parte de' loro affetti per poterli collocare poi in quegli oggetti nuovi che li meriteranno: ma i fanciulli all' incontro senza pensare al futuro, concetto che ancor non hanno, ne' primi oggetti versano tutto il tesoro del loro cuore. Ho già osservato la veemenza e la semplicità delle affezioni e passioni fanciullesche. Ciò posto, egli è manifesto che quando si presenta loro una persona nuova hanno un naturale invito ad amarla; ma tuttavia nol posson fare se non a condizione di tirare indietro dell' amore già distribuito, e darne una parte a quella persona. Or questo invito è loro molestissimo per due ragioni; la prima perchè dovrebbero disfare un atto di benevolenza già fatto, riducendolo a più breve misura; la seconda, imperocchè in qual maniera potrebbero essi ritirar l' amore posto alle cose amate? Non sarebbe egli un far torto a queste? In qual maniera cominciar a disamar quelle a cui hanno dato tutto il loro amore? Che demerito si hanno? Che colpa? Insorge appunto ne' bambini un sentimento simile, ma opposto, a quello della gelosia. Come la persona gelosa soffre e s' irrita al timore che altri gli rubi o scemi l' amor dell' amante; così il bambino che è l' amante teme che altri gli rubi o scemi al suo cuore quell' amore che egli pone alla persona amata, e alla quale non lo vuol torre. Quest' affetto del bambino non si attacca solamente alle persone, ma a tutte le cose che lo circondano. Indi è che le mutazioni d' oggetti o di ordine nella loro vita riescono talora al bambino grandemente moleste, e gli mettono del mal umore. Una terza cagione che si lega a questa seconda ha parte nel fenomeno che noi cerchiamo di spiegare. Il bambino ha l' istinto primieramente di evitare il dolore, in secondo luogo di godersi in calma il proprio benessere; la sua natura è piena di piacere perchè piena di vita e di sensibilità. Oltracciò, quando ha distribuiti tutti i suoi affetti alle persone e alle cose tra cui si trova, ha tracciato in ciò stesso la sfera della sua felicità. Quivi ritrova tutti i suoi beni, nè pensa che ve ne possano essere altri. Qual meraviglia adunque ch' egli possa esser geloso di questo suo cotal dominio? Un essere nuovo che gli si presenti già gli sconcia quel tutt' insieme che forma il suo stato, e che percepisce come una cosa sola: già gli rompe quel cotal suo paradiso infantile a cui è attaccato e che non vuol vedere mutarsi, come non vuole che gli si muti niun accidente della novella che gli si narra. A questa ragione è affine l' istinto che hanno i fanciulli, e l' idea che ben tosto loro nasce della proprietà. Tutte le cose che li circondano diventano per la forza unitiva del loro sentimento altrettante parti di sè stessi: il levargliene alcuna è uno squarcio fatto nel loro sentimento. Questo fenomeno si manifesta anco negli animali perchè tutto si compie mediante la forza unitiva, che anco nella natura animale si trova; ed ha le apparenze di pensiero ed amore della proprietà, sebben non sia tale. Nondimeno l' idea della proprietà sopraggiunge, come dicevo. Mad. Neker de Saussure racconta di aver veduta una bambina di diciotto mesi che piangeva se alcuno toccava al passeggio il panierino della sua bona . [...OMISSIS...] Finalmente, una quarta ragione e più profonda non dubito aver gran parte nella limitazione che si mette a certa età nella benevolenza de' bambini: questa è l' indole dell' amore che ha per oggetti individui sussistenti. E in vero due forme comuni ad ogni ente sono l' idealità, principio dell' universalità, e la realità, principio della particolarità. A queste due forme dell' ente corrispondono in noi due potenze, cioè l' intelletto che intuisce ogni idealità, e il sentimento che costituisce ogni realità. La realità del sentimento viene poi affermata dal giudizio che è una terza potenza. Nell' ordine intellettivo adunque l' intelletto dà allo spirito nostro l' idea, e il giudizio dà allo spirito nostro la cosa (res) . La volontà poi co' suoi affetti si porta in entrambi questi oggetti, nell' idea e nella cosa; le due forme dell' essere possono ugualmente esser termine alla nostra volontà. Or poi, se noi amiamo un oggetto qualsiasi per le eccellenti sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. Se poi noi amiamo un oggetto per se stesso, e non meramente per le sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella sua forma reale. L' idea essendo principio d' universalità, come abbiam detto, anche il nostro amore nel primo caso è universale , di maniera che è pronto a volgersi a qualsiasi oggetto, dove ritrovi le stesse qualità e doti che sole esso cura. Il reale all' incontro essendo principio di particolarità, anche il nostro amore nel secondo caso è particolare ed esclusivo, di maniera che egli rifiuta un altro oggetto unicamente perchè è un altro, eziandio che avesse le stesse buone qualità del primo. Questo secondo amore è il principio della restrizione e limitazione della benevolenza; ed ha una natura anti7morale ove non termini nel divino. L' amore di noi stessi è di questa seconda specie: noi ci amiamo non già per le belle qualità che abbiamo, ma perchè siamo noi. L' amore de' genitori verso de' figliuoli è pure della stessa natura. Qual padre o qual madre soffrirebbe che il suo brutto e malvagio figliuolo gli fosse mutato in un angelo di bellezza e di bontà? Vuole il suo e l' ama sopra tutti gli altri personalmente. L' amor fisico è un terzo esempio d' amori di questa specie: gli amanti non vogliono amar altro che la identica persona cui consecraronsi, e vogliono essere amati nello stesso modo: indi la gelosia, cioè il timore che l' amor individuale personale dell' amante gli sia distratto da un amor ideale, cioè dai pregi che si trovano in altre persone. Ora ne' bambini l' amore che termina ne' pregi della cosa o persona (idealità) è intimamente congiunto all' amore che termina nella cosa stessa o persona sussistente; e degenera facilmente in un amore ove quest' ultimo elemento (amor dell' individuo reale) prevale e domina. A recare una prova di quel che voglio dire mi varrà il seguente fatto, narrazione d' una sagace osservatrice: [...OMISSIS...] Ogni madre, ognuno che di continuo ha sotto gli occhi dei bambini potrà testimoniare altri fatti simili, in cui il loro amore non termina a delle belle qualità delle persone, ma alla realità della persona stessa. Vero è che un tale amore nasce anch' egli in origine dall' amor ideale e universale, cioè dall' amore di qualità amabili o vere o supposte; perchè il cuore umano non può cominciare ad amar nulla se non sub specie boni , ma posteriormente degenera quell' amore e si corrompe: alle belle qualità si sostituisce la persona o la cosa dove quelle belle qualità o doti si son vedute o si costumano di vedere; da prima si crede che sieno così proprie di quella persona o cosa che non possano esistere altrove, ma in essa solamente; di poi si amano le belle qualità ancor più perchè sono in quella persona o cosa amata che se fossero tutt' altrove: e finalmente si ama la persona o la cosa sola per se medesima, foss' anco priva delle qualità che prima si amarono in essa, e le qualità medesime non si amano più se si rinvengono altrove collocate. Qui l' amore è divenuto sommamente immorale. Or poi si noti bene: quando io parlai dell' amore che ha per oggetto l' idealità, non parlavo tuttavia d' un amore che escludesse la realità. Se questo amore escludesse la realità, sarebbe un amore incipiente più tosto che formato: esso è l' amore che fu denominato platonico, e che non ha luogo ne' bambini e nè pure nel popolo: ma solo ne' filosofi naturali che giungono alle idee, ma non possono trapassarle, ossia compirle. Questa maniera d' amor filosofico, a cui veramente si riduce il meglio della naturale virtù, non entra ora nel nostro discorso. L' amor nostro che fu da noi descritto, dicemmo aver per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. L' idea dunque, cioè il bene veduto nell' idea, è la regola secondo la quale si amano i sussistenti: questi si amano certamente, ma non meramente perchè sussistono, ma perchè sussistono con quelle doti e pregi che ce li rendono amabili. L' altra specie d' amore all' opposto, di cui parliamo, ama i sussistenti senza più; dimenticando le doti amabili, talor anco ad esclusione di queste. Ora, io so bene che questi soli preamboli ch' io fo a ciò che vo' dire, fanno in pure udendoli agghiacciare il cuore delle madri, delle spose, de' padri e de' mariti; ma io pur debbo dire il vero e a tutto anteporre la dignità dell' umana natura, la quale ampiamente ricatta il valor d' ogni affetto che per essa perdere si dovesse. Tuttavia parrò men crudele, ove s' aspetti il compimento di questo discorso. Esaminando dunque il valor morale de' due amori da noi distinti, convien fare le seguenti riflessioni. Il sentimento è ciò in cui consiste la realità. Un essere reale come tale, cioè in quanto è sentimento, non cerca che il reale, non ha attrazione ad altro, non inclina a congiungersi se non col suo simile, cioè con altro essere reale. Tutte queste tendenze, e se si vogliono così chiamare affezioni, sebben cieche, tuttavia finchè non eccedono la sfera del sentimento, non sono riprovevoli, ma più tosto in se sole considerate non hanno alcun prezzo morale, non appartengono nè a virtù nè a vizio, non son merito nè demerito; benchè abbiano un valore eudemonologico. Ma quando l' uomo intelligente, la persona morale dà loro un prezzo, allora esse diventano materia di moralità: se il prezzo loro dato dall' intendimento è giusto, la persona che le ha giudicate fece un atto di virtù; se è ingiusto, fece un atto riprovevole. Ora qual è il giusto prezzo che si dee dare a quelle affezioni? Nullo, per se stesse considerate: considerate però in quanto sono elementi di felicità, esse hanno un prezzo allor quando diventano premio della virtù. In questa loro relazione diventano giuste ed appetibili anco dalla persona morale. Ma quanto non è grande il pericolo che si stimino per se stesse indipendentemente da questa relazione ch' esse hanno colla virtù! - Ecco uno de' primarŒ fonti della depravazione umana. Lasciando dunque da parte le affezioni meramente sensuali e sentimentali, parliamo della moralità dell' amore razionale avente per oggetto il reale. Primieramente, il reale finito considerato da se solo senza veruna dote non si può concepire: egli è nulla, non presenta veruna base al nostro amore. Il solo reale infinito può come tale essere amato: egli solo E`. In secondo luogo, l' amare i reali finiti secondo il merito delle loro buone doti e qualità è certamente giusto. Ma in tal caso abbiamo l' amore di seconda specie illuminato dall' idea: un amore che non è esclusivo, ma che si espande a tutti gli oggetti, dove trova le stesse doti e qualità: un amore che non è immobile, ma che cresce e diminuisce secondo che crescono o diminuiscono quelle doti o qualità: finalmente un amore che non è eccessivo , ma compartito a misura de' pregi stessi. L' amore che ha per oggetto il reale di natura sua esaurisce tutte le proprie forze nel suo oggetto. In terzo luogo, tra l' amore del reale per sè e l' amore dell' ideale nel reale, avvi l' amore di beneficenza e l' amore di gratitudine; i quali sono pure regolati dall' idea . L' amore di beneficenza è quello che ama di produrre negli oggetti suoi le belle qualità e doti che si propone. Lo scopo adunque di questo amore è morale; perchè ama non propriamente il reale per se solo, ma la realizzazione delle qualità e doti e pregi che meritano d' esser amati (1). L' amore di gratitudine ama la beneficenza della persona amata, e però termina ne' suoi pregi. Ella brama ancora di restituire i beneficŒ ricevuti; ed anche questo sentimento è morale, perchè o vuol produrre nella persona benefica qualche pregio e suo perfezionamento, e in tal caso si riduce all' amore di beneficenza, o vuol darle qualche bene eudemonologico ed egli ancora è morale, perchè un bene eudemonologico dato per gratitudine è un bene dato in merito e premio dell' altrui buon' azione da chi l' ha ricevuta (2). In tutti questi casi l' amor del reale non manca, ma regolato dall' idea è l' amor sempre dell' idea realizzata, e però si riman libero, non rinserrato, non cieco, non esclusivo. Noi abbiam veduto fin qui quali sieno le cagioni che ristringano il cuore del bambino e limitino la sua benevolenza. Una importantissima regola di educazione sarà per tanto la seguente. « Usare tutti que' mezzi pe' quali la benevolenza del fanciullo rimangasi libera, illuminata, non esclusiva, ma universale ». La scienza pedagogica, quanto spetta all' infanzia, avrà toccato la cima, quando sarà giunta a determinare quali sieno tutti questi mezzi, sì negativi pe' quali al fanciullo si sottraggono tutte le occasioni di limitare i suoi affetti, sì positivi pe' quali si ottiene che il fanciullo distribuisca i suoi affetti con universalità e giustizia. Noi direm solo alle madri, alle nutrici, ai genitori che se in conseguenza di questa dottrina pare loro di perdere qualche cosa del desiderato amore de' loro bamboli, essi s' ingannano così credendo. Il risultamento non ne sarà che di cangiare un amore ingiusto con un altro amore giusto, un amore impetuoso sì ma perituro, con un amore pacato ma eterno, qualche carezza infantile con un rispetto profondo, il quale nell' istesso tempo che darà a' loro nati quella dignità morale che è l' altissimo bene dell' uomo, darà ad essi stessi sicurtà pienissima di attendere da' figli ogni efficace aiuto e sostegno in qualsivoglia vicenda della vita, in ogni loro età, e memoria ed onoranza oltre il sepolcro. Ma il principale tra tutti i mezzi positivi co' quali si possa mantenere e rendere universale e sapiente la benevolenza nell' uomo fin dall' ugne tenerelle, si è quello di volgere fin dall' infanzia il corso del suo cuore verso la prima sua origine, il Creatore. Iddio comprendente in sè tutto l' essere, dove ogni cosa, che è, è Iddio amante di tutte cose, perchè tutte le ha fatte e le fa, raccoglie in sè tutto il bene, a cui tenda ogni cuore; e nell' amore divino vi ha perciò implicito l' amore ordinato ad ogni cosa. Laonde egli è a questo fuoco che s' accende la benevolenza, e s' espande immensamente e si ordina tutt' insieme. Veramente invano volle Rousseau far credere che il culto della deità non foss' opera da lingua che chiama babbo e mamma. Anzi il tenero infante, quasi più vicino all' origine sua, egli pare che vi si rivolga con trasporto, che la ricerchi con ansietà, che la ritrovi più rattamente dell' adulto medesimo; ed appartiene assai più a Dio che all' uomo il comunicarsi all' anima semplicetta che sa nulla e che pure intende il suo fattore. Laonde avvenne quel che dovea: ed il sofista ginevrino del secolo scorso trovò di questo, nella sua stessa patria, pienissima confutazione (1). Già vedemmo che nella terza età il fanciullo, comincia a concepire l' idea di Dio: dunque egli può altresì volgergli amore, o più tosto non può non farlo. Se poi consideriamo che per tutti quegli che ammettono l' esistenza di Dio, Iddio è il nodo che stringe insieme l' universo, la ragione delle cose, il principio e il fine di tutto, il bene di ogni bene, il bene essenziale: chi non vede che questa idea di Dio per chi non vuol esser ateo o inconseguente dev' esser pur quella che domina, che ordina, che dirige tutte le altre? Chi non vede che da essa sola può prendere la sua unità, il suo principio, ogni sua luce l' educazione umana, e non men quella de' fanciulli che degli adulti, degl' individui che delle società, delle nazioni che dell' umanità intera (2)? Se dunque abbiam già fatto conoscere al nostro fanciullo il valore di questa voce Dio, insegniamogli tosto anche a indirizzare a lui tutti i suoi teneri affetti. Ho già detto che dando l' uomo a Dio tutti i suoi affetti non li toglie alle altre cose, perocchè queste in Dio stesso si riscontrano. Non fa altro che santificarli, impedire che trasmodino, renderli ad un tempo e più sublimi e perenni. Io voglio qui dire una parola alle madri ed a' padri cristiani: agli altri genitori la parola che dirò è inintelligibile e per ciò stesso insopportabile: chiudano dunque qui gli orecchi quanti non hanno ne' lor sentimenti tanta elevatezza, quanta è quella che nelle madri e ne' padri veramente cristiani non infonde la natura, ma la parola dell' Altissimo. A' piedi di questi è lucerna la legge di Dio: e però essi non s' atterriscono a consultarla. Veggano dunque in qual maniera questa legge determini gli affetti de' loro figlioli sì verso di essi che verso l' Essere supremo. Che cosa ordina la legge di Dio verso l' Essere supremo? - L' amore: eccone le parole: « « Amerai il Signor Dio tuo di tutto il cuor tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(1). » Che cosa ordina la legge di Dio a' figliuoli verso i genitori? - L' onore: eccone ancora le parole: « « Onora il padre tuo e la madre tua, acciocchè sii longevo sulla terra che il Signore Iddio tuo ti darà »(2) ». Perchè riserba l' amore a Dio e comanda l' onore a' genitori? Che cosa significa questa distribuzione d' affetti? Questa distribuzione d' affetti che fa la divina legge è direttamente opposta alla distribuzione che ne fa la natura; giacchè la grazia si trova in opposizione continua colla natura, essendo quella più ampia di questa nelle sue vedute e ne' suoi affetti, e contornandosi questa di limiti, cui quella rompe e trasporta. La natura dunque inclina l' uomo ad amare i suoi genitori; non tanto ad amare l' invisibile Creatore, ma più tosto ad onorarlo . Ma volle forse la legge divina condannare o l' amor naturale verso de' genitori, o l' onore verso la Divinità? - No certamente: ella volle soltanto impedire che le inclinazioni naturali non trasmodino e degenerino in corruzione. A tal fine all' onore verso Dio suggerito dalla naturale ragione congiunse e contrappose il precetto dell' amore ; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose il precetto dell' onore . Di più, all' onore verso Dio congiunse e contrappose l' onore verso i genitori; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose l' amore verso Dio. Così gli affetti naturali, contrabilanciati dai precetti divini, possono conservarsi senza eccedere e pervertirsi. Si consideri che ciò che è naturale non ha bisogno d' essere comandato, ma solo regolato . I genitori possono starsene pienamente tranquilli sull' affetto de' loro figli: la natura glielo garantisce: basta solamente ch' essi stessi colla loro rea condotta non vi pongano impedimento. Ma s' arricordino ancora (parlo sempre a' genitori cristiani) che relativamente all' amore della loro prole non è già che questo scarseggi, ma che da una parte ecceda, dall' altra che degeneri in tenerezze sterili, le quali, appunto perchè effetto dell' istinto, cedono poi a un altro istinto maggiore, l' egoismo. Contro al primo di questi due pericoli che rende l' amore de' loro figlioli immorale si guarentiranno, facendo che nel cuore de' loro fanciulli Iddio abbia un posto maggiore di essi, memori delle parole del Redentore: « « Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me »(1) », e le altre che dimostrano come nella collisione iddio va preferito a' genitori: « « Se taluno viene a me e non odia il padre suo e la madre.... non può essere mio discepolo »(2) ». Contro al secondo pericolo si guarentiranno pure, se esigeranno dal fanciullo il debito onore alla loro autorità, fonte d' un amor rispettoso, di ubbidienza e di efficaci servigi: perocchè la legge di Dio tutto questo racchiude (3), ed è buon cambio verso a sensuali tenerezze. L' amore dunque verso i genitori vien migliorato inserendo in esso l' onore comandato dalla legge di Dio: questo determina qual debba essere la qualità e il modo di quell' amore: di che gravità, di che efficacia. Al modo stesso l' onore verso Dio vien migliorato e determinato dal comando che in esso dee esistere l' amore : non dee essere dunque nè un amore puramente esterno e materiale, nè un onore procedente da timor servile d' un' immensa potenza, ma si vuol essere un onore amoroso, pieno di confidente speranza: è il culto in ispirito e verità de' veri adoratori che, vogliosi di fare la volontà divina, trovano questa stessa in tutto ciò che fanno a vantaggio de' loro genitori, come pure di tutti gli altri uomini. Mi sia dunque permesso di dire che ogni usurpazione torna in danno di chi la fa; così i genitori cristiani, i quali più amano la loro prole, debbono vegliare su di se stessi (e forse niuno loro fin qui lo disse!), acciocchè non forse usurpando essi quel finale affetto che i figliuoli debbon dare a Dio solo, essi perdano anche quel legittimo che loro è dovuto e che a loro la divina legge tribuisce. Ma ritorniamo su' nostri passi. Il culto del bambino non può andare che dietro i passi che vien facendo in lui la cognizione dell' Essere supremo. Noi abbiamo accennato quale ella possa essere a questa età. Il culto che corrisponde alla medesima dee essere semplicissimo: affetti di amore e parole che lo esprimano. L' adorazione vien dopo: è un sentimento e un concetto più complesso: lo stesso dicasi dell' ossequio e del rendimento di grazie: essi appartengono alle età avvenire. Anco io crederei importante di dar tempo, acciocchè si sviluppi sufficientemente la grande idea di Dio nella mente dell' infante, prima di circondarla d' altre idee accessorie e d' altre religiose dottrine. Conviene che lo spirito del fanciullo si concentri nella maestà dell' Essere supremo; e quando egli è giunto a sentirla altamente questa maestà, quando il pensiero di Dio e de' suoi attributi domina in lui, allora tutte le altre idee religiose trovano in quell' idea una saldissima base su cui elle si edificano, un centro intorno a cui si aggruppano: la religione allora cresce, per così dire, quasi tempio augusto nell' animo dell' uomo. L' ordine delle intellezioni segna un' epoca fissa della mente: colla prima intellezione d' un dato ordine che faccia il fanciullo, egli entra in un nuovo stato intellettivo: gli si è aperto innanzi un campo immenso dove potrebbe spaziare senza trovare un confine, quando anche egli fosse limitato a quell' ordine a cui è arrivato, e non gli fosse dato di ascendere ad uno maggiore. Ma quando si voglia determinare il tempo preciso in cui la mente passa da un ordine all' altro, allora s' incontra un' estrema difficoltà. Primieramente non tutti i fanciulli fanno questi passaggi intellettivi agli stessi momenti. Di poi, anche trattandosi di determinare questi momenti in un determinato fanciullo, la cosa riuscirebbe difficilissima; perocchè e non si può accertare che il passaggio nasca sotto i nostri occhi, ed anco ove nascesse mentre il fanciullo forma l' oggetto della nostra attuale osservazione, egli facilmente ci sfuggirebbe, sia perchè quel primo atto d' un ordine superiore verrebbe fatto dal fanciullo in un modo sfuggevole, sia ancora perchè costa molto più di tempo e di sagacità all' istitutore l' analizzare gli atti della mente fanciullesca, che non costi al fanciullo il porli e il farli celeremente gli uni agli altri succedere. Sarebbe dunque impossibile il determinare in un trattato del Metodo, a qual tempo precisamente ciascuna età del fanciullo comincia, a qual finisce. E tuttavia non è inutile, anzi stimiamo assai vantaggioso, il determinare questi periodi per approssimazione. La qual opera rimane ancora cosa difficile, e noi non possiamo tentarla che su quella poca esperienza che abbiam presa de' giovani. Speriamo tuttavia che l' esperienza altrui verrà in progresso di tempo correggendo e perfezionando il nostro tentativo, forse il primo di questo genere. Diremo qual principio abbiam seguito e quale intendiam seguire nel compartimento delle età. Non avvenendo in tutti i fanciulli il passaggio d' un ordine all' altro d' intellezioni nello stesso momento, noi abbiamo preso a determinare questo passaggio, quel tempo entro il quale suole avvenire nel più de' fanciulli, e per accertarci sempre che questo sia avvenuto, abbiamo voluto averne un segno certo in qualche atto intellettivo che comunemente fanno i fanciulli, e che indubitatamente appartiene ad un ordine d' intellezioni. Così a segnare il principio della seconda età, abbiam presa la fine delle sei settimane; perocchè questo è il tempo in cui solitamente i bambini sorridono alle madri, primo segno certo di loro intelligenza. A segnare il principio della terza età, abbiamo preso la fine d' un anno; perocchè i bambini sulla fine dell' anno sogliono cominciare a parlare, e il parlare è un atto che appartiene certamente al second' ordine d' intellezioni. Ora medesimamente prenderemo la fine del second' anno a segnare il principio della quarta età di cui ci proponiamo a parlare in questa sezione, perchè nel terz' anno i bambini possono comunemente cominciare a leggere; e il leggere è indubitatamente un atto intellettivo appartenente al terz' ordine d' intellezioni. Da questa maniera che noi usiamo nel dividere le età, si vede: 1 che noi prendiamo gli ordini d' intellezioni per regola, secondo la quale compartire le età diverse; 2 che questa regola non è applicabile a determinare il tempo se non per approssimazione. Quando dunque diciamo che col secondo anno comincia la terza età del fanciullo e col terzo la quarta, non intendiamo mica di sostenere che avanti il secondo anno non abbia fatto il fanciullo nessuna intellezione di second' ordine, ma solamente che quelle sono da noi trascurate, perchè non osservabili ne' fanciulli comunemente. Così parimenti, quando facciamo cominciar la quarta età dal terz' anno, non vogliamo sostenere che non possa il fanciullo aver fatto anco prima di questo tempo qualche intellezione di terz' ordine; ma cominciamo al terz' anno a parlare di quest' ordine d' intellezioni, perchè cominciano allora queste intellezioni ad apparire comunemente ne' fanciulli non equivoche nè sfuggevoli di soverchio. Questa è avvertenza che vogliamo aver data una volta per sempre; la quale il lettore applicherà a tutte le età successive della vita che ancor ci restano da percorrere. Laonde quando anche il fanciullo passasse il terzo anno senza ascendere ad un nuovo ordine d' intellezioni, non continuerebbesi men tuttavia lo sviluppo di tutte le sue facoltà, quantunque limitate a non muoversi fuori del confine segnatole dal second' ordine d' intellezioni. In ciascuno degli ordini precedenti: 1 si aumenterebbe il numero delle intellezioni; 2 le intellezioni stesse si perfezionerebbero, ripetendosi e ricalcandosi nello spirito, traendo in atto una maggiore attenzione dal fondo di questo, e fondendosi nel sentimento universale che sempre esse cagionano, e che è principio di nuova attività. Questi due progressi del numero e della perfezione delle intellezioni avvengono entro ciascun ordine delle medesime, e non si debbono perdere giammai di veduta da chi vuol tenere dietro allo sviluppamento umano. Ma noi vogliamo averlo detto qui una volta, acciocchè il lettor lo applichi in ogni età a tutte le intellezioni degli ordini precedenti. A paro colle facoltà passive dell' intendimento procedono pure le facoltà attive della volontà: e con quelle e con queste va di conserva lo sviluppo di tutte le facoltà animali, che tutte si vanno vestendo d' abitudini diverse di forza e di qualità. Come le intellezioni di second' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti delle intellezioni del primo ordine tra loro, o coi sentimenti che l' uomo ha anteriormente al second' ordine (1); così parimenti le intellezioni del terz' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti che hanno le intellezioni di second' ordine tra loro, o tutto ciò che v' ha nell' uomo di pensiero e di sentimento precedentemente a loro. Le intellezioni dunque del second' ordine si dividono in due classi: I Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine tra loro. II Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine coi sentimenti che sono nell' uomo. Le intellezioni del terzo ordine essendo quelle che fa lo spirito mediante una riflessione sulle intellezioni del second' ordine, si complicano alquanto di più; e si dividono nelle classi seguenti: I Classe delle intellezioni di terz' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti (1) delle intellezioni (2) di second' ordine tra loro. A. - Rapporti della prima classe delle intellezioni di second' ordine tra loro. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni di second' ordine fra loro. C. - Rapporti tra le intellezioni della prima classe, e le intellezioni della seconda classe, sempre di second' ordine. II Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine colle intellezioni di prim' ordine. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni di secondo ordine colle intellezioni del primo ordine. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni del secondo ordine colle intellezioni di prim' ordine. III Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine coi sentimenti ad esse precedenti. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni del secondo ordine coi sentimenti antecedenti. B. - Rapporti della seconda classe d' intellezioni del second' ordine coi sentimenti antecedenti. Questo specchio dimostra che tutte le classi delle intellezioni di terz' ordine già crescono al numero di sette; il che non è piccola prova dell' immensità dell' umano pensiero, e del labirinto ch' egli è a volerlo percorrere e rilevarne il disegno. E posciachè ci recherebbe troppo a lungo il dar qui un esempio di ciascuna delle sette classi, mi restringerò a porgerne uno solamente dell' ultima, dove gli atti dello spirito umano più che nell' altre si complicano. Se io ricevo le diverse sensazioni che una rosa può darmi mediante i diversi miei organi, io insieme colle sensazioni mi formo di essa la percezione intellettiva (1 ordine d' intellezioni). Ora, se dopo di ciò di notte sentomi ferire le nari da un odore di rosa, io da quest' odore posso argomentare all' esistenza della rosa in vicinanza al mio naso: argomentazione che fo in riflettendo sul rapporto che la sensazione odorosa ha colla passata mia percezion della rosa: e che perciò appartiene alle intellezioni di second' ordine (2 classe). Ora poi se io continuo a riflettere su questa rosa, di cui ho argomentato l' esistenza, e riflettendo di nuovo argomento meco medesimo che « se qui v' ha una rosa, son certo che in essa vi hanno anco delle spine, le quali mi cagioneranno dolore, se colle dita io la stringo »; io formerò con ciò delle intellezioni di terz' ordine, e tra le intellezioni di terz' ordine una di quelle dell' ultima classe, perchè congiungo mediante la riflessione la rosa invisibile (intellezione di second' ordine) con un mio sentimento, cioè il dolore. Ora, se noi volessimo tener dietro a tutte le classi in cui si divide il terz' ordine d' intellezioni, e più ancora gli ordini successivi, saremmo infiniti. Omettiamo adunque, per non dipartirci dallo scopo di quest' opera, un lavoro sì vasto, benchè utilissimo, lasciandolo agli avvenire, e cerchiamo di prescriverci quinc' innanzi un piano più semplice ma regolare nell' esposizione de' gradi di sviluppo intellettivo che di mano in mano fa l' uomo, a cui possiamo riscontrare quel metodo che più s' avviene. In prima, in ciascuno degli ordini d' intellezioni, di cui avremo a parlare in appresso, cominceremo dal divisare diligentemente le varie classi nelle quali quell' ordine si parte, affine di presentare agli occhi del lettore una cotal tavola, dove rilevi e l' estensione di quell' ordine ed i confini e la varia complicatezza di ciascuna delle intellezioni che gli appartiene. Dopo di ciò, lasciando da parte quest' abbozzo di maggiori ricerche, noi prenderemo a considerare tutte in corpo le intellezioni di quell' ordine, seguendo il seguente progresso. In prima parleremo delle operazioni dello spirito colle quali si formano le intellezioni di quell' ordine di cui si tratta: di poi parleremo degli oggetti di quelle operazioni, cioè delle cose che noi per esse siam venuti a conoscere. Ora poi, quanto agli oggetti conosciuti, questi o sono idee elementari (1) comuni a tutte le conoscenze, ovvero sono conoscenze appartenenti all' una o all' altra delle tre nostre supreme categorie, in cui consideriamo partite tutte le cose che cadono nel pensiero o che sono. Riassumendo adunque, lo schema seguente presenterà agli occhi de' lettori il metodo che noi terremo trattando di ciascun ordine d' intellezioni, e giova non poco averlo presente, quasi carta geografica, affin di conoscere il cammino che noi facciamo. A. Operazioni, colle quali lo spirito si forma le intellezioni d' un dato ordine. B. Oggetti di quelle operazioni intellettive. I Comuni o idee elementari. II Categorici, cioè: 1 Reali e ideali; 2 Morali. In quest' età del fanciullo adunque le operazioni, alle quali la mente sua si fa idonea, sono i giudizi sintetici (1). E veramente essendosi formato il fanciullo nella terza età degli astratti di cose sensibili, per esempio, del colore, del sapore, o almeno certamente del bene e del male sensibile; egli è in caso di servirsi di questi astratti come di altrettanti predicati che aggiunge ad un soggetto, e perciò egli è nel caso, al cadergli sotto gli occhi d' un cibo, di dire: « Questo è buono »; ovvero: « questo è cattivo ». Si noti qui bene il progresso della mente fanciullesca. Io ho confutati i giudizi sintetici a priori di Kant (2); ma nello stesso tempo ho ammesso anch' io un giudizio sintetico a priori , ma un solo: quello che ho chiamato la sintesi primitiva o la percezione. Ho dichiarato a priori questo giudizio primissimo, col quale l' uomo dice seco stesso: « qualche cosa esiste », perchè in esso il predicato è l' esistenza , che non viene dall' esperienza, ma che è intuito con un atto interiore dello spirito. Questo giudizio sintetico a priori è l' operazione corrispondente al prim' ordine d' intellezioni. Ma tostochè lo spirito ha percepite le cose, egli esercita sulle sue percezioni e sulle memorie delle medesime de' giudizi analitici (1), cioè scompone le sue percezioni e memorie delle medesime. Veramente la scomposizione delle percezioni nasce in due modi: il primo nel modo naturale, onde avviene che la mente contempli la sola idea della cosa senza attendere al giudizio sulla sua sussistenza. Questa scomposizione dell' idea dal giudizio sulla sussistenza, che avviene naturalmente, non è un giudizio analitico; perchè nulla si giudica con essa: la sussistenza e l' idea sono cose eterogenee che si dividono da sè: lo spirito non fa che limitare la sua attenzione piuttosto all' una che all' altra di quelle due cose già per natura disparate. Il secondo modo di scomposizione si fa artificialmente sulle idee imaginali, traendosi da queste un loro elemento, e questa operazione è un vero giudizio analitico, perocchè è una vera scomposizione d' un' idea sola in più. Ed è il linguaggio quello che aiuta la mente, come abbiam veduto, a ciò fare; e sotto questo aspetto compete alle lingue la denominazione di metodi analitici data loro da Condillac. Tal è l' operazione che corrisponde al second' ordine d' intellezioni. Vedesi da ciò che con tale operazione appartenente al second' ordine la mente umana acquista de' nuovi predicati . Da principio essa non avea che quello innato nello spirito dell' esistenza, il quale gli servì a fare i primi suoi giudizi sintetici. Questi diedero materia ai giudizi analitici che susseguirono. I giudizi analitici fornirono alla mente de' nuovi predicati che, potendo esser congiunti ad altri e altri soggetti, diedero possibilità alla mente di fare dei nuovi giudizi sintetici. Perocchè se io già so, a ragion d' esempio, che cosa sia il bene e il male sensibile, al vedere un cibo del tutto simile nell' apparenza a quello che altre volte tornò gradevole al mio palato, io posso unire il predicato buono coll' oggetto da me veduto, pronunziando il seguente giudizio sintetico: « questo è buono », ovvero: « ciò che veggo è buono ». Non si dee mica qui confondere il giudizio sintetico, pel quale io dico: « questo è buono »colla semplice apprensione sensibile che si manifesta anche nell' animale, attesa l' associazione che nasce in lui delle varie sensazioni. Se il cane trema d' allegrezza al solo vedere presente il cibo che pure non può prendere ancora, non fa egli un giudizio: solo la vista del cibo gli desta il fantasma del grato sapore altre volte da lui provato e gli suscita l' affezione e l' azione corrispondente (1). Giudizio non si dà, se non in un essere il quale intuisca il predicato da sè solo (astratto), e poi lo congiunga al soggetto, cioè a dire vegga lo stesso predicato in un soggetto. Appartiene adunque al terzo ordine d' intellezioni la seconda fila de' giudizi sintetici. E prima di passar oltre non dee riuscire inutile l' accennare qui la legge universale cui seguita lo sviluppo dello spirito umano, la quale si è la seguente: « I giudizi sintetici ed i giudizi analitici si avvicendano per siffatto modo che se noi disponiamo in una serie i diversi ordini d' intellezioni, i numeri dispari dei medesimi sono formati da altrettante file di giudizi sintetici, e i numeri pari sono formati da altrettante file di giudizi analitici ». E che la cosa debba riuscire a questo è per sè manifesto: conciossiachè non si può scomporre se non quello che hassi prima composto. Laonde alla composizione dee susseguire la scomposizione, e alla scomposizione dee susseguire la ricomposizione, e così di mano in mano sempre procedendo. Questi ordini d' intellezioni adunque, i quali si formano mediante composizioni ovvero sintesi, danno allo spirito de' nuovi soggetti da analizzare, e quegli ordini d' intellezioni che formansi mediante scomposizioni o analisi, arricchiscono la mente di sempre nuovi predicati che sono atti ad essere sintesizzati, cioè uniti ad altri soggetti. E tuttavia oltre i giudizi sintetici proprŒ della quarta età del fanciullo, continua il fanciullo ad esercitare anche l' analisi . Già abbiamo notato che le operazioni dello spirito che cominciano nelle età inferiori continuano poi nelle superiori senz' interruzione, aumentando i loro prodotti di numero e di perfezione, il che complica sempre più lo sviluppo dello intendimento umano. Tuttavia si dee aggiungere, che all' analisi e all' astrazione vien data in ogni età nuova materia, perchè l' analisi del pensiero scompone tutto e continuamente, e perciò anche quello che è stato prima scomposto. Avvi certamente rispetto ai pensieri quella stessa divisibilità all' infinito, che si ravvisa nella scomposizione della materia, ond' è che sono vani gli sforzi di tutti quei logici che hanno voluto ridurre tutto lo scibile ad idee assolutamente elementari. Di qui poi scaturisce un' altra conseguenza ed è, che sebbene l' analisi appartenga al second' ordine d' intellezioni, tuttavia certi suoi prodotti sono proprŒ del terzo, e innanzi questo non si potrebbero avere, e lo stesso può ripetersi d' ogni altro ordine d' intellezioni superiore, di maniera che ad ogni ordine intellettivo l' analisi contribuisce qualche cosa del proprio lavoro. Le prime astrazioni che si fanno dal bambino sono le qualità sensibili degli enti, cioè il buono sensibile, il male sensibile, ecc.. Queste qualità non sono finalmente che effetti prodotti dagli enti nella nostra facoltà di sentire. Egli è naturale che il bambino da principio non può mettere la sua attenzione che in quel che sente, giacchè ciò che non sente non esiste ancora per lui. Ma tostochè egli giunge a mettere tra di loro in armonia le sensazioni de' suoi varŒ organi e a ricever l' una di esse come annunzio d' un' altra, ad aspettar questa, perchè gli è venuta prima quella, ecc., egli con ciò un po' alla volta giunge a porre la sua attenzione anche sulle azioni degli enti e ad astrarre queste da essi, sempre mediante il linguaggio, cioè mediante i verbi che segnano appunto l' azione delle cose. Mi si permetta qui d' aggiungere ancora le osservazioni d' una madre sulla maniera onde il bambino, mediante il linguaggio, giunge a formarsi gli astratti delle azioni. [...OMISSIS...] Queste osservazioni sono piene di verità, e di sagacità non comune. I giudizi sintetici di questa età sogliono essere la conseguenza d' un raziocinio catatetico , che si forma nella mente del fanciullo. A ragion d' esempio, quando il fanciullo giudica buono il cibo che vede prepararglisi, egli concepisce nella sua menticina un discorso, che, se potesse essere espresso in proposizioni, prenderebbe questa forma. « Ciò che veggo adesso è uguale a ciò che ho veduto altra volta, ma ciò che ho veduto altra volta era buono al mio palato e al mio stomaco; dunque ciò che vedo è buono al mio palato e al mio stomaco ». E` ben lontano il nostro fanciullo da poter esprimere tali proposizioni, ma la sostanza di esse passa indubitatamente pel suo spirito. Or poi, se il bambino della età accennata può fare dei raziocinŒ catatetici, e così salire al terz' ordine d' intellezioni; egli non potrebbe però ancora concepirne di ipotetici, o di disgiuntivi , perocchè i raziocinŒ di queste due forme esigono la maggiore composta di due predicati confrontati insieme, dei quali l' uno suppone l' altro, o l' uno esclude l' altro. Ora egli ha bensì de' predicati , ma per confrontarli tra loro e trovarne il rapporto dovrebbe salire ad un ordine più elevato d' intellezioni, come vedremo nelle sezioni seguenti. Or quali sono dunque gli oggetti, che l' uomo viene a conoscere colle operazioni indicate del terz' ordine? - Noi parleremo di alcune classi principali di tali oggetti, e prima dei reali, poi degl' ideali, e finalmente de' morali. Cominciamo dai primi. Fra gli oggetti reali dobbiamo in prima esaminare il progresso che fa lo spirito ne' concepimenti di collezioni. Gli astratti , e le idee collettive furono confuse insieme da' sensisti, e dagli Scozzesi, ma differiscono tra loro interamente (2): gli astratti sono il fondamento delle collezioni, ma non sono le collezioni. Io non potrei avere l' idea collettiva d' una mandra di pecore, se non avessi prima l' idea astratta della pecora, in cui ciascuna pecora della mandra conviene; perocchè la collezione non è che una moltitudine di cose sotto un certo rispetto uguali. Vediamo dunque per quali passi lo spirito si forma i concetti delle collezioni. Al primo vedere di più cose, che fa il fanciullo, o al primo sentirle contemporaneamente, egli non si forma già l' idea di collezioni, nè di pluralità, nè di differenze. Concedendo che il suo intendimento si mova alla percezione , e concedendo però che quelle sensazioni non rimangano meri fenomeni sensibili; non ne viene ancora che l' intendimento acquisti alla prima i concetti indicati di moltiplicità ecc.. Ciò che soltanto si può osservare si è questo, che, allorquando il fanciullo vede due cose a sè presenti, egli ha una percezione diversa d' allora che vede una cosa sola. Da ciò ne viene che il fanciullo distingua nel primo caso due oggetti, nel secondo un solo; egli non distingue se non due percezioni diverse, di cui non sa ancora farne l' analisi; la moltiplicità è tale per chi sa distinguere e separare le unità che la compongono; ma quando queste unità si percepiscono a un tratto e, come diceva la Scuola, « per modum unius », la mente allora non concepisce alcuna collezione. La diversità tra la percezione di un oggetto, e la percezione di più oggetti fu ciò che trasse in inganno Bonnet, al quale parve d' avere un fondamento per dire, che « « le idee di collezioni si formano dall' azione degli oggetti sensibili sui nostri organi, come si formavano pure, a suo credere, le idee semplici »(1) ». All' incontro concedendo noi, che l' impressione che ricevono gli organi del bambino alla vista d' un branco di pecore sia grandemente diversa da quella, che riceve dalla vista di una pecora, neghiamo al tutto che la diversità consista nell' essere quella un' impressione rispondente ad un' idea collettiva, e questa un' impressione rispondente ad un' idea di cosa unica: anzi esse sono due impressioni semplici, l' una più variegata dell' altra, ma che non dà allo spirito ancora alcuna vera idea di collezione. Si vede in questo errore di Bonnet, che questo filosofo non conobbe la vera natura delle idee collettive, nè credette necessario d' investigarla; ma osservata la differenza dell' impressione che fanno le collezioni di cose dall' impressione delle cose singole, ne dedusse che in questa differenza d' impressione consistesse appunto la natura dell' idea collettiva. Nè il sistema de' sensisti poteva difendere la mente dall' errore preso da Bonnet; perocchè in questo sistema non essendo essenzialmente separata la sensazione dall' intellezione, era impossibile l' accorgersi, che l' intendimento non percepisse ad un tratto quanto vi ha nella sensazione, ma soltanto un poco alla volta. Noi abbiamo veduto (1) che l' intendimento da principio non percepisce che la forza del corpo, dove ravvisa l' ente; e che solamente da poi colloca la sua attenzione sulle qualità sensibili dell' ente, le quali per buona pezza rimangono nel senso, sentite bensì dal soggetto, ma al soggetto ignote. Di più abbiamo veduto che l' intendimento con ogni suo atto percepisce il menomo possibile; cioè a dire percepisce solamente quel tanto dell' oggetto sensibile, che è costretto a percepire dal suo bisogno, che è lo stimolo che lo fruga e sveglia a' suoi atti; e nulla affatto di più. Quando anche adunque le due sensazioni di una collezione di cose e d' una cosa sola potessero prestare la materia all' intendimento per giungere a comporci l' idea di collezione e l' idea di cosa unica, non ne verrebbe mica di conseguenza che l' intendimento anche si componesse, di fatto e tosto, tali idee; ma anzi solamente allora, che nasce al soggetto intellettivo il bisogno di esse e non prima. E in ogni caso rimane al filosofo il dovere di descrivere tutto il processo delle operazioni che va facendo l' intendimento, quando dalla materia datagli da' sensi giunge effettivamente a lavorarsi e comporsi quelle idee. Egli è dunque questo che a noi conviene ora investigare. Egli è certo intanto che l' analisi d' idea di una collezione somministra per risultamento: 1 che questa idea suppone, che chi la ha sappia che cosa sia unità; 2 che sappia che più unità sono insieme adunate nello stesso spazio; per restringerci ora a questa specie di collezioni, come quelle, che sono più facili. Questa seconda notizia ne racchiude poi un' altra, cioè l' uguaglianza sotto un certo rispetto delle unità componenti la collezione; conciossiachè se più cose fossero in tutto e per tutto differenti tra loro, niuna collezione più formerebbero (1). Ora non è già a credersi, che il concetto dell' unità nella forma astratta, che vien significata nella parola, si formi assai presto nella mente del fanciullo. L' uno ideale esiste implicitamente nell' ente , che è il lume naturale della mente, e perciò il fanciullo lo suppone e l' adopera; ma senza porvi sopra attenzione, appunto perchè non ha bisogno d' un' astrazione così elevata. Nondimeno, allorquando egli sente a nominare (ed è ancor qui il linguaggio che aiuta la sua mente) un oggetto, due oggetti, ecc., egli arriva dopo qualche tempo ad accorgersi, che i due oggetti sono l' oggetto stesso ripetuto. Il fare coll' intendimento il giudizio seguente: « Questi oggetti, che io vedo sono due », è un' operazione complicata. Noi possiamo considerarla primieramente come un' analisi di quell' unica impressione sensibile, nella quale gli si rappresentano i due oggetti. La mente ritorna sopra questa impressione, la percepisce, e in essa distingue un oggetto dall' altro. Ma a far questo conviene che la mente abbia sentito a pronunciare il nome comune de' due oggetti, supponiamo il nome pera ; conviene, che abbia sentito ad applicar questo nome all' uno e all' altro oggetto, e che abbia compreso, che questo nome significa ciò che quelli oggetti hanno di comune; conviene, che la qualità comune de' due oggetti l' abbia nella sua mente legata a quel nome, e perciò stesso astratta dagl' individui. Nè si può dire, che perciò l' intendimento sia giunto ancora a formare il giudizio: « Questi oggetti sono due ». Conciossiachè la qualità comune, che restò nella mente legata al nome, non suppone alcuna dualità perchè è unica, e l' esser venuta da più oggetti non induce la necessità che anche la pluralità di questi oggetti sia restata nella mente, potendo aver ciascuno di essi deposto nella mente l' elemento comune senza che la mente li abbia considerati insieme, e abbia notato il rapporto numerico che hanno tra loro. Ma quando il fanciullo da una parte ha la qualità comune nella mente sua legata al nome, poniamo di pera , e dall' altra sente ripetersi agli orecchi la parola una pera, due pere, e vede questi oggetti presenti, allora egli finisce coll' assegnare un senso alle parole uno e due , e a fermare la sua attenzione sull' unità e sulla qualità delle pere. Laonde se noi consideriamo questo processo di operazioni, colle quali la mente giunge a concepire la dualità degli oggetti, noi facilmente ci accorgeremo che non può il fanciullo giungere a tanto se non arrivato al terz' ordine d' intellezioni. E infatti la qualità astratta appartiene al second' ordine, come abbiamo veduto. Il riflettere al rapporto numerico che hanno due oggetti partecipanti la stessa qualità astratta, esige manifestamente una riflessione di più, cioè un' intellezione di terz' ordine. Ma qui gioverà, che seguitando il discorso accenniamo ancora il modo, pel quale la mente passa a concepire gli altri numeri superiori al due; il che sebbene ella faccia sollevandosi ad ordini d' intellezioni sempre maggiori, onde il discorso apparterrebbe alle sezioni seguenti, tuttavia l' unir qui tutto ciò, che spetta alla cognizione dei numeri, renderà la dottrina più lucida. Egli è dunque evidente, che pei numeri tre, quattro, cinque e tutti gli altri maggiori, hassi a fare un ragionamento in parte simile a quello, che abbiam fatto per ispiegare la concezione del due. Sono sempre necessarie le parole, che fissino nella mente il rapporto numerico, cioè la trinità delle cose, la quaternità ecc.. Di più egli è impossibile il passare a numerare tre oggetti senza numerarne prima due, come è impossibile giungere al concetto dei quattro, se prima non si è formato il concetto dei tre. Questo dimostra che ciascun numero appartiene ad un ordine d' intellezioni superiore (1); di guisa che la mente è costretta a salire per tanti ordini d' intellezioni, quanti sono i numeri di cui ella giunge a formarsi una distinta idea. E dico una distinta idea, perocchè non è mica da credere che l' uomo abbia un' idea distinta di ogni numero che egli pronuncia colla sua bocca. E chi è mai che abbia una idea distinta di un milione, e anche solo del numero mille? Io credo per lo contrario che convenga discendere a un numero sommamente piccolo per trovar quello di cui gli uomini, anche dotti, abbiano un' idea distinta propria, e non aiutata da qualche formola generale. E infatti io credo impossibile, che l' uomo avesse pur nel linguaggio i nomi di numeri altissimi, quando egli non avesse altra via di concepirli se non quella che abbiamo accennata, di analizzare cioè la percezione, ch' egli riceve dalle collezioni, numerando le unità in esse distinte, e però notando il rapporto della seconda unità colla prima, della terza colle due prime, della quarta colle tre prime, e così trascorrendo tutti gli ordini delle collezioni a cui i numeri appartengono. In vece la mente, come diciamo, s' aiuta con delle formole generali; che se non le danno l' idea propria e distinta d' un dato numero, le danno almeno un' idea di rapporto del numero ignoto con un numero noto, e la cognizione di questi rapporti determinanti i numeri è sufficiente per avere implicitamente l' idea del numero, perchè si ha gli elementi coll' uso dei quali possiamo trovare il numero stesso. Mi spiego. Se io non conosco per se stesso il numero mille, ma so però ch' egli è dieci volte il cento, nella cognizione del dieci e del cento io ho implicitamente la cognizione del mille. Che se io non conosco il numero cento, ma so però ch' egli è dieci volte il dieci, io nella cognizione del dieci e del suo rapporto al cento ho implicitamente la cognizione del numero cento. Che se di nuovo io non conosco il dieci per se stesso, ma so però che è due volte il cinque, io nella cognizione del due e del cinque e del loro rapporto col dieci ho implicitamente la cognizione del dieci. Che se finalmente non conoscessi nè pure il cinque, ma sapessi però che è un numero che si compone di due volte il due più l' uno; io nella cognizione dell' uno e del due, e del loro rapporto col cinque avrei implicitamente la cognizione del cinque. Or dunque, se io conoscessi l' uno e il due, e i rapporti detti cogli accennati numeri, direi che la cognizione dell' uno e del due è propria e distinta; e la cognizione degli altri non è una cognizione distinta e propria, ma è una cognizione implicita ed espressa in formole . Da questo esempio si vedrà facilmente che ad acquistarsi la cognizione de' numeri mediante formole, la mente giunge assai più celeremente che non sia ad acquistarsi la cognizione propria e distinta de' singoli numeri; giacchè nel descritto modo la mente giunge al mille con quattro passi, con quattr' ordini di riflessione, là dove per acquistarsi la cognizione propria e distinta del mille dovrebbe impiegare mille passi, superare mille ordini di riflessioni; cosa quasi all' uomo impossibile. Ora la scienza de' rapporti de' numeri è l' aritmetica, ed essa perciò è quella che spiana la via per la quale il fanciullo possa più facilmente giungere molto avanti nella cognizione de' numeri. Si domanderà forse qual sia la prima formola che trova naturalmente il fanciullo per avanzarsi nella scala numerica, e a qual ordine appartenga: ecco ciò che a me ne pare. Ritorniamo alla nostra percezione collettiva: il fanciullo vegga un drappello di trentadue soldati; e sia già pervenuto alla cognizione dell' uno e del due. La maniera più semplice colla quale possa giungere, se non ancora a contarli, almeno a trascorrerli, a dividerli l' uno dall' altro, sarà la seguente. La percezione sua del drappello da principio è unica. Ma egli è già atto a fissare l' attenzione sopra un soldato solo. Egli può accorgersi allora che quel drappello non è un soldato solo, perchè vede, oltre il soldato da lui distintamente osservato nella sua percezione, esister ancora qualche cos' altro ch' egli chiama due. Ma questo due è più simile alla percezione totale che all' unico soldato ch' egli mise da parte: può dunque ripetere la stessa operazione e cavar dalla frotta, che restagli, un altro soldato: egli può ripetere la stessa cosa fino che ha fatto passare ad una parte i soldati tutti. Dopo di ciò egli non sa ancora il numero de' soldati; ma gli ha trascorsi uno per uno: ha avuto sempre sotto gli occhi due corpi; ma ha capito che il numerare uno e due si può ripetere quante volte egli voglia: questa è una cognizione nuova per lui ed importante. Se egli volesse qui continuare a riflettere, potrebbe formare due coppie di soldati, e poi due altre di queste coppie, e così procedendo trovare il rapporto del due col trentadue, o sia avere l' idea del trentadue tutto espresso col solo numero due, la qual sua formola sarebbe 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 equivalente a trentadue. Quindi facilmente si vede come il numero due sia un passo immenso per la mente fanciullesca; giacchè questo numero è la base di tutta la numerazione e l' aritmetica primitiva; non potendovi esser numero alcuno che non sia un composto di uno e di due, presi questi numeri e i loro composti una o due volte. E questa importanza del numero due nelle umane cognizioni spiega, se non erro, perchè nelle lingue antichissime v' abbia una terminazione a posta pel duale , nè si confonda il duale col plurale, come si fa nelle lingue moderne. Egli è vero che il duale delle lingue antichissime si applica, il più, a quegli oggetti che sono due in natura come gli occhi, le labbra, le mani, i piedi, le macine, ecc.; ma ciò appunto dimostra la speciale attenzione che fece la mente primitiva sulle cose doppie, e come avendo potuto notare in esse il due, poi con questo ebbe aperto il campo a tutti gli altri numeri che indefinitamente li comprese sotto una sola terminazione plurale. Un altro prodotto delle operazioni intellettive del fanciullo in questa età sono i primi principŒ definiti che acquista la sua mente, de' quali si serve per giudicare. Conviene conoscere chiaramente che cosa sia un principio o sia una regola di giudicare: egli non è altro che « un' idea che viene applicata mediante un giudizio (1) ». Quando io al vedere un oggetto, giudico che è « una pianta »; io applico l' idea della pianta all' oggetto che veggo; e il mio giudizio non è che una proposizione colla quale io affermo che « ho riscontrato nell' oggetto veduto ciò che contemplavo in quella idea ». L' idea dunque della pianta è la regola che seguo in formando questo mio giudizio. Ciò conosciuto, apparisce che vi sono altrettanti principŒ quante idee (2): e che l' essere più ampŒ o più ristretti i principŒ non dipende se non dalla maggiore o minore ampiezza che hanno le idee che vengono applicate. L' uomo, la natura umana è formata da un' idea sola (intuizione dell' essere). Se non ne avesse alcuna non sarebbe un essere intelligente, conciossiachè l' atto caratteristico dell' intelligenza è il giudizio, e il giudizio non è che l' applicazione di un' idea. Quando adunque l' uomo comincia ad usare dell' intelligenza formando i suoi primi giudizŒ, egli non può farli che dietro l' unica idea che ha, quella di esistenza, ondechè prima di giudicare qualsiasi altra cosa, giudica che la cosa esista, ne pronuncia l' esistenza. Allorquando pronuncia intellettivamente l' esistenza d' una realtà applicandole l' idea (percezione intellettiva) quest' idea gli serve di principio . Fino adunque dai primi atti intellettivi l' uomo ha nella mente sua un principio secondo cui giudica; perchè ogni giudizio suppone una regola che si applica in giudicando. Tuttavia questo principio, secondo il quale l' uomo giudica che le realtà esistano (percepisce), è un principio indefinito e illimitato; perchè si applica egualmente a tutte le realtà sensibili; e questa sua indefinitezza è quella che la distingue da' principŒ definiti che, secondo me, non compariscono nel fanciullo, se non quando questi è giunto al terz' ordine delle sue intellezioni. E veramente nel primo ordine d' intellezioni non ci sono che percezioni e idee imaginali. Le percezioni non possono servire di principio per la loro particolarità, e lo stesso dicasi delle memorie di esse. Le idee imaginali potrebbero, essendo universali; ma non trovandosi più individui del tutto uguali, non hanno un' applicazione possibile. Oltre di che applicare quelle idee non si possono, se non ripetendosi le percezioni avute: or queste non hanno mai bisogno di quelle idee per loro regola, quando anzi esse sono il loro effetto. Il second' ordine poi somministra delle idee astratte, ma non fa più che somministrare queste alla mente, e preparargliele per le operazioni del terz' ordine d' intellezioni. E veramente, quando la mente applica a giudicar delle cose quelle idee ch' ella si procacciò nel second' ordine d' intellezioni, allora ella fa appunto di quelle operazioni colle quali si eleva al terz' ordine. Ora, questi principŒ sono definiti, perocchè le idee astratte e semi7astratte, che il second' ordine somministra, hanno tutte una limitazione, non abbracciano l' essere in tutta la sua estensione, ma diviso, e da certi confini più o meno estesi circoscritto. Le idee astratte di cibo, di cane, ecc., non si applicano a tutti gli esseri; ma servono solo a riconoscere tutti quegli enti che sono cibi, tutti quelli che sono cani, ecc. (1). Quelle idee adunque diventano principŒ più ristretti che non l' idea dell' essere in universale, nella loro applicazione. Dai principŒ che dirigono i giudizi teoretici, passiamo ai principŒ morali e pratici che dirigono le azioni del fanciullo. E` un errore il credere, che il bambino non abbia regole di moralità, un errore compreso nel pregiudizio comune e oltremodo antico, ch' egli non abbia uso di ragione, la qual ragione si fa dal volgo comparire nell' uomo tutt' all' improviso e quasi per incanto all' età di sett' anni. Tutto ciò che diciamo in quest' opera tende a distruggere questo tristo errore popolare. E quanto alle regole della moralità, noi abbiamo veduto che appariscono nel bambino fino dal second' ordine delle sue intellezioni. Queste regole primissime si riducono a due, e le abbiamo formolate così: 1 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita ammirazione ». 2 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita benevolenza ». Non è già che il bambino abbia idea del merito; ma sente la necessità, uscente dalla sua natura intelligente e morale, di ammirare e di amare quella cosa bella, animata e intelligente, che per le sue sensazioni egli percepisce, e colla quale vitalmente comunica. Qual modificazione soffrono queste regole intrinseche alla natura morale del fanciullo, quando questi giunge al terz' ordine d' intellezioni? Cessano esse? Perdono esse di forza? Se ne sopraggiungono delle altre? La natura morale dell' uomo non può perdere le sue regole primitive; sentirà ella sempre il bisogno di ammirare e di amare ciò che è bello, animato e intelligente: e ci vorrà una violenza, qualche cosa che la pervertisca, acciocchè ella cessi dal farlo. Ma egli è vero però, che al fianco di quelle regole primitive ne insorgono delle altre nell' animo umano. Ogni età, ogni ordine di intellezione ha le sue regole; il fine, l' essenza loro è la medesima, tendono tutte a prescrivere la stima e l' amore a ciò che è bello, animato e intelligente: ma esse conducono l' uomo a questo fine comune per diverse strade, gli parlano con un linguaggio sempre nuovo, conveniente al nuovo stato della sua mente: l' uomo crede di far guadagno di sempre novelle massime morali, quando infatti ella è sempre la stessa massima, immutabile, eterna, che prende nuove forme nel suo spirito che fa di sè nuove manifestazioni. Noi dobbiamo dunque tener dietro a queste manifestazioni, a queste espressioni sempre nuove del dovere morale che nella mente dell' uomo s' ingenerano ad ogni nuovo ordine d' intellezioni; ed è questo che noi vogliamo ora fare nel terzo di questi ordini. Quali sono dunque le regole morali del bambino giunto al terz' ordine d' intellezioni? Nel secondo l' ammirazione e la benevolenza è già nata in lui: queste volizioni, effetti delle regole primitive, al terz' ordine si cangiano esse stesse in regole morali. Le regole morali adunque pel nostro bambino al terz' ordine d' intellezioni sono le seguenti: Ciò che è conforme alla mia ammirazione è bene. Ciò che è conforme alla mia benevolenza è bene. Ciò che è contrario all' una e all' altra è male. Ciò che non è nè conforme nè contrario alla mia ammirazione e alla mia benevolenza, è indifferente. Queste regole morali che segue il bambino nella sua quarta età differiscono non poco dalle regole primissime ch' egli segue nella età anteriore. Noi abbiamo già veduto, che le persone che governano il bambino possono influire assaissimo sullo sviluppare e sul dirigere la sua ammirazione e la sua benevolenza; con questa influenza da loro esercitata con tutti i loro atti e con tutte le loro parole, possono restringere o allargare la benevolenza infantile, possono dar luogo nell' animo dell' infante alla malevolenza, ispirargli dell' avversione per certi oggetti, della propensione per certi altri; ed abbiamo mostrato quanto giovi, quanto sia necessario tener lontano da quell' animo la percezione e opinione del male, cioè del brutto, e dar opera perchè il semplice cuore s' empisca di benevolenza e di ammirazione, sicchè questi affetti conservino la maggior possibile universalità. Io credo che possa influir questo immensamente sul far prendere all' uomo un corso di vita morale e virtuoso, e giovi a prevenire le passioni a quell' età che sogliono dar all' uomo il più fiero assalto. Ma la felice influenza di quella primissima educazione morale si manifesta già tosto nell' età intellettiva susseguente. Perocchè da essa dipende che le regole morali, che si forma il fanciullo nell' età rispondente al terz' ordine, sieno vere o false, sieno conformi o diformi dalla natura delle cose, lo ingannino o lo dirigano rettamente. E in vero se queste regole sono le sopra accennate « Ciò che è conforme alla mia ammirazione o benevolenza, è bene; ciò che si oppone alla mia ammirazione o alla mia benevolenza è male ecc. »; egli è evidente che queste regole sono vere o false, rette o torte, secondochè la benevolenza e l' ammirazione del bambino è ben formata e ben ordinata; o vero mal formata e mal ordinata. La condizione dunque delle regole morali, ch' egli si forma, dipende dalla composizione che ha preso il suo animo nella precedente età. Si vede di qui l' importanza di procurare, che la prima forma, che prende l' animo suo, la prima mole di stima e di benevolenza che in lui si pone, sia tutta pura e naturale, non contraffatta, non alterata dall' arte, non avvelenata dall' ignoranza e dalla malizia; perocchè se le stesse regole morali del suo operare vengono contraffatte e falsificate dalla prima mala forma che prenda l' animo suo, come potrà camminar diritto quel fanciullo che ha dinanzi agli occhi delle regole false? Eziandio che volesse andar bene, non potrebbe. Si declama sovente dai genitori e dagl' istitutori sulla perversa indole de' fanciulli. Eh! quest' indole non è sempre in essi necessità fisica; qualche cosa d' innato: ella prende questa apparenza, perchè non si vede il lavoro occulto che è venuto formandosi di continuo nelle loro piccole menti, onde si è bel bello immensamente falsato il loro pensare: esistono nelle loro testicciuole dei principŒ falsi che essi seguono fedelmente anche prima di saperli esprimere, e di cui nessuno saprebbe spiegare l' origine: nessuno infatti gli ha forse loro insegnati; ma il loro spirito che non resta mai ozioso, e che si va sempre lavorando dei principŒ, osservando anche in ciò le sue leggi indeclinabili, venne pur componendosi e rassodandosi certe persuasioni profondamente false, che dirigono poi segretamente il fanciullo e cagionano gli atti, atti suoi, fino i più capricciosi ed inesplicabili; conciossiachè esse sono i soli fanali che mandano nell' animo suo quella luce fallace, alla quale camminando gli è forza aberrare. Nel nostro fanciullo non si può ancor parlare di libertà: le sue azioni appartengono alla spontaneità . Mirabili sono le leggi, colle quali opera la spontaneità sia meramente animale, sia intellettiva e morale: noi le abbiamo esposte nell' « Antropologia ». Fra le volizioni spontanee si distinguono le affettive , le apprezzative , e le appreziative . Nella seconda età, in conseguenza del primo ordine d' intellezioni, già cominciano nel fanciullo tanto le volizioni affettive quanto le apprezzative. Nella terza età in conseguenza del second' ordine d' intellezioni cominciano nel fanciullo le volizioni apprezzative in un modo più esplicato. Nella quarta età continuano a svilupparsi i due predetti generi di volizioni; ma non per anco comparisce il terzo genere, cioè le appreziative, perocchè avendo queste bisogno di paragone tra due o più oggetti, non si possono formare fino a tanto che non si è giunti non solo a numerare due oggetti, ciò che si fa nel terz' ordine d' intellezioni, ma ben anco a raffrontarli tra loro, e trovare le differenze, ciò che spetta al quart' ordine, come vedremo. L' aumento delle volizioni affettive e apprezzative che succede nel fanciullo, porta in lui una spontaneità sempre maggiore, una sempre maggior mole di attività effettiva. Questa spontaneità poi non essendo temperata e diretta dalla libertà colla quale l' uomo comanda a se stesso, si spiega in modo che lascia vedere l' indole e le leggi sue proprie. Io ho mostrato che le leggi principali della spontaneità sono due: 1 l' aver ella bisogno di uno stimolo, acciocchè venga suscitata all' azione; 2 suscitata poi, il produrre ella un' azione maggiore di quella che sarebbe proporzionata allo stimolo stesso (1). Questa soprabbondanza d' azione, parte è messa dall' attività dello spirito, parte dalla legge d' inerzia, per la quale « ciò che è già in moto si continua nel suo moto fino che questo non venga da altra forza distrutto ». Questa legge può osservarsi nell' attività de' fanciulli. Cercando noi sempre di raccogliere i fatti, e di sottoporli agli occhi del lettore come i soli documenti fededegni di quanto avanziamo, recheremo anche quello che venne osservato da chi non pensava certamente di venire in appoggio delle nostre dottrine. [...OMISSIS...] Un altro carattere dell' attività del nostro bambino è la sconnessione de' suoi atti volitivi, e delle sue azioni esterne che vengono in conseguenza di quella (1). Quando sia ammesso il principio che ogni attività nell' uomo viene da una passività precedente, e che in conseguenza tutta l' attività volitiva seguita le concezioni dell' intelletto, quella sconnessione di movimenti ed azioni esterne è spiegata appunto dalla sconnessione delle sue idee. Nella seconda età le concezioni che eccitano e dirigono l' attività intellettiva (2) sono le percezioni, ciascuna delle quali è indipendente dall' altra. Tuttavia la sconnessione di quell' attività non dà tanto negli occhi, perchè l' attività messa in moto nel fanciullo è ancor poca, ed il bambino giunge all' oggetto della sua attività immediatamente. Nella terza età l' attività del bambino si muove anco dietro gli astratti. Questi primi astratti sono tra loro divisi; e però anche l' attività riesce sconnessa, e tratta di qua e di là quasi da mille centri diversi. Comincia poi la sconnessione ad apparir maggiormente quando l' attività che si muove è maggiore. L' attività in questa età non giunge, come nella precedente, immediatamente al suo termine, l' oggetto reale che cerca, ma con un passo in mezzo, cioè colla mediazione dell' idea astratta. Nella quarta età ancor più cresce la mole d' attività che gioca nel fanciullo, e non v' ha tuttavia niente che la notifichi; conciossiachè i principŒ secondo i quali ella opera sono infiniti, cioè altrettanti quante le idee che vengono da lui applicate. Andando innanzi col suo sviluppo, queste idee si raggrupperanno, questi principŒ si renderanno lentamente più generali, ed allora anche l' attività dell' uomo verrà da se stessa e quasi per incanto ordinandosi, raccogliendosi e avvicinandosi sempre più all' unità. Intanto all' adulto riesce molesta quella versatilità fanciullesca, non l' intende, e vuole imporre al fanciullo di quelle regole che ottimamente presiedono ad una attività unita, ma che sono inutili ed inapplicabili ad un essere che non ha un' effettività sola, ma molte scucite l' una dall' altra, ciascuna delle quali non è suscettibile di quelle regole, e tutte insieme non esistono, perocchè l' una non sa dell' altra: indi una delle maggiori difficoltà dell' educazione (1). Vedremo più tardi come nell' attività del fanciullo irruisca la fantasia, e n' accresca la versatilità. All' attività sconnessa del fanciullo appartengono quei giochi dove avvi gran movimento e una successione d' impressioni sconnesse, ma sempre nuove. L' inclinazione ad esercitarsi in tutti i possibili movimenti si spiega anco cogl' istinti animali. Il movimento è piacevole e salubre all' animale, e i movimenti ch' egli fa non sono certo diretti da alcun principio di ragione, che in lui non si trova, ma ciascuno ha la sua ragione e determinazione nelle leggi dell' animalità. A que' movimenti che sembrano fatti a caso e unicamente per diletto, noi attribuiamo il nome di giochi, gli consideriamo in un aspetto burlevole, quasi tendano a far ridere. Tuttavia per l' animale non sono già scherzi più quelli che il prender cibo: tutto ciò che si riferisce al sentimento del riso, è a lui straniero. Ma il disordine capriccioso di que' gesti e moti ha per noi quel turpicolo improvviso che cagiona il riso. Vi ha il turpicolo in que' movimenti raffrontati a' movimenti ordinati della ragione, e vi ha l' improvviso ed inaspettato per la loro continua novità e apparente stranezza. Quello che è singolare si è che il fanciullo trova ben presto qualche cosa di bernesco ne' proprŒ giochi: egli ve lo trova di mano in mano che si sviluppa in lui la ragione; e divien per lui una nova cagione di diletto. Ride di ciò che fa egli stesso e che vede fare agli altri fanciulli: tuttavia egli non ride propriamente di se stesso, perocchè mai di sè non si ride. E` il segnale ch' egli riconosce della frivolità, della sconcezza nei suoi atti; e di questo segnale dee cavar profitto l' istitutore: egli dee coltivare e perfezionare la conoscenza che il fanciullo si forma da sè del poco accordo che passa fra i suoi trastulli e la sua dignità di essere ragionevole: e giovandosi di questa cognizione dee condurlo ad un contegno composto e regolato. Egli è dunque un errore l' applaudire a ciò che v' ha di ridicolo nelle azioni fanciullesche: i movimenti naturali possono essere permessi fino che la natura animale li produce, quasi direi all' insaputa della ragione: ma tosto che la ragione interviene e li giudica come piccole turpitudini, allora debbono incominciare a cessare; debbono rendersi cagione di un cotal sentimento di pudore. L' istitutore dee sempre allora aggiungersi alla ragione per darle forza, e mantenere le sue parti. Ai giochi di moto disordinato debbono succedere gli esercizi ordinati dell' arte ginnastica. I giochi poi che consistono in abbattimenti di casi sempre nuovi non sono conosciuti dalle bestie; essi sono proprŒ del solo uomo, il quale vi trova il diletto di appagare la sua curiosità, la voglia di percepire e di sapere le cose sotto tutti i loro possibili aspetti. Ho già detto che questi possono essere assai utili allo sviluppo dell' intendimento, se l' istitutore ne saprà profittare; e nelle sue mani si cangeranno in vere e ben ordinate e dilettevoli istruzioni di matematica. L' attività morale del fanciullo a questa età si spiega principalmente sotto le due forme, quella di diritto di proprietà e quella di ubbidienza . L' una e l' altra di queste due forme sono l' effetto della benevolenza e dell' ammirazione del fanciullo. Al primo ordine d' intellezioni egli non possedeva ancora, nè ubbidiva; ma ammirava ed amava. Egli aveva percepito degli esseri intelligenti e belli oggetti della sua affezione e della sua ammirazione, co' quali comunicava per mezzo della simpatia e dell' istinto d' imitazione; ma dei quali non intendeva ancora nè i pensieri, nè i voleri; si noti che la simpatia e l' istinto d' imitazione, che si manifestano nell' ordine dell' animalità, sono comuni anche all' ordine dell' intelligenza; di maniera che vi ha anche una simpatia ed un istinto d' imitazione intellettivo. Queste leggi comuni ai due principŒ, il sensitivo e l' intellettivo, sono quelle che mirabilmente si legano tra loro; e fanno sì che l' uno all' altro si continui, quasi direi, senza che se ne vegga la commessura (1). Ora tostochè il fanciullo apprezzò ed amò un oggetto, egli concepisce il sentimento della proprietà, cioè quell' oggetto acquista una cotale unione spirituale con lui, e da lui staccandolo se ne risente, come se gli si dividesse una parte di se stesso (1). Percepisce ancora le cose delle persone a lui care unitamente con queste, e però gli ripugna il veder trasportare gli oggetti da queste usate, non altramente che se essi oggetti formassero parte delle stesse persone. Da principio questo fatto ha per cagione la forza unitiva dell' animale (onde anche fra le bestie si notano de' fenomeni simili); poscia serve all' inclinazione della natura animale la volontà (volizioni affettive); in appresso l' intendimento percepisce anch' egli il vantaggio di contemplare le cose belle, e gliene duole se vengono sottratte alla sua contemplazione; in quarto luogo finalmente (e certo molto più tardi) l' intendimento perviene a conoscere gli usi delle cose e ad apprezzarle anche per questi; dietro al quale apprezzamento la volontà si affeziona ad esse di un nuovo amore men nobile del primo, dell' amor interessato. Di questi elementi viene successivamente componendosi a parte materiale del diritto di proprietà: la parte formale non può essergli aggiunta che dal dovere, dalla legge morale. Se nel primo ordine d' intellezioni il bambino percepisce il bello, nel secondo, in occasione di rimanerne privo, prova il doloroso sentimento della privazione; nel terzo astraendo le azioni delle cose comincia a pregiarle pe' loro usi, o almeno a ciò si va disponendo. Dallo stesso fonte dell' ammirazione e della benevolenza nasce come dicevo l' ubbidienza del fanciullo. L' ubbidienza non è in lui che il desiderio, la volontà di uniformare se stesso agli enti intellettivi divenuti oggetti de' suoi affetti. Da principio, come dicevo, egli si uniforma loro come può, cioè colla simpatia e colla imitazione animale intellettiva. Ma col second' ordine d' intellezioni imparando il linguaggio, egli acquista un nuovo mezzo di comunicazione della sua colle anime da lui stimate e care. Gli si comunica una nuova luce: vede dentro a quelle anime: discuopre in esse pensieri e volontà: trova con ciò nuovi lati, da cui poter se stesso a loro uniformare e acconciare. Queste scoperte egli le fa col linguaggio, che comincia ad apprendere col second' ordine delle sue intellezioni e continua cogli altri. Giunto dunque al terz' ordine già in possesso del linguaggio, di questa chiave dell' interno de' suoi simili, vede coll' uso di esso le loro opinioni ed i loro voleri. Conosciuti questi tosto incomincia a manifestarsi nel fanciullo la credulità e l' ubbidienza. La credulità non è altro in lui che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse opinioni che hanno le persone colle quali usa. La ubbidienza parimente da principio non è altro che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse volontà pure delle persone colle quali usa. In questa loro prima apparizione la credulità e l' ubbidienza del bambino nascono dunque dal bisogno, ch' egli sente di rendersi uniforme colle persone da lui conosciute. Questo bisogno di uniformità che sentono tra loro le anime tosto che si conoscono, è veramente cosa profonda, misteriosa: per darne una soddisfacente ragione converrebbe scendere nel religioso segreto dell' ontologica dottrina. Non è questo che possiam noi fare adesso: basterà che constatiamo bene i fatti. « Il primo fatto si è, che il bambino dà segni di stima e di affetto a qualsiasi persona che da principio gli sorrida »: egli allora è giusto, non avvi presso lui accettazione di persone, è un giudice, dinanzi al quale i nomi de' piaggiatori rimanendo celati, giudica con integrità « secundum allegata et probata »: la sua tendenza ad esser rispettoso e benevole è universale. Dunque nell' essere intelligente, nel fondo della natura, trovasi una cotale necessità primitiva di dare stima ed amore a qualsivoglia essere intelligente ch' egli conosca. Questo è il gran fatto sul quale come sopra saldissima base sta fondata tutta la moralità: rimetto il lettore alla teoria che noi n' abbiamo data (1). Se da questa necessità primitiva nascono gli affetti che il bambino dà alle persone conosciute; da questi affetti nasce pure la necessità di essere con esse perfettamente d' accordo. Si suol dire che « l' amore o trova simili le persone amate o le fa ». Si dee aggiungere con egual verità che « l' amore fa simile chi ama alla persona amata ». La ragione ne è manifesta: l' amore vuole unione, vuole unione sì stretta che tende ad una cotale immedesimazione. Ora l' unione che vuole l' amore, l' immedesimazione a cui tende non può aver luogo, se non mediante conformità di opinioni, per la quale uniformità due menti sono unite in una sentenza, e conformità di voleri, per la quale due cuori sono uniti nel medesimo voto, hanno il medesimo bene, il medesimo male, godono insieme quello, soffrono insieme questo, si muovono con un passo solo a quello e si rimuovono pure con un medesimo passo da questo. Ripeto che qui ci covano dei misteri, nei quali non voglio io ora entrare, ma dico solo che il fatto sta così; me n' appello a tutti, perchè non vi ha creatura umana, la quale non ami. Se noi vogliamo dare a questo fatto una espressione diretta e se vogliasi così chiamarla scientifica, potrà annunciarsi in questo modo: « Quando un essere intelligente e volitivo ne percepisce un altro qualunque, gli effetti che in lui naturalmente si manifestano sono i sentimenti della stima e dell' amore ». Questa è la prima parte del fatto: la seconda parte è quest' altra: « Quando un essere intelligente che n' abbia percepito un altro, cedendo alla legge della sua natura abbia ammesso in sè i sentimenti della stima e dell' amore, questi sentimenti portano in lui una morale necessità di uniformare le proprie credenze alle credenze (1) dell' ente conosciuto e i propri voleri ai voleri pure del medesimo, tosto che venga a conoscere quali sieno queste credenze e questi voleri »(2). L' idea di essere ingannato non può venire al fanciullo se non dall' esperienza; come pure dalla sola esperienza gli può venire l' idea che dall' aderire all' altrui volontà gl' incolga alcun male. Lo stesso concetto dell' errore o del male è posteriore a tutto ciò nella mente del fanciullo. Rimangono adunque in lui le due sole tendenze della credulità e dell' ubbidienza tutte semplici, da nessun sospetto turbate o represse, e però nella loro maggior forza: ecco il primitivo fondamento della facilità colla quale il bambino crede e ubbidisce: son tendenze naturali dell' essere intelligente, a cui il fanciullo cede, perchè niente si oppone alla sua spontaneità. Veniamo ora all' istruzione e all' educazione morale, che risponde all' ordine d' intellezioni fin qui esposto. Già il lettore ha inteso prima d' ora, che cosa noi intendiamo per « istruzione rispondente a un ordine d' intellezioni ». Nondimeno mi si permetta il metterlo oggimai in espressi termini, affine di togliere ogni equivoco od obbiezione al metodo che proponiamo. L' istruzione adunque rispondente ad un dato ordine d' intellezioni abbraccia tre parti bene distinte, le quali sono: 1 Quella istruzione che serve per accrescere alla mente del discepolo il numero e la perfezione delle intellezioni degli ordini precedenti. 2 Quella istruzione che serve per far passare la mente del discepolo dall' ordine d' intellezioni in cui si trova, a quello che gli è prossimamente superiore. 3 Quella istruzione che serve a esercitare e perfezionare il discepolo nella dottrina appartenente all' ordine nel quale la sua mente ha già posto il piede. La distinzione importante di queste tre parti basta a rimuovere il timore, che il metodo nostro potesse rallentare i progressi della mente umana: anzi non fa che indicare la via più diretta, più spedita, più soave, per la quale ad essa mente conviene naturalmente procedere. Quindi facilmente si può inferire, come la lingua e lo stile, che usano le persone che istruiscono il fanciulletto, dee variare ad ogni ordine di sue intellezioni. Perocchè nella lingua e nelle varie parti, di cui ella si compone, cade ben sovente il bisogno di usare un ordine di intellezioni assai grande; onde non tutti i vocaboli d' una lingua possono essere usati col fanciulletto ad ogni sua età; ma anzi quelle che non si possono classificare nelle tre parti indicate dell' istruzione a lui conveniente cioè o tra le intellezioni degli ordini anteriori, o tra quelle dell' ordine prossimo a cui può salire col primo passo della sua mente, o tra quelle di questo medesimo ordine a cui è già salito, sono vocaboli del tutto perduti, inintelligibili al fanciullo, e però attissimi a confonderlo, a turbare il progresso delle sue idee come le pietre turbano i passi di chi cammina, ed a rendergli però assai più malagevole l' intelligenza di quei vocaboli, che pur sono alla sua portata. Noi abbiamo veduto che al second' ordine d' intellezioni il bambino può intendere i nomi (1), al terzo i verbi, non però le declinazioni di quelli, le coniugazioni di questi, che troppe altre riflessioni esigono sui nessi delle cose: intende dunque il nome indeclinato e il verbo nel suo infinito e ne' participi, forme nelle quali il verbo è ancor nome ma esprimente azione. Chi dunque è arrivato al terz' ordine non potrà intendere se non quei vocaboli e quelle forme, le quali non suppongono che un solo ordine di più, quello a cui la mente dee sollevarsi, e nel caso nostro è il quarto. Si dovrà dunque cercare di comporre il discorso che si fa a' bambini di queste voci e forme per quanto è possibile; ed allora la comunicazione tra noi adulti ed essi sarà trovata, sarà apertissima. Lo stesso dicasi dello stile , lo stesso pure de' concetti che si esprimono nel discorso: conviene che o quello o questi non contengano intellezioni, se non tutt' al più di quart' ordine, e tali che si possano rannodare alle prime intellezioni degli ordini precedenti che sono già nella mente del fanciullo. Conviene che il fanciullo in ogni sua età operi . L' attività del fanciullo, abbiamo veduto, che è di tre specie: corporale, intellettuale, morale. Egli ha bisogno di tutte e tre queste specie di attività, colle quali si sviluppa, ma debbono essere guidate come conviene. Quanto alla quantità d' azione , non dee già esser soppressa l' azione naturale del fanciullo, nè eccitata; ma soltanto moderata quand' essa, eccedendo, recherebbe un danno alla sanità del fanciullo. Quanto alla qualità , dee essere alimentata quella, e non altra, che è proporzionata all' ordine delle sue intellezioni; e il difficile consiste appunto nel trovare giustamente quale ella sia. Quanto alla regolarità, si dee introdurre in essa due ordini: 1 L' ordine tra una specie e l' altra, che subordina e fa servire l' attività corporale alla intellettiva, e l' attività corporale non meno che l' attività intellettiva alla morale. 2 L' ordine entro ciascuna specie, in modo che in ciascuna attività si trovi quella uniformità, costanza, regolarità, e, per dire ancor meglio con una sola parola, ragionevolezza , che è possibile. L' ammaestrare e guidare in queste cose il fanciullo è veramente un educarlo. Sebbene, tosto che il bambino sa un po' favellare, potrebbe essere posto alla lettura; tuttavia io stimo da preferirsi il trattenerlo ancora nella scuola preparatoria dell' esercizio orale. Nell' esercizio orale si distinguono due parti, cioè la parte intellettiva e la parte meccanica . L' esercizio che si fa fare al fanciullo deve riguardare l' una e l' altra. Io ho già raccomandato, che fin dal secondo grado d' intellezioni si faccia fare al bambino l' esercizio di nominare più cose che sia possibile (1). Questo esercizio appartiene alla parte intellettiva, ed esso deve continuare ora e per molte ancora delle intellezioni che devono venire. Mentre poi allora non si poteva fare che co' nomi , in questa età e nelle susseguenti si può fare anco coi verbi (1) e coll' altre parti del discorso, osservando delle regole simili alle accennate. Ma ora egli è tempo di cominciare insieme anche l' esercizio meccanico e alternarlo all' intellettivo, e questo estenderlo via più. Questo esercizio meccanico è quello di rettificare la pronuncia de' bambini, e insegnar loro l' uso perfetto degli organi della favella. E in vero, dopo che i fanciulli hanno imparato qualcosa a parlare, la prima operazione è quella di rettificar bene i suoni che pronunciano, giacchè essi dapprima vi commettono molti difetti e imperfezioni; balbettano, smozzicano parole, strozzano suoni, scilinguano, ecc.. Onde innanzi di venire a farli leggere o scrivere si rendano perfetti nella pronuncia, facendo loro vincere le difficoltà delle sillabe più difficili. Al quale intendimento già si pose mente da' benemeriti promotori delle scuole infantili anco in Italia, e si conobbe che a tal fine è uopo far pronunciare « « nettamente e giustamente tutti i suoni elementari, di cui si compongono le parole intere (2) » ». Io credo che gioverebbe cominciare questo esercizio dal far emettere i toni musicali , prima secondo la scala naturale, di poi per li salti; i quali saranno già mezzi impressi nello spirito del bambino, se gli si fecero udire nelle età precedenti (3). A questo esercizio può tener dietro o intromettersi quello della pronuncia de' suoni vocali e articolati della favella. L' ordine nel quale si devono far pronunciare al fanciullo nostro i suoni elementari, parmi dover esser quello stesso, nel quale poi egli deve imparare a leggerli e scriverli. Ora a me sembra che devasi cominciare dalle vocali, e poi dai composti di vocali, appresso dalle sillabe che ciascuna altra lettera dell' alfabeto fa con ciascuna vocale, poi le sillabe di tre lettere, e così di mano in mano (1). Perfezionata la pronuncia di tutte le lettere, sillabe e parole, giova passare alla parte intellettuale dell' esercizio orale. Il far apprendere al fanciullo a nominare gli oggetti, come abbiamo detto, appartiene alla parte intellettiva. Appartiene pure a questa parte il fargli analizzare i suoni. Nel « Manuale » dell' Aporti ve n' ha un bell' esempio (2), solamente che non parmi che sia ancor tempo di parlare al nostro bambino di dittonghi o trittonghi, ma solo di pluralità di suoni; anzi parmi del tutto impossibile ch' egli intenda che cosa sia dittongo e trittongo, quando l' idea di due o tre suoni gli è facilissima (3). Così sarebbe impossibile, a mio parere, il fargli capire che l' ia in abbia è dittongo e non l' è in ubbi7a , e l' esempio recato dall' Aporti della voce ai così isolato non mostra che deva essere dittongo piuttosto che due semplici suoni, potendosi egualmente pronunciare ài, aì , ne' quali casi è dittongo, e à7ì separando le sillabe, nel qual caso non è dittongo, ma semplicemente doppio suono. Oltracciò, volendosi porre per base dell' educazione il procedere rigorosamente logico, parmi che non si deva dire che le consonanti divise dalle vocali abbiano un suono. Esse non sono suoni, ma cominciamenti o finimenti di suoni (1), i quali cominciamenti e finimenti non esistono senza i suoni stessi, come non esiste il punto senza la linea, o la linea senza la superficie, o la superficie senza il solido. Ciò posto, non parmi giusto che quando il maestro pronuncia la sillaba bi , e poi domanda al fanciullo: Quanti suoni avete udito? gli si faccia rispondere come nel « Manuale » dell' Aporti: Due suoni. Anzi egli deve rispondere: un suono solo; come risponderà da sè sicuramente, perchè quella sillaba è un suono solo. Bensì che, avutane questa risposta, gli si deve pronunciare prima i e poi bi, e domandargli se sono lo stesso suono. Egli risponderà che bi è un suono diverso da i . Allora gli si domanderà dove stia la diversità, se nel principio o nella fine del suono. - Nel principio. - E il suono ib è lo stesso suono di i, e di bi? - Anzi diverso. - Ma in che è diverso da i; nel principio o nella fine? - Nella fine. - E da bi? - Nel principio. E questo esercizio si deve continuare per tutte le sillabe. Conviene esercitare il bambino a scomporre le parole ne' loro suoni, cioè nelle loro sillabe, e nel riconoscere e notare le differenze loro (1). Questo esercizio orale sarà utilissima preparazione alla scuola di lettura che verrà appresso, e gioverà grandemente allo studio intellettivo del fanciullo (2). Giova ancora in questa età fargli numerare le cose uguali, acciocchè egli ascendendo per la scala dei numeri, si ecciti ad ascendere per le intellezioni di vari ordini. Nel che però egli da principio sembra mostrare più speditezza che non parrebbe doverne avere da ciò che per noi fu detto innanzi, che ogni numero è un ordine nuovo d' intellezioni. Ma la ragione di questa speditezza si è la formola semplicissima che egli tosto apprende per passare da un numero all' altro. Questa formola consiste nell' aggiungere sempre un' unità alle cose numerate. Egli ripete dunque la stessa operazione, e la segna con un numero nuovo. Quando dice uno e uno due, due e uno tre, tre e uno quattro, e così via, non ha mica per questo la distinta cognizione del due, del tre, ecc. che nomina e che distingue colle operazioni replicate; ma senza badare alla somma accumulata, egli vi aggiunge ogni volta l' unità, e poi vi dà un altro nome. Ciò non di meno anche questo solo è un esercizio utile al bambino; e a tal fine sarebbe da dargli prima due oggetti uguali, pallottole od altro, poi tre, poi quattro, ecc., lasciandoglieli a suo trastullo fino che si scorge esser egli venuto in possesso del numero che gli si vuol far apprendere. Altri esercizi sono indicati nel « Manuale » per le scuole infantili (1). A questa età ancora giova il mostrare al fanciullo le cose per imagini. Egli le ama, e se ne rallegra sommamente (2). Tra gli altri vantaggi, che cavar si potrebbe dall' uso delle imagini, vi sarebbe quello di disporre il fanciullo alla scuola di lettura e di scrittura che deve susseguire ben tosto. Sembra che la prima scrittura fosse per imagini: queste poi si raccorciarono in geroglifici: la scrittura letterale fu probabilmente l' ultima ad essere inventata. Fu già proposto di tenere il medesimo andamento col bambino; ma il difficile sta nel trovare imagini che, rattratte, si potessero convertire in altrettante lettere dell' alfabeto. Ancor più difficile riesce, se si esige che il nome dell' imagine porti nella prima sillaba il nome della lettera stessa, il che incredibilmente facilita ai bambini la lettura. Nondimeno io mi sono ingegnato di mettere insieme un sì fatto alfabeto ad uso delle scuole de' Fratelli della Carità, e delle Suore della Providenza, al quale rimetto il lettore (1). La moralità nei bambini fu giudicata diversamente: la più parte degli uomini non ve ne trova alcuna: alcuni osservatori sagaci vi scoprono una moralità, ma si dividono poi nel giudicarla; altri la vogliono bona e tutta bona; altri malvagia e malvagia per intiero. La ragione, onde i più non vedono moralità nell' età prime, si è perchè sono adulti quelli che ve la cercano, e vi cercano la moralità dell' adulto. Quello che abbiamo detto, crediamo che sia sufficiente a dimostrare che il bambino ha la sua propria moralità. Che nel bambino poi appariscano per tempo de' vestigi manifesti di un principio di errore e di disordine morale, questo è quello che hanno riconosciuto sempre tutti i savŒ uomini che hanno considerata la natura umana senza sistemi precedenti; egli è altresì uno de' dogmi più profondi e più maravigliosi del cristianesimo. Noi ci riserbiamo a dire su di ciò ancora una parola, quando il bambino comincerà ad operare con scelta; fin qui egli ubbidisce ad una spontaneità che lo determina, mediante la preponderanza de' gradi di sua benevolenza, determinati questi pure da ragioni esteriori (1). Noi vogliamo dunque restringerci per ora ad osservare la moralità del bambino in se stessa; non in ciò che potrebbe contenere di guasto radicale. Gli amici de' fanciulli, che attentamente gli osservarono, credettero di dover notare una grande incostanza nella loro moralità, nella quale non si potesse trovare, per poco, nulla di fisso. Ecco come ne giudica una madre, che avrebbe pur voluto dire il meglio del mondo delle care creature che sono i bimbi: [...OMISSIS...] . In fatti certi atti del bambino a questa età dimostrerebbero un estremo egoismo, e certi altri un estremo disinteresse. Onde quest' apparente contraddizione? Per rispondere a ciò conviene entrare in un mistero dell' età infantile; e non so se nessuno vi sia penetrato. Ecco la porta per la quale io vorrei farvi entrare il mio lettore. Il bambino ha il sentimento di se stesso, ma non l' idea , non la cognizione; egli non può percepire intellettivamente se stesso, se non pervenuto a un ordine più elevato d' intellezioni: questo è quello che noi dimostreremo nella sezione seguente, e che preghiamo intanto il lettore di qui concederci per postulato (2). Ora, in tutto il tempo che passa prima che il bambino percepisca intellettivamente se stesso, egli non può colla sua volontà riferire al SE conosciuto il bene ed il male; perchè il SE conosciuto non esiste ancora. Questa è la ragione degli atti sommamente disinteressati del bambino: il suo operare è ancor tutto oggettivo, il soggetto non esiste ancora pel suo intelletto e per la sua volontà. Ma onde dunque avviene che moltissimi altri atti del bambino appariscono pieni d' egoismo? Primieramente, nel tempo stesso che opera l' attività intellettiva nel bambino, opera in una sfera inferiore l' attività animale . Ora l' attività animale ha tutte le apparenze dell' egoismo sebbene non le si possa applicare questa parola (1), che venendo dall' ego, significa l' amor proprio di un soggetto che conosce se stesso, perchè l' io è appunto un soggetto che si conosce (2). In secondo luogo, quantunque il bambino non percepisca se stesso, tuttavia egli prova ed anche percepisce intellettivamente piaceri e dolori; ma questi non avendo un soggetto a cui riferirli, li riferisce agli oggetti che glieli cagionano; alla percezione e imagine di essi sì fattamente li associa, che nel suo concetto diventano una cosa sola con essi. Egli vuole dunque gli oggetti: il suo operare è sempre oggettivo: ma questi oggetti sono composti, come d' un loro elemento, di piaceri e dolori che sarebber suoi proprŒ, s' egli lo sapesse. Convien dunque distinguere i piaceri e i dolori percepiti in se stessi, senza il soggetto e imaginati essere nell' oggetto, da' piaceri e da' dolori riferiti allo stesso soggetto. L' operare in quant' è morale, prende forma dalla concezione e dall' intenzione di chi opera. Se dunque l' intenzione del bambino concepisce i dolori e i piaceri che prova negli oggetti che percepisce, egli opera dietro un principio oggettivo; ma l' apparenza che mostra il suo operare è tutta soggettiva; perocchè veramente egli va in traccia continuamente degli oggetti piacevoli, e rifugge dai dolorosi. Ora quest' apparenza soggettiva siamo noi che l' aggiungiamo alle azioni del bambino; perocchè siamo noi che le riferiamo al bambino soggetto, il che non fa il bambino stesso. Noi facciamo delle azioni del bambino quel che facciamo delle azioni nostre: riferiamo queste a noi stessi, perchè ci abbiam percepiti e continuamente ci percipiamo. Applichiamo dunque per analogia all' operar del bambino, quanto avviene nell' operar dell' adulto; ecco il solito errore: la fonte delle tante contraddizioni che ci sembrano scorgere nelle infantili azioni. Quanto è stato detto intorno alla misura ed alla qualità della resistenza, che si deve fare al bambino nell' età precedente, è necessario applicarsi anche alla presente, ed a quelle che verranno appresso. Esercizio moderato di pazienza, rettificazione di concetti, purgazione delle malevolenze, rimozione de' limiti alla benevolenza sono i quattro scopi che si dee prefiggere la resistenza e il rigore da usarsi col nostro fanciullo. Quanto più egli cresce, è altresì capace di sostenere una medicina più forte. Perocchè, posto il principio importantissimo che noi trattando con lui « dobbiamo applicare i suoi principŒ morali e non i nostri, cui egli non intenderebbe »ne viene di conseguente che quanto più i suoi principŒ si amplificano, tanto maggior appiglio noi abbiamo da influire su di lui e pretender da lui più di prima. Dico anche pretender da lui più di prima; perocchè « noi non possiamo pretendere dal fanciullo se non che egli sia coerente a suoi principŒ »noi non possiamo esigere se non che egli abbia la moralità sua propria e non altra; e solo quando egli se ne dispensa, noi abbiamo il diritto e il dovere di richiamarvelo, anco coll' aggiungere il dolore a tutte quelle azioni che disconvengono da' principŒ morali a lui noti, acciocchè egli sia aiutato anco dall' istinto del dolore a fuggire quelle azioni, la cui dolcezza lo inganna. E questo aumento di resistenza suol rendersi necessario per questo appunto, che crescendo in età si disviluppano nel bambino per varie cagioni diverse malevolenze e ritrosità; le quali si vogliono levare via tostochè nascono, scuoprendole con occhio sagace, acciocchè non invecchino e si distendano. Si deve proseguire in questa età il culto a quel modo che fu da noi dichiarato nella sezione precedente. Ma dopo qualche tempo che gli si nominò Dio e glielo si fece conoscere come un personaggio amabilissimo, il sommo bene; si dee per tempo fargli conoscere Iddio7umanato e Maria sua madre, e fargliene invocare i nomi spessissimo e, per quanto si può, ad ogni bisogno per soccorso, ad ogni azione per aiuto, ad ogni cagione di letizia per rendimento di grazie. Egli è incredibile quanto quest' esercizio gioverà a perfezionare nella mente del bambino l' idea di Dio, a far nascere la religione nel suo cuore, a rinforzarlo in tutte le sue disposizioni ed abitudini virtuose. Finalmente non si trascurino di procacciare al bambino quelle grazie, di cui abbiamo parlato alla prima età. Tutte le operazioni proprie degli ordini precedenti continuano a ripetersi, a complicarsi, a produrre dei nuovi concetti nell' intendimento, delle nuove affezioni nella volontà. Ci basta di averne avvertito il lettore: avvertenza che deve valere anco per gli ordini successivi; conciossiacchè in tutta la vita dell' uomo avviene che in qualsivoglia età continua ad operare tutta l' efficienza degli ordini d' intellezioni precedenti. Passando adunque noi senza più al quart' ordine, quali sono esse le intellezioni di quest' ordine? Troppo lungo sarebbe il farne una classificazione distintamente ragguagliata: noi però abbiamo indicata la via da tenersi, quando far si volesse, là dove abbiamo classificate distintamente le intellezioni del terz' ordine. All' uopo nostro basterà dunque che facciamo osservare, che tutte le intellezioni di quest' ordine si possono ridurre a due ampie classi. I Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine tra loro. II Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine colle intellezioni degli ordini precedenti. Ognuno intende da ciò che è detto, quale immensa classificazione simile a un labirinto ne uscirebbe dove si volessero suddividere queste due gran classi (1). E pure il quart' ordine delle riflessioni non è ancora nulla verso a quegli ordini tanto più elevati, a' quali perviene la mente degli uomini adulti e assai più ancora de' sapienti. Come l' operazione propria della mente, quand' è già in possesso delle intellezioni di second' ordine, si è la sintesi ; così l' operazione propria della mente stessa giunta a possedere le intellezioni di terz' ordine si è l' analisi giusta la legge da noi stabilita che « di tutti gli ordini dispari delle intellezioni è propria operazione il giudizio sintetico , e di tutti gli ordini pari è propria operazione il giudizio analitico ». Non sarà inutile che noi cominciamo dal vedere la differenza che passa tra i giudizi analitici al secondo ordine e i giudizi analitici al quart' ordine. I giudizi analitici al second' ordine sono delle pure astrazioni ; ma i giudizi analitici al quart' ordine sono delle scomposizioni elementari . La differenza tra queste due maniere di giudizi analitici è immensa: ecco dove consista. Nell' astrazione la mente non fa se non fermare la sua attenzione sopra una parte della sua concezione e trascurare tutto il rimanente. Così avendo io ricevute delle percezioni di corpi, io posso fermare la mia astrazione al colore, e così far di questo un essere astratto. Nella scomposizione elementare all' incontro la mente prende colla sua attenzione tutto intiero l' oggetto da lei concepito, e lo divide in parti. Così dopo d' aver giudicato che il tale oggetto è « un corpo colorato »io posso dividere in quest' oggetto la sostanza dall' accidente, e dire « quest' oggetto si compone di due parti, cioè della sostanza e dell' accidente, del colore ». Nell' astrazione recata ad esempio io ho pensato al colore e nulla più; quando ho giudicato che un dato oggetto sia un corpo colorito (sintesi al terzo grado), ho dovuto pensare ad un tempo il colore astratto e l' oggetto sussistente nel quale io lo ponevo. Se io ora dico che quest' oggetto ha due parti, io pongo medesimamente la mia attenzione tanto sulla sostanza quanto sull' accidente e di più ne riconosco la loro relazione . Lo studio poi di questa relazione diviene nel mio intendimento fonte inesausta di cognizioni, che mi si accrescono in appresso per tutta la vita. Fino a tanto che io percepisco degli enti individualmente sussistenti (primo ordine) non potevo fare alcun confronto fra loro e nol potevo pure, quand' io astraevo da essi le loro qualità (second' ordine): perocchè io mi fermavo a queste, astratte e divise dagli enti, e gli enti stessi in una tale operazione mi sfuggivano: riunendo agli enti le qualità astratte (terz' ordine) io riponevo gli enti interi sotto la mia propria attenzione. Solo pervenuto a questo grado il lavoro della mia mente, io avendo presenti e le qualità astratte e gli enti stessi sono in caso di confrontare le une cogli altri e conoscere col PARAGONE la scambievole loro natura. La fecondissima operazione del PARAGONARE le cose (operazione che dà alla mente un lume sfolgorantissimo) non può cominciare che al quart' ordine d' intellezioni (1). Il paragone non si può eseguire se non a questo tempo, anche perchè solo al terz' ordine l' uomo conosce la dualità. Nè solo mediante il paragone , al quart' ordine si distingue la sostanza e l' accidente , l' ente ed il modo dell' essere nella cosa stessa; ma si comincia altresì ad analizzare anche il grado, onde l' ente partecipa del predicato che noi gli attribuiamo; onde possiamo distinguere la gradazione nella quale due corpi, a ragion d' esempio, partecipano del color rosso o di altra qualità ossia predicabile (1). Si comincia adunque in questa età ad analizzare non solo l' ente; ma i modi, i predicabili stessi dell' ente. Come nell' ordine antecedente delle intellezioni continuò l' operazione dell' analisi, così egli è evidente che nell' ordine presente vi ha luogo alla sintesi: giacchè questa trova la materia preparata da quella. Uno dei prodotti dell' analisi del terz' ordine si fu quello dei concetti astratti delle azioni: le azioni dopo essersi astratte si applicano, si predicano degli enti e così si formano dei giudizi sintetici. Una somigliante sintesi si forma tanto rispetto agli oggetti reali, come se io al solo vedere il fuoco gli attribuisco l' azione del riscaldare; come rispetto agli oggetti meramente ideali, come se io imaginassi un ente qualsiasi e gli applicassi la proprietà riscaldatrice. Questo prova che la specie di sintesi, che nasce in questa età, estende immensamente il potere dell' imaginazione intellettiva (ideazione) rendendo possibile allo spirito l' attribuire a degli enti creatisi con essa delle attività che o non sono comprese nel loro concetto o se sono, sono però anco distinte da essi nella loro mentale esistenza. Questa osservazione è importante; perocchè spiega lo slancio che suol prendere l' imaginazione del fanciullo quand' egli giunge ai tre anni. A questa età par che incominci la mente a concepire qualche raziocinio ipotetico o almeno la proposizione maggiore di esso. Già nell' età precedente il fanciullo conobbe il numero due. Sembra dunque che di due cose egli potrebbe a questa età ravvisare la relazione che viene espressa nella maggiore del sillogismo ipotetico; cioè l' esser una d' esse condizione dell' altra. Tanto più, che nel sentimento le due cose stanno già legate e condizionate attesa la forza unitiva del soggetto. Laonde la mente non ha che ad analizzare, per così dire, il proprio sentimento per conoscere il condizionante ed il condizionato (1), analisi però che prima del quart' ordine sicuramente non può eseguirsi. Imperocchè deve la mente: 1 percepire il sentimento; 2 disgiungere le due cose legate tra loro (terz' ordine); 3 osservare che data l' una vi è l' altra, tolta l' una l' altra pure è tolta; dopo di tutto ciò solamente ella può dire: « se la tal cosa è (od avviene o si fa) è pure l' altra ecc. »che è la maggiore del sillogismo ipotetico. Il sillogismo ipotetico dilata immensamente l' attività volontaria; perocchè solamente quando nella mente cominciano a formarsi le ipotesi, possono aver luogo le volizioni condizionate, distinte dalle assolute; come pure le velleità d' ogni genere; avanti questo tempo non ha il fanciullo velleità; egli vuole semplicemente e però fortemente. Che se la condizione posta alle volizioni diminuisce la forza di queste, il che è perdita di energia, vi ha però un compenso in questo che le rende più regolate, dirette da maggior lume di ragione; cominciano a legarsi insieme, a subordinarsi; indicibile profitto per lo sviluppo della moralità. Nell' età precedente si giunse a conoscere il numero due. Era necessario conoscere uno e due oggetti prima di poterli paragonare insieme e trovarne le differenze . Ora, come il paragone è operazione che comincia all' età del quart' ordine, così pure in questa età solamente si può avere il prodotto mentale delle differenze delle cose. Ciò che abbiamo detto addietro basterebbe solo a mostrare che ella è cosa assai più facile il conoscere le somiglianze di quello che sia conoscere le differenze delle cose. Ma chi ha seguito il progresso dello sviluppo intellettivo nel bambino, da noi descritto fin qui, e l' analisi delle operazioni della sua mente e de' prodotti di questa, si sarà convinto ancor più colle sue proprie riflessioni di questa verità importante e contraria al comun pregiudizio de' filosofi, che suppongono trovarsi le simiglianze e le differenze coll' operazione stessa. Questo pregiudizio nasce dal non considerare che ciò che è simile in più oggetti si può appercepire e notare dalla mente in due modi, o come una qualità semplice (più generalmente un predicabile ), o come una qualità che noi sappiamo trovarsi in più oggetti e renderli simili (1). Ora, a conoscere il simile in questo secondo modo, certo che egli è necessaria l' operazione stessa che si usa a conoscere il differente ; ma tutt' altro avviene se trattasi di conoscere il simile nel primo modo. Questo primo modo è semplicissimo, ed appartiene al secondo ordine d' intellezioni, perocchè non consiste in altro se non in collocare la nostra attenzione intellettiva in una qualità di una o più cose, trascurando di attendere a tutte le altre parti delle medesime, e lo stesso loro numero; perocchè in questa operazione non si fa se non ripetere la stessa attenzione alla qualità identica in ciascuno degli oggetti che passano sotto l' occhio, senza tener menomamente conto del loro numero e senza paragonarli. All' incontro la differenza non si può scuoprire in nessun modo, se non si mettono a paragone e non si noti in che cosa entrambi divariano. Il numero tre è il proprio di quest' ordine, giacchè la mente del fanciullo nell' ordine precedente è pervenuta a conoscere distintamente il due. Come poi ella è giunta a conoscere il due coll' aggiungere l' uno all' uno; operazione che ella può poi ripetere, e la conduce alla numerazione, senza tuttavia farle conoscere i numeri maggiori distintamente, ma solo in confuso; così or può giungere alla cognizione del tre, sia coll' aggiungere l' uno al due, o coll' aggiungere il due all' uno, operazione anco questa seconda, che imparatala a far dal fanciullo, gli diventa presto una formola generale salendo nella scala de' numeri col ripetere l' aggiunta del due: onde conosce i numeri mediante una relazione di più. Cresce la cognizione delle collezioni delle cose di pari colla scienza de' numeri. Il nostro bambino potrà avere oggimai un' idea distinta delle collezioni composte di due e di quelle composte di tre oggetti; ma di quelle composte di un maggior numero non avrà che un' idea confusa. Discernerà bensì i molti ed i pochi , giacchè avendo l' idea confusa di collezioni numerose, e l' idea chiara del paio e del ternario, potrà conoscere facilmente che vi hanno delle collezioni superiori alle collezioni da lui chiaramente conosciute. Prima di questo tempo non poteva il fanciullo aver il concetto del mezzo , ma ora può averlo appunto perchè oggimai può conoscere due cose, l' una delle quali condizionata all' altra. Egli diviene anco questo incremento grandissimo alla sua attività, la quale non solo istintivamente come faceva prima, ma anco per calcolo intellettivo, potrà di qui in avanti subordinare un mezzo all' ottenimento di un fine. Egli non saprebbe tuttavia sottordinare l' uno all' altro una serie di mezzi: a far ciò egli dee fare delle riflessioni appartenenti ad un ordine superiore. I filosofi non hanno mai esaminata accuratamente la questione, per quanto io sappia, dell' età in cui l' uomo percepisca se stesso. Essi hanno comunemente ritenuto per cosa chiara e non bisognevole di dimostrazione, che l' uomo percepisca se stesso fino da' primi istanti di sua esistenza, e che non potrebbe percepir le cose senza aver prima percepito se stesso. Ma queste supposizioni gratuite non reggono all' osservazione esatta del fatto importante di cui si tratta. Il fatto anzi dimostra che l' uomo percepisce e intende molte altre cose prima di percepire ed intendere se stesso, e che egli non conosce il vero valore del monosillabo IO prima di essere giunto al quarto o al quint' ordine d' intellezioni. Di più l' osservazione dà un altro risultato, e questo si è che la conoscenza che l' uomo si forma dell' IO varia nelle diverse età di grado e di forma; e che questa parola IO perciò (come tante altre) pronunciata dall' uomo ad una età ha un significato diverso da quello che riceve pronunciata dall' uomo in un' altra età (1). Egli è necessario che qui noi ne diciamo alcuna cosa. A tal fine non possiamo a meno di ripigliare brevemente l' analisi dell' IO, sebbene da noi data altrove (2). L' IO esprime l' ente umano che parla (3) e che nomina se stesso come esistente, come operante. Ora, l' ente umano è primieramente composto di due principŒ: 1 il principio animale; 2 il principio spirituale. Questi due principŒ sono però connessi in modo che il primo è legato al secondo, e il secondo esercita la sua forza e il suo imperio sopra il primo, di maniera che tutti e due si riducono ad un principio solo supremo, che è il principio intelligente; ma tale che ha virtù anco sopra il principio animale a lui congiunto. Questo principio supremo colle parti inferiori a lui congiunte è l' uomo , ma non è ancora l' IO. I due principŒ indicati sono due sentimenti, e perciò l' uomo non manca mai di sentimento: egli stesso è un sentimento intellettivo7volitivo che dispone di un altro sentimento sensitivo7istintivo. Ma questo sentimento7uomo non è l' IO, perocchè l' IO non è un sentimento, è una coscienza. Or, come dunque e quando si forma l' uomo quella coscienza di sè stesso che egli poi esprime col monosillabo IO? Esporrò prima una ragione assai plausibile, la quale potrebbe far credere l' uomo si dovesse far tosto quella coscienza, anzi non potesse andarne senza. Da prima egli è certo, come ho provato nella « Ideologia », che in lui si manifesta l' essere ideale. Quando dico che si manifesta in lui l' essere ideale, allora dico che l' essere ideale si manifesta in un sentimento sostanziale, il quale sentimento è egli. Sono dunque uniti il sentimento sostanziale e l' essere che risplende in quello. Ciò posto, egli parrebbe che questa unione bastasse a fare sì che il soggetto percepisca se stesso; se pure è vero ciò che altrove affermai, che « « il sentimento è come la scena sulla quale gli oggetti ci compariscono e ci si rendono visibili » » (1). Non cancello quest' ultima sentenza. Egli è certo che niente può essere da noi intellettivamente percepito, se non ciò che opera nel nostro sentimento sostanziale. Laonde accordo che il sentimento stesso essendo ciò in cui si veggono le cose che si veggono dall' intendimento, egli stesso può essere veduto senza bisogno che un altro sentimento ce lo presenti. Ma primieramente si deve distinguere nel sentimento sostanziale l' atto con cui questo sentimento vede l' essere dagli altri atti di lui. Ora l' atto con cui vede l' essere, non può mai essere quello con cui vede se stesso; ed anzi egli è un atto che esclude la visione di se stesso. In quanto adunque il sentimento direttamente si porta nell' essere, egli è incognito a se stesso. Ora qui si noti bene: l' uomo, e soprattutto l' IO, è essenzialmente quel principio che vede l' essere; è il sentimento sostanziale intelligente. Escluso da sè questo sentimento, l' uomo più non esiste; l' uomo non ha la coscienza di se stesso fino che non ha la coscienza di essere intelligente. Acciocchè dunque arrivi a formarsi una tale coscienza, conviene che il sentimento sostanziale non vegga semplicemente l' essere, ma vegga se stesso veggente l' essere (1). Ora, a tal fatto non basta che egli sia presente sulla scena dove si veggon le cose; ma conviene di più, che con un atto nuovo che cava da sè, egli applichi l' essere che vede a se stesso veggente l' essere, e che mediante questa applicazione dell' essere, illumini e vegga se stesso nell' essere. Convien dunque che cavi da sè un atto nuovo, non datogli dalla natura, ma mosso dalla sua spontaneità suscitata da qualche bisogno o stimolo: ecco la grand' opera che a far gli rimane se vuol percepire se stesso. Se dunque tutto ciò che cade nel suo sentimento è in luogo da poter essere da lui veduto, e il sentimento stesso veggente l' essere (se stesso) gode di questo vantaggio; si dee però aggiungere, che questa visione o percezione non può essere effettuata, se non a condizione d' un atto nuovo uscente dall' intimo del soggetto, che è un atto della forza dell' attenzione, la quale si concentra e ripiega sopra l' oggetto che vuol vedere, pel quale ripiegamento lo spirito (il sentimento sostanziale) guarda se stesso veggente l' essere, unitamente all' essere veduto e in questo contenuto quasi come in suo genere. Ora, quest' atto del conoscimento di sè, così implicato, sarà egli più facile degli atti co' quali lo spirito conosce le altre cose? Il sentimento7uomo opera conoscendo; e conosce prima le cose di cui abbisogna; ora egli non abbisogna punto di conoscere se stesso per operare, abbisogna di conoscere altre cose le quali egli non ha, e vuole avere ed operare per averle, e per operare conoscerle; se stesso non cerca, perchè si ha, ma cerca quelle cose le quali completino se stesso, sovvengano a ciò che gli manca, alle sue deficienze e limitazioni; l' uomo è un essere incompleto; se bastasse a se stesso, nulla cercherebbe, non ci sarebbe in lui attività di moto, ma solo attività di stato. Le sue stesse sensazioni piacevoli e dolorose non le concepisce se non annesse agli oggetti esterni, e in questi le suppone esistenti. L' uomo adunque non può essere richiamato a ritorcere la sua attenzione a se stesso che dal linguaggio. Ma il linguaggio stesso non viene appreso dal bambino tutto ad un tratto; egli deve passare per più ordini d' intellezioni prima di capire tutte le parti del discorso. Vedemmo già che al second' ordine d' intellezioni egli non apprende che i nomi sostantivi, e per meglio dire sostantivati; e che solo nel terz' ordine egli giunge a formarsi l' idea astratta delle azioni delle cose. Solo adunque al terz' ordine egli può nominare le proprie azioni; ma queste nulla più che oggettivamente, come le azioni di tutte le altre cose. Egli ha bensì il sentimento delle proprie azioni che è una cotale estensione del suo sentimento sostanziale, ma nulla più. Le azioni sue sono esterne, cadono sotto i suoi sensi, come le azioni degli altri; se stesso all' incontro è interiore, è un principio invisibile che produce quelle. Egli conosce adunque le proprie azioni prima di sapere che sono sue proprie, prima di riferirle a se stesso col suo intendimento; perocchè se stesso nel suo intendimento ancora non esiste. Giunge bensì nella terza età ad attribuire le azioni ad un ente, ma non ad osservare fra gli enti quello che è egli stesso. Nel quart' ordine d' intellezioni, e non prima certamente, ma forse di poi, egli può percepire se stesso come principio operante, mediante il linguaggio; egli cioè può ritrarre la propria attenzione dal di fuori sul proprio sentimento operante, accorgendosi per tal modo che certe azioni hanno per causa quel sentimento che lo costituisce, a differenza di certe altre che non sono da quel sentimento prodotte. La prima adunque ed elementare cognizione di se stesso che abbia l' uomo, consiste nella percezione di « SE operante »(1), intendendo la parola SE pel sentimento sostanziale, che forma l' uomo dallo stesso uomo percepito. Questo sentimento operante può essere benissimo espresso colla voce IO; ma questa voce non avrebbe ancora tutto il significato che le compete, e che le viene poscia dagli uomini sviluppati attribuito. L' IO non si pronuncia mai solo, ma con qualche verbo espresso o sott' inteso (2), il che è manifesta prova della legittimità del modo onde ne abbiamo spiegato l' origine. E` dunque questo primo IO « il sentimento sostanziale operante che percepisce se stesso e che si esprime ». Ma con una riflessione maggiore, che l' uomo poi faccia sopra se stesso, egli viene a conoscere l' identità di sè parlante e di sè parlato; ed allora l' IO riceve una significazione più completa, venendo a significare « il soggetto umano operante (il sentimento sostanziale operante) che percepisce se stesso come operante, che come tale si esprime, e che sa che egli, che parla, è identico a lui parlato ». Questo significato del monosillabo IO non può essere attribuito se non dall' uomo giunto almeno al quint' ordine d' intellezioni. Tanti e così difficili elementi racchiusi in questo monosillabo spiegano il perchè tardi e con difficoltà egli s' intenda. [...OMISSIS...] Ho già detto che ne' popoli antichi si trova una gradazione d' intelligenza simile a quella che si osserva ne' bambini e che le lingue antiche ne conservano le vestigia. Anche qui non manca la traccia dell' infanzia delle nazioni, se si osserva che quanto le lingue sono più antiche, tanto meno gli uomini introdotti a parlare usano del pronome personale IO, come pure del TU. Questa è la ragione per la quale le lingue orientali amano di far parlare i personaggi in terza persona anzichè nella prima (1). Che se noi rivolgiamo l' attenzione a' bambini, potremo facilmente notare la difficoltà che essi provano a rettamente usare i pronomi personali io e tu . In vece delle mie proprie osservazioni, io assai volentieri accolgo le altrui quando sono dalle mie confermate, perocchè adducendo io l' altrui testimonio, niun potrà dire che io piego l' osservazione al servigio del mio sistema. Una donna adunque, la quale non aveva certamente in mira di venirmi in aiuto, quando osservava e quando scriveva, una donna di cui riferisco sempre volentieri le osservazioni, perchè solitamente vere e sagaci, scrive tutt' al mio uopo così: [...OMISSIS...] . A questa sola età può cominciare a formarsi nella mente del fanciullo il concetto del tempo. Questo concetto incomincia a formarsi non già col raffrontare le tre parti del tempo, il presente, il passato e il futuro; ma solo col raffrontarne due, il presente col passato, ovvero il presente col futuro. A tanto può arrivare il fanciullo al quart' ordine delle sue intellezioni. Al terz' ordine egli ha un' idea accurata del numero due, al quarto può paragonare le due cose distinte e vederne le differenze. Distinguere il tempo presente dal tempo passato, ovvero distinguere il tempo presente dal tempo futuro, questa può essere operazione appartenente al quart' ordine: distinguere tutti e tre i tempi raffrontandoli tra loro prima del quint' ordine è assolutamente impossibile. Di più si noti, che non parliamo già del tempo interamente astratto dagli avvenimenti, ma del tempo considerato come una qualità, un predicabile di questi. Che un avvenimento cessi d' esistere quando un altro incomincia, o che un avvenimento ad un altro succeda, questo rimane nella ritentiva del bambino come un fatto anche solo per la forza unitiva dell' animalità. Di poi gli avvenimenti s' incatenano mediante associazione d' idee. Questo non è ancora il concetto del tempo negli avvenimenti. Egli è uopo che il bambino noti un avvenimento che fu ieri, e lo distingua con quello che accade oggi, mettendolo con questo in paragone; ovvero distingua quel d' oggi da quello che sarà domani; acciocchè si possa dire che egli s' è formato il concetto del tempo presente e del passato, o del presente e del futuro. Ora primieramente questo tempo è un predicabile degli avvenimenti che non cade sotto i sensi, è una limitazione dell' esistenza sopra sensibile delle cose. Egli è dunque necessario alla mente il linguaggio, acciocchè ella possa fermarvisi e ritenerla. Oltrecciò la forza dell' attenzione nel bambino è ancor poco sviluppata, e quel poco d' effettività che ha messo fuori vien tutta assorbita dagli oggetti presenti, nuovi per essa e però interessanti; sicchè non ne rimane guari per ciò che è passato e per ciò che ha da venire. Indi è che l' osservazione mostra che assai tardi i fanciulli distinguono bene i tempi. [...OMISSIS...] Un' altra prova della difficoltà che trova il fanciullo in notar bene i tempi vedesi manifestamente nella gradazione con cui apprende il linguaggio, specchio del suo concepire. Egli per molto tempo adopera il verbo all' infinito , e ben tardi esprime con esso i diversi tempi. Lo stesso si trova in alcune lingue di popoli assai addietro nella coltura intellettiva. Anche nelle lingue antichissime il verbo ha pochi tempi (2), e questi non ben determinati, ma di un uso incerto. Tutte le idee già moltiplicatesi nel fanciullo diventano ben presto principŒ secondo i quali egli giudica ed opera come abbiamo veduto. Solamente che un' idea, acciocchè acquisti forma e valor di principio, dee rimanersi qualche tempo nella mente umana, e il ridurla all' applicazione è affatto appartenente a un ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel dell' idea. Laonde nel quart' ordine d' intellezioni si cangiano in principŒ le idee avute al terz' ordine. Ora vedemmo che fra le idee del terz' ordine vi hanno quelle che appartengono alle azioni. I principŒ di più rilevanza adunque, che il bambino acquista al quart' ordine delle sue intellezioni, consistono in quelli che egli si trae dalle idee delle azioni. Quando egli ha conosciuto le azioni delle cose, e veduto replicarsi molte volte sempre le stesse, allora comincia già a concepire qual sia il modo costante del loro operare, ed è in istato di prevedere che cosa un dato oggetto a lui presente opererà, quali forze egli spiegherà, quali effetti si produrranno da quella cagione. Per tal modo egli vien ponendo un confine alla potenza de' diversi oggetti che conosce, e non aspetta più da essi se non certe determinate operazioni, e dove quegli oggetti gliene producano d' insolite, egli se ne maraviglia come di cosa straniera alla sua credenza ed alla sua aspettazione. Prima che il fanciullo unisca a certe cose certe azioni, la sua credulità è senza limiti: niente a lui sembra impossibile. Quando il fanciullo vede che sua madre parla, come fosse informata di ciò che egli ha fatto lontano dagli occhi suoi, o quando la sua bona gli dice che il dito mignolo la ebbe informata di qualche sua scappatella, perchè non se ne maraviglia egli? Perchè non ha ancora fissato bene la limitazione de' corpi di essere in un luogo solo, nè la limitazione de' sensi di non poter sentire a certa distanza, nè la limitazione dell' operare del dito mignolo di non poter nè sapere ne comunicare altrui le cose. A me stesso sono rimaste più memorie della mia infanzia che provano quanto lentamente i fanciulli mettano de' limiti all' operare delle cose. Mio zio Ambrogio, che ha preso tanta cura della mia infanzia, era di persona assai grande, ed io ancor bambino riputava che niente potesse resistere alle sue forze. [...OMISSIS...] E` dunque l' esperienza quella, che nella mente del fanciullo va ponendo i limiti all' operare delle cose, e prima che il fanciullo trovi questi limiti nella sperienza, egli non li pone loro da sè, ma crede tutto possibile, la sua credulità è illimitata. Nell' aderire alle parole altrui, molto fa la benevolenza verso di chi gli parla, come abbiamo veduto, ma non potrebbe mai la benevolenza muovere il suo intendimento a dar fede a ciò che egli credesse assurdo. Egli non crede dunque assurdo che gli oggetti abbiano certe virtù e facoltà che noi adulti sappiamo che non hanno, fino a tanto che anch' egli non abbia trovato nel fatto medesimo la non esistenza di quelle attribuzioni. Tutto ciò è degno di essere meditato, potendosene trarre di grandi conseguenze a conferma delle dottrine ideologiche e antropologiche. E veramente due cose rimangono a spiegare nella credulità che nel bambino precede l' esperienza: 1 perchè creda egli tutto possibile; 2 come o perchè l' esperienza venga limitandogli questa possibilità. Niuna teoria ideologica può rispondere adequatamente alla prima di queste due domande, eccetto quella che pone l' essere ideale indeterminato innato nell' uomo; il quale essere contiene e mostra in sè la possibilità universale. Sino a tanto dunque che il bambino non ha altra regola de' suoi giudizŒ, se non quella che porta innata della mera e nuda possibilità, egli giudicherà tutto possibile, crederà tutto, eccetto solo quello che egli credesse intrinsecamente ossia metafisicamente impossibile, a cui nè pure il fanciullo dà mai l' assenso. Senza di ciò niente egli potrebbe giudicar possibile, nè giudicherebbe. Anche questo fatto adunque, cogl' innumerevoli altri che ho qua e là riferito, viene a confermare la teoria filosofica da me proposta, e sarebbe tempo che, per onor d' Italia, non si vedesse più quindi innanzi stampato e ristampato presso di noi, che quella teoria non è sorretta da prove d' esperienza, e si sostien solo mediante un argomento per esclusione, dove riman dubbioso se non sieno forse bene enumerate tutte le parti (1). Per rispondere alla seconda questione, converrebbe rammentare ciò che ho detto altrove sull' origine e sulla forza del principio d' analogia (2). Quando l' uomo vede seguire costantemente per lungo tempo un dato effetto, egli si forma la persuasione che sarà sempre così, e però se l' avvenimento è periodico, come il levarsi del sole, predice al venir dell' epoca, che quell' avvenimento avrà luogo. La ragione di ciò si è che la mente concepisce la causa dell' avvenimento, concepisce che l' avvenimento non può star solo, che egli deve essere l' effetto in ultimo di qualche sostanza o di più sostanze, e ha l' intima nozione della stabilità delle sostanze. Vedendo il costante ordine della natura, non dubita di giudicarlo perenne, facendo interamente senza accorgersi quest' argomento: « ciò che avviene in quest' universo è l' effetto di qualche cosa di costante; dunque continuerà ad avvenire ». Qualche cosa di simile vien facendo l' uomo, cominciando nell' età infantile e seguitando lungamente durante tutto il suo sviluppo, nel comporsi « i principŒ, le opinioni e credenze sull' operare delle cose ». Veggendo avvenir gli effetti allo stesso modo sempre, certi eventi manifestarsi sempre dati certi oggetti, certi altri non manifestarsi; egli lega le azioni agli oggetti, agli enti, e finisce col formarsi certe persuasioni le quali, formolate, direbbero: « questo ente ha la virtù di portare questi effetti e non altri »; « la potenza di quest' ente si stende solo fin qui, ha questi limiti, quest' indole, questa forma, queste leggi, ecc. ». Ogni qual volta l' uomo si è formato uno o l' altro di questi principŒ, egli ha ristretto con ciò la sfera della sua credulità; perocchè ove altri gli raccontasse cosa che contradice a que' principŒ formatisi intorno all' operare degli esseri, egli la prenderà per impossibile e non la crederà. Così se io dirò che un ragno camminava nell' aria senza attenersi ad alcun filo, non me lo crederà colui che si fosse fabbricato in mente il principio « che un animale privo dell' ale non ha la potenza di spaziare libero nell' aria » (1). E qui chi non vede il filo per condurre una storia, che riuscirebbe importantissima, della credulità ed incredulità umana? Questa storia ha gli stessi periodi negl' individui e nell' umanità intera. Il bambino comincia dal creder tutto ciò che non è agli occhi suoi contradicente (perocchè nè pure il bambino unisce mai il sì col no , ma ne sente la ripugnanza): e poi si forma delle opinioni che limitano il potere delle cose che percepisce. Queste opinioni per certe cagioni segrete, che non abbiam qui tempo di rilevare, restano incompiute; è lavoro ancora sul telaio, per così dire: nella mente non vi ha ancora niente di ben conchiuso, di ben fermato. Ma si conchiudono, si fermano poi gradatamente, e la fermezza e saldatura di tali opinioni nasce allor quando non solo si conosce che un dato ente « ha una determinata potenza e un determinato modo di operare », ma di più si conchiude che « esso non ha niun altro modo di operare, niun altro grado di potenza, eccetto quello che si è a noi costantemente manifestato ». Questa parte negativa delle opinioni sull' operare degli enti è quella che chiude e ferma l' opinione. Perocchè, fino a tanto che io credo bensì di aver rilevato, che un dato ente va fornito di una data potenza e di un dato modo d' operare, ma non vi aggiungo il giudizio, che esso non ha alcun' altra potenza, alcun altro modo, resta sempre la mia mente disposta ad accettare qualche nuova scoperta intorno quell' ente, e rallargare la potenza che l' opinione formatami intorno a lui gli attribuisce, e perciò a modificare e ad amplificare la mia opinione stessa. Ma quando la mia opinione è già chiusa, quando sono venuto in una persuasione assoluta e non provvisoria (1) che « un dato ente, cioè una data specie di enti non abbia altra maniera e grado di potenza », allora non presterò più fede a chi mi raccontasse un avvenimento, il quale supponesse in quell' ente una maniera diversa di operare, un grado di potenza maggiore. Ma se io stesso, co' miei proprŒ sensi, verificassi il fatto, e non avessi alcun effugio col quale il potessi o negare o spiegare altramente, in tal caso infrangerei la mia opinione, e me ne creerei un' altra tutta nuova circa l' efficienza di quest' oggetto. Ora tre cose si rappresentan qui curiose ed utilissime ad investigarsi: 1 che cosa determini l' epoca nella quale avviene che l' uomo chiuda le sue opinioni sull' efficienza delle cose; 2 quale sia il grado di fermezza onde quelle opinioni si suggellano e chiudono; 3 come e quando questo lavoro proceda con ragione, quando poi irragionevolmente. In quanto al primo quesito, egli è certo che nè i singoli individui, nè i singoli popoli vanno innanzi collo stesso passo; e però le operazioni proprie della natura umana, come son quelle di cui parliamo, sebbene si facciano in tutti gl' individui umani egualmente, tuttavia non si fanno tutte agli stessi tempi; e il medesimo si dica dello sviluppamento de' popoli. Il determinare poi tutte le circostanze e cagioni per le quali in un individuo (lo stesso dicasi di un popolo) cada in un certo tempo e proprio in quest' anno, in questo giorno, in questo istante, ella è cosa impossibile; giacchè infinite sono le circostanze minutissime che influiscono nell' umana mente. Tuttavia difficile ma bella ricerca sarebbe sottomettere tali avvenimenti a certe leggi determinate, alle quali per fermo ubbidiscono; cosa però che trascenderebbe i confini di quest' opera. Quanto alla seconda questione, cioè al grado di forza onde l' opinione intorno all' impotenza delle cose si suggella e si chiude, questa è più o meno forte alle diverse età ed ai diversi individui. Diremo in generale che quanto un uomo cresce in età, tanto più quella sua opinione si rinforza, e dura più fatica a risolversi di romperla per formarsene una nuova. Onde è difficile che i vecchi prendano opinioni nuove non che in filosofia razionale, ma nè pure in fisica; massime se sono chiusi in piccola società, e variino poco le cose che li circondano, e il tenore di lor vita sia uniforme. Questo fatto come pure tanti altri dipendono dalla legge generale, « che quanto più lungamente e frequentemente l' uomo osserva le medesime operazioni de' medesimi enti e non mai altre, tanto più si persuade che il potere di quegli enti sia limitato a quelle, e non possano di più, nè in altro modo ». Di che si può spiegare quello che l' esperienza dimostra che « l' uomo comincia la sua vita con una universale credulità, la quale va grado grado diminuendosi sempre più cogli anni, e dando luogo negli animi anzi ad un principio d' incredulità, che tante volte diviene nelle età più mature dominante » (1). Toccando ora della terza questione, cioè della ragionevolezza ed irragionevolezza della credulità e dell' incredulità dell' uomo, si può dire in generale: 1 Che la credulità del bambino è sempre ragionevole, perocchè il bambino non ha veruna ragione di discredere, ed ella in lui non è altro se non l' affermazione della possibilità assoluta, unica possibilità ancor da lui conosciuta. Ora anche quello che è fisicamente impossibile, non è impossibile metafisicamente, ed affermando questa maniera di possibilità assoluta, il bambino dice la verità. Se dunque altri gli afferma di poter volare, egli crede di non essere ingannato; perchè vede la cosa possibile, e non è ancora in caso di misurare le facoltà reali di chi a lui parla; onde non gli rimane che di crederle sulla sua parola. 2 Che l' incredulità, che spontaneamente nasce nell' adulto il quale non sia bistorto dalle passioni, è pure ragionevole, perocchè ella non afferma l' impossibilità assoluta, ma unicamente l' impossibilità fisica, ed anche questa con consenso provvisorio . Così, quando l' uomo non crede che un bue spazŒ per l' aria come un' aquila, egli non intende negare la possibilità assoluta della cosa, ma afferma che la facoltà del bue conosciuta da lui con replicate esperienze non è tale e tanta che possa vincere il suo peso. 3 Comincia l' irragionevolezza e l' errore ogni qual volta l' uomo viene seco stesso ad affermare che ciò che è fisicamente impossibile, sia impossibile per assoluto, passaggio che succede per una esagerazione colpevole e interessata. E in quest' errore non al popolo, ma ai soli scienziati è riserbato di stramazzare; buon avviso che dà loro la natura, se ascoltar lo volessero, per non ingalluzzire di soverchio e poco stimar gli altri uomini, a cui resta in retaggio non la scienza sistematica, ma il buon senso. 4 Un altro errore avviene quando il giudizio dell' uomo sull' impossibilità fisica è definitivo e non provvisorio. Anche questa è esagerazione, è un arbitrio che fa l' uomo passionato o cocciuto. E veramente l' esperienza esteriore molte volte non è completa, e rimangono occulte nelle cose delle facoltà e delle forze che non si presentano se non per caso e rompono i nostri giudizŒ, i quali s' ingannano mettendo certi limiti assoluti alla natura. Noi abbiamo veduto che la benevolenza inchina il cuore del bambino alla credulità. Simigliantemente la malevolenza piega l' adulto all' incredulità. Ma come quella non sarebbe possibile, se la possibilità non avesse un fondamento nell' intelletto del bambino; così non potrebbe l' uomo dalla sua malevolenza e durezza di cuore esser reso a credere e ad assentire al vero più tardo del giusto; se questa sua tardezza a credere non trovasse un cotal fondamento vero o supposto nell' intelletto: e questo fondamento è « l' impossibilità fisica dedotta dall' esperienza », la quale si cangia dall' arbitrio umano ora in impossibilità assoluta, ora in impossibilità fisica bensì ma non meramente probabile e provvisoria, ma certa e definitiva; onde ricusa ogni ulteriore esperimento, e chiude la finestra alla luce che vorrebbe istruirlo meglio ed illuminargli la mente. Ora egli è certo che la limitazione dell' operare che noi apponiamo alle cose non è del tutto certa sin a tanto che ella si fonda in una esperienza ed osservazione imperfetta, e non sorretta da altri principŒ di ragione. Abbiamo già detto che la legge d' analogia non induce certezza, ma solo probabilità (1): onde le conclusioni che si cavano da questa legge debbono poter essere sempre riformate, mediante nuove scoperte o nuovi ragionamenti: e se noi volessimo quelle conclusioni irreformabili, sconciamente c' inganneremo. Intanto, se noi osserviamo quello che avviene nella massa degli uomini, noi troviamo che questi ben per tempo si formano di queste conclusioni e principŒ; ma che crescendo la loro esperienza e la loro scienza, li rompono per formarsene di nuovi più ampŒ e più giusti, i quali s' avvicinano sempre più alla verità e in parte anco alla ragione. Questa vicenda di formarsi de' principŒ od opinioni chiuse o fermate sull' operare delle cose, e poi d' infrangerle per formarsene delle altre, si ripete più volte in una vita che progredisca continuamente avanti nello studio e nella scienza della natura. L' uomo, all' incontro, la coltura del quale sia stazionaria, non fa che indurare sempre più quelle opinioni o principŒ che si è formato da prima. Le opinioni già formate, quanto più sono indurite e quanto più sono ristrette, portano un' incredulità maggiore. Vi ha dunque un' incredulità che nasce dall' ignoranza, cioè da opinioni sull' operare degli enti troppo anguste e troppo ferme. Se io voglio persuadere ad un boscaiolo che il sole sta e la terra si move, che la terra ha la forma di palla rotonda abitata da tutti i lati ed altre simili verità naturali, egli crede buona pezza che io lo corbelli, e se io pur mi mostro seriamente di ciò persuaso, egli tuttavia scuote il capo e non mi dà retta. Egli dunque pena oltremodo a credere certe cose del tutto vere, che sono credute dai dotti: l' incredulità dunque del rozzo è sotto un aspetto maggiore assai che non sia quella dello scienziato. Comincia dunque l' uomo con una credulità universale circa le azioni degli enti, e giunge ben presto ad una specie d' incredulità , cioè tostochè egli ha potuto chiudere e saldare bene le sue prime opinioni sull' operare della natura. Ma queste prime opinioni col procedere della scienza vengono rettificate e rallargate, onde prende lo spirito umano un nuovo corso che dalla rozza incredulità lo spinge soavemente di nuovo verso la credulità primitiva data dalla natura al bambino, restituita in parte ad esso da una cognizione più ampia delle forze della natura. Allargandosi questa credulità colla scienza, può essere ella stessa portata fuori de' giusti confini, e si son veduti degli uomini che la passavano per sapienti, creder tutto possibile alla natura, esagerare le forze di questa, e quando niuna osservazione, niuna esperienza veniva loro in sostegno, anzi tutte le osservazioni e tutte le sperienze lor contrariando, dire tuttavia: « Chi può conoscere tutti i segreti naturali? Chi può provare che delle occulte virtù non esistano nel seno della natura, le quali produr possano fenomeni i più straordinarŒ, i quali non si sono mai veduti avvenire »? Questi sono pienamente ritornati colla lor scienza alla credulità universale dell' infanzia. Basti qui una parola, magnetismo animale , per convincere il lettore, che tutto fu creduto possibile da certi uomini alle forze segrete riposte nella materia o comechesia in quest' universo. Come poi v' ebber molti che credettero fermamente esser condotti da una scienza accumulata con lunghe vigilie a dover credere tutto possibile, niente impossibile alla natura; così degli altri, colla stessa presunzione di dottrina, puntarono i piedi e le ginocchia a mantenere impossibile al tutto quello che trapassava le opinioni che essi si erano formate sulla potenza degli enti. L' incredulità religiosa si giovò ora di quel primo errore, ora di questo secondo a sostenersi, come ella credeva. V' ebbero degl' increduli i quali negarono i miracoli, perchè non si può sapere, dissero, quanto si estendano le forze della natura, e però quelli che noi crediamo fatti miracolosi possono esser fatti naturali. V' ebbero ancora degl' increduli i quali negarono i miracoli per la ragione contraria, cioè perchè i fatti che noi crediamo miracolosi superano, dicono, le forze della natura da essi troppo ben conosciute, nè trovano altre possibilità fuori di queste. Giunge fin alla lepidezza l' indicibilmente presuntuosa ignoranza da capo a piedi broccata e rabescata di pedanteria grammaticale e filologica erudizione dei così detti biblici razionali della Germania, i quali escludono francamente dalla Bibbia ciò che essi dichiarano impossibile, misurandolo da quelle regole di possibilità che si sono formati a loro arbitrio (1). Fino a tanto che il bambino si dirige secondo gli impulsi della natura, egli è determinato dalla sua spontaneità; nè può nascere alcun combattimento morale nel suo spirito. Proverà talora il dolor fisico, combatterà, per così dire, colla natura delle cose, dovrà esercitare la scelta tra quelle cose piacevoli e dolorose o tra quelle che sono più o meno piacevoli, ma in tutto questo combattimento non entrano motivi morali: egli non crede di dover niente alla natura se non in ragione della sua bontà o bellezza: e la bontà o bellezza della natura è infatti la misura della sua benevolenza ed ammirazione: come la sua benevolenza e la sua ammirazione sono la misura e la regola delle sue azioni. Ma tostochè egli giunge a conoscere mediante il linguaggio la volontà di un altr' essere intelligente, della madre o d' altra femina che ha cura di lui, da prima egli s' inchina ed uniforma ad essa e sente di doverlo fare conoscendo che quell' essere intelligente è degno della sua benevolenza e lo merita più, quanto più gli presta egli il primo di amore e di servigi (1). Questo è ciò che nasce al terz' ordine d' intellezioni. Di poi avviene, che egli talora ritrovi la volontà conosciuta della persona amata (volontà che è divenuta per lui come una legge positiva) collidersi colle altre sue inclinazioni o colla soddisfazione de' suoi bisogni. Qui comincia la prima lotta morale in lui: questo è uno stato nuovo dell' anima. Si noti bene la natura morale di questa lotta. Alloraquando egli giudicava le cose che il circondavano secondo la loro piacevolezza e bellezza, o asprezza e deformità, egli non avea da far altro che da metterle in ordine nelle affezioni del suo cuore: quali in alto e quali in basso, quali ne' posti intermedŒ. Egli esercitava con se la sua moralità: distribuiva la sua benevolenza e la sua ammirazione secondo il merito delle cose. Questa distribuzione poteva benissimo falsificarsi, come abbiam veduto, per degli inganni tesi al suo giudizio dalla falsità delle persone che lo attorniavano: ma finalmente le false opinioni da lui concepite che dirigevano la sua stima, non gli potevano cagionar un rimorso; perocchè egli se le formava dietro quelle apparenze a cui egli riputava dover aderire, dietro quelle parole alle quali egli riputava dover prestar fede. Ma quando egli venne a conoscere la volontà di una persona, allora nel suo spirito è entrato un elemento nuovo che dee necessariamente in breve sconcertarlo. La volontà di una persona è qualche cosa di opposto alla natura delle cose: nella natura vi è la necessità , nella volontà tutto è libero e contingente: la natura è costante, immutabile, la volontà variabile di continuo: le diverse parti della natura, i diversi esseri che la compongono tengono un ordine fisso tra loro, ma non si saprebbe come allogarvi in mezzo la volontà libera, qual posto darle, questa è una cosa nuova, che non ha con essi alcuna omogeneità, alcuna somiglianza: l' esigenza degli esseri è sempre la stessa, ma l' altrui volontà esige ora più ora meno, ora vuole una cosa, ora la sua contraria, ora si volge a cosa facile e piacevole, ora a cosa ardua e dolorosa. Sebben dunque il bambino sia inclinato parte ad uniformarsi all' altrui volontà e parte (come vedremo) a piegare l' altrui volontà alla propria; tuttavia in breve egli si trova posto ad un duro cimento, sente che o dee posporre l' ordine soggettivo7oggettivo degli enti della natura (1), o discordare dalla volontà della persona che lo governa. Che cosa nasce adunque nel bambino in sì grave frangente? Come si risolve in tanta lotta morale? lotta cioè di due doveri che si disputano la sua volontà. Primieramente se la sua attività animale lo determina ad operare irresistibilmente ed istantaneamente, può avvenir benissimo ch' egli in questo atto dimentichi la volontà della persona ch' egli sa di dover amare e stimare, e poi dimentichi pure tranquillamente quant' è passato. Ma se quella volontà gli sta presente ed egli sceglie di mancarle, non può farlo senza pena; e questo dimostra ch' egli la colloca in cima a' suoi doveri, e che la considera come la principale sua legge. Questa pena o incipiente rimorso è la culla della sua coscienza morale; nasce la coscienza in quell' ora appunto, nella quale il bambino sa d' aver violata l' altrui cara volontà, d' aver fallato contro di essa; di averla posposta ad altre cose, alle quali l' avrebbe dovuta anteporre e dalle quali egli fu sedotto. L' osservò già una madre. [...OMISSIS...] La moralità dunque del quarto ordine si manifesta colla coscienza; ma sarebbe un errore il credere, che questa moralità si potesse esprimere acconciamente colla formola « segui la tua coscienza ». La coscienza non è ancora una regola di operare, ma semplicemente una consapevolezza di operar male o di avere operato male e non più. Le formole adunque del quart' ordine d' intellezioni (non che quest' ordine abbia ancor formole ma ha il contenuto delle formole, che si forman più tardi), le formole dico, o sieno i principŒ morali del quart' ordine, sono i seguenti: Primo. Si dee preferire l' accordo della propria volontà con quella degli altri esseri intelligenti a tutte l' altre soddisfazioni. Secondo. Se v' ha collisione, si dee sacrificare ogni altra soddisfazione per mantenere l' accordo della propria colle altrui volontà (2). Tutti e due questi principŒ racchiudono un gran passo, che fa il bambino nel campo della moralità. Il primo è notevole pel nobile sentimento onde s' accorge, che in un accordo della sua coll' altrui volontà deve stare il sommo bene, a cui gli altri debbono cedere. Il secondo è pure oltremodo notabile per l' elemento del sacrifizio , che s' introduce nell' ordine morale; e della virtù della fortezza necessaria a compirlo. Noi ritorneremo necessariamente altre volte sopra le immense conseguenze, che apportar debbono nel mondo morale del fanciullo due sì gravi e dignitosi principŒ. Un essere assoluto vien conosciuto necessario già al second' ordine d' intellezioni. Al battezzato secondo le dottrine profonde del cristianesimo è stato dato anco il sentimento di quest' essere assoluto, la percezione o sia cognizione positiva di esso. Consideriamo prima i progressi della cognizione naturale di Dio, a cui poscia aggiungeremo quanto spetta alla comunicazione soprannaturale. La cognizione naturale di Dio è sempre ideale negativa (1), perchè l' uomo non percepisce con essa Iddio ma solo induce per argomentazione, che oltre a tutti i limiti deve avervi qualche cosa d' illimitato , sebbene questo illimitato non sappia che cosa sia (2). Ora una tale cognizione, semplice come ella è, è tuttavia suscettiva di un successivo incremento. Questo è quello che dobbiamo ora mostrare cercando in quale stato una tale cognizione si possa trovare nella quinta età del fanciullo, o sia al quart' ordine della sua intelligenza a cui siamo pervenuti. Appena il bambino percepì un ente reale, la madre, non deesi già credere, che a quest' ente egli ponga dei limiti: per lui quello da prima è l' unico ente, tutto l' ente. Non sente, è vero, l' entità tutta, ma egli ve la suppone o certo non gliela nega (3). Tuttavia il suo senso è pur limitato: tutto ciò che vede e sente è circondato da limitazioni. Lo spezzamento, la moltiplicità degli esseri è là per contraddire al suo pensiero e per dirgli: tu erri, se ci credi tutto l' ente. Le parole della madre finiscono per disingannarlo: non solo esse spezzano via più e quasi tritano dinanzi al suo pensiero l' entità delle cose; ma col solenne vocabolo Dio , ch' egli sente a pronunciare, viene finalmente a persuadersi che tutto l' ente c' è, ma non è nulla di ciò che gli è finora apparito. Ecco la prima concezione di un Dio distinto dalla natura che si forma nella mente infantile. In questa concezione il bambino non si arresta certamente alla idealità: egli afferma una realità; ma questa realità non l' ha percepita, non sa che sia; sa solo che risponde appieno alla idealità universale che risplende nel suo spirito. Una concezione di tal fatta è così semplice, che non ammette analisi di sorta alcuna fino che restasi in tale stato; ma ben presto ella si muove e si sviluppa, ed eccone il modo. Niente della divina realità percepisce il bambino, onde la percezione non può completare la sua cognizione di Dio, nè dare a lui materia di farvi sopra delle analisi e delle sintesi, che è il modo onde si sviluppa la cognizione umana riguardante le cose naturali. Tuttavia questi progressi della cognizione naturale aiutano indirettamente anche la concezione della divinità. La ragione di ciò si è, che quanto più si conosce dell' essere naturale e limitato, tanto più si conosce altresì dell' essere universale; e quindi si ascende in qualche modo alla cognizione dell' assoluto per la remozione dei limiti. L' assoluto in fatti ha necessariamente relazione col relativo, e però quanto più si conosce dell' ente relativo, tanto più si conosce della relazione che ha con esso l' assoluto, e si può formarsi di questo una cognizione consistente appunto in queste relazioni. Egli è vero che se io tolgo i limiti alle perfezioni a me note delle creature, poniamo alla potenza di operare, alla sapienza, alla bontà, io non so più che cosa ne avrò per risultamento, non so in che cosa queste perfezioni mi si convertiranno, non ne ho la minima idea; ma sia qualsivoglia la trasformazione che esse prendono, e che io ignoro, so però che io non avrò perduto nulla d' esse, che avrò ancora tutto il bene loro indicibilmente e inconcepibilmente migliorato, e questo è già per me un grande aumento di cognizione, benchè consistente tutta in relazioni di una cosa incognita con cose cognite, senza che di quella cosa incognita io abbia percepito o sentito di più di prima. Al secondo ordine d' intellezioni il bambino apprende a parlare: al terzo ordine il nome di Dio che gli suona all' orecchio lo rende già accorto non solo dell' esistenza sua distinta da quella della natura, ma in Dio stesso pone l' intelligenza e la bontà che ha cominciato a conoscere nella madre, intelligenza e bontà assoluta a cui egli può già dare ammirazione e benevolenza infinita, che si cangia ben tosto in adorazione s' egli viene aiutato da una religiosa istituzione. Al terz' ordine egli apprende del pari che la madre ha una volontà; e al quarto egli trasporta la volontà della madre in Dio, e come la sua benevolenza lo inclina ad accordare e piegare la volontà propria a quella della madre, così lo inclina pure ad accordare e piegare la volontà propria a quella di Dio. [...OMISSIS...] Al quarto ordine d' intellezioni adunque l' idea di Dio può essere divenuta nella mente del bambino quella di una volontà suprema, ottima, a cui egli dee pienamente sottomettersi. Già abbiamo veduto come la natura intelligente che dirige il bambino gli abbia fatto intimamente sentire quanto rispetto meriti l' altrui volontà, come la volontà intelligente sia migliore di tutte l' altre cose, ed egli debba rinunziare a tutte per non mettersi con essa in discordia. Certo, che questo sentimento che nel bambino si manifesta verso la volontà della madre o d' altre persone a lui care, viene molto aiutato e rinforzato dal non conoscere egli ancora distintamente i limiti di quelle volontà e dall' attribuir loro una dignità maggiore ancora di quella che esse realmente abbiano, a cui egli è spinto dall' universalità dell' essere che contempla, all' ampiezza della quale crede a prima giunta che rispondano le realità che percepisce. Ma ad ogni modo la volontà divina pienamente soddisfa al bisogno che egli ha di trovare anche una volontà assoluta, piena, universale, e però egli è inclinatissimo a conformarsi alla volontà divina, e tostochè egli intenda, troverà la cosa così naturale, così giusta, così necessaria che non ne domanderà mai un perchè al mondo; piuttosto mostrerà gran desiderio di sapere qual sia la volontà di Dio, in tutte le cose anche le più minute, se pure la religione che ha naturalmente in cuore è stata in esso fomentata e coltivata. Così a questa età la mente del bambino anche naturalmente si dispone a riconoscere Iddio qual supremo legislatore. Il Cristianesimo ci apre un arcano: egli ci assicura, che l' anima dell' infante, che viene battezzato subisce una segreta ma potentissima operazione, per la quale egli viene sollevato all' ordine soprannaturale, vien posto in comunicazione con Dio. L' effetto di ciò è quello che abbiamo accennato, un intimo sentimento della realità di Dio. Questo colorisce, per così dire, ed incarna la cognizione naturale di Dio rendendola positiva, ne accelera i progressi, le dà vita, onde si fa operativa nell' uomo e feconda del più sublime morale ammiglioramento. I genitori cristiani debbono esultare di questo tesoro divino che sta nascosto nell' anima del loro bambino ed adorarlo: debbono custodirlo e svilupparlo; debbono finalmente non solo cavar profitto dalla grazia de' sacramenti, ma da quella che possono ottenere al figliuolo offerendolo all' Altissimo, pregando per lui, usando de' sacramentali, a cui è aggiunta una virtù benefica per la potestà della Chiesa di GESU` Cristo. Lo sviluppo della grazia si fa colla virtù e colla cognizione. Quanto alla virtù, è la dilezione e i suoi frutti che si debbono fin da principio seminare e coltivare nell' animo infantile. Quanto alla cognizione, è la cognizione di Cristo, che risponde all' infusione della grazia battesimale e s' acquista coll' udire la parola di Dio stesso. Il bambino a questà età dee imparare a conoscere Cristo non solo come Dio umanato, ma come maestro degli uomini, avente una volontà, a cui tutti debbono conformare la propria: ecco venuto il tempo, in cui si può aprire il Vangelo d' innanzi alla giovane intelligenza. Dallo sviluppo intellettivo del quart' ordine passiamo a quello dell' attività umana, che gli risponde. Converrebbe, a trattare la materia compiutamente, parlare a parte dell' attività razionale e dell' attività animale del bambino; ma questo ci condurrebbe troppo a lungo senza immediato vantaggio al nostro scopo. Scorciando adunque, come abbiam fatto nelle Sezioni precedenti, considereremo solo i punti risalienti per così dire dell' attività del nostro bambino, le note caratteristiche, i tratti che debbono essere più diligentemente osservati dall' istitutore. Cominciamo dunque dall' osservare che: Le volizioni appreziative sono quelle, che nascono dal paragone di due oggetti buoni o cattivi, dei quali apprezziamo l' uno più o meno dell' altro. Ora vedemmo, che solo al quart' ordine comincia il paragone; dunque al quart' ordine solamente può farsi quell' atto della volontà che SCEGLIE tra due cose paragonate. Ad un ordine precedente cioè al terzo si può bensì apprezzare , il che non importa paragone, ma non appreziare , il che esige preferenza, e antecedentemente paragone. Se si considera, che al second' ordine si formano gli astratti e però nasce l' amore ad essi, e nel primo si percepiscono i soli sussistenti e questi solo si possono amare, sarà facile lo stabilire e marcare il progresso corrispondente della volontà in questi quattro ordini: progresso che presenta il seguente schema: [...OMISSIS...] La sola volizione appreziativa non basterebbe ancora a poter dichiarare un bambino pervenuto all' uso della sua libertà . Io ho già mostrato, che se l' appreziazione e la scelta conseguente cade sopra cose, che appartengono all' ordine materiale o anco a cose semplicemente intellettuali, vi può essere scelta nell' uomo e tuttavia non ancora libertà. Questa incomincia a manifestarsi la prima volta che l' uomo dee paragonare l' ordine morale agli altri ordini inferiori; la prima volta che dee scegliere tra l' adempimento del proprio dovere e il proprio piacere, o sia la soddisfazione dell' istinto suo accidentale (1). Ma questa prima volta viene appunto al quart' ordine delle intellezioni. La collisione tra le cose attraenti per lui e il suo dovere ha luogo, tostochè egli conosce una volontà positiva, che sia in opposizione colle sue inclinazioni naturali. Ora questa volontà gli è conosciuta al quart' ordine. Noi abbiamo veduto che egli l' apprezza, l' apprezza grandemente; sente che ella è qualche cosa di più sublime di tutte l' altre cose; ed il rispetto, ch' egli è inclinato a dare alla volontà d' un essere conoscente da lui conosciuto, è sì grande, che se per qualsivoglia motivo, sedotto dalla tentazione, egli lo pospone ad un altro bene qualsivoglia, egli ne prova amaro rimorso, e non può vivere senza tornare in pace e in concordia con quella volontà. La mancanza di questa osservazione della natura del bambino ha condotto Rousseau ad una sentenza trista ed ingiuriosa all' umanità, colla quale egli vuole stabilire, che da principio non si debbono adoperare de' mezzi morali, ma la forza ; perchè a lui sembra l' idea del dovere troppo superiore alla infantile capacità. Quanto non è smentito il sistema dal fatto! Quanto la presunzione de' sofisti non ha disumanata l' umanità! Convien bene che il secol presente le riconquisti la dignità perduta palmo a palmo, e questo egli fa ogni dì coll' invitto potere che dà al vero una osservazione accurata de' fatti umani. E` l' osservazione più imparziale, che ci mostra nel fanciullo questo vero mirabile e consolante, che egli « ubbidisce al dovere morale prima di ubbidire alla forza »ubbidisce a quello prima di conoscer questa. Consideriamo anche qui la cosa coll' occhio semplice e sagace di una madre, che sa spiare sì bene nell' anima de' suoi nati, sì bene osservarli ed intenderli. [...OMISSIS...] Giunto adunque a questa età intellettiva il bambino sceglie tra il bene e il male morale, entra in possesso della sua libertà. Vedesi poi da questa prima apparizione del suo libero operare, ch' esso suppone qualche grado di fortezza, colla quale l' uomo che si mette dalla banda della bontà morale, combatte e vince l' allettamento contrario. Questa morale fortezza, che altrove abbiamo chiamata forza pratica , da principio si mostra alla sfuggita e si dilegua sovente innanzi ad una difficoltà un po' maggiore; ma anch' ella s' accresce, o sia trova dei rinforzi e degli amminicoli, che la sostengono: ella dunque soggiace ad un progresso e ad un cotale sviluppamento nell' animo del bambino. Se la credulità e la docilità del bambino fossero sempre cimentate col prescrivergli cose false, irragionevoli o di cui egli non potesse mai intendere una ragione, la sua virtù nascente rimarrebbesi facilmente soffocata nella culla. Nascerebbe dentro di lui il più angoscioso e desolante contrasto. Quella volontà esterna che gli apparì come cosa divina, d' infinita reverenza degna, gli si cangerebbe dinanzi in cosa misteriosa, inesplicabile, inconcepibilmente maligna. Tutto confuso da prima, ignorando se gli convenga dare ascolto all' invitamento della natura, che gli fa vedere tostamente nella prima volontà, che gli appare, una dignità somma, ovvero alla propria esperienza, che non gliela mostra, se non come cieca e disordinata; egli finirebbe con una morale disperazione e depravazione dello stesso suo cuore. Ma non permette la provvidenza, che gli uomini, che educano figliuoli, sieno nè pienamente cattivi, nè pienamente irragionevoli. Quello per tanto, che le loro volontà hanno in sè di bono, di ordinato, di ragionevole, di amoroso, è l' elemento benefico, che rinforza nel bambino quei due primi semi di virtù messi in lui da natura, la credulità voglio dire e la docilità. Il bambino si rende più rispettoso, a chi tratta con lui, più facile a credergli, più pieghevole ad obbedirgli; più che egli può vedere di utilità e di verità in quanto gli vien detto od imposto. Quell' educatore adunque sarà il più atto a rinforzare nel fanciullo le abitudini di credulità e docilità, il quale porrà più nelle sue parole, narrazioni e comandi di quella verità, che possa essere conosciuta per tale dal fanciullo, e donde possa trarre delle conseguenze; e più di quella utilità, ch' egli possa in se stesso osservare e sperimentare. Nel vero, quando il fanciullo si è formato una credenza vera e ne ha tirato delle conseguenze, egli si rende più docile e desideroso di udire altre cose da' suoi maestri; perocchè egli vede che tutto quello, che sa, lo deve all' aver creduto le prime volte. Questo fatto venne già notato: [...OMISSIS...] . Credenza dunque produce credenza; ubbidienza produce ubbidienza nel fanciullo, quando la madre o l' istitutrice insegna e comanda convenevolmente. Tuttavia nè la convenevolezza sapiente degli ammaestramenti e de' comandi, nè la tendenza a credere e ad ubbidire rinforzata dall' amore del sapere dedottone e dai vantaggi ritratti dalla docilità, bastano a far sì che le volontà degl' istitutori non vengono ben sovente in collisione pericolosa colle altre propensioni inferiori del fanciullo. Da prima, quando il fanciullo sì trova in sì aspro cimento, e pur egli non vorrebbe mancare a quello che sente essere il suo dovere: l' aderir cioè alla volontà altrui col sacrifizio di ogni cosa: e fino a tanto che questa volontà gli si mantiene presente all' animo; egli non potrebbe farlo senza provarne i più amari rimorsi. Ma egli vien facilmente sedotto quando la gravità della tentazione e la lusinga dell' oggetto vietato distacca interamente la sua attenzione dalla volontà, che gli è legge, e quasi gliela cuopre per un istante, sicchè egli più non la vede, vede solo l' oggetto lusinghevole: allora è caduto il misero irreparabilmente. Quel momento passa come il lampo e torna ben sovente e la vista della legge e il rimorso che egli cerca di occultare e di sopprimere, sebbene in vano. Ma il bambino tutto mette in opera per giungere a ciò che brama ed evitare tuttavia la miseranda sventura che gli minaccia di operare contro l' altrui volontà. E quindi è, che se da principio egli inclina a conformare la volontà propria all' altrui, quando poi insorge la passione e s' apre l' interno combattimento, egli cerca di tirare la volontà altrui a conformarsi alla propria, cercando nell' uno o nell' altro modo di conservare l' accordo delle due volontà, che pur non vorrebbe rompere, sebbene tentatone. Laonde egli è in questa età e non prima che comincia a manifestarsi nei bambini quella mirabile voglia, che hanno d' influire sulle volontà altrui, al che fare spiegano per tempo una destrezza tanto maravigliosa, una finezza, una penetrazione istintiva sì sorprendente (1). Venendo ora a descrivere qual sia l' istruzione conveniente al quart' ordine d' intellezioni, non ripeterò quelle cose, che ho dette in occasione di parlare degli ordini precedenti, molte delle quali anche a questo ed a' susseguenti si appartengono. Che anzi seguendo il metodo tenuto fin qui, toccherò anco in occasione di quest' ordine, certi principŒ pedagogici, che debbono essere ricordati in ciascun ordine de' vegnenti. I quali, in questo di cui trattiamo, cominciano a rendersi manifestamente necessarŒ, sebbene la loro necessità si faccia anche più stretta ne' susseguenti. Uno di questi principŒ universali, che debbono reggere non solo le prime ma anche le ultime scuole della gioventù, è quello di « considerare il linguaggio come lo strumento universale dato dalla natura allo sviluppo intellettivo dell' uomo », e però di porre la più accurata diligenza a far sì che questo grande istrumento serva al suo fine; che le parole e le idee si leghino accuratamente insieme; che l' uomo infine sia istituito sempre più nella lingua, ma in modo che i suoi progressi nella lingua sieno veri progressi nelle idee, nelle cognizioni. Questo gran principio fu conosciuto nell' antichità: fu proclamato nei tempi moderni ed anco in Italia nostra; e tuttavia non fu ancora ridotto alla pratica con quella diligenza e costanza ch' egli si merita. Uno di quelli che meglio tra di noi ne intesero l' importanza si fu il Taverna, il quale raccomandandolo in un discorso, che disse in Piacenza, giustamente affermò che [...OMISSIS...] Noi abbiamo pur veduto, che il bambino prima del linguaggio è legato ai sussistenti; non può staccarsi col pensiero da essi e prendere il volo per le immense vie delle astrazioni. Chi più sottilmente considera trova pure che tutti gli errori della mente, tutte le teorie perniciose, tutti gl' inganni tesi da' sofisti agl' individui e ai popoli hanno la loro origine dal significato improprio e vago delle parole. Dunque al fanciullo una cognizione profonda della lingua insegnagli la proprietà del dire non ad ornamento, ma a rettitudine, a verità e a utilità; è il mezzo migliore di munire il suo intendimento contro gli abbagli e le illusioni; di renderlo uomo di un senso squisito, d' una fina logica, d' un erudizione accurata e certa. Prendasi la cosa in tutta la sua estensione, e sarà facile vedere che noi punto non esageriamo. Ma pur troppo non esistono ancora libri acconci: non esiste ancora un vocabolario, che contenga la grande proprietà delle parole e che sia per conseguenza necessaria una cotale enciclopedia di cognizioni. Dico la grande proprietà , perocchè vi ha una piccola proprietà, quella dei dialetti o quella di un breve tempo piuttosto che di un lungo. La proprietà di cui io parlo è più costante: ella non è formata nè da una piccola popolazione, nè da un uso momentaneo: ma sì da un uso nazionale e talora umanitario, durevole a' secoli e talora a molti secoli sopravvivente nelle vitali radici delle parole alle lingue stesse perite (1). Dee continuarsi nel quart' ordine e ne' susseguenti l' esercizio dell' attività esterna, secondo le regole che n' abbiam dato; come pure l' ammaestramento per via d' immagini e medesimamente dicasi di rappresentazioni. Una raccolta d' immagini e di rappresentazioni drammatiche, adattate allo sviluppo graduato dell' infante, sarebbe un opera grande, degna del sapiente, di chi ama il genere umano. Quello pure che abbiam chiamato esercizio orale deve proseguirsi aggiungendovi anco quello della memoria. Si comincerà da sentenze morali esprimenti non più che la moralità proporzionata al bambino nostro, cioè quella che non esprima mai formole morali superiori all' ordine d' intellezioni, a cui egli è arrivato; o tutt' al più ad un ordine immediamente maggiore. Un libro che raccogliesse queste sentenze distribuite sagacemente secondo gli ordini d' intellezioni, che costituir debbono altrettanti gradi d' insegnamento, sarebbe pur desiderabile e necessario che si componesse. Ugualmente utile sarebbe un libro di poesie distribuite secondo i gradi stessi, per l' esercizio di memoria a' fanciulli. La musica poi non dovrebbe venire in soccorso come semplice diletto sensuale, no. Troppo altro è la tendenza del fanciullo che ha pur l' apparenza d' essere così leggero, così ubbidiente alle sue sensazioni: lo si creda, egli è intelligente e cerca da per tutto nelle sue sensazioni stesse intelligenza, e poi l' affetto e il diletto che gli nascono da essa purissimi. Laonde fermamente io credo che la musica sarebbe utilissima all' educazione; ma solo allora che l' istitutore si servisse di essa a vestire di affetto o quelle sentenze morali, o quelle rappresentazioni pure morali, che il fanciullo già conosce ed intende, sicchè non si rimanesse una musica cieca, o dominante, soffocante il pensiero; ma una musica serva della parola già comunicata al fanciullo; una musica, a cui il fanciullo presta gli orecchi come ad amica ed affettuosa interprete delle più nobili concezioni, che già sono entrate nell' animo suo, ma che ancor vi sono intirizzite e per così dire senza calore. Ma qual mai sapiente troverà questa musica? Quale l' adoprerà con tanta sobrietà, con sì coraggioso sacrificio, che nè cerchi in essa una bellezza meramente sensuale, nè bellezza superiore alla capacità del bambino? Chi sarà che intenda o che pregi una musica che non esprima che un pensier fanciullesco e che non la vesta che di fanciullesche parole? Chi m' assicura che questo stesso mio avviso non si fraintenda? e che volendolo seguire non se ne abusi? Si dee oltracciò continuare l' esercizio orale anche in questa età come un cotal preludio alla scuola di lettura e di scrittura, accrescendosene la parte intellettiva. Se nelle età precedenti l' esercizio orale riguardava i nomi ed i verbi, in questo può riguardare le particelle o i nessi de' nomi tra loro, de' verbi tra loro e de' nomi co' verbi. Questo è veramente un insegnare a parlare, se si fa bene. Vi sono delle idee, de' pensieri che sebbene alla portata della mente fanciullesca, tuttavia riescono sommamente difficili ad esprimersi al fanciullo. Conviene prima indicargli qual sia il pensiero che si vuole esprimere, e poi fargli trovare la forma più propria e più efficace di parlare. Ma non potrebbe questo esercizio riuscir bene, se prima qualche sapiente non abbia raccolti in un libro molti pensieri proprŒ di ciascun ordine d' intellezioni; e in pari tempo la maniera di vestirli acconciamente di parole. Dove questo libro fosse fatto, non sarebbe difficile condurre il fanciullo nostro graduatamente da' pensieri e dalla lingua propria d' un ordine inferiore a' pensieri ed alla lingua propria d' un ordine d' intellezione superiore. Dico non solo da' pensieri, ma anco dalla lingua; perocchè uno stesso pensiero può essere espresso variamente e in un modo sempre acconcio; ma proprio d' un ordine d' intellezione e non d' un altro. Vi sono delle costruzioni difficili a' fanciulli; e perchè mai sono difficili? Perchè appartengono ad un ordine d' idee superiore al loro. Si dovrebbero adunque dall' uom grande, che componesse il libro da noi desiderato, classificare secondo le età anche le costruzioni e i modi di dire diversi; e di questi pure ammaestrare il fanciullo graduatamente (1). Qual perizia di esprimersi acconciamente non acquisterebbe in tal modo il fanciullo! Quanta facilità di pensare pari alla sua perizia nell' uso del linguaggio, mezzo universale dello sviluppamento intellettivo! Quanto tempo guadagnato nelle scuole! Con che facilità non iscriverà poi i suoi concetti quegli che li sa così propriamente ed acconciamente parlare! Oltracciò, in questa età si dee già cominciare la scuola di lettura e di scritto. Le parole pronunciate, le lingue sono segni delle idee; le parole scritte, le scritture sono segni delle parole (1). La scrittura adunque appartiene all' ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel del linguaggio, e però al terzo. Ma noi abbiamo osservato che il linguaggio stesso abbraccia più ordini nelle varie sue parti, e che i verbi, che ne sono parte sì principale, non s' intendono che col terz' ordine. Convien adunque lasciare un po' di tempo al fanciullo, acciocchè intenda sufficientemente la lingua parlata; onde io consiglierei a differire la scuola della lettura fino ch' egli sarà bene avanzato nel quart' ordine intellettivo, che solitamente risponde alla seconda metà del terz' anno. Questo respiro poi che si lascia prima di cominciare a mostrare al bambino le lettere, viene da lui utilissimamente occupato nell' esercizio orale, che lo rende perfetto nel meccanismo della pronunciazione, lo arrichisce di una maggior estensione di lingua, e sopratutto gli dà occasione d' esercitare l' intendimento: ed entra poi nella scuola di lettura e di scritto ottimamente disposto e capace di gran progresso. Questo studio poi di lettura e di scritto (che non vanno disgiunti, come vedemmo) non dee punto essere affrettato; ma anzi lento, conciossiachè dee aversi in veduta di continuo, che non è la sola lettura e la sola scrittura che si voglia insegnare al fanciullo; ma, insieme con queste, cose molto maggiori, assai più elevate. Oltrecchè si dee vedere che niuna scuola sia puramente materiale; ma un continuo esercizio di tutte le sue facoltà, principalissimamente della sua intelligenza; e che sia di più una scuola morale. Furono altamente proclamati in Italia questi principŒ da degli uomini che la onorano per bel cuore e per una mente elevata (1). Ora, io credo che l' insegnamento della lettura e dello scritto vadano assai bene accoppiati insieme, o alternati, quasi due parti d' uno studio solo più tosto che due studi. L' uno e l' altro infatti appartiene allo stesso ordine d' intellezioni, perocchè chi scrive non fa che aggiungere l' azione delle mani a disegnare quel carattere che già conosce, onde non ha debito d' aggiungere conoscenza, ma solo azione esterna, che va tanto bene unita all' azione intellettuale, colla quale l' unì quasi individualmente la natura stessa. Laonde se dopo che io avrò mostrata al fanciullo la lettera a e insegnatogliene il suono, lo farò disegnare questa figura colle sue stesse mani, egli dopo disegnatala non la dimenticherà mai più senz' altro, perocchè, come osservò Rousseau, [...OMISSIS...] . L' azione, il far loro fare le cose è dunque il migliore mezzo per farle loro apprendere e per saldarle nella loro memoria. Tuttavia tutto lo studio di lettura come quello di scritto importa sopratutto che sia graduato; e che si abbia continuamente in vista l' una e l' altra parte, cioè la meccanica e la intellettuale; rivolgendosi poi entrambi acconciamente al progresso morale. Egli è evidente che come la lingua giova mirabilmente ad analizzare il discorso del pensiero , così la lettura giova ad analizzare le parole scomponendole ne' suoni elementari di cui constano; e lo scritto finalmente giova ad analizzare le lettere stesse, elementi delle parole, notandosi ciascuna parte di cui le lettere si compongono. Vi ha dunque un progresso d' analisi, di cui deve fare uso il savio institutore. Vi ha parimente una direzione diversa dell' attenzione. Fino a tanto che si parla e nulla più, l' attenzione nostra va a finire nel pensiero che si vuole esprimere, e i segni del pensiero, la lingua non riceve che una attenzione sfuggevole e relativa; ma quando si legge, allora l' attenzione si ferma al suono delle parole, e la figura impressa che abbiam sott' occhio non trattiene la nostra attenzione che un istante quanto basta, perchè appuntandosi, per così dire, in quella possa slanciarsi al suo termine, che è il suono della parola. Finalmente, quando si scrive , l' attenzione si ferma alle lettere che si debbono figurare e disegnare colla mano, e che divengono il termine della nostra azione. Il termine adunque delle nostre azioni intellettive è dove si ferma e posa l' attenzione, dove questa porta la sua luce lasciando nelle tenebre il resto, a quella guisa che un fanale non illumina i luoghi, ne' quali egli passa velocissimamente, se non per brevissimo istante. Anche questa legge dell' attenzione umana è da notarsi con diligenza dall' istitutore; perocchè ella, se ben considera, gli dà in mano il modo da governare e temperare l' attenzione del fanciullo a suo grado. Vi ha dunque bisogno di un metodo di lettura e di scritto uniti in un libro solo, e diviso per gradi; altro lavoro da farsi da' cultori della grand' arte dell' educare, di cui abbiam però ben avviati dei tentativi nobilissimi. Un somigliante libro si dovrebbe comporre per insegnare graduatamente l' aritmetica a' fanciulli. Noi abbiamo veduto, a ragione d' esempio, che al quart' ordine d' intellezioni, a cui siam pervenuti, il fanciullo può formarsi una distinta idea del numero tre. Come dunque l' aritmetica dell' età precedente dovea fermarsi a mostrare le proprietà dell' uno e del due, così l' aritmetica di questa dee trattenersi nelle proprietà relative dell' uno, del due e del tre, e loro varie unioni, esprimendo queste in modo che non faccia bisogno d' altro che di quello di questi tre numeri in prima, e poi gradatamente de' loro varŒ composti. Oltre tutte le cognizioni descritte, che si possono dare al fanciullo di questa età, si dee oggimai pensare ad introdurre anche un bell' ordine nelle sue cognizioni. Questo studio di ordinare le cognizioni del fanciullo deve cominciare tostochè la sua mente sia capace di ricevere l' ordinamento delle proprie idee, cioè di ridurre le proprie idee a certi principŒ o idee principali. Ora noi già vedemmo che nell' età precedente a questa cominciarono nella mente umana ad operare dei principŒ definiti, i quali di età in età vanno continuamente ricevendo incremento e perfezione. Questi principŒ si debbono far servire da noi quasi come altrettanti cappŒ in cui le idee s' annodano. E però, se al terz' ordine d' intellezioni questi principŒ incominciano, al quarto si possono già adoperare dal savio istitutore a vantaggio del suo discepolo, purchè egli badi anche qui a mantenere fedelmente quella gran regola dell' educare che noi continuamente raccomandiamo, « di non adoperare a collegare le idee del fanciullo, se non que' soli principŒ che il fanciullo ha già ricevuti nella sua mente, perocchè l' usarne degli altri sarebbe un volere da lui l' impossibile ». E tuttavia grand' arte si dee porre oltracciò ad ottenere quello che noi vogliamo, cioè il progresso intellettuale e morale; e le idee, che comunemente si hanno sulla maniera di dar ordine alle cognizioni infantili, sogliono essere troppo incomplete ed insufficienti; onde crediamo pregio dell' opera il dichiarare qual sia l' ordine che si dee cercar d' introdur nella mente dei fanciulli e dei giovani, acciocchè egli riesca il più possibile vantaggioso. Il savio istitutore cercherà di procurare tre vantaggi al discepolo, cioè: 1 Di aiutare la sua memoria, il che si ottiene promovendo l' associazione delle sue idee; 2 Di unificare, quant' è possibile, i suoi pensieri; 3 Di procacciare che quest' unità data a' suoi pensieri non sia arbitraria, ma fondata nella verità, nell' ordine universale delle cose, perocchè egli è questo che dà all' unità de' pensieri un' importanza morale. Queste tre cose sono ben diverse tra loro, ed è necessario notarne accuratamente le differenze. Esse sogliono confondersi insieme, e talun crede che il dar ordine all' umana mente tutto consista unicamente in far nascere il maggior numero possibile d' ideali associazioni; altri va più avanti, ma crede poi d' aver fatto ogni cosa quando sia pervenuto a fare che il fanciullo raggomitoli, per così dire, le sue idee intorno ad un' idea principale, o le annodi ad un dato principio, senza darsi pensiero della scelta dell' idea o del principio a cui si devono legare, creando così nelle menti un cotale ordine più fattizio che vero, più rappresentante le opinioni fallaci degli uomini, che la reale natura, l' immutabile verità. Si consideri adunque attentamente, che la memoria e la reminiscenza si aiuta con qualsivoglia associazione d' idee, ma non da qualsivoglia associazione d' idee viene l' ordine delle idee stesse; che anzi l' associazione che si forma per analogia affatto accidentale e minuta tra idee disparate è quella appunto, che forma il carattere leggero, mutabile, capriccioso, del tutto anti7logico delle menti: il delirio stesso si alimenta di una rapida e strana associazione d' idee: la frivolità de' fanciulli ha la stessa origine. Si dee dunque anzi cercare una associazione assennata che una associazione frivola, e già questo solo non è un affare leggiero. Gioverà dunque per ispianare la strada, che qui passiamo in revista le principali specie d' associazioni d' idee, ossia le ragioni diverse, per le quali si formano naturalmente di esse altrettanti gruppi. La prima ragione si è la forza unitiva dell' animale , la quale ha un gran numero di funzioni e produce dei fenomeni innumerabili (1). Ora lo spirito intelligente si lascia a principio volgere dall' animalità, e però quando la forza unitiva animale unisce due sentimenti, esso vede pure unite le idee o intellezioni, che a quei sentimenti rispondono. A questa forza unitiva appartiene, come funzione principale nella materia che trattiamo, la fantasia o immaginazione animale, la quale suole accozzare insieme quelle immagini, che in essa comparvero una volta unite per continuità nello spazio, o per successione nel tempo, o per similitudini nell' impressione, o per qualche analogia talor lontanissima. Una porzione che si risvegli dell' immagine in questi modi complessa, tosto si suscitano e fanno presenti tutte le altre parti; quello che io dico delle immagini complesse cioè risultanti di più immagini come che sia insieme congiunte si deve dire parimenti di tutte le altre funzioni della forza unitiva. Questa fa sì che l' animale muova con un atto solo istintivo non una ma un gruppo intero di facoltà. Questo gruppo di facoltà si muove talmente accordato, che basta un atto di una, che l' animale sia spinto a fare, e tosto egli fa insieme gli atti di tutte le altre. L' intelligenza poi nell' uomo riceve da tali atti la sua materia, ond' avviene che l' atto d' una facoltà sola basta a far nascere la reminiscenza di una intera condizione o stato di corpo e di tutte quelle cose che a essa condizione e stato si riferiscono. La ragione di questa congiunzione di più immagini, sensazioni, istinti, atti di varie facoltà animali è tutta nell' unità del soggetto, in cui tutte le potenze e i loro atti si radicano. La seconda ragione è la forza unitiva dell' ente animale7intellettivo (uomo). Mediante questa forza unitiva umana l' ordine dell' intelligenza va di consenso coll' ordine dell' animalità: un movimento in questo difficilmente si fa isolato e solo, senza che nascano de' movimenti anche nell' ordine intellettuale, e così viceversa; difficilmente l' uomo agisce come intelligenza, senza che col medesimo atto egli non sollevi de' tasti, per così dire, anche nell' ordine animale (2). La terza ragione è l' incatenamento, che hanno veramente le idee e i pensieri tra di loro: la inesistenza di un' idea elementare in un' altra più sintetica o quella di una conseguenza nel suo principio. Questa congiunzione e associazione è assai diversa dalle due prime come si vedrà dai seguenti esempŒ. Io riveggo una persona e tosto mi si rappresenta all' anima il campanile della chiesa della sua parrocchia: qui vi ha un' associazione d' immagini, che potranno unirsi e richiamarsi nella fantasia anco d' un essere meramente sensitivo: qui ebbe luogo adunque la prima ragione d' associazione. All' incontro, al rivedere di quella persona ciò che subitamente mi si affaccia alla mente si è la dimostrazione di un bel teorema di matematica, che da essa ho già udito esporre. Qui viene in campo la seconda ragione dell' unità del soggetto animale7intellettivo: perocchè l' associazione consiste fra delle sensazioni animali, quali sono le imagini della persona, dei suoi discorsi ecc. e delle intellezioni, quali sono le idee che formano quella dimostrazione: l' unione dei due ordini animale e intellettuale ha qui il suo fondamento nella unità del soggetto uomo. Lo stesso sarebbe se dal rammentarmi quella verità matematica mi si affacciasse all' anima il volto o anche solo il nome del maestro che me la insegnò; solo che qui vi sarebbe il passaggio contrario dall' ordine dell' intelletto a quello del senso, mentre nel primo caso il passaggio era da questo a quello. Ora si osservi bene, che in tutti questi casi non vi ha nessun intrinseco rapporto tra le due cose che si associano nella mente nostra. E veramente una persona ed un campanile non hanno insieme la più piccola somiglianza: così pure una persona e un teorema matematico son cose sì disparate, di sì diversa natura, che per se stesse non pur non s' inchiudono, e non si assomigliano; ma anzi l' una sta nell' ordine delle cose reali, l' altra in quello delle ideali: sono cioè separate da una distinzione categorica. Non così sarebbe se al venirmi in mente di un principio tosto mi si affacciasse al pensiero altresì quelle conseguenze che prese insieme formano la dimostrazione del teorema. In questo caso le idee chiamano le idee, i pensieri chiamano i pensieri. E` un lavoro che accade tutto nell' ordine dell' intelligenza. E il lavoro potrebbe pure avvenire nell' ordine dell' intelligenza, quand' anco la materia del lavoro fosse sensibile. Così se alla vista di un uomo, io tosto rammento che egli è un essere composto di corpo e d' anima, v' ha un' associazione di pensieri, perocchè tra il pensiero dell' uomo e quella delle sue parti passa una relazione intrinseca e intellettuale, quantunque il pensiero dell' uomo ivi fosse somministrato da' sensi o dall' imaginazione in occasione di vedere un uomo o d' imaginarlo veduto. Ora egli è chiaro tuttavia, che quando non si volesse ottenere che un fine solo, quello di facilitare la reminiscenza del fanciullo senza scelta nelle idee, qualunque di queste tre specie d' associazioni sarebbe acconcia: è chiaro che l' arte della memoria artificiale si potrebbe ugualmente fondare sulla prima, sulla seconda o sulla terza specie di associazioni, o su tutte e tre. Ma questo non basta, come abbiamo detto, pel progresso morale del fanciullo. Questo progresso esige più cose: esige 1 che il fanciullo impari la connessione che hanno le idee tra loro; 2 che acquisti facilità di passare, mediante queste connessioni che diventano nella sua mente altrettanti principŒ generali di pensare e di ragionare, di passare dall' una all' altra non per opera semplicemente della reminiscenza, ma per l' uso del proprio ragionamento; 3 che questo passaggio sia esercitato da lui liberamente, e non in virtù di qualche istinto necessario e casuale, sicchè il fanciullo acquisti talmente la signoria delle proprie cognizioni e de' proprŒ pensieri, ch' egli le abbia alla mano quando le vuole. Ora questi vantaggi non si ottengono, se non promovendo nel fanciullo la terza specie di associazioni fondata nella relazione intrinseca delle idee e delle cose conosciute. Che se noi consideriamo che ogni rapporto d' idee o di cose conosciute noi l' apprendiamo mediante un' unica intellezione, facilmente potremmo ridurre tali rapporti ad una sola formola, dicendo che « ogni associazione intellettiva consiste in vedere in una intellezione complessa le intellezioni elementari, e in passare dalle intellezioni elementari alla complessa ». Le intellezioni complesse sono: 1 le classificazioni maggiori delle cose nelle quali si comprendono le classificazioni minori come elementari; 2 le idee di cose composte, nelle quali si comprendono le idee delle parti delle cose come idee elementari; 3 e più generalmente ancora i principŒ ne' quali si contengono, come intellezioni elementari, le conseguenze (1). Convien dunque che il savio istitutore sappia accortamente osservare, e con delle opportune interrogazioni e sperienze scoprire quali sieno in ogni età del fanciullo le classificazioni ch' egli si forma, le idee d' oggetti moltiplici ed i principŒ; e partendo da questi dati, che già nella mente del fanciullo si trovano, dee farlo discendere gradatamente dalla massima classificazione che egli ha in mente alle minori, e da queste ascendere a quella; gli oggetti complessi a lui cogniti dee farglieli analizzare, e dalle parti lor già trovate rivenir al tutto; finalmente da principŒ (ma s' intenda bene, da suoi principŒ e non da altri) menarlo alle conseguenze, e dalle conseguenze restituirlo ai principŒ. Egli è chiaro che con tali esercizŒ si vanno mirabilmente ordinando i pensieri del fanciullo, perocchè si riassumono le cose continuamente alla loro classe suprema, s' imparano a veder le parti bensì delle cose, ma nel loro tutto unificate, e ai sommi principŒ si appendono per così dire le innumerevoli conseguenze. E chi non vede che per tal modo il fanciullo viene acquistando la cognizione dei nessi che naturalmente adunano le idee, e per quelli prende agevolezza di trascorrere in esse colla mente? e che di più egli acquista balìa de' proprŒ pensieri? Perocchè l' uomo che abbia presente alla mente una classe molto estesa di cose è già padrone, s' egli pur vuole, di passare alla considerazione delle classi minori, il che non potrebbe fare, se non l' avesse. E così chi conosce il tutto ha potestà di conoscere le parti, come chi possiede un dato principio è fatto libero, a cagione dell' estensione virtuale d' esso, di spaziare a sua voglia pel campo delle conseguenze. Sicchè può dirsi a tutta verità che « la riflessione libera in ciascun uomo si estende solo a quel tanto a cui s' estendono le sue attuali complesse intellezioni ». Il darsi poi maggior cura di questa associazione intellettiva non è già un lasciar del tutto da parte le altre due maniere d' intellezioni venienti dalla forza unitiva dell' animale e dalla forza unitiva dell' uomo, ma è un dar ordine a queste stesse, un sommetterle alla ragione, il far sì che l' uomo ne divenga padrone e ne possa a suo vantaggio liberamente disporre. E nel vero l' ordine delle idee e dei pensieri aiutano moltissimo anche la reminiscenza fantastica, nello stesso tempo che la regola e la fa utile a se stesso. E perchè mai è più facile imparare a mente un discorso che abbia senso, che non un ammasso di parole sconnesse al tutto e gittate a caso? Il rammentare la successione di que' suoni è operazione fantastica; ma se quelli rendono un sentimento, l' ordine delle idee rende tosto assai più facile quella operazione stessa sebben fantastica. Viceversa poi l' associazione animale aiuta la reminiscenza delle idee, e per ciò anche quella del loro ordine, perocchè l' ordine delle idee è formato da altre idee di connessione, le quali possono pure esser legate a de' segni sensibili, e così i segni sensibili possono risvegliar nella mente l' ordine che si desidera. Ma questo stesso effetto non si ottiene meramente dalla natura abbandonata a se stessa, ma dall' arte. Conviene che preceda una mente la quale, avendo le idee in se stessa ordinate, ordini altresì i suoni a quelle corrispondenti. Allora questi suoni o segni sensibili così ordinati giovan benissimo o a comunicare altrui lo stesso ordine d' idee, o a richiamare in mente a se medesimo le idee ordinate. E questo è il fatto dell' invenzione dei linguaggi e delle scritture, e la ragione del vantaggio immenso che recano ai progressi dell' umano intendimento. Per altro, l' associazione che si fonda nell' ordine delle idee è la sola che possa servire alla moralità. Abbiam veduto che le due prime maniere d' associazioni hanno il loro fondamento nella forza unitiva del soggetto: è l' unità del soggetto che le produce. La terza, all' incontro, ha la sua ragione nell' oggetto stesso, il che è quanto dire nella verità. Questa sola osservazione basta per intendere che solamente quest' ultima specie di associazione ha uno stretto rapporto colla moralità: ella prepara la via a questa, perocchè la virtù non consiste in altro se non nella ricognizione volontaria dell' ordine oggettivo (1). Ma l' ordine oggettivo dee essere riconosciuto compiutamente dalla volontà, e quant' è più compiutamente, più egli divien morale, più vi ha di virtù nell' uomo. Questo vuol dire che l' educazione dee tendere a far sì: 1 che le idee e i pensieri si congiungano nel bambino secondo i loro nessi naturali e veri, e non secondo nessi arbitrarŒ e falsi; 2 che questo annodamento delle idee sia il più compiuto possibile. Si vedrà facilmente quanto questa dottrina consuoni al principio supremo dell' educazione da me altrove proposto ed enunciato così: « « Si conduca l' uomo ad assimilare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non si voglia conformare le cose fuori di lui alle causali affezioni dello spirito suo »(2) ». Ho mostrato ancora come l' educazione dee abbracciare la mente, il cuore e la vita dell' uomo (3). Ora il cuore, cioè la volontà cogli affetti dee rispondere alla mente, la vita rispondere al cuore. Se la mente dunque si conforma all' ordine oggettivo delle cose, se si ha in esso il tranquillo lume del vero, non il falso e confuso delle opinioni e pregiudizŒ, il cuore avrà il tipo su cui, per così dire, stamparsi, e la vita non sarà che una continua imagine del cuore. Se la vita dee essere un' incessante produzione del bene universale , nel cuore prima dee esservi la universale carità; e questa non può esservi nel cuore, se nella mente non v' ha la disposizione a non escludere niuna cognizione, ad abbracciarle tutte. L' universalità della mente imparziale produce l' universalità del cuore benevolo , e l' universalità del cuore benevolo produce l' universalità della vita buona . Si dee dunque educare la mente del fanciullo a riconoscere tutti i nessi delle cose ch' egli può riconoscere in ciascuna età, voglio dire a riconoscere tutto l' ordine oggettivo di cui è capace; al che fare è necessario che i nessi delle cose si dispongano nella sua mente non già a caso, ma essi stessi ordinati; cioè prima i più rilevanti e poscia i meno. Come uno è l' essere e tre sono le categorie , così vi ha pure un' unità suprema nelle cose; e vi hanno tre maniere di unioni. L' unità suprema è formata dall' idea di Dio essere essenziale. L' unità di Dio dee dunque rendersi dominante nella mente del fanciullo: a Dio come a creatore, a conservatore, a fonte di ogni bontà dee rivocarsi dalla mente del fanciullo tutte le cose: ma dee farsi sempre coll' idea propria di quell' età in cui il fanciullo si trova. Nel primo e second' ordine d' intellezioni egli concepisce Iddio come complemento dell' essere: lo concepisce tutt' insieme reale7intellettivo7buono. Il riferire e rifondere le cose in Dio colla maggior generalità possibile di parole è dunque la maniera più facile e il primo grado del far sentire e intendere ai fanciulli la dominazione dell' idea di Dio quasi assorbente tutte le altre. Al terz' ordine rimane la stessa idea di Dio, ma non assorbe più le altre; queste si distinguono da essa, e distinguendosi ingrandiscono quella: un segreto sentimento di adorazione può già qui aver luogo: un annullamento, un sacrificio di tutte le altre cose a Dio è il secondo grado, il secondo modo di subordinare ciò che è contingente all' Essere supremo. Al quart' ordine si manifesta Iddio come volontà. Cioè dopo essersi distinto Dio dalle creature, si distingue in Dio stesso l' ottima volontà dalla sua natura7intellettiva. La conformazione de' proprŒ voleri, senza esclusione d' alcuno, alla volontà divina; la subordinazione dovuta di tutte le volontà a quella sola; è un principio che di nuovo unifica nell' idea di Dio le altre idee: è il terzo grado, il terzo modo di fare intendere e appercepire il nesso fra tutte le altre cose e l' Essere supremo. Al quint' ordine si cominciano a conoscere alcuni dei divini precetti, e l' accettarli con assoluta devozione è un quarto modo di riferir tutto a Dio. Finalmente al sesto si comincia a conoscer Iddio come intelligenza o superna ragione, allora solamente in Dio sono distinte le tre forme del suo essere: la morale, l' ideale e la reale; che prima indistintamente si raccoglievano nell' idea dell' assoluto. Qui s' apre un quinto modo di legar tutte le cose con Dio, rifondendo in esso le ragioni delle cose tutte, e in tutte adorando l' eterna sapienza. Queste cinque maniere di ordinare le cose create sotto l' unità suprema del Creatore, e di porre così l' ordine principalissimo e naturalissimo nella mente, nel cuore e nella vita debbono esser studiate grandemente dal savio e cristiano educatore. Lo sviluppare poi questi cinque gradi successivi e specie diverse di religioso insegnamento; il rinvenire gli spedienti necessarŒ e le industrie per le quali si possono applicare ai fanciulli, e farli pervenire successivamente al loro spirito, sarebbe pure argomento d' un libro importantissimo e necessario alla solida educazione. Venendo ora a quella ordinazione che derivar si dee alle cognizioni del fanciullo in ciascuna sua età dalle categorie dell' essere, come queste sono tre, così tre sono i principŒ d' ordine e di unificazione. Cominciamo dall' idealità . L' essere ideale universale è quello che unifica questa categoria di cose. Sarà dunque assai bene che si faccia considerare al fanciullo in tutte le cose l' entità; e che gli si mostrino i modi dell' entità che rendono le cose diverse come semplici limitazioni, o anco, se si vuole, atti di quella: e che si faccia così il fanciullo discendere dalla classe massima alle minime delle cose. Ma e quali saranno i gradini di questa scala? - Diversi nelle diverse età. Per rilevarli dovrà il savio istitutore rilevare, con riflettere sulle parole del fanciullo facendol parlare, quali sieno le classi delle cose ch' egli in ciascuna età è pervenuto a formarsi: certamente queste classi avranno per base delle idee semi7astratte, come abbiamo veduto; ma queste stesse idee semi7astratte variano secondo lo sviluppo del fanciullo, ed ora costituiscono classi più larghe, ora meno. Ad ogni modo (rilevati quali sieno i semi7astratti su quali il fanciullo classifica le cose) converrà ordinarglieli, fargli vedere qual sia più larga, quale più stretta, quale si contenga nell' altra, quale sia contenuta: in una parola, i gradini per discendere dall' entità ideale alle altre più determinate devono essere quelli che già esistono nella mente del fanciullo, o i prossimi ad essi, a' quali il fanciullo faccia agevolmente, con tale occasione, il passaggio. Come si possono ora ordinare i pensieri del fanciullo rispetto alla realità? Gli enti reali si appercepiscono dall' uomo come sussistenti e come agenti. Quanto alla sussistenza, sono gli elementi materiali che si debbono far trovare al fanciullo, anche qui menandolo dalla cosa più composta alla meno, per esempio, dal mondo alle sue parti maggiori, dalle sue parti maggiori alle minori, e così di mano in mano. Ma anche in questo esercizio si dee seguire una regola somigliante: cioè non parlare se non di quelle parti che il fanciullo già conosce: per esempio, dalla casa si potrà farlo discendere all' idea delle stanze, dall' idea delle stanze all' idea de' siti diversi che si possono in una stanza stessa assegnare, o simile. Assai per tempo si può il fanciullo condurre fino alla cognizione de' principŒ chimici, al che molto gioverebbe l' orto botanico, il gabinetto di storia naturale, distribuiti a suo uso, ed altri simili aiuti. Tutti gli enti poi si possono rattaccare all' idea dell' universo, e ultimamente a quella di Dio come essenzial sussistenza. Quanto poi all' operare delle cose, si dee rilevare parimente quali sieno i principŒ definiti che il fanciullo è giunto a formarsi sulle forze e le attività delle cose; e moderare l' insegnamento in modo di far sempre uso di quelli. I principŒ d' azione, le forze, le cause vengono gradatamente a concepirsi, a disegnarsi via meglio nella mente del fanciullo. Or l' istitutore tostochè s' accorge che un dato principio è già composto nello spirito del suo allievo, egli dee impossessarsene per aggruppare intorno a lui molte idee; facendone fare al fanciullo una frequente applicazione a quante più cose gli sia possibile. In tal modo que' principŒ diventano modi preziosi che collegano le idee divise, e danno alla mente ordine, luce, potenza. Molte di queste unioni diventano assai utili allo stesso sviluppo morale, come, a ragione d' esempio, quella per la quale il fanciullo giunge a conoscere che tutti gli uomini vengono da una causa sola, da un solo padre, e non costituiscono per ciò che una sola famiglia. Veniamo alla terza categoria, quella della moralità . Noi siamo venuti sponendo i principŒ morali che si forma il fanciullo in ciascuno de' quattro primi ordini d' intellezioni. E` conforme alla sapienza dell' istitutore il fondare su quelli le sue lezioni morali, unica maniera di farsi intendere dal tenero suo alunno; a quei principŒ egli dee richiamare del continuo le azioni, deve far fare al fanciullo un' applicazione continua di essi: in tal modo le idee delle azioni si unificano, perocchè si sollevano alle loro cause. Veniamo ora all' educazione. Nell' esporre l' educazione che risponde al quart' ordine d' intellezione, seguiremo il metodo tenuto fin qui, di dar cioè alcuni di que' documenti i quali servir debbono non pure per questa età di cui parliamo, ma ben anco per tutte le altre avvenire. Cominciamo dalla necessità che le parole degli istitutori sieno appieno veraci. Già osservammo che la credulità del fanciullo è un effetto della sua benevolenza. L' abusarne adunque dalla parte degli adulti è un atto di turpe ingratitudine. Veramente all' irriflessione e all' egoismo degli adulti questa proposizione è del tutto incomprensibile: l' ignoranza e la debolezza del fanciullo, l' averlo nelle loro mani senza ch' egli possa difendersi, nè tampoco perorar la sua causa, sembrano loro de' titoli sufficienti a poter disconoscere il tenero loro fratello, e a credersi in possesso del diritto per fare di esso e ad esso bene e male, come loro attalenta. Vedemmo ancora che la benevolenza spontanea del fanciullo è cosa morale, che è un dovere che la natura stessa insegna ad esercitare. Chi abusa dunque della credulità fanciullesca, che è conseguenza della benevolenza, egli profana una cosa sacra, dispregia l' elemento morale e divino che dona la maggior sua dignità all' anima intelligente. Vedemmo che la benevolenza del fanciullo, oltre doversi rispettare altamente come cosa morale, deesi ancora coltivarla con bello studio, e questa coltura, volta a dirigere la benevolenza infantile in modo ch' ella conservi e cresca il suo pregio morale, dee, perchè ottenga il suo fine, mantenere ad essa benevolenza l' universalità, sicchè il fanciullo ami tutte le persone, e tutto nel debito ordine. All' universalità poi della benevolenza serve di fondamento e quasi di traccia l' ordine de' pensieri che abbiamo raccomandato introdursi nella mente del fanciulletto, di mano in mano ch' egli se ne rende capace. Ora quest' ordine bellissimo de' pensieri non è che la VERITA` nella sua pienezza e luce maggiore, perocchè la verità è da se stessa ordinata, e nella mente ove è il disordine è anche la falsità. Di qui vedesi adunque che attenzione, che diligenza, che probità si richiegga ne' genitori e istitutori del fanciullo! Quanto debbano questi, se sono savŒ, misurar tutte le loro parole, per non introdurre nella mente del fanciullo niente di falso, niun errore volgare, niun pregiudizio, non un' opinione esagerata, non una stima parziale. Ma chi d' altra parte si persuaderà, se non sarà virtuosissimo e al tutto sapiente, che sommamente importa tener l' animo del fanciullo vergine e puro da ogni pregiudizio nazionale, gentilizio, della condizione e dello stato? Pure ella è questa la maniera di allevare i fanciulli colle maggiori disposizioni alla virtù, alla sapienza e alla felicità. Felici quelli che venendo in questo mondo, riceveranno sortiti loro dalla Provvidenza tali educatori! Oltre il danno che i fanciulli ricevono gravissimo da ogni seme di falsità che s' introduca nelle lor menti, la mancanza di sincerità e di verità nei loro educatori rallenta altresì lo sviluppo del fanciullo. Abbiamo pur veduto che il fanciullo accresce il grado della sua credulità e docilità, quando l' esperienza gli dimostra che quello che ha creduto serve alla sua mente di punto d' appoggio ad altri ragionamenti. Ove possa vedere che questo punto d' appoggio gli manchi, sia fallace; in luogo di aver cagione di accrescere la sua credulità, dee anzi diminuirla. Niente ancora di più pernicioso di questa diffidenza che in tal modo si semina nell' animo del fanciullo! [...OMISSIS...] Il pericolo che v' ha d' abusare della credulità del fanciullo, v' ha del pari d' abusare della sua ubbidienza e docilità. L' educazione dee avere per somma legge il far sì che tutto sia retto nel fanciullo, la mente, il cuore, la vita. La mente del fanciullo si mantiene retta procacciando l' ordine universale delle idee (1): il cuore si mantiene del pari retto all' universalità ordinata della benevolenza, e la vita riceve e conserva la sua rettitudine con delle azioni sempre ordinate e ragionevoli, rispondenti a quel perfettissimo ordine de' pensieri e delle affezioni. Il fare che il fanciullo operi irragionevolmente od a caso, per non dir male, il fargli contrarre delle abitudini non fondate nè nella natura, nè nella ragione; è uno storcere i suoi affetti ed i suoi pensieri: perocchè il disordine della vita si comunica al cuore e alla mente: queste tre cose tra di loro intimamente e pienamente comunicano. Grand' errore adunque è il far servire il fanciullo al proprio trastullo, anzi che al suo vero vantaggio: l' adoperarlo come un mezzo e non rispettare in lui la dignità di fine: e pure quanti pochi genitori vanno puri da questo peccato! Pur troppo l' idea d' avere nel figliolo una proprietà è la prima che entri nel loro spirito: le leggi gentilesche contribuirono a rinforzare questo pregiudizio nelle menti, nè l' autorità del cristianesimo valse ancora a convellerlo interamente dalle menti, nè dai costumi. E dal non saper comandare rettamente, dal non saper dirigere le azioni del fanciullo secondo la ragione del suo stesso profitto, nasce facilmente il guasto della coscienza del fanciullo. I doveri dei genitori e degl' istitutori relativamente alla formazione della coscienza del bambino sono gravissimi e difficilissimi ad adempirsi: di questo dobbiamo dunque noi ora parlare: riprendiam da principio il ragionamento. Al riso del volto umano il bambino risponde col primo atto d' intelligenza, che è un atto ad un tempo di sua benevolenza. Questa benevolenza, abbiam noi osservato esser cosa morale. Di che si vede l' altissimo senno della Provvidenza, la quale nelle viscere materne pose un amore ineffabile che servir deve di acconcissimo stimolo alla razionalità ed alla moralità dell' uomo tosto che entra in questo mondo. Si vede ancora che gli atti della materna tenerezza, lungi dal nuocere al fanciullo, sono quelli che gli parlano, lo educano da principio, invitandolo e traendolo al conoscimento d' un' altra intelligenza buona a cui non può a meno di dare tanta stima e affetto maggiore, quanto maggiormente amorosa e bona a lui si mostra. Ma ben presto nasce il pericolo che il fanciullo esaurisca tosto la sua benevolenza in pochi oggetti; e però dee provvedersi, come dicemmo, che il suo cuore a niuna intelligenza dotata di bontà si chiuda, e più ancora che a niuna opponga alcun sentimento di malevolenza. Viene il tempo, ed è quello del terz' ordine d' intellezioni, che il fanciullo pel linguaggio apprende che gli enti intellettivi che come buoni ed amabili a lui splendettero ne' primi istanti, hanno una propria volontà, e il primo suo movimento si è quello che lo porta a conformarsi ad essa, a vivere in essa, senza nulla pensare di sè. Anche questo è un atto eminentemente morale. Ma qui pure si osservi che l' inclinazione di ubbidire, di conformarsi alla volontà altrui, nasce dalla credenza che s' è formata in lui che questa volontà sia buona, perchè è buono l' ente di cui ella è. Perciò la sua spontanea obbedienza è maggiore, quant' è maggiore la sua benevolenza e la stima verso l' ente intellettivo a cui ubbidisce, e la sua benevolenza e stima è maggiore, quanto maggiore è la bontà da lui appercepita nell' ente medesimo. Ora si considerino i mezzi che ha il bambino di misurare la bontà degli enti intelligenti che trattano con lui. Egli non può fondare il suo giudizio se non sui dati che la sua età gli somministra; e se quello corrisponde a questi dati, è giusto e retto; perocchè la giustezza e la rettitudine morale è sempre relativa al soggetto, cioè è relativa al modo onde l' oggetto viene dal soggetto appercepito. Ora, gli unici dati che quella tenera età somministra, non risultano che da quella immediata comunicazione delle anime, di cui abbiamo parlato, che si fa tra il bambino e le persone che il trattano per mezzo delle dimostrazioni sensibili, risi, baci, carezze, sensibili piaceri a lui procurati, servigi a lui prestati. Quanto adunque più amorosamente egli viene trattato, anche più di bontà appercepisce nell' ente che il tratta, e giustamente egli risponde colla sua benevolenza ed ubbidienza. Questo spiega primieramente il perchè l' ubbidienza del fanciullo non sia la medesima verso tutte le persone, ma anzi, somma per certe, e per altre quasi nulla: spiega perchè egli mostri di sentire un gran rimorso quando disubbidisce, poniamo, alla madre, e piccolissimo o nullo quando ad altri; e perchè la volontà della madre diventi la sua regola costante, e non così quella di altri. Questo fatto viene rilevato appunto da una madre molto stimabile colla solita sua finezza. [...OMISSIS...] Di qui si giustificano, per dirlo di passaggio, le fluttuazioni apparenti della moralità infantile: essendo questa fondata nelle affezioni, ella dee parer mobile siccome queste nelle sue apparizioni, non cessando tuttavia d' avere il suo pregio morale, e un principio stabile qual è quello di stimare ed amare la bontà degli enti. Ma vediamo oggimai i doveri degl' istitutori verso la coscienza incipiente del fanciullo. In prima abbiamo detto che se essi ottengono di mantenere nell' animo del fanciullo una benevolenza universale (2) ed ordinata, questa universale e ordinata benevolenza è ottima regola di moralità data e mantenuta al fanciullo: perocchè egli secondo quella pacificamente dirige e contiene i suoi affetti e le sue operazioni. Non vi ha però ancora in esso alcun principio di coscienza morale. E` venuto al quart' ordine delle sue intellezioni, che avendo già conosciuta una volontà positiva l' apprezzò e conobbe ch' ella dovea essere oggimai la sua regola, anteponendola a' suoi stessi piaceri fisici. Ma questa volontà stessa egli non può giudicare se sia bona per l' intrinseca sua ragionevolezza, ma la giudica buona per l' opinione formatasi che l' ente a cui ella appartiene sia buono. Or quando nasce collisione tra la volontà altrui e le sue tendenze fisiche, allora nel giudizio di preferenza dell' una all' altra, nella tentazione e nella caduta, spunta il primo albore della coscienza nell' animo suo, mediante il rimorso sentito o almen presentito. I doveri adunque degli educatori relativamente alla coscienza incipiente del fanciullo, consistono nel manifestare al fanciullo sempre una volontà buona relativamente a lui; perocchè dovendo la lor volontà esser sua regola, egli avrà in essa una regola bona se sarà bona, e sarà da lui apprezzata e amata se sarà tale ch' egli sia in caso, coi piccoli mezzi di conoscere ch' egli ha, di conoscerla per bona e stimabile. Si dee dunque da noi esaminare questi due punti importanti, si dee rispondere a questi due quesiti: 1 In qual maniera la volontà degli educatori, regola della moralità del fanciullo nel quart' ordine d' intellezioni, può esser bona; 2 in qual maniera può esser bona relativamente a lui, cioè può esser bona d' una bontà riconoscibile al fanciullo stesso, ond' egli possa proporsela da se stesso a regola di sua condotta. Abbiam già detto che il fanciullo, quando da principio conosce, mediante il linguaggio, che i suoi genitori o educatori hanno una volontà positiva degna di tutto il suo rispetto e di tutta la sua affezione, egli non è in caso di giudicare della sua bontà da ragioni intrinseche, cioè dalla natura ragionevole o no, giusta o no, delle cose volute e comandategli. Questo però non dispensa gli educatori dal comandare al fanciullo cose ragionevoli sempre, oneste e giuste. Perocchè sebbene non hanno da temere in lui un censore od un giudice, tuttavia hanno da rispettare una creatura intelligente; e debbono tener l' occhio alla coscienza che già sta per nascere in quel piccolo essere umano, e la quale non riuscirebbe sincera e al tutto conforme alla verità, se si fossero fatte credere al bambino buone le cose cattive, e così falsati anticipatamente i suoi giudizi morali e fattegli contrarre funeste abitudini. Posto adunque che in tutto ciò che viene comandato al fanciullo nulla vi sia d' inonesto, d' ingiusto, d' eccessivo, di appassionato, rimane ancora a vedere come la volontà espressa de' genitori dee farsi conoscere per bona al fanciullo stesso. Anche qui conviene por l' occhio unicamente ai pochi mezzi di conoscerla e giudicarla per bona che ha il fanciullo; e non pretendere ch' egli a riconoscerla tale adoperi que' mezzi che il suo intendimento ancora non ha. In prima adunque non si può sperare ch' egli intenda l' intrinseca ragionevolezza delle cose che a lui vengono comandate: questo è del tutto superiore al suo sviluppo. Converrà dunque ricorrere ai dati estrinseci, su' quali giudica il fanciullo; e questi sono i due seguenti: 1 Il fanciullo giudicherà bone le cose che gli vengono comandate e che sono l' espressione della volontà della madre in generale o degli educatori, se le cose comandate vanno d' accordo colla sua spontaneità naturale; 2 Se le cose comandate sono indifferenti alla sua spontaneità naturale, cioè nè seconde, nè contrarie, egli le reputerà ancor bone in virtù dell' idea di ente bono, stimabile ed amabile, che s' è fatta naturalmente dell' ente che gliele manifesta; 3 Stante poi quest' opinione di bontà dell' ente che da lui vuole quelle cose, se queste a lui sono moleste, da prima egli tuttavia ha la persuasione di dover anteporle alle sue stesse soddisfazioni sensibili, preferendo a tutto il non disgustare la stimata ed amata persona. Che se quelle cose fossero a lui gravemente moleste e continue e la sua stima e benevolenza verso l' ente che gliele comanda non venisse alimentata da niuna amorevolezza, potrebbe la cosa venire a tal termine da distruggere nell' animo suo la conceputa opinione di bontà dell' ente: sebbene alla piena distruzione di questa sua cara opinione non verrebbe mai che difficilmente. Se poi il comando duro e contrario al suo sentire e volere vien fatto di rado, e come un accidente, nella pienezza della stima e della benevolenza del fanciullo nasce il terribile combattimento che dicevamo, nel quale o la sua virtù rovina, ovvero uscendone vincitrice vie più si fortifica. Prima però di cadere, egli usa tutte le industrie per declinare dalla prova, per conciliare, se gli vien fatto, i due suoi bisogni, il fisico ed il morale, per piegare, voglio dire, la volontà del suo superiore alla propria, riducendola a ritirare o modificare il comando; e questa voglia d' influire è propria di questa età, si manifesta cioè al quart' ordine d' intellezioni. Ora egli è chiaro, che circa il comandare cose o piacevoli o indifferenti per sè al fanciullo non vi ha difficoltà, nè altro dovere che questo che tali cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo. Ma la difficoltà comincia dove si tratti di comandare cose di lor natura contrarie alla propensione e alla volontà spontanea del fanciullo. Intorno a queste cose il dovere della madre, della bona e di qualsiasi altro governatore del fanciullo non si limita a ben considerare che le cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo; ma oltracciò, fra le utili ed acconciate, debbono le necessarie essere scelte con sommo avvedimento e con somma prudenza. E cominciando dalla voglia d' influire che ha il fanciullo nella volontà de' suoi maestri, non conviene inutilmente oppugnarla, anzi, ogni qual volta ragionevolmente si può, convien piegarsi e compiacerle, acciocchè il fanciullo esperimenti anche in questo la bontà di chi lo tratta, opponendosi tuttavia qualche volta opportunamente, acciocchè egli esperimenti ancora che il cedere non è mai debolezza, ma solo amore (1). Non è certo necessario di dire che la è cosa inumana il pretendere dal fanciullo cose eccessivamente dure, e il trattarlo costantemente in modo sì aspro da annientare nel suo cuore il concetto di boni che si fece naturalmente di noi: i mali trattamenti continuati in tal modo possono dare all' animo suo una tempra di durezza e inclinarlo fino dalla culla alla tristezza e alla crudeltà, chiudendolo all' amore. Ma sarà mai permesso di cimentare la sua tenera virtù? Sì certamente, come abbiamo detto anco prima, ma qui appunto dee consistere tutto l' avvedimento e la sagacità dell' educatore nel misurare il grado della tentazione. Sempre lo si dee fare quando l' utilità o la necessità lo esiga; ma anche allora conviene che la tentazione non superi le sue forze; quanto sarà più grande la sua stima e la sua benevolenza effettiva, tanto avrà egli più di forze da resistere al cimento. La lotta si forma tra la stima ed affezione della persona amata e il desiderio di qualche soddisfazione sensibile: quel tanto, del quale quella vince questa, è la misura della sua forza morale di cui si può disporre. Qual sagacità non si richiede nel rilevarne acconciamente la misura! Ben può essere sovvenuto nel conflitto sia con carezze, sia con regali, sia con presentargli il più che si possa inzuccherata la pillola che gli si dee far trangugiare: e tutto ciò non conviensi omettere a questa età, dove abbisogni. E dico dove abbisogni, perocchè dove no, convien lasciarlo combattere alquanto e trionfar da se stesso. Egli è divenuto con ciò migliore: la sua virtù così si consolida, la sua forza pratica salutarmente si spiega. Ma il mezzo più importante di non falsare la coscienza, che già comincia a sbocciare nel fanciullo, quello senza il quale non si arriverà giammai a mantenere la sua coscienza del tutto pura, verace, perfetta, consiste nel fargli conoscere che anche in Dio esiste una volontà, e che questa volontà è altissima, suprema sopra tutte le altre volontà, a cui bisogna dare ubbidienza pienissima, conformandovisi in tutto, foss' anco con patire ogni cosa e con posporre a quella ogni altra volontà. Non si dee già pretendere ch' egli concepisca la volontà divina come sapiente, no, di questo non è capace: ma egli la concepisce assai facilmente come volontà di un ente supremo, assoluto ed ottimo, di cui la volontà è pure altissima, assolutamente rispettabile, e sopra ogni pensare ottima. Questa bontà della volontà divina, il bambino non è da prima nè pur capace ancora d' intenderla dagli effetti: ma la intende pel concetto che s' è formato di Dio, concetto all' uom naturale, perocchè è naturale all' uomo il concepire l' illimitato e l' assoluto prima d' intendere queste parole e sapere esprimere con esse il suo intendimento: e però falsamente si procederebbe volendo persuadergli ciò con ragioni; conviene solo presentargli alla mente l' esistenza di un essere oltremodo grande e bono, avente una volontà oltremodo pure grande e bona; perocchè basta che gli si presentino questi concetti alla mente senza prove, ed ella, la mente, immediatamente gli accoglie ed assente loro senza la menoma dubitazione, trovandoli essenzialmente veri, atteso un brevissimo argomento ch' ella spontaneamente fa, e mossa dalle intime leggi della sua natura produce a sè, tuttochè non ci rifletta poi sopra, nè lo si sappia dire, nè esprimere altrui con parole (1). E la via di comunicare al fanciullo così grandi pensieri è quella prima di tutto del linguaggio naturale ed efficacissimo che viene inteso da quella mirabile facoltà di partecipare dell' altrui sentire e intendere, che simpatia fu chiamata. [...OMISSIS...] Non si dee tuttavia omettere di vestire poi anco di parole acconce questi sentimenti, che colla loro comunicazione intima l' anime si trasmettono. Nè meno si dee poscia trapassare di far conoscere la bontà e la grandezza divina dagli effetti; ma senza ragionamento, solo affermando che tutte le cose vengono da Dio, che da Dio vengono tutti i beni, ch' egli è il fonte d' ogni bontà delle persone (2). Laonde il ringraziamento è l' atto di culto che più conviene a quest' età: conviene farlo fare al fanciullo il più frequente che si possa; ed è bella la piccola orazione che Mad. Hamilton propone da suggerirsi a un fanciullo quando egli riceve qualche favore dalle persone: [...OMISSIS...] . Con tali esercizi si conduce lo spirito del fanciullo a conoscere sempre più la prima causa del tutto, il fonte universale de' beni, a distinguerla dalle cause seconde e preferirla a tutte le persone umane per buone che queste gli si presentino: e quel che è più a mettersi in diretta comunicazione con essa. Quando l' essere perfettissimo si è reso così vicino al fanciullo, fu conosciuto qual principio di tutti i beni; non v' ha allora più pericolo che la volontà degli uomini prenda nel suo cuore un posto più elevato della volontà di Dio . Questa diventa la regola suprema , e quella la regola subordinata : ecco ciò che massimamente importa, acciocchè la coscienza non sia falsata nella sua formazione: ecco il desiderio, il grande studio de' genitori veramente cristiani, e che vogliono educare a Dio i cari pegni consegnati loro da Dio. Chi volesse fare una classificazione delle intellezioni di quint' ordine potrà farla agevolmente, partendo dal principio che « le intellezioni di un dato ordine sono i rapporti, che trova la mente fra le intellezioni degli ordini inferiori sui quali ella si riflette »; e attenendosi alla maniera di procedere, colla quale noi abbiamo data la classificazione degli ordini precedenti. Oltre a questo, prima d' istituire il ragionamento sopra un dato ordine d' intellezioni conviene aver presente che le intellezioni di un dato ordine non sono egualmente facili a formarsi, nè si formano tutte ad una data età; ma quelle sole alle quali viene diretta l' attenzione della mente: e l' attenzione della mente non si muove e dirige, se non punta da certi stimoli di bisogni, che si manifestano, alcuni costantemente a certe età ed altri a caso ora più presto ora meno, dipendendo dalle accidentali circostanze. E` finalmente necessario anche aver presente ciò che già dicevamo, che nel tempo stesso che la mente lavora intorno ad un dato ordine d' intellezioni, non istà ella oziosa rispetto alle intellezioni degli ordini inferiori; ma continua a rifornirsi meglio di queste, sempre in modo corrispondente e proporzionato ai nuovi stimoli de' bisogni, che a ciò far la sollecitano. Veniamo dunque ora ad esporre alcuni cenni anche sullo sviluppo, che fa la mente di sè col quint' ordine d' intellezioni, ordine che suole apparire già assai marcato nel quart' anno del fanciullo. L' operazione propria del quint' ordine è la terza specie di sintesi. La prima specie si fu la percezione (prim' ordine): la seconda specie si fu la predicazione delle qualità delle cose (terz' ordine): quale è ora la terza specie? Questa viene preparata dall' analisi precedente. L' analisi del quart' ordine noi l' abbiamo fatta consistere nella scomposizione elementare , per la quale la mente trova un soggetto risultare da due elementi, una cosa di cui viene predicata qualche cosa, e una cosa che si predica. Coll' abbracciare la mente questi due elementi come parti costituenti una stessa cosa, ella ha già cominciato a paragonarli insieme; e perciò abbiamo detto che l' operazione del paragone comincia nello spirito umano coll' analisi propria del quart' ordine. Ma chi ben riflette, questo cotal paragone è piuttosto virtualmente compreso in quell' analisi, che attualmente. Mi spiego. L' operazione, colla quale lo spirito in un soggetto, che gli sta presente, nota due cose, poniamo la sostanza e l' accidente, non consiste attualmente in un espresso paragone di quella con questo; ma bensì implicitamente s' accorge, che la sostanza non è l' accidente, nè l' accidente la sostanza; benchè sappia, che tutte e due quelle parti appartengono ad un solo oggetto. Or l' accorgersi che la sostanza non è l' accidente contiene, dicevamo noi, implicitamente il paragone, che scopre la relazione di differenza e di opposizione tra quelle due parti: ma questo paragone non è l' operazione, con cui si scompone e distingue sostanza ed accidente, ma da quella operazione è supposto ed implicito in essa. E qui deesi notare con somma attenzione appunto un fatto importante dello spirito umano, la doppia maniera cioè, colla quale egli fa le sue operazioni. Queste operazioni talora egli le fa espressamente e spiegatamente ed allora sono facili ad osservarsi: costituiscono la forma specifica della sua attività, e in questa forma l' attività termina e quasi direi si configura. Altre volte egli fa le stesse operazioni, ma in un modo sfuggevolissimo e non per terminare e riposare in esse, ma unicamente, acciocchè gli servano di via o scala ad altre operazioni, a cui intende come a fine: e mentre queste scolpisce con diligenza, perchè le vuole per se stesse, quell' altre solo le abbozza rapidissimamente per quel tanto, che gli bisognano a farsi il passaggio alle ultime, a cui vuol pervenire. Ora, se nella scomposizione elementare vi ha un cotal paragone, questo non è fatto dallo spirito, che alla sfuggita e imperfettamente, quanto solo gli si rende necessario mezzo a conoscere, che due sono le parti, gli elementi onde risulta il soggetto e non uno: il che si conosce sapendo solo in generale, che l' un non è l' altro, senza bisogno che si sappiano anco determinare le differenze che li dispaiano. E quantunque il sapere, che l' uno elemento non è l' altro, involga la vista d' una relazione, cioè della relazione di diversità, tuttavia la relazione stessa non si vede astratta in sè: veggonsi le due parti, ma il pensiero non s' affissa nella stessa dualità. Ciò premesso, si potrà intendere che cosa sia la sintesi di terza specie, che è l' operazione propria dello spirito al quint' ordine d' intellezioni. Verificato coll' analisi del quart' ordine, che esistono due cose diverse, che ne formano una sola; viene nel quint' ordine la sintesi a discoprire i rapporti, che hanno tra di loro quei due elementi. La terza specie di sintesi adunque consiste, « nella determinazione della relazione che hanno fra di loro due cose che ne formano una sola ». Da questa definizione si vede che in una tale sintesi il paragone comparisce in forma espressa e spiccata, e non ischiacciato e per accidente come sta dentro l' analisi precedente: vedesi pure che il frutto prodotto dal paragone, la relazione (1), si manifesta anch' essa determinata e non in un modo come prima al tutto generale ed imperfetto. Le relazioni poi non solo legano i predicati co' subbietti, ma ben anco due cose quali si vogliano, le quali si riscontrino insieme e fra di lor si trovi passar qualche nesso da formarne lo spirito una unità, un pensiero complesso. Quanto a' predicati ed a' subbietti la mente qui può discoprire con qual legge tra loro si leghino in un oggetto: se per accidente, o per necessità, o per l' essenza medesima: di guisa che la loro distinzione sia concettuale e non veridica. Se gli oggetti son due può vederli in un pensiero complesso sia pel nesso delle somiglianze e delle differenze (2), sia per quello delle cause e dell' effetto, sia per altra relazione qual si voglia. I giudizi analitici, che fa lo spirito umano al quint' ordine, sono di seconda specie od anco di prima. La materia di questa analisi vien preparata dalle sintesi precedenti cioè dalle sintesi, che si fanno al quart' ordine o prima. Questo s' intenderà facilmente, quando si ritiene, che in ogni ordine oltre l' operazione propria di esso, si continuano a eseguire altre operazioni, che per la loro natura spetterebbero agli ordini precedenti, ma per circostanze speciali vengono differite a quell' ordine, al quale giunto lo spirito le eseguisce. A ragione d' esempio, il predicare una cosa d' un' altra è quella operazione sintetica, che appartiene al terz' ordine, perchè ivi una tal sintesi comincia ad apparire. Ma egli è evidente, che lo spirito giunto al terz' ordine non può predicare una cosa di un' altra se non a condizione che: 1 egli abbia il concetto della cosa che predica; 2 e il concetto di quella di cui la predica. Laonde questa operazione non può aver luogo al terz' ordine ogni qualvolta a quello stadio il predicato non è ancor formato nella mente umana, o non è formato il soggetto. Tale sarebbe trattandosi di predicare un' azione d' un agente. Noi abbiamo veduto che gli astratti di azioni non sono ancora formati prima del terz' ordine; anzi non si possono formare se non nel terz' ordine. Indi avviene che i giudizi e tutte le operazioni intellettive intorno le azioni e gli agenti sieno ritardate d' un ordine: di maniera che al terz' ordine si hanno le azioni astrattamente prese; solo al quarto si può eseguire la sintesi per la quale esse si predicano di un soggetto agente e che solo al quinto finalmente si possa analizzare l' agente cioè dividere l' agente dall' atto suo, considerar l' agente e l' azione come parti o elementi d' un solo soggetto, il che è l' analisi elementare propria del quart' ordine, ma che per accidente vien protratta e differita dallo spirito fino al quinto. Ora quest' analisi di seconda specie, ma appartenente al quint' ordine, è una operazione d' infinita importanza al progresso sì intellettivo che morale del fanciullo. L' attribuire un' azione a un soggetto non è ancor che riconoscere un fatto per se solo sterile: in una tale sintesi io non ho in veduta altro che di porre in un ente l' azione. Ma se dopo avere io unito l' azione e il soggetto e così formatone un tutto solo, l' agente, di nuovo considero l' agente e distinguo in lui l' azione e il soggetto come due elementi d' un solo tutto; io con ciò m' apro il campo a trovare la relazione tra quell' azione e quel soggetto, ogni relazione. Non mi mancherà che un passo per venire a conchiudere una verità importantissima nell' orbe della moralità, cioè che all' agente appartiene il prezzo dell' azione, e però che « io dovrò stimare tanto più il soggetto quant' è più stimabile l' azione ». Questo passo lo farò all' ordine seguente: nel sesto comincerà dunque nella mente del fanciullo l' idea distinta dell' imputabilità delle azioni, e nel quinto già si prepara alla formazione d' una sì grande idea il cammino. Al quint' ordine sembra pure potersi attribuire l' operazione del sillogismo disgiuntivo, o almeno la formazione della maggiore di questo sillogismo. La maggiore del sillogismo disgiuntivo può ridursi a questa formola « delle due sole maniere, in cui può essere (o farsi o avvenire) una cosa, essa cosa dee essere (farsi od avvenire) nell' una o nell' altra ». Ora per concepirsi questa proposizione si esige aver prima l' idea complessa delle due maniere, nelle quali una data cosa può essere, o farsi o avvenire, aver di più osservata la relazione di opposizione, che hanno quelle due maniere, sicchè l' una esclude l' altra (1). Ma noi abbiamo veduto che solo al quint' ordine lo spirito umano giunge a distinguere due cose in un solo concetto, e a notarne la relazione fra di esse, mediante la terza specie di sintesi. Laonde egli pare, che prima del quint' ordine l' intendimento umano non possa in modo alcuno concepire la proposizione maggiore del sillogismo, che dicesi disgiuntivo. La necessità poi, ond' avviene che la cosa non possa essere se non nell' uno de' due modi, ora è metafisica, ora fisica, ora meramente positiva o sia libero7fisica. Che ogni cosa sia o non sia, è un' alternativa di necessità metafisica, e lo stesso dicasi delle proposizioni, nelle quali le due parti sono formate dal sì e dal no (principio di contraddizione). Che traendo una palla da un sacchetto debba uscire una di quelle due, che vi si posero, è necessità fisica. Che il fanciullo per una data sua azione debba trarre o premio o castigo è necessità libero7fisica; cioè fisica, ma condizionata alla volontà del suo istitutore, che gli promise il premio e gli minacciò la pena. Il fanciullo porta nella sua mente la cognizione della necessità metafisica, sicchè egli non opererebbe mai contro il principio di contraddizione; ma nè il sa enunciare così presto, nè analizzare, nè intendere, se gli vien detto in una distinta proposizione. La necessità dell' alternativa libero7fisica è quella che più facilmente egli intende in un modo esplicito, e poi la fisica: ultimamente la metafisica. Egli è da condursi di proposito per questa gradazione di proposizioni disgiuntive. Le proposizioni disgiuntive di più di due membri appartengono agli ordini susseguenti. In quest' ordine può il fanciullo acquistare distinta idea del numero quattro. Quando dico che il fanciullo può acquistare di questo numero una distinta idea, intendo ch' egli può acquistare la cognizione di tutte le relazioni del numero quattro co' numeri precedenti: nello studio di queste relazioni si contiene l' aritmetica propria di questa età. Egli può altresì aggiungere qualche maggior grado di luce al concetto alquanto confuso che ha già de' numeri maggiori; perocchè, in possesso del numero quattro, ha dei nuovi modi co' quali pervenire ad essi coll' aggiungere al quattro successivamente un predicato. Ciò che ho detto parlando del numero tre all' ordine precedente, parmi sufficiente a fare intendere tutto ciò che dal fanciullo si può esigere in opera di aritmetica, pervenuto che sia a questo stadio; ed eziandio ciò che si possa da lui pretendere in ciascuno degli ordini successivi. Il nostro fanciullo cominciò già a formarsi delle collezioni di cose; e nel quint' ordine procede innanzi nella formazione di tali collezioni: quelle che risultano da tre oggetti gli sono già facili, e le concepisce distintamente. Ma in quanto al progresso del suo spirito in quest' opera del formarsi delle collezioni di cose, noi rimettiamo al lettore la cura di accompagnare i passi del fanciullo in questo e negli ordini successivi, contenti come siamo d' aver segnato l' età in cui l' opera delle collezioni incomincia e la legge secondo la quale procede. In quella vece vogliam qui notare un' operazione nuova e importante, che a questa età incomincia a fare il fanciullo, e questa si è di distribuire le cose in cert' ordine secondo un loro valore vero o supposto, assoluto o relativo. Al quart' ordine egli cominciò a notare colla sua mente le differenze delle cose. Veramente da principio non bada « che alle differenze numeriche o totali, e delle altre non cura »: queste appena si possono dire differenze. Ma tosto dopo ne nota delle altre, e quest' altre differenze sono la base di collezioni diverse ch' egli va facendo: una collezione sola non ha bisogno di conoscimento di differenze, ma due collezioni sì. Dopo l' età delle collezioni adunque, e dopo l' età delle differenze, segue l' età dell' ordine nel quale pone più collezioni fra loro, ovvero gl' individui che entrano in ciascuna collezione. Per anteporre una cosa ad un' altra, od una collezione ad un' altra, non basta conoscere semplicemente la differenza loro in generale, ma convien riflettere di più, che quella differenza fa sì che l' una debba essere preferita all' altra, che l' una abbia più valore dell' altra; la differenza come un mero fatto comincia ad essere distintamente conosciuta al quart' ordine d' intellezioni; la conseguenza che se ne trae a vantaggio d' una delle due cose differenti e a scapito dell' altra, non si ha se non al quint' ordine. Col quint' ordine d' intellezioni il fanciullo può giugnere a distinguere i tre tempi delle cose; cioè può osservare gli avvenimenti passati e distinguerli da' presenti, e i presenti dai futuri. Questo risulta da ciò che abbiam detto innanzi sul progresso della mente infantile nel notare il tempo nelle cose. Dopo che il fanciullo paragonò e distinse l' avvenimento presente coll' avvenimento passato, dopo che paragonò del pari l' avvenimento presente con un avvenimento ch' egli prevede o s' imagina in futuro; egli è in caso altresì di paragonare l' avvenimento passato coll' avvenimento che dee avvenire; e così concepire lo stesso avvenimento vestito delle tre forme del tempo. A questa età egli comincia altresì a formarsi (sempre mediante le parole) un' idea del tempo astratta dagli avvenimenti. L' astrazione del passato, del presente e dell' avvenire trova il suo fondamento negli avvenimenti concepiti sotto due tempi, il che egli fa nell' età precedente. Per altro non concepisce il fanciullo da prima il passato in genere, ma prima un passato determinato da un grande avvenimento: il dopo la pappa, o il passato di ieri diviso dall' oggi pel tramonto del sole o pel sonno, sono i primi passati determinati ch' egli conosca. Laonde non solo si dee parlare al fanciullo del tempo con queste gradazioni; ma ben anco servirsi sempre di avvenimenti che facciano nell' animo suo grandi impressioni e vi lascino delle tracce durevoli quasi di altrettante epoche, aiutato dalle quali egli fissi il pensiero all' avanti e al dopo di essi, e così egli osservi il tempo nelle varie sue forme. Ho già mostrato che il pieno significato del monosillabo IO non può intendersi dal fanciullo, se egli non sia giunto al quint' ordine almeno del suo sviluppo intellettivo. Al prim' ordine egli non percepisce che degli oggetti esterni. Supponiamo che al secondo egli percepisca le azioni. In tal caso solamente al terzo, e non certamente prima, le applicherà ad un agente; ma egli non saprà ancora di essere egli stesso questo agente, perocchè tra gli agenti egli non ha ancora trovato se stesso. Venuto a questo punto, egli non può parlare di sè che in terza persona; ed è quello che abbiamo veduto avvenire di fatto ne' fanciulli prima che giungano ad intendere il monosillabo IO, ed anco negli adulti, se per ispeciali circostanze non giungono oltre ad un certo grado d' intellettuale sviluppo. Nel quart' ordine solamente, ordine in cui comincia l' intendimento a notare distintamente le differenze delle cose, potrà venire a distinguere (sempre eccitato dal linguaggio che è spronato ad intendere da' proprŒ bisogni e da una naturale tendenza a conoscere) tra gli agenti se stesso dagli altri: il che è quanto dire sarà condotto a percepire intellettivamente il proprio sentimento fondamentale, sentimento7uomo come autore di quelle date azioni. Questa non è che una percezione, egli è vero, e come tale apparterrebbe al prim' ordine d' intellezioni; ma non si fa a quel tempo, come dicemmo, per mancanza del bisogno che stimoli a farla. Questo bisogno or si manifesta nella necessità di attribuire le azioni al suo autore, e però di attribuire al sentimento fondamentale, che l' uomo prova, certe azioni le quali perciò appunto si dicono sue proprie. Ora l' uomo non può attribuire quelle azioni al sentimento fondamentale che egli prova, se non a condizione di percepire prima intellettivamente quel sentimento. Quindi si muove l' uomo a riflettere sopra se stesso, cioè sopra quel sentimento fondamentale che appunto lo costituisce. Non prima adunque del quart' ordine, se non anco di poi, l' uomo comincia ad intendere il monosillabo IO come significante quel sentimento sostanziale che prova e percepisce come autore d' azione. Ma questo, già lo dicemmo, non è il pieno significato del monosillabo IO. Questo monosillabo esprime di più l' identità fra il conoscente e pronunciante l' IO, e il sentimento sostanziale operante che esprime chi pronuncia l' IO. Ora egli è chiaro che questa identità non si può intendere se non dopo d' aver percepito intellettivamente quel sentimento sostanziale7operante: e però non prima del quint' ordine. Non basta: al quint' ordine d' un altro grado s' accresce nell' uomo la cognizione di se stesso. Essendo pervenuto già prima, cioè nel quart' ordine, a percepire il sentimento fondamentale attribuendogli delle azioni, ed avendo altresì col quart' ordine stesso concepite le azioni in due tempi, nel passato e nel presente, o anco nel presente e nel futuro; egli giunge al quint' ordine ad osservare che il principio agente sentito e percepito è il medesimo ne' due tempi, là dove le azioni di questo principio nel passato e nel presente sono diverse. L' IDENTITA` dell' IO nel mezzo della varietà delle azioni e de' tempi, è una cognizione che qui nasce e che si rinforza a poco a poco, mediante continue esperienze, e accresce infinitamente la cognizione di se medesimo. Egli è vero che questa identità non viene espressamente e distintamente concepita e pronunciata; ma ella viene implicitamente sentita e percepita in modo che « l' uomo da questo punto non fa più nulla che la smentisca, non opera più in contraddizione di essa ». Il principio morale che risplendette fin qui nel nostro bambino come stella che mostrava il cammino alla sua attività individuale, si fu « il rispetto dovuto alla natura e alla volontà intelligente che gli si fece conoscere ». Questo principio, resosi in lui operativo, prese in lui quattro forme, le quali furono: 1 benevolenza; 2 consentimento; 3 credulità; 4 obbedienza. In fatti il fanciullo naturalmente ama, prende i medesimi sentimenti di quelli coi quali egli conversa, crede alle loro parole e ubbidisce alle loro volontà. Egli è indubitatamente aiutato a far ciò da degli istinti; perocchè l' inclinazione ad amare, la simpatia, la tendenza a ricevere senza sforzo di contraddizione, e la spontaneità che si lascia movere senza resistere, sono possenti aiuti all' adempimento del suo dovere morale, e per essi Iddio provvide che questo dovere sia reso facilissimo e dolce ad un essere che non avrebbe ancor le forze di sostenere un combattimento. Ma quest' istinti ed altri, sì animali che umani, non costituiscono però la moralità: la qual tutta pende, come dicevamo, da quella luce intellettiva che gli dimostra qual cosa dignitosa e alta ella sia un' intelligenza che a lui si scopre benevola, e il volere di essa. Già al quart' ordine d' intellezioni egli pone tanta stima ed affetto, e intende di dovergliene porre, alla volontà intellettiva che a lui si manifesta, che è persuasissimo di dover sottomettere ad essa tutti gl' istinti della sua propria sensualità; e se egli rimane vinto da questi, già arrossisce, si nasconde, e il rimorso non gli dà più pace. Questo sentimento del rimorso è importantissimo ad osservarsi, ed egli segna l' apparizione del quint' ordine d' intellezioni nel fanciullo. Perocchè il quarto è quello in cui, conosciuta una volontà intelligente, intende che tutto dee uniformarsi a quella, gli costi ciò che si vuole. Quando poi, operando, infrange questa norma morale da lui ben conosciuta e n' ha sentito il rimprovero della sinderesi, egli ha fatto un passo innanzi: è venuto al quint' ordine. Tuttavia il rimorso al quint' ordine non ha del tutto la stessa natura del rimorso quale si manifesta nel sesto e negli altri maggiori. Egli è uopo che noi facciamo qui ben notare questa differenza, perocchè ella ci conduce meglio a stabilire le norme o principŒ morali, che si formano nell' anima all' ordine quinto d' intellezioni. Il rimorso, prima di concepire una volontà positiva d' un altro essere intelligente, non si può dare (1), perocchè nel fanciullo prima di questo tempo non vi ha combattimento morale: il suo operare del tutto spontaneo non trova ostacoli morali. Egli è per questo che, secondo noi, il rimorso del fanciullo dimostra ch' egli è già pervenuto al quint' ordine. Per altro, il rimorso che si manifesta al quint' ordine è così diverso dal rimorso che si manifesta negli ordini successivi, che quella prima apparizione di rimorso non esige nè pure una chiara notizia dell' imputabilità, quando negli ordini che vengono appresso il rimorso stesso è un effetto dell' imputazione che il fanciullo già fa espressamente a sè, nel suo interno giudicato, dell' opera mala da lui commessa. E nel vero, al quint' ordine il fanciullo non ha ancora finito di concepire chiaramente se stesso, come vedemmo, perocchè quantunque sia pervenuto a conoscere che alcune azioni appartengono al sentimento sostanziale da lui provato, tuttavia egli non sa trovare questo sentimento sostanziale, non sa dove metterlo; il che è quanto dire non sa conoscere che il giudicante, il parlante, l' imputante è appunto quel sentimento che imputa a se stesso quelle azioni male. Di più, la relazione fra le azioni fatte a sè, che le ha fatte, nel quint' ordine la sente in generale, ma ancora non ne conosce la qualità, il che dee fare all' ordine seguente; al quale perciò si spetta la imputazione propriamente detta. Mancando adunque questi elementi che entrano come cause e parti integranti del rimorso razionale che si ravvisa negli adulti che peccano; quale rimane il sentimento di rimorso che dicemmo apparir nel fanciullo pervenuto al quint' ordine? Che cosa è questo rimorso? Merita egli questo nome? E lo si merita nello stesso senso nel quale si dà al rimorso già pienamente formato? L' uomo, prima ancora di avere una coscienza formata di se stesso, ha una sufficiente notizia degli altri per sentirne una qualche esigenza morale. L' esigenza degli esseri è l' obbligazione morale che si manifesta colla sua virtù immediatamente all' anima intelligente prima ancora d' aver preso la forma di legge (1). Or se il bambino sente la detta esigenza ancor prima di riflettere a se stesso, ne dee venire per conseguenza, ch' egli provi un corrispondente orrore e dolore, ogni qualvolta pone l' azione contraria all' esigenza delle cose. Questo è un principio di sentimento morale, che in lui si suscita allo stesso modo, come in lui nasce il sentimento dell' esigenza degli enti; e che è indipendente da un espresso giudizio d' imputazione col quale giudichi e condanni se stesso qual reo. Fra l' azione ch' egli pone e concepisce, e le cose di cui egli sente l' esigenza (poniamo la rispettabilità delle intelligenze e lor volontà) sorge una disarmonia di fatto: nell' anima sua, in questo sentimento sostanziale, accade una lotta, ed essendo ella tutta sentimento, impaurisce al trovarsi nell' arena di un siffatto combattimento. Questo è un cotale rimorso, che ha luogo nell' anima come un fatto necessario e non volontario, e come un sentimento che nasce a quel modo, onde il dolore d' una ferita: perocchè anche l' anima, anche la parte morale dell' anima, ha le sue leggi fisiche e inalterabili come quelle de' corpi; ed egli è un errore il credere che tutto ciò che avviene nel regno della moralità dipenda solamente dall' arbitrio, o sia così tenue come un' idea; o così vago e sfuggevole come accidentali affezioni. L' anima nel suo essere morale può ricevere adunque delle ferite e dolorarne prima ancora di conoscere se stessa, di riflettere sulla propria personalità; e questo è il rimorso che sorge al quint' ordine d' intellezioni. Questo rimorso appartiene al senso morale , e non propriamente alla coscienza morale ; ma quando l' uomo giunge nel suo sviluppo intellettivo un ordine più su, incontanente egli, errando, soggiace a un rimorso, che appartiene ed è l' effetto della consapevolezza del suo mal operare. Non è già, che quel primitivo rimorso si formi in noi senza l' opera dell' intelligenza, no certo. Ma l' intelligenza nol produce direttamente; ella non fa un espresso giudizio di condanna, dal timore del quale nasca l' interno dolore, che rimorso si chiama: l' intelligenza non fa che conoscere il male che viene operato: onde il sentimento di quell' essere, che conosce il male, si raccapriccia, allorchè si muove a farlo cedendo alla tentazione. All' incontro il rimorso al sest' ordine acquista un nuovo elemento, quello dell' imputazione. Al sest' ordine l' uomo conosce l' IO, come un sentimento sostanziale operante, conoscente, giudicante e proferente se stesso. Non solo a quest' IO egli attribuisce le azioni già prima conosciute cattive come ad autore, ma ben anco gliele imputa; cioè intende che quell' IO autore di quelle azioni ree ne riceve deterioramento; onde viene il demerito e il biasimo. L' uomo che in questo stato giudica e condanna se stesso, soggiace sotto il peso di questa sentenza, come sotto un nuovo male; ed indi una nuova amarezza si aggiunge al suo rimorso; il quale diventa con ciò anco figlio della sua coscienza morale. Il rimorso dunque coll' atto dell' imputazione si amplifica, s' integra, acquista un elemento nuovo, non è più sensione morale , ma ben anco vero rimprovero o biasimo morale. Vero è, che quando al rimorso immediato e di fatto, per così dire, si sopraggiunge quest' altro come rimproccio e sgridata di interno giudice o superiore, il primo non si muta, ma con questo s' unisce a pungere il cuore del peccatore con doppio aculeo. Anzi quel primo fa la via a questo secondo. Perocchè ben sovente la ragione s' avvede del fallo e 'l riconosce, e il rinfaccia al suo soggetto mossa e desta dal pungolo naturale: sicchè l' uom s' accorge e si riprende d' avere errato, perchè lo scorge a ciò il sentire il mal essere e la doglia della sua natura morale: del che cercando la ragione trovala nel fallo commesso. Laonde non a torto chiamasi e l' un e l' altro di questi due dolori, che insieme si mescolano, rimorso ; e il secondo può considerarsi come il compimento e quasi una nuova forma dell' altro. Che, se dividere si dovessero, potrebbero dirsi il primo rimorso della sinderesi , perchè nasce da' principŒ morali, che sono in noi, da noi violati; il secondo rimorso della coscienza , perchè nasce dal giudizio con cui imputiamo a noi stessi il fallo commesso: il primo è un rapporto reale (una disarmonia) tra l' IO sentimento operante e l' esigenza degli esseri da lui appresa: il secondo è un rapporto reale tra l' IO sentimento operante e la sentenza di condanna di sè da lui proferita: quantunque nel primo non vi sia ancora coscienzia morale, tuttavia vi ha qualche cosa che stimola la coscienza e la provoca, e puossi chiamare l' albòre della coscienza. Da questo si conchiuda, che il gran principio morale: « segui la coscienza »al quint' ordine d' intellezioni non è ancor formato nell' uomo: egli segue ancora de' principŒ morali anteriori a questo della coscienza. Quali sono adunque i principŒ morali al quint' ordine? Qual è a questo tempo la nuova forma, che prende la moralità nell' animo umano? Ecco quello che dobbiamo ora investigare. Il rimorso, che a questa età si manifesta, sebbene imperfetto, produce l' istinto morale di fuggire il male e di fare il bene. Ciò nasce, tostochè quel rimorso si può prevedere o presentire prima di operare. Ma questo istinto non è ancora una vera formola morale: egli solamente dà luogo ben presto ad una massima esprimente piuttosto un dettame di prudenza, che una morale obbligazione. Ora ciò che noi cerchiamo sono le formole, i principŒ morali proprŒ di questa età. A fine di discoprirli rimettiamoci sulla via dello sviluppo morale, rammentandoci quale sia stata l' apparizione della moralità al quart' ordine. Noi vedemmo che al quart' ordine la moralità si manifestò all' uomo come un dovere « di uniformarsi alla volontà degli esseri intelligenti conosciuti, costasse qualsiasi sacrificio ». In questo principio compariva una specie di collisione tra il bene eudemonologico e il ben morale, tra il bene soggettivo e l' oggettivo e sentivasi la necessità morale di sacrificar questo a quello. Ma, notisi attentamente, il bene soggettivo in tale stato non si percepiva oggettivamente, perchè l' uomo non avea per ancora la coscienza di sè stesso. Era dunque il soggetto uomo, qual soggetto morale, che da una parte sentendo il dolore e il piacere, dall' altra veggendo il dovere, non dava retta a quello, ma decideva semplicemente, che questo era dovere, era tutto. L' identità del soggetto sensitivo ed intellettivo è solamente quella, che può spiegare come esso soggetto potesse dedicarsi e consacrarsi a quanto prescriveva l' intelletto, trapassato il senso, non consideratolo , come se non esistesse, non giudicatolo, non messolo a confronto. La necessità di seguire il dettame del retto è assoluta; e però l' uomo decideva a favore di questo senza tampoco sentire voce in contrario: pativa il senso, strideva dilacerato, ma l' IO intellettivo tenea gli orecchi turati: unicamente inteso a ciò che il dovere da lui volea. Per questo modo, non per confronto alcuno « la volontà dell' essere intellettivo », nella quale vedeasi il dovere, era posta in cima a tutte le cose nella morale propria del quart' ordine d' intellezioni. Nel quinto cominciano le collisioni de' doveri che mutano forma alla precedente teoria morale. Dico le collisioni dei doveri, e non già la collisione tra quello che è dovere, e quello che non è dovere ma piacere. Questa specie di collisione non muta propriamente la teoria morale; sebbene influisca nella morale pratica, perocchè l' uomo tostochè ha posto attenzione alle voci del senso, che rifugge d' esser sacrificato al dovere, è già entrato in una nuova condizione morale; una nuova tentazione lo assale: egli ha bisogno di nuova fortezza. Questa osservazione e attenzione che l' uom pone col suo intelletto alla pena, che costa il dovere ad adempirsi, accresce la morale d' un precetto, quasi direi, di fianco, il quale vien poi formulato così « sii forte contro la tentazione »; non risguarda questo la forma del dovere finale, anzi la suppone, perocchè dicendo « sii forte contro la tentazione », non si esprime, ma si ammette per istabilito quel dovere, nel mantenimento del quale dobbiamo esser forti. Tuttavia giova assegnare a questo quint' ordine anco questo precetto, che comanda « la morale fortezza ». Toccato ciò di passaggio, dicevamo, che in questa quinta età si manifesta da prima una qualche collision di doveri; ed è questa collisione, che muta le formole morali dell' obbligazione. « La volontà dell' essere intellettivo dee rispettarsi », questa è la formola del quart' ordine. Ma più volontà intellettive ugualmente si manifestino, e non tutte d' accordo: ecco la collisione di doveri. A quale di queste volontà intellettive si dovrà dare la preferenza? Ecco il nuovo problema morale che si presenta a sciogliere all' animo del fanciullo giunto al quint' ordine. Egli è costretto dalla necessità morale di operare a farsene qualche soluzione: e questa soluzione diventa per lui un nuovo principio morale, una nuova formola contenente la sua obbligazione. Prima di vedere come egli debba risolversi un tanto dubbio, veggiamo come questo dubbio debba apparirgli appunto a questa età e non prima. In prima a questa età, egli dee aver già trattato con più persone, ed è impossibile che tutte in tutto sieno andate perfettamente d' accordo e d' un pari passo nel beneficarlo, nell' istruirlo, nel comandargli. Oltracchè già conobbe, che avvi un Essere supremo, ed una suprema volontà ottima e perfettissima, e giunse a distinguere, in qualche modo, da questa volontà ottima le altre volontà limitate nella bontà. In secondo luogo, al quint' ordine non solo egli cominciò a distinguere le differenze delle cose, ma a collocare in un certo ordine di dignità più cose tra loro, almeno due. Quest' ordine fra gli oggetti da lui contemplati non esisteva in lui prima del quint' ordine; e perciò prima egli nè pur poteva collocare nel debito ordine le volontà intellettive che gli si rappresentavano come rispettabili; ma doveva dirigersi a favore dell' una o dell' altra più tosto per azione istintiva e spontanea, che per una preferenza razionale. Ma nel quint' ordine oggimai può farlo. Come dunque lo farà egli? Egli è indubitato, che egli intenderà di dover preferire a tutte le altre la più bona, la più benefica, come quella che è più degna. La bontà e dignità intrinseca dell' intelligenza fu quella, che rivelò da principio al fanciullo, quanto l' intelligenza e la volontà intelligente sia essenzialmente amabile e rispettabile. Egli è chiaro, che i diversi gradi, ne' quali la bontà intellettiva gli si manifesta, debbono essere quelli medesimamente che gli determinano e prescrivono i gradi del suo amore e del suo rispetto. Questa regola dei gradi della bontà, i quali rendono più degne le volontà degli esseri intelligenti, è piena, assoluta, immutabile. Nella bontà si comprende l' intelligenza, giacchè l' intelligenza è condizione e principio della bontà, è bona d' una sua specie di bontà nobile sommamente, vi si comprende la sapienza, ma sopra tutto vi si comprende la beneficenza volontaria. Ma ciò che varia si è l' applicazione di questa regola. Ciò che varia sono i mezzi a disposizione del fanciullo, coi quali egli misura quella bontà e i suoi gradi. Il fanciullo è soggetto ad ingannarsi nel giudicare il grado di bontà e di dignità delle volontà contrarie, che a sè il vogliono uniformare; ma il suo giudizio erroneo in se stesso, può essere diritto rispettivamente a lui. Questo giudizio è sempre diritto ogni qual volta egli fa entrare nel calcolo tutti i gradi di bontà a lui conoscibili: in una parola egli dee misurare non tutta la bontà delle volontà intelligenti, ma tutta quella porzione di questa bontà, che a lui si comunica e manifesta. Tuttavia può accadere benissimo, che questo giudizio, che egli porta all' età presente, sia parziale ed ingiusto; ed ecco in che modo. Quando da principio il bambino saluta una intelligenza, che percepisce diversa da sè, egli fa un atto di giustizia: l' animo suo per anco senza colore si moverebbe agevolmente benevolo verso qualsiasi altra intelligenza, che in luogo di quella gli fosse apparita. Ma ben tosto si affeziona a quelle persone, che con lui più dimesticamente trattano e più dolcemente soccorrono ai suoi bisogni; e questa affezione può diventare parziale ed esclusiva, come abbiamo veduto. Una semplice affezione fisica non è certamente per sè rea; ma da quella può esser mosso l' intendimento ad un falso giudizio; ed in tal caso avvi reità morale; perocchè l' intelletto ubbidisce e consente in tal caso non al vero, a cui solo dee arrendersi, ma alle suggestioni della volontà, che il corrompe. Se dunque la benevolenza del bambino s' è lasciata divenire esclusiva e ristrettiva fin da principio, se i ristringimenti di quella naturale benevolenza sono degenerati in gelosia, invidia, malevolenza ed altre ree affezioni; se tutte queste non sono mere sensioni, ma vere volizioni, egli è entrato già nell' animo del fanciullo furtivamente il fatal veleno della nequizia; e l' intendimento non è più che un giudice corrotto, l' animo non è più che la sede della menzogna. Con queste segrete operazioni si prepara nell' infanzia la pravità sconfortante dell' adolescente, la corruttela sfrenata del giovane, i delitti dell' adulto a se stesso e alla società spietato e nemico. L' altrui bontà adunque si manifesta in due modi al fanciullo: si manifesta al sentire ed all' intendere di lui. Al sentire consegue un amore sensibile e tenero, il quale è naturale e non dannevole, se riguarda quelle persone, che usano più con lui e più lo beneficano; all' intendere consegue un amore appreziativo , il quale dee essere tenuto immune dall' influenza dell' amore sensibile . Se questo è la misura di quello, evvi falsità di giudizio, errore, immoralità. Se questo si sta bensì a canto dell' amore appreziativo, ma senza alterare l' appreziazione, non nuoce. L' appreziazione, dove sta tutto il morale come il suo germe, è sana e senza difetto. La possibilità di questa deviazione dal retto tramite nel fanciullo nostro a questa età s' intenderà considerando, che le sue volizioni appreziative già cominciarono prima d' ora; che egli si è formato gli astratti di azione e della bontà ed eccellenza delle azioni; ch' egli di più può attribuirle al soggetto; onde per le azioni loro può de' soggetti portar giudizio. Questo giudizio è retto, se non giudica arbitrariamente a danno di quelli, di cui non conosce la reità, e giudica a favore di tutti gli elementi del bene, che egli può conoscere, e conosce; benchè quegli elementi non tutti gli senta e gli esperimenti. Già son divenute in lui due cose distinte, l' esperimento del bene, e la cognizione del bene: su questa dee formare il suo giudizio, non già su quello. E qui notiamo una cosa. Tostochè il bambino conosce un' intelligenza, egli se ne forma una cotale idea illimitata, ed infinita della sua stimabilità ed amabilità. Ma poi quest' amabilità gli si va limitando sia per provare degli effetti dolorosi da quell' intelligenza, sia per un amore parzialmente collocato in una intelligenza finita e però tolto alle altre, sia per pregiudizi ed errori imbevuti, sia per altre cagioni. Queste limitazioni son tanto oneste quanto son vere, e se son vere non tolgono mai all' intelligenza la sua amabilità essenziale. Gli effetti benefici di quell' intelligenza non sono gli amati e gli apprezzati; ma sono solamente parte dei dati, sui quali apprezza ed ama l' intelligenza, da cui provengono, e della quale le attestano il prezzo. Sicchè l' appreziazione è sempre oggettiva, finisce nelle nature intelligenti; non è soggettiva, non riguarda gli effetti buoni, che sperimenta il soggetto. Ciò posto, egli avviene, che, qualora si conoscesse una intelligenza maggiore e migliore, come è la suprema, più apprezzar si dovrebbe, eziandiochè non se ne esperimentassero gli effetti. Onde diciamo, che è la potenza della bontà, più tosto che gli effetti della bontà che amar si debbono; è la dignità dell' essere intelligente, più tosto che i suoi accidentali beneficŒ, l' oggetto in cui termina l' atto morale dell' appreziazione. E tuttavia riman fermo, che quella quantità di bontà, che si esperimenta, è anch' ella un mezzo a dover conoscere la dignità ed eccellenza dell' ente intellettivo beneficante. Vedesi dunque qual sia il principio morale del fanciullo a questa età: quale la parte immutabile della sua morale, quale la parte mutabile. Il principio, e la parte immutabile della morale del fanciullo della quinta età si è questo: « Stima gli esseri intelligenti secondo il grado della loro dignità ». Dico « della loro dignità »e non « della loro bontà »unicamente per significare, che ciò, che si fa oggetto della stima morale, non sono gli effetti della bontà, ma la causa di questi effetti; la quale ha una cotale intrinseca bontà, che dignità ed eccellenza si può acconciamente nominare. Il principio, a cui il nostro fanciullo è pervenuto (benchè nol sappia enunciare), è così perfetto e compiuto, che non gli sfuggirà più dalle mani, vivesse egli quanto si vuole, e soggiacesse a qualsivoglia sviluppo maggiore. Egli non muta, chi ben osservi; ma completa e finisce i principŒ morali precedenti. Ma, salvato questo principio, rimane ancora una parte mutabile nella morale del nostro fanciullo, e questa si trova tutta nell' applicazione, ch' egli dee fare di quel principio. Egli è chiaro, che per applicare quel principio dee prima determinare i gradi « di dignità »di cui sono forniti gli esseri intellettivi da lui conosciuti. Ora, come ho detto prima, variano nelle mani del fanciullo « i dati », sui quali egli dee portar quel giudizio. Indi è che procedendo coll' età sarà sempre più al caso di giudicare con verità maggiore, quali siano i gradi di dignità, che godono gli esseri intellettivi, che egli deve onorare, e l' uno all' altro preferire, e nascerà di qui una modificazione successiva nelle forme della sua morale. Quell' epoca, nella quale il fanciullo comincia ad accorgersi, che egli deve paragonare insieme le diverse intelligenze a lui note e le diverse loro volontà, acciocchè nella collisione de' suoi doveri verso di esse preferir possa la più degna; è ragguardevolissima nella sua vita morale, e ben merita che noi vi ci fermiamo a farvi sopra alcune riflessioni. Primieramente si deve osservare, che questa è l' epoca, nella quale il suo spirito passa da de' principŒ morali concreti a de' principŒ morali astratti ossia ideali. Questo è un passaggio d' infinita importanza: rendiamo chiaro il nostro concetto. Che un essere intelligente al primo percepire e conoscere un altro essere intelligente si rallegri e si attui alla stima ed alla benevolenza verso di quello; questa è certamente cosa morale. Che un essere intelligente del pari, in cui questa stima e questa affezione è nata, inchini e si pieghi a uniformar se stesso ai sentimenti, ai pensieri, ed alle volontà di un altro essere intelligente, tosto che venga a conoscere questi sentimenti, pensieri e volontà; anche questa è cosa tutta morale: perocchè morale è ogni atto, che faccia una volontà intellettiva verso un essere del pari intellettivo. Ma la moralità in questo primo suo stadio, sebben cosa buona per sè, ella è tuttavia spontanea e non libera: la volontà si muove soavemente per quell' umano istinto, che è fondato nell' essenza dell' anima, senza bisogno di alcuna deliberazione antecedente. Di più, allorquando il fanciullo esercita gl' indicati offici morali verso gli esseri intelligenti, egli sente certamente la necessità morale di operar così, sente l' esigenza di quegli esseri da lui percepiti; ma questa esigenza non la separa da essi, non la astrae formandosene un concetto distinto e molto meno la formula in parole: no, quella esigenza è qualche cosa di reale7ideale, che fa sentire in lui la sua forza: la natura delle intelligenze che si comunicano è un effetto reale, la concezione che vi pone del suo il fanciullo è un qualche cosa d' ideale: dall' effetto reale e dall' idea unitavi ne sorte quello che io dico « principio morale concreto »; il quale è un sentimento morale7intellettivo, secondo il quale l' uomo opera per lo istinto morale, che da quello procede. Ma si muta interamente la cosa, quando il fanciullo non potendo uniformarsi contemporaneamente a due volontà intelligenti contrarie fra loro, deve scegliere la più degna fra di esse e a quella tenersi. Questa scelta può certamente esser fatta dalla natura, mediante la spontaneità, quando non si trattasse che di beni meramente soggettivi (1), o di sensioni. Ancora ella si può fare per qualche tempo in virtù del senso morale, perocchè l' esigenza morale che opera nell' anima intellettivo7morale come una cotal forza spirituale previene da una parte e fa sentire al fanciullo il bisogno di tenersi da questa sotto pena di contrariare la sua natura morale. Io non saprei determinare certamente, quanto possa durare questo tempo; ma per quantunque duri, deve finalmente spuntare quel momento, nel quale non si tratterà più di un' affezione ricevuta, ma di un' appreziazione di enti intellettivi, massime dopo che in virtù del linguaggio si poterono astrarre dagli enti le nozioni espresse colle parole buono, bello ecc., bontà e bellezza ecc.. Questi astratti sono necessarii a poter giungere a formare tra due o più enti un vero paragone, e rilevare quale di essi abbia più di dignità morale (2). Formate adunque queste concezioni astratte, si può col loro mezzo conoscere, quale di più enti tenga in se più di bontà, più di bellezza ecc., in una parola più di entità o dignità. Quando da prima il fanciullo è pervenuto a giudicare gli enti in questo modo, egli è chiaro, che gli enti stessi, e le loro azioni su di lui, hanno cessato di essere la sua suprema norma morale: perocchè egli si è formato già una norma più elevata, colla quale egli giudica gli enti stessi e le loro azioni. Questa norma è appunto la nozione astratta della bontà della bellezza ecc., in una parola, della dignità dell' ente. Si paragonino ora le due norme. - La prima crea l' ente stesso intellettivo, che comunicava sè stesso e la sua esigenza morale al fanciullo; la seconda è un' idea astratta di bontà, o sia di dignità, che misura i gradi di quella esigenza morale. La prima dunque era una norma, che potea dirsi concreta , perocchè era qualche cosa di reale, che si faceva sentire, e a cui l' ente, che la sentiva, aggiungeva quell' elemento ideale, che è necessario a compiere la percezione intellettiva: la seconda è una mera idea senza concrezione alcuna di reale, una nozione astratta, che si comunica alla sola mente, e non al sentimento. Nel primo stadio morale del fanciullo la norma ossia la legge non aveva ancora un' esistenza a sè; ma era immedesimata cogli enti, verso i quali la morale si esercita. Nel secondo stadio, una cotal legge esiste indipendentemente dagli enti, oggetti della moralità: esiste nel mondo ideale, nel mondo delle possibilità: quando anco nessun ente sussistesse, la norma di cui parliamo si concepirebbe egualmente come necessaria, eterna, riferentesi a degli enti possibili pure eterni, senza alcun bisogno di enti reali. Nel primo stadio gli elementi dell' atto morale sono due soli: 1 quegli, che opera il bene e il male; 2 e l' oggetto, verso cui il bene e il male viene operato. - Nel secondo stadio tutti e tre gli elementi della morale sono a pieno sviluppati e distinti: 1 vi è, chi opera il bene o il male; 2 vi è l' oggetto, verso cui si opera; 3 vi è finalmente la norma o regola, secondo la quale si opera. - Solamente in quest' ultimo caso la moralità s' è resa completa, ha spiegate interamente le sue forme, che prima teneva raccolte come una rosa, che tiene ancor piegata alcuna sua foglia entro il calice. Il passaggio delle norme concrete alle norme astratte della morale è un grande sviluppamento della natura morale nell' uomo, quand' egli si considera semplicemente come sviluppo. Ma giova egli, o pure nuoce alla bontà morale dell' uomo? Che egli apra all' uomo una porta, per la quale entrando possa ascendere ad un grado maggiore di perfezione morale, e che questa sia l' intenzione della natura, non avvi dubbio di sorta. La vocazione dunque dell' uomo, dell' umanità, diviene da quell' ora più augusta: tutto sta che egli vi risponda degnamente. Ma gli è egli agevole l' entrare nel nuovo arringo, e il percorrerlo con felicità? La bontà morale, a cui è chiamato dall' istante, ch' egli è venuto in possesso delle norme astratte , è ella egualmente facile, come quella che gli era destinata in quell' età, in cui le sue norme di operare sono ancora concrete? Sarebbe un adulare vanamente l' umana natura il sostenere, che questa nuova specie di moralità più eccellente, che nasce dal seguitare le norme astratte, sia più facile di quella, le cui norme sono concrete. Di tanto è più difficile all' uomo l' esser buono in questo secondo stadio della sua vita morale, di quanto è maggiore quella bontà, che a lui si richiede, acciocchè egli sia buono e non cattivo. Assegniamo qualche ragione di questa cresciuta difficoltà. Primieramente nel primo stadio della moralità egli era diretto dalla natura, maestra sicura e soave: la sua spontaneità lo conduceva, e questa sapeva sempre dove piegare, non altrimente che sanno i due bacini della bilancia, dove un solo scrupolo più nell' un che nell' altro li dilibri. All' incontro nel secondo stadio l' uomo non può venir tosto all' azione cedendo all' impulso morale della natura, ma per operar bene deve fare un atto di più; deve prima di operare applicare la nozione astratta e giudicare sul valor relativo degli enti. Già il dover fare un atto di più per porre un' azione, è una difficoltà maggiore. S' aggiunge, che quest' atto deve essere imparziale; giudicando un essere migliore di un altro, convien dar peso solamente a ciò che si conosce di lui, e a tutto ciò, che si conosce: le affezioni già prese, le sensioni si debbono contare per nulla, cioè per solo quello che indicano di bontà all' intendimento. Quanto è difficile, che questo giudice si rimanga incorrotto e del tutto imparziale, quando l' uomo, che usa dell' intelletto, non è solo intelletto, ma è pieno di bisogni sensitivi ed animali, per soddisfare ai quali amerebbe sempre chiamare a' suoi servigi lo stesso intendimento, voglio dire il giudizio dell' intendimento? Se l' uomo avesse una natura perfetta, una natura senza mescolamento di alcun elemento di male, le sensioni e gl' istinti da esse nascenti si conterrebbero nella loro sfera, produrrebbero forse delle azioni senza intervento dell' intelletto (almeno se l' attività propria di questo, la volontà, non si opponesse loro): ma non darebbero la leva all' intelletto stesso, non attenterebbero di muoverlo ad un giudizio precipitoso, temerario e falso. Le due potenze dell' affezione e della volontà opererebbero da sè a fianco l' una dell' altra. In tal modo non verrebbe mai sedotto il giudizio dell' intendimento umano, e però non vi avrebbe immoralità. Ma il fatto avviene pure spesso in contrario: l' uomo sente, e, schiavo delle sue sensioni, non s' accontenta di esse; vuol fare servir loro l' intendimento, e così piega la sua ragione a pronunciare, prima d' aver esaminato, prima d' avere veduto il vero, a favore di quelle. Venendo il giudizio così pressato a pronunciare, quando la causa non è resa ancor chiara, egli per non errare conviene che sia fornito d' una grande forza pratica tutta a favore della verità e della virtù (1). Questa può nascere ed esser coltivata dalla prima infanzia, prima ancora del tempo della lotta; ma dove ciò non sia stato fatto, viene pel fanciullo l' età, in cui da una parte ha una norma astratta, un' idea, secondo la quale deve giudicare; dall' altra ha già le passioni invigorite, che vogliono farlo giudicare per esse; quella gli mostra la via, ma nol move; queste il movono, ma gli nascondono la vera via; nè egli ha virtù naturale di resistere a' costoro inviti. E ciò spiega la somma difficoltà, che si osserva ne' fanciulli a mantenere una costante veracità nelle loro parole. Osserva M. Necker de Saussure che « « ogni azione, dalla quale non risulta immediatamente patimento a nessuno, pare innocente al fanciullo »(1) ». La ragione di questo fatto si è, che per conoscere colpevole un' azione che non fa dolore a nessuno, il fanciullo dee usare di una norma ideale, là dove per conoscere colpevole un' azione che reca dolore, egli non ha bisogno di far uso, che di una norma concreta. Ora una norma ideale è sfuggevole all' attenzione, e fa su di lui poca impressione; là dove una norma concreta il muove efficacemente. Applichiamo questo principio generale al caso particolare della veracità. Ecco il fatto. [...OMISSIS...] Questo fatto dimostra la poca efficacia, che ha la norma astratta della veracità sull' animo de' fanciulli. Quando la veracità va d' accordo colla simpatia, cioè col bene che si fa altrui per istinto, allora è conservata: è il caso nel quale il fanciullo si dimostra sì schietto, sì ingenuo. Se la veracità non è combattuta dalle tendenze simpatiche, benchè non la sia favorita da esse, ancora conserva qualche forza sul fanciullo: egli ben intende, che le parole debbono significare altrui quello che si pensa, che questa è cosa convenuta tra gli uomini, che chi apre la bocca a parlare con questo solo si obbliga a stare a quella convenzione, ed usare le parole per esprimere il vero. Ma tutto ciò si oscura nella mente infantile o almeno perde di forza nella sua volontà, quando un' affezione simpatica, una sensione qualsiasi viene in collisione colla norma della veracità. Molte volte allor nasce, che vi siano due norme morali in collisione tra loro, l' una concreta, quella della benevolenza; l' altra astratta, quella della veracità. La prima prevale alla seconda, benchè la seconda sia in se stessa assai più autorevole della prima. La veracità ha due ragioni, che la raccomandano. L' una l' utilità generale del genere umano; l' altra l' intrinseco prezzo, la necessità intrinseca della veracità: e questa seconda è la ragione diretta ed intrinseca. L' utilità del genere umano è compresa nel principio della benevolenza già noto al fanciullo; ma quella utilità egli non sa calcolarla: e dove anco la sapesse in qualche modo, trovandola in collisione con una utilità presente e sensibile, quella forse, generale e ideale come sarebbe nella sua mente, cederebbe a questa minore, ma concreta ed istante. Appena il fanciullo alla nostra età imparò a subordinare uno o due mezzi ad un fine; e il calcolo dell' utilità universale, veniente da una costante veracità, suppone la subordinazione e coordinazione d' un gran numero, e d' una grande serie di mezzi al fine di quella generale utilità. Il concepire immediatamente la necessità intrinseca di essere veraci non è guari difficile; e come dicemmo, ogni fanciullo, quando è tranquillo e non sedotto dalle passioni, la vede e la conosce. Ma questa conoscenza non ha virtù di muovere la volontà, quando questa è preoccupata dall' affezione agli esseri reali: l' attenzione del fanciullo si occupa tutta della cosa che ama, e volontariamente dimentica, per dir meglio non considera quella necessità della veracità, che pure gli sta immobilmente presente, benchè egli volga di continuo l' occhio altrove per non vederla. Se noi vogliamo dedurre il dovere della veracità nelle parole potremo dedurlo nel modo seguente: « Chi prende a parlare altrui, promette tacitamente a quelli, co' quali parla, di dir loro la verità usando le parole per quel che corrono. Quegli ai quali parla acquistano con ciò il diritto di non essere ingannati. Il diritto di non essere ingannati è di gran prezzo per l' essere intelligente, che abborrisce che gli si faccia inganno, eziandio allora che egli non si fa scrupolo d' ingannare altrui. Laonde il fanciullo stesso si adonta contro colui che l' inganna mentendogli, con che dimostra di sentire assai bene, che l' inganno è un' ingiuria per un essere ragionevole; è una violazione della dignità dell' essere intelligente, il cui altissimo bene si è il vero, e il cui proprio male si è il falso. Dunque il mentire è peccato e la veracità è dovere ». Da questa deduzione del dovere della veracità s' intende che egli esige per essere inteso, che prima sia ben inteso come « il possesso della verità sia un gran bene, e carissimo all' essere intelligente »; e come per quest' essere sia un male il falso e un' ingiuria l' inganno. Che tutto ciò s' intenda dal fanciullo è innegabile; ma del pari è innegabile, che ciò ha poca efficacia sulla sua volontà. Di che la ragione si è che la verità è un essere ideale, di cui sebbene intenda il prezzo, tuttavia non lo intende per modo che grandemente il muova; nè il può a lungo contemplare colla sua mente sempre naturalmente occupata di cose reali. Alla verità , a quest' idea sublime, il fanciullo dà degli sguardi momentanei; ma non vi si ferma: la usa di mezzo, ma non la contempla mai fissamente e direttamente come fine, come oggetto: è troppo comune, troppo chiara, troppo evidente, troppo antica per lui a poterlo interessare, occupare di sè: questa è l' opera dell' età avvenire, della mente esercitata, del cuore sublimato da un lungo esercizio di virtù. E qui soffermiamoci a levare la nostra riflessione su tutte le cose dette, che n' avremo un risultamento importantissimo al fine di conoscere la qualità e l' indole dello sviluppo delle facoltà morali nel fanciullo. La morale soggiacque nel suo spirito a tre modificazioni sostanziali, prese successivamente tre forme; ma la forma, che successe, non distrusse l' antecedente, la completò; la seconda completò la prima, la terza le altre due. La prima forma, di cui parliamo, avea per oggetto e per norma insieme l' essere intelligente reale e produceva l' immediata benevolenza. Volendo vestirla di un' espressione, ella suonerebbe così: « riconosci praticamente gli esseri morali per quello che sono »(rispetto a te). La seconda forma avea per oggetto la volontà degli esseri intelligenti reali, la volontà buona, e la sua espressione sarebbe questa: « uniformati alla buona volontà degli esseri intelligenti ». La terza forma in fine ebbe per termine la nozione ideale, l' idea come norma delle azioni. Quando l' uomo dice seco medesimo: io debbo preferire tra più esseri intelligenti e tra più volontà la migliore; egli allora non s' attacca nè a questo, nè a quell' essere reale; ma all' ordine mostratogli nell' idea: sicchè quest' idea viene ascoltata a preferenza di qualsiasi invito e attraimento, che potessero esercitare sopra di lui gli esseri reali. Questa forma di moralità potrebbe dunque venire espressa così: « fa ciò, che ti mostra dover tu fare la nozione o idea delle cose, colla quale si misura e pesa il valore delle cose stesse ». Le tre forme della morale da noi qui accennate sono quelle che sogliam dire le tre categorie della morale: tutti i precetti ad una di esse tre si riducono. La prima ha per fondamento l' essere reale, la seconda l' essere morale, la terza l' essere ideale: questi sono i tre modi, ne' quali l' essere sussiste. Il fanciullo dunque al quint' ordine d' intellezioni tocca si può dire tutta la morale; perocchè tutte le forme di questa si sono a lui disvelate. Chi poi bramasse intendere qualche cosa di più intorno a questa parte ontologica dell' Etica, può vedere il nostro « Trattato della coscienza (1) ». Iddio si è già cominciato a conoscere dal fanciullo come natura ottima e come volontà ottima. Questa cognizione si sviluppa e perfeziona via più nel fanciullo, quando questi si conduca a conoscere le opere di Dio ed i suoi precetti . Ma, oltre questo perfezionamento della notizia di Dio nella mente fanciullesca, in quest' ordine d' intellezioni può manifestarsi Iddio al fanciullo come giudice e rimuneratore del bene e del male. Già di molto s' estende il pensiero del fanciullo se egli giunge a sapere, che, chi è contrario a Dio, è perduto, chi è amico suo, è salvato, destinato alla beatitudine: chi disubbidisce alla sua volontà, è punito in un modo terribile, chi l' ubbidisce, è premiato in un modo ineffabile. Questa idea di rimunerazione ben impressa e tenuta viva nella mente fanciullesca è un faro di salute nelle tempeste delle tentazioni: tutti gli attributi di Dio vi sono compresi, la potenza, la sapienza, la giustizia, la bontà, l' esser egli unico bene, il bene essenziale, il compimento di tutto ciò che è finito, la sussistenza stessa del finito. All' anima umana è convenientissima una tale notizia: annunziatagliela l' accetta avidamente, l' ammette come propria, come già conosciuta e a lei famigliare: la luce della sua verità è tale, che esclude qualsiasi possibile opposizione od esitazione. Alcune altre cose spettanti allo sviluppo intellettivo del fanciullo al quint' ordine saranno inserite in questo capitolo per la stretta connessione, che esse hanno collo sviluppo delle sue facoltà attive e morali, che ora prendiamo a sporre. Vi ha un tempo della vita del fanciullo, nel quale l' imaginazione prende uno sviluppo rapido ed immenso: questo suol essere il terzo o il quarto anno (1), al quale tempo suol appartenere il quint' ordine d' intellezioni. Questo fatto del subito slancio che prende l' imaginazione, la quale dopo qualche tempo perde nuovamente di sua attività, dee essere da noi spiegato: e le ragioni di esso ritrovansi appunto nelle speciali condizioni dello spirito pervenuto al quint' ordine d' intellezioni. Fino dai primi istanti della vita del fanciullo la facoltà di ristaurare nell' interno le sensazioni ricevute cogli organi esteriori è certo sommamente pronta e vivace. Ma la sua prontezza e vivacità non si stende che a lui, nè mostra perciò al di fuori i suoi effetti per le seguenti ragioni. Le sensazioni che riceve il bambino alla giornata sono ancor poche ed uniformi. Queste si risuscitano bensì nella sua imaginativa, in questo senso interiore, date alcune circostanze, indicazioni o stimoli, che sieno atti a rinfrescare nel cervello le sensazioni avute. Ma il fanciullo non gode ancora di alcun uso della sua libertà, nè ha imparato a maneggiare quella potenza che ha d' imaginare; nè conosce alcun bisogno, alcun fine che a ciò lo tragga. Egli si rimane adunque al tutto passivo; e quelle sensazioni, che nella sua fantasia si suscitano e rinnovellano, si suscitano e rinnovellano tutte a caso, e secondo impreveduti accidenti. Indi è, che non si dà nel rivenire delle sue imagini alcuna composizione nuova; si ripetono fedelmente le sensioni avute e non più. Di che manca tutta quella immensa ricchezza, che l' imaginativa acquista dalla composizione d' imagini, varia all' infinito. Questi limiti, che restringono da prima l' imaginazione infantile, si tolgono via ben presto. Le sensazioni si moltiplicano, si connnettono, si ripetono e tutte vivissime. Col sentire si suscita nel fanciullo il desiderio di sentir maggiormente, la voglia di procacciarsi sensazioni esterne ed interne. Egli viene apprendendo l' arte di muovere egli stesso internamente i nervicciuoli destinati al sentire interno della fantasia, e così a suscitarsi le imagini. Quest' attività prima spontanea s' accresce ben presto coll' apparizione della libertà nel fanciullo. Ma tutto ciò non sarebbe ancor bastevole a spiegare quel periodo, d' altra parte breve e sfuggevole, nel quale l' imaginazione è per così dire la fata del paese, arbitra di tutto ciò che vi nasce e che vi apparisce. A rilevar la cagione di tal fenomeno si consideri: 1 Che l' uomo non potrebbe colla sua imaginazione crearsi degli avvenimenti, comporsi delle favole, de' miti, se non a condizione di aver già appreso dall' esperienza come gli esseri della natura sogliono operare, il che è quanto dire dopo essersi formato de' principŒ definiti circa l' operare delle cose. 2 Che non potrebbe tampoco fare tutto ciò liberamente, se i principŒ da lui formatisi circa l' operare delle cose fossero così definiti e legati alla realità, ch' egli non potesse più nulla aggiungere alla natura, non pensare più nulla di nuovo, se non ciò che fosse al tutto verisimile. Si esige adunque, affinchè l' imaginazione abbia il suo maggiore sfogo, una qualche cognizione dell' operare delle cose che compongono l' universo; ma non una cognizione perfetta, anzi manchevole, vaga, da molte parti indeterminata. Trovandosi in tale stato d' imperfezione la cognizione intorno all' operar delle cose; la mente del fanciullo ne sa abbastanza per fingere delle cose sull' esempio di quelle che avvengono realmente in natura; ma ne sa ancora bastevolmente poco per trovare verosimile tutto ciò che non è metafisicamente impossibile: la verisimiglianza ha per lui ancora ampiissimi confini, l' inverisimiglianza gli ha angustissimi. Già abbiamo veduto che, da principio, il fanciullo non ha altra regola nella sua mente per misurare l' impossibile in natura, se non l' assurdo metafisico; perciò egli è disposto a credere possibile, a credere vero e reale tutto ciò che non contiene in sè intrinseca contradizione e questa stessa a lui visibile; perocchè non sempre la coglie. La possibilità fisica adunque, per lui altrettanto estesa quanto la possibilità metafisica, è immensa, non ha confini; e questo è il teatro della sua fantasia. Ma questa potenza intrinseca non può giocolare sur un tanto teatro, se non ne apparò prima l' arte; cioè se non ha qualche cognizione delle cose esteriori e del loro operare, ch' egli dee pur fingere e in qualche modo simulare. Ora quest' arte l' appara tostochè, percepite le cose esterne, comincia ad osservarne le loro azioni, a formarsene degli astratti, a notarne alcuni grossolani lineamenti e confini; i quali limitassero bensì un poco per lui la sfera della possibilità fisica, ma non tanto ch' ella non restasse ancora infinitamente più estesa della reale. Ora questo stato dello spirito del fanciullo è appunto quello, che risponde al quinto e al sest' ordine d' intellezioni. Da principio l' operar della natura per lui non ha limiti, ma nè pur quasi esiste: perocchè non avendo percepito che alcuni esseri, egli non vede che quegli soli, che a lui richiama e ripete la fantasia, che da se stessa si muove. Quando poi egli è già in possesso di alcune idee astratte delle azioni e si è formati alcuni tipi grossolani dell' operar delle cose, il che comincia egli a fare al quart' ordine, egli è in possesso di tutte e due le condizioni necessarie alla massima attività della sua imaginazione, perocchè d' una parte: 1 egli sa fingere delle cose e de' fatti; perchè ha già delle idee astratte che a ciò lo dirigono e de' tipi ricevuti dall' esperienza; 2 e in questo lavoro non è angustiato e ristretto dalle misere leggi della verisimiglianza, leggi che ancor non conosce; e però spazia larghissimamente colla sua imaginazione, senza trovare ostacolo, per i campi di un mondo fantastico e dilettevolissimi senza confini. Ma questo stato felice, in cui la sua fantasia e sa muoversi e nel muoversi non trova alcun ostacolo che la trattenga, alcuna legge che la restringa, non dura a vero dire gran tempo. Perocchè l' avvolgersi continuo colle cose reali della natura e le nuove osservazioni, ch' egli fa di continuo sul loro operare, lo rende accorto de' confini più precisi, entro a cui son racchiuse le nature nelle loro azioni: i tipi dell' operare delle cose, che egli s' era formato in mente e che erano incerti abbozzi, e più cotali scarabocchi ovvero geroglifici che accurati disegni, vanno ricevendo più distinti contorni, si disegnano con più esattezza, si colorano con più chiaroscuri, ricevono fin anco gli ultimi tocchi, che li rende similissimi alla realità. Ogni passo, che egli fa in questa scienza, ogni linea ch' egli aggiunga al disegno, che s' è formato in mente, e colla quale via meglio il determina, fa perdere immensamente alla sua imaginativa, svela per chimeriche innumerevoli sue creazioni, condanna per grossolane, puerili, assurde infinite invenzioni, che prima nella sua semplice ingenuità a lui parevano le cose più vere, le più care, fino le più importanti. Così l' età sopravvegnente porta via continuamente molti idoli fantastici, che più non piacciono, quando se ne vede troppo patentemente la falsità. [...OMISSIS...] Ma non passano molti anni, che le novelle vostre non gli piacciono più: voi dovete acconciarle con più industria, acciocchè gli riescano interessanti: viene ben presto il tempo che egli vuol delle vere storie (2). Il periodo d' una straordinaria quantità d' azioni della fantasia, che si vede nell' infanzia al terzo e quart' anno, cioè al quinto e sesto ordine d' intellezioni, vedesi del pari nella vita dell' umanità. I tempi favolosi si trovano nelle storie di tutti i popoli: l' Oriente, la Grecia, il Settentrione hanno le loro favole: a tutte le storie sono preceduti i poeti. Questo periodo mitico è più o meno lungo, secondo che l' infanzia delle nazioni è più o meno prolungata. Le favole non si possono più sostenere presso que' popoli, nei quali la cognizione precisa delle cose reali ha reso impossibile la loro illusione. Allor quando alla mitologia greca si pretese di sostituire nella letteratura le streghe e gli spettri del Nord, si dava indizio di conoscere, che il mondo non poteva più comportare in alcun modo le bambolaggini greche; ma poi per errore credevasi di soddisfare alle sue nuove esigenze col presentargli delle nuove bambolaggini, le boreali. Non poteva riuscire il tentativo, nè riuscì: il mondo cristiano ha oggimai bisogno di schiettissima verità . Sarebbe tuttavia erroneo il credere, che con questo nome di verità s' intendesse solamente la realità; questa non è che una parte di quella: la verità abbraccia di più: ha la sua storia e la sua poesia; e son vere ugualmente. Ben avviene che i popoli, che occupano interamente la loro attività in interessi reali e in cose positive, divengono alienissimi da tutte le generali teorie, e da quanto v' ha di grande nel mondo ideale. Questi vanno all' eccesso contrario: legano del tutto la loro fantasia, perocchè a questa non rimane più a innovar cosa alcuna, condannata, per somma grazia, a solo ristampare le realità. Non è già che alla imaginativa di tali popoli manchin le forze; ma queste forze sono legate del tutto. Perocchè la potenza d' imaginare non può produr nulla, che abbia qualche interesse per l' uomo, se non sia tale, che rechi qualche illusione; che possa almen essere conosciuto per tutto simile al vero. Ma non dà alcun valore che al reale, poichè al reale tanto s' affissa, che lo ha sempre presente, nè crede che altro vi sia che il reale; questi trova puerile tutto ciò che reale non è, e ride, o almeno non cura nè anche quello, di chi dubita se sia reale. Ognuno vede quanto al ritratto, che noi facciamo di tali popoli, rassomigliano gli Americani degli Stati7Uniti. Ma tutto ciò, che abbiamo detto, non ispiega ancora certi fenomeni dell' animo del fanciullo al tempo, in cui la sua imaginazione prende quel rigoglio di cui abbiamo parlato. Uno di questi fenomeni si è, che entro quel periodo il fanciullo trae ben sovente più piacere dall' imaginario che dal reale. [...OMISSIS...] Le quali parole nel tempo stesso che descrivono con evidenza il giuoco dell' imaginazione puerile, toccano anco delle cagioni che entrano a produrlo. E certo il piacere di operare da sè, di vagheggiare le proprie creature, dell' averne sempre di nuove e fresche, e tutte atte ad illudere in quell' età per la ragione detta di sopra; valgono in parte a spiegare come il fanciullo così avidamente si dia a chimerizzare e fantasticare. Ma perchè non si vede un somigliante giuoco nelle bestie? Hanno pur anche esse l' imaginativa e provano piacere delle rinnovellate imagini: ma come ottimamente venne osservato, tratte una volta in inganno dall' imaginazione, per esempio delle uve di Zeusi, non ne vogliono sapere di vantaggio di simiglianti illusioni tutte proprie dell' uomo. Vero è, che l' attività, che dispiega l' uomo imaginando, non è solo sensuale, ma intellettuale altresì; giacchè l' imaginazione vien diretta e guidata dalle idee astratte, ciascuna delle quali è un cotal tipo non finito, sul quale innumerevoli cose possono esser create e foggiate, ed è ciò che rende sì vasto l' imaginar dell' uomo sopra quel delle bestie. Tuttavia quest' attività intellettuale che s' accompagna all' attività dell' imaginazione, e cresce tanto e l' ampiezza e il diletto dell' operare di questa; in che modo potrebbe ella esser fonte di tai piaceri, se non fosser piacevoli gli stessi oggetti, ch' ella presenta? Dunque non è solo l' attività come attività la cagione perchè il fanciullo si diletta degli imaginati oggetti, ma è qualche cosa ancora di dilettoso, che in questi egli ritrova e gusta: e che può esser la cosa che così lo attrae? Se non è la realtà dell' oggetto, che, come vedemmo, egli ritrova soverchiamente angusta e povera, che il diletti, non può esser altro che la stessa entità metafisica della cosa: cioè a dire egli si diletta dell' oggetto come oggetto, poco poi calendogli che esso sia reale o non sia; egli contempla e gusta la natura, la essenza delle cose; di questa è incantato e preso. Questa è una contemplazione dilettevole sì, ma disinteressata; una contemplazione tanto più nobile quanto è più segregata dalla fredda realità. Egli è l' istinto d' imparare a conoscere l' entità delle cose, che lo muove, che lo trattiene a contemplare internamente nel proprio spirito, senza darsi gran pena della cosa al di fuori: egli è rapito dal bisogno che prova il suo intendimento di suggere per così dire l' essere, più essere che egli possa, i gradi, l' ordine intimo, le forme di quest' essere, che sono appunto l' essenza delle cose limitate, di cibarsene come del suo nobilissimo cibo, celeste, vitale. L' oggettivo, l' ente in sè (non reale, non ideale, ma astratto da questi primordiali suoi modi) è quello ch' io chiamo il mondo metafisico. A quest' età il fanciullo apre le sue ali e vola ad esso senza schermi. La mente si compiace nell' aderirvi come la bocca del bambino al seno materno. Egli è per questa stessa ragione, che fino al tempo nostro, benchè sì ricco oggimai di esperienza, avidamente son letti i romanzi. Ma v' ha forse alcun, che li legga, perchè egli creda, che le cose siano avvenute, come essi le narrano? Sarebbe troppa semplicità. Chi li legge vuol vedere in essi come sia la natura umana, come ella operi. Vuol imparare a conoscere il cuore umano, vuol contemplare l' indole delle passioni, le pieghe di questo cuore, che palpitando in tanti individui diversi è finalmente in tutti il medesimo. Allo stesso modo gli uomini guardano il figurino, affine di conoscere l' usanza corrente; a nessuno poi importa che la pinta imagine sia per avventura Madame tale o Monsieur tale, le quali realtà riuscirebbero così frivole, così importune, così lontane da quel che cercasi, che farebbero noia anzichè piacere. Il desiderio di conoscere le cose in sè stesse nella loro oggettiva essenza, anzichè nell' accidentale loro realità, è lo stesso che il desiderio del sapere; perocchè il sapere tutto a questo si riduce nella formale sua parte; nè il sapere più o meno delle cose reali e positive rende per sè l' uomo più savio e più dotto. E questo è uno degli istinti più forti dell' umana natura: l' anima si precipita nell' entità oggettiva come nel suo bene, tostochè ella possa, tostochè si veda aperta una via per pigliarsene qualche parte, foss' anco un briciolo. Da questa tendenza poi efficacissima, che porta l' anima intelligente a contemplar le cose, come sono in se stesse, non come sono nel mondo reale, moltissimi fenomeni dell' umana vita ricevono facile spiegazione, e bastimi fare qui cenno soltanto di quello, che più da vicino s' attiene al nostro discorso. Quest' è la facilità, la prontezza, la necessità, che ha lo spirito di passare da una cosa simile ad un' altra, cioè a far si che una cosa gli serva di segno o d' indizio d' un' altra. Non importa che la somiglianza sia poca, che il segno sia imperfetto, che meriti piuttosto nome d' indizio che di ritratto: la mente non fermasi a quell' oggetto rozzo e reale, come negli esempi di sopra accennati all' uomo di cera o di carta: pensa immediatamente all' uomo vero, ma notisi bene, dico l' uomo vero, non dico il reale; perocchè al fanciullo niente gl' importa di sapere che esso sussista; gl' importa solo di pensare, di contemplarsi quell' uomo, di cui nel suo spirito ha già ricevuto l' idea, e nella idea appunto l' essenza. Tanto egli è vero che questo passaggio spontaneo da cose così distinte tra loro, com' è un po' di cera e di carta, da un uomo, accade per la forza dell' istinto, che sprona del continuo la mente a ricorrere alle cose in se stesse; che un tal passaggio, chi ben lo considera, riguarda sempre una cosa esterna e materiale, dalla quale si passa ad una cosa interna ed oggettiva. E quand' anco avvenisse che da una cosa esterna si passi in un' altra pure esterna, sempre però ciò si effettua per questo modo; che egli dalla cosa esterna passi prima a contemplare quella, che egli ha nella mente, e poscia da questa cosa interna viene all' altra esterna. Questa osservazione medesima dimostra la possibilità delle lingue. Si noti, che la maggior parte de' suoni, che formano una lingua, segnano le cose come sono nella loro natura e non nella loro sussistenza. Or come sarebbe possibile, che all' udire i suoni delle parole il fanciullo fosse tratto a pensare alle cose, colle quali essi hanno una cotale analogia, se non fosse già inclinato da natura a correre colla mente alle cose in se stesse, prendendone occasione da checchessia gli si presenti? - Chi vide la scuola de' sordomuti, e la incredibile facilità, onde intendono le cose mediante de' segni, si convincerà della cosa stessa. Non fa già bisogno, che i maestri gli dicano innanzi, che i gesti, che adoperano con esso loro, sono de' segni: questo sempre viene presupposto, questo lo sanno da sè, glielo dice la natura: la natura è quella che li avvia a considerare tutte le esterne cose, e non soltanto i gesti dei maestri, come de' segni di altre cose, cioè della natura, dell' essenza delle cose. Se la natura non lo dicesse loro, niun potrebbe farglielo intendere: perocchè il concetto che una cosa sia segno, e sopratutto segno convenzionale d' un' altra, è in sè stesso così difficile a snodarsi, così gratuito a stabilirsi, dirò anche così strano e mirabile; quando si considera la cosa colla mente e non coll' istinto, che non potrebbe essere mai ricevuto, ammesso, ritenuto costantemente; come pure senza alcuno sforzo, fanno, e ogni giorno i bambini, gli idioti, i muti. E` che l' uomo non può fermarsi al reale; è che egli tosto che può farlo, fugge da esso come la freccia dall' arco, per cogliere e infiggersi nella natura delle cose, oggetto della sua intellettuale contemplazione: è per questo ch' egli, lungi dal trovar difficile il pensiero, che una cosa sia segno dell' altra, trova anzi impossibile il non considerare tutte le cose reali per segni. Questo spiega le lingue, i geroglifici, le scritture, le mimiche, i simboli, i miti, le arti tutte d' imitazione, l' antichissimo linguaggio enigmatico, la sapienza parabolica de' primi uomini, l' aver Iddio ammaestrati gli uomini sempre per segni, per figure: l' interpretarsi per segni ogni cosa che avviene, sia falsamente ed arbitrariamente siccome fanno gli auspici, gli aruspici, i fatidici, gl' indovini presso tutti i popoli, in tutti i tempi; sia veramente come fanno gli ispirati incominciando da' primi profeti, a cui Dio parlava per visioni e per segni, fino ai Padri della Chiesa e agli interpreti delle Sante Scritture, che negli stessi fatti più semplici del Vangelo leggono quasi direi significati de' morali documenti e de' profondi misteri (1). La tendenza, che porta l' uomo alla contemplazione delle cose in se stesse è essenzialmente morale; appunto perchè ella è essenzialmente oggettiva (2), e del soggetto interamente obliviosa. Se dunque l' imaginazione, che si spiega nel fanciullo, non producesse altro effetto che questo, fosse solo un aumento di contemplazione intellettiva delle cose nel loro essere metafisico; indubitatamente, che ella gioverebbe alla bontà morale, senzachè da essa venisse a questa alcun danno. E così sarebbe, se l' umano istinto , che segretamente dirige le potenze alle loro operazioni, avesse per suo mobile solo l' accennato, voglio dire la tendenza dell' intelletto ad affissarsi nell' entità delle cose, senza più. Ma egli ha un altro mobile tuttavia, e questo è il piacere che ritrae dalla realità. Convien riflettere, che l' uomo è un essere reale, e che perciò ci tende ancora a dei godimenti reali. Benchè adunque il suo intelletto si compiaccia nella luce della verità, nella visione delle essenze; tuttavia vi ha in lui un' altra tendenza a lato di quella, la tendenza cioè che lo porta verso a tutti quei beni reali, che gli posson dare diletto. Due adunque sono i mobili dell' istinto umano: l' uno ci porta verso l' entità in se considerata, l' altro verso l' entità reale . Questi due mobili dirigono segretamente lo spirito nostro nelle sue operazioni per una strada opposta. La tendenza del tutto intellettiva a fissarsi nella cosa in se considerata ci stacca dalla realità, che le riesce del tutto inutile; la tendenza a godere della realità a questa ci rimena. Indi avviene, che quando il fanciullo immagina viene bene spesso da lui contemplato come una natura di cose in se, non curando la ricerca, se sia reale o no. Quando prevale in lui questa prima tendenza, egli parte dal reale come da un simbolo, e finisce nell' essenza della cosa come nel simboleggiato. L' essenza qui è il fine del movimento dello spirito, la cosa contingente e reale non ne è che il principio e l' occasione. Ma se nel reale egli concepisca qualche cosa di dilettevole, e indi venga a giocare la seconda tendenza, allora avviene nello spirito del fanciullo il contrario: cioè che quanto egli imagina facilmente lo crede cosa reale. In questo caso lo spirito di lui fa un contrario viaggio; egli parte dall' imaginario e viene al reale: la imaginazione è il principio del movimento, la credenza alla realità ne è il termine. Ognuno s' avvede, che con queste parole noi abbiamo discoperto la sorgente di molti errori infantili. Perocchè come la mente, che dal reale partendo, si dava all' entità in se, trova ed aderisce al vero; così la mente, che parte dall' immaginato e dall' entità in sè contemplata, e viene a vedervi dentro il reale, trova il falso ed a questo s' abbraccia. Vero è, che nella stessa imaginazione si ha un principio di reale, perchè è il sentimento che soffre, ed il sentimento è un reale, nè può essere modificato che da qualche reale azione. Ora quando noi soffriamo qualche azione nel sentimento nostro concludiamo, che un reale esiste; nè a torto fin qui: perocchè l' error nostro comincia solo allora, che noi vogliamo determinare, che cosa sia questo agente reale, e giudichiamo dover essere quello appunto che ci apparisce. Questa illusione è perfetta ne' sogni, nei quali non dubitiamo punto della realità delle cose, che ci si rappresentano, perchè la loro rappresentazione, cioè la loro azione nel sentimento nostro è perfetta. Nella veglia stessa se l' imagine è viva e presente, ci illude e a mal grado del ragionamento, che vorrebbe trarci d' inganno, noi sofferiamo una commozione tutta simile a quella della realità. [...OMISSIS...] In questi fatti non ha luogo la volontà libera del fanciullo: le imagini e i sentimenti di paura sono delle realità, e le realità muovono la persuasione, inducono il nostro spirito a credere ad esse. Quand' anco il fanciullo sapesse speculativamente, a non dubitarne, che i suoi timori non hanno alcun fondamento, che quegli spettri non sussistono; tuttavia sussiste l' impressione e la reale commozione del sentimento in lui: egli soffre ad ogni modo l' impressione d' una realità. Avvi ancora una tendenza a credere, che gli oggetti sieno in se stessi, come sì vivamente gli appaiono: questa tendenza che suppone in ciò che apparisce un ente, è figlia dell' intendimento, che dovunque non può vedere cosa alcuna se non a condizione, che vi vegga degli enti. Onde lo spirito li suppone anche dove non sono, perocchè gli è il modo più facile di concepirne qualche cosa, di cui ha voglia: altramente dovrebbe sospendere l' atto suo per un tempo assai lungo, fino allora che abbia scoperto il vero ente a cui rattaccar que' fenomeni. Per quantunque in questo modo nascano degli errori nella mente infantile, tuttavia essi non sono ancora quella classe di errori che noi vogliamo qui designare come funesti alla moralità. Nè pure appartengono alla classe degli errori funesti, quelli che nascono da altre leggi pure dell' intendimento, le quali noi abbiamo disegnate di sopra. Abbiamo detto cioè che l' intendimento in ciò che percepisce « non solo percepisce necessariamente un ente, ma ancora suppone sempre che l' ente percepito sia il più perfetto ed assoluto, che egli possa concepire stante la qualità e quantità delle sue cognizioni ». Questa gran legge dell' intendimento riceve una modificazione nella sua applicazione secondo lo stato dello spirito fornito più o meno di sperienze e di cognizioni, come vedemmo; sicchè lo spirito al tutto vuoto del neonato suppone nel primo ente, che gli sorride e che percepisce, l' illimitato, perocchè il supporre ciò non gli è conteso dalle altre sue cognizioni, che ancora non ha. Ma dal momento che altre cognizioni acquista, non può più supporre illimitazione dell' ente percepito, perchè una tale illimitazione cadrebbe in contraddizione colle cognizioni avute. Tuttavia la sua supposizione è sempre al maggior vantaggio possibile degli enti che percepisce; non mettendo egli confini a questi, se non è costretto dalla necessità dell' esperienza e delle cognizioni in lui crescenti. Egli dunque prende degli errori anche per questa via, per la quale si lascia condurre « dal principio d' integrazione » e li prende di nuovo per la voglia di conchiudere qualche cosa, pel bisogno d' intendere. Conciossiachè se egli potesse non supporre niente, tutto percepire ; sostenere gli atti del suo intendimento che aspirano all' assoluto, fino che non è ben chiaro di questo, cioè del dove sia da collocarsi: eviterebbe egli questi errori. Ma tuttavia anche questi errori, che vannosi poi da se stessi correggendo di mano in mano che cresce l' età, non sono degli errori funesti alla morale bontà. Gli errori funesti tra quelli, a cui dà occasione l' attività fantastica, son quelli che si prendono da fanciullo, quand' egli aggiunge fede alla realità delle sue imaginazioni, non violentato a ciò dalla forza reale di esse, nè condotto da un principio intellettivo d' integrazione, ma unicamente spinto dal desiderio, che egli stesso ha, che quegli oggetti fantastici sieno reali, quatunque nol siano. Non è, che il fanciullo tessa tutto da se stesso a se questo inganno, egli propriamente non imagina nulla nè bene nè male: nè vuole ingannarsi: nè sa che fare di creazioni sue proprie. Ma se poi queste in lui si eccitano da oggetti esterni, che agiscono sopra di lui, allora può andarne ingannato primieramente ne' due modi detti, e poscia nel terzo. « I fanciulli abbandonati a se stessi (ecco il fatto assai bene osservato) possono aver paura d' un oggetto reale, d' un negro, d' uno spazzacammino, delle maschere, e rinfrescarsene la memoria con ispavento; ma ben poche chimere si foggiano da se stessi. Di rado una idea li preoccupa senza che sia stata lor suggerita ». Questo fatto dimostra che essi son fatti per la verità e non per le illusioni. Alle illusioni adunque sono cacciati dall' azione d' incitamenti esterni. Ma alle illusioni libere, a quegli errori, che noi dichiariamo moralmente funesti, non si danno se non ispinti dai loro desiderii e dai loro affetti. Questi riguardano o il tempo passato, o il futuro; e dirigono l' imaginazione loro per modo « che le cose passate e le future non le imaginino, se non quanto possono dar loro piacere ». A questo fine egli è necessario che sia loro formato il concetto del tempo, concetto che aiuta appunto per questo l' attività d' imaginare, la quale spazia nelle cose già avvenute, ed in quelle che si aspettano, ed egli è al quart' ordine, come vedemmo, che il fanciullo si forma la concezione de' due tempi, e al quinto quello de' tre tempi, il presente, il passato, il futuro: onde vedesi ragione, perchè all' età in cui è pervenuto il nostro fanciullo, comincino le sue illusioni volontarie. Queste derivano dal prendere per segreto conduttore della sua memoria e della sua imaginazione il piacere ed il dolore. Mosso da questo principio egli è tutto memoria, tutto imaginativa per le cose che gli piacciono, smemorato e senza fantasia per quelle che gli dispiacciono. Ecco delle osservazioni: [...OMISSIS...] Le speranze imaginarie della giovane età cominciano nel fanciullo col formarsi in lui il concetto del tempo avvenire, e aiutano meglio la formazione di questo concetto: perchè quelle speranze segnano dei punti nel futuro, come i diletti da lui goduti, assai più che i dolori stessi obbliati, li segnano nel passato. Or che lo spirito del fanciullo contempli a preferenza le imagini liete del passato, e le imagini liete dell' avvenire, non istà ancora qui il male: questo è natura. Ma che egli dia corpo a queste imagini, che egli spinto dall' amor de' piaceri voglia credere reale quello che non è tale, questo è l' errore che nasce da un mal principio, da un animo che ha cominciato già a torcere dalla morale rettitudine. Se si considera attentamente, come si sogliono guastare i fanciulli delle grandi famiglie, si troverà per lo più divenire il guasto da questo che si promuove nella loro mente la formazione di un mondo fantastico, a cui essi dan fede, e in cui credono d' occupare un posto del pari imaginario; dal qual posto movendo i lor pensieri e le loro azioni commettono dei continui torti alle persone reali del mondo reale, e fanno continui abusi delle cose pure reali. Poveri fanciulli! Tutti sono falsati i loro pensieri, i loro giudizi, i loro affetti, le loro abitudini: l' imaginazione li tradì, ma l' imaginazione non fu che la maga, di cui i genitori, gli amici, gl' istitutori, la turba di quanti hanno da far con essi si servono a gara per illuderli e perderli (1). La specie di errori immorali, di cui parliamo, mostrasi in un' ampiezza molto maggiore nella storia dell' infanzia de' popoli. Questi non si accontentano di crearsi una moltitudine di fantasmi; ma li fecero altrettanti esseri reali: l' idolatria n' è la prova. E l' idolatria non fu solo presso i popoli antichi o fra selvaggi; ma non fu detto a torto che nel mezzo stesso dei popoli cristiani e civili avvi una cotale idolatria; perocchè dovunque sono delle eccedenti passioni, queste non finiscono di reclamare dall' imaginazione degli idoli, a cui dian fede, a cui si prostrino adoratori: di reclamare che essa dilati i confini del mondo reale e lo metamorfosi, o ne crei un altro dentro di quelli, qual loro più piace che sia. Convien ben poco aver osservata la sformata vaghezza d' illudersi, che fanno gli uomini, per non riconoscere la verità lampante di ciò che diciamo. Ella si scorge per tutto. Nella società; e voi trovate che gli uomini vogliono essere ingannati di dolci parole, e si inimicano a quelli, che sinceri e schietti d' ingannarli ricusano. Nella letteratura e nelle arti; e v' ha pure chi ancor piange la mitologia, o tratta d' inventarne una nuova. Nella storia; e non la si vuol mai pura, nè la si crede, se per esser creduta non si fa raccomandare da qualche favola che ella accoglie (1). Ne' fatti e nelle parole è il medesimo; vi ha sempre una forza, che spinge occultamente a dar sussistenza a quell' amato imaginario, che non ne ha veruna. Per questo Platone si era messo in apprensione de' poeti; e non volea che nell' educazione de' giovinetti s' adoperassero se non i lirici, che inneggiavano alla divinità o cantavano la virtù e la lode de' virtuosi (2). Ma qui deve farsi una importantissima riflessione. Quegli errori occasionati dallo sviluppo della fantasia, che io ho indicato come funesti alla moralità del fanciullo nell' articolo precedente, cangiano di natura, se essi si considerano nell' età, in cui l' uomo non ha ancora la coscienza di se stesso, il concetto dell' Io, e poi nell' età susseguente alla formazione di questa coscienza, di questo concetto. Fino a tanto che l' uomo non intende il monosillabo Io, l' uomo è un sentimento sostanziale, che opera colle leggi della sua spontaneità: queste leggi sono inerenti alla sua natura, si consideri essa nello stato d' integrità o pure in quello di naturale corruzione. Ma da quel punto che l' uomo ha percepito sè stesso, incontanente in lui avviene un cangiamento immenso relativamente al suo operare libero e morale. E nel vero un soggetto che non percepisse intellettualmente se stesso, non può fare se stesso oggetto e fine del suo operare volontario. Perocchè la volontà è quella, che opera tendendo ad un oggetto conosciuto dall' intelletto; ora se l' uomo non si è ancora reso oggetto del proprio intendimento, egli non può nè pure essere oggetto della propria volontà. Innanzi adunque a quel tempo, nel quale l' uomo si forma la coscienza di se stesso, l' intelligenza dell' Io; egli opera bensì soggettivamente ma non rende mai se stesso soggetto termine fisso delle sue operazioni. Ma tosto, che egli si è formata la coscienza di sè, egli può mettere questo sè a segno e scopo fisso del suo volere e del suo operare. Qual immenso rivolgimento di cose non vi ha qui nel mondo morale del fanciullo! L' egoismo non può cominciare prima che l' uomo abbia inteso se stesso. Dalla notizia adunque dell' Io comincia la possibilità del vero egoismo (1). Egli è vero che anche prima della coscienza di sè possono cadere nell' uomo de' falli morali, ma questi, come dicevo, d' altra natura. Perocchè que' falli non potevano consistere se non in questo, che la spontaneità dell' operar soggettivo ci conducesse colla sua violenza ad operare contro l' esigenza degli oggetti. Ora questo sarebbe certamente un fallo, ma questo fallo sarebbe indiretto e negativo piuttosto che una trasgressione diretta e positiva. Mi spiego: Se io ho due oggetti innanzi e pospongo il più degno al meno degno, io posso far ciò per due modi; il primo perchè un istinto cieco mi sproni ad operare con tal veemenza e prontezza, che io fo torto a quell' oggetto più degno non perchè l' odii, od ami di più il men degno; ma unicamente perchè mi strascina il torrente dell' operare spontaneo e cieco, che opera senza por mente agli oggetti; anzi distraendomi dal raffrontarne e giudicarne il prezzo; il secondo perchè io liberamente antepongo e sceglio il piacere o bene che trovo nel men degno al valore intrinseco del più degno. Nel primo caso io pecco, ma indirettamente e negativamente, più per debolezza e corruzione di mia natura che per malizia. Nel secondo pecco direttamente, positivamente, maliziosamente. Ora, dico io, questo secondo modo di peccare suppone quasi sempre la coscienza di me; egli è un modo di peccare che almeno per lo più nasce dall' egoismo. Perocchè se io scelgo volontariamente fra un piacere o un bene del soggetto e il mio dovere, egli è mestieri che io abbia reso quel piacere soggettivo, o quel bene, che io preferisco, oggetto del mio proprio intendimento, che n' abbia però non già il mero sentimento generatore dell' istinto, ma propriamente la cognizione, onde spunta la volontà; e se il piacere o bene, che scelgo, mi è intimo; se egli consiste in qualche ingrandimento di me stesso, se in una parola appartiene al mio sentimento sostanziale (ciò che sono io stesso), debbo anco avere la coscienza mia propria per concepirlo; la quale in ogni caso mi nasce, o mi si forma nell' atto stesso dell' elezione. Così avviene, che per la coscienza di se stesso l' uomo possa introdurre nella sua perversione l' elemento il più funesto di tutti, l' egoismo, pel quale l' uomo mette per fine dell' operare se stesso, e a se stesso sacrifica tutto il resto. L' egoismo , che consiste a porre per fine se stesso, e che comincia a questa età, riceve anch' esso due gradi. L' uno è quel, che nasce dal dimenticare gli altri e non pensare che a se; l' altro è quel che pensa benissimo agli interessi altrui, ma per sacrificarli ai proprŒ. Ognuno vede che questo secondo grado è assai più malvagio del primo. Il primo di questi gradi nasce e cresce per lo più nel seno dell' ignoranza, è proprio delle persone volgari. [...OMISSIS...] Questa specie d' egoismo è quello, che traversa e impedisce nel mondo i più nobili progetti e quando questi debbono essere discussi in un' assemblea, molte volte sorge l' uno o l' altro individuo, il quale fa opposizione ad un bene sommo, mosso il più da minuto interesse: la ragione più frivola, un inconveniente, che si annienta se si confronta col bene della cosa proposta, basta per farla andare a monte. Direbbesi che ne' piccoli paesi, dove le passioni dovrebbero essere eccitate, e si ha da fare con un minor numero di votanti, i progetti di pubblico vantaggio dovrebbero meglio riuscire: non è vero; quello che non fa la violenza della passione, il fa in quella vece l' egoismo dell' ignoranza. Nei fanciulli si manifesta questa specie di egoismo ogni qual volta hanno da fare con persona che niente loro ricusa: questo trovare d' essere soddisfatti ad ogni loro richiesta fa sì che essi non siano mai condotti a riflettere sulla molestia, che altrui cagionano e pensino solo al proprio piacere. Sofia nelle lettere di M. Guizot ne è un esempio ammirabilmente dipinto. Il secondo grado di egoismo non comincia a quest' età: essa è una reità più matura. Moltiplice è poi la rea prole dell' egoismo. L' egoismo fa sì che l' uomo giudichi con misura diversa sè stesso e le cose proprie, e gli altri e le cose altrui. Questa è si funesta cosa, che è la forma di tutti i mali morali; di guisa che non sarà perduta mai qualsiasi vigilanza, qualsivoglia industria per guardarne il fanciullo: poichè, se l' educatore pervenisse a conservare nel fanciullo sempre, in ogni cosa, anche nelle minime, la rettitudine dell' anima, e l' imparzialità del giudizio, egli n' avrebbe fatto in breve tempo un uomo perfetto. Del pari gli artifizi fanciulleschi, le piccole ma frequenti menzogne dell' età infantile, prendono un carattere più grave, quando dall' egoismo già formato procedono. Quanto grande non è l' errore di quelli, che giudicano i fanciulli dai soli fatti esterni materialmente presi! Un fatto medesimo, una stessa finzione, una stessa menzogna in due fanciulli diversi può avere una gravità morale infinitamente diversa! La perspicacia, il discernimento degli spiriti, ecco la prima dote del savio educatore. Al quint' ordine ancora si manifesta l' apatia o noia morale, malattia pericolosissima ne' fanciulli. Vedemmo, che all' ordine antecedente, cioè al quarto, si sveglia nel fanciullo la voglia d' influire sulle volontà altrui; voglia nascente dal combattimento tra la volontà propria che il fanciullo non vorrebbe sacrificare, e l' altrui, che sente di dover pure rispettare e preferire alla propria (1). Ma il dovere influire sulla volontà altrui per tirarla e conciliarla alla propria è già una molestia pel fanciullo, un legame; e non può sostenerlo, se non a forza della sua benevolenza e del suo morale sentimento. Ora, intervengono dei momenti nei quali la benevolenza nel cuore del fanciullo rimane inoperosa, attesochè il fanciullo è distratto in altro, e il morale sentimento è in lui lasso ed inerte. In questi momenti è deplorabile lo stato del fanciullo. L' altrui volontà gli è di noia, ogni regola gli è un restringimento angustioso. Egli allora è colto da un mostruoso capriccio: s' intesta, e trova un diletto proprio ad usare tutta la sua attività fisica: gli sembra di sentirsi più grande ribellandosi alla legge, usando senza freno della sua naturale libertà. A tutti quelli che hanno trattato a lungo coi fanciulli, non sarà sfuggita questa pericolosa malattia morale. Un' autrice spiega l' ostinazione d' un fanciullo che imparando a leggere diceva sempre b7a7u, bu, nè voleva ripetere b7a7u bau, in questa maniera: [...OMISSIS...] . Ora, sebben questo gusto della libertà sfrenata, assoluta, questa vaghezza di bravar tutto, fin la legge, non si manifesti di subito, se non dopo l' età in cui è comparsa la voglia d' influire su gli altri; tuttavia potrebbe anco prima apparire. Ma ella suppone l' apatia o noia morale, per la quale la benevolenza verso gli altri è raffreddatasi, e non brilla più all' intendimento la bellezza e venerabilità della volontà d' un essere intelligente. Qual parte possa avere in tali fenomeni, talora improvisi e momentanei, l' azione dell' angelo delle tenebre è cosa segreta e nascosta all' umana investigazione; ben pare difficile lo spiegarli colle sole leggi ordinarie, secondo le quali opera l' umana natura. Che se l' egoismo è già nato nel cuore umano, la malattia, di cui parliamo, prende anch' essa tosto da questo un carattere più grave e maligno. Ma se l' aver trovato se stesso col proprio intendimento, il che è quanto dire l' essersi formato la coscienza di sè, è da una parte come l' aver trovato uno scoglio, contro cui può rompersi la morale bontà; così d' altra parte egli è ancora come l' aver trovato un passaggio, pel quale può distendersi un' immensa e fortunata navigazione. E veramente la consapevolezza della propria dignità morale non è possibile, fino a tanto che l' uomo non siasi formata la coscienza di se medesimo. Ella è questa coscienza che fa sì, che l' uomo possa giudicare se medesimo, possa imputare a se stesso le azioni, intendere l' imputazione, che gli vien fatta dagli altri, la lode, il biasimo, il premio ed il gastigo. Chi non vede che passo incalcolabile è questo! Quanti mezzi nuovi alla moralità! Qual forma novella di moralità, dacchè incomincia qui l' uomo a poter riflettere sul proprio operare, attribuirlo a se, e sentire, che, se è buono, gli aggiunge dignità, se è malo, lo degrada ed invilisce! Fra i vantaggi morali poi, che viene traendo l' uomo dalla coscienza di se stesso, si è quello della memoria delle cose passate e del calcolo delle future. La coscienza di se stesso importa la coscienza della propria identità ne' vari tempi; la cognizione della varietà de' tempi e dell' identità di se stesso sono relative, e vanno perciò innanzi di pari passo. [...OMISSIS...] Egli è ben degno di osservarsi nel fanciullo, per quali gradi perviene a conoscere, come diciamo, se stesso, la propria unità, la propria identità. Vi ha un tempo, nel quale egli conosce già quella degli altri, senza conoscere ancora l' identità di sè stesso; per la ragione che abbiamo detto, che l' attenzione sua prima se ne va al di fuori, e poi si ripiega sopra se stessa. In questo tempo egli deve portare un diverso giudizio degli altri e di sè: giudizio che parrebbe ingiusto; di quelli che dicevano fatti a due misure, e che pure non è tale. Egli giudica in questo caso diversamente degli altri e di sè, non per riprovevole parzialità, ma unicamente perchè diversamente conosce gli altri e sè stesso; negli altri ha già conosciuto la medesimezza in più tempi, quando di sè non l' ha ancor percepita: non ha percepito sè stesso in un tempo solo alla volta; e però in un tempo giudicò di sè come se fosse un personaggio diverso da quello che si giudicò in altro tempo. Udiamo ancora le altrui osservazioni: [...OMISSIS...] . Basta dunque un solo fatto, ed il fanciullo giudica degli altri, che sono boni o che sono cattivi: di sè non giudica nulla di stabile, ma soltanto al momento, che opera, giudica della sua azione. Questo dimostra manifestamente quel periodo di tempo, durevole alquanto nella vita infantile, nel quale il fanciullo è pervenuto a conoscere la medesimezza o identità degli altri in più tempi; onde di essi, come di soggetti unici, porta un solo definito giudizio; e tuttavia non ha ancora posto mente sulla medesimezza o identità di se stesso in più tempi, ma giudica solo le proprie azioni presenti, e fa però de' giudizi vari come varia la qualità delle azioni, senza indurre niuna sentenza universale e definitiva a dannazione, o a favore di sè medesimo. E dissi, che questo periodo di tempo è alquanto durevole nella vita infantile. - Tanto è vero che si manifesta anche nell' infanzia delle nazioni, e nel popolo minuto, che in gran parte non esce di fanciullezza. Onde avviene, che una nazione giudica così severamente dei difetti dell' altra, se non perchè la considera come un individuo, e da alcune azioni particolari trae la condanna di tutto il corpo? Onde l' entusiasmo popolare, sia contro le persone, oggetto del suo odio, nelle quali non vi è bene alcuno, sia a favore delle persone, oggetto del suo amore, nelle quali non vi è alcun difetto?

Sulle categorie e la dialettica

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E a tutta questa dottrina si riduce la sentenza tanto sagacemente svolta da Platone medesimo nel Parmenide e altrove, e che forma il punto eminente della sua filosofia, dialettica ed ontologica ad un tempo, che l' uno lasciato solo (la pura unità I significato) non poteva esistere, anzi era uguale al nulla, e però il «to hen» e il «ta polla» erano indisgiungibili, e questo in seno di quello essenzialmente contenuto. E vedesi qui stesso l' origine della doppia materia platonica, l' una reale, l' altra ideale. Poichè da Aristotele si rileva che Platone ammetteva una materia chiamata da lui « il grande e il piccolo », che colla partecipazione dell' uno diveniva specie o numeri (1); e Simplicio dice che poneva un indefinito anche negli intelligibili (2). Or abbiam veduto che dall' uno indefinito la mente, secondo Platone, prima trova un' idea, poi due o tre, ed ei vuole che essa non si fermi a sapere soltanto che c' è in esso un numero indefinito d' idee (grande o piccolo), ma che ne rilevi il numero definito fino all' ultimo. Così la mente dall' uno ritrae un numero prima indefinito (grande o piccolo), e poi un numero definito, e questo, partecipando l' unità (senza la quale non sarebbe numero), è la specie (3). Il numero dunque, fino a tanto che è ancora indefinito e sommerso nell' uno primo, è l' indefinito intelligibile, ossia la materia ideale; quello poi che resta, trovate tutte le unità che costituiscono il numero determinato, è la realità pura, ossia la materia reale . Ci sono dunque per Platone tre indefiniti: l' uno indefinito , che è l' uno in quanto ha nel suo seno ogni altro indefinito, e risponde all' «apeiron en dynamei» di Proclo; il numero indefinito , o la materia ideale, che risponde all' «apeiron en poso»; e il quanto indefinito , o la materia reale, che risponde all' «apeiron en peliko». Colla quale distinzione ha una stretta analogia la dottrina di Archita intorno al quanto , che da Filolao (e probabilmente anche da Archita) s' attribuiva, come vedemmo, all' indefinito. Poichè questo pitagorico, di cui Platone comperò a caro prezzo i libri, per testimonianza di Simplicio distingueva il quanto in tre generi: 1 il quanto di tendenza, o di gravità; 2 il quanto di grandezza, o di quantità continua; 3 il quanto di numero, o di quantità discreta (1). Di che si vede ragione, come la scienza del quanto, la matematica (2), penetrasse dentro la metafisica di Platone seguace dei Pitagorici, e fosse cotanto da queste scuole reputata. Ci pare dunque indubitato doversi distinguere l' uno indefinito di Platone dalla materia ideale e dalla materia reale nel suo seno contenuta potenzialmente «en dynamei», e, dipartendoci in questo da Goffredo Stallbaum, crediamo che, quando l' Ateniese filosofo comincia nel Parmenide a rimuovere dall' uno ogni moltiplicità, non parli dell' uno primo indefinito rispetto alla mente nostra e a quel che contiene, ma parli dell' unità astratta (I significato), e voglia dimostrare che così sola e nuda involge contraddizione, di maniera che rimarrebbe nulla. Rimane dunque a cercare che cosa sia la materia ideale secondo Platone. Ora essendo quella in cui si trovano poi i numeri, cioè le specie distinte, ma in cui non ci sono attualmente; convien dire ch' essa sia l' idea senza determinazioni di sorte, e questa risponde appunto a quella che noi chiamiamo « idea dell' essere indeterminato », ossia « essere ideale ». Così Platone avrebbe distinto « l' essere ideale »dall' Uno primo, che l' ha nel suo seno, come ha pure nel suo seno l' indefinita realità, cioè da Dio. Colla dialettica poi, presa nel senso di Platone, si trovano nell' idea universale le specie, ciascuna delle quali è un numero. Ma l' Uno primo è quello dove risiede l' unità come in proprio fonte, cioè l' essenza; e da quest' Uno primo si comunica la forma d' unità alla stessa materia ideale, e alle determinazioni di essa, cioè alle specie, o numeri, che così vengono collegati o contenuti nell' unità, e sono primamente specie, poi forme o essenze delle cose. Nell' Uno primo dunque e massimo si trovano immersi i primi elementi di tutte le cose mondiali, che sono: 1 l' indefinito, il più , grande e piccolo; 2 l' uno. Questi sono i due che nomina Aristotele, da cui dice secondo Platone, non dissomigliantemente dai Pitagorici, farsi le specie e le cose. Già Filolao aveva chiamato il primo «ta polla» e «thateron», e il secondo «to hen» e «tauton», denominazioni così spesso usate da Platone; e aveva detto [...OMISSIS...] . I numeri non informati dall' unità, sono le determinazioni, i determinanti; l' unità, che le lega insieme, è l' essenza, l' ente, «to on», come risulta dal luogo citato d' Aristotele. L' unione dell' essenza colle determinazioni è l' ente definito che ne consegue, chiamato da Platone nel « Filebo » «xymmisgomenon». Ma oltre questo composto, che risponde alla triade, o numero perfetto dei Pitagorici, c' è il quarto principio, la causa dell' unione [...OMISSIS...] , la quale è l' Uno primo, come vedemmo. L' uno dunque per Platone era: 1 uno in sè (l' uno nel II significato, avente un subietto indeterminato, la diade); 2 era uno causa , o potenza d' emanare l' altro (l' uno nel V significato, come principio dei numeri e delle cose); 3 era uno in altro , quando diveniva forma o essenza dei numeri e delle cose, e in quest' ultimo stato l' uno si considerava come fine o finiente (l' uno nel III significato), o come il tutto di ciascun numero o di ciascuna cosa (l' uno nel IV significato, vedi p. 6 7 7). L' uno nel primo e nel secondo di questi significati non distinti dai primi Pitagorici era l' «arithmos artioperissos» (1), benchè quelli negassero all' uno la denominazione di numero il «to proton hen» dei più recenti (2). Ci riserbiamo a mostrare altrove come i Pitagorici traessero i loro due principii, il finiente e l' indefinito , da tradizioni orientali, che ascendono fino ai primi Camiti che introdussero in Babilonia l' adorazione dei due principii, il maschile e il femminile , fondamento del primo ciclo dell' idolatria, culto che non cessò più mai fino che l' idolatria non cessò per la luce cristiana «( Teos., Ontol. categ.; Teos. , vol. IV, n. 102) ». Qui mi basta osservare che la dottrina di quei due principii, e la dottrina dei numeri che vi si riferisce, apparteneva all' Ontologia universale, cioè alla teoria dell' essere senza distinzione delle sue forme o categorie, e però: 1 Non conoscendosi ancora le primitive forme dell' essere, e da queste prescindendosi necessariamente, quella dottrina astratta conveniva ugualmente all' essere nella sua forma ideale, all' essere nella sua forma reale, e all' essere nella sua forma morale. Quindi, applicandosi senza distinzione all' essere sotto l' una o l' altra forma, ne nasceva necessariamente una moltiplicità di sensi apparentemente diversi e contrarii, e non c' era un filo che conducesse alla conciliazione (il quale non poteva essere che la distinzione delle forme primitive): indi la confusione sempre crescente del sistema, e i dissidii dei filosofi, che non potevano intendersi nè tra loro, nè con sè stessi; 2 Rimanendo quei principii nelle astrazioni, erano puramente formali, ed applicabili ugualmente alla dottrina di Dio, dell' Uomo o del Mondo; e quindi non potevano far conoscere il proprio di Dio, e il proprio del Mondo: onde ne nasceva facilmente la confusione della natura dell' uno colla natura dell' altro. Poichè si voleva (il che è proprio necessariamente d' ogni sistema filosofico), che con quei soli principii tutto si spiegasse; onde alla forma delle cognizioni riducevasi violentemente la materia: il che apparisce fino dai Pitagorici primi, che prendevano i numeri per le stesse cose reali (1). Non potevano dunque esser queste le vere categorie , od ultime classi delle entità; poichè i due principii pitagorici ripetendosi in ciascuna delle tre forme dell' essere come vedemmo, supponevano una classificazione anteriore ad essi. Laerzio nomina Clinomaco Furio, appartenente alla scuola di Megara, come il primo che scrivesse dei predicati [...OMISSIS...] , ed Archita poi scrisse il primo delle categorie [...OMISSIS...] . Dexippo Erennio ateniese (3) e Simplicio ne parlano, e quest' ultimo aggiunge, che Archita tarentino, prima d' Aristotele, divise l' ente in dieci generi, nel suo libro « «peri tu pantos» (4) »; ma Temistio attribuisce quest' opera ad un altro Archita posteriore ad Aristotele (5). Avendo pensato Archita, che l' Universo non poteva constare nè di soli finienti, nè di soli indefiniti, ma di composti degli uni e degli altri, onde diceva, che al composto appartiene massimamente l' esser sostanza (1), sentenza che Aristotele ripete come sua propria (2), poteva ridurre in sommi generi gli enti composti, di cui risulta l' Universo, distinguendo in ciascuno di essi i due elementi. Dexippo Erennio (3) osserva che Aristotele, dando il secondo luogo tra le categorie alla quantità , s' allontanava da Archita che poneva in secondo luogo la qualità , il che approva Plotino. In generale i Pitagorici, di mano in mano che applicavano i loro due principii a diversi generi di cose esistenti e in esse le riscontravano, davano loro un altro nome; e così nacquero quelle categorie, o principii, di cui parla Aristotele (4). Questa classificazione aveva il vantaggio d' esser dedotta da un solo principio, di cui mancano le Aristoteliche: che è la censura, che giustamente gli fece il Kant (5). Ma da prima, stabilito che tutti gli enti mondiali abbiano in sè l' opposizione dei due principii, furono nominate alcune di queste coppie come venivano, e senza assegnarne il numero preciso: e questo fece Alcmeone di Crotona, che viveva ai tempi di Pitagora già vecchio (6). Ma i Pitagorici poi ridussero al numero dieci tali coppie, che così da Aristotele s' annoverano: [...OMISSIS...] . A me pare, che niente altro sieno queste dieci coppie di principii se non i due originarii di Pitagora, cioè, il finimento e l' indefinito , applicati a generi di cose i più comuni e facili a presentarsi. Perchè poi si ponessero dieci coppie piuttosto che altro numero, niuna ragione intrinseca si vede nella loro deduzione, ma sembra essersi scelto questo numero per l' opinione che il numero dieci contenesse in sè tutte le cose; onde, come osserva Aristotele stesso, quando la natura non si prestava a numeri prestabiliti dai Pitagorici, essi facevano violenza alla natura, per farla ubbidire al loro sistema numerico (1). La prima coppia adunque, il finimento e l' indefinito , era come il tema di tutta la serie, i due principii universali privi ancora d' ogni applicazione. La prima applicazione si faceva agli elementi dei numeri, come principii di tutte le cose, e se n' aveva il dispari e il pari; l' uno finiente, e l' altro indefinito subietto di divisione (2). Doveva pure l' indeterminato o indefinito presentarsi alla mente in due modi, cioè or nell' uno or nell' altro, senza da principio accorgersi che fossero due. Poichè da una parte un ente qualunque privo di determinazioni è indefinito; e dall' altra le determinazioni stesse, quando rimangono slegate prive d' un subietto, sono anch' esse un indeterminato o un indefinito. Quindi, tanto il concetto d' indeterminato o determinabile, quanto quello di determinante, diveniva duplice, poichè: 1 c' era il concetto di ente indeterminato, a cui corrispondevano le sue determinazioni come determinante; e 2 il concetto di determinazioni slegate prive dell' ente, che costituivano esse pure una pluralità indeterminata, a cui corrispondeva l' ente o l' essenza come determinante e riducente ad unità. Così l' ente e le determinazioni si determinavano reciprocamente. Non mi pare improbabile che, quando i Pitagorici pigliavano l' impari come determinante nella seconda coppia, e il pari come infinito determinabile, nel primo vedessero la determinazione dell' ente, e nel pari l' ente indeterminato, onde il pari pitagorico è chiamato da Aristotele « la diade come uno », perchè in questo pari vedevano l' ente privo di determinazioni. All' incontro, quando nella terza coppia ponevano l' uno come determinante e la pluralità come infinito determinabile, nell' uno concepissero l' ente in quanto determina e unisce la pluralità delle sue determinazioni. Avendo dunque concepito Platone il determinante e l' indefinito determinabile sotto questo secondo aspetto, egli pose l' essenza e l' ente, cioè l' uno come determinante, e la diade, la pluralità, il grande e piccolo, come indefinito determinabile. Dal che risulta, che Platone non avrebbe già scambiata, come dice Aristotele, la diade come uno dei Pitagorici nel « grande e piccolo »; ma si sarebbe appigliato alla terza coppia delle opposizioni pitagoriche anzichè alla seconda. La quarta coppia, « il destro e il sinistro », è un' applicazione de' concetti di finiente e d' indefinito alle relazioni di luogo, e risponde alla settima categoria d' Aristotele ( «keisthai»). Pigliavasi il destro come il lato più nobile o la situazione più perfetta delle cose, e il sinistro il contrario; e riputavasi mancante di determinazione il sinistro, perchè si considera sempre la determinazione come perfezionante; onde le determinazioni che rendevano imperfette le cose, non si consideravano come determinanti, ma come bisognose d' essere determinate. Onde la materia, a ragion d' esempio, sciolta e disordinata consideravasi come informe , benchè informe al tutto non potesse essere; ma andava priva di quella forma e determinazione che doveva avere (1). Nella quinta coppia, « il maschile e il femminile », si vedono applicati i concetti primitivi di determinante e indeterminato alla generazione e ad ogni produzione; e ben dimostrano l' origine antichissima del sistema, essendo i due principii, l' attivo e il passivo, rappresentati nel maschio e nella femmina, i più antichi Iddii dell' umana superstizione. Nella sesta coppia, « il quieto e il mosso », i concetti di finiente e d' indefinito s' applicano a uno de' fenomeni più importanti e universali, qual è quello del moto , preso in senso generalissimo che rappresenta ogni mutazione. Il moto , ossia la mutazione, fin che dura, è indeterminata, moltiplice, variabile: la quiete si prendeva come il termine del moto, quello che determinava il subietto che si move ad una condizione stabile e certa. Da questa coppia di principŒ traggono origine le tante discussioni de' primi filosofi per sapere « se tutto si movea », come pretendeva Eraclito ammettendo solo il principio dell' indeterminato , o « tutto stava », come sostenevano gli Eleati ammettendo il solo principio del determinato , ovvero « se tutto che ci avea nell' universo fosse moto e quiete », come insegnavano i Pitagorici co' loro due principŒ. Alla rettezza e stortezza delle linee si vedono applicati nella settima coppia i concetti di finiente e indefinito, considerandosi la stortura come una mancanza di perfezione, e una moltiplicità indeterminata, essendo una la retta, molte le curve. La curva dunque si considerava come bisognevole di ricevere il finimento della rettitudine. Nell' ottava coppia s' applicano gli stessi concetti alla luce e alla tenebra, presa quella e questa in senso latissimo, e però altresì come indicanti lo scibile e l' ignoranza. La tenebra presenta uno spazio dove niente è determinato o definito: la luce, facendo vedere lo spazio buio, gli dà le forme e lo determina. Questo ci chiama alla mente la specie «eidos, idea» di Platone, il viso di Cicerone. Le specie risultano per Platone dalla materia ideale che venendo determinata presenta alla mente un visibile, un apparente, una specie in somma: così gli enti speciali escono dall' oscurità primitiva dell' indefinito in cui giacciono. Non è che l' idea dell' essere, la materia ideale di Platone, sia tenebra rispetto a sè; ma nasconde ogni ente determinato nel suo seno: e però quest' ente, fino a che non riceve le determinazioni, è come sepolto in fitta notte. Viene la nona coppia, « il male e il bene », quello considerato come indefinito, cioè come una privazione delle determinazioni che dovrebbe avere. Mi sembra Aristotele aver tratto il suo principio della privazione da questo appunto, che i Pitagorici considerarono come privo di determinazioni tutto ciò che era difettoso, come vedemmo anche parlando della quarta e settima coppia. Finalmente nella decima coppia s' applicarono i due principŒ alle figure geometriche, e si considerò il parallelogramma come indefinito, perchè si può estendere da un verso più che dall' altro senza misura determinata, laddove il quadrato ha una proporzione stabile d' uguaglianza tra i suoi lati. Non si deve confondere la questione degli elementi degli enti con quella delle classi degli enti . L' espressione « elementi degli enti », ontologicamente presi, importa che per elemento s' intenda ciò che non è un ente da sè, ma è uno degl' ingredienti di cui qualche ente si costituisce (2). I primi Italici, come risulta dal capo precedente, s' applicarono piuttosto alla questione degli elementi, seguendo l' avviamento degli Ionici, che non a quella della classificazione degli enti. Ed era facile il confonder quella con questa, come le confuse Aristotele stesso, che nelle Categorie, cui chiama anche « generi dell' ente », divide l' ente in sostanza e accidente , i quali son due elementi di cui si compongono o tutti o certo molti degli enti finiti. Nasceva questa confusione dall' ambiguità della espressione « generi degli enti », che sembrava dover significare « delle classi generiche degli enti », e anche « delle qualità universali »che si predicano di molti enti. Ora la qualità universale non è l' ente, ma solo qualche cosa che all' ente appartiene (1). E però Aristotele stesso non ricusa assolutamente di chiamare elemento « « quello che è al sommo grado universale, poichè è uno e semplice in molti, o in tutti, o in moltissimi » ». [...OMISSIS...] . Il qual luogo è consentaneo al suo sistema, che in opposizione a Platone nega l' esistenza delle idee separate dalle cose, e però non possono essere che appartenenze (elementi) delle cose stesse. I quattro principŒ dunque de' Pitagorici e di Platone, che si considerano come classi o sommi generi degli enti, non sono propriamente tali: ma i due primi, la monade e la diade, sono elementi; la triade, cioè il definito, o, come lo chiama Platone, «to xymmisgomenon», è l' ente finito; il quarto principio poi, o la causa, è l' ente infinito. Onde, a propriamente parlare, due sono le supreme classi o categorie platoniche: quella dell' ente finito , che consta de' due accennati elementi; e quella dell' ente infinito che è uno perfettamente. Ma si possono nondimeno chiamare tutt' insieme i quattro cogitabili pitagorici. Di più abbiamo indicato come Platone concepisca quest' ente Uno, causa di ogni ente finito, che è chiamato anche semplicemente l' Uno. Quest' Uno, come abbiamo veduto, ha nel suo seno indivisibilmente uniti i due elementi dell' ente finito, cioè il finimento e l' indefinito (quest' è il grande e piccolo): il primo quand' è uscito è il quale , il secondo è il quanto . Il che rammenta l' ordine delle categorie d' Archita (se si dee credere a Dexippo, Simplicio, e Boezio), che poneva la qualità come la seconda, e la quantità come la terza: ordine, cui Aristotele disse rovesciato, che pose la quantità ( «poson») come la categoria prossima alla sostanza, e appresso ad essa la qualità ( «poion») (1). Ma Plotino preferisce l' ordine d' Archita e di Platone, che è consentaneo al pitagorico. L' inversione per altro che s' attribuisce ad Aristotele, se pur è vera (1), si potrebbe spiegare così, che, dipendendo la qualità dalle forme e dalle idee e la quantità dalla materia, nel sistema Aristotelico, in cui si negano le idee separate dalla materia, esse doveano collocarsi dopo di questa, di cui sono, quasi direbbesi, un atto accidentale, di cui la stessa materia è il subietto. L' Uno dunque causa prima, è l' uno nel secondo significato, a cui si dà un subietto massimo. In questo subietto massimo c' è il bene, che avendo natura diffusiva, fa sì che un tal uno emani i due elementi: 1 il finimento, 2 l' indefinito, e di essi componga gli enti mondiali (2). Il finimento, per Platone, è l' idea specifica , che unita all' indefinito diviene forma: questa forma rispetto alle menti è la specie che rende visibili, cioè intelligibili gli enti: l' indefinito è la materia, cioè quell' elemento che ricevendo la forma diviene un subietto reale, e insieme colla forma costituisce l' ente. Ma l' idea stessa procede dall' Uno supremo per gradi: poichè anch' essa primamente è indefinita e indeterminata, materia ideale (a cui risponde il nostro essere ideale ); e questa materia ideale è una pluralità indefinita e confusa, il numero indeterminato o piuttosto potenziale. Ha bisogno dunque questa materia ideale di essere determinata, ossia di ricevere anch' essa una forma. Ora questa forma è l' uno partecipato dall' Uno supremo. Ma quest' uno partecipato [...OMISSIS...] raccoglie in sè e unifica più o meno di quella pluralità indefinita e confusa che è nella materia ideale, e che anche si chiama « il grande e piccolo », e stringe piuttosto questa parte che quell' altra; onde dall' applicazione varia dell' uno a quella pluralità indefinita, che è nella materia ideale, s' hanno i numeri determinati e le specie , e queste specie così costituite sono anch' esse forme all' ultima materia, cioè alla materia reale. Ora questa materia reale , benchè non abbia più numeri nel suo seno, pure ha una quantità indefinita , e però anche ad essa spetta la denominazione di « grande e piccolo ». Le specie dunque o numeri come forme s' applicano e congiungono a un quanto maggiore o minore della materia reale, e così producono i varŒ enti reali, di cui l' universo si compone [...OMISSIS...] . Questa è una deduzione ontologica degli enti mondiali dalla prima causa, ma è proprio di Platone l' avervi aggiunto la dialettica (1), parte simile, parte dissimile da quella. Poichè anche quello, che in suo essere è già formato e definito, al primo affacciarsi della mente umana si presenta come un uno indefinito, e questo risponde all' indefinito come uno [...OMISSIS...] de' Pitagorici, da distinguersi dall' Uno primo e assoluto, causa di tutto. Circa l' uno indefinito dunque, che si presenta alla mente, la dialettica di Platone fece due cose: 1 Scompose l' uno dall' indefinito e mostrò che a) l' uno separato così da ogn' altra cosa, cioè la pura unità astratta , non potea concepirsi eistente, senza incorrere in quelle contraddizioni che svolge nella prima parte del Parmenide; b) l' indefinito così separato dall' uno rimanea pure per sè inintelligibile, e quindi anche impossibile. 2 Insegnò ad esercitare sovr' esso, cioè sopra l' uno dialettico, l' analisi, e ciò in due modi: a) trovando in esso tutto ciò che ci si potea distinguere; quindi in ogni genere, che è appunto un uno dialetticamente indefinito , tutte le specie, e nelle specie tutte le qualità distinguibili: queste qualità distinguibili informate dall' uno costituivano un numero solo, che era la stessa specie, e perciò diceva che la specie è un numero informato dall' unità; b) e trovando finalmente sotto le specie gl' individui reali, che divisi dalle specie rimanevano indefinibili, niun altro numero potendosi trovare in essi: e quindi ad essi cessava ogni analisi del pensiero, rimanendo così nel fondo della speculazione una materia (realità) oscura, non atta più ad essere intesa, venendo tutta la luce dalle sole specie (1). Dalle quali cose si raccolgono i diversi significati in cui è preso l' uno da Platone, cioè: 1 l' uno puramente mentale , com' unità formale, separata da ogni pluralità, prodotto soltanto dal pensiero astraente; 2 l' uno dialettico , l' uno indefinito (genere più o meno esteso), su cui s' esercita l' analisi dialettica; principio de' numeri o specie , e per mezzo di queste e della materia reale principio degli enti reali definiti; 3 l' uno partecipato dalle specie, costituente le essenze speciali , che sono poi partecipate dagli enti reali (individui); 4 l' uno primo e supremo , causa suprema, Dio. Ora Platone, che alla dialettica riduce tutta la professione del filosofo (2), parla degli enti alternativamente, ora in modo dialettico, ora in modo ontologico, e ciò perchè, come dice Aristotele, [...OMISSIS...] . Il che però non vuol dire che il modo di essere delle cose sia uguale in tutto al modo di concepire della mente umana. E questa è una delle cause dell' oscurità di Platone e di Aristotele stesso, parlando questi filosofi ad esempio di quelli che li precedettero con principŒ così universali e formali, che convenissero ugualmente al concepire e all' essere delle cose; onde, quando applicano al primo lo stesso linguaggio, e poi l' applicano al secondo, esso cangia di significato, e diventa equivoco ed analogico: oltre altre difficoltà e ambiguità che nascono per via. Applicando dunque questa osservazione ai diversi significati ne' quali Platone adopera il vocabolo uno , «hen», consideriamo l' uno dialettico . L' uno dialettico, cioè quello su cui Platone insegna ad esercitarsi l' analisi dialettica, è duplice, com' è duplice la materia: talora prende a subietto dell' analisi l' uno che ha nel suo seno la materia ideale, talora l' uno che ha nel suo seno anche la materia reale e sensibile: indefinita l' una e l' altra: dal primo si traggono le specie o numeri, dal secondo, colla partecipazione di queste, gli enti reali. Quindi l' analisi dialettica finisce in due modi: 1 quando nell' uno dialettico ideale , dopo aver trovate tutte le differenze o specie elementari, finisce nelle ultime unità (specie piene), non restando più in queste ultime unità che la materia ideale vestita d' unità, cioè l' indefinito che rimane in fine indefinibile: 2 quando nell' uno dialettico reale , dopo aver trovate pure le differenze, generi, specie, fino a quella che noi chiamiamo specie piena e che non ammette altre specie inferiori, rimane questa partecipata dalla realità, cioè s' è pervenuto col pensiero agl' individui reali, nei quali non c' è più altro da distinguere, rimanendo così nel fondo alla speculazione la materia pure indefinibile. Comincia dunque la dialettica ad esercitarsi sull' indefinito e finisce pure nell' indefinito. L' indefinito, da cui comincia, è definibile, e quest' è quello che dà occasione al lavoro dialettico; l' indefinito, in cui termina il lavoro dialettico, è l' indefinibile, puramente materia. Ma la materia ideale è fonte di luce intellettiva, la materia reale di tenebre; e questo risponde all' ottava coppia delle categorie pitagoriche, luce, tenebra [...OMISSIS...] . La materia ideale ontologicamente ha in sè tutte le specie o numeri definiti, ma questi per l' uomo rimangono nascosti a principio, cioè quella presentasi all' uomo come indefinita. Quindi c' è bisogno che la mente umana trovi tali specie o numeri. Trovate queste specie , ciascuna delle quali raccoglie in sè un certo numero di qualità e differenze, la riflessione filosofica considera che, se il numero trovato non fosse tenuto insieme dall' unità , quel numero rimarrebbe indefinito, e come tale oscuro; non sarebbe ancora specie , che vuol dire visibile, intelligibile (1). Conchiude dunque che il numero partecipando dell' unità come sua forma diventa specie . La materia reale all' incontro, non avendo in sè alcun numero, ha bisogno di parteciparlo, il che da' Pitagorici dicevasi un' imitazione de' numeri ( «mimesis»), perchè la materia stessa a' numeri si conforma; da Platone poi fu detta partecipazione delle specie (2) ( «methexis»), onde le specie rimanevano distinte dalle cose , come il partecipabile dal partecipante . Non dunque il solo uno , non la sola materia era per Platone il subietto dialettico, chè que' due elementi così staccati rimanevano infecondi; ma sì l' uno , per la mente, indefinito , cioè avente nel suo seno una materia ancora indefinita. Da quest' uno si deducevano dialetticamente degli altri uni simili al primo; per esempio, se era un genere quello su cui s' esercitava la dialettica, si deducevano le specie. E dico uni simili al primo, in quanto che gli uni dedotti contenevano anch' essi i due elementi del primo, cioè si componevano: 1 di materia (essenza indefinita); 2 d' unità che costringeva quella e l' informava. Ma le ultime unità non potendo più produrre di sè altre unità, essendo così il numero esaurito, contenevano soltanto i detti due elementi, che in tutte le unità ricompariscono. Ora l' uno dialettico , cioè quello che il filosofo pigliava a esercitarvi sopra l' analisi, variava, poichè esso non indica un oggetto fisso, ma un genere d' uni dialettici: su qualunque di questi uni che il filosofo potesse prendere a considerare, ei dovea esercitare la dialettica allo stesso modo, colle stesse operazioni. Potea dunque il filosofo prendere un uno dialettico più o men copioso, e trovarci un numero più o men grande: fin qui la dialettica. Vediamo ora dove cominciava l' ontologia, e da quella c' era il passaggio a questa. Quando il filosofo, in vece di prendere un uno qualunque a caso per esercizio dialettico, sceglie, tra questi uni possibili ad analizzare, quello la cui analisi fa conoscere l' intima costituzione dell' essere o dell' ente come tale, allora dalla dialettica stessa egli è introdotto sul territorio dell' ontologia. E, rilevato una volta che la costituzione dell' ente deve essere necessaria, tale cioè che, supposto in essa un qualche cangiamento, l' ente rimarrebbe annullato; è facile altresì conoscere che, trovata una proprietà dell' ente, qualunque questa fosse, essa non si può rimaner sola, ma deve involgere la condizione di tutte l' altre, chè da tutte insieme risulta quella costituzione necessaria dell' ente. Ora la prima proprietà dell' ente e la più semplice e facile a concepirsi dalla mente, è che sia uno . Dalla meditazione dunque del puro uno si potea pervenire ragionando a trovare tutte l' altre proprietà elementari dell' ente, e questo è quello che fa Platone nel « Parmenide » e nel « Sofista » di proposito, e su cui torna spesso negli altri dialoghi. Nella seconda parte del « Parmenide » (1), Platone stabilisce l' ipotesi che l' uno sia; e, dato per vero che sia, arguisce dall' esserci l' uno , che è necessario che ci siano i molti come sua condizione, altramente non sarebbe, contro l' ipotesi assunta che sia. Questa è la prima e fondamentale Antinomìa del sistema di Platone, ed è la terza coppia delle dieci che Aristotele attribuisce ad alcuni Pitagorici, «hen kai plethos». Egli move dal principio, che se l' uno è, dee partecipare dell' essenza , cioè dell' essere: onde già si distinguono colla mente due elementi: 1 l' essere, l' essenza, la materia; 2 l' unità, l' uno. L' uno è il finimento, secondo Platone, l' essenza è l' indefinito: la prima coppia, «peras kai apeiron», delle dieci pitagoriche. Di che conchiude, che quell' uno, poichè ha l' essere, è un ente; e questo ente è un tutto avente due parti elementari, l' uno e l' essere, che diventano due suoi predicati , potendosi predicare di quell' ente tanto l' uno quanto l' essere. E questi sono i due predicati ( «kategoremata») fondamentali di Platone. Qui dunque abbiamo già tre cose distinte colla mente: il tutto, e le due parti «to hen kai to on». Ma, quando la mente considera queste due parti dell' ente uno o dell' uno ente ( «tu henos ontos»), può ella considerarle separatamente senza che, quando pensa l' uno come parte, nol pensi esistente come tale, e quando pensa l' ente pure come parte dell' ente uno, nol pensi uno? Impossibile. Dal che conchiude Platone che l' uno involge in sè una moltitudine infinita ( «apeiron plethos»), poichè, essendo per necessità uno ed ente, cioè avendo due elementi in sè, e ciascuno di questi dovendo anch' essi avere l' unità e l' esistenza come loro elementi, essendo queste condizioni senza le quali non si potrebbero concepire, risulta che col ripetere lo stesso discorso si potrebbero distinguere elementi all' infinito. Di più ne trae la prima Antinomia speciale: cioè nell' uno essente ci sono necessariamente in un modo implicito tutti i numeri pari e dispari, la seconda coppia pitagorica «peritton kai artion». Poichè, dice, se due sono gli elementi dell' uno ente , cioè l' uno e l' ente (e il medesimo convien dirsi di ciascun elemento considerato da sè), dunque c' è nell' uno il due. Ma poichè quegli elementi sono congiunti da un nesso indissolubile, il qual nesso è un terzo elemento, dunque c' è anche il tre. C' è dunque il pari e il dispari [...OMISSIS...] . Di più, nel due c' è due volte l' uno, e nel tre tre volte . Ci sono dunque dentro i concetti di due e di tre , e di due volte e di tre volte . Onde c' è il due replicato, perchè c' è il due , e il concetto della duplicazione dell' uno; e c' è il tre triplicato, perchè c' è il tre, e il concetto della triplicazione dell' uno. Di conseguente c' è anche il concetto di tre esistenti e di duplicazione, e di due esistenti e di triplicazione; e perciò c' è il concetto di tre due volte, e di due volte tre, e però i pari presi un numero pari, e i dispari presi un numero dispari, e i dispari presi un numero pari, e i pari presi un numero dispari: onde non resta escluso nessun numero, ma tutti si trovano nel seno dell' unità esistente (1). Abbiamo veduto e risulta da tutto questo discorso che ciò che Platone chiama « essenza », «usia», è quello che noi chiamiamo « essere ideale », considerata da Platone come la materia universale delle idee di cui l' uno è la forma. Ora da quello che segue s' intende perchè egli dava a questa materia delle idee la denominazione di « grande e piccolo ». Egli ha dimostrato, che l' uno non può esistere come uno puramente, perchè non esisterebbe se non avesse l' essere, cioè l' essenza, che è qualche cosa di diverso dal puro uno: del pari l' essenza non può esistere senz' esser una: di che viene che l' essenza è il principio della moltiplicazione dell' uno, occupando ella, dopo l' uno, il secondo posto, e così meritando il nome di diade. Questo ragionamento, col quale Platone speculando sul puro concetto di uno, e preso per ipotesi che sia, trova per sua condizione prima la diade, e poi la moltiplicazione indefinita per mezzo di questa, merita d' essere da noi attentamente considerato. Dopo aver dunque dimostrato che nell' uno essente si trova logicamente il concetto di tutti i numeri essenti anch' essi, prosegue così: [...OMISSIS...] . Dove si trova la vera spiegazione del perchè Platone chiamava la materia ideale « il grande e piccolo », e mi fa maraviglia che Aristotele non l' accenni, e che un passo sì chiaro sia sfuggito a molti eruditi, che hanno cercato la ragione di quella denominazione (1). Poichè l' essenza, come in appresso dimostra, non potendo stare senza l' uno, e nell' uno essente essendoci i molti, conviene che l' essenza sia tra questi molti, grandi e piccoli, distribuita, e che non possa stare di conseguenza senza il grande e il piccolo. Ed essendo ella stessa quella che mette nell' uno la pluralità, consegue che da lei si deva ripetere il grande e il piccolo, e che con questa denominazione si chiami. Essendo dunque l' essenza distribuita in parti, e non potendo essere ciascuna parte se non sia una, conchiude che « « lo stesso uno, distribuito dall' essenza, sia molti e un' indefinita moltitudine » (2) »; e non solo l' ente uno ( «to on hen»), « « ma lo stesso uno ( «auto to hen») sia molti » », poichè « « nè l' ente può mancare mai all' uno, nè « l' uno all' ente, ma questi due piuttosto in tutto s' adeguano »(3) ». Così si spiega, secondo Platone, l' origine dei numeri dall' uno mediante l' essenza seco indivisibilmente congiunta, cioè mediante l' essere, che pur è diverso dall' uno. Trovata nell' uno essente la moltiplicità, è trovato il concetto di parte , perchè tutti gli elementi, di cui consta l' uno, sono come parti di lui. Di conseguente anche il concetto di tutto , perchè l' uno è il tutto di queste parti. Ora il contenente ( «to periechon») è il termine, il finimento ( «peras») del contenuto (4): dunque l' uno come tutto, e però contenente, è il termine, il finimento del più, perchè lo comprende e lo unifica in sè; il che fa ben intendere in che modo Platone diceva, come ripete Aristotele senza spiegarlo, che l' uno è la forma delle specie e de' numeri. E che l' uno sia tutto e parte, contenente e contenuto è la seconda Antinomìa speciale. Di qui Platone deduce che l' uno essente è determinato e indeterminato ad un tempo sotto diversi aspetti (ed è la terza Antinomìa speciale): poichè è determinato in quanto che il complesso delle parti o elementi che contiene sono raccolti e compresi nell' uno tutto, ed è indeterminato in quanto che la moltitudine che contiene da sè presa è indeterminata. [...OMISSIS...] Dal che si conferma quello che dicevamo, cioè: 1 Che l' uno per Platone è per sè solo un concetto anteriore a quello degli elementi del Mondo; 2 Che esso è anche definiente ( «to perainon»), e perciò fine o termine ( «peras»), in quanto comprende in sè l' altre cose (1 elemento); 3 E` anche molti , e in quant' è molti contiene la moltitudine indefinita, e perciò è «apeiron plethei» (2 elemento); 4 Se questa moltitudine indefinita si considera da sè, facendo astrazione dall' uno che la contiene, essa rimane l' indefinita diade, il grande e il piccolo; 5 Quest' indefinita moltitudine è l' essere che si distribuisce secondo le parti grandi e piccole, più o meno numerose. E` da considerare che questi discorsi sono messi da Platone in bocca a Parmenide, e che uno degli scopi di tutto il dialogo è quello di dimostrare, contro i Megarici, che la dottrina eleatica, esposta che fosse con una logica esatta, riusciva la medesima con quella da lui professata, e che non si poteva intendere altramente, qualora si volesse mantenere la coerenza del raziocinio: altramente diventava assurda e non si potea più sostenere. Partendo dunque dal principio di Parmenide che l' ente sia [...OMISSIS...] , e che sia uno [...OMISSIS...] ; spiega sotto quali diversi aspetti Parmenide potesse ammettere che l' ente uno fosse ad un tempo determinato e indeterminato. Ora, continuandosi a tener dietro al carme « «peri physeos» » e dandogli un' interpretazione ragionevole, Platone non ricusa d' attribuire all' ente uno la figura, giacchè Parmenide nel suo carme lo vuole sferico, della quale sentenza si giova altrove Platone per dimostrare che deve contenere una pluralità (2), attirando anche con questo uncino la sentenza eleatica dell' uno, alla sua dell' Uno molti. Dopo aver dunque provato, che l' uno è un tutto determinato in questo senso, che la moltitudine che contiene, e che è lui stesso, è sempre contenuta dall' uno, nè sta mai da sè sola (se non per un' astrazione della mente), e però è compartita e distribuita in moltissime parti [...OMISSIS...] grandi e piccole, deduce che questo tutto determinato dee avere i suoi estremi, e principio, mezzo, e fine, e il mezzo essendo equidistante dagli estremi, dee essere partecipe di figura, sia poi retta o rotonda o mista (1), dove si può rammentare la decima coppia pitagorica [...OMISSIS...] , e nello stesso tempo la forma sferica data all' ente da Parmenide; Platone abbraccia tutte le figure rammentate dai suoi predecessori, e v' aggiunge non senza significato la mista , che è come mediatrice e vincolo delle due prime. Questa figura, data da Platone all' ente, da alcuni interpreti s' intende detto in senso metaforico a quel modo che i logici danno l' estensione alle idee (2), mossi specialmente dal considerare che Platone vuole che il filosofo rimova nello studio dei numeri e delle figure geometriche ogni materia corporea (3). Il che però non appaga pienamente, chè rimane lo spazio figurabile ammesso da Platone come medio tra le idee ed i corpi. Credo doversi piuttosto considerare, che qui Platone parla dell' uno ente vago e informativo (4); e lo considera sotto i varŒ suoi aspetti, ora in sè, ora come partecipabile delle cose reali. Dicendo dunque, non che l' ente sia figura, ma che sia « partecipe della figura », reputò doversi intendere che l' ente è tale che « può partecipare anche della figura ». E parmi indubitato che Platone tra la materia ideale e la materia corporea ammetteva una terza materia, cioè la matematica , e però un terzo indefinito, che era lo spazio, del quale ricevendo il finimento, venivano le figure geometriche , poichè facendo egli venir tutto da' due elementi, anche le figure geometriche, è conseguente che avessero il loro indefinito e il loro finimento: e anche in questi per la stessa ragione si trovava l' uno finiente, e il più definibile. Essendo dunque l' uno essente necessariamente un tutto con pluralità di parti nel suo seno, e con principio, mezzo e fine, qualora si supponga informativo d' una materia a ciò acconcia cioè spaziosa, era suscettibile di figura, cioè di esistere come figurato: e questo è il nesso che in Platone congiunge la Geometria alla Metafisica (1). Passa a dimostrare un' altra proprietà dell' uno essente, quella ch' egli è in sè, ed è in altro; ed è una quarta Antinomìa speciale. E lo dimostra partendo da due concetti, che convengono all' uno. Poichè l' uno si può prendere 1 come tutto, 2 come le parti unite [...OMISSIS...] . Ora l' uno, preso come il complesso delle parti, e contenuto nell' uno preso come tutto; perchè le parti sono nel tutto: dunque l' uno è in se stesso, l' uno è nell' uno [...OMISSIS...] . Il che s' intende non solo di tutte le parti, ma anche d' un gruppo d' esse, e di ciascuna, perchè ciascuna è un uno contenuto nell' uno tutto . Ma l' uno preso come tutto , non è nell' uno preso come parti unite, dunque l' uno non è nell' uno, dunque è in altro. Questa illazione, che non essendo l' uno tutto contenuto nell' uno parti, dunque deve essere in altro, dimostra che si considerava il dove come una proprietà essenziale dell' ente. Poichè domanda Platone: « « Se non fosse dovechessia, non sarebbe egli nulla? »(3) ». E si fa rispondere: « necessariamente ». Quindi l' origine della categoria aristotelica «to pu». Ristretta questa a significare un luogo nello spazio, non è ontologica se non potenzialmente; non essendo necessario che l' ente sia in un luogo, il che appartiene solo a quegli enti speciali che sono o agiscono di necessità nello spazio. Ma potenzialmente è ontologica in questo senso, che non ripugna all' uno informativo, ch' egli informi una materia estesa o avente coll' estensione una relazione necessaria (1). Ma è da considerarsi di più, che gli antichi, come al moto , così al dove davano un significato più esteso che quello che si restringe allo spazio o a' corpi; onde rimane a cercare che cosa sia quest' altro, in cui dice Platone che dee essere l' uno ente considerato nel suo concetto di tutto (2): e viene in mente di togliere la risposta da quello che dice Dante dell' Empireo: [...OMISSIS...] . E che così l' intenda Platone si ha manifesto dal Timeo, dove Dio è chiamato «o to pan xynistas» (4), come altrove è da lui chiamato mente «nus» (5), e ragione «logos» (6). Onde dice, l' universo reale esser fatto sull' esemplare di quello che nella sola ragione e nella sapienza si contiene, [...OMISSIS...] . E ancora dice, che il Mondo reale fu fatto da Dio come un solo vivente simile al Mondo intelligibile che è pure un solo animale intelligibile, il quale contiene tutti gli altri animali come parti « « secondo l' uno e secondo i generi » » [...OMISSIS...] ; il mondo intelligibile poi, essenza del reale, è contenuto nella mente divina. Onde non rimane a dubitare che il contenente del tutto reale sia il tutto intelligibile, che lo informa e che nella divina mente rimane. Dall' esser poi l' uno sotto il rispetto materiale, cioè delle parti, in se stesso, cioè nell' uno formale; e sotto il rispetto formale, cioè come tutto contenente le parti, in altro, cioè nella mente di Dio: deduce Platone che l' uno essente ha due altre proprietà apparentemente opposte, cioè quella di stare , e quella di moversi (quinta Antinomìa speciale), che risponde alla sesta coppia pitagorica [...OMISSIS...] : dove la quiete e il moto sono concetti presi in senso universalissimo, non nel senso ristretto di moto locale, che è soltanto una specie de' varŒ moti che distinguevano gli antichi. Dice dunque che l' uno sta in quanto è in se stesso, e si move in quanto è in un altro. [...OMISSIS...] . Il che così si può intendere: « Le parti, cioè gli uni inferiori, essendo nell' uno tutto, ricevono da quest' uno tutto la loro stabilità, perchè sono in esso come uno nell' uno; ma l' uno, secondo il concetto di tutto, essendo in altro, cioè nella mente divina, conviene che di continuo si discerna da essa, e perciò da essa emani continuamente come forma, cioè come quell' uno che tutto contiene ed aduna »(uno nel IV significato). Ond' anche deduce che l' uno, rispetto a sè, è il medesimo ed è diverso; e così rispetto all' altre cose, cioè al più, è il medesimo ed è diverso (sesta Antinomìa speciale). Rispetto a sè, lo prova in questo modo. La relazione possibile d' una cosa ad un' altra non può esser che quadruplice: 1 o che sia la medesima; 2 o un' altra; 3 o sua parte; 4 o suo tutto: chè la parte non è nè un medesimo nè un diverso dal tutto, e così il tutto non è nè un medesimo nè un diverso dalla parte. Ora lo stesso uno non è nè parte di se stesso, nè tutto di se stesso, quasi di parti; nè l' uno è altro dall' uno. Dunque egli è il medesimo con se stesso . Ma sotto un altro aspetto è anche diverso da se stesso, cioè sotto l' aspetto di tutto che unisce in se le parti. Poichè come tale abbiam veduto lui non essere nelle parti, cioè nell' uno materiale, ma in altro. Ora quello che esiste in un altro diverso da sè, è uopo che sia un altro diverso da sè [...OMISSIS...] . Il che viene a dire che l' uno tutto, forma delle cose, come essente nella mente divina, è diverso dall' uno stesso emanato da quella mente, e imposto come forma alle cose, ha un altro modo di essere. Onde l' uno non solo è il medesimo a se stesso, ma anche da sè diverso. Rispetto all' altre cose prova del pari che l' uno è il medesimo con esse, e con esse diverso. Poichè quali sono l' altre cose? quelle che non sono uno. Ma l' uno è diverso da ciò che non è uno. Dunque l' uno è un diverso all' altre cose, cioè al non uno. Ma in un altro aspetto l' uno è anche il medesimo coll' altre cose che non sono uno. E lo prova dimostrando: 1 che l' uno non può esser qualche cos' altro dal non uno; 2 che non può esser sua parte; 3 e non può esser suo tutto: di che conchiude che l' uno dee essere il medesimo col non uno . Prova che non è altro dalle due nozioni d' identico e di diverso . Il diverso, dice, non può esistere nell' identico in quant' è identico, nè pure un istante. Ma le cose che sono, sono identiche finchè sono quelle che sono. Dunque in niuna di quelle cose che sono [...OMISSIS...] può esistere l' altro. Dunque l' altro non può esistere nell' uno essente, e però nè pure nel non uno; poichè se in questo ci fosse, già ci sarebbe anche nell' uno, chè il predicato diverso è reciproco (1). Di poi dimostra, che l' uno non può essere parimente una parte del non uno, e nè pure tutto del non uno, perchè in tal caso il non uno parteciperebbe dell' uno (2), e così cesserebbe d' esser non uno, contro l' ipotesi. Dal che conchiude che, se l' uno non ha la relazione di diversità dal non uno, nè quella di parte, nè quella di tutto, per modo che il non uno, restando non uno, sia una sua parte; rimane che l' uno sia il medesimo col non uno . La qual conclusione, benchè sembri strana, consuona però col principio messo da prima, cioè che tutte le parti insieme sia l' uno. Ora le parti in quanto sono moltiplici sono non uno: dunque il non uno è il medesimo uno. Il che è quanto un dire: « la domanda se l' uno sia diverso o identico col non uno, non può farsi, se si supponga che il non uno non esista, sia nulla: voi supponete dunque che il non uno sia qualche cosa: ma non può esser qualche cosa se non per l' uno che non abbandona mai l' esistente. Ora se il non uno esiste e quindi è uno, già si vede che esso è uguale all' uno, perchè altro non può essere che le parti informate dall' uno. Laonde le parti informate dall' uno, e quindi essenti, se si considerano puramente come parti, astraendo dall' uno; ma non negandolo di esse, sono non uno; ma se si considera come il non uno possa esistere, ritornasi col pensiero all' uno, poichè si vede che la condizione della loro esistenza è che sieno uno. Sotto questo aspetto dunque l' uno vedesi uguale a ciò che si dice non uno ». Trae di qui un' altra proprietà dell' uno, e una settima Antinomìa, attesi i varŒ suoi aspetti, cioè ch' egli è simile e dissimile a se stesso; ed è pure simile e dissimile all' altre cose . E primamente prova che l' uno è simile e dissimile all' altre cose che non sono uno, dall' esser ad esse diverso ed identico, nel modo detto di sopra. Essendo altro, ossia diverso dall' altre cose, l' altre cose sono altro, ossia diverse da lui (1). Dunque l' uno e il non uno, essendo reciprocamente altro, hanno questo di simile d' esser altro , perchè l' uno e il non uno partecipano della forma della alterità, ossia della diversità. Qui si vede come ciò che è dissimile, qual è il diverso, diventa simile, mediante una riflessione più elevata della mente, che fa della diversità stessa una forma astratta e perciò unica, applicabile a più subietti, i quali coll' applicazione di quell' unica forma diventano due, cioè diversi e dissimili. Infatti i subietti diversi ed altri l' un dall' altro, non si potrebbero riconoscere tali, se la mente non li considerasse mediante una sola idea; poichè nessun paragone ella può fare, sia per unire, sia per dividere più cose, se non applica loro un' idea comune «( Ideol. , 1.0 7 1.7) ». Il che prova di nuovo, che il più (il quale non si concepisce se non mediante la compresenza di più cose davanti alla mente, e però un certo confronto che le distingue tra loro e non le lasci confondere) (1), non si può intendere se non nell' uno e per l' uno. Ora, poichè fu dimostrato anche che l' uno è identico e diverso da ciò che non è uno, e che ciò che non è uno è del pari identico e diverso da ciò che è uno, sèguita che, se l' uno si considera in quanto è identico al non uno, e il non uno in quanto è diverso dall' uno, non si rassomigliano punto (2); e lo stesso si conchiude, se si considera il non uno in quant' è identico, e l' uno in quant' è diverso (3). Sotto queste considerazioni l' uno e l' altro sono dunque dissimili. E avendo dimostrato prima che l' uno, anche rispetto a sè, è identico e diverso, risulta ch' egli è simile e dissimile rispetto a sè, poichè quelle due proprietà sono contrarie, e però in quanto si paragonano quelle due proprietà si trova dissimile, ma se si considera che l' una è contraria all' altra, si trova simile a se stesso, perchè come identico è diverso dal diverso, e come diverso è diverso dall' identico: dunque ciascuna si paragona all' altra con una idea riflessa superiore che rende simili quelle due proprietà contrarie, appunto per questo che l' una e l' altra ha la forma della contrarietà alla sua opposta. Un' altra proprietà dell' uno essente, che s' inferisce dalle precedenti, si è, che l' uno tocca e non tocca se stesso, tocca e non tocca l' altre cose, ed è una ottava Antinomìa. E anche qui, come abbiamo detto d' altri vocaboli tratti dalle cose corporee, non si deve menomamente pensare che si parli d' un toccamento materiale; ma con questa parola non vuole indicare il filosofo se non la prossimità e l' aderenza d' un uno essente a se stesso e a ciò che non è uno. E dice, che sotto un aspetto e preso in un significato, l' uno essente è aderente all' uno essente, e a ciò che non è l' uno essente, il non uno, il più; e sotto un altro aspetto e in un altro significato, non è aderente. Il che, ragionando dalle cose dette deduce così. Si è veduto, che l' uno preso per tutte le parti è nell' uno preso sotto il concetto di tutto che le raccoglie. Se dunque l' uno preso nel primo senso è nell' uno preso nel secondo, l' uno dunque tocca l' uno, è aderente a se stesso; e lo stesso dicasi se per uno si prenda ciascuna parte, che, come vedemmo, deve partecipare dell' uno. Ma se l' uno in tal modo considerato è in se stesso e tocca se stesso, egli non tocca l' altre cose, appunto perchè si considera come essente in se stesso e non nell' altre cose. Ma abbiamo anche veduto che l' uno sotto l' aspetto di tutto è in altro ( «en hetero») (1): in quanto dunque l' uno è in altro o negli altri, intanto tocca gli altri, loro aderisce. Se quest' altro si deve intendere, come l' abbiamo noi inteso prima, la stessa mente divina, risulta da tutta questa dottrina che gli uni enti reali, sarebbero e toccherebbero l' uno supremo, Dio; e non viceversa. Così la specie non tocca l' ente reale; e questo spiega come le specie si dicono da Platone separate, benchè l' ente reale tocchi la specie di cui è informato e in cui è come in se stesso; e così pure Iddio non tocca la specie, ma la specie tocca Iddio, perchè essa è in lui, come in un altro, essente. Ma quando si dice l' uno e l' altro , quest' altro è relativo all' uno emanato da Dio come elemento ( «peras»), e però s' applica non solo a Dio da cui è emanato, ma anche alla materia ideale o reale ( «apeiron»). Questa, considerata recisa dall' unità ( «dyas»), non partecipa menomamente dell' uno, e però nè pure del numero; e però, fino che si considera in questo stato, non tocca l' uno, nè è da lui toccata, perchè non è ancora da lui informata: e quand' anco la materia si considerasse come uno, rimanendo quest' uno solo, e non potendosi distinguere in essa il due o altro numero definito, non ci sarebbe tatto, perchè questo non ci può essere se non tra due o più cose, tra le quali i toccamenti possibili sono tanti, quante le cose stesse, meno uno: di che apparisce di nuovo che l' uno rimane escluso dal toccamento. Dunque in questo senso nè l' uno tocca l' altre cose, nè l' altre cose toccano l' uno (1). Un' altra proprietà, e una nona Antinomìa dell' uno , conseguente alle trovate fin qui, si è, ch' egli, sotto diversi aspetti, è maggiore, minore ed uguale a se stesso e all' altre cose. La chiave di questa nona Antinomìa si è, che una proprietà può essere assoluta o relativa alla sua contraria. Ora la grandezza e la piccolezza sono proprietà relative, e non c' è una grandezza o una piccolezza assoluta, e perciò l' uno per sè è privo di grandezza e di piccolezza [...OMISSIS...] . Quindi è facile dimostrare, che l' uno e l' altro non possono essere maggiori e minori assolutamente, cioè per le loro proprie essenze [...OMISSIS...] : e in quanto manca loro una piccolezza e una grandezza assoluta, in tanto l' uno può dirsi uguale a se stesso e all' altre cose, cioè nè piccolo, nè grande, non maggiore, nè minore. Ma se si prende la grandezza e la piccolezza per qualità relative, quali sono, in tal caso si può dimandare se nell' uno e nell' altro ci sieno anche, oltre i concetti trovati fin qui, il concetto di questa relazione di grande e di piccolo, di maggiore e di minore. Ora questi concetti appunto ci si trovano. Poichè abbiamo veduto, che tutte le parti insieme sono l' uno (uno materiale), e che quest' uno è contenuto nell' uno come tutto (uno formale). Ora il contenente si concepisce come maggiore del contenuto, e quindi la forma maggiore della realità. Ma anche l' uno come tutto è in un altro (in Dio, Uno supremo) (3). In quanto dunque l' uno tutto è contenuto in quest' altro, egli è minore dell' altro. L' analisi dunque dell' uno dà, ch' egli, secondo diversi aspetti, sia maggiore e minore di se stesso e dell' altro, e sia anche uguale a se stesso ed all' altro. Veduto questo circa la relazione di quantità in generale, Platone applica la dottrina alla quantità discreta, e dice, che se l' uno è uguale, e maggiore, e minore di se stesso e dell' altre cose; dunque deve essere anche più e meno di numero, poichè l' eguale ha un egual numero di misure e di parti, e il maggiore ne ha più, il minore ne ha meno. Dal numero passa al tempo , e dimostra la decima Antinomìa speciale, che cioè l' uno: 1 è più vecchio e più giovane di se stesso, e non è nè più vecchio nè più giovane; 2 è più vecchio e più giovane dell' altre cose, e non è tale; 3 diventa più vecchio e più giovane di se stesso, e non diventa tale; 4 diventa più vecchio e più giovane dell' altre cose, e non diventa tale. Se l' uno è, come vedemmo, gli compete l' essere ( «einai»). Ma essere non è altro che partecipare dell' essenza col tempo presente (1), come pure lo stesso era ( «to en»), e lo stesso sarà ( «to estai») è partecipazione dell' essenza. Ma il tempo fluisce: dunque l' uno essente diventa sempre più vecchio di se stesso, cioè di quel che era. Ma il più vecchio è relativo al più giovane. L' uno essente dunque diventa più vecchio di se stesso, diventando più giovane. Ma l' uno ente che dal passato viene e tocca il presente, in questo momento in cui è presente non diventa già più vecchio e più giovane di se stesso, ma è già tale. Dunque non solo l' uno ente diventa più vecchio e più giovane di se stesso, ma anche è . Ma il presente sta sempre coll' uno, perchè, per quanto questi trascorra, sempre è presente. Dunque sempre e si fa ed è più vecchio e più giovane di se stesso. Ma se poi si considera, che tutto il tempo non ha una durata, nè maggiore, nè minore di quella dell' uno, si vede che l' uno non si fa, e non è, nè più vecchio, nè più giovane di se stesso, perchè ha tant' età appunto, quant' è quella di tutto il tempo, nè più, nè meno. Quest' Antinomìa ha per fondamento l' uno essente considerato nella sua identità , e nelle sue modificazioni . Poichè, in quant' è semplicemente identico, egli ha una durata unica e indivisibile, e però non gli si può applicare una misura d' età. Ma in quanto si modifica, egli identico con una modificazione è anteriore o posteriore, più vecchio o più giovane di se stesso identico, ma con un' altra modificazione. Per ciò che riguarda gli altri, avverte Platone, che qui si parla di altri in plurale, e non di altro in singolare [...OMISSIS...] : il che ben dimostra ch' egli distingueva tra «heteron» e «hetera» (benchè poi non mantenesse sempre questa proprietà di parlare); il che conferma l' opinione da noi più sopra annunziata, che egli distinguesse due altri , quello in cui era contenuto l' uno come tutto, l' idea o forma di tutte le parti, ed era Dio come altro dall' uno emanato; e quello che era contenuto da quest' ultimo, ed erano le parti insieme prese. L' altro dunque preso come le parti insieme, ossia gli altri, dice, sono più che non sia l' uno. Ora in una pluralità il minor numero è anteriore al maggiore, e l' uno è anteriore e perciò più vecchio di tutta la serie: dunque l' uno è più vecchio (almeno secondo la priorità logica) dell' altre cose. Onde conchiude: [...OMISSIS...] : dove si vede che parla dell' « uno indefinito », cioè dell' uno che ha nel suo seno la materia non ancora vestita di numeri ossia di specie, il qual pure lo considera come principio de' numeri di quest' uno uscito il primo nella formazione dell' universo (almeno secondo l' ordine logico) dal seno di Dio: [...OMISSIS...] . Ma se invece di quest' uno materiale, si considera l' uno come tutto, cioè come forma del precedente, l' uno è posteriore all' altre cose, perchè il tutto non c' è, fino che tutte l' altre cose, sino all' ultima, non ci sieno, e però l' altre cose sono anteriori e più vecchie dell' uno, e l' uno più giovane. Ma anche ciascuna parte è una: dunque l' uno nasce ed è coevo alle parti, e perciò, secondo questo aspetto [...OMISSIS...] non è nè più vecchio, nè più giovane dell' altre cose. Dopo avere per questo modo provato che l' uno è più giovane, e più vecchio, e d' uguale età dell' altre cose, passa di più a provare che egli può e non può diventare più giovane e più vecchio delle altre cose. Prova che l' altre cose non possono diventare nè più vecchie, nè più giovani dell' uno di quel che sono (2), osservando che se a cose disuguali s' aggiunge cose uguali, rimangono disuguali come prima, e però passando un egual tempo per le cose e per l' uno, la differenza aritmetica dell' età loro rimane la stessa. Ma se si considera la proporzione geometrica , quando a due tempi disuguali s' aggiugne uno spazio di tempo uguale diminuisce, la ragione nella quale sono differenti; e però pare che si diminuisca l' antichità dell' uno, e rispettivamente la gioventù dell' altro, onde quel che era più giovane comparativamente al più vecchio diventa più vecchio, e quel che era più vecchio comparativamente al più giovane diventa più giovane (1). E poichè l' uno e i molti sono reciprocamente più vecchi, ed anche più giovani, lo stesso discorso vale in entrambi i casi. Ma in quanto sono uguali d' età rimangono uguali coll' aggiungersi una ugual porzione di tempo, sia che si consideri la ragione aritmetica, ossia la ragione geometrica. Avendo dunque detto che il tempo è una proprietà dell' essenza, cioè dell' essere partecipato dall' uno, e che perciò l' uno è e diviene più vecchio e più giovane di se stesso e dell' altre cose, conchiude che l' uno, se è, cioè se ha l' essenza, è partecipe del passato, del presente e del futuro, che era, ed è, e sarà, e diventava, e diventa, e diventerà. Il che fa sì che a lui e di lui possa essere qualche cosa; e che anche questo sia stato, e sia, e sia per essere. E ciò che c' è di lui è la scienza, e l' opinione, e il senso: a lui poi è il nome e il discorso , poichè lo si nomina e se ne discorre. Dove si vede che Platone mette per condizione della scienza, e dell' opinione, e del senso, e dei nomi o segni, e del discorso, il tempo come inerente all' essere. Il che ben dimostra, onde Platone traesse la ragione, o la condizione dei predicabili e dei predicamenti, e di tutto il sapere di predicazione: questa condizione e ragione è per lui il tempo; e però un tal conoscere appartiene alle cose temporanee, e non alle sempiterne, di cui è proprio il sapere per intuizione o il sapere per sè. Poichè, se non ci fosse tempo, cioè il rapporto tra l' identità e la mutazione «( Psicol. , 1139 7 1171) », il conoscere umano non potrebbe essere discorsivo, com' egli è; e non si potrebbe predicare dell' ente cos' alcuna, o cos' alcuna attribuire all' ente; non si potrebbe dunque avere la scienza umana, che in quant' è riflessa e filosofica (la quale propriamente si chiama scienza, «episteme») esige le definizioni; e molto meno si potrebbe opinare; nè il principio sensitivo avere più sensazioni, e immutazioni; e di conseguente non ci sarebbero i nomi e la lingua. Convien dunque dire che, secondo Platone, i predicabili e i predicamenti appartengano al Mondo che ha presente, passato e futuro: all' ente in quanto, ritenendo qualche cosa d' identico, subisce successive mutazioni; e non all' ente in quant' è immutabile e sempiterno. Il che quanto sia vero apparisce dalla Teoria delle Categorie che noi daremo in appresso, dove vedremo che i generi degli enti non possono abbracciar tutto l' ente, ma nel solo ente limitato si trovano. Se noi dunque vogliamo distribuire in una tavola sinottica tutti questi elementi trovati da Platone, coll' analisi nell' uno essente, avremo la seguente distribuzione: Uno essente 1 Uno Essenza, contenente una pluralità indefinita, il grande e il piccolo. 2 Dispari Pari. 3 Parte Tutto. 4 Determinato Indeterminato. 5 In sè In altro. 6 Stante Moventesi. 7 Medesimo Diverso, rispetto a sè e rispetto all' altre cose. . Simile Dissimile, a se stesso e all' altre cose. 9 Toccante Non toccante, se stesso e l' altre cose. 10 Maggiore Minore ed Uguale, a se stesso e all' altre cose: a ) di grandezza, b ) di numero, c ) di età (tempo) (1). Tutte queste cose pertanto distinse Platone dialetticamente analizzando l' uno essente , ma vago e informativo: onde prende ora l' una condizione ora l' altra, anche opposta, secondo la materia che informa: le quali cose si possono considerare come elementi dell' ente, non elementi puramente materiali, ma elementi o costitutivi in un senso estesissimo. Ma sono essi anche generi? E se sono generi degli enti , come sono anche elementi dell' ente? Platone non dubita di chiamarli generi (1) di enti, perchè per ente intende tutto ciò che è, tutto ciò che mostra in sè d' avere una qualche potenza anche minima di patire e d' agire (2). Onde ogni atto o potenza in questo senso è considerato come ente, cioè come essente, benchè non sia un ente compiuto, che stia e si concepisca stare da sè. In questo senso dunque gli elementi sono generi di enti, noi diremmo d' entità. Si comprende dunque, secondo questa maniera di parlare degli antichi, che pigliavano «on» come participio, non solo ciò che esprime il nome sostantivo di ente , ma ciò che la mente anche per via d' astrazione considera a parte del resto, a ragion d' esempio l' accidente (enti mentali), e gli dà un nome suo proprio. Onde per provare che tali cose sono enti, cioè entità, Platone ricorre appunto ai nomi, e dice: [...OMISSIS...] . Di che deduce che tali enti o essenti hanno una comunicazione tra loro, perchè molti si predicano d' un solo; ma questa comunione [...OMISSIS...] è regolata di modo che nè tutti gli enti sono divisi l' uno dall' altro, nè tutti si comunicano alla rinfusa con tutti gli altri (due sistemi filosofici che combatte Platone), ma alcuni si congiungono ed altri no, onde è necessaria un' arte a distinguere quali sì, e quali no. Avendo dunque Platone definito l' ente dall' attività, di maniera che sia tutto ciò che ha attività anche minima [...OMISSIS...] , ne viene che sia proprio dell' ente il moto nel senso estesissimo (l' azione). Ma se fosse tutto moto non sarebbe, onde secondo qualche rispetto, deve convenirgli anche la quiete . Quindi due generi di enti, che si affanno e congiungono all' ente preso secondo il puro concetto di ente, il moto e la quiete. Ma il moto esclude la quiete: dunque questi due generi non comunicano insieme. Se non comunicano, l' uno è identico a se stesso e diverso dall' altro; e se convengono entrambi all' ente, dunque gli conviene anche l' identità e l' alterità, due altri generi. Qui dunque si distinguono cinque generi: l' ente, il moto, la quiete, l' identità e l' alterità, i quali da Plotino (2) e da altri Platonici (3) sono considerati come le cinque Categorie di Platone. Queste però non sono che la sesta e la settima coppia di quelle che enumera nel « Parmenide » (4), quantunque da queste, se rettamente si considera, si possono dedurre tutte le altre: chè già si vede che il moto, cioè l' azione, è necessario di porsi a principio se dall' ente uno si vuol dedurre, coll' operazione della mente, i suoi elementi, giacchè questo stesso d' aver la potenza di distinguersi colla mente dall' ente si concepisce come una cotale loro attività o movimento. Così si moltiplica l' essenza e ne viene il numero, da cui tutto il resto. Platone dunque, distinti nel « Sofista » questi che chiama cinque generi, prova che non possono unirsi a caso tutti con tutti; chè i contraddittorŒ, come il moto e la quiete, l' identità e la diversità, ricusano ogni congiunzione. Ma è ugualmente erroneo il dire che ciascuno si rimanga interamente separato dagli altri; poichè, separato l' ente dagli altri quattro, questi non sono più, e non rimane nè pur il concetto di ente che suppone un' attività e una stabilità, cioè d' esser unito col moto e colla quiete. Oltre di ciò, dice, continuando a confutare questi secondi (i Megarici), che non potrebbe più esserci discorso se non si potesse predicare una cosa d' un' altra; onde, essendo obbligato a far ciò gli avversarŒ, se pur vogliono parlare « « hanno in casa il nemico e l' avversario che dentro si fa sentire » », cioè si contraddicono col pure aprir bocca e pronunciare un giudizio (1). Dove si vede l' origine del concetto di categoria suggerito naturalmente dalla questione de' generi degli enti. Poichè, considerandosi per enti gli elementi che li costituiscono, come fa Platone, e questi riducendosi a generi, conveniva dimandare, se e come questi generi s' uniscano tra di loro: il che era quanto un chiedere « come si possano predicare gli uni degli altri ». Si vede ancora come sull' ali della dialettica egli ascendeva alle dottrine ontologiche (1), nè altre ne può aver l' uomo, se alquanto s' estende il significato di dialettica. Dimostrato dunque con somma sagacità ed evidenza che i cinque concetti sono tutti distinti e l' uno non è l' altro, prova pure che i contraddittorii non hanno comunione insieme, e che però non si possono congiungere il moto e la quiete, l' altro e l' identico; ma che si congiungono quelli che non si contraddicono, onde il moto e la quiete ciascuno partecipa dell' identico e del diverso e tutti quattro partecipano dell' ente, chè altramente non sarebbero nè si potrebbero concepire, e l' ente partecipa di tutti quattro. Poichè distingue tra ciò che è ciascuno, e ciò di cui partecipa: niuno può congiungersi col contrario a ciò che egli è, ma rimanendo ciò che è, può partecipare di ciò che non è lui. Quindi deduce il concetto del non ente: poichè, avendo mostrato che l' ente è un concetto diverso dagli altri quattro del moto, della quiete, dell' identico e del diverso, consegue che questi sieno non ente , cioè entità diverse dall' ente (2). Ma poichè queste quattro cose sono (3), e che se non fossero, non si potrebbero concepire, perciò anche del non ente si predica l' ente. Di che conchiude che [...OMISSIS...] : perchè queste specie che si possano attribuire all' ente, benchè si possano ridurre ad alcuni generi massimi, pure sono innumerevoli. Ma poichè il concetto dell' ente è diverso dagli altri, consegue che quante sono queste cose, altrettante l' ente non sia. E poichè ciascuna dell' altre cose è non ente, l' ente stesso è uno [...OMISSIS...] , e non è l' altre cose numero infinito [...OMISSIS...] . Infatti, spogliato l' ente di tutto ciò che di lui si predica, non rimane più nè attività, nè quiete nel termine dell' atto, nè si può paragonare con se stesso e dirsi identico, nè paragonare co' suoi predicati e dirsi diverso, e però l' unico concetto che rimane è quello dell' uno. E questo concetto dell' uno è quello che prese ad analizzare nel « Parmenide », dimostrando prima che se si lascia così scarno e solitario, non potendosi di lui predicare nè pure l' esistenza, non può stare, non è al tutto (che è la prima delle due fondamentali ipotesi intorno a cui s' aggira la dialettica nel « Parmenide »): se poi si predica di lui l' esistenza (seconda ipotesi) già si considera in relazione con un altro, che è da lui informato o unificato, e che non si concepisce senz' essere unificato, cioè senza che di lui stesso si predichi l' uno, di maniera che l' uno e l' esistenza sono predicati reciproci. Ma, posto ciò, s' ha già l' uno informativo dell' altro; e data questa prima universalissima dualità d' elementi, cercando tutte le passioni che può subire quest' uno informativo senza cessar d' esser tale, se ne traggono tutti que' generi che furono enumerati nel « Parmenide », da' quali innumerevoli altre specie. La dottrina dunque dell' uno e più , ne' due dialoghi del Parmenide e del Sofista, è la medesima. Ma, mentre in quello introducendo a parlare Parmenide stesso vuol dimostrare che dagli stessi principii conceduti dall' Eleate, a filo di logica, si può cavare, contro di lui, che l' uno e l' ente non è il medesimo, e che da questa prima dualità d' elementi procede una pluralità senza limite; nel « Sofista » dichiara espressamente di confutare l' errore di Parmenide, il quale, avendo posto esclusivamente il pensiero alla natura dell' ente e consideratolo come identico all' uno, non badò alla pluralità, innegabile anch' essa perchè contenuta nel seno dell' ente uno. E il primo passo è appunto questo, di dimostrare, che l' uno e l' ente sono due concetti diversi, benchè indissolubilmente legati insieme. Se sono due, l' uno non è l' altro reciprocamente. Se l' uno non è l ente, dunque l' ente è non uno, materia. Se l' uno non è l' ente, dunque l' uno è non ente come forma. Ma, quantunque il fondo della dottrina e l' argomentazione dialettica sia la medesima ne' due dialoghi, tuttavia in questo differiscono: che nel « Parmenide », come conveniva al principale interlocutore, comincia dall' uno puro e ne presenta le passioni; nel « Sofista » comincia dall' ente informato dall' uno (1), e dice che, se si spoglia l' ente di tutti i suoi predicati, rimane il puro uno , quello della prima ipotesi del Parmenide; se poi si considera co' suoi predicati, se ne trovano prima quattro massimi che sono l' attività, la quiete, l' identità, e la diversità. Ciascuno de' quali dà un concetto diverso dall' ente uno, onde sono non ente. Il non ente dunque del Parmenide e quello del Sofista, benchè ricevano la stessa definizione generica, cioè « ciò che non è ente », cangia alquanto di specie: perchè nel « Parmenide » talora il non ente è « tutto ciò che non è ente »anche l' uno; quando nel « Sofista » il non ente è « ciò che non è ente uno », come sono i quattro « predicati massimi, ne' quali non c' entra il predicato dell' uno, perchè rimane unito all' ente contrapposto a que' predicati »(1). Dimostra dunque nel « Sofista » contro « Parmenide » che l' ente uno non esclude la pluralità, cioè l' altro , ossia il non ente. Poichè, dice l' Ospite d' Elea, che ci tiene le prime parti [...OMISSIS...] . E dopo avere illustrata questa tesi con esempi, mostrando che ciò che si dice « non bello », « non grande », « non giusto », non è già nulla, ma bensì tutto quello che è diverso dal bello, dal grande, dal giusto; e così parimente il « non ente », non è nulla, ma tutto ciò che non è il concetto stesso dell' ente: e però che anche il non ente, è in qualche modo, ed è l' essenza dello stesso ente [...OMISSIS...] , ed ha una sua ferma natura [...OMISSIS...] ; dopo tutto ciò, dico, l' Ospite d' Elea soggiunge: [...OMISSIS...] . E Teeteto mostra di non essersene accorto, perchè s' era partito dall' ente uno di Parmenide, e per illazioni d' una logica irrepugnabile s' era pervenuto al non ente, negato da Parmenide, di cui l' Ospite Eleate reca i versi. Quello adunque che aggiunse Platone alla filosofia d' Elea è il non ente e le specie del non ente, come dichiara in appresso (1). Laonde un uno qualunque si può predicare che è, e si può predicare dell' altre cose. In quanto si predica che è, dicesi ente: e quest' è l' ente del Sofista, che risponde alla sostanza o al supposito d' Aristotele. Ma l' altre cose che si predicano di quest' uno ente, paragonate all' ente che s' è già predicato, è non ente, e questo non ente del Sofista risponde all' altre nove categorie aristoteliche che si dicono abbracciare gli accidenti (2). Dalla dialettica dunque, cioè dal considerare come nell' umano discorso si predicano alcune idee di altre, ma non tutte di tutte, e alcune si negano di alcune altre, pervenne Platone a stabilire che il concetto dell' ente, quantunque non potesse sussistere da se solo ma avea bisogno d' altri concetti che lo determinassero, tuttavia si distingueva colla mente dagli altri concetti, e questi non erano lui, onde si potevano dire non enti, in opposizione al concetto puro dell' ente; poichè il dire che sono altri concetti diversi da quello dell' ente, e il dire che sono non enti, è il medesimo. E a quell' analisi Platone pervenne spinto dal bisogno di confutare i sofisti (onde da essi intitolò il dialogo), i quali argomentavano: « Il non ente è nulla e però non si può esprimere con alcuna locuzione: dunque tuttociò che si dice è: si dice sempre il vero, e qualunque discorso si faccia intorno a qualunque cosa non può esser mai falso ». Fu dunque obbligato Platone a investigare la natura del non ente, e mostrare che non era nulla, e si potea pronunciare, e distinguere dall' ente. Ogni qualvolta dunque il discorso dice ente a quello che è, non ente , o viceversa, è fallace e mentitore. Così la sofistica fu recisa fino dalla sua più profonda radice. Ma noi dicevamo che questa investigazione dialettica condusse Platone all' Ontologia, e aggiungiamo ora in più modi. Primo perchè l' Ontologia trattando dell' essere in tutta la sua ampiezza, conviene che lo consideri anche nelle sue relazioni colla mente; ed essendo noi uomini quegli che speculiamo intorno agli enti, anche colla nostra mente umana. Secondo, perchè le idee, essendo sole quelle che somministrano il concetto dell' immutabilità e della eternità dell' essere, sono il fonte della dottrina intorno alla natura di questo: onde avviene che, conosciuta questa stabilità e necessità che nell' essere ideale si riconosce, anche la dialettica, ossia il ragionamento che vi ci ha condotti, trova nell' essere stesso per sè considerato la sua fermezza e immobile consistenza: il che non manca mai di far notare Platone, come là dove, distinto il mondo intelligibile dal reale che lo realizza quasi sua materia, deduce da quello il ragionamento necessario e apodittico, e da questo l' opinione , ossia l' elemento mutabile e materiale del ragionamento medesimo (1); [...OMISSIS...] : come sta l' essere ideale al reale, così sta il discorso assolutamente vero, che si fonda su quella, al discorso opinativo o verisimile, esprimente la persuasione che s' acquista colle percezioni sensibili di questo. In terzo luogo, già vedemmo che l' analisi dialettica dell' uno conduce al concetto di tutto, sia reale sia ideale; e questo alla mente divina, in cui solo può consistere simultaneamente in quella grande unità che gli è necessaria. In quarto luogo finalmente osservammo, che, se in vece di prendere a subietto del lavoro dialettico l' uno segregato da tutto il resto o l' uno informativo di tutto il resto, si prende l' uno anteriore a tutti gli altri contenente tutto da cui tutti gli altri uni procedono, altro non si fa colla dialettica stessa che considerare quello che a Dio convenga e che non gli convenga. Onde, trapassata la stessa Ontologia, siamo pervenuti alla Teosofia. Al che appunto s' appresero i neoplatonici (1). Plotino, che per acutezza e originalità va ad essi anteposto, considera i cinque generi, enumerati da Platone nel « Sofista » e altrove (2), come i sommi; e vuole che siano ad un tempo elementi e generi del mondo intelligibile (1), ma sotto un diverso aspetto: elementi dell' ente, in quanto si trovano e distinguono dall' intelligenza in ogni ente; generi , in quanto si considerano, ognuno da sè, come aventi delle specie subordinate. Il che per intendere come sia, dobbiamo prendere il discorso più da lungi, ed esporre come Plotino escluda, dal novero de' sommi generi, tutti quelli che Aristotele ed altri posero come tali. Egli dunque domanda in prima, se l' uno forse non si potesse computare tra' sommi generi: e lo esclude, percorrendo i suoi significati (2). Il primo significato da Plotino indicato è quello dell' uno puro [...OMISSIS...] , a cui nulla s' aggiunga, nè anima, nè intelletto, nè altro (e quest' è l' uno della prima ipotesi del Parmenide): esso non può esser predicato di nulla, e però non è una qualità generica, un genere. Il secondo significato è l' uno aderente all' ente, «to hen on», l' uno della seconda ipotesi del Parmenide. Ora questo già non è più lo stesso uno logicamente primo [...OMISSIS...] . Di poi l' uno, sia aderente all' ente o no, se si considera nel suo concetto di uno, non può esser genere, perchè il genere riceve in sè differenze, e con esse produce le specie nelle quali egli rimane, perchè rimane nelle specie la qualità generica; all' incontro se l' uno ammettesse differenze, si distruggerebbe, perchè, cessando d' esser uno, diverrebbe molti. I contraddittorii , come dimostrò Platone nel « Sofista », non si possono unire, ma solo i diversi . Ora al puro uno, il due e qualunque pluralità è contraddittoria (3). Il terzo significato dell' uno è che valga il medesimo che ente , nel qual caso, poichè si considera l' ente tra i cinque generi, così anche l' uno. Ma, risponde Plotino, che con ciò non s' avrebbe aggiunto all' ente che un nome di più, e non sarebbe mai l' uno primo e puro, l' uno come semplicemente uno, o l' uno distinto dall' ente coll' intelligenza. Ma non si potrebbe considerare come primo uno quello coll' ente, come ente dicesi da prima quello che è congiunto coll' uno, benchè ci sia un concetto anteriore, quello dell' uno? - Ciò che è superiore all' ente, risponde, non è a dirsi ente; laddove quell' uno che è anteriore all' uno ente, non può dirsi che uno. Onde questo è da prima uno. - Nella quale risposta si vede, che la parola ente è presa nel significato, in cui si prende nel « Sofista », dove si considera l' ente come un genere opposto all' altro genere del non ente (che abbraccia nel suo seno i quattro generi minori), cioè è presa come l' ente diviso colla mente dai suoi termini e dalle sue attribuzioni, e ritenuto il solo preciso concetto d' essente. Poichè, in questo significato di «usia» indefinita qual materia ideale, si può benissimo concepire che ei abbia un concetto anteriore, in via d' astrazione, all' ente, qual è quello dell' uno, appunto perchè concetto più astratto «( Ideol. , 575 7 5.1) » e formale dell' essente o dell' esistenza. Ma l' essere, come atto e non come materia , è anteriore a tutto, ed è forma d' ogni concetto dell' uno stesso: il che non considerarono bastevolmente i Platonici. Stabilisce di poi Plotino il principio, che « « non tutto quello che è comune in molti è genere » » [...OMISSIS...] , ma può esser principio o elemento e non genere; ma solo quello è genere che riceve in sè differenze e ha specie, e si predica delle specie come loro quiddità comune. [...OMISSIS...] L' uno dunque non si predica come quiddità d' alcuna specie, benchè inesista in ciascuna specie e in ciascun individuo, e non produce di sè nè ammette in sè le loro differenze. Un' altra proprietà del genere si è che egli sia ugualmente in tutte le specie. L' uno all' incontro, che s' attribuisce a tutte le cose, non è ugualmente in esse, ma più e meno: dunque non ha la proprietà de' generi. Vero è, che anche l' ente è più e meno, ma l' uno è partecipato variamente anche da quelle cose che sono ente ugualmente (2). Così l' esercito e la casa sono enti ugualmente, dice Plotino, e pure questa ha più unità di quello. Osserva poi, che « « ogni cosa non ha sola la tendenza ad essere, ma ad essere col bene » », ed è tanto più col bene, quanto più ha d' unità: e questo non meno nella natura che nell' arte. Onde conchiude che, tendendo tutte le cose all' uno e a imitare quello che è il medesimo [...OMISSIS...] , tendono al bene, è che l' uno è il bene (3). Cominciando dunque tutte le cose dall' uno, e in esso tendendo come in loro bene (4), l' uno è principio e fine de' generi, ma niuno di essi. Del rimanente qui e da per tutto Plotino confonde manifestamente l' uno, che è un carattere astratto del bene, col bene stesso: e non s' accorge che l' uno puro, senz' esser altro che uno, lungi d' essere il sommo bene è un vòto concetto; come accadde a' moderni, i quali spogliato il pensare d' ogni suo oggetto, credettero d' aver trovato il sommo pensiero «( Ideol. p. 1426 7 2.) ». Nondimeno nell' aver Plotino escluso il bene da' sommi generi, travide una verità. Poichè veramente il bene appartiene alla terza delle supreme forme dell' essere, come vedremo, ed eccede tutti i generi. Escluso dunque l' uno e il bene da' sommi generi, Plotino toglie a dimostrare che nè pure la quantità , la qualità e la relazione si devono computare tra essi. Non la quantità, perchè la prima quantità è il numero , venendo da questo tutte l' altre, e il numero è posteriore logicamente a' cinque generi. Poichè il moto, lo stato, l' identità e la diversità, sono insieme coll' ente come suoi elementi intrinseci, non come accidenti che a lui sopravvengono e lo qualifichino, o lo compiano; ma l' ente non è senza essi, costituendo essi l' ordine intrinseco di lui [...OMISSIS...] . Poichè il moto è lo stesso atto dell' ente, e lo stato non è già una sua passione, e l' essere identico e diverso non sono proprietà posteriori all' ente, perchè l' ente non divenne molti, ma era molti pur coll' esser ente, ond' avea identità e diversità. All' incontro il numero, e ogn' altra quantità che dal numero deriva, e la qualità e la relazione non entrano a costituir l' ente, ma sono posteriori e accidentali al medesimo. Nel che sembra esserci una contraddizione, perchè, se l' uno ente è per sè molti, come non ci sarà il numero? Laonde Platone nella stessa essenza ( «to on») pone latente un numero indefinito. Ma Plotino considera il numero attuale in tutta la sua estensione, onde dice che [...OMISSIS...] . Fa dunque derivare il numero dal moto , come l' unità numerica dallo stato dell' ente; e ne ripone l' essenza in una certa mistione di moto e di stato [...OMISSIS...] . Il che però ci sembra implicato di molti equivoci. Poichè se l' ente è un primo genere; il moto, ossia l' atto, il secondo; lo stato il terzo; l' identità e la diversità il quarto e il quinto: se qui non ci sono tutti i numeri, c' è però fino al numero cinque; e così ci sono abbondantemente gli elementi di tutti gli altri numeri, come anco dimostra Platone nel « Parmenide ». Deve dunque intendersi, ciò che Plotino dice della posteriorità del numero, della proprietà che ha il numero d' accrescersi sempre alla nostra ragione successiva e computatrice; e non d' un numero speciale che è inerente ai sommi generi ed elementi dell' ente. Di poi esclude da' sommi generi la relazione , perchè è posteriore ai termini tra cui passa la relazione: e così pure il dove che importa composizione d' una cosa in un' altra; mentre, dic' egli, [...OMISSIS...] : e perciò esclude il luogo, e il tempo. Il fare poi e il patire sono specie di moto , e così l' avere e l' atteggiarsi inchiudono una duplicità o triplicità, e però non sono primi generi. Ma sarebbe difficile il dire come l' alterità non involga una relazione, se non si restringa il significato di relazione (5). Esclude da' sommi generi di poi la bellezza, distinguendo quattro significati. Poichè, o s' intende la prima bellezza [...OMISSIS...] , e in tal caso è lo stesso uno e lo stesso bene. O s' intende quel bello che rifulge nelle idee, e questo, non essendo in tutte uguale, non può costituire un genere, oltrecchè è posteriore all' ente. O per bello s' intende la stessa essenza , e in tal caso è già computato in questa che è il primo genere (l' ente). O s' intende il bello che affetta noi che lo contempliamo, e in tal caso è movimento e in questo genere contenuto. Riduce pure la scienza al genere del moto; e dice potersi ella ridurre anche a quello dello stato , o ad entrambi: nel qual caso, essendo un misto di due generi, è posteriore. Esclude ancora la mente ( «nus») da' generi, come quella che è lo stesso ente da tutti i generi composta [...OMISSIS...] . E qui si vede come Plotino vuole, che i cinque generi del mondo intelligibile sieno elementi. Sono, dice, elementi della mente, e d' ogni mente [...OMISSIS...] , poichè questa è l' ente intelligente che unisce in sè gli altri quattro generi [...OMISSIS...] . Ma come da questi sommi generi provengono le specie? le specie, dico, dell' ente, del moto, dello stato dell' identità e della diversità? Plotino si sforza di rispondere a questo nel modo seguente. Primieramente, dice, come la scienza è una, e tuttavia ci sono molte scienze, che sono specie e parti di quella; così v' è una mente di cui l' altre sono specie e parti. La scienza una ha in potenza tutte le altre, ed è in potenza tutte le altre [...OMISSIS...] . Così, se facciamo astrazione da tutti gli oggetti speciali della mente, noi avvisiamo al concetto di una mente generica (1), che non ha niun oggetto speciale, ma che gli ha tutti potenzialmente. E` il pensare come pensare del Bardili «( Ideol. 1420 e nota) ». Questa mente non è nessuna mente particolare [...OMISSIS...] . Ma, come le scienze particolari sono qualche cosa in atto proprio della scienza una ed universale, e questa oltrediciò è tutta in potenza; così l' altre menti, che hanno oggetti generici o speciali, sono altrettanti atti della mente una in potenza; poichè, quando questa esce a' suoi atti, diviene quelle senza cessare d' essere ciò che era prima. L' ente dunque è la mente: e, avendo egli il movimento che è il secondo genere, mediante questo produce le specie. Fino dunque che l' ente mente è in potenza, è mente universale, superiore alle menti speciali che si generano per l' atto di quella. [...OMISSIS...] . Esister dunque in sè la gran mente [...OMISSIS...] , ed esistere in sè le singole menti; ma aver queste un' intima congiunzione e derivazione da quella, che le produce col passare a' suoi atti, cioè determinando i suoi oggetti per la virtù che ha insita del movimento. Quindi quella è la causa di queste. Le difficoltà di questo sistema sono manifestamente due: 1 Che quella che si chiama la gran mente e si fa causa dell' altre, essendo generica e in potenza, è più imperfetta d' una mente, che, poste l' altre cose uguali [...OMISSIS...] , fosse in atto; 2 Che non è spiegato come le menti inferiori possano avere un' esistenza a sè, se nascono col solo determinarsi quell' oggetto universale che si dà alla gran mente, dove si suppongono tutte le specie solo virtualmente comprese (1). Viene agli altri generi. Posto che la mente, la quale contiene tutto in potenza, ha il movimento consistente nell' atto del contemplare, ella può passare a tutti gli atti mentali possibili, e così infinite forze si spiegano all' occhio di questa mente: quindi il numero, la stessa infinità e la stessa grandezza [...OMISSIS...] . Questo movimento, che non è il primo essenziale ed elementare all' ente, ma una continuazione posteriore, manifesta già il quale e il quanto come determinazioni che s' aggiungono. Ora in tutti questi atti c' è la quiete e il moto , che così si specificano; ed essendovi il numero e il quanto, ed il quale altresì, c' è di necessità ancora l' identità e la diversità specificata. Dal concorrere in uno poi il quanto e il quale, Plotino fa venire la figura (1), e coll' intervento della diversità , che divide in più il quanto e il quale, le differenti figure e l' altre qualità tutte logicamente posteriori. La mente dunque è l' ente (primo genere) che ha unito a sè gli altri quattro e che abbraccia colla contemplazione tutti gl' intelligibili, tutte le idee, che ne' quattro generi si riducono. Questa è la prima e assoluta mente. Ma osserva Plotino che la mente umana discorre e scopre una cosa dall' altra: quest' è dunque una seconda mente, diversa da quella prima che con un' azione permanente, e senza discorso, ogni cosa abbraccia. Ora è evidente, che « « a quel modo che un acerrimo intendimento ottimamente argomenta, a quel modo appunto sono tutte le cose nelle ragioni antecedenti ad ogni argomentazione »(2) », poichè se così non fossero, non sarebbero vere le cose argomentate. Non si può dunque argomentare, cioè da una verità discoprirne un' altra, se queste verità tutte già non fossero ab eterno prima dell' argomentazione. Di che deduce che la mente umana o la mente ragionante presuppone dinanzi a sè una prima mente, la quale, non discorrendo o argomentando, ha semplicemente tutte le cose presenti, e che da questa la mente deve derivare (3). Ma come proviene questa seconda mente dalla prima? Ecco il gran nodo, il mistero della creazione. Plotino cerca di penetrarlo in questo modo. In quanto la mente, l' ente coi generi, non ha ancora che il primo atto, l' oggetto del quale sono i generi; in tanto è la prima mente (1). Ma in quanto la sua azione, continua e permanente, passa ai generi inferiori e di mano in mano alle specie; quel primo atto si moltiplica, specifica, determina, e dall' esistere nel tutto passa ad esistere nelle parti. Esistere nelle parti forma un altro modo di esistere diverso da quello che consiste nell' esistere nel tutto: e così la mente esistente nelle parti non è più la mente esistente nel tutto, ma è un' altra mente, le menti seconde. Tutte queste menti seconde però sono nella prima: ma, in quanto sono nella prima, concorrono a formarla, in quanto che in essa non avendo l' esistenza propria e separata sono tutte insieme la prima (2). Ma, in quanto sono parti, e come tali aventi un' esistenza propria, non sono la prima, ma altre da quella. Così il primo ente è uno e molti: e allo stesso modo ciascuno dei secondi enti e delle seconde menti (chè sono tra i molti dell' uno primo) è uno e molti. Ma conviene dichiarare in che modo. La prima mente produce le altre coll' azione colla quale determina i generi sommi ad essa essenziali in generi minori e in ispecie. Quella stessa successione dunque, che hanno dialetticamente i generi massimi fino alle ultime più ristrette specie, si vuole che esprima la successiva produzione de' diversi ordini di intelligenze. Questo stesso è il principio da cui si trassero le genealogie degli Eoni de' Gnostici, che sforniti d' ogni vigoroso raziocinio e impostori di professione, ad arbitrio d' una sregolata imaginazione, empirono la filosofia di tanti sogni d' empietà e corruttele. Il qual delirio non potea piacere al forte ingegno del filosofo Licopolitano, che confutò co' suoi scritti alcuni dei loro errori (1). Ma il principio del suo sistema è somigliante: diversa solo la derivazione degli enti dal primo. Poichè, come abbiamo veduto, sopra tutti i generi pone l' uno ( «to hen, to proton»), intorno al quale cade spesso nell' illusione dialettica de' razionalisti, a' quali, osservando essi che aggiungendo all' uno qualche cosa per via di predicazione lo limitano (1), sembra d' aver trovato il sommo, quando coll' astrazione sono giunti a concepire nudamente l' uno; quasi che questa stessa parola potesse indicar altro che il puro vuoto de' concetti, una pura forma mentale senza contenuto. Ma si contraddicono immediatamente appresso, chiamandolo appunto il primo , il sommo , il bene ( «to agathon»), come fa appunto Plotino, quasi che questo non fosse un predicare qualche cosa di quell' Uno, che pure doveva essere puro uno di cui nulla si predicasse (2). Da quest' Uno vien prima la Mente universale; da questa l' Anima universale; da questa le anime speciali; da queste la Natura (il principio animale); da questa la vita che si svolge, o il generato; e prima il Tempo, la Moltitudine, il Luogo ( «o topos»); e infine la Materia, male e caligine. Ma, come dall' Uno viene la Mente universale? Esso non ha nessun' azione, secondo Plotino, il qual teme che dandogli qualche azione già svanirebbe il concetto del puro uno ( «to haplos en») (3), e vi s' introdurrebbe un altro. Quest' uno non può dunque nè fare (4), nè pensare, nè essere (5), chè avrebbe i generi distinti in sè stesso: e il levargli anche l' essere e concepirlo superiore all' essere, è il punto più alto della speculazione (6). Come dunque riesce la mente universale? Plotino risponde per una certa esuberanza , o ridondanza (1), o profluenza [...OMISSIS...] , come il fiume dalla fonte (2), o come la vita, che si espande dal suo principio e quasi dalla radice ai rami d' un grand' albero [...OMISSIS...] , o come un fulgore, una corruscazione [...OMISSIS...] , da per tutto diffusa: similitudini o analogie del tutto insufficienti a dimostrare, come nell' uno non ci sia nè essere, nè azione, e tuttavia produca, e produca cosa che non ha identità con lui. Il fondo del pensiero plotiniano, a cui si riduce pur quello de' neoplatonici, è questo: In ciò che è assolutamente primo, non ci possono essere differenze di sorta, perchè, se ci fossero differenze, quale di esse sarebbe la prima? O questa ci sarebbe, o niuna sarebbe logicamente antecedente all' altra, ma tutte pari. Se una fosse la prima, questa solo sarebbe l' assolutamente primo; se fossero tutte pari, niuna sarebbe la prima: ma nè pure tutte insieme costituirebbero un primo, perchè la moltiplicità è posteriore logicamente all' unità. Ma l' ente e l' essere (chè questi due si prendono spesso da Plotino come sinonimi), l' azione, la quiete, e gli altri generi, costituiscono altrettante differenze tra loro. L' assolutamente primo dunque dee essere anteriore a queste cose, superiore al bello ( «hyperkalon») e a tutte l' altre cose ottime ( «hyper ton ariston»). Ciò che vi ha d' erroneo in questo ragionamento è la sua base male scelta. Poichè questa base è il principio: « la moltiplicità è posteriore logicamente all' unità »; principio vero in sè, ma male scelto, come dicevamo, per farlo servire a base d' una ontologia. Poichè l' ordine logico è un ordine parziale e formale, che non abbraccia tutto l' ordine dell' essere. Laonde si sarebbe dovuto provare che ciò che logicamente è anteriore, fosse anteriore anche nel fatto. Ma questo si suppone senza provarlo. Giace dunque il sistema sopra una base ipotetica, e però in aria. Le contraddizioni, in cui cade Plotino e tutto il neoplatonismo, ben dimostrano che la ragione protestava in essi contro il loro sistema. A ragion d' esempio Plotino non può concepir l' ente , senza concepirlo uno e molti [...OMISSIS...] , di maniera che l' unità e la moltiplicità è contemporanea all' ente. Questo lo conduce a dire, che l' uno non è ente, perchè non ha moltiplicità alcuna, ma è superiore all' ente: poi quando parla dell' ente, mostra di dubitarne, sentendo la necessità di definire che cosa intenda per ente [...OMISSIS...] , e di qual ente parli [...OMISSIS...] , mostrando così che l' ente può prendersi in un' estensione maggiore, dalla quale non si può sottrarre nè pure l' uno, se dev' essere qualche cosa. Ora questo scambio, di ciò che è logico per ciò che è ontologico, vizia tutto il sistema di Plotino e di tutti i neoplatonici. L' egizio nostro filosofo, secondo questa maniera di ragionare è obbligato di fare, che la prima mente, la quale esce dal primo uno come un suo splendore, altro non sia che l' ente coll' unione degli altri quattro generi, e di negare che in esso cadano altre differenze che queste cinque. Poichè introducendosi delle differenze in ciascun genere, di modo che se n' abbiano generi minori e specie, già non è più quel desso ma un altro. Per quanto sia sbagliata questa maniera di ragionare dall' ente logico all' ente subiettivo, essa però non ci obbliga di dare a Plotino la taccia di Panteista. Poichè egli viene a distinguere le diverse generazioni di cose con questo ragionamento: Iddio è quell' uno in cui non cadono differenze; Quando dunque nascono in lui per la sua continua attività i generi, questi non sono lui, perchè non ammettono la sua definizione. Del pari: La prima Mente non è che l' ente contemplante i cinque generi, senza che in ciascun genere cadano differenze; Ma tostochè essa mente per la sua attività quasi lampeggia in ciascun genere differenze, di maniera che quei generi si rompono in generi minori e in ispecie, la mente che contempla questi generi minori e queste specie non è più quella di prima, ma un' altra attività che alla prima si continua. Questa seconda mente non è la prima, ma un' altra, perchè a questa non compete la definizione e però nè manco la natura espressa nella definizione della prima. Laonde, non uscendo nulla dal primo Uno, nè dalla prima Mente, senza che ciò che esce tosto non perda l' identità col fonte da cui è uscito (1); procede che ci intervenga una specie di creazione, e che la prima Mente sia essenzialmente diversa dall' Uno primo, e che la seconda Mente, o Anima universale, sia essenzialmente diversa dalla prima Mente. E lo stesso si può argomentare circa le altre emanazioni. Non crediamo dunque che si possa accusare il sistema Plotiniano di Panteismo (2); ma egli è chiaro che non evita questa colpa, senza incorrere in altre non meno gravi. Poichè primieramente le definizioni del primo Uno e della prima Mente, ecc., sono arbitrarie e insufficienti a esprimere la natura divina e l' altre che si vogliono definire. In secondo luogo il Dio di Plotino, detto ugualmente l' Uno, il Primo, il Bene, è un Dio imperfetto, e non si può descriverlo perfetto se non con un sofisma. Il sofisma è questo: « « L' Uno non appetisce nulla, non conosce nulla: dunque è sufficiente a sè stesso: non gli manca cosa alcuna. All' incontro l' altre cose, la Mente, l' Anima ecc., appetiscono l' Uno, cioè il Bene: e però per sè sono deficienti e non sono prime »(1) ». Il vizio della quale argomentazione sta nel doppio concetto che può avere la frase « esser sufficiente a sè stesso »: perchè questa può intendersi d' una sufficienza reale e piena, e in tal caso non è sufficiente a sè stesso se non quello che è tutto sentimento, tutto intelligenza, tutto essere; e può intendersi d' una sufficienza dialettica e vuota di tutto, in quanto un concetto semplicissimo, privo d' ogni attribuzione, come quello del puro uno, non s' intende come possa aver bisogno d' altro, essendosi recise da lui colla mente tutte le relazioni e congiunzioni con ogni altro concetto (2). Per questa stessa ragione il Dio di Plotino è ridotto ad una vanissima ed astrattissima potenzialità: e però egli, negandogli tutto, lo chiama appunto « la potenza di tutte le cose » [...OMISSIS...] , e l' « indefinito » «aoriston» (2), e non senza contraddirsi vuole che unità così vuota sia causa di tutte le cause (3). In terzo luogo la Mente, che è il secondo principio che viene immediatamente dall' Uno, e che è la causa che fa tutte le cose, il Demiurgo del Timeo (4), è anch' essa potenziale e imperfetta, perchè è l' ente co' quattro generi (5), senza alcun altra distinzione, onde non può contenersi in essa che una cognizione generica, per ciò stesso imperfetta. Ma come fa tutte le cose la Mente? Allo stesso modo come l' Uno fa la Mente. Quando la mente è perfetta, cioè pienamente costituita da' cinque generi [...OMISSIS...] , ella continua a contemplare, e contemplando divide i sommi generi in generi minori e in ispecie. Ora questa virtù cogitativa, che procede alla divisione de' generi primi, non è più la mente; perchè la mente, secondo la definizione, è la virtù contemplatrice de' soli generi: dunque è un altro: quest' altro è l' Anima; l' anima universale, i cui oggetti sono tutti i generi minori e le specie distinte (6). E fin qui, dice Plotino, vanno le cose divine (1): a questi tre principii Uno, Mente ed Anima si riducono: perchè l' Anima è costituita dalle specie, onde al pari della mente la chiama specie (2), quando continuando ad operare ed andando quindi colla sua azione fuori di sè, fuori da quello che la costituisce secondo la definizione; esaurite tutte le idee che sono per sè sempiterne: fa che sussista un altro diverso da sè e dalle idee: quest' altro non può esser più idea, ma la stessa realità del mondo mutabile e al rivolgersi del tempo subordinato: perciò non divino. Si deve osservare che l' operante in tutta questa derivazione è sempre l' Uno: il primo atto del quale lo costituisce; il secondo, eccedendo la sua costituzione e natura, non è più lui ma la Mente; il terzo, cioè quello che esce dalla Mente già costituita, non potendo esser la Mente perchè eccede dalla sua costituzione, è l' Anima; il quarto che esce dall' Anima già costituita, eccedendo dalla natura dell' Anima, non è più cosa che appartenga al mondo ideale, ma è il Mondo reale. Quindi tutte queste cose nel sistema di Plotino sono intimamente connesse e congiunte fisicamente come una continuazione di moto , cioè d' azione. Onde parlando della Mente dice che [...OMISSIS...] , quasi dica, che basta il trovarvi che fa il nostro pensiero una diversità qualunque perchè in quest' ordine di cose si debba considerare come un' altra sostanza o ipostasi. E lo stesso dice dell' Anima rispetto alla Mente (2). Il qual pensiero non si può negare che sia acutissimo, perchè trattandosi di nature pure e semplicissime, che non ammettono nulla d' accidentale, se qualche cosa vi s' aggiunge è perita l' identità, e la cosa aggiunta dee costituire un altro subietto diverso dal primo. Ma per ciò stesso rimane l' imperfezione nel primo, che essendo diverso non può essere perfezionato dal secondo: e questo è uno de' fondamentali errori, che vogliam notato nella dottrina di questo filosofo, essendo al tutto insufficienti quelle molte frasi che spesso adopera per schermirsi da questa terribile difficoltà, che da per tutto il persegue. Continuando dunque noi ad esporre questo ingegnosissimo sistema, per quanto la sua incoerenza il permette, facciamo osservare, che da esso risulta che la Mente sia quasi un' imagine o similitudine del primo Uno, e l' Anima un' imagine o similitudine della Mente; poichè nei generi, che costituiscono la Mente, c' è l' Uno; e nelle specie, che costituiscono l' Anima, sono i generi: onde come in uno specchio l' Uno si riflette nella Mente, e la Mente nell' Anima. L' Uno, tosto che fa un atto diverso dall' Uno, non è più uno, ma è la Mente; e questo primo atto, che è la Mente, è la contemplazione de' generi che distingue in sè. Quest' atto dunque, che è nell' Uno, non è l' Uno, ma già è la Mente. La Mente, trovandosi media tra l' Uno e l' Anima, ha come due atti: col primo riceve ed è l' atto con cui essa è, e coll' altro dà; col primo è generata, coll' altro genera, ed è l' atto con cui, contemplando sè stessa ne' generi che la costituiscono, vede i generi inferiori e le specie. Quest' atto, che è nella Mente, non è la Mente, ma l' Anima. L' Anima, trovandosi pure media tra la Mente e la Natura, ha primieramente due atti: costitutivo di sè l' uno, l' altro comunicativo: il primo veniente dalla Mente, il secondo dall' Anima stessa che contemplando sè stessa, cioè le specie tutte, vede in esse la realità (1). Ma quest' atto che viene dall' Anima ed è in essa, non è più essa, ma è la Natura. Oltrediciò continua la potenza nella Mente, già generata, tanto da affissarsi nell' Uno quanto d' affissarsi in sè stessa; ma nè l' uno nè l' altro atto la fa uscire dal divino: e però, benchè l' affissarsi nell' Uno sia quello che la costituisce nella sua eccellenza, pure anche coll' affissarsi in sè stessa non si deteriora. Del pari l' Anima coll' affissarsi nella Mente è costituita nella sua propria eccellenza, ma dopo d' avere, coll' affissarsi in sè stessa, prodotta la Natura sensibile, può in questa immergersi colla contemplazione: nel qual caso, uscendo dal divino, si deteriora. Tutto dunque si genera per via di contemplazione ( «ek theorias»), e non solo le idee, ma le cose stesse naturali sono teoremi ( «theoremata»), cioè contemplati (2); e la Natura reale operando non fa che contemplare le varie forme di cui si veste e in cui si pone. Come dunque dall' Anima esce la Natura reale? L' Anima, il complesso delle specie, il mondo intelligibile ultimato, ha la virtù di contemplare; contemplando opera; operando produce: dopo dunque che l' Anima è costituita, la sua contemplazione di sè non può più produrre specie: sorge dunque un altro da sè, che è la Natura reale. Non sarà disutile intendere il pensiero di Plotino esposto da Marsiglio: [...OMISSIS...] . La prima Anima dunque è separata dalla materia: ma, come l' intende Marsiglio, contemplando sè stessa in quanto è essenza, comparisce la materia , essendo esaurita tutta la distinzione e la serie delle specie; e in quant' è intelligenza, comparisce la forma incorporea , cioè l' Anima vegetale del Mondo, intelligente anche questa: i quali due principii uniti insieme compongono il Mondo temporaneo. Nella materia finisce l' atto della contemplazione: essa è venuta dall' essenza, ma già non è più essenza (non più ente), perchè l' essenza è sempre una specie o idea. All' incontro l' Anima vegetale del Mondo, che è la prima forma della materia, a questa unita, svolge di sè, contemplando ancora, la natura genitale, e questa la natura sensibile, l' una e l' altra delle quali è come una vita evoluta [...OMISSIS...] , e questa produce le forme ultime puramente corporee (3) sempre per uno svolgimento [...OMISSIS...] . L' anima vegetale dunque contemplando opera come vita genitale e sensibile (onde il tempo), e dominando la materia informe (prodotta insieme con essa dall' Anima prima), le dà e rimuta le forme corporee, onde la moltitudine e il moto locale, e gl' individui viventi ed intelligenti, gli uomini, gli animali, le piante. In questi ultimi prevale più la materia che ne' primi. Ma conviene che più particolarmente noi vediamo in che maniera, secondo Plotino, si originino l' anime umane. Stabilisce in prima questo filosofo, che tanto la Mente quanto l' Anima prima, universale, separata, sia ad un tempo una e molte, come provò Platone che l' ente è uno e molti. [...OMISSIS...] Poichè, componendosi la Mente da' cinque generi, e questi trovandosi in tutte le specie in cui si dividono; per partecipazione in tutte queste si moltiplica la mente, come l' essenza del fuoco che si trova in tutti i fuochi grandi e piccoli, secondo la similitudine che Plotino soggiunge (2). Così l' Anima, che è la contemplazione de' generi minori e delle specie, si moltiplica secondo che gli anelli della gerarchia ideale l' uno dagli altri escono, e tuttavia queste molte anime si riducono ad una sol' anima contemplante. L' ultima di queste produce l' Anima vegetale della Natura. Ora qual è l' Anima umana? Plotino, quasi dubitando, dice: [...OMISSIS...] . Quando dunque nel continuo operare delle cause si giunge all' Anima prima, o Mondo intelligibile, e questa contemplando sè stessa produce la materia e l' Anima vegetale svolgentesi nella vita genitale e sensibile; in questa rimane il mondo intelligibile delle specie, come in queste rimane la Mente o i generi, e in quest' ultima l' Uno o il bene. Ma l' anima vegetale operando nella materia genera e s' individua, e la più eccellente di queste generazioni è quella dell' uomo, in cui è l' Anima umana. Di qui il principio dell' Etica Plotiniana, che consiste nel dovere di contemplare praticamente ciò che è migliore e ottimo. Poichè, se l' Anima umana si compone delle parti accennate, non è difficile l' intendere come, in quant' è in essa l' anima separata, si tenga nel mondo intelligibile; e, in quant' è anima vegetale, sia tratta dalla sua propria natura verso il sensibile e materiale. Ora, come il primo moto all' insù la rivolge verso il bene, così il secondo moto all' ingiù verso il male: e secondo che ella è più forte, o più debole, il che dipende dalla generazione, tende al bene, o si abbandona volontariamente alla materia: col qual sistema di cause naturali tutte così incatenate non si vede come si possa, senza incoerenza, salvare la libertà umana (2). S' avvicina Plotino all' errore de' due principii, ossia cade in un errore affine, quando ripone nella materia lo stesso male per sè «tuto to ontos kakon» (1). Errore veniente dal primo: poichè, come Plotino pose qualche cosa al di sopra dell' essere, cioè l' uno, il Bene; così doveva collocare altresì qualche cosa al disotto dell' essere medesimo, la materia, priva d' ogni unità e d' ogni forma, il Male. Di maniera che fece l' Essere medio tra il Bene e il Male, partecipe dell' uno e dell' altro. Ma come questo era un tentativo intemperante d' ingegno di oltrepassare i limiti dell' essere «( Logic. , n. 11.4) », il che accade a tutti i filosofi unitari; così vien meno a tali speculazioni esorbitanti e la possibilità di concepire ciò che vogliono e d' esprimere i loro pretesi concetti in parole. Onde come, quando Plotino parla dell' Uno, è costretto dall' intrinseca necessità di attribuirgli quell' essere, ossia quell' essenza che pure gli toglie; così cade nella medesima incoerenza parlando della materia, di che in fatto non potrebbe parlare, se non le attribuisse qualche essenza o qualche modo d' essere (2). L' anima poi s' infetta e accoglie il male contemplando la materia (1). Ma questo le accade non per quella contemplazione di sè, per la quale la materia si produce, ma per una contemplazione posteriore; chè l' anima è per sè buona, e il male le accade come accidente. Ma onde questa contemplazione posteriore della tenebrosa materia? Dalla debolezza di quell' anima che ha immediatamente generato la materia, come ultima produzione del tutto. Onde poi questa debolezza? Venuta la catena delle cause all' ultimo anello, e all' infimo prodotto la materia; questa non può più produrre cosa alcuna, perchè in essa è esaurita ogni attività produttrice: non potendo dunque più progredire avanti, la materia tenta di tornare indietro, e d' invadere procacemente quell' anima che l' ha prodotta, e per mezzo di questo ritorno abbracciandosi quasi all' Anima, da questa acquista le forme, e ne nascono le potenze vegetali, generative e sensibili. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo Plotino non solo dà l' esistere alla materia, coll' accennata incoerenza, ma anche il conato e l' azione d' introdursi nell' anima, producendo così la generazione , che è il modo col quale l' Anima s' unisce stabilmente alla materia. Quindi, benchè il male venga, secondo Plotino, come ultimo e necessario effetto di quella serie di cause, che incominciano dal Bene, onde non si può dire che ammetta i due principii indipendenti de' Manichei; tuttavia cade in due gravissimi errori: il primo che il male sia qualche cosa di reale, com' è la materia, e che questo reale sia una produzione necessaria e diretta di Dio medesimo. Certo egli suppone, che, col semplice generare la materia, l' Anima non si renda mala; ma ella però genera il suo nemico, il male: che invadendola, e così dando luogo alla generazione, la fa cadere e macchiarsi. Da tutto questo apparisce quali sieno le categorie, secondo Plotino. Egli concepisce le categorie come sommi generi, e nello stesso tempo come principii elementari dell' ente. Al di sopra e al di sotto dell' ente e de' suoi principii categorici, egli pone qualche cosa: cioè al di sopra, il Bene o l' Uno, e al di sotto, il Male o la Materia. Fra questi due estremi, pone due enti medii (1), la Mente e l' Anima; la prima delle quali comunica da una parte immediatamente col Bene, da cui esiste; dall' altra coll' Anima cui produce: la seconda, da una parte comunica immediatamente colla Mente da cui pure esiste; dall' altra col Male, cioè colla Materia, cui produce. I sommi generi o categorie sono nella Mente e la costituiscono; le specie che ne derivano sono nell' Anima e del pari la costituiscono: l' una e l' altra una e molte. I detti generi e ad un tempo principŒ sono cinque: l' ente, il moto, la quiete, la diversità e l' identità, da Platone enumerati già nel Sofista, e altrove. Il difetto delle categorie di Plotino, come pure di tutti i Neoplatonici, si è quello di avere classificato con esse l' ente ideale , e non l' ente in tutta la sua generalità. In fatti i cinque generi da esso enumerati sono generi d' idee e non di cose: essi non possono sussistere in sè gli uni dagli altri separati, onde fu obbligato ad unirli in un ente compiuto, la Mente. Plotino risponde che, in quanto sono uniti insieme e così costituiscono la Mente, sono posteriori, perchè il composto è posteriore al semplice, il più all' uno: e però se si classificano gli enti composti, non si hanno più de' generi sommi, ma de' posteriori. Questo è specioso, ma erroneo, perchè procede dall' errore dell' Unitarismo, che confuteremo dove esporremo la teoria delle categorie e ne' libri ontologici, che verranno appresso. Oltre altri errori indicati nell' esposizione che abbiamo fatta del sistema plotiniano, quello che nasce dalla stessa origine si è che Plotino, al pari degli altri antichi, non raggiunse la distinzione tra l' esistenza obiettiva e l' esistenza subiettiva: onde dall' una passa all' altra senza addarsi dell' abisso che le separa. E non è che egli non ne veda una distinzione di concetto, ma non s' accorge che nelle idee (e dicendosi idee si parla de' possibili intuiti dall' uomo) non compariscono se non dotate di un' esistenza obiettiva senza subiettività alcuna, e in vece d' osservar queste come sono, argomenta come devono essere, salendo colla speculazione alla prima Mente, della quale l' Anima è il verbo [...OMISSIS...] e l' imagine [...OMISSIS...] . Ora la prima Mente è l' unione dei cinque generi, e però è un composto, secondo Plotino, delle cinque prime idee generiche. Ma è costretto tantosto a prendere queste cinque idee generiche come cose reali, cioè a dar loro anche un' esistenza subiettiva, altrimenti si rimarrebbero sterili e prive d' ogni azione. Dice dunque di questa sua Mente, risultante da' cinque generi: [...OMISSIS...] . Sul qual passo sono da osservare più cose: 1 Quando Plotino distinse dall' Uno la Mente e dalla Mente l' Anima, disse che la differenza si riduceva a una pura alterità. Qui all' incontro l' alterità non produce diversa ipostasi, ma una sola Mente: incoerenza, che non si vede come evitarsi; 2 Riconosce Plotino che non ci potrebbe essere intelligenza senza una dualità, cioè un intelligente e un inteso, il che è un vero prezioso. Ma poi non s' accorge dell' assurdo di lasciare il suo Uno (Dio) privo irremediabilmente di intelligenza, a cui si può applicare quello, che egli trova assurdo per la Mente, [...OMISSIS...] ; 3 E` vero, che non si dà intelligenza senza questa dualità d' un intelligente e d' un inteso; ma nelle idee, come sono i generi, questa dualità non si trova. In fatti l' idea, o specifica, o generica, o universale, presenta un inteso, ma quello che la intuisce e la intende è l' uomo reale, il quale non è un' idea. Allo incontro non si può concepire un' idea che intenda sè stessa, senza che cessi d' essere idea e diventi una persona. Se dunque ciò, su cui Plotino specula, sono le idee che hanno un' esistenza puramente obiettiva, con qual diritto o per via di qual ragionamento passa egli a trovare un' esistenza anche subiettiva, che è quanto dire una persona intelligente? Confonde dunque le idee colla Mente che intuisce le idee. Ed essendo le idee molte, da questo trae che la Mente non è solo una, ma anche molte. Ma se si concede che molte menti ci sieno, perchè ci sono molte idee, non rimane per questo provato che la Mente sia una. Che anzi facendo risultare la mente da cinque idee generiche o categorie, non si vede alcuna via di fare che queste cinque formino una sola ipostasi, se non ricorrendo a qualche attività straniera alle cinque idee, che le tenga insieme e le contenga. Dirà Plotino, che questo è l' Uno; ma in tal caso l' esistente subiettivo che intende sarebbe l' Uno, e questo solo sarebbe la Mente, e intenderebbe cinque cose, intese e non anco intelligenti. Ovvero se queste cinque cose intendessero, sarebbero cinque menti, cinque ipostasi, e non una sola. E lo stesso è da dire dell' Anima, che egli fa constare di generi inferiori ai primi, e di specie. Poichè questo ha di proprio ogni subietto di esser uno, e di non poter essere più subietti, nè risultare da più subietti, benchè nello stesso subietto più cose si possano distinguere col pensiero, ma non mai più subietti. Onde, od ogni specie è anche un subietto intelligente, e in tal caso i subietti che si chiamano anime intelligenti non sono una, ma più: o le specie non sono subietti intelligenti, ma solo obietti intesi, ed in questo caso, conviene di nuovo trovare il subietto unico nel primo Uno, e questa sola sarebbe l' ipostasi intelligente, questa sola l' Anima che intenderebbe ugualmente e identica i generi, e ne' generi le specie. Forse Plotino replicherà che, altro essendo l' Uno considerato come puro Uno, altro quell' atto dell' Uno che contempla i generi, altro quello che contempla le specie, questi tre atti fanno che si distingua l' Uno in tre subietti. Ma non ogni alterità, a giudizio di Plotino stesso, costituisce un subietto diverso, altramente i cinque generi, e gli altri minori, e le specie, sarebbero altrettanti subietti diversi. Ora nè i generi, nè le specie, che come obietti sono diversi, hanno subiettività alcuna in sè che gli unisca. Nè si può conoscere che sieno più, se non c' è un subietto unico che ne contenga la loro pluralità, e che sia da questa diverso, nè un subietto può conoscere le specie se non ne' generi: e però il subietto, che conosce queste, deve essere identico a quello che conosce i generi. E, se ci fosse un subietto che conoscesse i soli generi e non le specie, come si troverebbe poi quello, che conoscesse le specie, se le specie stesse, molte come sono, quand' anco fossero subietti, sarebbero molte e non una? e una sola non si potrebbe nè pure conoscere come specie? Che se poi Plotino fosse pervenuto a ridurre le idee ad una sola, al che non giunse, qual poi sarebbe il principio della loro moltiplicazione? Questo non può essere, come noi abbiamo mostrato nella « Ideologia (n. 1449) », che un elemento di diversa natura dalle idee stesse, elemento variabile, a cui la idea si congiunge, cioè la realità; ma in tal caso, questa sta di fronte alle idee da loro originalmente indipendente, e non può venire, come la fa venire Plotino, dalle idee stesse già moltiplicate fino all' ultime loro specie. Onde anche per questa ragione si prova assurdo che la materia , e in universale la realità , dalle idee stesse sia generata; quand' anzi l' idea stessa rimarrebbe sterile, e non si potrebbe moltiplicare senza di questa. Se di più Plotino avesse veduto non solo che c' è un' idea sola anteriore ai generi e alle specie, ma che quest' idea dee avere una subiettiva sussistenza; in tal caso avrebbe dovuto conchiudere, che in un tale essere (al tutto diverso dalle idee che l' uomo intuisce), si trovavano due principii irreducibili: cioè l' intelligibile e il sussistente, e un solo e identico essere in entrambi: e così avrebbe conosciuto che l' essere primo non può essere Uno puro, ma un essere con una doppia forma, e avrebbe scoperte le due prime supreme forme dell' essere, e, come diremo, le due prime categorie. 4 Dalle quali cose si scorge che la maniera di filosofare di Plotino pecca per una gran mancanza di raziocinio dialettico (comune difetto de' nuovi platonici), onde asserisce le cose più gravi, e procede di asserzione in asserzione, senza rendersene esatto conto o darne qualche prova al lettore, contentandosi di leggiere e sottintese analogie per dedurne gravissime e paradossali conseguenze, che avrebbero bisogno di aperti e rigorosissimi raziocinŒ a persuadersi, facendosi altresì caso delle possibili obbiezioni. Questa sicurezza e autorevolezza di procedere, che, tenendo nascosta la catena logica, pretende da' suoi lettori che la indovinino da sè stessi e non ci facciano mai sopra difficoltà, è la stessa che quella che si vede nell' Hegel, e in tutti i filosofi entusiasti e imaginosi, i quali vogliono colla loro oscurità e misticismo imporre al pubblico, e captivarlo al loro carro trionfale; 5 Ma invano: il pensatore trova facilmente che tutti cotesti sistemi e in particolare quello di Plotino sono ipotetici, nè dicono esplicitamente il principio su cui si fondano, ma, senza accorgersene essi medesimi, lo suppongono; onde il principio, la base vera del sistema rimane sempre fuori del sistema; il che toglie loro l' esser sistemi. Così Plotino che descrive l' uscita di tutte le cose dall' Uno, e prima della Mente, poi dell' Anima o Mondo intelligibile, e finalmente del Mondo sensibile, non adduce alcuna ragione sufficiente per la quale i continui prodotti abbiano quel numero preciso d' anelli, e non più nè meno; e perchè l' Anima, a ragion d' esempio, s' esaurisca colle specie ultime, e perchè subito dopo ne esca il Mondo sensibile, e perchè tutto si fermi alla fine nella Materia. Ora qual è questo perchè? Certamente è questo che nella serie delle specie quando il nostro pensiero perviene a quelle che sono pienamente determinate (dette da noi specie piene, «Ideol. , n. 650 »), allora non sono più concepibili altre determinazioni, e quando si perviene alla materia, non si concepisce più nulla dopo di essa. Così appunto Plotino dice che la Mente ha in sè tutte le cose [...OMISSIS...] . Ora, in questo discorso, tutte le cose , [...OMISSIS...] , sono supposte dal sistema, e non ispiegate. Come dite voi che la Mente comprende tutte le cose, se non so ancora che ci sieno le cose, e che cosa importi questo tutte? Voi cominciate dall' abbracciarle tutte in una parola, e non fate difficoltà alcuna ad ammetterle, nè mi dite prima come sieno, o perchè sieno: e quindi la vostra filosofia parte da un tutto supposto. [...OMISSIS...] Ma che cosa è questo « tutto ciò che c' è di enti? » «pan ton onton». Voi non me lo dite: supponete sempre « tutto ciò che c' è di enti », quando sarebbe pur quello, che dovreste spiegare, e supponete di conoscerlo appieno pronunciando la sentenza che « tutto ciò che c' è di enti dee avere la sua operazione ». Appresso ancora viene questa sentenza: [...OMISSIS...] . Qui di nuovo si suppone conosciuto l' essere nel suo ordine intrinseco, e conosciuto tutto l' essere, e da questo presupposto, che è tutto il sistema, si trae il sistema, si decide che l' essere non può per sua natura fermarsi nell' intelligibile, benchè si abbia detto prima che nell' intelligibile c' è già tutto, che è possibile di farsi altro ed altro, che perciò quest' altro si dee fare, che ciò che si fa dee essere sempre un minore, e che essendovi l' anteriore, dee di conseguenza uscirne tutta la serie, fino all' ultimo anello che è la materia; senza mai dire perchè l' essere sia così fatto, e perchè l' ultima dell' essere sia la materia. Tutto il sistema dunque è basato sopra un sott' inteso, cioè sopra la natura dell' essere, che si suppone fatta in una data maniera, senza alcun esplicito esame, nè alcuna prova; e su questa supposizione poi s' argomenta a quello che di necessità deva fare l' essere, acciocchè risponda al sistema del filosofo. E tuttavia, benchè si tragga tutto dalla totalità dell' essere supposta in un modo supposto, si osa dire che c' è qualche cosa al di sopra e al di sotto dell' essere stesso! Ci ha dunque abuso di speculazione per mancanza di vera e compiuta speculazione. Finalmente stimo di non dover preterire del tutto la scuola de' Neo7platonici intorno alle derivazioni e partizioni dell' ente. Ella si può dividere certamente in più sˆtte, delle quali una fu quella de' Gnostici. Come furono divisi i Gnostici in due grandi classi, degli unitari cioè che derivavano ogni cosa da un solo principio, e dei dualisti , che ponevano due principŒ eterni: Iddio e la materia; così si potrebbero classificare anche i filosofi Alessandrini in generale (1). Lasciando noi i dualisti, si può compendiare in questo modo la teoria dei Neo7platonici unitari: « Tutte le cose, superiori ed inferiori, divine ed umane, eterne e temporali, fluiscono da un medesimo principio, e sono tenute insieme da un solo vincolo: le nature vanno compartite in diverse cerchie, secondo i gradi della loro eccellenza: le cerchie si allargano secondo l' imperfezione degli enti che contengono: l' infimo grado è occupato dalla materia ossia dal mondo sensibile: una cerchia più su stanno gli enti forniti di spirito e d' animo, quali sono le forze della natura, le anime, i demoni: superiormente a questi si trovano i generi delle cose intelligibili, ossia le idee: tiene il luogo supremo una tale natura, che abbraccia colla sua virtù, e collega in sè i generi tutti delle cose e le forze diffuse per l' universo. Tutte queste maniere di ente sono così distinte per natura come la mente nostra le concepisce distinte. « Causa di tutta questa piramide o piuttosto cono di enti è quella somma natura, che ne tiene la cima, dalla quale come da fonte emanano le cose riversandosi e cadendo da quello stato puro e divino in condizione più abbietta dalla regione intelligibile nell' umile e terrena feccia quasi sommerse. « Ora quella natura suprema, fonte dell' altre, contiene nel suo seno tutti i contrarii generi delle cose congiunti, avvincolati in uno, e indistinti: e però è uno e molti ad un tempo ( «en polla»), immoto e mobile, principio di natura e tuttavia natura perfetta e completa, dotato di mente e cotale, che in esso si stringono in uno il principio del pensare ( «o nus»), l' azione del pensare ( «noesis»), e il termine od oggetto del pensare ( «noeton»): la chiamano poi perfettamente ente ( «to pantelos on»), e per eccellenza l' intelligibile ( «to noeton»). Laonde, benchè questa natura sia una e tutta, può non di meno dividersi quasi in parti, ma non però separarsi ( «ameristos merizesthai»), ravvisandosi in essa l' ente uno ( «hen on») e i molti ( «plethos»), e il vincolo che lega l' uno co' molti. Così si rinvengono tre cose, i diversi generi, «ta polla», l' uno che li collega, «to on», la punta o supremo fastigio e fonte dell' universo, l' ente per sè, l' ente unico, che unicamente è «to on, monadikos on» »(1). Tutte queste cose i Neoplatonici le dicono più tosto sentenziando che ragionando, e più tosto come effati arcani che come dottrine esplicate. E questo è il carattere di tale scuola, opposto a quello della filosofia di Platone stesso. Perocchè il filosofare di questo grand' uomo è un continuo dialettizzare; quando ciò che si desidera nei libri de' nuovi Platonici è appunto quel far dialettico che analizzando e provando stringe. Quest' è forse difetto generale de' discepoli, i quali da' loro maestri si contentano di t“rre le conclusioni alleggerendosi della fatica de' loro ragionamenti, supponendo quelle provate: e così poscia si ripetono come affermazioni sorrette dall' autorità, non giustificate dalla ragione. Al qual modo di filosofare si diedero specialmente i filosofi Alessandrini pel gusto che trovarono nelle dottrine orientali, le quali non sono ragionate e dialettiche, ma autoritative, brevi e apoftegmatiche. Quindi ne' sistemi de' Neoplatonici manca il nesso delle sentenze, cioè si preteriscono quelle questioni che cercano come una cosa venga dall' altra, e che pur sono quelle sole che potrebbero dare alla dottrina luce e forza a persuadere. Manca dunque in tali sistemi quello appunto che per essi si cerca, e si ha diritto d' avere. A ragion d' esempio, quando i Neoplatonici dicono, avervi una natura suprema, la quale è uno e molti ad un tempo, immota e mobile, principio di natura e tuttavia natura perfetta, e in fine contenente tutti i contrari generi delle cose, avvincolati in uno ed indistinti, credono d' avervi bastevolmente ammaestrati. Ma il fatto sta, che ancor mancano interamente, non sono neppure accennate le questioni vitali che possono contenere qualche verace ammaestramento per noi. Perocchè queste questioni sono, come l' uno possa esser molti? come il mobile possa esser immobile? come ciò che è principio di natura possa esser la stessa natura? come i contrarii generi ed anzi le contraddizioni stesse possano giacere nell' ente medesimo semplicissimo? Queste questioni di somma importanza e difficoltà non si possono ammettere, non si possono evitare da un filosofo, come si eviterebbe da un debitore per via l' incontro di un creditore: ci si affacciano dappertutto importune con quel terribile - Come? in bocca: e se noi facciamo i sordi, o non rispondiamo per villania, restiamo puniti da noi stessi privandoci della sapienza filosofica che cercavamo. Che fanno adunque i Neoplatonici? Confessare aperto di non potersi spacciare da quelle questioni, sarebbe un andare troppo manifestamente contro il loro intento, che è quello di filosofare delle altissime cose. Essi dunque pigliano la via di mezzo, che è bensì più corta, ma non li conduce al termine: nè si propongono quelle questioni direttamente pigliandole a svolgere per disteso, nè le lasciano del tutto insolute; ma le risolvono per incidenza, e come a caso, sempre sentenziando invece che ragionando e deducendo. Trattasi, poniamo il caso, della questione Come l' uno sia i molti? Essi la risolvono dicendovi che « l' Uno scade dal suo « stato puro e divino in una condizione più abbietta », e così credono d' avervi pienamente soddisfatto. Ma chi mai non vede, che la difficoltà non è tolta con ciò, ma mutata in altra, e travasata di alcune parole in altre parole? Perocchè il difficile sta appunto qui nel sapere come l' uno, la natura prima e suprema, possa scadere dall' esser suo, e scadendo dall' esser suo non cessi di essere quello che è; come ella si possa trasformare, e tuttavia rimanere identica; come possa emanare di sè qualche cosa e tuttavia non diminuire; possa o parte di sè stessa o tutta sè stessa scendere a stato inferiore, e tuttavia nulla perdere di sua primitiva eccellenza. Ecco le questioni, che i Neoplatonici non risolvono: è sempre il gran problema dell' Ontologia che si affaccia per tutto, e che s' indura come diamante all' umano ingegno. Ma restringendosi a parlar solo delle categorie de' nuovi Platonici, essi le riducevano a tre, come vedemmo, cioè all' ente per sè, ai molti, e all' uno che legava ed identificava l' ente per sè ed i molti. Ora quel vincolo che lega l' uno e i molti rimane primieramente personaggio incognito, e però rimane incerto se possa fare una categoria da sè, o piuttosto appartenere ad un' altra categoria, per esempio, a quella de' molti: nè si vede qual vincolo possa avervi tra l' uno e i molti: che non sia egli stesso o uno o molti. D' altra parte i Platonici identificano l' uno coll' ente per sè, e così sono astretti a parlare dell' uno in due diversi significati, o come identico all' ente perfetto, o come vincolo dell' ente perfetto e dei molti. In secondo luogo l' uno non può costituire, propriamente parlando, una categoria; conciossiachè niuna cosa può essere se non è una, e però le cose tutte, niuna eccettuata, apparterrebbero alla categoria dell' uno. In terzo luogo i molti neppur essi possono dar nome ad una categoria; poichè o si parla de' molti presi singolarmente, e in tal caso ciascuno individuo è uno e non molti, appartiene alla categoria dell' uno, e non a quella di molti: o i molti s' intendono complessivamente, e in tal caso sono un complesso unico, che per la sua unità appartiene ancora alla categoria dell' uno. Se poi i molti si considerano ad un tempo nell' unico loro complesso e negl' individui che il formano; allora la parola molti non significa che quella relazione di somiglianza che hanno più singoli individui, onde dànno l' idea di numero; e così a questa categoria non apparterrebbero che le relazioni di somiglianza, per le quali si classificano gli enti, le quali relazioni di somiglianza non possono classificare una classe di enti, una categoria, ma piuttosto sono il fondamento di tutte le classi. Se poi per molti s' intende quella moltiplicità che si trova nel medesimo ente; neppur questa può costituire alcuna categoria, almeno se non si determina la natura di questa moltiplicità; e il determinar questa natura è di quelle questioni appunto che si trapassano dai nostri filosofi, quando dovrebbero in esse porre ogni sforzo d' ingegno. E veramente se si parla d' una moltiplicità qualunque, egli è indubitato, che ogni ente ha qualche moltiplicità: e, come la fede pone tre persone nello stesso Dio, così la ragione non può dimostrare in ciò alcun assurdo. Onde per nessun verso l' ente uno e il molti dei Neoplatonici possono pigliarsi per vere categorie. L' affinità e continuità delle sentenze ci persuase che riuscirebbe più naturale e facile la nostra esposizione raggiungendo Plotino a Platone. Ora dobbiamo tornare ad Aristotele, che esige una speciale attenzione. Aristotele è indubitatamente il più grande tra i discepoli di Platone, e se non lo arriva per elevatezza di mente, non gli sta addietro per sottigliezza, ed ha il merito grandissimo di avere ridotta a scienza la sillogistica «( Logic. , n. 26) », e d' averci lasciato de' libri, o de' commentari su tutte quasi le parti della filosofia. Sono ben lontani per lo più cotesti scritti aristotelici d' esser condotti, come si crede da molti, con un ordine rigorosamente scientifico. Anzi essi sottintendono sempre la scuola vocale (2), e per lo più disputano di questioni che dovevano esser vivissime a quel tempo tra i discepoli di Platone: questioni che talora conviene indovinare, per bene intendere a che miri e che voglia dire Aristotele, e in che stia la forza de' suoi ragionamenti. Nondimeno l' estensione e la varietà delle materie toccate nelle diverse opere di Aristotele, e l' aver egli approfittato di tutti i suoi predecessori, massimamente delle dispute che ebbero luogo nella scuola di Platone, ci consigliano ad esporre il suo sistema alquanto più copiosamente che non abbiamo fatto co' precedenti. L' ente può essere considerato in sè stesso, secondo che viene appreso in diversi modi e dalle diverse facoltà dello spirito umano, e secondo che è significato nel linguaggio. Quindi si presenta una triplice partizione dell' ente, verbale, dialettica e fisica . I filosofi precedenti a Platone, come i Pitagorici, privi ancora della dialettica e della logica, o avendola solo com' arte, non come scienza, non poterono accorgersi di questa triplice classificazione, e però le loro categorie altro non furono che certe classi, nelle quali l' ente alla rinfusa si prende ora sotto un aspetto ora sotto un altro. A Socrate e a Platone è dovuta principalmente la Dialettica e Logica riflessa e scientifica. Ma come l' entusiasmo, che suole accompagnare ogni invenzione, esagera ciò che s' inventa, la novità della vista rapendo quasi estatica a sè la mente; non è meraviglia che in Platone la Dialettica e la Logica traessero a sè ed assorbissero tutta la filosofia. Le categorie così divennero una classificazione ristretta agli enti ideali e mentali, e l' ente reale non ebbe in esse l' importanza che gli è dovuta. Quindi non pare del tutto aliena dal vero la critica che Aristotele fa a' filosofi più recenti (e vuol alludere certamente a Platone), là dove osserva, che essi [...OMISSIS...] . Ma seppe poi Aristotele stesso andare immune da una censura, se non uguale, simile a quella che egli fa al suo maestro? Certo, egli pose molta attenzione nella necessità di trovare una causa al moto, che non si poteva trovare nelle pure idee: e quindi, facendo un passo indietro, l' accompagnò agli antichi, che non separavano le idee da' reali, come dice egli stesso (1), e in questi soli vedevano le sostanze. Ma rivolgendosi alla considerazione de' reali, quasi abbandonati da Platone, disconobbe in parte la natura delle idee o specie, che rinchiuse nè reali, benchè finiti; e, rispetto a questo, cadde nell' eccesso contrario a quello che egli attribuisce a Platone. Di poi, riducendo a forme scientifiche la Dialettica del suo maestro, empì la filosofia d' entità di ragione , e a una classificazione di queste si riducono le sue categorie. Come dunque Platone diede un' attenzione troppo esclusiva alle idee , così Aristotele la diede pure troppo esclusiva alle entità mentali: e però nè l' uno nè l' altro uscirono bastevolmente, colla meditazione filosofica, dalla mente umana. La realità dell' ente finito nondimeno prende in Aristotele un posto alquanto più importante che in Platone. Sebbene dunque nè pure in Aristotele sieno tenute costantemente distinte le tre partizioni dell' ente sopraccennate, tuttavia confusamente ci appariscono; e però noi raccoglieremo da' libri di questo filosofo, e distribuiremo a parte, quello che a ciascuna di esse appartiene. Coglieremo quest' occasione altresì per fare su ciascuna di esse delle riflessioni non solo v“lte a distinguere quello che ci sembra inesatto, ma a perfezionare anche quello che ci sembra esatto e vero: il che ci risparmierà il dover ripetere le stesse cose altrove. Quando il linguaggio esprime fedelmente e senza equivoci i pensieri di chi parla, allora la partizione dialettica dell' ente e la partizione logica sono la medesima. Ma quando il linguaggio induce nell' animo altri concetti da quelli che naturalmente e logicamente si dovrebbero avere delle entità che vengono espresse, o connessi altrimenti, allora si manifesta la necessità di far notare nell' uso delle parole tutti que' casi, ne' quali i concetti e i pensieri umani non sono significati dalla lettera; al qual fine Aristotele scrisse i due libri « Dell' Interpretazione ». Egli trattò ancora più ampiamente la parte dialettica nei quattro libri che abbiamo sotto il titolo d' « Analitici », i quali risolvono gli argomenti nelle legittime loro forme sillogistiche, e si dividono in priori e posteriori . Noi non abbiamo bisogno di fare qui l' analisi di tali libri, che non si limitano solamente a dimostrare quando il linguaggio generi nella nostra mente nuove maniere di concepire e di connettere le entità, difformi da' concetti e dalle connessioni naturali; ma svolgono altresì tutte le fallacie delle argomentazioni: su di che questo filosofo ritorna in altri scritti ancora. All' uopo nostro ci limiteremo ad accennare quanto egli tocca in principio all' opera de' « Predicamenti » o Categorie; poichè qui egli incomincia ad avvertire appunto que' principali modi, nei quali il linguaggio devia dal rendere i precisi concetti della mente; onde se non si correggono coll' arte d' interpretarlo, facilmente si pigliano da esso concezioni assurde e nessi inestricabili; il che renderebbe impossibile la soluzione del problema ontologico. Questo esige prima di tutto che si dissolvano gli enti fattizi, di cui la ragione sufficiente sta appunto nella fattura e nella composizione che si genera nella mente a cagione del segno esterno. Osserva dunque Aristotele che le essenze (1), significate da nomi comuni, or sono della stessa, ora di altra natura: i primi nomi li chiama univoci ( «synonyma»), i secondi equivoci ( «omonyma»). Così il nome animale in quant' è comune all' uomo e al bruto è univoco, perchè significa la stessa essenza, l' animalità: ma il nome uomo , in quant' è applicato ad un uomo vero e ad un uomo dipinto, è equivoco, perchè il solo nome è comune, ma i concetti significati sono diversi (1). Dove si vede che l' essere un nome univoco od equivoco non appartiene al nome in se stesso, ma all' applicazione e all' uso che se ne fa. Di che avviene, che lo stesso nome si adoperi ora univocamente , ed ora equivocamente (2). Cadrebbe dunque in errore colui che, dall' unità soltanto del nome che si dà a più essenze, inducesse l' unità dell' essenza o del concetto; come cadrebbe in errore colui che inducesse la pluralità delle essenze o de' concetti da più sinonimi. Una dunque delle prime regole logiche ed ontologiche deve esser quella di ridurre, prima di tutto, il discorso al suo vero significato, di spogliare i concetti e gli enti dalle vestimenta delle parole, figgendo la mente in quelli anzi che in questi ( Logic. , n. 972). Il non aver fatto questo abbastanza, fu sempre la rovina della dialettica, degenerante in sofistica, tostochè essa, invece di attenersi a' concetti, si legò co' denti alle parole, prendendole per altrettanti concetti: e l' uggia che s' era messa di maneggiar quest' arme delle forme verbali non solo in assalire, ma ancora in difendere il vero, scemò forza a' difensori, e l' accrebbe agli assalitori. Nomi equivoci adunque, ovvero omonimi , si dicono quelli che s' accomunano a due essenze o a due concetti diversi. Gli Scolastici osservarono che, tra' nomi comuni a concetti diversi, alcuni sono tali che s' accomunano a concetti che non hanno alcun ordine o rispetto tra loro, altri a concetti che hanno qualche ordine o rispetto tra loro. A' primi lasciarono la denominazione di nomi equivoci , ai secondi diedero la denominazione di nomi analogici . Ma, ogniqualvolta un nome fu trasportato ed esteso dall' uso da un significato ad un altro, i concetti significati da quel nome hanno sempre tra loro qualche ordine o rispetto; e lo stesso esempio che arreca Aristotele de' nomi equivoci, cioè della voce uomo applicato all' uomo vero e all' uomo dipinto, segna due concetti che hanno similitudine nella forma e nel colore, benchè non così nella essenza significata dalla parola uomo . Ciò non può avvenire se non rispetto a que' nomi che casualmente significano cose diverse: per esempio, esse che vale essere ed anche mangiare; jus che vale diritto ed anche brodo , ecc.. Onde i greci filosofi distinsero i nomi equivoci primieramente in due classi, nell' una riponendo quelli che sono tali a casu , nell' altra quelli che sono tali a consilio . E così anco S. Tommaso chiama puramente equivoci quelli che sono tali per caso, e non quelli che sono equivoci per consiglio degl' imponitori (1). Questi ultimi senza distinzione vengono detti analogici dagli Scolastici. I filosofi greci divisero gli equivoci a consilio in tre classi: I Quelli, la cui denominazione comune esprime varie loro relazioni di dipendenza con uno stesso oggetto a cui primieramente spetta il nome [...OMISSIS...] . Così si dirà rodente tanto una sega, quanto un torrente, per la relazione di similitudine che entrambi hanno coll' atto del rodere; II Quelli, la cui relazione comune esprime varie relazioni di ordine ad un fine od effetto [...OMISSIS...] . Così si dirà medicinale tanto una radice, quanto uno stromento, o un esercizio, perchè ciascuna di queste tre cose sono ordinate all' effetto di restituire la sanità; III Quelli, la cui denominazione è comune a ragione della proporzione che hanno tra loro, e questi sono quelli a cui gli antichi riserbarono il nome di analogici (2), come si può vedere presso Ammonio e Simplicio, dove espongono la definizione dei nomi equivoci data da Aristotele (1). Così la denominazione di piede data al piè dell' uomo e al piè del letto, osserva Ammonio, è analogica; perchè il piè del letto sta al letto, come il piè dell' uomo all' uomo, cioè a dire l' uno e l' altro sono nella parte inferiore e servono a sostenerlo (2). Pure il restringere la parola analogia al semplice significato di proporzione, fa sì che rimane imperfetta la classificazione dei nomi equivoci. La primitiva origine di quella parola ha un significato più ampio della latina parola proportio; e se fu ristretto a indicare proporzione, anche in questo vocabolo, come in tanti altri, rimase imperfetta la lingua filosofica. E veramente la proporzione non appartiene che alla quantità, ed è determinata; l' analogia si rinviene anche tra le qualità, e le essenze, e le sostanze stesse, a tale che non si può determinare. E però il parlare dell' analogia, movendo unicamente dalla proporzione che passa tra diverse quantità e ragioni di quantità, fa sì che la parola analogia non convenga più in senso proprio e rigoroso a que' ragionamenti, che trattano delle cose spirituali, e massimamente delle divine, in cui non cade la quantità; ovvero che volendola a ciò usare si trasportino nel discorso ontologico i concetti limitati tolti all' estensione, allo spazio, ed al tempo. Laonde noi crediamo che si deva rendere più esatto e perfetto il linguaggio riguardante la classificazione de' nomi comuni; e che ciò si ottenga classificandoli in questo modo: Classificazione de' nomi comuni . I Classe . - Nomi comuni presi in senso proprio, e significanti un' unica essenza, applicabili a più individui, i nomi univoci (1); II Classe . - Nomi comuni presi in senso proprio, e significanti più essenze per puro accidente, essendo stati imposti ad una essenza senza riguardo all' altra, onde significano ciascuna essenza in senso proprio. Così Tigri significa il fiume, e significa anche animali feroci. Quando si dice Tigri per significare il fiume la parola è usata in senso proprio; quando si dice tigri per significare animali feroci, la si dice pure in senso proprio, senza alcuna considerazione al fiume di questo nome: aequivoci a casu; III Classe . - Nomi comuni imposti a più essenze diverse a bel consiglio, acciocchè col richiamare alla mente una di quelle essenze più note, udendosi il nome imposto all' altra meno nota o men vivamente conosciuta, questa s' intenda meglio per via di quella. Traslati, aequivoci a consilio . Ora quest' ultima classe è quella che importa diligentemente suddividere; e noi crediamo di poterne fare sei generi de' nomi metaforici, metonimici, causali, effettuali, proporzionali ed analogici . Egli è mestieri definire il carattere di tutte queste maniere di nomi traslati. 1 GENERE - Nomi metaforici . - Restringiamo questa denominazione a que' nomi che esprimono una qualche entità sensibile o vivamente conosciuta, e che si trasportano a significare una simile entità in altro subietto, dove la stessa entità trovasi in grado inferiore meno sensibile, affine di render questa più viva ed esagerarla. Così di un uomo sagace si dirà che ha uno sguardo acutissimo, trasportando l' entità dello sguardo acuto proprio dell' occhio corporeo ad una simile qualità che è nell' intendimento; perchè quella qualità, essendo più nota e viva perchè sensibile, aiuta a fare intendere la qualità dell' intendimento non sensibile, e però non vivamente conosciuta. Le metafore sono suggerite all' uomo dalla facoltà d' imaginare, e da quella legge del pensare umano, per la quale l' uomo vuole rendere a se stesso sensibili e vestire d' imagini le idee. I detti nomi applicati a significare sì un' entità in senso proprio e sì una entità in senso metaforico e rappresentativo, diconsi usati equivocamente a bel consiglio. 2 GENERE - Nomi metonimici . - Sotto questa denominazione comprendiamo tutti quelli, co' quali, volendo richiamare alla mente altrui un' entità, invece di indicarla col suo proprio nome, la indichiamo con un altro, che non esprime cosa simile come fa la metafora, ma tale però che per mezzo di essa incontanente soccorre alla mente altrui l' entità che vogliamo esprimere, principalmente coll' aiuto del contesto del discorso. Quindi diciamo or la parte pel tutto, ora una qualità per una sostanza, e viceversa una sostanza per una qualità, ora il contenente pel contenuto, ora un indizio o segno qualunque arbitrario, bastevole, pel contesto del discorso, a risvegliare nella mente ciò che vogliamo. Le metonimie sono suggerite all' uomo dalle facoltà dell' associazione delle idee, e da quella legge per la quale colui che parla è mosso a dire il menomo possibile per ottenere d' essere inteso, il che è anche un fonte dell' eleganza del discorso, e chi ascolta ama quell' eleganza, nè vuole udir tutto espresso, ma trovare qualche cosa da sè, e così non fare meramente il passivo, ma l' attivo. Le metonimie e le metafore s' uniscono talora in una sola parola, a ragion d' esempio il chiamare tigre un uomo crudele involge una metonimia, pigliandosi la tigre per esprimere la sua qualità d' esser crudele, ed una metafora venendo applicata ad uomo. I vocaboli adunque applicati ad un oggetto in senso proprio e ad un altro in senso metonimico, sono una seconda classe di nomi usati equivocamente a bel consiglio. 3 GENERE - Nomi proporzionali . - Questi sono quelli che gli antichi chiamavano analoghi , presa la parola analogia in senso ristretto per proporzione (1); ma poichè la proporzione non è che una speciale convenienza che si trova nelle quantità e ne' numeri, perciò è da separare questa specie di convenienza dalle altre, che verranno appresso; senza di che non si riuscirebbe giammai ad avere un linguaggio preciso applicabile alle cose divine. A ragion d' esempio, il definire gli analoghi per quelle cose che hanno proporzioni simili, e poscia il dire che la scienza si predica di Dio e dell' uomo analogicamente, riesce un favellare inesatto. Perocchè non è mica vero che quella proporzione che ha la scienza dell' uomo all' uomo, l' abbia pure la scienza di Dio a Dio; giacchè la scienza dell' uomo sta all' uomo come un abito al soggetto, quando la scienza di Dio sta a Dio con relazione d' identità. Noi diremo dunque proporzionali i nomi in quanto s' applicano ad oggetti di diversa natura, per cagione della ugual proporzione che ha ad essi ciò che loro s' attribuisce. Così quando diciamo il piè dell' uomo, e il piè dell' albero, o del monte, o del letto; noi abbiamo usato lo stesso nome a indicare più cose aventi la stessa proporzione ai subietti, di cui si dicono. I nomi proporzionali si possono pigliare come una suddivisione di metaforici, ma meglio si distinguono da essi per questo: che i metaforici così si chiamano, perchè sono nomi di cosa più nota e vivamente conosciuta applicati a significar cosa simile, ma men nota; laddove i nomi proporzionali non si fondano nella semplice somiglianza , ma nella somiglianza o uguaglianza di proporzione . 4 GENERE - Nomi effettuali . - Così chiamiamo quelli, che esprimendo il nome d' una causa, si applicano a significare un effetto. Così si dice un « uomo sano », e si dice pure una « cera sana », per dire che quella cera è tale, che apparisce come effetto, e quindi indizio, della salute che gode l' uomo. Questi nomi, appartenenti in senso proprio alla causa, ma applicati a significare l' effetto, sono quegli che gli antichi dicevano equivoci ab uno . I nomi effettuali si possono pigliare come una suddivisione de' metonimici, ma meglio si distinguono per questo, che nella metonimia si pone la causa per indicare l' effetto unicamente come un segno di questo, senza che sia espressa nel vocabolo la relazione. Così quando i latini chiamano Bacco il vino, e Cerere il pane, non esprimono mica con ciò che il vino sia invenzione di Bacco, o le biade di Cerere. Ma dicendo sana la cera d' un uomo, si fa intendere la relazione di questo effetto colla sanità che n' è la causa, e però senza conoscerne la causa non si può intendere il vocabolo; laddove si può sapere che pieno di Bacco, vuol dire pieno di vino, ignorando chi sia stato Bacco, e che abbia fatto, essendo un nome proprio, non avente, come tale, relazione al vino. 5 GENERE - Nomi causali . - I vocaboli acquistano questa appellazione, quando si vuol esprimere la causa, e lo si fa applicandole il nome dell' effetto. Così dicendo sano l' uomo, e sano il cibo o la medicina, il vocabolo sano è usato equivocamente: perchè applicato all' uomo è in senso proprio; e s' applica al cibo, o alla medicina, perchè la medicina o il cibo è cagione della sanità che è nell' uomo. La qual maniera di predicazione equivoca è quella, per la quale i greci filosofi dicevano tali nomi equivoci ad unum . Anche questi si possono pigliare come suddivisione dei metonimici; ma è da fare un' osservazione simile alla precedente, cioè si possono distinguere da' puri metonimici in questo: che, per essere un nome metonimico, basta che esprima la causa per via dell' effetto come un segno o indizio di lei, senza che nell' applicazione del nome sia espressa la relazione dell' effetto alla causa, laddove i nomi causali esprimono questa relazione, nè si possono intendere senza conoscerla. Così dicendosi, che viene punito il delitto , o premiata la virtù, si prende il delitto e la virtù pe' delinquenti o pe' virtuosi, e questa relazione è compresa nel contesto del discorso. 6 GENERE - Nomi analogici o indeterminatamente proporzionali . - Riserbiamo questa denominazione a que' nomi, i quali in senso proprio significano qualche cosa che positivamente conosciamo, e che si trasferiscono a qualche cosa che conosciamo negativamente, a cagione delle relazioni che la cosa cognita ha coll' incognita con una certa proporzione che non si può determinare, o che è del tutto indeterminabile. Così il cieco applica i vocaboli tolti dalle sensazioni dell' udito a favellare de' colori; e il suo discorso ha qualche cosa di vero, riferendosi all' effetto, in qualche modo simile che producono nell' animo umano o d' allegrezza, o di tristezza certi suoni e certi colori. L' analogia dunque si fonda su tutte quelle relazioni che possono cadere ed esser da noi conosciute tra le cose, di cui abbiamo cognizione e percezion positiva, e le cose, di cui non abbiamo che cognizione ideale negativa. Raccogliere tutte queste relazioni accuratamente e classificarle condurrebbe a distinguere le diverse specie di analogia, e di nomi analogici. Ma quello che sommamente importa, e che non vogliamo qui trapassare, si è il distinguere con accuratezza le due principali specie di analogia, di cui favelliamo; perocchè ci bisogna distinguere queste due specie a spianarci il cammino per favellare esattamente delle cose divine. Convien dunque osservare, che, quando noi applichiamo un vocabolo agli oggetti positivamente conosciuti, possiamo con questo vocabolo significare due maniere di cose: 1 possiamo significare tal cosa dell' oggetto conosciuto, la quale non appartiene all' essenza dell' essere stesso assoluto: per es., il colore od altra cosa materiale per nessun modo appartiene a tale essenza; 2 e possiamo significare tal cosa, che per via d' argomentazione intendiamo dover appartenere all' essenza dell' essere assoluto, poichè altramente tal essere ci riuscirebbe manchevole, ma non sappiamo in che modo le appartenga. Così la scienza, la potenza, la bontà, ecc., bene intendiamo, che devono appartenere all' essere assoluto, giacchè un essere che fosse privo di tali pregi sarebbe imperfettissimo, e però non pieno nè assoluto. Ma quantunque tali vocaboli esprimano doti e pregi dell' essere stesso assoluto, tuttavia non ce ne formiamo il concetto positivo, se non in quanto vediamo realizzate quelle doti, pregi, o qualità in esseri limitati, che cadono sotto la nostra percezione, cioè negli uomini. E poichè il positivo della cognizione si trae unicamente dalla percezione, perciò la parte positiva della cognizione che noi aver possiamo della scienza, della potenza, della bontà, ecc., è limitata a quel modo nel quale tali doti sono partecipate dall' ente finito umano, e quindi anche i vocaboli, che le esprimono, non significano quel modo di essere che tali doti hanno nell' essere assoluto, ma quel modo di essere che tali doti tengono nell' uomo, in cui solo si percepiscono. Di che avviene, che così fatti vocaboli, applicati alla Divinità, sono inetti ad esprimerne adeguatamente la natura, appunto perchè i concetti positivi, che significano, sono tratti da cose contingenti e limitate; onde si dice che tali qualità si predicano di Dio analogicamente . Quelle cose adunque che conosciamo positivamente, ma che sono tali che non appartengono alla natura dell' essere assoluto, non si possono predicare di Dio analogicamente, ma solo metaforicamente (1), come accade quando si attribuiscono a Dio il volto, le mani od i piedi. Ma quelle cose che di natura loro s' intende dover appartenere all' essere assoluto, queste si attribuiscono a Dio analogicamente a cagione della limitazione in cui tali cose sono dall' uomo percepite. Si distingua adunque in così fatti pregi la cosa , dal modo della cosa . La cosa, in sè stessa considerata, è assoluta ed infinita; ma il modo, nel quale l' uomo la vede, è limitato e finito: la cosa adunque si predica di Dio veramente; ma il modo, con cui l' uomo la percepisce, si predica di Dio solo analogicamente. E poichè l' uomo non può svestire interamente la cosa dal modo limitato, nel quale la percepisce, senza che gliene venga meno il concetto positivo; perciò si dice in generale, che tali doti e pregi sono predicati di Dio analogicamente. Sei adunque sono le predicazioni traslate: la metaforica, la metonimica, la proporzionale, l' effettuale, la causale e l' analogica. Alcuni latini scrittori della scuola, come dicevamo, compresero tutti questi sei generi, che appartengono all' equivocazione detta a consilio , sotto il titolo di predicazione analogica. All' incontro i commentatori greci d' Aristotele riservarono il titolo di analogici al solo terzo genere di nomi, quello de' proporzionali. Questa discrepanza di linguaggio generò confusione nelle dispute, delle quali le scuole si trovarono infine stanche e svogliate. Classificando accuratamente le diverse specie di predicazione, come abbiam tentato di fare, s' appiana la via necessaria per arrivare ad intenderci. E` ancora da avvertire, che ogni nome ha un primo ed unico significato, cioè significa una sola essenza applicato agli individui della quale esso ha un senso univoco; ed è questo che poi si trasporta a significare altro, e diviene equivoco a consilio, ossia traslato (2). Si dee dunque distinguere l' equivocazione traslata del vocabolo proprio e trasferito ad altro oggetto, dall' equivocazione traslata del vocabolo relativamente a' diversi oggetti, a cui significare fu trasferito. Nel primo caso i due oggetti significati, l' uno in senso proprio, l' altro in senso traslato, hanno un ordine tra loro, come a ragion d' esempio nel vocabolo ente applicato alla sostanza ed all' accidente; nel secondo caso i due oggetti, significati entrambi traslatamente, non hanno un ordine espresso dal vocabolo, ma hanno un ordine ad un terzo oggetto a cui si riferiscono, come il vocabolo ente applicato a più accidenti. Chiameremo i primi equivoci diretti , i secondi equivoci laterali . Negli uni e negli altri si dee distinguere la prima essenza a cui appartiene il vocabolo in senso proprio: ne' primi equivoci diretti si paragona questo significato proprio co' significati traslati; negli equivoci laterali il vocabolo in senso proprio è supposto, e si paragona i diversi traslati tra loro. Benchè questa doppia maniera di equivocazione abbia luogo in tutti i sei generi, tuttavia noi parleremo solo dell' analogia . Il nome della essenza in senso proprio paragonato co' suoi analoghi si può chiamare analogante , e i nomi delle essenze che hanno con essolei analogia, si possono chiamare analogati . Quindi la prima specie degli analoghi abbraccia l' analogante coll' analogato; e questa analogia non corre che tra due soli termini: la seconda specie degli analoghi è quella che abbraccia più analogati, escluso l' analogante; e questi analogati non si restringono a due, ma possono esser più indeterminatamente (3). Si può dire che nelle mani di Aristotele ogni partizione dell' ente sia logica, perchè anche allora che lo considera e parte fisicamente, lo riferisce sempre agli atti e alle forme cogitative. La scienza, a cui Aristotele pose più attenzione, è quella di predicazione; trascurò alquanto quella d' intuizione , di cui s' occupò cotanto Platone. Si può forse dire che di qui provengano le differenze che si osservano tra quelle due filosofie, delle quali differenze parleremo in appresso. Il principio, secondo il quale Aristotele divide costantemente l' ente, è l' analisi della proposizione. Egli aveva acutamente osservato che tutti i verbi, che s' adoperano nelle proposizioni, si possono sempre ridurre al verbo essere, riuscendo al medesimo il dire: « quest' uomo cammina o è camminante », e si dica il medesimo d' ogni altra proposizione (1). Predicandosi dunque sempre l' essere in tutte le proposizioni, credette che queste potessero somministrare ogni partizione dell' essere. Aristotele dunque accintosi all' analisi della proposizione, ossia della predicazione, distinse tre cose: 1 Il modo con cui si predica, ossia la natura del subietto considerato in relazione col predicato; 2 La cosa o entità che si predica; 3 Il valore della copula, che è la predicazione stessa. I Circa il modo con cui si predica, Aristotele distinse l' essere che si predica per accidente , [...OMISSIS...] , dall' essere che si predica per sè , [...OMISSIS...] . Ma queste espressioni non hanno tutta l' esattezza logica: al predicarsi una cosa di un' altra per sè corrisponde il predicarsi una cosa di un' altra per un' altra, cioè per una ragione ad essa straniera; e il predicarsi una cosa di un' altra sostanzialmente o essenzialmente corrisponde al predicarsi accidentalmente (3). A ragion d' esempio dicendosi d' un uomo che è musico, la qualità, benchè accidentale, d' esser musico appartiene all' uomo come uomo, e quindi per sè; all' incontro dicendosi d' un musico che è giusto, la qualità accidentale d' esser giusto non appartiene per sè al musico, cioè al musico in quant' è musico (in senso diviso), ma al musico in quant' è uomo (in senso composto, « Logic. , p. 101 »), e però gli appartiene per un altro, aliena vi . Dicendosi poi « colui che ride è uomo », la qualità d' esser uomo appartiene all' ente che ride, essenzialmente , ma non gli appartiene per sè , ma per un altro, cioè per la connessione che ha il ridere coll' essenza dell' uomo; poichè la ragione fisica per cui ride è l' esser uomo, e non viceversa; se non in una relazione dialettica, in quanto che il concetto del ridere inchiude quello di uomo. Altro è dunque il predicarsi per accidente , altro il predicarsi per altro: il predicarsi per accidente, è quando « il predicato è un accidente del subietto ». Ma questo predicato accidentale può convenire al subietto per sè, e può convenirgli per un altro: gli conviene per sè , se è un accidente di quel subietto preso questo in senso preciso; gli conviene per un altro, se non convenendo al subietto in senso rigoroso e preciso, conviene però a ciò che involge il subietto, per esempio, al subietto in senso composto, come denominazione d' un altro; o al subietto accidentale, come quello che suppone e richiama la sostanza. Del pari, altro è predicarsi essenzialmente ed altro è predicarsi per sè. Si predica essenzialmente, quando il predicato costituisce tutto o parte dell' essenza del subietto; e questo in due modi, poichè: 1 o il subietto è reale, e allora il predicato è un equivalente; 2 o il subietto è dialettico, e allora il predicato non è un equivalente del subietto in senso preciso, ma del subietto in senso composto, nel qual caso può il predicato essere una sostanza o un subietto reale, come: « chi ride è uomo »; e dicesi anche predicarsi sostanzialmente , e risponde alla terza maniera di predicazione accidentale degli Scolastici. Questi quattro modi dunque di predicazione si devono accuratamente distinguere (1). II Ora la predicazione per altro è posteriore alla predicazione per sè: onde, volendosi enumerare i primi generi de' predicati, che così intende Aristotele le Categorie, queste sono da lui chiamate predicamenti per sè. Ma egli confonde manifestamente il predicarsi accidentalmente , e il predicarsi per altro , come dicevamo. Poichè, dopo aver distinti i tre modi di predicazione per accidente [...OMISSIS...] . E a queste otto, nel libro delle categorie, aggiunge le due altre dell' essere situato e dell' avere , con che le categorie diventano dieci, e considera questi dieci predicati per sè, senza congiunzione [...OMISSIS...] . Apparisce dunque dalle stesse parole d' Aristotele: 1 Ch' egli colle dieci categorie intende classificare « le cose che si dicono »( «ta legomena»), come indica anche il nome di categorie o predicazioni. Ma poichè queste possono esser considerate come predicati, e come tali già congiunti con subietto, ( «ta kategorumena»); ovvero considerate sciolte, l' una a parte dall' altra, in quest' ultimo modo considerate, le chiama «kategoriai». 2 Che queste indicano altrettanti modi di essere: onde Aristotele non classifica veramente con esse gli enti, nè i principii degli enti, ma i modi più generici dell' ente (2). 3 Che esse significano i predicati che convengono all' ente per sè , e non per altro; di maniera che l' essenza sostanziale, il quanto, il quale, la relazione, convengono all' ente per la sua propria virtù, e non per una virtù straniera all' ente; il che avverebbe, se il quale si predicasse del quanto o del relativo. Così l' essere un ente grande o piccolo non conviene all' ente per sè, ma all' ente che è quanto è (3). Che dunque i predicabili significhino lo stesso essere in dieci modi diversi, questo s' intende. Ma anche qui Aristotele lascia da parte la cognizione intuitiva dell' essere, e tutto deriva da quella di predicazione . Ora l' essere è prima della predicazione, ed egli si divide indipendentemente da questa. Le dieci Categorie sono dieci idee che s' intuiscono, e intuite si predicano. Quando si predicano, sono già divise. Ma per Aristotele prima sono predicati, e poi astratti, benchè di natura sua dichiari anteriore la specie alla materia. Astratti poi non può ancora Aristotele contemplarli così semplici nella loro oggettività (1): li considera dunque come subietti di cui si predica in diversi modi l' essere. Il riconoscere nondimeno che sono « essere per sè », è lo stesso che confessare che non ricevono l' essere dall' atto della predicazione, e questo assegna loro un luogo elevato simile a quello che avea destinato loro Platone. Se dunque si considerano le Categorie come semplici ed incomplesse, [...OMISSIS...] , altro non presentano che una classificazione, benchè imperfetta, dell' essere ideale. Ma egli vuol considerare sempre gli universali nei singolari , poichè per lui questi soli sussistono: quindi i suoi universali doveano essere di loro natura predicabili , chè solo per via di predicazione le specie s' apprendono congiunte alle cose reali. Pure quest' operazione della mente, che si chiama predicazione , non produce punto le specie o le essenze ideali, ma non fa che usare di queste. Queste dunque sono prima idee o intelligibili, e di poi predicabili. Onde coll' aggiungere la predicazione, altro non si fa che guastare il concetto di esse idee, confondendolo con qualche cosa di soggettivo non appartenente alla natura della medesima. Di più: questa mescolanza dell' operazione soggettiva della predicazione colle idee non è necessaria, nè pure secondo il sistema d' Aristotele; poichè, sebbene egli nega l' esistenza dei generi in sè, ammette però che esistano da sè soli e separati dalla materia nella mente: e questo basta, perchè se ne possa parlare come d' intuiti, senza mescolarvi nulla di soggettivo. III La terza cosa che distinse Aristotele nelle proposizioni, si è il valore della copula, che si riduce sempre al verbo E`. Questo verbo dunque secondo Aristotele: a ) Può significare tanto che ciò che si predica sia in potenza, quanto che ciò che si predica sia in atto. Da questo trae la distinzione dell' essere in potenza e dell' essere in atto: e questa partizione dell' essere l' applica alle Categorie , che è quanto dire a tutti i predicabili. [...OMISSIS...] Con questo riconosce che il possibile e il sussistente è essere egualmente, e, come altrove dice, il medesimo essere; e che le Categorie per conseguente appartengono ugualmente all' ordine delle cose possibili ed ideali, e all' ordine delle cose sussistenti o reali. b) Essere od è , può significare ancora il vero; come non essere o non è il falso: [...OMISSIS...] . L' essere nel significato a ) afferma (o nega) qualche cosa in sè: l' essere nel significato b ) afferma qualche cosa nella mente; poichè il vero e il falso esiste, secondo Aristotele, soltanto nella mente. Col primo di questi due significati del verbo E` si pone qualche cosa in fatto come quando si dice « l' uomo è un animale »; coll' altro non si pone nulla in fatto, ma si esprime solamente che è vero o falso ciò che si afferma, come: « Colui è cieco », che viene a dire esser vero che colui è cieco; benchè col predicare la cecità non si ponga nulla in fatto, anzi si tolga un' entità positiva, qual è il vedere. Quindi la divisione celebre presso gli Scolastici dell' ens extra animam , e dell' ens in anima (3). S. Tommaso dichiara, secondo la mente di Aristotele, questi due significati del verbo E`, così: [...OMISSIS...] . Ma come avvien egli che il verbo E` possa significare la verità della proposizione, a ragione d' esempio, che nella proposizione: « Quest' uomo E` cieco », il verbo E` possa aver forza, come se si dicesse: « E` vero che quest' uomo E` cieco? ». Poichè la proposizione, così ridotta, altro non fa che introdurre due volte il verbo E`, e tutte e due le volte non può significare la verità della proposizione; chè in tal caso, nel risolverne il valore, si dovrebbe formare una proposizione, che andrebbe all' infinito, sostituendo al verbo E` l' equivalente « E` vero », venendosi a dire: « E` vero che E` vero, che E` vero, ecc. »; e senza venir mai all' ultima particola della proposizione « E` cieco ». Dunque in questa ultima particola il verbo E` non significa E` vero; ma significa l' affermazione di un non7ente. Non si può adunque rendere ragione di tali affermazioni, se non si parla della facoltà che ha lo spirito di affermare; e se non si dimostra che l' affermare non è un costituire un oggetto, ma è un disporre il soggetto intelligente in un dato modo verso un oggetto dato dall' intuizione. E questa disposizione e atteggiamento è appunto lo stesso atto dell' affermazione. Di che anche questo è una prova, che la negazione , la quale non pone nessun ente ma lo rimove, esige un atto simile e contiene un simile atteggiamento dell' animo. E veramente non si può affermare o negare senza conoscere l' essenza che si afferma o si nega: ora l' essenza è l' oggetto dato dall' intuizione. Ma affermando o negando un oggetto, o qualche cosa dell' oggetto, l' oggetto si viene a involgere nell' atto affermante o negante dello spirito. Onde, sopravvenendo la riflessione, questa contempla lo stesso oggetto vestito della negazione o dell' affermazione dello spirito; ed allora non è più l' oggetto puro, ma un oggetto che, parte è dato allo spirito indipendentemente dalle operazioni dello spirito, parte è lavorato dallo spirito stesso affermante o negante. Così la cecità è l' oggetto, cioè il vedere (presentato puramente nella sua essenza dall' intuizione) congiunto colla negazione. Tutti gli enti negativi o privativi sono formati in questo modo dallo spirito. Sorge quindi una riflessione d' altro ordine più elevato, la quale, esercitando l' azione sopra l' oggetto così lavorato, separa in essa la stessa affermazione o la stessa negazione, e forma degli astratti enti negativi e privativi; ed allora inventa de' vocaboli che li segnino. Così il vocabolo CECITA` significa l' astratto di un ente negativo. Questi enti negativi concreti ed astratti sono due classi di quegli che si chiamano enti di ragione , od enti razionali . Ora Aristotele non pervenne a conoscere la vera generazione degli enti razionali, nè seppe accuratamente descriverli come gli sarebbe bisognato. A tal fine conveniva che avesse investigato la natura di questa singolare facoltà dell' intendimento umano di vestire gli enti delle sue proprie disposizioni, e di convertire poscia a sè stesso queste disposizioni soggettive in enti, significandoli con parole simili a quelle che usa per significare gli enti veramente oggettivi. Noi crediamo bene di cogliere l' occasione di questa critica, che per noi si fa alla partizione che Aristotele fa dell' ente di ragione, per dare la classificazione degli enti razionali , come prima abbiamo fatto de' nomi che si possono dire enti dialettici . Aristotele conobbe chiaramente quell' ente razionale che nasce dalla negazione e quello che nasce dalla relazione . S. Tommaso accenna queste due fonti degli enti di ragione (1). Egli circa le relazioni osserva, che queste non sono sempre puri enti di ragione, ma talora sono realità (2) inerenti agli enti, come accade quando gli enti inclinano l' uno all' altro, o hanno azione o passione tra loro (3). Quindi è che talora la relazione reale è d' una parte sola, se una parte sola è ordinata all' altra, e all' altra tendente, e dall' altra dipendente, ma non viceversa, rimanendo dall' altra parte una relazione di pura ragione (4). Ma il filosofo delle scuole non considerò abbastanza in questo fatto degli enti di ragione due cose sommamente importanti: La prima , che gli enti di ragione altri sono astratti e puri come dicemmo della cecità; ed altri sono inerenti ai nostri concetti degli enti reali, come l' uomo cieco . Questi secondi sfuggono dall' attenzione filosofica facilmente: onde avviene che si parli di entità reali, come fossero per intiero reali fuori della mente; quando sono pure un composto di entità reali fuori della mente e di entità di ragione lavorate e messe loro intorno quasi come una rete dalle operazioni diverse dall' umana intelligenza, siccome abbiamo veduto essere l' ente espresso dal vocabolo IO «( Psicol. , pag. 61 e seg.) », e siccome vedremo anche in appresso, parlando delle Categorie. La seconda cosa, non osservata abbastanza, si è la differenza che passa tra l' ente ideale e l' ente razionale . L' ente razionale è produzione soggettiva della mente, come abbiamo detto: quando all' opposto l' ente ideale è per sè oggetto , ed è affatto indipendente dalla mente dell' uomo, e distinto da ogni mente, benchè escluda la realità ed abbia per sua natura la proprietà d' insiedere nella mente. La mente poi è un ente reale: e però tra l' ente ideale e l' ente reale passa una relazione essenziale , la quale non è nè pur essa un ente di ragione, non una produzione dell' intelligenza soggettiva, ma una congiunzione effettiva . Ora la mente, o, per dir meglio, il soggetto intelligente, essendo suscettibile di sentimenti, ed essendo egli stesso un sentimento primo e sostanziale, vede il reale, cioè il sentito e percepito sensitivamente, nell' ideale; chè ogni reale sentito segna nell' ideale un suo corrispondente, e così l' ideale si manifesta come tipo delle cose reali. Questa visione del reale nell' ideale è un' operazione della mente, e si scorge: 1 Nella percezione intellettiva, nella quale la mente dell' ideale e del reale fa un ente solo conosciuto; 2 Nell' idea specifica, nella quale si vede il reale nell' idea, ma solo come possibile, e non ancora come sussistente. Ora, quantunque la percezione e l' intuizione dell' idea specifica sieno operazioni della mente; tuttavia non si può dire che gli oggetti proprii di queste operazioni sieno enti di ragione . Poichè nella percezione: 1 c' è l' ente ideale, che è per sè oggettivo; 2 c' è il reale, che non è prodotto dalla mente, ma dato nel sentimento; 3 e c' è l' unione di questi due elementi, che si fa per una operazione della mente, ma per una operazione determinata dal rapporto o nesso essenziale che passa tra l' ideale e il reale, e che la mente non fa che vedere. Vero è che un tale rapporto suppone la mente, ma questa esigenza della mente si riduce a quella che ha l' essere ideale di trovarsi in una mente, e il reale d' essere o ridursi in un sentimento; onde l' esigenza della mente e del suo atto è un' esigenza ontologica, cioè uscente dalla natura stessa e dall' ordine intrinseco dell' ente; e però tale rapporto non è produzione soggettiva della mente umana, ma più tosto è analogo alla creazione, la quale, quantunque si faccia mediante il Verbo divino, tuttavia il prodotto è reale. Quanto poi all' idea specifica , ella non è che l' essere ideale considerato in rapporto con un reale possibile, rappresentato da vestigŒ o immagini del reale; e però si deve dire quello stesso che si disse della percezione. Tuttavia nella percezione e nell' idea specifica c' è di soggettivo l' affermazione o la negazione della realità; ma questo elemento soggettivo non è per sè l' oggetto di tali operazioni, e però non si può dire ente di ragione. Che se si considera l' affermazione stessa e la negazione come operazione del soggetto, in tal caso quelli si conoscono come entità reali, cioè come reali atti del soggetto intelligente, e però ancora non sono enti di ragione. Gli enti adunque che propriamente meritano d' essere appellati razionali , come quelli che si producono dalle operazioni della ragione senza che abbiano una reale esistenza in sè, si dividono primieramente nelle due classi indicate: che alcuni sono meri enti di ragione, quasi finzioni della ragione stessa; altri sono misti, cioè parte sono enti di ragione, e parte sono enti oggettivi, ovvero anche reali. I meri enti di ragione sono prodotti dalle seguenti operazioni della ragione: I Negare ; II Dividere ciò che nell' ente oggettivo o nell' ente reale è unito; III Riferire una cosa ad un' altra, trattandosi di cose non ordinate tra loro per via di nessi reali attivi o passivi; IV Comporre ciò che non è composto in sè stesso; V Analogare; VI Sostanziare ciò che non è sostanza; VII Suppositare . Dal che si vede, che gli enti di ragione appartengono tutti alla scienza di predicazione, e non alla scienza oggettiva. Facciamo un cenno degli enti di ragione che vengono prodotti da ciascuna di quelle operazioni. I Negare - Produce gli enti negativi . - La ragione avendo facoltà di asserire e di predicare, ha quella altresì di negare ciò che ha asserito e predicato, o che potrebbe asserire e predicare. Talora la negazione non è compiuta, e in tal caso si risolve in una limitazione, e si riduce al DIVIDERE. Ma i limiti e le privazioni delle cose, concepiti astrattamente, sono enti negativi con qualche relazione alla cosa limitata. Talora la negazione è completa, ed in tal caso l' ente ch' essa produce è il nulla : il quale pure suole rivestire varie relazioni, quasi termine delle limitazioni da una parte, e termine dell' entità che comincia dall' altra. Questi enti negativi non involgono errore se si prendono per quello che sono; ma la mente erra quando li prende per cose positive che non sono. II Dividere - Elementi formali (2) di un ente . - In un ente semplice ed indivisibile per sè stesso la mente distingue più cose, le quali non si trovano separate in natura, onde la separazione è posta dall' atto della mente. Ma questa separazione mentale è di due specie: a ) Talora i due o più elementi formali, distinti dalla mente in un oggetto, quantunque non separabili, cioè tali che l' uno non può esistere senza l' altro, sono distinti nell' oggetto stesso, di maniera che l' uno non è l' altro, nè entra nell' altro, ma sono legati insieme per una specie di relazione essenziale . Così nel sentimento si distingue il principio ed il termine, il senziente e il sentito, benchè non possano separarsi senza annullarsi, e senza annullare il sentimento che essi costituiscono. In questo caso la distinzione che fa la mente è in sè vera, e a quest' ente di ragione risponde una realità nella natura della cosa. Ma se la mente, oltre giudicarli distinti , trapassa a giudicare che esistano separati , o che l' uno di essi può star senza l' altro; in tal caso, alla prima distinzione che è vera, si aggiunge un giudizio falso, un errore. A questa specie si riducono tutte quelle cose che sintesizzano, come gli organi di un unico organismo, i quali non esistono come tali, che per ragione del tutto, e dal tutto non si possono dividere; l' intelligente e l' inteso, i termini correlativi, le tre forme dell' essere, ecc.. b ) Talora i due o più elementi inseparabili sono bensì distinti nell' oggetto, ma l' uno di essi entra nell' altro, e non viceversa. Così, quando la mente in un individuo da lei percepito distingue ciò che è proprio, ciò che è specifico, e ciò che è generico; allora il concetto di ciò che è specifico contiene in sè virtualmente anche ciò che è proprio, e il concetto di ciò che è generico contiene virtualmente ciò che è specifico; ma non viceversa. All' incontro, se la mente non guarda ciò che questi concetti contengono virtualmente, ma ciò che si trova nella realità propria, nella realità specifica, e nella realità generica; se n' ha il contrario: perocchè in un reale, che ha tutto ciò che gli spetta in proprio, è conseguentemente realizzato anche ciò che esprime la sua specie ed il suo genere; e in quanto si considera realizzato in esso ciò che è specifico, già si contiene realizzato anche ciò che è generico (1). In tutte queste distinzioni che fa l' umana ragione si crea degli enti di ragione, i quali non si dee già credere che sieno chimerici e vani, ed errano quei filosofi, che dicono, parlando anche in questo ambiguamente, che tali idee non hanno alcun valore obiettivo; poichè, se la mente con esse non considera e pensa tutto intiero l' oggetto, lo considera nondimeno e lo pensa ne' suoi formali elementi, realizzabili o realizzati nel tutto. La mente adunque non erra con queste distinzioni logiche; ma incomincia ad errare quand' ella vi sopraggiunge dei giudizi arbitrarii, coi quali si dà a credere, che quelli che non sono che elementi formali dell' oggetto, sieno altrettanti oggetti compiuti. III Riferire - Relazioni razionali . - Di queste abbiamo accennato di sopra. Le relazioni possono essere classificate anch' esse in generi e specie, e questi generi e specie sono come elementi formali delle relazioni medesime. IV Comporre - Unioni razionali . - Queste si fanno per lo più per via di relazione; ma la mente in generale ha la facoltà di considerare qualsivoglia complesso di cose eterogenee come una sola unità . Quindi le idee complesse razionali . V Analogare - Attributi . - Trattandosi di oggetti che la mente conosce solo negativamente, ell' è costretta attribuir loro, per via di certa analogia, le proprietà delle cose ch' ella positivamente conosce, e queste proprietà, in quanto sono predicate analogicamente dell' oggetto ignorato, diconsi attributi . Così il cieco nato dà le proprietà dei suoni ai colori di cui sente ragionare, e dirà il color rosso dover esser simile ad una voce soprana, ed il nero ad una voce bassa. E così pure è che noi parliamo di Dio, trasportando in lui le perfezioni che conosciamo nella natura. Questa maniera di ragionare non induce alcun errore, qualora la mente che l' usa, sappia in pari tempo, che tali sue predicazioni sono meramente analogiche. VI Sostanziare - Esseri immaginarii . - Un' altra classe di enti di ragione sono quelli, che la mente compone di altri enti da lei conosciuti: e a questi appartengono le personificazioni, le mitologie o le favole, e gli enti ipotetici che per qualsivoglia ragione l' uomo introduce nel suo discorso. Questi esseri sono falsi ed erronei, e non hanno valore oggettivo in sè stessi, ma se l' uomo conosce la loro falsità, o ipoteticità, con ciò stesso sfugge all' errore, riconoscendolo. VII Suppositare - Enti suppositati . - Se, colla facoltà di astrarre e di distinguere, la mente umana produce quegli enti di ragione, che abbiamo detti elementi formali , e relazioni , ecc., colla facoltà d' analogare altri enti di ragione che diciamo attributi , e colla facoltà persuasiva ed assertiva gli enti immaginarii ed i negativi , colla intuizione si procaccia le idee; colla facoltà stessa di ragionare produce poi questa settima classe di enti di ragione, che diciamo suppositati , cioè presi per supposti . Ed ecco ond' ella è mossa a costituirli. Prima legge di operare della mente è il principio di cognizione, il quale la obbliga a concepire, tutto ciò che concepisce, come un ente; giacchè quel principio dice: « l' oggetto dell' intelligenza è l' ente ». Ora tale è la natura dell' ente che non si può concepire, se non si concepisce in esso un atto primo. Quindi accade, che anche gli enti di ragione, i quali non hanno la natura d' atti primi, ma o sono semplici elementi di tali atti, o sono atti secondi, o sono negazioni di atti, non si possono concepire dalla mente, se ella non li veste della forma di enti, e perciò di atti primi, senza di che ella non potrebbe pronunciarli così separati e divisi dall' ente. Al che le prestano gran servizio i vocaboli e gli altri segni sensibili: i quali, non rappresentando la cosa segnata nella sua natura, ma solo indicandola, non porgono all' attenzione di chi gli usa la distinzione che passa tra gli enti reali e compiuti, e gli enti di ragione. Onde venendo tutti significati per egual modo, anche gli enti di ragione passano mescolati e indistinti insieme cogli enti compiuti e reali, e sostengono, per così dire, la persona di questi. Nel che la mente non prende errore, se ella non sa qual sia il personaggio che giuocano tali enti in sulla scena del suo pensiero. Posto adunque che la mente è obbligata di considerare gli enti di ragione come enti in sè, niuna meraviglia è, ch' ella li prenda nel ragionamento a suppositi: e questi sono quelli che più sopra abbiamo appellati subietti dialettici . Noi intendiamo sotto l' espressione di partizione fisica tutte quelle distinzioni dell' ente, che non hanno per loro fondamento il linguaggio, nè le operazioni subiettive della mente umana, ma che sono nell' ente stesso, sia reale, sia ideale. La prima divisione, che sotto questo punto di vista si presenta in Aristotele, si è dell' ente singolare e in sè sussistente, e dell' essere universale , che non esiste separato e per sè, ma nelle cose come forma della materia, e nella mente come specie, separate dalla materia corporea, ma non da una sostanziale intuizione. L' ente singolare sussistente è la SOSTANZA, ossia l' ousia prima, [...OMISSIS...] : l' ente universale si riduce da Aristotele, come a sommi generi, alle Categorie. L' ente singolare e sussistente, cioè la sostanza prima, è triplice: 1 l' una sensibile e corruttibile; 2 la seconda sensibile e mobile, ma incorruttibile (gli astri); 3 la terza insensibile, incorruttibile e immobile, il primo motore (2). L' ente universale non è per Aristotele un ente sussistente, ma inseparato dal singolare: tuttavia esso considera le dieci categorie, in cui lo riparte, come i dieci generi supremi dell' ente (3). Conviene dunque che noi esaminiamo diligentemente questa partizione. La dottrina delle Categorie Aristoteliche soggiacque a diverse interpretazioni, ciascuna delle quali potrebbe subire una critica speciale; ma la prima osservazione è questa appunto d' essere da Aristotele esposta in un modo pieno d' incertezze e d' anfibologie, onde le varie interpretazioni. Pure, aderendo alla lettera d' Aristotele, ella apparisce meno imperfetta che pigliandola come fu intesa dagli scoliasti greci, e da' loro discepoli gli Scolastici. Partendo dunque dal principio che Aristotele, colle categorie non volle far altro che classificare i sommi modi dell' ente secando ne' suoi elementi il linguaggio e cercando in questo i più generici e primi predicati dell' ente (1), non farà più meraviglia, che nella tavola delle categorie aristoteliche non si trovi nè l' ente , nè la materia . Nè l' uno nè l' altra poteva trovarci luogo: non l' ente , perchè egli non è un modo, ma quello che di tutti i modi è suscettivo, e quindi di tutti i predicati; non la materia perchè nè pur essa è un modo dell' ente, ma, secondo Aristotele, il substrato ( «hypokeimenon») di tutti, e quella che sostiene tutti i modi. Io non intendo qui ricercare, se la materia e l' ente (privo de' suoi modi) fosse per Aristotele il medesimo: certo è, che Platone stesso prende l' «usia», ovvero l' «on», come l' indeterminato, l' informe, e in una parola la materia; se non che egli distingue, come vedemmo, tre materie, l' ideale , la spaziosa e la corporea , onde i suoi tre sommi generi degli enti. Aristotele dunque dice, che [...OMISSIS...] . Riconosce dunque Aristotele, che la specie e la materia sono di diverso genere tra loro, perchè non si possono condurre a un medesimo, rimanendo sempre distinte. Ma oltre questi due primi generi, distingue quelli che si formano dalle categorie dell' ente [...OMISSIS...] . Ma che sono questi schemi di categorie dell' ente? e che cosa è l' ente di cui sono categorie? E se anche la specie e la materia sono generi, non diventeranno dodici i generi anzichè dieci? Per rispondere a queste domande, conviene osservare che per Aristotele ogni genere è una specie (2), onde nomina spesso anche « « la specie della materia » » (3). Ma la materia stessa non è una specie, ma una natura contrapposta e irreducibile alla specie. Conviene dunque, che anch' egli ammetta due principŒ , che infine, con qualunque nome si chiamino, sono sempre quelli de' pitagorici: l' indeterminato e il determinante. L' indeterminato, cioè la materia, non ha numero, perchè non ha specie, e quando riceve la specie, allora solo si figura e distingue: la specie all' incontro, che è il determinante, ha numero, cioè ci sono diverse specie. Ricercando quali sieno, si viene a scoprire una gerarchia di specie, nella quale si distribuiscono in più e meno estese, e quelle contengono queste. Ma le più estese di tutte non sono contenute in altre d' estensione maggiore, appunto perchè sono le più estese. Rimane dunque a cercare, se le più estese di tutte, irreducibili ad altre, sieno una sola, o più; e questa è la ricerca delle Categorie, come le concepisce Aristotele. Onde « il diverso schema della categoria dell' ente », equivale a dire « la diversa specie che si può predicare dell' ente »: l' ente poi, che è il subietto della predicazione, è la materia di cui, avendo già ricevuto la specie, questa si può predicare (1). Rispose dunque Aristotele, che le specie più estese, e irreducibili, non sono una sola, ma dieci: e così stabili le sue dieci Categorie. Lasciati dunque da parte gli altri significati, in cui si prende la parola genere (2), Aristotele nelle categorie parla di « « quelli che ammettono differenze » ». [...OMISSIS...] Il genere categorico dunque si considera da Aristotele, come materia rispetto alla specie , e subietto delle differenze . Ma il subietto stesso e la materia prendono significati diversi tanto presso Platone, quanto presso il suo discepolo. Onde questi generi, ciascuno de' quali è detto « come materia »( «hos hyle»), si distinguono secondo che « « il subietto primo, ossia la soggiacente materia, è diverso »(4) »: di che deduce, che « la specie e la materia sono generi diversi », perchè, tanto la specie, quanto la materia, sono subietti diversi irreducibili l' un all' altro. Dove la parola « materia »qui ha mutato di significato, cioè ne ha preso uno più ristretto, ha preso il significato di « materia reale ». Checchè dunque dica altrove Aristotele circa la doppia materia ammessa da Platone, cioè l' ideale e la reale, egli cade nella stessa distinzione: poichè, se ogni genere si considera come materia, «hos hyle», e se due generi sono « la specie e la materia », convien dire che ci sia una materia ideale , che costituisce il genere delle specie, e una materia reale , che costituisce un altro genere. E questi sono veramente i sommi generi d' Aristotele del tutto irreducibili. Ma qual genere può costituire la materia reale? Se al genere, secondo lo stesso Aristotele, sono necessarie le differenze [...OMISSIS...] , come la materia, priva delle specie, avrà differenze? In nessun modo, differenze che abbiano un subietto identico; e altramente non sarebbero differenze. Per questo Aristotele, benchè chiami un genere la materia, non l' annovera co' sommi generi, cioè colle Categorie. Il che dimostra, che prenda la parola genere in due sensi diversi. Altro è dunque il genere che si definisce: « quello che è primo come subietto, e non si riduce ad un altro », e questa definizione conviene alla materia, che non si può ridurre alla specie: altro è il genere che si definisce: « il subietto delle differenze », e questa definizione non conviene ala materia (1), ma a quei generi ch' egli chiamò Categorie, poichè questi sono « i primi subietti delle differenze », che uniti a queste costituiscono i generi minori e le specie, e queste sottostanno come loro materia. Le Categorie dunque non appartengono alla materia reale, ma all' ideale, e sono le specie più estese , secondo Aristotele, e però le meno determinate e comprensive. Dal che si deriva primieramente, che Aristotele non ravvisò col suo pensiero la materia ideale in tutta la sua universalità, la quale non è altro che l' essere ideale (1), poichè, se l' avesse bene ravvisata col suo pensiero, egli si sarebbe avveduto ch' ella è una specie più estesa de' suoi dieci generi, e avrebbe ridotto questi a quella come a loro sommo ed unico genere, se così si vuol chiamare, perchè subietto dialettico irreducibile ad alcun altro, e suscettivo di tutte le differenze o determinazioni. Conviene dunque riconoscere che Aristotele ammette primieramente due principii (a cui aggiunge poi per terzo la privazione «he steresis») che non si fanno (2), la materia e la specie , e quest' ultima si parte, come nei sommi suoi generi , nelle Categorie: la prima poi è il principio, da cui vengono, non i generi, ma gl' individui , supposta la forma o specie. Ma risultando dall' unione di questi due principii, materia e specie, la sostanza; rimane a vedere come questa possa tuttavia annoverarsi tra le categorie: a tal fine dobbiamo ritornare alla dottrina aristotelica, che riguarda la sostanza. Primieramente dunque la sostanza è il primo, come dicevamo, della filosofia aristotelica, perchè di tutte le entità sono prime le sostanze, [...OMISSIS...] . E questa sostanza, che costituisce il primo filosofico d' Aristotele, non è l' idea di sostanza (essenza sostanziale), nè pur l' idea piena; ma la stessa sostanza reale. Questo suo concetto il dichiara, tra gli altri luoghi, nel libro delle « Categorie », dove parla della sostanza (4). [...OMISSIS...] Non poteva designarsi in un modo più preciso la sostanza individua e reale; perchè, essendo questa il subietto reale a cui convengono i predicati, è chiaro che dire: o che il subietto è nel subietto, o che il subietto si predica del subietto, altro non sarebbe che una logomachia assurda. Questa sostanza dunque, ovvero «usia» prima , non può essere la sostanza categorica, perchè le « Categorie » sono i sommi predicabili (1). Appresso, di quella sostanza che appartiene alle Categorie, e che è l' idea o specie di sostanza, o l' essenza sostanziale, soggiunge così: [...OMISSIS...] . Non dunque la sostanza reale, ma le specie e i generi della sostanza, dette da noi anche essenze sostanziali, si riducono, come all' idea più generale, alla categoria aristotelica della sostanza; dappoichè la sostanza categorica, come l' altre categorie sono comuni , dicendo Aristotele, che « « fuori della sostanza e dell' altre cose che si predicano, niente v' ha di comune »(3) ». Convien dunque conchiudere, che le Categorie aristoteliche non sono punto una partizione dell' ente in tutta l' estensione della parola, ma una semplice classificazione degli universali, ossia delle idee. Di poi è necessario osservare su questa classificazione quanto segue: 1 Niuna delle dieci categorie esprime puramente l' ente qual è in sè, non involto nelle operazioni della mente; ma tutte significano enti misti d' entità in sè, e d' entità prodotta dalle operazioni della mente. Per convincersene si consideri che i dieci predicamenti, secondo gli Scoliasti, si riducono: 1 alla sostanza, 2 agli accidenti distribuiti in nove classi (1). Ora la sostanza è un vocabolo che nomina l' ente con una relazione agli accidenti che sono in essa; e questa relazione è un ente razionale. Di più la parola sostanza divide l' ente da' suoi accidenti. Ma questa divisione e separazione è l' opera della mente: non trovasi nella natura delle cose, dove, quantunque ci sia distinzione, non vi ha separazione, cioè non c' è sostanza (propriamente detta) divisa dagli accidenti, nè ci hanno accidenti divisi dalla sostanza; ma la sostanza e gli accidenti formano un ente solo perfetto. Nei dieci predicamenti non si parte dunque l' ente puro, qual è in natura, nè l' ente qual è nella mente intuente; ma quell' ente artefatto dalle operazioni della mente stessa, da appendici che spettano alla condizione dell' ente razionale. Insomma sostanza ed accidente si possono dire elementi dell' ente finito, ma non enti compiuti. 2 Dalle Categorie aristoteliche rimane escluso l' ente assoluto . La parola sostanza , involgendo una relazione coll' accidente, non si può in senso proprio applicare che a quell' ente che è suscettivo di accidenti. Ma l' ente assoluto non ha accidenti: dunque il suo essere non si può in senso univoco e proprio chiamare sostanza, ma semplicemente ente . Oltre di ciò l' Ente assoluto, essendo singolare, non si può predicare di cosa alcuna, e però non appartiene al novero delle Categorie; ma è un' ousia prima. 3 Manca ancora nelle Categorie la sussistenza, «ypostasis», e la persona, «prosopon» (1). E qui è da notarsi, che i greci filosofi non isvilupparono mai il concetto di persona; e questo stesso vocabolo, nel senso filosofico, è dovuto ai dottori ecclesiastici, i quali n' abbisognarono per esprimere la sublime dottrina della Trinità, facendo con ciò grandissima giunta alla filosofia. 4 Manca oltreacciò per intero nelle Categorie aristoteliche l' essere morale , che è pure una forma primitiva dell' essere, la quale con niun' altra si può confondere o ridurre a nessun altro genere. 5 La categoria del luogo, «pu», porge due osservazioni a farsi: la prima, che altro è il luogo , altro lo spazio . Il luogo è una determinata parte dello spazio considerata in relazione dei corpi reali o immaginarii, che la occupano. Quindi il luogo non è che una relazione contenuta nella categoria «pros ti», laddove lo spazio è, sotto un certo aspetto, assoluto. Forse i greci non avevano una parola che significasse l' equivalente del nostro spazio puro ed assoluto, perocchè «diastema», non significa spazio, ma intervallo, o spazio limitato. S' avvicina però a significare lo spazio puro la parola «ekteneia», che vale estensione, benchè in greco, se non erro, ha più forza di significare l' atto dello estendersi, che lo spazio esteso; e così pure la parola «syneches», che suona continuo , e fu usata dagli Eleati appunto a significare il continuo esteso dell' universo, e finalmente la parola «chora» che vale recettacolo , e che io credo veramente sia adoperata da Platone per indicare lo spazio, benchè non senza una relazione al corpo in esso contenuto. Ma la ragione principale, per la quale Aristotele introducesse nelle sue Categorie il luogo e non lo spazio, probabilmente si è perchè avendo egli considerato nelle Categorie altrettanti modi di predicare, doveva fermarsi al luogo che si predica de' corpi, anzichè allo spazio illimitato che non si predica de' corpi. E tuttavia tra lo spazio illimitato, e il luogo (spazio relativo), c' è ancora lo spazio limitato occupato da' corpi (spazio limitato), il quale si predica de' corpi. Perchè l' ha dunque omesso il nostro filosofo? Si può rispondere che l' abbia compreso nella categoria della quantità «to poson». 6 Le categorie del luogo ( «pu»), e della situazione ( «keisthai») non sono modi con cui si predica l' ente in universale, ma un ente particolare, cioè l' ente esteso e corporeo. Ora le Categorie, nel senso d' Aristotele, non sembrano descrivere quante maniere si possano predicare le particolari specie di enti, nel qual caso il loro numero dovrebbe crescere pressochè all' infinito; ma sì quante sieno le maniere generalissime di predicare. Ora questo prendere l' ente esteso quasi fosse universale, quasi il luogo e la situazione propria dei corpi fossero predicamenti di ogni ente, dimostra, come la mente del filosofo era legata ai sensi ed agli enti corporei. Onde la sua ontologia riuscì angusta, perchè cavata principalmente dalla considerazione dell' infima specie degli enti, quali sono i corporei, anzichè dalla considerazione dell' ente in se stesso, senza restrinzioni positive ed arbitrarie. 7 Se tutte le Categorie di Aristotele sono enti involti in appendici provenienti dalle operazioni dell' intendimento, alcune sono al tutto enti razionali come la quarta, che è la relazione «pros ti». Vero è, che ci hanno certe relazioni oggettive: ma, oltre che il filosofo qui non le distingue dall' altre giacchè il «pros ti» abbraccia tutte le relazioni senza distinzione, è da considerarsi di più, che le tre ultime categorie ch' egli enumera l' avere , il fare , e il patire ( «echein, poiein, paschein»), sono relazioni reali. Onde da una parte la divisione delle categorie riesce imperfetta, perchè nella quarta «pros ti» già queste tre ultime si contengono; dall' altra, se queste categorie si escludono dalla categoria della relazione, questa non abbraccia quasi più altro che meri enti di ragione. Se non che, volendo enumerare le relazioni reali a parte, ne avrebbe dovuto aggiungere molte che omise, e principalmente il ricevere , che Aristotele confonde bene spesso col patire , ma a torto, perchè il patire involge il concetto d' una modificazione che l' agente produce nel subietto paziente; laddove il ricevere semplicemente non acchiude questo concetto, potendo il ricevente ricevere senz' esserne egli stesso modificato. Che se di più si considera la spiegazione che il nostro stesso filosofo dà delle Categorie, vedesi che egli riduce alla categoria della relazione anche la quantità comparativa, come il maggiore, il doppio ecc., e la posizione. Distingue adunque i varii aspetti, sotto i quali lo spirito considera le stesse cose, e ne forma varie categorie (1). Onde dice che il giacimento e la sessione , e gli altri atteggiamenti , sono ad altro; cioè esprimono relazioni: ma il giacere , lo stare , il sedere , ecc., non sono relazioni, ma sono denominati dalle posizioni rispettive le quali sono relazioni. Il che dimostra che la distinzione delle Categorie è tutta dialettica , come deve essere, perchè tolta dal predicare, sicchè esse si distinguono secondo il senso preciso delle parole, e però secondo le relazioni mentali significate dalle parole, di maniera che la posizione, per es., la giacitura, ecc. appartiene ad una categoria, cioè alla categoria «pros ti», e all' incontro lo stare, il giacere, ecc. appartiene ad un' altra categoria, cioè alla categoria «keisthai». E osserveremo anche qui di passaggio la somma diligenza che è necessario adoperare in tradurre un autore così dialettico, perchè, sostituendo una forma all' altra di dire, perisce spesso il vero sentimento che voleva esprimere il filosofo. La stessa cosa può appartenere a più predicamenti, secondo l' aspetto in cui la si considera e il modo con cui ella verbalmente s' esprime. Prendiamo l' esempio dall' ottava categoria «echein», che da alcuni si traduce impropriamente habitus . Se si considera e si esprime AVERE, l' abito appartiene all' ottavo predicamento «echein»; se l' abito si considera come una relazione a chi lo ha, appartiene al quarto predicamento «pros ti», come si rileva dal capo III del libro « Dei Predicamenti »; se si considera come un abito che affetta e qualifica chi lo ha (il che accade specialmente degli abiti spirituali), appartiene al terzo predicamento «to poion», come pure si dice nel capo 4 del citato libro. Laonde Aristotele nell' opera « Dei Predicamenti » fin da principio definì quali sieno i nomi denominativi, cioè quelli che vengono imposti agli enti da qualche cosa di accidentale, come grammatico da grammatica, e però sono casualmente differenti dai predicamenti, dunque si denominano le cose, e le cose stesse così denominate cangiano talor di predicamenti. Affine adunque d' intendere i predicamenti, giova aggiunger loro il verbo essere che esprima la forma della predicazione, come nella seguente: «e usia» «to poson» «to poion» «pros ti» «pu» «pote» «keisthai» «echein» «poiein» «paschein» Le Categorie dunque d' Aristotele non compartiscono l' ente, ma distinguono i modi di predicare qualche cosa dell' ente, e quindi i concetti diversi, secondo i quali si considerano gli enti. Di più Aristotele distingue il modo di predicare una cosa d' un' altra da ciò che si predica . I modi di predicare li chiama predicamenti o categorie , e ciò di cui in ciascun modo si predica, li chiama predicabili o categoremi. I predicabili, di cui parla ne' libri « De' luoghi » si riducono a quattro: il termine , il proprio , il genere , l' accidente: e sotto il genere comprende la differenza specifica e la specie, che è lo stesso genere coll' aggiunta della differenza. Dice adunque, che in ciascun dei detti modi di predicare si possono predicare quattro cose: il termine , cioè la quiddità della cosa, o il proprio , cioè una tale qualità che sia propria di quella sola cosa di cui si parla, come dell' uomo aver la facoltà d' imparare la grammatica (il che non costituisce l' essenza dell' uomo, ma è sempre unito all' essenza), o il genere colle differenze e le specie, o l' accidente (1). Questi predicabili o ricevono le loro determinazioni da questi quattro predicabili (2). Per esempio, se noi prendiamo il predicamento quale , questo quale si può definire, o esprimendone l' essenza (predicabile «Horos») o esprimendo qualche sua proprietà che non è però la sua essenza, ma conseguente ad essa (predicabile «idion»), si può ancora definire genericamente (predicabile «genos»), si può definire specificamente cioè col genere e colla differenza (predicabile «eidos», e «diafora»), e si può definire indicando solo qualche suo accidente (predicabile «symbebekos»). E così i predicabili si possono applicare alla definizione dei predicamenti . Concludiamo, le Categorie aristoteliche non danno una partizione ontologica dell' ente, ma dialettica; ed anche questa manchevole. Non soddisfanno dunque alle esigenze dell' Ontologia. L' aristotelismo, prevalso nelle scuole, racchiuse gl' ingegni entro il circolo delle partizioni dialettiche, e se alcuno tentò di uscire da quella cerchia, e spaziare negli ordini degli enti, non gli riuscì bene l' audacia, impotente a vincere le difficoltà del cammino scientifico, non tracciato quasi da piede alcuno, e la guerra degli uomini. Onde, quantunque nella storia della Filosofia si trovino molti tentativi dialettici sforzi di classificare più ampiamente che non aveva fatto Aristotele i concetti generali delle cose, componendo arti magne e mnemoniche e lingue universali, da Raimondo Lullo specialmente sino a Leibnizio; tuttavia invano si cercherebbe ne' lavori anteriori al passato secolo qualche veduta nuova ed originale sulla partizione ontologica dell' ente. Conviene dunque discendere fino al Kant, il quale tuttavia dichiara, che il suo scopo nel disegnare le Categorie è quel medesimo ch' ebbe Aristotele (1). E di vero, che anche la partizione del Kant sia dialettica anzichè ontologica , si rileva da questo, ch' egli parte dal principio che « pensare è giudicare », come Aristotele parte dal principio che « i modi del predicare sono i modi dell' essere ». I due filosofi in questo vanno a pieno d' accordo. E che « pensare sia giudicare », noi l' accordiamo (2), perocchè pensare è propriamente usare della facoltà del pensiero. Ora analizzando l' atto del pensiero trovasi che questo suppone una facoltà innata, e che questa suppone l' intuizione primitiva ed immanente dell' essere. Così dal pensare, cioè dal giudicare, il Kant si sarebbe potuto sollevare alla vera teoria dell' umana intelligenza. Ma, invece di ricercare le condizioni del pensiero le vere anticipazioni, egli s' occupò unicamente, come avea pure fatto Aristotele, delle forme del pensiero, e credette avere esaurito il suo argomento, quando le avesse diligentemente classificate e distinte. E come Aristotele prese a classificare gli enti misti di entità a parte sui e di operazioni mentali, senza accorgersi di tale mistura, così pure fece il Kant; ma con questa differenza, che quella parte, che gli enti aristotelici aveano d' attorno pel lavorìo soggettivo della mente, fu presa dallo Stagirita come fosse anch' essa entità vera a parte sui; laddove Kant, eguale ad Aristotele nel tenere le due parti confuse, prese anche la parte, che era vera entità a parte sui , per cosa soggettiva, razionale, dalla mente lavorata e prodotta. Onde il dialettico Kant diede nell' eccesso opposto a quello in cui avea peccato il dialettico Aristotele. Il Kant s' accorse che le cognizioni che cadono nell' umana mente, altre sono necessarie ed universali, altre sono contingenti e particolari. Que' giudizi , che non ponno intendersi se non concependo la necessità e l' universalità, li chiamò a priori , e se non sono dedotti da niun elemento empirico precedente, li disse a priori puri: que' giudizi che si ponno intendere senza ricorrere alla necessità ed universalità, egli li nominò a posteriori . Fin qui niente accade da osservare. Ma quando viene a determinare onde nasca la necessità e l' universalità da una parte, la contingenza e la particolarità dall' altra, allora egli stabilisce un criterio evidentemente erroneo, il quale, come è il fonte del criticismo, così pure è il fonte dell' erroneità di tale sistema. Il principio è questo: [...OMISSIS...] . Egli è pur singolare a vedere con quale leggerezza e sicurtà Kant ammette questo principio. Egli avrebbe dovuto darsi tutta la cura di provarlo con dimostrazione rigorosa, giacchè trattasi del fondamento unico su cui posa tutto l' edificio della sua filosofia. E pure nulla di questo. - Egli lo introduce a principio nel discorso quasi per incidenza (3) come cosa che viene da sè, su cui non si aspetta dal lettore la minima opposizione. [...OMISSIS...] Egli dunque dà per cosa certissima che, se qualche cosa vi ha nelle cognizioni umane che non venga dall' esperienza, debba necessariamente esser prodotta dalla stessa nostra facoltà di conoscere, e che le cognizioni umane non possano avere alcun altro fonte fuori di questi due: 1 i sensi , e 2 la stessa facoltà di conoscere . Tuttavia se egli avesse indagato la natura della facoltà di conoscere, non già dalle supposte produzioni di lei, ma dal rapporto che passa tra lei ed i suoi oggetti necessarii, egli avrebbe trovato ancora il varco d' uscire dal labirinto del soggettivismo. Ma vi si perdette irrimediabilmente, posciachè prese la facoltà di conoscere unicamente come attività del soggetto, o mosse da un principio anticipato, ch' ella producesse a sè stessa tutto ciò che si trova nelle sue cognizioni, e che non viene dato dai sensi. Questo è il pregiudizio della filosofia Kantiana, il postulato arbitrario, il punto in aria a cui il filosofo appoggia la leva per muovere da' suoi cardini il mondo scientifico. Posto che ciò che si trova nelle cognizioni umane travalicante il confine dell' esperienza è una mera produzione della facoltà di conoscere, ne consegue necessariamente, che ad indagare la natura di tale facoltà basti occuparsi in enumerare con accuratezza e classificare queste sue produzioni. Tale adunque fu il campo, in cui si esercitò il filosofo di K”nisberga. Quel pregiudizio fondamentale gli prescriveva il cammino da tenersi nell' investigare la natura dell' intelligenza, e quindi lo impediva d' investigare questa natura per altra via che la segnata da quel pregiudizio stesso. Quindi la natura della facoltà di conoscere rimase incognita a Kant, il quale non fece che ricevere la descrizione di questa facoltà quale gliela dava il mentovato pregiudizio ch' ella fosse la causa producente di ciò che si conosce oltre i limiti dell' esperienza. Egli è ancora singolare a vedere, quanta fiducia dimostri questo filosofo ne' dati dei sensi, e quanto poca, anzi nulla, ei ne conservi pei dati dell' intelligenza. Questo è il costante carattere de' sensisti: ai sensi essi credono ciecamente: le loro deposizioni sono le sole oggettive, come espressamente dice fra noi il Galuppi: l' intelligenza sola non ha alcuna virtù di cogliere dei veri oggetti, ma sol de' fenomeni. Favellando di ciò che l' intelligenza crede conoscere al di là dell' esperienza, ei la rassomiglia alla colomba che sentendo la resistenza dell' aria s' immaginasse di volare più facilmente e liberamente nel vuoto. [...OMISSIS...] Nel qual discorso si ammette come indubitato che il sensibile sia il solo punto d' appoggio che abbiano le ali dell' intelletto, e che senza il sensibile l' intelligenza non trova che campi vuoti. Non sono questi i soliti pregiudizi volgari dei sensisti? i quali non si son saputi svestire nè pure da colui che pretese di darci un sistema di filosofia trascendentale! E veramente, che questo sia pregiudizio, fede cieca e volgare ai sensi, incredulità arbitraria e parimenti cieca alla deposizione dell' intelligenza, si può desumere da questa riflessione: Non meno il senso che l' intelligenza sono potenze dell' uomo; Non meno il senso che l' intelligenza hanno dei loro proprŒ termini, cioè il senso ha i termini sensibili, l' intelligenza i termini intelligibili; Non meno il senso che l' intelligenza ha questa legge che non percepisce il suo termine, se non a condizione che egli sia congiunto colla sua potenza: di maniera che egli è un pregiudizio volgarissimo il credere che il senso percepisca i suoi termini in quanto sono staccati da lui, e in questo senso esterni; onde se per esterni si intende staccati dalla potenza, è falso che il senso percepisca meglio che l' intelligenza un' entità esteriore. Se adunque la condizione delle due potenze in tutte queste condizioni è uguale, perchè mai, se non per un mero arbitrio, si dichiara che il senso ha virtù di percepire veri oggetti, e non così l' intelligenza? Questo è il medesimo che sragionare in questo modo: [...OMISSIS...] . Ma onde si prova la minore di questo sillogismo? Da nessuna parte, per nessuna via. - Essa non è che l' espressione della profonda INCREDULITA` che si è messa negli animi alle cose sopra sensibili; la prova evidente della corruzione e DELLA MATERIALITA` DEL SECOLO. Se invece di asserire ciò che detta l' incredulità preconcepita alle cose spirituali, si volesse veramente ragionare e filosofare, si perverrebbe ad un risultamento assai diverso; cioè si conoscerebbe: 1 Che il senso non attesta nulla per sè solo, e non ha alcuna virtù oggettiva perchè esso ha termini, ma non oggetti: 2 Che è solo l' intelligenza quella che vede i fenomeni e le entità sensibili nel vero oggetto intelligibile, l' ente da lei intuìto fuori di tutti i sensi corporei, e così gli oggettivizza, ossia li conosce come enti, come oggetti distinti dalla facoltà; 3 Che la intelligenza per conseguenza ha un oggetto al tutto superiore al mondo sensibile, e che quello è il solo vero oggetto dal quale viene l' oggettività alle stesse entità sensibili; 4 Che la sola intelligenza perciò ha vera virtù oggettiva, cioè ella sola è la facoltà di farci conoscere con certezza le cose come sono in sè, e distinguere da noi stessi quelle che sono da noi distinte. I sensisti adunque, e Kant con essi, cadono fra l' altre in questa inconseguenza, che prestano tutta fede alla ragione quando ci asserisce qualche cosa intorno agli oggetti sensibili, e le negano fede quando con eguale o ancor maggior asseveranza ella ci asserisce qualche cosa intorno agli oggetti intelligibili; quasi che una stessa facoltà potesse essere ad un tempo e verace e menzognera secondo il bel piacere de' filosofi materiali. Per altro, quello che è ancor più assurdo si è il dilemma Kantiano: che ciò che non viene dall' esperienza debba venire dal soggetto intelligente; e però che non venendo dall' esperienza dei sensi il necessario e l' universale, questo dee venire dal fondo dell' uomo stesso. Questo argomento si potrebbe rovesciare, e riterrebbe lo stesso valore del precedente, dicendo: « Il necessario e l' universale non può venire dal soggetto intelligente, perchè questo non è nè necessario nè universale; dunque deve venire dall' esperienza ». Questo « dunque deve venire dall' esperienza », vale altrettanto del primo « dunque deve venire dal fondo dell' uomo ». L' uno e l' altro nulla provano, anzi sono manifestamente erronei. La radice di questo errore, si è il non distinguersi la facoltà dell' umana intelligenza dagli oggetti dell' intelligenza: quella è contingente e particolare, questi sono necessarii ed universali. Questi dunque non possono venire da quella, perchè l' effetto non può essere maggiore della sua causa (1). Ma datemi un uomo pregiudicato, un uomo che già precedentemente abbia invincibile ripugnanza (benchè non sorretta da ragione alcuna) ad ammettere oggetti intelligibili diversi da' sensibili. Questi che farà? Si getterà ad asserirvi francamente (perchè tali prevenuti asseriscono, non ragionano), che quelle qualità di universalità e di necessità non possono essere che apparenti, il che è quanto dire che si potrebbe pensare che l' ente non fosse ente, o che si potrebbe pensare qualche cosa fuori dell' ente, distruggendo così tutti i principŒ della ragione. Se Kant, o piuttosto il suo secolo e il suo paese non avessero rotto il filo della tradizione filosofica, egli avrebbe potuto imparare da que' pensatori che vissero molti secoli prima, che vi ha ripugnanza intrinseca in fare che « la natura contingente produca il necessario, l' universale, l' eterno », caratteri di cui sono forniti gli esseri ideali, e che, o convien negare i principŒ della ragione, e perciò rinunciare del tutto a filosofare, giacchè in qualsiasi modo si filosofa, si fa sempre usando di que' principii; o convien cercare altronde l' origine degli oggetti ideali, e de' loro eccelsi attributi. Io ho già citato altrove questo passo della sublime operetta che ha per titolo « Itinerario della mente a Dio », che qui riproduco: [...OMISSIS...] . Il quale argomento è così evidente, che nessun sofisma il potrà abbattere giammai. Malebranche ripetè questo argomento, ma avendo confuso l' oggetto eterno , che lo spirito nostro vede, col soggetto eterno (i quali sono una cosa in sè, ma sono due cose rispetto al nostro spirito) preparò la via a' moderni soggettivisti. [...OMISSIS...] Ma il Malebranche altrove sostituisce alle idee la sapienza di Dio; la quale appartiene a Dio, concepito come soggetto. La sapienza divina ha per termine le idee, o piuttosto il Verbo divino; e noi non vediamo mica la sapienza divina naturalmente, ma vediamo le idee nostre, le quali, senza la divisione che hanno nella mente nostra, nel Verbo divino con unità perfettissima si contengono. Onde, quantunque sia vero che noi siamo illuminati dal Verbo, non è però vero che vediamo per natura lo stesso Verbo, o il modo col quale le idee si unificano nel Verbo. Epperò nè pure è vero che vediamo la sostanza divina, o le idee nostre quali sono nella divina sostanza. Conosciuto il vizio radicale della filosofia critica; conosciuto com' ella si eriga sulla fracida base di un pregiudizio materiale e cieco: vano è sperare di trovare in essa una buona Ontologia. Tuttavia vediam brevemente quali sieno le partizioni dell' ente, che questo filosofo ci viene proponendo. L' ente di Kant, parte prodotto, parte dipendente dalle facoltà dell' uomo, dovea partirsi come queste facoltà; le quali egli riduce a tre: Senso, Intelletto, Ragione . L' Estetica trascendentale, cioè la dottrina della sensitività, ci sembra la parte migliore della « Critica della Ragione pura ». Ma ella soggiace tuttavia alle seguenti opposizioni: 1 Kant, seguitando non pochi filosofi che il precedettero (1), considerò lo spazio ed il tempo come fossero cose della stessa condizione: e dichiarò il primo forma della sensitività esterna, e il secondo forma della sensitività interna. Ma il tempo non si riferisce meno agli enti esterni, cioè a quelli che sono nello spazio, che agli enti spirituali, come sarebbe l' anima nostra e le sue modificazioni: dunque se fosse forma della sensitività, egli dovrebbe esserlo non meno dell' esterna che dell' interna. 2 Il tempo non si può pensare se non come una successione di cose almeno possibili; e se non si pensa questa possibilità, non si pensa al tempo: laddove io posso pensare lo spazio, non già senza la possibilità de' corpi, ma bensì senza pensare alla possibilità de' corpi, come un' estensione illimitata vacua del tutto (2). Quindi il concetto del tempo stà essenzialmente nella relazione di più cose che si succedono. All' incontro lo spazio si concepisce immobile, indivisibile, uniforme, senza alcuna necessaria relazione ai corpi. Il tempo adunque come concetto, consistendo in una relazione, esige un oggetto intellettuale; perocchè ogni relazione tra più cose che non agiscano tra loro, appartiene alla mente, appartiene cioè all' ordine che hanno le cose nella mente «(V. Antrop. , p. 276, 277) ». 3 Se poi si cerca in che consista tale relazione, ella si trova nella limitazione e mutabilità delle cose contingenti, riferita dalla mente all' illimitazione, immutabilità, ed eternità dell' ente, col quale conosciamo le cose. Ma questa eternità dell' ente che sta innanzi alle menti, benchè necessaria a concepire il tempo come termine di confronto, tuttavia non è lo stesso tempo. Laonde quel tempo puro di cui parla Kant come necessario a conoscere il tempo empirico, non è il tempo, ma è la stessa eternità dell' ente di cui noi abbiamo l' intuito, alla quale noi confrontiamo le cose variabili, o possibili o reali. Imperocchè veramente noi non potremmo dire che le cose si succedono, non potremmo concepire la successione, se non avessimo prima concepita la non successione, cioè la stabile presenza dell' ente; quel concetto supponendo questo come un suo relativo antecedente. Noi abbiamo già dimostrato nella « Psicologia » che la successione non può essere concepita, se non è tutta simultaneamente presente allo spirito: il concetto dunque della successione dimanda un modo di concepire simultaneo ed immobile, e questo ci viene dalla natura dell' ente intuìto che è fuori dello spazio e del tempo «( Psicol., p. 1179) (1) ». Il tempo astratto dalle cose è un ente di ragione, un vero concetto astratto e composto; ma il tempo affermato nelle cose è un' entità mista consistente in « un rapporto differenziale che hanno le cose contingenti da noi concepite coll' essere immutabile da noi intuìto, il qual rapporto sta nel riconoscere la successione di quelle nella presenzialità di questo ». 4 All' incontro lo spazio ha egli natura di concetto intellettivo? Quei filosofi che l' asseriscono come Kant (1), confondono il concetto dello spazio collo spazio. Che lo spazio abbia un concetto come l' hanno tutti i corpi, ciò è indubitato; ma che lo spazio stesso sia un concetto, questo è falso. 5 Kant dice che [...OMISSIS...] , e con ciò intende provare la necessità dello spazio, e quindi la sua provenienza soggettiva. Ma egli è falso, che non si possa prescindere col pensiero dallo spazio. Quand' io penso ad un' idea, o ad uno spirito, non penso allo spazio. Ora non potrei io limitare il mio pensiero a pensare a tali cose immuni affatto di spazio? E non posso anche concepire la possibilità che Iddio avesse prodotti de' soli spiriti, i quali non pensassero che a cose spirituali, nel qual caso egli non avrebbe creato lo spazio. Niente di ripugnante in ciò. Lo spazio adunque non è necessario, ma contingente, e creato. Che cosa è adunque lo spazio? Egli è un termine del nostro sentimento fondamentale; è una realità: egli appartiene dunque alla potenza della sensitività corporea come un' antecedente e condizion sua necessaria; è una forma, ma forma distinta dalla stessa sensitività, come più a lungo abbiam detto nell' « Antropologia » e nella « Psicologia » «( Antrop. , II; Psic. p. 554 e seg.) ». 6 Finalmente Kant crede che senza spazio e tempo non si possa pensare, non si possa avere alcun oggetto nel pensiero, e che per ciò essi si trovino in tutti i concetti dell' intendimento (1). Ma benchè ad assentire a questa dottrina siano inclinati gli uomini, perchè la loro attenzione è assorbita, quasi direi, dai corpi e dai loro fenomeni; tuttavia non lice ad un filosofo procedere così materialmente da non intendere che la mente pensa alle essenze le quali sono per sè oggetti, e sono tuttavia immuni da ogni spazio e da ogni tempo. Dal quale errore di fatto Kant ritrasse un grande svantaggio nella deduzione delle sue categorie, perocchè egli non pensò a classificare in esse se non gli oggetti che soggiacciono allo spazio e al tempo, come tosto vedremo (1). Veniamo ora alla derivazione de' concetti fondamentali della mente che Kant appella categorie. Kant primieramente confonde i giudizi co' concetti , descrivendo quelli come un' aggregazione di questi. Egli è prezzo dell' opera, che noi qui esaminiamo con qualche diligenza la dottrina Kantiana del giudizio, onde il nostro filosofo deduce tutta quanta la sua teoria filosofica, discoprendo i vizŒ di questa teoria nella loro radice, dopo avere svelati quelli che giaciono ne' preliminari di lei. A tal fine esponiamo la dottrina del giudizio colle parole stesse di Kant. [...OMISSIS...] . Egli prende quindi a classificare queste funzioni dell' unità nel giudizio , e ne fa uscire quattro generi dei giudizŒ, suddiviso ciascuno in tre specie, e così trova dodici classi di giudizŒ, ciascun de' quali somministra un attributo generale; e questi dodici attributi sono i dodici concetti fondamentali , ossia le dodici categorie di Kant. Ora ecco i vizŒ radicali di questo che egli chiama « « filo conduttore per iscoprire i concetti puri dell' intendimento » ». 1 Dicendo Kant che giudicare (sinonimo di pensare) è conoscere per via di concetti, egli omette nella definizione del giudizio quell' elemento che ne costituisce l' essenza, voglio dire la copula. La copula di ogni giudizio, anche del giudizio negativo, si riduce all' affermazione , onde fu detto giustamente che giudicare è affermare . Quindi è del tutto falso, che giudicare sia conoscere per via di concetti: anzi il vero si è che « « giudicare è conoscere per via di affermazione, o, se si vuole un termine più generale, per via di predicazione » ». Nell' atto di affermare o di predicare sta l' essenza del giudizio. Ora il conoscere per via di concetti, e il conoscere per via di affermazione, sono cose distintissime, e costituiscono le due grandi classi del sapere umano che abbracciano « le cognizioni ideali », o, come noi sogliamo anche chiamarle, intuitive, le quali sono quelle che si hanno per via d' idee o di concetti; e « cognizioni di predicazione »; alle quali soltanto appartengono i giudizŒ «( Psicol. , n. 1006 e seg.) ». 2 Non avendo Kant conosciuta la differenza essenziale che passa fra il conoscere per concetto, e il conoscere per affermazione, egli disse che [...OMISSIS...] . Se ogni cognizione umana fosse un conoscere per meri concetti, nulla si conoscerebbe per via di giudizio ossia per via di affermazione. All' incontro Kant dice ancora, che tutto si conosce per via di giudizŒ. Ella è questa in se stessa una patente contraddizione; la quale nasce dalla confusione fatta da questo filosofo tra concetti e giudizŒ; avendo egli nel seno dei concetti introdotti, senz' accorgersi, i giudizŒ. All' incontro concetto e affermazione sono cose affatto distinte: il concetto pone innanzi alla mente l' essenza delle cose racchiusa nel concetto, e questa essenza è data all' uomo, non già formata dall' operazione dello spirito stesso: l' uomo non fa che intuirla tale quale gli è data (1). Erra dunque grandemente Kant sopprimendo una delle due grandi classi del conoscere umano; cioè confondendole in una, ed a quest' una concedendo gli attributi di entrambe. 3 Ma onde una tanta confusione in un pensatore così profondo? - Dal sensismo del suo secolo; ed ecco in che modo ella provenne. I sensisti non arrivano mai e non possono arrivare ad intendere la natura del concetto, perocchè essi non riconoscono altri oggetti che quelli somministrati dall' esperienza dei sensi. Kant professa espressamente questa dottrina, e con essa incomincia la sua « Critica della Ragion Pura », ammettendola come cosa fuori di controversia, e non bisognevole di prova alcuna (2). Or tutto il criticismo non è altro in fine, che lo sviluppo di questa prima proposizione sensistica introdotta senza la menoma prova. Posto adunque che non si abbiano altri oggetti de' sensi, ne seguiva che nè pure fossero possibili de' veri concetti, perocchè concetti senza oggetto alcuno, sono un bel nulla. Per essere coerenti conveniva adunque negare affatto l' esistenza de' concetti, come fecero altri sensisti. Ma fra i sensisti ve n' ebbero alcuni a cui ripugnò di negare affatto i concetti, i quali sono ammessi da tutto il mondo, e la cui esistenza è troppo evidente; e di questi uno fu Kant. Che fecero adunque questi sensisti? Falsarono la definizione de' concetti: ne ritennero il nome, ma ne descrissero la natura tutto in servizio del sensismo da essi professato. Ecco in che modo alcuni pretesero che i concetti non fossero che collezioni d' individui (1). Kant venne allo stesso, ma il disse più oscuramente, usando il suo solito stile. Disse cioè, che i concetti contenevano in sè un moltiplice , una varietà, [...OMISSIS...] cioè tutti gli oggetti a cui si possono riferire; e che era lo spirito quello che esercitando una sua propria funzione (2) dava l' unità a quel vario moltiplice. Egli parla a lungo di questa sintesi che vi fa nascere dall' unità della coscienza del soggetto percipiente; il che se fosse, non si avrebbe che un concetto solo. Perchè il soggetto percipiente è un solo, Egli non considera che avanti il molteplice deve essere il semplice, e che ogni semplice basta a fare che l' intendimento intuisca un concetto. Egli non considera che l' essere ogni concetto generale non vuol dire che egli sia moltiplice, come diremo tantosto; nè s' accorge che l' introdurre una facoltà della rappresentazione è un pregiudicare la questione, perchè si tratta appunto di questo, come sia possibile la rappresentazione; e prima ancora, che cosa sia la rappresentazione, qual sia la natura di questa facoltà supposta di rappresentarsi le cose. 4 Ma per venire a quel che dicevamo, egli è un errore di tutti i sensisti il prendere la generalità propria de' concetti per una loro moltiplicità. Generalità e moltiplicità sono cose non solo diverse, ma opposte. Quello che è moltiplice, non può esser generale in quant' è moltiplice, perocchè la nozione del moltiplice non dà che un aggregato di particolari, a ciascuno de' quali manca la generalità. Il solo semplice può avere la dote della generalità . Per convincersene basta osservare attentamente in che consista la generalità de' concetti, e si vedrà che un concetto benchè generale è semplicissimo. In fatti che cosa vuol dire un concetto generale? Non vuol dire altro se non che con quel concetto si conoscono infiniti individui possibili: per esempio, col concetto uomo io conosco tutti gli uomini possibili in quanto sono uomini. Ma qui si noti: tutti questi che si conoscono, esistono fuori del concetto; ma tutti hanno la stessa relazione col concetto come col loro tipo comune. La pluralità dunque non è nel concetto, ma è negli individui che si conoscono col concetto, e che non sono il concetto. Confondere gl' individui conosciuti col concetto che li fa conoscere, attribuire la pluralità di quelli a questo, che, benchè semplicissimo, li rende noti, è il perpetuo errore de' sensisti, l' errore dominante nel sistema di Kant. La generalità dunque, ovvero universalità del concetto non è alcuna pluralità, ma non altro significa se non che quel concetto ha una relazione identica con molti individui, e questa relazione consiste nell' essere egli la loro comune intelligibilità. Sono adunque affatto erronee le sopradditate parole di Kant: [...OMISSIS...] . E veramente il concetto di corpo non significa mica un metallo, in quanto è metallo, ma significa un metallo in quanto è corpo. Laonde la rappresentazione del metallo come metallo non entra mica nel concetto di corpo. Onde quantunque col concetto, di corpo si possano conoscere tutti i corpi, tuttavia non si possono mica conoscere le loro differenze, nè distinguere un corpo dall' altro: perocchè a qualunque oggetto si riferisca quel concetto, altro mai non dà che una rappresentazione sola, quella di corpo; e se voglio conoscere il metallo o altra specie di corpo ho bisogno di altri concetti. Onde niun concetto fa conoscere altro se non una sola essenza: e se fa conoscere più essenze, non è un concetto solo, ma più concetti composti. Onde il dire che un concetto contiene in sè altre rappresentazioni, è un confondere un concetto con altri concetti che si possono benissimo aggiungere al primo, ma che non sono il primo. Ogni concetto adunque è semplice come tale, ed è universale in questo senso che l' essenza, cui rappresenta, può essere realizzata replicatamente senza fine; e tutte queste realità, in quanto realizzano quest' essenza, con quella sola e semplice essenza possono essere conosciute. 5 Trasportando adunque Kant nei concetti le proprietà dei reali, che coi giudizŒ si conoscono, come la plurità e la varietà, non è maraviglia ch' egli non potesse più distinguere la scienza che si ha per via di concetti, dalla scienza che si ha per via di giudizŒ; e che definisse il pensare, cioè il giudicare, un conoscere per concetti. Non riguardò adunque più il concetto se non come un elemento del giudizio, che però dall' analisi del giudizio si doveva desumere, definendo il concetto unicamente come « l' attributo di un giudizio possibile », e così disconoscendo che il concetto, come tale, ha un valore suo proprio antecedente al giudizio; giacchè il giudizio non è che un' applicazione di esso. A torto adunque egli considerò come « « filo conduttore a discoprire i concetti dall' intendimento la classificazione dei giudizŒ » »; quando anzi la classificazione dei concetti si potrebbe pigliare a filo conduttore per discoprire quali esser possano i giudizŒ. L' aver dunque sommessi i concetti ai giudizŒ, pose Kant sopra una falsa strada, e gli impedì interamente di conoscere la vera natura oggettiva de' concetti, e dell' intuizione che fa di essi la mente. Ma qual fu la classificazione dei giudizŒ di Kant? Fu qual dovea essere, erronea del tutto, dopo che avea attribuito ai concetti le proprietà dei giudizŒ, e a' giudizŒ le proprietà dei concetti, e confusa in una parola l' indole degli uni coll' indole degli altri. Acciocchè le nostre osservazioni riescano più chiare, sommettiamo prima agli occhi del lettore la tavola Kantiana delle diverse maniere di giudizŒ. Ed è la seguente: [...OMISSIS...] 1 Queste quattro grandi classi di giudizŒ ci sono date da Kant sulla sua parola, poichè non fa alcun ragionamento che provi che questa classificazione sia legittima e completa. 2 Che i giudizŒ abbiano qualità , questo è manifesto, ma che i giudizŒ abbiano quantità, relazione e modalità , questo è evidentemente falso. Quando si sono tratte fuori tutte le qualità de' giudizŒ, la loro classificazione è compiuta. Altro è la classificazione de' giudizŒ, altro la classificazione degli oggetti loro. Se noi diremo che i giudizŒ sono affermativi, negativi, limitativi , avremo in qualche modo classificati i giudizŒ; che se vogliamo classificare gli oggetti de' giudizŒ, questi oggetti possono benissimo avere un quanto , un quale , una relazione , ed un modo . Ma ella è regola logica, che « ogni retta classificazione deve avere una base sola »; e quella di Kant varia di base. Perocchè la divisione de' giudizŒ in affermativi, negativi e limitativi ha per base la diversità della copula che costituisce formalmente il giudizio; all' incontro la divisione de' giudizŒ in generali, particolari e singolari, ha per base l' oggetto, ossia la materia del giudizio. Variano adunque le basi della classificazione. D' altra parte, se un giudizio afferma, egli appartiene alla stessa specie, qualunque sia l' oggetto affermato; il contenuto del giudizio non cangia punto la sua specie, e però non può costituire una nuova classe. La quale osservazione non isfuggì interamente alla sagacità di Kant: ma ei pretese giustificarsi dicendo, che non considerava i giudizŒ, come giudizŒ, ma come semplici cognizioni (1). Il che è scusa vana, e di quelle che impacciano il processo del discorso filosofico. Perocchè altro è classificare le cognizioni , altro i giudizŒ: e se voi distinguete quelle da questi, e volete classificar quelle, perchè vi occupate a classificar questi? Si sente da per tutto l' imbarazzo con cui procede Kant, pel principio sistematico di confondere la natura de' concetti colla natura de' giudizŒ. Questa avvertenza cade in acconcio sovente ne' ragionamenti di Kant. 3 Nella tavola di Kant entrano giudizŒ semplici , e giudizŒ composti di più giudizŒ. Così il giudizio problematico « se vi ha una giustizia eterna, il vizioso sarà punito », altro non è che la relazione fra due giudizŒ affermata con un terzo giudizio che si può esprimere così: « l' esserci una giustizia eterna, e l' esser punito il vizioso, sono due concetti conseguenti ». Ma i giudizŒ semplici ed i giudizŒ composti non debbono confondersi insieme, perchè « ella è pure regola logica che deve esser unico l' oggetto che si divide o classifica ». Quindi volendo dividere i giudizŒ in genere, prima di tutto conveniva partirli in I semplici, e II composti; e poscia dare separatamente la sotto7classificazione degli uni e degli altri. 4 Un' altra regola logica, che presiede alla retta classificazione, si è che « un membro della divisione non deve entrare nell' altro ». Ma nella tavola de' giudizŒ data da Kant i giudizŒ categorici ed i giudizŒ assertorii entrano evidentemente ne' giudizŒ affermativi , e così pure i giudizŒ che Kant chiama generali, particolari , e singolari non possono essere che una suddivisione di giudizŒ affermativi. Molt' altre osservazioni si potrebbero fare sulla tavola de' giudizŒ data da Kant, ma per istudio di brevità lasciandole, coglieremo in quella vece l' occasione di porgere qui un' altra tavola della classificazione de' giudizŒ, senza spirito di sistema, dal confronto della quale si potranno facilmente distinguere i varŒ errori della classificazione Kantiana. Come ogni giudizio ha tre parti, il soggetto, la copula e il predicato, così la divisione de' giudizŒ deve esser triplice. [...OMISSIS...] I rapporti d' una classificazione coll' altra non sono difficili a rilevarsi, ma noi gli intralasciamo non iscrivendo noi ora una Logica . Tornando ora dunque a Kant, dalle predette forme de' giudizŒ egli cava i suoi concetti fondamentali, come li chiama, ossia categorie, che ei definisce altrettanti attributi di giudizŒ possibili; le quali categorie sono le dodici seguenti: unità, pluralità, totalità (quantità); realità, negazione, limitazione (qualità); inerenza e sostanza, causalità e dipendenza, comunità ossia reciprocità tra l' agente e il paziente (relazione); possibilità e impossibilità, esistenza e non esistenza, necessità e contingenza (modalità). Noi abbiamo esaminata la classificazione di queste forme in un luogo del « Nuovo Saggio », a cui rimandiamo il lettore (1). Di più dalla critica, che testè abbiamo fatta delle classificazioni de' giudizŒ, risulta quanto esse, come loro legittime figliuole, devano essere manchevoli. Riporteremo adunque soltanto l' avvertenza che quella divisione di forme, secondo lo stesso scopo dell' autore, non è ontologica , ma puramente dialettica, e però ella è tale che non ci può somministrare in modo alcuno la partizione dell' ente o le sue passioni. Il che riceve conferma da questo, che essendoci elle date come altrettanti attributi , ossia predicati de' giudizŒ, esse escludono di considerare il soggetto come soggetto; quando pure il soggetto, se è reale, è la base di ogni entità. Oltre a ciò in esse non apparisce alcun ordine tra le varie classi, nè si trova perchè siano così distribuite. Certo che se si fosse trattato di porgere una tavola di categorie ontologiche , non conveniva cominciare dalla quantità, la quale suppone antecedentemente la sostanza, e una sostanza reale, e di più una sostanza determinata, cioè quella che riceve il più e il meno. S' aggiunge che le forme di Kant non comprendono che concetti ideali, negativi; sicchè il positivo dell' ente, che consiste nella realità del sentimento, non si trova affatto. Perocchè la parola realità , che è la quarta categoria, si è presa in senso improprio, non per accennare la realità che si manifesta nel sentimento, ma per indicare l' affermazione che fa lo spirito pronunciando un giudizio. Ora in una tavola di categorie veramente ontologiche non può mancare il più, qual è il positivo dell' ente, ossia la sua vera realità sentimentale. Ancora, le tre categorie di relazione non esauriscono tutte le forme della relazione. Poichè primieramente mancano tutte le relazioni ideali, come la dipendenza della conseguenza del principio; mancano tutte le relazioni nazionali, come la congiunzione di un predicato ad un soggetto dialettico, la qual congiunzione non si fa per via d' inerenza, come, per es., dicendo « il giudizio è un' operazione della mente », non è mica che l' operazione sia inerente al giudizio, perchè ella è identica col giudizio, il quale è quel luogo logico chiamato «Horos» da Aristotele. Ancora, la nona categoria dimostra il pregiudizio che l' azione e la passione siano reciproche; quando ci sono passioni ed azioni che non finiscono in un solo soggetto (1). Ancora, l' undecima categoria, cioè l' esistenza , è un genere che si suddivide nelle due specie di esistenza necessaria , ed esistenza non necessaria ma contingente: e però le tre ultime categorie non si dividono ex aequo come esigono i logici. Ma sarei infinito se volessi continuarmi in tutti i difetti delle categorie Kantiane; veniamo dunque alle idee della ragione. Come Kant derivò i concetti dell' intelletto da giudizŒ (1), così egli tolse a dedurre le idee trascendentali da raziocinŒ (2). L' unire la varietà dell' intuizione (percezione soggettiva) e farne uscire i concetti, è secondo Kant la funzione dell' intelletto , e chiama questo risultato la sintesi dell' intuizione. Noi abbiamo veduto, che v' ha qui un grande errore in darsi a credere che nel concetto vi abbia l' unificazione di una varietà; anzi niuna varietà cade nel concetto per quantunque generale; ma la varietà e la moltiplicità sta tutta fuori del concetto, cioè nelle relazioni che questo ha coi varŒ oggetti, ch' egli può farci conoscere sotto l' identica ragione. L' unire la varietà de' concetti facendone uscire uno della massima generalità il quale stabilisca la maggiore di un sillogismo, e così si possa ragionare, è la funzione della ragione. Il raziocinio per Kant è « « un giudizio ( conseguenza ) che viene determinato (cioè reso necessario) da un altro giudizio dato più generale ( maggiore ), mediante una condizione ( minore ) » ». Per es., « Caio è mortale »: è un giudizio che viene reso necessario dal più generale « l' uomo è mortale », mediante la condizione che Caio sia uomo. Ma anche la maggiore del sillogismo può essere condizionata, cioè discendere da un' altra proposizione più estesa, mediante una condizione sua propria. Onde non si può giungere ad una cognizione assoluta , se non percorrendo ed abbracciando tutta la serie delle condizioni, trovando così l' incondizionato. Quest' è quello che esige la ragione, nè si può accontentare d' una cognizione condizionata, la quale è nulla senza la sua condizione. Ora questa funzione della ragione , per la quale ella sintetizza i concetti, come l' intelletto sintetizzò le intuizioni della sensitività, conduce a tre oggetti , condizioni ultime del ragionamento. Ma non si creda per questo che Kant attribuisca per ciò alla ragione alcuna virtù di far conoscere questi oggetti veramente, quasi fossero oggetti in sè indipendenti dalla funzione predetta della ragione: nulla di ciò; essi non sono che illusioni . E qual ragione adduce di questa impotenza della ragione? Sempre il primo pregiudizio, la proposizione gratuita, supposta senza prove fino a principio dell' opera, cioè, che la sola sensitività dà all' uomo veramente oggetti. Dunque, allorquando l' intelletto o la ragione presentano oggetti, questi non possono essere altro che illusioni poichè non sono dati dalla sensitività!!! La sensitività ha l' esclusiva virtù di dare oggetti presso questi signori; e se poi cercate il perchè, non ne trovate altro, se non il fatto che la sensitività, colle sue prevalenti impressioni, li fa acciecati e legati al suo carro trionfale. Ma seguiamo la deduzione delle tre idee trascendentali della Ragione Kantiana. La ragione mediante il sillogismo lega i concetti trovando che l' uno è vero perchè contenuto nell' altro dato mediante la condizione ossia il termine medio. Consistendo dunque il raziocinio nella relazione di un giudizio con un altro, converrà ricorrere alla categoria della relazione per classificarli. Questa si divide in tre forme: 1 d' inerenza e sostanza; 2 di causa ed effetto; 3 di reciproca azione. Benchè con qualche stiracchiatura (1) queste tre categorie pretese Kant di dedurle dalle tre classi di giudizŒ categorici, ipotetici , e disgiuntivi , le quali appellazioni segnano di conseguente anche le tre supreme classi di raziocinŒ. Or dunque, ragiona Kant, esigendo la ragione di pervenire alla cognizione incondizionata, dee pervenire a ciò che dia unità a tutta la serie delle condizioni in ciascuna di quelle tre maniere di relazioni. Or quanto alla prima, che è quella d' inerenza e di soggetto, la ragione perviene all' unità assoluta e incondizionata del soggetto pensante , argomento della Psicologia; quanto alla seconda di causa e d' effetto, perviene all' unità assoluta della serie delle condizioni de' fenomeni , argomento della Cosmologia; quanto alla terza di reciproca azione o d' enumerazione de' possibili, perviene all' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero in generale, argomento della Teologia trascendentale. Quest' è quanto dire che l' idea dell' Anima intelligente, del Mondo, e di Dio, sono condizioni ultime assolute di tutti i raziocinŒ. E questo è vero. Ma ciò che non intende Kant, si è, che queste idee non sono condizioni del pensare, se non dato che realmente vi abbia l' anima, il mondo e Dio; e che non siano mica illusioni trascendentali. Perocchè, se fossero tali, l' anima, il mondo, e Dio, non vi sarebbero veramente; e così non vi sarebbe veramente il pensare, mancando la sua condizione. Ma, che il pensare vi sia, non è negato nè pure da Kant, il quale gli toglie bensì la virtù di provare l' esistenza degli oggetti, ma non quella di essere; onde noi abbiamo stabilito nel « Nuovo Saggio » il principio che: [...OMISSIS...] . Ma Kant, volendo dimostrare che quelle idee, o più veramente giudizŒ , nulla provano sulla reale esistenza dei loro oggetti; prende audacemente a dimostrare, che la ragione ammette tali oggetti non per veri ragionamenti, ma per via di certi paralogismi, o inevitabili sofismi, non già dell' uomo ragionante, ma della ragione stessa; di modo che questa non è solo impotente , ma essenzialmente mendace (2); il che se fosse, la natura stessa della ragione sarebbe cattiva. Il Manicheismo adunque è nel sistema di Kant. Ma egli è pur singolare a vedere come un individuo pretende di convincere di menzogna la ragione stessa degli uomini nella sua propria natura! Perocchè, o quest' uomo in far ciò usa della ragione, e usandone mostra di credere ch' ella è verace, ovvero intende di mentire egli stesso (e, s' egli mente, la ragione è giustificata); ovvero egli si fa un Dio, cioè un Dio falso, che prende a calunniare le opere del Dio vero. La superbia di Satana è dunque ancora nel sistema di Kant. Ma seguiamolo un poco nei suoi deliri. Espone prima il paralogismo , com' ei lo chiama, della ragion pura , cioè il sofisma con cui egli pretende che la ragione inganni l' uomo quando ella gli dice che v' ha un soggetto che pensa. Il preteso paralogismo, secondo lui, è questo: « Ciò che non può essere concepito che come soggetto non esiste che come soggetto, e perciò è sostanza; Ma un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può essere pensato che come soggetto; Dunque egli non esiste che come tale, cioè come sostanza ». Ora il Kant dice che questa conclusione è dedotta per sophisma figurae dictionis . E la prova ch' egli dà del suo asserto, ridotta a poche parole, è la seguente: « La sola intuizione, cioè la sola percezione de' sensi, somministra de' veri oggetti. Quindi la maggiore del sillogismo sarebbe una, se il soggetto concepito come soggetto potesse essere dato dall' intuizione sensitiva. Ma nella minore si parla di un soggetto, che non è dato e non può esser dato dall' intuizione sensitiva, ma è solo considerato per tale dal pensiero e dall' unità della coscienza. E però, non essendo un tal soggetto dato dalla intuizione sensitiva, egli non può essere un oggetto reale; ma solo un' apparenza o illusione trascendentale ». Muove sempre adunque il nostro filosofo dal suo diletto pregiudizio sensistico, che il solo senso somministra veri oggetti, e se ciò gli si accorda, egli ha ragione. Ma poichè per contrario questo sensismo è al tutto erroneo; convien dire che il paralogismo è del filosofo, e non della ragione stessa, con cui il filosofo si compiace di mettersi in lotta. D' altra parte egli ancora ignora, che nel sentimento vi ha sempre qualche cosa di sostanziale, e non dei puri fenomeni; e che questo vale specialmente pel sentimento interno che l' anima ha di sè stessa. Egli non punto osserva che nel sentimento suo proprio l' anima e sente la varietà delle sue modificazioni, e sente sè stessa soggetto unico e identico di esse; e questa parte del sentimento ha tutto ciò che racchiude una definizione legittima, e non già arbitraria, della sostanza «( Psicol. , p. 104) ». Dopo aver dunque Kant preteso di dimostrare, che non già l' umano individuo, ma la stessa ragione umana per sua natura paralogizza quando cerca di stabilire l' unità assoluta, incondizionata del soggetto pensante; egli passa a criticare i passi della ragione , quand' ella giunge all' unità assoluta della serie delle condizioni dei fenomeni , cioè del Mondo. E qui deride e sossanna la ragione umana più atrocemente ancora. Perocchè egli dice che il paralogismo, col quale la ragione stabilisce l' esistenza d' un soggetto pensante, almeno produce un' apparenza in un solo senso, senza che produca in pari tempo un' apparenza contraria. [...OMISSIS...] All' incontro quando la ragione cerca l' unità assoluta delle condizioni de' fenomeni (mondiali), allora ella produce a sè stessa non solo apparenze, ma apparenze contrarie, cioè intrinsecamente si contraddice. Egli stabilisce quattro di queste contraddizioni della ragione circa il mondo, che egli chiama antinomie, ossia conflitto di tesi apparentemente dogmatiche. Kant adunque pretende di cogliere in contraddizione la ragione stessa , e per coglierla con sicurezza, che cosa fa? Le mette egli stesso in bocca le parole che ella deve dire per contraddirsi: la fa parlare come egli vuole. Questa impresa suppone due cose non piccole: 1 La prima che al filosofo sia facile il mettersi in persona della ragione umana, e parlare proprio colla bocca di lei: il filosofo nostro, se è di buona fede, deve essere intimamente persuaso, di conoscere perfettamente ciò che direbbe la ragione in persona, se ella fosse una persona che potesse parlare. 2 La seconda, che al filosofo sia possibile, dopo essersi messo in persona della ragione e stabilito quello che la ragione stessa direbbe se parlasse colla sua bocca, di sollevarsi AL DI SOPRA DELLA RAGIONE, e, chiamatala al suo tribunale, convincerla di aver dette delle contraddizioni. L' alta persuasione che dimostra Kant di sè stesso arriva a tutto ciò, ed ecco adunque, come la ragione umana parla per la bocca di Kant, suo (1) critico e maestro a bacchetta. [...OMISSIS...] A confutare queste pretese contraddizioni della ragione basta solo una parola: la ragione non parla così. Perocchè certo Kant in nessuna maniera può dimostrare direttamente, che così appunto parli la ragione com' egli la fa parlare. Che se egli non ispaccia più l' autorità della ragione stessa , ma discende a provare con suoi propri ragionamenti prima la tesi, e poi l' antitesi, in tal caso non è più la ragione, ma è egli stesso che si contraddice; almeno il certo ed evidente risultato delle antinomie si è questo, che « l' uomo individuo, chiamato Emanuele Kant, non giunse colla forza del suo ingegno a dissipare quelle contraddizioni, sieno poi esse vere od apparenti ». Che dunque le antinomie provino ad evidenza la limitazione dell' ingegno di Kant, questo è indubitato; ma non è egualmente indubitato che provino la limitazione della ragione stessa, come pretende Kant che provino per uno scambietto, e molto meno la sua intrinseca lotta, che la renderebbe positivamente stolta e suicida. Se quelle contraddizioni o antinomie fossero proprie della stessa ragione, (il che veramente asserì Kant ma nol provò, perchè non poteva in modo alcuno provarlo), in tal caso noi non apriremmo bocca, perchè non vorremmo metterci in lotta colla ragione nè pure per difenderla dal suo proprio furore, (il che d' altra parte ci sarebbe impossibile), e ci rassegneremmo ad essere anche noi stolti, avendo una ragione stolta, come gli altri uomini: se pure alla ragione, che si è contraddetta una volta, non fosse piaciuto di contraddire ancora le sue contraddizioni; il che non sarebbe impossibile, giacchè se nell' essenza della ragione umana è la contraddizione; chi mai potrebbe mettere un limite alle sue contraddizioni, che dovrebbero forse essere altrettante quanti i suoi atti? Ma posciachè le contraddizioni o antinomie non della ragione, ma sono di un uomo che si chiama Kant, il quale introdusse sulla scena la ragione personificata facendola parlare, quasi come dei proprii rispettabili personaggi suol fare il burattinaio; noi non temiamo punto di entrare a vedere se sia possibile di uscire dall' intrico, in cui questo uomo si confessò preso quasi fra l' uscio e il muro. Ripigliamo dunque ad una ad una le tesi e le antitesi, e mettiamo a prova il valore degli argomenti coi quali Kant intende provare le une e le altre. La prima tesi si è che « « il mondo abbia cominciato, e che lo spazio sia finito » ». Che il mondo abbia cominciato, si prova da Kant discretamente; e noi l' ammettiamo pel suo e per altri argomenti. Che lo spazio sia finito, Kant lo prova dalla supposizione che egli fa, che lo spazio non sia altro che un aggregato di parti, e che lo spirito acquista il concetto dello spazio con unire successivamente queste parti. Ma noi neghiamo affatto che lo spazio puro abbia parti, diciamo anche ch' egli è per sè semplicissimo e indivisibile, e termine del nostro sentimento fondamentale. Le parti appartengono ai corpi ed alle sensazioni prodotte da corpi, come sono le superficie ed altre astrazioni fatte sui corpi come le linee ed i punti. Onde l' argomento di Kant prova che sia limitato quello spazio che è occupato da corpi, o che è segnato dal nostro spirito per via di solidi, superficie, linee, e punti mobili; e questo spazio appunto perchè è limitato e misurato non può essere infinito. Ma niente vieta, che lo spazio puro come termine di un sentimento fondamentale sia infinito. L' antitesi opposta, si è che « « il mondo non abbia principio, quanto al tempo, nè confine quanto allo spazio » ». E circa i confini dello spazio noi vedemmo che convien distinguere: lo spazio, quale spazio puro, non ha confini come dicemmo, e come dimostrano anche gli argomenti che per provare quest' antitesi adduce Kant; all' incontro lo spazio occupato dai corpi ha confini, come anco provano gli argomenti addotti precedentemente da Kant per provare la tesi. Onde il sofisma kantiano qui si rileva in questo, che ora si parla dello spazio quale i corpi limitati lo somministrano all' osservazione dello spirito nostro, ora si parla dello spazio quale è termine del sentimento fondamentale. Si cangia dunque il soggetto delle due proposizioni opposte, e si vuol far credere che sia il medesimo. A provar poi che il mondo non può aver cominciato, Kant parte da questa proposizione che « « il cominciamento è un' esistenza preceduta da un tempo, in cui la cosa ancor non è » ». Ma questa proposizione è falsa, perocchè il cominciamento d' una cosa può essere preceduto da un tempo, se avanti di essa v' ebbero altre cose; ma se non v' ebbe avanti di lei niuna cosa, come è nel fatto del Mondo, cioè del complesso di tutte le cose contingenti, non vi è tempo innanzi a quel cominciamento, perchè non vi ha successione. Ma Kant dirà, « « che si può immaginare una successione e questa possibile successione è il tempo di cui parla » ». Rispondo, essere vero che a questo tempo o successione immaginaria non si può prescrivere confini determinati; ma questo non fa che un tal tempo possibile sia infinito , ma solamente indefinito , a quel modo appunto che alla quantità possibile della materia corporea, come pure al numero, non si può assegnare un termine, perchè si può sempre immaginare accresciuta, e a qualunque numero si può sempre aggiungere un' unità: il che è quello che S. Tommaso chiama infinito in potenza e non in atto, il quale non è veramente infinito. In secondo luogo, il tempo ossia una successione che si può immaginare come possibile prima del cominciamento del mondo, non appartiene al mondo, al quale appartiene solo il tempo proprio de' reali; e quindi non toglie che il mondo abbia incominciato ad esistere. Il tempo possibile appartiene dunque al mondo delle idee, il quale è nel suo fondo eterno, e non mai cominciato. Quindi il sofisma di Kant consiste anche qui nel mutare il soggetto della proposizione; perocchè con una dice « che è incominciato il tempo reale »; coll' altra, « che non è incominciato il tempo possibile »; le quali proposizioni così spiegate, come debbono essere, cessano di costituire una antinomia. La seconda tesi si è: « « che ogni sostanza composta è composta di semplici, e non esistono che semplici o composti di semplici » ». Primieramente questa tesi è ambigua, e però acconcia al sofista. E` ambigua, perchè la parola semplice ha più significati, e almeno questi due: 1 senza estensione , 2 senza pluralità . Ora, se per semplice s' intende senza pluralità e però si fa equivalere ad uno , egli è chiaro e non bisognevole di prova, che ogni sostanza composta è composta di semplici, perchè questa proposizione è identica a quest' altra « ogni pluralità è composta di unità ». Ma se per semplice s' intende privo di estensione , in tal caso non ogni sostanza composta è composta di semplici, ma di parti estese. Così un corpo è un aggregato di elementi estesi e continui: ma questi elementi, benchè estesi, non sono però composti, nè hanno parti in atto, essendo un puro sbaglio di Kant (comune però ai suoi maestri o condiscepoli, i sensisti) il credere che l' estensione sia un' aggregazione di parti; quando anzi il vero si è, che l' estensione continua, come tale, non ha parti in atto, ed ha solo parti in potenza (le quali non sono parti reali), cioè ha solo parti immaginate dalla mente, la quale può suddividere il continuo indefinitamente, senza che ciò che le rimane cessi mai d' essere continuo, come abbiamo altrove spiegato; onde l' esteso continuo si deve dir semplice, qualora per semplice s' intenda privo di parti e di pluralità. Ma più estesi continui corporei possono, venuti al contatto, comporre un continuo solo, il quale è composto di semplici estesi, benchè senza parti. Queste parti poi del composto non sono determinate dall' estensione, la quale è semplice anche nel composto continuo; ma dalle forze dei singoli estesi, ciascuna delle quali forze, diffondendosi in un piccolo spazio determinato e circoscritto, rimane in qualche modo distinta da tutte le altre. Se poi si parla di semplici volendo significare inestesi, niente ripugna che un inesteso com' è l' anima venga in composizione con un esteso com' è il corpo ed anco con un aggregato d' estesi, com' è il corpo organico composto di molti elementi estesi. Onde questa maniera di composizione risulta da una sostanza semplice (inestesa) con una sostanza non semplice (estesa e composta di estesi). Onde in questo senso è falsa la tesi che non esistano che semplici, e composti di semplici. Finalmente erra di nuovo Kant quando pretende che « « la composizione non è che lo stato esteriore, una mera relazione accidentale delle sostanze » ». Anzi vi ha una composizione sostanziale , ignorata interamente da' sensisti, ma data manifestamente nella natura per modo che « « il composto è sostanzialmente diverso da' suoi componenti » », ossia ha un' altra forma sostanziale «( Psicologia , n. 204, seg.) ». Così il corpo, considerato come semplice materia, e il corpo animato, è sostanzialmente diverso, perchè ha una diversa forma sostanziale. Veniamo ora all' antitesi , la quale si è che « « niuna cosa è composta nel mondo di parti semplici, e nulla esiste di semplice » ». Questa tesi Kant si fa a provarla con due argomenti i più sgangherati. Il primo muove da questa proposizione che « ogni composizione di sostanze non è possibile che nello spazio », la quale è gratuita e falsa. Perocchè l' unione dell' anima col corpo non si fa nello spazio (benchè nello spazio si manifesti); ma si fa nella percezione fondamentale dell' anima, la qual percezione è semplicissima, come abbiamo provato nella « Psicologia », n. 264 seg.. Nè gli basta a condurre a fine la sua prova questo errore, se non vi aggiunge anche quest' altro « « che tutto ciò che occupa uno spazio comprende diversità d' elementi l' uno fuori dell' altro » »: mentre il vero si è che in esteso continuo non vi sono elementi reali ma solo potenziali come abbiamo detto; e però egli non è punto nè poco composto quanto allo spazio. Tutti i fondamenti adunque della sua prima prova vanno in fumo. Il secondo argomento che adduce è questo: « « Il semplice non può essere dato dalla percezione de' sensi; ma la sola percezione sensibile (ch' egli chiama intuizione) dà degli oggetti, e senza questi non ci hanno che idee; dunque noi non possiamo dimostrare che vi abbiano semplici nella natura, ma solo idee di semplici » ». Ognuno vede, che la minore di questo argomento, è il solito pregiudizio sensistico, su cui il Kant fabbrica tutta la sua dottrina. Ciò che abbiamo detto innanzi basta a distruggerla. In secondo luogo egli parla di idee . Ma queste idee son esse semplici o composte? sono nulla o qualche cosa? sono enti corporei nello spazio o enti fuori dello spazio? Questo è ciò che il nostro filosofo stima bene di non dire; ma che il discreto lettore può dire nondimeno a sè, malgrado del suo silenzio. La terza tesi si è che « « la sola causalità secondo le leggi della natura non basta a spiegare i fenomeni, ma vi si esige di più una causalità per libertà » ». L' argomento da lui addotto è efficacissimo a provare questa tesi, il quale consiste in dimostrare che colla sola causalità fisica e non libera si avrebbe un ricorso di cause all' infinito, di cui non si potrebbe aver mai l' ultima, e quindi non si troverebbe mai la spiegazione, ossia la ragione sufficiente de' fenomeni. L' accordiamo completamente. Ma vien l' antitesi negante la libertà; e per istabilirla muove l' argomento da questo principio: « « Ogni cominciamento d' azione suppone uno stato anteriore della causa non ancor operante, onde conchiude che mancherebbe la ragione sufficiente che determinasse la spontaneità della causa ad operare più tosto che a non operare » ». Ma il principio non è applicabile, perchè si può concepire benissimo un' azione che non sia cominciata, e che faccia cominciare l' effetto: sicchè vi abbia il cominciamento nell' effetto e non nell' azione della causa. Così Iddio può e dee aver creato il mondo con un' azione che non ha mai cominciato, con un' azione eterna: e con quest' azione eterna produsse il cominciamento delle cose che sono l' effetto di quella azione. Un secondo errore contiene il ragionamento con cui Kant pretende provare questa sua antitesi, ed è che se vi ha la libertà, questa opererebbe ciecamente , perchè non avrebbe una causa determinante . Qui il filosofo confonde la causa efficiente , colla ragion sufficiente . La libertà non è certamente determinata ad agire dall' azione d' una causa efficiente che la distruggerebbe; ma non opera tuttavia alla cieca , ma sempre col lume di una ragione sufficiente . Ma perchè la ragion sufficiente non opera alla foggia della materia, perciò i sensisti non sanno intendere il modo del suo operare, conciliabilissimo colla libertà. Finalmente noi abbiamo dimostrato ancora, che ogni causa efficiente ha un suo oggetto, e che la libertà ha anch' essa un suo unico oggetto, e quest' oggetto è la scelta tra due volizioni. Onde la libertà è anch' essa una causa efficiente, ma d' indole speciale, perchè ha un oggetto tutto speciale (1). La quarta tesi stabilisce: « « che il mondo si riferisce a un essere assolutamente necessario » ». Ora Kant dice con ragione: « « che ogni condizionato presuppone, rispetto alla sua esistenza, una serie completa di condizioni fino all' incondizionato assoluto, che solo è necessario assolutamente » ». Fin qui siamo, press' a poco, d' accordo. Ma poi soggiunge, che questo assolutamente incondizionato dee essere nel mondo sensibile: e qui comincia il sofisma. Poichè egli muove a ragionare da questo falso principio: « « che il cominciamento d' una successione non può essere determinato se non per via di ciò che precede quanto al tempo » ». Ora questo principio è falso; perocchè il cominciamento d' una successione (nel tempo) può essere anzi determinato da un atto fuori del tempo, e che si fa nell' eternità; come abbiamo detto poco innanzi. Onde non si può trarre in alcun modo la conseguenza che vuol Kant, cioè, che l' assoluto che spiega l' esistenza del mondo appartenga al tempo, e quindi al mondo. L' antitesi poi di questa tesi, secondo il Kant, si è « « che non esiste niun ente assolutamente necessario » ». Questa antitesi viene dedotta dagli errori spacciati precedentemente dal nostro filosofo come verità lampanti. Toglie prima a provare, che l' ente assoluto non può essere nel mondo; perchè in tal caso l' ente assoluto, o sarebbe il primo anello della serie degli avvenimenti successivi, e in tal caso sarebbe senza causa, e non ispiegherebbe il tempo a lui precedente, e la serie degli avvenimenti andrebbe ad un regresso infinito, ed ella non sarebbe necessaria, perchè niuno de' suoi anelli sarebbe necessario. Fin qui il ragionamento corre e vale a distruggere l' errore della tesi, che l' assoluto si contenga nel mondo sensibile. Ma viene poi a provare, che l' ente assoluto non può trovarsi nè pure fuori del mondo: perchè, se la causa del mondo fosse fuori del mondo, per dare a questo il principio essa « « dovrebbe cominciare ad agire, e « la sua causalità così avrebbe luogo nel tempo » ». Quindi questo essere come causa formerebbe parte della serie de' fenomeni successivi del mondo, contro il supposto dalla proposizione. Ma, come abbiamo detto di sopra, si nega al tutto che la causa assoluta comincii ad agire, poichè ella opera con un atto eterno; come si nega al tutto ch' ella, qual causa, abbia luogo nel tempo; perchè il tempo stesso è l' effetto di quella causa; e però ella è affatto immune dal tempo ch' ella produce, producendo il mondo. Tali sono le famose antinomie della Ragion Pura di Kant. Non sono, no, antinomie della ragione; sono proprio antinomie e contraddizioni del sofista che potè sedurre e traviare forse per secoli la Germania. Gli argomenti con cui egli le fortifica non sono nè pure di sua invenzione: sono gli argomenti prodotti e riprodotti dagli empii di tutti i secoli: egli non fece che vestirli d' una misteriosa e solenne oscurità, di un gergo che ebbe un potere magico d' incantare tanti spiriti della sua nazione. Ma io voglio qui notare di più una peculiar lotta che si manifesta nelle varie tendenze di questo sofista speculativamente ATEO, checchè egli si dica, anzi il MAGGIOR ATEO che nel campo della filosofia sia comparso nel secolo XVIII. Egli dunque ha due tendenze: 1 La prima è di sollevar sè stesso sopra la ragione, giudicandola dall' alto del suo tribunale, o più tosto schernendola come una stolta, piena di contraddizioni, e questa tendenza domina in tutta l' opera dal frontispizio « « Critica della Ragione Pura » » fino all' ultima parola. 2 La seconda si è di dimostrare, che l' uomo era chiuso nella sfera della sensitività fisica che sola gli somministra oggetti reali: qui, nel senso fisico, finisce la cognizione umana: di che consegue che negli oggetti de' sensi, nella materia, sia riposto anche il fine dell' uomo. La ragione in fatti, secondo Kant, è una servetta civettella dei sensi: ella non vale se non a farci conoscere viemeglio gli oggetti sensibili, ad unirli, ed a fornirci certe regole utili per dirigere la nostra condotta rispetto a quelli. Ed unicamente per questo fine la ragione ricorre all' idea dell' anima, del mondo e di Dio, siccome a finzioni utili, per concepir meglio gli oggetti dell' esperienza sensibile, e guidarci nel farne uso più utilmente. Kant dichiara assai frequente quest' ultimo fine della sua filosofia speculativa: [...OMISSIS...] . Tali sono le due tendenze della filosofia di Kant, ma Kant, più sagace della sua filosofia, s' accorge che le due tendenze non istanno bene in pace fra loro. Perocchè se la ragione è piena essenzialmente di contraddizioni, se sta del continuo in sul ludificare la mente umana, come potrà essa pur servire all' uomo di guida nell' uso delle cose sensibili? Il filosofo dunque, impegnatosi a mostrare la ragione paralogizzatrice, contraddittoria seco stessa, prestigiatrice rispetto a tutto ciò che eccede la sfera de' sensi corporei, e com' egli dice, l' esperienza; è del pari impegnato a difendere il valore della ragione in tutto ciò che si contiene entro questa sfera del suo uso empirico, ed a sostenere, che gli stessi sofismi della ragione, le stesse illusioni ch' ella ingerisce nell' uomo, sono come a dire pie frodi, cioè hanno un fine utile all' uomo stesso. Allora quando il nostro filosofo è occupato dal pensiero di difendere in questo senso la ragione, egli ragiona così: [...OMISSIS...] . Dunque il paralogismo e le antinomie, che avete prima attribuite alla ragione, non sono proprie della ragione, ma dell' abuso che voi avete fatto di essa: [...OMISSIS...] . E perchè mai? Se l' idea di un essere non ha alcun valore oggettivo, come potete voi dimostrare che la ragione non ci illuda? Vedo bene che voi negate solo che la ragione ci illuda primitivamente , e con questo accordate che ci illude posteriormente. Ma dove fondate voi questa distinzione? Non è ella arbitraria come tutto il resto delle vostre dottrine? [...OMISSIS...] Onde questo ottimo? Forse, anche questa vostra probabilità d' ottimista, potete voi dedurla da altro fonte che da quella ragione stessa, che non ha alcun valore di provare oggettivamente, e tuttavia somministra delle regole suppositorie atte unicamente a compire la sintesi della varietà esperimentale? E in tal caso, che vale questa vostra probabilità? Non è ella una nuova illusione? E con un' illusione volete voi dissipare l' illusione? [...OMISSIS...] . Parole degnissime di tutta la vostra attenzione, o lettori. Deh! con che tuono di severo cipiglio non garrisce qui Kant i sofisti, i quali danno biasimo e mala voce a quella ragione, a cui come ad ammirabile sofisticatrice e lor degnissima madre essi debbono la loro esistenza e la loro coltura! Quale ingratitudine non usano i sofisti colla ragione! E` vero, che la ragione è per sè fonte d' assurdi e di contraddizioni infinite; ma i sofisti, che ne fanno uso, hanno essi il diritto di menar contr' essa tanto schiamazzo? Se ella inganna e delude, ha però un suo secreto fine in far ciò, e dispiega un' azione oltremodo benefica, la quale consiste in conservare appunto al mondo i sofisti, e dar loro quella cultura per la quale conoscendo di essere da essa ingannati, la mordono, senza badare a quel gran secreto ch' ella ha nell' ingannarli, che è di farli esistere!!! Dopo di ciò veniamo all' ultima parte della satira che Kant tanto industriosamente compose della Ragione. La ragione che dialetticizza, come vedemmo, si propone tre scopi: di pervenire all' unità assoluta incondizionata del soggetto pensante , ed ella non ci perviene se non per via di un paralogismo, che le fa credere che esista realmente un' anima pensante; di pervenire all' unità assoluta delle condizioni de' fenomeni mondiali , e a questo non perviene nè manco per via di paralogismi, ma in questa vece cade necessariamente in quattro contraddizioni o antinomie, provando a sè stessa il pro ed il contra della stessa proposizione; di pervenire finalmente all' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero , e rispetto a questo suo terzo e più sublime scopo ella non è più fortunata che rispetto a' precedenti, perchè cade in una illusione trascendentale che le fa credere che esista un essere intelligente suprema causa di tutte le cose. Ma qui entra Kant a soccorrerla, e come egli la liberò dalle illusioni precedenti, così ora la libera dall' illusione di ammettere l' esistenza di un essere supremo. A tal fine Kant, movendo dal suo solito principio che qualsivoglia ragionamento della ragione non può avere alcun valore oggettivo perchè la sola esperienza de' sensi è atta a somministrare de' reali oggetti, e Iddio non cade sotto i sensi, si fa a dichiarare inefficaci l' uno dopo l' altro tutti gli argomenti coi quali si credette fin qui poter provare l' esistenza di Dio. Così Kant s' applaude d' aver tratto d' inganno la ragione! Ma se Iddio non esiste, o la ragione almeno non può provarne l' esistenza, in che maniera soddisferà alla sua esigenza di ridurre ad unità assoluta la serie delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero? Kant crede che a ciò basti il fingere che vi sia Iddio: quest' idea, chiamata da lui Ideale, secondo Kant può servire di regola alla ragione per riuscire a quella unità. Ma se Iddio è quello che dà unità alle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero, e tuttavia non esiste veramente; dunque nè pure quest' unità sarà verace, ma sarà finta e illusoria. A questa difficoltà Kant in sostanza risponde consigliando la ragione a rinunziare a questa sua esigenza di trovare l' unità assoluta delle condizioni degli oggetti del pensare. Perocchè egli dice, che questo bisogno è più tosto un bisogno pratico che speculativo; e che certo, se si vuol soddisfare ad esso, conviene ammettere l' esistenza di Dio. [...OMISSIS...] Per tal modo da prima era la ragione pura quella che esigeva un' unità assoluta di tutte le condizioni degli oggetti del pensiero: ma, posciachè questa esigenza conduce invittamente all' esistenza di Dio, ora si vuole che questa esigenza sia più tosto un cotal impegno o bisogno pratico, quasichè la ragione speculativa ne possa e ne debba far senza. Perchè dunque tante parole sparse innanzi per dimostrare che la ragione pura ha quella esigenza? Per eludere questa esigenza prima confessata e lungamente stabilita della ragione pura, Kant aggiunge, che, quantunque gli enti limitati non mostrino d' aver in sè stessi le condizioni della loro esistenza, tuttavia non si può dire per questo, che essi sieno condizionati. [...OMISSIS...] Il che è quanto dire, che più tosto che ammettere l' esistenza di Dio, si può ammettere il sistema degli atomi d' Epicuro, il concetto de' quali non li mostra a dir vero necessari, ma tuttavia si potrebbero presentare come necessariamente incondizionati!! Ma dove dunque si troverà questa loro necessità, e incondizionalità, se non si trova nella loro idea? Se l' idea di essi non ce la presenta, conviene dunque che sia fuori di essi, e se è fuori di essi, dunque la necessità e la incondizionalità sta nel concetto d' un altro ente, e non nel concetto delle cose finite. Ritorna dunque il bisogno di un Dio per chi non vuole rinunziare alla ragione. In appresso Kant passa a sostenere, che, quantunque l' idea di Dio non provi l' esistenza di alcun essere realmente esistente, tuttavia è un' idea buona per la pratica. [...OMISSIS...] Ma quali sono i principii del suo giudizio? Sono, che l' esistenza di Dio è una illusione trascendentale. Non conosciamo dunque niente di migliore dell' illusione? Convien dunque lasciarsi illudere per soddisfare al dovere di scegliere? Vi può essere un dovere morale che ci obblighi ad abbandonarci all' illusione? E a mentire a noi stessi pigliando come certe le nostre convinzioni imperfette? Che cosa è quest' addizione pratica che possa aggiunger peso agli argomenti che non han peso, se non l' addizione di una menzogna interiore? Quale filosofia può esser quella, che pone la necessità della menzogna interna come base della morale? Chi ha detto a Kant, che la ragione sia un giudice sommamente equo, se è ingannatrice? E che non le rimanga come giustificarsi se commette il peccato di sottrarsi a' propri inganni? Sebbene adunque in niuna parte della sua filosofia Kant possa fuggire le contraddizioni, tuttavia in niuna parte lotta tanto e combatte seco stesso, quanto dove parla della dimostrazione dell' esistenza di Dio. Perocchè prima confessa, che la ragione la esige per trovare l' unità delle condizioni degli oggetti del pensiero; poscia questa esigenza , ora non c' è più, perchè si possano rappresentare come incondizionati gli stessi enti limitati, come Epicuro faceva de' suoi atomi; ora dice, che questa esigenza non è propriamente una prova dell' esistenza di Dio, ma piuttosto un bisogno, un interesse che conduce ad aggiungere qualche cosa alla speculazione; ora finalmente la ammette di nuovo, ma soggiunge che « « la necessità assoluta dei giudizŒ non è la necessità assoluta delle cose »(1) »: il che è quanto dire, che la necessità assoluta de' giudizi non è necessità assoluta, perchè se un giudizio, col quale afferma l' esistenza di un ente, fosse assolutamente necessario, certo dovrebbe essere assolutamente necessaria l' esistenza dell' ente che con quel giudizio viene affermato; perocchè se questa esistenza potesse mancare, il giudizio che lo pone non sarebbe assolutamente necessario perchè sarebbe falso. Lasciando dunque da parte tutte queste appena credibili aberrazioni del sofista, vediamo come egli espone la necessità del suo Dio, che per lui è un' idea vuota di oggetto reale. Noi crediamo di trattenerci ad esporre questo suo ragionamento, perchè egli contiene non già una dimostrazione dell' esistenza di Dio ma bensì una dimostrazione della necessità dell' essere ideale , lume dell' umana mente; onde pigliandola così ella viene a darci una conferma della nostra teoria dell' essere in universale, mostrando la necessità d' ammetterla come ragione sufficiente di tutti i concetti dell' umana mente. Kant espose il problema della ragione così: « « trovare l' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti dell' umano pensiero » ». Ma fino da principio egli pregiudicò la soluzione di questo problema collo stabilire gratuitamente che « il solo senso fisico somministra all' uomo oggetti », e tutte le altre facoltà non hanno altra virtù che di lavorare intorno agli oggetti de' sensi, dovendosi considerare come illusioni trascendentali gli oggetti che esse mai presentassero all' uomo. Kant si tolse con ciò di filosofare liberamente, legato alla catena de' suoi sofismi. Egli distinse adunque: 1 Le intuizioni (percezioni) de' sensi; 2 i concetti dell' intelletto; 3 le idee della ragione; 4 l' ideale. Disse dunque: 1 Che i concetti non possono rappresentare un oggetto senza le condizioni della sensitività, mancando loro le condizioni della realità oggettiva e non trovandosi in essi che la semplice forma del pensare (1). 2 Che le idee sono ancora più lontane dalla realità oggettiva; perocchè esse hanno per loro immediato oggetto i concetti, ai quali cercano di dare unità sistematica. 3 Finalmente l' ideale è ancor più lontano dalla verità oggettiva; perocchè per ideale intende un prototipo di perfezione nel quale sono suppositate le idee, consistendo l' ideale d' ogni spezie in un individuo, a cui di tutti gli attributi opposti se ne dà uno, quello che è richiesto a renderlo quanto mai si può concepire più perfetto. [...OMISSIS...] Questo è in sostanza uno degli argomenti da noi usati per provare che tutti i pensieri, tutte le operazioni della mente umana esigono avanti di sè l' intuizione dell' essere universale , perocchè tutti gli altri concetti altro non sono che determinazioni e limitazioni di quest' essere, e l' universale, l' indeterminato, l' illimitato dee precedere agli atti limitanti, determinanti, particolareggianti. Onde Kant qui mostra d' aver approssimata la verità; ma egli determinò male quale fosse l' essere universale che serve di fondamento alle determinazioni delle cose . Egli confonde l' ideale col reale; perocchè: 1 La parola sostrato propriamente appartiene alle sostanze, e non può esser applicato all' essere in universale, che come un certo traslato. 2 Egli parla di determinazione di cose , e non di concetti e di idee; ma egli dovea in ogni caso aggiungere, che si tratta di cose possibili e non reali. Queste cose possibili si distinguono bensì da' concetti astratti , ma finalmente sono anch' esse concetti, perocchè una cosa possibile è un concetto o un' idea. Se Kant avesse parlato con proprietà, non avrebbe avuto dopo da disfare il fatto; perocchè dopo aver parlato qui di cose , toglie in appresso a dimostrare, che queste cose sono oggetti della ragione, che non hanno alcuna realità, e che si prendono come oggetti ideali per un' illusione trascendentale. All' opposto il vero si è, che niun uomo di buon senso prende nè le idee, nè gli ideali, nè le cose possibili per oggetti reali . Ma se la ragione è impotente di somministrare all' uomo oggetti reali per via d' idee e di concetti; ella può però somministrargliene per via di argomentazioni , cioè di giudizŒ incatenati fra loro; la qual maniera di conoscere non appartiene alle idee, a cui solo Kant pone mente. Questo filosofo dunque sbaglia: 1 nel credere che gli uomini diano alle idee ed a' concetti la virtù di porgere oggetti reali , mentre tutto il mondo non dà loro altra virtù ed officio che di porgere oggetti verissimi sì, ma ideali e possibili; 2 nell' affaticarsi a distruggere questo errore comune che non esiste se non nella mente di Kant; 3 nel voler indurre dal valor meramente ideale delle idee e de' concetti, che anche i giudizŒ ed i raziocinŒ sieno limitati ad avere un valore meramente ideale, senza che possano provare l' esistenza d' oggetti reali; 4 e poichè il ragionamento, quando prova l' esistenza di un ente reale che non cade sotto i sensi, vale bensì a provarci la detta esistenza, ma non a farci conoscere la positiva essenza di quest' oggetto; erra Kant di nuovo nel pretendere di dedurre l' impotenza di provarci l' esistenza di un ente, dall' impotenza di farcene conoscere l' essenza (1). 3 Egli dice che il fondamento delle determinazioni dee contenere in qualche modo la provigione della materia , onde possono esser presi tutti i predicati delle cose; ma qui l' uso della parola materia è di nuovo improprio e capzioso, perchè la materia in senso proprio spetta alla realità: all' incontro i predicati appartengono all' ordine delle idee, e però alla forma, trattandosi di cose possibili. Riconosce adunque Kant la necessità di un' idea, fondamento di tutti i concetti determinati; e noi pigliamo in tanto a conto questa concessione. Egli riconosce altresì che quest' idea , cui nomina anche essere primitivo, è semplice. [...OMISSIS...] Or l' aver conosciuto, che il fondamento di ogni determinazione ideale dee essere un' idea primitiva e semplice, avrebbe dovuto guardare Kant dall' errore di esigere per fondamento di detta determinazione anzi un ideale che un' idea . Perocchè l' ideale è un ente particolare perfetto (2); e i predicati di un ente particolare perfetto, benchè concepito come possibile, sono suoi proprii, esclusivamente suoi; onde non si possono prendere da lui senza privarli dell' adesione che hanno con lui, e così renderli prima idee , cioè generali. Onde egli è una manifesta incongruenza riconoscere la necessità di un fondamento delle determinazioni tutte, e voler poi che questo fondamento sia un ideale, cioè un particolare. Perocchè, se questo ente particolare è l' ideale del sapiente, e se voglio determinare un altro essere col predicato della sapienza; io debbo prendere la sapienza in genere, e non mica la sapienza di quell' ideale del sapiente, la quale è unita a lui per modo, che, se da lui la stacco colla mente, non è più sua, ma è la sapienza in generale. Della quale difficoltà lo stesso Kant ebbe sentore; e fu costretto a confessare che la determinazione non potea considerarsi come una CIRCOSCRIZIONE di quell' ideale; ma quindi cadde nell' assurdo che è via al panteismo, cioè che ella fosse uno sviluppo di quest' ideale stesso, quasichè un ideale, se è ideale e però perfetto, si possa concepire come bisognoso o suscettibile di qualche sviluppo (1). Il che però non vedo come s' accordi con quello che egli aveva detto poco innanzi, [...OMISSIS...] . Lasciando però da parte questa contraddizione, Kant aveva riconosciuto che « « il concetto universale d' una realità in generale non può esser diviso a priori , perchè senza l' esperienza non si conoscono specie determinate di realità comprese sotto quel genere » ». La quale riflessione l' avrebbe condotto dirittamente al vero, se l' avesse scorto a conchiudere, che dunque le determinazioni speciali (almeno le determinazioni positive) non poteano esser date dall' idea che serve loro di fondamento, ma dalla sensitività stessa. Con questo sarebbe venuto a conoscere, che il fondamento di tutte le determinazioni non dovea essere un ideale, ma bensì un' idea, e propriamente l' idea dell' essere indeterminato suscettibile per ciò appunto di determinazioni e di limiti. Ma l' impegno del nostro sofista era preso; egli volea convertire forzatamente quest' idea in Dio, per aver poscia il piacere di disfare questo Dio; il che gli dovea esser facile, perocchè è facile a disfare il mal fatto. Concludiamo: la partizione dell' ente tentata da Kant è dialettica come quella di Aristotile, e non ontologica: ella è di più soggettiva, e fatta d' un lavorìo tutt' a filagrana di sofismi. I fonti logici di un sistema così profondamente erroneo furono due: 1 Il sensismo , cioè il pregiudizio che i soli sensi dessero all' uomo degli oggetti reali: onde venne a Kant l' assunto di dover spiegare tutte le operazioni dell' intelligenza umana in modo che ella non dovesse mai dare all' uomo alcun oggetto, e posciachè ella pur ne dà, di spiegar questo fatto come una illusione. Allo svolgimento di tale assunto si riduce tutto l' idealismo trascendentale. 2 L' astrattismo , cioè il falso metodo di racchiudere la filosofia in pure astrazioni, presupponendo che il problema di essa consista nell' isolare da tutto il rimanente l' elemento razionale puro; il che diviene errore e fonte d' errori, tostochè, invece di considerare l' elemento razionale puro come parte di un tutto da cui è indivisibile, si considera come un tutto egli stesso, atto a dare argomento ad una scienza completa, come pare a Kant «( Psicol. , 1 7 5) » (1). Per soddisfare alle esigenze del principio della ragion sufficiente , i filosofi tedeschi lavorarono i loro sistemi da Kant fino a Hegel. Kant imbevuto del sensismo del suo tempo aveva accordato, senza credere necessario di addurne alcuna prova, che la sensitività fisica somministrava all' uomo oggetti reali, ed era essa la sola facoltà che avesse un tal privilegio. Tuttavia distinse la materia dell' oggetto sensibile dalla forma . Questa ei pretese che venisse dallo spirito, il qual vestiva la materia data dalla sensitività, delle due forme dello spazio e del tempo. Ma in quanto alla materia egli la lasciava come un fatto (empirico). Quindi nel sistema Kantiano rimaneva una dualità; perchè la materia sensibile (vera od apparente) non si poteva ridurre allo spirito come a suoncava la ragione sufficiente di questa dualità: e quindi si argomentò di ridurre ogni cosa ad un principio solo, che contenesse la ragione sufficiente di tutto. Questo filosofo tuttavia non osservò (ed è comune questa inavvertenza a tutti i filosofi della Germania) che, quand' anco venisse fatto di ridurre la pluralità all' unità, non è per questo solo soddisfatto all' esigenza del principio della ragion sufficiente, se non si perviene a tale unità, il concetto della quale contenga in sè la ragione di sè stesso. Così appunto quando Kant uscì a dire, che, quantunque la serie degli eventi mondiali non dimostrino in sè stessi la ragione di sè, o, secondo la sua maniera di parlare, non contengano la condizione della propria esistenza, tuttavia non si può per questo dire che essi non sieno incondizionati, perocchè si potrebbero concepire come assolutamente necessari; mostrò assai chiaro di non capire che cosa significhi ragion sufficiente: perocchè, se l' avesse inteso, avrebbe in pari tempo conosciuto, che ciò che non dimostra nel suo concetto la ragione e la condizione della propria esistenza, o del modo di essa, non l' ha. Perocchè avere in sè la ragion sufficiente, significa essere questa contenuta nel concetto della cosa; giacchè se è fuori del concetto delle cose, è fuori della cosa. Quando dunque un ente non ha la ragione sufficiente di sè nel proprio concetto, e conviene però cercarla altrove; il filosofo non può mica appiccicargliela, come dipendesse da lui il dargliela o il togliergliela: nè può neppure asserire la possibilità che esso l' abbia, contro il fatto che attesta non averla. Or tutto lo studio di Fichte si riduce a trovare un ente, a cui si riducano tutti gli enti; e trovato quest' ente dichiararlo arbitrariamente assoluto, quantunque il suo concetto non sia che quello di un ente condizionato , privo della ragion di sè stesso. Al che s' aggiunga un' altra riflessione preliminare. Tutto l' intento de' sistemi tedeschi, come dicemmo, è quello di trovare una ragion sufficiente della pluralità dell' ente. Ora questo intento suppone, che la stella polare, a cui affidano il corso de' loro ragionamenti, è il principio della ragion sufficiente . Ottimamente. Ma questo è un supporre la validità ed efficacia di questo principio; perocchè a tale validità ed efficacia è condizionato il valore di tutti i loro ragionari. Peccano adunque tutte queste filosofie di petizione di principio; perchè suppongono valido a conchiudere il vero un principio della ragione, mentre essi si propongono or di far la critica della ragione stessa, o di svolgere come nascono i principii della ragione, e come collo svolgimento del pensiero la pluralità stessa degli enti si va producendo. Il che dimostra, che evitare il circolo in filosofia non si può ricominciando di botto dall' ontologia , e che convien muovere anzi dall' ideologia , onde provvedersi di que' principii di ragionare che sono poscia gli stromenti co' quali la stessa ontologia si può edificare (1). Intanto, affine di portare un giusto giudizio de' sistemi tedeschi e de' sistemi ontologici in generale, è da fermare questo principio, che « il loro intento si è quello di dare una ragione sufficiente di tutte le maniere di esistenze »(2). Perocchè, conosciuto questo, noi possiamo esigere, che tali filosofi niente avanzino che sia privo di ragione sufficiente; giacchè, se lo facessero, mancherebbero al loro intento, e sarebbero in contraddizione seco stessi. Fichte adunque per trovare la ragione sufficiente della dualità che restava nel sistema di Kant, pretese che tutto quanto cade nel pensiero, e perciò l' uomo, il mondo, e Dio stesso, conveniva ridursi al solo IO. Egli moveva da questo principio: « tutto si deve rinvenire nella coscienza empirica », e biasimava Spinoza unicamente perchè fosse uscito da questo limite, dove l' uomo è racchiuso. [...OMISSIS...] Il principio, che non si deve uscire dalla coscienza empirica, è certamente specioso. Ma in prima quella parola empirica , che vi aggiunsero i tedeschi, è superflua e dannosa; superflua, perocchè empirica vale sperimentale, e la coscienza è sperimentale di sua natura, giacchè ognuno esperimenta ciò di cui è conscio; dannosa, perchè presuppone l' errore che v' abbia una coscienza non sperimentale, quasichè avere coscienza non fosse una vera sperienza. E quest' errore, insieme col vocabolo male appropriato, schizza appunto nelle filosofie tedesche, le quali tutte per poco presuppongono una coscienza diversa dalla sperimentale, che chiamano ora razionale, ora trascendentale, e che non è coscienza, ma piuttosto un cotal essere finto dall' immaginazione. Ora del principio, che non si deve uscire dalla coscienza, abusano gli idealisti; e della distinzione di due coscienze, l' una sperimentale, l' altra trascendentale, abusano quelli che volendo essere idealisti, pure intendono che al di là de' sensi e delle idee l' uomo ammette qualche cosa, e lo vogliono spiegare senza cessare di essere idealisti, tra' quali ultimi è Fichte. Vediamo adunque in che senso possa esser vero il principio, che non si deve uscire dalla coscienza, e quale ne sia l' abuso che ne fanno gl' idealisti trascendentali. Quest' abuso nasce dall' aggiungere a quel principio altri principii arbitrari, per esempio che un ente non possa inesistere in un altro, rimanendo distinto da quello in cui si trova. Questo principio è supposto gratuitamente da tali filosofi, quando, se avessero voluto consultare puramente la coscienza, questa stessa avrebbe loro data la prova della sua erroneità. La coscienza infatti suppone una dualità, il soggetto e l' oggetto, e suppone che l' oggetto sia nel soggetto, non in senso materiale, quasi come le frutta sono in un paniere, ma nel senso intellettivo, che altro non significa che l' oggetto è presente al soggetto e da lui conosciuto. Questo viene accordato anche da Fichte; ma egli coglie da questo appunto cagione d' uscire dalla coscienza, dicendo che questa dualità non si può spiegare, se non supponendo, che innanzi al soggetto ed all' oggetto v' abbia un punto d' indifferenza, dove si trovi la cagione del soggetto e dell' oggetto medesimo, nel quale punto d' indifferenza egli colloca la sua coscienza pura in contraddizione della coscienza empirica. Ma questa coscienza pura non è coscienza, se teniamo fermo quello che lo stesso Fichte ci ha accordato, cioè che la coscienza esiga un soggetto ed un oggetto. E in vero qual coscienza vi può essere, dove manca il principio che sia consapevole, e manca ciò di cui tal principio possa essere consapevole? La coscienza pura adunque supposta da Fichte come un antecedente alla coscienza empirica, non essendo per niun modo coscienza, sarà tutt' altro, se ella esiste; e questo è quanto dire, che il filosofo è uscito dalla sfera della coscienza, in cui si proponeva di rimanere. Nè basta a trattenerlo il puro nome di coscienza attribuito a quel supposto punto d' indifferenza, quando tal nome non gli conviene. La coscienza adunque suppone un soggetto ed un oggetto, ma non in ogni coscienza cade il soggetto, il quale non ha coscienza di sè che per riflessione, come lo stesso Fichte ci accorda, e però ha bisogno di essere oggettivato acciocchè egli diventi oggetto di coscienza. Nella coscienza adunque, propriamente parlando, non cadono che gli oggetti. Ma la coscienza stessa ci dice che un oggetto non è l' altro, nè si può coll' altro confondere od immedesimare. Ora gli oggetti che cadono nella coscienza sono innumerevoli, e tra questi vi è anche il soggetto che allor si rende consapevole di sè stesso, e ben presto si pronuncia col monosillabo IO. Or come la coscienza ci dà la distinzione di tutti i suoi oggetti, così ci dà la distinzione dell' IO da tutti gli altri innumerevoli oggetti che alla coscienza appartengono. La coscienza dell' IO ci dice bensì, che quest' io è il principio consapevole, ma ci dice in pari tempo, ch' egli, principio consapevole, è un solo di tutti gli innumerevoli oggetti della coscienza, ci dice che l' IO ha una relazione con tutti gli oggetti, ma che non ha la loro natura, che anzi la natura degli altri oggetti è essenzialmente e incomunicabilmente distinta dalla natura dell' IO. Così, quando io affermo me stesso da una parte, e dall' altra affermo un cavallo, una stella, o Dio stesso, è la coscienza, che ho di tutte queste cose, che mi fa conoscere la loro differenza, e m' attesta, che l' essenza del cavallo, o dell' astro, o di Dio, è un' essenza diversa di quella del me, affermante tali cose, e che perciò, se voglio ascoltare la coscienza, debbo prendere tutte queste cose per enti diversi. Vero è, che sono sempre io quell' istesso, che le conosco tutte, il che non vuol dir altro, se non che io ho con tutte la relazione di conoscenza. Ma quella coscienza che mi dice ciò, mi dice del pari che questa relazione non consiste in una identità di natura, ma bensì mi dice che quella relazione non potrebbe essere senza che la natura e gli enti fossero diversi. Onde, sebbene sia vero che per ispiegare la coscienza debbo supporre che un solo sia il principio consapevole, e questa unità di principio mi è attestata dalla coscienza; tuttavia tanto è lungi che sia necessario, per ispiegare la coscienza come vuol Fichte, di condurre tutti i diversi enti ad un solo ente, cioè all' IO, che anzi in nessuna maniera la coscienza umana potrebbe essere spiegata, se non si suppone diversità di enti, cioè se non si suppone, che quelli enti, che sono distinti dalla coscienza, siano distinti realmente. Fichte adunque cozza direttamente contro il principio di tutta la sua filosofia, che, come dicevamo, è quello della ragion sufficiente; perocchè, mentre egli crede di trovare la ragion sufficiente della coscienza nel ridurre tutti gli enti che cadono in essa ad un solo, il vero si è che con una tale riduzione, d' altra parte immaginaria e ipotetica, si distrugge bensì la coscienza, ma non la si spiega, essendo condizione indispensabile della coscienza la pluralità dei suoi oggetti, e l' unità solo di quell' oggetto che è anche soggetto. Fichte è infedele al suo principio di non dovere uscire dalla coscienza anche in un altro modo, cioè distinguendo, oltre la coscienza empirica, una coscienza razionale, la quale egli pretende di ritrovare nella coscienza empirica. Ma come ve la trova? Unicamente per questo argomento ch' ella è necessaria per ispiegare la coscienza empirica . E` dunque una argomentazione che adopera Fichte, colla quale argomentazione parte dalla coscienza empirica in virtù del principio della ragione sufficiente, e viene a questa pretesa coscienza razionale . Ma qual è questa nuova coscienza? questa cotale superfetazione della coscienza empirica? E` quel punto d' indifferenza di cui abbiamo parlato dove non v' ha nè oggetto nè soggetto. Ma senza oggetto e senza soggetto vi ha egli coscienza? No certamente; non resta dunque che una chimera; ovvero un' entità a cui non si può applicare il nome di coscienza, perocchè non vi si trova nè chi sia consapevole, nè ciò di cui possa esser consapevole. Con eguale improprietà egli dà il nome di IO a quella inconsapevole coscienza, cioè non coscienza, ch' egli suppone esistere anteriormente alla vera coscienza che è coscienza empirica; dico la coscienza empirica, cioè sperimentale, in tutta l' ampiezza della parola, non limitata alla sola esperienza degli organi sensorii. Onde pone due IO: l' IO assoluto, e l' IO empirico posto dall' Io assoluto. Ma se vi ha un principio che pone l' Io empirico, questo principio non può essere una coscienza, nè cadere nella coscienza; e però non sarà mai, e poi mai un Io; giacchè l' Io è per sua propria essenza una consapevolezza. Qualora adunque noi vorremo riconoscere per buoni gli argomenti di Fichte, questi ci condurranno alla necessità di riconoscere che l' Io, ossia la consapevolezza d' un principio d' azione intellettiva che pronunzia sè stesso, non può spiegarsi se non si ammette qualche cosa che sia anteriore all' Io, ed alla coscienza, e fin qui l' argomento corre. Lo stesso Fichte dice, che prima che noi venissimo al pensiero della riflessione, si erano succedute nel nostro spirito diverse operazioni spirituali, ma noi non ne fummo consapevoli. Solo ritornando lo spirito in sè, egli PONE SE` STESSO come un essere riflettente e pensante, ed allor solo ci rendiamo conscii di noi medesimi. [...OMISSIS...] Ottimamente: ma ciò che si trova d' antecedente alla riflessione non è mica per questo un' altra coscienza, non è un altro Io; ma è semplicemente uno spirito inconsapevole di sè stesso, e che non pronuncia punto sè stesso; perocchè altro è lo spirito intelligente, il quale è dato dalla natura, altro è l' Io , il quale è quello spirito già sviluppato e però artificiato «( Psicol. 67 7 .1) ». Ma da che fu mosso Fichte a dare il nome di Io a ciò che si trova nell' uomo di antecedente alla coscienza, e però di antecedente all' Io, onde cadde nell' assurdo d' ammettere due Io nello stesso soggetto? (1). Da quel principio male applicato che « tutto si deve rinvenire nella coscienza ». Ora la coscienza stessa lo conduceva fuori di sè, dimostrando d' essere fattizia, e d' aver bisogno d' una causa e di un' azione che la ponesse in essere. La verità del principio della ragione sufficiente risplendeva, e l' uomo poteva rendersi anche consapevole di questo splendore, e questo principio movente di tutta la filosofia conduceva a qualche cosa di anteriore alla coscienza. Ma poichè si era messo il chiodo di non doversi uscire da questa; però se ne usciva, e poi per non confessare d' esser uscito si copriva l' incongruenza con parole appiccicate, dando il nome d' Io e di coscienza a ciò che non era nè Io, nè coscienza. Quel principio adunque non è vero, se non inteso così « di dover muovere il ragionamento nostro dalla coscienza », ma non così « di dover fermarsi entro i cancelli della coscienza ». Questa seconda è la parte falsa, la giunta arbitraria de' sensisti e degli idealisti. Ma ond' avviene ciò, che la coscienza stessa conduca l' uomo fuori di sè, e il conduca a conoscere cose che non cadono in essa? Da questo che la coscienza è essenzialmente intellettiva, sorgendo in noi mediante una riflessione del pensiero sopra il soggetto pensante. Ora la natura dell' intelletto è tale, come abbiamo veduto, che mette l' essere intelligente in comunicazione (intellettuale) con cose diverse da sè. Nell' intelligenza vi è l' identità e il diverso, dato in natura; cioè vi è il principio intelligente, il quale è sempre identico a sè stesso in tutte le sue operazioni, e vi è il termine, ossia l' oggetto inteso, il quale è contrapposto al soggetto intelligente; e quest' oggetto inteso può essere qualsivoglia cose al tutto diverse dall' ente intelligente. Così nella natura intima dell' intellezione convien cercare il punto di comunicazione fra l' intelligente e gli enti da lui intesi; i quali hanno un loro modo d' INESISTERE NELL' INTELLIGENTE senza punto confondersi con lui, anzi da lui distinguendosi. Tale è il fatto , contro al quale non vale argomento alcuno, e molto meno l' argomento dell' analogia co' corpi e colla materia. Perocchè la immensa ripugnanza che hanno tutte le specie de' sensisti ad ammettere semplicemente un tal fatto, non procede da altro che da un argomentar che fanno per analogia a quel che vedono avvenir ne' corpi. Il quale argomento si riduce a questo: « un corpo non può inesistere nell' altro, dunque nessun ente può inesistere nell' altro »: dove la conseguenza è troppo più ampia delle premesse, e però vi ha il difetto logico della falsa induzione. Di più l' intelligenza non ha solamente ad oggetti suoi gli enti particolari, ma prima di tutto l' essere in universale , il quale colla sua universalità collega in varŒ modi gli enti tutti fra loro, onde nascono i principŒ del ragionamento , fra' quali uno è quello della ragion sufficiente , che produce nell' uomo il bisogno di filosofare. Or l' uso di questi principŒ, che suppongono il nesso degli enti dato allo spirito umano per natura nel primo suo oggetto, ci conduce da un ente all' altro, e talor anco dall' ente cognito all' incognito. Seguendo dunque il ragionamento là dove egli muove i passi, lo spirito nostro esce dalla coscienza, cioè a dire, non prende la sola coscienza per oggetto del suo pensare, ma altri ed altri oggetti. Fichte fa questo ragionamento: [...OMISSIS...] . Io non so se si possa dare un ragionamento più contraddittorio di questo. Si comincia dal dire che l' Io è una coscienza, e si finisce col provare che deve esistere un Io che non può venire a coscienza! Il ragionamento anzi prova che non v' ha un Io solo, come v' ha una sola coscienza; ma che anteriormente a questa coscienza, e prima che l' uomo pronunci questa parola Io, vi è l' uomo senza coscienza, e che non è propriamente Io in senso diviso, come dicono i logici, ma solo in senso composto (1). La proposizione: « Io so di me solo in quanto io sono, e io sono in quanto io so di me », contiene appunto il sofisma che i logici dicono compositionis et divisionis; perocchè nella proposizione « Io sono in quanto so di me », la parola Io può avere due significati: può significare semplicemente l' uomo (dove l' Io è preso in senso composto), e viene a dire, « quell' uomo che poi pronuncia Io », nel qual senso si chiama un Io l' uomo, non perchè col solo esser l' uomo sia un Io, ma perchè all' essere di quest' uomo s' aggiunse poscia l' Io; e può significare l' uomo avente la coscienza, e pronunciante l' Io (dove l' Io è preso in senso diviso), venendo propriamente a significare non l' uomo, ma la sua coscienza, l' uomo in quant' è consapevole. E` dunque vero che « Io, come coscienza di me, come uomo conscio, sono in quanto so di me »; ma non è mica vero che « Io, come uomo semplicemente, sono in quanto so di me », perchè anzi sono anche senza saper di me, ed ero prima che acquistassi alcuna coscienza, e dicessi Io. Quella proposizione adunque non prova, che l' uomo ponga sè stesso; prova solo, che l' uomo pone l' Io, cioè la coscienza di sè, quando dice me (2). L' Io adunque precisamente non è l' uomo, ma è un accidente dell' uomo, senza il quale sta l' uomo; è una produzione della riflessione, una cognizione acquisita; e non più. Fichte all' incontro confuse questa produzione accidentale colla sostanza dell' uomo, e suppose che l' uomo non fosse prima che ponesse sè stesso; quindi, in luogo di cavarne che l' uomo produce ne' suoi atti la cognizione di sè, ne cavò l' assurdo che produce sè stesso, che è la sua propria causa. La conclusione adunque di Fichte: « « Il mio Io è dunque solo in quanto egli si pone ed in quanto egli è attivo: l' azione è il carattere fondamentale dell' Io » », non hanno valore, se non tradotte in quest' altre: La coscienza di me stesso comincia in me con un atto mio proprio di riflessione, e però l' azione è il suo carattere fondamentale, perchè la riflessione è un' azione. Del resto avrebbe potuto dire di più, che il carattere di ogni ente è un' azione , presa questa parola in senso generalissimo, perchè l' essere stesso è un atto; e quest' atto in qualche modo pone l' essere, potendosi coll' astrazione distinguere in quest' atto il principio ed il termine, col quale la forma è già posta, fatta sussistere. Tale risultato dà l' analisi di ogni ente, e però non è maraviglia che ciò si avveri anche della coscienza, anche dell' uomo anteriore alla coscienza. Ma egli sarebbe pure un grande abuso d' astrazione il prendere il mero principio dell' atto per l' atto stesso, o per un atto compito e che possa stare da sè: valendo qui assai bene l' adagio scolastico, che « in actu actus nondum est actus ». V' ha poi una somma inesattezza di favellare, cagione ed effetto di gravissimi errori, in quelle parole che « « non v' ha coscienza se non si divide in soggetto ed oggetto, in ispirito e natura » ». Primieramente può cadere nella coscienza il solo oggetto, e non il soggetto; cioè io posso esser consapevole di qualche oggetto reale o possibile diverso da me, senz' avere alcuna attuale consapevolezza di me stesso, senza riflettere su di me nè punto nè poco. In secondo luogo, l' oggetto, di cui sono consapevole, potrebbe essere uno spirito, potrei essere io stesso; e in tal caso la natura sensibile (in quant' è contrapposta allo spirito) non cadrebbe punto nella coscienza. Onde la natura, il mondo, non è necessaria a spiegare la esistenza di una coscienza e di un Io. Questa considerazione è importantissima. Perocchè Fichte argomenta appunto così: [...OMISSIS...] . Ora, lasciando ciò che diremo appresso, noi neghiamo che la natura, il mondo, sia condizione senza la quale l' Io non possa avere coscienza; purchè gli sieno dati altri oggetti, poniamo oggetti spirituali, od oggetti anche meramente possibili. Onde il principio della ragion sufficiente non richiede assolutamente l' esistenza del mondo a far che l' Io acquisti coscienza, potendo egli a ciò venire per altre vie. In terzo luogo è del tutto falso, che la coscienza si divida in soggetto ed oggetto. Anzi la coscienza stessa ci attesta, che tanto il soggetto quanto l' oggetto non sono la coscienza, e molto meno due parti in cui ella si divide. In quanto al soggetto la coscienza ci dice, ch' egli è quello che è consapevole, ma non è la stessa coscienza, l' atto della consapevolezza. Il soggetto è il principio di quest' atto riflesso che consapevolezza si chiama, come è il principio di molti altri atti diversi da quello della coscienza. Fra gli atti del soggetto, ed il soggetto stesso, vi ha dunque una distinzione reale: gli atti del soggetto sono accidenti senza i quali il soggetto può essere. Tale è la coscienza; il soggetto può esser senza di essa; ma non può il soggetto essere senza sè stesso: egli è atto primo, di cui gli atti secondi sono derivazioni. Molto meno l' oggetto può essere la coscienza o parte di lei. Anzi è la coscienza stessa che ci attesta, che altro è lei stessa, altro i suoi oggetti; altro l' atto con cui ci rendiamo consapevoli, altro ciò di cui ci rendiamo consapevoli. La coscienza è un nostro atto o abito; ma l' oggetto, di cui ci rendiamo consapevoli, non è mica sempre un nostro atto, o un nostro abito. Se io sono consapevole di pensare una montagna, sono consapevole in pari tempo che la montagna pensata non è mica l' atto del mio pensiero, o la riflessione sullo stesso (la coscienza). Ma, che cosa fanno i sensisti? Dopo aver appellato alla coscienza, rinnegano tutte queste deposizioni della coscienza, e vi dicono che non possono essere vere , ve lo dicono sulla fede della loro parola, ve lo dicono a priori; anzi vi accertano che sono tutte illusioni, e che non esiste altro che la coscienza, e che il soggetto e l' oggetto sono parti di lei: a malgrado che di ciò non siamo consapevoli; anzi a malgrado che siamo consapevoli del contrario: quasi che, se fossero veramente parti della coscienza, la coscienza stessa nol dovesse sapere ed attestare. Dobbiamo dunque concludere esser falso il principio, « che l' azione di porre sè stesso supponga un Io puro ed assoluto »; quest' azione altro non suppone, che uno spirito che afferma sè stesso, ed affermandosi si conosce. Onde, in quant' è conoscente in atto di sè, egli si pone, ma questo è un suo essere accidentale; e però non pone la propria sostanza: ma nella propria sostanza pone un accidente coll' atto del conoscere. Quando poi si è posto e denominato Io , allora questo spirito, che acquistò tale modificazione accidentale e la denominazione d' Io, con un' altra riflessione sopra l' Io , pone di nuovo l' Io; ma il ponente non è un altro spirito, un' altra sostanza; ma lo stesso spirito di prima, identico. Onde, come le riflessioni sono innumerevoli, così le affermazioni di sè; e ogni volta che afferma sè l' uomo afferma un sè identico nella sostanza; ma modificato nella cognizione, perchè l' affermato è uno spirito che acquistò nuova cognizione mediante una nuova riflessione. E` dunque falso che l' Io ponga sè stesso, essendo vero solamente, che lo spirito pone l' Io presso quest' Io come significativo di quella coscienza, che non è l' essere dello spirito, come vuol Fichte, ma è puramente un suo accidente, la cognizione di sè, la quale può essere e non essere senza che lo spirito cessi di essere, benchè questo spirito la formi quando, conoscendo sè stesso, dice Io. E` falso parimente, che si abbiano due Io nello stesso uomo, l' uno ponente e puro, l' altro posto ed empirico. Ed essendo queste due falsità manifeste, qui potremmo chiudere il discorso sul sistema di Amadeo Fichte. Ma giova seguirlo nei suoi traviamenti. [...OMISSIS...] E certo, se qualche cosa potesse essere causa di sè, egli avrebbe in qualche modo in sè la propria ragione sufficiente: ma essendo una proposizione contraddittoria che chi ancora non è si dia l' esistenza, perciò cade tutto quel ragionamento. Que' filosofi nondimeno, che non hanno timore d' involgersi in perpetue contraddizioni, lungi dal trovar strano che un ente che ancor non è dia a sè stesso l' esistenza, o, come essi dicono, si ponga, vanno avanti, anzi più innanzi, e ne deducono che il nulla è cagione del tutto , creando così quel sistema che fu detto del nullismo. Costoro 1 partono sempre dal principio, che l' essere umano consista nell' atto o stato della propria coscienza; indi deducono che l' uomo prima della coscienza, essendo privo di essere, è NULLA. 2 Ma la coscienza è un atto dell' uomo stesso riflettente sul proprio essere dunque il NULLA, cioè quell' uomo che era nulla, ha dato l' essere a sè stesso, e diventò il creatore di sè medesimo. Essi negano adunque di riconoscere alcun essere avanti la coscienza, avanti alla quale pongono solo il nulla: confondendo essi il conoscere coll' essere dell' uomo; per uno strano abuso di astrazione, mediante la quale isolano il pensiero riflesso dall' uomo; e prendono quel pensiero così isolato come fosse tutto l' uomo in corpo ed anima. Il sistema del nullismo hegeliano è natìo dal sistema di Fichte come una naturalissima deduzione, ma egli è pur singolare a vedere la sorte dell' errore. Fichte insegna, che v' ha un Io assoluto che pone l' Io empirico , dove si trovano tutte le cose, il Mondo stesso; così fa dell' Io un essere infinito, Creatore, Dio. Ebbene viene Hegel: e accettando tutto il ragionamento di Fichte, ne conclude, che questo Io assoluto ed infinito è il NULLA; perocchè, se deve porre ogni cosa, anche sè stesso, dunque nell' atto di porsi, nulla è ancor posto, nè pure l' Io che pone; perocchè, se fosse posto, non avrebbe bisogno di porsi. Dunque il Dio di Fichte s' è cangiato d' un tratto logicamente nel NULLA di Hegel. Tanto è vero che le conseguenze di un errore conducono agli errori opposti, e le conseguenze di un assurdo conducono agli assurdi. La grandezza di questa filosofia sta appunto nella mostruosa grandezza degli assurdi, e quel certo attraente che esercitano sugli spiriti dipende dalla « Logica » che incatena l' uno coll' altro gli assurdi più contrari. Perocchè nei loro autori si scorge un gran potere di logica in rendere fecondi tali assurdi, che non si possono ammettere in modo alcuno senza aver prima rinunciato ad ogni logica. Del resto, se si considera che, non solo rispetto allo spirito umano, ma altresì rispetto ad ogni ente contingente, si concepisce la sua sussistenza come un atto avente un principio ed un termine, se si astrae il principio dal termine, questo principio astratto non esiste veramente, appunto perchè è un astratto. Indi prendono appicco i nullisti a dire che è nulla , e che dal nulla venne l' ente; perchè l' ente fu posto veramente in virtù del principio del suo atto. Questo astratto principio risponde in qualche modo alla materia prima degli antichi, che è nulla in atto e tutto in potenza. Ma tutta questa macchina cade a terra dal solo osservare, che il principio dell' atto costituente un essere non esiste punto separato dal suo termine; ma con esso e insieme con esso non è nulla. E` dunque abuso d' astrazione, che diede corpo a tali larve filosofiche. D' altra parte se si vuol riconoscere la ragione sufficiente dell' esistenza del termine nel principio dell' atto della sussistenza; non è già che si possa riconoscere in questo principio la ragione sufficiente di tutto l' ente; perocchè lo stesso principio dell' atto ha bisogno d' un' altra ragione che ne spieghi la sussistenza; perocchè il suo concetto non la contiene; potendo essere e non essere. Applichiamo quest' osservazione all' Io di Fichte che pone sè stesso. Quest' Io altro non è che il principio dell' atto di cui l' Io posto è il termine. Così lo descrive lo stesso Fichte, quando dice, che l' Io puro è superiore all' Io empirico, dove cade la differenza del soggetto e dell' oggetto, perocchè è l' origine di questo, e però lo chiama punto d' indifferenza . [...OMISSIS...] Ebbene, se quest' io è il principio dell' atto, pel quale sussiste l' Io termine di quest' atto; dunque egli si potrà bensì considerare come la ragione sufficiente del suo termine, ma non di tutto quell' ente che si chiama Io, e che come ogni altro si compone di principio e di termine. Rimane adunque a cercare ancora una ragione sufficiente di quel principio dell' atto che fa sussistere l' Io, perocchè quel principio non ha già in sè questa ragione sufficiente; giacchè, se l' avesse in sè, sarebbe racchiusa nel suo concetto. Ma il concetto del principio di quest' atto ci dimostra anzi, che si può egualmente pensare che esista o non esista; e però conviene cercare altrove la ragione sufficiente che spieghi perchè esista più tosto del suo contrario. Il che è quanto dire che il principio della ragione sufficiente dell' esistenza dell' umana coscienza non si può acquetare nell' Io puro ed astratto di Fichte; ma esige un' altra ragione fuori al tutto dell' Io umano, e veramente assoluta, la qual ragione è IDDIO. Ma egli è uopo che noi esaminiamo qui con qualche accuratezza gli argomenti da' quali Fichte fu indotto a credere, che affermare sia un porre, un creare. Questa sentenza già veniva qual conseguenza direttissima del pregiudizio degli idealisti, che niente possa essere fuori della mente dell' uomo. Ma Fichte adduce altre prove, e queste noi dobbiamo porre a disamina. I Argomento di Fichte . - [...OMISSIS...] . Giudizio sul detto argomento . - Esso è difettoso pe' seguenti capi: 1 L' Io non può porsi prima d' esistere: dunque non v' è un Io che ponga sè stesso; 2 la coscienza di sè può aversi senza bisogno che esista il mondo materiale; 3 Quando anco la coscienza non potesse essere senza il mondo, ciò non prova che l' Io ponga il mondo, ma solo che affermi il mondo già per sè esistente; 4 Il NON7IO non è il mondo; perocchè il Non7Io è una semplice negazione, e il mondo è cosa positiva; 5 Il mondo esterno (che il Fichte chiama la NATURA) è limitato; ma non viene da questo la limitazione dell' Io ; perocchè potrebbe esservi uno spirito che conoscesse il limitato, senza che per ciò fosse limitato egli stesso; 6 E` falso anche il principio presupposto da Fichte « che l' azione non si possa concepire senza una resistenza »; così si concepisce la creazione che è la massima azione; 7 Quand' anco l' azione avesse bisogno d' una resistenza per esercitarsi, ciò non proverebbe che questa resistenza la creasse ella a sè stessa; anzi, come cosa a lei opposta, le dee venire altronde. II Altro suo argomento . - Senza ammettere che l' Io ponga il mondo, non si può spiegare l' azione che l' Io esercita sul mondo. [...OMISSIS...] Giudizio sull' argomento . - Esso pecca in molti punti, cioè: 1 Niuno dice che Io sia unicamente un essere passivo, ma passivo in parte e in parte attivo: onde, enumerando gli assurdi che ne verrebbero dal far l' uomo del tutto passivo, il filosofo combatte avversarŒ che non esistono, e non tocca quelli che veramente esistono. 2 L' uomo non preforma, e non precrea il mondo, quando concepisce un ideale, a cui s' ingegna poscia di modificare il mondo. Tanto è lungi che l' uomo possa nulla sulla sostanza del mondo, ch' egli non può levare nè aggiungere al mondo la menoma particella di materia; benchè potrebbe concepirla diminuita od accresciuta, colla sua mente, in un qualunque ideale ch' egli si formasse. Ma l' uomo stesso, fino a che non ha perduto il senno, non potrebbe neppure concepire la menoma speranza di realizzare un ideale, nel quale si dovesse aggiungere al mondo o togliere un atomo. Che anzi il potere dell' uomo è limitatissimo, non solo sulla sostanza materiale, ma ben anche a modificarla; sicchè le modificazioni, che tutto il poter dell' uomo può cagionare sullo stato dell' universo, valgono presso che zero, computato l' universo intiero. Ora questa limitazione del potere dell' uomo sul mondo non trova alcuna ragione sufficiente nel sistema di Fichte; e tanto meno se si suppone che l' Io ponente sia un Io assoluto ed infinito. 3 Fichte trova impossibile che, se l' uomo rispetto al mondo è passivo, diventi poi attivo. Ma, primieramente, in ciò non vi ha la menoma contraddizione, perocchè l' uomo non è mica attivo sul mondo collo stesso atto con cui è passivo. Non si possono negare all' Io moltiplicità di oggetti, di atti, di facoltà, di leggi. Non v' ha dunque contraddizione che secondo gli uni sia passivo, e secondo gli altri attivo. Di poi, qui non si tratta di vedere, che cosa sia possibile, ma quale sia la cosa nel fatto. In terzo luogo, esclude forse il Fichte una limitazione posta all' operare dell' Io? una resistenza, un freno posto alla sua tendenza? Non già; ma, credendo di spiegarla, egli vuole che l' Io stesso produca a sè la resistenza e l' opposizione. Con questo sistema, alla prima difficoltà se n' aggiunge un' altra. Perocchè, se prima era difficile intendere come l' attività dell' Io potesse trovare una resistenza nel mondo, ora rimane questo a spiegarsi; ma s' aggiunge di più la difficoltà molto maggiore come sia possibile che l' Io stesso sia l' autore d' un ente che gli resiste e lo limita. Ricorrerà l' idealista al solito rifugio, che la resistenza è una pura illusione? Non può, perchè ha dedotta la necessità della resistenza come condizione dell' azione e della coscienza che l' Io vuol porre. E quanto poi non è arbitraria e strana quest' appendice, che l' Io, creando a sè la resistenza, cioè il mondo, si riserbò il potere di cangiarlo e di modificarlo! Vi ha forse una ragione sufficiente di ciò? E qual ragione sufficiente può assegnare il filosofo nostro, perchè l' Io si sia riserbato questa quantità determinata di potere, nè più nè meno? e se ne sia riserbata una quantità così piccola, che è nulla verso la potenza con cui il mondo resiste a' suoi disegni? E riserbandosi questo minimo grado di potenza sulla sua creatura, ha dunque rinunziato per sempre ad averne un grado di più? Il creatore potè abdicare così per sempre la sua onnipotenza? Avrà egli creato un complesso di esseri più potenti di lui? Non potrà annullare nè accrescere il numero delle sue creature? Non potrà più riassumere il suo maraviglioso potere? Non solo l' avrà perduto di diritto, ma anche di fatto? L' infinito sarà scaduto ad una condizione inferiore del finito da lui prodotto? E s' ella è così, dove oggimai si trova l' Io assoluto ed infinito? E` perito per sempre, come quegli animali che generando de' loro simili muoiono nell' atto della generazione. Mentre adunque Fichte inventa un sistema per assegnare delle ragioni sufficienti al fatto della coscienza, egli dà per ragioni altri fatti da lui supposti e disdetti dalla coscienza, i quali hanno bisogno assai più de' primi di spiegazione, ed anzi sono del tutto inesplicabili. Ed è poi lepido il modo facilissimo col quale fa comparire l' individuo umano al mondo! [...OMISSIS...] Vi par egli questa filosofia? non è ella una descrizione accurata e filosofica della maniera con cui l' uomo si pone da sè stesso? Ora sentitene la spiegazione: [...OMISSIS...] . Ecco adunque come i filosofi trascendentali descrivono i fatti, ecco come li spiegano. Li descrivono prima come produzioni di un Io precedente senza coscienza di sè, e tuttavia ASSOLUTO e INFINITO. Veramente chi ha coscienza (presso di loro sarebbe l' Io empirico) è qualche cosa di più di quello che non ne ha. Ma il loro assoluto, il loro infinito, il loro DIO, non ha coscienza, sì va travagliandosi per cavarla dalle proprie viscere, benchè il parto riesca sempre imperfetto. Così doveva essere, acciocchè un tal Dio potesse convertirsi nel nulla colla stessa facilità (mi si perdoni il paragone) con cui si rivolta la frittata nella padella. Quando poi vengono alla spiegazione, essi hanno alla mano la ragione sufficiente con ogni facilità, dandovela in questa o consimili parole: « era necessario che così avvenisse: l' Io doveva così operare: ne aveva proprio bisogno per porre sè medesimo: è una legge della sua coscienza »: quasichè, quando il filosofo dichiara una cosa necessaria, ella sia tale anche in fatto. Ma la necessità, dico io, convien provarla, convien trovarla nel concetto della cosa, e non fingerla, o introdurla a capriccio per un cotal puntello al proprio sistema. D' altra parte Fichte dice: « « Tostochè l' Io comparve a sè stesso nel mondo, egli dovette per legge della sua coscienza imaginare i suoi genitori e i suoi antenati » ». Ma datemi un poco la ragione sufficiente: 1 Perchè l' Io sia comparso nel mondo più tosto in un tempo che in un altro? perchè non prima, o non dipoi? 2 Perchè egli abbia creati questi fra' suoi genitori più tosto che altri, cioè genitori di tale età, fattezze, condizioni? perchè non gli si rappresentarono giovani anzi che vecchi, belli anzi che deformi, nobili e ricchi anzi che ignobili e poveri, buoni, anzi che malvagi ecc.? Dove trovate voi la ragione sufficiente di tutto ciò nel vostro sistema? E perchè certi fanciulli nascono orfani di padre, e non compare loro più la madre, morta nel darli alla luce? 3 Perchè l' Io non pone e crea sempre questa stessa linea d' antenati? ma conosce una serie più o meno lunga, e intende finalmente che la serie anche degli antenati incogniti non va più di là d' un certo termine? Nel sistema di Fichte la storia intera dell' umanità è una produzione dell' Io. Ma perchè mai inventò egli la storia in un modo piuttosto che in un altro? Quali ragioni sufficienti saprebbe addurre il nostro filosofo che spiegassero tutti gli accidenti storici che non mostrano alcuna necessità in sè stessi? Vi hanno molti concetti affini, i quali si confondono facilmente: i filosofi tedeschi, che hanno difetto d' analisi, traggono da una continua sostituzione di concetti gli oscuri loro sistemi: ciascuno de' concetti, di cui fanno uso, sarebbe importante e fecondo; ma, scambiati gli uni per gli altri, mescolano insieme la loro fecondità per modo che ne riesca un viluppo sottilissimo e un bastardume d' ogni generazione di piante che senza regola si aggraticciano ed impediscono. Il concetto di un Io assoluto produttore dell' Io empirico, in Fichte non è mai il medesimo; ma ora ei pone quell' assolutità in una cosa ora in un' altra. 1 Abbiamo veduto che l' ebbe posto in questo, che l' Io pone sè stesso. « Ma, non potendo avere tale proposizione alcun senso, s' ella non s' intenda così, che il principio di quell' atto, onde un ente (nel caso nostro l' Io) sussiste, pone il suo termine; questa proposizione nè ci conduce ad un Io, ma ad un principio di atto; nè ci conduce ad un principio necessario, ma contingente, e tale da supporre una ragione sufficiente fuori di sè. 2 Fichte dice ancora, che il carattere della ragione è il semplice porre in sè e per sè; e che in questa operazione si dee ravvisare la sua assolutità. In questo detto di Fichte v' ha della profondità, cioè vi hanno le vestigia di un ingegno che vide un nodo difficile, benchè nol sapesse superare; e già il solo vedere dove giaccia il difficile, suppone un pensare che non si trattiene alla superficie. Spieghiamoci. Il porre di Fichte altro non è che l' affermare . Quando l' uomo afferma, egli sa che una cosa sussiste; prima che l' affermi, egli è per lui come se quella cosa non sussistesse. Ma che cosa è questo affermare? Agli occhi di Fichte fu un porre gli esseri, un crearli; e ciò perchè altramente si sarebbero dovuti ammettere come esistenti esseri fuori della sfera del pensiero; e s' era messo il chiodo (tutto ad arbitrio) che non si dovesse uscire dal pensiero; non si dovesse uscire dalla coscienza: benchè pur si usciva (ed era contraddizione manifesta) col supporre un Io anteriore alla coscienza e causa di questa (1). Intanto però non si considerava, che è la coscienza stessa quella che ci dice che ella non crea le cose, ma non fa che affermarle; e l' analisi dell' affermazione importa il precedente concetto dell' esistenza; non potendosi affermare quella che già non esiste. Considerare adunque l' affermazione come una creazione, è un contraddire ad un tempo alla coscienza, e al concetto di questa operazione dello spirito che affermazione si chiama. Se affermando noi creassimo l' ente affermato, certamente lo sapremmo; noi avremmo il convincimento che l' ente affermato non esiste, se non nel momento dell' affermazione, e che cessando noi d' affermarlo, egli rientrerebbe nel suo nulla. All' incontro, noi, cioè tutti gli uomini, siamo intimamente persuasi, che l' ente non dipende punto dalla nostra affermazione, e che egli ha de' caratteri opposti a questa: per esempio egli ha il carattere di stabilità , quando l' affermazione è transeunte e momentanea; onde nell' effetto vi sarebbe assai più che nella causa: e quindi è impossibile trovare nell' affermazione la ragione sufficiente della sussistenza degli enti. E non di meno l' affermazione , colla quale noi ci persuadiamo della sussistenza degli esseri, è una operazione assai misteriosa; e l' aver veduto ch' ella non è di facile spiegazione, è ciò che ci fa lodare di profondità il pensiero di Fichte. Il misterioso, ch' ella contiene tale operazione, sta in questo, che per essa l' ente non è da noi conosciuto di più: giacchè l' ente si conosce coll' idea, e non con l' affermazione; giacchè quando si dice ente , si dice la sua essenza . E pure l' affermazione non è inutile al conoscer nostro: che cosa dunque conosciamo per essa? Primieramente non si dee mettere a suo conto l' occasione ch' ella ci porge di avere l' idea determinata dall' ente, perchè questa cognizione non ha propriamente la causa formale nell' atto di affermare; ma solo prende da quest' atto l' occasione, mediante il sentimento che serve di termine a cui si riferisce l' essere universale e così lo si limita. Rimane adunque che l' affermazione per sè altro non ci faccia conoscere se non la sussistenza di quell' ente di cui ci occasiona l' idea; idea che ci è data, come da vera causa, dall' intuizione dell' essere, e dal riferirlo che noi facciamo al sentimento. Ma che è la sussistenza dell' ente che non si trova nell' essenza (parlando di contingenti)? Altro non è che l' atto proprio dell' ente stesso, mentre l' essenza non è che l' ente in potenza. Ora quest' atto ha un rapporto reale con noi, o d' identità (se siam noi stessi l' ente di cui si tratta), o d' azione. Questa relazione reale , non essenziale all' ente, anzi contingente, è quello che si afferma. Coll' affermazione adunque, trattandosi di enti contingenti, si conosce non la loro essenza eterna e necessaria, ond' hanno il nome di enti; ma il loro atto contingente, la loro realità: in una parola non ciò che sono di diritto, per così dire, ma ciò che sono di fatto. Quel misterioso adunque, che si trova nella natura dell' affermazione, si riduce tutto al misterioso che si trova nella distinzione fra l' essenza dell' ente contingente e la sua realizzazione , o atto proprio dell' ente stesso. Or, quando noi abbiam detto che l' affermazione nostra non può esser quella che fa sussistere l' ente, perchè noi affermiamo un ente stabile e permanente anche oltre l' atto dell' affermazione; Fichte non ci può mica dire, che quest' è un' illusione trascendentale. Egli è singolare a vedere quanto venga comoda questa scappata a' filosofi della scuola tedesca. Ogni qualvolta vien loro fra i piedi qualche cosa che gl' imbarazza, se ne distrigano con tutta disinvoltura dicendo « quest' è un' illusione trascendentale ». Ma pure Fichte non può dir questo nel caso nostro; ed ecco perchè. Fichte e i fichtiani ragionano così: « Kant ha smembrato il pensiero, come pensiero, in antinomie, categorie ed altro, e in vece di verità ci ha lasciato contraddizioni. Se dunque cotesto smembramento del pensare non conduce che a contraddizioni, sèguita che si debba battere un' altra via per giungere alla verità, cioè la via del semplice affermare. La ragione, questa facoltà spirituale piena d' interna unità, non può condurre a contraddizioni (1). Il pensiero adunque non dee esser una proprietà suprema della ragione, ma solo una proprietà inferiore. Il semplice porre (affermare) in sè e per sè , o l' asserire senza più, è il carattere supremo della ragione, potendosi indi spiegare il pensare con tutte le sue contraddizioni »(2). Fichte adunque: I Confessa che la ragione non può contraddirsi nè illudersi; II Pone l' atto della ragione nel puro affermare . Dunque in questo affermare non può cader inganno. Dunque (per tornare a ciò che poc' anzi, p. 232, dicevamo: non potere Fichte in ciò imputarci di illusione trascendentale) la ragione, quando afferma un ente come cosa stabile e indipendente dalla stessa sua affermazione, non può farci cadere in alcuna illusione trascendentale: dunque ella non crea gli enti, ma li conosce già esistenti: dunque v' ha qualche cosa fuori della ragione umana, e in essa non si può trovar tutto, se ad essa medesima prestasi fede. Nè si può dire che l' affermazione non sia pura quando attesta tutto ciò: perocchè ella lo attesta sempre per tutti gli oggetti affermati, com' è suo proprio intrinseco carattere; senza il quale ella punto non sarebbe. III Ma Fichte poi attribuisce al suo porre in sè e per sè , che è l' azione essenziale della ragione, un altro senso; dal quale prende nuovo argomento per dichiararla assoluta e creatrice delle cose. Egli dice « che ogni tendenza dell' Io va a parare a quel punto, dove esso può sollevarsi dal pensiero e dal mondo ad un essere puro ed assoluto », il che è quanto dire che l' uomo non è pago se non si solleva all' infinito. Di che deduce che l' Io stesso, che ha questa tendenza, è infinito, assoluto. « L' Io si sente assoluto (così ragiona Fichte), e però indipendente dal mondo; egli tenta di strapparsi via dal mondo, e avvicinarsi allo stato assoluto. L' Io assoluto è quella idea che serve di base alle esigenze pratiche dell' Io « di comprendere in sè ogni realità », e di assolvere l' infinità. L' Io tende ad essere realmente assoluto, ma si trova in ogni momento limitato. Questa tendenza unita al sentimento di limitazione è la ruota che muove lo spirito umano, la quale non può fermarsi, ma trae l' uomo da uno stato all' altro; ella è la causa per cui l' uomo abbozza ideali di sè e del mondo, riformando sè e il mondo su di essi. Tendendo l' Io ad una assoluta illimitazione, egli dirige i suoi sforzi a t“r via la tendenza stessa; perocchè là, dove è tendenza, ivi è limitazione. Per questa tendenza di annullare ogni tendenza, mostra il carattere soprasensuale dell' Io: solo a questa condizione l' Io è assoluto. Tutta la moltitudine degl' ideali, tutte le immaginazioni d' una bella fantasia, traggon l' origine da questo carattere assoluto dell' Io. Ma questo carattere non è del tutto reale; esso è per ora un ideale che l' Io ha di sè, e giusta il carattere dell' Io resterà sempre un Ideale. Solo adunque in quanto l' uomo ha in sè l' idea dell' assoluto, e cerca in essa il proprio carattere fondamentale, egli è capace di poesia e di arte. Ma ancor egli sente che l' assoluto, suo carattere, lo muove alla moralità . Poichè l' uomo, ispirato da questa idea di assolutezza, disprezza e deve disprezzare tutti i motivi sensuali delle sue azioni, ed esercitare il dovere solo pel dovere: l' idea dunque del soprasensuale assoluto è il punto, donde parte ogni coscienza, e dove ogni coscienza di nuovo ritorna e si concentra. Qui si rileva l' errore capitale di Fichte e di tutti i filosofi trascendentali della Germania. Essi dicono in sostanza: « l' Io tende ad uscire dai suoi limiti; dunque ha un ideale di sè, un' idea dell' illimitato ed assoluto essere. Ma l' idea è un Io: dunque vi ha un Io7idea illimitato ed assoluto ». L' errore sta sempre nel confondere l' idea coll' Io, l' oggetto col soggetto. Si accorda che l' Io abbia l' intuizione di un essere illimitato, ideale; ma si nega che quest' essere ideale senza limiti sia lo stesso Io; perchè l' oggetto intuìto, non è il soggetto intuente. Il soggetto intuente, cioè l' Io, è quello che fa l' atto dell' intuire; ma chi mai dirà, che l' idea, che l' oggetto intuìto sia quello che fa quest' atto? Se l' oggetto intuìto è quello che intuisce, egli cessa, in quanto fa quest' atto, di essere oggetto intuìto, perchè l' intuìto e l' intuente sono relazioni che si escludono reciprocamente. Fichte dice, che, se si pone che l' oggetto sia diverso dal soggetto, non si trova più il nesso tra l' uno e l' altro; e che perciò conviene supporre, che il soggetto stesso si trasformi in oggetto, e rappresenti come due personaggi. - Ma questo è un correre a precipizio. Poichè: 1 Se non trovate il nesso che congiunga il soggetto coll' oggetto, in tal caso vi resta a confessare la vostra ignoranza, senza negare quel nesso che è un fatto evidentissimo. Per altro quel nesso si trova nell' atto della cognizione . D' altra parte, niuno può dimostrare alcuna ripugnanza nel concetto di più enti comunicanti insieme secondo la propria natura; 2 Il ripiego di Fichte, invece di sciogliere il nodo, lo taglia, negando che vi abbia un nesso reale, e dichiarandolo arbitrariamente illusorio; 3 Che anzi nè pure è vero che tagli il nodo: perocchè, dopo la spiegazione che pretende darne il nostro filosofo, quel nodo si rimane saldo come prima, anzi più involuto e aggruppato di prima. E veramente la spiegazione di Fichte si riduce a dire, che l' oggetto è solo apparentemente oggetto, ma realmente è anch' egli soggetto. E bene sia così: rimane però che quest' oggetto, in quanto è apparente, il che è un dire, in quant' è oggetto, non sia il soggetto. Vi ha dunque un nesso tra il soggetto reale e l' oggetto apparente, che rimane intieramente a spiegare, e che non si spiega già col distruggere l' oggetto facendolo rientrare nel soggetto. Sono adunque questioni che si confondono malamente insieme queste: Qual è la natura dell' oggetto? E` ella reale od apparente? Come può darsi un nesso tra l' oggetto (reale od apparente) e il soggetto? - Nè la soluzione dell' una è la soluzione dell' altra. Or non vale il dire, che, producendo il soggetto a sè stesso l' oggetto, produce anche il nesso che lega seco quell' oggetto. Perocchè con ciò altro non si farebbe, che di nuovo confondere due questioni differenti, cioè: a) Qual sia l' origine, la causa di quel nesso? b) Qual sia la natura di quel nesso? E` ella ripugnante questa natura o no? Da qualunque causa sia stato prodotto quel nesso, egli esiste: sia egli apparente o reale, esiste tuttavia. Ciò che si dee spiegare non è già la sua causa occulta; ma la sua natura manifesta , che sta nel fatto lampante della umana cognizione. Se l' Io occultamente produsse l' oggetto, questa produzione occulta non è il nesso che si vuole spiegare, perchè questo nesso è palese; e quella produzione perciò è esclusa dal nesso, e a lui anteriore. Se dunque Fichte immaginò quella produzione occulta come un' ipotesi atta a spiegare un tal nesso, dall' istante che è provato che quella ipotesi (d' altra parte mostruosa) non vale a spiegarlo, ella cade, e con essa tutto il sistema. L' errore fondamentale adunque di Fichte, come di tutta la scuola a cui appartiene, è di non poter intendere l' esistenza di un oggetto distinto essenzialmente dallo spirito che lo intuisce: e dal non poterlo intendere, argomentare che dunque l' oggetto dee incorporarsi occultamente col soggetto; imponendo così alla natura quelle leggi, che loro detta il non sapere. Dopo la pubblicazione del « Nuovo Saggio » e di altri miei lavori, ne' quali tolsi a dimostrare 1 che l' oggetto non si confonde col soggetto, e che questo fatto ideologico della distinzione dell' oggetto dal soggetto toglie via lo scetticismo, inevitabile a' sensisti e soggettivisti, i quali li confondono; 2 che l' oggetto per essenza s' intuisce dall' uomo per natura, ed è l' essere in universale: uno scrittore italiano affermò con forza il principio, che l' oggetto , distinto dallo spirito che l' intuisce, doveva essere la base del sapere e della certezza, e di questo ci congratuliamo; ma, nello stesso tempo che in questo vero egli conviene meco, stimò bene di farmi il viso dell' armi, e darsi la pena di scrivere diversi volumi per dimostrare, che io sono al tutto psicologista, ed egli solo è il vero ontologista. Perocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Questo scrittore credette di raggiustare il mio sistema col dire, che l' oggetto dell' intuizione che ha l' uomo per natura non è l' idea dell' ente, ossia l' ente ideale; ma che è l' ente reale , che contiene in sè ogni realità: perocchè, egli dice, l' ente ideale e comunissimo, se non è anche reale, s' immedesima col soggetto uomo (1). Così egli viene ad accordare di necessità a Fichte e agl' idealisti della Germania (che per altro si mostra persuaso di combattere vittoriosamente), che l' oggetto ideale , la pura idea , s' immedesima collo spirito; e però in questa parte diviene con essi idealista trascendentale. Dall' altra parte egli ammette coi sensisti, che il solo reale sia veramente oggetto, e con ciò pecca manifestamente di sensismo. Ben è vero che il reale può essere conosciuto e però può diventare oggetto della mente (il che noi diciamo oggettivare ), ma non è già vero, che sia conosciuto per sè stesso senza l' idea. Onde non essendo conosciuto per sè stesso, non è per sè oggetto della conoscenza. Laddove l' idea è conosciuta per sè, giacchè idea importa cosa intuìta, onde ella è per sè stessa oggetto, ed è quella che unendosi al reale lo rende conoscibile. Il vero oggetto adunque è l' idea; e questa poi partecipa l' oggettività al reale, a cui ella si unisce nella cognizione. Il supporre adunque che l' oggetto primo della mente sia il reale , è una eredità del sensismo. Essendo adunque dinanzi alla mente umana l' essere in universale , e mediante quest' essere illimitato giungendo l' uomo a conoscere la perfezione degli esseri, ed a produrre a sè stesso gl' ideali delle loro perfezioni; certo, dee suscitarsi in esso il desiderio di rendersi perfetto, e di toglier da sè, per quanto gli è possibile, i limiti: il che egli poscia giugne ad intendere che non può conseguire se non mediante l' unione coll' essere supremo ed infinito, dove, cessati tutti i limiti, è la pienezza dell' Essere realizzata: in una parola mediante l' unione con Dio. Ma egli non arriva mai naturalmente a concepire il desiderio, come suppone Fichte, di rendere Dio sè stesso; il qual desiderio mostruosissimo altro non sarebbe, che la massima inversione e perversione della propria natura, la massima immoralità e insieme la massima stoltezza. Lungi adunque d' avere Fichte osservata la natura umana, com' egli si proponeva, e conoscerne gl' interessi recessi; egli non pervenne punto a conoscerla, e confuse l' ultimo decadimento di essa, qual è l' orgoglio di divenire una Divinità, col supremo innalzamento a cui aspira, qual è la massima sommissione e umiliazione alla Divinità: perocchè l' ideale dell' uomo, l' uomo perfettissimo, è l' uomo che riconosce sè stesso nulla dinanzi al tutto che è Dio, onde sente d' avere ogni cosa ricevuto. Quanto è adunque illegittimo interprete del voto della natura umana quel filosofo, il quale prende per ideale dell' uomo l' angelo ribelle! Fichte distingue il suo sistema da quello degli Stoici così: [...OMISSIS...] . Colle quali parole voleva dire, che la coscienza essendo limitata, e non potendo mai pervenire a levare da sè tutti i limiti, essa coscienza, che è l' Io empirico, non può esser Dio, ma solo tende a rendersi uguale a Dio. Ma che cosa è questo Dio di Fichte? E` l' idea infinita dell' Io; quello che chiama Io puro, e che pone l' Io empirico: ponendo questo Dio non si esce dall' Io umano. E` un Dio ideale che continuamente tende a realizzare sè stesso, ed è impotente a segno che non arriva mai: onde stabilisce questo filosofo una perfettibilità eterna dell' uomo; e nello sforzo continuo di giugnere alla perfezione, senza mai pervenirvi intieramente, egli pone l' umana destinazione . Qui si vede comparire in altra forma il sistema della speranza sempre ingannevole di Foscolo (1). Ora egli è falso, per dirlo di nuovo, che l' uomo tenda a divenire un Dio realizzato; come è falso che l' ideale dell' uomo sia quello di un Io senza limitazioni di sorte alcuna; giacchè, togliendo all' Io tutte le limitazioni, egli perderebbe affatto la propria identità, e diverrebbe un altro essere: nè egli è possibile che l' Io desideri di perdere l' identità sua propria; quando anzi è vero che ogni essere intelligente brama bensì di perfezionarsi nella sua natura, ma non brama cangiar natura; la cui brama avrebbe d' altra parte per oggetto un assurdo. Dall' esame de' principii accennati di Fichte vedesi che la filosofia da lui proposta manca di solidi fondamenti. Vedesi del pari che questo filosofo, volendo stabilire un essere assoluto che contenesse la ragione di tutte le cose, e d' altra parte non volendo uscire dell' uomo, pel pregiudizio sensistico ed idealistico; ricorse ad un Io, che non può essere in alcun modo assoluto, infinito, ragione delle cose, Iddio. E veramente: I Quest' Io puro di Fichte non ha coscienza, appartenendo la coscienza all' Io empirico. Ma un assoluto, e un Dio senza coscienza, non può essere un assoluto, e un Dio; ma piuttosto uno stipite. II L' Io puro di Fichte non può esser libero , perchè la vera libertà è una dote propria della volontà , e la volontà non esiste se non qual conseguente de' beni conosciuti. Ma l' Io puro non conosce come tale cosa alcuna, e perciò egli opera del tutto alla cieca, e necessariamente. Abusa dunque il filosofo nostro, seguìto in questo da Schelling e dagli altri trascendentali, quando pretende che l' Io sia sommamente libero appunto perchè pone sè stesso. Schelling così esprime questo pensiero: [...OMISSIS...] . 1 Ora, se l' Io si conosce perchè si determina, dunque innanzi a tale determinazione non vi ha cognizione, e però nè pur volontà, e meno libertà (se per libertà s' intende una dote della volontà). La libertà dunque di cui parla qui Schelling è una cieca necessità. 2 Si dice che la determinazione che prende l' Io non ha fondamento ulteriore: ma le determinazioni che non abbiano per loro fondamento una ragione , sono cieche: la volontà stessa di Dio dee essere sempre guidata da un lume intellettivo: onde non è già un pregio, ma un difetto l' attribuire ad un ente il determinarsi senza cognizione e senza ragione; 3 Il dire che non ci possiamo innalzare al di sopra di quest' azione, è un parlare così improprio, che assai più vero sarebbe dire il contrario, cioè che non ci possiamo abbassare al di sotto di quest' azione. Che se egli sembra che l' astrazione non possa andare più là nell' operazione descritta da Schelling (benchè nè pur questo sia vero); in tal caso è da osservare che l' astrazione non ci conduce mica sempre ad esseri più nobili e perfetti, ma piuttosto ad esseri più imperfetti. 4 I nostri idealisti affermano che « isolandosi da ogni oggetto lo spirito non trova più che sè stesso »: ma essi non riflettono che cosa si esige acciocchè lo spirito possa trovar sè stesso, perchè non analizzano questa operazione. Lo spirito non trova sè stesso se non percipendosi. Ma non si può percepire, se non si afferma come un ente; e non può affermarsi come ente, se non sa che cosa sia ente . Ora sapere che cosa sia ente, è lo stesso che avere l' idea dell' ente. Lo spirito adunque non può trovar sè stesso, se non ha presente l' ente come suo oggetto. E veramente lo spirito è un soggetto, e non comincia a divenire oggetto a sè stesso, se non si contempla nell' essere , e così si oggettivizza, partecipando dell' oggettività essenziale dell' essere stesso. L' immaginarsi adunque che lo spirito possa percepir sè stesso, o sia trovarsi, astraendo da tutti gli oggetti, è un errore proveniente da difetto di scienza ideologica; lo spirito non può percepire e trovar nulla, se non col mezzo dell' idea dell' ente, che è l' oggetto per essenza: tolta via la quale idea lo spirito è nelle tenebre; non conosce più nulla, nè sè stesso nè l' altre cose. Anzi lo spirito così accecato cessa d' essere spirito intelligente; molto meno può essere qualche cosa di assoluto. Egli è poi strano che i filosofi tedeschi diano il potere all' astrazione di trovare o di creare l' assoluto , quando l' astrazione niente trova nè crea; ma solo separa; e si esercita sopra un oggetto già percepito. Che cosa può fare dunque l' astrazione rispetto allo spirito? Separarlo dagli oggetti reali che non sono lui stesso. Che ci rimane allora? Lo spirito solo; quello spirito che si aveva anco innanzi: con ciò non si è innalzato sopra il finito, ma s' è spogliato di tutte le sue cognizioni; e però non resta punto migliorato, anzi deteriorato all' ultimo grado. Perciò noi dicevamo, che questa astrazione non innalza lo spirito, ma lo abbassa tanto che non si può di più. 5 Vero è, che con ciò si vuol pervenire all' atto primo dello spirito. Ottimamente, ma quest' atto primo, col quale lo spirito esiste, nol fa certo volontariamente, perchè non conosce ancor nulla, non potendo conoscere nè operare prima di esistere; il perchè quest' atto non si può chiamare volere , se non abusando de' termini della scienza. Nè pure lo spirito si determina ad esistere da sè stesso, perchè non può determinarsi se prima non esiste. Quindi egli è necessario che un altro essere lo determini ad esistere, e quest' essere è DIO. Conviene adunque ricorrere ad un essere che stà al di fuori dell' IO umano per rinvenire la ragione sufficiente di questo, e sono al tutto inutili gli sforzi de' trascendentali (1) per racchiudere l' uomo in sè stesso. L' illusione di questi filosofi consiste nel confondere: a ) La prima condizione del conoscere umano col primo oggetto della conoscenza. La prima condizione del conoscere è che esista lo spirito; ma non ne vien mica per questo, che l' atto con cui esiste lo spirito sia il primo oggetto della conoscenza. L' uomo ha un primo oggetto della conoscenza (l' essere), per mezzo del quale conosce la condizione del suo atto di conoscere , e distingue tanto bene quest' atto dall' oggetto , che quello lo ravvisa contingente, e questo necessario. L' atto del conoscere, nè pure l' atto dell' esser umano, non è assoluto; ma l' assoluto conviene cercarlo nel primo oggetto del conoscere compiuto e realizzato. b ) Essi confondono ancora ciò che è il primo nell' essere dell' uomo con ciò che è assoluto , ragionando in sostanza così: « L' atto dell' esistere umano è il primo di tutti gli atti che fa l' uomo. Ma fuori dell' uomo non v' ha nulla, pel pregiudizio sensistico. Dunque quell' atto deve essere la ragione di tutte le cose, l' assoluto ». Ma la minore del sillogismo è falsa. E se fosse vera, sarebbe ancor falsa la conseguenza, giacchè non se ne potrebbe cavar altro, se non che la ragione sufficiente, l' assoluto, manca del tutto, riuscendone quest' argomento: « L' atto dell' esistere umano è il primo degli atti umani. Ma non vi ha nulla fuori dell' uomo, e l' atto dell' esistere umano è di fatto contingente. Dunque manca l' assoluto, la ragion sufficiente degli atti umani ». A cui si deve far susseguire quest' altra proposizione: « Ora la ragion sufficiente ci dee essere: dunque è falso quest' argomento ». 6 Uno spirito che opera ciecamente, non può avere alcuna regola sua propria, perchè la regola non è tale se non si conosce, e lo spirito di Fichte e di Schelling si suppone aver annientati tutti gli oggetti del suo conoscere. E noi potremmo recare più innanzi questa enumerazione di assurdi, se fosse prezzo dell' opera. III L' assoluto di Fichte e de' filosofi che sono andati sulla sua via è un assoluto in potenza; perchè è un Io che ha bisogno di porre sè stesso, e che quando si pone diventa empirico. Ma ciò che è in potenza è ciò che vi ha di più imperfetto, e somiglia alla materia prima, che rappresenta il più basso grado dell' essere. Se non che gli antichi intendevano, che quello che non ha già in sè stesso l' atto dell' esistere, dee riceverlo da altro; e però niuno mai sognò che la materia prima dèsse a sè stessa la forma. Ma ben sognarono questo assurdo i trascendentali della Germania, i quali, ad un principio che non è ancor posto, accordarono la virtù creatrice. IV L' assoluto di Fichte, a cui si attribuisce il poter creatore, è impotente , perchè si sforza di porre sè stesso in un modo incondizionato, e non vi perviene giammai. Ma l' assoluto essere esclude il difetto dell' impotenza. V L' assoluto di Fichte è perfettibile , senza che giammai possa raggiungere la sua propria perfezione ponendosi compiutamente: ma un ente che è, e rimane sempre imperfetto e limitato, non può essere assoluto. Non v' ha dunque un Io umano che sia un ente assoluto . Ora la ragione sufficiente di tutte le cose non si può ritrovare se non in un ente da ogni parte assoluto. Dunque la filosofia trascendentale, che ha preso l' assunto di trovare una ragione sufficiente di tutte le passioni e i modi dell' ente, ha pienamente fallito al suo scopo; ella ha dichiarato assoluto quello che non è, nè può diventarlo per l' affermazione di un filosofo: ella s' è chiusa nell' uomo, cioè nel contingente, e per quantunque astrazioni ci abbia fatto sopra, per quanto l' abbia distillato nelle vane storte della sua imaginativa, non n' ha cavato altro che contingente. Per quantunque Fichte abbia tolto a filosofare, prevenuto dal pregiudizio degli idealisti « che l' uomo non può conoscer nulla, se non ciò che ha in sè, e che tutto ciò che l' uomo ha in sè è parte dell' uomo »; per quantunque la sua nobile intelligenza si fosse resa schiava di un principio sì gratuito e sì falso, e strascinando sì pesante catena non potesse correre nè camminare liberamente; per quantunque si sforzasse di far apparire più ampio che non fosse il breve spazio della prigione dove s' era chiuso da sè stesso, col far per essa mille giri e rigiri circolari: egli era impossibile che finalmente non ci sentisse l' angustia del luogo, e non gli venisse voglia di atterrare le mura della povera natura umana, o di farvi un buco almeno per ispiarvi fuori e godervi la bellezza dell' immenso campo del cielo. Egli era stato costretto a stabilire un Io che non aveva più niente dell' Io umano, e di dare a quest' Io le prerogative opposte a quelle dell' uomo; e tuttavia il pregiudizio, che serviva di base e di tema a tutta la sua filosofia, lo costringeva ad affermare che quest' Io era l' uomo, o parte dell' uomo; quasichè coll' affermarlo potesse un filosofo far che fosse quel che non è. Era stato spinto fino ad affermare, che quel suo Io « non era già l' Io individuale proprio di questa o di quella persona, ma un Io elevato sopra ogni individualità, sopra ogni soggettività ed oggettività: un Io comune a tutte le idee razionali; non già l' Io di Kant, ma l' Io di tutte le possibili intelligenze ». Confessava egli bensì che non se ne potea provare direttamente l' esistenza, e che tutta la dimostrazione indiretta che se ne potea dare stava in questo che « quell' Io DOVEA esser presupposto, perchè altramente non si poteva spiegare la coscienza ». Onde, mentre l' Io evidentemente esprime un individuo che pronunzia sè stesso, Fichte era costretto, per non abbandonare il sistema, a dire che il suo Io non era individuo, togliendogli così ciò che forma l' essenza dell' Io. Quando un uomo di mente è pervenuto a sì sformati paradossi, e a contraddizioni sì intrinseche e manifeste, per quantunque sia dominato da pregiudizŒ bevuti da' suoi maestri, se di gran mente è fornito, non può a meno di ridestarsi; ed è vicino a mutar sistema. Infatti, che mai si esigeva acciocchè Fichte il mutasse? Nulla più che di cambiare una parola. Egli era già in fatti uscito dall' uomo, perchè l' Io a cui ricorreva per ispiegare l' esistenza dell' uomo, niente aveva più di ciò che costituisce l' uomo: ed aveva ciò che non potea aver l' uomo, come la necessità e gli altri attributi divini. Bastava dunque, che mutasse nome a quest' Io, e non chiamandolo più uomo confessasse che era Dio; e gli togliesse d' attorno quelle imperfezioni, e per così dire quelle immondezze che gli erano restate appiccicate nel parto impuro e laborioso pel quale si era fatto nascere dai visceri della natura umana. Così fece Fichte, e nella sua nuova opera intitolata « Sistematica » (1), alla parola Io sostituì finalmente la parola Dio . Se questo filosofo avesse potuto vivere una vita due volte più lunga, io credo, che, come rinvenne da questo error capitale, così egli sarebbe rinvenuto dagli altri; perocchè quando un ingegno comincia a volgersi verso la verità, egli va innanzi per quella via e non è più pago se non la fornisce. Ammise adunque il nostro filosofo Dio, non più come un' astrazione, un' idea morta, ma come un essere vivente. Col suo essere è dato tutto l' essere, ed ogni altro essere possibile. Ma come nascon da Dio le cose? Ecco lo scoglio perpetuo di que' filosofi che hanno voluto vedere il fondo di tanto secreto. Fichte adunque pose Iddio , e una estrinsecazione di Dio . L' essere di Dio avente quasi due facce: la faccia interna, accessibile solo al pensiero; e la faccia esterna che viene anche chiamata dal filosofo « « l' essere di Dio fuori del suo essere » ». Questo essere di Dio fuori del suo essere è anche detto il sapere di Dio, e appellato lo schema , equivalente nel linguaggio di Fichte ad imagine . Questo solo schema di Dio può essere fuori di Dio, non propriamente come un effetto, ma come conseguenza immediata del suo essere: quindi è lo spirito umano ed il mondo. In una parola tutto quello che nel primo suo sistema Fichte aveva detto dell' Io puro, nel secondo lo dice di Dio; il che dimostra aver compreso il nostro filosofo, che non si potea ridurre l' Io empirico all' Io puro senza fargli perdere la sua identità, senza cessare di essere Io. Ma rimase infitto anche nel secondo sistema l' errore di fare che il mondo fosse qualche cosa della divina natura. Rixner nel suo « Manuale della Storia della Filosofia » espone così questa specie di emanazione o di panteismo a cui s' abbattè Fichte quando riconobbe l' insufficienza del suo primo sistema. [...OMISSIS...] Si asserisce, che la vita divina diventa vita che si sviluppa nel tempo: ma che cosa vuol dire questo diventa? Chi la fa diventare? Può egli l' essere divino diventare qualche altra cosa? può limitarsi senza cessare di esser divino? o può egli cessare? o può essere ad un tempo limitato ed illimitato? Che se la vita divina diventa il genere umano ed il mondo, dov' è la ragion sufficiente che spieghi perchè diventi questo mondo più tosto che un altro, con questo numero determinato di enti, e di modificazioni nè una di più, nè una di meno? E come questa vita divina estrinsecata e divenuta umanità ha perduto la coscienza di essere vita di Dio? Simili domande si potrebbero fare ad ogni parola del nostro filosofo. Egli investiga una filosofia che contenga la ragione sufficiente di tutto; e, in vece di ragioni sufficienti, afferma nuovi fatti, i quali esigono assai più perchè si possano credere una ragione sufficiente, ed in quella vece son tali che al tutto la escludono, son tali che mostrano di non poterla in alcun modo avere. Dalle cose dette apparisce, che questo filosofo riduce tutte le manifestazioni dell' ente a due supreme entità: I L' Io puro nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema Iddio . II L' Io empirico nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema l' Umanità . L' Io empirico , ossia l' umanità , viene suddivisa in a ) Io , e b ) Non7Io - Spirito e Natura. All' Io empirico non disdice il nostro filosofo tutte le forme di Kant, come nè pure il paralogismo , le antinomie , e l' ideale che Kant attribuisce alla ragione. Nel sistema di Fichte adunque è ritenuto il sistema kantiano, ma come occupante un posto inferiore. Fichte fece al Kantismo quasi direi la sommità di cui credeva privo l' edificio del suo maestro, e così gli parve d' averlo ultimato. Or noi non ci tratterremo a dimostrare l' enormità di queste cotali categorie fichtiane, rimanendo già provato quanto esse sieno erronee ed insufficienti dalle cose qui sopra ragionate. Il paralogismo adunque che serve di base al primo sistema di Fichte si può esprimere così: « Vi dee essere una ragione sufficiente di tutte le cose che sono od appariscono: ma, l' uomo non potendo uscire da sè stesso, le cose che gli appariscono debbono essere elemento che costituiscono la sua stessa natura, e che in lui si vanno svolgendo; dunque anche la ragione sufficiente di tutte le cose SI DEVE TROVARE nell' uomo, nel fondo della sua natura ». Quanto la minore di questo sillogismo sia gratuita ed erronea noi l' abbiamo veduto. Ma, dato ch' ella fosse anco vera, avrebb' ella la conseguenza un valore? Non avrebbe altro valore che quello che può avere un membro d' una antinomia. Perocchè si potrebbe contrapporci un altro sillogismo, in questa forma: « Di tutto quello che è nell' uomo si dee avere una ragione sufficiente; ma nell' uomo questa ragione non vi è, perchè tutta la natura umana è contingente: dunque la ragione sufficiente di tutte le cose NON SI PUO` TROVARE nell' uomo ». Or quando s' incontra un' apparente antinomia, l' uno de' due membri opposti deve esser falso; e fino che non si è provato falso l' uno di essi, entrambi restano dubbiosi. In ogni modo adunque il primo sistema di Fichte manca di una solida base. Oltre di che, dopo aver Fichte concluso che la ragione sufficiente di tutte le cose si deve trovare nell' uomo, quando si pose all' opera per indicare in quale elemento dell' umana natura consistesse questa ragione sufficiente, immaginò quello che egli chiama l' Io puro , il quale nè si conosce per veruna esperienza, nè cade in modo alcuno nella coscienza dell' uomo. Egli adunque con ciò: 1 Era uscito dalla sfera dell' esperienza, e aveva stabilito un principio a priori , non più distinguendo coordinatamente le due Ragioni, come avea fatto Kant, la teoretica e la pratica , ma dando alla ragione pratica il principato e facendola madre della ragione teoretica; cosa d' altra parte assurda, perchè la stessa esistenza della ragione pratica non si potrebbe conoscere se la ragione teoretica non la dimostrasse. Così Fichte o doveva credere alla ragione teoretica di tutti gli uomini, e in tal caso il suo sistema veniva da essa necessitato; o doveva consentire a Kant che ogni ragionamento a priori non fa conoscere oggetti nuovi se non illusoriamente, e in tal caso il suo Io puro , che non si potea afferrare coll' esperienza, diveniva anch' esso un' illusione trascendentale; 2 Era uscito dalla sfera dell' Io umano , perocchè la parola Io esprime un ente consapevole che pronuncia sè stesso, e quest' Io che pronuncia sè stesso, e che è l' umano, non sa nulla del compagno che gli si vuol dare, ma sa che egli non è questo. E questa seconda ragione essendo balenata finalmente agli occhi di Fichte, a cui anco doleva di vedersi considerato in Germania come un ateo, il condusse, come dicemmo, a sostituire Iddio al suo Io puro, dove aveva collocato l' assoluto. E questo fu l' addentellato a cui raggiunse Schelling la sua fabbrica. Ma accettando il Dio di Fichte, ricusò d' accettare la connessione che Fichte avea stabilito fra questo Dio e l' altre cose, la quale consisteva in dichiarare l' uomo nulla più che un cotale schema ideale di Dio. Fichte s' atteneva ancora con forza al principio dell' idealismo trascendentale che tutto l' essere si riduca al sapere, e che il sapere sia il solo generatore delle cose. Quindi l' uomo era per Fichte l' unica espressione e rivelazione del sapere divino, e la natura era ancora una cotal produzione apparente dell' uomo, che l' uomo opponeva a sè stesso, per poter pugnare con essa, e pugnando perfezionarsi. Ma in questo modo, secondo Schelling, non si rinveniva una sufficiente ragione dell' uomo e della natura; perchè non appariva come Iddio avesse potuto produrre una sua immagine che non avesse la natura di lui, e un mondo che fosse morto e non vivo e divino. La separazione dunque del mondo da Dio rimaneva così senza spiegazione. D' altra parte il Dio di Fichte era fuori della coscienza umana, e non si poteva intuire. Secondo Schelling adunque, per ispiegare le cose che sono ed appariscono, conveniva trovare un sistema nel quale si potesse « « appercepire il divino come l' unico vero reale, e appercepire l' unico vero reale come l' unico vero divino »(1) ». Quindi nacque quel sistema che fu intitolato dall' identità assoluta . La maniera dunque di ragionare di Schelling si riduce al seguente paralogismo: « Non si vede una via di spiegare come l' uomo e la natura (il mondo) sieno enti distinti dall' Essere Supremo. « Ma se si negasse questa distinzione, e si dicesse che tutte le cose s' indentificano in Dio, la filosofia sarebbe liberata dalla molestia d' una tale questione. « Conviene adunque stabilire un sistema d' identità assoluta , per mezzo del quale tutte le cose contingenti vengano identificate con Dio ». Ognuno sente quanto vi ha d' arbitrario e di falso in tale argomentazione. La filosofia dell' identità assoluta trae la sua origine dall' ignoranza, e dal pudore che sentono i filosofi a risolversi di confessarla. Ma l' ignoranza non è la miglior base che si possa dare ad un sistema. L' ufficio della filosofia è quello di sciogliere le questioni: ella manca al suo ufficio qualora, non sapendole risolvere, inventa un sistema apposta per escluderle, o per dir meglio inventa un sistema che prende per suo fondamento la supposizione che quelle difficoltà non esistano. Tale è il fatto di Schelling. Se si considera il lavoro di Schelling come una continuazione logica (1) di quella de' suoi predecessori (Kant e Fichte), si trova che egli aggiunse all' eredità da essi ricevuta (e per avventura senza benefizio d' inventario) quella parte che denominò « Filosofia della natura ». Ma egli pretese di più, che la filosofia della natura e la filosofia trascendentale , che fu la detta eredità, avessero il medesimo oggetto, cioè Dio con due diverse manifestazioni, che sono natura e spirito, essere e sapere . Già in queste due parole essere e sapere ravvisasi un mancamento, perchè sapere non è che l' atto di un essere, e però egli è appartenenza del soggetto. All' incontro sotto la categoria del sapere Schelling introduce le idee , come le idee fossero sapere, mentre esse altro non sono che mezzi ed oggetti del sapere. La confusione adunque del soggetto coll' oggetto ravvisasi per tutto negli scritti di Schelling come in quelli de' suoi maestri. Ma poniamo a dirittura sott' occhio al lettore in piccol quadro il disegno della Schellinghiana filosofia (a cui però l' autore stesso più tardi dovea aver rinunziato). Questo è il seguente: [...OMISSIS...] Questo disegno ha la più perfetta regolarità; è compassato a meraviglia. Ma per ciò appunto dee dar sospetto: chè difficilmente l' immensità dell' essere lasciasi misurare da poche menate del compasso dell' uomo. Conviene adunque riflettere sopra un sistema così delineato, e in parte colorito altresì dall' autore, quanto segue: I Mettendo da una parte la natura, l' universo reale , dall' altra l' universo ideale , non apparisce qual sia il nesso tra i due universi. Il nesso è formato dall' ente intellettivo , il quale appartiene all' universo reale, ma attigne le idee, o piuttosto le idee a lui si comunicano; e in questa comunicazione e congiunzione non istà già l' identificazione del reale coll' ideale , che sempre rimangon distinti; ma bensì l' unità de' due estremi, e dimostra come sieno intimamente congiunti senza confondersi. II L' universo è limitato: a ) nel numero e nella grandezza de' corpi; b ) nel numero e nelle doti degli enti intellettivi; c ) nella quantità di potenza e d' azione attuale di tali enti. Niuna ripugnanza vi ha a concepire che i corpi e gli esseri esistenti, invece d' esser quel numero che sono, fossero uno di più o uno di meno: niuna ripugnanza che le doti, la potenza e l' azione complessiva fosse maggiore o minore di quello che è. Convien dunque assegnare una ragione sufficiente di queste limitazioni. Ma se l' Universo s' identifica con Dio, questa ragione manca; perchè il concetto di Dio svanisce ogni qualvolta si pone in esso limitazione o potenza passiva. Iddio è così illimitato che è un assurdo pure il pensiero di dargli la facoltà di limitare sè stesso. Poichè il limitarsi per Iddio è il medesimo che per un altro essere l' annichilarsi. Questo è quello che prova la Teologia con evidenza. Vero è che Schelling dice che questi limiti sono apparenti; ma a ) Primieramente quando fossero anche apparenti, rimane sempre a dare una ragione sufficiente del perchè Iddio abbia bisogno o voglia di porre a sè stesso delle limitazioni apparenti; b ) Se le limitazioni di Dio sono apparenti, esse debbono apparire a qualche essere, perchè se non apparissero a qualche essere non sarebbero apparenti. Ma questo essere non può esser Dio stesso, perchè Iddio non può far apparire sè limitato a sè illimitato, troppo bene conoscendosi egli per prendersi in fallo. Esiste adunque un altro essere, oltre Iddio, a cui appariscono le limitazioni che Iddio pone a sè stesso. Ora quest' essere non può essere apparente, perchè sarebbe un discorso assurdo il dire che limitazioni apparenti appariscano ad un essere apparente. Di più, quest' essere non essendo Dio, ed essendo reale, egli è un essere limitato non apparente, ma reale. Non si possono adunque escludere gli enti realmente limitati; e non si può ridurre l' ente alle due categorie di Assoluto e di limitazioni apparenti; c ) Finalmente l' uomo, se sa qualche cosa di vero, sa certamente di non essere apparente, ma reale. Infatti, come si può accertarsi della realità se non mediante il sentimento e la ragione? Se niun sentimento vi avesse, niuna realità sarebbe concepibile. Se la ragione giunge raziocinando a pensare l' esistenza di un Essere supremo, infinito, assoluto, ella il fa per via d' un ragionamento, che ha materia e forma . Infatti ella non può asserire che esista un ente reale assoluto, se non sa prima che cosa sia un ente reale . Ma ella non potrebbe sapere che cosa sia un ente reale, che cosa sia esistere realmente, se non avesse sperimentata l' esistenza reale in sè stesso. Prendete via dall' uomo tutti affatto i sentimenti, non solo gli animali, ma ben anco gli spirituali, che cosa vi rimane? Non più certo un uomo, ma un stipite insensato. Questo non potrebbe mai sapere che cosa sia esistere, non potrebbe per conseguente ricevere l' idea dell' ente , perchè non può ricevere il lume di questa idea, chi non è un sentimento, che nulla affatto può sentire. E se è necessario, che chi riceve l' idea dell' essere sia un sentimento, è necessario di poi che applichi quest' idea al sentimento, quando ne vuol far uso, e non lasciarla del tutto oziosa e come un geroglifico privo d' interpretazione. Senza il sentimento adunque non vi ha il concetto di un ente reale, il sentimento somministra la materia di un tal concetto, e però la materia del raziocinio che si intuisce sopra di lui. Quando non manchi questa materia, allora si può con un ragionamento trovare l' esistenza di un essere assoluto, a ciò conducendoci la forma del ragionamento , alla qual forma appartiene il principio di assolutità . Se dunque il sentimento stesso si pone essere un' illusione, manca la base di un tale ragionamento, il quale non può più condurci che ad uno assoluto apparente, e non reale. O convien dunque rinunciare alla dottrina dell' assoluto, o conviene ammettere che reale sia il sentimento; perchè niun' altra realità è a noi immediatamente conosciuta fuor di quella che nel sentimento abbiamo, o che mediatamente da questo induciamo. Che se il sentimento , che ha l' uomo individuo, è un ente reale, dunque esistono realmente degli enti limitati , e questi non sono mere apparenze, ossia limitazioni apparenti dell' ente assoluto. III Quando Schelling chiama natura il principio di ogni essere, la denominazione non avrebbe inconveniente, quando egli riserbasse tale parola a indicare la natura divina, e non l' adoperasse poi a significare l' universo qual è, materiale e spirituale, limitato, ch' egli denomina anche «to moron tu theu». IV Quando aggiunge che la natura, separata dalla ragione , non è veramente, egli direbbe vero, se intendesse dire che « senza l' idea le cose nè si possono produrre, nè si possono pensare, e però non sono »: onde non si pensano divise dall' idea ed essenti per sè, se non in virtù d' astrazione solamente. Nè pure avrebbe errato, se raffrontando le cose reali colle loro essenze ideali ne avesse predicata l' identità d' essenza. Ma avrebbe dovuto fermarsi qui. Invece egli non s' è accontato, che, se l' essenza della cosa reale è quella appunto che trovasi nella sua idea, l' essenza ideale non di meno differisce dal suo realizzamento ne' contingenti, e in nessuna maniera v' ha identità fra il reale e la sua essenza ideale. Tutto ciò che v' ha fra queste due cose, si è congiunzione nell' essere intellettivo che percepisce il reale: perocchè nella percezione si unisce individualmente il reale colla sua essenza ideale, e da questa congiunzione nasce l' individuo conosciuto , che non è già puramente la cosa quale si pensa per astrazione fuori della mente e divisa dall' idea. Poteva altresì dire che ciò che esiste veramente è solo l' individuo conosciuto; ma poi analizzando quest' individuo avrebbe trovato che in esso vi ha: 1 un elemento reale; 2 un elemento ideale; e che entrambi questi elementi sono veramente; benchè non sarebbero se non vi avesse una mente (per es., la mente divina) che li concepisce. Il che non è già confondere o immedesimare la mente con essi; ma è unicamente dichiarare una mente , un soggetto intellettivo, qual condizione ontologica della loro esistenza; e così assegnare un nuovo caso di quel sintesismo che da per tutto s' incontra. V Quindi troppo vagamente ed erroneamente Schelling pose l' assoluto nel punto d' indifferenza tra gli opposti . Vagamente, perchè non indica con precisione quanti sieno questi opposti, quando avrebbe dovuto con costanza stabilire per opposti il reale e l' ideale . Erroneamente, perchè, se vi avesse un assoluto che fosse un punto di indifferenza tra il reale e l' ideale , egli non sarebbe nè reale nè ideale, come già osservai parlando di Fichte: e però, lungi da esser perfetto, sarebbe imperfettissimo; lungi da esser Dio, sarebbe la materia prima degli antichi , che svanendo in nulla dà luogo al nullismo cavatone poscia espressamente da Hegel. All' incontro avrebbe dovuto trovare un assoluto nel quale l' ideale e il reale fossero alzati alla maggior potenza, senza mai confondersi se non nell' essere , rimanendo distinti nelle forme o modi. Perciocchè in tal modo l' assoluto, non solo avrebbe avuta tutta la perfezione e la pienezza dell' esistenza, esistendo in tutti i modi; ma avrebbe avuto da una parte l' unità perfetta nell' identità dell' essere, dall' altra un ordine interiore, un organismo idoneo a spiegare come possa essere attivo e fonte di moltiplicità, giacchè nell' assoluto dee trovarsi altresì la massima attività, la massima vita, la cagione intrinseca del movimento. Nel punto d' indifferenza all' incontro non v' ha ragione che spieghi perchè cessi d' essere indifferente, e lasci così la propria natura, e come possa far ciò quando egli è costituito essenzialmente da una piena e semplice indifferenza. Il dire, come fa Schelling, che « « l' assoluta identità pone sè stessa infinitamente come soggetto e come oggetto, perchè senza di ciò non può conoscere sè stessa infinitamente » », lungi dallo spiegar cosa alcuna, complica maggiormente le difficoltà. Perocchè, se l' assoluto, chiamato dal filosofo nostro assoluta identità , consiste nel punto d' indifferenza anteriore all' origine del soggetto e dell' oggetto, come mai quel punto può aver bisogno, per conoscersi, di perdere la sua indifferenza ponendosi come soggetto e come oggetto? Ha dunque bisogno di cessare di essere, per conoscersi? Come punto d' indifferenza è assoluto: e quest' assoluto è così ignorante che non conosce sè stesso? ed ha bisogno di cercarsi fuori di sè, e per trovarsi ha bisogno di porsi colla differenza di oggeta totalità? Fuori della totalità vi è qualche cosa? E si tratta di un fuori , come un corpo è fuori di un altro, o come l' idea è fuori della mente, o come un' idea è fuori di un' altra idea? Perchè dichiarazioni così rilevanti sono omesse da cotesti filosofi? Ad ogni modo, se la totalità è l' assoluto, ciò che riman fuori dell' assoluto non si vede come possa far conoscere l' assoluto a sè stesso. L' assoluto si cercherebbe in tal caso per conoscersi dov' ei non sarebbe più. VI Oltracciò il punto d' indifferenza , anteriore al soggetto e all' oggetto, nel quale Schelling sulle traccie di Fichte collocò l' assoluto, non può avere identità al soggetto ed all' oggetto, perocchè ciò che è essenzialmente indifferente non può identificarsi con ciò che è essenzialmente differente. VII Di più, il punto d' indifferenza non può essere nè concepirsi se non per via d' astrazione che fa la mente. Ma un astratto non può esser mai l' assoluto. Oltre di che questo astratto è piuttosto un astratto falso e chimerico che vero, perchè, tolta via la distinzione dell' oggetto e del soggetto, non rimane propriamente nella mente qualche cosa d' indifferente, ma il nulla; che si considera indifferente in senso al tutto negativo, unicamente perchè il nulla non può aver differenza come non può aver proprietà perchè è nulla. Quindi di nuovo hassi il nullismo. VIII Essendo però impossibile il non vedere che il punto d' indifferenza non può sussistere come tale, Schelling si buttò a dire che « « l' identità assoluta esiste solo come universo »(1) »; quasi che l' universo fosse il modo di esistere di Dio: onde il panteismo di cui fu accusato. Ma se l' identità assoluta esiste solo come universo, l' assoluto non esiste adunque più come punto d' indifferenza . A questo mancamento, credette il filosofo nostro poter soccorrere distinguendo nell' universo la totalità dalle singole parti; e disse che nella totalità vi aveva indifferenza. Ma anche qui si gioca d' astrazioni. Perocchè la totalità dell' universo non è che un essere della mente, la qual considera il complesso degli enti coll' idea astratta di tutto . Acciocchè al tutto , ossia alla totalità , sottostesse un valore reale, converrebbe dimostrare che sussista qualche cosa che di tutte le parti dell' universo forma realmente un ente solo il quale dà a ciascuno tutto ciò che esso ha, e però è identico con ciascuna. E benchè anche questo dica lo Schelling, tuttavia non mostra mica nè qual sia questo ente, nè che sia uno; ma si contenta di appellarlo ora identità assoluta , ora punto d' indifferenza , ora totalità; le quali son parole e non più. Soggiunge che se l' identità assoluta, per sussistere, dee porre sè stessa qual universo, s' incorrono tutte le difficoltà che v' hanno a concepire come un ente dia l' esistenza a sè stesso, le quali abbiamo esposte parlando di Fichte. IX Ma la manchevolezza di questo sistema appare più palese, più che il suo autore, uscendo dall' oscurità e dall' ambiguità de' principii generali, discende ad applicarlo alla spiegazione de' fatti. Come vedemmo egli distingue due universi: quello dell' essere e del sapere (onde le due filosofie della Natura e dell' Idealismo ); che però non sono che due astrazioni, secondo lui stesso, giacchè non esistono in vero se non identificati. Per altro volendo egli spiegare tutti i fatti, avrebbe dovuto incominciare appunto da questo dell' astrazione: definendo prima questa operazione maravigliosa (benchè dalle definizioni mostrano d' abborrire per lo più i filosofi trascendentali come il can rabbioso dall' acqua); e di poi dando ragione di questa potenza capace di dividere un identico universo in due, tanto distinti quant' è la materia bruta dall' idea. X Quando poi egli prende a descrivere i fatti che intende spiegare nell' universo dell' essere, che è ciò che chiama « Filosofia della Natura », non solo non agguaglia la grandezza dell' argomento, ma scade da ogni dignità filosofica. Perocchè sono vere inezie quelle che di frequente egli dice, anzi che dotte sentenze. Non è ella un' antica inezia lo spiegare la rotondità de' corpi celesti perchè la figura sferica è la più perfetta? e il collocare la ragione del rotar de' pianeti intorno al sole nel bisogno che sentono (essendo animati) di unità? Sapete perchè il sole mostra sul suo disco alcune macchie? Il filosofo vi dice seriamente che quelle macchie sono assolutamente necessarie , mostrando esse che il sole è subordinato ad un sistema stellare superiore! Volete sapere la definizione del magnetismo, dell' elettricità e del chimismo? [...OMISSIS...] Quindi le tre dimensioni de' corpi, quindi i tre processi della natura. Le tre potenze della natura sono la gravità , che è potenza di primo grado e produttrice della materia; la luce potenza di secondo grado, onde il moto e la forza; la vita potenza di terzo grado, onde l' organismo e l' uomo stesso. Egli condanna Fichte per aver tratto l' universo dall' Io, e invece fa uscire l' Io dall' universo come un prodotto. Udite con che audacia ed ignoranza favella: [...OMISSIS...] . Sarebbe un perdere il tempo il ripetere tutte le frivolezze di cui questo filosofo empisce il suo libro intitolato: « Idee sulla natura ». XI A tre pure riduce le potenze (1) del mondo ideale che sono: verità, bontà e bellezza . Ora primieramente non s' intende come la bellezza debba essere una potenza più elevata della bontà , quasichè le arti belle, che spettano alla bellezza, sieno qualche cosa di più della moralità e della religione che il nostro filosofo riduce alla bontà. D' altra parte la verità e la bellezza sono oggetti dell' intelligenza che le intuisce e fruisce, quando la bontà è una qualità soggettiva, non essendo che la perfezione del soggetto intellettivo7morale. Onde, se i due primi appartengono al mondo ideale , la bontà appartiene al mondo reale in quanto si perfeziona colla sua adesione all' ideale. Questa confusione tra il mondo reale e l' ideale accade al nostro filosofo pel materialismo di cui va infetta la sua « Filosofia della Natura ». Perocchè la natura fu ridotta da questo filosofo ai soli fenomeni materiali, e non conosce punto che v' ha un reale spirituale , che non appartiene già al mondo delle idee, ma nè pure a quello della materia. All' incontro Schelling considera le anime e gli spiriti come altrettante idee viventi, senza accorgersi che l' idea è essenzialmente oggetto e solo oggetto, e lo spirito è il suo opposto che intuisce l' idea, ma non può essere in alcun modo l' idea. XII A cagione dello stesso errore fondamentale egli disse che lo sviluppo delle potenze reali porge il sistema cosmico dei prodotti necessari della natura, mentre avrebbe dovuto annoverare tra le potenze reali anche le potenze spirituali e libere. All' incontro disse che « « lo sviluppo delle potenze ideali dà la storia dell' umana libertà in tutto il genere umano » »; mentre potenze ideali, nel senso comune della potenza, non ve n' hanno, spettando le potenze a' soggetti reali e non alle idee. Nè alle idee o al loro sviluppo (quantunque le idee non abbiano un loro proprio sviluppo) appartiene la libertà (dell' uomo) che è potenza reale d' un soggetto reale, e non ideale, quale è l' uomo. Onde l' apparente regolarità e simmetria ond' egli compartì le varie parti della sua filosofia ricade troppo a scapito della verità, di che ci dava sospetto pure al primo sguardarla. Questo filosofo adunque, col suo sistema dell' identità assoluta, tolse in fatto le categorie dalla filosofia come inesplicabili; il che in sostanza aveano fatto pure i suoi maestri. Non potendosi però negare che le categorie appariscano, le dovettero ammettere come illusioni trascendentali: ed egli tre ne diede al mondo della natura , cioè la gravità , la luce e la vita; tre al mondo delle idee , nel quale confuse gli spiriti, cioè la verità , la bontà , la bellezza . Ora questa divisione dell' ente è al tutto inetta, e appena degna d' essere confutata. La gravità nè è un ente, nè la proprietà di un ente, ma una semplice legge , cioè un fatto costante. La luce è un corpo di cui non si conosce ancora la natura; e se si piglia come stimolo del sensorio ottico, è una denominazione che può appartenere a qualunque altra causa atta ad eccitare nell' organo della visione i movimenti sensorii. La vita si prende in diversi significati (1). Applicata al corpo, è una sua modificazione che lo rende atto ad esser sentito immediatamente e sensorio: applicata al principio senziente, consiste nel sentimento che lo costituisce. Non v' ha dunque ordine in questa classificazione, nè ella abbraccia nè pure tutto ciò che appartiene alla natura corporea. La verità , la bellezza , non sono che relazioni che hanno le idee cogli spiriti dotati d' intelletto e di sentimento intellettivo; la bontà è la perfezione delli spiriti stessi. Gli spiriti stessi rimangono adunque esclusi da tali categorie. Come Fichte s' era avveduto dell' insufficienza del suo primo sistema, così Schelling si trovò mal pago del suo, e lo abbandonò. Le opinioni filosofiche tuttavia ultimamente manifestate a Berlino dimostrano ch' egli non ha ancor digerito il principio degl' idealisti, che l' intelligenza e il mondo esterno sieno così dissociati che la prima non possa dimostrare l' esistenza del secondo. Quindi divise la Filosofia in negativa , che considerò come un trovato della ragione, e in positiva che attribuì all' esperienza. Or l' attribuire all' esperienza de' sensi una filosofia, quasi potesse avervi una cognizione meramente sensibile senza l' intervento della ragione, è quel peccato di sensismo che guasta tutta la filosofia, e specialmente la germanica «( Psicol. 29 7 33) ». Ma udiamo onde trae la partizione delle due filosofie. Richiamando la distinzione degli Scolastici tra la questione quid est , e la questione quod est , viene a dire tra « qual sia l' essenza d' una cosa », e « se la cosa sussista » «( Sistema filosofico , 1. 7 42) », Schelling attribuisce alla ragione la prima questione, all' esperienza la seconda. Quindi, secondo lui, la Filosofia della ragione, ch' egli chiama negativa, si limita a far conoscere le essenze delle cose, senza poter giammai decidere se niuna cosa realmente sussista. All' incontro la Filosofia dell' esperienza, ch' ei chiama positiva, suppone le cose sussistenti e tratta di esse. La prima dunque non esce dal mondo ideale, dal mondo de' possibili (1); la seconda sola ha per oggetto il mondo reale. La Filosofia negativa adunque di Schelling si riduce ad una Ideologia . Ma impropriamente le attribuisce l' epiteto di negativa , perocchè l' Ideologia non nega, benchè nè meno afferma il reale; ma il reale rimane fuori della sua sfera. Affine che si possa dare il titolo di negativa ad una dottrina, conviene che ella contenga una negazione . Perciò si dicono concetti negativi quelli con che vogliamo far conoscere cosa sussistente per via d' analogia , giacchè l' analogia non ha valore se non unita ad una negazione. Quando il cieco procaccia di distinguere i sette colori di cui vuole parlare, per l' analogia che aver possono co' suoni, egli non può avere un concetto verace se in pari tempo non neghi a sè stesso che i colori sieno i suoni. La necessità dunque d' una negazione a fare che un dato concetto non inganni nella sua applicazione è ciò che induce a dargli l' applicazione di negativo . Ma l' idea non affermando nulla di reale, ma solo facendo conoscere il possibile , è scevra da ogni negazione, nè ha bisogno d' essere rettificata con questa per non riuscire ingannevole. Quindi non le si addice il titolo di negativa, benchè nè pur quello di positiva. Ciò che dice ora Schelling che la Filosofia della ragione non tratta che del solo mondo ideale, ossia di possibili, può pigliarsi altresì come una interpretazione o modificazione del suo precedente sistema dell' identità assoluta . Ma tutto questo sistema diverrebbe con ciò stesso sterile, perchè si acchiuderebbe nel mondo ideale, senza che egli si permetta di spingere un solo passo fuori del possibile: ond' egli non potrebbe dare alcuna ragione sufficiente, nè della coscienza, nè dell' esperienza, nè delle operazioni del pensiero, nè dell' universo materiale; perchè tutte queste cose appartengono al mondo reale. Quindi Schelling tratta ora di tutte queste cose a parte, cioè nella Filosofia positiva , la quale si limita a credere all' esperienza, senza cercare di essa alcun fondamento razionale. Questa via positiva ed empirica è quella che ora preferisce e a cui più si applica. Noi non ci allungheremo dimostrando quanto sia erroneo e dannoso questo divorzio della ragione colla natura, questa bipartizione della scienza, che abbraccia ad un tempo i due errori dell' idealismo e del materialismo; perchè ciò risulta da tutto ciò che abbiamo scritto di filosofia. In quella vece noteremo l' abuso d' astrazione come il fonte principale delle filosofie tedesche, con un esempio tolto dalla Filosofia della ragione di Schelling, com' egli di presente la espone nelle lezioni che dà a Berlino. Se l' uomo coll' astrazione distingue solamente gli elementi che si contengono in una data idea, senza pigliarli per enti che stanno da sè, egli non abusa di tale operazione. Acciocchè adunque non cada abuso in astrarre si richiedono due condizioni: 1 Che l' astrazione distingua i veri elementi che presenta una idea; 2 Che ella non li prenda per altro se non per quello che sono, cioè per elementi, e non per enti ideali stanti da sè. Vi ha dunque abuso: 1 Se si pretende di trovare in un' idea elementi che non sono tali; 2 Se si pretende che quelli che sono meri elementi, sieno enti ideali stanti per sè. Nella filosofia germanica s' incontra l' uno e l' altro abuso. Ma noi vogliamo segnalare il primo, come il più pernicioso e il più sottile a sottrarsi dall' attenzione. Acciocchè ciò che distingue l' astrazione in un' idea sia un elemento della medesima, egli dee essere veramente distinto dagli altri elementi e così distinto dee potersi concepire. Ora accade che i filosofi tedeschi, e specialmente gli Hegeliani, considerano per elemento quello che non è tale perchè non si può idealmente distinguerlo neppure col pensiero dentro l' idea, onde altro non è che un loro creato, una finzione della loro attivissima immaginazione filosofica. L' esempio che addurrò chiarirà meglio la cosa. Esponendo Schelling la sua Filosofia negativa, viene discorrendo così: [...OMISSIS...] . Intanto è un ragionamento evidentemente falso il dire che la ragione essendo potenza anche quel che contiene sarà potenziale. Poichè, se s' intende che la ragione sia in potenza a conoscere e non in atto, in tal caso ella nulla ancora conosce, nulla contiene; e però non si può dire come sarà il suo oggetto. L' oggetto non è fino che non è l' atto che l' intuisce; e l' oggetto proprio dell' atto è l' identico oggetto della potenza: dunque la ragione per essere in potenza, anzi che in atto, non influisce sul suo oggetto, nol costituisce in potenza anzi che in atto. Di poi è una contraddizione il considerare la ragione come una mera potenza senz' atto, e tuttavia definirla « l' infinita potenza di conoscere »; perocchè ciò che è in potenza non è mai infinito; nè ciò che è infinito può essere divenuto tale con un passaggio dallo stato di potenza a quello di atto; ma dee essere in atto fin sul principio. Perocchè dallo stato di potenza allo stato d' infinito atto ci ha una distanza infinita, e una distanza infinita non può essere trascorsa da nessun movimento. In terzo luogo « l' infinita potenza di essere »è un concetto assurdo. Perocchè questa potenza è qualche cosa, o nulla. Se è nulla, non è potenza. Se è qualche cosa, è già essere in atto. Dunque non si può concepire « una pura potenza infinita di essere »; e quand' anco non fosse infinita, la potenza non si può concepire senza un atto. Convien dunque che v' abbia prima un atto, cioè un essere in atto, acciocchè vi abbia la potenza di essere. Ed ecco già qui comincia a manifestarsi l' abuso d' astrazione, di cui parlavamo. Perocchè si pretende la potenza di essere come cosa che possa stare da sè senza atto. Ma, così divisa dall' atto « la potenza di essere », nè pure è un vero astratto, perchè così divisa non si può conoscere. Di più « il poter essere »ha due significati che vogliam distinguere. Perocchè significa tanto un poter essere logicamente considerato, come un poter essere considerato fisicamente. La possibilità logica dell' essere segna l' essenza di un essere che non involge contraddizione. Ma l' essenza , come essenza, non è in potenza ma in atto; e dicesi in potenza solamente considerandosi rispetto alla sua realizzazione non racchiusa nell' essenza. Onde di nuovo l' atto dell' essere non manca. La possibilità fisica importa di più la cognizione d' una causa reale atta a realizzare quest' essenza; e questa causa è di nuovo un essere in atto . Dunque è impossibile, che oggetto della ragione sia unicamente il poter essere; ma anzi convien che sia un atto dell' essere (l' atto dell' essenza, l' idea) nel quale si pensi la possibilità della sua realizzazione, ciò che è il poter essere. Ora tutta la Filosofia di Schelling e di Hegel non è che un edifizio innalzato sul fracido fondamento di questo falso ed assurdo astratto di un « mero poter essere », che si suppone gratuitamente dover precedere all' essere; perchè, illudendosi, si crede di poterlo trovare coll' astrazione antecedente a tutto. Ma l' astrazione, come dicemmo, non dà ciò veramente; ma è l' abuso dell' astrazione, cioè l' immaginazione, quella che non già trova analizzando, ma finge ed inventa così una creatura vuota di verità, aiutandosi a segnarla con vocaboli che altro non danno che un non7senso. Infatti Schelling continua a ragionare su questo falso astratto così: « La potenza adunque di essere è anteriore all' essere. Fino che si considera come potenza anteriore all' essere, ella può passare all' essere e non passare, e perciò è padrona di sè, ha il dominio sull' essere, è libera. Ma quando ella è passata all' essere, e l' essere è posto, ella ha perduto la sua libertà, ed è in potere dell' essere stesso. Or quest' essere privo di padronanza, privo del dominio dell' essere, non è spirito nè concetto; perchè spirito significa padronanza, e signoria dell' essere. Nella natura tutto è già posto, tutto ha la sua forma. Ma è facile di vedere che dee aver preceduto, qual materia , un essere cieco, e indeterminato, ossia infinito ». Così da un falso astratto argomenta ad un altro falso astratto , perviene alla materia prima degli antichi; alla quale, con una contraddizione in cui gli antichi non caddero, dà ad un tempo l' esser cieco all' esser libero; confondendo l' essere indeterminato, che è un' imperfezione, coll' esser libero che è una perfezione; e l' essere indefinito , che è un' imperfezione, coll' essere infinito che è una perfezione. Egli è chiaro che mediante ragionamenti di simil fatta si può pervenire a qualunque mostruoso assurdo; e questo è quello di cui si gloria la filosofia di Hegel, che non è infatti che la raccolta di tutti gli assurdi più ridicoli vestiti del più baldanzoso paludamento filosofico (1). Kant, Fichte, e Schelling ed Hegel non formano che una stessa scuola di sofisti, assai simili a quelli della Grecia, di cui Kant è il fondatore (2). I dati erronei ed arbitrari da cui partono e che noi abbiamo esposti, sono sempre i medesimi; ma ciascuno volendo essere originale ed unico signore del campo, deprime il suo predecessore, appropriandosi le sentenze e disponendole con altra simmetria. La critica che Hegel fa a Kant è quella che gli avea fatto Fichte: l' essersi quel filosofo contentato di chiuder l' uomo nelle forme soggettive e nelle illusioni trascendentali, senza dichiarare impossibile l' esistenza delle cose esterne e di Dio, benchè non accessibile alla ragione, ed aver quindi lasciata nella filosofia una dualità. Fichte, secondo Hegel, non fece altro che unire il desiderio , l' aspirazione istintiva a Dio di Jacobi, colla vuota oggettività del pensiero di Kant. Egli censura il primo, perchè questa unione resta sempre in un dover essere, senza che possa mai passare nel fatto. Infatti « l' Io puro, secondo Fichte, deve sempre porsi in un modo compiuto, assolutamente, travasandosi tutto nell' Io empirico, senza che possa mai venirne a capo, benchè a ciò s' affatichi all' infinito »: onde pone nella perfettibilità indefinita l' umana destinazione. Questo in Fichte rimaneva un mero postulato che doveva essere tolto per arrivare alla verità speculativa. Così in Fichte il pensare , urtando nell' infinito, trovava un limite insuperabile, e non si poteva costituire come assoluto principio della verità. Ora, senza considerare il pensare speculativo come questo assoluto principio di ogni verità, non pervenendosi all' assoluto, si rimane nel relativo: di che Hegel chiama la filosofia fichtiana una mera fenomenologia del pensare. Era in sostanza la critica stessa che gli avea fatta Schelling. Questi filosofi pretendevano di dover pervenire all' assoluto colla pura speculazione, e pretendevano che trovato l' assoluto non solo fossero spiegati tutti i misteri, ma ben anco lo stesso universo che doveva uscire dal pensare come i miti dell' antichità lo fecero uscire dall' uomo. Ma essi non davano però alcuna ragione del perchè la dovesse andar così, nè mostravano le loro credenziali che li dichiarassero atti ad eseguire tale e tanta promessa (che involge in sè stessa più assurdi). Intanto il principio di doversi cavare ogni cosa dal pensiero, era dovuto a Fichte, a cui l' avea suggerito la filosofia di Kant; e Schelling ed Hegel in sostanza non fecero che un tentativo di svolgere quel principio più logicamente, com' essi almeno si diedero a credere. Rixner (1) dice che lo scopo di Hegel non è altro che di formare della dottrina dell' idealità assoluta di Schelling una scienza atta ad essere insegnata metodicamente. Infatti è difficile trovare in Hegel qualche cosa di nuovo, eccetto che parole e cavillazioni a grande stento filate. L' unica cosa forse, in cui si dipartì dal suo maestro, si fu che sostenne non doversi cominciare dall' intuizione dell' assoluto ( Anschaung ) che Schelling poneva, chiamandola una « premessa insussistente »; e mantenne, che il principio del filosofare si dovesse prendere dal puro pensare , dove egli pretende trovare l' identità dell' ideale e del reale, e doversene cavare ogni cosa; il che veramente è conseguente all' errore fondamentale dell' idealismo: e perciò lo semplifica e perfeziona, rendendolo, se mi lice parlar così, un errore assoluto . Hegel adunque pretese di sollevarsi sopra il punto culminante della filosofia di Fichte, l' Io puro , per le ragioni che adduce nella lunga discussione che premette al libro I della sua Logica intorno alla questione [...OMISSIS...] ; le quali parole voglion dire che non si può ridurre ogni cosa all' Io , come voleva Fichte, perchè nel concetto dell' Io s' acchiude la relazione con un oggetto che rimane diverso dall' Io; quando conviene pur cominciare da ciò che non supponga esistere nulla di diverso da sè. Questa critica in sostanza era quella stessa che aveva fatta Schelling al suo maestro, quando aveva biasimato che nel sistema di Fichte il mondo materiale si rimanesse come cosa morta fuori dell' Io puro . Onde pretese di levarsi ad un punto più elevato di Fichte, sostituendo all' Io puro , l' intuizione dell' assoluta identità . Ma Hegel volle mettersi al di sopra di Schelling trovando un altro punto di partenza ancora più eminente, e però rigettò l' intuizione Schellinghiana dell' assoluto, perocchè in questa intuizione dell' assoluto già vi hanno due cose, cioè: 1 intuizione, 2 assoluto; onde Hegel, sostenendo che si dee cominciare dal semplice e trovare poi in esso ogni cosa, fece dell' intuizione e dell' assoluto una cosa stessa, che denominò puro , o vuoto, pensare , che chiamò l' immediato , o la stessa immediatezza . Il perchè disse che [...OMISSIS...] , come accade nell' intuizione a cui si vuol ridurre la riflessione, quasi facendola retrocedere. Così sottilizzando, stabilisce per vero immediato cominciamento del sapere il puro sapere , vuoto d' ogni contenuto, e crede di esser andato con ciò più su di tutti i suoi predecessori, e di quanti hanno prima di lui filosofato. Il perchè, a quella maniera che Schelling alla « Filosofia trascendentale » di Fichte aggiunse una seconda parte intitolandola « Filosofia della natura »; così Hegel alle due dottrine di Schelling ne aggiunse una terza, intitolandola « Logica ». Di che riuscì la dottrina hegeliana tripartita in questo modo: [...OMISSIS...] . Benchè noi non intendiamo qui entrare in un esame circonstanziato del sistema di Hegel, come facemmo di quello de' suoi maestri: parte perchè ciò che abbiam detto a loro riguardo vale in buona parte anche per lui; parte perchè ci bisognerà discuterlo altrove dove favelleremo della dialettica (1); tuttavia qui dobbiamo esporre l' errore fondamentale di tutto il suo sistema, il quale conosciuto, potremo fare giusta stima della partizione hegeliana dell' ente, scopo di questo libro. L' errore fondamentale adunque del nostro filosofo consiste nell' aver confuso il VERBO coll' IDEA, di aver cioè di queste due cose fattane una sola, a cui appartenessero indistintamente gli attributi dell' una e dell' altra. Dichiariamoci. La distinzione importantissima tra il verbo della mente e l' idea fu da noi esposta nel « Nuovo Saggio »: io prego il lettore di averla ben presente (2). Quando io penso l' essenza di un ente, per esempio, l' essenza dell' uomo, che cosa è presente alla mia mente? L' uomo. L' uomo, senza più, presente alla mia mente è l' umana essenza. Quest' essenza, in quanto è intuìta dalla mente, si chiama idea . L' essenza dell' uomo è l' uomo possibile: ma non si dee mica credere che quando la mente intuisce l' essenza dell' uomo, ella vi aggiunga contemporaneamente il concetto di possibilità . No: questo concetto è posteriore; la possibilità, come ho spiegato più volte, è una mera relazione dell' essenza, che è trovata ben presto dalla mente, ma che non è compresa nel primo intuito. Onde si suol dire con verità che l' idea fa conoscere l' uomo possibile , ma a condizione che si intenda così che ella fa conoscere l' uomo, il quale posteriormente si riconosce colla riflessione aver la relazione di possibilità, benchè questa possibilità a principio, come dicevo, non soggiaccia all' intuito. Io non so capire come, essendomi spiegato su ciò tante volte e così chiaramente, tuttavia ancora si continui ad attribuirmi, come fa tra gli altri il signor abate Gioberti, che io ammetto per oggetto dell' intuito il meno possibile (1): ancor peggio poi si fraintende e si altera ciò che io dico quando mi si imputa di ammettere un' idea possibile . Fra le altre male intelligenze e logomachie del sig. abate Gioberti vi ha quella che egli confonde l' attualità colla realità . Egli inveisce contro di me perchè dico che l' idea non è un reale, e argomenta che « l' ideale non può concepirsi senza che abbia qualche realità ». Ma intendiamoci sul valore delle parole. Il suo argomento varrebbe, se per realità s' intendesse attualità , giacchè è certamente giusto questo argomento: « Il possibile non può concepirsi senza qualche attualità ». Ma, lungi che io neghi l' attualità all' essere ideale, dico anzi ch' egli è la prima attualità (2). Infatti, se è l' essenza , dee per conseguenza esser la prima attualità degli enti. All' incontro nego che l' ideale sia reale , perchè la parola reale si adopera appunto a significare un modo d' esistere opposto al modo ideale; onde, chi dicesse che l' ideale fosse reale , confonderebbe due concetti opposti, e direbbe un manifesto assurdo allo stesso modo di colui che dicesse che il nero è bianco, o che l' accidente è sostanza (3). L' idea pura adunque non contiene nulla di reale , venendo escluso il reale dalla stessa parola idea . L' intuizione è l' atto con cui lo spirito contempla l' essenza pura della cosa; ed appunto perchè l' intuizione è l' atto dello spirito, essa è reale; giacchè ogni azione di cosa reale è reale. Ma l' essenza pura è l' oggetto di quest' atto, ed altro non è, se non « l' ente in quanto è conoscibile ». Le espressioni che s' usano: « l' ente ideale è nella mente, l' ente ideale è presente alla mente, ecc. », non si debbono intendere materialmente, quasi che l' ente ideale fosse nella mente come l' acqua è in un vaso, o fosse presente alla mente come un corpo è presente agli occhi per la vicinanza dello spazio; ma esse non valgono che come pure sinonimie di questa espressione propria: « l' ente ideale è conosciuto dalla mente ». Conoscer l' essere ideale, ossia l' essenza mera dell' ente , si esprime colla parola propria intuire . In questa pura cognizione la mente contempla, ma non pronuncia cos' alcuna; perocchè il pronunciare è un atto posteriore a quello dell' intuire ; giacchè non si può pronunciare nulla di ciò che non si ha prima almeno intuìto. Pronunciare qualche cosa dell' ente intuìto, è giudicare, è fare quell' atto che si chiama verbo della mente. Il verbo della mente è dunque quella parola interiore che dice la mente in conseguenza dell' ente intuìto: è dunque una operazione della mente essenzialmente posteriore all' intuizione. Ora, posciachè pronunciare non si può senza pronunciar qualche cosa di qualche cosa: dunque il verbo della mente ha di bisogno di avere nel suo termine una duplicità. L' essenza è semplicissima: l' intuizione adunque dello spirito ha un termine unico dove riposa: il verbo invece, la parola interiore , non potrebbe essere proferito dallo spirito, se non vi avesse un modo di introdurre la pluralità nel termine del suo atto. Questa pluralità può comparire in due modi: 1 Coi sensibili comunicati a noi nel nostro sentimento; 2 Coll' analisi dell' essenza e delle sue relazioni. Ma questo secondo modo ha luogo solo posteriormente al primo: per esempio, quando la mente pronuncia che « l' essenza umana è possibile d' essere realizzata »ha moltiplicato il suo termine coll' analisi dell' essenza umana. Ma si badi. Ella ha trovato una relazione tra l' essenza umana e il concetto della sua realizzazione . V' ha dunque in questo pronunciamento una triplicità: 1 l' essenza; 2 il concetto di realizzazione; 3 la relazione di possibilità, per la quale si giudica che l' essenza possa essere realizzata. Ora, acciocchè lo spirito possa pronunciare questo giudizio, possa dire questa parola, è necessario prima di tutto ch' egli ritrovi la realità, e questa realità non gli è data che nel sentimento. Acciocchè dunque la mente possa venire a dire qualche parola interiore, a pronunciare un giudizio qualsiasi, è condizione necessaria che le sia dato, prima di tutto, il sensibile. Dunque in nessuna maniera è possibile confondere l' intuizione col verbo della mente: quella essendo semplicissima ed una, questo esigendo pluralità acciocchè possa aver luogo. Schelling confuse l' intuizione col verbo della mente, dando all' uomo questo invece di quella. Per accorgersene basta osservare, che l' oggetto dell' intuizione Schellinghiana è l' identità assoluta che egli esprime colla formola A .uguale . A, chiamando l' uno degli A predicato , l' altro soggetto . Dunque quest' oggetto è molteplice. Infatti la cognizione dell' identità non può essere data che per un giudizio. Ma eglino sono veri e innegabili questi fatti: 1 Che nella semplice intuizione d' un' idea, d' un' essenza, non cade nè pluralità, nè giudizio; 2 Che non è punto cosa assurda questa intuizione semplice; 3 Ch' essa nell' ordine logico precede ogni giudizio; 4 Che il giudizio non può essere innato nell' uomo, perchè egli è un' operazione che contiene un movimento, un discorso che trapassa da un' idea in un' altra; e un movimento intellettuale è bensì atto del soggetto esistente, ma non già una disposizione stabile che possa essere innata; 5 Che a spiegare le operazioni dell' umano intendimento basta che si trovi innata nell' uomo l' intuizione semplice e immanente dell' essenza dell' essere senza più. Il solo fatto psicologico ed innegabile, che per l' uomo sono due operazioni distinte l' intuizione dell' essenza e il giudizio , basta a doverci convincere che l' intuizione precede il giudizio; e che quindi l' umano conoscimento non comincia da un verbo , ma da una idea intuìta . Schelling, attribuendo all' uomo un verbo primitivo sotto il nome d' intuizione, invece d' una vera intuizione diede all' uomo quello che è proprio di Dio, nel quale le idee non sono distinte dal suo Verbo pel quale solo tutto conosce, che anzi non sono propriamente idee l' una dall' altra realmente distinte, ma sono relazioni conseguenti al suo Verbo nel modo che altrove abbiamo esposto (1). Ma per l' uomo le idee sono separate dal verbo, e l' una dall' altra è separata e distinta; e però esse precedono logicamente al verbo umano e non al divino. Questo primo errore di Schelling fu il primo passo che lo travolse al panteismo. Ma all' errore di Schelling ne aggiunse Hegel uno assai maggiore. Quegli avea confusa l' intuizione col verbo della mente: errore gravissimo; ma finalmente tanto l' intuizione quanto il verbo sono due operazioni soggettive, cioè dello spirito umano. Hegel non si contentò di ciò: ma confuse l' intuizione ed il verbo colla stessa idea (cioè il soggettivo coll' oggettivo), e attenendosi a questa, volle in essa trovare l' intuizione, il verbo, ogni cosa. Certo che questo medesimo errore non mancava in Schelling, perocchè questi era pervenuto a dire che le idee erano anime , trasnaturando così l' oggetto in soggetto. Ma l' errore in Schelling non era coerente, perchè a principio del suo sistema avea pur parlato d' assoluto e d' intuizione dell' assoluto; il che veniva a distinguere l' atto dello spirito intuente dall' oggetto intuìto: laonde i seguaci di Hegel lodano il loro maestro di una logica rigorosa, e non può negarsi che egli abbia conosciuta l' incoerenza di Schelling, ed abbia procurato di rendere l' errore coerente a sè stesso, per quanto gli fu possibile. Confondere l' idea col verbo, il concetto col giudizio, è lo stesso adunque, che: 1 Confondere quello che è oggetto dell' intuizione coll' operazione soggettiva dello spirito qual è il giudizio: 2 E, stantechè l' operazione dello spirito è reale , perciò è anche un confondere il modo ideale dell' essere col reale. Quindi per Hegel la dialettica è il movimento dello stesso concetto; è lo stesso concetto quel che dialetticizza , non è più lo spirito umano. Al concetto adunque attribuendosi le operazioni dello spirito, non è maraviglia se egli si cangia un poco alla volta in ispirito (1), e si metamorfizzi in ogni cosa che si voglia, diventi Iddio, universo, tutto. Qui sta la somma dell' hegeliana filosofia. Vincenzo Gioberti trasportò in Italia alcuni principii staccati della filosofia di Hegel (e col prenderli così staccati ne deturbò la logica coerenza), nello stesso tempo che molto declama contro questo filosofo. Egli non riconosce l' intuizione della pura idea; anzi pretende che non si possa intuire l' idea se non per via di giudizio, e in questo conviene con Schelling nel confondere l' intuizione col verbo , dando a questo il nome di quella. [...OMISSIS...] . Di poi confonde ancora con Hegel il verbo della mente, cioè il giudizio coll' idea ossia col concetto, scrivendo: [...OMISSIS...] . Così egli confonde il concetto col giudizio , senza accorgersi che la nota caratteristica del giudizio è l' affermazione , e che nell' affermazione il giudizio consiste; e l' affermazione è un' operazione soggettiva dello spirito, laddove il concetto, ossia l' idea, non è una operazione dello spirito, ma è un oggetto, in cui si può ben terminare un' operazione dello spirito (l' intuizione), ma distinguendosi appunto perciò da esso. L' ab. Gioberti confonde adunque al pari di Hegel l' operazione dello spirito (il verbo), che è cosa soggettiva , col concetto che è l' oggetto stesso intuìto. Ora il perdere di vista la differenza essenziale che passa tra il soggetto e l' oggetto , conduce direttamente a confondere l' idea colla cosa , l' ideale col reale; che è appunto l' altro errore cardinale di Hegel, il quale vuol cavare le cose stesse dalla sua idea. Ecco come s' esprime il signor Gioberti: [...OMISSIS...] . Il dire che « « ogni cosa è un concetto » », è proposizione così ardita che nè pur Hegel la direbbe (3). Qui c' è il materialismo: perchè, se i corpi sono cose e se ogni cosa è un concetto, dunque anche i corpi sono concetti. C' è conseguentemente l' idealismo: perocchè le cose sono trasmutate in idee. C' è il soggettivismo e il psicologismo: perchè il primo psicologico non può essere che quel primo che si pensa nell' anima; se dunque il primo psicologico produce tutti i concetti, dunque tutti i concetti sono produzioni dell' anima. C' è il panteismo: perchè, se il primo psicologico (ciò che prima si pensa nell' anima) s' immedesima col primo ontologico, dunque all' anima si riducono tutte le cose. E poichè il primo psicologico immedesimato col primo ontologico diviene il primo filosofico, « che è assoluto, cioè principio del reale e dello scibile », dunque l' anima, fonte de' concetti, unita al primo ontologico, fonte delle cose, è ciò che costituisce il Dio Giobertiano. Confuso il reale e l' ideale in uno, immedesimato il soggetto e l' oggetto, ne dovea venire la dottrina della dialettica Hegeliana. Hegel diede il ragionare all' idea stessa; è l' idea che si muove e che si svolge in giudizŒ ed in raziocinŒ: ma queste non sono più operazioni dell' anima umana. Il che niente ripugna, dopo che nell' idea si trasportarono le qualità del soggetto, e conseguentemente a lei si diede la vita e l' attività dell' anima (il che potrebbe essere a dir vero immaginazione poetica, non mai la verità del fatto). Quindi l' uomo, secondo il Gioberti, non è già quegli che giudica e che ragiona; ma è l' idea che fa tutto questo: e l' uomo è l' uditore passivo di ciò che l' Idea - Dio pronuncia (benchè talora pronuncii a sproposito). Il che non fa maraviglia, dopo avere stabilito il signor Gioberti che l' idea è un giudizio , come vedemmo. [...OMISSIS...] Se l' idea è un entimema, dunque ella non è solamente un giudizio, ma ben anco un raziocinio. Quindi il nostro filosofo attribuisce la voce (una voce razionale ) all' idea, dicendo che l' evidenza [...OMISSIS...] . Ma quello ch' è più singolare (nel che va troppo più avanti di Hegel), non solo il signor Gioberti vuole che l' idea (come fosse un soggetto intelligente e non un oggetto intelligibile) pensi e ragioni, ma ben anco parli con voci umane e sensibili, ed esprimendo sè stessa si faccia attrice del primo linguaggio. Ecco com' egli proponga questa sua quanto nuova altrettanto arbitraria teoria. [...OMISSIS...] S' estende poi a far parlare l' idea, e colla sua ricca immaginazione inventa un dramma in cui ella interloquisce tutto ciò che il filosofo le mette in bocca. A chi piace sollazzarsi, può vedere questo tutto nella lettera VII di quelle scritte al prof. Tarditi (2), della quale rechiamo qui solo il cominciamento: [...OMISSIS...] . Non credo prezzo dell' opera il seguitare più innanzi. Conchiuderemo solo, che in nessuna maniera, nè Hegel, nè altri, può dimostrare che l' idea sia un soggetto che pensa , invece d' essere, come è, un puro oggetto che sta innanzi al soggetto che pensa: per nessuna maniera di sottigliezze e di sofismi si può far perdere la sua natura all' idea, o immedesimare il soggetto coll' oggetto, o fare che l' uno si cangi nell' altro. Quindi per la stessa ragione vien meno il ragionare nella bocca di tali filosofi, e sottentra in sua vece un gran salto che dà la fantasia, quand' essi si arrovellano per riuscire a distruggere la differenza fra concetto e giudizio, idea e verbo, sicchè dall' uno possano passare all' altro quasi ad un sinonimo; come pure tra ideale e reale; cosa ed idea; le quali nozioni differiscono tra loro essenzialmente: nè contro le nature delle cose possono menomamente le sottilità de' sofisti, nè le declamazioni de' retori. Avendo dunque Hegel, senza alcuna prova, ma con un puro salto mentale della fantasia (benchè procuri d' asconderlo tra veli d' una nuova ed oscura maniera di parlare e di lunghi cavillosi e stentati periodi, pronunciati con quella sicurezza con cui sogliono insegnare i professori di quella nazione) attribuito all' idea le proprietà del soggetto intelligente; egli la rese non solo illuminante, ma illuminata e pensante e operante e producente, finalmente fonte di tutte le cose e di tutte le apparenze, non adoperando mai, a comporre le une e le altre, altra materia che sè stessa. Laonde egli riduce gli oggetti di tutte le scienze ad un oggetto solo, cioè all' idea ed al suo movimento dialettico, come si può vedere nella sua « Enciclopedia delle scienze filosofiche » (1). La quale Enciclopedia pare che stèsse sotto gli occhi di Vincenzo Gioberti, quando scriveva: [...OMISSIS...] . Riduce dunque Hegel tutte le scienze filosofiche a tre: Alla prima, che chiama Logica , attribuisce per oggetto l' Idea considerata in sè stessa e per sè stessa; Alla seconda, che chiama Filosofia della natura (denominazione tolta da Schelling), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo esser altro, cioè in quel suo movimento pel quale si trasmuta in altro, nel mondo; Alla terza, che chiama Filosofia dello spirito (e risponde all' Idealismo trascendentale di Fichte), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo ritorno dall' esser altro in sè stessa, cioè considerata in quel suo movimento pel quale, dopo essersi trasmutata nel mondo, col pensiero riduce a sè, riconosce come sua propria creazione e sostanza, il mondo. Ciascuno, che un po' considera questa partizione delle scienze filosofiche, sente il dominio che ha l' immaginazione nelle filosofie tedesche, e n' è prova altresì l' abbondanza delle metafore di cui lussureggia lo stile di que' filosofi. Il vedere l' idea che si muove da sè, e diventa il mondo, e poscia ritorna in sè trasportando seco tutto il mondo ed inabissandolo nel proprio seno, egli è pure uno spettacolo maraviglioso e dilettevolissimo a quelle gigantesche fantasie. Nell' entusiasmo, che destano cotali drammi della tedesca filosofia, a niuno viene in mente il domandare come l' idea, che è immobile, impassibile, puro oggetto dello spirito, possa muoversi, com' ella possa diventare materia; e da materia trasmutarsi nuovamente in spirito. A niuno cade in pensiero di chiedere come una natura possa trasmutarsi in un' altra natura, e in tal natura che ha determinazioni contrarie e ripugnanti a quelle che avea prima. A niuno finalmente sovviene di pregare questi filosofi taumaturghi, degni discendenti di Giacomo Boehme, che vogliano indicare qualche ragione sufficiente de' varii moti e tramutamenti dell' idea, e perchè ella prescelga questi a quelli, che pure sarebbero egualmente concepibili: a ragion d' esempio, perchè divenendo ella il mondo, non diventi un mondo un po' più grande, o un po' più piccolo del presente; perchè, divenendo il genere delle bestie, diventi proprio quel numero di bestie che abita il globo, nè pur una di più o di meno, e perchè le femmine pregne talora si sconciano, e l' Idea non ne patisca, benchè trasformata in esse, o non l' impedisca; e così va discorrendo. Ma poichè la Logica , che tratta dell' essere in sè e per sè, secondo il nostro filosofo è la solida base delle altre due scienze filosofiche che da esse derivano, cerchiamo in essa la partizione dell' essere. Infatti nel primo libro della « Scienza della Logica » di Hegel, verso la fine della discussione che egli fa sulla questione dell' « onde si debba cominciare », noi troviamo questo titolo: « universale partizione dell' Essere ». Dobbiamo dunque fermarci un poco ad esaminarla. Egli propone la tripartizione seguente: [...OMISSIS...] . Ognuno s' accorge che questo stile non è molto chiaro; e che la divisione non è molto regolare. Aggiungiamo poche osservazioni 1 Tutto si riduce all' essere ed alle sue determinazioni . Ma convien porre ogni attenzione a quella che egli dice la terza determinazione dell' essere. Ella contiene l' essere senza determinazioni, il qual precede. Si vuole che sia il cominciamento della scienza: è l' immediato , secondo la solenne denominazione di Hegel. Ma tosto si corre all' astratto, e lo si chiama immediatezza , indeterminazione, anzi indeterminatezza [...OMISSIS...] , senza accorgersi che tali parole non esprimono più l' essere stesso, ma una sua qualità negativa (privazione di mediatità, e di determinazioni). Che se questa qualità negativa si voglia prendere per sè e in sè, non aggiungendola all' essere come a suo subietto, noi già siamo usciti dell' essere, e venuti ad un concetto assurdo, cioè ad un non7concetto, illusi dal suono d' una parola che niente più significa. Il che è la solita pecca della filosofia tedesca. 2 Oltracciò si abusa della parola determinazione applicandola a significare anche l' indeterminazione assoluta dell' essere, quando questa non è determinazione, ma anzi mancanza di determinazione, non7determinazione. Ma, poichè la mente considera la mancanza di determinazione come una variante dello stato dell' essere, perciò la stessa indeterminazione si colloca tra le determinazioni pigliando queste in genere come quelle che producono le varietà dell' essere (1). E anche qui si sostituisce all' entità la vista logica dello spirito, e quella falsa maniera con cui egli classifica ciò che pensa secondo forme vuote che egli stesso impone alle cose in virtù dei segni verbali, rispetto a' quali è alla stessa condizione ciò che è negativo e ciò che è positivo, giacchè il vocabolo, che è positivo, segna anche il negativo. Affine dunque di strigare la verità dalla rete d' innumerevoli enti di ragione e di concetti fattizi e vani, in cui Hegel di continuo l' avvolge, convien incessantemente disfar la rete tessuta laboriosamente da questo filosofo, distinguendo accuratissimamente gli enti di ragione dagli enti in sè , e distinguendo di più, tra gli enti di ragione, quelli che sono concetti da quelli che sono non7concetti, cioè enti supposti, verbali, e nulla affatto esprimenti se non assurdi. 3 Di poi si dice che « la terza determinazione dell' essere cade nella sezione della qualità ». Ma, propriamente parlando, consistendo questa pretesa determinazione nell' indeterminatezza , conviene più veramente dire che è non7qualità. 4 Si dice ancora che questa indeterminatezza è una determinazione delle altre determinazioni dell' essere. Niente affatto: anzi è la loro negazione. 5 Si confonde l' indeterminatezza coll' immediatità dell' essere. Per immediatità s' intende quel primo logico, onde comincia la scienza. Ora questo primo logico, questo immediato, è certamente l' essere puro senza determinazioni; perocchè le determinazioni vengono appresso come qualità d' un subietto. Ma non è mica vero perciò, che il primo logico nient' altro presenti alla mente che l' indeterminazione; e molto meno ch' egli sia l' immediatezza medesima. L' immediatezza, come abbiamo osservato (1), non può stare da sè: essa è un concetto relativo all' immediato , all' ente quasi a suo subietto; l' immediatezza è un astratto, una relazione dell' ente al mediato, cioè del principio alle conseguenze e deduzioni. Onde non può essere il primo logico . Nè pure, come dicevamo, può costituire il primo logico; l' immediato, come immediato, e non più. Questa parola altro non significa che una relazione con ciò che in ordine alla scienza è mediato; e però suppone che vi sia il soggetto di questa relazione, perocchè ogni relazione suppone un ente di cui sia relazione. L' indeterminazione poi, o l' indeterminatezza, non significando altro che mancanza di determinazione, è un concetto che si riferisce del pari ad un soggetto, a cui l' indeterminazione appartenga, ma di più lascia in dubbio se questo subietto sia un puro ente mentale , o un ente in sè . Perocchè altro non esprimendo la parola indeterminazione se non una mancanza, e non ponendo nulla di positivo, ella può essere applicabile ugualmente al nulla , nel qual caso il suo subietto è un ente mentale , perchè infatti nel nulla non si concepisce determinazione alcuna; e può essere applicata all' essere , il quale si può benissimo concepire dalla mente nostra privo di determinazione. Che anzi l' essere, a cui si riferisce la mancanza di determinazioni, è doppio: perocchè, 1 può intendersi l' essere ideale , nel quale si pensa il puro essere con astrazione da ogni determinazione; e 2 può intendersi l' essere assoluto , Dio, non perchè Iddio sia un essere indeterminato nel senso di vago e comune, ma nel senso che niuna determinazione è in lui distinta da lui stesso, o da altra determinazione; onde non può rinvenirsi in lui determinazioni in senso proprio, come distinte dall' essere e tra loro. 6 E qui si discuoprono facilmente tutte le radici degli errori hegeliani. La fallacia con cui questo sofista inganna i suoi discepoli consiste appunto nell' aver preso per primo logico una qualità invece dell' ente, e fatta passare per ente: qualità che si può applicare a più subietti . Ora avendo presa quella qualità, cioè l' indeterminazione e l' immediatezza (che son due cose che egli confonde pure in una) pel primo logico , e avendola fatta passare per lo stesso subietto, a cui ella appartiene, ed essendo questo moltiplice; ne venne ch' egli potè attribuire a quella qualità tutto ciò che si può attribuire ai diversi soggetti. Quello che è singolare si è, ch' egli stesso confessa di dover trattare del suo essere (l' indeterminazione ed immediatezza) nella sezione della qualità, benchè privo di qualità [...OMISSIS...] . Potendosi adunque l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire al nulla ed all' essere; egli ebbe bel gioco a prenderlo ora pel nulla ed ora per essere; ed a conchiudere che l' essere è uguale al nulla! Ognuno che abbia letto le opere di Hegel (se ebbe tanta pazienza) ben sa quant' egli si limi il cervello e il faccia limare a' suoi lettori su questa insigne scoperta che l' essere e il nulla fanno una perfetta equazione (1). Di poi, potendosi l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire all' essere ideale; ebbe pure buon gioco a farne uscire tutta la logica e la dialettica pura. Finalmente, potendosi (benchè in altro senso) attribuire a Dio stesso, convertì il suo nulla in Dio; e fece travedere, siccome valente giocolatore, i suoi pazienti uditori, dimostrando che Iddio diventava nulla, e il nulla diventava Dio, quasi direi, a volontà del filosofo, che pone quindi IL DIVENTARE a principio della sua dottrina, quasi punto d' unione tra il nulla e Dio! Egli è manifesto qual governo si debba fare, mediante un tale principio, di Dio, dell' uomo, e dell' Universo, che per un cotale movimento dialettico continuamente si permutano. Non si creda però che a tali delirii tengano dietro molti in Germania, anzi sono di pochi. Anche tra gli scrittori tedeschi ve n' hanno assai, che tolsero ad oppugnare il sistema hegeliano. Vendel, che è uno di questi, lo definisce: « « La pazzia ridotta a teoria » » (1). Il buon principe Costantino di L”wenstein, rapito così giovane alle speranze degli amici, giudica di Hegel con molto senno nel suo saggio postumo di una cristiana filosofia (2). Staudenmeier ne pubblicò più recentemente una confutazione. Lo stesso Calybaeus nella sua « Critica di Hegel » dice: [...OMISSIS...] . Così giudicano tutti i cervelli sani di quella nazione; e se non giudicassero così, povera quella nazione! La sarebbe divenuta un manicomio. Il filosofo francese, più che altri mai promosse lo studio della filosofia in Francia, attinse ad un tempo ai Neoplatonici, e ai recenti filosofi tedeschi. Egli si sforzò di ridurre le categorie di Kant alle due leggi di causa e di sostanza, cui restringe poi ad una sola. Per sè, al suo parere, la sostanza è la causa in quanto esiste, e la causa è la sostanza in quanto opera: sicchè sostanza e causa differiscono come due rispetti sotto cui si considera la stessa cosa. Perocchè, dice egli, le idee di tempo e di spazio, di quantità, di qualità, di relazione e di modalità, si riducono alle due idee di ciò che è e di ciò che opera. La quale teoria pecca, perchè si scosta grandemente da ciò che dà l' osservazione della cosa in sè stessa, che è riconosciuta dal signor Cousin per la guida fedele del filosofo. E veramente l' attenta osservazione della cosa ci dimostra che nè l' idea di spazio, nè quella di tempo, si può ridurre menomamente a idee di sostanza e di causa; come nè tampoco vi si possono ridurre le altre quattro idee annoverate. Perocchè la quantità e la qualità non sono sostanze, ma modi di alcune sostanze, non di tutte (la sostanza assoluta, cioè Dio, non avendo nè quantità, nè qualità, a propriamente parlare), la relazione poi altro non essendo che un' idea astratta, la quale abbraccia tutti i rispetti ne' quali la mente contempla le cose, sieno sostanze, o idee, o che altro. La modalità finalmente nel senso kantiano è una cotal relazione delle idee fra di loro, e però non si può ridurre, nè pur essa, alle idee di sostanza o di causa. Il signor Cousin adunque non procede in questo colla maturità d' un filosofo; precipita delle conclusioni senza usare la necessaria pazienza ad osservare accuratamente quali sieno le differenze tra il concetto di sostanza e i concetti delle categorie kantiane, le quali differenze sono immense, e tali che in nessun modo questa si lascia ridurre a quella. In secondo luogo nei concetti di sostanza e di causa non si contengono i concetti dei modi delle sostanze: e però quei due concetti non abbracciano tutto ciò che si può concepire; e però non possono essere vere categorie. Converrebbe aggiungervi la categoria dei modi; dividendosi l' ente in sostanza e modi della sostanza. Ma la divisione non quadrerebbe meglio, perocchè in nessuna di queste due categorie si potrebbe collocare l' Essere Supremo: non nella categoria di sostanza in opposizione a' suoi modi, perocchè la natura divina è superiore alla sostanza, e accuratamente si dee chiamare soprasostanza [...OMISSIS...] , come vedremo: molto meno nelle categorie dei modi in opposizione alla sostanza; perocchè in Dio non v' hanno modi realmente distinti dalla sostanza medesima. In terzo luogo è un errore fondamentale il dire che tra il concetto di sostanza e quello di causa non passa reale differenza. Il quale errore dimostra nuovamente un difetto di accurata osservazione del fatto come stanno queste cose. La quale osservazione ci dà, che la sostanza è il principio, il soggetto, e, se si vuole, anche la causa degli accidenti, ma solo degli accidenti; i quali rimangono in essa, come termini inerenti all' atto suo: laddove il concetto di causa s' estende di più a significare un' energia che produce effetti separati affatto da sè, effetti che nè rimangono in esso, nè sono suoi modi; che non hanno lui per soggetto; e sono o un' altra sostanza o modi d' un' altra sostanza (1). Pretende dunque questo filosofo di ridurre ad unità le categorie di Kant, cioè all' idea di sostanza ch' egli identifica con quella di causa: il che non è veramente uno sciogliere il problema delle categorie, ma un distruggerlo. Conciossiacchè le categorie sono perite quando ad una fosser ridotte; giacchè con quel problema si cerca appunto di classificare le varietà degli enti; e il ridurre queste varietà ad una è un negare ogni varietà, negare il fatto della varietà. Convien dunque dire che non si possono ridurre tutte le categorie alla sostanza, e per lo meno i modi non sono contenuti nell' idea di sostanza, e però debbono formare una classe a parte, come dicevamo. E veramente lo stesso Cousin viene poi a classificare i modi delle sostanze, dove ragiona della sostanza per sè: di Dio. Ma disavvedutamente avviluppandosi in questo ragionamento incappa in più errori. Poichè primieramente suppone che le idee di Dio sieno i modi di Dio, cosa assurdissima: conciossiacchè non v' ha in Dio altre idee realmente distinte che il Verbo divino; e il Verbo è la stessa natura, e, se si vuole usare la parola sostanza , la stessa sostanza divina, che giova meglio dirsi sovrasostanza. Quanto poi al Verbo, qualora piacesse di chiamarlo un modo in cui Dio è, non dovrebbe in ogni caso dirsi che egli è un modo della sostanza divina o sovrasostanza, ma piuttosto ch' egli è un modo dell' essere Divino, un modo in cui l' essere divino E`: il che è pur tutt' altro. Poichè il modo dell' essere non è un accidente, laddove il modo della sostanza è un accidente. Venendo adunque il Cousin a classificare i modi, ossia le idee divine, egli così ragiona: [...OMISSIS...] . Ma, chi esamina con diligenza quel ragionamento, il trova vacillante; perocchè, lungi che i suoi passi sien posti con sicurezza, cioè che sia provato tutto ciò che s' ammette in esso, anzi vi si introducono assai cose di furto affatto gratuite. Lascio l' errore accennato di chiamare le idee modi di Dio, ed osservo: 1 Questa proposizione: « Iddio possiede l' idea dell' unità », ecc., suppone almeno tre cose: a ) il possidente; b ) l' idea dell' unità; c ) e la possessione o il nesso tra il possidente e l' idea. Convien dunque dire in che l' idea posseduta differisca dal possidente, e la possessione dall' uno e dall' altra: perocchè, se queste cose non differiscono in nulla, quella proposizione non avrebbe alcun senso. 2 Se l' idea dell' infinito, e l' idea del finito, e quella della relazione sono tre idee diverse in Dio, dunque vi debbono avere tre atti di possessione; e rimane a stabilire come questi tre atti di possessione differiscano dalle idee di Dio, e da Dio stesso, per la ragione medesima. Se poi differiscono, già i modi di Dio non sono più tre (le tre idee), ma per lo meno sei: perocchè oltre le tre idee vi hanno i tre atti di possessione. 3 Egli è falso che l' idea di unità e l' idea d' infinito sieno la medesima idea, perocchè ogni ente anche finito è necessariamente uno. 4 E` falso ancora, che l' idea di varietà contenga necessariamente l' idea di finitezza e di limitazione. Così le persone divine variano o piuttosto diversano fra loro; ma questa diversità non arreca perciò l' idea di cosa alcuna finita. Solo nelle cose umane la varietà è segno di limitazione, perchè in ogni variazione non si ripete tutto l' ente, che varia; laddove in Dio, in ogni persona si ripete tutta affatto la sostanza divina senza pluralizzarsi . Onde la varietà che è in Dio, non induce niuna cosa che sia finita, niuna idea di limitazione. 5 L' idea di uno e di vario e di relazione sono idee astratte, onde non possono essere in Dio distinte come vengono significate dalle parole, nè l' idea di uno può essere lo stesso che la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente, giacchè l' uno può esser applicato a qualsivoglia sostrato; come nè pure l' idea di vario può essere la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente e come cognito, perchè la varietà s' applica egualmente a qualsivoglia pluralità. Lo stesso dicasi dell' idea di relazione. Queste idee adunque non possono essere i modi di Dio, nè si possono dedurre sol dicendo che Iddio conosce i suoi modi. 6 Le idee astratte, ossia generiche, suppongono avanti di sè le idee specifiche, ossia meramente universali, come queste suppongono innanzi di sè le percezioni delle cose a cui si riferiscono. Se dunque si pone in Dio l' idea dell' uno come suo modo, forz' è che prima dell' idea astratta e generica dell' uno, vi sia l' idea d' un Dio uno; e innanzi questa, la percezione di sè stesso: e così i modi e le idee di Dio si moltiplicano grandemente sopra il numero tre a cui le restringe con tanto arbitrio il sig. Cousin. Somigliantemente l' idea di varietà non si può ammettere in Dio, se non si suppongono molte altre idee e percezioni a quelle precedenti, di cui quella è un astratto molto elevato. Primieramente l' idea di varietà suppone quella di numero egualmente astratta, ma che contiene meno dell' idea di varietà, perchè il numero suppone più unità non varie, anzi uguali. Di poi, l' idea del numero in genere suppone i numeri in ispecie, cioè il due, il tre, il quattro e così all' infinito. Onde tutte queste idee debbono essere in Dio, perchè supposte dall' idea di varietà, e non contenute in essa, ma sì contenenti l' idea di numero. Di che un' altra difficoltà egualmente insuperabile nel sistema Cousiniano, che queste idee specifiche de' numeri dovrebbero essere attualmente infinite in Dio, se fossero suoi modi distinti, perchè a' numeri non si può assegnare alcun confine. Ora un numero di idee infinite, è contraddizione, supponendosi giunto all' infinito il numero: il quale, se vi fosse giunto, non potrebbe più oltre procedere, contro l' intima natura del numero che esige che si possa sempre aumentare d' una unità. Di più, anche il numero specifico è un' astrazione che suppone le entità da cui si astrae e le percezioni di esse. Se si dovesse dunque dedurre le idee divine come fa il Cousin, converrebbe prima supporre che Iddio percepisse sè stesso; poi, che rifletta su di sè stesso e si percepisca di nuovo in due modi, come percipiente e come cognito; poscia, che da questa doppia percezione riflessa astragga il numero due, e dal due gli altri numeri, e da questi il numero in genere, e quindi l' idea di varietà, il che porrebbe, se non successione in Dio e generazione d' idee, almeno più atti distinti, e quasi facoltà, e però di nuovo una moltitudine infinita di modi: cose tutte ripugnanti e distruggenti il sistema stesso di Cousin che pretende trovare in Dio tre modi, ossia tre idee e non più (1). 7 Le stesse riflessioni si debbono fare rispetto alla terza idea di relazione, pure astratta anch' essa, sicchè ne suppone altre ed altre dinanzi da sè. Onde per ogni verso apparisce quanto vacilli il fondamento della filosofia Cousiniana. E tuttavia il nostro filosofo si compiace assai nell' applicare questo giochetto d' astrazione al mondo quasi rappresentazione di Dio, perchè contenente in esso unità, varietà e relazioni tra l' unità e la varietà. Il concetto potrebbe avere qualche valore, se non fosse adoperato fuori di luogo, e non occorresse, nell' uso ch' egli ne fa, una continua confusione tra l' idea e il reale. L' idea di unità e d' infinito, dice, come è il modo necessario di Dio, così è il modo necessario del mondo. Ma, lasciando che il mondo può esser uno e tuttavia esser finito (e certo egli è finito da molti lati), chi dirà mai che il modo dell' essere del mondo sia un' idea? Un' idea è ella una sostanza sussistente e reale? Quando ciò fosse, l' idea del mondo sarebbe il mondo: di che nulla di più assurdo e contrario al buon senso. Si confonde adunque l' idea di unità coll' ente reale, conosciuto bensì coll' idea, ma sussistente in un modo al tutto diverso dall' idea. Lo stesso si dica delle altre due idee, che non sono certamente il mondo nè modi di esso: perocchè il mondo è un complesso di singoli reali, i quali hanno de' vincoli d' azione e di passioni reali tra loro; e la varietà non esiste propriamente come tale, cioè come idea di varietà nel mondo, ma nella mente: la quale, riferendo il mondo a tale idea, il conosce, nol crea. Lo stesso dicasi della relazione come tale, cioè come astratto della mente: che non è punto il mondo, nè è nel mondo reale, ma nel mondo già dalla mente conosciuto. Cousin applica la sua formula a tutte le scienze: all' astronomia, alla chimica, alla fisiologia vegetabile ed animale, alla geografia, alle scienze che riguardano l' umanità, ecc.; e da per tutto trova senza difficoltà l' uno e il vario, e la relazione fra l' uno e il vario, applicazione sterile di risultamenti: perocchè non solo queste idee astratte si possono riscontrare realizzate negli enti, ma molte altre, ed anzi tutte quelle che noi chiamiamo idee elementari dell' essere (1), e molte volte queste idee elementari presentano una trinità degna di considerazione, ma tutt' altro che unica. Così in ogni ente si può riscontrare realizzate le idee di principio, di mezzo e di fine. Sant' Agostino acutamente osserva che in ogni ente non manca un cotal vestigio di trinità, avendovi l' essere, la specie (o forma) e l' ordine (2): altrove trovò in ogni ente il modo, la specie e l' ordine (3); e S. Tommaso (4) riduce a questi tre il numero, il peso e la misura, secondo cui la Scrittura dice esser fatte tutte le cose (5). Ma la questione, se in tutti gli enti v' abbiano de' vestigi di trinità, è per intero diversa da quella delle categorie; e l' avervi de' vestigi, non è l' avervi in esse la stessa trinità, molto meno è l' avervi nelle cose le tre idee Cousiniane: essendo certo che nelle cose non si hanno idee, se non nel sistema dei Panteisti, come sarebbe nel sistema di Vincenzo Gioberti che dice: « « ogni cosa è un' idea »(6) ». D' altra parte il Cousin, affine di trovare le sue tre idee (che non sono poi tre sole, come dicemmo) in tutte le cose, è obbligato ricorrere a quelle stiracchiature che potrebbero andar bene inserite nelle tavole mnemoniche de' Lullisti, ma che nel secolo nostro non possono far fortuna. Così egli trova nell' attrazione universale l' idea di unità e d' infinito. Per l' unità passi: benchè ivi non vi abbia unità, ma tendenza all' unione della materia senza che mai si unifichi penetrandosi; ma quant' all' idea d' infinito, dove sta ella nell' attrazione, se anzi la materia coll' attrazione tende a restringersi e limitarsi entro una sfera minore? Vuol poi trovare l' idea di varietà e di limitazione nell' espansione della materia. Fatica inutile anche qui, perchè la materia, o che si restringa, o che s' espanda, è sempre varia egualmente ed egualmente finita. Altre molte applicazioni, ch' egli fa delle sue tre idee fondamentali, non sono più felici di questa. Finalmente osserveremo, che l' uno, il vario, ed il loro nesso posto dall' autore dell' eclettismo francese, come le tre idee supreme, a cui tutte le altre si riducono, sono un cotal riflesso dell' eclettismo alessandrino imperfettamente riprodotto.

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