Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: ab

Numero di risultati: 1 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

D'Ambra, Lucio

220458
Il Re, le Torri, gli Alfieri 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Già i latini, maestri di tutti, insegnarono i vantaggi della sintesi per gli scrittori pigri: ab uno disce omnes. Venuto l'autunno Sua Altezza provò il bisogno di viaggiare. La cosa accadde così. Da varie settimane i giornali d'Europa consacravano lunghe colonne al ritorno dal Polo d'un ardito principe italiano. Vedevo Sua Altezza seguire con interesse i racconti della audacissima esplorazione. Fu prima curiosità, poi interesse, poi ammirazione, poi desiderio d'emulazione, poi manifesto tormento d'invidia, che una sera s'aprì violentemente quando il principe, dopo pranzo, mentre leggeva ancora giornali e giornali, buttò per aria un fascicolo dell'Illustration pieno di fotografie del principe italiano ed esclamò: «Ma insomma non c'è più al mondo che il duca degli Abruzzi? Non si fa più altro che parlare di lui? Di lui che non è neppure principe ereditario, ch'è terzogenito d'un ramo cadetto, mentre di me, di me che sono figlio d'un re, che son principe ereditario d'un regno come quello di Fantasia, che sarò re un giorno, di me chi si occupa?...». E venendomi davanti, quasi a piantarmi negli occhi le dita agitate: «Me lo sa dire lei chi si occupa di me? Me lo sa dire?...». E poichè non glielo seppi dire camminò a grandi passi per il fumatoio, accese una sigaretta, gettò il fiammifero ancora ardente su una portiera come avesse un'urgente necessità di mettere il fuoco al Palazzo reale, raccolse a terra i giornali europei, schiacciò uno su l'altro, bistrattandoli, su un divano di marocchino e lasciandovisi cader sopra in segno di supremo disprezzo esclamò: «I giornalisti.. Tutti emballés per il duca degli Abruzzi.... E io? Ah, io non ci sono pei signori giornalisti? Ma la vedremo, perdio, se non ci sono.,..» E, balzando di nuovo in piedi e venendomi di nuovo d'innanzi, gridò come se dovesse udirlo l'Europa intera: «Parto!». Invece di partire, si mise a scrivere; e scrisse tutta la notte, al Presidente del Consiglio, al Ministro degli Esteri, a quello dell'Interno, a quello dell'Istruzione, persino a quello dell'Agricoltura. In queste lettere chiedeva che il Consiglio dei Ministri considerasse l'opportunità, per il decoro di Fantasia, di non rimanere al di sotto dell'Italia e d'avere anche in lui un principe di sangue reale capace di commuovere, con le ardite imprese, tutta la stampa d'Europa e d'America. Non lessi quelle lettere, poichè s'egli non aveva segreti per me in materia galante non aveva per me che segreti in ogni altra occasione della sua vita. Ma dovettero, quelle lettere, essere commoventissime e veramente persuasive se due giorni dopo il Consiglio dei Ministri s'adunava d'urgenza, come avevano avvertito i giornali di Effemeris, e se tre giorni dopo Sua Altezza era chiamata alla capitale dell'autorità paterna convinta oramai della necessità di permettere che Sua Altezza Reale il principe ereditario di Fantasia scoprisse finalmente qualche cosa anche lui. Tornò da Effemeris raggiante e, appena disceso dal treno alla stazione principale di Pulquerrima e appena salito con me in automobile, incastrò nell'occhio la caramella, mi guardò con un sorriso ch'era tutt'un programma ed esclamò: «Col duca degli Abruzzi, sa, faremo i conti. È andato a un Polo? S'accomodi. Ma ce ne son due. E io vado all'altro». Esagerava. Non andò al Polo. Ma nei tre o quattro giorni seguenti al suo ritorno a Pulquerrima ricevette un ragguardevole nemero d'illustri geografi che egli accoglieva coi segni della più viva ammirazione per quanto non li avesse mai sentiti neppure nominare. Ci fu un gran discutere, tra geografi, per stabilire che cosa Sua Altezza avrebbe potuto scoprire con minor disagio e con più sicurezza di riuscita. I varii specialisti contesero, durante lunghe sedute, d'innanzi al principe che ascoltava silenziosamente, curioso di vedere dove l'avrebbero finalmente mandato a coprirsi di gloria e stupito di apprendere che al mondo, dopo tanti millennii e non ostante tanti esploratori, ci fosse ancora tanta roba da scoprire. La maggior difficoltà, quindi, era di trovare per Sua Altezza una missione originale. Propose il principe che gli si affidasse la scoperta di qualche mare poichè egli aveva un bellissimo yacht ed amava molto navigare. Ma dovettero, i geografi, fargli notare che proprio in fatto di mari non c'era assolutamente più di nulla disponibile e che, dopo lunghe meditazioni, essi non potevano offrire alla scelta di Sua Altezza che deserti e foreste vergini. Sua Altezza preferì le foreste, non, come sarebbe possibile credere, per la verginità, ma per amore dell'ombra e per non bruciarsi al sole dei deserti la pelle che egli aveva assai delicata. I geografi fornirono a Sua Altezza tutti gli schiarimenti necessarii su la via da seguire per terra e per mare e sul miglior modo di coprirsi di gloria col minor disagio possibile. La foresta vergine da attraversare era di facilissimo accesso e non c'era poi bisogno di percorrerla tutta. Bastava piantare la bandiera bianca, azzurra e viola di Fantasia un po' più in là del terzo albero. In quarto ai rilievi di superficie e di vegetazione Sua Altezza, se non voleva affaticarsi, poteva contentarsi di calcoli sommarii e di dati approssimativi. La foresta era vergine e dopo la spedizione di Sua Altezza sarebbe certamente tornata più vergine che mai per molti secoli ancora. L'imaginazione del principe poteva quindi liberamente scorrazzare in quelle inesplorate contrade. Un geografo l'avrebbe del resto accompagnato per alleggerire i suoi lavori. Inutile dire che, poichè l'affetto di Sua Altezza è dispotico com'era dispotico il trono dei suoi avi, dovetti accompagnarlo anche io. Rimanemmo assenti tre mesi. Veramente l'esplorazione non occupò più di un paio di settimane. Si trattò d'una comoda traversata per mare, di cinque o sei giorni di piacevole cavalcata e d'una mezza giornata di comodissima marcia, tanto da giungere in vista della foresta vergine lasciando al geografo della spedizione l'incarico di toccarla. Lo lasciammo a raccogliere dati, rilievi, calcoli topografici, geografici, geologici, idrografici, atmosferici e via dicendo. Ma poichè era troppo presto per tornare a Pulquerrima e poichè non basta esplorare, ma occorre anche dimostrare che l'esplorazioue e stata difficile e che fu necessario a compierla gran tempo, si calcolò a tre mesi il termine minimo d'una esplorazione appena appena decente. Di questi novanta giorni n'eran passati solo quindici e ce ne rimanevano settantacinque. Andammo ad occuparli comodamente e pacificamente a Nuova-York, nel più stretto incognito naturalmente. E fu solo quando il geografo ci raggiunse, dopo avere spedito a Fantasia le comunicazioni necessarie su la nostra scoperta, che riprendemmo la via dell'amata patria. Durante là traversata Sua Altezza non trascurò di rimanere molte ore del giorno al sole, sopra coperta, per dare al suo volto quel colorito bronzeo che i restaurants di Nuova-York e le eleganze della Quinta Strada non erano riusciti a dargli, e senza il quale non v'ha evidentemente esploratore che possa chiedere e meritare d'essere preso sul serio. Avemmo al ritorno ad Effemeris e a Pulquerrima onori trionfali, che il principe sopportò con modesta dignità schivando solo lo sguardo, addormentato dietro le lenti cerchiate d'oro, del geografo della nostra compagnia. Ma proprio in quei giorni accadde che Sua Altezza Reale il duca degli Abruzzi attraversasse una volta di più i disegni ambiziosi di Sua Altezza Reale il principe di Fantasia. I giornali europei consacrarono poche righe al ritorno del mio regale amico dalla sua foresta vergine, e lunghe colonne al racconto della spedizione polare del duca degli Abruzzi, il quale, proprio in quei giorni, in due conferenze tenute a Roma, alla presenza dei Reali d'Italia e d'un parterre di principesse e d'ambasciatori, aveva raccontato le traversie del suo animoso viaggio. Mi venne davanti; una sera, il giovane Rolando, con gli occhi spiritati e le mani convulse: «Decisamente, caro mio, questo Duca comincia a seccarmi.... Ecco che adesso non gli basta di scoprire un polo, ma deve anche raccontarlo a tutti.... Crede forse che non abbia un paio di polmoni anch'io e che non possa anch'io raccontare com'ho scoperto la mia foresta.... Lui parla? Parlo anch'io. Fa una conferenza? Nè farò una anche io!» E, detto fatto, Sua Maestà il Re, informato, trovò naturalissimo che il suo intrepido figliuolo consolidasse con una conferenza il prestigio della Monarchia. Ma dove il Re riconosceva veramente intrepido il figliuolo non era nella esplorazione di cui non ignorava le segrete comodità ma a bensì nel coraggio di parlarne e nel tranquillo ardire con cui osava cimentarsi in una conferenza; poichè era tradizionale nella famiglia di Fantasia il poco culto delle discipline letterarie, e, come arte oratoria, non v'era sovrano di Fantasia che non avesse incespicato almeno dieci volte anche leggendo dieci righe d'un brindisi politico scritto dal ministro degli Esteri. Sua Altezza Reale, ch'era tutt'altro che un imbecille, si rese conto tuttavia che si può fare una conferenza sopra un'esplorazione anche senza che l'esplorazione ci sia stata, ma che è assolutamente inconcepibile redigere una conferenza tollerabile su una esplorazione che non ha avuto peripezie. Bisognava, dunque, inventare le peripezie. E, col suo più bel sorriso, per questo ufficio Sua Altezza benignamente si rivolse a me, raccomandandomi di trovarne quante più potevo, un po' nella mia immaginazione e il resto in qualche libro poco noto di qualche altro meno illustre esploratore. La vita diplomatica m'aveva fortunatamente addestrato nell'arte di dire bugie senza averne l'aria, e in una settimana la conferenza fu da me redatta in modo che poteva veramente illudere il popolo di Fantasia su gli oscuri eroismi del nostro pugno di prodi esploratori. Mentre io lavoravo nella biblioteca reale, Sua Altezza aveva ripreso attivamente il suo galante giuoco di scacchi; un fruscìo di gonnelle rispondeva spesso dal salotto vicino al fruscìo delle mie carte. Finalmente una sera potetti annunziare al principe che la conferenza era pronta e invitarlo ad ascoltarne l'indomani la lettura, anche per apprendergli su quale tono modesto e disinvolto gli eroi moderni devono narrare ai popoli le loro audaci avventure. E il giorno dopo, appena finito di far colazione, Sua Altezza ed io ci chiudemmo nella biblioteca armati di sigarette e di buona volontà. Sua Altezza mi ascoltava senza respiro e con lo stesso interesse con cui avrebbe seguito i feuilletons di un romanzo d'Eugenio Sue. A due o tre riprese manifestò la sua meraviglia nel vedere con quanta facilità io riuscivo a dar vita e colore non a quello che era stato ma a quello che avrebbe potato essere. Ma non eravamo ancora ad un terzo della conferenza che la porta s'apri e Sua Altezza fu avvertita che la duchessa di Villahermosa era nell'appartamento vicino. Il Principe mi sembrò assai lieto dell'interruzione. Mi spiegò che la duchessa veniva a vedere la sua collezione di medaglie, poichè la sera prima non aveva resistito all'invito di Sua Altezza quando aveva saputo che nella collezione erano alcune medaglie del Pisanello. Andava pazza pel Pisanello, l'eccellente duchessa! Sua Altezza mi chiese, d'aver pazienza. La visita non sarebbe stata lunga e, del resto, così sembrava al principe, c'era qualche cosa da alleggerire in quella prima parte che gli era apparsa eccellente ma forse un poco prolissa. E se n'andò, acceso in volto, impaziente; e sentii che, richiudendo, dava una mandata di chiave alla pesante porta che separava. Ma anche le porte pesanti non hanno soverchi segreti per gli uditi sottili. M'ero messo attentamente a rivedere le pagine già lette del mio manoscritto, qua sopprimendo un aggettivo, là sacrificando un particolare, per seguire il principe che per dire qualche cosa — come in generale avviene di tutt'i critici aveva trovato prolisso quello che cinque minuti prima gli era apparso stringato. Ma io non sono un autore ostinato a difendere l'intregrità del suo territorio prosastico ; e non c'era del resto pericolo, sopprimendo un episodio, di snaturare il racconto della nostra spedizione ch'era già quanto mai snaturato di per sè stesso. Ma i rumori che mi giungevano dalla stanza vicina non tardarono molto a distrarmi dal mio lavoro di revisione; e ad informarmi, meglio di un buco praticato nella pesante porta che ci separava, sul genere d'occupazioni cui Sua Altezza e la duchessa s'erano, dopo brevi preliminari collezionistici, assai calorosamente abbandonati. Ma la vita di Corte mi aveva già abituato a sentire ogni genere di rumori con la stessa tolleranza con cui ne vedevo di tutt'i colori. Era del resto evidente che, per quanto una dama possa andar pazza per le medaglie del Pisanello, un'ora e più è un limite di tempo veramente superiore ad ogni più esagerata e platonica ammirazione. Era trascorsa più di un'ora, infatti, quando Sua Altezza ricomparve nella biblioteca con l'aria più tranquilla e più innocente del mondo. Ma uno sguardo scambiato fra noi bastò a spiegarci reciprocamente la durata di quella visita ai medaglieri di Sua Altezza. Quando gli occhi si spiegano le parole sono inutili e fu quindi in silenzio che Sua Altezza tornò a sprofondarsi nella sua poltrona di marocchino rosso e, accesa una sigaretta, mi invitò con un cenno di mano a riprendere la lettura interrotta. Ricominciai imperterrito a leggere mentre Sua Altezza cedeva a poco a poco a quella sonnolenza soddisfatta e beata che segue i pasti abbondanti e gli amori felici. Ma era destino che la conferenza venutami giù di getto dovesse essere nota al principe per frammenti: chè leggevo appena da dieci altri minuti quando la porta s'apri di nuovo e Sua Altezza venne informata che la marchesa di Setteporte chiedeva anche essa di vedere la collezione di medaglie: non aveva, questa seconda dama, una spiccata preferenza per il Pisanello ma il suo interesse per il medagliere del principe non era meno vivace. Questa volta il principe si levò un po' meno vivacemente di prima e non m'invitò a rivedere quello che avevo letto: mi suggerì invece cortesemente di prendermi un breve riposo chè in dieci minuti al massimo avrebbe certamente sbrigato la gentile visitatrice. Ci volle invece un'ora e mezza. Questa volta ero disoccupato, e, disteso su un divano, fumando, potevo anche meglio della prima volta avere esatta nozione delle manifestazioni di riconoscenza cui giungeva l'ammirazione soddisfatta della marchesa per le collezioni di Sua Altezza. Il gran Condé dormiva placidamente e profondamente nella notte precedente alle sue più ardue battaglie. Io potevo quindi, con non minore forza d'animo, appisolarmi durante quelle scaramucce d'amore. I vecchi capitani pronti a tutto e, i vecchi testimoni a tutto abituati possiedono la medesima imperturbabilità. E, quando, un'ora e mezza dopo, Sua Altezza mi destò rientrando nella biblioteca, gli sguardi non bastarono più e ci vollero le parole per manifestarmi chiaramente il suo malumore. — Caro d'Apre, — mi disse, — la cosa comincia a diventare fastidiosa, e queste signore non mi dànno il tempo di respirare. Ho veduto iersera queste due signore all'Opera e le ho invitate, come invito tutte, a venire ad ammirare la mia collezione di medaglie a bere una tazza di te. Ed eccole qui oggi tutt'e due, una dopo l'altra. Decisamente qui bisogna cominciare a rovesciare le parti: poichè non si lascian pregare, sarà necessario che incominci io a farmi pregare! Non insistemmo e riprendemmo per la terza volta la lettura. Eravamo nel cuore della conferenza adesso, e Sua Altezza, non più sonnolenta, ma sostenuta invece da quell'eccitazione nervosa che segue i grandi strapazzi intellettuali, seguiva la mia narrazione col più vivo interesse e con frequenti cenni d'approvazione. Ma la porta si aprì una terza volta, e Sua Altezza venue informata che la principessa di Malaguena desiderava d'ammirare a sua volta collezione di medaglie. Vidi Sua Altezza levarsi in piedi d'un balzo stringendo i pugni e frenando la sua ira, finchè il maggiordomo non si fu allontanato e non ebbe richiusa la porta. Poi si volse verso di me che, levato il volto dal manoscritto sfortunato, guardavo Sua Altezza sorridendo: — Lei sorride! — esclamò Sua Altezza, con un tono irritato. — Lei sorride, eh? Ma vorrei un po' vederla al mio posto. L'invito alla principessa di Malaguena non l'avevo arrischiato che stamattina incontrandola a cavallo al Viale del Tigli. Ed eccola qui, sei ore dopo. È un'esagerazione.... E ci tenessi, almeno.... Ma niente affatto! Sparo a polvere tanto per rimanere in esercizio. Ma per loro basta. Sono uccellini che si contentano del rumore per potersi decentemente dare per morti. Feci rispettosamente osservare a Sua Altezza che, ingrato come tulti gli uomini si lamentava ingiustamente d'una troppo benigna fortuna. — Ma è la terza, sa, — rispose il principe, — e le ripeto che vorrei veder lei al mio posto. Non raccolsi quello che v'era di poco lusinghiero in questa ripetuta esclamazione che mi riguardava e approfittai invece del silenzio del principe, che camminava, con le mani in tasca e il naso verso terra, su e giù, furiosamente, per la biblioteca, per ricordargli che la principessa di Malaguena lo attendeva e che non era possibile farla più oltre aspettare; e che, date le circostanze, non gli rimaneva altro che sacrificarsi eroicamente e andarla sùbito a raggiungere. — Io? Ma lei è matto! — esclamò il principe fermandosi davanti alla mia scrivania e usando con me un linguaggio cosi confidenzialmente irriverente che era naturalmente giustificato dalla sua agitazione. — Lei è matto, caro d'Aprè! Scriverò a mio padre, stasera stessa, che Pulquerrima è una residenza inabitabile, e che qui non basta un principe ereditario ma ce ne vogliono dieci! E sa, intanto, che cosa faccio io? Mi faccia il piacere di cedermi il suo posto...._Grazie. Ecco. Mi siedo qui e la lettura della sua bella conferenza me la finisco per conto mio. E si mise a leggere, seduto al mio posto, coi pugni stretti alle due tempie. Osai ricordare a Sua Altezza la principessa che aspettava. — La principessa? — mi rispose senza levar gli occhi dal manoscritto. — La principessa, senta, me la sbrighi lei. Mi faccia questa cortesia. Le dica che sono uscito, che son malato, che non voglio essere seccato. Le dica che la collezione di medaglie non c'è più. È sparita, me l'hanno rubata, l'ho venduta, sono impazzito e in una crisi di follia l'ho gettata tutta dalle finestre. Lei saprà che cosa dire. Le situazioni difficili son fatte apposta per lei. Gli amici dispotici son come i sovrani assoluti: non discutono. E io che conoscevo Sua Altezza non tentai di ragionare e mi decisi sùbito a sbrogliare una volta di più una matassa intricata. Aggiustai la mia cravatta, spolverai la cenere delle sigarette sul mio vestito, presi un viso di circostanza, e mentre Sua Altezza, assorta, continuava a leggere le nostre avventure di terra e mare, m'avviai verso la mia impreveduta avventura di salotto. Aprii la porta ed entrai, guardingo, nella gabbia della leonessa. La quale leonessa era quanto mai addomesticata e leggiadra. Mi strinse la mano con cordialità e prese per buone tutte le spiegazioni che le davo per l'assenza del principe trattenuto quel giorno dalle sue gravi responsabilita al comando del Corpo d'Armata. Solo manifestò il suo profondo rammarico di non poter ammirare la collezione di medaglie. Le chiesi se anche la sua predilezione fosse per il Pisanello, ma la principessa ebbe l'aria di cadere un po' dalle nuvole. Per fortuna non si sbilanciò a domandarmi se il Pisanello aveva studio a Pulquerrima. E, tanto per tener viva la conversazione, mi scappò di bocca — giuro che fu senza malizia! — ch'ero collezionista anch'io: non di medaglie, ma d'una cosa assai più leggera, i ventagli. Gli eventi precipitarono. La principessa non tardò a dichiararmi che le collezioni di ventagli la interessavano in generale assai più di quelle di medaglie. Dovetti per cortesia dichiararle che sarei stato felice di mostrarle la mia. Accettò. Chiesi che mi fissasse una data e mi sentii rispondere ch'era pronta ad ammirarla anche sùbito. Tutto questo naturalmente con un'innocenza, con una semplicità, con una serietà impassibile come che si trattasse veramente di medaglie e di ventagli. Non c'era altro da fare che quello che feci: aiutare la principessa a indossar di nuovo il Mantello e offrirle la mia automobile per recarci a casa mia, scusandomi di non poterle mostrare, cosi all'improvviso, che una collezione incomplela e disordinata. Naturalmente in automobile non si parlò che di ventagli. In materia d'amore davvero la parola è fatta per nascondere il pensiero. Non parlavamo che di ventagli. Io risalivo a mano a mano fino alle fêtes galantes del secolo decimottavo. La principessa mi ascoltava con la più intensa attenzione come se non si fosse mai interessata d'altro in vita sua. E ne parlammo tanto, dei miei ventagli, che giunti a casa ci dimenticammo tutt'e due di guardarli. Era avvenuto lo stesso con Sua Altezza. I Pisanello, da sei mesi, non avevano visto altra luce oltre quella filtrante dagli spiragli delle loro inviolate custodie. Quando i fatti compiuti ci permisero di parlar d'altro che di ventagli, la seducente principessa mi costrinse a confessare che proprio quel giorno Sua Altezza non aveva avuto proprio nulla da fare al comando del Corpo d'Armata e che non s'era mosso da palazzo. Aveva infatti incontrate poco prima la duchessa di Villahermosa e la principessa di Setteporte che le avevano parlato con entusiasmo dei Pisanello. E, con una moina adorabile, la principessa di Malaguena mi chiese: — Spiegami un poco in due parole che cosa sono i Pisanello. Devo far credere di averli visti anch'io. Capirai, caro, che non posso essere da meno di loro. — E i miei ventagli? — chiesi. — I tuoi ventagli, no, caro. Non c'è bisogno di parlarne. Che c'entra? I ventagli son per il piacere. Ma le medaglie son per l'onore!

Cerca

Modifica ricerca