Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Racconti 3

662766
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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La mattina dopo, colui si svegliava, oh quantum mutatus ab illo ! ... E cosí lo sterilizzato personaggio - come egli con moderno vocabolo scientifico lo chiamava - poteva rimanere assiduo frequentatore della casa e dei pranzi, senza che la virtú della bella e seducente signora von Schwächen corresse pericolo. Il delitto scientifico - bisogna qualificarlo tale - rimaneva, non che impunito, ignorato, perché le povere vittime non erano in caso neppur di supporre d'onde poteva essere derivata la loro disgrazia; e avevano il piú grande interesse di non divulgarla. Se non che c'è nel mondo, a quel che sembra, una giustizia assai piú oculata e piú tremenda della pretesa giustizia umana! E, tardiva ma inesorabile, essa raggiunse il colpevole al suo ottavo o nono delitto. Ermanno Hart era uno dei piú bravi discepoli del professore, e suo aiuto in molte delicatissime esperienze. La giovinezza, la natura estremamente vigorosa, anzi eccessiva, lo spingevano a lusingarsi di poter essere anche aiuto del professore in certe intime funzioni, che questi, da buon marito, pretendeva di eseguire da solo. Quando si accorse delle mostruose intenzioni del prediletto discepolo - mostruose, perché rivelavano la nera ingratitudine di cui egli era capace - il professore non poté frenarsi dal prorompere in eloquentissimi sfoghi contro la precoce perversità dei giovani moderni; ma il suo sdegno si centuplicò allorché poté accertarsi che la sua fin'allora impeccabile metà incoraggiava, forse inconsapevolmente, gli slanci amorosi dello studente con occhiate e sorrisi in modo insolito prodigatigli ogni volta che quegli veniva a trovare il professore in casa o lo accompagnava nelle passeggiate e nelle diverse stazioni alle birrerie assieme con la sua bionda metà. Occorreva provvedere e subito; e per ciò Ermanno Hart ricevette, da lí a due giorni, un invito a pranzo, pel quale non seppe nascondere la grandissima gioia e la immensa soddisfazione. Lo studente, a tavola, non ebbe bisogno di incitamenti a bere e a ribere. Era già di sua natura bevitore poderosissimo; e il fuoco dei begli occhi della signora von Schwächen gli produsse quel giorno tale irritante senso di aridità alla gola, che egli vuotò piú bottiglie di vino e piú scioppi di birra in due ore che non avesse mai fatto in un mese. Cadde quant'era lungo, come morto, per terra, nel punto che voleva alzarsi dalla seggiola per propinare alla salute della bionda signora del suo professore. Il quale, mal dissimulando la infernale contentezza, lo raccolse, aiutato dal fido servitore, e lo trasportò nella solita stanza, dove poco dopo si chiuse, solo con lo studente, per procedere alla premeditata operazione sterilizzatrice. Fosse però il turbamento che il delitto desta sempre, anche nei cuori piú induriti; o avesse il professore ecceduto nel bere per dare il buon esempio alla sua futura vittima, fatto sta che l'occhio e la mano non solamente non furono fermi e sicuri come le altre volte, ma il caso se ne mescolò forse per far fare al chiarissimo neurologo una scoperta in opposizione a quella malefica e sterilizzante. Sia che egli abbia operato la puntura nel lato destro invece che nel sinistro, o in un altro impercettibile punto non ancora scrutato dalla scienza, il resultato fu terribile. E prima ad accorgersene fu la dolce signora von Schwächen, che il marito, chiamato per non so quale seduta coi suoi colleghi di università, aveva dovuto lasciar sola a guardia dell'addormentato. Ella era entrata nella camera, assai commossa dal caso; e si era permesso un castissimo gesto di carezza alla fronte del giovane, quando lo vide saltar giú dal letto ... Ah Signore Iddio! E non ebbe tempo di indignarsi, di gridare al soccorso. Non aggiungerò altro, - s'interruppe il dottor Maggioli, a un vivissimo gesto della baronessa - quantunque, se veramente avesse voluto, nelle tre ore che passarono - egli soggiunse subito, sornione - prima che il professore fosse tornato a casa, la onesta signora avrebbe potuto indignarsi, gridare al soccorso e fare ben altro! Il professore trovò il giovane già desto, un po' abbattuto, e gli sorrise col piú ipocrita dei sorrisi che mai labbro umano avesse abbozzato. E sicuro del fatto suo, trionfante, sprezzante, da quel giorno permise che il giovane Hart rinnovellasse piú frequentemente le visite alla signora, e acconsentí anche che l'accompagnasse qualche volta, e solo, al passeggio. La signora von Schwächen scoprí un giorno, fra gli appunti dei cartolari scientifici del marito, la spiegazione della sua sicurezza e della sua tranquillità, e fu indignata dell'infamia commessa contro quei poveri otto o nove timidi adoratori di lei. Palesò la scoperta al suo Hart; il quale sospettando quel che doveva essere accaduto con lui, si dié segretamente a fare esperienze che lo condussero a verificare, in modo assolutamente scientifico, quel che il caso aveva fatto operare al ferocissimo sterilizzatore. I due amanti, per ciò, stimandosi troppo protetti dalla sicurezza del professore, non presero piú, da allora in poi, tante precauzioni nelle loro gioie, e un bel giorno si fecero sorprendere. Ma allora si vide quel che può la passione scientifica in un alto intelletto. Invece di buttarsi addosso al vituperatore del suo talamo e strozzarlo, il professore von Schwächen volle persuadersi come mai la sua operazione fosse fallita. Si mise a discutere con lo scolare, quasi niente di male fosse accaduto, quasi si trovassero rinchiusi nel laboratorio. Il professore espose la sua scoperta e le sue otto o nove esperienze in anima vili ; Hart riferí i resultati opposti, ottenuti per via delle ricerche da lui iniziate, e addusse in prova se stesso. E di accordo, come contratto di pace, professore e scolare stabilirono di non propalare le loro rispettive scoperte. «La mia è malefica!» conchiuse il professore. «La mia è peggio; è superflua!» conchiuse il discepolo -.

Cominciate sempre ab ovo ! - Non spazientirti. Ascolta. Durante la mia dimora di tre anni a Buenos Aires, non avevo piú avuto nessuna notizia di Luisa. Piovutami dal cielo quell'eredità di uno zio che non s'era mai fatto vivo con me, tornai in Europa, corsi a Londra ... e con dugentomila lire di cartelle della Banca d'Inghilterra volai qui ... dove mi attendeva il piú doloroso disinganno. Luisa era sposa da sei mesi! Ed io l'amavo piú di prima! ... La povera creatura aveva dovuto cedere alle insistenti pressioni dei suoi. Ci mancò poco, te lo giuro, che non commettessi una pazzia. Questi particolari, vedrai, non sono superflui ... Commisi però la sciocchezza di scriverle una focosissima lettera di rimproveri, e di spedirgliela per posta. Non avevo previsto che potesse capitare in mano del marito. Il giorno dopo egli si presentò a casa mia. Compresi subito l'enormità del mio atto e mi proposi di esser calmo. Era calmo anche lui. «Vengo a restituirle questa lettera - mi disse. - Ho aperto sbadatamente, non per indiscrezione, la busta che la conteneva; ed è stato bene che sia accaduto cosí. Mi hanno assicurato che lei è un gentiluomo. Rispetto il suo dolore; ma spero che lei non vorrà turbare inutilmente la pace di una famiglia. Se può fare lo sforzo di riflettere, si convincerà che nessuno ha voluto arrecarle del male volontariamente. Certe fatalità della vita non si sfuggono. Lei intende qual è ormai il suo dovere. Le dico intanto, senza spavalderia, che son risoluto a difendere a ogni costo la mia felicità domestica». Era impallidito parlando e gli tremava la voce. «Chiedo perdono dell'imprudenza - risposi. - E per meglio rassicurarla, le dico che domani partirò per Parigi». Dovevo essere piú pallido di lui; le parole mi uscivano a stento di bocca. Mi stese la mano; gliela strinsi. E mantenni la parola. Sei mesi dopo, ricevevo un telegramma di Luisa: «Sono vedova. T'amo sempre. E tu?» Suo marito era morto da due mesi. - Il mondo è cosí: la disgrazia di uno forma la felicità di un altro. - È quel che egoisticamente pensai anch'io; ma non è sempre vero. Mi era parso di toccare il cielo col dito la sera delle nozze e durante i primi mesi della nostra unione. Evitammo, per tacito accordo, di parlare di «colui». Luisa aveva distrutto ogni traccia del morto. Non per ingratitudine, giacché quegli, illudendosi di essere amato, aveva fatto ogni sforzo per renderle lieta la vita; ma perché temeva che l'ombra di un ricordo, anche insignificante, potesse dispiacermi. Indovinava giusto. Certe volte, il pensiero che il corpo della mia adorata era stato in pieno possesso, quantunque legittimo, di un altro mi dava tale stretta al cuore, che mi faceva fremere da capo a piedi. Mi sforzavo di nasconderglielo. Spesso però l'intuito femminile velava di malinconia i begli occhi di Luisa. E per ciò la vidi raggiante di gioia, quando ella fu sicura di potermi annunciare che un frutto del nostro amore le palpitava nel seno. Ricordo benissimo: prendevamo il caffè, io in piedi, ella seduta con una posa di dolce stanchezza. Fu quella la prima volta che un accenno al passato le sfuggí dalle labbra. «Come sono felice - esclamò - che questo sia avvenuto soltanto ora!» Si udí un gran colpo all'uscio, quasi qualcuno vi avesse picchiato forte col pugno. Trasalimmo. Io corsi a vedere, sospettando una sbadataggine della cameriera o di un servitore; nella stanza allato non c'era nessuno. - Vi sarà parso colpo di pugno qualche schianto forse prodotto nel legno dell'uscio dal calore della stagione. - Diedi tale spiegazione, visto il turbamento grandissimo di Luisa; ma non ne ero convinto. Un forte senso di impaccio, non so definirlo altrimenti, si era impossessato di me e non riuscivo a celarlo. Stemmo alcuni minuti in attesa. Niente. Da quel momento in poi, però, notai che Luisa evitava di rimaner sola; il turbamento persisteva in lei, quantunque non osasse di confessarmelo, né io di interrogarla. - E cosí, ora comprendo, vi siete suggestionati, inconsapevolmente, a vicenda. - Niente affatto. Pochi giorni dopo io ridevo di quella sciocca impressione; e attribuivo allo stato interessante di Luisa l'eccessivo eccitamento nervoso che traspariva dai suoi atti. Poi parve tranquillarsi anch'essa. Avvenne il parto. Dopo qualche mese però, mi accorsi che quel senso di paura, anzi di terrore, l'aveva ripresa. La notte, tutt'a un tratto, ella si avvinghiava a me, diaccia, tremante. «Che cosa hai? Ti senti male?» le domandavo ansioso. «Ho paura ... Non hai udito?» «No». «Non odi? ... » insistette la sera appresso. «No». Invece quella volta udivo un fioco suono di passi per la stanza, su e giú, attorno al letto; dicevo di no per non atterrirla di piú. Levavo il capo, guardavo ... «Dev'essere entrato qualche topo in camera ... » «Ho paura! ... Ho paura!» Per parecchie notti, ad ora fissa prima della mezzanotte, sempre quello scalpiccio, quell'inesplicabile andare e venire, su e giú, di persona invisibile, attorno al letto. Lo attendevamo. - E le fantasie riscaldate facevano il resto. - Tu mi conosci bene; non sono uomo da essere eccitato facilmente. Facevo il bravo anzi, per riguardo di Luisa; tentavo di dare spiegazioni del fatto: echi, ripercussioni di rumori lontani; accidentalità della costruzione della villa, che la rendevano stranamente sonora ... Tornammo in città. Ma, la notte appresso, il fenomeno si riprodusse con maggior forza. Due volte la spalliera appiè del letto venne scossa con violenza. Balzai giú, per osservar meglio. Luisa, rannicchiata sotto le coperte, balbettava: «È lui! È lui!» - Scusa - lo interruppe Mongeri - non te lo dico per metter male tra tua moglie e te, ma io non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo! Qualcosa permane sempre del marito morto, a dispetto di tutto, nella vedova. Sí. «È lui! È lui!» Non già, come crede tua moglie, l'anima del defunto. È quel lui , cioè sono quelle sensazioni, quelle impressioni di lui rimaste incancellabili nelle sue carni. Siamo in piena fisiologia. - Sia pure. Ma io - riprese Lelio Giorgi - come c'entro con la tua fisiologia? - Tu sei suggestionato; ora è evidente, evidentissimo. - Suggestionato soltanto la notte? A ora fissa? - L'attenzione aspettante, oh! fa prodigi. - E come mai il fenomeno varia ogni volta, con particolari imprevisti, poiché la mia immaginazione non lavora punto? - Ti pare. Non abbiamo sempre coscienza di quel che avviene dentro di noi. L'incosciente! Eh! Eh! fa prodigi anch'esso. - Lasciami continuare. Riserva le tue spiegazioni a quando avrò finito. Nota che la mattina, nella giornata, noi ragionavamo del fatto con relativa tranquillità. Luisa mi rendeva conto di quel che aveva sentito lei, per raffrontarlo con quel che avevo sentito io, appunto per convincerci, come tu dici, se mai le fantasie sovraeccitate ci facessero, nostro malgrado, quel brutto scherzo. Risultava che avevamo sentito l'identico rumore di passi, nella stessa direzione, ora lento, ora accelerato; la stessa scossa alla spalliera del letto, lo stesso strappo alle coperte e nella stessissima circostanza, cioè quando io tentavo, con una carezza, con un bacio, di calmare il suo terrore, d'impedirle di gridare: «È lui! È lui!» quasi quel bacio, quella carezza provocassero lo sdegno della persona invisibile. Poi, una notte, Luisa, aggrappandomisi al collo, accostando le labbra al mio orecchio, con un suono di voce che mi fece trasalire, mi sussurrò: «Ha parlato!» «Che dice?» «Non ho sentito bene ... Odi? Ha detto: "Sei mia!"» E siccome anch'io la stringevo piú fortemente al petto, sentii che le braccia di Luisa venivano tratte indietro, violentemente, da due mani poderose; e dovettero cedere non ostante la resistenza che mia moglie opponeva. - Che resistenza poteva opporre, se era lei stessa che agiva in quel modo, senza averne coscienza? - Va bene ... Ma ho sentito l'ostacolo anche io, di persona che si frapponeva tra me e lei, di persona che voleva impedire, a ogni costo, il contatto tra me e lei ... Ho visto mia moglie rigettata indietro con una spinta ... Giacché Luisa voleva stare in piedi, per via del bambino che dormiva nella culla accanto al letto, ora che sentivamo scricchiolare i ferri a cui la culla era sospesa e vedevamo la culla dondolare, traballare e le copertine volare via per la camera, buttate per aria malamente ... Non era allucinazione questa. Le raccoglievo; Luisa, tremante, le rimetteva al posto; ma di lí a poco esse volavano per aria di nuovo, e il bambino, destato dalla scossa, piangeva. Tre notti fa, peggio ... Luisa sembrava vinta dal malefico fascino di colui . Non m'udiva piú, se la chiamavo, non si accorgeva di me che le stavo davanti ... Parlava con colui e, dalle sue risposte, capivo quel che colui le diceva. «Che colpa ho io, se tu sei morto? - Oh! no, no! ... Come puoi pensarlo? Avvelenarti io? ... Per sbarazzarmi di te? ... È un'infamia! - E il bambino che colpa ha? - Soffri? Pregherò per te, farò dire delle messe ... - Non vuoi messe? ... Me, vuoi? ... Ma come mai? Sei Morto! ... » Invano io la scotevo, la chiamavo per destarla da quella fissazione, da quell'allucinazione ... Luisa si ricomponeva tutt'a un tratto. «Hai sentito? - mi diceva. - Mi accusa di averlo avvelenato. Tu non ci credi ... Tu non mi sospetterai capace ... oh Dio! E come faremo pel bambino? Lo farà morire! Hai sentito?» Io non avevo udito niente, ma capivo benissimo che Luisa non era pazza, non delirava ... Piangeva, abbracciando stretto stretto il bambino levato dalla culla per proteggerlo dal maleficio di colui . Come faremo? Come faremo? - Il bambino però stava bene. Questo avrebbe dovuto tranquillarvi. - Che vuoi? Non si assiste a fatti di tale natura senza che la mente piú solida non ne riceva una scossa. Io non sono superstizioso, ma non sono neppure un libero pensatore. Sono di quelli che credono e non credono, che non si occupano di quistioni religiose perché non hanno tempo né voglia di occuparsene ... Ma nel mio caso e sotto l'influenza delle parole di mia moglie: «Farò dire delle messe» pensai naturalmente all'intervento di un prete. - L'hai fatta esorcizzare? - No, ma ho fatto ribenedire la casa, con gran spargimento di acqua benedetta ... anche per impressionare l'immaginazione della povera Luisa, se mai si fosse trattato d'immaginazione esaltata, di nervi sconvolti ... Luisa è credente. Tu ridi, ma avrei voluto veder te nei miei panni. - E l'acqua benedetta? - Inefficace. Come se non fosse stata adoperata. - Non l'avevi pensato male. Anche la scienza ricorre talvolta a mezzi simili nelle malattie nervose. Abbiamo il caso di quel tale che credeva gli si fosse allungato enormemente il naso. Il medico finse di fargli l'operazione, con tutto l'apparato di strumenti, di legatura di vene, di fasciature ... e il malato guarí. - L'acqua benedetta invece fece peggio. La notte dopo ... Oh! ... Mi sento rabbrividire al solo pensarci. Ora tutto l'odio di colui era rivolto contro il bambino ... Come proteggerlo? ... Appena Luisa vedeva ... - O le sembrava di vedere ... - Vedeva, caro mio, vedeva ... Vedevo anche io ... quasi. Giacché mia moglie non poteva piú avvicinarsi alla culla; una strana forza glielo impediva ... Io tremavo allo spettacolo di lei che tendeva desolatamente le braccia verso la culla, mentre colui - me lo diceva Luisa - chinato sul bambino dormente, faceva qualcosa di terribile, bocca con bocca, come se gli succhiasse la vita, il sangue ... Sono tre notti di seguito che la nefanda operazione si ripete e il bambino, il caro figliuolino ... non si riconosce più. Bianco, da roseo che era! Come se realmente colui gli abbia aspirato il sangue; deperito in modo incredibile, in tre sole notti! È immaginazione questa? È immaginazione? Vieni a vederlo. - Si tratta dunque? ... - Il Mongeri rimase alcuni minuti pensoso, a testa bassa, aggrottando le sopracciglia. Il sorriso un po' sarcastico e un po' compassionevole apparsogli su le labbra mentre Lelio Giorgi parlava, si era spento tutt'a un tratto. Poi alzò gli occhi, fissò l'amico che lo guardava con ansiosissima attesa, e ripeté: - Si tratta dunque? ... Ascoltami bene. Io non ti spiego niente, perché sono convinto di non poter spiegarti niente. È difficile essere piú schietto di cosí. Ma posso darti un consiglio ... empirico, che forse ti farà sorridere alla tua volta, specialmente venendoti da me ... Fanne l'uso che e credi. - Lo eseguirò subito, oggi stesso. - Ci vorrà qualche giorno, per parecchie pratiche che occorrono. Ti aiuterò a sbrigarle nel piú breve tempo possibile. I fatti che mi hai riferito non li metto in dubbio. Devo aggiungere che, per quanto la scienza sia ritrosa di occuparsi di fenomeni di tale natura, da qualche tempo in qua non li tratta con l'aria sprezzante di prima: tenta di farli rientrare nella cerchia dei fenomeni naturali. Per la scienza non esiste altro, all'infuori di questo mondo materiale. Lo spirito ... Essa lascia che dello spirito si occupino i credenti, i mistici, i fantastici che oggi si chiamano spiritisti.… Per la scienza c'è di reale soltanto l'organismo, questa compagine di carne e di ossa formante l'individuo e che si disgrega con la morte di esso, risolvendosi negli elementi chimici da cui riceveva funzionamento di vita e di pensiero. Disgregati questi ... Ma appunto la quistione si riduce, secondo qualcuno, a sapere se la putrefazione, la disgregazione degli atomi, o meglio la loro funzione organica si arresti istantaneamente con la morte, annullando ipso facto la individualità, o se questa perduri, secondo i casi e le circostanze, piú o meno lungamente dopo la morte ... Si comincia a sospettarlo ... E su questo punto la scienza verrebbe a trovarsi d'accordo con la credenza popolare ... Io studio, da tre anni, i rimedi empirici delle donnicciuole, dei contadini per spiegarmi il loro valore ... Essi, spessissimo, guariscono mali che la scienza non sa guarire ... La mia opinione oggi sai tu qual è? Che quei rimedi empirici, tradizionali siano i resti, i frammenti della segreta scienza antica, e anche, piú probabilmente, di quell'istinto che noi possiamo oggi verificare nelle bestie. L'uomo, da principio, quando era molto vicino alle bestie piú che ora non sia, divinava anche lui il valore terapeutico di certe erbe; e l'uso di esse si è perpetuato, trasmesso di generazione in generazione, come nelle bestie. In queste opera ancora l'istinto; nell'uomo, dopo che lo svolgimento delle sue facoltà ha ottenebrato questa virtú primitiva, perdura unicamente la tradizione. Le donnicciuole, che sono piú tenacemente attaccate ad essa, ci han conservato alcuni di quei suggerimenti della natura medicatrice; ed io credo che la scienza debba occuparsi di questo fatto, perché in ogni superstizione si nasconde qualcosa che non è unicamente fallace osservazione dell'ignoranza ... Perdonami questa lunga digressione. Quello che qualche scienziato ora ammette, cioè che, con l'atto apparente della morte di un individuo, non cessi realmente il funzionamento dell'esistenza individuale fino a che tutti gli elementi non si siano per intero disgregati, la superstizione popolare - ci serviamo di questa parola - lo ha già divinato da un pezzo con la credenza nei Vampiri, ed ha divinato il rimedio. I Vampiri sarebbero individualità piú persistenti delle altre, casi rari, sí, ma possibili anche senza ammettere l'immortalità dell'anima, dello spirito ... Non spalancar gli occhi, non crollare la testa ... È fatto, non insolito, intorno al quale la cosí detta superstizione popolare - diciamo meglio - la divinazione primitiva potrebbe trovarsi d'accordo con la scienza ... E sai qual è la difesa contro la malefica azione dei Vampiri, di queste persistenti individualità che credono di poter prolungare la loro esistenza succhiando il sangue o l'essenza vitale delle persone sane? ... L'affrettamento della distruzione del loro corpo. Nelle località dove questo fatto si produce, le donnicciuole, i contadini corrono al cimitero, disseppelliscono il cadavere, lo bruciano ... È provato che il Vampiro allora muore davvero; e infatti il fenomeno cessa ... Tu dici che il tuo bambino ... - Vieni a vederlo; non si riconosce piú. Luisa è pazza dal dolore e dal terrore ... Mi sento impazzire pure io, anche perché invasato dal diabolico sospetto ... Ma ... Invano mi ripeto: «Non è vero! Non può esser vero! ... » Invano ho tentato di confortarmi pensando: «E dato pure che fosse vero? ... È una gran prova d'amore. Si è fatta avvelenatrice per te! ... » Invano! Non so né posso piú difendermi da una vivissima repugnanza, da una straziante violenza di allontanamento, altra malefica opera di colui ! ... Egli insiste nel rimprovero: lo capisco dalle risposte di Luisa, quando colui la tiene sotto il suo orrido fascino, e la poverina protesta: «Avvelenarti? Io? ... Come puoi crederlo? ... » Oh! Non viviamo piú, amico mio. Sono mesi e mesi che sopportiamo questo tormento, senza farne parola a nessuno per timore di far ridere di noi le persone che si dicono spregiudicate ... Tu sei il primo a cui ho avuto il coraggio di farne la confidenza per disperazione, per invocare un consiglio, uno scampo ... E avremmo ancora pazientemente sopportato tutto, lusingandoci che cosí strani fenomeni non avrebbero potuto prolungarsi troppo, se ora non corresse pericolo la nostra innocente creaturina. - Fate cremare il cadavere. È una prova che m'interessa, oltre che come amico, come scienziato. Alla moglie, quantunque non piú vedova, sarà facilmente concesso; ti aiuterò nelle pratiche occorrenti presso le autorità. E non mi vergogno per la scienza di cui sono un meschino cultore. La scienza non scapita di dignità ricorrendo anche all'empirismo, facendo tesoro di una superstizione, se poi potrà verificare che è superstizione soltanto in apparenza; ne riceverà impulsi a ricerche non tentate, a scoprire verità non sospettate. La scienza deve essere modesta, buona, pur di aumentare il suo patrimonio di fatti, di verità. Fate cremare il cadavere. Ti parlo seriamente - soggiunse il Mongeri, leggendo negli occhi del suo amico il dubbio di esser trattato da donnicciuola, da popolano ignorante. - E il bambino intanto? - esclamò Lelio Giorgi torcendosi le mani. - Una notte io ebbi un impeto di furore; mi slanciai contro colui seguendo la direzione degli sguardi di Luisa, quasi egli fosse persona da potersi afferrare e strozzare; mi slanciai urlando: «Va' via! Va' via, maledetto! ... » Ma fatti pochi passi, ero arrestato, paralizzato, inchiodato là, a distanza con le parole che mi morivano in gola e non riuscivano a tradursi neppure in indistinto mugolio ... Tu non puoi credere, tu non puoi immaginare ... - Se volessi permettermi di tenervi compagnia questa notte ... - Ecco: me lo chiedi con tale accento di diffidenza ... - T'inganni. - Forse faremo peggio: temo che la tua presenza non serva ad irritarlo di piú, come la benedizione della casa. Questa notte no. Verrò a riferirti domani ... - E il giorno dopo, egli tornò cosí spaventato, cosí disfatto che il Mongeri concepí qualche dubbio intorno all'integrità delle facoltà mentali del suo amico. - Egli sa! - balbettò Lelio Giorgi appena entrato nello studio. - Ah, che nottata d'inferno! Luisa lo ha sentito bestemmiare, urlare, minacciare terribili gastighi se noi oseremo. - Tanto piú dobbiamo osare - rispose il Mongeri. - Se tu avessi visto quella culla scossa, agitata in modo che io non so spiegarmi come il bambino non sia cascato per terra! Luisa ha dovuto buttarsi ginocchioni, invocando pietà, gridandogli: «Sí, sarò tua, tutta tua! ... Ma risparmia quest'innocente ... » E in quel momento mi è parso che ogni mio legame con lei fosse rotto, ch'ella non fosse davvero piú mia, ma sua, di colui ! - Calmati! ... Vinceremo. Calmati! ... Voglio esser con voi questa notte -. Il Mongeri era andato con la convinzione che la sua presenza avrebbe impedito la manifestazione del fenomeno. Pensava: - Accade quasi sempre cosí. Queste forze ignote vengono neutralizzate da forze indifferenti, estranee. Accade quasi sempre cosí. Come? Perché? Un giorno certamente lo sapremo. Intanto bisogna osservare, studiare -. E, nelle prime ore di quella notte, accadeva proprio com'egli aveva pensato. La signora Luisa girava gli spauriti occhi attorno, tendeva ansiosamente l'orecchio ... Niente. La culla rimaneva immobile: il bambino, pallido pallido, dimagrito, dormiva tranquillamente. Lelio Giorgi, frenando a stento l'agitazione, guardava ora sua moglie, ora il Mongeri che sorrideva soddisfatto. Intanto ragionavano di cose che, nonostante la preoccupazione, arrivavano in alcuni momenti a distrarli. Il Mongeri aveva cominciato a raccontare una sua divertentissima avventura di viaggio. Bel parlatore, senza nessun'affettazione di gravità scientifica, egli intendeva di deviare cosí l'attenzione di quei due, e intanto non perderli d'occhio, per notare tutte le fasi del fenomeno caso mai dovesse ripetersi; e già cominciava a persuadersi che il suo intervento sarebbe stato salutare, quando nell'istante che il suo sguardo si era rivolto verso la culla, egli si accorse di un lieve movimento di essa, il quale non poteva esser prodotto da nessuno di loro perché la signora Luisa e Lelio gli sedevano dirimpetto e discosti dal posto dov'era la culla. Non poté far a meno di fermarsi, di farsi scorgere, e allora Luisa e Lelio balzarono in piedi. Il movimento era aumentato gradatamente e quando la signora Luisa si volse a guardare là, dove gli occhi di Mongeri si erano involontariamente fissati, la culla si dondolava e sobbalzava. - Eccolo! - ella gridò. - Oh, Dio! Povero figliuolino! - Fece per accorrere, ma non poté. E cadde rovesciata su la poltrona dov'era stata seduta fin allora. Pallidissima, scossa da un fremito per tutta la persona, con gli occhi sbarrati e le pupille immobili, balbettava qualcosa che le gorgogliava nella gola e non prendeva suono di parola, e sembrava dovesse soffocarla. - Non è niente! - disse Mongeri, levatosi in piedi anche lui e stringendo la mano di Lelio che gli si era accostato con vivissimo atto di terrore, quasi per difesa. La signora Luisa, irrigiditasi un istante, ebbe un tremito piú violento e subito parve ritornasse allo stato ordinario; se non che la sua attenzione era tutta diretta a guardare qualcosa che gli altri due non scorgevano, a prestar ascolto a parole che quelli non udivano, e delle quali indovinavano il senso dalle risposte di lei. - Perché dici che voglio continuare a farti del male? ... Ho pregato per te! ... Ho fatto dir delle messe! ... - Ma non si può sciogliere! Tu sei morto ... - Non sei morto? ... Dunque perché mi accusi di averti avvelenato? ... - D'accordo con lui? Oh! ... - Ti aveva promesso, sí; ed ha mantenuto ... Per finzione? C'intendevamo da lontano? Lui m'ha spedito il veleno? ... È assurdo! Non dovresti crederlo se è vero che i morti vedono la verità ... - Va bene. Non ti stimerò morto ... Non te lo ripeterò piú. - È in istato di trance spontanea! - disse Mongeri all'orecchio di Lelio. - Lasciami -. Presala pei pollici, dopo qualche minuto, e ad alta voce, chiamò - Signora! ... - Alla voce cupa e irritata, voce robusta, maschile, con cui ella rispose, Mongeri diè un salto indietro. La signora Luisa si era rizzata sul busto con tal viso rabbuiato, con tale espressione di durezza nei lineamenti, da sembrare altra persona. La speciale bellezza della sua fisonomia, quel che di gentile, di buono, quasi di verginale che risultava dalla dolcezza dello sguardo dei begli occhi azzurri e dal lieve sorriso errante su le labbra, come un delicato palpito di esse, quella speciale bellezza era compiutamente sparita. - Che cosa vuoi? Perché t'intrometti tu? - Mongeri riprese quasi subito padronanza di sé. L'abituale sua diffidenza di scienziato gli faceva sospettare di aver dovuto sentire anche lui, per induzione, per consenso dei centri nervosi, l'influsso del forte stato di allucinazione di quei due, se gli era parso di veder dondolare e sobbalzare la culla che, ora, egli vedeva benissimo immobile, con dentro il bambino tranquillamente addormentato, ora che la sua attenzione veniva attirata dallo straordinario fenomeno della personificazione del fantasma. Si accostò, con un senso di dispetto contro se stesso per quello sbalzo indietro al rude suono di voce che lo aveva quasi investito, e rispose imperiosamente: - Finiscila! Te l'ordino! - Aveva messo nell'espressione tale sforzo di volontà che il comando avrebbe dovuto imporsi all'esaltamento nervoso della signora, superarlo - egli pensava -. La sardonica e lunga risata che rispose subito a quel «te l'ordino», lo scosse, lo fece titubare un istante. - Finiscila! Te l'ordino! - replicò poi con maggior forza. - Ah! Ah! Vuoi essere il terzo ... che gode ... Avvelenerete anche lui? - Mentisci! Infamemente! - Mongeri non aveva potuto trattenersi di rispondere come a persona viva. E la lucidità della sua mente già un po' turbata, non ostante gli sforzi ch'egli faceva per rimanere osservatore attento e imparziale, venne sconvolta a un tratto quando si sentí battere due volte su la spalla da mano invisibile, e nel medesimo istante vide apparire davanti al lume una mano grigiastra, mezza trasparente, quasi fosse fatta di fumo, e che contraeva e distendeva con rapido moto le dita assottigliandosi come se il calore della fiamma la facesse evaporare. - Vedi? Vedi? - gli disse Giorgi. E aveva il pianto nella voce. Improvvisamente ogni fenomeno cessò. La signora Luisa si destava dal suo stato di trance, quasi si svegliasse da sonno naturale, e girava gli occhi per la camera, interrogando il marito e Mongeri con una breve mossa del capo. Essi s'interrogavano, alla lor volta, sbalorditi di quel senso di serenità, o meglio di liberazione che rendeva facile il loro respiro e regolari i battiti del cuore. Nessuno osava parlare. Solamente un fioco lamento del bambino li fece accorrere ansiosi verso la culla. Il bambino gemeva, gemeva, dibattendosi sotto l'oppressione di qualcosa che sembrava aggravarglisi sulla bocca e gli impedisse di gridare ... improvvisamente, cessò anche questo fenomeno, e non accadde piú altro. La mattina, andando via, Mongeri non pensava soltanto che gli scienziati hanno torto di non voler studiare da vicino casi che coincidono con le superstizioni popolari, ma tornava a ripetersi mentalmente quel che aveva detto due giorni avanti al suo amico: «Non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo». Come scienziato è stato ammirevole, conducendo l'esperimento fino all'ultimo senza punto curarsi se (nel caso che la cremazione del cadavere del primo marito della signora Luisa non avesse approdato a niente), la sua reputazione di scienziato dovesse soffrirne presso i colleghi e presso il pubblico. Quantunque l'esperimento abbia confermato la credenza popolare, e dal giorno della cremazione dei resti del cadavere, i fenomeni siano compiutamente cessati, con gran sollievo di Lelio Giorgi e della buona signora Luisa, nella sua relazione, non ancora pubblicata il Mongeri però non ha saputo mostrarsi interamente sincero. Non ha detto: «I fatti sono questi, e questo il resultato del rimedio: la pretesa superstizione popolare ha avuto ragione su le negazioni della scienza; il Vampiro è morto completamente appena il suo corpo venne cremato». No. Egli ha messo tanti se, tanti ma nella narrazione delle minime circostanze, ha sfoggiato tanta allucinazione, tanta suggestione, tanta induzione nervosa nel suo ragionamento scientifico, da confermare quel che aveva confessato l'altra volta, cioè: che anche la intelligenza è affare d'abitudine e che il mutar di parere lo avrebbe seccato. Il piú curioso è che non si è mostrato piú coerente come uomo. Egli che proclamava: «Non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo» ne ha poi sposata una per molto meno, per sessantamila lire di dote! E a Lelio Giorgi che ingenuamente gli disse: - Ma come? ... Tu! ... - rispose: - A quest'ora non esistono insieme neppure due atomi del corpo del primo marito. È morto da sei anni! - senza accorgersi che, parlando cosí, contraddiceva l'autore della memoria scientifica Un preteso caso di Vampirismo , cioè, se stesso.

IL Santo

664957
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Non si fidavano della discrezione dell' Abate, sarebbe stato un grosso guaio ch'egli fosse partito ab irato . Il Padre Salvati riprese a parlare. Egli era contrario a che s'imprimesse al movimento riformista un carattere sopra tutto intellettuale, non tanto per il pericolo di Roma quanto per il pericolo di turbare nella loro fede semplice una quantità immensa di anime tranquille. Voleva che l' Unione si proponesse anzi tutto una grande opera morale, il richiamo dei credenti alla pratica della parola evangelica. Illuminare i cuori era secondo lui il primo dovere di uomini, che aspiravano a illuminare gl'intelletti. Evidentemente non importava tanto di trasformare secondo un ossequio razionale la fede cattolica nella Bibbia, quanto di rendere effettiva la fede cattolica nella parola di Cristo. Bisognava dimostrare che generalmente dai fedeli si onora Cristo con le labbra ma che il cuore del popolo è lontano da lui; dimostrare quanto posto sia lasciato agli egoismi da certe pietà fervorose che credono santificarsi ... Qui don Paolo e Minucci brontolarono: "Questo non c'entra." Il Salvati esclamò che c'entrava benissimo e che avessero la bontà di aspettare. Continuò a dire di un pervertimento generale nel concetto del dovere cristiano intorno alla ricerca e all'uso della ricchezza, pervertimento difficilissimo a raddrizzare perché indurato da secoli e secoli nelle coscienze cristiane con la piena complicità del clero. "Il tempo, signori" esclamò il vecchio frate "domanda un'azione francescana. Ora io non ne vedo segno. Vedo antichi Ordini religiosi che non hanno più forza di agire sulla Società. Vedo una Democrazia Cristiana amministrativa e politica che non ha lo spirito di S. Francesco, che non ama la santa Povertà. Vedo una società di studi francescani; trastulli intellettuali! Io intenderei che noi si provvedesse all'azione francescana. Dico se si vuole una riforma cattolica!" "Ma come?" domandò Farè. Minucci brontolò seccato: "Non è questo." Selva sentiva disgregarsi le anime che si erano unite in un primo slancio. Sentiva che Dane, Minucci, probabilmente anche Farè, intendevano, com'egli stesso intendeva, iniziare un movimento intellettuale e che quella divampata francescana era venuta fuor di tempo e fuor di luogo. Era tanto più inopportuna quanto più calda di Verità viva. Perché molta Verità c'era senza dubbio nelle parole del Padre Salvati, egli lo riconosceva, egli che si era più volte dibattuto nel pensiero il dubbio se non convenisse promovere, per il bene della Chiesa un'azione piuttosto morale che intellettuale. Ma egli non sentiva in sé le attitudini all'apostolato francescano e non le vedeva negli amici suoi, neppure nel più ardente, Luigi Minucci, un solitario, un asceta schivo della folla come lui, Selva. Le ragioni del Salvati valevano a guastare e non a edificare. Giovanni sentiva segrete ironie andare al Marinier e anche al Dane, di cui si conoscevano i gusti poco francescani, il palato difficile, i nervi delicati, gli affetti dati a cagnolini e a pappagalli. Se si voleva riescire a qualche cosa, conveniva correre al riparo. "Mi perdoni" diss'egli "il carissimo Padre Salvati se io gli osservo che il suo discorso, tanto caldo di spirito cristiano, è intempestivo. Mi pare ch'egli consenta con noi nel desiderio di una riforma cattolica. Stasera non è davanti a noi che una proposta; quella di promuovere una specie di Lega fra quanti hanno lo stesso desiderio. Ora decidiamo questo!" Lo scolopio non si arrese. Non poteva comprendere una Lega inattiva, e un'azione secondo le idee degli intellettuali non gli piaceva. L' Abate ginevrino esclamò: "Je l'avais bien dit!" E si alzò per andarsene davvero, stavolta. Selva non lo permise, propose di sciogliere la seduta, pensando di richiamare l'indomani o più tardi il professore Dane, Minucci, di Leynì, Farè. Con Salvati non c'era niente a fare, ed era meglio lasciar partire Marinier dandogli a credere che tutto fosse andato a monte. Minucci indovinò il suo pensiero e tacque, l'inconsiderato don Paolo non capì nulla e strepitò che si doveva deliberare, votare subito. Selva, e per ossequio a Selva, di Leynì, lo fecero aspettare. Fremeva, però; fremeva contro lo svizzero, sopra tutto. Dane e don Clemente erano poco soddisfatti, quale per una ragione, quale per un'altra. Dane era molto irritato in cuor suo contro Marinier e si doleva di averlo portato con sé; don Clemente avrebbe voluto dire che le parole del Padre Salvati erano state molto belle e sante e non intempestive perché anzi era bene che ciascuno lavorasse giusta la vocazione propria, gl'intellettuali per una via, i francescani per un'altra. Colui che chiama provvederebbe a coordinare l'azione dei chiamati; le diverse vocazioni potevano benissimo stare insieme nella Lega. Avrebbe voluto dire così ma non fu pronto, lasciò passare il momento, anche per verecondia intellettuale, per paura di non dir bene, per un riguardo verso Selva, che desiderava evidentemente di troncare. E fu troncato, tutti si alzarono, uscirono sulla terrazzina, meno Dane e Giovanni. L' Abate Marinier intendeva recarsi l'indomani a Santa Scolastica e al Sacro Speco; poi, forse, ritornare a Roma per Olevano e Palestrina, una via nuova per lui. Chi gliela poteva indicare di lì? Gliela indicò don Clemente. Era la stessa che aveva percorso venendo da Subiaco. Passava lì sotto, valicava l' Aniene poco più a sinistra, sul ponte di S. Mauro, volgeva a destra, saliva verso i monti Affilani, là di fronte. L'aria veniva, odorata di boschi, dalla gola stretta ond'esce il fiume sonoro sotto i Conventi. Il cielo era coperto, salvo sul Francolano. Là sopra il gran monte nero tremolavano due stelle. Minucci le mostrò a di Leynì. "Guardi" diss'egli "quelle due stelline come sfavillano! Dante le direbbe le fiammelle di San Benedetto e di Santa Scolastica che sfavillano vedendo nell'ombra un'anima simile ad esse." "Voi parlate di Santi?" fece Marinier, accostandosi. "Io ho domandato poco fa se avete un Santo e vi ho augurato di possederne uno. Queste sono figure oratorie, perché so bene che non lo avete. Se lo aveste, il vostro Santo sarebbe subito ammonito dalla questura o spedito in China dalla Chiesa." "Ebbene?" rispose di Leynì "E se fosse ammonito?" "Se fosse ammonito oggi, sarebbe imprigionato domani." "Ebbene?" replicò il giovane. "E S. Paolo, signor Abate?" "Eh, mio caro, S. Paolo, S. Paolo ...!" Con questa reticenza l' Abate Marinier intendeva probabilmente dire che S. Paolo era S. Paolo. L'altro pensò invece che Marinier era Marinier. Don Clemente osservò che neppure tutti i Santi si potevano mandare in China. Perché non sarebbe laico il futuro Santo? "Questo lo credo" esclamò il Padre Salvati. Invece l'entusiasta don Faré si teneva certo che sarebbe Sommo Pontefice. L' Abate rise. "Idea semplice ed eccellente" diss'egli. "Ma io sento la carrozza che viene a pigliarci, Dane, me e chi vuol venire con noi a Subiaco; per cui vado a congedarmi dal signor Selva." Si chinò dal parapetto a cogliere una frondetta dell'olivo piantato nel terrazzo del piano inferiore. "Dovrò presentargli questo" disse. "E anche a Loro signori" soggiunse con un gesto grazioso, sorridendo. E uscì della terrazza. Si udì infatti, giù nella strada, il rumore di un legno a due cavalli che, venendo da Subiaco, girò lo scoglio sul quale la villetta è assisa e si fermò davanti al cancello. Pochi momenti dopo vennero nella terrazza Maria Selva e Dane col suo gran pastrano e il grandissimo cappello nero a cencio. Seguivano Giovanni e l' Abate. "Chi viene con noi?" disse Dane. Nessuno parlò. S'intesero, sul rumore fondo dell' Aniene, voci e passi che salivano dal cancello verso la villa. Minucci che stava sull'angolo di levante della terrazza, guardò e disse: "Signore. Due Signore." Maria trasalì. "Due Signore?" diss'ella. Balzò al parapetto, vide due figure chiare che salivano lentamente, facevano allora la prima svolta del ripido viottolo. Non era possibile distinguerne le forme, erano ancora troppo giù e faceva troppo scuro. Giovanni osservò che probabilmente si trattava di persone dirette al primo piano, a visitare i padroni di casa. Il professore Dane sorrise misteriosamente. "Potrebbero venire anche al secondo" diss'egli. Maria esclamò: "Lei sa qualche cosa!" e gridò abbasso: "Noemi! est-ce vous?" La voce limpida di Noemi rispose: "Oui, c'est nous!" Si udì un'altra voce femminile dirle forte: "Che bambina! Dovevi tacere!" Maria mise un piccolo grido di gioia e disparve, corse giù per la scala a chiocciola. "Lei sapeva, professore Dane?" fece Selva. Sì, Dane sapeva, aveva veduto a Roma la signora Dessalle, conosciuta da lui nella sua villa del Veneto, nella villa degli affreschi del Tiepolo. Suo fratello, il signor Carlino Dessalle, era rimasto a Firenze. Lei e la signorina d' Arxel volevano fare una sorpresa, gli avevano proibito di parlare. Il nome Dessalle richiamò alla mente di Selva, in un baleno, quello cui subito non aveva pensato, la presenza di don Clemente, il dubbio che fosse lui l'amante scomparso di quella signora, la necessità di evitare un incontro che poteva essere terribile per l'una e per l'altro. Del colloquio fra sua moglie e il Padre egli non sapeva, naturalmente. Intanto si udì Maria scender di corsa il sentiero, poi suonare le esclamazioni e i saluti festosi. Dane, inquieto per la troppo lunga fermata sulla terrazza, propose di scendere. Quelle Signore si erano certo servite della carrozza che veniva a prender lui! Anche don Clemente pareva molto inquieto. Selva si affrettò, dissimulando la commozione propria, di prenderlo a braccetto. "Se Lei non vuole imbarazzarsi con Signore" diss'egli "venga subito con me che La faccio passare dal Casino, per il sentiero alto." Il Padre parve contentissimo, i due partirono in gran fretta, il benedettino senza nemmeno salutare. "È anche tardi" diss'egli "Ho detto all' Abate, chiedendogli il permesso, che sarei ritornato alle nove e mezzo." Scesero a precipizio la scala a chiocciola; ma quando uscirono sul piazzaletto delle robinie, Jeanne Dessalle vi metteva il piede dall'altro capo con Maria e Noemi. Non era tanto buio, sotto le robinie, che Maria non potesse riconoscere suo marito e don Clemente nelle due ombre che uscivano di casa sua. Ella, che a fianco di Jeanne precedeva sua sorella, prontamente piegò e fece piegare a destra la sua vicina, verso il piccolo casino ch'è un'appendice della villa, voltando le spalle a questa. Dal canto suo, Selva, vedendo l'atto di sua moglie, prontamente sussurrò al Padre: "Scenda diritto, subito!" Ma non valse. Non valse perché Noemi, meravigliata di veder sua sorella svoltare a destra, si fermò esclamando: "Dove andate?" e don Clemente, forse per aver veduta questa signora ferma sulla sua via, invece di passare e scendere, andò a raccogliere l'ortolano che lo attendeva nell'angolo più oscuro del piazzaletto, dove il fianco della casa s'incontra col monte. Chiamò "Benedetto!" e si volse a Selva. "Se Lei volesse mostrargli il campicello?" Giovanni rispose: "A quest'ora?" mentre sua moglie diceva piano a Noemi: "C'è forestieri che partono, lasciamoli passare, restiamo qui al casino." Ella le accennò in pari tempo del capo così risolutamente che la Dessalle se ne avvide, pensò tosto a qualche mistero. "Perché?" disse. "Sono terribili?" E rallentò il passo. Invece Noemi che aveva afferrato l'intenzione della sorella, non però le ragioni occulte, mise troppo zelo a secondarla, abbracciò alla Vita le due compagne, le spinse verso il casino. Jeanne Dessalle ebbe un moto istintivo di ribellione, si voltò di botto dicendo: "che fai?" vide Selva che veniva alla loro volta e che subito salutò allargando le braccia, come per nascondere don Clemente, il quale, seguito dall'ortolano, passò frettolosamente a cinque passi da Jeanne, prese la discesa. Noemi, che al saluto di suo cognato si era pure voltata, corse ad abbracciarlo. Intanto Selva si compiacque di vedere che don Clemente era sfuggito all'incontro. Selva, scioltosi dall'abbraccio di Noemi, stese la mano a Jeanne, che non se ne avvide, mormorò, trasognata, qualche incomprensibile parola di saluto. In quel momento uscirono dalla villa Dane, Marinier, Faré, di Leynì, il Padre Salvati. I due Selva mossero loro incontro, lasciando Noemi e la Dessalle ad aspettare in disparte. I saluti di commiato furono abbastanza lunghi. Dane desiderava salutare anche la Dessalle. Maria non la scorse più dove l'aveva lasciata, suppose che lei e Noemi fossero entrate in casa girando alle loro spalle, s'incaricò dei saluti del professore. Finalmente quando i cinque discesero, accompagnati da Giovanni, si udì chiamare da Noemi: "Maria!" Un accento particolare nella voce di sua sorella le disse che era accaduto qualche cosa. Accorse; la signora Dessalle, seduta sopra un fascio di legna, nell'angolo lasciato cinque minuti prima dall'ortolano di Santa Scolastica, ripeteva con voce debole: "niente, niente, niente, adesso entriamo, adesso entriamo."Noemi, tutta palpitante, raccontò che l'amica si era sentita mancare a un tratto mentre quei signori discorrevano e che a lei era appena riuscito di trarla fino a quel fascio di legna. "Andiamo, andiamo" ripeté Jeanne e si sforzò di alzarsi, si trascinò, sorretta dalle altre due, fino all'uscio della villa, sedette sullo scalino, aspettando un po' d'acqua che poi assaggiò appena. Altro non volle e presto si rimise tanto da poter salire, adagio adagio, le scale. Si scusava ad ogni sosta e sorrideva; ma la fantesca che saliva innanzi col lume, a ritroso, venne quasi meno ella stessa vedendo quegli occhi smarriti, quelle labbra bianche, quel terribile pallore. La condussero al canapè del salottino; e là, dopo un momento di silenzioso abbandono a occhi chiusi, poté dire alla signora Selva, sorridendo ancora, ch'erano affetti di anemia e che c'era avvezza. Noemi e Maria si parlarono piano fra loro. Jeanne intese le parole "a letto" e assentì del capo con uno sguardo di gratitudine. Maria aveva disposto per lei e per Noemi la migliore camera del piccolo alloggio, la camera d'angolo opposta allo studio di Giovanni, dall'altra parte del corridoio. Mentre Jeanne vi si avviava stentatamente a braccio di Noemi, ritornò Selva che aveva accompagnato gli amici sino al cancello. Sua moglie ne udì il passo sulla scala, gli scese incontro, lo trattenne. Si parlarono al buio, sotto voce. Era dunque lui, ma come lo aveva riconosciuto? Eh, Giovanni aveva ben cercato di frapporsi, nel momento pericoloso, fra la signora e don Clemente, il Padre era anche passato quasi di corsa, ma egli aveva sospettato subito, perché la Dessalle non aveva quasi risposto al suo saluto, non gli aveva stesa la mano, era rimasta come una statua. Anche il Padre, quando aveva udito sulla terrazza ch'era arrivata la signora Dessalle, si era mostrato inquieto; poi aveva mostrato un vivo desiderio di evitarla; si era però serbato molto padrone di sé. Oh sì, molto padrone di sé! Questo era pure il giudizio di Maria che raccontò il suo colloquio con lui, lì in fondo alla scala. Marito e moglie salirono lentamente, compresi di quello straordinario dramma, di quel dolor mortale della povera donna, dell'impressione terribile che doveva aver riportato anche lui, dopo tutto, della notte che passerebbero l'uno e l'altra; pensosi di quel che accadrebbe l'indomani, di quel che farebbe lui, di quel che farebbe lei. "Per queste cose è bene di pregare, non è vero?" disse Maria. "Sì, cara, è bene. Preghiamo ch'ella sappia donare il suo amore e il suo dolore a Dio" rispose suo marito. Entrarono, tenendosi per mano, nella camera nuziale, divisa in due da un cortinaggio pesante. Si affacciarono alla finestra guardando il cielo, pregarono silenziosamente. Un alito di tramontana passò come un lamento per la quercia che pende sulla piccola Santa Maria della Febbre. "Povera creatura!" disse Maria. Parve a lei e a suo marito di amarsi anche più teneramente del solito e tuttavia sentirono ambedue, senza dirselo, che qualche cosa li tratteneva dal bacio dell'amore. Jeanne, appena Noemi ebbe chiuso dietro a sé l'uscio della loro camera, le si avvinghiò al collo, ruppe in singhiozzi irrefrenabili. La povera Noemi, avendo compreso, per l'effetto vedutone, che quell'ecclesiastico passato in fretta davanti all'amica sua era Maironi, si struggeva di pietà. Disse parole della più ardente, della più soave tenerezza con la voce di chi blandisce un bambino che soffre. Jeanne non rispondeva, singhiozzava sempre. "È quasi meglio, cara" si arrischiò a dire Noemi "è quasi meglio che tu sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con quell'abito!" Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati "no, no" così strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese quindi i suoi conforti ma più timidamente. "Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio ..." Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso. "Non capisci che non è lui?" diss'ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle sue braccia. "Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?" Ancora Jeanne le si lanciò al collo. "Non è quel frate che mi è passato davanti" disse fra i singhiozzi "è l'altro!" "Chi, l'altro?" "Quell'uomo che lo seguiva, che è partito con lui!" Noemi neppure se n'era accorta, di quest'uomo. Jeanne le strinse il collo da soffocarla, con un riso convulso.

Le Fate d'Oro

678921
Perodi, Emma 1 occorrenze

La vecchina ordinò che fossero ab- battuti tutti gli alberi della foresta del reame, e gli alberi secolari caddero ad uno ad uno sotto i colpi di scure dei bo- scaioli. Poi ordinò che fossero battuti i boschi in tutti i sensi, finché non venisse presa viva una cerbiatta con un collare di rose, e le fosse portata. Tutti i cacciatori del reame batte- vano continuamente i boschi; i cani erano sempre in moto, e la cerbiatta col collare di rose non si trovava. Intanto il collare di sangue del figlio del Re diventava sempre più grande; la Regina si struggeva in pianto, il Re in- cominciava a temere un inganno. Un giorno fece chiamare la vecchina e glielo disse; ma costei rispose: - Sacra Real Maestà, se prima della luna nuova la cerbiatta col collare di rose non è a palazzo, fatemi pure impiccare. - Il Re non rispose; mancava appena una settimana alla luna nuova; quindi era mal di poco. Passano sette, passano otto giorni, e la cerbiatta non si vede. Alla fine dell'ottavo giorno il Re fece chiamare di nuovo la vecchina, le strappò la corona, il manto, le tolse lo scettro e la fece legare dalle guardie. L'aveva ingannato, aveva devastato le sue foreste, meritava la morte e l'a- vrebbe. La mattina seguente ordinò che le fosse tagliata la testa. La vecchina fu messa in una prigione sotterranea; ma essa non piangeva, non si raccomandava. Il Re quella notte fece un sogno. Vide una cerbiatta, con un collare di rose, ago- nizzante in mezzo alla radura di un bosco. Una lancia le aveva ferito il fianco e il povero animale ansava tanto, che pareva stesse lì lì per spirare l'anima. Il Re fece svegliare tutti i servi, i cortigiani e le guardie, e ordinò che la vecchina fosse condotta in sua presenza. Appena la vide le raccontò il sogno e voleva che essa glielo spiegasse subito. Le vecchina sorrise. - Lasciatemi in libertà, datemi un cavallo, e avanti domattina la cerbiatta sarà qui. - Nessuno però la doveva pedinare per veder dove andava. Il Re dubitava della vecchina; ma costei tanto fece e tanto disse; che egli la lasciò in libertà e le permise di sce- gliere un cavallo fra quelli delle sue scu- derie. La vecchina si fece sellare un ca- vallo bianco, veloce come il vento, lo in- forcò e via di galoppo. Il cavallo, appena ebbe in groppa la vecchina, pareva che sapesse da se la strada e avesse le ali. Saliva i monti, scen- deva nelle valli, traversava i fiumi a guado; nulla lo tratteneva. Quando giunse al limitare di un bosco spogliato dei begli alberi che l'ornavano, si fermò e nitrì tre volte. Al nitrito del cavallo rispose un lungo lamento.. Appena il cavallo udì quel lamento rizzò le orecchie, sbuffò, e riprese la corsa, schivando i tronchi d'albero e i rami che ingombravano il terreno. Corri corri, giunse a una radura e si fermò di botto. In mezzo a quella radura, giaceva la bella cerbiatta ansante, e grondava sangue da una larga ferita. Il cavallo nitrì di nuovo e andò a co- ricarsi accanto alla povera bestia e le lec- cava la ferita. La vecchina, intanto, cavò di tasca una boccetta d'unguento e le spalmò la ferita, che si richiuse subito. Ma la cerbiatta ap- pena guarita si alzò e in due salti fu lontana. Il cavallo nitriva che faceva compas- sione, la vecchina la chiamava, ma lei non ascoltava nulla e correva come il vento. Arrivò in una valle profonda. In mezzo scorreva un torrente. La cerbiatta, sentendosi inseguìta da vicino, stava per spiccare un lancio e buttarsi nell'acqua, quando si fermò un istante a specchiarsi. In quell'istante la vecchina la rag- giunse, l'afferrò per il collare di rose, e così prigioniera la condusse al castello. Il Re non si muoveva dalla finestra per veder se la vecchina arrivava. Appena la vide fece suonare le trombe, e la vecchina insieme con la cerbiatta en- trarono nel cortile della reggia, in mezzo alle allegre fanfare. Subito la cerbiatta fu portata alla pre- senza del Re, della Regina, del loro figlio e di tutta la Corte. La vecchina colse una rosa dal collare fiorito, la passò tre volte sul collare di san- gue del figliuolo del Re, e il segno san- guigno sparì. Poi gli toccò gli occhi, e le lacrime che il Principino versò dalla gioia non furono più lacrime di sangue, ma lacrime limpide come gocce d'acqua. Il Re e la Regina abbracciarono il fi- glio, piangendo e ridendo dalla gioia. Quan- do rialzarono la testa, cercarono la vecchi- na; ma cerca che ti cerco, la vecchina non c'era più. La cerbiatta, invece, s'era accucciata ai piedi del figliuolo del Re e non gli le- vava mai gli occhi dal viso. Il Re voleva rivedere ad ogni costo la vecchina. Con quel gran debito di rico- noscenza nel cuore, tant'è non poteva stare. Ma per quanto desse ordine a chiunque la vedeva di ricondurgliela, non riuscì a sa- perne nulla. Intanto il figliuolo del Re cresceva a occhiate e diventava un bellissimo giovane. Il Re pensava già a dargli moglie, ma lui non voleva bene altro che alla sua cara cerbiatta. Nessuno lo poteva staccare da lei, che lo seguiva sempre come un ca- gnolino. Un giorno il Principe era a caccia, e inseguendo un cinghiale si trovò lontano dai suoi cortigiani, in una pianura immensa, solo con la cerbiatta. Era tardi, aveva fame e bussò alla porta di una capanna di paglia, piccina piccina. Il figliuolo del Re fece tanto d'occhi vedendo un gatto che veniva ad aprirgli e lo riveriva come se lo conoscesse. Il gatto, correndo, lo precede in un corridoio lungo lungo, che scendeva sem- pre, e alla fine aprì una porta e lo intro- dusse in una sala, che abbagliava da quanto era bella. Nel mezzo alla sala c'era un trono tutto d'oro, e su questo trono stava seduta la vecchina più grinzosa che mai. Costei sorrise al figliuolo del Re e ac- carezzò la cerbiatta domandando loro che cosa erano venuti a chiederle. In quel mo- mento il figliuolo del Re era tanto mera- vigliato che non si rammentava neppure che aveva fame. La vecchina lo fece sedere e gli disse che essa voleva dargli moglie. Il figliuolo del Re fece una smorfia e disse che lui non voleva prender moglie, perché nessuna donna avrebbe tollerato la cerbiatta, e lui non acconsentirebbe mai a separarsi da quella cara bestiola, alla quale voleva tutto il bene del mondo! E chinan- dosi la baciò sulla fronte. In quel momento cadde il collare di rose dal collo della cerbiatta, e questa fu trasformata in una bellissima ragazza coi capelli biondi inanellati e una carnagione di latte e sangue. Il figliuolo del Re la guardava esta- tico, e lei lo fissava sempre senza proferir parola. La vecchina spiegò tutto, raccontando che una Fata cattiva e gelosa della bellezza di quella fanciulla l'aveva trasformata in cerbiatta. Bisognava che il figliuolo di un Re l'amasse per salvarla. Il Principe reale, promise di sposare la bella ragazza, e insieme ad essa e alla vecchina fece ritorno al Palazzo reale. Il Re ordinò gran feste, fecero le nozze e furono felici e contenti; e quando mori- rono il Re e la Regina, i due Principi ere- ditarono tutto il reame e camparono quanto Matusalemme. E la vecchina? Essa è sempre nella sua capanna pic- cina piccina, col gatto che le tiene buona compagnia.

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