Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Psicologia Vol. I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Quindi allorquando l' osservazione o l' esperienza manifesta all' uomo l' esistenza di un gruppo di attività, unito in un unico principio sostanziale, allora l' uomo è autorizzato a conchiudere che un tal principio sostanziale può darsi, perchè ab esse ad posse datur consecutio . Ora è l' osservazione interna quella che attesta all' uomo che egli è un principio unico, e senziente ed intelligente al tempo stesso; poichè ogni uomo può dire a sè stesso: quell' Io che sento, sono quell' Io medesimo che intendo; e se non fossi il medesimo, non potrei sapere di sentire, nè ragionare sulle mie sensazioni. D' altra parte niuna ripugnanza vi è che l' attività sensitiva abbia uno stesso principio dell' attività intellettiva, quando ben si considera che da un principio medesimo, come dicevamo, possono incominciare più azioni, come da uno stesso punto possono incominciare più linee. Ma è da confessarsi tuttavia che, anche dopo di ciò, rimane a vincere un' obbiezione gravissima. Noi abbiamo detto che a costituire un principio senziente è necessario che si concepisca un sentito primitivo, che virtualmente comprenda tutte le speciali azioni di sentire, che egli può fare in appresso; e nell' uomo questo sentito primitivo e fondamentale è il proprio corpo sensibile nello spazio. Abbiamo detto ancora che a costituire un principio intelligente è necessario un primitivo inteso, che virtualmente comprenda tutto ciò che deve poscia essere inteso; e nell' uomo questo inteso è l' essere universale. Ora, se il principio senziente è costituito dal sentito corporeo, e il principio intelligente dall' essere intelligibile, converrà dire o che l' esteso corporeo e l' essere intelligibile si identificano, ovvero che costituiscono due principŒ diversi, e non mai un solo. Affine di rispondere a questa gravissima obbiezione conviene osservare che in ogni sentito vi è un' entità; perocchè ogni atto qualsiasi è un' entità. Ma nell' entità sentita manca affatto la luce intelligibile, manca la conoscibilità, come si vede dal fatto, giacchè la parola entità sentita non è la entità intesa; sicchè il dirsi sentita piuttosto che intesa , è lo stesso che escludere dal sentimento la conoscibilità. All' incontro, l' intelligente ha per suo oggetto l' entità intesa , poichè il principio intelligente non fa altro che intendere, e ogni cosa ch' egli intende è necessariamente entità. Dunque il termine del principio senziente e il termine del principio intelligente sono egualmente entità . Vi è dunque nei loro termini una identificazione. Ma in che dunque si distinguono? - Si distinguono nella diversa maniera colla quale la stessa entità aderisce allo stesso principio. Conciossiachè l' entità si comunica al principio senziente nel suo modo di sentita, che io chiamo anche realità e attività, laddove al principio intelligente si comunica nel suo modo d' intesa, che io chiamo anche idealità, intelligibilità, conoscibilità, luce, ecc.. Poste le quali cose, vedesi chiaramente come il principio senziente e il principio intelligente possono compenetrarsi, fino a formare un solo e medesimo principio d' operare; giacchè si ha il medesimo termine in entrambi i principŒ, benchè ad uno di essi questo termine aderisca in un modo, e si comunichi in una delle sue forme, e all' altro di essi aderisca in un altro modo, e si comunichi in un' altra delle sue forme. Sono adunque due i principŒ, se si considera la forma nella quale l' entità si comunica; ma è un solo principio, se si considera l' entità stessa che si comunica, prescindendo dalle sue forme. Si possono dire due i principŒ, purchè si riconosca che nell' uomo non sono principŒ primi, ma v' è al di sopra un principio primo ed unico, che li tiene subordinati e congiunti a sè; il qual principio primo si riferisce all' entità , e non alle forme della medesima; ed è il principio che sintetizza, sia nell' ordine teoretico manifestandosi col carattere di ragione , sia nell' ordine pratico manifestandosi col carattere di volontà . Onde questo principio intellettivo, in quanto è superiore, è il punto da cui partono le due attività, cioè la sensitiva e l' intellettiva, e dicesi principio razionale . Da quanto abbiamo ragionato fin qui, apparisce che l' anima umana è un soggetto unico sostanziale . Ella è un soggetto , perchè è un primo principio delle azioni dotate di sentimento (1); ed è una sostanza , perchè questo principio si concepisce dalla mente esistente in sè stesso, e non in un altro a lui anteriore nell' ordine del sentire e dell' intendere. E` da notarsi la differenza che passa fra l' appellazione di sostanza e quella di soggetto sostanziale . La parola soggetto , da noi riserbata ad esprimere il principio attivo di un sentimento, viene a nominare l' anima da quella parte appunto, che ne costituisce l' essenza semplicissima. La parola sostanza , che indica l' atto primo pel quale tutto l' ente sussiste, abbraccia tutto ciò che egli fa sussistere, e però abbraccia tutto il sentimento, sì nel suo principio che nel suo termine; onde giustamente si dice che il primo sentimento è sostanza, purchè si riguardi dall' aspetto del principio anzichè da quello del termine, appunto perchè l' atto, che fa sussistere il sentimento, è il principio di esso (1). Dalla quale distinzione fra sostanza e soggetto sostanziale si rileva che non si può chiamare soggetto sostanziale se non l' ente sensitivo o intellettivo; laddove il nome di sostanza conviene anche ai corpi inanimati, in quanto che la nostra mente li concepisce con un atto loro proprio di sussistere. Noi abbiamo fin qui investigata l' intima costituzione dell' anima, e ce ne risultò: Che l' anima umana è un principio unico e semplice, senziente ad un tempo ed intelligente. Che questo principio è un' attività, nella quale si contengono virtualmente tutti gli atti secondi, sensioni, intellezioni, ecc.. Che ciò che determina la sfera di questa attività è il primo sentito e il primo noto , cioè quel sentito e quel noto, che aderisce per natura al principio attivo; poichè in questo sentito fondamentale sono virtualmente comprese tutte le sensioni che vengono appresso, e in questo noto sono compresi gli oggetti di tutte le intellezioni distinte, che possono mai aver luogo. Ora queste dottrine fanno nascere una questione necessaria a compire il ragionamento intorno all' identità dell' anima, la quale si è: « Sarebbe possibile che si cangiasse il sentito o l' inteso primitivo dell' anima umana? E cangiandosi, conserverebbe ella la sua identità? ». Rispondesi che un tal cangiamento non involge contraddizioni nel suo concetto. Quanto poi all' identità dell' anima, non può dirsi se ella si conserverebbe, se non distinguendosi i cinque cangiamenti, che si possono concepire nel sentito o nell' inteso primitivo, e che sono questi: rimozione del sentito e dell' inteso, rimozione dell' inteso solo, rimozione del solo sentito, aggiunta o mutazione del sentito, aggiunta dell' inteso. Esaminiamoli per singolo. Se venisse rimosso interamente il sentito e l' inteso, il soggetto senziente ed intelligente sarebbe annullato, l' anima non sarebbe più. Se venisse sottratto all' anima umana l' inteso primitivo, cesserebbe la sua identità. La ragione di ciò si trova nell' ordine, che hanno fra di sè il principio del sentire e il principio dell' intendere, che nell' anima umana si uniscono in un principio solo. L' ordine loro si è che il principio intelligente è superiore al principio senziente, di maniera che è egli che dà prossimamente l' origine al principio comune dell' intendere e del sentire. Noi veniamo a riconoscere questo vero, se osserviamo che è solo un principio intelligente quello che dice: « io sento », giacchè il dire: « io sento », è un pensiero, che l' uomo fa sulle proprie sensazioni, e il pensiero appartiene a un principio intelligente. All' incontro il principio senziente non può dire nè « io sento », nè « io intendo »; non può dire affatto nulla, ma può solo sentire. E` vero che sopra l' attività sensitiva e intellettiva vi è un principio comune, che rende l' uomo consapevole delle sue sensioni e delle sue intellezioni, e le unisce insieme; ma questo principio è immediatamente formato dalla attività intellettiva, e dicesi razionale, perchè è un atto intellettivo, che fa unione delle sensioni e delle intellezioni. Ora, venendo rimosso l' inteso primitivo, cesserebbe l' intelligenza, e quindi cesserebbe il primo principio dell' anima. Ma l' anima ha la propria essenza in questo primo principio razionale, come abbiamo veduto; onde, privata di questo, perderebbe la sua identità, cesserebbe dall' essere quell' ente, che presentemente denominiamo anima umana. All' opposto, dato che si rimovesse dall' anima il sentito primitivo, ella non perderebbe la sua identità, perchè il suo principio primo, che costituisce la sua essenza, sarebbe conservato. Vero è che cesserebbe in lei il principio prossimo del sentire; ma l' attività intellettiva, essendo principio superiore, conterrebbe sempre nella sua virtù anche il principio del sentire, sebbene non si potrebbe dire che questo attualmente esistesse. Tuttavia lo stato dell' anima, privata del fondamentale sentimento corporeo, sarebbe immensamente cangiato. Al principio intellettivo sarebbe resa impossibile ogni percezione, ogni affermazione, e quindi anche la consapevolezza di sè stesso. Rimarrebbe tuttavia all' anima il sentimento proprio, ma ella non avrebbe più nessuna ragione sufficiente, nessuno stimolo, che la inducesse a ripiegare la propria attività intellettiva sopra un tal sentimento ed a percepirlo; perocchè questa è legge dell' anima umana, ch' ella a principio sia tratta ai suoi atti da stimoli diversi da sè, e che solamente in appresso ella possa proporsi un fine, pel quale operi indipendentemente dagli stimoli; tolte adunque a lei le sensioni accidentali ed acquisite, ed anche il sentimento fondamentale corporeo, ella non ha per natura sua propria alcun bene reale, a cui possa bramare di congiungersi, e che possa proporsi a fine di sue operazioni; quindi non può neppure riflettere su sè stessa (1). Se si aggiungesse qualche cosa al sentito primitivo dell' anima, l' anima avrebbe certamente ricevuta una mutazione sostanziale; ma il suo primo principio attivo, in cui consiste la sua essenza, non si sarebbe però cangiato, e quindi l' anima sarebbe rimasta identica. Tuttavia l' attività del principio primitivo si sarebbe ampliata, quanto alla materia delle sue operazioni. L' anima, nel caso supposto, conservando tutto il sentito primitivo, potrebbe anche conservare la memoria di sè stessa e del suo stato precedente, e quindi essere conscia di sua identità. Ma che si avrà a dire, se il sentito primitivo non si conservasse, ma si cangiasse del tutto in un altro? In questa supposizione dico che l' anima conserverebbe la propria identità, perchè si conserverebbe intatto il principio primo, che è intellettivo; ma ella non potrebbe essere conscia di questa identità, perdendo la memoria del suo stato precedente, giacchè la memoria e consapevolezza di questo stato si fonda nelle percezioni avute precedentemente, le quali cesserebbero. Si potrebbe dubitare se forse non potessero rimanere le idee astratte formate precedentemente, le quali non esigono immagine corporea. Ma io credo che non potrebbero rimanere, se non forse come mere attitudini, e, posto anche che rimanessero nel fondo dell' anima, non sarebbe a lei dato di contemplarle attualmente, se non a condizione che il nuovo sentito avesse col primo qualche rapporto, qualche legge di associazione. Poichè, quantunque le idee astratte non abbiano in sè stesse bisogno d' immagine corporea, tuttavia sono legate alle sensazioni ed alle immagini, od ai loro vestigi siffattamente che, privato l' uomo di queste, egli non può volgere la sua attenzione a quelle sole, sì perchè non ha ragione di farlo, e sì perchè la sua attenzione rimane priva di una guida, che la conduca a trovarle e ad avvertirle, di maniera che le idee astratte nell' uomo, privo al tutto di sensioni e d' immagini, o di vestigi che a quelle si riferiscono, posto anche che essere vi potessero, rimarrebbero in quello stato appunto in cui sono, quando non ci si pensa, prive di coscienza. Ma, come dicevo, assai più probabile mi sembra che non rimarrebbero al tutto tali idee nell' uomo; perocchè elle consistono essenzialmente in una relazione col reale; e il reale a cui riferire l' essere ideale manca, se il nuovo sentito si suppone non avere similitudine [analogia] col precedente, poichè la sostanza dell' anima neppur essa presenta similitudine alcuna col sentito precedente. Non si pone il caso di mutazione nell' inteso primitivo, ma solo di una aggiunta al medesimo, perchè l' inteso primitivo non può mutarsi, essendo egli immutabile di natura, nè può diminuirsi, essendo l' essere ideale semplicissimo di concetto; ma egli può ben accrescersi. Accrescersi poi egli può in due maniere, o col determinarsi in esso i concetti, o col realizzarsi dell' essere stesso essenziale. I concetti sono positivi o negativi. Positivi sono quelli che si fondano in una realità da noi percepita. Se si accrescono nella mente umana i concetti, che si fondano in quelle realità che l' uomo percepisce, in tal caso non è mutato sostanzialmente il suo essere; ma in qualunque maniera gli si accrescano questi concetti nel suo intendimento, essi già si trovano virtualmente compresi nel suo sentito e nel suo inteso primitivo. Se poi si parla di concetti, che si riferiscono ad altre realità, diverse da quelle che virtualmente si contengono nel suo sentito primitivo, questi non gli possono essere dati in nessun modo, a meno che non gli si dia il sentito corrispondente a quei concetti; e in tal caso la questione reincide in quella, che precedentemente abbiamo trattata, della ipotesi che venga cresciuto il sentito primitivo. I concetti negativi sono quelli coi quali l' uomo conosce un ente, non già inteso in sè stesso, ma per qualche sua relazione con altro ente cognito. E questi concetti, per quanti ne acquisti l' anima umana, non hanno virtù di cangiarla sostanzialmente. Il caso poi che l' inteso primitivo s' accresca mediante la realizzazione dell' essere, oggetto essenziale, è sommamente importante a considerarsi, perchè è ciò che fa passare l' uomo dall' ordine naturale all' ordine soprannaturale. L' essere essenziale, oltre essere luce della mente, diviene allora anche sentito. Ma poichè l' essere reale in tal caso è identico coll' essere ideale, quindi il principio che prima intuiva l' essere ideale, rimane ancora identico, benchè senta la realità dell' essere. L' anima dunque, il soggetto sostanziale, non perde la sua identità, ma acquista nuova infinita dignità; ed è lo stesso intelletto che intuisce quella, e percepisce questa contemporaneamente. Ciò che si è mutato è stato propriamente il sentito, cioè si è aggiunto al sentito precedente un sentito essenzialmente diverso, infinitamente maggiore del primo, un sentito che appartiene al senso intellettivo. Quindi il principio primo che unisce il sentito e l' inteso, e che è fonte della ragione e della volontà, non mutò sua natura, ma la accrebbe infinitamente. L' aggiunta d' attività, che vi si fece, è più grande e più elevata di tutta l' attività che egli s' aveva prima: un principio nuovo di operare gli si aggiunse, cioè il principio di operare in un modo soprannaturale. Ora il primo principio , che raccoglie in sè tutte le attività inferiori, si chiama persona , in quanto contiene virtualmente l' attività suprema fra tutte le altre. Quindi, benchè egli conservi la sua identità come soggetto , diviene tuttavia una persona nuova, in quanto riceve un' attività nuova, superiore di lunga mano a quella che s' aveva prima (1). Conosciuto in che consista la sostanza dell' anima umana, e quali sieno le principali sue proprietà, rimane che noi investighiamo le differenze che la separano dalle pure intelligenze, e da altre nature a lei affini. L' anima umana, pertanto, è quel primo principio del sentire e dell' intendere che, senza cessare d' essere uno e di avere un' unica attività radicale, viene costituito da un sentito esteso e corporeo, e da un inteso che è l' essere indeterminato. Si dice primo principio , perchè l' anima è un principio superiore al principio sensitivo; è un principio che contiene virtualmente nel suo seno il principio sensitivo, di maniera che l' attuale esistenza di questo principio appartiene bensì alla natura dell' uomo, ma non all' essenza dell' anima, alla quale è sufficiente che il principio del sentire animale sia in essa virtualmente contenuto. Quindi si può segnare la differenza che separa l' anima umana, sì dalle pure intelligenze (1), e sì dalle anime delle bestie; poichè l' anima umana sta quasi fra gli Angeli e le anime belluine. Agli Angeli manca il sentito corporeo, e quindi vanno privi del principio del sentire animale e delle animali sensioni. Non sono passivi dai corpi, ma sono attivi; e invece dei sentimenti animali posseggono il sentimento delle proprie attività e loro termini; il che dichiareremo più ampiamente, se a Dio piaccia, nella Cosmologia o nella Teosofia. Le anime belluine altro non sono che principŒ del sentire corporeo disgiunti dall' attività intellettiva. Questi principŒ attualmente costituiti, appunto perchè sono soli, sono altresì primi, ed essendo attività prime, non possiamo negar loro il nome di principŒ sostanziali o di sostanze. Quindi anche apparisce in che relazione stia l' anima dell' uomo, la sostanza dell' anima, con tutto l' uomo, preso l' uomo a significare la natura umana (2). L' uomo, cioè la natura umana, è quel composto che risulta dall' anima e dal corpo personalmente uniti. Da una tale unione nasce un unico individuo; questo individuo è unico, perchè ha un solo principio supremo, che raccoglie nel proprio seno virtualmente tutte le attività inferiori; e questo principio supremo è la sostanza dell' anima umana. Essendo dunque la sostanza dell' anima umana il principio attivo, il principio che abbraccia virtualmente tutte le altre attività che sono nell' uomo, suol dirsi la forma dell' uomo; giacchè la parola forma fu presa fino dai tempi antichissimi per « la prima virtù attiva, che trovasi in un dato ente, per la quale esso è quell' ente, anzichè un altro ». Il qual vero ci gioverà confermare con un luogo di S. Tommaso, dov' egli spiega come l' anima si dichiari dagli Aristotelici atto del corpo , perocchè, dice, « in eo, cujus anima dicitur actus, etiam anima includitur, eo modo loquendi quo calor est actus calidi, et lumen est actus lucidi; non quod seorsum sit lucidum sine luce, sed quia est lucidum per lumen. Et similiter dicitur, quod anima est actus corporis etc., quia per animam et est corpus, et est organicum, et est potentia vitam habens (1) ». Ma nell' uomo, oltre esservi un' attività che costituisce il soggetto, si ravvisa qualche cosa d' altro, che non appartiene a quell' attività, ma che conferisce a suscitarla. Questo è l' inteso primitivo, che non è l' attività d' intendere, ma è ciò che la rende possibile e sussistente, onde acconciamente si dice forma dell' intelligenza , in quanto al principio soggettivo aderisce, e lo rende intellettivo. Egli è un elemento extra7soggettivo, termine dell' intelligenza, e propriamente suo oggetto . Dicendo suo oggetto , veniamo a dire un termine, che si distingue dal principio intelligente coll' atto stesso che viene a quel principio comunicato; sicchè si comunica senza confondersi, anzi distinguendosi da lui, da ogni soggetto (per intuizione). Così del pari il sentito primitivo non è l' attività senziente, ma è un elemento extra7soggettivo. Questo elemento extra7soggettivo non ha però relazione di oggetto al soggetto, giacchè il senziente, come senziente, non lo distingue da sè, ma semplicemente lo sente. Infatti in ogni sensione il principio senziente non è sentito in modo distinto dal suo termine; è solo l' intelligenza quella che poi lo distingue; il termine della sensione ed il senziente costituiscono un solo sentimento, nè possono mai divenire due per nessun atto sensitivo, perchè la sensitività non si riflette sopra sè stessa, ma finisce nel suo atto senza più. Il sentito adunque si può chiamare termine del senziente, ma non oggetto . Tuttavia come l' inteso primitivo (oggetto) si può chiamare forma dell' intelligente, così anche il sentito si può chiamare forma del senziente; perocchè l' inteso e il sentito sono propriamente l' ultima perfezione, la cima, e, come dicevamo, il termine dell' atto d' intendere e di sentire. V' è però un' immensa differenza fra l' una e l' altra forma; poichè l' oggetto essenziale è una forma necessaria e tale che, anche annullandosi tutte le menti umane, ella non può annullarsi, sicchè esige e suppone una mente eterna, dove non venga mai meno (1); laddove il sentito corporeo è manifestamente contingente, e può essere annullato. Ma noi abbiamo altrove descritto il sentito primitivo come materia della potenza di sentire (2); abbiamo di poi detto che la materia non è il sentito primitivo, ma è quella forza estranea al sentimento che lo immuta, e la chiamammo sensifero (3). Ora qui sembra che produciamo una terza sentenza, dicendo che il sentito è forma del senziente. Non sono queste altrettante contraddizioni? E` dunque uopo che noi ci conciliamo con noi stessi. Diciamo che in queste tre dottrine v' è una contraddizione apparente, ma non reale. E l' apparenza di contraddizione viene prodotta dalla complicazione delle azioni e delle passioni, che si producono nell' interno dell' essere sensitivo. Perocchè la parola materia significa qualche cosa di relativo, ed ella cangia significato, cangiandosi i termini precisi della relazione. Definiamo la materia. « La materia è un elemento costituente una data entità, estraneo però all' attività dell' entità costituita, e sussistente in virtù della stessa attività »(1). Pigliamo ora a disaminare l' ente sensitivo. Se in esso noi consideriamo l' attività senziente , è chiaro: 1 che il sentito primitivo è un elemento costituente questa attività, perocchè senza il sentito non si dà l' atto del sentire; ma è chiaro ancora, 2 che questo elemento è estraneo all' attività, perchè il sentito non è il senziente, anzi è a questo opposto; e tuttavia è pur chiaro, 3 che da questa attività, cioè dall' atto del sentire, è posto in essere il sentito, perchè il sentito non ci sarebbe senza l' atto del sentire, di cui è contemporaneamente l' effetto. Quindi il sentito è [può dirsi in questo senso] materia del sentimento, come fu detto nel « Nuovo Saggio ». Solamente ivi abbiamo osservato che questa condizione di materia appartiene al sentito primitivo ed immanente, e non al sentito delle sensazioni acquisite, perchè infatti quel solo costituisce l' ente sensitivo, e non questo. Laonde dicemmo che il sentito primitivo è materia dell' ente sensitivo, e i sentiti posteriori sono termini delle operazioni dell' ente sensitivo. Niente tuttavia impedirebbe di chiamare questi sentiti accidentali, materia delle accidentali sensazioni. Questo discorso è dunque pienamente vero, qualora si considera la potenza del sentire , e non il suo atto; cioè quando si considera questo atto nel suo formarsi, non l' atto già bello e formato. Perocchè è certo che nello stesso formarsi dell' atto primitivo del sentire, il sentito ancora non esiste; ma esiste solo quando l' atto del sentire è interamente formato. Onde in questo momento l' attività è dalla parte del principio operante, e la passività dalla parte dell' effetto (il sentito), che va ad essere prodotto. Il sentito adunque, considerato in questo momento, ha il carattere di materia, che viene quasi invasa dall' atto senziente. Ma se si considera l' atto del sentire in quel momento, nel quale egli è già formato, nel quale il suo sentito non è in potenza, ma egli stesso è in atto; certo è che il senziente in tal momento sente in virtù del sentito, appunto perchè questo sentito è l' ultima evoluzione e perfezione di lui, e per così dire la sua estremità. Onde in quel momento dell' ente sensitivo, in cui egli è appieno naturato, il sentito può chiamarsi sua forma; non perchè il sentito senta, ma perchè è ciò, per cui il senziente sente. Non è dunque forma, in quanto il sentito sia l' attività senziente, ma è forma, in quanto l' attività non si dice senziente se non dopo che ha prodotto il sentito; benchè l' attività non ancora senziente, ma in via di divenir tale, preceda il sentito. Potendosi adunque distinguere due momenti dell' essere senziente contingente, l' uno quando sta per divenire senziente, e l' altro quando è già divenuto; nel primo il sentito, che non è ancora, ma che sta per essere prodotto, veste il concetto di materia e di un cotal termine passivo; nel secondo che il senziente è nel suo atto completo, il sentito veste il concetto di forma, perchè questo atto abita per così dire in lui, e per lui è completo. E` dunque il sentito primitivo materia della potenza di sentire, non ancora attuata come potenza; è forma della potenza attuata come potenza. Quantunque questi sieno aspetti diversi o sguardi dell' intelligenza, tuttavia hanno un loro proprio valore; e senza tenerli distinti, il linguaggio che sopra di essi è formato, si confonde e rende falsi concetti. Ora, come può esser vero anche quello che dicevamo nell' Antropologia , cioè che materia si dice propriamente non il sentito, ma quella forza bruta che immuta il sentito primitivo, appellata sensifera ? - Ivi davamo la distinzione fra corpo e materia , e dicevamo che al concetto di corpo basta un sentito esteso; perchè nel sentito esteso « « vi è la forza con virtù diffusiva nell' estensione » », che sono i due elementi costituenti il concetto di corpo (1). Ma osservavamo di più che oltre il sentito , nella natura si presenta qualche cosa come anteriore al sentito, quasi un cotal sostrato del sentito medesimo, ed è una forza che non entra a costituire il sentito, ma a mutarlo; onde noi ne conosciamo l' esistenza per la violenza che sentiamo farci, quando ci viene tolto un sentito, e sostituito un altro (2); ed altresì per la percezione extra7soggettiva. Ora a questa forza, che propriamente cagiona il sentito, si dà il nome di corpo in senso proprio. Noi non conosciamo l' esistenza di questa forza anteriore al sentito ed al corpo soggettivo, se non a cagione di quello che essa opera nel sentito stesso, per la violenza con cui lo altera e lo immuta. Dunque la base positiva del nostro concetto di corpo è il sentito , cioè il sentito è la prima cosa che noi conosciamo del corpo; onde, da esso solo argomentando, ce ne formiamo il primo ed essenziale concetto. Il concetto adunque di corpo involge essenzialmente l' attuale sua sensibilità. Ma la forza che sottrae od immuta il sentito, non è ella stessa un' estensione sentita. Dunque non ha l' attualità, che caratterizza il concetto di corpo. Tuttavia, benchè estranea all' attività corporea (che facciamo consistere nell' attuale sensibilità) quella forza si considera come un elemento necessario al corpo materiale; e ciò perchè quella forza opera in ogni punto del sentito esteso, e può sottrarre ogni punto di lui al nostro principio sensitivo, come pure può supporgli un' altra estensione sensibile, ond' ella è quella che, prima d' essere sentita, operando nell' anima, produce il sentito. Quindi ella si considera come in potenza ad esser sentita. Non ha dunque l' atto di essere sentita, ma è una condizione precedente e necessaria al sentito. Questo è il primo carattere della materia, l' essere, come dicevamo, un elemento costituente, ma estraneo alla attività che da materia e forma risulta. Ma dove si trova l' altro elemento? dove si trova che ella esista in virtù della stessa attività? Si trova in ciò, che il concetto di forza, producente o immutante il sentito, non per altro si conosce da noi che pel sentito, e tutto ciò che ne sappiamo è la relazione che ha con questo. Onde come la potenza si conosce per l' atto, così la forza producente il sentito non si conosce che pel sentito e nel sentito. In questo senso ella esiste pel sentito, giacchè in quello noi troviamo attuata quella forza. Quindi generalmente si dà a una tal forza la denominazione di materia . Niente però vieta che questa forza si consideri anch' essa in due distinti momenti: nel momento in cui, agendo sull' anima, trovasi in via a produrre il sentito, e in questo primo momento non è materia del sentito, che ancora non esiste, ma è piuttosto azione del principio corporeo dall' uomo non percepito, ma argomentato; e nel momento in cui, essendo già prodotto il sentito, quella riceve il concetto di essere il sentito stesso in potenza; onde dicesi materia del sentito, ovvero sia materia del corpo . Nel composto l' anima è forma; il corpo, materia dell' uomo. Ma si può anche dire che il corpo sia materia dell' anima? Sì, qualora per corpo s' intenda la materia del corpo , che abbiamo testè definita. Per vedere come ciò sia, è necessario prima di tutto dimostrare che noi, nello stato presente delle cose, concepiamo il corpo e la materia come un solo ente, che spiega due diverse attività, la prima delle quali consiste in far sentire senza essere sentita, e sotto questo aspetto si chiama materia o corpo materiale , l' altra consiste nell' essere immediatamente sentita, e sotto questo aspetto si chiama corpo . Che queste due attività appartengano ad uno stesso ente, noi lo raccogliamo dall' osservare che la prima attività, che è in via a produrre il sentito, opera in tutta l' estensione del sentito, immutandolo e cangiandolo; il che ci dimostra che la materia è estesa, e che occupa la stessa identica estensione del sentito; sicchè la concepiamo come fosse il sentito stesso in potenza, come il corpo in potenza. Ora la potenza e l' atto appartengono allo stesso ente; di che concludiamo che materia e corpo sono l' ente medesimo. Tutti i corpi esteriori al nostro proprio non ci manifestano se non l' attività materiale; ma noi attribuiamo loro la denominazione di corpo, appunto perchè sentiamo la loro forza sparsa nell' identico spazio, nel quale è sparsa la sensazione soggettiva, che è il sentito immediato (1). Per l' identità dello spazio noi intendiamo che il « corpo anatomico , » come l' abbiamo chiamato, è identico col corpo nostro soggettivo (2). Tuttavia, quando nel corpo consideriamo tutte e due queste attività, gli diamo l' appellazione di corpo materiale; e così attribuiamo al corpo, le proprietà materiali, come suoi attributi. Ciò premesso, vogliamo ora spiegare in che modo nel composto umano il corpo, cioè la materia corporea, si dica acconciamente materia dell' anima. Se noi paragoniamo un corpo animato ad uno inanimato (1), possiamo notare delle grandissime differenze fra l' uno e l' altro. E` dunque certo che l' animazione altera e modifica il corpo, in quanto è oggetto della nostra osservazione esterna, e che chiamiamo volgare od anatomico. Aristotele indusse da ciò, che del corpo animato è proprio un certo atto, di cui è privo il corpo inanimato, e in questo atto egli ripose l' essenza dell' anima. Noi non possiamo convenire in questa definizione dell' anima, la quale non è per noi un atto del corpo , ma bensì il principio che produce quest' atto (2). L' anima in una parola produce l' animazione , ma non è l' animazione stessa. Aristotele, noi crediamo, fu indotto in errore per avere considerato soltanto i fenomeni del corpo volgare od anatomico, che non sono punto l' essenza del corpo, ma dei meri segni, onde possiamo indurre la sua attività materiale; nè egli giunse punto ad afferrare il corpo, in quanto ci è dato dal sentimento soggettivo, dove sta l' essenza del corpo. E che Aristotele si trattenesse a considerare i soli fenomeni esterni, che il corpo produce sui nostri organi, lo dimostra apertamente l' aver egli data l' anima anche alle piante. Ora l' anima vegetativa di Aristotele, priva di ogni sentimento, non è che un principio supposto per ispiegare i fenomeni extra7soggettivi, che ci presentano le piante colla loro organizzazione, nutrizione, incremento, generazione, germinazione. Ma in tutto ciò nulla cadendo di soggettivo, cioè non attribuendosi alle piante sentimento alcuno, manca loro quel soggetto sostanziale, a cui solo spetta il nome di anima (1). Dove poi questo principio soggettivo, ossia sensitivo, si scorge, come negli animali, quivi trovasi senza dubbio l' animazione e l' anima. Ma l' animazione è ella effetto dell' anima, che agisce nel corpo, ovvero è effetto del corpo, che agisce nell' anima, o finalmente è forse effetto delle mutue azioni del corpo e dell' anima? Noi abbiamo già dichiarata su di ciò la nostra opinione; abbiamo detto che il corpo bruto e materiale non ha per sè virtù di agire sull' anima, ma che l' anima è quella che prima lo modifica e lo trae in un atto nuovo, pel quale è a lui possibile l' agire sull' anima e produrvi il sentimento; ed Aristotele stesso cogli innumerabili suoi seguaci lo riconosce (2). Ora questa prima modificazione, che il corpo riceve dall' anima, per la quale egli si trova in via a produrre il sentimento, è propriamente ciò che costituisce l' animazione, che lo rende atto a produrre esternamente i fenomeni extra7soggettivi, propri dei soli corpi animati, e che lo rende del pari atto a produrre nell' anima il sentimento. In quanto adunque egli riceve dall' anima questo atto d' animazione, egli diviene materia all' operare dell' anima stessa. Resta nondimeno a dimostrare che l' animazione del corpo sia prima di tutto un atto dell' anima che agisce nel corpo, anzichè un atto del corpo che agisce nell' anima. Per dimostrarlo conviene osservare che al corpo è essenziale l' estensione continua almeno soggettiva, e che l' estensione continua non si dà se non in un principio inesteso (1). Infatti tutte le maniere di concepire l' estensione del corpo si riducono a due, e a due pure si riducono i concetti, che di essa l' uomo si forma: il concetto voglio dire dell' estensione materiale ed extra7soggettiva, e il concetto dell' estensione corporea e soggettiva. Il concetto dell' estensione extra7soggettiva è quello di una forza, che immuta il sentito; il concetto dell' estensione soggettiva è quello del sentito stesso, di cui l' estensione è il modo. Il primo adunque dei due concetti si riduce al secondo, di maniera che, analizzando tutto ciò che sappiamo intorno all' estensione del corpo, veniamo a conchiudere che la sua essenza non è altro che il modo del sentito corporeo fondamentale (2). Ma il sentito fondamentale è il corpo animato. E` dunque per un' azione dell' anima che il corpo viene animato, giacchè l' anima è quella che gli dà l' estensione soggettiva , alla quale sono connessi tutti i fenomeni extra7soggettivi dei corpi, che si dicono animati (1). Se il corpo è materia dell' anima nel composto, consegue che l' anima sia forma del corpo, cioè sia quella che gli dà l' animazione, quell' atto pel quale vive; il quale atto consiste, come vedemmo, in divenire soggettivamente esteso, che è quanto dire, essere sentito nel sentimento fondamentale come esteso; al quale primo essenziale carattere dell' animazione s' accoppiano costantemente i fenomeni extra7soggettivi, segni dell' animazione, non però l' animazione stessa. Ma nasce qui il dubbio, se forma del corpo sia l' anima intellettiva, o solo la sensitiva. A cui si risponde che nell' uomo non v' è che un' anima sola, e questa è propriamente razionale . Onde quest' anima razionale è forma del corpo (2). Dissi l' anima razionale piuttosto che l' anima intellettiva, (benchè la parola intellettiva si suol rendere anche promiscuamente colla parola razionale), perchè già vedemmo che il principio intellettivo e il principio sensitivo dipendono nell' uomo da un principio che in sè li unifica, come primo principio d' entrambi, e così costituisce il soggetto sostanziale umano. Ora questo primo principio (in cui è la sostanza dell' anima) dicesi con maggiore proprietà razionale (1), secondo la definizione che abbiamo data della ragione , che fu: « quella facoltà che unisce il sensibile e l' intelligibile, pronunciando di ciò che sente, mediante l' idea, ed operando secondo ciò che pronuncia ». Tuttavia il primo principio, che è il razionale, non è immerso tutto nella materia, come si esprimono gli Scolastici (2); ma solo in quanto è principio dell' attività percipiente il corpo; rimanendo coll' attività puramente intellettiva immune affatto dalla materia. Conciossiachè la mera operazione intellettiva, come l' intuizione dell' essere, non riceve nulla dalla sensazione corporea; e quanto alle operazioni razionali, ricevono dalla sensazione la materia su cui lavorano, ma la forma delle loro operazioni è anch' essa del tutto immateriale. Quindi gli antichi distinsero l' anima dallo spirito , ovvero dall' animo , attribuendo il nome di anima al principio prossimo dell' animazione del corpo, che è il principio sensitivo, e attribuendo il nome di spirito alla stessa sostanza, in quanto è intellettiva e immune dal corporeo contatto (3). Ancora usarono dire che le bestie hanno solamente l' anima , ma che l' uomo ha di più l' animo (1). Tutte le cose contingenti e limitate hanno questo di proprio, che la loro natura consiste nella sola realità , di modo che l' idealità non entra a costituire la loro natura come un elemento, ma solo a renderle enti conoscibili all' intendimento (2). Solo l' essere necessario ed assoluto ha tal natura, la cui compiuta realità giace essenzialmente nel seno dell' idealità, e viceversa; sicchè tanto l' essere reale, quanto l' ideale, appartengono alla natura e alla costituzione dell' ente infinito. Ora che la sostanza e la natura dell' anima, come quella di ogni ente contingente, non sia costituita dall' essere ideale, è un vero degnissimo d' attenzione, e non sì facile a cogliersi. Le difficoltà sono due: I Noi non conosciamo l' anima nostra, nè l' anima altrui, nè alcun ente contingente, senza l' uso dell' essere ideale; dunque pare che l' essere ideale si mescoli coll' anima e con tutte le cose contingenti. II L' anima non è intellettiva, se non per l' intuizione dell' essere ideale; dunque pare che l' essere ideale appartenga alla sua natura. La prima difficoltà si vince osservando esser verissimo che noi non possiamo percepire l' anima nostra (dalla quale percezione caviamo poi il concetto di ogni altra anima), se non facendo uso dell' essere ideale; ma esser vero altresì che, per intendere che cosa sia l' anima puramente nella sua natura, senz' altra aggiunta eterogenea, noi dobbiamo dalla percezione dell' anima sottrarre la percezione stessa, e quindi il mezzo con cui la percepiamo, che è l' essere ideale. Alla seconda difficoltà rispondo esser verissimo che l' anima è intellettiva a cagione dell' intuizione dell' essere, ma non conseguire da ciò che l' essere ideale sia un elemento intrinseco della sua natura. E ciò si prova: I Ricorrendo alla coscienza di noi stessi, che è il principio della scienza dell' anima, e il criterio che fa distinguere il falso ed il vero in questo argomento. Ora noi ben sappiamo, e intendiamo con evidenza, di non essere l' essere ideale; perchè l' essere ideale è un universale, ed Io sono un particolare; l' essere ideale è immodificabile; ed Io sono soggetto a modificazioni; l' essere ideale è il mezzo comune a tutti gli uomini di conoscere, ed Io non sono negli altri uomini, ma esclusivamente in me stesso, e gli altri uomini non usano di me per conoscere; anzi fanno i loro atti di conoscere, a malgrado che non abbiano alcuna notizia di me, neppure della mia esistenza. II Posciachè l' essere ideale è congiunto al soggetto per via d' intuizione, è chiaro che non è il soggetto, perchè l' intuizione ha questo di proprio, di distinguere il suo termine da sè stessa, di escluderlo da sè, di contrapporselo come qualche cosa di opposto a sè; di che venne la parola objectum . A maggior chiarimento di questo vero rimetto il lettore a quei luoghi, dove ho dimostrato non essere assurdo che una cosa inesista nell' altra, senza mescolarsi coll' altra; ed effettivamente avvenire il fatto così nell' unione dell' essere ideale col soggetto per via d' intuizione (1). Si replicherà: Voi dite però, che l' atto dell' intuire si crea in virtù del manifestarsi dell' essere; dunque lo stesso atto di intuire è un effetto dell' essere. - Rispondo: e che fa ciò? Sia pure l' intuizione e l' intuente effetto della manifestazione dell' essere ideale, non è per questo che sia un atto dello stesso essere ideale, quando anzi ne è il polo opposto; la causa non è l' effetto. Come poi si faccia questa manifestazione , come questa manifestazione sia una cotal creazione , non cerco; la questione è d' altro ordine, troppo più sublime; a me basta di mantenere il fatto che l' intuìto non è l' intuente, ossia l' anima; e il fatto è evidente. Ora, dal sapersi che l' essere ideale non è un elemento interno costitutivo della natura dell' anima, ma che questa natura è meramente reale , facilmente si trae che l' anima umana è un ente finito; perocchè non si trova l' infinito nell' uomo se non ricorrendo all' essere ideale, il quale, come dicevamo, non è parte dell' uomo stesso. E questa verità ci è data ancora immediatamente dalla coscienza di noi stessi; perocchè ciascuno sa di essere finito, e quando dice Io , ben intende che afferma una realità, che esclude innumerevoli altre realità di eguale e di diversa condizione, e perciò che afferma cosa finita. Nello stesso tempo l' anima umana, in quanto è intellettiva, è unita ad un essere infinito qual' è l' idea, e sotto questo aspetto partecipa d' una certa infinità; potendosi rassomigliare l' essere ideale in relazione colla mente, a quello che è uno spazio infinito equamente illuminato relativamente all' occhio. Quindi, benchè i reali conosciuti dall' uomo siano sempre finiti, perchè è finito il reale che li percepisce, cioè l' anima; tuttavia il mezzo di conoscere i reali percepiti col senso, cioè l' idea dell' essere, non è mai esaurito, o reso inefficace: egli basta sempre alla cognizione di altri reali, se fossero dati all' uomo nella percezione sensitiva, e ciò indefinitamente, e quand' anche la realità fosse infinita (1). Onde S. Tommaso dice che « « a quel modo che l' intelletto nostro è infinito in virtù, a quel modo stesso conosce l' infinito. Poichè la di lui virtù è infinita, in quanto non è determinata da materia corporale » ( noi diremmo, da realità finita qualsiasi ), «ed è conoscitivo dell' universale (dell' essere ideale), il quale è astratto dalla materia individuale (sussistente). E però non finisce a qualche individuo, ma quanto a sè, si estende ad infiniti individui »(2) ». Ora qui si presenta un' obbiezione. - L' essere ideale è la forma dell' anima intellettiva; ma la forma e la materia sono due elementi costitutivi di una natura; dunque l' essere ideale è un vero elemento costitutivo dell' anima. Ma l' essere ideale è infinito nella sua condizione d' ideale; dunque l' anima umana è composta di finito e d' infinito. Rispondo, distinguendo la minore di questo sillogismo così. Le forme sono di due maniere, soggettive ed oggettive. Le forme soggettive appartengono al soggetto e lo costituiscono; le forme oggettive non appartengono al soggetto, nè lo costituiscono, ma traggono in atto il soggetto, e perciò si possono anche dire cause immediate della forma del soggetto. Tuttavia con eguale e forse maggiore proprietà, esse si dicono anche forme , quando cioè si considerano come termine dell' atto dell' intuizione; poichè l' essere universale, in quanto è precisamente termine di quest' atto, viene come appropriato all' anima, senza cessare d' essere universale in sè stesso (1). E infatti, benchè sia vero che l' essere in universale sia intuìto identicamente il medesimo da tutti gli intelletti, tuttavia, in quanto egli è precisamente termine d' un intelletto, non è termine dell' altro; ed è in questo senso che la verità posseduta dall' uomo si può dire creata; intendendosi questa proposizione: « è creata la verità dell' intelletto umano », come equivalente a quest' altra: « quella verità, che è eterna, si è fatta divenire termine di un intelletto creato »(2). Dove si consideri che ogni azione, che termina in una entità diversa da sè, suppone una specie di contatto con quella entità, e nel punto del contatto vi è comunicazione della cosa tangente e della toccata. Ma nel caso dell' intuizione la cosa toccata, l' essere ideale, non è punto mutabile, nè alterabile, nè mescibile con altra cosa (3); dunque la comunicazione non reca varietà in essa, ma solo nel soggetto. La varietà poi che accade nel soggetto, consiste nel metterlo in possesso dell' intelligenza, ossia della luce; e ciò che si possiede non si confonde col possessore, benchè lo arricchisca. Così il possessore dell' oro non è l' oro. In quanto adunque l' essere ideale è luce al soggetto intuente, in tanto è sua forma, senza che lo stesso essere soffra alcun cangiamento o restringimento in sè stesso. E qui non sarebbe inopportuna la questione: « se l' intelligibile sia comunicato limitatamente o illimitatamente alla natura umana; e se il primo, in che consista tale limitazione ». A cui brevemente risponderemo così: L' intelligibile è l' essere eterno e necessario; l' essere eterno e necessario è quello, nel quale non si disgiungono l' essenza e la sussistenza, formando esse un unico e semplicissimo ente; ora l' essenza rifulge nell' idea, è l' intelligibile; se dunque l' uomo vedesse col suo intelletto l' intelligibile pienamente, vedrebbe Iddio, la cui essenza è la stessa sussistenza; quindi l' intelligibile non può manifestarsi in tutta pienezza a nessun essere creato, senza che questo essere sia trasportato in un ordine soprannaturale, e vegga il Creatore. Di vero, Iddio è sopra la natura creata, anzi egli è l' unico ente veramente soprannaturale; e la comunicazione immediata colla divina sussistenza è ciò che forma la condizione soprannaturale delle intelligenti creature. Ma potrebbe un soggetto qualsiasi vedere l' intelligibile in un modo più perfetto di quel che lo vede l' uomo, senza che gli sia data la percezione della divina sussistenza? Questa questione importante non possiamo trapassare. L' intuizione dell' essere si può considerare dalla parte del soggetto intuente, e dalla parte dell' oggetto intuìto. Dalla parte del soggetto intuente l' intuizione può essere, o parere, più o meno perfetta; e sembra che questa perfezione possa variare in tre modi: 1 per l' intensità dell' atto, onde accade che l' essere ideale produca nel soggetto una più alta impressione, mostri più luce, sia veduto più distinto; 2 per la maggiore facilità di riflettere sull' idea e sull' intuizione, il che è propriamente perfezione della facoltà di riflettere, non dell' intuizione stessa; ma l' uomo, rendendosi così più facilmente e perfettamente conscio dell' intuizione, pare che s' aggiunga luce a questa [benchè ciò non sia]; contribuisce nondimeno ad agevolare la riflessione l' intensità dell' intuito; 3 per la maggior facilità di applicare l' idea, onde la percezione ed il ragionamento riescono più pronti e perfetti; e qui pure la perfezione sta nelle operazioni della ragione, non nell' intuizione, benchè ne paia il contrario. Alla quale perfezione del ragionare contribuiscono non poco le due perfezioni precedenti, dell' intuizione e della riflessione; e dipende oltremodo dalla perfetta organizzazione del sistema cerebro7rachideo. Queste differenze dovrebbero svolgersi in un trattato della diversità degl' ingegni. Rimane a sciogliersi la questione dal lato dell' oggetto stesso. Si domanda, adunque, se ad un soggetto possa essere dato a intuire più dell' intelligibile di quel che è dato alla natura umana, senza che gli sia data la percezione della sussistenza divina. Noi rispondiamo negativamente; e dichiariamo così la nostra risposta. Niuna sussistenza è intelligibile per sè stessa fuori che la divina; e ciò perchè l' intelligibile è l' essenza dell' ente, e la sola sussistenza divina s' identifica con quella essenza (1). Dunque a Dio solo appartiene fra i sussistenti di essere l' intelligibile; non si può dunque aggiungere niente all' essere ideale che sia per sè intelligibile, se non si passa in un ordine soprannaturale e divino. Si dirà: l' essere ideale, com' è intuìto dall' uomo, è al tutto indeterminato. Ora egli potrebbe contenere molte sue determinazioni, anche senza ricorrere per determinarlo a Dio. Infatti le idee degli enti contingenti sono altrettante determinazioni dell' essere ideale. Dunque l' essere ideale, dato all' intuito, potrebbe trovarsi in altre menti più perfetto, cioè più determinato che non è nella mente umana. Illusione, nascente dal non intendersi bene come nascano queste determinazioni dell' essere ideale, queste idee speciali o generiche. Elle nascono (2) mediante il rapporto degli enti reali e sussistenti coll' essere universale indeterminato; dunque elle non sono propriamente idee, ma rapporti delle sussistenze o dei loro vestigi all' essere ideale; suppongono dunque conosciute in qualche modo le sussistenze. Ma le sussistenze contingenti non sono intelligibili per sè stesse, e perciò non aggiungono cosa alcuna all' intelligibile. Ciò che s' aggiunge non è qualche cosa che riguardi l' intelligibile per sè, ma sono atti nuovi del soggetto intelligente. L' aumento di cognizione viene tutto dalla parte della materia e non della forma, dalla parte del soggetto e non dell' oggetto. L' intelligenza adunque si può accrescere e rinforzare, senza che cresca l' intelligibile per sè; ella s' accresce, ogniqualvolta le è dato a percepire maggior copia di sussistenze o di realità. Le intelligenze adunque, ristrette all' ordine naturale, non possono differire fra loro per una quantità maggiore o minore dell' intelligibile al loro intuito proposto; ma unicamente per una quantità minore o maggiore di realità percepita, o per una realità di diversa natura. Quello che può crescere, minuire, o variare è ciò che cade nella sfera del sentimento, non mai l' oggetto stesso della intuizione. E così dicevamo che la natura angelica differisce dall' umana per un diverso e più acconcio sentimento, di cui è dotata, e conseguentemente per una natura e una quantità diversa di cose naturalmente percepite; non per una diversa intuizione (3). Ma non è possibile avere delle idee di cose contingenti, senza bisogno d' averle prima percepite? Non abbiamo noi stessi molte idee, di cui non abbiamo percezione? Non si possono conoscere le cose per via di loro similitudini, senza avere esperimentata in noi la loro azione? Ci si chiama all' esperienza di ciò che avviene nell' uomo; ottimamente. Ma non conviene immaginare ad arbitrio quanto avviene in noi, conviene pazientemente osservarlo, unica via per non dare in errore. Ora ciò che avviene indubitatamente nell' uomo, secondo la più accurata osservazione, si è che l' uomo non ha alcuna idea positiva di cosa sussistente, se non è preceduta la percezione, a cui possa riferirla. Così il cieco non ha alcuna idea positiva di colori; perchè la parola colore a lui non suona quello che gli altri uomini; e questa stessa parola egli non l' avrebbe mai inventata, se fosse anche sordo, e perciò coi suoi orecchi non l' avesse mai udita, nè percepita dagli altri uomini. E` vero che all' uomo rimane l' idea di ciò che ha percepito nel suo sentimento, anche quando la percezione è passata; ma ciò accade perchè la percezione non passa del tutto; l' uomo ne conserva la memoria, ne conserva dei vestigi nell' immaginazione, e può suscitarsene l' immagine, che non è altro che una cotale percezione interiore, un ripristinamento della percezione esterna (1). Che se la percezione fosse passata in modo che non gliene rimanesse traccia immaginaria, nè abito, l' idea stessa della cosa sarebbe spenta, perchè non gli rimarrebbe più alcuna via da riferire l' essere al sentimento, nel quale rapporto l' idea stessa, in quanto è determinata, consiste. Questo è ciò che avviene nell' uomo; vediamo se in un altro essere potrebbe avvenire diversamente. Si dice che un' intelligenza può conoscere le cose mediante le loro similitudini . Ma questo non è vero se non in un certo senso, che deve ben definirsi. Acciocchè una similitudine possa essere atta a farmi conoscere la cosa da essa rappresentata, io debbo poter fare il confronto fra essa e la cosa a cui rassomiglia; debbo rilevare quanto fedelmente le rassomiglia, e in che differisce. Altrimenti io non saprei mai che ella è una similitudine, e non anzi la cosa stessa. Ora come farò io questo confronto, se non conosco la cosa sussistente? perocchè un confronto non si fa se non col paragone dei termini. Dunque io non posso conoscere la cosa sussistente per mezzo d' una sua similitudine, se già prima io non suppongo a me cognita la cosa sussistente. Ma la cosa sussistente (trattandosi di cose contingenti) non è cognita per sè, ma per la percezione di lei. Dunque la sola similitudine della cosa non può bastare a conoscere la cosa sussistente, senza la percezione di questa, a cui si riferisce (1). E non si potrebbe conoscere una cosa data per via della sua similitudine, senza averla precedentemente percepita, quando un altro essere ci rivelasse che quella è similitudine? Rispondo: In tal caso non si conoscerebbe la cosa per la sola sua similitudine, ma con di più l' aiuto della rivelazione che farebbe un altro essere; la quale rivelazione già suppone qualche percezione. Se la similitudine fosse meramente un vestigio della cosa, ella non potrebbe dare che un' idea negativa, cioè verrebbe a produrci la persuasione che la cosa sussiste, senza farcene conoscere la natura. Se poi si trattasse di vera similitudine, in tal caso ella dovrebbe essere tale che noi percepissimo con essa la natura della cosa, e quindi dovrebbe essere una realità della stessa natura della cosa, in quanto è simile alla cosa; per esempio, se un ritratto mi fa conoscere la fisionomia d' un uomo, è perchè io percepisco lo stesso colorito, e le stesse forme del volto di quell' uomo; onde io percepisco una realità che ha gli stessi caratteri; e in quanto il ritratto differisce dall' uomo, e gli manca la estensione solida, la flessibilità delle carni, ecc., io con esso non percepisco l' uomo; poichè in ciò che gli manca di simile non è similitudine. E qui si noti bene in che la nostra questione consiste. Noi domandavamo se si può avere idea positiva d' una cosa senza alcuna percezione di essa, e dicevamo di no; ma questa necessità della percezione non si estende punto a tutti gli individui eguali o simili; basta che almeno uno ne sia percepito, e con ciò è già soddisfatto alla condizione da noi apposta, perchè si abbia l' idea positiva di tutti gli individui eguali al percepito; onde percepito un individuo, noi conosciamo anche gli altri per via di similitudine o di eguaglianza, che hanno con quello. Ciò che sosteniamo si è che, se non ne percepiamo alcuno, neppure gli altri possiamo conoscere, perchè ci manca ancora il primo simile. Ma se ci è data una percezione, allora abbiamo certo la similitudine degli altri individui percettibili allo stesso modo; e così li conosciamo per similitudine , senza percepirli. Onde resta fermo che niuna realità si conosce senza percezione, e che non si danno similitudini di cose reali, senza che la realità loro si percepisca. Di che, supponendo che ad un soggetto intelligente sieno date tali similitudini, le quali sieno atte a fargli conoscere cose reali, si viene a supporre con ciò stesso che gli sieno date percezioni interne di cose reali. Ma le percezioni di cose reali, cioè i sentimenti percepiti, in qualsiasi modo vengano acquistate o comunicate, se le cose di cui si tratta sono contingenti, non aumentano punto l' intelligibile, oggetto dell' intuizione. Dunque l' intelligibile non può essere aumentato, in qualsiasi modo gli si aggiungano determinazioni o concetti di cose contingenti e finite; ma ben può essere aumentato per l' unica via della percezione di Dio stesso, perchè la sola sussistenza divina, come dicevamo, fra tutte le sussistenze, è intelligibile per sè stessa. Perciò le diverse intelligenze si debbono distinguere non già per una diversità che cada nell' essere ideale , che le informa, ma per una diversità che trovasi nell' essere reale che le costituisce, a cui è data una diversa sfera di percezioni, siano esse native o sopravvenienti, o con i loro propri atti accidentali acquisite. E qui diamo fine a questo secondo libro della Psicologia. Ricapitolando quanto ragionammo fin qui dell' essenza dell' anima, noi abbiamo veduto che ella dimora in quel sentimento primitivo e sostanziale , che ogni uomo esprime pronunciando il vocabolo Io , e che solamente meditando su questo sentimento dell' anima si possono conoscere con sicurezza le proprietà dell' essenza dell' anima, a tal che esso fu da noi dichiarato fonte, principio e criterio di tutte le dottrine psicologiche. Noi abbiamo di conseguente esaminato questo intimo sentimento; ed egli ci ha testificato che l' anima è unica in ciascun uomo, e ch' ella è il principio di tutte le operazioni dell' umano individuo; che è semplice ed incorporea; e che non muore. Perocchè la parola morte altro non significa che quella passione che subisce il corpo, quando l' anima cessa dall' avvivarlo. All' incontro l' anima è attiva nella stessa morte patita dal corpo, essendone ella la causa negativa, col cessare da quel suo atto, che dicesi animazione. Qui ci si aperse la sottile questione dell' identità dell' anima, alla quale sembrava opporsi una triplice moltiplicità, che apparisce giacere nella natura dell' anima. Perocchè primieramente in lei si nota un principio ed un termine; di poi una pluralità di termini e molte operazioni con essi; finalmente due principŒ attivi d' indole diversissima, la sensitività e l' intelligenza. Ma noi dimostrammo che il termine non è elemento intrinseco all' anima, ma sola sua condizione, ossia essenziale relazione , onde non la può duplicare; quindi neppure la moltiplicità dei termini cade nell' anima, la quale è solo principio . Di poi, nè anche la moltiplicano le varie operazioni, non essendo esse l' anima. Finalmente trovammo che ai due principŒ attivi, che nell' anima si ravvisano, ne sovrasta uno che li regge; e in quest' uno l' identità dell' anima come in sua propria sede dimora, perocchè quel principio superiore è l' anima stessa. Appresso, noi passammo a vedere quali sieno le variazioni, a cui l' anima potrebbe soggiacere senza cessare d' essere identica, e a quali non potrebbe senza perdere la sua identità: il che ci diede buona occasione di discorrere le differenze che partono l' anima umana, da una parte dalle anime dei bruti, e dall' altra dalle pure intelligenze. Dimostrammo poscia che la natura dell' anima (come di tutte le cose contingenti) è quella di essere puramente reale, e che però la sua essenza non si può concepire positivamente senza la percezione della sua realità, o qualche di lei vestigio a cui si riferisca; ella si conosce per via di concetto , il quale è determinato, e quasi disegnato nell' essere ideale, dall' atto della mente che considera la relazione fra il reale e l' ideale. Finalmente provammo che ella è finita, appunto perchè è reale, e in quanto è reale; ma che comunica coll' infinito; perocchè ha l' essere per suo oggetto, il quale essere è come un interminabile spazio, dove ella può stendersi a suo piacere senza fine, e batter l' ali. Nella realità dunque dell' anima consiste la sua natura e la sua limitazione (ond' anche la ponemmo nel sentimento, che è appunto il reale) (1). Ora è necessario che noi ci fermiamo ad investigare ed analizzare più compiutamente questa sua limitazione. Al qual fine è uopo che noi consideriamo l' anima in relazione col corpo da lei animato; imperocchè la realità estesa e corporea è propriamente ciò che la limita, e contribuisce in pari tempo alle operazioni dell' anima. Ci applicheremo adunque nel libro presente a trattare del nesso dell' anima col corpo, e del loro scambievole influsso. Che fra le cose diverse dall' anima il corpo sia la sola realità sensibile e percepibile dall' uomo, è un fatto che si raccoglie dalla coscienza, nè ha bisogno d' altra prova che di questa immediata. Quindi noi possiamo cavare un immediato corollario importantissimo, ed è che l' anima ed il corpo sono congiunti per via di sentimento. E nel sentimento appunto noi abbiamo collocata la realità; dunque vi è fra l' anima e il corpo una reale congiunzione. Ma questa congiunzione non si deve immaginarla simile a quella che ha un corpo operante sull' altro; dove l' agire dell' uno è simile all' agire dell' altro, e il patire dell' uno è simile al patire dell' altro, e il reagire dell' uno è simile al reagire dell' altro (di che venne l' erroneo principio che « l' azione è eguale alla reazione ») (1), e quindi il tocco dell' uno è simile al tocco dell' altro. Anzi nel caso nostro trattasi di due enti di diversa natura, ciascuno dei quali agisce sull' altro a suo modo, cioè in modo diverso; e in modo diverso patisce, e in modo diverso reagisce. Ora il fatto evidente che dimostra l' unione dell' anima col corpo è il sentimento , dal quale sono escluse tutte le leggi meccaniche, che hanno luogo nell' azione mutua dei corpi; e però questa unione e questa mutua azione dell' anima e del corpo fu da noi già denominata relazione di sensilità , ed abbiamo a lungo ragionato della sua natura e delle sue leggi (2). Abbiamo altresì dimostrato che in ogni sentimento corporeo vi sono due quasi estremi, che chiamammo il senziente ed il sentito , e che il sentito è il corpo, ed il senziente è l' anima. Ora del sentito e del senziente si compone un sentimento unico, che in quanto è primo e fondamentale, è un ente unico ed indistinto. Di che procede che non solo il corpo deve essere unito all' anima e l' anima al corpo, ma l' unione deve essere quale è quella della forma colla materia. Quindi ancora confutammo direttamente le ipotesi dell' armonia prestabilita e delle cause occasionali, con questo evidentissimo argomento, che con esse noi non potremmo avere alcuna cognizione del corpo; perocchè ogni cognizione nostra del corpo si riduce a farci conoscere che il corpo è termine del sentimento dell' anima; e però nella nozione stessa di corpo s' involge come essenziale una relazione di unione coll' anima, e di reale azione e passione fra i due principŒ. Trovammo insomma l' influsso fisico nelle stesse definizioni dell' anima e del corpo (3); sicchè tolta tale unione reale, tale fisico influsso, nè l' anima, nè il corpo si può più concepire, nè nominare. Conviene per altro non dimenticare che, se l' animale è un sentimento unico, in questo sentimento però vi è il principio semplice (il senziente) e il termine esteso (il sentito). I quali due elementi formano un unico e medesimo sentimento; onde il corpo, che è il termine del sentimento, non è dato all' animale nel primo suo stato così isolato dal principio senziente, che sia per sè un sentimento separato; ma gli è dato un sentimento solo, configurato così da essere sotto un aspetto senziente, e sotto un altro sentito. Questo sentito viene poi diviso dal senziente per opera dell' intelligenza, come diremo appresso. Ma se s' intende assai bene come l' animale sia un sentimento indivisibile, dove il principio senziente, ossia l' anima, costituisce una cosa sola col termine sentito, ossia col corpo, e così è forma di questo; non è egualmente facile a spiegarsi come l' anima umana, in quanto è razionale, sia forma del corpo umano. Come adunque l' anima razionale comunica col corpo, come lo informa? Dalle cose dette più sopra viene in gran parte la risposta a questa domanda. Perocchè fu da noi dimostrato che l' anima razionale è un principio che virtualmente racchiude anche l' attività sensitiva7corporea. E S. Tommaso aveva già scritto che « l' anima intellettiva contiene nella virtù sua tutto ciò che ha l' anima sensitiva dei bruti, e la vegetativa delle piante », ed usò a spiegare il suo concetto una opportuna similitudine. « « Siccome una superficie che ha figura pentagona, non è tale per via di un' altra figura tetragona, e per via di un' altra pentagona, giacchè sarebbe superfluo il ricorrere ad un' altra figura di quattro lati, che già si contiene in quella di cinque lati, così neppure Socrate è uomo per un' anima, e per un' altra è animale; ma egli è l' uno e l' altro per una sola e la stessa anima »(1) ». Onde egli ancora afferma che « « l' anima razionale, quantunque sia una secondo l' essenza, tuttavia, a cagione della sua perfezione, è molteplice in virtù »(2) ». E tuttavia non si può negare che questo è difficile a intendere, e però noi, a meglio dichiararlo, aggiungeremo alle cose dette alcune considerazioni. E prima di tutto conviene svestire il pregiudizio che le cose siano assolutamente tali, nè più nè meno, quali appariscono ai nostri sensi esterni, e in generale che le cose percepite sensitivamente non abbiano altra entità da quella che in un dato sentimento si percepisce. E` vero che se vi è una maniera di sentire stabile, e principalmente se vi è una sola maniera di sentire, ovvero ad una sola maniera si pone esclusiva attenzione; la cosa, quale è percepita nel sentimento, diviene base di un' idea di essa, e noi le poniamo un nome significativo della sostanza della cosa, intendendo che la sostanza della cosa sia quella entità appunto, che nel sentimento abbiamo percepita (3). Ma se vi sono due o più modi di sentire una cosa, e se noi poniamo loro attenzione, incontanente ci accorgiamo che la cosa appare diversa secondo le maniere diverse di sentire. Così lo stesso oggetto è un colorito, se lo percepiamo cogli occhi, è un saporoso, se lo percepiamo col palato, è un odoroso, se lo percepiamo coll' olfatto, ecc.; e molto più grande è la differenza, se consideriamo quale sia il nostro corpo stesso, percepito cogli organi esterni come un extra7soggettivo, e percepito col sentimento interno come termine del sentimento fondamentale; di che abbiamo a lungo ragionato nell' « Antropologia ». Medesimamente i termini della nostra percezione sensitiva appaiono cose diverse, se li consideriamo rispetto a noi percipienti, e se li consideriamo in relazione fra di sè, per esempio, se consideriamo quale sia un corpo esterno relativamente ad un altro corpo esterno. Poichè, come osservammo, fra un corpo esterno ed un altro corpo esterno a cui lo paragoniamo, noi troviamo relazioni di estensione, di grandezza maggiore o minore, ecc.; ma se paragoniamo quel corpo esterno al nostro principio sensitivo, non troviamo più quelle relazioni, ma una relazione del tutto diversa da quelle, e che noi chiamammo relazione di « sensilità (1) ». Il termine adunque della percezione cangia secondo la natura del soggetto percipiente, e la maniera colla quale si percepisce sensibilmente, sicchè l' indole del sentito, come sentito, è determinata dalla natura dell' entità termine e dalla natura del senziente principio, e dal modo di sentire ecc.; cose tutte già da noi a lungo spiegate (2). Dunque ciò che un' entità è rispetto ad un sentimento, non è rispetto ad un altro sentimento, ma riesce diversa; il che è quanto dire che l' entità stessa manifesta in diverso modo la sua attività, secondo i sentimenti di cui si fa termine. La percezione sensitiva adunque prende le cose percepite secondo diverse loro attività, relative allo stesso sentire; e però ciò che una cosa partecipa di sè al sentimento, tiene assai del relativo. Ma l' intendimento all' incontro non percepisce in modo relativo, sì bene in modo assoluto, tutto ciò che percepisce. Percepire in modo assoluto è percepire l' entità stessa delle cose, non immediatamente la sensilità , l' estensione o altre attività relative. Ora è da notarsi che la sensilità , l' estensione e le altre attività relative ai diversi sentimenti, si comprendono tutte nell' entità , perchè le attività anche relative escono dall' entità. E nel vero, l' estensione è un' entità di suo genere, la sensilità è un' entità pure di suo genere, ecc.. L' intendimento adunque percepisce tali attività, in quanto tutte si riducono ad entità; le percepisce, ma non come tali precisamente, ma per quello che partecipano dell' entità; il che si dice « intendere in modo assoluto »; perocchè sia vero o no che la cosa sia estesa, sia colorata, ecc., è sempre vero che è entità, e che anche l' estensione e le qualità sensibili sono entità. Ed è perciò che l' oggetto proprio dell' intendimento è sempre vero, perchè non si ferma al relativo; ma considera il relativo stesso rispetto a ciò che ha di assoluto. Se dunque i corpi hanno fra loro una relazione di estensione, di grandezza, ecc., se rispetto al principio sensitivo hanno una relazione di sensilità , essi rispetto all' intendimento hanno una relazione di entità; e questa relazione è assoluta e necessaria, mentre le altre sono parziali e variabili. Ma se l' intendimento percepisce tutto ciò che gli è dato a percepire, in rispetto all' assoluta entità non gli è però dato da percepire altro che quello stesso che il sentimento gli appresenta. E veramente ciò che in niun modo si sente, non può percepirsi dall' intendimento. Quindi da una parte l' intendimento, quanto a sè, percepisce le cose senza alterarle, nè scemarle o modificarle; ma dall' altra le cose gli sono date a percepire, già precedentemente modificate o piuttosto composte dal sentimento limitato, che gliele presenta; ed è per questo che la cognizione delle cose riesce limitata, non perchè l' intendimento stesso la frazioni, o la componga, o la limiti. Di che appare manifesto che, se si desse un sentimento che apprendesse tutta intera l' entità reale delle cose, e non una parte, non una speciale attività, in tal caso la cosa sarebbe presentata all' intendimento da percepire, senza limitazione o frazione alcuna, e se ne avrebbe un sapere del tutto assoluto; il che può accadere trattandosi del sentimento sostanziale, che ha un ente di sè stesso. E così pure deve accadere quando l' Essere per essenza, nella sua forma reale, si comunichi all' uomo; perchè, essendo egli semplicissimo ed immutabile, non può comunicarsi che come essere; e quindi in tal caso il principio sensitivo, che lo percepisce, deve essere tale che possa percepire l' entità stessa; la quale è l' oggetto dell' intelletto. Quindi quel principio non può essere che un senso intellettivo. L' intelletto in tal caso, come senso intellettivo, sente l' entità reale, e l' intelletto stesso, come intelletto, sente la stessa entità ideale: è un ente solo reale7ideale, è una potenza sola che unisce in sè stessa due operazioni, per altro divise, del senso e dell' intelletto. Così si percepisce Iddio. L' intendimento adunque percepisce sempre assolutamente , cioè ha nozioni assolute di tutte le cose che percepisce, e di sè ha una percezione completa; ma solo percependo Iddio, percepisce veramente l' assoluto , e quindi ha un sapere assoluto (1). Conviene soltanto aggiungere che si può avere anche un sapere assoluto delle cose contingenti , quando si percepissero come sono in Dio nell' atto creatore; e un sapere pure assoluto, ma negativo , si ha delle cose, quando con una riflessione più elevata si rimuove dal sapere relativo ciò che vi è in esso di relativo. Dalle quali cose tutte noi possiamo raccogliere: Che il principio razionale non comunica direttamente colle cose, in quanto si credono sussistere fuori del senso, ma comunica colle cose sentite , colle cose quali sono a lui date da percepire nei sentimenti. Che esso comunica colle cose sentite, non già perchè queste cose sentite abbiano con lui la relazione di sensilità , ma perchè hanno la relazione di entità . Che la relazione di entità , essendo assoluta, abbraccia tutte le altre relazioni relative, ed anche quelle di sensilità . Che perciò l' anima razionale è unita al corpo, in quanto è unita al sentimento animale; e ciò perchè il sentito, oltre avere la relazione di sensilità , ha la relazione superiore ed assoluta di entità , che abbraccia anche quella di sensilità , come il più abbraccia il meno; giacchè ogni sentito è una entità determinata; ma questa relazione di entità non si manifesta che all' intendimento, il quale si estende ad ogni entità, perchè ha per oggetto l' entità stessa, l' essere per essenza. Che l' unità dell' anima e l' unità dell' uomo sta in questo principio razionale, a cui è dato da percepire quel sentito, o corporeo o di altra natura, che è dato all' uomo. E finalmente, che l' unità dell' uomo consiste in un sentimento unico, proprio del principio razionale, nel qual sentimento unico non è solamente il sentimento animale, ma anche il sentimento razionale, per modo che in questo si contiene quello, come nel più si contiene il meno; sicchè l' uomo nel primo suo stato non ha già più sentimenti, cioè il sentimento animale e il razionale, ma un unico e semplicissimo sentimento, avente un principio ed un termine. Egli ha un principio, ed è lo stesso principio razionale, ed ha un termine, che è l' idea dell' essere, e in quest' essere vede il sentimento animale, che esperimenta; giacchè nella percezione accade, per dirlo di nuovo, che del sussistente sentito e dell' essere si formi un solo ente, oggetto dell' unico principio razionale. Questa percezione primitiva e fondamentale di tutto il sentito (principio e termine) è il talamo per così dire, dove il reale (sentimento animale7spirituale) e l' essenza , che s' intuisce nell' idea, formano una cosa; e questa cosa sola è l' uomo. Ma conviene osservare che il sentimento abbraccia tutto l' uomo e ne costituisce l' unità; la percezione razionale non si estende tuttavia se non solo al sentimento animale; poichè il principio percipiente non può percepire sè stesso se non più tardi, mediante la riflessione, quando in occasione delle sensazioni esterne gli nasce il bisogno di distinguere sè stesso dal resto, che è nel suo sentimento. Onde nell' uomo, quale è naturalmente al primo istante del viver suo, vi è: 1 un sentimento unico costante7fondamentale, animale e spirituale; 2 una percezione razionale, immanente, del sentimento animale. Conviene adunque, per ispiegare l' unione dell' anima col corpo, ammettere che l' anima razionale abbia una primitiva, naturale e continua percezione del sentimento fondamentale animale; perocchè, essendo ella razionale, non può congiungersi a tal sentimento che con un atto razionale, e di tutti gli atti razionali il primo, quello che comunica immediatamente colla realità dell' ente, è la percezione. Ma sulla natura di questa percezione costante del sentimento fondamentale animale non conviene ingannarsi. Riassumiamone bene i caratteri: L' anima con tale percezione non percepisce il corpo extra7soggettivo ed anatomico, ma percepisce tutto il sentimento fondamentale7animale, tale quale egli è, indivisibile, continuo, armonico, ecc.. Quindi ella non percepisce punto il solo principio del sentimento, privo del suo termine; chè il principio, senza il suo termine, neppure esiste. Medesimamente ella non percepisce il corpo soggettivo, termine del sentimento, diviso dal suo principio, perchè la divisione mentale del termine del sentimento animale dal suo principio, non si fa che tardi, per opera della riflessione analizzante il sentimento, ma in sè non esiste il corpo sentito, diviso dal principio senziente; di che quella percezione primitiva naturale non è sufficiente da sè sola a darci la nozione pura del corpo soggettivo, perchè questo in essa non è isolato dal suo principio. Molto meno percepisce le parti del corpo separate dal tutto, ma sì il tutto nella sua perfetta semplicità ed unità armonica. Non percepisce nulla di extra7soggettivo, come forme, grandezze, limiti extra7soggettivi, ecc.. Di quella percezione, tale qual' è in principio, non possiamo avere coscienza, perchè la coscienza nasce dalla riflessione sopra ciò che passa dentro di noi, e quella percezione fondamentale è anteriore ad ogni riflessione. Rimane a cercare se nella percezione fondamentale l' anima pronunci un' espressa affermazione. Si potrebbe credere che questa fosse la nostra sentenza, rammentandosi che noi abbiamo sempre unito al concetto di percezione quello di affermazione. Ma ciò fu, perchè parlammo sempre di percezioni particolari e transeunti, alle quali sempre, o quasi sempre, si congiunge un assenso espresso dello spirito [ossia l' affermazione]. Ora però che ci è uopo considerare la percezione più in generale, diciamo che la percezione ha tre gradi: 1 apprensione, che è un' affermazione implicita o abituale; 2 affermazione espressa od attuale; 3 persuasione. La persuasione può essere anch' essa implicita ed abituale, od espressa ed attuale, secondo che nasce dall' apprensione o dall' affermazione , implicita o espressa. Questi due gradi, affermazione e persuasione, si seguono celeramente, e l' uno non può stare senza l' altro. Ma potrebbe rimanere il primo grado, cioè l' apprensione o affermazione abituale, senza l' affermazione attuale ? Così appunto accade in quella prima percezione, per la quale il principio razionale ha una continua unione col sentimento animale. Essendo questo sentimento unico, e però indistinto da altri, che ancora non ve ne sono, non avendo confini distinguibili, perchè i confini distinti del corpo nostro appartengono all' esperienza extra7soggettiva, essendo uniforme e naturale, essendo l' unica cosa percepita, perchè l' uomo non ha ancor percepito razionalmente neppure sè stesso, nè egli può attirare l' attenzione, nè l' anima ha bisogno di dir nulla a sè stessa, nè saprebbe che dire. Il che però non vieta d' ammettere nella stessa apprensione un cotal implicito ed abituale assenso a ciò che viene appreso, un' affermazione, benchè non ancora pronunciata distintamente. Che se a taluno paresse che alla semplice apprensione razionale, così da noi descritta, non convenisse il nome di percezione, e gli piacesse meglio denominarla solo apprensione razionale , noi non amiamo disputar di parole. Ma se nella percezione primitiva del sentimento fondamentale il corpo, che è il termine di questo sentimento, non è disunito, come poi l' uomo lo disunisce e distingue? Questa è un' operazione molteplice della mente, nè può farla che con una riflessione molto elevata; ed ecco i passi pei quali ella vi perviene. L' uomo mediante le sensioni percepisce prima i corpi esteriori ed extra7soggettivi, i quali gli si presentano da sè, come disuniti dal principio senziente, perchè l' uomo ben s' accorge di essere passivo rispetto ad essi, e perciò li percepisce come una forza straniera, non dipendente dall' attività del suo principio senziente e soggettivo: il che è appunto un percepirli come extra7soggettivi, ossia indipendenti dal soggetto (1). Di poi, colla meditazione ritrova che in ogni sensione prodottagli da una forza estesa extra7soggettiva vi è, oltre la forza straniera, qualche cosa di soggettivo. Meditando sulla natura di questo elemento soggettivo, trova che è una modificazione del suo proprio sentimento, un suo proprio sentire in un modo nuovo e inusitato. Dal concetto di modificazione induce che dunque anche prima di quella sensione v' era in lui un modo ordinario di sentire, che è ciò che venne modificato, e questo è il sentimento fondamentale. Ma di più osserva che la modificazione, ossia la sensione sua propria, si espande nell' estensione, e in una estensione eguale a quella, in cui si espande la forza straniera, operante nel suo sentimento. Di che conchiude che anche il sentire soggettivo ha per termine l' estensione. Di più, vede che ogni sentimento suppone un agente e una forza diversa dal principio senziente, benchè con lui indivisibilmente unita e da lui per molti rispetti dipendente. Conchiude dunque che il termine del proprio sentimento fondamentale7animale sia un corpo, perchè ha le due condizioni costituenti il corpo, la forza e l' estensione. Ancora, colle sensioni esterne trova i limiti di questo termine. Finalmente trova che lo stesso corpo proprio, termine del sentimento fondamentale, cade sotto l' esperienza extra7soggettiva, come ogni altro corpo straniero. Onde conchiude che il corpo soggettivo ed extra7soggettivo ha un' identica natura, salvo che l' uno dipende dal principio del sentimento, e l' altro no. In tal modo egli analizza la percezione fondamentale , e conchiude che un corpo è unito per essa all' anima sua razionale. L' Arabo commentatore travide qualche cosa della dottrina esposta circa l' unione dell' anima col corpo; ma l' imperfezione della filosofia aristotelica non gli consentì di cogliere il vero, e quindi propose un sistema fecondo d' errori. Egli pensò che l' anima si unisce al corpo per mezzo della specie intelligibile (1). Questa sentenza dimostra che Averroè ben s' avvide che il principio razionale non si poteva unire al corpo se non per un atto razionale; perchè se l' atto d' unione non fosse stato egli stesso razionale, l' unione non sarebbe più stata col principio razionale, ma con un' altra potenza. Ma non avendo poi conosciuto qual fosse, e di che natura, l' atto razionale pel quale avveniva il congiungimento dell' anima col corpo, pronunciò che quell' atto si faceva mediante la specie intelligibile , la quale si trova, diss' egli, sì nei fantasmi che appartengono all' organo corporeo, e sì nell' intelletto possibile. Ora è falso che la specie intelligibile si trovi nei fantasmi; e di più S. Tommaso giustamente osservò che i fantasmi sono la cosa intesa, e l' intelletto è l' intelligente. Onde con ciò non si spiegherebbe come colui che ha i fantasmi negli organi corporei, sia anche colui che li intende; perocchè chi ha i fantasmi sarebbe come la parete che ha i colori, i quali sono perciò solo nell' occhio, che li vede. Onde giustamente conchiuse che niun sistema è atto a spiegare l' unione dell' anima col corpo, se non è atto a dimostrare che quell' anima stessa, per la quale l' uomo vive, e si nutre, e sente, ed ha i fantasmi, e si muove, e intende, è la stessa anima; il che è quanto dire che il sistema richiesto a spiegare il nesso fra l' anima e il corpo deve riuscire a dimostrare l' anima razionale esser congiunta al corpo così intimamente, come la forma è unita alla materia (2). Ma dopo avere il Santo stabilita questa importante verità, che « « ipsa anima, cujus est haec virtus (intellectiva), est corporis forma »(1) », s' arresta, senza avanzarsi a proporre quale sia questo sistema. Noi volemmo adunque prendere dalle mani dell' Aquinate questo filo prezioso, e continuarne, se ci fia possibile, lo svolgimento. Vediamo più distintamente i difetti del sistema proposto dall' arabo commentatore. Quello che mancò al pensiero di Averroè si fu: Il non aver posto mente alla natura della percezione , la quale veramente congiunge in uno il percepito ed il percipiente. La specie all' incontro definita, come gli Aristotelici fanno, per una similitudine dei fantasmi, è una cosa tutta astratta e puramente intellettuale, onde non unisce punto in sè i fantasmi, e molto meno gli organi corporali, in cui essi li collocano. Di poi è falso che la specie intelligibile abbia due subbietti, cioè l' intelletto possibile e gli stessi fantasmi, perchè la specie intelligibile non è punto nei fantasmi. All' incontro della percezione è vero il contrario, cioè che il sentimento oltre essere in sè come sentimento, è anche nell' idea, come essenziale entità; dalla qual congiunzione nasce la percezione, solo che l' uomo vi aggiunga l' affermazione, più o meno pronunciata, che non è altro che una disposizione ed un movimento dello stesso principio razionale. In terzo luogo non vide il filosofo cordovese che i fantasmi non sono che modificazioni accidentali , che accadono nel sentimento fondamentale, e che perciò essi non possono essere assunti a spiegare la sostanziale unione dell' anima col corpo. Molto meno egli s' accorse delle due maniere colle quali noi percepiamo il corpo nostro, onde questo ci appare come due cose di diversa natura, benchè non sieno, le quali cose furono da noi dette corpo soggettivo e corpo extra7soggettivo . Non s' avvide che l' unione dell' anima col corpo non può spiegarsi in alcun modo, ove si parta dal concetto del corpo extra7soggettivo, che non fa conoscere l' intima natura del corpo, ma presenta solo un corpo fenomenale in gran parte, e relativo alla nostra facoltà di sentire esterna. Onde i moderni filosofi, che passano per la maggiore, come il Malebranche e il Leibnizio, non avendo conosciuto il corpo soggettivo, dichiararono l' influsso fisico impossibile, e inventarono le ipotesi delle cause occasionali e dell' armonia prestabilita. Quindi medesimamente ignorò che il corpo, come da prima aderisce all' anima, non è isolato, ma le aderisce, perchè inchiuso nel sentimento fondamentale, di cui è termine; il qual sentimento si fa oggetto di quella prima percezione, per la quale il principio razionale col corpo comunica. Finalmente la specie intelligibile non è un atto ella stessa, ma un oggetto contemplato dall' anima, che è l' osservazione dell' Aquinate, e l' anima razionale deve unirsi al corpo con un suo proprio atto; perocchè, quand' anche fosse unito l' oggetto della sua intuizione, non sarebbe però unita ella stessa, perchè l' oggetto da lei intuìto non è ella stessa intuente. Dall' errore di Averroè, che la specie intelligibile sia il mezzo di comunicazione fra l' anima ed il corpo, ne dovevano venire, e ne vennero, le più strane conseguenze. Posciachè la specie intelligibile è un' idea pura, e gli Arabi ebbero fatto gli stessi fantasmi subbietto di essa; e posciachè ebbero posto che per quella specie l' anima comunica coi corpi, ne doveva conseguire che attribuissero all' intelletto ed alla fantasia, entrambi subbietto della specie intelligibile, una strana potenza sui corpi; e non solo sul corpo proprio, ma anche sui corpi stranieri e lontani, di cui si avessero i fantasmi, benchè attualmente non si percepissero. Incontro alla quale assurdità quella scuola non retrocesse; tanta è la forza dei falsi principŒ idoleggiati! Quindi Avicenna (1) dichiarò che l' anima umana, col mezzo di una forte immaginazione, poteva trasmutare non solamente il proprio corpo, ma anche un corpo straniero, farlo ammalare, farlo risanare, produrre gragniuole, nevi, venti, cavare insolite virtù dalle stelle, scavalcare un cavaliero lontano, e cacciarlo in un pozzo, fare che nasca una pianta senza seme, o che si generi un uomo senza uso degli organi generativi! E le stranezze medesime si attribuiscono al mauro filosofo Avicembrone, e ad Algazele (2). Agli stessi errori stranissimi pervennero i Platonici per altra via, confondendo il reale coll' ideale , facendo cioè che le idee sieno sussistenze; ed altri filosofi misti di platonismo e di aristotelismo (3). Per costoro la specie intelligibile e i fantasmi operavano meraviglie, e così spiegano i prodigi di Apollonio Tianeo, e tante altre meraviglie narrate dagli storici, parte delle quali furono probabilmente illusioni del sonnambolismo artificiale. E qui possiamo dire anche una parola a favore di Cartesio. Quand' egli disse: « « Io penso, dunque esisto » », travide una verità. L' anima umana infatti pensa sempre, anche perchè ha la percezione immanente. Cartesio dedusse che l' anima doveva pensar sempre, perchè nel pensare sta il concetto dell' uomo, o per dir meglio, nel concetto dell' uomo c' è il pensare. Doveva dunque parlare Cartesio d' un pensare immanente, e non di atti transeunti del pensiero, i quali non proverebbero che l' esistenza d' un soggetto transeunte con essi; doveva altresì parlare d' un pensare umano, cioè tale che caratterizzasse l' uomo, il che non poteva essere l' intuizione dell' essere, che non involge alcun nesso col corpo; doveva parlare d' un pensare proprio del soggetto uomo, composto di anima e di corpo. Questo pensare immanente non è altro che la percezione primitiva, nella quale sta il nesso dell' anima razionale col corpo. Subodorò dunque il vero, ma non lo colse, nè trovò parole che lo rendesse palese. Quindi ancora, quando il Romagnosi ed altri sostituirono all' argomento di Cartesio quest' altro: « « Io sento, dunque esisto » », non penetrarono la forza che poteva avere quel detto. E veramente l' argomento: « « Io sento, dunque esisto » », non vale cosa alcuna a provare l' esistenza dell' uomo; vale tutt' al più a provare l' esistenza d' un essere sensitivo. Ma perchè sia provata l' esistenza dell' uomo conviene ricorrere ad un atto proprio dell' uomo, composto d' intelligenza e di animalità, ad un atto del principio razionale. E poichè l' esistenza dell' uomo non si prova che provandosi sussistente l' essenza dell' uomo, dunque si doveva ricorrere ad un pensiero immanente, perchè l' essenza non muta. Il detto di Cartesio così spiegato riceve lume, e forza il suo ragionamento; esso prova che l' essenza dell' uomo sta in un atto immanente del pensiero, ma non dice di qual pensiero. Certo non può essere d' un pensiero qualsiasi, ma deve esser di quello che descrivemmo, e chiamammo percezione naturale e primitiva. Dichiarata così la natura dell' anima razionale in quanto è causa formale dell' uomo, rimane a dichiarare altresì come la stessa anima razionale sia causa efficiente delle operazioni umane. La causa formale è quella che costituisce e pone un ente in essere, e lo conserva; la causa efficiente è quella che lo fa operare. L' anima razionale adunque, come causa formale, pone in essere l' uomo e lo conserva; come efficiente, lo fa operare. Ma qual' è la relazione fra la causa formale e l' efficiente? E` chiaro che la ragione dell' operazione di un ente si deve cercare nella sua forma, perchè la forma dà l' essere, e ogni cosa opera secondo il suo essere, giusta l' antico detto (1). Onde S. Tommaso prova che l' anima è forma del composto, appunto perchè ella è principio prossimo di tutte le operazioni del composto. « Quo aliquid est actu eo agit , « Ogni cosa opera con quell' elemento che la fa essere quella che è. Ora è chiaro che quel primo che , onde il corpo vive, è l' anima. E manifestandosi la vita secondo operazioni diverse nei diversi gradi degli esseri viventi, quel che , col quale prima che con ogni altro operiamo ciascuna di queste opere vitali, è l' anima. Poichè l' anima è quel primo che , col quale ci nutriamo, e sentiamo, e ci muoviamo di luogo, e simigliantemente col quale intendiamo. Dunque questo principio col quale prima intendiamo, o si dica intelletto , o si dica anima intellettiva (noi la chiamiamo razionale ), è la forma del corpo »(1). » Conviene adunque trovare l' origine delle operazioni dell' anima e delle potenze, a cui le operazioni si riducono nella forma dell' uomo. Ma quanto alla specificazione delle potenze umane uscenti dalla forma dell' uomo, noi dobbiamo parlarne nella seconda parte, che descrive lo sviluppo dell' anima stessa. Qui dobbiamo solo compire il ragionamento incominciato del nesso dell' anima col corpo, e per compirlo, dopo aver noi esposto come l' anima è unita al corpo quale forma di lui, che mette in essere il composto uomo, dobbiamo spiegare altresì il commercio dell' anima col corpo , spiegare cioè come l' anima possa produrre dei movimenti nel corpo, anzi com' ella sia l' unica causa di tutti i movimenti che produce l' uomo nel proprio corpo. Ripigliando adunque il detto, l' anima è unita al corpo non pei fantasmi, non per le specie intelligibili, cose che non sono atti dell' anima, ma sì per una percezione fondamentale, costante, intera del sentimento fondamentale. Ora partendo da questo principio, vediamo come esso ci possa condurre a spiegare l' azione dell' anima razionale sul corpo da lei informato, e medesimamente la sua passività. Che cosa è percepire un sentimento sostanziale? - E` identificare il reale (sentimento), coll' essenza dell' essere (intuìto dall' intelletto); è un atto dell' anima razionale, col quale ella apprende la realità in rapporto coll' idea; è un percepire insomma l' ente medesimo sotto due forme ad un tempo. Poichè l' ente è identico sotto la forma ideale e sotto la forma reale, e solo ne varia il modo, quindi fa mestieri solo d' una potenza a percepirlo; e questa è il principio razionale, in cui sta l' unità del soggetto uomo. Il principio razionale adunque attinge l' ente sotto le due forme, perchè egli è la facoltà dell' ente ; e però dell' ente sotto tutte le forme nelle quali egli si comunica. Il principio razionale non può già apprendere il sentimento solo, perchè il sentimento tutto solo non è manifestativo dell' ente , che è il proprio oggetto della ragione. Ma il sentimento unito all' essere (intuìto dalla mente) acquista natura di ente, o certo è manifestato come tale; quindi così diviene oggetto della ragione (1). Si deve dunque considerare il sentimento in due modi: o da sè solo, e così considerato, egli è fuori dell' ordine razionale; perciò lo si conviene attribuire ad un' altra potenza, ad un altro principio, al principio senziente, irrazionale: o unito all' essenza dell' essere e nell' essenza dell' essere, per via di percezione razionale, e così unito all' essere è già divenuto per noi ente, è entrato nell' ordine razionale; appartiene alla ragione (2). Dunque nello stesso ordine razionale vi è il sentimento, ma ad un' altra condizione, a condizione ch' egli sia divenuto ente, cioè che sia identificato coll' essenza dell' ente veduta nell' idea. Trovato il modo e la condizione, alla quale il sentimento fondamentale entra nel principio razionale, quasi in suo subbietto, non è più difficile a spiegare come questo principio razionale possa anche agire nel corpo, e dal corpo altresì patire. E veramente il principio razionale è dotato indubitatamente di attività; questo si deve supporre, o piuttosto credere alla certa esperienza. La difficoltà non istava qui: stava nello spiegare come al principio razionale potesse esser dato l' oggetto, sul quale esercitare l' attività sua propria. Il principio razionale non può operare se non in un oggetto che sia il suo. Trovato dunque il modo come il sentimento animale possa essere ricevuto nel principio razionale, la maggior difficoltà è superata. Ma questo modo non poteva essere che nella percezione di esso sentimento sostanziale, perchè ogni altro nesso o non sarebbe un vero nesso fisico, o non sarebbe un nesso razionale ; e perciò non ispiegherebbe la connessione reale del corpo con un principio razionale. Si consideri che la percezione è una vera congiunzione fisica del percipiente e del percepito, dove vale quel che dicevano gli Scolastici: « ex intellectu et intelligibili fit unum »; il che, riducendosi ad espressione precisa, deve tradursi così: « ex percipiente et percepto fit unum ». Questo contatto delle due sostanze, benchè di natura diversa dal contatto dei corpi, questo contatto che S. Tommaso chiama « contactus virtutis », fa nascere una cotale continuazione fra esse due sostanze, fa che l' una sia nell' altra, e quindi anche mette l' una nella sfera d' azione dell' altra. Così quando io con una mano alzo di terra un corpo e lo trasporto da un luogo all' altro, è perchè il corpo che aderisce alla mia mano, è divenuto come una continuazione della mia mano, di che accade che il moto della mia mano si comunichi al corpo. Il simile avviene nella percezione prima e fondamentale rispetto al sentimento sostanziale. Consideriamo adunque come questa percezione fondamentale ci possa spiegare l' azione, che esercita l' anima razionale sul corpo, non meno che l' azione, che esercita il corpo sull' anima razionale. L' oggetto della percezione, di cui parliamo, è il sentimento fondamentale7animale. Ora questo sentimento ha un principio ed un termine , che sono il senziente e il sentito. Il termine, cioè il sentito, è il corpo soggettivo. Il senziente poi è quel principio dalla cui attività, quando è posta in essere, dipende il sentito; il senziente è l' attivo, e il sentito è il passivo. Infatti nei bruti il principio che produce le modificazioni e mutazioni spontanee nei loro corpi, è il senziente, che in essi acquista nome di anima sensitiva. Posto adunque che l' anima razionale dell' uomo, mediante la detta percezione, sia unita realmente con tutto il sentimento animale, consegue che ella sia unita sì col senziente che col sentito; i due elementi da cui quel sentimento risulta. Ma il senziente ha natura attiva; dunque, potendo l' anima razionale esercitare la sua attività sul senziente, senza potergli per altro cangiare la natura, ella può divenire attiva sul sentito, appunto perchè può operare sul senziente. Il sentito all' incontro ha per sua natura di essere passivo verso il senziente, che è quello che lo mette in atto come sentito. Dunque l' anima razionale, non potendo percepire il sentito che come termine passivo del senziente, conviene che lo riceva tale qual è; e perciò non può modificarlo se non movendo il senziente. Quindi accade che, non potendo l' anima razionale modificare immediatamente il sentito, non può che apprenderlo; il che spiega come ella in ricevere i sentimenti e le sensioni tutte si dimostri passiva; non che ella sia passiva veramente, ma poichè tali sensioni sono passive dal principio senziente e in questa passività consiste la loro natura, perciò elle non possono essere immediatamente modificate dal principio razionale, ma solo essere da lui apprese. Così si spiega mediante la percezione del sentimento fondamentale non meno l' attività dell' anima sul proprio corpo, che quella specie di passività ch' ella mostra avere da esso; e se ne ha questa formula rilevantissima, che « l' anima razionale è tanto attiva sul proprio corpo, quanto è attiva sul principio sensitivo », e non più. Dall' avere dimostrato come l' anima razionale unita al corpo soggettivo, possa essere attiva su questo, si trae agevolmente com' ella possa essere medesimamente attiva sul corpo extra7soggettivo, e produrvi i movimenti, quali extra7soggettivamente si percepiscono. Basta a ciò rammentarsi quanto fu detto nell' « Antropologia » sulla relazione dei due corpi, e delle due serie di fenomeni che presentano. Quei due corpi non sono che uno solo diversamente percepito; l' identità del corpo soggettivo ed extra7soggettivo fu da noi ampiamente provata (1). Che se ivi noi dichiarammo di non considerare i fenomeni extra7soggettivi come effetti dei soggettivi, ma solo come una serie parallela ed armonica, ciò dicemmo perchè a quel nostro ragionamento bastava il considerarli così, senza inoltrarsi in altre ricerche; e rimane vero che i fenomeni soggettivi non sono la causa dei fenomeni extra7soggettivi, ma le due serie hanno una causa prossima nel principio senziente, e una causa remota nell' attività dell' anima. Oltre di che gli extra7soggettivi risultano in parte dalle relazioni del corpo coi cinque organi speciali della sensitività esteriore. All' attività naturale e radicale di un ente gli antichi davano nome di natura . Quindi dicevano che la natura di un ente tende sempre a conservarlo e a perfezionarlo, non mai ad alterarlo e distruggerlo. Tommaso Fieno, non ignobile filosofo d' Anversa, prova, movendo il suo discorso da questo principio, che l' anima non può direttamente per sè stessa muoversi a produrre nel proprio corpo dei movimenti a lui dannosi. « « L' anima è una natura. Ora la natura è certo principio di moto nelle cose naturali, ma non è principio di ogni moto, ma solo di quello che alla cosa naturale compete; e perciò ella non è principio attivo di alterazione »(1). » Dunque l' anima non può alterare il proprio corpo. Su questo principio Ippocrate fondava la medicina, nella forza cioè della natura, che tende sempre a migliorare e non a guastare, [...OMISSIS...] . La quale dottrina tuttavia sembra in parte contraria a quanto dicemmo nell' « Antropologia », dove distinguemmo nell' uomo le « forze medicatrici e le forze perturbatrici (2) ». Ma conviene osservare che le forze perturbatrici non appartengono alla sola natura animale , ma sì ad altre cause che agiscono in essa e la perturbano, come mostreremo più estesamente fra poco. L' uomo non è solo animale; egli ha l' intelligenza, la quale spingendosi a beni via oltre la sfera dell' animalità, può questo solo cagionare alterazioni nell' animalità disordinata. Oltre di che, essendo l' uomo libero, egli ha il potere di pervertire sè medesimo, e così nuocere alla propria animalità, e anche distruggerla; perocchè la natura libera si sottrae alla legge indicata d' esser principio di soli movimenti conservativi ed utili, la quale non vale che per le nature che operano con necessità, non per quelle che operano liberamente. Così noi abbiamo trovata la radice, e per così dire, il fonte generale di tutti i vari effetti, che gli atti dell' anima razionale producono nel corpo; l' abbiamo trovata nella stessa percezione immanente di tutto l' intero sentimento fondamentale, che l' uomo ha per natura; in quella percezione che lega stabilmente l' anima razionale al corpo, e ne fa un solo soggetto. E questa è altresì la chiave da aprire il segreto di quella misteriosa efficacia che hanno gli atti secondi, parziali e transeunti dell' anima razionale sul corpo. Non sarà vano il farne parola, raccogliendo i fatti che l' esperienza ci somministra. Cominciamo dal fare un cenno della questione: « se l' intelletto puro possa nulla sul corpo ». L' intelletto puro differisce dal principio razionale solo in questo, che lo stesso principio, in quanto intuisce l' essere ideale, che eccede ogni realità finita, dicesi intelletto , e in quanto percepisce qualche realità e conseguentemente ragiona, dicesi principio razionale o ragione . Domandasi adunque se il principio intellettivo ha qualche efficacia sul corpo, anche prescindendo affatto dagli atti di percezione e di ragionamento. Ed è facile scorgere che direttamente egli non può esercitare sul corpo alcuna azione; perocchè il suo concetto esclude ogni comunicazione col corpo; chè si chiama intelletto, in quanto l' oggetto suo eccede ogni finita realità, che gli sia data da percepire. Tuttavia, se si considera che l' intuizione dell' essere è ciò che informa quell' anima, che è anche razionale, e che perciò comunica col corpo, è consentaneo il supporre che quella intuizione contribuisca a far sì che l' anima unita al corpo sia diversamente disposta da quel che sarebbe, se non avesse l' intuizione dell' essere. E poichè, come vedremo, l' anima presiede alla stessa organizzazione del corpo, pare certo che un' anima intellettiva organizzi il corpo in modo diverso da un' anima meramente sensitiva, e lo faccia atto a sè stessa, sempre operando come forma del principio razionale. Conciossiachè il principio intellettivo, avendo una perfetta unità col razionale, deve poter produrre unità ed armonia anche nell' oggetto della sua percezione e nel corpo compreso in questo oggetto. Di più, è da dire che l' intelletto contribuisca a tutte quelle modificazioni del principio razionale, e conseguentemente del corpo, che avvengono per via di cognizione e di affetti, aventi per oggetti cose al di là della sfera sensibile ed animale (1); le quali cognizioni ed affetti sono potentissimi sia a vantaggio, sia a danno del corpo stesso, sì fattamente che a questa potenza eccedente l' animalità deve attribuirsi lo stesso suicidio, che non ha luogo nei bruti, ma solo nell' uomo. Ma poichè la causa prossima di tutti questi effetti è finalmente il principio razionale, parliamo di questo. La prima questione che si può fare, si è: « quanta sia la potenza del principio razionale sul corpo ». Rispondiamo che il principio razionale, per sè considerato, può di assoluta potenza produrre nel corpo da lui informato tutti quei movimenti, che può produrre nel medesimo il principio senziente col quale immediatamente comunica. E dico di assoluta potenza , perchè altro è ch' egli possa produrre tali movimenti, considerata la sua natura e il suo nesso col principio senziente, ed altro che egli li produca sempre, senza distinzione di circostanze. Certo, affinchè la potenza che ha il principio razionale di muovere le diverse parti del corpo passi all' atto, è mestieri che si avverino alcune condizioni, delle quali parleremo in appresso. Che se queste condizioni mancano, pare che l' anima razionale sia impotente a cagionare quei movimenti, o le riescono più o meno difficili ad ottenere. Venendo dunque ad esaminare quale efficacia possa esercitare sul corpo il principio razionale coi suoi atti speciali, noi diremo che esso immuta il corpo con due maniere di attività; cioè operando come intelligenza , e operando come volontà . Il primo atto del principio razionale si è la percezione speciale. E qui tosto ci si fa innanzi un fatto singolare. Appena i nostri sensi sono percossi da qualche stimolo corporeo, incontanente l' anima razionale si muove a fare l' atto della percezione. Onde tanta prontezza? Onde questa spontaneità di movimento? Se l' impressione non movesse che il solo senso, il principio razionale non saprebbe ancora che egli ha una sensazione, o un corpo da percepire, e però non si potrebbe muovere a percepirlo. Ma questo fatto diviene chiarissimo, quando si ricorre alla percezione fondamentale. Se è vero che l' anima razionale percepisca continuamente il sentimento animale tutto intero, e ciò per legge di sua natura, è evidente che deve percepire anche le mutazioni, che accadono violentemente in questo sentimento, e la forza che le produce, cioè il corpo stimolante. Di poi s' affaccia l' altra questione: « l' anima nella percezione esercita qualche attività sul corpo? ». Consideriamo prima la percezione sensitiva, qual' è nei bruti, e poscia la percezione razionale. La percezione sensitiva si fa naturalmente e spontaneamente, come abbiamo altrove spiegato, perchè il sentimento fondamentale sente necessariamente le proprie modificazioni (1). Questa operazione al cominciamento, quando l' animale non ha ancora alcuno sviluppo, accade secondo quella stessa legge di spontaneità, per la quale il principio sensitivo invade il sentito (2). In appresso il principio sensitivo acquista un abito che aumenta la sua attività, e anche questo in virtù della stessa legge di spontaneità, onde accade che il principio sensitivo s' immerga di più, per così dire, in ciò che gli riesce piacevole, e rifugga di cooperare a ciò che gli torna doloroso. Quindi noi vedemmo che nella percezione sensitiva vi può essere più o meno d' intensità, più o meno d' attività del principio senziente (1). E tuttavia questa maggiore intensità di certi sentimenti, prodotta dall' attività del principio senziente ed istintivo (2), non pare che sia un effetto immediato di esso principio, ma effetto ottenuto per via di movimenti intimi da lui prodotti nell' organo sensorio, e perciò mediante un' azione sul corpo. Venendo ora al principio razionale, e ritenendo ch' egli possa sul corpo tutto ciò che può il principio senziente7istintivo, da lui percepito e dominato, dovremo dire che il principio razionale nella percezione possa modificare l' organo sensorio, movendo il principio sensitivo a prestarsi ad una percezione più intensa. Accade poi ancora che il principio razionale percepisca più intensamente e distintamente coll' aumentare la sua attenzione razionale . La qual maniera di operare, se non rende più intensa la percezione in quanto è sensitiva, l' accresce in quanto è razionale. E tuttavia non è improbabile che anche l' attenzione più o meno intensa dello spirito intelligente produca nel corpo certi minimi movimenti, per la ragione detta dinanzi. Le immagini sono sensioni interne, riproduzioni delle esterne. Esse ricevono, comunemente parlando, dalla memoria o ritentiva delle sensazioni avute innanzi l' attitudine di servirci di segno d' un corpo esterno, del quale crediamo di vedere in esse quasi il ritratto sensibile. Ora, perchè mai alle sensazioni sole è per lo più serbato di provocare la nostra percezione dei corpi esterni, e non ai fantasmi, se non aiutati dalla memoria di quelle? L' attitudine delle sensioni, a preferenza dei fantasmi, a farci percepire i corpi esterni è dovuta a due loro proprietà, cioè: Nelle sensioni si percepisce il corpo straniero, stimolante e immutante con violenza il nostro organo sensorio dalla sua parte esteriore; il che non avviene nelle immagini, le quali non sono eccitate da alcun corpo straniero al nostro, ma da stimoli e movimenti interni del nostro proprio corpo, onde gli stessi stimoli, gli stessi movimenti o non si sentono o si sentono soggettivamente, o per lo meno non si sentono con egual costanza degli stimoli esterni. Le sensazioni molte e diverse, attesa la moltiplicità dei vari organi, possono essere ripetute, e quindi si può percepire ed esperimentare lo stesso corpo straniero con vari organi, quante volte si vuole; onde avviene che in esso si riconosca una virtù costante di produrre sensazioni; ed è questa costante potenza, che dà il concetto d' una sostanza permanente corporea. All' incontro nei fantasmi non hanno luogo tali esperienze (1). Ciò nonostante, dopo che abbiamo i concetti dei corpi per mezzo delle sensioni esterne, anche i fantasmi ce li rappresentano facilmente, perchè altro non sono che le sensioni stesse internamente risuscitate; alle quali noi uniamo prontamente il concetto del corpo, formatoci già prima coll' esperienza esteriore. Il che supposto, rimane a spiegare onde ci venga questa inclinazione d' aggiungere l' idea al fantasma. Perchè aggiungiamo noi al fantasma di una pietra l' idea d' una pietra, pur sapendo che la pietra di cui abbiamo il fantasma non è presente, nè percettibile? Perchè questa associazione spontanea e naturale fra i fantasmi e le idee corrispondenti? (2). La ragione si è quella stessa in fondo, con cui abbiamo spiegata la spontaneità delle percezioni dei corpi esterni. Essendo il principio razionale unito per una percezione naturale e continua al nostro proprio sentimento fondamentale7animale, esso è sempre attuato a percepire intellettivamente ogni mutazione che avvenga in lui. Solamente che il percepire la mutazione, che accade nel sentimento fondamentale, non basta a spiegare come a questa mutazione s' aggiunga l' idea d' un corpo esteriore. Ma ciò accade, come dicevamo, per l' associazione dei fantasmi colle sensioni esterne corrispondenti e coll' idea del corpo, che per esse ci siamo già formata; la quale associazione diviene abituale, e però pronta ad operare. Ora i bambini, nel primo tempo, quando non si sono ancora fatte le idee dei corpi esteriori, e in cui non sono ancora associate le idee di questi corpi ai fantasmi, non è a credere che, ad ogni fantasma che sia suscitato in essi, pensino un corpo. Il principio razionale diviene più manifestamente attivo sul corpo con quella funzione, con cui egli richiama in atto e compone cognizioni positive , che si conservano abitualmente in esso. Perocchè le cognizioni positive sono quelle che risultano dai due elementi, dell' idea e del sentimento o dei suoi vestigi. Ora l' anima razionale per richiamare all' atto di sua attenzione quelle cognizioni, deve esercitare un' azione sul sentimento corporeo . Supponiamo che questo sentimento appartenga ai fantasmi; l' anima spiega dunque il potere di risuscitare i fantasmi, i quali non si possono ridestare senza rinnovare il movimento dell' organo cerebrale (1). Certi fisiologi, che si conoscono assai poco di Psicologia, non dubitarono di chiamare il cervello organo del pensiero. Il vero si è che il pensiero puro non ha organo, e che il cervello non è altro che l' organo dell' immaginazione corporea . Ciò che produce l' errore di tali fisiologi si è il fatto della prontezza, con cui l' anima all' immagine associa l' idea . La rammemorazione dunque delle notizie positive e la loro ricomposizione si fa col rieccitare più o meno le immagini; al quale rieccitamento rispondono nell' ordine extra7soggettivo i movimenti nelle fibre del cervello. Ora quanto possa il principio razionale a suscitare le immagini, e comporle in vari gruppi, e rinforzarne la vivezza (il che dipende dalla forza del concetto intellettivo, e dei sentimenti e passioni, che muovono l' intendimento), ella è cosa conosciuta e da molti trattata. Il pensiero di ciò che si concepisce come bene, muove immagini gaie e ridenti, e il pensiero di ciò che si concepisce come male, muove immagini tristi e spaventose; le une e le altre possono addurre l' uomo ad una gaiezza o tristezza estrema. La ragione poi, onde l' uomo veste le idee d' immagini analoghe ad esse, è quella medesima, per la quale le immagini provocano i pensieri dell' intelligenza: ella si giace nell' associazione indicata fra le immagini e le sensazioni, e fra le sensazioni e le idee; si prende l' immagine in luogo della sensazione, alla quale è naturalmente unita la percezione intellettiva del corpo esterno, e in questa è compresa l' idea positiva. L' uomo dunque, come essere intellettivo7sensitivo, vuole un pensiero composto d' intuizione e di sensione; nè il suo pensiero è completo se non risulta d' entrambi questi elementi. Ora questa funzione, per la quale il concetto chiama l' immagine, l' immagine chiama il concetto, è da noi detta forza sintetica umana . Tutti questi fatti si spiegano con somma facilità mediante la percezione fondamentale. Dagli oggetti percepiti sorgono nell' uomo sentimenti o lieti, se l' oggetto è percepito come un bene, o tristi, se è percepito come un male. Questi sentimenti noi li chiamiamo sentimenti razionali (o intellettuali , se nascono dalla intuizione dei concetti puri), per distinguerli dai sentimenti animali , che non richiedono, per esistere, alcun uso di ragione, ma solo il senso e l' istinto. Vediamo, sempre colla guida dell' osservazione interna, quale sia l' attività di questi sentimenti razionali nell' immutare il corpo soggettivo, e conseguentemente nel produrre movimenti extra7soggettivi. Primieramente osserviamo che l' oggetto della notizia, che muove il sentimento, può essere diverso dal soggetto, e può anche essere lo stesso soggetto, in quanto egli è contemplato come oggetto. Queste due classi di sentimenti razionali si possono chiamare oggettivi e soggettivi7oggettivi . Il sentimento semplicemente oggettivo sorge nel soggetto razionale ogniqualvolta egli apprende un' entità qualsiasi, perocchè di ogni entità appresa egli naturalmente s' allegra; ed è per questo che l' ente e il bene si convertono secondo la maniera di dire degli Scolastici (1). Quindi tal sentimento diviene naturalmente maggiore in ragione della entità, la quale se è massima, massimo diletto produce alla mente. Il sentimento soggettivo7oggettivo sorge allorquando il soggetto percepisce un bene o un male di sè stesso. Conviene dichiarare che cosa sia il bene e il male d' un soggetto, e propriamente del soggetto uomo. In generale il bene del soggetto7uomo è uno stato o un atto piacevole, il male è uno stato o un atto doloroso. Piacere e dolore (parole che prendiamo nella massima estensione di significato) appartengono al sentimento. Il bene dunque e il male del soggetto uomo sono sentimenti piacevoli e dolorosi. Ora fra i sentimenti piacevoli e dolorosi di un soggetto razionale, altri sono intellettivi, come è quello che abbiamo detto nascere da ogni oggetto della mente, altri sono animali, molti sono misti d' entrambi. Allorquando dunque il principio razionale percepisce un bene suo proprio, tosto è prodotto il sentimento della gioia razionale; quando percepisce un male suo proprio, tosto è prodotto il sentimento della tristezza pure razionale. Di più, il sentimento soggettivo7oggettivo della gioia e della tristezza nasce nell' uomo non pure allorquando egli percepisce intellettivamente il proprio bene o il proprio male, ma ancora quando percepisce qualche cosa, che ha virtù di cagionargli questo bene o questo male, di accrescerlo o diminuirlo. Adunque il sentimento soggettivo7oggettivo è quello che sorge nell' uomo in conseguenza della notizia del proprio bene e del proprio male, o delle loro cause. Quindi rilevasi che i sentimenti soggettivi7oggettivi seguono gli ordini della riflessione; di modo che si possono distinguere tanti ordini di sentimenti soggettivi7oggettivi (piacevoli o dolorosi), quanti sono gli ordini della riflessione che può fare l' uomo, e il numero di questi ordini è indefinito. Così, dopo che io mi sono rallegrato nella contemplazione di un ente, riflettendo sopra me stesso, posso godere di quel mio rallegramento; e questo godere può esso stesso essermi cagione di diletto e di compiacimento, se a lui nuovamente rifletto; e così si dica di questa nuova compiacenza; e via in infinito. Ora noi possiamo considerare tutti questi sentimenti razionali, oggettivi semplicemente o soggettivi7oggettivi , in due modi: prescindendo affatto dall' influsso che può esercitare su di essi la volontà, o in quanto vengono modificati dall' azione della volontà. Se si considerano in sè stessi, prescindendo dall' influenza della volontà, essi seguitano certe leggi necessarie, che provengono dalla natura dell' oggetto e del soggetto, e si riducono alle seguenti. I sentimenti semplicemente oggettivi hanno per legge di essere tanto maggiori, quanto è maggiore l' ente contemplato che li produce. Essi costituiscono la facoltà universale, che ha l' uomo di amare oggettivamente : l' uomo, secondo natura, ama ogni ente, più il maggiore e meno il minore. Le leggi, che presiedono ai sentimenti soggettivi7oggettivi , sono più complicate; poichè nascendo tali sentimenti dal bene e dal male, che l' uomo percepisce razionalmente in sè stesso, o dalle loro cagioni, questo bene e questo male nel soggetto uomo risulta da più elementi, cioè: 1) dal bene e dal male animale ( sentimenti animali ); 2) dal bene e dal male intellettuale ( sentimenti oggettivi e sentimenti soggettivi7oggettivi ); 3) dal bene e dal male morale. Il principio razionale percepisce tutti questi beni e tutti questi mali, la cui fusione produce quel bene e quel male complesso, di cui l' uomo si rallegra o s' addolora. Ora la percezione di questo bene o di questo male complesso, che anch' essa è, quasi direi, la fusione di più percezioni, si fa dall' uomo più o meno perfettamente, secondochè ha natura più o meno perfetta, e più o meno perfezionata. Sarebbe lungo il descrivere come la percezione di quelle tre specie di beni e di mali soggettivi sia più perfetta, più che la natura umana è perfetta in sè stessa, o s' è resa più perfetta mediante il suo fisico, intellettuale e morale sviluppo. Lasciando questa ricerca, che troppo a lungo ci condurrebbe, noi possiamo ridurre ad una sola formula generale le leggi, che presiedono alla formazione naturale dei sentimenti soggettivi7oggettivi. E questa formula si è che « l' uomo riceve sentimenti gaudiosi o tristi in proporzione della percezione naturale dei propri mali e dei propri beni; percezione che può essere più o meno giusta, secondo che nella sua natura prevale la luce intellettuale e il sentimento morale al sentimento animale, o viceversa, come pure può essere più o meno vivace ed efficace ». Premesse queste cose, vediamo in che modo il principio razionale coi diversi sentimenti suoi propri influisca nel sentimento animale , e mediante questo sentimento produca certi movimenti nel corpo. I sentimenti razionali procedono sempre da una intellezione. Ora le intellezioni della mente umana possono primieramente essere così astratte dallo spazio e dal tempo che sieno immuni da ogni immagine corporea, e però non hanno bisogno a formarsi di alcun organo corporale: tale almeno è l' idea dell' essere in universale. Ora un pensiero così puro e immateriale può egli cagionare qualche sentimento? Distinguiamo i diversi accidenti d' un tal pensiero. Il primo accidente si è che, quantunque l' oggetto di un pensiero sia per sè stesso puro da ogni immaginazione corporea, tuttavia l' uomo, tendente per natura ed abituato a rappresentarsi ogni cosa per via d' immagini, associa facilissimamente, come vedemmo, all' atto di quel pensiero qualche altro atto, col quale suscita in sè immagini più o meno delicate e sottili, che vestono l' oggetto e glielo fanno apparire, com' egli crede, più luminoso, benchè nel vero glielo contraffanno. Ora noi dobbiamo rimuovere questo gioco dell' immaginazione, perocchè la questione nostra riguarda la pura idea. Il secondo accidente si è che l' uomo, essendo un soggetto molteplice, cioè un principio di molte facoltà, o non mai, o difficilissimamente, muove una facoltà sola. Ora, se si tratta non del semplice intuire, ma di pensare riflessamente all' oggetto dell' intuizione, è impossibile ch' egli muova questa riflessione senza trarre in azione alcun' altra facoltà. Quindi non dubito che il solo sforzarsi a contemplare l' idea pura, e più ancora lo sforzarsi a far tacere in noi ogni altra attività, è già un mettere in moto quelle potenze, a cui vogliamo imporre la quiete. Onde l' uomo non potrà ripensare l' idea pura, senza qualche gioco delle fibre del cervello, qualche contenzione di quest' organo, la cui modificazione segue quella della mente, come uno strascico, non voluto, dell' azione di lei. Neppure l' operazione di altre facoltà, che per accidente accompagna l' atto puro della mente, deve entrare nel nostro calcolo, giacchè la questione nostra non parla che dell' effetto sentimentale della pura idea. Spogliato adunque il pensiero da ogni accompagnamento d' immagine, e da ogni sequela di moto a lei impertinente, dico che l' idea pura cagiona un sentimento intellettuale meramente oggettivo di piacere, il quale sentimento è maggiore di grado, quanto è più perfetta e più viva l' intuizione. Ora questo sentimento, affatto alieno dall' ordine delle cose corporee, influisce egli sul sentimento animale, e per mezzo di questo cagiona nel corpo dei movimenti? E` certo che quel sentimento appartiene ad una natura di cose affatto immateriali. Ma è a riflettersi all' identità del soggetto uomo, il quale è principio ad un tempo dei sentimenti spirituali e dei sentimenti corporei. Ora le affezioni spirituali di questo soggetto, modificando il suo stato, rendendolo più perfetto o più imperfetto, più o meno felice, producono necessariamente degli effetti e modificazioni, quantunque indiscernibili, nella vita animale di cui egli è principio. E veramente l' esperienza dimostra che l' anima umana affetta da una gioia spirituale, quanto si voglia, diviene più attiva sul corpo e accelera il movimento del sangue, mentre la tristezza fa i contrari effetti. Se ben si considera l' effetto soggettivo, cioè il bene e il male stare dell' anima, da qualunque causa egli provenga, è finalmente una cosa semplice, che differisce di gradi e non di specie, benchè le cause che producono quegli stati gioiosi o tristi, possano differire fra loro specificamente, genericamente ed anche categoricamente. Come l' anima è semplice, così semplice è la sua maniera di essere, il suo stato. Ella ha una sola perfezione naturale, che ammette però dei gradi infiniti. La sua perfezione è la sua felicità. Ora, quanto ella è più perfetta e felice, tanto è più forte; nella sua qualità dunque di principio vitale, ella esercita nel corpo una energia proporzionata alla sua fortezza e perfezione. I sentimenti oggettivi, quanto sono più perfetti, tanto più sono a lei gioiosi e la rendono più felice e più attiva. Sembra veramente che la gioia attuale, cresciuta oltre a certo termine, produca nel corpo dei movimenti troppo impetuosi e repentini fino a sconcertarlo e cagionare la morte; ma questo è un fenomeno dell' istinto sensuale, improprio alla natura umana, anzi nascente dal decadimento di lei, nella quale la ragione indebolita non sa più governare le affezioni; e trattasi sempre in tal caso di affezioni fattizie e non naturali. Ciò che abbiamo detto dei sentimenti meramente oggettivi è da applicarsi ai sentimenti soggettivi7oggettivi. Questi modificano il sentimento animale in un modo più prossimo che i sentimenti meramente oggettivi, i quali non possono modificare i sentimenti animali se non soggettivandosi, di maniera che il sentimento oggettivo muove il corpo comunicando la sua azione, per mezzo di tre quasi anelli o serie di cause e di effetti; 1 sentimenti oggettivi; 2 sentimenti soggettivi7oggettivi; 3 sentimenti animali. E` da questi che risultano i movimenti extra7soggettivi. Ora i sentimenti razionali, di cui parliamo, sono essi involontari? Ve ne sono d' involontari e di volontari. I sentimenti involontari del soggetto razionale sono quelli che in lui si suscitano senza l' impero della volontà; i sentimenti volontari sono quelli che in lui si suscitano mediante l' azione della volontà, che li eccita con impero mediato o immediato. Un' altra domanda ci si presenta: la volontà può ella modificare quei sentimenti che di loro natura sono involontari? Alcuni ne può modificare, altri no. Di più, quando la volontà modifica i sentimenti naturali involontari, ella non può farlo se non con un' azione limitata; limitazione da noi esposta nell' « Antropologia ». Il sentimento universale, pel quale l' uomo tende al bene, non può essere alterato dall' azione della volontà umana. Esso è naturale, involontario e superiore alla volontà, che da lui si origina. Da questo sentimento universale pel quale l' uomo tende al bene, tende ad ogni bene, nascono naturalmente tutti i sentimenti oggettivi, i quali hanno questa legge, che sieno proporzionati alla grandezza dell' ente concepito, sicchè la naturale gradazione di essi è la naturale gradazione degli enti. Se questi sentimenti si considerano così ordinati e digradati, essi sono naturali e involontari, cioè nascono per natura loro nell' uomo senz' atto di volontà, e piuttosto, se così si vuole, muovono essi stessi atti spontanei di volontà consenzienti. Ma la volontà può influire su di loro, alterarne l' ordine, rincarire soverchiamente il prezzo di alcuni, ribassare quello di altri, oppugnando la natura e la verità; può fare tutto questo con atti, che lasciano delle traccie e delle disposizioni nell' anima, massime se vengono replicati; questi atti generano delle opinioni arbitrarie, delle abitudini pregiudicevoli, dei giudizi ed affetti abituali, immorali. La volontà può ancora coll' energia sua propria, coi suoi liberi consentimenti serbare l' ordine dei predetti sentimenti ed accrescere la loro vivacità compiacendosi in essi. In quanto adunque i sentimenti naturali della natura umana intelligente (1) possono essere alterati e accresciuti dalla volontà, in tanto da involontari diventano volontari . Ma la volontà opera nel corpo ancora in un altro modo. Opera con un imperio così pronto che pare non entri di mezzo alcun sentimento fra il suo comando e il movimento corporeo. A ragion d' esempio, se io voglio muovere un braccio, lo muovo col solo atto della mia volontà, senza che mi accorga d' aver provata alcuna affezione nè di gioia, nè di dolore, alcun sentimento nè piacevole, nè dispiacevole. Tuttavia chi più attentamente considera, rileva che l' impero della volontà, che muove un membro del corpo, non comunica già il movimento senza intervento di alcun sentimento, ma solo d' un sentimento diverso da quelli degli affetti e delle passioni. Ho già distinti i sentimenti animali in figurati e non figurati (1), e quei primi in sensioni esterne (sensazioni) ed in sensioni interne (immagini). Ora la volontà, che impera un movimento, è per lo più col mezzo delle immagini che lo eseguisce; l' immagine cioè del movimento che vuol produrre, o di quell' ultimo atteggiamento in cui l' animale si vuol collocare, diviene il principio prossimo del detto movimento (2). Dico per lo più , intendendo di parlare dell' uomo in uno stato di sviluppo, nel quale egli opera liberamente, ed impera i movimenti coll' immagine delle loro forme extra7soggettive. Ma nell' uomo non ancora sviluppato può la volontà produrre dei movimenti col solo sentimento interno della propria attività, e di quei movimenti stessi presentiti soggettivamente, se il sentimento di tali moti è grato o domandato dai bisogni; nel qual caso, benchè l' uomo muova le membra con atto di sua volontà, egli non conosce tuttavia il movimento che produce nella sua forma extra7soggettiva; non ha presente l' effetto extra7soggettivo del suo atto interno, e perciò non lo vuole; ma l' atto del suo volere termina immediatamente nello spazio soggettivo ed interno; il movimento extra7soggettivo non è da lui scelto fra molti, neppure imperato; procede quale conseguenza della relazione coll' attività interiore, che ebbe per iscopo di migliorare lo stato interno del sentimento. Il principio razionale, adunque, immuta il proprio corpo e vi cagiona movimenti, sì operando come intelligenza , e sì operando come volontà . Ma il dominio del proprio corpo egli non l' ha se non mediante l' azione, che egli esercita in esso volontariamente . Ora l' azione della volontà, e quindi l' esercizio del dominio sul corpo, è legato a certe condizioni, le quali noi dobbiamo ora investigare. Dicevamo che il movimento del corpo può essere prodotto dalla volontà in due modi, o sapendo ella l' effetto di quel che comanda, o non sapendolo, cioè non sapendo l' effetto del movimento extra7soggettivo, quale apparisce ai sensi esteriori colle sue relazioni alle altre parti del corpo. Allorquando il bambino, a ragion d' esempio, vuol muovere le mani, le muove o per istinto, o per impero di volontà. Ma la sua volontà, che ordina quel movimento, non sa che il movimento medesimo gli nuoce quando si conficca le dita negli occhi; non conosce dunque la posizione relativa extra7soggettiva delle mani e degli occhi; ignora l' effetto esterno del suo atto interno, col quale promuove quel movimento. Supponiamo adunque che un uomo non avesse mai veduto sè stesso, nè mai fatto ancora alcun movimento. Egli si determina colla sua volontà a muovere la prima volta qualche parte del suo corpo. Questa parte egli non la conosce ancora che internamente, soggettivamente; la scelta, che fa del movimento, è tutta interna; fra i movimenti esterni non sceglie punto, perchè ancora non li conosce; ma alla sua scelta interna succede l' effetto di un movimento esterno, che è una cosa nuova e meravigliosa a lui stesso; è per lui la rivelazione di un mistero. La ragione per la quale, quand' egli fa l' atto interno che cagiona il moto, non prevede l' effetto esterno, nè conosce la relazione della parte che si muoverà colle altre parti del suo corpo, si trova in quel vero, che abbiamo tante volte ripetuto, cioè che i fenomeni soggettivi e i fenomeni extra7soggettivi sono così dissomiglianti fra loro, che dagli uni non si possono argomentare gli altri prima dell' esperienza. I fenomeni extra7soggettivi del movimento non si conoscono adunque dall' uomo a priori, ma solo mediante l' esperienza dei sensorii esterni, a cui tali fenomeni appartengono, nè si possono dedurre dal sentimento fondamentale, nè dalle modificazioni interne e meramente soggettive di questo sentimento. Fino adunque che i fenomeni extra7soggettivi dei movimenti del proprio corpo non sono dall' uomo sperimentati, gli rimangono incogniti; e finchè gli rimangono incogniti, egli non può scegliere gli uni a preferenza degli altri, nè può al tutto volerli. La prima condizione adunque, che rende possibile alla volontà di esercitare la sua potenza locomotiva, imperando dei movimenti extra7soggettivi, si è che l' uomo ne abbia preso conoscenza, avendoli nel fatto stesso sperimentati. Ma non basta questa condizione. E` necessario, oltracciò, che egli abbia imparato a conoscere il nesso fra i movimenti esterni del suo corpo (cioè i movimenti in quanto sono percepiti e rappresentati dai sensorii esterni) e gli atti interni imperati, che li producono; è necessario che egli abbia imparato che ad un dato atto interno corrisponde un dato movimento esterno; che egli sia venuto a conoscere, per esempio, a quale atto interno risponda quel dato movimento della mano o della gamba. Questi atti interni e soggettivi, imperativi dei movimenti esterni ed extra7soggettivi, sono dei sentimenti attivi . Deve dunque legare insieme nella sua cognizione pratica questi sentimenti attivi coi movimenti esterni che seguono ad essi. Questi suoi sentimenti interni, tanto vari quanto sono vari i movimenti esterni che a loro succedono, è uopo che diventino non già l' oggetto d' una sua cognizione speculativa, ma d' una sua percezione . La cognizione pratica , di cui parliamo, è adunque « l' associazione delle percezioni, che l' uomo si forma, dei suoi sentimenti attivi coi movimenti extra7soggettivi, che a quei sentimenti conseguono ». Ora la cognizione pratica di un certo sistema di azioni, quando è resa abituale, è un' arte. Acciocchè dunque l' uomo possa ridurre all' atto la facoltà, che egli ha, di produrre nel suo corpo i movimenti extra7soggettivi che egli vuole, deve impararne l' arte; e fino che non l' ha appresa, egli ne ha bensì la facoltà, ma non l' esercizio. Così è che l' uomo ha bisogno d' imparare a tenersi ritto e ben equilibrato sulla persona, ha bisogno d' imparare a camminare e, in una parola, a fare tutti i suoi movimenti esteriori. Non tutti gli uomini conoscono egualmente l' arte dei movimenti del proprio corpo. Il danzatore di piano e di corda, il sonatore, lo schermidore e tanti altri professori di arti ginnastiche e meccaniche non differiscono dagli altri uomini, imperiti di quelle arti, se non per avere appreso l' abito di fare un certo ordine di movimenti del proprio corpo con precisione ed agilità; la loro volontà, prima causa in essi di quei movimenti, già non sceglie più fra i singoli movimenti, ma fra i diversi gruppi di movimenti possibili, poichè ella conosce già praticamente quei gruppi, ed il nesso che essi hanno cogli atti interni e soggettivi che li producono; quando uno di questi atti interni basta a produrre un intero gruppo od ordine di movimenti, allora quell' atto prende il nome di abitudine o di arte. E nondimeno tutti gli uomini imparano a fare certi movimenti del proprio corpo, che sono loro necessari alla vita, o che vengono loro suggeriti dalle diverse circostanze in cui si trovano. Ma poco importa al più degli uomini di acquistare l' arte di produrre a volontà certi movimenti, non necessari alla loro esistenza e al loro benessere, o anzi contrari al loro benessere. In tal caso la volontà non se ne interessa, e lascia operare l' istinto vitale e sensuale a suo modo. Il che non prova che manchi nell' uomo la facoltà di produrre colla volontà sua quei movimenti; prova solo che egli non riduce all' atto e all' abito tale facoltà. Tanto è vero che, essendo egli libero, talora s' oppone colla sua libertà alla sua volontà spontanea anche per puro capriccio, e gli piace di far mostra del suo potere, arrestando e modificando i movimenti istintivi e spontanei. A ragion d' esempio, il battere delle palpebre è certamente istintivo, e giova a difendere gli occhi dal polverìo e da altri corpiccioli eterogenei volitanti per l' aria, come pure a dar riposo al sensorio. La volontà dunque qui lascia fare all' istinto. Pure alcuni individui, che colla forza della loro libertà si proposero di fare il contrario, riuscirono a tenere aperte le palpebre a loro piacere. Del pari sono movimenti istintivi il socchiudere degli occhi all' avvicinamento di un oggetto, il contrarre la pupilla ad una luce assai viva e dilatarla nelle tenebre; e pure si sono trovati individui, che s' addestrarono liberamente a fare il contrario, come Guglielmo Porterfield e Felice Fontana. Quantunque alcuni moderni attribuiscano il restringimento della pupilla percossa da viva luce all' afflusso del sangue, tuttavia è impossibile spiegare questo afflusso medesimo colla sola irritazione meccanica della luce, senza ricorrere al principio vitale e sensitivo. La ragione di quel restringimento è evidentemente la sensazione molesta che cagiona la soverchia luce; e la sensazione è fenomeno soggettivo appartenente al principio senziente , il quale dalla molestia che prova, è determinato a promuovere quei movimenti dell' iride, che valgono a restringere il foro della pupilla pel quale entra la luce, e così scemare la sensazione. Che se il detto principio sensitivo ottiene questo effetto, promovendo l' afflusso del sangue, si scorga qui l' influenza che egli ha sulla circolazione nei minimi vasellini. E poichè la libera volontà può fare il contrario della pupilla, dunque ella è efficace sulla circolazione mediante l' influenza che esercita sul principio sensitivo (1). L' esempio celebre di Townshend conferma la stessa potenza della volontà sulla circolazione. Si sa che questo inglese, poco tempo innanzi la sua morte, coricato supino, poteva trattenere a sua voglia il movimento del suo cuore e del suo polso (2). Io sospetto che se si fosse fatta la sezione del cadavere di quest' uomo, si sarebbe forse trovata qualche particolarità là dove il sistema nervoso cerebrale comunica col sistema nervoso ganglionale. Ma poichè i due sistemi nervosi non mancano mai di continuarsi, quindi sembra che non possa mancare l' influenza della volontà sulla circolazione, benchè questa possa essere in diversi uomini più o meno facilitata da speciale organismo. Il sonno anch' esso è un fenomeno animale, che si deve attribuire indubitatamente al principio sensitivo , ma niun dubbio che la volontà possa non poco influirvi, mediante il dominio che ella ha sullo stesso principio sensitivo. Che poi vi possa influire il sentimento intellettuale , è manifesto sol che si consideri quanto l' esercizio mentale valga ad impedire il sonno, e massimamente un pensiero fisso ed appassionato, e quanto al contrario l' oziosità della mente l' aiuti, come si vede nei bambini, e negli spensierati e scioperati. Ma che il principio intellettivo operi sul sonno anche coll' impero della volontà più o meno a ciò efficace, non si potrà negare da quelli che ne osservarono la natura. Non solo la volontà colla sua energia può impedire fino a certo segno il principio sensitivo già disposto a produrre il sonno, sospendendone l' azione e l' effetto; ma ella può anche eccitare questo principio sensitivo a produrre tale effetto, massime in persone di grande mobilità nervosa. E` vero che, quando l' uomo vuol dormire, egli si adagia del corpo e colla volontà opera più negativamente che altro, astenendosi essa dall' agire sull' intendimento e dal concorrere all' azione di lui, e dal dirigerla; conciossiachè è l' azione della mente, provocata e diretta dalla volontà, e dalla libera volontà specialmente, quella che più impedisce il sonno. Ma in prova che la volontà può operare anche positivamente nella produzione del sonno, io non dubito di addurre i fenomeni del sonnambolismo artificiale, che con un vocabolo per lo meno temerario altri dicono del magnetismo animale (1). Il sonnambolismo è uno stato speciale di sonno. Io stesso ho conosciuto un certo Ricamboni che a sua volontà dormiva, e chiamato di mezzo al sonno, si rendeva sonnambolo; l' esperimento che ne ho fatto, mi parve a principio sì strano, che non poteva tormi dall' animo ci avesse qualche finzione; ma poscia, confrontato quel fatto con altri, e considerate tutte le circostanze, ho deposto ogni dubbio della sua veracità. Anche, trovandomi presente agli esperimenti che si facevano sopra una fanciulla dotata della facoltà del sonnambolismo artificiale , ed osservando che chi faceva gli esperimenti, la faceva passare a stato di sonno non solo colle manipolazioni, che chiamano impropriamente magnetiche, ma con qualsiasi altro cenno o atto arbitrario, le dimandai se ella non potesse dormire a volontà sua, anche senza bisogno dei gesti, che gli faceva il dottore innanzi agli occhi; ed ella con tutta l' ingenuità del mondo mi disse di sì, e mi assicurò che a sua volontà ella dormiva. La volontà esercita il suo potere anche sugli organi delle secrezioni; ella influisce sul moto peristaltico degli intestini; e chi non sa che le persone dotate specialmente di molta mobilità nervosa, come le donne, aprono o chiudono i fonti delle lagrime a loro arbitrio? In una parola il principio intellettivo, a cui appartiene la volontà, ha di natura sua il dominio sul principio sensitivo a condizione: 1 che egli conosca mediante l' esperienza i movimenti extra7soggettivi, se pur questi debbono essere l' oggetto delle sue volizioni; 2 che egli abbia imparato a conoscere praticamente il nesso fra i detti movimenti extra7soggettivi e gli atti (sentimenti attivi), coi quali egli deve produrli, e acquistatone l' abito. Dalle cose dette si raccoglie: Che il principio razionale agisce sul principio sensitivo corporeo . Che egli esercita questa sua azione sul principio sensitivo corporeo in due modi, per via d' intendimento o senso intellettivo e per impero di volontà . Che l' intendimento, essendo potenza passiva e necessaria, e la volontà essendo potenza attiva, l' anima intellettiva influisce sulla vita corporea in due modi, l' uno necessario e l' altro volontario . Che quindi non è meraviglia se i fisiologi distinguono due ordini di nervi e muscoli, quello cioè dei nervi e muscoli volontari e quello dei nervi e muscoli involontari; nè del pari è meraviglia se gli stessi nervi sieno talor mossi in due modi, involontariamente e volontariamente. Anzi non direi affatto improbabile che tutti i nervi sieno soggetti alla potenza della volontà (1), benchè questa ne apprenda il maneggio di certi più facilmente, di altri più difficilmente, secondo che è più o meno necessario all' uomo l' adoperarli cogli atti della sua volontà, e secondo che sono più o meno distanti dal luogo in cui la volontà opera immediatamente, che è il cervello, come diremo, per via delle immagini (2). Ma rimane a vedere dove l' attività razionale produca immediatamente i movimenti del corpo, se nel solo sistema nervoso o anche altrove [in tutte affatto le parti del corpo], e se il sistema nervoso sia quello che, ricevuto il moto, lo comunichi alle altre parti. In quest' ultimo caso le altre parti del corpo non sarebbero connesse all' anima, ma solo riceverebbero dall' anima un' influenza per mezzo dell' azione dei nervi soli propriamente animati, sola vera sede dell' anima; o almeno il principio sensitivo e istintivo non sarebbe in queste parti, o non sarebbe connesso immediatamente all' anima razionale. Per rispondere a questa questione, si distingua primieramente fra l' azione dell' anima sul corpo, e la manifestazione di questa azione per via di movimenti atti a cadere sotto i sensi esterni, e quindi a manifestarla distintamente. Io non ebbi sempre su di ciò le stesse opinioni. Presentemente mi pare probabile che l' anima razionale agisca più o meno su tutte affatto le parti del corpo vivente, che in tutte le parti vi sia il sentimento fondamentale di continuità , e con esso il principio senziente; ma che questo sentimento non sia atto in ogni parte ad essere immediatamente eccitato dall' anima, per mancanza di organismo opportuno, o per contrasto di altre forze, sicchè o manchi del tutto, o sia leggerissimo e limitatissimo il sentimento di eccitazione . Per sentimento di eccitazione io intendo quel movimento organico, che è atto a produrre una sensione. Nello stesso sentimento fondamentale è uopo ammettere un sentimento d' eccitazione; giacchè nell' animale vivente vi è un moto continuo (di continuità fisica), il quale continuamente eccita lo stesso sentimento, come più estesamente dimostreremo (1). Diciamo dunque che là dove manca il sentimento fondamentale d' eccitazione , dove manca la suscettività delle parti d' essere eccitate, cioè a ricevere quei moti intestini ed immediati che producono le sensioni, ivi pare che manchi la sensitività; tale è il concetto che mi sembra doversi formare delle parti del corpo umano così dette insensibili . I nervi, in questa supposizione, sono le parti organate in modo da poter ammettere quella estensione, frequenza, rapidità e metro di movimenti istintivi, che generano la sensione. Quindi, quantunque in tutti i tessuti del corpo umano vi sia il sentimento fondamentale di continuità, manca nondimeno in alcuni la sensitività eccitabile, e però essi ricevono i movimenti piuttosto dai nervi, su cui agisce l' anima con grande effetto, cioè coll' effetto dei grandi movimenti muscolari, che dall' anima stessa immediatamente. Questa differenza, per dirlo di nuovo, parmi doversi attribuire intieramente all' intima organizzazione; sicchè due parti del corpo, su cui egualmente esercita l' anima intellettiva la sua azione motrice, l' una si muove con frequenza incredibile di moti interni da produrre l' eccitamento del sentimento, ossia la sensione; l' altra non ammette quelle ondulazioni, oscillazioni, ecc., unicamente perchè la prima è una fibbra coi suoi fluidi organata a tanta mobilità; l' altra, non così acconciamente organata, resiste all' impulso e lo fa finire e consumare ben presto inutilmente, ovvero si muove conservando la stessa testura delle minime parti. Posto ciò, è a dirsi che i movimenti provocati dal principio intellettuale ed atti ad essere da noi conosciuti incominciano dai nervi, ed alle altre parti del corpo umano, secondo certe leggi speciali, si propagano. Ma non basta; rimane a cercare in quali parti dello stesso sistema nervoso incomincino i movimenti prodotti dal principio intellettuale. A questo si può rispondere generalmente che queste parti, dove i movimenti incominciano, sono determinate dalla natura degli stessi movimenti speciali che il principio razionale produce. Ma per classificarli generalmente li partiremo in due generi nel modo seguente. Vedemmo che il principio razionale opera in due modi, come istinto (1) e come volontà . Ora, a questi due metodi rispondono i due sistemi nervosi, che sono nel corpo umano, il ganglionare e il cerebro7spinale . Allorquando il principio razionale produce dei moti per via d' istinto , è il sistema nervoso ganglionare che ne viene immediatamente affetto; all' incontro quando produce dei moti per via di volontà , l' azione viene impressa nel sistema cerebro7spinale. Questo merita qualche spiegazione. Il sistema nervoso cerebro7spinale è lo strumento [o la sede] di quei sentimenti, a cui abbiamo dato il nome di figurati e anche di superficiali , cioè delle sensazioni esterne e delle immagini . Ora questa maniera di sentimenti prestano materia alla cognizione dei corpi extra7soggettivi e dei loro accidenti. Certamente essi non sono cognizione, propriamente altro non sono che segni della presenza d' un corpo, non però segni arbitrari, ma contenenti l' azione del corpo stesso. Ora, quantunque il sentimento sia nostro e non dell' agente, tuttavia l' agente colla sua azione si rese inesistente nel nostro sentimento, cioè esistente nello stesso spazio superficiale in cui noi sentiamo. Per questa identità di spazio fra l' agente attivo e noi passivi, attribuiamo al corpo la modificazione del nostro sentire, come alla causa prossima e quasi formale della stessa, e così l' agente diverso da noi ci appare colorito, odoroso, ecc.. La somma precisione di confini, che presentano i sentimenti figurati, e la mirabile distinzione fra loro ci provoca mirabilmente a doverli prendere per qualità dei corpi. Così essi diventano materia alle nostre cognizioni degli enti corporei. Ora la cognizione precede sempre l' azione del principio razionale , perchè questo principio non agisce che conoscendo. Ma la cognizione non precede in egual modo quando il principio razionale opera come istinto, e quando opera come volontà. Sia recata ad un uomo la notizia d' una repentina sciagura, poniamo la morte improvvisa d' un congiunto amatissimo; è certo che in ricevere i segni sensibili di questa notizia egli usò del sistema nervoso cerebro spinale. Le sensazioni dell' udito, se la notizia gli fu recata in voce, o della vista, se per lettera, furono quelle che, facendo ufficio di segni, rivelarono alla sua mente l' infausto avvenimento. Si può anche supporre che il caro oggetto perduto sia corso alla mente per via di memorie vestite d' immagini; benchè queste non sieno necessarie a cagionare il subito trangosciamento, bastando il puro pensiero intellettuale, che quasi allor non ha tempo nè voglia, nel primo istante, di vestirsi d' immagini. Eppure a questo pensiero incontanente succede il ritiramento del sangue al cuore, che si manifesta nella pallidezza, l' allentamento del polso, i tremori, le convulsioni, e fin anche la sincope e l' apoplessia. Questi effetti non furono imperati dalla volontà; non provennero dalle immagini, che hanno sede nel sistema nervoso cerebro7spinale, le quali immagini altro officio non fecero che quello di dare notizia dell' avvenuto all' intendimento; ma sì dalla notizia stessa dell' intendimento partì una azione, che, senza bisogno alcuno di affettare prima il cervello, immediatamente si comunicò al sistema nervoso trisplancnico, che presiede alla circolazione, alle secrezioni, alle passioni, ossia ai sentimenti non figurati. Ma la cosa va diversamente, quando si considerano i movimenti prodotti dal principio intellettivo non più come istinto, ma come volontà. Quando questo principio opera con atto di volontà sia spontaneo, sia deliberato, egli: 1 si determina a volere un dato movimento; 2 lo decreta; 3 lo produce. Acciocchè egli formi la volizione o il decreto di un dato movimento, è necessario che questo movimento sia da lui concepito . Il movimento concepito, in cui si porta come in suo oggetto il decreto della volontà, non è quasi altro che uno dei movimenti extra7soggettivi, perchè questi soli sono percepiti con sentimenti figurati e distinti, acconci a tirare l' attenzione ed a fissare la percezione intellettuale. All' incontro è difficilissimo il poter dire che l' intelletto percepisca il movimento mediante il presentimento soggettivo , perchè questo presentimento, che non è che la propria energia che lo produce, non è guari distinto da quello maggiore dell' energia totale dell' anima, fino a tanto che l' energia totale, passando all' atto e producendo il movimento stesso, non si distingua coll' operazione, e così divenga energia speciale. Quindi se la volontà produce dei movimenti senza averne cognizione, è da dire che ella lo faccia con quelle specie di volizioni, che abbiamo dette puramente affettive (1); ed anche in questo caso il concorso della volontà si unirebbe all' istinto solo allorquando questo avesse già iniziato il movimento, e quindi resa distinta l' energia dell' anima che lo produce, traendola fuori dall' energia totale dov' era immersa; perchè solo a questa condizione tale energia separata e limitata è percettibile dall' intelletto, e però atta ad essere oggetto della volontà. Lasciando dunque da parte questa maniera di operare della volontà sommamente oscura, e parlando solo delle volizioni, che hanno per oggetto movimenti extra7soggettivi, conoscibili e percepibili distintamente dall' intendimento; dicevo che in tal caso l' oggetto della volontà, cioè il movimento ch' ella passa a decretare, è presentato all' intelletto per via d' immagine, la quale non si fa che nel cervello, che è l' organo di questa potenza. La volontà vuole e decreta di eseguire quel movimento semplice o complicato, che essa coll' aiuto dell' immaginazione preconcepisce. In qual maniera le forze animali per lo più si mescolino nella determinazione ed esecuzione di tal fatto, non è necessario che da noi venga qui discusso. L' immaginazione adunque, che appartiene al sistema cerebrale, presenta all' intendimento il movimento, semplice o complesso, su cui la volontà delibera. La scelta, che ne fa la volontà, si eseguisce con un suo decreto, il quale non appartiene alla fantasia, ma all' ordine intellettivo ed affatto spirituale; il qual decreto è un giudizio pratico, con cui assente essere buono e da farsi quel movimento. Questo giudizio pratico è l' iniziamento di quell' atto con cui viene eseguito quel movimento. Ora come succede una tale esecuzione? I movimenti, che il principio razionale produce in conseguenza di un decreto della volontà, si debbono distinguere in due classi. Alcuni di essi hanno congiunto un piacere sensibile ed animale o la soddisfazione di un bisogno, ed alcuni altri ne sono privi. I primi sono voluti pel piacere che hanno annesso, o pel bisogno che soddisfano; i secondi non sono voluti per sè stessi, ma adoperati siccome mezzi ad ottenere qualche bene, che è propriamente l' oggetto della volizione. A ragion d' esempio, l' uomo ha l' istinto di parlare, il bambino ripete istintivamente i suoni che sente pronunciare, l' uccello fa altrettanto del canto della sua specie, ecc.. Coi movimenti dell' organo vocale l' animale soddisfa ad un bisogno, ad un istinto, cerca un piacere, e sfugge la molestia che soffrirebbe, se quell' istinto rimanesse represso. All' incontro se l' uomo compera un libro, non sono i movimenti ch' egli fa in quest' atto, l' oggetto piacevole in cui finisce la sua volontà, ma il possesso del libro e la dottrina ch' egli spera cavarne. Ora, il principio razionale procede diversamente quando toglie ad eseguire i movimenti della prima classe, e quando toglie ad eseguire quelli della seconda classe. Nell' esecuzione dei movimenti della prima classe la sensione piacevole ed il movimento sono congiunti, per modo che la stessa sensione piacevole è quella energia prossima che lo incomincia e produce, dove l' energia intellettiva non ha da far altro che eccitare ed aiutare il sentimento piacevole, che per istinto produce il moto. All' incontro i movimenti, scompagnati da sensione piacevole, debbono esser prodotti immediatamente dall' energia intellettiva senza aiuto di sensione, anzi in opposizione alla sensione stessa. Così io posso per vigore di libera volontà muovere un braccio od una gamba, quantunque un tal movimento sia accompagnato da dolore. Tutto ciò è a noi attestato dalla coscienza. Ora, niun savio ed intelligente dirà essere fuori di ragione, se dalla cognizione di tali fatti soggettivi noi ci facciamo a dedurre alcune congetture circa l' organismo animale, che solo il coltello anatomico e la meditazione fisiologica possono convertire in verità dimostrate. Le congetture, di cui parlo, riguardano la celebre questione, più sopra toccata, intorno alla distinzione fra i nervi motori ed i nervi meramente sensitivi. Sembra che quei movimenti accompagnati da sensazioni, e dalla sensazione stessa provocati, suppongano che il movimento incominci alla radice degli stessi nervi sensitivi, i quali perciò avrebbero la doppia proprietà del senso e del moto. All' incontro quella classe di movimenti, che si possono produrre immediatamente dall' impero della volontà, senza che la sensione li accompagni, in modo da essere riconosciuta per la causa che prossimamente li eccita e produce, sembra supporre che vengano operati mediante tali nervi motori, i quali non abbiano la proprietà del senso speciale, ma solo quella del moto, o se hanno anche la proprietà del senso, questa non si manifesti se non ad una condizione diversa da quella dei primi, sicchè il principio razionale che li muove non li stimoli al senso, e il moto loro impresso non sia un moto sensifero. Quest' ultima ipotesi per altro mi sembra probabilissima, e consonante al tutto colla speciale sensibilità propria del sistema cerebro7spinale. Infatti la sensibilità di questo sistema in istato normale si manifesta solo alle due estremità, cioè alle estremità esteriori mediante le sensazioni, e alle estremità interiori mediante le immagini; laddove in tutta la lunghezza delle filamenta nervose niun sentimento speciale e distinto si manifesta. Se dunque il movimento imperato e scevro di sensione si supponga cominciare appunto là dove risiedono quelle immagini, che rappresentano lo stesso movimento all' intelligenza, apparirà tosto il perchè il movimento dai nervi si comunichi ai muscoli senz' altra sensione di sorte, voglio dire senza una sensione che apparisca per sè stessa eccitatrice e produttrice del movimento. Ci si farà una difficoltà domandandoci come i bruti, a cui manca ogni principio razionale, possano produrre i movimenti di seconda classe. Rispondo: per la forza unitiva . Nella loro immaginazione si associano i movimenti di prima classe ai movimenti di seconda classe, e il principio sensitivo eccitato a produrre istintivamente i primi, produce anche i secondi ogniqualvolta sono necessari ai primi, cioè ogniqualvolta l' animale non può venire a capo della soddisfazione sensitiva che cerca nei primi, se non a condizione che produca anche i secondi. Che se i secondi dipendono dal sistema cerebro7spinale o da una parte di esso, mentre i primi incominciano o nel sistema ganglionare o in altre parti dello stesso sistema cerebro7spinale, si può ritrarre un' altra bellissima dimostrazione della semplicità dell' anima sensitiva; conciossiachè essa in tal caso, a fine di procacciarsi dei piaceri o fuggir dei dolori annessi ai movimenti di certi nervi, imprime il moto ad altri nervi, le cui radici sono diverse da quelle dei primi; il che non potrebbe fare se la sua attività non fosse contemporaneamente presente, e non agisse contemporaneamente in parti e luoghi diversi, ciò che suppone che ella sia immune dalle leggi dello spazio. Concludiamo: il principio razionale, operando come istinto, esercita un' azione immediata sul sistema nervoso ganglionare; operando come volontà, esercita un' azione immediata sul sistema nervoso cerebro7spinale. I due sistemi comunicano insieme, come troppo bene sanno gli Anatomici; i gangli laterali del gran simpatico hanno molte comunicazioni coi nervi cerebrali e rachidei, i gangli cerebrali comunicano col pneumogastrico. L' osservazione accurata sulle accidentali differenze, che possono trovarsi in diversi individui rispetto a queste congiunzioni nervose, potrebbe non poco dilucidare i gradi d' azione, che può avere la volontà in diversi uomini sulle passioni e sui movimenti della così detta vita organica. In tutti i ragionamenti precedenti noi abbiamo sempre supposto che nel sentimento fondamentale non siavi che un principio attivo semplicissimo, che abbiamo chiamato principio senziente o principio sensitivo . Di che procede che tutti i fenomeni animali debbono riconoscere per unica causa questo principio; come pure che il principio razionale non può agire sul corpo, se non per via di questo principio del sentimento. Nell' « Antropologia » noi abbiamo dimostrata l' esistenza del principio sensitivo, la sua semplicità, la sua immensa attività sopra il corpo, la quale fu da noi distinta in due rami, all' uno dei quali demmo la denominazione d' istinto vitale , all' altro quella d' istinto sensuale . Nondimeno dei pregiudizi inveterati fanno ostacolo a questa dottrina; e per dar mano a rimuoverne alcuni, crediamo qui necessario di soffermarci a parlare della scuola animistica , la quale nello stesso tempo che andò più presso al vero delle altre, coll' eccesso in cui cadde, ne infastidì il mondo e lo dispose a precipitare nell' eccesso opposto. Le due scuole, erronee egualmente per gli estremi a cui si spinsero, sono la scuola materiale , che pretende spiegare tutti i fenomeni apparenti nel corpo animale colle leggi della materia; e la scuola animistica , che li attribuisce tutti all' anima razionale. La scuola materiale , grossolana com' è ed altrettanto ignobile, non può gran fatto dar noia alla nostra dottrina, tanto più ch' ella fu da noi in più luoghi combattuta. Rimane che intraprendiamo una giusta critica della scuola animistica , e che dimostriamo come il vero stia collocato fra gli eccessi delle due scuole. Quali furono adunque gli errori, in cui incappò la scuola animistica? Si riducono tutti al non aver veduto con distinzione che la causa di tutti i fenomeni animali è il principio senziente . Quali furono le cagioni, per le quali questa scuola non pervenne a conoscere la precisa attività dell' anima, a cui si dovevano riferire i fatti dell' animalità? Le principali furono le seguenti: Il non aver fatta la debita distinzione fra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi . Il non aver conosciuto la differenza specifica fra il sentire e l' intendere . Il non aver distinto il sentimento fondamentale dalle sensioni . Il non aver riflettuto che il solo termine dell' anima sensitiva è esteso, e che il principio inesteso, che è l' anima stessa, può non già dividersi , ma moltiplicarsi , senza danno della sua semplicità. Diamo un' occhiata a ciascuna di queste quattro cagioni. Egli ha ragione; ma l' obbiezione perde la sua forza contro alle cose da noi dette, perocchè: Basta trovare un' ipotesi non assurda atta a spiegare quell' università, acciocchè ella non possa più conchiudere cosa alcuna contro la spiegazione psicologica dei fenomeni animali. Ora niente vi è d' intrinsecamente ripugnante ad ammettere che il sentimento sia individualmente unito agli elementi primitivi della materia, i quali non sarebbero in tale ipotesi che il termine extra7soggettivo di quel sentimento. E quand' anche si lasci da parte questa ipotesi (che non è poi mera ipotesi in aria, come pare nel primo aspetto), basta ad annullare quella obbiezione la gran distinzione fra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi . Mediante questa distinzione innegabile si scorge essere al tutto falsa quella università pretesa di fenomeni. Poichè tutti quelli che non attribuiscono il sentimento ai vegetabili, o alle loro parti, o ai loro elementi, debbono riconoscere che in questi vi sono bensì dei fenomeni extra7soggettivi consistenti in movimenti simili a quelli che si scorgono negli animali, ma non vi sono fenomeni soggettivi di sorte alcuna, i quali consistono nel sentimento. Ora le forze materiali si percepiscono come cause di movimenti, e perciò qui abbiamo cause ed effetti analoghi, ed è difficile, per non dire impossibile, il dimostrare che l' accozzamento temperato ed organico delle cause materiali non possa spiegare i movimenti dei vegetabili; quando all' opposto nei soli animali si rinviene come propria la classe dei fenomeni soggettivi o sentimentali, che non si può in alcuna maniera spiegare con forze extra7soggettive e motive. La vera cagione adunque, per la quale non si potè rispondere efficacemente fino ad ora a quella obbiezione, si fu per non essersi tirata la linea importantissima fra le due classi mentovate di fenomeni. Ma su questa cagione, tanto ella merita d' essere considerata, ritorneremo ancora. La seconda cagione, perchè non poterono consentire le menti degli studiosi della natura a riconoscere nell' anima il principio dei fenomeni animali si fu perchè gli psicologi, che primi videro il bisogno di ricorrere all' anima, non seppero fermarsi al principio sensitivo , ma, trascorrendo il giusto termine, misero in campo l' anima razionale . E il loro eccesso venne da questo, che non intesero mai a dovere la differenza essenziale che passa fra il sentire e il conoscere, fra il senso e l' idea. Il sensismo stava nei visceri di tutte le loro meditazioni, e sta tuttavia nelle fibre di quelle filosofie che oggidì si vantano spirituali e razionali. Non è così facile intendere che il sentimento e l' idea , lungi dal differire di gradi solamente o di qualità accidentali, sicchè il primo con certi suoi atti si possa cangiare nella seconda, sono entità diverse ed opposte; che il sentimento è soggettivo, e che l' idea è oggetto per essenza. Così tutti i filosofi moderni, compreso Cousin e i discepoli suoi, che non possono concepire un sentimento privo di qualunque coscienza, confondono l' elemento sensibile coll' intelligibile, cioè uniscono al sentimento, senz' accorgersi ed arbitrariamente, un elemento intellettivo; e commesso questo primo errore, essi hanno alla mano un sentimento non quale è in natura, ma quale essi medesimi lo si sono formato coll' immaginazione; dal quale partendo, non è loro certamente difficile il dedurne tutte le funzioni della ragione; bastando a ciò che sviluppino quel germe intellettivo, che essi hanno messo nel sentimento e dichiarato parte di esso. Al tempo di Giovanni Alfonso Borelli (m. 1679), di Giovanni Swammerdam (m. 16.5), di Claudio Peraulo (m. 16..), e di Giorgio Ernesto Sthal (m. 1734), non è meraviglia se non fosse ancora ben distinta la sensazione dall' idea, uscendo appena il mondo dall' aristotelismo, sistema che presentò faccie diverse, ma onde s' era cavato principalmente il sensismo, per tacere del materialismo di Pomponaccio e di altri. La setta adunque degli animisti faceva intervenire nella spiegazione dei fenomeni animali l' intendimento, incapace com' ella era di concepire il sentimento puro, cioè tale che niuna cognizione affatto avesse seco congiunta (1). Osserviamo la confusione fra il principio del sentire e l' anima razionale nel nostro italiano Borelli, che come fu principe dei jetromatematici, così a buona ragione si deve mettere alla testa degli animisti moderni, avendo egli prima degli altri conosciuto che i fenomeni animali si dovevano spiegare mediante un principio di attività soggettiva. In un luogo della celeberrima sua opera, « De motu animalium », assume a provare che è possibile che il moto del cuore si produca « a facultate animali COGNOSCITIVA (1) », e ciò con argomenti che altro non dimostrano se non che quel moto si opera per l' attività del principio sensitivo . Osserva dunque il Borelli che, quando il principio del sentimento ( animae sensitivae facultas ) è tocco grandemente dall' affetto della gioia, la circolazione si rende più celere, e quando è tocco grandemente dalla tristezza, la circolazione si rende più lenta. Questo è un fatto, che dimostra indubitamente l' attività del sentimento sulla circolazione. Ma il Borelli invece di contentarsi di tirare tale conseguenza giustissima, confondendo l' attività del sentimento coll' attività intellettiva, ne induce che l' anima conoscitiva è il principio dei movimenti del cuore, considerando il sentimento stesso come un' azione di essa anima conoscitiva: « utraque enim », dic' egli, « pulsationis variatio fit ab apprehensione et persuasione, quae sunt ANIMAE COGNOSCENTIS facultates ». E tornando a scambiare la sensibilità coll' anima conoscente, soggiunge: « Ergo talis motus cordis fit a facultate sentiente et appetente, non vero ab IGNOTA necessitate (2) ». Dove si può vedere l' origine del moderno sensismo. Aveva ricevuto il mondo un' antica eredità, di cui la scolastica era stata l' ultima testatrice, il pregiudizio cioè che sentire fosse una specie di conoscere . Invano S. Tommaso aveva detto in qualche luogo, quasi alla sfuggita, che il sentire non era un vero conoscere, ma che si diceva così per una cotal metafora; questa savia, ma troppo breve annotazione, non bastò a correggere la impropria maniera di parlare invalsa, e l' erronea opinione che seco adduceva. Per altro il Borelli nello stesso tempo che sragionando errava, perchè confondeva il sentire col conoscere, afferrava una verità importante, passata, come dissi, nella scuola degli animisti, e poi rifiutata dal comune degli scienziati per la stessa ragione, per la quale era stato accettato l' errore. Infatti, quando taluno presenta al mondo un errore abbracciato con una verità, si ammette l' errore perchè vi si scorge la verità annessa, a cui solo si pone attenzione. In appresso poi, ammesso l' errore, quell' accoppiamento di errore e di verità si rifiuta, perchè non si vuole la verità, che scorgesi non coerente all' errore prevalso. Finalmente si volge un terzo tempo, nel quale si fa ciò che non s' è fatto prima; si scompone quel tutto, e staccando la verità dall' errore, si ritiene la prima e si rigetta il secondo. Questa è quella cotal chimica delle opinioni, che io procurai, per quanto ho saputo, di applicare alle questioni filosofiche più controverse. Ma ciò che contribuì maggiormente a ingannare la perspicacissima mente del nostro Borelli si fu l' aver egli considerato l' effetto delle passioni nell' uomo, anzichè negli animali universalmente. E certo nell' uomo una notizia lietissima ed improvvisa, empiendolo di subita gioia, gli fa martellare il cuore; una notizia tristissima l' abbatte, e toglie al suo cuore quasi il movimento. Or qui trattandosi di notizie, siamo nell' ordine intellettivo. Ma questo che prova? Prova unicamente che le notizie dell' intendimento hanno virtù di eccitare gli affetti della gioia e della tristezza, non prova già che abbiano quella di muovere o di allentare immediatamente la pulsazione del cuore. Se le notizie adunque influiscono sulla circolazione, è mediante gli affetti che in prima esse generano nel soggetto umano; i quali affetti appartengono all' ordine dei sentimenti, ed anche nelle bestie si suscitano non per cagione di notizie , cui esse abbiano, ma per virtù degli istinti ciechi, e per la forza unitiva , di cui nell' « Antropologia » ho più a lungo ragionato. L' anima intellettiva adunque comunica col principio sensitivo e ne mette in moto l' attività; tutto questo accade entro il soggetto; ma è poi la sola attività del principio sensitivo quella a cui si debbono riputare gli effetti, che modificano la materia e il corpo, termine di quel principio. Nobilissima questione poi, ma separata dalla precedente, si è quella: « Come il principio intellettivo eserciti un' azione sul sensitivo ». La psicologia deve trattare entrambe queste due distintissime questioni, e noi abbiamo cominciato già a farlo col pur distinguere l' una dall' altra, e coll' indicare perchè vennero fin qui confuse dai più solenni maestri; questo ci pare il primo passo necessario a mettere le menti in sulla via. Laonde, continuandoci a illuminare le cagioni, per le quali i filosofi trascorsero fino a pigliare l' intelligenza (confusa da essi col senso) come la sola via di spiegare i fenomeni animali, osserveremo che vennero anche tratti in inganno dai vestigi di somma sapienza, che si ravvisano nelle operazioni dell' istinto animale. Giustamente Galeno se ne mostrava trasecolato. Ed egli aveva troppa ragione di ribattere con ciò la setta degli Epicurei rigettanti la provvidenza (1); come pure egli faceva un' osservazione assai assennata, quando a quelli che esprimevano la causa della generazione e degli altri fenomeni animali colla parola natura , rimproverava che l' inventare una parola non è spiegare i fatti (2). Ma quando gli pareva difficile a spiegare come la sostanza, di cui si compone l' embrione e successivamente il feto, e che opera movimenti sì regolati e complicati, fosse qualche cosa d' irrazionale (3), allora sragionava; non intendendo come la causa intelligente ci doveva essere certo, ma non era però necessario che si confondesse colla sostanza animale, non distinguendo insomma la causa ultima e creante (Iddio) dalla causa prossima (la natura), nè giungendo a concepire la causa prossima nel sentimento; il quale benchè cieco, è ministro acconcissimo alla divina intelligenza, da cui è creato. L' illustre Stahl fu indotto nel medesimo errore da un' altra verità da lui veduta, ma male applicata. Vide l' uomo grande che l' intendimento fa molti suoi atti, di cui l' uomo non ha alcuna coscienza; questa era una preziosa verità; ma non ne veniva già perciò la conclusione che egli arbitrariamente ne deduce, cioè che le operazioni animali sono appunto di questi atti intellettivi senza coscienza (1). Lo Stahl in questa dottrina prese due errori, distinguendo male le operazioni dell' intendimento che vanno prive di coscienza, da quelle che alla coscienza si accompagnano; e collocando le opere del sentimento animale nella classe delle operazioni dell' anima intellettiva, prive di coscienza. E di vero, egli distinse la ragione, «logos», dal raziocinio, «logismos», e qui ottimamente. Alla prima attribuì le operazioni senza coscienza, al secondo quelle di coscienza accompagnate; il che è del tutto erroneo. L' osservazione più attenta, posta sulle nostre interne operazioni unita all' induzione, ci dà questo risultamento, che noi facciamo anche dei raziocini, di cui non abbiamo coscienza alcuna, e in universale ci somministra quella legge meravigliosa, che « ogni qualsiasi operazione dello spirito nostro è incognita a sè stessa, ed ha bisogno di un' altra operazione (riflessione), che ce la riveli ». Quanto al secondo errore di classificare le operazioni del senso fra quelle della ragione priva di coscienza, è facile riconoscerlo mediante la stessa osservazione interna. Primieramente non è vero che tutto ciò che passa nel nostro sentimento sia scompagnato di coscienza; anzi è vero che « di qualsiasi nostro sentimento possiamo aver coscienza », e se non potessimo averla, non sarebbe sentimento nostro proprio , giacchè altro non vuol dire sentimento nostro proprio, se non sentimento di cui possiamo acquistare coscienza. Ma se di ogni sentimento nostro proprio possiamo aver coscienza, nel fatto però non l' abbiamo di tutti. Certo il sentimento non la racchiude in sè stesso, ma dobbiamo formarcela con l' osservare internamente quel sentimento che passa in noi. Ma dobbiamo distinguere i sentimenti nostri propri da quelli che possono essere nel corpo nostro, e non essere nostri. Fra i sentimenti nostri ve ne sono: 1 di quelli, di cui possiamo avere coscienza, ma non l' abbiamo, perchè non ci portiamo l' attenzione del pensiero nostro; 2 di cui abbiamo attualmente coscienza. Ora, che vi siano altresì dei sentimenti nel corpo nostro i quali non sono nostri, perchè non possiamo al tutto averne coscienza, ne abbiamo la prova negli entozoari, e possiamo congetturare che niun elemento corporeo ne sia privo; ma questi sono sentimenti fuori del nostro individuo. Le sole due prime classi di sentimenti appartengono al nostro individuo, e quindi sono nostri propri. Ora, fissando il pensiero sopra la seconda classe di sentimenti, che sono quelli di cui abbiamo attuale cognizione, possiamo ben discernere se essi abbiano natura razionale sì o no, appunto perchè li conosciamo, ne abbiamo coscienza. Ebbene, questa ci dice che quei sentimenti mancano dei caratteri della cognizione, perchè non hanno alcun oggetto , ma hanno indole esclusivamente soggettiva, sono semplici modificazioni del soggetto, e che la cognizione e la coscienza, che li accompagna, non appartiene ad essi. E questo è appunto ciò che separa essenzialmente il conoscere dalle altre entità; ogni cognizione è un atto , che termina in un oggetto , senza confondersi con esso. Nulla di ciò nel sentimento animale. Egli ha in quella vece natura opposta, cioè è un atto meramente soggettivo, senza che esca di sè per terminare in alcun oggetto da sè distinto, ossia che egli stesso distingua. E` dunque un errore il confondere, come fece la scuola animistica, i sentimenti cogli atti razionali dell' anima. La terza cagione, onde non si colse il vero principio dei fenomeni animali, si fu il non essersi conosciuta la natura del sentimento fondamentale, e creduto che tutto il sentire si risolvesse nelle sensazioni speciali, suscitate dagli stimoli extra7soggettivi. Quindi venne la meraviglia, che menava Galeno e dopo di lui altri molti, al vedere che l' uomo e l' animale sa muovere i suoi muscoli e nervi in servigio dei suoi bisogni, senza tuttavia conoscere quali siano, e come conformati i nervi e i muscoli che egli muove. Parve a cotesti filosofi e naturalisti impossibile a credere che la volontà umana facesse uso con sì grande sapienza di parti, di cui pur non ha cognizione, la quale non acquistano se non i dotti gradatamente collo studio dell' anatomia. Quelli che così ragionavano, non videro primieramente che la cognizione anatomica non è già l' unica cognizione, che l' uomo possa avere del corpo umano, nè la più fedele, cioè quella che gliene faccia veramente conoscere la natura. Non videro che l' esperienza esteriore, qual' è quella che guida gli anatomici nelle sezioni ed ispezioni dei corpi, è condizionata all' operare soggettivo dei sensi esteriori, degli occhi, del tatto, ecc.; i quali non presentano già a noi la natura delle cose, ma solo dei fenomeni risultanti da due concause, che sono la natura degli organi sensati strumenti di tale osservazione, e quella degli stimoli loro applicati, onde ciò che se ne ricava non sono quasi che fenomeni, che assai tengono del soggettivo, affatto alieni dalla natura propria ed intima del corpo osservato. Non conoscendo l' importanza di questa osservazione, ciecamente s' affidavano quei naturalisti all' osservazione extra7soggettiva, come l' unico mezzo e sicuro di conoscere i corpi animali. All' opposto il vero si è che il corpo si conosce con due esperienze, l' extra7soggettiva e la soggettiva; e che quest' ultima è quella che ce ne indica la vera natura. L' esperienza soggettiva suppone il sentimento fondamentale, pel quale il principio sensitivo sente tutte le parti del corpo, nelle quali quel sentimento si propaga. E` vero che in questo sentimento non cadono i confini esterni di queste parti, le forme, ecc., che sono fenomeni dell' esperienza extra7soggettiva; ma, come dicevo, l' esteso del corpo non è meno perciò sentito col sentimento fondamentale, benchè in tutt' altro modo che colle sensazioni esterne. Ancora è vero che questo sentimento fondamentale non è cognizione, ma solo materia possibile di cognizione; ma egli tuttavia suppone presente l' attività dell' anima sensitiva, dovunque si trova; e però non deve far più meraviglia che l' anima adoperi quelle parti, che ella sente ed investe, secondo le leggi del suo individuale sentimento, e a pro di questo; il quale è poi costituito da una suprema intelligenza, per modo che col suo operare ottenga dei fini sapienti; benchè non sieno fini se non pel Creatore, laddove pel sentimento sono termini, condizioni, atteggiamenti, stati piacevoli, a cui egli è volto incessantemente per le sue proprie forze naturali, per le quali egli è. Finalmente la quarta cagione dell' errore preso dagli animisti si fu il non aver distinto il principio dal termine del sentimento; nè quindi essersi potuti formare il giusto concetto di un' anima sensitiva, la cui essenza è appunto questa di essere il detto principio del sentire, e non il termine. La mancanza di questa distinzione importantissima li travolse in enormità, che assai contribuirono a screditare il loro sistema. E veramente, se non si distingue il termine del sentimento dal suo principio, che solo costituisce l' anima, si cade primieramente nell' assurdo di rendere l' anima sensitiva, materiale, estesa, mortale. Pressato lo Stahl dalle obbiezioni di Leibnizio, fu obbligato di confessare la necessità di questa conclusione (1). Ma in tal caso, o l' uomo avrà due anime, o l' identica anima parteciperà della materialità, della estensione, della mortalità! Per tutta risposta il religioso Stahl non dubita di dire che egli aspetta l' immortalità dell' anima umana non dalla sua natura, ma dalla grazia! (2). Di più, se non si distingue il principio del sentimento dal suo termine, inesteso il primo, esteso il secondo, non si può in alcun modo conoscere la dottrina dell' individuazione delle anime sensitive, nè la facoltà che hanno di moltiplicarsi senza dividersi. Ora, posto che questa dottrina non si sia ancor trovata, e che tuttavia si vogliano spiegare tutti i fenomeni animali ricorrendo all' anima; che si dovrà dire di certi fenomeni ammessi dalle parti disputanti per animali, e che succedono tuttavia nel corpo, anche qualche tempo dopo seguita la morte dell' animale, come, a ragion d' esempio, dell' irritabilità o controdistensione dei muscoli? Roberto Whytt, che ristorò in Iscozia il sistema degli animisti, non dubitò punto di affermare che l' attività dell' anima si conserva presente a quei muscoli e si aumenta sotto gli stimoli (1). Ritornando ora a noi e riassumendoci, noi vedemmo: Che l' anima razionale è unita al sentimento animale fondamentale per una percezione naturale ed immanente. Che essendo nel sentimento fondamentale due elementi, cioè il senziente e il sentito, l' anima razionale è unita conseguentemente all' uno e all' altro. Che l' essere unita al sentito è lo stesso che l' essere unita al proprio corpo soggettivo, per la quale unione ella diviene passiva, perchè esso corpo è passivo. Che dall' essere unita al senziente , ne viene ch' ella sia attiva, e possa operare su questo principio che regge il sentito, ossia il corpo, e così operare su di questo. Che il principio senziente nei bruti è ciò che costituisce l' anima sensitiva. Che il principio senziente ha quell' unione indivisibile col sentito, che abbiamo dichiarata a lungo nell' « Antropologia ». Dimostrando le quali cose, noi non abbiamo parlato che di passaggio del corpo extra7soggettivo. E veramente, quando sia spiegato il nesso dell' anima col corpo soggettivo, è spiegata altresì la sua relazione col corpo extra7soggettivo; perocchè questo è sostanzialmente quello stesso, ma vestito di altre apparenze a cagione del diverso modo e delle diverse potenze, per le quali viene da noi percepito. Tuttavia noi vogliamo qui dirne ancora alcuna cosa. I filosofi non conobbero troppo che sia il corpo soggettivo; essi concepirono sempre la sostanza corporea vestita di quei fenomeni, che loro porgeva l' esperienza esterna ed extra7soggettiva. E quando si proposero la questione: « come l' anima operi nel corpo o viceversa », intesero sempre per corpo l' extra7soggettivo; indi il loro imbarazzo. Ad uscirne conviene adunque dimostrare la relazione fra questi due corpi da noi percepiti; perocchè, conosciuta bene qual relazione passa fra l' uno e l' altro corpo, facilissimo riesce ad intendere come si eserciti l' azione dell' anima sul corpo extra7soggettivo, in conseguenza dell' azione sua sul corpo soggettivo. E con questa occasione abbiamo fiducia d' innalzare forse agli occhi di molti qualche lembo del velo densissimo, che ricopre il mistero della sensazione, al quale viene certo non piccola luce dal dichiarare il nesso che passa fra i fenomeni extra7soggettivi ed i soggettivi, nesso che noi, già prima d' ora, riponemmo nella medesimezza dello spazio, in cui convengono i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi. E di vero, se si ammette che vi sia un sentimento fondamentale diffuso per tutte le parti sensitive del corpo umano, di maniera che questo sentimento occupi lo spazio identico a quello in cui si manifestano i fenomeni extra7soggettivi, sicchè quel nervo stesso, a ragion d' esempio, che io veggo coi miei occhi e tocco colle mie mani (fenomeni extra7soggettivi), sia quello a cui sta inerente il sentimento soggettivo, che rende quel nervo naturalmente sentito ma in altro modo, cioè in un modo immediato, a chi lo possiede; in tal caso avverrà che tutti i movimenti prodotti in quel nervo, da una parte si presenteranno all' osservazione esterna come fenomeni extra7soggettivi, e dall' altra modificheranno effettivamente il sentimento soggettivo inerente al nervo. Si noti tuttavia che, quantunque noi diciamo un sentimento soggettivo diffondersi naturalmente in tutto lo spazio occupato dal nervo, non diciamo per questo che nel sentimento soggettivo naturale e fondamentale, questo spazio si delinei e si figuri. Nulla di ciò; lo spazio non viene figurato e limitato se non mediante la sensazione esterna, la quale dà i fenomeni extra7soggettivi. Uno dei quali fenomeni è quello delle sensazioni superficiali , non mai considerate dai filosofi, per quanto ci è noto, e di cui noi trattammo nell' « Antropologia ». Le sensazioni in superficie sono propriamente quelle che ci contornano i corpi e fanno nascere le loro forme, le loro grandezze determinate, e quindi le loro proporzioni; quelle perciò che ci somministrano tutte le cognizioni che l' uomo si va formando da tali elementi. E` così appunto che il mondo esteriore viene fabbricato, per così dire, dalla sensitività esterna dell' uomo. Il mondo interiore all' opposto, chiuso nel sentimento soggettivo, non presenta nulla di tutte queste appercezioni. Tuttavia lo spazio occupato dal sentimento fondamentale, ancorchè senza confini e senza relazioni con altri spazi, e però di apparenza oscura e semplice, non atta ad eccitar l' attenzione, è quello stesso spazio, per dirlo di nuovo, che in appresso dalle sensazioni esterne si definisce, ed affigura, e in certa maniera s' illumina e distingue dalla totalità dello spazio; ed è in questo medesimo spazio che riceve poi il movimento quell' organo corporeo, a cui aderisce il sentimento. Vero è che se noi poniamo che questo corpo, quest' organo corporeo, muti di luogo senza che nel suo interno avvenga moto relativo fra le molecole o particelle che lo compongono; nel sentimento interno, che inerisce al corpo, niente accade da cui altri si possa accorgere della mutazione locale; poichè la mera mutazione di luogo non è sensibile se non per la posizione relativa dei corpi esterni, che non viene data dal sentimento fondamentale e soggettivo, ma solo dalle sensazioni accidentali e dai fenomeni extra7soggettivi (1). Ma se nello stesso corpo vivente, a cui aderisce il sentimento, nascono dei movimenti intestini, come se un nervo si accorcia o protende per certa sua propria elasticità animale o contrattività; in tal caso il sentimento stesso, inerente al nervo, verrà a restringersi o a rilasciarsi, ad accumularsi in minore spazio o a distendersi in maggiore. Si attenda bene, non vogliamo già dire che il sentimento inerente a quel nervo presenti alla nostra coscienza il movimento; ripetiamo che il movimento non si rileva, se non in virtù dei fenomeni extra7soggettivi. Vogliamo dire adunque che il celere accorciarsi o rallungarsi del nervo sentito deve produrre necessariamente una modificazione al sentimento fondamentale; la sua attività deve eccitarsi, giacchè ha uno stimolo che lo sforza a conformarsi altrimenti. Il sentimento adunque così eccitato, in virtù di forza straniera, l' attività sua così scossa, stimolata, addensata, deve produrre una modificazione sentita, giacchè ogni attività del sentimento si sente. Ma qual foggia prenderà questa modificazione? Quest' attività sensitiva, tratta dal suo stato di quiete, in quali fenomeni si spiegherà? Questo è ciò che è impossibile predire a priori, e la sola esperienza ci può far conoscere. Ora abbiamo dall' esperienza che questi fenomeni sono le sensazioni transeunti, i colori, i suoni, gli odori, i sapori, le sensazioni tattili, ecc.. Queste sono dunque eccitazioni del sentimento fondamentale (1). Era difficile lo spiegare come i movimenti di un corpo potessero produrre queste eccitazioni in un sentimento, che non è corpo. Ma trovato che vi è un sentimento fondamentale, che aderisce essenzialmente al corpo, e che si diffonde nello stesso spazio del corpo, la difficoltà sembra vinta. Solamente vuol notarsi che, affin di trarre dal sentimento fondamentale certe sensazioni speciali, è uopo che egli sia scosso ed agitato con certi stimoli, secondo certe leggi, da certi movimenti, in certi organi a cui costantemente aderisce. E dico con certe leggi , poichè non tutti i movimenti degli organi eccitano il sentimento fondamentale in modo da svegliare le sensazioni. Il perchè ad ottenerle occorrono certe condizioni, un apparato di nervi, una maniera di scosse anzichè un' altra, una data celerità di tremiti. Tutto questo rimane ancora in gran parte nascosto. Aggiungiamo un' osservazione sul fatto innegabile della necessità che concorrano più organi a produrre una sola sensazione, a ragion d' esempio sulla necessità che i nervi ottici, i lobi del cervello e del cervelletto, i talami ottici, ecc., concorrano a produrre la visione. La necessità di un apparato di organi sì complicato a produrre una sensazione sì semplice, non farà meraviglia qualora bene si meditino le seguenti verità, già da noi dichiarate: Che il principio sensitivo è unico e semplice. Che la sensazione esige un' attività eccitata di questo principio sensitivo, vera causa della sensazione. Che tutto il sentito fondamentale in tutta la sua estensione sta nel principio sensitivo inesteso, non come un esteso sta in un altro esteso, ma come un sentito sta nel senziente: il che abbiamo chiamato rapporto di sensilità. Che il principio sensitivo viene eccitato, scosso, attuato dai movimenti intestini, che si producono negli organi, i quali sono parti del sentito. Che perciò questi movimenti, benchè vari e ai vari organi appartenenti, tutti tendono ad un solo effetto, cioè all' eccitamento del principio sensitivo, contraendo e addensando, e successivamente dilatando il sentito suo termine. Che perciò, quantunque ad ogni addensazione e dilatazione del sentito debba succedere qualche modificazione nel sentimento e nell' attività del principio sensitivo, tuttavia perchè si spieghino in esso sensazioni speciali non fa meraviglia che si richieggano movimenti d' una certa moltiplicità, varietà, frequenza, ecc.. Da tutte le quali cose ci sembra ricevere gran luce il nascimento della sensazione. Questo fatto era inesplicabile prima che si trovasse la distinzione fra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi; perocchè la spiegazione della sensazione è il medesimo che la soluzione della grande questione del commercio dell' anima col corpo. Rimanendo il pensiero dell' uomo entro la sfera dell' esperienza extra7soggettiva, invano s' affaticava ad inventare delle ipotesi; una reale comunicazione fra lo spirito e il corpo non si trovava giammai. Quindi i filosofi si divisero in due classi. Alcuni contraffecero il concetto dello spirito, lo resero extra7soggettivo, immaginarono in una parola che fosse qualche corpo sottilissimo sfuggevole ai sensi; così rendevano possibile la reciproca azione fra lui e i corpi più grossi. Altri ben s' accorsero che questo era un distruggere l' ente spirituale, un materialismo, e che avrebbe dato ragione di una relazione meccanica, ma non mai d' una relazione sentimentale; quindi negarono ogni influsso fisico fra l' anima e il corpo; e, ora sognarono varie ipotesi (1), ora più saggiamente applicarono a tal questione il nome di mistero, suggellando con questa bella ed onesta parola la bocca a sè stessi, e a tutti quei profani che ne volessero più oltre ragionare. Io credo che debba essere cosa amena ai lettori il dare un cenno degli strani pensamenti, a cui dovettero pervenire i primi affine d' immaginare come lo spirito, quasi un cotal fiato sottilissimo, si raggiungesse a questo nostro corpaccio così crasso e voluminoso, per una gradazione d' altri corpi più sottili intermedi. Prenderò la esposizione di tali sistemi da Giovanni Fernelio, a cui sembrano d' indubitabile certezza (1). Questi sgarramenti delle immaginazioni erano necessari, dato che si voleva pure spiegare la comunicazione dell' anima col corpo e non si sapeva conoscere la natura soggettiva di questo, onde altro non rimaneva che dare anche a quella una natura extra7soggettiva, ma sì tenue da sfuggire ai sensi. Quindi tutta l' antica filosofia si vide andare sullo stesso cammino in questo argomento. Seguitiamo la storia delle opinioni, sempre colle parole del Fernelio. Così egli passa ad esporre quella di Alessandro Afrodiseo (1): [...OMISSIS...] . Venendo all' opinione di Aristotele (2), che il Fernelio vuol conciliare colle precedenti, prosegue: « « Il perchè giustamente Aristotele espose che nel corpo seminale e spumoso si contiene lo spirito , e nello spirito la natura , la quale proporzionalmente risponde all' elemento delle stelle; significando apertamente che questo spirito s' interpone fra il corpo e quella divina natura, siccome un cotal vincolo comune. Nè solo alla mente, ma ancora a ciascuna parte caduca dell' anima diede un proprio spirito, asserendo che ogni facoltà dell' anima partecipa d' un altro corpo, d' un corpo più divino di quelli che si appellano elementi, e come le anime differiscono fra loro per nobilità e per oscurità, così anche la natura di questo corpo » ». Onde, raccogliendo le precedenti sentenze, il Fernelio chiude così assai gravemente: « « Se dunque con certo giudizio noi vogliamo pesare le ragioni sì di Aristotele che degli altri, apparirà manifesto che ogni parte dell' anima si appoggia ad un certo spirito, siccome a suo fondamento; pel quale spirito ella e risiede nel corpo, e vi eseguisce ogni funzione del suo officio » ». E per questo spirito intende il corpo sottilissimo veicolo del calore innato; perocchè il calore innato (1) non può stare senza un fluido, a cui aderisca e che lo contenga (2). Così, non avendo potuto questi filosofi pervenire a concepire la natura soggettiva di cui vedevano i fenomeni, si sforzavano invano d' attribuire questi fenomeni alla natura extra7soggettiva, assottigliandola in modo che sfuggisse ai sensi esterni, e si togliesse quindi all' esperienza extra7soggettiva; mostrando almeno con questo d' intendere che i fenomeni dell' anima si dovevano spiegare con qualche cosa che fosse alieno dall' esperienza extra7soggettiva, senza tuttavia sapere che cosa vi potesse essere al di là di questa esperienza, e senza intendere che le leggi del corpo extra7soggettivo, anche sottilissimo, e sfuggevoli interamente ai sensi sono essenzialmente le stesse, e che il corpo non muta natura coll' esser grande o piccolo quanto si voglia, giacchè la grandezza e la piccolezza sono meri accidenti, e nulla più. Se le anime umane fossero scevre dai corpi, niuno potrebbe dubitare della loro spiritualità. L' unione dunque, che hanno col corpo, è la cagione, onde pullulano i dubbi intorno alla loro semplicità e spiritualità nelle menti, che non giungono a ben conoscere la natura di quella unione. Perciò noi abbiamo speso il libro precedente ad investigarla. Rinvenuta questa importante verità, che fu pure argomento di tante disputazioni, dall' inutilità delle quali gli uomini più sensati, ma alquanto impazienti, s' erano affrettati a conchiudere che ella doveva essere un mistero impenetrabile, da una parte cessano le apparenti difficoltà che opponevano i materialisti, dall' altra ci è dato di poter mantenere la spiritualità, senza precipitare negli errori d' altro genere, in cui gli spiritualisti cadevano quando prendevano a spiegare il loro dogma vero, nobilissimo e consolante. Imperocchè l' armonia prestabilita, le cause occasionali, l' idealismo berkeleyano, l' atto aristotelico del corpo, i corpi sottili confinanti colla supposta esilità dello spirito (a cui si riducono i principali sistemi, coi quali si pretese spiegare i fenomeni animali che appariscono nella materia) sono altrettanti errori, fecondi di conseguenze perniciosissime. Giova dunque che ora noi, raccogliendo il frutto delle dottrine esposte nel libro precedente, ci occupiamo ex proposito di questa dote essenziale dell' anima, che fu detta semplicità o spiritualità. La quale si rannoda ad importantissime questioni, come è quella dell' origine, o generazione, o moltiplicazione dell' anima (chiamisi come meglio piace), che non sono difficili per altro, se non perchè è difficile a concepire in che modo l' anima, essendo spirituale e semplice, operi nel corpo e dal corpo patisca, e soggiaccia a passioni che sembrano simili (benchè non sieno che analoghe o proporzionali) alle passioni della materia. Incominciamo dunque dall' esporre, con maggior estensione che non abbiamo fatto, le prove dirette della semplicità dell' anima umana. E primieramente è da osservarsi che la parola semplicità fu presa in vari significati. Ella fu presa in primo luogo per escludere la moltiplicità , e in questo senso equivale al vocabolo unicità . In secondo luogo fu presa per escludere l' estensione , e in questo senso viene a dire inestensione . In terzo luogo fu presa per escludere la materialità (forza sensifera), ed allora si dice incorporeità o spiritualità . Ora in tutti questi modi conviene all' anima l' essere semplice. Le prove, colle quali si può dimostrare la semplicità dell' anima, si riducono comodamente a tre grandi classi, traendole: 1 dalla coscienza; 2 dalle speciali proprietà dell' anima somministrateci dalla coscienza; 3 dalle sue operazioni, cioè dal bisogno di supporre che l' anima sia semplice per dare a quelle operazioni una ragione sufficiente, una convenevole spiegazione. La prova immediata tratta dall' intima coscienza fu già esposta più sopra. Dalle proprietà dell' anima si può trarre la seguente dimostrazione della sua semplicità. Si parte dalla definizione dell' anima: « L' anima è il principio del sentire e dell' intendere ». Da questa definizione si raccoglie immediatamente che ella è semplice, cioè si raccoglie che la moltiplicità , l' estensione continua e la materialità non entrano nel concetto dell' anima. Ora ogni ente ha le sue proprietà, e per esse egli è determinato e distinto da ogni altro. Le proprietà, che specificano l' ente, non possono essere comunicate ad un altro che non sia di quella specie; perchè in tal caso le specie delle cose si confonderebbero, e le specie sono inconfusibili; la loro distinzione si fonda nell' ordine intrinseco dell' ente, il quale è eterno ed immutabile (1). Basta dunque provare che il concetto dell' anima e il concetto della moltiplicità, dell' estensione e della materialità sono concetti specificamente diversi per aver dimostrato che essi si escludono, e però che l' anima non è nè molteplice, nè estesa, nè materiale. E quanto alla moltiplicità , ella si oppone ad ogni sostanza reale, perchè niuna sostanza reale può essere se non è una. Quanto alla estensione continua , noi abbiamo veduto che ella non si trova se non nel sentito e nel sensifero. Ma l' anima è il principio senziente, e il senziente è un concetto specificamente diverso da quello del sentito e da quello del sensifero. Dunque l' anima non ha estensione. Allo stesso modo si prova che ella non ha alcuna materialità , poichè la materialità del corpo consiste in quella forza che muta violentemente il sentito, la qual mutazione solamente ci è nota. Ora la forza, che muta ed altera violentemente il sentito, ha un concetto interamente diverso dal sentito medesimo e molto più dal senziente, è forza bruta opposta al sentimento. L' anima adunque, che è il principio senziente, non ha da far niente colla materialità, è dunque immateriale. Se si prendono altre proprietà dell' anima, come quella di essere principio , si riesce alla stessa conclusione. Perocchè la natura del principio esclude la moltiplicità, l' estensione e la materia estesa. Partendo dall' identità dell' anima si ha il medesimo risultamento; sicchè quante sono le proprietà dell' anima, altrettante sono le prove della sua semplicità. Finalmente si può provare la semplicità dell' anima da questo, che ella è unica ragione sufficiente a spiegare le diverse sue operazioni, e questo si ottiene in tre modi. Perocchè si può dimostrare che semplice deve essere necessariamente il principio efficiente di tali operazioni: 1 dalla natura di esse , per l' opposizione manifesta tra l' esteso e il principio che l' ha per termine; 2 dal loro modo , per l' opposizione tra i fenomeni extra7soggettivi, che racchiudono il concetto di materia, e i fenomeni soggettivi, che soli appartengono al soggetto senziente; 3 dal loro termine , per l' opposizione tra la moltiplicità dei fenomeni soggettivi e l' unicità del loro principio. Quante prove adunque non possono dedursi a conferma della semplicità dell' anima! Ciascuna operazione dell' anima, esaminata che sia diligentemente, ne somministra tre; perocchè si può argomentare che l' anima è semplice considerando la natura , il modo ed il termine di essa operazione. E veramente, qualora sia dimostrato che una data operazione non può essere prodotta che da un principio semplice, questo principio già non può più contenere in sè stesso nulla che s' opponga alla semplicità. Conciossiachè se ciò fosse, egli non sarebbe più il principio di quella operazione, come si suppone che sia; giacchè semplice e non semplice, ei non può essere ad uno stesso tempo. Di vero, si ponga che quel principio abbia in sè qualche cosa di non semplice. Questo elemento non semplice già non è più il principio di quell' operazione, ma è altro. Dunque non è l' anima. Dunque basta un' operazione sola, a cui sia necessario avere un principio semplice, a dimostrare che l' anima è tutta semplice. La dimostrazione della semplicità dell' anima, cavata dalle operazioni intellettive, è assai facile ad intendersi da chi non ha la mente preoccupata, perchè quelle operazioni si manifestano ad evidenza immuni e pure da ogni concrezione materiale. Laonde anche gli antichi fisici, che vestivano l' anima quasi di più camicie corporee di etere finissimo conteste, non dubitavano di riconoscere la mente del tutto incorporea. Perciò appunto, cominciando dal più facile, noi esporremo prima le prove della semplicità dell' anima, che si traggono dalle operazioni sensitive (1), le quali anche sole bastano a provare la semplicità dell' anima umana. Perocchè, qualora sia dimostrato che le operazioni sensitive non si possono in alcun modo spiegare senza supporre che elle siano effetti d' una causa semplice, rimane con ciò dimostrato che tutta l' anima, a cui quelle operazioni appartengono, è semplice. Poichè, essendo il primo principio sensitivo sostanzialmente identico nell' uomo col primo principio intellettivo, se quello è semplice, deve esser semplice anche l' anima umana, che è il primo principio del sentire ad un tempo e del conoscere. L' efficacia della quale maniera di argomentare è sentita da Lucrezio stesso, laddove procaccia di volgerla a pro della mortalità dell' anima intellettiva, deducendola dalla mortalità dell' anima sensitiva: [...OMISSIS...] . A cui noi rispondiamo che l' anima sensitiva, si moltiplica, non muore, come vedremo; dunque neppur muore l' intellettiva. E con assai più di forza noi argomentiamo così: quella è semplice; dunque anche questa è semplice; o in altre parole, se l' anima sensitiva fosse estesa e corporea, potrebbesi dubitare non forse l' anima intellettiva ricevesse da essa qualche estensione e corporeità; ma essendo quella inestesa ed incorporea, può bene starsene unita all' anima intellettiva siccome semplice a semplice, senza che dalla loro unione e identificazione riuscir possa nulla di esteso e di corporeo perciò. Noi già dimostrammo altrove che le operazioni sensitive addimandano un principio semplice, a tal che involgerebbe contraddizione il farle produrre da un principio molteplice od esteso (1). Ma essendo le operazioni sensitive di due maniere, cioè passive ed attive , ci limitammo allora a dimostrare la semplicità dell' anima sensitiva dalle operazioni passive del sentimento. Ora simili prove si possono trarre dalle operazioni attive dell' istinto. Le prove poi della semplicità dell' anima, dedotte dalle operazioni tanto passive quanto attive dell' animale, si distinguono in tre classi. Poichè rimane egualmente dimostrato che il principio senziente è semplice: Dal considerarsi che la sensazione dell' esteso7continuo in niuna maniera può aver luogo, se non vi è un principio semplice, che abbracci colla virtù del sentire in sè tutta l' estensione continua ad un tempo. Dal considerarsi che i fenomeni extra7soggettivi del corpo, che si manifestano sempre contemporanei alla sensazione, non hanno con questa diversità ed opposizione, e che mentre questi sono molteplici, quella che si suscita contemporanea a questi è unica. Onde le azioni del corpo extra7soggettivo, come i movimenti delle fibre, ecc., non possono essere la causa immediata delle sensazioni, come anche vedemmo; ma possono essere solo fenomeni paralleli ad esse o loro causa mediata. Dal considerarsi che il principio medesimo di sentire prova più sensazioni. Conciossiachè la sensazione del molteplice è inesplicabile, se non si ammette un principio semplice, che abbracci in sè, per la virtù del sentire, quelle varie modificazioni ad un tempo. La prima di queste tre classi di prove distingue e separa al tutto l' anima dal corpo soggettivo e dall' esteso; la seconda esclude dall' anima ogni materialità propria del corpo extra7soggettivo; la terza esclude dall' anima ogni moltiplicità . Ed esse sono tutte suscettive di maggiore sviluppo. Accenniamo soltanto lo sviluppo che si potrebbe dare alle due prime. La prima prova cavata dalla natura del continuo fu già addotta nell' « Antropologia »; ma ella potrebbe essere ampiamente illustrata coll' autorità e colle speculazioni degli antichi sul bisogno di un principio semplice, che contenga il corpo, acciocchè il corpo non si dissipi in nulla. E veramente, se questa è la proprietà del corpo esteso, che ogni parte in esso assegnabile sia fuori dell' altra e sia dall' altra indipendente, come non s' arriva mai ad assegnare una parte nel corpo, entro la quale non se ne possano assegnare altre ed altre ancora, forza è che, se le parti non sono unite e contenute da un principio semplice, egli divenga una sostanza assurda, perchè è assurdo « ciò che non si può pensare », e nel corpo non si trovano le prime sue parti esistenti in sè stesse; conciossiachè in ogni parte assegnabile una parte minore è fuori delle altre tutte, sicchè non resta più niuna parte estesa, che sia tutta in tutta sè. Non rimangono dunque che i punti semplici, che sieno in sè; ma questi non sono corpo, nè parti di corpo esteso, perchè non sono estesi; nè per conseguente possono formare l' esteso, per quantunque si moltiplichino; perocchè una somma anche infinita di enti, ciascuno dei quali ha un' estensione eguale a zero, non può dare nel risultato che un' estensione zero. Dunque l' esteso o non esiste, o se esiste, altrove non esiste che in un principio semplice che lo raccoglie. Questa era l' argomentazione ineluttabile dei Platonici di Alessandria. Ecco come la riferisce Nemesio: « « Contro tutti quelli che affermano l' anima essere corpo, bastano quelle cose che furono disputate da Ammonio, maestro di Plotino pitagorico. Ed elle son queste: I corpi di loro natura si mutano, e affatto si dissipano, dividendosi all' infinito. Dunque se in essi nulla rimane che sia immutabile, hanno pur uopo di qualche cosa che li contenga e connetta, e quasi restringa insieme, e li rattenga; il che noi chiamiamo anima . Il perchè, se l' anima è un corpo qualunque, si finga pur tenuissimo, or di nuovo che cosa sarà ciò che lo conterrà? Poichè abbiamo pure dimostrato che ogni corpo ha bisogno d' un che, dal quale sia contenuto, e così all' infinito, fino che perveniamo ad una qualche cosa, che sia al tutto priva di corpo »(1) ». Chi è atto a sentire la forza di tale argomento, farà profitto applicandosi alla filosofia; chi assolutamente non è atto a ciò, ne abbandoni lo studio. Non è però a credere che questa maniera di argomentare appartenga all' età della scuola alessandrina; ella è una eredità, che quella scuola raccolse dai primi filosofi italici. Quando Senofane cominciò a parlare dell' unità come necessaria a spiegare la natura di tutte le cose, certo è da credere non avesse ancora idee distinte. Infatti Aristotele ci attesta che egli non ispiegò se parlasse di un' unità di materia, o di un' unità di concetto (2). Ma l' aver sentito così solo in generale e indistintamente il bisogno di ricorrere ad una unità per dare consistenza alla natura, era già un travedere, comecchesia, che il corpo non poteva essere senza qualche semplice che lo contenesse. A Senofane successero presso di noi Parmenide e Melisso, i quali tennero il principio dell' unità; ma il primo poneva, come congettura Aristotele, che l' unità procedesse dalla ragione, il secondo all' incontro voleva trovarla nella stessa materia (3). Sembra dunque che entrambi dimenticassero il senso , trapassando il primo fino all' intelligenza, e fermandosi il secondo nella materia; e ciò perchè il senso e l' intelligenza non erano ancora accuratamente distinti. Onde, mentre Parmenide confondeva il senso colla ragione, Melisso lo confondeva colla materia; ma entrambi travedevano pure il bisogno di un semplice per ispiegare la natura. Ora poi, che Parmenide sotto la ragione comprendesse il senso, vedesi da ciò che seguita in Aristotele, il quale dice che Parmenide giudica ciò che è ente essere uno, e ciò che è non7ente essere nulla: « Ma costretto a seguire quelle cose che appariscono, e stimando l' uno essere per la ragione, e i più essere secondo il senso, pone di nuovo due cause e due principŒ, il calido e il frigido , quasi dica il fuoco e la terra . Ora di questi l' uno, cioè il caldo, lo pone coll' ente, l' altro poi col non7ente ». Ora, come poteva dichiarare il fuoco condizione o proprietà dell' ente, che è uno per ragione, se non considerando il fuoco, ossia il calore, qual principio della vita prodotto in gran parte dalla respirazione dell' aria, che viene scomposta al contatto del sangue con una operazione simile a quella della combustione? Qui dunque si scorge manifestamente che nel suo ente e nel suo uno secondo ragione, interveniva la vita animale, ossia il principio sensitivo, che è quello appunto che per la sua semplicità ed unità dà ai corpi l' essere uni, che è quanto dire l' essere come tali qualche cosa, l' essere qual che sono, cioè corpi estesi. Seguì a questi un altro lume della scuola antica d' Italia, Zenone di Elea, i cui argomenti contro l' esistenza del moto chi ben li considera, tutti vennero da questo principio: « l' esteso non ha alcuna unità in sè stesso ». Se si prescinde adunque da un principio semplice, che contenga e renda uno il corpo, niuno dei fenomeni riguardanti il corpo è spiegabile, anzi è un complesso di contraddizioni e di assurdi (1). A questo argomento, tratto dalla natura del continuo, è affine quell' altro, tratto dall' esistenza dell' anima tutta in tutte le parti del corpo, il quale è svolto da S. Agostino (2), da S. Tommaso (3) e da tanti altri; nè i moderni hanno negato questo vero, se non perchè, abbandonata l' osservazione interna e la deposizione della coscienza, soli autorevoli testimoni quando trattasi di ragionare dell' anima, vollero andar vagando per via di astratti ragionamenti, immaginando l' anima come qualche tenue corpicciuolo, che dovesse aver sua sede in qualche determinata parte del corpo. All' incontro è tanto lungi che l' anima, il principio senziente, si limiti a dimorare in qualche punto determinato del corpo, che anzi è evidente ch' egli è dappertutto là dove sente; perchè la sua natura si riduce tutta all' atto immanente del sentire, senza che vi si possa aggiungere alcun altro elemento, che sia straniero a quell' atto. Ond' è che l' essere tutta l' anima in ogni parte del corpo dove sente, altro non significa se non ricever ella ed avere il sentito in sè stessa; ed è per ciò che questo argomento della semplicità del principio senziente si riduce al primo dell' unità del continuo; perocchè il continuo non è tale, se non perchè dimora nel semplice. Così concepì la cosa S. Tommaso, che affermò costantemente: « « magis anima continet corpus et facit ipsum esse unum , quam e converso »(4) ». E un illustre padre della Chiesa, pur italiano del secolo VIII, Paolino di Aquileja, scriveva la stessa cosa, dicendo che [...OMISSIS...] (1). Ora, venendo alla seconda delle prove indicate, quale evidenza non potrebbe ella ricevere, qualora, approfittando dei lavori degli anatomici e dei fisiologi, si volesse divisatamente raffrontare i fenomeni extra7soggettivi (della materia) a quelli corrispondenti del sentimento, facendone notare tutte le opposizioni? Darò un piccolo saggio di tale confronto. I nervi, ai movimenti dei quali risponde la sensazione, sono composti di sottilissimi filamenti, detti fibre nervose, comunicanti a quando a quando fra loro a foggia di plesso. Si ritiene ancora che ogni fibra nervosa abbia una tonaca fina e trasparente, detta nevrilemma. Il fenomeno adunque extra7soggettivo, che immediatamente precede od accompagna la sensazione, non è il movimento di una fibra sola, ma di un fascetto d' innumerevoli fibre. Se dunque la sensazione fosse l' effetto meccanico e materiale del movimento, in tal caso la sensazione dovrebbe essere, o almeno rappresentare, una moltitudine di movimenti diversi. All' incontro la sensazione è unica. Dunque è necessario un principio semplice, nel quale e in virtù del quale ella nasca, non potendo nascere nelle molte fibrille scosse contemporaneamente con tanti distinti movimenti. Dunque ella è frase del tutto inesatta, benchè ripetuta dall' eco di cento e cento scrittori, questa: « le impressioni delle cose esterne, ricevute nelle estremità nervose, si portano al cervello ». Che cosa sono queste impressioni? Sono forse gli idoli di Epicuro? Niuno ritornerà a tali sogni; non possono essere che movimenti. Ma i movimenti non si portano al cervello, ma a lui si comunicano, il che è quanto dire si estendono lungo la fibra nervosa fino al cervello. Si deve dunque una volta sostituire quest' altra maniera di dire: « Tutta la fibra nervosa, o la sostanza nervosa della fibra, si muove; e se il moto non continua fino al cervello, non si ha sensazione »; certo l' impressione stessa non può essere portata, perchè non è cosa che si porti, ella rimane dove fu fatta, nelle estremità, essa non è che il principio, non è che la spinta ricevuta del moto. Ciò posto, nel fenomeno extra7soggettivo, parallelo alla sensazione, altro non si ha che moto longitudinale (si faccia questo mediante filamenti solidi o liquidi, in modo meccanico o dinamico, ora è indifferente per noi) fino al cervello. Ora la sensazione, che è il fenomeno soggettivo che vi corrisponde, non presenta lunghezza, nè si sente nel cervello, ma nell' estremità, a cui fu applicata la forza esterna. Il fenomeno extra7soggettivo presenta dunque estensione, il soggettivo nessuna; il primo domanda movimenti diversi in diverse parti, nelle quali non si manifesta alcun fenomeno soggettivo. Questo dunque non è quello, nè è un mero effetto materiale o immediato di quello, poichè in tal caso ne terrebbe la similitudine e la natura; moto non può produrre che moto, se non vi è un principio di tutta diversa natura, estensione non può dare che estensione. I fenomeni extra7soggettivi sono ancora più complicati a sentenza dei fisiologi. I nervi sensibili sono legati fra loro, hanno certe dipendenze gli uni dagli altri, tolte le quali, non si manifesta più il fenomeno della sensazione. Magendie trovò con replicate esperienze, che la sensitività della testa, e particolarmente della faccia e delle sue cavità, dipende dal quinto paio di nervi, di guisa che se questo nervo è tagliato, prima che sorta dal cranio, la faccia nulla più sente. Di più, credette aver dimostrato che la sede principale della sensorietà generale e dei sensori speciali non è propriamente nel cervello, nè nel cervelletto, e ne reca in prova questa esperienza: [...OMISSIS...] . Un meccanismo ancora più esteso e complicato si manifesta nei fenomeni extra7soggettivi, che precedono od accompagnano il fenomeno soggettivo del vedere. Ora, se a fare che sorga un' unica sensazione, qual' è quella della vista, concorrono simultaneamente tanti organi diversi, è evidente che, oltre questi organi, deve esservi un principio unico e semplice, nel quale la sensazione stessa abbia esistenza; è manifesto che questo semplice principio non può essere nè un solo di quegli organi, giacchè un solo non produce la sensazione, nè tutti insieme, giacchè la sensazione è unica e non molteplice. A tanti fenomeni extra7soggettivi, inerenti a diversi organi come loro proprie modificazioni, corrisponde un solo fenomeno soggettivo. Questo dunque deve avere un principio unico e semplice, che riceve un' unica e semplice modificazione, parallela di quei molteplici, distinti ed estesi movimenti. Finalmente molti sono gli organi sensitivi, a cui corrispondono speciali classi di sensazioni. Distrutto l' uno o l' altro di quegli organi, cessa l' una o l' altra classe, non però tutte. Gli organi adunque servono a fare che sorga la sensazione con certa indipendenza fra loro. Ma il principio che sente è sempre il medesimo, sorgono in lui tutte egualmente le sensazioni delle varie classi. Egli non può essere adunque un organo speciale, nè la modificazione di un organo; ma deve esser tale che risponda a tutti egualmente gli organi; e questo è il principio soggettivo, a cui appartiene l' unicità e la semplicità, e perciò appunto essenzialmente diverso dal principio extra7soggettivo, a cui spettano le proprietà contrarie della moltiplicità e dell' estensione. A queste prove della semplicità dell' anima sensitiva paragoniamo alcune di quelle che ci hanno dato gli antichi, le quali tradotte nel nostro linguaggio riceveranno forse nuova chiarezza. Certo, quello che io ho detto fin qui non pretendo che sia nuovo, anzi solo detto nuovamente affine di renderlo ai nostri contemporanei di più facile intelligenza. Una prova della semplicità dell' anima fu dagli antichi dedotta dall' esser ella presente tutta in ogni parte del corpo, come abbiamo veduto di sopra. [...OMISSIS...] ; così Giovanni Massenzio (1). Or questa prova è oltremodo calzante, quando sia provato che l' anima veramente si trovi tutta in ogni parte del corpo per contactum virtutis . Ma su questo appunto si mossero dubbi, i quali sgagliardirono nella persuasione degli uomini quella prova. All' incontro, l' accurata disamina della maniera colla quale l' anima sente, le restituisce, le raddoppia il vigore. Da questa disamina ci risultò che l' estensione continua non può avere la sua esistenza che in un ente inesteso. Non viene quindi che l' anima sia tutta in ogni parte del suo corpo? Sì certamente; conciossiachè anzi tutto il suo corpo sensibile, in quanto è sentito, è in lei come in un principio semplice, per un rapporto proprio, che chiamammo di « sensilità (2) », dovendosi di più avvertire che, come dicevamo, in un corpo sentito soggettivamente si manifestano anche tutti i fenomeni extra7soggettivi della vita. Quindi è manifestamente l' anima, che dà al corpo vivente la sua mirabile unità: Aristotele argomenta la semplicità dell' anima dal conoscere che ella fa tutti i corpi indistintamente (4). Perocchè - egli dice - se ella fosse un corpo determinato, non potrebbe conoscere gli altri corpi; argomento che così S. Tommaso espone: [...OMISSIS...] Sul quale argomento furono dette dagli Scolastici le mille cose, e molti lo vollero inefficace. Ma per noi egli diventa efficacissimo, solo che se ne spieghi bene il fondo. Quell' argomento si deve prima di tutto volgere a provare la semplicità del principio senziente, e non dell' intellettivo, la quale viene appresso di conseguente, poichè il principio senziente è quello che da prima percepisce i corpi reali, là dove l' intellettivo solo li apprende ed afferma come sentiti. Se la percezione sensibile dei corpi spiegar si potesse supponendo corporeo il principio senziente e percipiente, l' operazione intellettiva che viene appresso non darebbe più fastidio, ella riceverebbe la materia, tale quale le sarebbe data. Ora poi, che il principio senziente non possa essere corporeo, si prova appunto così: se egli fosse un corpo determinato, non potrebbe mai sentire l' estensione nè propria, nè altrui, perchè non sarebbe tutto e il medesimo in ciascuna parte, e però neppure niuno dei fenomeni che si manifestano nell' estensione, il che è quanto dire non potrebbe sentire in modo alcuno. Questa è appunto la prima prova, che noi abbiamo data della semplicità del principio senziente (2); ed ella è irrepugnabile. Dal sapere che l' anima sensitiva è semplice, procede che ella sia indivisibile. Alcuni Scolastici sostennero che le anime belluine fossero estese e divisibili in generale (3); altri distinsero fra gli animali perfetti ed imperfetti, e vollero estese e divisibili le anime di questi, le anime poi di quelli, indivisibili. Lo stesso Suarez parla in più luoghi di anime divisibili. Ora sembrami manifesto che tali autori vennero a sì fatta opinione, unicamente perchè non considerarono che l' anima non è che il principio del sentire (il principio senziente), e che al principio compete essenzialmente l' essere semplice, altrimenti non sarebbe principio. Vennero adunque in tale errore non per iscarsezza d' ingegno, chè alcuni di essi l' ebbero squisitissimo, ma perchè il metodo investigato non era stato ancora perfezionato nell' età in cui fiorivano. Onde invece di esaminare l' anima direttamente coll' osservazione interiore, si volsero a ragionare di essa senza averla bene osservata, applicandole i principŒ generali dell' ontologia, della forma, della materia, ecc., i quali non si possono applicare ad un ente, che non ancora ben si conosca prima di tutto per via di osservazione. Essi dunque urtarono in quello scoglio appunto, nel quale vediamo rompere tutto dì i nostri scrittori di metafisica, assai meno degni di scusa, assumendo di sciogliere piuttosto la questione: « che cosa l' anima debba essere acciocchè soddisfaccia ai loro principŒ ontologici »(che è quanto dire ai loro pregiudizi), che l' altra, unica che il filosofo si deve proporre: « che cosa l' anima sia »; traendo poi dal sapere che cosa ella è, i veri principŒ ontologici esprimenti l' ordine dell' essere in universale. Già in antico s' erano fatte delle osservazioni sulla conservazione della vita in corpi troncati o divisi in parti. Aristotele, grande osservatore, ebbe distinti gli animali in perfetti ed imperfetti, e con somma sagacità detto dei primi che erano « « quasi molti animali insieme annodati » (2). » Aveva osservato ancora vivere lungamente le testuggini, a cui sia estratto il cuore (1). Averroè riferì aver veduto un ariete camminare con mozzo il capo, e, sulla testimonianza di Avicenna, un toro senza testa aver dati due passi (2). Somiglianti fatti si trovano riportati altresì da Tertulliano (3), da S. Agostino (4) e da altri. Ora, se invece di osservare direttamente l' anima, come ci viene data dalla nostra propria coscienza, noi vogliamo a tali fatti esterni ed extra7soggettivi subitamente applicare un ragionamento ontologico, ci riuscirà inevitabile il precipitare all' errore dell' estensione e della divisibilità delle anime sensitive. Noi ragioneremo così: se un polipo diviso in parti diviene più animali viventi, o l' anima prima s' è divisa ella stessa, od è perita, e invece di lei due altre ne vennero infuse. Sono esse nate dalla corruzione della prima? O uscirono dalla materia? O furono da Dio create? Difficoltà senza numero; per uscir dalle quali nasce l' irresistibile tentazione di dire quello che sembra più facile, cioè che la prima anima si è bellamente divisa in due, ciascuna la metà della prima. All' incontro, se si adopera l' osservazione, e da questa, unita ad un accurato ragionamento, si trae che la sostanza dell' anima è riposta nel principio di sentire, non è vero che in ogni animale il senziente deve essere unico e semplice, e che tanti sono gli animali, quanti i principŒ senzienti? Non s' intende subito che l' esteso non è che il sentito, e che solo l' esteso è quello che si può concepire suscettibile di divisione? Non s' intende, quindi, che se la divisione non può cadere che nell' esteso, ella di conseguente non può concepirsi nell' anima, perchè l' anima è il senziente, cioè l' opposto appunto del sentito? So che alcuni faranno le meraviglie, e dall' imperfetta ontologia che invade le menti (perocchè ogni uomo si crea un' ontologia sua propria, traendola dalla natura dei corpi, come questi fossero i soli enti, da cui trarre la natura e l' ordine intrinseco di ogni ente) si produrranno fuori molte obbiezioni, tutte comincianti dalla frase: « Come può essere... ». Ma io rispondo che il non sapere come una cosa possa essere, non fa ch' ella non sia, quando è data dall' esperienza; rispondo quello che la diritta logica di S. Agostino rispondeva, nello stesso argomento appunto in cui noi siamo, all' occasione che, contro la semplicità dell' anima da lui difesa, Evodio opponeva il fatto dei polipi recisi in brani tutti viventi. Infatti le obbiezioni che si possono fare ad una verità, ancorchè appaiano insolubili, non possono mai, secondo una buona logica, distruggere quello che è direttamente e solidamente dimostrato. Che anzi ogni dottrina eccellente, perchè profonda e recondita, presenta al comune degli uomini le massime difficoltà; ma i savi o le sciolgono, o, non riuscendo a scioglierle, conservano tuttavia la persuasione fermissima di quel vero, che hanno da prima ben conosciuto. E tuttavia chi trae la nozione dell' anima e delle sue attività unicamente dalla coscienza e dalla osservazione interna, e ne raccoglie i risultati imponendo silenzio ai presuntuosi pregiudizi, che mormorano sempre nell' animo, troverà la cosa non tanto difficile a concepirsi, com' ella sembra nel primo aspetto. Perocchè ne raccoglierà quello che noi dicemmo, cioè: L' esteso sentito non altrove poter esistere che nello stesso senziente semplice ed inesteso. Fra il senziente e il sentito, nulla cosa essere in mezzo, quindi formar essi un unico e semplice sentimento avente quasi due poli, l' uno inesteso, che è il principio, l' altro esteso, che è il termine. Quindi l' inesteso senziente esser tutto in ogni parte dell' esteso sentito, appunto perchè niuna parte potrebbe essere sentita, se ivi non fosse il senziente; giacchè il senziente e il sentito formano un solo ed unico sentimento (2). Il senziente essere limitato dal sentito, che è il termine del suo atto, sicchè dove è il sentito, ivi deve esservi necessariamente il senziente; ma dove non è il sentito, neppure può essere il senziente, giacchè il senziente non sente se non pel sentito; come il sentito non è sentito se non pel senziente, come fu di sopra spiegato. Sottostare, ossia aderire al sentito una materia corporea estesa, a cui il sentito è legato e da cui dipende (1), sicchè se quella materia si sottrae o si muta d' estensione, anche il sentito cessa o si muta d' estensione. Potersi quindi un sentito esteso continuo dividersi in più parti col dividersi della sua materia; e conseguentemente formarsi due o più sentiti non aventi comunicazione fra loro. Niuna ragione potersi trovare a priori, per la quale se il sentito di una data estensione si divide in due o più, debbano cessare di essere sentite, giacchè dalla quantità o figura dell' estensione non ha per sè alcuna dipendenza il sentimento. Onde, come prima di dividersi un sentito continuo in due, vi era in ogni punto dell' estensione il sentimento, e quindi anche tutto il senziente, così anche in tutti i punti delle parti divise e discontinue è naturale che rimanga un sentimento, e in ogni punto di esse rimanga il principio senziente. Ma poichè il principio senziente, benchè tutto esistente in ogni parte di ogni continuo sentito, non è uno se non perchè è uno il continuo e senza parti, quindi per la stessa ragione, dividendosi il sentito in più continui, anche l' attività sensitiva si moltiplicherà; giacchè l' attività sensitiva non risiede in un continuo solo, ma in più continui disgiunti. Questa moltiplicazione del principio sensitivo riesce difficile ad intendersi, perchè facilmente la nostra fantasia immagina che questo principio sia quasi un essere completo e sussistente senza il sentito, come a dire un cotal minimo corpicciuolo. Ma la cosa non è così. Conviene distruggersi nella mente quell' essere fantastico, e concentrare l' attenzione nella natura della cosa; considerare che in natura non v' è che il sentito, e che al sentito come sentito è essenzialmente unito il senziente, e che questo sente solo il continuo sentito, senza sentire sè stesso; perchè il sentito animale non ha alcuna riflessione sopra di sè, che anzi questo monosillabo sè non è affatto ad esso applicabile. Se quel principio non sente dunque che il solo sentito, e egli è senziente solo in quanto sente, non appare chiaro che, dato il sentito diviso in due continui, il senziente sentirà due continui; ma non sentendo sè stesso, non potrà conservare la propria identità nell' uno e nell' altro sentito, perchè divisi; il che è appunto un moltiplicarsi? Conviene dunque conchiudere che ogni anima sensitiva è semplice ed indivisibile; ma che tuttavia ella è moltiplicabile . Quando Trembley nel secolo scorso (1740) ed altri naturalisti ricominciarono ad osservare ciò che avevano già osservato gli antichi, cioè come le idrie ed altri polipi si moltiplicano per bottoni, che su loro nascono spontaneamente e per sezioni sì naturali che artificiali, trasecolarono di meraviglia, atteso l' imperfetto concetto che fino allora si aveva della positiva natura dell' anima. Noi abbiamo osservato nell' « Antropologia » (2) che la maniera di propagarsi dei polipi non devia punto dalla legge comune della generazione, la quale è un fatto egualmente mirabile in tutti gli animali siano vivipari, siano ovipari, siano gemmipari, o fissipari, od atti a moltiplicarsi in altro modo. E veramente ogni maniera di generazione avviene sempre « mediante lo staccarsi di qualche parte viva dell' animale, la quale anche staccata conserva la vita, e diviene un nuovo individuo della stessa specie ». Le differenze fra le varie maniere di generazione si trovano solo nelle « diverse maniere di staccarsi dall' animale la parte destinata ad essere un vivente da sè e a divenire un individuo perfetto della specie », e nelle varie condizioni che questo distacco addimanda; ma tali differenze non sono che accidentali, e si verifica sempre la legge medesima, che la generazione non è altro che « lo staccamento d' una parte viva dall' animale, che si conserva viva e s' individua ». Tutta la questione adunque si riduce a sapere « quali sieno le condizioni necessarie, acciocchè una parte viva che si stacca dall' animale, non perda la vita dopo staccata (1) e s' individui ». E noi crediamo che anche queste condizioni nei diversi animali variano solo rispetto agli accessori ed agli accidenti, ma si riducono sempre ad una condizione sola, ad una legge sola specificamente la stessa, la quale noi altrove esponemmo (2), ed è: « La vita si conserva nella parte viva staccata dall' animale, ogniqualvolta in quella parte si rinviene una cotale composizione di tutte le forze meccaniche, fisiche, chimiche, organiche e vitali, per la quale la materia del sentire sia continuamente conservata in quel suo stato nel quale ella trovasi idonea a fare l' ufficio di termine di quello specifico sentimento , che costituisce appunto la specie dell' animale ». Il termine variabile in questa formola si è « lo specifico sentimento costituente la specie dell' animale »; e dalla variabilità di questo termine si devono ripetere le varietà degli animali, e quindi anche le varietà, che si osservano nella maniera di propagarsi. Come adunque l' essenza dell' animale sta nel sentimento, così la classificazione specifica e veramente filosofica di essi deve riconoscersi nella varietà del loro sentimento fondamentale (3). La varietà di questo sentimento si desume dai fenomeni extra7soggettivi, che l' accompagnano, e che, sebbene non sieno immediati effetti del sentimento, sono tuttavia fenomeni collaterali a quelli del sentimento, e però segni dimostrativi di quello. Nondimeno, quanto all' estensione , ella è identica, come dicemmo, sì pei fenomeni extra7soggettivi e materiali che pei fenomeni soggettivi e sentimentali, poichè il sentimento si diffonde in quello stesso spazio nel quale appariscono i corrispondenti fenomeni extra7soggettivi (benchè ella si senta in modo diverso); di che noi tirammo la conseguenza che una stessa forza produce, agendo nell' anima, il sentimento, e agendo sopra sè stessa (sulla materia del sentimento), produce i fenomeni extra7soggettivi. Ora il fatto si è che, staccandosi certe parti vive dagli animali, ora queste parti staccate diventano animali vivi, ora no, ma periscono. Noi abbiamo riposta la cagione di tal differenza in questo, che nel primo caso la materia del sentimento si conserva in quello stato normale che è necessario, acciocchè ella possa essere termine di quel dato sentimento animale; nel secondo caso la materia perde quello stato normale. Ora lo stato normale consiste nella conveniente organizzazione, la qual sia cotale che conservi l' unità del sentimento. E qui si possono fare più questioni delicate ed importanti: Come la materia vivente, staccata dall' animale, perde quello stato normale d' organizzazione, che la rende atta a divenire termine d' un unico sentimento? Prima che si staccasse ella aveva certamente l' organizzazione necessaria perchè era sentita, e quindi in essa era pure tutto il principio senziente, tutta l' anima, che è là dove sente; ora, come può mantenere questa condizione anche una parte staccata? Rispondo, non potersi negare che una parte sentita, che si divide dal corpo d' un animale abbia, per sè considerata, uno stato di organizzazione conveniente ad essere sentita, e che niente può dimostrare che lo perda colla sola circostanza della divisione dal resto del corpo. Ma è da osservarsi che il principio sensitivo non sente solamente; ma è in una continua azione, e produce continui movimenti nel corpo vivo da lui sentito, di maniera che questo termine del suo sentire ha un continuo movimento intestino, che, come dicemmo, pone il senziente in continua eccitazione (1). I quali movimenti portano un' incessante mutamento nella più intima organizzazione della materia, e la fanno passare da uno stato ad un altro senza posa. Acciocchè dunque l' organizzazione normale si conservi, debbono questi nuovi stati rimanere sempre stati normali, a tal che il movimento si volga in circolo, ed alterando l' organizzazione non la distrugga, ma la rinnovi, ovvero anche la migliori. Ora, questi movimenti prodotti dall' anima sono di due maniere, procedendo o da quello che abbiamo chiamato istinto vitale , o da quello che abbiamo chiamato istinto sensuale (1). Ma i movimenti dell' istinto sensuale pregiudicano in certi casi ai movimenti dell' istinto vitale , li turbano, e così disorganizzano il corpo che l' istinto vitale tende ad organizzare via meglio, sicchè diviene la prima causa della morte (2). Di più, lo stesso istinto vitale, che è il principio organizzatore , deve sostenere una lotta colla forza bruta (3), i cui processi meccanici, fisici, chimici, ecc., si operano senza alcuna posa a lato di lui e indipendentemente da lui, e quindi talora procedono in direzione opposta a quella organizzazione, che esso tende a comporre. Se i processi di questa forza bruta sono contrari all' organizzazione, a cui tende l' istinto vitale, si operano con più celerità e veemenza che il processo organizzatore del detto istinto; è chiaro che la materia perde l' organizzazione necessaria alla vita animale; e questa è la seconda causa della morte . La morte si deve sempre ripetere dall' una o dall' altra di queste due cause. Applicando dunque queste teorie al fenomeno della morte in generale, s' intende perchè alcune parti, staccate vive dal corpo vivente, muoiono in brevissimo tempo, altre, anche dopo staccate, continuano a dimostrare i fenomeni della vita per un tempo considerabile più o meno lungo, ma finalmente vanno a morire; perchè alcune parti lentamente muoiono rimanendo unite all' intero corpo vivente, succedendo in esse quei processi di alterazioni intime, che le conducono alla morte, come avviene nelle cancrene, nelle paralisie; perchè alcune malattie (e tutte le malattie non sono mai altro che una serie dei processi, di cui parliamo) conducano il corpo intero alla morte, ed altre lo conducano alla sanità; s' intende finalmente perchè alcune parti staccate dall' animale rimangano costantemente vive, rifacciano quella parte di organizzazione che loro fu tolta; ovvero se l' hanno già intera, la sviluppino e la perfezionino; al qual ultimo caso viene dato il nome di generazione . S' intende ancora perchè avvenga anche il caso che, staccandosi dal corpo alcune parti, queste vivono, laddove il corpo, da cui si sono staccate, va a morire. Così l' ape maschio dopo fecondata la femmina, nella quale lascia infitti i propri organi generativi, va a morire. Muoiono pure dopo la fecondazione moltissimi insetti, come lo scarafaggio, la mosca effimera, la cocciniglia, ecc.. In questo caso nelle parti staccatesi, che compongono un nuovo individuo, succedono processi atti a conservarle vive; e nell' animale generatore succedono per le stesse cagioni processi più o meno rapidi, che lo conducono alla morte. Ma rimane a vedere perchè l' istinto vitale non s' accontenti di qualsiasi materia, ma la esiga organata in una data guisa affine di mettere in atto il sentimento animale; ossia, che è il medesimo, perchè il termine del sentimento debba essere piuttosto un aggregato di materia che un altro, una scelta, un tessuto che un altro. Se è vero che nell' animale l' anima è la sola forma sostanziale del corpo, se è vero che il sentito (corpo) esiste per la virtù del senziente (anima), se è vero che il sentimento costituisce l' animale in essere, deve esser vero altresì che lo specifico sentimento fondamentale sia quello, in cui si deve cercare la ragione, che rende necessario uno specifico organismo dell' animale, e non la materia quella che contenga la ragione delle varie specie di sentimenti. Mi spiego. Qualora l' aggregato della materia fosse quello che determinasse il sentimento complessivo, dovrebbe avvenire che ad ogni frazione di materia corrispondesse un sentimento unico complessivo7animale. Ma se il sentimento è quello che determina la frazione ed aggregato della sua materia, queste frazioni ed aggregati saranno tanti e non più, quanti possono essere i sentimenti fondamentali di cui parliamo. Rimane dunque a domandare: perchè i sentimenti fondamentali, costituenti altrettanti animali, sono certi e determinati, e non tutti quelli che si possono concepire? In questa inquisizione ci aiutano i dati dell' osservazione ed esperienza interiore, che si debbono accuratamente raccogliere. Uno di questi dati si è che il sentimento dell' animale riceve uno stato più o meno soddisfacente dallo stato del corpo, come pure secondo la condizione, le variazioni, i movimenti che accadono in questo, prova piaceri o dolori. Di che si raccoglie che ogni sentimento fondamentale ha in sè certe leggi, per le quali si modifica, ricevendo ora un moto di perfezione, ora un moto di deterioramento. Se un sentimento fondamentale è suscettivo di un modo di perfezione, la sua azione tenderà a conseguirlo, e ad allontanarsi dall' estremo opposto. Questo modo o stato perfetto del sentimento è certamente cosa che si avvera in lui, e non fuori di lui; onde il principio vitale ed il sentimento stesso, supponendolo attivo, supponendolo in una continua tendenza ad atteggiarsi ed a comporsi nel suo modo di essere più perfetto, più naturale, più soddisfacente, muoverà e modificherà incessantemente il sentito; e muovere e modificare il sentito viene al medesimo che muovere e modificare il corpo, e per conseguenza la materia che vi soggiace. Così il principio vitale e senziente affine di porsi nello stato suo più naturale, nel suo modo più grato di essere, atteggia, compone, raffazzona sè medesimo; e con questo sforzo organizza la materia in cui opera, o a cui può stendere per la contiguità la sua operazione, o certo tende a sottometterla, ad organizzarla come più gli è grato. Quindi nel sentimento fondamentale, dove giace l' attività animale, si deve cercare lo stampo della specie, la forza plastica e la ragione, che fa che ogni animale riproduca un altro animale simile a sè. E` così che noi intendiamo e spieghiamo la vis essentialis di Gaspare Federico Wolf (1), l' epigenesi di Aristotele, di Galeno, di Cartesio, d' Harvey, di Giovanni Tuberville Nèedham e di Müller; il nisus formativus di Blumenbach, di Barthez e di altri; le forme plastiche di Cudworth; l' attrazione delle parti e la superstruttura degli organi di Maupertuis; il potere di creare e di organizzare il feto, che lo Stahl dà all' anima; l' archeo e lo spirito formatore di Van7Helmonzio. Certo, questi autori non vanno appieno d' accordo, e spesso dicono cose manifestamente false, ed adoperano sovente delle maniere al tutto improprie di spiegare il loro pensiero (a ragion d' esempio l' anima seminale da Van7Helmonzio collocata nella matrice); ma tutti convengono in una verità innegabile, la quale si è che nella natura v' è un principio organizzatore. Ora questo è ciò che noi crediamo di vedere nel principio vitale e nell' istinto sensuale operante d' accordo con quello (1). Non si può negare essere un fatto, che il sentimento dell' animale abbia vari stati piacevoli e dolorosi con una gradazione e varietà di piacere, e con una gradazione e varietà di dolore. Neppure si può negare che sia un fatto esibitoci dall' esperienza, che ad ogni stato del sentimento animale corrisponda una condizione del corpo, che è suo termine. Che anzi lo stato del sentimento animale, venendo sempre determinato da ciò che sente, e non sentendo quel sentimento mai altrove che nell' esteso corporeo, è manifesto che dalle condizioni di questo esteso corporeo, cioè del sentito, deve dipendere il trovarsi bene o male il principio senziente. Finalmente neppure si può negare che nel sentimento giaccia un' attività, e che questa cerchi di raccorsi ed acconciarsi seco stessa nel modo più grato e però a lei più naturale, e quindi ch' ella operi conseguentemente nel corpo, suo termine; la quale attività è poi anche quella che produce tutti i moti dell' animale, e che fa, a ragion d' esempio, che un insetto collocato supino cerchi a tutta possa di raddrizzarsi, e ricollocarsi nella postura sua naturale. Questi tre fatti non si possono negare. Ma rimane dopo di ciò a investigare quale sia la ragione, per la quale un sentimento animale abbia uno stato soddisfacente, e ne abbia altri meno soddisfacenti, ed altri ingrati più e più, e finalmente perchè cessi d' esistere. Se noi consideriamo il sentimento fondamentale e sostanziale come un ente specificamente determinato, non si potrebbe fare altra risposta alla questione che si propone, se non che la ragione dei suoi diversi stati grati ed ingrati giace in lui medesimo, è la legge di sua natura, procede immediatamente dall' ordine intrinseco di sua costituzione. Ogni ente ha un ordine interiore, e la ragione ultima di quest' ordine si rifonde nell' ordine intrinseco dell' essere essenziale; questo essere essenziale e il suo ordine è il fatto primo, che contiene la ragione ontologica sufficiente di tutti gli altri fatti, al di là del quale non si può cercare altra ragione di sorta. Ma poichè il sentimento animale, benchè uno e semplice nel suo principio, porge all' osservazione ed all' analisi una sua propria moltiplicità e composizione, risultando da certe intime azioni e passioni, perciò rimane ancora aperto qualche adito a ricercare nell' interna costituzione di lui la ragione dei suoi accidenti e delle sue vicende. Tentiamo dunque di spiare, se ci riesce, la natura, quasi riguardandola per le fessure. Io suppongo qui come certi questi principŒ: Il sentimento animale è per la sua essenza piacevole, è l' attività di godere; sicchè egli ha tanto meno di sua propria entità, quanto ha meno di attività di godere (attività di godere equivale a godimento fondamentale). Il sentimento, l' attività di godere, ossia il godimento fondamentale, può essere diffuso più o meno equamente in un continuo, e può essere più o meno quasi addensato in un punto fisico del detto continuo, o in più punti, quasi centri del godimento e dell' attività, sia mediante un eccitamento incessante, sia in altro modo. Essere il godimento fondamentale accentrato e condensato equivale a dire essere più intenso e vivo in un luogo che in un altro. Quanto più il godimento fondamentale e continuo è intenso, ha anche tanto più di attività istintiva. Negli animali più perfetti il godimento fondamentale è più accentrato e più intenso, e più molteplici sono le funzioni della vita; all' opposto negli animali imperfetti il godimento primitivo e fondamentale è meno accentrato, più sparso uniformemente, o invece d' un centro solo ha più centri, e quindi anche l' attività, le funzioni e i segni della vita sono più scarsi e meno osservabili. Dall' essere il godimento primitivo e fondamentale più o meno accentrato, più o meno intenso, io stimo che nasca la differenza specifica del sentimento fondamentale costituente l' animale; e quindi la base di una distinzione filosofica delle varie classi o specie di animali. Ai diversi sentimenti fondamentali risponde nel mondo extra7soggettivo una diversa scelta di materia, una diversa elaborazione di essa, una diversa primitiva organizzazione. Se la materia conveniente viene sottratta, o se non viene convenientemente elaborata, o se l' organizzazione opportuna si scioglie, il sentimento fondamentale soffre più o meno, e anche cessa, cioè si dirompe in più sentimenti perdendo l' unità del suo termine. Presupposto tutto ciò, io stimo che l' agglomeramento specifico del sentimento, posto dalla natura nel primo istante in cui l' animale esiste (o almeno il sentimento considerato secondo il suo tema), non può mai essere accresciuto dall' attività propria dell' animale; ma che questa attività tutta si volge a conservarlo lottando colle forze contrarie. Questa attività tende ancora a procacciarsi delle sensazioni piacevoli transeunti (istinto sensuale); ma queste sensazioni non fanno già che il sentimento fondamentale si agglomeri maggiormente in qualche punto, non sono che atti secondi passeggeri dello stesso sentimento. E` bensì vero che l' animale si sviluppa; ma io considero questo sviluppamento come effetto di quella attività, per la quale egli tende a conservarsi (istinto vitale), a conservare il tema del suo sentimento fondamentale , associata con quella per la quale tende a procacciarsi sensazioni passeggere (istinto sensuale), senza che il fine diretto, a cui tendono queste due attività, sia lo sviluppo e l' ingrandimento. Volendo il sentimento fondamentale conservarsi secondo il suo tema, e volendo emettere i suoi atti, cioè le sensazioni passeggere, accade che non possa farlo senza quei movimenti vitali, i quali per un po' di tempo lo sviluppano e perfezionano; ma, passato il periodo della sua perfezione, lo fanno anche decadere ed invecchiare, sicchè lo sviluppo ed il decadimento sono sequele naturali dell' uso dell' attività vitale e sensuale, non il prossimo fine in cui tendono questi due rami dell' attività animale. Si potrebbe anche concepire il pieno sviluppo dell' animale come stato di massima perfezione, e supporre che solo in tale stato il sentimento fondamentale sia giunto alla massima sua intensità, secondo il tema suo naturale. In tal caso converrebbe assumere per tipo costante, ossia stampo specifico dell' animale, la proporzione nella quale il sentimento è compartito nei diversi punti del suo termine , e quindi l' indole e il carattere dell' armonia di azione propria dell' animale. Poichè dove il principio senziente è unico, unica certamente e tutta armonica è questa azione, che si origina nel sentimento. Ma essendo maggiore l' attività dell' animale dove è maggiore il sentimento, se il sentimento ha un centro solo, avrà un centro solo anche questa azione, e se il sentimento ha più centri, anche l' attività animale avrà più centri, e così nei vari punti del sentito vi sarà attività maggiore o minore, secondochè vi è maggiore o minore sentimento; dove si parla sempre di sentimento d' eccitazione, che suppone dinanzi a sè il sentimento della continuità. Onde, rimanendo eguale questa proporzionata distribuzione di sentimento, rimarrà sempre eguale il carattere dell' armonia dell' attività animale in tutti gli stati che l' animale prende successivamente sviluppandosi. E questo carattere costante di armonica attività può essere quello che costituisce la specie dell' animale. Ora poi, pigliando questa proporzionata distribuzione di sentimento e di attività pel carattere che contraddistingue la specie, è necessario riconoscersi come legge costante che l' attività animale, almeno se non è perturbata da forze ed accidenti stranieri, non tende a mutare, nè a migliorare questa distribuzione caratteristica e primitiva di sentimenti e di attività, ma a conservarla e giovarsene cavandone piacevoli sensazioni; ma ne consegue in appresso la mutazione, quasi direi praeter intentionem . La qual legge riconosciuta, se ne hanno i seguenti corollari: I Che ogniqualvolta il principio senziente ed attivo, tendente a conservare il tema del sentimento fondamentale ed a godere da lui speciali sensazioni, opera nella materia, o questa gli resiste e si sforza di sottrarsene colle sue forze meccaniche, fisiche, chimiche, ecc., ovvero gli ubbidisce e cospira in qualche modo con esso. Nel primo caso nasce il fenomeno del dolore, che è la lotta del principio senziente colla sua materia e l' incipiente prevalere di questa, onde il principio senziente rimane frustato nella sua tendenza, e il sentimento viene posto in una condizione contraria alla sua natura, che è essenzialmente quella di godere; rimane allora il sentimento mozzato, minorato, o affaticato nel suo conato incessante di giungere a ciò a cui non può giungere; quindi si rattrista e addolora. Se poi la materia ubbidisce, cospirando le forze brute al fine del sentimento, hanno luogo in esso i contrari effetti. II Che se poi il sentimento fondamentale perde nella lotta talmente da deteriorarsi pur in ciò che forma la sua specie, se la condensazione specifica del sentimento e l' attività armonica conseguente si rende impossibile, quel sentimento specifico diviene impossibile del pari, il che è quanto dire l' animale muore. III Ma se vi fosse un animale, il cui carattere specifico fosse la diffusione del sentimento al tutto equabile senza condensazione di sorte, dovrebbe moltiplicarsi in tanti animali, quanti fossero i brani che di lui si facessero, giacchè in ciascuno vi sarebbe l' equabile distribuzione del sentimento, che costituisce la specie di quell' animale. S' intenderebbe altresì come il principio vitale potrebbe facilmente rimarginare le ferite, date almeno le condizioni esterne necessarie in ogni caso alla sua nutrizione. IV Procede ancora, che gli animali nei quali il sentimento è accumulato in molti centri con una intensità eguale, si debbano facilmente moltiplicare tagliandoli, o riprodurre a guisa di gemme, conciossiachè rimane in ciascun pezzo maggiore o minore numero di questi centri; onde la legge della loro azione armonica e la proporzione, nella quale il sentimento è compartito, rimane la medesima. Il che spiega la moltiplicazione degli animaletti infusori, nè fa più meraviglia la strana maniera di moltiplicarsi di quel tricode, dal Müller denominato Caron, il cui ventre si rigonfia come una bolla prima trasparente e poscia opaca, scoppiando in fine con tanto impeto da far saltare l' animaluccio in più di cento pezzi, ciascuno dei quali diviene un tricode perfetto (1). E non dissimile a questa nostra è la ragione, che dà S. Tommaso della moltiplicazione per taglio degli animali anellati. [...OMISSIS...] . V Che se poi la sequela dei movimenti vitali e sensuali, che l' attività animale produce in sè, fosse di mutare il centro del sentimento, o la sua intensione, il suo tema, dovrebbe vedersi un cangiamento totale nella organizzazione, e un animale cangiarsi in altro senza morire. Il che è appunto ciò che accade in certe specie viventi, come nei vermi che passano a stato di crisalide, e poi di farfalla. Ma il VI importantissimo corollario, che viene dalla precedente teoria, si è la possibilità della generazione spontanea, di cui parleremo nel seguente capitolo. Apparisce da quanto è detto che, se fosse verificato quel modo di generarsi tanto asserito dagli antichi, tanto negato dai moderni, chiamato da quelli per putrefazione, da questi generazione spontanea, esso rientrerebbe nella stessa legge universale, che presiede alla moltiplicazione degli animali. Allorquando il sentito, e di conseguente la materia del corpo animale, venendo meno l' organizzazione, non potesse più conservare l' unità del sentimento, nè il carattere specifico dell' armonia delle sue azioni, avverrebbe in queste tale discordia, che invece di cospirare tutte al mantenimento dell' unità del sentito, divergendo le une dalle altre, ciascun centro intenderebbe a costituirsi da sè stesso. Ora, questa intima lotta nelle varie attività del sentimento, sorgente quasi in tutti i punti dell' esteso sentito, questa disunione e dissoluzione di esse, come spiegherebbero il fenomeno della fermentazione putrida, così pur spiegherebbero la formazione dei minimi animali, che ne seguiterebbe. La qual maniera di moltiplicazione differirebbe poi dalle altre tre o quattro solo in questo, che mentre le altre propagano l' animale della stessa specie o lo trasformano, questa discioglie l' animale per comporne altri d' altra specie coi suoi squarci e brandelli, vera generazione equivoca. Alla metà del secolo scorso, un sacerdote cattolico in Inghilterra riprodusse l' opinione della generazione spontanea, e tolse a provarla con esperimenti microscopici (1). Da quell' ora molti naturalisti la sostennero, fra i quali Vrisberg, Ottone Federico Müller, Ingenhous, Bloch, Lamark, Treviranus, F. Meckel, Rudolphi (2), Bremser, de Blainville (3), Fray (4), Carlo Federico Burdach, Dellechiaje (5), ecc.; in una parola ella oggidì è divenuta quasi opinione comune fra i naturalisti (6). In una nota, posta ai « Nuovi Elementi di Fisiologia » di Richerand, così si parla degli animali infusori: « « Questi esseri viventi, che l' occhio non può ravvisare senza l' aiuto del microscopio, sembrano il prodotto di una generazione diretta o spontanea. La natura per mezzo del calore e dell' umidità dà loro la nascita; noi non sappiamo in che modo ella vi impieghi certi fluidi imponderabili, come il principio della elettricità; nonostante è molto probabile che una piccola massa gelatinosa possa, per la riunita influenza di tali cause, trasformarsi in un tessuto cellulare organizzato e vivente. Ecco senza dubbio in qual maniera si formano le monadi, e quella folla di animaletti microscopici, che pullulano e si agitano con tanta attività in seno di un' acqua stagnante. Il calore della estate sembra indispensabile alla loro produzione, perchè essi non si ravvisano più in tempo freddo. I tempi burrascosi ne favoriscono pure la moltiplicazione. Come il professore Lamarck ha molto bene osservato nella sua Filosofia Zoologica , tomo 2, i moderni sembrano avere rigettate troppo assolutamente le opinioni degli antichi rispetto alle generazioni spontanee; senza dubbio dal seno di un toro putrefatto non potranno uscire animali così composti come le api; ma non è a dire lo stesso di quegli esseri che presentano un primo abbozzo di organizzazione. Le monadi fra gli animali infusori, il byssus nelle prime famiglie delle alghe, sembrano il prodotto immediato del calore umido, avvalorato dalla influenza dell' elettricità »(1) ». La generazione spontanea parve ai materialisti una prova del loro sistema. Mossi da questo secondo fine, la sostennero acremente, e cantarono vittoria (2). Per la stessa ragione, quelli che ammettevano la spiritualità dell' anima presero ad impugnarla. Erravano gli uni e gli altri. Perocchè se il fatto della generazione spontanea si riscontra veramente nella natura, non si deve certo dire, come disse Cabanis, che la pura materia da sè stessa passa alla vita (3); ma si deve anzi dire che dunque ella viveva, e che il principio di vita che era in essa, operando nella sua materia, produsse l' organismo. Laonde questo gran fatto sarebbe prova evidentissima d' un principio immateriale. Un medico recente della scuola di Broussais, dopo avere indicato il problema proposto da Becquerel: « « Come si effettuò il passaggio dalla natura inorganica alla natura organica »(1) », dice: « « Le generazioni spontanee potrebbero non poco aiutare la soluzione del problema; poichè se fosse vero che la materia morta può colle sue proprie forze vestirsi di organizzazione, la questione sarebbe sciolta in gran parte »(2) ». Ma le generazioni spontanee non dimostrerebbero mai che la materia fosse morta; anzi dimostrerebbero chiaramente ch' ella sarebbe viva (3). Basta dunque fissar bene il concetto di corpo e di materia; quello e questa non sono che il termine del sentimento. Tale è l' unica idea che ne hanno gli uomini, e non ne possono aver altra, se non giocano d' immaginazione. Ora il termine del sentimento richiede il principio senziente, e questo non può essere che al tutto semplice, perchè se fosse esteso, sarebbe termine. La questione adunque è ridotta a cogliere l' idea di corpo e di materia in quell' istante in cui l' uomo l' acquista, prima che egli stesso la alteri colla sua immaginazione; e la questione posta così chiaramente è tosto finita, perocchè ne risulta che dappertutto dove vi è sentimento, ivi vi è un' anima essenzialmente semplice. Nel libro, che contiene le più antiche origini delle cose mondiali, Iddio comanda alla terra di germinare i vegetabili prima ancora che risplendessero il sole e la luna. Posti questi due luminari nel cielo, Iddio comanda alla liquida sostanza di produrre i rettili, i pesci, gli uccelli; e l' acqua e l' aria furono popolate. Appresso comanda ancora alla terra di produrre i giumenti, i rettili della terra, e le bestie secondo le loro specie; e la terra ubbidisce (4). Se ne indurrà forse che le sostanze materiali, che al cenno di Dio producono gli animali, fossero al tutto prive di vita? Sarebbe indurne il maggiore assurdo, e al tutto gratuitamente. Anzi lo stesso Mosè dice che fino dalla creazione della materia lo spirito di Dio fecondava le acque (1). Questo spirito di Dio venne inteso da qualche antico padre per lo spirito della vita animatore delle cose. La ragione poi, perchè si dice fecondare le acque, cioè la materia liquida anzichè la solida, si trova osservando che solo la materia sottile è atta alla generazione spontanea degli animali, e noi ne daremo una ragione più sotto. S. Teofilo, che fu innalzato alla cattedra antiochena nell' anno 16., dichiara che Mosè « « per lo spirito che spaziava sulle acque intende quello che Iddio diede alle creature per la generazione dei viventi, come l' anima all' uomo, congiungendo tenue con tenue (perocchè tenue è lo spirito, e tenue l' acqua) acciocchè lo spirito fecondasse l' acqua, e l' acqua insieme collo spirito, pervadendo ogni cosa, fecondasse la creatura »(2) ». Una testimonianza tanto antica è una grave autorità. Ora, che la sostanza materiale così fecondata possa dal principio vivente essere organizzata in varie forme secondo le circostanze, questo non è materialismo. Quando Cuvier, studiando le ossa fossili, trovò tante specie di animali intieramente perdute, il paleoterio, l' anoploterio, l' antracoterio, il plesiosauro, il megalosauro, il pterodactilo, l' ichtiosauro, ecc., fu detto che la temperatura del globo, la fecondità della terra, le circostanze influenti sull' organizzazione dovevano essere diverse dalle presenti. S' immaginò ancora che quelle specie perdute, così diverse dalle presenti, fossero il prodotto della terra dotata di altra virtù, in altre circostanze atmosferiche, ecc.. Qualunque opinione s' abbracci sopra di ciò, ella sarà falsa quanto si voglia; ma non cadrà mai a favore del materialismo. Perocchè, quand' anche dal suolo uscisse fuori composto d' un tratto un mastodonte o un rinoceronte, nient' altro se ne potrebbe ragionevolmente indurre, se non che un principio vitale era nel suolo, ed egli fu l' occulto organizzatore di quei grandi corpi. Dalle cose precedenti il lettore può raccogliere che la vita, l' anima sensitiva, si può trovare unita alla materia anche quando non apparisce con fenomeni esterni extra7soggettivi. Noi vogliamo in questo capitolo proporci l' ipotesi che il senso si trovi unito a tutti i primi elementi della materia, ed esaminare se una tale ipotesi trarrebbe dopo di sè funeste conseguenze. Intanto una tale ipotesi può essere certamente falsa; onde ella deve essere verificata colle esperienze di fatto le più accurate, prima che si ammetta. Del resto noi non vediamo ancora alcun argomento che ce la provi assurda; e d' altra parte ci pare che a torto, facendole aggiunte arbitrarie che la snaturano, si pretese adoperarla a sostenere ora il materialismo , ora il panteismo . Quanto al materialismo, è evidente che in nessun modo si può trarlo legittimamente da essa, sol che si consideri che se ogni elemento materiale ha seco congiunto un sentimento, l' elemento esteso non può essere che il termine di questo sentimento; il quale sentimento d' altra parte esige un principio semplice come suo essenziale costitutivo. Quanto al panteismo, è al tutto indifferente l' ammettere che le sostanze animate, che si trovano nell' universo, sieno più o meno, siano alcune o siano anche tutte; purchè si conceda che sono create e però al tutto distinte dal Creatore, il panteismo rimane escluso. In secondo luogo non si deve confondere l' ipotesi che dà il sentimento ai primi elementi della materia, coll' ipotesi dell' anima del mondo concepita dagli antichi. Neppure questa seconda adduce di necessità il panteismo, per quantunque erronea, purchè sia convenuto che quest' anima è creata. Ma quella dell' animazione dei primi elementi importa di più, che le anime possano essere molte, quanti sono gli elementi separati o i gruppi di essi. Essendo dunque queste anime individualmente distinte, e in ogni caso atte ad essere distinte e moltiplicate per via di separazione, non potrebbero giammai confondersi colla divina sostanza semplicissima com' ella è, e in nessuna maniera moltiplicabile. In terzo luogo il sentimento corporeo è affatto distinto dall' intelligenza; egli è cieco. Iddio all' opposto è intelligibile ed intelligente per propria essenza, onde non può essere in alcun modo confuso con un' anima sensitiva. In quarto luogo l' anima sensitiva non è che il principio senziente, e la materia è il suo termine, opposto a quello per natura. Queste sono due nature diverse; è dunque impossibile ridurre tutte le cose ad una sola natura o sostanza, come fanno i panteisti. Acciocchè dunque taluno dall' animazione degli elementi creda poterne cavare il panteismo, egli deve: 1 confondere ciò che è contingente con ciò che è necessario; 2 confondere ciò che è moltiplicabile con ciò che è immoltiplicabile; 3 confondere il senso coll' intelligenza, cioè essere sensista (1); 4 confondere il principio senziente col suo termine sentito, perocchè il panteismo non è veramente altro che la confusione assoluta, onorata del titolo di sistema. La sintesi nella mente umana precede la distinzione dei concetti, come il caos nella creazione precede la distinzione delle parti dell' universo. Quindi non è meraviglia se il panteismo comparisca negli esordi di tutte le filosofie. Non è già che la confusione sia naturale all' umana mente; a questa è naturale solamente da principio il pensare per via di grandi generalità, e il percepire le cose reali come una cosa sola variegata, per così esprimerci. Ma quando l' uomo con questi primi e poveri materiali si fa a comporre un sistema filosofico, allora gonfio e presumente di sua impresa, corre precipitoso all' errore, inventa il panteismo. Pure, come ogni errore trae l' origine da qualche verità, non sarà disutile meditare sui traviamenti dello spirito umano, specialmente affine di riconoscere in che parte si manifesti un consenso od una pendenza di tutto il genere umano, la quale può essere indizio e carattere di verità. Ora non si può negare che sempre e dovunque si manifestò un' inclinazione grandissima nelle menti a supporre animata la materia, benchè un tale concetto sia stato infarcito di mille errori. L' India, dove la vita in tutti i regni della natura apparisce così feconda, infaticabile, rigogliosa, doveva essere il paese, in cui più facilmente che altrove s' immaginasse che tutta la natura fosse animata. Di più l' animazione si riputò, come a sua causa, ad uno spirito universale. Questa unità della vita, intesa in un senso, non sarebbe aliena dal vero; è il pensiero dell' Oriente. Nelle scritture stesse si parla di « « uno spirito di vita » », che anima tutto ciò che ha vita (1). Infatti, ammesso che la vita sensitiva si moltiplichi collo spezzarsi dei continui viventi, chi non intende che tutta la materia viva si può concepire unita ed organata, e così animata quasi da un' anima sola? Ma tostochè si perde di vista il fatto della moltiplicazione di quest' anima colla divisione del suo termine, tostochè si pretende che l' anima conservi la sua unità anche quando i continui sono così divisi, e non hanno più alcun contatto fra loro, allora si è caduto in errore, perchè si è sconosciuto il fatto della moltiplicabilità dell' anima e della pluralità delle anime. A questo primo errore i filosofi delle Indie ne aggiunsero un altro assai più grave; si arrestarono all' anima del mondo, e la presero per lo stesso Dio, creatore di tutte le cose. Da quell' ora che poteva trattenerli dallo sdrucciolare nel panteismo? Non è difficile riconoscere che la materia non esiste se non in relazione al sentimento, e nel sentimento l' anima, cioè il senziente, è il principio attivo, in cui e per cui anche l' esteso come sentito esiste. Indi scaturiva assai facilmente l' emanatismo . Abbracciata l' ipotesi dell' emanatismo, tutti gli esseri dovevano partecipare della sostanza vivente del primo, da cui si supponevano derivare. [...OMISSIS...] . Da questo germe deposto nelle acque uscì egli stesso sotto forma visibile, ossia come Anima suprema. Da quest' anima suprema uscì: 1 l' intelligenza; 2 la coscienza o il me ; 3 il sentimento, che si risolve negli organi sensitivi ed attivi, ed un senso inferiore comune; e di qui tutti gli esseri. [...OMISSIS...] . Uscendo dunque tutti gli esseri da principŒ spirituali, come sono il sentimento, l' intelligenza, la coscienza, e le cinque particelle sottili o elementi componenti i cinque sensi, forza è che sieno tutti accompagnati di vita e di sentimento (1). Quindi non è meraviglia (2) se poco appresso si attribuisca il sentire ai vegetabili: [...OMISSIS...] . Insomma in tale sistema tutto l' universo altro non è che lo stesso Creatore sotto la forma particolare. La vita di tutti gli esseri e di tutte le molecole, che compongono l' universo, trovasi espressa fra gli altri luoghi, anche nell' I‡a Upanisad di Yajur7Veda, dove, seguendo la traduzione di G. Pauthier, così si legge: [...OMISSIS...] . In questo sistema adunque la morte non è che la dissoluzione della forma esterna; il sentimento non perisce mai; le anime individuali si trasfondono nell' anima universale, quando l' aggregato della materia si discioglie; non v' è nell' universo che trasformazioni, e per questo si distingue l' universo corruttibile, cioè soggetto a perire, dal principio incorruttibile e dagli elementi non perituri (3), che ne costituiscono propriamente l' intima sostanza. Ora, questa antichissima maniera di spiegare i fenomeni del mondo dimostra come l' antichità era persuasa che non se ne potesse in alcun modo assegnare una ragionevole spiegazione, ricorrendo a sole cause brute, a cui si arrestarono i moderni materialisti. Dimostra ancora gli scogli del panteismo, dell' emanatismo e della trasmigrazione delle anime, a cui si potrebbe agevolmente rompere, se in questione sì sottile non si procedesse colla maggiore perspicacia e cautela. Ma dopo di ciò apparisce che tali errori non sono conseguenze necessarie dell' ipotesi che gli elementi corporei abbiano seco indivisibilmente unito un sentimento, di cui essi costituiscono il termine. Conciossiachè questo sentimento nè rimarrebbe uno sempre, nè sarebbe emanato da Dio, quasi tenesse della propria sostanza di lui, ma creato dal nulla, nè si potrebbe confondere colla materia, nè col principio intellettivo, che nell' uomo a quello sovrasta. Dall' oriente passiamo alla Grecia. L' opinione dell' anima del mondo fu ammessa da quasi tutte le scuole filosofiche. Ogni scuola la concepì a suo modo; Platone a suo modo, Eraclito a suo modo; ma in fine convenivano che il mondo era animato. Molti aggiunsero la vita propriamente agli elementi, fra i quali Empedocle, di cui scrive lo Sturtz: « Empedoclem quodlibet elementum pro animo sive anima habuisse (1) », onde anzi spingendo la cosa all' estremo, li deificava. Platone pure diede il senso agli elementi (2). Di Democrito scrive Plutarco che « « egli credette tutte le cose partecipare di qualche anima, eziandio i corpi morti; e però sempre manifestamente hanno qualche porzione di caldo e di sentimento, essendone però la maggior parte svaporata »(3) ». Ricevuta dagli Italiani l' opinione dell' animazione del mondo, Virgilio la esponeva in versi stupendi e Cicerone in elegantissima prosa. Abbiamo già detto che uno degli errori, che guastava l' opinione dell' anima del mondo, era l' unità sua mantenuta costantemente; e che un altro errore era che, non sapendosi tirare la linea fra il senso e l' intelletto, si poneva un' anima universale non pur sensitiva, ma intelligente. Questi errori, entrati nella Chiesa, divennero altrettante eresie (4). Ma non fu rifiutata dai Padri della Chiesa la generazione spontanea, e talora per ispiegarla ricorsero ad un' animazione primitiva di certe molecole corporee (1). I filosofi italiani del secolo XVI proposero di nuovo l' ipotesi dell' animazione universale, ma oltre non aver distinta l' anima sensitiva dall' intellettiva, caddero nell' errore dell' anima unica del mondo, e il Telesio scrisse un opuscolo con questo titolo: « Quod animal universum ab unica animae substantia gubernetur ». Francesco Saverio Feller scrive così: [...OMISSIS...] . Ma l' aggiungere una cotal sostanza neutra, di cui si parla in questo luogo, quasi ministra dell' animazione, è aggiungere ipotesi ad ipotesi affatto gratuitamente. Poichè basta supporre accoppiato il sentimento agli elementi senza più, e incontanente riescono abbastanza spiegati i fatti della generazione spontanea e delle varie manifestazioni della vita, del moto, del conato organizzatore in tutti gli angoli della terra. Dopo che Van7Helmont propose il suo archeo, comparvero alcuni filosofi o medici, che si facevano chiamare i nuovi Pitagorici . Questi parlavano dell' anima comune , che distinguevano però dall' anima intellettiva. Uno dei loro errori principali si fu quello della trasmigrazione di tal anima; dove è da osservare che la trasmigrazione di un' anima meramente sensitiva non è solo cosa erronea, ma assurda; perchè tale anima non può trasmigrare da un corpo in altro senza staccarsi dal primo, nè può staccarsi dal primo senza perire, ossia perdere la sua identità (1). Si può dunque dire che l' ipotesi dell' animazione della materia non fu mai presentata con nettezza, e pura da errori e d' aggiunte arbitrarie; ma che se si volessero raccogliere tutti quelli che l' hanno prodotta in mille maniere diverse, senza tener conto degli errori aggiunti, ella si troverebbe comune a tutte le scuole principali di filosofia di tutte le età. Perocchè: In essa convengono i materialisti, dando alla materia una forza, cagione della vita e del sentimento; solo errano in non saper distinguere questa forza dalla materia stessa (2). In essa convengono tutti quelli che ammisero o ammettono l' anima del mondo; solo errano nell' ammettere quest' anima intelligente e indipendente, e nell' escludere la pluralità degli individui. In essa convengono i panteisti e gli emanatisti; solo errano nel volere che le anime sieno parti della divina sostanza, o la sostanza stessa divina in varie forme acconciata. In essa convengono i naturalisti, che suppongono una sostanza neutra, un fluido biotico, un imponderabile per tutto diffuso, tutto invadente, animatore di tutto; solo errano in ammettere perciò una sostanza di più nella natura, di cui non è provata pur l' esistenza, nonchè la virtù. In essa convengono i Pitagorici di tutti i tempi, o piuttosto tutte le più antiche scuole, che ammisero un' anima comune che s' individua, ovvero si trasmigra; ma errarono, aggiungendo agli altri errori fin qui accennati quello della trasmigrazione. In essa convengono tutte le specie di idealisti , che della materia fanno una modificazione dello spirito; solo errano, confondendo il termine (materia) collo spirito (principio); e confondendo oltracciò il sensibile e l' intelligibile. Si svestano tutti questi sistemi dei loro errori; e in fondo ad essi rimane un' opinione consentita da tutti, il bisogno di supporre la materia animata. Nella patria dell' idealismo trascendentale, la Germania, fu coltivata e in pari tempo depravata più che mai l' ipotesi della vita annessa agli elementi della materia. Si sa quanto diedero a pensare a quei filosofi le idee sulla natura di Schelling. Ma l' avviamento venne pure da Kant, il quale trasse non poco dal sistema delle monadi di Leibnizio. Leibnizio stesso era stato in qualche modo prevenuto dall' inglese Glisson (m. 1776), come questi dai nostri italiani, il Telesio, il Bruno, il Campanella, il Cardano (m. 1576), e somiglianti. Diamo un cenno della maniera di vedere di Francesco Glisson. Questi incomincia dall' affermare che non si può attribuire il concetto di sostanza se non a cosa che abbia tre facoltà, la percettiva , l' appetitiva e la motiva (1); e tosto toglie a provare che anche la sostanza materiale è dotata di esse, assumendo per conceduto che i corpi sieno sostanza. Nel capo XV precedente egli s' era occupato a distinguere la percezione naturale , che egli attribuisce alle sostanze materiali, dalla sensazione; e qui è dove più mostra di non aver colto menomamente il carattere della sensazione , nè come ella si distingua dall' intellezione , con cui la confonde, nello stesso tempo che la verità gli scopre talora se non sè stessa, qualche falda della sua veste. A ragion d' esempio, paragonando la sua percezione naturale colla percezione intellettuale , stabilisce questa differenza: « quella (della percezione naturale) è una facoltà necessaria e semplice, tendente per diritta via all' azione; questa (della percezione intellettiva) è quasi duplicata o giudicata, e si termina all' azione mediante il libero arbitrio. E stimo la percezione intellettuale presupporre la naturale, e contemplarla quasi inflessamente, e perciò percepire la percezione di lei »(doveva dire « percepire quella percezione »). Ora questa è una differenza capitale, da noi osservata, fra la percezione sensitiva e la percezione intellettiva; quella è semplice e senza giudizio, questa è duplice e accompagnata da giudizio. L' autorità del medico inglese conferma la nostra dottrina; ma il valente uomo non ebbe poi veduto che innanzi alla percezione intellettiva , è l' intuizione , la quale non involge alcun giudizio, eppure è oggettiva , mentre la sensazione e la percezione sensitiva è soggettiva ed extra7soggettiva . Per altro il Glissonio fu anche condotto a travedere l' oggettività della percezione intellettiva, quando considerò che la sua oggettività è condizione necessaria all' esistenza della volontà e della libertà; onde scrisse: « La seconda differenza (fra la percezione intellettiva, dell' angelo poniamo, e la naturale) si prende da questo, che l' intelletto dell' angelo può rappresentare l' oggetto alla sua volontà sub aliquali indifferentia objectiva , onde la volontà sua eserciti intorno ad esso il suo libero arbitrio, eleggendolo o non eleggendolo. Poichè se l' oggetto eleggibile non si propone alla volontà sotto una tal quale indifferenza, la libertà intorno ad esso non può esercitarsi, ma l' elezione rimane predeterminata e necessitata dal rigido dettame dell' intelletto ». Qui il Glissonio è di nuovo con noi, attribuendo all' oggetto dell' intelletto, come tale, un' indifferenza che può essere tolta dalla volontà, rendendolo questa buono o cattivo a sè stessa, che è quella funzione che noi chiamiamo ragione pratica , la quale liberamente fa sì che l' uno o l' altro oggetto diventi migliore all' uomo, e così prevalga. Ma quando egli si fa a distinguere la percezione naturale (che veramente risponde a ciò che noi chiamammo sentimento fondamentale ) dal senso (che corrisponde alla nostra sensazione ), allora mostra di non essere pervenuto a chiare e distinte idee, ignorando le distinzioni fra i fenomeni extra7soggettivi e i fatti soggettivi, e le altre che abbiamo detto di sopra. Il Glissonio adunque assegna alla sua percezione naturale o animale , come anche la chiama, le differenze seguenti: Che ella è similare e inorganica, quando la sensitiva è organica. - Ma questa è una differenza meramente extra7soggettiva, la quale non pone una differenza interiore alle due percezioni. Che ella è semplice, quando la sensitiva è composta e quasi duplicata, perocchè è percezione di percezione. - Qui non s' ebbe accorto che il senso non si rivolge sopra sè stesso, e rimane sempre semplicissimo, salvo che nella percezione , in quanto si distingue dalla sensazione , cade anche un elemento extra7soggettivo, e però si può dire composta di due elementi, ma non mai d' una percezione che ne abbia per oggetto un' altra; anzi è sempre unica percezione, dove non v' è oggetto, ma solo termine. Ora, dal non avere conosciuta la semplicità essenziale della sensazione egli fu condotto a dare in appresso alla sua stessa percezione naturale una duplicità, che lo traviò in sottigliezze di ragionamenti inestricabili, ed affatto inutili. Quindi anche dà al senso il giudizio, « sensus includit quasi implicitum quoddam judicium de re percepta », confondendolo di nuovo colla percezione intellettiva , quando nel senso la cosa percepita non è manco un oggetto (e sull' oggetto solo può cadere il giudizio), ma è un elemento che ha concetto di materia o di termine rispetto al principio senziente, sicchè l' attività del senziente non esiste che con esso, ed essendo individuale non può moltiplicarsi; onde neppure può giudicare l' elemento di cui abbisogna per esistere. Seguitando sulla stessa via sbagliata, il Glissonio concede al senso di potere errare, quando l' errore appartiene al solo giudizio, e perciò alle funzioni della ragione. Gli concede di contemplare un oggetto: « objectum perceptum ut quid extra se contemplatur ». E tanto rimane lontano il Glissonio dal concepire la sensazione e la percezione sensitiva nella sua purità e semplicità, senza aggiungervi arbitrariamente qualche elemento intellettuale, che egli parla della sua percezione naturale colle maniere di dire, che sono applicabili alla sola percezione intellettiva , e le dà il sè , e la facoltà di rappresentare sè stessa, le sue cause, i suoi effetti, ecc. (1). Nè fa maraviglia; io lo dirò chiaro e senza riguardi, non ho mai trovato filosofo, che sia giunto a formarsi il concetto della sensazione semplice , senza giunta di qualche cosa intellettiva o di qualche cosa materiale (2). Vi sono questioni intorno alle quali il senso comune non dice nulla, perchè esse non si presentano alla mente del comune degli uomini. Tale è la questione dell' animazione dei primi elementi, che non esce dalle scuole dei filosofi. E veramente, se il senso comune divide i corpi in animati e inanimati, non è che pronunci con ciò qualche cosa intorno alla questione di cui parliamo; egli intende parlare della vita apparente ai sensi esteriori, senza menomamente proporsi l' altra questione: « se vi possa essere unita a certi corpi, privi di organismo animale, una vita latente, un qualche principio sensitivo ». Così in ogni caso la distinzione comune dei corpi animati ed inanimati rimane ferma; nè si deve mutare l' uso comune di queste parole, salvo ad attribuir loro un significato più ampio e più vero entro l' ambito della scuola. Definiscasi adunque il corpo inanimato: « quello che non dà segni di vita per mancanza di opportuno organismo »; ovvero « un corpo inorganico, che, come tale, è inanimato »; e il corpo animato: « quello che dà segni di vita », ovvero « un corpo organico, che, come tale, è animato »(1), e la conciliazione dell' opinione filosofica, di cui parliamo, col senso comune è compiuta. Ma che dicono gli osservatori della natura? E` indubitato per la storia delle scienze naturali che, più si osserva e si sperimenta, più si allargano i confini del dominio della vita. La sensitività, data da Haller a certe parti del corpo, fu estesa successivamente da fisiologi ad altre ed altre. La scoperta dei polipi, degli animali infusori, dei movimenti spontanei, di cui sembrano dar segno i globuli del sangue, ecc., ed altre innumerevoli, assicurano che vi è vita in infiniti corpi, che in apparenza sembrano e si riputavano prima al tutto inanimati. A Ehrenberg parve di riconoscere che diverse rocce, e specialmente il tripolo, sieno composte di gusci di animali. Mauld credette avere scoperto che il tartaro dei denti era quasi un guazzetto di animaletti. I signori Payen e Mirbel pretendono che i vegetabili sieno un ammasso d' innumerevoli bestiuole microscopiche. Presentando il primo di questi all' Accademia delle scienze di Parigi, nel febbraio dell' anno 1.44, un volume di fisiologia vegetabile, si espresse così: « « Una legge senza eccezione mi sembra apparire nei molti fatti da me osservati, e condurre a riguardare sotto una luce novella la vita vegetale. Se io non mi illudo, tutto ciò che la vista diretta o amplificata ci permette discernere nei tessuti vegetali sotto forme di cellule o di vasi, non rappresenta altro che gli inviluppi protettori, i serbatoi e i condotti, nei quali i corpi animati, che li producono per via di secrezione, alloggiano, collocano e trasportano i loro alimenti, depongono ed isolano le secrezioni » ». L' ipotesi adunque dell' animazione degli elementi primi dei corpi coincide con quella ammessa oggidì universalmente dai fisiologi, che esista una vita latente, la quale non produce fenomeni eccitati, esterni, finchè mancano le condizioni necessarie al loro esercizio. Ma perchè, qui giova cercare, alcuni fenomeni sono considerati dall' uomo come manifestativi della vita, e altri non sono? La ragione unica di ciò si è che l' uomo prende il criterio da distinguere così quei fenomeni unicamente dalla propria esperienza. Ciò che osserva in sè stesso, gli è unica regola, secondo cui giudicare degli altri esseri naturali. Egli osserva, a ragion d' esempio, quali suoni emette, quando un vivo dolore lo punge, quali, quando prova un vivo piacere; perciò quella qualità di suoni o altri analoghi ad essi gli sono certo segno a conchiudere che altri esseri, ond' escono, in circostanze simili alle sue, simili voci, provino dolore o piacere. Egli osserva la propria organizzazione, vede come sono tessute le proprie carni, come la sensitività sua propria sia unita a filamenti nervosi, come si contraggano le parti diverse del corpo in occasione dei sentimenti, quali fenomeni esterni accompagnino in lui il sentimento o la cessazione di esso; indi ne inferisce che in quegli esseri, in cui trova altrettanto o il simiglievole, debba esservi altresì un sentimento simile al suo. Ma questa rimane sempre però una misura relativa, e non è certa prova che non possa esistere la vita sotto altre forme, certo una vita dalla sua diversa, ma pure una vita e un sentimento. Acciocchè dunque si possa considerare la mentovata ipotesi da tutti i suoi lati, conviene che distinguiamo tre maniere di sentimento, cioè: Un sentimento, che per suo termine non ha che l' esteso; e questo solo sarebbe quello che si attribuisce agli elementi isolati dei corpi. Un sentimento eccitato, che ha per termine ancora l' esteso, ma non immobile come l' elementare, ma avente dei movimenti intestini. Questa maniera di sentire esige pluralità di elementi contigui e moto fra essi; esige dunque qualche composizione, se non di organizzazione, almeno di aggregazione. Un sentimento non solo eccitato, ma in cui l' eccitamento si conserva, riproducendosi con qualche varietà sua sullo stesso tema. Qui già si esige un vero organismo, nel quale il movimento intestino si possa perpetuare. Le tre vie adunque, che si vogliono accuratamente distinguere, sono: Quella dei singoli elementi l' un dall' altro staccati. Quella degli elementi uniti, aggregati, ma non organati perfettamente. Finalmente quella che presenta al di fuori i fenomeni suoi propri, e che ha bisogno di compiuta organizzazione. Consideriamo a parte ciascuna di esse. Se noi immaginiamo un elemento solo di materia, e questo elemento esteso e perfettamente duro, come noi crediamo essere i primi elementi, in tal caso, quantunque potesse cadere questo elemento sotto i sensi nostri (ciò che è certo impossibile per la sua piccolezza), tuttavia esso non ci darebbe nessun segno di vita, poichè non potrebbe dare a sè stesso, nè ricevere nel suo interno alcun movimento. Tuttavia il principio senziente di lui sarebbe semplice, il termine di questo principio sarebbe lo spazietto determinato da quell' elemento; in questo termine sentito vi sarebbe omogeneità od uniformità, supponendo la materia dell' elemento, di cui si tratta, densa egualmente in tutti i suoi punti, e differenza d' intensità, supponendo la densità variabile nei diversi strati o punti dell' elemento (1). In questa piccola vita si rinverrebbe a pieno il carattere della continuità (2). Che se all' elemento animato noi aggiungiamo altri elementi parimente animati, possiamo tosto concepire nuovi fenomeni. Supponiamo tali elementi di forme diverse. Uniti insieme dall' attrazione o ritenenza loro propria, formeranno vari poliedri, secondo le forme degli elementi che si uniscono. Supponendo le forme degli elementi regolari, se ne avranno poliedri regolari. Ma questi poliedri regolari non diverseranno fra loro soltanto di forma, ma ben anche di densità e quindi di peso specifico. La ragione è manifesta, se si considera che dalla varia forma dei primitivi elementi, che si uniscono, dipendono questi due accidenti: Che i punti di contatto sieno maggiori o minori, e quindi più ferma l' unione fra quegli elementi, che possono toccarsi con maggiore superficie. Che rimangano, nell' interno dei cristalli, maggiori o minori intervalli, onde ciascuno di questi primitivi cristalli colle sue faccie esterne racchiude uno spazio vuoto maggiore, e viene ad avere un peso ossia un' attrazione specificamente minore. Gli elementi, che s' uniscono, sieno due soli. L' abbinazione dei primi elementi già ci deve dare molecole aventi proprietà diverse dagli elementi primitivi. Molto più l' atternazione, la quaternazione, ecc., dei primi elementi. Supponendo che questi primi elementi neppure pel contatto fra loro s' uniscano con tanta forza, quanta è quella che rende la materia perfettamente dura entro ciascun elemento, avremo tosto dei nuovi accidenti vitali; poichè in queste molecole il sentito continuo, a cui risponde un unico principio senziente, è più esteso che non nei primi elementi. Vero è che se la particella risultasse da due o tre soli elementi, non potrà mai cominciare il moto perpetuo (1) dal suo interno, e perciò non avranno luogo movimenti vitali. Ma se i due o tre elementi si muovono, senza dividersi per impulso esterno che loro vien dato, di maniera che le faccie aderenti si soffreghino, in tal caso il sentimento uniforme, sparso in detti elementi, deve necessariamente ricevere una eccitazione, e quindi non è assurdo che sorga in esso una sensazione, benchè nessun fenomeno extra7soggettivo la manifesti. Di più, dato che i due elementi, per la violenza loro usata dall' esterno, non abbiano più i loro centri di gravità nella maggior possibile vicinanza, non è assurdo immaginare che sieno spinti a ricercare il primitivo equilibrio delle forze dall' attività del sentimento da cui sono investiti. Perocchè il sentimento sparso nei due elementi è unico per la loro continuazione, e come ripugna a separarsi, così tende ad unirsi, e quindi a tenere gli elementi uniti e combaciati in maggiori punti che esser possa per quel momento della funzione organizzatrice, che noi chiamiamo ritenenza , e di cui poscia parleremo. Qui dunque vi sarebbe, oltre il carattere della continuità , anche quello dell' eccitamento; ma questo sarebbe momentaneo ed accidentale, mancando un sistema di stimoli che si succedano e che tengano in continuo, regolare ed armonioso moto gli elementi, che compongono il piccolo gruppo da noi supposto. Nella vita di due o tre, o certo di pochi elementi uniti in una sola molecola, abbiamo: 1 continuità, 2 possibilità di eccitamento, che sono due caratteri della vita. Ma l' eccitamento in tal caso, dipendendo dalla forza esterna che farebbe col suo impulso strisciare e stropicciare gli elementi fra loro senza dividerli, sarebbe momentaneo, non ecciterebbe che una sensazione passeggiera, senza che l' attività spontanea del principio sensitivo potesse continuarla. Non si può adunque avere i fenomeni esterni della vita animale, se non a condizione che i vivi elementi si uniscano insieme in numero ragguardevole, a segno tale da comporre tutti insieme una macchina più o meno complicata, ma però così artificiosa che, mediante organi aventi reciproche azioni gli uni sopra gli altri, si riproducano gli stimoli, i quali perpetuino il moto e quindi l' eccitamento del sentimento; sicchè il sentimento armonicamente eccitato possa e conservare la continuità nelle parti, e l' unità dell' organismo, e secondare colla sua spontaneità il movimento armonico, e questo ritorno alla sua volta ad eccitare il sentimento e mantenerlo nella sua medesima eccitazione. Dalle quali considerazioni si trae che l' organizzazione (prodotta ella stessa e sviluppata dal sentimento) occasiona le varietà degli esseri naturali, e le diverse specie di fenomeni che si presentano all' osservazione dell' uomo; quindi: I composti di pochi elementi non possono manifestare altre forze che le meccaniche, fisiche e chimiche, benchè non ci sembri alieno dal vero che la vera causa anche di queste sia il sentimento inerente ai primi elementi, che non ha virtù di manifestarsi altrimenti per mancanza di acconcia organizzazione. Nei composti di più elementi deve cominciarsi a vedere certa regolarità d' organizzazione, quale si osserva nei minerali, e l' aggregazione similare, che si scorge principalmente nei metalli. Se la composizione è più complicata, deve prodursi la organizzazione dei vegetabili, ai quali mancano affatto tutti gli organi simili a quelli coi quali l' uomo esprime il piacere, il dolore, gli istinti, l' intelligenza, ecc.. Ma in questa organizzazione già vi è un sistema di stimoli che si riproducono, solo mancando i segni esteriori del sentimento, esperimentato e significato dall' uomo. Il sentimento, adunque, che fosse nei vegetabili, non si può conoscere a che grado si trovi di unità, di accentrazione e di eccitamento. Ora, data un' organizzazione più opportuna, si manifesta oltracciò il fenomeno dell' irritabilità , ossia della contradistensione , il quale non è atto ancora a far conoscere all' uomo con certezza l' esistenza del sentimento, ma vi si avvicina, per la somiglianza che presentano i movimenti di tali corpi irritabili e contradistensivi coi movimenti spontanei, che nascono dal sentimento, e per la tessitura loro somigliante a quella di organi sentiti. Finalmente, con una organizzazione ancora più complicata e più perfetta delle precedenti, si manifestano i fenomeni extra7soggettivi, volgarmente detti fenomeni animali; i quali sono propriamente quelli che accertano l' uomo della presenza del sentimento, l' accertano della continuazione del termine del sentimento, dell' unità d' azione del sentimento medesimo, tale che è atta a dominare tutti i movimenti, i quali da esso non ricevono il principio, ma solo la continuazione e la direzione; movimenti che riproducono incessantemente gli stimoli, che rieccitano il sentimento quando scade dalla sua eccitazione, e lo rimettono nel medesimo stato (1). S' intende oltracciò, coll' esposto sistema, come non sia necessario che tutte le parti di un corpo animale vengano sentite dallo stesso individuo, cioè formino parti del medesimo sentimento fondamentale; potendo alcune avere un sentimento proprio, e questo esser nondimeno necessario a costituire la macchina extra7soggettiva, nella quale si debbono riprodurre, ossia riattivare continuamente gli stimoli eccitatori del sentimento, i quali stimoli possono non esser termine al sentimento fondamentale dell' animale. E del pari s' intende come alcune parti insensibili del corpo possano divenire sensibili, od il contrario, bastando che il sentimento loro proprio si comunichi e si continui al sentimento totale, o dal sentimento totale si divida, cooperando solamente all' unità organica. S' intende ancora perchè certi organi o parti del corpo umano sembrino godere di una vita loro propria, e siano soggette alla morte prima di altre (2). Ma qui certamente si presentano questioni difficili, piene di quegli enimmi, di cui pur tutte le ricerche naturali sono come avvolte, quando l' intera natura non è che un enimma solo da innumerevoli risultante. In qual maniera il sentimento proprio di un elemento, di una molecola, di un rudimento, di un organo si continua ed unifica coi sentimenti fondamentali di altri elementi, molecole, rudimenti, organi? Basta solo la continuità delle parti, come abbiamo fin qui supposto? Basta questa continuità a fare che il sentimento minore perda la sua individualità? S' individualizza forse mediante l' eccitamento massimo, provocato in qualche punto del continuo, dove s' accumuli di conseguente l' attività vitale, cioè l' intensità del sentimento, centro di tutti i movimenti armonici? E se questi centri sono vari, vi sono in tal caso più individui senzienti nello stesso continuo? E i movimenti diversi, continuati da questi centri ciascuno a pro di sè stesso, possono essere così armonizzati che non dirompano il continuo in più continui? E` questo forse il caso dei polipi e degli animali gemmipari, fissipari, e degli entozoari? E in tal caso ciascuno dei principŒ senzienti ha egli per suo sentito tutto il continuo? Ammessa la generazione spontanea, convien dire che gli elementi, o certo le molecole, di cui si compongono i nuovi animaletti, erano per innanzi animati. Altrimenti sarebbe inevitabile il materialismo, poichè si dovrebbe dire che la vita ed il sentimento si producono dalla materia bruta; ciò che è assurdo. Conciossiachè il termine del sentimento è opposto al suo principio; e se il termine esteso producesse il principio, che è cosa essenzialmente semplice, sarebbe un effetto dissimile ed opposto alla sua causa, contro al principio ontologico che « ogni causa deve produrre un effetto simile a sè ». In secondo luogo, se gli elementi non avessero sentimento, essi non avrebbero un' esistenza propria, ma solo extra7soggettiva, relativa ad un altro soggetto. Quindi sarebbero esseri assurdi, impossibili, illusioni. E veramente: « « La possibilità è la pensabilità; ciò che non si può concepire, non può essere » » (per il principio di cognizione) (1). Ma non si può concepire un essere che sia una mera relazione con un altro, poichè se un essere ha una relazione, si deve in lui trovare un che , il quale costituisca il termine a quo della relazione. Ma se l' elemento non sentisse, sarebbe nulla in sè, non potrebbe essere dunque il subbietto, ossia il termine a quo della relazione. Un tale elemento dunque non si può pensare; dunque non sarebbe; sarebbe dunque un' apparenza ingannevole e nulla più. L' osservare come nel mondo microscopico la generazione nasce con tanto più di facilità che nel mondo dei corpi maggiori, e come altresì che il fatto della generazione spontanea non si verifica che in animali minutissimi; è prova assai probabile che la vita sia annessa ai primi elementi. Perocchè dato che sia, si spiegano incontanente questi due fatti. Se la vita è annessa ai primi elementi, rimane chiaro per sè, come essi, quando non sono ancora organizzati, sieno liberi a comporsi insieme in quel modo che è più confacevole al loro istinto vitale (la cui legge formativa esporremo nella seconda parte), organando così facilissimamente degli individui animali. All' incontro i corpi già composti non possono organarsi in forma di animali, perchè gli elementi organizzatori non possono muoversi in essi con libertà. Che anzi ogni generazione, anche degli animali maggiori, accade sempre per via di umidità e di calorico; i fluidi dunque sono i primi viventi, gli organizzatori, appunto perchè in essi gli elementi o le molecole sono mobili e possono organarsi variamente, secondo le circostanze, mettendo in essere composti animati. Si deduce una quinta prova dell' animazione degli elementi dall' osservazione interna, la quale ci dice che la sensazione si estende in un continuo (2); il che si prova anche col ragionamento, perocchè se così non fosse, noi non potremmo avere alcuna idea del continuo (3). Ma noi abbiamo idea del continuo; forza è dunque che sia continuo l' esteso sentito. Ora dove vi è il sentito, ivi vi è il senziente, perchè senziente e sentito sono due cose indivisibili (4). Il senziente adunque è in tutti i punti assegnabili d' un corpo sentito; dunque aderisce ai primi elementi, cioè ai minimi continui della materia. Altre prove a conferma della vita degli elementi verranno da noi esposte qua e là, dove il filo del ragionamento ce ne darà occasione. A chi le avrà bene intese, quella cesserà d' essere ipotesi, ed entrerà nel numero, noi crediamo, delle verità dimostrate. Noi non intendiamo tuttavia di sciogliere queste questioni misteriosissime; e ci pare che il filosofo già faccia assai, solo determinando quali ipotesi intorno a questioni sì arcane non involgano logica ripugnanza, nè opposizione ad altre verità metafisiche, o ai dati sperimentali che somministrano ogni dì più le fisiche scienze. Nell' « Antropologia » noi abbiamo dimostrato che non si può concepire o sentire una porzione limitata di spazio, se non si suppone di sentire altresì lo spazio solido, illimitato. Con questo e con vari altri argomenti noi crediamo di avere dimostrato che tutti i fenomeni, che presenta il sentimento corporeo, suppongono che ogni anima sensitiva abbia a suo termine, dato dalla natura, lo spazio solido illimitato, o se meglio piace, immisurato , nel quale poi sorgono i sentiti corporei, che si espandono in uno spazio limitato e misurato da confini determinati. Se a questa dottrina si aggiunge quella della animazione degli elementi, se ne ha che gli elementi corporei da noi descritti si accostano, in qualche modo, alle monadi leibniziane rappresentatrici dell' universo. I nostri elementi, o piuttosto i nostri principŒ senzienti, non avrebbero a dir vero la rappresentazione dell' universo a quel modo nel quale l' attribuisce Leibnizio alle sue monadi, perchè questo grande uomo pretende che esse rappresentino l' universo con tutto ciò che l' universo contiene di esseri corporei e spirituali; quando i nostri principŒ sensitivi abbraccierebbero solamente lo spazio solido illimitato, immisurato, nel quale gli esseri corporei sussistono. Ora poi l' esser noi venuti all' esposta sentenza - alla quale non pervenimmo già leggermente, ma per lunga meditazione e condottivi a forza da una logica necessità - ci obbliga altresì a proporci la questione: « Se potesse esservi un principio senziente, il quale altro non sentisse che lo spazio solido illimitato, e se questo sarebbe un individuo ». La questione, come si vede, è di mera possibilità, ma non inutile ad investigarsi, perocchè non è mai inutile chiarire i concetti affini a quelli di cui ha immediato bisogno la filosofia. Diciamo adunque che il concetto di un tale principio non involge assurdo in sè stesso; e se vi fosse un tale principio, egli sarebbe certamente un individuo, attesa la semplicità e la realità annessa alla natura di principio, e di tale principio. Ma quindi nasce una conseguenza di qualche momento, la quale si è che di tali individui non ve ne potrebbe essere che uno. Poichè se due principŒ vi fossero con un termine identico, quale sarebbe lo spazio illimitato, essi non potrebbero avere in alcun modo una realità distinta; e perciò non potrebbero essere due, ma uno solo, essendo la realità il principio dell' individuazione (1). Ora, che tali principŒ non potessero avere una realità distinta si prova così. I principŒ, come tali, non hanno altra attività, nè altra realità, se non quella che ricevono dai loro termini. Se qualche altra realità si aggiungesse loro coll' immaginazione, già non sarebbero più meri principŒ, come si suppone nella nostra ipotesi. Se dunque uno ed identico è il termine, una e identica deve essere altresì la realità e l' attività del principio a quello correlativo; ma lo spazio solido illimitato è uno ed identico; dunque uno ed identico deve essere altresì il principio, che a un tal termine si riferisce. Questo argomento è ineluttavile; ma riesce alquanto difficile a concepirsi per la facilità, con cui la mente umana inclina a considerare il principio come avente qualche altra appendice, parendole che un mero principio non possa essere ente, non possa essere sostanza, senza attribuirgli qualche altra cosa oltre l' atto senziente o percipiente; la quale appendice diverrebbe differenza atta a distinguere fra loro i principŒ così immaginati. Conviene adunque che il pensatore si affatichi per ispogliare il concetto di principio da ogni altra giunta arbitraria, e incontanente sentirà tutta l' efficacia della nostra argomentazione (2). Ciò posto, quale relazione avrebbe un tal principio unico colle anime sensitive dei corpi? Queste verrebbero a sorgere e ad individuarsi nel seno di quel principio mediante nuovi termini, cioè mediante i termini corporei. Quel principio primitivo potrebbe ricevere in qualche senso, benchè impropriamente, la denominazione di anima comune , ovvero meglio di principio comune delle anime sensitive (di sentimento corporeo). L' individualità di queste anime rimarrebbe intatta, ma esse avrebbero un atto comune ed un atto proprio. Quest' atto proprio costituirebbe la loro realità e sostanza propria, e quindi la loro differenza sostanziale; e questa realità propria di ciascheduna sarebbe il principio della loro individuazione, e così riuscirebbe vero ciò che insegna S. Tommaso che la materia è il principio d' individuazione delle anime, ma ciò non varrebbe che per le anime meramente sensitive. Nulla si può vedere in ciò di ripugnante. Ma è d' uopo che parliamo con qualche maggiore estensione dell' individualità che le costituisce. Individuo, secondo l' etimologia, significa indivisibile. In questo significato ogni essenza, ogni specie ed ogni genere può dirsi individuo, perchè è sommamente indivisibile (1). Ma questa parola individuo si adopera più comunemente a significare l' indivisibilità degli enti reali, molti dei quali rispondono di sovente ad una sola essenza, ad una sola specie. E noi parliamo ora dell' individuo in questo significato. L' ente reale in tanto è indivisibile, in quanto è uno. Ma come vi sono diverse maniere di unità, così vi sono diverse maniere d' indivisibilità, e per conseguente d' individui. Anche un aggregato di più enti, in quanto la mente lo concepisce come un solo ente complesso, può dirsi individuo; ma questa non è che una individualità mentale; è l' individualità del concetto applicato alla realità. Noi non parliamo qui di questa individualità mentale, artificiale, che ha il suo fondamento nell' unità del concetto, con cui si pensa il molteplice per modum unius , come dicevano le Scuole, ma vogliamo parlare dell' unità reale , che ha il suo fondamento nella stessa realità. Gli enti reali possono essere molti, ma ciascuno di essi deve essere uno. E veramente, facciasi che un ente reale sia più enti, siamo nella contraddizione; perocchè se sono più, non sono uno. E` dunque essenziale ad un ente reale l' essere uno, perocchè le due parti della proposizione sono identiche. Se quell' ente che era uno, diventa due, già non si ha più un solo ente, ma due enti, ciascuno dei quali è uno. Dunque ogni ente reale, in quanto è ente, è uno, e in quanto è uno, è indivisibile. L' ente reale adunque è indivisibile. Onde adunque procede il concetto della divisibilità? Questa parola divisibilità si prende in senso proprio e in senso improprio, cioè per significare moltiplicabilità . La divisibilità in senso proprio ha per fonte la mente, o più in generale la percezione . A ragion d' esempio, lo spazio è uno e indivisibile; ma la mente umana può considerare uno spazio limitato. Con questa operazione sembra che si divida lo spazio, perchè la mente restringe la sua considerazione a quella porzione di spazio, dividendolo dal rimanente. Ma da ciò non è affatto avvenuto che lo spazio sia stato diviso veramente; poichè egli è in sè stesso al tutto indivisibile. Infatti, quantunque io delinei colla mia immaginazione una sfera avente un metro di diametro nel mezzo dello spazio, tuttavia non fo già con questo che oltre quella sfera non si distenda lo spazio, come prima che io immaginassi quello spazio sferico; o che lo spazio al di là della sfera, da me circoscritta, non si continui senza interruzione alcuna allo spazio occupato dalla sfera. Lo stesso si dica se la sfera, limitante lo spazio, fosse una sfera reale, corporea. La divisibilità dunque in senso proprio non è reale, ma unicamente relativa alle operazioni del percipiente. Prendiamo ora un pezzo di materia continua, e dividiamola in due parti. E` ella questa una vera divisione? Propriamente parlando non è che una moltiplicazione, per la quale invece di avere un individuo solo, ne ho due. Infatti, acciocchè ella fosse vera divisione, io dovrei avere l' individuo diviso. Ma io non ho l' individuo diviso, ma ho due individui. Per fermo, i due individui, che io ho prodotti, non sono certo parti dello stesso individuo; perocchè le due porzioni di materia continua, essendo divise, non formano più un tutto solo, ma due tutti; dunque non sono parti, perchè non esiste il tutto di cui sieno parti. - Si dirà che si possono considerare come parti di quell' intero, che era prima della divisione . - Ottimamente; si possono considerare dalla mente; onde l' essere parti del tutto proviene loro unicamente dalla considerazione della mente; non sono parti quando sono già divise, non erano ancora parti quando erano unite e formanti un solo continuo. La divisibilità dunque della materia è di nuovo una maniera di considerare propria della mente; è relativa alle operazioni di questa. Ma la materia, prima che si dividesse, si poteva dunque considerare come un individuo? La continuità basta ella a dare unità a questo essere che si chiama materia? La questione sarà da noi esaminata più a fondo dove parleremo della natura della materia. Qui basterà avvertire che l' individualità della materia è tutt' al più un' individualità molto imperfetta, poichè nella materia, come materia, non si trova alcun principio che possa unificarla. L' individualità dunque dell' ente reale, l' unità sua, non si trova propriamente che in quell' ente, che ha natura di principio attivo . La parola principio contiene nel suo stesso concetto l' unità e l' indivisibilità. Ora gli enti principŒ non sono che gli enti sensitivi ed intellettivi. Noi dobbiamo dunque parlare dell' individualità di questi. Veri individui sono adunque i principŒ sensitivi e i principŒ intellettivi. Questi principŒ sono atti primi, e tali che nell' ordine del sentimento loro proprio sono indipendenti. Gli atti secondi, dominati dagli atti primi, ricevono da questi l' unità e l' individualità. Ma non è assurdo il concepire che nel seno d' un atto primo sensitivo sorga un atto secondo, il quale sia immanente e divenga alla sua volta dominante dello stesso atto, dal seno del quale è sorto. In tal caso, divenuto indipendente, costituisce un altro individuo. Dico che l' indipendenza deve essere nell' ordine del sentimento; con che intendo dire che il sentimento individuante non deve avere un altro sentimento maggiore, che lo domini colla sua attività. Applichiamo questi principŒ sulla natura dell' individualità all' argomento che abbiamo alle mani. Cominciamo dall' individualità dell' uomo. Facilmente si comprende che nessun animale bruto può avere quella speciale individualità , che è propria dell' uomo, soggetto animale7razionale. L' uomo riceve la propria individualità dall' intuizione dell' essere universale, che lo costituisce intelligente (1). Questa intuizione è un atto semplicissimo di natura aliena dallo spazio, come è semplicissimo ed inesteso l' essere per sè oggetto. Ora, il principio intuente l' essere è nell' uomo identico col principio senziente, onde questa radice unica dei due principŒ fu da noi già chiamata principio razionale . Il che fa sì che lo stesso principio senziente dell' uomo, in quanto s' identifica in potenza col principio intelligente, è perfettamente uno, semplice ed alieno dallo spazio, che appartiene solo al termine del suo atto (al sentito). L' unicità dunque e la semplicità del primo atto intellettivo immanente costituisce l' individualità dell' uomo. Alla quale individualità s' aggiunge ancora un carattere importantissimo, che la distingue da quella del bruto e che procede dalla natura dell' essere ideale, da cui l' uomo viene informato. L' essere ideale è inesauribile, anzi di più egli è immutabile, immodificabile. Dunque egli informa l' uomo senza subire niuna mutazione in sè stesso, niun restringimento. E` l' uomo che è unito a lui, non egli propriamente che sia unito all' uomo. Egli è in sè, non ha unione con altre cose, benchè altre cose possano aver unione con lui; l' unione è relativa a queste, non a lui. Queste si sentono migliorate dall' unione con lui; e questo sentimento, che forma la loro unione, non cade nell' essere ideale, ma solo nell' essere intuente. Quando s' intenda bene tutto ciò, e non si applichi all' essere ideale il concetto di unione tratto dalle cose finite, che reciprocamente si uniscono, allora ed allora solo s' intenderà come all' uomo sia possibile la riflessione. L' uomo, in quanto è un essere intellettivo, è informato dall' essere ideale, e per questo esiste. Tuttavia egli, che esiste per l' essere ideale, trova ancora l' essere ideale in cui contemplare sè stesso informato dall' essere ideale. Questa è appunto la riflessione. La riflessione suppone: 1 il principio intelligente, di cui l' essere ideale è la forma; 2 l' essere ideale, in cui si vegga sè stesso informato dall' essere ideale. L' essere ideale adunque nella riflessione fa due uffici: fa l' ufficio di forma del principio intelligente, che costituisce lo stesso principio intelligente, e fa l' ufficio di mezzo del conoscere tale principio intelligente già sussistente. E` dunque l' essere ideale che si applica a sè stesso per la sua natura inesauribile, come dicevo, ossia immutabile. Ora dalla descritta riflessione nasce nell' uomo la coscienza, cioè la cognizione di sè stesso, e col processo di varie operazioni, già da noi indicate, vien posto l' io . Così si perfeziona l' individualità umana colla coscienza di sè. L' uomo sente e conosce sè stesso; l' uomo sa, l' uomo dice a sè di essere un principio unico (coscienza dell' individualità conosciuta). Neppur questa individualità può trovarsi nel bruto; l' individualità non può conoscersi che dall' uomo. Quale è dunque l' individualità appartenente al bruto? Ella deve trovarsi nel sentimento, nell' unicità del principio senziente. Ora noi abbiamo distinto un sentimento quieto ed uniforme (1), ed un sentimento eccitato. Quindi due principŒ d' individuazione. Se si suppone il sentimento fondamentale quieto e diffuso equabilmente in un dato continuo, è chiaro che l' individualità consisterebbe nell' unico principio senziente, nel quale tutto quel continuo esiste; perocchè, come abbiamo detto, il continuo non sarebbe continuo e perciò uno, se non esistesse nel semplice. Ma se supponiamo che in quel continuo aggregato di più elementi accadano dei movimenti, il sentimento eccitato crescerà d' intensità in alcuni punti di esso. E il principio senziente è più attivo là dove è più intenso. Ora dove è più attivo, ivi v' è più di principio senziente. Quindi il principio senziente in tal caso è unico, e perciò individuato, in quanto si estende a tutto il continuo; ma egli ha due atti, coll' uno dei quali abbraccia tutto il continuo sentito, coll' altro si accumula in una determinata parte o in diverse parti di esso continuo. Il principio senziente, in quanto è posto in atto con maggiore intensità, in tanto egli s' individua, divenendo dominante ed indipendente. Si distinguano diversi casi. Il primo sia che in un continuo equabilmente sentito sorga, per l' eccitazione del movimento, un' intensità maggiore di sentimento limitata ad un solo spazietto. L' individualità qui si forma, perocchè il sentimento acquista l' individualità di eccitamento, la quale prevale per la sua intensità. Ciò che forma la base di questa individualità si è l' atto, col quale esso principio sente più intensamente ed opera più attivamente nello spazietto accennato che altrove; ed il principio, che sente il più, può essere quello che sente anche il meno, ma non viceversa. Ora si suppongano due spazietti nello stesso continuo, in ciascuno dei quali l' intensità del sentimento sia cresciuta al medesimo grado. L' individualità del sentimento non sarebbe tolta, ma vi sarebbero due individui invece d' un solo; perocchè l' atto di maggiore intensità aderente ad uno spazietto non potrebbe essere l' atto di maggiore intensità aderente all' altro spazietto, conciossiachè le intensità sono eguali. Tuttavia il principio senziente che sente in uno dei due spazietti, abbraccierebbe nel suo sentimento tutto il continuo, pel principio che chi sente il più, può stendersi a sentire il meno; e lo stesso dicasi del principio senziente inerente all' altro spazietto. Sarebbe adunque il caso di uno stesso corpo, animato da due anime comunicanti fra loro, di due individui congiunti sostanzialmente, il caso dei mostri bicefali, degli animali anulosi, dei polipi, dei gemmipari e fissipari, ecc.. Ma facciamo un terzo caso. In un dato continuo il sentimento sia accumulato ed eccitato in diversi spazietti e a diversi gradi. Se uno di questi sentimenti eccitati ed accumulati è più forte degli altri, ed è quindi centro di un' attività istintiva sì grande che, coll' aiuto sempre dell' acconcia organizzazione, possa dominare l' attività di tutti gli altri sentimenti e tenerla talmente in freno, talmente regolarla a suo pro che ne riescano dei moti armoniosi, atti a conservare il tutto nell' unità; in tal caso se ne avrà un animale solo, più o meno perfetto; e ciò perchè, quantunque esistano nello stesso corpo più sentimenti individuali, tuttavia essi non possono dimostrare al di fuori la loro individualità nello stato servile in cui si ritrovano. E questo è probabilmente il caso di tutti quelli che noi chiamiamo animali, e specialmente dei più perfetti; nei quali, quantunque vi fossero dei sentimenti separati e degli istinti ad essi relativi, tuttavia uno solo è quello che prevale e che domina, e che nello stato di sanità rende armoniosi e cospiranti tutti i movimenti dei vari organi, di cui il corpo si compone. Consideriamo ora l' individualità dell' animale, connessa e trasfusa nell' individualità dell' uomo. Il sentimento animale è congiunto all' intelligenza per la percezione fondamentale , che abbiamo descritta, e così l' individualità sua si trasfonde nell' individualità umana. Quindi di nuovo, l' uomo solo può avere la coscienza della propria individualità animale; di che accade che, se nello stesso corpo vi potessero essere altri sentimenti minori che potessero essere individuati, l' uomo non potrebbe avere che la coscienza di quel sentimento massimo, che naturalmente e abitualmente percepisce. Insensitive per noi adunque sarebbero quelle parti, il cui moto non modificasse quel sentimento fondamentale, che è da noi abitualmente percepito, e del quale perciò possiamo avere coscienza. E qui ancora si vede la ragione, perchè non ogni movimento produca una sensazione. Il che si chiarirà meglio colla seguente considerazione. S' avverta in prima, questa esser legge del sentimento fondamentale che, sebbene esso si diffonda in certe parti, tuttavia non può farci conoscere la località di esse (1), poichè questa parola località altro non significa che un rapporto delle parti fra loro, determinato dalle sensazioni superficiali. Ora l' esperienza dimostra che non ogni movimento nelle parti, benchè per noi sensitive, produce sensazione. La retina, così sensitiva alla luce, può essere straziata senza che vi sorga sensazione da noi avvertibile. Le leggi del moto sensifero sono ancora poco conosciute; ma si potrebbe fare la congettura seguente. I diversi tessuti del corpo umano sono organizzati di molecole più o meno composte. Cioè a dire vi sono prima gli elementi, di poi questi elementi formano molecole di prim' ordine. Queste formano altre molecole di second' ordine; queste altre di terz' ordine, ecc.. Ora il sentimento, nell' ipotesi che abbiamo fatta e sulla quale ragioniamo, aderisce sempre agli elementi. Ma aderisce egli anche alle molecole di prim' ordine, di second' ordine, di terz' ordine, ecc.? Cioè voglio dire, ogni molecola di qualsiasi ordine continua il suo sentimento coll' altra, ovvero questo sentimento è continuato solo dagli elementi e da certe determinate molecole, che non possono cangiare di posizione relativa, senza che cangino la loro posizione relativa anche gli elementi di cui sono composte? Io credo probabilissimo, che le molecole altro non sieno che una organizzazione più o meno opportuna al moto intestino degli elementi (1). Ora noi abbiamo messo per condizione all' eccitamento che gli elementi a cui il sentimento aderisce, al contatto fra loro, debbano muoversi stropicciandosi insieme, e così mutando frequentemente l' esteso continuo, termine del sentimento. Ciò posto, se io stimolo una membrana composta di molecole del cinquantesimo ordine, in modo da fare che si muovano reciprocamente e si stropiccino queste molecole, ma non i loro elementi; e se quindi accade che il movimento elementare non si propaghi fino al centro, termine del sentimento dominante e costituente l' uomo, io non avrò eccitata alcuna sensazione; ma qualora io trovi il modo di far che nasca un movimento intestino negli elementi, in modo che questo si propaghi e continui col movimento intestino centrale, allora io avrò con ciò determinata la sensazione propria dell' uomo, ed atta a cadere nella sua coscienza. Infatti la sensazione non nasce col moto assoluto del corpo e dell' organo (2), ma in virtù del moto relativo fra gli elementi sensati; e questo moto deve essere continuo a quello del centro; perocchè, se i movimenti intestini degli elementi fossero limitati in una parte del corpo e non si estendessero al centro, nascerebbe un sentimento eccitato diverso dal sentimento massimo, mancando nel moto la continuità, a quella guisa appunto che il sentimento di continuità si moltiplica, se il continuo si divide e discontinua. Solamente dunque alle descritte condizioni la sensazione prodotta si riferirà al sentimento individuale dell' uomo, che è il sentimento massimo fondamentale fra quelli che cadono nel corpo umano. E qui ci sembra scorgere probabile ragione, perchè lo scotimento dei nervi debba essere propagato fino al cervello, acciocchè noi , che siamo il principio razionale del sentimento massimo, ne abbiamo la sensazione. Che se tale sensazione si sente colà dove è stato applicato lo stimolo, ciò vuol dire che anche quella parte entra nel sentito del sentimento massimo; ma per appartenervi è uopo che comunichi col centro, divisa dal quale appartiene ad un altro sentimento, perchè dal centro, cioè dall' unità e continuità del termine del sentimento massimo, riceve l' individualità animale il sentimento fondamentale dell' uomo. Acciocchè dunque un eccitamento produca una sensazione individuale conviene: Che il movimento si faccia nel continuo sentito. Che il movimento si faccia negli elementi, a cui aderisce il sentimento. Che il movimento sia propagato fino alla sede dell' individualità del sentimento, dove cioè sta quel sentito, che risponde al sentimento fondamentale massimo, e individuato in virtù appunto di questa sua condensazione; di maniera che il principio senziente senta un moto continuo (cioè nel continuo), e non interrotto. Le cose dette sembrano potere spianar la via a sciogliere la questione tanto agitata sulla vita dei fluidi, che circolano nei corpi animali, e che nel corpo umano formano forse undici dodicesimi di peso. Vedesi chiaramente: Che essi possono vivere d' un sentimento diverso dal nostro, di un sentimento perciò che non può cadere nella nostra coscienza. Che non è assurdo il pensare che questi fluidi, o una loro parte, sieno termini del nostro stesso sentimento fondamentale di continuazione, benchè non si abbia da essi il sentimento eccitato, purchè si ammetta che la sensitività appartenente al nostro individuo non sia annessa alle molecole del fluido, ma agli elementi di esse; onde, essendo il fluido cedevole, non accade che si spostino gli elementi, componenti le molecole fluide, per mancanza di stimoli; il che ce lo fa parere insensibile, perchè l' attrito delle molecole non adduce un attrito fra i loro elementi, continuato sino al centro del sentimento umano. Noi intanto esporremo colle parole altrui gli argomenti, che mossero un gran numero di dotti a riconoscere nei detti fluidi le proprietà vitali, perchè questo fatto, qualora sia verificato, conferma la data teoria, dalla quale rimane spiegato. Noi siamo ben lontani dall' accordare che vi siano sostanze corporee separate dal nostro corpo, le quali, applicate al corpo nostro, operino immediatamente sulla vitalità. Secondo noi il corpo non può operare che sul corpo, e il corpo straniero, come corpo, non può operare che sul corpo nostro. Quanto poi allo stesso corpo nostro, termine del sentimento, è manifesto che, modificandosi nel modo detto, deve di necessità modificarsi, accumularsi, eccitarsi, ed anche moltiplicarsi da sè stesso il sentimento (1). Che poi l' attività del sentimento, che ha per termine il corpo, possa operare immediatamente sul sentimento del corpo paziente, questo l' abbiamo congetturato (4); e ci venne a parer sempre più probabile, più che osservammo i fenomeni della natura animale, onde l' azione di un corpo vivo sopra un corpo vivo sembra a noi duplice, materiale e sentimentale. E nel vero in questa ipotesi sono i sentimenti quelli che, venendo le molecole vive al contatto, si continuano e si unificano; sono i sentimenti che si accentrano ed individuano, e che individuati fanno da sè dipendere altri sentimenti, e dominano i movimenti intestini del continuo a cui s' estendono. Fra questi sentimenti vi è azione, comunicazione, e talora armonia, talora anche lotta. Laonde, quantunque i fluidi del corpo animale sieno all' animale stesso insensibili, possono tuttavia essere vivi ed investiti di sentimento, e possono essere termini del sentimento nostro di continuazione, senza che i loro movimenti valgano ad eccitarlo e a dar sensazione, perchè il loro attrito non è attrito degli elementi viventi, o perchè l' eccitamento non è continuato fino al centro, cioè alla sede del sentimento massimo; ovvero possono essere termini d' un altro sentimento, diverso da quello dell' animale, a cui si reputano appartenere. E che i fluidi del corpo umano, od alcuni di essi, possano essere termini d' un altro sentimento, le osservazioni microscopiche fatte dai moderni sui globuli del sangue sembrano confermarlo. Le accennerò colle parole d' un illustre medico italiano: Ma è pure strano il sentire alcuni che vi negano tuttavia la vita degli umori, e in medicina d' altro non vi parlano che di solidismo, quando dovrebbe disingannarli anche solo la riflessione che avanti i solidi furono i liquidi; e nella formazione della natura e nella generazione dell' animale questi precedono quelli, di maniera che sempre più si illustra il principio antichissimo, divenuto caratteristico della scuola jonica, « il liquido essere principio di tutte le cose ». Si rammentino le osservazioni già tanto moltiplicate sulla formazione successiva dell' animale. A spiegare altresì il fatto dell' assimilazione, della nutrizione e della riproduzione di alcune parti del corpo, conviene ricorrere alla vita dei liquidi. Nelle quattro specie conosciute di generazione, la vivipara, l' ovipara, la gemmipara e la fissipara, le particelle fluide, che danno la vita ad un nuovo individuo, si separano dal corpo; ma non si riflette abbastanza a un fatto tanto significativo, perchè troppo consueto, benchè egli solo, pare a noi, basterebbe a provare la vita annessa ai fluidi. Ecciterà dunque maggiormente l' attenzione quest' altro fatto, che si osservano vestigi di vita anche in particelle, le quali si separano dai corpi per accidente, e non secondo le leggi della generazione conosciuta. Dopo Buffon (2), che suppose l' esistenza di molecole organiche, molti applicarono i loro studi a deciferare questa questione. Presso di noi il Professore Botto fece (3) speciali osservazioni sui movimenti di globicini animali e vegetabili, sospesi in vari liquidi, che non sembrano potersi spiegare ricorrendo unicamente a leggi meccaniche, fisiche, o chimiche. Non si conchiuda già da tali osservazioni che vi sia un' azione fra quei globuli in distanza. Niente mi prova, come dissi ancora, la necessità di ammettere attrazione fra corpi distanti, e m' induce a negarla la ripugnanza che mi par giacere nel suo concetto. I globicini possono avere un movimento intestino, che li muova da un luogo all' altro. Oltracciò, nuotando essi in un fluido, le cui particelle io suppongo al contatto e dotate di sentimento, possono benissimo stendere la loro azione ad altri globicini nuotanti nello stesso fluido, per l' azione del sentimento che nel fluido stesso si può continuare, benchè nei soli globicini si trovi accumulato in modo da renderli centri di maggiore azione. Del rimanente è uopo riflettersi che fra il sentimento massimo e gli altri sentimenti parziali si possono dare diverse relazioni, le quali non cessano, se non cessando la continuità delle molecole sensitive. Allorquando queste molecole sensitive, o aggruppate e attenentisi ad un centro di sentimento, o sciolte, si separano dal corpo animale, costituiscono altrettanti sentimenti individuali separati. Ma prima che si dividano interamente, il loro sentimento può essere più o meno raggiunto al sentimento massimo, e da questo più o meno dominato, o almeno da questo influito e mantenuto in certa attività. Il sentimento massimo d' un animale può influire alla conservazione di altri sentimenti individuali in più modi, che si possono ridurre a due; l' uno soggettivo , eccitando immediatamente questi sentimenti, e così attivandoli in modo che acquistino l' intensità necessaria per essere individuati; l' altro extra7soggettivo , somministrando ai detti centri il nutrimento, o applicando loro stimoli extra7soggettivi atti a conservare l' eccitamento medesimo. Il primo modo soggettivo , col quale il sentimento massimo d' un animale eccita immediatamente il sentimento in una sua parte con tanta forza da individualizzarlo, si scorge nell' atto generativo, almeno negli animali più perfetti, dotati di vario sesso. Io credo che il sentimento inerente alle particelle, che divengono un nuovo individuo, riceve dall' atto generativo una tale e tanta esaltazione, quale e quanta bisogna loro per individuarsi, bene inteso che questa individuazione viene aiutata dal separarsi della sostanza seminale dagli individui a cui ella apparteneva, benchè non si stacchi interamente dagli individui femmina, ma vi aderisca meno di prima. Quanto poi al secondo modo, extra7soggettivo , se n' ha molti esempi, e primieramente nel feto. Questo riceve dalla madre la nutrizione non solo, ma di più il sangue rosso. Se la madre estenda il suo sentimento fondamentale a quello del feto, o lo ecciti immediatamente, questo non so; e se fosse, servirebbe a spiegare l' amore materno. Ma somministrandogli ella del proprio sangue rosso mediante la vena umbelicale, e questo sangue venendo mosso dal sentimento materno, è questo sentimento che mantiene la vita intra7uterina del feto colla somministrazione dello stimolo principale e incessante che la produce. Di più, vi sono molti animali che vivono in altri animali, e la loro vita è legata sì fattamente all' animale che li contiene, che muoiono con esso; non se ne rinvengono mai nei cadaveri, ed estratti dal corpo in cui vivono, benchè si contraggano ancor qualche tempo nell' acqua tepida, poi vengono meno. Non abbiamo ancora dati sufficienti da determinare il modo, nel quale la loro vita dipende dalla vita dell' animale maggiore; ma non sarebbe impossibile che il sentimento massimo comunicasse immediatamente della propria eccitazione, in essi continuandosi. Se la cosa non è così, è almeno necessario che il sentimento massimo somministri, colla sua attività e colle operazioni che egli produce in tutto il corpo, a questi piccoli viventi il nutrimento, ed assai probabilmente gli stimoli extra7soggettivi, che tengono il loro sentimento limitato in quel grado d' intensione, che gli è necessario per essere costituito come individuo (1). Ed è degno di osservazione che fra gli animali di cui parliamo, alcuni non vivono che in animali sani; altri all' incontro non si rinvengono che in animali, che si trovano in istato di malattia. La legge, secondo la quale tali animali si producono e si mantengono, è la medesima. Il sentimento massimo nello stato di sanità ha un' attività, e produce nei corpi movimenti diversi da quelli che produce nello stato di malattia; quindi egli deve aiutare lo sviluppo di centri diversi, produrre organizzazioni diverse nella sfera dell' organizzazione totale. Tra gli animali abitanti in corpi viventi sani tengono il primo luogo i zoospermi. Ora i zoospermi non solo sono propri del corpo sano, ma sembrano a questo necessari, perchè sembrano necessari alla generazione. Pare adunque che questi animaletti sieno così essenziali all' animale maggiore che li racchiude, come è a lui essenziale la facoltà generatrice. Gli animali, che sembrano svilupparsi nei corpi per cagione di malsania, o che malsania producono, sono di molte maniere, gli entozoarii, gli acari scabbiosi, i pidocchi, ecc.. « Ogni specie animale ha i suoi particolari entozoarii, i quali non possono vivere in specie diverse, e periscono tostochè sono usciti dal corpo in cui ebbero nascita; e ogni viscere del corpo d' un animale non può essere nido che di particolari entozoarii ». Fra questi gli idatidi o vermi vescicolari, che furono divisi in cinque classi maggiori, ciascuna delle quali presenta delle suddivisioni in classi minori, e che conservano pure la vita per l' influenza della vita dell' animale maggiore in cui vivono, sono divisi e isolati mediante il parenchima dell' organo, in cui si sviluppano mediante vesti o vesciche nelle quali si contengono; le pareti di queste vesciche sembrano influire non poco a limitare l' eccitamento intestino loro proprio, sicchè non si possa estendere e comunicare all' animale maggiore che dà loro l' alloggio, la nutrizione, degli stimoli (1), e fors' anche parte del proprio eccitamento; la quale limitazione deve contribuire all' individuazione di quei piccoli sentimenti fondamentali. Alla detta limitazione deve contribuire del pari la stessa vescichetta, che forma ciascun idatide; e pare indubitato che, mediante un tegumento più o meno consistente, più o meno insensitivo, che racchiude tutti gli entozoarii, si limiti a breve spazio sì la loro organizzazione e sì il loro proprio fondamentale sentimento; le pareti del detto tegumento ne formano come la linea di confine. Gli argomenti, volti a provare la generazione spontanea dei pidocchi nei fanciulli anche sani e nella ftiriasi, furono esposti da Fournier (1), da Sichel (2), da Burdach (3) ed altri. « Ogni specie animale è soggetta ad una particolare varietà di pidocchi, e sovente un individuo di una determinata specie di animali, vivente isolato e lontano da ogni altro individuo della sua specie, trovasi molestato da pidocchi che sono propri della sua specie. Anzi Patrin, avendo fatto covare ova di pernice da una gallina, ottenne pernici sui quali osservò i pidocchi propri della pernice, e neppur uno dei pidocchi propri dei gallinacei ». Tutti questi viventi sembrano ingenerarsi dall' animale massimo in istato sano o morboso. La generazione spontanea si manifesta assai più evidente, disorganizzandosi l' animale morto, ed anche il vegetabile. Quante maniere non se ne presentano all' osservazione coll' infusione di tali sostanze in un liquido? « Ottengonsi infusorii di specie diverse a norma della diversità delle sostanze infuse, ed a norma delle diverse condizioni dell' acqua e dell' aria, che concorrono all' effetto dell' infusione. Così l' infusione di una sostanza vegetale od animale, priva d' azoto, darà luogo piuttosto alla produzione di vegetabili infusorii che a quella di animali; e per lo contrario, l' infusione di una sostanza animale o vegetale, ricca d' azoto e scarseggiante di carbonio, produrrà di preferenza animali che vegetabili infusorii. Sostanze animali diverse, infuse, forniscono animali infusorii diversi, come lo provò Gruithuisen, il quale osservò che gli infusorii, prodotti dal musco, sono diversi da quelli prodotti dal pus (4). Anche il diverso stato, in cui trovasi una stessa sostanza organica, basta per fare sì che essa produca infusorii di diversa specie; così Spallanzani vide che i grani di trifoglio bolliti producono infusorii diversi da quelli prodotti dai medesimi grani non sottoposti alla bollitura ». Sembra che tutti questi fatti non si possano spiegare, se non supponendo che il sentimento sia inerente ad ogni elemento della materia, e che la composizione di questi piccoli sentimenti e l' unità armonica dei loro eccitamenti ed accumulamenti (composizione ed unità prodotte dall' attività del sentimento medesimo e dalle leggi che ad essa presiedono) sia ciò che produce tali organismi vitali, tali animali. Nella quale supposizione la morte degli animali maggiori ed osservabili altro non sarebbe che la dissoluzione del sentimento loro fondamentale, e la perdita quindi dell' esistenza individuale, che perirebbe a cagione della perdita dell' organizzazione opportuna a quel sentimento eccitato, che li individua. Ma in tale avvenimento niun sentimento primitivo ed elementare cesserebbe d' esistere; solamente venendo egli composto, accumulato ed eccitato diversamente, o diviso fino allo stato elementare, riceverebbe altre individuazioni, e darebbe così esistenza ad altri animali ed a vivi elementi. In questo modo la generazione spontanea sarebbe spiegata, anzi pure ogni generazione si ridurrebbe ad una sola legge. Nè dubito punto che il filosofo metafisico vedrà la cosa possibilissima, scevra da ogni perniciosa conseguenza, anzi pure probabile, se egli moverà i suoi ragionamenti dall' osservazione interna della coscienza che ha del proprio sentimento; se egli rifletterà che l' anima sensitiva non può essere da lui conosciuta se non mediante la detta osservazione, che lo rende conscio del sentimento [col quale sente], e che egli non può trovare quest' anima se non nel sentimento medesimo, non può definirla se non un principio senziente; ancora, che in questo principio senziente egli deve riconoscere un termine esteso, variabile, divisibile e moltiplicabile, e che il principio senziente non esiste se non inerentemente al suo termine, onde si deve moltiplicare col moltiplicarsi di questo. Solo l' anima dell' essere intelligente è un principio più elevato, il quale non può perdere l' identità sua e la sua individualità colla perdita del sentimento corporeo, come dichiareremo in appresso più largamente. Forse all' universalità della legge, che noi accennavamo, si opporrà non essersi potuto ancora ottenere alcun animale coll' accozzamento di sole sostanze inorganiche. A cui rispondo che, lasciando anche da parte la pretensione di alcuni chimici, che vantano di avere ottenuto qualche rudimento d' organizzazione facendo reagire fra loro sole sostanze inorganiche, l' obbiezione non distrugge necessariamente l' universalità della legge, posta da noi per congettura, essendosi dimostrato antecedentemente che certi aggregati troppo semplici di elementi non possono dar segni di vita apparenti all' osservazione, quand' anche l' avessero. Che poi gli elementi per comporsi in modo da acquistare quell' organizzazione ammirabile, senza la quale la vita non può apparire e mostrarsi di fuori in movimenti continui extra7soggettivi, abbiano bisogno di una organizzazione preesistente, quasi di macchina acconcia in cui ella venga elaborata e disposta; questa è questione indipendente affatto dalla precedente. Finalmente si opporrà che, ammessa questa teoria, sarebbe cosa al tutto decisa che la morte dell' animale si fa sempre per disorganizzazione; il che non è provato, non essendosi potuto scoprire in certi cadaveri segno di disorganizzazione di sorte. La disorganizzazione potere essere sfuggita all' osservazione, come non rade volte indubitatamente avvenne (1). Se la vita è inerente agli elementi, i quali per la loro piccolezza si sottraggono ad ogni osservazione umana, poter benissimo esservi tali lesioni d' organizzazione, che non sieno atte ad essere osservabili. Finalmente le osservazioni fin qui istituite per discoprire i disordini d' organizzazione, che cagionarono la morte, furono tutte fatte su cadaveri umani; e poichè nell' uomo vi è un principio superiore al corpo, non può provarsi impossibile che questo principio abbia virtù di dividersi dal corpo spontaneamente, senza che preceda disorganizzazione nel corpo stesso; benchè a me parrebbe dover avvenire in tal caso piuttosto una momentanea alienazione che una vera separazione. Qui poi aggiungerò l' osservazione, che coll' ipotesi della vita dei primi elementi si concilierebbero due sentenze apparentemente contraddittorie in sommi scrittori, i quali non è mai a credere che si sieno troppo grossamente contraddetti. I più eccellenti ingegni hanno creduto provare l' immortalità dell' anima umana dall' essere ella vita del corpo, così argomentando: « Il corpo riceve la vita dall' anima, dunque egli è morto per sua natura. Ma l' anima, che è quella che dà la vita al corpo, non può cessare di vivere, perchè è vita ella stessa »(2). Ora, questa maniera di argomentare è fermissima, ma ella vale egualmente applicata all' anima dell' uomo e a quella dei bruti; cioè prova egualmente che il principio che dà la vita al corpo, abbia congiunta o no l' intelligenza, non può perire. Eppure quegli stessi autori insigni che ragionano così, insegnano poi che l' anima dei bruti perisce. Come conciliarli seco medesimi? Colla teoria della vita dei primitivi elementi della materia; vita distinta da quella organico7eccitata, propria dell' animale. La vita originaria, primitiva, latente, che non perisce, si è quella degli elementi; per essa è acconcissimo l' argomento indicato. Ma la vita patente degli animali non consiste in quel solo primitivo sentimento, ma esige eccitamento, continuazione dell' eccitamento, regolarità in questo eccitamento, e quindi organizzazione, che riproduca l' eccitamento con armonia in circolo perpetuo. Perisce adunque l' animale col distruggersi dell' organizzazione, perisce la vita sua propria, ma rimane la vita, il principio della sua vita, cioè l' anima aderente agli elementi primi, nei quali l' organismo si scioglie. Anche l' altro argomento dell' immortalità dell' anima, che si dedusse dalla spontaneità del moto (1), conviene egualmente al principio sensitivo ed al principio intellettivo, perocchè entrambi hanno una efficacia di muoversi da sè stessi, date le condizioni opportune; e però esso è certamente efficace, ma non a provare la sola immortalità dell' anima intellettiva, ma l' immortalità della vita dei primi elementi. Quindi non fa meraviglia se molti filosofi dell' antichità, non essendo pervenuti a distinguere la vita eccitata degli animali dalla vita in riposo degli elementi, abbiano sostenuto l' immortalità egualmente delle anime umane e belluine, fra i quali l' indiano Budda o €akya, che diceva non differire queste anime se non per riguardo al soggetto in cui esse si trovano, distinguendo con nuovo errore il soggetto dell' anima dall' anima stessa (1). Vi sono ancora altri argomenti non leggeri in favore della sentenza che pone gli atomi animati, ma noi ci riserbiamo ad accennarli dove cadono a corollario delle verità, che ci restano ad esporre. E qui noi possiamo perfezionare la definizione dell' animale, meglio dichiarandola. Abbiamo definito l' animale « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo ». Ciò che rimaneva a dichiararsi era la parola individuo . Le cose, che precedentemente abbiamo esposte, dimostrano in che consista l' individualità dell' animale: ella consiste in un sentimento massimo, dominatore di tutti i sentimenti diffusi in una data estensione sentita. Quindi la differenza fra gli elementi vivi (2) e gli animali . Quelli non hanno che il sentimento; ma gli animali non sono costituiti se non allora che si avverino queste quattro condizioni: 1 sentimento continuo; 2 eccitamento; 3 organizzazione che perpetui l' eccitamento; 4 unità di organizzazione e di eccitamento, cotalchè vi sia un sentimento massimo e prevalente, il quale, avendo maggiore attività che tutti gli altri sentimenti nello stesso continuo, domini tutte le attività sensitive, e così individui l' ente senziente. Quindi può nascere la questione: « se vi sia in natura uno speciale ministro dell' eccitamento animale, onde siccome da agente principale si formi, ristori e sviluppi l' organizzazione ». Ebbene, rispetto a molti animali e fors' anche a tutti, pare che questo ministro vi sia, e che sia l' ossigeno. E` un fatto, che s' avvera negli animali a sangue caldo e rosso, che, qualora una parte dell' animale non viene più innaffiata dal sangue ossigenato, ella non dà più segni di sentimento animale. Questo prova che in tali animali il sentimento massimo e individuante non ha più attività sufficiente a conservare o esercitare il suo dominio, senza un tale eccitatore. Quindi ella è antichissima opinione [consacrata dall' autorità della Scrittura], che la vita animale abbia la sua sede nel sangue; il che noi interpretiamo così, che il sangue ossigenato sia nell' uomo e in altri animali, organati con certa perfezione, l' eccitatore del sentimento individuante. Non bene fu reso da un celebre scrittore il luogo della Genesi, dove si nomina « il sangue delle vite » « sanguinem animarum vestrarum (1) », colla frase « il sangue è la vita »(2). Così pure altrove si dice che nel sangue è la vita della carne, « anima carnis in sanguine est (3) », ma non che il sangue stesso sia la vita. Si pretese trovare questa stessa opinione in Omero, donde l' abbia poi derivata Empedocle (4), ed in altri assai. Certo è che fu introdotta negli stessi miti , favoleggiandosi che le anime dei trapassati non potessero ricordarsi le cose della vita presente, se non assorbendo il vapore del sangue o il sangue stesso; opinione che deve aver dato origine in parte alle vittime immolate ai trapassati. Non rincresca che io qui riferisca il luogo di Porfirio, conservatoci da Stobeo: [...OMISSIS...] . Dove però si scorge continuamente confusa l' anima sensitiva coll' anima intellettiva. In Italia Plinio riprodusse questa opinione, che ripone l' anima nel sangue (2). Recentemente fu riprodotta dal cav. Rosa (3), e poscia in Inghilterra da Hunter (4), il quale stabilì questa proposizione tutta all' uopo nostro, che « l' organizzazione niente ha di comune colla vita ». Solamente che questi celebri osservatori della natura non videro poi la differenza fra la vita semplice e quiescente, che nel solo sentimento consiste, e la vita continuamente eccitata, a cui è indispensabile la conveniente organizzazione. Ad ogni modo pare che dalle loro esperienze si possa raccogliere in un modo inconcusso che la vita eccitata ed animale ha il suo principio eccitatore nel sangue (5). Ma non basta; le esperienze di Bichat provarono che non il sangue nero, ma il solo sangue rosso ha la virtù di eccitare la vita animale dell' uomo. Ora è noto che il sangue si fa rosso mediante l' ossigeno, che l' animale trae dall' atmosfera colla respirazione. Ben rimarrebbe a conoscere se i pesci e gli altri bruti a sangue freddo e a sangue bianco ricevano anch' essi l' eccitamento, che mette in atto la loro vita, dall' ossigeno, cavandolo dall' acqua o altronde comecchessia. Quindi per molti animali l' atmosfera è, quasi direbbesi, il serbatoio e il fonte perenne della vita animale. Questo sembra aver veduto Empedocle, il quale, secondo che attesta Teodoreto, dice « l' anima essere commista di sostanza eterea ed aerea », e pose nel cuore la sede di lei (1). E perchè nel cuore? Perchè al cuore passa il sangue dal polmone, dopo saturato d' ossigeno, onde Cicerone scrive: « « Empedocles animum esse censet cordi suffusum sanguinem » (2) », frase che assai bene distingue il sangue ossigenato, che va al cuore, dal sangue che, venendo spinto dal cuore alla circonferenza, si disossigena. E poichè nella respirazione la scomposizione dell' aria è una cotal combustione, e produce calore, Empedocle di fuoco principalmente volle constare l' anima; e dal maggiore e minore calore del sangue riuscire pronti o tardi gli ingegni (3). Anche gli autori, che diedero all' anima la natura di aria, come Anassagora, Anassimene, Archelao, Diogene di Apollonia (4), sembrano aver colta o traveduta la stessa cosa; come pure tutti quelli che le diedero natura di fuoco, come Parmenide, Leucippo, Democrito; e lo stesso Eraclito di Efeso, che pose nel fuoco il principio elementare, il substratum di tutte le cose, l' agente universale, onde ammetteva gli elementi animati da questo principio (5), e sembra che col fuoco identificasse od unisse la luce (6). A me pare che Empedocle abbia derivato molte sue sentenze da questo fonte. E questo sia prova che talora i filosofi, che sembrano di opposta sentenza, si possono conciliare fra loro, come facciamo qui di quelli che volevano l' anima aerea, e di quelli che la volevano ignea. Per altro la stessa etimologia delle voci anima, animus, spiritus , ecc., tutte significanti aerea sostanza, par dimostrare che i primi uomini, inventori di queste parole, e con essi il senso comune, opinavano che l' animale traesse dall' atmosfera, respirando, il motore della sua vita. La quale opinione si deve forse riporre fra quelle che risalgono all' origine del mondo; poichè nella Scrittura l' anima si denomina fiato, e per uno spiro della bocca di Dio viene infusa (1); i quali luoghi adducendo, Tertulliano dice: « « Nam anima in substantia flatus est, ab effectu autem dicitur spiritus quia spirat »(2) »; di che questo autore trasse il suo errore della materialità dell' anima, confutato poi validamente da S. Agostino (3). Laonde, se gli antichi fisici si fossero accontentati d' insegnare che l' animale traeva dall' atmosfera l' eccitatore principale di loro vita, non sarebbero andati lungi dal vero; ma confondevano tutt' insieme colla vita animale il principio intellettivo, e però traviarono nei primi passi (4). Passiamo ora a considerare l' anima umana, in quanto è intellettiva; e anche qui consideriamone la semplicità . La semplicità è una proprietà negativa, perchè con essa si esclude il molteplice, l' esteso, il materiale. Ma ella ci giova tuttavia non poco a conoscere la natura dell' anima, perchè noi non la consideriamo sola quella proprietà e astrattamente, ma negli atti e nelle operazioni dell' anima, le quali ci somministrano una cognizione positiva di lei. Onde conoscendo positivamente l' anima mediante il sentimento e la coscienza, come dicemmo, altro non ci rimane che a trovare le differenze sue dalle altre cose, e principalmente dai corpi, per averne così la cognizione riflessa e scientifica; giacchè questa si compone di differenze, dimostrate in gran parte nelle proprietà negative, che escludono dall' ente, che si vuol conoscere, tutto ciò che non è lui. Diciamo, dunque, che niuna delle operazioni intellettive dell' anima potrebbe essere fatta se non da un principio semplice; e che perciò tante prove si hanno a conferma della semplicità dell' anima, quante sono le sue operazioni intellettive. Ognuna di queste prove, bene analizzata e meditata, è convincente a pienissimo. Onde il ragionare nostro non troverebbe fine, se tutte volessimo trarle fuori per singolo. Come adunque abbiamo fatto parlando dell' anima sensitiva, la quale si dimostra semplice coll' analisi di qualsivoglia operazione dell' animale, e tuttavia ci siamo ristretti a considerarne sol poche; così faremo dell' anima intellettiva. Deliberemo la materia, limitandoci a meditare quale semplicità di principio esigano a prodursi le prime fra le intellettive operazioni. Che cosa è l' anima intellettiva? Un soggetto che intuisce l' essere in universale. Ora l' intuizione è operazione semplice, perchè semplice ne è l' oggetto. Infatti l' essere universale è fuori dello spazio e del tempo (1). Ma il soggetto, che lo intuisce, riceve la sua forma dall' essere intuìto; dunque l' intelligente, la cui attività termina tutta e dimora nell' essere intuìto, è un principio fuori dello spazio e del tempo, al tutto semplice, spirituale (2). L' intuizione adunque dimostra ad evidenza la semplicità dell' anima intuente (3). Questa è la dimostrazione fondamentale della spiritualità dell' anima intellettiva, come quella che è tratta dall' atto primo di lei, dal suo essere formale. Ella racchiude altresì tutte le altre nel suo seno; conciossiachè se le altre operazioni dell' anima intellettiva e razionale si trovano dover essere semplici, la ragione ultima della loro semplicità giace nella semplicità dell' atto primo, dal quale gli atti secondi derivano e si svolgono. L' intuizione delle essenze specifiche e generiche dimostra la stessa verità. Tali essenze sono tutte semplici, immuni da spazio e da tempo, e non differiscono dall' essere in universale se non per alcune determinazioni, di cui lo rivestono. Ma ciò che merita di essere più attentamente osservato si è che quello stesso che nel primo aspetto sembra poter recare qualche pregiudizio alla semplicità dell' anima intellettiva, e onde furono tratte infatti alcune obbiezioni per impugnarla, è ciò che maggiormente la conferma. Noi abbiamo dimostrato la semplicità del principio sensitivo dalla natura del continuo, il quale, abbiamo detto, suppone il semplice in cui esiste. L' estensione adunque è già unificata dal principio sensitivo, e somministrata come semplice all' apprensione dell' intendimento. Ma il numero riceve la sua natura di numero dall' unità e semplicità del principio intellettivo, che simultaneamente e con atto semplicissimo apprende più cose. L' unificare più cose in una sola collezione, numerarle, cavarne per astrazione i concetti e la teoria dei numeri, è tale operazione che non può esser fatta che da una mente e da un atto semplice, che abbraccia il più nell' uno. Da questo medesimo argomento, che dimostra la semplicità dell' anima, perchè ella considera più cose nello stesso tempo e collo stesso atto, e in una stessa idea, procede la dimostrazione della semplicità del principio intelligente, che si trae dal sillogismo e da tutti gli atti del ragionamento, e che noi accennammo altrove (1). L' uomo non potrebbe, se non avesse uno spirito al tutto semplice, eseguire l' operazione del paragone, trovare le differenze delle cose, le convenienze e le disconvenienze, ordinare i mezzi al fine, ecc.. Tutte queste operazioni suppongono un principio, che abbraccia più cose nell' unità e semplicità di una sola e medesima idea. Quindi esce ancora l' argomento che si trae dalla libertà dell' uomo, la quale esige un principio semplice, che sia capace di eleggere fra più cose. Il quale argomento, già usato da S. Tommaso (2), viene esposto dal Suarez così: « « Tutti gli agenti materiali, di cui abbiamo esperienza, operano per necessità di natura, e i bruti per naturale istinto; del che è segno l' osservare che tutte le cose, che sono della medesima specie, hanno un' operazione determinata e un modo uniforme di operare; onde quella determinazione procede dalla materialità. Per conseguente il modo di operare dell' anima razionale tutt' altro da quello, proviene dall' immaterialità »(1) ». Aristotele e i suoi seguaci, gli Scolastici, ottimamente osservarono che la condizione e virtù del corpo è così limitata e particolarizzata, che esso non ammette se non certe modificazioni e passioni, le quali si escludono scambievolmente. Così nello stesso tempo che un corpo è rosso, non può essere d' altro colore. Quindi gli atti del corpo non s' estendono oltre a quella breve virtù, che è nell' atto primo del corpo stesso. Ma tutt' altro accade della virtù dell' anima intellettiva, che intende tutte le cose a lei offerte nel debito modo, anche le più contrarie, le confronta, ecc.. Dunque l' anima intellettiva non può avere natura corporea. Questa in sostanza è la prova che adduce Aristotele, considerata nel suo fondo e vestita di una forma esatta (2). La ragione poi, ond' è che la natura conoscitiva dell' anima può abbracciare tutte le cose, si è perchè il suo atto primo, che determina la sua virtù, è informato dall' ente in universale; il quale abbraccia virtualmente tutte affatto le entità; onde ella ha una virtù primitiva, che a tutti gli enti si estende. All' incontro il corpo non ha oggetto distinto da sè, termina tutto in sè stesso, nella sua natura particolare. Così pure il principio sensitivo ha per suo termine l' estensione corporea, e quindi la virtù sua è limitata alle modificazioni, di cui è suscettibile l' esteso sentito. Ma l' esteso sentito, cioè il corpo, è limitato a quel modo che diciamo; perciò anche il principio sensitivo rimane limitato dalla limitazione stessa del corpo, che costituisce il termine del suo primo atto. Alla qual prova si riduce quest' altra molto evidente, ed usata spesse volte dagli antichi (3). L' anima intellettiva concepisce enti spirituali, come sè stessa, gli Angeli, Iddio; e può amarli e volerli come suoi beni (1). Ma il corpo, esteso com' è, non può uscire colla sua azione dall' estensione, quindi non può attingere ciò che è al tutto fuori di essa. L' anima intellettiva dunque è incorporea. Finalmente l' operazione del riflettere , che fa l' anima sopra sè stessa, è manifestissima prova della sua semplicità ed incorporeità; perocchè il corpo non ha alcuna azione sopra sè stesso (2). Ma anche questa dimostrazione è conseguente alla prima; giacchè dove trovasi la ragione che spiega la riflessione del pensiero sopra sè stesso? Onde deriva questa facoltà? Ella deriva dalla natura dell' essere in universale , oggetto di quel primo suo atto, che la costituisce intelligente. Conciossiachè, essendo quell' oggetto così universale che abbraccia ogni entità, e per conseguente anche l' entità stessa dell' anima e di tutti i suoi atti, ella può in esso trovare sè stessa e gli atti propri, e i suoi oggetti; il che è riflettere. E poichè l' essere è oggetto della sua intuizione e insieme mezzo di ragionare, ella può applicare l' essere, come mezzo di ragionare, all' essere come oggetto dell' intuizione, e così riflettere sopra l' essere stesso, e per mezzo dell' essere ragionare dell' essere. Se dunque è semplice il principio sensitivo ed è semplice il principio intellettivo, e se questi due principŒ s' identificano nell' anima razionale, l' anima razionale è semplice. Infatti, come già dicemmo, l' Io stesso, che fa un atto, è quegli che fa tutti gli atti; l' Io, che opera per mezzo del corpo in uno spazio, è quegli che opera in tutti gli altri spazi dove gli piace operare; l' Io, che opera in un tempo, è quegli che opera in altri tempi; l' Io, che patisce, è l' Io che fa; l' Io, che sente, è l' Io che intende; egli è sempre il medesimo, uno e semplicissimo Io. Dunque l' Io, cioè l' anima razionale dell' uomo, si dimostra per l' identità sua costantissima, variando gli accidenti, semplice e spirituale. Ma se la semplicità dell' anima, di ogni anima, è indubitabile e manifesta, quanto è manifesto l' assurdo di supporla estesa; se si hanno altresì dimostrazioni irrepugnabili che l' uomo è uno e non può avere che un' anima sola; ciò nonostante ritorna una cotal dubbiezza nelle menti, che fa vacillare la persuasione nelle trovate verità, e questa dubbiezza si genera dalle seguenti considerazioni: La prova dell' unità dell' anima umana, che si deduce dalla coscienza, cioè dall' unità dell' Io, non toglie il dubbio che fuori dell' Io, e in connessione coll' Io, potesse essere un' altra anima sensitiva. La coscienza non dimostra che tutte le azioni, che si fanno nell' uomo, sieno fatte dall' Io, sicchè l' Io sia il solo principio operativo nell' essere umano; che anzi molte cose avvengono nell' uomo, che l' Io non sa di fare, ed altre a cui l' Io espressamente ripugna, come i movimenti della parte inferiore appartenenti all' animalità; che finalmente certe operazioni vitali, come la circolazione del sangue, si sottraggono quasi interamente al libero dominio della parte razionale, e però sono fatte da un altro principio. L' uomo stesso, quando opera secondo l' intelligenza, sembra un essere diverso d' allora che opera secondo l' animalità; e talora egli brama di perdersi nella voluttà della sensazione fino a rimanere in lui sospese le funzioni dell' intelligenza, il che non potrebbe bramare se fosse solo un' anima razionale. La prova che si deduce dall' unicità del principio dell' intelligenza e della sensazione (oltrecchè non sempre si avvera che ogni atto sensitivo si debba attribuire al principio degli atti intellettivi), altro non conchiude se non l' esistenza d' un principio unico intellettivo, che talora nel suo operare si associa ed immedesima col principio animale; ma non prova che questo principio animale non dimostri talora, e però non abbia un' attività sua propria; e però sia in tali casi un principio diverso dal principio dell' intelligenza. Sembra che, mossi da queste ragioni, alcuni gravi filosofi abbiano dato all' uomo due anime, l' una intellettiva e l' altra sensitiva, e che quelle ragioni medesime, in sostanza, o simili, conducano al dì d' oggi i fisiologi, quasi universalmente, a distinguere il principio della vita animale dall' anima umana. Queste difficoltà non sono dispregevoli e contengono qualche cosa di solido, ma nulla provano contro la tesi dell' unicità dell' anima dell' uomo. Perocchè sono due questioni ben distinte: 1 se è unica e semplice l' anima dell' uomo; 2 se quest' anima, benchè unica e semplice, abbia due attività diverse, divisibili fra loro, ma così fattamente congiunte che, durante lo stato ed atto d' unione, il principio dell' una s' identifichi col principio dell' altra, cioè abbiano un solo principio, al qual principio si dia il nome di anima. Ora le prove da noi addotte dimostrano che entrambe queste questioni si debbono risolvere affermativamente. Perocchè: La prova dedotta dall' unità dell' Io dimostra che, se qualche cosa avvenisse nell' uomo che non si potesse attribuire al principio intellettivo, quell' attività non sarebbe un' altra anima dell' uomo; ma sì una attività, che all' anima dell' uomo non apparterrebbe. La prova, tratta dal fatto che gli atti sensitivi si possono talora ridurre al principio stesso che intende, dimostra che in tal caso uno solo è il principio delle due specie di atti, i sensitivi e gli intellettivi; e che questo principio unico è l' unica anima umana; onde tutto ciò che rimane fuori di questo principio unico, non costituisce un' anima umana. Noi abbiamo conceduto che il principio sensitivo per sè considerato è diverso dal principio intellettivo; ma dicemmo che questi due principŒ sono atti a congiungersi in uno solo, se non a quella guisa che due punti matematici, movendosi e unendosi, diventano un punto solo, almeno a quella che il principio d' una retta, a cui si aggiunge un' altra retta nella stessa direzione, non si raddoppia, ma rimane un principio solo, ove incomincia tutta la linea così allungata. Abbiamo detto che la base di questa unione del principio intellettivo e del sensitivo è la percezione fondamentale del sentimento animale; la qual percezione è un atto del principio intellettivo, che con ciò acquista il nome di razionale . E veramente, data questa percezione, ne viene che lo stesso principio intellettivo divenga in pari tempo sensitivo, benchè senta in altro modo più elevato da quello che sente il principio meramente sensitivo. Perocchè il principio intellettivo percepisce il sentimento sostanziale (termine e principio) sotto la natura di ente, come una maniera, un atto dell' ente (giacchè anche il sentimento sostanziale è una attualità speciale dell' essere in universale). Ora egli non potrebbe percepire il sentimento come ente, se non lo percepisse come sentimento; onde ciò che percepisce è il sentimento7ente. All' incontro il principio sensitivo ha per termine il sentito come sentito e non come ente, e neppure il sentimento (principio e termine). Ora il principio sensitivo, che forma identità col principio intellettivo, è appunto questo, cioè è lo stesso principio intellettivo che, percependo l' ente7sentimento , ne sente il termine, il sentito, con sentimento inchiuso nell' ente, che è suo proprio oggetto; all' incontro il principio sensitivo, in quanto soltanto aderisce al termine esteso e produce il sentimento, e di conseguente non percepisce l' ente, nè sè stesso, non s' identifica coll' anima umana, e non è l' anima umana. Ed è a questo che si debbono attribuire quei movimenti che si fanno nell' uomo senza che vi concorra il principio intellettivo, o contro la volontà di questo principio. Così il principio meramente sensitivo non perde la sua attività, perocchè l' unione si fa per via di percezione intellettiva permanente, che non altera la natura della cosa percepita, benchè possa agire sopra di lei ed anche signoreggiarla. Onde accade che il sentito sia termine ad un tempo del principio meramente sensitivo e del principio intellettivo7sensitivo, ossia razionale. Di che si spiega come sull' identico sentito operino due poteri: il potere del principio meramente sensitivo e il potere del principio percettivo, ossia razionale, e talora i due poteri vengano in lotta fra loro. Si spiega ancora come il principio sensitivo ed il principio percettivo , ossia razionale, possano influire l' uno sull' altro. Perocchè, se il principio meramente sensitivo per la propria spontaneità (dato il conveniente stimolo) immuta il proprio sentito, con ciò si cangia anche il termine della percezione, e così indirettamente può modificare e muovere l' atto del principio razionale. All' incontro, se il principio razionale vuol mutare il sentito , che percepisce attualmente insieme col principio senziente, egli lo immuta operando direttamente su questo principio; e ciò perchè, quantunque la percezione, quando è attuale, non immuti la natura del percepito, tuttavia dà al percipiente la forza di agire su di lui e di mutarlo. Così quand' io, toccando colla mano, percepisco attualmente un corpo esterno, posso immutarlo, dandomene comodità l' attuale percezione, che meco quel corpo congiunge. Questa è la ragione per la quale l' uomo può mutare il suo proprio corpo, che percepisce immediatamente come sentito. Con ciò rimangono disciolte le obbiezioni, prima, seconda e quarta. Che se l' uomo talora ama di perdersi nella voluttà della sensazione, che è la terza obbiezione, rispondo che col perdersi nella voluttà della sensazione, benchè rimangano sospesi gli atti riflessi, non è a credersi che si perda la percezione immanente e fondamentale, e che resti la sola sensazione, la quale sola e divisa non può essere appetita dall' uomo, che è il principio razionale; anzi la percezione con ciò si rinforza, ed è quel sentimento che nella percezione si comprende, l' oggetto dell' appetizione. Non è dunque che si appetisca la mera sensazione, ma fra gli atti razionali si appetisce tanto il primo, quello della percezione intensa, che si brama anche col sacrificio degli altri atti riflessi. Finalmente gioverà osservare che nella percezione il principio razionale non è propriamente attivo , ma piuttosto ricettivo , benchè abbia la forma e la comunichi; onde egli è causa informante (1). Se dunque si considera la sola percezione fondamentale, non si trova a dir vero come il principio razionale sia anche principio che modifichi il sentire. Ma se si procede più oltre, se si riflette che ogni percezione attuale dà al principio razionale una facoltà attiva (rispondente alla ricettiva della stessa percezione), per la quale egli può esser causa di modificazione nel percepito, si vedrà come l' attività del principio razionale sul sentito animale non è così attuale e permanente come la stessa percezione fondamentale; ma possa attuarsi e rimettere dall' atto suo; sia insomma potenza e non atto. E fino che quest' attività del principio razionale si tiene nello stato di potenza, il principio sensitivo può operare indipendente da lei e modificare il sentimento animale; modificazioni che vengono tutte ricevute dal principio percipiente nella sua ricettività, e da lui informate, cioè ridotte a condizione razionale. Alle quali riflessioni ne soggiungeremo un' altra sulla definizione platonica dell' uomo, « « una intelligenza servita da organi » ». Ne abbiamo già detto il difetto (2). Qui vogliamo indicare il lato vero di questa definizione, pel quale fu suggerita alla mente di Platone, parendoci sempre bello il ripetere che gli errori dei grandi uomini non sono che verità grandi o sottili, disguisate e imperfette. Quella definizione adunque si trovò manchevole da Aristotele, seguito dagli Scolastici, perchè pareva che ella unisse l' intelligenza al corpo come motrice , e non come forma (3). Ora è al tutto erroneo considerare l' intelligenza come motrice del corpo anzichè come forma ? Il rispondere a questa interrogazione dipende certamente dal modo di definire e di determinare la natura rispettiva dell' intelligenza e del corpo organico; ed appunto perchè questi due termini si trovano posti nella definizione senza tale determinazione, perciò ella è manchevole. Ma se invece di adoperare la voce generica d' intelligenza si ponesse un' intelligenza percipiente l' animalità , e se invece di corpo organico o di organi si ponesse animale , la definizione rimarrebbe aggiustata, uscendone che l' uomo sarebbe « un' intelligenza percipiente per natura l' animalità, servita dalla stessa animalità ». In tal caso la relazione fra una tale intelligenza e l' animalità potrebbe essere di motrice a mossa; perchè la forma razionale data all' animalità è già espressa nell' intelligenza così determinata. Nè male starebbe che in quella definizione l' animalità ricorresse due volte; perocchè l' animalità, cioè il sentimento sostanziale animale, ha nell' uomo veramente due modi di essere; infatti egli è come percepito nel principio razionale, e intanto è da questo informato; ed è in sè stesso come mero sentimento, e intanto è mosso. Così l' uomo consta di due parti, l' una essenza di lui e l' altra condizione; queste due parti non sarebbero l' anima e il corpo , ma sì l' anima razionale e il corpo vivente. A queste due parti sembrano rispondere nelle sacre carte lo spirito e la carne , perocchè la parola carne nelle Scritture non significa la carne morta, ma la carne viva e sensata. Veniamo ora alla questione dell' origine dell' anima intellettuale, tanto agitata dagli antichi filosofi e dai Padri della Chiesa, ed abbandonata poscia dai moderni, allassati da sì lunghe ricerche e sfiduciati di riuscirne allo scioglimento. Se non si trattasse che di spiegare la generazione di un' anima meramente sensitiva, come nei bruti, le difficoltà della questione sarebbero molto minori; noi abbiamo già veduto che ella è moltiplicabile mediante la divisione del suo termine sentito. Abbiamo ancora veduto che questa maniera di moltiplicarsi niente pregiudica alla sua semplicità. Ma quando si tratta d' un principio intellettivo cresce immensamente la difficoltà. Aristotele stesso se ne accorse, poichè nell' opera che scrisse sulla generazione degli animali, dopo aver detto che le anime dei bruti non vengono loro dal di fuori, nè possono esistere senza corpo, perchè ogni loro operazione si fa coll' aiuto d' organo corporale, soggiunge parlando dell' intelligenza: « « Rimane adunque che la sola mente s' aggiunga dal di fuori, ed ella sola sia divina, poichè l' azione corporale non ha niente di comune coll' azione di lei »(1) ». Infatti tutti i più solenni filosofi hanno riconosciuto che nell' uomo v' è qualche cosa di divino, cioè di tale che non può esser dato che da Dio stesso immediatamente. Onde lo stesso Aristotele in altro luogo dice: « « solo l' uomo fra gli animali essere partecipe della divinità »(2) », e parlando della vita contemplativa non dubita affermare che ella « « supera la natura umana »(3) », volendo significare che l' uomo colla contemplazione esce dai confini della sua natura ed attinge le cose divine, quali sono le idee. Onde aggiunge che « « l' uomo non vive a quel modo per via di ciò per cui egli è uomo, ma per via di ciò per cui v' è in lui un quid divino »(4) »; e ancora: « « quanto dunque questo » (principio intellettivo) «differisce dallo stesso composto, tanto anche l' operazione di lui differisce da quella che viene da altra virtù. Che se la mente è rispetto allo stesso uomo elemento divino, anche la vita, che da questo procede, è divina rispetto alla stessa vita umana » ». Di che insegna: « « noi non dovere troppo pensare alle cose mortali, ma quanto mai fia possibile, far noi stessi immortali »(5) ». E` per questo che noi dicemmo non potersi in modo alcuno spiegare l' umana generazione, senza ricorrere all' intervento di Dio medesimo (6). Ma ciò che restava a determinarsi con precisione si era quale fosse quell' elemento divino, che videro e confessarono tutti i maggiori pensatori intorno alla natura umana; per non confondere con esso ciò che ad esso non appartiene. E di vero gli antichi si contentarono dire che divina era l' umana mente, nè so se più distintamente e accuratamente mai si esprimessero (1). Tolta dunque a fare da noi questa investigazione, trovammo che nella stessa umana mente due cose si dovevano distinguere, che chiamammo il soggetto e l' oggetto . Vedemmo quindi che il soggetto non poteva dirsi in alcun modo divino, perchè limitato e contingente; e che al solo oggetto spettava d' essere annoverato fra le cose divine, come quello che era veramente illimitato, eterno, necessario, e di altre qualità fornito al tutto divine. Poichè questo, che sta immobilmente dinanzi al soggetto umano, è lo stesso essere in quanto è ideale. E per questa comunicazione, che l' oggetto fa di sè al soggetto umano, si può dire di lui solo ciò che disse S. Agostino della natura dell' anima intellettiva, che « vicina est substantiae Dei (2) », ma non che sia divina ella stessa. Anzi, come egregiamente scrisse Claudio Mamerto, ella è simile a Dio come «l' intellettuale è all' intelligibile (3) ». L' oggetto adunque, ossia la forma dell' intelligenza, non può essere generata, ma è Dio stesso che la disvela all' anima, che viene resa così intelligente; il che Iddio fece rispetto a tutta l' umana natura, quando infuse l' anima in Adamo, nel quale l' umana natura si conteneva, e questa non ebbe poscia che a svolgersi in più individui per via di generazione (4). Poichè, come al cominciamento impose leggi fisse a tutte le cose create, così allora fissò anche questa, che ogniqualvolta l' uomo moltiplicasse colla generazione gli individui, a questi fosse presente l' essere , sì fattamente che attirasse e legasse a sè il loro intùito. Il nuovo individuo, a cui risplende l' essere, conviene che sia un animante organato al modo stesso del generatore. Questa organizzazione è certamente la più perfetta, che possa ricevere l' animalità; quella probabilmente in cui l' eccitamento è sommo, l' armonia di questo sommo eccitamento perfetta, la potenza centrale del senziente recata al più alto grado; sicchè il soggetto animale, giunto all' estremo di sua perfezione, dovesse trapassare i confini dell' animalità e attingere le cose eterne, l' idea. Non si creda qui che fra la perfezione specifica del detto organismo animale e la visione dell' essere passi alcun tempo in mezzo; ma nello stesso istante che è naturato l' animale umano, egli è anche fatto intelligente, perchè ammesso alla visione dell' essere, per legge di natura stabilita dal Creatore a principio. Neppure si creda che l' organismo proprio dell' uomo già formato si possa rinvenire scompagnato dal principio intellettivo. No; perchè questo principio intellettivo, tostochè s' unisce al corpo, gli dà l' ultima formazione e modificazione, che lo rende così tutto proprio dell' uomo; e continua ad esercitare la stessa attività, influenza e dominio sul corpo, secondo ciò che abbiamo detto, gli atti dell' anima razionale operare sul corpo, e dargli una certa attualità che prima aver non poteva. Sicchè v' è un organismo tutto proprio dell' uomo formato, che non potrebbe essere senza l' anima intellettiva, perchè questa, informandolo, lo produce, ossia gli dà l' ultimo atto. Conviene adunque che l' animalità e il suo organismo sia recato alla maggior perfezione, acciocchè l' anima intellettiva e razionale vi si aggiunga; ma questa coll' aggiungervisi dà poi a tale organismo quel cotale finimento, quell' attualità, quell' indole di movimento, quel guizzo, quella vita, che in niun ente che fosse meramente animale potrebbe essere. Dopo di ciò, niente ripugna che il soggetto , di cui si parla, si moltiplichi per via di generazione, conciossiachè il soggetto come soggetto (prescindendo dall' oggetto) non è che un animante. Ma onde, si dirà, questo principio animale torrà la virtù da intuire l' essere ? - Rispondo: gli è creata dall' essere stesso col congiungersi a lui; perocchè, essendo l' essere intelligibile per essenza, egli non può congiungersi a niun soggetto senza essere inteso, giacchè la sua congiunzione è questa: essere inteso. Ha dunque l' essere stesso questa virtù di creare le intelligenze. E che ripugna che un principio senziente, come direbbe Aristotele, sia in potenza intelligente? cioè, che ripugna che egli venga elevato a condizione d' intelligente? Quel principio è semplice, non è corpo, anzi il corpo è suo termine; se gli viene dato un altro termine, la sua attività si amplifica necessariamente; si deve dunque concepire come una capacità che riceve, come una potenza rimota tratta ad un nuovo atto. Al principio, a cui era dato un termine esteso, ora è dato altresì un termine inesteso e di natura superiore. Che se questo secondo termine non si può confondere col primo, non può da esso venire modificato; è insomma un oggetto essenzialmente conoscibile, e l' effetto che ne nascerà, sarà appunto questo che quel principio con ciò è divenuto intellettivo; ha perduto certo la sua identità come principio, si è attuato in un altro principio; ma questo trasnaturamento, bene inteso, non ha nulla di ripugnante. Quindi, come S. Tommaso diceva che l' anima sensitiva è un atto del corpo (il che riesce vero, tostochè per atto s' intenda principio del corpo, che rispettivamente è termine), così noi possiamo dire che l' intelligenza è un atto che esce, quanto all' origine, dall' anima sensitiva; e la cosa è pur vera, purchè s' aggiunga che questo atto costituisce un soggetto indipendente dal corpo e dallo stesso principio sensitivo, perchè già sostenuto da un nuovo termine che non perisce. Dopo di che svanisce una difficoltà, che altrimenti si potrebbe fare così: « Nell' uomo vi è un' anima sola razionale. Ma l' uomo è anche un animale, e come tale ha un principio sensitivo. La natura dell' animale e del principio sensitivo è di moltiplicarsi per via di generazione. Questa legge universale degli animali non può essere annullata per l' uomo. E di fatto l' uomo genera. Se dunque genera e così moltiplica l' individuo animale, forza è che moltiplichi anche l' anima razionale, che è una ed identica in lui all' anima sensitiva ». - Diciamo che così è appunto, ma solo presupposta la prima legge, per la quale fu decretato che l' essere universale si unisca a tutti gli individui dell' umana natura; legge stabilita da Dio nel momento che Iddio inspirò in Adamo lo spiracolo della vita. I Padri, infatti, a quel primo atto attribuiscono costantemente l' origine delle anime umane. « « L' uomo » - dice S. Atanasio - «in generale ricevette dall' ispirazione divina l' anima sua, e perciò conosce le cose divine, persegue le superne, intende le superne, ed è razionale e di mente fornito »(1) ». Con che rimane anche confermata la sentenza di Atenagora, che « « non l' anima genera l' anima, onde possa a sè vendicare perciò il nome di genitrice, ma l' uomo genera l' uomo »(2) ». Laborioso libro riuscì il precedente per le questioni difficili, a cui la semplicità dell' anima porge occasione; è uno di quei veri, i quali vengono facilmente confermati con argomenti diretti, molti ed irrepugnabili, siccome si è veduto; e tuttavia lasciano dopo sè non poche oscure e misteriose ricerche a farsi, quasi germi nella mente deposti, che, sebbene già fecondati, rimangono tuttavia chiusi, come in durissimi gusci, i quali non s' aprono, se la stessa mente con lungo e generoso amore non li caldeggia e li cova; di cui sospettosa da prima, poscia ella gode, quando usciti i vivaci figliuoli, li ravvisa e li riconosce chiaramente non adulterina prole di bella verità. E il lettore nel libro presente avrà via più ragione di confortarsi della sostenuta fatica e di quella che gli rimane, in quanto che ora il suo intelletto è già bene apparecchiato e disposto a sollevarsi alla considerazione di quel vero nobilissimo, di cui quest' ultimo libro ragiona, cioè all' immortalità dell' anima intellettiva; che è la condizione della umana dignità e della felicità a cui l' uomo, con irresistibili e non domabili voti, continuamente aspira. Conciossiachè, benchè mortale per sua propria natura, l' uomo desidera l' immortalità e ne cerca avidamente la certezza; e niuna cosa più lo turba che pure il solo dubbio o il sospetto che gli venga meno tanto suo bene. Ora, quantunque la ragione e l' esperienza gli dimostri il suo corpo corruttibile e destinato a disciogliersi, e la sola rivelazione che ha da Dio stesso gli possa promettere sicuramente che lo stesso corpo gli sarà un giorno restituito non più soggetto a morire, tuttavia riesce a lui verità dilettosa e sommamente preziosa anche quella che sola gli può dare la filosofia; voglio dire che immortale e non mai peritura è per natura sua propria la miglior parte di lui, cioè l' anima sua intellettiva; la quale verità gli deve essere anche lieto presagio e messaggere di quel più, che egli deve aspettarsi dalla magnifica liberalità del suo Creatore. Incominciamo adunque a trattare questo argomento, quasi frutto gentile e saporoso, che coltivammo e riducemmo a maturanza col travaglio delle precedenti nostre investigazioni. Ma per innalzarci al discorso dell' immortalità dobbiamo prima discendere a considerare la morte, che si rannoda col principio della vita, cioè colla generazione, di cui trattammo in sulla fine del libro precedente. E come la chiarezza dei concetti è il fondamento di ogni limpido ragionare, così è uopo incominciare a richiamarci il concetto, che già noi abbiamo dato della morte, come della cessazione dell' animazione del corpo. Onde la morte non si può concepire in modo alcuno quale passione delle anime, ma solo dei corpi. Così abbiamo già provato che in niun modo cessano per via di morte le anime, o sieno queste sensitive o di più intellettive. Ma rimane a domandare se le anime potessero cessare naturalmente di esistere in altro modo, e così da sè medesime annientarsi od essere annientate da qualche cangiamento, che accadesse nella natura in virtù degli agenti che la costituiscono, o per atto positivo dello stesso Creatore. Vediamolo, e prima delle anime sensitive, poscia delle intellettive e razionali. Quanto abbiamo ragionato precedentemente intorno alla natura delle anime sensitive ci conduce a distinguerne di due maniere, che si possono chiamare anime elementari , aventi per termine il continuo elementare, ed anime organiche , aventi per termine il continuo organato, agitato da intestini e continui movimenti che le eccitano. Queste seconde pullulano sulle prime, sono attuazioni e individuazioni diverse dalle prime. Ma le prime hanno tutto ciò che richiedesi ad ottenere la denominazione di anime; perocchè hanno: 1 un principio senziente, in cui sta l' essenza dell' anima, 2 ed un termine esteso, in cui sta la condizione essenziale dell' anima medesima. Quindi la questione presa in generale, « se le anime si annullino », riguarda propriamente le anime elementari; perocchè il rifondersi le organiche nelle elementari per la dissoluzione del corpo organato, non fa cessare l' esistenza delle anime, ma solamente le trasforma. Così questa sentenza tiene la via mediana fra quella che le anime belluine vuole annullate, e quella che le dichiara immortali. Ora, che le anime elementari non possano annullarsi per via di agenti naturali parmi potersi dimostrare da più argomenti, due dei quali sono i seguenti: Se le anime sensitive, cioè i principi senzienti si potessero separare dal continuo, certo è che si annullerebbero, perchè mancherebbe la loro condizione e relazione essenziale. Ma ciò che abbiamo detto nell' « Antropologia » intorno alla natura della materia, la cui esistenza non si può concepire che come termine del principio senziente, dimostra che in tal caso si annullerebbe con esse insieme la materia. Ora è ammesso da tutti che la materia, la quale può sofferire diverse passioni, non può tuttavia annullarsi da cause agenti della natura. Dunque neppure i principŒ sensitivi, che sono i relativi essenziali di essa. La congiunzione del principio senziente col suo termine, cioè colla materia, è immediata; nel suo concetto non entra alcun agente naturale, che, quasi mediatore, ne operi od aiuti la congiunzione. Ella si fa dunque per le azioni e passioni reciproche del principio inesteso e senziente, e del termine esteso e sentito. Ora, se a questa congiunzione è straniero ogni altro agente, niente dunque può operare su di lei, niente può discioglierla. Quindi la dissoluzione di tal nodo non potrebbe avvenire se non per opera dello stesso principio sensitivo, o di ciò che può operare su di lui; o per opera della materia, o di ciò che può operare sulla stessa. Ma il principio sensitivo e la materia, congiunti insieme, non possono spontaneamente dividersi, perchè nessun ente annulla sè stesso; quella congiunzione è loro naturale; e l' attività loro naturale è volta ad attuarla e mantenerla, nessun' altra attività è in essi. Dunque se la disunione è possibile, deve nascere per un' azione straniera sul principio sensitivo o sulla materia immediatamente. Ma neppure queste azioni sono possibili. Non è possibile che li disunisca un agente naturale, che operi sul principio sensitivo, perocchè niente opera sul principio sensitivo se non il principio intellettivo. Ora il principio intellettivo non ha altra virtù sul sensitivo che di muoverlo alle sue operazioni. Ma fra le operazioni del principio sensitivo non vi è quella del distruggersi, disunendosi dalla materia; dunque per questa via non si ottiene la disgiunzione. Ma neppure per l' altra, poichè niente opera sulla materia immediatamente (escluso il principio sensitivo), se non la materia stessa. Ma le forze materiali, applicate alla materia, non hanno altra virtù che di dividerla o di unirla fra sè per via di moto. Ora il dividerla o l' unirne le parti, niente influisce sulla congiunzione, che ha con lei il principio sensitivo. Non v' è dunque nella natura alcun agente, che possa far cessare di esistere le anime elementari. Verranno dunque distrutte queste anime da un' azione immediata del Creatore? La Teologia naturale ha questa proposizione (confermata dalla Rivelazione) che « niente s' annichila di ciò che fu una volta da Dio creato ». E veramente ripugna che il Creatore annienti la propria opera, la quale, appunto perchè sua, è da lui rispettata ed amata pel rispetto ed amore che porta a sè stesso. Le anime sensitive adunque per niun modo periscono. E qui si consideri che l' ipotesi del sentimento annesso ai primi elementi dei corpi, riceve nuovo rinforzo. Perocchè se la vita fosse separabile dai corpi, ella perirebbe; e contraddirebbe la tesi che niente s' annulla di quanto è venuto all' esistenza per mano del Creatore. All' incontro, qualora sia vero che ogni elemento materiale ha seco essenzialmente congiunto un principio senziente, e che unendosi più elementi in virtù del continuo e di altre leggi, parte delle quali furono da noi esposte, più principŒ senzienti s' identificano in uno; rimane vero che il sentimento creato non perisce giammai, ma solo collo scomporsi dei corpi e col ricomporsi si modifica in mille maniere continuamente, e prende mille forme diverse. Le quali mutazioni, essendo prevedute e provvedute dalla sapientissima provvidenza, debbono esser volte a ridurre lo spirito della vita, che anima il mondo, a stato e condizione sempre migliore, a perfezionarsi senza posa. Come poi la tesi che « niente s' annulla »conforta l' ipotesi dell' animazione degli elementi della materia, così la stessa ipotesi riceve nuova verosimiglianza dalla teoria della generazione dell' animale. Perocchè se è vero che l' animale si moltiplica , dividendosi il continuo sentito, secondo certe leggi, è manifesto che per l' opposto deve esser vero altresì che la vita si semplifica coll' unirsi debitamente di più continui sentiti. Questa non è che l' operazione inversa della generazione. Se l' una si ammette, l' altra non si può escludere. Adunque, la morte dell' anima, cioè dell' organismo animato, non è la distruzione del sentimento, ma una modificazione di lui; è soltanto la dissoluzione dell' individuo , ossia dell' anima organica , che è quanto dire di « quell' armonico sentimento d' eccitazione continuamente riprodotto, avente un centro d' attività prevalente, di cui è manifestazione extra7soggettiva l' organizzazione ». A questo luogo giova che noi consideriamo l' origine della metempsicosi . Pare doversi, almeno in gran parte, attribuire un tal sistema, a non avere saputo i primi filosofi distinguere il principio intellettivo dal sensitivo (1), riguardando perciò l' uomo siccome animale più perfetto, e non altro. Ora, avendo essi creduto alla generazione spontanea e osservati altri consimili fatti frequenti nella natura, ne indussero che ogni corruzione era generazione, e che disciogliendosi un animale se ne formavano altri coi brani suoi; il che aveva l' apparenza d' una cotale trasmigrazione di anime. Nel piacevole opuscolo che scrisse, Hermias, Padre della Chiesa del secondo secolo, pungendo i filosofi gentili delle loro incertezze e contraddizioni, tocca le dottrine da essi professate intorno alle vicende dell' anima umana, così: [...OMISSIS...] . L' errore di questi filosofi è doppio: 1 aver parlato dell' uomo come se egli non avesse che un' anima sensitiva, come fosse meramente un animale; 2 avere molti di essi ignorato che l' individualità del sentimento cessa alla morte dell' animale, e che ciò che rimane è il sentimento stesso dei continui soprastanti; benchè Eraclito, l' oscuro , sembri aver ciò traveduto, avendo egli posto un' anima comune e universale, in cui si rifondessero le anime particolari; e gli Stoici, che da lui presero, vennero dicendo poscia lo stesso (2). Ma questi stessi errarono di nuovo, facendo che quest' anima comune fosse una, e non tante, quanti sono i continui; di che passarono all' altro errore dell' anima del mondo, e all' altro, immensamente maggiore, di dichiarare che quell' anima è Dio stesso. Esclusi adunque questi errori, dopo aver veduto in che consista la morte dell' animale, domandiamo in che consista la morte dell' uomo. Il senso comune risponde consistere nella separazione dell' anima dal corpo; ed ottimamente. Ma in che consiste questa separazione? Dall' aver noi veduto in che stia l' unione dell' anima razionale e del corpo, procede che possiamo intendere altresì la loro disunione. Conosciuto il nodo che forma la vita umana, n' è conosciuto lo snodamento, n' è spiegata la cessazione. Il nodo dell' anima intellettiva col corpo fu da noi riposto in una percezione intellettiva, naturale e immanente, del sentimento fondamentale, e conseguentemente del corpo. Cessando dunque questa percezione primitiva del sentimento fondamentale, l' anima umana è sciolta dal corpo, il corpo umano è morto, l' uomo è disciolto. Ma affine di chiarire ancor più questo vero, riassumiamo il fatto della composizione dell' uomo, e le sue condizioni. Vi è un soggetto, all' atto del quale sono dati due termini, l' esteso sentito e l' essere intelligibile. In quanto quel soggetto ha per termine del suo atto l' esteso sentito , in tanto dicesi principio sensitivo , animale. In quanto ha per suo termine l' essere intelligibile , in tanto è principio intellettivo . Il principio intellettivo, avendo per termine l' essere, conseguentemente ha per oggetto ogni entità, che nell' essere universale si comprende. Quindi egli ha per oggetto anche il sentimento sotto la relazione di entità; e in quanto il principio intellettivo ha per oggetto il sentimento come entità, in tanto dicesi principio ovvero anima razionale . Ma nel sentimento v' è il principio animale senziente ed il sentito, cioè il corpo. Così nella prima percezione del sentimento fondamentale vi è la percezione (1) del corpo, ossia l' unione dell' anima intellettiva col corpo, e ad un tempo col principio animatore prossimo di lui. Ma qual' è la condizione, alla quale il soggetto, oltre essere animale, diventa intelligente? Noi abbiamo detto che a ciò si esige che il sentimento animale acquisti la sua maggiore perfezione specifica, la maggiore unità ed armonia, mediante opportunissima organizzazione. Il determinare questa unità e quest' armonia è ricerca profonda, a cui ora noi non intendiamo por mano, nè ce ne crediamo sufficienti. Domandiamo in quella vece: Perchè l' intuizione dell' essere è data solo ad un soggetto, la cui animalità ha tale perfezione di sentimento, e perciò di organizzazione? Se noi ci contentassimo di riferirci alla volontà del Creatore, diremmo una cosa assai vera e giusta; ma questo non farebbe procedere innanzi lo scioglimento della questione, che propriamente domanda « se il Creatore ebbe qualche ragione di necessità naturale, o almeno di convenienza, a così statuire ». E quanto alla convenienza, facilmente si scorge che alla dignità dell' essere ideale spettava che si manifestasse ad un soggetto animale perfetto, e non ad un soggetto animale imperfetto; si scorge che, essendovi questa legge in tutta la natura, che le cose imperfette si riducano alla perfezione per gradi successivi (1), conveniva che il sentimento corporeo fosse lasciato procedere per quella scala graduata di perfezione, che è sua propria, e che solo toccato l' ultimo gradino di essa, a cui l' adduce un' ottima organizzazione, non potendo il principio senziente perfezionarsi oggimai più oltre, conseguisse altra nuova perfezione, uscendo di sè e attingendo l' oggetto, che lo solleva a condizione di essere intelligente. Ma più difficile impresa torrebbe a fare chi dimostrar volesse che una necessità di natura così richiedesse, vale a dire che, considerata la natura del principio sensitivo e dell' idea, si scorgesse che quel principio non poteva intuire l' idea, se non a condizione ch' egli avesse prima acquistato la migliore organizzazione specifica, o di più ancora, che pervenuto a questa, già dovesse essergli l' idea svelata e manifesta. Sull' una e sull' altra proposta possiamo fare congetture non improbabili, ed ecco quali. Che un principio animale non possa intuire l' idea se non giunto alla maggior potenza di animalità, si può congetturare, supponendo che ogni virtù del principio sensitivo, quando non sia giunto alla maggiore potenza specifica, rimanga spesa ed assorbita nella tendenza a conseguire lo stato di perfezione organica che gli manca, e quindi non possa assurgere a riguardare l' essere ideale, per sè intelligibile essenzialmente ed ovunque presente (poichè se non è veduto, è per difetto del soggetto, a cui non resta la virtù da volgere a lui) (1). Infatti, se si supponga che la virtù di un principio sensitivo tutta si esaurisca nell' organizzare la materia, niente più rimane di esso col quale possa attuarsi verso l' ente. Ma dopo che la perfezione specifica dell' organismo e del sentimento è a pieno conseguita, il principio non adopera più quella virtù e forza, che impiegava nella fatica dell' organizzazione; ella allora incontra l' essere presente dappertutto, come dicevo, e prendendolo a termine del suo atto, si rende intelligente. Perocchè è da considerare, per dirlo di nuovo, che l' essere è dovunque ed è dovunque intelligibile, non potendo esser altro; tale è la sua propria essenza. Onde, se poniamo esistere una virtù universalmente sensitiva (un soggetto), atta cioè a sentire ogni cosa che le sia presente, avverrà che questa virtù sentirà l' essere, il quale non manca mai, a sola condizione che essa non sia occupata ed esaurita in altro, e col solo sentirlo sarà resa intelligente; perchè la natura del principio senziente viene determinata dal sentito, e questa è la natura dell' essere, che, venendo sentito rende intelligente il senziente, appunto perchè egli è l' intelligibilità stessa dell' essere, e non può mescersi con altro, essendo oggettivo per essenza. A intendere questo fatto basta dunque supporre che la virtù o principio sensitivo, che chiamiamo soggetto, possa terminare il suo atto ad ogni cosa presente, ma che, essendo quella virtù limitata, talora s' arresti nell' atto suo per esaurimento di forza, talora poi gli avanzi vigore da sentire l' essere intelligibile. S' intenderà ancor meglio questo pensiero, se invece di considerare la potenza del soggetto senziente, che tende ad accrescersi quanto più essa può, e giunta al grado massimo trova forze da spingere il suo atto fuori della materia, si consideri il nesso che ha il corpo coll' ente . Perocchè il corpo , termine dell' atto del principio senziente, ha diversi gradi di essere, e si apprende dal principio senziente in questi suoi diversi gradi successivamente. Nel primo grado è come un sensibile7esteso; e fino che il principio senziente non apprende il corpo che come sensibile7esteso, ossia, come abbiamo altrove detto, sotto la relazione di sensilità, tale apprensione rende il principio solo senziente, non intelligente. Nel secondo grado il sensibile7esteso, che si chiama corpo, è un ente , e tostochè il principio senziente apprende il corpo come ente, egli è già reso intelligente e razionale. E veramente, che cosa è apprendere il corpo come ente ? Altro non è che apprendere il corpo come una cotale realizzazione determinata e limitata, come un cotal termine dell' atto dell' essere (1). Se adunque si suppone nel principio sensitivo una prima tendenza ad apprendere il corpo al maggior segno possibile, ne avverrà che egli, dopo avere appreso il corpo, ossia il sentito esteso, nella maggior sua perfezione, tenderà ad apprenderlo meglio ancora nella sua entità, e in virtù di questo istinto sarà condotto ad apprenderlo nell' ente in universale, poichè l' ente in universale è ciò che forma l' ente7corpo; perocchè l' ente7corpo è un oggetto, il cui principio è lo stesso essere ideale, che dicesi anche iniziale, e il cui termine è il sensibile7esteso. La tendenza adunque di apprendere il corpo condurrà il principio senziente ad apprenderlo come ente, e così sarà condotto dal sensibile7esteso alla sua essenza, che appartiene all' essere in universale, e conseguentemente a vedere lo stesso essere universale. In tal modo sembra che si possa spiegare il passaggio, che fa il principio senziente dall' ordine della mera sensitività all' ordine dell' intelligenza, come da uno stato meno perfetto a uno stato più perfetto (2). E` dunque pel bisogno che ha il principio senziente di divenire razionale, che egli si fa intellettivo; è un bisogno di perfezionarsi circa l' apprensione del suo proprio termine (il corpo), che lo spinge all' essenza ideale per sè unita intimamente ad ogni realità sensibile, la quale per tale unione diventa ente, cioè oggetto. Non può adunque il principio senziente apprendere il corpo nel suo maggior grado di essere, se non spingendo la sua virtù fuori del corpo ad un altro termine più ampio, in cui il corpo è contenuto e reso intelligibile; e questo termine, nel quale il corpo è colla sua essenza, è l' essere in universale. Ora, come è vero che l' essere universale contiene l' essenza del corpo, così non è egualmente vero che il corpo contenga l' essere universale; perocchè il più contiene il meno, ma non viceversa. Il principio senziente adunque, mediante questo progresso, acquistò un nuovo termine della sua attività, un termine superiore al corpo, indipendente dal corpo, che è per sè, è la stessa idealità. Ma il termine del principio attivo è quello che determina la natura di questo. Dunque il principio sensitivo, coll' aver acquistato questo nuovo termine, cangiò natura, ne acquistò una infinitamente più nobile, attinse una forma perfetta e divina. E` pertanto degno di considerarsi esser questa legge ontologica, che « ogni ente, per la virtù stessa per la quale egli è, tende a conservarsi e a perfezionarsi, e però niun ente ha alcuna virtù volta a distruggere sè stesso ». Questa legge si dimostra nell' Ontologia, e qui dobbiamo noi prenderla a prestito. Se dunque niun ente, niuna natura distrugge sè stessa, ogni distruzione degli enti viene dal di fuori, da qualche attività straniera. Di più, ogni ente compiuto è un principio semplice, il quale ha un suo termine naturale e immanente. Se il principio ha il suo termine, egli è; ma se gli è tolto il termine, cessa; perchè il termine naturale e immanente è la condizione del primo atto, pel quale il principio è, secondo la nota legge del sintesismo. Questo principio, spogliato di tutti i suoi termini, rimane una mera astrazione, una mera capacità, un ente simile alla materia prima degli antichi, che supponevasi spoglia di ogni forma. Non resta dunque che la potenza creatrice di Dio, la quale non è un ente esterno determinato. La distruzione adunque di un ente contingente non avviene se non in questo modo, che sia distrutto il termine in cui finisce il suo atto primo. Ora, quale è il termine dell' ente uomo? Abbiamo veduto che i termini sono due, il corpo e l' essere in universale. Ora, qual ente straniero potrebbe distruggere questi termini dell' ente uomo? Gli enti stranieri sono Iddio e le cose contingenti. In quanto a Dio, abbiamo già supposto che egli non annienti alcuna delle cose da lui create; dunque la distruzione dell' uomo non può venire da Dio. Ma che cosa possono a distruzione dell' uomo le attività, di cui sono fornite le cose contingenti? Che cosa possono a distruzione dei due termini dell' atto primo, pel quale l' uomo è? Il corpo dell' uomo, uno dei termini, è un complesso di elementi organizzati nel più perfetto modo specifico, e così individuati. Ora le forze della natura possono disciogliere questa organizzazione, e quindi distruggere con essa il sentimento animale proprio dell' uomo. Ma sull' essere universale tutte le forze della natura nulla possono; perocchè l' essere universale è impassibile, immutabile, eterno, nè soggiace all' attività di alcun ente. Dunque quella virtù, colla quale l' uomo intuisce l' essere universale, non può perire. Ma questa virtù, questo primo atto è l' anima intellettiva; dunque l' anima intellettiva non può cessare d' esistere nella sua propria individualità giacchè ha la realità sua propria che la individua (1); il che volgarmente si esprime dicendo che è immortale. L' anima intellettiva dell' uomo, quanto alla sua origine, è dunque sorta nel seno dell' anima sensitiva, fu una virtù di lei; ma questa virtù divenne atto principale ed acquistò l' immortalità, tostochè attinse l' essere in universale, perchè questo essere è al tutto imperibile, immodificabile, cosa eternale. Dalla quale teoria si può cavare questo corollario, che quella sentenza degli Scolastici, che S. Tommaso esprime così: « « Primum autem, quod intelligitur a nobis secundum statum praesentis vitae, est quidditas rei materialis , quae est nostri intellectus obiectum »(2) », può ricevere una interpretazione che la rende vera. Poichè da ciò che abbiamo detto risulta che il principio sensitivo, venuto alla sua perfezione, tende a conoscere la natura del corpo ( quidditas rei materialis ), cioè a percepire il corpo siccome ente; onde il primo oggetto reale dell' intelligenza è il corpo. Si dirà che noi non facciamo propriamente essere il corpo l' oggetto appreso colla prima fondamentale percezione, ma il sentimento animale. Ciò è vero; pure, se si considera che il principio senziente non è divisibile dal sentito, e che perciò si percepisce nel sentito e col sentito, rimane che il corpo sentito, il corpo vivo, sia veramente il termine della percezione. Si dirà ancora che S. Tommaso parla del corpo extra7soggettivo percepito coi cinque sensorii speciali. Rispondo che io non pretendo che la sentenza da me esposta sia precisamente quella dell' Aquinate, ma le due sentenze s' avvicinano. Ed è da osservarsi che la sentenza nostra porge la ragione, per la quale, tostochè un corpo esterno agisce sui nostri organi sensorii, noi lo percepiamo intellettivamente quasi per un istinto; ragione che si trova nella prima percezione immanente; giacchè se il principio razionale percepisce per natura il sentimento animale fondamentale, forza è che percepisca pure la sue modificazioni, e l' azione d' una forza straniera che cade in esso. Per questo dicemmo che la proposizione degli Scolastici riceve dall' esposta teoria un' interpretazione, che la rende vera. Finalmente si dirà che il primo inteso per noi non è il corpo, ma l' essere in universale, pel quale intendiamo il corpo. A cui rispondiamo che se si va al fondo della dottrina di S. Tommaso, egli viene a insegnare lo stesso. Poichè a quel modo che noi diciamo di percepire il corpo coll' idea dell' essere , così S. Tommaso, dopo S. Agostino, dice che l' uomo percepisce il corpo colla luce della prima verità . Infatti S. Tommaso non manca di farsi egli stesso l' obbiezione: « « Ciò in cui tutte le altre cose conosciamo e per cui delle altre cose giudichiamo, è conosciuto dapprima siccome la luce dall' occhio, e i primi principŒ dall' intelletto. Ma noi conosciamo tutte le cose nella luce della prima verità , e per essa giudichiamo di tutte le cose, come dice S. Agostino »(1) ». Ora come risponde l' Angelico? Nega forse che noi conosciamo le cose nella luce della verità? No certo; anzi lo ammette pienamente. «Nella luce della prima verità noi intendiamo e giudichiamo tutte le cose, in quanto lo stesso lume del nostro intelletto è una certa impressione della prima verità (2). Ma lo stesso lume dell' intelletto nostro non si riferisce all' intelletto come ciò che s' intende , ma come ciò con cui s' intende »(3) », in una parola come il mezzo del conoscere. E noi appunto dichiarammo che cosa sia questo mezzo universale del conoscere , dichiarammo cioè che egli non è altro che l' essere in universale . Tale è l' intento del « Nuovo Saggio , » col quale assumemmo di chiarire ciò che gli antichi avevano detto oscuramente. Si consideri dunque che S. Tommaso concede che l' impressione del lume dell' eterna verità è il principio quo intelligitur , e concede pure che « « illud, in quo omnia cognoscuntur, est primo cognitum a nobis » ». Dunque, quando dice che la quiddità del corpo è la prima cosa che s' intende, parla d' un altro modo di conoscere, diverso da quello secondo il quale si conosce per primo il lume dell' intelletto, ossia l' essere. Che abbiamo fatto noi? Abbiamo denominato con parole proprie questi due modi di conoscere, chiamandoli intuire e percepire , e abbiamo detto che l' essere in universale è il primo conosciuto per intuizione; e il corpo è il primo conosciuto per percezione. Così abbiamo conciliato S. Tommaso seco stesso. Ricapitoliamo ora quanto fu detto fin qui intorno alla morte dell' uomo. L' anima apprende il corpo successivamente come sensibile, e come ente; e in quest' apprensione del corpo come ente intuisce l' essere, e in lui il corpo7sentito. La virtù dell' anima, elevandosi così all' ultimo grado di attività, non perde i primi gradi acquistati, e perciò nello stesso tempo che intuisce l' essere in universale, ella seguita a percepire il corpo come sensibile, e quindi a percepirlo come ente nell' essere. L' atto più elevato dell' anima, cioè l' intelletto, rimane dominante di tutti gli atti inferiori, e quindi diventa la sostanza dell' anima, perocchè la sostanza è quel primo atto d' un ente a cui quasi s' appendono tutti gli altri, quel primo atto che domina gli altri, i quali così sono per quel primo ed in quel primo. Nella generazione dell' uomo pare che, in sul cominciamento, l' atto del principio senziente non abbia l' ultimo atto, che è quello che si porta nell' essere, e che lo rende intellettivo e razionale. Questa almeno fu la sentenza degli antichi e di S. Tommaso; onde nell' ordine della generazione l' atto senziente sembra anteriore di tempo all' atto intelligente; ma quando l' uomo è a pieno maturato, questo che fu l' ultimo è il primo dell' ente, cioè quello che nell' ente prevale e da cui gli altri dipendono, onde egli acquista condizione di sostanza. L' anima, in quanto è sensitiva, sente il corpo, ma in quanto è intellettiva, percepisce il corpo sentito; di modo che l' unione dell' anima intellettiva e del corpo sentito si fa per via di percezione naturale, immanente. Nella morte dell' uomo l' anima intellettiva cessa di percepire il corpo sentito, ma non cessa d' intuire l' essere in universale, che la costituisce intellettiva, e quindi rimane senza corpo; onde si dice che la separazione dell' anima dal corpo è la morte dell' uomo. In altre parole quello che secondo l' ordine della generazione era il primo atto dell' anima, ma che divenne poscia un atto subordinato, cessa colla morte dell' uomo. Ma rimane l' atto che secondo l' ordine generativo fu l' ultimo a costituirsi, ma divenne il primo per natura, ed acquistò condizione di sostanza, di soggetto e di persona. Quindi nella morte dell' uomo il principio rimane identico; ma perdendo un termine, riceve mutazione nella sua natura, mutazione sostanziale e non personale. L' identità di un tal principio consiste nella conservazione della sostanza intellettiva, e quindi dello stesso soggetto e della stessa persona. Ma perchè, si dirà, l' anima dell' uomo non percepisce più il corpo, quando questo si discioglie? Dalle cose dette si può raccogliere che noi abbiamo considerata l' anima dell' uomo, unita al corpo, nei tre suoi atti speciali: 1 nell' atto con cui sente il corpo sensibile; 2 nell' atto con cui intuisce l' ente in universale; 3 nell' atto con cui in questo ente in universale vede il corpo, ossia percepisce il corpo come ente. Ora questi due ultimi atti hanno certe condizioni alle quali incominciano, e hanno certe condizioni alle quali sussistono. La condizione, alla quale l' anima dall' atto con cui sente il corpo come sensibile passa all' atto con cui sente il corpo come ente, e quindi intuisce prima l' ente, si è che il sentimento corporeo abbia conseguita la sua specifica perfezione. Ora, collo sciogliersi l' organizzazione, si scioglie il sentimento perfetto ed umano in più sentimenti imperfetti, nessuno dei quali può avere un principio idoneo a intuire l' ente. Cessa dunque a questi nuovi principŒ sensitivi, nati dalla distruzione del corpo umano, l' attitudine a veder l' ente; e perciò niuno di essi è l' anima umana; essi hanno perduto l' identità con quest' anima. All' incontro l' atto che intuisce l' ente, quando è già posto, non ha più bisogno del sentimento animale per sussistere, perchè egli è al tutto indipendente da lui; e questa è l' anima umana, che prima era identica col principio sensitivo. Come dunque diversi principŒ sensitivi si possono unificare in uno solo, così un dato principio sensitivo si può unificare e identificare col principio dell' atto intellettivo. Ma come un principio sensitivo si può moltiplicare, così egli può anche separarsi dal principio intellettivo, e in tal caso perde l' identità sua, non è più principio umano. Il principio umano resta il principio di quell' atto che intuisce l' essere; perocchè dove vi è un atto, ivi vi è un principio, e dove vi è un principio, ivi vi è un soggetto, una sostanza; tale è l' anima separata. S' intenda però bene in che modo noi parliamo d' identificazione del principio sensitivo col principio intellettivo. Non è che quel principio si confonda coll' intellettivo, ma è la percezione razionale che in qualche modo li identifica; perocchè nella percezione si fa una cosa sola del percepito e del percipiente, senza che i due elementi si confondano. Ora la percezione suppone che esista innanzi a sè ciò che deve essere percepito, che nel caso nostro è il sentimento; percepisce dunque il sentimento sotto la relazione di entità. Perciò sembra che il principio razionale sia quello che sente, benchè egli non sia il principio prossimo del sentire. L' essenza dell' anima umana insomma è di essere intelligente, e di percepire il corpo, solo allora che un principio senziente del corpo con essa s' identifica, e diventa una sua facoltà. Il sentire semplicemente non è atto dell' uomo, ma dell' animale; l' uomo non è quegli che sente fino che non sa in qualche modo di sentire, nè sa di sentire se non apprendendo il corpo come ente, l' essenza del corpo; perchè tale apprensione è atto dell' anima razionale, che è l' anima sua (1). Se si considera che il principio intellettivo è scevro dalla legge dello spazio, non trovasi in lui ragione alcuna che lo determini a congiungersi piuttosto ad un corpo che ad un altro, e piuttosto a un solo che a molti. Ma la ragione sufficiente, che determina il principio intellettivo ad essere congiunto piuttosto con un corpo che con un altro, si rinviene nella maniera con cui abbiamo dichiarata la formazione del principio razionale. Noi abbiamo veduto che egli era da prima un soggetto sensitivo, animale, che andava perfezionandosi fino a tanto che attinse l' essere universale. Ora il soggetto animale è determinato dal continuo, che è il suo sentito, e quindi è legato allo spazio e ad uno spazio determinato. Di più, questa è legge del soggetto animale che egli non può terminare in più continui divisi fra loro, anzi dati più continui, i soggetti, ossia i principŒ sensitivi, si moltiplicano. Nascendo dunque l' atto intellettivo, onde ha esistenza l' anima intellettiva, nel seno del sentimento corporeo, individuato, egli rimane obbligato nella sua formazione alle stesse leggi del principio sensitivo, che fu sua radice. Egli non può dunque percepire, cioè informare altro sentimento animale, nè altro corpo che quello di cui egli cominciò coll' essere atto e forma. Noi abbiamo fin qui lasciata sospesa la questione « se la morte dell' uomo possa accadere senza disorganizzazione del corpo ». Ora ripigliamola, ricercando unicamente se dai principŒ posti fin qui, certi o verosimili, se ne possa indurre alcuna probabile soluzione. Abbiamo detto che il principio animale, qualora sia giunto alla massima sua potenza mediante la perfezione specifica dell' organizzazione del suo sentito (corpo), si solleva a percepire il corpo come ente, e quindi ad intuire prima (in ordine logico, se non cronologico) l' ente in universale, supposta la legge fatta da Dio nell' istituzione primitiva della natura umana. Da questo conseguita che, fino a tanto che il sentimento animale ritiene la sua specifica perfezione, egli da parte sua non può dividersi dall' anima intellettiva in lui sorta. Che se egli ritiene questa sua perfezione fino che dura intatta l' organizzazione, seguita che non può aver luogo la morte dell' uomo senza lesione organica. Rimane adunque a ricercare se il sentimento fondamentale ritenga sempre la sua perfezione fino che non è alterata l' organizzazione. Ora è indubitabile che l' unità e l' armonia di quel sentimento non si può alterare, se l' organizzazione è illesa, perchè questa è il fenomeno extra7soggettivo, che a quell' unità e a quell' armonia corrisponde. I dubbi adunque, che possono nascere, si riducono a questi: Il principio intellettivo può egli tanto alienarsi dalle cose corporee, che esaurisca tutta la sua virtù nelle incorporee, sia per contemplazione, sia per amore? Rispondo che naturalmente (1) non può, perchè l' oggetto naturale, essendo un essere meramente ideale, questo non appaga intieramente lo spirito, nè lo può rapire totalmente a sè. Oltre di che, niuna natura con un atto tendente alla perfezione si può distruggere. Finalmente, se l' anima potesse abbandonare il corpo spontaneamente senza disorganizzarlo, ne seguirebbe che nel corpo lasciato rimarrebbe il sentimento animale individuale, il quale darebbe origine di nuovo all' anima intellettiva. Ma poichè questa nuova attività si continuerebbe alla prima, non potendo esservi alcun intervallo nè di tempo, nè di natura fra essa e la prima, perciò sarebbe la prima, che solo si ritroverebbe cresciuta di forza; il che avviene in tutti gli uomini elevati e ingranditi per la contemplazione amorosa delle eterne verità. Dunque l' anima intellettiva non può staccarsi spontaneamente dall' animalità (2). Il principio intellettivo può abbandonare il corpo per isdegno di vedersi unito ad un corpo corrotto? Non può naturalmente per le ragioni medesime. Non si dà la morte di puro spasimo, senza alcuna alterazione organica7specifica? E in questo caso l' istinto vitale non cesserebbe di operare e di animare il corpo? (1). Che vi possa essere un estremo dolore senza che la specifica organizzazione sia alterata, ma per soli movimenti nervosi che non alterano specificamente l' organismo, ci sembra indubitato; perchè anzi la piena disorganizzazione trae seco la cessazione del dolore. Che questo dolore sia tale che possa arretrare, per così dire, l' attività dell' istinto vitale in modo che cessi dall' atto suo spontaneo con cui eccita il corpo organato, perchè il sentimento del continuo non potrebbe mai in ogni caso cessare, questo mi sembra dubbioso; ma quando fosse, ne seguirebbe un' immediata disorganizzazione intima del corpo; perocchè è l' istinto vitale medesimo che all' organizzazione dà il suo atto ultimo. Onde, quantunque non apparissero nei cadaveri segni manifesti di disorganizzazione, si dovrebbe ritenere che questi vi fossero. E veramente la disorganizzazione dovrebbe incominciare per questa via nella testura degli stessi elementi, e però dovrebbe nei primi suoi passi riuscire del tutto impercettibile. Che se si volesse supporre che il dolore potesse essere tale e tanto, che l' istinto vitale cessasse dal produrre il sentimento d' eccitazione, restando per qualche momento del tutto intatta l' organizzazione, in tal caso sembra che, non avendo più l' anima intellettiva il sentimento perfetto ed armonico da percepire, ne seguirebbe una momentanea sospensione della vita. Ma cessato con ciò stesso il dolore, la vita ritornerebbe; nè l' anima intellettiva, che percepirebbe nuovamente il corpo, sarebbe diversa dalla prima; perocchè questa, essendo immune da luogo, non sarebbe stata nè vicina, nè lontana dal corpo; anzi ella (l' atto intuitivo) sarebbe sempre rimasta tuttavia un atto dello stesso principio senziente, avente per termine il continuo del corpo organato; il qual principio senziente, come ritirando la sua attività eccitatrice, avrebbe sospesa la percezione e non però l' intuizione, così rimettendo fuori di nuovo quella attività, avrebbe restituito all' anima l' oggetto corporeo, cioè il corpo sentito da percepirne l' essenza. E tutto ciò non toglie che l' anima razionale colle sue spirituali passioni di tristezza, di gioia, di desiderio, ecc., possa assaissimo sull' organizzazione, o distruggendola più o meno celermente, o conservandola altresì più o meno a lungo, quando ella per altre cause tende a disordinarsi. E l' esperienza per vero dimostra che una sorpresa dolorosa o gaudiosa può cagionare disorganizzazione, e produrre l' apoplessia. Per lo contrario, io non dubito che talora la vita umana si prolunghi per sola virtù e forza del principio intellettivo, dominatore del sensitivo, senza il qual dominio questo secondo si distorrebbe forse dalla sua azione individuante ed eccitante. Quando io leggo la descrizione che fa la Genesi della morte di Giacobbe, mi confermo in questo pensiero. Il vecchio padre, sentendosi venir meno, chiama al suo letto i figliuoli, e raccolte le stanche sue forze, tiene loro un lungo ed animato discorso, che il sacro storico riferisce con questa conclusione: « « E finiti i comandamenti nei quali egli istruiva i figliuoli, raccolse i suoi piedi sul letticciuolo e morì »(1) ». Perchè la morte non lo sorprese prima che finisse il suo lungo ragionare? Perchè, ultimato questo, ella fu così pronta? Perchè raccolse così tranquillamente i piedi, e spirò con atto così spontaneo? Questa prolungazione della vita per virtù dell' anima intellettiva fu osservata anche da più medici, uno dei quali scrive che l' anima [...OMISSIS...] . A conferma di ciò, si noti che non accade giammai di vedere nei bruti certi fenomeni, che preannunziano la morte nell' uomo. E` l' uomo solamente, che, delirando per febbre, dichiara di voler mutare di casa e andarsene altrove, onde cerca di uscire dal letto e di fuggirsene. Nelle febbri dei naviganti spesso per questo desiderio d' andare altrove, essi si gettano in mare. E` questo tutta cosa propria dell' anima intellettiva, che sentendo di non istar bene, tenta di mutare di condizione colla propria sua attività; il quale sforzo produce nell' animalità il conato di mutar luogo (3). L' anima meramente sensitiva non tende mai a mutare la sua condizione, ma solo rimette alquanto dal suo atto individuante, e però un tal fenomeno non s' avvera nelle bestie. Il che ci conferma che l' anima intellettiva ha il sentimento della propria immortalità (4). E gli ammalati di tisi, benchè giunti all' ultimo grado di marasmo, non prevedono la loro dissoluzione imminente, e sembrano voler vivere molti anni, e vanno ideando progetti da eseguirsi nel futuro; ciò che deve attribuirsi alla vivacità, che conserva in essi l' organo della fantasia. Non è propriamente un sentimento che loro indetta quelle speranze, ma è il pensiero che si lascia illudere volentieri dietro le immagini, senza però che concepiscano una vera persuasione di loro guarigione. Quindi si spiega ancora la ripugnanza che l' uomo ha a morire, cioè la ripugnanza che l' anima intellettiva prova a sentirsi togliere il sentimento animale, che essa per natura apprende. Se la morte dell' animale non avviene se non per disorganizzazione del corpo o per estremo dolore, e se l' atto col quale l' anima avviva il corpo organico, è quello onde l' istinto vitale produce l' eccitamento, l' organizzazione, il sentimento individuo, e se questo istinto ha tendenza naturale a porsi in questo modo; dunque tanta deve essere la ripugnanza dell' animale a morire, quanta è la forza dell' istinto vitale. La morte dunque è l' estremo dei mali per l' animale; e vi deve ripugnare tutto quanto è, quanto è forte l' atto con cui esiste. Ma il principio razionale percepisce il sentimento come entità, tale qual' è; dunque lo percepisce, o godente, o paziente. Tutto ciò dunque che patisce l' animale nella morte, è percepito dal principio razionale. E perciò al principio razionale deve riuscire naturalmente la morte tanto ripugnante, quanto è ripugnante al principio animale; salvo che, avendo il principio razionale un' altra attività oltre quella di percepire il sentimento animale, egli può, con questa attività che gli rimane e che è la più eccellente, consolarsi di quel che perde. Egli perde, ma non perisce; l' animale perde tutto, perisce. Oltre di che, la percezione del corpo è il primo atto del principio razionale, il primo atto della ragione, quello nel quale gli è data la realità che naturalmente conosce. Ora la perfezione di ogni essere sta nell' atto suo, perocchè « in tanto una cosa è, in quanto è in atto ». Ma ogni ente ha una forza per la quale è; questa forza, per la quale è, è quella che gli fa ripugnare a cessare di essere; è un istinto di essere, e perciò di conservarsi. Se dunque il principio razionale viene impedito dal fare il suo primo atto a lui naturale, che lo costituisce quello che è, e che virtualmente contiene tutti gli altri, egli deve ripugnare oltre misura a vedersi ciò impedito. Laonde il principio razionale a vedersi sottratto il corpo ripugna con tanta forza, quanta è la forza che lo sospinge naturalmente a fare quell' atto, col quale egli percepisce il sentimento animale, e pone sè stesso come razionale. Il principio razionale, adunque, deve sentire una somma ripugnanza a doversi dividere dall' animalità; benchè questa divisione non gli tolga per intero il suo primo atto, rimanendogli l' atto con cui intuisce l' essere in universale, pel quale è intellettuale, ed altresì quello con cui apprende lo spazio puro. E` sentenza teologica che l' anima separata dal corpo conservi qualche tendenza ad unirvisi nuovamente (1). La filosofia intorno a ciò ha ella nulla da dire? A primo aspetto sembra che una tale questione, riguardante lo stato dell' anima separata, oltrepassi il confine della filosofia. Considerata però più profondamente, si trova che la filosofia può dirne alcuna cosa, almeno per via di non improbabile congettura. Perocchè, se colla meditazione filosofica si perviene a conoscere: 1 di quali elementi si costituisca l' anima umana, cioè l' anima razionale; 2 e quali elementi ella perda colla morte dell' uomo; appare che si dovrà parimente conoscere quali elementi le rimangano, sottratti quelli che le vengono meno per la morte. Ora, mettendosi il pensiero in questa ricerca, incontanente s' abbatte a tal ragionamento, che sembra condurlo ad una conclusione contraria alla mentovata sentenza teologica (1). Poichè l' anima razionale perde per la morte il termine corporeo, non le resta dunque più che il solo termine dell' essere essenziale. Ma ogni attività e realità d' un principio è determinata unicamente dal suo termine. Dunque non le può rimanere altra attività fuori di quella per la quale intuisce l' essere. Se dunque le è tolto affatto il termine corporeo, il principio sensitivo stesso è venuto meno; il principio intellettivo s' acqueta nell' idea; non rimane perciò alcuna attività, che possa essere principio dell' inclinazione a riprendere il corpo. Poichè la memoria stessa del corpo precedente deve essere del tutto abolita, non potendosi conservare memoria dei corpi senza qualche vestigio fantastico di essi, e la fantasia cessa, perdendo il suo organo proprio, che è il cervello (2). Così sembra che si possa ragionare; ma questo ragionamento è difettoso, perchè dimentica un fatto importante da noi rilevato nell' anima umana. Noi abbiamo dimostrato che ogni anima sensitiva, che abbia per termine un corpo occupante una porzione limitata di spazio, deve ancor prima (in ordine logico) avere per termine lo spazio puro, solido, illimitato; e ciò perchè nel concetto di uno spazio corporeo limitato, che sia termine ad un sentimento, s' acchiude già uno spazio illimitato, onde quel sentimento non si può pensare senza di questo; e per altre ragioni ancora. Quindi anche l' anima razionale dell' uomo, che è sensitiva ed intellettiva, deve avere lo stesso termine dello spazio semplice, illimitato. Ma che nasce pel fatto della morte? Niente altro, come vedemmo, se non la dissoluzione dell' organismo corporeo, e quindi la dissipazione del sentimento corporeo7organico; è il solo organismo che perisce, e con esso il sentimento a lui relativo. Ora il corpo, che limita lo spazio, è cosa essenzialmente diversa dallo spazio che viene limitato; questo spazio è al tutto indipendente dal corpo. Lo spazio adunque non può esser tolto all' anima per questa sola ragione che ella ha perduto il termine corporeo. Quindi l' anima razionale, che ha perduto il corpo, deve mantenere tuttavia due termini, cioè: 1 l' essere essenziale che la rende intellettiva; 2 lo spazio puro, illimitato. Ne consegue che con questo secondo termine ella mantiene ancora una cotal relazione coll' universo creato, perchè ne sente l' estensione (3). Ora noi abbiamo veduto che il principio che sente lo spazio illimitato, è la radice del principio sensitivo corporeo, è come il principio del principio sensitivo, il principio remoto del sentire. E questo è già un bel risultamento aver ritrovato che l' anima umana, separata dal corpo, conserva ancora la radice della potenza di sentire. Ma questo non basta. Noi dobbiamo qui ricorrere ad un teorema ontologico o cosmologico, ed è questo: « Il principio ha l' esistenza condizionata al suo termine; ma quando egli già esiste, ha un' attività propria che riguarda lo stesso termine ». Questo teorema si prova dall' osservazione intima, che si può fare sopra ogni soggetto; perocchè se il soggetto, ossia il principio, non si può concepire esistente senza il suo termine, è però certo dall' esperienza che egli esistendo, può spiegare diverse attività ed esercitare diverse funzioni relative al suo termine. Di questo vero importante parleremo più a lungo nella seconda parte. Ora, ciò posto, nell' anima separata rimane l' identico soggetto che era, prima che cessasse di percepire il corpo. Non vi è dunque ripugnanza che, cessata la percezione attuale del corpo, questo identico soggetto, suscettivo di attività, ritenga delle abituali disposizioni e tendenze. E poichè la sensazione corporea è un atto del principio che ha per termine lo spazio, niente ripugna che questo medesimo principio conservi un' inclinazione all' atto precedente, cioè a quella precedente percezione, e che sia volto ad essa, come l' occhio, che mira un oggetto, può continuare a mirare nella stessa direzione e colla stessa intensità, anche quando gli è tolto davanti l' oggetto, e non vede più nulla. Certo a noi pare che si debba dire il somigliante che dell' occhio, del principio intellettivo, che rimane identico nell' anima separata. Questo principio fu già attuato alla percezione del sentimento corporeo; e questa attuazione gli deve rimanere, come è detto del principio sensitivo dello spazio, benchè non abbia più materia intorno a cui esercitarla. Di vero la percezione del sentimento naturale corporeo abbracciava: 1 il principio sensitivo dello spazio col suo termine, lo spazio; 2 il principio sensitivo del corpo col suo termine, il corpo; il qual principio è un atto individuante il primo, come vedemmo; 3 il principio intuitivo dell' essere. Ciò che cessa colla separazione del corpo è solo il secondo di questi tre elementi. Permane adunque la percezione intellettiva del sentimento dello spazio, cioè del principio e del termine di questo sentimento. Ma il principio di questo sentimento conserva l' attualità, che lo metteva in relazione col corpo. Dunque il principio razionale rimane, e rimane inclinato, perchè percepisce un principio sensitivo inclinato verso al termine corporeo. Questa dottrina contiene altresì la ragione perchè l' anima separata conservi per natura la propria individualità. Benchè un principio, che avesse per termine lo spazio puro e che non avesse alcun' altra realità in sè stesso, dovesse esser unico, e perciò non avesse l' individuazione propria del principio senziente il corpo, tuttavia, tostochè a questo principio s' aggiunge un' attività tendente al corpo, questa attività o realità nuova lo individua. E ciò perchè la materia, come dicemmo, essendo divisibile, è conseguentemente di natura sua moltiplicabile, sicchè una porzione di materia non è l' altra; quindi S. Tommaso è appunto dal rapporto che ha l' intelletto colla materia che ne dimostra l' individuazione, e conseguentemente la pluralità degli intelletti umani (1). Il qual vero condusse gli Scolastici a dichiarare la materia universalmente pel principio dell' individuazione; proposizione che pecca di soverchia generalità, come noi altrove già avvertimmo; perocchè ogni realità , quando può essere distinta, è già principio per sè d' individuazione, sia poi la realità materiale o spirituale. Del che essendosi accorto anche S. Tommaso, corresse quel principio con varie limitazioni, e fra l' altre con questa, che « la forma s' individua per sè stessa ». L' anima intellettiva, separata dal corpo, rimane individuata adunque primieramente per la percezione che conserva di quel sentimento che attinge lo spazio, il quale è individuato a cagione dell' attività che conserva verso il sentimento corporeo. Qui però non si deve trapassare un' osservazione importantissima, la quale si è che l' individuazione dell' anima intellettiva e l' individuazione del principio sensitivo si fa a condizioni diverse. Il principio sensitivo è individuato immediatamente dalla separazione della materia, perchè è annesso per sua propria essenza agli elementi. Quindi ogni sentimento elementare, quando gli elementi sono separati e discontinui, è un individuo diverso. Conseguentemente, se due gruppi di elementi componessero una organizzazione in tutto eguale, vi sarebbero due sentimenti organici eguali sì, ma non un solo sentimento identico. Conseguentemente le anime intellettive, che percepissero quei sentimenti organici, sarebbero due e non una sola, e due rimarrebbero del pari le anime separate. Ma all' opposto, se Iddio colla sua onnipotenza cangiasse ad un' anima intellettiva, che percepisce il sentimento organico, l' organismo, sostituendogliene un altro in tutto eguale, onde non intervenisse alcuna mutazione del sentimento organico percepito; in tal caso l' anima intellettiva non si accorgerebbe in modo alcuno della mutazione, avvenuta unicamente nella materia, ma non nel sentimento, che è quello solo che ella immediatamente percepisce. Onde quell' anima non perderebbe per tale cangiamento in modo alcuno la sua identià. Questo si vede anche coll' esperienza, la quale dimostra che coll' età si cangia la materia, che compone il corpo umano, senza che venga meno perciò l' identità dell' anima. Che anzi coll' età non pure si cangia la materia, ma ben anche il sentimento organico, benchè non mai specificamente. L' individualità dunque dell' anima intellettiva non nasce immediatamente dall' individuazione della materia come tale, ma dall' individualità del sentimento; e solamente quando questi sentimenti individuali sono più, più sono le anime intellettive che ad essi si riferiscono, perchè un' anima intellettiva non può percepire due o più sentimenti organici, ma uno solo, traendo anche da uno solo l' origine, benchè originata e costituita stia per sè stessa. Ma, dopo di tutto ciò, l' individualità dell' anima intellettiva già costituita, trae ancora da un' altra parte la sua individuazione. Ella fa più atti razionali, e questi atti sono un metter fuori nuova attività, e così si differenzia e individua coll' acquistare un' aggiunta di realità, che nell' attività consiste. Ora, quantunque, perduto il sentimento organico, cessino all' anima separata i termini di questi atti, tuttavia, sussistendo ella ancora identica, ritiene quell' attività pel principio indicato, che un principio costituito se esiste, ha un' attività sua propria indipendente dal suo termine. Laonde, quantunque naturalmente periscano all' anima, col separarsi dal corpo, tutte le cognizioni ricevute nella vita presente quanto al loro atto, che abbisognava d' organo corporale, tuttavia ritiene l' attività acquistata, la quale basta ad individuarla (1). Alla quale dottrina si possono fare certamente alcune obbiezioni; ma pare a noi non punto insolubili. Faremo menzione di quelle sole che ci sembrano più rilevanti, a cui rispondendo, si chiarirà meglio e compirà la dottrina stessa. Voi avete detto che l' anima intellettiva ritiene la percezione del sentimento dello spazio. Ma in tal caso gli elementi del corpo umano, che si discioglie, e che pur hanno i loro sentimenti corporei, ne rimarranno essi privi? No, ma il sentimento dello spazio rimane unito egualmente all' anima intellettiva ed agli elementi od organismi superstiti; appunto perchè quello, essendo un sentimento di natura unico, può moltiplicarsi, cioè rimanere unito sì al soggetto, anima intellettiva, come ai principŒ sensitivi corporei separati dall' anima. Egli conserva la sua unicità e identicità in sè stesso, ma può essere congiunto a più soggetti che lo individuano. Niente vi è in ciò che ripugni, o che non sia consentaneo alla natura dei principŒ sensitivi. Voi avete detto che, quando il termine è identico, e quando il principio, che a lui si riferisce, non ha alcun' altra realità che quella che gli viene dall' essere principio di quel termine, anche questo principio deve essere uno ed identico. Ora le anime intellettive hanno per loro termine l' identico essere. Dunque per sè non potranno essere più, ma una sola. Vero; ma quando il principio è una volta messo in essere, può avere una realità e attività sua propria, diversa da quella che si racchiude nel nudo concetto di principio. Qualora adunque il detto principio spieghi qualche sua propria attività, incontanente acquista da questa l' individuazione. E però le anime umane sono più, sì perchè hanno per loro termine sentimenti organici distinti, sì perchè hanno una propria attività razionale, che si spiega negli atti di ragione, che senza posa emettono fino dal primo momento della loro esistenza. Se poi si supponessero delle intelligenze diverse dalle umane, che non avessero alcun altro termine eccetto l' identico essere intelligibile, e tutte lo intuissero nello stesso grado, e non avessero altra attività nè realità, se non quella che loro viene da questa intuizione; in tal caso mancherebbe certamente il principio della loro individuazione, e non sarebbero che una, perchè una sola realità di tal natura si può concepire. Dall' obbiezione adunque altro non si può dedurre se non che le anime, oltre avere in sè ciò che le individua e distingue, ritengono tutte un comune e misterioso legame, una radice soggettiva comune, sì dalla parte del senso che da quella dell' intendimento; la quale radice fonda l' unità della specie umana anche nella realtà , e in gran parte è la ragione della simpatia che sentono fra loro gli individui della stessa specie; onde agli uomini pare in alcuni momenti d' essere un uomo solo. Se le anime separate tengono una inclinazione alla percezione corporea fondamentale, questa non soddisfatta impedirà loro d' essere felici. La dottrina rivelata insegna che le anime giuste, che ricevono la mercede eterna, trovano in Dio per Cristo ogni cosa. Se poi si considera l' anima in sè, senza le appendici che riceve dalla divina bontà o dalla divina giustizia, è a dirsi esser vero che l' anima umana separata dal corpo rimanga imperfetta, appunto perchè priva di un naturale suo atto; ma è da aggiungere che ella non sente tuttavia di ciò alcun dolore, perchè niuna tendenza abituale è dolorosa, quando ella non fa alcun conato per essere soddisfatta. Ora ogni possibilità di conato è tolta via, giacchè è tolto via affatto il termine corporeo; e niuno può sforzarsi di operare se non ha presente il termine di sua operazione, giacchè il conato stesso ha bisogno di qualche cosa per formarsi, non si fa mai verso il nulla. E qui soffermiamoci a considerare come la dottrina esposta intorno al nesso dell' anima umana col corpo, nello stesso tempo che risponde ai fatti e li spiega, cansa gli scogli contrari, nei quali, con più o men di rovina, ruppero gli altri sistemi. Non ripeterò il detto, o lo ripeterò ponendolo sotto nuova luce. I sistemi intorno all' unione dell' anima umana col corpo sogliono dare in due errori estremi. Alcuni, sentendo troppo bene che l' anima umana è una sola, nella via che presero per unificarla, neglessero l' uno dei due principŒ attivi nell' uomo, il sensitivo o l' intellettivo, e però non colsero il nodo della loro unione. Altri, ponendo mente alla duplicità di quei due principŒ d' azione, li lasciarono separati, e così posero più anime nell' uomo. I primi si possono dividere in tre sistemi, o erronei, o imperfetti. Perocchè vi furono di quelli che, non sapendo come spiegare l' unione del principio razionale col corpo, ridussero ogni cosa all' anima sensitiva. Questo sistema di sensismo rimane da noi affatto escluso, avendo dimostrato ampiamente la differenza specifica fra il principio sensitivo e il principio intellettivo dai due loro termini specificamente diversi, il sentito e l' essere universale. Altri, fissando l' attenzione esclusivamente al principio razionale, e bene scorgendo che questo è ciò che è proprio dell' uomo, nè sapendo come conciliare con esso il principio sensitivo, dissero che l' anima sensitiva pur col sentire ragionava, che il sentire stesso era un conoscere, ossia che si sentiva coll' intelletto. Così talora sembra che concepisca la cosa Platone. Ma questo sistema razionale pecca dello stesso errore del sistema sensistico , poichè toglie la distinzione specifica fra il principio sensitivo7animale e il principio razionale. Vi furono finalmente alcuni, che ben conobbero che il sentire non è l' intendere, nè l' intendere è il sentire animale; ma dissero che quelle erano come due attività immediate della stessa anima. Essi partivano da principŒ veri, cioè dal principio che l' anima intellettiva « virtute continet inferiores formas », e dall' altro che « unius rei est unum esse substantiale, et una substantialis forma (1) »; e miravano ad evitare l' errore delle due anime nell' uomo, delle due o più forme sostanziali. Ma se il sentire e l' intendere fossero meramente due attività dell' anima intellettiva, ne seguirebbe non piccola difficoltà. Sentire non è intendere, senso non è intelligenza; se queste due cose entrassero nell' anima come parte dell' essenza, sarebbero due forme che comporrebbero una sola forma; il che ripugna all' unità della forma. Se il sentire all' opposto è una semplice facoltà dell' intelligenza, ella non può stare senza il soggetto; e però converrebbe, o rendere intelligenti i bruti, o renderli macchine. Il dire che nei bruti s' aggiunge a questa facoltà un soggetto proprio è gratuito; giacchè il sentire dell' uomo e il sentire del bruto, considerato come sentire, è cosa della stessa natura; onde s' aggiungerebbe al sentire nel bruto qualche altra cosa oltre al sentire, mentre non altro si scorge nel bruto che il sentimento. D' altra parte l' anima è intellettiva unicamente in quanto fa atti d' intelligenza. Se l' intelligenza è l' essenza di quest' anima, ella non può essere il principio immediato del sentire; perchè il senziente immediato, in quanto è senziente, non è intelligente, non è anima intellettiva. Oltredichè l' intelligenza non può percepire il sentimento, se questo non è già formato; si richiede dunque un principio che lo formi (che senta), e così somministri all' intelligenza la materia della percezione. S' aggiunge che se l' anima intellettiva fosse il principio prossimo, immediato ed unico del sentire, le sensazioni e i movimenti animali conseguenti verrebbero sempre quali sequele di atti d' intelligenza; il che è opposto all' esperienza, movendosi nell' uomo il senso anche senza precedenti atti intellettivi (1); onde il principio che lo muove, non è sempre l' anima intellettiva. Conviene dunque trovare un sistema, nel quale s' avveri che vi sia nell' uomo un' anima sola, una sola forma sostanziale; e rimangano i due principŒ attivi del sentire e dell' intendere così connessi da non potere costituire due anime, e tuttavia così separati da potersi muovere il senso, anche senza che sia l' attività intellettiva quella che lo muove. I filosofi, che vollero mantenere questa seconda condizione, caddero spesso nell' errore opposto a quello dei sistemi enumerati, all' errore voglio dire di dare all' uomo più anime (2). Io non voglio dire che, quando tutta l' antichità distinse l' anima dall' animo , ella intendesse di porre due anime nell' uomo. Il senso comune non pronunciava, ammetteva quella distinzione, trovandosi espressa nello stesso linguaggio; ma niente si curava decidere sulla questione; ed io considero l' uso di quelle due parole o di equivalenti, come una testimonianza del genere umano a favore non delle due anime, ma bensì di due principŒ attivi dell' uomo, ciascuno dei quali avente un' attività propria, ma l' uno ricevente in sè l' altro e dominante. Acciocchè si veda meglio come questa distinzione dei due principŒ attivi venne riconosciuta, riferiamo alcune autorità. Nella Scrittura si distingue continuamente la carne e lo spirito come due avversari; e non certamente si parla della carne morta, ma viva. S. Paolo distingue l' anima dallo spirito, parlando dell' efficacia della parola di Dio, « « pertingens usque ad divisionem animae et spiritus »(3) ». Appresso Platone in un frammento del «Timeo » si legge: « « Intelligentiam in animo, animam conclusit in corpore »(4) ». Giuseppe Ebreo: « « Immisitque (Deus) in hominem spiritum et animam » (5) ». Giovenale: « « Principio indulsit communis conditor illis Tantum animam , nobis animum quoque »(6) ». Un illustre savojardo, che si mostra forse un po' troppo inclinato al sistema delle due anime, dopo avere addotte le autorità da noi trascritte, accenna nel seguente passo non meno il pensare degli antichi che alcuni fatti fisiologici, che dimostrano l' esistenza di due attività nell' uomo, benchè non dimostrino punto nè poco l' esistenza di due anime (1). [...OMISSIS...] . Rappresentandosi l' anima sotto l' immagine d' un occhio, secondo l' ingegnoso paragone di Lucrezio, lo spirito era la luce dell' occhio (3). In altro luogo egli lo chiama « anima dell' anima (4) », e Platone con Omero lo appella il « cuore dell' anima (5) », espressione che Filone ripete (6). Quando Giove in Omero decide di rendere vittorioso un eroe, il Dio ha pesata la risoluzione nel suo spirito (7); egli è uno; non può esservi in esso combattimento. Quando un uomo conosce il suo dovere e l' adempie senza esitare in un' occasione difficile, egli vide la cosa, siccome un Dio, nel suo spirito (.). Ma se, agitato lungamente fra il suo dovere e la sua passione, egli già sta in sul commetter una inescusabile violenza, allora egli ha deliberato nella sua anima e nel suo spirito (9). Alcune volte lo spirito riprende l' anima e la fa arrossire di sua fiacchezza. - Coraggio, le dice, anima mia! tu hai sostenuti più gravi malori (1). E un altro poeta di questa lotta trasse un dialogo per vero piacevole: - Io non posso, egli dice, accordarti, o anima mia, tutto ciò che tu brami: pensa che tu non sei già la sola, che voglia ciò che tu ami (2). Che si vuole egli dire, domanda Platone, quando si dice che un uomo ha vinto sè medesimo, che si è mostrato più forte di sè stesso, ecc.? Qui s' afferma che egli è ad un tempo e più forte e più debole di sè, perchè egli è il più debole, ed egli è ancora quegli che fu più forte; s' afferma l' una e l' altra cosa dello stesso soggetto. Ora la volontà, supposta una , non potrebbe venire in contraddizione seco stessa meglio di quello che un corpo potesse muoversi ad un tempo con due movimenti attuali ed opposti (3); chè niun soggetto può unire due contrari simultanei (4). Se l' uomo fosse uno, disse eccellentemente Ippocrate, non sarebbe mai ammalato, e la ragione n' è semplice; perchè, soggiunse, non si può concepire una cagione di malattia in ciò che è uno (5). Scrivendo dunque Cicerone che, quando ci viene imposto di comandare a noi stessi, si vuol dire che la ragione deve comandare alla passione, o egli intendeva che la passione è una persona , o egli non intendeva sè stesso (6). Pascal ebbe certo in veduta le idee di Platone, quando diceva: « Questa duplicità dell' uomo è così visibile che vi fu chi pensò che noi abbiamo due anime; un soggetto semplice pareva loro incapace di tali e sì subite varietà »(1). Tutte le quali osservazioni non possono dimostrare la duplicità dell' anima dell' uomo, ma sì bene di due principŒ attivi, e se si vuole di due vite (2). La difficoltà adunque, che Lattanzio chiama « inestricabile (3) », consiste nel trovare un sistema, nel quale i due principŒ attivi rimangano nell' uomo distinti, e tuttavia sia evitato l' errore delle due anime; e noi crediamo che a questa condizione soddisfaccia il sistema proposto. E veramente noi abbiamo detto: Che l' unione dell' anima col corpo si fa per via di una percezione naturale immanente, per la quale il principio razionale percepisce il sentimento fondamentale7animale , e che nella percezione si dà nesso fisico per sì fatto modo che ex percipiente et percepto fit unum . Ora, benchè l' unione fra il percipiente ed il percepito sia fisica, di guisa che ne risulta una medesima sostanza composta, tuttavia i componenti ritengono una distinzione reale (benchè non una separazione), giacchè il percepito non è il percipiente e viceversa, Che il percepire razionalmente è un atto del principio razionale , e perciò proprio dell' uomo che, come l' abbiamo definito, è « un soggetto razionale »; quindi ciò che si unisce come forma al sentimento animale è l' anima razionale, sola anima propria dell' uomo. Ma ciò che si percepisce si conosce, e perciò l' anima razionale conosce il sentimento animale. Per conoscerlo poi deve parteciparlo, altrimenti non lo percepirebbe. Dunque nell' anima razionale vi è il sentimento, ma non il mero e nudo sentimento, bensì il sentimento nella sua condizione di ente; onde il principio razionale è anche sensitivo, ma non a quel modo che è tale il principio animale, il quale è principio immediato del sentimento, bensì in un modo assai più elevato, in quanto egli percepisce l' essere in tutti i suoi gradi, e però anche nel grado di sentimento7animale. E così riesce avverato quanto dice S. Tommaso, che l' anima razionale « VIRTUTE CONTINET animam sensitivam et nutritivam (4) ». Ora poi, nello stesso tempo, il principio meramente sensitivo, benchè percepito, conserva la sua differenza dal principio razionale percipiente, intanto che è egli il principio immediato del sentimento animale, perchè l' essere percepito non lo confonde col percipiente. Il che si vede considerando che il sentimento animale non potrebbe essere percepito dal principio intellettivo, se non esistesse, perocchè ciò che viene percepito deve esistere; onde non è il principio razionale che faccia esistere il sentimento, ma si è il principio immediato dello stesso sentimento quello che fa esistere il sentimento; e questo, tosto che esiste, è percepito. Così si spiega come il sentimento animale si disciolga, senza che intervenga in ciò il principio razionale; e disciolto, cessi d' essere percepito; onde accade la morte dell' uomo. Che se il sentimento animale fosse prodotto immediatamente dal principio razionale, egli non si dissiperebbe giammai; perocchè, non cessando la causa, non cesserebbe l' effetto, e la morte sarebbe inesplicabile. E così è anche spiegata la lotta che si combatte nell' uomo, la quale suppone due attività. Conciossiachè rimane un' attività nel percipiente, ed un' attività rimane nel percepito, benchè congiunti sostanzialmente nella percezione. E nello stesso tempo si spiega il dominio, che di natura sua deve avere l' anima razionale sopra l' animalità; perocchè nell' unione fra il percipiente e il percepito, l' attivo è il percipiente. Il che maggiormente apparisce a chi considera che qui si tratta di percezione razionale , in cui il percepito (sentimento animale) è appreso sotto la sua condizione di ente , e perciò più intimamente e perfettamente di quello che il percipiente sensitivo percepisca la materia, dalla quale in parte dipende come da una terza attività straniera (extra7soggettiva). Ma perocchè nel sentito, cioè nel corpo, l' immediato agente è il principio senziente, perciò il principio razionale domina il corpo pel dominio che ha sul principio senziente, unito a sè colla percezione. Scorgesi nello stesso tempo che, potendo nascere nel sentimento animale alterazioni e cangiamenti indipendenti dall' attività razionale, sia per l' azione propria del principio senziente, sia per l' azione della materia (extra7soggettiva), tali passioni non s' attribuiscono all' uomo, come a sua causa; perchè l' uomo non è che il principio razionale, e il resto sono condizioni ed appendici (1). Il principio razionale, adunque, è l' unica forma sostanziale costituente l' uomo, che nella virtù sua contiene le altre forme; e però il principio sensitivo, come tale , appartiene alla materia dell' uomo e non alla forma. Onde come la forma dell' uomo è il principio razionale, così la materia che rimane informata non è il corpo morto, ma il corpo animale vivo, ossia il sentimento animale, il quale viene informato per via di percezione, venendo per essa sollevato a condizione di ente , oggetto dell' anima razionale, e dall' azione dell' anima variamente modificato. Ma v' è di più. Il sentimento animale, percepito o non percepito dall' anima intellettiva, è identico; non avviene già che col percepirsi si raddoppi; solamente esiste in due modi, cioè in sè stesso e nel percipiente. Se dunque il percipiente non altera la natura del sentimento animale col percepirlo, egli non altera neppure il suo principio e il suo termine. Ma il principio del sentimento animale è un' attività semplicissima. Dunque col percepire quest' attività senziente la riceve in sè come ente. Dunque il percipiente, semplice com' è, riceve per la percezione in sè un' altra attività, semplice anch' essa. In questo sta l' identificazione dei due principŒ, il sensitivo e l' intellettivo; e questo principio, risultante da due principŒ identificati, è l' anima razionale unita al corpo, di cui si può dire con un autore antico: « Unus et idem spiritus, et ad se ipsum SPIRITUS dicitur, et ad corpus ANIMA - Anima dicitur in quantum est vita corporis; spiritus autem in quantum est vita substantiae spiritalis (1) ». E poichè sono due attività identificate, in quanto che un' attività è andata a crescere la virtù dell' altra, perciò può cessare l' attività sensitiva senza che cessi l' attività razionale; onde la Scrittura insegna a perdere l' anima per salvare lo spirito . « In qua vita », dice l' autore sopra citato, « ANIMA perditur, ut SPIRITUS salvus fiat (2) ». Nè la distinzione delle due attività al modo spiegato si distrugge a cagione di quel che dicemmo, il primo atto intellettivo sorgere nel seno dell' attività animale, ed essere come una nuova attuazione del medesimo soggetto. Questo prova bensì che il principio dell' una e dell' altra attività è il medesimo anche per la ragione dell' origine comune, ma non toglie che le due attività non sieno specificamente ed infinitamente diverse, perchè la natura dell' attività è sempre formata dal suo termine e non dal suo cominciamento generativo ed imperfetto, e il termine qui varia quanto dall' esteso sentito si differenzia l' essere in universale. Onde, una volta nata l' attività intellettuale e razionale, è già una natura del tutto nuova, una sostanza non peritura, così diversa dalla sensitiva che da questa rimarrebbe al tutto separata, se non vi si riunisse per via di percezione, la quale è quella che congiunge i due termini, cioè il sentimento animale e l' essere intellettivo; e così impedisce che la virtù intellettiva si separi dalla sensitiva. Aggiungiamo ora alcune altre prove, che confermano la perpetua durazione dell' anima intellettiva. Noi abbiamo data la prova dell' immortalità dell' anima umana, partendo dal principio che « « la natura di ogni soggetto è determinata dal suo termine » », onde l' anima umana, avendo a termine l' essere in universale di natura eterna ed impassibile, forza è che ella pure duri perpetua. Questa è la fondamentale, a cui si riducono tutte le altre prove, che furono date fin qui dell' immortalità dell' anima. Aggiungiamo tuttavia ancora le principali fra quelle, di cui più sopra non abbiamo fatto espressa parola. L' immortalità dell' anima fu provata dall' aver ella un elemento celeste e divino, e benchè non sia stato espresso chiaramente in che questo elemento divino e celeste consistesse, fu nondimeno riconosciuto essere in lei, e risiedere nella parte intellettiva. [...OMISSIS...] . L' immortalità dell' anima umana fu provata in secondo luogo dal non avere in sè elementi contrari, poichè la distruzione nasce mai sempre per via di lotta dei contrari. Ora ogni soggetto sostanziale ha un principio e un termine, che determina la sua natura. Nel principio del soggetto non possono mai cadere contrari elementi, come quello che non può esser altro che un' attività semplice; dunque solo nel termine si può introdurre la lotta. E così avviene infatti rispetto alla vita animale; il termine molteplice ed organico, l' esteso, riceve agenti contrari, che lo possono straziare e distruggere. All' incontro l' anima intellettiva, avendo a suo termine l' essere , e questo abbracciando ogni cosa sotto la stessa relazione di entità, non ammette elementi contrari; perchè anche le entità contrarie in lui vengono unificate e pareggiate. Così l' argomento che l' intelligenza non ammette in sè lotta di contrari, e che perciò non soggiace alla morte, si riduce sempre all' argomento tratto dall' essere intuìto. Simile a questo è l' argomento comune, pel quale dalla semplicità dell' anima si prova la sua immortalità. Non basta provarla semplice nel suo principio, poichè semplice nel suo principio è anche l' anima delle bestie; conviene di più provare la semplicità del suo termine onde viene naturata, acciocchè l' argomento sia valido, e perciò conviene ricorrere all' essere universale , il quale è semplicissimo. L' argomento della semplicità trovasi esposto da S. Ireneo (1), da S. Gregorio Taumaturgo, e ripetuto da tutti i posteriori. Noi recheremo le parole di quest' ultimo Padre: [...OMISSIS...] . Dice che se le parti sono più, debbono essere differenti, perchè se non avessero qualche differenza, non sarebbe discernibile la loro pluralità, nè al tutto sarebbe. Dice che se le parti sono differenti, dunque l' ente, che di esse si compone, non è il medesimo, non è in tutto eguale a sè stesso; ammettendo differenze, ammette contrarietà. Ma nell' oggetto dell' intelletto non v' è differenza, perchè tutto concepisce l' intelletto nell' unità del medesimo essere. Il Santo Vescovo di Neocesarea giunge quasi qui a toccare le speculazioni della Scuola d' Elea. Un quarto argomento, e validissimo, traggono gli scrittori ecclesiastici, dopo i greci filosofi, come Origene (3), Lattanzio (4), Leonzio (5), ed altri, dai diritti della giustizia, che, non vedendosi sempre in questa vita guardati, conviene che ve ne sia un' altra, dove si appareggino le ragioni di ciò che hanno goduto i tristi oltre al dovere in questa, o patito oltre il merito, i buoni. Ma e donde questa necessità che la giustizia trionfi? Dall' essere la giustizia di natura immutabile ed eterna. Ora questa eternità della giustizia in altro non si fonda che nell' eternità e immutabilità dell' essere, che splende nell' umana mente, siccome dimostrammo nelle opere morali. Con una ragione somigliante Socrate nel Fedone prova l' immortalità dell' anima, ragionando che, essendo l' uomo fatto per la giustizia, e questa potendo egli e dovendo amare, conviene che sia immortale, perchè fatto e ordinato a cosa immortale. E contende dimostrare il corpo essere un cotal velo, che separa il nostro intendimento dal meraviglioso aspetto della giustizia, a cui per natura è unito; il che era pure un sentire e confessare un Dio Santo, il Dio Ignoto degli Ateniesi (1). Essendo dunque termine all' intendimento umano l' essere, che è cosa immortale, e da questa immortale essenza venendo naturato e informato, non fa meraviglia se egli abbia il sentimento della propria immortale natura. E da questo sentimento si ritrae nuova prova del vero di cui parliamo; perocchè il sentimento, essendo opera di natura, egli non erra, od inganna. Questo sentimento della propria immortalità l' uomo lo manifesta di continuo, sia in azioni ed imprese durevoli al di là della vita presente, sia nell' amore d' una gloria presso gli avvenire, sia nel dispregio della morte, sia nello stesso suicidio, di cui solo l' uomo e non la bestia è capace; sia in quella forza di pensiero e d' animo finalmente, che dimostra spesso l' uomo morente. Dai quali sentimenti sì naturali all' uomo, se non si soffocano e spengono nel vizio, nacque principalmente il consenso universale di tutti i popoli a favore dell' immortalità dell' anima; che è un altro efficace e persuasivo argomento di sua verità. E qui pervenuti, chiudendo questa prima parte della Psicologia, così crediamo di poter dire: l' uomo adunque non ha da pentirsi della fatica che sostiene per giungere al conoscimento di sè, se quella lo scorge a sì lieto risultamento, e lo accerta che la sua parte più nobile, l' anima, con cui vive ed intende, durerà in perpetuo. Questo vero lo innalza al di sopra di tutte le smisurate moli che compongono l' universo, destinate a sciogliersi, e gli rivela che una sede immortale deve accogliere lui sopravvivente alla dissoluzione della materia. Giunto qui, egli può domandare a sè stesso: perchè dunque è ella fatta questa mia anima? a qual fine esiste? quali beni sono proporzionati alla sua natura? Ed a questioni tanto sublimi, tanto necessarie (perocchè solo tali che l' umana natura non può rassegnarsi a viverne ignara od incerta) oggimai può rispondere sicuramente colui che, collo studio di sè stesso, si è procacciato un' indubitabile certezza dell' immortalità della propria anima. Perocchè è manifesto che ad un essere immortale non sono proporzionati, e non possono convenire, se non beni immortali e divini. Laonde alla ricerca di questi beni prepara ed adduce la Psicologia. Vi sono degli uomini, scienziati nella propria opinione, nel fatto nemici della sapienza, i quali abbondano di rimbrotti contro coloro che levano la mente alle più nobili investigazioni, innalzandosi sopra i sensi. Questi queruli ed accosciati ingegni non si ristanno di rampognare l' industria e la diligenza di quegli alti intelletti, siccome volessero fare l' impossibile e logorassero il tempo in vane speculazioni; chè vane giudicano tutte quelle, le quali procacciano all' uomo la notizia e gli preparano il possesso delle cose eterne, perchè esse non si restringono ad aumentargli i beni temporali. I quali uggiosi hanno certi loro canoni e sentenze, che senza prova alcuna pronunciano siccome indubitabili, le quali cominciano tutte da queste parole: « non si può sapere », o « non si può conoscere ». Una solennissima, mille volte ripetuta, fra cotali sentenze è questa: « non si può conoscere l' essenza delle cose »; e particolarmente: « non si può conoscere l' essenza dell' anima ». Allorquando Zenone impugnava l' esistenza del moto, Diogene non fece altra confutazione che togliendo a muoversi. Noi abbiamo trattato nei cinque libri che precedono, dell' essenza dell' anima, invece di contrastare se quella essenza sia conoscibile. L' argomento di Diogene non era veramente efficace, perchè contrapponeva un fatto fisico a speculazioni metafisiche; ma rimane tuttavia verissimo il principio supposto da quel filosofo, che « ciò che è, non si può dire che sia impossibile ». Laonde noi crediamo, colla prima parte di sopra esposta della Psicologia, nella quale si dimostra qual sia l' essenza dell' anima, di aver guadagnato questo: che d' ora innanzi coloro soltanto potranno dire che l' essenza dell' anima non si possa conoscere menomamente, i quali avranno prima provato che quell' essenza, che noi abbiamo indicata, ripetendo la dottrina che di secolo in secolo pervenne a noi, non è veramente l' essenza dell' anima. E confidiamo che cotesti invidiosi del bene del genere umano, per quanto dicano e facciano, non potranno rapirgli una dottrina così preziosa e di così suprema necessità, sulla quale posa la certezza dimostrativa della vita nostra immortale. Perocchè certo chi ignorasse del tutto l' essenza dell' anima, non potrebbe sapere per ragione ch' ella fosse piuttosto immortale che mortale. Non è dunque insoave, nè di poco momento, il frutto raccolto da questa prima parte della Psicologia, nella quale dall' essenza e dalla natura dell' anima si cavarono indubitabili prove della sua immortale permanenza, a cui s' attengono di necessità eterni destini. I quali destini dell' anima saranno pure in ogni caso eterni, ma non consegue che debbano essere felici. Una necessità di giustizia, evidente a tutti, promette beata sorte solo all' anima virtuosa, la minaccia infelicissima alla viziosa. Ora la virtù, che perfeziona lo stato dell' anima, è opera di lei stessa; come pure ella colle sue proprie operazioni diviene autrice del vizio, che tanto intimamente la guasta e deteriora. Ed è troppo palese che quell' anima, che si è guastata e disordinata da sè stessa, non possa ottenere una condizione egualmente avventurata siccome l' anima che si è perfezionata, aggrandita, nobilitata con sue belle e degne operazioni. L' Etica tratta di queste operazioni, distinguendo, col riferirle alle leggi morali, le buone dalle ree. Ma innanzi di considerarle sotto l' aspetto morale, conviene sieno considerate in sè medesime e nelle attività che le producono. E questo è ciò che intende fare la seconda parte della Psicologia, la quale discorre il naturale sviluppo dell' anima umana, e dimostra come dall' essenza di lei escano le sue varie potenze e molteplici operazioni. Il perchè la seconda parte della Psicologia, che ci resta ad esporre, non porgerà all' uomo studioso un servigio meno nobile della prima, se lo condurrà ad intendere sè stesso in quelle sue interiori attitudini e facoltà, l' uso delle quali convenientemente fatto gli rendono oltre modo desiderabile e caro di avere un' anima immortale, perocchè, arricchendolo di virtù, gli assicurano beati gli eterni destini di essa. Entriamo dunque sicuri ed alacri nella nuova ricerca, che ci siamo proposti.

Psicologia Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Il padre della medicina ricorre ad una forza originaria data a principio, per spiegare come le diverse parti del corpo si alimentino, e la chiama « «ex arches dynamis», facultas quae ab initio adest (1), » e soggiunge che « il principio di tutte le cose è uno, e il fine di tutte le cose è uno, e il fine è il medesimo che il principio »(2). Ma il concetto che di questa forza si vennero facendo nei diversi tempi gli studiosi della natura, riuscì bene spesso imperfetto. Si vide che ella non cadeva sotto i sensi, e che tampoco non cadevano sotto i sensi i primi movimenti da lei prodotti, i quali iniziavano i moti sensibili (3); ma ciò che non si vide forse mai chiaramente e pienamente si fu come il movimento ed il sentimento sono fenomeni essenzialmente diversi (4) ed opposti fra loro, e quello che è più, non essere già il movimento il primo e il sentimento il secondo, quasi che questo sia generato da quello; ma esser vero anzi tutto l' opposto, precedere cioè il sentimento, e questo avere attività di produrre il movimento animale (1), che si presenta nel corpo all' osservazione extra7soggettiva. E veramente è un fatto innegabile, deposto dalla nostra coscienza, che noi possiamo muovere il corpo nostro; e quando dico noi, dico un sentimento sostanziale, come fu dichiarato; è un fatto innegabile che non sorge in noi un nuovo sentimento, senza che succedano nel corpo nuovi movimenti corrispondenti, come vedesi nelle passioni: a ragion d' esempio, la passione della paura determina il sangue a ricorrere dall' estremità al cuore, ecc.. Che dunque i sentimenti, gli istinti conseguenti, e le emozioni che appartengono anch' esse ai sentimenti razionali, producano dei movimenti nel corpo umano è un fatto certo; questo ha, quando si muove il ragionamento da fatti certi, una solida base e consistenza. All' incontro i filosofi, lasciando da parte un punto così luminoso e innegabile, accertatoci dalla coscienza, si occuparono per lo più del solo fenomeno della sensazione accidentale e transitiva. Ed avendo osservato che questa non viene mai promossa se non a condizione di un movimento impresso nelle fibre nervose, conchiusero precipitosamente che quel movimento delle fibre sia il primo fenomeno, a cui il sentimento, come effetto a causa, sussegue. Non riflettono costoro che la fibra non darebbe la sensazione, se essa stessa prima non avesse il senso, sicchè quei movimenti in una fibra morta e insensitiva nulla producono; nè considerano la natura della sensazione, che non può essere altro che modificazione ed eccitazione di un sentimento precedente. Insomma non giungono ad afferrare la grande verità di un sentimento fondamentale, avente a termine un esteso corporeo, e necessitato a modificarsi ed eccitarsi mediante i movimenti in questo suo termine provocati; di che la vera causa efficiente della sensazione non sono i movimenti, ma sì quel sentimento precedente, che si modifica ad un tempo stesso che il suo corpo extra7soggettivo è mosso, perchè a questo corpo aderente, e, per meglio dire, perchè il corpo continuo nel sentimento stesso sussiste. Un' altra cagione dell' illusione, a cui soggiacquero i filosofi in così importante argomento, fu questa. Vi sono dei corpi extra7soggettivi nei movimenti dei quali niuna sensazione ci si presenta, chè nè la nostra coscienza ce l' attesta, nè l' analogia la congettura, non potendosi osservare in quei corpi movimenti extra7soggettivi simili a quelli che nel nostro corpo sappiamo per interna consapevolezza essere effetti del sentimento. Quindi conchiudono che niun sentimento in essi esiste, e che i movimenti apparenti vengono da un quid incognito, da una forza insensata. S' immaginò dunque, che esista una forza bruta, cioè una causa di meri movimenti locali, senza che ella sia congiunta ad un sentimento, o ad un sentimento si riferisca. Non si esaminò punto se questa ipotesi involga qualche cosa di strano ed anzi di assurdo, quasicchè potesse esservi un ente con esistenza meramente relativa ad un altro che lo osserva, non congiunto ad alcun principio interno . Si mediti pure quanto si voglia per trovare che cosa propriamente sia un principio interno, non si troverà mai altro che possa essere così chiamato in senso vero e rigoroso se non soggetto sensitivo o risultativo . Perocchè, quantunque noi possiamo considerare un corpo dentro ad un altro, e però un corpo contenuto, che chiamiamo interno relativamente a quello che lo contiene, che chiamiamo esterno; tuttavia dello stesso corpo contenuto altra nozione non possiamo avere che di un ente esterno, cioè cadente sotto l' osservazione extra7soggettiva. Tutte le notizie sperimentali, che abbiamo dei corpi, accuratamente considerate si riducono a notizie di superficie, perocchè il dividere un corpo non è altro che discoprire nuove superfici; sempre però superfici, sicchè non si è mai trovato nulla in un corpo di veramente interno; questo interno non fu mai veduto; solo l' immaginazione umana suppose qualche substratum, che si deruba continuamente ai sensi e si nasconde più addentro, qualche cosa che è per sè interno nei corpi. Ma data anche la possibilità di questo quid interno, che formi l' essenza dei corpi e che si chiamò forza bruta , esso, quando si consideri diviso da ogni altro principio (dal principio corporeo) (1) e per sè essente, non sarà mai altro che una mera ipotesi, un ente affermato gratuitamente, non più. Non è dunque provata l' esistenza di mere forze motrici; e perciò quando tali entità astratte, simili alle qualità occulte dei Peripatetici, si assumono per ispiegare i movimenti del corpo animale, altro non si fa che ricorrere ad una causa per lo meno incerta ed affatto ignota; che non rende punto impossibile la sentenza contraria, la quale asserisce che un principio sensitivo e vivente sia cagione anche di quei movimenti che noi vediamo nascere in corpi, nei quali i fenomeni analoghi a quelli del sentimento nostro non ci si manifestano. La differenza fra queste due sentenze sta qui, che noi sappiamo di certo esistere nel sentimento un' attività locomotiva; e però in questa sentenza si ricorre, per spiegare i fenomeni, ad una causa, di cui è provata l' esistenza, là dove per nessun argomento si può provare che esista veramente una causa atta a produrre il movimento locale, e priva al tutto di ogni sentimento, e che sia da sè sola un ente. Questa ipotesi è dunque viziata da molte parti, e se non altro in questo, che manca della principale condizione di cui un' ipotesi deve essere fornita, cioè che « sia provata l' esistenza della causa, che si assume ipoteticamente a spiegare una data classe di fatti ». A malgrado di tutto ciò, si scorge nella Fisiologia un progresso evidente verso la verità; ed è già un buon passo l' essersi accorti i fisiologi che a spiegare i fenomeni animali, e massimamente quelli delle simpatie, conviene ricorrere ad un principio unico . Il che ora anche in Francia si confessa. L' errore di Bichat, che distingueva la vita animale e la vita organica (1), dando a ciascuna le due proprietà della sensitività e della contrattilità, e quindi distinguendo simpatie di sensibilità e di contrattilità animale e simpatie di sensibilità e di contrattilità organica, si riconosce nella sua stessa patria; si confessa che egli divideva con abuso di astrazione quello che nella natura è uno e semplice. [...OMISSIS...] (2). Si va dunque finalmente d' accordo, tanto in Italia quanto in Francia, nel riconoscere un principio unico, a cui si riferiscano i fenomeni animali e nominatamente le simpatie. Nondimeno ancora non si vide, diremo di nuovo, la fondamentale classificazione dei fenomeni animali in extrasoggettivi e soggettivi . Movendo noi dunque da una causa, di cui è provata l' esistenza ed altresì la sufficienza a produrre il moto, cioè da un principio sensitivo, prendiamo ad applicarla alla spiegazione del complesso armonico dei fenomeni animali; e se ella sola si parrà sufficiente anche a questo, non sarà egli inutile immaginarne qualche altra occulta? E quanto più, se la causa occulta che si propone rimane inetta a spiegare i fenomeni, quando la causa certa e palese risulta a ciò pienamente idonea? Cominciamo dunque dal fenomeno delle simpatie, e prima di tutto determiniamo in quale ampio significato ci sembra di dovere noi prendere questa parola. I fisiologi moderni negano il nome di simpatia ad un' affezione, che si suscita in una parte del corpo umano, in conseguenza di un' irritazione o affezione di un altro organo, qualora fra i due organi vi sia un legame conosciuto. Il signor Roux, della scuola di Bichat, sostiene che un fenomeno non è simpatico, se non quando esso non si può spiegare mediante l' uno dei tre eccitatori delle proprietà vitali, il cervello che trasmette l' eccitamento pei nervi, l' azione dei corpi esterni e le sostanze liquide proprie del corpo animale. Ma la definizione della simpatia, ristretta in tali confini, soggiace a due incomodi: I - Ella è una definizione, che piuttosto si fonda nella ignoranza che nella natura della cosa; e però quello che di presente si chiama simpatia, cesserebbe di essere tale, tostochè i progressi della scienza facessero conoscere fra gli organi simpatici delle comunicazioni sino ad ora sconosciute. II - E` anche una definizione, che riposa sopra un supposto erroneo, qual' è quello che ci siano tali comunicazioni materiali fra gli organi che bastino esse sole a spiegare le affezioni, che si comunicano anche nell' ordine del sentimento; quando niuna comunicazione materiale, niuna continuità o contiguità di parti, niun movimento di fibre, niuna diramazione di vasi può produrre effetti sensibili, ma soli movimenti, ove non si supponga un sentimento precedente e un principio senziente, diverso affatto dall' esteso corporeo. Di più, nello stesso ordine dei movimenti la sola comunicazione materiale degli organi non somministra spiegazione di certi movimenti, che eccedono la quantità delle forze materiali e che si sottraggono alle leggi del moto suscitato; ond' è giocoforza ricorrere ad un principio di moto diverso da quello delle dette forze materiali; ed un tale principio o è l' attività stessa del sentimento, come noi crediamo, ovvero è un ente supposto gratuitamente dalla fantasia, la quale dà corpo ad una astrazione, come vogliono gli avversari, ma sempre alieno dalla comunicazione materiale fra le parti della macchina umana (1). Noi dunque preferiamo di prendere la parola simpatia nel più esteso significato, per indicare « il consenso vitale, che hanno fra loro le diverse parti di un corpo vivente »; ed alla simpatia presa in questo largo significato noi vogliamo ora applicare la teoria del principio sensitivo siccome causa del moto, da noi precedentemente esposta, cioè vogliamo dimostrare che solo con questa causa si possono spiegare i fenomeni della simpatia, i quali non sono nè meccanici, nè fisici, nè chimici, ma propriamente vitali e animali; benchè presuppongano e preesigano un meccanismo, una organizzazione, delle comunicazioni di filamenti, delle contiguità e continuità, dei tessuti, dei vasi, ecc. per loro condizione preparatoria, acciocchè si possano manifestare ed essere. Nell' uomo oltre il principio sensitivo vi è l' intellettivo, che influisce sul sensitivo, lo domina, lo muove all' azione, lo trattiene dall' operare e ne modifica l' azione senza che per tutto ciò ne cangi la natura, ovvero distrugga le leggi del sentimento animale. Il principio intellettivo poi non opera cosa alcuna nel corpo umano se non col mezzo del principio sensitivo. Di questo solo dunque vogliamo noi parlare, lasciando affatto da parte l' attività intellettuale. E vogliamo prima anche osservare essere un metodo erroneo quello che ragiona delle operazioni animali, in modo da supporre che il principio sensitivo operi con un fine conosciuto . Non si può disconoscere che gli animisti abbiano abusato delle cause finali, pretendendo che il principio operatore dei fenomeni animali conoscesse il fine, pel quale egli operava. Questo errore conseguitava all' altro, che confondeva il principio intellettivo col sensitivo; e racchiudeva di più un terzo errore. Poichè la stessa attività del principio intellettivo nell' uomo non sempre opera per un fine conosciuto e distinto dall' opera stessa, anzi molte volte opera anch' egli come sia un istinto, per una legge di natura, per quella legge che presiede al nesso dinamico, che passa fra il principio intellettivo ed il corpo. L' osservammo già: una notizia funesta improvvisa cagiona degli sconcerti nell' animalità; il principio intellettivo, che accolse quella notizia, non vuole punto quegli sconcerti, nè nessun fine lo muove a produrli; eppure li produce involontariamente, cioè per necessità di natura. Il principio intellettivo, adunque, influisce sul corpo con un fine, solo allorquando il movimento che vi produce è un oggetto della sua attenzione e da lui voluto, ed allora il fine non riguarda necessariamente il buono stato del corpo, anzi sovente tutt' altro; siccome accade nei suicidi, o in quelli che mortificano il corpo per averlo ubbidiente agli intendimenti più elevati della morale virtù. Molto meno il principio dell' attività animale può operare con un fine da lui conosciuto (benchè le sue operazioni sieno ordinate ed ottengano un fine inteso dal Creatore); egli opera con leggi spontanee, necessarie, non libere, le quali tutte dipendono da questa formula: « Il sentimento tende a conservarsi e ad accrescersi »; cioè egli si atteggia e si pone in quel modo che gli è più piacevole, il quale gli è più naturale, perchè nell' atto di sentire consiste la sua natura, ed evita quel modo che gli è doloroso, cioè contrario al suo atto naturale. Avendo noi riposta l' essenza dell' animale nel sentimento (1), forza è che noi non riconosciamo altro carattere certo e proprio dei moti animali se non questo « che si abbia prova d' un qualche sentimento concomitante il moto ». Non basta adunque per noi un organismo, cioè una macchina ingegnosamente congegnata, nè dei movimenti organici per ammettere l' esistenza della vita, ossia del principio vitale, se quei movimenti organici non sieno tali che suppongono l' esistenza di qualche sentimento. Qualora dunque si applichino degli agenti materiali ad un corpo animale, il movimento, che vi producono, comincia ad essere azione animale, solo allorquando incomincia la sensazione; sicchè quantunque prima della sensazione vi avessero stimoli e movimenti, tuttavia questi non apparterrebbero all' animale fino che l' animale non cominciasse a far uso dell' attività sua propria; la quale è l' attività di sentire. Chè di tutti i movimenti veramente animali il principio sta nel solo sentimento. Ad illustrare il qual principio ci valgono le due proposizioni seguenti. Talora il sentimento, dal quale parte l' azione o la passione animale, è una sensazione esterna. - Se si punge o batte una bestia, essa fugge. L' attività, che spiega nel suo moto, incomincia evidentemente dalla sensazione del dolore. Questa sensazione del dolore, associata coll' immaginazione di uno stato libero dal dolore e dei movimenti che a tale stato conducono, sono i tre elementi che la forza unitiva congiunge in uno, e determinano l' azione di quel moto. Questa fuga è un atto dell' istinto sensuale (1), appartenente alla mobilità avversiva . E` da notarsi che ogniqualvolta l' azione o funzione animale non viene determinata da una sola sensazione, ma da un associamento di più sensazioni, di immaginazioni, ecc., l' istinto simula la volontà; perchè i movimenti, che ne conseguono, non sono esattamente proporzionati alle singole sensazioni, ma all' impressione totale; e quindi essi sembrano avere dell' arbitrario, benchè non sia così. La sensazione del dolore determina l' animale non solo ai movimenti grandi come sono gli accennati, ma ben anche ai movimenti minimi, come sono quelli con cui si operano le secrezioni. - I dolori, che provano i bambini nel travaglio della dentizione, cagionano loro rilascimento di corpo, vomiti, tossi, ecc.; qui il principio animale addolorato produce manifestamente quei piccoli moti intestini, che danno luogo a così fatti fenomeni. Talora il sentimento, dal quale incomincia l' azione o la passione animale, è una sensazione delle pareti interne del corpo animale. - Il titillamento dell' ugula produce il vomito. Questa sensazione non si associa con alcuna immaginazione, ma, continuandosi il movimento che in essa s' inizia per la spontaneità animale , rovescia lo stomaco. In queste maniere di movimenti il carattere istintivo è più evidente, per la ragione detta che il movimento non è eccitato che dalla sola sensazione iniziante un moto, che spontaneamente si continua e si complica. Lo stesso si può dire del titillamento delle nari, a cui sussegue lo starnuto, movimento ancora più complicato; lo stesso del sentimento della nausea, pel quale gli emetici mettono in movimento i nervi e i muscoli dello stomaco; lo stesso delle fecce e dei drastici, che irritano gli intestini e provocano l' evacuazione. In tutti questi casi è evidente che il sentimento molesto, che si manifesta nelle pareti interiori del corpo, è il principio dell' attività animale; questa si suscita ed agisce fortemente, perchè prova una molestia; il principio sensitivo si ribella alla molestia che prova, trae in azione più organi per liberarsene; l' istinto sensuale anche qui opera colla sua mobilità avversiva, sottraendosi alla sensazione dolorosa, e rendendosi più che può da essa indipendente. E da tali suoi sforzi consegue un effetto, che è certamente dovuto al sapientissimo congegnamento della macchina animale, fatta dal Creatore, cioè l' espulsione del corpo estraneo o dello stimolo che cagiona quella molestia. Perocchè, si noti bene, ciò a cui tende il principio sensitivo è unicamente di liberarsi dalla molestia che egli prova; la sua azione e il termine della medesima non eccede l' ordine soggettivo; al quale tengono dietro i movimenti relativi nel corpo animato. Ora l' espulsione del corpo estraneo conseguita siccome una conseguenza fisica di tali sforzi, senza che a ciò, propriamente parlando, egli intenda (1). E questa osservazione è molto importante, come si vedrà nella spiegazione di altri fenomeni. Talora il sentimento, col quale incomincia la funzione animale, appartiene all' immaginazione. - Alla presenza d' un cibo appetitoso è provocata una secrezione abbondante di saliva; qui è l' immaginazione del sapore, che muove quell' attività istintiva, perocchè in tutte le sensazioni l' anima concorre colla sua attività (1). In questo fatto si vede che il principio sensitivo, determinato dall' immaginazione che è un senso interno, opera sul sistema ganglionare, il quale presiede ai fenomeni secretori, esalanti e infiammatorii. E` l' istinto sensuale, che opera colla sua mobilità concupiscibile . La secrezione della saliva, in conseguenza della vista di un cibo appetitoso, è un chiarissimo esempio dei minimi movimenti, che il principio sensitivo è atto a produrre mediante la mobilità concupiscibile . Innumerabili sono gli esempi simili, che provano questo potere del sentimento sui minimi movimenti del corpo, che io chiamerei assai volentieri collo Stahl movimenti tonici . La vista di una cosa schifa provoca il vomito nelle persone delicate, come sono le donne specialmente in certi momenti, e toglie loro l' appetito. E` avvenuto che la sola vista d' un medicamento già preso più volte, e con danno della salute, abbia incontanente recato dolori al ventre, e, quasi l' ammalato l' avesse già preso, prodottegli scariche abbondanti (2). Ecco l' immaginazione, che muove simpaticamente il ventricolo e gli intestini (mobilità simpatica ritrosa). Ma lo stesso principio, lo stesso istinto sensuale, principalmente per la mobilità concupiscibile, è quello che muove l' animale affamato a fare tutti i movimenti necessari per procacciarsi il cibo, e in generale per soddisfare a tutti i bisogni che si fanno sentire nell' animalità, compreso quello della propagazione. E` sempre un atteggiarsi, è un muoversi in conseguenza del sentimento, di una molestia o di un incipiente piacere, che vuol essere perfezionato, sia che a tal fine coi movimenti esterni egli ne cerchi i mezzi (mobilità concupiscibile), sia che, trovato il fonte stesso del piacere, colla sua attività lo perfezioni e vi s' immerga fino a sentirsene pienamente soddisfatto (mobilità voluttuosa). Siccome i movimenti piccoli, secretori, tonici, dimostrano il potere del principio sensitivo sul sistema nervoso ganglionare, così i movimenti grandi dimostrano il potere del principio sensitivo, che opera sul sistema nervoso cerebro7spinale. Conviene ciò nulla ostante avvertire che non manca mai intieramente l' azione del sistema cerebro7spinale, anche quando il principio sensitivo opera movendo il sistema ganglionare. Fin qui abbiamo veduto il potere motore del principio sensitivo, supponendo che questo potere operi in conseguenza di sentimenti figurati, quali sono le sensazioni esterne e le immagini. Abbiamo veduto anche in parte il suo potere motore operante in conseguenza di sentimenti poco o nulla figurati, come sono le sensazioni provocate nelle superfici delle pareti interne del corpo, o in conseguenza d' immaginazioni associate ai sentimenti esteriori. I sentimenti non figurati, privi di un confine preciso e di un' apparente località rispettiva, sfuggono più facilmente all' osservazione ed alla coscienza; e quando il principio sensitivo si muove suscitato da essi, pare che il suo movimento sia estraneo al sentimento; il che tuttavia, se si osserva bene, non è certamente. Continuiamoci adunque a recare altri fatti, che richiamino l' attenzione sull' attività che ha il sentimento di trarre dietro a sè movimenti piccoli e grandi, e conseguentemente variatissime modificazioni nel corpo animale. Talora quel sentimento, col quale cominciano i movimenti e le funzioni del corpo, consiste in certe sensioni d' interna molestia, che si diffonde a gran parte o a tutto il corpo animale; alle quali sensioni diffuse l' animale colla sua attività sensuale tenta sostituire sensioni egualmente diffuse, ma grate, mediante i movimenti e le funzioni che vengono da lui esercitate. - L' animale è indotto a respirare, per la molestia che proverebbe non respirando, e pel piacere che prova nella respirazione. Questa funzione importantissima della vita animale ha una principalissima influenza nel mantenere l' eccitamento continuo del sentimento fondamentale. Qui l' istinto vitale colla sua funzione eccitatrice è manifestamente la prima causa dei movimenti del polmone, del cuore e di tutti gli organi piccoli e grandi, che concorrono alla circolazione. L' operazione del parto è l' effetto della molestia che prova il feto già maturo nelle angustie dell' alvo materno, e della molestia che prova la madre stessa dagli sforzi di quello, e che contribuiscono a mandarlo in luce (1). Tutte le funzioni vitali sono determinate dal dolore e dal piacere, cioè dalla necessità di fare quelle operazioni per evitare la molestia che ne risentirebbe la natura non facendole; e pel piacere della vita che sente facendole. Che cosa è, a cagion d' esempio, il motivo che induce l' animale a mangiare se non la molestia della fame, che tende a rimuovere da sè, e il diletto che prova nutrendosi? Il quale diletto non si ferma al solo gusto, ma più ancora soddisfa al senso alimentare (1). Lo stesso si dirà della funzione generativa e di ogni altra del corpo umano. Conviene ricorrere al senso per spiegare le funzioni animali, e quindi al principio sensitivo . E` ben da osservarsi che ogni funzione del corpo animale suppone: 1 un principio sensitivo, che la muova e diriga; 2 e questo principio, semplice. E` un' illusione assai comune il credere che allorquando si veggono avvenire alcune azioni complicate nell' animale, cospiranti ad un effetto utile allo stesso animale, sieno sufficientemente spiegate pur coll' applicarvi il nome di funzione . Una parola di più o di meno non fa la scienza. Se dunque noi consideriamo senza prevenzioni una funzione animale qualsiasi, noi dovremo ravvisare in essa una manifestissima prova dell' unità e della semplicità di un principio sensitivo, che ne è la causa e il regolatore. E di vero, tutte le funzioni animali si riducono in due classi: I - Quelle che hanno per iscopo ed effetto il sentimento fondamentale, le quali appartengono all' istinto vitale. II - Quelle che danno per iscopo ed effetto la sensione attuale, le quali appartengono all' istinto sensuale . Il sentimento fondamentale risulta dai due elementi, del continuo sentito e dell' eccitamento circolare perpetuo. Quindi le funzioni dell' istinto vitale si possono partire così: Classi di funzioni dell' istinto vitale I Classe - Funzioni che hanno per loro termine e scopo il continuo, cioè: 1) tendenti a far sì che il continuo sentito non si diminuisca; 2) tendenti a fare che il continuo sentito si accresca. II Classe - Funzioni che hanno per loro scopo l' eccitamento, tendenti a fare: 1) che l' eccitamento non si diminuisca; 2) che l' eccitamento si accresca; 3) che l' eccitamento non si perturbi e si disordini; 4) che l' eccitamento perturbato e disordinato si riordini. Enumerare le classi delle funzioni dell' istinto sensuale, secondo i loro prossimi effetti e scopi, ci condurrebbe troppo a lungo, perchè dovremmo classificare tutte le maniere di sensioni speciali, di cui è suscettivo il sentimento, e descrivere le azioni istintive che ne conseguono, alle quali dovremmo assegnare quattro o più intenti, cioè: 1 conservare viva la sensione; 2 accrescerla; 3 lottare contro le forze perturbanti l' eccitamento; 4 diminuire il dolore che viene da quella lotta; 5 lottare contro le difficoltà, che a tutti questi intenti si oppongono (mediante l' avversione irosa). E dopo di ciò dovremmo aggiungere la funzione tendente ad armonizzare insieme le sensioni, cavandone uno stato di soddisfazione e di quiete, rimovendo lo stato non soddisfacente ed inquieto. Il qual cenno tuttavia ci sembra sufficiente a dimostrare che ogni funzione ha per suo intento un sentimento da conservare o da migliorare, e che quindi la sua causa non può essere che una attività sensitiva. La natura poi di ognuna di codeste funzioni richiede la semplicità di questa causa. Perocchè ogni funzione è composta di più movimenti simultanei e successivi, tutti cospiranti ad ottenere uno scopo unico; se la causa che li produce tutti non fosse unica e perfettamente semplice, essi non potrebbero essere condotti all' unità, a cui pure sono sempre volti, senza eccezione di sorte. Si aggiunge che la funzione, benchè così molteplice nelle parti corporee che vi s' impiegano, nei movimenti diversi che ciascuna di esse fa, nei momenti in cui li fa, tuttavia si compie per modo che si sente in essa un atto solo; l' animale, in quanto al suo sentimento, non intende fare che una sola cosa, una sola azione, sente di operare con un' attività sola, non ha bisogno per eseguirla che di un solo atto imperativo. Questo, che è ciò che viene attestato all' uomo dalla sua consapevolezza, è anche ciò che esprime il linguaggio, perocchè alla nutrizione, alla respirazione, alla generazione si dà un solo vocabolo; e fa bisogno di riflessioni faticose e proprie solo della scienza, per giungere a spezzare e ad analizzare tali funzioni, distinguendone le parti e gli atti singoli, che entrano a formarle. Il comune degli uomini non le conosce che nel loro tutto, nella loro unità; con questa unità cadono nella sua coscienza; laboriosamente e per isforzo di osservazioni e di meditazioni egli le conosce poi in quelle parti, che sono parti unicamente perchè egli le distingue e così le crea, ma che non esistono separate in natura, non esistono nel sentimento e nell' attività istintiva. Ogni funzione animale, adunque, è una compiuta dimostrazione della semplicità dell' anima sensitiva. Che se si rifletta, di più, che l' animale non opera mai in altro modo che per via di funzioni, cioè di tali gruppi di atti e di movimenti che tendono ad un solo scopo (1), si dovrà conchiudere a ragione che tutto ciò che fa l' animale, niente eccettuato, prova la semplicità del suo principio. Che, dunque, nel sentimento sia contenuta un' attività istintiva locomotrice è un fatto indubitabile; ed è da simili fatti bene accertati che si deve muovere alla spiegazione dei fenomeni. E` del pari certo che questa attività motrice, nascosta nel sentimento, è valevole a spiegare tutti i movimenti animali, tutte le funzioni del corpo umano; e quindi l' introdurre un' altra causa è superfluità, è arbitrio, ed ella poi non sarebbe mai altro che un quid incognito: la quale maniera di procedere è contraria ai più solenni principŒ logici e cosmologici, quali sono quelli della ragione sufficiente e della parsimonia della natura . Taluno opporrà che non sempre, non in ogni azione della sua animalità l' uomo ha coscienza che un sentimento ne sia il principio. A cui noi facciamo due risposte. La prima, che in uno stesso corpo animale possono esservi più sentimenti sensitivi parziali, e quindi più principŒ sensitivi, i quali non sieno che debolmente connessi col principio sensitivo supremo, che è quello che costituisce propriamente l' animale. Ora, non essendo tali principii parziali in istretta connessione col principio supremo, e poco da questo dominati e governati, rimangono poco sensibili all' animale tutte le sensioni, che a quei principŒ speciali immediatamente appartengono; e quindi sembra che anche i diversi sistemi ed organi principali del corpo umano godano d' una vita speciale loro propria, non però così speciale che sia intieramente separata e divisa dalla vita e dal sentimento universale. Quanto meno poi tali sensioni sono subordinate a quel principio senziente, che costituisce l' individuo animale, tanto più si sottraggono alla coscienza intellettiva. La seconda risposta si è che l' obbiezione si fonda in gran parte sopra una falsa supposizione. Di vero, molti confondono la coscienza col sentimento, riguardano quella come un elemento di questo. A costoro è necessario usare tanta meditazione, quanta loro basti a convincersi che coscienza e sentimento sono cose diversissime, la prima appartenente all' ordine intellettivo, e il secondo all' ordine animale. Ora, chi sa bene separare l' elemento intellettivo, onde viene la coscienza, dal sentimento animale, tosto si persuade che possono essere in noi dei sentimenti di cui non siamo conscii, ed anzi che ve ne sono di questi senza numero, cioè tutti quelli a cui non riflettiamo, da cui non è attirata la nostra attenzione intellettiva. Vedrà ben anche che a noi non è egualmente facile di renderci conscii di ogni nostro sentimento, ma di alcuni ci possiamo formare la coscienza senza difficoltà, altri con somma difficoltà possiamo trovarli in noi stessi, dopo averli lungamente cercati nella più profonda quiete del meditare. E tuttavia di quelli stessi, di cui possiamo avere coscienza, non l' abbiamo se non a condizione di formarcela; benchè ci paia di averla abitualmente per la grande prontezza con cui noi ce la formiamo. E non ce la formiamo senza avere una ragione che a ciò ci muove. Per esempio, se trovandoci noi a stretto colloquio con taluno, interrompendo il discorso gli domandiamo subitamente se egli ha coscienza d' aver sulla mano una mosca, egli dirà di sì, ma non perchè l' avesse prima della nostra domanda, quando stava assorto a parlare d' altro, ma perchè mosso dalla nostra interrogazione diede all' istante stesso la sua attenzione all' animaluccio, che gli correva sulla mano. Bastò dunque che noi riscotessimo la sua attenzione, bastò che egli volesse, e la coscienza fu. L' uomo non riflette come questa sua coscienza incominci, e crede di averla sempre avuta, non di aversela pur allora formata. Ora è facile acquistare la coscienza dei sentimenti nuovi, attuali e vivaci; all' incontro è difficile acquistarla dei sentimenti vecchi, abituali e tenui. Eppure dei piccolissimi sentimenti, numerosissimi ed effusi, hanno virtù di trarre in azione i più grandi muscoli. E che cosa è la noia, a ragion d' esempio, se non una fusione di molti piccolissimi sentimenti, di ciascuno dei quali non abbiamo per lo più coscienza? Eppure non è ella che provoca lo sbadiglio, funzione dove tanti muscoli sono tratti in moto, e principalmente il diaframma? Che cosa è il solletico se non anch' esso una funzione di minimi sentimenti, quanti sono i minimi filamenti nervosi pressochè infiniti, che terminano nella cute, di ciascun dei quali non abbiamo coscienza, e però non sapremmo distinguere l' uno dall' altro? E tuttavia quali terribili effetti non produce il solletico, la cui irritazione muove i muscoli dello stomaco al vomito, agisce sul cervello e cagiona movimenti convulsivi, giunge al cuore e lo paralizza, onde la sincope e fin anche la morte? Quante volte non accade che siamo senza coscienza dello stato della nostra pelle rilasciata e traspirante, e rimaniamo pure senza coscienza dell' impressione dell' aria, che la raffredda e costipa, a cui conseguita poscia un turbamento universale dell' economia del corpo, ne rimangono affette specialmente le membrane mucose, e succede l' infiammazione della pleura, o del polmone, o dello stomaco, o degli intestini, o della vescica? Quelle prime sensazioni cutanee sono sfuggite alla nostra coscienza, perchè erano piccolissime, benchè molte ed estese, e noi non vi demmo attenzione. Eppure da quelle sensazioni si deve ripetere gli effetti morbosi, che ne sono conseguitati (1). Nei morbi, dove non si manifestano dolori acuti, si suol credere che non vi siano sensazioni dolorose, perchè si restringe questa espressione a significare sensazioni locali e vive. L' ammalato stesso, se s' interroga, dice di non sentire alcun dolore. Ma il vero si è che non vi è malattia di sorta, senza che l' ammalato soffra dei sentimenti molesti, ne abbia o non ne abbia coscienza. Se un ammalato avesse tutti i sentimenti perfettamente eguali a quelli di un sano, non sarebbe ammalato; un certo malessere, una certa svogliatezza, una inappetenza, un indebolimento muscolare, calore, freddo e infinite altre sensazioni diffuse, universali, risultanti da un infinito numero di piccole sensazioni minori, provano che l' affezione della sensitività non manca mai in nessuna malattia. Quindi se si considera l' attività sensitiva come causa delle simpatie patologiche, si ricorre ad una causa la cui esistenza è dimostrata, e non già ad un essere supposto meramente dall' immaginazione, come è la vitalità di alcuni scrittori, che, senza essere ella stessa sentimento, si suppone causa ad un tempo del sentimento e del movimento. Tutti i fenomeni delle simpatie morbose confermano che queste si debbono attribuire al principio sensitivo, come a loro vera causa. Broussais, e i suoi discepoli Caignon e Guémont, che hanno esteso in parte le sue lezioni sulle infiammazioni, stabiliscono: Che le simpatie morbose si manifestano con maggior forza e prontezza negli individui più sensitivi, e meno negli apatici. E` chiaro per questo stesso che le persone dotate di grande sensitività soggiacciono più facilmente all' ipocondria. Che le funzioni animali si alterano maggiormente, se gli organi affetti sono dotati di più nervi, e però più sensitivi. Che qualora l' irritazione o l' infiammazione si rende dolorosa, le simpatie spiegano maggiore attività. Tutto ciò prova che le alterazioni morbose simpatiche procedono in giusto rapporto coll' affezione del principio sensitivo, e che perciò questa ne è la vera causa. Se i medici non sono ancora pervenuti a cogliere una tale dottrina, essi nondimeno sono già sulla via di pervenirvi, e ogni giorno vi si avvicinano. Barthez considera le simpatie come effetti del principio vitale nei diversi organi del corpo vivente; e lo deduce appunto dal vedere che esse si manifestano in organi anche lontani, senza che possano essere spiegate per una comunicazione meccanica fra essi, la quale non esiste, nè possano essere attribuite al caso come quelle che seguono leggi fisse. Non mancava dunque a Barthez che un passo; gli mancava solo di trovare che il principio vitale è di natura essenzialmente sensitivo, e che la sua energia motrice non è cosa diversa dalla sensitività, non è che una continuazione dell' energia sentimentale. I medici posteriori si sono messi quasi d' accordo nel considerare il sistema nervoso come l' istrumento generale di tutte le simpatie fisiologiche e patologiche, naturali e artificiali, che si manifestano nel corpo vivente. Brachet nella sua bella opera premiata, Sulle funzioni del sistema nervoso ganglionare (1.26), rispondendo a quelli che vorrebbero attribuire le simpatie al sistema cellulare, perchè sparso in tutto il corpo, dice: [...OMISSIS...] . Quindi egli divide le simpatie in cerebrali, ganglionari e miste . E qui osserverò essere un errore il credere che il sistema ganglionare sia scevro al tutto di sentimento, quando egli è anzi propriamente l' organo delle passioni. Noi abbiamo distinto i sentimenti in figurati e non figurati; queste due classi rispondono ai due sistemi nervosi: il cerebrale è l' organo dei sentimenti figurati, e il ganglionare quello dei sentimenti non figurati; il sentimento non manca mai. Di più, il sistema ganglionare comunica col sistema cerebro7spinale; le due serie di ganglii laterali alla colonna vertebrale comunicano spesso e direttamente coi nervi cerebrali e rachidei; ed i ganglii centrali anastomizzano con un paio di nervi cerebrali, cioè col nervo pneumogastrico, e sono poi in continua comunicazione coi ganglii laterali, per mezzo dei quali comunicano di nuovo col sistema cerebrale. Quindi il sistema cerebro7spinale non si può credere mai interamente straniero alle impressioni ricevute dal sistema ganglionare. E così forse non esiste una sensitività veramente ganglionare; onde la classificazione delle simpatie, fatta da Brachet, si dovrebbe probabilmente restringere a due soli membri, cioè alle simpatie cerebrali e miste, suddividendo poi questa seconda classe (2). A conferma delle quali osservazioni sull' intervento del sistema cerebrale in tutte le simpatie, giova l' opinione di Barbier e di altri fisiologisti sulla maniera di operare dei rimedi. Essi sostengono che è sempre nell' apparato cerebrale che si deve cercare il secreto della trasmissione della potenza medicatrice, di cui sono dotate varie sostanze, massime parlando di quelle che, non operando coll' intermezzo della circolazione, manifestano più prontamente le simpatie, agendo immediatamente sull' organo gastrico (1). Ritenuto dunque che nella serie dei fenomeni animali che si succedono nelle simpatie, primo di tutti e causa degli altri è il sentimento, molti fatti ricevono spiegazione convenientissima; e questa è ella stessa una riprova della nostra proposizione. Cominciamo dalle simpatie, che si manifestano fra gli organi locati simmetricamente alle due metà verticali del corpo umano, come gli occhi, gli orecchi, le nari, le mani, le reni, ecc.. E` notorio che le affezioni dell' uno di questi organi si accomunano all' altro; per esempio, se l' uno dei nervi ottici è affetto, l' altro contrae sovente la stessa affezione; la storia dell' amaurosi ed altre specie di cecità lo comprovano. L' osservazione, che noi vogliamo fatta su di ciò, è la seguente: Quantunque ciascuno degli organi dei sensi simmetrici, stimolato separatamente in modo conveniente, rechi all' anima la sensazione, l' anima tuttavia non ammette che una sensazione sola, quando sono stimolati tutti e due contemporaneamente. Questo fatto ci fornì una prova della semplicità dell' anima (2) e della sua distinzione da ogni organo corporale, sicchè la molteplicità degli organi, collocati in diverse parti dello spazio, non produce molteplicità in lei, perchè è immune dallo spazio; in altre parole, la diversità delle sensazioni nell' anima non è fondata nella diversità degli spazi occupati dagli organi sensorii, ma solo in differenze sensili, ossia appartenenti all' essenza delle sensazioni stesse, le quali non hanno a far nulla colle differenze degli spazi. Ora, se è vero che l' attività motrice animale sia inerente al sentimento, come noi sosteniamo, dove vi è una sola sensazione, ivi dovrà esservi una sola attività motrice. E questo accade appunto nel caso nostro. Come i due occhi non danno ordinariamente all' anima che una sola sensazione visiva, così l' anima agisce su entrambi questi organi con un atto solo, e vi produce i medesimi effetti. Per questo i movimenti degli occhi sono naturalmente associati, il che si può chiamare una simpatia fisiologica; per questo ancora l' affezione morbosa di un occhio bene spesso è risentita dall' altro, il che si può chiamare una simpatia patologica . Un discorso simile può applicarsi a tutte le parti doppie e simmetriche del corpo umano (1); le quali divengono altrettante prove della semplicità del principio sensitivo. Si opporrà che se la cosa fosse così, le simpatie morbose fra gli organi simmetrici del corpo umano non dovrebbero mancar mai, e pure talora non si avverano. Rispondo, venir meno la forza di questa obbiezione, tostochè si consideri che gli organi simmetrici non danno all' anima nè sempre, nè necessariamente, una sola sensazione; si avvera solo allorquando le azioni sensibili degli organi simmetrici sieno perfettamente eguali, a tal che esse non differiscano se non per lo spazio diverso in cui sono collocati gli organi, pei quali spazi diversi avviene che le azioni sieno due di numero, benchè identiche di forma. In questo solo caso il sentimento, che ne prova l' anima, è unico, a cagione che la differenza degli spazi occupati dai sensorii non si riporta all' anima, ma solo lo spazio delle singolari sensazioni; e questa unicità è fondata nella natura del principio sensitivo, e non in qualche abitudine da lui acquisita. Ma si avvera sempre la condizione che l' azione sensibile dei due organi sia identica di forma, e non differisca che di numero? No certamente. Ora, da che dipende che ciò avvenga più o meno spesso? Dall' anima stessa in grandissima parte, la quale tende ad avere un sentimento solo dai due organi, chè due sentimenti la confonderebbero nel suo operare, operando essa alla guida dei sentimenti. Per questo ella muove gli occhi di perfetto accordo, giacchè se ella volgesse l' uno da una parte e l' altro dall' altra in modo da vedere doppi gli oggetti, gliene sorgerebbe una molesta contraddizione e lotta colle sensazioni del tatto, il quale le porge oggetti semplici, e così nè saprebbe più a cui credere, nè saprebbe come muovere le sue membra in relazione cogli oggetti esterni, dei quali ella abbisogna. Giovandole dunque sommamente pei bisogni e necessità della vita che i sensorii doppi operino con tale uniformità da suscitare in essa un' unica sensazione, ella colla spontaneità sua li dirige a tale intento, e la sua attività motrice dei medesimi acquista tale un' abitudine di così adoperarli che la loro azione uniforme sembra poi naturale anzichè abituale . Infatti può ben venire all' uomo il capriccio di fare il contrario, può sforzarsi per voglia di esperimento a vincere l' abitudine ed anche riuscire a divergere le pupille, ma questo non accade mai nelle bestie, chè il principio sensitivo non ammette tali capricci e fa sempre ciò che gli conviene. L' azione dunque simultanea e uniforme degli organi simmetrici è dovuta all' abitudine; ma è dovuto alla natura che, data questa azione simultanea e simmetrica, sorga nell' anima un unico sentimento. Se dunque la simpatia degli organi simmetrici conviene riferirla all' abito, che ha contratto il principio sensitivo di dirigere in questo modo la propria sensitività ed attività conseguente, non fa più meraviglia che ella ammetta alcuna eccezione; il che s' intende maggiormente, ove si rifletta che l' abito stesso non agisce se non avverate certe condizioni, date certe opportunità. L' abito suol essere una facoltà di operare così precisa e determinata che la minima differenza nelle circostanze arresta la sua operazione, come si scorge nell' abito della memoria, il quale aiuta l' uomo a recitare un discorso, ed una sola parola sbagliata o intramessa è bastevole a fargliene perdere il filo. La legge della simpatia fra gli organi simmetrici, nascente dall' unicità del sentimento che essi producono, e dalla unicità dell' attività sensitiva che da quel sentimento procede, si estende a molte altre classi di simpatie, che da quella legge ricevono luminosa spiegazione. Primieramente rimangono spiegate le simpatie tra quegli organi, che hanno somiglianza di struttura. Infatti, conosciuta la legge accennata, che « se l' affezione sensibile dei due organi è eguale perfettamente di forma, il sentimento che corrisponde ad essa affezione è unico, perchè la differenza di spazio e di località degli organi stessi non è riportata nel sentimento, e perciò le affezioni degli organi eguali in esso sentimento si compenetrano e si unificano », conosciuta questa legge, si hanno tosto due altre leggi conseguenti a lei, ed importantissime, le quali sono: Che prima della sensazione essendovi sempre il sentimento fondamentale, ogniqualvolta vi saranno due o più organi sensibili di costruzione perfettamente eguale, il sentimento fondamentale rispondente ai medesimi non sarà doppio o molteplice, ma unico, come se non esistesse che un organo solo sensibile; ora, dire sentimento fondamentale unico è quanto dire istinto, ossia attività fondamentale unica. Che se in due o più organi di struttura eguale si eccita un' affezione disuguale, a queste affezioni disuguali risponderanno altrettante sensioni o modificazioni del sentimento fondamentale; ma se all' incontro l' affezione negli organi di struttura eguale è anch' essa eguale, sarà unica la sensione corrispondente, si avrà un' unica modificazione del sentimento fondamentale. Ora, questa eguaglianza di affezione sensibile si avvera spesso negli organi di struttura uniforme. I fisiologi e i patologi osservano che le simpatie fra gli organi uniformi non si manifestano se non a condizione che le prime loro affezioni, le affezioni dalle quali la simpatia viene suscitata, sieno eguali. [...OMISSIS...] . E reca in prova il metodo di cura che usava Lieberkünn a sanare il polmone dell' idrope, il quale determinava, per mezzo dei pediluvii, l' acqua infiltrata nelle cellule del polmone a recarsi nelle estremità inferiori, e guariva poi l' edema delle gambe facendo uso di rimedi fortificanti. Continuiamoci alla spiegazione di altri fenomeni. Se un tessuto è perfettamente eguale, deve rispondere ad esso un sentimento fondamentale unico, e ad un unico sentimento una unica azione animale. Dunque l' atto dell' istinto vitale, che agisce in tutta l' estensione di un tessuto eguale, sarà il medesimo. Quindi fra i tessuti eguali del corpo umano dovranno manifestarsi necessariamente simpatie, giacchè l' affezione, che si produce in una parte di tale tessuto, modifica quella attività unica che dà la vita a tutto intero il tessuto, abbracci questo un solo luogo del corpo umano o si ripeta in molti. Ed ecco spiegata quella legge patologica, che fu reputata una delle più belle scoperte di Broussais, la quale si è che « quando una irritazione dura lungamente in un organo, i tessuti analoghi a quello dell' organo sofferente si vanno poco a poco disponendo a contrarre le stesse affezioni ». Così accade che le infiammazioni croniche della pleura si propaghino facilmente al peritoneo; quelle della membrana mucosa dello stomaco e degli intestini si propaghino alla membrana che veste l' interno dell' apparato polmonare; l' affezione di una parte del sistema fibroso nel reumatismo e nella gotta sia seguita dall' infiammazione successiva di tutte le altre; le infiammazioni dei ganglii linfatici di una parte del corpo si comunichino spesso a tutto il loro sistema. E qui si consideri la differenza che vi è tra due tessuti eguali e due organi eguali, ma di varie parti e di vari tessuti composti, come sarebbero i due occhi. Questi organi complicati ed artificiosi ammettono più varietà d' affezioni; i tessuti eguali ne ammettono meno; quindi di lor natura i due tessuti più facilmente si trovano all' unissono che non i due organi. E poichè ogni affezione sensibile diversa suscita una diversa attività del principio sensitivo, quindi il sentimento fondamentale di due organi, che riceve modificazioni più varie, agisce anche più variamente che non faccia il sentimento fondamentale di tessuti eguali. Ancora, acciocchè vi sia simpatia fra due organi si richiede che la loro affezione primitiva sia eguale, condizione che nei tessuti si avvera più facilmente, essendovi meno cagioni che rendano disuguali le affezioni loro primitive, onde infine emana ogni attività. Insomma, qualora il sentimento fondamentale, comune ai due organi o ai tessuti eguali, viene modificato in quelle parti appunto rispetto alle quali egli è unico, la simpatia incontanente si manifesta. Applichiamo la stessa dottrina alle funzioni. Che cosa è che muove l' animale ad esercitare una funzione, a cui concorrono, simultaneamente o successivamente, molti organi e molti movimenti diversi? Un unico sentimento. Dall' unità del sentimento nasce l' unità della funzione; l' unità del sentimento è quella che fa giocare più organi armoniosamente, a tal che i loro movimenti cospirino a produrre ciò che il sentimento animale ricerca, la sua conservazione e la sua perfezione. Qual altro sentimento se non quello della molestia e dell' affanno che si prova alla mancanza del respiro, e del piacere annesso alla respirazione, fa sì che l' animale respiri? e che per ottenere questo unico effetto egli tragga in movimento, con somma armonia e con metro opportuno, non solo l' apparato polmonare, ma il cervello ed il cuore? Onde mai l' animale è mosso ad adoperare sì opportunamente tutte le parti alla lor volta dell' apparato digestivo, con tutti i vasi inservienti alla nutrizione, se non dal sentimento incomodo della fame e dal sentimento piacevole dell' alimento? (1). L' unicità dello scopo dirige in tutte le funzioni più complicate del corpo umano i molteplici movimenti delle molteplici parti, che concorrono ad eseguirle, e questo unico scopo è tutto sentimentale; è sempre un sentimento agente quel che fa tutto. Ora, dove vi è un sentimento unico, vi è anche un' unica azione, benchè in diverse parti si manifesti. Non è dunque meraviglia se fra queste diverse parti si scorgano simpatie non meno fisiologiche che patologiche; giacchè se l' azione unica viene modificata ed affetta, forza è che se ne veggano ad un tempo gli effetti in tutte quelle parti in cui ella si espande; benchè queste diverse parti la ricevano diversamente, sia perchè diversamente viene loro impressa, come esige l' armonia delle loro operazioni, sia perchè esse sono diversamente costrutte e diversamente disposte. E quest' ultima osservazione è importante, perchè conduce a stabilire potersi manifestare in diversi organi affezioni diverse, che meritano tuttavia l' appellazione di simpatiche, appunto perchè procedenti da una medesima azione del principio sensitivo. Ma oltre queste simpatie, che si presentano ad osservare nei vari organi concorrenti ad una stessa funzione, ve ne sono delle altre fra più funzioni eguali, cioè a dire fra organi destinati a funzioni numericamente diverse, ma della stessa natura. Così Barthez osserva che gli organi dotati della facoltà di operare secrezioni di umori analoghi mostrano avere fra sè una speciale simpatia: tali sarebbero l' utero, le glandule mammillari, la laringe, ecc.. Certo, a spiegare il perchè, eccitata un' infiammazione in un organo, ne succeda un' altra in un organo lontano senza lesione delle parti intermedie, non può bastare la comunicazione dei vasi sanguigni, giacchè in tal caso l' infiammazione dovrebbe propagarsi, senza interruzione, lungo i vasi. E` dunque mestieri ricorrere alle leggi dell' unico principio vitale7sensitivo, che dirige tutta l' economia, e però molto opportuna cade la legge, di cui parliamo, che « dove la funzione di due organi è simile in modo da risponderne nell' anima un medesimo sentimento, anche l' attività dell' anima si manifesta eguale in due o più luoghi ». E` da considerarsi accuratissimamente che ogni funzione, come dicevamo di sopra, si esercita per un' attività dell' anima, messa in un unico sentimento di molestia e di piacere. Dunque se le due funzioni, che in parti diverse si compiono, sono eguali di natura e solo differiscono per lo spazio diverso in cui si esercitano, il sentimento, ond' esse partono, dovrà essere unico, postochè l' osservazione dimostra che nel sentimento animale non si riportano le differenze di mero spazio che abbiano gli organi, le funzioni ed affezioni, ma si riportano solo le differenze che rendono diverse di natura le funzioni e le affezioni. Esponemmo la lotta fra l' istinto vitale e la materia bruta; vi è lotta anche fra l' istinto vitale e l' istinto sensuale? L' affermarlo parrebbe consentaneo all' aver noi dedotte le forze medicatrici della natura dall' istinto vitale, e le forze perturbatrici dall' istinto sensuale (1). E che vi sia apparenza di lotta l' osservazione l' attesta senza alcuno equivoco. Ma questa lotta è ella forse non più che apparente? Come fu tentata la conciliazione fra le forze brute e l' istinto vitale, non si potrebbe forse tentare anche quella dei due istinti? Se pare strano che nella natura si dia una lotta radicale, non vi è qualche cosa di più strano ancora nel concetto di due istinti esistenti nello stesso animale, che combattono insieme, di due istinti che non son altro se non attività del medesimo principio semplicissimo? Questa questione riesce a quella degli errori della natura , dei quali lo Stahl scrisse una celebre dissertazione, intendendo la parola natura nel senso d' Ippocrate, sulle vestigia del quale Galeno la definì [...OMISSIS...] (2) [...OMISSIS...] la quale definizione, nella sostanza, è la definizione della parola nel senso proprio e comune, che il popolo le attribuisce. Ora, il parlare di questa questione importante cade opportuno in questo luogo, dove trattiamo delle simpatie da spiegarsi colla semplicità del principio sensitivo e colle leggi naturali del suo operare. E` dunque vero che la natura erri, e che da questi errori nascano i morbi del corpo umano? E se vogliamo così esprimerci, gli errori della natura saranno spiegati col solo attribuirli, come facevano gli animisti, alla precipitazione dell' anima esacerbata, alla diffidenza dell' anima atterrita, alla incostanza dell' anima da patemi agitata? (1). Rimarrebbe in tal caso a spiegarsi questa stessa precipitazione, diffidenza ed incostanza, poichè tali difetti non possono costituire la natura di nessuna cosa; eppure le operazioni dell' anima sono determinate dalla sua natura. Noi diremo piuttosto che la natura opera secondo leggi infallibili e necessarie, che ella non aberra giammai da esse, che quelli che noi chiamiamo difetti o errori della natura non sono tali in sè, ma secondo certe relazioni da noi contemplate, che ci generano le opinioni; e che insomma l' operare della natura è il medesimo, sì quando noi giudichiamo che ella operi rettamente, e sì quando, in virtù delle nostre opinioni, noi le attribuiamo degli errori. Investighiamo, dunque, la ragione degli errori apparenti della natura animale e della lotta, pure apparente, che talvolta insorge fra due istinti, il vitale ed il sensuale. Da ciò che diremo apparirà che l' istinto vitale, fonte delle leggi medicatrici della natura, è talora limitato nella sua tendenza benefica dalle forze brute; e che l' istinto sensuale all' incontro perturba e disordina direttamente la natura animale, senza aberrare tuttavia punto nè poco dalle sue leggi. Nella distinzione tra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi si trova onde spiegare in qual modo l' istinto sensuale disordini la natura animale, senza aberrare dalle proprie leggi, che egualmente mantiene in ogni sua operazione. Abbiamo veduto che quelle due serie parallele di fenomeni non hanno somiglianza fra loro. Quindi l' uomo non potrebbe col suo pensiero dedurre a priori gli uni dagli altri; l' anima poi non è che sentimento, e niente cade nella sua coscienza, che prima non cada nel suo sentimento. Dato dunque che l' anima, esperta di un fenomeno soggettivo, non avesse avuto mai esperienza del fenomeno extra7soggettivo corrispondente, ella ignorerebbe affatto questo secondo, nè potrebbe conoscerlo per quantunque riflettesse sul primo, anzi non potrebbe neppure sospettarne l' esistenza. Conséguita che la cognizione, che noi abbiamo del rapporto che hanno fra loro le due serie di fenomeni indicate, si acquista colla sola esperienza; e che se noi al presente dal fenomeno soggettivo possiamo passare col pensiero al fenomeno extrasoggettivo, è perchè l' esperienza ci ha mostrato tante volte quella coesistenza. Ammaestrati così, noi giudichiamo dell' esistenza del fenomeno extra7soggettivo da quella del soggettivo con somma prontezza, per l' abitudine di formare tali giudizi. Il che si renderà più chiaro da un esempio. E` cosa notoria che colui, al quale fu amputata una gamba, soffre dei dolori al luogo della gamba che non ha più. S' inganna riferendo questi dolori a quel luogo; ma onde gli viene così erroneo giudizio? Certo dalla prontezza colla quale la mente dal fenomeno soggettivo del dolore argomenta abitualmente al fenomeno extra7soggettivo della località della gamba. Che se egli non avesse mai precedentemente veduta, nè toccata la sua gamba, nè mossa, non avrebbe saputo di avere la gamba; nè n' avrebbe conosciuta la forma esterna, nè la località in relazione alle altre parti del corpo, benchè ne avrebbe avuto il sentimento fondamentale, scevro delle forme relative allo spazio misurato, che si estende oltre il suo corpo. Questa località, che involge relazione collo spazio esterno misurato, gli si rese nota coll' esperienza esterna od extrasoggettiva, esperienza totalmente diversa e dissomigliante da quella soggettiva del dolore, che egli è consapevole di patire. Ma cadendogli da una parte sotto gli occhi e sotto il tatto la sua gamba, che così divenne a lui fenomeno extrasoggettivo, e d' altra parte sentendo il dolore, fenomeno soggettivo, egli potè più volte nella sua vita confrontare insieme questi due fenomeni e riconoscere che il dolore soggettivo cadeva in quella località extra7soggettiva; la quale osservazione non avrebbe potuto mai fare, se in tutto il corso di sua vita non avesse avuto che un solo dei due fenomeni, cioè o il solo dolore o la sola percezione extrasoggettiva della gamba. Avendo dunque avuto i due fenomeni, e conosciuto che l' uno rispondeva alla località dell' altro, egli ne formò un giudizio abituale e si persuase che l' uno non potesse star senza l' altro; quindi, anche dopo amputata la gamba, riferisce il dolore a quella località extrasoggettiva, che rimane nella sua immaginazione. Il fenomeno extrasoggettivo adunque, che accompagna il fenomeno soggettivo, non è compreso nel primo, nè è della natura del primo, ne è un effetto adeguato al primo. Ora, quale è l' azione propria dell' istinto sensuale? Questa azione sta racchiusa nel solo fenomeno soggettivo. L' abbiamo detto, l' attività del sentimento consiste unicamente nel potere di atteggiarsi e di adagiarsi nel modo a sè più naturale; e, consistendo la sua natura nel piacere, il modo a sè più naturale è il modo più piacevole, più comodo, più facile, men faticoso, men doloroso, tutti epiteti che vengono sempre a dire un modo che più tien del piacevole. Ciò posto, l' istinto sensuale non intende a produrre fenomeni extrasoggettivi, che sono fuori della sua sfera; ma pure questi seguono quelli come una necessaria appendice. Quale dunque è il legame dei fenomeni extrasoggettivi coi soggettivi rispetto al buono stato dell' animale? I fenomeni extra7soggettivi hanno un tal legame e corrispondenza coi fenomeni soggettivi che di via ordinaria, quando succedono a questi, giovano al buono stato dell' animale e contribuiscono a conservarlo e migliorarlo. Ma una così felice corrispondenza patisce eccezioni procedenti da certi limiti della natura animale; quindi più volte accade che i fenomeni extrasoggettivi, conseguenti ai soggettivi, riescano all' animale pregiudicevoli più o meno, ed anche mortali. L' istinto sensuale adunque non erra mai, se si considera la sua azione quale è entro la propria sfera; mantiene sempre la sua propria legge di dare al sentimento l' atteggiamento e l' azione più piacevole fra tutte che gli sono possibili, cioè che il sentimento stesso può avere (1). Ma egli non può impedire che ne succedano poi i fenomeni extrasoggettivi corrispondenti a quella sua azione, sieno essi utili o sieno dannosi; poichè tali effetti non entrano nella sua sfera d' azione. Quindi è che, allorquando il sentimento viene eccitato da qualche stimolo piacevole o doloroso, l' istinto sensuale che tosto si muove (benchè si muova sempre colla stessa legge), determini dei movimenti talora utili all' animalità, talora dannosi. Quando tali movimenti sono utili, si suol dire che la natura opera con sapienza; quando sono disutili, si suol dire che ella prende errore. A ragion d' esempio, una onesta e moderata gioia conferisce alla buona salute, aumenta le forze dell' istinto vitale, aiuta l' energia delle funzioni; una gioia eccessiva cagiona l' apoplessia, come anni sono avvenne nella mia patria, che quando fu vinto il partito di rifondere le campane di San Marco, un cittadino zelantissimo ne morì apopletico del contento (1). L' istinto sensuale diede morte all' onest' uomo; il sentimento gaudioso, acceso nella sua parte razionale, fu stimolo al suo sentimento ed all' istinto che ne procedette, il quale occasionò con veemenza tali movimenti nella macchina extrasoggettiva da accelerare il corso del sangue, spingendolo fino a schizzare dai vasi e diffondersi così in qualche parte del cervello (2). L' istinto sensuale non intende a questo effetto, che a lui è straniero; ed avvenne pel nesso sostanziale, che il moto extrasoggettivo tiene col sentimento soggettivo. L' anima umana non è ella fatta per la felicità? Non è ella fatta per la gioia? Quanto si aumenta il grado del suo godimento, non pare che altrettanto si accresca la perfezione del suo stato? Come dunque può darsi un grado di gioia e perciò di perfezione, che il corpo animale non possa sopportare, e a cui consegua la distruzione dell' uomo? Non si oppone un tale disordine al concetto della natura umana perfetta? O conviene dire che il corpo non è proporzionato alle funzioni naturali dell' anima, non è strumento a lei conveniente, quando le impedisce l' altezza e la vivezza del suo godimento; ovvero è da concedere che vi è un difetto nell' anima stessa, troppo precipitosa e veemente nell' operare, sicchè per cupidità di smoderato godere uccida quel composto di cui ella è la parte principale. Nell' uno e nell' altro caso si scorge che la natura umana è al presente difettosa; nè così potrebbe mai essere stata creata da Dio, le cui opere sono perfette. Insomma qui vi è una delle molte prove dell' originale decadimento, che non privò soltanto l' uomo della grazia divina, ma nella stessa natura mise quel disordine, che per tutto si manifesta (3). Rimettiamoci sul nostro cammino. Se qualche piccolo corpo eterogeneo entra nella trachea, è incontanente provocata la tosse. Lo scopo della natura è manifesto; ella vuol cacciarne quel corpicciolo eterogeneo e nocivo. Ma si distingua lo scopo della natura, quale opera della sapienza creatrice, dallo scopo dell' istinto sensuale, che mette in movimento i muscoli e così produce quella espirazione violenta, sonora, frequente, che si chiama tosse. La sapienza del Creatore ha certo precedentemente accordata l' azione dell' istinto sensuale coi movimenti muscolari, che servono ad esportare i corpicciuoli, che invadono il canale della trachea ed il polmone. Ma l' istinto sensuale non ha un tale scopo, che è fuori della sua azione; egli opera unicamente per liberarsi dalla molestia sensibile, per sottrarsi alla sensazione incomoda, per ammodarsi, come dicevamo, a suo agio. L' effetto del cacciamento del corpo eterogeneo viene di conseguente, e solo per la circostanza che l' organismo determina questo effetto. Quindi la tosse nasce anche senza la presenza del corpo, o dopo che il corpo è rimosso o quando non si può rimuovere. Di vero, data qualsiasi irritazione alla trachea, dato un umore corrodente che si porti su lei o sul polmone, o dato che s' infiammi quella membrana, la tosse ha luogo egualmente senza la presenza di alcun corpo straniero. E in tali casi, lungi che la tosse giovi allo scopo di espellere la causa dell' incomoda sensazione, ella anzi l' accresce, producendo alla parte irritata maggior concorso di umori e di sangue, aumentando talvolta l' infiammazione fino alla rottura dei vasi ed alla tisi. Direbbesi un errore della natura; ma l' istinto sensuale non ha fatto che ubbidire alla sua immutabile legge, per la quale in conseguenza dello stimolo tenta di operare nel modo a lui più confacente. Medesimamente, se la trachea è tocca da un corpo che si ritira subito, la tosse avviene, benchè non vi sia più la presenza del corpo. L' istinto dunque, che produce la tosse, non tende propriamente all' effetto extra7soggettivo di cacciare il corpo; ma il corpo ne è cacciato, se egli vi è tale da poter essere cacciato, come un effetto conseguente all' operare dell' istinto. Certi odori disgustosi producono il vomito (1); lo stesso può fare un sapore; lo stesso il titillamento dell' ugola. Distinguasi anche qui l' opera dell' istinto sensuale dall' effetto conseguente al rovesciamento del ventricolo. Questo effetto è certo preordinato dalla sapienza del Creatore, ed è principalmente quello di liberare il ventricolo dalle materie indigeste e nocive, che l' aggravano. Fu quella sapienza che collocò l' organo dell' odorato e del gusto, i nervi ed i muscoli opportuni in tali situazioni e connessioni reciproche che ne dovesse avvenire che, ogniqualvolta lo stomaco è aggravato, agendo l' istinto sensuale, venissero i muscoli dell' addome ed il diaframma a contraddistendersi, obbligando le savorre a riascendere nell' esofago, nella faringe e nella bocca. Ma i detti odori e sapori nauseosi, e il detto solleticamento dell' ugola rovesciano egualmente lo stomaco, quando è vuoto; non ha bisogno nessuno di vomitare, e il vomito gli nuoce. Sembra allora di nuovo che la natura s' inganni; ma il fatto si è che tutti questi effetti avvengono, per così dire, all' insaputa dell' istinto sensuale, il quale, racchiuso nella sfera soggettiva sentimentale, vi mantiene le sue leggi, e quei movimenti e fenomeni extra7soggettivi sono un conseguente del suo operare, a cui l' istinto non perviene. Ora consideriamo in che precisamente consista il preteso errore della natura. Se qualche umore irrita il polmone, i bronchi, o la trachea, da nascerne la tosse, l' errore non istà nel supporre la presenza d' un corpo estraneo, ma nell' operare in modo come se questo potesse esserne cacciato colla violenza di quella espirazione; poichè in qualsivoglia irritazione, infiammazione o sensazione molesta vi è sempre veramente un corpo inopportuno, fuor di luogo (1), il quale agisce nel nostro sentimento, vi è una forza extrasoggettiva inesistente nel sentimento soggettivo. Ma quella forza straniera venuta nel nostro sentimento non è tutto il corpo esterno, tutta intera l' attualità di lui, ma una porzione. Se questa porzione di forza, entrata nel nostro sentimento soggettivo, è a lui molesta, nasce il dolore e lo sforzo di espellerla. Quindi lo sforzo dell' istinto sensuale tende veramente a cacciare la forza estranea, entrata inopportunamente nella sfera del sentimento, non tende a cacciare il corpo estraneo, che è troppo più. In questo senso si può dire che l' istinto sensuale reagisce contro una forza extra7soggettiva. Tuttavia i movimenti che egli produce, e che sono i mezzi disposti dalla natura acciocchè egli possa liberarsi dal nemico, non sono nella sua sfera, e però non possono essere da lui misurati, nè egli può presentirne l' utilità o il danno, che possono arrecare all' organizzazione. Che se dai movimenti grandi e muscolari, occasionati dall' istinto sensuale, noi vogliamo passare ai movimenti piccoli e tonici, specialmente dei vasi, intenderemo come il detto istinto ora li provochi con utilità, ora con danno. Che la natura tenda a liberarsi dai mali con dei movimenti opportuni fu osservato in tutti i tempi, e lo stesso Ippocrate scriveva: [...OMISSIS...] ; e Galeno con una frase fors' anche troppo estesa aggiunge che [...OMISSIS...] ; e ancora che [...OMISSIS...] . Questo dominio del principio animale a beneficio dell' animalità fu detto dallo Stahl «autokratia» naturae; sulla quale scrisse una dissertazione, che si può anche oggidì leggere e con sommo frutto meditare. Ma per ridurre questa sublime sentenza entro i suoi giusti limiti, non conviene dimenticare quei mali che l' azione del principio sensuale, benchè in sè stesso tendente sempre al bene e obbediente alle sue leggi, trae dietro di sè indirettamente. Le cose da osservarsi in questo fatto sono innumerevoli, eccedono il nostro sapere; e gli stessi medici più celebrati sembrano ancor lontani dall' avere adeguata colle loro, per altro commendabilissime ricerche, l' immensa natura. Restringendo dunque noi il discorso a poco, moveremo da un punto di fatto certo, e sarà quello che abbiamo toccato di sopra, che qualora in una parte del corpo sia data un' irritazione molesta, l' istinto sensuale si pone in movimento, si dimena, per così dire, e si dibatte. L' irritazione, secondo noi, è sempre accompagnata da sentimenti più o meno vivi, più o meno distinti, quantunque non sia egualmente facile acquistare la coscienza di tutti, perchè o tenui o indistinti, o sì eccessivi che tolgono l' attenzione della mente. Tali sentimenti sono locali, e noi ne vedremo poco appresso la ragione. Ci basta qui avvertire che questa località, secondo l' intenzione della natura creatrice, era necessaria a dirigere la virtù istintiva dell' animale tendente a propulsare l' irritazione. Che se talora avviene che l' irritazione di una parte sviluppi un dolore più intenso in un' altra, e la maggiore attività dell' istinto si diriga forse verso la parte addolorata, quasi illudendosi; è da vedere anche qui se questo sia un vero errore, a cui soggiace l' istinto sensuale, o se l' azione sua, benchè diretta al luogo del dolore simpatico, ivi non finisca, ma si rifletta alla vera sede della primitiva irritazione. Il che potranno decidere i medici osservatori. Intanto facciamoci gran caso di questo fatto innegabile, che l' istinto sensuale dirige, generalmente parlando, la sua forza insorta al luogo irritato, sollecito di cacciar via lo stimolo irritante. Ma quale è la forma, che prende questa azione propulsatrice? Una tal forma dipende tutta dall' organizzazione, cioè dagli organi che l' istinto deve mettere in movimento per propellere lo stimolo e liberarsi dall' incomoda irritazione. Infatti, se egli non avesse organi, mancherebbero i subbietti del movimento. Avendo egli organi, è chiaro che il movimento riceve qualità e forma da questi. Se l' organo è continuo, si continuerà il moto; se è contiguo, parteciperà di qualche scotimento. Un moto comunicato ad un corpo rotondo è diverso da quello comunicato ad un corpo prolungato. Ma ciò non basta. E` la mistura dell' organo, è la sua mobilità vitale che modifica principalmente i movimenti intestini in esso espressi. Finalmente le forze meccaniche, fisiche e chimiche, in quanto mantengono qualche azione indipendente dal sentimento dell' animale, possono opporre resistenza al pieno effetto dell' istinto. Vi sarà dunque differenza fra i movimenti dei nervi secondochè i loro fascicoli saranno più o meno voluminosi, le fibre più o meno sottili, forniti o privi di gangli, annodati in plessi o disgiunti; e parimenti secondochè comunicheranno ad un numero minore o maggiore di muscoli a muscoli di grandi dimensioni ovvero a fibre muscolari assai minute, ecc.. A ragion d' esempio, se l' irritazione è negli intestini, l' azione dell' istinto sensuale trae seco l' effetto del movimento peristaltico, volto a liberarsi dalle feccie irritanti, e a tal uopo chiama in aiuto lo stesso diaframma, muscolo grande e forte, i cui movimenti sono necessari a vincere la resistenza dello sfintere. All' incontro, l' irritazione sia quella prodotta da un freddo sulla cute. L' istinto sensuale suscita tosto dei movimenti diretti a cacciare lo stimolo. Ma la cute e le membrane sottocutanee non hanno grandi muscoli da mettere in movimento, e però i movimenti prodotti dalla sua azione sono molti e minimi, e hanno sede principalmente nei minimi vasi, da cui la cute e le parti adiacenti sono per ogni verso, a guisa di minutissima rete, percorse. E` manifesto che l' istinto sensuale esercita in tal caso la sua facoltà motrice per mezzo del sistema gangliare, dal quale dipende l' organo cutaneo. In tutte queste azioni dell' istinto sensuale egli non ha mai altro scopo prossimo che di liberarsi dall' irritazione, in quanto ella si trova nel sentimento; ma a questi suoi sforzi tien dietro un altro effetto, legato ad essi dalla sapienza creatrice; effetto fuori del sentimento e dell' istinto, a cui l' istinto non tende, perchè non lo sente, e questo è il movimento considerato nelle sue condizioni extra7soggettive, il quale ha un fine benefico nella mente creatrice, quello di respingere i corpi stranieri, che guastano l' organizzazione. Ora questo benefico effetto non sempre si ottiene per varie cagioni, indipendenti dalle leggi dell' istinto sensuale, che pur sono sempre fedelmente osservate. E questo è ciò che si chiama poi errore della natura medica. Che dunque l' intenzione della sapienza creatrice, nel legare i detti movimenti extra7soggettivi all' attività dell' istinto sensuale, sia benefica, sia quella di dare al corpo animale un modo di respingere da sè gli agenti nocevoli, si raccoglie anche da ciò, che non solo i grandi movimenti muscolari che producono la tosse, il vomito, ecc., tendono a cacciare la causa dell' irritazione, ma anche i movimenti minimi tendono al fine stesso col promuovere le escrezioni. Nel qual fatto è pure ammirabile la sapienza della natura nell' aver fabbricati i vasi di una sostanza forte ad un tempo e sommamente elastica. Poichè da questa mirabile elasticità in prima dipende la direzione più o meno accelerata degli umori; chè, giusta le leggi idrodinamiche, ivi si deve accelerare il corso del fluido dove il canale si restringe, e rallentare ove si dilata, acciocchè per ogni sezione nello stesso tempo passi la stessa quantità di fluido; e per le stesse leggi è altresì manifesto che, qualora un vaso si può nelle diverse sue parti variamente restringere ed allargare, può essere ad un tempo determinata la direzione del fluido. Ora è indubitato che l' istinto sensuale ha questo dominio sui vasi, come si scorge dall' afflusso degli umori ad una parte ferita, e dall' effetto delle passioni, che accelerano o ritardano il corso del sangue, lo restringono verso il cuore, e lo dilatano fino a inturgidirne i vasi capillari della superficie. Ed è questo potere appunto dell' istinto sensuale che lo rende la causa di tutte le escrezioni, come pure delle secrezioni, sia il corpo in istato di sanità o in quello di malattia. L' importanza di questa riflessione diviene somma, se si considera che tutte le malattie che ammettono guarigione, guariscono, io mi credo, con opportune escrezioni. Non voglio già dire che le escrezioni sieno la prima causa della guarigione; ella sia pure nei solidi, l' irritazione di questi sia pure la prima causa dei malori; ciò non ostante parmi che non esprima tutta la verità neppure quello che si dice da alcuni ai dì nostri, essere le escrezioni opportune meramente l' effetto della guarigione. Perocchè è certo che fino a tanto che tali escrezioni salutifere non sono compite, il buono stato della salute non è per anco restituito; la guarigione ancora non esiste, e però non possono esistere gli effetti, se pur non si voglia sostenere che gli effetti precedano la causa. Gli stessi autori perspicacissimi della moderna dottrina medica, ai quali pare aver riconosciuto nei solidi la prima causa delle malattie, non hanno però negato che, qualora i solidi irritati ricevano analoghi movimenti (i quali noi facciamo dipendere dall' istinto sensuale), gli umori alterano il loro corso, modificano la loro crasi, diventano irritanti essi stessi, e sono bene spesso cagioni della diatesi flogistica. Infatti quando i medici moderni, che hanno ridotto il maggior numero delle malattie all' infiammazione, ricorrono sì sovente all' emissione del sangue, che cosa fanno essi se non appigliarsi come a mezzo di guarigione ad una escrezione, dirò così artificiale? (2). Certo, essi non medicano con ciò direttamente il solido, ma scemano l' umore che considerano come irritante, come la principale causa, se non la prima, come la causa della diatesi se non dell' originale eccitamento. Si può dunque dire, in generale, che l' istinto sensuale eccitato da una irritazione locale produca un movimento vascolare extra7soggettivo, il cui effetto benefico è quello di rimuovere mediante le escrezioni la causa della medesima irritazione, e perciò che generalmente le malattie colle escrezioni guariscono. E` singolare a vedere come, quando un sistema è invalso per opera di grandi uomini, subito una frotta di uomini minori, per timore vanitoso di parere arretrati, lo spingono all' esagerazione, sbandeggiando fino i vocaboli più innocenti usati dai precedenti maestri. Così oggidì si sentono con uno sdegno ridicolo rifiutare da molti le voci di emuntorii e colatoi del corpo umano, divenute indegnissime di essere proferite per l' abbominevole macchia ricevuta dalle bocche degli umoristi, i quali non le hanno per avventura inventate, ma frequentemente adoperate. E la natura seguita tuttavia, anche in presenza degli sdegnosi e schifiltosi scrittori, ad avere i suoi emuntorii ed i suoi colatoi, nè le mancheranno giammai fino a tanto che il corpo umano si abbia la cute, le reni, gli intestini, le nari, il polmone, e tutti insomma gli organi escretorii che ai secretorii rispondono; dei quali gli uni e gli altri son tanti che non vi è parte del corpo umano, che non ne sia provveduta. Con questi emuntorii e colatoi, che noi non arrossiamo punto a nominare così, ella conserva il suo buono stato. Perocchè, essendo l' animale « un sentimento fondamentale eccitato », e il sentimento fondamentale eccitato producendo mediante il continuo eccitamento innumerevoli movimenti, spostamenti, sospingimenti di parti nella macchina organata, forza è che molte di queste parti, ridotte a stato di liquido più o meno sottile, si separino da essa, lascino di vivere della sua vita, acquistino una condizione straniera ed irritativa; e quindi debbano essere cacciate via, acciocchè non l' offendano. Ma se il corpo continuamente perdesse delle sue parti senza acquistarne, si ridurrebbe al niente, e prima ancora ad uno stato d' inettitudine alla vita animale. Quindi il bisogno di reintegrare le sue perdite, sia colle molecole che egli trae dal fluido atmosferico, sia con quelle che trae dagli alimenti; molecole, che egli poi lavora, compone, segrega, assimila ed organizza secondo il bisogno. Ora, fino a tanto che il corpo è sano e l' istinto vitale non ha ricevuto di quelle irritazioni, che sono atte a debilitarlo o a vincerlo, l' istinto sensuale, autore dell' eccitamento fondamentale, genera nella macchina i movimenti normali, nei quali le secrezioni e le escrezioni si compiono in un modo normale. Non così quando l' irritazione è nocevole, onde hanno luogo i processi morbosi . Ma il difficile sta nel discernere quando e perchè l' irritazione sia tanto nocevole che determini l' istinto sensuale ad occasionare quella serie di movimenti, che processo morboso si chiama. Ora, posciachè l' irritazione dell' istinto sensuale, secondo noi, non è infine che un sentimento doloroso, e il sentimento è l' opera dell' istinto vitale, è necessario nelle leggi di questo istinto, nei suoi fatti generali e costanti, di spingere la nostra inquisizione. L' istinto vitale anima il corpo; animarlo e renderlo sentito è per noi il medesimo. Ma il sentimento prodotto dall' istinto vitale è perfetto o imperfetto. E` perfetto, quando l' istinto vitale non ha a sostenere lotta faticosa con forze straniere. E` imperfetto, quando egli ha a sostenere una faticosa lotta con quelle. Dico una lotta faticosa, perocchè si devono distinguere due maniere di lotta, l' una non richiedente alcuna fatica spiacevole, sicchè appena si può chiamare lotta; l' altra richiedente una fatica spiacevole, ossia dolorosa. Quando la macchina è perfettamente organata, il principio che l' anima, lungi dal provare alcun travaglio nell' operare l' animazione anzi gode, poichè niun ente fa fatica ad essere. Onde se si vuol pure applicare il vocabolo di lotta a ciò che nasce nella effettuazione della vita, conviene dichiararne il senso, che allora non è altro che quello di dominio, che esercita il principio vitale sulla sostanza che egli fa sua, rendendola termine del suo sentimento; questa sostanza (ed è la corporea) riceve il dominio e rimane modificata, l' anima gode della sua dominazione, ed è il piacere della vita. Solo è da notarsi che tale perfezione di vita, oltre alla perfetta organizzazione del corpo, involge la necessità di opportuni stimoli esteriori, l' aria, la luce, ecc.; e che un corpo in istato di perfetta organizzazione e tale che non metta impedimento alcuno alla vita, e abbia il consenso di tutti gli stimoli esterni a lui confacenti, non si trova forse mai nella condizione presente del genere umano, benchè si possa concepire. Che se, oltre concepire questo stato perfetto del corpo in un dato istante, noi vogliamo ancora concepirne la durata, dovremmo supporre: 1 che niuna potenza straniera alteri la perfetta organizzazione; 2 che sieno somministrati al corpo di continuo quegli stimoli opportuni al perfetto corso delle funzioni animali. Senza continuità di parti non esiste l' unità del sentito, e questa unità è data dal di fuori; e senza moto intestino perpetuo la vita non si manifesta con effetti extra7soggettivi; e questo moto continuo è pure condizionato all' organizzazione data da causa straniera, e senza l' armonia di tali movimenti dominati da un centro di sentimento, non può individuarsi l' animale; e questa centralità di sentimento, e quindi di movimento, dipende di nuovo in gran parte dall' organizzazione. Ma supposti questi dati esterni, i movimenti extra7soggettivi dipendono pure dall' attività soggettiva. Qual' è dunque la legge di questa e la cagione del suo operare? Il sentimento tende ad estendersi, ad eccitarsi e ad individualizzarsi . Certo, se egli non fosse con tutte le sue condizioni, non potrebbe nè porsi, nè eccitarsi, nè individualizzarsi. Ma egli è dato e posto in natura dal Creatore. Dato dunque un sentimento esteso, eccitato ed individualizzato, l' attività sua si spiega incessantemente nel conservare queste tre sue prerogative e nell' accrescerle; nel conservare il sentito in tutta la sua estensione e nel dilatarla; nel conservare l' eccitamento e aumentarlo in proporzione dello stimolo; nel conservare altresì l' armonia e l' unità del sentimento, in ragione dell' armonia e dell' unità degli stimoli. Vediamo quale parte abbia in ciò l' istinto vitale, e quale l' istinto sensuale. L' istinto vitale produce il sentimento fondamentale, quando trova il corpo acconciamente organizzato, e le parti di lui rende sentite. Queste parti debbono essere molecole organizzate con attitudine a ricevere la vita propria dell' animale. Se una forza straniera tende a sottrarre e discontinuare le parti sentite, l' istinto vitale fa loro forza per ritenerle; e se altre molecole opportunamente organate vengono accostate e continuate alle sentite, egli fa forza per invaderle e rapirle nello stesso sentimento; e questi e simiglianti sono diversi atti e momenti della funzione organizzatrice . Ma se l' istinto vitale, dopo essere stato stimolato dal contatto della materia a queste funzioni, viene contrastato in esse e impedito di compirle, egli si appena e si addolora, chè il contrasto e il combattimento nel sentimento, il contrasto colla naturale propensione del sentimento, è pena e dolore. Qui però conviene distinguere dal dolore la cessazione del sentimento (individuale). Quando alcune parti del continuo animato si sottraggono all' azione dell' istinto vitale, dividendosi e disorganizzandosi, cessa in esse il sentimento, di cui precedentemente erano termine, e quindi cessa ogni dolore. Così nelle parti, che escono per mezzo degli organi escretorii dal corpo umano, come pure nella cancrena, cessa ogni senso doloroso. Il dolore dunque è la lotta fra l' istinto vitale e la materia, ossia la forza straniera; ma quando la materia si è sottratta alle forze dell' istinto vitale e ha riportato su di lui intera vittoria, allora non vi è più lotta, nè dolore. All' incontro, quando l' istinto vitale trova la materia così disposta che non pone resistenza alla sua operazione, oppure quando egli consegue piena vittoria sopra di lei, rendendola a pieno termine della sua azione, allora è messo in essere il sentimento, la cui natura è piacere. Ma effettuato il sentimento (piacere per essenza), possono poi darsi movimenti nella materia, che ne costituisce il termine; e questi di due maniere. Alcuni nè discontinuano la materia vivente, nè fanno forza per discontinuarla e sottrarla all' azione del principio vitale; e però lungi dal distruggere il sentimento, lo eccitano e l' aumentano; ed essendo questo per essenza piacere, aumentano il piacere. Tali sono tutte le sensioni, che sorgono nel corpo animale secondo la natura. Altri movimenti fanno forza alla materia, sospingendola a discontinuarsi e disorganarsi, ed allora fino a tanto che non si è discontinuata e disorganata, si ha quella lotta che si chiama dolore (1). Ora, data la sensione piacevole e dato il dolore, l' istinto sensuale tosto si pone in azione per secondare la prima e sottrarsi al secondo. Questa azione dell' istinto sensuale trae dietro a sè altri movimenti della materia animata, di nuovo utili o dannosi alla costituzione dell' animale, conformi o difformi al suo fondamentale eccitamento. In questi movimenti conseguenti all' azione dell' istinto sensuale si deve distinguere: La quantità d' impulso che riceve l' istinto sensuale, e perciò la quantità della sua azione radicale. Questa non oltrepassa il grado limitato dalla quantità della sensione o del dolore, che l' accagiona. La sensione e il dolore può essere: 1) più o meno molteplice; cioè possono essere varie sensioni contemporanee e varii dolori in diverse parti del corpo; quindi varie azioni contemporanee dell' istinto sensuale; 2) più o meno esteso; quindi l' istinto sensuale può cominciare ad agire e produrre movimenti in una estensione maggiore o minore del corpo umano; 3) più o meno intenso; quindi l' azione radicale dell' istinto sensuale può essere più o meno violenta e precipitosa. La quantità della continuazione dell' azione dell' istinto sensuale . L' istinto sensuale, dopo ricevuto l' impulso dalla sensione piacevole o dal dolore, non opera se non a condizione e in quel tanto che egli trovi piacevole il suo operare, o meno dispiacevole del non operare. Quindi, allorquando l' operare gli riesca più spiacevole che il contrario, egli cessa da ogni azione, e la diminuisce a proporzione che il suo operare è meno piacevole. Il che spiega in parte l' attività della natura animale, quando si trova in certe condizioni morbose. Il vantaggio o il danno dell' animalità, che succede all' azione dell' istinto sensuale. Se l' azione dell' istinto sensuale trae seco dei movimenti nell' organismo, questi movimenti arrecano modificazioni nell' animale, non meno relative all' istinto vitale che allo stesso istinto sensuale, perocchè: Quanto all' istinto vitale, i movimenti cagionati dall' istinto sensuale nell' organismo o misto vivente, possono: 1) essere di quelli che aiutano l' istinto vitale a compire meglio la sua operazione, aiutando la continuazione e opportuna organizzazione delle molecole; 2) possono essere di quelli che danno alle molecole un contrario impulso, e quindi che producono o accrescono la lotta fra l' istinto vitale e la materia bruta, e generano o accrescono il dolore; 3) possono essere di quelli che sottraggono addirittura la materia bruta all' azione del principio vitale, la discontinuano e la disorganizzano, e quindi adducano la sua morte. Quanto all' istinto sensuale, i detti movimenti, suscitando sensioni piacevoli o dolorose, generano nuovi stimoli ed impulsi all' attività dello stesso istinto sensuale, il quale così moltiplica le sue azioni e le riproduce. Data adunque una prima sensione o un primo dolore, deve succedersi nel corpo umano una serie più o meno lunga di movimenti, i quali si alternano coi sentimenti piacevoli e dolorosi. E questa serie o vicenda di sentimenti soggettivi e di movimenti extrasoggettivi può essere o giovevole o pregiudiziale allo stato dell' animale. Esempio di una serie giovevole allo stato dell' animale si è quella per la quale l' animale si sviluppa dal germe e cresce fino alla sua perfetta maturità. Questo sviluppo è una perpetua vicenda: 1) di sensioni cagionate dagli stimoli esterni all' animale, eccitanti, secondo natura, l' istinto vitale; 2) di movimenti istintivi, prodotti dall' istinto sensuale ricevente l' impulso dalle dette sensioni; 3) di nuove sensioni che l' istinto vitale mette in essere, incitato dagli accennati movimenti; 4) di nuovi movimenti prodotti dall' istinto sensuale incitato dalle seconde sensioni. E questo circolo di movimenti e di sensioni , di sensioni e di movimenti, si perpetua in tutta la vita animale. In essa si alterna perpetuamente l' azione dell' istinto vitale e l' azione dell' istinto sensuale. L' istinto vitale, generando la sensione, dà impulso all' istinto sensuale, e l' istinto sensuale, generando il movimento, dà la materia all' azione dell' istinto vitale. In capo a questa continua vicenda stanno quegli stimoli esteriori che hanno prodotto i primi movimenti, e somministrata la materia alle prime sensioni dell' istinto vitale. Ma gli stimoli esteriori suppongono già l' animale formato, almeno nel suo primo rudimento; suppongono l' istinto vitale già in atto nel primo sentito, nel primo sentimento di cui egli è l' attività. Altro esempio della serie giovevole si ha negli stessi processi morbosi, quando questi processi riconducono l' animale ammalato allo stato di salute. Ogni processo morboso s' inizia con uno stimolo esterno, il quale modificando l' istinto vitale, e traendolo in lotta colla materia bruta tendente a sottrarsi al suo influsso, cagiona lo stato doloroso e penoso. Questi sentimenti dolorosi, traendo in giuoco l' istinto sensuale, gli fanno riprodurre altri movimenti, i quali prestano materia all' istinto vitale che produce le seconde sensioni; e queste, impellendo di nuovo l' istinto sensuale, lo provocano a cagionare nuovi movimenti, e così ha luogo il circolo perpetuo, più o meno lungo, delle sensioni e dei movimenti, che si dice processo morboso . Un esempio della serie e vicenda dei movimenti e delle sensioni, che riesce a pregiudizio dell' animale, lo possiamo vedere nell' invecchiare che egli fa insensibilmente fino alla sua distruzione. Quella stessa legge di vicissitudine che dal primo germe ha sviluppato l' animale a piena maturità, quella stessa da questa maturità lo conduce gradatamente al discioglimento. Del pari si scorge un circolo funesto di movimenti e di sensioni in quei processi morbosi, che hanno un esito mortale. Diamo ora uno sguardo all' arte ippocratica, dai professori della quale tante cose apprendemmo fin qui. I sistemi di medicina finora comparsi ebbero forse tutti qualche idea luminosa; l' errore si riduce ad una parte dimenticata della verità. Vi furono medici, che sembrano aver dato un' esclusiva attenzione a quella classe di processi morbosi, pei quali la natura riconduce l' animale allo stato di salute. Questi celebrarono e magnificarono l' «autokratia» della natura. Il pensiero era luminosissimo. Che certi fenomeni morbosi tendano al ristabilimento della salute, che certe emorragie, certe diarree, certe febbri sieno altrettanti sforzi della natura ammalata, che da sè stessa va risanandosi per quei passi stessi che sembrano morbiferi e sono salutiferi, è cosa innegabile; e questo fatto è quello che reputa a suo grande onore la celebre scuola di Montpellier; sono quelle idee di Van Helmont e di Stahl, che il Pinnel chiama sane e feconde (1). Ma non conviene dimenticare l' altro fatto, cioè esservi altresì un' altra serie di movimenti e di sensioni, che si volgono in circolo, e riescono a deterioramento, e in fine a distruzione dell' animale; che vi sono dei processi morbosi, i quali, conducendo l' animale di stato in stato, finiscono coll' arrecargli la morte. Quei medici, che sono stati altamente colpiti da quest' altro fatto, non posero un' eguale attenzione al primo, e mentre gli uni volevano tutto lasciar fare alla natura, gli altri tutto volevano che facesse l' arte. Nel sistema di Stahl la tendenza della natura allo stato di salute è spiegata; ma rimangono senza spiegazione soddisfacente gli errori della natura. Nel sistema degli avversari sono riconosciuti, se non ispiegati, gli errori della natura, ma rimane disconosciuta, e però priva di spiegazione, la sua tendenza riparatrice e sanatrice. Vi è un' unica legge naturale, diciamo noi, che dà ragione non meno degli andamenti salutiferi della natura animale che degli andamenti mortiferi; l' istinto vitale e l' istinto sensuale, alternandosi nell' operare, e l' uno modificando incessantemente l' altro, sono le cause di entrambi; essi andrebbero sempre di loro natura verso il bene, se non dipendessero da stimoli stranieri e materiali; e sono questi stimoli che li alterano, li perturbano, e scompigliano la loro naturale armonia. Quindi la causa di tutte le malattie si può ridurre ad una sola, cioè all' irritazione, presa questa parola in un senso assai esteso. Per irritazione, in questo significato, intendo l' effetto di una forza straniera al sentimento ed all' istinto animale, che operando su di questo ne altera la condizione normale, e così occasiona nei suoi due modi di operare, il vitale e il sensuale, un' alterna azione in sè stessa morbosa, e nel suo esito conducente o alla salute, liberandosi dall' irritazione, od alla morte. Il primo effetto dello stimolo straniero, e dell' irritazione che produce, cade nell' istinto vitale, il quale invece di produrre il sentimento normale a cui tende, per sè piacevole, contrariato, produce un sentimento anormale doloroso o molesto. Il secondo effetto cade nell' istinto sensuale, il quale sollevato dal sentimento anormale, accresce e varia la quantità di moto esistente nel corpo, e quindi con questi moti accresciuti e variati, anormali anch' essi, viene data materia a nuove sensioni anormali, che producono nuovi movimenti. Quando adunque questo corso di alterne azioni è incominciato, egli può prendere due qualità: Può cessare col cessar dello stimolo, e questo avviene ogniqualvolta lo stimolo non altera la materia dell' istinto vitale, ma solamente dà a questo un' attività ed eccitamento maggiore; ovvero quando la altera sì, ma in modo che le sensioni, che egli produce, altro non fanno che indurre l' istinto sensuale a cagionare tali movimenti che hanno per effetto il rimettere la cosa in pristino, restituendo all' istinto vitale quella materia che gli è opportuna, e che dallo stimolo aveva ricevuto qualche alterazione. Egli può continuarsi anche cessando lo stimolo, e ciò avviene indubitatamente, se i movimenti dell' istinto sensuale, che succedono alle sensioni dolorose dell' istinto vitale, lungi dal restituire tosto e ricomporre a questo la sua materia alterata, non fanno altro che alterarla maggiormente suscitando nuovi stimoli; perocchè le parti e molecole stesse del corpo vivente, spostate o mosse con certo impeto, diventano nuovo stimolo, stimolo veramente straniero, perchè materiale, che contrasta coll' istinto vitale. In tal caso il corso delle alterazioni e delle vicende interne dell' animale si continua indipendentemente dallo stimolo primitivo; perchè le modificazioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale riproducono ad ogni loro operazione una nuova schiera di stimoli irritanti, e succede quella condizione morbosa che dai moderni fu denominata diatesi . Queste due qualità del corso alternato delle sensioni e dei movimenti, della prima delle quali uno dei principali caratteri è la breve durata, della seconda una durata più lunga, furono assai bene osservate dai medici recenti, ma con una veduta quasi esclusiva al fatto dell' infiammazione; e prego il lettore di permettere che gliene metta sott' occhio la descrizione, che ne fa l' illustre Tommasini, la quale mi dà occasione di aggiungere qualche non inutile osservazione. Questo è il corso di breve durata; ora passa il Professore a descrivere quello, che noi chiamiamo corso di lunga durata di sensioni e di movimenti alterni. In questi luoghi del chiarissimo Tommasini, che descrivono fatti verissimi, debbo dire che io non saprei considerare altramente che come sommamente inesatta quella espressione di eccesso di stimolo, la quale rammenta le angustie del sistema browniano, onde si deve trarre del tutto la medicina, prima di mettersi sulla via regia dei suoi progressi. Invece di eccesso di stimolo pare che si dovrebbe dire inopportunità di stimolo; giacchè le malattie che conseguono allo stimolo, per confessione dello stesso Tommasini, non sono proporzionate alla grandezza ed intensità dello stimolo. Dunque cagione vera dei morbi non è l' eccesso, ma l' inopportunità dello stimolo; di modo che uno stimolo per piccolo che possa essere, se è inopportuno in certe date condizioni dell' animalità, cioè se egli irrita e disordina le funzioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, per ciò solo è già eccessivo, poichè tutto ciò che è male, è anche troppo. Il determinare poi l' inopportunità dello stimolo deve essere ampio campo alla medicale sapienza, dipendendo quella da innumerevoli cause, dall' atmosfera, dai temperamenti, dallo stato speciale in cui si trova l' animale, e in esso quel corso alterno che mai non cessa di sensioni e di movimenti, ecc.. La quale avvertenza non è del tutto sfuggita all' acume dell' illustre Tommasini, ma legato egli al sistema, che faceva dipendere tutte le malattie da stimolo eccedente o scarso, non seppe forse cavare tutto il profitto che avrebbe potuto dalle proprie osservazioni. Le quali osservazioni giustissime provano quello che noi dicevamo; provano che non è l' eccesso dello stimolo che cagiona il corso necessario dell' infiammazione, poichè con uno stimolo anche maggiore ella non nasce. Dunque è l' inopportunità . Ma quando lo stimolo è inopportuno? Ecco il grande problema; non si tratta più di misurare semplicemente la quantità dello stimolo, ma di tener conto di tutte quelle innumerabili circostanze, la cui mistura, per dir così, lo rende opportuno ovvero importuno. Questo ci conduce al metodo antico, al senno ippocratico. E primieramente è cosa indubitata che lo stato di sanità è condizionato all' azione continua di stimoli, quali sono l' aria, la luce, il cibo, e quelli che si suscitano dall' esercizio, e quelli che si riproducono dai continui moti intestini, che nel misto vivente si perpetuano. Questi sono certamente stimoli opportuni. E possono anche tali stimoli aumentare e diminuire fino a un certo termine, senza che perciò escano dalla sfera dell' opportunità. Un uomo sano si può astenere dal vino, può berne in poca quantità, ed anche in dose generosa, senza alcun pregiudizio di sua salute. Può mangiare più o meno, può esercitare le sue forze fisiche, intellettuali e morali più o meno, e la salute non ne riceve detrimento. Il corso delle funzioni animali cangia sì, ma non rimane alterato; la vicenda alterna delle sensioni e dei movimenti intestini può dunque essere resa più o meno celere, più o meno vigorosa senza alcuna morbosa affezione. Ed era necessario che la sapienza creatrice avesse conceduto all' animalità questa attitudine di adattarsi ad una grande varietà di stimoli naturali e ad una misura variabile di essi, giacchè senza di questo essa non avrebbe potuto conservarsi; ogni minima alterazione di atmosfera, ogni varietà di cibo, ogni accrescimento o diminuzione d' esercizio avrebbe dato principio ad un corso di fenomeni morbosi. Ma quanto si estende questa sfera di stimoli opportuni? dove si può trovare il principio, che determini il carattere degli stimoli inopportuni? La sfera degli stimoli opportuni si estende indubbiamente più o meno, secondo la sanità e la robustezza del corpo, e quella sua speciale condizione che questo riceve in gran parte dall' abitudine. Quindi si scorge il corpo umano resistere ai diversi climi del globo, e adattarsi alle diverse temperature; e nello stesso clima variare grandemente la docilità e sofferenza agli stimoli dei diversi individui, e laddove sembra che ad uno niente pregiudichi nè alterazione d' atmosfera, nè gravità di fatiche, nè varietà di cibi, un altro soggiace ad affezioni morbose per ogni più lieve cagione. Conviene dunque trovare il carattere dell' irritazione o alterazione morbosa nella condizione stessa del corpo animale; conviene trovare questo carattere nella vicissitudine delle sensioni e dei movimenti intestini, di cui abbiamo più sopra descritte le leggi; solamente in queste leggi giace la ragione, perchè quella vicissitudine in istato normale, benchè eccitata da certi stimoli esterni, non si perturbi, e perchè ella s' irriti ed alteri eccitata dagli stimoli stessi; ancora perchè, data un' irritazione, o succeda il corso morboso delle sensioni e dei movimenti sì breve che tosto finisce poco dopo la sottrazione degli stimoli; o sì lungo che anche sottratti gli stimoli si continua per lungo tempo, percorre più stadii, presenta varie scene di fenomeni, e termina colla restituzione della sanità o colla morte. Poichè, si noti bene, il detto corso quando è incominciato, non cessa mai subito all' istante stesso della sottrazione degli stimoli, che vi hanno dato incominciamento; ma la differenza dei due corsi non istà fra il subito e il lungo tempo, ma fra il breve e il lungo tempo. Non dipendendo dunque il corso morboso da eccesso di stimolo, ma da stimolo inopportuno alla condizione in cui si trova l' interna vicenda delle sensioni e dei movimenti intestini, apparisce, secondo che sembra a noi, la vera ragione per la quale i medici, legati al sistema dell' eccedenza e del difetto dello stimolo, non sappiano giammai determinare a qual grado e misura ne incominci l' eccedenza o il difetto; e se si provino a farlo, si abbattino di continuo a fatti ribelli refrattari al loro sistema. Laonde il Tommasini confessa di non poter determinare il limite, ove l' eccitamento comincia ad essere flogistico. Ora, nell' impossibilità in cui si vede il celebre uomo di determinare questi limiti, egli ricorre ad asserire che il grado maggiore e minore di stimolo e di eccitamento si deve considerare come relativo all' individuale tolleranza . Ma l' ubbriachezza di un uomo venuto per essa in delirio e minacciato di paralisi, è tal fenomeno che assai bene dimostra essere stata vinta dallo stimolo la individuale tolleranza; eppure il corso di quel morbo finisce in breve, rigettato che sia o digerito il vino; quando la più leggiera flogosi si continua a lungo con quel corso, che il Tommasini giustamente chiama necessario . Può dunque lo stimolo essere eccessivo anche relativamente all' individuale tolleranza, e non produrre la flogosi, e uno stimolo minore sullo stesso individuo produrla. A questo punto l' uomo illustre, stretto dall' evidenza dei fatti, già rasenta il vero soggiungendo: Non dunque all' eccesso dello stimolo, o al suo difetto, conviene ricorrere per spiegare il corso dell' infiammazione e di ogni altro processo morboso; ma sì alle leggi dell' alterna azione dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, delle sensioni e dei movimenti organici, che costituiscono una vicenda con corso fisso e necessario, per servirmi dell' espressione del Tommasini; vicenda che pur si compie nello stato dell' uomo sano, come in quello dell' uomo infermo, sempre colle identiche leggi; onde la patologia si riduce e continua alla fisiologia, scorgendosi che le leggi, che presiedono all' operare della macchina vivente in istato morboso, sono quelle stesse che presiedono all' operare di lei in istato di sanità, e che i fenomeni variano solo perchè varia lo stato dei due istinti che li producono, il loro reciproco rapporto, e la qualità relativa degli stimoli esteriori che li traggono in movimento. Il Tommasini riconobbe che la generazione, lo sviluppo e la riproduzione delle parti sono operazioni interne dell' animale, le quali, data la conveniente spinta degli agenti esteriori, procedono indipendentemente da questi, in virtù, diciamo noi, della spontaneità animale, che nei due istinti mentovati si manifesta, l' uno dei quali dà la leva all' altro reciprocamente; egli rammenta le osservazioni di Harvey sull' utero gravido, su centinaia di uova, dalle quali osservazioni risulta che i passi, che fa questo corpo vivente in un vivente, dai primi momenti della concezione sino al suo maggiore sviluppo, sono simili a quelli dell' infiammazione; reca la sentenza di Onofrio Schassi, secondo il quale la membrana dell' utero, detta decidua dall' Hunter, non è che il prodotto di una specie d' infiammazione naturale; ricorda competere alla infiammazione l' attività riproduttrice; per l' infiammazione riempirsi le cavità lasciate dalle piaghe e dai tagli, generarsi nuove fibre, riprodursi pezzi interi di carne, la parte rigenerata acquistare talora un volume morboso straordinario; essere stato osservato da Mascagni, Hunter, Rezia, Testa, Potolongo e Moore, che i vasi sanguigni, i linfatici, le cellulari, le cartilagini, le ossa sotto l' energia dell' infiammazione si sviluppano, si estendono, crescono di mole, anzi formarsi, come organiche produzioni, alcune tele cellulari nella pneumonite, che Maincourt distinse dalle false membrane, e tra esse ramificarsi propaggini di rossi vasellini, secondo il Cruikshank aumentarsi fin anche i filamenti nervosi. Esatte sono le espressioni che usa l' uomo insigne, quando dice che nei processi morbosi la natura « aberra dalle leggi alla salute prefisse », ovvero chiama le produzioni, che ne derivano, « vegetazione d' ignota stampa »; ma ricade nel sistema invalso e troppo angusto, quando tutto ciò attribuisce all' eccesso dello stimolo, al soperchio dell' eccitamento. Che nella generazione, nella riproduzione normale delle parti tagliate, nel processo per cui dall' infanzia alla virilità vanno raffermandosi le parti molli, si scorga un aumento di eccitamento e di vita, questo s' intende; ma in tutto ciò non vi è eccesso. All' incontro non vi è eccesso propriamente, ma irregolarità e anormalità delle operazioni animali quando, [...OMISSIS...] . Se un mesenterio, un omento, o un vaso per lenta flogosi vegetando, giungono a tale incremento che riesce funesto e mortale per meccaniche compressioni, tutto ciò deve ascriversi all' attività animale, che dirige ed accumula i suoi prodotti in un luogo (e di questa legge di località parleremo poco appresso), non propriamente all' eccesso dell' eccitamento; conciossiacchè una stessa e anche maggiore quantità di eccitamento, data all' animale in altre circostanze, lungi dall' essergli così dannosa, gli potrebbe essere utile. Altro è dunque eccesso di stimolo, altro inopportunità; altro aumento di azione vitale, altro azione vitale aberrata dalle leggi della sanità. Questo non si può chiamare eccesso di eccitamento, per dirlo di nuovo, se non nel senso che tutto ciò che aberra e che nuoce è sempre eccessivo; e in tal caso la parola eccesso sarebbe usata in un altro significato non proprio, nel quale significato ogni causa della malattia sarebbe un eccesso; la parola eccesso conviene dunque evitarsi. Per dimostrare maggiormente quanta differenza corra fra eccesso di stimolo e inopportunità di stimolo, faremo notare al lettore che la prima espressione involge il concetto che il corso fisiologico o patologico dipenda dal soggiacere l' animale ad una passione; laddove la seconda involge il concetto che il detto corso dipenda da un' azione dell' animale stesso. Anche qui il Tommasini si vede lottare manifestamente fra il sistema, di cui si è preoccupato, e i fatti che gli cadono sott' occhio. Uno dei quali fatti è la condizione che lascia dopo di sè nel corpo l' infiammazione, la quale si risveglia con maggiore facilità dove fu un' altra volta e per più leggeri motivi; di che il professore è costretto a conchiudere, che l' infiammazione infrange [...OMISSIS...] . Nella nostra maniera di concepire il corso morboso, le leggi dell' abitudine non sono menomamente infrante appunto perchè quel corso non prende la legge dall' impressione passiva ed eccedente dello stimolo, ma anzi dall' attività del doppio istinto animale. E noi abbiamo già distinte due maniere di abitudine, l' una passiva e l' altra attiva, e abbiamo osservato che l' abitudine passiva diminuisce l' intensione e la vivezza della nuova impressione; ma l' abitudine attiva accresce l' azione, rendendola più facile, più perfetta, più intensa. Così di due persone umane e benefiche, quella che è giovane prova più vivo il sentimento passivo della compassione, ma la più vecchia con minor sentimento è più operativa dell' altra nel sovvenire ai sofferenti (1). Se dunque il processo infiammatorio dimostra non soggiacere alla legge dell' abitudine passiva, come lo stesso Tommasini confessa, ed ubbidisce a quella dell' abitudine attiva, si scorge in questo stesso la prova che ella non è determinata dalla quantità dello stimolo e dell' eccitamento che passivamente riceve, ma dal gioco delle forze interne, il quale viene perturbato dallo stimolo, piccolo o grande che sia, e però dall' inopportunità di lui rispettivamente allo stato e condizione di esse forze. La passività, da cui Brown fece dipendere la vita, fu tanta che egli ne trasse il suo celebre canone, esaurirsi l' eccitabilità della fibra per l' azione degli stimoli. « I fatti confutarono questa teoria, e in Italia il Racchetti giunse a sostenere direttamente il contrario, sostenendo l' eccitabilità della fibra accrescersi sempre per l' azione degli stimoli ». Il Tommasini volle tenersi in una via media, negando la generalità della sentenza del Racchetti per ragioni [...OMISSIS...] . Ma egli non s' avvide che oltre le leggi dell' abitudine passiva vi sono, come dicevamo, quelle, contrarie alle prime, dell' abitudine attiva, e che a queste è conforme il procedere della natura animale. Conviene dunque recare l' attenzione assai più sulle leggi dell' attività animale che su quelle della passività; ed allora si potrà uscire del tutto dalle angustie del sistema browniano. Grande impedimento a questo si fu la guerra indiscreta e cieca mossa agli animisti; si ebbe paura di giungere fino all' anima, e parve più prudente consiglio il trattenersi alle condizioni della fibra. Quindi il Tommasini, parlando della conseguenza che lascia dopo di sè nel corpo l' infiammazione, la facilità cioè di nuovamente infiammarsi, dice quella essere necessariamente [...OMISSIS...] . Ma sino che si parla di fibra e di eccitabilità inerente alla fibra, non si considera il fenomeno che dal lato passivo; laddove la vera ragione che lo illustra non si trova che considerandolo dal suo lato attivo; cioè in relazione a quel principio che avviva e muove la fibra stessa, e che avendola per termine della sua azione, egli ne rimane eccitato, se quella viene stimolata; in virtù del quale eccitamento, secondo la legge più sopra toccata della spontaneità, scotendo la fibra, la fa parere ella stessa eccitabile. Ora niun dubbio che il principio animale, l' anima, soggiaccia alla legge dell' abitudine attiva, che è quella di eseguire con meno di fatica, e più di facilità e con maggiore piacere, quella specie di operazione che ella ha già eseguita più volte. E qui si osservi ancora come la legge dell' abitudine passiva e quella dell' abitudine attiva, sebbene opposte, si diano la mano, per modo che nella legge dell' abitudine passiva si trova in gran parte la ragione della legge dell' abitudine attiva. E di vero, presupposto che « la quantità di azione dell' istinto sensuale sia in ragione dei minori ostacoli, che egli trova nel suo operare, e della maggiore facilità e del maggior diletto », è chiaro che la legge dell' abitudine passiva che dice « le sensioni moleste diminuire la loro vivacità colla loro ripetizione e continuazione », è quella che spiega perchè un agente, ripetendo le sue azioni, diventi sempre più attivo e inclinato a porle; diventa più attivo, perchè scema la vivezza degli incomodi della fatica, della difficoltà che egli provava al principio; il che è tanto più vero che trattasi di un operare morboso e incomodo, traente seco necessariamente non poca molestia. Così le leggi delle due abitudini, lungi dall' essere in contraddizione, si spiegano reciprocamente. Nè si creda una contraddizione il dire che l' istinto sensuale trova incomodi e molestie nel suo operare, e il dire ancora che la quantità dell' operazione di lui va in ragione del diletto che egli ne prova; perchè gli incomodi, le molestie, le difficoltà possono mescolarsi e si mescolano effettivamente col piacere, dipendendo poi dalla prevalenza di questo o del suo contrario, l' essere un' operazione piacevole o dolorosa; e perchè non si deve fare il confronto tra l' operazione e la non operazione, ma tra l' operazione e lo stato in cui l' animale si troverebbe non operando. E potrebbe essere benissimo che l' operazione avesse più del molesto e del doloroso che del piacevole, in sè stessa considerata; ma in pari tempo potrebbe essere tale che l' istinto sensuale spontaneamente l' assecondasse e continuasse, giacchè non assecondandola e continuandola, egli ne avrebbe uno stato più molesto e più doloroso ancora che dandole corso. Il che conviene con ciò che precedentemente dicemmo: « la quantità dell' azione dell' istinto sensuale non istare solo in ragione del grado di piacere che egli prova nell' agire, ma in ragione composta di questo grado di piacere, e della spinta ricevuta a principio dalla sensazione ». La sensione dà il primo incitamento all' istinto sensuale, che non può cansarlo, e il grado di questo incitamento è quello che determina il maximum dell' azione ceteris paribus ; ma ricevuta tale impulsione, l' azione dell' istinto sensuale, dopo il suo primo moto, è diminuita dagli ostacoli che incontra per via, cioè dalla difficoltà, fatica e molestia che prova. Quindi il primo movimento impresso dalla sensione, se è violento, può dar cagione a gravi e inevitabili disordini nella organizzazione. A ragion d' esempio, è impossibile impedire che una detonazione violenta in certi individui sensibili produca una oppressione alla regione epigastrica, e fin anche la lipotimia, la sincope ed altri effetti funesti; effetti tutti operati dalla spontaneità dell' istinto sensuale, a cui non è dato resistere al primo incitamento della sensazione così improvvisa e fragorosa. Dicendo non gli è dato resistere, intendo che la fatica e la molestia del resistere sarebbe tanta, che egli preferisce lasciare il corso a quei movimenti iniziati dalla sensazione, benchè funesti. Il digrignare dei denti, prodotto dalla sensazione che arreca una lima che scorre sopra una sega, o altri suoni laceranti gli orecchi, non è certo un sentimento grato; ma non si può evitare; la spontaneità dell' istinto sensuale non l' evita, perchè l' impulso della sensazione è sì forte che a fermare l' oscillazione, che ne riceve la corda del timpano sicchè ella non si propaghi al nervo della mascella inferiore, costerebbe un grado di fatica e di pena sì grande, che assai minore è quella di lasciar libera la spontaneità istintiva, che propaga quel movimento. La facilità dunque, colla quale si riproducono le infiammazioni, assai agevolmente si spiega ricorrendo alla legge dell' abitudine attiva, a cui ubbidisce il principio animale. Ma si dovrà dunque escludere dalle cagioni di questo fatto il cambiamento organico della fibra, nella quale l' infiammazione si ripete? No certo; e sia pure che l' organica disposizione della fibra, dopo l' infiammazione, si rimanga modificata. Ma ci sembra una proposizione troppo ardita, e fin' ora non dimostrata, quella che [...OMISSIS...] . L' attribuire il grado ed il modo dell' eccitabilità esclusivamente all' organizzazione della fibra, è dottrina gratuita e al tutto improbabile. Anzi i fatti psicologici smentiscono nell' uomo un sistema così angusto che non riconosce altra cagione delle modificazioni che presenta l' eccitabilità, se non la pura organizzazione della fibra; i fatti dico delle passioni razionali. E chi può negare: I - Che le passioni razionali sieno uno stimolo eccitatore dei nervi e delle fibre? La gioia, la collera, il terrore, l' amore possono sospendere ed accrescere l' azione del cuore, e Bichat curò un uomo che, per cagione d' una paura, provò incontanente forte costringimento alla regione dell' epigastro, poco appresso gli si sparse sul volto una tinta giallastra, la sera ebbe le membra inferiori tumefatte. Si vide, e non di rado, ad un eccesso di collera succedere infiammazioni cutanee e mucose, nevralgie, ed altri sintomi morbosi. Chi può negare ancora: II - Che le passioni soggiacciono alla legge dell' abitudine attiva, diventandone più frequenti e violenti gli accessi, quanto più l' uomo le ha liberamente secondate? Ciò posto, supponiamo un poco che l' organizzazione della fibra rimanesse senza alterazione, ma che l' abitudine propria della passione desse all' anima razionale una grande suscettività, poniamo quella suscettività che un uomo potente ed abitualmente superbo acquista ad ogni menomo affronto, ad ogni aspra parola, ad ogni contraddizione ai suoi cenni, quella che acquista un uomo lussurioso alla vista di ogni oggetto atto a pascere la sua passione, quella d' un educato ai timori, avvezzo a temer di tutto, ecc.; non è vero che la sua fibra, sebbene non cangiata nella sua organizzazione, sembrerà più eccitabile, perchè più eccitabile, più attivo, più pronto si è reso coll' abitudine il principio animale che la muove, che la nutre, che le dà quel guizzo che alla passione sua è consentaneo? Se si scorge dunque nella fibra vivente maggiore mobilità dopo essere soggiaciuta a certo stimolo, non si può da questo senza più inferire che la mutazione sia inerente alla sua organizzazione, non se ne può conchiudere, dico, che questa organizzazione, che si pretende incontanente modificata, sia l' unica cagione della accresciuta eccitabilità; anzi pare che una buona parte, per lo meno, di questa nuova condizione apparente della fibra si debba ripetere dalla nuova condizione in cui è venuto, per l' abitudine attiva, il principio animale, che informa la fibra, l' avviva, l' agita; il qual principio certamente si modifica talora con indipendenza dalla fibra stessa, per cagioni intellettuali e morali. E noi non dubitiamo di applicare un simile ragionamento a quello che avviene negli animali bruti, quantunque il loro corpo non riceva stimolo dalle notizie intellettive e dalle disposizioni morali, di cui sono privi. Certo è ch' essi hanno un principio animale soggiacente alla legge dell' abitudine attiva con indipendenza dall' organizzazione, e certo è che l' istinto animale soggiace alla legge dell' abitudine attiva, indipendentemente dall' organizzazione. Onde, se non da questo, dipendono certi spiacevoli istintivi movimenti, che non di rado si vedono fare in società a certe persone, dei quali vorrebbero, se potessero, guardarsi, e non possono? Onde, se non dalla forza dell' abitudine attiva, il vizio di quel signore a me ben noto, che ad ogni due o tre parole ripete colle labbra il movimento del pippare, e, se se n' astiene per alcun poco con violenza, dà poscia due o tre pippate in fretta, quasi per rifarsi del perduto? Niuna alterazione sembra dover essere nata nella condizione organica delle sue fibre; ma sì l' abito gl' impone oggimai la necessità di fare quei movimenti, pei quali sembra che la fibra sia divenuta più irritabile, più mobile. Ella è una convulsione delle labbra, si dice; ed appunto il rendersi le convulsioni frequenti in un individuo deve attribuirsi in gran parte alla forza dell' abitudine attiva . All' attività del principio animale si deve parimenti riputare la ragione, perchè le convulsioni si propaghino per modo d' imitazione; non è l' immutata organizzazione della fibra che in tal caso la renda più contrattile, ma sì il principio attivo dell' animale che opera per imitazione della fibra stessa, la quale perciò più contrattile si dimostra. E qui si rinviene un altro argomento atto a provare non doversi ripetere dalla sola variata organizzazione della fibra la diversa misura d' irritabilità e mobilità, che ella dimostra; ma piuttosto dalla diversa condizione dello stesso principio attivo animale, che, indipendentemente dalla fibra, si modifica, e che muove e modifica poi egli stesso la fibra, che rispetto a lui è passiva. Infatti, quanto non è efficace anche negli animali l' istinto d' imitare? Il quale al principio sensitivo anzichè alla materialità ed alle organiche condizioni della fibra, si deve indubitatamente attribuire; e se si vuole, usando un' altra maniera di dire, attribuire tali fenomeni alle condizioni dinamiche della fibra medesima, potrà passare, purchè queste condizioni dinamiche non si facciano dipendere dalla sola organizzazione, ma si riconosca la forza, «dynamis», risiedente nel principio animale. Tanto è lungi che l' operare dell' animale per abitudine, per imitazione, per immaginazione, e in diversi altri modi provenienti dalla sua sensitività e dalla forza unitiva, dipendano dalla sola organizzazione, che anzi questa è puramente passiva, e però ella stessa dipende, e viene modificata da cotali diverse maniere del suo operare. E nondimeno tutto ciò non toglie che anche l' organizzazione alterata della fibra abbia la sua buona parte nei fenomeni del corpo sano e ammalato, purchè non la si creda la causa attiva di essi, purchè con essa sola niuno si consigli di spiegarli. Infatti la vita animale risulta da diverse reciproche azioni dell' anima nel corpo, e del corpo nell' anima (1). Quindi è che ogni azione del principio vitale deve influire sullo stato del corpo, ed ogni alterazione del corpo cagionare un' alterazione corrispondente nello stato del principio vitale. Se dunque viene a cangiarsi l' organizzazione del corpo, anche il principio vitale e la sua attività rimane modificata. Ma viceversa, se l' attività del principio vitale soffre qualche cangiamento, se questa attività agisce con quella specie di atti, a cui rispondono dei movimenti intestini nei tessuti del corpo, l' intima organizzazione di questi deve riceverne alcuna mutazione. Ciò dimostra che la condizione organica della fibra è assai, ma non tutto; l' essere ella organata piuttosto in un modo che nell' altro, la deve rendere più o meno impressionabile, le deve dare una passività maggiore o minore; ma niente le varrebbe esser divenuta così mobile, se il principio movente, cagione del moto, non agisce in lei; la sua eccitabilità dunque è una relazione passiva verso il principio movente, e non più. Ora come può variare in essa questa mobilità passiva, così il principio attivo motore soggiace pure a cangiamento nella sua relazione attiva, crescono o diminuiscono in esso i gradi di attività, si facilitano o si difficultano i suoi atti, ecc.. Il fenomeno dunque della maggiore impressionabilità od eccitabilità della fibra dipende da due cagioni, e non da una sola, e dalla cresciuta mobilità passiva di lei inerente all' organizzazione, e dalla cresciuta mobilità attiva del principio animale. Si vedrà poi quanto sia grande la parte che tiene l' organizzazione nella spiegazione dei fenomeni fisiologici e patologici (benchè non si debba attribuire ad essa sola il grado di eccitabilità apparente nel corpo umano), considerando che il sentimento fondamentale di continuità è al tutto dipendente dall' organizzazione, e da questa dipende in gran parte il sentimento fondamentale di eccitamento . Di più l' istinto sensuale produce dei minimi movimenti, i quali non possono a meno di recare qualche mutazione nella tessitura e nello stato organico dei corpi; e questi minimi movimenti sono quelli che vengono operati per mezzo del sistema nervoso ganglionare. Laonde con buon senno scrive il Tommasini: [...OMISSIS...] . Perocchè a noi anzi è indubitato che da nessuna morbosa alterazione il corpo umano ritorni allo stato organico identico col precedente, giacchè gli infiniti movimenti intestini, le molecole perdute ed acquistate, è impossibile che si compensino così giustamente da restituire il corpo in tutto e per tutto misto ed organato, come egli era prima. E crediamo che si possa di più a sicurtà asserire non esservi un solo momento nella vita, in cui la mistura e la tessitura delle parti sia in tutto e per tutto eguale a quella del momento precedente. Ma l' errore sistematico del grand' uomo è quello di pretendere che l' eccitabilità delle parti e la suscettività di rispondere agli stimoli dipenda unicamente dalla condizione organica della fibra, e dalla quantità di quelli si possa argomentare il grado di mutazione in questa. L' importanza della materia ci consiglia a procurare di recarvi qualche maggior luce collo specificare le condizioni diverse, che può ricevere lo stato del corpo animale dall' alterna azione dei due istinti; il che faremo nei capi seguenti. Dalle cose dette risulta: Che dal primo istante in cui l' uomo è posto, fino all' istante in cui l' uomo muore, vi è un corso non interrotto di azioni alterne dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, il quale noi chiameremo di qui innanzi corso zoetico . Che le leggi che l' uno e l' altro istinto segue nella sua azione, sono sempre le medesime, nè possono mai cangiare essenzialmente. Che dalle azioni alterne dei due istinti dipende egualmente lo stato di sanità e lo stato di malattia, come pure l' incremento e il decremento dell' animale. Che lo stato di malattia e i processi morbosi non sono altro che una parte del corso delle azioni alterne, di cui parliamo, non interrompono questo corso, ma lo continuano, sicchè i fenomeni morbosi non differiscono essenzialmente dai fisiologici. Dalle quali cose consegue che, quantunque le leggi, secondo le quali operano incessantemente i due istinti, sieno immutabili e necessarie, tuttavia il corso alterno delle sensioni e dei movimenti riesce così diverso che varia di tipo in ogni animale di specie diversa; e nella stessa specie non si può in alcuna maniera credere che s' incontrino due individui, nei quali quel corso proceda uniforme, anzi neppure nello stesso individuo è uniforme mai a sè stesso nei varii istanti della vita. Le varietà del detto corso zoetico negli uomini devono dunque riuscire assai maggiori che non quelle delle fisonomie; conciossiachè, essendo egli disposto in una serie d' innumerevoli anelli di azioni reciproche, basta il più piccolo cangiamento in un anello di essa acciocchè tutto affatto il corso si muti, si apra una nuova via, per la quale egli discorra divergendo dalla prima. Noi per brevità di discorso chiameremo anelli del corso zoetico una coppia di azioni, l' una dell' istinto vitale, l' altra del sensuale. Ma se le leggi dei due istinti sono immutabili, ond' è che il corso zoetico piglia tante diverse direzioni, sicchè in ciascun uomo, in ciascun animale cangia andamento? L' abbiamo veduto; se vogliamo retrocedere fino alle prime cause, che incamminano il corso zoetico piuttosto in un modo che in un altro, o che, incamminato, lo fanno divergere dalla prima direzione, dovremmo riferirci a cagioni estranee all' animale, la principale delle quali è la materia. Questa ora somministra ubbidiente il suo termine all' istinto vitale; ora combatte con esso, e lo costringe a dolorosa lotta; ora lo blandisce con opportuno stimolo, eccitandolo a piacevole sentimento; ora gli sfugge di mano, vincendo la sua rattenenza, e sottraendosi alla sua azione. Tutte queste diverse azioni ed attitudini, che prende la materia verso l' istinto vitale, lo costringono a produrre sentimenti diversi, i quali determinano un corso zoetico diverso. Ma noi dicevamo che la materia bruta è la cagione principale, che dà una piuttosto che un' altra direzione al corso zoetico, non che ella è l' unica. Usavamo questo riserbo di parlare, perchè un' altra causa estranea al concetto dell' animale e influente sul corso zoetico si è l' intelligenza, che nell' uomo è intimamente associata all' animalità. Se dunque consideriamo l' animalità nell' uomo, il corso zoetico riceve gli impulsi, che lo dirigono per una via anzichè per un' altra, o che lo fanno divergere dalla prima, da due cagioni: da un agente inferiore, ed è la materia, e da un agente superiore all' animalità, ed è l' intelligenza. La materia dunque e l' intelligenza sono le due cagioni, che nell' animalità umana determinano la direzione del corso zoetico, di maniera che quando questo corso è da quelle determinato, se si supponga ch' esse non cagionino più alcun' altra irritazione, il detto corso segue fatalmente per la sua via necessaria, perchè prescritta dalle leggi dei due istinti, senza declinare nè a destra, nè a sinistra. Ma se l' una delle due cause esteriori mentovate influisce di nuovo sull' animalità, quel corso è costretto a mutare direzione, percorrendo la nuova via con eguale certezza e necessità. Conviene nondimeno osservare che, come la materia determina o fa divergere il corso zoetico, operando nell' istinto vitale, in quanto questo è passivo verso la materia; così l' intelligenza determina o fa divergere il corso zoetico, operando sull' istinto vitale , in quanto questo è attivo verso la materia medesima. E veramente se una infausta notizia cagiona un sentimento di tristezza e di abbattimento, onde nasce questo fenomeno se non da ciò che l' anima intellettiva, addolorata per la fatale notizia, sottrae le forze all' istinto vitale e in parte anche all' istinto sensuale, di che il rallentamento del sangue e gli altri sintomi di debolezza e concidenza? Il grado dunque di attività dell' istinto vitale viene diminuito od accresciuto dall' azione diretta dell' anima intelligente, e così mutato il corso zoetico. Che se noi vogliamo considerare i primi passi dell' istinto sensuale , e cercare come questi vengano determinati, risulta da quanto abbiamo detto che ciò che li determina sono i primi sentimenti , effetti dell' istinto vitale. Quante dunque sono le specie, le forme, i gradi dei primi sentimenti dall' istinto vitale prodotti, altrettante sono le specie, le forme, i gradi dei primi movimenti cagionati nel corpo animale dall' istinto sensuale . Dai primi sentimenti adunque dipende tutto il corso zoetico, e i primi sentimenti dipendono dalle due cause accennate, la materia e l' intelligenza. Enumeriamo i sentimenti primitivi (1) secondo i loro tipi, o specie7piene (2), e vediamo da quali speciali cagioni ciascuno dipenda, e come egli inizii un differente corso zoetico. Il sentimento fondamentale ha per termini la materia continua e il moto; parliamo del sentimento fondamentale, in quanto ha per termine la materia continua. Al sentimento fondamentale di continuità deve essere data una materia avente certe disposizioni, precedenti all' azione dell' istinto vitale. Ma poichè una proposizione così generale non si può provare, non avendosi una materia e un istinto vitale disgiunti, si deve supporre prima di tutto un germe animato, il quale abbia una qualche materia acconcia all' azione animatrice dell' istinto vitale, con organizzazione opportuna al suo ulteriore sviluppo, la quale dicesi tipo primitivo dell' animale, mediante incessanti movimenti cagionati dall' istinto sensuale. Ciò premesso: L' animale non può conservare la vita, se non gli è data a suo alimento una materia avente certe disposizioni, precedenti all' azione dell' istinto animale. Questa proposizione è evidente a tutti quelli che considerano che non tutte le sostanze materiali possono servire di alimento all' animale. E` assolutamente necessario che siano continuamente sostituite molecole di azoto e molecole di ossigeno a quelle che l' animale va perdendo. Magendie, avendo alimentato alcuni cani con sostanze prive di azoto, come sarebbero zucchero, olio, acqua, ecc., in poco tempo morirono atrofici. Se l' ossigeno non nutrisse il sangue, l' animale morrebbe asfissiato. Nè basta ordinariamente che l' ossigeno sia ricevuto per mezzo del polmone mediante la respirazione; egli nutrisce e mantiene l' animale, insinuandosi in esso anche attraverso la cute. Lo stesso Magendie, avendo rivestito tutto il corpo di alcuni conigli e di altri animali, eccetto la faccia, d' un intonaco viscoso formato di una dissoluzione concentrata di gomma, di gelatina o di terebinto, in modo che la pelle non poteva più assorbire i gaz atmosferici, quantunque respirassero liberamente, quegli animali in poco d' ora furono morti asfissiati (1). Magendie d' altra parte ebbe pure dimostrato coll' esperienza che l' epidermide, e in generale tutte le membrane sono permeabili ai gaz (2). Oltre la qualità della materia, che dipende probabilmente dalla sua forma e composizione, è necessario che essa sia posta in continuità del corpo già animato, acciocchè l' istinto vitale possa invaderla. Benchè l' esperienza non dimostri, nè possa dimostrare la necessità di questa continuità, ma solo di una vicinanza, tuttavia a noi pare che la dimostri il ragionamento. Il terzo luogo è necessario, ancora, che quella materia opportuna dall' istinto vitale, mediante il corpo già vivente, venga elaborata, cioè minuzzata, ricomposta, purgata, classificata, distribuita. In quarto luogo che ella riceva dall' anima quell' ultima qualità, che la rende attiva in sull' anima stessa, di cui abbiamo altrove parlato (1). Date queste condizioni, il sentimento fondamentale di continuità si concepisce posto in essere, e conservante sè stesso; perocchè colle tre prime è formata l' organizzazione, e colla quarta l' organizzazione viene dotata di quell' ultimo atto che si dice vita extrasoggettiva, per la quale il corpo alla sua volta si rende attivo verso dell' anima, com' è necessario a spiegare la passività, che si ravvisa nel sentimento. E tutte queste condizioni si trovano nel germe animato, nel quale l' animale incomincia, sol che si annunzino così, riducendole a tre: 1 materia opportuna; 2 continuità; 3 animalizzazione (2). Quest' ultima condizione, quest' ultimo atto della vita extrasoggettiva del corpo, dipende, data l' organizzazione, dall' attività dell' anima sensitiva. E come questa attività può essere modificata dall' influenza del principio intellettivo, così non vi è dubbio che secondo la disposizione del principio intellettivo è modificata in ogni istante la produzione della vita e del sentimento conseguente, a segno che può essere impedito l' effetto vitale e la produzione del sentimento fondamentale; nel qual caso si ha in breve qualche disorganizzazione, e la morte. Il Nicholls narra di una dama inglese, che ai suoi tempi colta in adulterio, ne ebbe tanto dolore e vergogna da prenderle tosto la febbre, e venire in termine di morte. Impetrata dal marito sdegnato promessa di perdono, e tornata nella speranza di potergli tuttavia piacere, si riebbe da quell' estremo pericolo. Ma vedendola guarita, i parenti persuasero il marito che la moglie infedele aveva simulata quella infermità per rapirgli il perdono; ond' egli, partitosi per la campagna, mandò dire alla moglie aver egli fatto abbastanza conservandole la vita, del resto volere il divorzio. La donna infelice, stretta d' ambascia, altro non seppe rispondere se non ch' ella già si moriva, e rallentatolesi gradatamente il polso, sopravvenutale l' oppressione del petto, dopo poche ore cessò di vivere (3). Qual fatto più efficace di questo, e ve ne sono infiniti, a provare che la condizione in cui si trova il principio intellettivo, influisce sull' attività del principio animale, l' accresce, la diminuisce, la lega e la scioglie? Il sentimento fondamentale di continuità differisce dunque negli uomini primieramente per cagione dello stato in cui si trova il principio intellettivo. In secondo luogo egli differisce secondo il grado di continuità, che hanno fra loro le molecole viventi. Sembra probabile che la vita non esiga per sua condizione una continuità così determinata che non possa ammettere modificazione di sorte. Anzi mi pare probabile che vi sieno due limiti della continuità delle molecole, entro i quali si conservi la vita in istato perfetto, dico la mera vita di continuità, che parmi esiga continuità e nulla più. La continuità maggiore o minore dipende dalla forma e dalla grandezza delle molecole, le quali circostanze fanno sì che rimangano fra esse interstizi più o meno numerosi, e maggiori o minori. Ora, quanto il misto è più compatto e le particelle si combaciano in più punti, pare che la vita di continuità dovesse riuscire più fitta e robusta; ma la troppa aderenza delle molecole impedisce il loro movimento, e deve quindi scemare la vita di eccitazione. Ora il sentimento eccitato è troppo più che il sentimento di continuità. L' istinto animale adunque tende da una parte ad accumulare il sentimento, restringendo le molecole, e atteggiandole in modo che si tocchino colle massime superfici; dall' altra tende ad aiutare il loro movimento reciproco ed organico, e quindi a rotondarle e tenere le une dalle altre distanti nel maggior numero di punti possibili, senza che perdano di loro continuità. E` un vero problema di massimi e di minimi, che il principio animale risolve col fatto. Varia, dunque, il sentimento fondamentale di continuità anche secondo la maggiore o minore continuità delle molecole, di cui l' animale risulta. Varia secondo la quantità assoluta della materia suo termine; secondo la quantità di questa è più o meno esteso. Che se un corpo vivente perde un certo numero di molecole, questa perdita suol cagionare due effetti: 1 diminuire l' estensione del sentimento fondamentale di continuità; 2 modificare più o meno il sentimento fondamentale di eccitazione. Il primo effetto è perdita di qualche parte del sentimento di continuità. Si osservi la differenza fra questa perdita e la modificazione che soffre il sentimento di eccitazione. Questo suppone molecole, che mutino di posto senza abbandonare la loro continuità. Quando questo spostamento si diffonde in un dato organo, comunicante col centro fisico dell' animale, con certe leggi, nascono sensioni speciali, e la facoltà di esse si può chiamare sensitività speciale o di eccitamento speciale . Tale è la sensitività dei due ordini di nervi. Le altre parti del corpo, incapaci di quei grandi e speciali movimenti eccitatori, non hanno che la sensitività fondamentale di continuità, la quale si modifica senza eccitare la nostra attenzione, coll' addensarsi, col diradarsi, coll' ammettere nuove molecole, col dimetterle, ecc.. In questo senso tutte le parti del corpo si possono dire sensitive; ma non alla maniera dei nervi, la cui sensitività è eccitabile e speciale (1). Finalmente il sentimento fondamentale di continuità varia secondo che la materia è più o meno predisposta a ricevere l' azione dell' istinto vitale, e con essa la vita. Descrivere ed enumerare queste predisposizioni è cosa di gran lunga superiore al mio limitato sapere. Nè anche saprei dire, se non in parte, le vere cause, che danno alla materia quelle predisposizioni necessarie alla vita. Solo dalle cose dette apparisce che la materia, che si aggiunge ad un corpo vivo, per essere avvivata della stessa vita, deve avere certe qualità o forme, onde le si attribuiscono certi nomi, come di azoto, di ossigeno, ecc.. Apparisce, ancora, che deve essere elaborata dal corpo vivente al quale si accosta; elaborazione che riesce più o meno perfetta, secondo che è più o meno perfetta la macchina vivente che la elabora, e il principio che muove tutta quella macchina. Ma qualunque sieno coteste cause, che danno alla materia disposizioni preparatorie alla vita, certo è che anche in queste predisposizioni vi sono dei gradi, vi sono dei limiti di maggiore o minore predisposizione, entro i quali ha luogo la vita. Il sapere poi se le predisposizioni della materia possano alquanto variare, senza che venga meno la perfezione della vita, sicchè nella stessa perfezione della vita vi siano dei gradi, o delle forme diverse ed equivalenti, questo è assai più difficile a verificare. E per perfezione della vita intendo quel compiuto trionfo dell' istinto vitale sulla materia, pel quale non rimane più alcuna lotta fra i due elementi, ma il primo dominatore con atto assoluto nell' altro riposa. Certo non è impossibile a concepire che l' istinto vitale invada pienamente la materia, o che la invada con maggiore o minore forza. Il fatto dell' influenza del principio intellettivo sul crescere e sullo scemare le forze del principio animale, dimostra che la potenza di quest' ultimo varia di grado. Niente ancora vieta che secondo la disposizione della materia l' istinto vitale vi produca diversi effetti, ad alcuna parte non dia che la vita di continuità, ad un' altra anche quella di eccitamento, ecc.. Ma il determinare questi vari gradi, ella è una ricerca ancora intentata. Ora, ogni varietà del sentimento fondamentale di continuità è un elemento di variazione per l' istinto sensuale, che ne riceve un' attitudine diversa. Ma qual è l' effetto di questa attitudine? L' istinto sensuale primieramente tende a mantenere il sentimento. Tuttavia questo effetto, in quanto si oppone alle forze che lo vorrebbero distruggere o diminuire, si può attribuire anche all' istinto vitale; chè questo è il punto nel quale i due istinti convengono; perocchè se l' istinto vitale è quello che produce il sentimento, egli deve essere altresì quello che lo conserva; chè il conservarlo è un continuare a produrlo; coll' atto stesso con cui si produce, ei si conserva. D' altra parte, se l' istinto sensuale è quello che opera in conseguenza di un sentimento, al fine di continuarlo e di accrescerlo, questa attività stessa, che vuole continuare ed accrescere il sentimento, deve tendere prima di tutto a conservarlo. Il vero si è che i due istinti sono un' attività sola, e noi li riuniamo entrambi sotto la denominazione d' istinto animale . Ma perchè gli effetti si partono in due classi, diamo alla stessa attività due denominazioni, secondo che la consideriamo siccome causa di una classe di effetti o di un' altra. Queste classi si distinguono così, che gli effetti appartenenti alla seconda susseguono a quelli appartenenti alla prima; di modo che l' attività medesima non produce questi ultimi nel suo primo momento, ma nel secondo; non quando incomincia ad operare, ma quando continua l' operazione; è l' attività stessa, ma pervenuta ad un secondo grado di sviluppo. E poichè i secondi effetti non possono cominciare se non là dove finiscono i primi, quindi vi è un punto comune alle due maniere di operazione, nel quale finendo la prima, incomincia la seconda. Così avviene che la conservazione di un sentimento ha i caratteri dell' una e dell' altra classe di effetti, perchè la durata d' un sentimento involge da una parte il concetto di produzione, e dall' altra quello di continuazione . E` dunque un effetto che si riferisce ad entrambi gli istinti, che radicalmente sono un' unica attività. Se si considera dunque la conservazione di un sentimento come effetto dell' istinto sensuale, quella varierà: 1 di forza, secondo che l' efficacia dell' istinto vitale è maggiore o minore; 2 di estensione, secondo la quantità della materia; 3 di consistenza, secondo la continuità o spessezza della stessa materia; 4 d' indole e di qualità, secondo che la materia è organata in un modo o nell' altro, e secondo che le sue qualità preparatorie alla vita hanno maggiore o minore perfezione. Finalmente, se si suppone che alcune particelle, non al tutto prive delle predisposizioni necessarie alla vita, sieno in lotta coll' istinto vitale, e producano lo stato del dolore o della molestia (il quale pure varia secondo la natura e il grado dell' indisposizione di dette particelle, la loro qualità, il loro collocamento, ecc.); le varietà delle forze dell' istinto vitale imprimono uno stampo diverso all' attività dell' istinto sensuale. In generale conviene avvertire che il sentimento fondamentale di continuità non è idoneo a muovere all' atto suo l' istinto sensuale, ma solamente ad atteggiarlo in un modo piuttosto che in un altro, a costituirlo e determinarlo come una potenza. Perocchè a muovere l' istinto sensuale all' atto si richiedono sempre dei sentimenti eccitati, passeggeri di lor natura. E` dunque a parlarsi del sentimento di eccitazione, affine di spiegare come l' istinto sensuale si levi al suo atto. Cominciamo dal supporre un gruppo di particelle viventi al contatto fra loro. Tostochè uno stimolo qualunque sposti quelle particelle dalla loro reciproca posizione, senza che questo spostamento tolga la loro continuità, noi diciamo che si modifica ed eccita il sentimento in quel gruppo racchiuso, e nascono sensioni. Queste sensioni ammettono infinite varietà: celerità, frequenza di moto, numero di particelle, pressione reciproca, forza del principio vitale più o meno accentrato (1), ecc., sono altrettanti elementi variabili, che devono cangiare l' indole, il grado, il numero delle sensioni, ed appartiene ai progressi della scienza il determinare, fin dove è possibile, tutte queste differenze sensibili, di cui è suscettivo un vivente. Ma per sentimento fondamentale d' eccitazione non s' intende già un complesso di sensioni quale si vogliano, ma solo quel complesso di eccitamenti e di sensioni, che per l' unità della sua armonia è unificato in un sentimento individuo, che conserva lo stesso tipo, il quale tipo è il fondamento della specie dell' animale stesso. Onde si vede che anche nel sentimento fondamentale d' eccitazione si suppongono stimoli naturali, che si riproducono con legge costante, ma che tengono delle varietà nei vari individui della stessa specie. I quali stimoli sono stranieri all' animale, che è sentimento, ed appartengono al sensifero. Il loro effetto è il movimento extrasoggettivo, a cui s' accompagna la sensione, ossia il complesso armonico di sensioni continuamente riprodotte, che costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione. E queste sensioni sono quelle che danno prima di tutte le altre la leva all' istinto sensuale, il quale viene al suo primo atto, che è quello di assecondare le dette sensioni, e così aiutare i movimenti che le producono a continuarsi ed a ripetersi (1). Cerchiamo dunque prima di tutto il concetto, che è uopo formarsi degli stimoli . Lo stimolo, ossia la potenza stimolante, deriva dalle forze materiali, meccaniche, fisiche, chimiche, ecc., da tutte le forze straniere, in una parola, alla forza vitale dell' animale individuo. Esse agiscono in opposizione a questa forza vitale, e l' opposizione si manifesta più apparente nel solido vivente, quando gli vengono applicate forze materiali o qualsiasi altra forza straniera, in modo da produrre nell' interno di lui qualche movimento. Ogni movimento, prodotto nell' interno del solido vivente, si può considerare come effetto di uno stimolo. Nell' uomo questi si dividono in due grandi classi: le forze intellettuali, in quanto influiscono sulla forza vitale, e le forze materiali. Restringendoci a considerare le varietà degli stimoli materiali, se ne possono in prima distinguere due grandi classi. I Classe. - Le sostanze materiali componenti lo stesso corpo vivente. II Classe. - Le sostanze materiali non componenti il corpo vivente. Le sostanze materiali componenti il corpo vivente si dividono in fluidi e solidi: i primi hanno l' ufficio principalmente di stimoli, i secondi di stimolati. Giovanni Rasori non considera tutti i fluidi del corpo vivente come stimoli, ma accordando la facoltà stimolatrice soprattutto al sangue, riguarda la bile, i succhi gastrici e intestinali, e i principŒ pinguedinosi, che penetrano in tutte le viscere e sino alle minime fibre, come sostanze controstimolanti . Ma nel senso in cui noi prendiamo la parola stimolo, non si può ammettere l' esistenza di sostanze materiali veramente controstimolanti in senso positivo, ma soltanto in senso negativo, atte cioè ad impedire l' applicazione o l' azione degli stimoli, ovvero a distruggere quel moto che produce uno stimolo, mediante un moto contrario; non atte ad abbassare direttamente la forza vitale, a meno che non sieno disorganizzatrici. Di maniera che a noi par meglio di non considerare come controstimolo se non: 1 tutto ciò che disorganizza la macchina; 2 le sensioni e affezioni, che, per mezzo dell' istinto sensuale, diminuiscono direttamente la forza dell' istinto vitale. Consideriamo dunque quelle sostanze materiali, che, applicate al corpo vivente, producono un allentamento e una diminuzione dei movimenti vitali, come controstimolanti indiretti. Ora, se « lo stimolo è tutto ciò che produce un movimento interno nel solido vivente, il concetto di stimolo si riduce sempre ad una causa di moto nell' interno del solido vivente », e perciò non si dà azione stimolante senza moto. Supponendo poi il moto prodotto da cause materiali, queste potranno agire in modo chimico, fisico e meccanico. Uno stesso agente può operare nella macchina umana in tutti e tre questi modi. Ma è da osservarsi che l' agente opera in modo chimico principalmente sui fluidi del corpo vivente; sui solidi poi l' agente esterno opera assai più in modo fisico e meccanico. L' aria opera in modo chimico sul sangue; in modo fisico col suo peso su tutto il corpo; in modo meccanico col suo impulso e movimento. La spinta, che il sangue rosso dà al cervello e a tutti i nervi, è un modo meccanico di operare. Ma egli agisce oltrecciò in un modo che non può dirsi meramente chimico, ma deve dirsi chimico7vitale, avvivando e nutrendo tutti i tessuti; perocchè sono le sue forze chimiche, associate alle forze vitali, che producono questi ultimi effetti (1). Quantunque i solidi non sieno per sè stessi stimoli, ma stimolati, tuttavia essi producono degli stimoli colle secrezioni dei fluidi, e col movimento e la direzione che loro dànno. Con essi determinano il sangue ad accorrere alla parte ferita, crescendo ivi in questo modo l' azione stimolante. Di più, essendo i solidi quelli che lavorano e segregano i fluidi, l' azione normale o anormale dei solidi altera in bene o in male la natura dei fluidi. Se per lo spasmo dei solidi, a ragion d' esempio, il sangue viene accelerato più del dovere e riscaldato, egli s' infiamma, la fibrina tende a dividersi dal siero e dal grumo, onde, estraendosi dalle vene, manifestasi la cotenna. La disposizione acquistata in tal caso dalla fibrina a separarsi dagli altri due elementi tende alla disorganizzazione; qui vi è una manifesta lotta col principio vitale, che ha già perduto alquanto del suo dominio sulle forze materiali. L' eccitamento è una condizione dell' animale, purchè egli sia tale: 1 che non tenda a togliere la continuità delle parti; 2 che tenda a perpetuarsi; 3 non tenda a togliere all' animale l' unità e l' individualità. Quindi all' animale deve piacere d' essere stimolato, anzi gli è necessario; è necessario che sia applicato all' animale continuamente un certo sistema di stimoli. In secondo luogo vedesi che non ogni eccitamento, ma solo un dato eccitamento è confacente; non tutti gli stimoli, ma solo alcuni sono opportuni all' animale. Gli stimoli inopportuni di conseguente sono: Quelli che tendono a distruggere la continuità delle parti. Quelli che impediscono la continuazione dell' eccitamento, o alterando l' organizzazione, o turbando l' applicazione e l' azione degli stimoli opportuni, o provocando dei movimenti opposti a quelli che provocano gli stimoli opportuni. Quelli che tendono a distruggere l' unità e l' individualità dell' eccitamento. Di che si conferma che non è la quantità dello stimolo che lo rende pernicioso, ma l' inopportunità; quantunque sia vero che anche la quantità, se eccede certi confini, renda lo stimolo inopportuno. Come la materia componente il corpo vivo si può considerare sotto l' aspetto di agente, che stimola lo stesso corpo vivo, o ridotta a stato di fluido, o smossa dal suo luogo, così si può considerare sotto l' aspetto di agente stimolante qualunque materia estranea al corpo umano, che, applicata al medesimo in qualsivoglia maniera, produca nel solido un intestino movimento; ed anche la materia estranea al corpo umano in virtù delle sue forze chimiche, o pel suo movimento meccanico, o per la condizione speciale della parte del corpo a cui viene applicata, o per altra circostanza, può rendersi stimolo opportuno, ovvero stimolo inopportuno. L' inopportunità dello stimolo non consiste dunque nell' essere la materia stimolante estranea al corpo, ma nel produrre sul corpo un' azione disarmonica a quella delle forze vitali, cioè contraria ad alcuna delle tre condizioni dell' animale, la continuità delle parti, l' eccitamento perpetuo e l' individualità. La materia esterna è solida o fluida. La materia solida, se non passa a stato di fluido, applicata al corpo umano meccanicamente, non fa per lo più che produrre alcuni movimenti nelle parti del medesimo. Ma la materia fluida, o che si rende tale applicata al contatto del corpo umano, può essere rapita nel vortice della vita; il principio vitale tenta alcuna volta d' invaderla continuando in essa il sentimento; così può diventare nutrimento dello stesso corpo. Ma fra l' essere una tale materia del tutto estranea al corpo e l' essergli assimilata, vi è un tempo e uno stato medio, nel quale si assolve l' operazione della nutrizione, presa questa parola in senso latissimo. Anche la nutrizione dunque si fa per via di stimoli; il corpo che deve passare in nutrimento, applicato al corpo vivente, lo stimola; in virtù di questo stimolo il corpo vivo s' appropria la materia nutritiva; la segrega, la distribuisce, e, se ella è solida, la trita e discioglie in liquido per potersene così nutrire; e tutti questi movimenti sono eccitamenti a lui gradevoli. Ma se la materia non è disposta come dev' essere, nasce la lotta fra le forze chimiche e meccaniche di questa materia e le forze vitali dell' animale, che non possono invaderla e dominarla: onde il dolore, la molestia, i funesti effetti, in una parola, che prova la macchina vivente. Di più, se la materia esercita una forza chimica sul corpo vivo contraria e prevalente alla sua forza vitale, di maniera che gli tolga l' organizzazione e l' atteggiamento proprio della vita, in tal caso ella distrugge l' animale, sottraendogli la materia. Tale è l' effetto dei veleni e dei potenti dissolventi, come il fuoco, ecc.. Allorquando uno stimolo applicato ad un gruppo di molecole viventi, spostandole senza spingerle fuori della sfera di continuità, suscita le sensioni, l' istinto sensuale comincia ad agire con un effetto suo proprio, e non più comune all' istinto vitale. Allora l' azione dell' istinto sensuale, intesa ad aiutare la produzione della sensione piacevole, asseconda di conseguente i moti incominciati dalla forza dello stimolo esterno, che aumentano il grado del piacere; li asseconda e li conduce assai più in là che la forza dello stimolo non farebbe, e li continua spontaneamente anche cessato il detto stimolo. Anzi, se ella non trovasse opposizione, se forze contrarie non l' affaticassero e non venissero scemando continuamente la quantità del moto, niuna ragione vi sarebbe per credere che il movimento incominciato cessasse mai più; sicchè si può dire a buona ragione che l' istinto sensuale, considerato in sè stesso, a differenza di tutte le forze brute, è causa di moto perpetuo. Se dunque il moto dell' istinto sensuale va a cessare, ne sono causa gli ostacoli che egli trova per via, venienti principalmente dall' inerzia e dagli attriti della materia, come pure dall' opposta tendenza dell' istinto a conservare il sentimento di continuità e di coesione. E quindi, acciocchè il movimento primitivo e naturale si continui, è necessario che gli stimoli si riproducano; e la natura l' ottiene parte con tener pronti nuovi stimoli esterni, parte coll' organizzazione, oltre ogni dire ingegnosa, del corpo vivente, la quale fa sì che le stesse parti vive, che sono mosse dall' istinto sensuale affine di prolungare ed accrescere la sensione e l' eccitamento, divengano esse stesse stimolanti col loro moto, ovvero generatrici, motrici e direttrici di fluidi stimolanti, e così producenti nuove sensioni, le quali rinnovano l' attività dell' istinto sensuale affievolita dalle difficoltà. Le parti vive del corpo diventano stimoli di altre parti vive, perchè la vita non toglie loro la forza sensifera. Ma acciocchè si ottenga la continuazione dei moti prodotti dall' istinto sensuale, e per essi la riproduzione degli stimoli e delle sensioni conseguenti, forz' è che si mantenga una somma regolarità e proporzione fra le sensioni del primo anello del corso zoetico e quelle del secondo e dei successivi, e così pure fra i movimenti del primo anello e gli altri che vengono appresso, in modo che non intervenga alcun salto, e tutto succeda per via di circolo con legge di regolatissima successione. Ed acciocchè questo si compia, è necessario che l' organizzazione di quel gruppo di molecole, che dicemmo corpo vivente, sia così artificiosa che gli stimoli riprodotti dall' istinto sensuale e somministrati altresì dalla natura esteriore, riescano sempre dello stesso genere e d' una attività costante, od ordinata a progressione. Allora si manifesta nel gruppo delle particelle viventi quel fenomeno, che corso zoetico abbiamo appellato. Il quale fenomeno caratteristico dell' animale, nel sistema che vuole viventi tutti gli elementi dei corpi, diventa la differenza specifica fra i corpi che si sogliono chiamare bruti e gli animali; colla quale differenza si può perfezionare la definizione dell' animale. Poichè, avendolo noi definito « « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo »(1) »; ora, aggiungendo quella differenza che lo separa dai corpi che bruti si dicono, si riduce quella definizione così: « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo, nel quale la sensitività eccitata riproduce con legge fissa un' alterna vicenda di stimoli, di sensioni e di movimenti ». E in quanto quest' alterna vicenda è abituale e normale, cioè quale è richiesta dal buono stato dell' animalità, in tanto le sensioni innumerevoli, che ella contiene e riproduce, appartenenti ad un solo principio sensitivo, costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione, di cui gli uomini non si sogliono formare che una coscienza assai oscura (2). Ora, le prime sensioni sono effetti dell' istinto vitale e degli stimoli esteriori ed interiori, applicati dalla natura al sentimento fondamentale di continuità; questi stimoli, e i movimenti che producono, non appartengono all' istinto sensuale, il quale comincia ad operare in quelle prime sensioni che egli cerca di aiutare, e ne consegue la continuazione dei moti eccitatori. Si deve considerare dunque come primo anello del corso zoetico quello che si compone: 1 delle prime sensioni; 2 dei movimenti continuati o prodotti dall' istinto sensuale in conseguenza di esse (1). I movimenti , cagioni delle dette sensioni, variano per molte cagioni, le quali si riducono forse alle tre classi seguenti: Tutte le differenze, che abbiamo notate nel sentimento fondamentale di continuità, influiscono sui movimenti che producono il sentimento fondamentale d' eccitazione, e producono in esso altrettante varietà corrispondenti. Molte sono le specie d' organizzazione, atte a dar luogo ad un sentimento fondamentale d' eccitazione perpetuo, in modo che il principio animale perseveri entro il circolo sopradescritto di sensioni, movimenti e stimoli, senza lotta o dolore; e queste specie di organizzazione, e questi corsi zoetici organicamente diversi, costituiscono, noi dicevamo, i tipi dei diversi animali, cominciando dai zoofiti infino all' uomo. Nell' animale dello stesso tipo, anche supponendolo in istato di piena salute, il sistema fondamentale di movimenti eccitatori è variabile, secondo la qualità dei tessuti più o meno fitti, più o meno sviluppati, più o meno individuati, ecc., soprattutto nell' uomo, secondo la forza maggiore o minore dell' istinto vitale; e queste varietà accidentali dello stesso tipo costituiscono le varie indoli , che in una stessa specie di animali si manifestano, i vari temperamenti , i vari gradi di robustezza , le varie suscettibilità , ecc.. Ogni sistema fondamentale di tali movimenti è base d' un diverso corso zoetico, il quale differisce nelle diverse specie d' animali, e negli individui della stessa specie. Il corso zoetico, dunque, viene suscitato da stimoli, applicati dal di fuori ad un corpo vivente della vita di continuità. Dico stimoli applicati dal di fuori , perchè conviene distinguere gli stimoli estranei, che il vivente riceve e non produce a sè stesso, da quelli che egli stesso si produce internamente colla propria azione. I primi sono l' aria, l' acqua, il caldo, il freddo, i cibi, i corpi tutti stranieri, che applicati alla macchina animata vi cagionano qualche effetto, o salutare o pernicioso, come pure il principio intellettivo. A concepirne l' immensa varietà conviene fare diverse supposizioni; eccone alcune: Prima supposizione. - Che gli stimoli stranieri applicati da principio al corpo non si rinnovassero. In tal caso il corso zoetico finirebbe in breve tempo colla morte. Seconda supposizione. - Che gli stimoli stranieri si rinnovassero costantemente i medesimi, sì per la qualità che per la quantità, cioè si riapplicasse al corpo la stessa aria, lo stesso calore, la stessa luce, lo stesso nutrimento, ecc.. In questo caso il corso zoetico recherebbe l' animale per una successione di stati migliori o peggiori, la cui varietà in meglio od in peggio dipenderebbe dall' azione delle sue forze interne, determinate da quell' unica maniera, e quantità e qualità di stimoli, che gli sarebbero applicati. Per altro pare evidente che il corso zoetico a queste condizioni non potrebbe tirare avanti gran fatto, giacchè la costituzione dell' animale esige stimoli diversi, massime in quantità; l' adulto, a ragion d' esempio, ha bisogno di più cibo del bambino, ecc.. Terza supposizione. - Che l' applicazione dei medesimi stimoli si facesse o continua, o periodica; che variasse, in una parola, il tempo in cui si applicano tali stimoli, variasse il tempo in tutte le possibili maniere. E` chiaro che ogni varietà di tempo nell' applicazione dei medesimi stimoli cangia il corso zoetico, determina un nuovo corso. Quarta supposizione. - Che gli stimoli esterni che si rinnovano, cangiassero di quantità solamente. Quinta supposizione. - Che cangiassero nella quantità e nel tempo in cui si rinnovano, o continuano, o si tolgono. Sesta supposizione. - Che cangiassero di qualità solamente. Settima supposizione. - Che cangiassero di qualità e di tempo. Ottava supposizione. - Che cangiassero di quantità e di qualità. Nona supposizione. - Che cangiassero di quantità, di qualità e di tempo. Tutte queste supposizioni racchiudono innumerevoli determinazioni diverse del corso zoetico. Or bene, tutte queste mutazioni di stimoli esterni è appunto ciò che ha luogo nel fatto; di che conseguita che non si danno neppure due istanti della vita, nei quali gli stimoli esterni, applicati alla macchina vivente, non cangino in mille guise, nella qualità, nel tempo e nel modo, onde vengono a lei applicati, ecc.. Laonde il corso zoetico devia dalla sua direzione ogni istante della vita, e per più cause associate, una sola delle quali basta a farnelo deviare; ma tutte queste nuove direzioni che continuamente egli prende, non sono necessariamente morbose. Il che conferma che vi sono innumerevoli direzioni e cangiamenti del corso zoetico, che si contengono entro i limiti d' uno stato di buona salute; e che la salute dell' animale non è determinata da una sola linea, ma, per così dire, ella ha un territorio dove spaziare, uscendo dal quale l' animale entra nello stato morboso, o anche solamente in quello di decadimento, quando piaccia distinguere il morbo dal deperimento insensibile (1). Come si possono distinguere gli stimoli negli esterni e negli interni, prodotti dall' azione del vivente, così si possono distinguere i movimenti eccitativi della sensione prodotti dagli stimoli esterni primitivi, e quelli prodotti dagli stimoli secondi ed interni. Chiamo stimoli primitivi quelli che sono dati all' animale, e non prodotti da lui stesso; e stimoli secondi quelli che l' animale produce a sè stesso, in conseguenza delle alterne azioni di esso corso. Sì i movimenti primitivi come i movimenti secondi possono suddividersi in tre classi, considerandoli in relazione agli effetti che producono nei tre elementi, da cui l' animale risulta: 1) la continuità delle parti; 2) l' eccitamento; 3) l' individuazione dell' eccitamento. Di più i movimenti possono essere utili o dannosi a ciascuno di questi elementi (1), onde si avranno sei classi di movimenti eccitatori per ciascheduno dei due generi, cioè: 1) Movimenti utili alla continuità opportuna. 2) Movimenti dannosi alla continuità opportuna. 3) Movimenti utili all' eccitamento. 4) Movimenti dannosi all' eccitamento. 5) Movimenti utili all' individuazione. 6) Movimenti dannosi all' individuazione. E` chiaro che queste sei varietà si possono ritrovare tanto nei movimenti primitivi prodotti dagli stimoli esterni, quanto nei movimenti secondi prodotti dagli stimoli interni. Considerata la varietà degli stimoli e dei movimenti , veniamo alle sensioni , che si dividono anch' esse nei due generi delle primitive e delle seconde. Le primitive sono cagionate dai movimenti prodotti dagli stimoli primitivi, e costituiscono, in quanto sono naturali e tipiche, il sentimento fondamentale d' eccitazione; le seconde appartengono a tutti gli anelli successivi del corso medesimo. Come l' ente animale ha, quasi direi, due faccie corrispondenti, l' una soggettiva costituita dai sentimenti, l' altra extrasoggettiva costituita dai movimenti, così la classificazione dei movimenti si ripete nelle sensioni; anzi la classificazione delle sensioni e quella dei movimenti vanno di pari passo, e l' una può servire reciprocamente di fondamento all' altra. E` dunque necessario anche rispetto alle sensioni di osservare, in generale, esservi sensioni utili o dannose al sentimento di continuità, al sentimento eccitato, all' individuazione del sentimento. Questa classificazione si ravvisa non meno nel genere delle sensioni primitive, che nell' altro delle sensioni seconde. Le sensioni primitive danno la leva all' istinto sensuale, che per esse si mette in movimento. Richiamiamo brevemente le leggi, che noi abbiamo più sopra assegnate all' operare di questo istinto. Data una sensione, l' istinto sensuale tosto si pone in azione, e produce dei movimenti, che aiutano ad accrescere il piacere o a diminuire il dolore. L' istinto sensuale nell' uno e nell' altro caso viene in aiuto dell' istinto vitale, il quale produce il piacere, e lotta colla potenza nemica che glielo impedisce. La quantità della tendenza o dell' attività, colla quale insorge l' istinto sensuale, è pari all' intensità, e in generale alla quantità del sentimento eccitato. Il sentimento eccitato riesce più o meno vivo, secondo che è più o meno forte l' istinto vitale. Ma la maggiore o minore fortezza di questo dipende dalle cause accennate, e nell' uomo particolarmente dalle affezioni del principio intellettivo. Vedemmo che un gran timore razionale produce la paura, passione animale che debilita le forze dell' istinto vitale. Il grado di queste forze dipende ancora immediatamente dalle affezioni animali. La paura, la tristezza, ecc., in quanto sono affezioni animali, possono essere l' effetto di movimenti suscitati dall' azione dell' istinto sensuale; questo dunque di nuovo influisce immensamente a ingagliardire o debilitare l' istinto vitale, sicchè i due istinti influiscono l' uno sull' altro reciprocamente. Ma, qualunque sieno le cause che rendono l' istinto vitale più forte o più debole, certo è che in ragione della sua gagliardia anche le sensioni, che egli produce sotto gli stessi stimoli, sono più o meno forti, e quindi più o meno attive a sollevare l' istinto sensuale alla sua azione. Di qui nello stato di sanità i temperamenti flosci, snervati, linfatici, ed i temperamenti robusti. Di qui ancora la divisione delle malattie in acute e croniche ; quando le sensioni fondamentali sono ottuse e lenta tutta la sensitività, allora l' istinto sensuale, non potendo agire con attività nè a salvezza, nè a rovina della macchina, è inetto a produrre i movimenti salutari, che determinano le secrezioni e le escrezioni, le quali sarebbero necessarie o a dominare la potenza nemica, o ad espellerla: tale è la condizione del cronicismo. L' operazione dell' istinto sensuale suol cominciare con un senso d' inquietudine, perchè i movimenti che egli produce, non essendo compresi nel sentimento, nel primo istante egli non sa quali siano quelli che accrescono lo stato di piacere e diminuiscono lo stato di dolore, e però incerto tenta tutti gli aditi fino che si determina per una qualche direzione. Durante quest' incertezza, premendo da ogni lato l' attività sensuale, se ne ha quella inquietudine, che indica un bisogno di operare senza venirne tosto a capo. L' istinto sensuale conserva sempre, fra tutti gli stati a lui possibili, quello che gli è più piacevole. Quindi se l' operare gli costa tanta fatica o molestia, che il non operare gli riesca uno stato meno molesto, egli cessa da ogni sua operazione; dalla quale condizione procedono molte e importantissime conseguenze, alcune delle quali sono: Che quanto è maggiore l' impulso, cioè l' intensità della sensazione, tanto gli è più difficile il non operare, e l' operare costituisce per lui uno stato più piacevole o meno faticoso, meno molesto che lo starsi inerte, supponendo le altre circostanze eguali. Che l' intensità della sensazione venendo diminuita dall' abitudine passiva , questa diminuisce l' impeto dell' istinto sensuale, mentre l' abitudine attiva gli facilita il movimento, e così l' accresce. Che la forza, colla quale agisce l' istinto sensuale, non dipendendo dalla sola intensità della sensione, ma dal grado relativo di piacere che trova nell' operare, il suo sforzo di operare può diminuirsi per altre cagioni, cioè per tutte quelle che gli rendono meno piacevole e più faticoso l' agire; il che spiega in parte la capacità morbosa , ossia la tolleranza dei rimedi in dosi non tollerabili dall' animale in istato di sanità. Che la quantità del movimento , che l' istinto sensuale effettivamente produce, dipende in gran parte dall' organizzazione, la quale o vi mette ostacolo ed elide le sue forze, o si presta alla propagazione del moto, attesa la disposizione, e la forma mobile, e il grado di vita delle molecole. Che allorquando l' organizzazione sconcertata pone l' istinto sensuale in sì misera condizione, che egli non può fare movimento di sorta, senza che questo gli riesca più doloroso e molesto che il cessare intieramente da ogni azione, esso cessa di fatto dall' operare; il che è quanto dire l' animale muore d' una cotal morte quasi spontanea. L' organizzazione in questo caso non è così estesa che non si potesse prestare a ricevere il senso, ma l' istinto sensuale non si applica più a produrre in essa i movimenti eccitatori, necessari alla conservazione dell' organizzazione medesima, la quale ben tosto si guasta per modo da rendersi inetta alla vita eccitata, individuale. Si possono quindi concepire quattro principŒ di morte: 1 Il principio razionale, che colto da somma affezione sottrae tutte le forze all' istinto vitale, onde, quantunque nel primo istante non vi sia disorganizzazione, tuttavia questa succede tantosto. 2 La materia, che per violenza straniera si disorganizza, e così si sottrae all' azione dell' istinto vitale. 3 L' istinto sensuale che, prescegliendo di astenersi da ogni azione perchè gli riesce più molesta dell' inazione, cessa dal produrre quei movimenti, che sono necessari al mantenimento dell' organizzazione medesima. 4 L' istinto sensuale, che produce qualche movimento così precipitoso che rompe l' organizzazione. Allorquando mancano le cagioni per le quali l' istinto sensuale si rifiuta a produrre i movimenti, questi si aumentano o diminuiscono secondo che sono maggiori o minori le sensioni, e si aumentano o diminuiscono in tutta la macchina, o assai più in certe località secondo che le sensioni sono locali, e l' istinto sensuale trova che l' una o l' altra cosa più si confà a quello che egli cerca, lo stato piacevole. Dal che dipendono le infiammazioni locali ed altri fenomeni, su cui torneremo là dove prenderemo a considerare il terzo elemento del sentimento fondamentale, l' unità e l' armonia. Torniamo ora alla distinzione fra le sensioni primitive e le sensioni seconde . Noi abbiamo riposto il carattere delle sensioni primitive in questo, che l' istinto vitale, che le produce, non è ancora modificato dall' azione e dai prodotti dell' istinto sensuale; quindi quelle sensioni sono l' effetto dell' attività vitale nel suo stato nativo. E veramente l' istinto sensuale suscitato dalle sensioni primitive produce colla sua azione quasi delle nuove potenze, cioè l' abitudine , la ritentiva , l' affezione , il presentimento , ossia aspettazione animale, che è un' affezione risultante da più sentimenti successivi uniti in virtù della forza sintetica, come abbiamo dichiarato nell' Antropologia ; le quali tutte sono altrettante attività acquisite, e propriamente modificazioni e accrescimenti delle facoltà originali dell' animale. Le sensioni primitive , adunque, sono quelle che vengono prodotte da movimenti eccitatori primitivi , cioè da movimenti non prodotti da sensioni anteriori, ma da stimoli esterni e dai connaturali stimoli interni. Altro carattere delle sensioni primitive si è l' esser quelle singolari : l' effetto di più sensioni primitive contemporanee, che si fondono in una sola affezione , è già un prodotto delle sensioni primitive, e non primitivo. Nè le sensioni primitive si devono confondere colle mutazioni, che possono nascere nel sentimento fondamentale di continuità; chè quelle appartengono al sentimento eccitato. Il sentimento fondamentale di continuità può modificarsi, o perchè s' accostino nuove molecole all' esteso sentito, o perchè se ne distacchino. Nell' accostarsi di nuove molecole possono concepirsi i seguenti casi: Che le dette molecole abbiano già l' organizzazione simile a quella del corpo vivente, a cui s' uniscono. Questo sarebbe il caso della trasfusione del sangue da un individuo in un altro, della ristorazione del naso perduto, o del ricoprimento che si fa nelle amputazioni del moncone cogli integumenti, del rimarginamento delle ferite, ecc.. In tutti questi accostamenti di molecole si deve prescindere dal considerare le sensioni dolorose o piacevoli concomitanti, prodotte dai movimenti eccitatori, e si deve solamente considerare l' operazione dell' istinto vitale, che continua il sentimento individuato alle nuove particelle; questa operazione sola è quella che appartiene alla classe d' alterazione primitiva del sentimento fondamentale di continuità, di cui noi parliamo. L' operazione, che rende continuo il sentimento alle molecole accostate e già ben disposte, si concepisce come spontanea all' istinto vitale. Ma poichè l' accostamento non può esser fatto sempre in modo perfetto (chè è impossibile, a ragion d' esempio, che nel rimettimento del naso risponda la parte, che si attacca, a quella a cui viene attaccata, così appunto da combaciare vaso a vaso, filamento a filamento, ecc.), quindi interviene per accidente un lavoro complicato dell' istinto vitale, che compisce ciò che manca al perfetto combaciamento e continuità delle parti. Supposto questo caso come possibile, l' aggiunta delle molecole egualmente organizzate sarà utile o dannosa al corso zoetico, secondo che quelle molecole sono soverchie al bisogno della macchina, o riparatrici di molecole mancanti. Il soverchio, poniamo la soverchia abbondanza di sangue, altererebbe il corso zoetico in più modi; ma queste alterazioni non riguardano la continuità, ma l' eccitamento impedito o promosso con eccesso, e l' unità animale. Che le molecole sieno organizzate a sufficienza per fare che l' istinto vitale vi aggiunga colla sua attività quell' ultima modificazione, che è loro necessaria ad entrare nella vita dell' individuo; come accade di tutte le materie alimentari, che si digeriscono. La funzione della nutrizione è un corso di azioni successive dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, che fornisce un elemento al corso zoetico. Quando gli organi sono in istato normale e gli alimenti adattati, tutte queste serie di azioni dei due istinti sono naturali e piacevoli. Ma se vi è difetto negli organi, o nella qualità o nella quantità della materia, se vi sono degli stimoli inopportuni , ritrosi a lasciarsi dominare dall' istinto vitale, onde occasionino la lotta del dolore ed i conseguenti movimenti, ecc., tutto ciò altera il sentimento fondamentale d' eccitamento. Nutrito poi il corpo, è cangiato il sentimento fondamentale di continuità . Il qual cangiamento si riduce all' essersi aggiunte al continuo vivente alcune molecole. La quale aggiunta è di nuovo utile o dannosa al corso zoetico, secondochè le molecole aggiunte o sono riparatrici di quelle che contribuivano alla perfezione naturale della macchina, o riescono soprabbondanti rispettivamente alla loro ripartizione, a ragion d' esempio, se un genere di fluido ecceda in quantità, o un solido si sviluppi soverchiamente in proporzione degli altri, le quali due cagioni sogliono allentare l' organizzazione, e quindi l' ardire dei movimenti zoetici. Medesimamente, se la nutrizione riesce imperfetta, le secrezioni non ricevono pienamente la qualità che le rende atte alla vita. I due precedenti effetti sconcertano l' eccitamento e l' unità animale. Il terzo solo è un male inerente all' elemento della continuità, perchè le molecole inserite nel corpo non vi sono a pieno dominate dall' istinto vitale, e così divengono stimoli inopportuni . Che si tratti d' una materia solida, non convertibile in fluido dalle forze vitali; nel qual caso non si assimila al corpo vivente. Questa suol alterare il corso zoetico, pel movimento che produce nel corpo col suo impulso meccanico. Che si tratti d' una materia, le cui forze chimiche agiscano sul corpo vivente con potenza maggiore di quella del principio vitale, e tendano a disorganizzarlo, sottraendolo all' influenza di questo. Più facilmente che sui solidi si vede questo avvenire sui fluidi del corpo, ed è il caso dei veleni che scompongono il sangue, ecc. (1). Questo agente sulle forze materiali del corpo vivo, il quale tende a dare alle molecole un' organizzazione, una posizione, un' attitudine diversa da quella che esige l' animale, e che si affatica di dar loro l' istinto vitale, ha per effetto la distruzione dell' organizzazione vitale; non può essere impedito dall' addurre la disorganizzazione dal solo istinto vitale , ma può esser vinto talora dall' istinto sensuale , che viene in soccorso del vitale. E questo è il caso delle febbri, che nascono dai miasmi, del vaiuolo, e di tutte le malattie, che accusano una materia morbosa, introdottasi comecchè sia nel corpo umano; la qual materia dopo un certo tratto di tempo cessa dall' esercitarvi un' azione nocevole, sia perchè ella venga dalle stesse azioni concitate dell' istinto sensuale escreta dal corpo, o negli esantemi, o in altra guisa, sia perchè ella venga dalle stesse azioni concitate elaborata, ricomposta, e resa atta a ricevere il dominio della vita. Ella può essere ancora neutralizzata dall' azione di altra materia, introdotta insieme con essa nel corpo, come accade nell' uso dei controveleni, per esempio, dell' ammoniaca contro il veleno della vipera. Nei quali casi il corso zoetico riceve grandi alterazioni; ma durante il combattimento non è l' alterazione portata al sentimento fondamentale di continuità quella che lo muta così, ma quei cangiamenti del corso zoetico avvengono per l' alterazione che riceve il sentimento fondamentale d' eccitamento, e per le sensioni parziali. Se poi si considera il caso in cui le molecole del corpo vivente si dividano da lui, questo può farsi: 1 per le varie escrezioni; 2 pel violento distacco d' una parte. E l' uno e l' altro caso modificano il corso zoetico. Molte escrezioni sono naturali, ed effetto inevitabile dei movimenti appartenenti allo stesso corso zoetico, nè sono sensioni dolorose, scemano solamente il sentimento fondamentale di continuità. Ma quando non sieno riparate, il sentimento fondamentale di continuità non può scemare, senza che scemi anche quello d' eccitamento, poichè le molecole perdute lasciano nel corpo una diminuzione di stimoli, e se la perdita è eccessiva, anche una alterazione nell' organismo dei solidi, che li debilita. I fluidi, se soverchiamente diminuiscono, non possono più stimolare il solido colla stessa efficacia ai movimenti, coi quali si compiono le funzioni. I solidi, oltre non essere più sufficientemente stimolati ed eccitati, deperiscono per mancanza di nutrizione, impiccioliscono, si disseccano; si altera in una parola quell' organismo, che è necessario a compiere perfettamente le funzioni medesime. Quindi niente vieta che tutte le escrezioni e le sottrazioni del corpo si dicano controstimolanti, purchè di questi controstimolanti niuno si faccia un concetto fantastico, quasi d' una potenza positiva opposta a quella dello stimolo. Anche la perdita di un membro, diminuendo il sentimento fondamentale di continuità, modifica il corso zoetico; ma questa modificazione, assai più che a diminuzione dell' esteso sentito, deve attribuirsi all' imperfezione rimasta nell' organismo, a danno del sentimento fondamentale d' eccitamento. Premesse le quali cose, veniamo a considerare la varietà delle sensioni primitive, il cui complesso, nella sua parte costante e tipica, costituisce, come abbiamo detto, il sentimento fondamentale d' eccitamento. Queste sensioni variano: Per la varia azione del principio intellettivo, che opera sulla parte animale per via d' affetto e di volontà. - E` l' affetto principalmente quello che altera il sentimento fondamentale d' eccitamento. Tutti gli affetti razionali, che hanno per oggetto il bene, accrescono il sentimento fondamentale d' eccitamento, e quelli che hanno per oggetto il male, lo diminuiscono. Chi volesse entrare nella ricerca più particolareggiata di questa influenza degli affetti razionali sull' animalità, dovrebbe prima determinare la diversa indole d' eccitamento, che produce l' affetto razionale, che abbia per oggetto un bene o un male fisico; poi quell' affetto, che abbia per oggetto un bene o un male intellettuale (scienza); e finalmente quello, che abbia per oggetto un bene od un male morale. Dopo questa differenza categorica converrebbe distinguere le diverse maniere di affetti razionali, che possono aver luogo circa lo stesso oggetto categorico, e trovare quale maniera d' eccitamento venga prodotta da ciascheduna. Di più si dovrebbero classificare gli oggetti buoni o malvagi contenuti in ciascuna categoria, riconoscere e caratterizzare la proprietà eccitante e deprimente di ciascuna classe. Ma noi, lasciando altrui queste ricerche, osserveremo solamente che gli affetti razionali riguardanti il bene si possono chiamare stimolanti , e gli affetti razionali riguardanti il male si possono chiamare controstimolanti , se pur si vuole lasciare a questa parola il significato d' una cagione, atta a diminuire direttamente l' attività del principio vitale. Per la varia organizzazione. - Dipendendo l' eccitamento del sentimento fondamentale dai movimenti abituali intestini del corpo, la diversa direzione, celerità, moltitudine di movimenti, ecc., che loro presta l' organizzazione, influisce a cangiare le sensioni corrispondenti, e con esse tutto il corso zoetico. A ragion d' esempio, i nutrienti cangiano il corso zoetico anche modificando l' organizzazione. Si debbono considerare in due tempi: durante l' opera dell' alimentazione, e allora essi sono stimoli esterni, opportuni, naturali, piacevoli; e nel tempo in cui sono già assimilati al corpo umano e avvivati, ed allora parte cangiati in fluido sono diventati stimoli interni, parte divenuti solidi, costituiscono quella parte di organismo, su cui opera principalmente lo stimolo. Per la varia qualità e quantità degli stimoli. - Accrescendosi gli stimoli interiori ed esteriori, il sistema delle sensioni e dei movimenti conseguenti deve alterarsi. Dico deve alterarsi, non dico accrescersi. Perchè, quantunque sia vero in generale che col crescere dello stimolo fino ad un certo grado, crescono i movimenti e le sensioni, tuttavia, oltrepassato quel grado, lo stimolo soverchio intorpidisce e istupidisce la parte che resta inattiva; nuova ragione d' attendere a studiare l' opportunità dello stimolo, non la mera quantità. E io credo che sia per questo che così spesso i sintomi ingannano quel medico, che l' interpreta con soverchia confidenza, o isolatamente, o giusta le povere regole del sistema della quantità. Quante volte la prostrazione delle forze e l' abbassamento dei polsi sembrano indicar debolezza, e forse è segno di soverchio stimolo, che impedisce l' azione vitale, o la restringe al centro! Il quale effetto della stupidità della fibra, prodotta da soverchio stimolo, parmi un fatto dei più importanti per l' arte medica, se si considerano gli effetti, che nel corso zoetico possono conseguitarne. Poichè, se i movimenti accelerati nell' interno del corpo umano producono maggiori stimoli, e se questi movimenti rallentano, quando gli organi istupiditi da stimolo soverchio sono inetti ad una maggior azione, avremmo contemporaneamente due cause operanti in senso opposto: avremmo un eccesso di stimolo, che intorpidisce gli organi, e in conseguenza di questo torpore una diminuzione di stimolo riprodotto, quasi che la natura cerchi così di restituire l' equilibrio. Rimarrà dunque a vedere se nella somma degli stimoli accresciuti e diminuiti vi sia aumento complessivo o diminuzione, cioè se gli stimoli interni possano essere diminuiti dall' inazione degli organi più che non sieno accresciuti gli stimoli esterni, il cui eccesso ha prodotto quel torpore. In questo caso l' effetto totale di sostanze realmente stimolanti potrebbe riuscire ad una diminuzione di stimolo; osservazione che dimostra la difficoltà di determinare quale sia la vera natura ed efficacia dei rimedi. Vedo, a ragion d' esempio, che la digitale diminuisce l' azione del cuore e dei vasi, rallenta la circolazione, dispone al sonno; ma chi mi sa dire se l' effetto di questo vegetale sia prodotto dall' esser egli veramente, come dicono, un controstimolante, e non piuttosto uno stimolante eccessivo? Se si considera che quando il ventricolo è irritato, lo stesso rimedio produce effetti contrari, accelera il polso, aumenta le secrezioni, cagiona vertigini o gravezza di capo, non si potrebbe dubitare che, trovando egli maggior forza vitale che gli resiste, e quindi non potendo più produrre l' effetto dello stupore, manifesti allora la sua vera proprietà stimolante? Ed anche se, data ad alte dosi, la digitale mostra di essere stimolante, è forse che allora ella stessa produca quell' esaltamento, quell' irritazione che resiste, e quindi esclude lo stupore? Checchessia di questi dubbi, pare però certo il fatto generale, che un forte stimolo istupidisce, scema i movimenti vitali, e questi movimenti scemati scemano alla lor volta la riproduzione o l' azione degli stimoli interni; e però rimarrà sempre argomento importante alla meditazione dei dotti medici quel calcolo, che accennavamo, sull' effetto ultimo e complessivo di quelle due serie di stimoli eccedenti e declinanti; rimarrà degno nei casi speciali d' investigarsi il rapporto, secondo cui crescendo la prima serie, può diminuire la seconda; nè sarà una cosa assurda il concepire la possibilità, che con un rimedio stimolante di sua natura si ottenga il risultamento d' una diminuzione effettiva di stimolo; e tutto questo dimostrerà che il vedersi diminuito l' eccitamento in un infermo in conseguenza di un rimedio, non è ancora infallibile prova a conchiudere che quel rimedio sia di natura piuttosto controstimolante o deprimente, che stimolante, come pur facilmente si conchiude da chi non riflette alla serie complicata di cause e di effetti, che nel corso zoetico s' intrecciano e reciprocamente si modificano (1). Dalle quali cose si raccoglie: Che il sentimento fondamentale d' eccitamento può essere normale e piacevole, anormale e doloroso. Che lo stesso sentimento, normale ovvero anormale, può essere maggiore o minore, secondochè l' eccitazione è maggiore o minore. Che non è la maggiore o minore eccitazione quella che pone l' animale nello stato di salute o di malattia; ma questi due stati sono costituiti dalla normalità o anormalità dell' eccitamento. Che anzi quanto è maggiore l' eccitamento, purchè normale, tanto è maggiore la prosperità dell' animale. Che la misura massima dell' eccitamento dipende nell' uomo da tre cagioni; cioè dallo stato dell' animo, ossia dall' azione del principio razionale ; dall' organizzazione normale o anormale, più sviluppata o meno, più robusta o meno robusta; e dalla quantità maggiore o minore degli stimoli esterni e degli stimoli interni . Che ogni modificazione che nasca in alcuna di queste tre cause, ella cangia totalmente il corso zoetico in bene od in male. Se l' eccitamento oltrepassa la sua misura massima, egli diventa inopportuno , e la misura massima è relativa alle tre condizioni accennate. Tuttavia, che la quantità dell' eccitamento non possa costituire il carattere della malattia, vedesi anche da questo, che negli uomini più robusti le malattie diventano più violente, e nei deboli, di temperamento floscio e linfatico, prendono un carattere più mite e benigno. E tuttavia chi dirà che lo stato di robustezza non sia migliore dello stato di debolezza? Ma essendo il primo di questi due stati formato da azioni vitali più forti ed eccitate, se l' eccitamento esce dalla sua forma normale, il corso zoetico, che ritiene lo stesso impeto, precipita a maggiore rovina. Quindi la robustezza e l' eccitamento maggiore, cosa pregevole in istato di sanità, diventa funesto in quello di malattia, a segno che i medici talora lo confondono colla malattia stessa. Ed è facile il confonderlo, perchè quel corso normale, che è più attivo, produce anche stimoli maggiori; quindi nelle malattie, da cui vengono presi i robusti, vi è quasi sempre anche eccesso d' eccitamento. D' altra parte non isbagliano in tal caso i medici, se tentano di sottrarre alla macchina le sue stesse forze naturali e convenienti, acciocchè traviate, siccome sono, non servano ad accrescere la malattia. Il Rasori riconosce nelle febbri epidemiche, nel vaiuolo, ecc., una materia morbosa irritante, ricevuta nel corpo umano, e consigliando la cura deprimente, la vuol moderata, perchè, dice, [...OMISSIS...] ; parole che non so, a dir vero, quanto sieno coerenti al sistema dell' illustre autore, che, in tutte le malattie per soverchio eccitamento, concepisce la cura sanatrice siccome una semplice diminuzione d' eccitamento soverchio, e non ammette differenza essenziale fra i diversi controstimolanti; di che dovrebbe venirne che la stessa presenza della materia morbosa stimolante si potesse rendere innocua direttamente, con una dose di controstimolanti, che ne pareggiasse in senso contrario l' effetto. Ma il fatto si è che la cura depressiva, che si scorge così utile nelle cure di tali morbi, altro non sembra ottenere, e lo si confessa, che una minor veemenza nelle operazioni del corso zoetico; veemenza, in cui non consiste l' essenza del morbo, la quale sì bene consiste nell' anormalità o disordine degli alterni movimenti, che diviene più rovinoso partecipando di quella naturale gagliardia, con cui si compiono i movimenti e le sensioni vitali. Dalle sensioni passiamo ora a considerare la stessa facoltà di sentire, e notiamone le varietà in relazione al corso zoetico, che ne rimane determinato. Il sentimento fondamentale è un atto, il primo atto del sentimento; sotto questo aspetto egli non è una semplice facoltà . Se si volesse concepire una facoltà anteriore al sentimento fondamentale, la facoltà di questo sentimento altro non sarebbe che un ente di ragione, una finzione della mente nostra, perchè dinnanzi a un primo atto non esiste nulla nel soggetto, neppure una facoltà presa in senso attivo; dinnanzi al sentimento fondamentale non esiste neppure l' animale. Che se per facoltà del sentimento fondamentale s' intendesse l' attività che lo produce, l' istinto vitale in tal caso non avrebbe una facoltà anteriore a lui, ma in lui stesso si considererebbe la forza che lo costituisce, la sostanza dell' anima. Per facoltà di sentire nulla di questo noi intendiamo, ma soltanto la potenza attiva di sentire in altro modo da quello del sentimento fondamentale. Per sensione intendiamo una specie di modificazione del sentimento fondamentale, non ogni specie. Le modificazioni del sentimento di continuità non sono sensioni; l' uomo, per quanta attenzione vi ponga, difficilmente giunge ad osservarle, a formarsene coscienza. Neppure l' aumento o la diminuzione della forza dell' istinto vitale è sensione, nè si raggiunge dal pensiero dell' uomo, che ne rimane inconsapevole. Le sensioni appartengono insomma al sentimento eccitato ; sono le modificazioni di questo (1). La sensitività prende diverse forme speciali; ammette diversi gradi di ciascuna forma, e tutto ciò varia la condizione dell' animale, l' andamento del corso zoetico. Da che dunque dipendono le varie forme specifiche e i vari gradi della sensitività animale? Volendo trovare di queste mirabili varietà di specie e di grado la ragione ultima, che è veramente formale , si dovrebbe ricorrere col pensiero alla natura intima del sentimento fondamentale, modificazione del quale è la sensione. Poichè la ragione delle modificazioni, di cui è suscettibile un soggetto, non può essere che nella natura di lui medesimo; chè modificazioni di un soggetto vuol dire il soggetto stesso esistente in altri modi, e conservante in tutti la propria identità. A chi domanda ulteriormente perchè un soggetto possa esistere in diversi modi, altra ragione non si può dare se non che tale è la sua natura. Se noi conoscessimo positivamente la natura di un soggetto, potremmo conoscere altresì a priori tutte le modificazioni di cui è suscettivo, cioè dedurle dal solo concetto della sua natura. Ma la natura del sentimento fondamentale non è a noi nota in sè stessa, come si scorge considerando che il sentimento fondamentale di continuità sfugge alla nostra attenzione intellettiva. Ora l' eccitamento non è che un atto del sentimento di continuità. Sottratto dunque alla nostra coscienza il sentimento fondamentale di continuità, si rimane incognita anche la natura del sentimento d' eccitazione, e noi non possiamo che dedurre i suoi modi, forme e gradi cioè, a posteriori, dall' esperienza delle sensioni, che sono atte a cadere nella nostra coscienza. Ma che tutte quelle diverse forme di sentire dipendano dall' intima natura del principio sensitivo, che è la sostanza dell' anima, noi siamo costretti ad affermarlo anche dalla meditazione dei fatti. Poichè è un fatto che lo stesso identico sentimento ha più modi di essere; è un altro fatto che questi modi si cangiano, senza che egli perda la sua identità; è un terzo fatto che ciò che si chiama sensione non è che un modo del sentimento; un quarto fatto che nel sentire vi è un elemento di passività, della quale il soggetto è il principio sensitivo; un quinto fatto che vi è pure un elemento di attività, di cui il soggetto è pure lo stesso principio sensitivo. Dunque le varie forme di sentire dipendono dalla speciale natura della passività e della attività di esso principio. Ora, un principio contiene in sè virtualmente tutti gli atti e tutti i modi, di cui egli è suscettivo; dunque nel principio sensitivo si contengono virtualmente tutte le diverse forme di sensioni, le quali non sono create di nuovo quando cadono nella nostra coscienza, ma si estrinsecano, da implicite diventano esplicite; il sentimento non cangia l' essere, ma il modo dell' essere. Rimane a vedere quali sieno le occasioni o le condizioni, date le quali, la sensione si esplica. Il fatto, che dobbiamo aver presente, ridotto ad una formola generale, è questo: « il sentimento si atteggia nel modo più piacevole che gli sia possibile ». Ma che cosa è mai che mette un limite alla possibilità di atteggiarsi in varie guise? Dobbiamo sempre rispondere come per innanzi, la propria natura del sentimento fondamentale. A priori, non abbiamo a dire di più; solo ci resta il poter ricorrere all' esperienza per conoscere in qualche modo questo limite, per sapere altresì quale sia, date certe condizioni, l' atteggiamento più piacevole che può prendere il sentimento. E posciachè l' esperienza ci attesta che la natura del principio sensitivo racchiude un elemento di passività in rispetto ad un ente extrasoggettivo, s' intende che questo ente extrasoggettivo e la sua maniera di operare deve essere una delle condizioni, da cui dipende lo stato più piacevole dell' animale, di modo che il sentimento deve trovare più piacevole l' atteggiarsi in un modo anzichè in un altro, quando l' ente extrasoggettivo opera su di lui piuttosto in un modo che in un altro. Quindi niente ripugna che le diverse forme della sensitività dipendano dalla diversa organizzazione degli organi, di maniera che la ragione perchè l' occhio è suscettivo delle sensioni colorate, l' orecchio delle sensioni sonore, le nari delle sensioni odorose, il gusto delle saporose, lo stomaco, gli intestini, ecc., di sensioni di lor propria forma, altra non sia che la diversa azione del corpo sul principio sensitivo, dipendente dalla diversa organizzazione dell' organo stesso, benchè il principio sensitivo abbia il medesimo atto, quanto è da sè sotto ogni organizzazione. Questo può essere confermato anche coll' osservazione che fanno i fisiologi, che ogni nervo stimolato non dà altra sensione che la sua propria: così il nervo olfattorio non dà luogo ad altra sensione che a quella degli odori, l' ottico non ad altra che a quella dei colori, ecc.; quindi se il principio senziente è eccitato dai movimenti convenienti del nervo olfattorio, egli sente odori grati; se poi quei movimenti attentano a turbare l' eccitamento naturale, nasce la lotta che si manifesta cogli odori spiacevoli (1). Quanto al senso ottico, lo spiacevole suo proprio sta nell' oscuramento della vista, o nell' essere offesa da soverchia luce. Non è dunque a dubitarsi che, trovandosi dovecchessia i nervi opportuni, lo spirito dovecchessia sentirebbe; che egli potrebbe vedere col piede, se nel piede vi fosse un nervo organato siccome l' ottico, o udire colla mano, se nella mano vi fosse il nervo acustico, ecc.; che potrebbe vedere anche in cento parti del corpo, come si finse Argo, se cento occhi fossero nel corpo umano, e così si dica d' ogni altra sensione, la quale è in un luogo piuttosto che in un altro, in un solo piuttosto che in molti, non per alcuna diversità della sensitività o facoltà del principio senziente, ma per la diversità dell' organizzazione, che obbliga la sensitività a determinarsi in un modo piuttosto che in un altro, riuscendole più piacevole così in quelle circostanze. Mancando poi un organo a quella guisa costrutto, cessa la forma relativa di sensione (1). Il Morgagni, il Fatner, il Loder e il Valentin raccontano che in uomini, i quali non avevano mai sentito odore, trovarono mancare i nervi olfattori. Ora poi è certo che ogni forma speciale della sensitività ha virtù di mutare la serie delle azioni vitali, di cui si compone il corso zoetico, rispondendo ad ogni specie di sensione una specie determinata di movimenti promossi dall' istinto sensuale. Passando ora noi ai diversi gradi della sensitività, la ragione di questa diversità si riduce: 1 ad una particolare disposizione del principio senziente; 2 ad una particolare disposizione della materia animata, che lo determina ad un atteggiamento piuttosto che ad un altro. E quanto a questa particolare disposizione della materia, l' esperienza insegna che in certi corpi vi è una tessitura più fina, e delle membra più sottilmente organate; e gli individui, le cui carni e i cui organi sono più finamente tessuti, dimostrano possedere una sensitività più delicata, più pronta, più vivace, più potente. Quanto poi all' azione maggiore o minore del principio sensitivo, questo opera con più o meno di forza, per le diverse cagioni che abbiamo accennate. L' istinto vitale s' avvilisce, quando l' animo è occupato dal dolore, s' incoraggia, quando l' animo è diffuso nella gioia. Se il principio intellettuale è rapito nella contemplazione d' un oggetto, l' animalità smette una parte della sua operosità, perchè, essendo unico il soggetto e d' una quantità limitata di forza, non può usarne una porzione considerevole nelle operazioni intellettive, senza sottrarla alle operazioni animali. Ond' è, che se l' uomo a ventre pieno si applica a qualche serio studio, gli si rompe la digestione, e indi tutti gli incomodi dei letterati. Ma a rendere maggiore o minore la sensitività contribuisce massimamente l' istinto sensuale, che ha sì grande influenza sul vitale, dal quale reciprocamente riceve influenza. La sensitività è resa maggiore dall' istinto sensuale: 1 per la forza dell' abitudine attiva; 2 per la ritentiva dei piaceri goduti, nella quale sono accumulati i movimenti piacevoli altra volta esperimentati; e perciò questa ritentiva ha più di forza a muovere l' istinto sensuale che non abbia un piacere nuovo attuale; dove si vede perchè il piacere immaginato spesso eserciti una maggior forza sull' uomo che il piacere reale. Dallo stesso principio si trae la spiegazione di molti fenomeni edonici. Per quale ragione la maggiore intensità del piacere aspettato si prova nel momento d' incontrarlo, cioè in quel momento in cui nasce la mutazione, non quando ella è già nata? In gran parte da questo, che il piacere sta unito col movimento, e però nell' atto del movimento il piacere è più che mai attuato; al qual movimento succede gradatamente la quiete. Ma ciò non basta a spiegare quella intensità di diletto maggiore, che giace nel primo atto, in cui si entra in possesso del piacere desiderato. Essa dipende dall' aspettazione immaginaria, che nasce dalla ritentiva di tanti momenti piacevoli altre volte provati, la quale mette l' istinto sensuale in uno straordinario orgasmo, in una penosa inquietudine, in una impazienza che gli si ripeta quel piacere, che nell' apprensiva è divenuto il cumulo di tutti i piaceri anteriori. Onde nel primo affronto del piacere l' istinto sensuale, già mosso violentemente dall' accennata ritentiva, trova il diletto maggiore, non solamente per la maggior sua avidità, ma per quella soddisfazione altresì che gli succede, ed è il riposo della sua fremente cupidigia; riposo ottenuto in quell' istante, in cui vede a sè libero ed aperto il piacere concupito. Onde, placata l' ira di quell' appetito colla soddisfazione, rimane il solo piacere reale assai minore di quel che pareva alle brame, e perciò meno atto a muovere l' istinto vitale. Quindi ancora si spiega quell' altro fenomeno, che così acconciamente viene espresso nei sacri libri: [...OMISSIS...] ; come pure quello indicato dal volgare proverbio, che « la privazione genera l' appetito ». Ciò che è proibito o è difficile a conseguirsi, od è lungamente desiderato, rende l' istinto sensuale irrequieto, più attivo, e quasi in continue vibrazioni. E ancora il piacere, di cui l' occasione si porge inaspettata ed è preso alla sfuggiasca, perchè stringe il tempo, e pel timore che sfugga il prezioso istante, riesce più vivo, intenso, con un carattere nuovo e suo proprio; chè l' istinto sensuale più inquieto e sollecito provoca nelle fibre nervose guizzi e movimenti più celeri e violenti, dalla maggiore rapidità dei quali si deve soprattutto desumere l' intensità della sensazione. Così si osserva che l' uomo rotto ai piaceri tiene quasi inarcato abitualmente l' istinto sensuale in aspettazione della loro ripetizione, e gli stessi nervi protesi inverso a tutti gli stimoli, e quasi guizzanti e oscillanti, cioè preludenti e inizianti le sensazioni desiderate ed aspettate. Ed è tuttavia vero che la condizione fisica di cotesti nervi li dimostra più ottusi che non sieno nell' uomo sobrio, sì perchè i nervi sempre tesi non sono suscettivi di grandi movimenti, i quali importano successione di rallentamento e di tensione, e sì perchè manca ognor più la novità del piacere. Ma se diminuisce il piacere reale nello schiavo delle passioni voluttuose, ne aumenta l' avidità angosciosa dell' animo. La quale non ha fine (2), e dà senza posa la leva all' istinto sensuale; ma rimane sempre vero che lo stato dell' istinto sensuale nel voluttuoso ha maggiore mobilità e attività, che rende più attivo e pronto l' istinto vitale a produrre le piacevoli sensioni. Per la riproduzione, che l' istinto sensuale fa di abbondanti stimoli interni; di che è ragione la maggiore intensità delle sensioni, e le stesse cause che rendono più potente l' istinto vitale. Quindi: Quanto è maggiore il sentimento fondamentale d' eccitazione, tanto è maggiore, ceteris paribus , la sensitività. Dico ceteris paribus, perchè potrebbe anche esservi una resistenza maggiore agli stimoli esterni, posta dalla fibra compatta e robusta; ma se lo stimolo vince questa resistenza, deve nascerne una sensione maggiore di quella prodotta in un corpo di fibra più molle da uno stimolo proporzionatamente eguale. Se in qualche parte determinata del corpo l' istinto sensuale accumula quantità maggiore di stimoli, o prende una propensione ad accumularli, cresce la sensitività a quel luogo relativa (1). Così si può spiegare come coll' uso frequente i nostri sensorii si rendono più acuti e sottili, perchè l' incisore di gemme, a cagion d' esempio, affini la vista coll' adoperarla. Pare che la facoltà sensoria dell' occhio s' accresca non solo per la protensione delle estremità nervose, che vanno a cercare lo stimolo e gli presentano le loro papille più nude, ma ben anche pel maggiore afflusso del sangue, che stimolando avviva e rende più sensoria la parte. Infatti se l' occhio s' adopera oltre a un giusto termine, ne nasce l' infiammazione; il che dimostra il concorso degli umori. Del qual concorso è nuova prova questo, che le parti del corpo più si adoperano, e più anche s' ingrossano e si sviluppano, ivi concorrendo maggior nutrimento. Che se gli stimoli, che l' istinto sensuale adduce alle speciali parti del corpo umano, pel loro impeto, pel loro eccesso e per l' alterazione della loro crasi, impigliano l' organizzazione e tendono a distruggerla, allora nasce quella lotta, che rende la parte dolente. Il sentimento fondamentale della parte così afflitta non suol essere d' un dolore vivo, se l' incaglio del processo organico e gli intestini disordinati movimenti non oltrepassano un certo termine; e tuttavia la sensitività dolorosa è grande, bastando picciol tocco a cagionare vivo dolore. E questo è il caso dell' infiammazione, che aumenta la parte di volume, il che dimostra afflusso di umori; l' arrossa, il che dimostra afflusso di sangue; la rende dolente al tatto, se l' infiammazione è poca, dolente anche senza esser tocca, se l' infiammazione è molta; il che dimostra la lotta, che dicevamo, fra l' istinto vitale e la materia ivi mal disposta al suo uopo. E che la materia ivi sia mal disposta, apparisce dalla tendenza di ogni infiammazione a disorganizzare la parte infiammata. Anche l' ingorgo dei vasellini e il rallentamento del moto degli umori prova il medesimo. Il sangue sembra cacciato negli ultimi capillari venosi dal movimento maggiore del cuore e delle arterie; e i capillari venosi, che non lo possono smaltire, debbono venire così sfiancati fino a stravasarne o rompersi (1); i sottilissimi nervicciuoli debbono essere da ogni parte impulsi ed irritati; il sangue stesso accalorito dall' orgasmo delle arterie, e quasi stagnante, tende a disorganizzarsi, cioè a lasciar separare da sè la fibrina, che inclina a consolidarsi ed organarsi da sè in nuovi tessuti ed organi, mentre il grumo ed il siero inclinano ad alterarsi in pus. Brachet racconta che nel 1.11, tornandosi all' ospizio di Bicˆtre, l' infermiere della sala di chirurgia venne a lui, facendogli ammirare l' immenso accrescimento di vista che s' era trovato quella mattina; vedeva i più piccoli oggetti a smisurata distanza, nè si lagnava d' alcun male. Cinque ore appresso gli si manifestò un leggiero dolore di capo; dopo poche ore lo colse un' apoplessia fulminante, di cui morì la notte; un deposito di materie gli fu trovato nel talamo ottico destro, il quale aveva infiammata e irritata la parte dell' encefalo, che è sede della visione. Questo grande aumento di sensitività visiva provenne dunque dagli stimoli accresciuti sull' organo della visione, e probabilmente altresì dalla mobilità maggiore, che ne acquistò un tale organo. Un sacerdote venne da me, narrandomi che gli sembrava d' esser divenuto un altro uomo per la perspicacia della mente acquistata, la prontezza del pensiero, i sensi stessi resi in insolito modo più acuti, e chiamavasi beato di quel suo nuovo stato. Io lo consigliai subito a farsi fare qualche generosa emissione di sangue; egli differì alcuni giorni, e cadde in pazzia. L' istinto sensuale cresce la sensitività ancora, rendendo più mobile la fibra sensoria. Onde questa mobilità maggiore? Certo, un organismo più perfetto, una sottigliezza maggiore di tessuti, ecc., debbono renderla più mobile. Ma le fibre egualmente organizzate devono rendersi più mobili altresì e pronte a dare la sensazione, soggiacendo, come dicevamo, ad una copia maggiore di stimoli interni e continui; a quella guisa che un corpo quinci e quindi egualmente premuto si muove più facilmente ad ogni aumento di pressione da uno dei lati, o come si muove una bilancia, tostochè un peso anche minimo le tolga il perfetto equilibrio. Oltracciò l' istinto animale si sta più avvisato, più all' erta, più pronto all' operare, quando si sente scosso da tutte le parti, o in bene o in male; allora le fibre conservano quel continuo oscillamento, che equivale ad una quantità di sensioni incipienti, tutte in tendenza di spiegarsi e sfogarsi. La qual cagione, unita alla precedente, sembra che possa rendere buona ragione di molti fenomeni, procedenti dai diversi gradi e dalle variazioni della sensitività, sì rispetto alle sensioni piacevoli che alle spiacevoli; a ragion d' esempio, sembra rendere ragione del perchè varii così la sensitività speciale del gusto, divenendo ora più acuto, ora più ottuso nelle diverse affezioni infiammatorie dello stomaco. Quando l' affezione agisce sui nervi pneumogastrici, come pure quando agisce sul sistema nervo7ganglionare, l' organo del gusto riceve una nuova condizione, sia perchè in qualche parte si altera la sua intima organizzazione, sia perchè gli vengono applicati nuovi stimoli interni con disordine, sia perchè è reso più mobile ed oscillante. Le modificazioni, a cui soggiace l' organo del gusto dalle affezioni uterine, sono pure ammirabili, o che si considerino i capricciosi gusti delle fanciulle che si avvicinano all' epoca della pubertà, o di quelle il cui scolo periodico è difficile, o che soffrono altri incomodi, o che si considerino quelli delle donne incinte. La ragione della maggiore attività della fantasia nel sonno e nel sonnambolismo, si deve ripetere dalle stesse cagioni. Finalmente il grado di sensitività dipende assaissimo dal prestarsi più o meno, o non prestarsi al tutto l' istinto animale colla sua attività a produrre la sensione, o quegli spontanei movimenti, che alla produzione della sensione sono necessari. L' istinto vitale non si presta alla produzione della sensione, se non tanto, quanto il non prestarsi gli riesce più molesto. La stessa legge mantiene l' istinto sensuale rispetto ai movimenti; non si presta a produrli, se non quanto il farlo gli riesce più piacevole che l' astenersene. E` quello che ho detto del fenomeno singolare della capacità morbosa. E` noto come Giovanni Rasori amministrasse uno scrupolo di tartaro stibiato alla volta, una dramma e più dramme nel corso di ventiquattr' ore, e fino più oncie nel corso d' una malattia, senza che s' eccitasse il vomito, o poco e di rado, nè si accrescesse o poco il secesso, senza che comparissero sudori maggiori che non comportasse l' indole o l' epoca della malattia. Simili arditi esperimenti egli fece con tutte le preparazioni antimoniali, gli emetici, il nitro, i purganti anche più drastici. Dove sembra incontrarsi una contraddizione; perocchè questa capacità morbosa non si manifesta che in quelle malattie, che chiamano steniche, perchè caratterizzate da eccesso di stimolo. Ma se in queste malattie vi è un maggiore eccitamento, perchè dunque si mostrano quasi insensibili e resistenti all' azione di sì forti rimedi? A me pare che per ispiegare questo fatto si deva ricorrere alla indicata legge: « non prestarsi l' istinto animale (vitale o sensuale) ad operare in conseguenza degli stimoli, se non in quel tanto che il prestarsegli è più piacevole, o meno spiacevole del non prestarsi »; di che si trae essere un errore il credere che « la quantità d' azione dell' istinto animale cresca e diminuisca in ragione semplice e diretta della quantità degli stimoli ». Conviene distinguersi: 1 la quantità degli stimoli; 2 la quantità dell' eccitamento appartenente al sentimento fondamentale; 3 la quantità d' azione dell' istinto animale, sia vitale o sia sensuale. Ora ciò che noi dicevamo si è che la quantità di azione dell' istinto animale non va in ragione della quantità degli stimoli, ma procede a tenore della legge indicata, regolatrice della sua attività . Dopo ciò si possono fare delle altre domande importantissime, le quali sono: « Se l' eccitamento tenga esatta proporzione agli stimoli »; e io penso ancora di no, per la stessa ragione. « Se la quantità d' azione dell' istinto, in quanto produce la sensione o il moto animale, tenga esatta ragione colla quantità dell' eccitamento appartenente al sentimento fondamentale »; e di nuovo sembrami dover rispondere negativamente; perocchè niente ripugna che l' animalità trovi piacevole di lasciarsi eccitare, o men penoso almeno dello sforzo di sottrarsi allo stimolo; e poi quando trattasi di passare all' azione dell' istinto, che produce la sensione o il moto, trovi più piacevole o meno molesto il resistere, e il non prestarsi a produrlo. « Se in ragione esatta della quantità d' azione dell' istinto vitale, o che è il medesimo, in ragione della quantità di sensione o sensioni da lui prodotte, sia la quantità d' azione dell' istinto sensuale, o che è il medesimo, la quantità del moto da lui prodotto ». E di nuovo deve dirsi non essere, per una consimile ragione, quantunque resti vero che la sensione sia il principio d' un movimento animale conseguente (1). Ritornando dunque al principio generale, ripetiamo che « il maggiore o minore grado di sensitività dipende principalmente dalle leggi dell' attività dell' istinto animale », e che i fenomeni della sensitività non si possono spiegare misurando solo gli stimoli e le forze esteriori, che agiscono sul principio sensitivo, quasichè questo fosse unicamente passivo, e non anche attivo, e non fosse dotato di proprie sue leggi determinatrici del suo operare. Più si medita questa verità, più la si vede al fondo di tutti i fenomeni animali: Perchè una sensazione più forte toglie quella che è meno forte, come, a ragion d' esempio, lo splendere del sole impedisce la visione delle stelle? Certo si deve attribuire in parte all' azione meccanico7animale, che, facendo oscillare tutte le fibrille egualmente del nervo ottico, suscita una sensione uniforme, nella quale si fonde la sensione parziale delle stelle. Ma questo non ispiega a pieno come la luce delle stelle, che continua a ferire certe fibrille della retina, non vi cagioni più alcuna sensazione, perchè la trova scossa dalla maggiore azione del sole. Pare dunque che si deva piuttosto dire che le fibrille percosse dalla luce del sole non ricevono più il movimento del debole raggio della stella, perchè l' attività sensitiva è occupata a preferenza a secondare l' azione dello stimolo maggiore; benchè a produrre quel fenomeno concorrano più cause, e fra le altre la legge meccanica, che un moto maggiore resiste ad una forza assai debole tendente a modificarlo; chè dove vi è più quantità di moto, ivi vi è più di forza resistente a cangiare direzione o metro. Perchè le forze dell' istinto vitale resistono alle forze chimiche, fisiche e meccaniche, tendenti a disciogliere la macchina complicatissima e corruttibilissima del corpo umano? Per la stessa attività intrinseca all' anima. Per questo l' istinto animale raffrena l' azione dei succhi gastrici, adoperandoli a disciogliere gli alimenti, e impedendo probabilmente che la loro azione dissolvente nuoccia al ventricolo. All' incontro pare indubitato che nel cadavere si trovi alcune volte il ventricolo digerito tosto dopo la morte, per l' azione dei detti succhi, a cui non osta più l' attività del principio vitale (1). E qui mi conceda il lettore che a conchiusione delle cose dette, e quasi a riposo, manifesti un voto, che qualche sapiente medico prendesse a porre insieme una nuova teoria dell' arte di esperimentare in medicina . Se pur è vero quello che a me ne pare, dopo le riflessioni precedenti, devono parere insufficienti i trattati fin qui pubblicati sopra sì importante argomento. L' arte di esperimentare è la parte principalissima della logica medica , e da quell' arte dipende il vero progresso della medicina, la quale, senza di lei, non può che perdersi irrimediabilmente, e rovesciarsi da una teoria gratuita e crudele in un' altra pure gratuita, e forse più crudele ancora. Quali osservazioni crediamo noi che dovesse tenere innanzi agli occhi quell' uomo dotto, che togliesse la fatica di sì nobil lavoro? Prima e preliminare cura vorremmo che fosse quella di togliere l' apparente discordia delle opinioni, levando gli equivoci del parlare. Contendono i dotti con gran danno dell' arte, quando, senza darsi cura d' intendersi, gittano tanto tempo e tante parole a contrariarsi. A ragion d' esempio, se le due sette di empirici e di razionali si definiscano in un modo ragionevole, verranno tosto ad un facile accordo. Poniamo queste definizioni: Medici empirici sono quelli che pretendono doversi applicare i rimedi unicamente sulla regola dei casi simili considerati fenomenalmente. Medici razionali quelli che pretendono non doversi applicare i rimedi secondo la regola dei casi simili considerati fenomenalmente, ma considerati nelle loro cagioni efficienti interne, le quali non cadono sotto l' esperienza, ma s' argomentano tuttavia da dati esperimentali. Da tali definizioni si trae questa conseguenza: Gli empirici non escludono il ragionamento, di che a torto si accusano, ma lo restringono a determinare i casi simili per via dei fenomeni che cadono sotto l' esperienza. I razionali non escludono l' esperienza, di che pure a torto si accusano, ma vogliono che l' esperienza si adoperi a rilevare, per via di ragionamento, la costituzione intima del morbo di cui si tratta, e quindi le sue cause interiori che ne producono esternamente i sintomi. Così definite le due sette, e purgate dall' accusa ingiusta che reciprocamente s' appongono, il torto di ciascheduna, se pur v' è, riesce assai minore, e sono già con questo solo avvicinate. E a buon conto i medici idioti non saranno più confusi cogli empirici ; chè l' empirico non è necessariamente idiota; quando anzi per eseguire ciò ch' egli si propone, « di medicare secondo i casi simili fenomenalmente considerati », gli è mestieri d' una scienza immensa, di uno studio inesauribile. E di vero, è ella forse leggiera cosa lo stabilire quali sieno i casi veramente simili fenomenalmente considerati? è ella una breve fatica il raccogliere tutti i fenomeni morbosi, e il classificarli secondo la loro maggiore o minore similitudine? richiede poca sagacità il distinguere quelli che sono simili nell' essenza specifica, e quelli che non sono simili se non in accessori ed accidenti, lo stabilire la somma importanza che ha un dato rapporto di somiglianza, e la poca importanza d' un altro? il cogliere la gradazione delle somiglianze e della loro importanza per caratterizzare una malattia? Non si richiede a tentare su questa base una classificazione dei morbi, infinita perspicacia e perseveranza d' osservazione? E poi rimane a classificare alla stessa maniera il corso e l' esito diverso delle malattie nei climi, temperamenti ed altre circostanze diverse; e poi in questo metodo è uopo argomentare continuamente a iuvantibus et a laedentibus , per ritrovare la corrispondente efficacia dei rimedi, e le dosi e la maniera di amministrarli. Si separino dunque gli idioti dai veri empirici, e tosto i medici s' intenderanno fra loro più facilmente. Dopo queste separazioni, a che si ridurrà il difetto delle due sette indicate? Non più al mancare l' una di scienza, e l' altra soprabbondare; ma forse a una restrizione arbitraria, che ciascuna di esse pone al suo metodo. Tutto allora dovrebbe tendere a mostrare a ciascuna di esse, come ella gratuitamente si limita e si rende più difficile lo scopo che vuole ottenere, qual è quello di giungere alla vera scienza medica. Così s' avranno dei medici non empirici, non razionali, ma ragionevoli. I quali: 1 raccoglieranno e mediteranno tutti i fenomeni, come si propongono di fare gli empirici, classificandoli secondo le loro caratteristiche somiglianze; 2 non ricuseranno d' investigare la condizione morbosa interna col ragionamento, come si propongono di fare i razionali, a condizione che le induzioni sieno rigorosamente logiche. La questione non verserà più dunque sul metodo, il quale diverrà unico e completo, ma sull' esatta applicazione del medesimo. Non si dirà più: i casi simili non valgono nulla; ma si dirà: questi casi non sono simili, o non hanno una similitudine caratteristica, essenziale, specifica, ma solo accidentale. Non si dirà più: la causa interna della malattia è inutile a ricercarsi; ma si dirà: l' induzione, colla quale voi stabilite questa causa interna, non regge alla logica, od ha solo tanti gradi di probabilità, e perciò dovete mettervi in guardia, calcolando anche i gradi di probabilità che stanno contro la verità di quella causa. Queste questioni non sono più vaghe; qui si sta rigorosamente sul terreno della scienza; il progresso dell' arte è allora assicurato. Il nuovo Trattato dell' esperienza in medicina dovrebbe dunque: Determinare quali sieno i dati che l' esperienza sensibile somministra, indicare i modi di esperimentare per rinvenirli, e i modi di classificarli. Determinare quali sieno le regole per cavarne induzioni logiche, e la forza di conchiudere che ha ciascuna di esse, e classificare le induzioni medesime. In queste due parti del trattato si fanno avanti le difficoltà che s' incontrano, tanto ad istituire le esperienze, quanto a dedurne giuste illazioni; e quindi si dovrebbero mettere sott' occhio le illusioni, gli errori, i falsi ragionamenti, nei quali l' esperimentatore ed il ragionatore può trasviare. A quest' ultimo intento il sapiente scrittore da noi desiderato dovrebbe mostrare quanto sia complicata la macchina umana, e quanti sieno i principŒ attivi e le sublimi leggi che la modificano, e come reciprocamente attive le mutazioni che ne avvengono, e quanto pochi, comparativamente, i dati di fatto che l' esperienza ci somministra. Se il problema così detto dei tre corpi riesce tanto difficile a risolversi in astronomia, perchè trattasi d' azione reciproca, benchè uniforme, del sole, della terra e della luna; che sarà dove i corpi influenti gli uni su gli altri sono innumerevoli, e di continuo si mutano, e varie le forze, i movimenti complicati e sempre reciprocamente influenti, come accade nel corpo umano? Questa esposizione condurrebbe a provare, che « il pretendere di conoscere per diretta esperienza o per induzione tutti i fatti interni, da cui risulta lo stato sanitario d' un corpo vivo, e di pronosticarne l' esito, e di modificarlo salutarmente coll' applicazione dei rimedi, non è cosa da pigliarsi a gabbo, anzi superiore alle forze umane ». Lo studioso dunque dell' arte medica si può prefiggere due scopi: l' uno di rilevare questo stato positivo del corpo, mediante la cognizione degli elementi da cui esso è costituito, cosa arduissima; l' altro di appigliarsi a regole induttive, complesse, volte a conoscere l' efficacia salutare o nocevole dei rimedi applicati ad uno stato del corpo, che si conosce imperfettamente, cosa congetturale. Questi due grandi scopi caratterizzano due scuole mediche, distinguono la medicina analitica dalla medicina sintetica . Ecco il significato che noi attribuiamo a queste due denominazioni. L' arte medica è una: è l' arte di guarire le malattie. La scienza è la teoria di quest' arte. Ma il medico, che brama di ottenere il fine dell' arte, si può mettere in una delle due vie. Può persuadersi di riuscire a conoscere il modo di guarire le malattie, studiando che cosa esse siano in sè stesse, da quali forze e mutazioni interne risultino; e questa noi chiamiamo medicina analitica, perchè si propone di studiare le malattie nei loro interni elementi e di coglierle all' origine, investigandone il complesso delle forze, dei movimenti e loro effetti da cui risultano; il che è un andare prima per via d' analisi, affine di sintesizzare poi nelle induzioni conseguenti. Può anche persuadersi di riuscire a conoscere il modo di guarire le malattie, studiando gli indizi , che ne dimostrano il progresso verso il meglio o verso il peggio, senza darsi poi gran cura di sapere positivamente come ciò avvenga; e questa noi chiamiamo medicina sintetica, come quella che si propone di conoscere l' effetto complessivo dei rimedi; benchè, partendo da questa cognizione, lo stesso medico possa in appresso analizzare il detto effetto complessivo, e giovarsi di esso a conoscere gli elementi interni onde risulta. E l' uno e l' altro metodo può certamente condurre verso il fine, ma è mestieri unirli insieme, facendoli cospirare all' unico intento loro comune; condizione indispensabile ad ogni modo si è che i fatti osservati sieno certi e precisi, le illazioni rigorose: l' una e l' altra cosa difficilissima. Del rimanente è chiaro che la medicina analitica prende una via più lunga, e più difficile a condursi per illazioni logiche al suo fine; il che dovrebbe risultare pienamente dal trattato dell' esperienza da noi desiderato. Vi si dovrebbe dimostrare questa somma difficoltà da più lati, e principalmente da questi due: La complicatezza del corso zoetico e la sua perpetuità in anelli sempre nuovi, ciascun dei quali malagevole a riconoscere. Gli agenti che possono modificare il corso zoetico (1). Dell' uno e dell' altro fonte di difficoltà diamo qualche cenno, che chiarisca il nostro concetto. La smisurata difficoltà del proposto si conosce osservando che: Pochi sono comparativamente i dati di fatto , che l' esperienza ci può somministrare. Innumerevoli le cose che il medico dovrebbe indurne, per conoscere veramente la condizione dell' ammalato. Il medico cioè dovrebbe conoscere: 1) A quale anello sia pervenuto il corso zoetico. E un anello di questo corso, da quante cause mai non risulta, ciascuna sì difficile a ben rilevarsi! In prima ogni anello è composto dei due elementi, il sensibile ed il mobile . L' elemento sensibile è un complesso di innumerevoli sentimenti, dei quali solo pochi cadono distintamente nella coscienza, e molti si fondono in un sentimento, che costituisce appunto lo stato sensibile dell' animale. L' elemento mobile del pari risulta da innumerevoli moti intestini, e dalla loro reciproca azione e fusione. Di più, tanto nell' elemento sensibile, quanto nell' elemento mobile d' un dato anello sarebbe uopo notarsi l' ordine dei movimenti contemporanei, chè i diversi sistemi del corpo umano operano reciprocamente l' uno sull' altro e con successione, sicchè i movimenti contemporanei, che si fanno nel corpo, altri sono gli estremi d' una serie più lunga, altri d' una serie più breve dei movimenti precedenti; i movimenti muscolari, per esempio, non sono l' effetto dei movimenti nervosi contemporanei, ma dei movimenti nervosi appartenenti all' anello precedente. 2) Si dovrebbero oltracciò conoscere gli anelli precedenti all' anello di cui si trattava, o almeno lo stato dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, stato dipendente: a ) dalle forze e stimoli materiali che agiscono sull' organizzazione, poniamo la materia morbosa introdotta nel corpo umano, ecc.; b ) dalla condizione dell' organizzazione, già più o meno sconcertata; c ) dalle altre innumerevoli cagioni, che pongono l' istinto animale in un grado di maggiore o minore eccitamento, e in una maggiore o minore attitudine di operare, secondo la legge preaccennata della preferenza che l' istinto dà all' operare o al non operare, e all' operare più o meno. 3) Ancora si dovrebbero conoscere gli anelli susseguenti del corso zoetico, che sono impossibili a prevedersi con sicurezza, per gli stimoli accidentali che sopravvengono o si sottraggono; o almeno si dovrebbero conoscere le leggi che determinano la specialità di quel corso zoetico, di cui si tratta; la quale di nuovo non cade sotto l' esperienza, ma ha bisogno di argomentarsi dai pochi dati dell' esperienza. Certo, il calcolo delle azioni reciproche delle varie forze, ciascun atto delle quali ha una sua intensità e una sua misura, vince l' umana intelligenza. 4) Finalmente si dovrebbe prevedere l' azione dei rimedi. Ora come dedurla da così difficili congetture? Si può dunque conchiudere, senza temerità, essere impossibile stabilire l' arte di medicare unicamente sulle cause interne dei morbi direttamente conosciute, o indirettamente argomentate dai dati di fatto, che somministra l' osservazione del corpo umano. Si conferma vieppiù questa difficoltà di conoscere compiutamente lo stato interno dell' animale ammalato, considerando come tutte le regole induttive volte a questo fine sono fallaci. Esaminiamone alcune: I sintomi . - Qui è da rammentare quel tanto che fu detto contro la medicina sintomatica . Certo è che i medici che sono partiti dal principio di Brown, e sono quasi tutti i moderni, cioè dal principio che lo stato sanitario del corpo umano dipenda unicamente da un eccesso o da un difetto, o da un equilibrio di stimolo, confessano essere i sintomi al tutto fallaci, quando si voglia da essi indurre la condizione stenica o astenica del corpo (1). Che anzi le medesime malattie, con tutti i sintomi che le caratterizzano, sono da essi attribuite ora all' eccesso, ed ora al difetto di stimolo. Sicchè vi sono, a ragion d' esempio, secondo essi, delle idropi per eccesso di stimolo, ma ve ne sono anche di quelle cagionate da difetto di stimolo, e così si dica di un gran numero d' altre malattie. Onde neppure la specie della malattia indica con sicurezza la sua causa e natura interna (2). La regola a iuvantibus et laedentibus è certamente preziosa, se si adopera a conoscere l' efficacia dei rimedi. Ma se si pretende di adoperarla a rilevare le cagioni interne del morbo, l' intima condizione morbosa, ella si trova pure fallace. Io sono persuaso che due rimedi opposti, l' uno stimolante, l' altro controstimolante, possano produrre, in certi casi, per le complicazioni interne, il medesimo effetto. Ho già osservato che se lo stimolo è soverchio, istupidisce la fibra e diminuisce la sua quantità d' azione, e, diminuita questa, sono diminuiti i movimenti e gli stimoli interni che ella produce. L' effetto dunque dipende dalla proporzione fra l' aumento dello stimolo esterno, o dirò così terapeutico, e la diminuzione dello stimolo interno, fisiologico e patologico. Se questa diminuzione è maggiore che quell' accrescimento, l' effetto totale sarà una diminuzione di stimolo; quindi il rimedio applicato sembrerà controstimolante, quando egli sarà stimolante. La complicazione della macchina umana è tale che, assai più spesso che non si creda, s' avverano in lei questi due effetti contrari di accrescimento e di diminuzione parziale di stimolo, risultando poi l' effetto totale dall' eccedere l' accrescimento o la diminuzione. Allorquando qualche rallentamento del sangue venoso provoca lo sbadiglio, vi è diminuzione di stimolo; e pure a questa diminuzione succede spontaneo uno sforzo, che fa l' animale per inspirare una copia maggiore d' aria atmosferica, e questo sforzo, questa copia maggiore d' aria è accrescimento di stimolo. Lo stesso dicasi di tutte quelle cagioni, che rendono l' anelito più frequente e la respirazione più profonda per difetto di stimolo. O sia diminuita la quantità dell' aria atta alla respirazione, o sia diminuito il sangue, o un soverchio calore e celerità nel corso consumi più di sangue rosso, o l' uomo senta, come nei momenti prossimi alla morte, sfuggirsi la vita; in tutti questi casi alla diminuzione dello stimolo s' associa o sussegue prossimamente un aumento di stimolo, provocato da quella stessa diminuzione. Qui è l' istinto sensuale che accresce la sua azione, tentando di riprodurre gli stimoli che gli vengono sottratti; prova evidente che un tale istinto non opera solo in virtù e in ragione della quantità degli stimoli materiali, interni ed esterni, ma con altre leggi sue proprie; non è solo passivo, ma ben anche attivo. In niuna delle malattie, benchè si guariscano con una cura stimolante, la debolezza è tale che non vi sia contemporaneamente un aumento di stimolo parziale, il quale talora inganna i medici, giudicandole infiammatorie o steniche. Basta solamente leggere le due serie di storie, che il Rasori aggiunse in fine alla sua Teoria della Flogosi, l' una di malattie credute infiammatorie, e condotte colla cura antiflogistica ad estrema gravità, guarite poi colla cura stimolante (1); l' altra di malattie credute pure infiammatorie, finite colla morte, non mostrando il cadavere segno d' infiammazione, per convincersi che un aumento parziale di stimoli occorre in ogni malattia, senza che da questo si possa sicuramente inferire ch' essa sia stenica. Dappertutto dove si manifesta acceleramento di polso e aumento di calore, v' è stimolo parzialmente accresciuto; chè, non fosse altro, il solo moto, il solo calore aumentato è già stimolo e produttore di stimoli interni. Dappertutto dove è dolore v' è indubitatamente stimolo parziale accresciuto, chè il dolore è stimolo e produttore di stimoli, mediante l' azione eccitata dell' istinto animale. Dappertutto dove si scorge aumento di secrezioni ed escrezioni vi è stimolo parziale, chè le secrezioni cresciute dimostrano maggiore attività degli organi secretorii ed escretorii, e questa attività suppone maggiore eccitamento e stimolo. Anche dove le secrezioni ed escrezioni sono minori del bisogno può esservi aumento di stimolo, come nel caso in cui lo stimolo soverchio impedisca l' azione degli organi, quasi istupidendoli. Molto più ogni secrezione ed escrezione anormale e disordinata può dimostrare aumento di stimolo parziale, benchè accompagnata da contemporanea diminuzione di stimolo pure parziale. Le convulsioni dei muscoli, l' assopimento, il letargo, il delirio dimostrano un aumento parziale di stimoli eccitatori dei nervi e del cervello. Insomma vi sono assai pochi sintomi morbosi, nei quali non si ravvisi un aumento parziale di stimolo e di eccitamento. Di più, gli stessi sintomi che più indicherebbero debolezza, possono essere un effetto indiretto, se si vuole così chiamarlo, di aumento parziale o totale di stimolo e d' eccitamento; ovvero possono essere accompagnati da sintomi dimostranti parziale o totale debolezza, e diminuzione di stimolo. Nelle infiammazioni stesse i medici non sono ancora d' accordo nel decidere se il labirinto dei vasellini ingorgati si trovi in istato di debolezza o in istato di soverchia energia. Il Rasori confessa esservi una specie di debolezza nel viluppo capillare venoso, sede dell' infiammazione, benchè dichiari che non si tratti qui di quella debolezza, che deve determinare il metodo curativo (1). Questa distinzione, per dirlo qui di passaggio, già dimostra da sè il bisogno di distingure più accuratamente che non sia stato fatto, quale sia precisamente la debolezza di cui parlano i medici, che vogliono ridurre tutta la medicina alla quantità soverchia o mancante degli stimoli; giacchè essi stessi confessano che ogni debolezza osservabile nel corpo umano si adatta al loro sistema. Ad ogni modo conviene intanto ammettere che nel viluppo capillare infiammato vi è una qualche specie di debolezza. Or questo è un confessare che anche nella stessa parte del corpo umano può trovarsi contemporaneamente un elemento di debolezza ed un elemento di forza, o per dir meglio, una causa debilitante ed una eccitante. Non v' è alcun dubbio che l' afflusso del sangue alla parte infiammata è un aumento di stimolo, che viene ad essa applicato, benchè non possa certo essere la prima causa del morbo. Che se pur non si vuol riconoscere nei vasellini ingorgati di sangue altra cagione di debolezza che l' azione meccanica del sangue stesso, che vi si introduce con forza e li distende soverchiamente, sia per un poco. Ma rimarrà vero che uno stesso agente, il sangue, opera nella stessa parte in due modi, coll' uno dei quali la affatica, la sfianca, l' addebilita; coll' altro, stimolando, l' eccita e rinforza. Dunque lo stato della parte deve venir determinato non dal solo elemento che l' addebilita, nè dal solo elemento che la rinforza, ma dal calcolo dei due effetti opposti, contemporanei e misti. Ma è dimostrato che la debolezza dei vasellini ingorgati dipenda unicamente dall' azione meccanica del fluido, che impetuosamente è sospinto in essi? Non so se vi siano prove concludenti. Oggidì sembra ridotto a certezza che la circolazione non dipenda dalla sola forza del cuore (1), ma i vasi abbiano una controdistensione loro propria. E quantunque il sistema venoso appaia rispettivamente passivo, e l' arterioso rispettivamente attivo, tuttavia le tuniche delle vene non si possono spogliare affatto d' ogni virtù elastica e controdistensiva (2); altrimenti non potrebbero rispondere agli stimoli meglio d' una sostanza inanimata. Posta dunque un' attività vitale tanto nelle vene, quanto nelle arterie, benchè in queste maggiore, e in quelle minore; chi mai può sostenere esser cosa impossibile che quella stessa causa morbosa, qualunque sia, che accresce l' azione del cuore e delle arterie, non sia altresì quella che produca in sulle vene capillari il contrario effetto, rendendole meno resistenti, più cedevoli e dilatabili all' afflusso del sangue? In questo caso la vera cagione, tanto dell' attività maggiore presa dal cuore e dalle arterie, quanto della debolezza relativa dei capillari venosi, dovrebbe attribuirsi all' azione modificata dell' istinto animale, accresciuta nelle arterie, diminuita nelle vene. E non pare tampoco improbabile che il sistema venoso e il sistema arterioso abbiano fra loro un cotale antagonismo, essendo questo secondo sistema ordinato a spingere il sangue dal centro alla periferia, quel primo a ricondurlo dalla periferia al centro. Così già si volle notare un antagonismo fra i vasi capillari bianchi e i vasi capillari rossi, benchè non intendo come il signor Festler possa attribuire ai capillari bianchi una forza contrattiva maggiore che non ai vasi rossi, e a questi una maggiore forza espansiva che a quelli, quando anzi parrebbe il contrario (1); giacchè la contrazione suppone maggiore azione vitale, la quale prevale certamente nei vasi rossi, quando l' espansione non è sempre effetto della sola vitalità, ma ben anche della debolezza e passività; onde è manifesto, a ragion d' esempio, che le vene reagiscono meno al fluido che ricevono, che non le arterie, le quali lo sospingono aiutate dalla loro forza controdistensiva. Ora sarebbe forse impossibile che la stessa debolezza cresciuta, per qualsivoglia cagione, nel sistema venoso, la stessa maggior cedevolezza delle parti dei vasi venosi dovesse avere per effetto una maggiore attività nel sistema arterioso? In questo caso la debolezza sopravvenuta nella forza vitale delle vene sarebbe una cagione dello stato morboso, di cui si tratta, precedente a quella dell' eccitamento arterioso, sicchè questo diverrebbe rispettivamente effetto, anzichè causa. E che la cosa possa esser così me lo persuade il considerare che, supposta una dilatazione maggiore delle vene, una minore resistenza al corso del sangue, esse dovrebbero recare al cuore copia maggiore di questo fluido, e quindi accrescere in lui lo stimolo e l' attività, colla quale egli lo respinge per le arterie in tutto il corpo, che altrimenti ne andrebbe difettando. E supponendosi che il calibro delle arterie non si accrescesse punto nella stessa proporzione, in cui si accresce quello delle vene (perocchè le arterie dotate di maggior vita resistono maggiormente all' impulso materiale, ed al sangue considerato come stimolo, si contraggono), ne verrebbe che nelle arterie si dovesse necessariamente accrescere la velocità della circolazione, acciocchè potesse passare per esse una porzione di sangue eguale a quella che passa per le vene, condizione necessaria del circolo. Di più, essendo l' albero venoso assai più capace dell' albero arterioso, quand' anche i vasi di entrambi gli alberi si dilatassero in misura eguale, ancora dovrebbe avvenire un acceleramento di sangue nelle arterie acciocchè queste potessero dare sfogo a tutta la quantità di sangue, che le vene porterebbero al cuore, senza che questo vi si arrestasse. Ora poi qual è la cagione che fa sì che il sangue non si arresti nel suo corso? La vera e prima cagione, come abbiamo già accennato, è l' istinto animale, quell' istinto che, sentendo una molestia, si adopera a cansarla da sè, quell' istinto che per dare una spinta maggiore al sangue sa formare lo sbadiglio, che produce l' anelito e l' asma, che nelle varie condizioni d' aria atmosferica sa muovere i polmoni, accelerando o ritardando la respirazione, secondo che sente che gli vien bene il renderla ora più ampia e profonda, ora più lunga, ora più breve e frequente, ora più viva, ora meno, ora più facile, ora più pesante. Si dovrebbe dunque ricorrere all' attività vitale, come a prima cagione dell' acceleramento del sangue e del maggior afflusso nelle vene, attività che viene suscitata dalla debolezza e rilassatezza incolta a queste; sicchè tutta la questione si ridurrebbe a cercare la prima causa di questa rilassatezza morbosa delle vene; la quale indubitatamente si dovrà rinvenire in una qualsivoglia irritazione offensiva dell' istinto vitale, per la quale questo è obbligato ad entrare in quella lotta contro la cagione irritante, che abbiamo descritta. Non è qui necessario, nè cade a proposito del nostro intento, il porci nell' investigazione di questa causa, molteplice certamente. Ma piuttosto, ritornando al fenomeno dell' infiammazione, pare che questo ritrarrebbe dalle cose dette qualche maggiore dichiarazione. Perocchè il maggior afflusso di sangue nei capillari venosi, l' accresciuto movimento nelle arterie, cause entrambe atte, insieme con altre molte, a sviluppare una maggior copia di calore, e dare al sangue una tendenza a dissolversi nei suoi tre principŒ di siero, cruore e fibrina, sembrano bastare a spiegare come nel viluppo capillare venoso debba nascere ingorgamento, e quasi stagnamento sanguigno, con gonfiezza, calore, e tendenza alla suppurazione; massime là dove i capillari, il cui calibro è assai irregolare, sono d' una grossezza accidentale maggiore; circostanza, che il Rasori crede atta a spiegare la località dell' infiammazione (1), e dove, dirò io, per le cagioni che poi accenneremo, i detti capillari acquistano una spossatezza ed un rilassamento maggiore, quand' anche ne sieno più grossi di lor natura, diventando tali per la morbosa loro dilatazione. Ora, a che tutto questo nostro ragionamento? Unicamente a dimostrare che dove si scorge soverchio stimolo, ivi contemporaneamente può darsi soverchia debolezza; sicchè accresciuta azione vitale e diminuita azione vitale stanno insieme; e l' una è occasione dell' altra; il che io credo legge universale di tutte le malattie, come dirò appresso. E qui troppo più innanzi potremmo spingere la descrizione dei fenomeni di debolezza nello stesso stato d' infiammazione. Perocchè, se ciò che abbiamo detto ci fece trovare della debolezza nella stessa località infiammata, e alla prostrazione di forza, a cui son venute le vene, abbiamo attribuito la cagione o l' occasione dell' accresciuto stimolo; quanto più ci sarebbe facile osservare una debolezza coesistente all' infiammazione, considerando tutto il complesso dei fenomeni d' un corpo, che soffre per qualche locale infiammazione? Io sono appieno convinto degli argomenti di tanti illustri medici, che censurarono Brown perchè voleva curare molte infiammazioni, dette da lui asteniche, cogli stimolanti; ma, accordando questo errore nel metodo curativo, non mi ritengo per questo obbligato a concludere che nelle infiammazioni altro non si debba scorgere che eccesso di stimolo. Gli stessi medici, che ho citati, sono obbligati a distinguere due maniere di debolezza, cioè la patologica e la fisiologica , come essi le chiamano; ed accordano l' esistenza di questa seconda colla presenza d' una soverchia robustezza patologica . Ora questo è già un accordarci quello che noi vogliamo, esservi cioè forza e debolezza ad un tempo nel corpo umano e nella stessa malattia. Se poi le denominazioni di fisiologica e di patologica sieno esatte, e vengano con tutta chiarezza definite, questo è appunto ciò, su cui cade il mio dubbio. Se io considero come i nostri medici vennero a formarsi il concetto di quella che chiamiamo debolezza patologica, m' accorgo che la raccolsero dall' azione dei rimedi, ma tosto mi si presentano su di ciò più cose a riflettere. Il determinare se un rimedio sia stimolante o controstimolante, o si vuol desumere dall' effetto che egli fa sul corpo sano, e in tal caso l' illazione dal corpo sano all' ammalato va soggetta a gravi eccezioni; o si vuol desumere dall' effetto che fa sul corpo ammalato, e questa via suppone che si conosca avanti se lo stato morboso è stenico o astenico, come essi lo chiamano; e però facilmente si entra in un circolo vizioso, volendosi definire la stenia o astenia morbosa dalla proprietà stimolante o controstimolante dei rimedi, e in pari tempo desumere questa proprietà dei rimedi dallo stato stenico o astenico, alla cui guarigione conferiscono. Indi è da ripetersi in gran parte, a mio parere, la diversità d' opinione tuttavia esistente sulla efficacia dei rimedi. Ma ciò che più m' importa qui di osservare (perchè non cerco che d' indicare qual debba essere la sana logica da applicarsi all' esperienza in medicina) si è: Che l' effetto dei rimedi può benissimo servire di guida sicura per la medicina sintetica , cioè per quella che si contenta di rilevare l' efficacia utile o dannosa dei vari rimedi sulle malattie, determinate mediante tutti i sintomi e fenomeni apparenti e i caratteri certi; ma non vedo come esso possa condurre, almeno per induzioni certe, a stabilire le cause interne delle malattie, e le modificazioni in più o in meno dell' azione vitale in tante sue diverse, complicate, e talora opposte ed antagonistiche operazioni; ed anzi a me pare che il volere appunto dall' effetto dei rimedi dedurre immediatamente l' etiologia morbosa, e poi su questa unicamente fondare le regole da seguirsi nell' uso di quelli, sia un metodo che assai facilmente conduce la scienza entro le angustie di un sistema. Le quali riflessioni si oppongono tuttavia, meno di quel che paia, al metodo curativo degli illustri fondatori di quella che fu denominata, non so se a ragione o a torto, nuova dottrina medica italiana , la quale ad ogni modo, per tante verità che contiene, è bella gloria italiana. Io credo, a ragion d' esempio, che sia una verità acquistata alla scienza quanto insegnò il Tommasini, con altri, che il processo infiammatorio è unico , e che [...OMISSIS...] . Il che sufficientemente si dimostra solo considerandosi l' ingorgo sanguigno, chè il sangue, che ivi si rallenta, è come tagliato fuori dall' universale circolazione, non segue più il torrente, e il movimento che ritiene è divenuto suo proprio; nè per ciò perde la vita, se non allora che perviene alla suppurazione. Prima che si dissolva e muoia, egli vegeta dunque in un modo indipendente, e non più armonico colla vegetazione universale del corpo (2). Ora qui si presentano alcuni quesiti: Deve sempre il medico dirigere i suoi sforzi a far cessare l' infiammazione locale, dove sia palese o si sospetti esistere, trascurando affatto la condizione universale del corpo? Prima di tutto si osservi che un tal quesito appartiene alla medicina sintetica , e non all' analitica . Esso non tende per sè a spiegare ed analizzare lo sconcerto dinamico7organico del processo infiammatorio e le sue cause; ma, qualunque sia questo sconcerto, qualunque sia il complesso degli elementi interni e delle cause materiali e formali dell' infiammazione, tende a scoprire se convenga meglio, per ricondurre il corpo alla sanità, combattere l' infiammazione locale, trascurando il rimanente, ovvero bisogni calcolare anche la condizione universale del corpo. Ora, sebbene noi parliamo della medicina analitica, tuttavia facciamo sul detto quesito qualche riflessione. Il processo infiammatorio per sè conduce alla suppurazione, e però se egli è esteso o affetta, direttamente o indirettamente, qualche organo necessario alla vita, conduce alla morte. La somma importanza dunque d' impedire che questo processo, che sembra [...OMISSIS...] , pervenga ad un esito sì funesto, consiglia in molti casi dimenticare ogni altra considerazione; chè è uopo vincere il nemico maggiore prima del minore. Ma vi è altra via d' impedire l' esito fatale d' una infiammazione, estesa o grave, fuor di quella di sottrarre le forze al processo infiammatorio? Sono ben lontano dal saper fare una risposta adeguata ad una tale domanda; ma voglio osservare che neppur essa appartiene per sè alla medicina analitica , ma alla sintetica ; perocchè si cerca quel che si deve fare per la salute, non si cerca per quali molli interne e dinamiche, organiche, meccaniche, la restituzione della salute in quel caso si produca. Di poi, sia pure che l' andamento dell' infiammazione non si possa troncare, come si dice, con alcun mezzo antiflogistico o d' altra maniera. L' illazione che, dunque, non vi può essere altra via che quella di sottrarre ad essa le forze con cui opera, affine di renderla meno dannosa, sarebbe ancora lontana dall' avere tutto il logico rigore che si desidera. Ad ogni modo questa sottrazione di forze sarà un ottimo espediente per isgagliardire il nemico e renderlo meno rovinoso. Fin qui va appunto la medicina sintetica. Ma la medicina analitica non si ferma qui; vuol cavarne illazioni sulla natura intima del morbo; e niente di meglio, qualora lo faccia secondo il dettame d' una logica irrepugnabile. Ma questo è il difficile. L' illazione, che si pretende dedurre dal fatto che, sottraendo le forze al processo infiammatorio, questo si rende più benigno e incapace di addurre l' esito fatale che altrimenti minaccia, si è che dunque l' infiammazione è malattia consistente in eccesso di stimolo e di robustezza. Ma questo, o non aggiunge nulla alla conclusione precedente della medicina sintetica, « che si cura l' infiammazione felicemente col sottrarle quelle forze, onde procede nel suo corso »; ovvero è un' illazione illogica e falsa. O non aggiunge nulla, dicevo, se pel carattere di eccessiva robustezza, dato alla malattia, altro non s' intende che tale malattia si guarisce coi debilitanti. O è illazione illogica e falsa, se pel carattere di eccessiva robustezza s' intende descrivere proprio la natura del morbo, giacchè il corpo animale può essere debolissimo ed oltremodo estenuato, e tuttavia infiammato; onde se per robustezza s' intendesse ciò che tutti gli uomini intendono, già non sarebbe più vero che l' ammalato, in cui vi è infiammazione, sia robusto e di eccedente vitalità. Affine dunque di salvare i medici analitici da questo assurdo, che non possono voler dire, perchè hanno sotto gli occhi gli infermi, che mostrano loro il contrario, è uopo applicare al loro detto un significato diverso da quel che suonano le parole. Ricorre qui la distinzione, toccata di sopra, fra la robustezza patologica e la robustezza fisiologica . A primo aspetto ella sembra una di quelle tante distinzioni, che ingombrano e aggravano inutilmente le scienze, facilissime ad evitarsi coll' uso d' un linguaggio proprio, siccome l' intende il popolo, unico maestro e legislatore delle lingue. Ma pure quella distinzione è reale, fondata in natura, se si attende alla descrizione e definizione che se ne dà. Come dunque si definisce cotesta robustezza o debolezza patologica , che pare dover essere qualche cosa di diverso da quella che il volgo intende colle parole appunto di robustezza e di debolezza? Il Rasori ce la descrive come una robustezza o debolezza [...OMISSIS...] . Ottimamente; ma in tal caso la definizione non esce dai confini della medicina sintetica ; con essa non si dice già che vi sia veramente stato di debolezza o di robustezza nel corpo, il che sarebbe l' illazione avventata della medicina analitica , ma si dice solamente che vi è un nemico, a cui giova diminuire le forze. Ora, chi mai non sapeva che le forze del nemico sono sempre troppe? Non bastava dire che dove vi è un nemico attivo, che non si può d' un tratto spegnere, conviene cercare almeno di svigorirlo? Questo è logico, evidente. Ma questo non si fa perchè vi siano nel corpo umano troppe forze, ma perchè vi sono in esso forze nemiche. Non si può dunque conchiudere che il male stia in un soverchio di robustezza e di forza, ma nell' anormalità di questa; la quale, fosse anche pochissima, è sempre soverchia, chè lo dirò ancora, tutto ciò che è anormale, è soverchio. Tanto è vero che, non essendo punto dimostrato, come abbiamo notato di sopra, che l' infiammazione nasca da una assolutamente soverchia attività del cuore e delle arterie, anzichè da una attività soverchia relativamente al rilasciamento delle vene capillari, di maniera che la debolezza cresciuta in queste, può aver determinato quella, e non viceversa; non essendo, come dicevo, ciò dimostrato, rimane ancora possibile a concepirsi un' altra via conducente a vincere l' infiammazione, quella di restituire al viluppo capillare venoso una forza sufficiente a far sì che il sangue ingorgato rientri nell' universale circolazione, e non produca un processo di propria vegetazione. Io non voglio qui ricorrere agli effetti del freddo applicato ad una parte infiammata, nè discendere ad altri particolari; ma, dico, nelle generali, che altro è che questa via non siavi, altro che sia impossibile rinvenirsi. Suppongasi impossibile; l' impossibilità dovrà provarsi per tutt' altri argomenti da quelli che si volessero derivare dallo stato di eccesso di stimolo; chè questo stesso eccesso di stimolo parziale cesserebbe, tostochè il rallentamento del sangue ingorgato nei capillari fosse ricacciato per le sue vie naturali, mediante il detto accrescimento di vigoria, nei vasi rispettivamente rilassati. Si replicherà: « l' espressione di debolezza o robustezza patologica è nondimeno propria, perchè indica almeno quell' elemento che il medico deve solo curare, e che perciò forma la base della malattia corrispettivamente al metodo curativo ». Se fosse vero che vi fosse un elemento, a cui il medico dovesse restringere le sue vedute, e solamente in ordine ad esso determinare il medicamento, e se i medicamenti si dovessero unicamente partire in due classi, chiamate l' una dei rinforzanti e l' altra dei debilitanti; in tal caso l' espressione di debolezza o robustezza patologica acquisterebbe certo la dote della precisione, quantunque non acquisterebbe ancora quella della proprietà , perchè non indicherebbe ciò che suona debolezza o robustezza. Ma è forse vero che le vedute del medico si debbono restringere a così poco? E` vero, a ragion d' esempio, che egli deve al tutto trascurare quella che chiamano debolezza o robustezza fisiologica ? Che anzi, se la parola patologica equivale a morbosa, o almeno relativa alla malattia, come non meriterà il nome di patologica quella debolezza e spossatezza, che accompagna i mali infiammatorii, quando specialmente il processo flogistico affligge ed abbatte il sistema nervoso? Non è questa spossatezza effetto della stessa malattia? Non sono frequentissimi, e confessati da tutti, i casi, in cui tutto il corpo è ridotto alla maggior possibile estenuazione, e magrezza, e pallore, e concidenza, e tuttavia una parte affetta d' infiammazione vegeta più rigogliosa e rubiconda che mai, appunto perchè, quasi tagliata fuori dall' unità dell' animale, ha preso a fare a parte da sè sola certe funzioni della vita? (1). Ora, se debolezza patologica indica debolezza morbosa , quale debolezza più morbosa di quella che giunge a svigorire e sottigliare il corpo fino alla morte? Ma non si deve badare a questa debolezza nella scelta della cura. - Ritorno a dire, essere innegabile l' importanza di combattere il processo infiammatorio, minacciante dissoluzione e rovina; essere certo che a ciò conferisce il diminuire le forze al nemico; ma dovendo riconoscersi nel processo infiammatorio debolezza e robustezza contemporanee, e queste relative e non assolute, non si può decidere tutto a priori che non vi sia nessun' altra via conducente a ristabilire l' equilibrio fra la debolezza relativamente soverchia, poniamo delle vene, e la robustezza pure relativamente soverchia, delle arterie. Ad ogni modo riesce del tutto falso anche nel sistema moderno, di cui parliamo, che nello stesso tempo che si fa uso d' un metodo antiflogistico, non si debba almeno colla coda dell' occhio riguardare allo stato di debolezza universale del corpo. Nè il Rasori, nè il Tommasini spingono le cose a tanto eccesso. Nello stesso tempo che essi predicano il metodo antiflogistico, riconoscono che non è [...OMISSIS...] . Laonde, benchè classifichino anche la febbre nervosa continua fra le malattie infiammatorie, tuttavia riconoscono che conviene andar moderati assai nell' uso dei controstimolanti. [...OMISSIS...] Il che dimostra a sufficienza: Che non si può perdere di vista dal medico intieramente e in ogni caso la debolezza universale del corpo, e che perciò anche questa deve poter chiamarsi patologica , se per patologica s' intende quella, che deve dirigere il medico ad applicare i rimedi. Che se si vuol cogliere il concetto intimo direttivo della nuova medicina si troverà che questa non ammette un nemico solo nel corpo ammalato, cioè o solo debolezza, o solo robustezza (benchè sembra talora che l' insegni espressamente); ma vuole che si vinca dei due nemici il più forte o minaccioso; e questo è l' infiammazione il più delle volte; perciò in questa si vuol portata l' attenzione di preferenza. Che se poi l' addebilitamento universale divenisse minaccioso anch' esso egualmente o più, a questo pure si deve riguardare. Finalmente che le parole debolezza, robustezza , ecc., appartengono alla medicina analitica , e se ne può abusare facilissimamente, o usarle senza alcun vero profitto dell' arte; le parole all' incontro infiammazione, flogosi, rimedii antiflogistici , ecc., appartengono alla medicina sintetica , e l' uso di esse è sicuro e necessario; perocchè queste parole non ambiscono di descrivere le cause interne del morbo, o di ridurre il morbo ad una sola e semplice causa; ma si contentano di appellare il morbo quale si può conoscere dai suoi fenomeni, e i rimedi pure, quali appariscono dai loro effetti corrispettivamente ai mali così conosciuti e descritti. Da tutto ciò si deve conchiudere che anche la regola a juvantibus et laedentibus è eccellente, quando si usa a cavarne le induzioni proprie della medicina sintetica ; ma riesce difficilissimo, per non dire impossibile, il cavare da essa con sicurezza quelle induzioni, di cui va in cerca la medicina analitica . E noi potremmo istituire una simigliante critica sopra altre regole mediche celebratissime, e dimostrare in simil guisa quanto difficilmente esse si possano adoperare a costituire la medicina analitica . Ma stimiamo meglio venir dimostrando da un altro lato la stessa difficoltà di cavare con sicura logica quelle induzioni , a cui la medicina analitica aspira, non mai per iscoraggiare i cultori di questa, ma per cautelarli contro al rischio di deviare nei loro ragionamenti dal logico rigore, e così nulla ritrarne fuor che errori ed equivoci. Vi è un sillogismo della medicina sintetica , e vi è un sillogismo della medicina analitica . Il sillogismo della medicina sintetica è questo: I fenomeni (soggettivi ed extrasoggettivi), che noi conosciamo di questo morbo, sono tali e tali. Ma in uno stato di fenomeni eguali giovò il tal metodo curativo, e nocque il tal altro. Dunque è d' attenersi a quel metodo, evitando questo. Il sillogismo della medicina analitica è questo: Le cause interne e formali costituenti il presente morbo sono queste e queste. Il tal metodo curativo diminuisce o distrugge queste cause. Dunque il tal metodo è opportuno alla cura del presente morbo. Diciamo che in questo sillogismo della medicina analitica ogni proposizione è più difficile ad accertarsi, che la proposizione corrispondente del sillogismo della medicina sintetica. La prima proposizione del sillogismo della medicina sintetica non è che l' osservazione dei fenomeni. La prima proposizione del sillogismo della medicina analitica è già ella stessa un' illazione logica da fenomeni, che si suppongono precedentemente rilevati e raccolti; chè le cause interne e formali della malattia non si possono indurre che raziocinando dai fenomeni, sola cosa che conosciamo direttamente per via di percezione. Ora, dedurre col raziocinio le cause interne e formali del morbo dai fenomeni che esso presenta all' osservazione, è già questo solo un lavoro d' immensa difficoltà ed incertezza, evitato dalla medicina sintetica; e la difficoltà in gran parte, di cui abbiamo parlato, nasce principalmente dalla complicatezza del corso zoetico, di cui prima di tutto converrebbe conoscere a pieno la teoria; e poscia dedurne le deviazioni anormali e i loro caratteri, e finalmente poterne rilevare la realizzazione nel fatto concreto dell' ammalato che si cura. La seconda proposizione del sillogismo della medicina sintetica risulta ancora da accurate osservazioni. La seconda proposizione del sillogismo della medicina analitica è una illazione, di nuovo cavata coll' opera del raziocinio dalle osservazioni precedentemente supposte. Anche qui tutta la fatica del raccogliere, accertare e classificare le osservazioni è comune alle due forme di medicina; ma all' analitica soprastà oltre a ciò un fardello infinitamente più pesante, quello di determinare l' azione dei rimedi non già in relazione immediata al morbo, ma in relazione alle cause interne e formali di esso; di determinare il metodo curativo, non già notando se con esso un infermo si approssima allo stato di sanità o più se ne allontana, ma se l' azione interna di esso metodo restituisca le cause supposte della sanità, e tolga le morbose, o faccia il contrario. Qui giace una difficoltà smisurata, che in un Trattato dell' esperienza in medicina dovrebbe svolgersi minutamente e positivamente in tutte le sue parti, e che noi non possiamo considerare, a piccol saggio di ciò che brameremmo fatto da altri, se non da qualche lato parziale. Diciamo, adunque, che ogni effetto che s' ottenga nel corpo umano non si deve considerare come un prodotto di un solo agente, ma concorrono a produrlo sempre due cause, l' agente e il reagente . L' azione qui s' accompagna di continuo colla reazione , e lo stato del corpo, che ne consegue, non è che il risultamento di questa azione e reazione concomitante. Ora se l' azione è correlativa all' attività dell' agente, la reazione è correlativa all' attività (1) del paziente. Quindi il vero effetto d' uno stesso agente varia e talora riesce opposto, qualora lo stato del reagente cangi, e pigli un' attitudine opposta. Di che consegue che non si può predire il vero effetto, che porterà un rimedio applicato al corpo umano, volendolo dedurre dalle cause, se non si conosce a pieno lo stato del corpo umano, a cui si applica; il qual corpo umano è appunto nel caso nostro l' ente che deve reagire. Questo principio innegabile è conosciuto ed ammesso. Se non che, quegli stessi che ne riconobbero l' importanza massima che egli ha in sè stesso, non ebbero poi sempre la logica necessaria da saper procedere con lentezza bastevole nelle deduzioni che vollero cavarne. Chi lo conobbe meglio, a ragion d' esempio, dell' illustre Rasori, che tanto illustrò il fatto della capacità morbosa , fino quasi ad elevarla al grado di suprema regola in medicina? Ma è ben altro conoscere un vero nella sua vuota generalità, e altro saperlo ravvisare in atto, in concreto. Non si abbandonò egli forse di soverchio alla fiducia di conoscere senza molta difficoltà lo stato intero e l' etiologia dei morbi, contentandosi di due semplici parole, quali sono in fine quelle di soverchio stimolo e difetto di stimolo? Chi diede più importanza allo stesso principio di Hahnemann, che si consigliò di voler conoscere prima di tutto l' effetto dei rimedi sul corpo sano? Ma con qual precipizio non ne tirò poi la conseguenza generale, che l' agente nel corpo ammalato avrebbe prodotto sempre l' effetto appunto contrario, fondando, sopra un' illazione sì avventurata, impossibile a provarsi per la sua stessa vastità ed ambiguità, tutta quanta la medicina? Ciò che non si conobbe adunque da questi medici si fu la somma difficoltà di cavare delle illazioni logiche da quel principio. E veramente, chi pretende di valutare l' effetto dei rimedi amministrati al malato, calcolando lo stato del corpo reagente e l' efficacia del rimedio agente, in prima si presenta la difficoltà di conoscere appunto lo stato del corpo che deve reagire; e qui tornano in campo la complicazione e le leggi arcane del corso zoetico, e delle molle e forze ad ogni ora mutabili, che lo producono. Di poi viene la difficoltà di conoscere l' agente e la sua efficacia, la quale è certo costante per sè sola, ma non per questo è meno difficile a rilevarsi in correlazione all' effetto. Ecco alcune circostanze delle molte, che dovrebbero essere discusse nel Trattato dell' esperienza . Quando l' agente è complesso, cioè risultante da più elementi e forze diverse, e così pure quando il reagente è complesso, risultante anch' esso da più elementi suscettibili di passioni e reazioni diverse, allora diviene cosa difficilissima, e spesso fallacissima presagirne il vero effetto; il quale può accadere contrario, nonchè diverso da quel che si presagisce, o da quel che indicherebbe il solo agente per sè considerato. Esempi. - Complessità del reagente. - Il freddo abbassa il fluido contenuto nel termometro. Eppure attuffandosi il termometro nell' acqua fredda, al primo istante s' innalza il detto fluido, e tuffandosi nell' acqua bollente si abbassa. Onde questo contrario effetto difficile a prevedersi, se l' esperienza non lo dimostrasse? Di qui certamente, che il paziente e reagente, cioè il termometro contenente il liquore, non è semplice, ma composto di due parti, che sono: 1 il tubo; 2 il liquore. Ora avviene che allargandosi il tubo, debba discendere il liquore, restringendosi il tubo, debba salire. L' azione dunque del freddo e del caldo nel primo istante si comunica al tubo, e non penetra al liquore se non dopo qualche momento. Indi il fenomeno che dicevamo. Si noti la specie d' opposizione, che somiglia a un antagonismo senza esserlo, fra il tubo e il liquore contenuto nel tubo; scaldandosi l' uno e l' altro, il tubo allargandosi fa scendere il liquore, e il liquore in pari tempo diradandosi vuole ascendere. Dei due effetti contrari, quello che prevale suol pigliarsi per l' effetto dell' agente, e pure non è; anzi è solo la differenza fra due effetti opposti, prodotti dallo stesso agente. Il fuoco dilata; e perchè dunque restringe una palla di molle creta? Perchè la palla di creta è composta d' argilla e d' acqua; dilatando l' acqua in vapore, lascia restringersi fra loro le parti argillose, che non hanno più impedimento ad attrarsi. Complessità dell' agente. - L' agente è complesso, se risulta da sostanze di proprietà diverse, e quindi può dare un effetto inaspettato. L' agente può essere semplice quanto alla natura della sostanza, ma la stessa sostanza può agire con forze diverse. A chi domandasse quale sia l' azione dell' aria sul fuoco, che converrebbe rispondere? E` evidente che l' aria sul fuoco produce effetti contrari, secondochè opera con forze chimiche oppure con forze meccaniche . Se opera con forze chimiche lo alimenta, somministrandogli idrogeno e ossigeno; all' incontro se opera con forze meccaniche, siccome accade in una impetuosa colonna d' aria, lo spegne. S' ingannerebbe dunque colui, che considerasse nell' aria una sola di queste due maniere di forze, e decidesse che l' aria fa sempre sul fuoco il medesimo effetto. Il freddo restringe i corpi, sottraendo loro il calorico, che tiene le loro molecole ad una certa distanza. Or bene, l' acqua che si va restringendo a mano a mano che cresce il grado del freddo, tutto ad un tratto si dilata nell' atto del congelarsi. Lo stesso accade al zolfo, al ferro, ad altri metalli, che si dilatano, passando dallo stato di liquido a quello di solido per raffreddamento. Ora: 1 quasi tutto ciò che il medico adopera per influire sul corpo umano è complesso, sì per la pluralità delle sostanze, di cui è composto, sì per la diversità delle forze meccaniche e chimiche, colle quali agisce; 2 molto più lo stesso corpo umano vivente, che è quello che deve reagire, è oltremodo complesso, non solo per le varie sostanze di cui si compone, ma per le proprietà e forze meccaniche, fisiche, chimiche e vitali, che in esso agiscono simultaneamente e spesso in un senso opposto, e non solo con diversità di effetto, ma fin anche con vero antagonismo. Il Trattato dell' esperienza , da noi desiderato, dovrebbe discendere al particolare, e mettere in aperto tutte le diverse classi d' illusioni, in cui si può dare in conseguenza della molteplicità di sostanza e di forza degli agenti (rimedi, metodo curativo) e del reagente (corpo umano). E questo non basta ancora; dato pure che fosse semplice la sostanza e la forza, sì dell' agente che del reagente, se ne può avere tuttavia ora un effetto, ora un altro diverso, ed ora uno del tutto opposto solo che cangino le circostanze, gli accidenti, nei quali l' agente ed il reagente si trovano. Un cenno anche di ciò. Forze vitali. - Queste producono un effetto diverso, come vedemmo, secondo la condizione della materia in cui agiscono, dell' organizzazione, ecc.. Producono un effetto diverso, secondo che la loro azione si considera come modificatrice piuttosto delle forze meccaniche che delle chimiche, ecc., o viceversa. Producono un effetto diverso, secondo che la loro spontaneità è più o meno suscitata, più o meno disposta ad operare. Forze chimiche. - Ogni sostanza chimica agisce in modo diverso, secondo che deve agire in un' altra sostanza, colla quale ha una data affinità o ripugnanza. Agisce in modo diverso, secondo la proporzione delle due o più sostanze che si mescolano insieme; secondo il modo col quale si mescolano, il tempo, la vicinanza, le forme, e secondo tutti quegli accidenti, che i chimici notano con diligenza. Agisce in modo diverso, secondo che è sostanza elementare, o sostanza composta di più elementi, la sostanziale unione dei quali dà ad esse novelle proprietà. Forze meccaniche. - Il tempo, la celerità, le leggi della comunicazione del moto, la forma, il contrasto delle forze, ecc., sono circostanze che producono effetti opposti e contrari. Un po' d' aria apre un uscio; una palla da fucile lo fora senza aprirlo. La forza è maggiore nella palla, eppure non produce l' effetto dell' aria, perchè la celerità della palla è tanta che non lascia tempo al movimento da comunicarsi a tutto l' uscio; ma, prima che nasca la comunicazione, produce l' effetto di staccare quel pezzuolo ch' ella preme con tanto impeto, dalla coesione che lo tiene unito col rimanente della tavola. Dovrebbero in una parola enumerarsi tutti gli elementi, che possono mutare l' effetto degli esperimenti, e anche renderlo contrario; cavando in fine per corollario la soluzione ben determinata dei seguenti problemi: « Quali illazioni logiche si possono cavare, con rigorosa certezza, da un effetto ottenuto da un esperimento, e quali non si possano ». « Quanto di probabilità può avere un' illazione, che si può cavare dall' effetto d' un esperimento, quando non può aversi la certezza ». La medicina sintetica dunque è soccorsa da quelle regole medie complesse, che vedemmo costituire la mirabile sagacità degli uomini prudenti quelle regole, che accorciano il cammino alla soluzione dei più ardui e complicati problemi. E questa è anche la via tenuta dai più celebri medici di tutti i tempi, da quelli che al letto dell' ammalato mostrarono sagacità e sicurezza in debellare i morbi. L' abbandonare queste regole complessive, per applicarsi ad analizzare gli elementi primitivi costituenti le cause dei morbi e della loro cura, diede spesso all' arte medica il tracollo, e crudelissimi patimenti e morti alla sofferente umanità. Ma se attenendosi a quelle regole, senza mai abbandonarle, si verrà di mano in mano discendendo a più particolari cognizioni, l' andamento sarà sicuro, e il progresso lodevole. Così la medicina sintetica , che non deve essere abbandonata mai, discenderà cautamente ad illazioni analitiche; l' unica maniera possibile di raggiungere e conciliare insieme l' una e l' altra medicina. Per quanto io credo, la medicina analitica non può aspirare ad essere sola, ella deve nascere dalla sintetica; sarà il difficile, il laborioso, e il non mai compiuto parto di questa. Tale è il destino dell' arte salutare. Torniamo al nostro assunto, dal quale ci allontanò una digressione, che non ci pentiamo d' avere intromessa, come quella che ci spiana il resto del cammino nell' argomento che trattavamo. Noi volevamo dimostrare l' incredibile varietà e molteplicità delle vie, per le quali scorre il corso zoetico, e la sua estrema mobilità alle cagioni anche minime, che lo fanno deviare dalla sua direzione. A tal uopo noi abbiamo esposte le varietà primitive del sentimento fondamentale di continuità, e dell' istinto vitale che lo produce, le varietà degli stimoli primitivi e naturali, e delle sensioni che ne sorgono, e del medesimo istinto vitale, che mette in essere il sentimento fondamentale d' eccitazione, siccome pure la varietà della sensitività , cioè della facoltà che ha il sentimento fondamentale d' eccitazione di modificarsi sotto nuovi stimoli accidentali, e dar luogo a sensioni parziali, anch' esse accidentali. Le sensioni, che insorgono come conseguenza di stimoli primitivi dati dalla natura e non prodotti dall' istinto stesso animale, furono da noi dette primitive ; quelle poi che vengono prodotte in conseguenza di stimoli generati dall' azione dell' istinto, furono dette seconde . Di queste e delle loro varietà noi dobbiamo ancora parlare. A formarsi chiaro il concetto di queste sensioni seconde, e a vedere quanto esse influiscano sul corso zoetico, è uopo chiamare all' attenzione la dottrina della forza sintetica dell' animale, che noi abbiamo data nell' Antropologia . Appunto questa forza fa sì che le sensioni seconde, le quali succedono alle prime, suscitino nel corpo umano nuove attività e come nuove potenze, immutanti il corso zoetico, giacchè ogni associazione di sensioni figurate o non figurate, d' immagini, di sentimenti attivi o passivi (1), suscitati o risuscitati, intellettivi o corporei, producono nell' animalità un nuovo stato, nuove attività, nuovi movimenti. Le sensioni associate poi si fondono in quella che abbiamo chiamata affezione , e che è un sentimento universale medio fra le sensioni e le passioni . Infatti, come l' affezione è un effetto prodotto nella condizione sensuale di tutto l' animale dalle sensioni speciali contemporanee, così le passioni sono un effetto di quell' affezione, onde prende la spinta a muoverle l' istinto sensuale. L' istinto sensuale mosso dall' affezione determina le passioni animali, sempre e poi sempre secondo quella legge, che « il sentimento prende l' atteggiamento, che gli è più comodo e naturale ». Se nella tristezza vedesi l' istinto sensuale abbandonato all' inattività, egli prende questo modo, perchè a fare il contrario gli costa troppo; se nella gioia egli è tutto attivo, è perchè gli accomoda meglio quest' attività. Talora gli è meno gravoso il patire in quiete, e allora s' adagia in essa, come in un modo di essere a lui più comodo ed opportuno. S' adagia talora in uno stato di quiete, per ricevere più a pieno la gradita sensazione. Talora è irrequieto e attivo, per cercarla o cercarne l' occasione. L' ira è attiva; l' istinto sensuale nell' ira gode di quell' atteggiamento, che consiste in quell' attività veemente, bellicosa, che sorge quando un' altra attività precedente incontrò un ostacolo a pienamente spiegarsi e soddisfarsi. Ma l' ira, come qualunque altra passione, se diviene eccessiva, è uno stimolo troppo forte, e allora fa l' effetto degli stimoli eccessivi, istupidisce. Il qual fatto prova appunto che le sensioni hanno natura di stimoli, e che è il principio sensitivo quello che determina la legge degli stimoli, non è lo stimolo materialmente preso, giacchè gli stimoli materiali e gli stimoli spirituali, come sono le passioni, ubbidiscono alla stessa legge d' istupidire, se oltrepassano un certo grado di forza. La forza dell' abitudine , a cui soggiace l' istinto sensuale ed anche il vitale, in quanto produce il sentimento fondamentale d' eccitazione e le prime sensioni, ha un' influenza immensa sulla condizione sanitaria del corpo. Perchè avviene, a ragion d' esempio, che gli abitatori delle montagne, o dei luoghi ove l' aria è asciutta ed ossigenata, paghino il tributo all' aria più o meno stimolante di altre regioni, ove sono paludi, risaie o altre cause di miasmi, o anche semplicemente all' aria umida e più grossa, e che in appresso, dopo essere soggiaciuti a febbri, infiammazioni, ecc., vengano assuefacendosi alla nuova atmosfera? E` troppo manifesto che ciò procede dall' abitudine, e pare che la cosa possa seguire a questo modo. L' abitudine dell' istinto animale può diminuire od accrescere l' effetto degli stimoli esteriori, secondochè egli sottrae ad essi od aumenta la propria cooperazione, e più o meno cospira con essi alla produzione dei movimenti e delle sensioni provocate. L' istinto animale è dunque quell' arbitro, quel regolatore, che equilibra od accorda la tensione e l' attività della fibra nervosa cogli stimoli maggiori o minori dell' atmosfera, nel modo il più vantaggioso. Ma quando questo equilibrio ed accordo è già una volta bene stabilito in armonia d' una data atmosfera, e la fibra nervosa s' è mantenuta lungamente in quella tempera e grado e metro d' attività, che ben conveniva alla quantità e qualità degli stimoli, che porgeva alla cute un dato clima; allora quel dato grado e quella data tensione della fibra si conservano, e continuano abitualmente per qualche tempo anche sotto il nuovo clima; e quindi avvengono le malattie. Poichè se l' atmosfera, in cui prima l' animale si ritrovava, era poco stimolante, la vitalità suppliva ella stessa colla sua azione al poco eccitamento esteriore; ma questa azione diviene soverchia in un' altra atmosfera assai stimolante, e l' effetto eccessivo si manifesta coll' infiammazione. Di più, quando il corpo umano ebbe presa l' abitudine di vivere soggiacendo a pochi stimoli, tutto il corso zoetico nelle sue sensioni e nei suoi movimenti si conforma convenientemente con armonia di moti e di funzioni. Ma se gli stimoli esteriori vengono subitamente accresciuti o diminuiti, il cangiamento non può succedere ad un tempo in tutti i moti e le funzioni, che costituiscono il corso zoetico; ma dapprima in quella parte, a cui gli stimoli sono applicati, e, parlandosi di atmosfera, alla pelle, al polmone, al sangue; onde a principio deve succedere uno squilibrio fra l' attività, in cui si mettono certe parti del corpo, e quella di certe altre, che non risentono immediatamente l' azione dei nuovi stimoli; e un tale squilibrio di attività fra parti e parti, fra vasi e vasi, fra porzioni di vasi ed altre porzioni, sono cause, come già vedemmo, di malattie, di quasi tutte le malattie. Con un ragionamento simile si può spiegare la nostalgia, in quanto ha di fisico, le malattie, a cui soggiace il corpo per le mutazioni atmosferiche anche nello stesso clima, ecc.. E quindi converrebbe classificare diligentemente gli stimoli, e investigare se e quando, mutandosi le condizioni dell' atmosfera, o accadendo altri accidenti, una classe di stimoli esterni venga ad accrescersi, un' altra a diminuirsi; il che di nuovo potrebbe recare squilibrio e sconcerto, e spiegare la diversità dei morbi che si manifestano. Gli stimoli accrescono l' attività nell' animale, ma alcune volte in pari tempo la perturbano. Questo ci richiama a parlare delle diverse maniere di debolezza e di robustezza, che nell' animale si manifestano, e a cercare se la debolezza e la robustezza patologica può tenersi come ben fondata. Vi è primieramente una debolezza nell' istinto vitale, ed un' altra nell' istinto sensuale. Consideriamo la debolezza nell' istinto vitale, prescindendo, per un poco, dall' influenza che può esercitare su di lui l' istinto sensuale. Due sono gli effetti primitivi dell' istinto vitale: 1 produce il sentimento fondamentale di continuità, rispetto al quale egli viene indebolito dall' opposizione della materia o forza straniera; 2 produce le sensioni, quelle che costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione, ed anche le accidentali, che sono provocate da stimoli esterni accidentali; e in quanto a questo effetto vien egli indebolito dalla scarsezza e inopportunità degli stimoli. L' istinto vitale, mettendo in atto il sentimento fondamentale, specialmente quello d' eccitazione, dà luogo altresì alla sequela di alcuni fenomeni extrasoggettivi, come sarebbe del tono della fibra viva, la tensione dei nervi ed incessanti movimenti intestini. La debolezza di lui si manifesta anche nella scarsezza di tali fenomeni. Diamone alcune prove di fatto. Legandosi i vasi, e impedendosi che il sangue rosso inaffii qualche parte del corpo, questa diventa floscia, insensata, si paralizza. La legatura dei nervi reca effetti somiglianti. E poichè tali effetti si diffondono secondo la sfera d' azione dell' attività vitale, che è diversa dall' organizzazione materiale ed extrasoggettiva, quindi si hanno gli effetti simpatici in parti prive di una prossima connessione organica col nervo legato. Molinelli e Brunn, avendo legati i nervi pneumogastrici di alcuni cani, n' ebbero per effetto la dilatazione della membrana pupillare, l' occhio divenuto secco e torbido, diminuito di volume, l' iride abbrunita, la figura della pupilla alterata. E` dunque evidente che l' attività dell' istinto vitale, avvivando il corpo, obbliga le sue particelle extrasoggettive a comporsi in un dato modo, a prendere e tenere una data proporzione reciproca, a certe azioni e moti intestini, i quali sono tutti effetti extrasoggettivi. Non si dimentichi che la descritta debolezza del principio vitale nel produrre i due effetti indicati, e la lotta che per ciò deve talora sostenere, suppone un animale già esistente; di che nasce la conseguenza che la disposizione imperfetta della materia e l' inopportunità degli stimoli non può essere mai universale, ma deve sempre appartenere a qualche località determinata, o che questa abbracci un luogo solo o più, sia più o meno estesa. La ragione di che si è che il principio animale non esisterebbe come individuo agente, se non avesse almeno qualche parte di materia in suo pieno dominio, e alcuni stimoli opportuni, che dessero luogo al sentimento fondamentale d' eccitazione necessario all' esistenza dell' animale. Ora poi s' aggiunga anche la considerazione dell' influenza, che sostiene l' istinto vitale dall' istinto sensuale e dal principio intellettivo. Può benissimo essere indebolito da quella influenza, ma l' effetto di tale influenza si manifesta anch' esso con un cert' ordine, relativo alle diverse parti del corpo, e per conseguente non è senza qualche località, secondo l' organo della passione animale che fu suscitata. A ragion d' esempio, l' ira, la vendetta, e tutte le passioni che partecipano della tristezza, affezionano di preferenza il fegato; l' itterizia è spesso cagionata da cause morali. Se la passione ha un' origine intellettiva, il primo organo interessato deve essere l' organo dell' immaginazione, il cervello; ma le immagini che trascinano il pensiero, ed il sentimento intellettuale che ad esse si attiene, operano sul principio animale, e questo poi, come istinto sensuale, provoca, accresce, diminuisce, altera l' azione del fegato (1). La debolezza dell' istinto vitale, che procede dalla sua relazione colla materia, nasce anche qualora il corpo perda insensibilmente delle molecole, come per traspirazione, ecc., senza che vengano ripristinate per altre vie naturali, come per alimento, ecc.. Allora il sentimento di continuità va scemando, ma non succede turbazione, ma solo diminuzione del sentimento di continuità e d' eccitamento; e lo stato di debolezza conseguente non si può dire morboso fino a che, oltrepassando un certo grado, non muti di condizione, o almeno non si può dire debolezza diatesica , giacchè non produce processi morbosi indipendenti. Che se la perdita naturale di molecole vive continua senza riparazione, va scemando l' attività dell' istinto vitale, e quindi si rallentano tutte le funzioni. Quando poi questo rallentamento è giunto a un certo grado, la scarsa materia, di cui il vivo è composto, riducesi a tale che non è più dominata sufficientemente dall' istinto vitale, e quindi le forze materiali entrano con esso in lotta, incominciando tosto lo stato morboso o diatesico, che in questa lotta consiste. Ma se dal corpo vivente si stacca una parte in modo non naturale, ma violento, conviene distinguere due effetti di questa separazione: quello che nasce nel sentimento di continuità, il quale si discontinua e resta diminuito delle parti staccate, il che non è ancora condizione morbosa; e quello che nasce nel sentimento d' eccitamento, cioè il dolore e i successivi processi e movimenti intestini, e questa è condizione morbosa. Se la ferita non divide dal corpo alcuna parte, non vi è diminuzione di parti (prescindendo dalla perdita del sangue, ecc.), ma solo eccitamento e processo conseguente, che finisce o col rammarginamento, o in altro modo. Il dolore, cagionato dalla ferita, procede da due cagioni: 1 dall' inegualità del taglio, il quale non recide la parte così di netto che non lasci alcune particelle nè appieno divise, nè appieno unite, sicchè l' istinto vitale combatte con esse per rattenerle, mentre esse hanno perduta quella conveniente posizione e conformazione, che è necessaria al pieno dominio della vita; 2 dal perdere che fa l' organizzazione di quella perfetta configurazione, che rispondeva all' atteggiamento preso prima dal sentimento; onde questo si trova costretto ad atteggiarsi diversamente, e si sforza di farlo; dal che dipende la tendenza che dimostra a rammarginare la ferita, se gli vien fatto di configurare l' organismo al suo bisogno, o di disciogliersi e abbandonare quell' organismo, se non gli vien fatto. E il dolore prodotto da queste cagioni, e anche il solo sforzo che fa il sentimento all' uno di questi due intenti, è la causa del processo morboso, che finisce o colla sanità o colla morte. Una lotta si manifesta altresì, ogni qual volta qualche agente straniero giunga a sottrarre qualche porzione della materia vivente dal pieno dominio della vita, senza però che ella resti del tutto spoglia di vita. Determinato così il concetto dello stato morboso, noi possiamo distinguere tre maniere di robustezza e di debolezza, la fisiologica e la patologica , che si suddivide in patologica semplice e in diatesica . Le quali denominazioni non pretendiamo che sieno le più proprie ed acconcie, e potranno benissimo essere mutate in altre migliori dai dotti; ma ci si permetta di adoperarle intanto a significare, comecchessia, i nostri concetti. Chiameremo, dunque, robustezza o debolezza fisiologica quella del principio della vita nell' esercizio della sua dominazione sulla materia, quando questa dominazione è perfetta, pacifica, senza irritazione, senz' alcuna lotta. Il sentimento, in cui questa dominazione consiste, è per essenza piacevole. Chiameremo patologica quella robustezza o debolezza che manifesta il principio vitale, quando non domina pienamente, in modo da produrre il conveniente e soddisfacente piacere della vita d' eccitamento. Se manca qualche cosa all' integrità dell' organizzazione, come nello stato di fame e di estenuazione, vi è certamente uno stato che s' allontana dalla piena sanità; ma considerato questo stato da sè solo, benchè si possa dire, in qualche modo, patologico o morboso, non si può dire ancora diatesico, perchè non manifesta a chiari segni la lotta, ma solamente l' inazione dell' istinto vitale. Accordo che questa inazione trarrà dietro a sè una lotta, almeno se giunge a certo grado, come fu detto innanzi, ma resta sempre separato il concetto della lotta , a cui appartiene lo stato diatesico, dal concetto della semplice inazione . Sicchè quando queste due cose si trovano insieme, meritano ancora d' essere l' una dall' altra colla mente distinte. Come dunque definiremo e descriveremo quella robustezza e quella debolezza patologica, che diciamo diatesica? Noi la ravvisiamo in una robustezza o debolezza bellicosa, che dimostra nei suoi atti il principio della vita. Perocchè nella lotta indicata, il principio della vita, ora combatte con forza ed impeto, ora debolmente più che non gli sarebbe mestieri. Il che richiede qualche dichiarazione. Primieramente noi crediamo doversi distinguere la causa efficiente prossima della malattia dall' essenza di essa. Riconosciamo che la causa efficiente della malattia possa consistere talora in un' azione troppo veemente, talora in un' azione troppo allentata del principio vitale. Dico azione veemente e azione allentata piuttosto di dire robustezza o debolezza , poichè queste ultime parole meglio si applicano a significare uno stato che non sia un atto; e la causa prossima efficiente della malattia, in quanto appartiene al principio vitale, non può essere che un atto che produce poi, insieme ad altre cause, lo stato morboso. A ragion d' esempio, la gioia improvvisa d' un lieto avvenimento può aumentare momentaneamente l' azione del principio vitale, a segno da spingere il sangue con impeto maggiore di quello che possano sostenere le pareti dei vasi, e far succedere un' apoplessia. La tristezza può cagionare la morte in un modo opposto, diminuendo al principio vitale talmente la sua azione da rallentare la circolazione, e così, accumulandosi il sangue nei grossi vasi, illanguidire siffattamente tutte le funzioni vitali, sino a venirne la morte quasi spontanea, «abiastos». Ma questa esaltazione o questa depressione di forza, con cui agisce il principio vitale, non è la malattia, benchè ne sia la prossima causa efficiente; distinzione, che si deve fare accuratamente, se si brama giungere ad una teoria chiara dei morbi. La semplice diminuzione o il semplice aumento di forza nell' azione del principio vitale non costituisce dunque la malattia, ma può esserne la causa; e lo è di fatto, ogni qualvolta quell' azione diminuita o quell' azione accresciuta rechi qualche alterazione nell' organismo, o nella materia organata e vivente; per la quale alterazione il principio vitale sia contrariato nel pieno suo dominio sulla materia vivente, sicchè questa tenda a sottrarsi da lui, e così incominci la lotta che dicevamo. Secondo questo concetto della malattia è uopo conchiudere che in tutte le malattie, niuna eccettuata, v' è una debolezza, la quale è il fondo della malattia stessa; e questa debolezza fondamentale consiste nel dominio diminuito del principio vitale sulla materia. Laonde se talora il principio vitale, durante lo stato di malattia, fa sfoggio di forze straordinarie, non si deve conchiuderne che egli sia più forte, ma solo che egli sia più irritato, se ci si concede di così parlare, a quel modo appunto che un principe, il quale tiene in così perfetta soggezione i suoi sudditi che questi non possono muovergli alcuna ribellione, è più forte di quell' altro, a cui i sudditi ribellati dànno battaglia con dubbia sorte, benchè questo secondo spieghi maggiori forze militari, e faccia più prodezze del primo. La violenza dunque, con cui opera il principio vitale durante lo stato morboso, a vero dire, non è segno di robustezza, ma più veramente di debolezza, d' un impero pericolante. Onde, cessata la lotta, colla vittoria cessa altresì lo sfoggio delle forze bellicose, ed apparisce la debolezza nel principio vincitore; ed è perciò che tutti i convalescenti sono deboli; manifesta prova, per quello che pare a noi, che il principio vitale in istato di malattia è sempre più debole che in istato di sanità, benchè non paia, perchè in guerra; siccome accade anche che un uomo debole, se una grande ira lo coglie, spiega più forza d' un altro veramente forte, tranquillo e quieto. Vi è dunque in qualsivoglia malattia debolezza e forza. Vi è una debolezza fondamentale, relativa alle forze materiali insorgenti contro al dominio della vita. Vi è una forza bellicosa, che il principio della vita trae in palese, affine di conservare il suo impero minacciato, e riacquistarne la pienezza. Questa forza bellicosa è quella che trasse principalmente l' attenzione delle moderne scuole di medicina, e che produsse le dottrine dello stimolo e del controstimolo. Facciamovi sopra qualche osservazione. L' azione dell' istinto animale non esce dalla sfera del sentimento ma i diversi suoi atteggiamenti tirano dietro a sè i movimenti extrasoggettivi. Questi movimenti nella materia influiscono a provocare nuove azioni e nuovi atteggiamenti del sentimento medesimo, perchè la stessa materia, che da una parte è fuori del sentimento, dall' altra è animata e sentita. Di qui deducevamo che l' azione del sentimento, e restringendo il nostro discorso, l' azione bellicosa del sentimento può produrre nella materia organata modificazioni salutari o perniciose; e benchè il sentimento nel suo operare sia cieco rispetto all' utilità o al danno di questi effetti extrasoggettivi, influenti poi nella condizione soggettiva, tuttavia la Provvidenza ebbe prestabilita un' ammirabile armonia, per la quale spesso, se non sempre, i movimenti prodotti dovessero riuscire utili all' animale. A ragion d' esempio, la parte infiammata, dolente, o estremamente sensibile ricusa qualunque stimolo; ora l' istinto sensuale produce quei movimenti che può e l' organismo gli consente, per ricacciare ogni materia toccante la parte ammalata, o altra con quella legata. Nell' encefalite, nell' idro7encefalite, nelle apoplessie, ecc., i vomiti sono frequenti; i nervi dello stomaco ricusano gli stimoli, ecc.. L' istinto sensuale non cerca che a sottrarsi dall' ingrata e dolorosa sensazione, o dalla fatica molesta ai nervi, che dolenti vogliono riposo; ma è provvidenziale, che i movimenti che fa a tal fine sieno così concertati dalla natura da addurre l' effetto, che la materia stimolante ed extrasoggettiva venga espulsa (1). Gli sforzi bellicosi, adunque, del principio vitale, benchè sempre tendano, come in loro fine immediato e soggettivo, a perfezionare lo stato del sentimento , tuttavia non sempre sono utili alla salute; chè questa dipende in gran parte dalla condizione della materia extrasoggettiva; e quegli sforzi, benchè abbiano sempre uno scopo salutare immediato entro il soggetto, traggono seco dei movimenti extrasoggettivi (costituenti in parte i processi morbosi), per quel misterioso vincolo che l' ordine soggettivo ha coll' ordine extrasoggettivo; i quali non sempre riducono a migliore stato e disposizione la materia organata, ma talora la sconcertano ed indispongono maggiormente; di che essa, vie più sconcertata e più indisposta, determina l' anormalità del corso zoetico, che si rende finalmente esiziale. Posto dunque che la malattia sia avvenuta mediante una irritazione , presa questa parola in un senso generale per indicare « un conato della materia a sottrarsi dal dominio della vita », qualunque sia la causa che abbia prodotto questo sconcerto, e posto che il principio vitale insorga per ristabilire il suo dominio, possono accadere tre accidenti: Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, unicamente perchè agisce troppo debolmente, sicchè col solo aggiungergli delle forze, riuscirebbe l' effetto (debolezza soverchia universale dell' azione bellicosa senza sproporzione). Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, perchè operando con troppo impeto, produce movimenti violenti nella materia, sconcerti extrasoggettivi, che deteriorano lo stato della materia rispetto alla vita, anzi la rendono più ritrosa a ricevere il dominio (robustezza soverchia universale dell' azione bellicosa senza sproporzione). Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, perchè opera con azione disuguale e sproporzionata, cioè in certi luoghi o parti del corpo soverchia, e in altri luoghi, relativamente, troppo debole (soverchia robustezza e soverchia debolezza contemporanea del principio bellicoso, parziale e locale). Questi tre accidenti a prima giunta si presentano al pensiero; ma i due primi sono essi veramente possibili? Non parmi; non credo almeno, come ho detto prima d' ora, che costituiscano una diatesi morbosa , benchè ne possano essere cagione. Infatti, dato che, per qualsivoglia causa, il principio vitale sia universalmente indebolito, se si astrae dagli effetti che questa debolezza può produrre, altro non si ravvisa che una vita poco attiva e non più; il che per sè non è condizione morbosa; e se questa debolezza e inattività è cagionata da una irritazione o condizione morbosa precedente, in questo caso la condizione morbosa non è la debolezza, ma precede a questa siccome causa, e va fornendo il suo corso, senz' avere a fronte chi fortemente glielo contrasti. Che se non si tratta di debolezza dell' azione bellicosa, ma di debolezza dell' azione vitale in generale, questa potrà essere cagione della malattia, senza essere la malattia, allorquando il rallentamento delle funzioni della vita cagioni qualche sconcerto, pienezza o congestione di umori, ecc. (1), e allorquando ebbero luogo solo questi effetti, incomincia lo stato morboso e la lotta; ma questi effetti sono tutti locali, e perciò appartengono al terzo degli annoverati accidenti. Lo stesso dicasi della robustezza universale dell' azione bellicosa. Per sè non è la malattia; ma se la veemenza dell' azione bellicosa, o anche la forte azione della vitalità universale eccitata, produce qualche sconcerto nella materia, come rottura di vasi, o altro, in tal caso la malattia incomincia con questi effetti, i quali sono locali e parziali. E si consideri che ogni irritazione, che determina l' azione bellicosa, è sempre locale. Ora dove si trova località, ivi è successione di azioni e di movimenti, che da una si estendono ad altre parti, secondo l' organizzazione della materia e l' atteggiamento del sentimento. Così se una ferita al cerebro determina un' epatite, è evidente che questo effetto succede al primo, ed è un male locale che succede ad un altro pure locale; e ciò in conseguenza dell' azione bellicosa del principio della vita, sollevata dalla prima irritazione locata nel cerebro. Quindi nella condizione morbosa la lotta non abbraccia mai egualmente e contemporaneamente tutte le parti del corpo, ma è determinata ad alcune, ed una succede all' altra; il che fa sì che in ogni condizione morbosa si verifica il terzo accidente, pel quale « il principio vitale opera con azione disuguale e sproporzionata, di modo che in certi luoghi del corpo è maggiore che in altri ». Ristretto in tal maniera il concetto della malattia, e distinta l' igiene, a cui appartiene di conservare e rinforzare la sanità, dall' arte di guarire, conviene porre l' occhio alla località, dove incomincia l' azione bellicosa, e a tutte le altre località alle quali ella estende i suoi effetti, considerando: Che l' azione bellicosa di sua natura affatica e spossa il principio vitale; e quindi spesso avviene che col diminuirla, lungi dal diminuire le forze dell' ammalato, anzi si conservano, come si conservano le forze di colui, a cui cessano le fatiche e gli sforzi. Che l' azione bellicosa, esaurendo le forze del principio vitale, produce il contrapposto di un' apparente robustezza in quelle parti dove l' azione bellicosa si spiega, e d' una manifesta debolezza ed estenuazione in tutte le altre. Così accade nelle infiammazioni locali, che dimagrano ed estenuano il corpo, mentre nella parte infiammata si osserva grande azione, che non è punto robustezza, ma azione bellicosa e sforzo eccedente. Che l' azione bellicosa, nascendo da una primitiva irritazione, o non genera ella stessa altre modificazioni irritatrici della materia, e in tal caso cessa ogniqualvolta si può far cessare l' irritazione primitiva (malattie d' irritazione); o genera nuove modificazioni irritatrici, e per restituire la sanità conviene modificare la stessa azione bellicosa (malattie di diatesi). Talora l' azione bellicosa locale produce modificazioni irritatrici della materia, perchè i movimenti suscitati nelle parti o particelle sono tali, che non possono essere dominati e regolati dalla forza del principio vitale; e in tal caso v' è eccedenza rispettiva d' azione bellicosa locale, unita a debolezza rispettiva di vitalità universale; e fu probabilmente questo caso che indusse i medici a stabilire quella classe di malattie, che essi chiamarono di diatesi stenica . Se l' azione bellicosa locale è più debole dell' irritazione che la cagiona, ella permette a questa di prevalere, e la materia mal disposta si sottrae sempre più al dominio della vita; fu probabilmente questo caso che indusse i medici a stabilire quella classe di malattie, che essi chiamarono di diatesi astenica . Certo è che qualora la vitalità è più robusta, è altresì maggiore l' azione bellicosa. Onde accade che ogniqualvolta si crede utile diminuire l' azione bellicosa locale, si ricorre a quegli espedienti che sembrano diminuire la forza della vitalità; e qualora si crede utile d' accrescere l' azione bellicosa, pare che s' ottenga coll' accrescere la forza del principio vitale. Ma non è dimostrato che sia questa l' unica via di diminuire e di accrescere l' azione bellicosa; non è dimostrato che l' unica via sia quella di diminuire o di accrescere la robustezza del principio vitale. Resta dunque a cercarsi: Se forse l' azione bellicosa, producente una diatesi stenica, non si possa ricondurre sulla retta via coll' apporre ai suoi guasti una resistenza, accrescendo la forza della vitalità universale. Ovvero, posto che coll' accrescere la forza di questa vitalità universale, si abbia uno scapito e un vantaggio, lo scapito d' accrescere la forza bellicosa che mena guasto, e il vantaggio d' accrescere il potere universale della macchina che resiste a quel guasto, resta a cercare se non si possa mai avverare che questo vantaggio prevalga a quello scapito, e nel caso che qualche volta si possa, quando e come si possa. Se l' azione bellicosa, producente una diatesi astenica, si possa emendare unicamente coll' accrescere la vitalità universale, o coll' eccitare localmente un' altra irritazione e sollevare una nuova forza bellicosa (1); e in questo caso quali sono le cagioni perchè l' azione bellicosa non risponda vivamente allo stimolo, e si sta come avvilita, determinando i rapporti di queste cagioni diverse coi rimedi. Le quali sono tutte ricerche appartenenti alla medicina analitica. Torniamo ora sui nostri passi. Noi abbiamo manifestata l' opinione che il fondo di ogni malattia si riduca ad una debolezza dell' istinto animale. Crediamo importante non abbandonare questo argomento senza aggiungervi qualche altra riflessione, riassumendo e annoverando con maggiore chiarezza le cause che debilitano il detto istinto, e gli tolgono o diminuiscono il dominio su quell' esteso materiale, in cui termina il sentimento che costituisce l' animale. Primieramente rammentiamo che l' istinto animale per sè è inesauribile; i suoi limiti nascono unicamente dall' esser egli condizionato al sentito, suo termine. Il sentito si può concepire crescente di estensione senza confini; non v' è ragione di negare che il principio senziente possa invadere anche tutto l' universo, qualora fosse data la continuità necessaria delle parti; anzi egli tende in effetto ad estendersi ed a continuarsi ogniqualvolta al continuo, suo termine, s' aggiunga qualche altra parte di materia. Di che, se un corpo straniero tende a dividere il corpo vivo, l' istinto fa resistenza. In secondo luogo l' istinto animale ha la tendenza all' eccitamento, anche questa illimitata. Laonde colla sua attività egli asseconda e promove tutti i movimenti che vengono iniziati nel continuo, secondo le leggi prestabilite, che abbiamo indicate. In terzo luogo l' istinto animale tende a individualizzarsi, che è la via d' innalzare sè stesso alla maggior possibile potenza, e d' avere eccitamenti più forti e perpetui. Fa questo la stessa tendenza all' eccitamento, combinata colle forme degli elementi e delle molecole materiali; chè se in un continuo composto di elementi di forme immutabili si suppone una virtù, che assecondi ogni moto che in essi nasce, ritenuto sempre dentro la loro continuità, deve necessariamente venirsi formando una organizzazione sempre più conveniente a far sì che vi sia maggiore quantità e frequenza di moto, e che questo si perpetui; il quale moto non può essere nè massimo, nè perpetuo, se non è armonico, cioè se i moti parziali non hanno unità (1). Il sentimento dunque si atteggia necessariamente ad unità, come il modo a lui più naturale e più soddisfacente. Se dunque si considera l' istinto animale in sè stesso, non si trova alcuna causa che spieghi la sua debolezza e il suo malo stato; per sè tende necessariamente al bene, ed è capace di tutto. Ma la causa si trova bensì nella sua condizione, e in certe forze a lui superiori, che esercitano sopra di lui un' influenza. La condizione dell' animale, cioè il termine corporeo, deve avere tre accidenti: continuità, eccitamento, organizzazione. La continuità può essere divisa, non tolta affatto, perchè il corpo è essenzialmente continuo. L' eccitamento può essere tolto affatto, e in tal caso l' istinto vitale non produce più che il sentimento di continuità, non può più manifestare alcuna di quelle forze, che compiscono le funzioni animali; così cessa l' animale per semplice debolezza ed estenuazione. Può essere disciolta l' organizzazione , e in tal caso di nuovo l' animale non è più, egli ha perduta la sua individualità (1). Ma se l' eccitazione o l' organizzazione non è tolta repentinamente da qualche forza maggiore, ma solo è minacciata da una forza straniera, allora l' istinto animale entra con essa nella lotta sopra descritta. Oltracciò, nell' uomo il principio senziente soggiace all' azione del principio intelligente, col quale pure può lottare, o certo riceverne forza maggiore o debolezza. Indi è che i tipi primitivi di tutti i mali, a cui può soggiacere l' animalità nell' uomo, si riducono a due: 1) debolezza semplice del principio senziente; 2) attentato all' armonia dell' eccitamento. In quest' ultimo caso accadono tre accidenti: L' istinto animale nella lotta è più debole, e allora si avvilisce; la disarmonia dell' eccitamento si effettua e diviene maggiore fino a dissiparsi, rompendosi l' unità e l' individualità, onde la morte. L' istinto è più forte, e giunge a dominare la forza nemica, o ad espellerla, onde la sanità. L' istinto, benchè più forte, produce nondimeno, colla sua azione violenta, nuovi sconcerti nell' extrasoggettivo, e si crea così da sè stesso un nemico, che diviene più forte di lui, una nuova malattia con cui lottare; e qui si rinnova uno dei tre indicati accidenti. Consistendo adunque tutti i mali dell' animalità in debolezza del principio senziente, e in disarmonia dell' eccitamento sensibile, diciamo qualche cosa sull' uno e sull' altro tipo. Le cagioni proprie della debolezza del principio senziente nell' uomo, che vengono tutte dai due principŒ stranieri, coi quali è connesso (l' intelligenza e la materia), si riducono alle seguenti: Quando l' intelligenza fa conoscere all' uomo la propria impotenza in confronto alla difficoltà d' uno scopo ardentemente desiderato, si manifesta una diminuzione di forza anche nel principio animale; e ciò perchè il principio intellettivo e sensitivo s' identificano nell' uomo, onde la debolezza dell' uno è partecipata dall' altro. Diminuzione di coscienza di proprie forze è diminuzione di forze. Così, se l' intelligenza apprende un male imminente o già accaduto, si manifestano le passioni della paura, della sollecitudine, della tristezza, dell' ansietà, ecc. (1). All' opposto, qualora l' intelligenza apprende un bene imminente o già accaduto, si manifestano le passioni della speranza, della gioia, ecc.. E` un fatto che queste passioni non rimangono nella sfera dell' intelligenza, ma si diffondono a quella dell' animalità. Tutte le passioni tristi appariscono allorquando la circolazione e le altre funzioni animali si rallentano. Ora il rallentamento delle passioni animali è l' effetto manifesto della debolezza del principio motore, che è l' istinto sensuale. Dunque questo partecipa dell' affezione del principio intellettivo e della sua debolezza, che consiste nella scemata coscienza delle proprie forze, nella diminuzione del sentimento intellettivo; chè coscienza fa sentimento, e sentimento fa forza. E qui si noti che quando la cagione per la quale si debilita l' istinto animale, è una passione dell' intelligenza, l' indebolimento non è dapprima disarmonico, nè parziale, ma si rende tale nei suoi effetti successivi; chè l' intelligenza opera immediatamente nel principio senziente, che presiede, in vario modo però, a tutte le parti e funzioni del corpo animato. La seconda cagione, che scema l' attività del principio senziente, nasce dalla lotta morbosa; quando l' istinto sente d' avere contro di sè una forza maggiore, allora egli si scoraggia. E questo accade per l' unione del sentimento soggettivo colla percezione dell' extrasoggettivo avversario. Quando la forza dell' extrasoggettivo, percepita insieme col sentimento della forza propria, si fondono per la forza sintetica in un' affezione sola, allora si appalesano tali effetti di smarrimento. Se l' istinto animale sente dover combattere con un avversario forte, tanto meno opera, quanto più vi prova di fatica, fino a cessare del tutto dall' operare. Accade talora che quando l' istinto è valido e sicuro, ed opera energicamente, se d' improvviso gli si para innanzi un ostacolo, lo combatte con tanta forza, di cui ha contratta l' abitudine, che produce sconcerti nell' extrasoggettivo. Che se gli ostacoli sono molti e perseveranti, vanno un po' alla volta diminuendo e fiaccando l' ardore dell' istinto, e così togliendogli le forze, come si vede nel cronicismo, a cui passano talora le malattie più violenti. La terza cagione, che debilita l' azione dell' istinto animale, è la diminuzione degli stimoli interni. Questi possono diminuirsi in conseguenza d' una debolezza precedente dello stesso istinto, chè indebolito questo, si rallentano tutti i movimenti della macchina, e diminuzione di moto è diminuzione di stimolo. Ma si possono diminuire gli stimoli interni anche col diminuirsi degli umori, massime del sangue, il principale di essi, e in generale con una perdita di sostanza. La fame provoca idee tristi, scolora l' immaginazione, scoraggia, il languore si propaga a tutte le membra. Possono diminuirsi altresì per qualche ostacolo meccanico, che impedisca i movimenti della macchina vivente, come avviene nella ossificazione dei vasi, o che impacci la loro libera comunicazione, o ne scemi la celerità, come nelle ostruzioni, per esempio, se la mucosità spalma o ingombra le cellule aeree del polmone, come in sulla fine delle polmoniti, sicchè il sangue, non potendo compire l' ematosi, ritorni al cuore, quasi come ne è venuto, venoso e inattivo, o se si lega un nervo, ecc.. L' azione dell' istinto animale s' addebilita in quarto luogo diminuendosi gli stimoli esterni, cibi, bevande, aria atmosferica, ecc.. Viceversa s' accresce l' attività vitale per aumento dei medesimi, e s' accresce in diverso modo, secondo la qualità degli stimoli e la località a cui vengono applicati. L' ossido di carbone, recato ai polmoni mediante la respirazione, produce una speciale ilarità, l' inspirazione dell' etere solforico stupidezza dei sensorii, ecc.. E la stupidità della fibra, prodotta dall' eccesso di stimolo, è appunto la quinta cagione della debolezza dell' istinto animale nel suo operare. Per intendere di quale stupidità noi parliamo, conviene riflettere che lo stimolo non porta eccitamento, se non in quanto produce i movimenti intestini delle molecole animate. Se dunque i movimenti provocati sono contrari fra loro, sicchè l' uno elida l' altro, come accade sotto stimolo eccessivo, quei movimenti, facendosi minori ed opposti alla spontaneità animale, danno alla fibra una cotale stupidità non rispondente allo stimolo. Finalmente, se per qualsivoglia cagione accade che l' azione dell' istinto si concentri e quasi esaurisca in qualche parte del corpo, o in qualche sua speciale funzione od operazione, manifestasi altrettanta debolezza in altre parti, funzioni ed operazioni; il che accade però con grandi differenze e per vari modi, che è necessario distinguere. Generalmente parlando, è noto che la parte del corpo umano che più s' adopera, più si sviluppa, s' ingrandisce e fortifica. I muscoli dei contadini, dei facchini e d' altre persone addette ai mestieri faticosi, riescono di gran lunga più voluminosi e risentiti che non quelli di persone conducenti vita comoda e delicata. La stessa massa del cervello sembra accrescersi negli uomini dati agli studi. Fu detto che la grossezza maggiore, che aveva il cranio degli antichi germani, si dovesse attribuire ai pesi che usavano di portare sul capo. Una delle principali ragioni, per le quali l' istinto animale accumulando in modo straordinario la sua attività in qualche luogo speciale del corpo, la sottrae ad altri, si è quella della lotta morbosa. Quindi in tutte le malattie, le quali sembrano aver sempre, od acquistare in progresso, una località, scorgesi squilibrio di forza, troppa robustezza e troppa debolezza ad un tempo, attività soverchia in una parte, e inattività nelle altre. Venendo applicati al corpo animale stimoli esterni che producano piacere, e così accrescano l' eccitamento, la spontaneità animale accumula ivi la sua attività, per accogliere la maggior quantità possibile di quel piacere. Questa accresciuta attività nervosa in quella parte, vi determina poi anche maggior concorso di fluidi. Che se questo concorso è eccessivo, o se accade che i fluidi vadano a perdersi, può venirne gran danno al corpo; e questo è un caso di quella disarmonia eccezionale, che noi abbiamo indicata fra i fenomeni soggettivi e gli extrasoggettivi. Che se gli stimoli esterni applicati al corpo sono molesti, l' istinto animale ivi si attua per liberarsene. Ma questo attuarsi in quel luogo, vi produce medesimamente concorso di fluidi o stimoli interni, sicchè avviene che talora nello stesso tempo che l' istinto s' adopera a cacciare il soverchio e disordinato stimolo, che è stato applicato alla parte dal di fuori, egli stesso vi accumuli in quella vece altri stimoli interni. E questi recano sovente più danno al corpo che non farebbe l' azione degli stessi stimoli esterni, che egli s' affatica a cacciare; per esempio, mentre l' istinto cogli sforzi della tosse tenta liberarsi dell' irritazione che sente al polmone, nei bronchi, o alla trachea, egli stesso accumula in queste parti tanto di sangue che vi determina, o aumenta l' infiammazione, o anche produce rottura di vasi, onde la malattia termina coll' esito il più sinistro. E` specialmente la direzione e il concorso dei fluidi che produce la robustezza e la debolezza comparativa, di cui parliamo. L' attività dunque dell' istinto animale si può concentrare in una località, e mostrarvisi più o meno attiva per più ragioni; distinguiamole: I Causa, intellettuale . - Nell' estasi, ed in altre grandi azioni ed affezioni intellettuali, talora si toglie solamente all' uomo la coscienza delle sensioni; tal' altra sembra che restino veramente impedite le sensioni stesse, e sottratta al sensorio la sua mobilità. L' attività allora si esaurisce piuttosto fuori del corpo che in qualche parte di questo; benchè il cervello, che aiuta l' intelletto somministrandogli i segni delle immagini, che fissano la sua attenzione, ne rimanga anch' esso quasi sempre interessato. II Causa, sensoria . - Una specie di sensioni assai vive impediscono altre sensioni meno vive, benchè appartenenti ad altri organi sensorii. Nel sonno l' attività sembra concentrata nel cervello, nella facoltà interna di sentire; quindi sottratta agli stimoli dei sensi esteriori; forse anche in questo caso l' attività sensoria, cresciuta nell' organo della fantasia, si deve ripetere dall' afflusso degli umori in quella direzione. Venendo ferito qualche ramo facciale o frontale del quinto paio, se n' ha la cecità, che dura più o meno a lungo (1), senza alcuna lesione del nervo ottico. Dove sembra che il cervello sospenda la sua influenza sul nervo della visione, perchè scosso, e nella dolorosa lotta occupato, non gli rimanga più di virtù da collocare nell' operazione visiva; se pur non si deve piuttosto attribuire il fenomeno all' essere i movimenti cerebrali, cagionati dalla ferita o percossa, quelli che perturbano i movimenti sensorii; e stando così, è ad ogni modo da notarsi che quei movimenti non sono al tutto meccanici, ma animali; e però tali che impiegano parte dell' attività del principio della vita. Può essere anche che quella ferita, ed altre, che istupidiscono qualche organo sensorio, producano questo effetto per qualche alterazione da essi cagionata nella direzione dei fluidi, che inaffiar devono gli organi della sensazione. III Causa: concorso dei fluidi . - Ed è appunto il concorso dei fluidi (i quali sono i principali stimoli interni) che noi dobbiamo più attentamente considerare. E` principio indubitato che « in quella località dove l' azione vitale è comparativamente maggiore, ivi concorrono i fluidi in maggior copia »(2). Diciamo comparativamente , poichè è da aver mai sempre presente che non è un assoluto grado di forza quello che costituisce uno stato morboso, ma un grado relativo, uno squilibrio della forza vitale, che si altera soverchiamente in una parte comparativamente ad un' altra, la quale presenta i sintomi di rispettiva debolezza. Poniamo che il freddo sia un debilitante, e che quando è moderato, produca l' effetto di rintonare la fibra per via indiretta, sottraendo ad essa un soverchio stimolo che la istupidisce, od anche restringendola, ove sia di soverchio dilatata. Se dunque il freddo è debilitante, dove egli s' applica, ivi l' azione vitale diminuisce. Ora questo può spiegare perchè, venendo esposta la pelle al contatto di corpi assai freddi, ovvero passando noi leggermente vestiti da una temperatura calda ad una fredda, ne riportiamo varie infiammazioni delle membrane mucose, della pleura, del polmone, degli intestini, dello stomaco, o della vescica. Diminuita l' attività vitale ai vasi capillari della pelle, riesce comparativamente accresciuta l' attività dei vasi interni delle dette membrane; debbono dunque i fluidi affluire dall' esterno all' interno (1), ed ivi ingorgarsi, stagnarsi, fors' anche dai capillari venosi passare il sangue premuto a stravenare nei linfatici, che coi venosi probabilmente si abboccano (2). Il sudore si promuove coi bagni o bibite calde, si sopprime coi bagni o bibite fredde per una simile ragione, cioè perchè in tal modo col caldo si rendono più attivi i vasi alle superfici interne od esterne, e col freddo si rendono gli stessi vasi comparativamente meno attivi, e quindi si cangia la direzione dei fluidi. La ragione poi, perchè la bibita calda eccita il sudore alla superficie cutanea, sembra dovesse essere quella legge di simpatia, di cui abbiamo parlato, per la quale il principio senziente mette in giuoco contemporaneamente gli organi simili. Il ghiaccio si adopera utilmente a frenare le emorragie ostinate. Questo effetto pare doversi attribuire a due cagioni, cioè: 1 all' azione fisiologica, per la quale indebolendosi comparativamente le estremità dei vasi, si determina il fluido a prendere la direzione contraria, a retrocedere; 2 all' azione chimica, restringente le estremità dei vasi, il che impedisce l' afflusso. Lo spavento determina l' uscita di orine abbondanti, chiare e inodore; perchè scemando l' attività interna, e comparativamente accrescendola verso la periferia, accelera i fluidi nella direzione dall' interno all' esterno del corpo. All' incontro le irritazioni dei visceri sopprimono le secrezioni (1). Tutte le infiammazioni vive d' un organo contenuto nelle tre cavità splancniche, sospendono ed alterano il corso delle secrezioni; essendovi molta attività vitale al centro e debolezza relativa verso la periferia, il corso dei fluidi non si può fare egualmente bene verso di questa. E` la stessa ragione, per la quale il cibo vi provoca in bocca l' afflusso della saliva, per la quale un po' d' aceto applicato sulla congiuntiva o sulla pituitaria adduce le lacrime. La ferita d' un intestino arresta la digestione, come la gastrite può impedire la deglutizione (2). Bichat osservò che nel tempo che gli alimenti dimorano nello stomaco, è scarso lo scolo della bile, e che si accresce poi quando passano nel duodeno, per guisa che allora se ne trova in copia negli intestini, sempre per la stessa ragione, che finchè lo stomaco è stimolato dalla presenza dei cibi, l' attività vitale ivi è maggiore, onde attira i fluidi, anzichè lasciarli scorrere altrove. Così è un vero indubitato che lo stimolo accrescente attività nella parte esterna dei condotti secretori ed escretori, è uno dei mezzi principali, di cui si serve la natura per determinare le secrezioni e le escrezioni. Secondo Broussais con altri medici moderni, quelle grandi evacuazioni, che si dicono crisi , altro non sono che l' effetto della cessazione dell' irritamento dei visceri. Perchè questa irritazione sopprimeva le naturali secrezioni? Perchè essa aumentava l' attività vitale all' interno, e comparativamente la rendeva debole verso la periferia; indi era impedita la direzione degli umori al di fuori. Quantunque il ristabilimento delle funzioni degli organi secretori sia, quando succede naturalmente, l' effetto della cessazione della causa della malattia, non è però che molte volte le dette evacuazioni, prodotte artificialmente, non diventino un mezzo al ristabilimento della salute. Un sudore abbondante, provocato con bibite o bagni vaporosi generali o parziali, dissipa cefaliti ostinate; vescicatoi, caustici, rubefacenti producono il medesimo effetto per una causa simile. Questi sono altrettanti mezzi, coi quali si accresce l' azione del principio senziente alla cute, e quindi si diminuisce comparativamente nelle parti interne; con che si provoca la direzione dei fluidi dal di dentro al di fuori, e così si diminuiscono gli stimoli interni, che pel loro soverchio cagionano dolore. Conviene per altro riflettere che, quando è accresciuta l' attività vitale in una parte del corpo umano a cagione d' una irritazione o d' altro, quell' attività può comunicarsi ad altre parti, sia perchè la materia irritante muti di luogo, sia per una cotale irradiazione dell' attività stessa a parti organicamente continue, sia finalmente per una vera simpatia (1). Nel qual caso anche la parte che partecipa dell' attività cresciuta, diventa, comparativamente alle altre parti che non ne partecipano, più attiva. Di più, alcune parti divenute meno attive, occasionano l' attività comparativamente maggiore di altre. Allorquando per cagione di qualche infiammazione si gonfiano le glandole linfatiche, quando, per esempio, a cagione d' un panariccio intumidiscono le glandole sotto l' ascella, pare che ciò avvenga, perchè l' infiammazione, rendendo comparativamente meno attive altre parti, queste non attraggono più a sè, e conducono gli umori segregati dalle glandole; indi l' ingorgo e la tumefazione di queste. La tisi andata innanzi, indebolendo le parti circostanti o simpatiche col polmone, rende comparativamente più attive le parti dei vasi più lontane dal centro; indi il calore accresciuto alle palme delle mani ed alle piante dei piedi, le rose alle guance, il rosso vivo alla radice della lingua, i sudori abbondanti e colliquativi, le diarree, le gonfiezze edematose alle estremità (2). E` appunto questo accrescimento e diminuzione comparativa d' attività, questa serie di effetti che diventano cause alla loro volta, che complica immensamente la scienza medica, e rende oltremodo difficile a seguitarsi nelle sue variazioni il corso zoetico. Se si considerano quelle febbri che cominciano con una sensazione di freddo, a cui succede un forte calore, sembra che durante il freddo vi sia un riflusso del sangue dalla periferia al centro, e durante il calore un afflusso dal centro alla periferia. Ora, considerando che il sangue viene ricondotto al cuore per la via dell' albero venoso, e diffuso alle estremità per la via dell' albero arterioso, parrebbe doversene inferire che l' albero venoso acquisti un soverchio di forza, comparativamente all' albero arterioso; l' albero arterioso un soverchio di debolezza, comparativamente al venoso; nel qual caso, venendo il sangue portato al cuore con più impeto e celerità, sarebbe dalla reazione di questo e dei vasi arteriosi stimolati soverchiamente, riportato poi con pari impeto alla periferia. Solamente che si dovrebbe supporre l' eccedenza di forza nell' albero venoso consistere in uno stato di tensione o azione maggiore dei vasi; là dove la reazione del cuore e delle arterie non essere accresciuta per uno stato di loro propria tensione e forza maggiore, ma pel maggiore stimolo da cui vengono incitati, per la maggior copia e celerità del sangue, lasciando anche da parte la crasi del medesimo, che pare dover influire piuttosto nelle febbri continue che nelle intermittenti (1). Ma se questa ipotesi può aver luogo, quale può essere la causa di questo squilibrio d' attività fra l' albero arterioso ed il venoso? Ecco la questione complicata oltremodo. Se in una data località s' accumula il sangue per un' azione comparativamente in essa accresciuta, questo sangue ivi accumulato, e quasi stagnante, può e deve subire diverse alterazioni nei suoi principŒ, come lo dimostra il caso dell' infiammazione; e questa alterazione può essere comunicata alla massa del sangue, ed indi nascere la febbre, effetto così d' una irritazione od infiammazione locale (2). E` cosa indubitata che la stessa legge dei vasi, dirigenti i fluidi al luogo dove l' attività vitale è comparativamente maggiore, dipende principalmente dalla condizione dei nervi sensorŒ. Ciò è manifesto dalle osservazioni seguenti: Quando l' irritazione si fa dolorosa, ella produce simpaticamente maggiori effetti. Più gli organi infiammati sono dotati di nervi, e più anche è dolorosa la loro infiammazione, e di conseguente più alterate riescono le funzioni animali. Le simpatie hanno luogo con più di forza e di prontezza nelle persone più sensitive. Ma si deve osservare che nel sistema vascolare e nel sistema nervoso la propagazione e il concentramento dell' attività vitale tiene una legge opposta; nel sistema vascolare si concentra mediante il concorso degli umori in quel punto, dove qualche causa l' ebbe accresciuta; nel sistema nervoso, all' incontro, si propaga a seconda delle sue diramazioni, partendo dal punto dove prima è stata accresciuta, ed osservando sempre le leggi sue proprie. Quindi la gastrite, per esempio, è accompagnata da dolore di capo per la comunicazione nervosa. Per altro, che l' infiammazione, la quale accresce indubitatamente l' attività vascolare nel luogo infiammato, produca una comparativa debolezza in altri luoghi, si vede pel dimagramento che succede, ond' è impedita la nutrizione. Durante la digestione, alla prima eccitazione del cuore e di tutte le funzioni succede uno stato di debolezza degli organi, i sensi esterni e i muscoli perdono una parte della loro attività, si fa sentire qualche brivido di freddo; il che dimostra che il sangue non fluisce più colla stessa abbondanza ed impeto di prima alle estremità. Ma in questo caso il lavoro prevalente dello stomaco, che converte gli alimenti in chimo, non è uno squilibrio morboso, ma un' ondulazione di forza fisiologica, chè quell' aumento di attività del ventricolo va cessando, di mano in mano che compie la sua funzione e distribuisce l' alimento alle membra, restituendo ed accrescendo ordinatamente le loro forze; il che è un fatto tutto conforme alla spontaneità dell' istinto animale. Ma un fatto consimile è quello dell' irritazione o dell' infiammazione morbosa; se non che questa, contrariando la spontaneità dell' istinto animale, ne solleva l' attività bellicosa, e invece d' aver per successo la nutrizione delle parti, lascia in queste dei danni, fra i quali quello appunto d' impedire la loro nutrizione, rattenendo il corso dei fluidi, che dovrebbero diffondersi ad alimentarle. Ecco alcuni fatti dei molti. L' infiammazione dei reni trae seco talora l' atrofia delle glandole testicolari. Nella colica dei pittori è singolar cosa vedere come dimagrano i muscoli situati tra il pollice e l' indice. Negli ascessi, che occupano le tuniche degli intestini tenui, si incavano gli occhi, e diminuisce oltremodo la pinguedine, che deve sostenere l' occhio. In tutte le infiammazioni croniche che finiscono colla morte, il dimagramento si rende estremo ed universale in tutto il corpo, la parte infiammata continua a vegetare finchè si forma la cancrena. Insomma io credo così importante il noto principio, che i fluidi accorrono là dove è accresciuta comparativamente l' attività vitale, che sembrami poter dare egli solo all' osservatore indizio a conoscere la diramazione dei vasi, che s' intrecciano nel corpo umano, e, quasi voleva dire, lo costituiscono. IV Causa: eccitamento dei nervi del senso e del moto . - Abbiam detto che l' attività del principio senziente si concentra là, dove è più viva la sensazione . Consideriamo ora l' accentramento dell' attività, anche per cagione del fenomeno extrasoggettivo che accompagna il senso, cioè per cagione del movimento dei nervi. Questo movimento si propaga dal punto dove il nervo è stato scosso in tutte le direzioni, non già per una mera comunicazione di moto meccanico, ma per una comunicazione meccanico7fisiologica. E` nondimeno certo che l' attività del principio animale s' affatica, se i nervi sensorii o motori sono scossi soverchiamente, e quindi lascia altre parti deboli, come pure lascia uno stato di spossatezza dopo movimenti violenti, come accade nelle convulsioni. E` del pari certo: Che talora il sistema nervoso esercita delle funzioni, nelle quali una sola parte è interessata, e allora le altre restano come insensitive. Così accade nelle contensioni di spirito, nelle quali è interessato il solo cervello, organo della fantasia, onde la sensitività della cute sembra annientata; il che accade altresì in certe affezioni morbose, a tale che questa appena dà segno di senso. Che se il medesimo sistema nervoso non esercita una di queste funzioni, talora al contrario s' accresce la sensitività della pelle oltre misura, per le ragioni dette parlando delle malattie del cervello, come vedesi nei maniaci, negli ipocondriaci, nei melanconici, nelle femmine isteriche. I fluidi del corpo umano sono gli stimoli interni , i nervi sono gli stimolati. I nervi stimolati, colla loro azione più o meno prolungata, ed anche simpaticamente diffusa, dànno attività ai vasi in cui s' addentrano, e i fluidi vi accorrono sottraendosi ad altre parti (1), le quali restano comparativamente più deboli, e più deboli restano conseguentemente anche i nervi, che vanno ad esse. Ci rimane in fine a parlare delle località, di cui abbiamo fatto cenno qua e là sol di passaggio. All' intendimento nostro non appartiene farne un trattato, il che sarebbe troppo superiore alle nostre cognizioni. Ci proponiamo unicamente di tentare qualche soluzione di questo problema: « perchè il principio animale, essendo semplice ed uno, tuttavia manifesta diversi effetti della sua azione, piuttosto in certi luoghi che in altri del corpo vivente ». La teoria delle località ha dei principŒ generali, delle leggi, le quali si applicano egualmente al corpo sano e al corpo ammalato, o che si consideri il corpo abbandonato a sè stesso, e percorrente i successivi stadŒ del corso zoetico, non alterato da stimoli artificiali, o che si vogliano determinare gli effetti di questi stimoli, applicati ad arbitrio al corpo sano od infermo. Noi dunque esporremo prima le leggi generali delle località , che chiameremo fisiologiche , facendone poi qualche applicazione al corpo infermo, e deducendo alcune leggi patologiche ; e finalmente aggiungeremo qualche applicazione agli effetti di quegli stimoli artificiali, che si applicano al corpo infermo per restituirlo a stato di sanità, toccando così alcune leggi terapeutiche . Le leggi fisiologiche, ossia generali delle località, sogliono desumersi dai sei elementi, che costituiscono l' animale. I tre soggettivi di essi: 1 il sentimento continuo; 2 il sentimento eccitato; 3 il sentimento individuato. I tre elementi extrasoggettivi corrispondenti: 1 la materia continua; 2 i movimenti intestini di essa; 3 la costante armonia dei detti movimenti, a cui è condizione l' organizzazione. Il principio animale è la parte attiva del sentimento continuo, eccitato e individuato; ma il suo operare è condizionato al suo termine, cioè al corpo. Se consideriamo la sola continuità del sentimento, senza eccitazione o stimoli esterni, avremo un sentimento fondamentale di continuità uniforme, senza distinzione di luoghi o di parti, e perciò senza figura. In questo sentimento lo spazio misurato, l' estensione extrasoggettiva ancora non esiste; non esiste ancora l' animale, ma solo un suo elemento, l' animato. Coll' eccitamento cominciano a sorgere nel sentimento le località, i limiti figurati; l' eccitamento poi non è armonico ed individuato senza l' organizzazione del corpo, termine del sentimento. Quindi la prima causa, per la quale le località si manifestano nel sentimento, è un principio extrasoggettivo, cioè la parte extrasoggettiva dell' organizzazione, e lo stimolo ad essa applicato. Poichè tutte le parti dell' organizzazione non sono egualmente sentite, nè egualmente sensorie, è conseguente che cada in esse una disuguaglianza di azione vitale, cagione di località. Gli stimoli che si applicano all' organizzazione e promovono l' attività dell' istinto, non si applicano a tutte le parti egualmente dell' organizzazione, ma ad alcune determinate; e quindi un' altra cagione di località. Dal che procedono queste conseguenze: Il principio senziente ha una cotale sfera limitata dall' estensione del sentito; ma questa sfera non è ella stessa sentita, ossia determinata nel sentimento fino che il sentimento è uniforme, di continuità. L' azione, che esercita il principio senziente, è proporzionata al sentito. Se dunque nella sfera del sentito varia la qualità del sentimento e i gradi di sua intensità, proporzionatamente varia ancora di qualità e di quantità l' azione del senziente nei diversi punti della sfera sentita. Vi è allora varietà di sentimenti e d' istinti, ma non si sentono ancora i confini, e perciò le figure extrasoggettive di quei diversi sentimenti. Quando dei corpi stranieri agiscono alle superfici del corpo sentito, incominciano le sensioni superficiali, per le quali il principio sente i confini e le figure della sfera del proprio sentito, e ad un tempo dei corpi esteriori. Il principio senziente, ricevendo il primo impulso e la prima determinazione sua dagli stimoli, continua i movimenti iniziati colla propria spontaneità, le leggi della quale furono da noi indicate, e si possono ricapitolare così: 1) L' azione spontanea del senziente, ossia dell' istinto, è tanta, quanto più egli trova di facilità e di diletto nell' operare che nel non operare. Questa legge determina la quantità dell' azione . 2) Il modo dell' azione consiste nel volgere tutta la quantità d' azione, di cui fa uso, a perfezionare lo stato dell' animalità nei suoi tre elementi, cioè ad estendere la sfera del sentito, ad accrescere l' eccitamento, e a mantenere l' armonia e l' unità nel sentimento medesimo, e per conseguente l' organizzazione. 3) Questa tendenza della spontaneità del principio senziente a volgere la propria azione a perfezionare l' animale nei suoi tre elementi (sentito esteso, eccitato, armonico), può essere contrariata dal principio extrasoggettivo; nel qual caso nasce l' irritazione, causa delle malattie, che è la stessa forza della spontaneità, che si volge a combattere ciò che nuoce all' animalità per la stessa ragione, che ella tende essenzialmente a perfezionarlo. Quando la spontaneità dell' attività senziente vuole ottenere l' effetto d' accrescere il sentimento, o di ributtare da sè ciò che vi si oppone, allora ella mette in giuoco tutti quegli organi, e fa tutti quei movimenti, che a tal fine la possono condurre. Ma l' effetto, che ella vuole ottenere, talora è locale; e per ottenerlo ella deve dar moto ad organi e parti, che occupano altre località. Queste diverse parti, occupanti luoghi diversi da quello a cui si riferisce, come a proprio scopo, l' attività animale, sono la sede appunto delle simpatie. Ma incontra che, essendo il principio senziente sempre in attività, come esige la conservazione e il perfezionamento dell' animalità, gli avvenga di contrarre anche delle abitudini, si assuefaccia a muovere contemporaneamente certi organi per ottenere un dato effetto, di cui ha di frequente bisogno. Se poi gli accade di appetire un effetto, il cui ottenimento ha bisogno del moto d' alcuno di quegli organi, che egli è avvezzo di muovere insieme, allora non solo egli muove l' organo necessario all' effetto, ma gli altri ancora, che egli è avvezzo di muovere insieme, e ciò per abitudine. Il che nasce, perchè l' atto del principio senziente è semplice, movendo egli più organi, per dirlo colla frase scolastica, per modum unius ; l' atto poi con cui muove ad un tempo quel numero d' organi è diverso da quello, col quale ne moverebbe uno solo; ora ogni atto diverso il principio senziente deve imparare a farlo coll' esperienza; onde gli può riuscire più facile e piacevole tentare l' effetto coll' atto che muove più organi, alcuni dei quali inutilmente, che non coll' atto che ne muoverebbe uno solo, quello che fosse necessario. Il che certamente accade, se questo non l' ha imparato a fare e il primo sì, o se questo sappia farlo meno facilmente del primo. Come il sentimento continuo, il sentimento eccitato e il sentimento armonico ed uno, sono i tre modi generali del sentimento, e tutte le varietà appartengono all' uno o all' altro di essi, così anche le attività del sentimento si riducono a tre principali, corrispondenti a quei modi. Il sentimento eccitato ha già in sè il sentimento continuo, di cui è una esaltazione; il sentimento armonico ed uno ha in sè il sentimento continuo ed il sentimento eccitato, non essendo che la perfezione di quest' ultimo. L' anima intellettiva non si può unire che al sentimento armonico ed uno, e per mezzo di questo al sentimento eccitato, per mezzo poi del sentimento eccitato al sentimento continuo. Quindi nell' uomo vi sono tutti e tre questi sentimenti, ma il solo oggetto della coscienza è il sentimento armonico ed uno, fondamento dell' individualità animale. A noi pare che, meditando le relazioni di questi tre modi di sentimenti, si possa spiegare la località delle sensioni. Io provo in una mano una sensione piacevole o dolorosa; il movimento, a cui aderisce questa sensione locale, non è quello che si limita ai nervi della mano, dove la sensione ha luogo, ma appartiene principalmente al cervello, dove se niun movimento avesse luogo, niuna sensione proverebbe la mano. Perchè la sensione nella mano ha ella bisogno dei movimenti del cervello, che punto nè poco si sentono? Questa domanda contiene due questioni: perchè non posso io avere la sensione in una mia mano punta da un ago, se il movimento nervoso non si prolunga fino al cervello; e perchè, e come io sento il dolore della puntura nella mano, e non nel cervello o lungo il braccio, dove si continua il movimento delle fibre; che è la questione della località. Alla prima abbiamo risposto altrove, e qui ci basterà osservare che se il movimento nervoso venisse interrotto per modo che non giungesse al cervello, egli perderebbe l' armonia e l' unità con tutto intero il sentimento animale, allo stesso modo come se si dividesse il braccio dal corpo; e noi abbiamo detto che l' anima intellettiva non si può unire che al sentimento uno ed armonico, e però senza di questo non può avere coscienza d' alcun sentimento. La seconda questione poi, quella della località del sentimento, esige più estesa dichiarazione. La località comincia a sentirsi, quando noi percepiamo il corpo come uno spazio solido, limitato, figurato. Ma noi non percepiamo il nostro corpo limitato e figurato se non mediante l' esperienza extrasoggettiva, per la quale percepiamo le superfici del medesimo. In altre parole, il sentito non dà figura, nè luogo, nè parti al corpo nostro; ma solo il percepito, cioè quella forza extrasoggettiva, che fa sentire la sua azione nel sentito. Questa esperienza extrasoggettiva ci rappresenta il corpo in modo meramente fenomenale, il corpo che chiamammo corpo anatomico , e che è cosa assai diversa dal corpo reale , che immediatamente si sente (il sentito); ed anzi ha con questo delle disarmonie ed apparenti contraddizioni (1). Le località dunque appartengono al corpo percepito in modo extrasoggettivo e fenomenale. Ma dopo che noi abbiamo percepito in tal modo le località nel corpo extrasoggettivo, le applichiamo al corpo soggettivo; noi teniamo per regola dei nostri pensieri e delle nostre azioni quello, benchè fenomenale, e non questo, benchè reale. Come dunque riferiamo noi le sensioni soggettive alle località extrasoggettive? Il corpo locale e anatomico è il corpo a quel modo che lo vediamo, lo tocchiamo, lo assaporiamo, ecc.; è il composto di tutte queste nostre sensioni. Queste sensioni unite insieme ci danno la figura del corpo; e la figura di esso e delle sue parti (2) è quella che ci costituisce l' immagine del corpo; e l' immagine del corpo diventa la materia dell' idea volgare e comune del corpo, dietro la quale comunemente gli uomini ragionano ed operano; le località si riferiscono a questa figura immaginaria, che è una parte della sensione molteplice dell' universo esteriore. Le località dunque si riferiscono a questo corpo percepito così nelle nostre sensioni, e contemplato nelle nostre immagini; le parti di esso sono disegni, che si formano nella nostra sensitività esterna; è questa che concorre a formarle per noi, per la nostra cognizione. Dopo che le parti sono formate e disegnate mediante la nostra sensitività extrasoggettiva e superficiale, noi possiamo riferire e collocare in esse anche le nostre sensioni interne, non superficiali, e prive di una figura discernibile. Quando noi diciamo di sentire dolore in un piede, che altro facciamo con ciò, se non collocare il dolore in quella parte che si chiama piede , rappresentata a noi dalla percezione extrasoggettiva, e chiusa da superfici da noi percepite, che gli danno la forma? Il collocare adunque una sensione interna in qualche parte del corpo nostro, non è altro che percepire il rapporto, che ha la sensitività soggettiva e non figurata colla sensitività extrasoggettiva e figurata. Se la sensitività extrasoggettiva e figurata non mi avesse disegnato la forma del piede, io non potrei collocare in esso un dolore che sentissi; non saprei dire, nè pensare cos' è il piede che mi duole; questa parola piede non sarebbe inventata, nè la mia mente avrebbe ancora il concetto che quella parola significa, e che le vien dato dalla sensitività esterna. Ma perchè sentendo un dolore interno, io lo colloco verso la parte destra del piede, piuttosto che verso la sinistra? Certo io fo questo giudizio mediante il paragone con altre sensioni interne ricevute nel piede, perocchè avendo io già i confini del piede, che me ne disegnano la figura solida, e avendo così concepito questo solido, se nel solido stesso concepisco più sensioni, non è meraviglia ch' io possa riconoscere una di esse esser più vicina ad una data estremità del piede che l' altra, bastando a ciò che io confronti le diverse sensioni cogli estremi del piede, e fra esse. Quante più sensioni interne io intendo possibili prima di quella che mi segna l' estremità, tanto più giudico lontana dall' estremità una data sensione. Per altro questi giudizi sulle località delle sensazioni interne sono incerti, senza precisione, e spessissimo fallaci. La località adunque delle sensioni interne non è che un rapporto fra esse e le sensioni superficiali. Ma come si spiegano le sensioni extrasoggettive e superficiali? Che la sensione si estenda in superficie, questo è una conseguenza della maniera colla quale noi abbiamo detto prodursi l' eccitamento. Questo sorge quando le molecole animali si soffregano insieme; ora questo soffregamento non è che delle superfici, attesa l' impenetrabilità dei corpi. Se le piccole superfici delle molecole, dove nasce l' eccitamento, ne costituiscono una grande colla loro iustaposizione, in tal caso si ha una sensazione superficiale grande, più o meno distinta, come accade alle pareti esterne ed interne del corpo. Ma se l' eccitamento nasce in un gruppo di molecole, le cui piccole superfici non si continuino in modo da formare una superficie unica, e le dette molecole si soffreghino tra loro da tutte le loro faccie, allora nasce una sensazione confusa, in cui non si discerne una figura determinata, come accade in tanti sentimenti interni. Quindi in niuno dei sentimenti eccitati si sente precisamente e distintamente un vero solido, perchè l' interno delle molecole non è sentito che col sentimento di continuità; il che spiega perchè i dolori e piaceri sensibili, che avvengono all' interno del corpo, rimangano sempre, in quanto alla loro continuità, estensione e figura, senza alcuna precisione e distinzione. Rimane dunque solo a cercare come le superfici sensibili, a noi appartenenti, vengano da noi collocate in uno spazio solido, unite per modo da riuscirne una superficie sola, circondante un solido con tutte le sinuosità e prominenze, onde entra ed esce il corpo umano. Per spiegare questo, prima di tutto è da concedere che lo spazio immisurato sia dato dalla natura all' anima sensitiva, senza di che non si può spiegare nè questo, nè tanti altri fatti e leggi della natura (1). Di poi si rammemori che se l' uomo immobile fosse toccato in modo eguale da tutti i punti del suo corpo contemporaneamente, egli non percepirebbe ancora il suo corpo come uno spazio solido, nè distinguerebbe quando la sensazione superficiale s' incurva, quando rientra concava, e quando riesce fuori convessa. In una parola, senza il movimento attivo l' uomo non può percepire il solido; chè la solidità non cade nel sentimento, se non in quanto cade nel sentimento il movimento attivo (2). Il movimento dunque delle superfici sentite, questo movimento sentito anch' egli, gli stadi che egli percorre e che segnano il tempo e comparativamente le velocità, tutto questo fa sì che l' uomo collochi le proprie sensioni superficiali in luoghi determinati dello spazio solido, e così giunga a comporsi la percezione del proprio corpo, come di un solido perfettamente figurato. Nel tempo stesso che l' uomo fa questa operazione, colla quale produce a sè stesso la percezione solida e figurata del proprio corpo, egli va misurando altresì lo spazio dell' universo, e acquista la percezione dei solidi figurati, che in essa si trovano; tutto ciò mediante il movimento sensibile. Supposti adunque questi prodotti della sensitività esterna, possiamo far dare innanzi un passo alla soluzione delle località. Perocchè dato, come supponevamo, che ci venga punta una mano, la sensazione di questa puntura isolata, e per sè sola considerata, non ha località di sorte, ella non è più nel cervello che nella mano, che non esisterebbe per noi. Solo allorquando abbiamo percepito il corpo nostro come un solido rivestito di superfici sentite, noi collochiamo la puntura nella mano, nell' estremità della fibra nervosa, ed egli pare che la cosa accada così: abbiamo percepita la spina che ci punse, abbiamo osservato che, infiggendosi la spina nella mano, nasce il dolore; estratta la spina, il dolore diminuisce notevolmente, s' accresce toccandosi la ferita, e cessa col medicarla. Uniamo dunque il dolore colla causa che l' ha prodotto, e che lo rimuove. Ma la causa che l' ha prodotto, come pure quella che lo toglie, sono percepite da noi coll' esperienza extrasoggettiva, e quindi hanno località determinate dalla stessa sensitività extrasoggettiva. Perciò anche al dolore, fenomeno soggettivo, assegniamo il luogo stesso, gli assegniamo il luogo della sua causa extrasoggettiva. E questo ci è facile a farlo, perchè il dolore non avendo per sè località alcuna, non ricusa qualunque gli si dia: egli non esiste, come dicevamo, più nella mano che nel cervello, perchè mano e cervello sono parole esprimenti solidi extrasoggettivi. Ma lo spirito umano non ha nessuna ragione di unire al dolore la località extrasoggettiva del cervello, perchè il cervello non produce il dolore come forza straniera, a cui solo spetta la località, ma con un movimento organico soggettivo, dove località non apparisce. All' incontro egli ha buona e naturale ragione di associare il dolore colla causa extrasoggettiva e straniera; e questa, avendo località, aggiunge la località della medesima allo stesso dolore. Non è dunque, propriamente parlando, il dolore che s' aggiunge alla località, ma è piuttosto la località che s' aggiunge al dolore, e di sè lo veste, per così dire. Quindi avviene che in ragione che noi abbiamo una percezione più distinta di quella parte del corpo nostro, a cui è applicata la causa della sensione, anche a questa attribuiamo una località più distinta; e viceversa, la sensione rimane priva di località, quanto meno possiamo percepire la località della sua causa straniera o stimolante, cioè la parte del corpo a cui ella viene applicata. Ed è per questo che le sensazioni dell' occhio noi non le collochiamo distintamente nella retina, perchè non abbiamo della retina una percezione extrasoggettiva tanto distinta, quanto quella della cute, non potendo noi toccare la retina stessa e distinguerne al tutto le parti, come pure non potendo toccare la luce, che è lo stimolo straniero, e distinguerne le parti. La sensione quindi dell' occhio ci rimane come in aria, cioè non collocata distintamente in una parte del corpo nostro, fino a che col tatto noi le diamo un luogo; ma questo luogo non glielo diamo nel corpo nostro, ma là dove è la causa sensifera della sensazione del tatto, cioè nei corpi che noi tocchiamo. Medesimamente, alle immagini noi non assegniamo per loro luogo il cervello, perchè dell' interno cervello e delle sue parti non abbiamo la percezione extrasoggettiva, e non possiamo percepire extrasoggettivamente la causa interna, che lo muove e che produce l' immagine; la qual causa è organica, ma non sensifera. Le immagini dunque ci restano come campate in aria, o, per dir meglio, esse sono per noi come altrettanti corpi esterni. Sono sensioni, che collochiamo là dove le abbiamo prima collocate, quando avemmo le sensioni loro corrispondenti mediante la sensitività esterna. Rimane la questione della causa extrasoggettiva del dolore. Perchè il movimento vitale organico non presenta nessuna figura nel sentimento, e all' opposto la forza sensifera straniera segna nel sentimento una figura, e quindi fa nascere la località? Molti si sono studiati di descrivere il fenomeno extrasoggettivo del movimento sensorio. A me pare probabile congettura la seguente: il movimento sensorio esige molecole organate in un dato modo, di un certo numero e qualità di elementi. Queste molecole costituiscono un continuo, fluido o consistente non cerco (1). Gli elementi di esse sono mobilissimi, e così accordati che dividendosene alcuni da una molecola entrino a comporre la seguente, la quale lascia in libertà altrettanti elementi, i quali anch' essi alla loro volta si compongono con quelli della susseguente, che pure allo stesso modo si scompone; e così le scomposizioni e le composizioni si continuano in tutto il nervo fino al cervello, dove gli ultimi elementi che rimangono liberi, non trovando altre molecole con cui comporsi, ritornano ad abbracciarsi colla molecola a cui appartenevano, e succede in direzione opposta la stessa serie di composizioni e scomposizioni, rimettendosi il nervo nello stato di prima. Supposto questo giuoco chimico7organico7animale, se ne avrebbero i seguenti risultati: Il fenomeno della sensione avrebbe luogo quando la scomposizione percorse tutto l' organo sensorio. La sensione cesserebbe tostochè è finita la ricomposizione delle molecole. Rimanendo scomposte le prime molecole più a lungo di tutte le altre, vi sarebbe un' analogia fra il fenomeno extrasoggettivo e la sensione, per la quale questa più facilmente potrebbe attribuirsi ad una località; tanto più che tutte le molecole intermedie, scomponendosi e componendosi con celerità e continuità di parti, potrebbero conservare sempre la loro posizione, continuità e figura, giacchè di tanto entrerebbe in esse un elemento, di quanto ne uscirebbe un altro. Il fenomeno extrasoggettivo sarebbe così uno scuotimento dell' organo sensorio intero; condizione, come sembra, necessaria all' individuazione del sentimento, senza la quale non può l' uomo esserne consapevole. Come quando la scomposizione delle molecole sensorie comincia all' estremità esteriore per mezzo di qualche stimolo, rimangono per qualche tempo scomposte le molecole esterne, e si ha la sensione; così se la scomposizione comincia dal centro, cioè dal cervello, per virtù dell' istinto animale, la scomposizione dura qualche tempo nelle particelle dell' estremità interna, e si ha l' immagine; la quale, propriamente parlando, è illocale, perchè l' interno del cervello non si presta all' esperienza extrasoggettiva, che possiamo fare, quanto alle estremità esterne superficiali del corpo. Nel luogo, dove è applicato lo stimolo sensifero e incomincia la scomposzione, vi è violenza, perchè la prima scomposizione non accade per la spontaneità dell' istinto, ma per la forza esteriore; all' opposto le composizioni e scomposizioni successive seguirebbero senza violenza alcuna per la spontaneità dell' istinto; onde solo al cominciamento deve sentirsi la violenza, e non più nei movimenti successivi, benchè necessari a rendere individuale la sensione della violenza. Questa ipotesi dello spostamento intestino degli elementi della molecola sensoria senza che ella si disorganizzi, spiegherebbe dunque il perchè dove viene applicato lo stimolo, ivi esista propriamente la sensione; benchè questo ivi non diventi perciò solo una località, con relazione alle altre parti del corpo, se anche queste non le percepiamo allo stesso modo, e paragoniamo l' ivi di quelle coll' ivi di queste. Lo stato di spostamento, dunque, degli elementi delle molecole sensorie è ciò che dà alla sensione quanto le bisogna per essere poi riferita ad un luogo nell' esteso extrasoggettivo; e ciò perchè le molecole stesse sensorie, il nervo, il cervello, di cui parliamo, appartengono alla sfera dell' extrasoggettivo; onde quando diciamo che gli elementi delle molecole restano spostati, per esempio, all' estremità di un nervo, altro non diciamo se non che restano spostati e sentiti a quel luogo extrasoggettivo, che chiamiamo estremità nervosa. Ma che vuol dire molecole sensorie nel caso nostro? perchè fa bisogno che le molecole di tutta l' estensione del nervo, e quelle ultime del cervello ricevano il descritto moto e cangiamento di elementi? Abbiamo detto che la risposta conviene cercarsi nell' individualità dell' animale; l' animale non può sentire che ciò che entra nella sua individualità. Questa individualità, nell' ordine soggettivo, esige un sentimento unico, sede di tutti gli altri. Questo unico sentimento viene a dire un unico principio senziente e un solo sentito. Il sentito, in quanto è sentito7continuo, è unico, se non ha interruzioni; ma in quanto è sentito7eccitato è uopo che abbia un' unità armonica di movimenti, che virtualmente contenga tutte le sensioni accidentali, in modo che sia sempre lo stesso sentimento nei suoi diversi modi. Ora a questo fenomeno soggettivo d' un sentimento armonico d' eccitazione, nella sfera extrasoggettiva risponde l' organizzazione del cervello colle sue diramazioni nervose. Come abbiamo detto, la cagione di questa corrispondenza è irreperibile da noi, chè tutto ciò che percepiamo extrasoggettivamente è un mero fenomeno, oltre il quale non possiamo andare. Rimane dunque solo a constatare e descrivere il fatto dell' organizzazione come rispondente alla sensitività individuale, che nell' animale perfetto, e certamente poi nell' uomo, si osserva; il che è ufficio ampio e sottilissimo dei fisiologi. E quantunque la consapevolezza della propria individualità nasca nell' uomo dal principio intellettivo, tuttavia anche il bruto è individuo, consistendo la individuazione di lui in questo, che le sensioni abbiano lo stesso principio senziente; ossia l' attività, che in ogni sensione opera a produrla, sia la medesima (1); poichè, ciò a cui non si estende questa attività, è già fuori dell' individuo. Ma a questo principio senziente attivo risponde di fatto nella sfera dell' extrasoggettivo un' armonia di movimenti, e un cotal centro di essi, come già dicemmo altrove. Riassumendo dunque: Nè il sentimento fondamentale, nè le sensioni hanno località. Tra le percezioni della forza straniera (dei corpi esterni) ve n' ha una classe di superficiali , percezioni d' uno spazio superficiale. Questi spazi superficiali non hanno località, se si considerano in relazione col principio senziente; non si può dire che sieno nè dentro, nè fuori di lui, nè lontani, nè vicini, ecc., perchè egli non ha luogo affatto, e quindi niuna relazione locale con lui si può pensare. Ma questi spazi si uniscono e si continuano fra loro, ed allora essi acquistano una località rispettiva , cioè uno di essi, o una parte di essi, è di qua, o di là, ecc., d' un altro continuato con esso, o con una sua parte. Quando s' aggiunge il movimento attivo dalla parte dell' uomo, allora queste superfici pure, movendosi in tutti i sensi, prestano all' uomo il sentimento d' uno spazio solido determinato. La continuità delle superfici da tutti i lati e il movimento fanno sì che l' uomo percepisca il proprio corpo, i corpi esteriori e lo spazio con misura; e quindi che: 1) le parti del proprio corpo vengano ad avere un posto, una località rispetto al corpo divenuto un' estensione solida; 2) che al tempo stesso quell' estensione solida acquisti una località rispetto a tutti i corpi circostanti, e 3) ad ogni punto immaginato nello spazio. Così è creato nell' umano sentimento il corpo solido, i luoghi e gli spazi esterni; allora ogni sensione soggettiva si colloca in uno di quei luoghi determinati nell' estensione extrasoggettiva, e ciò si fa col percepire extrasoggettivamente la causa esterna e violenta della sensione. Questa causa, essendo un sensifero, un corpo straniero, e venendo collocato, quando produce con violenza la sensione, in un punto del corpo nostro extrasoggettivo, noi collochiamo la sensione lì appunto, dove abbiamo percepita quella causa. Quindi, quando ciò non si avvera, quando non percepiamo extrasoggettivamente la causa della sensione, o il luogo, dove ella si applica (nè coll' immaginazione possiamo supplirvi), non sappiamo più collocare al posto della causa la detta sensione, come accade nelle sensioni visive, o nelle interne, le immagini. Percepire la causa della sensione (il corpo esterno che stimola il senso) è percepire il luogo dove la causa viene applicata. Se noi cerchiamo qualche legge generale che determini questo luogo, troviamo che esso è determinato dalle due estremità nervose, l' esterna e l' interna nel cervello; e ciò probabilmente perchè nel movimento sensorio quelle estremità soffrono violenza, onde si alterano fisiologicamente nella composizione delle loro molecole sensorie; quando le molecole intermedie, benchè nasca un tramutamento di elementi, conservano intatta la loro composizione elementare, e il tramutamento è spontaneo e non violento (1). Troviamo ancora che la centralità del cervello risponde alla condizione dell' individuazione del sentimento, contribuendo essenzialmente all' unità armonica del sentimento fondamentale d' eccitazione; perocchè in tutte le sensioni il principio attivo senziente deve essere il medesimo. Pare dunque che al principio senziente, della cui attività sono modi le sensioni, rispondano nell' ordine extrasoggettivo i moti cerebrali, cioè che allora egli intervenga a sentire la sua attività, quando i detti moti sensori s' avverano. Ma questi stessi moti , in quanto hanno natura di moti, non cadono nella sensazione soggettiva , chè questa non ha proprio luogo, nè proprio spazio; e quando quelli si potessero osservare, l' osservazione darebbe un extrasoggettivo, e non più. La spiegazione data fin qui delle località è tratta dalla natura dell' animale; perciò ella conviene tanto alle località che si manifestano nel corpo umano in istato di salute, quanto a quelle che si manifestano nel corpo umano in istato di malattia. Venendo ora a dire qualche cosa di speciale circa le località patologiche, non abbiamo che ad accennare alcuni accidenti, i quali, determinando in modi diversi l' attività del principio senziente, le fanno comparire piuttosto in una parte che in un' altra del corpo extrasoggettivo. Mettiamoci innanzi il corpo, quale se l' ha formato l' uomo coll' uso dei suoi sensi esteriori, quale tutti noi adulti l' abbiamo presente, a cui prestiamo cieca fede, e su cui si fondano tutti i ragionamenti comuni intorno al corpo. Il primo fenomeno che ci si presenta occasionato, per esempio, da una contusione nel braccio, si è quello d' un dolore, che invece di farsi sentire alla sola estremità esterna, dove fu applicata la causa violenta, si propaga lungo tutto il nervo. - Convien dire che lo spostamento degli elementi componenti le molecole sensorie, di cui il nervo risulta, non sia in tal caso violento solamente al luogo dove fu applicato lo stimolo, unendo poi il movimento sensorio spontaneo, ma che la violenza stessa si sia propagata, e la scomposizione e ricomposizione non avvenga regolarmente. Altro fenomeno morboso è la durata del dolore in un luogo. - Convien dire in tal caso che la scomposizione delle molecole si ripeta continuamente con un movimento disordinato, oscillatorio, e più o meno frequente. Nei dolori vivi si sentono pulsazioni dolorose somiglianti a quelle del polso, e forse sono le dette oscillazioni violente dei movimenti elementari, che si descrivono nello stesso sentimento; a tener viva la quale oscillazione deve certamente concorrere il frequente battito del sangue, il che più manifesto apparisce nei dolori acuti di testa, che vanno a colpi frequenti, e che sembrano spezzarla. I dolori si trasportano da un luogo all' altro non solo successivamente, come avviene propagandosi l' infiammazione, ma ancora per salto. - Qualora un dolore si manifesta in un luogo per cagione di ferita, d' infiammazione od altro, concorre a produrlo in quel luogo tutta l' attività del principio senziente, che lotta nel modo che abbiamo indicato. Ma questa attività universale del principio senziente, sollevata alla guerra e producente il primo dolore locale, opera variamente in tutto il corpo, e lo altera. Ora questa azione in tutto il corpo, e le alterazioni che vi produce, sono determinate, in quanto al modo ed agli effetti, dall' organizzazione, che risponde all' unità armonica del sentimento, e prima dall' organizzazione nervosa, poi dall' organizzazione vascolare, e dalla qualità e quantità dei fluidi, e finalmente dalle leggi delle simpatie. A ragion d' esempio, un forte dolore accelererà il corso del sangue e produrrà la febbre, o anche infiammerà il sangue, alterandone la composizione. Acciocchè si manifesti un dolore in un dato luogo del corpo, in conseguenza d' un altro dolore precedente in altro luogo, basta che per l' azione universale del principio senziente vengano in quel luogo eccitati violentemente i nervi, sicchè ne segua lo spostamento di elementi con tendenza d' uscire dalla loro sfera. Cosa è il pizzicore che si sente al naso, quando si patisce di vermi? Non altro se non che un cotal movimento nel sistema nervoso, che si propaga dagli intestini al cervello, e dal cervello al naso, ma in modo che in quest' ultima estremità nasce appunto quello spostamento sensorio degli elementi, dato il quale ha luogo, secondo l' ipotesi da noi proposta, la sensazione. Dato dolore in un luogo, egli sorge in molti altri luoghi. - La spiegazione è simile a quella del fenomeno precedente. Un' affezione universale produce un dolore locale. - Succede anche questo pel medesimo giuoco. Sensione di dolore per un male, che è in altra parte, dove non cagiona dolore avvertibile. - Baglivi fa la storia della malattia d' una donna, che soffriva acuti dolori in un rene; nella sezione del cadavere si trovò sano il rene, dove accusava il dolore, mentre l' altro conteneva un calcolo. Il principio animale operava in entrambi per quella legge, secondo la quale nelle parti doppie simmetriche vi è una passione e un' azione unica. Pure nel rene, dove stava il calcolo, non si manifestava la sensione in modo avvertibile, forse perchè ivi non si operava lo spostamento degli elementi, venendo impedito dalla stessa condizione morbosa, dalla presenza del calcolo, che tratteneva l' oscillazione elementare, mentre nell' altro rene sano avveniva. Alterazione della sensitività, del gusto, del tatto, ecc.. - Questa suppone, nell' ipotesi che noi facciamo, una diversa composizione delle molecole sensorie. Se il senso rimane alterato di qualità, sicchè il sapore d' una sostanza, a ragion d' esempio, sembri un altro sapore, è probabile che gli elementi abbiano presa un' attitudine a spostarsi nella molecola sensoria, in modo diverso dall' ordinario. Se l' alterazione è solo nel grado della sensitività, senza che la sensione varii di qualità, il fenomeno può dipendere dalla mobilità dei detti elementi, come pure dal trovarsi i nervi meno protetti contro lo stimolo. Si sono vedute femmine non poter toccare una stoffa di velluto, senza cadere in isvenimento; talmente la sensazione della cute della mano eccitava il principio sensitivo, e questo operava in tutto il sistema nervoso e sul vascolare (1). Il sistema ganglionare divenuto atto a dare sensioni osservabili. - Di questo fenomeno è a dire il somigliante che del precedente. Sia alterazione nella composizione elementare, sia mobilità maggiore e maggiore comunicazione col sistema cerebrale e col vascolare; il sistema ganglionare si rende atto ad ammettere lo spostamento sensorio degli elementi, o acquista lo stimolo opportuno, che non aveva prima. Fin qui della località delle sensioni. Parliamo ora della località dei movimenti e fenomeni morbosi, che ne conseguono. Le località di questi movimenti e fenomeni morbosi ricevono la stessa spiegazione di quella delle sensioni, perocchè movimenti precedono e movimenti susseguono alle sensioni; sicchè movimenti e sensioni sono legati egualmente alle località. Ora tutti i fenomeni morbosi sono accompagnati o costituiti da movimenti. Egli sembra che le febbri d' ogni genere si possano riportare ad una di queste due cause, o ad un' affezione del sistema nervoso, o ad un' affezione del sistema vascolare (1), l' uno dei quali non manca però mai di sconcertare più o meno l' altro. La località è determinata dallo stimolo primitivo violento, e quindi appresso dalle simpatie , che ricevono varie modificazioni dalle accidentali varietà dei tessuti organici e dell' intero organismo. Talora l' organo, che soffre simpaticamente, rimane gravemente ammalato, quando il primo, irritato, soffrì leggermente. Così il freddo, operando esternamente sui tegumenti, cagiona infiammazioni al petto, agli intestini, alla vescica, ecc.. Rimarrebbe a parlare delle località terapeutiche, cioè dell' applicazione e dell' azione delle sostanze terapeutiche in determinate parti del corpo, e dei loro effetti in certe altre, o rispetto alla condizione universale; ma la loro spiegazione dipende dagli stessi principŒ. E` degno d' osservazione che le medicine rare volte si applicano alla parte ammalata; per lo più si affidano alle membrane mucose gastriche. Quindi le località, a cui trasmettono l' effetto della loro azione, sono determinate in gran parte dalle simpatie e da quelle cause accennate di sopra, che alle simpatie danno questa o quella direzione speciale e locale, principalmente poi dalle diramazioni nervose e vascolari, e dalle leggi con cui operano questi sistemi (1). E qui basti. Chè questo libro delle leggi dell' animalità, dove si disse tanto poco d' un subbietto senza confini, sarà parso lungo a quanti, cercando nella Psicologia esclusivamente la dottrina dell' anima intellettiva, non intendono che ella è condizionata alla dottrina del principio sensitivo. Il qual vero si tentò da noi di porre in evidenza, e tuttavia non ci confidiamo d' averne persuaso ogni fatta di persone. I medici, non senza qualche ragione, ci garriranno: come avete voi messo la falce nella messe altrui? Di che v' è occorso di dire molte cose inesatte, molte erronee. - Non ho che ad impetrare la loro indulgenza; emendare l' inesatto, cancellare il falso, mi sarà gratissimo; potrebbe essere che avanzasse ancora qualche cosa di buono; i più dotti, sempre più indulgenti, forse lo raccoglieranno. Dirò a tutti i professori dell' arte salutare, siccome pure a tutti gli studiosi di Psicologia, quale fu il mio intendimento. Nei moderni tempi gli scienziati hanno diviso l' uomo in due, alcuni tolsero a parlare dello spirito, altri del corpo; a ciascuna delle due parti parve possedere tutta la scienza, e contese coll' altra, e la dispettò, e il dispetto, tenendo luogo di ragione, divise maggiormente le due fazioni. Che ne fu? Invece di avere una scienza sola dell' uomo, se ne ebbero due, contenziose, contradittorie, inimicissime. L' una, e la meno rea, fece dell' uomo un cotal angelo tutto spirituale, che per un cotal miracolo moveva un corpo; all' altra metà restò la materia, la quale anch' essa, per un miracolo molto maggiore, s' animava da sè stessa, e sapeva fare tutto ciò che fa lo spirito. A noi parve desiderabile che cessassero cotali dissidi, e l' uomo riacquistasse nella scienza l' unità che ha nella natura, toltagli dagli imperfetti e fallaci metodi di studiarlo, seguitando i quali, quelli che da due secoli filosofarono intorno all' uomo, nè poterono mettersi in accordo, nè giungere al bramato conoscimento dell' essere umano; chè nè l' uomo dei medici, nè quello di alcuni psicologi è veramente l' uomo. L' intendimento dell' opera presente non ci sembra aver bisogno di maggiore dichiarazione; e speriamo che pure quei savi, che professano l' arte salutare, non lo vorranno biasimare, scuseranno ciò che vi è di imperito nel nostro audace tentativo, pregiando la bontà del fine; s' accorgeranno che colle scorse da noi date nella scienza da essi valorosamente coltivata, abbiamo voluto (non diciamo di essere riusciti) restituirle quell' onore, di cui fu spoglia da tanto tempo, che da lei dipendesse la scienza dell' anima, ed anzi ne fosse gran parte; sicchè d' ora in avanti non si possa più riprendere nè il psicologo, che s' addentra in alcune fisiologiche dottrine, nè il fisiologo o il medico, che ragiona dell' anima, quasi movessero i passi nell' altrui campo. L' uomo è uno; le due scienze sono una; la loro conciliazione ed unione prepara la perfezione dell' unica vera scienza dell' uomo. Le cose toccate in quest' opera, principalmente nell' ultimo libro, e attenenti alla medicina, mi acquisteranno forse riprensione e biasimo da una maniera di persone più gravi ancora. Convengono ad un sacerdote gli studi laicali? Come perdersi in scienze tanto aliene dalle sacre dottrine? Come scendere ad investigazioni sì basse e palustri inverso alle vette altissime dei monti santi? - Avrei a rispondere assai più cose che non possano capire in queste estreme pagine, le quali debbono chiudere l' opera, e non aprirla a nuova materia di ragionare. Ma potrebbe bastare anche ciò che pur ora dicevo, aver bisogno la scienza dello spirito di molte dottrine riguardanti l' animalità, senza le quali quella si rimarrebbe imperfetta; più imperfetta ancora si rimarrebbe la scienza dell' animalità, segregata da quella dello spirito, chè rimarrebbesi materiale, e il guardarla dall' ignominioso materialismo non deve essere desiderabile, anzi propria sollecitudine dei teologi cristiani? Pure quand' anche non vi fosse la necessità, che è pur così manifesta, di aggiungere lo spirito all' argilla effigiata dei fisiologi e dei medici moderni, non mi pentirei d' avere indicato, o almeno d' aver voluto indicare, ove la medicina moderna nella cura dei morbi vada traviando: quali errori sistematici la danneggino sì fattamente da farle perdere il fine di guarire le infermità, o almeno di alleggerirle ai mortali. Perocchè non la sola verità, ma con essa la carità è principale ufficio del sacerdote cattolico, ed ella è voce oggimai universale e da niun savio, benchè professore dell' arte medica, contrastata, che quest' arte sia ridotta a pessima condizione; anzi i medici più valenti dell' età nostra sono quelli appunto che ne mandano più lamenti, e i soli mediocri la difendono. Chi può numerare le migliaia d' uccisi da quell' ostinazione di restringere l' arte salutare a non dover far altro che misurare la quantità dello stimolo, e trovare se ecceda ovvero difetti, trascurando così di tener conto di tutte le innumerevoli circostanze, che rendono uno stimolo opportuno ovvero inopportuno? Perocchè si riduce forse a questo la principale differenza, che allontana cotanto la nuova medicina dall' antica. L' arte nuova vanta grandissima semplicità, si fa una sola questione: se ecceda o difetti lo stimolo; qui finisce per non pochi la medica sapienza. L' antica incominciava: « l' arte è lunga, la vita breve, il tempo precipitoso, l' esperimento arrischiato, difficile il giudizio »; tanti erano gli accidenti, così variabili, così fuggevoli, così complicati, che ella stimava dover sagacemente osservare, giustamente calcolare, prima di concludere quale fosse la cura più opportuna d' una malattia. Che ora esca una voce dal tempio, e s' unisca a tante altre per domandare la riforma, la restaurazione di un' arte, che, in fiore, salva molte vite in pericolo, decaduta, ne trae molte ella stessa in pericolo, molte ne perde, non deve parere indecoroso, nè maraviglioso a chi sa il cristiano sacerdozio essere istituito ad alleggerire all' umanità tutti i mali, procurarle, accrescerle tutti i beni. A chi poi lo ignora, e però stupisce e si scandalizza che noi ci avvolgiamo in medici studi all' intento di ravviarli, con isforzi maggiori forse del potere, su quel diritto cammino, da cui tanto s' allontanarono, diremo così: niente c' importerebbe sapere di medicina, non vorremmo consacrarle alcuna parte del breve nostro tempo, se non fosse stato Uno, che avesse pronunciata questa parola: « amatevi l' un l' altro »; quell' Uno, che solo fra quanti hanno loquela, sa chiaramente parlare nel fondo del cuore. Niuna maraviglia che dopo quella solenne ed efficace parola i sacerdoti cattolici scrivano anche di medicina; quella parola fece fare agli uomini troppe altre cose maggiori, e molti non si ricusarono di parere e d' essere trattati da pazzi, per non disubbidire a quell' accento divino. Giudicateci tali; quella parola ci necessita ad accettare il vostro giudizio in pace. Ma ora, per conchiudere finalmente il lungo nostro lavoro, e in qualche modo ricapitolarlo, la natura dell' anima semplicissima, e l' indefinitamente molteplice sviluppo della sua meravigliosa attività diedero argomento alla prima ed alla seconda parte dell' opera. Vedemmo nella prima parte come l' anima sia una in ciascun uomo, com' ella sia il principio semplice di tutte le operazioni umane, come sia sostanza e in pari tempo principio d' un sentimento, come questo principio sentimentale e sostanziale sia intellettivo, come questo principio intellettivo abbia un' immediata e immanente percezione d' un corpo vivente, come, mediante questa percezione immanente, egli si compenetri col principio sensitivo, e ne risulti un solo principio intellettivo e sensitivo, avente un doppio termine d' azione, l' inteso, essere ideale, e il sentito, corpo soggettivo; e quindi acquisti condizione di principio razionale , nel quale è messo in essere l' uomo. Questo principio razionale percepisce sè stesso nell' essere ideale, e così acquista la coscienza, e, reso consapevole, si esprime col vocabolo IO . La percezione di sè è il principio della Psicologia , e perciò questa appartiene alle scienze di percezione ; ella si rinviene e si svolge coll' osservazione interiore di ciò che si contiene, permane, e cangia nello stesso IO , e dell' ordine in cui stanno fra di loro gli elementi che lo costituiscono. Niuna concrezione di materia entra nell' anima umana, e però è spirituale; il suo termine primordiale è l' essere, di natura eterna ed infinita; quindi, sebbene ella possa perdere il termine corporeo, con che dicesi che l' uomo muore, perchè se ne separano quelle due parti ond' egli risulta, tuttavia l' anima stessa intellettiva è immortale, ed ha un' ordinazione all' ente infinito. Con questo lieto risultato chiudemmo la prima parte della Psicologia . Aprimmo la seconda coll' indagare in che modo quelle tante attività dell' anima, che nelle sue passioni ed azioni si manifestano, giacciano da principio tutte contenute, e quasi dormienti, nella semplicissima essenza, e come si sveglino poscia, e da lei si distinguano: ricerca che ci obbligò d' entrare in alcune questioni ontologiche, le quali si sarebbero da noi potute non poco abbreviare, se ad una scienza ontologica già formata avessimo potuto riportarci. Ma l' Ontologia è per anco quella scienza, che di tutte rimane più imperfetta, come di tutte è più ricca. Trovammo dunque nella semplicità dell' anima una molteplicità, organata ed armonica, quasi a lei aderente; ma che non penetra in essa per modo da discioglierne l' unità e la perfetta semplicità. Vedemmo che l' anima, unico principio, si pone in atto mediante una pluralità di termini, che la attuano diversamente, senza perciò moltiplicarla, anzi rimanendo ella identica in tutti i diversi suoi atti, quasi vertice o centro di più angoli; e quindi trovammo la via d' accordare la molteplicità delle attitudini colla semplicità del principio; dalla considerazione poi di quei diversi termini deducemmo, ordinate e classificate le molteplici attività, potenze e facoltà umane. Ma tutte queste attività conservano nel loro operare delle leggi costanti e meravigliose, e per entro a questa nuova investigazione, quasi in non mediocre pelago, non dubitammo di sospingere pure la nostra navicella. Volendo noi dunque svolgere e descrivere le leggi, secondo cui operano costantemente le umane potenze, anche qui, innanzi d' ogni altra cosa, cercammo di tutte quelle leggi la prima ragione ed origine nell' essenza dell' anima, d' onde di mano in mano le facemmo poscia tutte uscire. L' ultimo libro finalmente, che tratta delle leggi dell' animalità, noi l' aggiungemmo come appendice, chè quelle non sono propriamente leggi dell' attività umana, ma leggi, a cui questa è quasi di continuo condizionata e mirabilmente connessa. Ora poi qual' è l' ultimo intento, quale il desiderabile effetto di così varie e di così sublimi attività, di cui fu ornata dal Creatore l' anima umana? Quale è il naturale voto di lei? Che destino le fu assegnato da Colui che le diede l' essere? In sapere questo solo sta veramente il frutto maturo della dottrina intorno all' anima, il quale non fu ancora da noi raccolto. I nostri lunghi ragionamenti ci avranno dunque condotti alla porta del giardino, senza potervi entrare? E fino sotto alla bella pianta, senza che ci sia dato di spiccare la rubiconda e saporosa poma che vi dipende, per cibare la quale prendemmo il faticoso viaggio? - Non si deve pretendere che una scienza bene ordinata mostri il suo utile risultamento, prima ch' ella sia pervenuta alla fine; nè veramente nella dottrina delle attività e leggi, colle quali l' anima si sviluppa ed opera, finisce la Psicologia ; fino dal cominciamento, noi avvisammo che la cosa di tutte importantissima e nobilissima, che le rimane ad investigare, è la destinazione stessa dell' anima. Perchè dunque fermar qui il passo? Perchè chiudere questa opera, senza toccare il suo termine, al quale sempre riguardando, si fece tanto cammino? - Il lettore, crediamo noi, non ne andrà scontento, ove egli consideri che, quantunque a diverse scritture noi abbiamo posto titolo diverso, e ciascuna dimostri un cominciamento ed una fine, tuttavia elle non sono più che parti, ovvero brani di una sola e medesima scienza, niuno dei quali è compiuto in sè medesimo; chè una è la Filosofia , una la scienza; onde il ripartirla in più libri e ordinarla sotto diverse intitolazioni si fa per alleggerimento di fatica agli studianti, i quali di un' opera lunghissima e pressochè interminabile potrebbero pigliare sgomento o fastidio. Al che riflettendo, neanche la presente trattazione psicologica parrà imperfetta e tronca a chi la voglia raggiungere colla Teosofia e coll' Antropologia soprannaturale , trattati che, a Dio piacendo, e favorendoci il tempo, comunicheremo al pubblico, il primo dei quali è via al secondo, dove dei destini dell' anima umana ci converrà distesamente ragionare. Toccammo già del perchè abbiamo creduto conveniente ed anzi necessaria questa dilazione. L' anima umana è un' intelligenza; ciò vuol dire, ha tal natura che l' oggetto per essenza, l' essere eterno, di continuo le si manifesta, ed indi ella trae l' atto dell' esser suo. Questa altissima relazione essenziale, che da parte dell' eterno oggetto dicesi manifestazione , da parte del soggetto intuizione , crea l' anima, che è il soggetto intuente. Affissata nell' essere eterno e divino, ivi ella tiene la sua naturale sede; ella è nell' essere; dove si vede qual parte di vero contenga la sentenza di Nicolò Malebranche, che Iddio è come « il luogo delle intelligenze ». Nulla mancherebbe alla piena verità di questa sentenza, se l' illustre filosofo che la proferì, avesse saputo accuratamente distinguere il concetto di Dio e il concetto di ciò che è divino. Dimorando dunque l' anima intellettiva nell' essere divino e sempiterno, quasi ivi innaturata, non mai confusa, è manifesto che da quell' essere, onde si origina ed ha l' essenza e l' esistenza, e onde non si può partire intieramente giammai, che, se indi si dipartisse, s' annienterebbe, ella deve ritrarre altresì ogni suo perfezionamento ed ogni suo compimento. Tanto più che ella, essenzialmente intelligente, non è congiunta, nè comunica immediatamente con alcun' altra cosa; comunica con tutte soltanto per mezzo dell' essere, a cui è affissa, pel quale conosce; chè gli enti sconosciuti non sono alla intelligenza. Ed intelligenza è l' umana persona; sicchè l' essere sempiterno, che naturalmente la illumina, è per esso lei quel mediatore che alle cose tutte la congiunge, e le cose a lei; e però l' anima intellettiva, siccome ogni altra intelligenza, in questo essere manifesto e manifestante ha tutto quello che ha, da questo tutto riceve, questo le dà tutte le altre cose. Il che rende manifesto come l' anima non sia il bene di sè medesima, anzi il suo bene sia un diverso da sè, chè dimora nell' eterno oggetto, nell' essere infinito, nel lume, che la fa essere anch' essa lume, e le dà tutto ciò che ella può ricevere, le acquista tutto ciò che ella può acquistare. Ragionare dunque convenientemente e, in qualche modo, pienamente della perfezione e della destinazione dell' anima non si può, senza uscire da lei; conviene che il discorso si spinga con ardire a più sublime argomento, che s' innalzi fino alla divinità; conviene che abbandoni per qualche tempo l' anima, e dopo investigate le cose divine e Dio stesso, quanto all' uomo è conceduto, a lei faccia ritorno. Come l' anima dall' essere eterno, nel cui seno ella dimora perpetuamente, può derivare a sè la propria perfezione? E può ella indi derivarla da sè medesima? Da parte del medesimo essere si esige forse qualche nuova meravigliosa, misteriosa operazione? Tutte ricerche, che trapassano il breve confine della semplice Psicologia. Il che dimostra a sufficienza che questa, siccome tutte le altre scienze umane, per sè sola è imperfetta, nè si può perfezionare, se non oltrepassa i confini della propria limitata sfera, e non si continua con altre scienze maggiori di lei, che, lasciandosi addietro l' universo creato, ne trovano il Creatore, il quale come dello stesso universo è il principio e la causa, così ne è anche il fine, la ragione, il perfezionamento, l' eterna sublimissima destinazione. Per questo noi giudicammo del tutto necessario riserbarci a parlare intorno ai destini dell' anima umana nell' Antropologia soprannaturale, la quale deve tener luogo dell' ultima parte, e del glorioso fastigio della Psicologia. Essendomi io, o Giuseppe dolcissimo, fino dai primi miei anni, come è conveniente che ogni uomo faccia, dato discepolo alla verità in primo, e poi al senso comune degli uomini (tutti rispettandoli io siccome esseri dotati del divino lume dell' intelligenza), procurai di raccogliere le loro sentenze, quando o ce le tramandarono se passati, o ce le esposero se presenti, sopra quegli argomenti che più importano al retto pensare ed al ben vivere, sollecito d' intendere, quanto per me si potesse, il fondo dei loro pensamenti, anzi che di fermarmi alla corteccia delle parole, di cui li rivestirono. E così io trovai, non senza soddisfazione dell' animo mio, che essi furono più consenzienti fra loro nell' opinare intorno alle cose sostanziali e necessarie, di quello che ne pare nel primo aspetto, ed anche più talvolta che non credessero per avventura essi medesimi. Onde, sapendo quanto studio tu ponga nella filosofia, e quanto altamente apprezzi quelle parole degne di un oracolo, «gnothi seauton», io ti mando qui brevemente esposte le principali opinioni dei filosofi e degli stessi popoli sulla natura dell' anima, accompagnate da qualche mia osservazione benevola ai loro autori, e conciliatrice; persuaso che tu accoglierai questo tenue lavoro, siccome segno del mio affetto, e fors' anche esso ti potrà prestare qualche utilità nell' istituzione dei giovanetti, che dànno opera alle filosofiche scienze, nella quale tu assiduamente ti occupi; o, se in questo io m' inganno, atteso che la tua erudizione non abbisogna di straniero soccorso, esso mi procaccerà almeno da te qualche ricambio, che gioverà a me stesso. Io dunque narrerò i pensamenti e le opinioni principali sulla natura dell' anima umana, tenendomi, quasi a filo conduttore, a quel principio degli Eclettici, che « « tutti gli errori degli uomini hanno un cotal lato vero e un cotal lato falso, e che come il lato vero ha per causa l' aver essi osservato qualche cosa della natura, così il lato falso ha per causa l' avere ommesso di osservare qualche altra cosa », » subentrando in mezzo la prontissima fantasia a supplire alla manchevole osservazione, sì fattamente che, in generale parlando, riesce vero ciò che vi è negli umani pensieri di positivo, e riesce falso ciò che vi è di negativo, di esclusivo, e di arbitrario. Il qual principio, dove si applichi a comporre un sistema filosofico, siccome fuori di luogo (e questa importuna applicazione è l' errore degli Eclettici), riesce sterile e illogico, perchè nelle dottrine non può discernere il vero dal falso colui che già prima non possiede il vero, qual tipo al cui riscontro il falso si riconosce; ma esso diviene ottimo, applicato alla storia dei placiti filosofici, la quale non può essere convenevolmente trattata, se non dopo che la filosofia stessa sia trovata e sufficientemente stabilita; chè solamente con questa si può giudicarli equamente, ed anche ridurli a qualche concordia, da variatissime e discrepantissime sentenze cavando un solo tutto, legato in meravigliosa unità. Ma poichè le opinioni antiche sono quelle che io voglio principalmente riferire, descrivendole più da filosofo che da storico, perciò mi si conviene avvertir prima d' ogni altra cosa, che le antichissime a noi non pervennero se non in minuti frammenti, quasi logore e scarse rovine di venerandi edifizi, e che la lingua antica in cui sono espresse, siccome assai sintetica (conciossiachè la facoltà dell' analisi non si svolse che pel corso dei secoli), dovette esprimere i concetti indistinti, come essi erano nelle menti, ed anzi più; di che sembra che voglia esserci conceduto dagli uomini discreti l' interpretarli per modo da cavarne un senso ragionevole, benchè assai spesso lo faremo più per modo di congettura che di fermo pronunciato. Ora, prima di tutto, ecco ond' io crederei poter dedurre un principio, il quale mi guidasse a classificare le diverse sentenze, che gli antichi seguitarono intorno alla natura dell' anima umana. Quasi anelli d' una catena le cose dell' universo sono annodate insieme, sicchè il primo anello è la materia; il secondo l' anima sensitiva, che la sente e percepisce; il terzo l' anima intellettiva, che percepisce il sentimento; il quarto l' essere, che risplende nell' anima intellettiva e le giova di mezzo universale a conoscere; il quinto è Dio, che è lo stesso essere assoluto, prima e suprema origine di tutte le cose precedenti. In questa ammirabile catena, che tiene sospeso al cielo tutto l' universo, sta come anello medio l' anima intellettiva, la quale si trova legata ai due primi pel senso, e si trova legata ai due secondi per l' idea e per l' influenza dell' Ente sussistente, dove l' idea ha la sua propria sede e sempiterno domicilio. Ora quegli uomini, che incominciarono a domandare a sè stessi « che cosa sia l' anima », volsero certamente la loro attenzione e la loro curiosità all' anima intellettiva; perocchè l' uomo che toglie a riflettere su di sè, non può partire che dall' Io (1), e nell' Io è già contenuta l' anima intellettiva. Ma quell' anima, essendo inanellata, come dicevamo, da una parte colla materia e col senso, dall' altra coll' idea e con Dio; nè potendosi ella distinguere, se non da una mente già addestrata all' attenzione ed all' osservazione analitica, la quale mancava ai primi pensatori, nè si educa che col tempo; doveva necessariamente avvenire che il concetto di lei si confondesse nelle loro menti coll' una o coll' altra di quelle quattro cose, che non sono lei, ma sono legate intimamente con lei. Quindi dovettero uscirne, e ne uscirono veramente, quattro classi di sistemi erronei, i quali riferirono la natura dell' anima, ora alla materia, ora al senso, ora all' idea, ed ora a Dio stesso. Come poi si potrà sciogliere e sceverare dentro a cotali sistemi erronei quella parte che sta in essi di verità? Questo da noi si potrà ottenere, considerando che gli autori di quei sistemi osservarono bene quelle cose che sono legate coll' anima, e in quell' osservazione si trova la verità; ma poscia tralasciarono di osservare che quelle cose, da essi osservate, non erano l' anima che intendevano definire, e in questa disattenzione sorse la falsità. L' aver essi adunque tralasciato di osservare le differenze, che separano dall' anima le cose che sono all' anima congiunte, ecco il fonte di tutti i loro errori. Questo è il solito procedimento della mente umana, che prima apprende le cose tutte insieme, e poi le distingue. Il movimento libero dell' intendimento umano cominciò nell' Asia minore, nella stirpe jonia; il primo oggetto che s' offerse a quella speculazione si fu la natura materiale. E così doveva essere, perocchè la prima operazione naturale della ragione si è la percezione dei corpi; dunque l' oggetto di questa, il corpo, doveva essere altresì trasportato il primo nella sfera della riflessione filosofica. L' impulso e l' occasione d' un tale movimento venne dalla corruzione delle verità tradizionali intorno a Dio massimamente, le quali degenerarono nei miti e nell' idolatria. Perduta la scorta sicura della primitiva rivelazione, l' uomo fra le genti sentì il bisogno di cercarne un' altra, e sperò di trovarla nel libero esercizio del proprio pensiero, e così da discepolo stato fino allora, tolse a divenire maestro di sè stesso (1). L' Oriente, vicino al fonte della primitiva sapienza, e massimamente l' ebraica nazione, in cui quella si mantenne intemerata, e a cui furono consegnati in deposito i positivi oracoli della Divinità, non ne sentì egualmente il bisogno; perciò ivi, possedendosi il vero, non nacque, o almeno non nacque con istrepito e baldanza, la filosofia, nè si ridusse a scienza rigorosa la Dialettica, che ne è il foriere e lo strumento. Al confine occidentale dell' Asia l' eco della tradizione divenuto evanescente e confuso, l' individuo umano si trovò vacillante nei passi suoi, per l' incertezza e in parte altresì per l' assurdità della dottrina sociale; rientrò dunque in sè per sorreggersi; e permettendo un tanto male, disponeva nel suo alto consiglio la Provvidenza che fosse creata la scienza. Ma colui che primo sorse a filosofare, e quelli che gli vennero appresso, non potevano importare ad un tempo tutto ciò che conoscevano direttamente e popolarmente nell' ordine della scienza, nel campo dell' individuale riflessione; la prima cosa adunque, che importarono in essa, e che sottomisero alla meditazione, furono i corpi. Così ebbe origine la dottrina degli elementi (1). Talete (a. 600 av. G. C.) e Ferecide posero il principio di ogni cosa nell' acqua. Ippone di Reggio ripose la sostanza dell' anima nell' umore genitale, che perciò faceva vivente (2). I quali filosofi trovarono indubitatamente questo principio nella tradizione, la quale narrava come tutta la materia a principio fosse creata in istato liquido, e dal liquido uscissero tutte le cose. Suida, Eustazio ed altri attestano che Ferecide potè avere in mano certi libri arcani dei Fenici. Hernius provò che questi libri erano i libri di Mosè (3). Talete, appartenente ad una famiglia fenicia, e però di nazione contermina all' ebraica, si deve esser confermato in questa sentenza dall' aver veduto che tutte le generazioni cominciano dal liquido, e che il nutrimento stesso deve rendersi liquido, acciocchè sia rifuso nel corpo vivente, e ne acquisti la medesima vita. Così congettura Aristotele sull' opinione di Talete: [...OMISSIS...] . Al che aggiunge il conforto di tradizioni più antiche. [...OMISSIS...] (1). Ora, che Talete ricevesse dalla sacra tradizione il suo principio dell' acqua come origine delle cose, pare confermarsi dall' osservare che egli aggiungeva all' acqua lo spirito, «nus», qual principio motore (2), il quale spirito è pure indicato nell' antichissimo dei libri, come quello che ferebatur super aquas . Al che consuona anche la tradizione profana, riferita da Probo con queste parole: [...OMISSIS...] . Quanto poi ad Ippone, Aristotele lo colloca tra i filosofi rozzi. [...OMISSIS...] . Aristotele dice che nei versi orfici si legge che l' uomo trae l' anima dall' universo colla respirazione (2). Di poi Anassimandro, contemporaneo di Talete, Anassimene (a. 557 av. G. C.), Anassagora (a. 440 av. G. C.) (3), Archelao (a. 460 av. G. C.) (4), e Diogene Apolloniate (a. 460 av. G. C.) (5), riposero pure, in un modo o nell' altro, la natura dell' anima nell' aria, cioè ancora in un fluido, onde non si allontanarono gran fatto dai precedenti. Varrone fra i Romani, seguendo quell' antica sentenza, definì l' anima così: [...OMISSIS...] . La qual sentenza fu suggerita ai filosofi evidentemente dall' osservare il fatto della respirazione. Si legge in Cicerone: [...OMISSIS...] . E lo dice pure Lattanzio: [...OMISSIS...] . Ma Aristotele dà altra ragione di questa sentenza: l' aver voluto pigliare quei filosofi a sostanza dell' anima la sostanza più mobile e più sottile (9), affine di spiegare l' anima per via della sua qualità di essere mobilissima; la quale a me sembra anzi una spiegazione sistematica che vera, secondo il vezzo di Aristotele, ovvero una ragione trovata posteriormente alla vera. Secondo Pitagora [...OMISSIS...] . Tuttavia sembra indubitato che Pitagora distinguesse da questa l' anima intellettiva, di cui troppo più altamente sentiva, come diremo a suo luogo. Eraclito di Efeso pose a principio delle cose il fuoco (2). Democrito ridusse l' anima ad atomi rotondi di fuoco (3). Così pure Leucippo (4), Zenone e gli Stoici, suoi discepoli, seguirono la stessa dottrina (5). Ad Ipparco è attribuita da Macrobio la stessa sentenza (6). Questa sentenza nacque al vedere i grandi effetti del calore, specialmente vaporoso, conosciuti anche dagli antichi, e dell' elettricità in tutta la natura, e singolarmente dall' osservazione di quel calore, che si sviluppa nell' animale colla respirazione. Quanto lungamente i medici ponessero nel calore il principio vitale dell' animale, ho accennato altrove (7). Aristotele, di cui conviene alquanto diffidare, perchè inclina a ridurre a certe determinate classi gli antichi sistemi, e sembra talora interpretarli in modo da forzarli ad entrare nelle classi prestabilite, pretende spiegare l' opinione che poneva la natura dell' anima nel fuoco, per la mobilità e sottigliezza di questo. Egli riduce tutti gli antichi sistemi intorno all' anima a tre generi: a quelli che definiscono l' anima per mezzo del moto ; a quelli che la definiscono per mezzo del senso ; a quelli che la definiscono per qualche cosa d' incorporeo (1). L' opinione adunque del fuoco la ripete da un tentativo di spiegare il movimento spontaneo. [...OMISSIS...] . Ma altrove Aristotele medesimo fa venire questa sentenza dall' opinione popolare espressa nella lingua. [...OMISSIS...] . E tuttavia non è certo che questi antichi ponessero l' anima interamente materiale, quando anzi piuttosto spiritualizzavano gli elementi, e specialmente il fuoco, o in luogo dell' anima pura (di cui non avevano ancora l' idea netta) parlavano dell' animato . A me pare probabile che il crudo materialismo si debba attribuire a tempi più bassi e di corruzione, come al tempo di Stratone ed ai posteriori (4). Aristotele asserisce che i filosofi dissero essere anima ognuno degli elementi fuori che la terra, la quale niuno disse essere anima, se non quelli che composero l' anima da tutti insieme gli elementi (1). Il qual luogo, se non è stato interpolato, rende sospetto il verso attribuito da più autori antichi (2) a Senofane: [...OMISSIS...] . E non di meno Macrobio attesta che Senofane faceva l' anima « ex terra et aqua (4) », e il suo discepolo Parmenide « ex terra et igne (5) ». Forse Macrobio dice dell' anima quello che tali filosofi avevano detto dell' uomo. Mi fa congetturare la cosa dover essere così dal vedere che Diogene Laerzio narra che Zenone di Elea, discepolo di Parmenide, fa uscire l' uomo dalla terra, e dichiara l' anima un miscuglio di elementi, cioè di freddo e di caldo, di secco e di umido, così armonico però, che nessuno di essi tiene sugli altri il predominio (6). Il fare risultare l' anima non da un solo elemento materiale, ma da tutti insieme, e il porre in essi l' ordine e l' armonia, è già un passo di più che fa la riflessione. Ella ha già conosciuto che niun elemento materiale da sè solo può spiegare le operazioni dell' anima (7); e ricorrendo all' armonia, si cominciava ad aggiungere al concetto dell' anima l' unità, e qualche cosa di spirituale, perocchè l' armonia suppone un ente semplice, che in sè contenga il molteplice. Fra quelli che così opinarono, celebre fu Dicearco, di cui Plutarco scrive: [...OMISSIS...] . Aristosseno musico pose pure l' anima in una armonia; ma pare che la sua non fosse l' armonia degli elementi, ma degli organi e dei sensi. Onde Cicerone così descrive la sentenza di questo filosofo: [...OMISSIS...] . Ora, posciachè era ancor troppo difficile il concepire questo nobilissimo vero, che l' armonia non poteasi avere che in un principio semplice e spirituale, quelli che nell' armonia riposero la natura dell' anima, senza intendere quale dovesse essere la sede dell' armonia, finirono col dichiararla un niente. Il che ci dice appunto Cicerone, parlando di Dicearco: [...OMISSIS...] . Nella quale dottrina si sente tutto l' impaccio di chi erra, poichè si pone una forza equabilmente diffusa in tutti i corpi viventi, da essi inseparabile - che corrisponderebbe da qualche lato all' anima elementare e senziente lo spazio, di cui parlammo nella Psicologia - e un temperamento di tali corpi, cioè un' organizzazione, onde l' anima organica, che si dissipa coll' organismo; e tuttavia si dice che l' anima sia niente. Pare adunque volesse dire che l' anima non era niente, separata dal corpo; il che era tuttavia un travedere come l' anima sensitiva, o principio senziente, non poteva sussistere senza il sentito, non sollevandosi il pensatore fino alla natura dell' anima intellettiva, nè intendendosi per anco che il senziente (l' anima) non era il sentito (corpo). Di Aristosseno, Lattanzio afferma il medesimo. [...OMISSIS...] : quasichè la musica fosse senziente e non sentita; e per essere sentita non avesse bisogno degli orecchi e delle anime altrui che la sentano! Finalmente si passò all' opinione che l' anima consistesse in qualche sostanza, composta bensì di elementi, ma di una determinata maniera. E qui cade il sistema di quelli che la riposero nel sangue, fra i quali Crizia (2). Quanto poi ad Empedocle, noi ne parleremo in appresso. E cade pure il sistema di quelli, di cui parla Cicerone così: [...OMISSIS...] . Alla quale è prossima la sentenza dei moderni materialisti, che la confondono col cervello o col sistema nervoso; ed anche in più la dividono, secondo le parti di questo. Quando da prima s' intese che i soli elementi materiali non bastavano a spiegare le operazioni dell' anima, allora s' aggiunse loro qualche altro principio; ma non si abbandonarono perciò tantosto gli elementi. Era il medesimo che pervenire a qualche cosa di spirituale; ma l' intendere che questo principio doveva essere spirituale, appunto perciò che non apparteneva agli elementi materiali, non fu agevole passo, nè si fece d' un tratto. Con questo principio nuovo che si aggiunse, si pervenne al senso. Plutarco espone così la sentenza di Epicuro (n. 337, m. 270 av. G. C.): [...OMISSIS...] . Stobeo aggiunge la spiegazione di questa sentenza di Epicuro così: [...OMISSIS...] . Epicuro adunque conobbe che non si poteva spiegare il senso coi soli elementi materiali o colle loro qualità, e ricorse ad un altro principio, che disse innominato, appunto perchè diverso dagli elementi conosciuti e nominati; ma non si elevò all' intelligenza, nè s' avvide che questo quarto principio sensitivo doveva essere immateriale (3). Egli poi lo congiunse all' organizzazione per guisa che, disciolta questa, si dissipava (4); il che era un travedere la natura dell' anima sensitiva. Gli Stoici, secondo Plutarco, posero nel senso la parte principale dell' anima (5); il senso poi l' attribuivano a un cotale spirito simile a quello di Aristotele, della natura del calore (6). Dalla parte principale poi dell' anima derivavano tutte le altre, e così la costituivano (7). Ora, come dopo la dottrina degli atomi venne quella della loro armonia, professata da Dicearco e da Aristosseno, così dopo la dottrina che poneva l' essenza dell' anima nei sensi, venne quella dell' armonia dei sensi. Plutarco dice che il medico Asclepiade definiva l' anima [...OMISSIS...] il che veramente era un porre ancor meno di quello che aveva posto Epicuro, perocchè questi, ponendo un principio sensitivo, aveva abbracciato tutto il sentimento animale, là dove Asclepiade riduceva l' anima alle cinque maniere esterne e comuni di sentire, senza accorgersi che l' animalità ne ha molte altre. Pervenuta la meditazione filosofica a riflettere sulla natura del sentire, e conosciuto che questa operazione non si poteva in alcun modo spiegare mediante i soli elementi materiali, rimaneva che i pensatori facessero entrare nella sfera del pensiero riflesso e scientifico anche l' operazione dell' intelligenza, ove potevano finalmente rinvenire la natura dell' anima intellettiva. Ma è più difficile fissare la riflessione sul soggetto intelligente, che non sia trapassare di un salto all' oggetto, e in questo esclusivamente collocarla; perocchè l' oggetto è quello in cui il pensiero finisce; e la via percorsa dal pensiero, e il pensiero medesimo non diviene oggetto, se non per una operazione riflessa posteriore. Quindi si scorge ragione manifesta perchè niuno forse degli antichi giunse a distinguere e separare del tutto il soggetto dall' oggetto, cioè l' anima dall' idea ; e tutti i più illustri, usciti dalla materialità dei primi, e sollevati eziandio sopra il senso, precipitarono il loro volo nella idea, senza fermarsi pure all' intelligenza, che pensa l' idea; cioè a dire riposero l' intelligenza e l' anima intellettiva nelle idee. PITAGORA. - Fra questi mi sembra poter annoverare prima degli altri Pitagora, di cui riferisce Plutarco che [...OMISSIS...] . Ora i numeri non sono che idee astratte; se dunque la mente è un numero, essa mente, ossia l' anima intellettiva, è confusa colle idee che illuminano l' anima, il soggetto coll' oggetto. Ma questo concetto dei numeri pitagorici venne esposto diversamente dagli antichi, appunto perchè essendo esso un' astrazione, lasciava un immenso campo ai discepoli di determinarla in varie guise; ed era pur necessario che nell' uno o nell' altro modo la determinassero, acciocchè ne riuscisse un qualche ente. Aristotele, che si mostra incerto del significato che debba dare al numero di Pitagora, toglie a confutare questa sentenza presa in tre sensi; cioè come se s' intendesse di puri numeri, e come se s' intendesse di piccoli corpicciuoli, e finalmente come se s' intendesse di punti matematici (2). Fa meraviglia come egli neppure accenni che i numeri di Pitagora sieno idee; eppure lo dissero alcuni altri antichi; nè tampoco accenni che sieno « astratti delle entità, presi a base del ragionamento, che si voleva intorno a queste istituire »; la quale io stimo che sia la più naturale, e la vera spiegazione dei numeri di Pitagora. Dichiarerò meglio la cosa con un paragone. A quel modo che il matematico, volendo dare la teoria della quantità continua dei corpi, si forma colla mente dei corpi astratti, ritenendo la sola estensione e le figure, e rigettando il rimanente, e poscia su questi corpi ipotetici, o per dir meglio, su questi corpi7postulati ragiona ed edifica la sua teoria; così Pitagora, o chiunque parlò prima dei numeri al modo dei Pitagorici, volendo dare la teoria degli enti, si formò degli enti astratti, ritenendo di tutto ciò che negli enti si trova il solo numero, e quindi traendo la teoria degli enti da questo solo, che essi sono numeri. Ciò che mi convince questa dover essere la vera interpretazione dei numeri pitagorici, si è l' osservare quanta nei filosofi italici era la potenza dell' astrazione, e con quale veemenza l' istinto filosofico, che tende all' universale, li sospingeva verso l' astrarre come in una regione del tutto spirituale, dove, inesperti ancora e invaghiti della novità della scoperta di un mondo così puro da condizioni di materia e di tempo, si persuadevano dover racchiudersi l' intera sapienza. Basta considerare in qual modo Senofane si portò addirittura col suo pensiero alla questione sull' unità delle cose ; e come mediante Parmenide e Zenone il grande problema filosofico di quel tempo divenisse ben presto il più elevato per astrazione, di quanti se ne possano immaginare, cioè « se le cose tutte sieno uno o più ». La questione agitata fra i patrocinatori dell' unità e quelli della pluralità, non è, a ben giudicare, altra cosa che la questione dei numeri. Certo non vi era bisogno di aggiungere alcuna cosa all' unità ed alla pluralità; perocchè si parlava di questi due astratti, senza aggiunta di cosa alcuna. Onde tutte le interpretazioni dei numeri pitagorici, le quali aggiungono ai numeri qualche cosa per determinarli, ci sembrano posteriori al Samese filosofo, non sono più questioni di teoria (la quale sola si cercava al tempo dei primi Italici), ma di applicazione della teoria dei numeri . Di vero, la dottrina intorno ai numeri doveva essere, siccome una teoria purissima, applicabile poscia a tutti gli enti; ella era la matematica pura dell' ontologia, una cotal lingua universale. Indi le diverse forme che prese quella teoria, quando ella si venne applicando agli enti. Invece adunque di mantenere la teoria e l' applicazione distinte come due parti dell' ontologia, si confusero insieme, o piuttosto si perdette di vista la teoria pura. La teoria pura ontologica dei numeri, quale sembrano averla posta i primi filosofi italiani, non riguardava adunque più l' anima che gli altri enti; ma sì ad ogni maniera di esseri poteva e doveva applicarsi. E posciachè i numeri sono ciò che di più astratto si può considerare negli enti, perciò li dicevano le prime cose, come attesta Aristotele, e gli elementi dei numeri gli elementi altresì di tutti gli enti, [...OMISSIS...] . Laonde questa teoria dei numeri s' applicava all' estensione, e ne uscivano i principŒ della Matematica pitagorica. S' applicava ai corpi, e ne usciva la Fisica pitagorica, e segnatamente la dottrina degli indivisibili (2). S' applicava a Dio, e ne usciva la Teologia pitagorica. Finalmente s' applicava all' anima e ne usciva la Psicologia pitagorica. Ora le questioni intorno all' anima, nell' applicazione che ad essa si faceva della dottrina dei numeri, dovevano essere, se non erriamo, queste: 1) Nell' anima vi è l' unità? 2) vi è la dualità? o la trinità, o la quaternità ecc.? cioè, vi è cosa che sia rigorosamente una? o cosa che sia due, tre, quattro, ecc.? Delle quali questioni la risoluzione pitagorica si era che nell' anima vi era l' uno, il due, il tre, il quattro, e non più. Dove nell' anima si diceva trovarsi l' unità? Nella mente. [...OMISSIS...] . Poichè dunque la mente considera molti individui con una sola e medesima idea specifica, e molte specie con una e medesima idea generica, si dava alla mente l' unità. Ma troppo più a ragione le compete l' unità, perchè ella abbraccia tutti i generi di cose con una sola idea dell' essere in universale, nella quale sono ridotti a perfetta unità non solo i reali molteplici, ma ben anche tutti affatto gli ideali determinati, o sieno specifici, o sieno generici. Ed a me pare che questa idea doveva essere appunto il Dio di Pitagora, cui questo filosofo definiva il numero dei numeri, [...OMISSIS...] , come Platone lo chiamò poscia ente degli enti, [...OMISSIS...] . Ma l' errore, che adesso notiamo, si è d' aver confuso la mente coll' idea, o certo d' aver parlato sovente in modo che veniva con essa a confondersi; e quindi di non avere ben distinta la natura soggettiva dell' una colla natura oggettiva dell' altra. Nondimeno pare che prima di Socrate e di Platone, i Pitagorici, che avevano certamente conosciuta l' unità della mente, non avessero pronunciato espressamente, o almeno con costanza, che la ragione di quella unità si doveva rinvenire nella natura delle idee; poichè Aristotele dice che fu Platone che aggiunse ai numeri le idee, togliendole dal modo di disputare di Socrate (1), se pure non è anzi a dire che Platone altro non facesse che introdurre un linguaggio più filosofico circa la natura delle idee, e desse a questa dottrina una maggiore importanza. Ora, dove nell' anima si trovava il due? I Pitagorici dicevano nella scienza . La scienza è oggetto; e vedesi l' errore e la confusione indicata in fare che la scienza, in cui riponevano il due, corrisponda alla mente, in cui riponevano l' uno, quando avrebbero dovuto farla corrispondere all' idea; alla mente poi dovevano far corrispondere la ragione (il ragionamento). Che cosa poi intendessero per scienza, non è così facile il determinare; ma probabilmente qualunque proposizione o giudizio spettante alle idee astratte, e perciò necessario; poichè a pronunciare un tal giudizio si richiedono almeno due termini, il soggetto ed il predicato. Dove poi trovavano nell' anima il tre? Nell' opinione riguardante le cose contingenti, e però in quei giudizi, nei quali la convenienza del predicato e del soggetto non è necessaria ed evidente, come non suol essere nei giudizi sintetici (2). Non potendosi adunque in questa maniera di giudizi unire un predicato con un soggetto, senza avere una ragione straniera che a ciò determini la mente, oltre il predicato ed il soggetto, forza è che intervenga un terzo elemento per opinare; quindi davano il tre all' opinione. Finalmente i Pitagorici trovavano il numero quattro nel senso, cioè nei giudizi intorno alle cose sensibili; e ciò, mi pare, perchè il senso non è una ragione sufficiente di applicare un predicato ad un soggetto, se egli stesso non sia prima percepito dall' intelletto; e quindi il giudizio, anche più semplice che si possa fare in conseguenza del senso, esige per lo meno quattro elementi. Prendiamo ad esempio il giudizio seguente: « questo rosso è un ente ». Noi possiamo distinguervi: 1) la sensazione del rosso; 2) l' apprensione intellettiva di essa; 3) la necessità che dove è la sensazione del rosso, vi sia un ente operante; 4) la affermazione. Platone fa venire l' opinione dal senso, e la scienza dalla mente, e così riduce il quattro al due. Come poi l' anima nel sistema pitagorico sia un numero che si muove, apparisce dal considerare che i quattro numeri, che si notano nell' anima, derivano l' uno dall' altro: il quattro dal tre, giacchè il giudizio sulle cose sensibili suppone dinanzi a sè la facoltà dei giudizi sintetici; il tre dal due, giacchè la facoltà dei giudizi sintetici suppone dinanzi a sè la facoltà dei giudizi analitici; il due dall' uno, giacchè ogni giudizio suppone primieramente l' idea. Laonde Plutarco così riassume il sistema di Pitagora: [...OMISSIS...] . Empedocle (43. 7 37. a. C.). - Ma da Pitagora passiamo ai Pitagorici, e scegliamo fra essi Empedocle. Noi siamo di opinione che gli elementi, di cui Empedocle voleva composta l' anima, fossero le idee degli elementi, e non gli elementi materiali; o almeno è certo che così alcuni suoi discepoli lo intesero (2). Secondo questa opinione il filosofo Agrigentino verrebbe in gran parte purgato dal goffissimo errore del materialismo; anzi l' errore opposto gli si potrebbe imputare, di cangiare la natura dell' anima intellettiva nella natura delle idee stesse, il che è un deificarla, dappoichè la natura dell' idea tiene del divino. Noi esporremo qui estesamente le ragioni che ci addussero a questa persuasione. La prima si è che, trattandosi d' interpretare la mente di un filosofo, di cui ci rimangono solo pochi frammenti, vuol tenersi gran conto della tradizione filosofica, e non considerarlo isolato, siccome tutto avesse inventato da sè, senza scuola precedente. Tanto più convien fare questa considerazione, quando il filosofo visse in una età nella quale fioriva lo studio della filosofia, come si fu quella di Empedocle, al cui tempo i filosofi ionii, e più ancora quelli di Samo, di Colofone e di Elea erano celeberrimi, e le loro speculazioni meravigliavano per altezza gli ingegni. Ora sembra possibile che, dopo che le questioni più elevate si erano già cotanto discusse, Empedocle cadesse in un così rozzo e plebeo errore da fare l' anima intellettiva composta di materiali elementi, ignorando o cancellando tutto quanto era stato detto prima di lui di più sublime in questo argomento? Di poi, il materialismo riflesso e professato in modo aperto e sguaiato, non appartiene al periodo, in cui la filosofia si stava formando, ma, chi ben guarda, solamente al periodo della sua corruzione, allorchè il sofisma e la dissoluzione dei costumi cominciò a traboccare. Le prime filosofie avevano certo nel loro seno un materialismo, ma loro proprio e speciale, veniente da mancanza di riflessione, mescolato collo spiritualismo; perocchè la divisione fra lo spirito e la materia non s' era per ancora ben colta dalla mente, la quale nè affermava lo spirito, nè la materia, ma parlava di entrambi come di una cosa sola. S' aggiunga doversi la critica appoggiare a notizie certe per argomentare le incerte. Ora niuna più certa di quella che Empedocle professava il pitagoreismo, il perchè egli apparteneva alla scuola d' Italia. Ora è possibile che un pitagorico, e, se si vuole, un pitagorista (1), non avesse altra dottrina da metter fuori intorno all' anima, che quella di farla constare di elementi al tutto materiali? Oltracciò il filosofo nostro non fu mai dall' antichità collocato nel novero dei filosofi materialisti, chiamati plebei da Cicerone, ma sì introdotto nella compagnia di Pitagora, di Parmenide, di Anassagora, di Platone e d' altri tali. Aristotele pone questa differenza fra Empedocle da una parte, e i Pitagorici e Platone dall' altra, che questi posero l' uno e l' ente nella sola essenza delle cose (2), quando Empedocle soppose all' unità l' amicizia. Aristotele, proposte varie questioni, soggiunge: [...OMISSIS...] . E poco appresso ripete la medesima cosa, ma dubbiosamente, come se la sentenza che Empedocle supponesse l' amicizia all' uno e all' ente, fosse piuttosto congetturata da lui che da quel filosofo espressa (1). Come dunque Platone e i Pitagorici spiegarono i numeri di Pitagora, riducendoli alle essenze ed alle idee, così Empedocle avrebbe determinato l' uno astratto coll' amicizia, ritenendo il fondo della dottrina italica e a suo modo svolgendola. Ora, perchè poi l' Agrigentino compose l' anima di tutti gli elementi? Per spiegare la cognizione di tutte le cose, di cui l' anima è suscettibile, movendo dal principio che « « il simile si conosce col simile » ». Ebbene, onde tolse egli una tale sentenza? Dalla scuola di Pitagora, da questa scuola eminentemente spirituale, la quale professava appunto tale dottrina; dunque egli va inteso secondo la maniera di pensare di questa scuola. Calcidio dice espressamente: [...OMISSIS...] : non è dunque una sentenza trovata da Empedocle, ma da lui seguita. E ancora: [...OMISSIS...] . L' anima dunque ha in sè la similitudine degli elementi, non gli elementi stessi materiali; il che consuona col sentire della scuola pitagorica e dell' eleatica, nella quale fu istituito Empedocle. Empedocle riconosce Iddio qual pura mente, priva di ogni concrezione corporea; e ci rimangono ancora di lui alcuni versi, nei quali dopo aver egli detto che Iddio è insensibile e s' insinua nei petti umani per l' amplissima via della fede, «megiste peithus», e che è privo di membra corporee, conchiude: [...OMISSIS...] i quali versi rammentano, come già fu osservato, versi simili di Senofane (2), e mostrano siccome la dottrina empedoclea si continuasse a quella dei filosofi precedenti. Sesto, mettendo Empedocle coi filosofi italici, attesta che ammetteva uno spirito, «en pneuma», comunicante con tutta la natura, e ad ogni cosa dispensante la vita (3); il che troppo bene conferma che egli non era un puro materialista, e che non poteva fare le anime nostre di elementi materiali, quando noi stessi voleva che fossimo animati da quell' anima spirituale, che pervadeva tutto il mondo, e che era soltanto mente: [...OMISSIS...] (4). E non dichiara forse le anime umane di divina stirpe dal cielo discese in terra come in un esilio, in un antro, «phygades teothen», avvolte in corporea veste, «sarcon chitoni», costrette a trasmigrare da una in altra forma corporea per lo spazio di trenta mila anni «tris myrias horas», fin che sieno purgate? Dove le tracce della tradizione dell' antica colpa, e della pitagorica metempsicosi, sono manifeste. Come dunque, quando questo autore dice poeticamente che le anime umane sono composte di tutti gli elementi, si potrà intendere che egli le voglia concretare di tutti i generi di materia? Si consideri di più, che Empedocle diceva sovente i suoi elementi essere Dei; il che poscia da Platone e dai Platonici fu detto appunto delle idee. Aristotele afferma che, secondo Empedocle, gli elementi sono per natura anteriori agli Dei, «ta physei protera tu theu», certo perchè gli Dei stessi si facevano di questi composti; quantunque soggiunga che anche gli elementi sieno [...OMISSIS...] , onde si ravvisano più generazioni di Dei o di demoni, ammessi da Empedocle, fra i quali poneva le stesse anime umane. Il che è a pieno consonante colle dottrine dei Platonici, che di ogni idea fanno un Dio, e pure delle idee compongono gli animi umani. Quindi Empedocle, cangiati gli elementi in persone, loro dava i nomi della divinità (2); il che era uno stabilire colla scienza la superstizione e l' idolatria, imitando in ciò i filosofi più antichi, fra i quali Ferecide, che inscrisse quel libro, che compose sugli elementi e sulla loro commistione, «theokrasia». Perocchè questi savi nè poterono colla loro mente sollevarsi alla chiara cognizione di Dio, nè avevano cuore abbastanza saldo da combattere l' errore comune e grossolano della idolatria, in cui erano essi stessi educati. Alla nostra sentenza ancora viene non leggiero rinforzo da un luogo di Aristotele, dove questo filosofo dichiara espressamente la dottrina di Empedocle intorno alla formazione dell' anima umana essere simile a quella di Platone (3); il qual luogo è il seguente: [...OMISSIS...] . Ora, tra i filosofi che posero mente non al moto, ma alla virtù di sentire e di conoscere, nomina Empedocle e Platone; i quali conseguentemente la fecero composta di elementi atti a conoscere altri elementi, cioè di idee, come indubitatamente fece Platone. Seguita dunque così: [...OMISSIS...] Su di che ci si presentano a fare diverse importanti considerazioni. Primieramente è indubitato che Platone non fece l' anima intellettiva, ossia la mente, di elementi materiali, ma piuttosto la compose di idee; che anzi nel « Timeo » fa il corpo risultare di quegli elementi; e il corpo per Platone (come prima per Empedocle) è una cotal prigione dell' anima, di cui turba i regolari movimenti. Laonde dice, che [...OMISSIS...] ; e così spiega l' ignoranza, in cui l' uomo nasce, e gli irrazionali moti dei bambini, non giunti all' età della riflessione. Di poi è da considerarsi che se, al dir di Aristotele, i due filosofi nominati, che componevano l' anima degli elementi, facevano questo, movendo dal principio che « « ogni cosa si conosce colla sua simile » »; dunque gli elementi erano simili a questi, non erano adunque questi stessi; e ben si sa che per il simile Platone intende l' idea. Dunque trattavasi di elementi ideali, nei quali solo veramente risiede la similitudine delle cose, con cui l' anima conosce (3). Di poi, che cosa è la prima lunghezza, la prima larghezza, la prima altezza, secondo Platone? Non altro che la lunghezza, la larghezza e l' altezza esemplare ed essenziale, cioè l' idea, causa, secondo lui, delle cose reali. Così pure l' idea di uno è il principio esemplare dell' animale; perocchè Platone la stessa essenza, che era nell' idea, pretendeva che fosse altresì nelle cose; il che, piuttosto che materializzare le idee, era uno spiritualizzare le cose. Ma mi sembra esser prezzo dell' opera l' esporre qui più estesamente la dottrina di Platone intorno alla doppia specie di elementi, i reali e gli ideali ; investigando poscia se i frammenti e le testimonianze, venute fino a noi intorno alla dottrina di Empedocle, ci dicano nulla di somigliante. Due dei più grandi uomini, di cui s' onora l' Italia, Parmenide e Zenone suo discepolo, avevano troppo bene veduto e dimostrato che non si può spiegare l' esistenza dell' universo materiale, senza ricorrere a qualche principio spirituale, che gli desse la consistenza e l' unità. Potenti dialettici entrambi (e fu il secondo che della Dialettica fece una scienza), non si contentarono di pronunciare alcune sentenze solenni ma staccate, all' uso orientale, e intrapresero a dare una logica dimostrazione della loro tesi. A tal fine fissarono la loro attenzione sulla natura del continuo corporeo, e così argomentarono: ogni parte assegnabile in un continuo corporeo non abbraccia più di sè stessa, tutto il resto è fuori di lei. Ma le parti assegnabili in un continuo non hanno fine; dunque le parti continue, che si possono assegnare, non cessano mai di escludere da sè una porzione dell' esteso. Se ciascuna parte non cessa di escludere da sè ciò che non è dessa, dunque ella stessa non si trova giammai; se non si trova giammai, non esiste. Se non esistono i primi continui, nessun continuo può esistere. Ma la natura del corpo sta nel continuo; dunque per sè solo il corpo non esiste. Ma se voi aggiungete un soggetto semplice (una mente secondo il concetto di questi filosofi), che possa ad un tempo stesso abbracciare tutto il continuo con un atto solo, e non per parti, allora il continuo sta, egli esiste come un semplice, non in virtù della semplicità del soggetto, ma in relazione essenziale col soggetto. Nella mente dunque (che era per essi il detto soggetto) sta il fondamento del corpo, ossia la mente è condizione necessaria all' esistenza del corpo. La quale argomentazione è ineluttabile, essendo evidente che il continuo non si può ridurre a punti matematici; nè tampoco si può ridurre a punti matematici il corpo; perocchè in tal caso, o questi punti non agirebbero che in sè stessi, e quindi colla loro aggregazione non produrrebbero mai nulla di sensibile; ovvero avrebbero una sfera d' azione continua intorno a sè, ed allora il continuo si supporrebbe di nuovo esistente (1). Ma che cosa è il continuo nella mente? In quanto è un continuo possibile, esso è un' idea; ma in quanto lo spirito afferma il continuo, esso è il continuo realizzato nel senso e nella materia, ma sempre considerato dalla mente e in relazione colla mente (2). L' essenza dunque del continuo, che nell' idea si contempla, è quell' unità che fa essere l' universo materiale, il quale è un esteso continuo variamente modificato e modificabile. L' argomento, che traevano Parmenide e Zenone dalla natura del continuo per dimostrare che avanti a tutti i fenomeni del mondo doveva esistere qualche cosa di eterno, che desse loro esistenza e consistenza, fu forse il maggior lume che mai rischiarasse la mente di Platone. Dal principio, posto da quei due sommi filosofi italiani, egli trasse indubitatamente tutto il fondo della sua dottrina. Ma, siccome accade agli uomini grandi, egli si appropriò per modo la dottrina di Elea che parve nella sua bocca originale. La necessità di un' eterna unità, arguita da Parmenide e da Zenone considerando la natura dello spazio, fu da Platone dedotta, con un ragionamento simile, anche dalla considerazione del tempo e delle mutazioni, che in esso nascono, alle cose materiali e sensibili. Come dunque abbiamo fatto dell' argomentazione degli antichi savi di Elea, la quale noi abbiamo ridotta ad una forma breve e, per quanto a noi pare, efficacissima, così vogliamo qui fare altresì dell' argomento di Platone; pigliamo il fondo del pensiero, e diamogli tutto il nerbo di cui esso è suscettibile. L' argomento di Parmenide e di Zenone traeva la sua forza da questo principio, che « « la sostanza corporea (prescindendo dalla mente) non è che una relazione di più sostanze juxta7positae ; che dunque la sostanza, se vi è, deve trovarsi negli elementi, cioè nei primi estesi; ma questi non si trovano; e al di là dei minimi estesi non si concepiscono che dei punti matematici, i quali non sono sostanze estese; perciò le sostanze estese, cioè i corpi, non esistono senza l' unità della mente » ». Ora Platone argomenta così appunto dalla mutabilità delle cose nel tempo: « « Se una cosa fosse solamente in un punto matematico di tempo , ella non sarebbe, perchè un punto matematico non ha durata alcuna; ella dunque durerebbe niente; e ciò che non ha alcuna durata, non è affatto » ». Il che si prova anche così: « Poniamo che una cosa durasse un istante matematico e non più. Ora in quale istante ella cesserebbe di essere? Nell' istante medesimo in cui è, no; perchè in tal caso sarebbe e non sarebbe allo stesso tempo, ossia l' istante, in cui fu messa in essere, sarebbe l' istante, in cui ella fu annullata, il che è contraddizione. Dunque in un altro istante susseguente. Ma se l' istante, in cui viene distrutta, deve distinguersi da quello in cui ella esiste, già fra l' uno e l' altro istante vi deve essere un tempo di mezzo, nel quale ella è durata. Dunque ciò che dura un solo istante è assurdo, perchè ripugna al pensiero ». Or bene, se noi consideriamo l' universo materiale, senza aggiungervi niente affatto che venga dalla mente nostra, esso ci si cangia appunto in un assurdo. Poichè niuno dirà che un tale universo esista nel passato o nel futuro, esso non può esistere che nel presente. Ma in quale presente? Per quanto la durata presente s' impicciolisca, ella non si trova mai; e se si trovasse dopo un infinito numero di divisioni, si ridurrebbe ad un punto matematico di tempo; tale è tutta l' esistenza del mondo materiale lasciato solo, separato da ogni mente, perocchè ogni tratto di tempo è fuori dell' altro, e viene dall' altro escluso. Ma la durata di un istante non è durata; e l' ente, che si suppone durar solo un istante, non dura nulla; perciò è cosa assurda, come si dimostrò. Dunque il solo universo materiale, senza la mente che ne contempli l' identità in certo tempo (passato e futuro), abbracciandolo tutto con un atto semplicissimo, non esiste. Così Platone stabilisce la necessità delle idee come cause delle cose. La sua maniera di esprimersi è certamente diversa da quella che noi usammo; ma il fondo del pensiero non cangia. Egli si trattiene ad osservare la mutabilità continua delle cose; io ho spinta questa mutabilità all' estremo, mostrando che l' esistenza delle cose materiali è così fluente che non ha durata alcuna, nello stesso tempo che qualche durata è pur necessaria alla sua esistenza. Veniamo ora ad applicare questa dottrina agli elementi di cui si compone, secondo gli antichi, il mondo materiale. Platone dice che la terra si scioglie in acqua, l' acqua in aria, l' aria in fuoco, il più sottile degli elementi, dove già si scorge un' analogia colla dottrina di Empedocle, che asseriva il medesimo; il fuoco faceva principio degli altri tre (1). Ora, partendo da questa continua rimutabilità degli elementi, ne trae che conviene necessariamente ricorrere ad un soggetto stabile di tutte queste mutazioni. Ora, ciò che serve di soggetto a quei modi sempre mutabili è la stessa sostanza che diviene ora fuoco, ora aere, ora acqua, ora terra; ma questa sostanza, o materia prima, o soggetto di tutte le qualità, è qualche cosa d' invisibile, e solo dalla mente concepibile, secondo Platone. Egli stabilisce tre generi: l' uno ciò che si genera, l' altro ciò in cui si genera, il terzo ciò alla cui similitudine si genera. A quest' ultimo dà il nome di padre, al secondo quello di madre, al primo quello di prole. La materia in cui tutto si genera, ossia il soggetto di tutte le mutazioni, è dunque la madre, e di essa dice: [...OMISSIS...] . Dove il grand' uomo viene a insegnare che la sostanza o materia che forma il soggetto delle modificazioni sensibili, è dalla mente supposta e non data dal senso; nè andrebbe lontano dal vero chi in questa prima materia intelligibile, che si trasforma in tutte le cose, vedesse l' essere in universale, giacchè questo solo ha i caratteri assegnati da Platone a tale specie invisibile, suscettiva di tutte le forme «pandeches», non determinata a forma alcuna, «amorphon». E quantunque nella natura debba rispondere a questa specie una realità, tuttavia il concetto di questa realità sarebbe assurdo, se la mente unendovi l' idea non vi desse consistenza; perchè la mente sola, come dicevamo, può abbracciare la durata, condizione dell' esistenza; la quale durata continua è nella mente e partecipata alle cose reali solo dalla mente; onde della sua materia intelligibile dice Platone: «mete ex hon tauta gegonen». Indi trae Platone che gli elementi materiali non sono i veri elementi, ma cotali simulacri dei veri elementi. Ma discendendo col discorso da quella specie intelligibile informe, che, come dicevamo, non può essere che l' ente, somministrato dalla mente, e quasi aggiunto nella percezione alle cose sensibili e transeunti, viene a parlare di altre specie meno indeterminate, cioè del fuoco, come quello che è il primo degli elementi, e poi degli altri elementi ancora; e si propone la questione « « se vi sia un fuoco, separato dalla materia, permanente in sè stesso, e così degli altri elementi »; » e prova che vi debbono essere le essenze intelligibili di tali cose, a cui compete propriamente i nomi di fuoco, aere e gli altri, assai meglio che a tali cose materiali. Di che conchiude: [...OMISSIS...] ; la quale specie così egregiamente descritta è l' idea, o per dir meglio l' essenza della cosa intuita dalla mente, verso alla quale la cosa reale scade; onde il filosofo soggiunge: [...OMISSIS...] . Questa è l' indole, secondo Platone, degli elementi materiali, le cui essenze sono intelligibili, e sono i veri elementi, il vero fuoco, il vero aere, la vera acqua, la vera terra, di cui i primi non sono che somiglianze sfuggevoli. Di tali essenze intelligibili adunque si compone l' anima intellettiva, secondo Platone. Ora, se vero è quel che dice Aristotele, che Empedocle compone l' anima intellettiva dei quattro elementi simigliantemente a Platone, non conviene dire che anche il filosofo di Agrigento distingueva degli elementi intelligibili, ossia specie ed esemplari degli elementi reali? Il che a noi pare che cessi d' essere congettura per divenire certezza, quando si considera un altro luogo di Aristotele, in cui questi chiaramente afferma che Empedocle ripose l' essenza delle cose nelle idee. Il qual luogo è in sulla fine del primo dei Metafisici, e suona così: [...OMISSIS...] Che se ci rivolgiamo ad interpreti più recenti della mente di Empedocle, noi troviamo che Filopono intese gli elementi di Empedocle per le loro nozioni o idee; il che gli pareva evidente scrivendo: [...OMISSIS...] . Ma passiamo alla dottrina dell' amicizia o concordia empedoclea, dalla quale riceverà nuovo rincalzo la nostra interpretazione degli elementi, di cui egli componeva l' anima. Empedocle, dunque, oltre i quattro elementi ammetteva due principŒ che egli chiamò la concordia, «philia», e la discordia, «neikos». Ora, secondo gli scrittori posteriori ad Aristotele, e secondo Aristotele stesso, come abbiamo veduto dai luoghi arrecati (2), la concordia dell' Agrigentino risponde all' unità di Pitagora e di Parmenide, e la discordia alla pluralità. Il che, se ben si considera, riesce a dire che in questi due elementi empedoclei si disegnano i due mondi, l' intelligibile ed essenziale, nel quale sono gli elementi ideali, e il sensibile e simigliante, composto degli elementi reali; massimamente che, oltre essere stato Empedocle pitagorico, fu anche discepolo, come da Alcimada si riferisce, dello stesso Parmenide (3). E qui udiamo come Siriano, commentatore di Aristotele, difenda Empedocle dall' accusa di contraddirsi, che gli appone lo Stagirita, non troppo equo con quanti lo precedettero. [...OMISSIS...] Le quali parole, consentanee all' età ed all' educazione di Empedocle, ristorano a pieno questo nobile lume dell' italica scuola del torto, che gli è fatto da tanti, col supporlo sì goffo e zotico intelletto da voler composta l' anima umana di materiali elementi (2). E un altro commentatore di Aristotele, Giovanni Filopono, dice lo stesso, attribuendo ad Empedocle che egli lodi la concordia, siccome causa del mondo intelligibile e divino, e biasimi la discordia, siccome quella che disgrega il divino (3); e trova pure che Aristotele non fa buona e giusta ragione all' Agrigentino. Aggiunge che i due principŒ dell' amicizia e della discordia si conoscono colla ragione piuttosto che col senso, e sono sembrati ad Empedocle «asomatoi physeis» (4). Clemente Alessandrino poi, ed altri, ci conservarono un verso di Empedocle, che si riferisce alla sua «philia», dichiarandola oggetto del solo intelletto: [...OMISSIS...] . Riesce nondimeno ad alcuni inesplicabile come Empedocle, pel quale la concordia ha ufficio di unire, dica che ella sia quasi materia . Aristotele e Temistio credono di trovarlo qui in contraddizione seco medesimo, non sapendo spiegare come la stessa «philia» possa ora esser causa motrice e unitrice, ora poi causa materiale delle cose (2). Ma se noi moviamo da questo principio, che per amicizia Empedocle intendeva l' uno , come espressamente dicono Plotino (3) e molti altri antichi (4), e come è consentaneo alla scuola che professava, l' apparente contraddizione svanisce. Poichè, che cosa è l' uno? - L' ente in universale - Che cosa è l' ente in universale? - L' essenza dell' ente intuita nell' idea, l' ente ideale, l' ente intelligibile. Or bene, quell' ente fa appunto rispetto a noi i due uffizi: 1) di virtù unitrice e congregatrice delle cose materiali, perocchè vedemmo cogli argomenti di Parmenide e di Platone, che l' universo materiale svanirebbe, se la mente non gli aggiungesse l' ente , che alle cose continuamente divisibili e fluenti dà stabilità ed unità; onde gli antichi chiamano anche l' amicizia di Empedocle «tautopoios henopoios» (5); 2) di materia intelligibile , appunto perchè ciò che s' intende in tutte le cose è l' ente variamente terminato e realizzato; e la sola realità dell' ente non darebbe alcun oggetto alla mente, la quale niente potrebbe con esso solo nè concepire, nè affermare. Ond' è che la materia, intesa dalla mente in tutte le cose reali, è sempre l' ente. Questo si doveva intendere propriamente dell' uno primo, del Dio pitagorico, che secondo noi è l' idea dell' essere, chiamato anche numero dei numeri, fonte degli altri numeri, rappresentante le specie e i generi delle cose. Ora, poichè ciascun genere e ciascuna specie ha l' unità, secondo i Pitagorici, perchè quei concetti unificano gli individui, perciò Aristotele dice che Pitagora ed Alcmeone, suo discepolo, sembrano riporre i numeri nel genere della materia (1). E giacchè Aristotele mette insieme con Empedocle Platone, non sarà fuori di luogo l' accennare l' opinione del Serrano intorno alla materia intelligibile di Platone. Il quale nell' argomento al « Timeo » così dice, secondo il volgarizzamento di Dardi Bembo: [...OMISSIS...] . E` dunque un cavillare quel di Aristotele, dove dice che il movente e la materia sono concetti diversi, onde rimanga a dire ad Empedocle sotto qual concetto la sua amicizia sia amicizia, se sotto il concetto di movente (cioè congregante, unificante) o sotto il concetto di materia (2); perocchè come si distingue l' uno per essenza e l' uno per partecipazione, così si può distinguere l' amicizia per essenza e l' amicizia per partecipazione . Ora l' ente, l' uno, l' amicizia di Empedocle per essenza, è materia di tutti gli oggetti intesi ; e in quanto è partecipata, ella è causa unitrice, che della pluralità indefinita delle cose soggette allo spazio e al tempo, fa riuscire un solo ente fisso, oggetto dell' intelletto. Giustamente adunque l' amicizia di Empedocle è amicizia sotto tutti e due i concetti di uniente e di materia (intelligibile), benchè questi concetti in apparenza diversifichino tanto fra loro. Con che rimangono pure spiegati quei luoghi degli autori, nei quali l' amicizia e l' uno di Empedocle sembrano due cose e non una sola; perocchè ben osservando quei luoghi, si scorge che tutti si riferiscono alla produzione dell' unità nelle cose contingenti; onde il dire che l' amicizia produce l' uno in tutte le cose, come dice Simplicio, [...OMISSIS...] , altro non vuol dire se non che l' uno per essenza produce l' uno per partecipazione, ossia l' amicizia per essenza produce l' amicizia per partecipazione (2). Quindi ancora l' amicizia empedoclea da Filopono e da Temistio viene paragonata al concetto, ossia alla notizia delle cose: [...OMISSIS...] ; perocchè quell' amicizia non è finalmente se non l' unità dell' ente intelligibile e il suo intrinseco ordine. Onde anche in un luogo di Stobeo, dove crediamo esporsi l' opinione di Empedocle, benchè sembri perito il suo nome con alcuni altri vocaboli, si legge la discordia e la lite essere non altro che specie; [...OMISSIS...] . L' uno pitagorico (5) fu denominato da quei filosofi in varie maniere (6): e fu detto Dio, Apollo, materia, caos (7). L' amicizia di Empedocle ebbe simili denominazioni: i due primi nomi dimostrano che trattasi di cosa spirituale e intellettuale, e non materiale; come a lei appartenga l' appellazione di materia, l' abbiamo pure accennato; rimane che vediamo a qual titolo possa ella essere detta anche caos. Ora, se si considera che l' uno è l' ente in universale, e che a questo può competere la denominazione di materia prima intelligibile, già s' intenderà con questo solo come gli si possa dare l' appellazione di caos (intelligibile), in quanto che nell' essere in universale non vi è nessun ente distinto e particolare. Qui si scorge ancora quanto sia mal fondata quella censura di Aristotele, colla quale pretende di cogliere Empedocle in contraddizione, perchè talora dice la lite principio di distruzione, talora poi le fa produrre le cose materiali. Giacchè, se la lite di Empedocle si trasporta nel mondo intelligibile, ella diviene quella facoltà, per la quale l' intendimento distingue le cose nell' unità dell' ente (1), e però quella che dà l' origine nella mente agli esseri singolari e finiti (2); dalla mente poi del primo facitore escono le cose reali, posciachè Iddio opera colla virtù della mente (3). Svaniscono del pari le obbiezioni, che trae Aristotele contro il sistema di Empedocle da questo, che [...OMISSIS...] (4). Al che Empedocle poteva rispondere che anche gli elementi ideali si compongono come i reali, e perciò coi composti di quelli si conoscono i composti di questi. Quanto poi a quello che dice Simplicio ed altri, che Empedocle riduca i suoi elementi a due, e infine ad uno solo, chiamato la necessità, o la monade della necessità, non ripugna, poichè l' essere in universale, che è l' uno, è anche il principio della necessità, giacchè impone la condizione per la quale ciò che è, è ente. Simplicio poi considera l' amicizia piuttosto distinta da quella monade, secondo un rispetto diverso da cui si guarda, che assolutamente, in quanto cioè l' amicizia esprime l' uno nelle più cose (1). Onde in altri Scrittori invece di «monas tes anankes» si dice «hule tes anankes». Il perchè, siccome per Empedocle talora viene tutto dall' uno, talora poi dall' amicizia, che è l' uno applicato al più, così talora in capo ai suoi principŒ ed elementi viene posta la necessità come cagione di essi, chè l' essere intelligibile, da cui tutto viene, è necessario, e impone a tutte le cose le necessarie sue leggi (2). Ma se l' uno (l' ente) è il principio supremo di Empedocle, al quale egli impone il nome di amicizia quando lo considera nella pluralità, e se all' amicizia contrappone la lite, ossia il non7uno (il non7ente), per limitare l' uno e distinguere in esso il più; come poi da questi due principŒ escono i quattro elementi? qual è il nesso che li lega con quelli? Primieramente è da considerare che Empedocle, con Eraclito e con molti altri antichi, riduce i quattro elementi ad uno solo, cioè al fuoco, come al più sottile e al più semplice. La quale sentenza, che si può dir comune agli antichi filosofi e inserita nello stesso « Timeo » di Platone, fu esposta da Lucrezio in questi versi: [...OMISSIS...] Dove il fuoco, di cui si formano gli altri elementi (2), si fa venire dal cielo; il che sembra alludere al mondo intelligibile, onde li fa venire appunto Platone (3). Ma Aristotele muove una difficoltà, che, per quanto solida possa parere, vale tuttavia a farci conoscere come Empedocle trasportasse il suo pensiero al mondo intelligibile, e non poco da lui prendesse Platone. Dice Aristotele che la teoria di Empedocle non spiega la generazione. Perocchè, che afferma Empedocle? che il composto si fa per via di ragione . Questa sentenza contiene l' antica dottrina di Parmenide in quello che aveva di vero, ed era quanto dire che « l' unità è quella che fa che un essere si dica composto, e l' unità è posta dalla mente ». Ma Aristotele dice che conviene assegnare una causa reale, e non meramente ideale, a spiegare come le cose si compongano e generino. Ed aveva ragione; ma non era men vero e assai più profondo il pensiero di Empedocle, che è la mente quella che fa sì che il composto sia un ente (4). Tutti gli elementi adunque si riducono al fuoco; ma come il fuoco si raggiunge ai due principŒ dell' amicizia e della lite ? Dimostra lo Sturzio che per Empedocle l' uno, il caos, la materia, il fuoco sono pressochè sinonimi (5); onde in alcuni luoghi di Aristotele si legge che Empedocle negava [...OMISSIS...] . Ora noi abbiamo veduto che l' amicizia è un vocabolo, onde Empedocle esprimeva l' uno dei Pitagorici. E oltre ciò sappiamo che i Pitagorici chiamavano il loro uno fuoco, o che prendessero il fuoco quale simbolo, o che lo considerassero come principio della vita e sostanza divina (2), come io credo. Se dunque l' amicizia di Empedocle è l' unità intelligibile, convien dire che egli ammettesse anche un fuoco intelligibile, come fa Platone nel « Timeo , » un fuoco essenziale (essenza ideale), verso al quale il materiale non è che un cotal simulacro, non ha l' essenza di fuoco (3), ma la qualità ignea quasi forma accidentale (4). E così infatti ci attesta uno scrittore antico, dicendo espressamente che egli faceva principio del tutto l' amicizia e la lite, ma della monade il fuoco mentale, [...OMISSIS...] , chiamandolo Dio, come si chiamava con questo nome dai Pitagorici e dai Platonici tutto ciò che appartiene alle idee. Ora poi, se si riconosce ammesso da Empedocle che gli elementi sieno intelligibili, idee, e, come tali, vere essenze; e sieno altresì materiali, e, come tali, non essenze, ma partecipanti le essenze, al modo che fa Platone; tosto si conciliano le apparenti contraddizioni, che presentano gli antichi, i quali ora ci fanno gli elementi di Empedocle eterni, semplici, eguali, immutabili, incorruttibili, ora tutto il contrario. E` vero che Empedocle componeva anche il senso di elementi (1), ma ciò egli faceva, o perchè niuno degli antichi distinse accuratamente il senso dall' intelligenza (2); ovvero lo faceva alla guisa di Platone, che distingueva nell' anima la parte sensitiva, ed a questa attribuiva gli elementi reali quasi sua veste, e la parte intelligente, che dalle idee faceva risultare (3). Ma perchè meglio si veda quanto Empedocle si avvicini a Platone, e l' abbia preceduto nella dottrina delle idee, torniamo al mondo intelligibile . Appresso gli antichi scrittori si hanno due serie di testimonianze, opposte in apparenza; una serie pone come indubitato che Empedocle faceva il mondo uno; un' altra serie afferma che due erano i mondi di Empedocle. Ora la conciliazione è per noi agevole; poichè se si considera che l' ente è identico sotto le due forme d' idealità e di realità, convien dire che il mondo è uno e il medesimo. Ma se si considerano le due forme, l' ideale e la reale, in cui è questo unico mondo, niente vieta che si pongano due mondi, come fa appunto Platone, l' uno intelligibile, ossia ideale, e l' altro sensibile, ossia reale. Federico Sturzio scrive: [...OMISSIS...] . Ma in appresso appone ad errore dei nuovi Platonici l' attribuire ad Empedocle il mondo intelligibile: [...OMISSIS...] . Ed è dello stesso sentimento il Karsten. La quale interpretazione tuttavia mi sembra più da erudito che da filosofo; perocchè gli eruditi recenti, fatti accorti come gli Eclettici Alessandrini vanno accaloriti per tirare al loro sistema tutta l' antichità (e indubitatamente ora supposero libri inscrivendoli del nome di antichi filosofi, ora compendiarono, raffazzonarono, infarcirono di loro glossemi gli autentici, sempre poi interpretarono i precedenti sistemi sullo stampo del loro), divenendo oltremodo diffidenti, spinsero la critica fino a renderla strumento di scetticismo. Ma a temperare questo estremo, a cui reca facilmente la critica dei particolari, noi crediamo che convenga associare questa colla critica dei generali, cioè coll' unità delle scuole e delle tradizioni, coll' analogia delle sentenze, e con tutte le circostanze dei tempi e delle menti. Ora una critica, che non dimentica queste vedute più ampie, ci assicura: I) Primieramente, che la scuola alessandrina non avrebbe potuto tirare a sè l' autorità degli antichi, nè attribuire loro nuovi libri, se negli scritti originali e nelle memorie rimaste non avessero trovato qualche addentellato a cui continuare l' edifizio, qualche vera traccia del loro proprio sistema. II) Che l' antichità presenta due grandi scuole, l' una delle quali ha per suo carattere il raziocinio individuale , che si personifica in Talete, e l' altra ha per suo carattere l' autorità tradizionale, che si personifica in Pitagora (1), e si continua in Platone, alla quale appartengono gli Alessandrini, che per ciò inclinano tanto a trovare negli antichi l' autorità che confermi i loro detti. Ora, tenendosi conto di questa indole storica e tradizionale della scuola platonica, è da credere che realmente ella raccogliesse le dottrine tradizionali, e non le inventasse di pianta. III) Di più consta per indubitabili documenti che il fondamento della dottrina platonica, il quale consiste nella contemplazione dell' essere ideale e delle sue divine proprietà, risale alla più remota antichità, ed oso dire alle prime tradizioni del genere umano. Tutto l' Oriente se ne mostra pieno. Secondo Mosè, ogni cosa si crea pel Verbo divino: l' Achmoth, cioè la sapienza esemplare dell' Universo (2), è primogenita avanti a tutte le creature non solo nei libri sacri, tanto anteriori alla scuola italica, ma ben anche nelle leggi indiane di Manu (3), sotto il nome di Mahat o di Bouddhi. Dalle scuole ebraiche ai piedi di Gamaliele, e non già dagli Alessandrini, S. Paolo imparò che Iddio « « dalle cose invisibili fece le visibili »; » nella quale sentenza sta tutto il buono del platonismo. Ora questa dottrina, che è pure la dottrina platonica del mondo invisibile e intelligibile, non poteva andar perduta nel genere umano, anzi si recò da per tutto colle colonie, si conservò nelle religioni e nelle mitologie (4); non poteva massimamente andar perduta pei filosofi della scuola italica, a cui appartiene certamente Platone; uomini tanto avidi di sapere, tanto solleciti di raccogliere le antiche dottrine, viaggiatori per l' Oriente, e di essi non pochi conoscenti per indubitato dei libri sacri, siccome dicemmo di Ferecide, e come più ampiamente è mostrato nelle opere dell' Huezio. Ora fra i miei voti uno è questo, che si scrivesse con diligenza una Storia del platonismo avanti Platone . IV) Oltracciò, se Empedocle udì Parmenide e Anassagora (5), celebre per aver separata la mente da ogni materiale concrezione, è possibile che egli sia stato poi interamente all' oscuro della dottrina delle essenze? Nè tuttavia pretendo che egli abbia chiaramente posta quella dottrina; mi basta che la ponesse in un modo oscuro, forse senza uscire intieramente da quella forma universale, sotto cui l' aveva annunziata Parmenide. Poichè è da distinguersi nella dottrina di Elea la prima questione fondamentale delle altre spettanti all' applicazione. Quando quei filosofi venivano alle questioni accessorie di applicazione, non dissento che sdrucciolassero nell' una o nell' altra fossa, tra cui movevano i piedi, del materialismo e dell' idealismo. Perocchè la scuola di Elea propose la questione dialetticamente, nella sua massima astrattezza e universalità: « Se fosse ben detto che tutte le cose siano uno, o se si dovesse piuttosto dire che le cose sono più ». Pigliandosi la parola uno nella sua incondizionata universalità, non si cercava in questa prima questione « se questo uno fosse poi spirituale o materiale, se fosse reale o ideale », tali furono le questioni posteriori e di applicazione. Nella questione prima, adunque, si voleva sapere soltanto se si diceva cosa vera, e se si parlava con proprietà, dicendosi che « tutte le cose fossero uno », senza cercare più in là; era la sola essenza dell' unità, che si voleva verificare nelle cose, astraendosi da ogni altra qualità o proprietà, che aver potesse la unità. Della quale questione per venire a capo, considerarono principalmente la variabilità delle forme che presentano i corpi, e conchiusero che sotto di esse doveva essere la sostanza, soggetto immutabile e permanente di tutte quelle forme, la quale fosse uno in tutte le forme: dunque il tutto era uno. Ma venne tosto appresso l' altra questione di applicazione: che cosa fosse poi cotesto uno. E allora alcuni si rappresentarono questo soggetto, che soggiace uno e immutabile a tutte le forme, siccome una cotal materia prima non informata, e però atta a ricevere ogni forma; ma ben presto, o gli stessi od altri, cominciarono a intendere che questa materia senza forma non poteva sussistere, benchè potesse essere concepita dalla mente astraente; e perciò la dissero insensibile, incorporea, solo intelligibile; e così vennero nell' idealismo platonico. Era veramente difficile trovare il vero in argomento così sottile; era difficile intendere che ricorreva qui quella legge di sintesismo, che in tutta la natura si dimostra, per la quale la materia è realmente distinta dalle forme, e tuttavia non può sussistere se non unita con quelle; difficile altresì era ad afferrare che la stessa materia o sostanza opera comecchessia in noi, per quella forza con cui immuta il corpo nostro, e si fa termine della nostra percezione sensitiva. Finalmente difficile tornava ancora l' accorgersi che non la sola sostanza materiale, ma egualmente o viemeglio le varie forme dei corpi avevano un corrispondente nell' ideale immutabile ed eterno. Le quali cose non le vide sempre con piena distinzione neppure Platone, il quale nel Timeo fa passaggio dalla sostanza di una cosa all' idea, senza avvedersi che lo stesso passaggio si potrebbe fare egualmente movendo dall' accidente; perocchè - dopo aver distinto fra la cera e le varie impronte di cui ella si può successivamente effigiare, osserva che alla domanda che sia quella cosa effigiata, non si risponde che sia una delle figure passeggere, ma si deve rispondere che sia cera, e la figura non è il quid della cosa, ma il quale - passa ad applicare il ragionamento agli elementi e fermasi al fuoco, siccome di tutti il più sottile, onde gli altri hanno origine, e distingue due fuochi, l' uno essenziale ed intelligibile, a cui spetta la quiddità del fuoco, l' altro sensibile, a cui spetta solo la qualità di fuoco. La qual distinzione è manifestamente quella che separa l' ideale ed il reale (salvo che invece di qualità doveva dire modo categorico di essere ; il che non potè dire a cagione di povertà di lingua filosofica); distinzione, che egli confonde così con quella che separa la sostanza dall' accidente, mentre sì l' accidente come la sostanza può ben essere ideale e reale. Ma la ragione, onde si sdrucciola dalla prima distinzione della sostanza e dell' accidente alla seconda dell' ideale e del reale, si è perchè la sostanza viene separata dagli accidenti per opera della mente, senza che manchi perciò nella cosa reale il quid che risponde a tale idea, e perchè la sostanza appare immutabile e simile in questa proprietà sua all' idea del pari immutabile. Onde due cose, perchè l' una e l' altra permanente ed entrambe oggetto della mente, la sostanza reale e l' ideale, furono confuse in una sola, nell' essenza ideale . Vi fu un' altra cagione ancora più efficace a travolgere le menti a questa confusione, la quale si è che la sola mente aggiunge l' ente alle cose conosciute; e fino a tanto che ella non ce l' ha aggiunto, conosciute non sono; e l' ente aggiunto dalla mente risponde alla sostanza, in quanto questa è l' atto, nel quale e pel quale gli accidenti sono. Quindi era agevolissimo il passare a riguardar la sostanza come meramente intelligibile, come essenza ideale; ciò che si fa anche dai moderni filosofi della Germania. Ma chi sottilmente osserva, vedrà che altro è la sostanza reale, altro l' ente che vi aggiunge la mente, pel quale la sostanza stessa diviene conoscibile, divenendo ente, il che è quanto dire oggetto dell' affermazione. Ora, tutte queste questioni al tempo di Empedocle erano ancora avviluppate, e neppur da Platone (1), nè dai Platonici poterono a pieno disvilupparsi; ma tuttavia si agitavano, e la verità si vedeva ora da un lato ora dall' altro, e si pronunciavano altresì, non senza contraddizioni, ambiguità e troppo parziali vedute. Ma tutto ciò nondimeno persuade che Empedocle non fosse punto straniero alla teoria del mondo intelligibile ed ideale. V) E veramente se si esaminano le sue indubitate sentenze, sarà difficile conciliarle colla supposizione che l' uno di Empedocle non fosse più che la materia prima, materiale, separata dalle sue forme; poichè: 1) Non si vede come a questa potesse competere il nome di mondo, sì perchè la materia senza alcuna forma non può esistere, e se ha una forma, non è più immutabile; sì perchè la parola «kosmos» indica un mondo formato ed ornato, e non una materia informe; onde meglio converrebbe la parola «sphairos» a indicare la materia, la materia non materiale, ma intelligibile. 2) Di più, il mondo eterno e immutabile di Empedocle è di fuoco, come quello di Eraclito (1); dunque non è informe. Di più, lungi da esser materia inattiva, che diventa tutto ciò che si vuole, è anzi causa attiva, «aition poietikon», come dice Teofrasto (2), e come si raccoglie dallo stesso Aristotele, appresso il quale esso fa tutto, ed è chiamato sempre «theos»; nè sembra possibile che sia applicato il nome di Dio alla materia bruta ed informe, giacchè tutta l' antichità ripose le cose divine nelle idee. 3) Quando si volesse chiamare mondo la materia informe, materiale, sarebbe pure un mondo meno perfetto che il mondo già vestito di forme ed ornato. All' incontro il mondo intelligibile e divino di Empedocle è dichiarato più eccellente del mondo sensibile; e lo stesso Sturzio, che rigetta l' interpretazione che noi diamo al mondo intelligibile di Empedocle, si mostra nondimeno inclinato ad accordare che fosse da lui chiamato «sphairos», ed altre cose intorno a lui attribuite ad Empedocle da Proclo e da altri Platonici (1). Ora, a questo mondo fu imposto simbolicamente il nome di «sphairos», e datogli una forma sferica per indicare la sua eccellenza sopra il mondo sensibile, al quale veniva attribuita da Empedocle la forma di elissi. Perchè poi gli antichi attribuissero alla figura sferica la perfezione fra le figure, e quindi si considerasse la sfera come il simbolo della perfezione, lo dice Platone (2); ed è perchè si era conosciuto che la sferica era la figura della maggior capacità, e quella che conteneva tutte le altre figure, cominciando dalle triangolari fino a quelle che fossero terminate da poligoni di un numero di lati indefinitamente grande. Quindi la sfera è simbolo acconcissimo a rappresentare l' essere ideale ; perocchè, come quella contiene dentro di sè virtualmente tutte le altre figure ed eccede da tutte, così l' essere ideale contiene l' essenza di tutti gli enti determinati e finiti, ed eccede ancora. D' altra parte se Empedocle dava al suo «sphairos» la forma della maggior perfezione, non poteva dunque essere una materia che dal non avere alcuna forma ricevesse imperfezione, come accade della materia reale. 4) S' aggiunga che lo sfero di Empedocle era formato dall' amicizia, causa di ogni bene secondo quel filosofo; onde non può esser la materia reale informe, la quale non ha ancora ordine, nè organizzazione, nè armonia. 5) Plutarco, ed altri antichi, ci dicono che Empedocle come ammetteva due mondi, così ammetteva due soli, l' uno dei quali si chiama «archetupon», e anche «pyr on» (1), che è quanto dire fuoco7ente, fuoco per essenza, e l' altro si chiama «phainomenon» (2). Ciò posto, il sole non può essere la materia prima eguale ed informe, perchè egli è un ente organizzato e informato, e, secondo le idee degli antichi, perfetto; dunque il primo di questi soli non si può intendere del caos materiale, o della materia prima reale. Di più la parola archetipo indica manifestamente l' idea prima del sole, secondo l' uso che di questa parola si fece da tutta l' antichità. Anche il dirsi fuoco7ente dimostra il medesimo, significando ciò che è intelligibile e non sensibile. Vero è che si dice che il sole archetipo è in un altro emisfero del mondo, e che il sole visibile è quasi un riflesso di quello; ma questa maniera di parlare non si deve ella attribuire alla lingua poetica usata dall' Agrigentino? Sembra dunque che per quest' altro emisfero, dove sta il vero sole archetipo, si debba intendere la sfera del fuoco celeste ed essenziale, vivente, intelligente; la quale s' immaginava come una zona sferica la più lontana dalla terra; sicchè per emisfero non è da intendersi la sfera tagliata orizzontalmente, ma a zone sferiche l' una dentro l' altra (3). 6) Finalmente dagli stessi frammenti, che ci rimangono, si raccoglie che Empedocle ammetteva un «kosmos noetos», tipo dell' altro «kosmos aisthetos», il che definisce affatto la questione (4). VI) Ammonio (4) e Tzetzes (6) ci conservarono quei versi, che citammo di sopra, nei quali Iddio viene definito « mente sacra, ineffabile, che abbraccia tutto il mondo colla sua provvidenza ». Ora, se la mente divina conosce tutto, ben conviene ch' ella abbia in sè le similitudini di tutte le cose, secondo il principio del nostro filosofo, che non si conosce il simile se non pel simile. Non sembra dunque consentaneo che nella mente suprema l' Agrigentino riponesse l' archetipo, ossia l' ideale del mondo? VII) Pare anche indubitato che Empedocle, come tutti gli antichi filosofi, trasmutasse in anime, in Dei, in Geni e Demoni le idee, come pure i sentimenti, le virtù, i vizi. Di che lo stesso Sturzio (1) paragona ai Sefiri cabalistici i Demoni di Empedocle. Ora se la cosa è così, quanto non è coerente che gli elementi, di cui l' Agrigentino componeva l' anima, e ciascuno dei quali era un Dio, e pei quali l' anima era intelligente, perchè simili agli elementi di cui constava l' universo, fossero pure idee? VIII) Di più, se Empedocle avesse composto l' anima di elementi materiali, non ci sarebbe stato bisogno di spiegare com' ella si unisca al corpo, poichè sarebbe stata corpo ella stessa. All' incontro, noi sappiamo da Plutarco e da altri antichi che Empedocle diceva l' anima di divina origine, e l' unirsi al corpo era per lei come un essere mandata in esilio, lungi dagli Dei, che è pure il pensiero di Platone. Voleva anche che fosse immortale e punita secondo le sue colpe nel fuoco (2). Dove lo stesso Bruckero (3) riconosce che queste dottrine empedoclee, le quali tengono della scuola pitagorica, ripugnano all' anima formata di elementi materiali; onde congettura che Empedocle avesse posto due anime, l' una divina, intelligente, nata dall' anima del mondo, e l' altra sensitiva, compaginata di elementi. Lo Sturzio pretende che una tale congettura sia arbitraria, senza vestigio nei monumenti antichi, e perciò la esclude (4), ma senza sostituirne una migliore. Ora, quantunque Empedocle non abbia forse distinto accuratamente il senso dalla ragione, dando egli l' uno e l' altra fino alle piante (5), tuttavia non si può negare che egli ricusi nei suoi frammenti la testimonianza dei sensi a trovare la verità filosofica, e voglia che ogni cosa si consideri colla mente (1), con un parlare simile del tutto a quello che abbiamo nei versi di Parmenide (2). Di più non è improbabile, anzi consentaneo, l' ammettere ciò che vuole Sesto Empirico, che egli distinguesse la ragione stessa dell' uomo in ragione umana e ragione divina ; la prima ragionante delle cose sensibili, la seconda delle intelligibili (3). Ora, se si ammette la sentenza nostra, che gli elementi, di cui Empedocle componeva l' anima, fossero elementi ideali , le similitudini degli elementi reali, ogni cosa si riduce in accordo nel sistema dell' Agrigentino, venendo da quegli elementi composta la ragione divina, a cui si riduce la natura dell' anima intelligente ed immortale. E qui ponendo modo a questa discussione, stimiamo bene di conchiuderla colle assennate parole del sig. Cousin: [...OMISSIS...] . LEUCIPPO, DEMOCRITO, EPICURO. - Questi filosofi materializzarono l' antico sistema dell' ente semplice, onde tutto si faceva provenire, supponendogli la materia. I sistemi precedenti avevano confuso l' oggetto col soggetto, e dichiarata l' anima come risultante dagli enti (ideali), che ella intuiva. Ma questi enti, che pei precedenti filosofi erano astratti e perciò idee, veri oggetti, avendoli essi cangiati in enti materiali, perdettero propriamente la condizione di oggetti, e ricevettero la natura di entità extra7soggettive. Quindi, a parlare esattamente, il loro errore intorno alla natura dell' anima giace nella « confusione del soggetto (anima) coll' extra7soggettivo (materia) », a differenza dei sistemi idealistici, il cui errore giace nella « confusione del soggetto (anima) coll' oggetto (enti ideali) ». A questa corruzione dell' antica scuola può avere influito, fra le altre ragioni, anche la lingua imperfetta e volgare, di cui si dovettero servire necessariamente i primi che tolsero a filosofare. Noi abbiamo veduto che Empedocle chiamava elementi gli elementi ideali, e li riduceva tutti al fuoco; e che poi faceva il fuoco essenziale sinonimo di amicizia, di ente, di sfero, di Dio supremo, sia perchè la vita si manifesta col calore, sia perchè il fuoco è un cotal simbolo della luce intellettuale, sia per una reale confusione, che nasceva nel suo intendimento, fra le proprietà del fuoco e quelle del supremo essere, che vive per propria essenza. Da questo Dio egli faceva venire le anime umane. Il che non era alieno da quanto aveva insegnato Pitagora, del quale, come abbiamo veduto, Diogene Laerzio ci assicura che faceva dell' anima una emanazione del fuoco centrale. Parmenide del pari la dichiarava di natura ignea (1), benchè questa sentenza per fermo appartiene all' opinione e non alla verità, secondo la distinzione di questo filosofo. Quindi Leucippo, uditore di Parmenide, la ridusse pure al fuoco; e Democrito la definì [...OMISSIS...] , dove si scorgono confuse le cose, che l' anima percepisce, coll' anima stessa, l' oggetto col soggetto. Eraclito tutto dal fuoco derivava, e, secondo Stobeo, voleva l' anima essere di luce, «photos». Onde dagli Atomisti, corruttori dell' antica filosofia, si ritenne presso che la maniera di parlare degli antichi, e si trasmutò in pari tempo la dottrina. E quando si considera che Possidonio (3) fa venire la dottrina degli atomi dalla Fenicia, dichiarandone autore l' antichissimo Mosco, e che dalla Fenicia avevano pur tratto le loro dottrine Ferecide e Talete, si rende vie più verosimile che il sistema atomistico dei greci non sia punto altro che la corruzione di un sistema più antico, immune dall' espresso materialismo. Non voglio già asserire con ciò che i Fenici e gli Ebrei, loro contermini, possedessero in quell' antichissimo tempo la dottrina platonica delle idee, in quella forma esplicita ed analitica in cui la insegnò Platone; questo sarebbe troppo. Ma io credo che essi parlassero degli enti, senza definire precisamente se l' oggetto del loro discorso fosse l' idea o l' ente reale; parlavano dell' ente, come si presentava alla loro intelligenza, senza farne ancora un' analisi accurata. Così appunto, a mio vedere, ne parlò Parmenide, senza discendere alla precisa distinzione fra il mondo ideale e il mondo reale dell' essere. Ora gli atomi, così considerati, altro non sono che indivisibili ; i quali nei tempi posteriori da alcuni si definirono idee, da altri si definirono realità corporee. Indi la divisione nelle due grandi scuole, fra le quali si divise l' antichità. Ma gli uni e gli altri confusero l' anima umana col loro termine. Quelli che determinarono l' ente, su cui si speculava, facendolo ideale, confusero il soggetto (l' anima) coll' oggetto, perchè l' essere, in quanto è ideale, è oggetto; quelli che lo determinarono facendolo reale e corporeo, confusero il soggetto coll' extra7soggetto, perchè il reale non è propriamente oggetto, ma semplicemente un' entità extrasoggettiva. Dovendo tuttavia questi ultimi spiegare in qualche modo la cognizione che ha l' anima umana delle cose, ricorsero alle immagini: ma facendo queste stesse della natura dell' anima, le confusero coll' anima stessa. Tennemann espone brevemente il sistema degli idoli di Democrito in questo modo: [...OMISSIS...] . Tuttavia neppure questo pensiero a lui esclusivamente apparteneva. Platone nel Menone ci attesta che lo stesso Empedocle faceva che dai corpi esteriori si movessero certe emanazioni, chiamate «aporroiai», ovvero «aporroai», quasi immaginuzze, le quali, entrando pei pori degli occhi, producessero la visione: che anzi Plutarco attribuisce questa dottrina alla stessa scuola pitagorica (3). Questo fu poscia il sistema di Epicuro. Dove si vede che la dottrina di tali filosofi intorno all' anima, contenendo errori diversi, può appartenere a diverse classi di sistemi erronei. Ma veniamo al sistema di Platone. PLATONE. - Aristotele nell' opera sull' anima, dopo riferito in qual maniera tutta materiale Democrito voleva che l' anima movesse il corpo, cioè come un corpo muove un altro corpo, gli aggiunge nello stesso errore Platone per le cose che questi dice nel « Timeo »; il che a me pare non altro che una delle solite calunnie, colle quali lo Stagirita suol deprimere il suo maestro, cogliendolo alle parole, e interpretando a rigore ciò che egli dice con istile allegorico, o in altro modo figurato. Che Platone non abbia sempre accuratamente distinto le idee dall' anima intellettiva, ma voluto che l' anima si componesse della similitudine di tutte le cose, questo mi sembra indubitato. E` un' eredità ricevuta dai filosofi, che lo precedettero. Il seme di questo errore è già in Parmenide, che aveva detto: [...OMISSIS...] . La dottrina di Empedocle era questa, come abbiamo visto, ed ella stava dinanzi alla mente di Platone. Nulla di meno Platone distinse qualche volta la mente dalle idee assai chiaramente. Così, nel « Primo Alcibiade », Socrate fa osservare che la ragione è lo strumento, ossia il mezzo, con cui egli ragionava, e non è lo stesso Socrate, ossia la stessa anima di Socrate ragionante. Al qual detto se fosse stato coerente, sarebbe pervenuto a trovare la propria natura dell' anima umana. Ma il nesso delle idee con noi è così intimo, che talvolta accade a Platone quello che ai suoi predecessori, di fare di due entità sì distinte una cosa medesima, cioè l' anima; e di ciò stesso potrebbe forse purgarsi, come diremo appresso, ma non dell' averne parlato in modo alquanto oscuro ed equivoco. Nel « Timeo » Platone comincia a descrivere la formazione dell' anima del mondo, dicendo che Iddio la compose di tre nature, cioè: 1) dell' essenza indivisibile, che è sempre la stessa; 2) dell' essenza divisibile, che è quella che poi si divide pei corpi, ed è quanto dire della materia prima, onde dovevano essere tratti i corpi, la quale è perpetuamente un' altra; 3) di una specie di essenza media, che tiene delle due prime. Delle quali tre cose commiste Iddio fece una sola e medesima cosa, cioè l' anima, che doveva poscia animare l' universo corporeo, congiungendo i due opposti, ciò che è sempre il medesimo e ciò che è sempre un altro, con potenza e con una cotal violenza, «bia». Se Platone avesse collocato l' essenza dell' anima in quel principio medio, che lega l' identico ed il diverso, non sarebbe andato lungi dal vero, poichè l' avrebbe collocata nel principio razionale, che fa appunto questo ufficio di legare insieme i due estremi del reale corporeo e dell' ideale. Ma facendo che l' identico stesso (l' essere ideale) fosse parte dell' anima, era un confonderla colle idee o cose divine, e così divinizzarla; come il volere che una sua parte fosse il diverso, cioè la materia corporea, era un confonderla coi corpi, e così materializzarla. Quindi Aristotele, cogliendo il sistema platonico intorno all' anima da quest' ultimo lato debole, cioè dall' averle dato un elemento che è sempre diverso, prima lo mise insieme con quello di Empedocle materialmente interpretato, e disse che faceva l' anima composta dei quattro elementi; poscia tolse altresì a farne un fascio con quello di Democrito, il che ha l' aria più di una satira che di una seria e grave censura. Ora, quanto al rimprovero che Platone componesse l' anima dei quattro elementi materiali, basterebbe a purgarlo questo luogo: [...OMISSIS...] . Ma poichè Platone fa che Iddio traesse l' anima in parte anche da quella natura che nei corpi si divide, «tes au peri ta somata gignomenes meristes», dobbiamo vedere se questa natura divisibile, di cui l' anima partecipa, sieno forse i quattro elementi materiali. Ora noi troveremo non essere punto così la cosa. Ma considerando ciò che egli ne dice nel Timeo, ci riuscirà indubitato che per lui questa natura era lo spazio, e il rilevar questo ci riuscirà non poco utile, e ridonderà in lode non piccola di quel grande uomo, il quale si dovette accorgere di quello che noi crediamo di avere dimostrato, essere cioè lo spazio un termine costante e naturale dell' anima umana (2). Egli dichiara che questa natura è « « il ricettacolo della generazione di tutti i corpi » »; il che conviene ottimamente allo spazio; poscia continua: [...OMISSIS...] . Ora qui, togliendo a dichiarare questa terza entità, necessaria a spiegare la costituzione del mondo, incomincia dal dimostrare che i quattro elementi si cangiano l' uno nell' altro, e però niuno di essi è per essenza o fuoco, o aria, o acqua, o terra; perchè se fossero tali per essenza, non si cangerebbero. Deve dunque esservi un quid sostanziale, che non sia niuno di essi, ma che possa diventare e fuoco, ed acqua, e gli altri elementi; e quel quid, non avendo alcuna forma determinata e visibile, non può essere, Platone così conchiude, che un' essenza intelligibile. [...OMISSIS...] . Dove alcuni credettero che così Platone descrivesse la materia prima; ma certamente non è, a meno che per materia prima non s' intenda l' intelligibile, ciò che è sempre identico (l' essenza sostanziale, confusa da Platone colla sostanza reale ); il cui opposto è ciò che è sempre da sè diverso, a cui passa il filosofo soggiungendo immantinente: [...OMISSIS...] . Fino a qui noi abbiamo descritti da Platone l' identico e il diverso, la sostanza (ideale e reale confuse insieme da lui) e i corpi formati (colle loro forme specifiche e individuali). Ora la natura, che Platone pone anteriore all' esistenza dei corpi, come un costitutivo dell' anima, non è nè l' identico, nè il diverso, nè le idee, nè il corpo ; che cosa è dunque? Lo spazio, noi dicevamo. Anzi è Platone stesso che lo dice espressamente nel periodo che seguita: [...OMISSIS...] . Egli dice con somma acutezza e proprietà che lo spazio « « senza senso di toccamento si tocca, opinabile in una cotal maniera adulterina » ». Dice « in una maniera adulterina », perchè l' opinione viene, secondo Platone, dai sensi (ella risponde alla nostra cognizione soggettiva ), ma lo spazio pure non si vede come cada sotto ai sensi; neppur si vede come si possa percepire coi corpi, giacchè esso non è corpo (1). D' altra parte essendo lo spazio, cioè l' estensione, il fondamento di ogni continuo anche corporeo, e il continuo non potendosi trovare semplice, quindi rimane che lo spazio debba appartenere alla forma dell' anima sensitiva, la qual forma è il sentito. Onde Platone dice, benchè oscuramente, qualche cosa di simile a ciò che propose Kant, quando questi chiamò lo spazio forma del senso esterno. Ma noi abbiamo veduto in che consisteva l' errore di Kant, cioè nel fare dello spazio una forma soggettiva, anzichè un termine del sentimento fondamentale (forma extra7soggettiva). Avendo dunque l' uomo, come essere sensitivo, la forma dello spazio a sè connaturale nel modo detto, accade che gli sia difficile a pensare cose immuni da spazio, perchè non può arrivare a ciò, se non adoperando il solo intelletto, senza che vi si associ menomamente la sua sensitività animale; il che gli riesce oltremodo malagevole, perchè di natura e d' abitudine suol fare il contrario. Onde egregiamente, e con una eleganza filosofica meravigliosa, secondo il suo solito, Platone soggiunge così: [...OMISSIS...] . Quella porzione dell' anima adunque, che non è identica, e nella quale come in una cotal matrice si fa tutto ciò che è un soggetto alla generazione, si è lo spazio , il quale è quindi a Platone come una cotal forma dell' anima sensitiva. Dunque nella composizione dell' anima platonica non entra corpo alcuno, nè elementi materiali, che questo filosofo replicatamente dice essere corpi, e perciò prodotti da Dio posteriormente all' anima (3). Ma veniamo all' altra censura, che fa Aristotele alla teoria dell' anima di Platone, tratta dal moto che questi le accorda. Convien dunque sapere che, movendo Platone dal principio dei Pitagorici, che « ogni simile si conosce pel simile », dall' aver egli composta l' anima di ciò che è essenzialmente identico, e di ciò che è essenzialmente diverso, e d' una media sostanza, che abbraccia in sè le due prime, tolse a spiegare come essa conosca le cose opposte, cioè sì quelle che sono per essenza le medesime, e sì quelle la cui natura consiste nel divenire continuamente altre da quel che sono; ella conosce le une e le altre in sè stessa, perchè ella ha la natura di entrambe (1). Ma poichè espresse questo pensiero, cioè che ella conosce tali cose, dicendo che le conosce col « rivolgersi in sè stessa », quasi a similitudine dei pianeti che ruotano sul proprio asse, «aute te anakyklumene pros hauten», Aristotele lo incolpò di spiegare i movimenti dell' anima alla guisa di Democrito, ricorrendo a un moto eguale a quello dei corpi da luogo a luogo, e così prese a tassarlo di errore. Veramente era questo un captare in verbo, era un cavillare; giacchè niuno meglio di Platone riconosceva la spiritualità dell' anima intelligente, che la faceva prodotta da Dio in tempo in cui non esistevano ancora i corpi, benchè la sua parte inferiore, cioè la sensitiva, voglia egli che sia fatta di quella natura divisibile circa i corpi, cioè di spazio. Ma neppure allo spazio attribuisce Platone veramente moto locale, somigliante a quello dei corpi, e però svanisce del tutto la censura aristotelica. Rimane dunque a vedere soltanto, se noi abbiamo fondamento di attribuire a Platone l' errore di confondere l' essenza dell' anima coi suoi termini. Intanto è indubitato che alcune espressioni platoniche contengono questo errore, come sono tutte quelle dove egli dice espressamente che l' anima risulta da tre nature. A ragion d' esempio, di Dio dice: [...OMISSIS...] . Vero è che gli uomini grandi, come Platone, non vogliono essere costanti nei loro errori. Però vi sono dei luoghi, in cui egli mostra di accorgersi che l' anima doveva propriamente dimorare in quell' essenza media, la quale da una parte tocca il mondo ideale, e dall' altra attinge lo spazio ed appresso il corpo, senza che questi suoi termini sieno essa stessa, ma sue condizioni essenziali, ond' ella non è senza di essi per la legge del sintesismo, di che facilissimamente con essa si confondono. Oltre al luogo citato del « Primo Alcibiade », il « Timeo » stesso ce ne somministra alcuni, dove la perspicacia del grand' uomo rasenta il vero. Nel luogo ultimamente addotto la sola media parte dell' anima è chiamata «usia» (1), benchè altrove chiami con questo nome anche le due parti estreme. La media viene detta partecipe delle due estreme, dimostrando con ciò che è dessa quella che costituisce l' unità dell' anima, e quella sola che, unendo nella sua unità l' identico e il diverso, può conoscere l' uno e l' altro (2). Ora quella che conosce l' uno e l' altro è l' anima; dunque, secondo Platone, l' essenza dell' anima non può essere collocata nelle parti estreme, nè propriamente in tutte e tre le parti, ma solo nella media, benchè questa sia legata con quelle estreme, non parti, ma propriamente termini, che non appartengono alla sua sostanza, ma ne sono condizioni; pure si dice che le appartengono solo perchè la media da esse riceve la condizione e l' atto di sua natura. Quindi quella che agisce in Platone è continuamente la media; ed io intendo che questa sia pure quella, che talora chiamasi da Platone ragione, in quanto ella è partecipe di ciò che è sempre eguale a sè stesso. Onde egli dice che la ragione, cioè questa sostanza dell' anima, partecipe dell' identico e del diverso, in quanto all' identico è unita, percependo il sensibile, cioè il diverso, si forma delle opinioni e delle persuasioni ferme e vere, «doxai kai pisteis gignontai bebaioi kai aletheis»; quando poi si volge a ciò che è razionale, cioè all' identico, allora si arricchisce di scienza, che ha per dote la necessità, «nus episteme te ex anankes apoteleitai» (3): i quali due modi di conoscere rispondono perfettamente alla ragione umana, «logos anthropinos», ed alla ragione divina, «logos theios», di Empedocle. Nel qual passo del « Timeo » più altre cose sono degne di osservazione. I) E primieramente merita che si osservi come Platone non attribuisca punto al sensibile cognizione di sorta, ma sì attribuisca alla ragione la cognizione anche del sensibile; nel che egli vide sagacemente quello che non videro i moderni filosofi tedeschi, che, dividendo la cognizione in empirica e razionale, attribuiscono la prima ai sensi, i quali cognizione alcuna non possono dare; e ciò perchè non si sono potuti giammai purgare affatto dal sensismo, ricevuto dal secolo alla lor propria insaputa, nè hanno potuto digerire il veleno, nè tampoco con quei potenti drastici, che sembrano essere le loro speculazioni trascendentali. II) In secondo luogo, quantunque Platone faccia l' anima composta anche di ciò che è sempre diverso da quello ch' era prima, acciocchè ella possa conoscerlo, giusta il principio che « il simile si conosce col simile », tuttavia egli non reputava bastevole che l' anima fosse sensibile per conoscere il sensibile, ma oltracciò richiedeva che avesse la ragione, che è il principio formale della cognizione dello stesso sensibile, e quella che contiene il simile ideale ; mentre il senso non contiene il simile, ma l' azione delle cose corporee. III) La differenza, che Platone assegna tra l' opinione o la fede e la scienza necessaria, non istà in questo, come alcuni credono, che la prima sia cognizione falsa od illusoria, e la seconda soltanto vera: che anzi alla prima, se rettamente è posta, egli attribuisce «doxai kai pisteis bebaioi kai aletheis». Onde questa eccellente distinzione risponde a quella che noi facciamo fra la cognizione relativa o soggettiva e la cognizione assoluta ; delle quali la prima ha per materia il sentimento mutabile, e la seconda un oggetto immutabile, benchè la cognizione stessa sì di quello che di questo sia immutabile. IV) Finalmente vuolsi osservato come Platone dica l' anima possedere il necessario e la scienza, allorquando la ragione si volge a considerare il razionale, «to logistikon»; dove si vede che il grande uomo non si era sollevato a conoscere che vi doveva essere una realtà, che tenesse la medesima necessità e immutabilità del razionale o ideale; e questo è il seme, già da noi additato, di tutti gli errori del sistema platonico, degenerante in un razionalismo, e ogni cosa promettente all' uomo dal freddo cielo delle idee. Nel libro IV della « Repubblica » Platone non parla delle tre parti dell' anima, ma insegna che « « nell' anima dell' uomo vi sono due cotali entità, l' una migliore e l' altra inferiore; e quando ciò che è migliore per natura domina su di ciò che è inferiore, allora si dice che altri è più possente di sè stesso, e così dicendo si loda; quando poi, a cagione della rea educazione o di qualche consuetudine, ciò che è migliore, essendo da meno, viene superato dalla moltitudine di ciò che è inferiore, di questo altri si vitupera come di cosa obbrobriosa; e si dice che egli è più debole di sè stesso » ». Nel qual luogo scompaiono, come dicevo, i due termini estremi dell' anima in quanto sono da essa diversi, e resta la sola parte media, che è veramente l' anima, la quale riceve da entrambi: e ciò che riceve da quello che ha natura immutabile è l' entità sua migliore, ciò che riceve da quello che ha per natura l' esser sempre diverso, è l' entità sua inferiore. Abbiamo veduto Aristotele rampognare Empedocle perchè, facendo egli che l' anima si componga dei quattro elementi e dei due principii, acciocchè, avendo ella in sè il simile delle varie cose, possa conoscerle, non provvide poi a fare che ella potesse conoscere altresì i composti, e le passioni ed azioni dei composti; i quali non potevano essere tutti nell' anima. Questa difficoltà Aristotele probabilmente l' aveva bevuta alla scuola di Platone. Infatti questi aggiunse ciò che mancava alla spiegazione empedoclea dell' umana cognizione. In primo luogo quello che rimaneva incerto od equivoco nelle sentenze di un filosofo, che aveva scritto in poesia, fu da Platone dichiarato; di poi quello che mancava fu aggiunto. In Platone rimane dichiarato come si dovesse intendere che « il simile si conosce pel simile », perocchè questo principio ha due sensi: il primo, che le cose si conoscono per le idee, che ne sono come le similitudini (1); il secondo, che chi conosce una data natura deve esperimentarla, riceverla o averla in qualche modo in sè stesso, nel proprio sentimento, senza di che gli manca la materia della cognizione, non ne può avere che un' idea vuota e generale. Entrambi questi due sensi sono veri. Il simile fa conoscere il simile, è principio vero sì applicato alla forma, e sì alla materia della cognizione. E quantunque questa illustrazione non si trovi con parole espresse in Platone, tuttavia si può raccogliere dai suoi detti, osservando che egli attribuisce alla ragione la formale cognizione anche dei sensibili, e che tuttavia egli esige l' anima sensibile come condizione, senza cui ella non potrebbe conoscerli. Quanto poi a ciò che mancava in Empedocle e che aggiunse Platone, sì fu l' aver questi veduto una verità bellissima e fecondissima, ed è che nell' anima umana vi sono ingenite le leggi dell' ordine e dell' armonia, e tali leggi che fanno eco a quelle dell' universo, onde avviene che ella possa intendere l' armonia di questo. Nè solo vi è l' armonia di distribuzione, ma quella altresì che nei movimenti ordinati e rispondentisi è contenuta, della quale un' espressione è la danza. Ed è indubutabile che l' anima non potrebbe sentire ciò che vi è di bello e di armonico nell' universo e nell' opera dell' arte, se ella stessa non ne avesse in sè il fondamento. Che anzi non si dà armonia meramente oggettiva, ma ogni armonia consiste in un rapporto dell' oggetto col soggetto, e nel soggetto dimora. E se a Dio piacerà che noi pubblichiamo quella parte dell' Agatologia, che intitolammo Callologia, di cui l' Estetica non è di nuovo che una parte, noi vedremo come la costituzione mirabile e profonda della sensibilità dell' anima sia il principio supremo di quest' ultima scienza, o parte di scienza (1). Platone adunque diede il movimento all' anima del mondo - a cui somiglianza egli fa poi l' anima umana - e anzi la fece moventesi da sè stessa, « «auto heauto kinun» (2) », e fece i suoi movimenti regolati dai tempi, e armonici, assomigliandoli in tutto a quelli dei corpi celesti. Disse che ella movevasi come due circoli l' uno dentro l' altro, che ruotano di continuo: l' esteriore e maggiore composto di ciò che è sempre identico ed immutabile, l' interiore di ciò che è sempre diverso da sè; e questo circolo interiore fu poi da lui diviso in altrettante orbite, quante sono quelle dei pianeti, che quell' anima doveva animare. Ed è pur da notarsi come Platone metta ciò che è sempre diverso da sè, la materia prima, dentro a ciò che è identico, e quindi dica aver poi Iddio entro l' anima fatti i corpi (3), ed ella in mezzo di sè (dove sono i corpi) stendesi via oltre i cieli, e li circonda ed avvolge (4). Onde, avendo egli descritta l' anima in continua rivoluzione intorno a sè medesima e di varie quasi sfere composta, Aristotele fu pronto ad assalirlo come d' assurdità, e, pigliando tutto materialmente, non gli fu difficile confutare una tale dottrina. Ma pigliandosi ragionevolmente quanto dice Platone, con quello stile animato e poetico di cui si compiace, si troverà aver quell' uomo grande veduto anche in ciò dei veri ammirabili. Perocchè noi interpretiamo così la sua descrizione dell' anima del mondo, e i circoli di cui la vien componendo, e gli armonici movimenti che egli le presta. I) L' esteso non può esistere che nel semplice, e quindi il corpo nell' anima; noi l' abbiamo provato. Ora questo è ciò che dice Platone, benchè l' apparenza sensibile mentisca il contrario. E in vero, cadendo il contenuto, cioè l' esteso corporeo, sotto i sensi esteriori, e non il contenente, cioè l' anima, sembra che questa si stia nascosta, quasi coperta da quello; ma pure, secondo la ragione delle cose, è il contrario. II) Quindi l' estensione si può considerare sotto due rispetti, o in sè stessa, o nel suo rapporto col principio senziente, appartenente all' anima. L' estensione in sè stessa è estesa per essenza, e possono essere segnati in lei parti, limiti, mutamenti di parti e di limiti, e movimenti. Ma il rapporto, che ha l' estensione col principio senziente, non è esteso, poichè è un mero rapporto di sensilità (1); onde in quanto l' estensione è forma del sentito, ella non è estesa, perchè è semplice il principio in cui si trova, nel qual principio anche ella nasce. Quindi si possono distinguere due estensioni, l' una extra7soggettiva e l' altra soggettiva. La estensione soggettiva è in un modo inesteso nell' anima, in quanto è sensitiva; e però, se s' intende in questo modo la dottrina platonica, niente vi è di assurdo che Platone dia all' anima del mondo l' estensione, e distingua in essa più circoli, il tutto rispondente alla forma dell' universo materiale che deve animare, e che è suo termine. Poichè così appunto avviene nell' anima umana, in quanto ella avviva il corpo, avendo certo in sè l' estensione dello stesso corpo, ma in un modo semplice, com' è detto; giacchè il sentire, a ragion d' esempio, in due pollici di corpo senso di dolore o di piacere è diverso dall' avere la sensazione in un pollice solo; poichè il termine della sensazione (il sentito) è più esteso nell' un caso che nell' altro, e quindi la sensazione stessa si dice più estesa. Ora, avendo l' animale quello che noi chiamammo sentimento fondamentale, il quale a tutto il corpo sensibile si estende, ed allo spazio illimitato altresì, convien dire che all' estensione extra7soggettiva risponda nell' anima una pari estensione soggettiva; ossia, il che è più esatto e conforme alla maniera onde s' esprime Platone, che alla estensione soggettiva che è nell' anima, risponda l' estensione extra7soggettiva, che è nel corpo percepito dai sensori esterni, e che questa si percepisca per quella a cui si commisura; poichè anzi questa esiste per quella, secondo il principio nostro che « l' esteso continuo esiste pel semplice, in cui dimora ». Se dunque si considera tutto l' universo al modo di Platone come un solo animale, conviene dire che nell' anima di quell' animale risponda un' estensione corporea pari, e così conformata, come è appunto l' estensione extra7soggettiva, che hanno i corpi, di cui si compone l' universo corporeo, diviso in circoli e sfere; e così appunto Platone descrive distinta l' estensione dell' anima. III) Ora, di ciò medesimamente consegue che, non essendo il moto altro che un cangiamento dei luoghi che i corpi occupano nell' estensione, debba esservi nell' anima un moto soggettivo, rispondente al moto extra7soggettivo proprio dei corpi; altrimenti questo movimento dei corpi non potrebbe in alcun modo essere percepito dall' anima; anzi neppure esisterebbe, perocchè il movimento è una mutazione nel continuo, e il continuo è formato dal semplice, dove solo può esistere. A torto, dunque, Aristotele tolse a censurare il suo maestro d' aver dato il moto all' anima. E pare che egli non abbia saputo distinguere l' estensione e il moto soggettivo proprio dell' anima, dalla estensione e moto extra7soggettivo proprio del corpo; e che Platone desse quell' estensione e quel moto all' anima del mondo, e non questo. Infatti nel « Fedro » distingue il moto proprio del corpo e il moto proprio dell' anima; e dalla natura del moto dell' anima ne deduce la sua immortalità, perocchè, egli dice, l' anima ha il moto interno, che è come sua natura, là dove il corpo lo riceve da fuori. Onde, se il moto è nella stessa natura dell' anima, questa natura deve essere sempre in moto, e quindi sempre viva, poichè ciò che si muove da sè è cosa viva (1). Di che si vede, e che Platone attribuisce all' anima la cagione, ossia il principio del propro moto (2), e che il proprio suo moto, secondo questo filosofo, è interamente diverso dal moto del corpo; giacchè questo moto extra7soggettivo, di cui il corpo è il subbietto, non può essere mai una natura, ma un accidente estrinseco; quello poi è natura, e ogni natura è stabile e ferma. IV) Ora, con questo moto interno dell' anima del mondo Platone spiega tutti i movimenti che accadono nell' universo, dove il grand' uomo dimostra d' aver veduto quel principio, che da tutta l' antichità fu consentito, e di cui noi ci siamo giovati in quest' opera: « il movimento dei corpi supporre un principio incorporeo, sensitivo o intellettivo ». Infatti le forze brute dei moderni, ammesse come una confessione d' ignoranza, possono passare; ma asserite siccome vere forze brute, cioè escludenti la sensitività, altro non sono che una produzione dell' immaginazione, sono l' ignoranza degenerata in temerità, che, abbigliata alla scientifica, pronuncia assurdi. Aristotele confuta con ragione la maniera onde Democrito e Filippo il Comico volevano che l' anima movesse il corpo; quelli pensavano che essa lo movesse come un corpo muove l' altro, e recavano in esempio la Venere fatta di legno da Dedalo, la quale movevasi per un cotal gioco d' argento vivo, che il fabbricatore vi aveva saputo congegnar dentro. Oppone Aristotele, che se con ciò si spiegherebbe il moto, non si spiegherebbe poi la quiete, cioè non si spiegherebbe perchè l' animale si rimettesse in quiete, e poi ritornasse a muoversi; al che è pur mestieri supporre che « « l' anima non muova così l' animale, ma per una cotale elezione ed intellezione »(1) »: dove ricomparisce il sensismo aristotelico, accordandosi l' elezione e l' intellezione all' animale. Ora, benchè egli metta insieme con quei due filosofi materialisti Platone, non osa però fare a questo la stessa obbiezione. Infatti Platone non fa che l' anima comunichi il movimento al corpo, come fa un corpo ad un altro, a cui lo comunica, rimanendone esso di tanto spogliato; non dà all' anima il moto solamente, ma di più le dà il principio del moto, «kineseos archen» e quindi la sorgente perenne di sempre nuovo moto. E come ogni potenza passa all' atto secondo certe sue leggi, così anche il principio, ossia la potenza del moto, passa all' atto giusta le leggi proprie, che hanno il loro fondamento pel moto sensibile nel corpo dall' anima informato, e pel moto intelligibile nell' essere universale, da cui è informata l' anima umana, ai quali due termini si riducono le due estreme parti assegnate all' anima da Platone. Quanto poi alla fatica, che si prende Aristotele di dimostrare che l' anima intellettiva non può avere grandezza corporea, e che « l' intellezione è piuttosto simile alla quiete e a un cotale stato che al movimento », ciò è verissimo, se è detto ad esclusione delle parti e del moto materiale; ma non tiene, se si parla di parti e di moti sensibili quanto all' anima sensitiva, e di parti e di moti ideali quanto all' anima intellettiva. Perocchè le stesse parti e gli stessi movimenti sono in un dato modo nella materia (con relazioni di parti e di luoghi), e in un altro modo nell' anima sensitiva (con relazione di sensilità), e in un terzo modo nell' anima intellettiva (con relazione di entità), come abbiamo dichiarato a suo luogo (2). I filosofi precedenti, che riposero l' essenza dell' anima nelle idee, la deificarono, perchè gli antichi non erano giunti a distinguere fra Dio e l' idea. Avendo questa caratteri divini, e avendola confusa coll' anima, ne veniva la spontanea conseguenza che le anime fossero altrettante deità. Perciò questi filosofi appartengono tanto alla terza classe di sistemi erronei intorno alla natura dell' anima, quanto a questa quarta. L' errore originario di un così fatto sistema giace nella confusione fra l' oggetto dell' intelligenza, l' ente intelligibile, coll' intelligenza o mente che lo intuisce. Questo è il soggettivismo, cioè quel sistema che dichiara l' oggetto pensato modificazione del pensiero; è l' errore di Galluppi, l' errore più comune dei nostri tempi, anzi universale, il tristo legato del sensismo. Vero è che i soggettivisti che riducono l' oggetto, l' idea, la verità, ad essere un elemento accidentale o sostanziale dell' anima, non deducono tutti egualmente le conseguenze spaventevoli, che esso racchiude nel suo seno; molti non le vedono per mancanza di penetrazione sufficiente; altri, atterriti dalle conseguenze, si fermano a mezzo la via, o mediante cavillazioni inconseguenti si sforzano di declinarle; ma avendo il protestantesimo tolto a filosofare, egli senz' alcuna tema le dedusse tutte fino all' ultima in Germania; scomparve la religione, rimase il razionalismo. Il soggettivismo dei Platonici alessandrini intorno all' anima intellettiva è a sufficienza delineato in questo brano di Porfirio: [...OMISSIS...] . Prova poi che la mente è il medesimo delle cose percepite, da questo, che ella le considera in sè stessa, a differenza del senso e dell' immaginazione: [...OMISSIS...] Noi non vogliamo osservato in questa dottrina se non la confusione fra la mente e le cose dalla mente concepite. Vogliamo posta attenzione alla ragione, che si adduce, per conchiudere che le cose dalla mente concepite e la mente sono il medesimo. Tutta la ragione di una tesi così opposta al senso comune, cioè che la mente sia le cose percepite, si riduce a questa: « Le cose percepite dal senso sono esterne, dunque non sono il senso; le cose percepite dalla mente sono interne, dunque sono la mente, dunque ella le percepisce considerando sè stessa, e se cessa dal considerare le sue funzioni, niente affatto intende ». Ma chiunque fa uso di una tranquilla osservazione interna per rilevare accuratamente il fatto, trova che questa ragione è affatto insussistente e vana. E di vero: I) Dall' essere l' oggetto della mente interno non ne viene affatto che egli sia la mente. Acciocchè si potesse così conchiudere, converrebbe aver provato che non vi sia nulla d' interno, eccetto la mente; converrebbe aver provato che sia assurdo che una cosa incorporea inesista in un' altra pure incorporea; il che non si prova, nè si può provare. II) La parola interno applicata all' oggetto della mente è male usata, perchè significa una relazione locale di corpo a corpo; là dove l' oggetto della mente non è, propriamente parlando, nè fuori nè dentro di alcun corpo, non occupando alcun luogo nello spazio, e perciò essendo privo al tutto di relazioni locali. III) Se per interno s' intende unito colla mente, in tal caso si accorda che gli oggetti intuiti o percepiti dalla mente sieno, al loro modo, uniti colla mente; ma l' essere uniti colla mente esprime un concetto al tutto diverso da quello di essere confusi e identificati con essa. IV) Di più, se per cosa interna s' intende cosa unita, in tal caso non è vero che il termine del senso sia esterno, perocchè il termine del senso non può essere sentito o percepito, se non è unito col principio senziente; che anzi il termine del senso è così unito al principio senziente, che il senziente, sentendo o percependo, non fa un atto pel quale lo distingua da sè, non sentendo o percependo altro che il proprio termine, e sè stesso nel termine formante un unico sentimento; all' incontro l' oggetto della mente è unito alla mente, in modo che la mente non può intuirlo o percepirlo se non come oggetto, non solo distinto da sè, ma opposto a sè soggetto. L' illusione che fa credere che il senso percepisca gli oggetti da sè distinti o, come dicono i nostri filosofi, esterni, nasce da questo: 1) Che i corpi diversi dal nostro sono esterni al nostro; ora si confondono gli organi sensori, che appartengono al nostro corpo, col principio senziente che è l' anima. E poichè i detti corpi sono esterni ai nostri organi sensori, quelli si dicono esterni al principio senziente, che non è corpo. Dove non si riflette: a ) che prima di sentire i corpi esterni sentiamo col sentimento soggettivo e fondamentale il nostro proprio corpo, termine immediato del senso; b ) che i corpi esterni non li sentiamo se non uniti al nostro, per l' azione che esercitano nel nostro; la quale azione ha sua sede nel nostro proprio corpo e non nei corpi esterni, e però è così immediatamente unita al principio senziente, come è unito il nostro proprio corpo soggettivo. 2) Nasce ancora dai fenomeni della vista, pei quali pare che noi percepiamo col senso i corpi lontani; e dai fenomeni del moto attivo, pel quale ci avviciniamo ai corpi lontani. Ora la teoria di questi fenomeni non era ancor trovata al tempo degli Alessandrini. Ma noi abbiamo spiegato tali fenomeni ricorrendo: a ) allo spazio illimitato, termine immediato del sentimento fondamentale, b ) all' associazione delle sensazioni e ai giudizi, che nell' uomo vi si mescolano (1). V) Che se si considera che non solo il senso, ma ancora la mente percepisce i corpi esterni al nostro, l' argomento che si adduce perde fino l' apparenza di verità: poichè è anzi la mente, e la mente sola che possa pensare le cose lontane, mentre il senso non percepisce che quelle che gli sono presenti, e seco unite col rapporto di sensilità. Che se si tratta di esseri puramente ideali e possibili, o spirituali, questi, come dicevamo, non sono in alcun luogo, e però nè esterni, nè interni, nè lontani, nè vicini. VI) Che se il trovarsi l' oggetto unito, o per dir meglio presente alla mente, non involge nessuna logica necessità che il soggetto, cioè la mente, debba identificarsi coll' oggetto, e che quindi ella sia il proprio oggetto; che cosa si dovrà fare, secondo il buon metodo di filosofare, per verificare se ha luogo questa identificazione sì o no? Nient' altro se non vedere coll' accurata osservazione come il fatto avvenga, e verificato bene il fatto, non volerlo distruggere col raziocinio, secondo il logico assioma che contra factum non datur argumentum . Il fatto dunque da verificarsi è questo: « se la mente quando pensa una montagna, una pianta, un bruto, ecc., reale o possibile, creda ella di pensare sè stessa, e conseguentemente se ella creda di essere quella montagna, quella pianta, quel bruto, ecc., reale o possibile, che pensa ». Non vi è nessuno fuori degli ospizi dei mentecatti, che a questa domanda non risponda negativamente. I soli filosofi sono quelli che, volendo fare da maestri alla mente umana (forse per averne essi un' altra diversa dall' umana), dicono o vengono a dire così: « Non possiamo negare che la mente quando pensa la montagna, la pianta, il bruto reale o possibile, creda di pensare cose diverse da sè, e di tutt' altra natura; ma ella s' inganna, non pensa mai se non sè stessa, non pensa che le proprie modificazioni, le proprie funzioni ». Ebbene, signori filosofi, ascoltatemi un poco: se la mente che crede di pensare la montagna, la pianta, il bruto, ecc., e non sè stessa, pensa tuttavia sè stessa, come voi dite, almeno dovete concedere che non sa di pensare sè stessa, appunto perchè crede di pensare tutt' altro, cose grandemente da sè diverse. - Non può negarsi. - Dunque pensa sè stessa senza saperlo. - Così è. - Il pensiero di sè stessa è dunque un pensiero, che non ha coscienza di sè. - Appunto. - All' incontro ella sa di pensare, ha coscienza di pensare cose al tutto diverse da sè, sia poi che s' inganni o no in questa scienza o coscienza che ha del suo pensiero. - Certo. - Ora, si può sapere, aver coscienza di pensare una cosa senza pensarla? Per esempio, se voi sapete, ossia avete coscienza di pensare il diavolo, è possibile che voi crediate o sappiate, o abbiate coscienza di pensare propriamente il diavolo, senza che abbiate nessuna idea del diavolo? - Davvero no. - Oppure che crediate di affermare il diavolo, e vi persuadiate che il diavolo è un essere reale, senza che facciate veruna affermazione? - No, di nuovo. - Dunque se la mente vostra crede, sa, è conscia di concepire e di pensare il diavolo, pensa veramente il diavolo, e lo pensa come cosa diversa da sè. Che se voi, a malgrado di ciò, volete persuadere a voi stesso che quando pensate veramente il diavolo come cosa da voi diversa, v' ingannate del tutto, ma pensate unicamente voi stesso, deh badate che con ciò non fate altro se non limarvi il cervello per persuadere a voi stesso che voi siete il diavolo, o secondo un' altra delle vostre scuole, che « il diavolo è una modificazione o una funzione dell' anima vostra ». E` dunque più chiaro del sole che il preteso argomento dei soggettivisti, che confonde gli oggetti dell' intelligenza colla stessa intelligenza, è un ridicolo paralogismo, un sofisma temerario, con cui quei filosofi tolgono ad impugnare i fatti più manifesti della natura, a distruggere la coscienza del genere umano, e con un preteso ragionamento della mente a distruggere l' autorità del ragionamento e le testimonianze della coscienza intellettiva, che di ogni ragionamento è la base. Eppure questo errore è il perpetuo labirinto della filosofia; e mi fa uscire di me stesso dallo stupore, pensando che io non conosco scrittore anteriore al 1.27, che, entrato in questo argomento, abbia saputo pienamente spacciarsene e rompere questa tela di ragno. Ora, io qui ho creduto di stendermi a ripetere ciò che ho detto tante volte altrove (1), mosso dal dolore che mi preme, al vedere che il soggettivismo, che nell' accennato sofisma tiene le radici, è ancora universale anche nella nostra Italia; e indi i tanti funesti e mostruosi errori, che deformano e infamano la filosofia; errori oggimai svolti e dedotti logicamente fino alle ultime loro propaggini, come dicevamo. L' ultimo di questi errori, il più maturo frutto del soggettivismo, già l' accennammo, è la deificazione dell' anima, l' antropolatria, il panteismo psicologico. Facciamo in breve la storia di questo obbrobrio, di cui va svergognata la scienza, o piuttosto l' ignoranza orgogliosa e luciferina; e dei gradi pei quali ella discese giù in codesta sede dei demoni, ove ora si giace e si tormenta. L' errore originale e primitivo, onde vennero tutti gli altri, è l' accennato: l' abuso di questi vocaboli interno ed esterno, fuori e dentro, trasportati dai corpi all' anima; e quindi il principio che « l' anima nulla può conoscere fuori di sè stessa ». Vediamo come serpeggiò questo errore ed avvelenò la filosofia, la quale non può essere sanata fino che non si purghi affatto e digerisca il potente veleno, che le strazia mortalmente i visceri. BERKELEY. - Egli aveva detto che la nostra cognizione dei corpi si riduce alle sensazioni, che le sensazioni non sono che modificazioni dell' anima; che dunque i corpi non sono che modificazioni dell' anima stessa: Idealismo estetico . - Gli errori di questo ragionamento sono: 1) Il sensismo, errore che abolisce il pensiero. Infatti se si ammette il pensiero, cioè se si ammette che il corpo si percepisca dall' intelligenza come un ente da noi distinto, qualunque cosa sieno le sensazioni, rimane sempre vero che il concetto di un corpo è tutt' altro dal concetto delle modificazioni dell' anima; e però non si può confondere l' oggetto di quel concetto, che tutto il modo esprime colla parola corpo, col concetto delle modificazioni dell' anima propria. 2) La dottrina del sentimento imperfetta e mozza; poichè il sensismo lokiano, seguito da Berkeley, conosce le sole sensazioni acquisite, con cui si percepiscono i corpi extra7soggettivi, ed ignora il sentimento fondamentale, con cui si percepisce il corpo soggettivo. Di più, in quel sistema non si distingue fra il principio senziente e semplice, e il termine del sentimento esteso; e quindi non si può conoscere la dualità, che è essenziale ad ogni sentimento corporeo. Se si fosse conosciuta questa dualità, e che l' anima non è che il principio senziente, non si sarebbero già definite le sensazioni mere modificazioni dell' anima; anzi si avrebbe riconosciuto che in ogni sentimento corporeo, in ogni sensazione vi è una sostanza diversa dall' anima stessa, che agisce a suo modo nell' anima. Ma non distinguendosi il termine dell' anima dall' anima, si ridusse quello a questa; e si confuse e identificò il termine col principio, dicendo che quello era una mera modificazione di questo. HUME. - Ammesso il sensismo lokiano, cioè ammesso che le idee si riducono alle sensazioni ed ai sentimenti soggettivi, e ammesso che le sensazioni sono mere modificazioni dell' anima, Hume ne dedusse conseguentemente che anche le idee e i principŒ della ragione, che nelle idee si contengono, non sono che modificazioni dell' anima, e quindi che non hanno forza di provare l' esistenza di alcuna cosa fuori dell' anima, nè quella dei corpi, nè quella di Dio, ecc.: Idealismo razionale . - Gli errori generatori di questo sistema sono i medesimi, ma già producono una conseguenza di più; chè di vero Berkeley, fermandosi ai corpi, ed ammettendo l' esistenza di Dio e degli spiriti, era inconseguente. Ora, nell' essere Hume meglio conseguente all' errore, egli dovette impugnare un' altra verità, cioè « la differenza e l' opposizione che passa fra l' oggetto della mente e la mente che lo intuisce »; dovette chiudere gli occhi a questa patentissima verità di fatto, che « quando la mente pensa un oggetto possibile, per esempio una torre possibile a costruirsi, ella non pensa sè stessa, nè pensa una sua modificazione; anzi pensa cosa di natura diversa ed opposta alla natura propria ed alla natura delle proprie modificazioni; e questo oggetto, a cui ella pensa, non è tuttavia un nulla, perchè il nulla non è una torre possibile ». REID. - Atterrito da conseguenze così assurde e funeste, Reid volle tornare al senso comune, riconoscendo pienamente che gli uomini quando pensano i corpi, o le idee ed i principŒ del ragionare, non credono di pensare a sè stessi o alle proprie modificazioni, nè per vero ci pensano. Ma non sapendo come rispondere direttamente al paralogismo che serviva di base a tali errori, cioè che « l' anima non può uscire di sè, e perciò non può pensare che sè stessa, e quanto accade in sè stessa », invece di sciogliere il nodo, lo tagliò, dicendo che « « l' anima veramente percepisce e pensa cose da sè diverse, ma lo fa mediante certe leggi primitive e istintive della propria natura » »: Soggettivismo realistico . - Questa dottrina ammetteva il fatto, attestato dal senso comune, che l' anima pensa cose diverse da sè; ma non soddisfaceva, perchè non rispondeva al sofisma fondamentale opposto, anzi lo confermava. E nel vero: 1) Le leggi soggettive e istintive, che introduceva, erano introdotte ad arbitrio, non avevano alcuna prova. 2) Quelle leggi e quegli istinti, che si voleva movessero la natura umana a pensare cose esterne, essendo diversi dalla ragione, erano ciechi, e non potevano porgere la dimostrazione della propria veracità ed autorità di testimoniare cose diverse dall' anima; indi la loro testimonianza poteva essere illusoria; anzi doveva esser tale, dal momento che l' uomo si sottraeva alla guida della ragione per affidarsi ad un' altra guida, che si dichiarava non essere la ragione. 3) Finalmente, se l' uomo pensava le cose diverse da sè per leggi istintive della propria natura, queste stesse cose dovevano essere considerate come produzioni della natura umana; gli oggetti dunque del pensiero venivano dall' uomo, nè l' uomo poteva più assicurarsi che gli fossero dati altronde da percepire. KANT. - Queste osservazioni non isfuggite a Kant, gli fecero concepire il suo sistema. Egli ammise le leggi e gli istinti soggettivi di Reid, e ritenne la dottrina di Berkeley e di Hume, prendendo quelle leggi a spiegazione di questa. Disse non potersi negare che l' anima non possa uscire di sè, dunque conoscere tutto in sè stessa; ma non potersi neppur negare che il senso comune ammetta che l' uomo conosca cose diverse da sè; dunque tale credenza dover essere un necessario effetto delle leggi soggettive indicate da Reid, senza che queste avessero alcuna efficacia a provare la verace esistenza di cose diverse dall' anima. Credette dunque che altro non rimanesse a fare alla filosofia, per condursi alla perfezione sulla via in cui erasi incamminata, se non di determinare quali sieno queste leggi soggettive, desumendole dall' accurata enumerazione ed analisi degli oggetti, che per esse l' uomo ammetteva. Così nacque la dottrina delle forme kantiane, degli schemi e delle antinomie: Criticismo (idealismo razionale ridotto in sistema ). - Gli errori, che partorirono il criticismo, sono i precedenti, non saputi dal filosofo confutare, bensì saputi con ingegno non comune sistematizzare. I quali errori ingrandiscono nelle sue mani appunto perchè ridotti in un corpo, di cui tutti gli organi sono divisati. Kant solamente aggiunse che il non potersi coll' umana intelligenza dimostrare l' esistenza di alcun ente diverso da essa, non toglie che non ve ne possano essere; non se ne poteva dimostrare l' esistenza, nè negare. REINHOLD. - Come Reid aveva tentato in Inghilterra di rimuovere dalla filosofia le funeste conseguenze dei sistemi di Berkeley e di Hume, senza poter disciogliere il sofisma che loro serviva di fondamento, così Reinhold tolse a fare in Germania rispetto alle orribili conseguenze del criticismo. Egli dunque incominciò, al pari dello Scozzese, ad accordare imprudentemente a Kant le fatali sue premesse. Poi ragionò press' a poco così: « Il subbietto rappresenta a sè stesso gli oggetti. Ora data questa innegabile facoltà della rappresentazione, vediamo coll' analisi ciò che essa racchiude. La facoltà rappresentativa suppone tre concetti: 1) il soggetto rappresentante; 2) l' oggetto rappresentato; 3) la stessa rappresentazione. Tutto ciò mi attesta la coscienza di me stesso. Se dunque esiste la rappresentazione, il che non si nega, deve esistere anche l' oggetto rappresentato ed il soggetto rappresentante come sue condizioni »: Sistema della rappresentazione . - Ma era facile rispondere, ammesso e non impugnato l' errore primitivo e originale, che tutte queste distinzioni erano fenomeniche, prodotte dalle leggi a cui ubbidisce il soggetto nel suo operare. Il che Reinhold medesimo poscia riconobbe; riconobbe che il suo ragionamento, acciocchè avesse forza, presupponeva la verità di quell' oggetto che si trattava di dimostrare. Laonde disperato della ragione, la abbandonò, sperando di trovare una guida migliore nella fede di Jacobi, che somiglia a quella degli Scozzesi. Gli errori generatori del sistema di Reinhold sono dunque i precedenti, a cui s' aggiunse uno suo proprio; non perchè non lo professassero anche quelli che lo precedettero, ma perchè sopra di esso Reinhold fondò il suo sistema. Questo errore si è il credere che l' intelligenza percepisca gli oggetti unicamente per via di rappresentazione, intesa per un ritratto di essi. Se ciò fosse, non si potrebbe declinare il soggettivismo e lo scetticismo, perocchè niuna rappresentazione può da sè stessa far conoscere gli oggetti, se non si sa che ella li rappresenta, e che ella li rappresenta fedelmente. Ora, questo non si può sapere, se non confrontando la rappresentazione cogli oggetti rappresentati; al che fare conviene conoscerli, mentre si tratta di spiegare appunto come si conoscono; ovvero venendone assicurati da qualche testimonianza infallibile, e quindi supponendo l' esistenza di un infallibile testimonio diverso dall' anima, quando si tratta pure di cercare come si possa conoscere qualche cosa, che sia veramente diverso dall' anima. Il vero si è che gli oggetti sono presenti immediatamente all' intelligenza, sieno essi ideali o reali (sentiti), perocchè l' ente è il proprio ed immediato termine dell' anima intellettiva (1). FICHTE. - Riuscito male il tentativo di Reinhold, come era riuscito male il tentativo di Reid, il soggettivismo senza intoppi seguì il fatale suo corso. Fichte, ammettendo come i precedenti, per argomento efficacissimo il sofisma originale e primitivo, che l' anima non possa conoscere che sè stessa, scartò la possibilità lasciata sussistere da Kant di enti distinti dall' anima, che era veramente un' inconseguenza; giacchè se tutte le cose concepite dall' uomo sono un risultato delle forme soggettive, nessun' altra ne può rimanere, perchè l' intelligenza umana s' estende in qualche modo a tutto, al finito non meno che all' infinito. Compose adunque un sistema del più coerente soggettivismo. Riassumiamo ciò che s' era fatto sino a lui. Si era incominciato a cercare come l' uomo conosce le cose diverse da sè. La filosofia aveva ereditato dai maggiori uno speciosissimo pregiudizio, che l' uomo le conosce per via di rappresentazione. Gli idealisti inglesi avevano dimostrato che ciò era impossibile, e però conchiusero che l' uomo nulla conosce di diverso da sè; dal nulla conoscere passarono, per logica conseguenza, a negare l' esistenza di tali cose. Gli Scozzesi avevano detto che questo è un paradosso impossibile a sostenersi, perchè va direttamente contro all' autorità di tutto il genere umano. Kant diede ragione agli Scozzesi con un cotale scherno [schema] suo proprio, dicendo che non si potevano negare gli enti diversi dall' anima, ma d' altra parte essi non potevano essere che produzioni dell' anima. Gli istinti conoscitivi degli Scozzesi Kant li tramutò in istinti produttivi; nè Reinhold aveva saputo opporre che sforzi di buona volontà alla critica della ragione pura. Kant s' era occupato a distinguere, classificare e descrivere accuratamente tutti gli istinti, o leggi soggettive, o forme, come egli le chiama, dello spirito; colle quali lo spirito compone a sè stesso le proprie cognizioni, i propri oggetti. Non restava che a distinguere, classificare e descrivere gli oggetti stessi sommari, che lo spirito colla portentosa attività che gli si attribuì (del tutto per altro gratuitamente) produceva a sè stesso; e l' opera fu assunta a farsi da Fichte. Kant descrisse e anatomizzò la potenza, che ha lo spirito di produrre a sè stesso gli oggetti; Fichte considerò l' atto di questa potenza, e gli oggetti stessi già prodotti da esso. L' Io, che Kant aveva posto come il vincolo di tutte le rappresentazioni, e che Reinhold aveva fatto sinonimo di coscienza, divenne per Fichte l' atto primo di tutto lo scibile e di tutte le cose. Questo era un passo immenso che dava il soggettivismo verso il suo ultimo sviluppo; con un tal passo si rivelava già la faccia dell' abisso, in cui un tale sistema conduceva necessariamente i suoi seguaci. Perocchè se l' Io è l' atto primo di tutto lo scibile e di tutte le cose, egli è il Creatore, è Dio. Eppure questo passo, a cui il soggettivismo fu spinto dalla logica imperterrita di Fichte, non si poteva evitare dopo i precedenti. Vediamo come questo filosofo dell' alta Lusazia movesse il suo nuovo creatore alla grande opera della produzione dello scibile e dell' universo. Egli cominciò dal dire che l' Io pone sè stesso ; questo è il primo atto. Se questa proposizione l' Io pone sè stesso fosse usata a significare unicamente il primo atto immanente dell' Io, non si potrebbe riprendere; perocchè ogni cosa in quanto fa l' atto con cui è, pone in qualche modo sè stessa, potendosi considerare il passaggio dal non essere all' essere come una cotal via, per la quale viene a naturarsi la cosa: via che è percorsa senza successione di tempo con atto unico, ma tale in cui si possono colla mente discernere più gradi ab imperfecto ad perfectum, siccome solevano concepire il moto all' esistenza gli Scolastici stessi. Ma non così spiega Fichte il suo detto, ma vuole che l' Io ponga sè stesso pronunciando questa proposizione: « Io sono Io ». La qual maniera di spiegare come l' Io ponga sè stesso, è manifestamente assurda: 1) Perocchè quando il principio intelligente ha pronunciato il solo monosillabo Io, indubitatamente esiste, senza bisogno che egli aggiunga: sono Io . Onde con quella proposizione l' Io porrebbe un Io che già è posto; ella dunque esprime l' atto, con cui l' Io riflette sopra sè stesso, e non l' atto con cui l' Io esiste. Da questo primo errore procede che in tali sistemi la coscienza, opera della riflessione, accompagna sempre l' Io: il che è evidentemente falso, perocchè l' Io non ha sempre attuale coscienza di sè stesso. 2) Ho detto che il principio intelligente, quando ha pronunciato questo monosillabo Io, senza più, non può non esistere. Ma non basta. Potrebbe l' Io pronunciare sè stesso, cioè fare un atto, se non esistesse già precedentemente? Niuno fa atti prima di esistere. Dunque il pronunciare Io suppone l' esistenza anteriore dell' Io. L' Io dunque non pone sè stesso nel senso di Fichte. La ragione, per la quale questo filosofo ruppe in tali assurdi colla prima parola della sua filosofia, si fu che egli prese l' Io bello e formato, qual' è nel sentimento d' un uomo adulto, non ne analizzò il concetto, e non s' accorse che questo concetto era un elaborato della riflessione, e che non conteneva solamente l' anima umana, ma l' anima già svolta e pervenuta alla coscienza di sè; quando anteriormente a quest' anima, conscia di sè, vi è pure la stessa anima, che per essenza sua è principio ed individuo razionale, come noi abbiamo mostrato nella « Psicologia ». Ed è costante, che una delle cose più difficili a cogliere, per coloro che prendono a filosofare, è quello stato dell' uomo che precede la coscienza; eppure in questo stato è da cercarsi la natura umana, giacchè la coscienza non è naturale all' uomo, ma acquisita. Intanto coll' atto col quale l' Io pronuncia Io sono Io, secondo Fichte, l' Io ha posto il primo dei suoi oggetti, cioè sè stesso . Il vero però si è che l' Io con questo atto non ha posto sè stesso, ma solo si è conosciuto riflessamente, e che perciò la propria esistenza non dipende dall' atto con cui l' anima si conosce, perchè anzi questa cognizione suppone dinanzi a sè l' anima, oggetto della cognizione. Vediamo come Fichte fa che l' Io produca il secondo dei suoi oggetti sommari. L' Io fa un altro atto, con cui dice: Io non sono il Non7Io . Ottimamente: distingue sè stesso da tutto ciò che non è lui. Ma questo atto non è ancora che un atto di conoscimento, non produce cosa alcuna, anzi è un atto che distingue due cose, l' Io e il Non7Io; le quali non potrebbe distinguere, se già non fossero. La cognizione suppone dinanzi a sè l' esistenza (possibile o reale) della cosa conosciuta. Eppure questa evidentissima verità è quella che sfugge al filosofo pregiudicato; e suppone di nuovo gratuitamente che il conoscere e il distinguere sia il produrre. Il secondo oggetto adunque prodotto dall' Io, nella supposizione di questo filosofo, è tutto ciò che non è l' Io, e che sotto la parola negativa Non7Io acconciamente si comprende. Veniamo alla produzione del terzo oggetto. L' Io fa un terzo atto pronunciando: l' Io e il Non7Io sono nell' Io . Se fosse vero che l' Io non è altro che la produzione dell' atto con cui si conosce l' Io, e se fosse vero che il Non7Io non è del pari altro che la produzione dell' atto con cui si conosce il Non7Io, in tal caso sarebbe vero che l' Io e il Non7Io, ridotti ad essere due atti conoscitivi, sono nell' Io. Ma se è vero che niuno può conoscere e pronunciare sè stesso esistente, se prima non esiste indipendentemente da tale atto; e se è vero del pari che il Non7Io non si può conoscere o pronunciare esistente, se allo stesso modo prima non esiste; è altresì evidentemente vero che l' Io e il Non7Io non sono nell' Io. Ma nell' Io solamente sono gli atti con cui tali enti si percepiscono, i quali atti sono accidenti dell' Io; e in un altro modo sono nell' Io anche i concetti di quegli enti, non come accidenti dell' Io, ma da lui distinti per natura, come suoi oggetti. Ricorre adunque in Fichte una continua confusione fra la cognizione e l' esistenza delle cose, sempre l' antico errore di Parmenide: «to gar auto noein esti te kai einai». - Ci si dirà: « Per voi non esiste se non ciò che conoscete ». - Sia pure: ma se io conosco una cosa, io so in pari tempo che la cosa esiste indipendentemente dall' atto con cui la conosco; perocchè il concetto di conoscere involge necessariamente il concetto di una entità conoscibile, logicamente anteriore a quell' atto. Onde io non posso conoscere una cosa, se non a condizione che conosca altresì ch' ella è indipendente dal mio conoscere; altrimenti io direi una proposizione contradittoria, dicendo che conosco una cosa che non esiste se non in virtù dell' atto col quale la conosco, e però posteriormente a quest' atto (nell' ordine logico). O conviene negare il principio di contraddizione e d' identità, su cui si fonda lo stesso sistema di Fichte, o confessare che al conoscere dell' uomo precede logicamente l' esistenza della cosa conoscibile, e che perciò il conoscere umano e l' esistere non si identificano, anzi si distinguono per modo che senza tale distinzione il conoscere non è più possibile. Ma acciocchè si veda meglio quanti paralogismi involga questo sistema, riprendiamo ciò che io ho fin di troppo conceduto. Ho conceduto che se l' Io e il Non7Io altro non sono che atti di conoscere e concetti conosciuti, questi si possono trovare insieme nell' Io, come pretende Fichte. Ma io ho conceduto questo ad abundandum . A giusta ragione non dovevo concederlo. Avverto adunque che il filosofo nostro in quella sua proposizione muta il significato del vocabolo Io, perocchè dicendo che l' Io e il Non7Io sono nell' Io, egli prende l' Io e il Non7Io contenuti come due concetti formati dall' atto del conoscere; ma egli prende all' opposto l' Io contenente non già come concetto prodotto, ma nel senso volgare, come un ente reale, una intelligenza, in cui sono i concetti. Senza di ciò la proposizione non ha senso alcuno; perocchè se anche per l' Io contenente s' intende il mero concetto dell' Io, è assurdo che nel concetto dell' Io sia il concetto dell' Io, perchè non sono due cose, ma una medesima; ed è ancora più assurdo che nel concetto dell' Io sia il concetto del Non7Io, perocchè l' un concetto esclude l' altro per la stessa loro enunciazione. Onde il filosofo mescola e confonde l' Io, da lui prodotto per via di speculazione, coll' Io reale, nel quale solo dimora la cognizione di sè stesso. Ma l' ammettere un Io reale, anteriore all' Io concetto e riflesso, è la distruzione del sistema che si vuole stabilire, il quale si propone di ridurre ogni cosa ad idee o concetti. Mediante tale confusione adunque di significati attribuiti al vocabolo Io, conchiude che l' Io fa un' equazione col Non7Io, in quanto che si trovano nel medesimo Io, di cui sono egualmente produzioni, e però si radicano e immergono nello stesso atto primitivo dell' Io. Così gli oggetti supremi dello scibile e dell' universo sono tre: l' Io che pone sè stesso, l' Io che pone il Non7Io, l' Io che fa un' equazione tra l' Io e il Non7Io. Ma: In questi tre oggetti il valore della parola Io cangia sempre, come dicevamo, perocchè l' Io producente non può essere l' Io prodotto, giacchè producente e prodotto sono concetti opposti; l' Io, nel quale l' Io e il Non7Io fanno equazione, non può essere lo stesso Io che costituisce un termine dell' equazione, perocchè ciò che contiene i due termini non può essere uno dei due termini. Se l' Io produce il Non7Io, dunque produce ciò che non è Io, produce un' entità diversa da sè; egli dunque od esce colla sua attività da sè stesso, ovvero, senza uscire da sè stesso, produce un' entità che non è lui stesso. Il che è ben evidente, poichè l' Io e il Non7Io sono opposti; e non possono dichiararsi la cosa identica senza pugnare col principio di contraddizione, giacchè il sì e il no non si potrà mai dire che significhino lo stesso. Che se l' Io produce un' entità diversa da sè, dunque il celebre sofisma, su cui si regge tutto l' idealismo trascendentale, se ne è ito a terra, rimanendo conceduto che l' Io può uscire da sè stesso cogli atti suoi, può creare qualche cosa di diverso da sè e di opposto a sè, qualunque cosa poi ella sia (1). Vera equazione fra l' Io e il Non7Io non si potrà far mai, se non si mutano i significati di tali espressioni, perchè i contrari, dei quali l' uno esclude l' altro, non possono fare mai equazione fra loro, presi nello stesso senso. Potrà esservi paragone, non equazione. Quindi Fichte abusa della parola equazione. Se si vuol vedere questo abuso, si consideri che egli spiega la sua pretesa equazione, dicendo che l' Io contrappone all' Io divisibile un Non7Io, pure divisibile. Ma il contrapporre una cosa all' altra non è fare un' equazione, anzi è negare l' equazione. Egli soggiunge che quell' equazione contiene queste due proposizioni: 1) L' Io pone il Non7Io come limitato dall' Io; 2) L' Io pone sè stesso come limitato dal Non7Io . Ma in queste proposizioni niuna cosa fa equazione coll' altra, perocchè il limitare che l' una fa l' altra non è fare equazione coll' altra. Si abusa dunque di questa parola equazione. Oltre di che, l' Io limitante non è preso nello stesso senso dell' Io limitato, l' Io divisibile non è preso nello stesso senso dell' Io indiviso. Si gioca adunque colle diverse riflessioni, che il principio intelligente fa sopra sè stesso e sopra le cose diverse da sè, e invece di considerare ogni riflessione come un diverso atto del medesimo, si vuole che ognuna di essa produca un Io diverso, che coll' Io precedente abbia i rapporti di limitante, di limitato, di contenente, di contenuto, di producente, di prodotto, con misero gioco d' ingegno degno dei sofisti greci; ma inevitabile, quando non si conosca che l' ente intelligente precede la coscienza che si forma di sè, e quando si muova dall' errore che l' ente intelligente risulti dall' atto stesso con cui egli acquista coscienza di sè; la quale coscienza potendosi replicare secondo i numeri delle riflessioni, accade che gli Io stessi si vadano così replicando, e si possano così prendere ora pel medesimo Io, ed ora per diversi Io, secondo il bisogno dell' impresa che si tolse di paralogizzare. Tutto questo sistema poi manca di ragione sufficiente. Niente si può rispondere con esso a queste interrogazioni: Qual ragione vi è perchè l' Io ponga sè stesso, anzichè non si ponga? Che cosa lo muove a porsi? E a porsi in un tempo piuttosto che in un altro? Giacchè la coscienza di ogni uomo ha pur cominciato in un dato tempo. Qual ragione vi è perchè il numero degli Io che si pongono sia piuttosto uno che l' altro? Giacchè il numero degli Io è pur finito, e potrebbe essere accresciuto, e viene accresciuto ogni giorno col nascere di nuovi uomini. Ovvero dovete sostenere che non esiste che il vostro Io (il che sarebbe coerente all' escludere tutto ciò che è fuori di lui), nel qual caso voi comporreste la filosofia per voi solo. Qual ragione muove l' Io a porre il Non7Io piuttosto che a non lo porre? La parola Non7Io esprime il mondo e le cose tutte diverse dall' Io in un modo negativo, come osservammo, cioè dichiarando che esse non sono Io, ma non dicendo che cosa sono. Ora non ogni Io pone (per continuare colla stessa frase) un Non7Io eguale; imperocchè certi uomini conoscono del mondo e delle cose da sè diverse più, ed altri meno; e quindi l' Io dei primi pone non Non7Io diverso (più o meno abbondante) che non fa l' Io dei secondi. Qual ragione sufficiente assegnate voi perchè un Io debba porre un Non7Io determinato in un modo piuttosto che in un altro? Qual ragione vi è perchè l' Io voglia limitare sè stesso producendo il Non7Io? Qual ragione assegnate voi perchè l' Io voglia dividere sè stesso in due, nell' Io e nel Non7Io, come voi dite? Nel sistema di Fichte non si rende, e non si può rendere alcuna ragione sufficiente di tutti gli atti che si fanno fare all' Io. E dove ci fosse una tale ragione, che determina l' Io a tutti gli atti che gli si fanno fare, ella dovrebbe essere diversa dall' Io, e superiore all' Io, al quale verrebbe imposta; e così ella annullerebbe il sistema, perocchè tutto il sistema consiste nell' abolire ogni cosa fuori dell' Io. E` dunque, questo di Fichte, un sistema senza ragione, sistema del caso cieco; lungi dunque di spiegare la scienza, anzi si pone che il mondo esista ed operi senza causa; l' intelligenza così è soppressa, non rimane che il più capriccioso, il più assurdo fatalismo. E` conseguente, che tutti i primi principŒ del ragionamento rimangano in questo sistema violati e distrutti. Se si trattasse solamente di distruggerli, altro non se n' avrebbe che la distruzione e l' impossibilità del sapere. Ma in quella vece s' invocano i principŒ del ragionamento, acciocchè aiutino a comporre un sistema che affatto li viola, li abolisce. Infatti: Il principio di cognizione dice: « l' ente è oggetto del conoscere »; e questo sistema dice: « il conoscere produce l' ente », che è un principio affatto opposto; oltre di che suppone che il conoscere preceda l' esistere. Il principio di contraddizione dice: « fra l' affermare e il negare non si dà eguaglianza », e questo sistema dice: « l' Io che è affermazione, e il Non7Io che è negazione, fanno fra di loro un' equazione ». Ma le contraddizioni in tal sistema sono più che le parole. Mi restringerò ad accennarne una nuova. « L' Io pone il Non7Io ». Ora che cosa è il Non7Io? Tutto ciò che non è l' Io: il mondo e Dio. Ma nel mondo vi sono degli altri Io (1). Ora questi Io pongono sè stessi. Ma poichè rispetto all' altro Io, sono Non7Io, dunque sono posti due volte. Anzi ogni Io è posto tante volte quanti sono gli Io esistenti, perocchè ciascun Io pone sè stesso e pone tutti gli altri, compresi nel Non7Io. Ora, o colle parole « porre l' Io e porre il Non7Io »si vuole intendere meramente conoscere, e in tal caso il sistema si discioglie e svanisce, perchè suppone avanti del conoscere stesso l' oggetto; o si vuol dire fare esistere , e in tal caso gli Io si moltiplicano all' infinito, perocchè ogni Io, ponendo tutti gli Io che esistono, li produce; onde il numero degli Io si moltiplica per sè stesso; e questo numero di Io, elevato alla seconda potenza, di nuovo si moltiplica per la ragione stessa; onde l' aumento degli Io in questo sistema verrebbe espresso da una serie infinita, che, fatto il numero primitivo degli Io .uguale . .x ., si potrebbe esprimere così: .x ., .x . 2, .x . 4, .x . ., .x . 16, ecc., all' infinito; nella qual serie, non trovandosi mai l' ultimo termine, il numero degli Io esistenti non sarebbe assegnabile, anzi non potrebbe venire giammai all' esistenza neppure un solo Io, giacchè il primo implica tutta la serie. La quale è patentissima matematica dimostrazione, che nel sistema di Fichte diviene impossibile ed assurda ogni qualunque esistenza e conoscenza. Il filosofo nostro dirà forse che non esiste se non il solo suo Io, e che egli scrisse la sua filosofia per sè solo, come un ragno che fa la sua tela dove non sono mosche; ma primieramente in questo caso egli sarebbe condannato a porre un Non7Io del tutto inanimato, un Universo abitato da lui solo, e quindi a vivere eternamente fra esseri bruti; e tuttavia gli resterebbe a render ragione a sè stesso del perchè il suo Io non potrebbe porre alcun altro Io, compreso nel Non7Io, giacchè gliene potrebbe pure venire qualche vaghezza per uscire una volta dalla sua sterile solitudine, e rendersi prolifico di qualche suo simile! E quanta ragione poi non avrebbe di conservare sè stesso acciocchè non perisca con esso tutto il mondo! In secondo luogo poi, essendo indubitato che il suo Io pone nel Non7Io molti altri Io diversi da sè, converrebbe che il suo porre non significasse più produrre un ente reale, ma produrre delle illusioni, e in tal caso lui stesso sarebbe un' illusione perchè posto da sè stesso. Ma se tutto fosse illusione, non vi sarebbe più illusione, chè la parola illusione ha un significato relativo alla realità ; e ad ogni modo sarebbero sempre tanto veri gli Io, che egli pone nel Non7Io, quanto è vero lui medesimo che si pone allo stesso modo. Il principio di sostanza è tolto via, giacchè facendosi in questo sistema che il conoscere riflesso, che è un accidente dell' intelletto umano, sia lo stesso che l' essere, è tolta affatto la distinzione della sostanza e dell' accidente; si fa che l' accidente sussista per sè stesso. Il principio di causa è del pari abolito, perchè non si dà causa, la quale possa operare senza una ragione sufficiente; e noi vedemmo che l' Io opera in questo sistema senza una ragione che ne lo determini, e che spieghi il suo atto. Il principio del fare dell' ente dice così: « Ogni ente cogli atti suoi naturali tende a conservarsi, ingrandirsi, perfezionarsi ». Quindi per l' opposto: « Nessun ente limita sè stesso, nessun ente divide sè stesso, ecc. »; ma di queste passioni dell' ente si deve rinvenire una causa straniera alla sua naturale attività. Ora l' Io di Fichte, l' unico ente che esista, limita e divide sè stesso, contrappone a sè un ostacolo, che poi cerca di vincere e superare. E` violato dunque il principio ontologico del fare dell' ente; e tutto ciò senza darne ragione alcuna, per via di mero asserto dogmatico del filosofo nostro. Ma tolti via tutti i principŒ logici ed ontologici del ragionamento, niuno ha più diritto di ragionare, deve tacere; niuno ha diritto di pensare, deve vegetare; perchè nè parlare, nè pensar può, senza riabilitare prima i principŒ stessi, che disabilitò e distrusse. Il nostro filosofo adunque dice ancora troppo, dice di più che non abbia diritto di dire, allorquando esprime il risultamento del suo sistema con queste parole che lo annientano: « Non v' è nulla di esistente nè in me, nè fuori di me, ma solamente una variazione continua. Non v' è alcun essere. L' unica cosa che esiste sono le immagini; io stesso sono una di queste immagini, anzi io non sono questo, ma solamente un' immagine confusa d' immagini. Ogni realità si converte in un sogno meraviglioso, ed il pensiero è il sogno di quel sogno ». Fichte non ha diritto di dire pur questo, senza cadere in una nuova contraddizione. Il sistema del soggettivismo, così sviluppato, comparve prima che in ogni altro luogo in Oriente; e i filosofi indiani, che lo professarono, pervennero alla stessa conclusione di Fichte. V' è una setta di Buddhisti, che altro non ammette che il sentimento interno, l' esistenza eterna di lui, del manas intelligente, il quale ha la coscienza delle cose; e sostengono che tutto il resto è vuoto, cioè nulla, nè v' è possibilità di provare colla ragione che esista. Non ammettono che l' Io, onde fanno uscire il Non7Io come una mera illusione. « Non v' è cosa che esista realmente », dice un Buddhista. I Fo (cioè i sapienti pervenuti a ridurre tutte le cose ad essere altrettante produzioni vane dell' intelletto) « « non distinguono i mondi dal loro proprio intendimento. Tutto ciò che è nei mondi è lo stesso intendimento di Fo, cioè non vi è altra cosa che Fo (la natura intellettiva) »(1) ». [...OMISSIS...] . Infine tutte le cose si dichiarano sogni di Fo, cioè dell' intelligenza. SCHELLING. - Come i precedenti, Schelling ritenne l' errore che confonde le idee, e generalmente gli oggetti dello spirito, collo spirito. E poichè gli oggetti dello spirito sono infiniti (poichè da parte del suo oggetto lo spirito non è limitato), si occupò ad unificare questi oggetti, riducendoli ad un solo infinito. Confuso con questo infinito lo spirito che lo conosce, riuscì al sistema dell' identità assoluta, rimanendo lo spirito identificato coll' oggetto suo infinito, che tutti gli oggetti determinati comprende. Schelling adunque fu colpito da ciò che aveva detto Fichte, che « l' Io e il Non7Io formavano un' equazione »; e il sistema dell' identità assoluta si può dire infatti che non sia altro che uno sviluppo e un perfezionamento di questa proposizione del suo predecessore. Ma si consideri il filo di tutto il ragionamento, e ne apparirà l' inevitabile incoerenza. La ragione, per la quale si confuse lo spirito conoscente cogli oggetti conosciuti, si fu quel pregiudizio, di cui abbiamo parlato, che « lo spirito nulla può conoscere fuori di sè stesso »; del qual pregiudizio la filosofia tedesca dopo che le entrò nei visceri, peggiore d' ogni tenia, non potè mai liberarsi. Ora Fichte, lungi d' esser coerente a questo erroneo principio, che aveva preso per fondamento di tutto il suo ragionare, se ne dipartì senza accorgersene, perchè è cosa impossibile rimanere a lungo coerente ad un primo errore. Ecco come nacque l' incoerenza di Fichte. Fichte aveva confuso lo spirito coll' Io; e posciachè l' Io è uno spirito che ha coscienza di sè e si pronuncia, perciò aveva confuso lo spirito colla coscienza; nella coscienza stessa di sè aveva riposto la natura dello spirito, e quindi trovata quell' assurda e contradittoria sentenza, che « l' Io pone sè stesso ». Ma poichè lo spirito, oltre conoscere sè stesso, conosce anche tante altre cose, affine di spiegare questo fatto, Fichte aveva aggiunto che « l' Io pone anche il Non7Io ». Atteso poi che l' Io nulla può conoscere fuori di sè stesso, Fichte conchiuse che « fra l' Io e il Non7Io vi è equazione », riducendo così questo a quello. Ma era una conclusione assurda ed evidentemente contradittoria; perocchè il Non7Io è la negazione dell' Io; e però il Non7Io, qualunque cosa sia, non sarà mai lo stesso Io. Ma non sarà neppure una modificazione dell' Io, perocchè l' Io, essendo la coscienza di sè, non potrebbe non essere conscio della propria modificazione, se tale fosse il Non7Io. All' incontro l' Io è conscio che il Non7Io è una negazione di sè, qualche cosa che gli si oppone, e opponendoglisi, lo limita; lo limita in questo senso appunto che gli fa conoscere di non essere tutto, ma che oltre a sè, vi è qualche cosa che non è sè . Qualunque cosa sia dunque il Non7Io, e da qualunque parte tragga la sua esistenza, certo è che egli non è l' Io, nè una modificazione dell' Io, e però che non è eguale all' Io. Essendo dunque assurdo il fare una equazione fra l' Io e il Non7Io, avrebbe Fichte dovuto accorgersi dell' erroneità del principio, che « l' Io nulla possa conoscere fuori di sè stesso »; perocchè ogni principio, che conduce all' assurdo, è erroneo. Nè meglio può Fichte evitare l' assurdo, dicendo che il Non7Io altro non è che un' apparenza, ma che in verità è lo stesso Io. Perocchè in prima ciò si dovrebbe provare con qualche solido argomento, e non asserire nudamente. Di poi, diamo che sia un' apparenza; quest' apparenza rimane sempre che non sia l' Io, nè si possa come tale ridurre all' Io. In terzo luogo, se si distingue l' apparenza dalla sostanza, in tal caso si domanda se l' Io stesso è apparenza o sostanza. L' Io è la coscienza, ed è pure la coscienza quella che attesta che il Non7Io non è l' Io. La stessa testimonianza è quella che fa conoscere l' Io, e che fa conoscere il Non7Io; se ciò che attesta la coscienza è un' apparenza, anche l' Io è un' apparenza non meno che il Non7Io, ed è quello che in ultimo confessa lo stesso Fichte. Nè poteva altro, giacchè lo stesso Io è quello che pone sè stesso, e che pone il Non7Io. Se trattasi dunque di due apparenze, non v' è più luogo a distinguere nel Non7Io la sostanza dall' apparenza; e però nemmanco ad affermare che il Non7Io rispetto alla sostanza fa un' equazione coll' Io, e rispetto all' apparenza si divide dall' Io. Dunque o sono due sostanze, o due apparenze. E nell' uno e nell' altro caso il Non7Io è opposto, e non mai identificabile collo stesso Io. Ebbene, il Non7Io ha egli coscienza di sè? Non può essere, poichè egli è opposto all' Io, e l' Io è la coscienza. Il dire dunque Non7Io è lo stesso che dire Non7Coscienza. Dunque va a terra il principio di Fichte che lo spirito, essenzialmente coscienza, cioè Io, sia lo stesso Non7Io; dunque vi è qualche cosa che non è la coscienza. Ma il fondamento del sistema stava tutto nel ridurre ogni cosa alla coscienza; dunque il fondamento del sistema va a distruggersi nello svolgimento del sistema medesimo. Schelling, senz' accorgersi punto nè poco che l' introdurre qualche cosa che non fosse la coscienza distruggeva il fondamento d' una tale filosofia, ammise l' Io e il Non7Io, cioè la Coscienza e la Non7Coscienza; e pretese di trovare un movimento, che cangiasse la Non7Coscienza in Coscienza, e la Coscienza in Non7Coscienza. A questo fine egli doveva immaginare (perchè trattasi d' immaginare) un terzo principio, il quale divenisse ora consapevole, ora inconsapevole. Ma questo assunto, gratuito come i precedenti, era un uscire affatto dai primi ragionamenti, coi quali s' era pervenuto a stabilire l' Io e il Non7Io di Fichte, e però si abbracciava un sistema, cominciando dall' annichilirlo del tutto. Schelling, adunque, riceve da Fichte la proposizione che l' Io produca il Non7Io, cioè che il Consapevole (lo Spirito) produca l' Inconsapevole (la Natura); e con ciò viene ad accettare per buoni i principŒ sui quali Fichte basava questa conclusione. Ma di poi aggiunge la proposizione che « il Non7Io produce l' Io », perchè il Non7Io (la Natura) vuole conseguire la coscienza di sè; e con questa aggiunta distrugge e rinnega tutti i principŒ, coi quali fu stabilita la prima proposizione. La ripugnanza dunque e l' intima contraddizione non può essere più manifesta. La dottrina, che svolge la prima proposizione, fu nominata da Schelling Idealismo trascendentale ; la dottrina, che svolge la seconda proposizione, fu nominata Filosofia della Natura . La prima muove dal principio che l' Io nulla conosce fuori di sè; di che ne viene che tutto ciò che si conosce si debba ridurre all' Io; la seconda muove dal principio opposto e contradittorio al primo, cioè che si conosce e vi è qualche cosa che non è l' Io, ma che tende incessantemente a diventare Io, e perciò che è falso il principio posto da prima. La scissura e la lotta fra queste due parti del sistema del filosofo leonbergese non può essere più mortale. Schelling dunque riconosce che la coscienza non è essenziale all' ente, e che questo può averla e non averla; e in ciò poniamo che abbia ragione. Ma in tal caso manca il fondamento del ragionamento, col quale si faceva che l' Io, dopo aver posto sè stesso, ponesse anche un Non7Io eguale a lui; e quindi è sovvertita la base dell' identità assoluta . Se non è assurdo che fuori della coscienza esista qualche cosa, come mai si potrà identificare questo qualche cosa, estraneo alla coscienza, colla coscienza? Non potendosi più ricorrere alla speciosa ragione, che « tutto deve contenersi nella coscienza », e volendosi pure fare una identità del consapevole e dell' inconsapevole, si dovrà ricorrere ad una serie di asserzioni fondate in aria, destituite di ogni prova. Laonde Schelling, che fa in prima uscir fuori l' inconsapevole dal consapevole, come Fichte che fa uscire il Non7Io dall' Io, e poi fa uscire il consapevole dall' inconsapevole, ciò che non fa Fichte e che ripugna alla dottrina di Fichte, come spiega egli la natura bruta, priva di sensazione e d' intelligenza? Egli la considera come l' atto di un Io supremo, del quale suo atto l' Io non abbia alcuna coscienza. Come spiega la sensazione, che riconosce essere priva di coscienza? Egli la fa del pari scaturire dall' Io supremo, al quale nell' atto del sentire vien meno la coscienza di sè stesso. Come spiega il bello estetico? E` per lui l' Io supremo, che nell' artista, perdendo la coscienza di sè, ritiene la coscienza solo delle opere belle prodotte e individuate. Ma quale ragione sufficiente adduce di questo perdersi o di questo limitarsi della coscienza dell' Io? Niuna affatto; nè egli rende alcun perchè dei tempi, in cui questa coscienza ora si oscuri, ora s' illumini. Di più, come prova egli che questi atti, questi prodotti (perocchè confonde gli atti coi prodotti loro), benchè inconsapevoli, debbano uscire dall' Io, che è la coscienza stessa? La ragione non è altra che quella di Fichte, essere impossibile che l' Io intenda qualche cosa fuori di sè stesso, venendo ad argomentare o piuttosto a paralogizzare così: « L' Io non può intendere nulla fuori di sè. Ciò che intende adunque deve essere prodotto da lui stesso »; quasichè fosse lo stesso l' intendere una cosa in sè e il produrre una cosa diversa da sè. Quando anzi, se fosse vero che l' io non potesse intendere niuna cosa se non in sè stesso, si dovrebbe concludere che dunque egli non può produrre niuna cosa che fosse fuori di sè, qual' è il Non7Io, giacchè produrre e intendere si assumono come sinonimi. Ma si ammetta il paralogismo. Noi abbiamo un Non7Io prodotto dall' Io, un inconsapevole prodotto dal consapevole. Continua Schelling l' opera così avviata del suo predecessore, e dice: Questo Non7Io ha un conato ad acquistare la coscienza di sè, perchè è prodotto dall' Io, e perciò lo ha nelle viscere latente. Quale prova di sì grave affermazione? Nulla. Quale ragione sufficiente determina il Non7Io a costituirsi in un Io? Nulla di nuovo. Quale ragione che determini i tempi, in cui il Non7Io è privo di coscienza, e quelli in cui egli la acquista? Nulla per la terza volta. Passi. Ma rimane a domandarsi se l' Io può essere latente, se un Io latente non è una contraddizione in termini, perocchè viene a dire una coscienza senza coscienza. La coscienza, che non è coscienza, è il nulla . Già qui si scorge l' origine del nullismo di Hegel. Ma egli è ancor meno del nulla, perchè è una contraddizione, un assurdo; e il nulla non è un assurdo. Onde si vede che il nullismo dovette condurre Hegel all' assurdismo (parola così bella appunto, come il sistema che esprime), cioè a sostenere che la scienza si fonda sulla contraddizione, che è il principio di quella filosofia. Ridurre adunque ciò che è assenzialmente consapevole, come è l' Io, e ciò che è inconsapevole ad un principio unico, che ora acquista la coscienza ed ora la perde, è impossibile. In primo luogo tutti questi infiniti trasmutamenti del consapevole nell' inconsapevole, e viceversa, non hanno alcuna ragione, come dicevamo. In secondo luogo, o il principio unico può perdere la coscienza, e in tal caso, non avendo la coscienza per sua propria essenza, egli non è infinito, mancandogli il maggiore dei pregi; o il principio unico non può perdere la coscienza di sè, ma solo dei suoi atti e delle sue produzioni, e in tal caso ritorna la dualità, che si vuole ridurre invano all' unità ed alla identità assoluta. Un tale sistema, adunque, può parere meraviglioso come parto di una immaginazione confusa, ottenebratrice della mente, non mai come produzione di ragione filosofica e sapiente. Due sono adunque le parti della filosofia di Schelling. Il sistema di Fichte, che trae dall' Io il Non7Io, ne è la prima; la seconda propria di lui, è il Non7Io tendente ad acquistare la coscienza e ridiventare Io. Abbiamo esaminato i principŒ di natura psicologica, su cui si fonda la prima, e li abbiamo trovati insussistenti. La seconda muove da principŒ di natura ontologica, e sono tali che cozzano coi precedenti. Ora, su questi ultimi, che appartengono esclusivamente a Schelling, è uopo che ci tratteniamo ancora qualche istante. Essi sono attinti al fonte dei Platonici alessandrini, e tutti si riducono alla confusione dell' idea, oggetto, coll' intelligente, soggetto; ma l' esposizione loro ha qualche cosa di originale. Ecco come ella si conduce nel dialogo, che Schelling intitolò « Giordano Bruno ». Quivi si toglie prima a provare che il produttore delle opere artistiche è un' eterna nozione, confondendosi così la causa esemplare di tali opere colla causa efficiente. Rechiamone un brano. In tal modo pretende Schelling aver dimostrato che la nozione dell' individuo sia il produttore stesso delle opere estetiche. Venuto a questo, soggiunge che la nozione dell' individuo è eterna, e che è lo stesso eterno; di che ne trae che lo stesso eterno è il produttore di quelle opere. Ma questa eterna nozione dell' individuo, la quale è il produttore, poco appresso (non curante mai della coerenza del discorso) la chiama emanazione dell' eterno, rassomigliante a quello da cui emana. E poi asserisce immediatamente, senza trovar necessario di aggiungervi la minima prova, che Iddio « « dà alle idee delle cose, che sono in lui, una propria indipendente vita, in quanto permette loro di esistere come anime dei singoli corpi ». » E quindi deduce che « « ogni opera, la quale è il prodotto dell' eterna nozione dell' individuo, ha una doppia vita, cioè una vita indipendente in sè stessa, ed un' altra vita nel produttore ». » Così crede il nostro filosofo aver dimostrato: 1) che le anime sono le idee divine, in quanto Iddio loro permette di esistere come anime dei singoli corpi; 2) che s' identificano con Dio, così come s' identificano coi loro corpi; 3) che queste nozioni, cangiate dal filosofo in anime, sono il produttore delle opere estetiche; 4) che queste opere estetiche hanno vita, anzi una doppia vita, una in sè stesse e un' altra nel produttore. Ad ogni uomo che abbia non già una grande penetrazione, ma solamente un minimo che di logica in capo, deve fare stupore come proposizioni di tal natura si pronuncino così leggermente, quasi non avessero bisogno di dimostrazione la più rigorosa. Ma tale è l' indole della filosofia germanica, di cui si fa tanto strepito. Lasciando noi da parte questo strepito, perchè guai a quelli che, volendo filosofare, si lasciano assordare gli orecchi dallo strepito che leva la moltitudine dei filosofanti, non dubitiamo affermare: 1) che si vede, a dir vero, negli ingegni germanici una grande tendenza al ragionamento deduttivo e conseguenziale; 2) ma che si vede in pari tempo che non ne hanno l' arte, dimostrandosi assai meschini di logica: e ciò perchè la civiltà germanica, essendo recente e fatta a mano ed in fretta, non ebbe ancora il tempo di esercitarsi abbastanza nel discorso dialettico. I filosofi di quella nazione mancano in prima di analisi, e perciò confondono facilmente l' una coll' altra le idee. Mancano poi di dimostrazione, e perciò si contentano di affermare proposizioni sopra proposizioni, l' una più strana dell' altra, senza fermarsi mai a considerare seriamente il valore delle prove. A conferma di che, facciamo alcune osservazioni sul brano citato del Bruno di Federico Schelling. Si dice che il finito è perfetto, quando è annodato coll' infinito, e che non può essere annodato coll' infinito, se non è previamente uno coll' infinito. Ma se il finito è previamente uno coll' infinito, non ha più bisogno di essere annodato con esso lui, perocchè ciò che è uno con un altro, è già annodato o piuttosto immedesimato con esso. Che cosa vuol dire adunque questo previamente ? Egli non ha senso. Di poi l' espressione essere uno coll' infinito è ambigua, e perciò deve essere chiarita coll' analisi dei suoi diversi significati; il che dimentica di fare il nostro filosofo. Se l' esser uno vuol dire l' essere identificato, in tal caso non è più annodato ; perocchè ciò che è identico non si dice essere annodato con sè stesso, ma essere sè stesso; nè ha bisogno d' un mediatore, che lo annodi seco stesso. Dall' aver detto che il finito non può essere annodato coll' infinito, se non per mezzo dell' infinito e dell' eterno stesso, conclude che dunque un' opera, che rappresenti la più alta bellezza, non può essere prodotta che dall' eterno. Nella qual conclusione si racchiude più che nelle premesse; perocchè nelle premesse si distingueva: 1) un' opera finita; 2) l' annodamento di quest' opera coll' infinito, fatto dall' infinito stesso. La conclusione doveva essere che l' infinito contribuisce a produrre l' opera, che rappresenta la più alta bellezza, in quanto che annoda l' opera finita con sè stesso, ma non che produce l' opera stessa. Manca ancora l' analisi dell' annodamento, che si suppone fra l' opera finita e l' infinito, perchè questo annodamento può essere di più maniere; a parlar chiaro e senza equivoco conveniva dire in che precisamente si faccia consistere tale annodamento dell' opera finita coll' infinito; il che si preterisce. Di poi si prosegue a dire che l' eterno produce l' opera, che rappresenta la più alta bellezza, non considerato assolutamente, ma in quanto si riferisce immediatamente all' individuo produttore. Ma se il produttore è lo stesso eterno, come ora viene in campo un individuo produttore diverso dall' eterno, un individuo produttore a cui l' eterno solo si riferisce? Questa è contraddizione. Toglie quindi a spiegare in che consista questa relazione, per la quale l' eterno si riferisce all' individuo produttore; e per ispiegarla parte da questo principio, che « tutte le cose sono in Dio soltanto per le loro eterne nozioni ». Ma questo è falso, giacchè le cose sono in Dio anche come nella loro causa efficiente, non meramente come nella loro causa esemplare . Perchè si ammette dunque una proposizione, opposta alla dottrina di tutti i teologi e di tutti i filosofi, senza alcuna prova? Dall' erroneo principio che « « tutte le cose sono in Dio soltanto per le loro eterne nozioni » »deduce che « « Iddio si riferisce al produttore individuo per l' eterna nozione dell' individuo » ». Ma Iddio non si riferisce al produttore individuo solo per l' eterna nozione dell' individuo, ma ben anche perchè egli realizza colla sua onnipotenza la essenza dell' individuo, che è in quella nozione, e così lo fa esistere, lo crea. Soggiunge queste altre parole, quasi cosa che venga al tutto da sè, che nessuno possa negare, di cui nessuno possa domandare ragionevolmente dimostrazione di sorte: « la quale (nozione) è in Dio identificata coll' anima, precisamente come questa è col corpo ». All' opposto, il senso comune di tutti gli uomini distinguerà sempre, e in Dio e nell' umana mente: 1) la nozione dell' individuo dall' anima; 2) e l' anima dal corpo. La differenza fra la nozione dell' individuo e l' anima è infinita; perocchè quella è eterna, e questa è contingente; dunque non si identificano. La differenza fra l' anima e il corpo è di sostanza a sostanza; e due sostanze, delle quali l' una è termine dell' altra, non si possono identificare, benchè si possano unire a formare un solo individuo. Al nostro filosofo, adunque, non solamente vien meno la logica, di cui mostra non fare alcun caso, ma anche il senso comune, a cui crede di poter contrariare così leggermente e gratuitamente. Dopo avere asserito con tanta temerità che la nozione dell' individuo produttore s' identifica coll' anima, e che l' anima s' identifica col corpo, conchiude che questa nozione, che s' identifica pure coll' eterno, è il produttore stesso dell' opera, che rappresenta la più alta bellezza. Dopo aver dunque distinto nel discorso: 1) il finito e l' infinito; 2) la nozione del produttore e il produttore; egli confonde tutte queste cose insieme, senza darsi alcuna briga di spiegarci sotto quale aspetto sono distinte, e sotto quale s' identificano; come nasca la loro separazione e la loro identificazione; quale sia la ragione sufficiente di tali trasformazioni; in che modo e in che senso la parola identificazione di più cose in una non involga assurdo, come pare che l' involga. Di tutto ciò il nostro ragionatore si tiene affatto disobbligato. Se il filosofo nostro dicesse che « la nozione dell' opera bella, il tipo eterno », è quello che la produce, sarebbe in qualche modo tollerabile, non rimanendo a spiegare in tale sentenza se non in che senso si dica che la produca, cioè meramente come causa esemplare. Ma no, egli presenta ai suoi ammirati discepoli qualche cosa di più strano da credere sulla sua parola. Non trattasi della nozione o tipo dell' opera, ma della nozione dell' individuo produttore. Ora, se la nozione dell' individuo produttore è il produttore stesso, quella nozione non potrà produrre altro se non l' individuo produttore che ella rappresenta, non potrà produrre altro che sè stessa. Un assurdo dunque si raddossa sopra l' altro. E poichè quella nozione è l' anima, perciò l' anima non potrà produrre (se fosse una nozione producente) che sè stessa!! Niente dunque rimane spiegato con un tal modo di filosofare. Che poi le nozioni eterne, che trovansi in Dio, sieno anime, questo è conseguente alle premesse del nostro filosofo. Ma il vero si è che le nozioni e le idee sono bensì intuite dalle anime intelligenti, ma non che sieno le stesse anime intuenti, essendovi fra l' intuente e l' intuìto essenziale ed insuperabile differenza. Voi poi credereste con tutte le scuole che le nozioni eterne fossero sempre in Dio. Il nostro filosofo però dice che emanano da Dio; lo dice, e tuttavia le dice eterne, nè dice che perciò escano da Dio. Nè di tutte queste affermazioni contradittorie vi dà prova di sorte alcuna. Egli vi domanda ciechissima fede alle sue parole. Neppur crediate che le nozioni eterne di Dio sieno anime per sè stesse; no, elle sono anime, perchè Iddio permette loro di esistere come anime dei singoli corpi. Come poi tali nozioni possano aver desiderio di essere anime, come questo possa esser loro permesso da Dio, come, ottenuto questo permesso, possano acquistare l' esistenza di anime; queste sono tutte cose, che il nostro filosofo rimette a concepire e spiegare alla discrezione dei suoi benigni lettori, non credendosi obbligato d' incomodarsi a dircelo. Finalmente che cosa sarà l' opera di questo produttore, che ora è l' eterno, ora la nozione dell' individuo, ora l' individuo, ora l' anima? L' opera sarà qualche cosa di vivente, anzi una cosa che vivrà di due vite, l' una in sè, l' altra nel suo produttore, col quale pure così s' immedesima. Che cosa è vita? Come si può vivere di due vite? Come un' opera finita d' un individuo produttore può essere cosa viva? Come s' immedesima col suo produttore? Altri enimmi, con cui il nostro filosofo esercita la fede dei suoi discepoli. Tale è la logica costante della serie dei filosofi tedeschi, incominciata con Kant; nè ella è finita; ci resta a parlare dell' ultimo anello, di Hegel. HEGEL. - I filosofi tedeschi mossero la filosofia dall' Io, ma senza analizzarlo, perchè l' analisi, come abbiamo osservato, è pressochè loro sconosciuta. L' Io sottomesso all' analisi risulta: 1) da un sentimento fondamentale; 2) da un' intuizione dell' oggetto; 3) da una o più riflessioni, che quel sentimento intelligente fa sopra di sè, onde anche pronuncia sè stesso dicendo Io . L' Io dunque involge l' opera della riflessione e la coscienza, che ha l' anima di sè stessa. I nostri filosofi tedeschi fondarono il loro sistema sopra l' uno o l' altro di quei tre elementi, senza abbracciarli tutti, e senza nè tampoco distinguerli. Fichte, ponendo attenzione più al terzo elemento che ai due primi, parlò dell' Io dandogli la natura di riflessione, e però lo fece essenzialmente consapevole. Schelling si appigliò al primo di quei tre elementi, e immaginò un Io sentimento, che ora è consapevole, ora inconsapevole, senz' accorgersi punto che un mero sentimento non è mai un Io, perocchè ad un Io è essenziale la coscienza, che appartiene all' intelligenza. L' attenzione di Hegel, che trascurò l' analisi dell' Io, come i suoi antecessori, cadde sul secondo elemento, e il suo Io primitivo non fu sentimento, non fu riflessione o coscienza, ma fu ciò che sta in mezzo a questi due estremi, semplice cognizione . Ma mancando sempre l' analisi, confuse anch' egli, come i precedenti, il conoscente coll' oggetto cognito, e concluse che l' oggetto cognito era il conoscente. Di più, l' oggetto cognito è duplice, sussistenza e idea . Per difetto d' analisi dichiarò che ogni oggetto cognito è idea. Quindi se ne ebbe che l' idea era ad un tempo il soggetto conoscente, l' oggetto ideale intuìto, e l' oggetto reale percepito. Così Hegel ridusse ogni categoria di cose alla mera Idea. E l' Idea, divenuta ogni cosa, era necessariamente Dio, il Dio7tutto. Non era questo certamente un fare andare molto innanzi la filosofia dei suoi predecessori, perocchè essi erano in sostanza pervenuti alla stessa conclusione. Ma si erano poco occupati a dimostrare come l' Io si trasformasse in tutte le cose, e producesse tutte le opposizioni, che si possono pensare dall' umana mente. A questo lavoro s' accinse Hegel. L' Io di Hegel essendo dunque l' Idea, egli si occupò a descrivere come questa si trasformava nelle diverse categorie delle cose, dispensandosi sempre, secondo il metodo invalso, dal dimostrare. Asserì dunque che la Ragione, ossia l' Idea (perocchè è continua la confusione fra il soggetto, che intuisce e fa uso dell' idea, e l' idea intuìta e di cui si fa uso), ha nel suo essere tre momenti; ond' ella è: 1) Idea in sè e per sè, pura Idea logica; 2) Idea nel suo essere trasformato, Natura, Non7Io di Fichte; 3) Idea che ritorna in sè dal suo essere trasformato, Spirito, Anima. Quindi la divisione della Filosofia in tre parti: « Logica, Filosofia della Natura, Filosofia dello Spirito ». Prendendo a considerare il secondo dei tre momenti dell' Idea hegeliana, in qual maniera l' Idea si trasforma nella Natura? Questo è ciò che il filosofo non spiega; ma il solo supporlo involge assurdo sopra assurdo. L' Idea altro non è che l' oggetto intuìto dallo spirito, l' essenza delle cose; per esempio, l' idea dell' uomo è l' essenza dell' uomo, non è nè questo nè quell' uomo, ma il mero tipo dell' uomo, l' uomo possibile. Lo stesso si dica di ogni altra idea. Ora se noi diamo all' Idea un' azione qualunque per modo che la rendiamo un agente, noi le aggiungiamo una cosa straniera. Non abbiamo più la sola idea della cosa, ma abbiamo un agente associato coll' immaginazione nostra all' idea. L' Idea non ha altro ufficio che di farci conoscere le cose; le cose poi reali e sussistenti sono quelle che operano. Questi due concetti, il tipo manifestativo delle cose reali e le cose reali operanti, sono categoricamente diversi: quello, cioè l' idea, può stare innanzi alla nostra mente senza di queste, siccome accade quando pensiamo ad una cosa meramente possibile e non realizzata. Dunque il pretendere che l' Idea operi e si trasformi in altro, è mutar natura all' Idea; è abusare di questa parola; è sostituire all' Idea una natura reale e sussistente, capace di operazione, è ricadere nella dualità che si vuole sopprimere (1). Ogni Idea qualunque è immutabile ed eterna. La più leggera osservazione interna ce ne convince (1). Dunque l' Idea non può patire alcuna passione, nè essere il soggetto di alcuna trasformazione. Se l' Idea si potesse trasformare nella Natura, ella annienterebbe sè stessa, perdendo ciò che essenzialmente la costituisce, che è di esser lume alla mente. Ora niun essere può annientare sè stesso. E se anche potesse, annientato che fosse, non potrebbe ricrearsi e divenire un' altra natura, perocchè il nulla non può diventar nulla. Passiamo a considerare l' Idea nel terzo momento di Hegel. Questa dallo stato di Natura bruta ritorna a sè, e così nasce lo Spirito. Ma un tale ritorno supporrebbe che la Natura fosse l' Idea, la quale non si fosse annientata, ma conservando un quid identico potesse ancora operare. Ora questo è impossibile per l' osservazione fatta di sopra. Dunque, quand' anche l' Idea avesse cessato di essere Idea e fosse divenuta Natura, questa non potrebbe più tornare ad essere Idea per la ragione stessa, che in tal passaggio prima dovrebbe annullare sè stessa, ed annullata che fosse, non potrebbe più divenire cosa alcuna. Noi dicevamo che le trasformazioni non si possono nè spiegare, nè concepire, se non rimane un quid identico che sia il subbietto della trasformazione. Ora Hegel non si dà cura di indicare punto nè poco questo quid, che rimane immutato nelle trasformazioni che egli suppone. L' Idea è semplicissima, e però non può avere due elementi, l' uno mutabile e l' altro identico; quindi non può essere soggetto di alcuna trasformazione, ma è immutabile, come abbiamo detto alla osservazione II. In qual maniera si può concepire che la Natura bruta ritorni all' Idea? O come ritornando all' Idea può divenire Spirito? Questi sono misteri, di cui il filosofo nostro non adduce nessuna ragione sufficiente, anzi nessuna ragione, che faccia concepire la cosa come possibile. L' Idea non può mai divenire Spirito, perchè lo Spirito è l' intuente, e l' idea è intuìta dallo Spirito; onde hanno opposizione di natura fra loro. Neppure è possibile ricorrere ad un terzo termine, che unisca in sè questi opposti, Spirito intuente e Idea, perchè in tal caso non si partirebbe già più dall' Idea, come fa Hegel, ma da qualche cosa di superiore all' Idea stessa; e l' Idea rimarrebbe nella condizione dei termini opposti. Oltre di che, questo termine superiore incontrerebbe le stesse difficoltà ad esplicarsi e a trasformarsi, e la difficoltà sarebbe arretrata d' un passo, non tolta. Il perchè non dandosi Hegel alcuna sollecitudine di queste immense difficoltà, e procedendo sempre per la via dell' affermazione gratuita, tutta la sua dottrina si riduce a descrivere storicamente le trasformazioni dell' idea in tutte le cose le più opposte fra loro, e nello stesso nulla, sicchè quella sua Idea in luogo d' essere immutabile non istà mai in riposo. Certo che la descrizione di queste trasformazioni nel senso di Hegel sono altrettante operazioni mentali; perocchè rimane sempre l' erronea base, posta da Fichte, che « il conoscente niente conosce fuori di sè stesso, e però tutto ciò che conosce deve necessariamente essere cose che nascono in lui », riducendosi ogni realità a produzione della mente, e, come confessava lo stesso Fichte, ad apparenze ed a sogni, e sogni di sogni (quasichè il sogno potesse sognare). Posto dunque che la virtù trasformatrice di Hegel sia il pensiero, egli comincia dal porre che il pensiero possa concepire l' ente così astratto che da lui si tolgano in prima tutte le determinazioni, e poi si tolga via lui stesso, e così sia pari al nulla. Di che conchiude che questo ente così astratto fa un' equazione col nulla, e lo chiama ente7nulla. Ma: 1) E` falso che si possa astrarre l' ente dall' ente; l' astrazione non va tanto avanti; ella non giunge che a levare dall' ente le sue determinazioni, rimanendo l' ente indeterminato. Il togliere poi via l' ente stesso indeterminato non è un atto di astrazione, ma è una negazione assoluta, colla quale si abolisce l' oggetto del pensiero, e se rimane solo il frutto di tale negazione, si abolisce con esso il pensiero. La negazione poi dell' ente, che dà il nulla, non lascia più alcun ente, con cui il nulla possa mettersi in equazione. 2) Di poi, se il pensiero fa queste operazioni di astrarre e di negare l' ente, il pensiero stesso e le sue operazioni si scorgono diverse dall' pensato. Dunque egli, soggetto pensante, non si può mai confondere con questo, che è assenzialmente oggetto pensato; nella negazione adunque rimane ancora il negante, benchè incognito a sè stesso. 3) Se l' oggetto pensato non è il pensante, dunque il pensante pensa cosa diversa da sè, e non è più vero il principio posto, che non possa pensare nulla fuori di sè. D' altra parte è il pensiero stesso, a cui il filosofo si appella, che ci dice: 1) Che egli può bensì astrarre, negare, passare da un oggetto all' altro, ma non mai trasformare gli oggetti stessi l' uno nell' altro. 2) Che oltre gli oggetti propri del pensiero, le idee, vi sono altre entità che non sono idee, ma sentimenti e forze agenti nel sentimento, sulle quali il pensiero puro non ha alcuna virtù di operare trasmutazioni. Onde se si deve credere al pensiero umano, questo dichiara di non aver punto nè poco la virtù trasformatrice, che il nostro filosofo gli attribuisce. E quand' anche il pensiero avesse questa virtù, converrebbe assegnare qualche ragione sufficiente, per la quale rimanesse spiegato perchè egli ora adoperi tale virtù, ora non l' adoperi, ora l' adoperi in un modo, ora nell' altro. Parve che Hegel, a differenza dei suoi predecessori e maestri, sentisse in qualche maniera il bisogno di porgere questa ragione. A tal fine egli disse che il supremo principio della filosofia è il diventare, nel quale atto il nulla e l' essere si congiungono quasi ai loro confini; perocchè non richiedendosi ragione del primo principio, gli parve così di potersi schermire dal rendere alcuna ragione del diventare medesimo. Ma dei primi principŒ non v' è obbligo di dar ragione, se sono evidenti; ma v' è ben obbligo di giustificarli, se evidenti non sono, come è certamente il diventare di Hegel; e tanto più che questo diventare ha in ogni caso modi, e leggi, e tempi, di cui conviene assegnare qualche ragione che li determini. Che più? Lo stesso diventare di Hegel è un manifesto assurdo, giacchè suppone che qualche cosa diventi senza causa. Perocchè se assurdo non è che un essere, che prima non esisteva, cominci ad esistere quando sia posta una causa che lo crei, oltremodo è assurdo che cominci ad esistere da sè, senza che alcuna causa preceda, nè efficiente, nè materiale, come è assurdo pure che si annichili. Che se questa causa esiste, già non è più il diventare il principio dell' Ontologia, ma la causa prima che spiega lo stesso diventare, e lo rende concepibile all' intelletto; e di questa perciò è da parlare, ricorrendovi come a sufficiente ragione di tutti gli atti che conseguono, e delle loro circostanze (1). Tuttavia non si può negare che, commesso il primo errore, tutti gli altri sono in qualche modo conseguenti, inevitabili; perocchè la serie delle proposizioni erronee si può esporre così: 1) Il pensiero non può conoscere nulla fuori di sè (errore fondamentale, idealismo trascendentale, soggettivismo). 2) Dunque fuori del pensiero non v' è nulla. 3) Dunque ciò che si crede che esista fuori del pensiero, non è che una produzione del pensiero stesso, che produce il Non7Io, negando sè stesso. 4) Dunque le stesse idee sono produzioni del pensiero. 5) Ma il pensiero stesso, riflettendo che egli non può conoscere nulla fuori di sè, fa rientrare in sè il mondo reale e le idee, dopo averle prodotte come un diverso da sè, riconoscendo che quelle cose sono sè stesso, seco s' identificano. 6) Il pensiero poi può astrarre e negare, e così può annullare ciò che ha creato. 7) Di più, il pensiero può astrarre e non pensare sè stesso, perdere la coscienza, e quindi può annullarsi (2). Il pensiero stesso adunque (che abbraccia il tutto nel suo seno) ora è l' ente, ed ora il nulla. Così l' ente e il nulla si identificano. .) Ora, poichè l' infimo grado in cui possa essere il pensiero è questo annullamento di sè, e da questo nulla può sorgere a tutti gli altri gradi, perciò dal gran nulla escono fuori, come da un cotale oscuro abisso, tutte le cose. - Sistema del Nullismo. 9) Il pensiero ha dunque due termini: il nulla e il più alto grado di sua attività . La filosofia non può spiegare le cose, se non congiunge questi due termini; ella si deve dunque fermare a quel punto, nel quale il nulla diviene ente; e questo è il diventare di Hegel. 10) Ma la maggiore attività, a cui possa giungere il pensiero, è quella in cui egli acquista la coscienza di sè. Il pensiero consapevole adunque, come l' ultimo sviluppo dell' ente, è ciò che questi panteisti psicologici chiamano Dio. Ecco una serie di assurdi, procedenti con qualche logica connessione dal primo assurdo. Enumerare le produzioni fisiche, morali, sociali, ecc., del pensiero, e considerarle tutte come identificate al pensiero, è ciò in cui più ampiamente si stendono le opere di Hegel. Dobbiamo ancora ripetere ciò che abbiamo detto parlando di Schelling: questa filosofia non è che la riproduzione della filosofia indiana, e specialmente di alcune scuole del Buddhismo. [...OMISSIS...] Il principio di questi sistemi indiani è al tutto psicologico, quello stesso che forma la prima proposizione delle dieci da noi annoverate. Ecco due tesi, che si trovano in alcuni Sutras, citati da Burnouf: Non è mestieri il dire come un tale sistema sia empio; ma l' empietà, che esso racchiude, da niuno più che dai discepoli di Hegel fu nudamente proclamata e professata. « La stessa idea di Dio - dicono essi - non ha alcuna realità, perchè ella non riflette sopra sè stessa (2); quindi è gioco forza che la teologia si perda nell' Antropolatria, e che la religione disparisca nella speculazione ». La deificazione, il culto di latria reso all' uomo, come al solo Iddio: ecco l' assunto di questi deliranti, ecco il frutto maturo del soggettivismo; ci pensino bene i nostri italiani religiosi soggettivisti. Fra questi poniamo Aristotele; ma conviene fare sul suo sistema molte osservazioni. Primieramente è egli al tutto immune dall' errore, che noi attribuimmo a Platone, di confondere l' anima coll' idea, il soggetto coll' oggetto che la illustra? Questo sistema ha due faccie: è idealismo trascendentale, in quanto si ritengono le attribuzioni divine delle idee e le si attribuiscono all' anima, che con esse si confonde; ed è soggettivismo, in quanto si ritengono le doti dell' anima e le si attribuiscono alle idee, che con essa si confondono. In Platone questo sistema mostra la prima faccia; in Aristotele la seconda. Per fermo, è sentenza aristotelica che « « l' anima diventa in qualche modo tutte le cose » », e che « « intellectus est ea quae intelliguntur » (1) ». Di ciò abbiamo parlato nel « Rinnovamento » (2). Ella è tuttavia cosa grandemente diversa il confondere l' anima colle idee, attribuendo a quella la natura di queste, e il confondere le idee coll' anima, attribuendo a quelle la natura di questa, come noi crediamo che faccia Aristotele. In questo caso, benchè Aristotele ponga la natura dell' anima nel soggetto, e in ciò non erri, tuttavia cade in un errore assai maggiore di quello di Platone, perchè ignobilita le idee, traendole dal cielo in terra. Ma è prezzo dell' opera, che noi esaminiamo con più d' attenzione la sentenza aristotelica. Al vedere la franchezza, colla quale Aristotele parla censurando tutti i suoi antecessori, noi saremmo inclinati a credere che egli dovesse essere molto sicuro del fatto suo, e venuto in possesso d' una scienza ben definita. Pure a questa congettura fanno immensa opposizione le sue opere, nello stato in cui esse a noi pervennero. Durante il dominio della Scolastica, quando pareva una cotale empietà filosofica il dubitare che « il maestro di color che sanno »fosse caduto in contraddizione seco medesimo, lo spirito umano, preoccupato, non poteva portare un equo giudizio dell' aristotelica dottrina; una critica imparziale delle sue opere era impossibile. Questo freno d' indebita autorità posto agli ingegni provocò, secondo il solito, la reazione violenta da parte di quelli, a cui divenne alla fine insofferibile, i quali lo ruppero bruscamente come fa l' irato. Al giogo ingiusto dell' autorità filosofica, che vincola l' ingegno, essendo dunque succeduta l' ira, che lo acceca, ebbe luogo un' età, che neppur essa fu atta a giudicare equamente dell' aristotelica filosofia. Ben sarebbe desiderabile che nel tempo nostro, in cui sembrano sedati cotesti sdegni e resa impossibile quella autorevole prevenzione, si occupassero finalmente i dotti a darci una notizia veramente critica della dottrina, che nei libri a noi pervenuti dallo Stagirita si contiene, la quale ancora ci manca. Quanto a me, io non dubito che le ingiurie fatte a quei libri dalle vicende straordinarie, a cui essi soggiacquero, e dall' invida età, sieno maggiori di quel che si credano. Ma non importando investigare che pensasse veramente Aristotele, il che ci è affatto impossibile, bensì solamente ciò che contengono di presente i libri che portano il suo nome, io mi sento sgomentato a dover dire che essi presentano agli occhi miei brandelli di dottrine le più contrarie, un tessuto, o piuttosto un cucito, di tutti i sistemi filosofici che precedettero, dilacerati e rubacchiati ad un tempo. Mi conferma in questa opinione il vedere che Aristotele fu inteso dai suoi interpreti nelle guise più disparate, e gli furono attribuiti i sistemi più opposti. Alcuni lo vollero materialista, altri sensista, altri poi tolsero seriamente a conciliarlo con Platone fino a pretendere che egli differisca dal suo maestro di sole parole (1). A malgrado di ciò, mi sembra di poter asserire che il sistema aristotelico circa la natura dell' anima appartenga alla numerosa classe dei soggettivisti; e a ciò sono condotto dalle seguenti considerazioni. La definizione, che egli dà dell' anima, noi l' abbiamo riferita altrove [...OMISSIS...] . Ora, benchè molto sia stato disputato sul valore della parola entelechia, tuttavia la sua origine (da «en» e «telos») dichiara abbastanza che ella significa il finimento, l' atto che rende compiuto, la perfezione, ecc. (4). Quindi è indubitato che Aristotele concepì l' anima come un atto del corpo, col quale il corpo si perfeziona. E dice un corpo che ha la vita virtualmente, il che è più che potenzialmente; perocchè la mera potenza potrebbe pigliarsi per una capacità, o ricettività, o potenza passiva; ma la parola greca «dynamei» significa di più, esprimendo una potenza producente, ossia atta a passare all' atto, come sarebbe la forza rispetto al moto. Intende poi per un corpo, che ha virtualmente la vita, [...OMISSIS...] . Ora, in che ripone questa perfezione del corpo, che si chiama anima? In una forma o specie. E come definisce la forma o specie? Per contrapposizione alla materia, in questo modo: [...OMISSIS...] . L' anima dunque è ciò che si trova in un corpo e che fa sì che quel corpo sia un qualche cosa determinato, pel quale gli si dà il nome, nel caso nostro, che sia un animale. Non è dunque un atto accidentale del corpo (3), ma è un atto specifico, pel quale il corpo riceve un nuovo nome sostantivo. Quindi ripone l' anima fra le sostanze; perocchè egli distingue tre maniere di sostanze: la materia, la forma, e il composto (4); ma con più proprietà l' anima aristotelica si dovrebbe chiamare forma sostanziale (5). E veramente, in tutte le sostanze composte di forma e di materia non si vede come la forma, in quanto è forma, stia da sè, separata dalla materia; e per stare da sè deve esser qualche altra cosa oltre mera forma, onde non può essere sostanza, la quale sta da sè. Che anzi se si considerano i corpi, da cui furono tratte le parole di materia e di forma, e se si definisce la sostanza « ciò che in un ente esiste per sè », definizione che implica la relazione della sostanza coll' accidente, che esiste per quel primo (il che è quanto dire: la sostanza è l' atto pel quale sussiste l' essenza); in tal caso la condizione di sostanza appartiene piuttosto alla materia che alla forma; perocchè questa essendo come l' atto, quella è come il subbietto di questa (6). Quindi nel sistema aristotelico è impossibile concepire l' anima separata dal corpo, come l' atto è impossibile considerarsi senza il suo subbietto, di cui è atto. Niuna meraviglia, adunque, che Aristotele si trovi incerto e impacciato, quando applica la sua dottrina all' anima intellettiva; perocchè i filosofi, che lo avevano preceduto, avevano già dimostrato che le operazioni della pura intelligenza si fanno senza strumento di organo corporale; nè questo egli poteva negare, nè disconoscere la conseguenza, cioè che l' anima, in quanto è intelligente, non è atto di corpo, e poteva quindi sussistere senza corpo. Onde, dopo aver detto che l' anima non si può separare dal corpo, come l' immagine impressa sulla cera non si può separare dalla cera, quando poi viene all' intelletto, parla quasi incerto così: [...OMISSIS...] (1). Nel qual luogo è da considerarsi che il filosofo non disse addirittura che l' intelletto sia separabile dal corpo, ma disse separabile a quel modo che l' eterno è separabile dal corruttibile. A intendere adunque la mente di Aristotele conviene indagare che cosa egli intenda per eterno e per corruttibile, e in che modo, secondo lui, queste due cose sieno separabili. Se non si indaga questo prima di tutto, egli parrà cadere poche linee appresso in contraddizione. Infatti, se l' intelletto è separabile, perchè non è atto di corpo o di organo corporeo, dunque l' anima intellettiva non deve essere forma di corpo, perchè la forma o specie del corpo viene definita « l' atto e la perfezione del corpo stesso ». Tuttavia tosto appresso Aristotele dice che l' anima, anche in quanto pensa, è la specie, ossia forma del corpo: [...OMISSIS...] . Nega dunque all' anima intellettiva l' esser subbietto e materia, il che attribuisce al corpo; e le concede solo l' essere specie, forma, intenzione, atto, perfezione del corpo. Nè si può dubitare che qui si parli dell' intelletto, perocchè nel terzo libro definisce l' intelletto espressamente così: [...OMISSIS...] . S' aggiunge che nel libro secondo « Degli Analitici Posteriori » parla delle facoltà conoscitive degli animali imperfetti (attribuendo erroneamente anche ad essi una maniera di conoscere), e quindi passando agli animali perfetti, cioè agli uomini, viene a parlare dell' intelletto. Onde l' anima intellettiva è considerata come forma negli animali perfetti, di un grado più elevata di quella che è l' anima dei bruti, ma dello stesso genere. Che cosa dunque Aristotele intende per ciò che è eterno? Che cosa intende col dire che l' eterno si separa dal corruttibile? In primo luogo si avverta che Aristotele nega le idee e forme separate di Platone, che quindi non riconosce altre forme che quelle che sono nei particolari; che come non separa la forma dalla materia, così neppure la materia dalla forma, di cui ella è il soggetto. Alle forme particolari attribuisce l' atto, e quindi l' azione e la generazione; ma nega che producano forme, producano composti, appunto perchè la forma è inseparabile dalla materia. Ora la materia è eterna, e però deve avere una forma eterna, cagione di tutte le altre forme. Di più, è proprietà della mente separare la materia dalle forme, e così toglierle alle sue incessanti vicissitudini. La materia, dunque, astratta dalla mente, e parimenti le forme astratte, sono incorruttibili ed eterne rispetto alla mente che le contempla, a quel modo che spiega nei libri « Degli Analitici Posteriori »; quindi ciò che è eterno per Aristotele è la materia e la forma prese in astratto, le quali in realtà non esistono nell' anima, ma nelle cose esteriori. Ma l' anima ha la potenza di riceverle dal di fuori, ed è così che viene la mente dal di fuori, e che è separabile, perchè non è innata se non in potenza; dove si vede che la parola mente o intelletto si confonde colle specie che si acquistano dal di fuori, che è appunto l' errore da noi accennato, di confondere il soggetto coll' oggetto. Adduciamo in prova di ciò qualche luogo del filosofo. E prima di tutti sarà uno notevolissimo dal secondo libro « Della generazione degli animali », dove egli toglie a spiegare la generazione che si fa per via dell' unione dei sessi. Quivi egli distingue l' anima in potenza dall' anima in atto; l' anima non si dice essere generata e veramente esistere, se non è in atto. Ora l' anima vegetativa, sensitiva, e intellettiva, vengono all' atto successivamente, ed escono, quasi a dire, come si traggono l' un dall' altro i diversi tubi di un cannocchiale. Dice dunque che nel seme è uno spirito, e in questo è la natura, cioè il principio vitale etereo ( proportione respondens elemento stellarum ), che è l' anima ancora in potenza. Di quest' anima in potenza, all' atto del concepimento si fa l' anima vegetale, la cui indole consiste nella virtù che ha un corpo organico di ricevere nutrimento, e colla nutrizione, operazione interna, accrescere, e quindi anche poscia decrescere; indi esce dopo qualche tempo dal corpo nutrito un altro suo atto, cioè l' anima sensitiva, e finalmente da questa già maturata, l' intellettiva. [...OMISSIS...] (1). Il seme adunque maschile contiene l' anima in potenza, ma il concepito, che è tosto quando la femmina è fecondata, già contiene l' anima in atto, solo però l' anima vegetale. [...OMISSIS...] . Ora - soggiunge - [...OMISSIS...] . Fa venir fuori l' anima intellettiva allo stesso modo come fa venir fuori la sensitiva, e prima la vegetale dallo stesso corpo seminale, in cui il calore vitale s' acchiude (1), poichè dice: [...OMISSIS...] . La specie dell' uomo, e la specie del cavallo o di ogni altro animale, è trattata ad uno stesso modo; il che mostra abbastanza che Aristotele non conobbe l' altro elemento, che nell' intelligenza racchiudesi. Vuole dunque che il corpo potentia vitam habens, cioè il corpo che ha il calore vitale, quale è il seme e nel calore vitale la natura, ossia il principio vitale, quale è il seme maschile, tostochè si organizza e passa all' atto del nutrirsi, sviluppi l' anima vegetale, e successivamente gli altri due atti del sentire e dell' intendere. [...OMISSIS...] . Ora, dopo aver detto che le tre anime nascono così come tre atti successivi di un corpo, che ha in sè il principio vitale e che si sviluppa, passa a confermare la sua dottrina, provando che niuna delle tre anime può venire dal di fuori del corpo. [...OMISSIS...] . Ora, dopo aver detto tutto questo e fatte le tre anime inseparabili, e anche l' intellettiva fatta uscire dal corpo come le altre, soggiunge: [...OMISSIS...] . Ora alcuni intesero che questa mente , che Aristotele fa venire dal di fuori, sia l' anima intellettiva; ma ciò non può essere il pensiero dello Stagirita, perchè ha fatto già venire tutte e tre le sue anime, o le parti e funzioni dell' anima, dallo stesso corpo che le ha in potenza, la vita del quale si attua successivamente, prima divenendo vegetabile, poscia sensitiva, e finalmente intellettiva. Che anzi immediatamente soggiunge, confermando ciò che aveva detto prima: [...OMISSIS...] . Rimane dunque a cercare che cosa sia questa mente, che viene dal di fuori, benchè l' anima intellettiva stessa sia un atto e una perfezione del corpo. Nè ella può esser altro che una speciale facoltà o qualità, che l' anima intellettiva trae dal di fuori, cioè dalla comunicazione col mondo esteriore. Ora dal mondo esteriore appunto Aristotele vuole che noi caviamo le idee e gli universali; ed è perciò a vedere in che modo egli ne spieghi la produzione in noi; il che egli fa verso la fine del secondo libro, come dicevamo, degli « Analitici Posteriori ». Cerchiamo adunque in questi la spiegazione della sentenza aristotelica. Quivi il filosofo si propone di spiegare come noi abbiamo la cognizione immediata dei principŒ . E dopo aver detto che non può essere innata con noi, perchè ne avremmo coscienza (2), che è la solita ragione dei sensisti, la cui leggerezza fu già da noi dimostrata (3), dice che dunque è uopo che abbiamo qualche potenza di acquistarli. L' ammettere però una potenza di acquistare i principŒ della ragione, non spiega ancora cosa alcuna circa il modo di acquistarli, anzi lascia indecisa la questione assai più profonda: « se vi possa essere una potenza di acquistare i principŒ della ragione, senza che ella stessa abbia qualche principio, o qualche idea, di cui possa far uso ed essere diretta nel suo operare »; il che noi già dimostrammo affatto impossibile (4). Seguita Aristotele dicendo che tutti gli animali hanno questa potenza, perchè tutti hanno il senso; dando così al senso l' officio di formare i principŒ del ragionamento. Ma qual è dunque la differenza fra il sentire e l' intendere ? Questa differenza la riconosce Aristotele, e riprende i primi, che filosofarono, di non averla veduta, confondendo il senso coll' intelligenza. Ma finalmente (come appunto fanno i moderni soggettivisti, che non vogliono essere sensisti, benchè pur lo sieno) la differenza che egli pone, non consiste che in una cotal differenza, che ancora non eccede la sfera della sensitività, perchè colloca l' intendere in una permanenza della cosa sentita. [...OMISSIS...] . Ed ecco chiaramente spiegato come la ragione, ossia la mente, venga dal di fuori ad alcuni animali, quali sono gli uomini. Sono le sensioni eguali e simili, che vengono dal di fuori, che molte lasciano la stessa impressione permanente; e questa impressione unica, che rimane nell' anima da molte sensazioni, è ciò in cui Aristotele vede il nascimento della mente o della ragione, che ha per sua dote l' unità, il contemplare più cose in un solo. Ma altro è che più sensioni lascino nell' anima un' impressione eguale, il che avviene anche nei bruti, in quanto le sensioni sono simili, altro è che l' anima si giovi di quell' unica impressione, che rimane nel senso interno, quasi di tipo a riconoscere tutte le sensioni che ad essa rispondono, e di più tutte le possibili, il che fa solo l' uomo; perocchè solo l' uomo pensa il possibile, e solo il possibile costituisce l' universale, la spiegazione del quale è l' unico nodo della questione. E questo nodo è trasaltato via assai leggermente dal nostro filosofo; anzi egli pur mostra d' ignorare che la natura dell' universale sta tutta nel concetto del possibile, ossia nell' essere puramente ideale. Egli dunque seguita a dichiarare come la sensione si fermi nello spirito, e vi lasci un elemento costante in questo modo: [...OMISSIS...] Noi avvertimmo nell' « Ideologia » che, di tutte le opere di Aristotele, questo è quel luogo in cui il nostro filosofo più s' avvicina alla vera teoria dell' origine delle idee, perchè parla di un universale quiescente nell' anima, e dice che « « l' uno, in quanto è ente, è il principio della scienza » ». Ma conviene confessare che, ogni cosa bene considerata, rimane per lo meno dubbioso se Aristotele esca con ciò dal sensismo. Primieramente quell' universale quiescente è tradotto da Abramo de Balmes e da Giovanni Francesco Burana per « « universale costituito e stabilito nell' anima dalle molte memorie, o reminiscenze precedenti » », di maniera che non sia l' universale nell' anima che dia l' unità alle molte memorie, ma sieno le molte memorie che lascino l' unità, e per essa l' universale, nell' anima; e così pure la intende l' arabo commentatore. Ove è chiaro che il senso può lasciare, dopo le sensazioni, immagini nella fantasia, e più immagini associate fra sè e con novelle sensazioni possono produrre l' istinto di operare in modo che simuli un operare ragionevole, per una cotale aspettazione istintiva di casi simili, come noi abbiamo dichiarato rendendo ragione del perchè nell' operare dei bruti scorgasi ordine, somigliante a quello che si scorge nell' operare dell' uomo (1); ma non sarà mai che con ciò si spieghi un concetto universale, che è quello col quale la mente intuisce l' oggetto nella sua possibilità, mentre il fantasma non esce dalla realità delle cose passate e presenti, e nulla più produce che un' inclinazione e aspettazione di cose simili (senza idea di somiglianza). Quindi i commentatori più penetranti, come l' Aquinate, ritennero l' universale quiescente nell' anima esser cosa nuova, che qui introduce quasi di furto Aristotele, non l' unità dell' effetto fantastico, lasciato nell' anima dalle varie memorie, ossia immagini; ritennero che per quell' universale quiescente Aristotele intendesse veramente un principio esistente nell' anima, pel quale l' esperimento o l' effetto delle memorie, rimasto nell' anima, venga esteso all' avvenire e propriamente ai possibili, rendendosi così universale in atto. E se si considera che Aristotele pone sempre in potenza nell' anima ciò che poscia vi è in atto, non è punto improbabile che per universale quiescente egli intenda l' universale in potenza . Ma rechiamo le stesse parole del Dottore d' Aquino: « Hoc est enim quod dicit, quod sicut ex memoria fit experimentum, ita etiam ex esperimento, AUT ETIAM ULTERIUS, ex universali quiescente in anima »; ecco come l' universale quiescente, secondo S. Tommaso, non è l' effetto dell' esperimento, ma è la causa ulteriore dei concetti universali, che, posto l' esperimento, si formano, « quia scilicet accipitur ac si IN OMNIBUS », cioè in tutti i possibili, « ita sit, sicut est experimentum in quibusdam. Quod quidem universale dicitur esse quiescens in anima, in quantum scilicet consideratur praeter singularia, in quibus est motus; quod etiam dicit esse unum praeter multa, non quidem secundum esse », secondo la sussistenza, « sed secundum considerationem intellectus, secondo l' idea, qui considerat naturam aliquam, puta hominis, non respiciendo ad Socratem et Platonem; quod tamen, etsi secundum considerationem intellectus sit unum praeter multa, tamen secundum esse est in omnibus singularibus unum et idem non quidem numero, quasi sit eadem humanitas numero omnium hominum, sed SECUNDUM RATIONEM SPECIEI », che è di nuovo, secondo l' idea: « ex hoc igitur experimento, ET EX TALI UNIVERSALI PER EXPERIMENTUM ACCEPTO » (qui pare all' opposto che l' universale quiescente sia ancora l' effetto dell' esperimento, se pure questo universale non si debba qui prendere pel concetto universale in atto) « est in anima id, quod est principium artis et scientiae, etc. ». Secondo la quale interpretazione: Molte sensazioni fanno una memoria, molte memorie un esperimento, dall' esperimento e dall' universale quiescente, cioè in potenza, viene l' universale in atto. - Non è mestieri osservare che dalle sensazioni viene il fantasma, ed altresì una cotal ritentiva, un certo vestigio sensibile della sensazione avuta, il quale dirige l' animale a risuscitare il fantasma. Ma la memoria delle sensazioni e del fantasma esige l' intendimento, se per memoria s' intende le idee delle sensazioni avute, che rimangono in noi; si salta dunque dall' ordine del senso a quello dell' intelligenza, senza dare spiegazione di tal passaggio, o piuttosto senza accorgersi del gran salto. Dopo di ciò, il progresso del ragionamento è facile, perchè già l' universale è posto, basta dividerlo, ossia astrarlo. Tuttavia si riconosce che la natura dell' universale si è questa, che l' anima concepisca in tutti i possibili eguali ciò che esperimenta avvenire in alcuni reali; ma di nuovo non si dice come l' anima estenda la sua veduta a tutta la sfera del possibile, la quale sfera eccede infinitamente ogni numero di sensazioni. Si dice ancora che l' universale est unum praeter multa, è uno fuori dei molti. Ora i molti sono reali e singolari; l' anima, che intuisce l' universale, lo considera fuori di essi, non lo trova in essi; quell' universale è uno non secundum esse, cioè secondo il sussistere delle cose, perchè esso è fuori di questa sussistenza, praeter multa, essendo molti gli individui per la sussistenza che ha ciascuno in proprio, ma secundum considerationem intellectus, perchè è l' intelletto quello che vede come ciò che fu esperimentato può replicarsi all' infinito, cioè vede il possibile ; ma rimane sempre a spiegare che cosa sia questo possibile, il quale non si trova negli enti singoli, che agiscono nel senso; e questa è sempre la lacuna, che rimane aperta nel sistema aristotelico; ed è lacuna immensa, perchè taglia fuori tutta la questione. Egli distingue due uni , l' uno che è praeter multa, e questo non è sussistente, nè sensibile, ma solo intuìto dall' intelletto; l' altro, che è l' uno sussistente, secundum esse; e questo, dice, si trova in omnibus singularibus, si trova nei singolari, ma non è uno di numero, bensì uno di specie, unum et idem, non quidem numero, sed secundum rationem speciei . Ma così torna in campo la difficoltà, perchè la ragione della specie non è che cosa intellettuale, e però non può essere nei singolari, nei quali non vi è altro che la sussistenza, la quale è cosa in ciascun singolare separata, onde non fa un uno in più di essi, ma solo nella mente, che considera e paragona più singolari insieme. Il qual paragone non si può fare, se non raffrontando i singolari ad un tipo comune, che è l' idea, ossia la specie; onde l' uno è sempre nell' idea, e suppone l' idea (1). Donde proviene adunque l' idea? Ecco ciò che rimane tuttavia da spiegare; ecco il solito vano; ecco supposto quello che si cerca. E qui si scorge il vero fonte del sensismo di tutti i tempi, ed è il darsi a credere che l' uno sia doppio, cioè che egli esista in più reali, come sono singolari sensibili secundum esse, e che esista nell' intelletto secundum considerationem intellectus . Ma il fatto si è che niente di tutto ciò che è in un individuo reale forma unità con qualche cosa di ciò che è in un altro individuo reale; perocchè ciascun individuo reale è affatto diviso e separato dall' altro; ed essi sono più, senza che in alcun modo nella loro pluralità vi sia unità, eccetto che rispetto all' intelletto, il quale con una sola e medesima idea o specie li conosce. Onde l' uno secundum considerationem intellectus e l' uno secundum rationem speciei, non sono due uni, ma è lo stesso uno, espresso con due frasi che significano in fondo lo stesso. Ma poichè l' uomo parla sempre degli individui reali conosciuti, ed egli crede di parlare degli individui reali semplicemente, quindi egli si dà a credere che l' uno, che trova negli individui7cogniti di cui parla, sussista negli individui reali stessi, mentre non istà che nell' elemento conoscitivo, che egli vi ha aggiunto coll' atto del conoscerli, il quale elemento è l' idea o la specie, con cui li conosce. Illuso adunque Aristotele dall' errore di riporre negli individui stessi reali ciò che non è che negli individui7reali7conosciuti, diede a quelli ciò che è in questi, l' elemento conoscitivo, l' uno proprio della sola idea. E poichè gli individui reali si conoscono soltanto a condizione che sieno percepiti dal senso, quindi giunge a dire che il senso in questo modo fa l' universale, perchè fa la memoria, e questa l' esperimento, che diviene universale, e che perciò non vi è alcuna scienza innata, quasi abito ingenito. Se non che lo si vede titubante, perocchè non osa conchiudere, come dovrebbe stando alle premesse, che non vi sono abiti di scienza innati, ma solo nega gli abiti innati determinati : limitazione che fece affaticare i commentatori a darne chiara spiegazione, e non si poterono mai mettere d' accordo. Rechiamo di nuovo il testo che segue immediatamente al luogo addotto: [...OMISSIS...] . Nel qual passo il sensismo è manifesto; e tuttavia ancora dubbioso e vacillante, poichè si fanno venire dal senso gli universali, ma si dice però che il senso non può produrli in ogni anima, ma soltanto in quella che è atta a patir ciò, anima vero est talis, ut possit pati hoc; e, sebbene la parola patire sia oltremodo sensistica, perchè sembra che il solo senso agisca e che l' anima li riceva dal senso, come la cera riceve l' impressione dal suggello, tuttavia, qualora si confronti questo luogo con altri di Aristotele, in cui egli introduce nell' anima un lume, che chiama lume dell' intelletto agente, si scorge che egli non osa negare che nell' anima vi sia un principio formale degli universali; onde S. Tommaso commenta in questa maniera il passo allegato: [...OMISSIS...] . Laonde, sebbene nel testo di Aristotele non si esiga altro se non che l' anima sia tale ut possit pati hoc, tuttavia S. Tommaso vi aggiunge di più, che sia tale che possit agere hoc ; il che già è un allontanarsi dal sensismo aggiustando il testo nostro con altri testi pur del filosofo. Ora l' intelletto possibile altro non è che l' intelletto in potenza, ossia l' anima intellettiva in potenza; e l' intelletto agente non è che la virtù che ha quell' anima intellettiva in potenza di divenire anima intellettiva in atto, il quale atto le viene dal di fuori, cioè dalle sensazioni. Il dire poi che l' intelletto agente fiat intelligibilia in actu per abstractionem universalium a singularibus, conferma ciò che abbiamo detto circa l' errore, onde provenne come da universale fonte ogni sensismo, il che non è mai abbastanza considerato. Poichè l' uomo che astrae l' universale dal singolare, da quale singolare lo astrae? Certo da quello, che egli ha già concepito nella sua mente; perocchè sopra quei singolari, che egli non ha concepiti, non può esercitare l' operazione dell' astrarre, non avendoli presenti alla mente. Orbene, i singolari già da lui concepiti, onde astrae gli universali, sono forse nè più nè meno i singolari non concepiti? Questo è da vedersi, poichè la mente nel concepirli può avere aggiunto loro qualche cosa, che non hanno nella pura loro realità. E questo, che si doveva diligentemente vedere e cercare, fu dimenticato affatto dal filosofo; nè manco gli venne in mente che si potesse muovere cotal questione; eppure qui sta il tutto, qui sta quello su cui si disputa. Posto adunque lo stato della questione come deve essere posto, è facile a discoprire che i singolari, come sono nella mente, non sono puramente i singolari, come sono nella loro realtà fuori della mente; che anzi, entrando nella mente, hanno ricevuto per prima compagna la sensazione, e per seconda l' idea con cui si concepiscono, nella quale idea sta l' universale. Se noi dunque riassumiamo l' analisi delle cognizioni umane, fatta da Aristotele, e l' ordine in cui egli le distribuisce, troviamo: 1) che le cognizioni più remote dall' origine loro sono le conclusioni ; 2) alle quali debbono precedere nella mente i principŒ da cui provengono, onde nel primo dei « Fisici » dice che gli universali si conoscono avanti i singolari; 3) ma i primi principŒ sono quelli che non hanno mezzo con cui si dimostrino, riconosciuti evidenti tostochè se ne concepiscono i termini, dei quali il predicato è contenuto nella ragione del soggetto (giudizi analitici); 4) la questione adunque dell' origine delle cognizioni si riduce a sapere quali sieno i primi termini che si concepiscono dalla mente umana; perocchè, concepiti questi primi termini, tosto si hanno i primi principŒ, e da questi le conclusioni immediate, che sono principŒ rispetto alle conclusioni più remote. Ora, i termini che prima si conoscono, secondo Aristotele, sono l' ente e l' uno (1), che non differiscono se non secondo il rispetto sotto cui si considerano. Dunque tutta la questione dell' origine delle idee e delle cognizioni umane si riduce, secondo il medesimo Aristotele, alla questione: « Come si conosce l' ente? Come si conosce l' uno nei molti singolari? ». La questione in tal modo è posta ottimamente; ma questo stato della questione non è che il fondo della dottrina aristotelica, poichè in termini espressi non si trova così proposta in niuna parte delle opere dello Stagirita. Rimane dunque a vedere come la sciogliesse, e già l' abbiamo indicato; ma torniamoci sopra. Egli ricorre a due cause, al senso e alla natura speciale dell' anima, che ha la potenza di fermarsi a considerare nel sensibile il comune, il qual comune è l' universale; onde, nel secondo degli « Analitici Posteriori », dice che la cognizione sensibile è anteriore alla cognizione degli universali (1). Ma questo non è ancora, come già osservammo, spiegare l' origine delle cognizioni, poichè non basta il dire che l' anima abbia la potenza di formarsele, il che ognuno sa; conviene mostrare per quali passi questa potenza le vada producendo, e a quali condizioni ella possa produrle. Aristotele tenta anche di farlo. L' anima umana, viene egli a dire, è così disposta, che al ricevimento delle sensazioni ritiene quella parte che esse hanno di comune, il che egli chiama memoria ; paragonando più memorie, ritiene di nuovo quella parte che hanno di comune, il che egli chiama esperienza ; e così per via di astrazione giunge fino agli ultimi astratti ed ai principŒ. Ma lasciando stare che qui non è spiegato come nasca l' idea della sostanza, perchè le sensazioni non contengono la sostanza dell' ente esterno, ciò che vogliamo principalmente osservare si è che tutto questo discorso suppone che nel reale sensibile, o nella sensazione reale, sia già il comune, ossia l' universale ; poichè se non fosse, l' anima non si potrebbe fermare in esso ed astrarlo. All' incontro il vero si è che ogni reale esterno, ed ogni sensazione reale, non esce di sè, è tutta reale e finita; e niente di ciò che è reale è comune con un altro reale, con un' altra sensazione reale; dunque non vi è alcun comune, alcun universale nell' esterno reale, nè tampoco nella sensazione, che esso in noi produce, e che è reale anch' essa. Come adunque Aristotele credette di giungere a trovare il comune, l' universale, l' uno, l' ente nel sentito? Per quella illusione che abbiamo indicata, per la quale egli attribuì al reale puro ciò che appartiene al reale già concepito dalla mente. Per dirlo di nuovo, e non è mai detto abbastanza, il sentito, ossia il reale esterno a noi sensibile, dove vi è il comune, ossia l' universale, è il reale sensibile, tale quale esiste nella nostra mente, che l' ha percepito; poichè egli è l' oggetto, su cui si esercita l' astrazione, e l' astrazione non si esercita se non sull' ente reale sensibile già percepito. Conviene dunque spiegare la percezione, il che noi abbiamo fatto nel « Nuovo Saggio ». Dalla spiegazione ci risultò che la percezione intellettiva è « il reale sentito, in quanto dall' intendimento si vede nell' essere ideale come sua realizzazione ». Ciò posto, è chiaro che il reale sensibile percepito, su cui si esercita l' astrazione, contiene il comune e l' universale da cui si può astrarre, perchè esso non è il solo reale, ma il reale nell' ideale, è un oggetto reale7ideale, particolare7comune, e non reale e particolare solamente. Io dovrei qui venire alla conclusione, riassumendo il modo onde Aristotele intende che la mente, ossia l' intelletto, venga all' anima dal di fuori; ma non posso a meno di far prima l' intramessa di un punto di storia filosofica poco conosciuto; ed è la vera origine della celeberrima questione dei Reali e dei Nominali, e le loro vere sentenze. Esse si rinvengono diligentemente esposte nell' opera di Abelardo sopra Porfirio, poco innanzi da me citata, quale si trova nel Codice Ambrosiano. L' ente7reale7sensibile, percepito dall' intendimento, è l' oggetto, su cui si esercita l' astrazione; coll' astrazione si separa da esso il comune . Nasce tosto la questione, se il comune sia nelle cose o nell' intelletto. Si noti prima che l' uno, o il comune, o l' universale, è pressochè il medesimo; perocchè comune altro non significa se non ciò che è uno in più enti, e universale significa ciò che è uno in tutti gli enti possibili di una classe, o in tutti affatto gli enti. Ciò posto, Aristotele trovava l' uno, come abbiamo veduto, nelle cose reali, unum in multis, e diceva che questo era il principio dell' ente; e trovava pure l' uno nell' intelletto, unum praeter multa, e diceva che questo era il principio della scienza (1). Ora è chiaro che l' unum praeter multa per lui era il comune, astratto e separato dalle cose, l' idea specifica o generica della cosa, la cui sede è certamente l' intendimento, ed è principio della scienza, in quanto la scienza tratta teoreticamente delle cose e per astrazione. E` chiaro ancora che l' unum in multis viene ad essere il comune, riferito dalla mente alle cose singole reali percepite, perocchè il concetto della mente, uno com' è, si unisce e si lega in noi a ciascuna di esse, e in quanto è legato a ciascuna, noi lo chiamammo idea particolare ; e questo è il principio dell' arte, perchè l' arte è un abito di operare con ordine intorno ai particolari reali. Ma l' ordine, con cui opera l' arte, procede dall' averli percepiti colla mente, che li scorge simili o dissimili; infatti il simile è l' idea stessa intuìta in più cose reali, o per dir meglio più cose reali vedute nella stessa idea. Aristotele dunque poteva avere tutta la ragione nel distinguere l' unum in multis e l' unum praeter multa, e nel dire altresì che quello era il medesimo uno (1), se egli avesse inteso con ciò l' uno, cioè il comune nelle percezioni, e l' uno, cioè il comune nell' idea separata dalle percezioni. Ma l' errore suo era sommo e capitale, perchè non prendeva la cosa così, nè si accorgeva che il ragionamento andava bene fino che si parlava dell' ente reale concepito ; ma non andava più bene, tostochè si parlava del puro reale. Quindi egli errava, applicando al reale puro ed alla sensazione, che è anch' essa un singolare reale, ciò che non era vero se non rispetto all' ente reale percepito; e quindi errava altresì, facendo venire dal senso l' universale, il comune, l' uno; medicando poscia alquanto col dare all' anima una potenza di fermarsi al comune, che però riponeva nelle cose. Il quale errore di Aristotele debbo dire che non fu scoperto giammai da veruno, per quanto è a mia cognizione; e perciò la spiegazione degli universali divenne lo scoglio inevitabile della filosofia, e diede origine a perpetue, inconciliabili dispute, che hanno stancati ed allassati inutilmente tutti i secoli precedenti, e disamorati gli uomini della filosofia. Perocchè i primi commentatori ripeterono press' a poco quello stesso che disse Aristotele, ed ora riposero il comune nel reale sensibile, ora nell' intelletto, ora in entrambi, senza molta coerenza, nè sospettar guari la difficoltà. Poscia, meditandosi via più sulla cosa affine di dare un' espressione scientifica e precisa alla dottrina aristotelica, vi furono di quelli che si fermarono all' unum in multis, e dissero che i reali hanno veramente in sè qualche cosa di comune e di uno; onde fecero che l' uno appartenesse all' ordine della realità, e questi furono i Realisti . Ma tantosto si separarono fra di loro. Secondo l' esposizione di Abelardo, al suo tempo essi erano divisi in due fazioni; alcuni, tenendo fermo che il comune deve essere una realità, escludevano affatto da esso ogni elemento intellettuale, e dicevano perciò che il comune, ossia l' uno, che è nelle cose, era la materia, e che il proprio era la forma delle cose (1); sistema assurdissimo, perchè faceva sì che la stessa identica materia ricevesse contemporaneamente tutte le varie forme, in cui si presentano le cose. Così scambiavano la proprietà della materia colla proprietà dell' essere ideale, che veramente identico si attua e realizza in tutte le forme, ripristinando la materia intelligibile di Platone e dei filosofi di lui più antichi. Ma il sistema veniva ad avere due facce, perocchè parlando della materia reale, esso riusciva ad un materialismo assurdo, dove il comunissimo, cioè l' intelligibile, si faceva materiale; parlando poi della materia intelligibile, riusciva ad un idealismo del pari assurdo, dove la materia reale si cangiava in idea. La seconda fazione dei Realisti sosteneva che il comune è nei reali non secondo la materia, ma secondo la convenienza della similitudine. Questi aggiungevano in tal guisa un elemento intellettivo, ma non si accorgevano affatto di aggiungere qualche cosa all' ente reale; non si accorgevano di aggiungervi l' idea, dove solamente sta la loro similitudine, perchè veduti nell' idea dell' essere, ivi si commisurano e paragonano (2); anzi credevano di non aggiungervi se non l' atto, con cui l' intelletto li riguardava, e quindi stimavano che la similitudine, veduta in essi, fosse in essi come reali, e non come percepiti ; il quale era propriamente l' errore di Aristotele (3). Ma come avviene che quando le dottrine non sono chiare e nette, non tutti possono intenderle allo stesso modo, questa seconda fazione si spartiva nuovamente in due scuole; la prima delle quali sosteneva che l' universale, riposto nei singoli reali, risultasse dalla loro collezione, e non si potesse affermare di ciascuno (1); la seconda, che nella natura di ciascun singolo si contenesse (2). E prescindendo dall' errore capitale di sostituire il reale percepito al reale puro, entrambi avevano ragione; perocchè da una parte in ciascun reale percepito, essendovi l' idea in cui si vede, vi è il comune, essendo ogni idea un tipo comune di tutti i possibili, sotto il quale aspetto aveva ragione la seconda scuola. Se poi si considera che, finchè l' intendimento non ha che un solo reale percepito, esso non può accorgersi che vi giaccia il comune, ma se ne accorge tosto che, avendo più reali percepiti, ne fa il confronto, pare che solo nella collezione di più reali, fatta nella mente e dalla mente paragonati, si scorga il comune. La differenza sta dunque fra il comune in sè, che è nei singoli reali percepiti, e il comune conosciuto dall' uomo come comune, il quale non si osserva che nella collezione, nel rapporto di similitudine, che si vede avere ciascuno cogli altri, poichè la similitudine esige più enti fra cui ella passi. Ma posciachè non era conosciuto che l' oggetto reale, in cui si trova il comune, ossia l' universale, è un oggetto misto di reale e d' ideale, essendo un reale concepito; quindi entrambi i sistemi dei Realisti prestavano dei lati deboli, dai quali assaliti facilmente rovinavano. Il che diede luogo al sistema dei Nominali, cadente nell' eccesso opposto, giacchè se i primi si fermavano nel reale, senza accorgersi dell' ideale con esso congiunto nella mente nostra, i secondi neppur essi si accorgevano dell' ideale, ma vedevano che nel mero reale non si poteva trovare l' universale e il comune; e però s' appigliavano a dire che l' universale non era che un nome (1). Abelardo adunque, che ai Nominali appartiene, tolse a rifiutare tutte e due le scuole accennate di Realisti, in questa guisa. Quella di esse che riponeva l' universale in una collezione, esprimeva male il suo pensiero, che era certamente volto a indicare la similitudine, che in più individui si trova; poichè la parola collezione denotava un numero finito di individui reali, laddove il comune si trova in tutti gli individui possibili, i quali sono indefiniti di numero. Onde Abelardo argomentava: [...OMISSIS...] . Gli argomenti erano irrepugnabili. Abbatte pure la seconda scuola di Realisti con queste argomentazioni: [...OMISSIS...] . Abbattuti così i Realisti, Abelardo trae qual necessaria conseguenza il nominalismo: [...OMISSIS...] (2). E anche al nominalismo diede occasione Aristotele coll' avere insegnata piuttosto la dialettica che la logica, e presentate le idee e le argomentazioni vestite di vocaboli, ed esposti i nessi di questi più che di quelle; onde sul vocabolo materiale si pose più attenzione che sul suo significato invisibile e spirituale, in cui principalmente contemplava la mente di Platone. Quindi i predicamenti si chiamarono le cinque voci ; e i filosofi impacciatissimi a spiegare gli universali, sui quali ogni sistema presentava difficoltà insormontabili, finirono coll' appigliarsi del tutto ai vocaboli, come ad una tavola nel naufragio, quelli surrogando agli incomodissimi universali, e così eliminandoli affatto dalla filosofia. Toglie dunque Abelardo a dimostrare che un nome comune, fino che è solo, non presenta alcun oggetto all' intelletto, ma può significarne più d' uno; quando poi è determinato dall' unione con altri vocaboli, allora significa il particolare. Ma quando viene a ricercare quale sia la causa per cui s' impongono nomi comuni alle cose, egli allora è costretto a ritornare alla similitudine dei singolari (1), che gli rimane là dura e salda come uno scoglio, senza alcuna spiegazione (2), perocchè ella è appunto una di quelle cose così facili, così naturali, che si sogliono supporre dai filosofi e trapassare; ed esse intanto nascondono nel proprio seno un sistema intero. Dopo le quali cose è tempo che torniamo a noi, e che riassumiamo: Aristotele pose che l' uno, il comune (pressochè sinonimi) sia nelle cose, unum in multis ; che in quelle anime che sono fatte a ciò, come le umane, quando ricevono per mezzo del senso l' impressione delle cose, allora rimanga in esse il comune insieme col proprio; che le medesime anime, dotate di tale facoltà, fermino, pongano mente a quel comune, astraendo dal proprio, e così formino l' uno astratto , il comune, l' universale, che è nell' anima, unum praeter multa . Questo universale ridotto alle ultime astrazioni è l' intelletto, ossia la mente, la quale viene nell' anima dal di fuori (3). Ma posciachè l' anima non potrebbe acquistare questo intelletto, se non ne avesse la facoltà, dunque, dice Aristotele, l' anima ha l' intelletto in potenza (intelletto possibile); ed acquista poscia dal di fuori l' intelletto in atto, mediante la facoltà di fermarsi al comune ed astrarlo (intelletto agente), ammettendo questo principio, che intellectus in actu est intellectum in actu . Ecco tutta la teoria dell' anima di Aristotele; la quale anima rimane sempre un atto, una perfezione, una entelechia del corpo, dalla quale si divide la mente, quando si perde la cognizione del comune, e si acquista la mente, quando quella cognizione si riceve dai dati del senso; ma l' anima stessa non è dal corpo divisibile. Secondo questa dottrina l' anima non è corpo, ma è bensì atto di corpo, cosa appartenente al corpo, indivisibile dal corpo, esistente tutta in potenza in quello spirito, che afferma Aristotele trovarsi nel seme maschile, dal quale si sviluppa secondo le circostanze, e secondo che il corpo è meglio organato; perocchè lo svilupparsi fino a venirne l' intelligenza e l' intelletto in atto, è anche questo efficienza di un corpo idoneo a ciò, che egli dice più divino . Se egli la chiama forma , non è che dal corpo realmente la distingua; la chiama sostanza , ma per sostanza intende l' ultimo atto perfezionatore di una data materia, a cui non è dato l' esistere da sè, senza la materia di cui ella è la perfezione, ossia l' entelechia (1). L' errore di Aristotele intorno alla natura dell' anima consiste, dunque, nell' « aver fatto venire il comune dalle cose reali (dal senso che le percepisce e dall' anima atta a riceverlo), invece di sollevarsi ad intendere che il comune veniva più d' alto, che esso è essenzialmente idea ; nè può confondersi colla realità, perchè ogni comune infine si riduce nell' essere comunissimo, nell' essere ideale intuìto dall' anima per natura, il quale è forma7oggettiva di essa anima ». Quindi il maestro della scuola terminò la Filosofia naturale nell' anima, dicendo di lei, che [...OMISSIS...] ; laddove l' ultima delle forme che naturalmente si conoscono, conviene cercarla veramente più oltre, perocchè ella è l' essere ideale, per sè oggetto, immensamente all' anima superiore; la quale forma costituisce il nesso naturale dell' uomo col suo divino principio. Così il filosofo, per evitare l' errore di Platone che dava alle idee la sussistenza, rovesciò sgraziatamente nel suo contrario, confondendole colle realità contingenti, colla materia e coll' anima; per timore di non fare il volo d' Icaro, egli andò a nascondersi sotterra, e chiuse a tutti quel varco, pel quale solo l' uomo può salire sicuramente alle regioni dei cieli. Tali sono, o mio Giuseppe le sentenze principali degli antichi intorno alla natura dell' anima. Io procurai di esportele fedelmente, traendole dalle loro stesse parole, o dagli scritti più autorevoli che ce le tramandarono; il che se io abbia conseguito, non bramo altro giudice che te stesso. Nè mi contentai di riferirti i sistemi chiusi nella corteccia antica delle parole, ma tentai d' inciderla e romperla, benchè spesso durissima al taglio, per iscoprirne ed assaggiarne il midollo. Osai anche di porli al cimento; non però a imitazione di quelli che, stando in sullo appuntare sottilmente gli altrui concetti, non ne proferiscono e sostituiscono alcuno loro proprio; perocchè giammai non mi è sembrato convenevole il distruggere senza l' edificare, nè verecondo è l' animo di colui che toglie a correggere, nulla avendo fatto egli medesimo. Laonde coll' esporre alla pubblica censura quattro libri intorno alla natura dell' anima, io sperai avermi acquistato qualche diritto di scrivere questo a te, nel quale le opinioni altrui diligentemente raccolte, alla mia propria si paragonano e si cimentano. Le quali opinioni quante vigilie, quanti sudori, quante meditazioni non costarono ai più alti e nobili ingegni! Eppure cercando tutti la medesima cosa, per molti secoli, non riuscì loro di pervenire ad un accordo, quasi che mentre il vero unisce gli uomini, la scienza li divida. I moderni poi ricaddero sottosopra nelle medesime opinioni, che pure li partirono in vari drappelli; nè io so, per avventura, chi fra di essi abbia prodotto una sentenza, o nuova, o almeno migliore delle accennate. Se non che l' età dei padri nostri, per più di un secolo, depose fino l' animo d' investigare la natura delle cose, dichiarandola impenetrabile e deplorando la improvvida rozzezza degli antichi, che vi si travagliavano intorno; essa più colta, astenendosi dal cercare quella dell' anima, si contentò di descriverne leggermente le sensibili operazioni. Così, se le generose fatiche dell' antica filosofia non sempre e in tutto colsero il vero, rimasero almeno perenne monumento del sommo ardore, onde i primi sapienti tentarono definire la natura, l' indole, la condizione di questo spirito che ci avviva, ci nobilita, e ci innalza fino al soglio di Dio; cui si gloriò d' ignorare tutto quel secolo passato, di filosofi pieno, che docilissimo ed altero ubbidì e servì alla voce di Giovanni Locke e degli altri suoi maestri e duci, i quali si persuasero di rendere facile la sapienza, disaggravandola, quasi nave carica di preziosi tesori in procinto di affondare, da quanto ella recava di difficile, di peregrino, di sublime, gettandone il carico dai secoli accumulato, alle onde gonfie e spumose dei sensi e delle ribollenti passioni. Le quali ricchezze, posciachè alcuni dell' età nostra già procacciano di ripescare, io volli, come ho saputo, farmi loro compagno nella pietosa fatica, come in altri miei libri così in questo. Dove se le suppellettili e gli arnesi, che si traggon fuori e si ricuperano all' attenzione degli uomini, non sono tutti oro schietto - e il saggio, a cui io stesso di mano in mano li posi, chiaramente lo dimostra - tu considera però che nel traffico filosofico non è sola ricchezza la verità discoperta, ma ancora ogni studio ed ogni lavoro della mente per discoprirla; di che le capitali questioni pur solo intavolate, le meditazioni tendenti a scioglierle, gli abbagli stessi procacciano bene, avanzano ed arricchiscono il mercato della filosofia. Ma perchè, tu dirai, l' umana mente traviò cotanto dal vero, che la narrazione dei suoi pensieri pare doversi piuttosto appellare una narrazione dei suoi errori? Non ti riuscirà guari difficile ad intendere questo fatto costante negli annali di tutta la filosofia, se tu consideri che, quantunque la mente dell' uomo coi suoi atti diretti colga il vero - e così vien esso ricevuto e collocato quasi in arca sicura, nel fondo dell' animo - tuttavia alla riflessione, che vuole poscia leggere questo vero, il quale ella ha certamente davanti, sovente traballa la vista, e le avviene di leggere una parola per un' altra dello scritto; il che le incontra sventuratamente per la continua mobilità dell' immaginazione, che la dirige coi suoi fantasmi, seguendo le leggi animali, quando l' immaginazione dovrebbe essere diretta e governata; onde pare che la riflessione non dissomigli le più volte da un padrone cieco, guidato a mano da servo capriccioso e malfido. Così avviene che la riflessione, la quale produce la filosofia, volendo riguardare l' anima per conoscere che cosa ella è, di che natura e condizione, si creda veder l' anima, e veda tutt' altro, cioè ora veda la materia , ora il sentimento corporeo , ora l' idea , ora Iddio ; e così dica a sè stessa che queste cose sono l' anima. Perocchè di questo modo nacquero quelle prime quattro classi di sistemi tutti erronei intorno alla natura dell' anima, che ti ho esposti, i quali si possono chiamare dei materialisti, dei sensisti, dei falsi oggettivisti, e dei teofisti. Il quinto sistema poi, che fu l' aristotelico, evita in parte, come dimostrai, gli errori precedenti, essendosi accorto il suo autore che l' anima non poteva essere alcuna di quelle quattro cose, le quali sono termini del suo operare. Ma là dove Aristotele pose mano a spiegare l' intelletto, cadde egli stesso in un sistema di soggettivismo contrario ai quattro primi, e massimamente contrario a quello dei falsi oggettivisti; poichè, mentre questi volevano innalzare l' anima, dandole le divine qualità delle idee, egli degradò le idee dalla loro condizione altissima, riducendole al grado dell' anima stessa e delle cose soggettive. Che se nol disse espressamente, conseguita nulladimeno dal sistema di quel filosofo, il quale concede senza esitazione l' uno , ossia il comune , alle cose reali e soggettive; onde per Aristotele l' oggettivo, ossia l' ideale, non è più che un' appartenenza dello stesso soggettivo, ossia reale; poichè ogni reale, volendo ragionare dirittamente, al soggetto si riduce. Tu pertanto, confrontando ciò che noi abbiamo esposto circa la natura dell' anima colle altrui opinioni, giudica liberamente, guidato dal tuo proprio senno, se la sentenza nostra sia preferibile alle altrui, e se in questa parte abbiamo in nulla colle nostre meditazioni vantaggiata la filosofia, la quale non si vantaggia, senza prode della sapienza e della religione.

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