Psicologia Vol.I
E` singolare a vedere come le due parole Filosofia e Metafisica
non abbiano ancora ricevuto nell' uso un costante significato. Abbiamo
anzi, poco fa, uditi dei filosofi francesi sostenere che tali voci non
si possono definire. Il che se vero fosse, si dovrebbero sbandire dall' umano
linguaggio.
Ma posciacchè elle si usano, certo è che gli uomini vi annettono
qualche valore, benchè non costante. Della quale incostanza non sarà
inutile che vediamo qui la ragione.
Filosofia è vocabolo inventato dal fondatore della scuola italica.
Cicerone racconta che Leonte, re dei Fliasi, domandando a Pitagora
in quale arte facesse consistere il suo valore, n' ebbe a risposta, « sè non
sapere alcun' arte, ma esser filosofo »(1); dal qual tempo gli uomini, dati
alla ricerca delle più importanti verità, non più sapienti , «sophoi», come
per lo addietro, si chiamarono, ma filosofi, «philosophoi», cioè amatori e cercatori
di sapienza. Il quale di Pitagora fu un nobilissimo detto morale,
di cui si sentì universalmente l' intima verità. Imperocchè, chi è quell'
uomo che possa dirsi sapiente? Quante non sono le tenebre che circondano
l' umano intelletto! Quanta l' ignoranza che rimane al mortale, anche
dopo avere spesa tutta la vita in meditando! Di che lunghe fatiche,
di quali e quanti tentativi frustrati, sovente di quanti errori, non è il
frutto una minima particella di verità discoperta? A Dio solo adunque
il titolo di sapiente; ed è una menzogna, una superbia il darlo all' uomo.
Laonde Pitagora, collo svelare questa menzogna, col ribassare questa superbia,
pose la solida base all' investigazione del vero, la quale altra non
è che l' umiltà filosofica. Ma se questi nomi di filosofia e di filosofi diedero
un migliore indirizzo alla scienza ed ai suoi amatori, non determinarono
però la materia delle loro ricerche, e però rimase sempre, rispetto
a questa, vago e fluttuante il significato di quei vocaboli.
Andronico Rodio, ordinando le opere di Aristotele, collocò i
libri, che trattavano dell' Ente, dopo i fisici, e da tale collocazione sembra
venuto il vocabolo di Metafisica (da «meta» e «physis»), che vale dopo la Fisica .
Questa parola adunque, al pari di quella di Filosofia, non fu istituita a
significare alcuna materia, d' intorno alla quale si adoperi la mente, ma
ad indicare solamente il posto assegnato nella collezione delle Opere aristoteliche
ai libri ontologici.
Questa origine delle due parole Filosofia e Metafisica abbastanza
dimostra che nella loro prima istituzione non furono volte a significare
il soggetto determinato di qualche disciplina. Indi, allorchè si
adoperarono quali nomi di scienze, rimase libero il campo, a chi li usava,
di attribuirli a scienze diverse; e così accadde che ricevessero diversi significati.
Ma ora, nè si possono rifiutare vocaboli tanto in uso e tanto
solenni, nè può esser desiderato da persona di buon senno che essi continuino
a girar così liberi e senza legge, quasi vagabondi peregrini, di cui,
dovunque arrivino, s' ignora il nome e il costume.
D' altra parte, non avendo essi ricevuta l' istituzione loro dai
volghi, ma dalle scuole filosofiche, ai filosofi soli appartiene il determinarne
il senso; e il popolo è presto ad accettarne la legge, se essi pervengono
a mettersi sul loro uso d' accordo.
Mossi da queste considerazioni, noi abbiamo procacciato di fissare
il vocabolo Filosofia , definendolo « la scienza delle ragioni ultime »
(1). Abbiamo sentito il bisogno di determinare il valore di questa
parola, tostochè contemplammo l' unità della sapienza, di cui la filosofia
è studio ed amore. Perocchè è impossibile il vagheggiare coll' animo la
sapienza nella sua sublime unità, senza intendere che ella, appunto perchè
una, è suscettibile di un' unica definizione; nè senza questa, ella potrebbe
essere giammai scritta con metodo e forma scientifica.
Ma come fisseremo poi il valore della parola Metafisica ? Conviene
che esso sia tale, che il pubblico ad accettarlo non debba di molto
scostarsi dai concetti che egli vi aggiunge, che sia un cotal mezzo fra gli
opposti di essi, per modo che, rimovendosi il vago e l' incerto uso della
parola collo stabilirne uno fisso e immutabile, le rimanga quel significato
medio, intorno al quale, quanti l' adoperano, si vanno per così dire,
aggirando.
Nei tempi andati si usò talora la parola Metafisica a sinonimo
della stessa Filosofia; altri la presero come equivalente di Ontologia. Più
tardi, essendosi trovata la parola Ideologia a indicare la dottrina delle
idee, parve che questa scienza venisse così separata dal corpo della Metafisica,
e con essa insieme la Logica, che è quasi un corollario e un' appendice
di quella. Onde si videro molti trattati scolastici portare in fronte
il titolo di Elementi di Logica e di Metafisica , questa a quella contrapponendo.
Nè noi vogliamo metterci per altra via. E poichè l' Ideologia
(alla quale riduciamo pure la Logica ) è la scienza dell' essere ideale,
quindi la Metafisica , alleggerita di questa parte che versa intorno le idee,
ci rimarrà un vocabolo acconcissimo a significare quel gruppo di scienze,
le quali trattano filosoficamente della dottrina degli enti reali. Così si
avrebbero due gruppi di scienze filosofiche ben distinti, quello delle
scienze ideologiche , e quello delle scienze metafisiche .
Ma su questa definizione è mestieri più cose considerare.
Primieramente è a notarsi la differenza che passa fra la Metafisica
e la Fisica, la quale tratta pure di enti reali.
La Fisica si ripone impropriamente fra le scienze filosofiche; vi si
ripone a cagione del vago significato della parola Filosofia. Ma tostochè
il significato di questa parola è fermato a significare « la dottrina delle
ragioni ultime », rimangono escluse da essa la Fisica e la Matematica, e
in generale tutte quelle scienze che si dicono naturali, le quali raccolgono
i fenomeni e le leggi degli enti reali, non investigano le ultime ragioni.
Oltre di che, queste scienze non si estendono più in là degli enti
reali corporei. All' incontro la Metafisica non può cercare le ragioni ultime
degli enti reali, siccome deve fare perchè parte della Filosofia, se
non considera gli enti reali in tutta la loro universalità e nel loro intero
compimento, perciò se non ascende a quei principŒ supremi, a quelle prime
cause, che abbracciano gli enti reali tutti; chè le ragioni delle cose
non sono ultime, se non sono universalissime ed assolute. Onde all' unità
della Filosofia aggiungesi l' altra dote nobilissima della universalità (1).
In secondo luogo si deve guardarsi bene dal credere che,
quando noi definiamo la Metafisica « la dottrina filosofica dell' ente reale
e completo », ossia « la dottrina delle ragioni ultime dell' ente reale »,
vogliamo fare intendere che la Metafisica abbia per oggetto la sola realità;
perocchè la sola realità, precisa dall' idea, non è oggetto di scienza,
nè di cognizione, come abbiamo altrove mostrato (2); anzi ella non è
ancora ente, ma in via ad esser ente, «me on»; nè ella contiene ragione alcuna
di sè in sè medesima. Perocchè la ragione delle cose è sempre
un' idea (1); onde le cose reali diventano oggetto del sapere solo allora
che in relazione all' idea, per l' idea e nell' idea si apprendono, o si considerano.
La realità nuda è solo percepita dal sentimento, e non può essere
dall' intelligenza; non è dunque per sè oggetto al sapere (2).
Ora le definizioni, per noi stabilite, della Filosofia e della
Metafisica potrebbero ad alcuni parere contraddizioni. Se la Filosofia, si
dirà, è la scienza delle ragioni ultime, e se le ragioni sono sempre esseri
ideali, come si può dire che una parte della Filosofia, cioè quella che si
chiama Metafisica, abbracci i reali?
Rispondiamo che la Metafisica non abbraccia punto i reali (che sono
termini del sentimento), ma la dottrina filosofica dei reali.
La Filosofia è la scienza delle ragioni ultime; ora appunto
sotto questo aspetto le bisogna trattare dei reali. Conciossiachè è necessario
parlare dei reali nella dottrina delle ultime ragioni.
Primieramente, perchè ragione è parola che ha un significato relativo
a ciò, di cui si cerca la ragione; e ciò, di cui si cerca la ragione,
sono appunto i reali. Qui si vede che i reali, come tali, non costituiscono
il proprio oggetto della Filosofia, ma solamente l' occasione e la condizione;
la Filosofia tratta di essi, perchè tratta delle loro possibilità e delle
ultime loro ragioni sufficienti.
In secondo luogo, perchè la ragione prima esige un reale coessenziale
ad essa, come fu già da noi dimostrato (3), e però ella non si può
conoscere a pieno, senza la dottrina di quella prima realità che la costituisce
non come ragione, ma come ente completo ed assoluto, che contiene
la ragione delle cose tutte nel suo seno. Ora di questa assoluta realità
e sussistenza, la Filosofia deve trattare come del suo proprio oggetto,
come del compimento di questo oggetto.
Dopo di che, noi possiamo sottoporre alla critica tre delle
principali definizioni, date fin qui della Filosofia.
Alcuni non sanno uscire dalla realità, e a questa sono legati necessariamente
i materialisti, pei quali non vi è veramente Filosofia se non
negativa, o più veramente distruzione della Filosofia. E qui riesce la definizione
di Hobbes, che fa consistere la Filosofia nella cognizione degli
effetti e dei fenomeni per mezzo delle cause e della generazione; e nella
cognizione delle cause e della generazione per mezzo degli effetti e dei
fenomeni. Ora, poichè dai soli fenomeni e dai soli effetti, senza l' argomento
che parte dall' oggetto ideale, non si possono conoscere che le
cause prossime, o più veramente le leggi , secondo cui le cose sensibili
si mutano, quindi la Filosofia con questa definizione è distrutta, e rimangono
solo la Fisica e le scienze naturali, che usurpano il nome di Filosofia.
La seconda definizione erronea è quella dei soggettivisti, i
quali, riducendo ogni oggetto ideale ad essere una modificazione dello
spirito umano, senza più definiscono la Filosofia « la scienza del pensiero
umano ». Tale è la definizione di Galluppi (1). Ma il pensiero
umano non è che lo strumento, col quale la Filosofia trova e contempla
i suoi oggetti; nè questi, fra i quali Dio è il massimo, si possono menomamente
ridurre al pensiero; e sarebbe manifestissimo assurdo il dire che
la scienza di Dio, che appartiene certamente alla Filosofia, d' altro non
tratta che del pensiero umano.
La terza definizione erronea, che pecca nell' eccesso contrario
alle due prime, è quella dei Platonici, i quali fanno le sole idee esser
l' oggetto della Filosofia, e ripongono l' officio del filosofo unicamente in
contemplare l' idea dell' ente , «he tu ontos idea» (2), quando anzi l' idea dell' ente
deve scorgere la mente umana a trovare l' ente realissimo ed assoluto,
in questo terminando ogni sua speculazione, non per via d' idea, ma
per via di affermazione e d' intuizione.
Alla quale definizione platonica si riduce la definizione wolfiana;
perocchè Wolfio dice la Filosofia essere « la scienza dei possibili »; e
quindi per ottenere che Iddio diventi anch' esso oggetto della Filosofia, si
riduce a sostenere che la Filosofia tratta della possibilità intrinseca di
Dio, quando certamente ella tratta dell' essere divino, e non della sua
mera possibilità. Senza di che le possibilità non costituiscono affatto le
ragioni delle cose per intero, ma sono un elemento di esse ragioni; giacchè
le cose contingenti, poniamo, non esistono solamente perchè possibili,
ma sì perchè, essendo possibili, una prima causa reale le ha create.
Torniamo ora alla Metafisica. Fissato il valore che noi intendiamo
dare a questa parola, vediamo in quali scienze speciali essa si divide.
Le scienze filosofiche si possono ordinare in varie guise, secondo
gli aspetti nei quali esse si considerano, e dai quali si prende la norma
della loro distribuzione; e noi stessi abbiamo recati esempi di diverse
maniere, in cui la Filosofia può comodamente partirsi (1).
Una delle partizioni, da noi presentate, fu quella che distingue tre
gruppi di scienze filosofiche, che chiamammo scienze d' intuizione, scienze
di percezione e scienze di ragionamento (2). Non è già che in alcuna
scienza filosofica manchi il ragionamento; ma quella denominazione è
tratta dall' atto dello spirito, col quale la scienza riceve il suo oggetto.
Conciossiachè ad alcune scienze filosofiche viene somministrato l' oggetto
dalla sola intuizione, ad altre viene somministrato dalla percezione intellettiva,
ad altre finalmente dal ragionamento. Ora le prime, quelle
che non abbisognano d' altro atto dello spirito per avere il loro oggetto
che dell' intuizione , sono le ideologiche. Rimane adunque che la Metafisica
appartenga alle scienze di percezione e di ragionamento. Ma le abbraccia
ella tutte?
No; perocchè se la Metafisica è la dottrina filosofica dell' ente
reale, ella non può abbracciare che il ramo delle scienze ontologiche, che
trattano dell' ente reale quale egli è, non quello delle scienze deontologiche
( «to deon», il conveniente, il necessario), che trattano dell' ente reale,
quale deve essere. Quindi, non senza buona ragione, da alcuni si piglia
la parola Metafisica siccome sinonimo di Ontologia (3).
Tuttavia la relazione della Metafisica colle scienze deontologiche
è oltremodo intima; giacchè la dottrina che dimostra quale sia
l' ente, è il fondamento di quella che indaga quale deve essere l' ente acciocchè
sia perfetto. L' apice poi della Deontologia è l' Etica, o Diceosina,
od Osiologia, o con altro nome si chiami, perocchè l' ente reale non è
completo, se non tiene nel proprio seno la forma morale, che è completrice
e perfezionatrice dell' ente (1), e però la scienza, che dimostra
quale deve essere l' ente morale, l' Etica, è l' ultima parola della Deontologia;
e però ella è fra tutte sommamente filosofica.
Dal che noi possiamo raccogliere più distintamente quale sia
quel gruppo di scienze, che colla parola Metafisica denotiamo, e contro
a quali altri gruppi ella si parta. Perocchè, da quanto osservammo, la Filosofia
intera si può anche distribuire in tre gruppi così: scienze ideologiche,
scienze metafisiche, scienze deontologiche .
Nella quale distribuzione le ideologiche sono quelle che hanno dall'
intuizione sola il loro oggetto; le metafisiche abbracciano le scienze di
percezione e il primo ramo di quelle di ragionamento, cioè le ontologiche;
finalmente il gruppo delle scienze deontologiche comprende l' altro
ramo delle scienze di ragionamento.
E qui apparisce chiaramente quale posto occupi la Metafisica
nell' ampia regione della Filosofia; ed altresì in quali sue membra ella decorosamente
si distingua. Perocchè noi abbiamo detto che le scienze di
percezione sono la Psicologia e la Cosmologia , e che il primo ramo delle
scienze di ragionamento abbraccia l' Ontologia in senso stretto , e la Teologia
naturale . Queste adunque sono quelle quattro, che costituiscono il
gruppo delle scienze Metafisiche.
La quale divisione, quantunque sembri naturale ed elegante,
tuttavia noi abbiamo creduto più confacente all' intento nostro di allontanarcene
alquanto, riducendo le tre ultime in una sola scienza, che abbiamo
intitolata Teosofia . Credemmo con ciò di aiutar meglio l' intelligenza
degli studiosi, di rendere più complesso e magnifico l' argomento,
risparmiando alle loro menti o agevolando la fatica delle astrazioni, alla
quale vedemmo coll' esperienza venir meno molti intelletti. Nè questa
grande sintesi è per avventura arbitraria, ma ci è somministrata dalla
natura della cosa.
Perocchè, se si considera la Cosmologia, che è la dottrina del
mondo, ella può essere trattata in due modi: cioè fisicamente e metafisicamente;
i quali due modi si confusero fin qui da quelli che la esposero.
E veramente la descrizione del mondo fenomenale e delle sue leggi costanti
appartiene al gruppo delle scienze fisiche, e non a quello delle filosofiche.
Acciocchè a queste appartenga la dottrina del mondo, conviene
considerarlo nelle sue ragioni ultime, le quali si possono, o cercare in
lui stesso, o nella sua causa, che è Iddio creatore. Considerato il mondo
in sè stesso, noi lo vediamo composto di materia, di anime sensitive e
di intelligenze. Ma la materia altro non è che il termine dell' anima sensitiva,
dalla quale non si può dividere realmente, senza annullarla. Acciocchè
dunque si possa pur concepire la materia per quello che essa è,
conviene considerarla congiunta all' anima che la sente; e questo già si
fa nella Psicologia. Poichè, come la materia ha bisogno di un principio
senziente, a cui sia termine, senza di che ne perisce il concetto, così
l' anima senziente ha bisogno della materia, di cui sia il principio, senza
di che ne perisce pure il concetto. Onde l' anima sensitiva non è un ente,
se non a condizione che l' atto suo termini nella estensione materiale,
ovvero corporea; e però la Psicologia così la considera. Che se si volesse
distaccare al tutto la materia dal sentimento, a cui si riferisce, che mai
ce ne rimarrebbe se non una pura astrazione, un ente incipiente che non
sussiste, e, come acconciamente la chiamarono già gli antichi, un non7ente?
Ed è questo che apparirà manifesto nella trattazione della Psicologia.
La dottrina del mondo, adunque, in quanto investiga l' ultima ragione
della esistenza di lui in lui stesso, la ragione cioè che lo costituisce
un ente concepibile, procede indivisibilmente unita colla scienza dell'
anima. In quanto poi ella investiga l' ultima ragione del mondo nella
sua causa dal mondo diversa, manifestamente appartiene alla scienza che
tratta di Dio, unica causa del creato.
Lasciata dunque al fisico, al quale appartiene, quella parte
di Cosmologia, che descrive i fenomeni offerti ai sensi dalla materia e le
loro leggi, rimane che l' altra parte, che cerca le ragioni dell' universo, e
che sola è veramente filosofica, quindi sia ripetuta a sè dalla Psicologia,
quinci sia a sè rivendicata dalla Teologia Naturale.
Ma che avverrà poi della Ontologia propriamente detta? Ella
tratta dell' ente nel suo complesso e nel suo compimento. Ma intorno all'
ente, pigliato in questa universalità, la mente umana può speculare in
due guise, cioè per via di astrazione, e per via di ragionamento ideale7negativo.
Il ragionamento ideale7negativo la conduce all' Essere supremo,
all' assoluto, realissimo e completissimo essere. Il ragionamento astratto
all' opposto, le fa trovare una teoria astratta dell' essere, applicabile ad
ogni ente, sia contingente, sia necessario; perocchè quest' opera dell' astrazione
mira a conseguire questo intento, di sapere le condizioni, le qualità,
le doti comuni ad ogni ente, senza le quali niuna cosa può ricevere
il nome ed il concetto di ente, ed ogni cosa tanto meno quel nome e quel
concetto riceve, quanto più ha di esso difetto. Ora questa dottrina così
astratta non ha veramente per oggetto un ente reale, e però non può
costituire alcuna scienza metafisica, secondo la data definizione. D' altra
parte qual' è il valore di una tale dottrina? quale l' utile scopo? Non altro
che quello di far la via all' intendimento, ond' egli possa salire a conoscere
quale finalmente sia l' ente assoluto, cioè quello in cui tutte le condizioni
dell' ente e pienamente e compiutamente si avverano, distinguendo
da esso gli enti relativi, che di quelle condizioni partecipano, e solo di
alcune, non avendone in proprio nessuna. In una parola l' Ontologia, così
considerata, altro non è che una grande prefazione al trattato di Dio.
Perciò a questo noi intendiamo congiungerla, dal quale solo riceve la
sua pienezza, e pel quale solo giunge al suo scopo.
Rimangono in tale guisa due enti reali, e secondo la loro condizione
da noi conosciuti, ad oggetti della Metafisica; e questi sono lo
spirito finito e lo Spirito infinito , i quali danno materia a due scienze filosofiche,
che furono denominate Pneumatologia e Teologia Naturale .
Esporremo noi dunque la Pneumatologia in tutta la sua estensione?
Questa parola, esprimendo la scienza degli spiriti in generale,
estende la trattazione a tutte le maniere di spiriti creati, e però abbraccia
l' anima umana non meno che le intelligenze separate. Ma noi ci limitiamo
a trattare dell' anima, ad esporre la Psicologia, e ciò per le seguenti
ragioni.
Niuno spirito cade sotto la nostra naturale esperienza se non
l' umano. Il filosofo dunque non può trattare degli angeli se non per via
di mero ragionamento, sfornito della percezione. Con un tale ragionamento
egli può proporre a sè stesso tre questioni: se vi sono intelligenze
separate, onde procedono, quale è la loro natura; l' esistenza dunque, la
causa, l' essenza conoscibile sono le tre parti dell' Angelologia . Ma l' esistenza
non può provarsi che argomentando dalla loro convenienza cogli
attributi del Creatore, cioè della loro causa. L' essenza conoscibile non
può indursi che per analogia di quanto si conosce dell' anima, che solo
cade nell' esperienza; e però non si può parlare della natura delle intelligenze
separate, se non dopo aver conosciuto quanto l' esperienza ci somministra
dello spirito umano, cioè dopo avere esposta la Psicologia. Riputiamo
adunque che la dottrina degli angeli non possa costituire da sè
sola una compiuta scienza filosofica, e però noi la esporremo insieme
colla dottrina del mondo, di cui gli angeli sono una parte, parlando dell'
Essere supremo.
In tal maniera questa dottrina dell' Essere supremo presenta
tre trattazioni, o parti ben distinte, ma intimamente connesse: la prima
è una cotale amplissima introduzione, e ragiona dell' essere in universale,
a quel modo che lo concepisce l' umana mente per via d' astrazione,
e risponde a quella scienza, che si suole chiamare Ontologia ; la seconda
tratta dell' Essere assoluto per via di ragionamento ideale7negativo, e risponde
alla Teologia Naturale ; la terza è una cotale appendice, che
disputa delle produzioni dell' Essere assoluto, e risponde alla Cosmologia .
Al complesso di tutta questa dottrina noi diamo il titolo di Teosofia .
Ma non vogliamo tampoco obbligarci a tenere rigorosamente separate
quelle tre parti; anzi, seguendo il metodo didattico più che altro, ci proponiamo
di distribuire le notizie in quel modo, che meglio le renda agevoli
ad ogni lettore, premettendo quelle che diano lume alle susseguenti,
senza punto attendere se elle poi siano ontologiche, o teologiche, o cosmologiche.
Di che anche la scienza ritrarrà unità maggiore.
Finalmente, a corona e quasi a fastigio di tutta la Metafisica,
noi aggiungeremo un trattato separato dell' ottimo e sapientissimo governo
del mondo, che sarà inscritto Teodicea ; il quale trattato è anello,
che congiunge intimamente le scienze filosofiche colla scienza della verità
rivelata, e particolarmente coll' Antropologia soprannaturale .
La mente umana divide anche ciò che nell' entità è indiviso,
poichè ella cogli atti suoi non costituisce l' entità, ma solo la conosce; e
la conosce in quella parte, o da quel solo lato, a cui ella limita il suo
sguardo, la sua attenzione . Le leggi dell' attenzione umana sono adunque
quelle che spezzano e limitano l' ente, in quanto si fa oggetto di lei, ma
non ispezzano e non limitano perciò l' ente in sè stesso; il quale, perduta
la sua unità, già più non sarebbe. Quindi gli oggetti dell' attenzione così
limitati, i quali si dicono anche enti mentali , sono bensì porzione dell'
oggetto di una scienza, ma non sono il compiuto suo oggetto. L' oggetto
di una scienza deve essere dunque un ente intelligibile (1) nella sua
unità; e uno dei maggiori fonti degli errori si deve ripetere dall' essersi
divise le scienze secondo gli enti mentali (1), non avuto riguardo all'
unità degli enti in sè stessi, dandosi così corpo ad astrazioni, ponendo
divisione nella natura delle cose, dove ella non è, creandosi una quantità
di chimere; poichè, ogniqualvolta si piglia un essere mentale per un
essere compiuto, la mente s' è fabbricata una chimera.
Si distinguano adunque le scienze complete dalle scienze incomplete ;
le prime hanno per loro oggetto un ente intero, considerato
nella sua specie, e però si dividono come si dividono gli enti stessi; le
altre hanno per loro oggetti le speciali maniere di veder l' ente, ossia altrettanti
enti mentali .
Alla prima divisione delle scienze appartiene quella grande
sintesizzazione del sapere, di cui si sente il bisogno da molti, senza trovare
la via di soddisfarvi.
Alla seconda spetta più propriamente quell' analisi, che aggiunge
tanta luce alle cognizioni umane, anatomizzandole; ma che diviene facilmente
pericolosa, perchè gli ingegni che la seguono esclusivamente,
trascurano la sintesi; e così fanno in brani il corpo vivo dello scibile,
gli tolgono la vita, e poscia nelle morte membra veggono coll' immaginazione
altrettanti corpi perfetti, oggetti ognuno di essi d' una scienza a
loro giudizio perfetta, ma veramente mozza e cadaverica.
Certo, di questo male non ha colpa alcuna l' analisi , ma il suo
abuso; come non ha colpa la sintesi , ma il suo abuso, dell' oscurità e
spesso ancora della confusione d' idee, che s' incontra nelle trattazioni
di quei filosofi, che, ignari del metodo analitico, o ad esso avversi per
sistema, parlano in un modo così intero e complicato, che il loro discorso
è come un terreno sodo, non rotto mai da vomero o zappa (2).
Laonde ogni pericolo sarà evitato nella classificazione delle
scienze, se le scienze incomplete si riguarderanno costantemente per quel
che sono, cioè per altrettante membra delle complete ; di guisa che colui,
che tratta una di quelle, non pretenda svolgere tutta intera una scienza,
ma solo lavorarne una parte; e così lavorandola, avrà l' occhio all' intero
corpo della scienza (3).
L' uomo è uno, e però la scienza dell' uomo è pure una.
Ma quest' uomo fu spezzato dall' astrazione, e se ne fecero molte
scienze.
Se quelli che le trattarono, le avessero riconosciute incomplete, ed
avessero tenuto innanzi agli occhi l' unità dell' uomo, niun danno ne
sarebbe riuscito; purchè non fosse poi mancato colui, che avesse raggiunte
le membra ed illustrata l' unità umana, porgendo la teoria della
scienza completa dell' uomo. Ma questo io non veggo che sia stato ancor
fatto, almeno dai moderni.
I fisiologi (1) ed i psicologi si sono bipartito l' uomo senza
pietà; e ognuno credette d' averlo tutto; quindi i primi l' hanno sovente
fatto un bruto, i secondi un angelo. Noi vogliamo riunire quest' uomo,
così miseramente ammezzato.
Non parlo degli anatomici. L' anatomia non è una scienza dell'
uomo, neppure incompleta, perchè il cadavere non è parte dell' uomo;
essa appartiene a tutt' altro gruppo di scienze, e non può aspirare che
ad essere sussidiaria alle scienze, che hanno per oggetto l' uomo.
La Storia dell' umanità non è propriamente scienza; ella è
storia; tuttavia somministra una quantità di fatti preziosi alla teoria
della natura umana. Anch' essa dunque appartiene alle scienze sussidiarie
della scienza dell' uomo.
Ma quale sarà il nome più conveniente da darsi alla scienza
dell' uomo?
Noi l' abbiamo già nominata « Antropologia »; l' etimologia della parola
giustifica questa denominazione.
Ma che scienza sarà in questo caso la Psicologia ?
Secondo l' etimologia, questa parola suona scienza dell' anima .
Ora l' anima non è tutto l' uomo, se per uomo s' intende la natura
umana, o se si considera l' anima divisa dal corpo. In tal caso la Psicologia
è una di quelle scienze, che abbiamo detto incomplete;
e perciò in qualche luogo noi stessi asserimmo la Psicologia dover essere
una parte dell' Antropologia, a quel modo come l' anima è una parte
dell' uomo.
Tuttavia se l' anima si considera unita al corpo, se si considera in
tutte le sue relazioni col corpo, e se si prende la parola uomo a significare
il soggetto umano , in tal caso si può dire che l' anima sia tutto l' uomo,
poichè ella è il soggetto. Si può dire poi in ogni senso che nell' anima
unita al corpo tutto l' uomo si contiene; poichè nel sentimento dell' uomo
(e il sentimento appartiene all' anima) cade anche l' estensione (1), come
suo termine e sua materia; sicchè è impossibile parlare compiutamente
dell' anima, principio del sentimento, senza parlare di tutto intero l' uomo.
Ciò che è fuori intieramente dell' anima è fuori dell' uomo, e se il
corpo appartiene all' uomo è solo in quanto egli è nell' anima (2). Laonde
la distinzione fra la Psicologia e l' Antropologia sembra priva di scientifica
utilità. Non dubiteremo noi dunque di assegnare lo stesso posto
alla Psicologia ed all' Antropologia nell' albero delle scienze filosofiche,
considerando questi come due nomi della stessa scienza dell' uomo, anzichè
come nomi di scienze diverse.
Laonde il presente trattato, benchè inscritto del titolo di « Psicologia »,
non sarà che una cotale continuazione dell' « Antropologia » già
pubblicata, nella quale lasciammo avvertitamente molte lacune, volendo
allora esporre solamente quelle notizie antropologiche o psicologiche,
che al servizio delle scienze morali ci sembravano necessarie.
Ma qual' è la relazione della Psicologia e dell' Ideologia?
I rudimenti di tutte le cognizioni umane sono il sentimento e l' essere
intuìto .
Sotto la denominazione di primi rudimenti intendo ciò che in qualsivoglia
cognizione umana si trova, coll' attenzione della mente, essere di
tal indole, che non viene dedotto da altra notizia precedente per via di
raziocinio, ma è dato immediatamente dalla natura.
Ora, dati immediatamente dalla natura sono il sentimento e
l' idea.
Il sentimento è dato nella natura dell' uomo; non è dedotto, nè deducibile
per opera di raziocinio da alcuna cognizione precedente; anzi
esso neppure è cognizione, ma diventa materia di cognizione, allorquando
l' intendimento voltosi a lui, col suo atto intellettivo lo coglie, e
così lo rende suo oggetto.
L' idea , cioè l' essere in quanto è oggetto dell' intuizione
mentale, è parimenti dato all' uomo da natura, non potendosi
dedurre da nessun raziocinio, nè da nessuna astrazione, perocchè ogni
raziocinio ed ogni atto d' astrazione lo suppone.
Il sentimento ha natura soggettiva, l' essere intuìto è essenzialmente
oggetto; perciò non può essere dato a niun soggetto che come oggetto , altrimenti
cesserebbe d' essere quello che è, non sarebbe più l' essere intuìto.
Essere dato ad un soggetto (per esempio, al soggetto umano) come
oggetto, equivale appunto ad essere intuìto; e con tale intuizione è creata
l' intelligenza; perocchè l' intelligenza non è altro che l' intuizione dell'
essere, l' unione dell' oggetto al soggetto , nella quale quello rimane necessariamente
distinto da questo (1). Di che consegue che ciò che è oggetto
per essenza (2), l' essere, è la forma di ogni intelligenza, la prima
cognizione, la parte formale della cognizione.
E` per questo appunto che noi dicemmo che tutto lo scibile umano
parte da due postulati , i quali sono: che « « sia noto l' essere » », e che « « sia
data l' esperienza del sentimento, di cui si ragiona »(1) ».
Di che seguita, parimenti, che tutto quello che sa o che può
saper l' uomo, si divide in due parti: 1 in ciò che è dato all' uomo da
natura; 2 e in ciò che l' uomo trae, e deduce col raziocinio, da ciò che
gli è dato da natura.
Il raziocinio infatti, di cui l' uomo fa uso, non può applicarsi
a quanto sta fuori al tutto dell' uomo, ma solo a quanto è nell' uomo; e
niente è nell' uomo se non, di nuovo, per raziocinio o per natura. Rimane
che il raziocinio non trae finalmente le sue conseguenze da altro,
se non da ciò che è dato all' uomo da natura. Ora non è dato all' uomo
da natura se non il sentimento e l' intuizione dell' essere . Tutte le cognizioni
adunque non sono che lo svolgimento di questi due principŒ: questi
sono i soli materiali, con cui si fabbrica l' edifizio dello scibile. Ciò
che in quei principŒ non fosse, non si potrebbe svolgere da essi; essi contengono
adunque in germe tutte affatto le cognizioni umane; le contengono
indistinte; il raziocinio non fa che distinguerle; il distinguerle pare
un crearle dinnanzi agli occhi della mente. L' essere adunque, in quanto
è oggetto della mente, ed il sentimento sono i due rudimenti di
tutte affatto le umane cognizioni.
Ora l' Ideologia tratta dell' essere, oggetto della mente; la Psicologia
tratta dell' anima, che è il principio del sentimento umano. Queste
due scienze sono adunque quelle che somministrano i rudimenti di
tutte le altre. Tutte le altre si risolvono finalmente in queste due. Quando
si domanda all' uomo: « onde affermate la tal cosa, onde la conoscete
voi? »; egli potrà rispondere: « l' affermo, la conosco, perchè la ho dedotta
col raziocinio da quest' altra »; incalzato: « onde conoscete quest' altra? »,
potrà dire ancora: « per raziocinio da un' altra », e così via,
fino a tanto che sarà pur costretto di pervenire ai primi dati della natura;
cioè l' ultima cosa nota, a cui egli si riferirà, sarà necessariamente l' essere
intuìto dalla mente, o il sentimento; giunto a tali estremi, non v' è più
deduzione possibile; alla domanda: « Onde conoscete l' essere? », ovvero:
« Onde avete il sentimento? », egli non può rispondere altro se
non: « io intuisco l' essere, e non lo deduco; io sento, e questo sentire
non è conseguenza d' alcun raziocinio, anzi neppure d' alcuna cognizione ».
Ed è perciò che in questi due ultimi rudimenti di tutte le
umane notizie, è uopo cercarsi ancora la loro giustificazione, la loro propria
certezza; e se quei primi dati sono certi, le altre notizie, che in
quelli si trovano per raziocinio, sono pure certe, contenendosi i principŒ
stessi del raziocinio nell' idea. Quindi noi abbiamo dimostrata la certezza
di tutto il resto dello scibile umano, dalla certezza di quei due suoi inconcussi
fondamenti; abbiamo anzi dimostrato che non può cadere in
essi errore alcuno; che l' uomo è rispetto ad essi infallibile, perchè non
dipendono dalla sua volontà, ma dalla sua natura (1).
Se fosse vero quello che mi dite, l' uomo non potrebbe più
conoscere cosa alcuna delle cose reali, che non cadono sotto i sensi, perchè
le cose reali non sono comprese nell' essere intuìto dalla mente, e
colla supposizione nostra neppure si trovano nel sentimento. -
Rispondo distinguendo l' essenza (2) delle cose reali dalla loro realità .
Quanto alla loro essenza, tutte le cose reali, anche quelle che non
cadono sotto i sensi, convengono nell' entità , perocchè se non fossero in
qualche modo enti, se non avessero alcuna entità, sarebbero nulla, e non
cose, nè cose reali. Conoscendo dunque noi per natura che cosa sia essere,
attingiamo dall' essere qualche notizia dell' essenza di tutte le cose,
appunto perchè l' essenza dell' essere è in qualche grado e in qualche modo
comune a tutte. Ma non possiamo certo conoscere una cosa reale, non
possiamo cioè affermare che una cosa sussista, se non abbiamo qualche
indizio che ce l' attesti, per esempio la testimonianza di persona, che vide
o sentì quella cosa sussistente. Ora la detta testimonianza non può essere
comunicata ad un uomo se non per via d' un sentimento, come sarebbe
per la parola, o, se si vuol ricorrere ad un miracolo, per una rivelazione
interiore di Dio, che ancora si riduce in un sentimento. Ma
lasciando la rivelazione interna (a cui si può per altro applicare un
ragionamento simile), e attenendoci all' esempio della parola, colla quale
una persona ci attesta l' esistenza d' un ente che non cade sotto i nostri
sensi; la sensazione della voce, che riceviamo coll' organo dell' udito, non
è per vero un sentimento della cosa reale, di che ci si fa conoscere la
sussistenza, ma ella è tuttavia un sentimento , il quale ci assicura che la
persona che parla, sa che quella cosa esiste; la cognizione poi che noi
abbiamo della veracità di essa, ci è sicura prova che è vero quanto ella
ci dice, e però che la cosa da lei affermata sussiste. Ora poi la cognizione
stessa della detta veracità, noi l' abbiamo per via di altri sentimenti, cioè
per via di esperienze, che caddero sotto i sensi nostri, o immediatamente,
o mediante altri segni ed indizi. Sicchè finalmente è da concludersi che
noi possiamo conoscere ben anche la sussistenza d' un ente, che non cade
sotto i nostri sensi; ma non possiamo però conoscerla senza avere un
qualche sentimento, che ci dia indizio e prova di sua sussistenza.
Io non vi domanderò come si possano dare indizi o segni di
cose, perocchè so quello che mi rispondereste: cioè che le cose sono connesse
fra loro, e che nell' essere stesso l' uomo già intende i nessi delle
cose; mediante la qual cognizione a lui naturale, perchè la trae dall' essere,
egli integra le sue cognizioni, aggiungendo a ciò che sa ciò che ancora
non sa, come necessaria condizione di ciò che sa (1). Lascio da
parte questa dottrina, che io vi concedo; vi concedo cioè spiegato il
modo, onde l' uomo può servirsi d' una cosa nota, o d' una sensazione, a
segno ed indizio che lo conduca ad un' altra. Tanto più che, quand' anche
io non intendessi la spiegazione che voi ne date, non potrei tuttavia negarvi
il fatto, non potrei negarvi che l' uomo usa veramente dei segni ed
indizi, giungendo con essi a conoscere che sussistono delle entità, che i
suoi sensi non gli rivelano. Ma io fo al vostro detto un' altra opposizione.
Dico che un segno, un indizio sensibile, vi avverte che sussiste un ente,
ma non vi dice però che sia. Eppure, anche degli enti che non sono mai
caduti sotto i miei sensi, io so bene che cosa sono; e talora li conosco altrettanto
e meglio che i veduti e sentiti da me stesso. A ragion d' esempio,
io non fui mai a Costantinopoli; eppure tanto ne udii parlare e ne lessi,
che meglio la conosco di Roma, la quale cadde sotto i miei sensi, ma solo
di passaggio. Dunque ci deve essere fuori dei sensi qualche altra via da
conoscere gli oggetti delle umane cognizioni; e non può essere che tutte
si riducano a quei due rudimenti, che avete stabilito, il sensibile e l' essere
noto all' uomo per natura. -
Affine di prevenire appunto questa vostra difficoltà, io vi distinsi a
principio fra il conoscere l' essenza della cosa , e il conoscerne la sussistenza
o realità. Ora voi mi accordate che affine di conoscere la sussistenza
(s' ella non mi è nota per natura, o da ciò che mi è noto per natura
non posso indurla), mi bisogna un sentimento, almeno un segno sensibile
che me la indichi; il qual segno, in quanto è sensibile, lo dà la natura,
e non il raziocinio. La difficoltà vostra cade dunque sulla cognizione
dell' essenza della cosa . Distinguete dunque fra cose, delle quali
altre simili ci caddero già sotto i sensi, come sarebbe appunto la città
di Costantinopoli, da voi recata in esempio, e cose che non caddero mai
nel nostro senso, nè esterno, nè interno, come per un cieco nato sono i
colori. Se trattasi di cose, di cui altre simili caddero sotto i nostri sensi,
ne conosciamo l' essenza, applicando loro la cognizione delle cose altra
volta percepite, e perciò ricorriamo al sentimento datoci dalla natura.
Così accade che, avendo voi vedute altre città e tutto ciò che in una città
si contiene, quando vi si narra di una città da voi non veduta, trasportiate
colla vostra immaginazione queste notizie a vestire la sussistenza
di quella, e vi componete nella mente la città, poniamo, di Costantinopoli,
guidato dalle relazioni che ve ne danno i viaggiatori, colle specie
di quelle città, che avete già percepite coi sensi, o su quel modello formate
coll' immaginazione. Non è dunque in tal caso al sentimento che
voi domandate i materiali della cognizione vostra di Costantinopoli?
Che se poi trattasi di cose, le cui specie non sono mai cadute nel
nostro sentimento, come è il caso dei colori rispetto al cieco nato, vi
rispondo come da prima: « Altra cognizione dell' essenza della cosa, di
cui vi è attestata la sussistenza, voi aver non potrete, se non quella che
traete col pensiero dall' entità comune, nota a voi per natura; e dalla
sussistenza indicatavi dalla testimonianza, e dalle relazioni fra la sussistenza
e l' entità, e gli altri esseri noti per sentimento, sia che queste relazioni
vi vengano date nella testimonianza, o le caviate colla riflessione ».
Ecco tutta la cognizione che vi è possibile.
Ma, avvertite, questa cognizione non è poi sì povera,
come pare, perocchè la testimonianza, che v' è data di quella cosa,
può farvene conoscere: 1 la sussistenza; 2 la determinazione, la limitazione,
ed altre relazioni ontologiche di essa coll' essere, e con altre cose
note, quale si è la relazione di causa ecc.; 3 finalmente, ciò che essa non è.
Allorquando adunque coll' intendimento nostro,
noi riferiamo all' essere, intuìto
dalla mente, le varie cose reali percepite, facilmente
veniamo a conoscere:
Che alcune proprietà eguali debbono indispensabilmente
trovarsi anche negli enti, che non cadono nel nostro sentimento,
e la cui sussistenza ci è solo testificata; la quale indispensabile necessità
ci si rende nota per la notizia a noi naturale dell' ente , perocchè,
sapendo noi che cosa vuol dire ente , incontanente intendiamo che le
cose attestateci non potrebbero essere, non sarebbero enti, se non avessero
quelle proprietà. E queste proprietà comuni agli
enti a noi cogniti per sentimento, ed a quelli altresì che a noi sono attestati,
costituiscono il fondamento dell' analogia . Noi conosciamo adunque
le cose da noi non percepite, per l' analogia che hanno con quelle
che abbiamo percepite.
Che alcune proprietà, che sono negli enti da noi percepiti
col sentimento, debbono assolutamente escludersi dagli enti da
noi non percepiti; e questo aggiunge una
cotal cognizione negativa di essi per esclusione .
Se a queste due vie aggiungiamo le altre due, quella della sussistenza
per attestazione, e quella delle relazioni ontologiche
attestateci, e da noi dedotte, potremo conchiudere:
Che noi ci componiamo l' essenza a noi conoscibile degli enti, che
non cadono nel nostro sentimento, e di cui non caddero nemmeno altri
somiglianti:
a ) per sensibili testimonianze altrui, che ce ne additano la sussistenza,
o anche ci additano certe relazioni ontologiche cogli enti a noi
noti per sentimento, certe analogie, e ciò che essi non sono; b ) per relazioni
ontologiche , da noi stessi trovate coi detti enti mediante la riflessione;
c ) per analogie cogli enti medesimi da noi trovate; d ) per esclusione ,
pure da noi trovata mediante la riflessione.
Pigliamo l' esempio di questa specie di cognizione delle
cose, a cui il sentimento nostro non giunge, dalla dottrina che possiamo
avere di Dio per via di ragione.
Noi ne conosciamo la sussistenza mediante relazioni ontologiche
con ciò che conosciamo per sentimento, cioè col mondo, accorgendoci
che il mondo deve avere una causa, perchè egli è, e non sarebbe, se non
l' avesse. Ci dice tutto ciò l' essere a noi noto per natura, a cui riferiamo
il mondo datoci dal sentimento (1).
Relazioni ontologiche della causa del mondo sono del pari
l' infinità , la necessità , la semplicità , ecc.. La causa del mondo sussiste;
ma non potrebbe sussistere senza queste sue determinazioni; dunque
ella le ha. Che non potrebbe sussistere come tale, cioè non potrebbe esser
ente , noi lo sappiamo da ciò appunto, che sappiamo che cosa sia ente;
e quindi che cosa si esiga per esser ente, e tale ente.
Qual' è il concetto d' un ente infinito? Certo quello che abbia tutti
i gradi dell' essere, quindi che non sia morto, ma abbia sentimento e intelligenza
in sommo grado. Ma come conosciamo noi l' essenza del sentimento
e dell' intelligenza? Noi la conosciamo per esperienza di ciò che
accade in noi stessi, pel sentimento nostro proprio. Come possiamo dunque
conoscere il sentimento e l' intelligenza di Dio? Non altrimenti che
per analogia di ciò che deve essere in lui, col sentimento e coll' intelligenza
che è in noi.
Per analogia del pari dell' Essere supremo con tutti gli enti, raffrontati
all' essere a noi noto per natura, rileviamo che a lui non deve
mancare nè realità , nè idealità , nè moralità .
Ma il concetto di Essere infinito ed assoluto, mediante le dette analogie
già illustrato, riferito all' idea dell' essere che abbiamo per natura,
ci si trasforma nell' Essere stesso, che nelle tre forme indiviso sussiste;
perchè intendiamo (conoscendo noi l' essere) che non sarebbe essere assoluto,
se non fosse l' essere stesso nelle sue tre forme; il che parmi il
più alto concetto, che l' intelligenza umana possa farsi di Dio, dove si
lasci a parte quello che ce ne dice la rivelazione.
Or ecco come tutta la teologia naturale si riduca finalmente, come
ai suoi primi rudimenti, all' essere noto per natura, e al sentimento .
Dell' essere noto per natura tratta l' Ideologia, a cui si continua
la Logica; del sentimento tratta la Psicologia. E` dunque necessario
che tutte le scienze domandino a queste due prime i loro materiali; in
queste due riducano tutto ciò che danno come cognizione positiva , cioè
cognizione degli enti reali; da queste due ripetano la loro origine, e nella
loro origine la loro certezza altresì; perocchè sono certe le loro dottrine,
se si riducono, quasi mediante un' equazione matematica, ad altre dottrine
certe per sè, senza bisogno di ragionata dimostrazione.
Rimane ancora una difficoltà. La scienza del mondo non è
anch' ella figliuola della percezione e dell' osservazione? Non somministra
anch' ella dei primi dati, e però dei rudimenti dello scibile?
La scienza del mondo, ossia la Cosmologia, è indubbiamente scienza
di percezione e di osservazione; e se per mondo s' intenda tutto il creato,
la stessa Psicologia diviene una parte materiale della Cosmologia, perocchè
l' uomo è finalmente un membro del mondo.
Ma altro è considerarsi le scienze secondo la materia che contengono,
altro secondo il fonte da cui derivano.
Se la Cosmologia si considera dalla parte del fonte, onde l' uomo la
si produce, noi ci accorgeremo facilmente ch' ella scaturisce dalla stessa
Psicologia, e ciò appunto perchè è scienza di percezione e di osservazione.
E veramente chi percepisce le cose esterne, che compongono il
mondo, è l' uomo, è l' anima.
Nel sentimento dell' anima vi è una dualità: vi è un elemento soggettivo,
e un elemento extra7soggettivo, che colla riflessione si cangia in
un me , e in un non7me . In tutte le percezioni delle cose corporee noi distinguiamo
questi due elementi, noi li sentiamo e li percepiamo contemporaneamente,
e l' uno, quale opposizione e quasi limite dell' altro.
Ora l' elemento soggettivo, ossia il me è l' anima, l' extra7soggettivo, il non7me ,
è il mondo corporeo.
Dunque è il sentimento dell' anima, che ci fa conoscere la parte corporea
dell' universo; questo universo si percepisce solo in quanto cade
nel sentimento, come un eterogeneo; ed è perciò, lo diremo di nuovo, che
il corpo è nell' anima, e non viceversa.
Ora, se il mondo tanto si percepisce, quanto è ricevuto nel
sentimento, dunque la cognizione, che noi abbiamo del mondo, benchè
certa, è parte fenomenale, parte assoluta; cioè il mondo corporeo, quale
noi l' abbiamo nella percezione, è un composto di elementi che poniamo
noi stessi, e di elementi che ci son dati; e lo scernere questi da quelli è
poi l' opera del ragionamento; pel qual solo noi troviamo quale sia la
parte extra7soggettiva e indipendente da noi. Tale è la cognizione positiva,
che noi possiamo avere delle essenze delle cose (1).
Ma il mondo non consta di soli corpi, sì anche di spiriti. Ebbene,
anche per questi si deve far ricorso alla Psicologia, perocchè l' uomo
non può formarsi alcuna cognizione positiva di altri spiriti, se non
partendo dal sentimento di sè stesso; conciossiachè lo spirito è sentimento.
Parte dunque l' uomo dal sentimento di sè, e con questa cognizione
positiva concepisce altri sentimenti, altri spiriti; e solo col ragionamento
variamente se li compone.
Anche alla Cosmologia dunque la Psicologia somministra i primi
rudimenti; la Cosmologia nasce veramente nel seno della Psicologia,
come il mondo conosciuto è nel seno dell' anima (2).
Ora dal sapere che la Psicologia è quella scienza, che somministra
a tutte le altre il rudimento reale delle umane cognizioni, come
l' Ideologia è quella che somministra a tutte le altre il rudimento ideale ,
possiamo dedurre quale metodo a tali primitive scienze convenga.
Esso non può essere che un metodo d' osservazione . Trattasi
di rilevare dei fatti con esattezza, di distinguerne le parti, di paragonarli,
di dedurre finalmente da essi delle conclusioni. In tutto ciò l' occhio
della mente deve stare continuamente fisso sul fatto per vederlo
bene, senza che l' immaginazione, durante l' osservazione, aggiunga, oscuri,
o detragga nulla, per poterlo poscia attestare colla massima fedeltà,
precisione, sagacità; facendone una descrizione rispondente in tutto
alla verità della cosa.
Ma che è da dirsi della divisione, che fece Cristiano Wolfio della Psicologia,
in due scienze, chiamata l' una empirica , l' altra razionale ; la prima
delle quali procede per via d' osservazione, l' altra per via di ragionamento?
Questa divisione wolfiana, abbracciata con mirabile consenso
dalla Germania, e tuttavia seguitata religiosamente dai filosofi di quella
nazione, non solo ci sembra arbitraria, ma di più suggerita da alcune
opinioni erronee, specialmente intorno alla natura dell' osservazione e
del ragionamento .
Si credette cioè di poter dividere al tutto l' osservazione dal
ragionamento , quasichè fosse quella una via di conoscere separata affatto,
e questo un' altra via di conoscere, che niun bisogno avesse di
quella.
Di più, a queste due maniere di conoscere supposte separabili ed
indipendenti, si attribuì un diverso grado di certezza; e per lo più si pretese
che l' osservazione inducesse una certezza piena e indeclinabile, e
non così il ragionamento. Laonde lo stesso Wolfio avverte di avere separata
la Psicologia empirica dalla razionale , affine di stabilire su quella,
la quale contiene dottrine dimostrate coll' esperienza e però non controverse,
le morali verità e le politiche (1).
Sono questi, entrambi, errori sensisti, e il mantenersi così
a lungo nella filosofia tedesca dimostra che il vizio di questa filosofia,
che ha una veste sì speculativa, sì astratta, o piuttosto sì misteriosa, è
nell' occulto sensismo, ch' ella tiene pur nei suoi visceri, e glieli corrode
(2).
Infatti i soli sensisti possono credere che si dia un' osservazione, che
ci faccia conoscere qualche verità per via di sensazione, senza bisogno
di adoperarvi la ragione; e molto più che le verità, venuteci da una osservazione
di tal natura, sieno le sole sicure e fuori di controversia.
Ma il fatto si è che non v' è osservazione, nè esperienza di
sorta, che non abbia seco mescolata l' operazione della ragione, benchè
sia difficile talora il discernervela. Lo stesso Condillac già s' era accorto
che fra le nostre sensazioni si mettono dei giudizi inavvertiti (ed è la
più bella cosa ch' egli abbia detto); e da lui fino alla recente operetta di
lord Brougham sulla Teologia naturale (3), i filosofi sono venuti sempre
più accorgendosi della moltiplicità di quei giudizi e raziocini, che, mettendosi
fra le sensazioni nostre, ci somministrano la cognizione di molte
verità, che noi poi erroneamente attribuiamo alle sole sensazioni. Che
se, continuandosi su questa via, si fosse pervenuto fino ad avvertire e
notar bene tutti questi giudizi celeri e furtivi, che accompagnano i sentimenti,
il sensismo sarebbe caduto da sè stesso. Questo è ciò che ci
siamo studiati di far noi, e il risultato delle nostre ricerche si fu la sicurezza
che non si dà niuna osservazione meramente sensibile; ossia che,
se la sensazione si spoglia da ogni atto d' intendimento che l' accompagna,
nulla affatto ci fa conoscere, è un fatto che finisce in sè stesso, di cui
non abbiamo neppur coscienza; perocchè la coscienza stessa della sensazione
richiede una conversione dell' attenzione nostra intellettiva a ciò
che passa nel nostro sentimento, ed un' affermazione conseguente, per la
quale diciamo a noi stessi: « adesso sosteniamo la tal passione, il tal sentimento »;
il che è un giudizio. Ma questo giudizio noi lo facciamo così
spontaneo, così continuato al sentimento, che egli ci scappa al tutto inavvertito;
non calendo punto a noi di conoscer lui, ma solo di conoscere
per lui il sentimento, del quale ci formiamo così la coscienza. Ed è questo
giudizio strettamente unito al sentimento, che costituisce la percezione
intellettiva della sensazione (1), che è quanto a dire la conoscenza.
Ora poi, che cosa è che giustifica questa parola interiore, che noi diciamo
a noi stessi in occasione delle sensazioni: « Noi sofferiamo, noi sentiamo
così e così »? Che cos' è che ne dimostra la certezza? Certo che la
persuasione della certezza d' una tal parola ci è naturale, nè il più degli
uomini ha bisogno d' altro per non dubitarne; ma quando si voglia una
dimostrazione che quella persuasione non c' inganna, allora è uopo analizzarla,
e vedere onde si forma, a che s' appoggia. Quell' analisi ci conduce
all' essere , che noi intuiamo per natura, dove ogni ragionamento si
fa evidente. Perocchè, avverato che noi nella cognizione possediamo l' ente,
cioè per dirlo in altre parole, « sappiamo che ciò che affermiamo E` »,
in tal caso non possiamo più dubitare della verità, poichè « se è ciò che
affermiamo », dunque è vero, non significando altro essere vero, che essere
ciò che affermiamo (2).
Dalle quali cose si trae che la certezza e la dimostrazione
delle nostre osservazioni sensibili non giace altrove che nella forza di
quel segreto ragionamento, che in esse sempre facciamo. Laonde conviene
in tutte egualmente le scienze ricorrere all' autorità della ragione,
ossia dell' idea dell' essere, ultima sede dell' evidenza, sia per accertare le
verità di osservazione, sia per accertare quelle d' induzione e di conseguenza;
il ragionamento è poi, in ogni caso, organo col quale componiamo
le scienze; da lui non possiamo menomamente prescindere. Non
si può dunque assegnare una differenza specifica di metodo fra la Psicologia
empirica e la razionale, ma solo di grado; in quanto che ciò che
si toglie a dimostrare nella prima è il frutto di un ragionamento meno
lungo, e ciò che si toglie a dimostrare nella seconda è il frutto dello stesso
ragionamento, che si continua al primo, deducendo nuove verità dalle
precedenti. Ora poi questa differenza di grado non può dar luogo a due
scienze, meglio che lo possa la divisione che fa Euclide in vari libri della
sua geometria; i quali libri non sono certo altrettante scienze, ma solo
gradi della scienza medesima.
Ma da questo vero, che « il ragionamento è sempre l' organo,
onde noi componiamo le scienze, sì d' osservazione che d' induzione »(1),
noi vogliamo qui cavare una conseguenza importante, a chiarimento del
metodo che è uopo seguire nella esposizione e distribuzione delle scienze
filosofiche.
Il semplice sentire non è osservare . L' osservare importa un atto
della mente, che toglie a proprio oggetto un sentimento e si risolve in
un giudizio. Questo atto della mente, giudizio o raziocinio, non è in fine
che l' applicazione dell' essere ideale al sentimento, su cui ella colloca la
sua attenzione. Ogni ragionamento adunque racchiude necessariamente
due elementi: 1 l' essere ideale; 2 il sentimento, a cui si applica. La
notizia dunque che si ha per via di ragionamento di una di queste due
cose, non si può avere senza la notizia dell' altra; le due notizie dunque
si pongono in noi contemporaneamente; questo è quello che noi chiamiamo
sintesismo .
E veramente, queste notizie, che noi ci vogliamo procacciare
coll' opera del ragionamento (col quale solo nasce in noi la coscienza,
e si compilano le scienze), non possono da principio avere che
tre oggetti: 1 i sentimenti nostri corporei, o i loro termini corporei;
2 noi stessi, cioè i nostri sentimenti interiori; 3 l' idea dell' essere. Se
sono i due primi gli oggetti del ragionamento, è chiaro che esso si compone
di sentimenti e dell' idea dell' essere ad un tempo, perocchè quelli
non potrebbero essere oggetti del pensiero senza di questa. Se poi si suppone
che l' oggetto del ragionamento sia la sola idea dell' essere, in tal
caso, o la supposizione si prende a tutto rigore, ed è assurda; o non si
prende a rigore, ed entra un sentimento a rendere possibile il raziocinio.
Dico che è assurdo il supporre un ragionamento colla sola idea dell' essere,
senza niun altro elemento sensibile; perocchè l' uomo che dice qualche
cosa intorno ad essa, o predica qualche cosa di essa stessa, o predica
qualche cosa dell' intuizione che egli ha di essa, per esempio affermando
appunto di averne la intuizione; se predica qualche cosa intorno alla
intuizione di essa, il sentimento di sè stesso diventa un elemento del
suo giudizio, o del suo ragionamento. Conciossiachè egli non può dire:
« Io ho l' intuizione dell' essere », se non conosce già quell' Io, che nomina,
e che è un sentimento sostanziale, un complesso di sentimenti elaborati,
dirò così, dallo stesso intendimento. Se poi non parla dell' intuizione ,
ma dell' essere da lui intuìto, allora niente gli rimane a dire di
esso, se non a condizione che lo paragoni prima colle cose sussistenti, e
da questo paragone induca che da queste egli è diverso, ed inventi forse
la parola ideale per contrassegnare questa sua diversità. Ora tutto ciò
suppone la notizia di sentimenti. Conciossiachè egli non può già dire
che « l' essere intuìto sia ideale »prima d' un tal paragone; chè la parola
ideale niente altro fa, se non escludere la realità delle sostanze o cause
efficienti. Nè può manco per avventura dire a sè stesso « l' essere è »,
perchè questa non è una parola interiore, ma una frase di lingua, che
niente affatto significa, nulla aggiungendo il supposto predicato all' essere .
Può ben la lingua costruire così dei giudizi, dove si trovi un predicato
apparente; ma non può farlo la mente.
Dunque il sintesismo è inerente ad ogni ragionamento.
Dal che veniamo a conchiudere, che i due elementi del ragionamento
che sintesizzano, cioè si tengono indisgiungibilmente insieme,
non possono costituire due scienze esattamente e interamente separate
fra loro; ma l' una e l' altra debbono costruirsi ad un tempo, spiegarsi
a vicenda, intendersi con un medesimo atto dello spirito.
Le scienze, che trattano dei due primi elementi del ragionamento,
abbiamo detto essere l' Ideologia e la Psicologia . L' una dunque
di queste ha bisogno dell' altra. La teoria dell' idea (essendo dottrina riflessa
e di ragionamento) non si può intendere senza la teoria dell' anima,
che viene dall' idea informata; e la teoria dell' anima è del pari incognita,
se la teoria dell' idea non le si congiunge a illustrarla. Quindi nell' Ideologia
ponemmo assai cose appartenenti alla Psicologia, come nella
Psicologia dovremo di continuo far uso di notizie ideologiche.
Ma qui insorgeranno non pochi dubbi, ci si rivolgeranno
non poche questioni. Se l' una delle due cose non si può intendere senza
l' altra, quale direte voi la prima? E si possono esse dire due cose ad un
tempo? E dovendo dimostrare la verità di entrambe, da quale comincerete?
Come potrete dimostrare la verità d' una di esse, quando non è
ancora dimostrata la verità dell' altra, che pure vi è gioco forza introdurre
nel vostro ragionamento?
Non dissimulo l' importanza di queste questioni, e la difficoltà di
rispondervi adeguatamente; ma il lettore già sa che io riguardo come
un avanzamento della scienza ogni difficoltà che viene proposta, la quale
se è grave e in apparenza insolubile, contiene sempre un segreto prezioso.
E tali mi sembrano essere quelle ora proposte. Rispondo, adunque,
che vi sono certamente delle cose, delle quali non si può intendere
l' una senza l' altra, come avviene di tutti i concetti relativi, poniamo di
quelli di causa e d' effetto, e che però s' intendono contemporaneamente
con un solo atto d' intendimento. Ma quando essi si vogliono significare
in parole, allora sembrano separarsi e dividersi per l' imperfezione delle
parole, colle quali si prende a significarli; e tuttavia l' intendimento supplisce
da sè al difetto delle parole, concependo per intero la cosa, quando
la parola incominciò appena a significarla. Così se vien pronunciata la
sola parola effetto , o la sola parola causa , l' intendimento concepisce tosto
ciò che viene espresso, benchè non possa concepire l' effetto senza la
causa, nè la causa senza l' effetto; ma il vocabolo di uno di questi concetti
basta a richiamare la sua attenzione su tutti e due (benchè non una
attenzione di egual grado), che, legati insieme per natura, sono alla
mente una cosa sola, una sola relazione.
Quanto poi alla certezza delle dottrine correlative ed alla
maniera di dimostrarle, è da stabilire il principio che « la certezza viene
da quello stesso fonte onde viene la cognizione »; poichè conoscere e
conoscere la verità è il medesimo; giacchè chi non conosce la verità, non
conosce (1).
Di qui procede la conseguenza che, trattandosi di dottrine
correlative, che si conoscono ad un tempo col medesimo atto dell' intendimento,
perchè sostituiscono alla mente un solo concetto complessivo,
non può accadere che l' una si provi od accerti prima dell' altra, ma ricevono
la loro certezza tutte due insieme dalla luce della verità, che ad
entrambe è comune.
Questa risposta vale pei concetti e per le dottrine correlative.
Ma da questo differisce alquanto il caso, in cui la sintesi abbia luogo
non già fra due concetti, o fra due cognizioni, ma fra la forma e la materia
della stessa cognizione, come accade nella percezione intellettiva,
in cui si unisce un sentimento coll' essere intuìto dalla mente, e si pronuncia
un solo giudizio, che dice: « sussiste un ente ». In questa percezione
la forma, cioè l' essere, è noto alla mente anteriormente; è cognizione
per sè, cognizione essenziale, non ha bisogno del sentimento per
essere tale. All' incontro il sentimento, o per dir meglio, l' ente reale caratterizzato
dal sentimento , si rende a noi noto mediante l' essere. Onde
poi abbiamo la notizia di lui, indi anche ne abbiamo la certezza, e ne
caviamo la dimostrazione. Perocchè la dimostrazione si può condurre
così: la coscienza ci attesta che v' è un sentimento. Ma la coscienza non
ci potrebbe ingannare? Vediamolo. Che cosa vuol dire: la coscienza ci
attesta che v' è un sentimento? Vuol dire che noi conosciamo, affermiamo
che c' è un sentimento. Questa affermazione: « c' è un sentimento »,
a che si riduce? Ad affermare l' identità fra l' essere e il sentimento. Il
dir questo non è altro che dire che il sentimento non è il nulla, perocchè
l' opposto dell' essere è il nulla. Ora, se alle voci nulla e sentimento
s' affiggono due concetti, questi sono contrari; come pure, se alle voci
essere e sentimento s' affiggono due concetti, questi sono pel fatto stesso
identici (eccetto che nel primo vi è di più che nel secondo, e perciò coll'
affermazione si restringe al sentimento, e così ristretto s' identifica).
Se non s' affiggono concetti a quelle due parole, è tolto via il pensiero.
Se è tolto via il pensiero, neppure l' errore è possibile. Dunque non è
possibile che sia erronea la proposizione, che « fra il sentimento e l' essere
v' è identità (nel modo spiegato) »; o quell' altra eguale: « c' è un
sentimento ».
Questa dimostrazione tutta si fonda sulla notizia dell' essere; l' anima,
intuendo l' essere, vede che tutto a lui s' identifica, e identificato coll'
essere, acquista la verità e certezza stessa dell' essere.
La verità, la certezza, l' evidenza della testimonianza della
coscienza, trae origine dall' essere che la informa, senza il quale la coscienza
non sarebbe, come non sarebbe alcun atto intellettivo. E come
lo spirito vede l' essere, così vede altresì collo stesso sguardo l' identità
delle cose reali coll' essere; e qualora questa visione è riflessa, e di cosa
a noi unita, si dice coscienza (1).
Ma qui si ponga attenzione. L' intuizione dell' essere è il fatto
posto dalla natura, il fatto della cognizione. Il fatto della cognizione
non ha bisogno certamente di dimostrazione; perocchè dimostrazione
vuol dire « riduzione di ciò che si crede conoscere al fatto della cognizione ».
Quando ciò che si crede conoscere è ridotto al fatto del conoscersi,
non è più che si creda conoscere, ma si conosce. Tuttavia l' uomo,
che non meditò ancora sopra sè stesso, non sa che la cosa sia così; ed è
l' Ideologia e la Logica che gli dimostra ridursi a questo ogni dimostrazione.
Ma l' Ideologia e la Logica, che n' è una cotale continuazione, non
si possono esporre senza introdurre percezioni, testimonianze della coscienza,
ecc.. Non si ricade dunque nel circolo? - Menomamente no;
perocchè in quelle scienze altro non si fa che dirigere l' attenzione della
mente ad osservare le percezioni, ecc.; e non è necessario che si adoperi
una verità dimostrata precedentemente a dirigere l' attenzione, bastando
uno stimolo qualsiasi, atto a produrre un tale effetto, fosse anche uno
stimolo cieco, fosse anche un errore. Così se un uomo con una menzogna
m' induce a guardare un oggetto, io veggo l' oggetto altrettanto, quanto
se fossi stato indotto a guardarlo da una verità. Ottenuto poi che la mente
osservi le percezioni , senza uscire dall' osservazione stessa, queste vengono
accertate, perchè esse non sono che « l' identità del sentimento coll' essere
manifestata all' uomo »; onde la percezione rimane identificata
col fatto del conoscere, quindi non è una credenza di conoscere, è lo
stesso conoscere.
A malgrado adunque del sintesismo che passa fra le dottrine
ideologiche e psicologiche, le une e le altre sono fornite di certezza, e
ricevono, senza cadere in alcun circolo, la più rigorosa dimostrazione.
Venendo or dunque a parlare della Psicologia, ond' ella incomincierà?
Quale sarà la sua sfera?
Noi abbiamo già osservato che l' attenzione del nostro intendimento
è chiamata a fissarsi sull' anima dai sentimenti nuovi e particolari, che
in questa si formano, dal passare ch' ella fa dal non sentire al sentire,
cioè dal non avere una data sensazione accidentale, all' averla. Queste
mutazioni, che avvengono in lei e che richiamano la sua propria attenzione,
e la ripiegano sopra di sè, producono in essa la coscienza, la quale
rivela al filosofo le dottrine intorno all' anima. La coscienza dunque è
il fonte prossimo della Psicologia.
Ma il filosofo non si contenta affatto delle sole prime deposizioni
della coscienza, dalle quali egli apprende ciò che passa in sè
stesso. Vuole di più connettere i sentimenti e le operazioni dell' anima,
e da essi levarsi a conoscere l' anima stessa, che ne è il soggetto e in gran
parte la causa, levarsi a formarsene il concetto, che gliene dia l' essenza
conoscibile , e gliene faccia distinguere la natura. Perocchè, quando il
filosofo è pervenuto a fissare l' essenza della cosa di cui discorre, egli
allora ne ha trovato l' ultima ragione intrinseca, ha discoperto il principio
di tutti i ragionamenti, che intorno a quella cosa si possono fare.
E questo è appunto filosofare, trovare l' ultima ragione nel genere di cui
si parla, trovare il principio del discorso, e con esso ordinare a sistema
le dottrine, che da quel principio s' ingenerano e si reggono.
Ora, salita la mente all' essenza della cosa, da questa altresì
ella discende, secondo il corso delle operazioni che ne procedono. Onde
conosciuta l' essenza dell' anima, e quindi la sostanza, può il pensiero del
filosofo farlesi compagno nel suo sviluppo, e notare le leggi che la sostanza
segue, operando e svolgendosi.
Finalmente, qualora si notino fra le modificazioni che nell' anima
ridondano, quali effetti di sue azioni e passioni, quelle che la
deteriorano o l' ammigliorano,
allora la mente collo studio di
esse è condotta a vedere per quali gradi l' anima scenda al basso, od
ascenda alla cima della sua perfezione, a cui ella è fatta; e quindi la
meditazione filosofica, seguitando in suo viaggio l' anima stessa al doppio
estremo del bene e del male, giunge a formarsene l' Ideale (1), a contemplarla
cioè pervenuta a tutta la sua perfezione possibile, o a risolvere
almeno la questione: se la perfezione dell' anima umana possa avere un
termine.
Dalle quali considerazioni si scorge che tutte le dottrine, onde
si compone la Psicologia, si possono convenientemente disporre in tre
parti, le quali trattino della natura dell' anima, dello sviluppo dell' anima,
e dei destini dell' anima. Dove vi è il principio , il mezzo , ed il fine
dell' attività dell' anima umana e dell' umanità stessa. Tale è lo schema
perfetto della Psicologia. Ma i destini dell' anima trascendono a vero
dire tutti i limiti della natura; e però noi ci riserberemo a parlarne nell'
« Antropologia soprannaturale ». Rimane adunque che la presente opera
nostra si restringa alle due prime parti, delle quali la prima ragioni circa
la natura dell' anima, la seconda circa il suo svolgimento.
Alle definizioni premesse ai tre libri dell' Antropologia, che
noi supponiamo note al lettore, conviene aggiungere le seguenti, a intelligenza
di questi libri di Psicologia, che fanno seguito a quelli.
Psicologia è la scienza dell' anima umana.
Anima è il principio d' un sentimento sostanziale7attivo, che ha per
suo termine lo spazio ed un corpo.
Corpo è una forza diffusa nell' estensione, ossia spazio.
Forza è ciò che produce una passione nel sentimento o nel suo termine
esteso.
Ad alcuno parrà che noi, definendo così la forza,
veniamo a disconoscere quell' effetto della forza corporea, per la quale
i corpi bruti, agendo reciprocamente, si modificano. Ma la difficoltà svanisce,
se il lettore avrà presente quanto abbiamo intorno a ciò scritto altrove
(1).
Sostanza è quel primo atto di un ente, che lo costituisce,
pel quale anch' esso si concepisce, senza bisogno che la mente per concepirlo
lo collochi in un' altra entità (1).
Perciò la comune definizione, che la sostanza « è
ciò che esiste per sè », deve intendersi così che quel per sè non si prenda
in universale, ma ristrettivamente, cioè in relazione all' entità, di cui ella
non ha bisogno per essere concepita.
Sostanza è l' atto onde sussiste l' essenza (2), sia che quest' atto si
consideri realizzato, o solo possibile a realizzarsi (nell' idea).
Quindi vi sono due maniere di sostanze, come vi
sono due maniere di essenze sostanziali. Certe essenze sostanziali pongono
una sola entità indivisibile, certe altre pongono più entità in uno
congiunte, l' una delle quali è principale e costituente il soggetto. Se l' entità
meno principale è separata dalla principale, ella ha perduta la sua
identità; allora ella si dice un' altra sostanza, e più propriamente un' altra
forma sostanziale; per esempio, l' anima umana è un' essenza, risultante
dal principio intellettivo e supremo e dal principio sensitivo7animale;
dove il principio intellettivo è l' entità principale, costituente il soggetto.
Ora questo principio sensitivo è una entità divisibile e che può stare da
sè, come si scorge nelle bestie. Ma il principio sensitivo nell' uomo e nel
bruto non è identico, perchè se nelle bestie si può considerare come sostanza,
nell' uomo riceve un' altra forma sostanziale dalla sua unione col
principio intellettivo, e perciò non è più la sostanza di prima, ma parte
di un' altra sostanza.
Accidente è un' entità che non si può concepire se non in un' altra
entità, per la quale esiste, e alla quale appartiene.
Sebbene l' accidente si possa per via d' astrazione
concepire in separato dalla sostanza, tuttavia la mente non può far ciò,
se prima non l' ha concepito unito alla sua sostanza (3). Quando poi lo
considera astrattamente, la mente stessa è necessitata, o di conservare
la notizia della sostanza a cui va unito, o di supporre una sostanza
in genere, a cui aderisca.
Dunque la forza, per la quale sola si concepisce il
corpo, ci fa conoscere il corpo come una sostanza.
L' anima umana è il principio d' un sentimento sostanziale
attivo, che, identicamente il medesimo, ha per suoi termini l' estensione,
e in essa un corpo e l' essere; e quindi che è sensistiva ad un tempo, ed
intellettiva (razionale).
Intuizione è l' atto (ricettivo) dell' anima, pel quale ella riceve la
comunicazione dell' essere , in quanto è intelligibile, ossia ideale.
Questo atto è chiamato da Aristotele intelligenza ,
e dice che « « l' intelligenza è degli indivisibili »(1) », chiamando
indivisibili le essenze delle cose, che si vedono nelle idee. Onde, presso
gli Scolastici, « cognitio simplicis intelligentiae » viene quanto a dire « cognizione
dei possibili ».
Quindi Kant pervertì il linguaggio filosofico,
usurpando la parola intuizione a significare la percezione sensitiva; e
anche in questa alterazione del senso della parola fece assai bene conoscere
il sensismo, che giace nel fondo del suo sistema, dando al senso
l' atto proprio dell' intelletto.
Percezione sensitiva è l' atto del sentimento, che riceve in sè una
forza extra7soggettiva, atta a modificarlo.
Percezione intellettiva è l' atto, con cui l' anima razionale afferma
(abitualmente o attualmente) una realità sentita.
- Chiameremo percipienza la facoltà corrispondente.
Perciò S. Tommaso definì ottimamente la proprietà
di questa parola, dicendo: « perceptio experimentalem quamdam
notitiam significat (1) ».
Realità dell' essere è l' essere, in quanto è sentimento, o in
quanto ha la forza di produrlo o di modificarlo.
La percezione è dunque la comunicazione di due
realità, l' una delle quali è senziente, l' altra sensifera.
Sussistenza è l' atto proprio dell' essere reale, ossia è l' atto col quale
un essere è reale.
Questa e le precedenti definizioni indicano i
significati posti ai vocaboli, che si definiscono non dal nostro arbitrio,
ma dall' uso costante e comune dei secoli. Noi non abbiamo fatto che
sceverare le improprietà , nelle quali caddero e cadono gl' individui, che
parlano o scrivono; ma non la moltitudine dei parlanti e degli scriventi.
Così tutta l' antichità pose la questione degli universali in questo modo,
nel quale la ripete Porfirio nell' introduzione ai predicamenti di Aristotele:
« utrum universalia SUBSISTANT, an in nudis intellectualibus posita
sint »; dove il subsistere è preso manifestamente per indicare l' atto, pel
quale un ente è reale , in contrapposizione dell' atto, in cui un ente è meramente
ideale ; perocchè l' essere ideale non è già un nulla, come le sole
persone materiali possono darsi a credere, ma è una maniera di essere ,
diversa però da quella che si chiama reale. La questione riproposta da
Porfirio fu agitata da tutte le scuole, in quei termini appunto, sempre
usando il sussistere in contrapposizione dell' essere idealmente , o anche
mentalmente.
Del pari, la definizione da noi data dei vocaboli reale, realità , esprime
la proprietà di parlare degli antichi filosofi, dagli Scolastici fedelmente
ritenuta. Rechiamo un esempio tratto dagli esordi della Scolastica,
cioè dall' operetta di Gerberto (m. 1003), sulla questione proposta
dall' imperatore Ottone III, se si possa dire che far uso della ragione sia
attributo dell' ente razionale , come vuole Porfirio nel « De rationale et
ratione uti, libellus (2) ». In quell' operetta Gerberto espone la sentenza
di Aristotele sulla distinzione del possibile e del reale , dicendo che questo
filosofo ammette delle possibilità che possono essere senza realità ,
e delle altre possibilità che non possono essere scompagnate dalla realità ,
e finalmente delle possibilità che non possono essere mai realmente; le
quali ultime sono gli astratti . Tutta questa maniera di parlare mantenuta
dalla Scuola, anzi da tutti i filosofi fino a noi, dimostra che essi
presero il possibile o ideale, e il reale, nel senso che noi attribuiamo a
queste parole; e non cadde mai nella loro mente di confondere il possibile
col nulla . Il possibile adunque, ossia l' ideale , e il reale sono due
modi primordiali dell' essere da tenersi ben distinti. Noi poi abbiamo
di più osservato, che la parola possibile non esprime propriamente l' idea
pura, ma esprime l' idea accompagnata da una relazione , che vi pone
la mente nostra nel paragonarla col reale (1).
L' Io è un principio attivo in una data natura, in quanto egli
ha la coscienza di sè stesso, e ne pronuncia l' atto.
Nella definizione data nell' « Antropologia (2) » fu
definito l' Io un principio attivo supremo . Ora qui si noti che si dice supremo ,
intendendo di una supremazia entro la sfera della natura umana.
Si potrebbe anche aggiungere nella definizione dell' Io la qualità di principio
universale , purchè si aggiungesse che non sempre è universale come
principio attivo , ma solo come principio, sia poi passivo, o sia attivo.
Infatti quando l' uomo dice: « io patisco un dolore o un piacere », egli
esprime un principio della passione che soffre, non dell' azione. E benchè
anche nel patire il principio ha una certa attività, tuttavia questa
specie d' attività non si deve confondere coll' attività propriamente detta
che fa, e non patisce.
Natura è tutto ciò che entra a costituire e mettere in atto un
ente.
Di qui si raccoglie la differenza fra sostanza, natura
e soggetto . La sostanza è l' atto primo, pel quale un' essenza sussiste.
Ma la natura abbraccia di più tutto ciò che è necessario al
soggetto per sussistere, e perciò abbraccia anche il termine necessario
dell' atto, ond' egli sussiste. Per esempio, l' atto onde sussiste un corpo
bruto, è la forza, e in questo sta la sostanza di esso. Ma la natura del
corpo abbraccia di più anche l' estensione, in cui quell' atto, che si chiama
forza, deve poter diffondersi. La natura abbraccia anche gli accidenti,
non però presi singolarmente, i quali possono mancare, ma presi
nel loro complesso quando sono necessari. A ragion d' esempio, un corpo
può esistere senza ch' egli abbia la forma rotonda, e però questo singolare
accidente non entra a costituire la sua natura. Ma il medesimo corpo
non può esistere senza qualche forma, e così la forma in generale entra
nella natura del corpo, benchè non appartenga alla sua sostanza. Il soggetto
è il principio attivo della sostanza senziente. Si esige dunque, perchè
una sostanza si possa dire soggetto: 1 ch' ella sia sentimento; 2 ch' ella
si consideri in quanto è principio di attività. E questo secondo carattere
distingue il soggetto dalla natura sensitiva; perchè la natura sensitiva
abbraccia anche il sentito , necessario acciocchè esista un sentimento
sostanziale; ma il soggetto non è che il senziente , perchè il solo senziente
ha ragione di principio.
Una delle principali cagioni, che rendono difficili e talora
inestricabili le questioni filosofiche, si è che il pensatore, il quale esercita
l' intendimento intorno ad un oggetto, obbligato com' è a riceverlo
dalla sua propria mente che lo concepì (e se concepito non l' avesse,
niuna meditazione su quello gli sarebbe possibile), ne lo riceve con pienissima
buona fede, non dubitando che esso sia tale, nè più nè meno
qual' è in natura, o perchè non riflette che è la mente che glielo dà, e
non la natura; o perchè egli ha preconcepita la opinione che la mente
glielo dia fedele, tale quale glielo darebbe la natura stessa, se questa immediatamente,
e quasi colle sue proprie mani, dar glielo potesse.
Eppure è indubitabile che la mente, porgendoci gli oggetti
innanzi al pensiero, non ce li porge tutti tali quali sono fuori della
mente, ma quali essa ce li ha in parte fatti per le leggi soggettive del
suo essere e del suo operare. Conciossiachè nello stesso tempo ch' ella ha
per suo primo oggetto la verità, che mai non l' inganna, ella ha pure
la propria natura, che le impone alcune leggi, le quali non le tolgono
certo il possesso del vero, ma le rallentano il passo dal conseguirlo del
tutto sincero, conseguendolo solo allora, quando coll' aiuto della luce
oggettiva che in lei risplende, ella discerne dentro ai suoi pensieri che
cosa è opera propria, e che cosa, tolta via l' opera propria, le rimane.
Quindi una delle più accurate investigazioni del filosofo,
dove egli ha bisogno di maggior vigilanza ed acutezza, deve esser quella
di sceverare prima di tutto in ogni oggetto, su cui vuol filosofare, quanto
appartiene al lavorìo della mente, e quanto appartiene all' oggetto medesimo
tutto nudo, tratto fuori da quei sottilissimi veli, in cui l' avvolse,
quasi direi come in fitta ragna, la mente stessa. Perocchè ognuno che filosofa,
voglia o no, deve partire dallo stato intellettuale, ov' egli si trova
(1); nè può a meno di ricevere, come dicevamo, l' oggetto, quale lo ha
nella mente, allora appunto che a filosofare incomincia.
Anche noi siamo dunque in questa necessità, ora che togliamo
ad esporre la dottrina dell' anima umana; non possiamo altro che
partire da quel concetto dell' anima che pur ci siamo già formati; e
quindi ci è di mestieri prima di tutto vedere se l' anima, da noi concepita,
sia propriamente l' anima quale sta in sè senza la nostra concezione,
senza quello che la nostra mente le può avere aggiunto in concependola.
Ora io non posso dubitare che io stesso che sento, che penso,
che parlo, sono l' anima. L' anima dunque, come al presente io la concepisco,
è quell' essere che intendo esprimere col monosillabo Io .
Ma questo Io mi esprime propriamente l' anima, senz' altra
aggiunta lavoratale intorno dalle operazioni della mia mente?
Ecco ciò che non si può rilevare se non dall' analisi del concetto che
esprime l' Io . E questa analisi noi l' abbiamo fatta, e ce ne risultò che l' Io
non esprime solamente l' anima , ma l' anima unitamente a molte relazioni,
risultanti da più atti mentali, necessari a farsi dall' uomo, prima
ch' egli possa pronunciare sè stesso con quel monosillabo. Noi rimettiamo
il lettore alla detta analisi (2), aggiungendo le seguenti osservazioni
per confermarla e perfezionarla.
Colui che dice Io (intendendo ciò che dice), fa un atto interiore,
col quale pronuncia l' anima propria. Il monosillabo
Io è dunque « il segno vocale, pronunciato da un' anima intellettiva
(o più generalmente da un soggetto intellettivo), di un atto suo
proprio, quando interiormente rivolge l' attenzione a sè stessa e si percepisce ».
Fermandoci qui, già si vede:
Che l' anima propria di colui che si pronuncia dicendo Io , è
un' anima reale. - L' Io dunque non esprime una pura idea, non esprime
solo il concetto dell' anima, ma ne esprime la percezione; quella voce Io
aggiunge a ciò che esprime il vocabolo anima (idea, essenza dell' anima)
la realità percepita.
Che l' Io non è la percezione di un' anima qualsiasi, ma
dell' anima propria. - La parola Io adunque al concetto generale dell'
anima unisce ancora la relazione dell' anima a sè stessa , relazione d' identità;
ella contiene dunque un secondo elemento distinto dal concetto
dell' anima, è un' anima che percepisce sè stessa, si pronuncia, si esprime.
L' anima non si rivolge sopra di sè, nè si percepisce se
non eccitata e tirata da qualche nuovo e particolare sentimento, che in
essa insorge, sia poi questo passivo od attivo; perocchè il solo sentimento
sostanziale dell' anima, naturale com' è ed uniforme, non è idoneo ad eccitare
l' attenzione dell' anima stessa; la quale attenzione è un atto nuovo
e particolare, e però esige una causa sufficiente, uno stimolo nuovo e
particolare che la susciti. L' anima dunque che dice Io , non pronuncia
sè stessa qual' è nello stato suo primitivo, ma già posta in uno stato di
attività sopravvenutole, accidentale; così pronuncia sè stessa modificata,
paziente, operante. L' Io dunque esprime l' anima coll' aggiunta di un
terzo elemento, il quale è una modificazione a lei venuta per via di passione
o d' azione; e in generale esprime « l' anima passata già ad atti secondi »,
l' anima non involta nella sua potenzialità, come ella si trova
a principio, ma in attualità. Infatti l' esperienza dimostra che, quando
gli uomini incominciano a pronunciare Io , non lo pronunciano mai solo,
ma unitamente al verbo che esprime la loro azione, poniamo « io sento,
io voglio, io penso, io opero, ecc. »; ed è solamente l' opera dell' astrazione
e dell' analisi, che sopravviene più tardi a separare l' Io dal suo
verbo, considerando ciò che esprime questo monosillabo, isolato e preciso
dal discorso, senza il quale però nel fatto non si trova. Forza è dunque
conchiudere che egli esprime il principio delle operazioni dell' anima,
ossia l' anima in quanto è principio delle sue varie operazioni.
Di più, se dicendo Io , l' anima esprime sè stessa operante,
se viene a dire « quegli che fa la tal cosa, per esempio, che vuole, sono
Io », questa espressione racchiude ancora un quarto elemento, oltre il
semplice concetto dell' anima; perocchè ella si può tradurre e sciogliere
in un discorso così: « quegli che vuole è quel principio medesimo che
percepisce sè stesso, in conseguenza di che dice Io ». L' Io racchiude dunque
un' altra riflessione, e per essa un' altra relazione d' identità, per la
quale chi parla e pronuncia l' Io , intende che egli, che si percepisce operante,
è un essere identico a quello stesso che opera (1).
Riassumendo adunque tutte le differenze, che passano fra
ciò che significa la parola anima umana , e ciò che esprime la parola Io ,
noi abbiamo:
Che anima umana esprime un semplice concetto generale dell'
anima, l' essenza dell' anima.
Che Io esprime:
Una percezione intellettiva dell' anima, nella quale, come in
ogni altra percezione, oltre esservi il concetto generale della cosa, vi è
l' affermazione della realità data dal sentimento.
Non ogni percezione intellettiva dell' anima, ma la percezione
che un' anima fa di sè stessa, quando contempla il sentimento che la costituisce
nell' essere, e però si conosce come un ente.
Una percezione di sè stessa non nello stato primitivo, in cui
non sono ancora concesse le speciali potenze, ma in uno stato di attività;
esprime l' anima, che percepisce sè stessa come principio di sue operazioni.
Finalmente esprime l' anima conscia della propria identità fra
sè percipientesi e sè operante, o atteggiata ad operare.
Eppure nessun' altra via noi abbiamo per giungere alla cognizione
dell' anima se non quella di partire dall' Io . E` nella coscienza
dell' anima nostra propria che possiamo trovare che cosa sia l' anima in
generale, perocchè la coscienza di noi stessi è quella che ci somministra
la notizia del sentimento dell' anima , che è uno dei due primi rudimenti
delle nostre cognizioni. Di vero, se noi non sentissimo in noi
stessi l' anima, non la percepiremmo; e se noi non la percepissimo, neppure
potremmo raccoglierne altronde la cognizione positiva; le parole,
i segni coi quali qualche maestro ce ne vorrebbe comunicare la notizia,
non avrebbero valore per noi se non per darcene meramente quella cognizione
negativa, che abbiamo descritta.
Che cosa ci resta dunque a fare, per acquistarci il concetto
vero e puro dell' anima umana?
Meditare sull' Io , dove abbiamo la consapevolezza dell' anima nostra
propria; e spogliando quella nostra percezione, che dall' Io viene
espressa, di tutto ciò che vi è in essa di straniero al concetto generale
dell' anima, cavarne netto e solo il concetto che ricerchiamo. Accingiamoci
dunque all' opera.
In primo luogo, quando l' anima dice: « io opero », afferma
sè stessa operante. In che modo si afferma? Col pensiero, perocchè affermare
è pensare .
Ma poichè l' anima in questa operazione pensa sè stessa, perciò l' affermarsi
operante involge una riflessione dell' anima sopra sè stessa.
Se l' anima non facesse questa riflessione, non pensasse punto sè
stessa, ella non si conoscerebbe, che è quanto dire, non avrebbe la coscienza
di sè stessa. Ora la coscienza di sè stessa è essenziale all' anima?
Per rilevarlo conviene vedere se le sia essenziale il pensiero riflesso sopra
sè stessa.
E` certo che il pensiero riflesso sopra sè stessa non è essenziale all'
anima umana; è certo che non è nato con lei, che non è seco incominciato,
che vi fu un tempo, in cui l' anima non si conosceva, non aveva di
sè consapevolezza alcuna; seguì un' altra età, in cui ella cominciò a ritorcere
il pensiero in sè, dopo che questo pensiero aveva avuti per suoi oggetti
cose esteriori diverse da sè.
Non si deve adunque confondere la coscienza dell' anima coll' anima,
e molto meno si può confondere coll' anima quell' atto, col quale
l' anima dice Io ; di nuovo, non si deve confondere la riflessione dell'
anima coll' anima stessa. Coscienza, Io pronunciato, riflessione, sono accidenti
dell' anima, non sono la sostanza dell' anima, che precede realmente
a tutte quelle sue accidentali modificazioni. L' aver confuse queste
coll' anima è il fonte immenso di tutti i traviamenti e i deliri, in cui si
perdette e si perde la scuola germanica. Avendo Reinhold proposto il
principio della coscienza, Fichte ridusse l' anima alla coscienza stessa, e
così convertì l' anima in una riflessione; ma poichè la riflessione non è
che un accidente, svanì dalla sua filosofia la sostanza, rimanendogli in
mano dei puri accidenti. Onde egli stesso pervenne nella fine dei suoi
ragionamenti a conchiudere che « non esiste alcun essere, ma solo immagini,
e che ogni realità è un sogno, e il pensiero è un sogno di quel
sogno ». Da questo labirinto non uscì più la filosofia tedesca.
Fichte cominciò da questa proposizione, che contiene l' errore
indicato: « l' Io pone sè stesso ». La proposizione è manifestamente
assurda, perchè suppone che l' Io operi prima d' esistere; ora certo verun
ente può porre, può creare sè stesso. Egli avrebbe dovuto dire: « l' anima
pone l' Io », poichè questa proposizione significherebbe: « L' anima
afferma sè stessa, e così si cangia in un Io , perchè l' Io è l' anima affermata
da sè stessa ». In tal modo si distingue l' Io dall' anima, in quanto
che l' Io è l' anima, vestita di quella riflessione colla quale si afferma.
Ora niente di strano che l' anima produca questa riflessione; ma bene
riesce al sommo strano che l' anima sia l' Io , cioè sia l' anima riflessa, prima
ancora che ella abbia fatto la detta riflessione.
Tuttavia, posciachè l' uomo che filosofa è già un Io bell' e
formato, certo gli riesce non poco difficile a disfare in certa maniera
sè stesso, e persuadersi che il suo Io sia fattizio, sia uno stato accidentale
e non essenziale dell' anima, o per dir meglio, sia l' anima costituita in
condizioni accidentali.
Egli sarà presto ad argomentare che l' anima, che dice Io , non afferma
un' anima qualsiasi, ma afferma l' anima propria, e che dunque
è un Io che afferma sè stesso. Nè si può negare che fra l' Io e l' anima
propria vi abbia identità di sostanza; ma certo è in pari tempo che vi
ha diversità di accidente, e che a significare proprio l' unione di questo
accidente coll' anima si adopera il vocabolo Io . D' altra parte, se la cosa
non è così, quale imbarazzo nel ragionamento! Se l' Io afferma sè stesso,
afferma un Io; se afferma un Io , l' Io è già formato prima che lo affermi;
ci perdiamo dunque in un circolo.
La qual difficoltà si può esporre in quest' altro modo: se l' Io si forma
coll' affermare sè stesso, come si può affermare prima di essere? Come
sa egli che ciò che afferma è sè stesso? Converrebbe, a saperlo, che
egli avesse paragonato l' Io affermante coll' affermato, e scopertane l' identità.
Ma non può paragonare l' Io affermante coll' affermato, se non ha
percepito anche quel primo. Avere percepito l' affermante è il medesimo
che affermare sè affermante. Questo ci reca ad una serie infinita di affermazioni,
perocchè si può far sempre lo stesso discorso circa l' oggetto
di un tal giudizio, che diviene il sè affermante. Dunque per questa via
non si può spiegare il fatto singolare della riflessione, colla quale l' anima
pensa ed afferma sè stessa. - Ma quando si abbia ben afferrato che
la denominazione di Io non conviene all' anima prima che ella si abbia
affermata, ma solo dopo aversi affermata, e procacciata così la coscienza,
svanisce interamente quella difficoltà in apparenza gravissima. Rimane
solo a spiegare come l' anima possa percepire sè medesima.
A far questo conviene ricorrere alla teoria della percezione
intellettiva che noi abbiamo esposta nell' Ideologia e in altri luoghi.
La quale teoria descrive la percezione come
un atto del soggetto, che, intuendo l' essenza dell' essere, vede questa
essenza realizzata nel sentimento. Niuno si può accorgere che nel sentimento
v' è l' essere, se precedentemente non conosce che cosa sia l' essere,
cioè se non ne intuisce l' essenza. Ma posto che il soggetto abbia
questa facoltà di intuire l' essere, non è più difficile intendere che egli
veda, ossia ravvisi l' essere dappertutto dove egli è, sotto ogni forma, e
però anche sotto la forma di sentimento, che è l' una delle tre, nelle quali
l' essere è. Posto ciò, s' intende come il soggetto uomo percepisca intellettivamente
sè stesso, ammettendo che sè stesso non sia altro che un sentimento7sostanza.
Come egli percepisce tutti gli altri sentimenti, così percepisce
anche il sentimento, che si denomina sè stesso . Ma rimane il nodo:
come conosca che il sentimento, che in tal caso percepisce, sia sè
stesso, cioè come conosca l' identità del sè percipiente e del sè percepito.
Certo che, se a conoscere questa identità, facesse bisogno un confronto
fra il sè percipiente e il sè percepito, come suppone l' obbiezione che ci
vien fatta, in niuna maniera si potrebbe spiegare la percezione di noi
medesimi. E` dunque da negarsi che l' uomo conosca quell' identità per
via di confronto fra il sè percipiente e il sè percepito. - Di nuovo adunque:
come la conoscerà? La conoscerà immediatamente nella stessa percezione
di sè. - In che modo? In questo: se egli vede l' essenza dell' essere
nel proprio sentimento, di maniera che egli giudica che il proprio
sentimento, che si chiama sè , è un ente, in questa percezione, come in
tutte le altre, è il sentimento quello che determina che il percepito sia
piuttosto un ente che un altro; il sentimento a tal uopo deve essere percepito
tale qual' è; non viene alterato dalla percezione. E` adunque dalla
varietà dei sentimenti, che si conosce la varietà degli enti.
Dunque è nella natura del sentimento che si deve trovare la nota caratteristica,
che fa distinguere il sentimento proprio da tutti gli altri sentimenti,
dai sentimenti non propri. Ora quale sarà questa nota caratteristica,
che fa distinguere all' uomo il sentimento proprio da tutti gli altri?
Ella deve essere certamente, per dirlo di nuovo, un quid che nel
sentimento stesso immediatamente si percepisca. Ora questo quid , che
è nel sentimento proprio, e che è una parte del sentimento proprio, che
distingue il sentimento proprio da tutti gli altri sentimenti, è appunto
ciò che v' ha d' incomunicabile nel sentimento; ond' esso riceve il nome
di proprio, e se si vuole esprimerlo con un vocabolo generale ed astratto,
gli si darà acconciamente il nome di suità . Che se poi si vuole un altro
vocabolo, il quale pronunci la suità di colui che parla e ragiona, e non
di ogni uomo qualsiasi, proporremo di arricchire la lingua nostra filosofica
della parola meità , che risponde a quella di cui fanno tanto uso
i Tedeschi, Ichheit . Sì, la proprietà, la suità, la meità è un quid del sentimento,
che si percepisce come tutte le altre parti del sentimento e come
tutti gli altri sentimenti, per l' essenza dell' essere che si ravvisa in essi.
Questo quid sensibile è il principio dell' individuazione (1), e diviene
anche quello della personalità.
Ciò posto, è chiaro che nella percezione del sentimento proprio
noi percepiamo noi stessi, quando la parola noi stessi si prende per
significare la proprietà del sentimento, ossia la suità, che è la nota caratteristica
di tal sentimento.
Ma quando diciamo noi stessi , non esprimiamo forse di esserci
già percepiti? Non è dunque un circolo il dire percezione di noi
stessi? potendosi tradurre in quest' altre parole: percezione di ciò che si è
già percepito? - Rispondo, che l' osservazione è giusta, e che essa rivela
l' insufficienza del linguaggio a seguire fedelmente la mente nostra nelle
sue operazioni; perocchè il linguaggio fu inventato dagli uomini già sviluppati,
per esprimere il prodotto delle operazioni della mente, non per
seguire le operazioni medesime, di mano in mano che si van producendo.
Prego il lettore di mettere ogni attenzione in questo, che m' ingegnerò di
spiegare più distesamente. Il difetto, che si ravvisa nella frase indicata
« percezione di noi stessi », si può ravvisare egualmente nella frase stessa,
riferita a qualsivoglia altra percezione. Poichè quand' io dico « percezione
di una cosa, percezione di un ente, percezione di un oggetto », io
fo uso, nè posso altrimenti, delle parole cosa, ente, oggetto . Ma cosa, ente,
oggetto significano già un quid percepito, e non un quid da percepirsi.
E veramente un quid che non è ancora percepito, in niuna maniera può
dirsi una cosa, un ente, un oggetto, giacchè questi vocaboli non possono
imporsi dall' uomo a ciò, di cui non conosce affatto l' esistenza; conciossiachè
cosa, ente, oggetto significano ciò che in qualche modo è; chè il
nulla non si dice una cosa, nè un ente, nè un oggetto; nè si direbbe tampoco
un nulla, se non si volesse significare la negazione delle cose, degli
enti, degli oggetti; sicchè la parola nulla non può essere inventata, nè
adoperata se non da colui che conosce già il qualche cosa. Ora se i tre
vocaboli accennati significano ciò che quell' uomo ha già percepito, non
ciò che gli rimane ancora a percepire, dunque la frase percepire qualche
cosa, percepire un ente, percepire un oggetto, è altrettanto difettosa
quanto quest' altra: percepire sè stesso; quella involge un circolo, quanto
questa; quella, quanto questa, viene a dire: percepire il percepito.
Non si potrà dunque esprimere in parole l' operazione del
percepire? - Si potrà, ma solo con parole indirette; e noi infatti cercavamo
d' esprimerla e di descriverla pur ora; ma l' operazione stessa
non può tradurre sè stessa in parole, poichè tutto ciò che l' uomo esprime,
lo deve aver già percepito per esprimerlo; chè non può l' uomo certamente
dare un nome a ciò che ancora percepito non ha. Adunque, volendosi
esattamente indicare la percezione colle parole « è quella operazione,
per la quale lo spirito acquista un oggetto reale », questa operazione
può chiamarsi anche giudizio ed affermazione, poichè lo spirito
non ha acquistato un oggetto reale, se non l' ha affermato, se non ha detto
a sè stesso la parola interiore: è. Ond' io altrove dissi che gli oggetti reali
si formano (come oggetti) dallo spirito, pure col percepirli (1).
Ma se l' oggetto reale non v' è, non si può nominare prima che
lo spirito l' abbia percepito; che cosa adunque sarà egli innanzi la percezione?
- Egli sarà un sentimento, un sentito, e non mai un inteso;
sarà la materia del futuro oggetto dell' intendimento, ma non ancora l' oggetto;
l' ente in via di formarsi nella mente, ma non ancora l' ente formato;
niuna luce intellettiva v' è in esso; esso non può essere nominato,
come si nominano gli oggetti : il sentimento può solamente produrre
delle interiezioni, delle voci inarticolate, o, se si vuole anche, delle voci
articolate, ma non già imposte a lui dal consiglio della mente, come la
mente impone dei segni ai suoi oggetti; ma solo siccome effetti naturali
di una causa efficiente; perocchè a questa maniera anche
il vento mugola fra le rupi, o freme fra le piante, ma non parla però,
e non intende di porre un segno a sè stesso, o ai pensieri ch' egli non ha;
e in un modo simile i vari sentimenti piacevoli e dolorosi degli animali
bruti sono cause efficienti e necessarie dei vari suoni che emettono, senza
però che i detti suoni sieno, come son le parole, segni arbitrari, imposti
coll' intenzione di significare oggetti della mente.
Ciò che è dunque nella natura non percepito, è anche innominato,
com' egli è non inteso; nè si può dirlo una cosa, non un ente, non un
oggetto; e se noi ne parliamo, lo facciamo indirettamente, come dicevo;
lo facciamo scomponendo l' ente, la cosa, l' oggetto,
cioè togliendo dal percepito la percezione, giacchè così ci accorgiamo
che, togliendo la percezione, non togliamo tutto dall' ente, o
dalla cosa, o dall' oggetto, ma che ci resta ancora l' elemento materiale
da noi non più inteso, ma sentito bensì; il che è quanto dire l' oscuro e
al tutto incognito sentimento.
Applicando le quali cose alla percezione dell' Io , dico che la parola
Io indica già la percezione intera bella e formata, e che nell' oggetto
espresso con tale vocabolo percepiamo un sentimento,
e in esso la nota caratteristica che lo distingue da tutti gli altri
sentimenti, la proprietà, la meità.
Ma in che maniera dunque l' anima, che percepisce sè stessa,
può ella conoscere l' identità di sè percipiente e di sè percepita, come voi
avete pur detto ch' ella deve fare pronunziandosi col monosillabo Io ?
Come può percepire questa identità, se non paragona sè stessa a sè stessa?
- Sebbene dal detto si può rilevare, tuttavia m' ingegnerò di chiarir questo
fatto vieppiù, dimostrando che nella percezione della suità si comprende
già quella dell' identità fra il percipiente ed il percepito.
Il termine della percezione intellettiva è il sentimento; poichè ciò
che al tutto non si sente, non si può percepire. Anche l' anima propria,
dunque, non potremmo percepirla se ella non fosse un sentimento, termine
della percezione.
Ma noi percepiamo anche le nostre proprie operazioni; dunque anche le
nostre operazioni debbono essere accompagnate da sentimento. Quindi
noi percepiamo il sentimento proprio (la propria nostra anima) con tutte
quelle attività e operazioni che lo modificano e svolgono. Ora l' atto, con
cui noi percepiamo questo sentimento costituente l' anima nostra, che poscia
esprimiamo col monosillabo Io o Noi , anch' esso è accompagnato da
sentimento, anch' esso modifica, ed attua il sentimento proprio.
Quando adunque noi percepiamo questo sentimento
proprio, che è l' anima, e lo percepiamo con tutte le sue attualità, perchè
tutte di natura sensibile, necessariamente dobbiamo percepirlo anche coll' attualità
della percezione di sè, poichè, nell' atto di percepire, egli ha
già questa attualità, e il sentimento a lei concomitante. Dunque l' anima,
almeno in un cotal modo implicito, percepisce sè stessa percipiente. L' atto
dunque del percepire sè stessa, si può considerare sotto un doppio rispetto,
o come cagione della percezione, o come sentimento. Sotto il primo
rispetto egli produce la percezione, sotto il secondo è termine della
percezione, rimane egli stesso involto nella percezione medesima. Nè fa
maraviglia che lo stesso atto possa essere principio e termine della percezione,
quando si considera che in ogni percezione il termine di essa
(il sentimento) non è posteriore di tempo al suo principio (azione percipiente);
ma il principio e il termine debbono essere contemporanei acciocchè
nasca la percezione, giacchè la percezione non è che il punto di
unione del principio e del termine, di cui risulta. L' anima, in altre parole,
movendosi a percepire sè stessa, quando col suo atto giunge a sè
stessa, si trova già mossa verso tale percezione; sicchè il principio dell'
atto della percezione di sè, viene colto dalla percezione ultimata e perfetta
(1). Laonde l' identità dell' anima percipiente sè stessa e dell' anima
percepita da sè stessa,
è data all' uomo dalla natura della percezione, sicchè
è impossibile che nasca la percezione, che si esprime col monosillabo
Noi , senza che vi s' inchiuda tale identità (2).
Ma perchè dunque avete voi detto che, a fin di conoscere l' identità
fra il percipiente e il percepito, fa bisogno una seconda riflessione,
mediante la quale l' uomo paragoni sè percipiente a sè percepito,
e si ritrovi identico? - Dovete avvertire che, quando io dissi ciò, analizzavo
l' Io , quale lo dà la coscienza all' uomo già sviluppato. Ora è certo
che il filosofo che dice: « l' Io percipiente sono Io stesso percepito », fa
una seconda riflessione (e fors' anche di un ordine più elevato), colla
quale egli paragona sè a sè stesso. E solo parlando dell' operazione, che
fa la mente di questo filosofo, trovasi accurata l' espressione, che abbiamo
precedentemente riprovata: « percezione di noi stessi », o quest' altra:
« l' Io percepisce l' Io »; perocchè il filosofo percepisce l' Io già formato,
medita sopra il sè , che è quanto dire sopra di ciò che egli ha precedentemente
percepito, essendo la mente, come già dicevamo, quella che presenta
al filosofo l' oggetto delle sue meditazioni. Fichte, per
non avere colta la distinzione fra l' Io riflesso del filosofo e l' Io di prima
formazione , si smarrì per entro quell' interminabile selva di errori. Egli
non conobbe che questo Io è l' opera della mente medesima, e non il nudo
rudimento, che dà la natura allo spirito umano fin da principio.
Ed anche
è così che noi ci piacciamo di giustificare il senso comune, autore
delle lingue e delle loro diverse maniere di espressioni, le quali sono
sempre accurate, purchè s' intendano secondo la loro istituzione;
ma diventano difettose e fallaci per colpa degli individui, che le
volgono a significare quello, a cui non furono istituite. Così se la frase
« percezione di noi stessi », vogliamo pigliarla a significare la prima percezione,
che l' uomo fa del proprio sentimento, diviene inetta ed ingannevole,
poichè non fu inventata per questo; ma se la prendiamo a significare
la percezione riflessa dell' uomo già sviluppato, ella quadra benissimo,
ed è verace.
L' anima dunque viene espressa dal monosillavo Io; ma per
conoscere lo stato di essa primitivo ed essenziale, conviene aver presente
che con quel monosillabo si esprime, oltre il concetto dell' essenza dell' anima,
diverse relazioni, in cui la mente stessa, colle operazioni che gli
fa intorno, lo avvolge.
Noi perciò, rimossi i veli di tali relazioni, abbiamo trovato nel fondo
dell' Io un sentimento anteriore alla coscienza , che costituisce propriamente
la sostanza pura dell' anima. Dobbiamo ora meditare su questo
sentimento, difenderne l' esistenza, descriverne la natura.
Il che è tanto più importante, che molti filosofi non s' accorsero
di dover cercare l' essenza dell' anima in un primo sentimento (1).
Questi traviarono nelle loro ricerche, perchè ebbero la mente infetta
da principŒ ontologici limitati e fallaci, come quelli che eran tratti
quasi unicamente dalle condizioni sensibili della materia, e però non valevoli
che per la materia apparente ai sensi, nè mai applicabili a tutti gli
enti: di che quei principŒ non erano veramente ontologici, ma tali si supponevano
gratuitamente.
E fu questo il maggiore ostacolo ai progressi della filosofia, la
facilità immensa che l' uomo ha di pigliare ciò che percepisce coi sensi
esteriori, per l' unico stampo di tutti gli enti; quasi che tutti gli enti dovessero
avere azioni e passioni simili, e seguire le stesse leggi; e non ci
potesse essere niun altro ente, dissimile in tutto da ciò che i sensi somministrano,
e non punto soggetto a quelle regole di giudicare, che valgono
pei corpi. In quella vece le ali della mente non si possono dispeciare
e stendersi a libero volo per le regioni dell' essere, se prima l' uomo
non s' avvede che tutto ciò che egli percepisce pei sensi, non è altro che
entità incipienti e relative a lui, e che
l' ente compiuto si sta via oltre, e la dottrina che lo riguarda racchiude
tutt' altri principŒ.
Tuttavia, poichè l' uomo non può fermarsi alle mere qualità
sensibili dei corpi esterni, ma per la legge della percezione (1) egli è
necessitato a supporre l' esistenza di qualche altra cosa, cioè dell' atto,
pel quale i corpi esistono; aiutando coll' immaginazione la debolezza di
sua ragione, suppone che quell' altra cosa, necessaria a spiegare la sussistenza
delle qualità sensibili, abbia un suo luogo; e la colloca sotto le
qualità sensibili e superficiali, chiamandola sostanza ( sub7stans ), senza
avvedersi che se la sostanza dei corpi giacesse sotto la loro superficie, ella
si potrebbe trovare rompendosi i corpi, e frugandosi nel loro interno; il
che non si può (2). Ora una tale entità, creata
dalla immaginativa, riesce necessariamente un quid inesplicabile e misterioso;
indi la conclusione di tutti i sensisti nostri, che le sostanze delle
cose sono pienamente incognite (3).
Che se, facendosi tacere l' immaginazione, noi ci atteniamo
alla ragione, unica guida verace nelle ricerche filosofiche, facilmente ci
accorgiamo che l' atto , pel quale esistono le qualità sensibili dei corpi, non
è altro che la forza sensifera (4), la quale si manifesta nel nostro sentimento
animale, quando viene modificato, come un extra7soggettivo . Questa
è quella prima cosa che noi nei corpi intendiamo, e basta ella sola
(determinata dai suoi effetti, cioè dalle sensazioni) a farci concepire i
corpi, e però ella è sostanza ; ed è a lei che il senso comune aggiunse
la parola corpo.
Che se poi il ragionamento trova che la forza sensifera , dataci
colla percezione (5), esige qualche altra cosa per esistere, quest' altra
cosa, che non cade nella percezione dei corpi, in quanto è causa prossima
della forza, si chiami pure principio corporeo (6); ma questo sarà
sempre fuori del concetto di corpo, poichè questo concetto dalla percezione
sola ci viene somministrato.
Quei filosofi, adunque, che collocarono la sostanza dei corpi
in un quid incognito, non trovandolo colla ragione, ma supponendolo
colla immaginazione, continuarono il loro modo di filosofare anche
quando presero a sciogliere la questione « in che consiste l' essenza dell'
anima umana ».
E primieramente generalizzarono la loro dottrina intorno la sostanza
dei corpi. « La sostanza dei corpi, così argomentarono, è un quid incognito,
che fa sussistere le qualità sensibili ad esso soprapposte. Tale è
dunque ogni sostanza ». Persuasi adunque che ogni sostanza si dovesse
concepire, o piuttosto coniare ad instar di quella dei corpi, presero anche
la sostanza dell' anima per un cotal sostegno, o sostrato ( substratum )
perfettamente incognito, che sta sotto agli accidenti dell' anima.
Quanto sia arbitraria tale maniera di ragionare è palese a ciascuno.
Dobbiamo dunque lasciar da parte questa filosofia dotta (1), e
farci compagni al senso comune. Il senso comune intende di significare
le sostanze con quei nomi, che i grammatici chiamano sostantivi .
Ora i nomi sostantivi
sono imposti a tutti gli enti percepiti dall' uomo. L' ente percepito, adunque,
è sostanza secondo il senso comune. Ma se le sostanze delle cose nominate
coi vocaboli si percepiscono, dunque esse non sono incognite, perchè
percepire è pure una maniera di conoscere. Non dobbiamo dunque
crearci le sostanze coll' immaginazione; anzi trovarle nella percezione
medesima, ogniqualvolta questa è possibile.
Quali sono gli enti che l' uomo percepisce? I corpi e l' anima
propria. Se vogliamo dunque rinvenire la sostanza dei corpi
e la sostanza dell' anima, noi dobbiamo cercarla nella percezione . Così
abbiamo fatto trattando della sostanza dei corpi; il simile dobbiamo fare
trattando della sostanza dell' anima.
Ora, si può percepire ciò che non si sente? No certamente;
perocchè la percezione è una cognizione sperimentale, e non si
dà esperimento, dove non si dà sentimento. Nel sentimento adunque abbiamo
trovata la sostanza del corpo; nel sentimento pure dobbiamo trovare
la sostanza dell' anima.
Ma non ogni sentimento è sostanza; perocchè vi sono sentimenti
che non si possono concepire da sè soli, e presuppongono un altro
sentimento dinnanzi a sè, di cui sieno modificazioni. Conviene adunque
risalire al primo sentimento, pel quale e nel quale sono tutti gli altri, e
innanzi al quale niun altro sentimento si esperimenta. Vi deve essere
dunque un sentimento primo e stabile, in cui consista la sostanza dell' anima;
e questo è ciò che noi abbiamo chiamato sentimento fondamentale .
Quanto è facile a percepire il sentimento fondamentale, ed
anche ad esser colto con una prima riflessione, congiunto colle sue modificazioni
(onde il senso comune nomina anima il suo principio), altrettanto
è difficile a distinguerlo per via di nuove riflessioni dalle sue modificazioni,
e a riconoscere ch' egli è il primo, egli il principio di tutti gli
altri sentimenti speciali ed accidentali.
Condillac suppone che la vita sensibile cominci al primo fiutare,
che la sua statua fa d' una rosa (1). Ma in quel primo atto, che suppone
il nostro filosofo, la statua non sente che l' odore d' una rosa, non sa
nulla di sè stessa. Tuttavia la maniera, con cui si esprime questo scrittore,
riceve qualche benigna interpretazione; poichè egli dice che la statua,
fiutando la rosa, deve credere sè stessa l' odor di rosa, e non altro. Se
ella deve credere d' essere odor di rosa, ella già sente sè stessa; conciossiachè
predica di sè stessa l' odor di rosa.
Il Degerando, ed altri, dissero che le sole sensazioni del tatto
s' accompagnano al sentimento di noi stessi. Anche questa sentenza presa
a rigore, è manifestamente falsa; interpretata benignamente diventa vera;
è vera cioè, se si vuol dire che la sensazione del tatto è quella che
aiuta l' uomo, più delle altre, a distinguere il Me dalla sua modificazione
accidentale.
A ragione il Galluppi sostiene che non si può dare sensazione
alcuna, scompagnata dal nostro proprio sentimento sostanziale.
Poichè « « percepire una sensazione » - egli dice - «è sentirsi modificato,
è sentirsi, è avere il sentimento del proprio me » ». Ma egli conchiude poi
erroneamente che « « sin dalla prima sensazione noi abbiamo una percezione
del me » », e che « « la nostra vita sensibile incomincia dalla percezione
del me e delle sue sensazioni »(1) ». Egli non s' innalza dunque fino
al sentimento fondamentale, che sta al di là delle sensazioni acquisite,
nè giunge ad intendere come vi sia un sentimento anteriore alla percezione
intellettiva ed alla coscienza. Finalmente, non conoscendo la dottrina
dell' oggetto , egli adopera questa parola a significare il termine della
sensazione; il che lo precipita nel sensismo, mentre si dibatte per uscirne.
Già noi abbiamo dimostrato che questo sentimento senza dubitazione
alcuna esiste (2); e qui volevamo rimettere il lettore alle date
dimostrazioni. Ma essendoci venuta alle mani una vecchia nota del 1.21,
nella quale avevamo stese alcune ragioni atte a provare l' esistenza di
quel sentimento, crediamo opportuno di collocarla qui sotto gli occhi del
lettore, cangiando solamente la parola coscienza, allora da noi usata impropriamente,
in quella di sentimento.
Nell' uomo esiste un sentimento fondamentale.
« Io trovo d' avere nello stato presente gran numero
di sensazioni, quali sono quelle che mi vengono dal corpo, ho memoria
d' altre sensazioni avute, possiedo inoltre molte cognizioni, e fo
molti pensieri. Ma io trovo che tutte le sensazioni presenti o passate, e
tutti i miei pensieri, hanno qualche cosa di distinto fra loro; infatti, se
due sensazioni o due pensieri non avessero niente che li distinguesse,
non sarebbero più due, ma uno solo. D' altra parte io vedo che sono sempre
io che penso, percepisco e fo tutte queste cose, quell' Io stesso; e se
non fossi io sempre quello stesso, non potrei confrontare due sensazioni,
o due pensieri, e conoscerne la diversità. Questo Io , dunque, non è le sensazioni
e i pensieri, perchè quelli sono diversi, e l' Io è uno; ma l' Io è
bensì il soggetto, che possiede le sensazioni ed i pensieri. Dunque l' Io ,
considerato nella sua propria natura, è indipendente dalle sensazioni e
dai pensieri, poichè questi sono accidentali e variano di continuo, senza
che possano far variare giammai l' Io . Se dunque incomincio a levar via
colla mente qualche mio pensiero particolare o qualche particolare sensazione,
io ben m' accorgo di non distruggere
perciò l' Io , sento che l' Io rimane. Se dunque l' Io mi rimane egualmente,
togliendo da lui qualunque particolare sensazione e qualunque
particolare pensiero, vuol dire che io posso togliere via da me, ad una ad
una, tutte le sensazioni e tutti i pensieri accidentali, senza che ancora vi
abbia tolto via l' Io , l' essenza del quale non ha mai sofferto nulla per
averlo così spogliato dei suoi sentimenti e pensieri accidentali. L' Io dunque
resta, anche privo d' ogni acquisita modificazione. E in tal modo appunto
io ascendo a formarmi l' idea del sentimento, che coll' Io s' esprime,
puro e primitivo ».
« Le parole, che sono il fedele ritratto delle
idee, confermano il medesimo. Infatti, quando io voglio esprimere l' atto
del sentire, dico così: Io sento . Ora cancelliamo il solo sento : è allora,
io domando, necessariamente levato anche l' Io ? No. All' opposto cancelliamo
l' Io , e ci resti il sento . In questo caso, o che nel sento sottointendo
l' Io , o che, se assolutamente voglio prescindere dall' Io , il sento non ha
più significato. Il sentimento adunque, espresso nella voce Io , esiste indipendentemente
dalla sensazione particolare; la sensazione particolare
all' opposto ha bisogno per esistere del sentimento fondamentale, a quella
stessa maniera appunto che l' accidente non può esistere senza la sostanza,
nè l' artificio senza l' artefice, quantunque vi possa essere e la sostanza
senza l' accidente, e l' artefice senza l' opera sua ».
« Di poi tutte le mie sensazioni non producono
che stati o modi d' esistere dell' anima mia. Questa sente quel dato modo
di suo essere, quando ha una particolare sensazione. Ma come potrebbe
ella sentire quel suo modo di essere, se non sentisse essenzialmente sè
stessa? Che vuol dire sentire il modo di essere o d' esistere di sè stessa?
Che altro se non sentire la relazione d' una data modificazione con sè
stessa? Acciocchè l' anima senta questa relazione, ella ha pur mestieri di
sentire già sè stessa, perocchè appunto a sè stessa quella modificazione
si riferisce. Onde se l' anima non sentisse sè stessa anteriormente alla sensazione,
questa sarebbe nulla per lei, conciossiachè altro non sarebbe che
un' azione sopra un ente che non si sente, e che perciò molto meno può
sentire qualche altra cosa ».
« Si può anche ragionare così: o questa
azione è fatta nell' anima, o fuori dell' anima. Se è fuori, l' anima non
sente nulla; se nell' anima, o quest' anima è un ente che si sente o no.
Nel primo caso vi è il sentimento fondamentale; nel secondo cessa anche
la possibilità della sensazione. Perocchè se l' anima non sente sè stessa,
come può sentire quello che è in sè stessa? Sarebbe come negasse
di vedere una tavola, dicendo di vederne la forma
o il colore. La modificazione di ciò che è sensibile, è sensibile; ma la
modificazione di ciò che non è sensibile, non è sensibile ».
« Sotto quest' altro aspetto si può esporre
l' argomento. Io domando: perchè mai l' anima sente i vari suoi modi
d' esistere, prodotti dalle sensazioni? Certo, perchè ha la facoltà di sentire
i modi del proprio esistere. Ma non è un modo d' esistere quel
primo, sebbene anteriore ad ogni acquisita modificazione? Se egli è tale,
perchè esso solo si sottrarrà alla facoltà, a cui tutti gli altri modi soggiacciono?
Fino che non si trova ragion sufficiente in contrario, si dovrà dire
che quell' ente, che sente i modi della propria esistenza, deve sentire anche
il primo suo modo, anteriore a qualsiasi particolare mutazione ».
« Come mai può avvenire che l' anima, dato
che non si senta per sè medesima, venga poi a sentirsi per mezzo delle
modificazioni che riceve? Concediamo che tali modificazioni possano
muover l' anima a riflettere al proprio sentire, a fare il paragone dei suoi
stati, ad uscire così dalla sua naturale quiete, e percepire il proprio sentimento,
e quindi venire ad una cognizione più distinta e più appagante
di sè medesima. Ma qui noi parliamo del sentire semplice, e
non di paragoni fra diversi sentimenti. Diciamo adunque che le azioni
fatte sull' anima non potrebbero mai, per quante si fossero, per quantunque
forti, condurla a sentir sè medesima, se non si sentisse già a principio
di sua natura. Infatti, queste sensazioni che ella acquista, o si considerano
avanti che abbiano modificato l' anima, o nell' atto del modificarla.
Avanti che esse pervengano all' anima, non sono ancora sensazioni.
Nell' atto poi che agiscono sull' anima, nè gli agenti nè le loro operazioni
possono dare all' anima il senso, perchè non l' hanno essi stessi, e l' avessero
anche, il senso è incomunicabile; bensì è l' anima quella che rende
sue sensazioni gli impulsi degli agenti da lei diversi. Avanti dunque che
questi impulsi le siano dati, e indipendentemente da essi, l' anima s' aveva
il senso, mentre non lo riceve da essi, ma ad essi lo dà ».
« Niuno ci nega che l' anima originariamente
e per natura sua abbia la facoltà di sentire; ma non ci si accorda
egualmente da taluni che essa ne abbia l' atto altresì, perchè, si dice, altro
è l' atto, altro la facoltà. E per vero si deve convenire che l' atto particolare
è cosa assai diversa dalla facoltà, che produce tutti gli atti. Ma tutta
la questione dipende da un' idea chiara della facoltà. Ora ecco come io
la intendo. Acciocchè la facoltà operi, richiede sempre certe condizioni,
per modo che, date queste, ella opera, ossia diviene atto particolare;
giacchè una facoltà, in quanto è atto, cessa d' essere facoltà. Così la facoltà
di vedere ha bisogno della luce, la facoltà di udire delle ondulazioni
d' un fluido aeriforme, la facoltà di gustare della sostanza saporosa,
e così delle altre. Date dunque tutte le condizioni necessarie, una
facoltà qualunque si mette in atto. Osservo di più, che l' azione dipende
dalla facoltà come da vera causa efficiente, mentre le altre condizioni
influiscono solo come occasioni, eccitamenti, ecc.. Acciocchè, per esempio,
il sole illumini una stanza, è bisogno che il balcone sia aperto; ma
è forse il balcone aperto che la illumina, e non piuttosto i raggi del sole?
Passa dunque gran differenza fra la mera condizione necessaria, e la
causa. Del pari, se il toccamento dell' aria scossa è necessario all' organo
dell' udito acciocchè senta il suono, non è tuttavia il mio organo, la mia
facoltà d' udire quella che ode; od è forse l' aria quella che fa quest' atto?
Sia dunque conceduto essere cosa del tutto diversa l' occasione della sensazione
dalla causa di lei; e questa essere il subietto che sente, ossia la
facoltà. Se adunque la causa del sentire è la facoltà, e questa opera necessariamente,
poste le condizioni; dunque la facoltà non fa l' atto suo
in virtù delle cose esteriori, ma in virtù dell' attività propria; dunque
ella deve essere sempre in un certo atto da sè stessa; poichè se non avesse
un primo suo atto, in niun modo si potrebbe intendere come ella passasse
dalla potenza all' atto, non essendovi ragione sufficiente di tal passaggio;
mentre qualunque azione del corpo su di lei non ha punto virtù,
come abbiamo detto, di trarvela, ma solo le porge l' occasione dell' operare.
La giusta idea dunque della facoltà si è quella che la fa consistere
in un atto universale , precedente a tutti gli atti particolari; il quale atto
universale si particolarizza poi e specifica, quando gli viene data qualche
individuale materia, a cui possa applicare, e sulla quale restringere
la sua operazione. Così se io colloco successivamente sotto un' enorme
massa di ferro diversi oggetti, ella col suo peso me li schiaccia tutti l' un
dopo l' altro, non già perchè ella incominci allora ad operare, anzi appunto
perchè quella massa operava, cioè pesava continuamente, ancorchè
non ischiacciasse niun oggetto particolare, che non le era sottoposto.
Se dunque la facoltà di sentire dell' anima, presa in universale, è già in
atto, indipendentemente dagli esterni e particolari impulsi, dunque l' anima
sente sè stessa; proposizione che torna a un dire, analizzate le idee,
ch' ella è un ente senziente, ciò che pur tutti ci accordano »(1).
Le prove dell' esistenza del sentimento fondamentale costituente
l' uomo, che abbiamo date nel « Nuovo Saggio », tolgono a provare
piuttosto quella parte di esso, che ha per suo termine il corpo e lo spazio;
le prove esposte nel capitolo precedente dimostrano l' esistenza d' un
sentimento, che si estende a tutto ciò, a cui significare si estende il monosillabo
Io .
Conviene dunque cercare nel sentimento, che giace in fondo all' io ,
l' essenza sostanziale
dell' anima.
Ora, dalle cose dette noi possiamo già raccogliere alcune notizie
intorno alla natura di un tal sentimento, e cioè:
Quando l' uomo pronuncia Io , egli non intende di pronunciare
una modificazione sfuggevole ed accidentale, ma un vero essere sussistente,
e però una sostanza.
L' uomo niente conosce di sè, prima che non abbia affermata
l' anima propria; ed affermandola, egli percepì un ente sussistente, che
non è in alcun altro come modificazione o come accidente; e però percepì
una sostanza.
Questo ente sussiste, questa sostanza affermata e col
monosillabo Io espressa, è una sostanza7sentimento; e in questo sentimento
v' è un principio attivo, senziente ed operante; e però l' Io è un
soggetto (1).
Di ogni scienza il principio si è la definizione dell' oggetto,
di cui ella tratta; poichè la definizione esprime l' essenza della cosa, e
l' essenza della cosa, di cui si parla, è il principio di ogni ragionamento
intorno alla medesima; il quale ragionamento prende maggiore o minor
campo, secondo che l' essenza conoscibile è più o meno compiuta, relativamente
all' essere della cosa.
L' essenza conoscibile è positiva, quand' ella si ha per via
di percezione. Onde le scienze, che abbiamo dette di percezione,
ricevono il loro principio dalla percezione dell' ente,
che ne costituisce l' oggetto.
La percezione dell' ente ci fa conoscere positivamente la
sostanza dell' ente, e quindi la sostanza , positivamente conosciuta nella
percezione, è il principio di tali scienze. Applichiamo queste nozioni
logiche alla Psicologia.
Il principio di questa scienza si deve riconoscere nella percezione
stessa dell' anima; cioè tutti i ragionamenti, che far si possono
intorno all' anima, debbono necessariamente partire da ciò che noi conosciamo
dell' anima nostra, percependola. Ora ciò che percepiamo
dell' anima nostra, prima di tutto si è la sua sostanza; alla sostanza dell'
anima percepita risponde l' essenza sostanziale , che non è altro se non
la sostanza stessa da noi intuita nell' idea come possibile.
Non di meno conviene osservare che noi non percepiamo
l' anima nostra se non come un soggetto, e che l' anima percepita e pronunciata
nell' Io non è un Io possibile, ma un Io sussistente, e sussistente
in modo che gli è essenziale la sussistenza, in quanto s' afferma. Affine
dunque di concepire un Io possibile , ossia l' idea dell' Io staccato dalla
percezione, dobbiamo fare una operazione doppia, per la quale trasportiamo
nell' idea non solo l' Io percepito , ma ben anche l' Io percipiente.
In altre parole, l' Io possibile non è altro se non la possibilità generale
« di un' anima percipiente e pronunciante sè stessa »,
come io percepisco e pronuncio me. Quando dico Io ,
esprimo: 1 una meità particolare; 2 la meità particolare mia propria.
La meità è sempre particolare, per sua essenza, essendo un sentimento
proprio; ma questo particolare può tenere la relazione di identità col
me, che hic et nunc la pronuncia, o con un altro soggetto, che pure la
pronuncia. Questa relazione è quella che può essere universalizzata,
concependosi così ciò che è essenzialmente proprio e particolare, come
possibile ad avere relazione d' identità con me, che ora la pronuncio, o
con altri, che penso che la pronuncino. Tale è la maniera di universalizzare
il me , che è per sua essenza particolare, e che perciò non può
essere universalizzato in sè stesso, ma, come dicevo, nella relazione d' identità
di sè percepito a sè percipiente e pronunciante.
Ciò dunque, che noi conosciamo dell' anima nostra nella
percezione di noi stessi, è il principio prossimo della Psicologia . Esso è
anche il principio remoto delle scienze, che trattano degli spiriti in generale,
ed in ispecie di quegli spiriti, che non cadono sotto la nostra
esperienza; e dico remoto, perchè alla formazione di queste deve intervenire
il ragionamento (1).
La qual via diritta e veramente logica, per la quale debbono
procedere le scienze, fu veduta, battuta, e additata da S. Agostino, e dal
sommo filosofo nostro nazionale, S. Tommaso.
S. Agostino osserva espressamente che la mente umana non potrebbe
conoscere alcun' altra mente, se prima non conoscesse sè stessa:
« unde enim mens aliquam mentem novit, si se non novit ? (2). » Il
che è quanto dire che se lo spirito umano non percepisse prima sè stesso,
egli non potrebbe formarsi il concetto di alcun' altro spirito, perchè non
avrebbe alcun esempio, per così dire, su cui foggiarlo. Onde, nell' ordine
delle cognizioni, precede la cognizione dell' anima propria alla cognizione
delle altre anime e delle altre intelligenze; le quali si conoscono
col ragionamento, che s' istituisce sulla percezione, che ha l' anima di sè
stessa. Quindi seguita a dire il santo Dottore che la mente si conosce per
sè medesima [...OMISSIS...] . Delle quali parole fu
abusato, poichè taluno pretese dedurne che l' anima umana fosse nota a
sè stessa per la propria essenza, ovvero ch' ella non avesse bisogno d' alcun
altro lume a conoscere sè stessa; quando S. Agostino ripete assai
spesso che nè l' uomo, nè la sua mente, è lume a sè stessa; ma supposto
il lume a lei comunicato dall' alto, non conosce sè stessa per un ragionamento,
che parta d' altra cosa a lei più nota; ma immediatamente, cioè
per via di percezione. Onde egli spiega che, come la mente conosce i
corpi pel sentimento che essi producono, agendo negli organi dei sensi,
così conosce gli spiriti per sè stessa, cioè per quel sentimento suo proprio,
che è oggetto della sua percezione (1).
L' Angelico poi spiega la mente di S. Agostino così. Egli dimostra
che, quando S. Agostino dice che la mente si conosce per sè, non
vuole punto dire che sia conoscibile per la sua propria essenza, il che
appartiene a Dio solo, ma che si conosce per l' atto suo, cioè per la percezione
di sè, senza bisogno di adoperarvi altro ragionamento induttivo.
« Laonde - dice - l' intelletto nostro non si conosce per la sua essenza,
ma per l' atto suo, e ciò in due modi: in un modo particolare, e così Socrate,
o Platone percepisce di avere un' anima intellettiva per questo che
percepisce d' intendere ». Qui S. Tommaso insegna che l' uomo conosce
il proprio intelletto, perchè è conscio d' intendere; ricorre all' atto
dell' intendere, perchè quest' atto è quello che attira la nostra riflessione
su di noi stessi, onde veramente con ciò si spiega la cognizione riflessa di
noi, e non l' immediata percezione. Ma se si considera che la riflessione,
causa della coscienza, non potrebbe aver luogo, se prima non avesse
luogo la percezione; si può ben raccoglierne che la dottrina dell' Angelico
intorno la cognizione riflessa, che l' anima acquista di sè stessa, suppone
la percezione immediata. Prosegue: « « E in un modo universale,
pel quale noi, movendo dall' atto dell' intelletto, consideriamo la natura
dell' umana mente »(2) »; il che è appunto ciò che noi abbiamo detto farsi
dall' uomo colle operazioni, che chiamiamo oggettivizzazione e universalizzazione .
Quindi S. Tommaso stabilisce con Aristotele che la scienza dell'
anima nostra propria è il principio di tutte le cognizioni, che aver possiamo
degli spiriti puri:
La sostanza dell' anima dunque è percettibile all' anima
stessa, e non potrebbe essere percettibile, se non consistesse in un sentimento
primo e fondamentale; perocchè ciò che non si sente per alcun
modo, nè per alcun modo si percepisce.
Laonde con
pari verità e acutezza S. Agostino scrive ancora: « Nullo modo autem recte
dicitur sciri aliqua res, dum ejus ignoratur substantia. Qua propter, cum
se mens novit , SUBSTANTIAM SUAM NOVIT; et cum de se certa est, de substantia
sua certa est (1). »
Ma per applicare convenevolmente questo principio a dedurre
le notizie speciali, che ci compongano una scienza dell' anima, più
avvertenze si debbono aver presenti, e ne accenneremo le principali.
In prima, le scienze non si compongono di cognizioni dirette ,
ma di cognizioni riflesse . Queste non si acquistano che allorquando la
mente si ripiega sulle sue cognizioni dirette. Ora è la cognizione diretta
e percettiva quella che afferma immediatamente le sostanze, e non la
riflessa. Cercandosi dunque quale sia la sostanza dell' anima, e volendo
rendere tale dottrina scientifica , al che non si può a meno di farvi intervenire
la riflessione, è uopo che, dopo aver fatto questo, con un' altra
riflessione o con più altre, separiamo dalla cognizione scientifica quegli
elementi, che l' uso della riflessione vi ha posti, come abbiamo detto, e
che non appartengono alla nuda sostanza dell' anima, ma al concetto riflesso
di essa sostanza; altrimenti noi piglieremmo per cose attinenti alla
sostanza, quelle che sono lavorii della nostra riflessione.
La riflessione nostra cade assai più facilmente sugli atti dell'
anima che sull' anima stessa, quale ci è data nella percezione; e gli atti
sono poi necessari come stimoli della riflessione. Ma sarebbe un errore
il conchiudere da ciò, che ogni cognizione, anche la cognizione primitiva
dell' anima, si traesse dagli atti suoi per forma che noi la conoscessimo
solo dai suoi effetti,
quasi si trattasse di cosa a noi straniera, e l' anima nostra non
fossimo noi stessi. Noi riflettiamo sugli atti dell' anima ad un tempo, e
sull' anima. Infatti, non potremmo mai sapere che gli atti percepiti appartenessero
a noi , piuttosto che ad un altro soggetto, se insieme cogli
atti nostri non percepissimo noi stessi , come causa e soggetto di tali atti.
Acciocchè, dunque, noi abbiamo la notizia della sostanza pura dell' anima,
conviene che con una nuova riflessione separiamo dall' anima i suoi
atti, benchè colla riflessione precedente noi abbiamo posto attenzione, e
agli atti dell' anima, ed all' anima in pari tempo.
Finalmente è da avvertire che, quando noi abbiamo oggettivizzato
il sentimento dell' anima, che giace nella percezione di noi
stessi, e così universalizzatane la notizia, e formatocene il concetto specifico;
allora noi con altre riflessioni possiamo analizzarlo, e paragonare
l' anima ad altre cose da noi conosciute, come sarebbe ai corpi, per rilevare
in che rassomigli e in che dissomigli. Ora qual' è la regola, che ci
deve guidare in tali analisi e confronti, per non cadere in errore? La
regola si è di « conservare il concetto dell' anima, tale quale ce l' ha dato
la percezione di lei e degli atti suoi insieme con lei, senz' aggiungervi cosa
alcuna ad arbitrio »; la qual regola viene in conseguenza di ciò che abbiamo
detto, che la percezione è il principio della scienza dell' anima.
Non può essere in una scienza più che sia nel principio della scienza;
onde non può essere nel concetto oggettivo ed universale dell' anima più
di ciò che è nella concezione dell' anima stessa, da cui abbiamo separato
il concetto. Se vi aggiungiamo dunque qualche cosa di arbitrario, egli è
un errore. Ma accade pur facilmente che aggiungiamo, ad arbitrio, al
concetto d' una cosa ciò che ad esso non appartiene. Noi abbiamo questa
facoltà arbitraria di affermare, ed è appunto la facoltà dell' errore; suol
essere la immaginazione quella che, tramettendosi in luogo della ragione,
muove la nostra facoltà di affermare, ossia di persuaderci a dire
che nel concetto di una cosa vi è quello che non vi è; e così a definire
malamente la cosa, attribuendole una natura ch' ella non ha. Dove è l' origine
di tutti i falsi sistemi intorno all' anima umana; i quali rimangono
tutti esclusi e rifiutati sin dall' origine, colla regola logica da noi accennata,
di « richiamare il concetto dell' anima alla percezione dell' anima,
ed osservare attentamente se ciò che abbiamo posto in quel concetto, si
trovi nella percezione; se vi si trova, egli è un elemento legittimo, se non
vi si trova, è un elemento illegittimo e da espugnersi da quel concetto ».
La qual semplicissima regola e bellissima, ci fu somministrata da
uno dei nostri due grandi maestri in opera di speculazione filosofica non
meno che teologica, S. Agostino; noi non l' abbiamo che tradotta in parole
moderne.
Distingue S. Agostino fra il conoscersi dell' anima, e il pensare
che fa l' anima a sè stessa. Per conoscersi semplicemente, ella non
abbisogna che di percepirsi; ma per pensare a sè, ha bisogno di riflettere
(1). Colla percezione l' anima si conosce come presente , colla riflessione
si cerca come assente; perchè la riflessione scientifica, di cui si
parla, si volge sul concetto oggettivo ed universale dell' anima. Ora, dice
S. Agostino, gli errori non cadono nella percezione , ma nell' opera della
riflessione; non nel conoscersi semplicemente, ma nel pensare a sè.
Quindi ammonisce che, per evitare gli errori, l' anima pensi a sè stessa
come presente, non si cerchi come assente; il che è quanto dire, badi a
ciò che le somministra la percezione di sè, non, abbandonata questa, a
ciò che va affermando la riflessione di lei (2) come di un cotale oggetto
alieno da lei: « non igitur velut absentem se quaerat cernere, sed PRAESENTEM
se curet discernere (3). » Non ragioni l' uomo dell' anima propria come
d' una terza cosa incognita, non supponga egli di non conoscersi; anzi
intenda che si conosce già, e che altro non ha a fare che a distinguere
quel sè che conosce dalle altre cose.
Il carattere della percezione, aggiunge S. Agostino, è la certezza;
di ciò che la percezione ci dà dell' anima, non possiamo noi dubitare.
Quindi si trae quasi una spia da conoscere ciò che sappiamo dell'
anima per percezione, e ciò che vi abbiamo aggiunto noi arbitrariamente
per riflessione, di cui sogliamo sempre dubitare. Così, che l' anima
sia il principio del sentire e dell' intendere è ammesso da tutti, niuno
dubita; il che è prova che si trova nella percezione; ma che l' anima sia
aria, o fuoco, o altro corpo, questo si dice con dubbiezza, non è da tutti
consentito. Dunque si conchiuda che è aggiunta arbitraria, che è un errore
della riflessione che batte invano; poichè se fosse nella percezione,
niuno dubiterebbe (5). Questo solo argomento annulla ogni materialismo.
Aggiunge il grand' uomo un altro indizio eccellente a conoscere
ciò che non viene dalla percezione , che è il fedele principio della
cognizione dell' anima, e quindi anche il criterio per conoscere le vere
dalle false dottrine intorno a lei. Quando noi dubitiamo, così viene egli
a dire, se una data natura, per esempio l' acqua, sia l' anima, osserviamo
se noi pensiamo quella natura allo stesso modo come ne pensiamo un' altra,
che sappiamo di certo non esser l' anima. Se la pensiamo allo stesso
modo, diciamo pure che non è l' anima nostra; perocchè se fosse l' anima
nostra, noi penseremmo quella natura in un modo diverso da tutte le
altre nature, il che viene a dire, la penseremmo come presente e come
nostra, mentre le altre nature le pensiamo solo come aliene da noi ed
assenti (1).
Anche S. Tommaso distingue la cognizione diretta dell' anima,
che si ha per via di percezione, dalla riflessa; e dice che la prima
è facile e non ammette errore, ma la seconda è difficile, perchè si deve
frenare la riflessione entro i limiti di quelle cose, che nella percezione
stessa si contengono, e l' eccederli fu cagione degli errori presi dai filosofi
intorno alla natura dell' anima (2).
Concludiamo, la ricerca scientifica della sostanza dell' anima
deve essere purgata da tre appendici eterogenee, che con essa si mescolano:
Da tutte quelle sostanze o qualità, che non si trovano nella
percezione dell' anima nostra , e che furono aggiunte al concetto dell' anima
dall' arbitrio dell' uomo; e con ciò si escludono gli errori di quelli che
pretesero l' anima essere fuoco, aria, atomi accozzati insieme, e in generale
di tutti i materialisti.
Da tutte le relazioni attuali colla nostra riflessione medesima,
come sarebbe dalla coscienza di sè, la quale è un lavoro sopraggiunto
della riflessione; e con ciò si escludono gli errori di quegli ideologi, che
cavano le idee dall' anima stessa (soggettivisti), o che suppongono non
faccia bisogno spiegare la prima cognizione, quasi fosse data coll' anima
stessa, o quasi l' anima fosse cognizione, o conoscibile per sua propria
essenza.
Da tutto ciò che si percepisce insieme coll' anima, cioè dagli
atti delle sue potenze, i quali sono accidenti che sopravvengono all' anima,
e non sono l' anima, benchè insieme coll' anima, come dicevamo, si
percepiscano; giacchè l' uomo non è mosso a rivolgere la sua attenzione
sopra sè stesso, e così percepirsi, se non dai suoi propri atti, i quali atti
da prima sono i sensitivi, determinati dall' azione dei corpi esterni. E
quindi dovendosi, ad avere la notizia pura della sostanza dell' anima, separare
da essa i suoi atti accidentali, conviene separare da essa lo stesso
atto della percezione, perchè neppure la percezione di sè è l' anima, anzi
è una mera operazione dell' anima, con cui ella acquista la prima notizia
di sè. Segregando, adunque, dal concetto dell' anima anche la percezione
intellettiva di sè, non rimane che il sentimento primo e fondamentale,
che è l' oggetto della susseguente percezione, e che costituisce
la pura sostanza dell' anima. E questa avvertenza esclude l' errore di
quelli che pretendono essere l' anima un quid del tutto incognito ed insensato,
o che suppongono sotto l' Io fenomenale dover essere un altro
Io sostanziale; errore da me confutato altrove (1).
Finalmente, con questo metodo di filosofare intorno all' anima,
noi perveniamo a conoscere due cose, a cui si riducono, come a
sommi generi, tutte le psicologiche notizie; perveniamo cioè a conoscere
e determinare:
Che cosa l' anima è; perocchè ella è tutto ciò che si trova nella
coscienza di noi stessi, ossia nell' Io , toltene tre appendici, di cui abbiamo
parlato.
Che cosa l' anima non è; perocchè ella non è tutto ciò che non
cade nella coscienza di noi stessi, ma che è l' una o l' altra
di quelle tre appendici, che noi stessi o coll' immaginazione, o colla riflessione,
o colla percezione, vi frapponiamo e vi aggiungiamo.
Rimane adunque che noi ci facciamo a meditare su questo sentimento
sostanziale, che giace nel fondo dell' Io ; che ne distinguiamo le
proprietà; e ne compiamo finalmente l' analisi più accurata.
Noi abbiamo indicato nel libro precedente il fonte, onde si
debbono attingere le dottrine psicologiche, il qual fonte si ravvisa nella
coscienza di noi stessi. Abbiamo in pari tempo stabilito il principio della
Psicologia , che giace nell' essenza dell' anima , trovata da noi consistere
in un primo sentimento immanente e al tutto sostanziale . Al libro presente
ed ai tre seguenti è commesso di svolgere (meditando in quel sentimento),
e con accurata analisi rinvenire gli elementi, le doti, gli attributi
dell' essenza dell' anima, escludendo quelli che falsamente le vengono
apposti; e così di esporne la dottrina, tanto nella parte sua negativa,
quanto nella parte sua positiva; cioè dicendo quello che l' anima
non è, e che dall' altre sostanze la parte; e quello che ella è in sè stessa.
Al quale lavoro, secondo la possibilità nostra, ponendo mano, incomincieremo
a parlare dalla dote negativa dell' unità.
Dovendosi dunque cavare tutta la dottrina positiva dell' anima
dalla meditazione dell' Io , in prima noi tosto rileviamo ch' ella è unica
in ciascun uomo, perchè ciascun uomo non è mai più che un Io .
Questa dimostrazione immediata ed evidente dell' unità dell' anima
esclude l' errore delle tre anime, che taluni posero nell' uomo, volendo
che vi fosse contemporaneamente un' anima vegetabile, una sensitiva
ed una intellettiva. Altri similmente errando, ne posero due, la sensitiva
e la intellettiva. La fonte dei quali errori è palese; il non aver cercato
questi filosofi quale sia l' anima umana nell' Io , dove ella è, ma altrove
dove non è. Dato anche che ci fosse unito all' uomo un principio di
vegetazione e di sensazione, distinto dall' Io (e vi può benissimo essere),
egli non sarebbe l' anima umana, ma qualche cosa di diverso da essa.
Dunque l' anima è tanto evidentemente una, quanto è evidente ad ognuno
di essere un uomo solo, e non due o più. Ed è evidente, perchè glielo
dice la coscienza, e la coscienza è appunto la percezione dell' anima, o
la racchiude; perciò ella è il testimonio unico degno di fede ed infallibile
in questo argomento.
Noi scioglieremo in appresso alcune obbiezioni, che si potrebbero
fare contro a tale verità.
Ma a malgrado che l' anima sia unica, perchè unica ce la
dice la coscienza, che è la testimonianza che immediatamente ella ci dà
di sè stessa, tuttavia molte sono e diverse le sue operazioni; e queste
non pure contemporanee, ma ancora successive.
Qual' è dunque la relazione fra l' anima e le sue operazioni?
Quella stessa che passa fra l' Io e ciò che l' Io patisce o che opera.
Ora quando l' uomo dice: io sento, io intendo, io voglio,
io mi muovo, ecc., egli si dichiara causa e soggetto di tutte queste azioni,
sieno elle passive, ovvero attive. Dunque l' Io è il principio e il soggetto
unico di tutte le passioni ed operazioni dell' anima. Ma l' Io è l' anima
stessa, la sua sostanza da noi percepita ed affermata. Dunque « la sostanza
dell' anima è il principio unico di tutte le diverse operazioni
di lei ».
Di più questo principio è sensibile, perchè l' Io si sente; è
un primo originale e sostanziale sentimento, perchè l' Io è da noi sentito
come tale. Dunque « l' anima è un sentimento originario e stabile, principio
unico e unico soggetto di tutti gli altri sentimenti, e di tutte le operazioni
umane ».
Il descrivere accuratamente questo primo principio sentimentale,
separandolo dai principŒ attivi inferiori, è un descrivere propriamente
l' essenza dell' anima umana. Noi vedremo adunque come nell'
anima si contengono quasi in loro principio tutte le operazioni, tutte
quelle appendici, ch' ella prende poscia nel suo sviluppo; come ella sia
l' atto primo comparativamente agli atti secondi, e gli atti secondi sieno
virtualmente contenuti nel primo (1).
Quelli che trovano difficoltà a consentire in questa sentenza,
sono a ciò indotti dal pregiudizio che « non vi possa essere altro sentimento
eccetto il corporeo ». Ma questo, come dicevamo, è un pregiudizio:
si prende la specie pel genere; si conosce facilmente il sentimento
corporeo, indi si conchiude arbitrariamente che ogni sentimento debba
essere corporeo; dal particolare si va a precipizio nel generale. All' incontro,
è manifesto a un diligente osservatore della natura che vi
sono dei sentimenti al tutto diversi da quelli che a noi produce il corpo
nostro od i corpi stranieri. D' altra parte niuno può dimostrare assurdo
che vi siano dei sentimenti puramente spirituali, tali cioè che non terminino
in alcuna estensione, nè in alcuna materia.
Ora poi che un tale sentimento vi sia, assai facilmente si
scorge colla immediata meditazione dell' Io stesso. Perocchè il sentimento,
che esprime questo vocabolo, è al tutto alieno da ogni fantasma
corporeo, non rappresenta estensione, nè forma, nè colore, nè altra proprietà
di corpo qualsiasi.
Dunque la sostanza dell' anima espressa nel monosillabo Io , è incorporea
e del tutto immateriale; e ogniqualvolta noi vi aggiungiamo alcunchè
di corporeo o di materiale, altro non facciamo che aggiungere
all' Io coll' immaginazione ciò che in esso non è, ma che è termine degli
atti suoi; quando abbiamo già pure veduto che l' anima non è nè i suoi
atti, nè il termine dei suoi atti, e che tutte queste cose si debbono separare
da lei per pervenire a lei stessa.
Ma una sostanza, che non abbia niuna proprietà del corpo e
della materia, si dice spirituale, ossia spirito; dunque l' anima umana è
uno spirito.
Ora, se l' anima è una sostanza tutta diversa dal corpo, perciò
dalla morte del corpo non se ne può inferire la morte dell' anima.
Di più, la parola morte altro non significa che la cessazione
nel corpo degli atti della vita e dell' animazione; dunque la parola morte
non si riferisce che al corpo, e sarebbe assurdo attribuirla a ciò che non
è corpo. Ma spirito significa una sostanza che non è corpo; dunque lo
spirito non soggiace alla morte. Ma l' anima è spirito. Dunque
l' anima è immortale.
Può suscitarsi tuttavia il dubbio, in chi non ha ben afferrata
l' efficacia o la connessione delle proposizioni precedenti, se rimarrebbe
all' uomo un proprio sentimento, quando fosse privato di tutti affatto
i sentimenti corporei e spogliato dello stesso suo corpo. Il dubbio
nasce dall' osservarsi che quasi tutte le operazioni del pensiero hanno
bisogno d' immagini o di altri sentimenti corporei, sicchè pare che quelle
cognizioni sieno piuttosto accompagnate da un sentimento corporeo, di
quello che sieno sensibili elle stesse.
Ma noi diciamo che anche le operazioni intellettive sono sensibili
per loro propria essenza, poichè crediamo che l' essenza stessa dell' uomo
consista nel sentimento, come abbiamo detto; sicchè quando l' essenza realizzata
dell' uomo non fosse sensibile, non sarebbe l' uomo, nè l' uomo
potrebbe percepire sè stesso.
L' obbiezione maggiormente si dissipa, ove si osservi che,
qualora le operazioni intellettive non fossero sensibili al loro modo, neppure
potrebbero divenir tali pei sentimenti animali che vi si aggiungessero;
perocchè la sensibilità animale non presenta alla nostra percezione
che sè stessa; ora noi troppo bene sappiamo distinguere ciò che ci presenta
la sensibilità animale, legata allo spazio, da ciò che ci presenta la
sensibilità delle operazioni meramente intellettive, immuni affatto da
spazio. In breve, noi ragioniamo delle operazioni intellettive, per esempio,
del raziocinio. Noi troviamo in esse proprietà contrarie affatto alle
leggi della materia, per esempio la inesistenza delle conseguenze nei principŒ,
l' essere gli uni e le altre fuori dello spazio; la semplicità d' un atto
che, operando appunto fuori dello spazio, congiunge quelle a questi, ecc.,
proprietà ripugnanti totalmente a quelle dei sentimenti animali. Ma non
potremmo ragionare così delle operazioni intellettive, e trovare in esse
proprietà ripugnanti al sentire dell' animale, se in qualche maniera esse
coi loro oggetti immateriali non ci fossero sensibili; poichè abbiamo già
detto che il sentimento è il primo rudimento necessario ad ogni discorso.
Dunque anche quelle operazioni intellettive sono accompagnate
da una loro propria sensibilità.
Ora poi, se le operazioni intellettive sono accompagnate da una loro
propria sensibilità, convien dire che anche la prima di tutte esse, l' operazione
immanente, essenziale, che abbiamo detta « intuizione dell' essere
in universale », sia essenzialmente sensibile.
Quand' anche dunque l' anima fosse privata di tutti i sentimenti animali,
quando fosse svestita del corpo e ridotta ad un puro atto intuente
l' essere, ella conserverebbe tuttavia un proprio sentimento. Ma conviene
però attentamente badare di non formarsi di questo spirituale primitivo
sentimento un concetto falso ed impuro (1).
Conviene non aggiungergli nulla affatto della natura del
sentimento corporeo; conviene di più intendere che l' atto dell' intuizione
nulla affatto si estende fuori del suo oggetto (l' essere), sicchè è, per così
dire, una sensione spirituale dell' oggetto, che non rivela altro che l' oggetto
termine di essa; ma, essendo un' attività, ha un principio diverso
dall' oggetto, a cui aderisce in
un modo indiviso, a lei essenziale, onde non se ne può staccare senza
cadere nel nulla; sicchè la sensibilità propria di questo atto intuitivo è
conseguente all' oggetto per esso intuìto; nè senza l' intuizione dell' oggetto,
quell' atto sarebbe sensibile, perchè al tutto non sarebbe (2). La
sensibilità dunque dell' intuizione primitiva viene dall' oggetto,
riferito al principio soggettivo senziente (3).
Di che si conchiuda che per sè l' anima umana, anche separata
dal corpo, ritiene un proprio sentimento (benchè senza riflessione),
e però ritiene la sua essenza, che sta nel sentire; e vive immortale. Questo
è argomento efficacissimo dell' immortalità dell' anima, datoci da S. Agostino
(1).
Io sento in diversi modi, io fo diversi pensieri, io patisco,
io godo, io medito, io opero, e sono sempre quell' Io medesimo che fo
tutto ciò.
Dunque quel sentimento, che giace nell' Io , da una parte è identico,
dall' altra continuamente si cangia. Non è questa una contraddizione?
Ma come può darsi contraddizione in un fatto? Ovvero giacciono forse
nell' Io due sentimenti, l' uno dei quali stia immutabile, l' altro si muti?
Ma quel sentimento che sta immutabile, come può in tal caso sentire
le mutazioni dell' altro, senza riceverle in sè stesso? E se le riceve in sè
stesso, dunque non si sta più immutabile, perocchè quelle diventano sue
sensazioni diverse, modificazioni di lui stesso. Che se le varie sensazioni
debbono cadere in uno stesso principio, acciocchè vi sia chi le senta, e
le senta successive e variabili, dunque è inutile ricorrere a due sentimenti,
l' uno dei quali non muti, e l' altro muti; conciossiachè deve essere
quello stesso sentimento che mai non muta, che sente ciò che pur
muta. Si dovrà dunque ritornare ad un unico sentimento. Ma come?
Diremo dunque che quest' unico sentimento, parte è sempre eguale, parte
disuguale? In tal caso incontriamo la medesima difficoltà.
Perocchè sarà forse la parte che è sempre eguale, quella che riceve le
varie sensazioni, che nascono nella parte mutabile? Se è così, si può
ripetere il ragionamento che facemmo nell' ipotesi dei due sentimenti:
la parte immutabile diviene mutabile, tosto che ammette in sè le variate
sensazioni dell' altra, e così le sente, e le afferma, e sentendole ed affermandole,
si modifica. Non resta dunque più niuna parte immutabile nel
sentimento dell' Io ? Ma allora com' è egli identico in diversi tempi, in
diversi luoghi, reggendo come subbietto infinite sensazioni, infiniti pensieri
diversi?
Non può disconoscersi dal sagace lettore che questo è uno
dei più forti nodi della Psicologia, un nodo poco meditato, e quasi voleva
dire, sorpassato dai filosofi. Se dunque è vero il nostro principio,
che « dove s' incontra nelle scienze una grave difficoltà, ivi si nasconda
un prezioso segreto della natura, svelato il quale, la scienza cammina libera
per molto spazio con passo spedito »; quanto degno non è, che a
questo cotal mistero dell' identità dell' Io , che noi proponevamo, s' applichino
le nostre meditazioni?
Le quali debbono pur cominciare mettendo da parte ciò che
è evidente; nè conviene che il filosofo abbandoni il certo, per l' incontro
di qualche difficoltà apparentemente insuperabile. Ora poi la mia propria
identità è evidente: io sono certo d' essere sempre quell' Io , in tempi
e luoghi diversi, sofferente ed operante cose diverse. Questa identità trovasi
nel sentimento mio proprio, in quella parte di esso che chiamammo
meità . E il sentimento si percepisce, non si dimostra, nè ammette errore.
Perocchè abbiamo già stabilito che la coscienza di noi stessi è il sommo
ed infallibile criterio della Psicologia. Dunque, quand' anche noi non
potessimo intendere come l' identico sentimento riceva in sè varie modificazioni
senza cessare d' essere identico, non rimarrebbe perciò meno
vera la sua identità. Ma vediamo se ci riesce di trovare il bandolo d' una
matassa così arruffata.
Primieramente si osservi che, quando l' uomo dice « io provo
ed ho provato varie sensazioni, io fo o feci varie operazioni », egli, col
dir ciò, esercita sempre un' operazione intellettiva della stessa forma, salvochè
in essa va cangiandosi il termine. Questa operazione si chiama
affermare . Dunque l' Io afferma ora di sentire in un modo, ora di sentire
in un altro, afferma ora di patire, ora di operare; ora di operare in una
guisa, ora nell' altra; ma sempre afferma . Quindi se l' operazione è identica
di forma, ed all' opposto varia sempre il suo termine, forza è conchiudere
che vi è una specie di identità che può stare a lato d' una specie
di varietà; e che altra cosa è l' operazione che fa l' Io coll' affermare i
suoi sentimenti, ed altro è il termine di tale operazione, i sentimenti affermati
(1). Dunque l' Io affermante è diverso dai sentimenti affermati;
questi sono l' oggetto, in cui termina l' operazione dell' Io affermante, ma
non sono l' Io affermante. E non potrà dunque rimanere immodificato
l' Io , in quanto è attività affermante, anche cangiandosi i sentimenti che
egli afferma, i quali sono diversi da quella attività? - Ma in tal caso
come l' Io li affermerà, se non ne rimane affetto? E se ne rimane affetto,
può essere egli immutato, immodificato? - Sia pure che l' Io rimanga
affetto dai sentimenti che afferma; ma la soluzione nostra consiste nel
separare l' Io affermante da ogni altra attività o possibilità, che possa
cadere nell' Io . Il rimanere l' Io affetto da sempre nuovi sentimenti, è forse
cagione che l' Io , in quanto li afferma, non faccia un' operazione sempre
eguale? L' Io affermante, dunque, è un' attività che non cangia, quantunque
cangino i sentimenti affermati, dai quali non viene modificato l' Io
in quanto afferma, ma rimane sempre egualmente affermante. Anzi è
necessario che l' Io rimanga affetto dai vari sentimenti, acciocchè la sua
sempre eguale attività dell' affermarli possa replicare i suoi atti. L' Io
dunque, in quanto è attività affermatrice , è eguale, per quantunque
sentimenti molti e variati in esso si suscitino. Ora, in conseguenza di
questa osservazione, risulta che i sentimenti, in quanto sono oggetti dell'
affermazione, non hanno alcuna efficacia di cangiare l' attività affermatrice;
ma questa nell' Io resta la medesima, benchè nell' Io stesso quelli
si cangino.
Dal fondo adunque dell' Io sorge l' attività affermante sopra
i sentimenti , che nell' Io stesso si svolgono; e quella afferma questi, senza
che questi possano cagionare in essa veruna modificazione; appunto perchè
l' attività d' affermare è al tutto diversa dai suoi oggetti. Ma acciocchè
l' identità dell' Io sia dimostrata pienamente, rimangono a spiegare
più cose, e principalmente rimane a spiegare come l' identico Io possa
essere principio di diverse attività, dell' attività di sentire cioè, e dell' attività
di affermare. Perocchè, o conviene ridurre le attività diverse in
una sola, o spezzare lo stesso Io in due. Infatti l' Io , in quanto afferma,
è l' attività affermante; l' Io , in quanto sente, è l' attività senziente; se
dunque sono due le attività, l' una affatto diversa dall' altra, conviene
dire che anche gli Io sieno due, uno affermante e l' altro senziente; e in
tal caso torna in campo la prima difficoltà, che rende affatto impossibile
l' affermazione.
Dimostreremo, prima, che per essere il sentimento e l' intellezione
composti di due elementi (principio e termine), non si pregiudica
all' unicità e identità del soggetto.
Affine di venirne a capo, ripigliamo tutto il ragionamento, disponendolo
in una serie di proposizioni, ossia di lemmi, i quali grado a
grado ci conducano a dimostrare il Teorema generale, che la moltiplicità
dei sentimenti e delle operazioni dell' Io non pregiudica punto alla
sua unicità ed alla sua identità. Ed è tanto più necessario procedere colla
maggior distinzione in un argomento così sottile, che ci fa uopo derivare
molti concetti dal seno dell' Ontologia , di cui ancora non pubblicammo
il trattato; onde spesso non possiamo accennare le cose come già dimostrate,
ma dobbiamo insieme col lettore nostro investigarle.
In ogni sentimento si distinguono due elementi opposti, che
sono il senziente e il sentito. Questo fu dimostrato dall' analisi del sentimento
nell' « Antropologia (1) ».
Ogni sentimento è unico e semplice, cioè a dire il senziente
e il sentito, che si distinguono nel sentimento, non fanno due sentimenti,
ma un solo individual sentimento.
Fu pure dimostrato nell' « Antropologia (2) », ed è anche per sè evidente,
che un principio senziente non esiste senza qualche sentito, nè
un sentito senza qualche senziente. Perciò da queste due condizioni nasce
un solo sentimento.
Il senziente dunque e il sentito sono scambievoli
condizioni l' uno dell' altro: s' avvera in essi la legge del sintesismo,
poichè dati entrambi, l' uno è dall' altro distinto di concetto; dato
uno solo, nè egli sussiste più, nè tampoco rimane il suo concetto.
Non sussistendo l' uno senza l' altro, nè essendovi
il concetto dell' uno senza quello dell' altro a cui involge relazione,
è manifesto che essi debbono costituire un solo individuo sentimento,
e in un individuo sentimento debbon trovarsi: il qual sentimento
è appunto la loro unione in atto. La legge dunque
di sintesismo, che stringe il sentito col senziente, è una nuova prova
speculativa della semplicità ed unicità del sentimento, che ne risulta.
Da questo fatto del sentimento possiamo
dedurre due proposizioni generali; la prima: « non essere assurdo, anzi
darsi nella natura, degli individui risultanti da più elementi distinti fra
loro per concetto, senza che la molteplicità degli elementi tolga la loro
semplicità ed unicità »; la seconda: « gli elementi formano insieme un
individuo solo, quando essi non esistono fuori di lui, ed egli risulta
dall' atto della loro unione ».
In ogni intellezione si distinguono due elementi opposti, che
sono l' intelligente e l' inteso.
Anche questa proposizione fu dimostrata coll' analisi nell' « Antropologia
(1) ».
Indi si possono trarre corollari simili a quelli, che furono tratti dai
due lemmi precedenti.
Nell' ordine del sentire l' agente è il senziente, e il sentito è
il termine di quest' azione.
Noi abbiamo detto le tante volte, che sentire è
patire; come adunque diciamo qui, che nell' ordine del sentire l' agente
è il senziente? - Conviene porre ogni attenzione a quella clausola « nell' ordine
del sentire ». Le attività e le passività s' intercettano e si complicano
spesso nel medesimo ente (1); sicchè in un ente stesso talora si distinguono
più passività e più attività, alternate fra loro o mescolate secondo
vari rispetti nei quali si considerano; ed esse appartengono all' ordine
intrinseco di quell' ente. E` dunque indubitato che il principio che
sente è passivo dal sentito, in quanto il sentito l' attua al sentire in quel
modo; ma è del pari indubitato che è poi egli stesso, egli solo quello
che sente, e non il sentito. Perciò appunto si diceva che « nell' ordine del
sentire »l' attivo è il senziente, perocchè il sentito, in quanto è sentito,
non sente nulla; che anzi ha opposizione all' atto del sentire, essendo il
termine in cui quest' atto riposa.
Quindi è che il senziente si dice principio
del sentimento, che vuol dire la parte attiva di lui; e il sentito si
dice termine , che vuol dire la parte, che nell' ordine del sentire non è
attiva, benchè propriamente neppure si possa dire passiva (2). Infatti
il sentito , come tale, non ha alcuna attività sensitiva; ma neanche patisce
dal senziente.
Il principio del sentire si suol dire anche
soggetto , ovvero subbietto (3).
Nell' ordine dell' intendere l' agente è l' intelligente, e l' inteso
è il termine della sua azione.
Quindi l' intelligente dicesi principio
dell' intendere.
Il termine dell' intendere non è punto
passivo, ma solamente non è attivo nell' ordine dell' intendere, perchè
non è egli quello che intende. In un ordine superiore egli è nondimeno
al suo modo attivo, perchè è quello che fa che l' intelligente intenda.
Il modo, col quale il termine dell' intendere
fa che l' intelligente intenda, non è tale che immuti l' intelligente,
come un corpo, urtando in un altro corpo cedevole, ne muta la forma,
quasichè l' intelligente fosse prima di quello che lo fa intendere; ma trattasi
d' un modo di azione creativa , a cui nulla risponde dall' altro lato
della relazione. Ancora, osservando coll' attenzione della mente a questo
modo, si vede che l' inteso è nell' intelligente, conservando però la propria
essenza distinta da quella dell' intelligente. Quindi il suo modo di
agire può dirsi anche comunicazione di sè ,
a cui non risponde propriamente la passività , ma un concetto di
ricettività e di potenza prima, senz' atto.
Anche il principio dell' intendere dicesi
soggetto o subbietto .
Se il sentito non agisce nulla nell' ordine del sentire, nè l' inteso
agisce nulla nell' ordine dell' intendere, e se solo l' agente è il principio
del sentire e dell' intendere, e solo dicesi soggetto; è manifesto che
la dualità (principio e termine) che si ravvisa nel sentimento, nulla detrae
alla semplicità ed unicità del soggetto senziente ed intelligente.
Veniamo ora a dimostrare una seconda tesi, cioè che il soggetto
senziente od intelligente rimane il medesimo, quantunque cangino
i loro termini, cioè pel primo il sentito, e pel secondo l' inteso.
La difficoltà, che esige che questa tesi sia dimostrata, si è che, quantunque
da ciò che è detto apparisca che il sentito e l' inteso sieno fuori
della natura senziente ed intelligente, la quale costituisce il
soggetto, sicchè coll' aderire a questo non lo rendono molteplice, non gli
tolgono la sua unicità; tuttavia è del pari vero che essi sono condizioni
determinanti la sua attività. Onde sembra che, cangiandosi tali condizioni,
anche il principio senziente o intelligente debba ricevere qualche
modificazione. E veramente il sentire in un modo e il sentire in un altro,
ovvero l' intendere più o meno una cosa od un' altra, sono accidenti che
mutano l' azione del sentire, o l' azione dell' intendere.
Ora è prima di tutto da chiarire la questione, determinando
bene le diverse parti ch' ella abbraccia. Il che noi faremo colle seguenti
osservazioni.
Primieramente è certo che, dato un individuo reale, egli può conservare
la sua identità, quantunque più cose si mutino in lui.
Affine di vedere come ciò sia, è necessario stabilire che non
tutto ciò che si trova in un individuo, è ciò che dà il nome all' individuo
e lo costituisce quell' individuo, quel soggetto.
Ciò apparisce dall' analisi, che abbiamo fatto di sopra, del sentimento
e dell' intellezione. Dalla quale analisi apparì che ciò che si chiama
soggetto senziente non è già tutto ciò che si trova nel sentimento, ma
solo il principio attivo del sentire; e che ciò che si chiama soggetto intelligente
non è già tutto ciò che si trova nell' intellezione, ma il solo principio
attivo dell' intendere; il che basta a farci conoscere che la soluzione
della tesi, che ci siamo proposta, deve dipendere dall' accurata determinazione
di ciò che in un dato soggetto si deve rimanere immutabile, acciocchè
il soggetto conservi la sua identità.
Trattandosi adunque del soggetto senziente e del soggetto
intelligente, noi intanto abbiamo trovato di certo questo, che l' immutabilità
cercata non può, nè deve rinvenirsi che nel solo principio di
essa. Ora, dato che si cangi il sentito o l' inteso, non può negarsi che si
cangi l' azione del principio senziente e del principio intelligente, poichè
quest' azione si porta ad altri termini, o si accresce, o si diminuisce sopra
gli stessi termini. Ma è da osservarsi che l' azione stessa si deve distinguere
accuratamente dal principio dell' azione , e che niente ripugna a
pensare che il principio sia identico ed immutato, mentre l' azione si muta.
Si dirà: se il principio opera diversamente, egli stesso soggiace
a mutazione. - Il dir questo sarebbe un mostrare di non avere
bene afferrata la distinzione che facciamo, fra il principio dell' azione e
la sua azione. Il principio è unito all' azione, ma non è l' azione; poichè
se fosse l' azione, cesserebbe dall' essere principio di essa. La parola
principio indica un primo punto semplice e immutabile; se vi si aggiunge
qualche cosa, non è più principio. E` vero che non si può disgiungere
dall' azione, ma si può e si deve distinguere realmente da essa; anche
qui torna la legge del sintesismo, per la quale due cose stanno inseparabilmente
unite senza confondersi. Essendo adunque il principio un punto
semplice anteriore logicamente all' azione, la quale si può rassomigliare
alla linea che da quello discorre, non è assurdo immaginare che da un solo
e medesimo principio più e varie azioni procedano, come non è assurdo
che da un punto medesimo partano più linee, senza che il punto
si cangi.
Il principio dell' azione si può dunque e si deve col pensiero
nostro separare dall' azione, riconoscendo quello immutabile, mentre
questa è mutabile.
Ma se l' azione nasce per la virtù del principio, conviene dunque
dire che tutte le azioni, che da un principio procedono, sieno nella virtù
del principio contenute. Sì certamente; e questo è ciò che attesta il consenso
del genere umano, che da tale osservazione trasse il concetto di
virtù di potenza, di atto primo distinto dagli atti secondi, i quali sono
appunto le azioni, che dall' atto primo fluiscono. Nel primo principio
adunque vi è una certa attività, dalla quale, verificate le condizioni, nascono
le azioni. Quell' attività, potenza, virtualità o atto primo , come meglio
si voglia chiamare, rimane sempre la stessa, unica, semplice, anteriore
alle azioni tutte; e ad essa gli uomini attribuiscono il nome di sostanza,
dal quale nome sono escluse le azioni; come pure le attribuiscono
quello di soggetto sostanziale, tanto è vero che tutti convengono nel separare
il principio delle azioni dalle azioni stesse, e nel sentire l' importanza
di parlare di quello, separandolo da queste.
E` così che nacque anche la distinzione comune fra la sostanza
e gli accidenti .
« La sostanza è ciò che la mente concepisce in un ente, senza che le
bisogni ricorrere ad altro per formarsene un primo concetto ». E` chiaro
che non si può concepire l' accidente da sè solo, ma si deve ricorrere alla
sostanza per la quale sussiste. Così parimenti non si possono concepire
le azioni seconde da sè sole, ma la mente per averne il concetto deve ricorrere
ad un principio che le produca, perocchè non possono stare le
azioni seconde senza il loro principio causale. Ma quando io sono pervenuto
a trovare il primo principio delle azioni in ogni dato ordine di
attività, non posso andare più avanti e debbo fermarmi. Questo primo
principio, adunque, viene concepito dalla mente, senza che le bisogni salire
ad un altro principio ulteriore, che sia nell' ente di cui si tratta; la
mente ivi s' arresta, e lo dichiara esistente in sè stesso (1).
La sostanza si definisce ancora: « « l' atto onde sussiste l' essenza
specifica ». » Ora, in qualsivoglia soggetto il primo principio
delle azioni è quel primo atto appunto, in cui sussistono tutte le azioni,
e perciò il primo principio del sentire e il primo principio dell' intendere,
se stanno separati, sono sostanze.
Quindi è che, essendo l' atto primo di un ente ciò che costituisce
la sua sostanza, e gli atti secondi solendo essere accidentali, si
suol aggiungere al concetto di sostanza quello d' immutabilità e di permanenza
relativamente alle sue azioni; e a queste si suol attribuire la mutabilità
e transitorietà.
Solamente qui si porge la questione: « che cosa sia che determina
un atto primo (una sostanza) ad avere in sè la virtù, che si
estende ad un certo determinato gruppo di atti secondi piuttosto che ad
un altro ». E la risposta si deve ripetere quanto alla possibilità di questi
gruppi, dall' ordine intrinseco dell' essere; il quale ordine esclude la possibilità
che certe azioni si trovino insieme virtualmente comprese in una
potenza, e certe altre consente che insieme s' associno e si fondino in una
sola potenza (2). Quanto poi alla reale sussistenza di tali sostanze, la
ragione unica è nella volontà del Creatore, che trasse all' atto della sussistenza
piuttosto le une di quelle che non involgevano contraddizione,
che le altre.
Un' altra osservazione non posso trapassare, la quale si è che
tutta l' attività del principio senziente è determinata dal sentito, e che
tutta l' attività del principio intelligente è determinata dall' inteso. Questo
risulta dall' analisi del senziente e dell' intelligente, che abbiamo già
fatta; poichè abbiamo veduto che il senziente non sente se non in quanto
gli è dato il sentito; e che l' intelligente non intende se non in quanto gli
è dato l' inteso. Se dunque il sentito determina l' attività del senziente, e
l' inteso determina l' attività dell' intelligente, ne viene di necessaria conseguenza
che il senziente, per rimanere identico, debba avere inerente fin
dal principio di sua esistenza un sentito, nel quale virtualmente si comprendano
tutte le future sensazioni. E del pari, se l' inteso determina la
sfera d' attività dell' intelligente, l' intelligente non può rimanere identico
nelle successive sue intellezioni, se non a condizione che fino dal
primo suo esistere egli abbia inerente un inteso, nel quale virtualmente
si comprendano tutti gli oggetti, che si possono poscia rappresentare al
suo intendimento.
Ora, colui che avrà bene afferrato questa osservazione, troverà
in essa una dimostrazione efficacissima della nostra teoria intorno al
sentimento fondamentale, e intorno all' essere universale intuìto
dall' anima umana per natura; perocchè solo in questa teoria si
verifica che l' uomo, in quanto è senziente, senta virtualmente fino dal
primo istante tutto ciò che gli accade di sentire dappoi distintamente,
non essendo le sensazioni corporee che modi dello stesso sentimento fondamentale
(1); e che l' uomo, in quanto è intelligente, intenda pure virtualmente
ogni cosa che viene poscia ad intendere distintamente, intuendo
l' essere universale, al quale si riduce l' entità intelligibile di tutte le cose.
Laonde, supponendo che sia provata la semplicità ed identità
del principio senziente ed intelligente nelle varie sensioni del primo,
e nelle varie intellezioni del secondo, rimane provata egualmente la
verità del nostro sistema.
Che se in quella vece si muove dal nostro sistema, cioè si ammette
la verità del sentimento fondamentale e dell' intuizione dell' essere, in tal
caso rimangono sciolte le difficoltà più sottili, che si possano fare intorno
alla semplicità ed identità del principio senziente, la quale diviene una
necessaria conseguenza. E qui consideri il sapiente lettore l' armonia del
vero, posciachè verità così lontane in apparenza, qual' è l' identità del
principio senziente ed intelligente (non messa in dubbio da veruno), e
l' esistenza del sentimento fondamentale e dell' intuizione dell' essere,
consentono e consuonano mirabilmente fra loro, si sostengono a vicenda,
e l' una diviene prova dell' altra, poichè ciascuna contiene l' altra occultamente
nel proprio seno.
Rimane l' ultima difficoltà, la quale non ci deve dare oggimai
gran pena dopo superate le precedenti. Ella si è: « come il principio
senziente ed il principio intelligente possano essere un principio unico
nell' uomo ».
Affine di soddisfarvi, ritorniamo alla dottrina che abbiamo dato
della sostanza .
Dicemmo che la sostanza è quel primo principio operativo
di un ente, onde fluiscono le sue azioni e passioni, e quindi i suoi stati
diversi; nel qual principio queste azioni, passioni e stati diversi si contengono
virtualmente, cioè in quella sua virtù, attività, o potenza che
ne è la causa efficiente.
Dicemmo ancora che di queste azioni, passioni e stati si possono
concepire diversi gruppi, benchè non si possa dimostrare a priori che
ogni gruppo sia possibile, cioè che sia riducibile in un atto primo, in una
prima virtù, in un primo principio sostanziale.
A determinare a priori quali di questi gruppi possano essere
compresi virtualmente in un primo principio sostanziale, si richiederebbe
nientemeno che il conoscimento compiuto dell' intrinseco ordine
dell' essere.
Ma l' intrinseco ordine dell' essere non si conosce dall' uomo immediatamente,
si raccoglie a brano a brano dall' osservazione e dall' esperienza.
Quindi allorquando l' osservazione o l' esperienza manifesta all' uomo
l' esistenza di un gruppo di attività, unito in un unico principio sostanziale,
allora l' uomo è autorizzato a conchiudere che un tal principio sostanziale
può darsi, perchè ab esse ad posse datur consecutio .
Ora è l' osservazione interna quella che attesta all' uomo che
egli è un principio unico, e senziente ed intelligente al tempo stesso; poichè
ogni uomo può dire a sè stesso: quell' Io che sento, sono quell' Io medesimo
che intendo; e se non fossi il medesimo, non potrei sapere di
sentire, nè ragionare sulle mie sensazioni.
D' altra parte niuna ripugnanza vi è che l' attività sensitiva abbia
uno stesso principio dell' attività intellettiva, quando ben si considera
che da un principio medesimo, come dicevamo, possono incominciare
più azioni, come da uno stesso punto possono incominciare più linee.
Ma è da confessarsi tuttavia che, anche dopo di ciò, rimane
a vincere un' obbiezione gravissima.
Noi abbiamo detto che a costituire un principio senziente è necessario
che si concepisca un sentito primitivo, che virtualmente comprenda
tutte le speciali azioni di sentire, che egli può fare in appresso; e nell' uomo
questo sentito primitivo e fondamentale è il proprio corpo
sensibile nello spazio.
Abbiamo detto ancora che a costituire un principio intelligente è
necessario un primitivo inteso, che virtualmente comprenda tutto ciò
che deve poscia essere inteso; e nell' uomo questo inteso è l' essere universale.
Ora, se il principio senziente è costituito dal sentito corporeo, e il
principio intelligente dall' essere intelligibile, converrà dire o che l' esteso
corporeo e l' essere intelligibile si identificano, ovvero che costituiscono
due principŒ diversi, e non mai un solo.
Affine di rispondere a questa gravissima obbiezione conviene
osservare che in ogni sentito vi è un' entità; perocchè ogni atto
qualsiasi è un' entità. Ma nell' entità sentita manca affatto la luce intelligibile,
manca la conoscibilità, come si vede dal fatto, giacchè la parola
entità sentita non è la entità intesa; sicchè il dirsi sentita piuttosto che
intesa , è lo stesso che escludere dal sentimento la conoscibilità. All' incontro,
l' intelligente ha per suo oggetto l' entità intesa , poichè il principio
intelligente non fa altro che intendere, e ogni cosa ch' egli intende
è necessariamente entità. Dunque il termine del principio senziente e il
termine del principio intelligente sono egualmente entità . Vi è dunque
nei loro termini una identificazione.
Ma in che dunque si distinguono? - Si distinguono nella
diversa maniera colla quale la stessa entità aderisce allo stesso principio.
Conciossiachè l' entità
si comunica al principio senziente nel suo modo di sentita, che io
chiamo anche realità e attività, laddove al principio intelligente si comunica
nel suo modo d' intesa, che io chiamo anche idealità, intelligibilità,
conoscibilità, luce, ecc..
Poste le quali cose, vedesi chiaramente come il principio senziente
e il principio intelligente possono compenetrarsi, fino a formare un solo
e medesimo principio d' operare; giacchè si ha il medesimo termine in
entrambi i principŒ, benchè ad uno di essi questo termine aderisca in
un modo, e si comunichi in una delle sue forme, e all' altro di essi aderisca
in un altro modo, e si comunichi in un' altra delle sue forme. Sono
adunque due i principŒ, se si considera la forma nella quale l' entità si
comunica; ma è un solo principio, se si considera l' entità stessa che
si comunica, prescindendo dalle sue forme. Si possono dire due i principŒ,
purchè si riconosca che nell' uomo non sono principŒ primi, ma v' è
al di sopra un principio primo ed unico, che li tiene subordinati e congiunti
a sè; il qual principio
primo si riferisce all' entità , e non alle forme della medesima; ed
è il principio che sintetizza, sia nell' ordine teoretico manifestandosi col
carattere di ragione , sia nell' ordine pratico manifestandosi
col carattere di volontà . Onde questo principio
intellettivo, in quanto è superiore, è il punto da cui partono le due attività,
cioè la sensitiva e l' intellettiva, e dicesi principio razionale .
Da quanto abbiamo ragionato fin qui, apparisce che l' anima
umana è un soggetto unico sostanziale .
Ella è un soggetto , perchè è un primo principio delle azioni dotate
di sentimento (1); ed è una sostanza ,
perchè questo principio si concepisce dalla mente esistente in sè
stesso, e non in un altro a lui anteriore nell' ordine del sentire
e dell' intendere.
E` da notarsi la differenza che passa fra l' appellazione di
sostanza e quella di soggetto sostanziale .
La parola soggetto , da noi riserbata ad esprimere il principio attivo
di un sentimento, viene a nominare l' anima da quella parte appunto,
che ne costituisce l' essenza semplicissima.
La parola sostanza , che indica l' atto primo pel quale tutto l' ente
sussiste, abbraccia tutto ciò che egli fa sussistere, e però abbraccia tutto
il sentimento, sì nel suo principio che nel suo termine; onde giustamente
si dice che il primo sentimento è sostanza, purchè si riguardi dall' aspetto
del principio anzichè da quello del termine, appunto perchè l' atto, che
fa sussistere il sentimento, è il principio di esso (1).
Dalla quale distinzione fra sostanza e soggetto sostanziale
si rileva che non si può chiamare soggetto sostanziale se non l' ente sensitivo
o intellettivo; laddove il nome di sostanza conviene anche ai corpi
inanimati, in quanto che la nostra mente li concepisce con un atto loro
proprio di sussistere.
Noi abbiamo fin qui investigata l' intima costituzione dell'
anima, e ce ne risultò:
Che l' anima umana è un principio unico e semplice, senziente
ad un tempo ed intelligente.
Che questo principio è un' attività, nella quale si contengono
virtualmente tutti gli atti secondi, sensioni, intellezioni, ecc..
Che ciò che determina la sfera di questa attività è il primo
sentito e il primo noto , cioè quel sentito e quel noto, che aderisce per
natura al principio attivo; poichè in questo sentito fondamentale sono
virtualmente comprese tutte le sensioni che vengono appresso, e in questo
noto sono compresi gli oggetti di tutte le intellezioni distinte, che
possono mai aver luogo.
Ora queste dottrine fanno nascere una questione necessaria a compire
il ragionamento intorno all' identità dell' anima, la quale si è: « Sarebbe
possibile che si cangiasse il sentito o l' inteso primitivo dell' anima
umana? E cangiandosi, conserverebbe ella la sua identità? ».
Rispondesi che un tal cangiamento non involge contraddizioni
nel suo concetto.
Quanto poi all' identità dell' anima, non può dirsi se ella si conserverebbe,
se non distinguendosi i cinque cangiamenti, che si possono concepire
nel sentito o nell' inteso primitivo, e che sono questi:
rimozione del sentito e dell' inteso, rimozione dell' inteso solo, rimozione
del solo sentito, aggiunta o mutazione del sentito, aggiunta dell' inteso.
Esaminiamoli per singolo.
Se venisse rimosso interamente il sentito e l' inteso, il soggetto
senziente ed intelligente sarebbe annullato, l' anima non sarebbe più.
Se venisse sottratto all' anima umana l' inteso primitivo, cesserebbe
la sua identità.
La ragione di ciò si trova nell' ordine, che hanno fra di sè il principio
del sentire e il principio dell' intendere, che nell' anima umana si
uniscono in un principio solo. L' ordine loro si è che il principio intelligente
è superiore al principio senziente, di maniera che è egli che dà
prossimamente l' origine al principio comune dell' intendere e del sentire.
Noi veniamo a riconoscere questo vero, se osserviamo che
è solo un principio intelligente quello che dice: « io sento », giacchè il
dire: « io sento », è un pensiero, che l' uomo fa sulle proprie sensazioni,
e il pensiero appartiene a un principio intelligente.
All' incontro il principio senziente non può dire nè « io sento », nè
« io intendo »; non può dire affatto nulla, ma può solo sentire.
E` vero che sopra l' attività sensitiva e intellettiva vi è un
principio comune, che rende l' uomo consapevole delle sue sensioni e
delle sue intellezioni, e le unisce insieme; ma questo principio è immediatamente
formato dalla attività intellettiva, e dicesi razionale, perchè
è un atto intellettivo, che fa unione delle sensioni e delle intellezioni.
Ora, venendo rimosso l' inteso primitivo, cesserebbe l' intelligenza, e
quindi cesserebbe il primo principio dell' anima. Ma l' anima ha la propria
essenza in questo primo principio razionale, come abbiamo veduto;
onde, privata di questo, perderebbe la sua identità, cesserebbe dall' essere
quell' ente, che presentemente denominiamo anima umana.
All' opposto, dato che si rimovesse dall' anima il sentito primitivo,
ella non perderebbe la sua identità, perchè il suo principio primo,
che costituisce la sua essenza, sarebbe conservato. Vero è che cesserebbe
in lei il principio prossimo del sentire; ma l' attività intellettiva,
essendo principio superiore, conterrebbe sempre nella sua virtù anche
il principio del sentire, sebbene non si potrebbe dire che questo
attualmente esistesse.
Tuttavia lo stato dell' anima, privata del fondamentale sentimento
corporeo, sarebbe immensamente cangiato. Al principio intellettivo
sarebbe resa impossibile ogni percezione, ogni affermazione, e
quindi anche la consapevolezza di sè stesso.
Rimarrebbe tuttavia all' anima il sentimento proprio,
ma ella non avrebbe più nessuna ragione sufficiente, nessuno stimolo,
che la inducesse a ripiegare la propria attività intellettiva sopra un tal
sentimento ed a percepirlo; perocchè questa è legge dell' anima umana,
ch' ella a principio sia tratta ai suoi atti da stimoli diversi da sè, e che
solamente in appresso ella possa proporsi un fine, pel quale operi indipendentemente
dagli stimoli; tolte adunque a lei le sensioni accidentali
ed acquisite, ed anche il sentimento fondamentale corporeo, ella non
ha per natura sua propria alcun bene reale, a cui possa bramare di congiungersi,
e che possa proporsi a fine di sue operazioni; quindi non può
neppure riflettere su sè stessa (1).
Se si aggiungesse qualche cosa al sentito primitivo dell' anima,
l' anima avrebbe certamente ricevuta una mutazione sostanziale; ma
il suo primo principio attivo, in cui consiste la sua essenza, non si sarebbe
però cangiato, e quindi l' anima sarebbe rimasta identica. Tuttavia
l' attività del principio primitivo si sarebbe ampliata, quanto alla materia
delle sue operazioni.
L' anima, nel caso supposto, conservando tutto il sentito primitivo,
potrebbe anche conservare la memoria di sè stessa e del suo stato
precedente, e quindi essere conscia di sua identità.
Ma che si avrà a dire, se il sentito primitivo non si conservasse,
ma si cangiasse del tutto in un altro?
In questa supposizione dico che l' anima conserverebbe la propria
identità, perchè si conserverebbe intatto il principio primo, che è intellettivo;
ma ella non potrebbe essere conscia di questa identità, perdendo
la memoria del suo stato precedente, giacchè la memoria e consapevolezza
di questo stato si fonda nelle percezioni avute precedentemente, le
quali cesserebbero.
Si potrebbe dubitare se forse non potessero rimanere le idee
astratte formate precedentemente, le quali non esigono immagine corporea.
Ma io credo che non potrebbero rimanere, se non forse come mere
attitudini, e, posto anche che rimanessero nel fondo dell' anima, non sarebbe
a lei dato di contemplarle attualmente, se non a condizione che il
nuovo sentito avesse col primo qualche rapporto, qualche legge di associazione.
Poichè, quantunque le idee astratte non abbiano in sè stesse
bisogno d' immagine corporea, tuttavia sono legate alle sensazioni ed alle
immagini, od ai loro vestigi siffattamente che, privato l' uomo di queste,
egli non può volgere la sua attenzione a quelle sole, sì perchè non ha
ragione di farlo, e sì perchè la sua attenzione rimane priva di una guida,
che la conduca a trovarle e ad avvertirle, di maniera che le idee astratte
nell' uomo, privo al tutto di sensioni e d' immagini, o di vestigi che a
quelle si riferiscono, posto anche che essere vi potessero, rimarrebbero
in quello stato appunto in cui sono, quando non ci si pensa, prive di
coscienza. Ma, come dicevo, assai più probabile mi sembra che non rimarrebbero
al tutto tali idee nell' uomo; perocchè elle consistono essenzialmente
in una relazione col reale; e il reale a cui riferire l' essere ideale
manca, se il nuovo sentito si suppone non avere similitudine [analogia]
col precedente, poichè la sostanza dell' anima neppur essa presenta similitudine
alcuna col sentito precedente.
Non si pone il caso di mutazione nell' inteso primitivo, ma
solo di una aggiunta al medesimo, perchè l' inteso primitivo non può
mutarsi, essendo egli immutabile di natura, nè può diminuirsi, essendo
l' essere ideale semplicissimo di concetto; ma egli può ben accrescersi.
Accrescersi poi egli può in due maniere, o col determinarsi in esso i concetti,
o col realizzarsi dell' essere stesso essenziale.
I concetti sono positivi o negativi. Positivi sono quelli che
si fondano in una realità da noi percepita.
Se si accrescono nella mente umana i concetti, che si fondano in
quelle realità che l' uomo percepisce, in tal caso non è mutato sostanzialmente
il suo essere; ma in qualunque maniera gli si accrescano questi
concetti nel suo intendimento, essi già si trovano virtualmente compresi
nel suo sentito e nel suo inteso primitivo.
Se poi si parla di concetti, che si riferiscono ad altre realità, diverse
da quelle che virtualmente si contengono nel suo sentito primitivo, questi
non gli possono essere dati in nessun modo, a meno che non gli si dia
il sentito corrispondente a quei concetti; e in tal caso la questione reincide
in quella, che precedentemente abbiamo trattata, della ipotesi che
venga cresciuto il sentito primitivo.
I concetti negativi sono quelli coi quali l' uomo conosce un
ente, non già inteso in sè stesso, ma per qualche sua relazione con altro
ente cognito. E questi concetti, per quanti ne acquisti l' anima umana,
non hanno virtù di cangiarla sostanzialmente.
Il caso poi che l' inteso primitivo s' accresca mediante la realizzazione
dell' essere, oggetto essenziale, è sommamente importante a
considerarsi, perchè è ciò che fa passare l' uomo dall' ordine naturale all'
ordine soprannaturale.
L' essere essenziale, oltre essere luce della mente, diviene allora anche
sentito. Ma poichè l' essere reale in tal caso è identico coll' essere
ideale, quindi il principio che prima intuiva l' essere ideale, rimane ancora
identico, benchè senta la realità dell' essere. L' anima dunque, il
soggetto sostanziale, non perde la sua identità, ma acquista nuova infinita
dignità; ed è lo stesso intelletto che intuisce quella, e percepisce
questa contemporaneamente.
Ciò che si è mutato è stato propriamente il sentito, cioè si è aggiunto
al sentito precedente un sentito essenzialmente diverso, infinitamente
maggiore del primo, un sentito che appartiene al senso intellettivo. Quindi
il principio primo che unisce il sentito e l' inteso, e che è fonte della
ragione e della volontà, non mutò sua natura, ma la accrebbe infinitamente.
L' aggiunta d' attività, che vi si fece, è più grande e più elevata
di tutta l' attività che egli s' aveva prima: un principio nuovo di operare
gli si aggiunse, cioè il principio di operare in un modo soprannaturale.
Ora il primo principio , che raccoglie in sè tutte le attività inferiori,
si chiama persona , in quanto contiene virtualmente l' attività suprema
fra tutte le altre. Quindi, benchè egli conservi la sua identità come soggetto ,
diviene tuttavia una persona nuova, in quanto riceve un' attività
nuova, superiore di lunga mano a quella che s' aveva prima
(1).
Conosciuto in che consista la sostanza dell' anima umana, e
quali sieno le principali sue proprietà, rimane che noi investighiamo
le differenze che la separano dalle pure intelligenze, e da altre nature
a lei affini.
L' anima umana, pertanto, è quel primo principio del sentire e dell'
intendere che, senza cessare d' essere uno e di avere un' unica attività
radicale, viene costituito da un sentito esteso e corporeo, e da un inteso
che è l' essere indeterminato.
Si dice primo principio , perchè l' anima è un principio superiore
al principio sensitivo; è un principio che contiene virtualmente nel suo
seno il principio sensitivo, di maniera che l' attuale esistenza di questo
principio appartiene bensì alla natura dell' uomo, ma non all' essenza
dell' anima, alla quale è sufficiente che il principio del sentire animale
sia in essa virtualmente contenuto.
Quindi si può segnare la differenza che separa l' anima umana,
sì dalle pure intelligenze (1), e sì dalle anime delle bestie; poichè
l' anima umana sta quasi fra gli Angeli e le anime belluine.
Agli Angeli manca il sentito corporeo, e quindi vanno privi
del principio del sentire animale e delle animali sensioni. Non sono passivi
dai corpi, ma sono attivi; e invece dei sentimenti animali posseggono
il sentimento delle proprie attività e loro termini; il che dichiareremo
più ampiamente, se a Dio piaccia, nella Cosmologia o nella Teosofia.
Le anime belluine altro non sono che principŒ del sentire
corporeo disgiunti dall' attività intellettiva. Questi principŒ attualmente
costituiti, appunto perchè sono soli, sono altresì primi, ed essendo attività
prime, non possiamo negar loro il nome di principŒ sostanziali o
di sostanze.
Quindi anche apparisce in che relazione stia l' anima dell' uomo,
la sostanza dell' anima, con tutto l' uomo, preso l' uomo a significare
la natura umana (2).
L' uomo, cioè la natura umana, è quel composto che risulta dall'
anima e dal corpo personalmente uniti.
Da una tale unione nasce un unico individuo; questo individuo
è unico, perchè ha un solo principio supremo, che raccoglie nel
proprio seno virtualmente tutte le attività inferiori; e questo principio
supremo è la sostanza dell' anima umana.
Essendo dunque la sostanza dell' anima umana il principio
attivo, il principio che abbraccia virtualmente tutte le altre attività che
sono nell' uomo, suol dirsi la forma dell' uomo; giacchè la parola forma
fu presa fino dai tempi antichissimi per « la prima virtù attiva, che trovasi
in un dato ente, per la quale esso è quell' ente, anzichè un altro ».
Il qual vero ci gioverà confermare con un luogo di S. Tommaso,
dov' egli spiega come l' anima si dichiari dagli Aristotelici atto del
corpo , perocchè, dice, « in eo, cujus anima dicitur actus, etiam anima
includitur, eo modo loquendi quo calor est actus calidi, et lumen est
actus lucidi; non quod seorsum sit lucidum sine luce, sed quia est lucidum
per lumen. Et similiter dicitur, quod anima est actus corporis etc.,
quia per animam et est corpus, et est organicum, et est potentia vitam
habens (1) ».
Ma nell' uomo, oltre esservi un' attività che costituisce il soggetto,
si ravvisa qualche cosa d' altro, che non appartiene a quell' attività,
ma che conferisce a suscitarla.
Questo è l' inteso primitivo, che non è l' attività d' intendere, ma è
ciò che la rende possibile e sussistente, onde acconciamente si dice forma
dell' intelligenza , in quanto al principio soggettivo aderisce, e lo rende
intellettivo.
Egli è un elemento extra7soggettivo, termine dell' intelligenza,
e propriamente suo oggetto . Dicendo suo oggetto , veniamo a dire
un termine, che si distingue dal principio intelligente coll' atto stesso che
viene a quel principio comunicato; sicchè si comunica senza confondersi,
anzi distinguendosi da lui, da ogni soggetto (per intuizione).
Così del pari il sentito primitivo non è l' attività senziente,
ma è un elemento extra7soggettivo.
Questo elemento extra7soggettivo non ha però relazione di oggetto
al soggetto, giacchè il senziente, come senziente, non lo distingue da sè,
ma semplicemente lo sente. Infatti in ogni sensione il principio senziente
non è sentito in modo distinto dal suo termine; è solo l' intelligenza
quella che poi lo distingue; il termine della sensione ed il senziente
costituiscono un solo sentimento, nè possono mai divenire due
per nessun atto sensitivo, perchè la sensitività non si riflette sopra sè
stessa, ma finisce nel suo atto senza più. Il sentito adunque si può chiamare
termine del senziente, ma non oggetto .
Tuttavia come l' inteso primitivo (oggetto) si può chiamare
forma dell' intelligente, così anche il sentito si può chiamare forma del
senziente; perocchè l' inteso e il sentito sono propriamente l' ultima perfezione,
la cima, e, come dicevamo, il termine dell' atto d' intendere e di
sentire. V' è però un' immensa differenza fra l' una e l' altra forma; poichè
l' oggetto essenziale è una forma necessaria e tale che, anche annullandosi
tutte le menti umane, ella non può annullarsi, sicchè esige e
suppone una mente eterna, dove non venga mai meno (1); laddove il
sentito corporeo è manifestamente contingente, e può essere annullato.
Ma noi abbiamo altrove descritto il sentito primitivo come
materia della potenza di sentire (2); abbiamo di poi detto che la materia
non è il sentito primitivo, ma è quella forza estranea al sentimento
che lo immuta, e la chiamammo sensifero (3). Ora qui sembra che produciamo
una terza sentenza, dicendo che il sentito è forma del senziente.
Non sono queste altrettante contraddizioni? E` dunque uopo che
noi ci conciliamo con noi stessi.
Diciamo che in queste tre dottrine v' è una contraddizione
apparente, ma non reale. E l' apparenza di contraddizione viene prodotta
dalla complicazione delle azioni e delle passioni, che si producono
nell' interno dell' essere sensitivo. Perocchè la parola materia significa
qualche cosa di relativo, ed ella cangia significato, cangiandosi i termini
precisi della relazione.
Definiamo la materia.
« La materia è un elemento costituente una data entità, estraneo
però all' attività dell' entità costituita, e sussistente in virtù della stessa
attività »(1).
Pigliamo ora a disaminare l' ente sensitivo. Se in esso noi
consideriamo l' attività senziente , è chiaro: 1 che il sentito primitivo
è un elemento costituente questa attività, perocchè senza il sentito non
si dà l' atto del sentire; ma è chiaro ancora, 2 che questo elemento è
estraneo all' attività, perchè il sentito non è il senziente, anzi è a questo
opposto; e tuttavia è pur chiaro, 3 che da questa attività, cioè dall' atto
del sentire, è posto in essere il sentito, perchè il sentito non ci sarebbe
senza l' atto del sentire, di cui è contemporaneamente l' effetto. Quindi il
sentito è [può dirsi in questo senso] materia del sentimento, come fu
detto nel « Nuovo Saggio ». Solamente ivi abbiamo osservato che questa
condizione di materia appartiene al sentito primitivo ed
immanente, e non al sentito delle sensazioni acquisite, perchè infatti
quel solo costituisce l' ente sensitivo, e non questo. Laonde dicemmo che
il sentito primitivo è materia dell' ente sensitivo, e i sentiti posteriori
sono termini delle operazioni dell' ente sensitivo. Niente tuttavia impedirebbe
di chiamare questi sentiti accidentali, materia delle accidentali
sensazioni.
Questo discorso è dunque pienamente vero, qualora si considera la
potenza del sentire , e non il suo atto; cioè quando si considera questo
atto nel suo formarsi, non l' atto già bello e formato. Perocchè è certo
che nello stesso formarsi dell' atto primitivo del sentire, il sentito ancora
non esiste; ma esiste solo quando l' atto del sentire è interamente formato.
Onde in questo momento l' attività è dalla parte del principio operante,
e la passività dalla parte dell' effetto (il sentito), che va ad essere
prodotto. Il sentito adunque, considerato in questo momento, ha il carattere
di materia, che viene quasi invasa dall' atto senziente.
Ma se si considera l' atto del sentire in quel momento, nel
quale egli è già formato, nel quale il suo sentito non è in
potenza, ma egli stesso è in atto; certo è che il senziente in tal momento
sente in virtù del sentito, appunto perchè questo sentito è l' ultima evoluzione
e perfezione di lui, e per così dire la sua estremità. Onde in
quel momento dell' ente sensitivo, in cui egli è appieno naturato, il sentito
può chiamarsi sua forma; non perchè il sentito senta, ma perchè
è ciò, per cui il senziente sente. Non è dunque forma, in quanto il sentito
sia l' attività senziente, ma è forma, in quanto l' attività non si dice senziente
se non dopo che ha prodotto il sentito; benchè l' attività non ancora
senziente, ma in via di divenir tale, preceda il sentito. Potendosi
adunque distinguere due momenti dell' essere senziente contingente,
l' uno quando sta per divenire senziente, e l' altro quando è già divenuto;
nel primo il sentito, che non è ancora, ma che sta per essere prodotto,
veste il concetto di materia e di un cotal termine passivo; nel secondo
che il senziente è nel suo atto completo, il sentito veste il concetto di
forma, perchè questo atto abita per così dire
in lui, e per lui è completo. E` dunque il sentito primitivo materia della
potenza di sentire, non ancora attuata come potenza; è forma della potenza
attuata come potenza. Quantunque questi sieno aspetti diversi o
sguardi dell' intelligenza, tuttavia hanno un loro proprio valore; e senza
tenerli distinti, il linguaggio che sopra di essi è formato, si confonde e
rende falsi concetti.
Ora, come può esser vero anche quello che dicevamo nell' Antropologia ,
cioè che materia si dice propriamente non il sentito, ma
quella forza bruta che immuta il sentito primitivo, appellata sensifera ?
- Ivi davamo la distinzione fra corpo e materia , e dicevamo che al concetto
di corpo basta un sentito esteso; perchè nel sentito esteso « « vi è la
forza con virtù diffusiva nell' estensione » », che sono i due elementi costituenti
il concetto di corpo (1). Ma osservavamo di più che oltre il sentito ,
nella natura si presenta qualche cosa come anteriore al sentito,
quasi un cotal sostrato del sentito medesimo, ed è una forza che non
entra a costituire il sentito, ma a mutarlo; onde noi ne conosciamo l' esistenza
per la violenza che sentiamo farci, quando ci viene tolto un sentito,
e sostituito un altro (2); ed altresì per la percezione extra7soggettiva.
Ora a questa forza, che propriamente cagiona il sentito, si dà il
nome di corpo in senso proprio. Noi non conosciamo l' esistenza di questa
forza anteriore al sentito ed al corpo soggettivo, se non a cagione di
quello che essa opera nel sentito stesso, per la violenza con cui lo altera
e lo immuta. Dunque la base positiva del nostro concetto di corpo è il
sentito , cioè il sentito è la prima cosa che noi conosciamo del corpo;
onde, da esso solo argomentando, ce ne formiamo il primo ed essenziale
concetto. Il concetto adunque di corpo involge essenzialmente l' attuale
sua sensibilità. Ma la forza che sottrae od immuta il sentito,
non è ella stessa un' estensione sentita. Dunque non ha l' attualità,
che caratterizza il concetto di corpo. Tuttavia, benchè estranea all' attività
corporea (che facciamo consistere nell' attuale sensibilità) quella
forza si considera come un elemento necessario al corpo materiale; e
ciò perchè quella forza opera in ogni punto del sentito esteso, e può
sottrarre ogni punto di lui al nostro principio sensitivo, come pure può
supporgli un' altra estensione sensibile, ond' ella è quella che, prima d' essere
sentita, operando nell' anima, produce il sentito. Quindi ella si considera
come in potenza ad esser sentita. Non ha dunque l' atto di essere
sentita, ma è una condizione precedente e necessaria al sentito.
Questo è il primo carattere della materia, l' essere, come dicevamo,
un elemento costituente, ma estraneo alla attività che da materia e forma
risulta. Ma dove si trova l' altro elemento? dove si trova che ella esista
in virtù della stessa attività? Si trova in ciò, che il concetto di forza, producente
o immutante il sentito, non per altro si conosce da noi che pel
sentito, e tutto ciò che ne sappiamo è la relazione che ha con questo. Onde
come la potenza si conosce per l' atto, così la forza producente il sentito
non si conosce che pel sentito e nel sentito. In questo senso ella esiste
pel sentito, giacchè in quello noi troviamo attuata quella forza.
Quindi generalmente si dà a una tal forza la denominazione di materia .
Niente però vieta che questa forza si consideri anch' essa in
due distinti momenti: nel momento in cui, agendo sull' anima, trovasi in
via a produrre il sentito, e in questo primo
momento non è materia del sentito, che ancora non esiste, ma è piuttosto
azione del principio corporeo dall' uomo non percepito, ma argomentato;
e nel momento in cui, essendo già prodotto il sentito, quella riceve il
concetto di essere il sentito stesso in potenza; onde dicesi materia del
sentito, ovvero sia materia del corpo .
Nel composto l' anima è forma; il corpo, materia dell' uomo.
Ma si può anche dire che il corpo sia materia dell' anima?
Sì, qualora per corpo s' intenda la materia del corpo , che abbiamo
testè definita.
Per vedere come ciò sia, è necessario prima di tutto dimostrare
che noi, nello stato presente delle cose, concepiamo il corpo e la
materia come un solo ente, che spiega due diverse attività, la prima delle
quali consiste in far sentire senza essere sentita, e sotto questo aspetto
si chiama materia o corpo materiale , l' altra consiste nell' essere immediatamente
sentita, e sotto questo aspetto si chiama corpo .
Che queste due attività appartengano ad uno stesso ente, noi lo raccogliamo
dall' osservare che la prima attività, che è in via a produrre il
sentito, opera in tutta l' estensione del sentito, immutandolo e cangiandolo;
il che ci dimostra che la materia è estesa, e che occupa la stessa
identica estensione del sentito; sicchè la concepiamo come fosse il sentito
stesso in potenza, come il corpo in potenza. Ora la potenza e l' atto
appartengono allo stesso ente; di che concludiamo che materia e corpo
sono l' ente medesimo.
Tutti i corpi esteriori al nostro proprio non ci manifestano
se non l' attività materiale; ma noi attribuiamo loro la denominazione
di corpo, appunto perchè sentiamo la loro forza sparsa nell' identico spazio,
nel quale è sparsa la sensazione soggettiva, che è il sentito immediato
(1). Per l' identità dello spazio noi intendiamo che il « corpo anatomico , » come l' abbiamo chiamato, è identico col corpo nostro soggettivo
(2).
Tuttavia, quando nel corpo consideriamo tutte e due queste attività,
gli diamo l' appellazione di corpo materiale; e così attribuiamo al
corpo, le proprietà
materiali, come suoi attributi.
Ciò premesso, vogliamo ora spiegare in che modo nel composto
umano il corpo, cioè la materia corporea, si dica acconciamente
materia dell' anima.
Se noi paragoniamo un corpo animato ad uno inanimato (1), possiamo
notare delle grandissime differenze fra l' uno e l' altro. E` dunque
certo che l' animazione altera e modifica il corpo, in quanto è oggetto
della nostra osservazione esterna, e che chiamiamo volgare od anatomico.
Aristotele indusse da ciò, che del corpo animato è proprio
un certo atto, di cui è privo il corpo inanimato, e in questo atto egli ripose
l' essenza dell' anima. Noi non possiamo convenire in questa definizione
dell' anima, la quale non è per noi un atto del corpo , ma bensì il
principio che produce quest' atto (2). L' anima in una parola produce
l' animazione , ma non è l' animazione stessa.
Aristotele, noi crediamo, fu indotto in errore per avere considerato
soltanto i fenomeni del corpo volgare od anatomico, che non
sono punto l' essenza del corpo, ma dei meri segni, onde possiamo indurre
la sua attività materiale; nè egli giunse punto ad afferrare il corpo,
in quanto ci è dato dal sentimento soggettivo, dove sta l' essenza del
corpo. E che Aristotele si trattenesse a considerare i soli fenomeni esterni,
che il corpo produce sui nostri organi, lo dimostra apertamente l' aver
egli data l' anima anche alle piante. Ora l' anima vegetativa di Aristotele,
priva di ogni sentimento, non è che un principio supposto per ispiegare
i fenomeni extra7soggettivi, che ci presentano le piante colla loro organizzazione,
nutrizione, incremento, generazione, germinazione. Ma in
tutto ciò nulla cadendo di soggettivo, cioè non attribuendosi alle piante
sentimento alcuno, manca loro quel soggetto sostanziale, a cui solo spetta
il nome di anima (1). Dove poi questo principio soggettivo, ossia sensitivo,
si scorge, come negli animali, quivi trovasi senza dubbio l' animazione
e l' anima. Ma l' animazione è ella effetto dell' anima, che agisce
nel corpo, ovvero è effetto del corpo, che agisce nell' anima,
o finalmente è forse effetto delle mutue azioni del corpo
e dell' anima?
Noi abbiamo già dichiarata su di ciò la nostra opinione; abbiamo
detto che il corpo bruto e materiale non ha per sè virtù di agire sull'
anima, ma che l' anima è quella che prima lo modifica e lo trae in un
atto nuovo, pel quale è a lui possibile l' agire sull' anima e produrvi il
sentimento; ed Aristotele stesso cogli innumerabili suoi seguaci lo riconosce
(2).
Ora questa prima modificazione, che il corpo riceve dall' anima,
per la quale egli si trova in via a produrre il sentimento, è propriamente
ciò che costituisce l' animazione, che lo rende atto a produrre esternamente
i fenomeni extra7soggettivi, propri dei soli corpi animati, e che
lo rende del pari atto a produrre nell' anima il sentimento. In quanto
adunque egli riceve dall' anima questo atto d' animazione, egli diviene
materia all' operare dell' anima stessa.
Resta nondimeno a dimostrare che l' animazione del corpo
sia prima di tutto un atto dell' anima che agisce nel corpo, anzichè un
atto del corpo che agisce nell' anima.
Per dimostrarlo conviene osservare che al corpo è essenziale l' estensione
continua almeno soggettiva, e che l' estensione continua non si dà
se non in un principio inesteso (1). Infatti tutte le maniere di concepire
l' estensione del corpo si riducono a due, e a due pure si riducono
i concetti, che di essa l' uomo si forma: il concetto voglio dire dell' estensione
materiale ed extra7soggettiva, e il concetto dell' estensione corporea
e soggettiva. Il concetto dell' estensione extra7soggettiva è quello di
una forza, che immuta il sentito; il concetto dell' estensione soggettiva
è quello del sentito stesso, di cui l' estensione è il modo. Il primo adunque
dei due concetti si riduce al secondo, di maniera che, analizzando
tutto ciò che sappiamo intorno all' estensione del corpo, veniamo a conchiudere
che la sua essenza non è altro che il modo del sentito corporeo
fondamentale (2). Ma il sentito fondamentale è il corpo animato. E`
dunque per un' azione dell' anima che il corpo viene animato, giacchè
l' anima è quella che gli dà l' estensione soggettiva , alla quale sono connessi
tutti i fenomeni extra7soggettivi dei corpi, che si dicono animati (1).
Se il corpo è materia dell' anima nel composto, consegue
che l' anima sia forma del corpo, cioè sia quella che gli dà l' animazione,
quell' atto pel quale vive; il quale atto consiste, come vedemmo, in divenire
soggettivamente esteso, che è quanto dire, essere sentito nel sentimento
fondamentale come esteso; al quale primo essenziale carattere
dell' animazione s' accoppiano costantemente i fenomeni extra7soggettivi,
segni dell' animazione, non
però l' animazione stessa.
Ma nasce qui il dubbio, se forma del corpo sia l' anima intellettiva,
o solo la sensitiva.
A cui si risponde che nell' uomo non v' è che un' anima sola,
e questa è propriamente razionale . Onde quest' anima razionale è forma
del corpo (2).
Dissi l' anima razionale piuttosto che l' anima intellettiva,
(benchè la parola intellettiva si suol rendere anche promiscuamente
colla parola razionale), perchè già vedemmo che il principio intellettivo
e il principio sensitivo dipendono nell' uomo da un principio
che in sè li unifica, come primo principio d' entrambi, e così costituisce
il soggetto sostanziale umano. Ora questo primo principio
(in cui è la sostanza dell' anima) dicesi con maggiore proprietà razionale
(1), secondo la definizione che abbiamo data della ragione , che fu:
« quella facoltà che unisce il sensibile e l' intelligibile, pronunciando di
ciò che sente, mediante l' idea, ed operando secondo ciò che pronuncia ».
Tuttavia il primo principio, che è il razionale, non è immerso
tutto nella materia, come si esprimono gli Scolastici (2); ma solo
in quanto è principio dell' attività percipiente il corpo;
rimanendo coll' attività puramente
intellettiva immune affatto dalla materia. Conciossiachè la
mera operazione intellettiva, come l' intuizione dell' essere, non riceve
nulla dalla sensazione corporea; e quanto alle operazioni razionali, ricevono
dalla sensazione la materia su cui lavorano, ma la forma delle
loro operazioni è anch' essa del tutto immateriale.
Quindi gli antichi distinsero l' anima dallo spirito , ovvero
dall' animo , attribuendo il nome di anima al principio prossimo dell' animazione
del corpo, che è il principio sensitivo, e attribuendo il nome
di spirito alla stessa sostanza, in quanto è intellettiva e immune dal
corporeo contatto (3).
Ancora usarono dire che le bestie hanno solamente l' anima , ma che
l' uomo ha di più l' animo (1).
Tutte le cose contingenti e limitate hanno questo di proprio,
che la loro natura consiste nella sola realità , di modo che l' idealità
non entra a costituire la loro natura come un elemento, ma solo a renderle
enti conoscibili all' intendimento (2).
Solo l' essere necessario ed assoluto ha tal natura, la cui compiuta
realità giace essenzialmente nel seno dell' idealità, e viceversa; sicchè
tanto l' essere reale, quanto l' ideale, appartengono alla natura e alla costituzione
dell' ente infinito.
Ora che la sostanza e la natura dell' anima, come quella di ogni ente
contingente, non sia costituita dall' essere ideale, è un vero degnissimo
d' attenzione, e non sì facile a cogliersi. Le difficoltà sono due:
I Noi non conosciamo l' anima nostra, nè l' anima altrui, nè alcun
ente contingente, senza l' uso dell' essere ideale; dunque pare che l' essere
ideale si mescoli coll' anima e con tutte le cose contingenti.
II L' anima non è intellettiva, se non per l' intuizione dell' essere
ideale; dunque pare che l' essere ideale appartenga alla sua natura.
La prima difficoltà si vince osservando esser verissimo che
noi non possiamo percepire l' anima nostra (dalla quale percezione caviamo
poi il concetto di ogni altra anima), se non facendo uso dell' essere
ideale; ma esser vero altresì che, per intendere che cosa sia l' anima
puramente nella sua natura, senz' altra aggiunta eterogenea, noi dobbiamo
dalla percezione dell' anima sottrarre la percezione stessa, e quindi
il mezzo con cui la percepiamo, che è l' essere ideale.
Alla seconda difficoltà rispondo esser verissimo che l' anima
è intellettiva a cagione dell' intuizione dell' essere, ma non conseguire da
ciò che l' essere ideale sia un elemento intrinseco della sua natura. E
ciò si prova:
I Ricorrendo alla coscienza di noi stessi, che è il principio della
scienza dell' anima, e il criterio che fa distinguere il falso ed il vero in
questo argomento. Ora noi ben sappiamo, e intendiamo con evidenza,
di non essere l' essere ideale; perchè l' essere ideale è un universale, ed
Io sono un particolare; l' essere ideale è immodificabile; ed Io sono soggetto
a modificazioni; l' essere ideale è il mezzo comune a tutti gli uomini
di conoscere, ed Io non sono negli altri uomini, ma esclusivamente
in me stesso, e gli altri uomini non usano di me per conoscere; anzi
fanno i loro atti di conoscere, a malgrado che non abbiano alcuna notizia
di me, neppure della mia esistenza.
II Posciachè l' essere ideale è congiunto al soggetto per via d' intuizione,
è chiaro che non è il soggetto, perchè l' intuizione ha questo di
proprio, di distinguere il suo termine da sè stessa, di escluderlo da sè,
di contrapporselo come qualche cosa di opposto a sè; di che venne la
parola objectum .
A maggior chiarimento di questo vero rimetto il lettore a quei luoghi,
dove ho dimostrato non essere assurdo che una cosa inesista nell' altra,
senza mescolarsi coll' altra; ed effettivamente avvenire il fatto
così nell' unione dell' essere ideale col soggetto per via d' intuizione (1).
Si replicherà: Voi dite però, che l' atto dell' intuire si crea
in virtù del manifestarsi dell' essere; dunque lo stesso atto di intuire è
un effetto dell' essere. - Rispondo: e che fa ciò? Sia pure l' intuizione
e l' intuente effetto della manifestazione dell' essere ideale, non è per
questo che sia un atto dello stesso essere ideale, quando anzi ne è il polo
opposto; la causa non è l' effetto. Come poi si faccia questa manifestazione ,
come questa manifestazione sia una cotal creazione , non cerco;
la questione è d' altro ordine, troppo più sublime; a me basta di mantenere
il fatto che l' intuìto non è l' intuente, ossia
l' anima; e il fatto è evidente.
Ora, dal sapersi che l' essere ideale non è un elemento interno
costitutivo della natura dell' anima, ma che questa natura è meramente
reale , facilmente si trae che l' anima umana è un ente finito; perocchè
non si trova l' infinito nell' uomo se non ricorrendo all' essere
ideale, il quale, come dicevamo, non è parte dell' uomo stesso.
E questa verità ci è data ancora immediatamente dalla coscienza
di noi stessi; perocchè ciascuno sa di essere finito, e quando dice
Io , ben intende che afferma una realità, che esclude innumerevoli altre
realità di eguale e di diversa condizione, e perciò che afferma cosa finita.
Nello stesso tempo l' anima umana, in quanto è intellettiva,
è unita ad un essere infinito qual' è l' idea, e sotto questo aspetto partecipa
d' una certa infinità; potendosi rassomigliare l' essere ideale in relazione
colla mente, a quello che è uno spazio infinito equamente illuminato
relativamente all' occhio. Quindi, benchè i reali conosciuti dall' uomo
siano sempre finiti, perchè è finito il reale che li percepisce, cioè
l' anima; tuttavia il mezzo di conoscere i reali percepiti col senso, cioè
l' idea dell' essere, non è mai esaurito, o reso inefficace: egli basta sempre
alla cognizione di altri reali, se fossero dati all' uomo nella percezione
sensitiva, e ciò indefinitamente, e quand' anche la realità fosse infinita
(1). Onde S. Tommaso dice che « « a quel modo che l' intelletto nostro
è infinito in virtù, a quel modo stesso conosce l' infinito. Poichè la
di lui virtù è infinita, in quanto non è determinata da materia corporale »
( noi diremmo, da realità finita qualsiasi ), «ed è conoscitivo dell' universale
(dell' essere ideale), il quale è astratto dalla materia individuale
(sussistente). E però non finisce a qualche individuo, ma quanto a sè,
si estende ad infiniti individui »(2) ».
Ora qui si presenta un' obbiezione. - L' essere ideale è la
forma dell' anima intellettiva; ma la forma e la materia sono due elementi
costitutivi di una natura; dunque l' essere ideale è un vero elemento
costitutivo dell' anima. Ma l' essere ideale è infinito nella sua condizione
d' ideale; dunque l' anima umana è composta di finito e d' infinito.
Rispondo, distinguendo la minore di questo sillogismo così. Le forme
sono di due maniere, soggettive ed oggettive. Le forme soggettive appartengono
al soggetto e lo costituiscono; le forme oggettive non appartengono
al soggetto, nè lo costituiscono, ma traggono in atto il soggetto,
e perciò si possono anche dire cause immediate della forma del soggetto.
Tuttavia con eguale e forse maggiore proprietà, esse si dicono
anche forme , quando cioè si considerano come termine dell' atto dell' intuizione;
poichè l' essere universale, in quanto è precisamente termine
di quest' atto, viene come appropriato all' anima, senza
cessare d' essere universale in sè stesso (1). E infatti, benchè sia vero che
l' essere in universale sia intuìto identicamente il medesimo da tutti gli
intelletti, tuttavia, in quanto egli è precisamente termine d' un
intelletto, non è termine dell' altro; ed è in questo senso che la verità
posseduta dall' uomo si può dire creata; intendendosi questa proposizione:
« è creata la verità dell' intelletto umano », come equivalente a
quest' altra: « quella verità, che è eterna, si è fatta divenire termine di
un intelletto creato »(2).
Dove si consideri che ogni azione, che termina in una entità
diversa da sè, suppone una specie di contatto con quella entità, e nel
punto del contatto vi è comunicazione della cosa tangente e della toccata.
Ma nel caso dell' intuizione la cosa toccata, l' essere ideale, non è
punto mutabile, nè alterabile, nè mescibile con altra cosa (3); dunque
la comunicazione non reca varietà in essa, ma solo nel soggetto. La varietà
poi che accade nel soggetto, consiste nel metterlo in possesso dell'
intelligenza, ossia della luce; e ciò che si possiede non si confonde col
possessore, benchè lo arricchisca. Così il possessore dell' oro non è l' oro.
In quanto adunque l' essere ideale è luce al soggetto intuente, in tanto è
sua forma, senza che lo stesso essere soffra alcun cangiamento o restringimento
in sè stesso.
E qui non sarebbe inopportuna la questione: « se l' intelligibile
sia comunicato limitatamente o illimitatamente alla natura umana;
e se il primo, in che consista tale limitazione ».
A cui brevemente risponderemo così: L' intelligibile è l' essere
eterno e necessario; l' essere eterno e necessario è quello, nel quale non
si disgiungono l' essenza e la sussistenza, formando esse un unico e semplicissimo
ente; ora l' essenza rifulge nell' idea, è l' intelligibile; se dunque
l' uomo vedesse col suo intelletto l' intelligibile pienamente, vedrebbe
Iddio, la cui essenza è la stessa sussistenza; quindi l' intelligibile non può
manifestarsi in tutta pienezza a nessun essere creato, senza che questo
essere sia trasportato in un ordine soprannaturale, e vegga il Creatore. Di
vero, Iddio è sopra la natura creata, anzi egli è l' unico ente veramente
soprannaturale; e la comunicazione immediata colla divina sussistenza
è ciò che forma la condizione soprannaturale delle intelligenti creature.
Ma potrebbe un soggetto qualsiasi vedere l' intelligibile in
un modo più perfetto di quel che lo vede l' uomo, senza che gli sia data
la percezione della divina sussistenza?
Questa questione importante non possiamo trapassare.
L' intuizione dell' essere si può considerare dalla parte del soggetto
intuente, e dalla parte dell' oggetto intuìto.
Dalla parte del soggetto intuente l' intuizione può essere, o parere,
più o meno perfetta; e sembra che questa perfezione possa variare
in tre modi: 1 per l' intensità dell' atto, onde
accade che l' essere ideale produca nel soggetto una più alta impressione,
mostri più luce, sia veduto più distinto; 2 per la maggiore facilità di
riflettere sull' idea e sull' intuizione, il che è propriamente perfezione
della facoltà di riflettere, non dell' intuizione stessa; ma l' uomo, rendendosi
così più facilmente e perfettamente conscio dell' intuizione, pare
che s' aggiunga luce a questa [benchè ciò non sia]; contribuisce nondimeno
ad agevolare la riflessione l' intensità dell' intuito; 3 per la maggior
facilità di applicare l' idea, onde la percezione ed il ragionamento
riescono più pronti e perfetti; e qui pure la perfezione sta nelle operazioni
della ragione, non nell' intuizione, benchè ne paia il contrario.
Alla quale perfezione del ragionare contribuiscono non poco le due
perfezioni precedenti, dell' intuizione e della riflessione; e dipende oltremodo
dalla perfetta organizzazione del sistema cerebro7rachideo.
Queste differenze dovrebbero svolgersi in un trattato della diversità
degl' ingegni.
Rimane a sciogliersi la questione dal lato dell' oggetto stesso.
Si domanda, adunque, se ad un soggetto possa essere dato a intuire più
dell' intelligibile di quel che è dato alla natura umana, senza che gli sia
data la percezione della sussistenza divina.
Noi rispondiamo negativamente; e dichiariamo così la nostra risposta.
Niuna sussistenza è intelligibile per sè stessa fuori che la divina; e
ciò perchè l' intelligibile è l' essenza dell' ente,
e la sola sussistenza divina s' identifica con quella essenza
(1). Dunque a Dio solo appartiene fra i sussistenti di essere l' intelligibile;
non si può dunque aggiungere niente all' essere ideale che sia
per sè intelligibile, se non si passa in un ordine soprannaturale e divino.
Si dirà: l' essere ideale, com' è intuìto dall' uomo, è al tutto indeterminato.
Ora egli potrebbe contenere molte sue determinazioni, anche
senza ricorrere per determinarlo a Dio. Infatti le idee degli enti contingenti
sono altrettante determinazioni dell' essere ideale. Dunque l' essere
ideale, dato all' intuito, potrebbe trovarsi in altre menti più perfetto,
cioè più determinato che non è nella mente umana.
Illusione, nascente dal non intendersi bene come nascano queste
determinazioni dell' essere ideale, queste idee speciali o generiche. Elle
nascono (2) mediante il rapporto degli enti reali e sussistenti coll' essere
universale indeterminato; dunque elle non sono propriamente idee, ma
rapporti delle sussistenze o dei loro vestigi all' essere ideale; suppongono
dunque conosciute in qualche modo le sussistenze. Ma le sussistenze
contingenti non sono intelligibili per sè stesse, e perciò non aggiungono
cosa alcuna all' intelligibile. Ciò che s' aggiunge non è qualche
cosa che riguardi l' intelligibile per sè, ma sono atti nuovi del soggetto
intelligente. L' aumento di cognizione viene tutto dalla parte della materia
e non della forma, dalla parte del soggetto e non dell' oggetto.
L' intelligenza adunque si può accrescere e rinforzare, senza
che cresca l' intelligibile per sè; ella s' accresce, ogniqualvolta le è dato
a percepire maggior copia di sussistenze o di realità. Le intelligenze
adunque, ristrette all' ordine naturale, non possono differire fra loro per
una quantità maggiore o minore dell' intelligibile al loro intuito proposto;
ma unicamente per una quantità minore o maggiore di realità
percepita, o per una realità di diversa natura.
Quello che può crescere, minuire, o variare è ciò che cade nella sfera
del sentimento, non mai l' oggetto stesso della intuizione. E così dicevamo
che la natura angelica differisce dall' umana per un diverso e più
acconcio sentimento, di cui è dotata, e conseguentemente per
una natura e una quantità diversa di cose naturalmente percepite; non
per una diversa intuizione (3).
Ma non è possibile avere delle idee di cose contingenti,
senza bisogno d' averle prima percepite? Non abbiamo noi stessi molte
idee, di cui non abbiamo percezione? Non si possono conoscere le cose
per via di loro similitudini, senza avere esperimentata in noi la loro
azione?
Ci si chiama all' esperienza di ciò che avviene nell' uomo; ottimamente.
Ma non conviene immaginare ad arbitrio quanto avviene in noi,
conviene pazientemente osservarlo, unica via per non dare in errore.
Ora ciò che avviene indubitatamente nell' uomo, secondo la più accurata
osservazione, si è che l' uomo non ha alcuna idea positiva di cosa
sussistente, se non è preceduta la percezione, a cui possa riferirla. Così
il cieco non ha alcuna idea positiva di colori; perchè la parola colore
a lui non suona quello che gli altri uomini; e questa stessa parola egli
non l' avrebbe mai inventata, se fosse anche sordo, e perciò coi suoi orecchi
non l' avesse mai udita, nè percepita dagli altri uomini. E` vero che
all' uomo rimane l' idea di ciò che ha percepito nel suo sentimento, anche
quando la percezione è passata; ma ciò accade perchè la percezione
non passa del tutto; l' uomo ne conserva la memoria, ne conserva dei
vestigi nell' immaginazione, e può suscitarsene l' immagine, che non è
altro che una cotale percezione interiore, un ripristinamento della percezione
esterna (1). Che se la percezione fosse passata in modo che non
gliene rimanesse traccia immaginaria, nè abito,
l' idea stessa della cosa sarebbe spenta,
perchè non gli rimarrebbe più alcuna via da riferire l' essere al sentimento,
nel quale rapporto l' idea stessa, in quanto è determinata, consiste.
Questo è ciò che avviene nell' uomo; vediamo se in un altro essere
potrebbe avvenire diversamente.
Si dice che un' intelligenza può conoscere le cose mediante
le loro similitudini . Ma questo non è vero se non in un certo senso, che
deve ben definirsi. Acciocchè una similitudine possa essere atta a farmi
conoscere la cosa da essa rappresentata, io debbo poter fare il confronto
fra essa e la cosa a cui rassomiglia; debbo rilevare quanto fedelmente le
rassomiglia, e in che differisce. Altrimenti io non saprei mai che ella è
una similitudine, e non anzi la cosa stessa. Ora come farò io questo confronto,
se non conosco la cosa sussistente? perocchè un confronto non
si fa se non col paragone dei termini. Dunque io non posso conoscere
la cosa sussistente per mezzo d' una sua similitudine, se già prima io non
suppongo a me cognita la cosa sussistente. Ma la cosa sussistente (trattandosi
di cose contingenti) non è cognita per sè, ma per la percezione
di lei. Dunque la sola similitudine della cosa non può bastare a conoscere
la cosa sussistente, senza la percezione di questa, a cui si riferisce
(1).
E non si potrebbe conoscere una cosa data per via della sua
similitudine, senza averla precedentemente percepita, quando un altro
essere ci rivelasse che quella è similitudine?
Rispondo: In tal caso non si conoscerebbe la cosa per la sola sua
similitudine, ma con di più l' aiuto della rivelazione che farebbe un
altro essere; la quale rivelazione già suppone qualche percezione.
Se la similitudine fosse meramente un vestigio della cosa, ella
non potrebbe dare che un' idea negativa, cioè verrebbe a produrci la persuasione
che la cosa sussiste, senza farcene conoscere la natura.
Se poi si trattasse di vera similitudine, in tal caso ella dovrebbe
essere tale che noi percepissimo con essa la natura della cosa,
e quindi dovrebbe essere una realità della stessa natura della cosa, in
quanto è simile alla cosa; per esempio, se un ritratto mi fa conoscere
la fisionomia d' un uomo, è perchè io percepisco lo stesso colorito, e le
stesse forme del volto di quell' uomo; onde io percepisco una realità che
ha gli stessi caratteri; e in quanto il ritratto differisce dall' uomo, e gli
manca la estensione solida, la flessibilità delle carni, ecc., io con esso
non percepisco l' uomo; poichè in ciò che gli manca di simile non è similitudine.
E qui si noti bene in che la nostra questione consiste. Noi domandavamo
se si può avere idea positiva d' una cosa senza alcuna percezione
di essa, e dicevamo di no; ma questa necessità della percezione non si
estende punto a tutti gli individui eguali o simili; basta che almeno uno
ne sia percepito, e con ciò è già soddisfatto alla condizione da noi apposta,
perchè si abbia l' idea positiva di tutti gli individui eguali al percepito;
onde percepito un individuo, noi conosciamo anche gli altri per
via di similitudine o di eguaglianza, che hanno con quello. Ciò che sosteniamo
si è che, se non ne percepiamo alcuno, neppure gli altri possiamo
conoscere, perchè ci manca ancora il primo simile. Ma se ci è
data una percezione, allora abbiamo certo la similitudine degli altri individui
percettibili allo stesso modo; e così li conosciamo per similitudine ,
senza percepirli. Onde resta fermo che niuna realità si conosce
senza percezione, e che non si danno similitudini di cose reali, senza che
la realità loro si percepisca. Di che, supponendo che ad un soggetto intelligente
sieno date tali similitudini, le quali sieno atte a fargli conoscere
cose reali, si viene a supporre con ciò stesso che gli sieno date percezioni
interne di cose reali. Ma le percezioni di cose reali, cioè i sentimenti
percepiti, in qualsiasi modo vengano acquistate o comunicate, se
le cose di cui si tratta sono contingenti, non aumentano punto l' intelligibile,
oggetto dell' intuizione. Dunque l' intelligibile non può essere aumentato,
in qualsiasi modo gli si aggiungano determinazioni o concetti
di cose contingenti e finite; ma ben può essere aumentato per l' unica via
della percezione di Dio stesso, perchè la sola sussistenza divina, come
dicevamo, fra tutte le sussistenze, è intelligibile per sè stessa. Perciò le
diverse intelligenze si debbono distinguere non già per una diversità
che cada nell' essere ideale , che le informa, ma per una diversità che
trovasi nell' essere reale che le costituisce, a cui è data una diversa sfera
di percezioni, siano esse native o sopravvenienti, o con i loro propri atti
accidentali acquisite.
E qui diamo fine a questo secondo libro della Psicologia.
Ricapitolando quanto ragionammo fin qui dell' essenza dell' anima,
noi abbiamo veduto che ella dimora in quel sentimento primitivo
e sostanziale , che ogni uomo esprime pronunciando il vocabolo Io ,
e che solamente meditando su questo sentimento dell' anima
si possono conoscere con sicurezza le proprietà dell' essenza dell' anima,
a tal che esso fu da noi dichiarato fonte, principio e criterio di tutte le
dottrine psicologiche.
Noi abbiamo di conseguente esaminato questo intimo sentimento;
ed egli ci ha testificato che l' anima è unica in ciascun uomo, e ch' ella è
il principio di tutte le operazioni dell' umano individuo; che è semplice
ed incorporea; e che non muore. Perocchè la parola morte altro non
significa che quella passione che subisce il corpo, quando l' anima cessa
dall' avvivarlo. All' incontro l' anima è attiva nella stessa morte patita dal
corpo, essendone ella la causa negativa, col cessare da quel suo atto,
che dicesi animazione.
Qui ci si aperse la sottile questione dell' identità dell' anima, alla
quale sembrava opporsi una triplice moltiplicità, che apparisce giacere
nella natura dell' anima. Perocchè primieramente in lei si nota un principio
ed un termine; di poi una pluralità di termini e molte operazioni
con essi; finalmente due principŒ attivi d' indole diversissima, la sensitività
e l' intelligenza. Ma noi dimostrammo che il termine non è elemento
intrinseco all' anima, ma sola sua condizione, ossia essenziale relazione ,
onde non la può duplicare; quindi neppure la moltiplicità dei
termini cade nell' anima, la quale è solo principio . Di poi, nè anche la
moltiplicano le varie operazioni, non essendo esse l' anima. Finalmente
trovammo che ai due principŒ attivi, che nell' anima si ravvisano, ne sovrasta
uno che li regge; e in quest' uno l' identità dell' anima come in sua
propria sede dimora, perocchè quel principio superiore è l' anima stessa.
Appresso, noi passammo a vedere quali sieno le variazioni, a cui
l' anima potrebbe soggiacere senza cessare d' essere identica, e a quali
non potrebbe senza perdere la sua identità: il che ci diede buona occasione
di discorrere le differenze che partono l' anima umana, da una
parte dalle anime dei bruti, e dall' altra dalle pure intelligenze.
Dimostrammo poscia che la natura dell' anima (come di tutte le
cose contingenti) è quella di essere puramente reale, e che però la sua
essenza non si può concepire positivamente senza la percezione della
sua realità, o qualche di lei vestigio a cui si riferisca; ella si conosce per
via di concetto , il quale è determinato, e quasi disegnato nell' essere
ideale, dall' atto della mente che considera la relazione fra il reale e
l' ideale.
Finalmente provammo che ella è finita, appunto perchè è reale, e
in quanto è reale; ma che comunica coll' infinito; perocchè ha l' essere
per suo oggetto, il quale essere è come un interminabile spazio, dove
ella può stendersi a suo piacere senza fine, e batter l' ali.
Nella realità dunque dell' anima consiste la sua natura e
la sua limitazione (ond' anche la ponemmo nel sentimento, che è appunto
il reale) (1). Ora è necessario che noi ci fermiamo ad investigare
ed analizzare più compiutamente questa sua limitazione. Al qual fine
è uopo che noi consideriamo l' anima in relazione col corpo da lei animato;
imperocchè la realità estesa e corporea è propriamente ciò che la
limita, e contribuisce in pari tempo alle operazioni dell' anima. Ci applicheremo
adunque nel libro presente a trattare del nesso dell' anima
col corpo, e del loro scambievole influsso.
Che fra le cose diverse dall' anima il corpo sia la sola realità
sensibile e percepibile dall' uomo, è un fatto che si raccoglie dalla
coscienza, nè ha bisogno d' altra prova che di questa immediata.
Quindi noi possiamo cavare un immediato corollario importantissimo,
ed è che l' anima ed il corpo sono congiunti per via di sentimento.
E nel sentimento appunto noi abbiamo collocata la realità;
dunque vi è fra l' anima e il corpo una reale congiunzione.
Ma questa congiunzione non si deve immaginarla simile a quella
che ha un corpo operante sull' altro; dove l' agire dell' uno è simile all'
agire dell' altro, e il patire dell' uno è simile al patire dell' altro, e il
reagire dell' uno è simile al reagire dell' altro (di che venne l' erroneo
principio che « l' azione è eguale alla reazione ») (1), e quindi il tocco
dell' uno è simile al tocco dell' altro. Anzi nel caso nostro trattasi di due
enti di diversa natura, ciascuno dei quali agisce sull' altro a suo modo,
cioè in modo diverso; e in modo diverso patisce, e in modo diverso reagisce.
Ora il fatto evidente che dimostra l' unione dell' anima col corpo
è il sentimento , dal quale sono escluse tutte le leggi meccaniche, che
hanno luogo nell' azione mutua dei corpi; e però questa unione e questa
mutua azione dell' anima e del corpo fu da noi già denominata relazione
di sensilità , ed abbiamo a lungo ragionato della sua natura e delle
sue leggi (2).
Abbiamo altresì dimostrato che in ogni sentimento corporeo
vi sono due quasi estremi, che chiamammo il senziente ed il sentito ,
e che il sentito è il corpo, ed il senziente è l' anima. Ora del sentito e
del senziente si compone un sentimento unico, che in quanto è primo
e fondamentale, è un ente unico ed indistinto. Di che procede che non
solo il corpo deve essere unito all' anima e l' anima al corpo, ma l' unione
deve essere quale è quella della forma colla materia.
Quindi ancora confutammo direttamente le ipotesi dell' armonia
prestabilita e delle cause occasionali, con questo evidentissimo
argomento, che con esse noi non potremmo avere alcuna cognizione del
corpo; perocchè ogni cognizione nostra del corpo si riduce a farci conoscere
che il corpo è termine del sentimento dell' anima; e però nella
nozione stessa di corpo s' involge come essenziale una relazione di unione
coll' anima, e di reale azione e passione fra i due principŒ. Trovammo
insomma l' influsso fisico nelle stesse definizioni dell' anima e del corpo
(3); sicchè tolta tale unione reale, tale fisico influsso, nè l' anima, nè
il corpo si può più concepire, nè nominare.
Conviene per altro non dimenticare che, se l' animale è un
sentimento unico, in questo sentimento però vi è il principio semplice
(il senziente) e il termine esteso (il sentito). I quali due elementi formano
un unico e medesimo sentimento; onde il corpo, che è il termine
del sentimento, non è dato all' animale nel primo suo stato così isolato
dal principio senziente, che sia per sè un sentimento separato; ma gli
è dato un sentimento solo, configurato così da essere sotto un aspetto
senziente, e sotto un altro sentito. Questo sentito viene poi diviso dal
senziente per opera dell' intelligenza, come diremo appresso.
Ma se s' intende assai bene come l' animale sia un sentimento
indivisibile, dove il principio senziente, ossia l' anima, costituisce una
cosa sola col termine sentito, ossia col corpo, e così è forma di questo;
non è egualmente facile a spiegarsi come l' anima umana, in quanto è
razionale, sia forma del corpo umano.
Come adunque l' anima razionale comunica col corpo, come lo informa?
Dalle cose dette più sopra viene in gran parte la risposta
a questa domanda. Perocchè fu da noi dimostrato che l' anima razionale
è un principio che virtualmente racchiude anche l' attività sensitiva7corporea.
E S. Tommaso aveva già scritto che « l' anima intellettiva contiene
nella virtù sua tutto ciò che ha l' anima sensitiva dei bruti, e la vegetativa
delle piante », ed usò a spiegare il suo concetto una opportuna similitudine.
« « Siccome una superficie che ha figura pentagona,
non è tale per via di un' altra figura tetragona, e per via di un' altra pentagona,
giacchè sarebbe superfluo il ricorrere ad un' altra figura di
quattro lati, che già si contiene in quella di cinque lati, così neppure
Socrate è uomo per un' anima, e per un' altra è animale; ma egli è l' uno
e l' altro per una sola e la stessa anima »(1) ». Onde egli ancora afferma
che « « l' anima razionale, quantunque sia una secondo l' essenza, tuttavia,
a cagione della sua perfezione, è molteplice in virtù »(2) ».
E tuttavia non si può negare che questo è difficile a intendere, e
però noi, a meglio dichiararlo, aggiungeremo alle cose dette alcune considerazioni.
E prima di tutto conviene svestire il pregiudizio che le cose
siano assolutamente tali, nè più nè meno, quali appariscono ai nostri
sensi esterni, e in generale che le cose percepite sensitivamente non
abbiano altra entità da quella che in un dato sentimento si percepisce.
E` vero che se vi è una maniera di sentire stabile, e principalmente
se vi è una sola maniera di sentire, ovvero ad una sola maniera
si pone esclusiva attenzione; la cosa, quale è percepita nel sentimento,
diviene base di un' idea di essa, e noi le poniamo un nome significativo
della sostanza della cosa, intendendo che la sostanza della cosa sia quella
entità appunto, che nel sentimento abbiamo percepita (3).
Ma se vi sono due o più modi di sentire una cosa, e se noi poniamo
loro attenzione, incontanente ci accorgiamo che la cosa appare diversa
secondo le maniere diverse di sentire. Così lo stesso oggetto è un colorito,
se lo percepiamo cogli occhi, è un saporoso, se lo percepiamo col
palato, è un odoroso, se lo percepiamo coll' olfatto, ecc.; e molto più
grande è la differenza, se consideriamo quale sia il nostro corpo stesso,
percepito cogli organi esterni come un extra7soggettivo, e percepito col
sentimento interno come termine del sentimento fondamentale; di che
abbiamo a lungo ragionato nell' « Antropologia ».
Medesimamente i termini della nostra percezione sensitiva
appaiono cose diverse, se li consideriamo rispetto a noi percipienti, e
se li consideriamo in relazione fra di sè, per esempio, se consideriamo
quale sia un corpo esterno relativamente ad un altro corpo esterno. Poichè,
come osservammo, fra un corpo esterno ed un altro corpo esterno
a cui lo paragoniamo, noi troviamo relazioni di estensione, di grandezza
maggiore o minore, ecc.; ma se paragoniamo quel corpo esterno al nostro
principio sensitivo, non troviamo più quelle relazioni, ma una relazione
del tutto diversa da quelle, e che noi chiamammo relazione di « sensilità
(1) ». Il termine adunque della percezione cangia secondo la natura
del soggetto percipiente, e la maniera colla quale si percepisce sensibilmente,
sicchè l' indole del sentito, come sentito, è determinata dalla natura
dell' entità termine e dalla natura del senziente principio, e dal
modo di sentire ecc.; cose tutte già da noi a lungo spiegate (2).
Dunque ciò che un' entità è rispetto ad un sentimento, non
è rispetto ad un altro sentimento, ma riesce diversa; il che è quanto
dire che l' entità stessa manifesta in diverso modo la sua attività, secondo
i sentimenti di cui si fa termine. La percezione sensitiva adunque
prende le cose percepite secondo diverse loro attività, relative allo stesso
sentire; e però ciò che una cosa partecipa di sè al sentimento, tiene
assai del relativo.
Ma l' intendimento all' incontro non percepisce in modo
relativo, sì bene in modo assoluto, tutto ciò che percepisce. Percepire in
modo assoluto è percepire l' entità stessa delle cose, non immediatamente
la sensilità , l' estensione o altre attività relative. Ora è da notarsi che la
sensilità , l' estensione e le altre attività relative ai diversi sentimenti, si
comprendono tutte nell' entità , perchè le attività anche relative escono
dall' entità. E nel vero, l' estensione è un' entità di suo genere, la sensilità
è un' entità pure di suo genere, ecc.. L' intendimento adunque percepisce
tali attività, in quanto tutte si riducono ad entità; le percepisce,
ma non come tali precisamente, ma per quello che partecipano dell' entità;
il che si dice « intendere in modo assoluto »; perocchè sia vero o
no che la cosa sia estesa, sia colorata, ecc., è sempre vero che è entità,
e che anche l' estensione e le qualità sensibili sono entità. Ed è perciò
che l' oggetto proprio dell' intendimento è sempre vero, perchè non si
ferma al relativo; ma considera il relativo stesso rispetto a ciò che ha
di assoluto. Se dunque i corpi hanno fra loro una relazione di estensione,
di grandezza, ecc., se rispetto al principio sensitivo hanno una
relazione di sensilità , essi rispetto all' intendimento hanno una relazione
di entità; e questa relazione è assoluta e necessaria, mentre le altre sono
parziali e variabili.
Ma se l' intendimento percepisce tutto ciò che gli è dato a
percepire, in rispetto all' assoluta entità non gli è però dato da percepire
altro che quello stesso che il sentimento gli appresenta. E veramente
ciò che in niun modo si sente, non può percepirsi dall' intendimento.
Quindi da una parte l' intendimento, quanto a sè, percepisce le
cose senza alterarle, nè scemarle o modificarle; ma dall' altra le cose
gli sono date a percepire, già precedentemente modificate o piuttosto
composte dal sentimento limitato, che gliele presenta; ed è per questo
che la cognizione delle cose riesce limitata, non perchè l' intendimento
stesso la frazioni, o la componga, o la limiti.
Di che appare manifesto che, se si desse un sentimento che
apprendesse tutta intera l' entità reale delle cose, e non una parte, non
una speciale attività,
in tal caso la cosa sarebbe presentata all' intendimento
da percepire, senza limitazione o frazione alcuna, e se
ne avrebbe un sapere del tutto assoluto; il che può accadere trattandosi
del sentimento sostanziale, che ha un ente di sè stesso. E così pure
deve accadere quando l' Essere per essenza, nella sua forma reale, si
comunichi all' uomo; perchè, essendo egli semplicissimo ed immutabile,
non può comunicarsi che come essere; e quindi in tal caso il principio
sensitivo, che lo percepisce, deve essere tale che possa percepire l' entità
stessa; la quale è l' oggetto dell' intelletto. Quindi quel principio non può
essere che un senso intellettivo. L' intelletto in tal caso, come senso intellettivo,
sente l' entità reale, e l' intelletto stesso, come intelletto, sente
la stessa entità ideale: è un ente solo reale7ideale, è una potenza sola
che unisce in sè stessa due operazioni, per altro divise, del senso e dell'
intelletto. Così si percepisce Iddio.
L' intendimento adunque percepisce sempre assolutamente ,
cioè ha nozioni assolute di tutte le cose che percepisce, e di sè ha una
percezione completa; ma solo percependo Iddio, percepisce veramente
l' assoluto , e quindi ha un sapere assoluto (1). Conviene soltanto aggiungere
che si può avere anche un sapere assoluto delle cose contingenti ,
quando si percepissero come sono in Dio nell' atto creatore; e un
sapere pure assoluto, ma negativo , si ha delle cose, quando con una riflessione
più elevata si rimuove dal sapere relativo ciò che vi è in esso
di relativo.
Dalle quali cose tutte noi possiamo raccogliere:
Che il principio razionale non comunica direttamente colle
cose, in quanto si credono sussistere fuori del senso, ma comunica colle
cose sentite , colle cose quali sono a lui date da percepire nei sentimenti.
Che esso comunica colle cose sentite, non già perchè queste
cose sentite abbiano con lui la relazione di sensilità , ma perchè hanno
la relazione di entità .
Che la relazione di entità , essendo assoluta, abbraccia tutte
le altre relazioni relative, ed anche quelle di sensilità .
Che perciò l' anima razionale è unita al corpo, in quanto è
unita al sentimento animale; e ciò perchè il sentito, oltre avere la relazione
di sensilità , ha la relazione superiore ed assoluta di entità , che
abbraccia anche quella di sensilità , come il più abbraccia il meno; giacchè
ogni sentito è una entità determinata; ma questa relazione di entità
non si manifesta che all' intendimento, il quale si estende ad ogni entità,
perchè ha per oggetto l' entità stessa, l' essere per essenza.
Che l' unità dell' anima e l' unità dell' uomo sta in questo principio
razionale, a cui è dato da percepire quel sentito, o corporeo o di
altra natura, che è dato all' uomo.
E finalmente, che l' unità dell' uomo consiste in un sentimento
unico, proprio del principio razionale, nel qual sentimento unico
non è solamente il sentimento animale, ma anche il sentimento razionale,
per modo che in questo si contiene quello, come nel più si contiene
il meno; sicchè l' uomo nel primo suo stato non ha già più sentimenti,
cioè il sentimento animale e il razionale, ma un unico e semplicissimo
sentimento, avente un principio ed un termine. Egli ha un
principio, ed è lo stesso principio razionale, ed ha un termine, che è
l' idea dell' essere, e in quest' essere vede il sentimento animale, che esperimenta;
giacchè nella percezione accade, per dirlo di nuovo, che del
sussistente sentito e dell' essere si formi un solo ente, oggetto dell' unico
principio razionale. Questa percezione primitiva e fondamentale di
tutto il sentito (principio e termine) è il talamo per così dire, dove il
reale (sentimento animale7spirituale) e l' essenza , che s' intuisce nell'
idea, formano una cosa; e questa cosa sola è l' uomo.
Ma conviene osservare che il sentimento abbraccia tutto
l' uomo e ne costituisce l' unità; la percezione razionale non si estende
tuttavia se non solo al sentimento animale; poichè il principio percipiente
non può percepire sè stesso se non più tardi, mediante la riflessione,
quando in occasione delle sensazioni esterne gli nasce il bisogno
di distinguere sè stesso dal resto, che è nel suo sentimento. Onde nell'
uomo, quale è naturalmente al primo istante del viver suo, vi è: 1 un
sentimento unico costante7fondamentale, animale e spirituale; 2 una
percezione razionale, immanente, del sentimento animale.
Conviene adunque, per ispiegare l' unione dell' anima col
corpo, ammettere che l' anima razionale abbia una primitiva, naturale
e continua percezione del sentimento fondamentale animale; perocchè,
essendo ella razionale, non può congiungersi a tal sentimento che con
un atto razionale, e di tutti gli atti razionali il primo, quello che comunica
immediatamente colla realità dell' ente, è la percezione.
Ma sulla natura di questa percezione costante del sentimento
fondamentale animale non conviene ingannarsi. Riassumiamone
bene i caratteri:
L' anima con tale percezione non percepisce il corpo extra7soggettivo
ed anatomico, ma percepisce tutto il sentimento fondamentale7animale,
tale quale egli è, indivisibile, continuo, armonico, ecc..
Quindi ella non percepisce punto il solo principio del sentimento,
privo del suo termine; chè il principio, senza il suo termine,
neppure esiste.
Medesimamente ella non percepisce il corpo soggettivo, termine
del sentimento, diviso dal suo principio, perchè la divisione mentale
del termine del sentimento animale dal suo principio, non si fa
che tardi, per opera della riflessione analizzante il sentimento, ma in
sè non esiste il corpo sentito, diviso dal principio senziente; di che quella
percezione primitiva naturale non è sufficiente da sè sola a darci la nozione
pura del corpo soggettivo, perchè questo in essa non è isolato dal
suo principio.
Molto meno percepisce le
parti del corpo separate dal tutto, ma sì il tutto nella sua perfetta semplicità
ed unità armonica.
Non percepisce nulla di extra7soggettivo, come forme, grandezze,
limiti extra7soggettivi, ecc..
Di quella percezione, tale qual' è in principio, non possiamo
avere coscienza, perchè la coscienza nasce dalla riflessione sopra ciò che
passa dentro di noi, e quella percezione fondamentale è anteriore ad
ogni riflessione.
Rimane a cercare se nella percezione fondamentale
l' anima pronunci un' espressa affermazione.
Si potrebbe credere che questa fosse la nostra sentenza, rammentandosi
che noi abbiamo sempre unito al concetto di percezione quello
di affermazione. Ma ciò fu, perchè parlammo sempre di percezioni particolari
e transeunti, alle quali sempre, o quasi sempre, si congiunge un
assenso espresso dello spirito [ossia l' affermazione].
Ora però che ci è uopo considerare la percezione più in generale,
diciamo che la percezione ha tre gradi: 1 apprensione, che è un' affermazione
implicita o abituale; 2 affermazione espressa od attuale;
3 persuasione.
La persuasione può essere anch' essa implicita ed abituale,
od espressa ed attuale, secondo che nasce dall' apprensione o dall' affermazione ,
implicita o espressa. Questi due gradi, affermazione e persuasione,
si seguono celeramente, e l' uno non può stare senza l' altro.
Ma potrebbe rimanere il primo grado, cioè l' apprensione o
affermazione abituale, senza l' affermazione attuale ? Così appunto accade
in quella prima percezione, per la quale il principio razionale ha
una continua unione col sentimento animale.
Essendo questo sentimento unico, e però indistinto da altri, che ancora
non ve ne sono, non avendo confini distinguibili, perchè i confini
distinti del corpo nostro appartengono all' esperienza extra7soggettiva, essendo
uniforme e naturale, essendo l' unica cosa percepita, perchè l' uomo
non ha ancor percepito razionalmente neppure sè stesso, nè
egli può attirare l' attenzione, nè l' anima ha bisogno di dir nulla a sè
stessa, nè saprebbe che dire. Il che però non
vieta d' ammettere nella stessa apprensione un cotal implicito ed abituale
assenso a ciò che viene appreso, un' affermazione, benchè non ancora
pronunciata distintamente.
Che se a taluno paresse che alla semplice apprensione razionale,
così da noi descritta, non convenisse il nome di percezione, e
gli piacesse meglio denominarla solo apprensione razionale , noi non
amiamo disputar di parole.
Ma se nella percezione primitiva del sentimento fondamentale
il corpo, che è il termine di questo sentimento, non è disunito, come
poi l' uomo lo disunisce e distingue?
Questa è un' operazione molteplice della mente, nè può farla che
con una riflessione molto elevata; ed ecco i passi pei quali ella vi perviene.
L' uomo mediante le sensioni percepisce prima i
corpi esteriori ed extra7soggettivi, i quali gli si presentano da sè, come
disuniti dal principio senziente, perchè l' uomo ben s' accorge di essere
passivo rispetto ad essi, e perciò li percepisce come una forza straniera,
non dipendente dall' attività del suo principio senziente e soggettivo: il
che è appunto un percepirli come extra7soggettivi, ossia indipendenti
dal soggetto (1).
Di poi, colla meditazione ritrova che in ogni
sensione prodottagli da una forza estesa extra7soggettiva vi è, oltre la
forza straniera, qualche cosa di soggettivo.
Meditando sulla natura di questo elemento soggettivo,
trova che è una modificazione del suo proprio sentimento, un suo
proprio sentire in un modo nuovo e inusitato.
Dal concetto di modificazione induce che dunque anche
prima di quella sensione v' era in lui un modo ordinario di sentire,
che è ciò che venne modificato, e questo è il sentimento fondamentale.
Ma di più osserva che la modificazione, ossia la sensione
sua propria, si espande nell' estensione, e in una estensione eguale a
quella, in cui si espande la forza straniera, operante nel suo sentimento.
Di che conchiude che anche il sentire soggettivo ha per termine l' estensione.
Di più, vede che ogni sentimento
suppone un agente e una forza diversa dal principio senziente, benchè
con lui indivisibilmente unita e da lui per molti rispetti dipendente.
Conchiude dunque che il termine del proprio sentimento fondamentale7animale
sia un corpo, perchè ha le due condizioni costituenti il corpo,
la forza e l' estensione.
Ancora, colle sensioni esterne trova i limiti di questo
termine.
Finalmente trova che lo stesso corpo proprio, termine
del sentimento fondamentale, cade sotto l' esperienza extra7soggettiva,
come ogni altro corpo straniero. Onde conchiude che il corpo soggettivo
ed extra7soggettivo ha un' identica natura, salvo che l' uno dipende
dal principio del sentimento, e l' altro no.
In tal modo egli analizza la percezione fondamentale , e conchiude
che un corpo è unito per essa all' anima sua razionale.
L' Arabo commentatore travide qualche cosa della dottrina
esposta circa l' unione dell' anima col corpo; ma l' imperfezione della filosofia
aristotelica non gli consentì di cogliere il vero, e quindi propose
un sistema fecondo d' errori.
Egli pensò che l' anima si unisce al corpo per mezzo della specie
intelligibile (1).
Questa sentenza dimostra che Averroè ben s' avvide che il
principio razionale non si poteva unire al corpo se non per un atto razionale;
perchè se l' atto d' unione non fosse stato egli stesso razionale,
l' unione non sarebbe più stata col principio razionale, ma con un' altra
potenza.
Ma non avendo poi conosciuto qual fosse, e di che natura, l' atto
razionale pel quale avveniva il congiungimento dell' anima col corpo,
pronunciò che quell' atto si faceva mediante la specie intelligibile , la
quale si trova, diss' egli, sì nei fantasmi che appartengono all' organo corporeo,
e sì nell' intelletto possibile.
Ora è falso che la specie intelligibile si trovi nei fantasmi;
e di più S. Tommaso giustamente osservò che i fantasmi sono la cosa intesa,
e l' intelletto è l' intelligente. Onde con ciò non si spiegherebbe come
colui che ha i fantasmi negli organi corporei, sia anche colui che li
intende; perocchè chi ha i fantasmi sarebbe come la parete che ha i
colori, i quali sono perciò solo nell' occhio, che
li vede. Onde giustamente conchiuse che niun sistema è atto a
spiegare l' unione dell' anima col corpo, se non è atto a dimostrare che
quell' anima stessa, per la quale l' uomo vive, e si nutre, e sente, ed ha
i fantasmi, e si muove, e intende, è la stessa anima; il che è quanto dire
che il sistema richiesto a spiegare il nesso fra l' anima e il corpo deve
riuscire a dimostrare l' anima razionale esser congiunta al corpo così intimamente,
come la forma è unita alla materia (2). Ma dopo avere il
Santo stabilita questa importante verità, che « « ipsa anima, cujus est haec
virtus (intellectiva), est corporis forma »(1) », s' arresta, senza avanzarsi
a proporre quale sia questo sistema. Noi volemmo adunque prendere
dalle mani dell' Aquinate questo filo prezioso, e continuarne, se ci fia possibile,
lo svolgimento. Vediamo più distintamente i difetti del sistema
proposto dall' arabo commentatore.
Quello che mancò al pensiero di Averroè si fu:
Il non aver posto mente alla natura della percezione , la quale
veramente congiunge in uno il percepito ed il percipiente. La specie all'
incontro definita, come gli Aristotelici fanno, per una similitudine dei
fantasmi, è una cosa tutta astratta e puramente intellettuale, onde non
unisce punto in sè i fantasmi, e molto meno gli organi corporali, in cui
essi li collocano.
Di poi è falso che la specie intelligibile abbia due subbietti,
cioè l' intelletto possibile e gli stessi fantasmi, perchè la specie intelligibile
non è punto nei fantasmi. All' incontro della percezione è vero
il contrario, cioè che il sentimento oltre essere in sè come sentimento, è
anche nell' idea, come essenziale entità; dalla qual congiunzione nasce
la percezione, solo che l' uomo vi aggiunga l' affermazione, più o meno
pronunciata, che non è altro che una disposizione ed un movimento
dello stesso principio razionale.
In terzo luogo non vide il filosofo cordovese che i fantasmi
non sono che modificazioni accidentali , che accadono nel sentimento
fondamentale, e che perciò essi non possono essere assunti a spiegare
la sostanziale unione dell' anima col corpo.
Molto meno egli s' accorse delle due maniere colle
quali noi percepiamo il corpo nostro, onde questo ci appare come due
cose di diversa natura, benchè non sieno, le quali cose furono da noi
dette corpo soggettivo e corpo extra7soggettivo . Non s' avvide che l' unione
dell' anima col corpo non può spiegarsi in alcun modo, ove si parta dal
concetto del corpo extra7soggettivo, che non fa conoscere l' intima natura
del corpo, ma presenta solo un corpo fenomenale in gran parte, e relativo
alla nostra facoltà di sentire esterna. Onde i moderni filosofi, che
passano per la maggiore, come il Malebranche e il Leibnizio, non avendo
conosciuto il corpo soggettivo, dichiararono l' influsso fisico impossibile,
e inventarono le ipotesi delle cause occasionali e dell' armonia prestabilita.
Quindi medesimamente ignorò che il corpo, come da
prima aderisce all' anima, non è isolato, ma le aderisce, perchè inchiuso
nel sentimento fondamentale, di cui è termine; il qual sentimento si fa
oggetto di quella prima percezione, per la quale il principio razionale
col corpo comunica.
Finalmente la specie intelligibile non è un atto ella
stessa, ma un oggetto contemplato dall' anima, che è l' osservazione dell'
Aquinate, e l' anima razionale deve unirsi al corpo con un suo proprio
atto; perocchè, quand' anche fosse unito l' oggetto della sua intuizione,
non sarebbe però unita ella stessa, perchè l' oggetto da lei intuìto non è
ella stessa intuente.
Dall' errore di Averroè, che la specie intelligibile sia il
mezzo di comunicazione fra l' anima ed il corpo, ne dovevano venire, e
ne vennero, le più strane conseguenze.
Posciachè la specie intelligibile è un' idea pura, e gli Arabi ebbero
fatto gli stessi fantasmi subbietto di essa; e posciachè ebbero posto che
per quella specie l' anima comunica coi corpi, ne doveva conseguire che
attribuissero all' intelletto ed alla fantasia, entrambi subbietto della specie
intelligibile, una strana potenza sui corpi; e non solo sul corpo proprio,
ma anche sui corpi stranieri e lontani, di cui si avessero i fantasmi,
benchè attualmente non si percepissero. Incontro alla quale assurdità
quella scuola non retrocesse; tanta è la forza dei falsi principŒ idoleggiati!
Quindi Avicenna (1) dichiarò che l' anima umana, col mezzo
di una forte immaginazione, poteva trasmutare non solamente il proprio
corpo, ma anche un corpo straniero, farlo ammalare, farlo risanare,
produrre gragniuole, nevi, venti, cavare insolite virtù dalle stelle, scavalcare
un cavaliero lontano, e cacciarlo in un pozzo, fare che nasca
una pianta senza seme, o che si generi un uomo senza uso degli organi
generativi! E le stranezze medesime si attribuiscono al mauro filosofo
Avicembrone, e ad Algazele (2).
Agli stessi errori stranissimi pervennero i Platonici per altra
via, confondendo il reale coll' ideale , facendo cioè che le idee sieno
sussistenze; ed altri filosofi misti di platonismo e di aristotelismo (3).
Per costoro la specie intelligibile e i fantasmi operavano meraviglie, e
così spiegano i prodigi di Apollonio Tianeo, e tante altre meraviglie narrate
dagli storici, parte delle quali furono probabilmente illusioni del
sonnambolismo artificiale.
E qui possiamo dire anche una parola a favore di Cartesio.
Quand' egli disse: « « Io penso, dunque esisto » », travide una verità.
L' anima umana infatti pensa sempre, anche perchè ha la percezione immanente.
Cartesio dedusse che l' anima doveva pensar sempre, perchè
nel pensare sta il concetto dell' uomo, o per dir meglio, nel concetto dell'
uomo c' è il pensare. Doveva dunque parlare Cartesio d' un pensare immanente,
e non di atti transeunti del pensiero, i quali non proverebbero
che l' esistenza d' un soggetto transeunte con essi; doveva altresì parlare
d' un pensare umano, cioè tale che caratterizzasse l' uomo, il che non poteva
essere l' intuizione dell' essere, che non involge alcun nesso col corpo;
doveva parlare d' un pensare proprio del soggetto uomo, composto
di anima e di corpo. Questo pensare immanente non è altro che la percezione
primitiva, nella quale sta il nesso dell' anima razionale col corpo.
Subodorò dunque il vero, ma non lo colse, nè trovò parole che lo
rendesse palese.
Quindi ancora, quando il Romagnosi ed altri sostituirono
all' argomento di Cartesio quest' altro: « « Io sento, dunque esisto » », non
penetrarono la forza che poteva avere quel detto. E veramente l' argomento:
« « Io sento, dunque esisto » », non vale cosa alcuna a provare l' esistenza
dell' uomo; vale tutt' al più a provare l' esistenza d' un essere sensitivo.
Ma perchè sia provata l' esistenza dell' uomo conviene ricorrere ad
un atto proprio dell' uomo, composto d' intelligenza e di animalità, ad
un atto del principio razionale. E poichè l' esistenza dell' uomo non si
prova che provandosi sussistente l' essenza dell' uomo, dunque si doveva
ricorrere ad un pensiero immanente, perchè l' essenza non muta. Il detto
di Cartesio così spiegato riceve lume, e forza il suo ragionamento; esso
prova che l' essenza dell' uomo sta in un atto immanente del pensiero, ma
non dice di qual pensiero. Certo non può
essere d' un pensiero qualsiasi, ma deve esser di quello che descrivemmo,
e chiamammo percezione naturale e primitiva.
Dichiarata così la natura dell' anima razionale in quanto è
causa formale dell' uomo, rimane a dichiarare altresì come la stessa
anima razionale sia causa efficiente delle operazioni umane.
La causa formale è quella che costituisce e pone un ente in essere,
e lo conserva; la causa efficiente è quella che lo fa operare.
L' anima razionale adunque, come causa formale, pone in essere
l' uomo e lo conserva; come efficiente, lo fa operare.
Ma qual' è la relazione fra la causa formale e l' efficiente?
E` chiaro che la ragione dell' operazione di un ente si deve
cercare nella sua forma, perchè la forma dà l' essere, e ogni cosa opera
secondo il suo essere, giusta l' antico detto (1). Onde S. Tommaso prova
che l' anima è forma del composto, appunto perchè ella è principio prossimo
di tutte le operazioni del composto. « Quo aliquid est actu eo
agit , « Ogni cosa opera con quell' elemento che la fa essere quella che è.
Ora è chiaro che quel primo che , onde il corpo vive, è l' anima. E manifestandosi
la vita secondo operazioni diverse nei diversi gradi degli
esseri viventi, quel che , col quale prima che con ogni altro operiamo
ciascuna di queste opere vitali, è l' anima. Poichè l' anima è quel primo
che , col quale ci nutriamo, e sentiamo, e ci muoviamo di luogo, e simigliantemente
col quale intendiamo. Dunque questo principio col quale
prima intendiamo, o si dica intelletto , o si dica anima intellettiva (noi
la chiamiamo razionale ), è la forma del corpo »(1). »
Conviene adunque trovare l' origine delle operazioni dell'
anima e delle potenze, a cui le operazioni si riducono nella forma dell'
uomo.
Ma quanto alla specificazione delle potenze umane uscenti dalla
forma dell' uomo, noi dobbiamo parlarne nella seconda parte, che descrive
lo sviluppo dell' anima stessa.
Qui dobbiamo solo compire il ragionamento incominciato del nesso
dell' anima col corpo, e per compirlo, dopo aver noi esposto come l' anima
è unita al corpo quale forma di lui, che mette in essere il composto
uomo, dobbiamo spiegare altresì il commercio dell' anima col corpo ,
spiegare cioè come l' anima possa produrre dei movimenti nel corpo, anzi
com' ella sia l' unica causa di tutti i movimenti che produce l' uomo nel
proprio corpo.
Ripigliando adunque il detto, l' anima è unita al corpo non
pei fantasmi, non per le specie intelligibili, cose che non sono atti dell'
anima, ma sì per una percezione fondamentale,
costante, intera del sentimento fondamentale. Ora partendo
da questo principio, vediamo come esso ci possa condurre a spiegare
l' azione dell' anima razionale sul corpo da lei informato, e medesimamente
la sua passività.
Che cosa è percepire un sentimento sostanziale? - E` identificare
il reale (sentimento), coll' essenza dell' essere (intuìto dall' intelletto); è
un atto dell' anima razionale, col quale ella apprende la realità in rapporto
coll' idea; è un percepire insomma l' ente medesimo sotto due forme
ad un tempo. Poichè l' ente è identico sotto la forma ideale e sotto
la forma reale, e solo ne varia il modo, quindi fa mestieri solo d' una
potenza a percepirlo; e questa è il principio razionale, in cui sta l' unità
del soggetto uomo. Il principio razionale adunque attinge l' ente sotto le
due forme, perchè egli è la facoltà dell' ente ; e però dell' ente sotto tutte
le forme nelle quali egli si comunica. Il principio razionale non può già
apprendere il sentimento solo, perchè il sentimento tutto solo non è
manifestativo dell' ente , che è il proprio oggetto della ragione. Ma il sentimento
unito all' essere (intuìto dalla mente) acquista natura di ente, o
certo è manifestato come tale; quindi così diviene oggetto della ragione
(1). Si deve dunque considerare il sentimento in due modi: o da sè
solo, e così considerato, egli è fuori dell' ordine razionale; perciò lo si
conviene attribuire ad un' altra potenza, ad un altro principio, al principio
senziente, irrazionale: o unito all' essenza dell' essere e nell' essenza
dell' essere, per via di percezione razionale, e così unito all' essere è già
divenuto per noi ente, è entrato nell' ordine razionale; appartiene alla
ragione (2).
Dunque nello stesso ordine razionale vi è il sentimento, ma ad un' altra
condizione, a condizione ch' egli sia divenuto ente, cioè che sia identificato
coll' essenza dell' ente veduta nell' idea.
Trovato il modo e la condizione, alla quale il sentimento
fondamentale entra nel principio razionale, quasi in suo subbietto, non
è più difficile a spiegare come questo principio razionale possa anche
agire nel corpo, e dal corpo altresì patire.
E veramente il principio razionale è dotato indubitatamente di attività;
questo si deve supporre, o piuttosto credere alla certa esperienza.
La difficoltà non istava qui: stava nello spiegare come al principio razionale
potesse esser dato l' oggetto, sul quale esercitare l' attività sua
propria. Il principio razionale non può operare se non in un oggetto
che sia il suo. Trovato dunque il modo come il sentimento animale possa
essere ricevuto nel principio razionale, la maggior difficoltà è superata.
Ma questo modo non poteva essere che nella percezione di esso sentimento
sostanziale, perchè ogni altro nesso o non sarebbe un vero nesso
fisico, o non sarebbe un nesso razionale ; e perciò non ispiegherebbe la
connessione reale del corpo con un principio razionale. Si consideri che
la percezione è una vera congiunzione fisica del percipiente e del percepito,
dove vale quel che dicevano gli Scolastici: « ex intellectu et intelligibili
fit unum »; il che, riducendosi ad espressione precisa, deve tradursi
così: « ex percipiente et percepto fit unum ».
Questo contatto delle due sostanze, benchè di natura diversa
dal contatto dei corpi, questo contatto che S. Tommaso chiama
« contactus virtutis », fa nascere una cotale continuazione fra esse due sostanze,
fa che l' una sia nell' altra, e quindi anche mette l' una nella sfera
d' azione dell' altra. Così quando io con una mano alzo di terra un corpo
e lo trasporto da un luogo all' altro, è perchè il corpo che aderisce alla
mia mano, è divenuto come una continuazione della mia mano, di che
accade che il moto della mia mano si comunichi al corpo. Il simile avviene
nella percezione prima e fondamentale rispetto al sentimento sostanziale.
Consideriamo adunque come questa percezione fondamentale
ci possa spiegare l' azione, che esercita l' anima razionale sul corpo,
non meno che l' azione, che esercita il corpo sull' anima razionale.
L' oggetto della percezione, di cui parliamo, è il sentimento fondamentale7animale.
Ora questo sentimento ha un principio ed un termine ,
che sono il senziente e il sentito.
Il termine, cioè il sentito, è il corpo soggettivo. Il senziente poi è
quel principio dalla cui attività, quando è posta in essere, dipende il
sentito; il senziente è l' attivo, e il sentito è il passivo. Infatti nei bruti
il principio che produce le modificazioni e mutazioni spontanee
nei loro corpi, è il senziente, che in essi acquista nome di anima
sensitiva.
Posto adunque che l' anima razionale dell' uomo, mediante la detta
percezione, sia unita realmente con tutto il sentimento animale, consegue
che ella sia unita sì col senziente che col sentito; i due elementi
da cui quel sentimento risulta.
Ma il senziente ha natura attiva; dunque, potendo l' anima
razionale esercitare la sua attività sul senziente, senza potergli per altro
cangiare la natura, ella può divenire attiva sul sentito, appunto perchè
può operare sul senziente.
Il sentito all' incontro ha per sua natura di essere passivo
verso il senziente, che è quello che lo mette in
atto come sentito. Dunque l' anima razionale, non potendo percepire
il sentito che come termine passivo del senziente, conviene che lo riceva
tale qual è; e perciò non può modificarlo se non movendo il senziente.
Quindi accade che, non potendo l' anima razionale modificare
immediatamente il sentito, non può che apprenderlo; il che spiega
come ella in ricevere i sentimenti e le sensioni tutte si dimostri passiva;
non che ella sia passiva veramente, ma poichè tali sensioni sono passive
dal principio senziente e in questa passività consiste la loro natura,
perciò elle non possono essere immediatamente modificate dal principio
razionale, ma solo essere da lui apprese.
Così si spiega mediante la percezione del sentimento fondamentale
non meno l' attività dell' anima sul proprio corpo, che quella
specie di passività ch' ella mostra avere da esso; e se ne ha questa formula
rilevantissima, che « l' anima razionale è tanto attiva sul proprio
corpo, quanto è attiva sul principio sensitivo », e non più.
Dall' avere dimostrato come l' anima razionale unita al corpo
soggettivo, possa essere attiva su questo, si trae agevolmente com' ella
possa essere medesimamente attiva sul corpo extra7soggettivo, e produrvi
i movimenti, quali extra7soggettivamente si percepiscono.
Basta a ciò rammentarsi quanto fu detto nell' « Antropologia » sulla
relazione dei due corpi, e delle due serie di fenomeni che
presentano.
Quei due corpi non sono che uno solo diversamente percepito; l' identità
del corpo soggettivo ed extra7soggettivo fu da noi ampiamente
provata (1).
Che se ivi noi dichiarammo di non considerare i fenomeni
extra7soggettivi come effetti dei soggettivi, ma solo come una serie parallela
ed armonica, ciò dicemmo perchè a quel nostro ragionamento
bastava il considerarli così, senza inoltrarsi in altre ricerche; e rimane
vero che i fenomeni soggettivi non sono la causa dei fenomeni extra7soggettivi,
ma le due serie hanno una causa prossima nel principio senziente,
e una causa remota nell' attività dell' anima. Oltre di che gli extra7soggettivi
risultano in parte dalle relazioni del corpo coi cinque organi
speciali della sensitività esteriore.
All' attività naturale e radicale di un ente gli antichi davano
nome di natura . Quindi dicevano che la natura di un ente tende sempre
a conservarlo e a perfezionarlo, non mai ad alterarlo e distruggerlo.
Tommaso Fieno, non ignobile filosofo d' Anversa, prova,
movendo il suo discorso da questo principio, che l' anima non può direttamente
per sè stessa muoversi a produrre nel proprio corpo dei movimenti
a lui dannosi. « « L' anima è una natura. Ora la
natura è certo principio di moto nelle cose naturali, ma non è principio
di ogni moto, ma solo di quello che alla cosa naturale compete; e perciò
ella non è principio attivo di alterazione »(1). » Dunque l' anima non può
alterare il proprio corpo.
Su questo principio Ippocrate fondava la medicina, nella forza cioè
della natura, che tende sempre a migliorare e non a guastare, [...OMISSIS...] .
La quale dottrina tuttavia sembra in parte contraria a
quanto dicemmo nell' « Antropologia », dove distinguemmo nell' uomo le
« forze medicatrici e le forze perturbatrici (2) ».
Ma conviene osservare che le forze perturbatrici non appartengono
alla sola natura animale , ma sì ad altre cause che agiscono in essa e la
perturbano, come mostreremo più estesamente fra poco.
L' uomo non è solo animale; egli ha l' intelligenza, la quale
spingendosi a beni via oltre la sfera dell' animalità, può questo solo
cagionare alterazioni nell' animalità
disordinata.
Oltre di che, essendo l' uomo libero, egli ha il potere di pervertire
sè medesimo, e così nuocere alla propria animalità, e anche distruggerla;
perocchè la natura libera si sottrae alla legge indicata d' esser
principio di soli movimenti conservativi ed utili, la quale non vale che
per le nature che operano con necessità, non per quelle che operano
liberamente.
Così noi abbiamo trovata la radice, e per così dire, il fonte
generale di tutti i vari effetti, che gli atti dell' anima razionale producono
nel corpo; l' abbiamo trovata nella stessa percezione immanente di
tutto l' intero sentimento fondamentale, che l' uomo ha per natura; in
quella percezione che lega stabilmente l' anima razionale al corpo, e ne
fa un solo soggetto.
E questa è altresì la chiave da aprire il segreto di quella misteriosa
efficacia che hanno gli atti secondi, parziali e transeunti dell' anima razionale
sul corpo. Non sarà vano il farne parola, raccogliendo i fatti che
l' esperienza ci somministra.
Cominciamo dal fare
un
cenno della questione: « se l' intelletto puro possa nulla sul corpo ».
L' intelletto puro differisce dal principio razionale solo in questo,
che lo stesso principio, in quanto intuisce l' essere ideale, che eccede ogni
realità finita, dicesi intelletto , e in quanto percepisce qualche realità e
conseguentemente ragiona, dicesi principio razionale o ragione .
Domandasi adunque se il principio intellettivo ha qualche efficacia
sul corpo, anche prescindendo affatto dagli atti di percezione e di ragionamento.
Ed è facile scorgere che direttamente egli non può esercitare
sul corpo alcuna azione; perocchè il suo concetto esclude ogni comunicazione
col corpo; chè si chiama intelletto, in quanto l' oggetto suo
eccede ogni finita realità, che gli sia data da percepire.
Tuttavia, se si considera che l' intuizione dell' essere è ciò
che informa quell' anima, che è anche razionale, e che perciò comunica
col corpo, è consentaneo il supporre che quella intuizione contribuisca
a far sì che l' anima unita al corpo sia diversamente disposta da quel che
sarebbe, se non avesse l' intuizione dell' essere.
E poichè, come vedremo, l' anima presiede alla stessa organizzazione
del corpo, pare certo che un' anima intellettiva organizzi il corpo
in modo diverso da un' anima meramente sensitiva, e lo faccia atto a sè
stessa, sempre operando come forma del principio razionale. Conciossiachè
il principio intellettivo, avendo una perfetta unità col razionale,
deve poter produrre unità ed armonia anche nell' oggetto della sua percezione
e nel corpo compreso in questo oggetto.
Di più, è da dire che l' intelletto contribuisca a tutte quelle
modificazioni del principio razionale, e conseguentemente del corpo, che
avvengono per via di cognizione e di affetti, aventi per oggetti cose al di
là della sfera sensibile ed animale (1); le quali cognizioni ed affetti sono
potentissimi sia a vantaggio, sia a danno del corpo stesso, sì fattamente
che a questa potenza eccedente l' animalità deve attribuirsi lo stesso suicidio,
che non ha luogo nei bruti, ma solo nell' uomo. Ma poichè la causa
prossima di tutti questi effetti è finalmente il principio razionale, parliamo
di questo.
La prima questione che si può fare, si è: « quanta sia la
potenza del principio razionale sul corpo ».
Rispondiamo che il principio razionale, per sè considerato,
può di assoluta potenza produrre nel corpo da lui informato tutti quei
movimenti, che può produrre nel medesimo il principio senziente col
quale immediatamente comunica.
E dico di assoluta potenza , perchè altro è ch' egli possa produrre
tali movimenti, considerata la sua natura e il suo nesso col principio
senziente, ed altro che egli li produca sempre, senza distinzione di circostanze.
Certo, affinchè la potenza che ha il principio razionale di
muovere le diverse parti del corpo passi all' atto, è mestieri che si avverino
alcune condizioni, delle quali parleremo in appresso. Che se
queste condizioni mancano, pare che l' anima razionale sia impotente
a cagionare quei movimenti, o le riescono più o meno difficili ad ottenere.
Venendo dunque ad esaminare quale efficacia possa esercitare
sul corpo il principio razionale coi suoi atti speciali, noi diremo
che esso immuta il corpo con due maniere di attività; cioè operando
come intelligenza , e operando come volontà .
Il primo atto del principio razionale si è la percezione speciale.
E qui tosto ci si fa innanzi un fatto singolare. Appena i nostri sensi
sono percossi da qualche stimolo corporeo, incontanente l' anima razionale
si muove a fare l' atto della percezione. Onde tanta prontezza? Onde
questa spontaneità di movimento?
Se l' impressione non movesse che il solo senso, il principio
razionale non saprebbe ancora che egli ha una sensazione, o un corpo
da percepire, e però non si potrebbe muovere a percepirlo.
Ma questo fatto diviene chiarissimo, quando si ricorre alla percezione
fondamentale. Se è vero che l' anima razionale percepisca continuamente
il sentimento animale tutto intero, e ciò per legge di sua natura,
è evidente che deve percepire anche le mutazioni, che accadono
violentemente in questo sentimento, e la forza che le produce, cioè il
corpo stimolante.
Di poi s' affaccia l' altra questione: « l' anima nella percezione
esercita qualche attività sul corpo? ».
Consideriamo prima la percezione sensitiva, qual' è nei bruti, e poscia
la percezione razionale.
La percezione sensitiva si fa naturalmente e spontaneamente, come
abbiamo altrove spiegato, perchè il sentimento fondamentale sente necessariamente
le proprie modificazioni (1).
Questa operazione al cominciamento, quando l' animale non ha ancora
alcuno sviluppo, accade secondo quella stessa legge di spontaneità,
per la quale il principio sensitivo invade il sentito (2).
In appresso il principio sensitivo acquista un abito che aumenta
la sua attività, e anche questo in virtù della stessa legge di spontaneità,
onde accade che il principio sensitivo s' immerga di più, per così dire,
in ciò che gli riesce piacevole, e rifugga di cooperare a ciò che gli torna
doloroso.
Quindi noi vedemmo che nella percezione sensitiva vi può essere
più o meno d' intensità, più o meno d' attività del principio senziente (1).
E tuttavia questa maggiore intensità di certi sentimenti, prodotta dall'
attività del principio senziente ed istintivo (2), non pare che sia un
effetto immediato di esso principio, ma effetto ottenuto per via di movimenti
intimi da lui prodotti nell' organo sensorio, e perciò mediante
un' azione sul corpo.
Venendo ora al principio razionale, e ritenendo ch' egli
possa sul corpo tutto ciò che può il principio senziente7istintivo, da lui
percepito e dominato, dovremo dire che il principio razionale
nella percezione possa
modificare l' organo sensorio, movendo il principio sensitivo a prestarsi
ad una percezione più intensa.
Accade poi ancora che il principio razionale percepisca più
intensamente e distintamente coll' aumentare la sua attenzione razionale .
La qual maniera di operare, se non rende più intensa la percezione in
quanto è sensitiva, l' accresce in quanto è razionale. E tuttavia non è improbabile
che anche l' attenzione più o meno intensa dello spirito intelligente
produca nel corpo certi minimi movimenti, per la ragione detta
dinanzi.
Le immagini sono sensioni interne, riproduzioni
delle esterne.
Esse ricevono, comunemente parlando, dalla memoria o ritentiva
delle sensazioni avute innanzi
l' attitudine di servirci di segno d' un corpo esterno, del quale crediamo
di vedere in esse quasi il ritratto sensibile.
Ora, perchè mai alle sensazioni sole è per lo più serbato di provocare
la nostra percezione dei corpi esterni, e non ai fantasmi, se non
aiutati dalla memoria di quelle?
L' attitudine delle sensioni, a preferenza dei fantasmi,
a farci percepire i corpi esterni è dovuta a due loro proprietà, cioè:
Nelle sensioni si percepisce il corpo straniero, stimolante e
immutante con violenza il nostro organo sensorio dalla sua parte esteriore;
il che non avviene nelle immagini, le quali non sono eccitate da
alcun corpo straniero al nostro,
ma da stimoli e movimenti interni del nostro proprio corpo, onde
gli stessi stimoli, gli stessi movimenti o non si sentono o si sentono soggettivamente,
o per lo meno non si sentono con egual costanza degli stimoli
esterni.
Le sensazioni molte e diverse, attesa la moltiplicità dei vari
organi, possono essere ripetute, e quindi si può percepire ed esperimentare
lo stesso corpo straniero con vari organi, quante volte si vuole; onde
avviene che in esso si riconosca una virtù costante di produrre sensazioni;
ed è questa costante potenza, che dà il concetto d' una sostanza
permanente corporea. All' incontro nei fantasmi non hanno luogo tali
esperienze (1).
Ciò nonostante, dopo che abbiamo i concetti dei corpi per
mezzo delle sensioni esterne, anche i fantasmi ce li rappresentano facilmente,
perchè altro non sono che le sensioni stesse internamente risuscitate;
alle quali noi uniamo prontamente il concetto del corpo, formatoci
già prima coll' esperienza esteriore.
Il che supposto, rimane a spiegare onde ci venga questa inclinazione
d' aggiungere l' idea al fantasma. Perchè aggiungiamo noi al
fantasma di una pietra l' idea d' una pietra, pur sapendo che la pietra di
cui abbiamo il fantasma non è presente, nè percettibile? Perchè questa
associazione spontanea e naturale fra i fantasmi e le idee corrispondenti?
(2).
La ragione si è quella stessa in fondo, con cui abbiamo spiegata
la spontaneità delle percezioni dei corpi esterni. Essendo
il principio razionale unito per una percezione naturale e continua al
nostro proprio sentimento fondamentale7animale, esso è sempre attuato
a percepire intellettivamente ogni mutazione che avvenga in lui.
Solamente che il percepire la mutazione, che accade nel sentimento
fondamentale, non basta a spiegare come a questa mutazione s' aggiunga
l' idea d' un corpo esteriore. Ma ciò accade, come dicevamo, per l' associazione
dei fantasmi colle sensioni esterne corrispondenti e coll' idea del
corpo, che per esse ci siamo già formata; la quale associazione diviene
abituale, e però pronta ad operare. Ora i bambini, nel primo tempo,
quando non si sono ancora fatte le idee dei corpi esteriori, e in cui non
sono ancora associate le idee di questi corpi ai fantasmi, non è a credere
che, ad ogni fantasma che sia suscitato in essi, pensino un corpo.
Il principio razionale diviene più manifestamente attivo sul
corpo con quella funzione, con cui egli richiama in atto e compone cognizioni
positive , che si conservano abitualmente in esso. Perocchè le
cognizioni positive sono quelle che risultano dai due elementi, dell' idea
e del sentimento o dei suoi vestigi. Ora l' anima razionale per richiamare
all' atto di sua attenzione quelle cognizioni, deve esercitare un' azione sul
sentimento corporeo . Supponiamo che questo sentimento appartenga ai
fantasmi; l' anima spiega dunque il potere di risuscitare i fantasmi, i
quali non si possono ridestare senza rinnovare il movimento dell' organo
cerebrale (1).
Certi fisiologi, che si conoscono assai poco di Psicologia, non
dubitarono di chiamare il cervello organo del pensiero. Il
vero si è che il pensiero puro non ha organo, e che il cervello non è
altro che l' organo dell' immaginazione corporea . Ciò che produce l' errore
di tali fisiologi si è il fatto della prontezza, con cui l' anima all' immagine
associa l' idea .
La rammemorazione dunque delle notizie positive e la loro
ricomposizione si fa col rieccitare più o meno le immagini; al quale rieccitamento
rispondono nell' ordine extra7soggettivo i movimenti nelle fibre
del cervello.
Ora quanto possa il principio razionale a suscitare le immagini, e
comporle in vari gruppi, e rinforzarne la vivezza (il che dipende dalla
forza del concetto intellettivo, e dei sentimenti e passioni, che muovono
l' intendimento), ella è cosa conosciuta e da molti trattata. Il pensiero
di ciò che si concepisce come bene, muove immagini gaie e ridenti, e il
pensiero di ciò che si concepisce come male, muove immagini tristi e spaventose;
le une e le altre possono addurre l' uomo ad una gaiezza o tristezza
estrema.
La ragione poi, onde l' uomo veste le idee d' immagini analoghe
ad esse, è quella medesima, per la quale le immagini provocano
i pensieri dell' intelligenza: ella si giace nell' associazione indicata fra le
immagini e le sensazioni, e fra le sensazioni e le idee; si prende l' immagine
in luogo della sensazione, alla quale è naturalmente unita la percezione
intellettiva del corpo esterno, e in questa è compresa l' idea positiva.
L' uomo dunque, come essere intellettivo7sensitivo, vuole un pensiero
composto d' intuizione e di sensione; nè il suo pensiero è completo
se non risulta d' entrambi questi elementi. Ora questa funzione, per la
quale il concetto chiama l' immagine, l' immagine chiama il concetto, è
da noi detta forza sintetica umana .
Tutti questi fatti si spiegano con somma facilità mediante la percezione
fondamentale.
Dagli oggetti percepiti sorgono nell' uomo sentimenti o lieti,
se l' oggetto è percepito come un bene, o tristi, se è percepito come un
male. Questi sentimenti noi li chiamiamo sentimenti razionali (o intellettuali ,
se nascono dalla intuizione dei concetti puri), per distinguerli
dai sentimenti animali , che non richiedono, per esistere, alcun uso di
ragione, ma solo il senso e l' istinto.
Vediamo, sempre colla guida dell' osservazione interna, quale sia
l' attività di questi sentimenti razionali nell' immutare il corpo soggettivo,
e conseguentemente nel produrre movimenti extra7soggettivi.
Primieramente osserviamo che l' oggetto della notizia, che muove il
sentimento, può essere diverso dal soggetto, e può anche essere lo stesso
soggetto, in quanto egli è contemplato come oggetto.
Queste due classi di sentimenti razionali si possono chiamare oggettivi
e soggettivi7oggettivi .
Il sentimento semplicemente oggettivo sorge nel soggetto
razionale ogniqualvolta egli apprende un' entità qualsiasi, perocchè di
ogni entità appresa egli naturalmente s' allegra; ed è per questo che l' ente
e il bene si convertono secondo la maniera di dire degli Scolastici (1).
Quindi tal sentimento diviene naturalmente maggiore in ragione della
entità, la quale se è massima, massimo diletto produce alla mente.
Il sentimento soggettivo7oggettivo sorge allorquando il soggetto
percepisce un bene o un male di sè stesso. Conviene dichiarare che
cosa sia il bene e il male d' un soggetto, e propriamente del soggetto uomo.
In generale il bene del soggetto7uomo è uno stato o un atto piacevole,
il male è uno stato o un atto doloroso. Piacere e dolore (parole
che prendiamo nella massima estensione di significato) appartengono al
sentimento. Il bene dunque e il male del soggetto uomo sono sentimenti
piacevoli e dolorosi. Ora fra i sentimenti piacevoli e dolorosi di un soggetto
razionale, altri sono intellettivi, come è
quello che abbiamo detto nascere da ogni oggetto della mente, altri sono
animali, molti sono misti d' entrambi. Allorquando dunque il principio
razionale percepisce un bene suo proprio, tosto è prodotto il sentimento
della gioia razionale; quando percepisce un male suo proprio, tosto è
prodotto il sentimento della tristezza pure razionale. Di più, il sentimento
soggettivo7oggettivo della gioia e della tristezza nasce nell' uomo
non pure allorquando egli percepisce intellettivamente il proprio bene
o il proprio male, ma ancora quando percepisce qualche cosa, che ha
virtù di cagionargli questo bene o questo male, di accrescerlo o diminuirlo.
Adunque il sentimento soggettivo7oggettivo è quello che sorge
nell' uomo in conseguenza della notizia del proprio bene e del proprio
male, o delle loro cause.
Quindi rilevasi che i sentimenti soggettivi7oggettivi seguono
gli ordini della riflessione; di modo che si possono distinguere tanti ordini
di sentimenti soggettivi7oggettivi (piacevoli o dolorosi), quanti sono
gli ordini della riflessione che può fare l' uomo, e il numero di questi
ordini è indefinito. Così, dopo che io mi sono rallegrato nella contemplazione
di un ente, riflettendo sopra me stesso, posso godere di quel
mio rallegramento; e questo godere può esso stesso essermi cagione di
diletto e di compiacimento, se a lui nuovamente rifletto; e così si dica
di questa nuova compiacenza; e via in infinito.
Ora noi possiamo considerare tutti questi sentimenti razionali,
oggettivi semplicemente o soggettivi7oggettivi , in due modi: prescindendo
affatto dall' influsso che può esercitare su di essi la volontà,
o in quanto vengono modificati dall' azione della volontà.
Se si considerano in sè stessi, prescindendo dall' influenza
della volontà, essi seguitano certe leggi necessarie, che provengono dalla
natura dell' oggetto e del soggetto, e si riducono alle seguenti.
I sentimenti semplicemente oggettivi hanno per legge di essere tanto
maggiori, quanto è maggiore l' ente contemplato che li produce. Essi costituiscono
la facoltà universale, che ha l' uomo di amare oggettivamente :
l' uomo, secondo natura, ama ogni ente, più il maggiore e meno il minore.
Le leggi, che presiedono ai sentimenti soggettivi7oggettivi ,
sono più complicate; poichè nascendo tali sentimenti dal bene e dal
male, che l' uomo percepisce razionalmente in sè stesso, o dalle loro cagioni,
questo bene e questo male nel soggetto uomo risulta da più elementi,
cioè: 1) dal bene e dal male animale ( sentimenti animali ); 2) dal
bene e dal male intellettuale ( sentimenti oggettivi e sentimenti soggettivi7oggettivi );
3) dal bene e dal male morale.
Il principio razionale percepisce tutti questi beni e tutti questi mali,
la cui fusione produce quel bene e quel male complesso, di cui l' uomo si
rallegra o s' addolora.
Ora la percezione di questo bene o di questo male complesso, che
anch' essa è, quasi direi, la fusione di più percezioni, si fa dall' uomo più
o meno perfettamente, secondochè ha natura più o meno perfetta, e
più o meno perfezionata. Sarebbe lungo il descrivere come la percezione
di quelle tre specie di beni e di mali soggettivi sia più perfetta,
più che la natura umana è perfetta in sè stessa, o s' è resa più perfetta
mediante il suo fisico, intellettuale e morale sviluppo. Lasciando questa
ricerca, che troppo a lungo ci condurrebbe, noi possiamo ridurre ad
una sola formula generale le leggi, che presiedono alla formazione naturale
dei sentimenti soggettivi7oggettivi. E questa formula si è che
« l' uomo riceve sentimenti gaudiosi o tristi in proporzione della percezione
naturale dei propri mali e dei propri beni; percezione che può
essere più o meno giusta, secondo che nella sua natura prevale la luce
intellettuale e il sentimento morale al sentimento animale, o viceversa,
come pure può essere più o meno vivace ed efficace ».
Premesse queste cose, vediamo in che modo il principio
razionale coi diversi sentimenti suoi propri influisca nel sentimento animale ,
e mediante questo sentimento produca certi movimenti nel corpo.
I sentimenti razionali procedono sempre da una intellezione. Ora
le intellezioni della mente umana possono primieramente essere così
astratte dallo spazio e dal tempo che sieno immuni da ogni immagine
corporea, e però non hanno bisogno a formarsi di alcun organo corporale:
tale almeno è l' idea dell' essere in universale. Ora un pensiero così
puro e immateriale può egli cagionare qualche sentimento?
Distinguiamo i diversi accidenti d' un tal pensiero.
Il primo accidente si è che, quantunque l' oggetto di un pensiero sia
per sè stesso puro da ogni immaginazione corporea, tuttavia l' uomo, tendente
per natura ed abituato a rappresentarsi ogni cosa per via d' immagini,
associa facilissimamente, come vedemmo, all' atto di quel pensiero
qualche altro atto, col quale suscita in sè immagini più o meno delicate
e sottili, che vestono l' oggetto e glielo fanno apparire, com' egli crede,
più luminoso, benchè nel vero glielo contraffanno. Ora noi dobbiamo
rimuovere questo gioco dell' immaginazione, perocchè la questione nostra
riguarda la pura idea.
Il secondo accidente si è che l' uomo, essendo un soggetto
molteplice, cioè un principio di molte facoltà, o non mai, o difficilissimamente,
muove una facoltà sola. Ora, se si tratta non del semplice intuire,
ma di pensare riflessamente all' oggetto dell' intuizione, è impossibile
ch' egli muova questa riflessione senza trarre in azione alcun' altra
facoltà. Quindi non dubito che il solo sforzarsi a contemplare l' idea
pura, e più ancora lo sforzarsi a far tacere in noi ogni altra attività, è
già un mettere in moto quelle potenze, a cui vogliamo imporre la quiete.
Onde l' uomo non potrà ripensare l' idea pura, senza qualche gioco delle
fibre del cervello, qualche contenzione di quest' organo, la cui modificazione
segue quella della mente, come uno strascico, non voluto, dell'
azione di lei. Neppure l' operazione di altre facoltà, che per accidente
accompagna l' atto puro della mente, deve entrare nel nostro calcolo, giacchè
la questione nostra non parla che dell' effetto sentimentale della
pura idea.
Spogliato adunque il pensiero da ogni accompagnamento
d' immagine, e da ogni sequela di moto a lei impertinente, dico che l' idea
pura cagiona un sentimento intellettuale meramente oggettivo di piacere,
il quale sentimento è maggiore di grado, quanto è più perfetta e
più viva l' intuizione.
Ora questo sentimento, affatto alieno dall' ordine delle cose corporee,
influisce egli sul sentimento animale, e per mezzo di questo cagiona
nel corpo dei movimenti?
E` certo che quel sentimento appartiene ad una natura di cose affatto
immateriali. Ma è a riflettersi all' identità del soggetto uomo, il
quale è principio ad un tempo dei sentimenti spirituali e dei sentimenti
corporei. Ora le affezioni spirituali di questo soggetto, modificando il
suo stato, rendendolo più perfetto o più imperfetto, più o meno felice,
producono necessariamente degli effetti e modificazioni, quantunque indiscernibili,
nella vita animale di cui egli è principio. E veramente l' esperienza
dimostra che l' anima umana affetta da una gioia spirituale, quanto
si voglia, diviene più attiva sul corpo e accelera il movimento del sangue,
mentre la tristezza fa i contrari effetti.
Se ben si considera l' effetto soggettivo, cioè il bene e il male
stare dell' anima, da qualunque causa egli provenga, è finalmente una
cosa semplice, che differisce di gradi e non di specie, benchè le cause
che producono quegli stati gioiosi o tristi, possano differire fra loro specificamente,
genericamente ed anche categoricamente. Come l' anima è
semplice, così semplice è la sua maniera di essere, il suo stato. Ella ha
una sola perfezione naturale, che ammette però dei gradi infiniti. La
sua perfezione è la sua felicità. Ora, quanto ella è più perfetta e felice,
tanto è più forte; nella sua qualità dunque di principio vitale, ella esercita
nel corpo una energia proporzionata alla sua fortezza e perfezione.
I sentimenti oggettivi, quanto sono più perfetti, tanto più sono a lei
gioiosi e la rendono più felice e più attiva.
Sembra veramente che la gioia attuale, cresciuta oltre a
certo termine, produca nel corpo dei movimenti troppo impetuosi e repentini
fino a sconcertarlo e cagionare la morte; ma questo è un fenomeno
dell' istinto sensuale, improprio alla natura umana, anzi nascente
dal decadimento di lei, nella quale la ragione indebolita non sa più governare
le affezioni; e trattasi sempre in tal caso di affezioni fattizie
e non naturali.
Ciò che abbiamo detto dei sentimenti meramente oggettivi
è da applicarsi ai sentimenti soggettivi7oggettivi. Questi modificano il
sentimento animale in un modo più prossimo che i sentimenti meramente
oggettivi, i quali non possono modificare i sentimenti animali se
non soggettivandosi, di maniera che il sentimento oggettivo muove il
corpo comunicando la sua azione, per mezzo di tre quasi anelli o serie
di cause e di effetti; 1 sentimenti oggettivi; 2 sentimenti soggettivi7oggettivi;
3 sentimenti animali. E` da questi che risultano i movimenti extra7soggettivi.
Ora i sentimenti razionali, di cui parliamo, sono essi involontari?
Ve ne sono d' involontari e di volontari.
I sentimenti involontari del soggetto razionale sono quelli che in
lui si suscitano senza l' impero della volontà; i sentimenti volontari sono
quelli che in lui si suscitano mediante l' azione della volontà, che li eccita
con impero mediato o immediato.
Un' altra domanda ci si presenta: la volontà può ella modificare
quei sentimenti che di loro natura sono involontari?
Alcuni ne può modificare, altri no. Di più, quando la volontà modifica
i sentimenti naturali involontari, ella non può farlo se non con
un' azione limitata; limitazione da noi esposta nell' « Antropologia ».
Il sentimento universale, pel quale l' uomo tende al bene,
non può essere alterato dall' azione della volontà umana. Esso è naturale,
involontario e superiore alla volontà, che da lui si origina.
Da questo sentimento universale pel quale l' uomo tende
al bene, tende ad ogni bene, nascono naturalmente tutti i sentimenti oggettivi, i quali hanno questa legge, che sieno proporzionati alla grandezza
dell' ente concepito, sicchè la naturale gradazione di essi è la naturale
gradazione degli enti. Se questi sentimenti si considerano così ordinati
e digradati, essi sono naturali e involontari, cioè nascono per natura
loro nell' uomo senz' atto di volontà, e piuttosto, se così si vuole, muovono
essi stessi atti spontanei di volontà consenzienti. Ma la volontà può influire
su di loro, alterarne l' ordine, rincarire soverchiamente il prezzo di alcuni,
ribassare quello di altri, oppugnando la natura e la verità; può
fare tutto questo con atti, che lasciano delle traccie e delle disposizioni
nell' anima, massime se vengono replicati; questi atti generano delle opinioni
arbitrarie, delle abitudini pregiudicevoli, dei giudizi ed affetti abituali,
immorali.
La volontà può ancora coll' energia sua propria, coi suoi liberi consentimenti
serbare l' ordine dei predetti sentimenti ed accrescere la loro
vivacità compiacendosi in essi.
In quanto adunque i sentimenti naturali della natura umana
intelligente (1) possono essere alterati e accresciuti dalla volontà, in
tanto da involontari diventano volontari .
Ma la volontà opera nel corpo ancora in un altro modo.
Opera con un imperio così pronto che pare non entri di mezzo alcun
sentimento fra il suo comando e il movimento corporeo. A ragion d' esempio,
se io voglio muovere un braccio, lo muovo col solo atto della
mia volontà, senza che mi accorga d' aver provata alcuna affezione nè
di gioia, nè di dolore, alcun sentimento nè piacevole, nè dispiacevole.
Tuttavia chi più attentamente considera, rileva che l' impero
della volontà, che muove un membro del corpo, non comunica già
il movimento senza intervento di alcun sentimento, ma solo d' un sentimento
diverso da quelli degli affetti e delle passioni. Ho già distinti i
sentimenti animali in figurati e non figurati (1), e quei primi
in sensioni esterne (sensazioni) ed in
sensioni interne (immagini). Ora la volontà, che impera un movimento,
è per lo più col mezzo delle immagini che lo eseguisce; l' immagine cioè
del movimento che vuol produrre, o di quell' ultimo atteggiamento in
cui l' animale si vuol collocare, diviene il principio prossimo del detto
movimento (2).
Dico per lo più , intendendo di parlare dell' uomo in uno
stato di sviluppo, nel quale egli opera liberamente, ed impera i movimenti
coll' immagine delle loro forme extra7soggettive. Ma nell' uomo non
ancora sviluppato può la volontà produrre dei movimenti col solo sentimento
interno della propria attività,
e di quei movimenti stessi presentiti soggettivamente, se
il sentimento di tali moti è grato o domandato dai bisogni; nel qual caso,
benchè l' uomo muova le membra con atto di sua volontà, egli non conosce
tuttavia il movimento che produce nella sua forma extra7soggettiva;
non ha presente l' effetto extra7soggettivo del suo atto interno, e
perciò non lo vuole; ma l' atto del suo volere termina immediatamente
nello spazio soggettivo ed interno; il movimento extra7soggettivo non è
da lui scelto fra molti, neppure imperato; procede quale conseguenza
della relazione coll' attività interiore, che ebbe per
iscopo di migliorare lo stato interno del sentimento.
Il principio razionale, adunque, immuta il proprio corpo
e vi cagiona movimenti, sì operando come intelligenza , e sì operando
come volontà .
Ma il dominio del proprio corpo egli non l' ha se non mediante l' azione,
che egli esercita in esso volontariamente .
Ora l' azione della volontà, e quindi l' esercizio del dominio
sul corpo, è legato a certe condizioni, le quali noi dobbiamo ora investigare.
Dicevamo che il movimento del corpo può essere prodotto
dalla volontà in due modi, o sapendo ella l' effetto di quel che comanda,
o non sapendolo, cioè non sapendo l' effetto del
movimento extra7soggettivo, quale apparisce ai sensi esteriori colle sue
relazioni alle altre parti del corpo.
Allorquando il bambino, a ragion d' esempio, vuol muovere le mani,
le muove o per istinto, o per impero di volontà. Ma la sua volontà, che
ordina quel movimento, non sa che il movimento medesimo gli nuoce
quando si conficca le dita negli occhi; non conosce dunque la posizione
relativa extra7soggettiva delle mani e degli occhi; ignora l' effetto esterno
del suo atto interno, col quale promuove quel movimento.
Supponiamo adunque che un uomo non avesse mai veduto sè stesso,
nè mai fatto ancora alcun movimento. Egli si determina colla sua volontà
a muovere la prima volta qualche parte del suo corpo. Questa parte
egli non la conosce ancora che internamente, soggettivamente; la scelta,
che fa del movimento, è tutta interna; fra i movimenti esterni non sceglie
punto, perchè ancora non li conosce; ma alla sua scelta interna succede
l' effetto di un movimento esterno, che è una cosa nuova e meravigliosa
a lui stesso; è per lui la rivelazione di un mistero.
La ragione per la quale, quand' egli fa l' atto interno che cagiona
il moto, non prevede l' effetto esterno, nè conosce la relazione
della parte che si muoverà colle altre parti del suo corpo, si trova in quel
vero, che abbiamo tante volte ripetuto, cioè che i fenomeni soggettivi e
i fenomeni extra7soggettivi sono così dissomiglianti fra loro, che dagli
uni non si possono argomentare gli altri prima dell' esperienza.
I fenomeni extra7soggettivi del movimento non si conoscono
adunque dall' uomo a priori,
ma solo mediante l' esperienza dei sensorii esterni, a cui tali
fenomeni appartengono, nè si possono dedurre dal sentimento fondamentale,
nè dalle modificazioni interne e meramente soggettive di questo
sentimento.
Fino adunque che i fenomeni extra7soggettivi dei movimenti del
proprio corpo non sono dall' uomo sperimentati, gli rimangono incogniti;
e finchè gli rimangono incogniti, egli non può scegliere gli uni a preferenza
degli altri, nè può al tutto volerli.
La prima condizione adunque, che rende possibile alla volontà
di esercitare la sua potenza locomotiva, imperando dei movimenti
extra7soggettivi, si è che l' uomo ne abbia preso conoscenza, avendoli nel
fatto stesso sperimentati.
Ma non basta questa condizione. E` necessario, oltracciò,
che egli abbia imparato a conoscere il nesso fra i movimenti esterni del
suo corpo (cioè i movimenti in quanto sono percepiti e rappresentati
dai sensorii esterni) e gli atti interni imperati, che li producono; è necessario
che egli abbia imparato che ad un dato atto interno corrisponde
un dato movimento esterno; che egli sia venuto a conoscere, per esempio,
a quale atto interno risponda quel dato movimento della mano o
della gamba. Questi atti interni e soggettivi, imperativi dei movimenti
esterni ed extra7soggettivi, sono dei sentimenti attivi . Deve dunque legare
insieme nella sua cognizione pratica questi sentimenti attivi coi movimenti
esterni che seguono ad essi. Questi suoi sentimenti interni, tanto
vari quanto sono vari i movimenti esterni che a loro succedono, è uopo
che diventino non già l' oggetto d' una sua cognizione speculativa, ma
d' una sua percezione . La cognizione pratica , di cui parliamo, è adunque
« l' associazione delle percezioni, che l' uomo si forma, dei suoi sentimenti
attivi coi movimenti extra7soggettivi, che a quei sentimenti conseguono ».
Ora la cognizione pratica di un certo sistema di azioni,
quando è resa abituale, è un' arte.
Acciocchè dunque l' uomo possa ridurre all' atto la facoltà, che egli
ha, di produrre nel suo corpo i movimenti extra7soggettivi che egli vuole,
deve impararne l' arte; e fino che non l' ha appresa, egli ne ha bensì la
facoltà, ma non l' esercizio.
Così è che l' uomo ha bisogno d' imparare a tenersi ritto e ben equilibrato
sulla persona, ha bisogno d' imparare a camminare e, in una parola,
a fare tutti i suoi movimenti esteriori.
Non tutti gli uomini conoscono egualmente l' arte dei movimenti
del proprio corpo. Il danzatore di piano e di corda, il sonatore,
lo schermidore e tanti altri professori di arti ginnastiche e meccaniche
non differiscono dagli altri uomini, imperiti di quelle arti, se non per
avere appreso l' abito di fare un certo ordine di movimenti del proprio
corpo con precisione ed agilità; la loro volontà, prima causa in essi di
quei movimenti, già non sceglie più fra i singoli movimenti, ma fra i
diversi gruppi di movimenti possibili, poichè ella conosce già praticamente
quei gruppi, ed il nesso che essi hanno cogli atti interni e soggettivi
che li producono; quando uno di questi atti interni basta a produrre
un intero gruppo od ordine di movimenti, allora quell' atto prende il
nome di abitudine o di arte.
E nondimeno tutti gli uomini imparano a fare certi movimenti
del proprio corpo, che sono loro necessari alla vita, o che vengono
loro suggeriti dalle diverse circostanze in cui si trovano.
Ma poco importa al più degli uomini di acquistare l' arte di produrre
a volontà certi movimenti, non necessari alla loro esistenza e al
loro benessere, o anzi contrari al loro benessere. In tal caso la volontà
non se ne interessa, e lascia operare l' istinto vitale e sensuale a suo modo.
Il che non prova che manchi nell' uomo la facoltà di produrre colla volontà
sua quei movimenti; prova solo che egli non riduce all' atto e all' abito
tale facoltà. Tanto è vero che, essendo egli libero, talora s' oppone
colla sua libertà alla sua volontà spontanea anche per puro capriccio,
e gli piace di far mostra del suo potere, arrestando e modificando i movimenti
istintivi e spontanei. A ragion d' esempio, il battere delle palpebre
è certamente istintivo, e giova a difendere gli occhi dal polverìo
e da altri corpiccioli eterogenei volitanti per l' aria, come pure a dar riposo
al sensorio. La volontà dunque qui lascia fare all' istinto. Pure alcuni
individui, che colla forza della loro libertà si proposero di fare il
contrario, riuscirono a tenere aperte le palpebre a loro piacere. Del pari
sono movimenti istintivi il socchiudere degli occhi all' avvicinamento di
un oggetto, il contrarre la pupilla ad una luce assai viva e dilatarla nelle
tenebre; e pure si sono trovati individui, che s' addestrarono liberamente
a fare il contrario, come Guglielmo Porterfield e
Felice Fontana.
Quantunque alcuni moderni attribuiscano il restringimento
della pupilla percossa da viva luce all' afflusso del sangue, tuttavia è impossibile
spiegare questo afflusso medesimo colla sola irritazione meccanica
della luce, senza ricorrere al principio vitale e sensitivo. La ragione
di quel restringimento è evidentemente la sensazione molesta che
cagiona la soverchia luce; e la sensazione è fenomeno soggettivo appartenente
al principio senziente , il quale dalla molestia che prova, è determinato
a promuovere quei movimenti dell' iride, che valgono a restringere
il foro della pupilla pel quale entra la luce, e così scemare la
sensazione. Che se il detto principio sensitivo ottiene questo effetto, promovendo
l' afflusso del sangue, si scorga qui l' influenza che egli ha sulla
circolazione nei minimi vasellini. E poichè la libera volontà può fare il
contrario della pupilla, dunque ella è efficace sulla circolazione mediante
l' influenza che esercita sul principio sensitivo (1).
L' esempio celebre di Townshend conferma la stessa potenza
della volontà sulla circolazione. Si sa che questo inglese, poco tempo
innanzi la sua morte, coricato supino, poteva trattenere a sua voglia il
movimento del suo cuore e del suo polso (2). Io sospetto che se si fosse
fatta la sezione del cadavere di quest' uomo, si sarebbe forse trovata qualche
particolarità là dove il sistema nervoso cerebrale comunica col sistema
nervoso ganglionale. Ma poichè i due sistemi nervosi non mancano
mai di continuarsi, quindi sembra che non possa mancare l' influenza
della volontà sulla circolazione, benchè questa possa essere in
diversi uomini più o meno facilitata da speciale organismo.
Il sonno anch' esso è un fenomeno animale, che si deve attribuire
indubitatamente al principio sensitivo , ma niun dubbio che la
volontà possa non poco influirvi, mediante il dominio che ella ha sullo
stesso principio sensitivo. Che poi vi possa influire il sentimento intellettuale ,
è manifesto sol che si consideri quanto l' esercizio mentale valga
ad impedire il sonno, e massimamente un pensiero fisso ed appassionato,
e quanto al contrario l' oziosità della mente l' aiuti, come si vede nei bambini,
e negli spensierati e scioperati.
Ma che il principio intellettivo operi sul sonno anche coll'
impero della volontà più o meno a ciò efficace, non si potrà negare da
quelli che ne osservarono la natura.
Non solo la volontà colla sua energia può impedire fino a certo segno
il principio sensitivo già disposto a produrre il sonno, sospendendone
l' azione e l' effetto; ma ella può anche eccitare questo principio
sensitivo a produrre tale effetto, massime in persone di grande mobilità
nervosa.
E` vero che, quando l' uomo vuol dormire, egli si adagia del corpo e
colla volontà opera più negativamente che altro, astenendosi essa dall'
agire sull' intendimento e dal concorrere all' azione di lui, e dal dirigerla;
conciossiachè è l' azione della mente, provocata e diretta dalla volontà,
e dalla libera volontà specialmente, quella che più impedisce il
sonno.
Ma in prova che la volontà può operare anche positivamente nella
produzione del sonno, io non dubito di addurre i fenomeni del sonnambolismo
artificiale, che con un vocabolo per lo meno temerario altri dicono
del magnetismo animale (1). Il sonnambolismo è uno stato speciale
di sonno. Io stesso ho conosciuto un certo Ricamboni che a sua
volontà dormiva, e chiamato di mezzo al sonno, si rendeva sonnambolo;
l' esperimento che ne ho fatto, mi parve a principio sì strano, che non poteva
tormi dall' animo ci avesse qualche finzione; ma poscia, confrontato
quel fatto con altri, e considerate tutte le circostanze, ho deposto
ogni dubbio della sua veracità. Anche, trovandomi presente agli esperimenti
che si facevano sopra una fanciulla dotata della facoltà del sonnambolismo
artificiale , ed osservando che chi faceva gli esperimenti, la
faceva passare a stato di sonno non solo colle manipolazioni, che chiamano
impropriamente magnetiche, ma con qualsiasi altro cenno o atto
arbitrario, le dimandai se ella non potesse dormire a volontà sua, anche
senza bisogno dei gesti, che gli faceva il dottore innanzi agli occhi; ed
ella con tutta l' ingenuità del mondo mi disse di sì, e mi assicurò che a
sua volontà ella dormiva.
La volontà esercita il suo potere anche sugli organi delle secrezioni;
ella influisce sul moto peristaltico degli intestini; e chi non
sa che le persone dotate specialmente di molta mobilità nervosa, come
le donne, aprono o chiudono i fonti delle lagrime a loro arbitrio?
In una parola il principio intellettivo, a cui appartiene la
volontà, ha di natura sua il dominio sul principio sensitivo a condizione:
1 che egli conosca mediante l' esperienza i movimenti extra7soggettivi, se
pur questi debbono essere l' oggetto delle sue volizioni; 2 che egli abbia
imparato a conoscere praticamente il nesso fra i detti movimenti extra7soggettivi
e gli atti (sentimenti attivi), coi quali egli deve produrli, e
acquistatone l' abito.
Dalle cose dette si raccoglie:
Che il principio razionale agisce sul principio sensitivo corporeo .
Che egli esercita questa sua azione sul principio sensitivo corporeo
in due modi, per via d' intendimento o senso intellettivo e per impero
di volontà .
Che l' intendimento, essendo potenza passiva e necessaria, e
la volontà essendo potenza attiva, l' anima intellettiva influisce sulla vita
corporea in due modi, l' uno necessario e l' altro volontario .
Che quindi non è meraviglia se i fisiologi distinguono
due ordini di nervi e muscoli, quello cioè dei nervi e muscoli volontari
e quello dei nervi e muscoli involontari; nè del pari è meraviglia se gli
stessi nervi sieno talor mossi in due modi, involontariamente e volontariamente.
Anzi non direi affatto improbabile che tutti i nervi sieno
soggetti alla potenza della volontà (1), benchè questa ne apprenda il maneggio
di certi più facilmente, di altri più difficilmente, secondo che è
più o meno necessario all' uomo l' adoperarli cogli atti della sua volontà,
e secondo che sono più o meno distanti dal luogo in cui la volontà opera
immediatamente, che è il cervello, come diremo, per via delle immagini
(2).
Ma rimane a vedere dove l' attività razionale produca immediatamente
i movimenti del corpo, se nel solo sistema nervoso o anche
altrove [in tutte affatto le parti del corpo], e se il sistema nervoso
sia quello che, ricevuto il moto, lo comunichi alle altre parti.
In quest' ultimo caso le altre parti del corpo non sarebbero
connesse all' anima, ma solo riceverebbero dall' anima un' influenza per
mezzo dell' azione dei nervi soli propriamente animati, sola vera sede dell'
anima; o almeno il principio sensitivo e istintivo
non sarebbe in queste parti, o non sarebbe connesso immediatamente
all' anima razionale.
Per rispondere a questa questione, si distingua primieramente
fra l' azione dell' anima sul corpo, e la manifestazione di questa
azione per via di movimenti atti a cadere sotto i sensi esterni, e quindi
a manifestarla distintamente.
Io non ebbi sempre su di ciò le stesse opinioni. Presentemente mi
pare probabile che l' anima razionale agisca più o meno su tutte affatto
le parti del corpo vivente, che in tutte le parti vi sia il sentimento fondamentale
di continuità , e con esso il principio senziente; ma che questo
sentimento non sia atto in ogni parte ad essere immediatamente eccitato
dall' anima, per mancanza di organismo opportuno, o per contrasto di
altre forze, sicchè o manchi del tutto, o sia leggerissimo e limitatissimo
il sentimento di eccitazione .
Per sentimento di eccitazione io intendo quel movimento
organico, che è atto a produrre una sensione.
Nello stesso sentimento fondamentale è uopo ammettere un
sentimento d' eccitazione; giacchè nell' animale vivente vi è un moto continuo
(di continuità fisica), il quale continuamente eccita lo stesso sentimento,
come più estesamente dimostreremo (1).
Diciamo dunque che là dove manca il sentimento fondamentale
d' eccitazione , dove manca la suscettività delle parti d' essere
eccitate, cioè a ricevere quei moti intestini ed immediati che producono
le sensioni, ivi pare che manchi la sensitività; tale è il concetto che mi
sembra doversi formare delle parti del corpo umano così dette insensibili .
I nervi, in questa supposizione, sono le parti organate in
modo da poter ammettere quella estensione, frequenza, rapidità e metro
di movimenti istintivi, che generano la sensione. Quindi, quantunque
in tutti i tessuti del corpo umano vi sia il sentimento fondamentale
di continuità, manca nondimeno in alcuni la sensitività eccitabile, e
però essi ricevono i movimenti piuttosto dai nervi, su cui agisce l' anima
con grande effetto, cioè coll' effetto dei grandi movimenti muscolari, che
dall' anima stessa immediatamente. Questa differenza, per dirlo di nuovo,
parmi doversi attribuire intieramente all' intima organizzazione; sicchè
due parti del corpo, su cui egualmente esercita l' anima intellettiva
la sua azione motrice, l' una si muove con frequenza incredibile di moti
interni da produrre l' eccitamento del sentimento, ossia la sensione; l' altra
non ammette quelle ondulazioni, oscillazioni, ecc., unicamente perchè
la prima è una fibbra coi suoi fluidi organata a tanta mobilità; l' altra,
non così acconciamente organata, resiste all' impulso e lo fa finire e
consumare ben presto inutilmente, ovvero si muove conservando la
stessa testura delle minime parti.
Posto ciò, è a dirsi che i movimenti provocati dal principio
intellettuale ed atti ad essere da noi conosciuti incominciano dai nervi,
ed alle altre parti del corpo umano, secondo certe leggi speciali, si propagano.
Ma non basta; rimane a cercare in quali parti dello stesso
sistema nervoso incomincino i movimenti prodotti dal principio intellettuale.
A questo si può rispondere generalmente che queste parti, dove i
movimenti incominciano, sono determinate dalla natura degli stessi movimenti
speciali che il principio razionale produce. Ma per classificarli
generalmente li partiremo in due generi nel modo seguente.
Vedemmo che il principio razionale opera in due modi, come
istinto (1) e come volontà .
Ora, a questi due metodi rispondono i due sistemi nervosi, che sono
nel corpo umano, il ganglionare e il cerebro7spinale .
Allorquando il principio razionale produce dei moti per via d' istinto ,
è il sistema nervoso ganglionare che ne viene immediatamente affetto;
all' incontro quando produce dei moti per via di volontà , l' azione viene
impressa nel sistema cerebro7spinale. Questo merita qualche spiegazione.
Il sistema nervoso cerebro7spinale è lo strumento [o la sede]
di quei sentimenti, a cui abbiamo dato il nome di figurati e anche
di superficiali , cioè delle sensazioni esterne e delle immagini .
Ora questa maniera di sentimenti prestano materia alla cognizione
dei corpi extra7soggettivi e dei loro accidenti.
Certamente essi non sono cognizione, propriamente altro non sono
che segni della presenza d' un corpo, non però segni arbitrari, ma contenenti
l' azione del corpo stesso.
Ora, quantunque il sentimento sia nostro e non dell' agente, tuttavia
l' agente colla sua azione si rese inesistente nel nostro sentimento,
cioè esistente nello stesso spazio superficiale in cui noi sentiamo. Per
questa identità di spazio fra l' agente attivo e noi passivi, attribuiamo al
corpo la modificazione del nostro sentire, come alla causa prossima e
quasi formale della stessa, e così l' agente diverso da noi ci appare colorito,
odoroso, ecc.. La somma precisione di confini, che presentano i sentimenti
figurati, e la mirabile distinzione fra loro ci provoca mirabilmente
a doverli prendere per qualità dei corpi. Così essi diventano materia
alle nostre cognizioni degli enti corporei.
Ora la cognizione precede sempre l' azione del principio razionale ,
perchè questo principio non agisce che conoscendo. Ma la cognizione
non precede in egual modo quando il principio razionale opera
come istinto, e quando opera come volontà.
Sia recata ad un uomo la notizia d' una repentina sciagura, poniamo
la morte improvvisa d' un congiunto amatissimo; è certo che in ricevere
i segni sensibili di questa notizia egli usò del sistema nervoso cerebro spinale.
Le sensazioni dell' udito, se la notizia gli fu recata in voce, o della
vista, se per lettera, furono quelle che, facendo ufficio di segni, rivelarono
alla sua mente l' infausto avvenimento. Si può anche supporre che
il caro oggetto perduto sia corso alla mente per via di memorie vestite
d' immagini; benchè queste non sieno necessarie a cagionare il subito
trangosciamento, bastando il puro pensiero intellettuale, che quasi allor
non ha tempo nè voglia, nel primo istante, di vestirsi d' immagini. Eppure
a questo pensiero incontanente succede il ritiramento del sangue
al cuore, che si manifesta nella pallidezza, l' allentamento del polso, i
tremori, le convulsioni, e fin anche la sincope e l' apoplessia. Questi effetti
non furono imperati dalla volontà; non provennero dalle immagini,
che hanno sede nel sistema nervoso cerebro7spinale, le quali immagini
altro officio non fecero che quello di dare notizia dell' avvenuto all'
intendimento; ma sì dalla notizia stessa dell' intendimento partì una
azione, che, senza bisogno alcuno di affettare prima il cervello, immediatamente
si comunicò al sistema nervoso trisplancnico, che presiede
alla circolazione, alle secrezioni, alle passioni, ossia ai sentimenti non
figurati.
Ma la cosa va diversamente, quando si considerano i movimenti
prodotti dal principio intellettivo non più come istinto, ma come
volontà. Quando questo principio opera con atto di volontà sia spontaneo,
sia deliberato, egli: 1 si determina a volere un dato movimento;
2 lo decreta; 3 lo produce.
Acciocchè egli formi la volizione o il decreto di un dato
movimento, è necessario che questo movimento sia da lui concepito . Il
movimento concepito, in cui si porta come in suo oggetto il decreto della
volontà, non è quasi altro che uno dei movimenti extra7soggettivi, perchè
questi soli sono percepiti con sentimenti figurati e distinti,
acconci a tirare l' attenzione ed a fissare la percezione intellettuale.
All' incontro è difficilissimo il poter dire che l' intelletto percepisca
il movimento mediante il presentimento soggettivo , perchè questo presentimento,
che non è che la propria energia che lo produce, non è guari
distinto da quello maggiore dell' energia totale dell' anima,
fino a tanto che l' energia totale, passando all' atto e producendo
il movimento stesso, non si distingua coll' operazione, e così divenga
energia speciale. Quindi se la volontà produce dei movimenti
senza averne cognizione, è da dire che ella lo faccia
con quelle specie di volizioni, che abbiamo dette puramente affettive (1);
ed anche in questo caso il concorso della volontà si unirebbe all' istinto
solo allorquando questo avesse già iniziato il movimento, e quindi resa
distinta l' energia dell' anima che lo produce, traendola fuori dall' energia
totale dov' era immersa; perchè solo a questa condizione tale energia separata
e limitata è percettibile dall' intelletto, e però
atta ad essere oggetto della volontà.
Lasciando dunque da parte questa maniera di operare della
volontà sommamente oscura, e parlando solo delle volizioni, che hanno
per oggetto movimenti extra7soggettivi, conoscibili e percepibili distintamente
dall' intendimento; dicevo che in tal caso l' oggetto della volontà,
cioè il movimento ch' ella passa a decretare, è presentato all' intelletto per
via d' immagine, la quale non si fa che nel cervello, che è l' organo di
questa potenza. La volontà vuole e decreta di eseguire quel movimento
semplice o complicato, che essa coll' aiuto dell' immaginazione preconcepisce.
In qual maniera le forze animali
per lo più si mescolino nella determinazione ed esecuzione di tal fatto,
non è necessario che da noi venga qui discusso.
L' immaginazione adunque, che appartiene al sistema cerebrale,
presenta all' intendimento il movimento, semplice o complesso, su
cui la volontà delibera. La scelta, che ne fa la volontà, si eseguisce con
un suo decreto, il quale non appartiene alla fantasia, ma all' ordine intellettivo
ed affatto spirituale; il qual decreto è un giudizio pratico, con
cui assente essere buono e da farsi quel movimento. Questo giudizio pratico
è l' iniziamento di quell' atto con cui viene eseguito quel movimento.
Ora come succede una tale esecuzione?
I movimenti, che il principio razionale
produce in conseguenza di un decreto della volontà, si debbono
distinguere in due classi.
Alcuni di essi hanno congiunto un piacere sensibile ed animale o
la soddisfazione di un bisogno, ed alcuni altri ne sono privi. I primi sono
voluti pel piacere che hanno annesso, o pel bisogno che soddisfano; i
secondi non sono voluti per sè stessi, ma adoperati siccome mezzi ad ottenere
qualche bene, che è propriamente l' oggetto della volizione. A
ragion d' esempio, l' uomo ha l' istinto di parlare, il bambino ripete istintivamente
i suoni che sente pronunciare, l' uccello fa altrettanto del canto
della sua specie, ecc.. Coi movimenti dell' organo vocale l' animale soddisfa
ad un bisogno, ad un istinto, cerca un piacere, e sfugge la molestia
che soffrirebbe, se quell' istinto rimanesse represso. All' incontro se l' uomo
compera un libro, non sono i movimenti ch' egli fa in quest' atto, l' oggetto
piacevole in cui finisce la sua volontà, ma il possesso del libro e la
dottrina ch' egli spera cavarne.
Ora, il principio razionale procede diversamente quando
toglie ad eseguire i movimenti della prima classe, e quando toglie ad
eseguire quelli della seconda classe. Nell' esecuzione dei movimenti della
prima classe la sensione piacevole ed il movimento sono congiunti, per
modo che la stessa sensione piacevole è quella energia prossima che lo
incomincia e produce, dove l' energia intellettiva non
ha da far altro che eccitare ed aiutare il sentimento piacevole, che per
istinto produce il moto.
All' incontro i movimenti, scompagnati da sensione piacevole, debbono
esser prodotti immediatamente dall' energia intellettiva senza aiuto
di sensione, anzi in opposizione alla sensione stessa. Così io posso per
vigore di libera volontà muovere un braccio od una gamba, quantunque
un tal movimento sia accompagnato da dolore.
Tutto ciò è a noi attestato dalla coscienza.
Ora, niun savio ed intelligente dirà essere fuori di ragione,
se dalla cognizione di tali fatti soggettivi noi ci facciamo a dedurre alcune
congetture circa l' organismo animale, che solo il coltello anatomico
e la meditazione fisiologica possono convertire in verità dimostrate.
Le congetture, di cui parlo, riguardano la celebre questione, più
sopra toccata, intorno alla distinzione fra i nervi motori ed i nervi meramente
sensitivi.
Sembra che quei movimenti accompagnati da sensazioni, e dalla
sensazione stessa provocati, suppongano che il movimento incominci alla
radice degli stessi nervi sensitivi, i quali perciò avrebbero la doppia proprietà
del senso e del moto.
All' incontro quella classe di movimenti, che si possono produrre
immediatamente dall' impero della volontà, senza che la sensione li accompagni,
in modo da essere riconosciuta per la causa che prossimamente
li eccita e produce, sembra supporre che vengano operati mediante
tali nervi motori, i quali non abbiano la proprietà del senso speciale,
ma solo quella del moto, o se hanno anche la proprietà del senso,
questa non si manifesti se non ad una condizione diversa da quella dei
primi, sicchè il principio razionale che li muove non li stimoli al senso,
e il moto loro impresso non sia un moto sensifero.
Quest' ultima ipotesi per altro mi sembra probabilissima, e
consonante al tutto colla speciale sensibilità propria del sistema cerebro7spinale.
Infatti la sensibilità di questo sistema in istato normale si manifesta
solo alle due estremità, cioè alle estremità esteriori mediante le
sensazioni, e alle estremità interiori mediante le immagini; laddove in
tutta la lunghezza delle filamenta nervose niun sentimento speciale e
distinto si manifesta. Se dunque il movimento imperato e scevro di sensione
si supponga cominciare appunto là dove risiedono quelle immagini,
che rappresentano lo stesso movimento all' intelligenza, apparirà
tosto il perchè il movimento dai nervi si comunichi ai muscoli senz' altra
sensione di sorte, voglio dire senza una sensione che apparisca per sè
stessa eccitatrice e produttrice del movimento.
Ci si farà una difficoltà domandandoci come i bruti, a cui
manca ogni principio razionale, possano produrre i movimenti di seconda
classe.
Rispondo: per la forza unitiva . Nella loro immaginazione si associano
i movimenti di prima classe ai movimenti di seconda classe, e il
principio sensitivo eccitato a produrre istintivamente i primi, produce
anche i secondi ogniqualvolta sono necessari ai primi, cioè ogniqualvolta
l' animale non può venire a capo della soddisfazione sensitiva che cerca
nei primi, se non a condizione che produca anche i secondi.
Che se i secondi dipendono dal sistema cerebro7spinale o
da una parte di esso, mentre i primi incominciano o nel sistema ganglionare
o in altre parti dello stesso sistema cerebro7spinale, si può ritrarre
un' altra bellissima dimostrazione della semplicità dell' anima sensitiva;
conciossiachè essa in tal caso, a fine di procacciarsi dei piaceri o fuggir
dei dolori annessi ai movimenti di certi nervi, imprime il moto ad altri
nervi, le cui radici sono diverse da quelle dei primi; il che non potrebbe
fare se la sua attività non fosse contemporaneamente presente, e non
agisse contemporaneamente in parti e luoghi diversi, ciò che suppone
che ella sia immune dalle leggi dello spazio.
Concludiamo: il principio razionale, operando come istinto,
esercita un' azione immediata sul sistema nervoso ganglionare; operando
come volontà, esercita un' azione immediata sul sistema nervoso cerebro7spinale.
I due sistemi comunicano insieme, come troppo bene sanno gli
Anatomici; i gangli laterali del gran simpatico hanno molte comunicazioni
coi nervi cerebrali e rachidei, i gangli cerebrali comunicano col
pneumogastrico.
L' osservazione accurata sulle accidentali differenze, che
possono trovarsi in diversi individui rispetto a queste congiunzioni nervose,
potrebbe non poco dilucidare i gradi d' azione, che può avere la
volontà in diversi uomini sulle passioni e sui movimenti della così detta
vita organica.
In tutti i ragionamenti precedenti noi abbiamo sempre supposto
che nel sentimento fondamentale non siavi che un principio attivo
semplicissimo, che abbiamo chiamato principio senziente o principio
sensitivo .
Di che procede che tutti i fenomeni animali debbono riconoscere
per unica causa questo principio; come pure che il principio
razionale non può agire sul corpo, se non per via di questo principio
del sentimento.
Nell' « Antropologia » noi abbiamo dimostrata l' esistenza del principio
sensitivo, la sua semplicità, la sua immensa attività sopra il corpo, la
quale fu da noi distinta in due rami, all' uno dei quali demmo la denominazione
d' istinto vitale , all' altro quella d' istinto sensuale .
Nondimeno dei pregiudizi inveterati fanno ostacolo a questa dottrina;
e per dar mano a rimuoverne alcuni, crediamo qui necessario di
soffermarci a parlare della scuola animistica , la quale nello stesso tempo
che andò più presso al vero delle altre, coll' eccesso in cui cadde, ne
infastidì il mondo e lo dispose a precipitare nell' eccesso opposto.
Le due scuole, erronee egualmente per gli estremi a cui si
spinsero, sono la scuola materiale , che pretende spiegare tutti i fenomeni
apparenti nel corpo animale colle leggi della materia; e la scuola
animistica , che li attribuisce tutti all' anima razionale.
La scuola materiale , grossolana com' è ed altrettanto ignobile, non
può gran fatto dar noia alla nostra dottrina, tanto più ch' ella fu da noi
in più luoghi combattuta.
Rimane che intraprendiamo una giusta critica della scuola animistica ,
e che dimostriamo come il vero stia collocato fra gli eccessi delle
due scuole.
Quali furono adunque gli errori, in cui incappò la scuola
animistica?
Si riducono tutti al non aver veduto con distinzione che la causa di
tutti i fenomeni animali è il principio senziente .
Quali furono le cagioni, per le quali questa scuola non pervenne
a conoscere la precisa attività dell' anima, a cui si dovevano riferire
i fatti dell' animalità?
Le principali furono le seguenti:
Il non aver fatta la debita distinzione fra i fenomeni soggettivi
e gli extra7soggettivi .
Il non aver conosciuto la differenza specifica fra il sentire e
l' intendere .
Il non aver distinto il sentimento fondamentale dalle sensioni .
Il non aver riflettuto che il solo termine dell' anima sensitiva
è esteso, e che il principio inesteso, che è l' anima stessa, può non già
dividersi , ma moltiplicarsi , senza danno della sua semplicità.
Diamo un' occhiata a ciascuna di queste quattro cagioni.
Egli ha ragione; ma l' obbiezione perde la sua forza contro
alle cose da noi dette, perocchè:
Basta trovare un' ipotesi non assurda atta a spiegare quell' università,
acciocchè ella non possa più conchiudere cosa alcuna contro la
spiegazione psicologica dei fenomeni animali. Ora niente vi è d' intrinsecamente
ripugnante ad ammettere che il sentimento sia individualmente
unito agli elementi primitivi della materia, i quali non sarebbero
in tale ipotesi che il termine extra7soggettivo di quel sentimento.
E quand' anche si lasci da parte questa ipotesi (che non è
poi mera ipotesi in aria, come pare nel primo aspetto), basta ad annullare
quella obbiezione la gran distinzione fra i fenomeni soggettivi
e gli extra7soggettivi . Mediante questa distinzione innegabile si scorge essere
al tutto falsa quella università pretesa di fenomeni.
Poichè tutti quelli che non attribuiscono il sentimento ai vegetabili,
o alle loro parti, o ai loro elementi, debbono riconoscere che in questi
vi sono bensì dei fenomeni extra7soggettivi consistenti in movimenti
simili a quelli che si scorgono negli animali, ma non vi sono fenomeni
soggettivi di sorte alcuna, i quali consistono nel sentimento. Ora le forze
materiali si percepiscono come cause di movimenti, e perciò qui abbiamo
cause ed effetti analoghi, ed è difficile, per non dire impossibile, il
dimostrare che l' accozzamento temperato ed organico delle cause materiali
non possa spiegare i movimenti dei vegetabili; quando all' opposto
nei soli animali si rinviene come propria la classe dei fenomeni soggettivi
o sentimentali, che non si può in alcuna maniera spiegare con forze
extra7soggettive e motive.
La vera cagione adunque, per la quale non si potè rispondere efficacemente
fino ad ora a quella obbiezione, si fu per non essersi tirata
la linea importantissima fra le due classi mentovate di fenomeni. Ma su
questa cagione, tanto ella merita d' essere considerata, ritorneremo
ancora.
La seconda cagione, perchè non poterono consentire le
menti degli studiosi della natura a riconoscere nell' anima il principio
dei fenomeni animali si fu perchè gli psicologi, che primi videro il bisogno
di ricorrere all' anima, non seppero fermarsi al principio sensitivo ,
ma, trascorrendo il giusto termine, misero in campo l' anima razionale .
E il loro eccesso venne da questo, che non intesero mai a dovere la differenza
essenziale che passa fra il sentire e il conoscere, fra il senso e
l' idea. Il sensismo stava nei visceri di tutte le loro meditazioni, e sta
tuttavia nelle fibre di quelle filosofie che oggidì si vantano spirituali e
razionali. Non è così facile intendere che il sentimento e l' idea , lungi dal
differire di gradi solamente o di qualità accidentali, sicchè il primo con
certi suoi atti si possa cangiare nella seconda, sono entità diverse ed opposte;
che il sentimento è soggettivo, e che l' idea è oggetto per essenza.
Così tutti i filosofi moderni, compreso Cousin e i discepoli suoi, che non
possono concepire un sentimento privo di qualunque coscienza, confondono
l' elemento sensibile coll' intelligibile, cioè uniscono al sentimento,
senz' accorgersi ed arbitrariamente, un elemento intellettivo; e commesso
questo primo errore, essi hanno alla mano un sentimento non quale è
in natura, ma quale essi medesimi lo si sono formato coll' immaginazione;
dal quale partendo, non è loro certamente difficile il dedurne tutte
le funzioni della ragione; bastando a ciò che sviluppino quel germe intellettivo,
che essi hanno messo nel sentimento e dichiarato parte di esso.
Al tempo di Giovanni Alfonso Borelli (m. 1679), di Giovanni
Swammerdam (m. 16.5), di Claudio Peraulo (m. 16..), e di Giorgio
Ernesto Sthal (m. 1734), non è meraviglia se non fosse ancora ben
distinta la sensazione dall' idea, uscendo appena il mondo dall' aristotelismo,
sistema che presentò faccie diverse, ma onde s' era cavato principalmente
il sensismo, per tacere del materialismo di Pomponaccio e di
altri. La setta adunque degli animisti faceva intervenire nella spiegazione
dei fenomeni animali l' intendimento, incapace com' ella era di concepire
il sentimento puro, cioè tale che niuna cognizione affatto avesse
seco congiunta (1).
Osserviamo la confusione fra il principio del sentire e l' anima
razionale nel nostro italiano Borelli, che come fu principe dei jetromatematici,
così a buona ragione si deve mettere alla testa degli animisti
moderni, avendo egli prima degli altri conosciuto che i fenomeni animali
si dovevano spiegare mediante un principio di attività soggettiva.
In un luogo della celeberrima sua opera, « De motu animalium »,
assume a provare che è possibile che il moto del cuore si produca
« a facultate animali COGNOSCITIVA (1) », e ciò con argomenti che altro
non dimostrano se non che quel moto si opera per l' attività del principio
sensitivo .
Osserva dunque il Borelli che, quando il principio del sentimento
( animae sensitivae facultas ) è tocco grandemente dall' affetto della gioia,
la circolazione si rende più celere, e quando è tocco grandemente dalla
tristezza, la circolazione si rende più lenta. Questo è un fatto, che dimostra
indubitamente l' attività del sentimento sulla circolazione. Ma il
Borelli invece di contentarsi di tirare tale conseguenza giustissima, confondendo
l' attività del sentimento coll' attività intellettiva, ne induce che
l' anima conoscitiva è il principio dei movimenti del cuore, considerando
il sentimento stesso come un' azione di essa anima conoscitiva: « utraque
enim », dic' egli, « pulsationis variatio fit ab apprehensione et persuasione,
quae sunt ANIMAE COGNOSCENTIS facultates ». E tornando a scambiare
la sensibilità coll' anima conoscente, soggiunge: « Ergo talis motus
cordis fit a facultate sentiente et appetente, non vero ab IGNOTA necessitate
(2) ».
Dove si può vedere l' origine del moderno sensismo. Aveva
ricevuto il mondo un' antica eredità, di cui la scolastica era stata l' ultima
testatrice, il pregiudizio cioè che sentire fosse una specie di conoscere .
Invano S. Tommaso aveva detto in qualche luogo, quasi alla sfuggita, che
il sentire non era un vero conoscere, ma che si diceva così per una cotal
metafora; questa savia, ma troppo breve annotazione, non bastò a correggere
la impropria maniera di parlare invalsa, e l' erronea opinione
che seco adduceva.
Per altro il Borelli nello stesso tempo che sragionando errava, perchè
confondeva il sentire col conoscere, afferrava una verità importante,
passata, come dissi, nella scuola degli animisti, e poi rifiutata dal comune
degli scienziati per la stessa ragione, per la quale era stato accettato
l' errore.
Infatti, quando taluno presenta al mondo un errore abbracciato
con una verità, si ammette l' errore perchè vi si scorge la verità
annessa, a cui solo si pone attenzione.
In appresso poi, ammesso l' errore, quell' accoppiamento di errore
e di verità si rifiuta, perchè non si vuole la verità, che scorgesi non coerente
all' errore prevalso. Finalmente si volge un terzo tempo, nel quale
si fa ciò che non s' è fatto prima; si scompone quel tutto, e staccando la
verità dall' errore, si ritiene la prima e si rigetta il secondo. Questa è
quella cotal chimica delle opinioni, che io procurai, per quanto ho saputo,
di applicare alle questioni filosofiche più controverse.
Ma ciò che contribuì maggiormente a ingannare la perspicacissima
mente del nostro Borelli si fu l' aver egli considerato l' effetto
delle passioni nell' uomo, anzichè negli animali universalmente. E certo
nell' uomo una notizia lietissima ed improvvisa, empiendolo di subita
gioia, gli fa martellare il cuore; una notizia tristissima l' abbatte, e toglie
al suo cuore quasi il movimento. Or qui trattandosi di notizie, siamo nell'
ordine intellettivo. Ma questo che prova? Prova unicamente che le
notizie dell' intendimento hanno virtù di eccitare gli affetti della gioia
e della tristezza, non prova già che abbiano quella di muovere o di allentare
immediatamente la pulsazione del cuore. Se le notizie adunque influiscono
sulla circolazione, è mediante gli affetti che in prima esse
generano nel soggetto umano; i quali affetti appartengono all' ordine dei
sentimenti, ed anche nelle bestie si suscitano non per cagione di notizie ,
cui esse abbiano, ma per virtù degli istinti ciechi, e per la forza unitiva ,
di cui nell' « Antropologia » ho più a lungo ragionato.
L' anima intellettiva adunque comunica col principio sensitivo
e ne mette in moto l' attività; tutto questo accade entro il soggetto;
ma è poi la sola attività del principio sensitivo quella a cui si debbono
riputare gli effetti, che modificano la materia e il corpo, termine di quel
principio.
Nobilissima questione poi, ma separata dalla precedente,
si è quella: « Come il principio intellettivo eserciti un' azione sul sensitivo ».
La psicologia deve trattare entrambe queste due distintissime questioni,
e noi abbiamo cominciato già a farlo col pur distinguere l' una
dall' altra, e coll' indicare perchè vennero fin qui confuse dai più solenni
maestri; questo ci pare il primo passo necessario a mettere le menti in
sulla via.
Laonde, continuandoci a illuminare le cagioni, per le quali
i filosofi trascorsero fino a pigliare l' intelligenza (confusa da essi col senso)
come la sola via di spiegare i fenomeni animali, osserveremo che vennero
anche tratti in inganno dai vestigi di somma sapienza, che si ravvisano
nelle operazioni dell' istinto animale. Giustamente Galeno se ne
mostrava trasecolato. Ed egli aveva troppa ragione di ribattere con ciò
la setta degli Epicurei rigettanti la provvidenza (1); come pure egli faceva
un' osservazione assai assennata, quando a quelli che esprimevano
la causa della generazione e degli altri fenomeni animali colla parola
natura , rimproverava che l' inventare una parola non è spiegare i fatti (2).
Ma quando gli pareva difficile a spiegare come la sostanza, di cui si compone
l' embrione e successivamente il feto, e che opera movimenti sì
regolati e complicati, fosse qualche cosa d' irrazionale (3), allora sragionava;
non intendendo come la causa intelligente ci doveva essere certo,
ma non era però necessario che si confondesse colla sostanza animale,
non distinguendo insomma la causa ultima e creante (Iddio) dalla causa
prossima (la natura), nè giungendo a concepire la causa prossima nel
sentimento; il quale benchè cieco, è ministro acconcissimo alla divina
intelligenza, da cui è creato.
L' illustre Stahl fu indotto nel medesimo errore da un' altra
verità da lui veduta, ma male applicata.
Vide l' uomo grande che l' intendimento fa molti suoi atti, di cui l' uomo
non ha alcuna coscienza; questa era una preziosa verità; ma non ne veniva
già perciò la conclusione che egli arbitrariamente ne deduce, cioè
che le operazioni animali sono appunto di questi atti intellettivi senza
coscienza (1).
Lo Stahl in questa dottrina prese due errori, distinguendo
male le operazioni dell' intendimento che vanno prive di coscienza, da
quelle che alla coscienza si accompagnano; e collocando le opere del
sentimento animale nella classe delle operazioni dell' anima intellettiva,
prive di coscienza.
E di vero, egli distinse la ragione, «logos», dal raziocinio, «logismos»,
e qui ottimamente. Alla prima attribuì le operazioni senza coscienza, al
secondo quelle di coscienza accompagnate; il che è del tutto erroneo.
L' osservazione più attenta, posta sulle nostre interne operazioni unita
all' induzione, ci dà questo risultamento, che noi facciamo anche dei raziocini,
di cui non abbiamo coscienza alcuna, e in universale ci somministra
quella legge meravigliosa, che « ogni qualsiasi operazione dello
spirito nostro è incognita a sè stessa, ed ha bisogno di un' altra operazione
(riflessione), che ce la riveli ».
Quanto al secondo errore di classificare le operazioni del
senso fra quelle della ragione priva di coscienza, è facile riconoscerlo
mediante la stessa osservazione interna. Primieramente non è vero che
tutto ciò che passa nel nostro sentimento sia scompagnato di coscienza;
anzi è vero che « di qualsiasi nostro sentimento possiamo aver coscienza »,
e se non potessimo averla, non sarebbe sentimento nostro proprio ,
giacchè altro non vuol dire sentimento nostro proprio, se non sentimento
di cui possiamo acquistare coscienza. Ma se di ogni sentimento nostro
proprio possiamo aver coscienza, nel fatto però non l' abbiamo di tutti.
Certo il sentimento non la racchiude in sè stesso, ma dobbiamo
formarcela con l' osservare internamente
quel sentimento che passa in noi. Ma dobbiamo distinguere i
sentimenti nostri propri da quelli che possono essere nel corpo nostro,
e non essere nostri. Fra i sentimenti nostri ve ne sono: 1 di quelli, di
cui possiamo avere coscienza, ma non l' abbiamo, perchè non ci portiamo
l' attenzione del pensiero nostro; 2 di cui abbiamo attualmente coscienza.
Ora, che vi siano altresì dei sentimenti nel corpo nostro i
quali non sono nostri, perchè non possiamo al tutto averne coscienza, ne
abbiamo la prova negli entozoari, e possiamo congetturare che niun elemento
corporeo ne sia privo; ma questi sono sentimenti fuori del nostro
individuo. Le sole due prime classi di sentimenti appartengono al nostro
individuo, e quindi sono nostri propri.
Ora, fissando il pensiero sopra la seconda classe di sentimenti,
che sono quelli di cui abbiamo attuale cognizione, possiamo ben
discernere se essi abbiano natura razionale sì o no, appunto perchè li
conosciamo, ne abbiamo coscienza. Ebbene, questa ci dice che quei sentimenti
mancano dei caratteri della cognizione, perchè non hanno alcun
oggetto , ma hanno indole esclusivamente soggettiva, sono semplici modificazioni
del soggetto, e che la cognizione e la coscienza, che li accompagna,
non appartiene ad essi. E questo è appunto ciò che separa essenzialmente
il conoscere dalle altre entità; ogni cognizione è un atto , che
termina in un oggetto , senza confondersi con esso. Nulla di ciò nel sentimento
animale. Egli ha in quella vece natura opposta, cioè è un atto
meramente soggettivo, senza che esca di sè per terminare in alcun oggetto
da sè distinto, ossia che egli stesso distingua. E` dunque un errore
il confondere, come fece la scuola animistica, i sentimenti cogli atti razionali
dell' anima.
La terza cagione, onde non si colse il vero principio dei fenomeni
animali, si fu il non essersi conosciuta la natura del sentimento
fondamentale, e creduto che tutto il sentire si risolvesse nelle sensazioni
speciali, suscitate dagli stimoli extra7soggettivi.
Quindi venne la meraviglia, che menava Galeno e dopo di
lui altri molti, al vedere che l' uomo e l' animale sa muovere i suoi muscoli
e nervi in servigio dei suoi bisogni, senza tuttavia conoscere quali
siano, e come conformati i nervi e i muscoli che egli muove. Parve a cotesti
filosofi e naturalisti impossibile a credere che la volontà umana facesse
uso con sì grande sapienza di parti, di cui pur non ha cognizione,
la quale non acquistano se non i dotti gradatamente collo studio dell'
anatomia.
Quelli che così ragionavano, non videro primieramente che
la cognizione anatomica non è già l' unica cognizione, che l' uomo possa
avere del corpo umano, nè la più fedele, cioè quella che gliene faccia
veramente conoscere la natura. Non videro che l' esperienza esteriore,
qual' è quella che guida gli anatomici nelle sezioni ed ispezioni dei corpi,
è condizionata all' operare soggettivo dei sensi esteriori, degli occhi, del
tatto, ecc.; i quali non presentano già a noi la natura delle cose, ma solo
dei fenomeni risultanti da due concause, che sono la natura degli organi
sensati strumenti di tale osservazione, e quella degli stimoli loro applicati,
onde ciò che se ne ricava non sono quasi che fenomeni, che assai
tengono del soggettivo, affatto alieni dalla natura propria ed intima del
corpo osservato. Non conoscendo l' importanza di questa osservazione,
ciecamente s' affidavano quei naturalisti all' osservazione extra7soggettiva,
come l' unico mezzo e sicuro di conoscere i corpi animali.
All' opposto il vero si è che il corpo si conosce con due esperienze,
l' extra7soggettiva e la soggettiva; e che quest' ultima è quella che ce ne
indica la vera natura.
L' esperienza soggettiva suppone il sentimento fondamentale, pel
quale il principio sensitivo sente tutte le parti del corpo, nelle quali
quel sentimento si propaga. E` vero che in questo sentimento non cadono
i confini esterni di queste parti, le forme, ecc., che sono fenomeni
dell' esperienza extra7soggettiva; ma, come dicevo, l' esteso del corpo non
è meno perciò sentito col sentimento fondamentale, benchè in tutt' altro
modo che colle sensazioni esterne.
Ancora è vero che questo sentimento fondamentale non è
cognizione, ma solo materia possibile di cognizione; ma egli tuttavia suppone
presente l' attività dell' anima sensitiva, dovunque si trova;
e però non deve far più meraviglia che l' anima adoperi quelle parti, che
ella sente ed investe, secondo le leggi del suo individuale sentimento, e
a pro di questo; il quale è poi costituito da una suprema intelligenza,
per modo che col suo operare ottenga dei fini sapienti; benchè non sieno
fini se non pel Creatore, laddove pel sentimento sono termini, condizioni,
atteggiamenti, stati piacevoli, a cui egli è volto incessantemente
per le sue proprie forze naturali, per le quali egli è.
Finalmente la quarta cagione dell' errore preso dagli animisti
si fu il non aver distinto il principio dal termine del sentimento; nè
quindi essersi potuti formare il giusto concetto di un' anima sensitiva, la
cui essenza è appunto questa di essere il detto principio del sentire, e
non il termine.
La mancanza di questa distinzione importantissima li travolse in
enormità, che assai contribuirono a screditare il loro sistema.
E veramente, se non si distingue il termine del sentimento dal suo
principio, che solo costituisce l' anima, si cade primieramente nell' assurdo
di rendere l' anima sensitiva, materiale, estesa, mortale.
Pressato lo Stahl dalle obbiezioni di Leibnizio, fu obbligato di confessare
la necessità di questa conclusione (1). Ma in tal caso, o l' uomo
avrà due anime, o l' identica anima parteciperà della materialità, della
estensione, della mortalità! Per tutta risposta il religioso Stahl non dubita
di dire che egli aspetta l' immortalità dell' anima umana non dalla
sua natura, ma dalla grazia! (2).
Di più, se non si distingue il principio del sentimento dal
suo termine, inesteso il primo, esteso il secondo, non si può in alcun
modo conoscere la dottrina dell' individuazione delle anime sensitive, nè
la facoltà che hanno di moltiplicarsi senza dividersi. Ora, posto che questa
dottrina non si sia ancor trovata, e che tuttavia si vogliano spiegare
tutti i fenomeni animali ricorrendo all' anima; che si dovrà dire di certi
fenomeni ammessi dalle parti disputanti per animali, e che succedono
tuttavia nel corpo, anche qualche tempo dopo seguita la morte dell' animale,
come, a ragion d' esempio, dell' irritabilità o controdistensione dei
muscoli? Roberto Whytt, che ristorò in Iscozia il sistema degli animisti,
non dubitò punto di affermare che l' attività dell' anima si conserva presente
a quei muscoli e si aumenta sotto gli stimoli (1).
Ritornando ora a noi e riassumendoci, noi vedemmo:
Che l' anima razionale è unita al sentimento animale fondamentale
per una percezione naturale ed immanente.
Che essendo nel sentimento fondamentale due elementi, cioè
il senziente e il sentito, l' anima razionale è unita conseguentemente all'
uno e all' altro.
Che l' essere unita al sentito è lo stesso che l' essere unita al
proprio corpo soggettivo, per la quale unione ella diviene passiva, perchè
esso corpo è passivo.
Che dall' essere unita al senziente , ne viene ch' ella sia attiva,
e possa operare su questo principio che regge il sentito, ossia il corpo,
e così operare su di questo.
Che il principio senziente nei bruti è ciò che costituisce l' anima
sensitiva.
Che il principio senziente ha quell' unione indivisibile col
sentito, che abbiamo dichiarata a lungo nell' « Antropologia ».
Dimostrando le quali cose, noi non abbiamo parlato che di
passaggio del corpo extra7soggettivo.
E veramente, quando sia spiegato il nesso dell' anima col corpo soggettivo,
è spiegata altresì la sua relazione col corpo extra7soggettivo; perocchè
questo è sostanzialmente quello stesso, ma vestito di altre apparenze
a cagione del diverso modo e delle diverse potenze, per le quali
viene da noi percepito.
Tuttavia noi vogliamo qui dirne ancora alcuna cosa. I filosofi non
conobbero troppo che sia il corpo soggettivo; essi concepirono sempre
la sostanza corporea vestita di quei fenomeni, che loro porgeva l' esperienza
esterna ed extra7soggettiva. E quando si proposero la questione:
« come l' anima operi nel corpo o viceversa », intesero sempre per corpo
l' extra7soggettivo; indi il loro imbarazzo.
Ad uscirne conviene adunque dimostrare la relazione fra questi
due corpi da noi percepiti; perocchè, conosciuta bene qual relazione
passa fra l' uno e l' altro corpo, facilissimo riesce ad intendere come si
eserciti l' azione dell' anima sul corpo extra7soggettivo, in conseguenza
dell' azione sua sul corpo soggettivo.
E con questa occasione abbiamo fiducia d' innalzare forse agli occhi
di molti qualche lembo del velo densissimo, che ricopre il mistero della
sensazione, al quale viene certo non piccola luce dal dichiarare il nesso
che passa fra i fenomeni extra7soggettivi ed i soggettivi, nesso che noi,
già prima d' ora, riponemmo nella medesimezza dello spazio, in cui convengono
i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi.
E di vero, se si ammette che vi sia un sentimento fondamentale
diffuso per tutte le parti sensitive del corpo umano, di maniera
che questo sentimento occupi lo spazio identico a quello in cui si manifestano
i fenomeni extra7soggettivi, sicchè quel nervo stesso, a ragion
d' esempio, che io veggo coi miei occhi e tocco colle mie mani (fenomeni
extra7soggettivi), sia quello a cui sta inerente il sentimento soggettivo,
che rende quel nervo naturalmente sentito ma in altro modo, cioè in un
modo immediato, a chi lo possiede; in tal caso avverrà che tutti i movimenti
prodotti in quel nervo, da una parte si presenteranno all' osservazione
esterna come fenomeni extra7soggettivi, e dall' altra modificheranno
effettivamente il sentimento soggettivo inerente al nervo.
Si noti tuttavia che, quantunque noi diciamo un sentimento soggettivo
diffondersi naturalmente in tutto lo spazio occupato dal nervo,
non diciamo per questo che nel sentimento soggettivo naturale e fondamentale,
questo spazio si delinei e si figuri. Nulla di ciò; lo spazio non
viene figurato e limitato se non mediante la sensazione esterna, la quale
dà i fenomeni extra7soggettivi. Uno dei quali fenomeni è quello delle
sensazioni superficiali , non mai considerate dai filosofi, per quanto ci è
noto, e di cui noi trattammo nell' « Antropologia ». Le sensazioni in superficie
sono propriamente quelle che ci contornano i corpi e fanno nascere
le loro forme, le loro grandezze determinate, e quindi le loro proporzioni;
quelle perciò che ci somministrano tutte le cognizioni che l' uomo
si va formando da tali elementi. E` così appunto che il mondo esteriore
viene fabbricato, per così dire, dalla sensitività esterna dell' uomo. Il
mondo interiore all' opposto, chiuso nel sentimento soggettivo, non presenta
nulla di tutte queste appercezioni. Tuttavia lo spazio occupato dal
sentimento fondamentale, ancorchè senza confini e senza relazioni con
altri spazi, e però di apparenza oscura e semplice, non atta ad eccitar
l' attenzione, è quello stesso spazio, per dirlo di nuovo, che in appresso
dalle sensazioni esterne si definisce, ed affigura, e in certa maniera s' illumina
e distingue dalla totalità dello spazio; ed è in questo medesimo
spazio che riceve poi il movimento quell' organo corporeo, a cui aderisce
il sentimento.
Vero è che se noi poniamo che questo corpo, quest' organo
corporeo, muti di luogo senza che nel suo interno avvenga moto relativo
fra le molecole o particelle che lo compongono; nel sentimento interno,
che inerisce al corpo, niente accade da cui altri si possa accorgere della
mutazione locale; poichè la mera mutazione di luogo non è sensibile
se non per la posizione relativa dei corpi esterni, che non viene data dal
sentimento fondamentale e soggettivo, ma solo dalle sensazioni accidentali
e dai fenomeni extra7soggettivi (1). Ma se nello stesso corpo vivente,
a cui aderisce il sentimento, nascono dei movimenti intestini, come se
un nervo si accorcia o protende per certa sua propria elasticità animale
o contrattività; in tal caso il sentimento stesso, inerente al nervo, verrà
a restringersi o a rilasciarsi, ad accumularsi in minore spazio o a distendersi
in maggiore. Si attenda bene, non vogliamo già dire che il sentimento
inerente a quel nervo presenti alla nostra coscienza il movimento;
ripetiamo che il movimento non si rileva, se non in virtù dei fenomeni
extra7soggettivi. Vogliamo dire adunque che il celere accorciarsi o rallungarsi
del nervo sentito deve produrre necessariamente una modificazione
al sentimento fondamentale; la sua attività deve eccitarsi, giacchè
ha uno stimolo che lo sforza a conformarsi altrimenti. Il sentimento
adunque così eccitato, in virtù di forza straniera, l' attività sua così scossa,
stimolata, addensata, deve produrre una modificazione sentita, giacchè
ogni attività del sentimento si sente.
Ma qual foggia prenderà questa modificazione? Quest' attività
sensitiva, tratta dal suo stato di quiete, in quali fenomeni si spiegherà?
Questo è ciò che è impossibile predire a priori, e la sola esperienza
ci può far conoscere. Ora abbiamo dall' esperienza che questi fenomeni
sono le sensazioni transeunti, i colori, i suoni, gli odori, i sapori,
le sensazioni tattili, ecc.. Queste sono dunque eccitazioni del sentimento
fondamentale (1). Era difficile lo spiegare come i movimenti di un corpo
potessero produrre queste eccitazioni in un sentimento, che non è corpo.
Ma trovato che vi è un sentimento fondamentale, che aderisce essenzialmente
al corpo, e che si diffonde nello stesso spazio del corpo, la difficoltà
sembra vinta. Solamente vuol notarsi che, affin di trarre dal sentimento
fondamentale certe sensazioni speciali, è uopo che egli sia scosso ed
agitato con certi stimoli, secondo certe leggi, da certi movimenti, in certi
organi a cui costantemente aderisce.
E dico con certe leggi , poichè non tutti i movimenti degli
organi eccitano il sentimento fondamentale in modo da svegliare le sensazioni.
Il perchè ad ottenerle occorrono certe condizioni,
un apparato di nervi, una maniera di scosse anzichè un' altra, una
data celerità di tremiti. Tutto questo rimane ancora in gran parte nascosto.
Aggiungiamo un' osservazione sul fatto innegabile della necessità
che concorrano più organi a produrre una sola sensazione, a ragion
d' esempio sulla necessità che i nervi ottici, i lobi del cervello e del
cervelletto, i talami ottici, ecc., concorrano a produrre la visione. La
necessità di un apparato di organi sì complicato a produrre una sensazione
sì semplice, non farà meraviglia qualora bene si meditino le seguenti
verità, già da noi dichiarate:
Che il principio sensitivo è unico e semplice.
Che la sensazione esige un' attività eccitata di questo principio
sensitivo, vera causa della sensazione.
Che tutto il sentito fondamentale in tutta la sua estensione
sta nel principio sensitivo inesteso, non come un esteso sta in un altro
esteso, ma come un sentito sta nel senziente: il che abbiamo chiamato
rapporto di sensilità.
Che il principio sensitivo viene eccitato, scosso, attuato dai
movimenti intestini, che si producono negli organi, i quali sono parti
del sentito.
Che perciò questi movimenti, benchè vari e ai vari organi appartenenti,
tutti tendono ad un solo effetto, cioè all' eccitamento del
principio sensitivo, contraendo e addensando, e successivamente dilatando
il sentito suo termine.
Che perciò, quantunque ad ogni addensazione e dilatazione
del sentito debba succedere qualche modificazione nel sentimento e nell'
attività del principio sensitivo, tuttavia perchè si spieghino in esso sensazioni
speciali non fa meraviglia che si richieggano movimenti d' una
certa moltiplicità, varietà, frequenza, ecc..
Da tutte le quali cose ci sembra ricevere gran luce il nascimento
della sensazione.
Questo fatto era inesplicabile prima che si trovasse la distinzione
fra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi; perocchè la spiegazione
della sensazione è il medesimo che la soluzione della grande questione
del commercio dell' anima col corpo.
Rimanendo il pensiero dell' uomo entro la sfera dell' esperienza
extra7soggettiva, invano s' affaticava ad inventare delle ipotesi; una reale
comunicazione fra lo spirito e il corpo non si trovava giammai.
Quindi i filosofi si divisero in due classi. Alcuni contraffecero il concetto
dello spirito, lo resero extra7soggettivo, immaginarono in una parola
che fosse qualche corpo sottilissimo sfuggevole ai sensi; così rendevano
possibile la reciproca azione fra lui e i corpi più grossi.
Altri ben s' accorsero che questo era un distruggere l' ente spirituale,
un materialismo, e che avrebbe dato ragione di una relazione meccanica,
ma non mai d' una relazione sentimentale; quindi negarono ogni influsso
fisico fra l' anima e il corpo; e, ora sognarono varie ipotesi (1), ora più
saggiamente applicarono a tal questione il nome di mistero, suggellando
con questa bella ed onesta parola la bocca a sè stessi, e a tutti quei profani
che ne volessero più oltre ragionare.
Io credo che debba essere cosa amena ai lettori il dare un cenno degli
strani pensamenti, a cui dovettero pervenire i primi affine d' immaginare
come lo spirito, quasi un cotal fiato sottilissimo, si raggiungesse a
questo nostro corpaccio così crasso e voluminoso,
per una gradazione d' altri corpi più sottili intermedi. Prenderò
la esposizione di tali sistemi da Giovanni Fernelio, a cui sembrano
d' indubitabile certezza (1).
Questi sgarramenti delle immaginazioni erano necessari, dato che
si voleva pure spiegare la comunicazione dell' anima col corpo e non si
sapeva conoscere la natura soggettiva di questo, onde altro
non rimaneva che dare anche a quella una natura extra7soggettiva,
ma sì tenue da sfuggire ai sensi. Quindi tutta l' antica filosofia
si vide andare sullo stesso cammino in questo argomento. Seguitiamo la
storia delle opinioni, sempre colle parole del Fernelio. Così egli passa
ad esporre quella di Alessandro Afrodiseo (1):
[...OMISSIS...] .
Venendo all' opinione di Aristotele (2), che il Fernelio vuol conciliare
colle precedenti, prosegue:
« « Il perchè giustamente Aristotele espose che nel corpo seminale e
spumoso si contiene lo spirito , e nello spirito la natura , la quale proporzionalmente
risponde all' elemento delle stelle; significando apertamente
che questo spirito s' interpone fra il corpo e quella divina natura, siccome
un cotal vincolo comune. Nè solo alla mente, ma ancora a ciascuna
parte caduca dell' anima diede un proprio spirito, asserendo che ogni
facoltà dell' anima partecipa d' un altro corpo, d' un corpo più divino di
quelli che si appellano elementi, e come le anime differiscono fra loro
per nobilità e per oscurità, così anche la natura di questo corpo » ».
Onde, raccogliendo le precedenti sentenze, il Fernelio chiude così
assai gravemente: « « Se dunque con certo giudizio noi vogliamo pesare
le ragioni sì di Aristotele che degli altri, apparirà manifesto che ogni
parte dell' anima si appoggia ad un certo spirito, siccome a suo fondamento;
pel quale spirito ella e risiede nel corpo, e vi eseguisce ogni funzione
del suo officio » ». E per questo spirito intende il corpo sottilissimo veicolo
del calore innato; perocchè il calore innato (1) non può stare senza un
fluido, a cui aderisca e che lo contenga (2).
Così, non avendo potuto questi filosofi pervenire a concepire la natura
soggettiva di cui vedevano i fenomeni, si sforzavano invano d' attribuire
questi fenomeni alla natura extra7soggettiva, assottigliandola in
modo che sfuggisse ai sensi esterni, e si togliesse quindi all' esperienza
extra7soggettiva; mostrando almeno con questo d' intendere che i fenomeni
dell' anima si dovevano spiegare con qualche cosa che fosse alieno
dall' esperienza extra7soggettiva, senza tuttavia sapere che cosa vi potesse
essere al di là di questa esperienza, e senza intendere che le leggi del
corpo extra7soggettivo, anche sottilissimo, e sfuggevoli interamente ai
sensi sono essenzialmente le stesse, e che il corpo non muta natura coll'
esser grande o piccolo quanto si voglia, giacchè la grandezza e la piccolezza
sono meri accidenti, e nulla più.
Se le anime umane fossero scevre dai corpi, niuno potrebbe
dubitare della loro spiritualità. L' unione dunque, che hanno col corpo,
è la cagione, onde pullulano i dubbi intorno alla loro semplicità e spiritualità
nelle menti, che non giungono a ben conoscere la natura di
quella unione. Perciò noi abbiamo speso il libro precedente ad investigarla.
Rinvenuta questa importante verità, che fu pure argomento di
tante disputazioni, dall' inutilità delle quali gli uomini più sensati, ma
alquanto impazienti, s' erano affrettati a conchiudere che ella doveva
essere un mistero impenetrabile, da una parte cessano le apparenti difficoltà
che opponevano i materialisti, dall' altra ci è dato di poter mantenere
la spiritualità, senza precipitare negli errori d' altro genere, in cui
gli spiritualisti cadevano quando prendevano a spiegare il loro dogma
vero, nobilissimo e consolante. Imperocchè l' armonia prestabilita, le
cause occasionali, l' idealismo berkeleyano, l' atto aristotelico del corpo,
i corpi sottili confinanti colla supposta esilità dello spirito (a cui si riducono
i principali sistemi, coi quali si pretese spiegare i fenomeni animali
che appariscono nella materia) sono altrettanti errori, fecondi di
conseguenze perniciosissime. Giova dunque che ora noi, raccogliendo il
frutto delle dottrine esposte nel libro precedente, ci occupiamo ex proposito
di questa dote essenziale dell' anima, che fu detta semplicità o spiritualità.
La quale si rannoda ad importantissime questioni, come è
quella dell' origine, o generazione, o moltiplicazione dell' anima (chiamisi
come meglio piace), che non sono difficili per altro, se non perchè
è difficile a concepire in che modo l' anima, essendo spirituale e semplice,
operi nel corpo e dal corpo patisca, e soggiaccia a passioni che sembrano
simili (benchè non sieno che analoghe o proporzionali) alle passioni della
materia. Incominciamo dunque dall' esporre, con maggior estensione
che non abbiamo fatto, le prove dirette della semplicità dell' anima
umana.
E primieramente è da osservarsi che la parola semplicità
fu presa in vari significati.
Ella fu presa in primo luogo per escludere la moltiplicità , e in questo
senso equivale al vocabolo unicità .
In secondo luogo fu presa per escludere l' estensione , e in questo
senso viene a dire inestensione .
In terzo luogo fu presa per escludere la materialità (forza sensifera),
ed allora si dice incorporeità o spiritualità .
Ora in tutti questi modi conviene all' anima l' essere semplice.
Le prove, colle quali si può dimostrare la semplicità dell' anima,
si riducono comodamente a tre grandi classi, traendole:
1 dalla coscienza;
2 dalle speciali proprietà dell' anima somministrateci dalla coscienza;
3 dalle sue operazioni, cioè dal bisogno di supporre che l' anima
sia semplice per dare a quelle operazioni una ragione sufficiente, una
convenevole spiegazione.
La prova immediata tratta dall' intima coscienza fu già esposta
più sopra.
Dalle proprietà dell' anima si può trarre la seguente dimostrazione
della sua semplicità.
Si parte dalla definizione dell' anima: « L' anima è il principio del
sentire e dell' intendere ».
Da questa definizione si raccoglie immediatamente che ella è semplice,
cioè si raccoglie che la moltiplicità , l' estensione continua e la materialità
non entrano nel concetto dell' anima.
Ora ogni ente ha le sue proprietà, e per esse egli è determinato e
distinto da ogni altro. Le proprietà, che specificano l' ente, non possono
essere comunicate ad un altro che non sia di quella specie; perchè in
tal caso le specie delle cose si confonderebbero, e le specie sono inconfusibili;
la loro distinzione si fonda nell' ordine intrinseco dell' ente, il
quale è eterno ed immutabile (1). Basta dunque provare che il concetto
dell' anima e il concetto della moltiplicità, dell' estensione e della materialità
sono concetti specificamente diversi per aver dimostrato che essi
si escludono, e però che l' anima non è nè molteplice, nè estesa, nè materiale.
E quanto alla moltiplicità , ella si oppone ad ogni sostanza
reale, perchè niuna sostanza reale può essere se non è una.
Quanto alla estensione continua , noi abbiamo veduto che ella non
si trova se non nel sentito e nel sensifero. Ma l' anima è il principio senziente,
e il senziente è un concetto specificamente diverso da quello del
sentito e da quello del sensifero. Dunque l' anima non ha estensione.
Allo stesso modo si prova che ella non ha alcuna materialità , poichè
la materialità del corpo consiste in quella forza che muta violentemente
il sentito, la qual mutazione solamente ci è nota. Ora la forza,
che muta ed altera violentemente il sentito, ha un concetto interamente
diverso dal sentito medesimo e molto più dal senziente, è forza bruta
opposta al sentimento. L' anima adunque, che è il principio senziente,
non ha da far niente colla materialità, è dunque immateriale.
Se si prendono altre proprietà dell' anima, come quella di
essere principio , si riesce alla stessa conclusione. Perocchè la natura del
principio esclude la moltiplicità, l' estensione e la materia estesa. Partendo
dall' identità dell' anima si ha il medesimo risultamento;
sicchè quante sono le proprietà dell' anima, altrettante sono le
prove della sua semplicità.
Finalmente si può provare la semplicità dell' anima da questo,
che ella è unica ragione sufficiente a spiegare le diverse sue operazioni,
e questo si ottiene in tre modi. Perocchè si può dimostrare che
semplice deve essere necessariamente il principio efficiente di tali operazioni:
1 dalla natura di esse , per l' opposizione manifesta tra l' esteso
e il principio che l' ha per termine; 2 dal loro modo , per l' opposizione
tra i fenomeni extra7soggettivi, che racchiudono il concetto di materia,
e i fenomeni soggettivi, che soli appartengono al soggetto senziente;
3 dal loro termine , per l' opposizione tra la moltiplicità dei fenomeni
soggettivi e l' unicità del loro principio.
Quante prove adunque non possono dedursi a conferma della semplicità
dell' anima!
Ciascuna operazione dell' anima, esaminata che sia diligentemente,
ne somministra tre; perocchè si può argomentare che l' anima è semplice
considerando la natura , il modo ed il termine di essa operazione.
E veramente, qualora sia dimostrato che una data operazione
non può essere prodotta che da un principio semplice, questo principio
già non può più contenere in sè stesso nulla che s' opponga alla
semplicità. Conciossiachè se ciò fosse, egli non sarebbe più il principio
di quella operazione, come si suppone che sia; giacchè semplice e non
semplice, ei non può essere ad uno stesso tempo. Di vero, si ponga che
quel principio abbia in sè qualche cosa di non semplice. Questo elemento
non semplice già non è più il principio di quell' operazione, ma
è altro. Dunque non è l' anima. Dunque basta un' operazione sola, a cui
sia necessario avere un principio semplice, a dimostrare che l' anima è
tutta semplice.
La dimostrazione della semplicità dell' anima, cavata dalle
operazioni intellettive, è assai facile ad intendersi da chi non ha la mente
preoccupata, perchè quelle operazioni si manifestano ad evidenza immuni
e pure da ogni concrezione materiale. Laonde anche gli antichi fisici,
che vestivano l' anima quasi di più camicie corporee di etere finissimo
conteste, non dubitavano di riconoscere la mente del tutto incorporea.
Perciò appunto, cominciando dal più facile, noi esporremo prima
le prove della semplicità dell' anima, che si traggono dalle operazioni
sensitive (1), le quali anche sole bastano a provare la semplicità dell'
anima umana.
Perocchè, qualora sia dimostrato che le operazioni sensitive
non si possono in alcun modo spiegare senza supporre che elle siano effetti
d' una causa semplice, rimane con ciò dimostrato che tutta l' anima,
a cui quelle operazioni appartengono, è semplice. Poichè, essendo il
primo principio sensitivo sostanzialmente identico nell' uomo col primo
principio intellettivo, se quello è semplice, deve esser semplice anche
l' anima umana, che è il primo principio del sentire ad un tempo e del
conoscere.
L' efficacia della quale maniera di argomentare è sentita da
Lucrezio stesso, laddove procaccia di volgerla a pro della mortalità dell'
anima intellettiva, deducendola dalla mortalità dell' anima sensitiva:
[...OMISSIS...] .
A cui noi rispondiamo che l' anima sensitiva, si moltiplica, non
muore, come vedremo; dunque neppur muore l' intellettiva. E con assai
più di forza noi argomentiamo così: quella è semplice; dunque anche
questa è semplice; o in altre parole, se l' anima sensitiva fosse estesa e
corporea, potrebbesi dubitare non forse l' anima intellettiva ricevesse da
essa qualche estensione e corporeità; ma essendo quella inestesa ed incorporea,
può bene starsene unita all' anima intellettiva siccome semplice
a semplice, senza che dalla loro unione e identificazione riuscir
possa nulla di esteso e di corporeo perciò.
Noi già dimostrammo altrove che le operazioni sensitive
addimandano un principio semplice, a tal che involgerebbe contraddizione
il farle produrre da un principio molteplice od esteso (1).
Ma essendo le operazioni sensitive di due maniere, cioè passive ed
attive , ci limitammo allora a dimostrare la semplicità dell' anima sensitiva
dalle operazioni passive del sentimento. Ora simili prove si possono
trarre dalle operazioni attive dell' istinto.
Le prove poi della semplicità dell' anima, dedotte dalle operazioni
tanto passive quanto attive dell' animale, si distinguono in tre
classi. Poichè rimane egualmente dimostrato che il principio senziente
è semplice:
Dal considerarsi che la sensazione dell' esteso7continuo in niuna
maniera può aver luogo, se non vi è un principio semplice, che abbracci
colla virtù del sentire in sè tutta l' estensione continua ad un tempo.
Dal considerarsi che i fenomeni extra7soggettivi del corpo, che
si manifestano sempre contemporanei alla sensazione, non hanno con
questa diversità ed opposizione,
e che mentre questi sono molteplici, quella che si suscita contemporanea
a questi è unica. Onde le azioni del corpo extra7soggettivo, come i
movimenti delle fibre, ecc., non possono essere la causa immediata delle
sensazioni, come anche vedemmo; ma possono essere solo fenomeni paralleli
ad esse o loro causa mediata.
Dal considerarsi che il principio medesimo di sentire prova
più sensazioni. Conciossiachè la sensazione del molteplice è inesplicabile,
se non si ammette un principio semplice, che abbracci in sè, per
la virtù del sentire, quelle varie modificazioni ad un tempo.
La prima di queste tre classi di prove distingue e separa al
tutto l' anima dal corpo soggettivo e dall' esteso; la seconda esclude dall'
anima ogni materialità propria del corpo extra7soggettivo; la terza
esclude dall' anima ogni moltiplicità .
Ed esse sono tutte suscettive di maggiore sviluppo.
Accenniamo soltanto lo sviluppo che si potrebbe dare alle due prime.
La prima prova cavata dalla natura del continuo fu già
addotta nell' « Antropologia »; ma ella potrebbe essere ampiamente illustrata
coll' autorità e colle speculazioni degli antichi sul bisogno di un principio
semplice, che contenga il corpo, acciocchè il corpo non si dissipi in
nulla.
E veramente, se questa è la proprietà del corpo esteso, che ogni
parte in esso assegnabile sia fuori dell' altra e sia dall' altra indipendente,
come non s' arriva mai ad assegnare una parte nel corpo, entro la quale
non se ne possano assegnare altre ed altre ancora, forza è che, se le parti
non sono unite e contenute da un principio semplice, egli divenga una
sostanza assurda, perchè è assurdo « ciò che non si può pensare », e nel
corpo non si trovano le prime sue parti esistenti in sè stesse; conciossiachè
in ogni parte assegnabile una parte minore è fuori delle altre tutte,
sicchè non resta più niuna parte estesa, che sia tutta in tutta sè. Non
rimangono dunque che i punti semplici, che sieno in sè; ma questi non
sono corpo, nè parti di corpo esteso, perchè non sono estesi; nè per conseguente
possono formare l' esteso, per quantunque si moltiplichino; perocchè
una somma anche infinita di enti, ciascuno dei quali ha un' estensione
eguale a zero, non può dare nel risultato che un' estensione zero.
Dunque l' esteso o non esiste, o se esiste, altrove non esiste che in un
principio semplice che lo raccoglie.
Questa era l' argomentazione ineluttabile dei Platonici di
Alessandria.
Ecco come la riferisce Nemesio: « « Contro tutti quelli che affermano
l' anima essere corpo, bastano quelle cose che furono disputate da
Ammonio, maestro di Plotino pitagorico. Ed elle son queste: I corpi di
loro natura si mutano, e affatto si dissipano, dividendosi all' infinito.
Dunque se in essi nulla rimane che sia immutabile, hanno pur uopo di
qualche cosa che li contenga e connetta, e quasi restringa insieme, e li
rattenga; il che noi chiamiamo anima . Il perchè, se l' anima è un corpo
qualunque, si finga pur tenuissimo, or di nuovo che cosa sarà ciò che lo
conterrà? Poichè abbiamo pure dimostrato che ogni corpo ha bisogno
d' un che, dal quale sia contenuto, e così all' infinito, fino che perveniamo
ad una qualche cosa, che sia al tutto priva di corpo »(1) ».
Chi è atto a sentire la forza di tale argomento, farà profitto applicandosi
alla filosofia; chi assolutamente non è atto a ciò, ne abbandoni
lo studio.
Non è però a credere che questa maniera di argomentare
appartenga all' età della scuola alessandrina; ella è una eredità, che
quella scuola raccolse dai primi filosofi italici.
Quando Senofane cominciò a parlare dell' unità come necessaria a
spiegare la natura di tutte le cose, certo è da credere non avesse ancora
idee distinte. Infatti Aristotele ci attesta che egli non ispiegò se parlasse
di un' unità di materia, o di un' unità di concetto (2). Ma
l' aver sentito così solo in generale e indistintamente il bisogno di ricorrere
ad una unità per dare consistenza alla natura, era già un travedere,
comecchesia, che il corpo non poteva essere senza qualche semplice che
lo contenesse.
A Senofane successero presso di noi Parmenide e Melisso, i
quali tennero il principio dell' unità; ma il primo poneva, come congettura
Aristotele, che l' unità procedesse dalla ragione, il secondo all' incontro
voleva trovarla nella stessa materia (3). Sembra dunque che entrambi
dimenticassero il senso , trapassando il primo fino all' intelligenza,
e fermandosi il secondo nella materia; e ciò perchè il senso e l' intelligenza
non erano ancora accuratamente distinti. Onde, mentre Parmenide
confondeva il senso colla ragione, Melisso lo confondeva colla materia;
ma entrambi travedevano pure il bisogno di un semplice per ispiegare
la natura. Ora poi, che Parmenide sotto la ragione comprendesse il
senso, vedesi da ciò che seguita in Aristotele, il quale dice che Parmenide
giudica ciò che è ente essere uno, e ciò che è non7ente essere nulla:
« Ma costretto a seguire quelle cose che appariscono, e stimando l' uno
essere per la ragione, e i più essere secondo il senso, pone di nuovo due
cause e due principŒ, il calido e il frigido , quasi dica il fuoco e la terra .
Ora di questi l' uno, cioè il caldo, lo pone coll' ente, l' altro poi col non7ente ».
Ora, come poteva dichiarare il fuoco condizione o proprietà dell' ente,
che è uno per ragione, se non considerando il fuoco, ossia il calore,
qual principio della vita prodotto in gran parte dalla respirazione
dell' aria, che viene scomposta al contatto del sangue con una operazione
simile a quella della combustione? Qui dunque si scorge manifestamente
che nel suo ente e nel suo uno secondo ragione, interveniva la vita animale,
ossia il principio sensitivo, che è quello appunto che per la sua
semplicità ed unità dà ai corpi l' essere uni, che è quanto dire l' essere
come tali qualche cosa, l' essere qual che sono, cioè corpi estesi.
Seguì a questi un altro lume della scuola antica d' Italia, Zenone
di Elea, i cui argomenti contro l' esistenza del moto chi ben li considera,
tutti vennero da questo principio: « l' esteso non ha alcuna unità
in sè stesso ». Se si prescinde adunque da un principio semplice, che contenga
e renda uno il corpo, niuno dei fenomeni riguardanti il corpo è
spiegabile, anzi è un complesso di contraddizioni e di assurdi (1).
A questo argomento, tratto dalla natura del continuo, è affine
quell' altro, tratto dall' esistenza dell' anima tutta in tutte le parti del
corpo, il quale è svolto da S. Agostino (2), da S. Tommaso (3) e da tanti
altri; nè i moderni hanno negato questo vero, se non perchè, abbandonata
l' osservazione interna e la deposizione della coscienza, soli autorevoli
testimoni quando trattasi di ragionare dell' anima, vollero andar
vagando per via di astratti ragionamenti, immaginando l' anima come
qualche tenue corpicciuolo, che dovesse aver sua sede in qualche determinata
parte del corpo. All' incontro è tanto lungi che l' anima, il
principio senziente, si limiti a dimorare in qualche punto determinato
del corpo, che anzi è evidente ch' egli è dappertutto là dove sente; perchè
la sua natura si riduce tutta all' atto immanente del sentire, senza
che vi si possa aggiungere alcun altro elemento, che sia straniero a quell' atto.
Ond' è che l' essere tutta l' anima in ogni parte del corpo dove sente,
altro non significa se non ricever ella ed avere il sentito in sè stessa; ed
è per ciò che questo argomento della semplicità del principio senziente
si riduce al primo dell' unità del continuo; perocchè il continuo non è
tale, se non perchè dimora nel semplice. Così concepì la cosa S. Tommaso,
che affermò costantemente: « « magis anima continet corpus et facit
ipsum esse unum , quam e converso »(4) ».
E un illustre padre della Chiesa, pur italiano del secolo VIII,
Paolino di Aquileja, scriveva la stessa cosa, dicendo che [...OMISSIS...]
(1).
Ora, venendo alla seconda delle prove indicate, quale evidenza
non potrebbe ella ricevere, qualora, approfittando dei lavori degli
anatomici e dei fisiologi, si volesse divisatamente raffrontare i fenomeni
extra7soggettivi (della materia) a quelli corrispondenti del sentimento,
facendone notare tutte le opposizioni? Darò un piccolo saggio di tale
confronto.
I nervi, ai movimenti dei quali risponde la sensazione, sono composti
di sottilissimi filamenti, detti fibre nervose, comunicanti a quando
a quando fra loro a foggia di plesso. Si ritiene ancora che ogni fibra nervosa
abbia una tonaca fina e trasparente, detta nevrilemma. Il fenomeno
adunque extra7soggettivo, che immediatamente precede od accompagna
la sensazione, non è il movimento di una fibra sola, ma di un fascetto
d' innumerevoli fibre. Se dunque la sensazione fosse l' effetto meccanico
e materiale del movimento, in tal caso la sensazione dovrebbe essere, o
almeno rappresentare, una moltitudine di movimenti diversi. All' incontro
la sensazione è unica. Dunque è necessario un principio semplice, nel
quale e in virtù del quale ella nasca, non potendo nascere nelle molte
fibrille scosse contemporaneamente con tanti distinti movimenti. Dunque
ella è frase del tutto inesatta, benchè ripetuta dall' eco di cento e
cento scrittori, questa: « le impressioni delle cose esterne, ricevute nelle
estremità nervose, si portano al cervello ». Che cosa sono queste impressioni?
Sono forse gli idoli di Epicuro? Niuno ritornerà a tali sogni; non
possono essere che movimenti. Ma i movimenti non si portano al cervello,
ma a lui si comunicano, il che è quanto dire si estendono lungo la
fibra nervosa fino al cervello. Si deve dunque una volta sostituire quest'
altra maniera di dire: « Tutta la fibra nervosa, o la sostanza nervosa
della fibra, si muove; e se il moto non continua fino al cervello, non si
ha sensazione »; certo l' impressione stessa non può essere portata, perchè
non è cosa che si porti, ella rimane dove fu fatta, nelle estremità,
essa non è che il principio, non è che la spinta ricevuta del moto. Ciò
posto, nel fenomeno extra7soggettivo, parallelo alla sensazione, altro non
si ha che moto longitudinale (si faccia questo mediante filamenti solidi
o liquidi, in modo meccanico o dinamico, ora è indifferente per noi) fino
al cervello. Ora la sensazione, che è il fenomeno soggettivo che vi corrisponde,
non presenta lunghezza, nè si sente nel cervello, ma nell' estremità,
a cui fu applicata la forza esterna. Il fenomeno extra7soggettivo
presenta dunque estensione, il soggettivo nessuna; il primo domanda
movimenti diversi in diverse parti, nelle quali non si manifesta alcun
fenomeno soggettivo. Questo dunque non è quello, nè è un mero effetto
materiale o immediato di quello, poichè in tal caso ne terrebbe la similitudine
e la natura; moto non può produrre che moto, se non vi è un
principio di tutta diversa natura, estensione non può dare che estensione.
I fenomeni extra7soggettivi sono ancora più complicati a
sentenza dei fisiologi. I nervi sensibili sono legati fra loro, hanno certe
dipendenze gli uni dagli altri, tolte le quali, non si manifesta più il fenomeno
della sensazione. Magendie trovò con replicate esperienze, che
la sensitività della testa, e particolarmente della faccia e delle sue cavità,
dipende dal quinto paio di nervi, di guisa che se questo nervo è tagliato,
prima che sorta dal cranio, la faccia nulla più sente. Di più, credette
aver dimostrato che la sede principale della sensorietà generale e dei
sensori speciali non è propriamente nel cervello, nè nel cervelletto, e
ne reca in prova questa esperienza: [...OMISSIS...] .
Un meccanismo ancora più
esteso e complicato si manifesta nei fenomeni extra7soggettivi, che precedono
od accompagnano il fenomeno soggettivo del vedere.
Ora, se a fare che sorga un' unica sensazione, qual' è quella della vista,
concorrono simultaneamente tanti organi diversi, è evidente che,
oltre questi organi, deve esservi un principio unico e semplice, nel quale
la sensazione stessa abbia esistenza; è manifesto che questo semplice
principio non può essere nè un solo di quegli organi, giacchè un solo
non produce la sensazione, nè tutti insieme, giacchè la sensazione è unica
e non molteplice. A tanti fenomeni extra7soggettivi, inerenti a diversi
organi come loro proprie modificazioni, corrisponde un solo fenomeno
soggettivo. Questo dunque deve avere un principio unico e semplice, che
riceve un' unica e semplice modificazione, parallela di quei molteplici,
distinti ed estesi movimenti.
Finalmente molti sono gli organi sensitivi, a cui corrispondono
speciali classi di sensazioni. Distrutto l' uno o l' altro di quegli organi,
cessa l' una o l' altra classe, non però tutte. Gli organi adunque servono
a fare che sorga la sensazione con certa indipendenza fra loro. Ma
il principio che sente è sempre il medesimo, sorgono in lui tutte egualmente
le sensazioni delle varie classi. Egli non può essere adunque un
organo speciale, nè la modificazione di un organo; ma deve esser tale
che risponda a tutti egualmente gli organi; e questo è il principio soggettivo,
a cui appartiene l' unicità e la semplicità, e perciò appunto essenzialmente
diverso dal principio extra7soggettivo, a cui spettano le proprietà
contrarie della moltiplicità e dell' estensione.
A queste prove della semplicità dell' anima sensitiva paragoniamo
alcune di quelle che ci hanno dato gli antichi, le quali tradotte
nel nostro linguaggio riceveranno forse nuova chiarezza.
Certo, quello che io ho detto fin qui non pretendo che sia nuovo,
anzi solo detto nuovamente affine di renderlo ai nostri contemporanei di
più facile intelligenza.
Una prova della semplicità dell' anima fu dagli antichi dedotta
dall' esser ella presente tutta in ogni parte del corpo, come abbiamo veduto
di sopra. [...OMISSIS...] ;
così Giovanni Massenzio (1).
Or questa prova è oltremodo calzante, quando sia provato che l' anima
veramente si trovi tutta in ogni parte del corpo per contactum virtutis .
Ma su questo appunto si mossero dubbi, i quali sgagliardirono nella
persuasione degli uomini quella prova. All' incontro, l' accurata disamina
della maniera colla quale l' anima sente, le restituisce, le raddoppia
il vigore. Da questa disamina ci risultò che l' estensione continua non
può avere la sua esistenza che in un ente inesteso. Non viene quindi che
l' anima sia tutta in ogni parte del suo corpo? Sì certamente; conciossiachè
anzi tutto il suo corpo sensibile, in quanto è sentito, è in lei come
in un principio semplice, per un rapporto proprio, che chiamammo di
« sensilità (2) », dovendosi di più avvertire che, come dicevamo, in un corpo
sentito soggettivamente si manifestano anche tutti i fenomeni extra7soggettivi
della vita.
Quindi è manifestamente l' anima, che dà al corpo vivente la sua
mirabile unità:
Aristotele argomenta la semplicità dell' anima dal conoscere
che ella fa tutti i corpi indistintamente (4). Perocchè - egli dice
- se ella fosse un corpo determinato, non potrebbe conoscere gli altri
corpi; argomento che così S. Tommaso espone: [...OMISSIS...]
Sul quale argomento furono dette dagli Scolastici le mille cose, e molti
lo vollero inefficace. Ma per noi egli diventa efficacissimo, solo che se
ne spieghi bene il fondo. Quell' argomento si deve prima di tutto volgere
a provare la semplicità del principio senziente, e non dell' intellettivo,
la quale viene appresso di conseguente, poichè il principio senziente è
quello che da prima percepisce i corpi reali, là dove l' intellettivo solo
li apprende ed afferma come sentiti. Se la percezione sensibile dei corpi
spiegar si potesse supponendo corporeo il principio senziente e percipiente,
l' operazione intellettiva che viene appresso non darebbe più fastidio,
ella riceverebbe la materia, tale quale le sarebbe data. Ora poi,
che il principio senziente non possa essere corporeo, si prova appunto
così: se egli fosse un corpo determinato, non potrebbe mai sentire l' estensione
nè propria, nè altrui, perchè non sarebbe tutto e il medesimo in
ciascuna parte, e però neppure niuno dei fenomeni che si manifestano
nell' estensione, il che è quanto dire non potrebbe sentire in modo alcuno.
Questa è appunto la prima prova, che noi abbiamo data della semplicità
del principio senziente (2); ed ella è irrepugnabile.
Dal sapere che l' anima sensitiva è semplice, procede che
ella sia indivisibile.
Alcuni Scolastici sostennero che le anime belluine fossero estese e
divisibili in generale (3); altri distinsero fra gli animali perfetti ed imperfetti,
e vollero estese e divisibili le anime di questi, le anime poi di
quelli, indivisibili. Lo stesso Suarez parla in più luoghi di anime divisibili.
Ora sembrami manifesto che tali autori vennero a sì fatta
opinione, unicamente perchè non considerarono che l' anima non è che
il principio del sentire (il principio senziente), e che al principio compete
essenzialmente l' essere semplice, altrimenti non sarebbe principio.
Vennero adunque in tale errore non per iscarsezza d' ingegno, chè alcuni
di essi l' ebbero squisitissimo, ma perchè il metodo
investigato non era stato ancora perfezionato nell' età in cui fiorivano.
Onde invece di esaminare l' anima direttamente coll' osservazione interiore,
si volsero a ragionare di essa senza averla bene osservata, applicandole
i principŒ generali dell' ontologia, della forma, della materia, ecc.,
i quali non si possono applicare ad un ente, che non ancora ben si conosca
prima di tutto per via di osservazione. Essi dunque urtarono in
quello scoglio appunto, nel quale vediamo rompere tutto dì i nostri
scrittori di metafisica, assai meno degni di scusa, assumendo di sciogliere
piuttosto la questione: « che cosa l' anima debba essere acciocchè soddisfaccia
ai loro principŒ ontologici »(che è quanto dire ai loro pregiudizi),
che l' altra, unica che il filosofo si deve proporre: « che cosa l' anima
sia »; traendo poi dal sapere che cosa ella è,
i veri principŒ ontologici
esprimenti l' ordine dell' essere in universale.
Già in antico s' erano fatte delle osservazioni sulla conservazione
della vita in corpi troncati o divisi in parti. Aristotele, grande osservatore,
ebbe distinti gli animali in perfetti ed imperfetti, e con somma
sagacità detto dei primi che erano « « quasi molti animali insieme annodati »
(2). » Aveva osservato ancora vivere lungamente le testuggini, a cui
sia estratto il cuore (1). Averroè riferì aver veduto un ariete camminare
con mozzo il capo, e, sulla testimonianza di Avicenna, un toro senza testa
aver dati due passi (2). Somiglianti fatti si trovano riportati altresì
da Tertulliano (3), da S. Agostino (4) e da altri.
Ora, se invece di osservare direttamente l' anima, come ci viene data
dalla nostra propria coscienza, noi vogliamo a tali fatti esterni ed extra7soggettivi
subitamente applicare un ragionamento ontologico, ci riuscirà
inevitabile il precipitare all' errore dell' estensione e della divisibilità
delle anime sensitive. Noi ragioneremo così: se un polipo diviso in parti
diviene più animali viventi, o l' anima prima s' è divisa ella stessa, od è
perita, e invece di lei due altre ne vennero infuse. Sono esse nate dalla
corruzione della prima? O uscirono dalla materia? O furono da Dio
create? Difficoltà senza numero; per uscir dalle quali nasce l' irresistibile
tentazione di dire quello che sembra più facile, cioè che la prima
anima si è bellamente divisa in due, ciascuna la metà della prima.
All' incontro, se si adopera l' osservazione, e da questa, unita
ad un accurato ragionamento, si trae che la sostanza dell' anima è riposta
nel principio di sentire, non è vero che in ogni animale il senziente deve
essere unico e semplice, e che tanti sono gli animali, quanti i principŒ
senzienti? Non s' intende subito che l' esteso non è che il sentito, e che solo
l' esteso è quello che si può concepire suscettibile di divisione? Non s' intende,
quindi, che se la divisione non può cadere che nell' esteso, ella di
conseguente non può concepirsi nell' anima, perchè l' anima è il senziente,
cioè l' opposto appunto del sentito? So che alcuni faranno le meraviglie,
e dall' imperfetta ontologia che invade le menti (perocchè ogni
uomo si crea un' ontologia sua propria, traendola dalla natura dei corpi,
come questi fossero i soli enti, da cui trarre la natura e l' ordine intrinseco
di ogni ente) si produrranno fuori molte obbiezioni, tutte comincianti
dalla frase: « Come può essere... ». Ma io rispondo che il non sapere
come una cosa possa essere, non fa ch' ella non sia, quando è data
dall' esperienza; rispondo quello che la diritta logica di S. Agostino rispondeva,
nello stesso argomento appunto in cui noi siamo, all' occasione
che, contro la semplicità dell' anima da lui difesa, Evodio opponeva il
fatto dei polipi recisi in brani tutti viventi.
Infatti le obbiezioni che si possono fare ad una verità, ancorchè
appaiano insolubili, non possono mai, secondo una buona logica,
distruggere quello che è direttamente e solidamente dimostrato. Che
anzi ogni dottrina eccellente, perchè profonda e recondita, presenta al
comune degli uomini le massime difficoltà; ma i savi o le sciolgono, o,
non riuscendo a scioglierle, conservano tuttavia la persuasione fermissima
di quel vero, che hanno da prima ben conosciuto.
E tuttavia chi trae la nozione dell' anima e delle sue attività
unicamente dalla coscienza e dalla osservazione interna, e ne raccoglie
i risultati imponendo silenzio ai presuntuosi pregiudizi, che mormorano
sempre nell' animo, troverà la cosa non tanto difficile
a concepirsi, com' ella sembra nel primo aspetto. Perocchè ne raccoglierà
quello che noi dicemmo, cioè:
L' esteso sentito non altrove poter esistere che nello stesso senziente
semplice ed inesteso.
Fra il senziente e il sentito, nulla cosa essere in mezzo, quindi
formar essi un unico e semplice sentimento avente quasi due poli, l' uno
inesteso, che è il principio, l' altro esteso, che è il termine.
Quindi l' inesteso senziente esser tutto in ogni parte dell' esteso
sentito, appunto perchè niuna parte potrebbe essere sentita, se ivi non
fosse il senziente; giacchè il senziente e il sentito formano un solo ed
unico sentimento (2).
Il senziente essere limitato dal sentito, che è il termine del
suo atto, sicchè dove è il sentito, ivi deve esservi necessariamente il senziente;
ma dove non è il sentito, neppure può essere il senziente, giacchè
il senziente non sente se non pel sentito; come il sentito non è sentito
se non pel senziente, come fu di sopra spiegato.
Sottostare, ossia aderire al sentito una materia corporea estesa,
a cui il sentito è legato e da cui dipende (1), sicchè se quella materia si
sottrae o si muta d' estensione, anche il sentito cessa o si muta d' estensione.
Potersi quindi un sentito esteso continuo dividersi in più
parti col dividersi della sua materia; e conseguentemente formarsi due
o più sentiti non aventi comunicazione fra loro.
Niuna ragione potersi trovare a priori, per la quale se il sentito
di una data estensione si divide in due o più, debbano cessare di
essere sentite, giacchè dalla quantità o figura dell' estensione non ha per
sè alcuna dipendenza il sentimento. Onde, come prima di dividersi un
sentito continuo in due, vi era in ogni punto dell' estensione il sentimento,
e quindi anche tutto il senziente, così anche in tutti i punti delle parti
divise e discontinue è naturale che rimanga un sentimento, e in ogni
punto di esse rimanga il principio senziente.
Ma poichè il principio senziente, benchè tutto esistente in
ogni parte di ogni continuo sentito, non è uno se non perchè è uno il
continuo e senza parti, quindi per la stessa ragione, dividendosi il sentito
in più continui, anche l' attività sensitiva si moltiplicherà; giacchè
l' attività sensitiva non risiede in un continuo solo, ma in più continui
disgiunti.
Questa moltiplicazione del principio sensitivo riesce difficile
ad intendersi, perchè facilmente la nostra fantasia immagina che
questo principio sia quasi un essere completo e sussistente senza il sentito,
come a dire un cotal minimo corpicciuolo.
Ma la cosa non è così. Conviene distruggersi
nella mente quell' essere fantastico, e concentrare l' attenzione nella
natura della cosa; considerare che in natura non v' è che il sentito, e che
al sentito come sentito è essenzialmente unito il senziente, e che questo
sente solo il continuo sentito, senza sentire sè stesso; perchè il sentito
animale non ha alcuna riflessione sopra di sè, che anzi
questo monosillabo sè non è affatto ad esso applicabile. Se quel principio
non sente dunque che il solo sentito, e egli è senziente solo in quanto
sente, non appare chiaro che, dato il sentito diviso in due continui, il
senziente sentirà due continui; ma non sentendo sè stesso, non potrà
conservare la propria identità nell' uno e nell' altro sentito, perchè divisi;
il che è appunto un moltiplicarsi?
Conviene dunque conchiudere che ogni anima sensitiva è
semplice ed indivisibile; ma che tuttavia ella è moltiplicabile .
Quando Trembley nel secolo scorso (1740) ed altri naturalisti
ricominciarono ad osservare ciò che avevano già osservato gli antichi,
cioè come le idrie ed altri polipi si moltiplicano per bottoni, che
su loro nascono spontaneamente e per sezioni sì naturali che artificiali,
trasecolarono di meraviglia, atteso l' imperfetto concetto che fino allora
si aveva della positiva natura dell' anima.
Noi abbiamo osservato nell' « Antropologia » (2) che la maniera
di propagarsi dei polipi non devia punto dalla legge comune della
generazione, la quale è un fatto egualmente mirabile in tutti gli animali
siano vivipari, siano ovipari, siano gemmipari, o fissipari, od atti a moltiplicarsi
in altro modo. E veramente ogni maniera di generazione avviene
sempre « mediante lo staccarsi di qualche parte viva dell' animale,
la quale anche staccata conserva la vita, e diviene un nuovo individuo
della stessa specie ».
Le differenze fra le varie maniere di generazione si trovano solo
nelle « diverse maniere di staccarsi dall' animale la parte destinata ad
essere un vivente da sè e a divenire un individuo perfetto della specie »,
e nelle varie condizioni che questo distacco addimanda; ma tali differenze
non sono che accidentali, e si verifica sempre la legge medesima,
che la generazione non è altro che « lo staccamento d' una parte viva dall'
animale, che si conserva viva e s' individua ».
Tutta la questione adunque si riduce a sapere « quali sieno
le condizioni necessarie, acciocchè una parte viva che si stacca dall' animale,
non perda la vita dopo staccata (1) e s' individui ». E noi crediamo
che anche queste condizioni nei diversi animali variano solo rispetto
agli accessori ed agli accidenti, ma si riducono sempre ad una condizione
sola, ad una legge sola specificamente la stessa, la quale noi altrove esponemmo
(2), ed è: « La vita si conserva nella parte viva staccata dall'
animale, ogniqualvolta in quella parte si rinviene una cotale composizione
di tutte le forze meccaniche, fisiche, chimiche, organiche e vitali,
per la quale la materia del sentire sia continuamente conservata in quel
suo stato nel quale ella trovasi idonea a fare l' ufficio di termine di quello
specifico sentimento , che costituisce appunto la specie dell' animale ».
Il termine variabile in questa formola si è « lo specifico sentimento
costituente la specie dell' animale »; e dalla variabilità di questo termine
si devono ripetere le varietà degli animali, e quindi anche le varietà, che
si osservano nella maniera di propagarsi.
Come adunque l' essenza dell' animale sta nel sentimento,
così la classificazione specifica e veramente filosofica di essi deve riconoscersi
nella varietà del loro sentimento fondamentale (3).
La varietà di questo sentimento si desume dai fenomeni
extra7soggettivi, che l' accompagnano, e che, sebbene non sieno immediati
effetti del sentimento, sono tuttavia fenomeni collaterali a quelli del
sentimento, e però segni dimostrativi di quello. Nondimeno, quanto all'
estensione , ella è identica, come dicemmo, sì pei fenomeni extra7soggettivi
e materiali che pei fenomeni soggettivi e sentimentali, poichè il
sentimento si diffonde in quello stesso spazio nel quale appariscono i
corrispondenti fenomeni extra7soggettivi (benchè ella si senta in modo
diverso); di che noi tirammo la conseguenza che una stessa forza produce,
agendo nell' anima, il sentimento, e agendo sopra sè stessa (sulla
materia del sentimento), produce i fenomeni extra7soggettivi.
Ora il fatto si è che, staccandosi certe parti vive dagli animali,
ora queste parti staccate diventano animali vivi, ora no, ma periscono.
Noi abbiamo riposta la cagione di tal differenza in questo, che
nel primo caso la materia del sentimento si conserva in quello stato normale
che è necessario, acciocchè ella possa essere termine di quel dato
sentimento animale; nel secondo caso la materia perde quello stato normale.
Ora lo stato normale consiste nella conveniente organizzazione, la
qual sia cotale che conservi l' unità del sentimento.
E qui si possono fare più questioni delicate ed importanti:
Come la materia vivente, staccata dall' animale,
perde quello stato normale d' organizzazione, che la rende atta a divenire
termine d' un unico sentimento? Prima che si staccasse ella aveva
certamente l' organizzazione necessaria perchè era sentita, e quindi in
essa era pure tutto il principio senziente, tutta l' anima, che è là dove
sente; ora, come può mantenere questa condizione anche una parte
staccata?
Rispondo, non potersi negare che una parte sentita, che si divide
dal corpo d' un animale abbia, per sè considerata, uno stato di organizzazione
conveniente ad essere sentita, e che niente può dimostrare che
lo perda colla sola circostanza della divisione dal resto del corpo. Ma è
da osservarsi che il principio sensitivo non sente solamente; ma è in una
continua azione, e produce continui movimenti nel corpo vivo da lui
sentito, di maniera che questo termine del suo sentire ha un continuo
movimento intestino, che, come dicemmo, pone il senziente in continua
eccitazione (1). I quali movimenti portano un' incessante mutamento
nella più intima organizzazione della materia, e la fanno
passare da uno stato ad un altro senza posa. Acciocchè dunque l' organizzazione
normale si conservi, debbono questi nuovi stati rimanere
sempre stati normali, a tal che il movimento si volga in circolo, ed alterando
l' organizzazione non la distrugga, ma la rinnovi, ovvero anche la
migliori. Ora, questi movimenti prodotti dall' anima sono di due maniere,
procedendo o da quello che abbiamo chiamato istinto vitale , o da quello
che abbiamo chiamato istinto sensuale (1). Ma i movimenti dell' istinto
sensuale pregiudicano in certi casi ai movimenti dell' istinto vitale , li
turbano, e così disorganizzano il corpo che l' istinto vitale tende ad organizzare
via meglio, sicchè diviene la prima causa della morte (2).
Di più, lo stesso istinto vitale, che è il principio organizzatore ,
deve sostenere una lotta colla forza bruta (3), i cui processi meccanici,
fisici, chimici, ecc., si operano senza alcuna posa a lato di lui e
indipendentemente da lui, e quindi talora procedono in direzione opposta
a quella organizzazione, che esso tende a comporre. Se i processi
di questa forza bruta sono contrari all' organizzazione, a cui tende
l' istinto vitale, si operano con più celerità
e veemenza che il processo organizzatore del detto istinto; è chiaro
che la materia perde l' organizzazione necessaria alla vita animale; e
questa è la seconda causa della morte .
La morte si deve sempre ripetere dall' una o dall' altra di queste due
cause.
Applicando dunque queste teorie al fenomeno della morte
in generale, s' intende perchè alcune parti, staccate vive dal corpo vivente,
muoiono in brevissimo tempo, altre, anche dopo staccate, continuano
a dimostrare i fenomeni della vita per un tempo considerabile
più o meno lungo, ma finalmente vanno a morire; perchè alcune parti
lentamente muoiono rimanendo unite all' intero corpo vivente, succedendo
in esse quei processi di alterazioni intime, che le conducono alla
morte, come avviene nelle cancrene, nelle paralisie; perchè alcune malattie
(e tutte le malattie non sono mai altro che una serie dei processi,
di cui parliamo) conducano il corpo intero alla morte, ed altre lo conducano
alla sanità; s' intende finalmente perchè alcune parti staccate
dall' animale rimangano costantemente vive, rifacciano quella parte di
organizzazione che loro fu tolta; ovvero se l' hanno già intera, la sviluppino
e la perfezionino; al qual ultimo caso viene dato il nome di generazione .
S' intende ancora perchè avvenga anche il caso che, staccandosi
dal corpo alcune parti, queste vivono, laddove il corpo, da cui si sono
staccate, va a morire. Così l' ape maschio dopo fecondata la femmina,
nella quale lascia infitti i propri organi generativi, va a morire. Muoiono
pure dopo la fecondazione moltissimi insetti, come lo scarafaggio, la mosca
effimera, la cocciniglia, ecc.. In questo caso nelle parti staccatesi, che
compongono un nuovo individuo, succedono processi atti a conservarle
vive; e nell' animale generatore succedono per le stesse cagioni processi
più o meno rapidi, che lo conducono alla morte.
Ma rimane a vedere perchè l' istinto vitale
non s' accontenti di qualsiasi materia, ma la esiga organata in una data
guisa affine di mettere in atto il sentimento animale; ossia, che è il medesimo,
perchè il termine del sentimento debba essere piuttosto un aggregato
di materia che un altro, una scelta, un tessuto che un altro.
Se è vero che nell' animale l' anima è la sola forma sostanziale del
corpo, se è vero che il sentito (corpo) esiste per la virtù del senziente
(anima), se è vero che il sentimento costituisce l' animale in essere, deve
esser vero altresì che lo specifico sentimento fondamentale sia quello, in
cui si deve cercare la ragione, che rende necessario uno specifico organismo
dell' animale, e non la materia quella che contenga la ragione delle
varie specie di sentimenti. Mi
spiego. Qualora l' aggregato della materia fosse quello che determinasse
il sentimento complessivo, dovrebbe avvenire che ad ogni frazione di
materia corrispondesse un sentimento unico complessivo7animale. Ma
se il sentimento è quello che determina la frazione ed aggregato della
sua materia, queste frazioni ed aggregati saranno tanti e non più, quanti
possono essere i sentimenti fondamentali di cui parliamo.
Rimane dunque a domandare: perchè i sentimenti fondamentali,
costituenti altrettanti animali, sono certi e determinati, e non
tutti quelli che si possono concepire?
In questa inquisizione ci aiutano i dati dell' osservazione ed esperienza
interiore, che si debbono accuratamente raccogliere.
Uno di questi dati si è che il sentimento dell' animale riceve uno
stato più o meno soddisfacente dallo stato del corpo, come pure secondo
la condizione, le variazioni, i movimenti che accadono in questo, prova
piaceri o dolori.
Di che si raccoglie che ogni sentimento fondamentale ha in sè certe
leggi, per le quali si modifica, ricevendo ora un moto di perfezione,
ora un moto di deterioramento. Se un sentimento fondamentale
è suscettivo di un modo di perfezione, la sua azione tenderà a
conseguirlo, e ad allontanarsi dall' estremo opposto. Questo modo o stato
perfetto del sentimento è certamente cosa che si avvera in lui, e non
fuori di lui; onde il principio vitale ed il sentimento stesso, supponendolo
attivo, supponendolo in una continua tendenza ad atteggiarsi ed a
comporsi nel suo modo di essere più perfetto, più naturale, più soddisfacente,
muoverà e modificherà incessantemente il sentito; e muovere
e modificare il sentito viene al medesimo che muovere e modificare il
corpo, e per conseguenza la materia che vi soggiace. Così il principio vitale
e senziente affine di porsi nello stato suo più naturale, nel suo modo
più grato di essere, atteggia, compone, raffazzona sè medesimo; e con
questo sforzo organizza la materia in cui opera, o a cui può stendere per
la contiguità la sua operazione, o certo tende a sottometterla, ad organizzarla
come più gli è grato. Quindi nel sentimento fondamentale, dove
giace l' attività animale, si deve cercare lo stampo della specie, la forza
plastica e la ragione, che fa che ogni animale riproduca un altro animale
simile a sè.
E` così che noi intendiamo e spieghiamo la vis essentialis di
Gaspare Federico Wolf (1), l' epigenesi di Aristotele, di Galeno, di Cartesio,
d' Harvey, di Giovanni Tuberville Nèedham e di Müller; il nisus
formativus di Blumenbach, di Barthez e di altri; le forme plastiche di
Cudworth; l' attrazione delle parti e la superstruttura degli organi di
Maupertuis; il potere di creare e di organizzare il feto, che lo Stahl dà
all' anima; l' archeo e lo spirito formatore di Van7Helmonzio. Certo, questi
autori non vanno appieno d' accordo, e spesso dicono cose manifestamente
false, ed adoperano sovente delle maniere al tutto improprie di
spiegare il loro pensiero (a ragion d' esempio l' anima seminale da Van7Helmonzio
collocata nella matrice); ma tutti convengono in una verità
innegabile, la quale si è che nella natura v' è un principio organizzatore.
Ora questo è ciò che noi crediamo di vedere nel principio vitale e
nell' istinto sensuale operante d' accordo con quello (1).
Non si può negare essere un fatto, che il
sentimento dell' animale abbia vari stati piacevoli e dolorosi con una
gradazione e varietà di piacere, e con una gradazione e varietà di dolore.
Neppure si può negare che sia un fatto esibitoci dall' esperienza, che ad
ogni stato del sentimento animale corrisponda una condizione del corpo,
che è suo termine. Che anzi lo stato del sentimento animale, venendo
sempre determinato da ciò che sente, e non sentendo quel sentimento
mai altrove che nell' esteso corporeo, è manifesto che dalle condizioni
di questo esteso corporeo, cioè del sentito, deve dipendere il trovarsi
bene o male il principio senziente. Finalmente neppure si può negare
che nel sentimento giaccia un' attività, e che questa cerchi di raccorsi ed
acconciarsi seco stessa nel modo più grato e però a lei più naturale, e
quindi ch' ella operi conseguentemente nel corpo, suo termine; la quale
attività è poi anche quella che produce tutti i moti dell' animale, e che
fa, a ragion d' esempio, che un insetto collocato supino cerchi a tutta
possa di raddrizzarsi, e ricollocarsi nella postura sua naturale. Questi
tre fatti non si possono negare. Ma rimane dopo di ciò a investigare quale
sia la ragione, per la quale un sentimento animale abbia uno stato soddisfacente,
e ne abbia altri meno soddisfacenti, ed altri ingrati più e più,
e finalmente perchè cessi d' esistere.
Se noi consideriamo il sentimento fondamentale e sostanziale
come un ente specificamente determinato, non si potrebbe fare altra
risposta alla questione che si propone, se non che la ragione dei suoi diversi
stati grati ed ingrati giace in lui medesimo, è la legge di sua natura,
procede immediatamente dall' ordine intrinseco di sua costituzione. Ogni
ente ha un ordine interiore, e la ragione ultima di quest' ordine si rifonde
nell' ordine intrinseco dell' essere essenziale; questo essere essenziale
e il suo ordine è il fatto primo, che contiene la ragione ontologica
sufficiente di tutti gli altri fatti, al di là del quale non si può cercare altra
ragione di sorta.
Ma poichè il sentimento animale, benchè uno e semplice nel
suo principio, porge all' osservazione ed all' analisi una sua propria moltiplicità
e composizione, risultando da certe intime azioni e passioni,
perciò rimane ancora aperto qualche adito a ricercare nell' interna costituzione
di lui la ragione dei suoi accidenti e delle sue vicende. Tentiamo
dunque di spiare, se ci riesce, la natura, quasi riguardandola per le
fessure.
Io suppongo qui come certi questi principŒ:
Il sentimento animale è per la sua essenza
piacevole, è l' attività di godere; sicchè egli ha tanto meno di sua propria
entità, quanto ha meno di attività di godere (attività di godere equivale
a godimento fondamentale).
Il sentimento, l' attività di godere, ossia il godimento
fondamentale, può essere diffuso più o meno equamente in un continuo,
e può essere più o meno quasi addensato in un punto fisico del detto continuo,
o in più punti, quasi centri del godimento e dell' attività, sia mediante
un eccitamento incessante, sia in altro modo. Essere il godimento
fondamentale accentrato e condensato equivale a dire essere più intenso
e vivo in un luogo che in un altro.
Quanto più il godimento fondamentale e continuo è
intenso, ha anche tanto più di attività istintiva.
Negli animali più perfetti il godimento fondamentale è più
accentrato e più intenso, e più molteplici sono le funzioni della vita;
all' opposto negli animali imperfetti il godimento primitivo e fondamentale
è meno accentrato, più sparso uniformemente, o invece d' un centro
solo ha più centri, e quindi anche l' attività, le funzioni e i segni della vita
sono più scarsi e meno osservabili. Dall' essere il godimento primitivo e
fondamentale più o meno accentrato, più o meno intenso, io stimo che
nasca la differenza specifica del sentimento fondamentale costituente
l' animale; e quindi la base di una distinzione filosofica delle varie classi
o specie di animali.
Ai diversi sentimenti fondamentali risponde nel mondo
extra7soggettivo una diversa scelta di materia, una diversa elaborazione
di essa, una diversa primitiva organizzazione. Se la materia conveniente
viene sottratta, o se non viene convenientemente elaborata, o se l' organizzazione
opportuna si scioglie, il sentimento fondamentale soffre più
o meno, e anche cessa, cioè si dirompe in più sentimenti perdendo l' unità
del suo termine.
Presupposto tutto ciò, io stimo che l' agglomeramento specifico
del sentimento, posto dalla natura nel primo istante in cui l' animale
esiste (o almeno il sentimento considerato secondo il suo tema),
non può mai essere accresciuto dall' attività propria dell' animale; ma
che questa attività tutta si volge a conservarlo lottando colle forze contrarie.
Questa attività tende ancora a procacciarsi delle sensazioni piacevoli
transeunti (istinto sensuale); ma queste sensazioni non fanno già
che il sentimento fondamentale si agglomeri maggiormente in qualche
punto, non sono che atti secondi passeggeri dello stesso sentimento.
E` bensì vero che l' animale si sviluppa; ma io considero
questo sviluppamento come effetto di quella attività, per la quale egli
tende a conservarsi (istinto vitale), a conservare il tema del suo sentimento
fondamentale , associata con quella per la quale tende a procacciarsi
sensazioni passeggere (istinto sensuale), senza che il fine diretto,
a cui tendono queste due attività, sia lo sviluppo e l' ingrandimento. Volendo
il sentimento fondamentale conservarsi secondo il suo tema, e volendo
emettere i suoi atti, cioè le sensazioni passeggere, accade che non
possa farlo senza quei movimenti vitali, i quali per un po' di tempo lo
sviluppano e perfezionano; ma, passato il periodo della sua perfezione,
lo fanno anche decadere ed invecchiare, sicchè lo sviluppo ed il decadimento
sono sequele naturali dell' uso dell' attività vitale e sensuale, non
il prossimo fine in cui tendono questi due rami dell' attività animale.
Si potrebbe anche concepire il pieno sviluppo dell' animale
come stato di massima perfezione, e supporre che solo in tale stato il
sentimento fondamentale sia giunto alla massima sua intensità, secondo
il tema suo naturale. In tal caso converrebbe assumere per tipo costante,
ossia stampo specifico dell' animale, la proporzione nella quale il sentimento
è compartito nei diversi punti del suo termine , e quindi l' indole
e il carattere dell' armonia di azione propria dell' animale. Poichè dove
il principio senziente è unico, unica certamente e tutta armonica è questa
azione, che si origina nel sentimento. Ma essendo maggiore l' attività
dell' animale dove è maggiore il sentimento, se il sentimento ha un centro
solo, avrà un centro solo anche questa azione, e se il sentimento ha
più centri, anche l' attività animale avrà più centri, e così nei vari punti
del sentito vi sarà attività maggiore o minore, secondochè vi è maggiore
o minore sentimento; dove si parla sempre di sentimento d' eccitazione,
che suppone dinanzi a sè il sentimento della continuità. Onde, rimanendo
eguale questa proporzionata distribuzione di sentimento, rimarrà
sempre eguale il carattere dell' armonia dell' attività animale in
tutti gli stati che l' animale prende successivamente sviluppandosi. E
questo carattere costante di armonica attività può essere quello che costituisce
la specie dell' animale.
Ora poi, pigliando questa proporzionata distribuzione di
sentimento e di attività pel carattere che contraddistingue la specie, è
necessario riconoscersi come legge costante che l' attività animale, almeno
se non è perturbata da forze ed accidenti stranieri, non tende a mutare,
nè a migliorare questa distribuzione caratteristica e primitiva di sentimenti
e di attività, ma a conservarla e giovarsene cavandone piacevoli
sensazioni; ma ne consegue in appresso la mutazione, quasi direi praeter
intentionem .
La qual legge riconosciuta, se ne hanno i seguenti corollari:
I Che ogniqualvolta il principio senziente ed attivo, tendente a
conservare il tema del sentimento fondamentale ed a godere da lui speciali
sensazioni, opera nella materia, o questa gli resiste e si sforza di
sottrarsene colle sue forze meccaniche, fisiche, chimiche, ecc., ovvero gli
ubbidisce e cospira in qualche modo con esso. Nel primo caso nasce il
fenomeno del dolore, che è la lotta del principio senziente colla sua materia
e l' incipiente prevalere di questa, onde il principio senziente rimane
frustato nella sua tendenza, e il sentimento viene posto in una condizione
contraria alla sua natura, che è essenzialmente quella di godere;
rimane allora il sentimento mozzato, minorato, o affaticato nel suo conato
incessante di giungere a ciò a cui non può giungere; quindi si rattrista
e addolora. Se poi la materia ubbidisce, cospirando le forze brute
al fine del sentimento, hanno luogo in esso i contrari effetti.
II Che se poi il sentimento fondamentale perde nella lotta
talmente da deteriorarsi pur in ciò che forma la sua specie, se la condensazione
specifica del sentimento e l' attività armonica conseguente si
rende impossibile, quel sentimento specifico diviene impossibile del pari,
il che è quanto dire l' animale muore.
III Ma se vi fosse un animale, il cui carattere specifico
fosse la diffusione del sentimento al tutto equabile senza condensazione
di sorte, dovrebbe moltiplicarsi in tanti animali, quanti fossero i brani
che di lui si facessero, giacchè in ciascuno vi sarebbe l' equabile distribuzione
del sentimento, che costituisce la specie di quell' animale. S' intenderebbe
altresì come il principio vitale potrebbe facilmente rimarginare
le ferite, date almeno le condizioni esterne necessarie in ogni caso alla
sua nutrizione.
IV Procede ancora, che gli animali nei quali il sentimento
è accumulato in molti centri con una intensità eguale, si debbano facilmente
moltiplicare tagliandoli, o riprodurre a guisa di gemme, conciossiachè
rimane in ciascun pezzo maggiore o minore numero di questi centri;
onde la legge della loro azione armonica e la proporzione, nella
quale il sentimento è compartito, rimane la medesima. Il che spiega la
moltiplicazione degli animaletti infusori, nè fa più meraviglia la strana
maniera di moltiplicarsi di quel tricode, dal Müller denominato Caron,
il cui ventre si rigonfia come una bolla prima trasparente e poscia opaca,
scoppiando in fine con tanto impeto da far saltare l' animaluccio in più
di cento pezzi, ciascuno dei quali diviene un tricode perfetto (1). E
non dissimile a questa nostra è la ragione, che dà S. Tommaso della moltiplicazione
per taglio degli animali anellati. [...OMISSIS...] .
V Che se poi la sequela dei movimenti vitali e sensuali, che
l' attività animale produce in sè, fosse di mutare il centro del sentimento,
o la sua intensione, il suo tema, dovrebbe vedersi un cangiamento totale
nella organizzazione, e un animale cangiarsi in altro senza morire. Il che
è appunto ciò che accade in certe specie viventi, come nei vermi che
passano a stato di crisalide, e poi di farfalla.
Ma il VI importantissimo corollario, che viene dalla precedente teoria,
si è la possibilità della generazione spontanea, di cui parleremo nel
seguente capitolo.
Apparisce da quanto è detto che, se fosse verificato quel
modo di generarsi tanto asserito dagli antichi, tanto negato dai moderni,
chiamato da quelli per putrefazione, da questi generazione spontanea,
esso rientrerebbe nella stessa legge universale, che presiede alla moltiplicazione
degli animali.
Allorquando il sentito, e di conseguente la materia del corpo animale,
venendo meno l' organizzazione, non potesse più conservare l' unità
del sentimento, nè il carattere specifico dell' armonia delle sue azioni,
avverrebbe in queste tale discordia, che invece di cospirare tutte al mantenimento
dell' unità del sentito, divergendo le une dalle altre, ciascun
centro intenderebbe a costituirsi da sè stesso.
Ora, questa intima lotta nelle varie attività del sentimento, sorgente
quasi in tutti i punti dell' esteso sentito, questa disunione e dissoluzione
di esse, come spiegherebbero il fenomeno della fermentazione putrida,
così pur spiegherebbero la formazione dei minimi animali, che ne seguiterebbe.
La qual maniera di moltiplicazione differirebbe poi dalle altre
tre o quattro solo in questo, che mentre le altre propagano l' animale della
stessa specie o lo trasformano, questa discioglie l' animale per comporne
altri d' altra specie coi suoi squarci e brandelli, vera generazione
equivoca.
Alla metà del secolo scorso, un sacerdote cattolico in Inghilterra
riprodusse l' opinione della generazione spontanea, e tolse a provarla
con esperimenti microscopici (1).
Da quell' ora molti naturalisti la sostennero, fra i quali Vrisberg,
Ottone Federico Müller, Ingenhous, Bloch, Lamark, Treviranus, F. Meckel,
Rudolphi (2), Bremser, de Blainville (3), Fray (4), Carlo Federico
Burdach, Dellechiaje (5), ecc.; in una parola ella oggidì è divenuta
quasi opinione comune fra i naturalisti (6).
In una nota, posta ai « Nuovi Elementi di Fisiologia » di Richerand,
così si parla degli animali infusori: « « Questi esseri viventi, che l' occhio
non può ravvisare senza l' aiuto del microscopio, sembrano il prodotto di
una generazione diretta o spontanea. La natura per mezzo del calore e
dell' umidità dà loro la nascita; noi non sappiamo in che modo ella vi
impieghi certi fluidi imponderabili, come il principio della elettricità;
nonostante è molto probabile che una piccola massa gelatinosa possa, per
la riunita influenza di tali cause, trasformarsi in un tessuto cellulare organizzato
e vivente. Ecco senza dubbio in qual maniera si formano le
monadi, e quella folla di animaletti microscopici, che pullulano e si agitano
con tanta attività in seno di un' acqua stagnante. Il calore della
estate sembra indispensabile alla loro produzione, perchè essi non si
ravvisano più in tempo freddo. I tempi burrascosi ne favoriscono pure
la moltiplicazione. Come il professore Lamarck ha molto bene osservato
nella sua Filosofia Zoologica , tomo 2, i moderni sembrano avere
rigettate troppo assolutamente le opinioni degli antichi rispetto alle generazioni
spontanee; senza dubbio dal seno di un toro putrefatto non
potranno uscire animali così composti come le api; ma non è a dire lo
stesso di quegli esseri che presentano un primo abbozzo di organizzazione.
Le monadi fra gli animali infusori, il byssus nelle prime famiglie
delle alghe, sembrano il prodotto immediato del calore umido, avvalorato
dalla influenza dell' elettricità »(1) ».
La generazione spontanea parve ai materialisti una prova
del loro sistema. Mossi da questo secondo fine, la sostennero acremente,
e cantarono vittoria (2).
Per la stessa ragione, quelli che ammettevano la spiritualità dell'
anima presero ad impugnarla.
Erravano gli uni e gli altri. Perocchè se il fatto della generazione
spontanea si riscontra veramente nella natura, non si deve certo
dire, come disse Cabanis, che la pura materia da sè stessa passa alla vita
(3); ma si deve anzi dire che dunque ella viveva, e che il principio di
vita che era in essa, operando nella sua materia, produsse l' organismo.
Laonde questo gran fatto sarebbe prova evidentissima d' un principio
immateriale.
Un medico recente della scuola di Broussais, dopo avere
indicato il problema proposto da Becquerel: « « Come si effettuò il passaggio
dalla natura inorganica alla natura organica »(1) », dice: « « Le generazioni
spontanee potrebbero non poco aiutare la soluzione del problema;
poichè se fosse vero che la materia morta può colle sue proprie
forze vestirsi di organizzazione, la questione sarebbe sciolta in gran
parte »(2) ». Ma le generazioni spontanee non dimostrerebbero mai che
la materia fosse morta; anzi dimostrerebbero chiaramente ch' ella sarebbe
viva (3).
Basta dunque fissar bene il concetto di corpo e di materia;
quello e questa non sono che il termine del sentimento. Tale è l' unica
idea che ne hanno gli uomini, e non ne possono aver altra, se non giocano
d' immaginazione. Ora il termine del sentimento richiede il principio
senziente, e questo non può essere che al tutto semplice, perchè se
fosse esteso, sarebbe termine. La questione adunque è ridotta a cogliere
l' idea di corpo e di materia in quell' istante in cui l' uomo l' acquista, prima
che egli stesso la alteri colla sua immaginazione; e la questione posta
così chiaramente è tosto finita, perocchè ne risulta che dappertutto dove
vi è sentimento, ivi vi è un' anima essenzialmente semplice.
Nel libro, che contiene le più antiche origini delle cose mondiali,
Iddio comanda alla terra di germinare i vegetabili prima ancora
che risplendessero il sole e la luna. Posti questi due luminari nel cielo,
Iddio comanda alla liquida sostanza di produrre i rettili, i pesci, gli uccelli;
e l' acqua e l' aria furono popolate. Appresso comanda ancora alla
terra di produrre i giumenti, i rettili della terra, e le bestie secondo le
loro specie; e la terra ubbidisce (4).
Se ne indurrà forse che le sostanze materiali, che al cenno di Dio
producono gli animali, fossero al tutto prive di vita? Sarebbe indurne il
maggiore assurdo, e al tutto gratuitamente. Anzi lo stesso Mosè dice che
fino dalla creazione della materia lo spirito di Dio fecondava le acque
(1). Questo spirito di Dio venne inteso da qualche antico padre per
lo spirito della vita animatore delle cose.
La ragione poi, perchè si dice fecondare le acque, cioè la
materia liquida anzichè la solida, si trova osservando che solo la materia
sottile è atta alla generazione spontanea degli animali, e noi ne daremo
una ragione più sotto.
S. Teofilo, che fu innalzato alla cattedra antiochena nell' anno
16., dichiara che Mosè « « per lo spirito che spaziava sulle acque
intende quello che Iddio diede alle creature per la generazione dei viventi,
come l' anima all' uomo, congiungendo tenue con tenue (perocchè
tenue è lo spirito, e tenue l' acqua) acciocchè lo spirito fecondasse l' acqua,
e l' acqua insieme collo spirito, pervadendo ogni cosa, fecondasse la
creatura »(2) ». Una testimonianza tanto antica è una grave autorità.
Ora, che la sostanza materiale così fecondata possa dal principio
vivente essere organizzata in varie forme secondo le circostanze,
questo non è materialismo.
Quando Cuvier, studiando le ossa fossili, trovò tante specie di animali
intieramente perdute, il paleoterio, l' anoploterio, l' antracoterio, il
plesiosauro, il megalosauro, il pterodactilo, l' ichtiosauro, ecc., fu detto
che la temperatura del globo, la fecondità della terra, le circostanze influenti
sull' organizzazione dovevano essere diverse dalle presenti. S' immaginò
ancora che quelle specie perdute, così diverse dalle presenti, fossero
il prodotto della terra dotata di altra virtù, in altre circostanze atmosferiche,
ecc.. Qualunque opinione s' abbracci sopra di ciò, ella sarà
falsa quanto si voglia; ma non cadrà mai a favore del materialismo. Perocchè,
quand' anche dal suolo uscisse fuori composto d' un tratto un mastodonte
o un rinoceronte, nient' altro se ne potrebbe ragionevolmente
indurre, se non che un principio vitale era nel suolo, ed egli fu l' occulto
organizzatore di quei grandi corpi.
Dalle cose precedenti il lettore può raccogliere che la vita,
l' anima sensitiva, si può trovare unita alla materia anche quando non
apparisce con fenomeni esterni extra7soggettivi. Noi vogliamo in questo
capitolo proporci l' ipotesi che il senso si trovi unito a tutti i primi elementi
della materia, ed esaminare se una tale ipotesi trarrebbe dopo di
sè funeste conseguenze.
Intanto una tale ipotesi può essere certamente falsa; onde
ella deve essere verificata colle esperienze di fatto le più accurate, prima
che si ammetta.
Del resto noi non vediamo ancora alcun argomento che ce la provi
assurda; e d' altra parte ci pare che a torto, facendole aggiunte arbitrarie
che la snaturano, si pretese adoperarla a sostenere ora il materialismo ,
ora il panteismo .
Quanto al materialismo, è evidente che in nessun modo si
può trarlo legittimamente da essa, sol che si consideri che se ogni elemento
materiale ha seco congiunto un sentimento, l' elemento esteso non
può essere che il termine di questo sentimento; il quale sentimento d' altra
parte esige un principio semplice come suo essenziale costitutivo.
Quanto al panteismo, è al tutto indifferente l' ammettere che
le sostanze animate, che si trovano nell' universo, sieno più o meno,
siano alcune o siano anche tutte; purchè si conceda che sono create e
però al tutto distinte dal Creatore, il panteismo rimane escluso.
In secondo luogo non si deve confondere l' ipotesi che dà il
sentimento ai primi elementi della materia, coll' ipotesi dell' anima del
mondo concepita dagli antichi. Neppure questa seconda adduce di necessità
il panteismo, per quantunque erronea, purchè sia convenuto che
quest' anima è creata. Ma quella dell' animazione dei primi elementi importa
di più, che le anime possano essere molte, quanti sono gli elementi
separati o i gruppi di essi. Essendo dunque queste anime individualmente
distinte, e in ogni caso atte ad essere distinte e moltiplicate per via
di separazione, non potrebbero giammai confondersi colla divina sostanza
semplicissima com' ella è, e in nessuna maniera moltiplicabile.
In terzo luogo il sentimento corporeo è affatto distinto dall' intelligenza;
egli è cieco. Iddio all' opposto è intelligibile ed intelligente
per propria essenza, onde non può essere in alcun modo confuso con
un' anima sensitiva.
In quarto luogo l' anima sensitiva non è che il principio senziente,
e la materia è il suo termine, opposto a quello per natura. Queste
sono due nature diverse; è dunque impossibile ridurre tutte le cose
ad una sola natura o sostanza, come fanno i panteisti.
Acciocchè dunque taluno dall' animazione degli elementi
creda poterne cavare il panteismo, egli deve: 1 confondere ciò che è
contingente con ciò che è necessario; 2 confondere ciò che è moltiplicabile
con ciò che è immoltiplicabile; 3 confondere il senso coll' intelligenza,
cioè essere sensista (1); 4 confondere il principio senziente col
suo termine sentito, perocchè il panteismo non è veramente altro che la
confusione assoluta, onorata del titolo di sistema.
La sintesi nella mente umana precede la distinzione
dei concetti, come il caos nella creazione precede la distinzione
delle parti dell' universo. Quindi non è meraviglia se il panteismo comparisca
negli esordi di tutte le filosofie. Non è già che la confusione sia
naturale all' umana mente; a questa è naturale solamente da principio
il pensare per via di grandi generalità, e il percepire le cose reali come
una cosa sola variegata, per così esprimerci. Ma quando l' uomo con questi
primi e poveri materiali si fa a comporre un sistema filosofico, allora
gonfio e presumente di sua impresa, corre precipitoso all' errore, inventa
il panteismo. Pure, come ogni errore trae l' origine da qualche verità,
non sarà disutile meditare sui traviamenti dello spirito umano, specialmente
affine di riconoscere in che parte si manifesti un consenso od una
pendenza di tutto il genere umano, la quale può essere indizio e carattere
di verità. Ora non si può negare che sempre e dovunque si manifestò
un' inclinazione grandissima nelle menti a supporre animata la
materia, benchè un tale concetto sia stato infarcito di mille errori.
L' India, dove la vita in tutti i regni della natura apparisce
così feconda, infaticabile, rigogliosa, doveva essere il paese, in cui più
facilmente che altrove s' immaginasse che tutta la natura fosse animata.
Di più l' animazione si riputò, come a sua causa, ad uno
spirito universale. Questa unità della vita, intesa in un senso, non sarebbe
aliena dal vero; è il pensiero dell' Oriente. Nelle scritture stesse
si parla di « « uno spirito di vita » », che anima tutto ciò che ha vita (1).
Infatti, ammesso che la vita sensitiva si moltiplichi collo spezzarsi
dei continui viventi, chi non intende che tutta la materia viva si può
concepire unita ed organata, e così animata quasi da un' anima sola?
Ma tostochè si perde di vista il fatto della moltiplicazione di quest'
anima colla divisione del suo termine, tostochè si pretende che l' anima
conservi la sua unità anche quando i continui sono così divisi, e non
hanno più alcun contatto fra loro, allora si è caduto in errore, perchè
si è sconosciuto il fatto della moltiplicabilità dell' anima e della pluralità
delle anime.
A questo primo errore i filosofi delle Indie ne aggiunsero
un altro assai più grave; si arrestarono all' anima del mondo, e la presero
per lo stesso Dio, creatore di tutte le cose. Da quell' ora che poteva trattenerli
dallo sdrucciolare nel panteismo?
Non è difficile riconoscere che la materia non esiste se non
in relazione al sentimento, e nel sentimento l' anima, cioè il senziente, è
il principio attivo, in cui e per cui anche l' esteso come sentito esiste. Indi
scaturiva assai facilmente l' emanatismo .
Abbracciata l' ipotesi dell' emanatismo, tutti gli esseri dovevano partecipare
della sostanza vivente del primo, da cui si supponevano derivare.
[...OMISSIS...] .
Da questo germe deposto nelle acque uscì egli stesso sotto forma
visibile, ossia come Anima suprema.
Da quest' anima suprema uscì: 1 l' intelligenza; 2 la coscienza o
il me ; 3 il sentimento, che si risolve negli organi sensitivi ed attivi, ed
un senso inferiore comune; e di qui tutti gli esseri.
[...OMISSIS...] .
Uscendo dunque tutti gli esseri da principŒ spirituali, come sono il
sentimento, l' intelligenza, la coscienza, e le cinque particelle sottili o
elementi componenti i cinque sensi, forza è che sieno tutti accompagnati
di vita e di sentimento (1).
Quindi non è meraviglia (2) se poco appresso si attribuisca il sentire
ai vegetabili: [...OMISSIS...] .
Insomma in tale sistema tutto l' universo altro non è che lo stesso
Creatore sotto la forma particolare.
La vita di tutti gli esseri e di tutte le molecole, che compongono
l' universo, trovasi espressa fra gli altri luoghi, anche nell' I‡a
Upanisad di Yajur7Veda, dove, seguendo la traduzione di G. Pauthier,
così si legge:
[...OMISSIS...] .
In questo sistema adunque la morte non è che la dissoluzione della
forma esterna; il sentimento non perisce mai; le anime individuali si
trasfondono nell' anima universale, quando l' aggregato della materia si
discioglie; non v' è nell' universo che trasformazioni, e per questo si distingue
l' universo corruttibile, cioè soggetto a perire, dal principio incorruttibile
e dagli elementi non perituri (3), che ne costituiscono propriamente
l' intima sostanza.
Ora, questa antichissima maniera di spiegare i fenomeni del
mondo dimostra come l' antichità era persuasa che non se ne potesse in
alcun modo assegnare una ragionevole spiegazione, ricorrendo a sole cause
brute, a cui si arrestarono i moderni materialisti.
Dimostra ancora gli scogli del panteismo, dell' emanatismo e della
trasmigrazione delle anime, a cui si potrebbe agevolmente rompere, se
in questione sì sottile non si procedesse colla maggiore perspicacia e
cautela.
Ma dopo di ciò apparisce che tali errori non sono conseguenze necessarie
dell' ipotesi che gli elementi corporei abbiano seco indivisibilmente
unito un sentimento, di cui essi costituiscono il termine. Conciossiachè
questo sentimento nè rimarrebbe uno sempre, nè sarebbe emanato
da Dio, quasi tenesse della propria sostanza di lui, ma creato dal
nulla, nè si potrebbe confondere colla materia, nè col principio intellettivo,
che nell' uomo a quello sovrasta.
Dall' oriente passiamo alla Grecia. L' opinione dell' anima
del mondo fu ammessa da quasi tutte le scuole filosofiche. Ogni scuola
la concepì a suo modo; Platone a suo modo, Eraclito a suo modo; ma in
fine convenivano che il mondo era animato.
Molti aggiunsero la vita propriamente agli elementi, fra i
quali Empedocle, di cui scrive lo Sturtz: « Empedoclem quodlibet elementum
pro animo sive anima habuisse (1) », onde anzi spingendo la cosa
all' estremo, li deificava. Platone pure diede il senso agli elementi (2).
Di Democrito scrive Plutarco che « « egli credette tutte le cose partecipare
di qualche anima, eziandio i corpi morti; e però sempre manifestamente
hanno qualche porzione di caldo e di sentimento, essendone
però la maggior parte svaporata »(3) ».
Ricevuta dagli Italiani l' opinione dell' animazione del mondo,
Virgilio la esponeva in versi stupendi e Cicerone in elegantissima
prosa.
Abbiamo già detto che uno degli errori, che guastava l' opinione
dell' anima del mondo, era l' unità sua mantenuta costantemente;
e che un altro errore era che, non sapendosi tirare la linea fra il senso
e l' intelletto, si poneva un' anima universale non pur sensitiva, ma intelligente.
Questi errori, entrati nella Chiesa, divennero altrettante eresie (4).
Ma non fu rifiutata dai Padri della Chiesa la generazione spontanea,
e talora per ispiegarla ricorsero ad un' animazione primitiva di certe
molecole corporee (1).
I filosofi italiani del secolo XVI proposero di nuovo l' ipotesi
dell' animazione universale, ma oltre non aver distinta l' anima sensitiva
dall' intellettiva, caddero nell' errore dell' anima unica del mondo,
e il Telesio scrisse un opuscolo con questo titolo: « Quod animal universum
ab unica animae substantia gubernetur ».
Francesco Saverio Feller scrive così: [...OMISSIS...] .
Ma l' aggiungere una cotal sostanza neutra, di cui si parla in questo
luogo, quasi ministra dell' animazione, è aggiungere ipotesi ad ipotesi affatto
gratuitamente. Poichè basta supporre accoppiato il sentimento agli
elementi senza più, e incontanente riescono abbastanza spiegati i fatti
della generazione spontanea e delle varie manifestazioni della vita, del
moto, del conato organizzatore in tutti gli angoli della terra.
Dopo che Van7Helmont propose il suo archeo, comparvero
alcuni filosofi o medici, che si facevano chiamare i nuovi Pitagorici . Questi
parlavano dell' anima comune , che distinguevano però dall' anima intellettiva.
Uno dei loro errori principali si fu quello della trasmigrazione
di tal anima; dove è da osservare che la trasmigrazione di un' anima meramente
sensitiva non è solo cosa erronea, ma assurda; perchè tale anima
non può trasmigrare da un corpo in altro senza staccarsi dal primo, nè
può staccarsi dal primo senza perire, ossia perdere la sua identità (1).
Si può dunque dire che l' ipotesi dell' animazione della materia
non fu mai presentata con nettezza, e pura da errori e d' aggiunte
arbitrarie; ma che se si volessero raccogliere tutti quelli che l' hanno
prodotta in mille maniere diverse, senza tener conto degli errori aggiunti,
ella si troverebbe comune a tutte le scuole principali di filosofia
di tutte le età.
Perocchè:
In essa convengono i materialisti, dando alla materia una forza,
cagione della vita e del sentimento; solo errano in non saper distinguere
questa forza dalla materia stessa (2).
In essa convengono tutti quelli che ammisero o ammettono
l' anima del mondo; solo errano nell' ammettere quest' anima intelligente
e indipendente, e nell' escludere la pluralità degli individui.
In essa convengono i panteisti e gli emanatisti; solo errano
nel volere che le anime sieno parti della divina sostanza, o la sostanza
stessa divina in varie forme acconciata.
In essa convengono i naturalisti, che suppongono una sostanza
neutra, un fluido biotico, un imponderabile per tutto diffuso, tutto
invadente, animatore di tutto; solo errano in ammettere perciò una sostanza
di più nella natura, di cui non è provata pur l' esistenza, nonchè
la virtù.
In essa convengono i Pitagorici di tutti i tempi, o piuttosto
tutte le più antiche scuole, che ammisero un' anima comune che s' individua,
ovvero si trasmigra; ma errarono, aggiungendo agli altri errori fin
qui accennati quello della trasmigrazione.
In essa convengono tutte le specie di idealisti , che della materia
fanno una modificazione dello spirito; solo errano, confondendo il
termine (materia) collo spirito (principio); e confondendo oltracciò il
sensibile e l' intelligibile.
Si svestano tutti questi sistemi dei loro errori; e in fondo ad essi
rimane un' opinione consentita da tutti, il bisogno di supporre la materia
animata.
Nella patria dell' idealismo trascendentale, la Germania, fu
coltivata e in pari tempo depravata più che mai l' ipotesi della vita annessa
agli elementi della materia.
Si sa quanto diedero a pensare a quei filosofi le idee sulla natura di
Schelling. Ma l' avviamento venne pure da Kant, il quale trasse non
poco dal sistema delle monadi di Leibnizio. Leibnizio stesso era stato in
qualche modo prevenuto dall' inglese Glisson (m. 1776), come questi dai
nostri italiani, il Telesio, il Bruno, il Campanella, il Cardano (m. 1576),
e somiglianti. Diamo un cenno della maniera di vedere di Francesco
Glisson.
Questi incomincia dall' affermare che non si può attribuire
il concetto di sostanza se non a cosa che abbia tre facoltà, la percettiva ,
l' appetitiva e la motiva (1); e tosto toglie a provare che anche la sostanza
materiale è dotata di esse, assumendo per conceduto che i corpi
sieno sostanza.
Nel capo XV precedente egli s' era occupato a distinguere la percezione
naturale , che egli attribuisce alle sostanze materiali, dalla sensazione;
e qui è dove più mostra di non aver colto menomamente il carattere
della sensazione , nè come ella si distingua dall' intellezione , con
cui la confonde, nello stesso tempo che la verità gli scopre talora se non
sè stessa, qualche falda della sua veste. A ragion d' esempio, paragonando
la sua percezione naturale colla percezione intellettuale , stabilisce questa
differenza: « quella (della percezione naturale) è una facoltà necessaria
e semplice, tendente per diritta via all' azione; questa (della
percezione intellettiva) è quasi duplicata o giudicata, e si termina all'
azione mediante il libero arbitrio. E stimo la percezione intellettuale
presupporre la naturale, e contemplarla quasi inflessamente, e perciò
percepire la percezione di lei »(doveva dire « percepire quella percezione »).
Ora questa è una differenza capitale, da noi osservata, fra la percezione
sensitiva e la percezione intellettiva; quella è semplice e senza
giudizio, questa è duplice e accompagnata da giudizio. L' autorità del
medico inglese conferma la nostra dottrina; ma il valente uomo non
ebbe poi veduto che innanzi alla percezione intellettiva , è l' intuizione ,
la quale non involge alcun giudizio, eppure è oggettiva , mentre la sensazione
e la percezione sensitiva è soggettiva ed extra7soggettiva .
Per altro il Glissonio fu anche condotto a travedere l' oggettività
della percezione intellettiva, quando considerò che la sua oggettività
è condizione necessaria all' esistenza della volontà e della libertà;
onde scrisse: « La seconda differenza (fra la percezione intellettiva, dell'
angelo poniamo, e la naturale) si prende da questo, che l' intelletto dell'
angelo può rappresentare l' oggetto alla sua volontà sub aliquali indifferentia
objectiva , onde la volontà sua eserciti intorno ad esso il suo
libero arbitrio, eleggendolo o non eleggendolo. Poichè se l' oggetto eleggibile
non si propone alla volontà sotto una tal quale indifferenza, la
libertà intorno ad esso non può esercitarsi, ma l' elezione rimane predeterminata
e necessitata dal rigido dettame dell' intelletto ». Qui il Glissonio
è di nuovo con noi, attribuendo all' oggetto dell' intelletto, come tale,
un' indifferenza che può essere tolta dalla volontà, rendendolo questa
buono o cattivo a sè stessa, che è quella funzione che noi chiamiamo
ragione pratica , la quale liberamente fa sì che l' uno o l' altro oggetto
diventi migliore all' uomo, e così prevalga.
Ma quando egli si fa a distinguere la percezione naturale
(che veramente risponde a ciò che noi chiamammo sentimento fondamentale )
dal senso (che corrisponde alla nostra sensazione ), allora mostra
di non essere pervenuto a chiare e distinte idee, ignorando le distinzioni
fra i fenomeni extra7soggettivi e i fatti soggettivi, e le altre che abbiamo
detto di sopra.
Il Glissonio adunque assegna alla sua percezione naturale o animale ,
come anche la chiama, le differenze seguenti:
Che ella è similare e inorganica, quando la sensitiva è organica.
- Ma questa è una differenza meramente extra7soggettiva, la quale non
pone una differenza interiore alle due percezioni.
Che ella è semplice, quando la sensitiva è composta e quasi
duplicata, perocchè è percezione di percezione. - Qui non s' ebbe accorto
che il senso non si rivolge sopra sè stesso, e rimane sempre semplicissimo,
salvo che nella percezione , in quanto si distingue dalla sensazione ,
cade anche un elemento extra7soggettivo, e però si può dire composta
di due elementi, ma non mai d' una percezione che ne abbia per
oggetto un' altra; anzi è sempre unica percezione, dove non v' è oggetto,
ma solo termine. Ora, dal non avere conosciuta la semplicità essenziale
della sensazione egli fu condotto a dare in appresso alla sua stessa percezione
naturale una duplicità, che lo traviò in sottigliezze di ragionamenti
inestricabili, ed affatto inutili.
Quindi anche dà al senso il giudizio, « sensus includit quasi implicitum
quoddam judicium de re percepta », confondendolo di nuovo
colla percezione intellettiva , quando nel senso la cosa percepita non è
manco un oggetto (e sull' oggetto solo può cadere il giudizio), ma è un
elemento che ha concetto di materia o di termine rispetto al principio
senziente, sicchè l' attività del senziente non esiste che con esso, ed essendo
individuale non può moltiplicarsi; onde neppure può giudicare
l' elemento di cui abbisogna per esistere.
Seguitando sulla stessa via sbagliata, il Glissonio concede al
senso di potere errare, quando l' errore appartiene al solo giudizio, e
perciò alle funzioni della ragione.
Gli concede di contemplare un oggetto: « objectum perceptum
ut quid extra se contemplatur ». E tanto rimane lontano il Glissonio dal
concepire la sensazione e la percezione sensitiva nella sua purità e semplicità,
senza aggiungervi arbitrariamente qualche elemento intellettuale,
che egli parla della sua percezione naturale colle maniere di dire, che
sono applicabili alla sola percezione intellettiva , e le dà il sè , e la facoltà
di rappresentare sè stessa, le sue cause, i suoi effetti, ecc. (1).
Nè fa maraviglia; io lo dirò chiaro e senza riguardi, non ho
mai trovato filosofo, che sia giunto a formarsi il concetto della sensazione
semplice , senza giunta di qualche cosa intellettiva o di qualche cosa materiale
(2).
Vi sono questioni intorno alle quali il senso comune non
dice nulla, perchè esse non si presentano alla mente del comune degli
uomini. Tale è la questione dell' animazione dei primi elementi, che non
esce dalle scuole dei filosofi.
E veramente, se il senso comune divide i corpi in animati
e inanimati, non è che pronunci con ciò qualche cosa intorno alla questione
di cui parliamo; egli intende parlare della vita apparente ai sensi
esteriori, senza menomamente proporsi l' altra questione: « se vi possa
essere unita a certi corpi, privi di organismo animale, una vita latente,
un qualche principio sensitivo ».
Così in ogni caso la distinzione comune dei corpi animati
ed inanimati rimane ferma; nè si deve mutare l' uso comune di queste
parole, salvo ad attribuir loro un significato più ampio e più vero entro
l' ambito della scuola. Definiscasi adunque il corpo inanimato: « quello
che non dà segni di vita per mancanza di opportuno organismo »; ovvero
« un corpo inorganico, che, come tale, è inanimato »; e il corpo
animato: « quello che dà segni di vita », ovvero « un corpo organico,
che, come tale, è animato »(1), e la conciliazione dell' opinione filosofica,
di cui parliamo, col senso comune è compiuta.
Ma che dicono gli osservatori della natura?
E` indubitato per la storia delle scienze naturali che, più si osserva
e si sperimenta, più si allargano i confini del dominio della vita.
La sensitività, data da Haller a certe parti del corpo, fu estesa successivamente
da fisiologi ad altre ed altre.
La scoperta dei polipi, degli animali infusori, dei movimenti spontanei,
di cui sembrano dar segno i globuli del sangue, ecc., ed altre innumerevoli,
assicurano che vi è vita in infiniti corpi, che in apparenza
sembrano e si riputavano prima al tutto inanimati.
A Ehrenberg parve di riconoscere che diverse rocce, e specialmente
il tripolo, sieno composte di gusci di animali.
Mauld credette avere scoperto che il tartaro dei denti era quasi un
guazzetto di animaletti.
I signori Payen e Mirbel pretendono che i vegetabili sieno un ammasso
d' innumerevoli bestiuole microscopiche. Presentando il primo di
questi all' Accademia delle scienze di Parigi, nel febbraio dell' anno 1.44,
un volume di fisiologia vegetabile, si espresse così: « « Una legge senza
eccezione mi sembra apparire nei molti fatti da me osservati, e condurre
a riguardare sotto una luce novella la vita vegetale. Se io non mi illudo,
tutto ciò che la vista diretta o amplificata ci permette discernere nei tessuti
vegetali sotto forme di cellule o di vasi, non rappresenta altro che
gli inviluppi protettori, i serbatoi e i condotti, nei quali i corpi animati,
che li producono per via di secrezione, alloggiano, collocano e trasportano
i loro alimenti, depongono ed isolano le secrezioni » ».
L' ipotesi adunque dell' animazione degli elementi primi dei
corpi coincide con quella ammessa oggidì universalmente dai fisiologi,
che esista una vita latente, la quale non produce fenomeni eccitati, esterni,
finchè mancano le condizioni necessarie al loro esercizio.
Ma perchè, qui giova cercare, alcuni fenomeni sono considerati dall' uomo
come manifestativi della vita, e altri non sono?
La ragione unica di ciò si è che l' uomo prende il criterio da distinguere
così quei fenomeni unicamente dalla propria esperienza. Ciò che
osserva in sè stesso, gli è unica regola, secondo cui giudicare degli altri
esseri naturali. Egli osserva, a ragion d' esempio, quali suoni emette,
quando un vivo dolore lo punge, quali, quando prova un vivo piacere;
perciò quella qualità di suoni o altri analoghi ad essi gli sono certo segno
a conchiudere che altri esseri, ond' escono, in circostanze simili alle sue,
simili voci, provino dolore o piacere. Egli osserva la propria organizzazione,
vede come sono tessute le proprie carni, come la sensitività sua
propria sia unita a filamenti nervosi, come si contraggano le parti diverse
del corpo in occasione dei sentimenti, quali fenomeni esterni accompagnino
in lui il sentimento o la cessazione di esso; indi ne inferisce
che in quegli esseri, in cui trova altrettanto o il simiglievole, debba esservi
altresì un sentimento simile al suo. Ma questa rimane sempre però
una misura relativa, e non è certa prova che non possa esistere la vita
sotto altre forme, certo una vita dalla sua diversa, ma pure una vita e
un sentimento.
Acciocchè dunque si possa considerare la mentovata ipotesi
da tutti i suoi lati, conviene che distinguiamo tre maniere di sentimento,
cioè:
Un sentimento, che per suo termine non ha che l' esteso; e
questo solo sarebbe quello che si attribuisce agli elementi isolati dei corpi.
Un sentimento eccitato, che ha per termine ancora l' esteso,
ma non immobile come l' elementare, ma avente dei movimenti
intestini. Questa maniera di sentire esige pluralità di elementi
contigui e moto fra essi; esige dunque qualche composizione,
se non di organizzazione, almeno di aggregazione.
Un sentimento non solo eccitato, ma in cui l' eccitamento si
conserva, riproducendosi con qualche varietà sua sullo stesso tema. Qui
già si esige un vero organismo, nel quale il movimento intestino si possa
perpetuare.
Le tre vie adunque, che si vogliono accuratamente distinguere, sono:
Quella dei singoli elementi l' un dall' altro staccati.
Quella degli elementi uniti, aggregati, ma non organati perfettamente.
Finalmente quella che presenta al di fuori i fenomeni suoi
propri, e che ha bisogno di compiuta organizzazione. Consideriamo a
parte ciascuna di esse.
Se noi immaginiamo un elemento solo di materia, e questo
elemento esteso e perfettamente duro, come noi crediamo essere i primi
elementi, in tal caso, quantunque potesse cadere questo elemento sotto
i sensi nostri (ciò che è certo impossibile per la sua piccolezza), tuttavia
esso non ci darebbe nessun segno di vita, poichè non potrebbe dare a
sè stesso, nè ricevere nel suo interno alcun movimento.
Tuttavia il principio senziente di lui sarebbe semplice, il termine
di questo principio sarebbe lo spazietto determinato da quell' elemento;
in questo termine sentito vi sarebbe omogeneità od uniformità, supponendo
la materia dell' elemento, di cui si tratta, densa egualmente in
tutti i suoi punti, e differenza d' intensità, supponendo la densità variabile
nei diversi strati o punti dell' elemento (1).
In questa piccola vita si rinverrebbe a pieno il carattere della continuità
(2).
Che se all' elemento animato noi aggiungiamo altri elementi
parimente animati, possiamo tosto concepire nuovi fenomeni.
Supponiamo tali elementi di forme diverse.
Uniti insieme dall' attrazione o ritenenza loro propria, formeranno
vari poliedri, secondo le forme degli elementi che si uniscono. Supponendo
le forme degli elementi regolari, se ne avranno poliedri regolari.
Ma questi poliedri regolari non diverseranno fra loro soltanto di
forma, ma ben anche di densità e quindi di peso specifico. La ragione
è manifesta, se si considera che dalla varia forma dei primitivi elementi,
che si uniscono, dipendono questi due accidenti:
Che i punti di contatto sieno maggiori o minori, e quindi più
ferma l' unione fra quegli elementi, che possono toccarsi con maggiore
superficie.
Che rimangano, nell' interno dei cristalli, maggiori o minori
intervalli, onde ciascuno di questi primitivi cristalli colle sue faccie
esterne racchiude uno spazio vuoto maggiore, e viene ad avere un peso
ossia un' attrazione specificamente minore.
Gli elementi, che s' uniscono, sieno due soli. L' abbinazione
dei primi elementi già ci deve dare molecole aventi proprietà diverse
dagli elementi primitivi.
Molto più l' atternazione, la quaternazione, ecc., dei primi elementi.
Supponendo che questi primi elementi neppure pel contatto
fra loro s' uniscano con tanta forza, quanta è quella che rende la
materia perfettamente dura entro ciascun elemento, avremo tosto dei
nuovi accidenti vitali; poichè in queste molecole il sentito continuo, a
cui risponde un unico principio senziente, è più esteso che non nei primi
elementi. Vero è che se la particella risultasse da due o tre soli elementi,
non potrà mai cominciare il moto perpetuo (1) dal suo interno,
e perciò non avranno luogo movimenti vitali. Ma se i due o tre elementi
si muovono, senza dividersi per impulso esterno che loro vien dato, di
maniera che le faccie aderenti si soffreghino, in tal caso il sentimento
uniforme, sparso in detti elementi, deve necessariamente ricevere una
eccitazione, e quindi non è assurdo che sorga in esso una sensazione, benchè
nessun fenomeno extra7soggettivo la manifesti.
Di più, dato che i due elementi, per la violenza loro usata dall' esterno,
non abbiano più i loro centri di gravità nella maggior possibile
vicinanza, non è assurdo immaginare che sieno spinti a ricercare il primitivo
equilibrio delle forze dall' attività del sentimento da cui sono
investiti.
Perocchè il sentimento sparso nei due elementi è unico per
la loro continuazione, e come ripugna a separarsi, così tende ad unirsi,
e quindi a tenere gli elementi uniti e combaciati in maggiori punti che
esser possa per quel momento della funzione organizzatrice, che noi chiamiamo
ritenenza , e di cui poscia parleremo.
Qui dunque vi sarebbe, oltre il carattere della continuità ,
anche quello dell' eccitamento; ma questo sarebbe momentaneo ed accidentale,
mancando un sistema di stimoli che si succedano e che tengano
in continuo, regolare ed armonioso moto gli elementi, che compongono
il piccolo gruppo da noi supposto.
Nella vita di due o tre, o certo di pochi elementi uniti in
una sola molecola, abbiamo: 1 continuità, 2 possibilità di eccitamento,
che sono due caratteri della vita. Ma l' eccitamento in tal caso, dipendendo
dalla forza esterna che farebbe col suo impulso strisciare e stropicciare
gli elementi fra loro senza dividerli, sarebbe momentaneo, non ecciterebbe
che una sensazione passeggiera, senza che l' attività spontanea del
principio sensitivo potesse continuarla.
Non si può adunque avere i fenomeni esterni della vita animale,
se non a condizione che i vivi elementi si uniscano insieme in numero
ragguardevole, a segno tale da comporre tutti insieme una macchina più
o meno complicata, ma però così artificiosa che, mediante organi aventi
reciproche azioni gli uni sopra gli altri, si riproducano gli stimoli, i
quali perpetuino il moto e quindi l' eccitamento del sentimento; sicchè
il sentimento armonicamente eccitato possa e conservare la continuità
nelle parti, e l' unità dell' organismo, e secondare colla sua spontaneità
il movimento armonico, e questo ritorno alla sua volta ad eccitare il sentimento
e mantenerlo nella sua medesima eccitazione.
Dalle quali considerazioni si trae che l' organizzazione (prodotta
ella stessa e sviluppata dal sentimento) occasiona le varietà degli
esseri naturali, e le diverse specie di fenomeni che si presentano all' osservazione
dell' uomo; quindi:
I composti di pochi elementi non possono manifestare altre
forze che le meccaniche, fisiche e chimiche, benchè non ci sembri alieno
dal vero che la vera causa anche di queste sia il sentimento inerente ai
primi elementi, che non ha virtù di manifestarsi altrimenti per mancanza
di acconcia organizzazione.
Nei composti di più elementi deve cominciarsi a vedere certa
regolarità d' organizzazione, quale si osserva nei minerali, e l' aggregazione
similare, che si scorge principalmente nei metalli.
Se la composizione è più complicata, deve prodursi la organizzazione
dei vegetabili, ai quali mancano affatto tutti gli organi simili
a quelli coi quali l' uomo esprime il piacere, il dolore, gli istinti, l' intelligenza,
ecc.. Ma in questa organizzazione già vi è un sistema di stimoli
che si riproducono, solo mancando i segni esteriori del sentimento, esperimentato
e significato dall' uomo.
Il sentimento, adunque, che fosse nei vegetabili, non si può conoscere
a che grado si trovi di unità, di accentrazione e di eccitamento.
Ora, data un' organizzazione più opportuna, si manifesta oltracciò
il fenomeno dell' irritabilità , ossia della contradistensione , il quale
non è atto ancora a far conoscere all' uomo con certezza l' esistenza
del sentimento, ma vi si avvicina, per la somiglianza che presentano i
movimenti di tali corpi irritabili e contradistensivi coi movimenti spontanei,
che nascono dal sentimento, e per la tessitura loro somigliante a
quella di organi sentiti.
Finalmente, con una organizzazione ancora più complicata e
più perfetta delle precedenti, si manifestano i fenomeni extra7soggettivi,
volgarmente detti fenomeni animali; i quali sono propriamente quelli
che accertano l' uomo della presenza del sentimento, l' accertano della
continuazione del termine del sentimento, dell' unità d' azione del sentimento
medesimo, tale che è atta a dominare tutti i movimenti, i quali
da esso non ricevono il principio, ma solo la continuazione e la direzione;
movimenti che riproducono incessantemente gli stimoli, che rieccitano
il sentimento quando scade dalla sua eccitazione, e lo rimettono
nel medesimo stato (1).
S' intende oltracciò, coll' esposto sistema, come non
sia necessario che tutte le parti di un corpo animale vengano sentite dallo
stesso individuo, cioè formino parti del medesimo sentimento fondamentale;
potendo alcune avere un sentimento proprio, e questo esser nondimeno
necessario a costituire la macchina extra7soggettiva, nella quale
si debbono riprodurre, ossia riattivare continuamente gli stimoli eccitatori
del sentimento, i quali stimoli possono non esser termine al sentimento
fondamentale dell' animale.
E del pari s' intende come alcune parti insensibili del corpo
possano divenire sensibili, od il contrario, bastando che il sentimento
loro proprio si comunichi e si continui al sentimento totale, o dal sentimento
totale si divida, cooperando solamente all' unità organica.
S' intende ancora perchè certi organi o parti del corpo umano
sembrino godere di una vita loro propria, e siano soggette alla morte
prima di altre (2).
Ma qui certamente si presentano questioni difficili, piene
di quegli enimmi, di cui pur tutte le ricerche naturali sono come avvolte,
quando l' intera natura non è che un enimma solo da innumerevoli
risultante.
In qual maniera il sentimento proprio di un elemento, di una molecola,
di un rudimento, di un organo si continua ed unifica coi sentimenti
fondamentali di altri elementi, molecole, rudimenti, organi? Basta
solo la continuità delle parti, come abbiamo fin qui supposto? Basta
questa continuità a fare che il sentimento minore perda la sua individualità?
S' individualizza forse mediante l' eccitamento massimo, provocato
in qualche punto del continuo, dove s' accumuli di conseguente l' attività
vitale, cioè l' intensità del sentimento, centro di tutti i movimenti
armonici? E se questi centri sono vari, vi sono in tal caso più individui
senzienti nello stesso continuo? E i movimenti diversi, continuati da
questi centri ciascuno a pro di sè stesso, possono essere così armonizzati
che non dirompano il continuo in più continui? E` questo forse il caso
dei polipi e degli animali gemmipari, fissipari, e degli entozoari? E in
tal caso ciascuno dei principŒ senzienti ha egli per suo sentito tutto il
continuo?
Ammessa la generazione spontanea, convien dire che gli
elementi, o certo le molecole, di cui si compongono i nuovi animaletti,
erano per innanzi animati. Altrimenti sarebbe inevitabile il materialismo,
poichè si dovrebbe dire che la vita ed il sentimento si producono
dalla materia bruta; ciò che è assurdo. Conciossiachè
il termine del sentimento è opposto al
suo principio; e se il termine esteso producesse il principio, che è cosa
essenzialmente semplice, sarebbe un effetto dissimile ed opposto alla sua
causa, contro al principio ontologico che « ogni causa deve produrre un
effetto simile a sè ».
In secondo luogo, se gli elementi non avessero sentimento,
essi non avrebbero un' esistenza propria, ma solo extra7soggettiva, relativa
ad un altro soggetto. Quindi sarebbero esseri assurdi, impossibili,
illusioni. E veramente: « « La possibilità è la pensabilità; ciò che non si
può concepire, non può essere » » (per il principio di cognizione) (1).
Ma non si può concepire un essere che sia una mera relazione con un
altro, poichè se un essere ha una relazione, si deve in lui trovare un che ,
il quale costituisca il termine a quo della relazione. Ma se l' elemento
non sentisse, sarebbe nulla in sè, non potrebbe essere dunque il subbietto,
ossia il termine a quo della relazione. Un tale elemento dunque
non si può pensare; dunque non sarebbe; sarebbe dunque un' apparenza
ingannevole e nulla più.
L' osservare come nel mondo microscopico la generazione
nasce con tanto più di facilità che nel mondo dei corpi maggiori, e come
altresì che il fatto della generazione spontanea non si verifica che in
animali minutissimi; è prova assai probabile che la vita sia annessa ai
primi elementi. Perocchè dato che sia, si spiegano
incontanente questi due fatti. Se la vita è annessa ai primi elementi, rimane
chiaro per sè, come essi, quando non sono ancora organizzati, sieno
liberi a comporsi insieme in quel modo che è più confacevole al loro
istinto vitale (la cui legge formativa esporremo nella seconda parte), organando
così facilissimamente degli individui animali. All' incontro i
corpi già composti non possono organarsi in forma di animali, perchè
gli elementi organizzatori non possono muoversi in essi con libertà.
Che anzi ogni generazione, anche degli animali maggiori,
accade sempre per via di umidità e di calorico; i fluidi dunque sono i
primi viventi, gli organizzatori, appunto perchè in essi gli elementi o
le molecole sono mobili e possono organarsi variamente, secondo le circostanze,
mettendo in essere composti animati.
Si deduce una quinta prova dell' animazione degli elementi
dall' osservazione interna, la quale ci dice che la sensazione si estende in
un continuo (2); il che si prova anche col ragionamento, perocchè se
così non fosse, noi non potremmo avere alcuna idea del continuo (3).
Ma noi abbiamo idea del continuo; forza è dunque che sia continuo l' esteso
sentito. Ora dove vi è il sentito, ivi vi è il senziente, perchè senziente
e sentito sono due cose indivisibili (4). Il senziente adunque è in
tutti i punti assegnabili d' un corpo sentito; dunque aderisce ai primi elementi,
cioè ai minimi continui della materia.
Altre prove a conferma della vita degli elementi verranno
da noi esposte qua e là, dove il filo del ragionamento ce ne darà occasione.
A chi le avrà bene intese, quella cesserà d' essere ipotesi, ed entrerà
nel numero, noi crediamo, delle verità dimostrate.
Noi non intendiamo tuttavia di sciogliere queste questioni
misteriosissime; e ci pare che il filosofo già faccia assai, solo determinando
quali ipotesi intorno a questioni sì arcane non
involgano logica ripugnanza, nè opposizione ad altre verità metafisiche,
o ai dati sperimentali che somministrano ogni dì più le fisiche scienze.
Nell' « Antropologia » noi abbiamo dimostrato che non si può
concepire o sentire una porzione limitata di spazio, se non si suppone
di sentire altresì lo spazio solido, illimitato. Con questo e con vari altri
argomenti noi crediamo di avere dimostrato che tutti i fenomeni, che
presenta il sentimento corporeo, suppongono che ogni anima sensitiva
abbia a suo termine, dato dalla natura, lo spazio solido illimitato, o se
meglio piace, immisurato , nel quale poi sorgono i sentiti corporei, che
si espandono in uno spazio limitato e misurato da confini determinati.
Se a questa dottrina si aggiunge quella della animazione degli
elementi, se ne ha che gli elementi corporei da noi descritti si accostano,
in qualche modo, alle monadi leibniziane rappresentatrici dell'
universo. I nostri elementi, o piuttosto i nostri principŒ senzienti, non
avrebbero a dir vero la rappresentazione dell' universo a quel modo nel
quale l' attribuisce Leibnizio alle sue monadi, perchè questo grande uomo
pretende che esse rappresentino l' universo con tutto ciò che l' universo
contiene di esseri corporei e spirituali; quando i nostri principŒ
sensitivi abbraccierebbero solamente lo spazio solido illimitato, immisurato,
nel quale gli esseri corporei sussistono.
Ora poi l' esser noi venuti all' esposta sentenza - alla quale
non pervenimmo già leggermente, ma per lunga meditazione e condottivi
a forza da una logica necessità - ci obbliga altresì a proporci la
questione: « Se potesse esservi un principio senziente, il quale altro non
sentisse che lo spazio solido illimitato, e se questo sarebbe un individuo ».
La questione, come si vede, è di mera possibilità, ma non inutile
ad investigarsi, perocchè non è mai inutile chiarire i concetti affini a
quelli di cui ha immediato bisogno la filosofia. Diciamo adunque che il
concetto di un tale principio non involge assurdo in sè stesso; e se vi
fosse un tale principio, egli sarebbe certamente un individuo, attesa la
semplicità e la realità annessa alla natura di principio, e di tale principio.
Ma quindi nasce una conseguenza di qualche momento, la
quale si è che di tali individui non ve ne potrebbe essere che uno. Poichè
se due principŒ vi fossero con un termine identico, quale sarebbe lo
spazio illimitato, essi non potrebbero avere in alcun modo una realità
distinta; e perciò non potrebbero essere due, ma uno solo, essendo la
realità il principio dell' individuazione (1). Ora, che tali principŒ non
potessero avere una realità distinta si prova così. I principŒ, come tali,
non hanno altra attività, nè altra realità, se non quella che ricevono dai
loro termini. Se qualche altra realità si aggiungesse loro coll' immaginazione,
già non sarebbero più meri principŒ, come si suppone nella nostra
ipotesi. Se dunque uno ed identico è il termine, una e identica deve
essere altresì la realità e l' attività del principio a quello correlativo; ma
lo spazio solido illimitato è uno ed identico; dunque uno ed identico
deve essere altresì il principio, che a un tal termine si riferisce. Questo
argomento è ineluttavile; ma riesce alquanto difficile a concepirsi per
la facilità, con cui la mente umana inclina a considerare il principio come
avente qualche altra appendice, parendole che un mero principio
non possa essere ente, non possa essere sostanza, senza attribuirgli qualche
altra cosa oltre l' atto senziente o percipiente; la quale appendice
diverrebbe differenza atta a distinguere fra loro i principŒ così immaginati.
Conviene adunque che il pensatore si affatichi per ispogliare il
concetto di principio da ogni altra giunta arbitraria, e incontanente sentirà
tutta l' efficacia della nostra argomentazione (2).
Ciò posto, quale relazione avrebbe un tal principio unico
colle anime sensitive dei corpi? Queste verrebbero a sorgere e ad individuarsi
nel seno di quel principio mediante nuovi termini, cioè mediante
i termini corporei. Quel principio primitivo potrebbe ricevere in
qualche senso, benchè impropriamente, la denominazione di anima comune ,
ovvero meglio di principio comune delle anime sensitive
(di sentimento corporeo).
L' individualità di queste anime rimarrebbe intatta, ma esse
avrebbero un atto comune ed un atto proprio. Quest' atto proprio costituirebbe
la loro realità e sostanza propria, e quindi la loro differenza sostanziale;
e questa realità propria di ciascheduna sarebbe il principio
della loro individuazione, e così riuscirebbe vero ciò che insegna S. Tommaso
che la materia è il principio d' individuazione delle anime, ma ciò
non varrebbe che per le anime meramente sensitive. Nulla si può vedere
in ciò di ripugnante. Ma è d' uopo che parliamo con qualche maggiore
estensione dell' individualità che le costituisce.
Individuo, secondo l' etimologia, significa indivisibile. In
questo significato ogni essenza, ogni specie ed ogni genere può dirsi individuo,
perchè è sommamente indivisibile (1). Ma questa parola individuo
si adopera più comunemente a significare l' indivisibilità degli
enti reali, molti dei quali rispondono di sovente ad una sola essenza,
ad una sola specie. E noi parliamo ora dell' individuo in questo significato.
L' ente reale in tanto è indivisibile, in quanto è uno. Ma
come vi sono diverse maniere di unità, così vi sono diverse maniere d' indivisibilità,
e per conseguente d' individui. Anche un aggregato di più enti,
in quanto la mente lo concepisce come un solo ente complesso, può dirsi
individuo; ma questa non è che una individualità mentale; è l' individualità
del concetto applicato alla realità. Noi non parliamo qui di questa
individualità mentale, artificiale, che ha il suo fondamento nell' unità
del concetto, con cui si pensa il molteplice per modum unius , come dicevano
le Scuole, ma vogliamo parlare dell' unità reale , che ha il suo fondamento
nella stessa realità.
Gli enti reali possono essere molti, ma ciascuno di essi deve
essere uno. E veramente, facciasi che un ente reale sia più enti, siamo
nella contraddizione; perocchè se sono più, non sono uno. E` dunque
essenziale ad un ente reale l' essere uno, perocchè le due parti della proposizione
sono identiche. Se quell' ente che era uno, diventa due, già
non si ha più un solo ente, ma due enti, ciascuno dei quali è uno. Dunque
ogni ente reale, in quanto è ente, è uno, e in quanto è uno, è indivisibile.
L' ente reale adunque è indivisibile. Onde adunque procede
il concetto della divisibilità? Questa parola divisibilità si prende in
senso proprio e in senso improprio, cioè per significare moltiplicabilità .
La divisibilità in senso proprio ha per fonte la mente, o più in generale
la percezione . A ragion d' esempio, lo spazio è uno e indivisibile; ma la
mente umana può considerare uno spazio limitato. Con questa operazione
sembra che si divida lo spazio, perchè la mente restringe la sua
considerazione a quella porzione di spazio, dividendolo dal rimanente.
Ma da ciò non è affatto avvenuto che lo spazio sia stato diviso veramente;
poichè egli è in sè stesso al tutto indivisibile. Infatti, quantunque io delinei
colla mia immaginazione una sfera avente un metro di diametro
nel mezzo dello spazio, tuttavia non fo già con questo che oltre quella
sfera non si distenda lo spazio, come prima che io immaginassi quello
spazio sferico; o che lo spazio al di là della sfera, da me circoscritta, non
si continui senza interruzione alcuna allo spazio occupato dalla sfera.
Lo stesso si dica se la sfera, limitante lo spazio, fosse una sfera reale, corporea.
La divisibilità dunque in senso proprio non è reale, ma unicamente
relativa alle operazioni del percipiente.
Prendiamo ora un pezzo di materia continua, e dividiamola
in due parti. E` ella questa una vera divisione? Propriamente parlando
non è che una moltiplicazione, per la quale invece di avere un individuo
solo, ne ho due. Infatti, acciocchè ella fosse vera divisione, io dovrei
avere l' individuo diviso. Ma io non ho l' individuo diviso, ma ho due
individui. Per fermo, i due individui, che io ho prodotti, non sono certo
parti dello stesso individuo; perocchè le due porzioni di materia continua,
essendo divise, non formano più un tutto solo, ma due tutti; dunque
non sono parti, perchè non esiste il tutto di cui sieno parti. - Si
dirà che si possono considerare come parti di quell' intero, che era prima
della divisione . - Ottimamente; si possono considerare dalla mente;
onde l' essere parti del tutto proviene loro unicamente dalla considerazione
della mente; non sono parti quando sono già divise, non erano
ancora parti quando erano unite e formanti un solo continuo. La divisibilità
dunque della materia è di nuovo una maniera di considerare propria
della mente; è relativa alle operazioni di questa.
Ma la materia, prima che si dividesse, si poteva dunque
considerare come un individuo? La continuità basta ella a dare unità
a questo essere che si chiama materia? La questione sarà da noi esaminata
più a fondo dove parleremo della natura della materia. Qui basterà
avvertire che l' individualità della materia è tutt' al più un' individualità
molto imperfetta, poichè nella materia, come materia, non si
trova alcun principio che possa unificarla. L' individualità dunque dell'
ente reale, l' unità sua, non si trova propriamente che in quell' ente, che
ha natura di principio attivo . La parola principio contiene nel suo stesso
concetto l' unità e l' indivisibilità. Ora gli enti principŒ non sono che gli
enti sensitivi ed intellettivi. Noi dobbiamo dunque parlare dell' individualità
di questi.
Veri individui sono adunque i principŒ sensitivi e i principŒ
intellettivi.
Questi principŒ sono atti primi, e tali che nell' ordine del sentimento
loro proprio sono indipendenti. Gli atti secondi, dominati dagli atti primi,
ricevono da questi l' unità e l' individualità. Ma non è assurdo il concepire
che nel seno d' un atto primo sensitivo sorga un atto secondo, il quale sia
immanente e divenga alla sua volta dominante dello stesso atto, dal seno
del quale è sorto. In tal caso, divenuto indipendente, costituisce un altro
individuo. Dico che l' indipendenza deve essere nell' ordine del sentimento;
con che intendo dire che il sentimento individuante non deve
avere un altro sentimento maggiore, che lo domini colla sua attività. Applichiamo
questi principŒ sulla natura dell' individualità all' argomento
che abbiamo alle mani.
Cominciamo dall' individualità dell' uomo. Facilmente si
comprende che nessun animale bruto può avere quella speciale individualità ,
che è propria dell' uomo, soggetto animale7razionale.
L' uomo riceve la propria individualità dall' intuizione dell'
essere universale, che lo costituisce intelligente (1).
Questa intuizione è un atto semplicissimo di natura aliena dallo
spazio, come è semplicissimo ed inesteso l' essere per sè oggetto. Ora, il
principio intuente l' essere è nell' uomo identico col principio senziente,
onde questa radice unica dei due principŒ fu da noi già chiamata principio
razionale . Il che fa sì che lo stesso principio senziente dell' uomo,
in quanto s' identifica in potenza col principio intelligente, è perfettamente
uno, semplice ed alieno dallo spazio, che appartiene solo al termine
del suo atto (al sentito). L' unicità dunque e la semplicità del primo
atto intellettivo immanente costituisce l' individualità dell' uomo.
Alla quale individualità s' aggiunge ancora un carattere importantissimo,
che la distingue da quella del bruto e che procede dalla
natura dell' essere ideale, da cui l' uomo viene informato. L' essere ideale
è inesauribile, anzi di più egli è immutabile, immodificabile. Dunque
egli informa l' uomo senza subire niuna mutazione in sè stesso, niun restringimento.
E` l' uomo che è unito a lui, non egli propriamente che
sia unito all' uomo. Egli è in sè, non ha unione con altre cose, benchè
altre cose possano aver unione con lui; l' unione è relativa a queste, non
a lui. Queste si sentono migliorate dall' unione con lui; e questo sentimento,
che forma la loro unione, non cade nell' essere ideale, ma solo
nell' essere intuente.
Quando s' intenda bene tutto ciò, e non si applichi all' essere
ideale il concetto di unione tratto dalle cose finite, che reciprocamente
si uniscono, allora ed allora solo s' intenderà come all' uomo sia
possibile la riflessione.
L' uomo, in quanto è un essere intellettivo, è informato dall' essere
ideale, e per questo esiste. Tuttavia egli, che esiste per l' essere ideale,
trova ancora l' essere ideale in cui contemplare sè stesso informato dall'
essere ideale. Questa è appunto la riflessione.
La riflessione suppone: 1 il principio intelligente, di cui l' essere
ideale è la forma; 2 l' essere ideale, in cui si vegga sè stesso informato
dall' essere ideale.
L' essere ideale adunque nella riflessione fa due uffici: fa l' ufficio
di forma del principio intelligente, che costituisce lo stesso principio
intelligente, e fa l' ufficio di mezzo del conoscere tale principio intelligente
già sussistente. E` dunque l' essere ideale che si applica a sè stesso
per la sua natura inesauribile, come dicevo, ossia immutabile.
Ora dalla descritta riflessione nasce nell' uomo la coscienza,
cioè la cognizione di sè stesso, e col processo di varie operazioni, già da
noi indicate, vien posto l' io . Così si perfeziona l' individualità umana
colla coscienza di sè. L' uomo sente e conosce sè stesso; l' uomo sa, l' uomo
dice a sè di essere un principio unico (coscienza dell' individualità conosciuta).
Neppur questa individualità può trovarsi nel bruto; l' individualità
non può conoscersi che dall' uomo.
Quale è dunque l' individualità appartenente al bruto? Ella
deve trovarsi nel sentimento, nell' unicità del principio senziente. Ora
noi abbiamo distinto un sentimento quieto ed uniforme (1), ed un sentimento
eccitato. Quindi due principŒ d' individuazione.
Se si suppone il sentimento fondamentale quieto e diffuso
equabilmente in un dato continuo, è chiaro che l' individualità consisterebbe
nell' unico principio senziente, nel quale tutto quel continuo esiste;
perocchè, come abbiamo detto, il continuo non sarebbe continuo e
perciò uno, se non esistesse nel semplice.
Ma se supponiamo che in quel continuo aggregato di più
elementi accadano dei movimenti, il sentimento eccitato crescerà d' intensità
in alcuni punti di esso. E il principio senziente è più attivo là
dove è più intenso. Ora dove è più attivo, ivi v' è più di principio senziente.
Quindi il principio senziente
in tal
caso è unico, e perciò individuato, in quanto si estende a tutto il continuo;
ma egli ha due atti, coll' uno dei quali abbraccia tutto il continuo
sentito, coll' altro si accumula in una determinata parte o in diverse parti
di esso continuo. Il principio senziente, in quanto è posto in atto con
maggiore intensità, in tanto egli s' individua, divenendo dominante ed
indipendente.
Si distinguano diversi casi. Il primo sia che in un continuo
equabilmente sentito sorga, per l' eccitazione del movimento, un' intensità
maggiore di sentimento limitata ad un solo spazietto. L' individualità
qui si forma, perocchè il sentimento acquista l' individualità di eccitamento,
la quale prevale per la sua intensità. Ciò che forma la base di
questa individualità si è l' atto, col quale esso principio sente più intensamente
ed opera più attivamente nello spazietto accennato che altrove;
ed il principio, che sente il più, può essere quello che sente anche il
meno, ma non viceversa.
Ora si suppongano due spazietti nello stesso continuo, in
ciascuno dei quali l' intensità del sentimento sia cresciuta al medesimo
grado. L' individualità del sentimento non sarebbe tolta, ma vi sarebbero
due individui invece d' un solo; perocchè l' atto di maggiore intensità
aderente ad uno spazietto non potrebbe essere l' atto di maggiore intensità
aderente all' altro spazietto, conciossiachè le intensità sono eguali.
Tuttavia il principio senziente che sente in uno dei due spazietti, abbraccierebbe
nel suo sentimento tutto il continuo, pel principio che chi
sente il più, può stendersi a sentire il meno; e lo stesso dicasi del principio
senziente inerente all' altro spazietto. Sarebbe adunque il caso di
uno stesso corpo, animato da due anime comunicanti fra loro, di due
individui congiunti sostanzialmente, il caso dei mostri bicefali, degli
animali anulosi, dei polipi, dei gemmipari e fissipari, ecc..
Ma facciamo un terzo caso. In un dato continuo il sentimento
sia accumulato ed eccitato in diversi spazietti e a diversi gradi.
Se uno di questi sentimenti eccitati ed accumulati è più forte degli altri,
ed è quindi centro di un' attività istintiva sì grande che, coll' aiuto
sempre dell' acconcia organizzazione, possa dominare l' attività di tutti
gli altri sentimenti e tenerla talmente in freno, talmente regolarla a suo
pro che ne riescano dei moti armoniosi, atti a conservare il tutto nell'
unità; in tal caso se ne avrà un animale solo, più o meno perfetto; e
ciò perchè, quantunque esistano nello stesso corpo più sentimenti individuali,
tuttavia essi non possono dimostrare al di fuori la loro individualità
nello stato servile in cui si ritrovano. E questo è probabilmente
il caso di tutti quelli che noi chiamiamo animali, e specialmente dei più
perfetti; nei quali, quantunque vi fossero dei sentimenti separati e degli
istinti ad essi relativi, tuttavia uno solo è quello che prevale e che
domina, e che nello stato di sanità rende armoniosi e cospiranti tutti i
movimenti dei vari organi, di cui il corpo si compone.
Consideriamo ora l' individualità dell' animale, connessa e
trasfusa nell' individualità dell' uomo.
Il sentimento animale è congiunto all' intelligenza per la percezione
fondamentale , che abbiamo descritta, e così l' individualità sua si trasfonde
nell' individualità umana.
Quindi di nuovo, l' uomo solo può avere la coscienza della
propria individualità animale; di che accade che, se nello stesso corpo
vi potessero essere altri sentimenti minori che potessero essere individuati,
l' uomo non potrebbe avere che la coscienza di quel sentimento
massimo, che naturalmente e abitualmente percepisce.
Insensitive per noi adunque sarebbero quelle parti, il cui
moto non modificasse quel sentimento fondamentale, che è da noi abitualmente
percepito, e del quale perciò possiamo avere coscienza.
E qui ancora si vede la ragione, perchè non ogni movimento
produca una sensazione.
Il che si chiarirà meglio colla seguente considerazione. S' avverta
in prima, questa esser legge del sentimento fondamentale che, sebbene
esso si diffonda in certe parti, tuttavia non può farci conoscere la
località di esse (1), poichè questa parola località altro non significa che
un rapporto delle parti fra loro, determinato dalle sensazioni superficiali.
Ora l' esperienza dimostra che non ogni movimento nelle parti,
benchè per noi sensitive, produce sensazione. La retina, così sensitiva
alla luce, può essere straziata senza che vi sorga sensazione da noi avvertibile.
Le leggi del moto sensifero sono ancora poco conosciute; ma
si potrebbe fare la congettura seguente. I diversi tessuti del corpo umano
sono organizzati di molecole più o meno composte. Cioè a dire vi sono
prima gli elementi, di poi questi elementi formano molecole di prim' ordine.
Queste formano altre molecole di second' ordine; queste altre di
terz' ordine, ecc.. Ora il sentimento, nell' ipotesi che abbiamo fatta e sulla
quale ragioniamo, aderisce sempre agli elementi. Ma aderisce egli anche
alle molecole di prim' ordine, di second' ordine, di terz' ordine, ecc.? Cioè
voglio dire, ogni molecola di qualsiasi ordine continua il suo sentimento
coll' altra, ovvero questo sentimento è continuato solo dagli elementi e
da certe determinate molecole, che non possono cangiare di posizione
relativa, senza che cangino la loro posizione relativa anche gli elementi
di cui sono composte? Io credo probabilissimo,
che le molecole altro non sieno che una organizzazione più o
meno opportuna al moto intestino degli elementi (1). Ora noi abbiamo
messo per condizione all' eccitamento che gli elementi a cui il sentimento
aderisce, al contatto fra loro, debbano muoversi stropicciandosi
insieme, e così mutando frequentemente l' esteso continuo, termine del
sentimento. Ciò posto, se io stimolo una membrana composta di molecole
del cinquantesimo ordine, in modo da fare che si muovano reciprocamente
e si stropiccino queste molecole, ma non i loro elementi; e se
quindi accade che il movimento elementare non si propaghi fino al centro,
termine del sentimento dominante e costituente l' uomo, io non
avrò eccitata alcuna sensazione; ma qualora io trovi il modo di far che
nasca un movimento intestino negli elementi, in modo che questo si propaghi
e continui col movimento intestino centrale, allora io avrò con ciò
determinata la sensazione propria dell' uomo, ed atta a cadere nella sua
coscienza. Infatti la sensazione non nasce col moto assoluto del corpo e
dell' organo (2), ma in virtù del moto relativo fra gli elementi sensati;
e questo moto deve essere continuo a quello del centro; perocchè,
se i movimenti intestini degli elementi fossero limitati in una
parte del corpo e non si estendessero al centro, nascerebbe un sentimento
eccitato diverso dal sentimento massimo, mancando nel moto la
continuità, a quella guisa appunto che il sentimento di continuità si moltiplica,
se il continuo si divide e discontinua.
Solamente dunque alle descritte condizioni la sensazione
prodotta si riferirà al sentimento individuale dell' uomo, che è il sentimento
massimo fondamentale fra quelli che cadono nel corpo umano.
E qui ci sembra scorgere probabile ragione, perchè lo scotimento dei
nervi debba essere propagato fino al cervello, acciocchè noi , che siamo
il principio razionale del sentimento massimo, ne abbiamo la sensazione.
Che se tale sensazione si sente colà dove è stato applicato lo stimolo,
ciò vuol dire che anche quella parte entra nel sentito del sentimento
massimo; ma per appartenervi è uopo che comunichi col centro,
divisa dal quale appartiene ad un altro sentimento, perchè dal centro,
cioè dall' unità e continuità del termine del sentimento massimo, riceve
l' individualità animale il sentimento fondamentale dell' uomo.
Acciocchè dunque un eccitamento produca una sensazione
individuale conviene:
Che il movimento si faccia nel continuo sentito.
Che il movimento si faccia negli elementi, a cui aderisce il
sentimento.
Che il movimento sia propagato fino alla sede dell' individualità
del sentimento, dove cioè sta quel sentito, che risponde al sentimento
fondamentale massimo, e individuato in virtù appunto di questa sua condensazione;
di maniera che il principio senziente senta un moto continuo
(cioè nel continuo), e non interrotto.
Le cose dette sembrano potere spianar la via a sciogliere la
questione tanto agitata sulla vita dei fluidi, che circolano nei corpi animali,
e che nel corpo umano formano forse undici dodicesimi di peso.
Vedesi chiaramente:
Che essi possono vivere d' un sentimento diverso dal nostro, di
un sentimento perciò che non può cadere nella nostra coscienza.
Che non è assurdo il pensare che questi fluidi, o una loro
parte, sieno termini del nostro stesso sentimento fondamentale di continuazione,
benchè non si abbia da essi il sentimento eccitato, purchè si
ammetta che la sensitività appartenente al nostro individuo non sia annessa
alle molecole del fluido, ma agli elementi di esse; onde, essendo
il fluido cedevole, non accade che si spostino gli elementi, componenti
le molecole fluide, per mancanza di stimoli; il che ce lo fa parere insensibile,
perchè l' attrito delle molecole non adduce un attrito fra i loro
elementi, continuato sino al centro del sentimento umano.
Noi intanto esporremo colle parole altrui gli argomenti,
che mossero un gran numero di dotti a riconoscere nei detti fluidi le
proprietà vitali, perchè questo fatto, qualora sia verificato, conferma la
data teoria, dalla quale rimane spiegato.
Noi siamo ben lontani dall' accordare che vi siano sostanze
corporee separate dal nostro corpo, le quali, applicate al corpo nostro,
operino immediatamente sulla vitalità. Secondo noi il corpo non può
operare che sul corpo, e il corpo straniero, come corpo, non può operare
che sul corpo nostro.
Quanto poi allo stesso corpo nostro, termine del sentimento, è manifesto
che, modificandosi nel modo detto, deve di necessità modificarsi,
accumularsi, eccitarsi, ed anche moltiplicarsi da sè stesso il sentimento
(1). Che poi l' attività del sentimento, che ha per termine il corpo,
possa
operare immediatamente sul sentimento del corpo paziente, questo l' abbiamo
congetturato (4); e ci venne a parer sempre più probabile, più
che osservammo i fenomeni della natura animale, onde l' azione di un
corpo vivo sopra un corpo vivo sembra a noi duplice, materiale e sentimentale.
E nel vero in questa ipotesi sono i sentimenti quelli che,
venendo le molecole vive al contatto, si continuano e si unificano; sono
i sentimenti che si accentrano ed individuano, e che individuati fanno
da sè dipendere altri sentimenti, e dominano i movimenti intestini del
continuo a cui s' estendono. Fra questi sentimenti vi è azione, comunicazione,
e talora armonia, talora anche lotta.
Laonde, quantunque i fluidi del corpo animale sieno all' animale
stesso insensibili, possono tuttavia essere vivi ed investiti di
sentimento, e possono essere termini del sentimento nostro di continuazione,
senza che i loro movimenti valgano ad eccitarlo e a dar sensazione,
perchè il loro attrito non è attrito degli elementi viventi, o perchè l' eccitamento
non è continuato fino al centro, cioè alla sede del sentimento
massimo; ovvero possono essere termini d' un altro sentimento, diverso
da quello dell' animale, a cui si reputano appartenere.
E che i fluidi del corpo umano, od alcuni di essi, possano essere termini
d' un altro sentimento, le osservazioni microscopiche fatte dai moderni
sui globuli del sangue sembrano confermarlo. Le accennerò colle
parole d' un illustre medico italiano:
Ma è pure strano il sentire alcuni che vi negano tuttavia la
vita degli umori, e in medicina d' altro non vi parlano che di solidismo,
quando dovrebbe disingannarli anche solo la riflessione che avanti i solidi
furono i liquidi; e nella formazione della natura e nella generazione
dell' animale questi precedono quelli, di maniera che sempre più
si illustra il principio antichissimo, divenuto caratteristico della scuola
jonica, « il liquido essere principio di tutte le cose ». Si rammentino le
osservazioni già tanto moltiplicate sulla formazione successiva dell' animale.
A spiegare altresì il fatto dell' assimilazione, della nutrizione
e della riproduzione di alcune parti del corpo, conviene ricorrere alla
vita dei liquidi.
Nelle quattro specie conosciute di generazione, la vivipara,
l' ovipara, la gemmipara e la fissipara, le particelle fluide, che danno la
vita ad un nuovo individuo, si separano dal corpo; ma non si riflette
abbastanza a un fatto tanto significativo, perchè troppo consueto, benchè
egli solo, pare a noi, basterebbe a provare la vita annessa ai fluidi.
Ecciterà dunque maggiormente l' attenzione quest' altro fatto, che si
osservano vestigi di vita anche in particelle, le quali si separano dai
corpi per accidente, e non secondo le leggi della generazione conosciuta.
Dopo Buffon (2), che suppose l' esistenza di molecole organiche,
molti applicarono i loro studi a deciferare questa questione.
Presso di noi il Professore Botto fece (3) speciali osservazioni sui
movimenti di globicini animali e vegetabili, sospesi in vari liquidi, che
non sembrano potersi spiegare ricorrendo unicamente a leggi meccaniche,
fisiche, o chimiche.
Non si conchiuda già da tali osservazioni che vi sia un' azione
fra quei globuli in distanza. Niente mi prova, come dissi ancora,
la necessità di ammettere attrazione fra corpi distanti, e m' induce a negarla
la ripugnanza che mi par giacere nel suo concetto. I globicini possono
avere un movimento intestino, che li muova da un luogo all' altro.
Oltracciò, nuotando essi in un fluido, le cui particelle io suppongo al
contatto e dotate di sentimento, possono benissimo stendere la loro
azione ad altri globicini nuotanti nello stesso fluido, per l' azione del
sentimento che nel fluido stesso si può continuare, benchè nei soli globicini
si trovi accumulato in modo da renderli centri di maggiore azione.
Del rimanente è uopo riflettersi che fra il sentimento massimo
e gli altri sentimenti parziali si possono dare diverse relazioni, le
quali non cessano, se non cessando la continuità delle molecole sensitive.
Allorquando queste molecole sensitive, o aggruppate e attenentisi
ad un centro di sentimento, o sciolte, si separano dal corpo animale, costituiscono
altrettanti sentimenti individuali separati. Ma prima che si
dividano interamente, il loro sentimento può essere più o meno raggiunto
al sentimento massimo, e da questo più o meno dominato, o almeno
da questo influito e mantenuto in certa attività.
Il sentimento massimo d' un animale può influire alla conservazione
di altri sentimenti individuali in più modi, che si possono
ridurre a due; l' uno soggettivo , eccitando immediatamente questi sentimenti,
e così attivandoli in modo che acquistino l' intensità necessaria
per essere individuati; l' altro extra7soggettivo , somministrando ai detti
centri il nutrimento, o applicando loro stimoli extra7soggettivi atti a
conservare l' eccitamento medesimo.
Il primo modo soggettivo , col quale il sentimento massimo
d' un animale eccita immediatamente il sentimento in una sua parte con
tanta forza da individualizzarlo, si scorge nell' atto generativo, almeno
negli animali più perfetti, dotati di vario sesso. Io credo che il sentimento
inerente alle particelle, che divengono un nuovo individuo, riceve
dall' atto generativo una tale e tanta esaltazione, quale e quanta
bisogna loro per individuarsi, bene inteso che questa individuazione
viene aiutata dal separarsi della sostanza seminale dagli individui a cui
ella apparteneva, benchè non si stacchi interamente dagli individui femmina,
ma vi aderisca meno di prima.
Quanto poi al secondo modo, extra7soggettivo , se n' ha molti
esempi, e primieramente nel feto. Questo riceve dalla madre la nutrizione
non solo, ma di più il sangue rosso. Se la madre estenda il suo sentimento
fondamentale a quello del feto, o lo ecciti immediatamente,
questo non so; e se fosse, servirebbe a spiegare l' amore materno. Ma
somministrandogli ella del proprio sangue rosso mediante la vena umbelicale,
e questo sangue venendo mosso dal sentimento materno, è
questo sentimento che mantiene la vita intra7uterina del feto colla somministrazione
dello stimolo principale e incessante che la produce.
Di più, vi sono molti animali che vivono in altri animali,
e la loro vita è legata sì fattamente all' animale che li contiene, che
muoiono con esso; non se ne rinvengono mai nei cadaveri, ed estratti
dal corpo in cui vivono, benchè si contraggano ancor qualche tempo
nell' acqua tepida, poi vengono meno. Non abbiamo ancora dati sufficienti
da determinare il modo, nel quale la loro vita dipende dalla vita
dell' animale maggiore; ma non sarebbe impossibile che il sentimento
massimo comunicasse immediatamente della propria eccitazione, in essi
continuandosi. Se la cosa non è così, è almeno necessario che il sentimento
massimo somministri, colla sua attività e colle operazioni che
egli produce in tutto il corpo, a questi piccoli viventi il nutrimento, ed
assai probabilmente gli stimoli extra7soggettivi, che tengono il loro sentimento
limitato in quel grado d' intensione, che gli è necessario per essere
costituito come individuo (1).
Ed è degno di osservazione che fra gli animali di cui parliamo,
alcuni non vivono che in animali sani; altri all' incontro non si
rinvengono che in animali, che si trovano in istato di malattia. La legge,
secondo la quale tali animali si producono e si mantengono, è la medesima.
Il sentimento massimo nello stato di sanità ha un' attività, e produce
nei corpi movimenti diversi da quelli che produce nello stato di
malattia; quindi egli deve aiutare lo sviluppo di centri diversi, produrre
organizzazioni diverse nella sfera dell' organizzazione totale.
Tra gli animali abitanti in corpi viventi sani tengono il
primo luogo i zoospermi.
Ora i zoospermi non solo sono propri del corpo sano, ma sembrano
a questo necessari, perchè sembrano necessari alla generazione.
Pare adunque che questi animaletti sieno così essenziali all' animale
maggiore che li racchiude, come è a lui essenziale la facoltà generatrice.
Gli animali, che sembrano svilupparsi nei corpi per cagione
di malsania, o che malsania producono, sono di molte maniere, gli entozoarii,
gli acari scabbiosi, i pidocchi, ecc..
« Ogni specie animale ha i suoi particolari entozoarii, i quali non
possono vivere in specie diverse, e periscono tostochè sono usciti dal
corpo in cui ebbero nascita; e ogni viscere del corpo d' un animale non
può essere nido che di particolari entozoarii ».
Fra questi gli idatidi o vermi vescicolari, che furono divisi in cinque
classi maggiori, ciascuna delle quali presenta delle suddivisioni in
classi minori, e che conservano pure la vita per l' influenza della vita
dell' animale maggiore in cui vivono, sono divisi e isolati mediante il
parenchima dell' organo, in cui si sviluppano mediante vesti o vesciche
nelle quali si contengono; le pareti di queste vesciche sembrano influire
non poco a limitare l' eccitamento intestino loro proprio, sicchè non si
possa estendere e comunicare all' animale maggiore che dà loro l' alloggio,
la nutrizione, degli stimoli (1), e fors' anche parte del proprio
eccitamento; la quale limitazione deve contribuire all' individuazione di
quei piccoli sentimenti fondamentali. Alla detta limitazione deve contribuire
del pari la stessa vescichetta, che forma ciascun idatide; e pare
indubitato che, mediante un tegumento più o meno consistente, più o
meno insensitivo, che racchiude tutti gli entozoarii, si limiti a breve spazio
sì la loro organizzazione e sì il loro proprio fondamentale sentimento;
le pareti del detto tegumento ne formano come la linea di confine.
Gli argomenti, volti a provare la generazione spontanea dei pidocchi
nei fanciulli anche sani e nella ftiriasi, furono esposti da Fournier
(1), da Sichel (2), da Burdach (3) ed altri. « Ogni specie animale
è soggetta ad una particolare varietà di pidocchi, e sovente un individuo
di una determinata specie di animali, vivente isolato e lontano da
ogni altro individuo della sua specie, trovasi molestato da pidocchi che
sono propri della sua specie. Anzi Patrin, avendo fatto covare ova di
pernice da una gallina, ottenne pernici sui quali osservò i pidocchi propri
della pernice, e neppur uno dei pidocchi propri dei gallinacei ».
Tutti questi viventi sembrano ingenerarsi dall' animale massimo
in istato sano o morboso. La generazione spontanea si manifesta
assai più evidente, disorganizzandosi l' animale morto, ed anche il vegetabile.
Quante maniere non se ne presentano all' osservazione coll' infusione
di tali sostanze in un liquido?
« Ottengonsi infusorii di specie diverse a norma della diversità delle
sostanze infuse, ed a norma delle diverse condizioni dell' acqua e
dell' aria, che concorrono all' effetto dell' infusione. Così l' infusione di
una sostanza vegetale od animale, priva d' azoto, darà luogo piuttosto
alla produzione di vegetabili infusorii che a quella di animali; e per lo
contrario, l' infusione di una sostanza animale o vegetale, ricca d' azoto
e scarseggiante di carbonio, produrrà di preferenza animali che vegetabili
infusorii. Sostanze animali diverse, infuse, forniscono animali infusorii
diversi, come lo provò Gruithuisen, il quale osservò che gli infusorii,
prodotti dal musco, sono diversi da quelli prodotti dal pus (4).
Anche il diverso stato, in cui trovasi una stessa sostanza organica, basta
per fare sì che essa produca infusorii di diversa specie; così Spallanzani
vide che i grani di trifoglio bolliti producono infusorii diversi da quelli
prodotti dai medesimi grani non sottoposti alla bollitura ».
Sembra che tutti questi fatti non si possano spiegare, se non supponendo
che il sentimento sia inerente ad ogni elemento della materia,
e che la composizione di questi piccoli sentimenti e l' unità armonica dei
loro eccitamenti ed accumulamenti (composizione ed unità prodotte
dall' attività del sentimento medesimo e dalle leggi che ad essa presiedono)
sia ciò che produce tali organismi vitali, tali animali.
Nella quale supposizione la morte degli animali maggiori
ed osservabili altro non sarebbe che la dissoluzione del sentimento loro
fondamentale, e la perdita quindi dell' esistenza individuale, che perirebbe
a cagione della perdita dell' organizzazione opportuna a quel sentimento
eccitato, che li individua.
Ma in tale avvenimento niun sentimento primitivo ed elementare
cesserebbe d' esistere; solamente venendo egli composto, accumulato
ed eccitato diversamente, o diviso fino allo stato elementare, riceverebbe
altre individuazioni, e darebbe così esistenza ad altri animali
ed a vivi elementi. In questo modo la generazione spontanea sarebbe
spiegata, anzi pure ogni generazione si ridurrebbe ad una sola legge.
Nè dubito punto che il filosofo metafisico vedrà la cosa
possibilissima, scevra da ogni perniciosa conseguenza, anzi pure probabile,
se egli moverà i suoi ragionamenti dall' osservazione interna della
coscienza che ha del proprio sentimento; se egli rifletterà che l' anima
sensitiva non può essere da lui conosciuta se non mediante la detta osservazione,
che lo rende conscio del sentimento [col quale sente], e che
egli non può trovare quest' anima se non nel sentimento medesimo, non
può definirla se non un principio senziente; ancora, che in questo principio
senziente egli deve riconoscere un termine esteso, variabile, divisibile
e moltiplicabile, e che il principio senziente non esiste se non
inerentemente al suo termine, onde si deve moltiplicare col moltiplicarsi
di questo.
Solo l' anima dell' essere intelligente è un principio più elevato,
il quale non può perdere l' identità sua e la sua individualità colla
perdita del sentimento corporeo, come dichiareremo in appresso più
largamente.
Forse all' universalità della legge, che noi accennavamo, si
opporrà non essersi potuto ancora ottenere alcun animale coll' accozzamento
di sole sostanze inorganiche. A cui rispondo che, lasciando anche
da parte la pretensione di alcuni chimici, che vantano di avere ottenuto
qualche rudimento d' organizzazione facendo reagire fra loro sole
sostanze inorganiche, l' obbiezione non distrugge necessariamente l' universalità
della legge, posta da noi per congettura, essendosi dimostrato
antecedentemente che certi aggregati troppo semplici di elementi non
possono dar segni di vita apparenti all' osservazione, quand' anche l' avessero.
Che poi gli elementi per comporsi in modo da acquistare quell' organizzazione
ammirabile, senza la quale la vita non può apparire e
mostrarsi di fuori in movimenti continui extra7soggettivi, abbiano bisogno
di una organizzazione preesistente, quasi di macchina acconcia
in cui ella venga elaborata e disposta; questa è questione indipendente
affatto dalla precedente.
Finalmente si opporrà che, ammessa questa teoria, sarebbe
cosa al tutto decisa che la morte dell' animale si fa sempre per disorganizzazione;
il che non è provato, non essendosi potuto scoprire in certi
cadaveri segno di disorganizzazione di sorte.
La disorganizzazione potere essere sfuggita all' osservazione,
come non rade volte indubitatamente avvenne (1).
Se la vita è inerente agli elementi, i quali per la loro piccolezza
si sottraggono ad ogni osservazione umana, poter benissimo esservi
tali lesioni d' organizzazione, che non sieno atte ad essere osservabili.
Finalmente le osservazioni fin qui istituite per discoprire i
disordini d' organizzazione, che cagionarono la morte, furono tutte fatte
su cadaveri umani; e poichè nell' uomo vi è un principio superiore al
corpo, non può provarsi impossibile che questo principio abbia virtù
di dividersi dal corpo spontaneamente, senza che preceda disorganizzazione
nel corpo stesso; benchè a me parrebbe dover avvenire in tal
caso piuttosto una momentanea alienazione che una vera separazione.
Qui poi aggiungerò l' osservazione, che coll' ipotesi della vita
dei primi elementi si concilierebbero due sentenze apparentemente contraddittorie
in sommi scrittori, i quali non è mai a credere che si sieno
troppo grossamente contraddetti.
I più eccellenti ingegni hanno creduto provare l' immortalità dell' anima
umana dall' essere ella vita del corpo, così argomentando: « Il
corpo riceve la vita dall' anima, dunque egli è morto per sua natura.
Ma l' anima, che è quella che dà la vita al corpo, non può cessare di vivere,
perchè è vita ella stessa »(2).
Ora, questa maniera di argomentare è fermissima, ma ella vale
egualmente applicata all' anima dell' uomo e a quella dei bruti; cioè
prova egualmente che il principio che dà la vita al corpo, abbia congiunta
o no l' intelligenza, non può perire.
Eppure quegli stessi autori insigni che ragionano così, insegnano
poi che l' anima dei bruti perisce.
Come conciliarli seco medesimi?
Colla teoria della vita dei primitivi elementi della materia;
vita distinta da quella organico7eccitata, propria dell' animale.
La vita originaria, primitiva, latente, che non perisce, si è quella
degli elementi; per essa è acconcissimo l' argomento indicato. Ma la vita
patente degli animali non consiste in quel solo primitivo sentimento,
ma esige eccitamento, continuazione dell' eccitamento, regolarità in questo
eccitamento, e quindi organizzazione, che riproduca l' eccitamento con
armonia in circolo perpetuo. Perisce adunque l' animale col distruggersi
dell' organizzazione, perisce la vita sua propria, ma rimane la vita, il
principio della sua vita, cioè l' anima aderente agli elementi primi, nei
quali l' organismo si scioglie.
Anche l' altro argomento dell' immortalità dell' anima, che
si dedusse dalla spontaneità del moto (1), conviene egualmente al principio
sensitivo ed al principio intellettivo, perocchè entrambi hanno una
efficacia di muoversi da sè stessi, date le condizioni opportune; e però
esso è certamente efficace, ma non a provare la sola immortalità dell' anima
intellettiva, ma l' immortalità della vita dei primi elementi.
Quindi non fa meraviglia se molti filosofi dell' antichità,
non essendo pervenuti a distinguere la vita eccitata degli animali dalla
vita in riposo degli elementi, abbiano sostenuto l' immortalità egualmente
delle anime umane e belluine, fra i quali l' indiano Budda o €akya, che
diceva non differire queste anime se non per riguardo al soggetto in cui
esse si trovano, distinguendo con nuovo errore il soggetto dell' anima dall'
anima stessa (1).
Vi sono ancora altri argomenti non leggeri in favore della sentenza
che pone gli atomi animati, ma noi ci riserbiamo ad accennarli dove cadono
a corollario delle verità, che ci restano ad esporre.
E qui noi possiamo perfezionare la definizione dell' animale,
meglio dichiarandola.
Abbiamo definito l' animale « un essere individuo materialmente
sensitivo e istintivo ».
Ciò che rimaneva a dichiararsi era la parola individuo . Le cose, che
precedentemente abbiamo esposte, dimostrano in che consista l' individualità
dell' animale: ella consiste in un sentimento massimo, dominatore
di tutti i sentimenti diffusi in una data estensione sentita.
Quindi la differenza fra gli elementi vivi (2) e gli animali .
Quelli non hanno che il sentimento; ma gli animali non
sono costituiti se non allora che si avverino queste quattro condizioni:
1 sentimento continuo; 2 eccitamento; 3 organizzazione che perpetui
l' eccitamento; 4 unità di organizzazione e di eccitamento, cotalchè vi
sia un sentimento massimo e prevalente, il quale, avendo maggiore attività
che tutti gli altri sentimenti nello stesso continuo, domini tutte le
attività sensitive, e così individui l' ente senziente.
Quindi può nascere la questione: « se vi sia in natura uno
speciale ministro dell' eccitamento animale, onde siccome da agente principale
si formi, ristori e sviluppi l' organizzazione ».
Ebbene, rispetto a molti animali e fors' anche a tutti, pare che questo
ministro vi sia, e che sia l' ossigeno.
E` un fatto, che s' avvera negli animali a sangue caldo e rosso, che,
qualora una parte dell' animale non viene più innaffiata dal sangue ossigenato,
ella non dà più segni di sentimento animale. Questo prova che
in tali animali il sentimento massimo e individuante
non ha più attività sufficiente a conservare o esercitare il suo dominio,
senza un tale eccitatore.
Quindi ella è antichissima opinione [consacrata dall' autorità
della Scrittura], che la vita animale abbia la sua sede nel sangue;
il che noi interpretiamo così, che il sangue ossigenato sia nell' uomo e
in altri animali, organati con certa perfezione, l' eccitatore del sentimento
individuante.
Non bene fu reso da un celebre scrittore il luogo della Genesi, dove
si nomina « il sangue delle vite » « sanguinem animarum vestrarum (1) »,
colla frase « il sangue è la vita »(2). Così pure altrove si dice che nel
sangue è la vita della carne, « anima carnis in sanguine est (3) », ma non
che il sangue stesso sia la vita.
Si pretese trovare questa stessa opinione in Omero, donde
l' abbia poi derivata Empedocle (4), ed in altri assai. Certo è che fu
introdotta negli stessi miti , favoleggiandosi che le anime dei trapassati
non potessero ricordarsi le cose della vita presente, se non assorbendo
il vapore del sangue o il sangue stesso; opinione che deve aver dato origine
in parte alle vittime immolate ai trapassati. Non rincresca che io
qui riferisca il luogo di Porfirio, conservatoci da Stobeo: [...OMISSIS...] .
Dove però si scorge continuamente confusa l' anima sensitiva coll'
anima intellettiva.
In Italia Plinio riprodusse questa opinione, che ripone l' anima
nel sangue (2).
Recentemente fu riprodotta dal cav. Rosa (3), e poscia in Inghilterra
da Hunter (4), il quale stabilì questa proposizione tutta all' uopo
nostro, che « l' organizzazione niente ha di comune colla vita ».
Solamente che questi celebri osservatori della natura non
videro poi la differenza fra la vita semplice e quiescente, che nel solo
sentimento consiste, e la vita continuamente eccitata, a cui è indispensabile
la conveniente organizzazione. Ad ogni modo pare che dalle loro
esperienze si possa raccogliere in un modo inconcusso che la vita eccitata
ed animale ha il suo principio eccitatore nel sangue (5).
Ma non basta; le esperienze di Bichat provarono che non
il sangue nero, ma il solo sangue rosso ha la virtù di eccitare la vita animale
dell' uomo. Ora è noto che il sangue si fa rosso mediante l' ossigeno,
che l' animale trae dall' atmosfera colla respirazione. Ben rimarrebbe a
conoscere se i pesci e gli altri bruti a sangue freddo e a sangue bianco
ricevano anch' essi l' eccitamento, che mette in atto la loro vita, dall' ossigeno,
cavandolo dall' acqua o altronde comecchessia.
Quindi per molti animali l' atmosfera è, quasi direbbesi, il
serbatoio e il fonte perenne della vita animale.
Questo sembra aver veduto Empedocle, il quale, secondo che attesta
Teodoreto, dice « l' anima essere commista di sostanza eterea ed
aerea », e pose nel cuore la sede di lei (1). E perchè nel cuore? Perchè
al cuore passa il sangue dal polmone, dopo saturato d' ossigeno, onde Cicerone
scrive: « « Empedocles animum esse censet cordi suffusum sanguinem »
(2) », frase che assai bene distingue il sangue ossigenato, che va
al cuore, dal sangue che, venendo spinto dal cuore alla circonferenza,
si disossigena. E poichè nella respirazione la scomposizione dell' aria è
una cotal combustione, e produce calore, Empedocle di fuoco principalmente
volle constare l' anima; e dal maggiore e minore calore del sangue
riuscire pronti o tardi gli ingegni (3).
Anche gli autori, che diedero all' anima la natura di aria,
come Anassagora, Anassimene, Archelao, Diogene di Apollonia (4),
sembrano aver colta o traveduta la stessa cosa; come pure tutti quelli
che le diedero natura di fuoco, come Parmenide, Leucippo, Democrito;
e lo stesso Eraclito di Efeso, che pose nel fuoco il principio elementare,
il substratum di tutte le cose, l' agente universale, onde ammetteva gli
elementi animati da questo principio (5), e sembra che col fuoco identificasse
od unisse la luce (6). A me pare che Empedocle abbia derivato
molte sue sentenze da questo fonte. E questo sia prova che talora i filosofi,
che sembrano di opposta sentenza, si possono conciliare fra loro,
come facciamo qui di quelli che volevano l' anima aerea, e di quelli che
la volevano ignea.
Per altro la stessa etimologia delle voci anima, animus, spiritus ,
ecc., tutte significanti aerea sostanza, par dimostrare che i primi
uomini, inventori di queste parole, e con essi il senso comune, opinavano
che l' animale traesse dall' atmosfera, respirando, il motore della
sua vita.
La quale opinione si deve forse riporre fra quelle che risalgono
all' origine del mondo; poichè nella Scrittura l' anima si denomina
fiato, e per uno spiro della bocca di Dio viene infusa (1); i quali luoghi
adducendo, Tertulliano dice: « « Nam anima in substantia flatus est, ab
effectu autem dicitur spiritus quia spirat »(2) »; di che questo autore
trasse il suo errore della materialità dell' anima, confutato poi validamente
da S. Agostino (3).
Laonde, se gli antichi fisici si fossero accontentati d' insegnare
che l' animale traeva dall' atmosfera l' eccitatore principale di loro
vita, non sarebbero andati lungi dal vero;
ma
confondevano tutt' insieme colla vita animale il principio
intellettivo, e però traviarono nei primi passi (4).
Passiamo ora a considerare l' anima umana, in quanto è intellettiva;
e anche qui consideriamone la semplicità .
La semplicità è una proprietà negativa, perchè con essa si esclude
il molteplice, l' esteso, il materiale. Ma ella ci giova tuttavia non poco
a conoscere la natura dell' anima, perchè noi non la consideriamo sola
quella proprietà e astrattamente, ma negli atti e nelle operazioni dell' anima,
le quali ci somministrano una cognizione positiva di lei. Onde
conoscendo positivamente l' anima mediante il sentimento e la coscienza,
come dicemmo, altro non ci rimane che a trovare le differenze sue
dalle altre cose, e principalmente dai corpi, per averne così la cognizione
riflessa e scientifica; giacchè questa si compone di differenze, dimostrate
in gran parte nelle proprietà negative, che escludono dall' ente,
che si vuol conoscere, tutto ciò che non è lui.
Diciamo, dunque, che niuna delle operazioni intellettive
dell' anima potrebbe essere fatta se non da un principio semplice; e che
perciò tante prove si hanno a conferma della semplicità dell' anima,
quante sono le sue operazioni intellettive. Ognuna di queste prove, bene
analizzata e meditata, è convincente a pienissimo. Onde il ragionare nostro
non troverebbe fine, se tutte volessimo trarle fuori per singolo. Come
adunque abbiamo fatto parlando dell' anima sensitiva, la quale si
dimostra semplice coll' analisi di qualsivoglia operazione dell' animale,
e tuttavia ci siamo ristretti a considerarne sol poche; così faremo
dell' anima intellettiva. Deliberemo
la materia, limitandoci a meditare quale semplicità di principio
esigano a prodursi le prime fra le intellettive operazioni.
Che cosa è l' anima intellettiva? Un soggetto che intuisce
l' essere in universale.
Ora l' intuizione è operazione semplice, perchè semplice ne è l' oggetto.
Infatti l' essere universale è fuori dello spazio e del tempo (1).
Ma il soggetto, che lo intuisce, riceve la sua forma dall' essere intuìto;
dunque l' intelligente, la cui attività termina tutta e dimora nell' essere
intuìto, è un principio fuori dello spazio e del tempo, al tutto
semplice, spirituale (2).
L' intuizione adunque dimostra ad evidenza la semplicità dell' anima
intuente (3).
Questa è la dimostrazione fondamentale della spiritualità dell' anima
intellettiva, come quella che è tratta dall' atto primo di lei, dal suo
essere formale. Ella racchiude altresì tutte le altre nel suo seno; conciossiachè
se le altre operazioni dell' anima intellettiva e razionale si
trovano dover essere semplici, la ragione ultima della loro semplicità
giace nella semplicità dell' atto primo, dal quale gli atti secondi derivano
e si svolgono.
L' intuizione delle essenze specifiche e generiche
dimostra la stessa verità. Tali essenze sono tutte semplici,
immuni da spazio e da tempo, e non differiscono dall' essere in universale
se non per alcune determinazioni, di cui lo rivestono.
Ma ciò che merita di essere più attentamente osservato
si è che quello stesso che nel primo aspetto sembra poter recare qualche
pregiudizio alla semplicità dell' anima intellettiva, e onde furono
tratte infatti alcune obbiezioni per impugnarla, è ciò che maggiormente
la conferma.
Noi abbiamo dimostrato la semplicità del principio sensitivo dalla
natura del continuo, il quale, abbiamo detto, suppone il semplice in cui
esiste. L' estensione adunque è già unificata dal principio sensitivo, e
somministrata come semplice all' apprensione dell' intendimento. Ma il
numero riceve la sua natura di numero dall' unità e semplicità del principio
intellettivo, che simultaneamente e con atto semplicissimo apprende
più cose. L' unificare più cose in una sola collezione, numerarle,
cavarne per astrazione i concetti e la teoria dei numeri, è tale operazione
che non può esser fatta che da una mente e da un atto semplice,
che abbraccia il più nell' uno.
Da questo medesimo argomento, che dimostra la semplicità
dell' anima, perchè ella considera più cose nello stesso tempo e
collo stesso atto, e in una stessa idea, procede la dimostrazione della semplicità
del principio intelligente, che si trae dal sillogismo e da tutti gli
atti del ragionamento, e che noi accennammo altrove (1). L' uomo non
potrebbe, se non avesse uno spirito al tutto semplice, eseguire l' operazione
del paragone, trovare le differenze delle cose, le convenienze e le
disconvenienze, ordinare i mezzi al fine, ecc.. Tutte queste operazioni
suppongono un principio, che abbraccia più cose nell' unità e semplicità
di una sola e medesima idea.
Quindi esce ancora l' argomento che si trae dalla libertà
dell' uomo, la quale esige un principio semplice, che sia capace di eleggere
fra più cose. Il quale argomento, già usato da S. Tommaso (2),
viene esposto dal Suarez così: « « Tutti gli agenti materiali, di cui abbiamo
esperienza, operano per necessità di natura, e i bruti per naturale
istinto; del che è segno l' osservare che tutte le cose, che sono della medesima
specie, hanno un' operazione determinata e un modo uniforme
di operare; onde quella determinazione procede dalla materialità. Per
conseguente il modo di operare dell' anima razionale tutt' altro da quello,
proviene dall' immaterialità »(1) ».
Aristotele e i suoi seguaci, gli Scolastici, ottimamente
osservarono che la condizione e virtù del corpo è così limitata e particolarizzata,
che esso non ammette se non certe modificazioni e passioni,
le quali si escludono scambievolmente. Così nello stesso tempo che un
corpo è rosso, non può essere d' altro colore. Quindi gli atti del corpo
non s' estendono oltre a quella breve virtù, che è nell' atto primo del
corpo stesso. Ma tutt' altro accade della virtù dell' anima intellettiva, che
intende tutte le cose a lei offerte nel debito modo, anche le più contrarie,
le confronta, ecc.. Dunque l' anima intellettiva non può avere natura
corporea. Questa in sostanza è la prova che adduce Aristotele, considerata
nel suo fondo e vestita di una forma esatta (2).
La ragione poi, ond' è che la natura conoscitiva dell' anima può abbracciare
tutte le cose, si è perchè il suo atto primo, che determina la
sua virtù, è informato dall' ente in universale; il quale abbraccia virtualmente
tutte affatto le entità; onde ella ha una virtù primitiva, che a
tutti gli enti si estende. All' incontro il corpo non ha oggetto distinto da
sè, termina tutto in sè stesso, nella sua natura particolare. Così pure il
principio sensitivo ha per suo termine l' estensione corporea, e quindi
la virtù sua è limitata alle modificazioni, di cui è suscettibile l' esteso sentito.
Ma l' esteso sentito, cioè il corpo, è limitato a quel modo che diciamo;
perciò anche il principio sensitivo rimane limitato dalla limitazione
stessa del corpo, che costituisce il termine del suo primo atto.
Alla qual prova si riduce quest' altra molto evidente,
ed usata spesse volte dagli antichi (3). L' anima intellettiva concepisce
enti spirituali, come sè stessa, gli Angeli, Iddio; e può amarli e volerli
come suoi beni (1). Ma il corpo, esteso com' è, non può uscire colla sua
azione dall' estensione, quindi non può attingere ciò che è al tutto fuori
di essa. L' anima intellettiva dunque è incorporea.
Finalmente l' operazione del riflettere , che fa l' anima
sopra sè stessa, è manifestissima prova della sua semplicità ed incorporeità;
perocchè il corpo non ha alcuna azione sopra sè stesso (2). Ma
anche questa dimostrazione è conseguente alla prima; giacchè dove trovasi
la ragione che spiega la riflessione del pensiero sopra sè stesso?
Onde deriva questa facoltà? Ella deriva dalla natura dell' essere in universale ,
oggetto di quel primo suo atto, che la costituisce intelligente.
Conciossiachè, essendo quell' oggetto così universale che abbraccia ogni
entità, e per conseguente anche l' entità stessa dell' anima e di tutti i suoi
atti, ella può in esso trovare sè stessa e gli atti propri, e i suoi oggetti; il
che è riflettere. E poichè l' essere è oggetto della sua intuizione e insieme
mezzo di ragionare, ella può applicare l' essere, come mezzo di ragionare,
all' essere come oggetto dell' intuizione, e così riflettere sopra
l' essere stesso, e per mezzo dell' essere ragionare dell' essere.
Se dunque è semplice il principio sensitivo ed è semplice
il principio intellettivo, e se questi due principŒ s' identificano nell' anima
razionale, l' anima razionale è semplice.
Infatti, come già dicemmo, l' Io stesso, che fa un atto, è quegli che
fa tutti gli atti; l' Io, che opera per mezzo del corpo in uno spazio, è
quegli che opera in tutti gli altri spazi dove gli piace operare; l' Io, che
opera in un tempo, è quegli che opera in altri tempi; l' Io, che patisce,
è l' Io che fa; l' Io, che sente, è l' Io che intende; egli è sempre il medesimo,
uno e semplicissimo Io. Dunque l' Io, cioè l' anima razionale dell'
uomo, si dimostra per l' identità sua costantissima, variando gli accidenti,
semplice e spirituale.
Ma se la semplicità dell' anima, di ogni anima, è indubitabile
e manifesta, quanto è manifesto l' assurdo di supporla estesa; se si
hanno altresì dimostrazioni irrepugnabili che l' uomo è uno e non può
avere che un' anima sola; ciò nonostante ritorna una cotal dubbiezza nelle
menti, che fa vacillare la persuasione nelle trovate verità, e questa dubbiezza
si genera dalle seguenti considerazioni:
La prova dell' unità dell' anima umana, che si deduce dalla coscienza,
cioè dall' unità dell' Io, non toglie il dubbio che fuori dell' Io, e
in connessione coll' Io, potesse essere un' altra anima sensitiva.
La coscienza non dimostra che tutte le azioni, che si fanno
nell' uomo, sieno fatte dall' Io, sicchè l' Io sia il solo principio operativo
nell' essere umano; che anzi molte cose avvengono nell' uomo, che l' Io
non sa di fare, ed altre a cui l' Io espressamente ripugna, come i movimenti
della parte inferiore appartenenti all' animalità; che finalmente
certe operazioni vitali, come la circolazione del sangue, si sottraggono
quasi interamente al libero dominio della parte razionale, e però sono
fatte da un altro principio.
L' uomo stesso, quando opera secondo l' intelligenza, sembra
un essere diverso d' allora che opera secondo l' animalità; e talora egli
brama di perdersi nella voluttà della sensazione fino a rimanere in lui
sospese le funzioni dell' intelligenza, il che non potrebbe bramare se
fosse solo un' anima razionale.
La prova che si deduce dall' unicità del principio dell' intelligenza
e della sensazione (oltrecchè non sempre si avvera che ogni atto
sensitivo si debba attribuire al principio degli atti intellettivi), altro
non conchiude se non l' esistenza d' un principio unico intellettivo, che
talora nel suo operare si associa ed immedesima col principio animale;
ma non prova che questo principio animale non dimostri talora, e però
non abbia un' attività sua propria; e però sia in tali casi un principio
diverso dal principio dell' intelligenza.
Sembra che, mossi da queste ragioni, alcuni gravi filosofi abbiano
dato all' uomo due anime, l' una intellettiva e l' altra sensitiva, e che
quelle ragioni medesime, in sostanza, o simili, conducano al dì d' oggi i
fisiologi, quasi universalmente, a distinguere il principio della vita animale
dall' anima umana.
Queste difficoltà non sono dispregevoli e contengono qualche
cosa di solido, ma nulla provano contro la tesi dell' unicità dell' anima
dell' uomo.
Perocchè sono due questioni ben distinte: 1 se è unica e semplice
l' anima dell' uomo; 2 se quest' anima, benchè unica e semplice, abbia
due attività diverse, divisibili fra loro, ma così fattamente congiunte
che, durante lo stato ed atto d' unione, il principio dell' una s' identifichi
col principio dell' altra, cioè abbiano un solo principio, al qual principio
si dia il nome di anima.
Ora le prove da noi addotte dimostrano che entrambe queste
questioni si debbono risolvere affermativamente. Perocchè:
La prova dedotta dall' unità dell' Io dimostra che, se qualche
cosa avvenisse nell' uomo che non si potesse attribuire al principio intellettivo,
quell' attività non sarebbe un' altra anima dell' uomo; ma sì una
attività, che all' anima dell' uomo non apparterrebbe.
La prova, tratta dal fatto che gli atti sensitivi si possono
talora ridurre al principio stesso che intende, dimostra che in tal caso
uno solo è il principio delle due specie di atti, i sensitivi e gli intellettivi;
e che questo principio unico è l' unica anima umana; onde tutto ciò
che rimane fuori di questo principio unico, non costituisce un' anima
umana.
Noi abbiamo conceduto che il principio sensitivo per sè considerato
è diverso dal principio intellettivo; ma dicemmo che questi due
principŒ sono atti a congiungersi in uno solo, se non a quella guisa che
due punti matematici, movendosi e unendosi, diventano un punto solo,
almeno a quella che il principio d' una retta, a cui si aggiunge
un' altra retta nella stessa direzione, non si raddoppia, ma rimane
un principio solo, ove incomincia tutta la
linea così allungata.
Abbiamo detto che la base di questa unione del principio
intellettivo e del sensitivo è la percezione fondamentale del sentimento
animale; la qual percezione è un atto del principio intellettivo,
che con ciò acquista il nome di razionale . E veramente, data questa percezione,
ne viene che lo stesso principio intellettivo divenga in pari
tempo sensitivo, benchè senta in altro modo più elevato da quello che
sente il principio meramente sensitivo. Perocchè il principio intellettivo
percepisce il sentimento sostanziale (termine e principio) sotto la
natura di ente, come una maniera, un atto dell' ente (giacchè anche il
sentimento sostanziale è una attualità speciale dell' essere in universale).
Ora egli non potrebbe percepire il sentimento come ente, se non lo percepisse
come sentimento; onde ciò che percepisce è il sentimento7ente.
All' incontro il principio sensitivo ha per termine il sentito come sentito
e non come ente, e neppure il sentimento (principio e termine). Ora il
principio sensitivo, che forma identità col principio intellettivo, è appunto
questo, cioè è lo stesso principio intellettivo che, percependo l' ente7sentimento ,
ne sente il termine, il sentito, con sentimento inchiuso
nell' ente, che è suo proprio oggetto; all' incontro il principio sensitivo,
in quanto soltanto aderisce al termine esteso e produce il sentimento, e
di conseguente non percepisce l' ente, nè sè stesso, non s' identifica coll'
anima umana, e non è l' anima umana. Ed è a questo che si debbono
attribuire quei movimenti che si fanno nell' uomo senza che vi concorra
il principio intellettivo, o contro la volontà di questo principio.
Così il principio meramente sensitivo non perde la sua
attività, perocchè l' unione si fa per via di percezione intellettiva permanente,
che non altera la natura della cosa percepita, benchè possa
agire sopra di lei ed anche signoreggiarla. Onde accade che il sentito sia
termine ad un tempo del principio meramente sensitivo e del principio
intellettivo7sensitivo, ossia razionale.
Di che si spiega come sull' identico sentito operino due poteri: il
potere del principio meramente sensitivo e il potere del principio percettivo,
ossia razionale, e talora i due poteri vengano in lotta fra loro.
Si spiega ancora come il principio sensitivo ed il principio percettivo ,
ossia razionale, possano influire l' uno sull' altro. Perocchè, se il principio
meramente sensitivo per la propria spontaneità (dato il conveniente
stimolo) immuta il proprio sentito, con ciò si cangia anche il termine
della percezione, e così indirettamente può modificare e muovere
l' atto del principio razionale. All' incontro, se il principio razionale vuol
mutare il sentito , che percepisce attualmente insieme col principio senziente,
egli lo immuta operando direttamente su questo principio; e ciò
perchè, quantunque la percezione, quando è attuale, non immuti la natura
del percepito, tuttavia dà al percipiente la forza di agire su di lui
e di mutarlo. Così quand' io, toccando colla mano, percepisco attualmente
un corpo esterno, posso immutarlo, dandomene comodità l' attuale percezione,
che meco quel corpo congiunge. Questa è la ragione per la quale
l' uomo può mutare il suo proprio corpo, che percepisce immediatamente
come sentito. Con ciò rimangono disciolte le obbiezioni, prima, seconda
e quarta.
Che se l' uomo talora ama di perdersi nella voluttà della
sensazione, che è la terza obbiezione, rispondo che col perdersi nella
voluttà della sensazione, benchè rimangano sospesi gli atti riflessi, non
è a credersi che si perda la percezione immanente e fondamentale, e che
resti la sola sensazione, la quale sola e divisa non può essere appetita dall'
uomo, che è il principio razionale; anzi la percezione con ciò si rinforza,
ed è quel sentimento che nella percezione si comprende,
l' oggetto dell' appetizione. Non è dunque che si appetisca la mera sensazione,
ma fra gli atti razionali si appetisce tanto il primo, quello della
percezione intensa, che si brama anche col sacrificio degli altri atti riflessi.
Finalmente gioverà osservare che nella percezione il
principio razionale non è propriamente attivo , ma piuttosto ricettivo ,
benchè abbia la forma e la comunichi; onde egli è causa informante (1).
Se dunque si considera la sola percezione fondamentale, non si trova a
dir vero come il principio razionale sia anche principio che modifichi il
sentire. Ma se si procede più oltre, se si riflette che ogni percezione attuale
dà al principio razionale una facoltà attiva (rispondente alla ricettiva
della stessa percezione), per la quale egli può esser causa di modificazione
nel percepito, si vedrà come l' attività del principio razionale
sul sentito animale non è così attuale e permanente come la stessa percezione
fondamentale; ma possa attuarsi e rimettere dall' atto suo; sia
insomma potenza e non atto. E fino che quest' attività del principio razionale
si tiene nello stato di potenza, il principio sensitivo può operare
indipendente da lei e modificare il sentimento animale; modificazioni
che vengono tutte ricevute dal principio percipiente nella sua ricettività,
e da lui informate, cioè ridotte a condizione razionale.
Alle quali riflessioni ne soggiungeremo un' altra sulla definizione
platonica dell' uomo, « « una intelligenza servita da organi » ». Ne
abbiamo già detto il difetto (2). Qui vogliamo indicare il lato vero di
questa definizione, pel quale fu suggerita alla mente di Platone, parendoci
sempre bello il ripetere che gli errori dei grandi uomini non sono
che verità grandi o sottili, disguisate e imperfette. Quella definizione
adunque si trovò manchevole da Aristotele, seguito dagli Scolastici, perchè
pareva che ella unisse l' intelligenza al corpo come motrice , e non
come forma (3). Ora è al tutto erroneo considerare l' intelligenza come
motrice del corpo anzichè come forma ?
Il rispondere a questa interrogazione dipende certamente dal modo
di definire e di determinare la natura rispettiva dell' intelligenza e del
corpo organico; ed appunto perchè questi due termini si trovano posti
nella definizione senza tale determinazione, perciò ella è manchevole.
Ma se invece di adoperare la voce generica d' intelligenza si ponesse
un' intelligenza percipiente l' animalità , e se invece di corpo organico o
di organi si ponesse animale , la definizione rimarrebbe aggiustata, uscendone
che l' uomo sarebbe « un' intelligenza percipiente per natura l' animalità,
servita dalla stessa animalità ». In tal caso la relazione fra una
tale intelligenza e l' animalità potrebbe essere di motrice a mossa; perchè
la forma razionale data all' animalità è già espressa nell' intelligenza
così determinata. Nè male starebbe che in quella definizione l' animalità
ricorresse due volte; perocchè l' animalità, cioè il sentimento sostanziale
animale, ha nell' uomo veramente due modi di essere; infatti egli è come
percepito nel principio razionale, e intanto è da questo informato; ed
è in sè stesso come mero sentimento, e intanto è mosso.
Così l' uomo consta di due parti, l' una essenza di lui e l' altra
condizione; queste due parti non sarebbero l' anima e il corpo , ma sì
l' anima razionale e il corpo vivente. A queste due parti sembrano rispondere
nelle sacre carte lo spirito e la carne , perocchè la parola carne nelle
Scritture non significa la carne morta, ma la carne viva e sensata.
Veniamo ora alla questione dell' origine dell' anima intellettuale,
tanto agitata dagli antichi filosofi e dai Padri della Chiesa, ed abbandonata
poscia dai moderni, allassati da sì lunghe ricerche e sfiduciati di
riuscirne allo scioglimento.
Se non si trattasse che di spiegare la generazione di un' anima
meramente sensitiva, come nei bruti, le difficoltà della questione sarebbero
molto minori; noi abbiamo già veduto che ella è moltiplicabile
mediante la divisione del suo termine sentito.
Abbiamo ancora veduto che questa maniera di moltiplicarsi niente
pregiudica alla sua semplicità.
Ma quando si tratta d' un principio intellettivo cresce immensamente
la difficoltà.
Aristotele stesso se ne accorse, poichè nell' opera che scrisse
sulla generazione degli animali, dopo aver detto che le anime dei bruti
non vengono loro dal di fuori, nè possono esistere senza corpo, perchè
ogni loro operazione si fa coll' aiuto d' organo corporale, soggiunge parlando
dell' intelligenza: « « Rimane adunque che la sola mente s' aggiunga
dal di fuori, ed ella sola sia divina, poichè l' azione corporale non ha
niente di comune coll' azione di lei »(1) ».
Infatti tutti i più solenni filosofi hanno riconosciuto che nell' uomo
v' è qualche cosa di divino, cioè di tale che non può esser dato che da
Dio stesso immediatamente. Onde lo stesso Aristotele in altro luogo dice:
« « solo l' uomo fra gli animali essere partecipe della divinità »(2) », e
parlando della vita contemplativa non dubita affermare che ella « « supera
la natura umana »(3) », volendo significare che l' uomo colla contemplazione
esce dai confini della sua natura ed attinge le cose divine,
quali sono le idee. Onde aggiunge che « « l' uomo non vive a quel modo per
via di ciò per cui egli è uomo, ma per via di ciò per cui v' è in lui un quid
divino »(4) »; e ancora: « « quanto dunque questo » (principio intellettivo)
«differisce dallo stesso composto, tanto anche l' operazione di lui differisce
da quella che viene da altra virtù. Che se la mente è rispetto allo
stesso uomo elemento divino, anche la vita, che da questo procede, è
divina rispetto alla stessa vita umana » ». Di che insegna: « « noi non dovere
troppo pensare alle cose mortali, ma quanto mai fia possibile, far
noi stessi immortali »(5) ».
E` per questo che noi dicemmo non potersi in modo alcuno
spiegare l' umana generazione, senza ricorrere all' intervento di Dio medesimo
(6).
Ma ciò che restava a determinarsi con precisione si era quale fosse
quell' elemento divino, che videro e confessarono tutti i maggiori pensatori
intorno alla natura umana; per non confondere con esso ciò che ad
esso non appartiene.
E di vero gli antichi si contentarono dire che divina era
l' umana mente, nè so se più distintamente e accuratamente mai si esprimessero
(1). Tolta dunque a fare da noi questa investigazione, trovammo
che nella stessa umana mente due cose si dovevano distinguere, che
chiamammo il soggetto e l' oggetto . Vedemmo quindi che il soggetto non
poteva dirsi in alcun modo divino, perchè limitato e contingente; e che
al solo oggetto spettava d' essere annoverato fra le cose divine, come
quello che era veramente illimitato, eterno, necessario, e di altre qualità
fornito al tutto divine. Poichè questo, che sta immobilmente dinanzi al
soggetto umano, è lo stesso essere in quanto è ideale.
E per questa comunicazione, che l' oggetto fa di sè al soggetto
umano, si può dire di lui solo ciò che disse S. Agostino della natura
dell' anima intellettiva, che « vicina est substantiae Dei (2) », ma non che sia
divina ella stessa. Anzi, come egregiamente scrisse Claudio Mamerto, ella
è simile a Dio come «l' intellettuale è all' intelligibile (3) ».
L' oggetto adunque, ossia la forma dell' intelligenza, non può
essere generata, ma è Dio stesso che la disvela all' anima, che viene resa
così intelligente; il che Iddio fece rispetto a tutta l' umana natura, quando
infuse l' anima in Adamo, nel quale l' umana natura si conteneva, e
questa non ebbe poscia che a svolgersi in più individui per via di generazione
(4). Poichè, come al cominciamento impose leggi fisse a tutte
le cose create, così allora fissò anche questa, che ogniqualvolta l' uomo
moltiplicasse colla generazione gli individui, a questi fosse presente l' essere ,
sì fattamente che attirasse e legasse a sè il loro intùito.
Il nuovo individuo, a cui risplende l' essere, conviene che
sia un animante organato al modo stesso del generatore. Questa organizzazione
è certamente la più perfetta, che possa ricevere l' animalità;
quella probabilmente in cui l' eccitamento è sommo, l' armonia di questo
sommo eccitamento perfetta, la potenza centrale del senziente recata al
più alto grado; sicchè il soggetto animale, giunto all' estremo di sua perfezione,
dovesse trapassare i confini dell' animalità e attingere le cose
eterne, l' idea.
Non si creda qui che fra la perfezione specifica del detto
organismo animale e la visione dell' essere passi alcun tempo in mezzo;
ma nello stesso istante che è naturato l' animale umano, egli è anche fatto
intelligente, perchè ammesso alla visione dell' essere, per legge di natura
stabilita dal Creatore a principio.
Neppure si creda che l' organismo proprio dell' uomo già
formato si possa rinvenire scompagnato dal principio intellettivo. No;
perchè questo principio intellettivo, tostochè s' unisce al corpo, gli dà
l' ultima formazione e modificazione, che lo rende così tutto proprio dell'
uomo; e continua ad esercitare la stessa attività, influenza e dominio
sul corpo, secondo ciò che abbiamo detto, gli atti dell' anima razionale
operare sul corpo, e dargli una certa attualità che prima aver non poteva.
Sicchè v' è un organismo tutto proprio dell' uomo formato, che non
potrebbe essere senza l' anima intellettiva, perchè questa, informandolo,
lo produce, ossia gli dà l' ultimo atto. Conviene adunque che l' animalità
e il suo organismo sia recato alla maggior perfezione, acciocchè l' anima
intellettiva e razionale vi si aggiunga; ma questa coll' aggiungervisi dà
poi a tale organismo quel cotale finimento, quell' attualità, quell' indole
di movimento, quel guizzo, quella vita, che in niun ente che fosse meramente
animale potrebbe essere.
Dopo di ciò, niente ripugna che il soggetto , di cui si parla,
si moltiplichi per via di generazione, conciossiachè il soggetto come soggetto
(prescindendo dall' oggetto) non è che un animante.
Ma onde, si dirà, questo principio animale torrà la virtù da intuire
l' essere ? - Rispondo: gli è creata dall' essere stesso col congiungersi a
lui; perocchè, essendo l' essere intelligibile per essenza, egli non può congiungersi
a niun soggetto senza essere inteso, giacchè la sua congiunzione
è questa: essere inteso. Ha dunque l' essere stesso questa virtù di creare
le intelligenze. E che ripugna che un principio senziente, come direbbe
Aristotele, sia in potenza intelligente? cioè, che ripugna che egli venga
elevato a condizione d' intelligente? Quel principio è semplice, non è
corpo, anzi il corpo è suo termine; se gli viene dato un altro termine,
la sua attività si amplifica necessariamente; si deve dunque concepire
come una capacità che riceve, come una potenza rimota tratta ad un
nuovo atto. Al principio, a cui era dato un termine esteso, ora è dato altresì
un termine inesteso e di natura superiore. Che se questo secondo
termine non si può confondere col primo, non può da esso venire modificato;
è insomma un oggetto essenzialmente conoscibile, e l' effetto che
ne nascerà, sarà appunto questo che quel principio con ciò è divenuto
intellettivo; ha perduto certo la sua identità come principio, si è attuato
in un altro principio; ma questo trasnaturamento, bene inteso, non ha
nulla di ripugnante.
Quindi, come S. Tommaso diceva che l' anima sensitiva è
un atto del corpo (il che riesce vero, tostochè per atto s' intenda principio
del corpo, che rispettivamente è termine), così noi possiamo dire
che l' intelligenza è un atto che esce, quanto all' origine, dall' anima sensitiva;
e la cosa è pur vera, purchè s' aggiunga che questo atto costituisce
un soggetto indipendente dal corpo e dallo stesso principio sensitivo,
perchè già sostenuto da un nuovo termine che non perisce.
Dopo di che svanisce una difficoltà, che altrimenti si potrebbe
fare così: « Nell' uomo vi è un' anima sola razionale. Ma l' uomo
è anche un animale, e come tale ha un principio sensitivo. La natura dell'
animale e del principio sensitivo è di moltiplicarsi per via di generazione.
Questa legge universale degli animali non può essere annullata
per l' uomo. E di fatto l' uomo genera. Se dunque genera e così moltiplica
l' individuo animale, forza è che moltiplichi anche l' anima razionale,
che è una ed identica in lui all' anima sensitiva ». - Diciamo che così è
appunto, ma solo presupposta la prima legge, per la quale fu decretato
che l' essere universale si unisca a tutti gli individui dell' umana natura;
legge stabilita da Dio nel momento che Iddio inspirò in Adamo lo spiracolo
della vita.
I Padri, infatti, a quel primo atto attribuiscono costantemente
l' origine delle anime umane. « « L' uomo » - dice S. Atanasio - «in
generale ricevette dall' ispirazione divina l' anima sua, e perciò conosce
le cose divine, persegue le superne, intende le superne, ed è razionale
e di mente fornito »(1) ».
Con che rimane anche confermata la sentenza di Atenagora, che
« « non l' anima genera l' anima, onde possa a sè vendicare perciò il nome
di genitrice, ma l' uomo genera l' uomo »(2) ».
Laborioso libro riuscì il precedente per le questioni difficili,
a cui la semplicità dell' anima porge occasione; è uno di quei veri, i
quali vengono facilmente confermati con argomenti diretti, molti ed irrepugnabili,
siccome si è veduto; e tuttavia lasciano dopo sè non poche
oscure e misteriose ricerche a farsi, quasi germi nella mente deposti,
che, sebbene già fecondati, rimangono tuttavia chiusi, come in durissimi
gusci, i quali non s' aprono, se la stessa mente con lungo e generoso amore
non li caldeggia e li cova; di cui sospettosa da prima, poscia ella gode,
quando usciti i vivaci figliuoli, li ravvisa e li riconosce chiaramente
non adulterina prole di bella verità. E il lettore nel libro presente avrà
via più ragione di confortarsi della sostenuta fatica e di quella che gli
rimane, in quanto che ora il suo intelletto è già bene apparecchiato e
disposto a sollevarsi alla considerazione di quel vero nobilissimo, di cui
quest' ultimo libro ragiona, cioè all' immortalità dell' anima intellettiva;
che è la condizione della umana dignità e della felicità a cui l' uomo,
con irresistibili e non domabili voti, continuamente aspira. Conciossiachè,
benchè mortale per sua propria natura, l' uomo desidera l' immortalità
e ne cerca avidamente la certezza; e niuna cosa più lo turba che pure
il solo dubbio o il sospetto che gli venga meno tanto suo bene. Ora,
quantunque la ragione e l' esperienza gli dimostri il suo corpo corruttibile
e destinato a disciogliersi, e la sola rivelazione che ha da Dio stesso
gli possa promettere sicuramente che lo stesso corpo gli sarà un giorno
restituito non più soggetto a morire, tuttavia riesce a lui verità dilettosa
e sommamente preziosa anche quella che sola gli può dare la filosofia;
voglio dire che immortale e non mai peritura è per natura sua propria
la miglior parte di lui, cioè l' anima sua intellettiva; la quale verità gli
deve essere anche lieto presagio e messaggere di quel più, che egli deve
aspettarsi dalla magnifica liberalità del suo Creatore. Incominciamo
adunque a trattare questo argomento, quasi frutto gentile e saporoso, che
coltivammo e riducemmo a maturanza col travaglio delle precedenti nostre
investigazioni.
Ma per innalzarci al discorso dell' immortalità dobbiamo
prima discendere a considerare la morte, che si rannoda col principio
della vita, cioè colla generazione, di cui trattammo in sulla fine del libro
precedente. E come la chiarezza dei concetti è il fondamento di ogni
limpido ragionare, così è uopo incominciare a richiamarci il concetto,
che già noi abbiamo dato della morte, come della cessazione dell' animazione
del corpo. Onde la morte non si può concepire in modo
alcuno quale passione delle anime, ma solo dei corpi. Così abbiamo già
provato che in niun modo cessano per via di morte le anime, o sieno
queste sensitive o di più intellettive.
Ma rimane a domandare se le anime potessero cessare naturalmente
di esistere in altro modo, e così da sè medesime annientarsi
od essere annientate da qualche cangiamento, che accadesse nella natura
in virtù degli agenti che la costituiscono, o per atto positivo dello stesso
Creatore. Vediamolo, e prima delle anime sensitive, poscia delle intellettive
e razionali.
Quanto abbiamo ragionato precedentemente intorno alla
natura delle anime sensitive ci conduce a distinguerne di due maniere,
che si possono chiamare anime elementari , aventi per termine il continuo
elementare, ed anime organiche , aventi per termine il continuo organato,
agitato da intestini e continui movimenti che le eccitano. Queste
seconde pullulano sulle prime, sono attuazioni e individuazioni diverse
dalle prime. Ma le prime hanno tutto ciò che richiedesi ad ottenere la
denominazione di anime; perocchè hanno: 1 un principio senziente, in
cui sta l' essenza dell' anima, 2 ed un termine esteso, in cui sta la condizione
essenziale dell' anima medesima. Quindi la questione presa in generale,
« se le anime si annullino », riguarda propriamente le anime
elementari; perocchè il rifondersi le organiche nelle elementari per
la dissoluzione del corpo organato, non fa cessare l' esistenza delle anime,
ma solamente le trasforma. Così questa sentenza tiene la via mediana
fra quella che le anime belluine vuole annullate, e quella che
le dichiara immortali.
Ora, che le anime elementari non possano annullarsi per via
di agenti naturali parmi potersi dimostrare da più argomenti, due dei
quali sono i seguenti:
Se le anime sensitive, cioè i principi senzienti si potessero separare
dal continuo, certo è che si annullerebbero, perchè mancherebbe
la loro condizione e relazione essenziale. Ma ciò che abbiamo detto nell' « Antropologia »
intorno alla natura della materia, la cui esistenza non
si può concepire che come termine del principio senziente, dimostra che
in tal caso si annullerebbe con esse insieme la materia. Ora è ammesso
da tutti che la materia, la quale può sofferire diverse passioni, non può
tuttavia annullarsi da cause agenti della natura. Dunque neppure i principŒ
sensitivi, che sono i relativi essenziali di essa.
La congiunzione del principio senziente col suo termine, cioè
colla materia, è immediata; nel suo concetto non entra alcun agente naturale,
che, quasi mediatore, ne operi od aiuti la congiunzione. Ella si
fa dunque per le azioni e passioni reciproche del principio inesteso e
senziente, e del termine esteso e sentito. Ora, se a questa congiunzione
è straniero ogni altro agente, niente dunque può operare su di lei, niente
può discioglierla. Quindi la dissoluzione di tal nodo non potrebbe avvenire
se non per opera dello stesso principio sensitivo, o di ciò che può
operare su di lui; o per opera della materia, o di ciò che può operare
sulla stessa. Ma il principio sensitivo e la materia, congiunti insieme,
non possono spontaneamente dividersi, perchè nessun ente annulla sè
stesso; quella congiunzione è loro naturale; e l' attività loro naturale è
volta ad attuarla e mantenerla, nessun' altra attività è in essi. Dunque
se la disunione è possibile, deve nascere per un' azione straniera sul principio
sensitivo o sulla materia immediatamente. Ma neppure queste
azioni sono possibili. Non è possibile che li disunisca un agente naturale,
che operi sul principio sensitivo, perocchè niente opera sul principio
sensitivo se non il principio intellettivo. Ora il principio intellettivo non
ha altra virtù sul sensitivo che di muoverlo alle sue operazioni.
Ma fra le operazioni del principio sensitivo non vi è quella del
distruggersi, disunendosi dalla materia; dunque per questa via non si
ottiene la disgiunzione. Ma neppure per l' altra, poichè niente opera sulla
materia immediatamente (escluso il principio sensitivo), se non la materia
stessa. Ma le forze materiali, applicate alla materia, non hanno altra
virtù che di dividerla o di unirla fra sè per via di moto. Ora il dividerla
o l' unirne le parti, niente influisce sulla congiunzione, che ha con
lei il principio sensitivo. Non v' è dunque nella natura alcun agente, che
possa far cessare di esistere le anime elementari.
Verranno dunque distrutte queste anime da un' azione immediata
del Creatore?
La Teologia naturale ha questa proposizione (confermata
dalla Rivelazione) che « niente s' annichila di ciò che fu una volta da
Dio creato ». E veramente ripugna che il Creatore annienti la propria
opera, la quale, appunto perchè sua, è da lui rispettata ed amata pel
rispetto ed amore che porta a sè stesso.
Le anime sensitive adunque per niun modo periscono.
E qui si consideri che l' ipotesi del sentimento annesso ai
primi elementi dei corpi, riceve nuovo rinforzo. Perocchè se la vita fosse
separabile dai corpi, ella perirebbe; e contraddirebbe la tesi che niente
s' annulla di quanto è venuto all' esistenza per mano del Creatore.
All' incontro, qualora sia vero che ogni elemento materiale ha seco
essenzialmente congiunto un principio senziente, e che unendosi più elementi
in virtù del continuo e di altre leggi, parte delle quali furono da
noi esposte, più principŒ senzienti s' identificano in uno; rimane vero che
il sentimento creato non perisce giammai, ma solo collo scomporsi dei
corpi e col ricomporsi si modifica in mille maniere continuamente, e
prende mille forme diverse. Le quali mutazioni, essendo prevedute e
provvedute dalla sapientissima provvidenza, debbono esser volte a ridurre
lo spirito della vita, che anima il mondo, a stato e condizione sempre
migliore, a perfezionarsi senza posa.
Come poi la tesi che « niente s' annulla »conforta l' ipotesi
dell' animazione degli elementi della materia, così la stessa ipotesi riceve
nuova verosimiglianza dalla teoria della generazione dell' animale. Perocchè
se è vero che l' animale si moltiplica , dividendosi il continuo sentito,
secondo certe leggi, è manifesto che per l' opposto deve esser vero
altresì che la vita si semplifica coll' unirsi debitamente di più continui
sentiti. Questa non è che l' operazione inversa della generazione. Se l' una
si ammette, l' altra non si può escludere.
Adunque, la morte dell' anima, cioè dell' organismo animato,
non è la distruzione del sentimento, ma una modificazione di lui;
è soltanto la dissoluzione dell' individuo , ossia dell' anima organica , che
è quanto dire di « quell' armonico sentimento d' eccitazione continuamente
riprodotto, avente un centro d' attività prevalente, di cui è manifestazione
extra7soggettiva l' organizzazione ».
A questo luogo giova che noi consideriamo l' origine della metempsicosi .
Pare doversi, almeno in gran parte, attribuire un tal sistema, a non
avere saputo i primi filosofi distinguere il principio intellettivo dal sensitivo
(1), riguardando perciò l' uomo siccome animale più perfetto, e
non altro. Ora, avendo essi creduto alla generazione spontanea e osservati
altri consimili fatti frequenti nella natura, ne indussero che ogni
corruzione era generazione, e che disciogliendosi un animale se ne formavano
altri coi brani suoi; il che aveva l' apparenza d' una cotale trasmigrazione
di anime. Nel piacevole opuscolo che scrisse, Hermias, Padre
della Chiesa del secondo secolo, pungendo i filosofi gentili delle loro incertezze
e contraddizioni, tocca le dottrine da essi professate intorno alle
vicende dell' anima umana, così: [...OMISSIS...] .
L' errore di questi filosofi è doppio: 1 aver parlato dell' uomo
come se egli non avesse che un' anima sensitiva, come fosse meramente
un animale; 2 avere molti di essi ignorato che l' individualità del sentimento
cessa alla morte dell' animale, e che ciò che rimane è il sentimento
stesso dei continui soprastanti; benchè Eraclito, l' oscuro , sembri aver ciò
traveduto, avendo egli posto un' anima comune e universale, in cui si rifondessero
le anime particolari; e gli Stoici, che da lui presero, vennero
dicendo poscia lo stesso (2). Ma questi stessi errarono di nuovo, facendo
che quest' anima comune fosse una, e non tante, quanti sono i continui;
di che passarono all' altro errore dell' anima del mondo, e all' altro, immensamente
maggiore, di dichiarare che quell' anima è Dio stesso.
Esclusi adunque questi errori, dopo aver veduto in che consista
la morte dell' animale, domandiamo in che consista la morte dell'
uomo.
Il senso comune risponde consistere nella separazione dell' anima
dal corpo; ed ottimamente. Ma in che consiste questa separazione?
Dall' aver noi veduto in che stia l' unione dell' anima razionale e
del corpo, procede che possiamo intendere altresì la loro disunione. Conosciuto
il nodo che forma la vita umana, n' è conosciuto lo snodamento,
n' è spiegata la cessazione.
Il nodo dell' anima intellettiva col corpo fu da noi riposto in una
percezione intellettiva, naturale e immanente, del sentimento fondamentale,
e conseguentemente del corpo. Cessando dunque questa percezione
primitiva del sentimento fondamentale, l' anima umana è sciolta dal corpo,
il corpo umano è morto, l' uomo è disciolto.
Ma affine di chiarire ancor più questo vero, riassumiamo il
fatto della composizione dell' uomo, e le sue condizioni.
Vi è un soggetto, all' atto del quale sono dati due termini, l' esteso
sentito e l' essere intelligibile. In quanto quel soggetto ha per termine
del suo atto l' esteso sentito , in tanto dicesi principio sensitivo , animale.
In quanto ha per suo termine l' essere intelligibile , in tanto è principio
intellettivo .
Il principio intellettivo, avendo per termine l' essere, conseguentemente
ha per oggetto ogni entità, che nell' essere universale si comprende.
Quindi egli ha per oggetto anche il sentimento sotto la relazione
di entità; e in quanto il principio intellettivo ha per oggetto il sentimento
come entità, in tanto dicesi principio ovvero anima razionale . Ma nel
sentimento v' è il principio animale senziente ed il sentito, cioè il corpo.
Così nella prima percezione del sentimento fondamentale vi è la percezione
(1) del corpo, ossia l' unione dell' anima intellettiva col corpo, e
ad un tempo col principio animatore prossimo di lui.
Ma qual' è la condizione, alla quale il soggetto, oltre essere
animale, diventa intelligente? Noi abbiamo detto che a ciò si esige che
il sentimento animale acquisti la sua maggiore perfezione specifica, la
maggiore unità ed armonia, mediante opportunissima organizzazione. Il
determinare questa unità e quest' armonia è ricerca profonda, a cui ora
noi non intendiamo por mano, nè ce ne crediamo sufficienti.
Domandiamo in quella vece: Perchè l' intuizione dell' essere
è data solo ad un soggetto, la cui animalità ha tale perfezione di
sentimento, e perciò di organizzazione?
Se noi ci contentassimo di riferirci alla volontà del Creatore, diremmo
una cosa assai vera e giusta; ma questo non farebbe procedere innanzi
lo scioglimento della questione, che propriamente domanda « se
il Creatore ebbe qualche ragione di necessità naturale, o almeno di convenienza,
a così statuire ».
E quanto alla convenienza, facilmente si scorge che alla dignità
dell' essere ideale spettava che si manifestasse ad un soggetto animale
perfetto, e non ad un soggetto animale imperfetto; si scorge che,
essendovi questa legge in tutta la natura, che le cose imperfette si riducano
alla perfezione per gradi successivi (1), conveniva che il sentimento
corporeo fosse lasciato procedere per quella scala graduata di perfezione,
che è sua propria, e che solo toccato l' ultimo gradino di essa, a cui
l' adduce un' ottima organizzazione, non potendo il principio senziente
perfezionarsi oggimai più oltre, conseguisse altra nuova perfezione,
uscendo di sè e attingendo l' oggetto, che lo solleva a condizione di essere
intelligente.
Ma più difficile impresa torrebbe a fare chi dimostrar volesse
che una necessità di natura così richiedesse, vale a dire che, considerata
la natura del principio sensitivo e dell' idea, si scorgesse che
quel principio non poteva intuire l' idea, se non a condizione ch' egli
avesse prima acquistato la migliore organizzazione specifica, o di più ancora,
che pervenuto a questa, già dovesse essergli l' idea svelata e manifesta.
Sull' una e sull' altra proposta possiamo fare congetture non improbabili,
ed ecco quali.
Che un principio animale non possa intuire l' idea se non giunto alla
maggior potenza di animalità, si può congetturare, supponendo che ogni
virtù del principio sensitivo, quando non sia giunto alla maggiore potenza
specifica, rimanga spesa ed assorbita nella tendenza a conseguire
lo stato di perfezione organica che gli manca, e quindi non possa assurgere
a riguardare l' essere ideale, per sè intelligibile essenzialmente ed
ovunque presente (poichè se non è veduto, è per difetto del soggetto, a
cui non resta la virtù da volgere a lui) (1). Infatti, se si supponga che la
virtù di un principio sensitivo tutta si esaurisca nell' organizzare la materia,
niente più rimane di esso col quale possa attuarsi verso l' ente. Ma
dopo che la perfezione specifica dell' organismo e del sentimento è a
pieno conseguita, il principio non adopera più quella virtù e forza, che
impiegava nella fatica dell' organizzazione; ella allora incontra l' essere
presente dappertutto, come dicevo, e prendendolo a termine del suo atto,
si rende intelligente. Perocchè è da considerare, per
dirlo di nuovo, che l' essere è dovunque ed è dovunque intelligibile, non
potendo esser altro; tale è la sua propria essenza. Onde, se poniamo esistere
una virtù universalmente sensitiva (un soggetto), atta cioè a sentire
ogni cosa che le sia presente, avverrà che questa virtù sentirà l' essere,
il quale non manca mai, a sola condizione che essa non sia occupata
ed esaurita in altro, e col solo sentirlo sarà resa intelligente; perchè la
natura del principio senziente viene determinata dal sentito, e questa è
la natura dell' essere, che, venendo sentito rende intelligente il senziente,
appunto perchè egli è l' intelligibilità stessa dell' essere, e non può mescersi
con altro, essendo oggettivo per essenza. A intendere questo fatto
basta dunque supporre che la virtù o principio sensitivo, che chiamiamo
soggetto, possa terminare il suo atto ad ogni cosa presente, ma che, essendo
quella virtù limitata, talora s' arresti nell' atto suo per esaurimento
di forza, talora poi gli avanzi vigore da sentire l' essere intelligibile.
S' intenderà ancor meglio questo pensiero, se invece di considerare
la potenza del soggetto senziente, che tende ad accrescersi quanto
più essa può, e giunta al grado massimo trova forze da spingere il suo
atto fuori della materia, si consideri il nesso che ha il corpo coll' ente .
Perocchè il corpo , termine dell' atto del principio senziente, ha diversi
gradi di essere, e si apprende dal principio senziente in questi suoi diversi
gradi successivamente.
Nel primo grado è come un sensibile7esteso; e fino che il principio
senziente non apprende il corpo che come sensibile7esteso, ossia, come
abbiamo altrove detto, sotto la relazione di sensilità, tale apprensione
rende il principio solo senziente, non intelligente.
Nel secondo grado il sensibile7esteso, che si chiama corpo, è un ente ,
e tostochè il principio senziente apprende il corpo come ente, egli è già
reso intelligente e razionale. E veramente, che cosa è apprendere il corpo
come ente ? Altro non è che apprendere il corpo come una cotale realizzazione
determinata e limitata, come un cotal termine dell' atto dell' essere
(1). Se adunque si suppone nel principio sensitivo una prima tendenza
ad apprendere il corpo al maggior segno possibile, ne avverrà che
egli, dopo avere appreso il corpo, ossia il sentito esteso, nella maggior
sua perfezione, tenderà ad apprenderlo meglio ancora nella sua entità,
e in virtù di questo istinto sarà condotto ad apprenderlo nell' ente in universale,
poichè l' ente in universale è ciò che forma l' ente7corpo;
perocchè l' ente7corpo è un oggetto, il cui principio è lo stesso essere
ideale, che dicesi anche iniziale, e il cui termine è il sensibile7esteso.
La tendenza adunque di apprendere il corpo condurrà il principio senziente
ad apprenderlo come ente, e così sarà condotto dal sensibile7esteso
alla sua essenza, che appartiene all' essere in universale, e conseguentemente
a vedere lo stesso essere universale. In tal modo sembra che si
possa spiegare il passaggio, che fa il principio senziente dall' ordine della
mera sensitività all' ordine dell' intelligenza, come da uno stato meno
perfetto a uno stato più perfetto (2).
E` dunque pel bisogno che ha il principio senziente di divenire razionale,
che egli si fa intellettivo; è un bisogno di perfezionarsi circa
l' apprensione del suo proprio termine (il corpo), che lo spinge all' essenza
ideale per sè unita intimamente ad ogni realità sensibile, la quale
per tale unione diventa ente, cioè oggetto.
Non può adunque il principio senziente apprendere il corpo nel suo
maggior grado di essere, se non spingendo la sua virtù fuori del corpo
ad un altro termine più ampio, in cui il corpo è contenuto e reso
intelligibile; e questo termine, nel quale il corpo è colla sua essenza, è
l' essere in universale.
Ora, come è vero che l' essere universale contiene l' essenza
del corpo, così non è egualmente vero che il corpo contenga l' essere universale;
perocchè il più contiene il meno, ma non viceversa. Il principio
senziente adunque, mediante questo progresso, acquistò un nuovo termine
della sua attività, un termine superiore al corpo, indipendente dal
corpo, che è per sè, è la stessa idealità.
Ma il termine del principio attivo è quello che determina
la natura di questo. Dunque il principio sensitivo, coll' aver acquistato
questo nuovo termine, cangiò natura, ne acquistò una infinitamente più
nobile, attinse una forma perfetta e divina.
E` pertanto degno di considerarsi esser questa legge ontologica,
che « ogni ente, per la virtù stessa per la quale egli è, tende a conservarsi
e a perfezionarsi, e però niun ente ha alcuna virtù volta a distruggere
sè stesso ». Questa legge si dimostra nell' Ontologia, e qui dobbiamo
noi prenderla a prestito. Se dunque niun ente, niuna natura distrugge
sè stessa, ogni distruzione degli enti viene dal di fuori, da qualche
attività straniera.
Di più, ogni ente compiuto è un principio semplice, il quale ha un
suo termine naturale e immanente. Se il principio ha il suo termine, egli
è; ma se gli è tolto il termine, cessa; perchè il termine naturale e immanente
è la condizione del primo atto, pel quale il principio è, secondo
la nota legge del sintesismo. Questo principio, spogliato di tutti i suoi termini,
rimane una mera astrazione, una mera capacità, un ente simile alla
materia prima degli antichi, che supponevasi spoglia di ogni forma. Non
resta dunque che la potenza creatrice di Dio, la quale non è un ente
esterno determinato. La distruzione adunque di un ente contingente non
avviene se non in questo modo, che sia distrutto il termine in cui finisce
il suo atto primo.
Ora, quale è il termine dell' ente uomo? Abbiamo veduto
che i termini sono due, il corpo e l' essere in universale. Ora, qual ente
straniero potrebbe distruggere questi termini dell' ente uomo? Gli enti
stranieri sono Iddio e le cose contingenti. In quanto a Dio, abbiamo già
supposto che egli non annienti alcuna delle cose da lui create; dunque
la distruzione dell' uomo non può venire da Dio. Ma che cosa possono a
distruzione dell' uomo le attività, di cui sono fornite le cose contingenti?
Che cosa possono a distruzione dei due termini dell' atto primo, pel
quale l' uomo è? Il corpo dell' uomo, uno dei termini, è un complesso di
elementi organizzati nel più perfetto modo specifico, e così individuati.
Ora le forze della natura possono disciogliere questa organizzazione, e
quindi distruggere con essa il sentimento animale proprio dell' uomo. Ma
sull' essere universale tutte le forze della natura nulla possono; perocchè
l' essere universale è impassibile, immutabile, eterno, nè soggiace all' attività
di alcun ente. Dunque quella virtù, colla quale l' uomo intuisce
l' essere universale, non può perire. Ma questa virtù, questo primo atto è
l' anima intellettiva; dunque l' anima intellettiva non può cessare d' esistere
nella sua propria individualità
giacchè ha la realità sua propria
che la individua (1); il che volgarmente si esprime dicendo che è immortale.
L' anima intellettiva dell' uomo, quanto alla sua origine, è
dunque sorta nel seno dell' anima sensitiva, fu una virtù di lei; ma questa
virtù divenne atto principale ed acquistò l' immortalità, tostochè attinse
l' essere in universale, perchè questo essere è al tutto imperibile,
immodificabile, cosa eternale.
Dalla quale teoria si può cavare questo corollario, che quella
sentenza degli Scolastici, che S. Tommaso esprime così: « « Primum autem,
quod intelligitur a nobis secundum statum praesentis vitae, est quidditas
rei materialis , quae est nostri intellectus obiectum »(2) », può ricevere
una interpretazione che la rende vera.
Poichè da ciò che abbiamo detto risulta che il principio sensitivo,
venuto alla sua perfezione, tende a conoscere la natura del corpo ( quidditas
rei materialis ), cioè a percepire il corpo siccome ente; onde il primo
oggetto reale dell' intelligenza è il corpo.
Si dirà che noi non facciamo propriamente essere il corpo
l' oggetto appreso colla prima fondamentale percezione, ma il sentimento
animale. Ciò è vero; pure, se si considera che il principio senziente non
è divisibile dal sentito, e che perciò si percepisce nel sentito e col sentito,
rimane che il corpo sentito, il corpo vivo, sia veramente il termine
della percezione.
Si dirà ancora che S. Tommaso parla del corpo extra7soggettivo
percepito coi cinque sensorii speciali. Rispondo che io non pretendo
che la sentenza da me esposta sia precisamente quella dell' Aquinate,
ma le due sentenze s' avvicinano. Ed è da osservarsi che la sentenza
nostra porge la ragione, per la quale, tostochè un corpo esterno agisce
sui nostri organi sensorii, noi lo percepiamo intellettivamente quasi per
un istinto; ragione che si trova nella prima percezione immanente;
giacchè se il principio razionale percepisce per natura il sentimento animale
fondamentale, forza è che percepisca pure la sue modificazioni, e
l' azione d' una forza straniera che cade in esso. Per questo dicemmo che
la proposizione degli Scolastici riceve dall' esposta teoria un' interpretazione,
che la rende vera.
Finalmente si dirà che il primo inteso per noi non è il corpo,
ma l' essere in universale, pel quale intendiamo il corpo. A cui rispondiamo
che se si va al fondo della dottrina di S. Tommaso, egli viene a
insegnare lo stesso. Poichè a quel modo che noi diciamo di percepire il
corpo coll' idea dell' essere , così S. Tommaso, dopo S. Agostino, dice che
l' uomo percepisce il corpo colla luce della prima verità . Infatti S. Tommaso
non manca di farsi egli stesso l' obbiezione: « « Ciò in cui tutte le
altre cose conosciamo e per cui delle altre cose giudichiamo, è conosciuto
dapprima siccome la luce dall' occhio, e i primi principŒ dall' intelletto.
Ma noi conosciamo tutte le cose nella luce della prima verità , e per essa
giudichiamo di tutte le cose, come dice S. Agostino »(1) ».
Ora come risponde l' Angelico? Nega forse che noi conosciamo le
cose nella luce della verità? No certo; anzi lo ammette pienamente.
«Nella luce della prima verità noi intendiamo e giudichiamo
tutte le cose, in quanto lo stesso lume del nostro intelletto è una
certa impressione della prima verità (2). Ma lo stesso lume dell' intelletto
nostro non si riferisce all' intelletto come ciò che s' intende , ma come
ciò con cui s' intende »(3) », in una parola come il mezzo del conoscere.
E noi appunto dichiarammo che cosa sia questo mezzo universale del
conoscere , dichiarammo cioè che egli non è altro che l' essere in universale .
Tale è l' intento del « Nuovo Saggio , » col quale assumemmo di chiarire
ciò che gli antichi avevano detto oscuramente. Si consideri dunque che
S. Tommaso concede che l' impressione del lume dell' eterna verità è il
principio quo intelligitur , e concede pure che « « illud, in quo omnia
cognoscuntur, est primo cognitum a nobis » ». Dunque, quando dice che
la quiddità del corpo è la prima cosa che s' intende, parla d' un altro modo
di conoscere, diverso da quello secondo il quale si conosce per primo il
lume dell' intelletto, ossia l' essere. Che abbiamo fatto noi? Abbiamo denominato
con parole proprie questi due modi di conoscere, chiamandoli
intuire e percepire , e abbiamo detto che l' essere in universale è il primo
conosciuto per intuizione; e il corpo è il primo conosciuto per percezione.
Così abbiamo conciliato S. Tommaso seco stesso.
Ricapitoliamo ora quanto fu detto fin qui intorno alla morte
dell' uomo.
L' anima apprende il corpo successivamente come sensibile, e
come ente; e in quest' apprensione del corpo come ente intuisce l' essere,
e in lui il corpo7sentito. La virtù dell' anima, elevandosi così all' ultimo
grado di attività, non perde i primi gradi acquistati, e perciò nello stesso
tempo che intuisce l' essere in universale, ella seguita a percepire il corpo
come sensibile, e quindi a percepirlo come ente nell' essere.
L' atto più elevato dell' anima, cioè l' intelletto, rimane dominante
di tutti gli atti inferiori, e quindi diventa la sostanza dell' anima,
perocchè la sostanza è quel primo atto d' un ente a cui quasi s' appendono
tutti gli altri, quel primo atto che domina gli altri, i quali così
sono per quel primo ed in quel primo.
Nella generazione dell' uomo pare che, in sul cominciamento,
l' atto del principio senziente non abbia l' ultimo atto, che è quello che
si porta nell' essere, e che lo rende intellettivo e razionale. Questa almeno
fu la sentenza degli antichi e di S. Tommaso; onde nell' ordine della
generazione l' atto senziente sembra anteriore di tempo all' atto intelligente;
ma quando l' uomo è a pieno maturato, questo che fu l' ultimo è
il primo dell' ente, cioè quello che nell' ente prevale e da cui gli altri
dipendono, onde egli acquista condizione di sostanza.
L' anima, in quanto è sensitiva, sente il corpo, ma in quanto
è intellettiva, percepisce il corpo sentito; di modo che l' unione dell' anima
intellettiva e del corpo sentito si fa per via di percezione naturale,
immanente.
Nella morte dell' uomo l' anima intellettiva cessa di percepire
il corpo sentito, ma non cessa d' intuire l' essere in universale, che la costituisce
intellettiva, e quindi rimane senza corpo; onde si dice che la
separazione dell' anima dal corpo è la morte dell' uomo.
In altre parole quello che secondo l' ordine della generazione
era il primo atto dell' anima, ma che divenne poscia un atto subordinato,
cessa colla morte dell' uomo. Ma rimane l' atto che secondo l' ordine
generativo fu l' ultimo a costituirsi, ma divenne il primo per natura, ed
acquistò condizione di sostanza, di soggetto e di persona.
Quindi nella morte dell' uomo il principio rimane identico;
ma perdendo un termine, riceve mutazione nella sua natura, mutazione
sostanziale e non personale. L' identità di un tal principio
consiste nella conservazione della sostanza intellettiva, e quindi dello
stesso soggetto e della stessa persona.
Ma perchè, si dirà, l' anima dell' uomo non percepisce più il
corpo, quando questo si discioglie?
Dalle cose dette si può raccogliere che noi abbiamo considerata l' anima
dell' uomo, unita al corpo, nei tre suoi atti speciali: 1 nell' atto con
cui sente il corpo sensibile; 2 nell' atto con cui intuisce l' ente in universale;
3 nell' atto con cui in questo ente in universale vede il corpo,
ossia percepisce il corpo come ente.
Ora questi due ultimi atti hanno certe condizioni alle quali incominciano,
e hanno certe condizioni alle quali sussistono.
La condizione, alla quale l' anima dall' atto con cui sente il corpo
come sensibile passa all' atto con cui sente il corpo come ente, e quindi
intuisce prima l' ente, si è che il sentimento corporeo abbia conseguita
la sua specifica perfezione. Ora, collo sciogliersi l' organizzazione, si scioglie
il sentimento perfetto ed umano in più sentimenti imperfetti, nessuno
dei quali può avere un principio idoneo a intuire l' ente. Cessa dunque
a questi nuovi principŒ sensitivi, nati dalla distruzione del corpo
umano, l' attitudine a veder l' ente; e perciò niuno di essi è l' anima umana;
essi hanno perduto l' identità con quest' anima. All' incontro l' atto che
intuisce l' ente, quando è già posto, non ha più bisogno del sentimento
animale per sussistere, perchè egli è al tutto indipendente da lui; e questa
è l' anima umana, che prima era identica col principio sensitivo.
Come dunque diversi principŒ sensitivi si possono unificare
in uno solo, così un dato principio sensitivo si può unificare e identificare
col principio dell' atto intellettivo. Ma come un principio sensitivo
si può moltiplicare, così egli può anche separarsi dal principio intellettivo,
e in tal caso perde l' identità sua, non è più principio umano. Il
principio umano resta il principio di quell' atto che intuisce l' essere; perocchè
dove vi è un atto, ivi vi è un principio, e dove vi è un principio,
ivi vi è un soggetto, una sostanza; tale è l' anima separata.
S' intenda però bene in che modo noi parliamo d' identificazione
del principio sensitivo col principio intellettivo. Non è che quel
principio si confonda coll' intellettivo, ma è la percezione razionale che
in qualche modo li identifica; perocchè nella percezione si fa una cosa
sola del percepito e del percipiente, senza che i due elementi si confondano.
Ora la percezione suppone che esista innanzi a sè ciò che deve essere
percepito, che nel caso nostro è il sentimento; percepisce dunque
il sentimento sotto la relazione di entità. Perciò sembra che il principio
razionale sia quello che sente, benchè egli non sia il principio prossimo
del sentire.
L' essenza dell' anima umana insomma è di essere intelligente, e di
percepire il corpo, solo allora che un principio senziente del corpo con
essa s' identifica, e diventa una sua facoltà. Il sentire semplicemente non
è atto dell' uomo, ma dell' animale; l' uomo non è quegli che sente fino
che non sa in qualche modo di sentire, nè sa di sentire se non apprendendo
il corpo come ente, l' essenza del corpo; perchè tale apprensione
è atto dell' anima razionale, che è l' anima sua (1).
Se si considera che il principio intellettivo è scevro dalla
legge dello spazio, non trovasi in lui ragione alcuna che lo determini a
congiungersi piuttosto ad un corpo che ad un altro, e piuttosto a un
solo che a molti.
Ma la ragione sufficiente, che determina il principio intellettivo ad
essere congiunto piuttosto con un corpo che con un altro, si rinviene
nella maniera con cui abbiamo dichiarata la formazione del principio
razionale. Noi abbiamo veduto che egli era da prima un soggetto sensitivo,
animale, che andava perfezionandosi fino a tanto che attinse l' essere
universale.
Ora il soggetto animale è determinato dal continuo, che è il suo sentito,
e quindi è legato allo spazio e ad uno spazio determinato. Di più,
questa è legge del soggetto animale che egli non può terminare in più
continui divisi fra loro, anzi dati più continui, i soggetti, ossia i principŒ
sensitivi, si moltiplicano. Nascendo dunque l' atto intellettivo, onde ha
esistenza l' anima intellettiva, nel seno del sentimento corporeo, individuato,
egli rimane obbligato nella sua formazione alle stesse leggi del principio
sensitivo, che fu sua radice. Egli non può dunque percepire, cioè
informare altro sentimento animale, nè altro corpo che quello di cui
egli cominciò coll' essere atto e forma.
Noi abbiamo fin qui lasciata sospesa la questione « se la
morte dell' uomo possa accadere senza disorganizzazione del corpo ».
Ora ripigliamola, ricercando unicamente se dai principŒ posti fin qui,
certi o verosimili, se ne possa indurre alcuna probabile soluzione.
Abbiamo detto che il principio animale, qualora sia giunto alla massima
sua potenza mediante la perfezione specifica dell' organizzazione
del suo sentito (corpo), si solleva a percepire il corpo come ente, e
quindi ad intuire prima (in ordine logico, se non cronologico) l' ente in
universale, supposta la legge fatta da Dio nell' istituzione primitiva della
natura umana.
Da questo conseguita che, fino a tanto che il sentimento animale ritiene
la sua specifica perfezione, egli da parte sua non può dividersi dall'
anima intellettiva in lui sorta. Che se egli ritiene questa sua perfezione
fino che dura intatta l' organizzazione, seguita che non può aver
luogo la morte dell' uomo senza lesione organica. Rimane adunque a ricercare
se il sentimento fondamentale ritenga sempre la sua perfezione
fino che non è alterata l' organizzazione.
Ora è indubitabile che l' unità e l' armonia di quel sentimento non
si può alterare, se l' organizzazione è illesa, perchè questa è il fenomeno
extra7soggettivo, che a quell' unità e a quell' armonia corrisponde.
I dubbi adunque, che possono nascere, si riducono a questi:
Il principio intellettivo può egli tanto alienarsi dalle cose corporee,
che esaurisca tutta la sua virtù nelle incorporee, sia per contemplazione,
sia per amore?
Rispondo che naturalmente (1) non può, perchè l' oggetto naturale,
essendo un essere meramente ideale, questo non appaga intieramente
lo spirito, nè lo può rapire totalmente a sè. Oltre di che, niuna
natura con un atto tendente alla perfezione si può distruggere. Finalmente,
se l' anima potesse abbandonare il corpo spontaneamente senza
disorganizzarlo, ne seguirebbe che nel corpo lasciato rimarrebbe il sentimento
animale individuale, il quale darebbe origine di nuovo all' anima
intellettiva. Ma poichè questa nuova attività si continuerebbe alla
prima, non potendo esservi alcun intervallo nè di tempo, nè di natura
fra essa e la prima, perciò sarebbe la prima, che solo si ritroverebbe cresciuta
di forza; il che avviene in tutti gli uomini elevati e ingranditi per
la contemplazione amorosa delle eterne verità. Dunque l' anima intellettiva
non può staccarsi spontaneamente dall' animalità (2).
Il principio intellettivo può abbandonare il corpo per
isdegno di vedersi unito ad un corpo corrotto?
Non può naturalmente per le ragioni medesime.
Non si dà la morte di puro spasimo, senza alcuna alterazione
organica7specifica? E in questo caso l' istinto vitale non cesserebbe
di operare e di animare il corpo? (1).
Che vi possa essere un estremo dolore senza che la specifica organizzazione
sia alterata, ma per soli movimenti nervosi che non alterano
specificamente l' organismo, ci sembra indubitato; perchè anzi la piena
disorganizzazione trae seco la cessazione del dolore.
Che questo dolore sia tale che possa arretrare, per così dire, l' attività
dell' istinto vitale in modo che cessi dall' atto suo spontaneo con cui
eccita il corpo organato, perchè il sentimento del continuo non potrebbe
mai in ogni caso cessare, questo mi sembra dubbioso; ma quando fosse,
ne seguirebbe un' immediata disorganizzazione intima del corpo; perocchè
è l' istinto vitale medesimo che all' organizzazione dà il suo atto ultimo.
Onde, quantunque non apparissero nei cadaveri segni manifesti
di disorganizzazione, si dovrebbe ritenere che questi vi fossero. E veramente
la disorganizzazione dovrebbe incominciare per questa via nella
testura degli stessi elementi, e però dovrebbe nei primi suoi passi riuscire
del tutto impercettibile.
Che se si volesse supporre che il dolore potesse essere tale e tanto,
che l' istinto vitale cessasse dal produrre il sentimento d' eccitazione, restando
per qualche momento del tutto intatta l' organizzazione, in tal
caso sembra che, non avendo più l' anima intellettiva il sentimento perfetto
ed armonico da percepire, ne seguirebbe una momentanea sospensione
della vita. Ma cessato con ciò stesso il dolore, la vita ritornerebbe;
nè l' anima intellettiva, che percepirebbe nuovamente il corpo, sarebbe
diversa dalla prima; perocchè questa, essendo immune da luogo, non
sarebbe stata nè vicina, nè lontana dal corpo; anzi ella (l' atto intuitivo)
sarebbe sempre rimasta tuttavia un atto dello stesso principio senziente,
avente per termine il continuo del corpo organato; il qual principio senziente,
come ritirando la sua attività eccitatrice, avrebbe sospesa la percezione
e non però l' intuizione, così rimettendo fuori di nuovo quella
attività, avrebbe restituito all' anima l' oggetto corporeo, cioè il corpo sentito
da percepirne l' essenza.
E tutto ciò non toglie che l' anima razionale colle sue spirituali
passioni di tristezza, di gioia, di desiderio, ecc., possa assaissimo sull'
organizzazione, o distruggendola più o meno celermente, o conservandola
altresì più o meno a lungo, quando ella per altre cause tende a
disordinarsi.
E l' esperienza per vero dimostra che una sorpresa dolorosa o gaudiosa
può cagionare disorganizzazione, e produrre l' apoplessia.
Per lo contrario, io non dubito che talora la vita umana si
prolunghi per sola virtù e forza del principio intellettivo, dominatore
del sensitivo, senza il qual dominio questo secondo si distorrebbe forse
dalla sua azione individuante ed eccitante. Quando io leggo la descrizione
che fa la Genesi della morte di Giacobbe, mi confermo in questo
pensiero. Il vecchio padre, sentendosi venir meno, chiama al suo letto
i figliuoli, e raccolte le stanche sue forze, tiene loro un lungo ed animato
discorso, che il sacro storico riferisce con questa conclusione: « « E finiti
i comandamenti nei quali egli istruiva i figliuoli, raccolse i suoi piedi sul
letticciuolo e morì »(1) ». Perchè la morte non lo sorprese prima che finisse
il suo lungo ragionare? Perchè, ultimato questo, ella fu così pronta?
Perchè raccolse così tranquillamente i piedi, e spirò con atto così spontaneo?
Questa prolungazione della vita per virtù dell' anima intellettiva
fu osservata anche da più medici, uno dei quali scrive che l' anima [...OMISSIS...] .
A conferma di ciò, si noti che non accade giammai di vedere nei
bruti certi fenomeni, che preannunziano la morte nell' uomo. E` l' uomo
solamente, che, delirando per febbre, dichiara di voler mutare di casa
e andarsene altrove, onde cerca di uscire dal letto e di fuggirsene. Nelle
febbri dei naviganti spesso per questo desiderio d' andare altrove, essi si
gettano in mare. E` questo tutta cosa propria dell' anima intellettiva, che
sentendo di non istar bene, tenta di mutare di condizione colla propria
sua attività; il quale sforzo produce nell' animalità il conato di mutar
luogo (3). L' anima meramente sensitiva non tende mai a mutare la sua
condizione, ma solo rimette alquanto dal suo atto individuante, e però
un tal fenomeno non s' avvera nelle bestie.
Il che ci conferma che l' anima intellettiva ha il sentimento
della propria immortalità (4).
E gli ammalati di tisi, benchè giunti all' ultimo grado di marasmo,
non prevedono la loro dissoluzione imminente, e sembrano voler vivere
molti anni, e vanno ideando progetti da eseguirsi nel futuro; ciò che
deve attribuirsi alla vivacità, che conserva in essi l' organo della fantasia.
Non è propriamente un sentimento che loro indetta quelle speranze,
ma è il pensiero che si lascia illudere volentieri dietro le immagini,
senza però che concepiscano una vera persuasione di loro guarigione.
Quindi si spiega ancora la ripugnanza che l' uomo ha a morire,
cioè la ripugnanza che l' anima intellettiva prova a sentirsi togliere
il sentimento animale, che essa per natura apprende.
Se la morte dell' animale non avviene se non per disorganizzazione
del corpo o per estremo dolore, e se l' atto col quale l' anima avviva il
corpo organico, è quello onde l' istinto vitale produce l' eccitamento, l' organizzazione,
il sentimento individuo, e se questo istinto ha tendenza
naturale a porsi in questo modo; dunque tanta deve essere la ripugnanza
dell' animale a morire, quanta è la forza dell' istinto vitale. La morte dunque
è l' estremo dei mali per l' animale; e vi deve ripugnare tutto quanto
è, quanto è forte l' atto con cui esiste.
Ma il principio razionale percepisce il sentimento come entità,
tale qual' è; dunque lo percepisce, o godente, o paziente. Tutto ciò
dunque che patisce l' animale nella morte, è percepito dal principio razionale.
E perciò al principio razionale deve riuscire naturalmente la
morte tanto ripugnante, quanto è ripugnante al principio animale; salvo
che, avendo il principio razionale un' altra attività oltre quella di percepire
il sentimento animale, egli può, con questa attività che gli rimane
e che è la più eccellente, consolarsi di quel che perde. Egli perde, ma
non perisce; l' animale perde tutto, perisce.
Oltre di che, la percezione del corpo è il primo atto del
principio razionale, il primo atto della ragione, quello nel quale gli è
data la realità che naturalmente conosce. Ora la perfezione di ogni essere
sta nell' atto suo, perocchè « in tanto una cosa è, in quanto è in atto ».
Ma ogni ente ha una forza per la quale è; questa forza, per la quale
è, è quella che gli fa ripugnare a cessare di essere; è un istinto di essere,
e perciò di conservarsi. Se dunque il principio razionale viene impedito
dal fare il suo primo atto a lui naturale, che lo costituisce quello che è,
e che virtualmente contiene tutti gli altri, egli deve ripugnare oltre misura
a vedersi ciò impedito. Laonde il principio razionale a vedersi sottratto
il corpo ripugna con tanta forza, quanta è la forza che lo sospinge
naturalmente a fare quell' atto, col quale egli percepisce il sentimento
animale, e pone sè stesso come razionale. Il principio razionale, adunque,
deve sentire una somma ripugnanza a doversi dividere dall' animalità;
benchè questa divisione non gli tolga per intero il suo primo atto,
rimanendogli l' atto con cui intuisce l' essere in universale,
pel quale è intellettuale, ed altresì quello
con cui apprende lo spazio puro.
E` sentenza teologica che l' anima separata dal corpo
conservi qualche tendenza ad unirvisi nuovamente (1). La filosofia
intorno a ciò ha ella nulla da dire?
A primo aspetto sembra che una tale questione, riguardante lo stato
dell' anima separata, oltrepassi il confine della filosofia. Considerata però
più profondamente, si trova che la filosofia può dirne alcuna cosa, almeno
per via di non improbabile congettura.
Perocchè, se colla meditazione filosofica si perviene a conoscere:
1 di quali elementi si costituisca l' anima umana, cioè l' anima
razionale; 2 e quali elementi ella perda colla morte dell' uomo; appare
che si dovrà parimente conoscere quali elementi le rimangano, sottratti
quelli che le vengono meno per la morte.
Ora, mettendosi il pensiero in questa ricerca, incontanente s' abbatte
a tal ragionamento, che sembra condurlo ad una conclusione contraria
alla mentovata sentenza teologica (1).
Poichè l' anima razionale perde per la morte il termine corporeo,
non le resta dunque più che il solo termine dell' essere essenziale. Ma
ogni attività e realità d' un principio è determinata unicamente dal suo
termine. Dunque non le può rimanere altra attività fuori di quella per
la quale intuisce l' essere. Se dunque le è tolto affatto il termine corporeo,
il principio sensitivo stesso è venuto meno; il principio intellettivo s' acqueta
nell' idea; non rimane perciò alcuna attività, che possa essere principio
dell' inclinazione a riprendere il corpo. Poichè la memoria stessa
del corpo precedente deve essere del tutto abolita, non potendosi conservare
memoria dei corpi senza qualche vestigio fantastico di essi, e la
fantasia cessa, perdendo il suo organo proprio, che è il cervello (2). Così
sembra che si possa ragionare; ma questo ragionamento è difettoso, perchè
dimentica un fatto importante da noi rilevato nell' anima umana.
Noi abbiamo dimostrato che ogni anima sensitiva, che abbia
per termine un corpo occupante una porzione limitata di spazio,
deve ancor prima (in ordine logico) avere per termine lo spazio puro,
solido, illimitato; e ciò perchè nel concetto di uno spazio corporeo limitato,
che sia termine ad un sentimento, s' acchiude già uno spazio illimitato,
onde quel sentimento non si può pensare senza di questo; e per
altre ragioni ancora. Quindi anche l' anima razionale dell' uomo,
che è sensitiva ed intellettiva, deve avere lo stesso termine dello
spazio semplice, illimitato. Ma che nasce pel fatto della morte? Niente
altro, come vedemmo, se non la dissoluzione dell' organismo corporeo, e
quindi la dissipazione del sentimento corporeo7organico; è il solo organismo
che perisce, e con esso il sentimento a lui relativo. Ora il corpo,
che limita lo spazio, è cosa essenzialmente diversa dallo spazio che viene
limitato; questo spazio è al tutto indipendente dal corpo. Lo spazio
adunque non può esser tolto all' anima per questa sola ragione che ella
ha perduto il termine corporeo. Quindi l' anima razionale, che ha perduto
il corpo, deve mantenere tuttavia due termini, cioè: 1 l' essere essenziale
che la rende intellettiva; 2 lo spazio puro, illimitato. Ne consegue
che con questo secondo termine ella mantiene ancora una cotal
relazione coll' universo creato, perchè ne sente l' estensione (3). Ora noi
abbiamo veduto che il principio che sente lo spazio illimitato, è la radice
del principio sensitivo corporeo, è come il principio del principio
sensitivo, il principio remoto del sentire. E questo è già un bel
risultamento aver ritrovato che l' anima umana, separata dal corpo, conserva
ancora la radice della potenza di sentire.
Ma questo non basta. Noi dobbiamo qui ricorrere ad un
teorema ontologico o cosmologico, ed è questo: « Il principio ha l' esistenza
condizionata al suo termine; ma quando egli già esiste, ha un' attività
propria che riguarda lo stesso termine ». Questo teorema si prova
dall' osservazione intima, che si può fare sopra ogni soggetto; perocchè
se il soggetto, ossia il principio, non si può concepire esistente senza il suo
termine, è però certo dall' esperienza che egli esistendo, può spiegare
diverse attività ed esercitare diverse funzioni relative al suo termine. Di
questo vero importante parleremo più a lungo nella seconda parte. Ora,
ciò posto, nell' anima separata rimane l' identico soggetto che era, prima
che cessasse di percepire il corpo. Non vi è dunque
ripugnanza che, cessata la percezione attuale del corpo, questo identico
soggetto, suscettivo di attività, ritenga delle abituali disposizioni e tendenze.
E poichè la sensazione corporea è un atto del principio che ha
per termine lo spazio, niente ripugna che questo medesimo principio
conservi un' inclinazione all' atto precedente, cioè a quella precedente
percezione, e che sia volto ad essa, come l' occhio, che mira un oggetto,
può continuare a mirare nella stessa direzione e colla stessa intensità,
anche quando gli è tolto davanti l' oggetto, e non vede più nulla.
Certo a noi pare che si debba dire il somigliante che dell' occhio,
del principio intellettivo,
che rimane identico nell' anima separata. Questo
principio fu già attuato alla percezione del sentimento corporeo; e questa
attuazione gli deve rimanere, come è detto del principio sensitivo
dello spazio, benchè non abbia più materia intorno a cui esercitarla. Di
vero la percezione del sentimento naturale corporeo abbracciava: 1 il
principio sensitivo dello spazio col suo termine, lo spazio; 2 il principio
sensitivo del corpo col suo termine, il corpo; il qual principio è un
atto individuante il primo, come vedemmo; 3 il principio intuitivo dell' essere.
Ciò che cessa colla separazione del corpo è solo il secondo di
questi tre elementi. Permane adunque la percezione intellettiva del sentimento
dello spazio, cioè del principio e del termine di questo sentimento.
Ma il principio di questo sentimento conserva l' attualità, che lo
metteva in relazione col corpo. Dunque il principio razionale rimane,
e rimane inclinato, perchè percepisce un principio sensitivo inclinato
verso al termine corporeo.
Questa dottrina contiene altresì la ragione perchè l' anima
separata conservi per natura la propria individualità. Benchè un principio,
che avesse per termine lo spazio puro e che non avesse alcun' altra
realità in sè stesso, dovesse esser unico, e perciò non avesse l' individuazione
propria del principio senziente il corpo, tuttavia, tostochè
a questo principio s' aggiunge un' attività tendente al corpo, questa attività
o realità nuova lo individua. E ciò perchè la materia, come dicemmo,
essendo divisibile, è conseguentemente di natura sua moltiplicabile,
sicchè una porzione di materia non è l' altra; quindi S. Tommaso
è appunto dal rapporto che ha l' intelletto colla materia che ne
dimostra l' individuazione, e conseguentemente la pluralità degli intelletti
umani (1). Il qual vero condusse gli Scolastici a dichiarare la materia
universalmente pel principio dell' individuazione; proposizione che
pecca di soverchia generalità, come noi altrove già avvertimmo; perocchè
ogni realità , quando può essere distinta, è già principio per sè d' individuazione,
sia poi la realità materiale o spirituale. Del che essendosi
accorto anche S. Tommaso, corresse quel principio con varie limitazioni,
e fra l' altre con questa, che « la forma s' individua per sè stessa ».
L' anima intellettiva, separata dal corpo, rimane individuata adunque
primieramente per la percezione che conserva di quel sentimento
che attinge lo spazio, il quale è individuato a cagione dell' attività che
conserva verso il sentimento corporeo.
Qui però non si deve trapassare un' osservazione importantissima,
la quale si è che l' individuazione dell' anima intellettiva e l' individuazione
del principio sensitivo si fa a condizioni diverse. Il principio
sensitivo è individuato immediatamente dalla separazione della materia,
perchè è annesso per sua propria essenza agli elementi. Quindi ogni sentimento
elementare, quando gli elementi sono separati e discontinui, è
un individuo diverso. Conseguentemente, se due gruppi di elementi
componessero una organizzazione in tutto eguale, vi sarebbero due sentimenti
organici eguali sì, ma non un solo sentimento identico. Conseguentemente
le anime intellettive, che percepissero quei sentimenti organici,
sarebbero due e non una sola, e due rimarrebbero del pari le
anime separate. Ma all' opposto, se Iddio colla sua onnipotenza cangiasse
ad un' anima intellettiva, che percepisce il sentimento organico, l' organismo,
sostituendogliene un altro in tutto eguale, onde non intervenisse
alcuna mutazione del sentimento organico percepito; in tal caso l' anima
intellettiva non si accorgerebbe in modo alcuno della mutazione, avvenuta
unicamente nella materia, ma non nel sentimento, che è quello
solo che ella immediatamente percepisce. Onde quell' anima non perderebbe
per tale cangiamento in modo alcuno la sua identià. Questo si
vede anche coll' esperienza, la quale dimostra che coll' età si cangia la
materia, che compone il corpo umano, senza che venga meno perciò
l' identità dell' anima. Che anzi coll' età non pure si cangia la materia,
ma ben anche il sentimento organico, benchè non mai specificamente.
L' individualità dunque dell' anima intellettiva non nasce immediatamente
dall' individuazione della materia come tale, ma dall' individualità
del sentimento; e solamente quando questi sentimenti individuali sono
più, più sono le anime intellettive che ad essi si riferiscono, perchè un' anima
intellettiva non può percepire due o più sentimenti organici, ma
uno solo, traendo anche da uno solo l' origine, benchè originata e costituita
stia per sè stessa.
Ma, dopo di tutto ciò, l' individualità dell' anima intellettiva
già costituita, trae ancora da un' altra parte la sua individuazione. Ella
fa più atti razionali, e questi atti sono un metter fuori nuova attività, e
così si differenzia e individua coll' acquistare un' aggiunta di realità, che
nell' attività consiste. Ora, quantunque, perduto il sentimento organico,
cessino all' anima separata i termini di questi atti, tuttavia, sussistendo
ella ancora identica, ritiene quell' attività pel principio indicato, che un
principio costituito se esiste, ha un' attività sua propria indipendente dal
suo termine. Laonde, quantunque naturalmente periscano all' anima,
col separarsi dal corpo, tutte le cognizioni ricevute nella vita presente
quanto al loro atto, che abbisognava d' organo corporale, tuttavia
ritiene l' attività acquistata, la quale basta ad individuarla (1).
Alla quale dottrina si possono fare certamente alcune obbiezioni;
ma pare a noi non punto insolubili. Faremo menzione di quelle
sole che ci sembrano più rilevanti, a cui rispondendo, si chiarirà meglio e
compirà la dottrina stessa.
Voi avete detto che l' anima intellettiva ritiene la
percezione del sentimento dello spazio. Ma in tal caso gli elementi del
corpo umano, che si discioglie, e che pur hanno i loro sentimenti corporei,
ne rimarranno essi privi?
No, ma il sentimento dello spazio rimane unito egualmente
all' anima intellettiva ed agli elementi od organismi superstiti;
appunto perchè quello, essendo un sentimento di natura unico, può moltiplicarsi,
cioè rimanere unito sì al soggetto, anima intellettiva, come ai
principŒ sensitivi corporei separati dall' anima. Egli conserva la sua unicità
e identicità in sè stesso, ma può essere congiunto a più soggetti che
lo individuano. Niente vi è in ciò che ripugni, o che non sia consentaneo
alla natura dei principŒ sensitivi.
Voi avete detto che, quando il termine è
identico, e quando il principio, che a lui si riferisce, non ha alcun' altra
realità che quella che gli viene dall' essere principio di quel termine, anche
questo principio deve essere uno ed identico. Ora le anime intellettive
hanno per loro termine l' identico essere. Dunque per sè non potranno
essere più, ma una sola.
Vero; ma quando il principio è una volta messo in essere,
può avere una realità e attività sua propria, diversa da quella che
si racchiude nel nudo concetto di principio. Qualora adunque il detto
principio spieghi qualche sua propria attività, incontanente acquista da
questa l' individuazione. E però le anime umane sono più, sì perchè hanno
per loro termine sentimenti organici distinti, sì perchè hanno una
propria attività razionale, che si spiega negli atti di ragione, che senza
posa emettono fino dal primo momento della loro esistenza. Se poi
si supponessero delle intelligenze diverse dalle umane, che non avessero
alcun altro termine eccetto l' identico essere intelligibile, e tutte lo
intuissero nello stesso grado, e non avessero altra attività nè realità, se
non quella che loro viene da questa intuizione; in tal caso mancherebbe
certamente il principio della loro individuazione, e non sarebbero che
una, perchè una sola realità di tal natura si può concepire. Dall' obbiezione
adunque altro non si può dedurre se non che le anime, oltre avere
in sè ciò che le individua e distingue, ritengono tutte un comune e misterioso
legame, una radice soggettiva comune, sì dalla parte del senso
che da quella dell' intendimento; la quale radice fonda l' unità della specie
umana anche nella realtà , e in gran parte è la ragione della simpatia
che sentono fra loro gli individui della stessa specie; onde agli uomini
pare in alcuni momenti d' essere un uomo solo.
Se le anime separate tengono una inclinazione
alla percezione corporea fondamentale, questa non soddisfatta impedirà
loro d' essere felici.
La dottrina rivelata insegna che le anime giuste, che ricevono
la mercede eterna, trovano in Dio per Cristo ogni cosa. Se poi si
considera l' anima in sè, senza le appendici che riceve dalla divina bontà
o dalla divina giustizia, è a dirsi esser vero che l' anima umana separata
dal corpo rimanga imperfetta, appunto perchè priva di un naturale suo
atto; ma è da aggiungere che ella non sente tuttavia di ciò alcun dolore,
perchè niuna tendenza abituale è dolorosa, quando ella non fa alcun
conato per essere soddisfatta. Ora ogni possibilità di conato è tolta via,
giacchè è tolto via affatto il termine corporeo; e niuno può sforzarsi di
operare se non ha presente il termine di sua operazione, giacchè il conato
stesso ha bisogno di qualche cosa per formarsi, non si fa mai verso
il nulla.
E qui soffermiamoci a considerare come la dottrina esposta
intorno al nesso dell' anima umana col corpo, nello stesso tempo che risponde
ai fatti e li spiega, cansa gli scogli contrari, nei quali, con più
o men di rovina, ruppero gli altri sistemi. Non ripeterò il detto, o lo ripeterò
ponendolo sotto nuova luce.
I sistemi intorno all' unione dell' anima umana col corpo sogliono
dare in due errori estremi. Alcuni, sentendo troppo bene che l' anima
umana è una sola, nella via che presero per unificarla, neglessero
l' uno dei due principŒ attivi nell' uomo, il sensitivo o l' intellettivo, e però
non colsero il nodo della loro unione. Altri, ponendo mente alla duplicità
di quei due principŒ d' azione, li lasciarono separati, e così posero
più anime nell' uomo.
I primi si possono dividere in tre sistemi, o erronei, o imperfetti.
Perocchè vi furono di quelli che, non sapendo come spiegare l' unione
del principio razionale col corpo, ridussero ogni cosa
all' anima sensitiva. Questo sistema di sensismo rimane da noi affatto
escluso, avendo dimostrato ampiamente la differenza specifica fra
il principio sensitivo e il principio intellettivo dai due loro termini specificamente
diversi, il sentito e l' essere universale.
Altri, fissando l' attenzione esclusivamente al principio razionale,
e bene scorgendo che questo è ciò che è proprio dell' uomo,
nè sapendo come conciliare con esso il principio sensitivo, dissero che
l' anima sensitiva pur col sentire ragionava, che il sentire stesso era un
conoscere, ossia che si sentiva coll' intelletto. Così talora sembra che concepisca
la cosa Platone. Ma questo sistema razionale pecca dello stesso
errore del sistema sensistico , poichè toglie la distinzione specifica fra il
principio sensitivo7animale e il principio razionale.
Vi furono finalmente alcuni, che ben conobbero che il sentire
non è l' intendere, nè l' intendere è il sentire animale; ma dissero che
quelle erano come due attività immediate della stessa anima. Essi partivano
da principŒ veri, cioè dal principio che l' anima intellettiva « virtute
continet inferiores formas », e dall' altro che « unius rei est unum esse substantiale,
et una substantialis forma (1) »; e miravano ad evitare l' errore
delle due anime nell' uomo, delle due o più forme sostanziali. Ma se il
sentire e l' intendere fossero meramente due attività dell' anima intellettiva,
ne seguirebbe non piccola difficoltà.
Sentire non è intendere, senso non è intelligenza;
se queste due cose entrassero nell' anima come parte dell' essenza,
sarebbero due forme che comporrebbero una sola forma; il che ripugna
all' unità della forma. Se il sentire all' opposto è una semplice facoltà
dell' intelligenza, ella non può stare senza il soggetto; e però converrebbe,
o rendere intelligenti i bruti, o renderli macchine. Il dire che
nei bruti s' aggiunge a questa facoltà un soggetto proprio è gratuito; giacchè
il sentire dell' uomo e il sentire del bruto, considerato come sentire,
è cosa della stessa natura; onde s' aggiungerebbe al sentire nel bruto qualche
altra cosa oltre al sentire, mentre non altro si scorge nel bruto che
il sentimento. D' altra parte l' anima è intellettiva unicamente in quanto
fa atti d' intelligenza. Se l' intelligenza è l' essenza di quest' anima, ella
non può essere il principio immediato del sentire; perchè il senziente
immediato, in quanto è senziente, non è intelligente, non è anima intellettiva.
Oltredichè l' intelligenza non può percepire il sentimento, se questo
non è già formato; si richiede dunque un principio che lo formi (che
senta), e così somministri all' intelligenza la materia della percezione.
S' aggiunge che se l' anima intellettiva fosse il principio prossimo,
immediato ed unico del sentire, le sensazioni e i movimenti animali
conseguenti verrebbero sempre quali sequele di atti d' intelligenza; il
che è opposto all' esperienza, movendosi nell' uomo il senso anche senza
precedenti atti intellettivi (1); onde il principio che lo muove, non è
sempre l' anima intellettiva. Conviene dunque trovare un sistema, nel
quale s' avveri che vi sia nell' uomo un' anima sola, una sola forma sostanziale;
e rimangano i due principŒ attivi del sentire e dell' intendere così
connessi da non potere costituire due anime, e tuttavia così separati da
potersi muovere il senso, anche senza che sia l' attività intellettiva quella
che lo muove.
I filosofi, che vollero mantenere questa seconda condizione,
caddero spesso nell' errore opposto a quello dei sistemi enumerati, all' errore
voglio dire di dare all' uomo più anime (2).
Io non voglio dire che, quando tutta l' antichità distinse l' anima
dall' animo , ella intendesse di porre due anime nell' uomo. Il senso comune
non pronunciava, ammetteva quella distinzione, trovandosi espressa
nello stesso linguaggio; ma niente si curava decidere sulla questione;
ed io considero l' uso di quelle due parole o di equivalenti, come una
testimonianza del genere umano a favore non delle due anime, ma bensì
di due principŒ attivi dell' uomo, ciascuno dei quali avente un' attività
propria, ma l' uno ricevente in sè l' altro e dominante. Acciocchè si veda
meglio come questa distinzione dei due principŒ attivi venne riconosciuta,
riferiamo alcune autorità.
Nella Scrittura si distingue continuamente la carne e lo spirito
come due avversari; e non certamente si parla della carne morta,
ma viva.
S. Paolo distingue l' anima dallo spirito, parlando dell' efficacia della
parola di Dio, « « pertingens usque ad divisionem animae et spiritus »(3) ».
Appresso Platone in un frammento del «Timeo » si legge: « « Intelligentiam
in animo, animam conclusit in corpore »(4) ».
Giuseppe Ebreo: « « Immisitque (Deus) in hominem spiritum et animam »
(5) ».
Giovenale: « « Principio indulsit communis conditor illis
Tantum animam , nobis animum quoque »(6) ».
Un illustre savojardo, che si mostra forse un po' troppo inclinato al
sistema delle due anime, dopo avere addotte le autorità da noi trascritte,
accenna nel seguente passo non meno il pensare degli antichi che alcuni
fatti fisiologici, che dimostrano l' esistenza di due attività nell' uomo, benchè
non dimostrino punto nè poco l' esistenza di due anime (1).
[...OMISSIS...] .
Rappresentandosi l' anima sotto l' immagine d' un occhio, secondo
l' ingegnoso paragone di Lucrezio, lo spirito era la luce dell' occhio (3).
In altro luogo egli lo chiama « anima dell' anima (4) », e Platone con Omero
lo appella il « cuore dell' anima (5) », espressione che Filone ripete (6).
Quando Giove in Omero decide di rendere vittorioso un eroe, il
Dio ha pesata la risoluzione nel suo spirito (7); egli è uno; non può
esservi in esso combattimento.
Quando un uomo conosce il suo dovere e l' adempie senza esitare
in un' occasione difficile, egli vide la cosa, siccome un Dio, nel suo spirito
(.).
Ma se, agitato lungamente fra il suo dovere e la sua passione, egli
già sta in sul commetter una inescusabile violenza, allora egli ha deliberato
nella sua anima e nel suo spirito (9).
Alcune volte lo spirito riprende l' anima e la fa arrossire di sua
fiacchezza. - Coraggio, le dice, anima mia! tu hai sostenuti più gravi
malori (1).
E un altro poeta di questa lotta trasse un dialogo per vero piacevole:
- Io non posso, egli dice, accordarti, o anima mia, tutto ciò che
tu brami: pensa che tu non sei già la sola, che voglia ciò che tu ami (2).
Che si vuole egli dire, domanda Platone, quando si dice che un
uomo ha vinto sè medesimo, che si è mostrato più forte di sè stesso,
ecc.? Qui s' afferma che egli è ad un tempo e più forte e più debole
di sè, perchè egli è il più debole, ed egli è ancora quegli che fu più
forte; s' afferma l' una e l' altra cosa dello stesso soggetto. Ora la volontà,
supposta una , non potrebbe venire in contraddizione seco stessa meglio
di quello che un corpo potesse muoversi ad un tempo con due movimenti
attuali ed opposti (3); chè niun soggetto può unire due contrari
simultanei (4). Se l' uomo fosse uno, disse eccellentemente Ippocrate,
non sarebbe mai ammalato, e la ragione n' è semplice; perchè,
soggiunse, non si può concepire una cagione di malattia in ciò che è
uno (5).
Scrivendo dunque Cicerone che, quando ci viene imposto di comandare
a noi stessi, si vuol dire che la ragione deve comandare alla
passione, o egli intendeva che la passione è una persona , o egli non intendeva
sè stesso (6).
Pascal ebbe certo in veduta le idee di Platone, quando diceva:
« Questa duplicità dell' uomo è così visibile che vi fu chi pensò che noi
abbiamo due anime; un soggetto semplice pareva loro incapace di tali
e sì subite varietà »(1).
Tutte le quali osservazioni non possono dimostrare la duplicità
dell' anima dell' uomo, ma sì bene di due principŒ attivi, e se si vuole
di due vite (2). La difficoltà adunque, che Lattanzio chiama « inestricabile
(3) », consiste nel trovare un sistema, nel quale i due principŒ attivi
rimangano nell' uomo distinti, e tuttavia sia evitato l' errore delle
due anime; e noi crediamo che a questa condizione soddisfaccia il sistema
proposto.
E veramente noi abbiamo detto:
Che l' unione dell' anima col corpo si fa per via di una percezione
naturale immanente, per la quale il principio razionale percepisce
il sentimento fondamentale7animale , e che nella percezione si dà
nesso fisico per sì fatto modo che ex percipiente et percepto fit unum .
Ora, benchè l' unione fra il percipiente ed il percepito sia fisica, di guisa
che ne risulta una medesima sostanza composta, tuttavia i componenti
ritengono una distinzione reale (benchè non una separazione),
giacchè il percepito non è il percipiente e viceversa,
Che il percepire razionalmente è un atto del principio razionale ,
e perciò proprio dell' uomo che, come l' abbiamo definito, è « un
soggetto razionale »; quindi ciò che si unisce come forma al sentimento
animale è l' anima razionale, sola anima propria dell' uomo.
Ma ciò che si percepisce si conosce, e perciò l' anima razionale
conosce il sentimento animale. Per conoscerlo poi deve parteciparlo,
altrimenti non lo percepirebbe. Dunque nell' anima razionale vi
è il sentimento, ma non il mero e nudo sentimento, bensì il sentimento
nella sua condizione di ente; onde il principio razionale è anche
sensitivo, ma non a quel modo che è tale il principio animale, il quale
è principio immediato del sentimento, bensì in un modo assai più elevato,
in quanto egli percepisce l' essere in tutti i suoi gradi, e però anche
nel grado di sentimento7animale. E così riesce avverato quanto dice
S. Tommaso, che l' anima razionale « VIRTUTE CONTINET animam
sensitivam et nutritivam (4) ».
Ora poi, nello stesso tempo, il principio meramente sensitivo,
benchè percepito, conserva la sua differenza dal principio razionale
percipiente, intanto che è egli il principio immediato del sentimento
animale, perchè l' essere percepito non lo confonde col percipiente.
Il che si vede considerando che il sentimento animale non potrebbe
essere percepito dal principio intellettivo, se non esistesse, perocchè
ciò che viene percepito deve esistere; onde non è il principio razionale
che faccia esistere il sentimento, ma si è il principio immediato dello
stesso sentimento quello che fa esistere il sentimento; e questo, tosto
che esiste, è percepito. Così si spiega come il sentimento animale si disciolga,
senza che intervenga in ciò il principio razionale; e disciolto,
cessi d' essere percepito; onde accade la morte dell' uomo. Che se il sentimento
animale fosse prodotto immediatamente dal principio razionale,
egli non si dissiperebbe giammai; perocchè, non cessando la causa,
non cesserebbe l' effetto, e la morte sarebbe inesplicabile.
E così è anche spiegata la lotta che si combatte nell' uomo, la
quale suppone due attività. Conciossiachè rimane un' attività nel percipiente,
ed un' attività rimane nel percepito, benchè congiunti sostanzialmente
nella percezione.
E nello stesso tempo si spiega il dominio, che di natura sua
deve avere l' anima razionale sopra l' animalità; perocchè nell' unione
fra il percipiente e il percepito, l' attivo è il percipiente. Il che maggiormente
apparisce a chi considera che qui si tratta di percezione razionale ,
in cui il percepito (sentimento animale) è appreso sotto la sua
condizione di ente , e perciò più intimamente e perfettamente di quello
che il percipiente sensitivo percepisca la materia, dalla quale in parte
dipende come da una terza attività straniera (extra7soggettiva). Ma perocchè
nel sentito, cioè nel corpo, l' immediato agente è il principio senziente,
perciò il principio razionale domina il corpo pel dominio che ha
sul principio senziente, unito a sè colla percezione.
Scorgesi nello stesso tempo che, potendo nascere nel sentimento
animale alterazioni e cangiamenti indipendenti dall' attività razionale,
sia per l' azione propria del principio senziente, sia per l' azione
della materia (extra7soggettiva), tali passioni non s' attribuiscono all' uomo,
come a sua causa; perchè l' uomo non è che il principio razionale,
e il resto sono condizioni ed appendici (1).
Il principio razionale, adunque, è l' unica forma sostanziale
costituente l' uomo, che nella virtù sua contiene le altre forme; e però
il principio sensitivo, come tale , appartiene alla materia dell' uomo e
non alla forma. Onde come la forma dell' uomo è il principio razionale,
così la materia che rimane informata non è il corpo morto, ma il corpo
animale vivo, ossia il sentimento animale, il quale viene informato per
via di percezione, venendo per essa sollevato a condizione di ente , oggetto
dell' anima razionale, e dall' azione dell' anima variamente modificato.
Ma v' è di più. Il sentimento animale, percepito o non percepito
dall' anima intellettiva, è identico; non avviene già che col percepirsi
si raddoppi; solamente esiste in due modi, cioè in sè stesso e nel
percipiente. Se dunque il percipiente non altera la natura del sentimento
animale col percepirlo, egli non altera neppure il suo principio e il
suo termine. Ma il principio del sentimento animale è un' attività semplicissima.
Dunque col percepire quest' attività senziente la riceve in sè
come ente. Dunque il percipiente, semplice com' è, riceve per la percezione
in sè un' altra attività, semplice anch' essa. In questo sta l' identificazione
dei due principŒ, il sensitivo e l' intellettivo; e questo principio,
risultante da due principŒ identificati, è l' anima razionale unita
al corpo, di cui si può dire con un autore antico: « Unus et idem spiritus,
et ad se ipsum SPIRITUS dicitur, et ad corpus ANIMA - Anima
dicitur in quantum est vita corporis; spiritus autem in quantum est vita
substantiae spiritalis (1) ».
E poichè sono due attività identificate, in quanto che un' attività
è andata a crescere la virtù dell' altra, perciò può cessare l' attività
sensitiva senza che cessi l' attività razionale; onde la Scrittura insegna
a perdere l' anima per salvare lo spirito . « In qua vita », dice l' autore sopra
citato, « ANIMA perditur, ut SPIRITUS salvus fiat (2) ».
Nè la distinzione delle due attività al modo spiegato si distrugge
a cagione di quel che dicemmo, il primo atto intellettivo sorgere
nel seno dell' attività animale, ed essere come una nuova attuazione del
medesimo soggetto. Questo prova bensì che il principio dell' una e dell' altra
attività è il medesimo anche per la ragione dell' origine comune,
ma non toglie che le due attività non sieno specificamente ed infinitamente
diverse, perchè la natura dell' attività è sempre formata dal suo
termine e non dal suo cominciamento generativo ed imperfetto, e il termine
qui varia quanto dall' esteso sentito si differenzia l' essere in universale.
Onde, una volta nata l' attività intellettuale e razionale, è già
una natura del tutto nuova, una sostanza non peritura, così diversa dalla
sensitiva che da questa rimarrebbe al tutto separata, se non vi si riunisse
per via di percezione, la quale è quella che congiunge i due termini,
cioè il sentimento animale e l' essere intellettivo; e così impedisce
che la virtù intellettiva si separi dalla sensitiva.
Aggiungiamo ora alcune altre prove, che confermano la perpetua
durazione dell' anima intellettiva.
Noi abbiamo data la prova dell' immortalità dell' anima umana,
partendo dal principio che « « la natura di ogni soggetto è determinata
dal suo termine » », onde l' anima umana, avendo a
termine l' essere in universale di natura eterna ed impassibile, forza è
che ella pure duri perpetua.
Questa è la fondamentale, a cui si riducono tutte le altre prove,
che furono date fin qui dell' immortalità dell' anima. Aggiungiamo tuttavia
ancora le principali fra quelle, di cui più sopra non abbiamo fatto
espressa parola.
L' immortalità dell' anima fu provata dall' aver ella un
elemento celeste e divino, e benchè non sia stato espresso chiaramente
in che questo elemento divino e celeste consistesse, fu nondimeno riconosciuto
essere in lei, e risiedere nella parte intellettiva.
[...OMISSIS...] .
L' immortalità dell' anima umana fu provata in secondo
luogo dal non avere in sè elementi contrari, poichè la distruzione nasce
mai sempre per via di lotta dei contrari. Ora ogni soggetto sostanziale
ha un principio e un termine, che determina la sua natura. Nel
principio del soggetto non possono mai cadere contrari elementi, come
quello che non può esser altro che un' attività semplice; dunque solo
nel termine si può introdurre la lotta. E così avviene infatti rispetto
alla vita animale; il termine molteplice ed organico, l' esteso, riceve agenti
contrari, che lo possono straziare e distruggere. All' incontro l' anima
intellettiva, avendo a suo termine l' essere , e questo abbracciando
ogni cosa sotto la stessa relazione di entità, non ammette elementi contrari;
perchè anche le entità contrarie in lui vengono unificate e pareggiate.
Così l' argomento che l' intelligenza non ammette in sè lotta di contrari,
e che perciò non soggiace alla morte, si riduce sempre all' argomento
tratto dall' essere intuìto.
Simile a questo è l' argomento comune, pel quale dalla
semplicità dell' anima si prova la sua immortalità. Non basta provarla
semplice nel suo principio, poichè semplice nel suo principio è anche
l' anima delle bestie; conviene di più provare la semplicità del suo termine
onde viene naturata, acciocchè l' argomento sia valido, e perciò
conviene ricorrere all' essere universale , il quale è semplicissimo. L' argomento
della semplicità trovasi esposto da S. Ireneo (1), da S. Gregorio
Taumaturgo, e ripetuto da tutti i posteriori. Noi recheremo le parole
di quest' ultimo Padre: [...OMISSIS...] .
Dice che se le parti sono più, debbono essere differenti, perchè
se non avessero qualche differenza, non sarebbe discernibile la loro
pluralità, nè al tutto sarebbe. Dice che se le parti sono differenti, dunque
l' ente, che di esse si compone, non è il medesimo, non è in tutto eguale
a sè stesso; ammettendo differenze, ammette contrarietà. Ma nell'
oggetto dell' intelletto non v' è differenza, perchè tutto concepisce l' intelletto
nell' unità del medesimo essere. Il Santo Vescovo di Neocesarea
giunge quasi qui a toccare le speculazioni della Scuola d' Elea.
Un quarto argomento, e validissimo, traggono gli
scrittori ecclesiastici, dopo i greci filosofi, come Origene (3), Lattanzio
(4), Leonzio (5), ed altri, dai diritti della giustizia, che, non vedendosi
sempre in questa vita guardati, conviene che ve ne sia un' altra, dove si
appareggino le ragioni di ciò che hanno goduto i tristi oltre al dovere
in questa, o patito oltre il merito, i buoni. Ma e donde questa necessità
che la giustizia trionfi? Dall' essere la giustizia di natura immutabile
ed eterna. Ora questa eternità della giustizia in altro non si fonda che
nell' eternità e immutabilità dell' essere, che splende nell' umana mente,
siccome dimostrammo nelle opere morali.
Con una ragione somigliante Socrate nel Fedone prova
l' immortalità dell' anima, ragionando che, essendo l' uomo fatto per la
giustizia, e questa potendo egli e dovendo amare, conviene che sia immortale,
perchè fatto e ordinato a cosa immortale. E contende dimostrare
il corpo essere un cotal velo, che separa il nostro intendimento dal
meraviglioso aspetto della giustizia, a cui per natura è unito; il che era
pure un sentire e confessare un Dio Santo, il Dio Ignoto degli Ateniesi
(1).
Essendo dunque termine all' intendimento umano l' essere,
che è cosa immortale, e da questa immortale essenza venendo naturato
e informato, non fa meraviglia se egli abbia il sentimento della
propria immortale natura. E da questo sentimento si ritrae nuova prova
del vero di cui parliamo; perocchè il sentimento, essendo opera di natura,
egli non erra, od inganna. Questo sentimento della propria immortalità
l' uomo lo manifesta di continuo, sia in azioni ed imprese durevoli
al di là della vita presente, sia nell' amore d' una gloria presso
gli avvenire, sia nel dispregio della morte, sia nello stesso suicidio, di
cui solo l' uomo e non la bestia è capace; sia in quella forza di pensiero
e d' animo finalmente, che dimostra spesso l' uomo morente.
Dai quali sentimenti sì naturali all' uomo, se non si
soffocano e spengono nel vizio, nacque principalmente il consenso universale
di tutti i popoli a favore dell' immortalità dell' anima; che è un
altro efficace e persuasivo argomento di sua verità.
E qui pervenuti, chiudendo questa prima parte della Psicologia,
così crediamo di poter dire: l' uomo adunque non ha da pentirsi
della fatica che sostiene per giungere al conoscimento di sè, se quella
lo scorge a sì lieto risultamento, e lo accerta che la sua parte più
nobile, l' anima, con cui vive ed intende, durerà in perpetuo. Questo
vero lo innalza al di sopra di tutte le smisurate moli che compongono
l' universo, destinate a sciogliersi, e gli rivela che una sede immortale
deve accogliere lui sopravvivente alla dissoluzione della materia. Giunto
qui, egli può domandare a sè stesso: perchè dunque è ella fatta questa
mia anima? a qual fine esiste? quali beni sono proporzionati alla
sua natura? Ed a questioni tanto sublimi, tanto necessarie (perocchè
solo tali che l' umana natura non può rassegnarsi a viverne ignara od
incerta) oggimai può rispondere sicuramente colui che, collo studio
di sè stesso, si è procacciato un' indubitabile certezza dell' immortalità
della propria anima. Perocchè è manifesto che ad un essere immortale
non sono proporzionati, e non possono convenire, se non beni immortali
e divini. Laonde alla ricerca di questi beni prepara ed adduce la Psicologia.
Vi sono degli uomini, scienziati nella propria opinione, nel
fatto nemici della sapienza, i quali abbondano di rimbrotti contro coloro
che levano la mente alle più nobili investigazioni, innalzandosi sopra
i sensi. Questi queruli ed accosciati ingegni non si ristanno di rampognare
l' industria e la diligenza di quegli alti intelletti, siccome volessero
fare l' impossibile e logorassero il tempo in vane speculazioni;
chè vane giudicano tutte quelle, le quali procacciano all' uomo la notizia
e gli preparano il possesso delle cose eterne, perchè esse non si
restringono ad aumentargli i beni temporali. I quali uggiosi hanno certi
loro canoni e sentenze, che senza prova alcuna pronunciano siccome
indubitabili, le quali cominciano tutte da queste parole: « non si può
sapere », o « non si può conoscere ». Una solennissima, mille volte ripetuta,
fra cotali sentenze è questa: « non si può conoscere l' essenza
delle cose »; e particolarmente: « non si può conoscere l' essenza dell' anima ».
Allorquando Zenone impugnava l' esistenza del moto, Diogene
non fece altra confutazione che togliendo a muoversi. Noi abbiamo
trattato nei cinque libri che precedono, dell' essenza dell' anima, invece
di contrastare se quella essenza sia conoscibile. L' argomento di Diogene
non era veramente efficace, perchè contrapponeva un fatto fisico a speculazioni
metafisiche; ma rimane tuttavia verissimo il principio supposto
da quel filosofo, che « ciò che è, non si può dire che sia impossibile ».
Laonde noi crediamo, colla prima parte di sopra esposta della
Psicologia, nella quale si dimostra qual sia l' essenza dell' anima, di aver
guadagnato questo: che d' ora innanzi coloro soltanto potranno dire che
l' essenza dell' anima non si possa conoscere menomamente, i quali avranno
prima provato che quell' essenza, che noi abbiamo indicata, ripetendo
la dottrina che di secolo in secolo pervenne a noi, non è veramente
l' essenza dell' anima. E confidiamo che cotesti invidiosi del bene del genere
umano, per quanto dicano e facciano, non potranno rapirgli una
dottrina così preziosa e di così suprema necessità, sulla quale posa la
certezza dimostrativa della vita nostra immortale. Perocchè certo chi
ignorasse del tutto l' essenza dell' anima, non potrebbe sapere per ragione
ch' ella fosse piuttosto immortale che mortale. Non è dunque insoave,
nè di poco momento, il frutto raccolto da questa prima parte della
Psicologia, nella quale dall' essenza e dalla natura dell' anima si cavarono
indubitabili prove della sua immortale permanenza, a cui s' attengono
di necessità eterni destini.
I quali destini dell' anima saranno pure in ogni caso eterni,
ma non consegue che debbano essere felici. Una necessità di giustizia,
evidente a tutti, promette beata sorte solo all' anima virtuosa, la
minaccia infelicissima alla viziosa. Ora la virtù, che perfeziona lo stato
dell' anima, è opera di lei stessa; come pure ella colle sue proprie operazioni
diviene autrice del vizio, che tanto intimamente la guasta e deteriora.
Ed è troppo palese che quell' anima, che si è guastata e disordinata
da sè stessa, non possa ottenere una condizione egualmente avventurata
siccome l' anima che si è perfezionata, aggrandita, nobilitata con
sue belle e degne operazioni. L' Etica tratta di queste operazioni, distinguendo,
col riferirle alle leggi morali, le buone dalle ree. Ma innanzi di
considerarle sotto l' aspetto morale, conviene sieno considerate in sè medesime
e nelle attività che le producono. E questo è ciò che intende
fare la seconda parte della Psicologia, la quale discorre il naturale
sviluppo dell' anima umana, e dimostra come dall' essenza di lei escano
le sue varie potenze e molteplici operazioni. Il perchè la seconda parte
della Psicologia, che ci resta ad esporre, non porgerà all' uomo studioso
un servigio meno nobile della prima, se lo condurrà ad intendere
sè stesso in quelle sue interiori attitudini e facoltà, l' uso delle quali
convenientemente fatto gli rendono oltre modo desiderabile e caro di
avere un' anima immortale, perocchè, arricchendolo di virtù, gli assicurano
beati gli eterni destini di essa. Entriamo dunque sicuri ed alacri
nella nuova ricerca, che ci siamo proposti.